Cara Ilaria, ti scrivo dal carcere e ti lancio un pezzo di lenzuolo
Osservatorio Repressione - Tuesday, June 4, 2024Lettera a Ilaria Salis, da uno dei 61mila detenuti nelle carceri italiane
Cara Ilaria,
ti scrivo nella speranza che in questo marasma di parole, la solidarietà espressa dal linguaggio non abbia ancora perso ogni significato. Ti scrivo per lanciarti nonostante la lontananza e le privazioni, un pezzo di lenzuolo immaginario per farti evadere, con più forza, dalla tua situazione quotidiana.
So che ogni cosa familiare o desiderata se pensata dal carcere è una proiezione, come un’immagine immaginata in apnea. So che l’equilibrio tra fantasia e malinconia è sottile e che la nostalgia è un’amica dispettosa, ma figurarsi la solidarietà che c’è fuori, è un esercizio dell’immaginazione molto più reale di quanto sembri.
Per chi sta fuori non è facile immaginare cosa vuole dire rimanere in silenzio sdraiati sulla branda a guardare il soffitto nella speranza di sentire dentro il cuore la solidarietà, non è facile capire che quel silenzio, dentro, è un silenzio diverso, più simile ad un grido soffocato, ad un pensiero oppresso.
Perché le mura, i rumori delle chiavi, dei passi, delle televisioni, dalle aperture e dalle chiusure opprimono il silenzio soffocandolo pian piano.
Le giornate interminabili e i mesi che passano veloci. Lo so, è per tutti così. Il tempo continua inesorabilmente a passare e il problema principale per i detenuti è come occuparlo senza lasciarlo passare in sordina sdraiati o in ore di sonno forzato. Non possiamo lasciarci scandire dai pasti, dalla chiusura delle luci, dall’apertura delle celle o da qualsiasi altro cambiamento dettato dal regime carcerario. Bisogna piuttosto considerare questi momenti come funzioni accessorie, orologi e sveglie sparsi qua e la durante la giornata per indicarci a che punto siamo nella routine.
Immagino che in tanti prima di me te l’abbiano già detto: leggi, scrivi, disegna, impara l’ungherese, leggi in ungherese, insegna l’italiano, fai attività fisica, cura il tuo aspetto, pulisci le piastrelle della cella con un vecchio spazzolino, tutto purché sia un’occupazione fisica, celebrale o tutte e due insieme. Come la più implacabile borghesia milanese, scandisci il tempo a gruppi di ore secondo le tue attività, e non secondo quelle dettate dai tuoi carcerieri.
Combatti l’apatia che ti si appiccica addosso anche quando la si vuole tenere a distanza, lo so che è difficile, ma per la posizione in cui sei non ci sono alternative. Immagino la difficoltà del dialogo con chi ti circonda, le interruzioni e le incomprensioni, immagino il colore delle mura che ti circondano, le crepe del soffitto e il rumore in testa nelle notti insonni. Resisti e combatti.
Ti scrivo per dirti che siamo tutti naufraghi, fuori e dentro le prigioni, testimoni dal peso delle ingiustizie che invece di diminuire si vanno a moltiplicare mentre a fronte di esse nuovi movimenti crescono e cercano di rischiarare gli orizzonti dal grigiore dalla forza sorda, della sopraffazione e dell’indifferenza.
Da qui, possiamo dirti, che nonostante le previsioni disastrose sullo scenario attuale, giorno dopo giorno continuano a crescere e ramificarsi le idee che ci uniscono, tante voci unite in tante radici in ogni angolo del mondo. Dalla forza creativa della solidarietà possiamo e dobbiamo aspettarci qualcosa di buono, senza sapere se arriverà a rompere il potere coercitivo, gli equilibri meschini, le alleanze infime, tutto questo non lo possiamo sapere, ma non demordiamo dallo sforzo di vivere il presente con un’idea ben precisa di futuro. Combattiamo contro il domani che ci è gentilmente concesso e contro la paura dell’apocalisse prossima ventura.
Anche se fosse vero che non c’è modo di ricomporre un presente frammentato e atomizzato, noi non smettiamo di riconoscerci l’uno nel desiderio dell’altro, come i movimenti si sono sempre riconosciuti nelle idee e le strategie nelle azioni. Le autonomie resistono, noi, nonostante tutto resistiamo. Cara Ilaria, resisti con noi.
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la risposta di Ilaria
Caro Luigi, quanta sofferenza inutile dietro quelle mura
Caro Luigi,
ho potuto leggere la tua lettera soltanto quando sono arrivata ai domiciliari perché là dentro era complicato anche ricevere posta. Non ci siamo mai incontrati, ma le tue parole suonano molto familiari. Le sensazioni che racconti riesco a percepirle nitidamente e a isolarle dentro di me. Quel silenzio di cui parli, che è più simile a un grido soffocato. I rumori delle chiavi, dei passi, delle televisioni, delle aperture e delle chiusure.
Sì, è così per tutti. Le giornate interminabili e i mesi che passano veloci. Davvero è così per tutti. E quello strano stato di torpore, quella specie di dormiveglia in cui si confondono sogni, pensieri e realtà, così diverso sia dal dormire che dallo stare svegli.
Le mura che separano il dentro dal fuori, i liberi dai prigionieri, le tenebre dalla luce, sono più spesse di quanto non appaiano allo sguardo. Quando sei là dentro a volte desideri mura invalicabili che ti proteggano dall’irrompere del mondo esterno. A volte sei costretto ad alienarti per sopravvivere, perché la percezione del tempo che scorre fa troppo male e l’angoscia di cosa troverai quando uscirai è insopportabile. Eppure altre volte quelle mura è come se non esistessero. Anche se non hai la possibilità di ricevere neppure una lettera, la solidarietà oltrepassa le sbarre e il filo spinato. A volte senti i compagni e le compagne proprio di fianco a te. Senti le loro voci, il loro abbraccio, il loro respiro, come se non fosse successo niente, come se non ti avessero mai arrestato. E allora ti senti viva e riesci a non affondare.
Anche guardandole dall’esterno, le mura carcerarie sono ben più possenti dei mattoni e del calcestruzzo con cui sono costruite. Sono mura capaci di rendere chi vive al loro interno invisibile e di celare mondi sotterranei e dimenticati. La volontà di nascondere quei mondi alla vista delle persone libere, negli ultimi decenni, è stata resa evidente plasticamente anche dalla tendenza a costruire le carceri al di fuori dei centri abitati. Di ciò che accade all’interno delle prigioni non c’è quasi mai una narrazione, non interessa quasi a nessuno. Quelle mura, oltre a separare, espellono. E così, considerando a torto il carcere come un corpo estraneo e non come parte della società, viene legittimata la deresponsabilizzazione da parte del mondo esterno nei confronti del pianeta sepolto delle galere. In realtà questi luoghi sono parte integrante e prodotto della società in cui viviamo e tutti dovrebbero fare i conti con il fatto che le carceri esistono. Dovrebbero assumersi la responsabilità delle loro condizioni e delle persone che vi sono rinchiuse, anziché far finta di niente o sfogliare in modo distratto i numeri che attestano, ad esempio, l’aumento dei suicidi nei penitenziari italiani.
Il carcere in teoria dovrebbe anche avere una funzione. Dagli albori dell’umanità le società adottano strumenti diversi per risolvere i rapporti di ingiustizia che si creano al loro interno e lo strumento che caratterizza la società moderna è proprio il carcere. Tuttavia, questo strumento non è assolutamente in grado di risolvere i problemi che si propone di affrontare, anzi. E questo accade perché purtroppo l’approccio ai rapporti di ingiustizia avviene da una prospettiva sbagliata. È diffusa la tendenza a tamponare a valle le problematiche della società, piuttosto che pensare a come si potrebbe intervenire a monte. Anziché costruire nuove carceri, aggiungere nuovi articoli al codice penale ed invocare pene più severe, bisognerebbe creare le condizioni perché i rapporti di ingiustizia non si verifichino più. Invece di continuare ad edificare mura materiali e metaforiche, si potrebbe provare a costruire una società libera dallo sfruttamento, dalla disuguaglianza, dalle discriminazioni, dal dominio patriarcale, dalla guerra e da tutto ciò che favorisce il proliferare di ingiustizie.
Credo che questo sia il desiderio di ogni compagno o compagna fuori o dentro le mura. Di ogni persona che abbia a cuore la giustizia intesa come rapporto che cura e ricuce il tessuto sociale, piuttosto che dilaniarlo e frammentarlo. Ti ringrazio per la tua lettera, per la vicinanza e la solidarietà. Resisti!
(da il manifesto)
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