Il bibliotecario va in montagna #1
NapoliMONiTOR - Friday, September 8, 2023Oggi non racconterò nulla sulle biblioteche. Vi scriverò del vivere fuori dalla città, del vivere in montagna. Certo, potrei collegarmi a questo afflato rurale attraverso alcuni rimandi alle biblioteche possibili da incontrare su molti generatori di citazioni, come quella che recita: “Se avrai un orto vicino a una biblioteca, niente altro ti occorrerà” (Cicerone, Epistulæ ad familiares, lib. IX, ep. 4, a Varrone); oppure: “Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici” (Marguerite Yourcenar, Mémoires d’Hadrien). E ancora: “Ma i libri sono stati i miei uccelli e i miei nidi, i miei animali domestici, la mia stalla e la mia campagna” (Jean Paul Sartre, Les Mots). Potrei continuare in questa asimmetria naturalistica biblioteconomica attraverso il désherbage, termine con cui in Francia vengono indicate le pratiche relative allo scarto. Cioè, facendola semplice, e facendo arrabbiare tutte le soprintendenze d’Italia, quella pratica per cui le biblioteche cercano di svecchiare le proprie collezioni ottenendo, a fatica, spazio fra i tomi. Diserbare, fare spazio affinché le piante si sviluppino al meglio.
Invece dopo questa lunga premessa di propaganda bibliotecaria posso raccontarvi liberamente qualcosa della montagna in cui vivo e di chi la abita.
Siamo diventati nuovi montanari da alcuni anni. Abitiamo in un comune metromontano della Città metropolitana di Torino, amministrato da una giunta di centro-sinistra, in bassa Valle di Susa, da intendere più orizzontalmente che verticalmente, 742 km da Parigi e 916 da Napoli. La frazione conta una decina di abitanti: noi, un bibliotecario e una guida escursionistica, due anziani allevatori, una pensionata chiamata la giaguara perchè si muove silenziosa e ferina tra i boschi, un radioamatore, un ex sindaco che coltiva piante aromatiche, un costruttore di ponti tibetani, un impresario con la famiglia, e altri che non mi sono conosciuti.
Il comune ha più di ottanta borgate e come la maggior parte delle zone rurali ha subito nel tempo un progressivo abbandono. Da alcuni anni però le montagne vivono un nuovo afflusso di chi, lasciando città e centri, torna ad abitare in contesti differenti, riattando seconde case, acquistando terratetti abbandonati, affittando appartamenti o baite sperdute. Tutti, nuovi o vecchi, hanno quasi sempre un orto, un prato, un pezzo di bosco e problemi molteplici, quasi nessuno mangia la pizza con la scarola, ancora si parla il dialetto locale, che da noi è una varietà di francoprovenzale, pochi sono collegati al gas o alle fognature e il segnale prende poco, ma ci si abitua in fretta, così è. Chi abita nelle terre alte mette in conto uno spostamento medio, in macchina e treno, dai quaranta ai sessanta minuti per raggiungere il luogo di lavoro o il primo ospedale utile, di circa quindici, venti minuti per raggiungere scuole, poste, farmacie, negozi e supermercati.
Discorso a parte meritano le biblioteche. Il comune ne conta due, entrambe gestite da volontari, una a valle e una in una delle principali borgate, aperta qualche ora al sabato o quando salgono i villeggianti. Siamo in Valle di Susa, questo comporta molti disagi, sfruttamento delle risorse umane e ambientali, la questione della Tav e la relativa militarizzazione poliziesca ma anche qualche vantaggio. A differenza di altri territori marginali, è presente una rete di trasporti abbastanza capillare nel fondo valle, alcuni servizi, la vicinanza con la Francia, un substrato culturale vivo, e un afflusso costante di nuove idee e abitanti. I nuovi e i rimasti a fatica si toccano, molto spesso collidono, poco si capiscono, a tratti si tollerano. Da qualche tempo in alcune borgate manca l’acqua, piove poco, le fonti sono secche e non dappertutto arrivano gli acquedotti. Alcune fonti negli anni sono state cedute e intubate, l’acqua viene portata agli acquedotti e poi da questi riportata su con le autobotti. Con alcuni partecipiamo alla gestione di uno spazio di comunità, piccoli eventi, yoga, qualche bevuta, qualche presentazione, pétanque, storia orale e ricordi condivisi. Durante uno di questi incontri, una sera, un’anziana ci ha raccontato delle fiamme dei boschi, vi riporto la traduzione.
“Sarà stato il ‘45 o il ‘46, tornavamo dall’alpeggio verso le vigne, ci siamo fermati da alcuni parenti che stavano più in basso a mangiare una mica (pane tipico) con un pezzo di toma e bere un bicchiere di carcheirone (vino resistente al freddo, uve Gamay). Quella borgata non mi è mai piaciuta, in passato succedevano cose strane, quella è tutta gente particolare.
Il figlio di questi miei parenti era un bambino molto malato e non parlava mai con nessuno. È morto giovane, passava la giornata a succhiare castagne secche, erano meglio delle caramelle per noi, si facevano seccare al sole e poi le portavi in tasca. Quando ritorni dall’alpeggio hai voglia di parlare anche con i sordi dopo mesi in cui parli solo con le bestie e quindi ci siamo attardati fino al tramonto, prima di salutarci questo mio parente che non parlava mai ci disse di non spaventarci per le fiamme nei boschi. Io non capivo, di solito gli incendi capitavano nei giorni di vento quando c’erano gli abbruciamenti e quel giorno vento non c’era. La montagna era diversa, prima era tutta coltivata, patate, vite, grano, e pascolata, era tutta un prato, tutta un lavoro, ora è più selvaggia. I boschi erano pochi e noi dovevamo passare da lì.
Stavamo camminando quasi al buio, c’erano poche stelle, quando nel bosco abbiamo visto delle fiammelle. Erano piccole fiamme blu baluginanti, sembrava, e se ci penso mi sembra ancora, spiriti, sembrava si muovessero. Stavo morendo di paura, mio padre però mi ha detto di stare tranquilla, erano solo anime che se ne andavano. Il bosco era pieno di piccole croci in legno, sotto c’erano i corpi dei partigiani uccisi qualche tempo prima. Erano tutti giovani, alcuni nostri, altri del sud. Ci siamo fatti il segno della croce e siamo andati avanti”.
Così è, ci si abitua in fretta. (luca valenza)
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