(disegno di lorenzo la rocca)
“Cònia, la cui falsa etimologia deriva dal cono, è una scuola che dalla montagna
trae alcuni caratteri: rarefazione dell’aria, altezza panoramica, isolamento,
distacco. In queste ideali condizioni si collocano lo studio e l’esercizio
intorno al nodo della rappresentazione del mondo operata dall’arte in generale,
nelle sue implicazioni storiche e sociali, e dall’arte come tecnica personale”.
Così la Socìetas Raffaello Sanzio nata a Cesena nel 1981, presenta la Scuola
Cònia diretta da Claudia Castellucci, il corso estivo triennale di Tecnica della
Rappresentazione. È qui che ho incontrato Matteo, ventisette anni, che, arrivato
alla terza annualità, costruiva la sua performance.
«Posso iniziare dall’esperienza a Cònia, nata in concomitanza con l’attività del
Chiosco. Ho aperto il chioschetto al Lido di Spina, una frazione di Comacchio,
una località balneare in provincia di Ferrara, dove mio padre ha uno
stabilimento balneare. La mia estate l’ho vissuta sempre lì, con le hit italiane
degli anni Ottanta della Riviera Romagnola. Il Lido di Spina non è la Romagna,
però ha un po’ quella vibe, figli che mandano avanti il lavoro dei genitori, o
ragazzi che hanno creato gruppo. Lavorando da sempre con mio padre, ho
cominciato ad avere i miei primi guadagni, ma non mi sono mai trovato a mio
agio, c’è stata una continua sensazione di distanza. Ho studiato al liceo
artistico di Ferrara, però abitavo fuori dal centro e non sono mai riuscito a
integrarmi, ero un po’ outsider; mentre in estate non avevo un ruolo preciso,
ero conosciuto come il figlio del proprietario.
FOTOGRAFIA
«Dopo il liceo sono andato a Padova a studiare fotografia e lì ho capito che la
fotografia commerciale non mi bastava, volevo di più e nel 2019 sono riuscito ad
avere un contatto per lavorare a New York nei due mesi estivi. Ho sempre fatto
questa altalena, fare esperienze nel mondo e tornare in provincia, uscire e
ritornare… Tornato da New York, l’esperienza che mi ha fatto innamorare della
fotografia è stata lavorare come assistente nel collettivo Cesura, a Pianello
Val Tidone, provincia di Piacenza, fondato dagli assistenti del fotografo della
Magnum Alex Majoli.
«Dopo i primi tre mesi che ero in studio a spazzare per terra, a fare un po’
lo sgargino, ho avuto la fortuna che Majoli avesse bisogno di un nuovo
assistente e tutti gli altri erano già stati presi. Sono diventato il suo
assistente, rimanendo con lui per tre anni. Avevo ventidue anni, era l’anno del
Covid.
«Gli avevano proposto di documentare il Covid per tutta Italia, ed è stato un
po’ obbligato ad accettare la mia presenza. Questo ci ha legati molto. Ho
passato tre anni duri, che mi hanno aiutato a vedere il mondo in un modo
completamente diverso, ad amare l’arte, a non vederla più come un hobby.
«Alex Majoli è un fotogiornalista, io gli reggevo le luci. Nelle sue foto c’è un
approccio teatrale alla realtà, fa delle foto che sembrano costruite. Siamo
andati in ospedali, case private, abbiamo seguito medici che andavano a fare i
tamponi. Abbiamo attraversato molte delle dinamiche del Covid, dai cimiteri ai
corpi che venivano bruciati nella bergamasca. Tutte le dinamiche possibili di
questa pandemia, avendo come soggetto medici e pazienti.
«Dopo tre anni col mio maestro, ho deciso di dedicare il mio tempo alla
fotografia e sono tornato a vivere a Ferrara dai miei, perché avevo comunque
bisogno di denaro, non avevo più soldi. Non venivo pagato per l’assistentato,
quindi lavoravo d’estate.
«Torno a lavorare per mio padre, torno a farmi l’estate a Lido di Spina, però
con una visione diversa dopo la pandemia. Inizio a fare dei ritratti tutte le
sere, quando tornavo da lavoro, nel bar sotto casa. Il secondo anno faccio
ancora un sacco di foto, le unisco alle altre e iniziano a dirmi qualcosa, anche
se non riuscivo a capire cosa. Mi attraevano, ma non riuscivo a dargli un nome:
questa espressione è tristezza o felicità? È gioia? Rispecchiavano esattamente
la situazione che c’era in provincia d’estate. Volevo farci un libro, ma mi sono
detto, perché invece di un libro fotografico inaccessibile, difficile da
mostrare alle persone, non provo a cambiare quella realtà lì? La Scuola Cònia mi
ha aiutato a viverla come una performance: e così ho pensato al Chiosco.
CHIOSCO
«A cento metri dal mare mio padre aveva un chiosco per vendere gelati e
bottigliette d’acqua, un servizio del suo stabilimento. Gli ho detto “ti ripago
i settemila euro che tu fai in una stagione, e noi facciamo quello che
vogliamo”. Ero sicuro di quello che stavo facendo, sapevo che poteva funzionare:
avevo il problema, avevo la soluzione, e non vedevo nessuna interferenza nel
mezzo.
«Ho aperto il chioschetto blu. Volevo un pugno nell’occhio, tra questa sabbia
pastello e questo cielo, queste piadine. Vado a Parigi e cerco quel colore
perché ero andato in fissa, volevo quel colore lì perché non è un blu casuale,
un blu che ha fatto anche una certa storia nell’arte. Ho iniziato a sperimentare
con tutto quello che ruotava intorno a questo chiosco. I miei clienti non erano
clienti, erano ospiti, cercavo di mantenere un rispetto e un concetto di casa,
più che di servizio. Il nome Chiosco blu era per essere riconosciuto su
Instagram, era semplice.
«Poi ogni anno gli davo un nome diverso. Il primo anno si chiamava La cabina di
Despina, lì c’era il gioco delle due spine, e anche un racconto delle Città
invisibili di Calvino, che parla di una città tra deserto e mare, un porto
costantemente influenzato da altre culture.
«La tematica portata avanti nel primo anno era concentrata sull’accogliere
chiunque fosse perso, perché era un po’ anche la mia storia: mi ero perso in
questa provincia e ho voluto ricreare questa casetta, per sentirmi libero di
esprimere quello che volevo, per creare collettività, creare gruppo, anche
attraverso le feste.
«Il primo gesto per convincere i ragazzi a venire è stato fare le feste di
lunedì, il giorno della settimana che tutti odiano. Chiamavo i dj, o persone che
avevano il sogno di fare il dj, ma la piccola provincia non gli dava la
possibilità di fare. Un amico tornato da Londra è caduto in depressione, faceva
fatica a ripartire e cercava costantemente delle fughe, tra alcool, droga,
eccetera. Un giorno gli ho detto, facciamo una cosa, domani facciamo una festa e
te sei il dj, ti do anche cinquanta euro. Ha iniziato a farlo, è diventato
il resident…
«I primi lunedì sono venute venti persone, poi cinquanta, poi cento, pian piano
siamo arrivati a Ferragosto che sono arrivate settecento persone, e lì ho
conquistato l’amore e la fiducia, perché rompevo un po’ gli schemi… La festa di
Ferragosto l’abbiamo fatta fino alle nove del mattino, era palesemente illegale,
però l’abbiamo organizzata bene, non era un rave, non c’era politica, non c’era
niente in mezzo, c’erano semplicemente dei giovani che volevano divertirsi,
ascoltare della musica buona, bella, ricercata. C’era il dj che veniva lì per
fare il dj, e cambia tutto quando quello che fai si slega dal guadagno.
«Il Lido di Spina ha una spiaggia lunghissima. C’è lo stabilimento di mio padre
che fa ristorante, piadine, eccetera, poi c’è tutta la distesa di ombrelloni che
si fermano a duecento metri dal mare; in questi duecento metri lui ha altri
cinquanta metri di concessione e qui era collocato il chioschetto, a cento metri
dal mare. Ero sotto lo stabilimento balneare, però questa distanza fisica mi
creava libertà nella gestione delle cose; non comunicavamo, se facevamo una
festa contemporaneamente, non si sentiva neanche.
«La prima serata non c’era ancora niente, poi ho costruito tutto io, insieme a
dei ragazzi che mi davano una mano. Il dj era stanco, ma volevamo continuare a
ballare. Ho chiesto, c’è qualche dj? Uno ha alzato la mano e ha detto, è una
chiavetta con la musica, non la porto mai con me, ma stasera… Questo ragazzo ha
suonato, e ha spaccato. Adesso è diventato dj art-techno, suona spesso ad
Amsterdam, viene da Palermo. Non so perché da Palermo fosse finito qui, ma
questo è un po’ il concetto di viandante che intendevo, sono arrivate persone da
ovunque. Anche dei dj da Londra. Perché lavoro come fotografo per un collettivo
in Inghilterra, e in tre anni di lavoro non mi hanno mai pagato. Quando ho
aperto il chiosco gli ho detto, voi non mi avete mai pagato, venite, io non vi
pago. Quindi ho fatto suonare gratis dei dj che non sarebbero mai venuti a
Ferrara.
«Poi facevo delle esposizioni con le mie foto. La cosa bella della spiaggia è
che puoi piantare un palo in tre secondi. Creare e modificare lo spazio come
vuoi. Avevo fatto tutta una serie di fotografie che delimitavano lo spazio per
danzare, c’erano vari allestimenti, sperimentavo anche con le stampe, poi con le
tende. Cercavo delle scenografie. Poi ho comprato delle lampade di carta che
sono diventate simboliche, richiamando un po’ la casa. Contemporaneamente facevo
la Scuola Cònia che mi aiutava a pensarla, la casa.
CASA
«Quando parlavo con mio padre, mi diceva di smetterla di fare le feste. Succede
nei paesi, provano a farti vedere problemi che non esistono; soprattutto se hai
una buona idea, non ne sono contenti, provano invidia. Non trovi mai quello che
ti dà una pacca sulle spalle e dice, cazzo, fai una cosa fantastica!
«Poi pian pianino ho trovato le mie energie, chiamavo un sassofonista e lo
facevo suonare col dj. Tutta sperimentazione che poi veniva da Claudia
Castellucci. Ho usato molti concetti della Scuola Cònia, come la Teoria dello
sfondo, o la Teoria dello spazio e altri approfondimenti sull’arte e la
rappresentazione fatti lì, per applicarli nel mio chioschetto.
«Il secondo anno, ancora più carichi, siamo arrivati con il budget dell’anno
precedente. Avevo preso dei divani in Marocco con un mio amico, e lì abbiamo
raccolto un sacco di idee. Questi grandi divani marocchini, come materassi,
fatti tappezzare tutti blu, li avevo messi all’unico grande tavolo che c’era,
dov’eri obbligato a socializzare con altra gente, e sono successe cose
fantastiche: la nonnina col bambino e i due ragazzi magari un po’ burini, una
coppia che litiga e tutti a provare a risolvere il problema… Mi piaceva giocare
con questa realtà nuova, con queste persone che si sentivano a loro agio. Avevo
trovato delle diapositive di vecchi quadri e li ho messi a disposizione; durante
le serate si creavano collettivi di gente che suonava, un vero spazio di
creazione, di libertà. Abbiamo fatto una festa anche con i collettivi di Bologna
e sono venute mille persone. All’alba avevo tutta la spiaggia piena di gente,
con ragazzi che ballavano anche in mare, bellissimo! E lì sono iniziati ad
arrivare anche problemi legati al Comune, alla legalità…
«Non ti ho detto che il primo anno i club e le discoteche che suonano musica
commerciale mi avevano già mandato i controlli, chiamando i carabinieri: “c’è un
chioschetto blu in riva al mare, andate a vedere”. Una discoteca storica di
Ferrara aveva paura di un’attività aperta da un anno. Io e mia sorella di
diciannove anni, che mi ha aiutato a ritinteggiare di blu un chioschetto di tre
metri per tre, e questi qua ci mandano i carabinieri.
«Io me ne fregavo, mi hanno mandato i carabinieri il primo anno alla fine della
stagione e ho pagato la multa. Il secondo anno ho cominciato ad avere un po’ di
paranoie, poi ho fatto due feste e mi sono detto, ne pago dieci di multe. Però
ad agosto c’era davvero tanta gente, e i problemi potevano diventare molto più
grossi; non avevo buttafuori, avevo gente che pagavo trenta euro con la maglia
della security, trovata magari al mercatino dell’usato. Stavo iniziando a
spaventarmi un po’ di quella realtà lì e quando ho provato a rendere questa cosa
legale e a cercare un modo per far sì che diventasse un lavoro, ho capito che
era una cosa campata in aria, fluttuante, temporanea, non poteva essere
nient’altro. È stato un assaggio di speranza, un assaggio di libertà.
«A volte i clienti dello stabilimento di mio padre chiamavano i carabinieri. Io
non volevo fare il ribelle, volevo che quella cosa funzionasse perché era casa
mia, quindi mi adattavo. Avevamo tutte le casse rivolte al mare, e andavo su al
bar di mio padre per sentire se effettivamente davo fastidio, perché se do
fastidio è giusto che chiudo, però, se non do fastidio c’è un problema, stiamo
parlando di repressione.
«Il secondo anno, dopo questa grande festa, anche mio padre ha iniziato a
mettersi contro questa attività, aumentando l’affitto. Non riuscivo a capire
cosa stesse succedendo, perché funzionava tutto perfettamente, però man mano che
cresceva, sempre più parassiti arrivavano e volevano soldi: un fornitore faceva
il furbo e mio padre aumentava l’affitto, poi ci mandavano delle multe… C’è
stato un gran litigio.
«Ho mollato, perché non capivo più niente. Mi dicevano non puoi fare niente, ma
se hai un po’ di coraggio, lo puoi fare. Cosa vuol dire? Si può lavorare così?
Ho iniziato ad avere quest’ansia, questa difficoltà anche a organizzarmi, perché
se chiamavo un collettivo da Milano e poi non suonavano, che figura ci facevo
con i clienti. Non riuscivo a proteggere la mia casa e quindi, citando la mia
performance di domani qui a Scuola Cònia, questa casa l’ho indossata e me ne
sono andato in Francia con l’idea di potermi vestire ancora di queste pareti e
recuperare quello che ho raccolto in questo chiosco.
FUOCO
«Per rendere questa cosa simbolica ho deciso di dargli fuoco alla fine
dell’anno, a settembre. È stato un rituale, ero contento. Non era un addio, gli
dava un valore temporaneo, dava un valore al mio rapporto con la città di
Ferrara. Ho provato a fare qualcosa per questa città ma ho capito che non era la
mia lotta. Se la tengano la palude riqualificata, adesso se la riprenderanno,
non lo so.
«L’atto più rispettoso che potevo fare era di bruciare questa casa, un atto di
purificazione. Volevo liberarla, questo è il primo motivo. Un altro motivo per
il quale l’ho bruciata è stato che mio padre voleva darla in gestione, con una
leggerezza… senza riconoscere tutto il mio lavoro. Non potevo permettere che il
mio chiosco blu fosse gestito da altri, perché è stata casa mia. Questo mi ha
dato la rabbia per bruciarlo, ero obbligato, non potevo fare altro, potevo solo
bruciarlo. Non potevo farlo abitare a qualcun altro.
«Si è bruciato anche il rapporto con mio padre e con tutta la mia famiglia. Sono
stato da settembre a novembre a Ferrara, e poi sono fuggito, non riuscivo più a
reggere tutto quello che mi stava intorno, lo sentivo soffocante, stavo
iniziando a prendere brutte abitudini. Dopo che ho bruciato la casa, tutto
intorno a me ha iniziato a bruciare, dalla relazione familiare, alle relazioni
con gli amici, alle relazioni amorose, tutto si è fatto terra bruciata e una
sera ho preso un volo e sono andato in Francia.
«Quest’anno ho ricominciato un’altra vita e sono tornato viandante come quando
ho costruito il chiosco. Sto cercando un’altra realtà che mi accolga. È la prima
volta che torno in Italia dopo mesi che sono fuori, sono tornato per la Scuola
Cònia, perché fa parte di questo percorso, e lo chiuderò con questa performance,
che rappresenta un po’ il mio esodo da questa casa». (daniele balzano)
Source - NapoliMONiTOR
Cronache, libri, disegni e reportages
(disegno di otarebill)
“Era una città di plastica / di quelle che non voglio vedere / con edifici
cancerogeni / e un cuore di paccottiglia / dove invece del sole sorge un dollaro
/ dove nessuno ride, dove nessuno piange / con gente dalle facce di polistirolo
/ che sentono senza ascoltare e guardano senza vedere / gente che ha venduto per
la sua comodità / la sua ragion d’essere e la sua libertà”.
Poteva essere questa strofa di Rubén Blades e Willie Colon l’epigrafe del
libro La rivolta nella città di plastica, di Marco Santopadre, una breve
inchiesta sulla turistificazione estrema della città basca di Donostia (San
Sebastián) pubblicato qualche mese fa dalla Red Star Press di Roma. La mitica
canzone Plástico del 1978, un capolavoro della salsa, è un’invettiva ironica
contro la superficialità delle donne, degli uomini e delle città del continente
americano. Negli anni Settanta questi musicisti latinos di New York vedevano
come il modello urbano consumista statunitense si riproduceva anche nei loro
paesi d’origine. Mezzo secolo dopo questa plastificazione ha raggiunto tutte le
città del mondo: le capitali, come Roma, che con il Giubileo è stata finalmente
consegnata alla grande finanza internazionale; ma anche le città meno
centrali. Una è sicuramente Donostia (è il nome basco: in castigliano è San
Sebastián), la “perla del Cantabrico”, nel nord della penisola iberica.
Santopadre, che conosce bene il paese basco, e che per questo libro ha svolto
dieci interviste ad attivisti, sindacalisti, consiglieri comunali, portavoce
delle associazioni di quartiere, racconta di un passato recente in cui la città
aveva due facce: la San Sebastián “turistica, godereccia, dai tratti raffinati,
un po’ snob e un po’ retrò”; e la Donostia “estremamente popolare, combattiva,
impegnata, verace, dai modi diretti e informali” (p.14). Per decenni questi due
mondi hanno condiviso lo stesso territorio, forse ignorandosi, o disturbandosi
tra loro poco più delle due città di The city and the city di China Mieville.
Ultimamente, però, ed è il tema del libro, la prima ha “fagocitato” la seconda.
Come nel libro di Mieville, si parla di classi sociali: la città borghese ha
sconfitto la città popolare, divorando anche il suo mondo vitale, la sua lingua
indigena (l’Euskera o basco), le sue mobilitazioni politiche. Lo strumento di
questa vittoria è il turismo; o meglio, la trasformazione della città in una
monocultura turistica.
A differenza della vicina Bilbo (Bilbao), città operaia e industriale che si è
aperta al turismo solo dopo la costruzione del museo Guggenheim a fine anni
Novanta, con il “recupero” delle zone abbandonate dalla deindustrializzazione,
Donostia ha alle spalle due secoli di turismo: perciò la tipica risposta alle
critiche al turismo è che Donostia “è sempre stata turistica” (p.31). Per il suo
clima e la sua posizione, era meta di vacanze termali per l’aristocrazia già
nell’Ottocento; e anche il dittatore Francisco Franco vi passò le estati dal
1940 fino alla morte, nel 1975. Ma per quarant’anni tutta la regione
basca, Euskadi, è stata lo scenario della conflittualità indipendentista
dell’ETA, di enormi mobilitazioni contro lo stato spagnolo, e della kale
borroka, la guerriglia urbana dei giovani. Forse queste grandi mobilitazioni
sono riuscite a tenere alla larga non tanto lo stato, quanto la massificazione
turistica che incombeva sulla regione (della turistificazione di Bilbao parla
anche l’ultimo capitolo del libro di Santopadre, a partire dal lavoro di Adriano
Cirulli, altro grande conoscitore del país vasco).
Santopadre spiega infatti che la deposizione delle armi di ETA ha segnato
l’inizio del nuovo ciclo di turistificazione. Nello stesso anno dell’annuncio
di ETA, il 2011, Donostia fu candidata a “Capitale europea della cultura” per il
2016 (l’anno in cui si seppe che il dubbio privilegio sarebbe stato riservato
anche a Matera; pochi anni dopo a Procida). Queste grandi celebrazioni
cementificano nuove alleanze nelle élite: come le Olimpiadi di Barcellona del
1992, annunciate dall’ex ministro franchista Jose Antonio Samaranch, che
sancirono la ritrovata unità economica di destra e sinistra sotto il vessillo
dell’impresa e della gentrificazione, così Donostia 2016 è diventata subito il
paradiso dell’industria turistica. Non passa neanche un anno dal “grande
evento”, che già la turistificazione è estrema; nascono le organizzazioni contro
l’overtourism – un termine che il libro giustamente critica, perché la questione
non riguarda la quantità di turisti; e neanche la “qualità” (pp. 100-110).
Subito dopo la pandemia del 2020 già un quinto dei posti letto nelle zone
centrali sono per il turismo (p.49), con il conseguente calo dei residenti (non
pronunciatissimo: nel quartiere centrale le statistiche registrano il dieci per
cento in meno in venti anni, anche se probabilmente esponenziale; p.51). “Siamo
in pericolo”, dichiara un’intervistata (l’unica donna).
Quella di Donostia, per uno degli intervistati, sarebbe una “gentrificazione con
caratteristiche proprie” (p.51). Eppure – circondata dagli aeroporti, funestata
dal lavoro precario e stagionale, satura di bar e bnb (per lo più gestiti da
gruppi imprenditoriali), inzeppata di installazioni artistiche, svuotata
dall’aumento degli affitti, con il conseguente “sradicamento di un’intera
generazione […] oltre all’indebolimento delle reti comunitarie e perdita
dell’identità locale” (p.58) – si fatica a vedere in cosa sia diversa dalle
migliaia di altre città gentrificate. Il libro ripercorre tutte le politiche con
cui l’amministrazione ha favorito la turistificazione estrema: dalla concessione
di licenze per hotel in deroga alle norme edilizie, alla demolizione di edifici
storici di cui si mantengono solo le facciate, fino agli “errori” intenzionali
che hanno accelerato la distruzione della città; e anche le denunce dei numerosi
collettivi, studiosi e associazioni di abitanti, quasi sempre senza risultati,
almeno nei tribunali.
Al di là della forma specifica di vendere Donostia come capitale
enogastronomica, una narrativa di cui Santopadre ripercorre lo sviluppo – dal
2009 che si fonda il Basque Culinary Center, si celebra la fiera San Sebastian
Gastronomika, si trasformano le sidrerie in ristoranti brandizzati, fino
all’assurdità dell’Instituto del Pintxo (p.83) – è evidente che i processi
descritti nel libro sono proprio esempi da manuale. Le città gentrificate non si
distinguono per forma, storia e vita, ma per il tipo di offerta che propongono
ai nuovi arrivati – turisti o gentrificatori. Ed ecco la plastica! È
il packaging che trasforma la città in un pacchetto che i visitatori possano
consumare rapidamente. Ma è anche una metafora dell’abbellimento superficiale,
della ripulitura frettolosa, del consumo in serie, colori e forme attraenti ma
identiche ovunque. Il simulacro si moltiplica al punto di sostituirsi alla
città. Anche questo processo è standard: lo descriveva Harvey in The Art of
Rent ventitré anni fa, spiegando che le città per farsi “globali” sono costrette
a distruggere ciò che le rende uniche. Donostia oggi è analoga alla Cappuccino
city di Derek Hyra, ma anche alla città di Santa Chiara, le cui mirabolanti
avventure racconta Diego Miedo; di fatto, a tutte le altre città turistificate
del mondo. Tutte in mano ai city killers, come li chiama Lucia Tozzi.
Quello che manca in questo racconto però è la rivolta del titolo. In questa
città di plastica, dov’è l’abitante di Zerocalcare che esce col fucile gridando
“Rebibbia non sarà mai il nuovo Pigneto! Le vostre apericene fatele da un’altra
parte”? O quello di Diego Miedo che grida “Americani di merda non saremo mai il
vostro zoo”? Dopo lo scioglimento dell’ETA forse è fuori luogo invocare le armi.
Ma è vero anche che l’invasione turistica attuale, soprattutto dopo la pandemia,
non ha mai prodotto niente di simile alle proteste anti-gentrificazione degli
anni Ottanta, come la rivolta fondativa di Tompkins Square nel 1988. Ci sono
gruppi di abitanti critici, reti internazionali come SET, libri ed eventi contro
il turismo – ma pochissime rivolte. Un’eccezione forse è stata quest’estate
a Città del Messico contro i turisti statunitensi, che le autorità hanno
rapidamente definito violenza xenofoba. Le rivolte contro la plastica sono nella
nostra immaginazione, sono prefigurazioni, dei simulacri, plastica anche loro.
Rivolte vere, per ora, né a Donostia né altrove. Anche perché sarebbe assurdo
prendersela con i turisti, ingranaggi della macchina, quasi sempre
inconsapevoli.
Ma anche sul campo della consapevolezza non siamo avanzati molto. Nel 1979 Ruben
Blades e Willie Colon spiegavano chiaramente la strada contro la
plastificazione: “Senti latino, senti fratello, senti amico – dice l’ultima
strofa della canzone Plástico – non lasciarti confondere / dall’oro o dalla
comodità! / Andiamo tutti sempre avanti / c’è ancora molta strada da fare / per
farla finita tutti insieme / con l’ignoranza che ci mantiene suggestionati / con
modelli importati / che non sono la soluzione. / Non lasciarti confondere /
cerca il fondo e la sua ragione / e ricorda: si vedono le facce / ma non si vede
mai il cuore”. Studiare, lavorare, andare sempre avanti, contro i modelli
statunitensi di plastica: “Ricordati che la plastica si scioglie / quando
la illumina il sole” canta Ruben Blades mentre il coro ripete “si vedono le
facce, si vedono le facce / ma non si vede mai il cuore”. Questa era la strada
con cui “vinceremo insieme”. Per il momento, la vittoria non è arrivata.
Cosa vuol dire “cercare il fondo e la sua ragione” nella città di plastica? Le
facce di plastica hanno un retro, un fondo, dove si vede la filettatura, il
segno della fusione, che ne rivela la natura artificiale, prestampata.
Turistificazione e gentrificazione sembrano un pezzo unico, da prendere o
rifiutare in blocco, magari regolando quantità e qualità. Il punto di
fusione, nascosto, mostra invece che questi fenomeni sono un’accozzaglia di
eventi disparati – dai finanziamenti pubblici alle low cost, alla mancanza di
regolazioni sugli affitti brevi – fusi insieme da un discorso pubblico che li
presenta come solidi e coerenti. E invece sono le forme del momento, che
possono cambiare anche all’improvviso. Santopadre, per esempio, spiega il
moltiplicarsi degli immobili di lusso (p.119-125), come un nuovo ciclo di
valorizzazione (anche se secondo me sbaglia nel considerarla un “dopo” la
gentrificazione). A Roma, per esempio, la fase non è più quella puramente
turistica: abbiamo il lusso e i maxi studentati (ne parla Chiara Davoli nel
numero dello Stato delle città di prossima uscita); altrove le politiche urbane
portano tutt’altro, dall’abbandono di Detroit ai massacri di Rio de Janeiro.
Dipende da come reagisce la società.
Di fronte alla città di plastica, la ricerca dovrebbe fare come il sole della
canzone: scioglierla. Scomporne i fattori, capirne gli equilibri, cosa tenere e
cosa respingere, quali forze si legano a ogni pezzo; smentire sistematicamente
il simulacro, la performance scintillante. Francesco Migliaccio ipotizza che la
stessa idea di gentrificazione contribuisce a nascondere le diverse tendenze che
influenzano la vita urbana, togliendoci lucidità. Un’altra metafora utile è
quella di Mike Davis, Città di quarzo: gli aspetti apparentemente inconciliabili
della vita urbana si riflettono tra loro come in un cristallo. Anche Marco
D’Eramo in un gran libro su Chicago mostra come la città tiene insieme elementi
diversissimi: Il maiale e il grattacielo. La metafora ci serve anche per la
struttura politica che promuove questi processi, cioè lo stato. David Graeber ha
spiegato che lo stato è un’accozzaglia di elementi inconciliabili tenuti insieme
da una retorica convincente, ma che possono sciogliersi in qualunque momento.
Anche a Roma dobbiamo capire come si interfacciano le scenette del sindaco con
il giubbetto catarifrangente, le parate militari, la vendita di un appartamento
per sedici milioni di euro, la Royal Caribbean che si prende Fiumicino. Senza
farci confondere dai giornali che ci mostrano un progetto unico e coerente da
accettare o rifiutare. “La strategia di orientare il dibattito politico verso
l’antinomia ‘turismo sì-turismo no’ – scrive Santopadre – serve a coprire le
responsabilità politiche e istituzionali nei cambiamenti strutturali imposti ai
nostri quartieri”. Inchieste come questa ci aiutano a sciogliere tutta questa
plastica, e a cercare il fondo. (stefano portelli)
(disegno di ottoeffe)
«La Terra è cattiva, non dobbiamo addolorarci per lei».
«Cosa?».
«Nessuno ne sentirà la mancanza».
«Ma dove crescerà Leo?».
«L’unica cosa che so è che la vita sulla Terra è cattiva».
«Potrebbe esserci vita in altri luoghi…».
«…ma non c’è».
«E tu come lo sai?».
«Perché io so le cose».
(dialogo tra justine e sua sorella claire, melancholia, di lars von trier)
Siccome le cose non vanno un granché ultimamente, ho deciso di calcare la mano e
mi sono rivisto in tre giorni tre film di Lars von Trier. Fine del mondo,
scoramento, depressione, vendetta, calamità, fustigazione avrebbero tutte potuto
essere parole della settimana. Ma non lo sono.
Ho visto per la prima volta sia Dogville che Melancholia a un cineforum che
alcuni amici tenevano nell’aula delle Mura Greche a palazzo Corigliano, sede
dell’Orientale, luogo che nei miei primi anni di università mi sembrava
frequentato da gente interessante, pieno di angoli stimolanti (c’era una radio
in un’aula occupata proprio sopra le Mura Greche, che oggi è un insopportabile
cubo bianco per lezioni che vanno quasi sempre deserte), di continui confronti,
e anche scontri, di vario genere.
Del cineforum ho parlato qualche tempo fa a uno studente al primo anno di lingue
e letterature moderne. Mentre provavo a dirgli del lavoro di preparazione, delle
riflessioni pre e post proiezione, delle connessioni che si cercava di costruire
con l’attualità, lui non riusciva a non farmi domande che solo dieci anni prima
sarebbero sembrate venire da un altro pianeta. Del tipo: «Eh ma si teneva
l’università aperta dopo le sei?», oppure «E il rettore lo faceva fare?», o
ancora «Eh ma per i film scaricati da internet nessuno rompeva le scatole?». In
effetti i film erano scaricati illegalmente, al rettore solo a volte veniva
mandata una mail o un volantino per conoscenza dell’iniziativa, e lo stesso si
faceva con le guardie giurate che rimanevano a sorvegliare il palazzo,
preoccupandosi appena che non si esagerasse con la birra e le bottiglie in
vetro.
(dal blog del Cineforum Orientale 2.0)
Riguardando più attentamente Dogville (2003) mi sono accorto di non aver notato,
a suo tempo, una scena che in un certo senso ne anticipa un’altra, centrale, in
Melancholia (2011).
Nel primo film c’è Grace (Nicole Kidman) che viaggia su un furgoncino pieno di
mele, dove si è nascosta per scappare dalla città. A un tratto il furgoncino
viene fermato e Ben, guidatore e proprietario del mezzo in pieno spettro
autistico, la stupra minacciandola di consegnarla alla polizia se avesse
proferito parola.
Quella scena mi è sembrata rimandare a un momento chiave di Melancholia, ovvero
quando Justine (Kristen Dust) premonisce la propria depressione dovuta alla
consapevolezza di una fine del mondo imminente, e si immagina addormentata sul
letto del fiume come Ofelia, che in un fiume si suicida dopo aver preso atto
della follia del suo Amleto, in realtà fintosi pazzo.
Mentre Justine però, “sa le cose”, e sa che l’impatto con un gigantesco pianeta
blu sta per distruggere la Terra, Grace non sa nulla, eppure con la stessa
atarassia accetta il destino, giacendo inerme tra le mele, prima, durante e dopo
lo stupro, convinta di dover comprendere, se non giustificare, tutto il male che
le viene e le verrà fatto («Tu, la mia cara figlia, perdoni gli altri con delle
scuse che poi mai al mondo permetteresti a te stessa»).
Grace può essere letta come una rappresentazione di Cristo, figlio del dio
onnipotente e vendicativo del Vecchio Testamento, che lascia il regno del padre
per andare in terra, e mondare gli esseri umani dei loro peccati, sacrificando
la propria vita per loro. […] Allo stesso modo, si presta ad essere sacrificata
per la salvezza morale di Dogville, lasciandosi umiliare e torturare per il
raggiungimento di un bene superiore, quello morale, appunto. […]
Grace distrugge Dogville, teatro del suo estremo sacrifico, come l’Io
sacrificale che sfugge ad un Super Io vendicativo, per poi accettare di compiere
una spaventosa vendetta. Nel momento in cui Grace dà l’ordine di uccidere tutti
eccetto il cane, noi spettatori godiamo della sua vendetta. Proviamo una
soddisfazione infantile e feroce nel vedere ripagati i torti subiti dalla
protagonista. […]
Von Trier descrive nel personaggio di Grace una anti-Cenerentola, che non viene
ripagata con l’amore per essersi fatta maltrattare con educazione e gentilezza;
una versione femminile del Tito Andronico di Shakespeare che pretende sangue per
sangue, mano tagliata per mano tagliata, figlio per statuetta. Per il regista
probabilmente non esiste alcun bene superiore, non esiste alcun dio
misericordioso che ci ripaga dei sacrifici che ci siamo autoinflitti, ma solo un
dio vendicativo e onnipotente. (valeria colasanti, dogville. di lars von trier,
in: doppio sogno. rivista internazionale di psicoterapia e istituzioni)
Va detto che se davvero esiste un dio vendicativo e potente siamo probabilmente
spacciati, perché deve averne le palle piene di noi tutti:
La Cop30, dove si decide come evitare che il pianeta bruci a causa del
riscaldamento globale, è stata sospesa per un incendio (wired, 20 novembre
2025).
Eppure una volta “sapute le cose” si potrebbero ancora immaginare delle
strategie:
Scoperta una Super-Terra, c’è vita sul pianeta GC 251 C?
Il pianeta è a “soli” 20 anni luce da noi. E potrebbe ospitare acqua
(adnkronos, 24 ottobre 2025)
Le ricette non mancano:
I filtri nei condizionatori aiutano a salvare il pianeta (hdblog.it, 28 ottobre
2025)
A Spoleto un murale per salvare il pianeta (spoletonline.com, 19 settembre 2025)
Più tasse a Bezos per salvare il pianeta: maxi striscione di Greenpeace a
Venezia (vez.news, 23 giugno 2025)
Salvare il pianeta… dagli ambientalisti (corriere della sera, 25 settembre 2025)
Diamo dunque il benservito a ogni Grace e Justine: quello che conta è agire!
La Danimarca vuole salvare il pianeta… macellando nel suo regno balene e delfini
(tviweb.it)
(e questo sì che lo farà ammattire, povero principe).
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/11/amletomonitor.mp4
(credits in nota 1)
a cura di riccardo rosa
__________________________
¹ Pino Micoli e Giulio Pizzirani in: Amleto, di Maurizio Scaparro (1973)
(disegno di diego miedo)
Ho ascoltato il dibattito televisivo di martedì 18 novembre tra i due candidati
delle principali coalizioni nelle ormai imminenti elezioni regionali della
Campania e vorrei soffermarmi su un passaggio cruciale del confronto
Fico-Cirielli. Alla domanda della conduttrice sull’emergenza sociale in
Campania, i candidati non hanno di fatto dato risposta. Le loro attenzioni si
sono focalizzate su singoli settori, oggi e da molto tempo in stato di
sofferenza nella regione (trasporti, sanità, lavoro), ma né Fico né Cirielli
hanno accennato a una visione d’insieme.
È utile anzitutto riepilogare i termini della questione sociale oggi in
Campania, offrendo alcuni dati essenziali per cogliere l’entità del fenomeno.
Secondo dati diffusi da Openpolis nel 2023, quasi la metà della popolazione è a
rischio di povertà o esclusione sociale. Si tratta di un dato allarmante, il
peggiore tra quelli regionali nel nostro paese, insieme alla Sicilia. Se si
guarda ai dati Eurostat del 2024 su povertà ed esclusione sociale, la Campania
si conferma, insieme alla Calabria, tra le aree più in difficoltà in Europa. La
regione è stata poi eccezionalmente colpita dalla bolla turistica degli ultimi
anni, con effetti diretti sul costo delle abitazioni. Secondo recenti
rilevazioni dell’Ance, l’associazione nazionale dei costruttori edili, la città
di Napoli è tra quelle in Italia con prezzi immobiliari (per l’acquisto e per
l’affitto) meno accessibili in rapporto al reddito disponibile delle famiglie.
Supera perfino Milano, nota per il boom immobiliare di tipo speculativo al
centro delle cronache nazionali negli ultimi mesi. La crisi abitativa è
particolarmente allarmante a Napoli, dove secondo dati del Comune il 44,09%
della popolazione residente è in affitto, un dato due volte maggiore della media
nazionale in Italia, che è del 19,99%.
Inoltre la Campania negli anni scorsi, a cominciare dalla prima metà degli anni
2010, è stata sottoposta a forti tagli imposti dalle politiche di austerità
intraprese dai governi nazionali e implementate a livello territoriale dalle
giunte regionali, in particolare negli anni della presidenza Caldoro e del primo
mandato di De Luca, ma proseguite fino a oggi. Le politiche di austerità a
livello regionale sono state accompagnate dai tagli strutturali ai finanziamenti
comunali e da draconiani piani di rientro del debito, come il cosiddetto Patto
per Napoli. I flussi di finanziamento per gli enti locali del meridione saranno
nel prossimo futuro sempre più a rischio per il processo di autonomia
differenziata che il governo in carica sta continuando a portare avanti, a
dispetto delle (parziali) bocciature della Corte Costituzionale. Negli anni
scorsi, le misure di cosiddetta austerità in Campania hanno riguardato i settori
della sanità (chiusura di ospedali e presidi sanitari periferici), dei trasporti
(tagli al trasporto pubblico locale, fino alla soppressione di linee
fondamentali nei collegamenti extraurbani, in particolar modo nelle aree
periferiche e interne del territorio regionale). Inoltre la Campania ha record
negativi nella disponibilità di servizi primari come gli asili nido: secondo
dati Istat del 2021 solo sette bambini su cento hanno accesso all’asilo nido,
mentre in Toscana salgono a trentacinque. I costi delle politiche di austerità
si sono trasferiti sui conti familiari, che devono attingere a risorse proprie
già scarse per far fronte a servizi che in altre regioni sono forniti dalle
amministrazioni pubbliche.
La disattenzione alla crisi sociale da parte delle principali coalizioni che
concorrono per la guida della Regione Campania è tanto più sorprendente se si
guarda a ciò che accade in queste settimane nelle elezioni locali in altri
paesi. Negli Stati Uniti, il tema del rincaro nel costo della vita è diventato
centrale nelle elezioni delle grandi città: ha consentito a un candidato
indipendente come Zohran Mamdani di prevalere su un candidato potente,
espressione dell’establishment tradizionale, come Mario Cuomo, grazie a una
campagna che ha acceso gli entusiasmi della nuova generazione di attivisti
emersa in questi anni intorno alle lotte per la casa e per i diritti delle
minoranze. Il consenso ottenuto da Mamdani e l’ondata di partecipazione civica
che la sua candidatura ha generato nasce dalla determinazione con cui Mamdani ha
messo il contrasto a quella che negli Stati Uniti si chiama “crisi
di affordability” al centro della propria agenda politica. La crisi
di affordability indica l’aumento del divario tra prezzi dei beni di consumo
primario e retribuzioni delle famiglie: ciò rende sempre più difficile a
porzioni crescenti non solo delle classi con redditi più bassi ma anche del ceto
medio di accedere a beni e servizi primari, come le abitazioni, l’alimentazione,
i trasporti, le cure sanitarie a pagamento. Non solo negli Stati Uniti, ma anche
in Europa e con particolar vigore nelle regioni dell’Europa meridionale, come
evidenziano i dati sopra citati, l’aumento incontrollato dei prezzi di beni e
servizi primari generato dalla crisi energetica e dall’inflazione sostenuta
degli anni scorsi ha assottigliato, fino ad azzerarlo, il “reddito residuale” a
disposizione delle famiglie, vale a dire la quota di reddito che le persone
riescono a mettere da parte dopo aver compiuto le spese minime richieste per il
proprio sostentamento (affitto, consumi energetici, alimentazione, mobilità,
cure mediche).
La lontananza, emotiva e propositiva, dimostrata dai candidati delle principali
coalizioni partitiche in Campania dai bisogni concreti di sempre più larghe
fasce della popolazione oggi esposte al rischio di esclusione sociale e povertà
con ogni probabilità troverà riscontro in percentuali record di astensione dal
voto. Non ci sarà da sorprendersi se la percentuale di votanti sarà notevolmente
più bassa del già esiguo 55% dell’elettorato che si recò alle urne nel 2020. La
disaffezione dalla politica istituzionale è inevitabile se i grandi partiti si
dimostrano indifferenti ai bisogni concreti della popolazione. Eppure, le
amministrazioni regionali, che oggi hanno ampi poteri in settori cruciali della
riproduzione sociale, come le politiche abitative, per i trasporti e per la
sanità pubblica, potrebbero fare molto almeno per alleviare la sofferenza
sociale nei nostri territori. (ugo rossi)
(archivio disegni napolimonitor)
La scorsa estate, a seguito di ripetute tensioni createsi all’interno del
carcere di Matera, una certa attenzione mediatica si concentrava sul
funzionamento dell’istituto e sulle sue criticità. Dopo una visita alla casa
circondariale, la garante regionale per i detenuti Tiziana Silletti denunciava
una situazione insostenibile in termini di sovraffollamento, con 197 detenuti a
fronte di 132 posti (dato coerente con quello di tutte le strutture della
regione Basilicata, che si attesta sul 144 per cento). Poche settimane dopo,
l’associazione Luca Coscioni, che aveva lavorato a un report sulla situazione
sanitaria delle carceri della regione, comunicava che l’azienda sanitaria
materana non aveva fornito alcuna documentazione a dispetto della richiesta di
accesso civico agli atti.
Con il passare dei mesi, a dispetto di una situazione rimasta pressappoco
immutata, l’interesse per le condizioni del corpo detentivo dell’istituto
materano sembra essersi sopito. Nel tentativo di rialzare il livello di
attenzione su quanto accade in quel carcere, e ovviamente in tanti altri
istituti del paese, pubblichiamo a seguire un resoconto della dottoressa Maria
Clara Labanca, medico penitenziario e membro dell’associazione Yairaiha.
* * *
Celle sovraffollate, personale sanitario insufficiente e accesso alle cure
estremamente limitato: questa è la realtà quotidiana del carcere di Matera. La
struttura, progettata per centotrenta posti, ospita stabilmente oltre
centosettanta detenuti, con punte superiori alle duecento unità. In questo
contesto, il diritto alla salute dei detenuti risulta sistematicamente
compromesso.
Il presidio sanitario funziona in maniera frammentaria. La mattina non è
presente alcun medico, e a volte il peso della gestione di casi clinici
complessi ricade sugli infermieri, costretti a intervenire senza supervisione
diretta. Le visite mediche, effettuate nel pomeriggio, si svolgono in modo molto
concitato a causa della carenza di personale di polizia che limita gli
spostamenti dei detenuti. Questo comporta un aumento del rischio di diagnosi
incomplete, visite superficiali e ritardi nella presa in carico di patologie
rilevanti. Di notte, tutte le emergenze ricadono su un unico medico, senza
supporto infermieristico, compromettendo ulteriormente la capacità di intervento
tempestivo.
La salute mentale dei detenuti è un ambito particolarmente critico. Lo
psichiatra effettua interventi solo due ore a settimana, a fronte di un numero
elevato di soggetti con disturbi psichici spesso associati a problemi di
tossicodipendenze. In assenza di percorsi terapeutici strutturati, molti di essi
vengono trattati con psicofarmaci senza adeguato inquadramento diagnostico,
aumentando il rischio di effetti collaterali e senza risolvere le problematiche
esistenti. Inoltre, alcuni agenti penitenziari esercitano pressioni indebite sui
medici affinché somministrino sedativi o ipnotici, trasformando il trattamento
psichiatrico in strumento di controllo piuttosto che in intervento terapeutico.
Non sono neanche infrequenti episodi di tensione tra personale sanitario e di
polizia penitenziaria, di fronte a un rifiuto da parte del medico nella
prescrizione di questa tipologia di farmaci. La carenza di supporto psicologico
e di personale qualificato determina un peggioramento dei disturbi psichici, con
ricadute sulla sicurezza interna e sul benessere dei detenuti.
Le visite specialistiche rappresentano un ulteriore fattore di criticità.
Consultazioni come quelle gastroenterologiche, infettivologiche o oculistiche
possono richiedere mesi di attesa, talvolta oltre un anno. Le carenze
nell’ambito del Nucleo Traduzioni, incaricato di accompagnare i detenuti agli
appuntamenti esterni, provoca rinvii sistematici. Anche quando l’azienda
sanitaria fissa regolarmente gli appuntamenti, questi spesso non vengono
rispettati perché non viene presa visione delle comunicazioni e delle
prenotazioni, privando i detenuti delle cure pianificate.
Molti detenuti si trovano in condizioni di grave criticità clinica a causa di
patologie acute o croniche, ma la presa in carico è frequentemente ritardata o
inadeguata. Il trasferimento verso strutture idonee è subordinato alla
produzione di documentazione che attesti l’incompatibilità con il regime
detentivo, determinando ritardi nell’accesso a interventi sanitari appropriati
e, in alcuni casi, esiti clinici sfavorevoli.
Le strutture e le attrezzature sanitarie risultano insufficienti. Mancano
cartelle cliniche informatizzate, dispositivi diagnostici e terapeutici adeguati
e personale specializzato in grado di utilizzarli. La combinazione di
infrastrutture carenti e organico ridotto compromette la tempestività
nell’identificazione e nel trattamento delle patologie, riducendo
significativamente la qualità della presa in carico sanitaria.
Il sovraffollamento e la carenza di personale di sicurezza aggravano
ulteriormente la situazione. Le quattro sezioni della struttura – Accoglienza,
Giudiziario, Sirio e Pegaso – ospitano centinaia di persone in spazi inadeguati
e obsoleti. Le carenze di personale complicano la gestione dei piantonamenti
ospedalieri e delle udienze, spesso impossibili da svolgere tramite collegamento
da remoto.
Tuttavia, il carcere di Matera è solo l’emblema di un sistema penitenziario in
crisi. Sovraffollamento, carenze di personale e un presidio sanitario inadeguato
espongono quotidianamente i detenuti a rischi clinici significativi. Senza
interventi strutturali urgenti, la detenzione rischia di trasformarsi in un
tempo sospeso, in cui i diritti fondamentali, primo fra tutti quello alla
salute, restano sistematicamente negati. (maria clara labanca)
(disegno di otarebill)
Venerdì 15 novembre, rotonda Diaz, le dieci del mattino circa. Da lontano si può
vedere un caccia che taglia il cielo alle spalle di Castel Sant’Elmo, mettendo
in fuga i gabbiani. Sono a Villaggio Esercito, un’iniziativa promossa
dall’esercito italiano, patrocinata dal comune di Napoli e dalla regione
Campania. Per la celebrazione dei suoi duemila e cinquecento anni, la città ha
scelto di raccontare la propria storia con diciassettemila metri quadri di
potenza militare: un parco tematico della difesa dove il soft power si mimetizza
nella fiera promozionale.
«Buongiorno a tutti! Siamo in diretta su Radio Esercito da una Napoli che ci
accoglie sempre calorosamente, vero Benito?», apre uno dei radio conduttori.
«Assolutamente, guarda quanta gente! Ricordiamo gli appuntamenti della
mattinata…».
In realtà, solo pochi e sparuti avventori si accostano alla quindicina di stand,
ben distanziati uno dall’altro. L’area è delimitata da due grandi porte
gonfiabili su cui si legge “ESERCITO ITALIANO”. Tra gli avventori c’è qualche
scolaresca elementare e superiore. Le giacche di generali, ammiragli e
colonnelli sono tutte una gara di coccarde, medagliette e gradi militari. Per
l’inaugurazione sono presenti l’assessore alla legalità ed ex prefetto Antonio
De Iesu, il generale di corpo d’armata Gianpaolo Mirra ed il viceministro degli
affari esteri Edmondo Cirielli.
Quest’ultimo, impegnatissimo a stringere mani, è in corsa per la presidenza
regionale a capo della coalizione di centrodestra, con la lista civica “Moderati
e Riformisti”. Qualcuno si ricorderà di lui per il tentativo di istaurare un
“principato di Salerno”, altri per la lunga militanza in Alleanza Nazionale e
poi in Fratelli d’Italia, o ancora per le polemiche suscitate da alcune sue
dichiarazioni in odore di apologia di fascismo (Cirielli ha sostenuto che “il
tratto distintivo più profondo [del fascismo] era uno spirito di libertà
straordinario”).
Ad eccezione della rappresentanza istituzionale, le persone si muovono con
circospezione negli spazi allestiti. C’è un’aria tesa, forzosamente bonaria. Gli
stand presentano i modelli più aggiornati di macchine da guerra, robot, i droni
più disparati. Mi raccontano che lo Strix‑DF può operare come “occhi volanti”:
può identificare obiettivi, sorvegliare aree sensibili, controllare movimenti e
inviare dati. Il Raven DDL è un micro‑UAV tattico progettato per fornire
sorveglianza ravvicinata e in tempo reale alle unità sul terreno. Ci sono poi i
cosiddetti droni “anti-contagio” CBRN, velivoli senza pilota progettati per
monitorare e campionare minacce chimiche, biologiche e nucleari in aree
contaminate. Nella rotonda intanto sfilano i pachidermici veicoli tattici
blindati (VTMM) “Orso” e “Lince”. Il messaggio è chiaro: la “difesa” si espone
al grande pubblico. Un investimento di immagine in cui la celebrazione civica si
confonde con una fiera campionaria del business bellico.
Secondo il Documento Programmatico Pluriennale il bilancio della Difesa per il
2025 è di circa 35,5 miliardi di euro. Alcune stime che considerano anche le
spese “in chiave NATO” (Borsa Italiana/Radiocor/ TGCOM) arrivano a 45,3 miliardi
per lo stesso anno, comprendenti armamenti, ammodernamenti e investimenti
strutturali per le Forze Armate. In tutto, l’incidenza delle spese militari sul
Pil italiano raggiunge l’1,5 per cento, non così distante in fondo dal 3,9
investito in istruzione (la media Ocse per quest’ultima voce è di 4,7).
Gran parte di questi fondi è destinata all’acquisto dei caccia F‑35 della
statunitense Lockheed Martin, partner di Leonardo Spa, che sponsorizza l’evento.
È una flotta di novanta aerei, per un costo complessivo tra i quattordici e i
sedici miliardi di euro, la cui manutenzione e operatività nel tempo impegnerà
ulteriori risorse. Il vero boom riguarda però i droni: circa seicentosettanta
milioni di euro per gli MQ-9B Sky Guardian, anche detti “Mietitori”, e oltre
settecento per i Piaggio Hammerhead. Cifre che evidenziano una scelta politica
di campo, con implicazioni concrete per la collettività in termini di gestione
della spesa pubblica.
All’improvviso, un cane robot verde militare fa capolino sull’asfalto della
rotonda, alle sue spalle c’è la banda che scandisce le prime note di una
fanfara. Mi avvicino a due insegnanti che accompagnano una classe delle
superiori, chiedo perché abbiano scelto quest’iniziativa per una gita
scolastica: «È stata una scelta della dirigente», mi risponde con scoramento una
di loro, l’altra fa spallucce.
Per attraversare il piazzale passo accanto a un gigantesco elicottero nero,
l’A129 “Mangusta”, col mitragliatore puntato. Alle sue spalle due militari
mettono gli elmetti a quattro studentesse per visitare un anticarro. Una
passante fuma una sigaretta, affacciata sullo spicchio di spiaggia antistante
alla rotonda. L’aria è quella di una calda mattinata autunnale, tre signori
prendono il sole, mentre una donna fa il bagno. I tre mettono un po’ di musica
da una radiolina, i gabbiani sono in acqua.
Mi avvicino al banchetto del reclutamento dove presenziano le accademie militari
locali e nazionali. La marescialla illustra le differenti modalità di ingaggio,
mette l’accento sulla semplicità e l’accessibilità dei percorsi occupazionali a
tutti i livelli, “con o senza laurea”. Mi mostra i due chat-bot dal sito
dell’esercito, si chiamano Atena ed Ettore e mi possono aiutare nelle procedure
e con la modulistica.
Una ventina di bambini col berretto giallo delle gite si avvicina. Io invece mi
allontano dal centro della fiera, schivando un paio di piccoli automi a quattro
ruote, che scorrazzano sul cemento. Il cane robot balla impacciato sulle note di
O’ Surdato ‘Nnammurato cantata da Massimo Ranieri e passata da Radio Esercito.
(edoardo benassai)
(disegno di giancarlo savino)
Quella di venerdì 31 ottobre doveva essere una semplice udienza tecnica: nessun
testimone, né dell’accusa né della difesa, solo i periti linguistici convocati
per il reintegro delle traduzioni all’interno dei fascicoli del processo che da
mesi va avanti a carico di Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh. Per questo
in aula siamo in pochi: i più affezionati al processo, che dopo le estenuanti
tre giornate di udienza di fine giugno, che pure avevano segnato un’apparente
accelerazione, ora procede a intermittenza.
Approfittiamo di queste udienze di passaggio, apparentemente secondarie, per
rimettere ordine negli appunti. Ci eravamo lasciati mentre tracciavamo una rotta
tra traduzioni monche, trascrizioni spezzate, liste di ID telefonici, numeri che
si rincorrevano e moltiplicavano, disegnando una geografia incerta, dove i
riferimenti cambiavano di continuo, ritornando con nomi diversi anche quando
parlavano delle stesse persone. E da lì riemergiamo, come dopo una lunga
traversata, ancora storditi dalla confusione.
La difficoltà vera, ancora oggi, è che di fronte a noi non si presenti una linea
d’accusa chiara, coerente, dotata di un impianto che si sostenga su basi
fattuali. Lascia attoniti il fatto che, a fronte della detenzione di Anan (da
oltre diciannove mesi in regime di alta sicurezza) e di un’imputazione così
pesante, quella di terrorismo internazionale (articolo 270-bis c. p.), che pesa
sulla vita dei tre imputati, non ci sia ancora un impianto probatorio ben
definito.
Uno dei vulnus più importanti che ha segnato tutta la linea accusatoria, fin
dalle prime udienze, è stata la totale mancanza di contesto geopolitico degli
elementi portati in aula rispetto a ciò che accade da anni in Palestina, alla
sua lunga storia genocidaria, alla realtà dei Territori Occupati e alla relativa
struttura di apartheid e, soprattutto, al diritto alla resistenza del popolo
palestinese. Eppure, nel frattempo, non possiamo non dire che fuori da
quell’aula di tribunale non sia successo nulla. Anzi! Sul piano politico, più di
un passaggio si è intrecciato direttamente con la storia stessa di questo
processo.
PASSAGGI MINORI
Settembre è stato un mese chiave. Il 23 Anan Yaeesh viene trasferito all’alba
dal carcere di Terni al penitenziario di Melfi, nella remota Basilicata. Un
provvedimento apparso da subito come un tentativo di recidere la rete di
solidarietà che, in oltre un anno, si era fatta sempre più visibile e ampia
intorno alla figura del prigioniero politico. Una decisione che arrivava in un
momento tutt’altro che neutro. Solo ventiquattr’ore prima, il 22 settembre, si
era svolto uno sciopero nazionale promosso dai sindacati di base, lanciato su
iniziativa dei portuali, al grido di “blocchiamo tutto”. Era il momento in cui
il mondo guardava di nuovo a Gaza, ne riconosceva finalmente il genocidio,
mentre seguiva la rotta della Global Sumud Flotilla che cercava di rompere il
blocco navale israeliano.
Il secondo passaggio riguarda il trasferimento della giudice a latere. Il
decreto risale all’8 settembre, ma alla fine del mese nessuna comunicazione era
ancora giunta al Consiglio superiore della magistratura per garantire la
continuità del collegio. Un vuoto procedurale che ha causato un rinvio
significativo: saltano le udienze del 19 e del 26 settembre, si torna in aula
solo il 31 ottobre. Un rinvio che ha sollevato più di un sospetto che quei
ritardi non fossero affatto casuali, ma calibrati per evitare udienze troppo
scomode e troppo vicine a una data che si stava profilando all’orizzonte, quella
della manifestazione nazionale del 4 ottobre a Roma contro il genocidio in
Palestina. Nel clima incandescente di quei giorni, la Corte e l’intero impianto
processuale si sarebbero trovati sotto i riflettori di un’opinione pubblica
sempre più ampia, arrabbiata e determinata a richiedere la fine di ogni
complicità dello Stato italiano con il genocidio in corso. È difficile
immaginare, per quel momento, una situazione più carica di tensione di quella
che avrebbe potuto generarsi in un’aula di tribunale dove lo Stato italiano,
nella sua funzione giudiziaria, si fa braccio della repressione israeliana.
RITORNO IN AULA
Il 31 ottobre, dunque, si torna in aula. Il Collegio è stato ricomposto
promettendo una continuità minima nel filo delle valutazioni. E non è poco,
visto tutto il resto. L’inizio della mattinata è movimentato dal solito momento
di bagarre tra il pubblico in aula e la pm, che intima la rimozione di una
bandiera palestinese introdotta in aula e invoca, per le prossime udienze, il
divieto di portare kefiah, in nome di una presunta “assenza di connotazioni
politiche”. Si risponde con insofferenza aperta davanti alla riproposizione di
un teatrino già visto mille volte che oggi appare soprattutto come un tentativo
di deviare l’attenzione dall’approssimazione con cui, ancora una volta, si è
arrivati fin qui, con traduzioni mancanti.
È sul reintegro delle traduzioni dall’ebraico che si addensa il punto più
delicato della giornata. Si torna su un documento già acquisito a luglio, sempre
su richiesta della difesa. Si tratta di alcune immagini tratte dal profilo
Facebook ufficiale del corpo logistico dell’IDF, che documentano interventi di
ristrutturazione compiuti nel 2021 all’interno di una caserma militare situata
nel perimetro di Avnei Hefetz. Una delle diciture riportate in quelle foto viene
letta integralmente in aula: “Benvenuti ad Avnei Hefetz – campo militare”. Viene
tradotto anche un secondo cartello, con la scritta “Menashe”, indicato come
“brigata locale”, probabilmente riferita all’unità che prese parte ai lavori di
ristrutturazione della base. Due immagini che, da sole, sono sufficienti a
incrinare la narrativa dell’accusa, per cui Avnei Hefetz sarebbe un semplice
insediamento civile.
È a questo punto che la Procura gioca una carta pesante. Chiede l’acquisizione
di un documento redatto da un ufficiale di collegamento tra l’ambasciata
israeliana e il Sud Europa, in cui si definisce Avnei Hefetz come un
insediamento civile. La Corte accoglie la richiesta in parte: non acquisisce il
documento, ma decide comunque di convocare l’autore (o un suo delegato) alla
prossima udienza del 21 novembre. Per la prima volta, in questo processo, sul
banco dei testimoni salirà un funzionario diplomatico di uno Stato estero, che
non è spettatore neutrale della storia che si racconta, ma parte in causa nel
conflitto da cui tutto origina. L’ambasciatore, o chi parlerà al suo posto, sarà
chiamato a rispondere a una domanda precisa, che è anche la domanda su cui pende
il futuro di tre imputati: che cos’è Avnei Hefetz? La difesa, in controcanto,
chiede l’audizione dell’architetto francese Léopold Lambert, esperto di
urbanistica coloniale, che da anni studia le trasformazioni militari del
territorio in Cisgiordania.
Intanto, la tensione in aula è salita di qualche grado. Israele entrerà in
tribunale. Non per farsi finalmente giudicare. Non per rispondere ai decenni di
occupazione, di apartheid, di crimini contro la popolazione palestinese. No.
Ancora una volta, siederà dal lato dell’accusa, con la voce autorevole di un
ambasciatore incaricato di definire la natura di un luogo. Sarà lui, o chi per
lui, a dire cos’è Avnei Hefetz.
COS’È AVNEI HEFETZ?
Il nome compare per la prima volta in aula il 25 giugno, durante la deposizione
dell’ispettrice capo della digos, Alessia Fiordigigli, chiamata a illustrare i
dati emersi dalle intercettazioni dei telefoni sequestrati ai tre imputati. Nei
documenti dell’accusa torna spesso il nome di Avnei Hefetz, colonia israeliana
nei pressi di Tulkarem, nei Territori Occupati. Secondo la Procura, sarebbe
l’obiettivo presunto di un’azione pianificata dalle cosiddette Brigate di
Risposta Rapida di Tulkarem, e fulcro di ipotetici legami con gli imputati.
Capire la natura di Avnei Hefetz non è affatto un mero tecnicismo. Infatti,
in un processo che ruota intorno a ipotesi di associazione terroristica,
messaggi intercettati e presunte finalità eversive, stabilire se quel luogo sia
un obiettivo civile o militare diventa un nodo cruciale.
Peccato che l’intero impianto accusatorio poggi su un fraintendimento: si
continua a considerare Avnei Hefetz e a parlarne come se fosse un’area civile,
ordinaria, situata in un contesto di pace. Quando non è così. Si sta,
volutamento o meno, ignorando che quel territorio è occupato militarmente. Una
realtà che cambia radicalmente il senso di tutto ciò che viene contestato.
Quel fraintendimento fu, a giugno, il terreno di un serrato dibattimento tra
l’avvocato Flavio Rossi Albertini e l’ispettrice capo della digos, Alessia
Fiordigigli, durante il controesame della difesa che mirava a far emergere la
superficialità e il metodo discutibile con cui era stata effettuata l’indagine.
Dallo scambio tra l’avvocato Rossi Albertini e Fiordigigli, emergeva che al di
là di una rapida consultazione di fonti aperte, le indagini non si erano mai
spinte ad accertare la natura esatta di Avnei Hefetz. Mai, in sostanza, era
stato verificato se si trattasse di un insediamento civile, militare o un
check-point.
Il documento Onu che Fiordigigli citava come conferma della natura civile
dell’insediamento, in realtà, non supportava affatto quella tesi. Anzi, la
smentiva. “The Question of Palestine” qualifica le colonie nei Territori
Occupati, tra le quali Avnei Hefetz, come illegali ai sensi del diritto
internazionale e le indica esplicitamente come uno degli ostacoli principali al
conseguimento della pace. Chiunque abbia letto quel testo, anche solo per sommi
capi, riconosce subito che è un testo di denuncia.
Lacune di questo genere emergevano anche su altre questioni: prima di tutto
sulle ricerche (o meglio le “non ricerche”) riguardo le modalità, le pratiche e
le conseguenze dell’occupazione militare israeliana nel governatorato di
Tulkarem, secondo Fiordigigli “non inerente” alle indagini di polizia; e ancora
sull’eventualità che l’azione di cui l’imputato scrive in chat sia stata
effettivamente consumata, per la quale non emerge dalle indagini nessun
riscontro.
Anche nel corso del controesame del 25 giugno nessuna prova documentale che
attestasse l’effettiva realizzazione dell’azione è stata fornita.
«Ma sappiamo cosa è avvenuto?», domandava in ultimo la difesa a Fiordigigli.
«No».
LE PIETRE DEL DESIDERIO
Seguiamo il “metodo Fiordigigli” e proviamo a googlare Avnei Hefetz. In pochi
secondi si apre davanti agli occhi un piccolo mosaico di fonti che monitorano la
colonizzazione dei Territori Occupati: le mappe minuziose di Peace Now, i
rapporti di POICA sulle trasformazioni dei villaggi palestinesi, le schede del
Land Research Center. E poi, quasi nascosta tra i risultati, una pagina del
rabbinato dell’insediamento che ci descrive l’intero complesso: “L’area
dell’insediamento comprende la ‘montagna’ sulle sue due cime, tutti i quartieri
dell’insediamento, la base militare fino oltre la porta dell’insediamento, la
torre di osservazione militare – sono tutto un insieme, un unico
insediamento”. Una frase così semplice e così trasparente da rivelare, più di
molti report, la natura ibrida di Avnei Hefetz.
Fondata nel 1987, Avnei Hefetz (il cui nome significa “le pietre del desiderio”)
si arrampica su un’altura che domina la piana di Tulkarem e la rete di villaggi
palestinesi – Shufa, Kafr al-Labad, Izbat Shufa, Al-Hafasa – che da generazioni
coltivano quella terra fertilissima oggi inglobata dalla colonia. La posizione,
scelta con cura, offre un controllo visivo e logistico sull’intero territorio.
Durante la Seconda Intifada l’area sarà la base di partenza per incursioni verso
i villaggi vicini, e nei tempi ufficialmente “ordinari” continua a funzionare
come strategico punto di sorveglianza.
L’espansione dell’insediamento si può seguire scorrendo gli ordini militari. Nel
2005 l’ordinanza T/77/05 espropria 418 dunum (42 ettari) di terreni coltivati
per “costruire una nuova recinzione”, che di fatto amplia il perimetro coloniale
inglobando campi, oliveti e sentieri di uso comunitario. Dieci anni più tardi un
altro ordine autorizza la costruzione di una strada asfaltata riservata ai
coloni che attraversa i terreni di Shufa e li divide in due, lasciando i
contadini dall’altra parte di una barriera invalicabile presidiata da
check-point fissi. Seguono, nel 2017 e nel 2018, ulteriori ordinanze che
prevedono demolizioni e nuove confische di proprietà palestinesi. Nell’arco di
poco più di un decennio Avnei Hefetz raddoppia la propria estensione e trasforma
radicalmente la geografia dell’area.
Tra i villaggi colpiti dall’espansione coloniale di Avnei Hefetz, Shufa è quello
che ha pagato il prezzo più alto in termini di frammentazione, fino a trovarsi
quasi tagliato fuori da qualsiasi collegamento. La sua strada principale verso
Tulkarem viene chiusa nei primi anni Duemila con cumuli di terra e blocchi di
cemento. Nel 2011 la comunità tenta di costruire una strada agricola per
raggiungere i campi e mantenere un minimo di collegamento con i villaggi vicini,
ma anche quel tracciato viene sigillato dall’esercito per ragioni di sicurezza
legate alla colonia. Da allora una torre militare è piantata a guardia
dell’ingresso del villaggio. Shufa vive letteralmente all’ombra di Avnei Hefetz,
isolata dal resto della piana, con il suo territorio piegato e risagomato dalla
colonia.
OLTRE IL BANCO DEGLI IMPUTATI
C’è un punto che continua a restare scoperto mentre ci avviciniamo alla prossima
udienza. Non riguarda soltanto la cronaca del processo, ma il modo in cui
scegliamo di guardare alla resistenza armata dentro un territorio occupato. Non
si tratta semplicemente di stabilire se un atto rientri o meno nel diritto alla
resistenza riconosciuto dal diritto internazionale, ma di comprendere che cosa
viene messo a fuoco e che cosa invece scompare quando quella valutazione viene
trasportata in un’aula di giustizia europea, lontana dal luogo in cui la
violenza si produce. Con questo slittamento geografico e politico è proprio la
parola “occupazione” a finire ai margini della scena, mentre è la risposta
armata e violenta a occupare l’inquadratura con tutto il suo immaginario.
Poi c’è quella parola, “terrorismo”, che appena entra in scena manda tutto in
cortocircuito, perché non si poggia su una definizione unica e condivisa ma
continua a oscillare tra convenzioni, risoluzioni, formule che non arrivano mai
a sovrapporsi del tutto. In questa zona grigia si annida forse la confusione più
pericolosa che finisce per accostare la resistenza di un popolo ad atti di
terrorismo, mettendo sullo stesso piano chi si ribella a un regime di dominio e
chi fa del terrore un metodo ordinario di governo.
Le condotte attribuite ad Anan,Ali e Mansour vengono giudicate sotto il capo di
imputazione dell’articolo 270-bis del codice penale, che nell’ordinamento
italiano definisce il terrorismo, anche internazionale, seguendo il crinale
delle intenzioni. Significa che non è rilevante la scena materiale in cui i
fatti si producono a costituire il criterio principale della valutazione, ma il
fine che viene attribuito a queste azioni sul piano giuridico. La norma
individua come terroristiche le azioni che mirano a intimidire gravemente la
popolazione, a costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale
a compiere o ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto, a destabilizzare o
distruggere le strutture politiche, costituzionali, economiche e sociali di un
Paese o di un’organizzazione internazionale.
Se per puro esercizio volessimo applicare quelle stesse parole – intimidire,
costringere, destabilizzare – alla geografia dei Territori Occupati, vedremmo
che descrivono in modo quasi letterale la maniera in cui colonie e coloni
disciplinano lo spazio e chi lo abita. Nella Cisgiordania occupata, dove le
colonie israeliane sono vietate dal diritto internazionale e tuttavia continuano
a espandersi, chi è che usa l’intimidazione e la coercizione come strumenti
ordinari di governo del territorio e di pressione sulla popolazione perché
abbandoni la propria terra?
Durante l’ultima stagione della raccolta degli ulivi, testate internazionali
come Al Jazeera hanno documentato una sequenza di aggressioni a contadini
palestinesi da parte di coloni con il volto coperto, armati di bastoni e fucili,
che aggredivano chi raccoglieva, incendiavano intere file di alberi, davano
fuoco alle auto e ai casolari ai margini dei campi. In alcune immagini si vedono
distese di ulivi anneriti lungo pendii interi trasformati in cenere.
L’altro elemento che il 270-bis indica tra i fini del terrore è la
destabilizzazione dell’ordine politico e sociale, e difficilmente si potrebbe
trovare qualcosa di più vicino a ciò che producono le colonie in Cisgiordania.
La Cisgiordania è ormai un arcipelago di villaggi palestinesi disseminati tra
blocchi di colonie e infrastrutture israeliane. Per chi abita questi luoghi
l’accesso alla terra e alle risorse è limitato, la mobilità quotidiana è
subordinata ai check-point, si vive tra permessi e deviazioni forzate, sotto la
minaccia costante di demolizioni e sgomberi. La destabilizzazione incide anche
sul piano psichico, simbolico e sociale: si interrompono i legami tra villaggi e
città, si spezza la continuità tra scuola, lavoro e assistenza sanitaria, si
incrina la trama di relazioni e di luoghi che teneva insieme memoria e senso di
appartenenza. In una geografia come questa l’orizzonte di vita rimane sospeso,
perché nulla (la casa, il campo, la strada che si percorre ogni giorno) può
dirsi davvero garantito neppure nel domani più vicino.
In questo quadro rientra Avnei Hefetz. È un luogo in cui tentare di applicare
una distinzione netta tra civile e militare non regge, punteggiato com’è da
case, torri, recinzioni, strade d’accesso e sistemi di sicurezza che formano un
corpo unico senza soluzione di continuità. Questa fusione tra colonia e apparato
militare viene definita da Francesca Albanese nel suo rapporto alle Nazioni
Unite del 2023 con l’espressione militarised settler-colonial occupation: nelle
colonie non si hanno due regimi distinti, uno “militare” e uno “civile”, che
occasionalmente si toccano, ma un unico regime di potere che utilizza tanto la
forza armata dello Stato quanto la violenza dei coloni come strumenti integrati
dello stesso progetto.
La separazione tra “coloni” e “soldati” è una distinzione utile al diritto, alla
diplomazia e, infine, anche alla propaganda israeliana. Per chi l’occupazione la
subisce, questa distinzione semplicemente non esiste: la violenza che gli arriva
addosso è la stessa, sia che provenga dal civile armato che scende dalla
colonia, sia che provenga dal soldato che lo accompagna. Nella sua esperienza,
entrambi si confondono in un’unica figura di potere, che dispone della sua vita
e della sua possibilità di restare su quella terra.
Quando un soggetto armato, pur non arruolato, coopera stabilmente con le forze
d’occupazione, svolge funzioni di sicurezza e partecipa direttamente ad azioni
ostili, quale status assume in quel frangente? Una colonia può davvero essere
esclusa dalla categoria di obiettivo militare, se si guarda alla sua struttura e
al suo scopo di occupazione?
Non va dimenticato che questi interrogativi si collocano dentro un quadro
giuridico segnato da un doppio standard, che impedisce di riportare la violenza
a una piazza comune del diritto. Tutto si poggia su un’asimmetria radicale sul
piano legale: nei casi di violenza attribuita a palestinesi la condotta viene
giudicata da tribunali militari israeliani, mentre per i coloni la giurisdizione
resta sul piano civile, se e quando un procedimento viene effettivamente aperto.
A questo punto, non è più importante soltanto stabilire che cosa sia lecito come
atto di resistenza armata, ma anche capire chi sta usando il proprio potere per
attribuire a quell’atto un significato di resistenza o, al contrario, di
terrorismo, e da quale posizione lo sta facendo. Il 21 novembre in aula
ascolteremo l’ambasciatore israeliano, chiamato dalla Corte d’assise dell’Aquila
a descrivere la natura della colonia di Avnei Hefetz. La sua voce, con ogni
probabilità, si aggiungerà a quelle che pronunceranno la parola “terrorismo”
guardando unicamente verso il banco degli imputati. Eppure dovrebbe essere
proprio lui, in quanto rappresentante dello Stato israeliano che ha voluto e
protetto colonie come Avnei Hefetz, a essere chiamato a rispondere in aula: non
con una definizione tecnica di che cos’è una colonia, né con l’ennesima
lezioncina su quella che viene presentata come normalità insediativa nei
Territori Occupati, ma assumendosi fino in fondo la responsabilità politica e
giuridica della violenza che queste strutture esercitano sui palestinesi e sui
loro territori. Una volta per tutte. (francesca di egidio)
(disegno di ottoeffe)
Il secchio gli disse,
gli disse: “Signore,
il pozzo è profondo.
Più fondo del fondo degli occhi,
della notte e del pianto”.
Lui disse: “Mi basta,
mi basta che sia più profondo di me”.
(fabrizio de andrè, andrea)
Ha girato molto in questi giorni un articolo scritto dal geologo Benedetto De
Vivo e dal tossicologo Maurizio Manno che spiega cosa stanno rischiando di
combinare il governo Meloni, il sindaco Manfredi e tutta la struttura
commissariale per la bonifica e rigenerazione di Bagnoli, smuovendo il fondo
delle acque che circondano la colmata a mare. Un disastro ambientale che segue
quello politico, abbiamo titolato su Monitor, un andarsi a cercare la catastrofe
con le proprie mani, scavando lì dove non c’è da scavare.
(credits in nota 1)
Isaura, città dai mille pozzi, si presume sorga sopra un profondo lago
sotterraneo. Dappertutto dove gli abitanti scavando nella terra lunghi buchi
verticali sono riusciti a tirar su dell’acqua, fin là e non oltre si è estesa la
città: il suo perimetro verdeggiante ripete quello delle rive buie del lago
sepolto, un paesaggio invisibile condiziona quello visibile, tutto ciò che si
muove al sole è spinto dall’onda che batte chiusa sotto il cielo calcareo della
roccia. Di conseguenza religioni di due specie si dànno a Isaura. Gli dei della
città, secondo alcuni, abitano nella profondità, nel lago nero che nutre le vene
sotterranee. Secondo altri gli dei abitano nei secchi che risalgono appesi alla
fune quando appaiono fuori della vera dei pozzi, nelle carrucole che girano,
negli argani delle norie, nelle leve delle pompe, nelle pale dei mulini a vento
che tirano su l’acqua delle trivellazioni, nei castelli di traliccio che reggono
l’avvitarsi delle sonde, nei serbatoi pensili sopra i tetti in cima a trampoli,
negli archi sottili degli acquedotti, in tutte le colonne d’acqua, i tubi
verticali, i saliscendi, i troppopieni, su fino alle girandole che sormontano le
aeree impalcature d’Isaura, città che si muove tutta verso l’alto. (italo
calvino, le città invisibili)
Ha ufficialmente chiuso le proprie attività, a inizio di questa settimana, Scion
Capital, il fondo finanziario statunitense di Michael Burry, diventato celebre
grazie al film The Big Short (La grande scommessa) sulla crisi finanziaria dei
subprime del 2008. La decisione sarebbe maturata in un contesto di
preoccupazione diffusa a Wall Street rispetto alle valutazioni gonfiate
raggiunte in borsa dai giganti della tecnologia e dell’Intelligenza Artificiale.
Burry aveva ottenuto fama e successo per aver previsto lo scoppio della bolla
immobiliare negli Stati Uniti, un cataclisma finanziario che aveva portato a un
quasi-crollo del sistema economico internazionale e aperto una stagione di
tutt’ora attive crisi strutturali. Nell’ultimo anno aveva perso diversi milioni
di euro per aver scommesso contro aziende come Nvidia e Palantir e forse anche
per questo ha deciso di restituire i capitali agli investitori e ritirarsi. Le
sue accuse sono comunque piuttosto pesanti:
“L’investitore ha pubblicato su X un’analisi dettagliata in cui sostiene che le
grandi società tecnologiche stiano manipolando i loro bilanci attraverso un
trucco contabile apparentemente semplice ma dalle conseguenze enormi. Burry
accusa gli hyperscaler, termine che identifica i principali fornitori di
infrastrutture cloud e AI come Microsoft, Meta, Google, Amazon e Oracle, di
sottostimare artificialmente l’ammortamento dei loro asset tecnologici. In
pratica, secondo Burry, questi gruppi avrebbero esteso la vita utile stimata dei
loro chip e server da tre anni a sei anni, permettendo di spalmare i costi su un
periodo più lungo e gonfiare i profitti nel breve termine. Secondo il celebre
investitore si tratterebbe di “una delle frodi più comuni dell’era moderna”.
Burry prevede che tra il 2026 e il 2028 queste società registreranno
un’ammortamento inferiore al reale per 176 miliardi di dollari, il che farà
apparire i loro profitti più alti di quanto siano in realtà: secondo le sue
stime, Oracle sopravvaluterà i profitti del 26,9% e Meta del 20,8% entro il
2028″. (riccardo piccolo, wired.it)
Negli stessi giorni in cui Scion Capital chiudeva i battenti, un altro fondo di
investimenti americano, Apollo Global Management, è diventato il nuovo azionista
di maggioranza della squadra di calcio dell’Atletico Madrid. La proprietà
americana ha acquisito il 55% delle azioni della società sborsando una cifra di
quasi un miliardo e mezzo di euro, poca roba considerando che Apollo gestisce
circa novecento miliardi di dollari di asset (la sola divisione sportiva del
fondo ha una liquidità da investire a effetto immediato di cinque miliardi, uno
dei quali sarà dedicato alla costruzione di una cittadella sportiva e
mega-centro di intrattenimento a pochi passi dallo stadio Metropolitano di
Madrid, su terreni ottenuti in concessione per settantacinque anni).
Curiosamente, il lancio di stampa e le prime interviste da parte dei dirigenti
del fondo Apollo sono arrivate nel giorno dell’anniversario di un altro lancio,
di un altro Apollo (il 12), protagonista della seconda missione con cui la Nasa
spediva degli umani sulla luna. La missione non iniziò con i migliori auspici,
perché il razzo fu colpito da due fulmini nei primi secondi di ascesa, ma
raggiunse poi la superficie del satellite, effettuò dei rilievi e in particolare
il suo equipaggio riuscì a recuperare alcune parti della sonda robotica Surveyor
3, consentendo successive analisi senza precedenti.
A seguire potete guardare la versione integrale di Le Voyage dans la lune, film
fantascientifico del 1902 girato dal visionario regista Georges Méliès,
considerato tra i padri del cinema insieme ai fratelli Lumière:
(credits in nota 2)
Nella cultura norrena il termine Ragnarǫk indica una serie di eventi
catastrofici che provocheranno un’apocalisse e la distruzione dei nove mondi
mitologici. Tra questi eventi vi sono varie calamità naturali, l’incendio e poi
la sommersione del mondo, la caduta degli astri fino alla cancellazione totale
del creato.
L’arrivo dei Ragnarǫk è preceduto dal Fimbulvetr, un rigidissimo inverno lungo
più di nove mesi al termine del quale il sole e la luna saranno divorati dai
lupi Skǫll e Hati, che li avevano inseguiti invano fin dall’inizio dei tempi. Il
buio attaccherà la luce usando fiere come il lupo Fenrir e il mostruoso serpente
Miðgarðsormr, mentre una gigantesca nave costruita con le unghie dei morti
guiderà le potenze delle tenebre verso la battaglia. Lo scontro tra le forze
della luce e delle tenebre, in cui ogni divinità si scontrerà con la propria
nemesi, non vedrà però vincitori, ma soltanto distruzione, che avrà il suo
culmine nel grande incendio provocato dalla spada di Surtr, gigante del fuoco, e
dall’inondazione che sommergerà tutta la vita rimasta sulla Terra, tra cui lo
stesso Surtr.
La fortuna della parola e del mito dei Ragnarǫk è dovuta però alla sua capacità
di indicare contemporaneamente la catastrofe massima e la rigenerazione,
attraverso la nascita, dopo l’inondazione, di una nuova dinastia divina e di una
nuova popolazione umana discendente da Lif e Lifbrasir, una coppia di esseri
umani salvatisi dalla distruzione grazie a una foresta misteriosa in cui erano
riusciti a trovare riparo. La palingenesi contestuale del mondo, degli dei e
dell’umanità indica la necessità di arrivare al fondo delle cose, e di
purificarsi per poter rinascere.
Per evitare brutte sorprese ci si dovrà ricordare che proprio mentre il mondo
starà iniziando a rivivere dalle proprie ceneri, si innalzerà in cielo come
un’ombra il mostro Níðhǫggr, il “drago che vola”, la “serpe scintillante”, che
porterà con sé i cadaveri dei morti, a memento del male. “E ora lei si
inabissa”, dice la profezia. Forse per sempre. (a cura di riccardo rosa)
(archivio disegni napoli monitor)
Gli articoli sulla “questione Bagnoli” pubblicati da Monitor nei suoi vent’anni
di attività editoriale hanno dovuto necessariamente addentrarsi in diversi
ambiti di analisi: le trasformazioni urbane (quelle pianificate e quelle
spontanee), l’indecente spreco di risorse pubbliche (si parla di circa novecento
milioni di euro), le carriere di amministratori e politici che da lì sono
partite o lì si sono fermate (Bassolino, Fico, de Magistris), le condizioni di
vita degli abitanti, i fenomeni sociali come la gentrificazione e la
turistificazione del quartiere, l’intersezione di tutte queste questioni tra
loro, e persino con i recenti accadimenti generati dalla incapacità (o non
volontà) nel gestire fenomeni naturali come la crisi bradisismica.
Difficilmente per nostra attitudine, e perché crediamo ci siano altri luoghi e
persone più titolate a farlo, abbiamo ritenuto di pubblicare articoli che
entravano nel dettaglio dei contenuti scientifici, che pure, in relazione alla
mancata o parziale bonifica del sito ex industriale, nonché al futuro sviluppo
dell’area, hanno una certa importanza. Quando l’abbiamo fatto è stato sempre in
un’ottica divulgativa, provando a semplificare le questioni senza azzerarne le
complessità, utilizzando un linguaggio e uno stile comprensibile.
È per questo che pubblichiamo oggi quest’articolo scritto da Benedetto De Vivo e
Maurizio Manno (rispettivamente professori ordinari di geochimica ambientale e
di medicina del lavoro) già comparso ieri su Anteprima24. Ci pare importante,
pur nel suo registro scientifico, per la capacità di spiegare quanto sta
succedendo in queste settimane a Bagnoli, e come il disastro politico in atto
(la modifica di leggi che imponevano il ripristino della morfologia della costa
a uso balneare, la mancata rimozione della colmata a mare, la pericolosa
“velocizzazione” di alcuni interventi per permettere lo svolgimento della Coppa
America di vela) possa contribuire a creare un disastro ambientale se possibile
ancora maggiore di quello già esistente sul territorio.
* * *
Sul tema della bonifica di Bagnoli, anche alla luce delle recenti informazioni
comunicate dal sindaco Manfredi in consiglio comunale (24 settembre 2025),
abbiamo discusso in un capitolo di carattere tecnico-scientifico su libro
internazionale in pubblicazione da Elsevier (De Vivo et al., 2026, in stampa).
Ovviamente non spetta a noi entrare nel merito di decisioni di carattere
politico, e tantomeno in quelle, a esse collegate, di carattere economico. Ci
focalizziamo, invece, nella sintesi che segue, solo sugli aspetti
tecnico-scientifici della vicenda in corso, in particolare sulle metodiche più
sicure ed efficaci da utilizzare per la bonifica e sui potenziali rischi per la
salute dei cittadini che si potrebbero determinare a seguito di scelte
tecnico-scientifiche non ottimali circa la metodica da utilizzare.
In precedenti nostri interventi sono state illustrate le due migliori tecnologie
oggi disponibili a livello internazionale. Quella del desorbimento termico
in-situ (Istd) e quella ex-situ (Estd), tecniche che operano sostanzialmente
allo stesso modo: entrambe riscaldando i contaminanti organici fino a quando non
si volatilizzano, separandosi così dal suolo (per una descrizione esaustiva di
Istd e Estd rimandiamo a: Baker & Kuhlman, 2002; Khan et al., 2004; The United
States Environmental Agency, 2017; Zhao et al., 2019; Xu & Sun, 2021; De Vivo,
2024b; 2025a, b).
Nel sopracitato consiglio comunale, il prof. Manfredi, ha dichiarato che la
necessità tecnica impone la non rimozione della colmata (in violazione della
legge n.582 del 18 novembre 1996, che ne avrebbe invece imposto la rimozione,
con relativa ricostruzione della spiaggia pubblica). Si tratta di una decisione
politica, non tecnica. La colmata potrebbe in realtà essere facilmente rimossa
(come previsto dalla legge) dopo aver eliminato ipa, pcb e idrocarburi totali
con trattamento di desorbimento termico in-situ (Istd) e utilizzando poi i
terreni bonificati per la copertura delle aree interne. Se, d’altra parte,
decisioni politiche dovessero imporre che la colmata non debba venir rimossa,
sia le aree interne che i sedimenti marini antistanti la colmata potrebbero
anch’essi essere bonificati utilizzando l’Istd.
In ogni caso, sulla base delle dichiarazioni del sindaco, sembra che non verrà
effettuata alcuna bonifica nell’area della colmata, ma solo la messa in
sicurezza, coprendola con una platea impermeabile su cui è prevista la
costruzione di strutture necessarie per l’America’s Cup. Sembra quindi che la
bonifica della colmata stessa verrà effettuata dopo la fine dell’America’s Cup.
Questa scelta appare tuttavia incomprensibile. Se la decisione di mettere in
sicurezza l’area della colmata è stata già presa, perché non fare un intervento
definitivo? Successivamente all’impermeabilizzazione permanente della sua
superficie (prevista attualmente solo come misura temporanea) e poi
all’”isolamento-tombamento” dell’intera area, sarebbe infatti possibile
costruire sul lato mare una barriera fisica permanente (palancole) per impedire
la migrazione in mare e, quindi, nei sedimenti marini, degli inquinanti organici
presenti. Una volta “tombata” la colmata, i sedimenti marini potrebbero essere
bonificati mediante Istd, una tecnica già utilizzata a questo scopo in
Danimarca.
Per quanto riguarda in particolare la tecnica di bonifica da utilizzare, sembra
tuttavia che sia già stata programmata l’Estd (non siamo a conoscenza delle
stime dei costi) per tutti i suoli di Bagnoli. Una società internazionale,
specializzata in tecnologia di Istd e Estd, ha indicato un costo totale
approssimativo, per la tecnologia Istd, di circa centoventi milioni di euro:
sessanta per l’area della colmata e sessanta per i sedimenti marini a fronte
della colmata. Per i suoli a monte e per sedimenti marini più a largo della
colmata fino al golfo di Pozzuoli sempre con Istd, si potrebbe fare solo una
valutazione, prendendo a riferimento, i costi indicati per la superficie
dell’area della colmata. Pensiamo sia, in questa fase, un esercizio inutile.
CONSIDERAZIONI SU RISCHIO TOSSICOLOGICO E SANITARIO PER I RESIDENTI
L’area di Bagnoli, su cui si pianifica di procedere con Estd (e non con Istd) e
per cui è prevista una massiccia movimentazione di terreni pesantemente
inquinati da ipa e ocb, è adiacente al mare del golfo di Pozzuoli. È facilmente
prevedibile, che ipa e pcb, attualmente relegati nei suoli e nei sedimenti
marini, se mobilizzati in area prospiciente il mare, possano diffondervisi. Gli
ipa, combinandosi con il cloro (Cl), producono dei derivati, gli ipa clorurati,
che sono più tossici dei composti d’origine. In particolari condizioni
(combustione incompleta) possono formarsi diossine, sostanze notoriamente
cancerogene-mutagene. Inoltre, gli stessi ipa e pcb, se si combinano con lo
stagno (Sn) o il mercurio (Hg), formano sostanze altamente tossiche:
rispettivamente il dibutil- e tributil-Sn e il metil-Hg. Lo stagno, un elemento
di per sé dotato di bassa tossicità, è sempre presente nelle rocce del
vulcanismo napoletano, unitamente al berillio (Be) e al tallio (Tl), mentre il
mercurio è più legato a processi di idrotermalismo (è il caso dei Campi
Flegrei). Circa vent’anni fa uno degli autori di questa nota (B. De Vivo), ha
riscontrato nei sedimenti marini antistanti i cantieri navali di Castellammare
la presenza di dibutil- e tributil-Sn (lo stagno è presente nelle rocce
vulcaniche sia del Vesuvio che dei Campi Flegrei).
Gli effetti tossici per l’uomo conseguenti l’inquinamento marino è
un’eventualità ben documentata in letteratura. Ricordiamo un caso classico,
negli anni Cinquanta e Sessanta, di grave inquinamento ambientale prodotto dalla
combinazione di composti organici con mercurio, nella Baia di Minimata,
Giappone. L’inquinamento, di origine industriale, provocò la malattia di
Minamata, scoperta per la prima volta nel 1956, determinò gravi intossicazioni
negli abitanti e fece incrementare notevolmente l’incidenza di decessi per
cancro nella popolazione della baia (Timothy, 2001). Fu causata dal rilascio,
dal 1932 al 1968, di metilmercurio nelle acque reflue da parte dell’industria
chimica Chisso Corporation. Il metil-Hg, altamente tossico e cancerogeno, si
accumulò nei molluschi, nei crostacei e nei pesci della baia, entrando nella
catena alimentare e causando così l’avvelenamento degli abitanti del luogo,
inclusi numerosi decessi. Si intervenne sulle sorgenti dei composti organici,
chiudendo l’industria chimica Chisso Corporation e vietando del tutto la pesca
nella baia di Minamata. I danni ambientali e sulla salute della popolazione sono
persistiti per decenni e continuano ancora oggi ad avere effetti, anche sociali,
sulle comunità locali.
La rilevanza di queste considerazioni rispetto ai programmi di bonifica del sito
di Bagnoli, pur oggettivamente distanti, nello spazio e nel tempo rispetto al
contesto di specie, risiede nel fatto, oggi consolidato, che il patrimonio di
conoscenze tossicologiche acquisite dai disastri ambientali pregressi fanno
parte del bagaglio di informazioni utili e necessarie per conseguire scelte
lungimiranti e prudenti, oltre che rispettose della legge. La valutazione del
rischio sanitario per la popolazione residente o lavorativa e, quindi, per
definizione, potenzialmente esposta, per motivi residenziali e/o occupazionali,
all’assorbimento di livelli di contaminanti tossicologicamente rilevanti impone,
prima di qualsivoglia decisione operativa, di considerare tutti i possibili
scenari di rischio, anche i più improbabili, ancorché possibili. A tal riguardo
assumono particolare significato le diverse modalità di esposizione compatibili
con le attività residenziali, commerciali e balneari presenti e future sul sito
di Bagnoli, ovvero quelle per inalazione, ingestione ed esposizione cutanea.
Sia Istd che Estd possono potenzialmente produrre inquinanti atmosferici
secondari, come le diossine che si formano durante la distruzione termica dei
gas di scarico contenenti molecole organiche come ipa e pcb in presenza di
cloro. La tecnologia Estd è più versatile e può trattare contaminanti meno
volatili, ma richiede scavi e trasporto del terreno, che comportano un rischio
maggiore di inquinamento atmosferico (formazione di diossine, per i cittadini
che vivono nelle aree circostanti il sito contaminato se non vengono progettati
e implementati adeguati controlli ingegneristici e sanitari). La pratica
ingegneristica di bonifica richiede un’attenta pianificazione e giudizio,
soprattutto quando si bonificano discariche di rifiuti, come la colmata, situate
in prossimità di un’area densamente popolata e adiacenti alla costa. Tale
rischio è comunque molto più elevato durante gli scavi e i movimenti del terreno
necessari per Estd. Negli ultimi 20 anni, l’Estd è quasi ovunque vietato se i
siti da bonificare sono in prossimità di aree urbanizzate. Nel caso di Bagnoli,
il sito industriale dismesso è parte integrante della città di Napoli, con
l’aggravante di essere localizzato in riva al mare (con conseguente incremento
di rischi per la salute umana a seguito di balneazione). Nelle aree urbanizzate
viene infatti generalmente privilegiato l’Istd.
Per determinare quale opzione sia più conveniente per la colmata, sarebbe
necessario sviluppare prima progetti concettuali per ciascuna delle due opzioni,
Istd e Estd, ciascuno concepito per raggiungere gli stessi obiettivi di
bonifica, garantendo però al contempo adeguati livelli di sicurezza per la
salute umana e dell’ambiente durante e dopo la bonifica.
Una soluzione assolutamente da non tentare è, comunque, il dragaggio di
sedimenti marini, fortemente contaminati da ipa, pcb e pesticidi organoclorurati
(Ocp) (Minolfi et al., 2018). Le dichiarazioni del sindaco Manfredi indicano
tuttavia che il dragaggio sia già programmato sul fronte della colmata. Il
dragaggio di sedimenti marini, fortemente contaminati da ipa, pcb e ocp,
causerebbe l’amplificazione del disastro ambientale in tutta la baia di Bagnoli,
fino al golfo di Pozzuoli, dove sono registrati comunque elevati superamenti
delle soglie limite di legge (Dm 56/09) per ipa totali, 15 congeneri e per pcb
totali – con plumes di dispersione immediatamente al largo della colmata che
sono da cento volte (nel golfo di Pozzuoli) a mille volte (nella baia di
Bagnoli) più elevati, (Minolfi et al., 2018); il rischio è quello di dover
vietare del tutto la pesca sia nella baia di Bagnoli che nel golfo di Pozzuoli.
Nella baia di Bagnoli, oltre che per ipa e pcb, si registrano poi valori elevati
per ventiquattro congeneri di ocp (pesticidi)¹.
Sulla phytoremediation, una tecnica sperimentale basata sull’uso di piante per
la decontaminazione di suoli inquinati, presentata come una innovazione ma in
realtà ben nota nell’esplorazione mineraria da decenni, non c’è molto da dire.
Riguarda solo alcuni specifici metalli e con ben precise limitazioni. Non esiste
comunque alcuna specie vegetale che possa assorbire tutti i contaminanti, siano
essi inorganici o organici. In più, ipa e pcb sono recalcitranti, alias non
vanno in soluzione, quindi sono assolutamente non “estraibili” con
phytoremediation, e comunque certamente non con piccoli arbusti con radici di
pochi centimetri, visto che ipa, pcb, e idrocarburi totali, nel sito di Bagnoli,
si trovano fino a cinque metri di profondità (De Vivo, 2025b).
Ciò detto, il problema di inquinamento da metalli non esiste a Bagnoli (De Vivo
et al., 2021; 2024). I metalli (non esiste chimicamente la categoria dei metalli
pesanti!) sono naturali (da sorgenti idrotermali, vedi Lima et al, 2001, 2003)
oppure industriali (da loppe e scorie di altoforni). Quelli naturali, da
sorgenti termali, non sono bonificabili: si tiene semplicemente conto dei
valori background, naturali. Quelli di origine industriale sono invece ossidati,
alias non sono bio-disponibili, quindi di scarsa rilevanza per la salute umana
(rimandiamo a De Vivo et al., 2026, in stampa).
Concludendo, sulla base dell’evidenza disponibile in letteratura e di quella
raccolta sul campo, nell’arco ormai di un trentennio dalla dismissione degli
impianti industriali a oggi, il desorbimento termico in-situ appare la metodica
più indicata per la bonifica o, per meglio dire, ribonifica del sito di Bagnoli
(De Vivo et al., 2021), e in particolare dell’area relativa alla colmata.
____________________________
¹La campionatura e le analisi, da cui sono derivate le mappe di distribuzione in
Minolfi et al (2018) furono eseguite fra novembre 2004 e marzo 2005, da
Icram/Ispra.
(collage di stefania spinelli)
Dall’ultima primavera ci sono i tornelli alla stazione di Porta Nuova. I
viaggiatori, per accedere ai binari, devono presentare il biglietto agli
operatori di guardia, oppure sono tenuti a mostrare il codice del loro titolo di
viaggio a una macchina automatica. I varchi sono presidiati da uomini con la
divisa di Fs Security, la società di Ferrovie dello Stato dedicata a garantire
la sicurezza in stazione e sui treni. Hanno i giubbotti blu, le insegne di
Ferrovie dello Stato sulla schiena e non portano armi. Insieme a loro ci sono
anche guardie private con divise blu scuro, pantaloni stretti e pistola nella
fondina; portano il logo di Securitalia sul petto. I guardiani attendono eretti
accanto ai varchi, attorno le persone corrono, trascinano valigie, fissano i
tabelloni delle partenze. Si vede un bar con una vetrata che s’affaccia sui
binari, un cuboide di vetro dove su scaffali rosa si vendono borse e
braccialetti. Di fronte un negozio di cosmetici con le pareti ancora rosa.
È il tardo pomeriggio d’un giorno lavorativo di settembre, Said è stato dal
dentista a Torino e deve prendere in fretta il treno per tornare al suo paese
nella provincia di Biella. Il treno parte fra cinque minuti, Said non ha tempo
di acquistare il biglietto. Raggiunge una guardia di Fs e chiede di passare
oltre il varco, vuole pagare in carrozza e tiene la carta di credito fra le
dita. Il piantone lo guarda dritto negli occhi, in modo aggressivo, si erge
eretto e rigido e fa segno di andare via.
Said raggiunge le biglietterie automatiche, ma è troppo tardi per stampare il
biglietto giusto. Ora digita i suoi dati e richiede il titolo di viaggio per
l’ora dopo, anche se il treno scelto lo porterà in un paese che dista diversi
chilometri da casa sua. Said si dirige verso l’uscita di via Sacchi per comprare
un panino al primo bar sotto i portici. Mentre esce, alza il braccio e mostra
alla guardia il biglietto. La guardia di Fs Security raggiunge Said e chiede:
«Cosa vuoi? Cosa vuoi?»; poi mette una mano sul braccio del viaggiatore. Said
prova a divincolarsi e zac, tutto accade in due, tre secondi, zac, la guardia
colpisce duro il suo zigomo.
Said è confuso, prende il telefono per chiamare la polizia ma non riesce a
digitare il numero. Ora è circondato da altre guardie dei tornelli. L’uomo di Fs
Security è tornato al suo posto, ma un suo collega intima a Said di non
muoversi. Arrivano gli agenti di polizia: uno va dall’aggressore, quattro invece
stanno attorno a Said. Gli agenti sono sbrigativi e gli chiedono: «Da dove
vieni? Cosa fai qui? Documenti». L’uomo si muove a rilento, ma trova il permesso
di soggiorno e lo porge.
Said mostra la guardia violenta. «Non indicarlo, parla con noi!», dicono i
poliziotti. A stento Said riesce a raccontare la sua storia, sembra che gli
agenti non vogliano ascoltarlo, o non siano interessati. Un poliziotto lo
interrompe, poi un secondo, ancora un terzo. Aumenta la confusione e Said fa
fatica a parlare, incalzato dalle domande: «Hai capito? Hai capito?». L’uomo non
sta bene e qualcuno ha chiamato l’ambulanza. «Vuoi fare denuncia o vai al pronto
soccorso?», chiede il primo agente. Said vorrebbe prima fare denuncia, poi
andare in ospedale. «No, no», dicono gli agenti mentre si allontanano. Said sale
sull’ambulanza, disposto a trascorrere la notte in pronto soccorso per un
referto redatto al sorgere dell’alba. (dora griot)
* * *
Gli altri episodi si trovano qui
(disegno di francesca ferrara)
Oltre il cancello del civico 255 di viale della Resistenza, a Scampia, proprio
di fronte al parco dedicato a Ciro Esposito, c’è un edificio grigio e imponente,
con appena qualche murales a regalare un po’ di colore. In queste giornate
d’ottobre c’è però qualcosa di diverso. Si respirano adrenalina e tensione, e a
dar vita al Melissa Bassi sono gli striscioni alle ringhiere, i cartelloni a
sostegno della Palestina, le scritte che chiedono giustizia e pace. Nei corridoi
della scuola occupata si intrecciano voci, passi, risate e discussioni: ogni
angolo sembra trasformato. Agli studenti e alle studentesse è stato ricordato in
tutti i modi che stanno facendo “qualcosa di illegale”, ma la determinazione che
li guida rende la loro azione più di una semplice protesta.
Da decenni in Palestina le bombe distruggono case, ospedali e scuole. I luoghi
dell’educazione e dell’istruzione, dove si dovrebbero formare le generazioni del
futuro, vengono oggi rasi al suolo, proprio come i sogni di chi li abitava. È
anche pensando ai loro coetanei, distanti solo qualche migliaio di chilometri,
che nasce la scelta degli studenti di occupare. Per reagire a una ingiustizia,
spiegano, e per dire che il diritto all’esistere non è mai scontato.
Da quasi quarant’anni nessuno occupava l’istituto. Eppure, dal 27 ottobre al
primo novembre, le studentesse e gli studenti si sono riappropriati degli spazi
della scuola: assemblee permanenti, turni di vigilanza e per le pulizie;
discussioni, mani che si alzavano, voci che si sovrapponevano e trovavano, pian
piano, un accordo: «Abbiamo ritenuto doveroso far sentire la nostra voce – dice
una delle studentesse protagoniste dell’occupazione – e utilizzare la scuola in
modo da farci eco». I muri dell’edificio sono i primi testimoni delle loro
intenzioni: striscioni e cartelloni rendono visibile ogni richiesta e ogni
denuncia. Su uno, scritto a mano con vernice rossa, si legge: “Per Mimì, Dario e
Francesco: giustizia!”, in un richiamo alla carcerazione di tre attivisti che
sono stati per tre giorni e tre notti in prigione dopo aver interrotto una fiera
a cui partecipava una multinazionale del farmaco israeliana, coinvolta nel
genocidio.
Sebbene nei talk show e sui giornali si racconti un’altra storia, quella che
alcuni chiamano “guerra” non è mai finita: le ripetute infrazioni del governo
sionista al cessate il fuoco continuano a provocare la morte di centinaia di
civili palestinesi. «Studiare è un diritto, non un privilegio di pochi», si
continua a dire nelle assemblee e nei laboratori dell’occupazione, accomunando
le condizioni di chi vive in questi territori e quelle di chi a scuola non può
andarci perché gliel’hanno distrutta. Nei sei giorni di occupazione al Melissa
Bassi si sono susseguiti incontri con l’Unione degli Studenti di Napoli, con la
rete Liberi di Lottare, con realtà del territorio come Chi rom e… chi no! o come
il MOSS (Ecomuseo Diffuso di Scampia), oltre che un confronto con Mirella La
Magna del Gridas, storica voce del quartiere. Visibile, era, la sua emozione,
nel poter parlare a ragazzi e ragazze di Scampia, in un luogo che per anni aveva
sperato di vedere vivo e partecipato. Ha parlato con discrezione, ricordando le
lotte per ottenere le prime scuole nel quartiere e invitando a non fermarsi, a
costruire una rete capace di andare oltre le mura scolastiche. «Non dobbiamo
dividere il mondo in buoni e cattivi — ha detto — ma capire le cause, le
responsabilità, e restituire qualcosa di ciò che, per caso, abbiamo avuto in più
rispetto agli altri».
Ogni incontro è diventato occasione per provare a tenere insieme il tema della
scuola con quelli del lavoro, della guerra diffusa, dei diritti delle persone.
Anche Dario, quando è uscito dal carcere di Poggioreale, è passato per Scampia:
una chiacchierata semplice ma intensa, con le ragazze e i ragazzi, per parlare
di solidarietà e repressione, e di come sia importante in certi momenti non
sentirsi soli. Eppure proprio la scuola, troppo spesso, tende a reprimere invece
di accogliere, a uniformare invece di valorizzare le differenze. Molti studenti
hanno raccontato la difficoltà, ogni anno, di affrontare le spese per libri, i
materiali, i contributi economici cosiddetti “volontari” ma invece sempre più
obbligatori, che diventano fonte prima di soggezione e poi di esclusione per
molti e molte. «La scuola dovrebbe insegnarci a conoscerci e a capire gli altri,
non solo a prepararci al lavoro», ha detto una di loro, facendo riferimento ai
Pcto, i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, una volta
chiamati “alternanza scuola-lavoro”.
L’idea è semplice: far sperimentare agli studenti il mondo del lavoro, integrare
l’esperienza pratica a quella teorica. Nella realtà, però, questi percorsi
nascondono rischi concreti. In Italia, negli ultimi anni, non sono mancati
incidenti durante tirocini e stage: ragazzi e ragazze hanno perso la vita per
carenze nella sicurezza. Al tempo stesso, molte scuole sembrano trasformarsi in
centri per l’impiego, dove la formazione rischia di ridursi a semplice
addestramento al lavoro, senza spazio per la conoscenza.
Già nel primo giorno di occupazione, il collettivo della scuola aveva diffuso un
comunicato chiaro e diretto, che allarga lo sguardo oltre le mura del Melissa
Bassi: un testo che parla di periferie e precarietà, di abbandono scolastico e
marginalizzazione, del sapere come frontiera di classe e del silenzio complice
degli adulti: “Occupiamo anche per denunciare la condizione materiale e
simbolica in cui versa la scuola pubblica, in particolare nelle periferie come
Scampia, dove tantə ragazzə sono costrettə al precariato, al lavoro nero e
all’abbandono scolastico. Non perché manchi la voglia di studiare, ma perché il
carolibri trova rifugio dietro le mura del privilegio”.
D’altronde quest’occupazione non nasce dal nulla, è il frutto di un fermento
che, da mesi, attraversa un quartiere in cui l’impegno civile e la solidarietà
hanno radici profonde. Le tante associazioni e realtà politiche del territorio
rivendicano un posizionamento chiaro sul genocidio dei palestinesi, ribadendo
che la questione non è iniziata il 7 ottobre, ma nei decenni di occupazione che
l’hanno preceduto. A partire da settembre, anche tra la comunità docente è
cresciuta la necessità di ribadire la propria posizione: come formatori e
formatrici del pensiero critico delle nuove generazioni, in molti hanno sentito
il dovere di unirsi in un coordinamento di insegnanti dell’area nord di Napoli,
con l’obiettivo di sensibilizzare studenti e studentesse che, in un contesto
periferico, spesso non sono pienamente consapevoli di ciò che li circonda. Il
coordinamento ha organizzato laboratori, ha aperto spazi di discussione
all’interno del quartiere, ha incentivato la partecipazione di studenti e
studentesse, pratiche in qualche modo in relazione con ciò che è accaduto dopo
qualche tempo a scuola. Lo stesso preside del Melissa Bassi ha scelto di non
rispondere con la chiusura, ma con l’ascolto: «L’importante è comunicare – ha
spiegato – perché se non comunichi “l’altro” diventa “il nemico”. L’obiettivo
di noi adulti non dev’essere punire, ma capire: costruire un dialogo, anche
faticoso, per trasformare il conflitto in un’occasione di crescita».
L’occupazione si è conclusa il primo novembre. Nei corridoi sono rimaste domande
più che risposte, ma anche la sensazione che la scuola possa ancora essere un
luogo di partecipazione e conflitto. Nei giorni seguenti, alcuni docenti hanno
raccontato che, tornati in classe, studenti e studentesse hanno chiesto il loro
aiuto per capire meglio cosa stesse accadendo in Palestina e nel mondo. Forse la
scuola può ancora produrre pensiero, quando viene attraversata collettivamente.
(pasquale frattini)
(disegno di escif)
In un saggio del 1993 dal titolo Democrazia o bonapartismo, Domenico Losurdo si
interrogava sul delicato equilibrio che regge le democrazie liberali, fondato su
un suffragio universale fragile che rischiava uno svuotamento dall’interno della
sua funzione principale: assicurare la rappresentanza di ogni faccia della
società. Una deriva che Losurdo vedeva nella crescente concezione della politica
come acclamazione di un leader carismatico e investito da una moltitudine
variegata e con sempre meno riferimenti, in un mondo che di lì a poco avrebbe
visto il pieno compimento della mediatizzazione della politica con l’avvento di
Berlusconi al governo. Un bonapartismo soft che anche l’Italia avrebbe ereditato
dagli schemi politici statunitensi, fondati su collegi uninominali e leadership
riconoscibili, carismatiche ed espressione più di interessi organizzati che di
ampie basi sociali.
Questo dilemma si ripropone, oggi, proprio nella regione di provenienza del
filosofo: la Puglia. La regione adriatica, ormai annoverata tra le roccaforti
del centro-sinistra dopo vent’anni di governo regionale ininterrotto, è chiamata
al voto il 23 e il 24 novembre. Un voto che la larga maggioranza dei
commentatori ritiene dall’esito scontato, ma che nasconde al suo interno tutte
le contraddizioni di una politica ormai sempre meno pratica pubblica e sempre
più mera gestione. Una deriva manageriale che si esprime in primis nel candidato
favorito alla presidenza: Antonio Decaro. Una carriera politica iniziata come
assessore (in quota tecnica) alla mobilità e al traffico della città di Bari
della giunta Emiliano, dopo un’esperienza in consiglio regionale, viene eletto
sindaco del capoluogo pugliese per due mandati consecutivi. Una figura molto
popolare che ha sempre saputo mobilitare un elettorato trasversale, convinto da
una pratica amministrativa fondata sulle opere pubbliche, vuoi per una
deformazione professionale – Decaro è ingegnere civile –, vuoi perché permettono
di fornire una testimonianza materiale dell’operato amministrativo. Un
cavalcavia o una strada sono indicatori molto più immediati, ma soprattutto
concreti, che può apprezzare anche un elettorato disattento, come quello la cui
massima espressione politica si riduce al voto ogni tot. anni. Decaro è
l’espressione più riuscita di un modello ben preciso, quello dell’amministratore
operoso, che controlla i cantieri in città, che informa la cittadinanza
attraverso i suoi canali personali con video e foto, e che parla poco di
politica. Una deriva, quella del disaccoppiamento tra politica e amministrazione
che in Puglia ha contagiato non poche amministrazioni comunali. A tal proposito,
rimane esemplare un’affermazione del sindaco di Conversano – cittadina a trenta
chilometri dal capoluogo – che durante un consiglio comunale affermò come lui
non facesse politica, bensì il suo lavoro.
Un aspetto complementare a quello della spoliticizzazione delle cariche elettive
è quello della formazione di un vero e proprio “blocco di amministratori” che si
esprime in una ufficiosa formazione politica: il partito degli amministratori.
Una formazione che si è rivelata fondamentale per chiunque abbia aspirazioni di
governo in una regione sempre più sbilanciata verso il proprio capoluogo.
Difatti, la probabile elezione di Decaro vedrebbe per la seconda volta
consecutiva il passaggio dalla carica di sindaco di Bari a quella di presidente
della Puglia – dopo l’elezione e i due mandati di Michele Emiliano prima sindaco
di Bari fino al 2014 e poi presidente di regione fino al 2025. Ed è proprio il
dualismo tra i due “baresi” Emiliano e Decaro quello che ha deciso negli ultimi
anni le sorti politiche del resto della regione, specialmente nell’area della
città metropolitana di Bari. Secondo uno schema sempre simile. In prossimità
delle elezioni comunali nei vari territori, il notabile barese di turno –
Emiliano o Decaro – prova a insediare un sindaco “amico”, espressione della
propria corrente così da avere più peso con cui presentarsi sul palcoscenico
regionale. Un processo che ha permesso a molti personaggi dal percorso politico
“indeciso” e accidentato di riciclarsi come “espressione civica di
centrosinistra”, nonostante a volte provenissero dal centrodestra. Così da
innescare una certa dinamica di sostituzione tra politica e amministrazione, in
cui il riferimento nel comune per il “centro” non era più la segreteria locale
del principale partito di area, il Partito democratico, bensì l’amministratore –
perché portatore di un pacchetto di voti sicuro e testato, e poco importa la sua
provenienza politica. Insomma, il “vecchio” trasformismo. Solo che oggi si
chiama “civismo”. Il risultato è una classe politica “poco politica” che ha
ingrossato le fila del centrosinistra pugliese poiché assicurava loro un posto
entro cui perpetuarsi; una “borghesia lazzarona” – definizione di Alessandro
Leogrande – incastrata in giochi di potere stantii.
Assistiamo pertanto ad agili cambi di casacca, come quello di Luciana Laera, ex
sindaca di Putignano, in provincia di Bari, ed espressione della corrente
decariana, ora candidata nelle liste di Fratelli d’Italia; oppure Stefano
Lacatena, consigliere regionale uscente passato da Forza Italia alla maggioranza
di centrosinistra, non riconfermato ed escluso dalle liste che sconsolato
dichiara “probabilmente la mia casa è il centrodestra”.
Il voto di novembre sembra sancire un passo ulteriore verso l’indebolimento
della dialettica democratica pugliese, inaugurando una stagione di unanimità. La
campagna elettorale e il voto sembrano essere contrattempi sconvenienti davanti
a un esito che si preannuncia scontato e con differenze a due cifre tra le
coalizioni principali. A destra, hanno temporeggiato fino all’ultimo
nell’annuncio dell’agnello sacrificale da immolare sull’altare della certa
sconfitta; scelta poi ricaduta su un anonimo tecnico la cui massima esperienza
politica è stata perdere contro Emiliano nella corsa a sindaco di Bari nel 2004.
Mentre nel centrosinistra – che accoglie un po’ tutti – c’è la corsa alla foto
con il presidente in pectore Decaro, per posizionarsi velocemente nella scia del
leader che torna nella sua regione dopo un anno “di Erasmus” a Bruxelles, dove
il parlamento europeo è ormai appetibile solo per chi vuole poi candidarsi come
presidente di regione, o l’ha già fatto e ha terminato i mandati. In tutto
questo, ad ammutolire è la politica, la visione di quello che si vuol far
diventare la Puglia, una regione al centro di vertenze decennali, come
l’acciaieria di Taranto, che però sembra ormai devota solo al turismo, che dopo
aver completamente mangiato la costa si sta rivolgendo verso l’interno. La
“California d’Italia” che soddisfa sia la domanda di alloggi – sempre meno
disponibili per chi risiede – che di stereotipo – con una cultura popolare
masticata dalle agenzie di promozione territoriale e risputata in una versione
digeribile per ogni visitatore e conforme alle sue aspettative. Davanti al
dilemma posto da Losurdo, la regione più a est d’Italia sembra aver deciso che
sentiero percorrere. (marco patruno)