(disegno di diego miedo)
Sarà presentato giovedì 27 febbraio 2025, alle ore 18:00 allo Scugnizzo Liberato
(salita Pontecorvo, 46), L’impresa del bene. Terzo settore e turismo a Napoli,
un libro di Luca Rossomando. Con l’autore ne discuteranno Gaetano Quattromani e
Giovanni Zoppoli.
L’espansione non regolata del turismo di massa a Napoli ha prodotto cambiamenti
impensabili fino a pochissimi anni fa, modificando il paesaggio e la struttura
socio-economica della città. I grandi enti del Terzo settore attivi nel centro
storico – fondazione Foqus, fondazione di comunità San Gennaro, L’Altra Napoli
Onlus – esercitano un’influenza crescente sulle scelte dei governanti, indicando
le priorità operative ed elaborando le narrazioni egemoniche intorno alle quali
si costruisce il consenso e si rimodella la città. La loro azione risponde a
logiche strettamente imprenditoriali, basate sulla convenienza economica, la
competitività, la reputazione mediatica; la loro priorità è lo sviluppo di nuovi
segmenti di mercato in cui dispiegare senza ostacoli le proprie attività.
Queste dinamiche, sullo sfondo della “città del turismo”, stanno producendo
conseguenze opposte a quelle propagandate dai grandi enti: non la vivibilità dei
quartieri, la partecipazione, il benessere delle comunità, ma la precarietà
abitativa, lavorativa ed esistenziale dei suoi abitanti più fragili.
Source - NapoliMONiTOR
Cronache, libri, disegni e reportages
(disegno di adriana marineo)
Pubblichiamo qui una voce enciclopedica, la prima di tante. Vogliamo assemblare
un archivio di informazioni sulle modalità di welfare erogato da enti privati o
garantito da una collaborazione fra pubblico e privato. I concetti scelti nel
titolo sono dirimenti: il “terzo settore” descrive la galassia di enti di natura
privata e dotati di finalità di utilità sociale; la “innovazione sociale”
identifica una serie di strategie capaci di portare benefici alla società pur
appartenendo a logiche gestionali private. Come redazione torinese studiamo da
anni associazioni, fondazioni, progetti culturali o sociali che svolgono queste
funzioni. Si tratta di una realtà composita e frastagliata nella quale non è
semplice orientarsi. Ogni voce è allora una mappa a beneficio di chi scrive e di
chi legge.
Lo sguardo, almeno all’inizio, sarà parziale: partiremo dai fenomeni che
conosciamo meglio, ordinando appunti e riflessioni di anni. Speriamo di
aumentare in esaustività nel corso del tempo, allargando la collaborazione a
tutti i complici che vorranno unirsi. Il nostro approccio vuole essere preciso e
documentato, ma certo non neutrale: questa mappatura ha l’ambizione di criticare
il sogno di una virtuosa collaborazione fra pubblico e privato per il
miglioramento della società. Un obiettivo non semplice, perché la filantropia,
per sua natura, tende a sfuggire al pensiero critico. Queste cartografie sono
dunque una sfida lanciata a pratiche ed entità che si rendono sfuggenti e opache
grazie alle buone intenzioni dichiarate. La prima voce riguarda una delle
matrici più rilevanti dei processi di cui scriveremo: la Compagnia di San Paolo,
fondazione di origine bancaria.
* * *
La Compagnia di San Paolo domina le attività culturali e sociali in città. Quasi
non vi è iniziativa, progetto o evento che non mostri il logo della fondazione
bancaria. Essa sostiene, grazie ai suoi finanziamenti, una variegata categoria
di operatori sociali, creativi, artisti, mandarini e imbonitori, imprenditori e
dirigenti di Torino. Lo sguardo dunque incontra i segni della Compagnia in ogni
angolo urbano, eppure non è semplice delineare la storia, la natura, la funzione
e le pratiche della fondazione. Gran parte di questa voce si ispira allora a un
libro recente scritto in modo rigoroso e ben documentato: Élite, filantropia e
trasformazioni dello stato. La Compagnia di San Paolo a Torino di Paola Arrigoni
(il Mulino, 2024).
La Compagnia di San Paolo (CSP, d’ora in poi) è un ente di diritto privato con
finalità di intervento sociale e filantropico nata in seguito alla
privatizzazione del sistema bancario italiano. L’atto originario risale al 1990
con la legge Amato-Carli. Gli istituti bancari pubblici vengono privatizzati, ma
tutte le loro azioni sono affidate a “enti conferenti” che hanno il compito di
venderle sul mercato; viene così separata la funzione di gestione delle banche,
ormai privata, da quella del controllo delle azioni.
Le fondazioni di origine bancaria discendono direttamente da questi enti
conferenti. “L’ente conferente – scrive Arrigoni – oltre al controllo delle
aziende bancarie, ereditava le finalità filantropiche dei vecchi istituti.
Pertanto si sarebbe dovuto occupare, anche, di devolvere in attività di utilità
sociale i dividendi percepiti dalle banche controllate”. Gli enti conferenti,
quindi, sono strumenti neoliberali volti, al contempo, a realizzare il processo
di privatizzazione del sistema bancario e ad affiancare lo stato nella
erogazione di servizi a finalità sociale e culturale. Nel 1998 la legge Ciampi
obbliga le fondazioni a cedere sul mercato gran parte delle azioni delle banche
da cui traggono origine. Inoltre la legge Ciampi stabilisce che i “boards” delle
fondazioni “avrebbero dovuto essere espressione dei principali stakeholders
locali (pubblici e privati, profit e non profit)” e che “circa la metà dei
consiglieri avrebbe dovuto essere espressione della cosiddetta società civile”.
La CSP è dunque l’ente conferente della banca Sanpaolo. Dopo la fusione con
Intesa, la CSP rimane la prima azionista del gruppo Intesa Sanpaolo, detenendo a
oggi il 6,4 % delle azioni.
La fondazione è un ente “geneticamente ibrido” nato in un periodo storico
peculiare: “Dall’Inghilterra – continua Arrigoni – venivano progressivamente
mutuati i principi del NPM (New Public Management), che cambiavano le regole del
gioco riconoscendo all’autorità pubblica il compito di fissare obiettivi di
risultato e parametri di valutazione, delegando la loro attuazione a soggetti
esterni”. La CSP è un ente privato, ma persegue finalità pubbliche e i suoi
vertici sono eletti per cooptazione interna o su suggerimento degli enti
pubblici. La CSP, dunque, è un’entità capace di realizzare politiche pubbliche
senza un diretto controllo democratico del loro operato.
Nei decenni la Compagnia di San Paolo ha erogato sussidi per la cultura, i
servizi sanitari, l’istruzione e l’assistenza sociale. Quest’ultima voce di
spesa ha visto aumentare in modo considerevole la percentuale di capitali
impiegati: mentre il pubblico taglia le spese al welfare, è la CSP a sostenere
la fragile tenuta dei servizi sociali in città. Inoltre dal 2016, con la prima
presidenza di Francesco Profumo, la Compagnia s’impegna nel sostegno della
finanza a impatto sociale, ovvero nella promozione di investimenti capaci di
generare effetti misurabili e di garantire un ritorno economico per gli
investitori. L’aumento notevole dei capitali devoluti in progetti di housing
sociale è un sintomo evidente di questa tendenza. Sembra che ogni esigenza
dell’uomo possa essere esaudita da servizi erogati da enti che promettono un
profitto.
Un’altra linea di investimento recente converge sulle fondazioni di comunità,
enti filantropici territoriali capaci di declinare in aree peculiari le
politiche di innovazione sociale volute da CSP. In sintesi si può notare
un’evoluzione: la Compagnia non si limita a erogare capitali a fondo perduto, ma
seleziona progetti e entità capaci di generare strategie di impresa e profitti
grazie alle relative attività filantropiche. In questo senso CSP appare come un
soggetto di governo, capace di intervenire in modo diretto nello spazio pubblico
e modulare una precisa idea di società.
Sin dalla sua origine la CSP è controllata da un Consiglio Generale che a sua
volta nomina un Consiglio di Gestione composto da cinque membri, fra cui il
Presidente della fondazione. L’incarico dei consiglieri e del Presidente ha
durata quadriennale. I consiglieri sono nominati su indicazione di enti pubblici
strategici come il Comune di Torino, la Regione, la Camera di Commercio di
Torino, le accademie della città, oppure entrano in fondazione per cooptazione
interna. Ai vertici di CSP si sono avvicendate negli anni classi dirigenti
provenienti dalla banca di riferimento, dalle università della città, dalla
Camera di Commercio, dal mondo della cultura e dalla ristretta cerchia di classi
dirigenti che amministrano le sorti di Torino. Le aree di intervento sono divise
in tre grandi obiettivi: Obiettivo Persone, Obiettivo Cultura, Obiettivo
Pianeta. Il primo copre le politiche abitative, educative e i servizi sociali;
il secondo orienta il lavoro culturale in città; il terzo invece riguarda
l’innovazione tecnologica, la ricerca e le politiche dedicate a realizzare la
transizione energetica.
La vocazione umanitaria e filantropica della CSP rende questo ente in apparenza
incontestabile. Se non ci fosse la Compagnia, direbbe un dirigente della
fondazione, Torino e il suo intero sistema metropolitano collasserebbero. Eppure
bisogna indagare le origini di questo assunto. La Città eroga sempre meno
servizi perché ha un debito considerevole: a fine 2020, prima di un ingente
sussidio statale, ammontava a più di tre miliardi di euro, rendendo Torino la
città con il maggiore debito pubblico pro capite in Italia. Ogni anno la Città
spende circa il dieci per cento del suo bilancio soltanto per pagare gli
interessi sul debito. Uno dei principali creditori è proprio Intesa Sanpaolo, di
cui CSP detiene ancora la quota principale di azioni. Gli utili della banca
verso cui la Città è debitrice sono dunque distribuiti dalla Compagnia per
supplire ai tagli al welfare causati proprio dal debito e dalla ingente spesa
sui relativi interessi. Un circolo vizioso nascosto dal velo illusorio della
filantropia.
E poi, nel concreto, sono validi i progetti sostenuti dalla Compagnia di San
Paolo? A un primo sguardo pullulano in città iniziative insulse, vuote e
autoreferenziali, partecipate soltanto dalle classi dirigenti dominanti e dalle
relative cerchie di sodali. Le attività sono accompagnate da un linguaggio
omologato, melenso e ipocrita che contribuisce ad abbassare il livello della
riflessione. Ancora, gran parte delle energie critiche sono cooptate dalla
fondazione bancaria e costrette in un languido silenzio o in inefficaci
pantomime. Si respira in città un’aria dolce e soporifera di ottundimento delle
coscienze. Le affermazioni di questo ultimo paragrafo, tuttavia, possono
apparire sommarie o poco documentate. Compito dell’intera mappatura è quello di
esplorare nel dettaglio le sorti e i risultati della innovazione sociale a
Torino. (voce a cura di francesco migliaccio)
(disegno di irene servillo)
Farah è una madre e una donna coraggiosa che si è rivolta alla nostra
associazione per avere notizie di suo figlio Aouina Mohamed Amine, di soli
sedici anni, scomparso durante un viaggio verso l’Europa.
Mohamed Amine è partito la notte del 5 febbraio 2024 da Bizerte, a bordo di un
gommone nero, insieme ad altre diciassette persone, tra le quali sono noti i
nomi di Helmi, Yassim, Mohamed, Bilel, Ayoub, Seif, Fahmi, Mahdi, Maher, Mohamed
Omar, Ghanim, Souahail e del piccolo Anas, di appena cinque anni. La
destinazione era Cagliari, con arrivo previsto per il giorno successivo. Di lui
non si sono mai più trovate tracce.
Alla partenza da Bizerte, Mohamed Amine indossava un maglione nero, pantaloni da
jogging, un giubbotto e scarpe Nike nere. Il giovane aveva una piccola cicatrice
sulla gamba sinistra, poco sotto il ginocchio, ricordo sul suo corpo di un
infortunio subito in passato. Tre giorni dopo la partenza sua madre Farah ha
ricevuto un messaggio da un numero tedesco che riferiva di un possibile
avvistamento del figlio in un ospedale di Cagliari. Tuttavia, nonostante il
messaggio sia ancora disponibile, il numero a oggi risulta inesistente, rendendo
impossibile sia risalire al mittente che verificare se la segnalazione sia
veritiera.
Contattata la polizia, all’ufficio immigrazione sostengono che le verifiche
iniziali condotte dalle autorità non abbiano portato a risultati concreti. Tra
gennaio e marzo 2024 non risultano sbarchi di cittadini tunisini a Cagliari, ma
solo gruppi di algerini. Inoltre, il confronto tra la fotografia del passaporto
di Mohamed Amine e le immagini delle persone sottoposte a foto-segnalamento in
Italia non ha dato esito positivo. La questura di Palermo sostiene che sul
territorio siciliano non risulti alcuna traccia del ragazzo, e che pertanto il
nominativo rimane sconosciuto.
Successivamente si viene a sapere che il 7 febbraio un attivista ed ex
parlamentare tunisino, Majdi Karbai, noto per il suo impegno sui temi
dell’immigrazione, era stato contattato da una persona, familiare di alcuni
migranti in viaggio, per segnalare una situazione di emergenza. Un’imbarcazione
partita da Bizerte e diretta a Cagliari si trovava bloccata in mezzo al mare a
causa di un guasto al motore. I passeggeri a bordo, riusciti a raggiungere
telefonicamente i propri parenti, avevano lanciato l’allarme. Karbai aveva
immediatamente contattato la Guardia Costiera di Roma, quella di Cagliari e
quella siciliana, oltre alla sala operativa della capitale. Nonostante
l’intervento dei soccorsi, però, l’imbarcazione non venne intercettata.
La barca su cui viaggiavano Mohamed Amine e gli altri dovrebbe essere naufragata
al largo della Sardegna, in condizioni di mare tempestoso, il 6 febbraio del
2024. Con l’arrivo della scorsa primavera il mare iniziò a restituire corpi di
vittime, e tra marzo e aprile diversi cadaveri furono ritrovati al largo delle
Eolie e di Rodia, sulle coste della Sicilia, della Calabria e della Campania.
Tra i corpi recuperati, alcuni furono identificati grazie a dettagli diffusi
dalla stampa.
Per esempio, il 13 aprile, il corpo di un’uomo fu trovato in stato di avanzata
decomposizione dalla Capitaneria di Porto di Milazzo, nella zona di mare tra
l’isola di Vulcano e il promontorio di Capo Tindari, nel comune di Patti
(Messina). Il fratello della vittima lo riconobbe grazie a una serie di tatuaggi
distintivi: un dragone, una tela di ragno e uno scorpione. Il giorno successivo,
i resti del piccolo Anas furono rinvenuti da un pescatore nei pressi della zona
industriale di Lamezia. Di suo padre Souahail, invece, non sembra essere rimasta
nessuna traccia.
Grazie all’intervento dell’associazione Mem. Med. Memoria Mediterranea,
ulteriori indagini furono attivate. Tra le diciotto persone disperse si riuscì
però a trovare e identificare solo cinque cadaveri. In quei giorni Farah si
sottopose al test del Dna, ma l’esito fu negativo: nessuno di quei corpi era
quello di suo figlio. A oggi, il nome di Mohamed Amine dovrebbe essere incluso
nella lista ufficiale dei dispersi diffusa dal consolato tunisino a Roma
all’epoca dei ritrovamenti, ma nonostante quattro solleciti, il consolato non
fornisce alcuna conferma a riguardo. Se così non fosse, sarebbe ancora più
difficile che eventuali tracce del corpo di Mohamed Amine vengano associate al
suo nome, in caso di ritrovamento.
Intanto, l’incertezza è diventata per questa donna un tormento insostenibile.
Da un lato, la speranza che Mohamed Amine possa essere sopravvissuto le dà la
forza di continuare a cercarlo e di non arrendersi. Dall’altra, il timore che il
mare, silenzioso custode di innumerevoli tragedie, possa un giorno restituirle
il corpo del figlio non le dà pace. In bilico tra questa speranza e questo
dolore Farah continua a lottare per la verità, e perché anche di fronte
all’immensità del mare ogni vita venga ricordata; e ogni storia, per quanto
tragica, raccontata. (luna casarotti – yairaiha ets)
(disegno di escif)
A partire dallo scorso autunno, in molte città d’Italia si sono costituite
decine di assemblee, formate da precari e precarie della ricerca, studentesse e
studenti, docenti e personale tecnico-amministrativo, in netta opposizione al
Ddl Bernini, riforma che accelera lo smantellamento dell’università pubblica e
si inserisce in un processo di lunga durata di precarizzazione e privatizzazione
di didattica e ricerca. A questi primi provvedimenti che consistono
nell’introduzione di nuovi contratti precari (borse junior, senior, professore
aggiunto) e tagli di circa settecento milioni nel prossimo triennio, che si
sommano al mezzo miliardo del 2024, seguirà una riforma strutturale della
governance universitaria che si sta preparando a porte chiuse e riguarderà
l’intero sistema universitario.
Dietro aule, uffici e laboratori si cela una realtà spesso ignorata, quella di
chi, pur essendo il motore della didattica, della ricerca e dei servizi, lavora
con contratti a termine, senza prospettive di stabilità o garanzie di rinnovo.
Dottorandi, assegnisti, ricercatori, docenti a contratto e personale
tecnico-amministrativo, sono tutti vittime di un sistema fatto di incertezza e
sfruttamento.
A fronte dell’attuale prospettiva, per chi entra nel circuito della ricerca, di
anni e anni di precariato prima di arrivare, forse, alla stabilizzazione, la
ministra introduce nuove figure intermedie, ancora una volta prive di dignità e
diritti, ancora una volta ferme in una zona burocraticamente grigia che non le
riconosce come lavoratrici. Le precarie e i precari della ricerca, però,
lavorano eccome: mandano avanti progetti e didattica, integrano le attività dei
docenti strutturati, e spesso li sostituiscono. La ministra a parole chiama
all’unità nazionale, definendo la ricerca italiana come “settore d’eccellenza”
ma di fatto contribuisce a normalizzare il precariato che da tempo immemore
affligge l’università pubblica.
Nel frattempo, i tagli al Fondo di finanziamento ordinario rafforzano un sistema
in cui la ricerca dipende da fondi straordinari e progetti europei e
internazionali (Marie-Curie, Erc grants, ecc.) estremamente competitivi,
incentivando una logica produttivista che soffoca la libertà di ricerca e di
insegnamento. Dispositivi come i Vqr (Valutazioni della qualità della ricerca)
dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della
ricerca) assegnano i fondi sulla base del numero di pubblicazioni dell’ateneo,
numero di grants europei vinti, valutazione media degli studenti e delle
studentesse, progressioni di carriera, ma anche qualità delle strutture,
digitalizzazione e altri criteri basati su logiche premiali e non sul bisogno,
concentrando la gran parte dei finanziamenti in grandi poli e pochi settori che
rispondono alle esigenze di mercato. In questo senso, la retorica meritocratica
che si cela dietro i parametri di premialità, eccellenza e autonomia è in realtà
un sistema viziato a monte che esacerba le diseguaglianze territoriali e mette a
rischio l’esistenza stessa delle università considerate di “serie B”, lontane
dalle grandi metropoli universitarie.
Il discorso del merito e della premialità vincola anche l’assegnazione di
alloggi e borse in una logica competitiva che discrimina in base alle condizioni
socio-economiche di partenza, svantaggiando chi deve conciliare lo studio con un
lavoro esterno e le persone, molto spesso donne, su cui grava il peso del lavoro
di cura.
Mentre l’università pubblica viene de-finanziata, il sistema formativo privato e
telematico si rafforza, presentandosi come unica alternativa a chi non può
permettersi la mobilità. Parallelamente, i finanziamenti seguono logiche di
mercato: le tematiche di ricerca sono sempre più dettate da finanziatori
privati, direttive europee orientate all’industria e interessi legati al riarmo.
Questo meccanismo riduce la ricerca, anche quella dell’università pubblica, a un
ingranaggio della macchina produttiva, subordinandola alle esigenze delle grandi
aziende e del complesso militare-industriale. Il caso delle collaborazioni con
aziende come Leonardo o Eni, coinvolte per giunta nel genocidio del popolo
palestinese, mostra come il sapere venga sempre più piegato a interessi
economici e geopolitici. Nel medesimo processo di militarizzazione
dell’università è coinvolto anche il Ddl sicurezza 1236, firmato dai ministri
Nordio, Piantedosi e Crosetto che all’articolo 31 prevede l’obbligo di
collaborazione e assistenza di enti pubblici, compresi quelli di formazione, con
i servizi segreti nazionali, mettendo in serio pericolo la libertà di ricerca,
di insegnamento e la privacy di studenti e lavoratori.
Alla luce di tutto ciò, nel fine settimana tra l’8 e il 9 febbraio, le varie
assemblee precarie, insieme a collettivi e sindacati, si sono date appuntamento
a Bologna. La sede di via Zamboni 38 dell’università, è stata raggiunta da oltre
quattrocento persone provenienti da tutta Italia. Sono stati due giorni di
rabbia e di elaborazione, di scambio di pratiche ed esperienze di lotta contro i
tagli, la riforma del pre-ruolo e le logiche premiali di assegnazione di fondi
agli atenei, di borse di studio e di ricerca.
Da novembre 2024, esiste anche a Napoli un’assemblea precaria, che lavora
incessantemente dentro e oltre l’università, attraverso momenti pubblici di
discussione e proposte di mozioni all’interno degli organi istituzionali degli
atenei, nonché organizzando la mobilitazione per un rigetto secco del decreto
Bernini, dei tagli che impone e del modello di università entro cui si
inserisce, per la realizzazione di un sistema formativo pubblico democratico,
finanziato e partecipato. A Bologna, l’assemblea precaria napoletana ha portato
la prospettiva di chi vive le università del Sud, marginali e periferiche per
definizione, penalizzate dai meccanismi premiali dei finanziamenti, e sempre più
dipendenti da investimenti di privati che in questo modo hanno il potere di
influenzare didattica e ricerca.
Le assemblee precarie che da mesi lavorano tra Napoli, Pisa, Firenze, Roma,
Palermo, Salerno e tante altre città, a Bologna non si sono riunite solo per
opporsi a riforme e tagli, ma si sono proposte di ripensare l’intero sistema
universitario e si sono date una piattaforma rivendicativa chiara e condivisa:
stabilizzazione del precariato dalla ricerca e del personale
tecnico-amministrativo, rigetto della riforma Bernini, raddoppio del fondo di
finanziamento ordinario, abolizione dell’Anvur, rescissione di ogni accordo e
partnership con imprese che alimentano e sostengono guerre e massacri,
affermazione del diritto ad alloggi e borse di studio svincolato dalla
performance universitaria e dai criteri di premialità, pretesa di una ricerca
autonoma e libera, che non sia piegata all’interesse del mercato.
È un’esperienza, quella di Bologna, che invita a costruire una mobilitazione
ampia e trasversale capace di affermare con forza che questo modello non è
sostenibile né equo: non c’è niente da difendere del sistema universitario
pubblico vigente, ma tutto da costruire, immaginare e ripensare.
Precarie e precari dell’università, insieme alla componente studentesca, hanno
capito di essere centrali e rivendicano il loro protagonismo, ribadendo la
necessità di organizzarsi e lottare insieme per un modello nuovo, che garantisca
tutele e prospettive e che sia capace di assolvere ai bisogni di tutte e tutti.
La mobilitazione è appena iniziata e continuerà in tutte le città in cui le
assemblee precarie sono presenti e operano dentro e fuori l’università.
L’obiettivo è quello di costruire uno sciopero che coinvolga tutte le componenti
sfruttate e precarie della formazione. (flora molettieri)
(disegno di india santella)
Risulta difficile ragionare sulla città di Taranto senza conoscerne le origini.
La storia racconta di una comunità millenaria, capitale della Magna Grecia, e di
un passato che spesso ritorna, intrecciandosi con il presente. Ne è un esempio
il fiume Tara, un fiume di origine carsica lungo appena due chilometri, il cui
nome deriva da Taras, personaggio della mitologia greca, che secondo il mito fu
salvato da un delfino inviato da suo padre Poseidone dopo un naufragio,
raggiungendo la costa nei pressi del fiume. Ma oltre al mito è possibile
associare al Tara alcune vicende storiche, come l’incontro nel 35 a.C. tra Marco
Antonio e Ottaviano, che avvenne proprio al centro del fiume; e nel 1594 la
battaglia tra Cristiani e Saraceni presso le sponde del Tara, questi ultimi
respinti dalla popolazione della vicina Massafra.
A oggi il Tara è frequentato da una numerosa comunità, che ne approfitta durante
le calde estati per trovarvi ristoro. In occasione del rito della Madonna del
Tara, il primo giorno di settembre i credenti si riuniscono per pregare affinché
le acque del fiume possano proteggere la salute dei devoti; è credenza popolare
che bagnarsi nel Tara e cospargersi dei suoi fanghi comporti dei benefici.
Al di là del valore storico e sociale, va riconosciuto al Tara il suo importante
contributo dal punto di vista ambientale, infatti il suo ecosistema è parte
integrante del paesaggio ionico. Le acque e la vegetazione ripariale
costituiscono una forte attrattiva per le specie selvatiche tipiche delle zone
fluviali della Puglia: aironi, salamandre, anguille, diversi pesci d’acqua
dolce, una notevole quantità di insetti, e ultimamente è stata avvistata anche
la lontra, un mammifero considerato specie protetta. Pertanto, il fiume
rappresenta una vera e propria oasi naturale in un’area fortemente
caratterizzata dalle attività antropiche.
Il Tara, dunque, possiede tutte le caratteristiche necessarie affinché possano
essere intraprese azioni di tutela dello stesso da parte delle istituzioni, ma
negli anni nulla è stato fatto per preservare l’area. Oggi il fiume è minacciato
da un controverso progetto promosso da Acquedotto Pugliese, una società
partecipata della Regione Puglia. Si tratta di un dissalatore che avrebbe le
dimensioni di circa cinque volte l’attuale dissalatore più grande d’Italia,
quello di Cagliari. L’impianto sarà finanziato con fondi provenienti da Pnrr e
Fsc, quindi spendibili non oltre il 2026.
Il 25 settembre 2023, per un costo che si aggira intorno ai cento milioni di
euro, al netto del ribasso d’asta, vengono aggiudicati i lavori all’associazione
temporanea di imprese costituita dalle società Suez Italy, Suez International,
Edil Alta con sede ad Altamura, la tarantina Ecologicia e la massafrese Cisa,
società molto attiva nel settore dei rifiuti.
Dopo diverse sedute, la conferenza dei servizi del 10 gennaio 2025 ha dato il
via libera alla realizzazione del dissalatore. Un fattore rilevante è la
modalità di approvazione che viene utilizzata, ovvero a prevalenza di pareri.
Durante le precedenti conferenze si è sempre deciso di procedere all’unanimità,
salvo ora cambiare modalità di approvazione. Spiccano infatti i rumorosissimi
“no” provenienti dalla Soprintendenza del ministero della cultura, da Arpa
Puglia e Asl Taranto, con pareri ampiamente motivati dagli stessi enti; ma la
maggioranza non ha esitato nel procedere alla concessione della Valutazione
d’impatto ambientale, necessaria al rilascio di tutte le autorizzazioni che
consentiranno la realizzazione dell’impianto, lasciando aperto il dibattito sul
peso della componente politica rispetto a quella tecnica.
Il ministero della cultura, attraverso un documento di cinquanta pagine, afferma
la sua decisa contrarietà al progetto, dichiarando che l’opera andrebbe
realizzata altrove, essendo in netto contrasto con il paesaggio e l’ambiente, e
che nessuna modifica al progetto potrà modificare il parere contrario. Anche
Arpa Puglia indica che esistono criticità che non considerano l’importanza
naturalistica, geomorfologica e idrologica del sistema delle sorgenti e del
fiume, riconosciuta dalla pianificazione della stessa Regione Puglia. Arpa fa
notare inoltre che il progetto prevede l’espianto di circa novecento
ulivi (nella zona sono presenti ulivi secolari), e circa mille e quattrocento
alberi da frutto, di cui la maggior parte agrumi. In risposta, Acquedotto
Pugliese ha dichiarato che gli ulivi verranno reimpiantati, non si sa però dove,
e alcune voci sollevano dubbi sulla capacità degli alberi di adattarsi a nuove
aree ed eventualmente ad avere frutti.
Un’altra osservazione dell’ente di controllo ambientale riguarda l’utilizzo
delle acque, indicando come la quantità minima di acqua che deve rimanere nel
fiume debba essere maggiore o uguale a 2.000 l/s, considerando che la portata
media del Tara equivale a 3.700 l/s, e affinché i prelievi non abbiano impatti
negativi sull’ecosistema il limite massimo di prelievo è fissato a 1.300 l/s. A
oggi esiste già un prelievo di acque autorizzato dall’Autorità idrica pugliese
pari a 1.100 l/s, per uso destinato all’ex Ilva e all’irrigazione; il Wwf di
Taranto ha fatto sapere che questo prelievo può arrivare a 3.500 l/s. Il
progetto del dissalatore prevede un prelievo di 1.000 l/s, quindi la somma dei
prelievi potrebbe superare di gran lunga non solo il deflusso ecologico
(quantità minima necessaria), ma addirittura anche la portata del fiume stesso.
Il Tara ha origine carsica, la sua portata varia in funzione delle piogge. Non
si capisce come l’impianto possa sopperire a una mancanza delle stesse, se
strettamente legato ai fenomeni piovosi. Acquedotto Pugliese ha proposto durante
la conferenza dei servizi che se dovesse non esserci acqua a sufficienza, tutti
gli utilizzatori dovranno ridurre i prelievi secondo regole concordate.
In concomitanza con l’avanzare di questo progetto, si registrano le attività di
associazioni, comitati e liberi cittadini che hanno prodotto opposizioni, anche
tecniche, sufficienti per dimostrare quanto l’operazione sia inopportuna e
impattante dal punto di vista ambientale. Per esempio, il Wwf di Taranto ha
prodotto osservazioni sul consumo di suolo che questo progetto produrrà. È
prevista la costruzione di due grandi condotte: una di quattro chilometri,
condurrà gli scarichi della lavorazione in mare; l’altra, di quattordici
chilometri, accompagnerà le acque depurate al centro di raccolta. Inoltre, in
prossimità delle tubazioni, è prevista la costruzione di strade di servizio. La
somma di suolo occupato da strade, condotte e stabilimento occuperà quindi
all’incirca otto ettari di suolo, che corrispondono a una dozzina di campi da
calcio.
Bisogna inoltre segnalare un fatto di cronaca non irrilevante, ovvero la
comparsa di una numerazione registrata di nascosto su ulivi secolari all’interno
di proprietà private, secondo i proprietari dei terreni proprio in
corrispondenza del tratto che vede passare la condotta di quattordici
chilometri. Non è possibile attribuire alcuna colpevolezza in quanto non si
dispone di prove, ma i titolari degli alberi hanno sporto denuncia contro ignoti
e presentato un esposto ai carabinieri sottoscritto da circa centocinquanta
cittadini.
Altro punto critico: l’impianto si avvarrà della tecnologia a osmosi inversa per
desalinizzare le acque già dolci. La bassa salinità delle acque, di fatto,
costituisce un punto di forza del progetto di Acquedotto Pugliese: l’ente
sostiene che il dissalatore comporterebbe un consumo di energia minore per
produrre la stessa quantità di acqua che verrebbe prodotta lavorando acque più
salate. Sempre secondo il Wwf di Taranto, però, oltre la salamoia giungerebbero
in mare fanghi, metalli, anti-incrostanti e cloruri, che sarebbero poi soggetti
a un processo di stratificazione, determinando un’alterazione dell’habitat
marino.
Un altro interrogativo riguarda il consumo di energia: gli impianti di
dissalazione sono energivori, e in questa fattispecie i proponenti hanno
dichiarato che le fonti energetiche che alimenteranno l’impianto sono di tipo
rinnovabile. Dopo mesi di dibattito sul dissalatore, solo ora viene annunciato
che l’impianto sarà alimentato al cento per cento da energia rinnovabile. Questo
aspetto, che non era stato incluso nel progetto originale né menzionato nei
documenti ufficiali, appare più come un tentativo di rassicurare l’opinione
pubblica che come il frutto di una reale programmazione strategica. In altre
parole, sembra un’aggiunta dell’ultimo minuto piuttosto che un elemento
strutturale del piano iniziale.
Nonostante questo annuncio, però, analizzando i dettagli scopriamo che il
quattordici per cento dell’energia sarà autoprodotta tramite fotovoltaico,
mentre il restante arriverà dalla rete con “garanzie di origine”: una modalità
che non garantisce affatto che l’energia consumata in tempo reale sia davvero
rinnovabile. Si potrebbe continuare a elencare una serie di interrogativi da
porre alla Regione Puglia riguardanti il progetto, ma è altrettanto importante
soffermarsi sull’aspetto politico della vicenda.
Regione Puglia e Acquedotto Pugliese hanno scelto Taranto come sede per la
costruzione dell’impianto, pur essendo a conoscenza della critica situazione
ambientale del capoluogo ionico, definendo questo progetto strategico per la
Puglia (stessa cosa fu detta in altre situazioni da altri attori). Il progetto è
giunto alle battute finali, accompagnato da una scarsa partecipazione da parte
della comunità locale, ormai fragile e stanca di dover affrontare spesso
problemi che hanno natura comune. La politica ionica da diversi anni ha smesso
di avere un ruolo centrale nelle decisioni prese altrove, sebbene questo
territorio abbia già dato troppo in termini ambientali, e i suoi cittadini
continuino a pagarne le conseguenze. Considerando che già oggi la rete idrica
pugliese perde il 43,6% (fonte Istat), caro presidente Emiliano, non sarebbe il
caso di prendere in considerazione un’altra alternativa per risolvere la crisi?
(domenico colucci)
(disegno di ottoeffe)
(disegno di cristina moccia)
Lo scorso mese di luglio abbiamo pubblicato la prefazione di Nicola Valentino
a Socialmente Pericoloso. La triste ma vera storia di un ergastolo bianco, libro
di Luigi Gallini (Edizioni Contrabbandiera). con contributi di Nicola Valentino,
del collettivo Informacarcere e del collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud.
Gallini è un ex ricercatore universitario e insegnante, che nell’acutizzarsi di
una patologia psichiatrica tentò di rapire una bambina, con l’intento di
salvarla da un pericolo imminente. Giudicato “pericolosissimo”, Gallini è allo
stato attuale in una comunità forense, dalla quale non è dato sapere se uscirà
mai. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la sua storia, e non solo.
* * *
LG: Mi chiamo Luigi Gallini, sono attualmente detenuto in una residenza
psichiatrica a media intensità dell’Asl della città di Torino. Si tratta di una
residenza psichiatrica chiusa: io e gli altri detenuti non abbiamo libertà di
movimento, e possiamo uscire solo col permesso degli operatori.
RI: Perché sei recluso qui?
LG: Parto dalla mia storia di vita. Ho ventitré anni di scolarizzazione, un
diploma di perito agrario e una scuola estiva da tecnico dirigente di società
cooperative, una laurea in Scienza della Terra, un dottorato in Chimica agraria.
Ho lavorato dieci anni nella ricerca come chimico ambientale e vent’anni nell’
insegnamento, però ho anche una storia alle spalle di quarant’anni di
psichiatrizzazione. L’ultimo episodio acuto risale al Covid, periodo in cui
avevo smesso di prendere gli psicofarmaci. Avevo completamente smesso di
dormire, e vivevo in un mondo di sogno fantastico in cui gli alieni erano
arrivati sulla Terra su una grossa astronave. Era un sogno a occhi aperti, che
mi faceva fare delle cose stranissime. Un giorno entrai in un bar e cercai di
portare via una bambina di tre mesi sul passeggino, convinto di doverla salvare
da un rito sacrificale che gli alieni barionici rettiliani stavano organizzando
nei suoi confronti. Loro mi intimavano: «O tu cerchi di salvarle questa bambina,
allora noi crocifiggiamo te; oppure non la salvi, e allora la uccidiamo noi…».
Io, non sapendo che fare, la presi per portarla via. E niente…è stato difficile
dare una spiegazione logica dell’accaduto. I genitori mi hanno raggiunto e
ammazzato di botte: mi hanno rotto il polso a calci e pugni. Ho chiamato la
polizia, che è arrivata e mi ha arrestato, portandomi direttamente al Sestante,
il reparto di osservazione psichiatrica del Carcere delle Vallette di Torino.
RI: Adesso il Sestante è stato chiuso?
LG: È stato chiuso dopo la denuncia di Antigone, ma poi ristrutturato e
riaperto. Il Sestante è una bocca dell’inferno sulla Terra… Una dozzina di celle
isolate, vuote, sorvegliate da un complesso sistema di videocamere attive
ventiquattr’ore su ventiquattro. Dentro c’era gente anche piuttosto grave, che
non connetteva più per nulla. Io avevo il braccio ingessato e non potevo
lavarmi: il primo cambio d’abito l’ho avuto dopo tre settimane, la carta da
lettere dopo due.
RI: Era un reparto specificatamente destinato a persone psichiatrizzate?
LG: Sì, un reparto di osservazione psichiatrica (Articolazione per la Salute
Mentale). Una volta alla settimana venivi portato a colloquio con la psichiatra
o con lo psicologo.
RI: Quando eri al Sestante eri in attesa di processo o eri stato già processato?
LG: Sono stato processato per direttissima, perché le telecamere di sorveglianza
del bar mi hanno ripreso mentre cercavo di prelevare la bambina. Mi hanno
processato mentre ero al Sestante, giudicandomi “Incapace di intendere e di
volere” e “Socialmente Pericoloso”. Da allora, sono recluso all’ergastolo
bianco.
RI: Cosa vuol dire essere giudicato “incapace di intendere e di volere”?
LG: Con “incapacità di intendere e di volere” si intende una profonda
disconnessione dal reale, che non permette di comprendere quello che succede, né
di scegliere in modo razionale e logico. Quando sono stato arrestato mi trovavo
in uno stato allucinatorio praticamente permanente: avevo allucinazioni
auditive, visive, mentali, di tutti i tipi. Successivamente, mi è stato detto
che anche nel mio caso il criterio di “incapacità di intendere e di volere” è
discutibile: ma, in quel momento, il perito del tribunale decise così, in base
ai criteri della sua Scienza.
RI: Quante persone sono recluse qui con te in residenza psichiatrica? A che tipo
di trattamenti sono sottoposti?
LG: Qui dentro siamo in sedici. Io prendo un neuroplegico iniettato
intramuscolo, ma in generale cerco di oppormi a un eccessivo trattamento
farmacologico, perché so che gli psicofarmaci hanno solo un effetto palliativo
sul malessere psichico: sopprimono il sintomo senza agire sulle cause. Sugli
altri, non so… vedo che prendono molte pillole, taluni ne prendono una manciata,
ma nessuno parla apertamente della terapia. C’è una forte vergogna che spinge al
silenzio.
RI: I farmaci vengono dati per vari motivi: per sedare, ma anche per rispondere
alle richieste di pazienti che hanno sviluppato dipendenze decennali…
LG: I giovani qui dentro sono pochissimi: quasi tutti i pazienti hanno una certa
età, dunque sono in cura psichiatrica e psicofarmacologica da moltissimi anni e
hanno sviluppato una grande dipendenza. Intraprendere uno scalaggio
richiederebbe un lavoro certosino di cura e di attenzione notevole, che in
questo momento politico non c’è intenzione di fornire. E poi, il neurolettico è
sedativo: il personale è poco, i detenuti sono tanti, e si ricorre allo
psicofarmaco per tenerli buoni e gestibili. Non dimentichiamo poi che lo
psicofarmaco rimane lo strumento principe per trattare la devianza psichica
perché è un grosso business: si stima sia un giro d’affari di duecento miliardi
di dollari all’anno.
RI: Prima hai definito la tua condizione di reclusione psichiatrica “ergastolo
bianco”: cosa vuol dire?
LG: L’ergastolo bianco è un termine che, in gergo, indica il caso in cui un
internato psichiatrico è privato della libertà per un periodo di tempo senza
limite superiore massimo. L’ergastolo bianco è commutato dal tribunale quando
sussistono tre circostanze a carico dell’internato: egli commette un reato; è
giudicato incapace di intendere e di volere al momento del reato; è valutato
socialmente pericoloso, ovvero il giudice valuta che esiste una certa
probabilità che egli possa commettere un nuovo reato se messo in libertà. La
pericolosità sociale è un dispositivo introdotto nel corpo delle leggi dello
stato italiano dal codice Rocco: è una legge fascista. Diversi giuristi ne
chiedono da tempo l’abrogazione.
RI: Spostandoci su questioni più teoriche, secondo te quali sono le sfide
dell’antipsichiatria contemporanea? In cosa differiscono da quelle che
affrontava il movimento antimanicomiale degli anni Sessanta e Settanta, che
lottava per la deistituzionalizzazione?
LG: Quando sono nato io, i manicomi erano ancora attivi, e ho seguito la riforma
Basaglia leggendola sui giornali. Al tempo esisteva un largo movimento
libertario, marxista, leninista, anarchico, socialista, che riusciva a mettere
insieme le lotte per il lavoro, sul reddito, di proprietà dei mezzi di
produzione, riflettendo sui dispositivi chiusi della società borghese, come il
carcere, il manicomio, la scuola. Al giorno d’oggi quel movimento sociale non
c’è più: non solo, al governo ci sono i fascisti, e col DDL 1660 viene
criminalizzata qualsiasi forma di protesta.
RI: Io penso però che la fine del movimento antipsichiatrico come movimento di
massa non sia solo dovuto all’indebolimento generale delle lotte. Mentre molte
altre lotte, infatti, hanno mutato di forma per adattarsi alle esigenze sociali
– basti pensare alle istanze dei lavoratori, che oggi parlano di
precarizzazione, lavoro digitale, esternalizzazione – le lotte antipsichiatriche
hanno perso presa sul discorso della salute mentale, che è stato canalizzato in
altri linguaggi. Eppure è assurdo, se pensiamo che non si fa altro che parlare
di salute mentale in giro! Mi chiedo allora se questa tendenza abbia a che fare
con i movimenti stessi, o piuttosto con qualcosa che è cambiato nella
psichiatria.
LG: La seconda cosa che dici mi sembra più accurata. Sicuramente la psichiatria
è stata capace di veicolare un’immagine positiva di sé, e un’immagine negativa
del folle. L’immagine offerta dai media del folle è quella di una persona
imprevedibile, pericolosa, infida, cattiva, crudele; oppure, al contrario, una
povera vittima delle circostanze. Eppure, se guardiamo la realtà, il folle non
commette più reati della persona comune. La psichiatria, però, si è configurata
come disciplina che tutela la sicurezza pubblica, e che, al contempo, si fa
carico del bisognoso: accudisce il sofferente psichico, lo cura. Questa è
un’immagine abbastanza distorta, perché la realtà è che la psichiatria è
strumento di coercizione. Nei reparti psichiatrici i pazienti continuano a
essere legati al letto. Altro motivo per cui è difficile fare una lotta
antipsichiatrica ai giorni nostri è che i giovani fanno grande richiesta di
servizi di salute mentale: cosa che, di per sé, è assolutamente comprensibile.
Penso che la salute sia un diritto, anche la salute mentale. Viviamo purtroppo
in una società che causa ansia, disagio, disadattamento: una società che da un
lato causa follia, dall’altro lo medicalizza. Lo medicalizza nelle scuole,
attraverso le diagnosi di DSA, BES, dislessia, disgrafia, discalculia e altre
patologie dell’età dello sviluppo. Lo medicalizza nelle carceri, nei Cpr. Tutta
la società è medicalizzata. I giovani chiedono maggiore psichiatria non sapendo,
secondo me, che la psichiatria è essenzialmente la branca della medicina che
serve a regolamentare il comportamento umano, per renderlo funzionale a una
società liberista e capitalista. Insomma, la psichiatria non produce benessere
psichico: semplicemente, lo tratta con i farmaci per ricondurlo alla normalità,
una normalità funzionale a quella che è l’espressione della Repubblica liberale.
Insomma, i giovani fanno bene a chiedere maggior salute mentale, ma fanno male a
chiedere che la soluzione venga data dall’apparato psichiatrico. L’opinione
pubblica è favorevole allo psichiatra ed è avversa allo psichiatrizzato, mentre
negli anni di Basaglia si tematizzava il fatto che lo psichiatra era un
oppressore del paziente. Parlando di Basaglia, è anche difficile riconoscere che
molto del sistema psichiatrico pre-basagliano sopravvive ancora oggi. Il
manicomio non è cambiato, ma è difficile riconoscerle l’edificio manicomiale
post-basagliano. Esiste, chi, come me, lo attraversa in tutte le sue fasi, ne ha
le cicatrici sulla pelle e nell’animo, ma diventa difficile di svelarlo alla
pubblica osservazione. Anche perché risulta frammentato in tanti piccoli enti,
territori e strutture di cui il territorio è disseminato ed è difficile
ricostruirlo nel suo insieme come un’entità manicomiale unica.
RI: Cosa è cambiato e cosa è rimasto nella transizione dal manicomio alla
costellazione di servizi e strutture psichiatriche della psichiatria
territoriale oggi?
LG: I manicomi li conosco essenzialmente per quello che ho letto di Basaglia. I
reparti erano divisi in agitati e meno agitati, e questa divisione sopravvive ai
giorni nostri. Il reparto agitati lo ritroviamo in SPDC, il Servizio di diagnosi
e cura che è presente in tutti gli ospedali, in cui il paziente a cui è stato
fatto un Tso viene internato per periodi di sette, quattordici o ventuno giorni,
rinnovabili con l’aggiustamento delle terapie. Qui è comune che il paziente
venga legato al letto. Ancora: i Reparti di osservazione psichiatrica nelle
carceri sono molto simili ai vecchi Opg. Poi ci sono le Rems, che sono delle
specie di ospedali chiusi dove viene recluso il Folle Reo, ovvero chi è
giudicato incapace di intendere e di volere al momento del reato: da Reo si
passa a essere internati all’interno delle strutture residenziali psichiatriche
residenziali ad alta e media intensità, che di fatto sono dei piccoli manicomi,
dai quali non si esce se non accompagnati dagli operatori. Sicuramente non
esiste più il principio basagliano di “dare cittadinanza alla follia”, ovvero di
rendere la follia un’esperienza comune e diffusa tra il genere umano: oggi, dare
cittadinanza alla follia non è più nelle agende politici, anzi! Nelle agende dei
politici c’è l’intenzione di eradicare il genio della follia della popolazione.
Ai tempi di Besaglia si cercava di curare senza sradicare il folle dal suo
contesto sociale, ma lasciandolo inserito nel suo contesto sociale e andare a
intervenire in gruppo. In équipe, si cercava di deistituzionalizzare il
trattamento della follia lasciando la persona libera di muoversi sul territorio,
a casa sua, in famiglia, se possibile, o comunque nella sua realtà. Ora questo
trattamento ambulatoriale viene meno per questioni di soldi, di interesse
politico, per cui si tende a recludere nelle residenze psichiatriche il folle
che non riesce a essere gestito ambulatoriamente da una seduta al mese che gli
aggiusta la terapia. Dunque, la domanda di salute mentale che oggi avanzano i
giovani è una domanda malposta: non si può chiedere più psichiatria a meno che
si voglia chiedere meno libertà, meno autonomia. La richiesta dovrebbe
riguardare più benessere psichico, il che significherebbe modificare l’intera
struttura sociale per renderla meno nociva: ma ciò sarebbe antieconomico, dunque
impossibile. Molti giovani sono in ansia per il futuro: per la questione
ambientale, per la questione della salute, per la questione lavorativa, per la
pace. Bisognerebbe dare una prospettiva di pace e benessere al mondo, cosa che
le democrazie liberali non considerano economicamente vantaggiosa: insomma, non
hanno l’intenzione di concederla.
(disegno di chiara tirro)
SELEZIONARE I “BUONI”
A Bologna è stata adottata una nuova modalità di assegnazione di alloggi
pubblici densa di implicazioni, la cui portata va ben al di là del modesto
patrimonio immobiliare messo a disposizione in questa occasione specifica (dieci
alloggi classificati nella categoria dell’Edilizia residenziale sociale). Si
tratta del Cohousing Fioravanti 14, situato nel quartiere popolare della
Bolognina, a poca distanza dalla stazione ferroviaria. Sulla collocazione (che
ha un preciso significato politico) mi soffermerò alla fine. L’attenzione va
posta innanzitutto sul bando per l’assegnazione degli alloggi: non si tratta
solo di un documento amministrativo, ma del segno di un mutamento culturale
nell’amministrazione pubblica.
Il bando (il cui slogan è “collegare vite/coltivare idee”) parte dal presupposto
che per concorrere a un posto nel “cohousing” occorra possedere una
predisposizione verso questa specifica tipologia abitativa. Chi abiterà in quel
luogo dovrà essere parte di una comunità, gestire le zone comuni (lo spazio
verde e la lavanderia), “avere una spiccata sensibilità alla riduzione dei
consumi” e la capacità di promuovere “un nuovo modo di vivere la città, il
quartiere, la casa”. Di conseguenza, secondo l’amministrazione comunale, i
candidati devono dimostrare di possedere determinate caratteristiche, a ciascuna
delle quali corrisponde un punteggio attribuito dalla commissione di
valutazione, come stabilito nella sezione intitolata “requisiti di affinità al
progetto”. I requisiti previsti sono: esperienze documentate di volontariato o
attivismo in campo sociale o ambientale; esperienze lavorative in ambito sociale
o ambientale; titolo o percorso di studio attinente a materie sociali,
educative, del mondo cooperativo e simili o in campo energetico e ambientale.
Salta agli occhi l’assenza di un nesso logico. Per quale ragione una persona che
ha fatto del volontariato, o lavora in campo ambientale, o ha studiato “materie
sociali” possiede, solo per questo, in modo automatico, una particolare
“predisposizione” ad abitare in un cohousing? E per quale misterioso motivo si
esclude a priori che persone prive delle esperienze elencate possano avere
ugualmente tale “predisposizione”?
E soprattutto: su quali criteri la commissione attribuirà il punteggio? In base
a cosa verrà stabilito che un’esperienza di “attivismo” merita un punteggio più
elevato rispetto a un’altra? Come verrà valutato l’“attivismo” svolto in
contesti informali, dal momento che non potrà essere documentato?
Gli interrogativi non si fermano qui. La commissione, infatti, dovrà valutare
anche la “rispondenza” al “Profilo di Comunità”, sulla base di un questionario
compilato dai candidati. Queste sono alcune delle domande cui saranno chiamati a
rispondere:
Perché sei interessato/a a partecipare alla selezione dei candidati per il
Progetto?
In base a quanto hai potuto comprendere sull’iniziativa, quali sono gli aspetti
che maggiormente ti attraggono? E quelli che più ti preoccupano?
Prova a immaginare alcuni aspetti della tua vita una volta entrato/a a far parte
del progetto. In cosa vorresti che si differenziasse rispetto alla tua
situazione attuale?
In base a cosa la commissione attribuirà un punteggio a queste risposte? Non è
dato saperlo, nessun criterio specifico è indicato (anche perché sarebbe
impossibile stabilire parametri rigorosi). In pratica, la commissione avrà carta
bianca.
Questa arbitrarietà non rappresenta solo una evidente carenza nell’impianto del
bando. Si tratta piuttosto di un elemento funzionale alla sua logica. Il nucleo
centrale della questione, infatti, è lo spostamento del punto di osservazione:
dall’esame delle condizioni oggettive dei richiedenti (reddito, età,
composizione familiare, figli minorenni a carico, disabilità, disoccupazione,
etc.) si passa al giudizio sui comportamenti. Sono i comportamenti il vero
oggetto della valutazione. La “costruzione della comunità” è il quadro retorico
che legittima questa inquietante innovazione.
Qualche tempo fa, in un articolo sul credito sociale, avevo messo a confronto
decisioni politiche di varia natura in campi diversi della sfera pubblica che
hanno in comune l’adozione di forme molteplici (ma in definitiva convergenti) di
valutazione dei comportamenti, mostrandone l’espansione ed evidenziandone i
pericoli. L’analisi prendeva le mosse proprio da Bologna, dove l’amministrazione
comunale aveva immaginato l’istituzione di un “portafoglio del cittadino
virtuoso” (che sembra, fortunatamente, caduto nel dimenticatoio) e aveva
introdotto negli anni scorsi una sorta di “patente a punti” per gli abitanti
degli alloggi popolari finalizzata, di nuovo, a classificare e sanzionare
comportamenti. I meritevoli e i non meritevoli, insomma. Quando un’autorità
politica – o chi per essa svolge una specifica funzione pubblica (per esempio
un’agenzia di valutazione) – decide chi sta da una parte e chi sta dall’altra,
bisognerebbe iniziare a preoccuparsi.
D’altra parte, le indicazioni contenute nel bando di cui ci stiamo occupando non
sono una novità assoluta. Il testo, infatti, ricalca quello adottato nel 2016
per il cohousing Porto 15, a dimostrazione della continuità tra questa
amministrazione e le precedenti. Ma con il nuovo bando il comune di Bologna fa
un passo ulteriore, attribuendo punteggi a comportamenti individuali, e questo è
un fatto inedito. In sostanza, determinati elementi culturali sono in
circolazione già da tempo, ma stavolta si sono combinati in una formulazione più
insidiosa. Quale sarà il passo successivo? In quale ambito verranno applicati
criteri analoghi, o appartenenti alla stessa famiglia? Sono interrogativi
legittimi, che spingono a non sottovalutare la portata di quello che, a prima
vista, si presenta come un esperimento su scala ridotta.
CHI INSEGNA A CHI?
Torniamo al bando. Dopo la prima scrematura fin qui descritta, basata
sull’ambiguo e intrinsecamente discriminatorio concetto di “merito” (mai
esplicitamente nominato ma di cui si percepisce la minacciosa presenza), la
procedura prevede una seconda fase, denominata “Progettazione partecipata del
cohousing”. Si tratta di una serie di otto incontri a frequenza obbligatoria, i
cui obiettivi sono spiegati in un paragrafo illuminante: “Avviare un cohousing
presuppone di mettere in comune una serie di interessi, opinioni, stili di vita,
disponibilità economiche, regole di comportamento. Al fine di costituire un
gruppo affiatato è importante avviare una riflessione che coinvolga questi temi
in maniera efficace, partendo dal modo d’intendere l’abitare comune: come deve
essere, su quali principi deve essere basato e quali aspettative deve
soddisfare. Dal tema dell’abitare si passerà poi alla riflessione sulla
solidarietà, la sostenibilità ambientale e la collaborazione reciproca. Per
misurarsi su queste tematiche è necessario imparare a comunicare e apprendere
una corretta gestione delle riunioni: come prendere la parola, costruire un
ordine del giorno, fare sintesi, fare in modo che le riunioni siano efficaci e
partecipate”.
Otto incontri per imparare a vivere, in sostanza. Con il presupposto che
qualcuno lo deve insegnare (a vivere, si intende). Il verbo “fornire” utilizzato
per introdurre gli scopi di questa fase è indicativo: “fornire ai/alle
partecipanti gli strumenti per diventare protagonisti/e del proprio progetto”.
In poche righe è sintetizzata l’idea di città che gli amministratori hanno in
mente, una città in cui i modi di abitare non nascono dalle relazioni quotidiane
e dagli scambi nei luoghi di vita e di lavoro – come è sempre avvenuto nella
storia – ma vengono “insegnati” a partire da un modello normativo.
Questa “pedagogia dall’alto” si coniuga perfettamente con il modello di
partecipazione perseguito dalle amministrazioni che si sono susseguite al
governo di Bologna da almeno quindici anni a questa parte, fortemente
centralizzato e “dirigista” anche se imbevuto di una retorica che lo promuove
come diffuso e spontaneo. Anche il percorso “formativo” previsto dal bando per
il cohousing rientra in questo schema. Gli incontri, infatti, saranno guidati da
professionisti, secondo un copione che si ripete invariabilmente. Stuoli di
“facilitatori” hanno attraversato negli ultimi anni decine e decine di “percorsi
partecipativi” intorno ai temi della “rigenerazione urbana”, senza che ne sia
mai risultato davvero accresciuto il potere decisionale delle cittadine e dei
cittadini, senza il quale la partecipazione si riduce a pura operazione di
marketing.
C’è un altro aspetto da cogliere nella procedura prevista dal bando: la sua
contraddittorietà. Agli incontri saranno chiamati a partecipare i richiedenti
che abbiano superato la prima fase della selezione (quella dei punteggi
attribuiti ai comportamenti) in numero doppio rispetto alla disponibilità degli
alloggi. Al termine del “processo partecipativo” undici nuclei familiari
rimarranno esclusi dall’assegnazione. In pratica, all’interno di un processo
finalizzato a promuovere la solidarietà, viene insediato un meccanismo di
concorrenza e competizione. Mentre siederanno intorno allo stesso tavolo per
discutere come “costruire la comunità”, i candidati dovranno sgomitare per
prevalere l’uno sull’altro e aggiudicarsi una casa in affitto, un bene oggi
rarissimo. Una contraddizione stridente, fulcro dell’ideologia del merito che
pervade il bando.
Chi deciderà quali saranno gli esclusi? E con quali criteri? Nell’impossibilità
di individuare parametri “oggettivi” per governare questa fase così delicata, il
bando prevede due passaggi. Il primo si chiama “autoselezione”: “Dopo i primi
otto incontri, l’individuazione dei futuri dieci nuclei di coabitanti sarà
basata sull’autoselezione da parte degli stessi partecipanti che decideranno se
Fioravanti 24 è il progetto di cohousing che fa per loro”.
Sostanzialmente, il Comune spera che la metà dei partecipanti rinunci perché
scoprirà di non essere interessata al progetto. Però gli incontri non sono
informativi, ma formativi. Perché formare sperando contemporaneamente che per
almeno metà dei partecipanti la formazione non serva a nulla, anzi sia
addirittura dissuasiva? E cosa succede se, invece, i rinunciatari non sono
sufficienti? Se, folgorati dalla maestria dei “facilitatori”, oppure – in modo
strumentale ma non per questo meno legittimo – spinti dall’assoluta necessità di
dare un tetto a sé stessi e alla propria famiglia a un prezzo abbordabile,
nessuno si “autoseleziona”? La risposta è semplice, per certi aspetti
disarmante: “si procederà per sorteggio”. Può sembrare una soluzione brutale,
vista la posta in gioco: non si tratta di una partita di calcio terminata in
parità dopo i rigori, ma del soddisfacimento del diritto alla casa. Ma nella
logica del bando si tratta di una scelta perfettamente coerente: se si prevedono
meccanismi di valutazione arbitrari, come quelli basati sul comportamento, non
ci si deve stupire se all’arbitrarietà viene affidata anche la scelta finale.
LUOGHI REALI, LUOGHI ARTIFICIALI
Il cohousing Fioravanti 24 sorge sulle ceneri di XM24, uno spazio sociale
autogestito, attivo per diciassette anni fino al 6 agosto 2019. Quel giorno un
massiccio spiegamento di polizia eseguì uno sgombero violento, con tanto di
ruspa al seguito, su richiesta del comune di Bologna.
XM24 non poteva più stare lì, in quei locali dismessi del vecchio mercato
ortofrutticolo, perché – sosteneva il Comune – proprio lì era assolutamente
necessario e urgente costruire un cohousing. La bugia era patetica, allora come
oggi (e infatti ha avuto varie versioni, nel corso del tempo: all’inizio
l’urgenza derivava dalla necessità di realizzare in quel luogo una caserma dei
carabinieri). Si trattava, in realtà, di portare a termine l’opera di
“normalizzazione” in atto da tempo. Di sgomberi il Comune ne aveva realizzati
molti altri, mostrando un’avversione profonda per tutti gli spazi autogestiti.
Ne rimaneva solo uno, bisognava completare l’opera. E poi quel luogo disturbava
il progetto di “rigenerazione urbana” noto come Trilogia Navile, un insediamento
abitativo di grandi dimensioni, proprio lì accanto, rimasto incompiuto per anni
a seguito del fallimento di una delle imprese edili. I lavori stavano per
ripartire, meglio sarebbe stato non avere vicini “scomodi”. È il mercato, e il
Comune ha mostrato in molte occasioni di essere assai sensibile alle sue regole.
Ora il cohousing c’è. Nel giorno dello sgombero, una formazione politica in quel
momento all’opposizione – e che ora, invece, fa parte della maggioranza di
governo e siede in giunta con l’assessora alla casa artefice del bando – aveva
scritto un comunicato di critica all’amministrazione comunale, che si concludeva
in questo modo: “Non sarà certo la sostituzione di uno spazio di creatività e
socialità con dieci appartamenti in co-housing a risollevare le sorti del
deserto urbanistico creato in quell’area […]”.
Giuste parole, alle quali si potrebbe aggiungere che non sarà l’abito nuovo
confezionato intorno all’opera a cambiare a posteriori la sua natura
strumentale. Un abito alla moda, ma di pessimo gusto. (mauro boarelli)
(archivio disegni napolimonitor)
S-Contro. Un collettivo antagonista nella Torino degli anni Ottanta
(DeriveApprodi, 2024) è un libro di Sergio Gambino e Luca Perrone e racconta la
storia di S-Contro, collettivo redazionale e militante torinese legato
all’omonima rivista “aperiodica con intenti bellicosamente classisti” apparsa
fra il 1984 e il 1987.
S-Contro nasce nei primi anni Ottanta per iniziativa di un ristretto gruppo di
giovani proletari delle periferie torinesi di Lucento, Vallette e Parella,
attivi politicamente all’interno del Collettivo studentesco autonomo e del
Comitato disoccupati, emanazioni del gruppo marxista-leninista torinese
“Proletari”. Il gruppo si distingue presto dalla matrice ortodossa per una
spiccata vocazione antidogmatica e un’apertura al dialogo con le altre
componenti politiche della sinistra extraparlamentare. Nel 1983, assieme ad
altri compagni torinesi provenienti da diverse esperienze, fondano un Centro di
Documentazione, e poco dopo, con i disoccupati dei Banchi Nuovi di Napoli e i
Nuclei leninisti milanesi, danno vita a un gruppo nazionale: l’Organizzazione
comunista internazionalista (Oci). Centro di documentazione e Oci condividono la
medesima sede in via Po 12, dove ogni sabato ci si ritrova per discutere e
confrontarsi. È qui che, nel 1984, vede la luce il primo numero della rivista
S-Contro.
Il libro di Gambino e Perrone dedica uno spazio all’analisi dei cinque numeri di
S-Contro comparsi fra il 1984 e il 1987, mettendo anche a disposizione un link
per poter consultare l’intera collezione digitalizzata. Rivista di taglio
giovanile, sia nelle tematiche, sia nel linguaggio, S-Contro mescola ai temi
politici fondamentali (la disoccupazione, l’antimilitarismo, la scuola) il gusto
per l’arte e la controcultura, con un’attenzione particolare per il teatro
(Brecht, Majakovskij) e le nuove tendenze musicali (punk e new wave). Colpisce,
fin dal primo sguardo, l’aspetto grafico della rivista: dinamica, ricca di
immagini e di collage neodadaisti. L’intento è quello di “raggiungere una
grafica che si faccia anch’essa portatrice di determinati messaggi e non mero
appoggio formale agli articoli”.
Se da un lato S-Contro si richiama all’esperienza bolognese di A/traverso, la
rivista rappresentativa della cosiddetta “ala creativa” del movimento del ‘77,
dall’altro abbraccia un’estetica più punk. Il nome stesso della rivista porta in
sé questa doppia ispirazione: il trattino (orizzontale, anziché obliquo) è una
strizzata d’occhio ad A/traverso; il nome della rivista, invece, è la traduzione
di quello del leggendario gruppo punk The Clash.
La storia del collettivo S-Contro non si esaurisce, tuttavia, alla sola attività
redazionale. Fin dal primo numero la redazione si presenta come “aperta a
chiunque voglia intervenire / confrontarsi / s-contrarsi per costruire delle
iniziative (che non si riducono al solo giornale) di aggregazione giovanile sul
filo di un discorso politico e culturale”. Obiettivo esplicito della rivista,
insomma, “non è creare opinione pubblica”, bensì “fare politica, creare lotte,
creare organizzazione”.
Ripercorrendo con l’aiuto degli autori le diverse fasi del collettivo vediamo
S-Contro trasformarsi da semplice gruppo controculturale giovanile a vero gruppo
organizzato di redattori-militanti, impegnati direttamente nei principali
movimenti politici di quel periodo, dal movimento studentesco del 1985 a quello
antinucleare che sarà poi protagonista degli eventi del 10 ottobre 1986 a Trino
Vercellese. In seguito, intorno al 1988, S-Contro abbandona la rivista, si apre
a interventi politici nel settore del lavoro, e in particolare davanti ai
cancelli di Mirafiori, prendendo parte al progetto nazionale di “Politica e
Classe”. Infine, con la caduta dell’Unione Sovietica e l’aprirsi di una nuova
fase storica, il collettivo si dissolve naturalmente. Per alcuni anni ancora
resteranno visibili, sui muri della città, le scritte “S-Contro” accompagnate
dal simbolo del martello e del regolo incrociati.
Il percorso del collettivo è ricostruito dagli autori del libro attraverso gli
strumenti propri della storia culturale e della storia orale. Se la firma è di
Gambino e Perrone, i curatori del volume, la voce che da esso emerge è
collettiva. Il libro si apre con due capitoli di analisi dell’esperienza di
S-Contro e di suo inquadramento storico-sociale, nella conrnice della militanza
politica nella Torino post-fordista (uno a firma dello stesso Perrone, l’altro
di Salvatore Cominu). Segue un doppio intermezzo musicale: un excursus sulla
scena musicale torinese degli anni Ottanta (a cura del critico musicale Alberto
Campo), seguita da un’intervista a due suoi esponenti (Oliver e Bruno dei CCC
CNC NCN). Infine, la seconda metà del volume riporta una lunga intervista
collettiva agli ex-militanti di S-Contro, dove la storia del collettivo viene
narrata di nuovo, ma stavolta “dall’interno” e “dal basso”, direttamente dai
suoi protagonisti e protagoniste.
Questa struttura del libro, al contempo corale e orale, appare riuscita. La
prima parte permette un inquadramento storico-culturale fondamentale per
apprezzare la seconda parte. Qui, il discorso procede disegnando una spirale,
con eventi e nomi che ritornano, ma ogni volta da uno specifico punto di vista,
narrati da una voce diversa. Ne risulta una ricostruzione che mantiene vive le
contraddizioni e le differenze di vedute (gli s-contri, per l’appunto), mentre
la complessità dell’esperienza storica diventa “esperienza unica” contro ogni
“immagine eterna del passato”, come raccomanda Walter Benjamin nelle sue Tesi di
filosofia della storia.
Osservando la Torino degli anni Ottanta attraverso la lente della “microstoria”
di S-Contro, il libro permette di esplorare un aspetto ancora trascurato e
sottovalutato nella narrazione di quella fase storica: quello della multiforme
galassia militante e controculturale, certamente minoritaria, che, nella Torino
delle sconfitte operaie, della fine della lotta armata e del riflusso, è
comunque rimasta in fermento, navigando controcorrente e provando, malgrado le
condizioni avverse, a organizzarsi collettivamente.
Dalla lettura emerge una composita cartografia di gruppi, luoghi di incontro e
riviste della militanza torinese di quel decennio, con le loro peculiarità,
affinità e controversie ideologiche. È un documento di grande interesse: sia per
chi ha vissuto quell’epoca in prima persona (e, tramite la lettura, può
riviverla e rielaborarla); sia per chi, anagraficamente più giovane, abbia
interesse a ricostruire e a comprendere la Torino di quella fase. Proprio in
questo secondo senso sembra orientata la nota introduttiva degli autori che
presenta il volume principalmente come un ponte verso le giovani generazioni: un
passaggio di testimone verso chi prova a remare ancora contro, affinare il senso
critico e organizzarsi collettivamente. (lucio serafino)
(disegno di martina di gennaro)
A un anno dall’inizio del presidio in difesa del parco, e sei mesi dopo il
“passo di lato” con cui il sindaco Lepore ha deciso di rinunciare al progetto
delle “nuove Besta”, sono ancora giornate piuttosto vive per le creature che si
sono mobilitate per impedire la cementificazione di quel fazzoletto di terra
proprio sotto i palazzi della Regione, quartiere SanDonato(Bologna), pianeta
Terra.
A tenerci sveglie e unite in questi strani, caldi giorni della merla non sono
più il timore dello sgombero o le chiacchiere sui sogni condivise fino a tardi
sotto al telone blu del presidio, ma l’ombra molto tangibile di un brutto mostro
che generalmente chiamiamo “Repressione” o “Sbatti Legali”.
Chi è SbattiLegali? E in che forma si sta materializzando tra di noi,
costringendoci ad adoperarci per cercare di capirlo ed essere in grado di fargli
fronte? Dopo mesi passati a confrontarci, cercando di non lasciare indietro
nessuna di noi, abbiamo deciso di fare il punto della situazione e provare a
dare, per tutti, dei tratti un po’ più definiti a questo signorSbatti.
Ecco dunque i risvolti giudiziari con cui abbiamo dovuto e stiamo tutt’ora
dovendo fare i conti, comodamente elencati in ordine cronologico a partire dal
momento in cui abbiamo avuto notizia della loro esistenza. Saremo un po’ meno
simpatiche che in queste prime righe.
La prima creatura a essere stata puntata da SbattiLegali è stata quella placcata
all’ingresso del Don Bosco da due agenti della polizia municipale il 29 gennaio
2024, giorno in cui un’imprevista folata di vento ha fatto sbocciare nel parco,
invece che un cantiere, il noto presidio. Denunciata per resistenza e
aggressione a pubblico ufficiale, la creatura non è nemmeno andata a processo,
ma ha direttamente ricevuto un decreto penale di condanna a sei mesi di
reclusione con pena sospesa, convertibile in pena pecuniaria o lavori
socialmente utili, da parte del giudice. Ma siamo solo all’inizio, SbattiLegali
stava solo prendendo le misure.
La successiva creatura su cui Sbatti ha messo le mani – non solo in senso
figurato – è stata Gio, che alle primissime ore del 5 aprile 2024, da solo e
inseguito, è stato a sua volta atterrato sul suolo del parco da un nutrito
gruppo di carabinieri. Su di lui sono stati usati più volte il taser e lo spray
al peperoncino, al punto da dover essere portato via in ambulanza. La mattina
stessa Gio è finito davanti al giudice per l’inizio di un processo svoltosi con
rito abbreviato e arrivato a conclusione nel corso di tre udienze. L’esito: una
condanna a dieci mesi di reclusione con pena sospesa per i reati di resistenza e
lesioni a pubblico ufficiale, oltre che tentato furto plurimo aggravato. La
violenza fisica esercitata su di lui quella notte, non meno di quella
giudiziaria perpetrata nei mesi seguenti, non smette di apparirci indegna e
rivoltante.
Arriviamo così al 20 giugno 2024, giorno in cui, nel contesto di un’intensa
mattinata di scontri per cui il Comitato Besta lamenterà, da parte della
polizia, “modalità da G8 di Genova”, quattro creature vengono poste in stato di
fermo e tradotte in questura. Ne usciranno dopo parecchie ore con quattro
notifiche di apertura indagini (per resistenza aggravata, oltraggio, rifiuto di
fornire le generalità a pubblico ufficiale e tentata rapina – per aver afferrato
un manganello) e due fogli di via dal comune di Bologna della durata di due e
tre anni. Il ricorso per la sospensiva dei fogli di via intentato nei mesi
successivi, nonostante l’estrema debolezza e vacuità delle ragioni su cui si
basano i due provvedimenti, non ha avuto successo.
Questo quanto emerso e subìto nel corso dell’esistenza del presidio. Sarebbe
stato bello – e lo diciamo con tutta l’ingenuità del caso – se, terminato
“favorevolmente” lo scontro “politico” in difesa del parco, anche sul versante
giudiziario si fosse potuto assistere a una sospensione delle ostilità da parte
di polizia e procura (nonché, magari, a una presa di posizione da parte del
Comune). Così purtroppo non è stato.
Verso la fine dell’agosto 2024 vengono notificati a quattordici creature gli
avvisi di apertura indagini per una lunga serie di reati riferiti alla giornata
del 3 aprile. Quel giorno, con un sollevamento agile, corale e determinato,
sciami di creature si sono opposti all’attacco portato sul Don Bosco da decine e
decine di poliziotti e dalla ditta in appalto, riuscendo a respingerlo e
disinnescando quindi il potenziale sgombero del presidio e la conseguente
distruzione del parco. I reati contestati ad alcune delle creature che quel
giorno erano tra le linee, riferiti con alcune eccezioni quasi a tutte allo
stesso modo, sono i seguenti: 1) omesso preavviso di pubblica manifestazione; 2)
resistenza aggravata a pubblico ufficiale in concorso; 3) interruzione di
pubblico servizio durante pubblica manifestazione in luogo aperto al pubblico in
concorso; 4) lesioni aggravate a pubblico ufficiale in concorso; 5) travisamento
durante una pubblica manifestazione; 6) lancio di oggetti durante una pubblica
manifestazione; 7) danneggiamento aggravato; 8) violenza privata. SbattiLegali
si accanisce con tutta la sua forza, attingendo a tutti gli stratagemmi della
sua arte. Il 17 gennaio 2025 vengono quindi ricevuti i primi avvisi di chiusura
indagini, che confermano i reati di cui sopra, e rispetto ai quali attendiamo
ora che a esprimersi sia, nei prossimi mesi, il giudice per l’udienza
preliminare.
Non c’è stata necessità di attendere, invece, per l’emissione di un’altra
pesante e insensata misura di polizia preventiva: tre Daspo da stadio ad
altrettante creature, appioppati sempre in relazione alle vicende del 3 aprile.
La misura è già di per sé nuova e sorprendente perché assegnata “fuori
contesto”, ovvero a partire da eventi che nulla hanno a che fare con dinamiche
legate al tifo sportivo. Al divieto di andare allo stadio si somma inoltre
l’obbligo di firma in questura in concomitanza con le partite – in casa e in
trasferta, amichevoli e non – del Bologna, e questo per due volte a partita.
Tradotto nel vocabolario di Sbatti: una media di quattro firme in questura a
settimana per essersi opposti a un progetto di cementificazione di un’area verde
sotto casa, senza nemmeno ancora essere andati a processo.
Tutto qui? Quasi! Non poteva mancare infatti un’ulteriore stoccata rispetto ai
fatti del 20 giugno, per i quali nelle ultime settimane il signor Sbatti ha
sfoderato una nuova serie di notifiche di apertura indagini a un numero di
creature ancora da precisare. Anche a loro, comunque, si contesta più o meno la
solita sequela di reati, e in particolare i primi tra quelli riportati sopra.
Non ci facciamo illusioni: se fino a ora il trattamento che ci hanno riservato è
stato questo non ci aspettiamo sconti.
Nelle conseguenze legali che iniziano a prefigurarsi e materializzarsi per
alcune delle creature che in tutte queste occasioni si sono fatte trovare, per
fortuna e per convinzione, dove il signorSbatti non avrebbe voluto che fossero,
emerge forte uno degli aspetti più subdoli e contradditori di Repressione:
riuscire a impedire la chiusura di un parco, mantenerlo vivo con la propria
presenza, battersi per lunghe ore contro decine e decine di poliziotti armati e
ipereccitati, mobilitarsi insieme per un obiettivo comune che finisce per avere
la meglio sulle mire devastatrici della giunta… ecco, tutto questo ha un costo.
Non solo il costo immediato, fisico e psicologico del confronto sul campo, ma
anche quello dilatato, economico, nervoso e sociale di doversi vedere indagate,
imputate e processate proprio per quelle azioni che hanno portato
all’ottenimento del risultato sperato, e messo in scacco la brama ecocida
dell’amministrazione.
Lo diciamo chiaramente: quello che oggi ci viene contestato è quello che ieri ha
fatto sì che il Don Bosco potesse rimanere aperto, vivo e libero. Quello che ha
fatto sì che ditta e polizia dovessero desistere dai loro intenti, riporre
motoseghe e manganelli, ritirarsi indispettiti al cospetto di una resistenza che
non erano stati in grado né di prevedere né tantomeno di fronteggiare
adeguatamente. Così, Sbatti vorrebbe dirci che la lotta costa: costa i bolli
allo Stato e le parcelle degli avvocati, l’allontanamento da Bologna, gli
obblighi di firma in questura e il rischio di mesi o anni di condanne. Noi
diciamo invece che la lotta paga: paga la permanenza di un polmone verde in una
città sempre più grigia e inquinata, e vogliamo che paghi anche la libertà per
tutte le persone colpite dalla repressione.
A partire da settembre 2024, il gruppo di creature che ha portato avanti la
resistenza ha continuato il suo impegno incontrandosi regolarmente, mettendo in
piedi un’assemblea antirepressione che potesse occuparsi, attraverso le stesse
pratiche messe in atto al parco, di tutti gli accolli legati a SbattiLegali:
dalla necessità di comprendere i fogliacci del potere giudiziario a quella di
organizzare la raccolta fondi necessaria a – detta come tristemente è – “pagare
la lotta”. Sono così state necessarie, oltre alle assemblee, il lancio di una
raccolta fondi online che oggi giunge al termine, numerosi banchetti in diversi
contesti cittadini e una nutrita serie di eventi in giro per la penisola, in
solidarietà con le nostre vicende e con la necessità di far fronte a spese
legali che stimiamo di decine di migliaia di euro.
Sul peso e le responsabilità politiche di tutto ciò qui non ci soffermeremo –
d’altra parte, questo voleva essere solo un bollettino relativo a una serie di
vicissitudini giudiziarie che ci riguardano. Teniamo invece a chiudere questo
testo ringraziando tutte le persone, i gruppi, i collettivi e le realtà che in
questi mesi ci hanno mostrato vicinanza, affetto e sostegno. Sono le oltre
duecento persone che hanno donato online, ma sono anche quelle centinaia e
migliaia che, a partire dall’inizio del presidio ma non solo, hanno continuato a
nutrire quella comunità vasta, diffusa e resistente che crede in un mondo
profondamente diverso. Profondo quanto le radici degli alberi del parco, diverso
quanto un parco da un palazzo del potere. (le creature del don bosco)