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Cronache, libri, disegni e reportages

L’inizio di una cosa. Cronache e spunti dai giorni del Blocchiamo tutto
(disegno di dalila amendola) Un giornalista palestinese pochi giorni fa ha definito la settimana appena trascorsa “un’intifada italiana”. Eppure è difficile immaginare che queste masse di persone torneranno a radunarsi a breve. Chi ha protestato contro il genocidio condotto da Israele sin da ottobre del 2023, o anche da prima, si sente finalmente ascoltato; il dolore addizionale causato dal silenzio che circondava le manifestazioni di mille, duemila persone – nei momenti migliori cinquantamila – si è sciolto di fronte al milione in marcia a Roma il 4 ottobre, e già da prima con le centinaia di manifestazioni in tutte le città italiane, grandi e piccole. Ci sentiamo ascoltati; ma sapremo ascoltare? Le masse di persone mobilitate all’improvviso, sapranno adattarsi alle strutture spesso rigide dei cosiddetti “movimenti”? Non saranno invece i nostri movimenti a doversi adattare a loro? Vale la pena una riflessione rapida che ricapitoli cos’è successo, a partire da quello che abbiamo vissuto in alcune città in questi giorni, per ragionare su come non disperdere tutta questa forza. È importante ricordare che se un milione di persone sono scese in piazza, è soprattutto perché il Pd, La Repubblica, i telegiornali della Rai e di La7 hanno deciso che era arrivato il momento di sdoganare la critica al genocidio per destabilizzare il governo, dopo aver taciuto o difeso gli aguzzini israeliani per due interi anni. Certo, questa non è l’unica causa. Il movimento è partito dai palestinesi in Italia, e dagli studenti universitari e medi. È stato alimentato da chi aveva fatto della Palestina la propria causa ben prima del 7 ottobre, che è riuscito a connettersi con chi, magari, è venuto al mondo più o meno negli anni in cui nasceva la campagna del Bds. Per mesi lo hanno tenuto in piedi insegnanti, ricercatori universitari, sanitari. E poi è salito di livello con il coinvolgimento dei sindacati, con l’avanguardia rappresentata dai portuali, improvvisamente coperta dai media grazie alla Flotilla. L’esplosione di quest’ultimo mese si deve al fatto che potentati di ogni genere – dal terzo settore alle gerarchie universitarie, fino al circo dello star system internazionale – hanno capito che parlare a favore della Palestina oggi può farti guadagnare terreno nell’opinione pubblica. Le manifestazioni oceaniche di questi giorni, ma anche l’incertezza radicale sulla tenuta di questa “intifada”, sono il prodotto di questo miscuglio. La domanda da porci è: che ruolo abbiamo avuto “noi” fino a questo momento, e che ruolo possiamo avere d’ora in poi? Ci sarà un seguito che possiamo propiziare, facilitare, spingere? Che ognuno declini il “noi” come preferisce. Ironia della storia, il fischio d’inizio è arrivato da Genova, lì dove il ciclo di lotte del secolo passato si era interrotto. Da Genova il 31 agosto era partita la Flotilla, accompagnata da 40 mila persone; quella stessa sera uno dei leader del Calp, il Collettivo autonomo lavoratori portuali, legato a Usb, aveva annunciato il blocco dei porti nel caso che Israele si fosse permessa di toccare le barche. Al termine di un’assemblea partecipata da studenti, lavoratori e realtà solidali di tutto il paese, Usb proclama lo sciopero generale del 22 settembre. Dopo mesi d’inerzia, anche la segreteria nazionale di Filt Cgil annuncia uno “stato di agitazione nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori portuali a sostegno della missione umanitaria della Global Sumud Flotilla”, chiamando ore di sciopero e manifestazioni per il 19 settembre. Nel frattempo, il Si Cobas chiama lo sciopero per il 3 ottobre nei termini di preavviso previsti dalla legge. Strutture politiche e sindacali di riferimento, deboli e in conflitto tra loro, devono fare i conti con una presa di coscienza collettiva, rincorrendo la rapida evoluzione degli eventi. Grazie al coinvolgimento dei portuali, l’attenzione si rivolge alla prassi del blocco delle merci e della circolazione, degli interporti e delle altre infrastrutture sensibili: autostrade, stazioni ferroviarie, aeroporti e tangenziali. Questo è ciò che avviene più o meno ovunque, con intensità e modalità diverse. La ricomposizione si realizza in piazza, in modo rocambolesco, e con una serie di strettoie, contraddizioni e problemi irrisolti. Chi conosce gli ambienti portuali e della logistica sa che certe pratiche vengono da lontano, soprattutto in una città come Genova. Per boicottare l’economia genocida e la forza bellica di Israele, l’azione dal basso dei lavoratori, per quanto organizzati, non è sufficiente: l’iniziativa dei portuali non avrebbe mai potuto prescindere da una forza collettiva più ampia, da alleanze trasversali e da un appoggio sindacale indispensabile per lo sviluppo della lotta nel lungo periodo. Di questo i portuali discutevano da tempo, nel tentativo di appellarsi alla legge 185/1990 che vieta l’invio di armi ai paesi in conflitto; da mesi ne parlavano con i loro omologhi in altri paesi europei. Una volta create queste connessioni, improvvisamente la pratica del blocco si è diffusa in tutta Italia. Mentre Genova si blocca, anche a Salerno si creano ore e ore di disagi e interruzioni del traffico container. A Livorno si presidiano le banchine del porto per impedire l’approdo di una nave coinvolta nella logistica del genocidio, con il sostegno di migliaia di persone arrivate da tutta la regione. Anche a Napoli si tenta un’occupazione del porto. A Roma la piazza davanti alla stazione Termini è inondata da cinquantamila persone, che improvvisano un corteo che si riversa sulla tangenziale est, bloccandola per ore. Milano, che “non si ferma” sin dal corteo in risposta allo sgombero del Leoncavallo a inizio settembre, e contro la speculazione a San Siro, erompe in scontri dentro e intorno alla Stazione centrale. E così in decine di altre città d’Italia. Dal 22 settembre sono scesi finalmente in piazza altri pezzi della società civile. I giovani che sfilano in corteo per la prima volta hanno colto di sorpresa le burocrazie sindacali e le strutture di movimento. Le persone bloccate dentro le macchine sui cavalcavia della tangenziale di Roma – come a Bologna – invece di insultare applaudivano. La paura dell’accusa di antisemitismo a chi criticava Israele è passata; il popolo sta con la Palestina, nonostante i potenti stiano con Israele. Il decreto sicurezza è un ricordo lontano. Un momento di rottura della normalità quotidiana è avvenuto durante la manifestazione di lunedì 22 settembre, la sera del primo sciopero generale. A Torino, migliaia di persone hanno sfilato lungo corso Giulio Cesare, la direttrice che attraversa i quartieri popolari a nord della città. Scorreva il corteo e attivisti, studenti di superiori e università, cittadini del centro non erano percepiti come alieni, ma le loro istanze erano riconosciute dagli abitanti. Dai balconi s’alzavano applausi, urla, suoni di pentole al passaggio delle bandiere e dei cori contro Netanyahu. Il trambusto sembrava un’apertura. Non tanto per la possibilità di costruire un esile ponte tra classi sociali, tra mondi urbani distanti: il percorso per arrivare a questo è lungo, a malapena impostato. L’apertura sembrava stare nello sguardo stesso di chi applaudiva dai balconi o scendeva in strada. Immigrati, ragazzi di seconda generazione, persone abituate a subire una quotidiana oppressione, e razzista, potevano forse godere di una sospensione dell’ordine, farne esperienza, e chissà in futuro riprodurla ancora. Dal giorno dopo, le iniziative sono diventate quotidiane. Il 24 a Torino si occupa la sede universitaria di Palazzo Nuovo, e lo stesso succede in diverse scuole. La sera si bloccano i binari di Porta Susa: partecipano soprattutto persone estranee al mondo militante, ma non per questo meno determinate a passare due ore sui binari. A Roma si occupano tre scuole e la Facoltà di Scienze Politiche alla Sapienza. A Genova arrivano i delegati dei portuali di Grecia, Francia e Spagna per un “meeting internazionale dei porti” in cui si discute di come estendere i blocchi: annunciano che la Grecia sta preparando uno sciopero generale per il 10 ottobre. Il 27 si bloccano dieci container pieni di materiale bellico, al terminal Spinelli. Tra l’1 e il 2 ottobre, con il blocco della Flotilla, i cortei si intensificano. A Roma la chiamata alla mobilitazione circola alle otto di sera: nel giro di due ore decine di migliaia di persone accorrono a Termini, improvvisando un corteo verso la sede del governo a Palazzo Chigi. Un cordone di guardie le blocca a piazza Barberini, ma retrocede quasi fino a via del Corso. La trattativa evidentemente prevede che si torni subito sui percorsi consentiti, nonostante la massa sembri pronta a raggiungere, per una volta, i palazzi del potere. Ma in una città che si sente sempre ostile, fascista, rancorosa, all’improvviso migliaia di persone si ritrovano sotto al traforo di via Nazionale, a manifestare a mezzanotte di un mercoledì lavorativo con i fumogeni, i canti, gli ottoni della banda. La frequenza delle manifestazioni è impressionante, così come i numeri. E non sono solo gli effetti dell’endorsement liberale: c’è una ritrovata disponibilità a impegnare il tempo libero dal lavoro, uscire dal comfort della quotidianità schermata, piena di bisogni indotti e diffusa indifferenza.  La sera del 2, mentre a Roma un nuovo corteo parte dal Colosseo, a Torino si parte da piazza Castello verso ovest. Il corteo è così lungo che l’ultimo tratto della coda si separa dalla testa e occupa ancora altre strade. Ci si coordina tra sconosciuti, si presidiano i passaggi agli incroci, si sperimenta l’autogestione come parte della contestazione. Anche tra cittadini perbene, trasgredire le regole è diventato legittimo. Arriva il venerdì dello sciopero generale, il 3 ottobre. A Salerno il porto è bloccato dalla stessa Autorità portuale, ma sin dall’alba i lavoratori in sciopero presidiano il varco Ponente, con i facchini della logistica, le reti e i collettivi salernitani, i manifestanti propal e alcuni attivisti prevenienti da diverse città. L’intenzione è di entrare nel porto. Si aspetta l’arrivo del corteo studentesco, e ci si posiziona davanti alla Celere che chiude l’entrata. Durante gli scontri, una manifestante viene rinchiusa in una camionetta. Iniziano i presidi per reclamare il rilascio. Studenti e studentesse prendono tutto lo spazio, sono pronti a cambiare tattica se una non funziona; esprimono rabbia e insofferenza non solo verso il genocidio, ma anche contro il sistema di potere da cui si sentono oppressi, contro la Celere che è lì a rappresentarlo. La manifestante alla fine viene rilasciata con l’accusa di resistenza e oltraggio, il presidio diventa un corteo. Si parla a lungo di quanto sia più facile, rispetto a Napoli, organizzarsi sul momento e in modo orizzontale; si discute di partecipazione, obiettivi, forme organizzative; e sul ruolo dei più grandi rispetto ai giovani, ma anche su come interpretare tutto questo.  A Milano il corteo si divide, il percorso della Cgil si separa da quello dei sindacati di base, mentre uno spezzone di militanti improvvisa un corteo selvaggio che contribuisce a bloccare l’intero quadrante nord-est della città. Gli spezzoni si ritrovano a Città Studi, lungo viali di solito attraversati distrattamente da studenti, docenti e personale amministrativo delle università: striscioni vengono arrotolati, appartenenze saltano nell’eccitazione di riprendersi le strade e diventare marea. A Roma, di nuovo una giornata di sole accompagna la manifestazione sulla tangenziale, anche se stavolta era stata chiusa preventivamente: la stessa azione che sembrava di rottura solo pochi giorni prima, ora appare un diversivo per impedire il blocco dei palazzi del potere. Ma il corteo è enorme, la testa incontra la coda, circondando polizia e carabinieri in un anello sopraelevato. Mentre il traffico si blocca, le persone finalmente si incontrano, in una città che sembra fatta apposta per impedirlo. Siamo abituati ormai che i cortei non partono mai puntuali, visto che i numeri non sono quasi mai dalla parte nostra. Questi cortei hanno una portata diversa: bisogna partire presto, anche prima dell’ora fissata, perché la piazza non ci contiene. Le azioni non sono di avanguardia, ma dichiarate e condivise via social o dalla camionetta del corteo: obiettivi chiari e tempi utili per tutelarsi e scegliere che fare. Questo rende la lotta accessibile e la connota di forme radicali nuove e larghe. Bisogna continuare a domandarsi quali siano le forme utili di conflitto per un movimento così ampio, ricordandosi che forse il nostro sguardo deve cercare visioni di rottura e di lotta diverse da quelle che abbiamo vissuto e sostenuto negli ultimi anni. La manifestazione nazionale del 4 ottobre non c’è bisogno di raccontarla. Piazzale Ostiense era ancora pieno mentre piazza San Giovanni già si riempiva – tre chilometri di fiume umano senza testa né coda, quasi più una festa che una protesta, dove i bambini delle scuole gridavano “sciopero sciopero”, gli adolescenti imparavano a tenere fumogeni e megafoni, e i vari gruppi militanti mostravano quello che sapevano dire e fare al resto del paese. Una canzone romana dal titolo Ma che razza de città a un certo punto dice “e t’accorgi tutt’a ‘nbotto che so’ tanti…”. I giornali naturalmente si fissano sul gruppetto di poco più che ventenni che si è staccato dal corteo per rovesciare qualche cassonetto, e che la Celere ha schiacciato contro la cancellata di Santa Maria Maggiore per identificarli uno a uno; non riportano le migliaia di persone tornate nella zona dal corteo per aiutare i fermati, ma soprattutto non trovano neanche una vetrina rotta per mostrare la “devastazione”. Nel frattempo i fascisti di Casapound fanno una scorribanda in un bar di piazza Vittorio, aggredendo e picchiando a casaccio, anche gente con i bambini al seguito: polizia e giornalisti, non pervenuti. Dopo le manifestazioni più grandi della nostra vita, che abbiamo vissuto con leggerezza, facendoci portare nella rottura dell’ordinario impulsivamente, di pancia, ora l’euforia inizia a lasciare spazio alla necessità di fare ordine e ragionare. La domanda che risuona ovunque, naturalmente, è cosa fare per evitare che questo movimento venga depotenziato, incasellato, spento. Mentre la quotidianità intorno a noi si ricostruisce, ragioniamo soprattutto a partire dalla certezza che questa potenzialità esiste, e che può risvegliarsi. La forza di una mobilitazione ampia, nonostante le sue contraddizioni, avvicina mondi e immaginari distanti e può generare cortocircuiti impensabili. Ma ci aiuta anche a capire i nostri limiti. Cosa non siamo stati capaci di comunicare finora? Cosa possiamo comunicare? Cosa possiamo imparare? A partire dalla prassi del blocco, queste mobilitazioni mandano un messaggio esplicito al modello economico che legittima il genocidio. Al centro del discorso c’è lo sciopero del carico e scarico di armi e l’obiezione di coscienza. I portuali per continuare a reggere il peso e i rischi del loro impegno hanno bisogno non solo del sostegno popolare, ma anche dell’alleanza con i lavoratori delle altre categorie che operano nella filiera del trasporto e che concorrono al viaggio internazionale delle merci militari e al loro transito nei porti. Il sistema che ci opprime si rivela strettamente legato a un genocidio; ne ha bisogno, lo difende, lo alimenta. Per fermare l’uno, dobbiamo fermare l’altro, e viceversa. L’arbitrarietà della “giustizia” italiana richiama e protegge quella di Israele, come si vede nel caso di Anan Yaesh; il disprezzo di Israele per il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi, tutelato dai trattati internazionali, si riflette sì nelle parole di Antonio “fino a un certo punto” Tajani; ma anche, in piccolo, nella violazione strutturale dei diritti di base da parte dello stato italiano, con gli sfratti, le intollerabili condizioni carcerarie, i Cpr, le residenze psichiatriche. L’indignazione e la rabbia per quello che sta avvenendo al popolo palestinese richiedono il blocco delle esportazioni militari verso Israele, la rottura dei rapporti diplomatici, un boicottaggio efficace che colpisca gli interessi militari ed economici israeliani. Ma il genocidio a Gaza è collegato con il nostro quotidiano impoverimento, con il controllo capillare a cui è soggetta qualsiasi voce di dissenso, con le politiche di gestione dei fenomeni migratori e di militarizzazione e privatizzazione delle città, con l’uso militare della ricerca universitaria, con la manipolazione dell’opinione pubblica e la corruzione sistematica dei politici. Il boicottaggio dell’economia israeliana intacca lo stesso ciclo di produzione e consumo su cui si basano le nostre vite, di conseguenza lo stesso capitalismo. I blocchi potrebbero essere anche blocchi della nostra normalità, dei nostri schemi concettuali acquisiti. A volte chi milita da tempo per cambiare il mondo finisce per mirare più a mantenere inalterati i propri metodi e il piccolo potere che si è conquistato. Chi è arrivato ora, invece, per quanto si possa meritare i “dov’eravate quando noi…?”, potrebbe essere portatore di strategie e idee nuove. Ma allora, chi mobilita chi? Chi guida le mobilitazioni? Un movimento così grande per la Palestina, per cominciare dovrebbe essere guidato dai palestinesi, più che dalle “strutture” di movimento, per evitare di riprodurre logiche coloniali anche tra di noi. E le nuove ondate di manifestanti non devono essere indotte ad adottare i “nostri” metodi di lotta; siamo noi, che abbiamo protestato sin dalla fine del 2023, o anche da prima, a doverci adattare a loro, se non vogliamo disperdere questa energia. Ma per farlo dobbiamo capire quali sono le forze interne che bloccano noi, invece di bloccare la città; cosa trattiene la nostra forza, e quindi la forza delle masse che potrebbe crescere ancora, impedendo di traboccare, di esprimere appieno la volontà condivisa di spezzare davvero l’oppressione. Da soli, “noi”, chiunque siamo, non possiamo farcela. Se davvero vogliamo un’intifada pure qua, come prima cosa dobbiamo metterci in ascolto. (redazione monitor)
italia
A Milano la battaglia per lo stadio Meazza non è ancora finita
(disegno di -rc) San Siro, non è finita. Lo dicono tutti quelli che hanno combattuto fino alla notte del 29 settembre contro la delibera comunale che ha deciso la vendita dello stadio Meazza e di 280 mila metri quadrati dell’area circostante ai fondi Redbird e Oaktree, controllori rispettivamente del Milan e dell’Inter. Per arrivare a questo risultato il sindaco Sala ha dovuto scavalcare talmente tante procedure amministrative e democratiche, vincoli della soprintendenza, regole di buonsenso economico e politico, avvertimenti del comitato antimafia sul pericolo di infiltrazioni, da rendere l’operazione vulnerabile, esposta a nuovi blocchi. Ci saranno sicuramente altri ricorsi da parte dei comitati, e un nuovo referendum pende come una spada di Damocle sulla realizzazione del progetto. La Corte dei Conti e le indagini della procura continuano a scandagliare i passaggi più contorti di questa corsa verso il delirio urbano e finanziario. Nonostante gli annunci trionfali sul “risultato”, che danno ormai la vendita e la demolizione-ricostruzione dello stadio come cosa fatta, anche gli stessi protagonisti di questo mini-colpo di stato sono ben consci dei rischi che ancora corrono, e la tensione emerge tra una piega e l’altra delle loro dichiarazioni. Ricapitolando, la vicenda trae origine dalla legge nazionale sugli stadi, che istituisce di fatto una sorta di diritto a speculare sui terreni ovunque si voglia creare un nuovo stadio, e dalla particolare situazione del quartiere San Siro che, come Napoli Monitor ha già raccontato a più riprese, è al centro di fortissimi appetiti immobiliari a causa della sua minore densità rispetto al resto di Milano. Le sue aree, più verdi, poco omogenee anche dal punto di vista della popolazione, sono tra quelle che promettono i maggiori guadagni agli investitori. Di fatto, i fondi che controllano delle squadre – apparentemente  RedBird Capital Partners e Oaktree Capital Management, ma una serie di oscuri passaggi finanziari lasciano dubbiosi gli esperti sull’effettiva composizione della proprietà – sono quasi obbligati a realizzare l’insensata operazione Meazza. La loro missione, infatti, è trarre il massimo profitto dagli asset che gestiscono per redistribuire denaro ai propri clienti: se non si battessero per speculare, questi li abbandonerebbero in cerca di investimenti più redditizi. Come spiega benissimo Luca Pisapia in Fare gol non serve a niente, l’ultimo dei loro problemi è fare vincere le squadre, e ancor meno rendere bella la città o regalare servizi ai suoi abitanti. E infatti insistono da anni. Il loro piano è distruggere uno stadio amatissimo e strutturalmente perfetto da 80 mila posti, gettare a discarica milioni di metri cubi di cemento e scorie, costruirne uno di capienza simile sul parco dei Capitani consumando 50 mila metri quadrati di suolo permeabile e soprattutto edificare residenze e uffici di lusso, un centro commerciale e i musei delle squadre. È con ogni evidenza un piano contro i cittadini: l’impatto ambientale che subiranno è pesante oltre ogni immaginazione, la “rigenerazione urbana” come di consueto è rivolta al target turisti e ricchi, e li escluderà sia dalla frequentazione dello stadio che dal resto delle attività. Inoltre lieviteranno i prezzi delle abitazioni nell’intera zona, da cui saranno a poco a poco espulsi, e il resto dei servizi pubblici languirà più del solito perché, tra le altre cose, il prezzo della vendita è bassissimo e la città non fa neppure cassa. Ufficialmente si tratta di 197 milioni di euro, da cui vanno scontati 22 milioni di contributo-sconto da parte dell’amministrazione. Ma in più dedurranno 80 milioni dagli oneri, e i pagamenti restanti avverranno in quattro rate senza interessi nei prossimi dieci-dodici anni, il che significa che il Comune alla fine avrà incassato, se gli va bene, la stessa somma che avrebbe ottenuto continuando ad affittare lo stadio allo stesso canone di oggi: dieci milioni l’anno. Praticamente la città non ne ricava nessun beneficio economico, mentre i profitti che i fondi potranno estrarre dalla rendita del nuovo complesso di edifici di lusso sono immensi. Di fronte a uno scenario così rovinoso per l’interesse pubblico la cosa più inquietante è la sequenza di azioni che Sala e la giunta hanno portato avanti per “vincere” la battaglia contro le proteste dei cittadini: hanno condotto trattative private e opache, bocciato i referendum consultivi, manipolato il dibattito pubblico, inventato il bluff della “fuga” delle squadre verso Rozzano e San Donato per sventolare la minaccia dello stadio vuoto da gestire (tenendo persino segreta una sentenza del Tar che vietava la possibilità stessa di edificare i terreni a San Donato), aggirato il vincolo posto dalla soprintendenza sul Meazza, mentito sulle valutazioni della Uefa in merito all’adeguatezza della struttura e sulle manutenzioni non fatte dalle squadre (mancate manutenzioni per 27 milioni di euro), concordato uno scudo penale a protezione della controparte. Prima Sala ha minacciato le dimissioni se la delibera non fosse passata, poi si è reso conto che gli conveniva invece restare per trovare l’appoggio della destra morattiana, a cui di fatto è sempre appartenuto, e ha cinicamente lasciato spaccare la sua maggioranza e il Pd che lo avevano protetto – l’unico effetto positivo da un certo punto di vista. “La cosa che conta è il risultato”, ha detto, e la Moratti ha ribadito che è stata “una vittoria del fare sull’abbandono all’immobilismo”. I giornali hanno chiosato “è un volano per le altre città”, e subito Manfredi ha manifestato la volontà di vendere il Maradona di Napoli, “come a Milano”. Cosa si fa, quindi, esattamente, a Milano? In che cosa consiste questo fare? È una nichilistica distruzione della cosa pubblica – della città fisica e della vita che la produce, delle norme, delle regole democratiche, della politica – completamente fine a se stessa, senza “output” se non la concentrazione di potere e denaro. Difendere a oltranza San Siro non ha niente a che vedere con la nostalgia e il passatismo, significa lottare contro l’ideologia del fare per il fare, del consumare inutilmente e dannosamente suolo, energia e risorse, rifiutare la logica che ci governa attraverso la trasformazione cieca e continua di tutto. E affermare, come ormai è imperativo, l’imprescindibilità della manutenzione, l’intelligenza della redistribuzione e la priorità della pianificazione solida del cambiamento sul principio dell’attrattività fluida di ogni spiritello vagante del capitale. La stagione delle credenze post-moderne sugli stadi iconici che portano sviluppo è finita da un pezzo, nonostante i tristi epigoni che ancora ne scrivono su qualche giornalaccio. E il socialismo non è nato con la Compagnia delle Indie, come suggerisce Sala in uno dei suoi patetici libri. (lucia tozzi)
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Baby Gang, odio razziale e Silvia Sardone. Un diario
(disegno di cyop&kaf) Da due anni, per arrotondare il mio stipendio da docente precario, lavoro per un progetto finanziato da una delle più grandi organizzazioni mondiali in sostegno dei bambini. Il progetto nello specifico, nato durante il Covid, si propone di combattere la dispersione scolastica in Italia fornendo aiuto online a ragazzi e ragazze nel primo ciclo di istruzione. Sebbene possa sembrare, una volta finita l’emergenza Covid, uno strumento di comodo, la modalità online ha un significato nel progetto che va ben oltre la possibilità di connettersi con persone lontane fisicamente. I minori, iscritti al progetto da una docente, hanno retroterra diversi, con difficoltà in alcuni casi più lievi e in altri più complesse. Alcuni dei ragazzi che ho seguito in questi anni: M. è una ragazzina di quattordici anni di Palermo con un disturbo del linguaggio che vive con i nonni e la giovanissima madre; A. e A. sono due fratelli nati in Marocco e trasferitisi con i loro genitori in Barona a Milano, dove sono nati altri due fratellini con cui condividono la stanza; L. è un ragazzo albanese NAI (Neo Arrivato in Italia) con enormi capacità scolastiche iscritto a una scuola media di Reggio Emilia. Le storie di ognuno di loro nascondono delle ombre che non sempre vengono alla luce a causa del filtro che – innegabilmente – è lo schermo del dispositivo elettronico. Il fatto di non trovarmi in casa di A. in Barona o a casa di M. nella Vucciria rende l’esperienza di supporto molto diversa, in un certo senso meno pesante per me. Eppure, la realtà esonda. Nonostante lo schermo, in alcuni preziosi momenti ho veramente avuto l’impressione di essere lì con loro. Penso alle conversazioni con Z., il più piccolo dei fratelli di A. e A., di tre anni, nato in Barona, mentre loro cercavano senza successo i quaderni di storia e geografia; penso a quando M. mi ha portato in giro per la sua casa, mostrandomi le diverse statuette di Santa Rosalia e raccontandomi l’importanza del posizionamento strategico di ognuna di queste; ma penso anche a quando L. mi ha fatto vedere il suo fucile giocattolo con gli occhi che brillavano, perché è “lo stesso che il nonno ha a Tirana”. Su dodici ragazzi che ho seguito, nonostante le difficoltà materiali di molti di loro – nella maggior parte dei casi il dispositivo elettronico è fornito dalla scuola o dall’ente organizzatore di progetto – non ho mai avuto problemi a svolgere gli incontri: i ragazzi sono concentrati, hanno voglia e bisogno di quel momento. Solo in un caso, questa primavera, il tutoraggio assegnatomi è diventato un calvario tale da rischiare di non riuscire a terminare le venticinque ore previste per ogni ragazzo. S. S. ha tredici anni, è nato in Bangladesh in una famiglia musulmana e vive a Livorno dove frequenta la terza media. Al primo incontro – quello a cui da regolamento partecipano l’educatrice di riferimento (la mia “superiore”), l’insegnante che ha richiesto l’attivazione del tutoraggio e un genitore o chi ne fa le veci – S. non si è connesso. Suo padre c’era, ma S. non voleva connettersi, non ne aveva voglia. Abbiamo riprovato una settimana dopo. Questa volta è andata bene, con la videocamera spenta però. S. ha una grave disabilità di cui non so dirvi molto, perché gli unici momenti in cui sono riuscito a fargli accendere la videocamera erano gli ultimi secondi di ogni incontro, per salutarci. Non parla bene l’italiano, conosce molto meglio l’inglese. Ci ho messo un bel po’ ad abituarmi al suo modo di mangiarsi le parole, misto a uno spiccatissimo accento toscano. Anche il padre di S. non parla bene l’italiano. Con lui mi sentivo almeno due volte in ognuno dei giorni dei nostri incontri perché ci recassimo insieme da S. per invitarlo a connettersi, minacciandolo di interrompere il tutoraggio (nelle regole del progetto c’è che dopo la terza volta in cui il beneficiario non si presenta all’incontro il tutoraggio salta). S. non ha mai avuto grosse difficoltà a rispondere, a me e suo padre, “e interrompetelo”, causando le ire del padre: “S. è un vagabundo, S. è un vagabundo”. Eppure, quel tutoraggio è arrivato alla fine. Ecco quanto accadeva durante l’ora e trenta di ogni incontro: S., favorito dalla videocamera spenta, scrollava video su Tik Tok – tra le diverse concessioni avute, c’era quella di potersi connettere da telefono e non dal tablet – mentre io lo incalzavo con alcune domande, “che hai fatto oggi a scuola?”, “che compiti hai per domani?”, nonostante le risposte le avessi già, fornitemi dalla disponibilissima insegnante di sostegno. Raramente siamo riusciti a fare qualcosa di tradizionalmente didattico; il momento in cui S. si concentrava di più era quando condividendomi lo schermo guardavamo dei video di approfondimento in inglese su Youtube. In quei momenti ero stupito dalla quantità di notifiche che riceveva e che, percepivo, lo distraevo ma, fortunatamente, non poteva interrompere la visione per passare a Whatsapp. Nelle lunghe, lunghissime pause, finivamo spesso a parlare di musica. Sin da subito, S. mi ha confessato la sua passione per la trap italiana – Rondo, Baby, Simba, Melons e Faneto – ed evidentemente non si aspettava che io, il suo tutor, apprezzassi canzoni come Casablanca di Baby Gang e 40 GRADI di Simba La Rue (questa, che già avevo sentito qualche mese prima, si era poi fissata nella mia mente da quando A. e A. me ne avevano cantato, insieme, il ritornello). PONTIDA Poche sere fa, in un noto programma televisivo di approfondimento politico, ho visto un servizio che raccontava, in parallelo, il funerale di Charlie Kirk a Phoenix e il raduno annuale della Lega a Pontida. Tralasciando le riprese provenienti dagli Usa – file chilometriche per comprare un hot dog, pianti tanto perfetti da sembrare finti, paragoni tra Gesù Cristo e Donald Trump – mi ha intrigato di più quanto avveniva a Pontida. Oltre alle parole di Salvini e Vannacci, sul palco della “Lega per Salvini Premier” ha brillato la stella di Silvia Sardone. Laureata in giurisprudenza con il massimo dei voti alla Bocconi, ex membro di Forza Italia, Sardone è oggi una dei vicesegretari del partito oltre che europarlamentare dal 2019. Il suo discorso, introdotto dal presentatore della Lega – “le sue battaglie contro l’Islam radicale  sono leggendarie!” –, dura otto minuti ed è tutto urlato alle massime frequenze e acclamato dal pubblico. Il discorso, salvo alcuni accenni veloci a figure storiche del partito, verte tutto su un tema: la battaglia all’Islam. L’Islam è un pericolo, contro cui solo la Lega lotta veramente, mentre la sinistra starebbe sfruttando questa “spada” per “tagliare la gola all’occidente”. Sardone declama una serie di no: “noi non vogliamo le moschee abusive, noi non vogliamo il richiamo del muezzin nelle nostre città, noi non vogliamo vedere minareti ovunque, noi non vogliamo matrimoni combinati” e così via. Passando per frasi non proprio eleganti – “ci siamo rotti i coglioni!”, “che non ci prendano per il culo!” – la vicesegretaria giunge al termine del suo discorso con la parola manifesto di questa Pontida, che poco dopo declamerà anche Vannacci: “RE-MI-GRA-ZIO-NE!”. Nei discorsi della Sardone da un lato c’è “il popolo di Pontida”: quello benedetto dalla Storia, che a Lepanto nel 1571 fermava l’avanzata islamica sotto il vessillo cristiano; mentre dall’altro lato ci sono i “Mau Mau con la barba lunga”. Questi, nell’universo di Sardone, sono quasi tutti maranza o membri di baby gang intenti a insultare costantemente le forze dell’ordine e a distruggere il nostro paese. I Mau Mau sposano “gente con un sacco della spazzatura addosso” (le donne islamiche che indossano l’abaya) e non le lasciano uscire di casa senza il loro permesso. Ai più attenti non sfuggirà però che nel discorso dell’europarlamentare compaiono anche altri immigrati “per bene, che pagano le tasse, che non li (i Mau Mau) sopportano più”: gli oppressi ben educati. L’Altro, ma colonizzato dal Medesimo. L’ODIO La prima volta che ho sentito parlare di Silvia Sardone è stato durante un incontro con S. A lui non sta esattamente simpatica, e non si fatica a immaginarlo. D’altronde neanche i suoi rapper preferiti la adorano: uno l’ha minacciata di morte, mentre un altro le ha dedicato un freestyle in cui la immagina avere un rapporto sessuale con un uomo egiziano (“Silvia Sardone prende il cazz* egiziano, la tipa di Salvini che sbucchin* un africano”). Un giorno S. mi mostra, in condivisione schermo, il video del freestyle di questo rapper. S. canta il pezzo scandendo ogni parola con rabbia: le conosce tutte. Per qualche secondo lo ascolto, incapace di opporre alcuno strumento pedagogico acquisito negli anni di studio e lavoro: cosa sto vedendo? cosa si fa in questi casi? Mi rendo conto che c’è dell’altro: sono sorpreso, contento oserei dire, di sentire – per una volta – S. parlare così chiaramente, senza mangiarsi le parole. La videocamera è sempre spenta, eppure S. si sta facendo vedere. Un attimo dopo ritorno in me: quello che sto ascoltando è brutto, sporco e violento, non posso permettere che prosegua ancora. S. interrompe la condivisione, ma qualcosa è cambiato, se ne rende conto anche lui. Quando durante La Haine (1995) di Mathieu Kassovitz un ragazzo viene ridotto in fin di vita dalla polizia, i tre protagonisti del film hanno tre reazioni diverse. Di fronte alla sete di vendetta di Vinz, che si compra una pistola con l’obiettivo di sparare a un poliziotto, Hubert – l’unico nero dei tre – gli risponde a  muso duro: “l’odio chiama odio”. A distanza di trent’anni quella scena ancora suona, quindi non si stupisca l’europarlamentare Sardone, la lingua dell’odio è la più facile da insegnare. (federico murzi)
storie
Rewind Roma, settembre 2025 # Il popolo con la Palestina, i potenti con Israele
(disegno di peppe cerillo) Il mese a Roma si apre con una stretta di mano storica, quella del 3 settembre tra il nuovo papa Leone XIV e il presidente dello stato genocida di Israele, Isaac Herzog: la stessa mano che qualche mese fa firmava le bombe destinate a Gaza. Questo Leone è il capo dello stesso stato Vaticano che strinse patti con Mussolini, Hitler, Franco, Salazar, Videla e Pinochet. Ma il giorno dopo, a un passo da San Pietro, una manifestazione salpa simbolicamente in un battello sul Tevere davanti a Castel Sant’Angelo, in solidarietà alla Global Sumud Flotilla appena partita per Gaza; mentre la relatrice Onu Francesca Albanese spiega in Senato le sanzioni comminatole dal governo Usa per la sua difesa del diritto internazionale. E così per tutto il mese: il 5 a Scienze Politiche (Sapienza) Albanese di nuovo parla delle complicità dell’università e della ricerca nel genocidio a Gaza, mentre nel pomeriggio si celebra un’assemblea pubblica di supporto alla Flotilla al festival Renoize (in memoria di Renato Biagetti ucciso dai fascisti a Focene); però sabato 6 l’Ufficio scolastico regionale del Lazio, estensione del ministro Valditara, invia una comunicazione a tutti i dirigenti scolastici, chiedendo che non si parli di politica nelle riunioni degli organi collegiali, “esclusivamente finalizzate alla trattazione delle tematiche relative al buon funzionamento dell’istituzione scolastica e sottratte a qualunque altra finalità”. Intanto, sulla Tiburtina si protesta davanti alla sede della Leonardo, una delle fabbriche di morte che riforniscono i massacratori dell’esercito israeliano. La sera, fiaccolata per la Global Sumud Flotilla, da piazza Vittorio fino al Colosseo: “Siamo l’equipaggio di terra” è lo slogan. Lunedì 8 conferenza stampa delle organizzazioni palestinesi italiane in piazza del Campidoglio, contro la proibizione da parte del sindaco Gualtieri dei locali del Nuovo Cinema Aquila per promuovere la manifestazione del 4 ottobre (poi concessi). Il 9 centinaia di persone manifestano in corteo sull’Ardeatina, contro l’inceneritore a Santa Palomba; a Ostia muore un operaio romeno cadendo da un’impalcatura. Al Circo Massimo una cinquantina di sionisti con le bandiere di Israele cercano di interrompere il flash mob per Gaza che apre la festa del Fatto Quotidiano, malmenando anche i passanti che reputano oppositori del genocidio. Manifestazioni spontanee in solidarietà alla Global Sumud Flotilla in varie parti di Roma, dopo l’attacco di un drone israeliano in acque tunisine: a San Lorenzo la polizia carica sul presidio. Il 10 piove: allagamenti ovunque, e su via Labico un albero cade travolgendo un’auto con un padre e un figlio, che per fortuna ne escono vivi. Alla Sapienza studenti e studentesse allestiscono un accampamento sotto la pioggia, con l’idea di rimanere finché la Flotilla non raggiungerà Gaza. Attacco sionista al centro sociale La Strada a Garbatella: bomba carta e scritta sessista “Di Battista puttana di Hamas” (che poi, non si capisce che c’entri Di Battista con La Strada). Il 13 muore un neonato di parto nella storica casa maternità “Il Nido” a Testaccio, gestita da ostetriche professioniste: nonostante ne siano morti altri due in ospedale nell’ultimo mese, le polemiche si dirigono solo ai parti gestiti da donne. Il 14 assemblea cittadina indetta dalle organizzazioni palestinesi al cinema Aquila, partecipano centinaia di persone: si proclama lo sciopero del 22 settembre e le mobilitazioni in tutte le città d’Italia, l’interruzione di tutti i rapporti commerciali e scientifici con Israele, la rescissione degli accordi con Teva e Mekorot, l’introduzione nelle scuole della memoria della Nakba. La notte un ragazzo cileno di ventun anni viene accoltellato a Ostia, e lasciato davanti all’ospedale Grassi. Il 15 all’apertura di molte scuole ci sono sit-in silenziosi contro il genocidio con le bandiere palestinesi. Il 16 si inaugura il parco Thomas Sankara a Montesacro, alla presenza dell’ambasciatore del Burkina Faso. Martedì 17, mentre l’esercito sionista invade e devasta Gaza City da terra, un grande corteo per la Palestina sfila da piazzale Aldo Moro a Fori Imperiali. Dopo la manifestazione, su via Giovanni Lanza una decina di fascisti prendono a pugni e calci due manifestanti, uno dei quali sventolava una bandiera della Palestina. Il 18 dopo una serie di estenuanti tira e molla – tutto il Pd si era astenuto sulla mozione – il comune di Roma fa issare una bandiera palestinese sul Campidoglio, e ordina la revoca dell’accordo tra Acea e l’impresa idrica israeliana Mekorot. Il portavoce della comunità ebraica romana Victor Fadlun dichiara che la bandiera “aggrava il clima di antisemitismo”. Sciopero di quartiere a Roma Est: picchetti davanti al Carrefour e al McDonald’s sulla Casilina, merende solidali, assemblee pubbliche e corteo di quartiere. Domenica 21, senza passare per le estenuanti assemblee di qualche giorno fa, il Comune affianca alla bandiera palestinese quella per gli ostaggi israeliani: l’eroismo capitolino è durato un paio di giorni. Dalla mattina, oltre sessantamila persone riempiono lo stadio Olimpico per il derby Lazio-Roma: il dispositivo poliziesco include droni, elicotteri, zone di pre-filtraggio, ingressi differenziati per le due tifoserie, nuovi divieti di sosta e sensi unici, chiusura strade e modifica di tutta la viabilità della zona. Un gruppo di tifosi laziali espone su Ponte Milvio uno striscione in memoria del fascista statunitense Charlie Kirk. Lunedì 22 arriva il giorno del grande sciopero e manifestazione per la Palestina: una marea umana riempie piazza dei Cinquecento, traboccando nelle vie intorno, bloccando per diverse ore la stazione Termini. Un corteo non autorizzato parte da via Cavour e dopo aver superato piazza Vittorio e Porta Maggiore si inoltra per San Lorenzo fino a imboccare la Tangenziale. Migliaia di persone bloccate nelle macchine reagiscono con solidarietà e senza incidenti; il corteo risale sulla Tiburtina e termina a piazzale Aldo Moro. C’è chi calcola oltre centomila persone: sicuramente una giornata senza precedenti, almeno negli ultimi dieci anni. Le foto e le notizie della manifestazione arrivano su Al Jazeera, una giornalista di Gaza ringrazia l’Italia per la solidarietà. I giornali italiani però riempiono le loro copertine con i presunti “scontri” e “devastazione” alla stazione di Milano. Il 24 – la mattina dopo il primo attacco alla Global Sumud Flotilla – viene occupata la succursale del Rossellini, istituto tecnico cinematografico di Garbatella. Sabato 27 mattina davanti al Cpr di Ponte Galeria (prigione per persone migranti che non hanno commesso reati) arriva la famosa statua di Marco Cavallo, simbolo della liberazione dei manicomi, portata da un corteo di attiviste e attivisti per la chiusura dei centri di detenzione amministrativa dei migranti. Nel pomeriggio manifestazione al Quarticciolo per rivendicare gli spazi abbandonati del quartiere. Il 29 viene occupato anche il liceo Cavour, davanti al Colosseo; inizia un accampamento permanente per Gaza a piazza dei Cinquecento, in preparazione della manifestazione nazionale del 4 ottobre. La notte qualcuno da una macchina tira un melone e delle uova contro le tende, e la notte successiva da una macchina gridano “Duce! Duce!”. Il 30 si occupa il liceo Russell; i lavoratori del Cnr manifestano davanti alla sede centrale a piazzale Aldo Moro, per l’interruzione delle collaborazioni con Israele. Il presidente del Cnr scende, ma nulla di fatto. Nel pomeriggio un corteo di centinaia di studenti occupa anche la facoltà di Scienze Politiche della Sapienza, dove si affigge un enorme bandiera palestinese. Nel frattempo arriva ad Amman il primo volo che porta i ricercatori, le ricercatrici e studenti che finalmente le mobilitazioni sono riuscite a far arrivare in Italia: atterreranno il primo ottobre a Fiumicino. (stefano portelli)
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rewind roma
Per un embargo totale a Israele. Dal blocco di Genova alle navi in transito a Salerno
(disegno di escif) La sera di sabato 27 settembre i lavoratori del Calp-Usb, Comitato Autonomo Lavoratori Portuali, sono intervenuti nel terminal Spinelli del porto di Genova per impedire il carico di dieci container contenenti materiale esplosivo, codice 1.x sulla nave della compagnia israeliana Zim New Zealand, che sarebbe poi dovuta ripartire con destinazione il porto di Salerno e infine verso i porti israeliani di Haifa e Ashdod, lungo la rotta denominata Tyrrhenian Container Line. Questa rotta è attiva dal 25 maggio 2022, con regolari transiti settimanali tra i porti di Fos Sur Mer, Genova, Salerno, Haifa e Ashdod. Secondo quanto comunicato dai lavoratori del Calp, il loro intervento ha fermato le operazioni di carico dei dieci container. I portuali hanno poi chiesto tramite prefetto e questore che venissero controllati, per sapere cosa contenessero effettivamente questi container contrassegnati come “materiale esplosivo”. Hanno ottenuto il blocco delle operazioni di carico, e dopo circa un’ora il questore ha ordinato alla nave di salpare senza i container a bordo. La legge 185, così come numerose altre norme internazionali, vieta l’esportazione di materiale bellico e di merci dual use (cioè che possano essere utilizzate nella produzione di armi) verso paesi come Israele, che continua a violare i diritti umani e commettere un genocidio riconosciuto anche dalla Commissione internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite sul Territorio palestinese occupato. Nel rapporto pubblicato lo scorso 16 settembre, la Commissione ha esplicitamente concluso che le autorità e le forze israeliane hanno commesso e stanno continuando a commettere genocidio nella Striscia di Gaza. La nave Zim New Zealand si trova ora nel mar Tirreno, col transponder AIS spento, ed è programmato il suo arrivo al terminal del porto di Salerno gestito dalla SCT della Gallozzi Group (dove arrivano tutte le navi della Zim) per le ore 12 di questa mattina. Senza l’intervento dei portuali di Genova i container di materiali esplosivi sarebbero transitati, illegalmente e senza ostacoli, dal porto di Salerno, come già successo più volte in passato. Il 5 aprile 2025, per esempio, quando era transitata impunemente la nave cargo Contship Era, sempre della compagnia israeliana Zim, che aveva caricato a Fos-sur-Mer “ventisei pallet, ovvero circa venti tonnellate di merci, destinate all’IMI, Israel Military Industries, una sussidiaria di Elbit Systems, uno dei principali produttori di armi israeliani”. Ancora, il 26 maggio la Zim Contship Era ha fatto scalo a Salerno dopo aver caricato a Fos-sur-Mer “due milioni di nastri per armi automatiche: un milione di M9, utilizzate per equipaggiare armi pesanti, e l’altra metà composta da nastri M27″. Questi ultimi, destinati ai fucili automatici leggeri, sarebbero compatibili con il Negev 5: utilizzata a Gaza dall’esercito israeliano, questa mitragliatrice è stata impiegata nel “massacro della farina” del 29 febbraio 2024, dove più di cento civili palestinesi sono stati uccisi nei pressi di un convoglio di aiuti umanitari. Anche il 9 giugno la Contship Era era a Salerno, ma questa volta a Fos-sur-Mer la coraggiosa mobilitazione dei lavoratori portuali era riuscita a identificare ed evitare il carico di tre container di armi, con decine di tonnellate di nastri per mitragliatrici e per cannoni. Autorità ed enti locali non hanno finora a Salerno proferito parola su questi transiti. Il 23 settembre, in una comunicazione ufficiale, la SCT ha dichiarato che “per quanto di nostra conoscenza nel porto di Salerno non vengono imbarcati materiali bellici destinati a Israele“. Casualmente, nessun riferimento è stato fatto ai materiali in transito, o sbarcati. La nave cargo Zim New Zeland è stata in realtà recentemente e ripetutamente implicata nel traffico illegale di materiale bellico verso Israele. Il 30 giugno 2025, dal porto di Ravenna, vi è partito un carico di munizioni diretto ad Haifa (Israele), provvisto del simbolo “esplosivi” classe 1.4S. La Capitaneria di porto locale che ne aveva confermato la presenza, e l’Ufficio delle dogane, hanno risposto alla richiesta di accesso agli atti della giornalista Linda Maggiori confermando che il carico militare è partito per Israele senza autorizzazione Uama (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento presso il Maeci), e che aveva origine dalla Repubblica Ceca. L’articolo 10 bis comma 1 della legge 185/90 esenta però da autorizzazione solo i transiti intracomunitari, e non quelli verso paesi terzi, quale è Israele. Per questo tipo di trasferimenti vale inderogabilmente il regime autorizzatorio e di controllo previsto dall’articolo 1, anche al fine della verifica di sussistenza dei divieti espressamente contemplati dal comma 5 e 6 (divieto di export e transito verso paesi in guerra o che violino il diritto internazionale e i diritti umani). È noto inoltre che il 7 agosto scorso la Zim New Zealand ha lasciato il porto sloveno di Capodistria (Koper) con due carichi di armi diretti a Israele, e ha fatto tappa nei porti di Venezia (8 agosto) e Ravenna (9 agosto), trasportando “macchinari elettrici e beni militari”. La spedizione è stata effettuata per conto della A-E Electronics, una filiale di Elbit Systems, il principale produttore israeliano di sistemi d’arma.  La nave è giunta a destinazione ad Haifa, in Israele, il 14 agosto. Quante altre volte, senza che lo sapessimo, la nave ha trasportato armi e merci dual use, così come le altre navi della compagnia israeliana Zim che approdano settimanalmente a Salerno? E per quanto tempo ancora continuerà a farlo, senza nessun impedimento da parte delle autorità preposte al controllo? Dal gennaio al luglio di quest’anno, secondo i siti sui traffici marittimi, sono partiti 1.931 TEU (container standard) verso Israele, equivalenti a potenzialmente 54.000 tonnellate di merci varie. Al di là dei materiali bellici e dual use, queste merci permettono a Israele di continuare la strage della popolazione palestinese. Nel frattempo nemmeno un grammo di cibo, medicine, e altri beni essenziali alla vita, ha raggiunto Gaza dal porto campano. È necessario e indispensabile un embargo totale verso Israele. Come ha dichiarato il 26 settembre Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, il problema non sono solo le armi, ma «vanno chiuse tutte le linee commerciali con Israele. Commerciare i prodotti israeliani in questo momento per il diritto internazionale è illegale e conformarsi al diritto internazionale significa chiudere i porti rispetto a Israele». Vale la pena ricordare in chiusura che un ulteriore rapporto, pubblicato il 1 luglio 2025 dalla relatrice Onu, e intitolato Da economia dell’occupazione a economia del genocidio, esorta gli stati membri a: imporre sanzioni e un embargo totale sulle armi a Israele, inclusi i prodotti a doppio uso (tecnologia e macchinari pesanti); sospendere/impedire tutti gli accordi commerciali e le relazioni di investimento e imporre sanzioni (compreso il congelamento dei beni) a entità e individui coinvolti in attività che mettono in pericolo i palestinesi; imporre la responsabilità legale alle entità aziendali per il loro coinvolgimento in gravi violazioni del diritto internazionale. Le entità aziendali sono invece esortate a: cessare prontamente tutte le attività commerciali e le relazioni direttamente collegate che contribuiscono o causano violazioni dei diritti umani e crimini internazionali contro il popolo palestinese; pagare riparazioni al popolo palestinese, anche sotto forma di una tassa sulla ricchezza dell’apartheid. Il rapporto esorta infine la Corte Penale Internazionale e le magistrature nazionali a indagare e perseguire i dirigenti e/o le entità aziendali per il loro ruolo nella commissione di crimini internazionali e nel riciclaggio dei proventi di tali crimini. A Salerno, come a Genova e Ravenna, e come in tutti gli altri porti d’Italia, la popolazione chiede chiarezza e si sta mobilitando per pretendere la fine della complicità col genocidio e con Israele delle autorità locali e dei gestori dei terminal. Per fermare il genocidio e perché la Palestina possa essere libera. (bds salerno)
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La parola della settimana. Cardinale
(claudia cardinale in una foto del 1963) Quando ride, i suoi occhi diventano due fessure nere, scintillanti con qualche cosa di monellesco, di scatenato, di intenso, di meridionale. (alberto moravia descrive claudia cardinale) È morta martedì, a ottantasette anni una straordinaria interprete e senza ombra di dubbio la più bella attrice della storia del cinema italiano. Della carriera di Claudia Cardinale si sa tutto, dei Nastri d’argento e dell’Orso d’oro alla carriera, delle infatuazioni artistiche e maschili di Fellini e Mastroianni, De Sica e Leone, così come del suo impegno femminista e a fianco dei bambini e dei malati di Hiv. Meno nota, almeno ai non cinefili, la sua storia personale. Cardinale era nata nel 1938 a La Goletta, protettorato francese in Tunisia, dove i suoi nonni (palermitani e trapanesi) erano scappati dalla Sicilia allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Fino ai sedici anni non ha parlato una parola d’italiano, dal momento che in famiglia si parlava solo in siciliano e infatti la sua prima apparizione fu in un cortometraggio franco-tunisino del ’56, che raccontava come le donne tunisine, negli anni della conquista dell’indipendenza, si erano unite e avevano raccolto i propri pochi gioielli per venderli e permettere ai mariti pescatori di acquistare piccole barche, dal momento che i grandi imprenditori francesi con i loro pescherecci se l’erano squagliata. Vabè se proprio te lo devo dire: fisicamente non sei fatta male. Ma non esageriamo, non sei la Cardinale! E non sopporto che lo fai notare con quel tuo modo, ti prego, di camminare! (vasco rossi, vabè se proprio te lo devo dire) Dopo quell’esperienza la giovanissima Claudia (anzi Claude, il suo nome all’anagrafe) si trasferì in Italia, ma ritornò in Tunisia poco dopo, avendo scoperto di essere rimasta incinta in seguito a una violenza sessuale subita. Decise di tenere con sé suo figlio e di non rivelare mai il nome del stupratore. Partì per l’Inghilterra con l’aiuto del produttore Franco Cristaldi (con il quale avrà poi una relazione, logorata alla lunga dal fatto che lui fosse sposato e che il divorzio fosse ancora illegale) e nascose a tutti, tranne che ai suoi genitori, la gravidanza. Tenne celato il segreto per sette anni, anni in cui il figlio fu cresciuto in famiglia “come un fratello minore”, fino a quando raccontò tutto in una intervista a Enzo Biagi, pubblicata poi su Oggi e su L’Europeo. https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/09/cardi-1.mp4 (credits in nota 1) Si fanno sempre più insistenti i rumors sulla possibile cessione del Milan dal magnate Gerry Cardinale alla famiglia Steinbrenner, proprietaria della squadra Nba dei New York Yankees, società con un patrimonio di circa sette miliardi di dollari. Anche Gerry, come Claudia, ha origini italiane da parte di nonni (napoletane il padre e abruzzesi la madre, imparentata pare con D’Annunzio), ma non si trovano molte notizie su come la sua famiglia si sia fatta strada negli Stati Uniti. Lui ha studiato ad Harvard e poi ad Oxford, ha lavorato a Goldman Sachs e poi ne è diventato partner. Ha creato un fondo di investimenti e attraverso quest’ultimo ha acquistato quote di varie compagini sportive, tra cui il Liverpool e gli stessi Yankees. Nella sua gestione certo non memorabile (finora: i miei amici milanisti di fantacalcio sono sicuri che con Allegri in panchina e il Bebote in avanti i rossoneri possano puntare al Triplete), Cardinale ha costituito un fronte con il presidente dell’Inter Marotta, per scardinare gli ostacoli che gli impediscono una mega-speculazione sul fronte stadio. Mentre scrivo mi è tornato in mente che qualche settimana fa, dopo una pessima partita dei nerazzurri, Marotta si fiondò davanti alle telecamere, prese di forza i microfoni della Rai («C’è il presidente che vuole fare un annuncio su un argomento molto serio») e avviò un patetico comizio su come lo Stato sia freno allo sviluppo dell’economia e su come gli imprenditori stranieri si rifiutino di investire nel nostro paese per colpa delle tasse e della burocrazia. A seguire potete trovare due articoli pubblicati su Monitor che spiegano come stanno veramente le cose: Le mani sulla città. Il quartiere San Siro e il modello Milano (giugno 2021) Milano, grande capitale e privato sociale all’attacco di San Siro (settembre 2022) …e l’estratto di un testo più recente pubblicato dal Comitato Salviamo San Siro, come chiamata a una manifestazione svoltasi questa mattina al Parco dei Capitani: La delibera per la vendita dello stadio San Siro e delle aree circostanti è approdata ieri a Palazzo Marino, ma il voto è stato rinviato a lunedì 29 settembre. Non un rinvio qualsiasi: in quella data il consiglio si riunirà in seconda convocazione, e basteranno appena quindici consiglieri per rendere valida la seduta e approvare il provvedimento. Un escamotage voluto dal sindaco Beppe Sala per far passare, a tutti i costi, l’operazione più contestata degli ultimi anni: la svendita di San Siro ai fondi legati a Inter e Milan. […] La tensione a Palazzo Marino è stata altissima. La vicesindaca Scavuzzo è stata fischiata dopo la presentazione della delibera. Le opposizioni hanno denunciato irregolarità nelle procedure: la delibera è stata considerata “licenziata” dalle commissioni anche se non tutte avevano terminato l’esame […]. Era stata anche tentata una sospensiva, respinta dalla maggioranza, che avrebbe permesso di studiare meglio il testo ed evitare l’abbassamento del numero legale. La vera posta in gioco è la speculazione edilizia. Al di là della retorica sul nuovo stadio, la realtà è chiara: i fondi interessati non mirano alla riqualificazione dell’impianto, bensì alla sua demolizione per liberare un’area enorme da trasformare in una colossale operazione immobiliare. Un’operazione che rischia di cancellare non solo un simbolo della città, ma di consegnare ai privati un pezzo di patrimonio collettivo, spalancando la strada a una speculazione edilizia senza precedenti. (comitato salviamo san siro, 26 settembre 2025) Claudio è mezzo fascio e tifa la Lazio, fa feste da paura nella casa a Capalbio. Flaminia fa la squillo a Collina Fleming l’hanno vista col maestro di tennis. Giulio si atteggia come un criminale ma c’ha lo zio che fa il cardinale. Vittoria invece studia alla LUISS e spaccia coca nei momenti bui. (il pagante ft. carl brave, la grande bellezza) a cura di riccardo rosa __________________________ ¹ Claudia Cardinale in: Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata, di Luigi Zampa Tarantino (1971)
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parola della settimana
Chiacchiere e detersivo. Manfredi cancella il piano su Bagnoli proprio mentre dice di applicarlo
(disegno di marta fogliano) Bagnoli è tornata in primo piano sulle pagine dei giornali locali e nazionali. Lunedì, per l’arrivo del presidente della Repubblica e del ministro all’istruzione, che hanno inaugurato l’anno scolastico in un clima surreale, visitando scuole al cospetto di pochi docenti e pochissimi studenti, selezionati con la promessa di interlocuzioni concordate, dopo che persino i laboratori con ragazzi e ragazze che quegli istituti li frequentano erano stati annullati. Al termine della giornata, il presidente ha rifiutato di incontrare una delegazione dell’assemblea che da sei mesi riunisce centinaia di cittadini per fronteggiare la crisi bradisismica e la superficialità con cui le istituzioni la stanno affrontando. Nel pomeriggio di ieri, invece, è stata presentata al consiglio comunale una informativa del sindaco sulla rigenerazione dell’ex area industriale e sull’organizzazione della Coppa America di vela, che arriverà a Bagnoli nel 2027. Un’iniziativa che pone innanzitutto una questione di metodo, considerando che da tempo immemore non si dedicava un consiglio ad hoc a uno dei temi più importanti della città. Il sindaco e la sua giunta, su questo, almeno non peccano di ipocrisia: su Bagnoli, infatti, il consiglio comunale è del tutto svuotato dalle sue prerogative, che sono assegnate al commissario straordinario (lo stesso Manfredi); il quale in assoluta autonomia, e spalleggiato dal governo, ha fatto scelte dalla portata storica, che hanno sì “sbloccato” l’impasse dovuta a trent’anni di devastazioni amministrativo-ambientali, ma a carissimo prezzo per i cittadini. Tra queste scelte, vale la pena ricordarne un paio: la prima è la cancellazione di uno dei punti cardine del piano regolatore, ovvero il ripristino della morfologia della costa con una grande spiaggia libera da Nisida a Pozzuoli; la seconda è la permanenza e l’utilizzo della colmata per i cosiddetti “grandi eventi”, con l’inaugurazione di una stagione di frizzi e lazzi che finirà per sottrarre buona parte di quella linea di costa ai cittadini. All’altezza delle sue azioni, sono le parole del sindaco, dal cui discorso vale la pena riportare alcuni punti emblematici. 1) È inutile allarmarsi e paventare speculazioni come la costruzione di un porto turistico. Lo sviluppo di Bagnoli è regolato da un piano, dice Manfredi, e noi lo rispetteremo (in realtà il famoso Praru è già stato stravolto, per esempio per permettere il mantenimento della colmata a mare). 2) Il litorale non sarà dedicato tutto a spiaggia libera, perché sarà interrotto dalla colmata, che sarà comunque adibita alla balneazione (quando non ci si faranno sopra altre coppe o coppette). Certo, chi vorrà fare il bagno da lì «dovrà saper nuotare» perché tra la colmata e il mare c’è un dislivello di circa due metri che non verrà azzerato. L’utilizzo di parte della sua superficie sarà inoltre appannaggio delle federazioni sportive di vela e canottaggio (a tutti gli effetti associazioni di diritto privato). 3) L’area di balneabilità sarà delimitata da una scogliera soffolta, una scelta rischiosissima secondo molti tecnici: oltre a possibili effetti sulla flora e la fauna marina dovuti al surriscaldamento dell’acqua, la barriera potrebbe comportare una difficoltà per alghe e altri sedimenti a riprendere il largo, una volta entrati in quella che diventerebbe, più che una baia balneabile, una piscina naturale. 4) Garantire la balneabilità della zona antistante alla colmata sarà priorità assoluta, per permettere lo svolgimento della Coppa. Per gli interventi sui due litorali a est e ovest (lato Coroglio e lato Dazio, quelli dove si farà la spiaggia libera) «si dovrà aspettare». 5) «Non sarà la Coppa America dei ricchi e degli yatch ma di tutti i napoletani» (e su questo non vale la pena nemmeno commentare, basta leggere i nomi degli sponsor per capire qual è il target di riferimento di questa competizione). Quello che va detto è che, pur tra tante inesattezze, la relazione del sindaco è comunque superiore, per tenore e retorica, agli imbarazzanti interventi dei consiglieri che si soffermano per lo più sulla favoletta “della grande occasione”, dell’accelerazione al processo di rigenerazione e tante altre sciocchezze propagandistiche. Voci sparute, dall’opposizione, fanno emergere il rischio della privatizzazione del bosco urbano attraverso i fantomatici “servizi”; qualcun’altro riprende il tema del “pacco” ricevuto con l’accordo per l’acquisizione dei suoli della Cementir; ma il vero paradosso è che il solo intervento degno di nota è quello dell’ottuagenario Bassolino, che soffre visibilmente e fisicamente nel vedere i suoi progetti degli anni Novanta smantellati pezzo a pezzo, proprio lui che sulla variante ovest aveva fatto un enorme investimento politico prima di defenestrare Vezio De Lucia e gli altri difensori di quel piano. È l’unico, il vecchio sindaco, a richiamare in causa temi politici come il risarcimento sociale e ambientale dovuto alla gente di Bagnoli dopo cento anni di fabbrica, il rispetto dei piani urbanistici costruiti “insieme” e non “a discapito” dei cittadini, la pericolosità di non uno ma forse addirittura due porti turistici, il rischio che i privati possano impossessarsi degli spazi del bosco urbano. Su quest’ultima questione, sempre furbescamente, il sindaco crede di lavarsi le mani ripetendo quindici volte che «quei suoli sono di proprietà di Invitalia» e che quindi il comune può farci poco. Nessuno gli fa notare che se quei suoli sono di Invitalia è proprio per colpa dell’ente che lui presiede: nel 2000 il Comune aveva infatti comprato i suoli dalla Fintecna (ex Medelil e Cimimontubi), ma siccome non gli ha mai dato ottanta dei cento milioni che gli doveva, e siccome non è stato capace di fare nulla di buono in trent’anni, il governo ha avuto il pretesto per commissariare l’area e riprenderseli. Se quei suoli non appartengono alla città è solo colpa del comune di Napoli, che ora non può venire a lamentarsi davanti ai cittadini, ma deve trovare soluzioni per impedire che Invitalia ne lottizzi spazi ai privati. Detto ciò (anzi non detto ciò, perché nessun consigliere lo sa, o ha il buon senso di dirlo) il consiglio si avvia alla fine senza sussulti. Al termine del dibattimento i capigruppo firmano, su pressione dei comitati territoriali presenti in aula, un documento che prevede un nuovo consiglio monotematico, da svolgersi nel quartiere, e con un ordine del giorno concordato con gli abitanti. Due consiglieri dell’opposizione presentano un documento più puntuale, che recepisce diverse delle istanze su cui lottano al momento le varie Assise di Bagnoli, Laboratorio Politico Iskra, Lido Pola, Rete No Box, Assemblea Popolare, Mare Libero e tutti gli altri. Dalla giunta assessori e sindaco borbottano, lasciano intendere che non lo voteranno, dal momento che vi si chiede con forza quella procedura Vas (Valutazione di impatto ambientale) che governo e comune stanno cercando in ogni modo di evitare, e che si parla di spiaggia pubblica ininterrotta tra Nisida e Pozzuoli. Pur di farlo approvare dalla giunta, allora, i consiglieri Sergio D’Angelo e Gennaro Esposito ne cambiano il testo, inserendo qualche parolina per lasciare intendere che la spiaggia sarà ininterrotta (ergo: senza colmata piazzata lì in mezzo) solo se la Vas di cui sopra riterrà inopportuna la permanenza della colmata. Si tratta, insomma, di una questione ambientale e non politica. Sono soddisfazioni dopo trent’anni di battaglie. E poi si lamentano pure che uno non va a votare. (riccardo rosa)
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La parola della settimana. Via
(disegno di ottoeffe) E affacciati alle loro finestre nel mare tutti pescano mimose e lillà. E nessuno deve più preoccuparsi di via della Povertà. (fabrizio de andrè, via della povertà)  Siccome non avevo di meglio da fare, venerdì sera mi sono messo a cercare sui siti internet istituzionali la VIA – Valutazione di impatto ambientale per la Coppa America a Napoli. I lavori a Bagnoli stanno per cominciare e nella zona della colmata si respira un certo fermento, ma della VIA non c’è traccia (in compenso è stata da poco pubblicata una assai meno utile VI, a cui in fondo manca solo la A, ovvero Valutazione di incidenza delle opere sul contesto circostante). La Valutazione è un curioso Pdf di cento pagine che spiega nel dettaglio gli interventi previsti, dall’installazione dei pontili galleggianti alla barriera di scogli soffolta, che secondo diversi biologi avrà effetti devastanti sull’ecosistema marino della baia (è bene sottolineare sempre che il mantenimento della colmata promosso dalla ditta Meloni-Manfredi impedirà il ripristino della morfologia di costa e la rinascita di una grande spiaggia libera, che in trent’anni di dure battaglie gli ex operai, gli ambientalisti, i comitati territoriali, le associazioni del quartiere erano riusciti a imporre non in un solo piano, quello De Lucia, ma addirittura in due, considerando il famoso Praru* poi smantellato dal gatto e la volpe di cui sopra). Nonostante le rassicurazioni – le parole più usate nel documento sono “bassa” e “trascurabile”, ma mai “nulla”, rispetto all’incidenza delle attività di progetto su flora e fauna del luogo – sembra che oltre a svariate varietà di piante e fiori, a farne le spese saranno gli animali, tra cui la tartaruga Carretta Carretta e il Gabbiano Reale (il documento sostiene che tutti gli animali che andranno via sicuramente torneranno, e la cosa fa pensare un po’ ai terremotati che in questi mesi stanno lasciando il quartiere; ma questa è un’altra storia). Le attività di cantiere, a causa del rumore prodotto dai macchinari e mezzi e dalla loro presenza in situ, determinano un impatto diretto sulle specie ornitiche che frequentano la fascia costiera con conseguente loro allontanamento. L’impatto risulta a carico delle specie dell’avifauna prevalentemente marina le quali potrebbero dirigersi verso aree costiere che risultano meno disturbate o subire un’interferenza con il loro ciclo ontogenetico. (valutazione di incidenza – 38th America’s Cup Louis Vuitton) I gabbiani, lo sapete anche voi, non vacillano, non stallano mai. Stallare, scomporsi in volo, per loro è una vergogna, è un disonore. Ma il gabbiano Jonathan Livingston – che faccia tosta, eccolo là che ci riprova ancora, tende e torce le ali per aumentarne la superficie, vibra tutto nello sforzo e patapunf stalla di nuovo – no, non era un uccello come tanti. (richard bach, il gabbiano jonathan livingston) Chissà se il segreto è non vacillare, non essere un uccello come tanti, o alla fine, come a Jonathan Livingston, questo ci si ritorcerà sempre contro. Ci pensavo l’ultima volta che sono stato sul Pontile Ferdi, un posto noto ai bagnolesi come la Sala pompe, perché nell’edificio che vi si trova erano ospitati i macchinari per il trasporto dell’acqua utilizzata nel processo di produzione industriale dell’acciaio. (la sala pompe in una foto degli anni sessanta) Attraversando quel che resta della Sala pompe, e destreggiandosi tra i relitti arrugginiti, ci si trova davanti uno spettacolo incredibile, soprattutto al tramonto. Siamo in uno dei posti più suggestivi del quartiere, sicuramente il più silenzioso, molto meglio del più noto Pontile Nord sempre affollato di runner e di persone che vogliono godersi il panorama. Un posto che non di rado riserva sorprese, come una volta in cui ci trovai a riflettere un amico che vive e lavora dall’altra parte della città o un fotografo che tra le rovine faceva uno shooting a delle adolescenti del quartiere. La Sala pompe si appresta a breve a una scenografica e tragica fine. La demolizione dell’impalcato avverrà tramite tagli controllati con filo e disco diamantato, che consentiranno di suddividerlo in blocchi gestibili per il sollevamento e la movimentazione con gru. I pali di fondazione saranno tagliati alla base e rimossi con autogrù, con l’ausilio di attrezzature subacquee nei tratti sommersi per assicurare precisione e pulizia delle operazioni. (valutazione di incidenza – 38th America’s Cup Louis Vuitton) Piante, gabbiani, tartarughe e pontili. Sgomberati, sfollati e lesionati. Affittuari allo stremo, commercianti a basso reddito, attività storiche. Fiori azzurri e tempi grigi. Via di qui. Via via, vieni via di qui. Niente più ti lega a questi luoghi, neanche questi fiori azzurri. Via via, vieni via con me. Neanche questo tempo grigio, pieno di musiche e di uomini che ti son piaciuti. (paolo conte, via con me) Quando ero bambino mio zio portava spesso me e i miei fratelli in giro in macchina per Napoli, a farci vedere le vedute più belle del golfo dalle strade panoramiche. Non di rado si fermava all’improvviso a chiedere, per lo più a persone anziane, indicazioni per strade assurde, tipo “via Gianfranco Zola” o “via vecchia Tom e Jerry”, e giù risate dai sedili posteriori. Oggi che pure c’è Google Maps e la gag ha quindi perso buona parte del suo significato, c’è un ragazzo che fa lo stesso accumulando migliaia di follower sui social, me incluso. Avevo un dubbio a un certo punto su quale parola scegliere per questa settimana, poi, una notte che non dormivo, su Canale21 stavano trasmettendo Delitto in Formula 1 di Corbucci, con Tomas Milian e Bombolo. A un certo punto proprio Bombolo, che interpreta il tuttofare Venticello, deve mettere al sicuro la famiglia dell’ispettore, che lo incarica di portare tutti a Frascati, dalla suocera, la signora Proietti, alla via dei Santissimi Martiri. https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/09/milian.mp4 (credits in nota 1) a cura di riccardo rosa __________________________ * Programma di Risanamento ambientale e Rigenerazione urbana ¹ Tomas Milian e Bombolo in: Delitto in Formula 1, di Bruno Corbucci (1984)
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parola della settimana
Il destino della merce
(disegno di otarebill) Andrea Bottalico, La logistica in Italia. Merci, lavoro e conflitto, Carrocci, Roma, 2025, pagg.119, euro 14. Questo volume di Andrea Bottalico, ricercatore esperto del settore, propone una ricognizione esaustiva e politicamente stimolante sul tema “logistica”. Infatti, seguendo un metodo ormai consolidato della ricerca sociologica e storiografica (soprattutto di matrice operaista), l’autore intreccia in ogni capitolo la dimensione organizzativa del fenomeno e quella relativa al rapporto sociale sottostante: alle sue figure, alle sue contraddizioni, ai suoi conflitti. La conoscenza vera di un comparto del capitalismo industriale, si può praticare oggi solo in questo modo: indagando contemporaneamente la struttura e le movenze del soggetto sociale che la abita. L’analisi della “produzione di classe operaia” – cioè l’analisi dei soggetti reali che vivono il rapporto di capitale – diventa così inscindibile dallo studio dell’assetto organizzativo del settore. E il conflitto è la risultante della continua modificazione che tale rapporto subisce. Bottalico propone innanzitutto  una perimetrazione – non scontata né semplicissima – dell’oggetto della sua ricerca: “Oggi è possibile acquistare un qualsiasi prodotto on line che arriva a casa domani grazie a una cosa che non è affatto gratis. Questa cosa è il lavoro di uomini e donne quotidianamente impiegati e sfruttati nella catena logistica del trasporto merci. Senza i lavoratori e le lavoratrici, il flusso di beni e servizi da cui siamo dipendenti si fermerebbe. La logistica si presenta come un universo costituito da molteplici galassie. È una dimensione complessa da delimitare, così come lo sono le attività di trasporto, approvvigionamento, distribuzione a cui viene generalmente associata. Nel tempo la logistica si è trasformata in un termine chiave come una parola d’ordine, e non è un caso che il suono di questa parola, di origine greca, richiami qualcosa di militare. […] Oggi parlare di logistica significa ragionare sull’organizzazione di filiere che si sviluppano su una scala molto ampia, soprattutto in seguito ai cambiamenti tecnologici avvenuti nel corso degli ultimi decenni (flotte aeree moderne, containerizzazione, espansione del trasporto marittimo e su gomma, digitalizzazione). Mutamenti che hanno inciso sull’organizzazione della produzione facendo emergere colossi come Amazon, Walmart, Ups, FedEx, Dhl, Tnt, Gls, Msc”. (pag. 9) Partendo dalla definizione, difficile e non univoca, della categoria, si capisce quanto le  trasformazioni organizzative – in direzione della piena integrazione di diverse fasi un tempo separate, che oggi si presentano come “flusso” integrato e costante che avvolge il pianeta e la produzione – abbiano sostanziato la fase storica della globalizzazione. Quella stagione cruciale sarebbe semplicemente incomprensibile senza la conoscenza delle innovazioni tecnologiche e delle ricadute sociali, infrastrutturali e urbanistiche, che la logistica ha prodotto negli ultimi cinquant’anni. La tesi dell’autore è che la logistica italiana si pone come “anomalia”, rispetto ad analoghi processi europei. È un settore “usa e getta”, ad alta intensità di mano d’opera dequalificata e sottopagata, con un altissimo tasso di esternalizzazione delle attività di magazzinaggio e trasporto – ormai affidate quasi esclusivamente a soggetti esterni al rapporto tra produttore e clienti. Questa tendenza nazionale ha prodotto enormi sacche di illegalità, la costituzione di una autentica jungla di cooperative spurie delegate a coprire questo ambito essenziale del processo di produzione/circolazione delle merci. Tale è stata la pressione al ribasso sulla forza lavoro, che i bassi salari e la precarietà sono diventate la condizione sine qua non per la sopravvivenza di molte di queste imprese le quali, se poste nella condizione di legalizzare il loro profilo, vedrebbero il sostanziale azzeramento  del margine di profitto. “L’ipotesi che guida questo volume è che alcuni processi come l’esternalizzazione delle funzioni logistiche, la repressione dei diritti sindacali, la violenza sul posto di lavoro, l’illegalità strutturale e lo sfruttamento sistematico, l’assenza di tutele e il caporalato sono state le precondizioni per lo sviluppo della catena logistica del trasporto merci in Italia come settore dinamico e in continua crescita. Questi fenomeni non sono stati un effetto, ma una causa della traiettoria di sviluppo del modello logistico italiano. Si è trattato dunque di un modello emerso nel corso degli ultimi decenni. Un modello composto da elementi sempre più caratterizzanti il mondo del lavoro del nostro tempo, al quale le forme autonome del conflitto si sono opposte ereditando dal passato partiche ed esperienze di lotta”. (pag. 11) Bottalico individua, in tema di “movimentazione delle merci” tre precise fasi storiche della vicenda italiana, che caratterizzano rispettivamente: la ricostruzione post-bellica, il boom economico e la configurazione d’impresa nel mondo globalizzato. Sono le tre dimensioni fondate sullo sviluppo della rete ferroviaria, del trasporto marittimo tradizionale e infine della intermodalità integrata e verticale che caratterizza i flussi attuali. A queste tre fasi corrispondono tre dinamiche di protagonismo operaio: la storica figura sindacalizzata dei ferrovieri, ridimensionata dalla perdita di centralità dei binari rispetto al trasporto su gomma negli anni del boom; quella dei lavoratori portuali, che hanno subito i colpi della privatizzazione delle banchine negli anni 80/90; e infine il soggetto operaio della logistica moderna, che richiede una narrazione “in diretta” della sua composizione e dei suoi movimenti. Tre figure sociali profondamente diverse, che hanno conosciuto progressi e sconfitte, interagendo in modo conflittuale con la forma impresa che caratterizzava le diverse fasi storiche.  La composizione della forza lavoro del settore logistico – parliamo di professionalità, potere sulla prestazione, coscienza del proprio ruolo sociale – è ovviamente li prodotto delle enormi trasformazioni che il settore ha subito nei decenni. La containerizzazione e le tecnologie digitali azzerano la manipolazione dei carichi, con una progressiva estromissione della forza lavoro dai settori “centrali” della filiera – pensiamo ai porti iper-tecnologizzati in cui l’intervento umano si sposta “a latere” di ogni operazione – e un incremento esponenziale negli anelli terminali del ciclo, retroporti, hub e magazzini sui territori. “La diffusione del container favorisce l’emergere della logistica integrata. La storia della logistica in Italia, da questa prospettiva, coincide con la storia della intermodalità, una novità dirompente che consiste nella possibilità di usare in maniera integrata due o più modi di trasporto per consegnare la merce. In generale per intermodalità si intende una rete coordinata di vettori ed utenti che operano in concerto allo scopo di trasferire la merce attraverso modi e combinazioni di trasporto diverse e contigue. […] È dal trasporto intermodale che deriva il modello Door to Door, consistente in un singolo carico controllato da un singolo vettore e coperto da un singolo documento, laddove il cliente (o committente) tratta con il vettore esclusivamente il trasporto dall’origine alla destinazione. In questi anni avviene dunque una integrazione che finisce per investire la stessa concezione del trasporto, non considerato più come una somma di attività separate e autonome di singoli vettori interessati, ma come un’unica prestazione da origine a destino, in una visione globale del processo di trasferimento di una merce”. (pag. 10) L’autore nella sua ricerca ha giustamente focalizzato la sua attenzione sui fenomeni di esternalizzazione delle funzioni logistiche – il viaggio della merce dall’uscita dei luoghi di produzione verso la sua destinazione. Resta da indagare un altro grande filone di ricerca – comunemente inserito nella definizione di “logistica” – che è quello dei cosiddetti “appalti interni”: il processo che negli ultimi venti anni ha portato moltissime aziende industriali a isolare reparti e fasi del ciclo per affidarli in appalto a imprese (spesso cooperative, spesso in totale subordinazione organizzativa rispetto al committente) operanti all’interno dei perimetri aziendali. Una sorta di “delocalizzazione interna” che ha favorito uno spezzettamento delle condizioni contrattuali e un indebolimento complessivo dell’unità di classe, anche dentro i luoghi “centrali” del processo produttivo.  Sono molti gli spunti di analisi interessanti che questo libro propone, anche per i non addetti ai lavori. Soprattutto quelli relativi alla lettura della logistica italiana come “metafora” dello sviluppo distorto del capitalismo italiano nell’ultimo trentennio. Ciò che è accaduto in questo comparto produttivo – frammentazione organizzativa, deflazione salariale, precarietà, sfruttamento – è solo il riflesso, magari in forme esasperate, di ciò che ha riguardato tutto lo spettro del lavoro sociale. Così come l’acquiescenza del legislatore, che non ha governato la crescita malata e anomala del settore logistico, ma ne ha solo accompagnato l’espansione: con ricadute fondamentali anche nel ridisegno delle aree portuali, degli interporti, delle zone industriali, delle politiche urbanistiche e territoriali affidate come sempre alla commistione di interessi tra privati e ceto politico compiacente o succube. Solo gli scioperi hanno scoperchiato il pentolone del malaffare e indicato – anche ai ricercatori – la strada dell’analisi impietosa e della denuncia pubblica di queste degenerazioni. I facchini – organizzati dai sindacati di base, poveri, precari e sottopagati – sono stati capaci di scoperchiare un pentolone maleodorante che molti fingevano di non vedere. Non basterà il Decreto Sicurezza per ricondurre i lavoratori al silenzio e azzerare le conquiste di questi anni, strappate dalle lotte e pagate a caro prezzo, con morti nei picchetti, inchieste, arresti e licenziamenti. (giovanni iozzoli)  
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Decreto Caivano e detenzione minorile. Contro un nuovo carcere a Santa Maria Capua Vetere
(archivio disegni napolimonitor) Il Decreto Caivano e altre misure di recente approvazione hanno comportato un inasprimento del livello di criminalizzazione nei confronti di soggetti come i giovani delle classi popolari, dei territori più marginalizzati, dei migranti, nonché l’istituzione di nuovi reati atti a colpirli e un’impennata di condanne a pene detentive. Ma questi interventi normativi hanno anche fatto sì che emergesse la necessità di un piano di potenziamento delle strutture detentive per minori e l’apertura di nuove carceri. L’intervento ministeriale che prevede l’apertura di quattro nuovi Istituti penitenziari minorili (Ipm), insieme a L’Aquila, Rovigo e Lecce, individua come sede anche la piccola città campana di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. La struttura individuata come futuro penitenziario è l’Istituto Angiulli, già in passato centro di detenzione minorile, ma che a oggi ospita, oltre a un museo e una biblioteca comunale, un Centro diurno polifunzionale. Questo centro, racconta una volontaria che vi opera, offre un modello alternativo di scontare la pena, a partire da attività che permettano ai ragazzi di costruirsi strumenti di crescita attraverso corsi di formazione lavorativa e non, come la falegnameria e il laboratorio di restauro di moto d’epoca: «Abbiamo anche a disposizione impianti sportivi e un teatro, ma non abbiamo mai ricevuto i fondi destinati alla loro ristrutturazione». Il futuro dell’Angiulli è ancora incerto. In un primo momento si era parlato di chiusura, poi di trasferimento, ma la difficoltà a trovare i locali adatti per dare continuità alle attività del centro, in una città in cui mancano gli spazi tanto per l’istruzione quanto per l’attività sociale, è enorme. Ancora più preoccupante è il silenzio delle istituzioni locali su una decisione calata dall’alto dal governo, considerando anche che, poco meno di dieci anni fa, l’attuale sindaco Mirra (eletto con una coalizione civica in quota centrosinistra) sbandierava come una vittoria la riqualifica della struttura. Come a L’Aquila, in ogni caso, dove l’inaugurazione del nuovo Ipm è stata presentata come una vittoria, il “modello Caivano” arriva a Santa Maria con l’intento di “combattere il disagio giovanile”, un disagio che ha ovviamente radici profonde, e ben radicate altrove: edifici scolastici inadeguati, un’istruzione votata unicamente alla formazione di futuri lavoratori precari e ricattabili, costante e asfissiante presenza di polizia ed esercito in tutte le scuole della provincia di Caserta, con controlli ed eventi propagandistici imbastiti con il solo fine di racimolare consenso e arruolamenti, assenza di impianti sportivi e di luoghi di socialità accessibili anche alle classi meno abbienti. E ancora: emergenza abitativa, lavoro nero e precario, una criminalità organizzata onnipresente e sempre alla ricerca di nuova manovalanza. Il risultato più evidente di tutto ciò è la fuga, per chi può permetterselo, da una gabbia a cielo aperto fatta di sfruttamento, abbandono e marginalità. E chi non può fuggire, si arrangia. In realtà, il rapporto tra marginalità e istituzioni totali è ancora più evidente su territori come questo. La situazione a Santa Maria Capua Vetere, dove già nel 2020 si consumò una mattanza di detenuti nella casa circondariale Francesco Uccella, è il riflesso di un’emergenza che attraversa l’intero paese e che riempie le carceri di “elementi di disturbo”: sovraffollamento, violenze contro i detenuti, isolamento e condizioni di vita indignitose accomunano le carceri ai lager di Stato, i cosiddetti Cpr, e sono in aumento anche negli istituti minorili. I tassi elevatissimi di recidività, i suicidi e i continui atti di autolesionismo ne sono la prova più lampante. Davanti a questa escalation, qualcosa però si muove. Lo scorso maggio a Santa Maria Capua Vetere si è tenuto un presidio proprio fuori all’istituto Angiulli con un messaggio molto chiaro: totale opposizione alla riapertura dell’Ipm e a nuove carceri minorili su tutto il territorio italiano; richiesta di fondi per il potenziamento del Centro diurno polifunzionale, delle scuole, degli ospedali e dei servizi pubblici nel casertano; denuncia dei piani securitari del governo Meloni e del silenzio dell’amministrazione locale. Naturalmente si è trattato solo di un primo passo di un percorso che tenta di rimettere sotto i riflettori il tema del carcere e la sua normalizzazione, ancora di più in aree di provincia e di periferia: un tentativo che avrà seguito con altre iniziative a partire dal prossimo autunno e che avrà bisogno di voce e supporto anche da parte di tutti gli altri territori. (raul lamia)
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