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Cronache, libri, disegni e reportages

Vivere in un mondo nuovo. Il confine immaginario tra Oriente e Occidente in un libro di Renata Pepicelli
(disegno di marco di pietro) Né Oriente né Occidente. Vivere in un mondo nuovo (Il Mulino, 2025) è un volume agile e divulgativo, ma allo stesso tempo complesso e necessario, attraverso il quale Renata Pepicelli, docente di Islamologia e Storia del mondo arabo contemporaneo all’università di Pisa, compie un’operazione importante: quella di mostrarci come, fonti ed eventi storici alla mano, nonché un presente che ancor di più palesa tutto ciò, il confine labile e costruito tra Oriente e Occidente sia quanto mai strumentale ed effettivamente mai realmente esistito. Infatti, i continui contatti tra questi due mondi, sempre in una contrapposizione e una dialettica fertili, conflittuali ma arricchenti, hanno posto le basi per quello che fecondamente l’autrice chiama, già nel sottotitolo del volume, un “mondo nuovo” e che definirà poi, nel corso delle pagine, Occiriente. Ma che cos’è e che cosa rappresenta questa ibridazione, questo modo di vivere che attraversa i secoli, le epoche e le culture, per arrivare fino a noi, nelle rappresentazioni, nelle nostre strade, città, margini e periferie, fabbriche, ristoranti, aule scolastiche? Perché, proprio in riferimento al mondo dell’educazione, questo volume e questo nuovo paradigma interpretativo appaiono quasi profetici se si considera la  data di uscita del libro (28 febbraio) e quella delle Nuove indicazioni nazionali per il primo ciclo (11 marzo), nelle quali il ministro Valditara e le commissioni disciplinari da lui incaricate, ci dicono che “solo l’Occidente conosce la Storia”. E ancora: in che modo un volume di questo tipo riesce a mettere insieme storia, quadri, canzoni, dibattito educativo, Islam, linea del colore e italianità per rendere manifesto che è proprio insieme che devono stare per spiegare una realtà sociale di inesorabile complessità che si contrappone ai recenti proclami forieri di altrettanto irriducibili semplificazioni? Pepicelli pone questioni e risponde a queste domande con piacevole meticolosità, rigorosa metodologia e con un linguaggio e uno stile che sanno di un’accademia che vuole aprirsi a tutti e che non intende arroccarsi. Perché, la domanda che più di altre balena nella mente di chi legge è questa, ulteriore e più sottile forse di quelle, pur importanti, precedentemente esposte in queste righe: a chi può essere destinato questo volume? chi dovrebbe leggerlo? E qui rispondo subito, non lascio possibilità di speculazione o messa in discussione. Questo è e dovrebbe essere un libro per tutti, ma in primis dovrebbe far parte di una bibliografia essenziale e imprescindibile per docenti ed educatori, di giovani studenti, di genitori che educano i propri figli in Occiriente. Il lavoro che l’autrice svolge da anni va proprio in questo senso e cerca di conciliare studi e ricerche con la vita vissuta, reale e presente, trasformando questo intento in pratiche didattiche e di pensiero-azione, come sempre dovrebbe essere nella speculazione intellettuale. Tra queste pagine l’intento è reso vivo. Pepicelli mette sin da subito in chiaro la questione del posizionamento, sia il suo (infatti, nel prologo, parla in prima persona, da donna occidentale durante un viaggio in Asia) ma soprattutto quello che ognuno di noi assume, nel nominare e definire. Scrive infatti che “nominare luoghi e territori è un esercizio di posizionamento e di potere” per ricordarci come il potere sia spesso intrinseco, presente ovunque, e di come quello di definire sia stato e sia ancora, con costante frequenza, in mano all’Occidente e agli occidentali. Quando a descriversi e spiegarsi sono gli altri, gli orientali, chi è sempre stato dalla parte del potere vede le mappe capovolte – come nel caso delle rappresentazioni geografiche di al-Idrisi e la Tabula Rogeriana, espressione del mondo arabo-islamico del XII secolo – e non sempre riesce a fare lo sforzo, doveroso e decostruttivo, di concepire questi disegni del mondo come prodotti culturali, politici, storici, e non come assunti sempre uguali a loro stessi, immutabili e neutrali. La relazione tra Oriente e Occidente e, più in generale, tra Occidente e territori e culture colonizzate, è sempre stata impari e i dominanti hanno assunto, autoproclamandosi, il ruolo di civilizzatori e salvatori. Il “fardello dell’uomo bianco” è un modus operandi e una scuola di pensiero facilmente comprensibile se si guarda alla concezione della donna, in maniera particolare di quella musulmana. Il velo, le nudità, l’harem, sono elementi sempre presenti nella rappresentazione delle donne orientali e confermano quanto, con estrema frequenza e ovunque, il corpo delle donne diventi un campo di battaglia sul quale, nel caso specifico, si realizza e prende forma l’idea coloniale della superiorità occidentale. La donna orientale è oppressa, e dagli occidentali viene salvata per mezzo della civilizzazione che ella, fino a quel momento, non ha avuto la fortuna e la possibilità di conoscere ed esperire: in poche parole l’essenza stessa del colonialismo e della colonialità, ieri come oggi. Questa parte del libro è corredata da immagini esplicative, utilissime per comprendere a fondo il tema portante, ma anzitutto quanto le stesse (e non solo) abbiamo contribuito già nei secoli scorsi a creare un immaginario collettivo occidentale fortemente orientalista e coloniale. Il tema della donna islamica richiama immediatamente quello dell’Islam, fede religiosa che nei secoli ha rappresentato e rappresenta tuttora il perfetto alter ego della cristianità; anche in questo caso di una cristianità assunta a elemento unificatore dell’Europa, dell’Occidente e della cultura colonizzatrice, senza problematizzare in maniera critica questa supposta omogeneità, né tantomeno la presenza e la rilevanza dell’elemento islamico in Europa, sia ieri che, ancor di più, oggi. Culture e identità sono dunque mobili, plurime e in divenire, come ci mostrano presenze e soggettività di una qualsiasi aula scolastica italiana. Identità e sfumature che non si vogliono vedere realmente perché in quelle quattro mura, per molti troppo spesso anguste e limitanti, non sempre si vuole entrare. O meglio, l’accesso avviene, ma carico di omologanti idee di standardizzazione e assimilazione che di rado comprendono le reali esigenze di chi siede su quei banchi e, soprattutto, vive privazioni, discriminazioni, negazioni e silenzi. Come già accennato, il libro di Pepicelli sembra a tratti il giusto preludio alle Nuove indicazioni nazionali ma anche un efficace contraltare a volumi dai quali le stesse sono state ispirate, come Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo di Loredana Perla ed Ernesto Galli Della Loggia. La scuola proposta in Né Oriente né Occidente si pone difatti in netta contrapposizione con quella del momento – filogovernativa e ideologica – e intende agire prima di tutto sulle relazioni e sul senso di comunità, per poi farsi promotrice di una riforma dei contenuti didattici: revisione dei canoni autoriali, studio critico di colonialismo e decolonizzazione, storia delle migrazioni e di tutte quelle tematiche che mettono in risalto le pluralità presenti nella società e nella scuola, al fianco di quelle più conflittuali, finora poco affrontate proprio perché capaci di minacciare la presunta neutralità e omogeneità nazionali. Per concludere, l’operazione di Pepicelli appare senza dubbio ben riuscita e in meno di duecento pagine illustra il mondo nuovo, le sue origini e l’esigenza incontrovertibile di mettere al centro del dibattito pubblico la pluralità e complessità dei mondi identitari presenti. In tutti i luoghi pubblici e in maniera particolare nei contesti educativi. Perché è lì che si fa e si insegna l’Italia, se proprio vogliamo parafrasare indicazioni e dettami ora tanto in voga. Ma un’Italia occirientale, ça va sans dire. (sara rossetti)
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Videograms of a Revolution. Domani a Galleria Toledo per la rassegna A Fuoco!
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni) Domani mercoledì 23 aprile (alle ore 20:30 a Galleria Toledo) si terrà l’ultima proiezione della rassegna A fuoco! Il terzo film in proiezione sarà Videograms of a Revolution di Harun Farocki e Andrei Ujică. A seguire un testo introduttivo al film a cura di Francesco Migliaccio.  *   *   * Videograms of a Revolution di Farocki e Ujică recupera e monta materiali video realizzati fra il 20 e il 25 dicembre 1989 in Romania, gli ultimi giorni del regime di Ceaușescu. Gli autori partono da un archivio di 125 ore di girato, vario per tipologie di immagine. Ci sono video amatoriali di cittadini: gli sguardi scrutano prima dalle finestre o dai tetti dei palazzi, poi fluiscono nelle strade in rivolta. Altri video furono trasmessi in diretta dal canale televisivo nazionale, controllato dal regime socialista prima, dai rivoltosi poi. Ancora appaiono immagini riprese dagli operatori della televisione ma eliminate dalla diretta, oppure sequenze tratte dai fuorionda dove si prepara lo spettacolo. Infine ci sono immagini trasmesse in differita, come le scene che ritraggono gli ultimi momenti di vita del dittatore e della moglie poco prima di essere fucilati. I materiali sono commentati da una voce fuori campo protagonista all’inizio, poi sempre più marginale. Incalza il montaggio e sullo schermo appaiono le manifestazioni contro il governo, l’ultimo discorso del dittatore, l’assalto della folla al Comitato Centrale e alla sede della televisione, i discorsi alla nazione del nuovo potere, gli scontri a fuoco fra l’esercito ormai sostenitore della rivoluzione e fantomatici rimasugli di combattenti fedeli a Ceaușescu. Si vede in una sequenza la piazza antistante al Comitato Centrale di Bucarest. Un operatore si trova in un furgoncino che giunge veloce e suona con veemenza per avvertire i manifestanti. La folla si sposta per lasciare libero il passaggio: è il mezzo della televisione e la diretta sta per raggiungere il cuore della sommossa. Un altro operatore riprende la scena da lontano, in posizione sopraelevata. Ecco il furgoncino che procede fra la folla. Una voce dall’altoparlante afferma: «Fate spazio alla Televisione. Spostatevi! L’esercito è con voi. Il popolo è l’esercito. Fate passare i mezzi della tv, così tutto il paese vi potrà vedere! Arriveranno dei generatori e dei riflettori, trasformeremo la notte in giorno, su questa piazza, in questa città rimasta al buio per tutto questo tempo». Prima del crollo delle Torri Gemelle, e prima ancora del conflitto in Iraq, un evento storico epocale si è trasformato in diretta televisiva. E questo è stato possibile perché gli insorti non hanno conquistato soltanto le sedi del governo, ma anche l’edificio della televisione statale: una nuova, spettacolare Bastiglia. Il montaggio suggerisce costanti cambi di prospettiva. Vediamo prima la diretta ufficiale, poi i fuorionda e ancora le strade in subbuglio osservate dalla camera di un manifestante. Questa variazione degli sguardi sfata la coesione dello spettacolo e risveglia lo sguardo critico, ma solo in parte. In una sequenza straordinaria un operatore amatoriale riprende il televisore in salotto ed ecco nel piccolo schermo appare Ceaușescu in diretta impegnato per l’ultima volta sul pulpito, poi il polso si muove e l’inquadratura sfiora le tende, i termosifoni, gli infissi della finestra e infine si affaccia in strada dove le persone, spaventate dai moti di protesta, si allontanano dalla piazza del discorso presidenziale. Questo movimento rivela una verità inquietante: per quanto il montaggio rompa la continuità della rappresentazione e moltiplichi i punti di vista, ogni immagine proviene da una realtà integrata dove sembra non esistere più uno scarto fra il mondo e le immagini del mondo. Nulla è fuori dallo spettacolo ed esso si può moltiplicare in innumerevoli prospettive. Alla fine del film si vede una sala in penombra dove importanti notizie stanno per essere annunciate dal televisore. Persone sono in piedi in trepida attesa, seduti stanno alcuni operatori con le macchine da presa rivolte allo schermo. La voce che commenta torna a parlare dopo un lungo silenzio: «Le telecamere […] aspettano che lo schermo mostri le immagini dell’unica telecamera che ha accesso all’evento. Telecamera ed evento. Sin dalla sua invenzione, il cinema sembrava destinato a rendere visibile la Storia. Poteva rappresentare il passato e mettere in scena il presente. Abbiamo visto Napoleone a cavallo e Lenin in treno. Il cinema è stato possibile proprio grazie alla Storia. Senza accorgercene, come in balia dell’anello di Moebius, abbiamo girato lo sguardo. Guardiamo e siamo pronti a riflettere: se il cinema è possibile, lo è anche la Storia». In Videograms of a Revolution il montaggio non distrugge il flusso dell’immagine che crea l’evento, non può più averne la forza, ma si limita a distorcerlo affinché possa sorgere almeno, nello spettatore, una consapevolezza. Sappiamo che nel primo giorno di battaglia nella rivoluzione del 1830 in molti luoghi, “indipendentemente e nello stesso tempo”, si sparava “contro gli orologi delle torri”. Si interrompeva il tempo della produzione, o della storia. Forse, la prossima volta, ci sarà da interrompere le trasmissioni. (francesco migliaccio)
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La parola della settimana. Fake
(disegno di ottoeffe) Avevamo una gag, con El Trinche Carlovich, che prendeva un po’ in giro Nicolao Dumitru, giocatore del Napoli nel 2010-11. In realtà la gag era sull’incontentabilità del tifoso partenopeo che, spazientito per le prestazioni del calciatore, se la prendeva con lui a ogni occasione, chiedendogli più sfrontatezza quando lo vedeva timido e diligente in campo, e più umiltà non appena il povero Dumitru tentava una giocata. Questo atteggiamento provocava crisi di identità al ragazzo, fino a fargli chiedere all’allenatore di tenerlo in panchina (vero è che a fine stagione Dumitru andò via da Napoli e non combinò più nulla in carriera) Quella gag diventò uno dei migliori pezzi tra i fake che di tanto in tanto ci divertiamo a pubblicare, talmente riuscito che il procuratore o l’avvocato, ora non ricordo, del calciatore, ci mandò una mail intimandoci di rimuoverlo (una cosa simile successe anche con uno dei nostri bersagli preferiti, lo scrittore Maurizio De Giovanni; per questo articolo Bassolino e i suoi si divertirono invece parecchio). Più divertente ancora, fu che il pezzo su Dumitru – confuso dai più per una vera intervista – cominciò a girare sui siti web dedicati al Napoli, dando vita a un dibattito tra tifosi che riproponeva gli stessi atteggiamenti su cui noi credevamo di scherzare. (screenshot dal forum di partenopeo.net) Nel 2023 il Napoli vinse lo scudetto con largo anticipo. Travolti dal fiume di retorica che scorreva tra le pagine dei quotidiani, decidemmo di pubblicare un intero giornale fake. Ancora una volta, i più distratti lo scambiarono per una cosa reale. In questi anni ho imparato a fare tutto: ho scritto libri e racconti, ho mostrato il calcio e la politica, sono stato dalla parte dei deboli e ho girato spot per gli Agnelli e film commissionati da Hollywood. Ma sono rimasto il ragazzo con l’orecchino che non ci credeva che “solo ‘e strunz’ vanno a Roma”. Sono andato e tornato, di nascosto, tanto che una notte di due anni fa un barbone davanti al centro Paradiso, stupito nel vedermi piangere e baciare un santino di Ciccio Romano, mi disse: “M’a vuo’ ra’ ‘na sigarett’?”. Va così, quando mi perdo e la mente vaga. Torno nel mio film. C’è Silvio Orlando che scrocca le partite sul pezzotto; c’è Bentivoglio che interpreta De Laurentiis e sale sul motorino di un passante gridando: “Siete delle merde!”; c’è Morgan Freeman in un flash forward metaforico su Osimhen da vecchio, che spezza le sue catene e cammina sul prato del Paradiso circondato da fenicotteri che no, non so che cazzo vogliono dire, ma comunque ce li devo mettere. (paolo sorrentino, il mio film tricolore in: la gazzella dello sport) In napoletano c’è una parola che, come l’inglese fake, vuol dire molto di più di “falso”. “Pezzotto” è la app pirata che ti permette di vedere le partite pagando un quarto del costo di Sky e Dazn (già negli anni Novanta esistevano le “schede pezzottate” di Stream e Tele+); “pezzottati” erano i vestiti di marca simili all’originale ma cuciti chissà dove e smerciati nei mercati di strada (oggi il termine è passato di moda a favore di “paralleli”); “pezzotta” è una ragazza bassina e dal carattere forte, “pezzotto” era il cd masterizzato con l’ultimo album di Tizio o Caio o il gioco appena uscito per la Play Station, ma anche la zeppa che si infila sotto a un tavolo o un mobile traballante, o una persona che cerca di imitare altri senza successo. Compa’ si bell’ comme ‘a sta palla e leccame ‘a caramella che tengo acopp’. ‘O vero mast’ ‘e festa, ‘o peggio guastafeste p’e pezzott’, vengo aropp’ l’otto pecchè song’ ‘o guaje ‘e notte. […] Chesta è ‘a ricett si sì ‘nu favez’ MC, siente e statte: uno, doje, tre e quatte! Chiste so’ ‘e nummere e accussì va ‘o fatto, ‘ngopp’ ‘o beat spaccamm’ ‘o pezzotto: cinche, sei, sette e otto! (la famiglia; uno, due, tre e quatto) Donald Trump ha respinto in settimana la richiesta di un giudice di fornire informazioni sulla sorte di un migrante erroneamente deportato in El Salvador. Kilmar Abrego Garcia è stato arrestato il 12 marzo da agenti della polizia dell’immigrazione e deportato con altre duecentocinquanta persone circa, ritenute appartenenti a gang che il governo ha equiparato a organizzazioni terroristiche, utilizzando una legge che gli consente di farlo in caso di guerre o invasioni. La cosa più inquietante (oltre al fatto che questa storia non è troppo diversa da quanto accade in Italia) è che in America sta succedendo un casino per questo poveraccio che non ha nulla a che vedere con la criminalità, ma nessuno mette realmente in discussione quella che è una vera deportazione in violazione totale dei diritti umani, basata peraltro su una serie infinta di fake news. Tanti americani – ma in realtà è un’impostazione, questa, condivisa da opinioni pubbliche e governi di ogni paese, quando si parla di mafiosi, camorristi, stupratori – pensano semplicemente che essendo questi uomini terroristi, sia lecito somministrargli qualsiasi tortura usando qualsiasi metodo.  . I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per sapere […]: 1) se il Governo sia a conoscenza del fatto che, nel corso dell’interrogatorio del 2 febbraio 1982 di fronte al sostituto procuratore della Repubblica di Verona, il terrorista Cesare Di Lenardo, arrestato nella base di via Pindemonte a Padova (dove le Brigate rosse tenevano sequestrato il generale della Nato, James Lee Dozier), avrebbe dichiarato di essere stato sottoposto a tortura: bruciatura su una mano, tagliuzzamenti ai polpacci delle gambe, scosse elettriche ai testicoli, rottura di un timpano, finta fucilazione in aperta campagna, percosse, denudamento, forzato ingerimento di acqua e sale, eccetera; […] 3) se il Governo sia a conoscenza del fatto che, sui fatti denunciati, la procura della Repubblica di Padova […] ha aperto una inchiesta giudiziaria […] 4) se il Governo non ritenga che quanto sopra esposto […] contrasti totalmente con le sue smentite, tanto più essendo stati smentiti fatti di tale natura anche specificatamente e nominativamente in relazione al caso del terrorista Di Lenardo; 5) se il Governo non ritenga doveroso rettificare, di fronte alla Camera, le affermazioni non vere fatte nel corso della seduta del 15 febbraio. (boato, bonino, pinto, mellini; interrogazione alla camera dei deputati del 22 marzo 1982) (immagine da: les complotistes) Un’amica mi ha regalato qualche settimana fa un fumetto francese dal titolo Les Complotistes, facendo riferimento alla mia tendenza a vedere ovunque inganni, insidie, falsi amici e profeti (va detto che il novanta per cento delle volte il tempo mi dà ragione). Mi ero quasi offeso nel leggerlo, sentendomi accostato a terrapiattisti e company, poi per fortuna il libricino, e la mia amica, si sono salvati all’ultima tavola, quando gli autori ci fanno capire che il problema in fondo non sono le scie chimiche e i cerchi nel grano, ma il capitalismo.  (a cura di riccardo rosa)
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Cartografie del terzo settore e della innovazione sociale a Torino #5. Almaterra
(disegno di adriana marineo) Per circa un anno, alcune ex-lavoratrici dell’associazione Almaterra, insieme ad altre lavoratrici del terzo settore, hanno portato avanti una mobilitazione contro le condizioni di sfruttamento nel settore sociale. La contestazione contro Almaterra è nata quando alcune operatrici hanno deciso di portare alla luce un episodio di aggressione e ritorsione nei confronti di una collega, a cui hanno fatto seguito licenziamenti ed estromissioni dall’organo associativo. Le ex-lavoratrici hanno iniziato una vertenza, chiedendo quello che spetta loro per gli straordinari non pagati e imposti come volontariato obbligatorio e il riconoscimento del reale inquadramento contrattuale. Dando seguito a precedenti assemblee pubbliche per discutere il tema del lavoro sociale in città, l’11 febbraio un presidio di fronte al tribunale ha portato solidarietà alle lavoratrici in occasione della prima udienza, con l’associazione chiamata in giudizio a causa dei licenziamenti impiegati come ritorsione e quindi ingiustificati. Poi, il 5 marzo, un presidio si è radunato davanti alla sede della Compagnia di San Paolo per raccontare il ruolo che questo ente gioca nella trasformazione del terzo settore in uno strumento di profitto e controllo. Questi momenti sono stati un’occasione per condividere le proprie esperienze e gli strumenti possibili per costruire una lotta. *   *   * Almaterra è un’associazione del terzo settore di Torino che si presenta come “un’associazione di donne femministe e transfemministe di diversi paesi”. Il Centro interculturale delle donne Alma Mater, situato presso un ex edificio scolastico, nacque su iniziativa di un gruppo di donne riunitesi a partire dal 1990 e fu inaugurato nel dicembre del 1993: oggi è gestito dall’associazione, istituita nel 1994 proprio a tale scopo. Nata all’interno della tradizione femminista, Almaterra a oggi lavora su progetti interculturali dedicati all’empowerment femminile, all’accessibilità al mercato del lavoro e all’inclusione sociale e culturale delle donne, occupandosi di questioni di genere e violenza di genere. L’associazione offre un’ampia gamma di servizi dedicati alle donne e alle soggettività femminili: corsi di alfabetizzazione, sportello di orientamento sociale, sportello lavoro, sportello psicologico, consulenza legale, ludoteca, mensa, uno sportello di segreteria e altro. Inoltre promuove un insieme di progetti che includono sia attività interne al Centro sia azioni esterne, realizzate attraverso collaborazioni e convenzioni con istituzioni ed enti, pubblici e privati, a livello locale e non solo. Tra questi attualmente si annoverano un’unità di contatto per sexworkers e vittime di tratta; un progetto dedicato alle diverse forme di fragilità sociale e rivolto alle circoscrizioni 5 e 6 della città, di cui è capofila Arci Torino; e alcuni progetti correlati all’emergenza abitativa, tra cui un social housing che offre una sistemazione temporanea a seguito della perdita della casa.  Almaterra è sostenuta dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dalla Regione Piemonte, dalla Città di Torino e da UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali), oltre che da una serie di attori privati tra cui spiccano la fondazione Compagnia di San Paolo e la fondazione CRT. L’associazione è inoltre un ente accreditato per il Servizio Civile Universale e accoglie giovani partecipanti al servizio civile, avvalendosi del loro contributo, oltre che di una più ampia attività di volontariato, definita da Almaterra stessa “il cuore pulsante della associazione”.  Nel 2023, Almaterra ha partecipato al bando Next Generation You promosso da Compagnia di San Paolo, un bando volto a promuovere tra le realtà del terzo settore strumenti gestionali e economici più efficienti, attraverso la definizione di ruoli interni ben circoscritti, organigrammi, processi decisionali definiti e verticistici: in pratica un processo di aziendalizzazione del lavoro sociale. Le associazioni che accedono ai finanziamenti di questo bando sono tenute a rispettare rigide linee guida, simili a quelle imposte dagli istituti bancari, e a conformarsi a criteri di efficienza, produttività e sostenibilità economica tipici del settore privato. Le realtà del sociale sono così spinte a uniformarsi a una condotta operativa che di fatto incrementa la standardizzazione delle pratiche e rafforza le dinamiche di controllo e subordinazione nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici, così come nei confronti delle persone beneficiarie dei servizi. Di pari passo con la ridefinizione in chiave sempre più orientata al profitto, le lavoratrici di Almaterra hanno registrato all’interno dell’associazione condizioni di forte stress lavorativo, carichi di lavoro eccessivi senza alcun aumento della retribuzione, l’imposizione del volontariato come obbligatorio, finanche episodi di prevaricazione nei loro confronti. Le condizioni di inquadramento e di retribuzione per loro erano quelle di contratti precari e a tempo determinato, con compensi forfettari a cadenza trimestrale posticipata, e contratti firmati a posteriori. Erano inoltre inquadrate con contratti di co-co-co, pur a fronte della richiesta effettiva di una presenza invece costante, de facto full time, e pur essendo investite di mansioni di responsabilità e di coordinamento. Nel febbraio 2024 Almaterra interrompe il contratto di una lavoratrice in seguito a un episodio nel quale la stessa ha preso le difese della cuoca della mensa durante una lite con un’amministratrice dell’associazione, ed è stata da quest’ultima aggredita verbalmente e fisicamente. In seguito alcune colleghe, che palesano la loro solidarietà alla lavoratrice, ed esprimono la necessita di risolvere i contrasti interni all’ente, a loro volta sono estromesse dal lavoro.  Nel suo sito web Almaterra si richiama a valori quali “il rispetto, l’accoglienza, la solidarietà e la dignità umana” e dichiara “l’intenzione di contribuire alla decostruzione dei pregiudizi e alla costruzione di comunità”. L’associazione si presenta come inclusiva e attenta alle discriminazioni, fornisce un’immagine che deve passare all’esterno, ma è notevole il contrasto con la realtà interna mostrata da questi fatti. Sotto la veste del lavoro di cura si riproducono meccanismi di oppressione. Anche nei confronti dei beneficiari dei servizi, a dispetto della immagine proposta, le lavoratrici testimoniano di atteggiamenti discriminatori e infantilizzanti, di logiche premiali e orientate al disciplinamento delle persone che si rivolgono all’associazione e la attraversano. La narrazione di Almaterra appare quindi come un’appropriazione dei valori e del linguaggio dei movimenti sociali e dei contesti di cura: parole come “accoglienza”, “inclusione”, “empatia” vengono utilizzate per costruire un’immagine positiva, forse utile per attirare soggetti (possibili volontari) animati da determinati valori, ma nella sostanza si legittimano nuove forme di precarietà e disciplinamento. Il caso di Almaterra mette in luce caratteri comuni a tutto il terzo settore: il carico sui lavoratori e le lavoratrici di grandi responsabilità, il ricatto del rinnovo contrattuale, la richiesta di reperibilità continue e disponibilità al sacrificio a fronte di “una buona causa”. La strumentalizzazione della volontà di aiutare il prossimo si concretizza spesso, per di più, senza che venga fornito il dovuto supporto psicologico in caso di situazioni emotivamente destabilizzanti e senza i dovuti riconoscimenti a livello di retribuzione e tutele del lavoratore. A partire dalle rivendicazioni e dalle voci coraggiose delle lavoratrici di Almaterra, si apre forse uno spiraglio per uno sguardo, una lettura e un discorso critici sul lavoro sociale in città, e per una analisi critica dei suoi attori. (voce a cura di stefania spinelli) _______________________________ QUI L’INDICE DELLA CARTOGRAFIA
torino
Dalla Turco-Napolitano ai centri in Albania. Breve storia dei Cpr
(archivio disegni napolimonitor) L’11 aprile quaranta migranti sono stati trasferiti da centri di permanenza per il rimpatrio italiani a uno dei centri di detenzione amministrativa di Gjadër, in Albania. Da alcune testimonianze si è evinto che i migranti sono stati legati per tutto il viaggio e la fase di sbarco con fascette ai polsi, compresi i momenti dei pasti e di utilizzo dei servizi igienici (pratica rivendicata orgogliosamente dai ministri Piantedosi e Salvini).   Poco dopo l’arrivo in Albania i detenuti si sono organizzati e hanno avviato una protesta. L’Ansa ha comunicato che dopo queste proteste dieci dei quaranta migranti sono stati reclusi nel carcere del centro, sotto il controllo della polizia penitenziaria. Qualche ora dopo il Viminale ha smentito, senza tuttavia diffondere altri elementi.  L’operatività della prigione mascherata per migranti richiedenti asilo, esternalizzata in Albania su iniziativa del governo Meloni, è finora rimasta inattuata a causa dello stop da parte dei tribunali italiani. Nonostante le dichiarazioni ufficiali, ostacoli giuridici hanno bloccato l’avvio dell’operazione, in particolare relativi alla compatibilità di questa misura con la normativa europea. I centri “delocalizzati” sono l’emblema del trattamento differenziato riservato alle persone migranti, come ha sottolineato l’Asgi. Per “risolvere” il problema giuridico, il governo ha approvato un decreto, il 28 marzo, trasformando quei centri in Cpr. Da tempo, d’altronde, il ministro Piantedosi sostiene la necessità di allargare la rete dei centri di permanenza per il rimpatrio, e il trasferimento a Gjadër rappresenta un ulteriore colpo al diritto delle persone migranti, isolate con la deportazione in Albania ancora di più, e con una minore possibilità – per esempio – di entrare in contatto con i rispettivi legali.  Il sistema della detenzione amministrativa illustra perfettamente il rapporto che intercorre tra dinamiche di repressione dello Stato e l’accumulazione di profitto da parte dei privati. Sebbene le strutture siano finanziate dal governo, la loro gestione è affidata a cooperative e aziende, guidate esclusivamente dall’obiettivo della massimizzazione dei guadagni. Nati nella forma di Centri di Permanenza Temporanea (Cpt) nel 1998, gli attuali Cpr sono diventati simbolo di sofferenza quotidiana, abusi sistematici e violazioni dei diritti umani protratte in un tempo lunghissimo. Se la legge Turco-Napolitano aveva previsto che i migranti irregolari potessero essere trattenuti per un periodo massimo di trenta giorni, ben presto la durata di questa detenzione venne aumentata. Con la legge Bossi-Fini (governo di centrodestra) del 2002 venne estesa a sessanta giorni, mentre il decreto Minniti-Orlando del 2017 (governo di centrosinistra) trasformò i Cpt in Cpr, innalzando la durata a novanta giorni. Nel 2018, il decreto Sicurezza firmato da Matteo Salvini la aumentò ulteriormente a centottanta, riducendo nel contempo le possibilità di regolarizzazione attraverso la protezione umanitaria. Infine, nel 2023, il governo Meloni ha innalzato la durata della detenzione fino a dodici mesi anche per i richiedenti asilo (oltre a siglare l’accordo di cui sopra con l’Albania). Le sofferenze patite dai migranti nei centri italiani sono state ampiamente provate negli anni. Sovraffollamento, carenze igienico-sanitarie, cibo di scarsa qualità, uso indiscriminato di psicofarmaci sono solo alcuni tra questi. I farmaci vengono utilizzati in grande quantità e senza consenso del “paziente”, non solo per “gestire” il malessere psicologico ma anche per sedare la tendenza a protestare, naturale in quelle condizioni. Numerose sono le testimonianze di migranti che hanno sviluppato dipendenze o subito danni permanenti a causa di trattamenti farmacologici imposti, senza alcun supporto o cura adeguata. Anche le morti, per suicidi indotti dalla prigionia, sono tristemente note. Della storia di Wissem Ben Abdel Latif questo giornale si è occupato e si continua di occupare da tempo. Nel 2022 un’inchiesta è stata aperta nei confronti di un medico del Cpr di Ponte Galeria per la morte di Mustafà Fannane, con l’accusa di avergli somministrato trattamenti inadeguati. Ousmane Sylla e Moussa Balde, invece, si sono tolti la vita nei Cpr rispettivamente di Ponte Galeria e Torino (una delle strutture più infami). Belmaan Oussama è morto nel Cpr di Palazzo San Gervasio nel luglio 2024, mentre Aziz Tarhouni ha più volte tentato il suicidio, in uno stato di estrema sofferenza psichica, mentre era detenuto a Trapani-Milo. (luna casarotti)
migrazioni
detenzioni
Seppelliamo l’università (prima che lei seppellisca noi)
(disegno di martina di gennaro) Quello per un maggiore finanziamento dell’università pubblica italiana è senza dubbio uno dei tanti ritornelli che hanno compiuto la maggiore età riecheggiando nelle piazze italiane. Praticamente a vuoto: se c’è stata infatti qualche controtendenza al più generale trend di tagli alla spesa per la ricerca, è stato più per unicum occasionali (come le borse Pnrr post-emergenza Covid) che per la spinta arrivata dai movimenti di lotta. Tranne rare eccezioni, a scandire la richiesta sono sempre quelli che, eventualmente, ne trarrebbero giovamento in termini di assunzione (quella categoria di precari che restano fuori per un pelo dai meccanismi della cooptazione). A manifestarsi, anche a questo giro di boa, infatti, sono stati quasi solo l’attuale generazione di dottorandi, gli assegnisti e qualche ricercatore più agée. Pochissime voci si levano dai palazzi dorati dei baroni, dei loro coscritti e delle anime pie, e ne è una prova tangibile il sostegno della Conferenza dei rettori (Crui) al colpo di grazia targato Anna Maria Bernini. Men che meno protesta la base di giovani ricercatori che in questo quarto di secolo hanno transitato per l’accademia italiana, rimanendone tagliati fuori circa il novanta per cento di quelli che la tentano, cioè circa novemila dei diecimila dottorandi annui (di questi, il quattordici per cento circa ha intrapreso un esodo che li ha portati nelle università estere, mentre gli altri hanno trovato sbocchi in professioni diverse: il venti per cento, per esempio, ha ripiegato sull’insegnamento nel sistema scolastico). Queste persone sono felicemente uscite dal sistema torbido dell’università, fatto di ricatti, vessazioni, angherie, battaglie fra correnti, favoritismi, nepotismi e un livello qualitativo sempre più basso. Ben quattro su dieci non ripeterebbero l’esperienza del dottorato (dato Istat, 2018) tanto che viene da pensare che forse è anche in ragione di questo che non arriva, da loro, alcun invito a un ripensamento, né alcun appello a favore dei finanziamenti per la ricerca. Eppure farebbe la differenza, se oltre duecentomila ex-dottorandi (a fronte di centotrentamila strutturati accademici) lottassero per migliorare gli investimenti pubblici per quello che, nei loro anni migliori, hanno pensato potesse essere un modo utile di stare al mondo. Da questo dato di partenza andrebbe forse analizzata la condizione attuale di una battaglia che, nella sua perenne ricorsività, rischia di perdere a ogni giro credibilità e richiamo. Se a difendere l’idea di aumentare i finanziamenti all’attuale università è soprattutto chi ne avrebbe un diretto interesse, l’alveo all’interno del quale ci muoviamo diventa quello di una lotta meramente sindacale, una lotta, cioè, fatta per migliorare le condizioni di chi è già dentro o che, al massimo, a questo mondo gira un po’ intorno. Non che questo sia sbagliato, anzi: riconoscerla in questi termini permetterebbe probabilmente un cambio di strategia che forse la renderebbe efficace. Ma così non va. La richiesta di aumentare i finanziamenti alle università pubbliche, infatti, è sempre accompagnata da ragionamenti ideologici di pretesa di universalistica. Si cerca di argomentare rispetto al ruolo del sapere come strumento di crescita della società, o di convincere della necessità di investire nella ricerca per migliorare l’innovazione. Battaglie sacrosante, che dovrebbero trovare anzi ben più ampie alleanze sociali. Se solo fossero vere. Se cioè, davvero, l’università servisse a contribuire, anche per una piccola parte, al servizio pubblico cui pretende di farsi carico. Ancora: se fosse davvero tangibile queto presunto ruolo virtuoso dell’università nei processi democratici, nell’innovazione, nella produzione di conoscenza pubblica, il tema riguardante il suo futuro non travalicherebbe forse gli asfittici cortili delle facoltà? Resta da chiedersi quali siano i motivi per cui l’università ha perso la sua vocazione, e quindi anche la sua funzione. La colpa è forse della burocratizzazione che schiaccia la vita lavorativa degli accademici? Della perenne competizione cui sono costretti i gruppi di ricerca per praticare la loro sopravvivenza? Che abbia colpa un modello intrinsecamente disciplinare e incapace di trasformarsi per rispondere alle sfide dell’oggi? Che la responsabilità risieda, ancora, nei meccanismi di cooptazione che asfissiano il ricambio basato sul merito, incorporando personale sempre meno capace e libere? Probabilmente, la risposta è nella somma di tutte queste e molte altre cose. Il fatto centrale, tuttavia, è che non possiamo più ignorare il gap che c’è tra società e università, quella distanza che isola e fa riecheggiare nel vuoto la richiesta di adeguare, per esempio, i finanziamenti agli standard europei. Continuare a raccontare che possiamo spegnere l’incendio con un arredamento rinnovato, mentre fuori brucia l’intera città, non è utile alla causa, e venticinque anni di progressivo isolamento dovrebbero contribuire a farci venire il dubbio. Davvero si crede possibile che in un contesto in cui il disinvestimento pubblico colpisce direttamente la vita del paese, nei crudi termini materiali di infrastrutture scolastiche, mediche, di mobilità e trasporti, di tenuta dei territori ai disastri ambientali e idro-geologici si possano stringere alleanze, e pretendere  di mettere la salvaguardia dell’università tra le priorità delle lotte sociali? Allo stesso modo: si crede davvero che raggiungere standard di finanziamenti di livello europei contribuisca ad avere migliori università? Naturalmente non si tratta di buttare al fiume il bambino con l’acqua sporca. Siamo tutti consci di piccole ma importanti sacche di resistenza, che con salti carpiati ed esercizi faticosissimi mantengono viva l’eredità della via italiana. Ma se parliamo di una crisi sistemica, con danni alle fondamenta, non possiamo di certo cullarci sulle rare riserve indiane delle “eccellenze”. Ciò che dovremmo piuttosto fare è forse prendere atto della portata della sfida e contribuire a smantellare l’attuale ordine delle cose. Se il sistema è irriformabile, non lo sono le ragioni che gli hanno dato vita e l’hanno fatto esistere fino a oggi.  Non esistono scorciatoie: dobbiamo immaginare le universitas del domani, una evoluzione di quella di oggi che, agonizzante, muore. Rimanere aggrappati a piangerla e implorare i medici perché possa respirare altri cinque minuti sta facendo sfuggire di mano l’occasione di vederne rinascere i principi fondativi. Gli Stati Uniti sono i precursori dei peggiori trend che, a scalare toccano gli altri paesi occidentali, che prontamente gli vanno a ruota. Tra gli obiettivi dell’amministrazione Trump, in continuità con le tendenze già intuite dalle forze di mercato, c’è la definitiva distruzione dell’università americana e la sua trasformazione in fondazioni private che con quei meccanismi (di mercato) funzionino. La destra ha colto, in America, la crisi dell’università, e la sua separazione dalle necessità del corpo sociale per minarne i principi fondativi; per mettere in dubbio, cioè, l’idea che il sapere e la scienza siano strumenti utili al miglioramento delle condizioni della specie umana. Stanno distruggendo l’università per trasformarla in uno strumento al servizio del mercato, approfittando della crepa aperta con la società per trarne vantaggio. La destra mondiale sta dimostrando di avere, su questo come in altri campi, la carta vincente di volere immaginare il futuro. A differenza dei progressisti-liberali lavora ancora agli immaginari, piuttosto che aggrapparsi al mantenimento dello stato di cose presenti. Così è riuscita a concepire il superamento dell’università, chiaramente a favore degli interessi di mercato. E la sta praticando con misure draconiane.  Se le forze trasformative non si faranno carico di una capacità immaginativa all’altezza soccomberanno sotto gli stessi colpi, e l’unica differenza con gli Usa sarà nella tempistica: ci vorrà un po’ più di tempo per picconare una istituzione millenaria, elitaria e ancora molto radicata nella cultura europea, ma quel giorno arriverà, magari sull’onda di altre urgenze come un riarmo qualsiasi. Il solco è tracciato, e se non saremo capaci di cambiargli verso, ci resteremo seppelliti dentro. (lori sodo)
italia
La memoria della voce. Studs Terkel, l’intervista, la storia orale
(disegno di cyop&kaf) Durante il corso di scrittura che teniamo in questo periodo in redazione, per parlare di interviste e storie di vita ci è capitato di rispolverare un vecchio articolo uscito quando facevamo un piccolo festival dal titolo “Chi racconta la città”, ai tempi del mensile cartaceo. Dentro ci sono due persone che ci hanno insegnato molto e a cui vogliamo bene: Sandro Portelli, che parla di Studs Terkel. Abbiamo pensato che, oltre che ai partecipanti al corso, andava riproposto a tutti. Potete leggerlo qui di seguito. *     *     *  Se domandare, come ascoltare, sono pratiche che s’imparano assecondando una cocciuta curiosità, il confronto con chi ne ha fatto ragione di vita diventa il momento di riflettere sul come e sul perché. Animare gli spazi consueti con la differenza, seguire altre voci e percorsi, disporsi davanti ai metodi della ricerca con spirito critico. Alessandro Portelli, professore di letteratura angloamericana alla Sapienza di Roma e storico orale, è approdato da giovane negli Stati Uniti, c’è rimasto impigliato, tra andate e ritorni, per trent’anni, raccogliendo storie dalla viva voce di un’affollata assise d’individui: rappresentanti sindacali e outsider, celebrità e gente comune, minatori e reverendi; e il frutto di questa lunghissima discesa nel ventre americano, oltre che nei numerosi volumi già pubblicati, trova sistemazione nel libro America Profonda, due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky. Il lavoro di gambe – leg work in gergo – non l’ha stancato, e qui racconta come sia possibile unire gambe, voce e orecchie nel fare ricerca sulle fonti orali, prendendo le mosse dalla storia di Studs Terkel, leggendario giornalista radiofonico americano che per mezzo secolo ha fatto parlare Chicago e con lei l’America intera, pubblicando libri letti da generazioni. «Una delle mie medagliette è quella di aver fatto un seminario annuale di letteratura su Studs Terkel nel 1983-84. Di letteratura per due ragioni. Intanto perché è la materia che insegno. E poi perché i libri di Terkel sono degli straordinari libri di narrazioni, delle raccolte di racconti. Al centro del suo lavoro sta essenzialmente la parola. Terkel è un giornalista e non ha mai preteso di essere altro, però è un giornalista che ha lavorato sempre fuori dai parametri e dalle prospettive a brevissima scadenza che si dà il giornalismo. Studs Terkel nasce all’inizio degli anni Venti, e viene identificato quasi interamente con la città di Chicago. Egli è stato per molti anni un giornalista radiofonico, e questo spiega molte cose, perché non è solo la parola che noi troviamo nei suoi libri, ma anche e soprattutto la voce. La voce, essendo la trasmissione in diretta, comporta un elemento di relazione con il tempo e con la performance che è al centro della comunicazione orale. L’oralità radiofonica è un evento prima di diventare un testo. Qualche tempo fa c’è stato il cinquantesimo anniversario della terza rete radiofonica, e mi hanno chiesto di partecipare, io ho detto che a me piace la radio perché le persone si ascoltano tra loro, a differenza di quello che vediamo in televisione. Alla radio se due persone parlano contemporaneamente non si capisce niente. La radio è un medium che impone un minimo d’educazione, di buone maniere. Quel che è importante è il rapporto col tempo: tu aspetti che l’altro abbia finito di parlare, e se tu aspetti vuol dire che l’altro ha il tempo di parlare. È questa la caratteristica che la radio, così come praticata da Studs Terkel, non ha in comune con la televisione: l’offerta, a chi veniva intervistato, di avere tutto il tempo che riteneva necessario per raccontarsi. Terkel sapeva usare il tempo, predisponeva all’ascolto e così facendo ha costruito un pubblico di destinatari capaci di ascoltare. «Un altro elemento che lo caratterizza, e che risalta nei suoi libri, è la capacità che aveva di far venire fuori sempre il meglio dalle persone con cui parlava. Prendete il suo libro sulla razza, Race, è un libro straordinario, uno dei libri migliori su questo argomento usciti in America. Però, in un libro sulla razza, lui intervista il leader del Ku Klux Klan e riesce a farci avere la sensazione che il leader del Ku Klux Klan non sia un mostro come persona, cosa che se ci stiamo bene attenti è più preoccupante, perché ci suggerisce quello che abbiamo in comune con il leader del Ku Klux Klan, quindi ci dice anche “stai attento a te”. È fondamentale questa capacità di darci un messaggio complessivo di fiducia nell’intervistato. Questa mi sembra una delle chiavi di Terkel, la capacità di accettare l’altro, di accettarlo nel senso di riconoscerne la presenza, riconoscerne il racconto e dirci che vale la pena starlo a sentire. Ciò non significa essere traditori, le distanze sono sempre molto chiare, ma significa prendere atto del diritto dell’altro a esistere e del fatto che le società di cui parliamo sono fatte della presenza anche dell’altro. «Hard Times esce a metà dei Settanta e scatena una discussione da cui prende le mosse un cambiamento di paradigma nell’ambito della storia orale. In Hard Times, Terkel  cerca di raccontare in più di cento voci l’evento più problematico della storia americana del ventesimo secolo, che è la grande depressione. Il tipo di discussione che all’epoca si apre su Hard Times è questo: noi abbiamo ascoltato cento voci sulla depressione ma in che misura questa straordinaria virtù di accettazione che Terkel esprime nei confronti delle persone con cui parla ci deve indurre a prendere per buono, acriticamente, il loro punto di vista. Ed è su questo che si apre un dibattito con Michael Firsch, che nasce come storico urbano e si ricicla poi come storico orale proprio a partire dalla discussione con Terkel, e pone il problema di come, nel fare storia con le fonti orali, forse bisogna fare un lavoro in più. E questo a me sembra assolutamente vero, però i testi di Terkel sono un’altra cosa, non sono un’elaborazione di riflessione storiografica, sono uno straordinario mosaico di autorappresentazioni. In un altro libro bellissimo, Working, c’è l’autorappresentazione del senso del lavoro, con una narrazione in certi momenti quasi lirica, tant’è vero che Working è stato trasformato in un musical, e James Taylor ha fatto da una di queste interviste una meravigliosa canzone. «La domanda è: gli anni Trenta che escono da Hard Times sono gli anni Trenta come sono stati o come ce li rappresentiamo? Su questa tensione gioca gran parte della riflessione contemporanea sull’uso delle fonti orali e sull’intervista. In questo senso, il modo di presentarli risulta rilevante, incentrato com’è quasi interamente sul monologo, sulla separazione delle voci, per cui la voce dell’intervistato è separata dalla voce di Terkel, salvo pochissimi momenti nelle introduzioni. Che poi è quello che abbiamo visto fare in Italia da Nuto Revelli. E questo insistere sul monologo, sulla separazioni delle voci, ti fa dimenticare a volte come nascono queste voci. Riflettendoci, è vero che il grande intervistatore è quello che fa pochissime domande, e che fa delle domande che aprono alla narrazione. Quel poco di manuali di interviste che ci sono ti dicono sempre, non fare delle domande a cui si possa rispondere con un sì o con un no, non fare domande a cui si possa rispondere con una frase, fai domande a cui si deve rispondere con un racconto. E qui si apre una riflessione non sul monologo ma sul dialogo, in cui uno dei dialoganti offre il terreno per l’autorappresentazione dell’intervistato. Noi leggiamo queste cose quasi dimenticando che le interviste vengono fatte alla radio, quindi a un pubblico, e poi gli intervistati stanno parlando a Terkel e riescono a parlare così proprio perché la persona che li sta intervistando ha quella modalità di accettazione, di ascolto e di costruzione del dialogo. Il fatto che il destinatario sia Studs Terkel è in qualche maniera riconoscibile solo in questo strano connubio di umanità che percepiamo in tutte le interviste, perché poi è questo che viene fuori… Qui c’è anche una modalità di lettura che dobbiamo tener presente, ovvero dobbiamo pensare al libro stampato non come un testo ma come una rappresentazione collegata a una performance, un’istantanea di qualcosa e non un punto d’arrivo. Il lavoro sulla fonte orale è un lavoro di relazioni: la relazione tra l’io narrante e l’io narrato, cioè chi sei tu nel momento in cui racconti e chi eri nel momento di cui racconti, e poi la relazione fra te che racconti e quello che ti ascolta. Questa dimensione è stata rielaborata e resa uno strumento teorico centrale del lavoro sulle fonti orali a partire dagli anni Settanta, dalla discussione che Michael Firsch mise in piedi su Hard Times, dove in qualche modo la critica a Terkel era strumentale alla necessità di chiarire certi concetti metodologici. «Un fatto che ho sempre apprezzato è che lui intervista non solo persone che hanno vissuto la grande depressione, ma intervista anche i ragazzi suoi contemporanei, intervista i figli e i nipoti di chi ha vissuto la depressione. Questa cosa non veniva fatta prima di lui, cioè, vedere la memoria anche come trasmissione generazionale scavalca il senso di come è ricordata la depressione, e mette in luce il fatto che è ricordata e vissuta praticamente in contrasto con il tempo presente. La narrazione è sempre implicitamente la narrazione di un tempo eccezionale, un tempo altro da quello in cui tu stai raccontando. Ora questo comporta che quando parliamo di fonti orali usiamo un termine che a me non convince: testimonianza. Perché? La testimonianza ha un valore religioso o ha un valore giuridico, e soprattutto la testimonianza è pensata come una modalità in cui chi parla racconta qualcosa che è altro da sè, qualcosa che ha visto, qualcosa a cui ha assistito, laddove quando ci avviciniamo al racconto, cominciamo a renderci conto che chi parla mette se stesso al centro della narrazione. Nel momento in cui racconti è autobiografia, non è testimonianza. Ieri a Radio Tre grande discussione con lo storico Gentile, se si possono usare le metafore per fare storia. Ora, il teorico Haider White ha scritto molti libri dicendo: tutti gli storici non fanno altro che usare metafore, non si può raccontare senza le metafore… La gran parte di queste narrazioni, e soprattutto delle narrazioni sul lavoro, sono intessute di metafore. E perché? A che serve la metafora? Chi è che usa più di tutti la metafora? I bambini. Perché quando tu devi descrivere una cosa nuova la puoi descrivere solo sulla base del linguaggio che hai. I bambini fanno come gli indiani nei film western, bastone tonante per dire fucile, toro di fuoco per dire treno, gli indiani usano le metafore non perché sono scemi ma perché devono nominare con un linguaggio esistente delle cose che non conoscono. Oppure, tu parli per metafore perché devi far capire a uno che non c’era com’era la vita in passato e quindi devi usare il linguaggio che quella persona conosce per esprimere delle cose che non conosce. E sul lavoro una delle cose più affascinanti di Working è proprio andare a guardare come lo descrivono, cercando di mettere in parole qualcosa che hanno appreso in forma non linguistica. Il lavoro manuale, di fabbrica, artigiano, non è un lavoro che tu impari con le parole, è un lavoro che impari con gli occhi, con il corpo. E allora come fai a descrivere a parole qualcosa che tu non hai mai veramente verbalizzato. Come si lavorava trent’anni fa? “Eh, si lavorava”, cioè o è tautologico o è poetico. E le descrizioni che io mi metto a fare della colata di acciaio in un’acciaieria sono descrizioni cariche di metafore. Allora non puoi venirmi a dire che si tratta di testimonianze, è qualcosa di molto più complesso, che non ricostruisce l’oggetto, non ricostruisce il tempo, ma cerca a di dar forma alla relazione con il tempo… Nella mia vita ho lavorato in due campi di lavoro, su cui ho fatto interviste, la fabbrica e la miniera, intenzionalmente non sono mai andato personalmente a vedere la miniera e l’acciaieria, perché m’interessava nell’intervista conoscere il lavoro di qualcuno che lo doveva spiegare a me che non lo sapevo. «Il lavoro dell’intervista, e in questo Terkel è maestro, perché è un lavoro di ascolto? Ma mica perché sei una persona educata o gentile o umile. Certo, se non sei educato e gentile e umile le interviste non le fai, ma non basta. Tu sei consapevole che il senso dell’intervista è sapere, sei consapevole che la persona che stai intervistando sa delle cose che tu non sai, punto. La dimensione dell’ascolto nasce da una cosa che raramente pensiamo di mettere in conto: la nostra ignoranza. Quando cominciai a fare questo lavoro, molto ispirato da Terkel, sulle regioni minerarie del Kentucky sud orientale degli Stati Uniti, i miei amici americani mi mandarono lettere terrorizzate, dicendo: tu sei pazzo lì c’hanno tutti il coltello (non è vero perché c’hanno tutti la pistola), lì i sociologi li ammazzano, e in realtà si riferivano a un fatto molto preciso, a un giornalista televisivo, progressista e democratico, che era andato lì a filmare le condizioni di povertà e di sfruttamento della gente di quella regione e… li offendeva. Poiché essendo quei minatori calvinisti, se tu vai dicendo che sono poveri, stai anche implicitamente dicendo che sono dei poco di buono e quindi era successa questa cosa. Però che lì ci fosse una tradizione di ostilità nei confronti degli estranei era vero. Dopo due, tre anni che continuavo ad andarci –  sono trent’anni che ci vado sistematicamente – ho cominciato a chiedermi: com’è che non mi sparano? cosa sto facendo di giusto? E mi capitò di trovare una persona che parlava un po’ la mia lingua, non nel senso che parlava italiano, ma nel senso che aveva esperienze politiche e culturali meno aliene dalle mie. Per capirsi, questa era una donna che lavorava in miniera, però aveva conoscenza dei movimenti contro la guerra e per i diritti civili. E io le chiesi, com’è che tutti quanti sono così gentili con me? che faccio di diverso? E lei rispose, primo non sei di New York e non sei di Chicago, nel senso che non trasmetti la sensazione di essere uno che viene dai luoghi dove c’è il potere, sei italiano figuriamoci. Secondo, tu sei qui solo per raccogliere un po’ di informazioni e le persone sono contente di aiutarti. Quello che si capovolgeva era, almeno nel momento dell’intervista, il rapporto di potere: erano loro che aiutavano me, infatti quando si dice che facendo storia orale noi diamo voce a chi non ha voce, è un grande fraintendimento, sono loro che hanno la voce e la danno a me, e se non fosse per loro non sarei in grado di scrivere niente. «Amplificare è molto bello rispetto a un discorso radiofonico. Pensa, siete in due dentro a questo studiolo e la vostra voce arriva nelle case e in città, e vi sente anche chi non vi conosce. E l’operazione di un Terkel, che sta dentro una tradizione letteraria, è un’operazione di ricostruzione. Lui intervista sia persone famose, sia gente comune. E in questa operazione non è che si dà voce, ma si trasmette, si amplifica. In questo senso una delle polemiche che nascono in America, è sul tema della restituzione alla comunità del materiale che abbiamo raccolto. Che senso ha la restituzione? Le cose che tu hai raccolto la comunità già le sa, infatti quando io ho fatto questo libro su Terni i compagni ternani non erano particolarmente eccitati, “Vabbè, sono dieci anni che ci rompi le scatole con stò libro, finalmente lo hai fatto…”. Quand’è che si sono interessati? Quando hanno scoperto che i loro racconti erano stati ripresi nel libro Una guerra civile di Claudio Pavone, e allora si sono resi conto che attraverso quell’intervista con me loro sono diventati parte della narrazione complessiva sulla Resistenza in Italia. Non era più limitato alla loro cerchia ma era diventato un racconto condiviso, comune».
interviste
Un compagno. Storia di Ettore Davoli
(disegno di copertina da lo stato delle città) È appena uscito per le edizioni Monitor il volume Un compagno. Storia di Ettore Davoli (a cura di Chiara Davoli), che racconta la vita del sindacalista e militante politico di origini calabresi e attivo a Roma, attraverso le sue parole e quelle di chi ha condiviso un tratto di strada con lui. Pubblichiamo di seguito la testimonianza che apre il volume: “Il mio cugino di campagna” di Giancarlo Davoli. *   *   * Nessuna battuta, tanto meno allusione rispetto al titolo di questo racconto: era letteralmente così che definivo mio cugino Ettore. Anche se poi la sua vita è andata in tutt’altra maniera. La prima volta che lo vidi avevo, sì e no, nove anni. Approfittando di un parente che scendeva da Torino, i miei quell’estate mi mandarono in Calabria. Era pure la prima volta che uscivo da Roma. Della Calabria e di Taverna avevo solo i racconti di mio padre e di mia madre e, soprattutto, quelli terrorizzanti di mia zia Vittoria, fatti di fantasmi inquieti che comparivano in alcune notti e in alcuni luoghi precisi del paese. La casa di Ettore si trovava su una piazzetta davanti alla chiesa di Santa Barbara. Aveva una particolarità, dovuta alla sua collocazione: si elevava su due piani, ma non vi si accedeva dal primo bensì dal secondo. Comunque, io la trovai accogliente e piena di vita. La famiglia di mio cugino era, per usare un eufemismo, numerosa; lui era l’ultimo di dodici figli e, in quella casa, anche se alcuni dei fratelli se n’erano già andati – chi era emigrato e chi s’era fatto una famiglia –, si stava abbastanza stretti. Io fui messo con i piccoli, che dormivano al primo piano, senza distinzione di genere, su due letti che li contenevano tutti. Ettore aveva uno sguardo pulito, spavaldo e diffidente, che mi rendeva inquieto; mi studiava e cercava di capire quale differenza ci potesse essere tra di noi. Io, forte del fatto che avevo un anno più di lui, che venivo da Roma e che ero cresciuto tra i prati e le strade di Centocelle, un po’ me la tiravo. Ma lui, a scanso di equivoci, mise subito tra di noi una distanza, dandomi un soprannome: “il romano”. Ero “il romano” quando facevo qualcosa fatta bene ed ero “il romano” pure quando facevo qualcosa che non andava bene, e diciamo che erano più le volte che mi muovevo in maniera impacciata in quel nuovo contesto che altro. La mattina ci si svegliava che era ancora buio, tra le cinque e le sei; ci si lavava sommariamente, si beveva in fretta una tazza di latte freddo in cui lui inzuppava un pane che chiamava pitta e che io evitavo con cura; poi, silenziosamente, per non svegliare gli altri, uscivamo per andare all’orto. In famiglia tutti lavoravano, ma la cura quotidiana dell’orto toccava al più piccolo e, visto che io avevo quasi la stessa età di Ettore, toccava pure a me. L’orto era diviso in fasce o terrazzamenti che scendevano verso il fondo valle: alcune erano sostenute dalle radici dei vari alberi da frutta, altre erano invece sorrette da rinforzi di legno che ne definivano il perimetro. Uno stradello in discesa le percorreva tutte, congiungendo le une alle altre. Bisognava essere agili e avere forza nelle gambe per fare su e giù a chiudere e aprire i vari sbarramenti che permettevano all’acqua di scorrere nei solchi e irrigare zucchine, pomodori, cetrioli, insalata, radicchio e tante altre verdure. Fare ciò per me era divertente, anche se faticoso, mentre Ettore era come se facesse parte di quel paesaggio: si muoveva tra ortaggi e canali con grazia, velocità e senza alcuno sforzo, almeno così mi sembrava. Là, tra quelle timpe, Ettore era un re: ne conosceva ogni curva, ogni avvallamento, ogni scorciatoia. Usava il falcetto e la zappa, che era quasi più grande di lui, con maestria e perizia: uno per tagliare le erbacce, l’altra per rendere più profondi i solchi dove scorreva l’acqua. Il mio battesimo dell’orto avvenne una mattina mentre risalivamo per tornare a casa per il pranzo. Una delle cose che avevo notato quasi subito in quella campagna era che là tutto era più grande e anche i colori erano diversi; per esempio, le lucertole erano di un verde vivo che, nelle mie scorribande nei prati di Centocelle, mai avevo visto; e anche le serpi, che io pensavo fossero grigio-verdi, lì avevano un altro colore: erano nere. Comunque, stavo bene attento a non dire a Ettore queste mie osservazioni: rimanevo sempre un “romano”. Ma lui, quasi intuendo questi miei stupori e, in qualche modo, anche paure, ogni tanto mi rassicurava dandomi dei suggerimenti. Ma, come dicevo: stiamo risalendo su per lo stradello carichi di frutta e di verdure dentro cesti di vimini; nei pressi di un piccolo slargo, una grossa macchia nera attira la mia attenzione. Ettore è dietro di me; quando risaliamo si posiziona sempre così, forse per proteggermi. Attratto da quella macchia, mi avvicino e, come per magia, in un attimo quella si disunisce in mille rivoli quasi scomparendo; metto meglio a fuoco e capisco: sono serpi. Ne rimangono tre, una completamente srotolata al centro e le altre due di fianco che si stanno arrotolando assumendo la forma di una molla; mi sento toccare: è mio cugino che mi supera gridando “corri in salita”; io capisco in prima battuta solo “corri”, mollo il cesto e mi giro correndo verso la discesa; e mentre mi rendo conto che la frase di Ettore finisce con “salita”, sento arrivare prima una e poi un’altra frustata sulla schiena. Goffamente inverto la marcia e correndo lo raggiungo. Lui, appoggiato a un albero, è là che se la ride di cuore; le due frustate pizzicano da morire, ma quello che fa veramente male è la figura che ho fatto: “il romano” di Roma, cresciuto tra gli sterminati prati di Centocelle, messo in fuga e, per di più, colpito da due serpi innamorate. La sera si andava a letto presto; la mattina dovevamo svegliarci all’alba, ma in realtà erano più le volte che questo non accadeva e così, quando tutta la casa dormiva, Ettore mi faceva un cenno e, vestendoci rapidamente, saltavamo dalla finestra; poi, evitando i vicoli più battuti per non fare incontri non voluti, arrivavamo nel corso del paese e, dopo un breve tratto, nella piazza; lì, sotto la statua di Mattia Preti, trovavamo altri fuggiaschi. Dopo un po’ di battute in dialetto stretto, di cui non capivo molto, usciva fuori il pallone e, subito, dopo una strana conta, si formavano le squadre. In quelle accanite partite uscivano chiari i modi di essere di ognuno di noi. Mio cugino non aveva molta tecnica, ma si buttava nella mischia con coraggio, aiutando il compagno in difficoltà; generoso fino all’estremo, aveva una naturale propensione per il gioco collettivo. In una di queste sfide senza esclusione di colpi, avvenne qualcosa che poi fece interrogare l’intero paese per diverso tempo e che, in qualche modo, mi vide protagonista, anche se involontario. Un avversario dribbla senza esitazione un mio compagno; gli vado incontro per fermarlo, ma lui, cercando di sorprendermi, fa partire un tiro che io, con la forza della disperazione, intercetto con il piede; la palla impazzita schizza in alto e va a sbattere violentemente contro la punta della spada del povero Mattia Preti, spezzandola. Un silenzio irreale cala sulla piazza; ci guardiamo senza parlare, poi scoppia all’unisono una fragorosa risata; qualcuno raccoglie il pezzo e, senza dircelo, sigilliamo un segreto che forse rivelo per la prima volta. Per mesi l’intero paese e le sue istituzioni si interrogarono su chi potesse essere stato. Mattia Preti, pittore caravaggesco detto “il cavaliere calabrese”, era nato a Taverna ed era un vanto, un segno identitario per l’intero paese: la sua statua era considerata sacra o giù di lì. Le supposizioni furono molte e di diversa natura, e solo il tempo le fece sfumare, mitigando l’affronto. C’è un gesto di mio cugino che è rimasto indelebile nella mia memoria, che mi diede la dimensione del suo altruismo e che vorrei fosse chiaro che non ha né connotati ideologici né tanto meno religiosi; credo che facesse parte della sua natura, se non altro perché è un gesto che risale a una fase della sua vita che potremmo definire, per economia di discorso, “prepolitica”. L’orto per la famiglia di Ettore era il maggiore mezzo di sostentamento, le altre entrate erano misere e saltuarie. Questo lui lo sapeva perfettamente perché lo viveva sulla sua pelle. Più volte notai che il suo umore cambiava a seconda di quanta frutta e ortaggi riportavamo a casa alla fine della mattinata; per me, quando i cesti erano scarsi, era meglio perché si faceva meno fatica; per lui era il contrario: si scuriva e diventava intrattabile. Per arrivare a casa c’era un’unica strada che passava sotto una specie di torre, affiancata a un palazzo antico che, senza un perché, a me metteva tristezza. Quella mattina, passando lì accanto, sentimmo delle voci che attrassero la nostra attenzione; in un attimo mio cugino capì, andò sotto la torre e, guardando in alto, fece un cenno. Dopo poco, vidi calare un piccolo cesto da una finestra piena di sbarre che si trovava nel punto più alto; non capivo e lo guardavo interrogativo, poi mi disse: “Sono carcerati” e, senza altre parole né esitazione, nonostante le nostre ceste quella mattina fossero parecchio scarse, prese della frutta e della verdura e le mise nel cestino, tirando poi la corda per far capire che potevano recuperarlo. In una delle ultime telefonate, forse l’ultima, quando ormai la fase degli esami medici e delle diagnosi era diventata inutile, lui mi disse che la cosa che lo affliggeva di più, oltre al fatto di dover lasciare moglie, figlie, nipoti, amici e compagni, era quella impari partita che lui stava giocando con la morte; non capiva perché, se era ormai prossima, non si affrettasse ad arrivare; e, anche se ammetteva senza problemi di averne paura, aveva una voglia sfrenata di anticiparla, di chiudere quella partita, di non aspettarla più. Mi hanno detto che Ettore non è morto a letto. A me piace immaginare che lui, un attimo prima, l’abbia sentita arrivare, si sia alzato e le sia andato incontro con quel suo sguardo pulito, spavaldo e, forse, anche un po’ diffidente.
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La parola della settimana. Diserzione
(disegno di ottoeffe) Maje lassat’ ‘a questura fotografie e impronte, pecché capette forse ca ‘eva brucia’ ‘a bandiera ‘e l’obbedienza a l’uniforme. (co’sang, fuje tanno) Ho un’amica a cui tengo molto, vive all’estero da tanto tempo – non so se queste cose siano in relazione tra loro, ma non credo. Credo invece che andiamo d’accordo perché ha un carattere spigoloso simile al mio, e più di me dice sempre quello che pensa, a costo di risultare antipatica. Conosce bene Praga, città in cui vive da anni (forse per questo non la sopporta più) e la letteratura del paese che l’ha “adottata”. Qualche tempo fa mi ha parlato di Jaroslav Hašek, irriverente e anticonformista scrittore ceco, morto solo e in miseria quarantenne, noto soprattutto per il suo romanzo Le fatidiche (o fatali) avventure del buon soldato Švejk durante la guerra mondiale, parodistico testo antimilitarista tradotto in centoventi lingue. Il soldato Švejk è un uomo semplice, gioviale, modesto, amante del bere, e che cerca sempre di accontentare il prossimo. Vive senza drammi tutte le assurdità che la vita e il potere gli riservano, dal manicomio alla galera, dall’esercito alla guerra, agendo assai più razionalmente del mondo pazzo con cui deve confrontarsi e che non perde occasione per accusarlo di sabotaggio e diserzione. M. mi raccontava che a dispetto della chiarezza del messaggio di Hašek, il soldato Švejk viene oggi ritratto in patria come un ingenuo fessacchiotto (un pepe, si dice nel suo dialetto). Il gruppo del calcetto del lunedì di cui faccio parte ha pensato invece di stamparsi sulle maglie un disegno che lo ritrae. La squadra si chiamerà, anche in suo onore, “I disertori”. –.Voi avete tradito sua maestà l’imperatore! –.Gesummaria e quando? –.Smettetela con queste stupidaggini. –.Faccio rispettosamente notare che tradire sua maestà l’imperatore non è per niente una stupidaggine… –.Non volete confessare? Avete volontariamente indossato un’uniforme russa? –.Volontariamente. –.Senza alcuna pressione? –.Senza alcuna pressione. –.Sapete che siete perduto? –.Lo so, al 91º reggimento mi staranno senz’altro cercando… (da un dialogo tra il soldato švejk e il maggiore che presiede il tribunale militare) Al contrario di quanto comunemente noto, la diserzione non è un atto solo confinato all’ambito militare. Disertare è, da dizionario, anche “abbandonare” o “non recarsi in un luogo” in cui si è attesi o dove si sarebbe forzati a essere. Per estensione figurativa, è anche “esimersi dal compimento di un obbligo”. https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/04/high-2.mp4 (credits in nota1) Qualche anno fa gli ultras del Napoli protestarono per l’emanazione da parte della società di un regolamento d’uso dello stadio (all’epoca ancora San Paolo) che sembrava fatto apposta per rompergli le scatole. No fumogeni, no bandiere, no megafoni per lanciare i cori. Non si poteva vedere la partita in piedi e si era obbligati a rispettare il posto numerico scritto sul biglietto. Per chi è abituato a seguire la partita in maniera attiva e non da semplice spettatore, i gradoni rischiavano di diventare così una specie di servizio militare. Fortunatamente, col tempo si è arrivati a più miti consigli e, forse informalmente – personalmente non so che fine abbia fatto quell’astruso regolamento – almeno in curva si lascia l’agibilità meritata a chi vive la partita come un precetto (la parola “diserzione”, riferita allo stadio, dice molto di questo rapporto di vincolo reciproco).   (foto di archivio) Nelle ultime settimane si è molto parlato del disco di La Niña, cantante napoletana figlia d’arte, laureata in filosofia e con un master in comunicazione musicale preso a Milano. Dopo aver vissuto a Londra e aver scritto testi in inglese La Niña è tornata a Napoli e ha iniziato a cantare in napoletano. È stata scritturata dalla Sony e da lì la sua produzione si è gradualmente fissata su un folk-elettronico che mi sembra di aver già sentito molte volte e che trovo francamente troppo ammiccante. Furesta, l’album del momento, mi è parso abbastanza scontato e ripetitivo. Rolling Stone (giornale bollito da tempo) ha definito invece La Niña “la nuova Teresa De Sio”. Teresa stanca di guerra senza scarpe se ne va, su questa terra che è bella muove i piedi in libertà. E ha un cappello dalle falde larghe larghe, che se piange non si sente, ma se ride tu la puoi sentire mentre ride, e cantando se ne va. Teresa stanca di guerra. (teresa de sio, teresa stanca di guerra) (a cura di riccardo rosa) __________________________ ¹ Totò e Peppino De Filippo in: La banda degli onesti, di Russel Mulcahy (1956)
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parola della settimana
Notizie del bello, dell’antico e del curioso della notte a Napoli #4
(archivio disegni napolimonitor) Sono le 21 e ho appena finito di prepararmi. È sabato e si esce. Aspetto che mi vengano a prendere e intanto mando qualche messaggio sul gruppo: “Dove andiamo?”. Quartieri Spagnoli, “baretti” di Chiaia, centro storico: le opzioni sono sempre quelle. Parcheggiamo a Fuorigrotta e ci spostiamo con i motorini. Di sabato il traffico è ingestibile e trovare parcheggio è un’impresa. Su due ruote la percezione della città cambia: sembra più piccola, più nostra. Le strade strette e irregolari del centro sono irradiate dalla luce dei lampioni, mentre i vicoli più interni restano in ombra, con porte socchiuse e finestre parzialmente illuminate. Il traffico delle strade principali si alterna alla quiete di questi vicoli, colorati dai vestiti (i panni) appesi ai balconi e dalle mura spoglie di intonaco. Più si fa tardi più la città si anima. Più passa il tempo più ci si mescola. Negli ultimi mesi si è tornato a parlare di episodi di violenza che hanno coinvolti ragazzi napoletani. Scontri tra giovani, accoltellamenti nei pressi dei locali, colpi di pistola. Giuseppe ha ventun’anni, abita a via Foria da quando era piccolo e frequenta la facoltà di ingegneria navale alla Federico II. «Molti ragazzi girano con armi bianche. Ho amici con un po’ di precedenti, altri che hanno scontato pene in carcere o in comunità, e la cosa non sorprende più nessuno. Già a dieci anni vedevo queste cose e ho imparato a conviverci». Giuseppe mi spiega quanto sia stato importante per lui imparare a decifrare le dinamiche caratteristiche del luogo in cui vive, per elaborare una “giusta distanza”. «Non si può insegnare la violenza, si impara dall’ambiente. Da bambino percepisci l’attrattiva di certe situazioni, magari per curiosità ti avvicini un po’. Alcuni contesti richiedono la fortuna – e la capacità – di evitarli, e io sono stato fortunato: i miei genitori hanno sempre fatto di tutto per tenermi lontano da ambienti violenti, pur senza impedirmi di vederli e viverli». Arriviamo a piazza Carità e posiamo i motorini. Saliamo ai Quartieri Spagnoli, che si riempiono lentamente. Le persone si radunano davanti ai bar, alcuni sorseggiano il primo drink della serata, altri stanno fermi a fumare. C’è un continuo via vai. Le strade strette sono piene di gente, bancarelle di street food vendono frittatine e pizze fritte, motorini sfrecciano tra i vicoli. Ci sono murales ovunque. Alzando gli occhi alcune donne chiacchierano affacciate ai balconi. I bambini giocano a pallone tra la gente, mentre il rumore del traffico poco distante si mescola al vociare. I flash delle insegne luminose dei bar si riflettono nelle pozzanghere di pioggia o di drink rovesciati. L’atmosfera è vivace, ma anche caotica. Dopo un po’ ci spostiamo a Chiaia, dove l’atmosfera è molto diversa. Ai baretti tutti sono seduti intorno a tavoli colorati e ordinati, la musica è alta. Faccio difficoltà a muovermi, non vedo nessuno ridere come in piazza ai Quartieri. Rosa saluta un sacco di persone, ma faceva lo stesso anche dall’altra parte. «Conosco gente sia qua che là, mi piace frequentare persone diverse», mi spiega facendosi spazio tra la folla. Da questa parte della città conta molto l’apparenza: il modo in cui ti vesti, il posto in cui ti siedi, chi conosci. È un gioco di etichette che Rosa conosce bene. «Vorrei che cambiassimo questo modo di ghettizzarci tra di noi», dice. «Dovremmo poter andare ovunque, senza la preoccupazione di essere catalogati». Rosa ha diciott’anni, abita a Varcaturo e frequenta il liceo scientifico. «In realtà fin da piccola mi sono sempre sentita un po’ fuori luogo», mi spiega. «Quando ho iniziata la scuola a Posillipo ero sempre quella “non di Posillipo”, quando uscivo con quelli della mia zona ero sempre quella che andava a scuola a Napoli. Negli ultimi anni, a mio parere, la situazione è un po’ migliorata. Prima, era più comune associare certi luoghi a determinati tipi di persone, creando pregiudizi e distanze. A un bar come il Cimmino, dove un drink può costare fino a venti euro, pensavi di trovare solo persone con uno specifico stile di vita, mentre al Tony spritz, dove puoi ubriacarti con sette euro, te ne immaginavi altre con abitudini diverse. È vero che ogni locale attira un certo tipo di clientela, ma questo non significa che una persona non possa sentirsi a suo agio in contesti diversi; io sono molto socievole, mi piace poter variare, se poi mi scocciano non mi importa». Mentre ci spostiamo Rosa continua a raccontarmi pettegolezzi di ogni genere. In effetti quelli su chi frequenta Tony Spritz non sono molto diversi da quelli del Cimmino. Dietro l’angolo un ragazzo molto giovane si sente male. Ha bevuto troppo, non riesce a stare in piedi. Qualcuno prova ad aiutarlo, altri si limitano a ridere. «In tutti gli ambienti ci stanno droghe e alcol», mi dice Rosa. «Ne gira così tanta che è normale qualcuno esageri. Una volta c’era la distinzione tra droga per ricchi, la cocaina, e quella per poveri, la marijuana. Oggi non ci sono posti dove non si trova del fumo, così come è impossibile trovare un posto dove non si bevano superalcolici». Effettivamente, mentre i prezzi per entrare nei locali sono aumentati quello dell’alcool sembra diminuito, tanto che si trovano facilmente bar che fanno shot di superalcolici da un euro e drink a tre. Se vuoi andare al cinema è impossibile uscirtene con meno di dieci o quindici euro. Decidiamo di rientrare, passando per piazza del Gesù. Le luci illuminano la facciata della chiesa del Gesù Nuovo, il resto è piuttosto buio, dei ragazzi sono seduti ai piedi dell’obelisco. «Nel centro storico ti puoi sentire libero di parlare con chiunque, secondo me», spiega Giuseppe. «C’è meno formalità, più inclusione, ma  l’apparenza conta sempre, anche se in modo diverso. Il modo in cui ti vesti e con cui ti poni non indica solo quanti soldi hai, ma anche chi sei, come sei fatto e da dove vieni». Nell’aria c’è odore di dolci appena sfornati. Le pasticcerie sono ancora aperte e vendono sfogliatelle e babà ai nottambuli. Riprendiamo i motorini, torniamo alla macchina e mentre siamo in viaggio verso casa continuo a parlare con Rosa. «Non ho mai avuto un gruppo fisso», mi racconta guardando la strada. «Ho sempre conosciuto persone in diversi ambienti. Dovunque vado conosco qualcuno, e non ci sono luoghi che non mi sentirei di frequentare». Anche Giuseppe, salutandomi mi fa: «È una questione di equilibri, di sapersi muovere per la città. Saper stare nei posti giusti con le persone giuste. Puoi avere tutto, devi solo scegliere». (viola varlese) ____________________________ A questo link tutte le puntate dell’inchiesta
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