(disegno di dalila amendola)
Un giornalista palestinese pochi giorni fa ha definito la settimana appena
trascorsa “un’intifada italiana”. Eppure è difficile immaginare che queste masse
di persone torneranno a radunarsi a breve. Chi ha protestato contro il genocidio
condotto da Israele sin da ottobre del 2023, o anche da prima, si sente
finalmente ascoltato; il dolore addizionale causato dal silenzio che circondava
le manifestazioni di mille, duemila persone – nei momenti
migliori cinquantamila – si è sciolto di fronte al milione in marcia a Roma il 4
ottobre, e già da prima con le centinaia di manifestazioni in tutte le città
italiane, grandi e piccole. Ci sentiamo ascoltati; ma sapremo ascoltare? Le
masse di persone mobilitate all’improvviso, sapranno adattarsi alle strutture
spesso rigide dei cosiddetti “movimenti”? Non saranno invece i nostri movimenti
a doversi adattare a loro? Vale la pena una riflessione rapida che ricapitoli
cos’è successo, a partire da quello che abbiamo vissuto in alcune città in
questi giorni, per ragionare su come non disperdere tutta questa forza.
È importante ricordare che se un milione di persone sono scese in piazza, è
soprattutto perché il Pd, La Repubblica, i telegiornali della Rai e di La7 hanno
deciso che era arrivato il momento di sdoganare la critica al genocidio per
destabilizzare il governo, dopo aver taciuto o difeso gli aguzzini israeliani
per due interi anni. Certo, questa non è l’unica causa. Il movimento è partito
dai palestinesi in Italia, e dagli studenti universitari e medi. È stato
alimentato da chi aveva fatto della Palestina la propria causa ben prima del 7
ottobre, che è riuscito a connettersi con chi, magari, è venuto al mondo più o
meno negli anni in cui nasceva la campagna del Bds. Per mesi lo hanno tenuto in
piedi insegnanti, ricercatori universitari, sanitari. E poi è salito di livello
con il coinvolgimento dei sindacati, con l’avanguardia rappresentata dai
portuali, improvvisamente coperta dai media grazie alla Flotilla. L’esplosione
di quest’ultimo mese si deve al fatto che potentati di ogni genere – dal terzo
settore alle gerarchie universitarie, fino al circo dello star
system internazionale – hanno capito che parlare a favore della Palestina oggi
può farti guadagnare terreno nell’opinione pubblica. Le manifestazioni oceaniche
di questi giorni, ma anche l’incertezza radicale sulla tenuta di questa
“intifada”, sono il prodotto di questo miscuglio. La domanda da porci è: che
ruolo abbiamo avuto “noi” fino a questo momento, e che ruolo possiamo avere
d’ora in poi? Ci sarà un seguito che possiamo propiziare, facilitare, spingere?
Che ognuno declini il “noi” come preferisce.
Ironia della storia, il fischio d’inizio è arrivato da Genova, lì dove il ciclo
di lotte del secolo passato si era interrotto. Da Genova il 31 agosto era
partita la Flotilla, accompagnata da 40 mila persone; quella stessa sera uno dei
leader del Calp, il Collettivo autonomo lavoratori portuali, legato a Usb, aveva
annunciato il blocco dei porti nel caso che Israele si fosse permessa di toccare
le barche. Al termine di un’assemblea partecipata da studenti, lavoratori e
realtà solidali di tutto il paese, Usb proclama lo sciopero generale del 22
settembre. Dopo mesi d’inerzia, anche la segreteria nazionale di Filt
Cgil annuncia uno “stato di agitazione nazionale delle lavoratrici e dei
lavoratori portuali a sostegno della missione umanitaria della Global Sumud
Flotilla”, chiamando ore di sciopero e manifestazioni per il 19 settembre. Nel
frattempo, il Si Cobas chiama lo sciopero per il 3 ottobre nei termini di
preavviso previsti dalla legge. Strutture politiche e sindacali di riferimento,
deboli e in conflitto tra loro, devono fare i conti con una presa di coscienza
collettiva, rincorrendo la rapida evoluzione degli eventi. Grazie al
coinvolgimento dei portuali, l’attenzione si rivolge alla prassi del blocco
delle merci e della circolazione, degli interporti e delle altre infrastrutture
sensibili: autostrade, stazioni ferroviarie, aeroporti e tangenziali. Questo è
ciò che avviene più o meno ovunque, con intensità e modalità diverse. La
ricomposizione si realizza in piazza, in modo rocambolesco, e con una serie di
strettoie, contraddizioni e problemi irrisolti.
Chi conosce gli ambienti portuali e della logistica sa che certe pratiche
vengono da lontano, soprattutto in una città come Genova. Per boicottare
l’economia genocida e la forza bellica di Israele, l’azione dal basso
dei lavoratori, per quanto organizzati, non è sufficiente: l’iniziativa dei
portuali non avrebbe mai potuto prescindere da una forza collettiva più ampia,
da alleanze trasversali e da un appoggio sindacale indispensabile per lo
sviluppo della lotta nel lungo periodo. Di questo i portuali discutevano da
tempo, nel tentativo di appellarsi alla legge 185/1990 che vieta l’invio di
armi ai paesi in conflitto; da mesi ne parlavano con i loro omologhi in altri
paesi europei. Una volta create queste connessioni, improvvisamente la pratica
del blocco si è diffusa in tutta Italia. Mentre Genova si blocca, anche a
Salerno si creano ore e ore di disagi e interruzioni del traffico container. A
Livorno si presidiano le banchine del porto per impedire l’approdo di una nave
coinvolta nella logistica del genocidio, con il sostegno di migliaia di persone
arrivate da tutta la regione. Anche a Napoli si tenta un’occupazione del
porto. A Roma la piazza davanti alla stazione Termini è inondata da
cinquantamila persone, che improvvisano un corteo che si riversa sulla
tangenziale est, bloccandola per ore. Milano, che “non si ferma” sin dal corteo
in risposta allo sgombero del Leoncavallo a inizio settembre, e contro
la speculazione a San Siro, erompe in scontri dentro e intorno alla Stazione
centrale. E così in decine di altre città d’Italia.
Dal 22 settembre sono scesi finalmente in piazza altri pezzi della società
civile. I giovani che sfilano in corteo per la prima volta hanno colto di
sorpresa le burocrazie sindacali e le strutture di movimento. Le persone
bloccate dentro le macchine sui cavalcavia della tangenziale di Roma – come a
Bologna – invece di insultare applaudivano. La paura dell’accusa di
antisemitismo a chi criticava Israele è passata; il popolo sta con la Palestina,
nonostante i potenti stiano con Israele. Il decreto sicurezza è un ricordo
lontano.
Un momento di rottura della normalità quotidiana è avvenuto durante la
manifestazione di lunedì 22 settembre, la sera del primo sciopero generale. A
Torino, migliaia di persone hanno sfilato lungo corso Giulio Cesare, la
direttrice che attraversa i quartieri popolari a nord della città. Scorreva il
corteo e attivisti, studenti di superiori e università, cittadini del centro non
erano percepiti come alieni, ma le loro istanze erano riconosciute dagli
abitanti. Dai balconi s’alzavano applausi, urla, suoni di pentole al passaggio
delle bandiere e dei cori contro Netanyahu. Il trambusto sembrava un’apertura.
Non tanto per la possibilità di costruire un esile ponte tra classi sociali, tra
mondi urbani distanti: il percorso per arrivare a questo è lungo, a malapena
impostato. L’apertura sembrava stare nello sguardo stesso di chi applaudiva dai
balconi o scendeva in strada. Immigrati, ragazzi di seconda generazione, persone
abituate a subire una quotidiana oppressione, e razzista, potevano forse godere
di una sospensione dell’ordine, farne esperienza, e chissà in futuro riprodurla
ancora.
Dal giorno dopo, le iniziative sono diventate quotidiane. Il 24 a Torino
si occupa la sede universitaria di Palazzo Nuovo, e lo stesso succede in diverse
scuole. La sera si bloccano i binari di Porta Susa: partecipano soprattutto
persone estranee al mondo militante, ma non per questo meno determinate a
passare due ore sui binari. A Roma si occupano tre scuole e la Facoltà di
Scienze Politiche alla Sapienza. A Genova arrivano i delegati dei portuali di
Grecia, Francia e Spagna per un “meeting internazionale dei porti” in cui si
discute di come estendere i blocchi: annunciano che la Grecia sta preparando uno
sciopero generale per il 10 ottobre. Il 27 si bloccano dieci container pieni di
materiale bellico, al terminal Spinelli.
Tra l’1 e il 2 ottobre, con il blocco della Flotilla, i cortei si
intensificano. A Roma la chiamata alla mobilitazione circola alle otto di sera:
nel giro di due ore decine di migliaia di persone accorrono a Termini,
improvvisando un corteo verso la sede del governo a Palazzo Chigi. Un cordone di
guardie le blocca a piazza Barberini, ma retrocede quasi fino a via del Corso.
La trattativa evidentemente prevede che si torni subito sui percorsi consentiti,
nonostante la massa sembri pronta a raggiungere, per una volta, i palazzi del
potere. Ma in una città che si sente sempre ostile, fascista, rancorosa,
all’improvviso migliaia di persone si ritrovano sotto al traforo di via
Nazionale, a manifestare a mezzanotte di un mercoledì lavorativo con i fumogeni,
i canti, gli ottoni della banda. La frequenza delle manifestazioni è
impressionante, così come i numeri. E non sono solo gli effetti dell’endorsement
liberale: c’è una ritrovata disponibilità a impegnare il tempo libero dal
lavoro, uscire dal comfort della quotidianità schermata, piena di bisogni
indotti e diffusa indifferenza.
La sera del 2, mentre a Roma un nuovo corteo parte dal Colosseo, a Torino si
parte da piazza Castello verso ovest. Il corteo è così lungo che l’ultimo tratto
della coda si separa dalla testa e occupa ancora altre strade. Ci si coordina
tra sconosciuti, si presidiano i passaggi agli incroci, si sperimenta
l’autogestione come parte della contestazione. Anche tra cittadini perbene,
trasgredire le regole è diventato legittimo.
Arriva il venerdì dello sciopero generale, il 3 ottobre. A Salerno il porto è
bloccato dalla stessa Autorità portuale, ma sin dall’alba i lavoratori in
sciopero presidiano il varco Ponente, con i facchini della logistica, le reti e
i collettivi salernitani, i manifestanti propal e alcuni attivisti prevenienti
da diverse città. L’intenzione è di entrare nel porto. Si aspetta l’arrivo del
corteo studentesco, e ci si posiziona davanti alla Celere che chiude l’entrata.
Durante gli scontri, una manifestante viene rinchiusa in una
camionetta. Iniziano i presidi per reclamare il rilascio. Studenti e studentesse
prendono tutto lo spazio, sono pronti a cambiare tattica se una non funziona;
esprimono rabbia e insofferenza non solo verso il genocidio, ma anche contro il
sistema di potere da cui si sentono oppressi, contro la Celere che è lì a
rappresentarlo. La manifestante alla fine viene rilasciata con l’accusa di
resistenza e oltraggio, il presidio diventa un corteo. Si parla a lungo di
quanto sia più facile, rispetto a Napoli, organizzarsi sul momento e in modo
orizzontale; si discute di partecipazione, obiettivi, forme organizzative; e sul
ruolo dei più grandi rispetto ai giovani, ma anche su come interpretare tutto
questo.
A Milano il corteo si divide, il percorso della Cgil si separa da quello dei
sindacati di base, mentre uno spezzone di militanti improvvisa un corteo
selvaggio che contribuisce a bloccare l’intero quadrante nord-est della città.
Gli spezzoni si ritrovano a Città Studi, lungo viali di solito attraversati
distrattamente da studenti, docenti e personale amministrativo delle università:
striscioni vengono arrotolati, appartenenze saltano nell’eccitazione di
riprendersi le strade e diventare marea. A Roma, di nuovo una giornata di sole
accompagna la manifestazione sulla tangenziale, anche se stavolta era stata
chiusa preventivamente: la stessa azione che sembrava di rottura solo pochi
giorni prima, ora appare un diversivo per impedire il blocco dei palazzi del
potere. Ma il corteo è enorme, la testa incontra la coda, circondando polizia e
carabinieri in un anello sopraelevato. Mentre il traffico si blocca, le persone
finalmente si incontrano, in una città che sembra fatta apposta per impedirlo.
Siamo abituati ormai che i cortei non partono mai puntuali, visto che i numeri
non sono quasi mai dalla parte nostra. Questi cortei hanno una portata diversa:
bisogna partire presto, anche prima dell’ora fissata, perché la piazza non ci
contiene. Le azioni non sono di avanguardia, ma dichiarate e condivise via
social o dalla camionetta del corteo: obiettivi chiari e tempi utili per
tutelarsi e scegliere che fare. Questo rende la lotta accessibile e la connota
di forme radicali nuove e larghe. Bisogna continuare a domandarsi quali siano le
forme utili di conflitto per un movimento così ampio, ricordandosi che forse il
nostro sguardo deve cercare visioni di rottura e di lotta diverse da quelle che
abbiamo vissuto e sostenuto negli ultimi anni.
La manifestazione nazionale del 4 ottobre non c’è bisogno di raccontarla.
Piazzale Ostiense era ancora pieno mentre piazza San Giovanni già si riempiva –
tre chilometri di fiume umano senza testa né coda, quasi più una festa che una
protesta, dove i bambini delle scuole gridavano “sciopero sciopero”, gli
adolescenti imparavano a tenere fumogeni e megafoni, e i vari gruppi militanti
mostravano quello che sapevano dire e fare al resto del paese. Una canzone
romana dal titolo Ma che razza de città a un certo punto dice “e t’accorgi
tutt’a ‘nbotto che so’ tanti…”. I giornali naturalmente si fissano sul gruppetto
di poco più che ventenni che si è staccato dal corteo per rovesciare qualche
cassonetto, e che la Celere ha schiacciato contro la cancellata di Santa Maria
Maggiore per identificarli uno a uno; non riportano le migliaia di persone
tornate nella zona dal corteo per aiutare i fermati, ma soprattutto non trovano
neanche una vetrina rotta per mostrare la “devastazione”. Nel frattempo i
fascisti di Casapound fanno una scorribanda in un bar di piazza Vittorio,
aggredendo e picchiando a casaccio, anche gente con i bambini al seguito:
polizia e giornalisti, non pervenuti.
Dopo le manifestazioni più grandi della nostra vita, che abbiamo vissuto con
leggerezza, facendoci portare nella rottura dell’ordinario impulsivamente, di
pancia, ora l’euforia inizia a lasciare spazio alla necessità di fare ordine e
ragionare. La domanda che risuona ovunque, naturalmente, è cosa fare per evitare
che questo movimento venga depotenziato, incasellato, spento. Mentre la
quotidianità intorno a noi si ricostruisce, ragioniamo soprattutto a partire
dalla certezza che questa potenzialità esiste, e che può risvegliarsi. La forza
di una mobilitazione ampia, nonostante le sue contraddizioni, avvicina mondi e
immaginari distanti e può generare cortocircuiti impensabili. Ma ci aiuta anche
a capire i nostri limiti. Cosa non siamo stati capaci di comunicare finora? Cosa
possiamo comunicare? Cosa possiamo imparare?
A partire dalla prassi del blocco, queste mobilitazioni mandano un messaggio
esplicito al modello economico che legittima il genocidio. Al centro del
discorso c’è lo sciopero del carico e scarico di armi e l’obiezione di
coscienza. I portuali per continuare a reggere il peso e i rischi del loro
impegno hanno bisogno non solo del sostegno popolare, ma anche dell’alleanza con
i lavoratori delle altre categorie che operano nella filiera del trasporto e che
concorrono al viaggio internazionale delle merci militari e al loro transito nei
porti. Il sistema che ci opprime si rivela strettamente legato a un genocidio;
ne ha bisogno, lo difende, lo alimenta. Per fermare l’uno, dobbiamo fermare
l’altro, e viceversa. L’arbitrarietà della “giustizia” italiana richiama e
protegge quella di Israele, come si vede nel caso di Anan Yaesh; il disprezzo di
Israele per il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi, tutelato dai
trattati internazionali, si riflette sì nelle parole di Antonio “fino a un certo
punto” Tajani; ma anche, in piccolo, nella violazione strutturale dei diritti di
base da parte dello stato italiano, con gli sfratti, le intollerabili
condizioni carcerarie, i Cpr, le residenze psichiatriche.
L’indignazione e la rabbia per quello che sta avvenendo al popolo
palestinese richiedono il blocco delle esportazioni militari verso Israele, la
rottura dei rapporti diplomatici, un boicottaggio efficace che colpisca gli
interessi militari ed economici israeliani. Ma il genocidio a Gaza è collegato
con il nostro quotidiano impoverimento, con il controllo capillare a cui è
soggetta qualsiasi voce di dissenso, con le politiche di gestione dei fenomeni
migratori e di militarizzazione e privatizzazione delle città, con l’uso
militare della ricerca universitaria, con la manipolazione dell’opinione
pubblica e la corruzione sistematica dei politici. Il boicottaggio dell’economia
israeliana intacca lo stesso ciclo di produzione e consumo su cui si basano le
nostre vite, di conseguenza lo stesso capitalismo.
I blocchi potrebbero essere anche blocchi della nostra normalità, dei nostri
schemi concettuali acquisiti. A volte chi milita da tempo per cambiare il mondo
finisce per mirare più a mantenere inalterati i propri metodi e il piccolo
potere che si è conquistato. Chi è arrivato ora, invece, per quanto si possa
meritare i “dov’eravate quando noi…?”, potrebbe essere portatore di strategie e
idee nuove. Ma allora, chi mobilita chi? Chi guida le mobilitazioni? Un
movimento così grande per la Palestina, per cominciare dovrebbe essere guidato
dai palestinesi, più che dalle “strutture” di movimento, per evitare di
riprodurre logiche coloniali anche tra di noi. E le nuove ondate di manifestanti
non devono essere indotte ad adottare i “nostri” metodi di lotta; siamo noi, che
abbiamo protestato sin dalla fine del 2023, o anche da prima, a doverci adattare
a loro, se non vogliamo disperdere questa energia. Ma per farlo dobbiamo capire
quali sono le forze interne che bloccano noi, invece di bloccare la città; cosa
trattiene la nostra forza, e quindi la forza delle masse che potrebbe crescere
ancora, impedendo di traboccare, di esprimere appieno la volontà condivisa di
spezzare davvero l’oppressione. Da soli, “noi”, chiunque siamo, non possiamo
farcela. Se davvero vogliamo un’intifada pure qua, come prima cosa dobbiamo
metterci in ascolto. (redazione monitor)
Source - NapoliMONiTOR
Cronache, libri, disegni e reportages
(disegno di -rc)
San Siro, non è finita. Lo dicono tutti quelli che hanno combattuto fino alla
notte del 29 settembre contro la delibera comunale che ha deciso la vendita
dello stadio Meazza e di 280 mila metri quadrati dell’area circostante ai fondi
Redbird e Oaktree, controllori rispettivamente del Milan e dell’Inter. Per
arrivare a questo risultato il sindaco Sala ha dovuto scavalcare talmente tante
procedure amministrative e democratiche, vincoli della soprintendenza, regole di
buonsenso economico e politico, avvertimenti del comitato antimafia sul pericolo
di infiltrazioni, da rendere l’operazione vulnerabile, esposta a nuovi blocchi.
Ci saranno sicuramente altri ricorsi da parte dei comitati, e un nuovo
referendum pende come una spada di Damocle sulla realizzazione del progetto. La
Corte dei Conti e le indagini della procura continuano a scandagliare i passaggi
più contorti di questa corsa verso il delirio urbano e finanziario.
Nonostante gli annunci trionfali sul “risultato”, che danno ormai la vendita e
la demolizione-ricostruzione dello stadio come cosa fatta, anche gli stessi
protagonisti di questo mini-colpo di stato sono ben consci dei rischi che ancora
corrono, e la tensione emerge tra una piega e l’altra delle loro dichiarazioni.
Ricapitolando, la vicenda trae origine dalla legge nazionale sugli stadi, che
istituisce di fatto una sorta di diritto a speculare sui terreni ovunque si
voglia creare un nuovo stadio, e dalla particolare situazione del quartiere San
Siro che, come Napoli Monitor ha già raccontato a più riprese, è al centro di
fortissimi appetiti immobiliari a causa della sua minore densità rispetto al
resto di Milano. Le sue aree, più verdi, poco omogenee anche dal punto di vista
della popolazione, sono tra quelle che promettono i maggiori guadagni agli
investitori. Di fatto, i fondi che controllano delle squadre –
apparentemente RedBird Capital Partners e Oaktree Capital Management, ma una
serie di oscuri passaggi finanziari lasciano dubbiosi gli esperti sull’effettiva
composizione della proprietà – sono quasi obbligati a realizzare l’insensata
operazione Meazza. La loro missione, infatti, è trarre il massimo profitto dagli
asset che gestiscono per redistribuire denaro ai propri clienti: se non si
battessero per speculare, questi li abbandonerebbero in cerca di investimenti
più redditizi. Come spiega benissimo Luca Pisapia in Fare gol non serve a
niente, l’ultimo dei loro problemi è fare vincere le squadre, e ancor meno
rendere bella la città o regalare servizi ai suoi abitanti.
E infatti insistono da anni. Il loro piano è distruggere uno stadio amatissimo e
strutturalmente perfetto da 80 mila posti, gettare a discarica milioni di metri
cubi di cemento e scorie, costruirne uno di capienza simile sul parco dei
Capitani consumando 50 mila metri quadrati di suolo permeabile e soprattutto
edificare residenze e uffici di lusso, un centro commerciale e i musei delle
squadre. È con ogni evidenza un piano contro i cittadini: l’impatto ambientale
che subiranno è pesante oltre ogni immaginazione, la “rigenerazione urbana” come
di consueto è rivolta al target turisti e ricchi, e li escluderà sia dalla
frequentazione dello stadio che dal resto delle attività. Inoltre lieviteranno i
prezzi delle abitazioni nell’intera zona, da cui saranno a poco a poco espulsi,
e il resto dei servizi pubblici languirà più del solito perché, tra le altre
cose, il prezzo della vendita è bassissimo e la città non fa neppure cassa.
Ufficialmente si tratta di 197 milioni di euro, da cui vanno scontati 22 milioni
di contributo-sconto da parte dell’amministrazione. Ma in più dedurranno 80
milioni dagli oneri, e i pagamenti restanti avverranno in quattro rate senza
interessi nei prossimi dieci-dodici anni, il che significa che il Comune alla
fine avrà incassato, se gli va bene, la stessa somma che avrebbe ottenuto
continuando ad affittare lo stadio allo stesso canone di oggi: dieci milioni
l’anno. Praticamente la città non ne ricava nessun beneficio economico, mentre i
profitti che i fondi potranno estrarre dalla rendita del nuovo complesso di
edifici di lusso sono immensi.
Di fronte a uno scenario così rovinoso per l’interesse pubblico la cosa più
inquietante è la sequenza di azioni che Sala e la giunta hanno portato avanti
per “vincere” la battaglia contro le proteste dei cittadini: hanno condotto
trattative private e opache, bocciato i referendum consultivi, manipolato il
dibattito pubblico, inventato il bluff della “fuga” delle squadre verso Rozzano
e San Donato per sventolare la minaccia dello stadio vuoto da gestire (tenendo
persino segreta una sentenza del Tar che vietava la possibilità stessa di
edificare i terreni a San Donato), aggirato il vincolo posto dalla
soprintendenza sul Meazza, mentito sulle valutazioni della Uefa in merito
all’adeguatezza della struttura e sulle manutenzioni non fatte dalle squadre
(mancate manutenzioni per 27 milioni di euro), concordato uno scudo penale a
protezione della controparte.
Prima Sala ha minacciato le dimissioni se la delibera non fosse passata, poi si
è reso conto che gli conveniva invece restare per trovare l’appoggio della
destra morattiana, a cui di fatto è sempre appartenuto, e ha cinicamente
lasciato spaccare la sua maggioranza e il Pd che lo avevano protetto – l’unico
effetto positivo da un certo punto di vista.
“La cosa che conta è il risultato”, ha detto, e la Moratti ha ribadito che è
stata “una vittoria del fare sull’abbandono all’immobilismo”. I giornali hanno
chiosato “è un volano per le altre città”, e subito Manfredi ha manifestato la
volontà di vendere il Maradona di Napoli, “come a Milano”.
Cosa si fa, quindi, esattamente, a Milano? In che cosa consiste questo fare? È
una nichilistica distruzione della cosa pubblica – della città fisica e della
vita che la produce, delle norme, delle regole democratiche, della politica –
completamente fine a se stessa, senza “output” se non la concentrazione di
potere e denaro.
Difendere a oltranza San Siro non ha niente a che vedere con la nostalgia e il
passatismo, significa lottare contro l’ideologia del fare per il fare, del
consumare inutilmente e dannosamente suolo, energia e risorse, rifiutare la
logica che ci governa attraverso la trasformazione cieca e continua di tutto. E
affermare, come ormai è imperativo, l’imprescindibilità della manutenzione,
l’intelligenza della redistribuzione e la priorità della pianificazione solida
del cambiamento sul principio dell’attrattività fluida di ogni spiritello
vagante del capitale.
La stagione delle credenze post-moderne sugli stadi iconici che portano sviluppo
è finita da un pezzo, nonostante i tristi epigoni che ancora ne scrivono su
qualche giornalaccio. E il socialismo non è nato con la Compagnia delle Indie,
come suggerisce Sala in uno dei suoi patetici libri. (lucia tozzi)
(disegno di cyop&kaf)
Da due anni, per arrotondare il mio stipendio da docente precario, lavoro per un
progetto finanziato da una delle più grandi organizzazioni mondiali in sostegno
dei bambini. Il progetto nello specifico, nato durante il Covid, si propone di
combattere la dispersione scolastica in Italia fornendo aiuto online a ragazzi e
ragazze nel primo ciclo di istruzione. Sebbene possa sembrare, una volta finita
l’emergenza Covid, uno strumento di comodo, la modalità online ha un significato
nel progetto che va ben oltre la possibilità di connettersi con persone lontane
fisicamente.
I minori, iscritti al progetto da una docente, hanno retroterra diversi, con
difficoltà in alcuni casi più lievi e in altri più complesse. Alcuni dei ragazzi
che ho seguito in questi anni: M. è una ragazzina di quattordici anni di Palermo
con un disturbo del linguaggio che vive con i nonni e la giovanissima madre; A.
e A. sono due fratelli nati in Marocco e trasferitisi con i loro genitori in
Barona a Milano, dove sono nati altri due fratellini con cui condividono la
stanza; L. è un ragazzo albanese NAI (Neo Arrivato in Italia) con enormi
capacità scolastiche iscritto a una scuola media di Reggio Emilia.
Le storie di ognuno di loro nascondono delle ombre che non sempre vengono alla
luce a causa del filtro che – innegabilmente – è lo schermo del dispositivo
elettronico. Il fatto di non trovarmi in casa di A. in Barona o a casa di M.
nella Vucciria rende l’esperienza di supporto molto diversa, in un certo senso
meno pesante per me.
Eppure, la realtà esonda. Nonostante lo schermo, in alcuni preziosi momenti ho
veramente avuto l’impressione di essere lì con loro. Penso alle conversazioni
con Z., il più piccolo dei fratelli di A. e A., di tre anni, nato in Barona,
mentre loro cercavano senza successo i quaderni di storia e geografia; penso a
quando M. mi ha portato in giro per la sua casa, mostrandomi le diverse
statuette di Santa Rosalia e raccontandomi l’importanza del posizionamento
strategico di ognuna di queste; ma penso anche a quando L. mi ha fatto vedere il
suo fucile giocattolo con gli occhi che brillavano, perché è “lo stesso che il
nonno ha a Tirana”.
Su dodici ragazzi che ho seguito, nonostante le difficoltà materiali di molti di
loro – nella maggior parte dei casi il dispositivo elettronico è fornito dalla
scuola o dall’ente organizzatore di progetto – non ho mai avuto problemi
a svolgere gli incontri: i ragazzi sono concentrati, hanno voglia e bisogno di
quel momento. Solo in un caso, questa primavera, il tutoraggio assegnatomi è
diventato un calvario tale da rischiare di non riuscire a terminare le
venticinque ore previste per ogni ragazzo.
S.
S. ha tredici anni, è nato in Bangladesh in una famiglia musulmana e vive a
Livorno dove frequenta la terza media. Al primo incontro – quello a cui da
regolamento partecipano l’educatrice di riferimento (la mia “superiore”),
l’insegnante che ha richiesto l’attivazione del tutoraggio e un genitore o chi
ne fa le veci – S. non si è connesso. Suo padre c’era, ma S. non voleva
connettersi, non ne aveva voglia. Abbiamo riprovato una settimana dopo. Questa
volta è andata bene, con la videocamera spenta però. S. ha una grave disabilità
di cui non so dirvi molto, perché gli unici momenti in cui sono riuscito a
fargli accendere la videocamera erano gli ultimi secondi di ogni incontro, per
salutarci. Non parla bene l’italiano, conosce molto meglio l’inglese. Ci ho
messo un bel po’ ad abituarmi al suo modo di
mangiarsi le parole, misto a uno spiccatissimo accento toscano. Anche il padre di S.
non parla bene l’italiano. Con lui mi sentivo almeno due volte in ognuno dei
giorni dei nostri incontri perché ci recassimo insieme da S. per invitarlo a
connettersi, minacciandolo di interrompere il tutoraggio (nelle regole del
progetto c’è che dopo la terza volta in cui il beneficiario non si presenta
all’incontro il tutoraggio salta). S. non ha mai avuto grosse difficoltà a
rispondere, a me e suo padre, “e interrompetelo”, causando le ire del padre: “S.
è un vagabundo, S. è un vagabundo”. Eppure, quel tutoraggio è arrivato alla
fine.
Ecco quanto accadeva durante l’ora e trenta di ogni incontro: S., favorito dalla
videocamera spenta, scrollava video su Tik Tok – tra le diverse concessioni
avute, c’era quella di potersi connettere da telefono e non dal tablet – mentre
io lo incalzavo con alcune domande, “che hai fatto oggi a scuola?”, “che compiti
hai per domani?”, nonostante le risposte le avessi già, fornitemi dalla
disponibilissima insegnante di sostegno.
Raramente siamo riusciti a fare qualcosa di tradizionalmente didattico; il
momento in cui S. si concentrava di più era quando condividendomi lo schermo
guardavamo dei video di approfondimento in inglese su Youtube. In quei momenti
ero stupito dalla quantità di notifiche che riceveva e che, percepivo, lo
distraevo ma, fortunatamente, non poteva interrompere la visione per passare a
Whatsapp.
Nelle lunghe, lunghissime pause, finivamo spesso a parlare di musica. Sin da
subito, S. mi ha confessato la sua passione per la trap italiana – Rondo, Baby,
Simba, Melons e Faneto – ed evidentemente non si aspettava che io, il suo tutor,
apprezzassi canzoni come Casablanca di Baby Gang e 40 GRADI di Simba La Rue
(questa, che già avevo sentito qualche mese prima, si era poi fissata nella mia
mente da quando A. e A. me ne avevano cantato, insieme, il ritornello).
PONTIDA
Poche sere fa, in un noto programma televisivo di approfondimento politico, ho
visto un servizio che raccontava, in parallelo, il funerale di Charlie Kirk a
Phoenix e il raduno annuale della Lega a Pontida.
Tralasciando le riprese provenienti dagli Usa – file chilometriche per comprare
un
hot dog, pianti tanto perfetti da sembrare finti, paragoni tra Gesù Cristo e Donald Trump
– mi ha intrigato di più quanto avveniva a Pontida. Oltre alle parole
di Salvini e Vannacci, sul palco della “Lega per Salvini Premier” ha brillato la
stella di Silvia Sardone. Laureata in giurisprudenza con il massimo dei voti
alla Bocconi, ex membro di Forza Italia, Sardone è oggi una dei vicesegretari
del partito oltre che europarlamentare dal 2019.
Il suo discorso, introdotto dal presentatore della Lega – “le sue battaglie
contro l’Islam radicale sono leggendarie!” –, dura otto minuti ed è tutto
urlato alle massime frequenze e acclamato dal pubblico. Il discorso, salvo
alcuni accenni veloci a figure storiche del partito, verte tutto su un tema: la
battaglia all’Islam. L’Islam è un pericolo, contro cui solo la Lega lotta
veramente, mentre la sinistra starebbe sfruttando questa “spada” per “tagliare
la gola all’occidente”.
Sardone declama una serie di no: “noi non vogliamo le moschee abusive,
noi non vogliamo il richiamo del muezzin nelle
nostre città, noi non vogliamo vedere minareti ovunque, noi non vogliamo
matrimoni combinati” e così via. Passando per frasi non proprio eleganti – “ci
siamo rotti i coglioni!”, “che non ci prendano per il culo!” – la vicesegretaria
giunge al termine del suo discorso con la parola manifesto di questa Pontida,
che poco dopo declamerà anche Vannacci: “RE-MI-GRA-ZIO-NE!”.
Nei discorsi della Sardone
da un lato c’è “il popolo di Pontida”: quello benedetto dalla Storia, che
a Lepanto nel 1571 fermava l’avanzata islamica sotto il vessillo cristiano;
mentre dall’altro lato ci sono i “Mau Mau
con la barba lunga”. Questi, nell’universo di Sardone, sono quasi tutti maranza
o membri di baby gang intenti a insultare costantemente le forze dell’ordine e a
distruggere il nostro paese. I Mau Mau sposano “gente con un sacco della
spazzatura addosso” (le donne islamiche che indossano l’abaya) e non le lasciano
uscire di casa senza il loro permesso. Ai più attenti non sfuggirà però che nel
discorso dell’europarlamentare compaiono anche altri immigrati “per bene, che
pagano le tasse, che non li (i Mau Mau) sopportano più”: gli oppressi ben
educati. L’Altro, ma colonizzato dal Medesimo.
L’ODIO
La prima volta che ho sentito parlare di Silvia Sardone è stato durante un
incontro con S. A lui non sta esattamente simpatica, e non si fatica a
immaginarlo. D’altronde neanche i suoi rapper preferiti la adorano: uno l’ha
minacciata di morte, mentre un altro le ha dedicato un freestyle in cui la
immagina avere un rapporto sessuale con un uomo egiziano (“Silvia Sardone prende
il cazz* egiziano, la tipa di Salvini che sbucchin* un africano”).
Un giorno S. mi mostra, in condivisione schermo, il video del freestyle di
questo rapper. S. canta il pezzo scandendo ogni parola con rabbia: le conosce
tutte. Per qualche secondo lo ascolto, incapace di opporre alcuno strumento
pedagogico acquisito negli anni di studio e lavoro: cosa sto vedendo? cosa si fa
in questi casi? Mi rendo conto che c’è dell’altro: sono sorpreso, contento
oserei dire, di sentire – per una volta – S. parlare così chiaramente, senza
mangiarsi le parole. La videocamera è sempre spenta, eppure S. si sta facendo
vedere. Un attimo dopo ritorno in me: quello che sto ascoltando è brutto, sporco
e violento, non posso permettere che prosegua ancora. S. interrompe la
condivisione, ma qualcosa è cambiato, se ne rende conto anche lui.
Quando durante La Haine (1995) di Mathieu Kassovitz un ragazzo viene ridotto in
fin di vita dalla polizia, i tre protagonisti del film hanno tre reazioni
diverse. Di fronte alla sete di vendetta di Vinz, che si compra
una pistola con l’obiettivo di sparare a un poliziotto, Hubert – l’unico nero
dei tre – gli risponde a muso duro: “l’odio chiama odio”. A distanza di
trent’anni quella scena ancora suona, quindi non si stupisca l’europarlamentare
Sardone, la lingua dell’odio è la più facile da insegnare. (federico murzi)
(disegno di peppe cerillo)
Il mese a Roma si apre con una stretta di mano storica, quella del 3
settembre tra il nuovo papa Leone XIV e il presidente dello stato genocida di
Israele, Isaac Herzog: la stessa mano che qualche mese fa firmava le bombe
destinate a Gaza. Questo Leone è il capo dello stesso stato Vaticano che strinse
patti con Mussolini, Hitler, Franco, Salazar, Videla e Pinochet. Ma il giorno
dopo, a un passo da San Pietro, una manifestazione salpa simbolicamente in
un battello sul Tevere davanti a Castel Sant’Angelo, in solidarietà alla Global
Sumud Flotilla appena partita per Gaza; mentre la relatrice Onu Francesca
Albanese spiega in Senato le sanzioni comminatole dal governo Usa per la sua
difesa del diritto internazionale. E così per tutto il mese: il 5 a Scienze
Politiche (Sapienza) Albanese di nuovo parla delle complicità dell’università e
della ricerca nel genocidio a Gaza, mentre nel pomeriggio si celebra
un’assemblea pubblica di supporto alla Flotilla al festival Renoize (in memoria
di Renato Biagetti ucciso dai fascisti a Focene); però sabato 6 l’Ufficio
scolastico regionale del Lazio, estensione del ministro Valditara, invia
una comunicazione a tutti i dirigenti scolastici, chiedendo che non si parli di
politica nelle riunioni degli organi collegiali, “esclusivamente finalizzate
alla trattazione delle tematiche relative al buon funzionamento dell’istituzione
scolastica e sottratte a qualunque altra finalità”. Intanto, sulla Tiburtina si
protesta davanti alla sede della Leonardo, una delle fabbriche di morte che
riforniscono i massacratori dell’esercito israeliano. La sera, fiaccolata per la
Global Sumud Flotilla, da piazza Vittorio fino al Colosseo: “Siamo l’equipaggio
di terra” è lo slogan.
Lunedì 8 conferenza stampa delle organizzazioni palestinesi italiane in piazza
del Campidoglio, contro la proibizione da parte del sindaco Gualtieri dei locali
del Nuovo Cinema Aquila per promuovere la manifestazione del 4 ottobre (poi
concessi). Il 9 centinaia di persone manifestano in corteo sull’Ardeatina,
contro l’inceneritore a Santa Palomba; a Ostia muore un operaio romeno cadendo
da un’impalcatura. Al Circo Massimo una cinquantina di sionisti con le bandiere
di Israele cercano di interrompere il flash mob per Gaza che apre la festa
del Fatto Quotidiano, malmenando anche i passanti che reputano oppositori del
genocidio. Manifestazioni spontanee in solidarietà alla Global Sumud Flotilla in
varie parti di Roma, dopo l’attacco di un drone israeliano in acque tunisine: a
San Lorenzo la polizia carica sul presidio. Il 10 piove: allagamenti ovunque, e
su via Labico un albero cade travolgendo un’auto con un padre e un figlio, che
per fortuna ne escono vivi. Alla Sapienza studenti e studentesse allestiscono un
accampamento sotto la pioggia, con l’idea di rimanere finché la Flotilla non
raggiungerà Gaza. Attacco sionista al centro sociale La Strada a Garbatella:
bomba carta e scritta sessista “Di Battista puttana di Hamas” (che poi, non si
capisce che c’entri Di Battista con La Strada). Il 13 muore un neonato di parto
nella storica casa maternità “Il Nido” a Testaccio, gestita da ostetriche
professioniste: nonostante ne siano morti altri due in ospedale nell’ultimo
mese, le polemiche si dirigono solo ai parti gestiti da donne. Il 14 assemblea
cittadina indetta dalle organizzazioni palestinesi al cinema Aquila, partecipano
centinaia di persone: si proclama lo sciopero del 22 settembre e le
mobilitazioni in tutte le città d’Italia, l’interruzione di tutti i rapporti
commerciali e scientifici con Israele, la rescissione degli accordi con Teva e
Mekorot, l’introduzione nelle scuole della memoria della Nakba. La notte un
ragazzo cileno di ventun anni viene accoltellato a Ostia, e lasciato davanti
all’ospedale Grassi. Il 15 all’apertura di molte scuole ci sono sit-in
silenziosi contro il genocidio con le bandiere palestinesi. Il 16 si inaugura il
parco Thomas Sankara a Montesacro, alla presenza dell’ambasciatore del Burkina
Faso.
Martedì 17, mentre l’esercito sionista invade e devasta Gaza City da terra, un
grande corteo per la Palestina sfila da piazzale Aldo Moro a Fori Imperiali.
Dopo la manifestazione, su via Giovanni Lanza una decina di fascisti prendono a
pugni e calci due manifestanti, uno dei quali sventolava una bandiera della
Palestina. Il 18 dopo una serie di estenuanti tira e molla – tutto il Pd si era
astenuto sulla mozione – il comune di Roma fa issare una bandiera palestinese
sul Campidoglio, e ordina la revoca dell’accordo tra Acea e l’impresa idrica
israeliana Mekorot. Il portavoce della comunità ebraica romana Victor Fadlun
dichiara che la bandiera “aggrava il clima di antisemitismo”. Sciopero di
quartiere a Roma Est: picchetti davanti al Carrefour e al McDonald’s sulla
Casilina, merende solidali, assemblee pubbliche e corteo di quartiere. Domenica
21, senza passare per le estenuanti assemblee di qualche giorno fa, il Comune
affianca alla bandiera palestinese quella per gli ostaggi israeliani: l’eroismo
capitolino è durato un paio di giorni. Dalla mattina, oltre sessantamila persone
riempiono lo stadio Olimpico per il derby Lazio-Roma: il dispositivo poliziesco
include droni, elicotteri, zone di pre-filtraggio, ingressi differenziati per le
due tifoserie, nuovi divieti di sosta e sensi unici, chiusura strade e modifica
di tutta la viabilità della zona. Un gruppo di tifosi laziali espone su Ponte
Milvio uno striscione in memoria del fascista statunitense Charlie Kirk.
Lunedì 22 arriva il giorno del grande sciopero e manifestazione per la
Palestina: una marea umana riempie piazza dei Cinquecento, traboccando nelle vie
intorno, bloccando per diverse ore la stazione Termini. Un corteo non
autorizzato parte da via Cavour e dopo aver superato piazza Vittorio e Porta
Maggiore si inoltra per San Lorenzo fino a imboccare la Tangenziale. Migliaia di
persone bloccate nelle macchine reagiscono con solidarietà e senza incidenti; il
corteo risale sulla Tiburtina e termina a piazzale Aldo Moro. C’è chi calcola
oltre centomila persone: sicuramente una giornata senza precedenti, almeno negli
ultimi dieci anni. Le foto e le notizie della manifestazione arrivano su Al
Jazeera, una giornalista di Gaza ringrazia l’Italia per la solidarietà. I
giornali italiani però riempiono le loro copertine con i presunti “scontri” e
“devastazione” alla stazione di Milano. Il 24 – la mattina dopo il primo attacco
alla Global Sumud Flotilla – viene occupata la succursale del Rossellini,
istituto tecnico cinematografico di Garbatella. Sabato 27 mattina davanti al Cpr
di Ponte Galeria (prigione per persone migranti che non hanno commesso reati)
arriva la famosa statua di Marco Cavallo, simbolo della liberazione dei
manicomi, portata da un corteo di attiviste e attivisti per la chiusura dei
centri di detenzione amministrativa dei migranti. Nel pomeriggio manifestazione
al Quarticciolo per rivendicare gli spazi abbandonati del quartiere.
Il 29 viene occupato anche il liceo Cavour, davanti al Colosseo; inizia un
accampamento permanente per Gaza a piazza dei Cinquecento, in preparazione della
manifestazione nazionale del 4 ottobre. La notte qualcuno da una macchina tira
un melone e delle uova contro le tende, e la notte successiva da una macchina
gridano “Duce! Duce!”. Il 30 si occupa il liceo Russell; i lavoratori del Cnr
manifestano davanti alla sede centrale a piazzale Aldo Moro, per l’interruzione
delle collaborazioni con Israele. Il presidente del Cnr scende, ma nulla di
fatto. Nel pomeriggio un corteo di centinaia di studenti occupa anche la facoltà
di Scienze Politiche della Sapienza, dove si affigge un enorme bandiera
palestinese. Nel frattempo arriva ad Amman il primo volo che porta i
ricercatori, le ricercatrici e studenti che finalmente le mobilitazioni sono
riuscite a far arrivare in Italia: atterreranno il primo ottobre a Fiumicino.
(stefano portelli)
(disegno di escif)
La sera di sabato 27 settembre i lavoratori del Calp-Usb, Comitato Autonomo
Lavoratori Portuali, sono intervenuti nel terminal Spinelli del porto di Genova
per impedire il carico di dieci container contenenti materiale esplosivo, codice
1.x sulla nave della compagnia israeliana Zim New Zealand, che sarebbe poi
dovuta ripartire con destinazione il porto di Salerno e infine verso i porti
israeliani di Haifa e Ashdod, lungo la rotta denominata Tyrrhenian Container
Line. Questa rotta è attiva dal 25 maggio 2022, con regolari transiti
settimanali tra i porti di Fos Sur Mer, Genova, Salerno, Haifa e Ashdod.
Secondo quanto comunicato dai lavoratori del Calp, il loro intervento ha fermato
le operazioni di carico dei dieci container. I portuali hanno poi chiesto
tramite prefetto e questore che venissero controllati, per sapere cosa
contenessero effettivamente questi container contrassegnati come “materiale
esplosivo”. Hanno ottenuto il blocco delle operazioni di carico, e dopo circa
un’ora il questore ha ordinato alla nave di salpare senza i container a bordo.
La legge 185, così come numerose altre norme internazionali, vieta
l’esportazione di materiale bellico e di merci dual use (cioè che possano essere
utilizzate nella produzione di armi) verso paesi come Israele, che continua a
violare i diritti umani e commettere un genocidio riconosciuto anche dalla
Commissione internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite sul
Territorio palestinese occupato. Nel rapporto pubblicato lo scorso 16 settembre,
la Commissione ha esplicitamente concluso che le autorità e le forze israeliane
hanno commesso e stanno continuando a commettere genocidio nella Striscia di
Gaza.
La nave Zim New Zealand si trova ora nel mar Tirreno, col transponder AIS
spento, ed è programmato il suo arrivo al terminal del porto di Salerno gestito
dalla SCT della Gallozzi Group (dove arrivano tutte le navi della Zim) per le
ore 12 di questa mattina. Senza l’intervento dei portuali di Genova i container
di materiali esplosivi sarebbero transitati, illegalmente e senza ostacoli, dal
porto di Salerno, come già successo più volte in passato.
Il 5 aprile 2025, per esempio, quando era transitata impunemente la nave cargo
Contship Era, sempre della compagnia israeliana Zim, che aveva caricato a
Fos-sur-Mer “ventisei pallet, ovvero circa venti tonnellate di merci, destinate
all’IMI, Israel Military Industries, una sussidiaria di Elbit Systems, uno dei
principali produttori di armi israeliani”.
Ancora, il 26 maggio la Zim Contship Era ha fatto scalo a Salerno dopo aver
caricato a Fos-sur-Mer “due milioni di nastri per armi automatiche: un milione
di M9, utilizzate per equipaggiare armi pesanti, e l’altra metà composta da
nastri M27″. Questi ultimi, destinati ai fucili automatici leggeri, sarebbero
compatibili con il Negev 5: utilizzata a Gaza dall’esercito israeliano, questa
mitragliatrice è stata impiegata nel “massacro della farina” del 29 febbraio
2024, dove più di cento civili palestinesi sono stati uccisi nei pressi di un
convoglio di aiuti umanitari.
Anche il 9 giugno la Contship Era era a Salerno, ma questa volta a Fos-sur-Mer
la coraggiosa mobilitazione dei lavoratori portuali era riuscita a identificare
ed evitare il carico di tre container di armi, con decine di tonnellate di
nastri per mitragliatrici e per cannoni.
Autorità ed enti locali non hanno finora a Salerno proferito parola su questi
transiti. Il 23 settembre, in una comunicazione ufficiale, la SCT ha dichiarato
che “per quanto di nostra conoscenza nel porto di Salerno non vengono imbarcati
materiali bellici destinati a Israele“. Casualmente, nessun riferimento è stato
fatto ai materiali in transito, o sbarcati.
La nave cargo Zim New Zeland è stata in realtà recentemente e ripetutamente
implicata nel traffico illegale di materiale bellico verso Israele. Il 30 giugno
2025, dal porto di Ravenna, vi è partito un carico di munizioni diretto ad Haifa
(Israele), provvisto del simbolo “esplosivi” classe 1.4S. La Capitaneria di
porto locale che ne aveva confermato la presenza, e l’Ufficio delle dogane,
hanno risposto alla richiesta di accesso agli atti della giornalista Linda
Maggiori confermando che il carico militare è partito per Israele senza
autorizzazione Uama (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento
presso il Maeci), e che aveva origine dalla Repubblica Ceca. L’articolo 10 bis
comma 1 della legge 185/90 esenta però da autorizzazione solo i transiti
intracomunitari, e non quelli verso paesi terzi, quale è Israele. Per questo
tipo di trasferimenti vale inderogabilmente il regime autorizzatorio e di
controllo previsto dall’articolo 1, anche al fine della verifica di sussistenza
dei divieti espressamente contemplati dal comma 5 e 6 (divieto di export e
transito verso paesi in guerra o che violino il diritto internazionale e i
diritti umani).
È noto inoltre che il 7 agosto scorso la Zim New Zealand ha lasciato il porto
sloveno di Capodistria (Koper) con due carichi di armi diretti a Israele, e ha
fatto tappa nei porti di Venezia (8 agosto) e Ravenna (9 agosto), trasportando
“macchinari elettrici e beni militari”. La spedizione è stata effettuata per
conto della A-E Electronics, una filiale di Elbit Systems, il principale
produttore israeliano di sistemi d’arma. La nave è giunta a destinazione ad
Haifa, in Israele, il 14 agosto. Quante altre volte, senza che lo sapessimo, la
nave ha trasportato armi e merci dual use, così come le altre navi della
compagnia israeliana Zim che approdano settimanalmente a Salerno? E per quanto
tempo ancora continuerà a farlo, senza nessun impedimento da parte delle
autorità preposte al controllo?
Dal gennaio al luglio di quest’anno, secondo i siti sui traffici marittimi, sono
partiti 1.931 TEU (container standard) verso Israele, equivalenti a
potenzialmente 54.000 tonnellate di merci varie. Al di là dei materiali bellici
e dual use, queste merci permettono a Israele di continuare la strage della
popolazione palestinese. Nel frattempo nemmeno un grammo di cibo, medicine, e
altri beni essenziali alla vita, ha raggiunto Gaza dal porto campano.
È necessario e indispensabile un embargo totale verso Israele. Come ha
dichiarato il 26 settembre Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni
Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, il
problema non sono solo le armi, ma «vanno chiuse tutte le linee commerciali con
Israele. Commerciare i prodotti israeliani in questo momento per il diritto
internazionale è illegale e conformarsi al diritto internazionale significa
chiudere i porti rispetto a Israele».
Vale la pena ricordare in chiusura che un ulteriore rapporto, pubblicato il 1
luglio 2025 dalla relatrice Onu, e intitolato Da economia dell’occupazione a
economia del genocidio, esorta gli stati membri a: imporre sanzioni e un embargo
totale sulle armi a Israele, inclusi i prodotti a doppio uso (tecnologia e
macchinari pesanti); sospendere/impedire tutti gli accordi commerciali e le
relazioni di investimento e imporre sanzioni (compreso il congelamento dei beni)
a entità e individui coinvolti in attività che mettono in pericolo i
palestinesi; imporre la responsabilità legale alle entità aziendali per il loro
coinvolgimento in gravi violazioni del diritto internazionale. Le entità
aziendali sono invece esortate a: cessare prontamente tutte le attività
commerciali e le relazioni direttamente collegate che contribuiscono o causano
violazioni dei diritti umani e crimini internazionali contro il popolo
palestinese; pagare riparazioni al popolo palestinese, anche sotto forma di una
tassa sulla ricchezza dell’apartheid. Il rapporto esorta infine la Corte Penale
Internazionale e le magistrature nazionali a indagare e perseguire i dirigenti
e/o le entità aziendali per il loro ruolo nella commissione di crimini
internazionali e nel riciclaggio dei proventi di tali crimini.
A Salerno, come a Genova e Ravenna, e come in tutti gli altri porti d’Italia, la
popolazione chiede chiarezza e si sta mobilitando per pretendere la fine della
complicità col genocidio e con Israele delle autorità locali e dei gestori dei
terminal. Per fermare il genocidio e perché la Palestina possa essere libera.
(bds salerno)
(claudia cardinale in una foto del 1963)
Quando ride, i suoi occhi diventano due fessure nere, scintillanti con qualche
cosa di monellesco, di scatenato, di intenso, di meridionale. (alberto moravia
descrive claudia cardinale)
È morta martedì, a ottantasette anni una straordinaria interprete e senza ombra
di dubbio la più bella attrice della storia del cinema italiano. Della carriera
di Claudia Cardinale si sa tutto, dei Nastri d’argento e dell’Orso d’oro alla
carriera, delle infatuazioni artistiche e maschili di Fellini e Mastroianni, De
Sica e Leone, così come del suo impegno femminista e a fianco dei bambini e dei
malati di Hiv. Meno nota, almeno ai non cinefili, la sua storia personale.
Cardinale era nata nel 1938 a La Goletta, protettorato francese in Tunisia, dove
i suoi nonni (palermitani e trapanesi) erano scappati dalla Sicilia allo scoppio
della Prima Guerra Mondiale. Fino ai sedici anni non ha parlato una parola
d’italiano, dal momento che in famiglia si parlava solo in siciliano e infatti
la sua prima apparizione fu in un cortometraggio franco-tunisino del ’56, che
raccontava come le donne tunisine, negli anni della conquista dell’indipendenza,
si erano unite e avevano raccolto i propri pochi gioielli per venderli e
permettere ai mariti pescatori di acquistare piccole barche, dal momento che i
grandi imprenditori francesi con i loro pescherecci se l’erano squagliata.
Vabè se proprio te lo devo dire:
fisicamente non sei fatta male.
Ma non esageriamo, non sei la Cardinale!
E non sopporto che lo fai notare
con quel tuo modo, ti prego, di camminare!
(vasco rossi, vabè se proprio te lo devo dire)
Dopo quell’esperienza la giovanissima Claudia (anzi Claude, il suo nome
all’anagrafe) si trasferì in Italia, ma ritornò in Tunisia poco dopo, avendo
scoperto di essere rimasta incinta in seguito a una violenza sessuale subita.
Decise di tenere con sé suo figlio e di non rivelare mai il nome del stupratore.
Partì per l’Inghilterra con l’aiuto del produttore Franco Cristaldi (con il
quale avrà poi una relazione, logorata alla lunga dal fatto che lui fosse
sposato e che il divorzio fosse ancora illegale) e nascose a tutti, tranne che
ai suoi genitori, la gravidanza.
Tenne celato il segreto per sette anni, anni in cui il figlio fu cresciuto in
famiglia “come un fratello minore”, fino a quando raccontò tutto in una
intervista a Enzo Biagi, pubblicata poi su Oggi e su L’Europeo.
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/09/cardi-1.mp4
(credits in nota 1)
Si fanno sempre più insistenti i rumors sulla possibile cessione del Milan dal
magnate Gerry Cardinale alla famiglia Steinbrenner, proprietaria della squadra
Nba dei New York Yankees, società con un patrimonio di circa sette miliardi di
dollari.
Anche Gerry, come Claudia, ha origini italiane da parte di nonni (napoletane il
padre e abruzzesi la madre, imparentata pare con D’Annunzio), ma non si trovano
molte notizie su come la sua famiglia si sia fatta strada negli Stati Uniti. Lui
ha studiato ad Harvard e poi ad Oxford, ha lavorato a Goldman Sachs e poi ne è
diventato partner. Ha creato un fondo di investimenti e attraverso quest’ultimo
ha acquistato quote di varie compagini sportive, tra cui il Liverpool e gli
stessi Yankees.
Nella sua gestione certo non memorabile (finora: i miei amici milanisti di
fantacalcio sono sicuri che con Allegri in panchina e il Bebote in avanti i
rossoneri possano puntare al Triplete), Cardinale ha costituito un fronte con il
presidente dell’Inter Marotta, per scardinare gli ostacoli che gli impediscono
una mega-speculazione sul fronte stadio. Mentre scrivo mi è tornato in mente che
qualche settimana fa, dopo una pessima partita dei nerazzurri, Marotta si fiondò
davanti alle telecamere, prese di forza i microfoni della Rai («C’è il
presidente che vuole fare un annuncio su un argomento molto serio») e avviò un
patetico comizio su come lo Stato sia freno allo sviluppo dell’economia e su
come gli imprenditori stranieri si rifiutino di investire nel nostro paese per
colpa delle tasse e della burocrazia.
A seguire potete trovare due articoli pubblicati su Monitor che spiegano come
stanno veramente le cose:
Le mani sulla città. Il quartiere San Siro e il modello Milano (giugno 2021)
Milano, grande capitale e privato sociale all’attacco di San Siro (settembre
2022)
…e l’estratto di un testo più recente pubblicato dal Comitato Salviamo San Siro,
come chiamata a una manifestazione svoltasi questa mattina al Parco dei
Capitani:
La delibera per la vendita dello stadio San Siro e delle aree circostanti è
approdata ieri a Palazzo Marino, ma il voto è stato rinviato a lunedì 29
settembre. Non un rinvio qualsiasi: in quella data il consiglio si riunirà
in seconda convocazione, e basteranno appena quindici consiglieri per rendere
valida la seduta e approvare il provvedimento. Un escamotage voluto dal sindaco
Beppe Sala per far passare, a tutti i costi, l’operazione più contestata degli
ultimi anni: la svendita di San Siro ai fondi legati a Inter e Milan. […]
La tensione a Palazzo Marino è stata altissima. La vicesindaca Scavuzzo è
stata fischiata dopo la presentazione della delibera. Le opposizioni hanno
denunciato irregolarità nelle procedure: la delibera è stata considerata
“licenziata” dalle commissioni anche se non tutte avevano terminato l’esame […].
Era stata anche tentata una sospensiva, respinta dalla maggioranza, che avrebbe
permesso di studiare meglio il testo ed evitare l’abbassamento del numero
legale.
La vera posta in gioco è la speculazione edilizia. Al di là della retorica sul
nuovo stadio, la realtà è chiara: i fondi interessati non mirano alla
riqualificazione dell’impianto, bensì alla sua demolizione per liberare un’area
enorme da trasformare in una colossale operazione immobiliare. Un’operazione che
rischia di cancellare non solo un simbolo della città, ma di consegnare ai
privati un pezzo di patrimonio collettivo, spalancando la strada a una
speculazione edilizia senza precedenti. (comitato salviamo san siro, 26
settembre 2025)
Claudio è mezzo fascio e tifa la Lazio,
fa feste da paura nella casa a Capalbio.
Flaminia fa la squillo a Collina Fleming
l’hanno vista col maestro di tennis.
Giulio si atteggia come un criminale
ma c’ha lo zio che fa il cardinale.
Vittoria invece studia alla LUISS
e spaccia coca nei momenti bui.
(il pagante ft. carl brave, la grande bellezza)
a cura di riccardo rosa
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¹ Claudia Cardinale in: Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana
illibata, di Luigi Zampa Tarantino (1971)
(disegno di marta fogliano)
Bagnoli è tornata in primo piano sulle pagine dei giornali locali e nazionali.
Lunedì, per l’arrivo del presidente della Repubblica e del ministro
all’istruzione, che hanno inaugurato l’anno scolastico in un clima surreale,
visitando scuole al cospetto di pochi docenti e pochissimi studenti, selezionati
con la promessa di interlocuzioni concordate, dopo che persino i laboratori con
ragazzi e ragazze che quegli istituti li frequentano erano stati annullati. Al
termine della giornata, il presidente ha rifiutato di incontrare una delegazione
dell’assemblea che da sei mesi riunisce centinaia di cittadini per fronteggiare
la crisi bradisismica e la superficialità con cui le istituzioni la stanno
affrontando.
Nel pomeriggio di ieri, invece, è stata presentata al consiglio comunale una
informativa del sindaco sulla rigenerazione dell’ex area industriale e
sull’organizzazione della Coppa America di vela, che arriverà a Bagnoli nel
2027. Un’iniziativa che pone innanzitutto una questione di metodo, considerando
che da tempo immemore non si dedicava un consiglio ad hoc a uno dei temi più
importanti della città. Il sindaco e la sua giunta, su questo, almeno non
peccano di ipocrisia: su Bagnoli, infatti, il consiglio comunale è del tutto
svuotato dalle sue prerogative, che sono assegnate al commissario straordinario
(lo stesso Manfredi); il quale in assoluta autonomia, e spalleggiato dal
governo, ha fatto scelte dalla portata storica, che hanno sì “sbloccato”
l’impasse dovuta a trent’anni di devastazioni amministrativo-ambientali, ma a
carissimo prezzo per i cittadini. Tra queste scelte, vale la pena ricordarne un
paio: la prima è la cancellazione di uno dei punti cardine del piano regolatore,
ovvero il ripristino della morfologia della costa con una grande spiaggia libera
da Nisida a Pozzuoli; la seconda è la permanenza e l’utilizzo della colmata per
i cosiddetti “grandi eventi”, con l’inaugurazione di una stagione di frizzi e
lazzi che finirà per sottrarre buona parte di quella linea di costa ai
cittadini.
All’altezza delle sue azioni, sono le parole del sindaco, dal cui discorso vale
la pena riportare alcuni punti emblematici.
1) È inutile allarmarsi e paventare speculazioni come la costruzione di un porto
turistico. Lo sviluppo di Bagnoli è regolato da un piano, dice Manfredi, e noi
lo rispetteremo (in realtà il famoso Praru è già stato stravolto, per esempio
per permettere il mantenimento della colmata a mare).
2) Il litorale non sarà dedicato tutto a spiaggia libera, perché sarà interrotto
dalla colmata, che sarà comunque adibita alla balneazione (quando non ci si
faranno sopra altre coppe o coppette). Certo, chi vorrà fare il bagno da lì
«dovrà saper nuotare» perché tra la colmata e il mare c’è un dislivello di circa
due metri che non verrà azzerato. L’utilizzo di parte della sua superficie sarà
inoltre appannaggio delle federazioni sportive di vela e canottaggio (a tutti
gli effetti associazioni di diritto privato).
3) L’area di balneabilità sarà delimitata da una scogliera soffolta, una scelta
rischiosissima secondo molti tecnici: oltre a possibili effetti sulla flora e la
fauna marina dovuti al surriscaldamento dell’acqua, la barriera potrebbe
comportare una difficoltà per alghe e altri sedimenti a riprendere il largo, una
volta entrati in quella che diventerebbe, più che una baia balneabile, una
piscina naturale.
4) Garantire la balneabilità della zona antistante alla colmata sarà priorità
assoluta, per permettere lo svolgimento della Coppa. Per gli interventi sui due
litorali a est e ovest (lato Coroglio e lato Dazio, quelli dove si farà la
spiaggia libera) «si dovrà aspettare».
5) «Non sarà la Coppa America dei ricchi e degli yatch ma di tutti i napoletani»
(e su questo non vale la pena nemmeno commentare, basta leggere i nomi degli
sponsor per capire qual è il target di riferimento di questa competizione).
Quello che va detto è che, pur tra tante inesattezze, la relazione del sindaco è
comunque superiore, per tenore e retorica, agli imbarazzanti interventi dei
consiglieri che si soffermano per lo più sulla favoletta “della grande
occasione”, dell’accelerazione al processo di rigenerazione e tante altre
sciocchezze propagandistiche. Voci sparute, dall’opposizione, fanno emergere il
rischio della privatizzazione del bosco urbano attraverso i fantomatici
“servizi”; qualcun’altro riprende il tema del “pacco” ricevuto con l’accordo per
l’acquisizione dei suoli della Cementir; ma il vero paradosso è che il solo
intervento degno di nota è quello dell’ottuagenario Bassolino, che soffre
visibilmente e fisicamente nel vedere i suoi progetti degli anni Novanta
smantellati pezzo a pezzo, proprio lui che sulla variante ovest aveva fatto un
enorme investimento politico prima di defenestrare Vezio De Lucia e gli altri
difensori di quel piano.
È l’unico, il vecchio sindaco, a richiamare in causa temi politici come il
risarcimento sociale e ambientale dovuto alla gente di Bagnoli dopo cento anni
di fabbrica, il rispetto dei piani urbanistici costruiti “insieme” e non “a
discapito” dei cittadini, la pericolosità di non uno ma forse addirittura due
porti turistici, il rischio che i privati possano impossessarsi degli spazi del
bosco urbano. Su quest’ultima questione, sempre furbescamente, il sindaco crede
di lavarsi le mani ripetendo quindici volte che «quei suoli sono di proprietà di
Invitalia» e che quindi il comune può farci poco. Nessuno gli fa notare che se
quei suoli sono di Invitalia è proprio per colpa dell’ente che lui presiede: nel
2000 il Comune aveva infatti comprato i suoli dalla Fintecna (ex Medelil e
Cimimontubi), ma siccome non gli ha mai dato ottanta dei cento milioni che gli
doveva, e siccome non è stato capace di fare nulla di buono in trent’anni, il
governo ha avuto il pretesto per commissariare l’area e riprenderseli. Se quei
suoli non appartengono alla città è solo colpa del comune di Napoli, che ora non
può venire a lamentarsi davanti ai cittadini, ma deve trovare soluzioni per
impedire che Invitalia ne lottizzi spazi ai privati.
Detto ciò (anzi non detto ciò, perché nessun consigliere lo sa, o ha il buon
senso di dirlo) il consiglio si avvia alla fine senza sussulti. Al termine del
dibattimento i capigruppo firmano, su pressione dei comitati territoriali
presenti in aula, un documento che prevede un nuovo consiglio monotematico, da
svolgersi nel quartiere, e con un ordine del giorno concordato con gli abitanti.
Due consiglieri dell’opposizione presentano un documento più puntuale, che
recepisce diverse delle istanze su cui lottano al momento le varie Assise di
Bagnoli, Laboratorio Politico Iskra, Lido Pola, Rete No Box, Assemblea Popolare,
Mare Libero e tutti gli altri. Dalla giunta assessori e sindaco borbottano,
lasciano intendere che non lo voteranno, dal momento che vi si chiede con forza
quella procedura Vas (Valutazione di impatto ambientale) che governo e comune
stanno cercando in ogni modo di evitare, e che si parla di spiaggia pubblica
ininterrotta tra Nisida e Pozzuoli.
Pur di farlo approvare dalla giunta, allora, i consiglieri Sergio D’Angelo e
Gennaro Esposito ne cambiano il testo, inserendo qualche parolina per lasciare
intendere che la spiaggia sarà ininterrotta (ergo: senza colmata piazzata lì in
mezzo) solo se la Vas di cui sopra riterrà inopportuna la permanenza della
colmata. Si tratta, insomma, di una questione ambientale e non politica.
Sono soddisfazioni dopo trent’anni di battaglie. E poi si lamentano pure che uno
non va a votare. (riccardo rosa)
Fotogalleria a cura di Giuseppe Carrella
(disegno di ottoeffe)
E affacciati alle loro finestre nel mare
tutti pescano mimose e lillà.
E nessuno deve più preoccuparsi
di via della Povertà.
(fabrizio de andrè, via della povertà)
Siccome non avevo di meglio da fare, venerdì sera mi sono messo a cercare sui
siti internet istituzionali la VIA – Valutazione di impatto ambientale per la
Coppa America a Napoli. I lavori a Bagnoli stanno per cominciare e nella zona
della colmata si respira un certo fermento, ma della VIA non c’è traccia (in
compenso è stata da poco pubblicata una assai meno utile VI, a cui in fondo
manca solo la A, ovvero Valutazione di incidenza delle opere sul contesto
circostante).
La Valutazione è un curioso Pdf di cento pagine che spiega nel dettaglio gli
interventi previsti, dall’installazione dei pontili galleggianti alla barriera
di scogli soffolta, che secondo diversi biologi avrà effetti devastanti
sull’ecosistema marino della baia (è bene sottolineare sempre che il
mantenimento della colmata promosso dalla ditta Meloni-Manfredi impedirà il
ripristino della morfologia di costa e la rinascita di una grande spiaggia
libera, che in trent’anni di dure battaglie gli ex operai, gli ambientalisti, i
comitati territoriali, le associazioni del quartiere erano riusciti a imporre
non in un solo piano, quello De Lucia, ma addirittura in due, considerando il
famoso Praru* poi smantellato dal gatto e la volpe di cui sopra).
Nonostante le rassicurazioni – le parole più usate nel documento sono “bassa” e
“trascurabile”, ma mai “nulla”, rispetto all’incidenza delle attività di
progetto su flora e fauna del luogo – sembra che oltre a svariate varietà di
piante e fiori, a farne le spese saranno gli animali, tra cui la tartaruga
Carretta Carretta e il Gabbiano Reale (il documento sostiene che tutti gli
animali che andranno via sicuramente torneranno, e la cosa fa pensare un po’ ai
terremotati che in questi mesi stanno lasciando il quartiere; ma questa è
un’altra storia).
Le attività di cantiere, a causa del rumore prodotto dai macchinari e mezzi e
dalla loro presenza in situ, determinano un impatto diretto sulle specie
ornitiche che frequentano la fascia costiera con conseguente loro
allontanamento. L’impatto risulta a carico delle specie dell’avifauna
prevalentemente marina le quali potrebbero dirigersi verso aree costiere che
risultano meno disturbate o subire un’interferenza con il loro ciclo
ontogenetico. (valutazione di incidenza – 38th America’s Cup Louis Vuitton)
I gabbiani, lo sapete anche voi, non vacillano, non stallano mai. Stallare,
scomporsi in volo, per loro è una vergogna, è un disonore. Ma il gabbiano
Jonathan Livingston – che faccia tosta, eccolo là che ci riprova ancora, tende e
torce le ali per aumentarne la superficie, vibra tutto nello sforzo e patapunf
stalla di nuovo – no, non era un uccello come tanti. (richard bach, il gabbiano
jonathan livingston)
Chissà se il segreto è non vacillare, non essere un uccello come tanti, o alla
fine, come a Jonathan Livingston, questo ci si ritorcerà sempre contro. Ci
pensavo l’ultima volta che sono stato sul Pontile Ferdi, un posto noto ai
bagnolesi come la Sala pompe, perché nell’edificio che vi si trova erano
ospitati i macchinari per il trasporto dell’acqua utilizzata nel processo di
produzione industriale dell’acciaio.
(la sala pompe in una foto degli anni sessanta)
Attraversando quel che resta della Sala pompe, e destreggiandosi tra i relitti
arrugginiti, ci si trova davanti uno spettacolo incredibile, soprattutto al
tramonto. Siamo in uno dei posti più suggestivi del quartiere, sicuramente il
più silenzioso, molto meglio del più noto Pontile Nord sempre affollato di
runner e di persone che vogliono godersi il panorama. Un posto che non di rado
riserva sorprese, come una volta in cui ci trovai a riflettere un amico che vive
e lavora dall’altra parte della città o un fotografo che tra le rovine faceva
uno shooting a delle adolescenti del quartiere. La Sala pompe si appresta a
breve a una scenografica e tragica fine.
La demolizione dell’impalcato avverrà tramite tagli controllati con filo e disco
diamantato, che consentiranno di suddividerlo in blocchi gestibili per il
sollevamento e la movimentazione con gru. I pali di fondazione saranno tagliati
alla base e rimossi con autogrù, con l’ausilio di attrezzature subacquee nei
tratti sommersi per assicurare precisione e pulizia delle operazioni.
(valutazione di incidenza – 38th America’s Cup Louis Vuitton)
Piante, gabbiani, tartarughe e pontili. Sgomberati, sfollati e lesionati.
Affittuari allo stremo, commercianti a basso reddito, attività storiche. Fiori
azzurri e tempi grigi. Via di qui.
Via via,
vieni via di qui.
Niente più ti lega a questi luoghi,
neanche questi fiori azzurri.
Via via,
vieni via con me.
Neanche questo tempo grigio,
pieno di musiche
e di uomini che ti son piaciuti.
(paolo conte, via con me)
Quando ero bambino mio zio portava spesso me e i miei fratelli in giro in
macchina per Napoli, a farci vedere le vedute più belle del golfo dalle strade
panoramiche. Non di rado si fermava all’improvviso a chiedere, per lo più a
persone anziane, indicazioni per strade assurde, tipo “via Gianfranco Zola” o
“via vecchia Tom e Jerry”, e giù risate dai sedili posteriori. Oggi che pure c’è
Google Maps e la gag ha quindi perso buona parte del suo significato, c’è un
ragazzo che fa lo stesso accumulando migliaia di follower sui social, me
incluso.
Avevo un dubbio a un certo punto su quale parola scegliere per questa settimana,
poi, una notte che non dormivo, su Canale21 stavano trasmettendo Delitto in
Formula 1 di Corbucci, con Tomas Milian e Bombolo. A un certo punto proprio
Bombolo, che interpreta il tuttofare Venticello, deve mettere al sicuro la
famiglia dell’ispettore, che lo incarica di portare tutti a Frascati, dalla
suocera, la signora Proietti, alla via dei Santissimi Martiri.
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/09/milian.mp4
(credits in nota 1)
a cura di riccardo rosa
__________________________
* Programma di Risanamento ambientale e Rigenerazione urbana
¹ Tomas Milian e Bombolo in: Delitto in Formula 1, di Bruno Corbucci (1984)
(disegno di otarebill)
Andrea Bottalico, La logistica in Italia. Merci, lavoro e conflitto, Carrocci,
Roma, 2025, pagg.119, euro 14.
Questo volume di Andrea Bottalico, ricercatore esperto del settore, propone una
ricognizione esaustiva e politicamente stimolante sul tema “logistica”. Infatti,
seguendo un metodo ormai consolidato della ricerca sociologica e storiografica
(soprattutto di matrice operaista), l’autore intreccia in ogni capitolo la
dimensione organizzativa del fenomeno e quella relativa al rapporto sociale
sottostante: alle sue figure, alle sue contraddizioni, ai suoi conflitti. La
conoscenza vera di un comparto del capitalismo industriale, si può praticare
oggi solo in questo modo: indagando contemporaneamente la struttura e le movenze
del soggetto sociale che la abita. L’analisi della “produzione di classe
operaia” – cioè l’analisi dei soggetti reali che vivono il rapporto di capitale
– diventa così inscindibile dallo studio dell’assetto organizzativo del settore.
E il conflitto è la risultante della continua modificazione che tale rapporto
subisce.
Bottalico propone innanzitutto una perimetrazione – non scontata né
semplicissima – dell’oggetto della sua ricerca: “Oggi è possibile acquistare un
qualsiasi prodotto on line che arriva a casa domani grazie a una cosa che non è
affatto gratis. Questa cosa è il lavoro di uomini e donne quotidianamente
impiegati e sfruttati nella catena logistica del trasporto merci. Senza i
lavoratori e le lavoratrici, il flusso di beni e servizi da cui siamo dipendenti
si fermerebbe. La logistica si presenta come un universo costituito da
molteplici galassie. È una dimensione complessa da delimitare, così come lo sono
le attività di trasporto, approvvigionamento, distribuzione a cui viene
generalmente associata. Nel tempo la logistica si è trasformata in un termine
chiave come una parola d’ordine, e non è un caso che il suono di questa parola,
di origine greca, richiami qualcosa di militare. […] Oggi parlare di logistica
significa ragionare sull’organizzazione di filiere che si sviluppano su una
scala molto ampia, soprattutto in seguito ai cambiamenti tecnologici avvenuti
nel corso degli ultimi decenni (flotte aeree moderne, containerizzazione,
espansione del trasporto marittimo e su gomma, digitalizzazione). Mutamenti che
hanno inciso sull’organizzazione della produzione facendo emergere colossi come
Amazon, Walmart, Ups, FedEx, Dhl, Tnt, Gls, Msc”. (pag. 9)
Partendo dalla definizione, difficile e non univoca, della categoria, si capisce
quanto le trasformazioni organizzative – in direzione della piena integrazione
di diverse fasi un tempo separate, che oggi si presentano come “flusso”
integrato e costante che avvolge il pianeta e la produzione – abbiano
sostanziato la fase storica della globalizzazione. Quella stagione cruciale
sarebbe semplicemente incomprensibile senza la conoscenza delle innovazioni
tecnologiche e delle ricadute sociali, infrastrutturali e urbanistiche, che la
logistica ha prodotto negli ultimi cinquant’anni.
La tesi dell’autore è che la logistica italiana si pone come “anomalia”,
rispetto ad analoghi processi europei. È un settore “usa e getta”, ad alta
intensità di mano d’opera dequalificata e sottopagata, con un altissimo tasso di
esternalizzazione delle attività di magazzinaggio e trasporto – ormai affidate
quasi esclusivamente a soggetti esterni al rapporto tra produttore e clienti.
Questa tendenza nazionale ha prodotto enormi sacche di illegalità, la
costituzione di una autentica jungla di cooperative spurie delegate a coprire
questo ambito essenziale del processo di produzione/circolazione delle merci.
Tale è stata la pressione al ribasso sulla forza lavoro, che i bassi salari e la
precarietà sono diventate la condizione sine qua non per la sopravvivenza di
molte di queste imprese le quali, se poste nella condizione di legalizzare il
loro profilo, vedrebbero il sostanziale azzeramento del margine di profitto.
“L’ipotesi che guida questo volume è che alcuni processi come
l’esternalizzazione delle funzioni logistiche, la repressione dei diritti
sindacali, la violenza sul posto di lavoro, l’illegalità strutturale e lo
sfruttamento sistematico, l’assenza di tutele e il caporalato sono state le
precondizioni per lo sviluppo della catena logistica del trasporto merci in
Italia come settore dinamico e in continua crescita. Questi fenomeni non sono
stati un effetto, ma una causa della traiettoria di sviluppo del modello
logistico italiano. Si è trattato dunque di un modello emerso nel corso degli
ultimi decenni. Un modello composto da elementi sempre più caratterizzanti il
mondo del lavoro del nostro tempo, al quale le forme autonome del conflitto si
sono opposte ereditando dal passato partiche ed esperienze di lotta”. (pag. 11)
Bottalico individua, in tema di “movimentazione delle merci” tre precise fasi
storiche della vicenda italiana, che caratterizzano rispettivamente: la
ricostruzione post-bellica, il boom economico e la configurazione d’impresa nel
mondo globalizzato. Sono le tre dimensioni fondate sullo sviluppo della rete
ferroviaria, del trasporto marittimo tradizionale e infine della intermodalità
integrata e verticale che caratterizza i flussi attuali. A queste tre fasi
corrispondono tre dinamiche di protagonismo operaio: la storica figura
sindacalizzata dei ferrovieri, ridimensionata dalla perdita di centralità dei
binari rispetto al trasporto su gomma negli anni del boom; quella dei lavoratori
portuali, che hanno subito i colpi della privatizzazione delle banchine negli
anni 80/90; e infine il soggetto operaio della logistica moderna, che richiede
una narrazione “in diretta” della sua composizione e dei suoi movimenti. Tre
figure sociali profondamente diverse, che hanno conosciuto progressi e
sconfitte, interagendo in modo conflittuale con la forma impresa che
caratterizzava le diverse fasi storiche.
La composizione della forza lavoro del settore logistico – parliamo di
professionalità, potere sulla prestazione, coscienza del proprio ruolo sociale –
è ovviamente li prodotto delle enormi trasformazioni che il settore ha subito
nei decenni. La containerizzazione e le tecnologie digitali azzerano la
manipolazione dei carichi, con una progressiva estromissione della forza lavoro
dai settori “centrali” della filiera – pensiamo ai porti iper-tecnologizzati in
cui l’intervento umano si sposta “a latere” di ogni operazione – e un incremento
esponenziale negli anelli terminali del ciclo, retroporti, hub e magazzini sui
territori.
“La diffusione del container favorisce l’emergere della logistica integrata. La
storia della logistica in Italia, da questa prospettiva, coincide con la storia
della intermodalità, una novità dirompente che consiste nella possibilità di
usare in maniera integrata due o più modi di trasporto per consegnare la merce.
In generale per intermodalità si intende una rete coordinata di vettori ed
utenti che operano in concerto allo scopo di trasferire la merce attraverso modi
e combinazioni di trasporto diverse e contigue. […] È dal trasporto intermodale
che deriva il modello Door to Door, consistente in un singolo carico controllato
da un singolo vettore e coperto da un singolo documento, laddove il cliente (o
committente) tratta con il vettore esclusivamente il trasporto dall’origine alla
destinazione. In questi anni avviene dunque una integrazione che finisce per
investire la stessa concezione del trasporto, non considerato più come una somma
di attività separate e autonome di singoli vettori interessati, ma come un’unica
prestazione da origine a destino, in una visione globale del processo di
trasferimento di una merce”. (pag. 10)
L’autore nella sua ricerca ha giustamente focalizzato la sua attenzione sui
fenomeni di esternalizzazione delle funzioni logistiche – il viaggio della merce
dall’uscita dei luoghi di produzione verso la sua destinazione. Resta da
indagare un altro grande filone di ricerca – comunemente inserito nella
definizione di “logistica” – che è quello dei cosiddetti “appalti interni”: il
processo che negli ultimi venti anni ha portato moltissime aziende industriali a
isolare reparti e fasi del ciclo per affidarli in appalto a imprese (spesso
cooperative, spesso in totale subordinazione organizzativa rispetto al
committente) operanti all’interno dei perimetri aziendali. Una sorta di
“delocalizzazione interna” che ha favorito uno spezzettamento delle condizioni
contrattuali e un indebolimento complessivo dell’unità di classe, anche dentro i
luoghi “centrali” del processo produttivo.
Sono molti gli spunti di analisi interessanti che questo libro propone, anche
per i non addetti ai lavori. Soprattutto quelli relativi alla lettura della
logistica italiana come “metafora” dello sviluppo distorto del capitalismo
italiano nell’ultimo trentennio. Ciò che è accaduto in questo comparto
produttivo – frammentazione organizzativa, deflazione salariale, precarietà,
sfruttamento – è solo il riflesso, magari in forme esasperate, di ciò che ha
riguardato tutto lo spettro del lavoro sociale. Così come l’acquiescenza del
legislatore, che non ha governato la crescita malata e anomala del settore
logistico, ma ne ha solo accompagnato l’espansione: con ricadute fondamentali
anche nel ridisegno delle aree portuali, degli interporti, delle zone
industriali, delle politiche urbanistiche e territoriali affidate come sempre
alla commistione di interessi tra privati e ceto politico compiacente o succube.
Solo gli scioperi hanno scoperchiato il pentolone del malaffare e indicato –
anche ai ricercatori – la strada dell’analisi impietosa e della denuncia
pubblica di queste degenerazioni. I facchini – organizzati dai sindacati di
base, poveri, precari e sottopagati – sono stati capaci di scoperchiare un
pentolone maleodorante che molti fingevano di non vedere. Non basterà il Decreto
Sicurezza per ricondurre i lavoratori al silenzio e azzerare le conquiste di
questi anni, strappate dalle lotte e pagate a caro prezzo, con morti nei
picchetti, inchieste, arresti e licenziamenti. (giovanni iozzoli)
(archivio disegni napolimonitor)
Il Decreto Caivano e altre misure di recente approvazione hanno comportato un
inasprimento del livello di criminalizzazione nei confronti di soggetti come i
giovani delle classi popolari, dei territori più marginalizzati, dei migranti,
nonché l’istituzione di nuovi reati atti a colpirli e un’impennata di condanne a
pene detentive. Ma questi interventi normativi hanno anche fatto sì che
emergesse la necessità di un piano di potenziamento delle strutture detentive
per minori e l’apertura di nuove carceri.
L’intervento ministeriale che prevede l’apertura di quattro nuovi Istituti
penitenziari minorili (Ipm), insieme a L’Aquila, Rovigo e Lecce, individua come
sede anche la piccola città campana di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di
Caserta. La struttura individuata come futuro penitenziario è l’Istituto
Angiulli, già in passato centro di detenzione minorile, ma che a oggi ospita,
oltre a un museo e una biblioteca comunale, un Centro diurno polifunzionale.
Questo centro, racconta una volontaria che vi opera, offre un modello
alternativo di scontare la pena, a partire da attività che permettano ai ragazzi
di costruirsi strumenti di crescita attraverso corsi di formazione lavorativa e
non, come la falegnameria e il laboratorio di restauro di moto d’epoca: «Abbiamo
anche a disposizione impianti sportivi e un teatro, ma non abbiamo mai ricevuto
i fondi destinati alla loro ristrutturazione».
Il futuro dell’Angiulli è ancora incerto. In un primo momento si era parlato di
chiusura, poi di trasferimento, ma la difficoltà a trovare i locali adatti per
dare continuità alle attività del centro, in una città in cui mancano gli spazi
tanto per l’istruzione quanto per l’attività sociale, è enorme. Ancora più
preoccupante è il silenzio delle istituzioni locali su una decisione calata
dall’alto dal governo, considerando anche che, poco meno di dieci anni fa,
l’attuale sindaco Mirra (eletto con una coalizione civica in quota
centrosinistra) sbandierava come una vittoria la riqualifica della struttura.
Come a L’Aquila, in ogni caso, dove l’inaugurazione del nuovo Ipm è stata
presentata come una vittoria, il “modello Caivano” arriva a Santa Maria con
l’intento di “combattere il disagio giovanile”, un disagio che ha ovviamente
radici profonde, e ben radicate altrove: edifici scolastici inadeguati,
un’istruzione votata unicamente alla formazione di futuri lavoratori precari e
ricattabili, costante e asfissiante presenza di polizia ed esercito in tutte le
scuole della provincia di Caserta, con controlli ed eventi propagandistici
imbastiti con il solo fine di racimolare consenso e arruolamenti, assenza di
impianti sportivi e di luoghi di socialità accessibili anche alle classi meno
abbienti. E ancora: emergenza abitativa, lavoro nero e precario, una criminalità
organizzata onnipresente e sempre alla ricerca di nuova manovalanza. Il
risultato più evidente di tutto ciò è la fuga, per chi può permetterselo, da una
gabbia a cielo aperto fatta di sfruttamento, abbandono e marginalità. E chi non
può fuggire, si arrangia.
In realtà, il rapporto tra marginalità e istituzioni totali è ancora più
evidente su territori come questo. La situazione a Santa Maria Capua Vetere,
dove già nel 2020 si consumò una mattanza di detenuti nella casa circondariale
Francesco Uccella, è il riflesso di un’emergenza che attraversa l’intero paese e
che riempie le carceri di “elementi di disturbo”: sovraffollamento, violenze
contro i detenuti, isolamento e condizioni di vita indignitose accomunano le
carceri ai lager di Stato, i cosiddetti Cpr, e sono in aumento anche negli
istituti minorili. I tassi elevatissimi di recidività, i suicidi e i continui
atti di autolesionismo ne sono la prova più lampante.
Davanti a questa escalation, qualcosa però si muove. Lo scorso maggio a Santa
Maria Capua Vetere si è tenuto un presidio proprio fuori all’istituto Angiulli
con un messaggio molto chiaro: totale opposizione alla riapertura dell’Ipm e a
nuove carceri minorili su tutto il territorio italiano; richiesta di fondi per
il potenziamento del Centro diurno polifunzionale, delle scuole, degli ospedali
e dei servizi pubblici nel casertano; denuncia dei piani securitari del governo
Meloni e del silenzio dell’amministrazione locale. Naturalmente si è trattato
solo di un primo passo di un percorso che tenta di rimettere sotto i riflettori
il tema del carcere e la sua normalizzazione, ancora di più in aree di provincia
e di periferia: un tentativo che avrà seguito con altre iniziative a partire dal
prossimo autunno e che avrà bisogno di voce e supporto anche da parte di tutti
gli altri territori. (raul lamia)