(quadro di fernando eros caro dal braccio della morte, san quentin)
Si può vivere, si può morire
ma non si può vivere aspettando di morire
(fernando eros caro)
In Italia la pena di morte è stata abolita nel nuovo codice penale militare di
guerra nel 1994 e in Costituzione solo nel 2007. Nel codice penale vige tuttavia
la pena dell’ergastolo che non costituisce un’alternativa alla pena di morte, in
quanto essa stessa è una pena fino alla morte. La stessa pena di morte nel
mondo non è più lo spettacolo patibolare del passato, ma una esecuzione
durevole nel tempo, che si consuma nei bracci della morte e che si può
protrarre anche per molti anni prima dell’azione del boia. Pena di morte ed
ergastolo sono quindi due istituti penali che inducono uno stato di agonia nelle
persone che vi vengono condannate, decretandone la morte ad ogni prospettiva
sociale e un lento “vivere morendo”.
Al 31 dicembre 2024 in Italia le persone recluse in questo stato agonico indotto
erano 1890, 143 di cittadinanza non italiana, 38 le donne. […] Utilizzando
strumentalmente come apripista il femminicidio, il governo italiano sta cercando
di introdurre una ulteriore fattispecie di ergastolo. Il disegno di legge
governativo finalizzato all’introduzione nel codice penale del delitto specifico
di femminicidio, prevede infatti come pena una forma di ergastolo automatico,
sottratto alla valutazione del giudice. […]
Già nella precedente edizione di Arte contro le pene capitali osservavamo che
in un momento storico in cui l’istituzione della guerra ha preso il sopravvento,
ergastolo e pena di morte estendono la loro presenza e prendono nuove forme. Per
esempio, la lotta contro la pena di morte non può esimersi dal condannare le
esecuzioni extragiudiziali praticate nello scenario globale da Stati Uniti e
Israele contro coloro che, considerati nemici dell’Occidente ed etichettati come
“terroristi”, subiscono condanne a morte senza procedimenti giudiziari, che
vengono eseguite uccidendo intenzionalmente chiunque si trovi nei pressi della
persona designata. […] Ancora, se si prende come esempio lo stato di Israele e i
tribunali militari che nella Palestina occupata erogano le condanne
all’ergastolo e ogni altra pena a uomini e donne palestinesi, si vede come
questa pena di morte extra giudiziaria tende a sovra determinare ogni altra
forma di condanna giudiziaria. È bene dire, inoltre, che il popolo palestinese
di Gaza, con l’affermarsi dell’intenzione genocida da parte di Israele e
l’istituzione dei dispositivi che realizzano questa intenzione, è stato
schiacciato in una condizione agonica. Costretto quindi a “vivere morendo”.
Riproponiamo quindi anche quest’anno a Napoli una giornata dedicata
all’esposizione di opere d’arte, ad azioni visuali, teatrali, letterarie,
musicali, danzanti e relative a ogni altra forma creativa, per sensibilizzare la
cittadinanza intorno al tema delle condanne capitali. È, il nostro, un percorso
che intendiamo sul lungo periodo, che intende battersi contro la pena di morte e
la pena fino alla morte, e che non può esimersi, in questo periodo storico, dal
considerare le diverse forme che va assumendo il potere di dare la morte. Questo
potere va anche al di là delle forme che la guerra ha assunto storicamente come
guerra fra Stati: viene esercitato verso i popoli colonizzati, le classi
sfruttate, i poveri del mondo, nonché gli umani che resistono, e che riescono a
generare, malgrado tutto, momenti di vita.
È stato scelto per l’evento l’ex Ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli
perché i manicomi criminali sono stati luoghi di internamento per persone che,
dichiarate incapaci di intendere e di volere al momento dell’esecuzione di un
reato, venivano sottoposte a misure di sicurezza detentive prorogabili
indefinitamente e dette per questo: “ergastoli bianchi”. Ciò sollecita lo
sguardo abolizionista a prestare attenzione a tutte le forme indeterminate, sia
di pena che di misura di sicurezza, basare sull’attribuzione della pericolosità
sociale, che ancora perdurano e si rinnovano.
Il programma dettagliato della giornata del 2 novembre si può leggere qui.
A seguire invece pubblichiamo Pinocchio in carcere, un testo ricevuto da Claudio
Furnari, condannato all’ergastolo e attualmente detenuto nel carcere di Sulmona.
Pinocchio come tutte le mattine esce di casa per andare nella sua campagna,
essendo primavera. Con lui aveva un piccolo paniere, pensando che le ciliegie
erano mature, quindi cammina spensierato nella strada. Di colpo viene fermato
dalle guardie del re che senza nessuna spiegazione lo portano in carcere.
Durante la strada Pinocchio chiede il perché viene arrestato e come risposta il
capo guardia gli dice: «Abbiamo ordini dall’alto», ma Pinocchio non capisce
visto che non aveva fatto nessun male. Lo portano in un grande camera e, là
trova un sacco di persone, ognuno scontava la loro pena. Alla vista di Pinocchio
ci fu una gran curiosità da parte di tutti, ognuno gli chiedeva: «Cosa hai fatto
che ti hanno arrestato?». Lui rispondeva dicendo: «Io non ho fatto niente, le
guardie del re mi dissero che su di me c’è ordine dall’alto. E voi perché vi
trovate qui?». Ognuno spiegava il suo reato, chi diceva: «Io devo fare altri sei
mesi»; altri un anno ancora, comunque ognuno aveva il suo reato.
Dopo due-tre giorni che Pinocchio si trova in carcere insieme a tutti gli altri,
la mattina del 10 aprile la prima figlia del re annuncia il suo matrimonio e
chiede al padre un anno di amnistia (ammistizia) per ogni carcerato. Il re
acconsente quindi la mattina dopo il maresciallo per ordine di lettere
incomincia a chiamare: «Tizio fatti la roba che sei stato graziato». A seguito
chiama tutti gli altri. Pinocchio chiede spiegazioni a un suo paesano: «Come mai
che mi dicesti ieri che dovevi scontare altri cinque mesi e ora te ne vai!».
«Non l’hai capito, la principessa si sposa e diede a tutti i carcerati un anno
di grazia!». Pinocchio pensava che anche lui veniva scarcerato. Passano due tre
giorni ed era rimasto quasi solo. Si fa coraggio e chiama il secondino e gli
dice: «Ma dimmi un po’, a me quando mi chiami per uscire?». Il secondino gli
chiede: «Ma tu che reato hai?». «Io nessun reato». «E come ti può graziare senza
reato!».
Ancora oggi Pinocchio si chiede perché quelli che vengono arrestati con ordine
dall’alto, anche se non hanno fatto reato, sono predestinati a morire in carcere
senza nessuna grazia. 
Source - NapoliMONiTOR
Cronache, libri, disegni e reportages
(disegno di cyop&kaf)
Tra il 9 e il 10 settembre scorso tre attivisti sono stati arrestati con
l’accusa di resistenza e lesioni, reati commessi durante il Carnevale No
Ponte tenutosi il primo marzo scorso nella città dello Stretto.
Il corteo, composto da circa un centinaio di persone mascherate, aveva
attraversato le vie principali della città, facendo registrare qualche scontro
tra manifestanti e forze dell’ordine. A fine giornata, un’agente di polizia
riportava una frattura della clavicola guaribile in centotrentacinque giorni.
Dalla visione dei filmati delle telecamere e dai travestimenti usati, la
questura individua tre ragazzi. Guido è accusato del reato di resistenza
pluriaggravata. Gabriele e Andrea, oltre a resistenza pluriaggravata, vengono
accusati del reato di lesioni gravi.
Gli arresti, come documentato da Radio Onda d’Urto e Radio Onda Rossa, avvengono
contemporaneamente in diverse città italiane, tra Napoli, Bari e Varese. 
Gabriele viene arrestato a Napoli mentre attende l’arrivo del Flixbus per
recarsi da alcuni suoi amici in Francia. Giunto alla stazione trova gli agenti
della digos di Messina, che insieme a quelli napoletani, lo fermano e lo portano
all’istituto penitenziario di Poggioreale.
Nella stessa giornata, agenti della digos di Messina e di Bari perquisiscono
l’appartamento di Sara, ex ragazza di Gabriele, che lì ha la residenza. Sara è
indagata nello stesso filone di indagini.
Andrea viene bloccato su un’auto a Bari, fermato da una volante all’esterno del
centro sociale Bread and Roses. La digos gli comunica di seguirlo in questura
per la consegna di una notifica. In caserma scopre che la notifica è legata agli
incidenti del Carnevale. Andrea trascorre la notte lì, e la mattina dopo viene
trasferito nel carcere di Bari.
Guido intanto subisce una perquisizione a Varese, nel suo appartamento, insieme
ad altri compagni. Ultimata la perquisizione, gli agenti lo accompagnano nel
carcere di Varese.
Guido è l’unico che sapeva di un’indagine a suo carico, perché vittima della
“caccia all’uomo” organizzata dalle forze dell’ordine messinesi qualche ora dopo
la fine del corteo. Di quelle ore si ricorda l’entusiasmo di Matteo Salvini che
si affrettava a diffondere pubblicamente la notizia, e la narrazione del solito
copione sui facinorosi che portano scompiglio in città.
Altro elemento ricorrente è il tentativo di dividere i manifestanti tra buoni e
cattivi. Gli attivisti, tutti e tre incensurati, vengono qualificati come
pericolosi socialmente,  una presunzione che sarebbe corroborata dalla generica
appartenenza politica ll’area anarco-antagonista, un pretesto utilizzato anche
dal gip di Messina per sostenere l’obbligo carcerario nei loro confronti.
Per una ventina di giorni gli attivisti vengono spostati da un carcere a un
altro, dove vengono messi in isolamento, negandogli la possibilità di poter
parlare con i propri conoscenti e avvocati. Intanto in loro supporto si
costituisce un pool di legali (Moschella, Losco, Calabro, di Stefano), con
l’obiettivo di smontare accuse molto gravi, le cui sanzioni potrebbero oscillare
tra gli otto e i quindici anni.
Al momento i tre si trovano agli arresti domiciliari, in attesa della prossima
udienza fissata a gennaio 2026. Abbiamo chiesto all’avvocato Francesco Calabro
informazioni utili per approfondire la vicenda.
Hai ravvisato delle anomalie negli arresti?
Intanto mi preme dire che entrambi ragazzi hanno sofferto in maniera particolare
il periodo di detenzione. Sia perché erano alla prima esperienza, sia le
condizioni, notoriamente disumane.
La prima anomalia riguarda il caso di Andrea e gli accadimenti intercorsi tra
l’arresto e l’interrogatorio di garanzia, fissato per il dodici.
Il mio assistito ha trascorso le prime notti al carcere di Bari, ma il giorno
prima dell’interrogatorio è stato condotto al penitenziario di Potenza.
Uno spostamento che ha impedito di poter effettuare un colloquio difensivo in
vista dell’interrogatorio con il giudice.
Su questo ho protestato con il gip, perché il trasferimento era motivato da
esigenze organizzative legate all’amministrazione penitenziaria, che in questo
strano paese prevalgono sul diritto della difesa. 
Con Gabriele è accaduta la stessa cosa: per diverso tempo sia il sottoscritto
che la madre abbiamo avuto difficoltà a ottenere colloqui telefonici nel carcere
di Poggioreale. Un altro problema riscontrato nell’inchiesta riguarda la
modalità di gestione dell’interrogatorio di garanzia.
Sebbene l’ordinanza di custodia cautelare fosse stata emessa dal gip di Messina,
l’interrogatorio è stato delegato per rogatoria, nel caso di Gabriele al gip di
Napoli, nel caso di Andrea a quello di Bari.
Parliamo di magistrati che non avevano alcuna conoscenza, se non informazioni
sommarie, sulla vicenda.
La cosa singolare è che lo svolgimento dell’interrogatorio di Andrea è avvenuto
in videoconferenza. Non si comprende a questo punto per quale ragione non abbia
proceduto il gip di Messina, che aveva una conoscenza degli atti più
dettagliata. Questo elemento fortunatamente non ha inciso, perché ci saremmo
comunque avvalsi della facoltà di non rispondere.
Il gip di Messina accusa gli attivisti di essere pericolosi socialmente, puoi
spiegare meglio queste accuse?
Il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto particolarmente gravi i
reati, disponendo per tutti e tre gli attivisti la reclusione detentiva.
Il ragionamento è legato alla gravità del fatto contestato, e al contempo a una
chiara manifestazione di ostilità, tenuta durante il corteo, nei confronti
dell’autorità.
Una motivazione che a me è apparsa discutibile: perché se gli attivisti non
rispettano le prescrizioni stabilite dal questore – travestimenti, utilizzo di
fumogeni – tale comportamento non ravvisa un’automatica trasgressione delle
prescrizioni imposte per gli arresti domiciliari. Parliamo di contesti
differenti: dentro il corteo, di un’iniziativa collettiva nella quale la
presenza del gruppo è un fattore motivante rispetto all’azione; negli arresti
domiciliari invece sei solo. Inoltre, se violi le prescrizioni di un corteo non
puoi immaginare che come conseguenza diretta tu possa finire in carcere, mentre
se trasgredisci le prescrizioni dei domiciliari sei consapevole che non ci sono
alternative al collocamento detentivo in carcere.
A che punto siamo nel processo?
Abbiamo avanzato istanza di riesame contro l’ordinanza del gip che prevedeva il
carcere. E il tribunale del riesame, il 26 settembre, ha disposto la
sostituzione della misura carceraria in arresti domiciliari con il braccialetto
elettronico. Da poco abbiamo ricevuto dal gip di Messina la notifica del decreto
di giudizio immediato, fissato per gennaio.
Abbiamo quindici giorni di tempo dalla notifica per valutare riti alternativi
che possono essere un giudizio abbreviato oppure, nel caso di chi ha la
posizione più lieve, la sospensione del processo attraverso la richiesta di
messa alla prova. Io mi orienterò ragionevolmente per un giudizio abbreviato.
Certamente il processo è complicato, e non riesco a fare un pronostico su come
finirà. Resta un processo che offre margini di difesa, in particolare sulle
aggravanti e lesioni provocate al pubblico ufficiale.
Il processo potrebbe risentire dell’inasprimento delle pene stabilito dal nuovo
ddl sicurezza?
Questi sono i primi processi post-pacchetto sicurezza. Nel caso specifico non ci
sono effetti immediati sulle contestazioni e le qualificazioni giuridiche
provocate dal pacchetto sicurezza: i fatti contestati risalgono al primo marzo
del 2025, a un’epoca antecedente all’entrata in vigore del ddl.
Le imputazioni invece risentono del progressivo inasprimento delle pene
precedente all’approvazione del ddl: provvedimenti che mirano a colpire
maggiormente i reati commessi in occasione di manifestazioni svolte in luogo
pubblico, come i reati di lesioni aggravate a carico di pubblici ufficiali.
Stessa cosa per il reato di resistenza a pubblico ufficiale che con l’aggravante
della presenza di più persone, dell’uso di armi improprie, e della condotta
dentro la cornice di una manifestazione pubblica, sono condotte punibili con
pene fino ai quindici anni di reclusione. (giuseppe mammana)
Durata del corso: dal 29 settembre all’1 dicembre 2025
Frequenza: tutti i lunedì, dalle 17:00 alle 19:30
Requisiti: un computer portatile e un po’ di tempo a disposizione
Numero massimo di partecipanti: dieci
Luogo: via Broggia, 11 (Napoli)
Info e iscrizioni:
formazione@napolimonitor.it
napolimonitor.it/corsi
(incisione di felice pignataro)
Lunedì 27 ottobre un piccolo gruppo di studenti di estrema destra ha organizzato
un volantinaggio davanti all’ingresso dell’Einstein, liceo torinese in Barriera
di Milano. A difendere il volantinaggio erano presenti numerosi agenti in tenuta
antisommossa e Digos. Studenti e studentesse del liceo hanno organizzato una
contestazione e la repressione della polizia è stata dura. Uno studente
contestatore è stato fermato, ammanettato e portato in questura. Pubblichiamo un
comunicato di genitori di studenti e studentesse dell’Einstein. Dal comunicato
emerge il silenzio di una dirigenza scolastica che già in passato si è distinta
per aver appoggiato la repressione e negato attenzione e dialogo nei confronti
della componente studentesca. La pubblicazione del comunicato non è solo un
gesto di vicinanza e solidarietà a chi scrive, ma è anche un’opportunità per
stimolare un ragionamento complessivo sulla repressione e il soffocamento della
democrazia all’interno della scuola: un fenomeno che ha una rilevanza nazionale,
non solo locale.
*   *   *
Noi, genitori delle studentesse e degli studenti del liceo Einstein, sentiamo il
dovere civile e morale di denunciare pubblicamente quanto accaduto il 27/10/2025
mattina, perché ciò che è successo davanti alla scuola non può essere
considerata una semplice questione di ordine pubblico. È stato invece un fatto
gravissimo, che chiama in causa la responsabilità della scuola e di tutti gli
adulti presenti.
Questa mattina tre ragazzi di Gioventù Nazionale (maggiorenni ed esterni alla
scuola) si sono presentati davanti alla sede del liceo Einstein di via Bologna
scortati da decine di agenti della Digos e dalla Celere, in assetto
antisommossa, per distribuire volantini politici e fare propaganda agli
studenti, minacciando e aggredendo chi si rifiutava di prendere i depliant.
L’intervento delle forze dell’ordine, attivatosi in forma subito violenta nei
confronti dei soli studenti e studentesse, compresi coloro che stavano
semplicemente entrando a scuola senza prendere parte al diverbio, si è concluso
con un ragazzo minorenne portato via in manette, davanti ai suoi compagni, nel
silenzio generale da parte dei docenti presenti e della dirigenza scolastica.
In quei momenti nessun professore, nessun rappresentante della dirigenza è
uscito, se non a cose fatte per invitare chi era rimasto fuori a entrare nelle
aule. Nessuno ha provato a mediare, a proteggere e a evitare che una scena così
violenta e umiliante si consumasse davanti agli occhi di tutte le studentesse e
degli studenti, lasciati soli.
Noi rifiutiamo questo silenzio. Una scuola che tace davanti alla violenza,
davanti alla propaganda di chi diffonde odio e discriminazione, smette di essere
un luogo di formazione e diventa complice dell’ingiustizia. La scuola dovrebbe
insegnare ai ragazzi a riconoscere e a respingere ogni forma di sopraffazione e
non rivelarsi passiva davanti a chiari abusi di potere nei confronti degli
studenti che la frequentano.
Lo studente è stato trattato e ammanettato come un criminale, e questo accade
mentre gruppi politici che si richiamano a ideologie xenofobe e di esclusione
vengono lasciati agire liberamente davanti a un edificio scolastico,
compromettendo l’ingresso a scuola. Non possiamo e non vogliamo accettarlo.
Denunciamo pubblicamente la gravità di questo episodio, il silenzio che lo ha
accompagnato e la mancanza di tutela nei confronti di tutte le studentesse e di
tutti gli studenti, molti dei quali ancora minorenni. Ci aspettiamo che l’intera
comunità scolastica – studenti, docenti e famiglie – rifletta su ciò che è
avvenuto e che da questo silenzio si levi una voce chiara e univoca, affinché
fatti di tale gravità rimangano episodi isolati. Ci auguriamo inoltre che, se
dovesse ripresentarsi una situazione simile, il coinvolgimento dei docenti e
della dirigenza si esplichi in modo da preservare le studentesse e gli studenti.
(alcuni genitori dell’einstein)
(disegno di giancarlo savino)
Nei giorni del “blocchiamo tutto” contro l’attacco alla Global Sumud Flotilla,
in Catalogna c’è stata un’importante protesta contro le miniere dell’impresa
israeliana ICL, nella zona di Manresa. La manifestazione è stata caricata
violentemente dalla polizia della regione autonoma, i Mossos d’Esquadra: gli
agenti avevano i passamontagna ed erano molto aggressivi, hanno trattato i
manifestanti come terroristi, sostenendo che ci fossero sbarre di ferro e altri
oggetti pericolosi nascosti dal corteo.
La protesta ha mostrato la convergenza tra il movimento in difesa del
territorio, che da anni denuncia la devastazione causata dalle miniere, e il
movimento di solidarietà per la Palestina, molto forte in tutta la Catalogna.
Non ci sono solo le grandi mobilitazioni di Barcellona – come quelle in
occasione della partenza della Flotilla, forse anche troppo mediatizzate, con
grandi schermi e personalità politiche. Come anche in Italia, il movimento è
decentralizzato, con azioni in moltissime altre città e regioni, anche piccole o
periferiche. Nella città di Manresa, che ha meno di centomila abitanti ma una
rete di associazionismo molto forte, il 2 ottobre una grande manifestazione
aveva bloccato i binari del treno: i manifestanti avevano bruciato anche delle
traversedi legno per mantenere ferma la circolazione; il 4, invece, gli studenti
delle scuole superiori hanno bloccato per un’ora l’autostrada Eix Transversal.
L’azione più importante però è stata la protesta del 3 ottobre davanti alle
miniere della multinazionale israeliana ICL a Súria. Queste proteste hanno visto
la convergenza tra il movimento per il boicottaggio a Israele e le proteste
locali in difesa del territorio e dalla popolazione da una delle forme più
dannose di estrattivismo capitalista.
La Israeli Corporation Limited, ICL, che acquistò le miniere di Súria e Sallent
in Catalogna negli anni Novanta, fa parte della vasta rete di grandi aziende che
sostengono il sionismo sin da prima della nascita di Israele. Già negli anni
Venti ICL estraeva minerali dai territori palestinesi; si è consolidata negli
anni Sessanta, con progetti di estrazione nei territori occupati del Naqab e
delle sponde del Mar Morto, diventando un pilastro importante del capitalismo
israeliano. Le miniere di Súria e Sallent erano state pubbliche, ed erano già di
per sé causa di devastazione ambientale prima dell’acquisto da parte di ICL: una
delle ragioni per cui l’acqua a Barcellona è imbevibile nonostante i tantissimi
acquiferi sotterranei, è che per decenni i residui salini delle miniere sono
stati sversati sul territorio, in particolare in una conca che è diventata una
colossale montagna di sale alta cinquecento metri e larga cinquanta ettari. Il
sale penetra nelle falde acquifere e raggiunge il fiume Cardener, che alimenta
Manresa, e il fiume Llobregat, che alimenta Barcellona.
Con l’arrivo dell’impresa israeliana, si sono aperte le porte a tutti i progetti
e le richieste dell’industria: la Generalitat ha sempre avuto legami stretti con
Israele, e oggi il sostengo pubblico alla ICL mette in difficoltà ogni altro
produttore della zona. Oltre a provare a presentare l’incredibile cumulo di
residui salini come un’attrazione turistica, la Generalitat ha offerto i suoi
Ferrocarrils, i treni regionali, per il trasporto del potassio verso il porto di
Barcellona. Un progetto da cento milioni di euro approvato pochi anni fa prevede
la canalizzazione diretta dei residui verso il mare, con una linea di tubature
di settanta chilometri. Nella zona di Manresa i lavori sono già visibili: posare
le tubature richiede il taglio di boschi e lo scempio di aree naturali, sempre
accanto al fiume Llobregat, con i conseguenti rischi di sversamento. La
Generalitat sta coprendo il dieci per cento dei costi di questa devastazione con
fondi pubblici. Inoltre, nel 2023 ci fu un gravissimo incidente, in cui morirono
due giovani tirocinanti e un geologo, tutti con meno di trent’anni, che rimasero
bloccati in un tunnel a un chilometro di profondità.
Le proteste sono cresciute sin dal 2015, quando l’industria ha patrocinato la
squadra di basket di Manresa. La contestazione ha portato la questione
all’attenzione pubblica, convergendo anche con le lotte per il Boicottaggio,
Disinvestimento e Sanzioni (BDS) a Israele. La convergenza ha fatto sì anche che
si conoscesse il coinvolgimento della ICL nell’industria militare e nella
colonizzazione della Palestina. I vertici di ICL infatti sono stati militari e
imprenditori dell’industria militare: Yohannan Loker, direttore tra il 2016 e il
2019, era pilota dell’esercito, poi capo di stato maggiore con Netanyahu; gli
azionisti sono anche azionisti della Elbit System, una delle principali
industrie militari, e la compagnia è legata anche a la Naviera ZIM, che
trasporta le armi dagli Usa a Israele. Il sospetto più grave però è che il
fosforo bianco estratto non sia usato solo per la produzione di fertilizzanti,
come dichiarato, bensì che rifornisca le terribili armi che bruciano la pelle in
modo irreversibile, arrivando fino all’osso, e che sono state denunciate da
Amnesty International e proibite dalle convenzioni internazionali. Ovviamente
non ci sono prove definitive: ma alcuni documenti mostrano che la filiale ICL
America, che ha una fabbrica a Saint Louis, sia vincolata alla fabbricazione del
fosforo bianco per gli eserciti di Usa e Israele (tra l’altro, insieme alla
Monsanto, altro nome noto della produzione di fertilizzanti chimici).
L’enorme sostegno alla ICL da parte della Generalitat catalana e dalla sua
polizia – che riceve anche addestramento dalla polizia israeliana – ovviamente
frustra molte delle azioni che denunciano la devastazione ambientale e umana
provocata da questa compagnia. Manresa è una città con una forte componente
operaia e una forte rete di associazionismo in difesa del territorio. Negli
ultimi mesi il movimento locale ha tentato di bloccare anche la partita che la
squadra di basket  doveva giocar con l’Hapoel di Gerusalemme, cercando di
impedire l’accesso degli atleti in campo. I Mossos hanno dispiegato un grosso
contingente di furgoni della Brigata Mòvil per impedire le proteste. Alla fine
la partita si è giocata, ma la mobilitazione ha avuto molto eco. Anche il giorno
della protesta davanti alla miniera di Súria, nonostante l’aggressività dei
Mossos, i manifestanti sono riusciti comunque a piantare un ulivo subito fuori
dalla miniera. (josep lluís mateo dieste e stefano portelli) 
(disegno di otarebill)
Ayoub è seduto sulla bordura di porfido che delimita un angolo di verde, con i
gomiti sulle ginocchia. Claudia, accanto, ha un’espressione sconsolata che non
le è propria. Ha sfogato poco prima la sua indignazione, rovesciando con rabbia,
in mezzo alla strada, le merci che porta con il suo carrello trainato da una
bicicletta: i suoi dipinti colorati, qualche zaino, un paio di giacche pesanti.
Mentre si accendeva una sigaretta, nervosamente, l’abbiamo aiutata a raccogliere
le sue cose e spostarsi a margine della carreggiata. «Tu sei senza documenti?»,
chiede ora Claudia ad Ayoub, ottenendo un cenno affermativo in risposta. «Ma da
quanto è che sei qua? Solo due anni! Io da venti, venti anni!». «Vent’anni?»,
esclama lui sorridendo con disapprovazione: «Ah no, io me ne vado prima!».
È meta mattina, insieme a pochi amici ho raggiunto i venditori informali che il
sabato si raccolgono vicino alla Dora in occasione del Balon, e nonostante la
repressione. Ci sono volanti della polizia municipale in diversi angoli del
quartiere – agli ingressi del ponte, in cima alla salita verso corso Giulio
Cesare, accanto al marciapiede – e una ventina di agenti presidiano o
pattugliano la zona. Come accade ogni sabato ormai da alcuni mesi, impediscono
agli straccivendoli senza licenza di piazzare la loro merce.
Fino a qualche tempo fa un centinaio di ambulanti poveri esponeva su stuoie e
lenzuola scarpe vecchie e vestiti usati, oggetti trovati in giro, minutaglia
raccolta dai bidoni, recuperata da cantine e magazzini da sgomberare. La
presenza si estendeva libera e compatta dal ponte Carpanini sul lato sud della
Dora, sino in cima alla salita che si ricongiunge con corso Giulio Cesare e il
ponte Mosca.
STORIA DI UNA REPRESSIONE CICLICA
Da più di centocinquant’anni il Balon ospita venditori di oggetti usati, anche
molto poveri. Dal 2002 si creò una distinzione, un mercato di serie A e uno di
serie B, e fu deciso di spostare gli straccivendoli dal lungofiume all’area
vicina, ma più nascosta, di San Pietro in Vincoli e canale Molassi. Poi, nel
2019, il Movimento Cinque Stelle al governo della città impose con una delibera
comunale lo spostamento degli impresentabili più lontano, in via Carcano,
accanto al cimitero monumentale.
Per diversi mesi i venditori si opposero all’esilio, che avvenne solo a seguito
di uno sgombero violento della polizia e multe considerevoli. Già allora a Borgo
Dora la povertà rimossa riemergeva inesorabile, nonostante la delibera della
giunta e l’azione dispendiosa delle forze dell’ordine, mentre al mercato di via
Carcano si rendevano evidenti le conseguenze dell’esclusione. Per anni i segni
di quella violenza rimasero nel deserto urbano. Poi, due anni fa, furono le
gradinate del ponte Carpanini a prendere vita e accogliere nuovi mercanti
informali fino a che i contingenti di polizia municipale giunsero in forze per
sequestrare gli oggetti e vietare la vendita.
Ancora, più di un anno fa, è nato un nuovo mercato informale lungo la Dora. Lo
scorso autunno la polizia arrivava all’alba per presidiare la zona: solo per
poche ore però, così i venditori tornavano a disporre a metà mattinata. Ma
all’alba dello scorso 26 luglio, e nei sabati a seguire, le forze dell’ordine
sono giunte per rimanere fino al pomeriggio, rendendo impossibile agli
straccivendoli di lavorare. Li vediamo attendere a lungo con gli oggetti
raccolti in valigie e borsoni, aggrappandosi alla possibilità di fare il mercato
almeno qualche ora nel pomeriggio, anche se, quando il sole inizia a calare,
anche il passaggio di clienti si dirada.
Mi dà il capogiro cercare con la scrittura di mettere in fila e in ordine i
momenti: la repressione degli indesiderati appare una ruota che si ripete
monotona. Ma qualcosa ha avviato questo nuovo accanimento. Il 25 giugno e il 4
luglio giungono in consiglio comunale e di circoscrizione due interpellanze che
denunciano la presenza dei “venditori abusivi” nell’area del ponte Carpanini e
del Balon. Le presentano un consigliere della Lega e il gruppo consiliare
Fratelli d’Italia della Circoscrizione 7, appellandosi alla necessità di
“tutelare il decoro urbano, la legalità e la sicurezza”. Vi si legge che “la
presenza degli abusivi” che rappresenta “concorrenza sleale” verso i venditori
regolari del Balon, “rischia di compromettere in modo serio la vivibilità e
l’immagine della zona”.
Il 7 agosto i consiglieri della Lega presentano una mozione per l’istituzione di
presidi di sicurezza nelle zone di Aurora e Borgo Dora “soggette da anni a
fenomeni di microcriminalità, degrado urbano, spaccio e occupazioni abusive”,
individuando tra i punti di presidio strategici anche il ponte Carpanini,
“soprattutto nelle giornate del sabato”. La mozione richiede al presidente di
circoscrizione (afferente al Pd) di coinvolgere il tavolo della sicurezza per
istituire presidi di polizia, anche attraverso le risorse previste da un
emendamento regionale che destina fondi specifici al pagamento degli
straordinari della polizia locale. L’amministrazione della città anticipa le
richieste: già dal 26 luglio invia i contingenti di polizia municipale a
occupare il lungofiume.
È curioso notare che nello stesso periodo la destra si muove anche contro il
mercato in esilio di via Carcano. Con la legge regionale 9/2025, datata 8
luglio, la giunta Cirio impone ai mercatini sociali un tetto di dodici mercati
all’anno e promette sanzioni in caso di mancati controlli. Sarebbe la fine per i
mercanti allontanati al cimitero. La Città di Torino a settembre rinnova la
concessione all’associazione che gestisce quel mercato e concede le stesse
condizioni in vigore. Se la destra dimostra di non avere alcuna lettura della
città, ma solo fame di voti, la maggioranza Pd governa con efficacia la povertà
e soffoca o contiene gli ultimi.
PRESENZE SUL PONTE
Ritorno con la mente agli ultimi sabati trascorsi tra il ponte Carpanini e Borgo
Dora. Qualche straccivendolo ci saluta chiamando il nostro nome a gran voce
quando ci vede arrivare. Da qualche tempo, insieme ad alcuni amici, portiamo tè
caldo e caffè da condividere per colazione. In primavera il grande barilotto e i
termos finivano in fretta. Osservando le mosse del potere, con i bicchieri di
carta a scaldarci le mani, abbiamo imparato a conoscerci.
Alcuni, per me, sono vecchie conoscenze, incontrate un tempo in un centro diurno
per persone senza fissa dimora di questa città, che oggi ha chiuso. Dormono
ancora per strada, o occupano un posto letto più o meno temporaneamente nei
dormitori cittadini. Ci sono persone senza documenti, ma so che anche coloro che
sono in regola conoscono la marginalità, la precarietà abitativa, il lavoro nero
o lo sfruttamento. Qualcuno ha una famiglia, magari lontana, altri sono soli;
sono arrivati in città più di recente, o sono a Torino da tempo. Alcuni
aspettano per tutta la settimana che arrivi il sabato, per guadagnare quel poco
denaro che consente loro di sopravvivere e di concedersi un pacco di sigarette e
una bottiglia di birra.
Distinguo bene tra i ricordi recenti anche la presenza delle guardie. «Dovresti
vendere monili africani, basta con questi vestiti usati», dice un vigile a un
venditore. Gli agenti eseguono gli ordini, anche coloro che ci dicono che gli
dispiace impedire ai presenti la vendita di qualche scarpa vecchia: devono fare
il proprio lavoro. Un giorno, sorge un dissidio tra due venditori in attesa di
piazzare la stuoia, discutono sullo spazio da occupare. «Non potete fare un
sabato a testa?», dice un uomo in divisa. Ancora, dicono i vigili ai venditori:
è la legge, potete andare in via Carcano. Ma non sanno della separazione del
mercato a inizio secolo, e dello spostamento forzato sei anni fa? Non si rendono
conto che molti non possono permettersi di pagare uno stallo in via Carcano o
che è preclusa loro la possibilità stessa di mettere in atto quanto suggerito
per via delle leggi ostili di questo paese?
Per la seconda volta nell’arco della giornata, Claudia prova a esporre i suoi
oggetti per terra, ma è prontamente circondata da un numero impressionante di
divise. I vigili minacciano di sequestrare gli oggetti. «Lasciatela stare,
lasciate stare solo lei per favore, noi non ci mettiamo!», dice qualche suo
compagno di sventura. Ma i vigili si apprestano a mettere le mani sulle tele che
lei stessa dipinge, così si raccolgono i dipinti per lei, che deve cedere.
«Questo mercato che vedete – grida Claudia, la voce nitida – questo mercato che
vedete! Voi state tutti zitti, che ci sono cento famiglie che devono lavorare, e
voi state tutti zitti, sopra la loro merda! Dovete venire qua, appoggiare queste
persone e non stare zitti nel vostro borgo di merda!».
Il flusso degli avventori intanto scorre. Più avanti, in piazza Borgo Dora, nel
cuore del mercato, un coro anarchico intona canti della tradizione libertaria.
Al pomeriggio le strade della città si riempiranno per il corteo in solidarietà
alla Palestina. Sono lontani i tempi della resistenza del Balon e abbiamo
incassato il colpo di quella sconfitta. Comprendo che la repressione funziona
grazie all’indifferenza di tutti, e forse soprattutto alla paura, ricattabilità,
e isolamento dei venditori. Quali vie non abbiamo percorso? È giusto non
assumere alcun ruolo direttivo, ci ripetiamo, d’altronde sappiamo bene che non
siamo noi a rischiare. Allora siamo presenti, solo per accompagnarli, per non
lasciarli soli. Ma che cos’è che ci sfugge? (stefania spinelli)
(disegno di roberto-c.)
Dal 20 ottobre è in libreria a Napoli, e a breve in altre città d’Italia, Napoli
Est. Una storia di violenza ambientale. Quella che segue è l’introduzione al
volume.
Le pagine che seguono non sono che un tentativo di aiutare, chi ne senta la
necessità, a orientarsi nell’area orientale di Napoli attraverso l’esplorazione
di alcune problematiche ambientali e sociali. Qualora si scelga di avvicinarsi
oppure ci si ritrovi a vivere in un territorio caotico e frammentato come quello
dei quartieri Barra, Ponticelli e San Giovanni a Teduccio, orientarsi non è
scontato. Per usare le parole di un maestro, camminare nell’area orientale è un
po’ come entrare nello “sgabuzzino” della città. Ogni singolo elemento ha
funzioni più o meno essenziali alla città nel suo complesso (al suo “metabolismo
urbano”, direbbero gli specialisti dell’ambiente), ma la progressiva
accumulazione di queste funzioni ha reso quest’area insostenibile, insalubre,
marginale.
Conviene innanzitutto far capire quali strade si possono percorrere e che cosa
si può osservare. Procedendo da ovest verso est ci si imbatte prima nella grande
muraglia dei terminal container del retroporto, poi nella catena delle
infrastrutture del petrolio e in un mosaico di aree dismesse industriali. Il
primo impatto è, insomma, con le tre stratificazioni della storia economica
della zona, che peraltro, come racconta Valerio Caruso nel suo contributo, non
si sono mai escluse a vicenda. A questo punto si apre un ventaglio di assi
viari, come via Ferrante Imparato, via Argine, via delle Repubbliche Marinare e
il corso San Giovanni, oppure si può procedere in Circumvesuviana o in Linea 2
della Metro: del resto, l’area orientale è la porta d’accesso della città.
Più a nord si aprono le distese di cemento dei rioni residenziali di Ponticelli
che proseguono fino al vesuviano, spezzate dai rari spazi agricoli qui
raccontati da Walter Molinaro. Al centro ci sono gli splendidi casali storici di
Ponticelli e Barra, troppo spesso claustrofobici ma punteggiati da preziosissimi
pezzi di verde, il cui valore sprecato è ribadito da Michela Romano, tranne in
rari casi come quel parco De Simone sul quale si sofferma Elisabetta Rota.
Barra e Ponticelli sono separati, oltre che dall’autostrada A3, da uno dei
luoghi simbolo, a oggi, del discorso su ambiente e società nell’area orientale,
ovvero l’ex campo rom e discarica di via Mastellone che è l’oggetto principale
dell’intervista a Mariarosaria De Matteo e Lucia Improta, ma che permea un po’
tutti i contributi.
Più a sud, infine, il territorio di San Giovanni a Teduccio si dipana verso il
litorale vesuviano. San Giovanni è in grado di far coesistere i rioni
residenziali e le aree dismesse della zona interna di Pazzigno, Villa e Taverna
del Ferro, con quel frammento di Miglio d’Oro e ville vesuviane che da Vigliena
raggiunge Pietrarsa attraverso il corso San Giovanni e con una linea di costa
che è lì ma non si vede, perché occlusa dalla ferrovia, dai petroli, dalle tante
fabbriche dismesse e dalle poche ancora attive.
Camminare nell’area orientale di Napoli significa insomma attraversare un
paesaggio di ingiustizia, la materializzazione di una lunga storia di decisioni
che l’hanno trasformata in una zona di sacrificio. Qui l’ingiustizia ambientale
non è un concetto astratto, ma la trama quotidiana che lega spazi, corpi e
storie di vita. Per decenni, scelte politiche, economiche e urbanistiche hanno
fatto confluire in questi quartieri ciò che altrove non trovava posto: industrie
insalubri, depositi petroliferi, infrastrutture strategiche, discariche abusive,
rioni di edilizia popolare. Un accumulo che ha sovraccaricato l’area di rischi
ambientali, sanitari e sociali, mentre altrove se ne raccoglievano i benefici.
Come ricostruisce Caruso, questa configurazione è il risultato di una
traiettoria di lunga durata: dall’espansione industriale avviata con la Legge
speciale del 1904, che trasformò un’area agricola in distretto manifatturiero,
alla successiva concentrazione di raffinerie, centrali e grandi fabbriche nel
Novecento. Una storia segnata da eventi drammatici, come l’esplosione del
deposito Agip nel 1985, e da processi strutturali come la deindustrializzazione,
che hanno lasciato in eredità contaminazione diffusa e vulnerabilità sociali ed
economiche.
Questa eredità si riflette ancora oggi in un paesaggio che, come mostra Giorgia
Scognamiglio, è un mosaico di rischi ambientali che penetrano in modo violento
nella vita quotidiana di chi ci abita. Non stupisce, allora, che i tassi di
mortalità siano sensibilmente più alti che nel resto della città, come ricorda
Paolo Fierro a partire dai dati epidemiologici raccolti dalla Consulta popolare.
Qui la contaminazione convive con vulnerabilità sociali radicate e con forti
diseguaglianze nell’accesso ai servizi, che ne amplificano gli effetti, rendendo
gli abitanti più fragili, più esposti e meno capaci di difendersi. Michela
Romano lo sottolinea con chiarezza: scuole, sanità, trasporti e servizi
essenziali sono distribuiti in modo squilibrato, lasciando interi quartieri
esclusi da opportunità e diritti di base. Ma è nei frammenti di quotidianità che
l’ingiustizia descritta dai numeri si fa esperienza viva. Lo raccontano, nelle
parole di Mariarosaria De Matteo e Lucia Improta, l’odore acre dei roghi tossici
che costringono a tenere chiuse le finestre, l’ansia dei genitori per i figli
con crisi respiratorie, e la percezione diffusa di vivere in un luogo pericoloso
e trascurato.
Tutto questo non è avvenuto per caso. Le scelte che hanno fatto di Napoli Est un
polo industriale, un hub energetico o una discarica urbana non sono state prese
qui. Hanno radici nelle politiche industriali nazionali, nelle strategie delle
multinazionali del petrolio, nei rapporti asimmetrici all’interno del comune di
Napoli, dell’area metropolitana e della regione. Così i benefici, i profitti e
il potere decisionale sono rimasti altrove, mentre i costi, i rischi e le
malattie si concentrano qui. Le comunità locali, ieri come oggi, sono state
tenute ai margini: le rare occasioni di consultazione hanno avuto valore solo
simbolico, mentre le decisioni reali venivano prese altrove.
A rafforzare questa logica ha contribuito la rappresentazione di Napoli Est come
una periferia degradata, uno scarto urbano che sembra naturalmente predisposto
ad accogliere nuovi impianti e funzioni indesiderate. Una violenza simbolica che
legittima la violenza materiale, riproducendo la logica estrattiva che condanna
questi quartieri a rimanere utili agli altri e dannosi per sé stessi.
Eppure, Napoli Est non è solo spazio di subalternità. Qui le disuguaglianze
vengono nominate, contestate e trasformate in fili di resistenza: comitati
civici, orti urbani, pratiche di riuso, reti di solidarietà. L’intervista a De
Matteo e Improta racconta la nascita di Barra R-Esiste dopo i roghi di via
Mastellone; quella a Paolo Fierro la collaborazione tra medici e attivisti per
smascherare i silenzi istituzionali e reclamare riconoscimento. L’orto sociale
di Ponticelli o le esperienze di Remida mostrano come la cura collettiva possa
restituire senso a spazi negati. Queste pratiche non cancellano il peso della
storia, ma aprono immaginari diversi, ribaltando la logica dello scarto che ha
segnato la storia di questi luoghi.
Insieme, i contributi compongono una mappa a più livelli dell’ingiustizia
ambientale: distribuzione diseguale dei rischi, vulnerabilità sociali,
esclusione dai processi decisionali, responsabilità politiche ed economiche,
stigmatizzazione del territorio, fino alle pratiche di resistenza e di cura
collettiva. Mettere insieme queste prospettive significa restituire complessità
a un territorio che è emblema delle contraddizioni ambientali e sociali che
attraversano le nostre città. Guardare Napoli Est con questa lente non significa
condannarla a un destino ineluttabile, ma riconoscere la violenza che l’ha
prodotta e le lotte che la attraversano. Significa spostare lo sguardo, da uno
spazio da bonificare a un luogo di vita che reclama dignità, diritti e
riconoscimento.
(copertina di roberto-c.)
È in libreria da questa settimana Napoli Est. Una storia di violenza ambientale
(Monitor edizioni, 120 pagine, 12 euro), un libro di Valerio Caruso, Walter
Molinaro, Michela Romano, Elisabetta Rota, Giorgia Scognamiglio.
Potete leggere qui l’introduzione al volume.
*     *     *
NAPOLI EST lo trovate qui (elenco in aggiornamento):
NAPOLI
Dante & Descartes, piazza del Gesù, 14
Ubik, via Benedetto Croce, 28
Tamù, via Santa Chiara, 10
Perditempo, via San Pietro a Majella, 8
Oppure potete acquistarlo cliccando qui sotto:
(le spedizioni, incluse nel prezzo di copertina,  sono effettuate con
raccomandata tracciabile di Poste Italiane)
 
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(disegno di adriana marineo)
Palermo, martedì 18 marzo 2025. Per tutto il pomeriggio un elicottero sorvola
Ballarò. Pattuglie di carabinieri, polizia e vigili urbani battono le strade,
passano e ripassano accanto al campo di bocce di via Albergheria, davanti al
pensionato San Saverio, nei punti in cui si sono accese le vampe negli anni
passati. Di solito, il pomeriggio del 18 marzo si vedono ragazzini girare per il
quartiere spingendo cassonetti pieni di legna, cercando un posto dove
accatastarla. Oggi no. “St’annu, unn’a fannu fari a nuddu” (“quest’anno non la
fanno fare a nessuno”, la vampa), commentano alcuni parrocchiani sugli scalini
di San Giuseppe Cafasso, gli occhi in su a guardare gli elicotteri, le
conversazioni accompagnate dal rumore del flappeggio delle pale del rotore.
Alle 18 si alza una colonna di fumo bianco davanti al Civico. Un elicottero
della polizia staziona sopra l’ospedale. Un’ora prima non c’erano segni di
preparativi. Hanno rovesciato i cassonetti dell’immondizia e li hanno disposti
lungo due file; alcuni sono incendiati, l’immondizia all’interno brucia,
squagliando il polietilene insieme all’asfalto della strada. Nell’area del
parcheggio di via Carmelo Lazzaro, delimitata dai cassonetti, arde una piccola
vampa. Tra l’immondizia sono stati affastellati in fretta e furia alcuni
pannelli di compensato, gli unici pezzi di legno che i ragazzini sono riusciti a
trasportare senza farsi notare. Per il resto, le fiamme sono alimentate dalla
plastica. L’aria è irrespirabile.
Mi avvicino alla vampa, scatto una fotografia – l’unica della serata. Intorno al
fuoco non c’è nessuno. Il falò propiziatorio di legna vecchia, preparato e
acceso dai ragazzi all’imbrunire della vigilia della festa del santo, brucia
nonostante i divieti. Ma non c’è nessuno a scaldarsi e a mangiare intorno alle
fiamme, non ci sono adolescenti che giocano a saltarle e ad alimentarle con
altra legna. Il centro del rito si è spostato, il fuoco principale sarà un
altro, l’attenzione della gente del quartiere è rivolta a uno spettacolo
diverso.
Accanto ai cassonetti bruciati, è stata rovesciata una campana del vetro.
Diversi ragazzi camminano con bottiglie di vetro in mano, le trasportano ai lati
della strada, ammucchiandole tra le auto e i motorini, sul marciapiede. Molti
indossano il passamontagna, altri si coprono il volto con cappucci, fazzoletti,
bandane, sciarpe, magliette annodate dietro alla nuca. Si muovono veloci, si
chiamano a voce alta, osservano attenti quello che succede intorno. Scherzano
tra loro, giocano. Aspettano la polizia. La gente guarda la scena, appoggiata ai
muri delle case, alle saracinesche dell’edicola, davanti alle vetrine della
salumeria, della pizzeria, del centro scommesse, o in piccoli gruppi in mezzo
alla strada, sotto gli alberi dell’aiuola davanti al Civico.
Si sente la sirena di un’ambulanza avvicinarsi; i ragazzi si muovono compatti
verso le barricate in fiamme, si calano i passamontagna sul volto. Poco dopo,
arrivano due autoblindo della celere e un’autopompa dei vigili del fuoco. I
ragazzini gli tirano contro una grandinata di bottiglie, alcuni restando in
sella ai motorini accesi, suonando i clacson all’impazzata. Il vetro si schianta
contro l’asfalto, il parabrezza del blindato e le fiancate delle automobili
parcheggiate. I poliziotti scendono in tenuta antisommossa, sparano due
lacrimogeni sui ragazzini a pochi metri di distanza, che si disperdono. Alcuni
continuano a lanciare bottiglie: si staccano dal gruppo, corrono verso la
polizia, caricano il braccio e scagliano una bottiglia, poi ritornano nel
gruppo. I lanci si fanno più frequenti, le bottiglie volano più vicine agli
agenti, i ragazzini si avvicinano sempre di più, fanno a gara tra loro. Uno
arriva a pochi metri dalla fiancata dell’autoblindo aperto, prende la mira e
tira una bottiglia di birra vuota sugli agenti; tre di questi si staccano dal
cordone e partono all’inseguimento, appesantiti dall’equipaggiamento. Il
ragazzino resta a guardarli, aspetta che arrivino a pochi passi da lui, si gira
e corre veloce guadagnando terreno in pochi istanti.
Mi allontano per stare al riparo dalle bottiglie, mi sposto vicino a un gruppo
di adulti che osservano lo scontro da un’aiuola. Fanno il tifo per i ragazzi,
ridono della goffaggine della polizia. Inizio a sentirmi meno sconvolto dalla
scena, recupero in parte il senso del rito, della comunità che osserva i giovani
maschi esibire il proprio coraggio intorno alle fiamme. C’è qualcosa di
radicalmente diverso però: il gioco è diventato più pericoloso, le fiamme fanno
solo da contorno, la prova di iniziazione è molto più violenta. Sento che non
c’è controllo collettivo, gli adulti commentano spaesati: “Ai tempi i nuatri un
c’era tuttu stu finimunnu! Chisti parunu scene i guierra”. Qualcuno prende le
distanze, un esercente dice ai ragazzini di spostarsi dai tavolini del suo
locale.
I poliziotti si schierano su due fronti ai lati del furgone, gli scudi compatti
uno sull’altro. Gli assembramenti si sciolgono, si riformano rapidamente poco
lontano, al riparo da eventuali cariche. I ragazzi continuano a tirare
bottiglie, si muovono in continuazione tra i capannelli di persone, attraversano
la strada, girano intorno all’isolato, si confondono tra gli spettatori, poi
scattano di corsa, lanciano quello che trovano e tornano indietro. I poliziotti
rientrano dentro il mezzo che parte a sirene spiegate, sfonda la barricata di
cassonetti ancora in fiamme. Il fronte dei ragazzini si disperde veloce, alcuni
retrocedono su via Giuseppe Basile e dal centro della strada continuano a
lanciare bottiglie. La polizia spara due lacrimogeni sui ragazzi, nel frattempo
i vigili del fuoco azionano la pompa sui cassonetti, mentre volano ancora
bottiglie.
È buio ormai. Le fiamme si spengono, il rito si è consumato. Le macchine e i
motorini riprendono a circolare tra i resti carbonizzati, le persone si
allontanano. Pian piano, i ragazzini sciolgono i fazzoletti e tolgono i
passamontagna. L’elicottero della polizia si sposta finalmente, ci sono altri
fuochi accesi in altre periferie. La città continua altrove la sua guerra alle
vampe e ai bambini che le accendono.
QUINDICI ANNI DOPO
Quindici anni fa, quando lavoravo come operatore di un centro sociale allo Zen
2, avevo seguito i bambini del quartiere nella preparazione della vampa di San
Giuseppe. I preparativi erano iniziati a fine febbraio, ogni pomeriggio i
ragazzini giravano per le case, le botteghe e le officine, raccogliendo mobili
vecchi, persiane e porte dismesse, che accatastavano in una piramide al centro
dello sterrato davanti all’insula dove abitavano molti di loro. C’erano anche
ragazzine a raccogliere la legna e a giocare, a comporre insieme la piramide di
legno, ogni giorno più alta, ad arrampicarsi e a saltare giù dalla vetta a
turno, atterrando su un vecchio materasso. Dall’altro lato della strada, altri
facevano un’altra vampa. I due gruppi rivaleggiavano, si contendevano il legno
portato dagli Ape degli sbarazzi e dai furgoni dei giardinieri, che di solito
scaricavano vicino a quelli che gridavano più forte, o che erano più svelti a
vederli arrivare dallo stradone e a chiamarli. Poi, la sera del 18 marzo, gli
adulti accendevano le vampe, il quartiere scendeva in strada, o si affacciava al
balcone a guardarle. Arrivava la polizia, gli agenti scendevano dalle volanti,
controllavano, poi risalivano e se ne andavano. La vampa continuava a bruciare
fino a mezzanotte passata, con i bambini che giocavano tra i tizzoni
semi-consumati. Alla fine, avevano vinto entrambi i gruppi: ogni ragazzino del
quartiere, nei giorni seguenti, avrebbe detto che la sua vampa era più grande
dell’altra, oppure che squagghiò pi ultima, si è spenta dopo.
La stridente differenza tra i resoconti di due vampe a quindici anni di distanza
mostra quanto Palermo sia cambiata in questo lasso di tempo. Nei due piazzali
dello Zen dove i ragazzini facevano le vampe, ora ci sono un campo di calcetto e
un piccolo parco giochi progettato da Renzo Piano. A Ballarò, facciate diroccate
che venivano lambite dalle fiamme di San Giuseppe ora sono coperte da murales
d’artista alti quindici metri, meta di passeggiate artistiche e turismo
“alternativo”. A largo Gerbasi, dove i ragazzini dell’Albergheria montavano la
vampa nello slargo della strada non ancora asfaltata davanti all’Ex Karcere
(centro sociale occupato nel 2001, oggi in via San Basilio), ora c’è una ricca
residenza universitaria.
La turistificazione, il mercato, la politica hanno profondamente modificato
alcuni spazi urbani, specialmente nel centro storico. Le voragini lasciate dallo
spopolamento del secondo dopoguerra, dalla speculazione edilizia in periferia,
dai crolli dovuti all’abbandono, sono state in parte riempite, in parte
camuffate da qualcos’altro. Il controllo istituzionale sul territorio è
aumentato, quello mafioso è meno visibile, si è trasformato. Le narrative dei
luoghi sono cambiate drasticamente – basti pensare a Ballarò.
Per molte persone che ci abitano, la trasformazione è preferibile. Giovani
adulti cresciuti facendo le vampe dicono che ormai è tutto cambiato, che negli
ultimi anni le cataste di legna si fanno troppo alte, troppo vicine alle case e
alle macchine posteggiate, che si brucia troppa plastica, che i ragazzini di
oggi sono troppo esagerati, troppo violenti, troppo scafazzati, maleducati.
Meglio non farle più le vampe, ormai sono solo degrado.
Il discorso sulla trasformazione dei quartieri è delicato. Questo articolo non è
certamente un’ode nostalgica a un’antica tradizione. Le preoccupazioni e i
desideri degli abitanti che sperano nella riqualificazione urbana del centro
sono certamente legittimi, e se il rito delle vampe dovesse in futuro
estinguersi autonomamente, non ci sarebbe niente da aggiungere. Il punto è che
sta avvenendo l’esatto contrario: il fenomeno delle vampe a Palermo continua a
crescere, sebbene stia diventando qualcosa di molto diverso dalla festa
tradizionale, con significati rituali stravolti, inediti attori e nuovi scenari
urbani e digitali, modificate percezioni da parte degli spettatori.
Le violente trasformazioni del rito raccontano gli altrettanto violenti
cambiamenti della città, la disgregazione dei quartieri, l’indebolimento della
solidarietà e dei tradizionali strumenti di coesione delle classi popolari,
l’aumento del conflitto e della rabbia sociale e l’esponenziale aumento della
repressione istituzionale.
Protagonisti di questa storia sono i ragazzini dei quartieri popolari, nati
negli anni della crisi, cresciuti nella dissoluzione del welfare pubblico e di
quello mafioso, in famiglie sempre più precarie. La maggiore presenza dello
stato nei loro territori non ha determinato per loro maggiore protezione, ma
ulteriore destabilizzazione. La famiglia, la scuola, la chiesa cattolica, i
servizi sociali, le reti clientelari, il lavoro informale… tutte le istituzioni
preposte alla cura, alla riproduzione sociale, alla produzione, stanno vivendo
un periodo di forte crisi e di conseguente perdita di autorità. D’altra parte,
questi ragazzini hanno subito negli ultimi anni nuove e pesanti forme di
controllo, rafforzate dalle restrizioni pandemiche, che hanno determinato una
crescente e attiva presenza delle forze dell’ordine in quartieri come lo Zen e
Ballarò, in cui fino a dieci anni fa la polizia in genere neanche entrava e dove
invece adesso interrompe falò con gli elicotteri.
Le vampe di San Giuseppe sono esemplificative della nuova politica dello spazio
pubblico a Palermo: espressione di forte identità culturale delle classi
popolari, pratica di gestione autonoma dello spazio pubblico attraversata da
conflitti tra le diverse componenti sociali dei quartieri, non esente da
violenza e prevaricazioni, le vampe sono continuate attraverso i decenni nella
sostanziale indifferenza delle forze dell’ordine, in zone marginali della città,
nel centro storico abbandonato e nelle periferie di edilizia popolare. Oggi, la
tolleranza è finita. Le vampe sono diventate oggetto di una vera e propria
guerra, che mobilita ingenti risorse e dispiega forze di polizia, vigili del
fuoco e tribunali per cercare di scongiurare la preparazione delle cataste di
legna, per spegnere i fuochi una volta accesi, e per indagare i responsabili
dopo.
I ragazzini resistono, sentono ancora forte il valore della prova del fuoco,
della manifestazione pubblica di coraggio, per strada e su TikTok. La
repressione esaspera il conflitto, lo scontro è inevitabile e, in quanto tale,
diventa il centro del rito; i ragazzini lo cercano, lo pianificano, lo
gestiscono; la polizia ne diventa coprotagonista in negativo, pupazzo di
carnevale in carne e ossa. Una forma tradizionale di appropriazione dello spazio
pubblico attraverso il rito si trasforma in tattica di guerriglia, irrisione del
potere attraverso la provocazione fisica, sovversione violenta dei divieti. E
come ogni rito, anche le vampe riescono nell’impresa di imporre l’ordine al
mondo, di dare agli esseri umani la parvenza del controllo sulle grandi forze
che regolano l’universo intorno a loro: ogni anno, i ragazzini, da soli riescono
ad accendere i fuochi, nonostante i divieti e gli elicotteri, gli idranti e i
mezzi blindati, le telecamere e i lacrimogeni. Per un fugace momento, il buio
della sera di fine inverno viene illuminato dalle fiamme. Anche se a bruciare è
più plastica che legno. Anche se il coraggio va mostrato a volto coperto. Anche
se comporterà denunce, arresti e processi. La festa del santo compie il prodigio
di coordinare il malcontento, di dare ai ragazzi le energie per sfidare il
potere e per tenere testa alla polizia; ma il meccanismo rituale intrappola il
conflitto sociale, gli impedisce di entrare nella storia, di formularsi
politicamente. Spentosi il fuoco delle vampe, si spegne la protesta.
La persistenza delle vampe di San Giuseppe è certamente una forma di resistenza
al controllo da parte dei ragazzi di quartiere, ma l’esercizio di tale
resistenza produce effetti disgreganti. Le comunità si spaccano, il pubblico si
allontana dagli attori, ne prende le distanze. Gli adulti partecipano meno. I
ragazzini sperimentano uno spazio di totale autonomia, ma perdono la protezione
dei grandi, che si divertono a guardarli far la guerra con la polizia, ma li
lasciano soli a giocare. La festa di passaggio non celebra nessun passaggio:
saltato il fuoco delle vampe non si diventa grandi. Il rito urbano di San
Giuseppe, sempre più legato alla marginalità, turba gli spettatori, anche coloro
che ne sono stati attori qualche anno fa, quando andavano in scena copioni
rituali meno violenti. La comunità degli adulti consuma lo spettacolo dei
ragazzini ribelli, ma non vi si rispecchia, non approva. La repressione esacerba
la violenza rituale, scaricandone la responsabilità sui ragazzini. È un gioco
troppo pericoloso, troppo crudele. Come nel film I miserabili di Ladj Ly, la
violenza collettiva dei ragazzini esprime la loro estrema vulnerabilità sociale,
la perdita del controllo da parte degli adulti, la deresponsabilizzazione delle
istituzioni di riferimento, che esercitano coercizione e controllo senza
assumersi alcuna responsabilità di cura.
UN PUGNO DI VANDALI
Una città in guerra con i ragazzini è una città malata. La guerra non si svolge
solo nelle piazze dei quartieri la sera del 18 marzo, continua nei social, sui
giornali e in televisione, si nutre di narrazioni che colpevolizzano i ragazzi e
invitano all’intervento deciso delle forze dell’ordine, circoscrivendo la
questione a un problema di ordine pubblico, di volgare vandalismo. Sulle pagine
online dei quotidiani locali, i commenti sono pressoché unanimi: si tratta di
delinquenti che meritano la galera, o forse sarebbe meglio prenderli a pietrate,
come fanno loro con poliziotti e vigili del fuoco. Sono ragazzi, quasi bambini,
ma questo elemento la stampa lo menziona di passaggio. Le vampe sono un uso
barbaro, inconcepibile in una città “moderna”, che solo l’arretratezza e
l’ignoranza di un pugno di vandali mantiene viva.
La condanna delle vampe è una delle contraddizioni amare di una città che per
alimentare il mercato turistico cavalca il mito della convivenza pacifica tra
arabi e normanni, patrimonializza le tradizioni folkloriche di un secolo fa, ma
disconosce ogni forma di cultura popolare contemporanea che manifesti conflitto
sociale anche in forma indiretta, bollandola come rozza, incivile, retrograda.
Pelle meridionale, maschere europee.
Le vampe, per San Giuseppe o per altri santi in altri momenti dell’anno, sono
una tradizione millenaria che continua in molti centri siciliani senza
richiedere l’intervento delle forze dell’ordine. Gli elementi sono gli stessi:
cataste di legna in spazi urbani, fuoco, ragazzini protagonisti, comunità in
festa. L’antropologia l’ha già raccontato. I lavori di Ignazio Buttitta (Le
fiamme dei santi, Meltemi, 1999), Orietta Sorgi e Nara Bernardi (Le vampe di
Palermo, Archivio delle tradizioni popolari siciliane, 1985) ricostruiscono la
storia millenaria della tradizione, il senso rituale del ciclo delle stagioni
della natura, del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, del cosmo e della
società che si rinnova. Eppure, dire tutto questo oggi non basta a sovvertire i
discorsi dominanti. Le narrazioni ufficiali, nei rari casi in cui viene
riconosciuta la profondità storica e la ricchezza culturale del rito delle
vampe, leggono i fenomeni violenti degli ultimi anni come perdita dei valori,
secolarizzazione del rito, pretesto per fare casino. Esemplare, in tal senso,
l’immancabile servizio di Striscia la notizia sulle vampe, raccontate come
vandalismo “in nome della tradizione, ormai trasformata in distruzione”.
L’auspicio formulato dall’inviata nel 2022 è “più controllo” per evitare
devastazioni. La cronaca degli ultimi anni l’ha smentita: aumenta il
dispiegamento di polizia ma anche la violenza degli scontri, il volume delle
inchieste e i Daspo emanati ai ragazzini nei giorni successivi.
Le narrazioni ufficiali fanno eco alle azioni istituzionali, mirate a reprimere
i comportamenti illeciti senza farsi carico della responsabilità politica della
violenza. Due anni fa, il questore Laricchia, parlando alla festa della polizia
qualche settimana dopo San Giuseppe, fece “il punto sul crimine nel capoluogo
siciliano” denunciando la connessione tra traffico mafioso di stupefacenti,
diffusione del crack tra i giovanissimi, “atti di violenza inconsulta e fine a
sé stessa” e “azioni criminali” in occasione delle vampe, “branchi selvaggi” di
adolescenti e baby gang arabe. La droga non c’entra. La violenza delle vampe
sarà anche fine a sé stessa, ma non è inconsulta. È effetto della campagna di
criminalizzazione, legata al quadro più generale della nuova politica degli
spazi pubblici a Palermo, segnata dal crescente esercizio di controllo e da una
sempre maggiore intolleranza per le forme di socialità autonoma e popolare. A
farne le spese sono principalmente i ragazzini, dipinti come vandali
irredimibili e sempre più esposti alla violenza, con sempre minori protezioni.
(eugenio giorgianni)
(da: crash, di david cronenberg)
E la macchina sia alleata non nemica ai lavorator. (l’internazionale, versione
italiana)
Per varie ragioni, negli ultimi tempi, ho letto un po’ di cose sul rapporto tra
l’uomo e la macchina. Così venerdì sono andato a rivedermi Crash, il film di
Cronenberg forse più angosciante. L’avevo visto una sola volta, una vita fa,
durante un corso di Storia e critica del cinema all’Orientale, e mi aveva
colpito, complice l’atmosfera sepolcrale delle Mura Greche, il suo nichilismo
visionario senza scampo. Quegli uomini e donne che si trascinano nella
metropoli, capaci di trovare uno slancio solo verso la morte e attraverso la
penetrazione-lacerazione, oggi mi sembrano invece molto plausibili, ancorati
alla realtà, più contemporanei ancora dei personaggi di un altro film di C. più
recente, che ho amato molto, e che racconta tra le altre cose il farsi
esibizione di questo rapporto tra il taglio e l’erotico («La chirurgia è il
nuovo sesso»).
Quando costruiamo delle macchine è come se fosse la nostra versione del corpo
umano. Nel senso che il corpo umano è una macchina. È quello che William
Burroughs ha chiamato “the soft machine”. È interessante perché quando apri una
macchina vedi la mente dell’uomo che l’ha progettata. […] Mi piace molto
lavorare sui motori delle moto e delle auto. In questo modo hai l’intera storia
dell’uomo, la tecnologia, il design, la razionalità. […] È un’avventura
filosofica lavorare su una macchina. (david cronenberg intervistato da enrico
ghezzi per fuori orario, 1988)
(credits in nota 1)
Alla sua uscita, non capendoci molto, tanti critici bollarono Crash come una
sorta di techno-porno. A Londra l’uscita della pellicola fu vietata per molti
mesi, in Italia la Repubblica pubblicò due articoli violentissimi firmati da
Irene Bignardi.
So che i critici italiani hanno scritto che Crash era pornografia ma, guardando
film pornografici non mi sembrava che avessero nulla a che vedere con il mio.
Forse il problema è strutturale: può darsi che non abbiano mai visto un film che
apre con tre scene di sesso e che non sia un porno. È vero che in Crash sono le
scene erotiche a portare avanti la narrazione, come nel cinema porno, ed è vero
che quelle scene si possono descrivere molto semplicemente come: gente a letto
che si dice porcherie e poi ha grossi orgasmi. Ma mi sembra che il modo in cui
le scene sono costruite, funzionano nel film e in quello che dicono sia tutto
diverso da un film porno. (david cronenberg intervistato da giulia d’agnolo
vallan per il manifesto, 1996)
Chissà se Cronenberg ha mai conosciuto Carmine Attanasio, o se ha mai saputo che
nel novembre di quello stesso anno il leader dei Verdi napoletani propose un
ordine del giorno in consiglio comunale per vietare la pellicola anche in
Italia. Lo firmarono diciotto consiglieri di Alleanza Nazionale e Rifondazione
Comunista, ma l’interpellanza non passò.  
Sono in molti, a quanto sembra, a temere un immaginario fatto di violenti urti
di carrozzeria e corpi cicatrizzati, post-organici. E l’onda di disgusto si
propaga con rapidità: dall’Inghilterra (il film è in attesa di visto), alla
pudica America (che rimanda la sua uscita), il “testimone censorio” passa, a
sorpresa, a Napoli. Sì, proprio a Napoli, città-modello delle giunte di
sinistra. Che si risveglia in un ventoso giorno di novembre stringendo in mano
un’interpellanza comunale […] che chiede di bloccare la pericolosa pellicola
girata da Cronenberg. Prima ancora che circoli e sia vista, naturalmente. Per
pura prevenzione sociale. (arianna di genova, il manifesto)
Qualche giorno fa, passeggiando a sera molto tarda per il mio quartiere e
attraversando alcuni dei suoi angoli più reconditi, mi sono reso conto della
quantità di gente che di notte dorme in macchina, come tra l’altro il
personaggio più assurdo e affascinante di Crash («Vivi qui?». «No, io vivo in
macchina. Questo è il mio laboratorio»). Il giorno dopo abbiamo pubblicato
su Monitor questo articolo molto preciso sulla tragedia di quei tre fratelli
che si sono barricati nella loro casa e poi l’hanno fatta esplodere, uccidendo
tre carabinieri e innescando contemporaneamente gli ingranaggi di un’altra
macchina, molto ben rodata.
La notizia, per i giornalisti italiani, non sta nella crisi sociale che il paese
sta vivendo attorno a sfratti e sgomberi, specialmente, e sempre più spesso, ai
danni di persone anziane. Giusto alcuni casi recenti:
8 ottobre 2025, Sesto San Giovanni (Milano): settantunenne si lancia dal sesto
piano mentre l’ufficiale giudiziario notifica lo sfratto; lascia biglietto (“Non
ce la faccio più”).
15 maggio 2019, Torino (Palazzo di Città): Dipendente comunale sessantatreenne
si uccide nella sede municipale; aveva subito uno sfratto esecutivo.
16 luglio 2015, Genova (Sestri Ponente): Si getta dalla finestra “a causa dello
sfratto”.
19 dicembre 2013, Torino (quartiere Parella): cinquantenne si impicca al
balcone; in tasca l’ingiunzione di sfratto da eseguire entro trenta giorni.
La vera notizia, a quanto pare, sono i funerali di Stato per i tre carabinieri
morti sul lavoro, diventati eroi al pari dei loro colleghi caduti nella lotta
alla mafia. Sia chiaro che il sacrificio individuale di chi perde la vita
nell’adempimento del dovere merita un rispettoso riconoscimento dallo Stato e da
tutti. Tuttavia, trasformare gli esecutori di uno sgombero ai danni di tre
contadini semianalfabeti in martiri della legalità, senza alcuno sguardo critico
sul contesto, significa spostare il discorso sul piano liturgico, rendendolo
impermeabile a ogni analisi, rassicurante, funzionale allo status quo. (antonio
malatesta, napolimonitor.it)
Nonostante le ripetute rassicurazioni da parte del sindaco di Napoli e dei suoi
assessori, le famiglie dell’ex Motel Agip di Secondigliano, sfrattate
dall’edificio comunale e abbandonate, sono ancora in strada senza aver ricevuto
nessuna proposta alternativa se non la solita elemosina in denaro, in una città
in cui il mercato immobiliare impone il possesso di ben altre cifre, e
soprattutto garanzie, per potersi assicurare un tetto.
Contestato nel corso di un’iniziativa pubblica, il sindaco ha definito le
persone che protestavano – molti ex abitanti dell’edificio e un gruppo di
solidali − “professionisti della protesta”. Personalmente, l’arroganza e
l’indifferenza politica dell’ex rettore mi disgustano quanto gli strali dei
tanti che stanno strumentalizzando questa vicenda in vista delle elezioni
regionali di novembre, mentre estrema tenerezza provo per quelli che già si
stanno allineando verso un “fronte delle sinistre”, al fine di tirare la volata
all’improponibile ricandidatura a sindaco dell’ex magistrato vomerese che già
abbastanza danni ha fatto alla città in dieci anni di governo.
a cura di riccardo rosa
(disegno di renaud eymony)
“La stazione è blindata!” sentiamo appena arrivati a Udine con il treno. Sono le
sei di sera del 14 ottobre e l’inizio della partita fra le nazionali maschili di
calcio di Italia e Israele è previsto per le otto e quarantacinque. Due uscite
della stazione sono state bloccate e il piazzale antistante è pieno di polizia e
altre forze dell’ordine. I cestini sono stati sigillati con degli adesivi rossi
con una scritta che ne comunica la chiusura a causa del corteo.
Convocata dal Comitato per la Palestina di Udine, dal movimento BDS
(Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni), dalle Comunità palestinesi del Friuli
e del Veneto, dall’associazione Salaam Ragazzi dell’Olivo, comitato di Trieste e
da Calcio e Rivoluzione, la manifestazione aveva l’obiettivo di denunciare l’uso
dello sport come strumento di propaganda da parte di Israele e di chiedere al
mondo sportivo italiano in generale, e al calcio in particolare, di prendere
posizione. Si chiedeva allo stesso tempo alla Fifa di escludere le nazionali
israeliane dalle competizioni calcistiche internazionali, al pari di quanto
fatto con le nazionali della Russia dopo l’attacco all’Ucraina del 2022. Con gli
stessi obiettivi, altri presidi si sono svolti in contemporanea in diverse altre
città italiane.
Giusto un anno fa la nazionale israeliana era stata già ospitata a Udine per una
partita contro l’Italia e un corteo simile aveva raccolto circa tremila
presenze. Il tema dell’uso dello sport da parte di Israele per migliorare la
propria immagine non è una novità: basti ricordare che già nel 2018 il Giro
d’Italia partì da Gerusalemme, svolgendo poi due altre tappa in Israele. Più in
generale lo sport italiano sembra avere una certa difficoltà nell’evitare il
rapporto con Stati che presentano problematiche per quanto riguarda il rispetto
dei diritti umani, come suggerisce il rapporto ormai di lunga durata della
Federazione Italiana Giuoco Calcio con l’Arabia Saudita per l’organizzazione
della Supercoppa italiana (2018, 2019, 2022, 2023, 2024 e dopo sono previste
anche le prossime edizioni).
Il concentramento in piazza della Repubblica è vicino alla stazione, bastano
pochi minuti a piedi per arrivarci: quando arriviamo le strade intorno alla
piazza sono già piene e gli spezzoni si sono costituiti. Sono arrivate oltre
trecento adesioni alla convocazione e la diversità si nota anche a un’occhiata
superficiale. Sono presenti i sindacati di base così come la Cgil, gruppi scout,
gruppi autonomi e partiti, e un nutrito spezzone studentesco. La sensazione è
che, a Trieste come a Udine, la mobilitazione per la Palestina abbia portato
nello stesso corteo soggetti che in altri campi possono faticare a parlarsi, ma
che si sono ritrovati almeno sulla partecipazione a queste iniziative.
Via Roma, la strada che collega la piazza alla stazione, ha diversi negozi
aperti, soprattutto venditori di kebab. «Credo che siano gli unici a lavorare
ancora, quasi tutti gli altri negozi della città sono chiusi», ci fa notare una
persona che abita a Udine. È così: il corteo inizia a snodarsi per le strade
della città friulana e quando si entra in centro tante serrande sono abbassate.
I pochi locali che hanno scelto di rimanere aperti hanno comunque cercato di
proteggere le vetrine. Con una nota datata 9 ottobre il prefetto di Udine aveva
proibito la vendita di bevande o cibo in contenitori di vetro o ceramica e aveva
disposto la rimozione degli arredi urbani potenzialmente pericolosi, sostenendo
che il corteo potesse essere “occasione per l’infiltrazione di frange violente,
con rischi per l’incolumità di persone e cose”, contribuendo forse a creare un
clima di timore nei confronti della manifestazione
Il corteo è animato, c’è anche una murga molto vivace e composita che dà il
ritmo. Ogni tanto qualcuno si affaccia dalle finestre, ma in generale sembra che
parte della città si sia rintanata. La manifestazione attraversa delle strade
vuote, presidiate dalla polizia, dai carabinieri e dalla guardia di finanza. Ci
sono cartelli e striscioni di diverse realtà italiane, si fanno cori e si canta.
A un certo punto, non lontano dal municipio, in pieno centro, una parte del
corteo si lancia in un coro che invita a raggiungere lo stadio dove la partita
sta ormai per iniziare. «Si vede che non sono di Udine, lo stadio da qui è molto
lontano», dice qualcuno. In effetti lo stadio Friuli, noto anche come Bluenergy,
dal nome dello sponsor principale, è collocato a circa quattro chilometri dal
centro della città ed è uno dei pochi in Italia gestito dalla squadra che ci
gioca, l’Udinese. Il corteo termina così nella grande piazza Primo maggio,
accanto alla collina su cui è collocato il castello della città. La piazza è
talmente grande, soprattutto senza le macchine che di solito lì sono
parcheggiate, che il corteo, pur numeroso (si parla di dieci o quindicimila
persone), si sparpaglia: qualcuno rimane nel giardino centrale ad ascoltare
degli interventi, altri si avvicinano a un grande tessuto su cui sono stati
scritti i nomi delle persone minorenni morte a Gaza dall’inizio dell’invasione
israeliana fino a luglio 2025.
A un tratto un nutrito gruppo di persone si dirige verso un lato della piazza,
accanto al Santuario della beata Vergine delle grazie: è una delle due strade
che dalla piazza che possono portare verso lo stadio. In breve la fila di agenti
che blocca la strada viene rinforzata, qualcuno grida «Corteo! Corteo!», ma i
due gruppi rimangono a confrontarsi per diversi minuti sulle stesse posizioni.
Nella folla si vede uno striscione che chiede la liberazione di Marwan
Barghouti.
Alcune persone del servizio d’ordine della manifestazione vanno avanti e
indietro per avvertire che eventuali spostamenti del corteo dalla piazza non
sono stati concordati e che chi non vuole esporsi deve rimanere al centro della
piazza. Poi il gruppo si sposta verso l’altra strada di uscita verso nord, dove
trova un altro schieramento di polizia. Anche qui il confronto va avanti diversi
minuti fino a quando la polizia decide di fare a più riprese ricorso agli
idranti e ai lacrimogeni, che in diversi casi atterrano vicino al centro della
piazza, respingendo indietro i manifestanti. In alto un elicottero la illumina
con un potente faro, mentre gli scontri continuano ancora per circa un’ora. Poco
a poco però la piazza si svuota, mentre la partita viene giocata in uno stadio
semivuoto. Arriva la notizia di tredici persone fermate di cui poi due arrestate
e di alcuni fogli di via dati dalla questura, sotto la quale nella notte si è
formato un presidio di solidarietà.
La manifestazione di Udine si inserisce all’interno di una mobilitazione
regionale e nazionale intensa. Solo a Trieste, nelle ultime settimane, fra
assemblee e cortei le iniziative sono state quasi quotidiane. Mentre la città si
preparava al suo consueto programma autunnale di iniziative pubbliche, i cortei
hanno portato la questione palestinese nel centro, raccogliendo una
partecipazione non comune, in un posto in cui dopo poco si ha la sensazione di
conoscere almeno di vista una buona percentuale di chi partecipa ai cortei e ai
presidi. Nel caso della mobilitazione per la Palestina sembra essersi mosso
anche chi è di solito meno incline a partecipare. In questi ultimi due mesi, in
particolare, tante persone hanno percorso le vie centrali in cortei spontanei
che nascevano da presidi chiamati anche all’ultimo momento. È stata sconvolta la
viabilità e anche la preparazione di un evento come la Barcolana, nato come
semplice regata e diventato una vetrina per la città, iniziativa fondamentale
per il programma “politico” del sindaco Roberto Dipiazza. In occasione degli
scioperi generali si è si è arrivati a bloccare per alcune ore il porto della
città, con un varco il 22 settembre e due il 3 ottobre. (alessandro stoppoloni)
(disegno di martina di gennaro)
Nel film di Scola del 1976, un giornalista si rivolge al protagonista (Nino
Manfredi): «Lei, scusi, una parola per la tv?». «Vafangul’!». In quella commedia
feroce la miseria non chiedeva compassione né sconti morali, ma rivelava tutta
la violenza sociale delle baraccopoli romane e, implicitamente, dello Stato.
Cinquant’anni dopo, la miseria è la stessa: brutta, sporca e cattiva. I fratelli
Ramponi, (Franco, Dino e Maria Luisa) vivevano da anni isolati in un casolare
fatiscente alla periferia di Castel d’Azzano, senza acqua né luce. All’alba del
14 ottobre, un’esplosione ha cancellato tutto, compresa la vita di tre
carabinieri, Marco Piffari, Davide Bernardello e Valerio Daprà.
“ECCO CHI SONO I FRATELLI RAMPONI”
È cambiato il modo di raccontarla, la miseria. La tragedia è stata subito
riportata come la follia di tre colpevoli assoluti. I giornali hanno fatto a
gara a titolare “Chi sono i fratelli Ramponi”, e hanno scavato nei loro
precedenti, nei loro rancori, nei video in cui denunciavano gli “avvocati che li
hanno rovinati”. La narrazione di tutte le maggiori testate italiane costruisce
una storia di malavita e devianza, dove il lessico sacrificale e religioso
riservato ai carabinieri uccisi si accompagna a quello, vagamente moraleggiante,
della follia che sostituisce il linguaggio della povertà per i Ramponi (diceva
giustamente Ellen Raskin che “i poveri sono pazzi”). Su La Repubblica, un
articolo ne fa quasi cronaca antropologica, titolando “vita da Medioevo” e
evocando così, in un sol colpo, sia le condizioni materiali che un presunto
arretramento morale e culturale. Il Corriere della Sera sposta il dramma sociale
sul piano del patriottismo: “Il governo proclama il lutto nazionale.” In un
altro articolo, Repubblica titola: “Fanno esplodere il casolare”, formulazione
che chiude nell’intenzionalità criminale ogni spazio alla possibilità del “gesto
disperato”, come recitava un titolo, sapientemente cassato dal direttore del
giornale (fittizio?) in Sbatti il mostro in prima pagina. Non è il caso di fare
polemica, spiegava Gian Maria Volonté: «Il lettore apre il giornale, guarda, se
gli va legge, se non gli va tira via, ma senza la sensazione che gli vogliamo
rompere i coglioni».
UNA STORIA DI QUOTIDIANA DISPERAZIONE
Ma dietro quei brutti volti sporchi dei Ramponi si vede chiaramente una vicenda
molto più complessa di debiti, mutui, pignoramenti, battaglie legali, accuse
incrociate, ignoranza e impotenza. Una storia che i giornali hanno preferito
comprimere nella cornice perbene del delitto e del castigo.
Tutto comincia nel 2014 con un mutuo da settantamila euro con il Credito Padano,
destinato a un frutteto. Le rate cessano presto e la banca avvia una procedura
esecutiva. I Ramponi sostengono invece, da anni, che la firma fosse falsa: «Ci
hanno portato via cose per un milione di euro», diceva Maria Luisa in un video
del 2024 (Corriere del Veneto). Quale che sia la verità legale, rimane il fatto
che tre disgraziati, già in condizioni di povertà assoluta, si sono visti
togliere l’ultimo riparo, un tetto scassato senza servizi. Alla fine hanno
reagito, a dir poco, maldestramente. La Procura di Verona oggi contesta ai tre
fratelli il reato di strage, ipotizzando che l’esplosione sia stata preparata
per uccidere. Già l’anno scorso si erano barricati in casa minacciando di farla
esplodere. Non c’è dubbio: oltre che brutti e sporchi, i Ramponi sono anche
cattivi. Sarebbe da chiedersi se lo sarebbero stati, in condizioni sociali e di
dignità diverse, o se sia un tratto antropologico dei poveri.
CRISI ABITATIVA
Eppure la notizia, per i giornalisti italiani, non sta nella crisi sociale che
il paese sta vivendo attorno a sfratti e sgomberi, specialmente, e sempre più
spesso, ai danni di persone anziane. Giusto alcuni casi recenti:
8 ottobre 2025, Sesto San Giovanni (Milano): settantunenne si lancia dal sesto
piano mentre l’ufficiale giudiziario notifica lo sfratto; lascia biglietto (“Non
ce la faccio più”).
15 maggio 2019, Torino (Palazzo di Città): Dipendente comunale sessantatreenne
si uccide nella sede municipale; aveva subito uno sfratto esecutivo.
16 luglio 2015, Genova (Sestri Ponente): Si getta dalla finestra “a causa dello
sfratto”.
19 dicembre 2013, Torino (quartiere Parella): cinquantenne si impicca al
balcone; in tasca l’ingiunzione di sfratto da eseguire entro trenta giorni.
La vera notizia, a quanto pare, sono i funerali di Stato per i tre carabinieri
morti sul lavoro, diventati eroi al pari dei loro colleghi caduti nella lotta
alla mafia. Sia chiaro che il sacrificio individuale di chi perde la vita
nell’adempimento del dovere merita un rispettoso riconoscimento dallo Stato e da
tutti. Tuttavia trasformare gli esecutori di uno sgombero ai danni di tre
contadini semianalfabeti in martiri della legalità, senza alcuno sguardo critico
sul contesto, significa spostare il discorso sul piano liturgico, rendendolo
impermeabile a ogni analisi e, in ultima analisi, rassicurante, funzionale allo
status quo.
Questa è una costante dei casi di cronaca simili a quelli citati. Diritto alla
casa? Non se ne parla nemmeno. Povertà, ingiustizia sociale, sopruso, ignoranza?
Neanche un accenno, se non carico di giudizio morale. Si sa tutto di come
vivevano quei debosciati dei Ramponi, la loro follia, il degrado, la perversione
del bisogno. La proprietà, invece, resta anonima e inviolabile: nessun giornale,
fino al 15 ottobre, dice chi abbia promosso lo sgombero. Dalle notizie sul mutuo
si può solo ipotizzare un contenzioso bancario. La povertà ha nome e volto, la
proprietà mai; nel racconto mediatico, è una divinità incorporea che non si
nomina. I Ramponi invece hanno il physique du rôle, sono perfetti nel loro ruolo
“da Medioevo”.
IL LINGUAGGIO DEL POTERE
In questa asimmetria si gioca la partita morale, già persa, della nostra
informazione. La legge, nel suo linguaggio neutro, non distingue tra
disperazione e criminalità. Qui dovrebbe intervenire il giornalismo, che
racconta la complessità del reale, problematizza, cerca le cause oltre la
cronaca. Ma il linguaggio semplificante dei giornali mira a tutt’altro effetto:
 * I verbi d’azione (“fanno esplodere”, “innescano”, “provocano”) fissano la
   colpa nel gesto, non nel problema che a quel gesto ha portato.
 * Gli aggettivi morali (“folli”, “pericolosi”, “isolati”, “da Medioevo”)
   trasformano la miseria in colpa antropologica, e persino estetica.
 * L’assenza del soggetto economico protegge, evitando ogni possibilità di
   problematizzazione, la proprietà al di sopra della dignità delle persone,
   siano pure i Ramponi.
 * E infine, la centralità delle vittime in divisa riporta tutto al campo del
   sacrificio patriottico, dissolvendo ogni questione sociopolitica, o solo
   intellettualmente onesta, in un confuso senso di italianissimo orgoglio.
Ecco come si costruisce il discorso pubblico in modo che rimanga entro i limiti
dell’accettabile. “Ecco chi sono i fratelli Ramponi”, recitano i titoli. La
risposta che danno i giornali impone una domanda unica coprendo quell’altra, più
urgente, e canalizzando la curiosità del lettore su questi delinquenti senza
appello.
Ma l’altra domanda merita ancora di essere posta: perché erano ridotti a vivere
in quelle condizioni? Sono vere le accuse che fanno di truffa e falso? Cosa
spinge a far saltare in aria la propria casa, rischiando di morire, e di
uccidere, pur di non lasciarla? In altri termini: gli interessi di chi stavano
difendendo, a costo della propria vita, i tre carabinieri? Perché una cosa è
certa: lo Stato era lì per tutelare una proprietà, non persone in difficoltà
materiale e psicologica estrema, non per aiutare dei cittadini di serie B…
Brutti, sporchi, e cattivi. (antonio malatesta)