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Cronache, libri, disegni e reportages

Un assaggio di libertà. La storia del Chiosco blu di Ferrara
(disegno di lorenzo la rocca) “Cònia, la cui falsa etimologia deriva dal cono, è una scuola che dalla montagna trae alcuni caratteri: rarefazione dell’aria, altezza panoramica, isolamento, distacco. In queste ideali condizioni si collocano lo studio e l’esercizio intorno al nodo della rappresentazione del mondo operata dall’arte in generale, nelle sue implicazioni storiche e sociali, e dall’arte come tecnica personale”. Così la Socìetas Raffaello Sanzio nata a Cesena nel 1981, presenta la Scuola Cònia diretta da Claudia Castellucci, il corso estivo triennale di Tecnica della Rappresentazione. È qui che ho incontrato Matteo, ventisette anni, che, arrivato alla terza annualità, costruiva la sua performance. «Posso iniziare dall’esperienza a Cònia, nata in concomitanza con l’attività del Chiosco. Ho aperto il chioschetto al Lido di Spina, una frazione di Comacchio, una località balneare in provincia di Ferrara, dove mio padre ha uno stabilimento balneare. La mia estate l’ho vissuta sempre lì, con le hit italiane degli anni Ottanta della Riviera Romagnola. Il Lido di Spina non è la Romagna, però ha un po’ quella vibe, figli che mandano avanti il lavoro dei genitori, o ragazzi che hanno creato gruppo. Lavorando da sempre con mio padre, ho cominciato ad avere i miei primi guadagni, ma non mi sono mai trovato a mio agio, c’è stata una continua sensazione di distanza. Ho studiato al liceo artistico di Ferrara, però abitavo fuori dal centro e non sono mai riuscito a integrarmi, ero un po’ outsider; mentre in estate non avevo un ruolo preciso, ero conosciuto come il figlio del proprietario. FOTOGRAFIA «Dopo il liceo sono andato a Padova a studiare fotografia e lì ho capito che la fotografia commerciale non mi bastava, volevo di più e nel 2019 sono riuscito ad avere un contatto per lavorare a New York nei due mesi estivi. Ho sempre fatto questa altalena, fare esperienze nel mondo e tornare in provincia, uscire e ritornare… Tornato da New York, l’esperienza che mi ha fatto innamorare della fotografia è stata lavorare come assistente nel collettivo Cesura, a Pianello Val Tidone, provincia di Piacenza, fondato dagli assistenti del fotografo della Magnum Alex Majoli. «Dopo i primi tre mesi che ero in studio a spazzare per terra, a fare un po’ lo sgargino, ho avuto la fortuna che Majoli avesse bisogno di un nuovo assistente e tutti gli altri erano già stati presi. Sono diventato il suo assistente, rimanendo con lui per tre anni. Avevo ventidue anni, era l’anno del Covid. «Gli avevano proposto di documentare il Covid per tutta Italia, ed è stato un po’ obbligato ad accettare la mia presenza. Questo ci ha legati molto. Ho passato tre anni duri, che mi hanno aiutato a vedere il mondo in un modo completamente diverso, ad amare l’arte, a non vederla più come un hobby. «Alex Majoli è un fotogiornalista, io gli reggevo le luci. Nelle sue foto c’è un approccio teatrale alla realtà, fa delle foto che sembrano costruite. Siamo andati in ospedali, case private, abbiamo seguito medici che andavano a fare i tamponi. Abbiamo attraversato molte delle dinamiche del Covid, dai cimiteri ai corpi che venivano bruciati nella bergamasca. Tutte le dinamiche possibili di questa pandemia, avendo come soggetto medici e pazienti. «Dopo tre anni col mio maestro, ho deciso di dedicare il mio tempo alla fotografia e sono tornato a vivere a Ferrara dai miei, perché avevo comunque bisogno di denaro, non avevo più soldi. Non venivo pagato per l’assistentato, quindi lavoravo d’estate. «Torno a lavorare per mio padre, torno a farmi l’estate a Lido di Spina, però con una visione diversa dopo la pandemia. Inizio a fare dei ritratti tutte le sere, quando tornavo da lavoro, nel bar sotto casa. Il secondo anno faccio ancora un sacco di foto, le unisco alle altre e iniziano a dirmi qualcosa, anche se non riuscivo a capire cosa. Mi attraevano, ma non riuscivo a dargli un nome: questa espressione è tristezza o felicità? È gioia? Rispecchiavano esattamente la situazione che c’era in provincia d’estate. Volevo farci un libro, ma mi sono detto, perché invece di un libro fotografico inaccessibile, difficile da mostrare alle persone, non provo a cambiare quella realtà lì? La Scuola Cònia mi ha aiutato a viverla come una performance: e così ho pensato al Chiosco. CHIOSCO «A cento metri dal mare mio padre aveva un chiosco per vendere gelati e bottigliette d’acqua, un servizio del suo stabilimento. Gli ho detto “ti ripago i settemila euro che tu fai in una stagione, e noi facciamo quello che vogliamo”. Ero sicuro di quello che stavo facendo, sapevo che poteva funzionare: avevo il problema, avevo la soluzione, e non vedevo nessuna interferenza nel mezzo. «Ho aperto il chioschetto blu. Volevo un pugno nell’occhio, tra questa sabbia pastello e questo cielo, queste piadine. Vado a Parigi e cerco quel colore perché ero andato in fissa, volevo quel colore lì perché non è un blu casuale, un blu che ha fatto anche una certa storia nell’arte. Ho iniziato a sperimentare con tutto quello che ruotava intorno a questo chiosco. I miei clienti non erano clienti, erano ospiti, cercavo di mantenere un rispetto e un concetto di casa, più che di servizio. Il nome Chiosco blu era per essere riconosciuto su Instagram, era semplice. «Poi ogni anno gli davo un nome diverso. Il primo anno si chiamava La cabina di Despina, lì c’era il gioco delle due spine, e anche un racconto delle Città invisibili di Calvino, che parla di una città tra deserto e mare, un porto costantemente influenzato da altre culture. «La tematica portata avanti nel primo anno era concentrata sull’accogliere chiunque fosse perso, perché era un po’ anche la mia storia: mi ero perso in questa provincia e ho voluto ricreare questa casetta, per sentirmi libero di esprimere quello che volevo, per creare collettività, creare gruppo, anche attraverso le feste. «Il primo gesto per convincere i ragazzi a venire è stato fare le feste di lunedì, il giorno della settimana che tutti odiano. Chiamavo i dj, o persone che avevano il sogno di fare il dj, ma la piccola provincia non gli dava la possibilità di fare. Un amico tornato da Londra è caduto in depressione, faceva fatica a ripartire e cercava costantemente delle fughe, tra alcool, droga, eccetera. Un giorno gli ho detto, facciamo una cosa, domani facciamo una festa e te sei il dj, ti do anche cinquanta euro. Ha iniziato a farlo, è diventato il resident… «I primi lunedì sono venute venti persone, poi cinquanta, poi cento, pian piano siamo arrivati a Ferragosto che sono arrivate settecento persone, e lì ho conquistato l’amore e la fiducia, perché rompevo un po’ gli schemi… La festa di Ferragosto l’abbiamo fatta fino alle nove del mattino, era palesemente illegale, però l’abbiamo organizzata bene, non era un rave, non c’era politica, non c’era niente in mezzo, c’erano semplicemente dei giovani che volevano divertirsi, ascoltare della musica buona, bella, ricercata. C’era il dj che veniva lì per fare il dj, e cambia tutto quando quello che fai si slega dal guadagno. «Il Lido di Spina ha una spiaggia lunghissima. C’è lo stabilimento di mio padre che fa ristorante, piadine, eccetera, poi c’è tutta la distesa di ombrelloni che si fermano a duecento metri dal mare; in questi duecento metri lui ha altri cinquanta metri di concessione e qui era collocato il chioschetto, a cento metri dal mare. Ero sotto lo stabilimento balneare, però questa distanza fisica mi creava libertà nella gestione delle cose; non comunicavamo, se facevamo una festa contemporaneamente, non si sentiva neanche. «La prima serata non c’era ancora niente, poi ho costruito tutto io, insieme a dei ragazzi che mi davano una mano. Il dj era stanco, ma volevamo continuare a ballare. Ho chiesto, c’è qualche dj? Uno ha alzato la mano e ha detto, è una chiavetta con la musica, non la porto mai con me, ma stasera… Questo ragazzo ha suonato, e ha spaccato. Adesso è diventato dj art-techno, suona spesso ad Amsterdam, viene da Palermo. Non so perché da Palermo fosse finito qui, ma questo è un po’ il concetto di viandante che intendevo, sono arrivate persone da ovunque. Anche dei dj da Londra. Perché lavoro come fotografo per un collettivo in Inghilterra, e in tre anni di lavoro non mi hanno mai pagato. Quando ho aperto il chiosco gli ho detto, voi non mi avete mai pagato, venite, io non vi pago. Quindi ho fatto suonare gratis dei dj che non sarebbero mai venuti a Ferrara. «Poi facevo delle esposizioni con le mie foto. La cosa bella della spiaggia è che puoi piantare un palo in tre secondi. Creare e modificare lo spazio come vuoi. Avevo fatto tutta una serie di fotografie che delimitavano lo spazio per danzare, c’erano vari allestimenti, sperimentavo anche con le stampe, poi con le tende. Cercavo delle scenografie. Poi ho comprato delle lampade di carta che sono diventate simboliche, richiamando un po’ la casa. Contemporaneamente facevo la Scuola Cònia che mi aiutava a pensarla, la casa. CASA «Quando parlavo con mio padre, mi diceva di smetterla di fare le feste. Succede nei paesi, provano a farti vedere problemi che non esistono; soprattutto se hai una buona idea, non ne sono contenti, provano invidia. Non trovi mai quello che ti dà una pacca sulle spalle e dice, cazzo, fai una cosa fantastica! «Poi pian pianino ho trovato le mie energie, chiamavo un sassofonista e lo facevo suonare col dj. Tutta sperimentazione che poi veniva da Claudia Castellucci. Ho usato molti concetti della Scuola Cònia, come la Teoria dello sfondo, o la Teoria dello spazio e altri approfondimenti sull’arte e la rappresentazione fatti lì, per applicarli nel mio chioschetto. «Il secondo anno, ancora più carichi, siamo arrivati con il budget dell’anno precedente. Avevo preso dei divani in Marocco con un mio amico, e lì abbiamo raccolto un sacco di idee. Questi grandi divani marocchini, come materassi, fatti tappezzare tutti blu, li avevo messi all’unico grande tavolo che c’era, dov’eri obbligato a socializzare con altra gente, e sono successe cose fantastiche: la nonnina col bambino e i due ragazzi magari un po’ burini, una coppia che litiga e tutti a provare a risolvere il problema… Mi piaceva giocare con questa realtà nuova, con queste persone che si sentivano a loro agio. Avevo trovato delle diapositive di vecchi quadri e li ho messi a disposizione; durante le serate si creavano collettivi di gente che suonava, un vero spazio di creazione, di libertà. Abbiamo fatto una festa anche con i collettivi di Bologna e sono venute mille persone. All’alba avevo tutta la spiaggia piena di gente, con ragazzi che ballavano anche in mare, bellissimo! E lì sono iniziati ad arrivare anche problemi legati al Comune, alla legalità… «Non ti ho detto che il primo anno i club e le discoteche che suonano musica commerciale mi avevano già mandato i controlli, chiamando i carabinieri: “c’è un chioschetto blu in riva al mare, andate a vedere”. Una discoteca storica di Ferrara aveva paura di un’attività aperta da un anno. Io e mia sorella di diciannove anni, che mi ha aiutato a ritinteggiare di blu un chioschetto di tre metri per tre, e questi qua ci mandano i carabinieri. «Io me ne fregavo, mi hanno mandato i carabinieri il primo anno alla fine della stagione e ho pagato la multa. Il secondo anno ho cominciato ad avere un po’ di paranoie, poi ho fatto due feste e mi sono detto, ne pago dieci di multe. Però ad agosto c’era davvero tanta gente, e i problemi potevano diventare molto più grossi; non avevo buttafuori, avevo gente che pagavo trenta euro con la maglia della security, trovata magari al mercatino dell’usato. Stavo iniziando a spaventarmi un po’ di quella realtà lì e quando ho provato a rendere questa cosa legale e a cercare un modo per far sì che diventasse un lavoro, ho capito che era una cosa campata in aria, fluttuante, temporanea, non poteva essere nient’altro. È stato un assaggio di speranza, un assaggio di libertà. «A volte i clienti dello stabilimento di mio padre chiamavano i carabinieri. Io non volevo fare il ribelle, volevo che quella cosa funzionasse perché era casa mia, quindi mi adattavo. Avevamo tutte le casse rivolte al mare, e andavo su al bar di mio padre per sentire se effettivamente davo fastidio, perché se do fastidio è giusto che chiudo, però, se non do fastidio c’è un problema, stiamo parlando di repressione. «Il secondo anno, dopo questa grande festa, anche mio padre ha iniziato a mettersi contro questa attività, aumentando l’affitto. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo, perché funzionava tutto perfettamente, però man mano che cresceva, sempre più parassiti arrivavano e volevano soldi: un fornitore faceva il furbo e mio padre aumentava l’affitto, poi ci mandavano delle multe… C’è stato un gran litigio. «Ho mollato, perché non capivo più niente. Mi dicevano non puoi fare niente, ma se hai un po’ di coraggio, lo puoi fare. Cosa vuol dire? Si può lavorare così? Ho iniziato ad avere quest’ansia, questa difficoltà anche a organizzarmi, perché se chiamavo un collettivo da Milano e poi non suonavano, che figura ci facevo con i clienti. Non riuscivo a proteggere la mia casa e quindi, citando la mia performance di domani qui a Scuola Cònia, questa casa l’ho indossata e me ne sono andato in Francia con l’idea di potermi vestire ancora di queste pareti e recuperare quello che ho raccolto in questo chiosco. FUOCO «Per rendere questa cosa simbolica ho deciso di dargli fuoco alla fine dell’anno, a settembre. È stato un rituale, ero contento. Non era un addio, gli dava un valore temporaneo, dava un valore al mio rapporto con la città di Ferrara. Ho provato a fare qualcosa per questa città ma ho capito che non era la mia lotta. Se la tengano la palude riqualificata, adesso se la riprenderanno, non lo so. «L’atto più rispettoso che potevo fare era di bruciare questa casa, un atto di purificazione. Volevo liberarla, questo è il primo motivo. Un altro motivo per il quale l’ho bruciata è stato che mio padre voleva darla in gestione, con una leggerezza… senza riconoscere tutto il mio lavoro. Non potevo permettere che il mio chiosco blu fosse gestito da altri, perché è stata casa mia. Questo mi ha dato la rabbia per bruciarlo, ero obbligato, non potevo fare altro, potevo solo bruciarlo. Non potevo farlo abitare a qualcun altro. «Si è bruciato anche il rapporto con mio padre e con tutta la mia famiglia. Sono stato da settembre a novembre a Ferrara, e poi sono fuggito, non riuscivo più a reggere tutto quello che mi stava intorno, lo sentivo soffocante, stavo iniziando a prendere brutte abitudini. Dopo che ho bruciato la casa, tutto intorno a me ha iniziato a bruciare, dalla relazione familiare, alle relazioni con gli amici, alle relazioni amorose, tutto si è fatto terra bruciata e una sera ho preso un volo e sono andato in Francia. «Quest’anno ho ricominciato un’altra vita e sono tornato viandante come quando ho costruito il chiosco. Sto cercando un’altra realtà che mi accolga. È la prima volta che torno in Italia dopo mesi che sono fuori, sono tornato per la Scuola Cònia, perché fa parte di questo percorso, e lo chiuderò con questa performance, che rappresenta un po’ il mio esodo da questa casa». (daniele balzano)
storie
La plastificazione delle città, un libro sul turismo nei Paesi Baschi
(disegno di otarebill) “Era una città di plastica / di quelle che non voglio vedere / con edifici cancerogeni / e un cuore di paccottiglia / dove invece del sole sorge un dollaro / dove nessuno ride, dove nessuno piange / con gente dalle facce di polistirolo / che sentono senza ascoltare e guardano senza vedere / gente che ha venduto per la sua comodità / la sua ragion d’essere e la sua libertà”. Poteva essere questa strofa di Rubén Blades e Willie Colon l’epigrafe del libro La rivolta nella città di plastica, di Marco Santopadre, una breve inchiesta sulla turistificazione estrema della città basca di Donostia (San Sebastián) pubblicato qualche mese fa dalla Red Star Press di Roma. La mitica canzone Plástico del 1978, un capolavoro della salsa, è un’invettiva ironica contro la superficialità delle donne, degli uomini e delle città del continente americano. Negli anni Settanta questi musicisti latinos di New York vedevano come il modello urbano consumista statunitense si riproduceva anche nei loro paesi d’origine. Mezzo secolo dopo questa plastificazione ha raggiunto tutte le città del mondo: le capitali, come Roma, che con il Giubileo è stata finalmente consegnata alla grande finanza internazionale; ma anche le città meno centrali. Una è sicuramente Donostia (è il nome basco: in castigliano è San Sebastián), la “perla del Cantabrico”, nel nord della penisola iberica. Santopadre, che conosce bene il paese basco, e che per questo libro ha svolto dieci interviste ad attivisti, sindacalisti, consiglieri comunali, portavoce delle associazioni di quartiere, racconta di un passato recente in cui la città aveva due facce: la San Sebastián “turistica, godereccia, dai tratti raffinati, un po’ snob e un po’ retrò”; e la Donostia “estremamente popolare, combattiva, impegnata, verace, dai modi diretti e informali” (p.14). Per decenni questi due mondi hanno condiviso lo stesso territorio, forse ignorandosi, o disturbandosi tra loro poco più delle due città di The city and the city di China Mieville. Ultimamente, però, ed è il tema del libro, la prima ha “fagocitato” la seconda. Come nel libro di Mieville, si parla di classi sociali: la città borghese ha sconfitto la città popolare, divorando anche il suo mondo vitale, la sua lingua indigena (l’Euskera o basco), le sue mobilitazioni politiche. Lo strumento di questa vittoria è il turismo; o meglio, la trasformazione della città in una monocultura turistica. A differenza della vicina Bilbo (Bilbao), città operaia e industriale che si è aperta al turismo solo dopo la costruzione del museo Guggenheim a fine anni Novanta, con il “recupero” delle zone abbandonate dalla deindustrializzazione,  Donostia ha alle spalle due secoli di turismo: perciò la tipica risposta alle critiche al turismo è che Donostia “è sempre stata turistica” (p.31). Per il suo clima e la sua posizione, era meta di vacanze termali per l’aristocrazia già nell’Ottocento; e anche il dittatore Francisco Franco vi passò le estati dal 1940 fino alla morte, nel 1975. Ma per quarant’anni tutta la regione basca, Euskadi, è stata lo scenario della conflittualità indipendentista dell’ETA, di enormi mobilitazioni contro lo stato spagnolo, e della kale borroka, la guerriglia urbana dei giovani. Forse queste grandi mobilitazioni sono riuscite a tenere alla larga non tanto lo stato, quanto la massificazione turistica che incombeva sulla regione (della turistificazione di Bilbao parla anche l’ultimo capitolo del libro di Santopadre, a partire dal lavoro di Adriano Cirulli, altro grande conoscitore del país vasco). Santopadre spiega infatti che la deposizione delle armi di ETA ha segnato l’inizio del nuovo ciclo di turistificazione. Nello stesso anno dell’annuncio di ETA, il 2011, Donostia fu candidata a “Capitale europea della cultura” per il 2016 (l’anno in cui si seppe che il dubbio privilegio sarebbe stato riservato anche a Matera; pochi anni dopo a Procida). Queste grandi celebrazioni cementificano nuove alleanze nelle élite: come le Olimpiadi di Barcellona del 1992, annunciate dall’ex ministro franchista Jose Antonio Samaranch, che sancirono la ritrovata unità economica di destra e sinistra sotto il vessillo dell’impresa e della gentrificazione, così Donostia 2016 è diventata subito il paradiso dell’industria turistica. Non passa neanche un anno dal “grande evento”, che già la turistificazione è estrema; nascono le organizzazioni contro l’overtourism – un termine che il libro giustamente critica, perché la questione non riguarda la quantità di turisti; e neanche la “qualità” (pp. 100-110). Subito dopo la pandemia del 2020 già un quinto dei posti letto nelle zone centrali sono per il turismo (p.49), con il conseguente calo dei residenti (non pronunciatissimo: nel quartiere centrale le statistiche registrano il dieci per cento in meno in venti anni, anche se probabilmente esponenziale; p.51). “Siamo in pericolo”, dichiara un’intervistata (l’unica donna). Quella di Donostia, per uno degli intervistati, sarebbe una “gentrificazione con caratteristiche proprie” (p.51). Eppure – circondata dagli aeroporti, funestata dal lavoro precario e stagionale, satura di bar e bnb (per lo più gestiti da gruppi imprenditoriali), inzeppata di installazioni artistiche, svuotata dall’aumento degli affitti, con il conseguente “sradicamento di un’intera generazione […] oltre all’indebolimento delle reti comunitarie e perdita dell’identità locale” (p.58) – si fatica a vedere in cosa sia diversa dalle migliaia di altre città gentrificate. Il libro ripercorre tutte le politiche con cui l’amministrazione ha favorito la turistificazione estrema: dalla concessione di licenze per hotel in deroga alle norme edilizie, alla demolizione di edifici storici di cui si mantengono solo le facciate, fino agli “errori” intenzionali che hanno accelerato la distruzione della città; e anche le denunce dei numerosi collettivi, studiosi e associazioni di abitanti, quasi sempre senza risultati, almeno nei tribunali. Al di là della forma specifica di vendere Donostia come capitale enogastronomica, una narrativa di cui Santopadre ripercorre lo sviluppo – dal 2009 che si fonda il Basque Culinary Center, si celebra la fiera San Sebastian Gastronomika, si trasformano le sidrerie in ristoranti brandizzati, fino all’assurdità dell’Instituto del Pintxo (p.83) – è evidente che i processi descritti nel libro sono proprio esempi da manuale. Le città gentrificate non si distinguono per forma, storia e vita, ma per il tipo di offerta che propongono ai nuovi arrivati – turisti o gentrificatori. Ed ecco la plastica! È il packaging che trasforma la città in un pacchetto che i visitatori possano consumare rapidamente. Ma è anche una metafora dell’abbellimento superficiale, della ripulitura frettolosa, del consumo in serie, colori e forme attraenti ma identiche ovunque. Il simulacro si moltiplica al punto di sostituirsi alla città. Anche questo processo è standard: lo descriveva Harvey in The Art of Rent ventitré anni fa, spiegando che le città per farsi “globali” sono costrette a distruggere ciò che le rende uniche. Donostia oggi è analoga alla Cappuccino city di Derek Hyra, ma anche alla città di Santa Chiara, le cui mirabolanti avventure racconta Diego Miedo; di fatto, a tutte le altre città turistificate del mondo. Tutte in mano ai city killers, come li chiama Lucia Tozzi. Quello che manca in questo racconto però è la rivolta del titolo. In questa città di plastica, dov’è l’abitante di Zerocalcare che esce col fucile gridando “Rebibbia non sarà mai il nuovo Pigneto! Le vostre apericene fatele da un’altra parte”? O quello di Diego Miedo che grida “Americani di merda non saremo mai il vostro zoo”? Dopo lo scioglimento dell’ETA forse è fuori luogo invocare le armi. Ma è vero anche che l’invasione turistica attuale, soprattutto dopo la pandemia, non ha mai prodotto niente di simile alle proteste anti-gentrificazione degli anni Ottanta, come la rivolta fondativa di Tompkins Square nel 1988. Ci sono gruppi di abitanti critici, reti internazionali come SET, libri ed eventi contro il turismo – ma pochissime rivolte. Un’eccezione forse è stata quest’estate a Città del Messico contro i turisti statunitensi, che le autorità hanno rapidamente definito violenza xenofoba. Le rivolte contro la plastica sono nella nostra immaginazione, sono prefigurazioni, dei simulacri, plastica anche loro. Rivolte vere, per ora, né a Donostia né altrove. Anche perché sarebbe assurdo prendersela con i turisti, ingranaggi della macchina, quasi sempre inconsapevoli. Ma anche sul campo della consapevolezza non siamo avanzati molto. Nel 1979 Ruben Blades e Willie Colon spiegavano chiaramente la strada contro la plastificazione: “Senti latino, senti fratello, senti amico – dice l’ultima strofa della canzone Plástico – non lasciarti confondere / dall’oro o dalla comodità! / Andiamo tutti sempre avanti / c’è ancora molta strada da fare / per farla finita tutti insieme / con l’ignoranza che ci mantiene suggestionati / con modelli importati / che non sono la soluzione. / Non lasciarti confondere / cerca il fondo e la sua ragione / e ricorda: si vedono le facce / ma non si vede mai il cuore”. Studiare, lavorare, andare sempre avanti, contro i modelli statunitensi di plastica: “Ricordati che la plastica si scioglie / quando la illumina il sole” canta Ruben Blades mentre il coro ripete “si vedono le facce, si vedono le facce / ma non si vede mai il cuore”. Questa era la strada con cui “vinceremo insieme”. Per il momento, la vittoria non è arrivata. Cosa vuol dire “cercare il fondo e la sua ragione” nella città di plastica? Le facce di plastica hanno un retro, un fondo, dove si vede la filettatura, il segno della fusione, che ne rivela la natura artificiale, prestampata. Turistificazione e gentrificazione sembrano un pezzo unico, da prendere o rifiutare in blocco, magari regolando quantità e qualità. Il punto di fusione, nascosto, mostra invece che questi fenomeni sono un’accozzaglia di eventi disparati – dai finanziamenti pubblici alle low cost, alla mancanza di regolazioni sugli affitti brevi – fusi insieme da un discorso pubblico che li presenta come solidi e coerenti. E invece sono le forme del momento, che possono cambiare anche all’improvviso. Santopadre, per esempio, spiega il moltiplicarsi degli immobili di lusso (p.119-125), come un nuovo ciclo di valorizzazione (anche se secondo me sbaglia nel considerarla un “dopo” la gentrificazione). A Roma, per esempio, la fase non è più quella puramente turistica: abbiamo il lusso e i maxi studentati (ne parla Chiara Davoli nel numero dello Stato delle città di prossima uscita); altrove le politiche urbane portano tutt’altro, dall’abbandono di Detroit ai massacri di Rio de Janeiro. Dipende da come reagisce la società. Di fronte alla città di plastica, la ricerca dovrebbe fare come il sole della canzone: scioglierla. Scomporne i fattori, capirne gli equilibri, cosa tenere e cosa respingere, quali forze si legano a ogni pezzo; smentire sistematicamente il simulacro, la performance scintillante. Francesco Migliaccio ipotizza che la stessa idea di gentrificazione contribuisce a nascondere le diverse tendenze che influenzano la vita urbana, togliendoci lucidità. Un’altra metafora utile è quella di Mike Davis, Città di quarzo: gli aspetti apparentemente inconciliabili della vita urbana si riflettono tra loro come in un cristallo. Anche Marco D’Eramo in un gran libro su Chicago mostra come la città tiene insieme elementi diversissimi: Il maiale e il grattacielo. La metafora ci serve anche per la struttura politica che promuove questi processi, cioè lo stato. David Graeber ha spiegato che lo stato è un’accozzaglia di elementi inconciliabili tenuti insieme da una retorica convincente, ma che possono sciogliersi in qualunque momento. Anche a Roma dobbiamo capire come si interfacciano le scenette del sindaco con il giubbetto catarifrangente, le parate militari, la vendita di un appartamento per sedici milioni di euro, la Royal Caribbean che si prende Fiumicino. Senza farci confondere dai giornali che ci mostrano un progetto unico e coerente da accettare o rifiutare. “La strategia di orientare il dibattito politico verso l’antinomia ‘turismo sì-turismo no’ – scrive Santopadre – serve a coprire le responsabilità politiche e istituzionali nei cambiamenti strutturali imposti ai nostri quartieri”. Inchieste come questa ci aiutano a sciogliere tutta questa plastica, e a cercare il fondo. (stefano portelli)
libri
culture
La parola della settimana. Pianeta
(disegno di ottoeffe) «La Terra è cattiva, non dobbiamo addolorarci per lei». «Cosa?». «Nessuno ne sentirà la mancanza». «Ma dove crescerà Leo?». «L’unica cosa che so è che la vita sulla Terra è cattiva». «Potrebbe esserci vita in altri luoghi…». «…ma non c’è». «E tu come lo sai?». «Perché io so le cose». (dialogo tra justine e sua sorella claire, melancholia, di lars von trier) Siccome le cose non vanno un granché ultimamente, ho deciso di calcare la mano e mi sono rivisto in tre giorni tre film di Lars von Trier. Fine del mondo, scoramento, depressione, vendetta, calamità, fustigazione avrebbero tutte potuto essere parole della settimana. Ma non lo sono. Ho visto per la prima volta sia Dogville che Melancholia a un cineforum che alcuni amici tenevano nell’aula delle Mura Greche a palazzo Corigliano, sede dell’Orientale, luogo che nei miei primi anni di università mi sembrava frequentato da gente interessante, pieno di angoli stimolanti (c’era una radio in un’aula occupata proprio sopra le Mura Greche, che oggi è un insopportabile cubo bianco per lezioni che vanno quasi sempre deserte), di continui confronti, e anche scontri, di vario genere.   Del cineforum ho parlato qualche tempo fa a uno studente al primo anno di lingue e letterature moderne. Mentre provavo a dirgli del lavoro di preparazione, delle riflessioni pre e post proiezione, delle connessioni che si cercava di costruire con l’attualità, lui non riusciva a non farmi domande che solo dieci anni prima sarebbero sembrate venire da un altro pianeta. Del tipo: «Eh ma si teneva l’università aperta dopo le sei?», oppure «E il rettore lo faceva fare?», o ancora «Eh ma per i film scaricati da internet nessuno rompeva le scatole?». In effetti i film erano scaricati illegalmente, al rettore solo a volte veniva mandata una mail o un volantino per conoscenza dell’iniziativa, e lo stesso si faceva con le guardie giurate che rimanevano a sorvegliare il palazzo, preoccupandosi appena che non si esagerasse con la birra e le bottiglie in vetro. (dal blog del Cineforum Orientale 2.0) Riguardando più attentamente Dogville (2003) mi sono accorto di non aver notato, a suo tempo, una scena che in un certo senso ne anticipa un’altra, centrale, in Melancholia (2011). Nel primo film c’è Grace (Nicole Kidman) che viaggia su un furgoncino pieno di mele, dove si è nascosta per scappare dalla città. A un tratto il furgoncino viene fermato e Ben, guidatore e proprietario del mezzo in pieno spettro autistico, la stupra minacciandola di consegnarla alla polizia se avesse proferito parola. Quella scena mi è sembrata rimandare a un momento chiave di Melancholia, ovvero quando Justine (Kristen Dust) premonisce la propria depressione dovuta alla consapevolezza di una fine del mondo imminente, e si immagina addormentata sul letto del fiume come Ofelia, che in un fiume si suicida dopo aver preso atto della follia del suo Amleto, in realtà fintosi pazzo. Mentre Justine però, “sa le cose”, e sa che l’impatto con un gigantesco pianeta blu sta per distruggere la Terra, Grace non sa nulla, eppure con la stessa atarassia accetta il destino, giacendo inerme tra le mele, prima, durante e dopo lo stupro, convinta di dover comprendere, se non giustificare, tutto il male che le viene e le verrà fatto («Tu, la mia cara figlia, perdoni gli altri con delle scuse che poi mai al mondo permetteresti a te stessa»). Grace può essere letta come una rappresentazione di Cristo, figlio del dio onnipotente e vendicativo del Vecchio Testamento, che lascia il regno del padre per andare in terra, e mondare gli esseri umani dei loro peccati, sacrificando la propria vita per loro. […] Allo stesso modo, si presta ad essere sacrificata per la salvezza morale di Dogville, lasciandosi umiliare e torturare per il raggiungimento di un bene superiore, quello morale, appunto. […] Grace distrugge Dogville, teatro del suo estremo sacrifico, come l’Io sacrificale che sfugge ad un Super Io vendicativo, per poi accettare di compiere una spaventosa vendetta. Nel momento in cui Grace dà l’ordine di uccidere tutti eccetto il cane, noi spettatori godiamo della sua vendetta. Proviamo una soddisfazione infantile e feroce nel vedere ripagati i torti subiti dalla protagonista. […] Von Trier descrive nel personaggio di Grace una anti-Cenerentola, che non viene ripagata con l’amore per essersi fatta maltrattare con educazione e gentilezza; una versione femminile del Tito Andronico di Shakespeare che pretende sangue per sangue, mano tagliata per mano tagliata, figlio per statuetta. Per il regista probabilmente non esiste alcun bene superiore, non esiste alcun dio misericordioso che ci ripaga dei sacrifici che ci siamo autoinflitti, ma solo un dio vendicativo e onnipotente. (valeria colasanti, dogville. di lars von trier, in: doppio sogno. rivista internazionale di psicoterapia e istituzioni) Va detto che se davvero esiste un dio vendicativo e potente siamo probabilmente spacciati, perché deve averne le palle piene di noi tutti: La Cop30, dove si decide come evitare che il pianeta bruci a causa del riscaldamento globale, è stata sospesa per un incendio (wired, 20 novembre 2025). Eppure una volta “sapute le cose” si potrebbero ancora immaginare delle strategie: Scoperta una Super-Terra, c’è vita sul pianeta GC 251 C? Il pianeta è a “soli” 20 anni luce da noi. E potrebbe ospitare acqua (adnkronos, 24 ottobre 2025) Le ricette non mancano: I filtri nei condizionatori aiutano a salvare il pianeta (hdblog.it, 28 ottobre 2025) A Spoleto un murale per salvare il pianeta (spoletonline.com, 19 settembre 2025) Più tasse a Bezos per salvare il pianeta: maxi striscione di Greenpeace a Venezia (vez.news, 23 giugno 2025) Salvare il pianeta… dagli ambientalisti (corriere della sera, 25 settembre 2025) Diamo dunque il benservito a ogni Grace e Justine: quello che conta è agire! La Danimarca vuole salvare il pianeta… macellando nel suo regno balene e delfini (tviweb.it) (e questo sì che lo farà ammattire, povero principe). https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/11/amletomonitor.mp4 (credits in nota 1) a cura di riccardo rosa __________________________ ¹ Pino Micoli e Giulio Pizzirani in: Amleto, di Maurizio Scaparro (1973)
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Elezioni regionali in Campania. La crisi sociale ignorata dai grandi partiti
(disegno di diego miedo) Ho ascoltato il dibattito televisivo di martedì 18 novembre tra i due candidati delle principali coalizioni nelle ormai imminenti elezioni regionali della Campania e vorrei soffermarmi su un passaggio cruciale del confronto Fico-Cirielli. Alla domanda della conduttrice sull’emergenza sociale in Campania, i candidati non hanno di fatto dato risposta. Le loro attenzioni si sono focalizzate su singoli settori, oggi e da molto tempo in stato di sofferenza nella regione (trasporti, sanità, lavoro), ma né Fico né Cirielli hanno accennato a una visione d’insieme. È utile anzitutto riepilogare i termini della questione sociale oggi in Campania, offrendo alcuni dati essenziali per cogliere l’entità del fenomeno. Secondo dati diffusi da Openpolis nel 2023, quasi la metà della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale. Si tratta di un dato allarmante, il peggiore tra quelli regionali nel nostro paese, insieme alla Sicilia. Se si guarda ai dati Eurostat del 2024 su povertà ed esclusione sociale, la Campania si conferma, insieme alla Calabria, tra le aree più in difficoltà in Europa. La regione è stata poi eccezionalmente colpita dalla bolla turistica degli ultimi anni, con effetti diretti sul costo delle abitazioni. Secondo recenti rilevazioni dell’Ance, l’associazione nazionale dei costruttori edili, la città di Napoli è tra quelle in Italia con prezzi immobiliari (per l’acquisto e per l’affitto) meno accessibili in rapporto al reddito disponibile delle famiglie. Supera perfino Milano, nota per il boom immobiliare di tipo speculativo al centro delle cronache nazionali negli ultimi mesi. La crisi abitativa è particolarmente allarmante a Napoli, dove secondo dati del Comune il 44,09% della popolazione residente è in affitto, un dato due volte maggiore della media nazionale in Italia, che è del 19,99%. Inoltre la Campania negli anni scorsi, a cominciare dalla prima metà degli anni 2010, è stata sottoposta a forti tagli imposti dalle politiche di austerità intraprese dai governi nazionali e implementate a livello territoriale dalle giunte regionali, in particolare negli anni della presidenza Caldoro e del primo mandato di De Luca, ma proseguite fino a oggi. Le politiche di austerità a livello regionale sono state accompagnate dai tagli strutturali ai finanziamenti comunali e da draconiani piani di rientro del debito, come il cosiddetto Patto per Napoli. I flussi di finanziamento per gli enti locali del meridione saranno nel prossimo futuro sempre più a rischio per il processo di autonomia differenziata che il governo in carica sta continuando a portare avanti, a dispetto delle (parziali) bocciature della Corte Costituzionale. Negli anni scorsi, le misure di cosiddetta austerità in Campania hanno riguardato i settori della sanità (chiusura di ospedali e presidi sanitari periferici), dei trasporti (tagli al trasporto pubblico locale, fino alla soppressione di linee fondamentali nei collegamenti extraurbani, in particolar modo nelle aree periferiche e interne del territorio regionale). Inoltre la Campania ha record negativi nella disponibilità di servizi primari come gli asili nido: secondo dati Istat del 2021 solo sette bambini su cento hanno accesso all’asilo nido, mentre in Toscana salgono a trentacinque. I costi delle politiche di austerità si sono trasferiti sui conti familiari, che devono attingere a risorse proprie già scarse per far fronte a servizi che in altre regioni sono forniti dalle amministrazioni pubbliche. La disattenzione alla crisi sociale da parte delle principali coalizioni che concorrono per la guida della Regione Campania è tanto più sorprendente se si guarda a ciò che accade in queste settimane nelle elezioni locali in altri paesi. Negli Stati Uniti, il tema del rincaro nel costo della vita è diventato centrale nelle elezioni delle grandi città: ha consentito a un candidato indipendente come Zohran Mamdani di prevalere su un candidato potente, espressione dell’establishment tradizionale, come Mario Cuomo, grazie a una campagna che ha acceso gli entusiasmi della nuova generazione di attivisti emersa in questi anni intorno alle lotte per la casa e per i diritti delle minoranze. Il consenso ottenuto da Mamdani e l’ondata di partecipazione civica che la sua candidatura ha generato nasce dalla determinazione con cui Mamdani ha messo il contrasto a quella che negli Stati Uniti si chiama “crisi di affordability” al centro della propria agenda politica. La crisi di affordability indica l’aumento del divario tra prezzi dei beni di consumo primario e retribuzioni delle famiglie: ciò rende sempre più difficile a porzioni crescenti non solo delle classi con redditi più bassi ma anche del ceto medio di accedere a beni e servizi primari, come le abitazioni, l’alimentazione, i trasporti, le cure sanitarie a pagamento. Non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa e con particolar vigore nelle regioni dell’Europa meridionale, come evidenziano i dati sopra citati, l’aumento incontrollato dei prezzi di beni e servizi primari generato dalla crisi energetica e dall’inflazione sostenuta degli anni scorsi ha assottigliato, fino ad azzerarlo, il  “reddito residuale” a disposizione delle famiglie, vale a dire la quota di reddito che le persone riescono a mettere da parte dopo aver compiuto le spese minime richieste per il proprio sostentamento (affitto, consumi energetici, alimentazione, mobilità, cure mediche). La lontananza, emotiva e propositiva, dimostrata dai candidati delle principali coalizioni partitiche in Campania dai bisogni concreti di sempre più larghe fasce della popolazione oggi esposte al rischio di esclusione sociale e povertà con ogni probabilità troverà riscontro in percentuali record di astensione dal voto. Non ci sarà da sorprendersi se la percentuale di votanti sarà notevolmente più bassa del già esiguo 55% dell’elettorato che si recò alle urne nel 2020. La disaffezione dalla politica istituzionale è inevitabile se i grandi partiti si dimostrano indifferenti ai bisogni concreti della popolazione. Eppure, le amministrazioni regionali, che oggi hanno ampi poteri in settori cruciali della riproduzione sociale, come le politiche abitative, per i trasporti e per la sanità pubblica, potrebbero fare molto almeno per alleviare la sofferenza sociale nei nostri territori. (ugo rossi)
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Emergenza sanitaria e sovraffollamento. Il carcere di Matera visto da dentro
(archivio disegni napolimonitor) La scorsa estate, a seguito di ripetute tensioni createsi all’interno del carcere di Matera, una certa attenzione mediatica si concentrava sul funzionamento dell’istituto e sulle sue criticità. Dopo una visita alla casa circondariale, la garante regionale per i detenuti Tiziana Silletti denunciava una situazione insostenibile in termini di sovraffollamento, con 197 detenuti a fronte di 132 posti (dato coerente con quello di tutte le strutture della regione Basilicata, che si attesta sul 144 per cento). Poche settimane dopo, l’associazione Luca Coscioni, che aveva lavorato a un report sulla situazione sanitaria delle carceri della regione, comunicava che l’azienda sanitaria materana non aveva fornito alcuna documentazione a dispetto della richiesta di accesso civico agli atti. Con il passare dei mesi, a dispetto di una situazione rimasta pressappoco immutata, l’interesse per le condizioni del corpo detentivo dell’istituto materano sembra essersi sopito. Nel tentativo di rialzare il livello di attenzione su quanto accade in quel carcere, e ovviamente in tanti altri istituti del paese, pubblichiamo a seguire un resoconto della dottoressa Maria Clara Labanca, medico penitenziario e membro dell’associazione Yairaiha. *     *     *  Celle sovraffollate, personale sanitario insufficiente e accesso alle cure estremamente limitato: questa è la realtà quotidiana del carcere di Matera. La struttura, progettata per centotrenta posti, ospita stabilmente oltre centosettanta detenuti, con punte superiori alle duecento unità. In questo contesto, il diritto alla salute dei detenuti risulta sistematicamente compromesso. Il presidio sanitario funziona in maniera frammentaria. La mattina non è presente alcun medico, e a volte il peso della gestione di casi clinici complessi ricade sugli infermieri, costretti a intervenire senza supervisione diretta. Le visite mediche, effettuate nel pomeriggio, si svolgono in modo molto concitato a causa della carenza di personale di polizia che limita gli spostamenti dei detenuti. Questo comporta un aumento del rischio di diagnosi incomplete, visite superficiali e ritardi nella presa in carico di patologie rilevanti. Di notte, tutte le emergenze ricadono su un unico medico, senza supporto infermieristico, compromettendo ulteriormente la capacità di intervento tempestivo. La salute mentale dei detenuti è un ambito particolarmente critico. Lo psichiatra effettua interventi solo due ore a settimana, a fronte di un numero elevato di soggetti con disturbi psichici spesso associati a problemi di tossicodipendenze. In assenza di percorsi terapeutici strutturati, molti di essi vengono trattati con psicofarmaci senza adeguato inquadramento diagnostico, aumentando il rischio di effetti collaterali e senza risolvere le problematiche esistenti. Inoltre, alcuni agenti penitenziari esercitano pressioni indebite sui medici affinché somministrino sedativi o ipnotici, trasformando il trattamento psichiatrico in strumento di controllo piuttosto che in intervento terapeutico. Non sono neanche infrequenti episodi di tensione tra personale sanitario e di polizia penitenziaria, di fronte a un rifiuto da parte del medico nella prescrizione di questa tipologia di farmaci. La carenza di supporto psicologico e di personale qualificato determina un peggioramento dei disturbi psichici, con ricadute sulla sicurezza interna e sul benessere dei detenuti. Le visite specialistiche rappresentano un ulteriore fattore di criticità. Consultazioni come quelle gastroenterologiche, infettivologiche o oculistiche possono richiedere mesi di attesa, talvolta oltre un anno. Le carenze nell’ambito del Nucleo Traduzioni, incaricato di accompagnare i detenuti agli appuntamenti esterni, provoca rinvii sistematici. Anche quando l’azienda sanitaria fissa regolarmente gli appuntamenti, questi spesso non vengono rispettati perché non viene presa visione delle comunicazioni e delle prenotazioni, privando i detenuti delle cure pianificate. Molti detenuti si trovano in condizioni di grave criticità clinica a causa di patologie acute o croniche, ma la presa in carico è frequentemente ritardata o inadeguata. Il trasferimento verso strutture idonee è subordinato alla produzione di documentazione che attesti l’incompatibilità con il regime detentivo, determinando ritardi nell’accesso a interventi sanitari appropriati e, in alcuni casi, esiti clinici sfavorevoli. Le strutture e le attrezzature sanitarie risultano insufficienti. Mancano cartelle cliniche informatizzate, dispositivi diagnostici e terapeutici adeguati e personale specializzato in grado di utilizzarli. La combinazione di infrastrutture carenti e organico ridotto compromette la tempestività nell’identificazione e nel trattamento delle patologie, riducendo significativamente la qualità della presa in carico sanitaria. Il sovraffollamento e la carenza di personale di sicurezza aggravano ulteriormente la situazione. Le quattro sezioni della struttura – Accoglienza, Giudiziario, Sirio e Pegaso – ospitano centinaia di persone in spazi inadeguati e obsoleti. Le carenze di personale complicano la gestione dei piantonamenti ospedalieri e delle udienze, spesso impossibili da svolgere tramite collegamento da remoto. Tuttavia, il carcere di Matera è solo l’emblema di un sistema penitenziario in crisi. Sovraffollamento, carenze di personale e un presidio sanitario inadeguato espongono quotidianamente i detenuti a rischi clinici significativi. Senza interventi strutturali urgenti, la detenzione rischia di trasformarsi in un tempo sospeso, in cui i diritti fondamentali, primo fra tutti quello alla salute, restano sistematicamente negati. (maria clara labanca)
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Riarmo e propaganda. In gita al Villaggio Esercito di Napoli
(disegno di otarebill) Venerdì 15 novembre, rotonda Diaz, le dieci del mattino circa. Da lontano si può vedere un caccia che taglia il cielo alle spalle di Castel Sant’Elmo, mettendo in fuga i gabbiani. Sono a Villaggio Esercito, un’iniziativa promossa dall’esercito italiano, patrocinata dal comune di Napoli e dalla regione Campania. Per la celebrazione dei suoi duemila e cinquecento anni, la città ha scelto di raccontare la propria storia con diciassettemila metri quadri di potenza militare: un parco tematico della difesa dove il soft power si mimetizza nella fiera promozionale. «Buongiorno a tutti! Siamo in diretta su Radio Esercito da una Napoli che ci accoglie sempre calorosamente, vero Benito?», apre uno dei radio conduttori.   «Assolutamente, guarda quanta gente! Ricordiamo gli appuntamenti della mattinata…». In realtà, solo pochi e sparuti avventori si accostano alla quindicina di stand, ben distanziati uno dall’altro. L’area è delimitata da due grandi porte gonfiabili su cui si legge “ESERCITO ITALIANO”. Tra gli avventori c’è qualche scolaresca elementare e superiore. Le giacche di generali, ammiragli e colonnelli sono tutte una gara di coccarde, medagliette e gradi militari. Per l’inaugurazione sono presenti l’assessore alla legalità ed ex prefetto Antonio De Iesu, il generale di corpo d’armata Gianpaolo Mirra ed il viceministro degli affari esteri Edmondo Cirielli. Quest’ultimo, impegnatissimo a stringere mani, è in corsa per la presidenza regionale a capo della coalizione di centrodestra, con la lista civica “Moderati e Riformisti”. Qualcuno si ricorderà di lui per il tentativo di istaurare un “principato di Salerno”, altri per la lunga militanza in Alleanza Nazionale e poi in Fratelli d’Italia, o ancora per le polemiche suscitate da alcune sue dichiarazioni in odore di apologia di fascismo (Cirielli ha sostenuto che “il tratto distintivo più profondo [del fascismo] era uno spirito di libertà straordinario”). Ad eccezione della rappresentanza istituzionale, le persone si muovono con circospezione negli spazi allestiti. C’è un’aria tesa, forzosamente bonaria. Gli stand presentano i modelli più aggiornati di macchine da guerra, robot, i droni più disparati. Mi raccontano che lo Strix‑DF può operare come “occhi volanti”: può identificare obiettivi, sorvegliare aree sensibili, controllare movimenti e inviare dati. Il Raven DDL è un micro‑UAV tattico progettato per fornire sorveglianza ravvicinata e in tempo reale alle unità sul terreno. Ci sono poi i cosiddetti droni “anti-contagio” CBRN, velivoli senza pilota progettati per monitorare e campionare minacce chimiche, biologiche e nucleari in aree contaminate. Nella rotonda intanto sfilano i pachidermici veicoli tattici blindati (VTMM) “Orso” e “Lince”. Il messaggio è chiaro: la “difesa” si espone al grande pubblico. Un investimento di immagine in cui la celebrazione civica si confonde con una fiera campionaria del business bellico. Secondo il Documento Programmatico Pluriennale il bilancio della Difesa per il 2025 è di circa 35,5 miliardi di euro. Alcune stime che considerano anche le spese “in chiave NATO” (Borsa Italiana/Radiocor/ TGCOM) arrivano a 45,3 miliardi per lo stesso anno, comprendenti armamenti, ammodernamenti e investimenti strutturali per le Forze Armate. In tutto, l’incidenza delle spese militari sul Pil italiano raggiunge l’1,5 per cento, non così distante in fondo dal 3,9 investito in istruzione (la media Ocse per quest’ultima voce è di 4,7).  Gran parte di questi fondi è destinata all’acquisto dei caccia F‑35 della statunitense Lockheed Martin, partner di Leonardo Spa, che sponsorizza l’evento. È una flotta di novanta aerei, per un costo complessivo tra i quattordici e i sedici miliardi di euro, la cui manutenzione e operatività nel tempo impegnerà ulteriori risorse. Il vero boom riguarda però i droni: circa seicentosettanta milioni di euro per gli MQ-9B Sky Guardian, anche detti “Mietitori”, e oltre settecento per i Piaggio Hammerhead. Cifre che evidenziano una scelta politica di campo, con implicazioni concrete per la collettività in termini di gestione della spesa pubblica. All’improvviso, un cane robot verde militare fa capolino sull’asfalto della rotonda, alle sue spalle c’è la banda che scandisce le prime note di una fanfara. Mi avvicino a due insegnanti che accompagnano una classe delle superiori, chiedo perché abbiano scelto quest’iniziativa per una gita scolastica: «È stata una scelta della dirigente», mi risponde con scoramento una di loro, l’altra fa spallucce. Per attraversare il piazzale passo accanto a un gigantesco elicottero nero, l’A129 “Mangusta”, col mitragliatore puntato. Alle sue spalle due militari mettono gli elmetti a quattro studentesse per visitare un anticarro. Una passante fuma una sigaretta, affacciata sullo spicchio di spiaggia antistante alla rotonda. L’aria è  quella di una calda mattinata autunnale, tre signori prendono il sole, mentre una donna fa il bagno. I tre mettono un po’ di musica da una radiolina, i gabbiani sono in acqua. Mi avvicino al banchetto del reclutamento dove presenziano le accademie militari locali e nazionali. La marescialla illustra le differenti modalità di ingaggio, mette l’accento sulla semplicità e l’accessibilità dei percorsi occupazionali a tutti i livelli, “con o senza laurea”. Mi mostra i due chat-bot dal sito dell’esercito, si chiamano Atena ed Ettore e mi possono aiutare nelle procedure e con la modulistica. Una ventina di bambini col berretto giallo delle gite si avvicina. Io invece mi allontano dal centro della fiera, schivando un paio di piccoli automi a quattro ruote, che scorrazzano sul cemento. Il cane robot balla impacciato sulle note di O’ Surdato ‘Nnammurato cantata da Massimo Ranieri e passata da Radio Esercito. (edoardo benassai)
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Oltre il banco degli imputati. La resistenza palestinese sotto processo a L’Aquila
(disegno di giancarlo savino) Quella di venerdì 31 ottobre doveva essere una semplice udienza tecnica: nessun testimone, né dell’accusa né della difesa, solo i periti linguistici convocati per il reintegro delle traduzioni all’interno dei fascicoli del processo che da mesi va avanti a carico di Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh. Per questo in aula siamo in pochi: i più affezionati al processo, che dopo le estenuanti tre giornate di udienza di fine giugno, che pure avevano segnato un’apparente accelerazione, ora procede a intermittenza. Approfittiamo di queste udienze di passaggio, apparentemente secondarie, per rimettere ordine negli appunti. Ci eravamo lasciati mentre tracciavamo una rotta tra traduzioni monche, trascrizioni spezzate, liste di ID telefonici, numeri che si rincorrevano e moltiplicavano, disegnando una geografia incerta, dove i riferimenti cambiavano di continuo, ritornando con nomi diversi anche quando parlavano delle stesse persone. E da lì riemergiamo, come dopo una lunga traversata, ancora storditi dalla confusione. La difficoltà vera, ancora oggi, è che di fronte a noi non si presenti una linea d’accusa chiara, coerente, dotata di un impianto che si sostenga su basi fattuali. Lascia attoniti il fatto che, a fronte della detenzione di Anan (da oltre diciannove mesi in regime di alta sicurezza) e di un’imputazione così pesante, quella di terrorismo internazionale (articolo 270-bis c. p.), che pesa sulla vita dei tre imputati, non ci sia ancora un impianto probatorio ben definito. Uno dei vulnus più importanti che ha segnato tutta la linea accusatoria, fin dalle prime udienze, è stata la totale mancanza di contesto geopolitico degli elementi portati in aula rispetto a ciò che accade da anni in Palestina, alla sua lunga storia genocidaria, alla realtà dei Territori Occupati e alla relativa struttura di apartheid e, soprattutto, al diritto alla resistenza del popolo palestinese. Eppure, nel frattempo, non possiamo non dire che fuori da quell’aula di tribunale non sia successo nulla. Anzi! Sul piano politico, più di un passaggio si è intrecciato direttamente con la storia stessa di questo processo. PASSAGGI MINORI Settembre è stato un mese chiave. Il 23 Anan Yaeesh viene trasferito all’alba dal carcere di Terni al penitenziario di Melfi, nella remota Basilicata. Un provvedimento apparso da subito come un tentativo di recidere la rete di solidarietà che, in oltre un anno, si era fatta sempre più visibile e ampia intorno alla figura del prigioniero politico. Una decisione che arrivava in un momento tutt’altro che neutro. Solo ventiquattr’ore prima, il 22 settembre, si era svolto uno sciopero nazionale promosso dai sindacati di base, lanciato su iniziativa dei portuali, al grido di “blocchiamo tutto”. Era il momento in cui il mondo guardava di nuovo a Gaza, ne riconosceva finalmente il genocidio, mentre seguiva la rotta della Global Sumud Flotilla che cercava di rompere il blocco navale israeliano. Il secondo passaggio riguarda il trasferimento della giudice a latere. Il decreto risale all’8 settembre, ma alla fine del mese nessuna comunicazione era ancora giunta al Consiglio superiore della magistratura per garantire la continuità del collegio. Un vuoto procedurale che ha causato un rinvio significativo: saltano le udienze del 19 e del 26 settembre, si torna in aula solo il 31 ottobre. Un rinvio che ha sollevato più di un sospetto che quei ritardi non fossero affatto casuali, ma calibrati per evitare udienze troppo scomode e troppo vicine a una data che si stava profilando all’orizzonte, quella della manifestazione nazionale del 4 ottobre a Roma contro il genocidio in Palestina. Nel clima incandescente di quei giorni, la Corte e l’intero impianto processuale si sarebbero trovati sotto i riflettori di un’opinione pubblica sempre più ampia, arrabbiata e determinata a richiedere la fine di ogni complicità dello Stato italiano con il genocidio in corso. È difficile immaginare, per quel momento, una situazione più carica di tensione di quella che avrebbe potuto generarsi in un’aula di tribunale dove lo Stato italiano, nella sua funzione giudiziaria, si fa braccio della repressione israeliana. RITORNO IN AULA Il 31 ottobre, dunque, si torna in aula. Il Collegio è stato ricomposto promettendo una continuità minima nel filo delle valutazioni. E non è poco, visto tutto il resto. L’inizio della mattinata è movimentato dal solito momento di bagarre tra il pubblico in aula e la pm, che intima la rimozione di una bandiera palestinese introdotta in aula e invoca, per le prossime udienze, il divieto di portare kefiah, in nome di una presunta “assenza di connotazioni politiche”. Si risponde con insofferenza aperta davanti alla riproposizione di un teatrino già visto mille volte che oggi appare soprattutto come un tentativo di deviare l’attenzione dall’approssimazione con cui, ancora una volta, si è arrivati fin qui, con traduzioni mancanti. È sul reintegro delle traduzioni dall’ebraico che si addensa il punto più delicato della giornata. Si torna su un documento già acquisito a luglio, sempre su richiesta della difesa. Si tratta di alcune immagini tratte dal profilo Facebook ufficiale del corpo logistico dell’IDF, che documentano interventi di ristrutturazione compiuti nel 2021 all’interno di una caserma militare situata nel perimetro di Avnei Hefetz. Una delle diciture riportate in quelle foto viene letta integralmente in aula: “Benvenuti ad Avnei Hefetz – campo militare”. Viene tradotto anche un secondo cartello, con la scritta “Menashe”, indicato come “brigata locale”, probabilmente riferita all’unità che prese parte ai lavori di ristrutturazione della base. Due immagini che, da sole, sono sufficienti a incrinare la narrativa dell’accusa, per cui Avnei Hefetz sarebbe un semplice insediamento civile. È a questo punto che la Procura gioca una carta pesante. Chiede l’acquisizione di un documento redatto da un ufficiale di collegamento tra l’ambasciata israeliana e il Sud Europa, in cui si definisce Avnei Hefetz come un insediamento civile. La Corte accoglie la richiesta in parte: non acquisisce il documento, ma decide comunque di convocare l’autore (o un suo delegato) alla prossima udienza del 21 novembre. Per la prima volta, in questo processo, sul banco dei testimoni salirà un funzionario diplomatico di uno Stato estero, che non è spettatore neutrale della storia che si racconta, ma parte in causa nel conflitto da cui tutto origina. L’ambasciatore, o chi parlerà al suo posto, sarà chiamato a rispondere a una domanda precisa, che è anche la domanda su cui pende il futuro di tre imputati: che cos’è Avnei Hefetz? La difesa, in controcanto, chiede l’audizione dell’architetto francese Léopold Lambert, esperto di urbanistica coloniale, che da anni studia le trasformazioni militari del territorio in Cisgiordania. Intanto, la tensione in aula è salita di qualche grado. Israele entrerà in tribunale. Non per farsi finalmente giudicare. Non per rispondere ai decenni di occupazione, di apartheid, di crimini contro la popolazione palestinese. No. Ancora una volta, siederà dal lato dell’accusa, con la voce autorevole di un ambasciatore incaricato di definire la natura di un luogo. Sarà lui, o chi per lui, a dire cos’è Avnei Hefetz. COS’È AVNEI HEFETZ? Il nome compare per la prima volta in aula il 25 giugno, durante la deposizione dell’ispettrice capo della digos, Alessia Fiordigigli, chiamata a illustrare i dati emersi dalle intercettazioni dei telefoni sequestrati ai tre imputati. Nei documenti dell’accusa torna spesso il nome di Avnei Hefetz, colonia israeliana nei pressi di Tulkarem, nei Territori Occupati. Secondo la Procura, sarebbe l’obiettivo presunto di un’azione pianificata dalle cosiddette Brigate di Risposta Rapida di Tulkarem, e fulcro di ipotetici legami con gli imputati. Capire la natura di Avnei Hefetz non è affatto un mero tecnicismo. Infatti, in  un processo che ruota intorno a ipotesi di associazione terroristica, messaggi intercettati e presunte finalità eversive, stabilire se quel luogo sia un obiettivo civile o militare diventa un nodo cruciale. Peccato che l’intero impianto accusatorio poggi su un fraintendimento: si continua a considerare Avnei Hefetz e a parlarne come se fosse un’area civile, ordinaria, situata in un contesto di pace. Quando non è così. Si sta, volutamento o meno, ignorando che quel territorio è occupato militarmente. Una realtà che cambia radicalmente il senso di tutto ciò che viene contestato. Quel fraintendimento fu, a giugno, il terreno di un serrato dibattimento tra l’avvocato Flavio Rossi Albertini e l’ispettrice capo della digos, Alessia Fiordigigli, durante il controesame della difesa che mirava a far emergere la superficialità e il metodo discutibile con cui era stata effettuata l’indagine. Dallo scambio tra l’avvocato Rossi Albertini e Fiordigigli, emergeva che al di là di una rapida consultazione di fonti aperte, le indagini non si erano mai spinte ad accertare la natura esatta di Avnei Hefetz. Mai, in sostanza, era stato verificato se si trattasse di un insediamento civile, militare o un check-point. Il documento Onu che Fiordigigli citava come conferma della natura civile dell’insediamento, in realtà, non supportava affatto quella tesi. Anzi, la smentiva. “The Question of Palestine” qualifica le colonie nei Territori Occupati, tra le quali Avnei Hefetz, come illegali ai sensi del diritto internazionale e le indica esplicitamente come uno degli ostacoli principali al conseguimento della pace. Chiunque abbia letto quel testo, anche solo per sommi capi, riconosce subito che è un testo di denuncia. Lacune di questo genere emergevano anche su altre questioni: prima di tutto sulle ricerche (o meglio le “non ricerche”) riguardo le modalità, le pratiche e le conseguenze dell’occupazione militare israeliana nel governatorato di Tulkarem, secondo Fiordigigli “non inerente” alle indagini di polizia; e ancora sull’eventualità che l’azione di cui l’imputato scrive in chat sia stata effettivamente consumata, per la quale non emerge dalle indagini nessun riscontro. Anche nel corso del controesame del 25 giugno nessuna prova documentale che attestasse l’effettiva realizzazione dell’azione è stata fornita. «Ma sappiamo cosa è avvenuto?», domandava in ultimo la difesa a Fiordigigli. «No». LE PIETRE DEL DESIDERIO Seguiamo il “metodo Fiordigigli” e proviamo a googlare Avnei Hefetz. In pochi secondi si apre davanti agli occhi un piccolo mosaico di fonti che monitorano la colonizzazione dei Territori Occupati: le mappe minuziose di Peace Now, i rapporti di POICA sulle trasformazioni dei villaggi palestinesi, le schede del Land Research Center. E poi, quasi nascosta tra i risultati, una pagina del rabbinato dell’insediamento che ci descrive l’intero complesso: “L’area dell’insediamento comprende la ‘montagna’ sulle sue due cime, tutti i quartieri dell’insediamento, la base militare fino oltre la porta dell’insediamento, la torre di osservazione militare – sono tutto un insieme, un unico insediamento”. Una frase così semplice e così trasparente da rivelare, più di molti report, la natura ibrida di Avnei Hefetz. Fondata nel 1987, Avnei Hefetz (il cui nome significa “le pietre del desiderio”) si arrampica su un’altura che domina la piana di Tulkarem e la rete di villaggi palestinesi – Shufa, Kafr al-Labad, Izbat Shufa, Al-Hafasa – che da generazioni coltivano quella terra fertilissima oggi inglobata dalla colonia. La posizione, scelta con cura, offre un controllo visivo e logistico sull’intero territorio. Durante la Seconda Intifada l’area sarà la base di partenza per incursioni verso i villaggi vicini, e nei tempi ufficialmente “ordinari” continua a funzionare come strategico punto di sorveglianza. L’espansione dell’insediamento si può seguire scorrendo gli ordini militari. Nel 2005 l’ordinanza T/77/05 espropria 418 dunum (42 ettari) di terreni coltivati per “costruire una nuova recinzione”, che di fatto amplia il perimetro coloniale inglobando campi, oliveti e sentieri di uso comunitario. Dieci anni più tardi un altro ordine autorizza la costruzione di una strada asfaltata riservata ai coloni che attraversa i terreni di Shufa e li divide in due, lasciando i contadini dall’altra parte di una barriera invalicabile presidiata da check-point fissi. Seguono, nel 2017 e nel 2018, ulteriori ordinanze che prevedono demolizioni e nuove confische di proprietà palestinesi. Nell’arco di poco più di un decennio Avnei Hefetz raddoppia la propria estensione e trasforma radicalmente la geografia dell’area. Tra i villaggi colpiti dall’espansione coloniale di Avnei Hefetz, Shufa è quello che ha pagato il prezzo più alto in termini di frammentazione, fino a trovarsi quasi tagliato fuori da qualsiasi collegamento. La sua strada principale verso Tulkarem viene chiusa nei primi anni Duemila con cumuli di terra e blocchi di cemento. Nel 2011 la comunità tenta di costruire una strada agricola per raggiungere i campi e mantenere un minimo di collegamento con i villaggi vicini, ma anche quel tracciato viene sigillato dall’esercito per ragioni di sicurezza legate alla colonia. Da allora una torre militare è piantata a guardia dell’ingresso del villaggio. Shufa vive letteralmente all’ombra di Avnei Hefetz, isolata dal resto della piana, con il suo territorio piegato e risagomato dalla colonia. OLTRE IL BANCO DEGLI IMPUTATI C’è un punto che continua a restare scoperto mentre ci avviciniamo alla prossima udienza. Non riguarda soltanto la cronaca del processo, ma il modo in cui scegliamo di guardare alla resistenza armata dentro un territorio occupato. Non si tratta semplicemente di stabilire se un atto rientri o meno nel diritto alla resistenza riconosciuto dal diritto internazionale, ma di comprendere che cosa viene messo a fuoco e che cosa invece scompare quando quella valutazione viene trasportata in un’aula di giustizia europea, lontana dal luogo in cui la violenza si produce. Con questo slittamento geografico e politico è proprio la parola “occupazione” a finire ai margini della scena, mentre è la risposta armata e violenta a occupare l’inquadratura con tutto il suo immaginario. Poi c’è quella parola, “terrorismo”, che appena entra in scena manda tutto in cortocircuito, perché non si poggia su una definizione unica e condivisa ma continua a oscillare tra convenzioni, risoluzioni, formule che non arrivano mai a sovrapporsi del tutto. In questa zona grigia si annida forse la confusione più pericolosa che finisce per accostare la resistenza di un popolo ad atti di terrorismo, mettendo sullo stesso piano chi si ribella a un regime di dominio e chi fa del terrore un metodo ordinario di governo. Le condotte attribuite ad Anan,Ali e Mansour vengono giudicate sotto il capo di imputazione dell’articolo 270-bis del codice penale, che nell’ordinamento italiano definisce il terrorismo, anche internazionale, seguendo il crinale delle intenzioni. Significa che non è rilevante la scena materiale in cui i fatti si producono a costituire il criterio principale della valutazione, ma il fine che viene  attribuito a queste azioni sul piano giuridico. La norma individua come terroristiche le azioni che mirano a intimidire gravemente la popolazione, a costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto, a destabilizzare o distruggere le strutture politiche, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale. Se per puro esercizio volessimo applicare quelle stesse parole – intimidire, costringere, destabilizzare – alla geografia dei Territori Occupati, vedremmo che descrivono in modo quasi letterale la maniera in cui colonie e coloni disciplinano lo spazio e chi lo abita. Nella Cisgiordania occupata, dove le colonie israeliane sono vietate dal diritto internazionale e tuttavia continuano a espandersi, chi è che usa l’intimidazione e la coercizione come strumenti ordinari di governo del territorio e di pressione sulla popolazione perché abbandoni la propria terra? Durante l’ultima stagione della raccolta degli ulivi, testate internazionali come Al Jazeera hanno documentato una sequenza di aggressioni a contadini palestinesi da parte di coloni con il volto coperto, armati di bastoni e fucili, che aggredivano chi raccoglieva, incendiavano intere file di alberi, davano fuoco alle auto e ai casolari ai margini dei campi. In alcune immagini si vedono distese di ulivi anneriti lungo pendii interi trasformati in cenere. L’altro elemento che il 270-bis indica tra i fini del terrore è la destabilizzazione dell’ordine politico e sociale, e difficilmente si potrebbe trovare qualcosa di più vicino a ciò che producono le colonie in Cisgiordania. La Cisgiordania è ormai un arcipelago di villaggi palestinesi disseminati tra blocchi di colonie e infrastrutture israeliane. Per chi abita questi luoghi l’accesso alla terra e alle risorse è limitato, la mobilità quotidiana è subordinata ai check-point, si vive tra permessi e deviazioni forzate, sotto la minaccia costante di demolizioni e sgomberi. La destabilizzazione incide anche sul piano psichico, simbolico e sociale: si interrompono i legami tra villaggi e città, si spezza la continuità tra scuola, lavoro e assistenza sanitaria, si incrina la trama di relazioni e di luoghi che teneva insieme memoria e senso di appartenenza. In una geografia come questa l’orizzonte di vita rimane sospeso, perché nulla (la casa, il campo, la strada che si percorre ogni giorno) può dirsi davvero garantito neppure nel domani più vicino. In questo quadro rientra Avnei Hefetz. È un luogo in cui tentare di applicare una distinzione netta tra civile e militare non regge, punteggiato com’è da case, torri, recinzioni, strade d’accesso e sistemi di sicurezza che formano un corpo unico senza soluzione di continuità. Questa fusione tra colonia e apparato militare viene definita da Francesca Albanese nel suo rapporto alle Nazioni Unite del 2023 con l’espressione militarised settler-colonial occupation: nelle colonie non si hanno due regimi distinti, uno “militare” e uno “civile”, che occasionalmente si toccano, ma un unico regime di potere che utilizza tanto la forza armata dello Stato quanto la violenza dei coloni come strumenti integrati dello stesso progetto. La separazione tra “coloni” e “soldati” è una distinzione utile al diritto, alla diplomazia e, infine, anche alla propaganda israeliana. Per chi l’occupazione la subisce, questa distinzione semplicemente non esiste: la violenza che gli arriva addosso è la stessa, sia che provenga dal civile armato che scende dalla colonia, sia che provenga dal soldato che lo accompagna. Nella sua esperienza, entrambi si confondono in un’unica figura di potere, che dispone della sua vita e della sua possibilità di restare su quella terra. Quando un soggetto armato, pur non arruolato, coopera stabilmente con le forze d’occupazione, svolge funzioni di sicurezza e partecipa direttamente ad azioni ostili, quale status assume in quel frangente? Una colonia può davvero essere esclusa dalla categoria di obiettivo militare, se si guarda alla sua struttura e al suo scopo di occupazione? Non va dimenticato che questi interrogativi si collocano dentro un quadro giuridico segnato da un doppio standard, che impedisce di riportare la violenza a una piazza comune del diritto. Tutto si poggia su un’asimmetria radicale sul piano legale: nei casi di violenza attribuita a palestinesi la condotta viene giudicata da tribunali militari israeliani, mentre per i coloni la giurisdizione resta sul piano civile, se e quando un procedimento viene effettivamente aperto. A questo punto, non è più importante soltanto stabilire che cosa sia lecito come atto di resistenza armata, ma anche capire chi sta usando il proprio potere per attribuire a quell’atto un significato di resistenza o, al contrario, di terrorismo, e da quale posizione lo sta facendo. Il 21 novembre in aula ascolteremo l’ambasciatore israeliano, chiamato dalla Corte d’assise dell’Aquila a descrivere la natura della colonia di Avnei Hefetz. La sua voce, con ogni probabilità, si aggiungerà a quelle che pronunceranno la parola “terrorismo” guardando unicamente verso il banco degli imputati. Eppure dovrebbe essere proprio lui, in quanto rappresentante dello Stato israeliano che ha voluto e protetto colonie come Avnei Hefetz, a essere chiamato a rispondere in aula: non con una definizione tecnica di che cos’è una colonia, né con l’ennesima lezioncina su quella che viene presentata come normalità insediativa nei Territori Occupati, ma assumendosi fino in fondo la responsabilità politica e giuridica della violenza che queste strutture esercitano sui palestinesi e sui loro territori. Una volta per tutte. (francesca di egidio)
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La parola della settimana. Fondo
(disegno di ottoeffe) Il secchio gli disse, gli disse: “Signore, il pozzo è profondo. Più fondo del fondo degli occhi, della notte e del pianto”. Lui disse: “Mi basta, mi basta che sia più profondo di me”. (fabrizio de andrè, andrea) Ha girato molto in questi giorni un articolo scritto dal geologo Benedetto De Vivo e dal tossicologo Maurizio Manno che spiega cosa stanno rischiando di combinare il governo Meloni, il sindaco Manfredi e tutta la struttura commissariale per la bonifica e rigenerazione di Bagnoli, smuovendo il fondo delle acque che circondano la colmata a mare. Un disastro ambientale che segue quello politico, abbiamo titolato su Monitor, un andarsi a cercare la catastrofe con le proprie mani, scavando lì dove non c’è da scavare. (credits in nota 1) Isaura, città dai mille pozzi, si presume sorga sopra un profondo lago sotterraneo. Dappertutto dove gli abitanti scavando nella terra lunghi buchi verticali sono riusciti a tirar su dell’acqua, fin là e non oltre si è estesa la città: il suo perimetro verdeggiante ripete quello delle rive buie del lago sepolto, un paesaggio invisibile condiziona quello visibile, tutto ciò che si muove al sole è spinto dall’onda che batte chiusa sotto il cielo calcareo della roccia. Di conseguenza religioni di due specie si dànno a Isaura. Gli dei della città, secondo alcuni, abitano nella profondità, nel lago nero che nutre le vene sotterranee. Secondo altri gli dei abitano nei secchi che risalgono appesi alla fune quando appaiono fuori della vera dei pozzi, nelle carrucole che girano, negli argani delle norie, nelle leve delle pompe, nelle pale dei mulini a vento che tirano su l’acqua delle trivellazioni, nei castelli di traliccio che reggono l’avvitarsi delle sonde, nei serbatoi pensili sopra i tetti in cima a trampoli, negli archi sottili degli acquedotti, in tutte le colonne d’acqua, i tubi verticali, i saliscendi, i troppopieni, su fino alle girandole che sormontano le aeree impalcature d’Isaura, città che si muove tutta verso l’alto. (italo calvino, le città invisibili) Ha ufficialmente chiuso le proprie attività, a inizio di questa settimana, Scion Capital, il fondo finanziario statunitense di Michael Burry, diventato celebre grazie al film The Big Short (La grande scommessa) sulla crisi finanziaria dei subprime del 2008. La decisione sarebbe maturata in un contesto di preoccupazione diffusa a Wall Street rispetto alle valutazioni gonfiate raggiunte in borsa dai giganti della tecnologia e dell’Intelligenza Artificiale. Burry aveva ottenuto fama e successo per aver previsto lo scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti, un cataclisma finanziario che aveva portato a un quasi-crollo del sistema economico internazionale e aperto una stagione di tutt’ora attive crisi strutturali. Nell’ultimo anno aveva perso diversi milioni di euro per aver scommesso contro aziende come Nvidia e Palantir e forse anche per questo ha deciso di restituire i capitali agli investitori e ritirarsi. Le sue accuse sono comunque piuttosto pesanti: “L’investitore ha pubblicato su X un’analisi dettagliata in cui sostiene che le grandi società tecnologiche stiano manipolando i loro bilanci attraverso un trucco contabile apparentemente semplice ma dalle conseguenze enormi. Burry accusa gli hyperscaler, termine che identifica i principali fornitori di infrastrutture cloud e AI come Microsoft, Meta, Google, Amazon e Oracle, di sottostimare artificialmente l’ammortamento dei loro asset tecnologici. In pratica, secondo Burry, questi gruppi avrebbero esteso la vita utile stimata dei loro chip e server da tre anni a sei anni, permettendo di spalmare i costi su un periodo più lungo e gonfiare i profitti nel breve termine. Secondo il celebre investitore si tratterebbe di “una delle frodi più comuni dell’era moderna”. Burry prevede che tra il 2026 e il 2028 queste società registreranno un’ammortamento inferiore al reale per 176 miliardi di dollari, il che farà apparire i loro profitti più alti di quanto siano in realtà: secondo le sue stime, Oracle sopravvaluterà i profitti del 26,9% e Meta del 20,8% entro il 2028″. (riccardo piccolo, wired.it) Negli stessi giorni in cui Scion Capital chiudeva i battenti, un altro fondo di investimenti americano, Apollo Global Management, è diventato il nuovo azionista di maggioranza della squadra di calcio dell’Atletico Madrid. La proprietà americana ha acquisito il 55% delle azioni della società sborsando una cifra di quasi un miliardo e mezzo di euro, poca roba considerando che Apollo gestisce circa novecento miliardi di dollari di asset (la sola divisione sportiva del fondo ha una liquidità da investire a effetto immediato di cinque miliardi, uno dei quali sarà dedicato alla costruzione di una cittadella sportiva e mega-centro di intrattenimento a pochi passi dallo stadio Metropolitano di Madrid, su terreni ottenuti in concessione per settantacinque anni). Curiosamente, il lancio di stampa e le prime interviste da parte dei dirigenti del fondo Apollo sono arrivate nel giorno dell’anniversario di un altro lancio, di un altro Apollo (il 12), protagonista della seconda missione con cui la Nasa spediva degli umani sulla luna. La missione non iniziò con i migliori auspici, perché il razzo fu colpito da due fulmini nei primi secondi di ascesa, ma raggiunse poi la superficie del satellite, effettuò dei rilievi e in particolare il suo equipaggio riuscì a recuperare alcune parti della sonda robotica Surveyor 3, consentendo successive analisi senza precedenti. A seguire potete guardare la versione integrale di Le Voyage dans la lune, film fantascientifico del 1902 girato dal visionario regista Georges Méliès, considerato tra i padri del cinema insieme ai fratelli Lumière: (credits in nota 2) Nella cultura norrena il termine Ragnarǫk indica una serie di eventi catastrofici che provocheranno un’apocalisse e la distruzione dei nove mondi mitologici. Tra questi eventi vi sono varie calamità naturali, l’incendio e poi la sommersione del mondo, la caduta degli astri fino alla cancellazione totale del creato. L’arrivo dei Ragnarǫk è preceduto dal Fimbulvetr, un rigidissimo inverno lungo più di nove mesi al termine del quale il sole e la luna saranno divorati dai lupi Skǫll e Hati, che li avevano inseguiti invano fin dall’inizio dei tempi. Il buio attaccherà la luce usando fiere come il lupo Fenrir e il mostruoso serpente Miðgarðsormr, mentre una gigantesca nave costruita con le unghie dei morti guiderà le potenze delle tenebre verso la battaglia. Lo scontro tra le forze della luce e delle tenebre, in cui ogni divinità si scontrerà con la propria nemesi, non vedrà però vincitori, ma soltanto distruzione, che avrà il suo culmine nel grande incendio provocato dalla spada di Surtr, gigante del fuoco, e dall’inondazione che sommergerà tutta la vita rimasta sulla Terra, tra cui lo stesso Surtr. La fortuna della parola e del mito dei Ragnarǫk è dovuta però alla sua capacità di indicare contemporaneamente la catastrofe massima e la rigenerazione, attraverso la nascita, dopo l’inondazione, di una nuova dinastia divina e di una nuova popolazione umana discendente da Lif e Lifbrasir, una coppia di esseri umani salvatisi dalla distruzione grazie a una foresta misteriosa in cui erano riusciti a trovare riparo. La palingenesi contestuale del mondo, degli dei e dell’umanità indica la necessità di arrivare al fondo delle cose, e di purificarsi per poter rinascere. Per evitare brutte sorprese ci si dovrà ricordare che proprio mentre il mondo starà iniziando a rivivere dalle proprie ceneri, si innalzerà in cielo come un’ombra il mostro Níðhǫggr, il “drago che vola”, la “serpe scintillante”, che porterà con sé i cadaveri dei morti, a memento del male. “E ora lei si inabissa”, dice la profezia. Forse per sempre. (a cura di riccardo rosa)
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Bagnoli, Coppa America e colmata. Dal disastro politico a quello ambientale
(archivio disegni napoli monitor) Gli articoli sulla “questione Bagnoli” pubblicati da Monitor nei suoi vent’anni di attività editoriale hanno dovuto necessariamente addentrarsi in diversi ambiti di analisi: le trasformazioni urbane (quelle pianificate e quelle spontanee), l’indecente spreco di risorse pubbliche (si parla di circa novecento milioni di euro), le carriere di amministratori e politici che da lì sono partite o lì si sono fermate (Bassolino, Fico, de Magistris), le condizioni di vita degli abitanti, i fenomeni sociali come la gentrificazione e la turistificazione del quartiere, l’intersezione di tutte queste questioni tra loro, e persino con i recenti accadimenti generati dalla incapacità (o non volontà) nel gestire fenomeni naturali come la crisi bradisismica.  Difficilmente per nostra attitudine, e perché crediamo ci siano altri luoghi e persone più titolate a farlo, abbiamo ritenuto di pubblicare articoli che entravano nel dettaglio dei contenuti scientifici, che pure, in relazione alla mancata o parziale bonifica del sito ex industriale, nonché al futuro sviluppo dell’area, hanno una certa importanza. Quando l’abbiamo fatto è stato sempre in un’ottica divulgativa, provando a semplificare le questioni senza azzerarne le complessità, utilizzando un linguaggio e uno stile comprensibile.  È per questo che pubblichiamo oggi quest’articolo scritto da Benedetto De Vivo e Maurizio Manno (rispettivamente professori ordinari di geochimica ambientale e di medicina del lavoro) già comparso ieri su Anteprima24. Ci pare importante, pur nel suo registro scientifico, per la capacità di spiegare quanto sta succedendo in queste settimane a Bagnoli, e come il disastro politico in atto (la modifica di leggi che imponevano il ripristino della morfologia della costa a uso balneare, la mancata rimozione della colmata a mare, la pericolosa “velocizzazione” di alcuni interventi per permettere lo svolgimento della Coppa America di vela) possa contribuire a creare un disastro ambientale se possibile ancora maggiore di quello già esistente sul territorio. *     *     * Sul tema della bonifica di Bagnoli, anche alla luce delle recenti informazioni comunicate dal sindaco Manfredi in consiglio comunale (24 settembre 2025), abbiamo discusso in un capitolo di carattere tecnico-scientifico su libro internazionale in pubblicazione da Elsevier (De Vivo et al., 2026, in stampa). Ovviamente non spetta a noi entrare nel merito di decisioni di carattere politico, e tantomeno in quelle, a esse collegate, di carattere economico. Ci focalizziamo, invece, nella sintesi che segue, solo sugli aspetti tecnico-scientifici della vicenda in corso, in particolare sulle metodiche più sicure ed efficaci da utilizzare per la bonifica e sui potenziali rischi per la salute dei cittadini che si potrebbero determinare a seguito di scelte tecnico-scientifiche non ottimali circa la metodica da utilizzare. In precedenti nostri interventi sono state illustrate le due migliori tecnologie oggi disponibili a livello internazionale. Quella del desorbimento termico in-situ (Istd) e quella ex-situ (Estd), tecniche che operano sostanzialmente allo stesso modo: entrambe riscaldando i contaminanti organici fino a quando non si volatilizzano, separandosi così dal suolo (per una descrizione esaustiva di Istd e Estd rimandiamo a: Baker & Kuhlman, 2002; Khan et al., 2004; The United States Environmental Agency, 2017; Zhao et al., 2019; Xu & Sun, 2021; De Vivo, 2024b; 2025a, b). Nel sopracitato consiglio comunale, il prof. Manfredi, ha dichiarato che la necessità tecnica impone la non rimozione della colmata (in violazione della legge n.582 del 18 novembre 1996, che ne avrebbe invece imposto la rimozione, con relativa ricostruzione della spiaggia pubblica). Si tratta di una decisione politica, non tecnica. La colmata potrebbe in realtà essere facilmente rimossa (come previsto dalla legge) dopo aver eliminato ipa, pcb e idrocarburi totali con trattamento di desorbimento termico in-situ (Istd) e utilizzando poi i terreni bonificati per la copertura delle aree interne. Se, d’altra parte, decisioni politiche dovessero imporre che la colmata non debba venir rimossa, sia le aree interne che i sedimenti marini antistanti la colmata potrebbero anch’essi essere  bonificati utilizzando l’Istd. In ogni caso, sulla base delle dichiarazioni del sindaco, sembra che non verrà effettuata alcuna bonifica nell’area della colmata, ma solo la messa in sicurezza, coprendola con una platea impermeabile su cui è prevista la costruzione di strutture necessarie per l’America’s Cup. Sembra quindi che la bonifica della colmata stessa verrà effettuata dopo la fine dell’America’s Cup. Questa scelta appare tuttavia incomprensibile. Se la decisione di mettere in sicurezza l’area della colmata è stata già presa, perché non fare un intervento definitivo? Successivamente all’impermeabilizzazione permanente della sua superficie (prevista attualmente solo come misura temporanea) e poi all’”isolamento-tombamento” dell’intera area, sarebbe infatti possibile costruire sul lato mare una barriera fisica permanente (palancole) per impedire la migrazione in mare e, quindi, nei sedimenti marini, degli inquinanti organici presenti. Una volta “tombata” la colmata, i sedimenti marini potrebbero essere bonificati mediante Istd, una tecnica già utilizzata a questo scopo in Danimarca. Per quanto riguarda in particolare la tecnica di bonifica da utilizzare, sembra tuttavia che sia già stata programmata l’Estd (non siamo a conoscenza delle stime dei costi) per tutti i suoli di Bagnoli. Una società internazionale, specializzata in tecnologia di Istd e Estd, ha indicato un costo totale approssimativo, per la tecnologia Istd, di circa centoventi milioni di euro: sessanta per l’area della colmata e sessanta per i sedimenti marini a fronte della colmata. Per i suoli a monte e per sedimenti marini più a largo della colmata fino al golfo di Pozzuoli sempre con Istd, si potrebbe fare solo una valutazione, prendendo a riferimento, i costi indicati per la superficie dell’area della colmata. Pensiamo sia, in questa fase, un esercizio inutile. CONSIDERAZIONI SU RISCHIO TOSSICOLOGICO E SANITARIO PER I RESIDENTI L’area di Bagnoli, su cui si pianifica di procedere con Estd (e non con Istd) e per cui è prevista una massiccia movimentazione di terreni pesantemente inquinati da ipa e ocb, è adiacente al mare del golfo di Pozzuoli. È facilmente prevedibile, che ipa e pcb, attualmente relegati nei suoli e nei sedimenti marini, se mobilizzati in area prospiciente il mare, possano diffondervisi. Gli ipa, combinandosi con il cloro (Cl), producono dei derivati, gli ipa clorurati, che sono più tossici dei composti d’origine. In particolari condizioni (combustione incompleta) possono formarsi diossine, sostanze notoriamente cancerogene-mutagene. Inoltre, gli stessi ipa e pcb, se si combinano con lo stagno (Sn) o il mercurio (Hg), formano sostanze altamente tossiche: rispettivamente il dibutil- e tributil-Sn e il metil-Hg. Lo stagno, un elemento di per sé dotato di bassa tossicità, è sempre presente nelle rocce del vulcanismo napoletano, unitamente al berillio (Be) e al tallio (Tl), mentre il mercurio è più legato a processi di idrotermalismo (è il caso dei Campi Flegrei). Circa vent’anni fa uno degli autori di questa nota (B. De Vivo), ha riscontrato nei sedimenti marini antistanti i cantieri navali di Castellammare la presenza di dibutil- e tributil-Sn (lo stagno è presente nelle rocce vulcaniche sia del Vesuvio che dei Campi Flegrei). Gli effetti tossici per l’uomo conseguenti l’inquinamento marino è un’eventualità ben documentata in letteratura. Ricordiamo un caso classico, negli anni Cinquanta e Sessanta, di grave inquinamento ambientale prodotto dalla combinazione di composti organici con mercurio, nella Baia di Minimata, Giappone. L’inquinamento, di origine industriale, provocò la malattia di Minamata, scoperta per la prima volta nel 1956, determinò gravi intossicazioni negli abitanti e fece incrementare notevolmente l’incidenza di decessi per cancro nella popolazione della baia (Timothy, 2001). Fu causata dal rilascio, dal 1932 al 1968, di metilmercurio nelle acque reflue da parte dell’industria chimica Chisso Corporation. Il metil-Hg, altamente tossico e cancerogeno, si accumulò nei molluschi, nei crostacei e nei pesci della baia, entrando nella catena alimentare e causando così l’avvelenamento degli abitanti del luogo, inclusi numerosi decessi. Si intervenne sulle sorgenti dei composti organici, chiudendo l’industria chimica Chisso Corporation e vietando del tutto la pesca nella baia di Minamata. I danni ambientali e sulla salute della popolazione sono persistiti per decenni e continuano ancora oggi ad avere effetti, anche sociali, sulle comunità locali. La rilevanza di queste considerazioni rispetto ai programmi di bonifica del sito di Bagnoli, pur oggettivamente distanti, nello spazio e nel tempo rispetto al contesto di specie, risiede nel fatto, oggi consolidato, che il patrimonio di conoscenze tossicologiche acquisite dai disastri ambientali pregressi fanno parte del bagaglio di informazioni utili e necessarie per conseguire scelte lungimiranti e prudenti, oltre che rispettose della legge. La valutazione del rischio sanitario per la popolazione residente o lavorativa e, quindi, per definizione, potenzialmente esposta, per motivi residenziali e/o occupazionali, all’assorbimento di livelli di contaminanti tossicologicamente rilevanti impone, prima di qualsivoglia decisione operativa, di considerare tutti i possibili scenari di rischio, anche i più improbabili, ancorché possibili. A tal riguardo assumono particolare significato le diverse modalità di esposizione compatibili con le attività residenziali, commerciali e balneari presenti e future sul sito di Bagnoli, ovvero quelle per inalazione, ingestione ed esposizione cutanea. Sia Istd che Estd possono potenzialmente produrre inquinanti atmosferici secondari, come le diossine che si formano durante la distruzione termica dei gas di scarico contenenti molecole organiche come ipa e pcb in presenza di cloro. La tecnologia Estd è più versatile e può trattare contaminanti meno volatili, ma richiede scavi e trasporto del terreno, che comportano un rischio maggiore di inquinamento atmosferico (formazione di diossine, per i cittadini che vivono nelle aree circostanti il sito contaminato se non vengono progettati e implementati adeguati controlli ingegneristici e sanitari). La pratica ingegneristica di bonifica richiede un’attenta pianificazione e giudizio, soprattutto quando si bonificano discariche di rifiuti, come la colmata, situate in prossimità di un’area densamente popolata e adiacenti alla costa. Tale rischio è comunque molto più elevato durante gli scavi e i movimenti del terreno necessari per Estd. Negli ultimi 20 anni, l’Estd è quasi ovunque vietato se i siti da bonificare sono in prossimità di aree urbanizzate. Nel caso di Bagnoli, il sito industriale dismesso è parte integrante della città di Napoli, con l’aggravante di essere localizzato in riva al mare (con conseguente incremento di rischi per la salute umana a seguito di balneazione). Nelle aree urbanizzate viene infatti generalmente privilegiato l’Istd. Per determinare quale opzione sia più conveniente per la colmata, sarebbe necessario sviluppare prima progetti concettuali per ciascuna delle due opzioni, Istd e Estd, ciascuno concepito per raggiungere gli stessi obiettivi di bonifica, garantendo però al contempo adeguati livelli di sicurezza per la salute umana e dell’ambiente durante e dopo la bonifica. Una soluzione assolutamente da non tentare è, comunque, il dragaggio di sedimenti marini, fortemente contaminati da ipa, pcb e pesticidi organoclorurati (Ocp) (Minolfi et al., 2018). Le dichiarazioni del sindaco Manfredi indicano tuttavia che il dragaggio sia già programmato sul fronte della colmata. Il dragaggio di sedimenti marini, fortemente contaminati da ipa, pcb e ocp, causerebbe l’amplificazione del disastro ambientale in tutta la baia di Bagnoli, fino al golfo di Pozzuoli, dove sono registrati comunque elevati superamenti delle soglie limite di legge (Dm 56/09) per ipa totali, 15 congeneri e per pcb totali – con plumes di dispersione immediatamente al largo della colmata che sono da cento volte (nel golfo di Pozzuoli) a mille volte (nella baia di Bagnoli) più elevati, (Minolfi et al., 2018); il rischio è quello di dover vietare del tutto la pesca sia nella baia di Bagnoli che nel golfo di Pozzuoli. Nella baia di Bagnoli, oltre che per ipa e pcb, si registrano poi valori elevati per ventiquattro congeneri di ocp (pesticidi)¹. Sulla phytoremediation, una tecnica sperimentale basata sull’uso di piante per la decontaminazione di suoli inquinati, presentata come una innovazione ma in realtà ben nota nell’esplorazione mineraria da decenni, non c’è molto da dire. Riguarda solo alcuni specifici metalli e con ben precise limitazioni. Non esiste comunque alcuna specie vegetale che possa assorbire tutti i contaminanti, siano essi inorganici o organici. In più, ipa e pcb sono recalcitranti, alias non vanno in soluzione, quindi sono assolutamente non “estraibili” con phytoremediation, e comunque certamente non con piccoli arbusti con radici di pochi centimetri, visto che ipa, pcb, e idrocarburi totali, nel sito di Bagnoli, si trovano fino a cinque metri di profondità (De Vivo, 2025b). Ciò detto, il problema di inquinamento da metalli non esiste a Bagnoli (De Vivo et al., 2021; 2024). I metalli (non esiste chimicamente la categoria dei metalli pesanti!) sono naturali (da sorgenti idrotermali, vedi Lima et al, 2001, 2003) oppure industriali (da loppe e scorie di altoforni). Quelli naturali, da sorgenti termali, non sono bonificabili: si tiene semplicemente conto dei valori background, naturali. Quelli di origine industriale sono invece ossidati, alias non sono bio-disponibili, quindi di scarsa rilevanza per la salute umana (rimandiamo a De Vivo et al., 2026, in stampa). Concludendo, sulla base dell’evidenza disponibile in letteratura e di quella raccolta sul campo, nell’arco ormai di un trentennio dalla dismissione degli impianti industriali a oggi, il desorbimento termico in-situ appare la metodica più indicata per la bonifica o, per meglio dire, ribonifica del sito di Bagnoli (De Vivo et al., 2021), e in particolare dell’area relativa alla colmata. ____________________________ ¹La campionatura e le analisi, da cui sono derivate le mappe di distribuzione in Minolfi et al (2018) furono eseguite fra novembre 2004 e marzo 2005, da Icram/Ispra.
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Comportamenti delle guardie a Torino #8. I piantoni della stazione ferroviaria
(collage di stefania spinelli) Dall’ultima primavera ci sono i tornelli alla stazione di Porta Nuova. I viaggiatori, per accedere ai binari, devono presentare il biglietto agli operatori di guardia, oppure sono tenuti a mostrare il codice del loro titolo di viaggio a una macchina automatica. I varchi sono presidiati da uomini con la divisa di Fs Security, la società di Ferrovie dello Stato dedicata a garantire la sicurezza in stazione e sui treni. Hanno i giubbotti blu, le insegne di Ferrovie dello Stato sulla schiena e non portano armi. Insieme a loro ci sono anche guardie private con divise blu scuro, pantaloni stretti e pistola nella fondina; portano il logo di Securitalia sul petto. I guardiani attendono eretti accanto ai varchi, attorno le persone corrono, trascinano valigie, fissano i tabelloni delle partenze. Si vede un bar con una vetrata che s’affaccia sui binari, un cuboide di vetro dove su scaffali rosa si vendono borse e braccialetti. Di fronte un negozio di cosmetici con le pareti ancora rosa. È il tardo pomeriggio d’un giorno lavorativo di settembre, Said è stato dal dentista a Torino e deve prendere in fretta il treno per tornare al suo paese nella provincia di Biella. Il treno parte fra cinque minuti, Said non ha tempo di acquistare il biglietto. Raggiunge una guardia di Fs e chiede di passare oltre il varco, vuole pagare in carrozza e tiene la carta di credito fra le dita. Il piantone lo guarda dritto negli occhi, in modo aggressivo, si erge eretto e rigido e fa segno di andare via. Said raggiunge le biglietterie automatiche, ma è troppo tardi per stampare il biglietto giusto. Ora digita i suoi dati e richiede il titolo di viaggio per l’ora dopo, anche se il treno scelto lo porterà in un paese che dista diversi chilometri da casa sua. Said si dirige verso l’uscita di via Sacchi per comprare un panino al primo bar sotto i portici. Mentre esce, alza il braccio e mostra alla guardia il biglietto. La guardia di Fs Security raggiunge Said e chiede: «Cosa vuoi? Cosa vuoi?»; poi mette una mano sul braccio del viaggiatore. Said prova a divincolarsi e zac, tutto accade in due, tre secondi, zac, la guardia colpisce duro il suo zigomo. Said è confuso, prende il telefono per chiamare la polizia ma non riesce a digitare il numero. Ora è circondato da altre guardie dei tornelli. L’uomo di Fs Security è tornato al suo posto, ma un suo collega intima a Said di non muoversi. Arrivano gli agenti di polizia: uno va dall’aggressore, quattro invece stanno attorno a Said. Gli agenti sono sbrigativi e gli chiedono: «Da dove vieni? Cosa fai qui? Documenti». L’uomo si muove a rilento, ma trova il permesso di soggiorno e lo porge. Said mostra la guardia violenta. «Non indicarlo, parla con noi!», dicono i poliziotti. A stento Said riesce a raccontare la sua storia, sembra che gli agenti non vogliano ascoltarlo, o non siano interessati. Un poliziotto lo interrompe, poi un secondo, ancora un terzo. Aumenta la confusione e Said fa fatica a parlare, incalzato dalle domande: «Hai capito? Hai capito?». L’uomo non sta bene e qualcuno ha chiamato l’ambulanza. «Vuoi fare denuncia o vai al pronto soccorso?», chiede il primo agente. Said vorrebbe prima fare denuncia, poi andare in ospedale. «No, no», dicono gli agenti mentre si allontanano. Said sale sull’ambulanza, disposto a trascorrere la notte in pronto soccorso per un referto redatto al sorgere dell’alba. (dora griot) *  *  * Gli altri episodi si trovano qui
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Scampia, una scuola occupata per Gaza (e non solo)
(disegno di francesca ferrara) Oltre il cancello del civico 255 di viale della Resistenza, a Scampia, proprio di fronte al parco dedicato a Ciro Esposito, c’è un edificio grigio e imponente, con appena qualche murales a regalare un po’ di colore. In queste giornate d’ottobre c’è però qualcosa di diverso. Si respirano adrenalina e tensione, e a dar vita al Melissa Bassi sono gli striscioni alle ringhiere, i cartelloni a sostegno della Palestina, le scritte che chiedono giustizia e pace. Nei corridoi della scuola occupata si intrecciano voci, passi, risate e discussioni: ogni angolo sembra trasformato. Agli studenti e alle studentesse è stato ricordato in tutti i modi che stanno facendo “qualcosa di illegale”, ma la determinazione che li guida rende la loro azione più di una semplice protesta. Da decenni in Palestina le bombe distruggono case, ospedali e scuole. I luoghi dell’educazione e dell’istruzione, dove si dovrebbero formare le generazioni del futuro, vengono oggi rasi al suolo, proprio come i sogni di chi li abitava. È anche pensando ai loro coetanei, distanti solo qualche migliaio di chilometri, che nasce la scelta degli studenti di occupare. Per reagire a una ingiustizia, spiegano, e per dire che il diritto all’esistere non è mai scontato. Da quasi quarant’anni nessuno occupava l’istituto. Eppure, dal 27 ottobre al primo novembre, le studentesse e gli studenti si sono riappropriati degli spazi della scuola: assemblee permanenti, turni di vigilanza e per le pulizie; discussioni, mani che si alzavano, voci che si sovrapponevano e trovavano, pian piano, un accordo: «Abbiamo ritenuto doveroso far sentire la nostra voce – dice una delle studentesse protagoniste dell’occupazione – e utilizzare la scuola in modo da farci eco». I muri dell’edificio sono i primi testimoni delle loro intenzioni: striscioni e cartelloni rendono visibile ogni richiesta e ogni denuncia. Su uno, scritto a mano con vernice rossa, si legge: “Per Mimì, Dario e Francesco: giustizia!”, in un richiamo alla carcerazione di tre attivisti che sono stati per tre giorni e tre notti in prigione dopo aver interrotto una fiera a cui partecipava una multinazionale del farmaco israeliana, coinvolta nel genocidio. Sebbene nei talk show e sui giornali si racconti un’altra storia, quella che alcuni chiamano “guerra” non è mai finita: le ripetute infrazioni del governo sionista al cessate il fuoco continuano a provocare la morte di centinaia di civili palestinesi. «Studiare è un diritto, non un privilegio di pochi», si continua a dire nelle assemblee e nei laboratori dell’occupazione, accomunando le condizioni di chi vive in questi territori e quelle di chi a scuola non può andarci perché gliel’hanno distrutta. Nei sei giorni di occupazione al Melissa Bassi si sono susseguiti incontri con l’Unione degli Studenti di Napoli, con la rete Liberi di Lottare, con realtà del territorio come Chi rom e… chi no! o come il MOSS (Ecomuseo Diffuso di Scampia), oltre che un confronto con Mirella La Magna del Gridas, storica voce del quartiere. Visibile, era, la sua emozione, nel poter parlare a ragazzi e ragazze di Scampia, in un luogo che per anni aveva sperato di vedere vivo e partecipato. Ha parlato con discrezione, ricordando le lotte per ottenere le prime scuole nel quartiere e invitando a non fermarsi, a costruire una rete capace di andare oltre le mura scolastiche. «Non dobbiamo dividere il mondo in buoni e cattivi — ha detto — ma capire le cause, le responsabilità, e restituire qualcosa di ciò che, per caso, abbiamo avuto in più rispetto agli altri». Ogni incontro è diventato occasione per provare a tenere insieme il tema della scuola con quelli del lavoro, della guerra diffusa, dei diritti delle persone. Anche Dario, quando è uscito dal carcere di Poggioreale, è passato per Scampia: una chiacchierata semplice ma intensa, con le ragazze e i ragazzi, per parlare di solidarietà e repressione, e di come sia importante in certi momenti non sentirsi soli. Eppure proprio la scuola, troppo spesso, tende a reprimere invece di accogliere, a uniformare invece di valorizzare le differenze. Molti studenti hanno raccontato la difficoltà, ogni anno, di affrontare le spese per libri, i materiali, i contributi economici cosiddetti “volontari” ma invece sempre più obbligatori, che diventano fonte prima di soggezione e poi di esclusione per molti e molte. «La scuola dovrebbe insegnarci a conoscerci e a capire gli altri, non solo a prepararci al lavoro», ha detto una di loro, facendo riferimento ai Pcto, i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, una volta chiamati “alternanza scuola-lavoro”. L’idea è semplice: far sperimentare agli studenti il mondo del lavoro, integrare l’esperienza pratica a quella teorica. Nella realtà, però, questi percorsi nascondono rischi concreti. In Italia, negli ultimi anni, non sono mancati incidenti durante tirocini e stage: ragazzi e ragazze hanno perso la vita per carenze nella sicurezza. Al tempo stesso, molte scuole sembrano trasformarsi in centri per l’impiego, dove la formazione rischia di ridursi a semplice addestramento al lavoro, senza spazio per la conoscenza. Già nel primo giorno di occupazione, il collettivo della scuola aveva diffuso un comunicato chiaro e diretto, che allarga lo sguardo oltre le mura del Melissa Bassi: un testo che parla di periferie e precarietà, di abbandono scolastico e marginalizzazione, del sapere come frontiera di classe e del silenzio complice degli adulti: “Occupiamo anche per denunciare la condizione materiale e simbolica in cui versa la scuola pubblica, in particolare nelle periferie come Scampia, dove tantə ragazzə sono costrettə al precariato, al lavoro nero e all’abbandono scolastico. Non perché manchi la voglia di studiare, ma perché il carolibri trova rifugio dietro le mura del privilegio”. D’altronde quest’occupazione non nasce dal nulla, è il frutto di un fermento che, da mesi, attraversa un quartiere in cui l’impegno civile e la solidarietà hanno radici profonde. Le tante associazioni e realtà politiche del territorio rivendicano un posizionamento chiaro sul genocidio dei palestinesi, ribadendo che la questione non è iniziata il 7 ottobre, ma nei decenni di occupazione che l’hanno preceduto. A partire da settembre, anche tra la comunità docente è cresciuta la necessità di ribadire la propria posizione: come formatori e formatrici del pensiero critico delle nuove generazioni, in molti hanno sentito il dovere di unirsi in un coordinamento di insegnanti dell’area nord di Napoli, con l’obiettivo di sensibilizzare studenti e studentesse che, in un contesto periferico, spesso non sono pienamente consapevoli di ciò che li circonda. Il coordinamento ha organizzato laboratori, ha aperto spazi di discussione all’interno del quartiere, ha incentivato la partecipazione di studenti e studentesse, pratiche in qualche modo in relazione con ciò che è accaduto dopo qualche tempo a scuola. Lo stesso preside del Melissa Bassi ha scelto di non rispondere con la chiusura, ma con l’ascolto: «L’importante è comunicare – ha spiegato – perché se non comunichi “l’altro” diventa “il nemico”.  L’obiettivo di noi adulti non dev’essere punire, ma capire: costruire un dialogo, anche faticoso, per trasformare il conflitto in un’occasione di crescita». L’occupazione si è conclusa il primo novembre. Nei corridoi sono rimaste domande più che risposte, ma anche la sensazione che la scuola possa ancora essere un luogo di partecipazione e conflitto. Nei giorni seguenti, alcuni docenti hanno raccontato che, tornati in classe, studenti e studentesse hanno chiesto il loro aiuto per capire meglio cosa stesse accadendo in Palestina e nel mondo. Forse la scuola può ancora produrre pensiero, quando viene attraversata collettivamente. (pasquale frattini)
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La Puglia alle urne tra bonapartismo e trasformismo
(disegno di escif) In un saggio del 1993 dal titolo Democrazia o bonapartismo, Domenico Losurdo si interrogava sul delicato equilibrio che regge le democrazie liberali, fondato su un suffragio universale fragile che rischiava uno svuotamento dall’interno della sua funzione principale: assicurare la rappresentanza di ogni faccia della società. Una deriva che Losurdo vedeva nella crescente concezione della politica come acclamazione di un leader carismatico e investito da una moltitudine variegata e con sempre meno riferimenti, in un mondo che di lì a poco avrebbe visto il pieno compimento della mediatizzazione della politica con l’avvento di Berlusconi al governo. Un bonapartismo soft che anche l’Italia avrebbe ereditato dagli schemi politici statunitensi, fondati su collegi uninominali e leadership riconoscibili, carismatiche ed espressione più di interessi organizzati che di ampie basi sociali. Questo dilemma si ripropone, oggi, proprio nella regione di provenienza del filosofo: la Puglia. La regione adriatica, ormai annoverata tra le roccaforti del centro-sinistra dopo vent’anni di governo regionale ininterrotto, è chiamata al voto il 23 e il 24 novembre. Un voto che la larga maggioranza dei commentatori ritiene dall’esito scontato, ma che nasconde al suo interno tutte le contraddizioni di una politica ormai sempre meno pratica pubblica e sempre più mera gestione. Una deriva manageriale che si esprime in primis nel candidato favorito alla presidenza: Antonio Decaro. Una carriera politica iniziata come assessore (in quota tecnica) alla mobilità e al traffico della città di Bari della giunta Emiliano, dopo un’esperienza in consiglio regionale, viene eletto sindaco del capoluogo pugliese per due mandati consecutivi. Una figura molto popolare che ha sempre saputo mobilitare un elettorato trasversale, convinto da una pratica amministrativa fondata sulle opere pubbliche, vuoi per una deformazione professionale – Decaro è ingegnere civile –, vuoi perché permettono di fornire una testimonianza materiale dell’operato amministrativo. Un cavalcavia o una strada sono indicatori molto più immediati, ma soprattutto concreti, che può apprezzare anche un elettorato disattento, come quello la cui massima espressione politica si riduce al voto ogni tot. anni. Decaro è l’espressione più riuscita di un modello ben preciso, quello dell’amministratore operoso, che controlla i cantieri in città, che informa la cittadinanza attraverso i suoi canali personali con video e foto, e che parla poco di politica. Una deriva, quella del disaccoppiamento tra politica e amministrazione che in Puglia ha contagiato non poche amministrazioni comunali. A tal proposito, rimane esemplare un’affermazione del sindaco di Conversano – cittadina a trenta chilometri dal capoluogo – che durante un consiglio comunale affermò come lui non facesse politica, bensì il suo lavoro. Un aspetto complementare a quello della spoliticizzazione delle cariche elettive è quello della formazione di un vero e proprio “blocco di amministratori” che si esprime in una ufficiosa formazione politica: il partito degli amministratori. Una formazione che si è rivelata fondamentale per chiunque abbia aspirazioni di governo in una regione sempre più sbilanciata verso il proprio capoluogo. Difatti, la probabile elezione di Decaro vedrebbe per la seconda volta consecutiva il passaggio dalla carica di sindaco di Bari a quella di presidente della Puglia – dopo l’elezione e i due mandati di Michele Emiliano prima sindaco di Bari fino al 2014 e poi presidente di regione fino al 2025. Ed è proprio il dualismo tra i due “baresi” Emiliano e Decaro quello che ha deciso negli ultimi anni le sorti politiche del resto della regione, specialmente nell’area della città metropolitana di Bari. Secondo uno schema sempre simile. In prossimità delle elezioni comunali nei vari territori, il notabile barese di turno – Emiliano o Decaro – prova a insediare un sindaco “amico”, espressione della propria corrente così da avere più peso con cui presentarsi sul palcoscenico regionale. Un processo che ha permesso a molti personaggi dal percorso politico “indeciso” e accidentato di riciclarsi come “espressione civica di centrosinistra”, nonostante a volte provenissero dal centrodestra. Così da innescare una certa dinamica di sostituzione tra politica e amministrazione, in cui il riferimento nel comune per il “centro” non era più la segreteria locale del principale partito di area, il Partito democratico, bensì l’amministratore – perché portatore di un pacchetto di voti sicuro e testato, e poco importa la sua provenienza politica. Insomma, il “vecchio” trasformismo. Solo che oggi si chiama “civismo”. Il risultato è una classe politica “poco politica” che ha ingrossato le fila del centrosinistra pugliese poiché assicurava loro un posto entro cui perpetuarsi; una “borghesia lazzarona” – definizione di Alessandro Leogrande – incastrata in giochi di potere stantii. Assistiamo pertanto ad agili cambi di casacca, come quello di Luciana Laera, ex sindaca di Putignano, in provincia di Bari, ed espressione della corrente decariana, ora candidata nelle liste di Fratelli d’Italia; oppure Stefano Lacatena, consigliere regionale uscente passato da Forza Italia alla maggioranza di centrosinistra, non riconfermato ed escluso dalle liste che sconsolato dichiara “probabilmente la mia casa è il centrodestra”. Il voto di novembre sembra sancire un passo ulteriore verso l’indebolimento della dialettica democratica pugliese, inaugurando una stagione di unanimità. La campagna elettorale e il voto sembrano essere contrattempi sconvenienti davanti a un esito che si preannuncia scontato e con differenze a due cifre tra le coalizioni principali. A destra, hanno temporeggiato fino all’ultimo nell’annuncio dell’agnello sacrificale da immolare sull’altare della certa sconfitta; scelta poi ricaduta su un anonimo tecnico la cui massima esperienza politica è stata perdere contro Emiliano nella corsa a sindaco di Bari nel 2004. Mentre nel centrosinistra – che accoglie un po’ tutti – c’è la corsa alla foto con il presidente in pectore Decaro, per posizionarsi velocemente nella scia del leader che torna nella sua regione dopo un anno “di Erasmus” a Bruxelles, dove il parlamento europeo è ormai appetibile solo per chi vuole poi candidarsi come presidente di regione, o l’ha già fatto e ha terminato i mandati. In tutto questo, ad ammutolire è la politica, la visione di quello che si vuol far diventare la Puglia, una regione al centro di vertenze decennali, come l’acciaieria di Taranto, che però sembra ormai devota solo al turismo, che dopo aver completamente mangiato la costa si sta rivolgendo verso l’interno. La “California d’Italia” che soddisfa sia la domanda di alloggi – sempre meno disponibili per chi risiede – che di stereotipo – con una cultura popolare masticata dalle agenzie di promozione territoriale e risputata in una versione digeribile per ogni visitatore e conforme alle sue aspettative. Davanti al dilemma posto da Losurdo, la regione più a est d’Italia sembra aver deciso che sentiero percorrere. (marco patruno)
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