(disegno di federica pagano)
Possiamo chiamare il decennio milanese dall’elezione di Pisapia al Covid
(2011-2020) l’epoca d’oro della rigenerazione urbana alla milanese, in cui è
stato progettato e realizzato un modello di crescita urbana profondamente
classista, basato sull’attrazione di fondi finanziari, la “lussificazione” della
città e l’espulsione dei ceti meno agiati, la distruzione sistematica del
welfare urbano e la glorificazione della rendita immobiliare. La città si è
trasformata inseguendo la massima valorizzazione del metro quadro, ed è stata
quindi densificata in barba al consumo di suolo, al rispetto dei vuoti che
garantiscono vivibilità, luce e aria, privatizzando spazi e servizi pubblici.
Per dispiegare indisturbati una tale quantità di violenza urbana e sociale sui
cittadini è stato necessario fare due cose: esercitare un controllo assoluto
sulla comunicazione – affiancando la propaganda alla censura – ed erodere le
leggi urbanistiche che ancora ostacolano l’aggressione degli interessi privati
al tessuto urbano privando gli abitanti del diritto all’abitare e alla stessa
vita civile.
Intrecciando dei Pgt (Piani di governo del territorio) costruiti per ridurre al
minimo le decisioni pubbliche con un reticolo di norme edilizie e urbanistiche
regionali e nazionali che si sono giustapposte dagli anni Novanta in poi per
“sbloccare” lo sviluppo, hanno tentato di smantellare l’impianto normativo che
imponeva un certo tasso di redistribuzione della ricchezza prodotta dal comparto
edilizio immobiliare. Per esempio, in questo modo, facendo uso perverso di
consulenze legali e amministrative, hanno creato quella zona grigia del diritto
che ha consentito che si costruissero decine e decine di “grattacieli con la
Scia”: palazzi alti eretti al posto di box e magazzini con la sola
autocertificazione, senza piani e permessi urbanistici, fatti passare per
ristrutturazione e per questo motivo esenti dalle tasse e dagli standard che
consentono di compensare con nuovi servizi ai quartieri il carico urbanistico.
Quando cioè la retorica parla di “semplificazione delle norme”, la politica fa
l’esatto contrario di quello che la popolazione si aspetta. Lungi dal
riorganizzare il diritto in poche leggi semplici e chiare, lo ingabbia in un
labirinto barocco di rimandi complessi che ostacola la comprensione ai più e
semplifica una sola cosa: la libera appropriazione delle città e del territorio
da parte dei capitali immobiliari.
DISVELAMENTO ED EMERSIONE DEL CONFLITTO
Dopo anni di ottimismo forzato ed egemonia del modello Milano, attivisti,
comitati e critici riescono a far emergere la voce del dissenso, rompendo la
narrazione e sfidando il pensiero unico. Si torna a lottare in primo luogo per
il diritto alla casa, ma anche contro gli interventi di cosiddetta rigenerazione
urbana che producono diseguaglianze. Si manifesta per salvare aree verdi
minacciate da speculazione come la Goccia della Bovisa e Piazza d’Armi, contro
le Olimpiadi e la trasformazione di piazzale Loreto in un centro commerciale,
contro l’assurda distruzione dello stadio di San Siro, per l’assegnazione di
migliaia di case popolari vuote alle famiglie in lista d’attesa, contro l’ondata
di sfratti e il caro affitti; si moltiplicano articoli e saggi che mettono in
relazione la morte dell’urbanistica democratica con i processi della
concentrazione della ricchezza ed evidenziano il ruolo manipolatorio esercitato
dal terzo settore, dalla finta partecipazione e dal lavoro culturale sempre più
al servizio degli eventi e della gentrificazione. I giornali sono costretti,
malvolentieri, a rompere il silenzio sulle contraddizioni aperte.
A seguito di esposti presentati da cittadini e comitati, si aprono una serie di
inchieste sui “grattacieli con la Scia” che confermano e arricchiscono il quadro
interpretativo degli oppositori del Modello. Al di là degli illeciti e degli
abusi che saranno confermati o meno dall’esito dei processi, dei casi di
concussione e corruzione, da un calcolo a spanne risulta che il Comune abbia
perso almeno due miliardi in oneri e monetizzazioni non incassati per sua stessa
volontà: due miliardi che avrebbero potuto essere spesi in manutenzione
ordinaria e straordinaria di case popolari, scuole e strutture sportive
pubbliche, parchi, in personale assunto nei musei e nei trasporti, ecc. Le prove
di una politica deliberatamente classista ed escludente.
L’ARROCCAMENTO DEL POTERE
Mai la giunta e il ceto politico e imprenditoriale che la sostiene sono stati
così deboli: divisioni nella maggioranza, disaffezione dei pochi elettori,
informazioni che trapelano bucando il muro di gomma così capillarmente
costruito, rischi di condanne penali e civili, e soprattutto un’immagine di
incertezza che inquina la reputazione della città creando un clima di sfiducia
negli investitori.
La reazione delle classi dominanti è stata immediata: una squadra eterogenea e
bipartisan composta da costruttori, avvocati d’affari, professionisti e politici
coinvolti a vario titolo nel sistema di facilitazione ha disegnato una legge (la
“SalvaMilano”) che non è assimilabile a un condono, ma si pone come
“interpretazione autentica” delle leggi urbanistiche in vigore, e che
estenderebbe le regole inique del modello Milano a tutto il territorio italiano.
Per fare pressione sul parlamento per una rapida approvazione, il Comune chiude
gli sportelli dell’edilizia, mettendo in atto una vera e propria serrata per
inscenare un drammatico blocco della città causato dalla persecuzione
giudiziaria.
Il parlamento approva la disgraziata legge in autunno, ma finalmente un appello
di urbanisti e costituzionalisti riesce a smuovere l’opinione pubblica italiana
e a porre, come non succedeva da anni, la questione urbanistica al centro di un
piccolo dibattito nazionale, che miracolosamente fa slittare l’approvazione in
Senato e getta ulteriore discredito sulla giunta, sul sindaco e sul sistema
urbanistica, cui si aggiungono nuove ombre a seguito di nuove indagini su un
concorso truccato per la nuova Biblioteca Europea e su altri cantieri
irregolari.
A fronte di una situazione così compromessa, il potere si è arroccato. Non solo
in senso letterale, evitando di chiedere scusa e di farsi da parte (con l’unica
eccezione dell’assessore alla casa Bardelli, uno dei meno coinvolti), ma
soprattutto accelerando tutti i progetti più divisivi in corso: Milano non si
ferma, non si deve fermare, e con lei non deve essere messo in discussione il
processo di controriforma urbanistica generale. Gaetano Manfredi, sindaco di
Napoli ma soprattutto presidente dell’Anci, l’associazione dei comuni Italiani,
manifesta la solidarietà degli amministratori di tutta Italia al sistema Milano.
Tutti anelano, evidentemente, alla deregulation urbanistica e a competere per
l’attrattività; e sono pronti a fare pressione per una nuova legge sulla
rigenerazione urbana o per una modifica del testo unico per l’edilizia che
ripropongano le stesse modifiche della SalvaMilano.
In pochi giorni Beppe Sala ha convocato le società di Inter e Milan per
concludere la vendita sottocosto dell’area dello stadio, premessa al suo
abbattimento e ricostruzione sul parco adiacente dei Capitani, prima che un
vincolo della Soprintendenza comprometta l’operazione. Poi ha organizzato un
incontro con gli immobiliaristi e costruttori coinvolti nei cantieri indagati e
le “1.600 famiglie” che hanno acquistato le case di lusso o semi-lusso che
rischiano di essere dichiarate abusive, proponendo una soluzione interamente a
loro favore che sbloccherebbe le vendite e il proseguimento dei cantieri, con
buona pace della giustizia sociale, dei residenti vicini danneggiati dai
grattacieli, e soprattutto delle 13 mila famiglie in attesa da anni di una casa
popolare che non sono mai state ricevute da nessuno. Ha poi invocato per
l’ennesima volta il ministro della cultura per sbloccare una serie di interventi
di “rigenerazione-gentrificazione” che già in origine erano stati avviati dal
ministero: si tratta del Museo della Resistenza, fatto calare da Franceschini su
un giardino autogestito molto amato dagli abitanti di Sarpi (ci si può opporre
all’antifascismo?), dei depositi e laboratori della Scala a Rubattino, per
estendere la trasformazione di Lambrate, e della famigerata Beic, Biblioteca
europea di informazione e cultura, travolta dallo scandalo del concorso
truccato. Ha confermato Stefano Boeri, sospeso dall’università e dai concorsi
pubblici per un anno, alla guida della Triennale, nonostante il coinvolgimento
in due inchieste e l’evidente conflitto di interessi generato dal presiedere
l’istituzione culturale più autorevole in campo architettonico e urbanistico e
che per sua natura dovrebbe essere oggi l’epicentro del dibattito
sull’urbanistica e sui fatti di Milano.
I giornali, entusiasti, sono tornati a dare manforte al sindaco, interpellando
chiunque possa e voglia difendere lo status quo: raccontando l’incertezza degli
acquirenti “sospesi”, intervistando i sostenitori dello sviluppo, rilanciando
l’approvazione di nuovi progetti e piani per “porre fine all’agonia
dell’immagine milanese”.
Come Macron in Francia, la von der Leyen in Europa o Erdogan in Turchia, anche
qui chi governa non lascia mai che una crisi vada sprecata: ogni volta che il
conflitto e il dissenso emergono, ne approfitta per instaurare un equilibrio
sempre più autocratico, abbandonando anche le ultime simulazioni di
partecipazione e di convenzioni democratiche, come la trasparenza sulle
informazioni o il rispetto delle funzioni del consiglio comunale, e scommettendo
sull’esaurimento delle energie di chi si oppone.
La posta politica in gioco è molto alta. Dopo la rimozione dell’articolo 18 e lo
smantellamento del sistema pensionistico, ora a essere sotto attacco sono la
città pubblica, la difesa del territorio e con esse i presupposti della
redistribuzione della ricchezza prodotta e della giustizia spaziale. (lucia
tozzi)
Source - NapoliMONiTOR
Cronache, libri, disegni e reportages
I danni strutturali. Le crepe, le signore del quartiere, Rosa, Fortuna, Mena,
produci consuma crolla. Il sindaco, il prefetto, Musumeci, la Protezione civile,
Bertolaso, Berto-naso, le discariche, gli scontri, l’Opus Dei. Gli zaini pieni,
le mutande da lavare, le camicie, l’acidità di stomaco, dormire male, mangiare
peggio. Le birre, il liquore all’arancio, l’aria nella pancia. Ciro, Pietro, il
divano, Fisciano, il gruppo Whatsapp, gli sfollati, i ritardi. I baraccati, la
mensa, le patate, il sopralluogo, la Protezione civile, i pompieri, Propaganda
Live, via Enea, via Di Niso, via Caio Asinio Pollione. L’assemblea, il bonus
affitto, il tendone. Le brandine, le carte, le cartine, le canne, il vino
scadente, l’acidità di stomaco. La Botte Buona, le botte buone, i celerini, le
casse, il corteo. Lo spazzolino, il dentifricio, i pezzi di muro, l’intonaco, i
vicini, l’amministratore, la signora delle pulizie.
C’a facimm’ ‘a galera!
‘A dint’ o ‘a fore è ‘o stess’:
mutanda Uomo,
cazettin’ No Stress.
(speranza, givova)
Il telefono scarico, la penna di tre euro e cinquanta, la tesi di dottorato, il
Manifesto. Il filo del computer, il caffè a letto, il letto sfatto, il Labriola,
lo sfratto, gli sgomberi, i crolli, i pompieri, il mare, il Praru, la radio,
l’armadio. Il centro analisi, l’assicurazione della macchina, l’assicurazione
del motorino, l’assicurazione che ne usciamo sempre. Il cibo nel frigorifero, la
tisana zenzero e limone, i crampi, le scarpe nuove, la pancia gonfia, il jeans
sporco, la camicia pulita.
– ‘E visto ‘cca che panza ca sto facenno, ma’?
– Uh mamma mia, mo’ caccia n’ata nuvità: ‘a panza! Ma aro’ a vire ‘sta panza?
Quello è il nervosismo. […] Tu te crire ca quanno uno sta accussì, senza fa’
niente, sta calmo e sta tranquillo: Vince’, la mente ave bisogno di sta’…
occupata, insomma, ‘e fa qualche cosa, non so, un lavoro…
– Eh, ‘nu lavoro… ‘o ‘ssapevo!
– Eh! ‘Nu lavoro… nun l’hai visto a tuo fratello?
– Uh ma’, ja lasciami… Vai ja, mo’ vengo! Io ‘o ‘ssapevo: tuo fratello! Quanno
parl’ ‘e chill’ mamma mia d’o Carmine… Me saglie ‘o nervosismo… saje addo’? Me
faje veni’ ‘na panza ‘e chesta manera!
(massimo troisi e olimpia di maio, scusate il ritardo)
Il casello, l’autostrada, Marcianise, i Quartieri, il Vomero. La genovese, la
dieta, il cornetto vegano, il registratore, l’operaio più anziano. Il bonus
affitti, Alessia, Antonella, Pina, i guardiani della Nato, la Protezione civile,
la dirigente incivile. L’ingegnere strutturista, i pompieri, l’ingegnere
strutturale, il raffreddore, l’umidità, le scale a piedi, i borsoni, i
giradischi, il rione Sanità, la sanità pubblica, la sanità privata, la sanità
mentale, l’insanità statale.
Breathe the pressure, come play my game, I’ll test ya.
Psychosomatic, addict, insane. Come play my game.
L’Africa, Parigi, 18 vagues. I senza tetto, i senza casa, i balconi pericolanti.
I tramezzi, i muri maestri, i venerabili maestri, i maestri di strada, i maestri
in strada, la strada maestra, le bandiere, la Digos. La delegazione, palazzo
Chigi, Musumeci. Le nuove edificazioni, il Praru, Manfredi, Meloni, Fitto,
Mattarella. Daniele, Enzina, Carmela, libanese grande, libanese piccola. Via
Boezio, Cupa Starza, il pazzo del quartiere, i cazzi da cacare, il freddo, le
guardie. Walter, Paone, la colmata, la stuccata, i polacchi, gli albanesi,
l’assemblea popolare. Iskra, l’Assise, i No Box, Mare Libero. Villa Medusa,
Villa Avellino, Potere al popolo, potere al povero, potere scomodo, potere
lurido. Perditempo, Alfonso, Tonino, la Nastro, le casse, le tasse. Il garage, i
debiti, i crediti, l’abilitazione, gli anni Sessanta, Boccaccio Settanta.
Pasolini, il Peroncino, le birrette. Vonk, i pozzi, le fumarole, Tonino lo
scienziato, i terremotati, la grondaia, la colata, la colmata.
I miei mali fisici andavano e venivano sovente o a distanza di tempo, proprio
come un cambiare e rimettersi del tempo che dobbiamo subire e che non possiamo
modificare. […] I medici mi dichiaravano malato perché sapevano quanto io
soffrissi e come certe volte, ogni giorno, facessi fatica a resistere, ad andare
avanti. E loro invece di aiutarmi a prevalere sui miei mali li rafforzavano per
sgominarmi del tutto. […] Avevo denunciato i miei mali perché ero abituato a
farlo mentalmente; perché il farlo costituiva ormai un fatto quotidiano o almeno
frequente della mia vita; un’operazione che mi consentiva allora di sollevare i
miei mali un momento dal mio corpo e dalla mia anima e di vederli distanti,
lontani, come sopra un davanzale dal quale fosse poi possibile farli sparire o
riprenderli, secondo la mia volontà. […]. Ma insieme avevo il timore che fossero
improvvisamente scomparsi. (paolo volponi, memoriale)
Subito, Tecnocasa, Bakeka, Idealista. Un idealista, un turnista, un ciclista. Un
prete, un poeta, un comunista. Due comunisti, tre comunisti, quattro comunisti,
i muri, i graffiti, le crepe, le crepe a croce, le croci con la mano sinistra, i
disoccupati, i proletari, gli affittuari, i proprietari, i magliari, i falsari.
Licola, Varcaturo, Monteruscello. Gli speculatori, i mediatori, i sensali, i
muratori. Le caparre, le agenzie, le referenze, le competenze, i vulcanologi,
gli urbanisti, gli ingegneri, la Protezione civile. Il 110, il bonus sisma, il
bonus affitto, il bonus nella bolletta. La sosta del campionato, la sosta
sull’autogrill, le pizze, le cocacole, le frittate di maccheroni, i copertoni,
il gommista, il cambio d’olio, il tagliando in corso, il tagliando vecchio, il
passato il presente il futuro, è meglio niente ‘nzieme che essere ricco sulo.
(a cura di riccardo rosa)
Fotografie di Giuseppe Carrella
Un corteo unitario di circa mille persone ha sfilato ieri pomeriggio a Napoli
per rivendicare il diritto alla casa, alla sicurezza abitativa e alla gestione
pubblica dei beni comuni. Contro sfratti e caro affitti, insieme ai promotori
della mobilitazione della rete Resta Abitante hanno manifestato i comitati di
lotta per la casa di Melito e San Giovanni a Teduccio, le famiglie del Frullone
e dell’ex Motel Agip.
Il corteo è partito da piazza Dante, ha attraversato Montesanto e ha raggiunto
Palazzo San Giacomo. Le settemila firme raccolte in questi mesi per la petizione
cittadina “Stop B&B” sono state consegnate al Comune, proprio mentre uno
striscione calato da un’impalcatura, in riferimento al recente suicidio di un
trentunenne, avvenuto a seguito della notifica di sfratto a Caivano, ha
sottolineato che “chi toglie casa toglie vita”.
(una storia disegnata di mattia vincenzo abbruzzese)
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A questo link tutte le puntate dell’inchiesta
(disegno di malov)
Ieri pomeriggio, nel cortile di Porta di Massa, precarie, precari della ricerca,
studentesse e studenti si sono incontrati in occasione del consiglio di
dipartimento di studi umanistici. Hanno richiesto e ottenuto che una delegazione
intervenisse durante l’assemblea per proporre una mozione che prevede il
rifinanziamento dell’università pubblica, il contrasto al Ddl Bernini 1240,
l’impegno per la stabilizzazione del personale precario e l’istituzione di un
osservatorio permanente che si incarichi di monitorare la situazione di
ricercatrici e ricercatori al fine di riconoscerne i diritti e le garanzie in
quanto lavoratori. È il secondo dipartimento della Federico II in cui viene
proposta e approvata all’unanimità questa mozione e l’obiettivo è quello di
portare avanti le istanze di precari e studenti al senato accademico
dell’ateneo.
Quello di ieri non è però un episodio isolato bensì l’ultima tappa di un
percorso cominciato nel novembre 2024 e i cui lavori si sono intensificati nel
corso dei mesi con assemblee e iniziative. Il 14 marzo, per esempio, si è tenuta
una contestazione alle porte del conservatorio San Pietro a Majella, dove la
ministra Bernini si trovava in occasione dell’inaugurazione della stagione
concertistica. Tuttavia, il momento più significativo è stato lo scorso 20
marzo, data scelta dalla Conferenza dei rettori delle università italiane come
giornata nazionale delle università.
Il ciclo di eventi organizzati per l’occasione aveva per titolo “Università
svelate”. A Napoli vi sono state conferenze, proiezioni, mostre e aperture
straordinarie dei musei di proprietà degli atenei. A dover essere svelata però,
non è l’avanguardia del sistema formativo pubblico, bensì la sua graduale
dismissione che si protrae da più di un decennio e che con il Ddl Bernini 1240
rischia di diventare irreparabile.
L’8 e il 9 febbraio, due giorni di assemblee a Bologna hanno prodotto un
manifesto che denuncia la precarietà del lavoro accademico in Italia, risultato
di decenni di sotto-finanziamento, e si oppone alla riforma Bernini del
pre-ruolo, ai tagli lineari al fondo di finanziamento ordinario, ai meccanismi
premiali nell’assegnazione dei fondi gestiti da dispositivi come l’Agenzia
nazionale valutazione università e ricerca, e alla crescente influenza di
logiche di mercato e militari su didattica e ricerca.
Sulla scorta di questa piattaforma, a Napoli, come in molte altre città, il 20
marzo tutte le componenti subalterne dell’università si sono mobilitate. Al
mattino ricercatori, docenti e studenti sono intervenuti in vari corsi di molte
sedi della Federico II e dell’Orientale per spiegare le ragioni della protesta e
invitare i presenti a seguirli negli altri appuntamenti della giornata. In
seguito, un presidio nella sede del dipartimento di studi umanistici della
Federico II, in via Porta di Massa: al centro del cortile, banchi con sopra
ammassati articoli, libri, ricerche e tesi di laurea di studentesse e studenti a
cui precarie e precari del dipartimento hanno lavorato; di fianco, un cartello,
“ricerca precaria, didattica gratis”, a rappresentare l’enorme lavoro di cui il
personale non strutturato si fa carico per uno stipendio inadeguato, senza
tutele e prospettive di stabilizzazione.
Mentre i tagli all’università pubblica nel triennio 2024-2027 arriveranno
complessivamente a 1,2 miliardi di euro, le spese in difesa sfiorano i massimi
storici. Le pareti del porticato si ricoprono di cartelli con su scritto
“Vendesi l’università pubblica, per info chiedere a Leonardo S.p.A.” o “a
Unipegaso”, che ironicamente denunciano l’intrusione di interessi privati nel
sistema universitario pubblico e le agevolazioni che il Ddl Bernini porterà alle
università telematiche.
Intanto, una delegazione dell’assemblea precaria si dirigeva verso l’università
– privata – Suor Orsola Benincasa, dove erano riuniti per un convegno tutti i
rettori campani e il sindaco di Napoli. La delegazione, scortata dalla Digos che
tentava di identificare i partecipanti e sequestrava uno striscione e qualche
cartello, otteneva di intervenire, criticando la compiacenza della governance
accademica rispetto alla riforma Bernini ed esponendo la piattaforma
rivendicativa sviluppata durante l’assemblea di Bologna.
“Noi proponiamo il raddoppio dei finanziamenti ordinari. Voi cosa dite? Noi
proponiamo la stabilizzazione di precari e precarie della ricerca. Voi cosa
dite? Noi proponiamo la sospensione degli accordi con aziende belliche e con
stati genocidi. Voi cosa dite?”.
Sono state le parole della ricercatrice intervenuta per conto dell’assemblea
precaria, tra l’interesse della platea, gli applausi della delegazione e i volti
dei rettori visibilmente imbarazzati.
La Conferenza dei rettori ha di recente ribadito il suo pieno sostegno alla
riforma Bernini, attualmente sospesa. Il lavoro accademico italiano si regge
infatti sulle spalle di precarie e precari, che costituiscono più del quaranta
per cento del personale docente, e rettrici e rettori sanno perfettamente che
senza questa altissima quota di manodopera, sfruttata e ricattabile, la macchina
accademica si fermerebbe.
Quello che l’assemblea precaria chiede dunque ai rettori è di prendere una
posizione chiara e pubblica in merito al definanziamento e alla privatizzazione
dell’università pubblica. La risposta è vaga e non esaustiva.
Nel centro storico la mobilitazione è poi proseguita con azioni simboliche in
diversi plessi universitari. Quando il corteo è arrivato alla sede centrale di
Corso Umberto, ha trovato le porte già chiuse: si scoprirà poi che la governance
universitaria aveva deciso di sospendere le lezioni previste in sede e di
interdirne l’accesso per ragioni di “sicurezza”.
Nel primo pomeriggio, in piazza San Domenico, la professoressa Simona Taliani ha
tenuto una lezione pubblica. Le circa duecento persone rimaste dopo sei ore di
mobilitazione si sono dirette da lì verso il complesso di San Marcellino, dove
sono entrate nella sala prevista per la proiezione di un cortometraggio cui
avrebbero dovuto partecipare il rettore della Federico II, Lorito, e il sindaco
Manfredi; ma, come prevedibile, del rettore e del sindaco non c’era traccia.
C’era però la prorettrice Angela Zampella, che in un primo momento ha provato a
ignorare l’elefante nella stanza (centinaia di precari e studenti con uno
striscione e dei cartelli piuttosto vistosi) ma dopo un po’ i manifestanti hanno
preso la parola chiedendo un confronto con Zampella. Piuttosto che rispondere,
la prorettrice ha abbandonato la sala invitando i presenti a fare lo stesso e
cancellando l’evento in programma per la giornata.
Si è conclusa così la mobilitazione nazionale del 20 marzo in cui il precariato
accademico si è riconosciuto intorno a rivendicazioni comuni. Rettori e
governance accademica, si sono invece dimostrati silenti di fronte alle
decisioni del governo e restii a comunicare con le parti sociali coinvolte. A
partire da questo, le assemblee precarie di tutta Italia ora intendono
costruire, nei prossimi mesi, uno sciopero nazionale dell’università. (flora
molettieri)
(disegno di ottoeffe)
Uscito nel 2020 in inglese e tradotto in italiano nel 2024 dal collettivo Dalla
Ridda, il libro Per una giustizia trasformativa. Una critica alla cancel
culture, di adrienne maree brown, contiene nella sua traduzione, oltre al testo
dell’autrice statunitense, uno scritto del Laboratorio Smaschieramenti dal
titolo: Ci siamo cancellate? Note su una giustizia trasformativa e
soggettivazione vittimaria nel contesto italiano.
Se il testo di borwn ci fornisce strumenti per avvicinarci alla pratica della
giustizia trasformativa e per comprenderne la sua portata rivoluzionaria
all’interno di un panorama abolizionista, quello di Smaschieramenti ci stimola a
uno sguardo critico, interrogando la sua capacità di scardinare la logica
securitario-carceraria che alimenta le violenze del sistema di giustizia
punitiva. Proprio sulla scia di questa riflessione è fondamentale, a mio avviso,
rileggere la proposta di adrienne maree brown.
Trama alternativa (citando Giusi Palomba) che si contrappone alla risposta
individualizzante e criminalizzante della giustizia punitiva, la giustizia
trasformativa è innanzitutto una presa di responsabilità collettiva di fronte a
un conflitto, a un danno, un abuso o una violenza. Con la consapevolezza che
ogni evento accade all’interno di una cornice più ampia, e che l’agire
individuale è frutto del contesto sociale di cui partecipa, la giustizia
trasformativa mette in discussione la reazione punitiva, escludente e repressiva
che caratterizza la gestione tradizionale dei “crimini”, una risposta troppo
sbrigativa che semplicemente elude il problema, senza preoccuparsi di
affrontarlo nella sua complessità. Con l’obiettivo di intervenire sulle
situazioni e le motivazioni che hanno contribuito al realizzarsi dell’“evento
problematico” (è così che il criminologo abolizionista olandese Louck Hulsman ci
invita a risignificare il “crimine”), la giustizia trasformativa conferisce
centralità alle soggettività coinvolte, occupandosi di guarire le ferite delle
persone violate e di costruire percorsi di cambiamento per chi le ha inflitte.
“La giustizia trasformativa è relazionale, accade su scala comunitaria”, scrive
l’autrice: è una gestione condivisa delle violenze e delle ingiustizie, il cui
verificarsi, lungi dall’essere semplicemente giudicato, è colto come occasione
di riflessione e di apprendimento per l’intera comunità.
Lo scritto del Laboratorio Smaschieramenti problematizza l’affidamento della
gestione dei conflitti alle comunità come pratica capace di garantire
necessariamente l’eliminazione di ogni risvolto punitivo dal processo di
giustizia (il rischio che vi sia un ricatto “penale” di sottofondo può rimanere
anche all’interno di una proposta trasformativa): è solo decostruendo alla
radice le ragioni che alimentano la reazione punitiva su scala personale e
sociale, che si può intraprendere una gestione abolizionista degli eventi
problematici – radicalmente alternativa non solo alle strutture repressive del
complesso carcerario industriale, ma anche alla stessa logica dominante che ne
giustifica e ne alimenta l’esistenza. Quest’idea è in effetti condivisa anche
dalla stessa maree brown, che scrive: “Finché non ci dotiamo di un’analisi
dell’abolizione e dello smantellamento dei sistemi di oppressione, non
realizzeremo cosa abbiamo nelle nostre mani, non deporremo mai gli strumenti del
predatore e non capiremo mai quali sono e potrebbero essere i nostri strumenti”
(nello scritto di Smarchieramenti, così: “Se vuoi cambiare un comportamento non
ti puoi limitare a dire: ‘è sbagliato’, ti devi chiedere che gusto ci prova la
gente, che cosa ci trova, e cercare delle alternative”).
Dietro la logica punitiva, sostiene brown, si cela l’affermazione del potere e
della correttezza di una parte a discapito di un’altra. Punire chi devia dalle
norme o dai valori condivisi, chi commette ingiustizie o attua violenze,
consente a una parte di rafforzarsi dall’indebolimento di un’altra: “Il giudizio
e la punizione sono pratiche di potere su altre persone. È ciò che chi detiene
il potere fa a chi non è in grado di fermarlo, a chi non può chiedere
giustizia”. Come ci suggeriscono anche Angela Davis, Gina Dent, Erica Meiners e
Berth Richie in Abolizionismo. Femminismo. Adesso, quello perpetuato dal sistema
securitario-carcerario è lo stesso atteggiamento dominante dello Stato
patriarcale, nel suo relegare “esseri umani e altre creature allo status di
oggetti di cui disporre”. La violenza strutturale è sempre la stessa: la
legittimazione di un linguaggio, di un punto di vista, di un modo d’essere, di
una norma giuridica o sociale, attraverso la discriminazione dell’alterità.
Immediatamente “colpevole”, “sbagliata” o “deviante”, la singolarità
non-conforme, qualsiasi essa sia, non può esprimersi nella sua differenza:
privata del proprio potere, l’alterità non può alla fine fungere da limite
conflittuale per il ripensamento delle strutture sovrane (e patriarcali), che
anzi si rafforzano della sua esclusione.
Alla luce di questo, come può la giustizia trasformativa porre fine a quella
ciclicità del danno che brown rintraccia nella tradizionale gestione dei
conflitti e degli abusi? Come ci si può liberare da questa violenza e attuare un
processo di giustizia non-violento? Come, ovvero, non-violare l’alterità, non
privarla della sua autonomia, non renderla subalterna?
Alcuni spunti nel merito possono forse dare un contributo a una indispensabile
riflessione collettiva. Prima di tutto, un progetto abolizionista radicalmente
alternativo alla logica securitario-carceraria dovrebbe assicurarsi di estendere
le implicazioni delle sue decostruzioni a qualsiasi alterità, tanto a quella
della “vittima”, quanto – per dirne una – a quella dell’“offensore”; muoversi in
un orizzonte in cui non si pretenda di giudicare la legittimità o
l’illegittimità della sofferenza, ma si immagini di dover curare le soggettività
ferite per il solo fatto che si stiano percependo tali, senza attribuire la
responsabilità a una delle parti e senza proporgli un percorso di cambiamento
privandola della possibilità di condividere o discutere le ragioni che motivano
quell’attribuzione di responsabilità. Farlo significherebbe uscire – e a questo
ci invitano sia Smaschieramenti che adrienne maree brown – dall’idea a cui siamo
abituati, per cui la possibilità di ricevere supporto per la sofferenza che
proviamo sia associata al riconoscimento condiviso di una colpa individuale, e
la presenza di un conflitto o un danno sia associata alla facoltà di giudicare o
responsabilizzare l’individuo ritenuto colpevole. Significherebbe, cioè,
rinunciare a presupporre come valido uno dei punti di vista, ammettendo la
possibilità che vi siano prospettive divergenti, ulteriori e capaci di mettere
in discussione i nostri criteri di valutazione – tanto quelli con cui si
legittimano le sofferenze, quanto quelli con cui si attribuisce la
responsabilità o si propone il cambiamento. Sarebbe, altrimenti, una posizione
ancora subalterna, quella della soggettività “vittima” (etero-determinata), così
come quella della soggettività “offensore” (etero-normata).
Un processo di giustizia alternativo e abolizionista dovrebbe, in sostanza,
trovare le modalità per immaginarsi radicalmente orizzontale senza che vi siano
parti giuste e altre sbagliate già in partenza, ma in cui tutte le parti –
compresa quella che attua la “mediazione” – possano essere messe in discussione.
Per quanto possa apparire a istinto ingiusto, confusionario o paradossale, non è
forse lasciando a chiunque la possibilità di esprimere il proprio disaccordo,
che il processo trasformativo può riguardare l’intera collettività? Non è forse
aprendosi anche alla possibilità di cambiare i parametri con cui si valuta ciò
che è giusto o sbagliato all’interno di una comunità, che si può accogliere,
delle relazioni, tutta la loro complessità? (zoe ermini)
(foto di massimo velo)
Le condizioni per la rigenerazione urbana dell’ex area
industriale Bagnoli-Coroglio sono molto cambiate negli ultimi mesi. Dal momento
dell’attribuzione per opera del governo Meloni di risorse per un miliardo e
duecento milioni al processo di risanamento, una serie di colpi sono stati
assestati al piano in applicazione: un attacco ad alcuni tra i più importanti
elementi del progetto, che erano stati recepiti dalle istituzioni solo grazie
alle lotte portate avanti sul territorio per tre decenni dagli abitanti, e che
sono state invece messe in un angolo in pochi mesi.
Agitando lo spauracchio di costi troppo alti, prefigurando scenari distopici
talmente poco credibili da risultare comici (tipo centinaia di camion che per
mesi sfilano nel quartiere portandosi dietro pezzi di colmata, quando è cosa
arcinota che la colmata rimossa avrebbe dovuto viaggiare via mare), Manfredi e
Meloni non hanno avuto scrupoli a modificare le leggi esistenti che imponevano
il ripristino della morfologia della linea di costa allo stato pre-industriale.
La colmata resta dunque lì dov’è: oggi, dicono i pianificatori, trasformandola
in una terrazza a mare (anche se con una delibera comunale imposta dalla
raccolta di quattordicimila firme, i napoletani avevano detto che al posto della
colmata volevano la spiaggia, definita in italiano “tratto di costa
pianeggiante, ricoperto di sabbia più o meno fine o anche di ghiaia o di
ciottoli”); domani, considerando il vizio degli amministratori che si occupano
di Bagnoli di cambiare continuamente le carte in tavola (sempre in peggio
naturalmente), chissà cosa potremmo trovarci sopra.
Il secondo punto riguarda i “servizi” che doteranno l’area del parco urbano e le
strutture circostanti l’ex acciaieria (i quotidiani e il sindaco paventano la
possibilità che quest’ultima diventi l’ennesimo centro congressi, a due
chilometri e mezzo di distanza dalla Mostra d’Oltremare; il direttore
amministrativo dell’ente commissariale, contattato sul punto, bolla la questione
come una boutade). Una volta accantonata l’idea di un’area verde boschiva, che
ha notoriamente bassi costi di manutenzione, si sente parlare sempre più di
servizi all’interno del parco (bar e ristoranti compresi, nonostante la città
possa già ben mostrare gli effetti degli invasivi processi di tavolinizzazione
dello spazio pubblico). D’altro canto, per tutto quello che sorgerà attorno
all’acciaieria – ognuno spara ciò che vuole, al momento, perché non ci sono né
progetti né investitori – l’ente commissariale sostiene la necessità di rendere
lo spazio “più attrattivo possibile” per gli imprenditori che andranno a
metterci i soldi. Una guerra all’ultimo sangue per strappare al pubblico
condizioni logisticamente ed economicamente favorevoli al privato, è pronta a
iniziare.
La società civile, gli esperti di urbanistica, gli intellettuali, i docenti
universitari che per decenni hanno consumato litri di inchiostro e costruito
carriere sulle sfortune dell’area, sembrano ora piuttosto distratti. A voler
essere indulgenti potrebbe trattarsi della comprensibile stanchezza (uno dei più
importanti personaggi che si è occupato di Bagnoli in questi decenni ha riferito
al telefono di non volerne “mai più sentir parlare”) che ha logorato anche la
comunità del territorio, che pure continua a fare quel che può, agitandosi per
denunciare lo scempio e raccogliendo le poche energie residue per opporvicisi.
Più probabile che la comunione di intenti che sta guidando all’azione i due
principali partiti del centrodestra e del centrosinistra sia stata assorbita
anche da tutti quei soggetti sopra citati, per i quali dire oggi anche mezza
parola su Bagnoli fuori dallo spartito diventerebbe motivo di isolamento.
Un’ultima questione merita, infine, di essere affrontata, riguardo i possibili
cambiamenti in termini di edificazioni nell’area della ex fabbrica, che è
inspiegabilmente fuori, per una parte, dal perimetro della “zona rossa
ristretta” dei Campi Flegrei. Il fatto che si possa decidere di ridurre le
cubature per le case considerando i fenomeni naturali dell’area è ovviamente una
buona notizia. Meno, il fatto che si parli solo di cambiare destinazione d’uso a
una parte di queste edificazioni: se è impensabile costruire un palazzo su un
lotto X, perché non è pericoloso costruirci un centro commerciale o un
ristorante? Se le scuole del quartiere hanno dovuto essere evacuate a causa
dell’emergere – INASPETTATO – di Co2, chi ci assicura che fenomeni naturali
altrettanto inattesi non possano presentarsi tra sei mesi o sei anni, rendendo
pericolose quelle strutture? Se si scegliesse di trasformare le cubature
residenziali in commerciali, facendo una bonifica meno impegnativa e costosa,
dove andrebbero a finire i soldi stanziati “avanzati”?
Per questa e altre questioni (per esempio l’idea di una “scogliera soffolta”
artificiale da piazzare in mare dopo la bonifica, operazione discutibile per una
parte della comunità scientifica, o il parametro della “sostenibilità” economica
messo a fondamento di qualsiasi scelta, il che significa che per la tutela del
paesaggio e della popolazione non si è disposti a spendere un euro) la
popolazione aspetta da settimane di incontrare il commissario, se possibile in
una modalità che non sia la solita chiacchierata “informativa” alla Porta del
Parco, comunicata con una mail a pochi fortunati presenti in mailing list, e che
finisce per diventare lo sfogatoio delle frustrazioni degli abitanti su
amministratori che continuano a prendere decisioni con dei colpi di mano,
cambiando il destino di un territorio senza nemmeno mai doversi prendere il
disturbo di portare le loro mascalzonate in un consiglio comunale. (riccardo
rosa)
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni)
Si apre mercoledì 26 marzo (alle ore 20:30 a Galleria Toledo) la terza edizione
della rassegna A fuoco!.
Il primo film in proiezione sarà Paris est une fête. Un film en 18 vagues, di
Sylvain George. La proiezione sarà preceduta da una lezione dell’autore
all’Accademia delle Belle Arti di Napoli (ore 15:30).
A seguire un testo introduttivo al film a cura di Francesco Migliaccio.
* * *
Alcune immagini da Paris est une fête. Un film en 18 vagues (2017) di Sylvain
George provengono dagli scontri del 2016 al tempo della mobilitazione contro la
loi Travail. La polizia antisommossa alza gli scudi e avanza per una carica, i
manifestanti lanciano bottiglie e lontano esplode una bomba carta. Accanto agli
stivali degli agenti c’è un piccolo mezzo blindato, un giocattolo per bambini,
che viene colpito da una tazza volante. Poco prima la macchina da presa aveva
inquadrato in primo piano il giocattolo nel tumulto, poi una scarpa con tacco
lasciata sull’asfalto. Il cinema di Sylvain George è uno sguardo sui detriti e
il montaggio appare come un accostamento di frammenti di materia in dispersione.
Già nel 2011 in Les Éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom) lo sguardo della
camera esplorava rimasugli a Calais in territori incerti dove sostavano persone
in viaggio, irregolari in cerca di passare il mare e raggiungere le coste
inglesi. C’erano una scatola con la scritta “Le Flamboyant” in mezzo all’erba di
un campo, calzini penzolanti da un ramo, uno straccio bianco disperso in primo
piano e sullo sfondo una camionetta della polizia in pattuglia. E ancora compare
un tubetto pressato di dentifricio Fresh Time e una lattina aperta di macedonia
Videca lungo la costa marocchina accanto a Mellila nell’ultimo Nuit obscure
(2023), film sugli harraga che bruciano dal desiderio di giungere in Europa. In
francese “éclat” è un “frammento violentemente distaccato da un corpo che
esplode o che è stato infranto da qualcuno”. L’esplorazione dei detriti è un
rendiconto delle esplosioni che smuovono la storia.
Chi esplora la frontiera fra Italia e Francia può andare alla ricerca di resti.
Sotto al cavalcavia, accanto al fiume Roja, si possono trovare rasoi senza
lamette da barba, mappe geografiche del Mediterraneo meridionale, scritte in
amarico. Sul sentiero segreto che portava a Menton, in Francia, i passanti
lasciano shampoo e bagnoschiuma accanto alle rocce e documenti timbrati dalla
questura di Trieste. Forse, prima di entrare in Francia, è necessario eliminare
la sporcizia del viaggio? E i viaggiatori provengono dalla rotta d’Oriente? Il
cinema di George suggerisce che queste domande sono sbagliate, perché ancora
intendono i detriti come tracce, ovvero oggetti portatori di senso. Il senso,
però, rischia di inquadrare i resti ritrovati in una cornice interpretativa,
ovvero in un discorso che spiega e definisce. George, invece, osserva senza
l’ansia di interpretare e questo mette al sicuro le immagini dal giudizio,
soprattutto dal giudizio morale.
Distruggere le tracce, dunque. In Les Éclats un uomo arroventa un chiodo nel
fuoco e poi poggia i polpastrelli, in piccoli tocchi fugaci, sul metallo. Deve
cancellare le sue impronte digitali per scampare al regolamento di Dublino, così
si rende irriconoscibile ai database dei computer gestiti dalle polizie
d’Europa. L’immagine è oscena, non dovrebbe essere rappresentata, ma uno sguardo
disperato e notturno, lo sguardo di chi ha abbandonato l’illusione della
interpretazione, riesce a configurarla. Allo stesso modo diventano legittime e
laceranti le immagini dei senzatetto accampati a Parigi in Paris est une fête o
dei ragazzi che in Nuit obscure sono ripresi mentre tentano di violare il
confine. È così raro, nei nostri giorni, vedere volti e gesti dei dannati della
terra senza che siano ingabbiati dal giudizio, dalla tesi dell’autore.
Sin da L’Impossible. Pages arrachées (2009) le immagini di viaggiatori fra
frontiere e desolazioni metropolitane incontrano le rivolte di strada. In Vers
Madrid. The Burning Bright (2011-2014) le riprese delle assemblee degli
Indignados si alternano con inquietudine ai volti e alle voci di chi è
condannato a non avere documenti. In Paris est une fête, infine, gli scontri
urbani e le vite di chi non ha dimora s’aprono a un incontro ancora possibile,
un fragile legame: nell’occupazione di Place de la République s’intravvede
l’alleanza fra lavoratori, attivisti e dannati. Poi arriva la polizia a
sgomberare: in una sequenza sono cacciate le persone di un piccolo accampamento
urbano; in un’altra scena operatori della nettezza urbana smantellano
l’occupazione di Place de la République sotto gli occhi della polizia in
abbigliamento antisommossa. La rimozione dei detriti è un tema che accomuna di
nuovo rivoltosi e randagi: sono tutte esistenze sottoposte al governo di un
potere ossessionato dalla eliminazione dei rifiuti, dalla pulizia e dall’igiene.
Forse il rimasuglio scarno può scatenare un moto di attesa, se non di speranza;
certo nel cinema di George la notte è il tempo migliore in cui scrutare la luce
che balugina. (francesco migliaccio)
(disegno di bonnie colin)
Il 28 febbraio è stata una data storica per le mobilitazioni di piazza in
Grecia. È stata, ormai su questo concordano tutti, anche i media mainstream, la
più grande manifestazione mai avvenuta nel paese. Non solo ad Atene e a
Salonicco. Nelle piazze di tutte le città e paesi le persone sono accorse per
manifestare. Ed è qui, purtroppo, che comincia anche la narrazione dei media
stranieri, sicuramente di quelli italiani. Quali sono le ragioni che hanno
portato in piazza questo “popolo con le palle”? Nessuno lo sapeva veramente.
Sono state abbozzate congetture e approssimazioni. Quando è stato assodato che
il motivo erano i cinquantasette morti in un incidente ferroviario avvenuto due
anni prima, qualcuno ha detto “ma evidentemente ci sono altre cose”. Non può
essere solo questo.
Durante gli anni della crisi, la Grecia, e in modo metonimico Atene, sono
diventate per i movimenti di mezza Europa un modello di conflittualità sociale.
“Fare come in Grecia”, era uno slogan diffusissimo, che alludeva più agli sforzi
muscolari delle piazze, che non alla miriade di complesse negoziazioni e
aggiustamenti che gruppi formali e informali, sindacati, persino confederazioni
di professionisti si sono trovati a mettere in pratica per far funzionare le
reti dal basso che hanno permesso alle persone di sopravvivere con dignità, in
un periodo di grande depressione e di prepotenti ingerenze da parte delle
istituzioni finanziarie e politiche europee.
Purtroppo, l’Europa della solidarietà e dell’internazionalismo non è stata in
grado, come non lo è ora, di costruire uno sguardo e delle pratiche che fossero
veramente di supporto, e si è finiti (ora come allora) per parassitare un
immaginario conflittuale che era utile all’immobilismo nostrano. Per un curioso
cortocircuito, l’anarcoturismo che all’inizio era guardato come la possibilità,
sebbene limitata nel tempo, di uno scambio di saperi e pratiche conflittuali, si
è trasformato in uno dei motori della gentrificazione di quartieri come
Exarchia, per esempio, mecca di questo genere di pratiche che con il tempo si
sono fatte sempre meno interessate a una comprensione delle dinamiche interne e
sempre più incentrate sull’esperienza individuale. Come scrive il geografo
anarchico Antonis Vradis, Exarchia si è sempre caratterizzata per essere il
luogo di un “contratto spaziale”: “La peculiare concentrazione di rivolte nel
quartiere durante l’era post-dittatoriale in Grecia è […] la manifestazione di
una sorta di contratto spaziale, in cui il conflitto locale e la contestazione
della sovranità statale persistono all’interno della più ampia riproduzione
regionale e nazionale dell’egemonia statale. La reputazione e la continuità di
Exarchia come luogo di protesta diventano così spiegabili attraverso un tacito
ma duraturo patto tra Stato e società, che permette la prosecuzione della
contestazione locale a condizione che essa rimanga anche spazialmente
circoscritta”.
Questa condizione ha reso il quartiere il luogo mitico dell’insurrezionalismo
europeo, il catalizzatore di una narrazione, non importa se veritiera, ma
sicuramente funzionale alla riaffermazione del sé.
Il 28 febbraio scorso abbiamo perso un’altra grande occasione. Lo sguardo
coloniale, mitico, ha narrato una giornata complessa e articolata, e ha
soprattutto schiacciato tutta la sua portata storica nell’immaginario funzionale
che essa evocava: quella di un popolo indomito. Per questo le ragioni della
mobilitazione sembravano fuori luogo, inadatte, insufficienti. Cosa c’entra un
incidente ferroviario con la rivolta, con il sempre evocato “fuoco greco”? Serve
in questo senso fare un passo indietro e spiegare forse dal principio cosa è
successo a Tempe più di due anni fa.
Alle 23:21 del 28 febbraio 2023, un treno passeggeri InterCity che correva alla
velocità di 160 km/h verso Salonicco si è scontrato frontalmente con un merci
che proseguiva in direzione opposta, a 100 km/h, in prossimità della Valle di
Tempe, vicino a Larissa. L’impatto ha generato un calore che ha letteralmente
sciolto l’acciaio dei vagoni, alcuni dei quali si sono letteralmente
disintegrati. E questo sarà un punto importante, che vale la pena tenere a
mente.
È stato uno degli incidenti ferroviari più gravi della storia europea dei
trasporti su rotaia. Nelle ore immediatamente successive, a una dimissione
formale del ministro delle infrastrutture e dei trasporti Konstantinos
Karamanlis, è seguito l’arresto del capostazione di Larissa, identificato come
unico colpevole dell’errore umano che ha causato l’incidente. Inoltre,
“qualcuno” ha dato l’ordine di cementare il luogo dell’incidente, prima che gli
ufficiali preposti alle indagini giungessero sul campo, e quando ancora si
estraevano letteralmente pezzi di corpi e di effetti personali dal terreno e
dalle lamiere. Chi sia quel “qualcuno”, a oltre due anni dall’incidente, è
ancora sconosciuto e oggetto di dibattito.
Nella linea ferroviaria Atene-Salonicco, l’unica del paese, mancano i
telecomandi indispensabili agli scambiatori e al funzionamento ordinario delle
linee, obbligando il personale a comunicare attraverso i propri telefoni
cellulari e attivando tutto manualmente; dal 2009 al 2013, nonostante una spesa
di 460 milioni di euro e nove diversi contratti, nessun sistema di segnalazione
è stato mai installato nei punti critici della linea, come nella Valle di Tempe.
Appena pochi giorni prima dell’incidente, il 24 febbraio, il sindacato nazionale
dei ferrovieri aveva rilasciato un comunicato che denunciava la fatiscenza del
sistema ferroviario, dichiarando a chiare lettere che “la politica delle
privatizzazioni concepita e attuata da tutti i governi, specialmente dalla crisi
in poi, ha decisamente peggiorato le condizioni della rete” e che “lo stato di
profonda incuria in cui versa tutto il comparto, sia per quanto riguarda i mezzi
che il personale”, con sistemi di sicurezza obsoleti e il blocco delle
assunzioni dal 1985, metteva in grave pericolo la sicurezza di viaggiatori e
personale.
In effetti, dal 2018 al 2020 la Grecia ha avuto il più alto tasso di incidenti
ferroviari mortali per chilometro di tutta l’Europa. In un’interrogazione
parlamentare sul tema, il ministro dei trasporti si era rivolto con sdegno al
sindacato dei ferrovieri per aver mosso tali insinuazioni circa la sicurezza
della linea ferroviaria. Pochi giorni dopo è avvenuto lo scontro a Tempe.
Fino al 2017, anno della privatizzazione delle ferrovie greche, come parte delle
riforme imposte dalla Troika durante i dolorosi anni della crisi economica,
quando Ferrovie Italiane si è assicurata il monopolio del trasporto merci e
passeggeri comprando TrainOse per circa cinquanta milioni di euro, il trasporto
su rotaia da e verso Salonicco poteva contare su un paio di treni al giorno che
ci mettevano parecchie ore (si era soliti dire “una notte”) per connettere le
due città.
Tuttavia, da allora TrainOse, rinominata dai nuovi padroni italiani Hellenic
Train, si è dotata di “treni veloci” (alcuni vecchi convogli dismessi che
Trenitalia ha comprato dalla Svizzera) che riducono il tempo di viaggio a
quattro ore e la politica commerciale delle offerte fa talvolta preferire questo
mezzo di trasporto alle più comunemente utilizzate corriere. Le infrastrutture
di terra e le linee invece sono rimaste “greche”, di proprietà di una
partecipata, e versano da anni in uno stato di grave trascuratezza. Proprio
questo tema era stato oggetto di forte critica dall’allora opposizione di Nea
Demokratia, che riferiva come il governo di Syriza, attraverso la svendita del
servizio su rotaia agli italiani, facesse circolare treni troppo “nuovi” su
un’infrastruttura fatiscente. Una volta al governo però nessun ammodernamento di
questa infrastruttura è mai stato portato in parlamento, nemmeno come proposta.
Nei due anni trascorsi dalla tragedia, il governo ha fatto di tutto per
insabbiare le indagini. È servito che il comitato delle famiglie delle vittime e
dei sopravvissuti andasse alla Commissione europea a chiedere che l’indagine non
venisse chiusa, che si indagasse sulle responsabilità specifiche. Il governo,
oltre ad aver cercato di gettare tutta la colpa sul capostazione, ha più volte
insultato le famiglie delle vittime accusandole di alzare polveroni per
guadagnare più soldi dai risarcimenti.
Un mese fa è stato pubblicato un audio inedito, nel quale si sentono le voci dei
passeggeri del treno qualche minuto dopo la collisione, mentre chiamano il
pronto intervento chiedendo aiuto. Nel video, che è stato montato dai periti di
parte in modo tale da far coincidere i tempi reali dell’impatto con le chiamate
dei passeggeri, le persone riferiscono di non riuscire a respirare, di non avere
ossigeno. Inoltre, uno studio accurato da parte degli ingegneri di diversi
politecnici del paese ha dimostrato che il grande fungo di fuoco scaturito
durante l’incidente, sarebbe stato ingiustificato se nel treno merci non ci
fosse stato – probabilmente nascosto, visto che il carico dichiarato erano
recinzioni metalliche – del materiale infiammabile ed esplosivo.
Queste due notizie hanno aperto una ferita profonda nell’opinione pubblica e già
a fine gennaio la gente si è riversata nelle strade in una gigantesca
mobilitazione, chiamata dal comitato delle famiglie delle vittime e dei
sopravvissuti, per chiedere giustizia.
Dalla pubblicazione di quel video non è passato un giorno senza che alle
quotidiane rivelazioni sulla reale dinamica dei fatti seguissero reazioni
scomposte da parte del governo, che hanno diffuso la comune percezione che non
solo ci fosse qualcosa da nascondere, ma anche e soprattutto che si facesse
sempre più difficile arrivare alla verità, e quindi alla giustizia, per le
vittime e i sopravvissuti di questo incidente.
In questo clima, il 28 febbraio, a due anni esatti dall’incidente, le persone
sono scese in ogni piazza della Grecia e in diverse piazze del mondo, per
chiedere giustizia per i morti e per protestare contro i tentativi di
insabbiamento del governo. La manifestazione non aveva colore politico e, in
effetti, erano svariate le componenti sociali che vi hanno partecipato. Da
qualunque parte di Atene si cercasse di raggiungere Syntagma, strade e viali
erano colmi di persone che si affrettavano a passo svelto verso il centro della
città.
Subito dopo gli interventi delle famiglie da piazza Syntagma e un collegamento
con Larissa dove aveva luogo una commemorazione religiosa, sono cominciati gli
scontri, al coro di “Mitsotaki gamiese”, letteralmente “Mitsotakis fottiti”, che
sono durati alcune ore.
La gestione della piazza da parte delle forze dell’ordine è stata una delle
ragioni principali che ha spinto le persone a tornare sul posto anche i giorni
successivi. Le cariche violente al corteo oceanico, che faticava a uscire dalla
piazza e non trovava vie d’uscita, mentre ai crocevia gli operatori delle
ambulanze prestavano aiuto a persone di tutte le età che si erano sentite male
per i lacrimogeni o le bombe stordenti, ha suscitato ulteriore sdegno. Tanto che
in quella, come nelle altre manifestazioni che da quel giorno si sono succedute
a ritmi serrati per le strade, soprattutto di Atene e Salonicco, le persone
respinte dalle cariche hanno poi sempre cercato di fare ritorno nella piazza dei
presidi.
Questa persistenza, questa volontà di riaffermare la propria contrarietà, non
può essere ridotta al momento dello scontro di piazza che pure c’è stato ed è
importante. Infatti, già nel corso degli scontri del 28 febbraio, hanno
cominciato a diffondersi luoghi comuni e discorsi, ormai noti, sul fatto che ci
fossero infiltrati che fomentavano gli scontri tra la folla pacifica che
chiedeva solo giustizia.
Se da un lato lo spauracchio dell’infiltrato può essere visto come funzionale
alla “pessima reputazione” delle forze di polizia, dall’altra, e questo è il
rischio a cui per fortuna molti sono riusciti a dare una risposta forte, è anche
una retorica utile a pacificare le istanze radicali e le pratiche che sorgono
dalla rabbia autentica di una componente importante della piazza.
Come ha scritto l’antropologo Nikòlas Kosmatopoulos: “La rinuncia alla violenza
politica come mezzo di liberazione da parte di alcuni settori della sinistra, in
cambio della loro accettazione da parte del sistema borghese, ha come risultato
il vedere ovunque agenti infiltrati all’interno del movimento, così come il non
‘vedere’ i movimenti di liberazione violenti del Sud Globale come solidali,
vicini e spesso più avanzati – politicamente e strategicamente – rispetto a
loro. […] Ciò che ora è necessario è una violenza politica efficace. Scioperi,
occupazioni, scontri. Altrimenti, il governo fa finta di nulla (definendo le
manifestazioni di rabbia collettiva come ‘cerimonie commemorative’) e investe
nella teoria della provocazione per delegittimare la resistenza e guadagnare
terreno. Una risposta di massa, organizzata ed efficace alla violenza
governativa può diventare la scintilla del crollo, purché avvenga secondo
principi di azione collettiva, autodifesa e obiettivi politici”.
Le manifestazioni in Grecia stanno continuando. Pur senza la massiccia portata
del 28 febbraio, le persone sembrano non voler lasciare che la morte e la
rassegnazione si impossessino delle loro vite. Quello che rimane da capire, ma
serve uno sguardo non pruriginoso e più accorto di quello che i movimenti
internazionali hanno riservato finora alla dimensione politica di questo paese,
è in che modo le istanze di questa grande sollevazione anti-necropolitica,
saranno in grado di non lasciarsi incanalare nella politica della rappresentanza
e saranno invece capaci, come al momento sembrano perfettamente in grado di
fare, di unire i punti di una politica oppressiva e neoliberale che causa morte
e distruzione dovunque si posi: dai grandi incendi che devastano il paese ogni
estate e che celano, malamente, il progetto di far diventare la Grecia un hub
dell’energia “verde” in Europa, alla “rigenerazione urbana” dei grandi gruppi
immobiliari greci e internazionali che erode patrimonio costruito a beneficio
del turismo di massa e degli interessi finanziari di gruppi multinazionali, sino
ai progetti faraonici come quello delle nuove linee metropolitane che hanno
messo e metteranno in scacco gli spazi urbani di Atene e Salonicco e
l’incolumità di abitanti e passeggeri.
Se la ristrutturazione neoliberale e neocoloniale di questo paese potrà essere
messa alla prova da un movimento in grado di reggere lo schianto delle retoriche
interne della pacificazione sociale e dello sguardo mitizzante dei suoi
osservatori internazionali, sarà la grande sfida dei prossimi tempi. (anna
giulia della puppa)
(archivio disegni napolimonitor)
Sarà presentato il 23 marzo alle 19, all’ex Asilo Filangieri (vico Giuseppe
Maffei, 4), Portuali, un documentario di Perla Sardella sulle lotte politiche e
sindacali condotte nel porto di Genova dal Calp – Collettivo autonomo lavoratori
portuali.
* * *
Sono il punto flessibile che esige la merce. I decenni trascorsi sotto i colpi
della rivoluzione logistica li hanno ridimensionati, eppure i portuali di Genova
sono ancora là. Esposti a un lavoro usurante, agli incidenti e ai ricatti delle
multinazionali del mare, che in tutti i modi cercano di sbarazzarsi di questa
forza lavoro fatta di piantagrane con le stimmate da facinorosi.
I diritti conquistati sono stati l’esito di decenni di lotte. Sono diritti che
compensano la precarietà del lavoro a chiamata e la flessibilità just in
time assicurata in banchina. Le vediamo in una fase delicata, quelle lotte, nel
documentario di Perla Sardella. L’autrice ha seguito per tre anni i lavoratori
del Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali) mentre organizzano
iniziative, discutono nelle assemblee, si mobilitano.
Cosa dobbiamo ai portuali? A vedere questo documentario viene da chiederselo. In
prima battuta c’è un tentativo di coesione. La storia del Calp rappresenta uno
sforzo per la ricomposizione tra lavoratori con culture del lavoro diverse, in
uno scenario di disgregazione del lavoro organizzato, laddove sembra impossibile
uscire dalla spirale del “cane mangia cane padrone sorride”. Lo vediamo, per
esempio, nelle scene di un’assemblea di filiera a cui partecipano sia i portuali
che i lavoratori e le lavoratrici della logistica. Nel porto di Genova c’è un
collettivo che ha provato a tenere insieme i pezzi dentro e fuori al porto
evitando la deriva corporativa, nonostante le fratture storiche tra
organizzazioni sindacali in competizione tra loro sulle tessere e gli iscritti.
Un gruppo la cui lotta è stata criminalizzata come le altre nel ciclo di
mobilitazioni condotte dal sindacalismo autonomo. La vicenda della repressione
subita è spiegata anche nel libro, firmato dallo stesso Calp, di recente uscita
per i tipi di Red Star Press, Fino all’ultimo di noi.
La percepiamo bene, quella frattura, che in tempo di pandemia si lacera quasi
del tutto un po’ ovunque. La telecamera a un certo punto mostra tutta la
tensione nella faccia del Vecchio, che prende parola all’assemblea in cui
avviene la scelta dei membri del Calp di passare dalla Cgil al sindacato di base
Usb. Chi parla dice senza giri di parole quanto la decisione dell’autonomia
sindacale sia difficile, perché tra di loro c’è gente che in Cgil è cresciuta
senza abdicare all’esercizio del dissenso. Quella scena mostra la spaccatura in
diretta, senza filtri, scaturita dal deteriorarsi dei rapporti con le segreterie
del sindacato confederale, responsabile di un atteggiamento troppo remissivo nei
confronti di una controparte datoriale sempre più potente. Un atteggiamento
ondivago, che ha assunto nel tempo “il punto di vista dei padroni” – come
afferma il Vecchio, che aggiunge: “Se non c’è il conflitto il lavoratore perde”.
Ma non è solo questo sforzo di ricomposizione che dobbiamo ai portuali del Calp.
Nel suo saggio sulla Rivoluzione, Enzo Traverso sostiene che i movimenti
anticapitalisti emersi negli ultimi anni non hanno un albero genealogico, sono
orfani, privi di tradizione politica, e devono inventare la propria identità.
Non saprei dire se le lotte del Calp siano ascrivibili in toto all’interno di
questo solco, ma di sicuro queste caratteristiche non riguardano loro. Le prime
scene del documentario lo rivelano. Jose – sindacalista e membro del collettivo
– mostra una vecchia foto in bianco e nero a lavoratori e dirigenti sindacali
connessi da remoto durante una riunione in tempo di Covid. È una folla di
lavoratori. “Le assemblee di una volta”, dice. Poco dopo la telecamera indugia
sul volto di un uomo presente alla riunione. È Bruno Rossi. Una figura
fondamentale del porto di Genova, appartenente a quella generazione di portuali
artefici dello slogan che fece scalpore nei giorni del sequestro Moro – “Né con
lo stato, né con le Br”.
A un certo punto vediamo il Vecchio che lo abbraccia durante una manifestazione
di solidarietà, perché Bruno, oltre a essere un riferimento per i portuali
genovesi, è anche il padre di Martina Rossi, ventenne precipitata dal sesto
piano di un albergo di Maiorca per sfuggire a una violenza. In un’altra scena
conviviale, dopo la commemorazione dei colleghi morti di lavoro in porto, Bruno
parla e tutti gli altri ascoltano. Osservando quella scena ho ricordato ciò che
una volta disse durante una nostra conversazione: “Finché vivo cercherò di
lavorare per l’unificazione dei compagni, perché la mia vita è sempre stata un
trauma, non siamo mai riusciti a mettere insieme i lavoratori portuali perché è
troppo grande la contraddizione…”.
Allo sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, bisogna
allora aggiungere la volontà dei portuali del Calp di riprodurre un legame con
la cultura originaria, nonostante le difficoltà, le contraddizioni e i mutamenti
avvenuti in settant’anni di ristrutturazioni capitalistiche. Ce ne rendiamo
conto anche quando un emozionato Danilo Oliva, sindacalista storico della Cgil
del porto genovese, prende parola nel corso di un incontro per l’associazione a
tutela delle donne dedicato al ricordo di Martina Rossi. Nel porto di Genova c’è
un gruppo politico consapevole del proprio passato – il che non significa
idealizzarlo. Lo dice bene Jose al microfono, durante una manifestazione
all’interno del porto – le uniche immagini che mostrano lo spazio portuale,
sempre più inaccessibile agli estranei: “La battaglia del Calp è nata anche
grazie a compagni storici del porto come Bruno Rossi, che ci ha insegnato a
stare sul posto di lavoro e a stare al mondo. La storia del Calp è in continuità
con Bruno. È una battaglia per dare continuità al lavoro fatto dai nostri
vecchi”.
I vecchi di cui parla Jose, negli anni Settanta appartenevano al Comitato di
Agitazione (poi Collettivo Operaio Portuale). Agivano all’interno del porto in
autonomia rispetto alle organizzazioni sindacali e partitiche, ponendosi nei
loro confronti in maniera dialettica. Amanzio Pezzolo, uno dei principali
protagonisti di quegli anni, nel corso di un’intervista dirà: “Noi
rappresentavamo il tentativo di uscire dal porto e di collegarci con gli altri
lavoratori del trasporto merci”. Il Collettivo Operaio Portuale si poneva il
problema di dare una risposta politica al processo di ristrutturazione in atto e
all’attacco ai bisogni dei lavoratori portuali, sempre più disgregati e
minacciati sul piano salariale. Il terreno sul quale iniziarono a muoversi era
proprio la critica della rivoluzione logistica, all’interno di un processo più
generale di burocratizzazione sindacale.
Ecco cosa dobbiamo ai portuali del Calp. Lo capiamo dalle immagini in cui
discutono tra loro sullo sciopero per l’aumento in busta paga o contro il
decreto sicurezza. Lo vediamo con chiarezza nelle scene della mobilitazione
collettiva contro le navi delle armi, partita da un gruppo di lavoratori che
rifiutava di essere inserito nell’ingranaggio della logistica militare,
ostacolando l’approdo di navi cariche di ordigni.
Lo sguardo di Perla Sardella è un omaggio schietto alla lotta di questi
lavoratori, ci rivela il debito di riconoscenza che il mondo del lavoro ha nei
loro confronti. Ci ricorda quanto lo sforzo della ricomposizione, spesso
frustrante, a tratti fallimentare, sia indispensabile, a meno che non vogliamo
cadere nel tranello del “cancro gruppuscolare”, come lo chiamava qualcuno negli
anni Settanta, o predicare l’unità della classe solo a parole nei comunicati.
Questo documentario ha il pregio di mostrare le pratiche di un gruppo di
lavoratori sindacalizzati con una precisa eredità storica, e restituisce
un’immagine realistica dell’intreccio tra il fare politica (nel suo significato
più nobile) e il fare sindacato, un intreccio non immune da contraddizioni,
perché laddove l’azione politica distingue, l’azione sindacale ricompone. Allo
sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, e alla volontà
di riprodurre un legame con la cultura originaria, i portuali del Calp
aggiungono la necessità di istanze sindacali dotate di un orizzonte politico,
contribuendo alla creazione di un immaginario alternativo, in un momento storico
desolante, in cui certe pratiche si possono solo sperimentare. (andrea
bottalico)