(disegno di cyop&kaf)
Un’altra bomboletta. Un altro corpo.
Non c’era più ossigeno in cella, ma ce n’era abbastanza
per bruciare un’altra vita nel silenzio dell’indifferenza.
La libertà non è sempre oltre il muro,
a volte è nascosta dietro una valvola, dentro una boccata.
Il giudice sfoglia il codice penale, il ministro pronuncia slogan in conferenza
stampa, ognuno ha la sua parte nel teatro della legalità. La pena ha la sua
cornice, la colpa la sua misura, l’espiazione il suo recinto. Ma appena cala il
sipario pochi metri di cemento, un bagno alla turca, un tavolino inchiodato al
pavimento, spazi inospitali, finestre sbarrate e ambienti privi di aerazione. In
questo spazio claustrofobico, privo di aria e di orizzonti, un uomo inala gas da
campeggio per non sentire più il peso della sua esistenza.
Quel gas arriva da una bomboletta acquistata tramite il “sopravvitto”, l’elenco
dei prodotti ufficialmente disponibili in carcere. È lo stesso articolo che si
trova accanto ai fornelli da picnic nei supermercati. Sull’etichetta una
raccomandazione chiara: “Usare solo in ambienti ben ventilati” (la cella è un
bozzolo di tre metri per quattro con la finestra “sigillata”). Si censura una
lettera, si vieta un accendino, ma il butano industriale è autorizzato. La
bomboletta è legale, viene richiesta col modello 72, un modulo con cui ogni
detenuto può acquistare, a proprie spese, prodotti extra rispetto alla dotazione
di base fornita dallo Stato. È un foglio semplice, da compilare a penna, con il
numero di matricola, i codici degli articoli richiesti, la quantità desiderata e
la firma. Una volta ordinata, la bomboletta viene custodita in armadietti chiusi
a chiave, sotto il controllo degli agenti. Quando finisce, si restituisce e se
ne prende un’altra. Tutto tracciato.
Eppure “tirarsi il gas”, inalare il butano per evadere non fisicamente ma
mentalmente, è una pratica che tutti conoscono ma nessuno affronta, perché
cambiare la sceneggiatura significherebbe ammettere che c’è un problema.
L’effetto? Un blackout chimico: euforia, vertigini, battito irregolare, labbra
anestetizzate, cervello in tilt. Per qualche minuto non c’è più il muro, la
cella, la pena. Solo un vuoto ovattato dove la coscienza galleggia o affonda.
Per alcuni è tregua, per altri fuga, per altri ancora un addio. Nessuno lo
chiama con il suo nome di “evasione tossica” ma dentro c’è chi cerca pace, chi
l’oblio, chi non vuole più tornare da quel viaggio. Se non si può evadere con il
corpo, ci si dissolve con la chimica, e se non torni non è quasi mai suicidio,
ma un “evento imprevedibile”.
Tutto questo avviene nel pieno rispetto delle norme. Il modello 72 continua a
offrire bombolette. Basterebbe poco per cambiare: una circolare, una revisione
del catalogo, una scelta più sensata. Le piastre elettriche? Troppo costose,
troppo complicato adeguare gli impianti, dicono. Si potrebbe optare per altre
bombole e fornelli, con dispositivi atti a limitarne l’uso improprio. Ma nemmeno
questo si fa. Costa sicuramente meno lasciare tutto com’è, e anche le ditte che
gestiscono il sopravvitto hanno il loro tornaconto. Offrire soluzioni più sicure
significherebbe investire in alternative meno redditizie. E poi aumentano i
prezzi, i detenuti protestano, non per capriccio, ma perché molti non hanno
soldi, non ricevono pacchi, non fanno colloqui, non hanno familiari su cui
contare. In carcere anche pochi centesimi fanno la differenza. E allora, per
evitare il problema, si sceglie di non cambiare nulla. Del resto, già la carta
igienica, lì dentro, sembra un bene di lusso: la paghi come seta, ma gratta come
carta vetrata. Così, la bomboletta resta l’unica opzione disponibile, utile per
cucinare o per staccare la spina, a seconda dell’umore.
E gli psichiatri? Parlano, ma nessuno li ascolta. Già nel 2019, la Rivista di
Psichiatria denunciava l’inadeguatezza dello Stato nel contrastare l’abuso di
bombolette in carcere, spesso legato ad atti autolesivi o suicidi. Le morti per
inalazione non vengono sempre classificate come suicidi: restano escluse dalle
statistiche ufficiali, senza indagini né responsabilità attribuite. Questa
contraddizione è grave e preoccupante. Secondo la medicina legale, l’inalazione
volontaria di gas con esito fatale è a tutti gli effetti un suicidio, rientrando
nella categoria delle asfissie chimiche volontarie. In questi casi, il
protocollo medico-legale prevede accertamenti rigorosi: autopsia completa,
analisi tossicologiche, ricostruzione della dinamica e valutazione del contesto
psicologico. In carcere tutto questo dovrebbe essere obbligatorio, poiché la
privazione della libertà impone allo Stato una responsabilità sulla vita e
sull’incolumità del detenuto. Tuttavia, l’amministrazione penitenziaria adotta
un approccio incerto: se manca una prova esplicita dell’intento suicidario, il
decesso viene spesso classificato come “evento accidentale” o “causa da
accertare”. Lo stesso gesto, inalare gas con un sacchetto di nylon, può essere
interpretato come uso improprio per alterare lo stato di coscienza e non
necessariamente come suicidio. Questo porta a sottovalutare il gesto, a non
attivare protocolli di prevenzione e a ignorare il contesto psichiatrico.
Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale,
nella sua relazione del 15 dicembre 2024, ha evidenziato come diversi decessi in
carcere per inalazione di gas siano stati classificati come “cause da accertare”
proprio per questa ambiguità interpretativa. Il risultato è che alcune morti
restano fuori dal conteggio ufficiale, rendendo più opaca l’analisi del
fenomeno. Ma sebbene la morte per inalazione sia formalmente un suicidio, la
responsabilità non può ricadere esclusivamente sul detenuto. Lo Stato, fornendo
nelle celle bombole di gas butano (prodotto potenzialmente letale) e non
adottando protocolli sanitari e di prevenzione adeguati, contribuisce a creare
le condizioni che favoriscono queste tragedie. Inoltre il suicidio in carcere
non è mai un atto isolato o imprevedibile, ma spesso il risultato di un sistema
che non interviene efficacemente. Gli esperti lo dicono con chiarezza: non basta
autorizzare un prodotto, quando potenzialmente letale. Serve una valutazione
clinica costante, multidisciplinare, attenta al percorso psichico della persona,
non solo momentaneo. Serve sapere chi lo richiede, perché e in che condizione
psicologica. Serve uno sguardo clinico. Ma manca.
La storia di Fabio Romagnoli lo dimostra. Aveva già tentato varie volte il
suicidio. Era affetto da disturbi psichiatrici documentati. La sua fragilità era
nota. Gli fu tolta la bomboletta, poi riconsegnata dopo una valutazione che non
ha saputo o potuto cogliere il disegno più ampio. Così il suo gesto, per il
sistema “imprevedibile”, si è compiuto: eppure lo Stato distribuisce gas butano
in celle prive di ventilazione, senza protocolli sanitari adeguati, con medici
insufficienti. Vietato negli ospedali, sconsigliato nelle case, il butano
diventa compatibile con l’ambiente carcerario. Gesto imprevedibile, dicono.
In questo contesto la salute mentale è secondaria e la dignità uno slogan. Dopo
ogni tragedia si invocano ispezioni, si esprimono cordogli, poi si archivia
tutto e si continua a morire in silenzio: per un colpo di gas, un cappio
improvvisato, una psicosi lasciata marcire, un abbandono medico travestito da
fatalità. Tutti vedono ma nessuno ascolta, al massimo si verbalizza. Eppure in
Italia si può morire così, inalando gas in un luogo dove già respirare è
difficile, un prodotto pensato per l’escursionismo e divenuto parte dell’arredo
carcerario, un veicolo di fuga, non verso un prato o una montagna, ma verso
l’oblio. Una fragranza sintetica che non sa di libertà, ma la imita, come un
profumo contraffatto. Perché anche l’aria dietro le sbarre può avere il sapore
della burocrazia. (luna casarotti – yairaiha ets)
Source - NapoliMONiTOR
Cronache, libri, disegni e reportages
(copertina di federico manzone)
Riproponiamo a due anni di distanza queste cartoline dall’estate pugliese, dal
numero 11 (novembre 2023) de Lo stato delle città. Nel frattempo la svendita del
territorio procede di emergenza in emergenza: la xylella degli ulivi, lo
spopolamento, l’assalto a terre e coste per impianti eolici e fotovoltaici, il
consumo di suolo per resort di lusso, la crisi idrica, la devastazione degli
incendi. Mentre gli amministratori locali sembrano agiti da forze estranee e i
sedicenti intellettuali fomentano lo storytelling dominante, due vicende
esemplari su tutte.
Lo scorso maggio i comuni attraversati dal gasdotto Tap hanno ratificato un
accordo con la multinazionale che prevede il ritiro della costituzione di parte
civile nel processo contro Tap, la rinuncia alle compensazioni per la
costruzione dell’opera (e per il suo previsto raddoppio) e la rinuncia a
qualsiasi diritto nei confronti dell’azienda e dei suoi dirigenti, in cambio di
otto milioni da parte di Tap, spiccioli per comprare il consenso del territorio,
delegittimando le ragioni di chi ha lottato contro il gasdotto. La svendita
continua con la sponsorizzazione da parte di Tap di festival culturali e
rassegne di eventi estivi.
In un paese del basso Salento, la sindaca ha emesso un’ordinanza con cui vieta
iniziative politiche, manifestazioni e volantinaggi nel centro storico per la
stagione estiva. Ha giustificato il divieto sottolineando l’importanza di non
creare disagi ai turisti “interessati alle attività di puro svago” e di
preservare la reputazione del paese, che farebbe parte dei “borghi più belli
d’Italia”.
La pietra è sempre più rovente, le poche sparute gocce evaporano senza tempo di
scorrere.
* * *
la prima volta che ho sentito dire in salento ero ragazzina e ascoltavo una
canzone di biagio antonacci che passava in ogni radio quell’estate. si era
sempre usato nel salento, e nemmeno così spesso come adesso, una decina di anni
dopo, che sembra un marchio registrato quando chiedo al bar del mio paese un
caffè in ghiaccio col latte di mandorla e mi sento rispondere “ah, un caffè
salentino!” e ritrovo lo stesso marchio in un autogrill lontano dalla puglia.
anche se la musica cavalcava la moda della “vacanza in salento” a noi non
importava di avere turisti tra i piedi, perché sceglievamo gli scogli più
inaccessibili per passare le giornate al mare senza adulti nei paraggi. sempre
in quegli anni, in viaggio a parigi trovo un enorme padiglione nella piazza
della tour montparnasse con una mappa della mia regione e la scritta
#weareinpuglia, e ingenuamente col mio primo smartphone scatto una foto. estate
dopo estate spuntano sempre più lidi privati, alberghi, lounge bar e cocktail
bar sul mare, bistrot, bancarelle di souvenir, eventi musicali invischiati in
una falsa coscienza che li spaccia per rituali arcaici. negli anni quell’hashtag
ha scolpito un salento ridotto a “terra del rimorso” fuori dalla storia, un
non-luogo dove non c’è altro che tamburelli, balli e taralli.
IL MONDO DEI (CON)VINTI
riemergo come sputata dalla risacca delle pagine di recita estiva di christa
wolf, libro che da qualche giorno ho finito ma continuo a riaprire, quasi che
impastarmi a parole e immagini possa farmi capacitare che quello che ho letto è
ancora lì. un gruppo di amici abbandona la città per cercare nella campagna
isolata un rifugio alla delusione per un mondo in cui non si riconosce. alle
prime pagine sono pronta a difendermi dalla nausea per la retorica della vita
campestre come idillio della pienezza esistenziale, del margine come ultimo
presidio di resistenza. invece lo scudo non serve, il loro non è un ritirarsi,
un ripiegamento, è più una dislocazione per non lasciar opacizzare l’utopia ma
senza clemenza per se stessi e gli altri. “adesso! così ci urlavano le cose
pretendendo la liberazione. con la stessa intensità con cui esse erano costrette
a essere se stesse, dovevamo essere noi stessi”, e mi sembra che la storia venga
a stanarmi nell’interstizio dove cercavo di nascondermi. è una domenica di fine
luglio, le stesse strade che fino a pochi mesi fa erano vuote ora sono un
ingorgo di auto con targhe straniere, mentre palchi per spettacoli e tavolini
dei ristoranti corrodono lo spazio pubblico. la campagna che domina appena fuori
i piccoli nuclei abitati potrebbe essere la stessa del libro, ma qui è costretta
a fare da sfondo a b&b, masserie tradite e convertite in resort di lusso, ville
da affittare e sentieri da percorrere a piedi seguendo gli itinerari di qualche
guida turistica che investe i passi di un significato artefatto (come se per
camminare sullo sterrato servisse un animo sensibile e nobile).
nelle pagine di recita estiva ricorre la foga dei figli dei contadini di
sbarazzarsi di quello che resta nelle case che ereditano. utensili, vasellame,
mobili che hanno accompagnato i lavori e le vite dei padri sono tracce di un
mondo con cui i figli non vogliono mai più avere a che fare. mi torna in mente
una scena minima che ho spiato qualche sera prima tra le stanze del museo della
civiltà contadina di calimera. ascolto una signora che guida la compagna turista
attraverso l’esposizione leggendo i nomi sulle targhette e traducendo il
dialetto (con la pronuncia esotica volutamente marcata di chi quello stesso
dialetto lo scansa come gergo volgare). davanti a un telaio antico per tessere a
mano aggiunge “a casa di mia madre ne avevamo uno così, poi non so che fine ha
fatto”, ma un po’ se ne vergogna e aspetta in bilico di scorgere nello sguardo
dell’interlocutrice tracce di disprezzo per le origini umili o di ammirazione
per le radici autentiche. come se la rimozione e la negazione di essere
appartenuti a una cultura subalterna siano stati una tappa ineludibile per
accedere al benessere (decenni più tardi che altrove). barattare tutto quello
che avevano per emanciparsi alle novità e riguadagnare in fretta i gradini verso
la vera civiltà. come una scena di lazzaro felice in cui il ragazzo riconosce
delle erbe spontanee commestibili (che oggi troneggiano nei menu gourmet) ai
margini delle rotaie di una periferia metropolitana, ma gli ex contadini memori
delle condizioni di sfruttamento a cui erano costretti per lavorare la terra non
vogliono saperne di raccoglierle, a costo di sfamarsi con patatine scadute
rubate in una stazione di servizio.
oltre ad aver dimenticato, qui gli “autoctoni” hanno presto introiettato la
condizione di abitanti di un’enclave turistica elitaria e si sono prodigati
(alcuni inconsapevolmente) ad aggiungere tinte pittoresche alle narrazioni
fasulle di turismo e folklore, mentre le foto di scontrini sui social per
lamentarsi dei prezzi assurdi di un caffè o di un rustico restano campo di
commenti atrofici. intorno alle reti che hanno creduto di lacerare con
l’emancipazione e il progresso se ne sono annodate di nuove: dallo sfruttamento
dei latifondisti e delle manifatture di tabacco a quello mercificante della
monocultura turistica.
TURISMO O TERRORISMO
cerco di non ascoltare le voci che dalla televisione ammoniscono di bere acqua e
stare all’ombra, ma in uno di quei programmi saturi di già-detto che riempiono
le fasce orarie in cui la gente in vacanza non vuole essere ammorbata coi tg mi
capita un’intervista amichevole a massimo bray (il suo nome non mi suona vuoto
perché bray è leccese e ha una casa vacanze nel mio paese; a fine intervista non
manca di confessare il suo amore nostalgico per “la vecchia bottega alimentare
di un paesino in provincia di lecce, marittima”). dopo gli orpelli di ministro
presidente direttore, bray intraprende una crociata in difesa dei borghi e della
gestione che l’italia ne fa. “l’italia è il paese che ha inventato i festival,
abbiamo creato comunità grazie alla cultura”. poi stizzito reclama che “questa
forma di pessimismo che ci assale deve finire, noi dobbiamo essere orgogliosi
che si venga in italia”, perché “di fronte a una vita frenetica noi siamo capaci
di far stare centinaia di persone in un piccolo borgo, farlo rivivere e creare
quel senso di comunità”.
li chiamano borghi per omologare sotto un’unica etichetta centinaia di paesi,
negando a ognuno il suo carattere, la storia, la voce, il dialetto, i canti, le
tradizioni che gli appartengono, schiacciando sotto una parola sola tutto quello
che suona bene chiamare identità. la chiamano comunità come se la prossimità
fisica di troppe persone nello stesso posto implicasse la vicinanza d’animo. poi
chi l’ha detto che il borgo voglia una seconda vita da terra colonizzata? meglio
morire di incuria e abbandono che schiavo della religione del marketing. non che
ci sia tanto da vantarsi per il dilagare di festival, happening, performance,
che incarnano il paradigma della transitorietà, dello straordinario contro
l’ordinario, grandi eventi che attraggono turisti e fanno da alibi a
privatizzazioni spietate invece che manutenzione sul territorio e assunzioni
permanenti delle persone che quei luoghi li vivono (e che i festival sfiorano
appena). forse il senso di comunità che sbandierano non è riuscito a
sopravvivere all’emigrazione e allo spopolamento perché a questi paesi è stata
negata l’ovvietà di immaginare un futuro. senza un orizzonte, condivisione,
solidarietà, convivialità restano slogan per guide turistiche e costumi rigidi
entro cui i paesani vengono relegati finendo per recitare se stessi.
penso al ciclo di isteresi, un grafico di una curva chiusa su un libro di fisica
all’università: certi materiali sottoposti all’azione di un campo magnetico non
tornano più allo stato vergine quando l’azione cessa, restano magnetizzati anche
in assenza di corrente, e ogni sostanza ha una temperatura critica oltre cui
perde le proprietà che la caratterizzano. guardo le spiagge e le strade che si
gonfiano fino a esplodere di corpi e auto, poi tornano sventrate e deserte per
un po’ di mesi in un ciclo che si ripete. non riesco a convincermi che viviamo
solo in funzione della stagione (come se l’estate fosse l’unica che conta in
tutto l’anno, il resto è letargo), che siamo un posto per villeggiatura, che le
case se ne stanno vuote aspettando di essere invase senza risentire
dell’oltraggio che subiscono. non riesco a convincermi che non sappiamo più cosa
vuol dire abitare, creare abiti, abitudini, forme di vita comune. davvero
abitare è sinonimo di consumare? che cosa sono i paesi se li pensiamo a partire
dall’abitare? penso ad antonio neiwiller che proprio in un paese della provincia
di lecce nell’estate del 1991 diceva “io appartengo a questa terra, a questa
parte della terra che ora non riconosco più. io voglio difendere differenze,
particolarità, gesti, atti, io voglio ancora difendere questa parte del mondo.
chi l’ha detto che tutto questo debba essere violentato così”.
SE MI SVENDO NON COLLASSO
a giugno una scuola di melendugno, insieme al comune e all’azienda tap (ancora
sotto processo per inquinamento ambientale e contaminazione della falda
acquifera), comunica di voler dedicare ai ragazzi alberi che saranno piantati
nei terreni dell’impianto della multinazionale per raggiungere obiettivi di
sostenibilità. dopo l’arte pubblica asservita a riqualificazioni che pretendono
di risanare gli spazi urbani mentre li convertono in luoghi a uso e consumo del
turismo, il capitalismo si appropria di pratiche virtuose svuotandole di senso e
piegandole a scopi altri. e noi a testa bassa raccogliamo le noccioline che
l’invasore ci lancia tra le sbarre dello zoo.
se c’è una costante, è il salento che si vergogna di se stesso. la musica abiura
le sue radici povere, travisa la funzione del canto e camuffa le condizioni
bestiali di lavoro dei braccianti con un contesto bucolico in cui la miseria è
ridotta a feticcio che incipria di esotico il panorama. ciò che doveva curare e
salvare (il canto e la musica come terapia per il tarantismo) accelera la
distruzione di un territorio e della sua storia violentata dal marketing. le
contraddizioni annichilite (non è poi lo stesso meridione che tacciano di
corruzione, mafia e arretratezza?), le complessità appiattite a “un’immagine
dimezzata”, diceva gianni bosio: “il buon selvaggio, l’uomo che è buono in
quanto dimensione astorica, l’uomo folklorico. è questa la sola misura lecita
per l’uomo storico contemporaneo e subalterno per partecipare al festino della
cultura politica della classe dominante. l’uomo storico, l’uomo politico, l’uomo
della fabbrica e dei campi, viene semplicemente ignorato”.
l’istituto carpitella, fondato nel ’97 per difendere e diffondere la cultura
orale del salento, tradisce radicalmente i propri scopi un anno dopo con il
festival della notte della taranta che ha monopolizzato tutte le energie e i
soldi nella sua organizzazione, e ogni sforzo per ricerca, studio e
archiviazione della memoria tradizionale è stato stroncato (già dal palco di
melpignano nella prima notte della taranta uccio aloisi ammoniva, prima ancora
di battere sui tamburi, “nu s’ave perdere tiempu”, non si deve perdere tempo).
schiere di assessori e di esperti usano la “pizzica” come strumento per
costruirsi carriere in politica, tanti mitridate che hanno ceduto passano dalla
critica totale alla collaborazione con la notte della taranta contendendosi
palchi e cachet, dando l’impressione che l’interesse personale e il ritorno di
immagine contino sempre più di ogni altra cosa. sembrano i protagonisti di una
ballata di brecht, “oggi mi hanno fatto vedere il loro mondo, ho visto solo il
dito, tutto insanguinato, allora in fretta ho detto che era di mio gusto”.
roberto raheli degli aramirè, editore illuminato e unico difensore incorrotto di
quella cultura, che abbandonato da tutti ha abbandonato tutto nel 2007,
denunciava la “deliberata manipolazione della realtà storica a uso pubblico,
attraverso la creazione di una serie di icone, come quella del ragno e del
tamburello, o quella del salento edonistico-dionisiaco dove tradizionalmente i
contadini al termine del lavoro si riunivano nell’aia della masseria a ballare
sfrenatamente la pizzica”.
pasolini sperava che gli uomini avrebbero risperimentato “il loro passato, dopo
averlo artificialmente superato e dimenticato in una specie di febbre, di
frenetica incoscienza”. ma ora che la sintesi linguistica della modernità ha
abolito il passato prossimo e l’imperfetto, non ci resta che dissotterrare un
passato remoto. un passato che, oltre ad aver dimenticato, abbiamo tradito: i
canti che si ascoltano dai concerti restano solo “quello sforzo ingrato di dirsi
vivi in una lingua morta”, per dirla con gabriele frasca; il dialetto
mortificato nei ritornelli in bocca ai “grandi” nomi dello spettacolo chiamati a
partecipare al festival e a distogliere ogni tentativo di scorgere il marcio
delle cose, le ragazzine che credono di conoscere il ballo tradizionale del loro
territorio e invece copiano le movenze seducenti del corpo di ballo sul palco
disegnate da qualche coreografo, ignare che la pizzica si ballava forse due
volte l’anno con una serie di restrizioni, con garbo e pudore. abbiamo tradito
tutto il possibile, non c’è più niente e nessuno da tradire. che fare allora, se
“tutto è in armonia nel modo sbagliato e ogni cosa va in frantumi nel modo
giusto” (ancora recita estiva)? che fare dei paesi una volta che la cultura che
li ha animati si è estinta con i suoi abitanti? che fare della cultura popolare,
delle tradizioni, dei riti, una volta che è venuto meno il mondo che li ha
generati?
ATROCE PAESE CHE AMO
partecipo alla presentazione di un libro di poesie in un giardino appartato
dagli odori dei ristoranti e dalla musica dei locali. mi ritrovo a voler
scappare tra una platea che sembra aver eletto se stessa a casta superiore. si
riconoscono al primo sguardo i turisti in abiti da vacanza (e i non-turisti ne
imitano lo stile): camicie di lino, cappelli panama, lunghi vestiti e caftani
che cercano di apparire frugali ma so troppo bene quanti empori vendono quei
tessuti spacciandoli per opere di tessitrici locali che conservano l’arte del
telaio (mentre gli unici telai superstiti sfornano tessuti per dior e lecce
conferisce cittadinanze onorarie a fashion designer che scelgono il salento come
vetrina) per abboccare all’umiltà apparente. sono gli stessi turisti che
strisciano con innaturale lentezza dentro auto troppo grosse per attraversare
indenni le stradine dei paesi non progettate per il grande traffico estivo.
assistono alle letture di versi come a una liturgia consolatoria che celebra il
loro status di cittadini edotti all’arte, civili, che il massimo picco di
adattamento all’habitat lo raggiungono mangiando la frisa con le mani e non con
le posate. li riconosci mentre vagano alla ricerca di tipicità: la pasta fatta
in casa diventa esclusiva dei ristoranti, il grano arso una ricercatezza
culinaria e solo cinquant’anni fa l’emblema della miseria, ottenuto dalle ultime
spighe bruciate sfuggite alla mietitura manuale. però loro si autoassolvono
eleggendo franco arminio a profeta della nostra epoca quando canta il “bisogno
di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane, di gente che ama gli
alberi e riconosce il vento”. eppure gli risponde decenni prima errico
malatesta: “se tu leggi i poeti li trovi tutti pieni di entusiasmo per la vita
campestre. ma la verità è che i poeti che stampano libri, la terra non l’hanno
zappata mai, e quelli che la zappano davvero si ammazzano di fatica, muoiono di
fame, vivono peggio delle bestie, e sono calcolati come gente da nulla”.
quando non c’è più un punto dove posso volgere lo sguardo senza che si facciano
incontro con il loro carico pensieri caustici mi arrendo a fare un giro in
campagna, anche se questo si traduce in attraversare ettari di rami secchi e
tronchi sgozzati quando va bene, odore di bruciato e residui di roghi quando va
male. stavolta il suono delle campane di capre e pecore mi anticipa i passi, il
pastore che conosco bene quando mi vede spegne la radiolina con l’antenna che si
porta nella tracolla per farsi compagnia nella desolazione dei campi. senza
preamboli di circostanza mi racconta delle sanzioni di un controllo asl per
piccole falle nel laboratorio in cui lavora il latte. lo aveva piastrellato e
messo a norma quando uno dei figli ha deciso di continuare il suo mestiere
nonostante lui lo scoraggiasse di continuo, anche con rabbia, perché “non deve
fare ‘sta vita, con il mondo di oggi esci pazzo”. eppure il controllo ispettivo
si incaglia per l’assenza di un certo formato specifico di trappole per topi,
così ai soldi spesi per sistemare il laboratorio si aggiungono i soldi per la
sanzione e le altre modifiche imposte. ormai il prezzo dei prodotti detta gli
standard di lavorazione, una piccola azienda zootecnica ha le stesse spese di
un’impresa di allevamento a prescindere dalla dimensione, per il mercato cinque
capre o cinquecento è la stessa cosa. penso ai villani di donpasta, a santino
galasso di taranto che sorride mentre dice “t’ha mettre ‘a cape ssott’ e ha sce
‘nnanz”, devi abbassare la testa e andare avanti, a totò fundarò di alcamo che
fa la conserva di pomodoro a casa e si incazza perché secondo la legge quella
conserva non può esistere, è illegale, ma è impossibile produrre cibi genuini
rispettando le regole. penso che anche la cultura genuina può essere solo
clandestina. penso a civitonia, un festival per civita di bagnoregio che in
clandestinità esiste senza essere accaduto. “sappiamo bene quanto il mantra
dell’accumulazione capitalistica, insidioso e colonizzante, spazzi via ogni
parola dissenziente”, scrive giovanni attili sul libro che dà un supporto fisico
all’immaginare di civitonia. “sappiamo bene di avere una lingua logora e stanca”
(una volta in una traduzione di guido ceronetti avevo letto “si stanca qualsiasi
parola, di più non puoi fargli dire”). eppure attili insiste, “la consapevolezza
della devastazione in atto dovrebbe obbligarci a ricaricare parole ormai
atrofizzate con l’obiettivo di far tracimare lo stagno paludoso che ci
immobilizza”.
“riscrivere la fine o dell’arte del capovolgimento”, leggo sotto il titolo del
libro, e infatti civitonia è anche un affronto al pensiero di chi governa quel
territorio, è un festival che rinunciando al suo accadere si è salvato
dall’essere fagocitato dall’industria turistica o dalle politiche urbane che
piegano l’arte a progetti di presunta riqualificazione buoni solo per ingrassare
coi fondi pubblici.
“ad accendersi ancora è il segnale che dovrei fare qualcosa. ogni giorno.
insomma io sono come un quadro segnaletico dove si accendono continuamente
lampadine di diversi colori. sicuramente produce un bel fregio luccicante. solo
che non serve a niente”, sottolineo tra le pagine di recita estiva. in
matematica essere impossibilitati a eseguire operazioni è la molla per
immaginare, per costruire domini numerici più ampi: dai numeri naturali agli
interi negativi, dai numeri reali agli immaginari, domini che contengono
ciascuno il precedente e dai loro spalti si ha una vista sempre più ampia e
sfaccettata. se x2+1 resiste alla possibilità per i polinomi di essere scomposti
in monomi lineari, si può scomporre abbandonando il campo dei reali e
sollevandosi nel dominio degli immaginari.
cosa serve allora? ammettere che i nostri mezzi sono difettati e monchi, e
quindi cercare scarti, biforcazioni possibili, non soluzioni miracolose ma
indizi minuti per scardinare l’inerzia e scommettere su un futuro differente.
ammettere che il buio ci soffoca e cercare barlumi, intermittenze, una
ricomparsa delle lucciole, forse destinate a morire travolte dalla luce sporca
delle stelle di un hotel. presidiare le trasformazioni urbane, rivendicare
processi condivisi, farsi carico del mostruoso ma cercare angoli da cui
guardarlo senza esserne assuefatti. cercare di arrivare a un risultato per vie
traverse mi riporta alla matematica, al metodo dimostrativo per assurdo: si
ottiene il vero facendo scaturire l’impossibile a partire dal falso, ci si situa
in ciò che si ritiene essere falso e si mostra come questo conduca a una
conclusione impossibile.
per assurdo si dimostra un teorema fondamentale di cantor che dice che dato un
insieme ci sono sempre più parti di quanti siano i suoi elementi (si dimostra
che non ci possono essere tante parti quanti elementi e si sa che non possono
essercene meno). il teorema di cantor confuta il dilagare dell’individualismo:
il fatto che in un insieme qualunque ci siano più parti che elementi significa
che la profonda risorsa di ciò che è collettivo prevale su quella dei singoli,
come il coro prevaleva nelle esecuzioni musicali spontanee. fa eco il barone
rampante: “le associazioni rendono l’uomo più forte e mettono in risalto le doti
migliori delle singole persone, e danno la gioia che raramente s’ha restando per
proprio conto, di vedere quanta gente c’è onesta e brava e capace e per cui vale
la pena di volere cose buone”. allora organizzarsi, agitarsi, frantumare la
cappa del disincanto, distogliere lo sguardo dai fari del treno in corsa che sta
per travolgerci. brecht incalza: “vi accontenterete del cielo che splende?
sarete sfamati? sarete consolati? il mondo guarda a voi con la sua ultima
speranza. più a lungo voi non potete essere contenti di una goccia simile sulla
pietra rovente”.
mi illudo che scrivere possa far sopravvivere qualcosa, strappare qualche
brandello al vuoto che si scava, tracciare da qualche parte un solco. ma suona
amaro il monito di rina durante, “tu capisci che in questa provincia senza fine
rimani solo tu ultimo cavaliere senza né briglia né staffe a portare il peso di
una storia che finisce”. mi illudo che cucire insieme parole che mi stagnano
dentro possa avvicinarmi a una realtà che non so comprendere né contenere (e
quando riesco mi lacera, perché la stessa vanga può scavare solchi dove seminare
o sotterrare cadaveri). ma di fatto sto scrivendo per prendere le distanze, per
espellere la materia scottante ingabbiandola in queste cartoline. allora se pure
il racconto brucia la sua materia per alimentarsi, almeno che produca fiamma
anziché riscaldare le ceneri. (chiara romano)
(disegno di peppe cerillo)
Il 4 luglio alle otto di mattina un enorme boato scuote la città: è l’esplosione
di un distributore Gpl a Torpignattara – tra la piscina di Villa de Sanctis e la
scuola materna Romolo Balzani, a ridosso del quartiere di case cooperative
Casilino 23 e a due passi dalla via Casilina. Prima dell’esplosione avevano
preso fuoco anche un deposito di bombole di ossigeno della Croce Rossa e uno
sfasciacarrozze, creando una nube tossica di diossina; miracolosamente, la zona
non si era ancora riempita dei bambini che frequentano i campi estivi. Questa
parte di Roma fin dagli anni Sessanta doveva essere una zona per la logistica. I
proprietari dei terreni l’hanno però riempita di palazzine residenziali e così
oggi le industrie pericolose e inquinanti convivono con scuole, asili nido,
centri sportivi, zone archeologiche e quartieri densissimi (si veda qui). La
sera divampa un altro incendio nel parco del Forte Prenestino.
Il 6 a Parioli esercitazione antiterrorismo della polizia italiana intorno
all’ambasciata israeliana (non nei confronti di militari e civili israeliani
attivi nel terrorismo contro la popolazione di Gaza). Scendono le temperature:
l’8 luglio fa quasi freddo. Il Tar boccia le opposizioni della fu giunta Raggi a
un grande progetto di settemila metri quadri residenziali intorno alla Vela di
Tor Vergata, che quindi inizierà a breve, sempre giustificato dell’idea che
costruire nuove case fa sempre bene, anche in una città con centomila
appartamenti vuoti.
Il 9 alla manifestazione Sports beats borders dell’Esquilino partecipa una
squadra di bambini palestinesi arrivati dal campo profughi di Chatila. Muore
l’ispettore ustionato dall’esplosione del deposito di Gpl del 4 luglio:
fortunatamente è l’unica vittima mortale, ma ci sono decine di ustionati gravi,
centinaia di feriti, e un migliaio di bambini senza scuola. Il 10 al centro
congressi La Nuvola (Eur) si celebra una Conferenza sulla ricostruzione
dell’Ucraina, che blocca il traffico del centro: tra i partecipanti anche
l’attore Zelensky. Nel frattempo, a Torbellamonaca prende fuoco un palazzo:
settantadue nuclei familiari vengono evacuati. L’11 un aereo della polizia porta
a Roma dalla Grecia un uomo statunitense, accusato del duplice femminicidio
della moglie e della figlia trovate morte a inizio giugno a Villa Pamphili.
All’Idroscalo di Ostia inizia il festival del cinema Alice nella Città: il
maxischermo è montato proprio dove c’erano le case rase al suolo da Alemanno nel
2010. Un motociclista muore in incidente vicino Ostia Antica. Domenica 13 un
forte nubifragio spazza Roma con vento e pioggia: l’acqua entra anche
nell’ospedale Grassi di Ostia.
Lunedì 14 arrivano a Roma i familiari di Satnam Singh, il bracciante sikh di
Latina mutilato sul lavoro e lasciato morire dissanguato dal suo padrone. Una
consigliera Pd di Garbatella dichiara il passaggio a Fratelli d’Italia. Il
Tribunale di Roma sospende quattro poliziotti implicati nel traffico di droga di
San Lorenzo: anche loro erano strumenti della gentrificazione del quartiere, che
estrae valore dal territorio rendendo impossibile la vita a chi lo abita. Muore
un operaio kurdo investito da un’auto a Centocelle: è la settantottesima vittima
delle strade a Roma dall’inizio dell’anno. Il 15 il Comune stanzia due milioni
per riaprire la scuola Romolo Balzani, devastata dall’esplosione del deposito di
Gpl. Il 17 la polizia irrompe in casa di Chef Rubio e sequestra computer e Usb,
trattenendolo nel commissariato di Frascati fino a sera. Intanto, retata
razzista a piazza Vittorio: la Celere circonda un gruppo di migranti africani,
chiede documenti a tutti, li carica sul furgone e se li porta via. Il sindaco di
Roma è agli Stati generali della bellezza, nell’incantevole location di Cava de’
Tirreni, impegnato a dichiarare che “le periferie di Roma fanno schifo”.
Venerdì 18 il Tar respinge il ricorso contro l’abbattimento del bosco di
Pietralata per la costruzione dello stadio privato dell’imprenditore Friedkin,
mentre un picchetto antisfratto evita l’espulsione di un’anziana da un palazzo
di proprietà dell’Inps occupato da decenni. La guardia di finanza mette i
sigilli allo stabilimento balneare per vip V-Lounge di Ostia, che disponeva di
ottocento lettini. Il 19 un gruppo di attivisti di Ostia manifesta sulla
spiaggia, rivendicando il “mare libero” dalla privatizzazione rappresentata
dalle concessioni balneari. A Ostia tutta la parte centrale della spiaggia è
privatizzata, e le spiagge libere sono solo a molti chilometri dal centro,
difficili da raggiungere e mal collegate con i mezzi pubblici. Il 20 un passante
trova il cadavere di una donna al Mandrione, vicino ai binari del treno: era
scomparsa cinque giorni prima dalla zona di Ponte Mammolo.
Il 21 un gruppo di lavoratrici dello spettacolo occupa simbolicamente il Circolo
degli Artisti, chiuso dal commissario Tronca nel 2015 e mai più riaperto. Chiude
per una settimana la linea C della metropolitana, per i test delle nuove
stazioni di Colosseo e Porta Metronia. Il 22 alla Camera dei deputati si
inaugura un congresso sul Nuovo ruolo geopolitico di Israele: Maccabi World
Forum, Istituto Milton Friedman, Unione delle Associazioni Italia-Israele
(UAII), Israel’s Defend & Security Forum (ISDF) e Alleanza per Israele premiano
Matteo Salvini davanti a militari e deputati italiani, soprattutto della Lega,
con importanti rappresentanti dello stato genocida. Presidio intanto in piazza
Capranica contro l’assedio della fame a Gaza.
Il 23 il Comune annuncia l’acquisto del palazzo occupato in via Bibulo, a
Cinecittà-Don Bosco, che era stato già requisito anni fa dall’allora presidente
del municipio Sandro Medici: i proprietari erano un monsignore, un camorrista e
una contessa che lo tenevano vuoto. Il 24 un uomo incendia due macchine della
polizia davanti al commissariato di via Farini; un altro spara contro il
buttafuori di una discoteca all’Eur, ferendolo alla testa; un incendio distrugge
il chioschetto di piazza Vittorio. Intanto il Comune approva la qualifica di
“interesse pubblico” per uno studentato privato da seicento euro al mese su
terreni pubblici dei mercati generali di Ostiense: la corporazione immobiliare
Hines lo avrà in concessione per sessant’anni senza neanche un limite ai canoni
d’affitto. La “città dei giovani” immaginata da Veltroni è un regalo ai privati
ancora più grande dei vecchi piani di zona. Il 25 presidio solidale davanti al
Cpr di Ponte Galeria, dove continuano a essere rinchiuse persone che non hanno
commesso alcun crimine: l’anno scorso un ragazzo di vent’anni rinchiuso lì
dentro si era suicidato.
Il 28 luglio inizia il temuto giubileo dei giovani, il grande evento estivo per
il quale si attendono decine di migliaia di giovani pellegrini da tutto il
mondo: all’evento analogo del Duemila, oltre due milioni di ragazzi e ragazze
cattoliche avevano inondato la zona di Tor Vergata che il Comune aveva costruito
con novantuno miliardi di vecchie lire. L’area è la stessa oggi. Nella stessa
giornata spari a Cinecittà, e anche ad Acilia, dove una ragazza egiziana viene
colpita per errore ad una gamba. Il 29 otto attiviste e attivisti del movimento
per il diritto all’abitare subiscono perquisizioni domiciliari e il sequestro
dei dispositivi elettronici da parte di carabinieri e digos: ennesima operazione
di criminalizzazione legittimata con un’inchiesta sui “contributi da 3/5 euro”
(cit.) per le spese di manutenzione delle occupazioni abitative in cui vivono.
Il 30 un incendio distrugge uno stabilimento balneare a Maccarese. Il 31 inizia
la demolizione dell’ex Fiera di Roma: il progetto prevede di trasformarla in una
Città della gioia: né più né meno che trentacinquemila metri quadri di nuove
palazzine di proprietà del Fondo Orchidea di Banca Finint, e intorno la zona
verde obbligatoria per gli standard urbanistici. (stefano portelli)
(disegno di valentina galluccio)
Scrive un deputato della repubblica italiana, economista, segretario di un
partito, in un post di lunedì 21 luglio: “Facciamola semplice: se in una
qualsiasi città i prezzi delle abitazioni sono troppo alti, c’è un solo modo per
farli scendere: costruire più abitazioni”. Il contesto, inutile dirlo, è il
continuo e sfacciato tentativo di tenere in piedi il “modello Sala”, crollato
rovinosamente a Milano. Ma il deputato Marattin si inerpica su un terreno
spinoso. Secondo lui la speculazione immobiliare, la costruzione estensiva di
abitazioni, sarebbe un modo non solo per far guadagnare i costruttori, com’era
sicuramente l’obiettivo del modello Milano, ma anche per abbassare i canoni
d’affitto. Al di là delle vicende giudiziarie, insomma, fomentare la costruzione
fa bene a tutti.
Il deputato va oltre, e scrive, excusatio non petita: “I tentativi di abbassare
gli affitti controllandoli per legge sono stati un fallimento in tutto il mondo
e in ogni tempo”. Gli inquilini e le inquiline, insomma, avrebbero bisogno di
più cemento, non di leggi che li tutelino. È curioso come un’affermazione così
controintuitiva ancora riesca a trovare spazio nel dibattito pubblico. Perché?
Da una parte si continua ad alimentare l’illusione che gli imprenditori lavorino
per la società e non per il proprio tornaconto, il che permette d’ignorare
l’evidenza, per esempio, che l’enorme aumento di costruzioni degli ultimi anni
sia orientato a favore delle classi medio-alte e al turismo, non certo a
risolvere i problemi abitativi dei ceti impoveriti. Dall’altra, perché persiste
il mito della mano invisibile del “mercato”, che presenta come autoregolato,
spontaneo e in qualche modo magico, il rapporto tra chi compra e chi vende –
anche quando è così evidente, come dimostra proprio il modello Sala, che chi
vende o affitta le case ha il potere, gli appoggi politici, la possibilità di
“inventare” e diffondere una intera retorica, mentre chi le affitta, o prova a
comprarle, non ha strumenti di questo tipo a disposizione. Queste “soluzioni
semplici”, che nascondono potere e diseguaglianze, fanno venire voglia di
mettere mano alla sciabola. Per sublimare questo desiderio vale la pena fare una
piccola carrellata sui “tentativi di abbassare gli affitti controllandoli per
legge” – le leggi per il rent control – che sono invece proprio le misure di cui
abbiamo bisogno ora.
DUEMILA ANNI DI CONTROLLO DEGLI AFFITTI
L’umanità dev’essere proprio impermeabile agli errori, se lo stesso fallimento
continua a riproporsi anche a distanza di millenni. La prima legge per
controllare gli affitti che conosciamo risale alla Roma repubblicana,
cinquant’anni prima della nascita di Cristo: fu sperimentata all’inizio nella
piccola “colonia interna” del porto di Ostia, come cancellazione dei debiti e
blocco dei pagamenti per un anno. Misure simili furono usate da Cesare e da
Ottaviano, più avanti dagli imperatori Valeriano e Gallieno.
Altri esempi importanti furono le misure straordinarie introdotte dalla dinastia
Song in Cina, intorno all’anno 1000; nel 1513, nello Stato Pontificio,
un Decretum Camerae Apostolicae in fauorem inquilinorum sancì il
controllo pubblico sugli affitti; a metà Settecento un editto del Regno di
Sardegna affidò al vicario di Torino il compito di “conoscere e provvedere circa
le differenze per eccessivo aumento di fìtto tra li padroni di case poste in
detta Città ed i loro affittavoli, e di procedere ove d’uopo alla tassa de’
luoghi appigionati”; nel 1815 il Ducato di Modena pubblicò una legge che fissava
l’affitto al 6% del valore della proprietà.
Si possono citare un’infinità di altri esempi, particolarmente concentrati
nell’Europa meridionale – da Parigi a Malta, dal Portogallo alla Madrid del
1600: in alcuni casi le leggi funzionarono, in altri casi no (come quelle
dell’imperatore Gallieno: i proprietari le aggirarono stipulando contratti
brevi, non regolati). Ma quello che più interessa sono le forme di regolazione
moderne, che si diffusero in varie parti d’Europa e in Nordamerica all’inizio
del Novecento. Le lotte del movimento operaio di metà-fine Ottocento in molti
casi reclamarono il diritto alla casa per chi viveva in affitto, cioè la
totalità della classe lavoratrice: i padroni delle fabbriche erano spesso anche
i padroni delle case. In Scozia, Inghilterra, Irlanda, Svezia e Spagna, a
cavallo del secolo, ci furono grandi “scioperi dell’affitto” che si conclusero
spesso con l’approvazione di leggi per il controllo dei canoni: 1915 in Scozia,
Inghilterra e Irlanda, 1917 in Svezia, 1919 in alcune parti della Germania, 1920
in Spagna e a New York. Erano leggi pensate per essere temporanee, ma furono
rinnovate per reggere l’emergenza della Grande Guerra.
La storica Jo Guildi spiega che il primo movimento inquilino moderno
per l’abbassamento dei canoni era in primo luogo un movimento anticoloniale:
furono i contadini irlandesi vessati dai proprietari inglesi a reclamare
l’abbassamento per legge degli affitti delle terre e delle masserie, con
il primo sciopero degli affitti della storia. Il parlamento irlandese
approvò un Land Act che impose che i contratti tra inquilini e proprietari
considerassero il diritto all’uso delle terre, non solo quello alla proprietà, e
regolati da un tribunale speciale. Dei valutatori professionisti analizzavano i
canoni caso per caso. I movimenti inquilini di altre regioni britanniche presero
l’esempio e iniziarono altri scioperi dell’affitto: il più grande fu quello del
1915 a Glasgow, dove c’è ancora la statua di una delle leader della protesta
inquilina, Mary Barbour (gli inquilini e le inquiline che trattenevano l’affitto
furono chiamati “l’esercito di Mrs. Barbour”).
Anche in Spagna le donne erano molto attive nelle organizzazioni inquiline di
inizio secolo: i sindacati inquilini di Bilbao, Valencia e Barcellona furono
fondati nel 1904, e nel 1920 riuscirono a far approvare la prima legge per
ridurre i canoni, estendere la durata dei contratti e limitare gli sfratti. Le
proteste non si fermarono, e nell’aprile 1931 a Barcellona iniziò un
enorme sciopero dell’affitto (la huelga de alquileres), chiamato dal sindacato
anarchico della CNT, a cui parteciparono oltre centomila unità abitative.
Queste leggi ottennero l’abbassamento dei canoni, anche se spesso il risultato
fu inferiore alle aspettative: l’obiettivo della CNT era che
gli affitti scendessero del quaranta per cento e fossero azzerati per chi non
aveva reddito (perché la casa è un diritto!). Il governo repubblicano spagnolo
non arrivò a tanto, ma certamente molte famiglie operaie o disoccupate videro
migliorare le proprie condizioni prima che Francisco Franco iniziasse a
intaccare il controllo pubblico sugli affitti. Anche in Italia fu Mussolini, nel
1923, a eliminare il blocco degli affitti in vigore sin dalla Grande Guerra: fu
la prima legge del fascismo, fatta per compiacere proprietari immobiliari e
investitori. Gli affitti aumentarono vertiginosamente, soprattutto a Roma e
Milano, e nel 1930 il regime dovette reintrodurre la regolamentazione. Anche i
governi più conservatori ricorrono al controllo degli affitti in tempi di guerra
e di crisi, e gli effetti sono evidenti: gli affitti scendono e gli inquilini
più vulnerabili hanno meno difficoltà a rimanere nelle loro case. Lo dimostra
anche l’esempio dell’Argentina, dove il rent control permise a migliaia di
famiglie di sopravvivere dopo la prima e la seconda guerra mondiale, con
regolamentazioni molto stringenti.
INEFFICACIA DEL RENT CONTROL, UN MITO DEL MACCARTISMO
L’attacco più duro al controllo degli affitti fu negli anni Cinquanta,
quando forme di rent control erano attive in molti stati e
città sia d’Europa che d’America. Il mantra degli economisti liberisti
statunitensi, orientati dal maccartismo, dall’anticomunismo e dalla retorica
del laissez-faire, divenne proprio “l’inefficacia” del rent control
, argomentazione ripresa oggi dal deputato Marattin. Per non dire che il
controllo degli affitti fa male ai proprietari, si iniziò a dire che faceva male
agli inquilini. Negli anni Settanta, importanti economisti come Milton Friedman
e Friedrich Hayek furono i campioni di questa nuova ondata di retorica
liberista, che si scatenò ovunque si fossero ottenute conquiste sociali nei
decenni precedenti. La retorica contro il rent control raggiunse picchi epici,
come quando l’economista svedese Assar Lindbeck scrisse che il controllo degli
affitti “sembra essere la tecnica più efficace per distruggere una città, oltre
a bombardarla”.
Ora sappiamo che queste sparate erano parte di un vero e proprio progetto
politico, quello identificato da Marco D’Eramo in Dominio, e cioè l’assalto dei
think tank conservatori alle conquiste del movimento operaio e delle battaglie
degli afroamericani per i diritti civili. Think tank finanziati dalla lobby
immobiliare come il Fraser Institute ebbero un ruolo determinante nel modellare
il discorso pubblico. Mentre Lindbeck e gli altri pontificavano sull’inefficacia
del rent control, l’associazione dei proprietari immobiliari californiani
spendeva quattordici milioni di dollari per far ritirare le regolamentazioni,
allora attive in tredici comuni dello stato – oltre che in cinque città del
Massachusetts, centoventi del New Jersey, e a New York. Anche in Europa il
controllo degli affitti cadde, prima in Irlanda, nel 1966, poi in Inghilterra,
nel 1982, poi in Spagna, nel 1986, infine in Italia, con la liberalizzazione dei
fitti del 1998. Mentre la prima stagione di liberalizzazioni fu guidata dalla
destra (Reagan e Thatcher), la seconda è interamente opera della cosiddetta
sinistra (il Psoe di Felipe González in Spagna, il governo D’Alema in Italia).
L’opera iniziata da Franco e Mussolini fu conclusa dagli ex comunisti.
Tom Slater e Hamish Kallin, geografi marxisti scozzesi, oggi i principali
esperti di rent control, descrivono questo assalto come una “pseudoscienza”,
promozione organizzata dell’ignoranza. L’assalto degli economisti al rent
control si basa sempre su tre miti. Il rent control spingerebbe i proprietari a
ridurre l’offerta di case (supply myth), non incentiverebbe i proprietari a
migliorarne la qualità (quality myth), e in generale sarebbe inefficiente
(efficiency myth) perché gli inquilini finirebbero per abitare case migliori di
quelle che si possono permettere. In un libro che uscirà a fine anno con Armando
Editore, scritto insieme a Chiara Davoli, entreremo più nel dettaglio sulle
fallacie fattuali e logiche di questi tre miti, il cui debunking comunque si
trova negli articoli e nelle interviste di Slater e Kallin
(come questa, questo, e questo, purtroppo protetti da paywall accademici). Per
riassumere, basti vedere che trent’anni di liberismo non hanno certo prodotto
maggiore offerta di case, né maggiore qualità; qualità e offerta sono molto
migliori in paesi dove ci sono regolamentazioni, come i Paesi Bassi, rispetto
che a dove non ci sono, come il Regno Unito. Si pensi alla tragedia della
Grenfell Tower a Londra, dove morirono settanta persone a causa della pessima
qualità delle abitazioni, in un sistema ultraliberista: la mano invisibile del
mercato non aveva dato neanche una passata di vernice. Anzi, è proprio il libero
mercato a produrre effetti simili a un bombardamento: un esempio per tutti,
Detroit. Meglio non commentare il mito dell’efficienza, che dà per scontato che
i poveri debbano vivere sempre al minimo della sussistenza, e che le case grandi
e belle devono essere per forza abitate dai ricchi.
RENT CONTROL OGGI
Nonostante questo assalto neoliberale, nonostante i Marattin, nonostante i think
tank nostrani (il presidente di Confedilizia Calabria, Sandro Scoppa, ha curato
un recente volume dal titolo Controllare gli affitti, distruggere l’economia),
nuove forme di controllo pubblico sugli affitti stanno tornando in auge in tanti
paesi del mondo. L’evidenza del fallimento del libero mercato, soprattutto di
fronte alla catastrofe abitativa dopo il 2008 e dopo il 2020, è così evidente
che i vecchi miti economicisti non reggono più. Le stesse amministrazioni
pubbliche che per decenni hanno ignorato ogni studio non finanziato dalle lobby
dei costruttori oggi hanno iniziato ad ascoltare altre posizioni, in particolare
quelle dei sindacati inquilini e dei loro esperti indipendenti. Oggi ci sono ben
sedici paesi dell’Unione Europea in cui sono attive forme di controllo degli
affitti: le regolamentazioni più dure sono presenti in Francia, Irlanda, Paesi
Bassi, Austria, Svezia e Danimarca, e quelle più leggere sono in Spagna,
Germania, Svizzera, Belgio, Lussemburgo, Croazia, Polonia, Cipro, Scozia,
Norvegia. L’Italia è uno dei diciassette paesi dell’Unione che non ha più
nessuna forma di controllo degli affitti, insieme a Portogallo, Grecia,
Inghilterra, Islanda, Finlandia, Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca,
Ungheria, Romania, Serbia, Bulgaria e i tre paesi baltici. Gran parte delle
leggi sul rent control sono state introdotte negli ultimi cinque o sei anni, per
cui è presto per dire quale è stato il loro effetto (primi studi si
trovano qui e qui). Ma è interessante sapere che oggi il paese dove ci sono più
forme di controllo degli affitti sono proprio gli Usa: New York ha un controllo
sugli affitti che si applica solo a un numero limitato di abitazioni, e la Rent
Stabilization Ordinance di Los Angeles stabilisce un tetto massimo agli aumenti
degli affitti, che fino al Covid era del tre per cento. Negli Stati Uniti
il rent control è l’unica politica pubblica che si possa ancora usare per
limitare i danni del neoliberalismo, perché le leggi federali impediscono la
costruzione di nuove case popolari (se non per sostituire quelle da abbattere).
La domanda chiave, ovviamente, è: il controllo pubblico sugli affitti riesce
davvero a far calare i prezzi dei canoni? Oggi che le case sono completamente
costruite da privati, e che è possibile produrne una grande quantità, che
effetto ha l’intervento pubblico? Intanto, niente panico, sappiamo bene che lo
Stato interviene in un enorme quantità di settori economici, e che di fatto non
c’è niente di simile a un vero “mercato”: lo stato regola, interviene, sussidia,
promuove, detassa, finanzia, aiuta. Non sarebbe un’eresia se invece di
intervenire solo sul tabacco e sul sale, o su pasta, latte e uova come durante
la pandemia, si intervenisse anche sulle case. Gli studi esistenti dicono
chiaramente che i miti sulle presunte catastrofi del rent control sono falsi: in
nessuno dei paesi in cui sono attive politiche di questo tipo c’è stato niente
di simile a un bombardamento, né drastiche riduzioni della qualità e
dell’offerta. Anche le regolamentazioni attivate sono piuttosto blande: si
congelano i canoni, permettendo solo aumenti legati all’inflazione, o a
miglioramenti sostanziali nella qualità degli alloggi (rent freeze) oppure si
fissa un tetto massimo sopra il quale non si può aumentare (rent cap, in
tedesco Mietendekel).
Il progetto del Sindacato inquilini della Catalogna di abbassare gli affitti del
cinquanta per cento, sostenuto da una grande manifestazione a Barcellona a
novembre, non si è ancora realizzato, e la nuova legge spagnola è piena di
“buchi” che permettono ai proprietari di aggirarla, proprio come avevano fatto i
loro omologhi al tempo dell’imperatore Gallieno: stipulando contratti brevi non
regolati. Anche quando non ottiene i risultati sperati, tuttavia, il rent
control non fa di certo male, almeno non agli inquilini. Fa anche bene? Le prime
analisi sembrerebbero confermarlo: uno studio condotto dalla municipalità di
Parigi sui primi sei anni di controllo degli affitti mostra che i canoni sono
scesi del quattro per cento rispetto a quanto avrebbero fatto senza
regolamentazione: del due per cento nel primo triennio (che però è anche quello
della pandemia), e poi addirittura del sei per cento. Sono sessantaquattro euro
di media al mese risparmiati dagli inquilini. Intanto sono stati
segnalati milleseicento casi di infrazione, con i relativi procedimenti contro i
proprietari: quasi la metà degli annunci indicano prezzi più alti di quelli
consentiti per legge. Se tutti i proprietari avessero rispettato la legge, la
diminuzione degli affitti sarebbe stata superiore agli otto punti percentuali.
Conclusioni simili risultano dalla Catalogna, dove il controllo degli affitti è
stato in vigore per un anno e mezzo, prima di essere annullato dal Tribunale
costituzionale (e sostituito dalla timida Ley de Vivienda del governo Sánchez).
I prezzi sono scesi del cinque per cento già dai primi tre mesi di
regolamentazione, secondo i dati dell’Istituto Catalano del Suolo. Naturalmente,
i proprietari hanno reagito riducendo i contratti indefiniti e stipulando molti
più contratti temporanei, che il governo aveva iniziato a regolare quando è
stato bloccato dal partito catalanista Junts, oltre che dai fascisti del Pp e di
Vox. Altre situazioni sono ancora più complesse. A Vienna, per esempio, dove il
settantotto per cento degli abitanti vive in affitto, e appena un terzo di
questi è in affitto da privati, ci sono forme molto estese di regolamentazione
dei prezzi: solo il sette per cento non è regolato. Eppure, negli ultimi anni i
prezzi sono comunque saliti, portando il governo ad approvare un nuovo
congelamento dei prezzi. In Olanda invece il sistema sembra funzionare bene, con
un meccanismo centralizzato che calcola i prezzi, e che tiene fuori dalle
regolamentazioni solo le case di lusso. Ci sono tribunali che sanzionano le
violazioni, e tutti i contratti d’affitto sono diventati contratti permanenti.
Insomma, far scendere gli affitti è una priorità assoluta, ma non si può credere
che si possa fare con “soluzioni semplici” alla Marattin: serve un’azione
combinata, in cui si colpisce in primo luogo il mercato libero, poi gli affitti
brevi, poi altre forme di speculazione, come i grandi proprietari che tengono
centinaia di case vuote, e che devono essere tassati. Dire “basta fare x per
abbassare gli affitti” è la tipica soluzione “semplice, elegante e sbagliata”
che permette di continuare a produrre i danni che si vuole contenere, magari
anche a peggiorarli: stampare moneta per risolvere la crisi del debito, tagliare
le politiche sociali per affrontare la recessione (in Grecia), imporre dazi per
salvare posti di lavoro (in Usa), congelare i conti bancari per impedire la fuga
di capitali (in Argentina), o immettere enorme quantità di moneta per far
funzionare il sistema bancario malato dopo il 2008 (ovunque).
Il sistema delle abitazioni è complesso, perché nessuno può rimanerne fuori, e
perché si basa su un bene già distribuito in maniera diseguale, cioè la terra.
Non si può applicare astrattamente la legge della domanda e dell’offerta, perché
non è un mercato competitivo, dove se aumenta l’offerta i prezzi scendono. La
stessa metafora del “mercato” è fuorviante: si potrebbe paragonare più a un
centro commerciale, dove i negozi dipendono tutti dallo stesso franchising, e un
singolo operatore è in grado di influenzare tutti. L’offerta di case è un
oligopolio, regolato da cartelli e da lobby, che sono sostenute dai governi, e
che mantengono i prezzi alti mettendo sul mercato poche case alla volta e
tenendone chiuse migliaia di altre per usarle come deposito di investimenti e
garanzie per ottenere nuovo credito.
Pensate a quanto ci siamo scandalizzati durante la pandemia, quando alcuni
commercianti mettevano sul mercato piccole quantità di mascherine e amuchina per
far alzare i prezzi, e vendere a otto euro quello che sarebbe dovuto costare
pochi centesimi. Ma come! Sono beni di prima necessità, presidi indispensabili
per la salute! Lo stato deve impedirlo! Bene, lo stesso ragionamento si applica
alle case, che sono un bene di prima necessità, presidio di salute fondamentale,
e che pochi speculatori mettono sul mercato in piccole quantità per tenere
prezzi assolutamente insostenibili. Il controllo degli affitti è sicuramente un
modo per iniziare a scalfire il dumping commerciale delle grandi lobby della
proprietà, e deve diventare assolutamente una delle richieste prioritarie del
movimento per la casa (come già annunciato dal sindacato Asia-Usb in un convegno
a Roma).
Mentre facciamo crescere le campagne per il rent control, però, dobbiamo
studiarne in dettaglio l’applicazione, gli effetti, le varianti, prendendo in
considerazione tutti i fattori che possono far aumentare o diminuire gli
affitti. Ci vuole un pensiero olistico, che rifiuta a priori gli “è semplice”
alla Marattin, e che sia in grado di combinare un’azione politica decisa con un
ragionamento scientifico complesso, capace di mettere in discussione anche
quello che consideriamo ovvio. Come scrivono due economisti svedesi
nello studio su cui si basa la nuova politica di rent control del governo
svedese: “Il rent control ci riporta alla macroeconomia: se lo studi e non ti
senti un po’ confuso, probabilmente non stai pensando lucidamente”. (stefano
portelli)
(disegno di cyop&kaf)
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania ha annullato l’ordinanza
del prefetto di Napoli che prorogava il divieto di stazionamento nelle
cosiddette “zone rosse” cittadine, misura ispirata da una direttiva del ministro
Piantedosi dello scorso dicembre. Il Tar ha giudicato “l’esercizio del potere
prefettizio privo dei necessari presupposti, illegittimo e lesivo dei principi
fondamentali dell’ordinamento costituzionale”. La sentenza dichiara che non vi
era alcuna emergenza eccezionale, né alcuna motivazione nuova a giustificare
l’uso reiterato di poteri prefettizi straordinari. Si tratta di un piccolo
grande colpo alla politica di trasformazione dell’eccezione in prassi, che si è
concretizzato grazie a una rete di attivisti, tecnici, studenti e lavoratori che
si è riunita in città negli ultimi mesi, autorganizzando una mobilitazione
all’interno della quale il piano legale è solo uno dei livelli.
Stella Arena e Andrea Chiappetta, gli avvocati che si sono occupati del ricorso,
spiegano: “Il Tar ha riconosciuto che le ordinanze del prefetto erano
illegittime e violavano principi costituzionali. Dopo mesi di contenzioso, viene
sancito un principio fondamentale: il potere straordinario non può diventare
regola ordinaria. Il diritto non può piegarsi a logiche di emergenza permanente.
La decisione ristabilisce il primato della Costituzione sull’arbitrio
amministrativo”. L’ordinanza del 31 dicembre 2024 prevedeva un divieto di
stazionamento in determinate aree della città di Napoli per soggetti che erano
stati destinatari di una segnalazione all’autorità giudiziaria per un certo tipo
di reato (tra cui spaccio, rissa, occupazione di edifici) o che avevano assunto
atteggiamenti minacciosi o molesti. Il team legale aveva invece denunciato che i
provvedimenti “contingibili e urgenti” che l’articolo 2 dell’ordinanza
consentiva, hanno come presupposto l’esistenza di “situazioni di carattere
eccezionale e imprevisto non suscettibili di essere affrontate con gli strumenti
ordinari previsti dall’ordinamento”. Devono però, in quanto atti extra ordinem,
avere “un’efficacia temporanea e limitata nel tempo e risultare ragionevoli e
proporzionati”.
In ogni caso, il ricorso specifica che anche il provvedimento del dicembre 2024
(e non soltanto la sua proroga) non mira a far fronte a una situazione
eccezionale e imprevista, ma a situazioni ordinarie, stratificate nel tempo o
che si ripropongono ciclicamente; tanto l’ordinanza quanto la sua proroga,
inoltre, non risultano giustificate da “alcuna recrudescenza in forme impreviste
e particolarmente gravi, di fenomeni di degrado o illegalità in relazione alle
cosiddette zone rosse individuate dall’amministrazione”. Viene infine rilevata
l’irragionevolezza nell’individuazione dei soggetti destinatari del divieto: da
un lato, per la scelta stessa dei reati, dall’altro per il fatto che la sola
denuncia, in assenza di una condanna, “non può giustificare una presunzione di
pericolosità sociale”. A ciò si aggiunge infine il carattere di indeterminatezza
delle condotte, censurata per la discrezionalità che concede alla polizia
nell’applicare il divieto e perché viola “i principi di tipicità e
determinatezza che dovrebbero accompagnare il provvedimento amministrativo
allorché vada ad integrare una norma penale”.
La rete di associazioni e collettivi politici ha ribadito che “le libertà
personali non possono essere compresse per ordinanza e che nessuna direttiva
ministeriale può derogare, neanche di fatto, ai principi di uguaglianza,
legalità, presunzione di innocenza e proporzionalità”. (redazione)
(disegno di ottoeffe)
Voglio mori’ co tutto l’oro addosso, come i faraoni (vittorio cataldi detto
“accattone”, in accattone di pier paolo pasolini)
(credits in nota1)
Sul termine “accattone”, la maggior parte dei dizionari si esprime in maniera
chiara: è tale chi va elemosinando, spesso senza effettivo bisogno, più per
vizio che per necessità.
Si parla, negli atti, di “eversive degenerazioni in cui opera la Commissione per
il paesaggio” con una “strumentalizzazione che ne fa la parte politica,
principalmente l’assessore Tancredi, in sintonia con il sindaco Sala e il
direttore generale Malangone (servendosi del faccendiere Marinoni), per portare
avanti relazioni private con gruppi della finanza immobiliare attivi a Milano e
la soddisfazione dei loro interessi”. Questo “nella cornice di un’azione
amministrativa viziata da una corruzione circolare, edulcorata all’esterno”. […]
Il sistema “deviato” si sarebbe basato su “varianti” ai piani regolatori,
camuffate, secondo i pm, con l’interesse pubblico con richiami “all’edilizia
residenziale sociale”, per aumentare volumetrie e altezze a vantaggio delle
imprese. […] Tancredi sarebbe stato la “copertura” politica di Marinoni, nel
“patto corruttivo”, per realizzare questo “Piano di governo del territorio (Pgt)
ombra”. E quest’ultimo avrebbe incassato, coinvolgendo nel meccanismo società
immobiliari e studi, “alte parcelle” dalla J+S di Pella. Scandurra sarebbe
arrivato a prendere anche fino a 2,5 milioni di euro. (urbanistica di milano
sotto accusa: indagato anche sala, chiesti sei arresti, ansa.it)
Un po’ più a sud della capitale morale, intanto, Matteo Ricci, europarlamentare
del Partito democratico ed ex sindaco di Pesaro, sembra prossimo a ritirare la
sua candidatura alla presidenza della regione Marche. È indagato per corruzione
per atti contrari a doveri d’ufficio. Secondo gli inquirenti avrebbe affidato
indebitamente opere di manutenzione dal 2019 al 2024 per finanziare “interventi
spot”. Tra questi l’installazione di un casco gigante di Valentino Rossi in
piazza D’Annunzio, murales in onore delle vittime del Covid, o un altro dedicato
a Liliana Segre, contabilizzato alla voce “manutenzione idrica”.
Debiti al comune di Avellino, commissario chiede il cinque per mille ai
cittadini: “Altrimenti servizi a rischio”. (repubblica.it, 23 luglio)
Mazzetta da seimila euro, arrestato il sindaco di Sorrento. Massimo Coppola è
stato sorpreso mentre intascava una sospetta tangente da seimila euro durante
una cena con un imprenditore. (tg3, 21 maggio)
Un imprenditore della provincia di Belluno è finito al centro di un’indagine […]
per presunta malversazione ai danni dello Stato. […] L’inchiesta è partita da
un’analisi sulle erogazioni pubbliche destinate a sostenere l’innovazione nel
settore delle energie rinnovabili. I militari […] hanno ricostruito il percorso
di un finanziamento da un milione di euro, concesso da Banca Progetto S.p.A. e
garantito da Mediocredito Centrale – Banca del Mezzogiorno S.p.A., individuando
un’anomalia significativa: circa 250 mila euro sarebbero stati distratti e
utilizzati per fini personali, del tutto estranei agli obiettivi del progetto.
Il finanziamento era stato concesso per realizzare un impianto di
pirogassificazione – un sistema innovativo per produrre energia rinnovabile a
partire da scarti agricoli e forestali. (lapiazzaweb.it, 16 luglio)
Antonio Mancini è un noto personaggio della malavita romana. Ex membro della
Banda della Magliana, poi collaboratore di giustizia dopo vent’anni di carcere,
oggi è accompagnatore per persone con disabilità a Jesi. Accattone (era questo
il suo soprannome) ha ricominciato da qualche tempo a parlare – l’ha fatto di
recente in una puntata dell’insopportabile podcast condotto da Fedez e Mister
Marra – dei suoi trascorsi criminali e, ovviamente, della scomparsa di Emanuela
Orlandi. Ben pratico dello sport preferito da decine di altri accattoni, ovvero
quello di millantare la conoscenza di elementi sensazionali sulla sparizione
della Orlandi, alla fine Mancini non dice niente di concreto, né tantomeno,
naturalmente, fa nulla per agevolare l’avanzamento sulla ricerca della verità;
gli riesce benissimo invece riaprire ferite mai sanate a una famiglia distrutta
da un intrigo più grande di lei, che ha coinvolto Stato, Vaticano, servizi
segreti e chissà chi altri (approfondimento buono per neofiti della materia
è Vatican Girl, documentario del 2022 che pure non sfugge a tentazioni
voyer-complottistiche, ma ha almeno il merito di fare una onesta ricognizione di
tutto quanto successo in questi anni).
Dei tanti “misteri italiani” (svariate seconde serate della mia adolescenza sono
state segnate dalla voce di Carlo Lucarelli) era grande appassionato un tizio
che avevo conosciuto all’università nei miei primi anni all’Orientale, e che ho
poi perso di vista da quando è andato a lavorare in una fabbrica, mi pare, in
Veneto. Aveva una bizzarra teoria, vagamente latouchiana, sull’accumulazione dei
beni, che francamente ho dimenticato. Ricordo bene invece che disprezzava gli
scrocconi e propagandava la retorica secondo cui se non vuoi pagare due euro per
andare a sentire un concerto in un centro sociale, ma ne hai in tasca dieci di
fumo e cinque di sigarette, “puoi anche andartene a bere una Best Bräu da
sessantasei a piazza San Domenico”.
È il caso del minor riconoscimento assegnato dagli intervistati al danaro.
Innanzitutto, il danaro è considerato “molto importante” dal 33,3 per cento
degli operai e dal 17 per cento degli impiegati. Questi ultimi salgono al 61,4
(48,6 per cento gli operai) nella considerazione di un’importanza “media”,
mentre rispettivamente il 16,4 per cento di operai e il 21,6 per cento di
impiegati attribuisce “poca importanza” al danaro. […] Per gli operai la
disponibilità è minore rispetto agli impiegati e quindi maggiormente ne
sottolineano la rilevanza. Si consideri a riguardo che l’88,3 per cento del
campione non supera la retribuzione mensile di un milione e mezzo e che la
maggioranza (70 per cento circa) degli intervistati è costituita da operai. […]
Resta comunque il fatto che la bassa posizionalità assunta dal danaro nella
gerarchia dei valori espressi dal campione spinge ad affermare che il valore del
danaro è più associato alla sua funzione estrinseca (il valore d’uso) che al suo
carattere specificamente teleologico. (m. conte, g. di gennaro, d. pizzuti,
l’acciaio dei caschi gialli. lavoro, conflitto, modelli culturali: il caso
italsider di bagnoli)
a cura di riccardo rosa
___________________________
¹ da: Sinite Parvulos, Nanni Loy; in: Signore e signori, buonanotte (1976)
Nota a margine: con questa puntata la rubrica va in ferie, ci rileggiamo a fine
agosto.
(disegno di adriana marineo)
Da mesi l’amministrazione comunale è impegnata a sgomberare con la forza persone
e famiglie – rom e non rom – che occupano appartamenti di case popolari
inagibili e lasciati vuoti. Donne, uomini e bambini finiscono in strada, senza
ricevere assistenza e soluzioni alternative. Allo stesso tempo la Città e la
Regione conducono una campagna di odio pressoché quotidiana contro famiglie rom
– spesso sgomberate dalle stesse case occupate – che vivono in strada
riparandosi in camper e furgoni. Non stupisce il razzismo delle istituzioni, ma
inquieta la collettiva assenza di memoria: le famiglie braccate sono le stesse
che furono cacciate dai campi formali e informali che si trovavano lungo la
Stura, e non solo. La baraccopoli più ampia e abitata, quella di Lungo Stura
Lazio, fu sgomberata nel 2015 grazie alla collaborazione di una cordata di enti
del terzo settore fra i quali figurava Terra del Fuoco.
* * *
L’associazione Terra del Fuoco (TDF) nasce a Torino nel 2001 con l’obiettivo di
promuovere il “protagonismo giovanile”. Appena nata, l’associazione ottiene in
concessione dal comune di Torino una grande struttura dismessa nel quartiere San
Paolo, dove un tempo aveva sede il dopo-lavoro degli operai Lancia. La nuova
sede viene condivisa con altre due associazioni di giovani torinesi: una di
queste è Acmos (Aggregazione, Coscientizzazione, MOvimentazione Sociale), da cui
avrà origine Libera Piemonte, creazione di Luigi Ciotti ed emanazione del Gruppo
Abele; l’altra è Non più da soli che si occupa di far incontrare studenti
universitari interessati a dare sostegno a persone anziane a cambio di una
stanza. Presto le tre realtà danno vita ad una associazione di secondo livello –
Caraglio 101 – che apre il Centro di Protagonismo Giovanile Belleville. Da qui
muoveranno i primi passi futuri esponenti della politica torinese e del privato
sociale, garantendosi una carriera all’interno del terzo settore o sviluppando
legami politici in vista di future tornate elettorali. Alcuni leader infatti
finiranno per candidarsi in partiti nati dalle ceneri del Pci o eredi della
Democrazia Cristiana. È il caso, fra gli altri, di Michele Curto, uno dei
fondatori di Terra del Fuoco, di cui è presidente fino al 2011. Dal 2006 al 2011
Curto è anche referente dell’area europea di Libera e nel 2011 si candida in
Sinistra Ecologia Libertà per appoggiare il Partito Democratico con la
candidatura a sindaco di Piero Fassino.
Il contesto nel quale TDF e la sua leadership muovono i primi passi è quello del
progressivo smantellamento del welfare cittadino seguito alla crisi del 2008 e
legato anche all’enorme debito lasciato dalle olimpiadi invernali del 2006 nelle
casse comunali. Servizi che per decenni erano stati dati in appalto dal Comune a
cooperative storiche della realtà torinese sono tagliati o fortemente
ridimensionati: ha inizio l’era dei bandi e di chi vince al ribasso, con vecchie
e nuove associazioni e cooperative sociali che si ritrovano a competere tra
loro. Nel giro di pochi anni i grandi enti del terzo settore torinese si
trasformano in imprese sociali attive in diversi campi di intervento per
accedere a un maggior numero di bandi al fine di ottenere finanziamenti,
complice anche un “marketing del bene” che coinvolge la società civile
attraverso la creazione di un immaginario politicamente e socialmente impegnato,
mentre parallelamente i soggetti più marginali e fragili da “utenti” diventano
“clienti” dei loro servizi. Questa nuova generazione di enti che incarnano
l’impegno civile e la ragione umanitaria gettano le basi del terzo settore che
osserviamo oggi: sono vere e proprie “imprese del bene” che coltivano,
attraverso azioni simboliche e narrazioni, un capitale politico e sociale in
grado di garantire un ritorno economico.
All’inizio TDF s’impegna nelle politiche giovanili ed educative e tra le varie
attività spicca il Treno della memoria che dal 2005 promuove viaggi nei campi di
Auschwitz e Birkenau per gli studenti delle scuole superiori. In seguito si
specializza nel “settore migranti e politiche sociali”, all’interno del quale
rientrano sia le persone rom che rifugiati e richiedenti asilo.
A partire dal 2006 TDF inizia a lavorare con persone originarie della Romania
che vivono in campi e baraccopoli di Torino o dei comuni limitrofi. TDF diventa
capofila del progetto di “autorecupero” di un edificio nel Comune di Settimo
Torinese, che verrà chiamato “il Dado”, adibito a social housing per persone e
famiglie rom e italiane. All’origine del progetto Dado vi è un rogo accidentale
che nel novembre 2006 distrugge un campo a Mappano dove vivono centinaia di
persone originarie della regione di Timisoara. Le persone e famiglie rimaste
senza casa sono costrette a vagare per mesi tra tendopoli e campi di “emergenza”
gestiti da Croce Rossa e protezione civile. Mentre TDF inserisce alcune famiglie
rimaste senza casa dopo l’incendio (otto in tutto) all’interno del social
housing innovativo, per tutte le altre persone sfollate l’unica possibilità è
cercare rifugio nella baraccopoli di Lungo Stura Lazio, il Platz.
Gli ospiti del Dado devono seguire una serie di regole stabilite
dall’associazione, pena l’espulsione dalla struttura. Gli ospiti non devono solo
farsi carico di parte della ristrutturazione (secondo la pratica definita di
“autorecupero”), ma devono anche firmare un “patto di cittadinanza” che impone
loro il raggiungimento di diversi “obiettivi” come la frequenza scolastica dei
minori e l’inserimento lavorativo degli adulti, in modo da stimolare
l’“autoresponsabilizzazione” e “l’integrazione” delle famiglie coinvolte.
L’esperienza del Dado verrà in seguito riconosciuta come “Best practice”
dall’Unione Europea, accreditando TDF tra le associazioni e cooperative più
autorevoli che storicamente si sono occupate di popolazioni romanì.
Dal 2010 TDF ha avuto in gestione dal comune di Torino il campo informale di
corso Tazzoli, in zona Mirafiori sud, abitato da circa tredici anni da oltre
duecento persone povere, originarie della Romania, etichettate come “rom”. Anche
in questo spazio, in linea con l’esperienza del Dado, vige un regolamento
redatto dall’associazione su chi può o non può risiedere e accedere nel campo o
intraprendere un viaggio, insieme ad altre forme di controllo e le relative
sanzioni. Nella gestione del campo TDF collabora con il nucleo nomadi, un nucleo
della polizia municipale apertamente di tipo etnico specializzato nella gestione
dei “rom” e nato a Torino nei primi anni Ottanta.
Nel 2009 per il comune di Torino è diventato troppo dispendioso e problematico
gestire i numerosi campi rom definiti legali, creati cioè dalle stesse
istituzioni a partire dagli anni Settanta. Così il comune affida la gestione dei
campi autorizzati (quello in via Germagnano e quello in strada Aeroporto) alle
cooperative Valdocco, Liberi Tutti, Stranaidea, all’associazione
Aizo (Associazione Italiana Zingari Oggi) e alla Croce Rossa. Nel gennaio 2010
inizia il progetto Selarom (che significa “villaggio rom”) nel campo di via
Germagnano e strada Aeroporto. Selarom è realizzato dalle stesse cooperative e
associazioni strutturate in Rtc (Raggruppamento temporaneo di concorrenti). Alla
fine del 2011 Terra del Fuoco entra ufficialmente nella cordata di associazioni.
Nel 2010 TDF ha già iniziato alcune attività all’interno della più grande
baraccopoli torinese che si trova in Lungo Stura Lazio, nella zona nord della
città, dove vivono circa duemila persone povere, rom e non rom, originarie della
Romania. Anche in questo caso istituzioni e forze dell’ordine etichettano tutti
gli abitanti dell’insediamento come “rom”. A partire da agosto 2010 ha luogo una
“bonifica” dei rifiuti presenti nella baraccopoli, promossa da TDF e inserita in
una più ampia campagna di volontariato a cui fa capo Legambiente con il
patrocinio del comune di Torino e della regione Piemonte. L’iniziativa, a cui
viene dato particolare risalto mediatico, rappresenta al contempo un’operazione
di polizia e una strategia per iniziare a separare i poveri “buoni” dai
“cattivi”. In quest’occasione soci di TDF e volontari vengono immortalati mentre
spalano rifiuti o addirittura li rimuovono a mani nude (come ricordano alcuni
abitanti di Lungo Stura Lazio) e lo stesso Curto, presidente dell’associazione,
dichiara a La Stampa che i partecipanti rom alla pulizia dimostrano «di volersi
integrare» a differenza di «chi invece tende a vivere di espedienti a danno
della collettività». Poco dopo la bonifica del campo Michele Curto lascia la
presidenza di TDF per candidarsi con Sel e viene eletto in consiglio comunale.
Nello stesso anno delle elezioni comunali si prospetta l’arrivo di un ingente
finanziamento per la Città di Torino grazie ai fondi stanziati dal ministero
dell’Interno per la cosiddetta “Emergenza nomadi”. Ha così inizio nel 2013 un
mega-progetto di oltre cinque milioni di euro che il Comune affida al
raggruppamento temporaneo d’impresa formato dalle stesse organizzazioni del
progetto Selarom. Questa volta gli enti del terzo settore hanno presentato il
progetto La città possibile, il cui scopo dichiarato è ancora una volta
“realizzare percorsi efficaci di integrazione e di cittadinanza” per le circa
1300 persone “rom” che abitano nei campi di Lungo Stura Lazio, corso Tazzoli,
via Germagnano, strada Aeroporto. Nei fatti viene finanziata l’enorme macchina
dello sgombero della baraccopoli di Lungo Stura Lazio dove in realtà vivono – a
dispetto del censimento dei responsabili e della prefettura – oltre duemila
persone. Gli abitanti classificati come “meritevoli” devono firmare un “patto di
emersione” dall’illegalità e partecipare attivamente allo sgombero distruggendo
la propria baracca. I “meritevoli” selezionati dalle organizzazioni umanitarie
vengono collocati in case o strutture reperite dalle stesse associazioni e
cooperative sul mercato privato degli affitti (come lo stabile di corso Vigevano
41, di proprietà del noto palazzinaro Giorgio Molino) o devono accettare il
rimpatrio “volontario” in Romania. Nell’arco di pochi mesi, o al massimo di un
anno, queste stesse persone e famiglie vengono sfrattate a causa della fine dei
fondi del progetto che sostenevano i costi dell’affitto, mentre tutti gli altri
sono costretti a costruire una nuova baracca in altri campi e baraccopoli della
città.
Quando la grande operazione militare di sgombero della baraccopoli è quasi
giunta al termine, emergono alcune inchieste giudiziarie che di fatto non
portano a nulla, ma che svelano alcuni aspetti interessanti sulla gestione dei
fondi e sui costi sostenuti da cooperative e associazioni. Una delle inchieste
si chiude nel dicembre 2017 con la sola accusa di “truffa aggravata” contestata
agli esponenti di Valdocco e Terra del Fuoco contro cui lo stesso comune si
costituisce parte civile.
A fine progetto (novembre 2015) le ultime famiglie escluse da La città
possibile, insieme a un gruppo di solidali e alle altre persone e nuclei che nel
frattempo sono stati sfrattati dalle varie, insostenibili soluzioni abitative,
decidono di occupare un lato dell’ex-caserma di via Asti, uno spazio enorme di
circa ventimila metri quadrati nella precollina torinese. L’ex-caserma però è
già stata “occupata” nell’aprile dello stesso anno da alcuni membri di TDF che,
mossi da valori civici e democratici, dichiarano di voler utilizzare la
struttura per chi si trova in condizioni di disagio abitativo e sociale. Qui nel
corso dei mesi TDF organizza eventi sociali e culturali con la collaborazione di
accademici, intellettuali e politici di sinistra o di orbita Sel. In questa fase
il Comune assume direttamente il ruolo di mediatore tra TDF e la Cassa Depositi
e Prestiti, proprietaria dell’edificio, avviando una trattativa segreta affinché
la struttura resti ai giovani volenterosi dell’associazione. Quando giungono le
famiglie rom rimaste senza casa e senza alcuna alternativa abitativa, le
istituzioni decidono di agire con forza: prefettura, questura e Comune
sgomberano in grande fretta tutti gli occupanti della vecchia caserma, compresi
quelli di TDF.
Lo sgombero dell’ex-caserma e l’inizio delle inchieste giudiziarie e
amministrative legate al progetto La città possibile segnano per l’associazione
un rapido declino d’immagine, accompagnato da difficoltà di ordine politico.
Michele Curto ha iniziato da tempo un’attività imprenditoriale nel settore della
produzione del caffè a Cuba e altri dirigenti e amministratori di TDF fondano
una nuova cooperativa sociale, Babel, che partecipa a bandi pubblici e privati.
La cooperativa Babel partecipa da subito al nuovo progetto di sgombero delle
palazzine occupate dell’Ex-Moi nella zona sud di Torino, portato avanti da vari
enti torinesi del terzo settore che si spartiscono gli ingenti fondi messi a
disposizione da ministero dell’Interno e dalla Compagnia di San Paolo
(2017-2019). Anche in questo caso l’obiettivo è sgomberare in modo “dolce” circa
mille e cinquecento persone con la diretta partecipazione degli sgomberati che
finiscono, in una minima parte, in progetti definiti di “terza accoglienza”.
Questa, certo, è un’altra storia, parte di un più ampio, feroce, disegno
complessivo. (voce a cura di manuela cencetti)
______________________________
QUI L’INDICE DELLA CARTOGRAFIA
(disegno di sam3)
Torno a trovare Marta. È al telefono, come quasi ogni giorno da mesi, alla
ricerca di un medico, un funzionario, un referente che possa indicarle come
muoversi. È la prima volta che il suo inguaribile ottimismo retrocede
all’imperativo di trattenere le lacrime. Suo figlio, Silvio, ha ventisette anni.
Da dicembre è trattenuto nell’articolazione psichiatrica del carcere di Salerno,
in
attesa di un trasferimento in comunità terapeutica: un trasferimento che, accertata la
sua assoluta incompatibilità con il carcere, il giudice ha già autorizzato in via teorica,
ma che nei fatti non riesce ancora a concretizzarsi.
Nel frattempo si accumulano colloqui, tentativi, rinvii. Il tribunale non può
validare senza un documento o un modulo firmato. Tutto è paralizzato da una
catena di responsabilità frammentate: Asl, Uosm, Uepe, Serd, tribunali. Organi
distinti con compiti precisi che però, proprio nella loro parcellizzazione,
favoriscono una deresponsabilizzazione diffusa nella presa in carico delle
persone. In questo quadro, ogni rinvio e indecisione producono conseguenze
faticose e danni concreti.
Silvio è affetto da schizofrenia paranoidea, diagnosi documentata a partire dal
2018 dall’Asl territoriale (Uosm 9 di Agropoli), dopo un primo Trattamento
sanitario obbligatorio e anni di sintomi evidenti: dispercezioni uditive,
comportamenti disorganizzati, oscillazioni tra rabbia e chiusura, e un abuso
cronico di sostanze iniziato in adolescenza. Il suo quadro clinico dovrebbe
rientrare in quella condizione nota come comorbilità psichiatrica, o “doppia
diagnosi”.
Questa vicenda si sviluppa lungo quasi un decennio di segnali discontinui, negazioni
e tentativi frammentari di cura. Tutto comincia in adolescenza, quando i primi
segni di sofferenza vengono interpretati, come spesso accade, secondo letture
rassicuranti: una crisi passeggera o una fase delicata della crescita. Con il
tempo, e non senza esitazioni, la famiglia inizia a confrontarsi con una
fragilità più profonda, difficile da decifrare. Ma prendere consapevolezza del
disagio psichico non è mai un processo lineare: richiede tempo, strumenti, e una
trasformazione lenta anche dello sguardo di chi accompagna. Le resistenze non
sono solo del soggetto, ma anche dell’ambiente intorno: affettive, culturali,
spesso inconsce. In un contesto sociale in cui il disagio mentale è ancora
circondato da
stigma, paura o rimozione, le famiglie si ritrovano spesso senza un linguaggio adeguato,
senza riferimenti condivisi, senza una rete in grado di accompagnarle. La
diagnosi, arrivata nel 2018, non dà avvio a un percorso strutturato, ma rimane
un’etichetta sospesa, priva di un progetto in grado di sostenerla. A complicare
tutto sopraggiunge la negazione ostinata della malattia da parte di Silvio che
ha reso ogni intervento clinico discontinuo e frammentato. La famiglia, spesso
sola, comincia a muoversi tra servizi diversi, ricoveri e dimissioni, cercando
di orientarsi in un sistema che non sempre riconosce la continuità come parte
essenziale della cura.
Negli ultimi mesi lo stato di Silvio si aggrava. Sviluppa un’ossessione
crescente verso i vicini, convinto siano l’origine di insulti e persecuzioni.
Ciò che altrove sarebbe riconosciuto come un episodio di dispercezione uditiva
all’interno di un quadro psicotico qui diviene il preludio al crollo. A
novembre, dopo alcuni episodi di aggressività, viene arrestato. Il giudice
dispone i domiciliari, ma li stabilisce nella stessa casa accanto al contesto
persecutorio da cui Silvio cercava di difendersi: un cortocircuito inevitabile.
Silvio evade e viene trasferito in carcere.
Da quel momento, la sua condizione psichiatrica viene progressivamente
soppiantata da quella di reo. La malattia scompare dal lessico istituzionale,
resta quasi come premessa accessoria, e il caso comincia a muoversi secondo
tempi incompatibili con l’urgenza della sua condizione. Dopo circa un mese di
detenzione, Silvio riesce almeno a essere trasferito nell’articolazione
psichiatrica della casa circondariale di Salerno. Lì, la gestione sanitaria è
affidata all’area penitenziaria dell’Asl. Ma da quel momento, nessun contatto
viene permesso tra la famiglia e l’équipe medica. Pec, mail, richieste di
incontro vengono tutte ignorate. I familiari cercano allora di supplire, da
soli, con la raccolta di documentazione, contattando comunità terapeutiche,
medici, garanti, cercando una soluzione che possa sbloccare una condizione
arenatasi nel silenzio.
La vicenda di Silvio mette in luce criticità strutturali che emergono ogni
qualvolta la risposta istituzionale resta incerta e frammentata. Non solo in
ambito sanitario, ma anche giuridico, sociale e psicologico. È da casi come
questo che si misura l’efficacia, o l’assenza, della psichiatria pubblica.
Quando la malattia mentale incrocia la giustizia penale, smette spesso di essere
trattata come una questione sanitaria. Diviene marginale, mentre il peso delle
decisioni ricade altrove: sul controllo del rischio e sulla gestione
dell’ordine.
Dopo mesi di rinvii e scarsa coordinazione, il giudice accoglie la richiesta di
patteggiamento con misura alternativa: un anno e otto mesi da scontare in una
struttura alternativa al carcere. Ma questa possibilità resta ancora soltanto
teorica. Per procedere con un invio a una comunità, è infatti necessario che
l’accesso avvenga attraverso una presa in carico da parte dell’Asl o del Serd, o
da entrambi in presenza di una doppia diagnosi. Nel caso di Silvio, però, l’Asl
si rifiuta tuttora di formalizzare qualunque passaggio, negando inoltre la
componente di dipendenza, nonostante se ne attesti la presenza da relazioni
cliniche precedenti. Di conseguenza, il Serd non può intervenire autonomamente,
poiché Silvio non è iscritto al servizio e l’attivazione di una presa in carico
interna al carcere si sta rivelando un processo farraginoso, quasi kafkiano.
Silvio vive così in un limbo giuridico e istituzionale. Detenuto in attesa,
trattato come colpevole, senza alcun margine di elaborazione su quel che è
accaduto. L’impossibilità di comprendere il proprio presente, o di immaginare un
“dopo”, non è solo un effetto collaterale, è il catalizzatore di una condizione
psichica che peggiora progressivamente.
Nel frattempo, il giorno precedente l’udienza che avrebbe dovuto finalmente
concretizzare il patteggiamento, già rinviata numerose volte e datata poi al 16
maggio, emerge l’ennesimo cortocircuito del sistema. L’Asl penitenziaria di
Salerno invia al giudice una relazione in cui si sostiene che “allo stato non
sono presenti sintomi di acuzie clinica tali da non poter essere curati negli
attuali luoghi”, cioè il carcere. Il documento dipinge un’immagine parziale e
ambigua del paziente. La dipendenza da sostanze viene minimizzata, la negazione
della malattia non è riconosciuta come tratto strutturale della stessa, mentre
l’aderenza alla realtà viene valutata esclusivamente sulla base di dichiarazioni
rese da un soggetto ristretto in un contesto tutt’altro che neutro, senza
coinvolgere chi ha potuto restituirne la complessità della storia. Il consumo di
cannabis è attribuito a un uso esclusivamente “ludico-ricreativo”,
contraddicendo tra l’altro precedenti diagnosi che parlavano invece di una
dipendenza reale e cronica. Questo giudizio arbitrario non solo sottovaluta la
patologia, ma esclude di fatto Silvio dall’accesso alle comunità specializzate
nella doppia diagnosi, quelle che sembrerebbero più adatte alla sua situazione.
Nel rapporto si legge inoltre che la “non consapevolezza e volontarietà a partecipare
a percorsi di cura” costituisce un “elemento prognosticamente inficiante un buon
esito”. Qui si apre il primo grande paradosso: chi, per struttura della propria
malattia, nega di averne bisogno, viene escluso dall’accesso alle cure proprio
per tale ragione. La storia di Silvio non è solo la cronaca di un caso di
negligenza istituzionale, ma racconta una condizione umana e clinica di grande
complessità.
Silvio è un giovane che da anni nega la propria malattia, come spesso accade in
quei disturbi psichici che incidono sulla percezione del reale e sul senso di
sé. Negare la malattia, in casi come questo, non è un rifiuto superficiale o
volontario, ma si concretizza come una struttura profonda dell’esperienza
personale, una modalità di difesa indispensabile per non crollare in uno stato
di totale spaesamento. Qui sorge una domanda cruciale e mai risolta: come si
accompagna una persona che soffre di psicosi verso una graduale consapevolezza
della propria condizione?
L’esperienza insegna che non si tratta di un processo automatico né di un
protocollo applicabile meccanicamente. È un percorso che richiede prossimità e
continuità, un’alleanza terapeutica che non può prescindere dal contesto
relazionale in cui la persona vive. Un percorso che rimane oggi ancora carico di
troppe domande e troppe poche risposte. È noto ormai che, dopo la chiusura dei
manicomi, la funzione di contenimento non sia scomparsa ma abbia assunto nuove
forme, disseminandosi in una costellazione di strutture: comunità terapeutiche,
Rems, Spdc, strutture residenziali, articolazioni psichiatriche del carcere.
Queste strutture agiscono in ordine sparso, secondo logiche eterogenee e
obiettivi raramente condivisi. In questa frammentazione, la figura stessa del
soggetto psichiatrico tende a dissolversi: non più un paziente da accompagnare
nel tempo, ma un caso da collocare e un corpo da contenere. Le comunità
terapeutiche, spesso pensate come luoghi di ripartenza, finiscono per escludere
proprio quei soggetti che più avrebbero bisogno di uno spazio di legame: chi è
troppo reticente e non ha ancora accettato la diagnosi, chi fatica a tradurre il
proprio disagio nei linguaggi riconosciuti dalla clinica. Si rimanda allora a
strutture intermedie, come le cliniche, che nei fatti reiterano una logica
contenitiva, configurandosi non come luoghi di soggettivazione, ma di gestione,
dove la cura coincide esclusivamente con la somministrazione farmacologica e
l’attenuazione del sintomo.
Nei casi più complessi, in cui il disturbo psichico intercetta il codice penale, la filiera
della cura si interrompe del tutto. Si ricorre allora alle Rems (Residenze per
l’esecuzione delle misure di sicurezza) o, come nel caso di Silvio, direttamente
al carcere, che diventa l’ultimo contenitore residuale. In entrambi i casi, la
finalità terapeutica si intreccia a quella detentiva, e il tempo della cura si
può svuotare in una durata indeterminata della custodia. In nome della
sicurezza, il trattamento psichiatrico assume i tratti della reclusione. Queste
strutture divengono un prosecuzione muta dell’apparato manicomiale, la sua ombra
più opaca: ne conservano la logica di segregazione, ne aggiornano i linguaggi,
ne oscurano la violenza dietro il lessico tecnico della tutela.
Nel sistema carcerario la malattia mentale non è trattata, ma gestita come un
problema di ordine. Da qui emerge lo snodo centrale: non la diagnosi in sé, ma
la totale assenza di potere contrattuale del malato, che non ha voce, non ha
strumenti, e spesso non ha altra possibilità di espressione se non attraverso
comportamenti estremi, ab-normali, disfunzionali. Qualunque sia la sua
condizione mentale, l’uomo finisce per identificarsi sempre con le leggi che lo
internano. L’apatia, il disinteresse e l’insensibilità che spesso vengono letti
come sintomi della malattia, sono in realtà una forma estrema di difesa:
l’ultima risorsa che il soggetto oppone a un mondo che prima lo esclude e poi lo
annienta. Accogliere l’eredità della lezione basagliana significa comprendere
che non è tanto la diagnosi a produrre la malattia, quanto il rapporto di potere
che si instaura tra il medico e il paziente, tra curante e curato.
Finché quel rapporto è fondato su un’autorità unilaterale, terapeutica e istituzionale,
il malato si adatterà al ruolo che gli viene cucito addosso, anzi in questa
oggettivazione troverà quasi sollievo perdendo ogni volontà di agire, di
responsabilizzarsi, di riconoscersi come soggetto. È in quel rapporto che la
regressione si consolida, e si fa cronica.
Se è vero dunque che il problema non è tanto la malattia, quanto il tipo di
rapporto che si stabilisce con il malato, allora vien da chiedersi: che tipo di
rapporto si sta stabilendo oggi tra paziente e istituzioni che dovrebbero
occuparsi della sua cura? Nessuna cura è possibile se l’unica forma di azione
risulta essere quella penale e l’unico margine d’azione del soggetto consiste,
nel migliore dei casi, nel rifiuto e nella protesta. Se il malato non può
aderire al progetto terapeutico, perché per struttura nega la malattia, allora è
la comunità che dovrebbe farsi carico, con lucidità e fermezza, della sua
tutela.
Quando il manicomio non è più una struttura unica e visibile, ma una funzione
diffusa e condivisa, allora la sua violenza si fa più sottile e insidiosa,
perché si nasconde dietro le pieghe della burocrazia e del linguaggio tecnico, e
rende sempre più difficile individuare responsabilità, nominare l’esclusione,
rivendicare un’altra possibilità. In questo scenario, ciò che manca non è solo
un luogo, ma una disposizione etica: un desiderio di prendersi cura che sappia
farsi carico della fragilità, dell’ambivalenza e del tempo necessario. Finché la
psichiatria continuerà ad agire come dispositivo selettivo, che cura solo chi si
dimostra già adatto alla cura, chi ne parla nei termini giusti, chi ne accetta
il linguaggio e le regole, resterà incapace di raggiungere proprio chi più ne ha
bisogno.
Quando la situazione di Silvio si è aggravata, l’Uosm di Agropoli ha cominciato
a suggerire come unica via possibile per attivare un percorso terapeutico
strutturato la denuncia penale: solo così, vista l’ assenza di un obbligo di
cura e della volontà esplicita del paziente, i familiari avrebbero potuto
costruire un aggancio istituzionale e una rete solida. Una prospettiva difficile
da accettare per Marta e suo marito Giorgio, che hanno esitato a lungo prima di
considerare praticabile una strada che li avrebbe condotti a un paradosso
crudele: dover proteggere chi soffre attraverso un atto che può apparire come un
abbandono, o peggio ancora, come un tradimento.
Assumere un simile ruolo, per un genitore, significa entrare in contraddizione
profonda con se stessi, cortocircuitando un sistema emotivo già provato. Chi da
anni convive con la malattia di un figlio spesso si muove in un terreno fragile,
segnato da sensi di colpa stratificati e da una difficoltà strutturale a porre
confini netti, soprattutto quando non si è riusciti a farlo nei momenti cruciali
della crescita. Agire in qualunque senso diviene allora ancora più complesso. Il
rischio è quello di insistere proprio su quella spirale silenziosa di colpa, in
cui ogni scelta appare sbagliata: restare fermi significa lasciare soffrire e
soffrire, mentre intervenire rischia di essere percepito come un atto di
violenza ulteriore. Allora che fare? Si attende mentre la tua vita retrocede
progressivamente davanti al dolore di un figlio. Normalizzazione dell’impotenza.
Poi la denuncia arriva dai vicini, il fatto che a pronunciarla sia una voce
terza, a tratti quasi impersonale, sembra per un istante alleggerire il carico
insostenibile della scelta. Come se da fuori giungesse quasi un verdetto
oracolare: qualcosa deve cambiare. Allora ci si riorganizza, sperando sia più
semplice, si tenta di leggerlo come un punto di rottura da cui costruire una
presa in carico integrata. Ma quella rete, promessa allora come necessaria,
fatica oggi ad attivarsi.
In quella stessa relazione si legge ancora che il comportamento frequentemente
disfunzionale di Silvio non sarebbe tanto legato alla sua condizione
psichiatrica, quanto piuttosto espressione di uno stile di vita coerente con il
suo retroterra
educativo, affettivo e culturale; come se le difficoltà derivassero in misura prevalente
dalla sua storia familiare e dal contesto di vita. Ma se davvero si ritiene che il disagio
sia radicato anche nel contesto sociale, risulta ancora più inspiegabile
l’esclusione sistematica della famiglia da qualunque processo di cura.
Il punto non è idealizzare i legami familiari, ma riconoscerne la portata
concreta. In una psichiatria che ambisce a essere comunitaria, non è pensabile
costruire percorsi terapeutici efficaci ignorando il luogo da cui quella
soggettività proviene e al quale inevitabilmente farà ritorno. Escludere la
famiglia, senza ascoltarla e senza tentare di responsabilizzarla in modo
condiviso, significa reiterare quella frammentazione sistemica che continua a
rendere la cura un’astrazione inapplicabile.
Nei successivi mesi, numerosi altri patteggiamenti sono stati rinviati, a causa
di una cronica mancanza di coordinazione tra i diversi soggetti coinvolti. Marta
e Giorgio, consapevoli dell’impasse e della lentezza burocratica, avevano deciso
di agire in via privata, nonostante l’ingente onere economico che questo avrebbe
comportato, rivolgendosi a una comunità in Umbria. Un gesto consapevole per
interrompere una catena di negligenza istituzionale che sembrava inarrestabile.
Questa scelta rappresentava un tentativo di restituire a Silvio un margine di
azione e di speranza, un modo per dimostrargli che esisteva una possibilità di
cura al di fuori del limbo in cui era stato confinato, e che sarebbe bastato
portare pazienza ancora per poco. Per un ragazzo che da anni rifiuta ogni
etichetta clinica e ogni offerta di aiuto, l’accettazione, seppur esitante, di
prendere parte ai colloqui con comunità terapeutiche, è già un atto carico di
senso. È un’esposizione fragile, spesso rischiosa e temporanea, che rende
necessari accompagnamento e presenza. Non si può chiedere a chi ha appena
cominciato a sporgersi oltre la soglia del rifiuto di reggere, da solo, il peso
dell’incertezza istituzionale. Ogni rinvio, ogni data annunciata e poi smentita,
ogni promessa disattesa, rischiano di frantumare quello spazio minimo di fiducia
aperto a fatica.
Un primo colloquio era stato fissato con la comunità terapeutica proposta dalla
famiglia, in vista dell’udienza inizialmente prevista per il 9 luglio.
Parallelamente, un medico della Uosm territoriale di Agropoli, animato da un
improvviso risveglio di coscienza, aveva deciso di superare le resistenze
dell’Asl di Salerno e procedere autonomamente con un invio verso un’altra
comunità di Salerno, specializzata nel trattamento delle tossicodipendenze, con
la promessa di un programma condiviso per la parte psichiatrica. Gli incontri,
entrambi calendarizzati per il 27 giugno, sono stati compromessi da una gestione
organizzativa fallimentare: solo il colloquio con la comunità proposta dall’Uosm
ha potuto svolgersi, mentre l’altro appuntamento veniva riprogrammato per il 3
luglio. Questo ha determinato un ulteriore rinvio dell’udienza, fissata poi per
il 16 luglio. Nonostante le richieste della famiglia di estendere le possibilità
praticabili con invii a più comunità, il medico dell’Uosm ha mantenuto una
posizione rigida, convinto della validità del percorso intrapreso, dichiarandosi
ottimista sulla buona riuscita dell’inserimento. Invece proprio la comunità da
lui segnalata ha poi comunicato l’impossibilità di avviare l’inserimento prima
di settembre.
Nel frattempo, la comunità privata contattata dalla famiglia ha comunicato la
propria indisponibilità ad accogliere Silvio. Pur trattandosi di una struttura
specializzata nella doppia diagnosi, il contesto richiede da parte del paziente
un certo grado di consapevolezza, partecipazione emotiva e impegno relazionale.
Secondo questa comunità un inserimento oggi sarebbe prematuro, e si dovrebbe
prevedere prima un passaggio clinico residenziale più contenitivo, capace di
accompagnare l’emersione di una maggiore consapevolezza e stabilità. Tale
valutazione, seppur lucida su un piano teoricamente clinico, rende evidente la
contraddizione strutturale già emersa: l’accesso alla cura viene subordinato a
requisiti quali motivazione, lucidità, adesione al percorso, che sono spesso
proprio ciò che la cura dovrebbe iniziare a rendere possibili. La selettività
dell’accoglienza finisce per escludere proprio i soggetti che più avrebbero
bisogno di essere accolti, relegandoli a strutture unicamente contenitive. Di
fatto, entrambe le risposte rendono impossibile formalizzare in tempo utile
l’esecuzione del patteggiamento, che resta a oggi l’unica alternativa concreta
alla detenzione. L’udienza del 16 luglio è l’ultima possibile: in assenza di un
progetto di accoglienza, si procederà a rito abbreviato, esponendo Silvio al
rischio di un processo penale e a un ulteriore aggravamento del quadro psichico.
L’ impressione è che l’Asl penitenziaria non voglia assumersi la responsabilità
del passaggio in comunità per il timore che Silvio possa allontanarsi e
compromettere l’incolumità di soggetti terzi. Un timore comprensibile, ma che
solleva una questione più profonda: che tipo di atto terapeutico può fondarsi
esclusivamente sulla prevenzione del rischio? Ogni percorso terapeutico serio
presuppone un margine di fiducia, e quindi di rischio. Se la priorità resta solo
quella di evitare la fuga, la responsabilità sanitaria si riduce a gestione del
pericolo. Le argomentazioni legate alla sicurezza, all’emergenza, alla
potenziale pericolosità del paziente psichiatrico, non fanno che riproporre,
sotto nuove vesti, il vecchio pregiudizio della follia come minaccia. Quando
questo pregiudizio orienta le scelte, l’isolamento e la contenzione appaiono
dunque quasi naturali.
La vicenda di Silvio non è solo il racconto di una fragilità individuale, è una
forma strutturale di logoramento che riguarda chiunque si trovi costretto a
muoversi negli interstizi di un sistema che promette cura ma esercita solo
controllo. L’atto di fiducia compiuto da Silvio, accettare il confronto e
tentare di intravedere una possibilità, rischia ora di infrangersi contro
l’ambiguità di una risposta incapace di restituire continuità e
reali responsabilità. Nel frattempo, all’alba dell’ennesima visita in carcere,
Marta e Giorgio mi chiedono: come possiamo spiegare a Silvio che anche questa
volta nulla è cambiato? Per uno sguardo già popolato da demoni persecutori, non
è solo l’ennesimo rinvio burocratico, ma l’ulteriore conferma, che nessuno stia
dicendo la verità. Io cerco qualche cenno di solidarietà nella totale
impraticabilità delle parole e a mia volta mi chiedo: come si nomina il
logoramento quotidiano che tante famiglie, come questa, si trovano a
fronteggiare da sole? Settimane intere trascorse a inseguire risposte mai
definitive, aggrappandosi a promesse informali e mail senza seguito.
Come si raccontano queste vite sospese a un telefono nel terrore di mancare la
chiamata decisiva? Non si attende solo una voce, di un figlio che chiama
disperato dal carcere come di un funzionario che forse darà una risposta, si
attende il riconoscimento di una condizione che, fuori dal linguaggio
dell’urgenza penale, continua a non trovare forma. Ogni venerdì porta con sé
l’eco di un “forse” che il lunedì smentisce. E nel frattempo la vita,
lentamente, si ritrae: non scompare, ma si trasforma in gestione: del tempo,
dell’angoscia, della speranza. Una gestione silenziosa in cui l’attesa diviene
la sostanza stessa dell’esperienza. Il tempo assume l’incedere di un ingranaggio
rotto. Non è la malattia ad arrestarlo ma l’apparato. Una macchina che non
produce soggetti da curare, ma corpi da gestire, da valutare in base alla
governabilità. E intorno a questa macchina, come intorno a un centro vuoto,
ruotano organi distinti, parcellizzati, ciascuno convinto di non poter, o non
dover, fare il primo passo. (vera nau)
(archivio disegni napolimonitor)
Puntuale ogn’anno, come il due novembre della Livella di Totò, si ripresenta a
ogni estate la solita ostruzione coatta alla foce del Lago Patria. La diga di
sabbia è stata piazzata all’inizio di luglio, più o meno come lo scorso anno,
quando la manomissione artificiale della foce determinò la morìa di pesci per
ipossia, con relativa emersione a galla dei cadaveri. Questa manovra, che
deturpa gravemente l’ecosistema del lago, avrebbe lo scopo di “preservare” il
tratto di costa tra Varcaturo e Ischitella dai reflui che si riversano nel
bacino. L’unico risultato è però, piuttosto, quello di trasformare il lago in
una vasca stagnante dove la temperatura si innalza a dismisura e la fauna
acquatica muore soffocata.
Dal 1999 il lago fa parte della Riserva naturale Foce Volturno-Costa di Licola,
un’area protetta regionale che ha accorpato e ampliato altre aree già protette.
“È una questione che denunciamo da anni, ma che continua a ripetersi”, dichiara
Giovanni Sabatino, presidente dell’Ente Riserva Foce. “Nel lago arrivano, a
mezzo della centrale idrovora di Patria, le acque provenienti dal canale Vena,
per una superficie complessivamente drenata di circa duecento chilometri quadri.
Tutto il carico inquinante arriva così al lago. A settembre 2024 abbiamo
costituito un tavolo tecnico con attori istituzionali e non, per opporci all’uso
criminale del lago come discarica dove vengono smaltiti rifiuti soprattutto
liquidi di natura organica, ma anche chimica, attraversando i canali di aree a
forte vocazione agricola”. Il tavolo sembra ben apparecchiato: vi partecipano il
presidente della Commissione regionale ambiente, Giovanni Zannini; il vice
presidente della Commissione parlamentare ecomafie, Francesco Emilio Borrelli; e
poi Fulvio Bonavitacola, vicepresidente della regione Campania, Maria Antonietta
Troncone, procuratore capo di Napoli Nord, Gabriella Maria Casella, presidente
del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, e ancora i sindaci di Castel
Volturno, di Villa Literno e l’ex primo cittadino di Giugliano. Tuttavia, misure
concrete per l’individuazione degli scarichi illegali non sono state ancora
prese e dopo quasi un anno, l’“usanza” si ripete puntuale (nessuna risposta o
dichiarazione in merito ci è stata fornita dalla polizia municipale di Castel
Volturno, che ha giurisdizione sulla foce; da quella di Giugliano, che ha
giurisdizione sul lago; dalla protezione civile e dalle segreterie dei sindaci).
Come storicamente documentato, fasi di profonda distrofia estiva del Lago
Patria, con morìe di massa della fauna ittica, si verificavano regolarmente
anche negli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo. Tuttavia, si legge in
uno studio del Cnr-Irsa, “il precipitare delle condizioni ecologiche del lago,
con relativi episodi di mortalità in massa nel periodo estivo, è dovuto in modo
preponderante allo scarso ricambio col mare, a causa dell’occlusione, quasi
costante, del tratto finale del canale di foce per l’apporto di sabbia dovuto
alle mareggiate. L’occlusione è talvolta favorita, o volutamente mantenuta –
specie in periodo estivo, quando il lago avrebbe maggior necessità di ricambio
delle acque – per non compromettere la balneazione (e gli interessi economici)
nei lidi presenti sugli adiacenti tratti di costa”.
A fronte della progressiva e selvaggia urbanizzazione del territorio, avvenuta
senza la realizzazione di infrastrutture fognarie adeguate e di depurazione
degli scarichi, un question time del 2017 di due consiglieri comunali di
Giugliano chiedeva al presidente del consiglio di rendere conto degli atti
compiuti dall’ente per subentrare alla Regione nella realizzazione del progetto
di risanamento del bacino. Sebbene l’ordinanza del commissario alla depurazione
che approvò il progetto esecutivo sia del settembre 2005, quest’ultimo non solo
a oggi non è stato completato, ma neppure è dato conoscerne lo stato dell’arte.
Lo sversamento del sovrappieno degli scarichi urbani in laguna, intanto,
continua indisturbato, nonostante, sempre nel 2017, in una interrogazione alla
giunta regionale, il consigliere Tommaso Malerba avesse fatto richiesta di
conoscere la quantità di risorse stanziate e impiegate fino a quel momento: le
carte non sono mai arrivate, o sono arrivate in maniera incompleta. Dopo poco i
lavori sono stati addirittura sospesi.
Eppure, tra i vari interventi suggeriti nello studio del Cnr vi è l’apertura del
canale di foce in modo costante, “al fine di assicurare un ricambio più continuo
delle acque lagunari a opera delle maree”. Questa circolazione implicherebbe
anche “un processo di progressiva depurazione del Lago Patria e un minor carico
generale di inquinanti, in modo da non compromettere la balneazione nei tratti
di costa adiacenti, come avviene invece con riaperture della foce effettuate
d’urgenza, quando le condizioni delle acque lacustri sono ormai critiche”.
Sempre nel 2017, in qualità di sindaco della Città Metropolitana di Napoli,
Luigi de Magistris aveva approvato un progetto di fattibilità per “Lavori di
riqualificazione paesaggistica del Lago Patria” nel comune di Giugliano, sulla
base di un finanziamento regionale di otto milioni e seicentomila euro. Il
documento puntava allo sviluppo di strutture turistico-ricettive, delle
infrastrutture collegate al tempo libero e allo sport, alla realizzazione di una
pista ciclabile, la rifunzionalizzazione della strada principale, la creazione
di una fascia boscata e la sistemazione di un’area a verde attrezzato. Quel
finanziamento è andato perduto a causa dell’inerzia istituzionale dei vari enti
coinvolti, e così lo scorso gennaio la Città Metropolitana ha dovuto avviare una
gara d’appalto per un intervento di riqualificazione paesaggistica e
infrastrutturale, per un investimento previsto di sette milioni di euro circa.
L’unico atto concreto si è avuto lo scorso marzo, quando in tutta fretta, prima
di dare le dimissioni (sfiduciato da diciannove consiglieri su venti), l’ex
sindaco di Giugliano Nicola Pirozzi aveva dato avvio ai lavori per il
rifacimento di un complesso sportivo abbandonato, il centro Remiero, dedicato
alla disciplina del canottaggio.
Ritardi, inadempienze, uso inappropriato di risorse finanziarie: l’aggressione
ambientale a questo territorio prosegue impunita. Intanto, nell’ultima indagine
conoscitiva del 23 giugno, l’Autorità nazionale anticorruzione ha evidenziato
tutte le carenze nella progettazione, nell’avvio e nell’esecuzione degli
interventi previsti per la costruzione e per l’efficientamento dei sistemi
depurativi. Su questo tema come su altri, numerose procedure di infrazione da
parte dell’Unione Europea sono al momento aperte. (mena moretta)
(archivio disegni monitor)
5 novembre 2018. Nove di mattina. Due edifici crollano a rue D’Aubagne a
Marsiglia. È il mio quartiere, la strada in cui vivo da dieci anni. Un quartiere
popolare in cui ci si era abituati che le scale degli immobili fossero storte,
che le crepe a muri e soffitti disegnassero ogni mese nuove geometrie. Muoiono
otto persone. I loro nomi e le loro biografie ci scuotono tutti. Studenti fuori
sede, giovani lavoratori, madri di famiglia.
Gli otto morti sono il quartiere, un miscuglio di traiettorie umane che
condividono uno stesso luogo.
Oulome, comoriana, madre di sei bambini, Marie-Emmanuelle, un’artista di
Grenoble, per tutte e due la vita si ferma a 55 anni. Julien, franco-peruviano
ha appena compiuto 30 anni, Fabien è pittore, Taher, tunisino e Cherif,
algerino, sono ospiti a casa di Rachid, che non è lì quella mattina. Sono invece
insieme Simona e Pape, italiani, lei di Taranto, lui di origine senegalese.
La morte di Simona, appena trentenne, forse dà un brivido in più a tutti noi
italiani e italofoni venuti negli anni a vivere qui. La città dà la colpa alla
pioggia. Il sindaco non va sul luogo del dramma perché sta inaugurando un salone
del cioccolato, e si sa, nella vita, e nella politica, ci sono priorità. La
gente si indigna. Scende in strada, protesta, si fa riempire di gas lacrimogeni
da una polizia che forse per imbarazzo reagisce con troppa veemenza.
Un lacrimogeno sbaglia strada e colpisce Zineb, ottant’anni, che guarda la
manifestazione al quarto piano, dalla finestra. Zineb muore. Nove.
Questo va e vieni di manifestazioni, di indignazione e repressione violenta
durano mesi, noi, forse, riscopriamo una dimensione collettiva di abitanti
attraverso il lutto. Come un segreto di Pulcinella si scopre che decine,
centinaia di case sono in pericolo. La gente è espulsa, per ragioni di
sicurezza, alloggiata qualche settimana in un motel all’altro capo della città e
poi dimenticata.
Io ho appena comprato casa, ogni mattina mi informo con la vicina che ha la
madre che lavora in Comune se rischiamo anche noi. Gli espulsi mi somigliano
quasi più che i morti. I bobo. Siamo noi. Tutti per strada perché lo spazio
pubblico è il nostro mezzo di informazione.
E per una volta nessuno guarda agli altri con compassione, nessuno osserva con
un piglio da antropologo la miseria altrui. Popolo in fondo lo si è tutti. Nella
sfiga c’è posto per tutti.
Nel quartiere si iniziano ad aggirare promotori immobiliari che come avvoltoi
per qualche soldo ricomprano le case in cui la gente non può più entrare. Io
faccio fatica a non notare con amarezza l’ironia dei supermercati: quando paghi
ti propongono di dare soldi per Notre-Dame che è bruciata ad aprile: lutto
nazionale. Della rue D’Aubagne e dei suoi morti, invece, ci sono i cartelli, le
voci che gridano con rabbia, ma non certo molta eco tra giornali e discorso di
massa.
7 luglio 2025. Sono passati quasi sette anni. Il tribunale emette la sentenza.
Il sindaco è morto. Né per la pioggia, né per condizioni insalubri: era vecchio.
Ma nel frattempo aveva perso le elezioni, dopo venticinque anni, anche per via
dell’indignazione popolare per il dramma della rue D’Aubagne che aveva portato
alla creazione della Primavera Marsigliese, un movimento popolare che aveva
vinto le elezioni, per la prima volta con una donna sindaco, a dire il vero
durata poco.
Questo processo è sicuramente merito di un movimento che non ha smesso di
rimanere attento, che non ha barattato l’indignazione e la rabbia per niente.
Che si è organizzato.
Nella sentenza si mette in evidenza tutto il sistema di malgoverno e quello
della speculazione sulle abitazioni insalubri e popolari. Si dà finalmente una
faccia ai marchands de sommeil, letteralmente “mercanti di sonno”, che di
poetico hanno solo il nome. Si scopre che sono avvocati, società rispettabili,
funzionari in doppio petto. A ricevere una condanna persino Ruas, vicesindaco e
delegato agli alloggi insalubri della città. Il giudice lascia intuire che solo
la morte ha salvato il vecchio sindaco da essere definito il vero capomafia di
tutto l’inghippo. Eppure, le condanne sono nel peggiore dei casi un anno di
braccialetto elettronico a bordo piscina. Per lo più sono pene di sursis, cioè
stai attento, se lo rifai rischi grosso… Le multe poco più che per un divieto di
sosta. La vita di Simona vale ottantamila, le persone che hanno perso casa, dopo
aver dimostrato che avevano subito un danno psicologico maggiore, possono,
forse, ottenere otto o novemila. Chi non aveva un contratto d’affitto in regola
come potrà dimostrare che viveva lì?
Si esce tutti dalla sala. Un processo importante. Necessario. Una lente
d’ingrandimento sul giochino della mafia che ha scoperto che con più sabbia e
meno cemento si gioca al lascia o raddoppia e soprattutto che la miseria e la
precarietà sono un ottimo supermercato. Eppure si esce sgomenti. Si sono sentite
cose tremende e letti messaggi sconcertanti degli imputati. Parole che trasudano
un disprezzo per l’umano che sembra quasi grottesco. La distanza tra le frasi
perentorie del giudice che li dichiara colpevoli di lunghe liste di atti
vergognosi e le condanne quasi simboliche.
Un meccanismo malsano è stato messo a nudo dal lavoro infaticabile dei
superstiti. La città aveva sei milioni per gestire le case insalubri. Ne ha
spesi solo trecentomila. Ma quel menefreghismo li assolve dal delitto di
corruzione. In tutte quelle case gli abitanti avevano da tempo dato l’allarme.
Un tecnico li aveva rassicurati il giorno prima del dramma. Partiva per la
Grecia il giorno dopo. È dichiarato colpevole di negligenza, ma non di averne
approfittato: la vacanza era prevista da tempo.
Quando i colpevoli escono, la folla grida un qualche indignato “assassini”.
Nelle manifestazioni le urla erano molto più forti, qui lo si grida con voce
rotta. Un avvocato, peraltro della difesa della parte civile, ci rimprovera
dall’alto della sua consapevolezza del bene e del male. «Vergognatevi, non hanno
mica pugnalato qualcuno. Siate grati, senza di noi non avreste mai avuto
giustizia», ci insegna. Immagino Simona, Julien, Taher, Marie Emmanuel, Cherif,
Pape, Ouolume, Fabien. La sentenza ha detto che non hanno avuto paura. Che non
c’è stata agonia. La morte è arrivata improvvisa e per questo il rimborso vale
meno. Quanto fa male una pugnalata? Quanto ci serve questa giustizia edulcorata?
(manuel maria perrone)
Foto di Matteo Ciambelli
Il prossimo settembre ricorrerà il decimo anniversario della riapertura degli
spazi dell’ex carcere minorile Filangieri, oggi Scugnizzo Liberato, a Salita
Pontecorvo. Una tra le attività che lo Scugnizzo ospita – teatro, laboratori,
corsi, doposcuola, iniziative culturali – che ha avuto maggiore risalto
mediatico negli ultimi anni è la Scugnizzo Cup, torneo di calcio a cinque che si
svolge nel chiostro del complesso, con la folla accalcata ai margini del campo e
centinaia di persone affacciate ai quindici balconi del primo piano. Fumogeni,
cori, fuochi d’artificio si alzano dal cortile e dai terrazzi della struttura,
in un’atmosfera che qualcuno paragona alle curve di alcune squadre marocchine.
Prima della finale gli organizzatori sembrano volare basso, quasi
giustificandosi: «Non sarà come gli altri anni, questa volta ci saranno meno
persone, tutto più tranquillo».
Semplicemente, all’inizio manca ancora un po’. Ai balconi ci sono bandiere della
Palestina e striscioni contro il genocidio in corso a Gaza, accanto ai
cartelloni dei tanti sponsor. Un allevamento di Pitbull, un’agenzia di
scommesse, una ditta di fuochi d’artificio, una trattoria. Da un lato c’è la
spinta popolare e autorganizzata, economica e organizzativa, dall’altro si
intuisce il tentativo di qualche grande marchio (vedi Red Bull) di sfruttare
l’immagine del torneo, che negli ultimi anni, soprattutto sui social network, ha
avuto grossa diffusione.
La Scugnizzo Cup è nata nel 2020 anche in risposta alle restrizioni del Covid
sul mondo dello sport: una competizione fra amici dei quartieri del centro di
Napoli. Ai presidenti delle squadre partecipanti sono imposti alcuni limiti
nella composizione delle rose. Si cerca di limitare una tendenza che il torneo
aveva rischiato di prendere nelle scorse edizioni, quando in alcune squadre
erano stati inseriti troppi giocatori professionisti di calcio a 5, serie A
compresa: il livello tecnico si era alzato a dismisura e gli spazi per gli
amatori rischiavano di ridursi all’osso. Le due squadre arrivate in finale in
questa edizione (Manchester City e Inter Miami) hanno trovato un equilibrio
tenendo dentro giocatori che fanno parte di società semiprofessionistiche di
calcio a 5 (soprattutto serieC1) e calcettisti completamente amatoriali, che
sfuggono a tutte le ricerche Google. Alcuni arrivano fumando, in ciabatte,
acclamati dalla folla e circondati dai bambini. Indossano maglie personalizzate
con la data della finale della Scugnizzo Cup.
A proposito di titoli, chiacchierando nel pre-partita viene fuori che sul gol
più bello della storia del torneo concordano quasi tutti gli organizzatori:
Emanuele Volonnino (ora al Benevento, serie A di calcio a 5), prima edizione del
torneo. Volonnino è spalle alla porta, marcato. Muovendo la palla con la suola
evita due difensori che lo fronteggiano mentre con le mani controlla chi gli è
dietro. Un altro movimento con la suola, poi il colpo di tacco e il gol. Un
esercizio di danza che complessivamente dura quattro secondi, tre difensori
evitati in due metri quadrati.
Il fischio di inizio si avvicina. Ogni mattonella del campetto è occupata. Tra
linee laterali e muro c’è un metro e mezzo circa, e in questo metro e mezzo ci
sono quattro file di persone lungo l’intero perimetro del campo. Il pallone esce
quando tocca i piedi di qualche tifoso. L’arbitro è Vincenzo Caprio detto Tyson,
circa sessant’anni, statuario, ex centravanti dilettante: «Sono l’arbitro più
titolato dei tornei napoletani», dice. «Guarda la mia prestazione in campo,
vedrai la mia personalità». Il suo sforzo, in realtà, sarà in buona parte per
tenere i tifosi lontani dal campo.
Luigi Iannone è il capitano del Manchester City, numero 9, capelli ossigenati.
«Sono dei Quartieri Spagnoli. Per me questo torneo è come tornare a giocare per
strada». Racconta di un pallonetto al River Plate, intorno a lui annuiscono:
«Grande gol!». Iannone ha trentacinque anni, un lontano passato da calcettista
semiprofessionista, ora è in cerca di lavoro e ha due figlie. La prima gli gira
intorno, gioca molto bene a pallone con altri bambini. Prima dell’inizio della
partita abbraccia il padre.
La partita inizia alle 22:45, il presentatore ha dovuto chiedere più volte agli
spettatori di uscire dal campo. «E ora incendiate la Scugnizzo Cup!»: le torce
illuminano il chiostro e quando il fumo si dirada le squadre sono pronte per il
calcio d’inizio. Il pubblico più rumoroso è a favore del Manchester City e
lancia complicati cori contro l’Inter Miami. C’è un capo tifoso con un piccolo
megafono rosso. Provoca i giocatori avversari, che non reagiscono mai. Nel primo
tempo la partita è combattuta, poi il Manchester City passa in vantaggio con Del
Pozzo. I tifosi invadono il campo e festeggiano.
Nella ripresa l’Inter Miami è sopraffatta. Emerge il talento di Luca Orefice,
che sarà poi votato miglior giocatore del torneo. Tre gol: punizione rasoterra,
palla all’angolino dopo azione travolgente a sinistra, testata da corner. I
tifosi lo portano in trionfo. Orefice ha ventiquattro anni, un viso da filosofo,
Parmenide con i capelli rossi. Gioca a calcio a 5 per l’Mds di Marigliano (C1),
probabilmente potrebbe giocare a livelli più alti. Su internet si trovano
articoli su di lui: quando era a Scafati era seguito da alcune squadre
importanti di serie A.
La partita finisce 4-0, la Scugnizzo Cup è del Manchester City. Ultime scene:
capitan Iannone indossa occhiali da sole da motociclista e un berretto
all’indietro, sembra più giovane, sorride. I compagni di squadra lo sollevano e
lo fanno volare per tre volte. Quando torna a terra viene abbracciato da sua
figlia. È tempo di foto con la coppa, salti, medaglie, il cielo è illuminato dai
fuochi d’artificio. (davide schiavon)
(disegno di otarebill)
È passato un anno dalla tragica morte, o meglio omicidio, di Satnam Singh in
provincia di Latina, avvenuta il 19 luglio 2024. In questi giorni i suoi parenti
sono in Italia, e stanno incontrando politici e sindacalisti: il presidente
della Regione Lazio, Rocca, il segretario della Cgil, Landini, i deputati Pd, e
infine al Senato la Commissione di indagine sulle condizioni di lavoro in
Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.
In questi incontri è risuonato il condivisibile slogan “mai più casi come quelli
di Satnam”, ma cosa è cambiato realmente nell’ultimo anno? Purtroppo poco o
niente, la situazione sembra addirittura peggiorata: dalla morte di Satnam Singh
a oggi, sono almeno trenta i lavoratori indiani morti in Italia in seguito a
incidenti sul lavoro, malori avvenuti sui posti di lavoro o investiti mentre si
recavano o tornavano dal lavoro.
Una delle comunità indiane più numerose presenti in Italia è quella che vive in
provincia di Salerno, che, al primo gennaio 2024, contava 3.529 residenti. Circa
un terzo della comunità indiana vive tra Battipaglia, Eboli e Capaccio, ed è
impiegata principalmente nei settori dell’allevamento di bufale e bovini e
nell’agricoltura. Solo in provincia di Salerno sono morte cinque persone di
origine indiana negli ultimi nove mesi, e purtroppo non risultano dichiarazioni
di politici, sindacati e associazioni, rispetto a queste morti, neppure
semplicemente di cordoglio. Le comunità e i parenti delle vittime sono state
lasciate sole, senza alcun supporto.
Il caso più recente è avvenuto l’8 luglio 2025, è stato descritto così dal
quotidiano La Città di Salerno:
“Lo hanno trovato nella vasca, dove si raccoglie il letame. Privo di vita, morto
da diversi giorni. Aveva 37 anni, l’indiano. Padre di un figlio, rimasto in Asia
in compagnia della madre. La salma è stata sequestrata dai carabinieri di Serre,
guidati dal capitano Greta Gentili. Le indagini sono coordinate dal pm Gianpolo
Nuzzo che, ieri mattina, ha incaricato il medico legale Gabriele Casaburi di
effettuare un primo esame cadaverico esterno. Nell’azienda bufalina erano
presenti gli avvocati Mario e Carlo Conte, in rappresentanza del titolare della
ditta che non è indagato”.
Da quello che è stato possibile ricostruire, leggendo i vari articoli, la
mattina dell’8 luglio alcuni lavoratori hanno attivato un macchinario per
svuotare dall’abbondante acqua piovana caduta nelle ore precedenti una vasca che
raccoglie il letame in un’azienda bufalina in località Borgo San Lazzaro a
Serre, ed è riemerso il cadavere di un uomo. Era presente anche il cognato della
vittima, anch’egli di origine indiana, impiegato nell’azienda. La salma era già
in avanzato stato di decomposizione, forse da giorni. La vasca dove è stato
ritrovato il corpo, stranamente, non risulta sequestrata, nemmeno per verificare
se fosse stata costruita a norma di legge, e con le misure di sicurezza prevista
per evitare incidenti.
Nessun articolo riporta il nome dell’uomo, scrivono che sia stata ritrovato
senza documenti ed effetti personali, eppure contraddittoriamente aggiungono
informazioni dettagliate quali il fatto che avesse 37 o 38 anni, un figlio e una
moglie in India, fosse attualmente disoccupato o non “formalmente impiegato
nell’azienda bufalina”, vivesse in Italia da vari anni e fosse stato ricoverato
e poi dimesso da un ospedale della zona il 30 giugno.
Il 10 luglio si sarebbe dovuta tenere l’autopsia della salma, nell’obitorio
dell’ospedale di Eboli. Non si sa se i familiari abbiano potuto nominare un
tecnico di parte, o se ne siano stati informati.
In precedenza un altro lavoratore di origine indiana, di 54 anni, era deceduto
colpito da un malore il 13 maggio 2025 a Positano. Anche in questo caso non si
conosce il nome della vittima né altri dettagli.
Il 21 marzo un lavoratore indiano, che abitava e lavorava ad Altavilla Silentina
(paese confinante con Serre) in un’azienda agricola era stato ritrovato senza
vita in circostanze “misteriose”:
“Il giallo della morte di Sandhu Gurmeet Singhi, 25enne di origine indiana, si
infittisce. Il suo corpo è stato ritrovato ieri lungo la riva del fiume Calore,
a Serre, nascosto tra i rami, dopo ore di ricerche condotte dai carabinieri di
Eboli, vigili del fuoco e Protezione civile. Ora sarà l’autopsia a stabilire
cosa sia realmente accaduto. Tre le ipotesi al vaglio degli inquirenti:
omicidio, suicidio o caduta accidentale. L’allarme era scattato dopo
mezzogiorno, quando il giovane non aveva fatto rientro a casa. Preoccupati, gli
amici avevano segnalato la sua scomparsa, dando il via alle ricerche”.
A distanza di quattro mesi, anche in questo caso non si è saputo più nulla dei
risultati dell’autopsia e delle indagini.
Il 29 novembre 2024 è la volta di Onkar Syng, un ventitreenne di origini
indiane, investito da un treno alla stazione di Ascea.
I media locali non forniscono nessun dettaglio, la storia di Onka viene
riportata solo in un articolo pubblicato da PTC Punjabi UK, un canale
televisivo, voce della comunità di lingua punjabi europea, con sede nel Regno
Unito: “Onkar Singh era arrivato in Italia nell’ottobre 2023. Il padre di
Onkar,Bhupinder Singh, ha affermato che, dopo aver contratto un prestito di
dodici-tredici lakh di rupie (circa 13 mila euro) , era riuscito a mandarlo in
Italia in modo che il suo unico figlio maschio potesse essere il suo sostegno
nella vecchiaia. Ma le circostanze che ha dovuto affrontare dopo il suo arrivo
qui non possono essere descritte. L’intermediario che lo aveva invitato in
Italia non lo ha aiutato, motivo per cui i documenti italiani di Onkar non erano
pronti, e senza documenti in Italia, non riusciva a trovare lavoro regolare da
nessuna parte. Mentre viaggiava da Catania a Brescia in treno, per cercare un
lavoro, durante il tragitto è sceso alla stazione ferroviaria di Ascea in
provincia di Salerno. Il padre ritiene che Onkar abbia preso questa decisione a
causa delle vessazioni subite in Italia, che gli hanno causato una depressione”.
L’8 novembre 2024 in località Campolongo di Eboli è morto Singh Manjinder,
quarantanovenne indiano, schiacciato da un trattore mentre lavorava nei campi
della Piana del Sele. Pare che, per cause da accertare, gli sia finita addosso
la pala meccanica del mezzo agricolo.
Anche in questo caso, gli unici approfondimenti degni di rilievo, provengono da
testate giornalistiche indiane e punjabi: “Manjinder Singh Rimpa lavorava nei
campi con la sua famiglia da diversi anni. Ieri stava guidando un trattore e
stava arando il terreno, quando improvvisamente il mezzo si è ribaltato e
qualcosa lo ha colpito gravemente, provocandogli una morte dolorosa. I familiari
sono perplessi sul perché si sia verificata questa tragedia e le reali ragioni
dell’incidente non vengono presentate in modo adeguato dalle autorità. La
famiglia ha affermato che dietro questa morte ci sono ragioni profonde e chiede
un’indagine imparziale sull’accaduto. Perché è successo questo? Perché è
avvenuto l’incidente? Il proprietario non sta dando la risposta corretta. I
parenti del defunto stanno fornendo informazioni su questo incidente”.
“Un operaio che lavorava con lui ha dichiarato alla stampa che il defunto
Manjinder Singh stava arando i campi come al solito e che lui aveva lasciato il
lavoro nel pomeriggio per andare a riposare nei campi poco distanti. Dopo un
po’, il proprietario dei campi e suo figlio sono arrivati e gli hanno intimato
di non uscire di casa, perché la polizia era arrivata nei campi. Il collega ha
inoltre affermato di aver provato a parlare con Manjinder Singh al telefono, ma
di non aver ricevuto risposta. Successivamente, ha chiamato un altro lavoratore
punjabi di una fattoria vicina e gli ha chiesto spiegazioni. Quest’ultimo gli ha
riferito che si era verificato un incidente con un trattore nei campi del suo
datore di lavoro, in cui un lavoratore era morto”.
Le notizie su queste morti di solito vengono rapidamente dimenticate, i media ne
scrivono per un paio di giorni e poi il caso scompare totalmente. Questo avviene
proprio perché, senza un supporto solidale, i parenti, gli amici e le famiglie
delle vittime non possono farsi sentire, avere i fondi per nominare avvocati e
periti di fiducia, e spesso nemmeno le risorse necessarie alla vita quotidiana.
I media locali si limitano a riportare le veline degli inquirenti e delle forze
dell’ordine, non pongono domande né fanno inchieste, non riportano mai i
racconti dei familiari e colleghi delle vittime. I sindacati tacciono: è
possibile verificare come sui siti e sui canali social delle principali
organizzazioni provinciali di categoria, non ci sia letteralmente traccia di
queste morti. Anche l’operato di forze dell’ordine e inquirenti appare
superficiale.
Il più recente processo relativo alla morte sul lavoro di un bracciante indiano,
nella provincia di Salerno, lo scorso 10 dicembre ha visto il titolare
dell’allevamento di bufale dove era morto nel 2019 Avtar Singh, assolto in
appello con formula piena “perché il fatto non sussiste”.
Come per Satnam Singh, anche familiari, amici e colleghi delle vittime nel
salernitano, vogliono verità e giustizia, e sono disposti a farsi sentire: è
necessaria e urgente la creazione di una rete di solidarietà attiva sui
territori, che rompa la cappa di silenzi e complicità che permette lo
sfruttamento e la strage di lavoratori e lavoratrici, immigrati e non. (emme)