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Cronache, libri, disegni e reportages

La parola della settimana. Limite
(disegno di ottoeffe) C’è un povero cristo fuori al tribunale di Napoli che campa vendendo bloc notes, penne, accendini, manifestini di lutto per la Juventus. Ha anche qualche marca da bollo in tasca, e quando gli avvocati, che lo conoscono tutti, sono in ritardo e devono sbrigarsi perché l’ufficio chiude, le prendono da lui e gli fanno un regalo. Il tizio avrà più di sessant’anni. La sua vita è un disastro – me l’ha raccontata venerdì in pochi minuti – e non sta nemmeno troppo bene con la testa. Ha tutta l’aria di chi non sarebbe capace di far male a una mosca, eppure la guardia giurata del tribunale, uno con gli occhiali da Rambo e pistole d’ordinanza sul fianco, gli ha dato addosso perché pretendeva di decidere il limite spaziale entro cui il tizio poteva o non poteva esercitare il suo commercio. Non parliamo del cancello del tribunale, dove finiva la giurisdizione di Rambo – che non essendo neppure capace di vincere un concorso nella penitenziaria opera per conto di quelle agenzie di mercenari, spesso controllate dal Sistema, e che quindi ha esattamente i miei diritti e quelli di chiunque altro a (non) decidere cose che riguardano la pubblica via. Parliamo della strada, per la precisione della fermata di un autobus. Eppure, nella sua testa, Rambo pensava di poter comandare. È finita a insulti alle mamme e con l’apertura di una riflessione sull’idea di limite. Ti farò male più di un colpo di pistola È appena quello che ti meriti Ci provo gusto, me ne accorgo, e allora? Non mi vergogno dei miei limiti (e lividi) (subsonica, colpo di pistola) Una prima definizione matematica di limite pare sia attribuibile a tale Augustin-Louis Cauchy, matematico di inizio Ottocento, e qualche decennio dopo a Heinrich Eduard Heine. Smanettando in rete mi sono reso conto che almeno due-tre degli studiosi che hanno toccato questa materia hanno avuto problemi psichiatrici. È successo a Weierstrass, tedesco, padre dell’analisi moderna (quella matematica, ovviamente): suo padre, ufficiale del governo tedesco di Boemia, lo costrinse a studiare legge a Bonn, ma lui non combinò niente e anzi si avvicinò da autodidatta alla matematica e al gruppo del Crelle’s Journal, che oggi è la più antica rivista di matematica esistente. A un certo punto il giovane Karl se ne va a studiare a Munster (che solo per una strana coincidenza legata ai natali di un mio amico è la squadra tedesca per cui tifo), rompendo con il padre, e diventa un grande esperto di funzioni ellittiche, ma anche un alcoolizzato, sviluppando problemi psichici e nevrosi di vario tipo. Anche Cantor, uno dei più grandi matematici della storia (per intenderci, quello che ha inventato gli insiemi), soffrì di una grave depressione, perché isolato dalla comunità scientifica. Cercò invano supporto in papa Leone XIII e forse anche per questo arrivò a identificare il suo rigorosissimo concetto di infinito assoluto con… Dio. Passò gli ultimi anni della sua vita in manicomio, ad Halle. L’esaltazione creatrice è intimamente legata alla malinconia, sorella  della depressione e figlia della mania, ma anche parente vicina della follia, dal momento che l’opera non è più sufficiente a contenere tutte le tensioni. […] Il romantico-melanconico coniuga la tristezza al quotidiano e contempla il suo dolore nella profonda solitudine del ripiegarsi su se stesso. “La malinconia è la felicità di essere triste”, scrive Victor Hugo ne Les travailleurs de la mer. Vi si fondono molto intimamente un’attitudine filosofica, la ricerca poetica e la malattia depressiva, condizioni che caratterizzano dolorosamente questi insaziabili sogni d’assoluto. (philippe brenot, le génie et la folie – traduzione mia) È interessante come la matematica associ il limite a quest’idea di assoluto, mentre per la semantica lo stesso vocabolo indica una linea terminale o divisoria, un confine. Qualche anno fa abbiamo pubblicato un libro curato da Miguel Angel Valdivia, che si chiama appunto Confini, dove dialogano quattro storie di quattro disegnatori, Andrea De Franco, Federica Ferarro, Mario Damiano e Adriana Marineo. I quattro interpretano il concetto in maniera ora concreta ora metafisica, interrogandoci non solo sull’idea di limite, ma anche se non soprattutto su quella dello spazio che si trova prima e dopo di questo. (disegno di andrea de franco, da: confini) Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni dei Duemila andava in onda ogni pomeriggio su Rai Uno (o forse Rai Due) un programma che si chiamava Ci vediamo in Tv, condotto da Paolo Limiti, autore televisivo (Rischiatutto), scrittore di canzoni (La voce del silenzio, Stupidi, Adagio) e regista radiofonico (Il maestro e Margherita). Per quanto ricordi, la trasmissione era un viaggio nostalgico durante il quale si esibivano cantanti perlopiù ottuagenari, rievocando spesso le storie all’origine di brani che erano stati grandi successi anche cinquanta o sessant’anni prima. Vi partecipavano Milva, Ornella Vanoni, Mirna Doris, Angela Luce − cult una sua appassionata esibizione in L’urdema tarantella (Bovio-Tagliaferri, 1936) per la quale rivendicava, con solennità, di aver ricevuto un premio come “unica, grande, sola, vera interprete del sentimento della canzone napoletana”. L’urdema tarantella racconta la drammatica uccisione da parte di una donna gelosa dell’amante del marito, davanti la chiesa della Madonna della Catena, che a Napoli si trova in via Santa Lucia, così chiamata in riferimento al miracolo con cui Maria salvò dalla condanna a morte tre innocenti, nella città di Palermo, spezzando le loro catene. Un’altra drammatica uccisione legata a quella chiesa fu quella dell’ammiraglio Caracciolo, che lì riposa in pace: Caracciolo fu arrestato e fatto uccidere dall’ammiraglio Nelson in persona, dopo aver combattuto contro la flotta borbonica che cercava di restaurare l’ordine dopo le sollevazioni della Repubblica Napoletana. Si vide Caracciolo sospeso come un infame all’antenna della fregata Minerva; il suo cadavere fu gittato in mare. Il re era ad Ischia, e venne nel giorno susseguente, stabilendo la sua dimora nel vascello dell’ammiraglio Nelson. Dopo due giorni, il cadavere di Caracciolo apparve sotto il vascello, sotto gli occhi del re. Fu raccolto dai marinari che tanto l’amavano, e gli furono resi gli ultimi offici nella chiesa della Santa Lucia che era prossima alla sua abitazione. (mariano d’ayala, saggio storico sulla rivoluzione di napoli 1799 di vincenzo cuoco e sulla vita dell’autore) Ma in matematica, il limite – e qui spero di non deludere C., matematica e scrittrice ben più raffinata di quell’altra ahinoi, invece, più famosa e potente – serve a descrivere che cosa accade a una successione di numeri quando la variabile si avvicina sempre di più a un certo valore, senza doverlo per forza raggiungere. In parole povere, è come avvicinarmi alla felicità, senza mai poterla neppure sfiorare, ma andare sempre nella stessa direzione, in modo che sarà inequivocabile che quella costituisce il mio limite. Troviamo sempre qualcosa, vero, Didi, per darci l’impressione di esistere? (estragone, in: samuel beckett, aspettando godot) a cura di riccardo rosa
rubriche
parola della settimana
Dalla memoria all’azione. Un’assemblea del movimento Basta Impianti nell’Agro Caleno
(disegno di mattia vincenzo abbruzzese) Diluvia, per un momento quasi grandina. È il 2 dicembre e un freddo umido si è cristallizzato sulla città da qualche giorno. Sono le venti circa. Io e Mel, quasi completamente zuppi, ci infiliamo in una vecchia Clio, asciughiamo alla buona il taccuino e la macchina fotografica e partiamo in direzione Bellona, un comune di quasi seimila abitanti in provincia di Caserta, in un lembo dell’Agro Stellato. Stasera si terrà un’assemblea pubblica indetta dal movimento Basta Impianti, cresciuto nelle campagne dell’Agro Caleno, dove da anni si consuma la convivenza forzata con siti di stoccaggio, impianti di trattamento rifiuti e progetti industriali ad alto impatto. Partecipano residenti e attivisti che si oppongono all’idea di un territorio condannato a essere “compromesso”. L’oscurità e la condensa sul parabrezza filtrano un paesaggio quasi inosservabile fino all’ingresso nel borgo, dove le luci di Natale restituiscono un po’ di opaca visibilità. Entriamo nel teatro parrocchiale alle spalle della chiesa di San Secondino. Nella lunga sala alcune decine di persone tra tavoli di plastica ricoperti da incerate verdi, formano un’ovale di sedie; il microfono è aperto e già si susseguono gli interventi moderati da un ragazzo dai capelli lunghi seduto accanto all’amplificatore. Alle sue spalle un lungo striscione plastificato con il lettering in maiuscolo “Basta Impianti”. Ancora umidi prendiamo posto e ascoltiamo Pasquale, un attivista: «Noi ci dobbiamo sentire tutti in dovere di parlare di ciò che è malato. Sono stato fuori le scuole per parlare ai genitori dell’urgenza, dell’importanza del corteo del 13 dicembre a Vitulazio. Le autorizzazioni per nuovi impianti portano noi cittadini ad ammalarci sempre di più per cui, cari genitori, non è solo una questione di senso civico partecipare a questa battaglia, voi lottate per evitare un pericolo che vi tocca direttamente. C’è stato tra loro chi mi ha risposto che da queste parti la monnezza o si sotterra o s’appiccia. Che cosa può insegnare un genitore così a suo figlio? C’è chi pensa che il diritto di proprietà legittimi qualsiasi tipo di brutalità, ma la terra non ha padroni. Noi siamo di passaggio, lo dobbiamo alle future generazioni. Stasera siamo in tanti e dobbiamo essere ancora di più». Dopo di lui parla Clemente Carlino, che è stato assessore del comune di Grazzanise al tempo delle “ecoballe”. «Questa terra – dice – è stata scelta come il “buco dove sversare”. Tutti questi luoghi sono stati considerati tali, da Santa Maria Capua Vetere a Cancello e Arnone, da Borgo Appio a Grazzanise, questa è la nostra condizione da tempo. Ora sappiamo che ci sarà un ampliamento da quattro a nove vasche nell’impianto di biogas di Arianova a Pignataro Maggiore, tra l’altro ci dicono che è un impianto non impattante… Balle! Non ci sta niente da fare, noi siamo condannati alla ribellione! Ma non dobbiamo fermarci qua. Io dico che dobbiamo andare più in là dell’Agro Caleno e unirci con tutti i luoghi di sofferenza ambientale, fino al litorale domizio…». La chiusura dell’intervento è accolta da applausi, e qualche colpo di tosse. L’intervento successivo è del neoeletto consigliere regionale Raffaele Aveta del Movimento 5 Stelle. Parla della sua vicinanza alla causa,  del suo interesse alle politiche ambientali e sanitarie, di una serie di casi che ha seguito personalmente; si definisce “ambientalista militante”. «Forse – dice a un certo punto – a Caserta c’è qualcuno che vuole davvero fare politica come servizio alla comunità…». Una voce si leva in fondo alla sala: «Sì, ma non a parole, che pensa di fare la Regione?». Risponde Aveta: «Sicuramente non dare in gestione siti di stoccaggio a società con capitale sociale quasi nullo, quelle sono truffe!». A questo punto un cellulare suona rompendo per qualche istante il silenzio durante il cambio al microfono. Getto uno sguardo in fondo alla sala verso il gruppo di non più giovanissimi signori da cui era partito il commento. La storicità del fenomeno Terra dei fuochi sta nelle loro rughe… Proprio qualche giorno prima, il dottor Marfella, oncologo, membro di Medici per l’ambiente, che da anni si occupa di questi temi, mi aveva raccontato l’aspetto dinamico di questo fenomeno industriale, un’anatomia articolata in sei fasi distinte. La prima fase (1980-2014) è quella degli sversamenti. Per decenni, rifiuti speciali e tossici, in larga parte provenienti dal Nord, sono stati interrati o abbandonati al Sud. Un ciclo interrotto solo nel 2014 dall’introduzione dei primi delitti ambientali. Questo segna l’inizio della seconda fase (2014-2019). Quelle norme, focalizzando la pena sui roghi ai bordi stradali, hanno prodotto un effetto perverso: i fuochi tossici si sono semplicemente spostati all’interno di depositi e siti di stoccaggio, spesso localizzati al Nord, invertendo di fatto la rotta prevalente del traffico illecito. La terza fase (2020-2022) si apre con la pausa forzata del lockdown, che spegne tutto per un po’. Alla ripresa, in assenza di impianti campani per i rifiuti speciali, il sistema reagisce esternalizzando il problema: parte un flusso massiccio e scarsamente controllato di rifiuti verso l’estero. Ma l’aumento dei costi di trasporto porta alla quarta fase (2021-2022): non conviene più esportare. Si torna quindi all’antico, ai roghi tossici locali. È una crisi globale, quella energetica, a innescare la quinta fase (2022-2023). Da agosto 2022, il caro bollette paralizza anche le attività illegali. I roghi cessano, non per un’azione repressiva, ma per semplice insostenibilità economica. Ora viviamo la sesta fase (2022-2025), quella dell’attesa. Si attende l’operatività del sistema informatico di tracciabilità dei rifiuti RenTRi. Un’attesa che potrebbe durare ancora anni. Ritorno con lo sguardo al microfono perché intanto, ha preso la parola il ragazzo coi capelli lunghi che siede accanto all’amplificatore, si chiama Dario. «Diamo battaglia da trent’anni nei nostri territori – dice –, siamo disposti a rivoltarli come calzini per seguire gli sviluppi di queste vicende, senza mollare di un centimetro. Non siamo Nimby (not in my backyard, non nel mio cortile), per cui proseguiremo dialogando con tutte le parti coinvolte e interessate a sostenere le istanze di questo movimento, dentro e fuori l’Agro Caleno». Poi, rivolgendosi al neo consigliere, prosegue: «La prossima volta però ci portiamo il cronometro per gli interventi – e aggiunge sorridendo –, e adesso lascio il microfono per i venticinque minuti dedicati a Ignazio…». Risate, qualche applauso. Ignazio è seduto proprio lì accanto. È un medico, appare preoccupato: «Vorrei far passare un messaggio, oggi è difficile… Dal ’98, dai tempi del centro sociale Tempo Rosso di Pignataro Maggiore, noi ci siamo. C’eravamo con la bonifica conquistata a Bellona, ma eravamo tanti comitati. Oggi invece c’è un movimento, sta cambiando il tipo di attacco. L’Agro Aversano è stata la Terra dei fuochi parte uno, qui si sta per osservare la parte due. C’è una mappatura che stiamo realizzando che mette in relazione l’incidenza tumorale e la concentrazione di impianti nella zona. Mappiamo anche i roghi. Perché la gente che vive di monnezza, nomi e cognomi, sono sempre gli stessi o amici loro.  Tra non molto apriranno il nono impianto di stoccaggio tessile a Vitulazio. In una zona che già presenta un aumento della diffusione e dove l’età di contrazione tumorale si abbassa ancora: non solo abbiamo più casi ma avvengono anche prima; andremo a dire a una donna trentenne che non potrà avere figli per questo… L’obiettivo del corteo del 13 dicembre sarà di incontrare il governatore Fico. Perché deve essere riconosciuta la straordinarietà del problema. Ci giochiamo il titolo di zona straordinaria, speriamo di non giocarci quello di Terra dei fuochi bis. Noi qui parliamo di impianti che stoccano, mettono “in garage” il rifiuto. Basta impianti, siamo saturi! Ci va più che bene un solo sito di riciclaggio adeguatamente controllato e monitorato, ma che sia funzionale alla chiusura degli altri quaranta. A Sparanise, a breve realizzeranno altri due impianti e a Vitulazio altrettanti nuovi siti per rifiuti tessili. Sappiamo che sono stati sequestrati per illeciti proprio due impianti tessili in loco, degli otto presenti. Il buon senso mi porta a dire: controlliamo anche gli altri sei. Noi chiediamo il ritiro delle concessioni per quelli sequestrati e il controllo di tutti gli altri attivi. Chiediamo una valutazione di impatto ambientale per rischio cumulativo. Siamo in condizioni di saturazione ambientale…». Il discorso di Ignazio prosegue ancora e si conclude con un lungo applauso. Gli ultimi interventi sono di Enzo Palmesano, giornalista di Pignataro Maggiore noto per le sue inchieste contro la criminalità organizzata e le ritorsioni subite dalla camorra, il quale racconta due importanti roghi avvenuti a Bellona nel 2012 e nel 2017: «Il 29 dicembre 2017 la popolazione disse basta e con una delegazione sostanziosa si presentò sotto il municipio. C’erano attivisti, sì, ma c’erano anche i malati di tumore, i familiari delle vittime, diverse persone anziane. Chiedevamo risposte. La reazione delle istituzioni in quella circostanza fu di chiamare i carabinieri. Sono andati sotto processo diversi di quei malati. Undici persone assolte recentemente perché il fatto non sussiste. Per questo sono contento che questa riunione si faccia proprio qui a Bellona. Abbiamo il timore che il 13 dicembre a Vitulazio possa essere usata l’arma della repressione, i segnali ci sono… Questo è il movimento più importante nato in questa provincia nell’ultimo quarto di secolo, c’è gente da tutta Italia che si sta chiedendo che sta succedendo nell’alto casertano. I sindaci pro-impianti, in queste zone compromesse, sono nemici, non avversari politici». I vestiti sono quasi asciutti, l’assemblea è finita. Usciamo: non piove più e la brina sull’Agro Stellato si solleva, restituendo un paesaggio in bilico tra la memoria di chi ha lottato e l’attesa delle prossime azioni concrete di un’intera comunità. (edoardo benassai)
ambiente
Mille e duecento posti per i disoccupati napoletani. “Finisce qua” la lotta per il lavoro?
(foto del movimento disoccupati 7 novembre) Chissà se quando il dirigente della Digos saluta i manifestanti con il canonico: «Finisce qua?», si rende conto dell’allegoria prodotta. È martedì mattina, siamo all’esterno della sede Rai di Napoli, dove il Movimento disoccupati 7 Novembre ha organizzato una conferenza stampa per rivendicare il recente avvio di un percorso di tirocinio finalizzato all’inserimento lavorativo, ottenuto dopo oltre dieci anni di lotte. Sono le dieci e trenta, la conferenza è finita da poco e il gruppo si sta lentamente sciogliendo. La domanda del poliziotto è quella che fanno di solito gli agenti al termine di una manifestazione, per assicurarsi che questa non continui altrove o che non vi siano altre azioni in continuità con quella conclusa. In quel contesto, mentre il movimento celebra quella che è una innegabile vittoria, e in un certo senso la conclusione di un percorso politico decennale, la sua domanda potrebbe risuonare come una sorta di invito a darsi una calmata: “Il posto l’avete avuto: ora avete finito?”. In realtà, le dichiarazioni rilasciate negli ultimi giorni dai delegati del movimento, vanno nella direzione opposta. Per prima cosa, dicono, bisogna continuare a vigilare, e se necessario a fare pressione, affinché tutti i mille e duecento tirocini comincino; secondo, è importante che gli impegni presi riguardo alla trasformazione in un lavoro stabile e dignitoso di questi tirocini vengano rispettati; terzo, nel movimento c’è già chi pensa che la lotta per il lavoro debba mutarsi ora in lotta sindacale, per un mantenimento e miglioramento delle condizioni e dei diritti. Il Movimento disoccupati 7 novembre nasce undici anni fa, dopo che un gruppo di abitanti delle periferie a ovest della città partecipa alla grande manifestazione di Bagnoli contro lo Sblocca Italia e il commissariamento dell’ex area industriale. Col tempo il gruppo cresce, arriva a raccogliere circa quattrocento iscritti da diversi quartieri e si “federa” con un’altra grossa lista di lotta per il lavoro, il Cantiere 167 di Scampia. Centinaia di persone sono in strada quotidianamente, pretendono la garanzia di un diritto costituzionale, e manifestano, presidiano, occupano, arrivano a forme di scontro radicale per ottenerla. Gli anni passano, si creano opportunità, ci sono inganni e tradimenti istituzionali, ogni volta si ricomincia daccapo. Le inchieste giudiziarie si moltiplicano, le accuse sono spesso assurde, arrivano anche condanne, pesantissime. Eppure oggi il prefetto, che evidentemente ha la memoria corta, parla di “proteste garbate”, e nelle prime righe del recente accordo firmato da comune e governo ammette che il movimento ha rappresentato un problema di ordine pubblico, perché queste centinaia di persone non facevano altro che rivendicare per un proprio diritto. Alla fine, dopo undici anni di lotta, l’accordo arriva. Mille e duecento disoccupati napoletani verranno impiegati per la cura e la manutenzione del verde pubblico e scolastico, la sorveglianza delle strutture museali, altri interventi di pubblica utilità. I primi cominceranno a breve, gli ultimi saranno chiamati entro febbraio. Dopo un anno si comincerà a pianificare la loro assunzione in cooperative comunali che si occupano di questo stesso genere di interventi. L’investimento complessivo è di circa tredici milioni di euro. «La nostra intenzione – ha spiegato il sindaco Manfredi – è quella di far progressivamente transitare queste persone all’interno delle cooperative che operano al Comune e Città metropolitana, che noi utilizziamo per la gestione del verde pubblico. Queste cooperative oggi vivono una riduzione dei partecipanti per i pensionamenti, ma l’obiettivo è quello di mantenere immutata la loro dimensione numerica». Questo scenario fino a qualche anno fa non sembrava nemmeno lontanamente ipotizzabile, considerando le resistenze delle stesse istituzioni che oggi rivendicano il risultato, che si è invece delineato soprattutto grazie agli sforzi del movimento.  Al termine della conferenza abbiamo fatto alcune domande a Eduardo Sorge, uno dei portavoce dei 7 Novembre, chiedendogli se davvero, come sottintendeva forse l’ispettore della Digos, la loro lotta è finita qua. (riccardo rosa) *     *     * «Al netto della forza della lotta, dell’incessante lavoro di mobilitazione e di piazza, negli ultimi due anni c’è stata un’attenzione trasversale su questa vertenza, perché si potesse concretizzare un risultato in questa direzione. Dal punto di vista prefettizio c’è stato e c’è l’interesse a pacificare una delle poche aree che rompeva e speriamo rompa l’immagine della Napoli città-vetrina, per cui in un momento in cui Napoli sta diventando un parco giochi, una delle loro valutazioni è stata che forse non era il caso di continuare ad alzare muri verso una lotta che coinvolgeva un migliaio di persone, le quali tra l’altro andranno a svolgere un’attività che va a colmare un vuoto di servizi. Dal canto nostro, sappiamo che anche questo intervento sui servizi è finalizzato a supportare una città che si prepara ad accogliere flussi turistici ancora più imponenti di quelli attuali, e insomma il ragionamento istituzionale è stato che conviene anche a loro che una serie di persone piuttosto che stare a bloccare le strade vadano a garantire quello che considerano “decoro urbano”, a potenziare l’accoglienza museale o migliorare i servizi scolastici. «Le cooperative dove si andranno a svolgere questi tirocini sono le stesse dove i disoccupati hanno svolto gli stage in una fase precedente, con il piano Gol, sono cooperative attualmente finanziate da un investimento nazionale di decine di milioni di euro, soldi che vanno nelle casse del comune che li gestisce. Quindi l’amministrazione per questo servizio non investe risorse, seppure per l’allargamento della platea ha contribuito con una quota. Di questa platea di mille e duecento persone noi possiamo dire di rappresentarne circa la metà, ma ci sono state spinte, per esempio durante la campagna elettorale delle regionali, con interessi di parte molto lontani da noi, per frammentarla; il vantaggio di essere riusciti a mantenere compatto il movimento, sta nel fatto che questo risultato non potrà essere merce di scambio, non saremo disponibili a essere strumentalizzati. Negli ultimi mesi, soprattutto i partiti di governo, hanno provato a candidarsi come “rappresentanti” di questa vertenza. Da questo punto di vista, riuscire a garantire risultati per tutta la platea, e non soltanto per i nostri iscritti, è stato decisivo. Anche il fatto che ventiquattr’ore prima di questo risultato siano arrivate condanne di due anni e due mesi per otto esponenti del Movimento è un modo per dire “ok, vi siete presi quello che volevate, ora però non rompete le scatole su tutto il resto”. Ma se è vero che il movimento è nato per il lavoro, è anche vero che è sempre stato nelle battaglie politiche generali – contro il riarmo, contro la guerra, per l’unità dei lavoratori; e rispetto alla città, nella denuncia della privatizzazione del verde cittadino e di tutte le operazioni che si stanno svolgendo sulla costa, da San Giovanni a Bagnoli, e quindi continuerà ad alimentare le lotte territoriali. «Quando si fa un bilancio politico, tutto va inquadrato nel momento storico. Da un certo punto di vista è una vittoria gigantesca, non tanto per il risultato, ma per la rete che si è costruita tra la gente, i quartieri popolari, l’unità anche con chi, come il Cantiere 167, politicamente non era vicinissimo a noi. Forse se trent’anni fa avessimo raccontato questa vertenza non avremmo parlato di vittoria, avremmo parlato di un’elemosina di Stato fatta per risolvere un problema di ordine pubblico, ma io credo che tutto vada inquadrato in un contesto, e in quello attuale gli operai e i lavoratori prendono sempre meno salario, sono sempre più sfruttati, hanno sempre meno diritti sindacali. Siamo in un momento di arretramento a oltranza, e il fatto che si ottenga un risultato per mille e duecento persone, che non è solo il tirocinio, ma è qualcosa che darà la possibilità dopo dodici mesi di entrare nelle cooperative, significa non solo dare a chi ha cinquanta o sessant’anni una dignità personale, ma anche per diverse centinaia di ragazzi di venticinque-trent’anni di avere un’alternativa a fare il rider sotto la pioggia, oppure a fare i servizi nei b&b di cui Napoli è piena. Questo io credo sia il grande valore politico: la lotta ha pagato, e questo, in un momento in cui c’è una disillusione totale verso le pratiche collettive di organizzazione, è la cosa più importante. Molti di quelli che ieri erano bassa manovalanza della criminalità o erano nella totale marginalità sociale, adesso fanno i corsi nelle loro sedi, nei quartieri popolari, con i bambini di comunità srilankesi, fanno battaglie contro le chiusure degli ospedali pubblici. In una fase, tra l’altro, in cui siamo bombardati da giornali che ci dicono che non è possibile garantire la spiaggia e il parco urbano a Bagnoli, ora noi abbiamo un esercito di manutentori del verde, per cui sarebbe anche divertente andare a dire al comune di Napoli: perché queste persone che già pagate non le spostate tutte quante per garantire il parco urbano e la spiaggia? Stimolarli quindi sul fatto che se il danaro pubblico si vuole tirar fuori per il lavoro pubblico, dignitoso e stabile, si può tirare fuori.
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Maranza di tutto il mondo, unitevi! Note sul libro di Houria Bouteldja
(disegno di giallaz) Quando chiedo alla commessa di Libraccio se abbiano in negozio il nuovo libro di Tommaso Sarti – Pisciare sulla metropoli. (T)rap, Islam e criminalizzazione dei maranza (DeriveApprodi, 2025) – lei litiga con il monitor perché è convinta che ci sia. «Devo averlo confuso con un altro», mi fa, scusandosi. La guardo comprensivo: non è così usuale che nello stesso mese vengano pubblicati due libri sui maranza, anche io mi sarei confuso. L’altro libro che ho in mente è La periferia vi guarda con odio. Come nasce la fobia dei maranza di Gabriel Seroussi (Agenzia X, 2025). Eppure, non è a questo che stava pensando lei: «L’ho confuso con quello dal titolo tradotto malissimo». La guardo confuso. Sebbene la sua non sia proprio una gran pubblicità, è questo tipo di frasi che suscita l’interesse di alcuni lettori. Vado a vederlo al piano di sotto: Maranza di tutto il mondo, unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle periferie (DeriveApprodi, 2024). Il titolo originale è Beaufs et barbares. Le pari du nous di Houria Bouteldja (La Fabrique éditions, 2023), uscito in Francia due anni fa. Copertina stile La haine ma a colori, autrice franco-algerina militante e nota editoriale dei traduttori dal titolo: Perché maranza. Lo compro. Nella nota editoriale si spiega che la parola “maranza” traduce contemporaneamente “beaufs”, termine ai limiti dell’intraducibilità con cui generalizzando possiamo intendere il proletariato bianco, e “barbares”, che per Bouteldja sono i proletari indigeni, ovvero i nativi dei territori colonizzati, oggi immigrati, regolari e non, in Francia e negli altri paesi europei. Questa scelta la trovo coraggiosa. Sulla seconda parte della frase invece, con quell’invito a unirsi accompagnato da un altisonante punto esclamativo, sono d’accordo con la libraia: quantomeno discutibile. La prima volta che ho sentito il termine “maranza” era tre anni fa. Chi lo pronunciava alludeva a una serie di video che circolavano su TikTok in cui dei ragazzini molto giovani ostentavano azioni provocatorie e violente. I video provenivano soprattutto dal nord Italia. Maranza però non è un neologismo. La parola si trova già in una canzone di Jovanotti (Il capo della banda, 1988), che in un’intervista di quell’anno rivendicava di essere lui stesso un “maranza”, attribuendo al termine questa definizione: “è quello che si impunta”. Se prima la parola era utilizzata solo da una nicchia di persone del milanese con un’accezione più o meno positiva, dal 2022 il termine è diventato di uso comune con una connotazione fortemente negativa proprio a seguito di quei video. Difficilmente oggi Jovanotti rivendicherebbe di essere un maranza, come faceva sul finire degli anni Ottanta. Il termine oscilla tra una connotazione criminale, pericolosa, e una più burlesca, quasi comica, ma pur sempre denigratoria. LIBERTÉ MA NON PER TUTTI Ponendosi da una prospettiva diversa rispetto ai tradizionali libri di storia, Bouteldja rilegge la periodizzazione storica convenzionale in chiave razziale. La razza, parola ripudiata dal dibattito pubblico odierno, diventa qui il motore silente che aziona la macchina della Storia. Sin dall’antichità, gli schiavi erano innanzitutto un soggetto razzializzato. La Modernità, che convenzionalmente comincia con la scoperta dell’America nel 1492, ha inizio con il genocidio di un popolo: gli indigeni americani, rei di incarnare una razza fino a quel momento sconosciuta e di abitare terre piene di risorse predabili. Data l’enorme quantità di ricchezza di cui disporre, c’era bisogno di identificare chi potesse beneficiarne e chi no; per questo, negli anni a seguire, nascono gli stati moderni. Inghilterra, Olanda, Francia – ma dal 1776 anche Stati Uniti – si contendono ripetutamente l’egemonia su queste ricchezze. Con lo stato moderno l’individuo rinuncia a una parte della sua identità per identificarsi con lo stato a cui appartiene; in cambio, egli pretende che, all’interno di esso, gli siano riconosciuti una serie di diritti e di privilegi: l’istruzione, la libertà di parola, il voto; ma anche l’accesso a una parte delle ricchezze provenienti dagli stati colonizzati. Solo all’interno dello stato, perché lo stato moderno è intrinsecamente razzista e costitutivamente selettivo. È evidente allora come la Rivoluzione francese costituisca sì una liberazione, ma solo per qualcuno. La schiavitù, abolita dalla Convenzione montagnarda nel 1794, ritorna già nel 1802; la colonizzazione in Africa è al suo apice durante il diciannovesimo secolo, e la Francia ne è una dei grandi protagonisti: Liberté, Égalité e Fraternité per qualcuno, non per tutti. Gli stati moderni europei hanno però dei fratelli, figli della stessa grande madre: la razza europoide. Per questo, se non è importante quello che spetta al cittadino di un’altra razza, è però molto importante che le pretese di un cittadino di uno stato fratello siano accontentate. Qui l’autrice riprende Gramsci, che aveva teorizzato l’esistenza dello “stato integrale”, ma si spinge oltre, introducendo il concetto di “stato razziale integrale”. In questi stati, le rivendicazioni politiche esistono, non sono represse, ma sono chiuse nel recinto della razza. La lotta di classe si riduce a un conflitto tra bianchi: “La battaglia tra la borghesia e il popolo, per quanto feroce possa essere, rispetta globalmente il paradigma razziale/coloniale che stringe il campo politico come in un corsetto. I due blocchi che si fanno la guerra, separati da rapporti antagonisti di classe, sono invece uniti dalla razza”. (p. 79) Il nazi-fascismo del ventesimo secolo allora è un’anomalia: questa si spiegherebbe come l’esclusione – definitiva? – della parte più estrema dello Stato razziale integrale. Perde il nazi-fascismo, ma vincono gli “stati razziali progressisti”: Inghilterra, Stati Uniti e Francia. Isolando la parte violenta degli “stati razziali integrali”, le potenze occidentali si assicurano la sopravvivenza degli stati nati dal 1492 in poi. Arrivando alla contemporaneità, con questa prospettiva l’autrice rivaluta l’astensionismo: “Votare significa votare bianco… tranne quando – ironicamente – la scheda è bianca. Nonostante sia azzardato dare un senso definitivo e univoco allo sciopero elettorale […] la loro ‘miseria civica’ non è altro che un atto di rivolta contro un dispositivo che organizza l’impotenza, impedisce qualsiasi riforma”. (p. 84). A questo punto Bouteldja avanza la sua proposta politica: un’alleanza tra i due soggetti del titolo, beaufs e barbares. Queste due forze sono in conflitto, come riconosce l’autrice stessa, dal momento che i beaufs identificano una delle cause del deterioramento del loro stile di vita proprio nella presenza dei barbares nei loro stati (non è un caso infatti che i neri e gli arabi si siano rifiutati di aiutare i gilet gialli nel 2018). Eppure, secondo Bouteldja, i due gruppi hanno un nemico in comune: l’Unione Europea, “il punto debole dello stato integrale” (p. 129). Solo con l’obiettivo comune di un’uscita della Francia dall’Unione Europea si potrebbero radunare le forze dei due schieramenti. Il problema però è che il ritorno a una prospettiva nazionale comporta inevitabilmente il rischio di una svolta nazionalista, che colpirebbe proprio i barbares. Qui l’argomentazione dell’autrice sembra più fragile: seppur si mostri consapevole di questo rischio, Bouteldja confida in un orizzonte più ampio, che scongiuri la minaccia nazionalista: “Bisogna iscrivere la Frexit decoloniale in una nuova geografia politica, che deve implicare solidarietà e fratellanza con i popoli del Sud e anche una rottura della meccanica dello sfruttamento su cui si fondano i rapporti asimmetrici tra la Ue e il Sud globale” (p. 139). Questa prospettiva, seppur affascinante, appare molto problematica: come definire chi fa parte del Sud globale e chi no? E, soprattutto, come evitare che si ripresentino le stesse dinamiche di sfruttamento che caratterizzano la geopolitica contemporanea? NOI E I MARANZA Sebbene l’autrice parli della Francia, questo saggio si inscrive molto bene anche nella cornice italiana con le sue specificità. Nonostante il diverso rapporto con la cultura islamica, anche in Italia l’islamofobia è in crescita. Secondo Bouteldja, questa è “l’arma congiunturale della controrivoluzione coloniale […], un tassello chiave al servizio dello stato razziale integrale”. (p. 126). Da quando il termine “maranza” è divenuto di uso comune, questo non si sente solo nei comizi elettorali di Vannacci e Sardone, ma si ripete spesso per strada, in televisione, sui social. È del 5 novembre scorso il post di Ryanair Italia che afferma: “Ci riserviamo il diritto di non servire chi indossa tute da maranza” (con tanto di didascalia: “facciamo noi le regole”). La parola è usata soprattutto nell’ambito della sicurezza: i maranza sembrano essere diventati il più grande pericolo per la nostra incolumità. È nota l’indagine della Digos secondo cui alcuni esponenti dell’estrema destra avrebbero organizzato delle “ronde anti-maranza” volte a riportare l’ordine e la sicurezza nelle strade milanesi; pare anche però che alcuni dei responsabili del blitz all’occupazione del liceo Da Vinci di Genova, indagati per danneggiamento aggravato e apologia di nazismo a causa delle svastiche disegnate sui muri, siano “maranza”. Ma chi sono allora i maranza? Se non è esatto che la parola maranza sia un neologismo, come affermato nella nota editoriale (p. 7), è pur vero che, nel suo nuovo utilizzo, il termine di fatto combini le due parole “marocchino” e “zanza” (Gabriel Seroussi sostiene che questa idea sia un falso mito: probabile, ma di fatto oggi la parola richiama istintivamente questi due termini). Anche la parola “zanza” ha una storia molto particolare, ma possiamo ipotizzare che derivi da “zanzara”, insetto particolarmente fastidioso. Uno “zanza” è infatti un “imbroglione, truffatore, furfante” (Treccani), oppure, in senso più ampio, un “tamarro”. I maranza sarebbero quindi dei micro-criminali di origini marocchine o, nel migliore dei casi, dei tamarri magrebini. È sempre più diffuso però un utilizzo del termine con riferimento a quegli adolescenti, anche di origine italiana, che vivono – come i ragazzi marocchini – l’emarginazione delle periferie, ascoltano un certo tipo di musica e vestono con le fantomatiche “tute da maranza”. Da qui l’idea della traduzione del titolo: Maranza di tutto il mondo, unitevi! Come ci racconta Bouteldja, in Francia il razzismo non è cosa di pochi, e lo stesso si può affermare per l’Italia. Tutti abbiamo condannato quel manipolo di ultras della Fiorentina che insultarono Kalidou Koulibaly dicendo “scimmia di merda”, ma quanti di noi rinuncerebbero al diritto di prelazione che sentiamo di avere su quanto ci circonda rispetto a un immigrato irregolare? Dire maranza vuol dire parlare dal di qua di una barricata, vuol dire che c’è un “noi” e c’è un “loro”; eppure, cos’altro ci rende diversi da “loro” se non la convinzione, sedimentata nelle tradizioni delle nostre famiglie, di meritare dei privilegi solo in quanto cittadini di uno “stato razziale”? Allora, dimenticando per un attimo quanto discutibile possa essere la traduzione del titolo, bisogna riconoscere a quest’associazione linguistica il merito di strappare la parola maranza alle connotazioni razziste sempre più diffuse di Sardone e Ryanair – ma anche di tanta gente di sinistra – e renderla, forse per la prima volta in Italia, soggetto politico attivo. (federico murzi)
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La politica della morte. Dopo i massacri nelle favelas di Rio de Janeiro
(disegno di federica pagano) Il 26 novembre di nuovo un’operazione della polizia militare a Rio de Janeiro ha provocato dei morti, questa volta nella favela del Maré; i proiettili hanno raggiunto un bambino di dodici anni che era nel cortile di una scuola, e hanno perforato i muri di una sede dell’Università Federal de Rio de Janeiro. Camila Felix che stava preparando questo pezzo per Monitor sul massacro avvenuto il mese scorso nella favela di Penha, a poca distanza dal Maré, era all’Università quando sono arrivati gli spari. UN PRESIDIO, DUE CORTEI Il 28 ottobre 2025 è entrato nella storia come il giorno del più grande massacro mai realizzato in Brasile; il cinico “successo dell’operazione” suona come una minaccia. Possiamo aspettarci che “la peggiore operazione di polizia a Rio sarà sempre la prossima”. Claudio Castro, il governatore dello stato di Rio de Janeiro vuole proseguire con la presunta strategia di recupero dei territori sotto il controllo dei gruppi armati usando sempre la stessa tattica delle incursioni della polizia, quella che ha consegnato l’intera città – e in particolare le favelas – nelle mani dell’incertezza e della politica della morte. Tre giorni dopo il massacro c’è stata una manifestazione unitaria di protesta con lo slogan “Basta massacri, Claudio Castro fuori!”. Il luogo d’incontro era un campo di calcio, il Campo do Ordem, nel complesso de La Penha, nella zona nord di Rio – il quartiere dov’è avvenuto il massacro. Si sono incontrati gli abitanti dei quartieri Penha e Alemão, i parenti delle vittime, nonché organizzazioni politiche e sociali come i movimenti dei neri, organizzazioni comuniste, sindacati, organizzazioni giovanili, eccetera. La strada era piena di gente; pioveva, le persone erano schiacciate sotto gli ombrelli, vestite di bianco o con magliette a lutto. Quando la pioggia si è calmata, lentamente le persone, le moto e i furgoncini sono entrati nel campo di calcio, e lo hanno riempito finché era difficile camminare. Mi sono fatta un giro, salutando amici e compagni di lotta, e fermandomi ad ascoltare gli sconosciuti che condividevano il loro dolore, i politici e gli attivisti che pronunciavano i loro discorsi, mentre altri registravano o trasmettevano in diretta, insieme a giornalisti di testate indipendenti. L’indignazione era evidente. In fondo al campo c’era un secchio con vernice rossa diluita e magliette bianche da dipingere. Macchie rosse per una moltitudine. Il presidio è rimasto lì per circa tre ore, poi è partita una manifestazione che si è divisa in due. Alcuni dei partecipanti si sono incamminati in corteo verso Penha, mentre un’altra parte si è avviata con i furgoni e le moto in una carovana verso il Palacio de Guanabara, la residenza del governatore dello stato di Rio nel quartiere centrale di Laranjeiras. Io mi sono avviata con il primo gruppo, e ci siamo diretti verso la piazza São Lucas, dove la settimana precedente gli abitanti avevano allineato decine di cadaveri abbandonati dai poliziotti dopo il massacro. Mentre camminavamo per le strade gridavamo: “Claudio Castro, assassino!”, “Non è finita; deve finire; voglio la fine della Polizia Militare”, e “Marielle lo chiese, io pure lo chiedo: quanti devono morire perché questa guerra finisca?” [un riferimento a Marielle Franco, l’attivista per la casa uccisa nel 2018 a Rio, Ndr]. Dalla piazza São Lucas abbiamo continuato a camminare per l’avenida Nossa Senhora da Penha, dove molti negozi sono rimasti chiusi fin dal giorno del massacro. Siamo passati davanti alla sede del 28º Battaglione di pompieri militari, da dove alcuni pompieri osservavano attentamente la manifestazione. Una volta arrivati all’avenida Brás de Pina, almeno otto pattuglie di polizia ci aspettavano parcheggiate. Lì la manifestazione ha iniziato a disperdersi. SICUREZZA PUBBLICA E IDEOLOGIA Secondo il giornale Foro de Teresina, il saldo del massacro è stato di centoventuno morti confermati, nessuno dei quali aveva un ordine di arresto che giustificasse l’operazione. Nessuna delle persone assassinate dal braccio armato dello Stato era il vero obiettivo di quella azione, che ha avuto luogo in un paese dove la pena di morte non è prevista dalla legge. Tra i centotredici arrestati, solo venti avevano dei mandati di arresto. La Defensoría Pública non ha potuto realizzare la perizia sui cadaveri, che avrebbe permesso di distinguere tra uno scontro e un’esecuzione. Il governatore Castro ha dichiarato: “Tutto il Brasile ora ha visto che è possibile affrontare queste organizzazioni. La società ci chiede continuità: e noi gliela daremo”. Il “successo”, tuttavia, con tutta probabilità non risiede negli arresti o nel sequestro di armi, né nel “recupero del territorio”, che non è avanzato neanche di un centimetro. Come mostrano le “mappe storiche dei gruppi armati” sviluppate dal Gruppo di studio sulle nuove illegalità dell’Università Federal Fluminense e dall’organizzazione Fogo Cruzado, questa politica di sicurezza pubblica che va avanti da quasi trent’anni sta diventando sempre più letale, ma continua a fallire nel contenere l’avanzata dei gruppi armati. Una comparazione sull’area di azione di Rio de Janeiro mostra un aumento del quattrocento per cento nel territorio controllato dai gruppi armati, tra il 2008 e il 2023. Queste mappe mostrano una riorganizzazione del dominio territoriale dei gruppi armati nella regione, specialmente con l’espansione del Comando Vermelho e delle milizie. Il “successo” si spiega quindi forse per un’altra cifra: che il sessantaquattro per cento della popolazione si è dichiarata favorevole alla mega-operazione. Così, possiamo formulare un’ipotesi: la “sicurezza pubblica” a Rio de Janeiro funziona come un’ideologia che sostiene le campagne elettorali, e con molto successo. Se studiamo il momento successivo al massacro, e le sue ripercussioni politiche, alla luce di questa ipotesi, possiamo identificare alcuni elementi e prese di posizioni diverse: il rifiuto del massacro, la rivendicazione del suo successo, e anche la strumentalizzazione dell’episodio per trattare altri temi. In primo luogo, spicca la ripercussione relativa agli eccessi commessi. Il 3 novembre, sei giorni dopo i fatti, il gruppo del Psol nell’Assemblea legislativa dello stato di Rio ha presentato una richiesta di impeachment contro il governatore Castro. Il giorno dopo, il presidente federale Luiz Inácio Lula da Silva del Partito dei lavoratori (Pt) ha affermato che “c’è stato un massacro”, dichiarando che ci sarebbe stata un’inchiesta parallela sull’operato della polizia. Ventisette organizzazioni hanno espresso la loro indignazione in una lettera pubblica che affermava “la sicurezza pubblica non si costruisce con il sangue”. La seconda linea di ripercussione consiste nella disputa sulle cause e il senso dell’avanzamento dei gruppi armati a Rio, e – in conseguenza – del massacro stesso. Gli alleati di Bolsonaro legano la crisi della sicurezza a Rio al presunto abbandono della città da parte del governo federale, particolarmente in relazione alla figura di Lula. In questo contesto, è importante analizzare le continue critiche alla Arguição de Descumprimento de Preceito Fundamental, un’azione giudiziaria conosciuta anche come ADPF das favelas, presentata nel 2019 dal Partito socialista (Psb) insieme a diversi movimenti neri, collettivi di madri e parenti di vittime della violenza della polizia, abitanti delle favelas e altre organizzazioni della società civile. L’obiettivo dell’ADPF 635 era diminuire la letalità della polizia nelle operazioni di sicurezza pubblica nelle favelas, ed era stata accettata parzialmente nel 2020. Tra i risultati di tale azione c’era l’installazione di telecamere nelle uniformi degli agenti, la presenza obbligatoria delle ambulanze nei luoghi dove si realizzano le operazioni e la richiesta di maggior trasparenza e dialogo con il Ministerio Público. Tuttavia, le organizzazioni di attivisti e in difesa dei diritti umani hanno denunciato che il testo ha delle falle che permettono un’applicazione flessibile, per non dire selettiva, delle sue direttive. Claudio Castro, che inizialmente aveva elogiato la ADPF quando era stata approvata, ora la chiama “maledetta” e la accusa di rendere meno efficace l’azione della polizia durante il massacro. Secondo Pedro Venceslau, questa argomentazione è in linea con la narrativa adottata dalla destra, e particolarmente dai leader del Partido liberal, per orientare il dibattito sulla sicurezza pubblica verso una critica non solo del governo federale, ma anche del Tribunale federale supremo. Sono due i fattori decisivi per cui la ADPF 635 è stata così criticata. Da una parte, nell’ambito statale, serve come base per la richiesta di impeachment: secondo il gruppo che ha avanzato la richiesta, i protocolli che stabilisce – rispetto alla proporzionalità, alla presenza delle ambulanze, all’uso delle telecamere corporali e alla preservazione della scena dell’operazione per le perizie indipendenti – non sono stati rispettati. Dall’altro lato, nell’ambito federale, la ADPF è servita anche come base per l’apertura dell’inchiesta portata avanti dal giudice Alexandre de Moraes, che ha convocato in udienza il governatore Castro il 3 novembre, richiedendogli un rapporto sull’operazione. Questo rapporto, elaborato dal governo dello stato di Rio, è stato mandato al Tribunale superiore federale il 17 novembre, ma presentava contraddizioni tra il numero degli arresti e il numero delle armi sequestrate. Un’altra discrepanza era sulla quantità di telecamere utilizzate durante il massacro: inizialmente il governo aveva dichiarato che tutti i poliziotti che avevano partecipato all’operazione avevano le telecamere corporali, ma nel rapporto Castro afferma che solo sessanta poliziotti civili avevano tali dispositivi; inoltre, oltre la metà di essi (trentadue) non funzionavano. In più, l’operazione del governo federale, capeggiata da Lula e dal Partito dei lavoratori, fa parte di una strategia di lunga durata nei confronti dei candidati del Partito liberale, a cui appartiene il governatore Castro così come buona parte dei candidati bolsonaristas, sia dello stesso Partito liberale che di altri partiti di destra come i Repubblicani e Progressisti. Però, oltre a questa opposizione, la destra brasiliana da anni deve affrontare anche il Tribunale federale supremo, e in particolare proprio il giudice Alexandre de Moraes. Il punto più alto di questa tensione è stato l’assalto al Tribunale, al Parlamento nazionale e al palazzo presidenziale di Planalto a Brasilia l’8 gennaio 2023, all’indomani della vittoria di Lula. La storia prosegue convulsa dopo il recente arresto di Jair Bolsonaro. Infine, il terzo piano comprende una posizione che considera le favelas come spazi d’eccezione. “Un drone del Comando Vermelho ha lanciato bombe durante l’operazione della polizia, eppure la sinistra insorge se io suggerisco di bombardare le barche dei trafficanti!”, ha scritto Flavio Bolsonaro, senatore e figlio dell’ex presidente. L’associazione di idee segnalata dal senatore è rivelatrice: si riferisce agli attacchi statunitensi contro le barche venezuelane. Non è la prima dichiarazione di questo tipo: suo fratello, il consigliere Carlos Bolsonaro, aveva già criticato la decisione del governo brasiliano di rifiutare, nel 2025, una proposta degli Usa perché fazioni armate come il Comando Vermelho e il PCC (Primer Comando da Capital) fossero considerate organizzazioni terroriste. Secondo la professoressa dell’UFF Carolina Grillo, classificare tali “fazioni” come gruppi terroristi o narcoterroristi sarebbe una strategia per costruire un’alterità radicale che permette la sospensione delle leggi in alcuni spazi specifici. Sono più di tre decenni che in Brasile le politiche di sicurezza sono orientate dall’idea della crisi come forma di governo. L’alterità e la crisi sono elementi essenziali per instaurare questa modalità di azione differenziata delle forze dello Stato, come un vero e proprio stato di eccezione. Altre due studiose, Gizele Martins e Juliana Farias, sostengono invece che la militarizzazione non ha un carattere eccezionale nelle favelas e nelle comunità; è un dispositivo di disciplinamento dei corpi neri e poveri, naturalizzato dalla sua ripetizione. È una politica che si basa su una morte allargata che disorganizza la vita come conseguenza di tale violenza. Essa va oltre la morte e il lutto; si configura anche come irruzione della paura, dei coprifuoco e della imprevedibilità nella vita quotidiana degli abitanti. Così, la violenza in Brasile prevale nelle forme extralegali, tanto quando è esercitata dai gruppi armati, che quando la pratica lo stesso Stato, che trasgredisce le sue stesse determinazioni legali sull’uso della forza. La vita politica che si è articolata dopo il massacro sta mostrando che questo modo di gestire la sicurezza pubblica ha altre ragioni rispetto a quelle dichiarate. (camila felix)
mondo
La parola della settimana. Merito
(disegno di ottoeffe) Amame e damme ‘o bene quanno nun m’o merito tanno n’aggio bisogno, l’aggio appreso int’e prete e nun m’o scordo. (co’sang, povere ‘mmano) In epoche di scosse telluriche ed emotive mi sono ritrovato a discutere più volte il concetto di “merito”, mantra della tirannia capitalista e dogma che assume l’iniquità come effetto collaterale di una selezione fintamente naturale. Ne ho parlato per quasi un’ora con un gruppo di adolescenti con cui sto lavorando in una scuola non lontano da casa, che l’hanno associata per lo più al mondo dello sport (“vincere con merito”, “meritare la vittoria”), a una presunta eticità (“onore al merito”, “meritare un riconoscimento”), e qualcuno addirittura a un vecchio adagio di curva, non so attraverso quali canali giuntogli alle orecchie (“chi milita, merita”). Pochissimi tra loro, per fortuna, l’hanno associato alla scuola. Su venticinque ragazzi e ragazze, anzi, soltanto sei conoscevano l’assurdo nome dato dall’attuale governo neofascista al ministero che organizza la loro vita scolastica (ho dovuto fargli notare che il fascismo nasce come braccio armato del grande capitale, che dell’ideologia del “merito” ha bisogno come il pane). Il latino, la Bibbia, l’Occidente. Questo è il nuovo programma scolastico 2026 (elle, 14 marzo 2025) Scuola, passa la riforma del voto in condotta: con 6 compito di cittadinanza; con 5 si è bocciati (la stampa, 30 luglio 2025) “A chi contesta il termine maturità, a chi lo considera superfluo, ridondante o simbolico, rispondiamo con fermezza: questa non è una questione di parole, ma di valori. Abbiamo scelto ‘maturità’ perché l’esame non misura solo ciò che si sa, ma chi si è diventati. […] Chi attacca il termine non attacca un nome, ma la centralità della formazione della persona, e noi su questo principio non arretriamo di un passo. […] Per il governo Meloni, e per il ministro Valditara, il cuore di questa riforma è proprio questo: restituire centralità alla persona, restituire dignità al valore educativo della scuola”. (ella bucalo – membro della commissione cultura del senato e responsabile del “dipartimento istruzione” di fratelli d’italia) Per non essere troppo livoroso ho deciso di non scegliere come parola di questa settimana né “cerchio” né “botte”, e di non dare troppa importanza a un articolo pubblicato su Jacobin, organo di stampa ombra di Alleanza Verdi Sinistra e sfogatoio delle decine di accademici e intellettuali di questo tristo paese bisognosi di accreditarsi come “di sinistra”. Vale però la pena ugualmente entrare nel merito di alcune riflessioni pubblicate in questi giorni sulla stampa nazionale a corollario dell’azione effettuata da alcuni attivisti a Torino, che si sono introdotti nella sede de La Stampa, buttando per aria un po’ di fogli e scrivendo qualche slogan sui muri. Su Monitor abbiamo già espresso la nostra posizione (qui e qui), ma riprendo qualche passaggio a beneficio di chi fatica a leggere più di quattromila battute in un solo articolo: Al di fuori, essa si esercita innanzitutto con uno strumento formidabile di formazione e controllo dell’opinione pubblica, La Stampa. Il giornale della Fiat ha infatti un’influenza determinante nella vita e nelle opinioni dei torinesi. Esso sbandiera un antifascismo sterile e di ricordi, e una politica di “riforme sociali”, propone un paternalismo “illuminato” avallato anche sul piano nazionale grazie alle firme di rispettabili nomi della cultura e dell’antifascismo italiani, e sul piano torinese, con la seconda pagina e “Lo specchio dei tempi”, indirizza l’opinione pubblica su binari ben precisi. In essa trovano posto le “inchieste” e le “denunce” interessate (il costo della vita, le case che mancano e che lo Stato dovrebbe finanziare, e così via), le cronache della Torino-bene e dei suoi eroi con le loro mensili “opere buone”, i preti e gli assi della Juventus, la cronaca delle disgrazie, degli incidenti (narrati, sempre, in stile “Cuore”), i fattacci degli immigrati (con appariscenti titoli: “calabrese ruba…”, “meridionale uccide…”, “siciliano rapisce…”) e infine le buone azioni quotidiane. (goffredo fofi, l’immigrazione meridionale a torino) Solo a partire da qui è possibile riformulare le domande iniziali: che cos’è la violenza? Chi ha il potere di nominarla? Quale contesto viene assunto come sfondo neutro e quale viene patologizzato come devianza? Solo a partire da qui è possibile parlare di solidarietà senza riprodurre la postura coloniale di chi rappresenta l’altro, decide al posto dell’altro quale forma di resistenza è accettabile, prescrive all’altro la non-violenza mentre ne beneficia quotidianamente lo sfruttamento. Il punto non è di normalizzare la violenza, ma di smettere di usarla come strumento per silenziare quelle lotte anticoloniali e rivoluzionarie che dicono, in modo esplicito, che la libertà di una parte dell’umanità è inseparabile dalla trasformazione radicale dell’ordine che oggi viene difeso anche, e soprattutto, nel nome della “pace”. (miriam abu samra, la fiera dell’ipocrisia. intellettuali progressisti e non violenza) Da manuale della Scuola Holden, si diceva, il pezzo pubblicato sulla questione da Jacobin (per i meno avvezzi, la Scuola Holden è un centro di formazione – con sede a Torino – in cui Alessandro Baricco e i suoi insegnano a giovani che sanno usare le parole a metterle al servizio delle aziende, della politica, degli interessi delle classi dirigenti, fingendosi pure soggetti liberi e pensanti).  Con una scaltrezza non da poco Alberto Manconi riesce, nello stesso articolo: ad attaccare strumentalmente il governo Meloni come farebbe un esponente del Pd o di Avs; a indignarsi per la rottura dell’equilibrio liberaldemocratico per cui la libertà di stampa è sacra (tanto più che quel giorno i giornalisti erano “in sciopero per poter svolgere seriamente la propria professione”); a rimestare altra fuffa inutile, ma a essere al contempo precisissimo sui punti sostanziali di questa vicenda, che sono il vero bersaglio del suo discorso: l’azione dei militanti torinesi è “un errore”, “non utile”, “inefficace” e “non intelligente” (avrebbe oscurato il fine settimana di scioperi e indirettamente il fatto che in Palestina non ci sia ancora nessuna pace); chi l’ha compiuta ha fatto “di tutt’erba un fascio” e creato un pretesto per una condanna da destra delle altre posizioni di sinistra, quelle più democratiche e accettabili (vedi Francesca Albanese); l’imam di San Salvario Mohamed Shahin sarebbe in via di deportazione perché avrebbe “contestualizzato in modo discutibile il 7 ottobre”; dulcis in fundo, La Stampa non è certo “il peggior quotidiano nel modo di trattare il genocidio in Palestina”. Una rappresentazione plastica della lotta di classe (da quale lato e contro chi, lo potrete capire da soli), da studiare e ricordare.  “Antisemitismo” e “genocidio”: il peso delle parole dopo il 7 ottobre Abusare di determinati termini confonde la Storia e rischia di cancellare le vere responsabilità morali e politiche (la stampa, 30 agosto 2025) Sdoganare l’antisemitismo, l’altro disastro di Netanyahu (la stampa, 25 settembre 2025) L’attacco contro la redazione de La Stampa a Torino non è solo un atto vile: è una ferita alla democrazia e un colpo gravissimo alla stessa causa palestinese. […] Colpire un giornale – con volti coperti, fumogeni, minacce, devastazioni – ripropone forme di squadrismo che la storia d’Italia ha già sconfitto e ricacciato indietro. E nessuna lotta davvero “giusta” può consentire di farsi inquinare da una violenza fine a se stessa. […] Tanto più perché La Stampa è uno dei pochi quotidiani italiani che, con continuità, ha dato spazio a voci palestinesi, documentando il “genocidio a bassa intensità” a Gaza, il terrorismo dei coloni israeliani e le torture in carcere dei prigionieri palestinesi. (rula jebreal, la stampa, 3 dicembre 2025)  La differenza tra i due avvenimenti è l’esistenza dello Stato di Israele. Uno Stato che, aggredito, risponde. Come tutti gli Stati. Che fortuna insperata per gli antisemiti di tutto il mondo! Gli ebrei uccidono. È un’occasione, forse, per ripulire la cattiva coscienza ereditata dai testimoni di uno dei più grandi massacri della Storia, se non altro per numero di morti, e i mezzi adottati per liquidarli, quelli degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, sotto lo sguardo indifferente dell’umanità. Ed ecco che manifestazioni oceaniche riempiono le strade delle grandi città di tutto il mondo. Sono manifestazioni che superano per ampiezza quelle contro la guerra del Vietnam a suo tempo. Con una palese differenza: all’epoca la gente gridava “pace in Vietnam!”. Dalla bocca di coloro che oggi solidarizzano con Gaza, invece, la parola “pace” è scomparsa. A rappresentare il Male, il Male da combattere, non è più il governo, ma tutto Israele. […] I nuovi antisemiti di fatto stanno ritorcendo la Shoah, che i negazionisti non sono riusciti a far vacillare, contro gli ebrei stessi. Gli ebrei che, in questo periodo, stanno “genocidiando” un altro popolo. Questo verbo non esisteva nei dizionari, ma è stato inventato proprio in occasione della guerra di Gaza. (marek halter, la stampa, 26 novembre 2025) Qualche anno fa, ispirati da Aristotele ed Hegel, avevamo una rubrica su Monitor che metteva in evidenza lo squallore di ciò “che ci meritiamo” (i giornali che ci meritiamo; i politici che ci meritiamo; i partigiani che ci meritiamo, e così via). Ci ho ripensato giovedì a proposito dei telegiornali, imbattutomi con g. in un servizio del Tg2 che nel dar conto dell’ennesima strage israeliana a Gaza, dove con la scusa di ammazzare un militare di Hamas sono stati uccisi cinquanta civili, di cui sette bambini, si leggeva il massacro come conseguenza di un attacco di miliziani palestinesi a una pattuglia dell’esercito sionista, che avrebbe provocato il ferimento – fonte: l’esercito stesso – di cinque soldati. (credits in nota 1) Sarebbe bello, anche solo a volte, sapere cosa diavolo abbiamo fatto di male. a cura di riccardo rosa ________________________ ¹ Robert De Niro, Dennis Leary, Anne Heche, Dustin Hoffman in: Sesso e potere, di Barry Levinson (1997)
rubriche
parola della settimana
La fiera dell’ipocrisia. Intellettuali progressisti e non violenza
(disegno di renaud eymony) Negli ultimi due anni una classe di intellettuali e analisti progressisti si è imposta come voce autorevole nell’ambito del movimento di solidarietà con la Palestina in Italia. Gli va dato atto di essere riusciti ad abbracciare, almeno retoricamente, anche la visione internazionalista e anticapitalista che sta alla base della lotta di liberazione palestinese e che, dopo anni di mobilitazione di collettivi e movimenti territoriali, si sta radicando anche in altri settori della società italiana. La lotta di liberazione palestinese si è storicamente presentata come lotta rivoluzionaria, identificando nel sistema internazionale stesso e nell’ordine globale che esso impone le radici delle ingiustizie non solo di controllo e dominio coloniale, ma anche di sfruttamento e oppressione economica e culturale che, con modalità diverse, si riproducono in tutte le diverse geografie. È una lotta di liberazione che non guarda “solo” alla libertà palestinese sulla terra indigena, ma che richiede un cambiamento, una trasformazione sistemica che è tipica di ogni lotta anticoloniale, e che storicamente è stata abbracciata e cercata da ogni movimento rivoluzionario nel Sud globale. Questi intellettuali progressisti si fanno oggi portavoce di un appello alla cosiddetta “lotta intersezionale”, termine spesso abusato, che nella sua accezione originale richiamerebbe alla lotta congiunta e alla necessità di aprire gli orizzonti a nuove prospettive e rivendicazioni sociali ed economiche. Nonostante il tentativo decoloniale, tuttavia, questi intellettuali ricadono nella contraddizione storica che la caratterizza: nel momento stesso in cui si fanno portavoce di parole d’ordine rivoluzionarie, partendo dalla cosiddetta solidarietà alla lotta anticoloniale palestinese, lo fanno, di nuovo, imponendo le categorie analitiche e discorsive dello stesso sistema che, invece, la visione rivoluzionaria tenta di trasformare. Si fa un gran parlare, in questi giorni, in Italia, delle pratiche di dissenso individuate da attivisti di differenti estrazioni. La linea generale è che ogni protesta è giusta e va sostenuta fino a quando non sfoci nella violenza. Un coro unanime dei nuovi volti della solidarietà neoliberale si è alzato per ribadire che la non-violenza è imprescindibile per farsi ascoltare. Condanne di vario genere e prese di distanze non richieste si sono affrettate a spiegarci ciò che è giusto o sbagliato, a definire cosa è violento e cosa no. Ma che cosa è la violenza? Chi la definisce? Come si stabiliscono i parametri secondo cui giudicare? Qual è il contesto che definisce un’azione violenta? In questo caos discorsivo ho ritenuto necessario trovare risposte in chi le rivoluzioni le ha sognate, costruite, cercate, nel tentativo di vivere una vita di dignità e giustizia sociale. È uno sforzo che richiede l’abbandono del privilegio coloniale di cui siamo intrisi, un insieme di privilegi di razza, geografici e di classe che spesso denunciamo a parole ma che di fatto continuano a condizionare il modo in cui ci rapportiamo al mondo, anche e spesso soprattutto nella classe intellettuale. Ho provato a ripartire dalla dicotomia tra violenza e non-violenza: la violenza del colonizzato irrazionale, mai correlata però alla violenza dell’oppressione, che è concepita nell’ordine educato e borghese delle nostre società, che non considera violenza gli arresti arbitrari, le politiche di repressione e sorveglianza, quanto piuttosto i sabotaggi contro queste pratiche e narrative. Ma si può parlare di violenza senza partire dalla struttura di dominio che la produce, dalla geografia del potere che decide cosa è visibile e cosa no, cosa è nominabile come violenza e cosa invece può restare anonimo, amministrativo, “normale”? Fanon, su questo, va dritto al punto, alla radice di ogni dinamica di liberazione, riparte dal nucleo centrale dei rapporti di potere: la violenza non è un incidente nel percorso della colonizzazione, è il suo principio organizzativo, ciò che costituisce il dominio. Il mondo coloniale è compartimentato, diviso in zone, in cui la presenza armata, la polizia, i checkpoint, le demolizioni, le deportazioni e l’espropriazione della terra non sono eccezioni ma il tessuto quotidiano della vita. È questa violenza originaria – quella che istituisce il colono come soggetto e il colonizzato come oggetto – che rende possibile ogni altra pratica: la legge, il mercato, la scuola, il discorso umanitario. Parlare di non-violenza senza nominare questa asimmetria significa naturalizzare la posizione del colono, assumere come neutro il punto di vista di chi beneficia dell’ordine esistente. La violenza anticoloniale non è l’irruzione di un irrazionale da contenere, ma l’atto con cui l’oppresso rompe il silenzio altrui sulla violenza che lo costituisce come tale. È, insieme, risposta e smascheramento: risposta alla forza nuda che fonda il mondo coloniale; smascheramento della pretesa di neutralità dell’ordine giuridico, economico e morale che la copre. La domanda “chi definisce la violenza?” non è retorica: la definisce chi detiene il monopolio della narrazione legittima, chi ha la possibilità di imporre come “naturali” le forme lente, burocratiche, istituzionali dell’oppressione, mentre registra come “violenza” ogni gesto che rompe la “normalità” imposta, che si rifiuta di obbedire, che si ribella all’ingiustizia. Su questo la riflessione fanoniana incontra quella di Guevara. Anche per il Che la violenza rivoluzionaria non nasce nel vuoto, ma da una diagnosi globale di un sistema economico e politico strutturalmente violento: l’imperialismo, la dipendenza economica, la subordinazione dell’intera riproduzione sociale alle esigenze del capitale. Se per Fanon la colonizzazione è un ordine spaziale e razziale fondato sulle armi, per Guevara il capitalismo mondiale è un ordine gerarchico che produce fame, miseria, dittature militari, guerra permanente. La guerriglia non è solo una tecnica di combattimento, è l’assunzione consapevole del fatto che nessuna richiesta “ragionevole” verrà ascoltata fintanto che non si intacca il cuore del sistema. Se assumiamo questa prospettiva, la violenza rivoluzionaria non è mai separata dalla questione del soggetto. Il combattente non è un mero esecutore di atti violenti, è qualcuno che si trasforma nel processo stesso della lotta, che rompe con l’individualismo, con la passività, con la neutralità impossibile. L’“uomo nuovo” di cui parla Guevara non è una figura mistica, è il tentativo di nominare una soggettività che non accetta più i parametri morali ed economici imposti dall’ordine dominante. La violenza non è, attenzione, feticizzata, ma nemmeno è riducibile a un problema di mezzi da moderare in funzione di fini già dati. È parte di un processo pedagogico rovesciato: non è il sistema a educare il soggetto, è la pratica della rottura – del sabotaggio, dell’insurrezione, della diserzione rispetto alle logiche del profitto – a produrre un soggetto che non si riconosce più nelle categorie del sistema. È a questo punto che vale la pena spostarsi sul terreno palestinese contemporaneo. C’è, per esempio, Basel al-Araj che ci obbliga a fare un ulteriore passo. La sua riflessione nasce in un contesto in cui la colonizzazione non è più solo quella “classica” dell’occupazione militare e della conquista territoriale, ma è anche e soprattutto un regime “manageriale” nel quadro neoliberale: Oslo, il coordinamento di sicurezza, l’Ong-izzazione della politica, la trasformazione della resistenza in discorsi e quadri d’analisi depoliticizzati e decontestualizzati per progetti umanitari finanziati dai donatori occidentali, tecnicismi per la “democratizzazione” degli “incivili e ineducati” da salvare, lezioni di industrializzazione e “microeconomia” per i “sottosviluppati”. In questo quadro, il discorso sulla non-violenza assume una dimensione ancora più ambigua: diventa spesso la lingua di una solidarietà che, pur proclamandosi radicale, è pienamente interna alle forme neoliberali del sistema che, proprio attraverso questi discorsi egemonici, si assicura il controllo non solo sulle pratiche politiche ma anche sulle percezioni e rappresentazioni di esse. La violenza diventa la responsabilità di superare il limite oltre il quale il linguaggio dei diritti umani e della diplomazia smette di essere strumento e diventa complicità. La sua pratica – lo studio sistematico della storia, del nemico, delle esperienze rivoluzionarie passate, unito alla scelta consapevole della clandestinità e della lotta armata – mette in crisi l’idea di un sapere “neutro” che possa descrivere la violenza dall’esterno. Non esiste resistenza palestinese che possa essere separata dalle forme concrete in cui il potere si riorganizza: l’Autorità Palestinese, i donatori, le narrazioni liberali della non-violenza, le gerarchie di classe e di razza dentro e fuori la Palestina. Da questa angolatura, la dicotomia violenza/non-violenza, così come viene mobilitata nel dibattito del Nord globale e soprattutto in questi giorni in Italia, appare non solo insufficiente ma profondamente ideologica. Quando si afferma che “ogni protesta è giusta finché non diventa violenta”, si dà per scontato che la violenza sia un evento eccezionale che interrompe una presunta normalità pacifica. Fanon ci invita a rovesciare lo sguardo: la normalità del mondo coloniale – e, per estensione, del mondo neoliberale securitario – è già di per sé violenta. È violenza il confine che uccide, il centro di detenzione amministrativo, il carcere, il razzismo istituzionale, la precarietà strutturale, l’invisibilità forzata di interi gruppi sociali. La fame e la miseria di milioni non sono un “danno collaterale”, ma il prodotto sistematico di un ordine economico. Al-Araj ci mostra come l’occupazione palestinese sia anche un laboratorio di strategie e pratiche di oppressione che poi vengono esportate altrove: sorveglianza, polizia preventiva, controllo dei movimenti e così via. In questo quadro, definire violenti i sabotaggi, i blocchi, le forme di disobbedienza che interrompono – temporaneamente e simbolicamente – il flusso ordinario delle merci, dei confini, della rappresentazione, mentre si tace sulla violenza strutturale che quel flusso garantisce, significa collocarsi esattamente nella posizione del colono fanoniano, del borghese che Guevara chiama a tradire la propria classe e che raramente lo fa, dell’intellettuale che al-Araj considera complice. Non si tratta di negare che i gesti di rottura producano danno, conflitto, scontro: si tratta di riconoscere che quello scontro è “imposto” dalla violenza sistemica, che la sua demonizzazione è una difesa delle asimmetrie di potere che garantiscono a quello stesso sistema di difendersi, riprodursi, riproporsi come unico standard, come unica realtà concepibile. Si tratta di rifiutare la morale che li condanna in nome di una pace che coincide, in pratica, con la continuità della violenza “legittima”. Solo a partire da qui è possibile riformulare le domande iniziali: che cos’è la violenza? Chi ha il potere di nominarla? Quale contesto viene assunto come sfondo neutro e quale viene patologizzato come devianza? Solo a partire da qui è possibile parlare di solidarietà senza riprodurre la postura coloniale di chi rappresenta l’altro, decide al posto dell’altro quale forma di resistenza è accettabile, prescrive all’altro la non-violenza mentre ne beneficia quotidianamente lo sfruttamento. Il punto non è di normalizzare la violenza, ma di smettere di usarla come strumento per silenziare quelle lotte anticoloniali e rivoluzionarie che dicono, in modo esplicito, che la libertà di una parte dell’umanità è inseparabile dalla trasformazione radicale dell’ordine che oggi viene difeso anche, e soprattutto, nel nome della “pace”. La classe intellettuale progressista che ripropone la stessa dicotomia violenza/non-violenza che è strumentale al sistema, altro non fa che ribadire, di fatto, che la “responsabilità della moderazione” ricade sempre interamente su chi non ha potere; si chiede a chi prova a intervenire sullo status quo di farlo nei modi che il sistema stesso impone, si chiede di essere le vittime buone come se la legittimazione del sistema stesso fosse necessaria per essere visibili. Siano essi i palestinesi, o i giovani che irrompono nelle stanze di una redazione mediatica complice, o chi occupa spazi pubblici per rivendicare diritti. A chi detiene il potere, invece, è garantita l’impunità epistemica di definirsi neutro, civile, pacifico. È proprio la stessa asimmetria che denuncia Fanon: il colonizzato è chiamato a giustificare ogni gesto, ogni parola, ogni crepa nel consenso; al colono non si chiede nulla. Guevara la riconosce nella retorica dello sviluppo e della democrazia liberale che mascherano la coercizione sistemica dei popoli del Sud globale; al-Araj la vede all’opera nelle dinamiche neoliberali dell’occupazione e nel linguaggio dei donatori internazionali che pretendono di decidere quali forme di resistenza siano “accettabili” e quali invece debbano essere patologizzate come “violenza”. Assumere questa prospettiva è la condizione minima per sottrarci all’ipocrisia che pretende disciplina dagli oppressi e concede licenza illimitata agli oppressori. È, in ultima analisi, la condizione per parlare di giustizia non come richiesta astratta, ma come trasformazione radicale dell’ordine che continua a nominare “pace” la propria violenza e a chiamare “violenza” ogni tentativo di spezzarne la continuità. (mjriam abu samra)
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L’eco dei fiori sommersi, stasera al Modernissimo. Intervista a Rosa Maietta
(disegno di manincuore) L’occasione per questo articolo è duplice: per un verso il desiderio di chi scrive di “stare” su Napoli coi suoi artisti e le sue contraddizioni, le sue “novità” e le sue puntuali bruttezze; per altro verso la proiezione del film L’eco dei fiori sommersi al Modernissimo il 5 dicembre alle ore 21; proiezione inattesa per quanto è difficile trovare un film “piccolo” al cinema, un film auto-distribuito e aggiungerei femminista. Si parla poco della lotta politica che si gioca sulla distribuzione: perché il cinema resta l’arte delle masse e se è preclusa la possibilità di vedere buoni film tutto è perduto. Ho conosciuto Rosa Maietta durante la lavorazione del film Gli ultimi giorni dell’umanità di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo. Lei lavorava sul mitico e irraggiungibile (per me) archivio-fiume di Ghezzi, e questo me la rendeva già simpatica in via pregiudiziale. In seguito, l’ho incontrata innumerevoli volte alle rassegne indipendenti che si tengono a Napoli, nei soliti quattro o cinque spazi dove si può vedere qualcosa di diverso dal cinemino italiano borghese e fasullo. Siamo diventati amici, e grazie a lei ho scoperto Julio Bressane e soprattutto Radu Jude, che per me è il Godard del nostro tempo. Lei vive a Napoli, ha studiato lettere, è cinefila e viene da Benevento. Incredibilmente siamo nati lo stesso giorno, lei però nel 1990.  L’eco dei fiori sommersi è il suo primo lungometraggio. Partendo dall’idea di un documentario sull’Archivio di Stato di Napoli, è diventato un film con tutti i crismi, scritto e messo in scena a partire da storie vere contenute nei faldoni dimenticati tra i corridoi dell’Archivio. Prendono così vita, in forma poetica e politica, vicende realmente accadute nei decenni e secoli scorsi. Sono storie di donne, e accanto a vicende atroci (stupri, aborti clandestini, amori fatti a pezzi dalla guerra) è sempre riflessa la voglia e il desiderio di liberazione dai nemici di sempre, il sistema patriarcale e quello capitalistico. Il documentario ha una durata breve, 67 minuti. Colpisce la ricchezza di soluzioni stilistiche che adotta, dovuta probabilmente sia all’abilità al montaggio della regista – che nasce come montatrice –, sia al desiderio di utilizzare al massimo le possibilità del mezzo. Si va dal registro simbolico a quello teatrale, dal realismo tipico del documentario all’inserto d’animazione, fino all’utilizzo con parsimonia di materiale d’archivio. Piuttosto ricercata la scrittura; paradosso, poiché essa deriva quasi integralmente dalla lingua burocratica utilizzata nelle carte processuali. Questo tessuto plurilinguistico e i continui shock a cui assistiamo sono la forza straniante e felice del film. Il gergo asettico della macchina della giustizia, che tutto può e a cui tutti si sottomettono, viene messo in discussione dal film, attraverso l’esplosione soggettiva delle protagoniste, i fiori sommersi che riemergono in una sorta di giudizio universale. Loro, queste donne, ci dicono “come sono andate veramente le cose”, non attraverso una contro argomentazione logico-giuridica, ma coi corpi e con la voce, luoghi privilegiati della verità e della testimonianza. Per queste ragioni mi sembra un film importante. Ho conversato con Rosa Maietta sul film a fine luglio. Sintetizzo qui alcune delle mie domande e delle sue risposte, poiché la conversazione è durata più di due ore. Perché hai scelto l’Archivio? In realtà è un film d’occasione. L’Archivio di Stato, per aprirsi a un pubblico non di soli specialisti, cercava una rappresentazione cinematografica. Mi è arrivata la proposta e l’ho accettata. Volevo evitare un documentario basico, fatto di interviste e immagini “neutre”. Ho allora cominciato a frequentare l’archivio, e ho notato che ci lavoravano soprattutto donne. Le ho conosciute, loro mi hanno fatto scoprire quelle storie che poi ho portato nel film. Loro stesse sono nel film. L’operazione poetica di portare al cinema il contenuto dei faldoni è inusuale. Qual è stato il processo creativo? Volevo evitare di fare un film su una storia, o su più storie. Ho cercato di dare una certa circolarità al racconto, a mo’ di cantastorie. Insomma, non una singola storia ma la storia collettiva per le donne. Ho voluto far emergere l’emozione (il dolore, la passione) che sta dietro quel brutto e inavvicinabile linguaggio della burocrazia processuale, linguaggio perfettamente consono alla struttura patriarcale della giustizia e del mondo. Per questo, giocando sul contrasto, uso luci calde e recitazione forte di contro a questa fredda lingua del Potere. Nel film avverto un eccellente lavoro di scrittura. Negli ultimi anni abbiamo però assistito al desiderio di liberarsi della scrittura, a un certo sperimentalismo visivo nel cinema indipendente. Tu cosa ne pensi? L’attenzione alla scrittura oggi mi sembra un modo più democratico e meno elitario di fare cinema. Quindi sì, ho fatto un enorme lavoro di scrittura. Passavo le giornate all’archivio a leggere storie, a parlare con le archiviste, anche in maniera terapeutica, per dimenticare la perdita di mio padre. La scrittura è un momento decisivo e facilita la relazione col pubblico. Qual è la differenza tra il tuo lavoro e un documentario standard? Penso che il cinema venga definito Settima Arte non a caso. Abbiamo un privilegio e anche una responsabilità con quello che facciamo. Ho provato a lavorare sul film in quanto pezzo unico, perché non volevo che un singolo procedimento formale, come la colonna sonora o frammenti simbolici, prevalessero sul resto e diventassero tappabuchi o toppe. In questo senso, non volevo abusare di materiale d’archivio anche per avere rispetto di quello che andavo a utilizzare e manipolare. Cosa ti domanda il pubblico? Resta più su questioni di stile, o sul perché hai fatto il film, cosa volevi dire? Entrambe le cose. Il pubblico è una parte del film, quando si gira si pensa a quale pubblico è indirizzato, nei limiti del possibile. Dove è stato proiettato il tuo film? Come sta girando? Il film lo sto distribuendo io, lo invio assieme alla produzione ai festival e organizzo le proiezioni in Italia e all’estero. Ovviamente circola in modo del tutto peculiare: collettivi femministi interessati (come Non Una Di Meno a Cagliari), amici e amiche via passaparola, e anche l’accademia, nell’insospettabile sezione degli storici, poiché è uno dei pochi lavori cinematografici sugli archivi. Poi ci sono i festival in Italia e all’estero. Mi piace presentarlo in presenza, vedere il pubblico e confrontarmici. Lotto, insomma, per il mio film. A Napoli manca comunicazione tra registi, mi capita di parlare di questo problema anche con altri tuoi colleghi. I registi dovrebbero frequentare di più i festival, guardare i film degli altri. Questo non lo fanno, e così c’è poco scambio. Con le ultime vicende politiche, e la riduzione dei fondi alla cultura, mi è capitato di partecipare alle assemblee dei lavoratori precari dello spettacolo, dove nessuno parla di cinema. È assurdo! Napoli è una città senza scambio, io parlo di cinema con te e pochissime altre persone. Proveremo a portare avanti pratiche per metterci insieme. Vedremo… (salvatore iervolino)
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Un ricordo di Enrico Pugliese
(disegno di cyop&kaf) Enrico Pugliese ci ha lasciati la scorsa settimana. Oggi sarà ricordato alle 11:30 alla Sala della Promoteca del Campidoglio. Anche noi vogliamo ricordarlo, riproponendo questo articolo da lui pubblicato sul Manifesto esattamente trent’anni fa, nel dicembre 1995, in un periodo molto delicato, nel pieno della discussione politica su una possibile sanatoria e di una mobilitazione dai tratti chiaramente razzisti incentrata sul legame tra immigrazione e criminalità che iniziava a sfondare anche a sinistra. Leggendolo si possono ritrovare tutte le tracce che hanno fatto di Enrico una figura radicale e autorevole, capace di coniugare attività scientifica e impegno militante senza fare sconti a nessuno. Formatosi alla scuola di Portici, sociologo inizialmente concentrato soprattutto sugli studi sul mercato del lavoro, l’agricoltura e l’emigrazione, ha poi allargato molto le attività, avviando cantieri di ricerca sulle politiche sociali, sulle trasformazioni del mondo produttivo, sull’immigrazione straniera, che ha letteralmente “scoperto”, tra i primissimi, già alla fine degli anni Settanta. Pugliese è stato negli anni Settanta tra i fondatori del Centro di coordinamento campano, con Fabrizia Ramondino e Giovanni Mottura, ha sostenuto le lotte dei disoccupati, ha contribuito ad avviare negli anni Novanta un ciclo dirompente di mobilitazione antirazzista, culminato nel 1995 nella nascita della Rete antirazzista nazionale. *     *     * Strano paese, l’Italia. Sembra passata una vita dall’ossessione della grande stampa per la criminalità degli immigrati, mentre è passato sì e no un mese. Ora l’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa si è spostata – e ringraziamo la Madonna – sulle difficoltà di vita degli immigrati e sull’irrazionalità di molte norme del decreto sull’immigrazione. Gli stessi giornali che ora riportano interviste sul decreto e sui suoi difetti, prima pareva non vedessero altro che prostituzione e sporcizia. Al martellare continuo sulle nefandezze di spacciatori e lenoni neri (esistenti o immaginari, poco importa) si è sostituita la pietà e la commozione per la bambina rom alla quale un qualche buon padre di famiglia ha deciso di spaccare le braccia. Le brave persone che a Torino fiaccolavano contro la criminalità straniera saranno state finalmente contente: qualcuno ha avuto il coraggio di usare le maniere forti. Non bisogna dimenticare infatti che la bambina poco prima di essere massacrata aveva – pare – tentato un furto. C’era stata – pare – flagranza. Roba da espulsione, se straniera. Una buona lezione da piccoli insegna a vivere. O no? Pensiero debole e maniere forti: ci voleva poco a capire che quell’insistere continuo sulla criminalità degli stranieri come se fosse l’unica questione di rilievo nelle grandi città italiane avrebbe favorito un orientamento contrario agli immigrati in quanto tali. I compagni pidiessini e gli intellettuali non-di-destra che andavano a fiaccolare avrebbero potuto fare un qualche pensiero sul come le loro iniziative avrebbero favorito un’immagine falsata e negativa degli immigrati. In quei giorni si andava determinando in Italia l’identità immigrato=criminale. Naturalmente non mancavano i distinguo basati soprattutto sulla fondamentale distinzione sociologica tra buoni e cattivi. E i fiaccolatori di Torino o gli opinionisti di Repubblica se la prendevano – per carità – solo con i secondi. Ma questi diventavano sempre di più; i buoni si riducevano a un’astrazione. Quando poi si propose di considerare crimine anche la condizione di clandestinità si raggiunse il colmo. Questo avveniva ieri. Le cose sono cambiate con velocità impressionante. Ho ancora nelle orecchie la lettura mattutina su Rai Tre dell’articolo di Gianni Vattimo, credo sulla Stampa, con l’irritante racconto delle sue emozioni di fiaccolatore. E l’orrore di quei giorni non è certo passato. Ma devo dire – non per raccontare anch’io le mie emozioni – che avverto una nuova fiducia e una nuova speranza. GENTE CHE LAVORA È come se d’improvviso in Italia ci si fosse resi conto di un fatto ovvio ed evidente: cioè del fatto che, innanzitutto, gli immigrati sono gente che lavora. Anzi, gente che lavora molto e guadagna poco; gente che non fa parte di eserciti della camorra (la quale dispone di ben altre truppe). Comincia a farsi strada sulla stampa e anche nel senso comune un fatto che pareva dimenticato nei mesi scorsi: cioè che le immigrate non fanno in generale le prostitute (come sembrava dall’Espresso e da Panorama), bensì semplicemente le donne, le lavoratrici, le madri di famiglia, le figlie, le scolare ecc. La stampa e il senso comune sembrano aver scoperto che quasi mai gli immigrati riescono a godere dei diritti (pochi) che le leggi dello stato stabiliscono per loro. Insomma, sembra che stia cambiando l’aria. Lo so, sembra. E il clima delle istituzioni non è certo dei migliori: il voto del Senato (Pds compreso) sulla costituzionalità dell’articolo 7 non è certo un buon segno. Ma c’è qualcosa di meno greve nell’umore della gente. Torino avrà pure avuto le fiaccolate dei giannivattimi e le ronde dei mazzieri. Ma ha avuto anche la manifestazione del 19. E a Firenze il sindaco Primicerio è sceso in piazza non contro gli immigrati, ma per i loro diritti. Questo abominevole decreto, poi, è esso stesso pieno di contraddizioni. E di questo ha mostrato di rendersi progressivamente conto la grande stampa, compresa – anche se più tardivamente – l’Unità. La penosa difesa d’ufficio del decreto da parte del Pds e del suo giornale sta mutandosi in un dibattito più o meno pubblico sulla questione, nonostante il voto al Senato. La situazione è in movimento e la matassa è difficile da sbrogliare. SCAMBIO TRA DIRITTI Per capire qualcosa anche sul possibile futuro del decreto è bene forse partire dalla sua storia. Esso doveva nascere come intervento punitivo contro gli immigrati criminali, sulla base delle sollecitazioni dei fiaccolatori di Torino e loro alleati. Poi qualcosa è cominciato a muoversi nella società e nella politica. Non sappiamo la “storia nascosta” del decreto. Ma è come se a un certo punto fossero entrate in gioco una serie di pressioni, anche progressiste e solidaristiche, e come se alla fine si fosse determinata una sorta di scambio tra area dei diritti e dei principi costituzionali e area dei diritti sociali: insomma, “uno scambio tra espulsioni e regolarizzazioni”. Non è certo una bella cosa, e d’altronde tutto questo è un po’ fantapolitica. Ma la mostruosità economico-giuridico-sociale del decreto, e la sua contraddittorietà – cioè il suo carattere “benevolo” su qualche punto (si pensi all’articolo sulla sanità) e al contempo lepenista oltre ogni limite su altri – mostra che il suo estensore – vorrei conoscere la sua faccia – ha dovuto contentare molti partiti, molti gruppi di pressione, molti umori. Ci sono poi i “si dice”, che come tutti i “si dice” vanno presi con le pinze, ma non tutti sono improbabili. Per esempio pare che la Lega sia riuscita a far cancellare un articolo relativo alla regolarizzazione dei lavoratori autonomi (questione essenziale, soprattutto nel sud). Se non è vero, c’è stata una distrazione imperdonabile del “legislatore”, il quale ha lasciato fuori una parte significativa degli interessati. Se invece è vero, si è trattato di un episodio di indubbio squallore. SCHIZOFRENIE ANTISANATORIA Passiamo al lato positivo. Devo riconoscere innanzitutto che non mi aspettavo una apertura sul tema della regolarizzazione. La regolarizzazione è un’operazione di buon senso necessaria anche dal punto di vista della legge e dell’ordine. E quelli che sono contrari – il partito antisanatoria – sono a mio avviso un po’ schizofrenici: da un lato tendono a raccontare un’improbabile avvenuta invasione di oltre un milione di clandestini; dall’altro sostengono che l’immigrazione clandestina è essa stessa crimine da punire, per cui non resta che la deportazione di massa. E vorrei vedere come si fa: manco la Bosnia! Tuttavia su questo aspetto la chiusura in passato era netta. Non entro nel merito delle espulsioni e della loro incostituzionalità (oltre che ingiustizia). Il voto del Senato è un punto a svantaggio della civiltà, ma ancora ci sono la Corte costituzionale e altre istanze. Trovo ora importante la questione della regolarizzazione e delle impossibili condizioni richieste per ottenerle. Qui la contraddittorietà del decreto è sublime. In primo luogo non è chiarito quanto tempo sia stato necessario lavorare presso un padrone per aver diritto alla regolarizzazione come lavoratore dipendente. In generale, sembra difficile che, allo stato, possano regolarizzarsi la maggior parte dei lavoratori immigrati occupati al nero in attività precarie. Si dice che le regolarizzazioni non devono incentivare il lavoro nero. Ma è proprio questo il punto: solo permettendo al lavoratore occupato al nero di regolarizzarsi gli si concede anche la possibilità di difendere i propri diritti sul lavoro. E qui entra l’altra questione veramente irritante, quella del risparmio. La penalità finanziaria prevista riguarda tutti, anche quelli con un lavoro stabile. L’ineffabile “legislatore” deve aver subìto pressioni diverse. Per esempio è entrato in campo il partito del risparmio. Non so quali malaccorti consiglieri hanno suggerito di far spendere ai datori di lavoro quelle cifre per regolarizzare i propri dipendenti. Sei mesi di contributi arretrati sono davvero un’enormità. Una punitività del genere, in un’occasione volta peraltro a fare emergere il lavoro nero, non si era davvero mai vista. Non sono storie quelle che si raccontano su datori di lavoro che licenziano i loro dipendenti per non regolarizzarli. Idea davvero disumana è stata quella di far pagar caro un doveroso atto di civiltà qual è quello di ufficializzare rapporti di lavoro già al nero. L’idea di imporre un costo finanziario così grave non è stata solo crudele: è stata anche stupida. In questo modo l’Inps non incasserà i soldi degli immigrati e dei loro datori di lavoro, giacché rischia di esserci lo sciopero dei padroni che impedirà le regolarizzazioni. A volte però questi sono brave persone (o delle brave famiglie nel caso delle colf) che non hanno potuto in passato regolarizzare la posizione dei propri dipendenti a causa della chiusura delle norme finora vigenti. Insomma, il furbacchione che molto voleva far avere all’Inps rischia di non fargli avere nulla. E poi, proprio sugli immigrati bisognava andare a risparmiare? Si è trattato, secondo me, di una miscela di rigorismo, crudeltà e scarsa conoscenza del problema espressa trasversalmente da gentiluomini di varia fede. Queste cose le sanno bene gli immigrati che si stanno mobilitando dappertutto in Italia. Essi capiscono come il decreto funzionerà (e ovviamente che implicazioni avrà per la loro vita) ben più di chi lo ha stilato. Dai tempi della legge Martelli non si vedevano tante mobilitazioni con contenuti concreti e con grande scambio di informazioni. Dopo gli anni della crisi dell’associazionismo, si vedono di nuovo insieme immigrati di varie nazionalità discutere all’interno dei loro gruppi e con gli altri. Le sedi sindacali vedono assemblee affollate di immigrati e personale competente (volontari, avvocati). OBIETTIVI PRIORITARI Insomma, si è venuto formando un movimento con l’obiettivo che il decreto faccia il minor male possibile. Ora, affinché questo obiettivo venga in qualche modo raggiunto, credo che ci si debba mobilitare secondo due direzioni prioritarie. La prima riguarda i criteri di attuazione del decreto nel periodo in cui resterà in vigore, quindi già da oggi. A questo proposito c’è molto da fare e molto si sta facendo. Bisogna controllare che non vengano date interpretazioni restrittive sia per quel che riguarda le regolarizzazioni che per quel che riguarda i ricongiungimenti familiari o le forme di assunzione dei lavoratori. L’altra direzione è la mobilitazione contro il decreto così come è ora affinché lo si possa cambiare con pochi e mirati emendamenti. La messa in luce delle incongruenze e della estrema selettività del decreto deve servire a questo scopo. Il decreto decadrà molto probabilmente, a prescindere dalle mobilitazioni, per i motivi tradizionali per cui i decreti, almeno quelli importanti, spesso decadono. Bisogna però evitare che esso venga reiterato nella sua forma originaria. Bisogna approfittare di questo periodo di parziale rinsavimento dell’opinione pubblica e di forte impegno dei gruppi di pressione in materia di immigrazione perché quel mostro che è ora il decreto diventi qualcosa di più organico. Bisogna innanzitutto che l’obiettivo della regolarizzazione non venga vanificato, come ora, da norme e vincoli che lo rendono impraticabile. Per quel che riguarda gli immigrati il clima è leggermente migliorato nelle ultime settimane. Essi non godono più tanto di pessima stampa. Non sappiamo quanto questo nuovo clima possa durare. Tuttavia questa mi sembra una buona occasione per darsi da fare.
italia
Terzo settore e turismo. L’impresa del bene, oggi a Bologna
(l’impresa del bene. terzo settore e turismo a napoli) Sarà presentato mercoledì 3 dicembre a partire dalle 19:30, al Centro sociale della pace di Bologna (via del Pratello, 53), L’imprea del bene. Terzo settore e turismo a Napoli, di Luca Rossomando. Alla presentazione, che si svolgerà nell’ambito del ciclo di incontri “Le mani su Bologna”, interverrà l’autore, insieme ad attivisti e sindacalisti protagonisti di battaglie contro la privatizzazione dei servizi pubblici nel capoluogo emiliano. Dell’Impresa del bene abbiamo pubblicato qui un estratto. In questa pagina trovate invece i link ad alcune recensioni e/o riflessioni scaturite dalla lettura del volume.
iniziative
Lo specchio dei tempi. Sulle reazioni all’irruzione a La Stampa di Torino
(disegno di martina di gennaro) È fecondo configurare l’attualità come storia contemporanea. In merito all’irruzione presso la redazione de La Stampa di Torino di venerdì 28 novembre, lo storico contemporaneo dovrebbe studiare la reazione mediatica, e spettacolare, che si è scatenata, e chiedersi perché in modo così unanime e accorato istituzioni, politici, intellettuali e organizzazioni di questo paese hanno condannato l’evento. Qual è l’origine materiale di un discorso tanto compatto, in apparenza inscalfibile? Il primo dicembre nelle pagine nazionali de La Stampa compare un articolo intitolato: “Stampa città aperta”. Si riportano le visite in solidarietà alla redazione e le dichiarazioni rilasciate per l’occasione. Appaiono l’editore Elkann, il presidente della regione Piemonte, un deputato del Pd, un ministro del governo; è annunciata la venuta del ministro della cultura e, forse, di Elly Schlein. Il sindaco della Città s’era già presentato in visita. Uno sguardo storico deve allora individuare le relazioni concrete fra un centro di emanazione dei discorsi e le classi dirigenti. E da qui discende una possibile mappatura delle forme del potere e della loro riproduzione simbolica. Ecco un esempio, forse marginale eppure peculiare. Una delle prime reazioni è stata quella di Jacopo Rosatelli, assessore alle politiche sociali della Città e membro di Sinistra Ecologista, la costola di Avs a Torino. Lo stesso venerdì pomeriggio dalle colonne blu di Facebook scriveva l’assessore: “Nel giorno in cui le e i giornalisti scioperano, un vile attacco squadrista colpisce la redazione de La Stampa. Nulla può giustificare questa violenza. Solidarietà al quotidiano e a tutta la comunità professionale dell’informazione torinese”. Durante il mandato di Rosatelli sono stati sgomberati i baraccati di piazza d’Armi e senza garantire degne soluzioni abitative. Di recente sono state create “zone a vigilanza rafforzata” per sottoporre a controlli di polizia persone potenzialmente destinate al Cpr e si è condotta una repressione sistematica di uomini senza dimora che vendono pochi oggetti in strada. Ancora, si è portata avanti una campagna di sgombero di famiglie occupanti di case Atc senza offrire soluzioni alternative e spesso lasciando in strada donne e bambini. In merito a questa violenza urbana contro poveri e subalterni La Stampa, come tutto il giornalismo cittadino, è silente o compiacente. Per quale ragione? Come spiegare il silenzio? Lo sgombero di piazza d’Armi avvenne per permettere il sereno svolgimento di Eurovision. Accanto alle zone a vigilanza rafforzata sorgono aree interessate da interventi di speculazione immobiliare, i presìdi di polizia riguardano spesso i distretti aperti ai sogni turistici e gli isolati pronti ad accogliere la nuova linea della metropolitana. E dopo la stagione di sgomberi degli alloggi occupati è recente la notizia della possibilità di privatizzare alcune unità delle case popolari torinesi. Qui lo storico può intravedere le connessioni tra istituzioni, poteri economici e funzionari della diffusione dell’informazione. Abbiamo in passato analizzato stile e contenuti del giornalismo torinese e di certo dovremo trovare il modo di persistere con più continuità e ostinazione. Ora ricordiamo le parole vivissime che Goffredo Fofi scriveva a proposito del quotidiano torinese. Era il 1964 e il libro – straordinario – è L’immigrazione meridionale a Torino. (redazione monitor) *     *     * Il monopolio a Torino ha costruito una sua catena d’influenza economica e politica, esercitata attraverso il controllo diretto o indiretto della vita pubblica. Questa influenza è determinante anche e specialmente all’interno della fabbrica, dove l’operaio è compresso e asservito da una politica paternalistica, e allo stesso tempo non meno oppressiva: da una parte la possibilità di arrivare al frigorifero, alla 600, alla televisione, e all’appartamento; dall’altra un progresso tecnologico che impone massacranti ritmi di lavoro e un comportamento da macchina, la impossibilità di processi di avanzamento nella qualifica al tempo stesso in cui cambia la mansione e il tipo di lavoro in conseguenza del processo tecnologico, l’impossibilità di un “rapporto tra la forza-lavoro incorporata nelle merci prodotte e l’ammontare delle paghe”. Al di fuori, essa si esercita innanzitutto con uno strumento formidabile di formazione e controllo dell’opinione pubblica, La Stampa. Il giornale della Fiat ha infatti un’influenza determinante nella vita e nelle opinioni dei torinesi. Esso sbandiera un antifascismo sterile e di ricordi, e una politica di “riforme sociali”, propone un paternalismo “illuminato” avallato anche sul piano nazionale grazie alle firme di rispettabili nomi della cultura e dell’antifascismo italiani, e sul piano torinese, con la seconda pagina e “Lo specchio dei tempi”, indirizza l’opinione pubblica su binari ben precisi. In essa trovano posto le “inchieste” e le “denunce” interessate (il costo della vita, le case che mancano e che lo Stato dovrebbe finanziare, e così via), le cronache della Torino-bene e dei suoi eroi con le loro mensili “opere buone”, i preti e gli assi della Juventus, la cronaca delle disgrazie, degli incidenti (narrati, sempre, in stile “Cuore”), i fattacci degli immigrati (con appariscenti titoli: “calabrese ruba…”, “meridionale uccide…”, “siciliano rapisce…”) ed infine le buone azioni quotidiane. Il tono è dato pur sempre dallo “Specchio dei tempi”. Questa rubrica epistolare, che si dice sia personalmente supervisionata dal direttore del giornale, è più una guida che uno specchio della pubblica opinione. In essa trovano posto regolarmente le recriminazioni antimeridionali, il patriottismo più vecchio (specialmente in occasione delle infinite rievocazioni risorgimentali), un’incredibile dose di richiami al “buon senso”, le piccole proteste (della vecchietta sui tranvieri scortesi, ad esempio, ma anche di Togliatti sugli chalet scomparsi dalla Valle d’Aosta o su “l’amore del prossimo”), e infine i “casi pietosi”. La soluzione miracolistica dei problemi più gravi, attraverso la sottoscrizione del “caro Specchio”, serve a contrabbandare il più vecchio dei paternalismi. Ma gli esempi più chiari sono sempre dati dalle lettere, accuratamente scelte e presentate con appropriati titoletti, che riguardano gli operai. L’esaltazione sfacciata del crumiro, condotta durante gli scioperi Fiat (e nella pagina di fronte, si trovava l’articolo di qualche noto scrittore o intellettuale di sinistra) col ricorso al patetico familiare o a quello della “libertà da difendere”; l’appoggio “fraterno” agli operai delle piccole fabbriche come ai tessili della valle di Susa, che guadagnano così poco, e che serve a ricordare agli operai Fiat la loro “condizione di privilegio”; la richiesta di un’automobile che un impiegato Fiat fa allo “Specchio” e che serve di pretesto per stimolare dozzine e dozzine di lettere che lo accuseranno di non volersi accontentare e lo inviteranno a ringraziare il cielo e Valletta del suo stato di privilegio – tutto questo mira al mantenimento di un clima di subordinazione passiva e addormentamento delle coscienze, mira alla conservazione di una Torino che si vorrebbe tranquillamente sottomessa e che non pensi da sé, ma si lasci guidare, accontentandosi di sentirsi blandita ed esaltata per il suo “buon senso”, le sue “tradizioni di civismo” e la sua “operosità”. Per gli immigrati il discorso viene ripetuto fino alla ossessione, alla nausea: la Torino dal buon cuore che li accoglie, nonostante i loro difetti e i loro demeriti, chiede delle condizioni. Si dice insomma, e con il tono del padrone: siete sporchi e incivili, sfaticati e violenti, analfabeti e disonesti, ma noi – così bravi! – vi lasciamo venire… ma, attenzione!, c’è un patto da seguire: dovete cioè diventare come noi vi diciamo, come il bravo torinese medio, il buon operaio o impiegato che non dà fastidio, il cittadino gentilmente egoista. Dovete “adattarvi” e adeguarvi: adattamento è una parola che si legge con estrema frequenza sulle pagine de “La Stampa” e si sente nelle relazioni e nei discorsi ufficiali sull’immigrazione, come nelle chiacchiere del tram o dell’osteria. I sociologi e gli psicologi – di fabbrica o no – ne fanno poi un uso superlativo, premurandosi tutt’al più di mascherare il concetto con il termine più intelligente di “integrazione”, ma intendendovi esattamente le stesse cose: tutta la tematica dell’immigrazione si riduce per loro, in fondo, a questo. Adattarsi vuol dire dunque inserirsi in uno stato di fatto accettandone in pieno le regole, non provocando scosse, non protestando per la propria condizione inferiore, seguendo i modelli offerti da chi comanda.
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Rewind Roma, novembre 2025 # Case agli italiani, beni pubblici ai fondi immobiliari
(disegno di peppe cerillo) Celebrazioni ovunque per il 2 novembre, cinquantenario dell’omicidio di Pasolini a Ostia. Un’associazione dell’Idroscalo – il quartiere autocostruito a pochi passi dal luogo dell’omicidio – ricrea la partita del ’75 interrotta allora, e convoca gli “Stati generali dell’Idroscalo” per discutere del futuro della zona. Il 3 crolla un pezzo della Torre dei Conti tra via Cavour e Fori Imperiali, uccidendo un operaio romeno sessantaseienne, Octay Stroici, rimasto intrappolato per undici ore sotto le macerie. La sera una dozzina di neofascisti fa irruzione al liceo Righi occupato, con caschi, bottiglie e canti per Mussolini. Il 4 il presidente del municipio V chiede la fine degli sgomberi al Quarticciolo. Presidio davanti al ministero della pubblica istruzione contro la censura nelle scuole e nelle università. Di nuovo un gruppo di fascisti tenta di attaccare il Righi ma viene respinto. Il 5 sgomberi a Cinecittà, in via Eudo Giulioli, “palazzi occupati dai latinos” secondo la stampa. Di notte ancora un attacco di neofascisti, al liceo Aristofane occupato. Il 6 arriva a Roma il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, per incontrare il papa e il presidente della repubblica. Stretta di mano con Mattarella, che continua a inviare armi per massacrare i palestinesi. Il sindaco riceve Robert De Niro, a cui consegna un’onorificenza, la Lupa capitolina. Poi presenta un “rapporto alla città” che sostanzialmente dice che va tutto a gonfie vele. Il 7 gli studenti del Righi manifestano contro le aggressioni fasciste subite durante l’occupazione. Domenica 9 manifestazione a Fiumicino contro la costruzione del Porto Turistico della Royal Caribbean. Il 10 il sindaco annuncia l’accordo con Hines, una delle più grandi società di investimento immobiliare al mondo, per cedere i Mercati Generali sull’Ostiense e farne uno studentato di lusso. Il 12 nuovi sgomberi a Cinecittà-Don Bosco: gli appartamenti ex tutelati saranno ceduti al Fondo Scoiattolo. Siccome sono latinos, gli occupanti sgomberati non avranno nulla. Blitz antidroga su via dell’Idroscalo. Il 13 un trentenne di Torbellamonaca muore al San Filippo Neri, forse per un sedativo somministrato dopo un incidente: i parenti protestano davanti all’ospedale. Il 14 la Regione Lazio scrive al comune di Roma ribadendo che il bosco di Pietralata è vincolato, pertanto gli scavi archeologici per lo stadio non possono avere luogo, nonostante gli annunci pubblici. Il 15 grande assemblea dell’“esercito di terra” per la Palestina alla Sapienza. Al ministero del Made in Italy un assessore scivola sulle scale e distrugge una vetrata artistica made in Italy. Il 16 notte tre ladri sfondano la vetrina di Louis Vuitton a via Condotti e scappano con migliaia di euro di bottino. Fratelli d’Italia convoca una protesta in automobile contro le piste ciclabili, ma il corteo non parte perché c’era troppo traffico. Le auto rimangono bloccate all’Eur, dove erano state convocate. Il 17 il Comune nomina “sindaco per un giorno” l’attore Carlo Verdone per il suo settantacinquesimo compleanno. Il 18 il governo approva la creazione di una Zona Logistica Semplificata nel Lazio, cioè sgravi fiscali per le imprese. A Villa Gordiani un gruppo di una quarantina di persone capeggiate da Forza Nuova cerca di impedire l’accesso a una casa popolare a degli assegnatari regolari, rifugiati dei Balcani, perché rom. Il 19 un compratore anonimo acquista un attico di duecentottanta metri quadri a piazza di Spagna, pagandolo sedici milioni di euro, la compravendita più costosa mai realizzata a Roma. Il 21 inizia il convegno “About a city”, in affidamento diretto alla Fondazione Feltrinelli per sessantamila euro. La giunta approva una memoria perché le librerie possano prendersi pezzi di strada e di marciapiede per vendere cibo e bevande. Intanto il Consiglio di Stato annulla la proibizione delle smartbox dei bnb e l’identificazione a distanza, approvate dopo le azioni del gruppo Robin Hood. Il 22 grande corteo di “Non una di meno” da piazza Repubblica contro la violenza di genere. Il 23 davanti alla stazione Lido Centro a Ostia c’è una grossa rissa tra ventenni, tre ragazzi accoltellati. Il 26 la famiglia assegnataria di Torre Angela rinuncia alla casa popolare per le proteste razziste contro di loro: sindaco e dipartimento patrimonio assecondano la richiesta dell’estrema destra di “case agli italiani”. A Ostiense si tiene un incontro sul futuro degli ex Mercati Generali, per cui il Comune ha già firmato una concessione con il gruppo texano Hines. Decine di abitanti riempiono la sala per protestare contro lo studentato di lusso. Il 28 un operaio ucraino di trentatré anni muore schiacciato da un macchinario sulla ferrovia vicino a Civitavecchia. Muore anche un cinquantenne in motorino, scontrandosi con un furgone al Quartaccio. Sciopero generale, e il 29 grande manifestazione per la Palestina: centomila persone in piazza, tra loro Greta Thurnberg, Francesca Albanese, Thiago Avila. La notte un militare della Folgore muore in un incidente sulla Braccianese, forse per un colpo di sonno. (stefano portelli)
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