(disegno di ottoeffe)
C’è un povero cristo fuori al tribunale di Napoli che campa vendendo bloc notes,
penne, accendini, manifestini di lutto per la Juventus. Ha anche qualche marca
da bollo in tasca, e quando gli avvocati, che lo conoscono tutti, sono in
ritardo e devono sbrigarsi perché l’ufficio chiude, le prendono da lui e gli
fanno un regalo.
Il tizio avrà più di sessant’anni. La sua vita è un disastro – me l’ha
raccontata venerdì in pochi minuti – e non sta nemmeno troppo bene con la testa.
Ha tutta l’aria di chi non sarebbe capace di far male a una mosca, eppure la
guardia giurata del tribunale, uno con gli occhiali da Rambo e pistole
d’ordinanza sul fianco, gli ha dato addosso perché pretendeva di decidere il
limite spaziale entro cui il tizio poteva o non poteva esercitare il suo
commercio. Non parliamo del cancello del tribunale, dove finiva la giurisdizione
di Rambo – che non essendo neppure capace di vincere un concorso nella
penitenziaria opera per conto di quelle agenzie di mercenari, spesso controllate
dal Sistema, e che quindi ha esattamente i miei diritti e quelli di chiunque
altro a (non) decidere cose che riguardano la pubblica via. Parliamo della
strada, per la precisione della fermata di un autobus. Eppure, nella sua testa,
Rambo pensava di poter comandare. È finita a insulti alle mamme e con l’apertura
di una riflessione sull’idea di limite.
Ti farò male più di un colpo di pistola
È appena quello che ti meriti
Ci provo gusto, me ne accorgo, e allora?
Non mi vergogno dei miei limiti (e lividi)
(subsonica, colpo di pistola)
Una prima definizione matematica di limite pare sia attribuibile a tale
Augustin-Louis Cauchy, matematico di inizio Ottocento, e qualche decennio dopo a
Heinrich Eduard Heine. Smanettando in rete mi sono reso conto che almeno due-tre
degli studiosi che hanno toccato questa materia hanno avuto problemi
psichiatrici. È successo a Weierstrass, tedesco, padre dell’analisi moderna
(quella matematica, ovviamente): suo padre, ufficiale del governo tedesco di
Boemia, lo costrinse a studiare legge a Bonn, ma lui non combinò niente e anzi
si avvicinò da autodidatta alla matematica e al gruppo del Crelle’s Journal, che
oggi è la più antica rivista di matematica esistente.
A un certo punto il giovane Karl se ne va a studiare a Munster (che solo per una
strana coincidenza legata ai natali di un mio amico è la squadra tedesca per cui
tifo), rompendo con il padre, e diventa un grande esperto di funzioni
ellittiche, ma anche un alcoolizzato, sviluppando problemi psichici e nevrosi di
vario tipo.
Anche Cantor, uno dei più grandi matematici della storia (per intenderci, quello
che ha inventato gli insiemi), soffrì di una grave depressione, perché isolato
dalla comunità scientifica. Cercò invano supporto in papa Leone XIII e forse
anche per questo arrivò a identificare il suo rigorosissimo concetto di infinito
assoluto con… Dio. Passò gli ultimi anni della sua vita in manicomio, ad Halle.
L’esaltazione creatrice è intimamente legata alla malinconia, sorella della
depressione e figlia della mania, ma anche parente vicina della follia, dal
momento che l’opera non è più sufficiente a contenere tutte le tensioni. […] Il
romantico-melanconico coniuga la tristezza al quotidiano e contempla il suo
dolore nella profonda solitudine del ripiegarsi su se stesso. “La malinconia è
la felicità di essere triste”, scrive Victor Hugo ne Les travailleurs de la mer.
Vi si fondono molto intimamente un’attitudine filosofica, la ricerca poetica e
la malattia depressiva, condizioni che caratterizzano dolorosamente questi
insaziabili sogni d’assoluto. (philippe brenot, le génie et la folie –
traduzione mia)
È interessante come la matematica associ il limite a quest’idea di assoluto,
mentre per la semantica lo stesso vocabolo indica una linea terminale o
divisoria, un confine.
Qualche anno fa abbiamo pubblicato un libro curato da Miguel Angel Valdivia, che
si chiama appunto Confini, dove dialogano quattro storie di quattro disegnatori,
Andrea De Franco, Federica Ferarro, Mario Damiano e Adriana Marineo. I quattro
interpretano il concetto in maniera ora concreta ora metafisica, interrogandoci
non solo sull’idea di limite, ma anche se non soprattutto su quella dello spazio
che si trova prima e dopo di questo.
(disegno di andrea de franco, da: confini)
Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni dei Duemila andava in onda ogni
pomeriggio su Rai Uno (o forse Rai Due) un programma che si chiamava Ci vediamo
in Tv, condotto da Paolo Limiti, autore televisivo (Rischiatutto), scrittore di
canzoni (La voce del silenzio, Stupidi, Adagio) e regista radiofonico (Il
maestro e Margherita).
Per quanto ricordi, la trasmissione era un viaggio nostalgico durante il quale
si esibivano cantanti perlopiù ottuagenari, rievocando spesso le storie
all’origine di brani che erano stati grandi successi anche cinquanta o
sessant’anni prima. Vi partecipavano Milva, Ornella Vanoni, Mirna Doris, Angela
Luce − cult una sua appassionata esibizione in L’urdema tarantella
(Bovio-Tagliaferri, 1936) per la quale rivendicava, con solennità, di aver
ricevuto un premio come “unica, grande, sola, vera interprete del sentimento
della canzone napoletana”.
L’urdema tarantella racconta la drammatica uccisione da parte di una donna
gelosa dell’amante del marito, davanti la chiesa della Madonna della Catena, che
a Napoli si trova in via Santa Lucia, così chiamata in riferimento al miracolo
con cui Maria salvò dalla condanna a morte tre innocenti, nella città di
Palermo, spezzando le loro catene. Un’altra drammatica uccisione legata a quella
chiesa fu quella dell’ammiraglio Caracciolo, che lì riposa in pace: Caracciolo
fu arrestato e fatto uccidere dall’ammiraglio Nelson in persona, dopo aver
combattuto contro la flotta borbonica che cercava di restaurare l’ordine dopo le
sollevazioni della Repubblica Napoletana.
Si vide Caracciolo sospeso come un infame all’antenna della fregata Minerva; il
suo cadavere fu gittato in mare. Il re era ad Ischia, e venne nel giorno
susseguente, stabilendo la sua dimora nel vascello dell’ammiraglio Nelson. Dopo
due giorni, il cadavere di Caracciolo apparve sotto il vascello, sotto gli occhi
del re. Fu raccolto dai marinari che tanto l’amavano, e gli furono resi gli
ultimi offici nella chiesa della Santa Lucia che era prossima alla sua
abitazione. (mariano d’ayala, saggio storico sulla rivoluzione di napoli 1799 di
vincenzo cuoco e sulla vita dell’autore)
Ma in matematica, il limite – e qui spero di non deludere C., matematica e
scrittrice ben più raffinata di quell’altra ahinoi, invece, più famosa e potente
– serve a descrivere che cosa accade a una successione di numeri quando la
variabile si avvicina sempre di più a un certo valore, senza doverlo per forza
raggiungere. In parole povere, è come avvicinarmi alla felicità, senza mai
poterla neppure sfiorare, ma andare sempre nella stessa direzione, in modo che
sarà inequivocabile che quella costituisce il mio limite.
Troviamo sempre qualcosa, vero, Didi, per darci l’impressione di esistere?
(estragone, in: samuel beckett, aspettando godot)
a cura di riccardo rosa
Source - NapoliMONiTOR
Cronache, libri, disegni e reportages
(disegno di mattia vincenzo abbruzzese)
Diluvia, per un momento quasi grandina. È il 2 dicembre e un freddo umido si è
cristallizzato sulla città da qualche giorno. Sono le venti circa. Io e Mel,
quasi completamente zuppi, ci infiliamo in una vecchia Clio, asciughiamo alla
buona il taccuino e la macchina fotografica e partiamo in direzione Bellona, un
comune di quasi seimila abitanti in provincia di Caserta, in un lembo dell’Agro
Stellato. Stasera si terrà un’assemblea pubblica indetta dal movimento Basta
Impianti, cresciuto nelle campagne dell’Agro Caleno, dove da anni si consuma la
convivenza forzata con siti di stoccaggio, impianti di trattamento rifiuti e
progetti industriali ad alto impatto. Partecipano residenti e attivisti che si
oppongono all’idea di un territorio condannato a essere “compromesso”.
L’oscurità e la condensa sul parabrezza filtrano un paesaggio quasi
inosservabile fino all’ingresso nel borgo, dove le luci di Natale restituiscono
un po’ di opaca visibilità. Entriamo nel teatro parrocchiale alle spalle della
chiesa di San Secondino. Nella lunga sala alcune decine di persone tra tavoli di
plastica ricoperti da incerate verdi, formano un’ovale di sedie; il microfono è
aperto e già si susseguono gli interventi moderati da un ragazzo dai capelli
lunghi seduto accanto all’amplificatore. Alle sue spalle un lungo striscione
plastificato con il lettering in maiuscolo “Basta Impianti”.
Ancora umidi prendiamo posto e ascoltiamo Pasquale, un attivista: «Noi ci
dobbiamo sentire tutti in dovere di parlare di ciò che è malato. Sono stato
fuori le scuole per parlare ai genitori dell’urgenza, dell’importanza del corteo
del 13 dicembre a Vitulazio. Le autorizzazioni per nuovi impianti portano noi
cittadini ad ammalarci sempre di più per cui, cari genitori, non è solo una
questione di senso civico partecipare a questa battaglia, voi lottate per
evitare un pericolo che vi tocca direttamente. C’è stato tra loro chi mi ha
risposto che da queste parti la monnezza o si sotterra o s’appiccia. Che cosa
può insegnare un genitore così a suo figlio? C’è chi pensa che il diritto di
proprietà legittimi qualsiasi tipo di brutalità, ma la terra non ha padroni. Noi
siamo di passaggio, lo dobbiamo alle future generazioni. Stasera siamo in tanti
e dobbiamo essere ancora di più». Dopo di lui parla Clemente Carlino, che è
stato assessore del comune di Grazzanise al tempo delle “ecoballe”. «Questa
terra – dice – è stata scelta come il “buco dove sversare”. Tutti questi luoghi
sono stati considerati tali, da Santa Maria Capua Vetere a Cancello e Arnone, da
Borgo Appio a Grazzanise, questa è la nostra condizione da tempo. Ora sappiamo
che ci sarà un ampliamento da quattro a nove vasche nell’impianto di biogas di
Arianova a Pignataro Maggiore, tra l’altro ci dicono che è un impianto non
impattante… Balle! Non ci sta niente da fare, noi siamo condannati alla
ribellione! Ma non dobbiamo fermarci qua. Io dico che dobbiamo andare più in là
dell’Agro Caleno e unirci con tutti i luoghi di sofferenza ambientale, fino al
litorale domizio…». La chiusura dell’intervento è accolta da applausi, e qualche
colpo di tosse.
L’intervento successivo è del neoeletto consigliere regionale Raffaele Aveta del
Movimento 5 Stelle. Parla della sua vicinanza alla causa, del suo interesse
alle politiche ambientali e sanitarie, di una serie di casi che ha seguito
personalmente; si definisce “ambientalista militante”. «Forse – dice a un certo
punto – a Caserta c’è qualcuno che vuole davvero fare politica come servizio
alla comunità…». Una voce si leva in fondo alla sala: «Sì, ma non a parole, che
pensa di fare la Regione?». Risponde Aveta: «Sicuramente non dare in gestione
siti di stoccaggio a società con capitale sociale quasi nullo, quelle sono
truffe!».
A questo punto un cellulare suona rompendo per qualche istante il silenzio
durante il cambio al microfono. Getto uno sguardo in fondo alla sala verso il
gruppo di non più giovanissimi signori da cui era partito il commento. La
storicità del fenomeno Terra dei fuochi sta nelle loro rughe… Proprio qualche
giorno prima, il dottor Marfella, oncologo, membro di Medici per l’ambiente, che
da anni si occupa di questi temi, mi aveva raccontato l’aspetto dinamico di
questo fenomeno industriale, un’anatomia articolata in sei fasi distinte.
La prima fase (1980-2014) è quella degli sversamenti. Per decenni, rifiuti
speciali e tossici, in larga parte provenienti dal Nord, sono stati interrati o
abbandonati al Sud. Un ciclo interrotto solo nel 2014 dall’introduzione dei
primi delitti ambientali. Questo segna l’inizio della seconda fase (2014-2019).
Quelle norme, focalizzando la pena sui roghi ai bordi stradali, hanno prodotto
un effetto perverso: i fuochi tossici si sono semplicemente spostati all’interno
di depositi e siti di stoccaggio, spesso localizzati al Nord, invertendo di
fatto la rotta prevalente del traffico illecito. La terza fase (2020-2022) si
apre con la pausa forzata del lockdown, che spegne tutto per un po’. Alla
ripresa, in assenza di impianti campani per i rifiuti speciali, il sistema
reagisce esternalizzando il problema: parte un flusso massiccio e scarsamente
controllato di rifiuti verso l’estero. Ma l’aumento dei costi di trasporto porta
alla quarta fase (2021-2022): non conviene più esportare. Si torna quindi
all’antico, ai roghi tossici locali.
È una crisi globale, quella energetica, a innescare la quinta fase (2022-2023).
Da agosto 2022, il caro bollette paralizza anche le attività illegali. I roghi
cessano, non per un’azione repressiva, ma per semplice insostenibilità
economica. Ora viviamo la sesta fase (2022-2025), quella dell’attesa. Si attende
l’operatività del sistema informatico di tracciabilità dei rifiuti RenTRi.
Un’attesa che potrebbe durare ancora anni.
Ritorno con lo sguardo al microfono perché intanto, ha preso la parola il
ragazzo coi capelli lunghi che siede accanto all’amplificatore, si chiama
Dario. «Diamo battaglia da trent’anni nei nostri territori – dice –, siamo
disposti a rivoltarli come calzini per seguire gli sviluppi di queste vicende,
senza mollare di un centimetro. Non siamo Nimby (not in my backyard, non nel mio
cortile), per cui proseguiremo dialogando con tutte le parti coinvolte e
interessate a sostenere le istanze di questo movimento, dentro e fuori l’Agro
Caleno». Poi, rivolgendosi al neo consigliere, prosegue: «La prossima volta però
ci portiamo il cronometro per gli interventi – e aggiunge sorridendo –, e adesso
lascio il microfono per i venticinque minuti dedicati a Ignazio…». Risate,
qualche applauso. Ignazio è seduto proprio lì accanto. È un medico, appare
preoccupato: «Vorrei far passare un messaggio, oggi è difficile… Dal ’98, dai
tempi del centro sociale Tempo Rosso di Pignataro Maggiore, noi ci siamo.
C’eravamo con la bonifica conquistata a Bellona, ma eravamo tanti comitati. Oggi
invece c’è un movimento, sta cambiando il tipo di attacco. L’Agro Aversano è
stata la Terra dei fuochi parte uno, qui si sta per osservare la parte due. C’è
una mappatura che stiamo realizzando che mette in relazione l’incidenza tumorale
e la concentrazione di impianti nella zona. Mappiamo anche i roghi. Perché la
gente che vive di monnezza, nomi e cognomi, sono sempre gli stessi o amici
loro. Tra non molto apriranno il nono impianto di stoccaggio tessile a
Vitulazio. In una zona che già presenta un aumento della diffusione e dove l’età
di contrazione tumorale si abbassa ancora: non solo abbiamo più casi ma
avvengono anche prima; andremo a dire a una donna trentenne che non potrà avere
figli per questo… L’obiettivo del corteo del 13 dicembre sarà di incontrare il
governatore Fico. Perché deve essere riconosciuta la straordinarietà del
problema. Ci giochiamo il titolo di zona straordinaria, speriamo di non giocarci
quello di Terra dei fuochi bis. Noi qui parliamo di impianti che stoccano,
mettono “in garage” il rifiuto. Basta impianti, siamo saturi! Ci va più che bene
un solo sito di riciclaggio adeguatamente controllato e monitorato, ma che sia
funzionale alla chiusura degli altri quaranta. A Sparanise, a breve
realizzeranno altri due impianti e a Vitulazio altrettanti nuovi siti per
rifiuti tessili. Sappiamo che sono stati sequestrati per illeciti proprio due
impianti tessili in loco, degli otto presenti. Il buon senso mi porta a dire:
controlliamo anche gli altri sei. Noi chiediamo il ritiro delle concessioni per
quelli sequestrati e il controllo di tutti gli altri attivi. Chiediamo una
valutazione di impatto ambientale per rischio cumulativo. Siamo in condizioni di
saturazione ambientale…». Il discorso di Ignazio prosegue ancora e si conclude
con un lungo applauso.
Gli ultimi interventi sono di Enzo Palmesano, giornalista di Pignataro Maggiore
noto per le sue inchieste contro la criminalità organizzata e le ritorsioni
subite dalla camorra, il quale racconta due importanti roghi avvenuti a Bellona
nel 2012 e nel 2017: «Il 29 dicembre 2017 la popolazione disse basta e con una
delegazione sostanziosa si presentò sotto il municipio. C’erano attivisti, sì,
ma c’erano anche i malati di tumore, i familiari delle vittime, diverse persone
anziane. Chiedevamo risposte. La reazione delle istituzioni in quella
circostanza fu di chiamare i carabinieri. Sono andati sotto processo diversi di
quei malati. Undici persone assolte recentemente perché il fatto non sussiste.
Per questo sono contento che questa riunione si faccia proprio qui a Bellona.
Abbiamo il timore che il 13 dicembre a Vitulazio possa essere usata l’arma della
repressione, i segnali ci sono… Questo è il movimento più importante nato in
questa provincia nell’ultimo quarto di secolo, c’è gente da tutta Italia che si
sta chiedendo che sta succedendo nell’alto casertano. I sindaci pro-impianti, in
queste zone compromesse, sono nemici, non avversari politici».
I vestiti sono quasi asciutti, l’assemblea è finita. Usciamo: non piove più e la
brina sull’Agro Stellato si solleva, restituendo un paesaggio in bilico tra la
memoria di chi ha lottato e l’attesa delle prossime azioni concrete di un’intera
comunità. (edoardo benassai)
(foto del movimento disoccupati 7 novembre)
Chissà se quando il dirigente della Digos saluta i manifestanti con il canonico:
«Finisce qua?», si rende conto dell’allegoria prodotta. È martedì mattina, siamo
all’esterno della sede Rai di Napoli, dove il Movimento disoccupati 7 Novembre
ha organizzato una conferenza stampa per rivendicare il recente avvio di un
percorso di tirocinio finalizzato all’inserimento lavorativo, ottenuto dopo
oltre dieci anni di lotte.
Sono le dieci e trenta, la conferenza è finita da poco e il gruppo si sta
lentamente sciogliendo. La domanda del poliziotto è quella che fanno di solito
gli agenti al termine di una manifestazione, per assicurarsi che questa non
continui altrove o che non vi siano altre azioni in continuità con quella
conclusa. In quel contesto, mentre il movimento celebra quella che è una
innegabile vittoria, e in un certo senso la conclusione di un percorso politico
decennale, la sua domanda potrebbe risuonare come una sorta di invito a darsi
una calmata: “Il posto l’avete avuto: ora avete finito?”.
In realtà, le dichiarazioni rilasciate negli ultimi giorni dai delegati del
movimento, vanno nella direzione opposta. Per prima cosa, dicono, bisogna
continuare a vigilare, e se necessario a fare pressione, affinché tutti i mille
e duecento tirocini comincino; secondo, è importante che gli impegni presi
riguardo alla trasformazione in un lavoro stabile e dignitoso di questi tirocini
vengano rispettati; terzo, nel movimento c’è già chi pensa che la lotta per il
lavoro debba mutarsi ora in lotta sindacale, per un mantenimento e miglioramento
delle condizioni e dei diritti.
Il Movimento disoccupati 7 novembre nasce undici anni fa, dopo che un gruppo di
abitanti delle periferie a ovest della città partecipa alla grande
manifestazione di Bagnoli contro lo Sblocca Italia e il commissariamento dell’ex
area industriale. Col tempo il gruppo cresce, arriva a raccogliere circa
quattrocento iscritti da diversi quartieri e si “federa” con un’altra grossa
lista di lotta per il lavoro, il Cantiere 167 di Scampia. Centinaia di persone
sono in strada quotidianamente, pretendono la garanzia di un diritto
costituzionale, e manifestano, presidiano, occupano, arrivano a forme di scontro
radicale per ottenerla. Gli anni passano, si creano opportunità, ci sono inganni
e tradimenti istituzionali, ogni volta si ricomincia daccapo. Le inchieste
giudiziarie si moltiplicano, le accuse sono spesso assurde, arrivano anche
condanne, pesantissime. Eppure oggi il prefetto, che evidentemente ha la memoria
corta, parla di “proteste garbate”, e nelle prime righe del recente accordo
firmato da comune e governo ammette che il movimento ha rappresentato un
problema di ordine pubblico, perché queste centinaia di persone non facevano
altro che rivendicare per un proprio diritto.
Alla fine, dopo undici anni di lotta, l’accordo arriva. Mille e duecento
disoccupati napoletani verranno impiegati per la cura e la manutenzione del
verde pubblico e scolastico, la sorveglianza delle strutture museali, altri
interventi di pubblica utilità. I primi cominceranno a breve, gli ultimi saranno
chiamati entro febbraio. Dopo un anno si comincerà a pianificare la loro
assunzione in cooperative comunali che si occupano di questo stesso genere di
interventi. L’investimento complessivo è di circa tredici milioni di euro. «La
nostra intenzione – ha spiegato il sindaco Manfredi – è quella di far
progressivamente transitare queste persone all’interno delle cooperative che
operano al Comune e Città metropolitana, che noi utilizziamo per la gestione del
verde pubblico. Queste cooperative oggi vivono una riduzione dei partecipanti
per i pensionamenti, ma l’obiettivo è quello di mantenere immutata la loro
dimensione numerica». Questo scenario fino a qualche anno fa non sembrava
nemmeno lontanamente ipotizzabile, considerando le resistenze delle stesse
istituzioni che oggi rivendicano il risultato, che si è invece delineato
soprattutto grazie agli sforzi del movimento.
Al termine della conferenza abbiamo fatto alcune domande a Eduardo Sorge, uno
dei portavoce dei 7 Novembre, chiedendogli se davvero, come sottintendeva forse
l’ispettore della Digos, la loro lotta è finita qua. (riccardo rosa)
* * *
«Al netto della forza della lotta, dell’incessante lavoro di mobilitazione e di
piazza, negli ultimi due anni c’è stata un’attenzione trasversale su questa
vertenza, perché si potesse concretizzare un risultato in questa direzione. Dal
punto di vista prefettizio c’è stato e c’è l’interesse a pacificare una delle
poche aree che rompeva e speriamo rompa l’immagine della Napoli città-vetrina,
per cui in un momento in cui Napoli sta diventando un parco giochi, una delle
loro valutazioni è stata che forse non era il caso di continuare ad alzare muri
verso una lotta che coinvolgeva un migliaio di persone, le quali tra l’altro
andranno a svolgere un’attività che va a colmare un vuoto di servizi. Dal canto
nostro, sappiamo che anche questo intervento sui servizi è finalizzato a
supportare una città che si prepara ad accogliere flussi turistici ancora più
imponenti di quelli attuali, e insomma il ragionamento istituzionale è stato che
conviene anche a loro che una serie di persone piuttosto che stare a bloccare le
strade vadano a garantire quello che considerano “decoro urbano”, a potenziare
l’accoglienza museale o migliorare i servizi scolastici.
«Le cooperative dove si andranno a svolgere questi tirocini sono le stesse dove
i disoccupati hanno svolto gli stage in una fase precedente, con il piano Gol,
sono cooperative attualmente finanziate da un investimento nazionale di decine
di milioni di euro, soldi che vanno nelle casse del comune che li gestisce.
Quindi l’amministrazione per questo servizio non investe risorse, seppure per
l’allargamento della platea ha contribuito con una quota. Di questa platea di
mille e duecento persone noi possiamo dire di rappresentarne circa la metà, ma
ci sono state spinte, per esempio durante la campagna elettorale delle
regionali, con interessi di parte molto lontani da noi, per frammentarla; il
vantaggio di essere riusciti a mantenere compatto il movimento, sta nel fatto
che questo risultato non potrà essere merce di scambio, non saremo disponibili a
essere strumentalizzati. Negli ultimi mesi, soprattutto i partiti di governo,
hanno provato a candidarsi come “rappresentanti” di questa vertenza. Da questo
punto di vista, riuscire a garantire risultati per tutta la platea, e non
soltanto per i nostri iscritti, è stato decisivo. Anche il fatto che
ventiquattr’ore prima di questo risultato siano arrivate condanne di due anni e
due mesi per otto esponenti del Movimento è un modo per dire “ok, vi siete presi
quello che volevate, ora però non rompete le scatole su tutto il resto”. Ma se è
vero che il movimento è nato per il lavoro, è anche vero che è sempre stato
nelle battaglie politiche generali – contro il riarmo, contro la guerra, per
l’unità dei lavoratori; e rispetto alla città, nella denuncia della
privatizzazione del verde cittadino e di tutte le operazioni che si stanno
svolgendo sulla costa, da San Giovanni a Bagnoli, e quindi continuerà ad
alimentare le lotte territoriali.
«Quando si fa un bilancio politico, tutto va inquadrato nel momento storico. Da
un certo punto di vista è una vittoria gigantesca, non tanto per il risultato,
ma per la rete che si è costruita tra la gente, i quartieri popolari, l’unità
anche con chi, come il Cantiere 167, politicamente non era vicinissimo a noi.
Forse se trent’anni fa avessimo raccontato questa vertenza non avremmo parlato
di vittoria, avremmo parlato di un’elemosina di Stato fatta per risolvere un
problema di ordine pubblico, ma io credo che tutto vada inquadrato in un
contesto, e in quello attuale gli operai e i lavoratori prendono sempre meno
salario, sono sempre più sfruttati, hanno sempre meno diritti sindacali. Siamo
in un momento di arretramento a oltranza, e il fatto che si ottenga un risultato
per mille e duecento persone, che non è solo il tirocinio, ma è qualcosa che
darà la possibilità dopo dodici mesi di entrare nelle cooperative, significa non
solo dare a chi ha cinquanta o sessant’anni una dignità personale, ma anche per
diverse centinaia di ragazzi di venticinque-trent’anni di avere un’alternativa a
fare il rider sotto la pioggia, oppure a fare i servizi nei b&b di cui Napoli è
piena.
Questo io credo sia il grande valore politico: la lotta ha pagato, e questo, in
un momento in cui c’è una disillusione totale verso le pratiche collettive di
organizzazione, è la cosa più importante. Molti di quelli che ieri erano bassa
manovalanza della criminalità o erano nella totale marginalità sociale, adesso
fanno i corsi nelle loro sedi, nei quartieri popolari, con i bambini di comunità
srilankesi, fanno battaglie contro le chiusure degli ospedali pubblici. In una
fase, tra l’altro, in cui siamo bombardati da giornali che ci dicono che non è
possibile garantire la spiaggia e il parco urbano a Bagnoli, ora noi abbiamo un
esercito di manutentori del verde, per cui sarebbe anche divertente andare a
dire al comune di Napoli: perché queste persone che già pagate non le spostate
tutte quante per garantire il parco urbano e la spiaggia? Stimolarli quindi sul
fatto che se il danaro pubblico si vuole tirar fuori per il lavoro pubblico,
dignitoso e stabile, si può tirare fuori.
(disegno di giallaz)
Quando chiedo alla commessa di Libraccio se abbiano in negozio il nuovo libro di
Tommaso Sarti – Pisciare sulla metropoli. (T)rap, Islam e criminalizzazione dei
maranza (DeriveApprodi, 2025) – lei litiga con il monitor perché è convinta che
ci sia. «Devo averlo confuso con un altro», mi fa, scusandosi. La guardo
comprensivo: non è così usuale che nello stesso mese vengano pubblicati due
libri sui maranza, anche io mi sarei confuso. L’altro libro che ho in mente è La
periferia vi guarda con odio. Come nasce la fobia dei maranza di Gabriel
Seroussi (Agenzia X, 2025). Eppure, non è a questo che stava pensando lei: «L’ho
confuso con quello dal titolo tradotto malissimo». La guardo confuso. Sebbene la
sua non sia proprio una gran pubblicità, è questo tipo di frasi che suscita
l’interesse di alcuni lettori. Vado a vederlo al piano di sotto: Maranza di
tutto il mondo, unitevi! Per un’alleanza dei barbari nelle
periferie (DeriveApprodi, 2024). Il titolo originale è Beaufs et barbares. Le
pari du nous di Houria Bouteldja (La Fabrique éditions, 2023), uscito in Francia
due anni fa. Copertina stile La haine ma a colori, autrice franco-algerina
militante e nota editoriale dei traduttori dal titolo: Perché maranza. Lo
compro.
Nella nota editoriale si spiega che la parola “maranza” traduce
contemporaneamente “beaufs”, termine ai limiti dell’intraducibilità con cui
generalizzando possiamo intendere il proletariato bianco, e “barbares”, che per
Bouteldja sono i proletari indigeni, ovvero i nativi dei territori colonizzati,
oggi immigrati, regolari e non, in Francia e negli altri paesi europei. Questa
scelta la trovo coraggiosa. Sulla seconda parte della frase invece, con
quell’invito a unirsi accompagnato da un altisonante punto esclamativo, sono
d’accordo con la libraia: quantomeno discutibile.
La prima volta che ho sentito il termine “maranza” era tre anni fa. Chi lo
pronunciava alludeva a una serie di video che circolavano su TikTok in cui dei
ragazzini molto giovani ostentavano azioni provocatorie e violente. I video
provenivano soprattutto dal nord Italia. Maranza però non è un neologismo. La
parola si trova già in una canzone di Jovanotti (Il capo della banda, 1988), che
in un’intervista di quell’anno rivendicava di essere lui stesso un “maranza”,
attribuendo al termine questa definizione: “è quello che si impunta”. Se prima
la parola era utilizzata solo da una nicchia di persone del milanese con
un’accezione più o meno positiva, dal 2022 il termine è diventato di uso comune
con una connotazione fortemente negativa proprio a seguito di quei video.
Difficilmente oggi Jovanotti rivendicherebbe di essere un maranza, come faceva
sul finire degli anni Ottanta. Il termine oscilla tra una connotazione
criminale, pericolosa, e una più burlesca, quasi comica, ma pur sempre
denigratoria.
LIBERTÉ MA NON PER TUTTI
Ponendosi da una prospettiva diversa rispetto ai tradizionali libri di storia,
Bouteldja rilegge la periodizzazione storica convenzionale in chiave razziale.
La razza, parola ripudiata dal dibattito pubblico odierno, diventa qui il motore
silente che aziona la macchina della Storia. Sin dall’antichità, gli schiavi
erano innanzitutto un soggetto razzializzato. La Modernità, che
convenzionalmente comincia con la scoperta dell’America nel 1492, ha inizio con
il genocidio di un popolo: gli indigeni americani, rei di incarnare una razza
fino a quel momento sconosciuta e di abitare terre piene di risorse predabili.
Data l’enorme quantità di ricchezza di cui disporre, c’era bisogno di
identificare chi potesse beneficiarne e chi no; per questo, negli anni a
seguire, nascono gli stati moderni. Inghilterra, Olanda, Francia – ma dal 1776
anche Stati Uniti – si contendono ripetutamente l’egemonia su queste ricchezze.
Con lo stato moderno l’individuo rinuncia a una parte della sua identità per
identificarsi con lo stato a cui appartiene; in cambio, egli pretende che,
all’interno di esso, gli siano riconosciuti una serie di diritti e di privilegi:
l’istruzione, la libertà di parola, il voto; ma anche l’accesso a una parte
delle ricchezze provenienti dagli stati colonizzati. Solo all’interno dello
stato, perché lo stato moderno è intrinsecamente razzista e costitutivamente
selettivo.
È evidente allora come la Rivoluzione francese costituisca sì una liberazione,
ma solo per qualcuno. La schiavitù, abolita dalla Convenzione montagnarda nel
1794, ritorna già nel 1802; la colonizzazione in Africa è al suo apice durante
il diciannovesimo secolo, e la Francia ne è una dei grandi
protagonisti: Liberté, Égalité e Fraternité per qualcuno, non per tutti. Gli
stati moderni europei hanno però dei fratelli, figli della stessa grande madre:
la razza europoide. Per questo, se non è importante quello che spetta al
cittadino di un’altra razza, è però molto importante che le pretese di un
cittadino di uno stato fratello siano accontentate. Qui l’autrice riprende
Gramsci, che aveva teorizzato l’esistenza dello “stato integrale”, ma si spinge
oltre, introducendo il concetto di “stato razziale integrale”. In questi stati,
le rivendicazioni politiche esistono, non sono represse, ma sono chiuse nel
recinto della razza. La lotta di classe si riduce a un conflitto tra bianchi:
“La battaglia tra la borghesia e il popolo, per quanto feroce possa essere,
rispetta globalmente il paradigma razziale/coloniale che stringe il campo
politico come in un corsetto. I due blocchi che si fanno la guerra, separati da
rapporti antagonisti di classe, sono invece uniti dalla razza”. (p. 79)
Il nazi-fascismo del ventesimo secolo allora è un’anomalia: questa si
spiegherebbe come l’esclusione – definitiva? – della parte più estrema dello
Stato razziale integrale. Perde il nazi-fascismo, ma vincono gli “stati razziali
progressisti”: Inghilterra, Stati Uniti e Francia. Isolando la parte violenta
degli “stati razziali integrali”, le potenze occidentali si assicurano la
sopravvivenza degli stati nati dal 1492 in poi. Arrivando alla contemporaneità,
con questa prospettiva l’autrice rivaluta l’astensionismo: “Votare significa
votare bianco… tranne quando – ironicamente – la scheda è bianca. Nonostante sia
azzardato dare un senso definitivo e univoco allo sciopero elettorale […] la
loro ‘miseria civica’ non è altro che un atto di rivolta contro un dispositivo
che organizza l’impotenza, impedisce qualsiasi riforma”. (p. 84).
A questo punto Bouteldja avanza la sua proposta politica: un’alleanza tra i due
soggetti del titolo, beaufs e barbares. Queste due forze sono in conflitto, come
riconosce l’autrice stessa, dal momento che i beaufs identificano una delle
cause del deterioramento del loro stile di vita proprio nella presenza
dei barbares nei loro stati (non è un caso infatti che i neri e gli arabi si
siano rifiutati di aiutare i gilet gialli nel 2018). Eppure, secondo Bouteldja,
i due gruppi hanno un nemico in comune: l’Unione Europea, “il punto debole dello
stato integrale” (p. 129). Solo con l’obiettivo comune di un’uscita della
Francia dall’Unione Europea si potrebbero radunare le forze dei due
schieramenti. Il problema però è che il ritorno a una prospettiva nazionale
comporta inevitabilmente il rischio di una svolta nazionalista, che colpirebbe
proprio i barbares. Qui l’argomentazione dell’autrice sembra più fragile: seppur
si mostri consapevole di questo rischio, Bouteldja confida in un orizzonte più
ampio, che scongiuri la minaccia nazionalista: “Bisogna iscrivere la Frexit
decoloniale in una nuova geografia politica, che deve implicare solidarietà e
fratellanza con i popoli del Sud e anche una rottura della meccanica dello
sfruttamento su cui si fondano i rapporti asimmetrici tra la Ue e il Sud
globale” (p. 139). Questa prospettiva, seppur affascinante, appare molto
problematica: come definire chi fa parte del Sud globale e chi no? E,
soprattutto, come evitare che si ripresentino le stesse dinamiche di
sfruttamento che caratterizzano la geopolitica contemporanea?
NOI E I MARANZA
Sebbene l’autrice parli della Francia, questo saggio si inscrive molto bene
anche nella cornice italiana con le sue specificità. Nonostante il diverso
rapporto con la cultura islamica, anche in Italia l’islamofobia è in crescita.
Secondo Bouteldja, questa è “l’arma congiunturale della controrivoluzione
coloniale […], un tassello chiave al servizio dello stato razziale integrale”.
(p. 126). Da quando il termine “maranza” è divenuto di uso comune, questo non si
sente solo nei comizi elettorali di Vannacci e Sardone, ma si ripete spesso per
strada, in televisione, sui social.
È del 5 novembre scorso il post di Ryanair Italia che afferma: “Ci riserviamo il
diritto di non servire chi indossa tute da maranza” (con tanto di didascalia:
“facciamo noi le regole”). La parola è usata soprattutto nell’ambito della
sicurezza: i maranza sembrano essere diventati il più grande pericolo per la
nostra incolumità. È nota l’indagine della Digos secondo cui alcuni esponenti
dell’estrema destra avrebbero organizzato delle “ronde anti-maranza” volte a
riportare l’ordine e la sicurezza nelle strade milanesi; pare anche però che
alcuni dei responsabili del blitz all’occupazione del liceo Da Vinci di Genova,
indagati per danneggiamento aggravato e apologia di nazismo a causa delle
svastiche disegnate sui muri, siano “maranza”. Ma chi sono allora i maranza?
Se non è esatto che la parola maranza sia un neologismo, come affermato nella
nota editoriale (p. 7), è pur vero che, nel suo nuovo utilizzo, il termine di
fatto combini le due parole “marocchino” e “zanza” (Gabriel Seroussi sostiene
che questa idea sia un falso mito: probabile, ma di fatto oggi la parola
richiama istintivamente questi due termini). Anche la parola “zanza” ha una
storia molto particolare, ma possiamo ipotizzare che derivi da “zanzara”,
insetto particolarmente fastidioso. Uno “zanza” è infatti un “imbroglione,
truffatore, furfante” (Treccani), oppure, in senso più ampio, un “tamarro”. I
maranza sarebbero quindi dei micro-criminali di origini marocchine o, nel
migliore dei casi, dei tamarri magrebini. È sempre più diffuso però un utilizzo
del termine con riferimento a quegli adolescenti, anche di origine italiana, che
vivono – come i ragazzi marocchini – l’emarginazione delle periferie, ascoltano
un certo tipo di musica e vestono con le fantomatiche “tute da maranza”. Da qui
l’idea della traduzione del titolo: Maranza di tutto il mondo, unitevi!
Come ci racconta Bouteldja, in Francia il razzismo non è cosa di pochi, e lo
stesso si può affermare per l’Italia. Tutti abbiamo condannato quel manipolo di
ultras della Fiorentina che insultarono Kalidou Koulibaly dicendo “scimmia di
merda”, ma quanti di noi rinuncerebbero al diritto di prelazione che sentiamo di
avere su quanto ci circonda rispetto a un immigrato irregolare? Dire maranza
vuol dire parlare dal di qua di una barricata, vuol dire che c’è un “noi” e c’è
un “loro”; eppure, cos’altro ci rende diversi da “loro” se non la convinzione,
sedimentata nelle tradizioni delle nostre famiglie, di meritare dei privilegi
solo in quanto cittadini di uno “stato razziale”? Allora, dimenticando per un
attimo quanto discutibile possa essere la traduzione del titolo, bisogna
riconoscere a quest’associazione linguistica il merito di strappare la parola
maranza alle connotazioni razziste sempre più diffuse di Sardone e Ryanair – ma
anche di tanta gente di sinistra – e renderla, forse per la prima volta in
Italia, soggetto politico attivo. (federico murzi)
(disegno di federica pagano)
Il 26 novembre di nuovo un’operazione della polizia militare a Rio de Janeiro ha
provocato dei morti, questa volta nella favela del Maré; i proiettili hanno
raggiunto un bambino di dodici anni che era nel cortile di una scuola, e hanno
perforato i muri di una sede dell’Università Federal de Rio de Janeiro. Camila
Felix che stava preparando questo pezzo per Monitor sul massacro avvenuto il
mese scorso nella favela di Penha, a poca distanza dal Maré, era all’Università
quando sono arrivati gli spari.
UN PRESIDIO, DUE CORTEI
Il 28 ottobre 2025 è entrato nella storia come il giorno del più grande massacro
mai realizzato in Brasile; il cinico “successo dell’operazione” suona come una
minaccia. Possiamo aspettarci che “la peggiore operazione di polizia a Rio sarà
sempre la prossima”. Claudio Castro, il governatore dello stato di Rio de
Janeiro vuole proseguire con la presunta strategia di recupero dei territori
sotto il controllo dei gruppi armati usando sempre la stessa tattica delle
incursioni della polizia, quella che ha consegnato l’intera città – e in
particolare le favelas – nelle mani dell’incertezza e della politica della
morte.
Tre giorni dopo il massacro c’è stata una manifestazione unitaria di protesta
con lo slogan “Basta massacri, Claudio Castro fuori!”. Il luogo d’incontro era
un campo di calcio, il Campo do Ordem, nel complesso de La Penha, nella zona
nord di Rio – il quartiere dov’è avvenuto il massacro. Si sono incontrati gli
abitanti dei quartieri Penha e Alemão, i parenti delle vittime, nonché
organizzazioni politiche e sociali come i movimenti dei neri, organizzazioni
comuniste, sindacati, organizzazioni giovanili, eccetera. La strada era piena di
gente; pioveva, le persone erano schiacciate sotto gli ombrelli, vestite di
bianco o con magliette a lutto. Quando la pioggia si è calmata, lentamente le
persone, le moto e i furgoncini sono entrati nel campo di calcio, e lo hanno
riempito finché era difficile camminare. Mi sono fatta un giro, salutando amici
e compagni di lotta, e fermandomi ad ascoltare gli sconosciuti che condividevano
il loro dolore, i politici e gli attivisti che pronunciavano i loro discorsi,
mentre altri registravano o trasmettevano in diretta, insieme a giornalisti di
testate indipendenti. L’indignazione era evidente. In fondo al campo c’era un
secchio con vernice rossa diluita e magliette bianche da dipingere. Macchie
rosse per una moltitudine.
Il presidio è rimasto lì per circa tre ore, poi è partita una manifestazione che
si è divisa in due. Alcuni dei partecipanti si sono incamminati in corteo verso
Penha, mentre un’altra parte si è avviata con i furgoni e le moto in una
carovana verso il Palacio de Guanabara, la residenza del governatore dello stato
di Rio nel quartiere centrale di Laranjeiras. Io mi sono avviata con il primo
gruppo, e ci siamo diretti verso la piazza São Lucas, dove la settimana
precedente gli abitanti avevano allineato decine di cadaveri abbandonati dai
poliziotti dopo il massacro.
Mentre camminavamo per le strade gridavamo: “Claudio Castro, assassino!”, “Non è
finita; deve finire; voglio la fine della Polizia Militare”, e “Marielle lo
chiese, io pure lo chiedo: quanti devono morire perché questa guerra finisca?”
[un riferimento a Marielle Franco, l’attivista per la casa uccisa nel 2018 a
Rio, Ndr].
Dalla piazza São Lucas abbiamo continuato a camminare per l’avenida Nossa
Senhora da Penha, dove molti negozi sono rimasti chiusi fin dal giorno del
massacro. Siamo passati davanti alla sede del 28º Battaglione di pompieri
militari, da dove alcuni pompieri osservavano attentamente la manifestazione.
Una volta arrivati all’avenida Brás de Pina, almeno otto pattuglie di polizia ci
aspettavano parcheggiate. Lì la manifestazione ha iniziato a disperdersi.
SICUREZZA PUBBLICA E IDEOLOGIA
Secondo il giornale Foro de Teresina, il saldo del massacro è stato di
centoventuno morti confermati, nessuno dei quali aveva un ordine di arresto che
giustificasse l’operazione. Nessuna delle persone assassinate dal braccio armato
dello Stato era il vero obiettivo di quella azione, che ha avuto luogo in un
paese dove la pena di morte non è prevista dalla legge. Tra i centotredici
arrestati, solo venti avevano dei mandati di arresto. La Defensoría Pública non
ha potuto realizzare la perizia sui cadaveri, che avrebbe permesso di
distinguere tra uno scontro e un’esecuzione. Il governatore Castro
ha dichiarato: “Tutto il Brasile ora ha visto che è possibile affrontare queste
organizzazioni. La società ci chiede continuità: e noi gliela daremo”. Il
“successo”, tuttavia, con tutta probabilità non risiede negli arresti o nel
sequestro di armi, né nel “recupero del territorio”, che non è avanzato neanche
di un centimetro. Come mostrano le “mappe storiche dei gruppi armati” sviluppate
dal Gruppo di studio sulle nuove illegalità dell’Università Federal Fluminense e
dall’organizzazione Fogo Cruzado, questa politica di sicurezza pubblica che va
avanti da quasi trent’anni sta diventando sempre più letale, ma continua a
fallire nel contenere l’avanzata dei gruppi armati. Una comparazione sull’area
di azione di Rio de Janeiro mostra un aumento del quattrocento per cento nel
territorio controllato dai gruppi armati, tra il 2008 e il 2023. Queste mappe
mostrano una riorganizzazione del dominio territoriale dei gruppi armati nella
regione, specialmente con l’espansione del Comando Vermelho e delle milizie.
Il “successo” si spiega quindi forse per un’altra cifra: che il sessantaquattro
per cento della popolazione si è dichiarata favorevole alla mega-operazione.
Così, possiamo formulare un’ipotesi: la “sicurezza pubblica” a Rio de Janeiro
funziona come un’ideologia che sostiene le campagne elettorali, e con molto
successo. Se studiamo il momento successivo al massacro, e le sue ripercussioni
politiche, alla luce di questa ipotesi, possiamo identificare alcuni elementi e
prese di posizioni diverse: il rifiuto del massacro, la rivendicazione del suo
successo, e anche la strumentalizzazione dell’episodio per trattare altri temi.
In primo luogo, spicca la ripercussione relativa agli eccessi commessi. Il 3
novembre, sei giorni dopo i fatti, il gruppo del Psol nell’Assemblea legislativa
dello stato di Rio ha presentato una richiesta di impeachment contro il
governatore Castro. Il giorno dopo, il presidente federale Luiz Inácio Lula da
Silva del Partito dei lavoratori (Pt) ha affermato che “c’è stato un massacro”,
dichiarando che ci sarebbe stata un’inchiesta parallela sull’operato della
polizia. Ventisette organizzazioni hanno espresso la loro indignazione in
una lettera pubblica che affermava “la sicurezza pubblica non si costruisce con
il sangue”.
La seconda linea di ripercussione consiste nella disputa sulle cause e il senso
dell’avanzamento dei gruppi armati a Rio, e – in conseguenza – del massacro
stesso. Gli alleati di Bolsonaro legano la crisi della sicurezza a Rio al
presunto abbandono della città da parte del governo federale, particolarmente in
relazione alla figura di Lula. In questo contesto, è importante analizzare le
continue critiche alla Arguição de Descumprimento de Preceito Fundamental,
un’azione giudiziaria conosciuta anche come ADPF das favelas, presentata nel
2019 dal Partito socialista (Psb) insieme a diversi movimenti neri, collettivi
di madri e parenti di vittime della violenza della polizia, abitanti delle
favelas e altre organizzazioni della società civile. L’obiettivo dell’ADPF 635
era diminuire la letalità della polizia nelle operazioni di sicurezza pubblica
nelle favelas, ed era stata accettata parzialmente nel 2020.
Tra i risultati di tale azione c’era l’installazione di telecamere nelle
uniformi degli agenti, la presenza obbligatoria delle ambulanze nei luoghi dove
si realizzano le operazioni e la richiesta di maggior trasparenza e dialogo con
il Ministerio Público. Tuttavia, le organizzazioni di attivisti e in difesa dei
diritti umani hanno denunciato che il testo ha delle falle che permettono
un’applicazione flessibile, per non dire selettiva, delle sue direttive.
Claudio Castro, che inizialmente aveva elogiato la ADPF quando era stata
approvata, ora la chiama “maledetta” e la accusa di rendere meno efficace
l’azione della polizia durante il massacro. Secondo Pedro Venceslau, questa
argomentazione è in linea con la narrativa adottata dalla destra, e
particolarmente dai leader del Partido liberal, per orientare il dibattito sulla
sicurezza pubblica verso una critica non solo del governo federale, ma anche del
Tribunale federale supremo. Sono due i fattori decisivi per cui la ADPF 635 è
stata così criticata. Da una parte, nell’ambito statale, serve come base per la
richiesta di impeachment: secondo il gruppo che ha avanzato la richiesta, i
protocolli che stabilisce – rispetto alla proporzionalità, alla presenza delle
ambulanze, all’uso delle telecamere corporali e alla preservazione della scena
dell’operazione per le perizie indipendenti – non sono stati rispettati.
Dall’altro lato, nell’ambito federale, la ADPF è servita anche come base per
l’apertura dell’inchiesta portata avanti dal giudice Alexandre de Moraes, che ha
convocato in udienza il governatore Castro il 3 novembre, richiedendogli un
rapporto sull’operazione.
Questo rapporto, elaborato dal governo dello stato di Rio, è stato mandato al
Tribunale superiore federale il 17 novembre, ma presentava contraddizioni tra il
numero degli arresti e il numero delle armi sequestrate. Un’altra discrepanza
era sulla quantità di telecamere utilizzate durante il massacro: inizialmente il
governo aveva dichiarato che tutti i poliziotti che avevano partecipato
all’operazione avevano le telecamere corporali, ma nel rapporto Castro afferma
che solo sessanta poliziotti civili avevano tali dispositivi; inoltre, oltre la
metà di essi (trentadue) non funzionavano.
In più, l’operazione del governo federale, capeggiata da Lula e dal Partito dei
lavoratori, fa parte di una strategia di lunga durata nei confronti dei
candidati del Partito liberale, a cui appartiene il governatore Castro così come
buona parte dei candidati bolsonaristas, sia dello stesso Partito liberale che
di altri partiti di destra come i Repubblicani e Progressisti. Però, oltre a
questa opposizione, la destra brasiliana da anni deve affrontare anche il
Tribunale federale supremo, e in particolare proprio il giudice Alexandre de
Moraes. Il punto più alto di questa tensione è stato l’assalto al Tribunale, al
Parlamento nazionale e al palazzo presidenziale di Planalto a Brasilia l’8
gennaio 2023, all’indomani della vittoria di Lula. La storia prosegue convulsa
dopo il recente arresto di Jair Bolsonaro.
Infine, il terzo piano comprende una posizione che considera le favelas come
spazi d’eccezione. “Un drone del Comando Vermelho ha lanciato bombe durante
l’operazione della polizia, eppure la sinistra insorge se io suggerisco di
bombardare le barche dei trafficanti!”, ha scritto Flavio Bolsonaro, senatore e
figlio dell’ex presidente. L’associazione di idee segnalata dal senatore è
rivelatrice: si riferisce agli attacchi statunitensi contro le barche
venezuelane. Non è la prima dichiarazione di questo tipo: suo fratello, il
consigliere Carlos Bolsonaro, aveva già criticato la decisione del governo
brasiliano di rifiutare, nel 2025, una proposta degli Usa perché fazioni armate
come il Comando Vermelho e il PCC (Primer Comando da Capital) fossero
considerate organizzazioni terroriste.
Secondo la professoressa dell’UFF Carolina Grillo, classificare tali “fazioni”
come gruppi terroristi o narcoterroristi sarebbe una strategia per costruire
un’alterità radicale che permette la sospensione delle leggi in alcuni spazi
specifici. Sono più di tre decenni che in Brasile le politiche di sicurezza sono
orientate dall’idea della crisi come forma di governo. L’alterità e la crisi
sono elementi essenziali per instaurare questa modalità di azione differenziata
delle forze dello Stato, come un vero e proprio stato di eccezione. Altre due
studiose, Gizele Martins e Juliana Farias, sostengono invece che la
militarizzazione non ha un carattere eccezionale nelle favelas e nelle comunità;
è un dispositivo di disciplinamento dei corpi neri e poveri, naturalizzato dalla
sua ripetizione. È una politica che si basa su una morte allargata che
disorganizza la vita come conseguenza di tale violenza. Essa va oltre la morte e
il lutto; si configura anche come irruzione della paura, dei coprifuoco e della
imprevedibilità nella vita quotidiana degli abitanti. Così, la violenza in
Brasile prevale nelle forme extralegali, tanto quando è esercitata dai gruppi
armati, che quando la pratica lo stesso Stato, che trasgredisce le sue stesse
determinazioni legali sull’uso della forza. La vita politica che si è articolata
dopo il massacro sta mostrando che questo modo di gestire la sicurezza pubblica
ha altre ragioni rispetto a quelle dichiarate. (camila felix)
(disegno di ottoeffe)
Amame e damme ‘o bene quanno nun m’o merito
tanno n’aggio bisogno,
l’aggio appreso int’e prete e nun m’o scordo.
(co’sang, povere ‘mmano)
In epoche di scosse telluriche ed emotive mi sono ritrovato a discutere più
volte il concetto di “merito”, mantra della tirannia capitalista e dogma che
assume l’iniquità come effetto collaterale di una selezione fintamente naturale.
Ne ho parlato per quasi un’ora con un gruppo di adolescenti con cui sto
lavorando in una scuola non lontano da casa, che l’hanno associata per lo più al
mondo dello sport (“vincere con merito”, “meritare la vittoria”), a una presunta
eticità (“onore al merito”, “meritare un riconoscimento”), e qualcuno
addirittura a un vecchio adagio di curva, non so attraverso quali canali
giuntogli alle orecchie (“chi milita, merita”).
Pochissimi tra loro, per fortuna, l’hanno associato alla scuola. Su venticinque
ragazzi e ragazze, anzi, soltanto sei conoscevano l’assurdo nome dato
dall’attuale governo neofascista al ministero che organizza la loro vita
scolastica (ho dovuto fargli notare che il fascismo nasce come braccio armato
del grande capitale, che dell’ideologia del “merito” ha bisogno come il pane).
Il latino, la Bibbia, l’Occidente. Questo è il nuovo programma scolastico 2026
(elle, 14 marzo 2025)
Scuola, passa la riforma del voto in condotta: con 6 compito di cittadinanza;
con 5 si è bocciati (la stampa, 30 luglio 2025)
“A chi contesta il termine maturità, a chi lo considera superfluo, ridondante o
simbolico, rispondiamo con fermezza: questa non è una questione di parole, ma di
valori. Abbiamo scelto ‘maturità’ perché l’esame non misura solo ciò che si sa,
ma chi si è diventati. […] Chi attacca il termine non attacca un nome, ma la
centralità della formazione della persona, e noi su questo principio non
arretriamo di un passo. […] Per il governo Meloni, e per il ministro Valditara,
il cuore di questa riforma è proprio questo: restituire centralità alla persona,
restituire dignità al valore educativo della scuola”. (ella bucalo – membro
della commissione cultura del senato e responsabile del “dipartimento
istruzione” di fratelli d’italia)
Per non essere troppo livoroso ho deciso di non scegliere come parola di questa
settimana né “cerchio” né “botte”, e di non dare troppa importanza a un articolo
pubblicato su Jacobin, organo di stampa ombra di Alleanza Verdi Sinistra e
sfogatoio delle decine di accademici e intellettuali di questo tristo paese
bisognosi di accreditarsi come “di sinistra”.
Vale però la pena ugualmente entrare nel merito di alcune riflessioni pubblicate
in questi giorni sulla stampa nazionale a corollario dell’azione effettuata da
alcuni attivisti a Torino, che si sono introdotti nella sede de La Stampa,
buttando per aria un po’ di fogli e scrivendo qualche slogan sui muri.
Su Monitor abbiamo già espresso la nostra posizione (qui e qui), ma riprendo
qualche passaggio a beneficio di chi fatica a leggere più di quattromila battute
in un solo articolo:
Al di fuori, essa si esercita innanzitutto con uno strumento formidabile di
formazione e controllo dell’opinione pubblica, La Stampa. Il giornale della Fiat
ha infatti un’influenza determinante nella vita e nelle opinioni dei torinesi.
Esso sbandiera un antifascismo sterile e di ricordi, e una politica di “riforme
sociali”, propone un paternalismo “illuminato” avallato anche sul piano
nazionale grazie alle firme di rispettabili nomi della cultura e
dell’antifascismo italiani, e sul piano torinese, con la seconda pagina e “Lo
specchio dei tempi”, indirizza l’opinione pubblica su binari ben precisi. In
essa trovano posto le “inchieste” e le “denunce” interessate (il costo della
vita, le case che mancano e che lo Stato dovrebbe finanziare, e così via), le
cronache della Torino-bene e dei suoi eroi con le loro mensili “opere buone”, i
preti e gli assi della Juventus, la cronaca delle disgrazie, degli incidenti
(narrati, sempre, in stile “Cuore”), i fattacci degli immigrati (con
appariscenti titoli: “calabrese ruba…”, “meridionale uccide…”, “siciliano
rapisce…”) e infine le buone azioni quotidiane. (goffredo fofi, l’immigrazione
meridionale a torino)
Solo a partire da qui è possibile riformulare le domande iniziali: che cos’è la
violenza? Chi ha il potere di nominarla? Quale contesto viene assunto come
sfondo neutro e quale viene patologizzato come devianza? Solo a partire da qui è
possibile parlare di solidarietà senza riprodurre la postura coloniale di chi
rappresenta l’altro, decide al posto dell’altro quale forma di resistenza è
accettabile, prescrive all’altro la non-violenza mentre ne beneficia
quotidianamente lo sfruttamento. Il punto non è di normalizzare la violenza, ma
di smettere di usarla come strumento per silenziare quelle lotte anticoloniali e
rivoluzionarie che dicono, in modo esplicito, che la libertà di una parte
dell’umanità è inseparabile dalla trasformazione radicale dell’ordine che oggi
viene difeso anche, e soprattutto, nel nome della “pace”. (miriam abu samra, la
fiera dell’ipocrisia. intellettuali progressisti e non violenza)
Da manuale della Scuola Holden, si diceva, il pezzo pubblicato sulla questione
da Jacobin (per i meno avvezzi, la Scuola Holden è un centro di formazione – con
sede a Torino – in cui Alessandro Baricco e i suoi insegnano a giovani che sanno
usare le parole a metterle al servizio delle aziende, della politica, degli
interessi delle classi dirigenti, fingendosi pure soggetti liberi e pensanti).
Con una scaltrezza non da poco Alberto Manconi riesce, nello stesso articolo: ad
attaccare strumentalmente il governo Meloni come farebbe un esponente del Pd o
di Avs; a indignarsi per la rottura dell’equilibrio liberaldemocratico per cui
la libertà di stampa è sacra (tanto più che quel giorno i giornalisti erano “in
sciopero per poter svolgere seriamente la propria professione”); a rimestare
altra fuffa inutile, ma a essere al contempo precisissimo sui punti sostanziali
di questa vicenda, che sono il vero bersaglio del suo discorso: l’azione dei
militanti torinesi è “un errore”, “non utile”, “inefficace” e “non intelligente”
(avrebbe oscurato il fine settimana di scioperi e indirettamente il fatto che in
Palestina non ci sia ancora nessuna pace); chi l’ha compiuta ha fatto “di
tutt’erba un fascio” e creato un pretesto per una condanna da destra delle altre
posizioni di sinistra, quelle più democratiche e accettabili (vedi Francesca
Albanese); l’imam di San Salvario Mohamed Shahin sarebbe in via di deportazione
perché avrebbe “contestualizzato in modo discutibile il 7 ottobre”; dulcis in
fundo, La Stampa non è certo “il peggior quotidiano nel modo di trattare il
genocidio in Palestina”. Una rappresentazione plastica della lotta di classe (da
quale lato e contro chi, lo potrete capire da soli), da studiare e ricordare.
“Antisemitismo” e “genocidio”: il peso delle parole dopo il 7 ottobre
Abusare di determinati termini confonde la Storia e rischia di cancellare le
vere responsabilità morali e politiche
(la stampa, 30 agosto 2025)
Sdoganare l’antisemitismo, l’altro disastro di Netanyahu
(la stampa, 25 settembre 2025)
L’attacco contro la redazione de La Stampa a Torino non è solo un atto vile: è
una ferita alla democrazia e un colpo gravissimo alla stessa causa palestinese.
[…] Colpire un giornale – con volti coperti, fumogeni, minacce, devastazioni –
ripropone forme di squadrismo che la storia d’Italia ha già sconfitto e
ricacciato indietro. E nessuna lotta davvero “giusta” può consentire di farsi
inquinare da una violenza fine a se stessa. […] Tanto più perché La Stampa è uno
dei pochi quotidiani italiani che, con continuità, ha dato spazio a voci
palestinesi, documentando il “genocidio a bassa intensità” a Gaza, il terrorismo
dei coloni israeliani e le torture in carcere dei prigionieri palestinesi. (rula
jebreal, la stampa, 3 dicembre 2025)
La differenza tra i due avvenimenti è l’esistenza dello Stato di Israele. Uno
Stato che, aggredito, risponde. Come tutti gli Stati. Che fortuna insperata per
gli antisemiti di tutto il mondo! Gli ebrei uccidono. È un’occasione, forse, per
ripulire la cattiva coscienza ereditata dai testimoni di uno dei più grandi
massacri della Storia, se non altro per numero di morti, e i mezzi adottati per
liquidarli, quelli degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, sotto lo
sguardo indifferente dell’umanità. Ed ecco che manifestazioni oceaniche
riempiono le strade delle grandi città di tutto il mondo. Sono manifestazioni
che superano per ampiezza quelle contro la guerra del Vietnam a suo tempo. Con
una palese differenza: all’epoca la gente gridava “pace in Vietnam!”. Dalla
bocca di coloro che oggi solidarizzano con Gaza, invece, la parola “pace” è
scomparsa. A rappresentare il Male, il Male da combattere, non è più il governo,
ma tutto Israele. […] I nuovi antisemiti di fatto stanno ritorcendo la Shoah,
che i negazionisti non sono riusciti a far vacillare, contro gli ebrei
stessi. Gli ebrei che, in questo periodo, stanno “genocidiando” un altro popolo.
Questo verbo non esisteva nei dizionari, ma è stato inventato proprio in
occasione della guerra di Gaza. (marek halter, la stampa, 26 novembre 2025)
Qualche anno fa, ispirati da Aristotele ed Hegel, avevamo una rubrica su Monitor
che metteva in evidenza lo squallore di ciò “che ci meritiamo” (i giornali che
ci meritiamo; i politici che ci meritiamo; i partigiani che ci meritiamo, e così
via). Ci ho ripensato giovedì a proposito dei telegiornali, imbattutomi con g.
in un servizio del Tg2 che nel dar conto dell’ennesima strage israeliana a Gaza,
dove con la scusa di ammazzare un militare di Hamas sono stati uccisi cinquanta
civili, di cui sette bambini, si leggeva il massacro come conseguenza di un
attacco di miliziani palestinesi a una pattuglia dell’esercito sionista, che
avrebbe provocato il ferimento – fonte: l’esercito stesso – di cinque soldati.
(credits in nota 1)
Sarebbe bello, anche solo a volte, sapere cosa diavolo abbiamo fatto di male.
a cura di riccardo rosa
________________________
¹ Robert De Niro, Dennis Leary, Anne Heche, Dustin Hoffman in: Sesso e potere,
di Barry Levinson (1997)
(disegno di renaud eymony)
Negli ultimi due anni una classe di intellettuali e analisti progressisti si è
imposta come voce autorevole nell’ambito del movimento di solidarietà con la
Palestina in Italia. Gli va dato atto di essere riusciti ad abbracciare, almeno
retoricamente, anche la visione internazionalista e anticapitalista che sta alla
base della lotta di liberazione palestinese e che, dopo anni di mobilitazione di
collettivi e movimenti territoriali, si sta radicando anche in altri settori
della società italiana.
La lotta di liberazione palestinese si è storicamente presentata come lotta
rivoluzionaria, identificando nel sistema internazionale stesso e nell’ordine
globale che esso impone le radici delle ingiustizie non solo di controllo e
dominio coloniale, ma anche di sfruttamento e oppressione economica e culturale
che, con modalità diverse, si riproducono in tutte le diverse geografie. È una
lotta di liberazione che non guarda “solo” alla libertà palestinese sulla terra
indigena, ma che richiede un cambiamento, una trasformazione sistemica che è
tipica di ogni lotta anticoloniale, e che storicamente è stata abbracciata e
cercata da ogni movimento rivoluzionario nel Sud globale.
Questi intellettuali progressisti si fanno oggi portavoce di un appello alla
cosiddetta “lotta intersezionale”, termine spesso abusato, che nella sua
accezione originale richiamerebbe alla lotta congiunta e alla necessità di
aprire gli orizzonti a nuove prospettive e rivendicazioni sociali ed economiche.
Nonostante il tentativo decoloniale, tuttavia, questi intellettuali ricadono
nella contraddizione storica che la caratterizza: nel momento stesso in cui si
fanno portavoce di parole d’ordine rivoluzionarie, partendo dalla cosiddetta
solidarietà alla lotta anticoloniale palestinese, lo fanno, di nuovo, imponendo
le categorie analitiche e discorsive dello stesso sistema che, invece, la
visione rivoluzionaria tenta di trasformare.
Si fa un gran parlare, in questi giorni, in Italia, delle pratiche di dissenso
individuate da attivisti di differenti estrazioni. La linea generale è che ogni
protesta è giusta e va sostenuta fino a quando non sfoci nella violenza. Un coro
unanime dei nuovi volti della solidarietà neoliberale si è alzato per ribadire
che la non-violenza è imprescindibile per farsi ascoltare. Condanne di vario
genere e prese di distanze non richieste si sono affrettate a spiegarci ciò che
è giusto o sbagliato, a definire cosa è violento e cosa no. Ma che cosa è la
violenza? Chi la definisce? Come si stabiliscono i parametri secondo cui
giudicare? Qual è il contesto che definisce un’azione violenta?
In questo caos discorsivo ho ritenuto necessario trovare risposte in chi le
rivoluzioni le ha sognate, costruite, cercate, nel tentativo di vivere una vita
di dignità e giustizia sociale. È uno sforzo che richiede l’abbandono del
privilegio coloniale di cui siamo intrisi, un insieme di privilegi di razza,
geografici e di classe che spesso denunciamo a parole ma che di fatto continuano
a condizionare il modo in cui ci rapportiamo al mondo, anche e spesso
soprattutto nella classe intellettuale. Ho provato a ripartire dalla dicotomia
tra violenza e non-violenza: la violenza del colonizzato irrazionale, mai
correlata però alla violenza dell’oppressione, che è concepita nell’ordine
educato e borghese delle nostre società, che non considera violenza gli arresti
arbitrari, le politiche di repressione e sorveglianza, quanto piuttosto i
sabotaggi contro queste pratiche e narrative. Ma si può parlare di violenza
senza partire dalla struttura di dominio che la produce, dalla geografia del
potere che decide cosa è visibile e cosa no, cosa è nominabile come violenza e
cosa invece può restare anonimo, amministrativo, “normale”?
Fanon, su questo, va dritto al punto, alla radice di ogni dinamica di
liberazione, riparte dal nucleo centrale dei rapporti di potere: la violenza non
è un incidente nel percorso della colonizzazione, è il suo principio
organizzativo, ciò che costituisce il dominio. Il mondo coloniale è
compartimentato, diviso in zone, in cui la presenza armata, la polizia, i
checkpoint, le demolizioni, le deportazioni e l’espropriazione della terra non
sono eccezioni ma il tessuto quotidiano della vita. È questa violenza originaria
– quella che istituisce il colono come soggetto e il colonizzato come oggetto –
che rende possibile ogni altra pratica: la legge, il mercato, la scuola, il
discorso umanitario. Parlare di non-violenza senza nominare questa asimmetria
significa naturalizzare la posizione del colono, assumere come neutro il punto
di vista di chi beneficia dell’ordine esistente.
La violenza anticoloniale non è l’irruzione di un irrazionale da contenere, ma
l’atto con cui l’oppresso rompe il silenzio altrui sulla violenza che lo
costituisce come tale. È, insieme, risposta e smascheramento: risposta alla
forza nuda che fonda il mondo coloniale; smascheramento della pretesa di
neutralità dell’ordine giuridico, economico e morale che la copre. La domanda
“chi definisce la violenza?” non è retorica: la definisce chi detiene il
monopolio della narrazione legittima, chi ha la possibilità di imporre come
“naturali” le forme lente, burocratiche, istituzionali dell’oppressione, mentre
registra come “violenza” ogni gesto che rompe la “normalità” imposta, che si
rifiuta di obbedire, che si ribella all’ingiustizia.
Su questo la riflessione fanoniana incontra quella di Guevara. Anche per il Che
la violenza rivoluzionaria non nasce nel vuoto, ma da una diagnosi globale di un
sistema economico e politico strutturalmente violento: l’imperialismo, la
dipendenza economica, la subordinazione dell’intera riproduzione sociale alle
esigenze del capitale. Se per Fanon la colonizzazione è un ordine spaziale e
razziale fondato sulle armi, per Guevara il capitalismo mondiale è un ordine
gerarchico che produce fame, miseria, dittature militari, guerra permanente. La
guerriglia non è solo una tecnica di combattimento, è l’assunzione consapevole
del fatto che nessuna richiesta “ragionevole” verrà ascoltata fintanto che non
si intacca il cuore del sistema.
Se assumiamo questa prospettiva, la violenza rivoluzionaria non è mai separata
dalla questione del soggetto. Il combattente non è un mero esecutore di atti
violenti, è qualcuno che si trasforma nel processo stesso della lotta, che rompe
con l’individualismo, con la passività, con la neutralità impossibile. L’“uomo
nuovo” di cui parla Guevara non è una figura mistica, è il tentativo di nominare
una soggettività che non accetta più i parametri morali ed economici imposti
dall’ordine dominante. La violenza non è, attenzione, feticizzata, ma nemmeno è
riducibile a un problema di mezzi da moderare in funzione di fini già dati. È
parte di un processo pedagogico rovesciato: non è il sistema a educare il
soggetto, è la pratica della rottura – del sabotaggio, dell’insurrezione, della
diserzione rispetto alle logiche del profitto – a produrre un soggetto che non
si riconosce più nelle categorie del sistema.
È a questo punto che vale la pena spostarsi sul terreno palestinese
contemporaneo. C’è, per esempio, Basel al-Araj che ci obbliga a fare un
ulteriore passo. La sua riflessione nasce in un contesto in cui la
colonizzazione non è più solo quella “classica” dell’occupazione militare e
della conquista territoriale, ma è anche e soprattutto un regime “manageriale”
nel quadro neoliberale: Oslo, il coordinamento di sicurezza, l’Ong-izzazione
della politica, la trasformazione della resistenza in discorsi e quadri
d’analisi depoliticizzati e decontestualizzati per progetti umanitari finanziati
dai donatori occidentali, tecnicismi per la “democratizzazione” degli “incivili
e ineducati” da salvare, lezioni di industrializzazione e “microeconomia” per i
“sottosviluppati”. In questo quadro, il discorso sulla non-violenza assume una
dimensione ancora più ambigua: diventa spesso la lingua di una solidarietà che,
pur proclamandosi radicale, è pienamente interna alle forme neoliberali del
sistema che, proprio attraverso questi discorsi egemonici, si assicura il
controllo non solo sulle pratiche politiche ma anche sulle percezioni e
rappresentazioni di esse.
La violenza diventa la responsabilità di superare il limite oltre il quale il
linguaggio dei diritti umani e della diplomazia smette di essere strumento e
diventa complicità. La sua pratica – lo studio sistematico della storia, del
nemico, delle esperienze rivoluzionarie passate, unito alla scelta consapevole
della clandestinità e della lotta armata – mette in crisi l’idea di un sapere
“neutro” che possa descrivere la violenza dall’esterno.
Non esiste resistenza palestinese che possa essere separata dalle forme concrete
in cui il potere si riorganizza: l’Autorità Palestinese, i donatori, le
narrazioni liberali della non-violenza, le gerarchie di classe e di razza dentro
e fuori la Palestina. Da questa angolatura, la dicotomia violenza/non-violenza,
così come viene mobilitata nel dibattito del Nord globale e soprattutto in
questi giorni in Italia, appare non solo insufficiente ma profondamente
ideologica. Quando si afferma che “ogni protesta è giusta finché non diventa
violenta”, si dà per scontato che la violenza sia un evento eccezionale che
interrompe una presunta normalità pacifica. Fanon ci invita a rovesciare lo
sguardo: la normalità del mondo coloniale – e, per estensione, del mondo
neoliberale securitario – è già di per sé violenta. È violenza il confine che
uccide, il centro di detenzione amministrativo, il carcere, il razzismo
istituzionale, la precarietà strutturale, l’invisibilità forzata di interi
gruppi sociali. La fame e la miseria di milioni non sono un “danno collaterale”,
ma il prodotto sistematico di un ordine economico. Al-Araj ci mostra come
l’occupazione palestinese sia anche un laboratorio di strategie e pratiche di
oppressione che poi vengono esportate altrove: sorveglianza, polizia preventiva,
controllo dei movimenti e così via.
In questo quadro, definire violenti i sabotaggi, i blocchi, le forme di
disobbedienza che interrompono – temporaneamente e simbolicamente – il flusso
ordinario delle merci, dei confini, della rappresentazione, mentre si tace sulla
violenza strutturale che quel flusso garantisce, significa collocarsi
esattamente nella posizione del colono fanoniano, del borghese che Guevara
chiama a tradire la propria classe e che raramente lo fa, dell’intellettuale che
al-Araj considera complice. Non si tratta di negare che i gesti di rottura
producano danno, conflitto, scontro: si tratta di riconoscere che quello scontro
è “imposto” dalla violenza sistemica, che la sua demonizzazione è una difesa
delle asimmetrie di potere che garantiscono a quello stesso sistema di
difendersi, riprodursi, riproporsi come unico standard, come unica realtà
concepibile. Si tratta di rifiutare la morale che li condanna in nome di una
pace che coincide, in pratica, con la continuità della violenza “legittima”.
Solo a partire da qui è possibile riformulare le domande iniziali: che cos’è la
violenza? Chi ha il potere di nominarla? Quale contesto viene assunto come
sfondo neutro e quale viene patologizzato come devianza? Solo a partire da qui è
possibile parlare di solidarietà senza riprodurre la postura coloniale di chi
rappresenta l’altro, decide al posto dell’altro quale forma di resistenza è
accettabile, prescrive all’altro la non-violenza mentre ne beneficia
quotidianamente lo sfruttamento. Il punto non è di normalizzare la violenza, ma
di smettere di usarla come strumento per silenziare quelle lotte anticoloniali e
rivoluzionarie che dicono, in modo esplicito, che la libertà di una parte
dell’umanità è inseparabile dalla trasformazione radicale dell’ordine che oggi
viene difeso anche, e soprattutto, nel nome della “pace”.
La classe intellettuale progressista che ripropone la stessa dicotomia
violenza/non-violenza che è strumentale al sistema, altro non fa che ribadire,
di fatto, che la “responsabilità della moderazione” ricade sempre interamente su
chi non ha potere; si chiede a chi prova a intervenire sullo status quo di farlo
nei modi che il sistema stesso impone, si chiede di essere le vittime buone come
se la legittimazione del sistema stesso fosse necessaria per essere visibili.
Siano essi i palestinesi, o i giovani che irrompono nelle stanze di una
redazione mediatica complice, o chi occupa spazi pubblici per rivendicare
diritti. A chi detiene il potere, invece, è garantita l’impunità epistemica di
definirsi neutro, civile, pacifico.
È proprio la stessa asimmetria che denuncia Fanon: il colonizzato è chiamato a
giustificare ogni gesto, ogni parola, ogni crepa nel consenso; al colono non si
chiede nulla. Guevara la riconosce nella retorica dello sviluppo e della
democrazia liberale che mascherano la coercizione sistemica dei popoli del Sud
globale; al-Araj la vede all’opera nelle dinamiche neoliberali dell’occupazione
e nel linguaggio dei donatori internazionali che pretendono di decidere quali
forme di resistenza siano “accettabili” e quali invece debbano essere
patologizzate come “violenza”.
Assumere questa prospettiva è la condizione minima per sottrarci all’ipocrisia
che pretende disciplina dagli oppressi e concede licenza illimitata agli
oppressori. È, in ultima analisi, la condizione per parlare di giustizia non
come richiesta astratta, ma come trasformazione radicale dell’ordine che
continua a nominare “pace” la propria violenza e a chiamare “violenza” ogni
tentativo di spezzarne la continuità. (mjriam abu samra)
(disegno di manincuore)
L’occasione per questo articolo è duplice: per un verso il desiderio di chi
scrive di “stare” su Napoli coi suoi artisti e le sue contraddizioni, le sue
“novità” e le sue puntuali bruttezze; per altro verso la proiezione del
film L’eco dei fiori sommersi al Modernissimo il 5 dicembre alle ore 21;
proiezione inattesa per quanto è difficile trovare un film “piccolo” al cinema,
un film auto-distribuito e aggiungerei femminista. Si parla poco della lotta
politica che si gioca sulla distribuzione: perché il cinema resta l’arte delle
masse e se è preclusa la possibilità di vedere buoni film tutto è perduto.
Ho conosciuto Rosa Maietta durante la lavorazione del film Gli ultimi giorni
dell’umanità di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo. Lei lavorava sul mitico e
irraggiungibile (per me) archivio-fiume di Ghezzi, e questo me la rendeva già
simpatica in via pregiudiziale. In seguito, l’ho incontrata innumerevoli volte
alle rassegne indipendenti che si tengono a Napoli, nei soliti quattro o cinque
spazi dove si può vedere qualcosa di diverso dal cinemino italiano borghese e
fasullo. Siamo diventati amici, e grazie a lei ho scoperto Julio Bressane e
soprattutto Radu Jude, che per me è il Godard del nostro tempo. Lei vive a
Napoli, ha studiato lettere, è cinefila e viene da Benevento. Incredibilmente
siamo nati lo stesso giorno, lei però nel 1990.
L’eco dei fiori sommersi è il suo primo lungometraggio. Partendo dall’idea di un
documentario sull’Archivio di Stato di Napoli, è diventato un film con tutti i
crismi, scritto e messo in scena a partire da storie vere contenute nei faldoni
dimenticati tra i corridoi dell’Archivio. Prendono così vita, in forma poetica e
politica, vicende realmente accadute nei decenni e secoli scorsi. Sono storie di
donne, e accanto a vicende atroci (stupri, aborti clandestini, amori fatti a
pezzi dalla guerra) è sempre riflessa la voglia e il desiderio di liberazione
dai nemici di sempre, il sistema patriarcale e quello capitalistico. Il
documentario ha una durata breve, 67 minuti. Colpisce la ricchezza di soluzioni
stilistiche che adotta, dovuta probabilmente sia all’abilità al montaggio della
regista – che nasce come montatrice –, sia al desiderio di utilizzare al massimo
le possibilità del mezzo. Si va dal registro simbolico a quello teatrale, dal
realismo tipico del documentario all’inserto d’animazione, fino all’utilizzo con
parsimonia di materiale d’archivio. Piuttosto ricercata la scrittura; paradosso,
poiché essa deriva quasi integralmente dalla lingua burocratica utilizzata nelle
carte processuali.
Questo tessuto plurilinguistico e i continui shock a cui assistiamo sono la
forza straniante e felice del film. Il gergo asettico della macchina della
giustizia, che tutto può e a cui tutti si sottomettono, viene messo in
discussione dal film, attraverso l’esplosione soggettiva delle protagoniste, i
fiori sommersi che riemergono in una sorta di giudizio universale. Loro, queste
donne, ci dicono “come sono andate veramente le cose”, non attraverso una contro
argomentazione logico-giuridica, ma coi corpi e con la voce, luoghi privilegiati
della verità e della testimonianza. Per queste ragioni mi sembra un film
importante. Ho conversato con Rosa Maietta sul film a fine luglio. Sintetizzo
qui alcune delle mie domande e delle sue risposte, poiché la conversazione è
durata più di due ore.
Perché hai scelto l’Archivio?
In realtà è un film d’occasione. L’Archivio di Stato, per aprirsi a un pubblico
non di soli specialisti, cercava una rappresentazione cinematografica. Mi è
arrivata la proposta e l’ho accettata. Volevo evitare un documentario basico,
fatto di interviste e immagini “neutre”. Ho allora cominciato a frequentare
l’archivio, e ho notato che ci lavoravano soprattutto donne. Le ho conosciute,
loro mi hanno fatto scoprire quelle storie che poi ho portato nel film. Loro
stesse sono nel film.
L’operazione poetica di portare al cinema il contenuto dei faldoni è inusuale.
Qual è stato il processo creativo?
Volevo evitare di fare un film su una storia, o su più storie. Ho cercato di
dare una certa circolarità al racconto, a mo’ di cantastorie. Insomma, non una
singola storia ma la storia collettiva per le donne. Ho voluto far emergere
l’emozione (il dolore, la passione) che sta dietro quel brutto e inavvicinabile
linguaggio della burocrazia processuale, linguaggio perfettamente consono alla
struttura patriarcale della giustizia e del mondo. Per questo, giocando sul
contrasto, uso luci calde e recitazione forte di contro a questa fredda lingua
del Potere.
Nel film avverto un eccellente lavoro di scrittura. Negli ultimi anni abbiamo
però assistito al desiderio di liberarsi della scrittura, a un certo
sperimentalismo visivo nel cinema indipendente. Tu cosa ne pensi?
L’attenzione alla scrittura oggi mi sembra un modo più democratico e meno
elitario di fare cinema. Quindi sì, ho fatto un enorme lavoro di scrittura.
Passavo le giornate all’archivio a leggere storie, a parlare con le archiviste,
anche in maniera terapeutica, per dimenticare la perdita di mio padre. La
scrittura è un momento decisivo e facilita la relazione col pubblico.
Qual è la differenza tra il tuo lavoro e un documentario standard?
Penso che il cinema venga definito Settima Arte non a caso. Abbiamo un
privilegio e anche una responsabilità con quello che facciamo. Ho provato a
lavorare sul film in quanto pezzo unico, perché non volevo che un singolo
procedimento formale, come la colonna sonora o frammenti simbolici, prevalessero
sul resto e diventassero tappabuchi o toppe. In questo senso, non volevo abusare
di materiale d’archivio anche per avere rispetto di quello che andavo a
utilizzare e manipolare.
Cosa ti domanda il pubblico? Resta più su questioni di stile, o sul perché hai
fatto il film, cosa volevi dire?
Entrambe le cose. Il pubblico è una parte del film, quando si gira si pensa a
quale pubblico è indirizzato, nei limiti del possibile.
Dove è stato proiettato il tuo film? Come sta girando?
Il film lo sto distribuendo io, lo invio assieme alla produzione ai festival e
organizzo le proiezioni in Italia e all’estero. Ovviamente circola in modo del
tutto peculiare: collettivi femministi interessati (come Non Una Di Meno a
Cagliari), amici e amiche via passaparola, e anche l’accademia,
nell’insospettabile sezione degli storici, poiché è uno dei pochi lavori
cinematografici sugli archivi. Poi ci sono i festival in Italia e all’estero. Mi
piace presentarlo in presenza, vedere il pubblico e confrontarmici. Lotto,
insomma, per il mio film.
A Napoli manca comunicazione tra registi, mi capita di parlare di questo
problema anche con altri tuoi colleghi.
I registi dovrebbero frequentare di più i festival, guardare i film degli altri.
Questo non lo fanno, e così c’è poco scambio. Con le ultime vicende politiche, e
la riduzione dei fondi alla cultura, mi è capitato di partecipare alle assemblee
dei lavoratori precari dello spettacolo, dove nessuno parla di cinema. È
assurdo! Napoli è una città senza scambio, io parlo di cinema con te e
pochissime altre persone. Proveremo a portare avanti pratiche per metterci
insieme. Vedremo… (salvatore iervolino)
(disegno di cyop&kaf)
Enrico Pugliese ci ha lasciati la scorsa settimana. Oggi sarà ricordato alle
11:30 alla Sala della Promoteca del Campidoglio. Anche noi vogliamo ricordarlo,
riproponendo questo articolo da lui pubblicato sul Manifesto esattamente
trent’anni fa, nel dicembre 1995, in un periodo molto delicato, nel pieno della
discussione politica su una possibile sanatoria e di una mobilitazione dai
tratti chiaramente razzisti incentrata sul legame tra immigrazione e criminalità
che iniziava a sfondare anche a sinistra.
Leggendolo si possono ritrovare tutte le tracce che hanno fatto di Enrico una
figura radicale e autorevole, capace di coniugare attività scientifica e impegno
militante senza fare sconti a nessuno. Formatosi alla scuola di Portici,
sociologo inizialmente concentrato soprattutto sugli studi sul mercato del
lavoro, l’agricoltura e l’emigrazione, ha poi allargato molto le attività,
avviando cantieri di ricerca sulle politiche sociali, sulle trasformazioni del
mondo produttivo, sull’immigrazione straniera, che ha letteralmente “scoperto”,
tra i primissimi, già alla fine degli anni Settanta. Pugliese è stato negli anni
Settanta tra i fondatori del Centro di coordinamento campano, con Fabrizia
Ramondino e Giovanni Mottura, ha sostenuto le lotte dei disoccupati, ha
contribuito ad avviare negli anni Novanta un ciclo dirompente di mobilitazione
antirazzista, culminato nel 1995 nella nascita della Rete antirazzista
nazionale.
* * *
Strano paese, l’Italia. Sembra passata una vita dall’ossessione della grande
stampa per la criminalità degli immigrati, mentre è passato sì e no un mese. Ora
l’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa si è spostata – e ringraziamo
la Madonna – sulle difficoltà di vita degli immigrati e sull’irrazionalità di
molte norme del decreto sull’immigrazione. Gli stessi giornali che ora riportano
interviste sul decreto e sui suoi difetti, prima pareva non vedessero altro che
prostituzione e sporcizia. Al martellare continuo sulle nefandezze di
spacciatori e lenoni neri (esistenti o immaginari, poco importa) si è sostituita
la pietà e la commozione per la bambina rom alla quale un qualche buon padre di
famiglia ha deciso di spaccare le braccia.
Le brave persone che a Torino fiaccolavano contro la criminalità straniera
saranno state finalmente contente: qualcuno ha avuto il coraggio di usare le
maniere forti. Non bisogna dimenticare infatti che la bambina poco prima di
essere massacrata aveva – pare – tentato un furto. C’era stata – pare –
flagranza. Roba da espulsione, se straniera. Una buona lezione da piccoli
insegna a vivere. O no?
Pensiero debole e maniere forti: ci voleva poco a capire che quell’insistere
continuo sulla criminalità degli stranieri come se fosse l’unica questione di
rilievo nelle grandi città italiane avrebbe favorito un orientamento contrario
agli immigrati in quanto tali. I compagni pidiessini e gli intellettuali
non-di-destra che andavano a fiaccolare avrebbero potuto fare un qualche
pensiero sul come le loro iniziative avrebbero favorito un’immagine falsata e
negativa degli immigrati. In quei giorni si andava determinando in Italia
l’identità immigrato=criminale. Naturalmente non mancavano i distinguo basati
soprattutto sulla fondamentale distinzione sociologica tra buoni e cattivi. E i
fiaccolatori di Torino o gli opinionisti di Repubblica se la prendevano – per
carità – solo con i secondi. Ma questi diventavano sempre di più; i buoni si
riducevano a un’astrazione. Quando poi si propose di considerare crimine anche
la condizione di clandestinità si raggiunse il colmo.
Questo avveniva ieri. Le cose sono cambiate con velocità impressionante. Ho
ancora nelle orecchie la lettura mattutina su Rai Tre dell’articolo di Gianni
Vattimo, credo sulla Stampa, con l’irritante racconto delle sue emozioni di
fiaccolatore. E l’orrore di quei giorni non è certo passato. Ma devo dire – non
per raccontare anch’io le mie emozioni – che avverto una nuova fiducia e una
nuova speranza.
GENTE CHE LAVORA
È come se d’improvviso in Italia ci si fosse resi conto di un fatto ovvio ed
evidente: cioè del fatto che, innanzitutto, gli immigrati sono gente che lavora.
Anzi, gente che lavora molto e guadagna poco; gente che non fa parte di eserciti
della camorra (la quale dispone di ben altre truppe). Comincia a farsi strada
sulla stampa e anche nel senso comune un fatto che pareva dimenticato nei mesi
scorsi: cioè che le immigrate non fanno in generale le prostitute (come sembrava
dall’Espresso e da Panorama), bensì semplicemente le donne, le lavoratrici, le
madri di famiglia, le figlie, le scolare ecc. La stampa e il senso comune
sembrano aver scoperto che quasi mai gli immigrati riescono a godere dei diritti
(pochi) che le leggi dello stato stabiliscono per loro. Insomma, sembra che stia
cambiando l’aria.
Lo so, sembra. E il clima delle istituzioni non è certo dei migliori: il voto
del Senato (Pds compreso) sulla costituzionalità dell’articolo 7 non è certo un
buon segno. Ma c’è qualcosa di meno greve nell’umore della gente. Torino avrà
pure avuto le fiaccolate dei giannivattimi e le ronde dei mazzieri. Ma ha avuto
anche la manifestazione del 19. E a Firenze il sindaco Primicerio è sceso in
piazza non contro gli immigrati, ma per i loro diritti. Questo abominevole
decreto, poi, è esso stesso pieno di contraddizioni. E di questo ha mostrato di
rendersi progressivamente conto la grande stampa, compresa – anche se più
tardivamente – l’Unità. La penosa difesa d’ufficio del decreto da parte del Pds
e del suo giornale sta mutandosi in un dibattito più o meno pubblico sulla
questione, nonostante il voto al Senato. La situazione è in movimento e la
matassa è difficile da sbrogliare.
SCAMBIO TRA DIRITTI
Per capire qualcosa anche sul possibile futuro del decreto è bene forse partire
dalla sua storia. Esso doveva nascere come intervento punitivo contro gli
immigrati criminali, sulla base delle sollecitazioni dei fiaccolatori di Torino
e loro alleati. Poi qualcosa è cominciato a muoversi nella società e nella
politica. Non sappiamo la “storia nascosta” del decreto. Ma è come se a un certo
punto fossero entrate in gioco una serie di pressioni, anche progressiste e
solidaristiche, e come se alla fine si fosse determinata una sorta di scambio
tra area dei diritti e dei principi costituzionali e area dei diritti sociali:
insomma, “uno scambio tra espulsioni e regolarizzazioni”.
Non è certo una bella cosa, e d’altronde tutto questo è un po’ fantapolitica. Ma
la mostruosità economico-giuridico-sociale del decreto, e la sua
contraddittorietà – cioè il suo carattere “benevolo” su qualche punto (si pensi
all’articolo sulla sanità) e al contempo lepenista oltre ogni limite su altri –
mostra che il suo estensore – vorrei conoscere la sua faccia – ha dovuto
contentare molti partiti, molti gruppi di pressione, molti umori. Ci sono poi i
“si dice”, che come tutti i “si dice” vanno presi con le pinze, ma non tutti
sono improbabili. Per esempio pare che la Lega sia riuscita a far cancellare un
articolo relativo alla regolarizzazione dei lavoratori autonomi (questione
essenziale, soprattutto nel sud). Se non è vero, c’è stata una distrazione
imperdonabile del “legislatore”, il quale ha lasciato fuori una parte
significativa degli interessati. Se invece è vero, si è trattato di un episodio
di indubbio squallore.
SCHIZOFRENIE ANTISANATORIA
Passiamo al lato positivo. Devo riconoscere innanzitutto che non mi aspettavo
una apertura sul tema della regolarizzazione. La regolarizzazione è
un’operazione di buon senso necessaria anche dal punto di vista della legge e
dell’ordine. E quelli che sono contrari – il partito antisanatoria – sono a mio
avviso un po’ schizofrenici: da un lato tendono a raccontare un’improbabile
avvenuta invasione di oltre un milione di clandestini; dall’altro sostengono che
l’immigrazione clandestina è essa stessa crimine da punire, per cui non resta
che la deportazione di massa. E vorrei vedere come si fa: manco la Bosnia!
Tuttavia su questo aspetto la chiusura in passato era netta.
Non entro nel merito delle espulsioni e della loro incostituzionalità (oltre che
ingiustizia). Il voto del Senato è un punto a svantaggio della civiltà, ma
ancora ci sono la Corte costituzionale e altre istanze. Trovo ora importante la
questione della regolarizzazione e delle impossibili condizioni richieste per
ottenerle. Qui la contraddittorietà del decreto è sublime. In primo luogo non è
chiarito quanto tempo sia stato necessario lavorare presso un padrone per aver
diritto alla regolarizzazione come lavoratore dipendente. In generale, sembra
difficile che, allo stato, possano regolarizzarsi la maggior parte dei
lavoratori immigrati occupati al nero in attività precarie.
Si dice che le regolarizzazioni non devono incentivare il lavoro nero. Ma è
proprio questo il punto: solo permettendo al lavoratore occupato al nero di
regolarizzarsi gli si concede anche la possibilità di difendere i propri diritti
sul lavoro. E qui entra l’altra questione veramente irritante, quella del
risparmio. La penalità finanziaria prevista riguarda tutti, anche quelli con un
lavoro stabile. L’ineffabile “legislatore” deve aver subìto pressioni diverse.
Per esempio è entrato in campo il partito del risparmio. Non so quali malaccorti
consiglieri hanno suggerito di far spendere ai datori di lavoro quelle cifre per
regolarizzare i propri dipendenti. Sei mesi di contributi arretrati sono davvero
un’enormità. Una punitività del genere, in un’occasione volta peraltro a fare
emergere il lavoro nero, non si era davvero mai vista.
Non sono storie quelle che si raccontano su datori di lavoro che licenziano i
loro dipendenti per non regolarizzarli. Idea davvero disumana è stata quella di
far pagar caro un doveroso atto di civiltà qual è quello di ufficializzare
rapporti di lavoro già al nero. L’idea di imporre un costo finanziario così
grave non è stata solo crudele: è stata anche stupida. In questo modo l’Inps non
incasserà i soldi degli immigrati e dei loro datori di lavoro, giacché rischia
di esserci lo sciopero dei padroni che impedirà le regolarizzazioni. A volte
però questi sono brave persone (o delle brave famiglie nel caso delle colf) che
non hanno potuto in passato regolarizzare la posizione dei propri dipendenti a
causa della chiusura delle norme finora vigenti. Insomma, il furbacchione che
molto voleva far avere all’Inps rischia di non fargli avere nulla. E poi,
proprio sugli immigrati bisognava andare a risparmiare? Si è trattato, secondo
me, di una miscela di rigorismo, crudeltà e scarsa conoscenza del problema
espressa trasversalmente da gentiluomini di varia fede.
Queste cose le sanno bene gli immigrati che si stanno mobilitando dappertutto in
Italia. Essi capiscono come il decreto funzionerà (e ovviamente che implicazioni
avrà per la loro vita) ben più di chi lo ha stilato. Dai tempi della legge
Martelli non si vedevano tante mobilitazioni con contenuti concreti e con grande
scambio di informazioni. Dopo gli anni della crisi dell’associazionismo, si
vedono di nuovo insieme immigrati di varie nazionalità discutere all’interno dei
loro gruppi e con gli altri. Le sedi sindacali vedono assemblee affollate di
immigrati e personale competente (volontari, avvocati).
OBIETTIVI PRIORITARI
Insomma, si è venuto formando un movimento con l’obiettivo che il decreto faccia
il minor male possibile. Ora, affinché questo obiettivo venga in qualche modo
raggiunto, credo che ci si debba mobilitare secondo due direzioni prioritarie.
La prima riguarda i criteri di attuazione del decreto nel periodo in cui resterà
in vigore, quindi già da oggi. A questo proposito c’è molto da fare e molto si
sta facendo. Bisogna controllare che non vengano date interpretazioni
restrittive sia per quel che riguarda le regolarizzazioni che per quel che
riguarda i ricongiungimenti familiari o le forme di assunzione dei lavoratori.
L’altra direzione è la mobilitazione contro il decreto così come è ora affinché
lo si possa cambiare con pochi e mirati emendamenti. La messa in luce delle
incongruenze e della estrema selettività del decreto deve servire a questo
scopo. Il decreto decadrà molto probabilmente, a prescindere dalle
mobilitazioni, per i motivi tradizionali per cui i decreti, almeno quelli
importanti, spesso decadono. Bisogna però evitare che esso venga reiterato nella
sua forma originaria. Bisogna approfittare di questo periodo di parziale
rinsavimento dell’opinione pubblica e di forte impegno dei gruppi di pressione
in materia di immigrazione perché quel mostro che è ora il decreto diventi
qualcosa di più organico. Bisogna innanzitutto che l’obiettivo della
regolarizzazione non venga vanificato, come ora, da norme e vincoli che lo
rendono impraticabile.
Per quel che riguarda gli immigrati il clima è leggermente migliorato nelle
ultime settimane. Essi non godono più tanto di pessima stampa. Non sappiamo
quanto questo nuovo clima possa durare. Tuttavia questa mi sembra una buona
occasione per darsi da fare.
(l’impresa del bene. terzo settore e turismo a napoli)
Sarà presentato mercoledì 3 dicembre a partire dalle 19:30, al Centro sociale
della pace di Bologna (via del Pratello, 53), L’imprea del bene. Terzo settore e
turismo a Napoli, di Luca Rossomando.
Alla presentazione, che si svolgerà nell’ambito del ciclo di incontri “Le mani
su Bologna”, interverrà l’autore, insieme ad attivisti e sindacalisti
protagonisti di battaglie contro la privatizzazione dei servizi pubblici nel
capoluogo emiliano.
Dell’Impresa del bene abbiamo pubblicato qui un estratto.
In questa pagina trovate invece i link ad alcune recensioni e/o riflessioni
scaturite dalla lettura del volume.
(disegno di martina di gennaro)
È fecondo configurare l’attualità come storia contemporanea. In merito
all’irruzione presso la redazione de La Stampa di Torino di venerdì 28 novembre,
lo storico contemporaneo dovrebbe studiare la reazione mediatica, e
spettacolare, che si è scatenata, e chiedersi perché in modo così unanime e
accorato istituzioni, politici, intellettuali e organizzazioni di questo paese
hanno condannato l’evento. Qual è l’origine materiale di un discorso tanto
compatto, in apparenza inscalfibile?
Il primo dicembre nelle pagine nazionali de La Stampa compare un articolo
intitolato: “Stampa città aperta”. Si riportano le visite in solidarietà alla
redazione e le dichiarazioni rilasciate per l’occasione. Appaiono l’editore
Elkann, il presidente della regione Piemonte, un deputato del Pd, un ministro
del governo; è annunciata la venuta del ministro della cultura e, forse, di Elly
Schlein. Il sindaco della Città s’era già presentato in visita. Uno sguardo
storico deve allora individuare le relazioni concrete fra un centro di
emanazione dei discorsi e le classi dirigenti. E da qui discende una possibile
mappatura delle forme del potere e della loro riproduzione simbolica.
Ecco un esempio, forse marginale eppure peculiare. Una delle prime reazioni è
stata quella di Jacopo Rosatelli, assessore alle politiche sociali della Città e
membro di Sinistra Ecologista, la costola di Avs a Torino. Lo stesso venerdì
pomeriggio dalle colonne blu di Facebook scriveva l’assessore: “Nel giorno in
cui le e i giornalisti scioperano, un vile attacco squadrista colpisce la
redazione de La Stampa. Nulla può giustificare questa violenza. Solidarietà al
quotidiano e a tutta la comunità professionale dell’informazione torinese”.
Durante il mandato di Rosatelli sono stati sgomberati i baraccati di piazza
d’Armi e senza garantire degne soluzioni abitative. Di recente sono state create
“zone a vigilanza rafforzata” per sottoporre a controlli di polizia persone
potenzialmente destinate al Cpr e si è condotta una repressione sistematica di
uomini senza dimora che vendono pochi oggetti in strada. Ancora, si è portata
avanti una campagna di sgombero di famiglie occupanti di case Atc senza offrire
soluzioni alternative e spesso lasciando in strada donne e bambini.
In merito a questa violenza urbana contro poveri e subalterni La Stampa, come
tutto il giornalismo cittadino, è silente o compiacente. Per quale ragione? Come
spiegare il silenzio? Lo sgombero di piazza d’Armi avvenne per permettere il
sereno svolgimento di Eurovision. Accanto alle zone a vigilanza rafforzata
sorgono aree interessate da interventi di speculazione immobiliare, i presìdi di
polizia riguardano spesso i distretti aperti ai sogni turistici e gli isolati
pronti ad accogliere la nuova linea della metropolitana. E dopo la stagione di
sgomberi degli alloggi occupati è recente la notizia della possibilità
di privatizzare alcune unità delle case popolari torinesi. Qui lo storico può
intravedere le connessioni tra istituzioni, poteri economici e funzionari della
diffusione dell’informazione.
Abbiamo in passato analizzato stile e contenuti del giornalismo torinese e di
certo dovremo trovare il modo di persistere con più continuità e ostinazione.
Ora ricordiamo le parole vivissime che Goffredo Fofi scriveva a proposito del
quotidiano torinese. Era il 1964 e il libro – straordinario – è L’immigrazione
meridionale a Torino. (redazione monitor)
* * *
Il monopolio a Torino ha costruito una sua catena d’influenza economica e
politica, esercitata attraverso il controllo diretto o indiretto della vita
pubblica. Questa influenza è determinante anche e specialmente all’interno della
fabbrica, dove l’operaio è compresso e asservito da una politica paternalistica,
e allo stesso tempo non meno oppressiva: da una parte la possibilità di arrivare
al frigorifero, alla 600, alla televisione, e all’appartamento; dall’altra un
progresso tecnologico che impone massacranti ritmi di lavoro e un comportamento
da macchina, la impossibilità di processi di avanzamento nella qualifica al
tempo stesso in cui cambia la mansione e il tipo di lavoro in conseguenza del
processo tecnologico, l’impossibilità di un “rapporto tra la forza-lavoro
incorporata nelle merci prodotte e l’ammontare delle paghe”.
Al di fuori, essa si esercita innanzitutto con uno strumento formidabile di
formazione e controllo dell’opinione pubblica, La Stampa. Il giornale della Fiat
ha infatti un’influenza determinante nella vita e nelle opinioni dei torinesi.
Esso sbandiera un antifascismo sterile e di ricordi, e una politica di “riforme
sociali”, propone un paternalismo “illuminato” avallato anche sul piano
nazionale grazie alle firme di rispettabili nomi della cultura e
dell’antifascismo italiani, e sul piano torinese, con la seconda pagina e “Lo
specchio dei tempi”, indirizza l’opinione pubblica su binari ben precisi. In
essa trovano posto le “inchieste” e le “denunce” interessate (il costo della
vita, le case che mancano e che lo Stato dovrebbe finanziare, e così via), le
cronache della Torino-bene e dei suoi eroi con le loro mensili “opere buone”, i
preti e gli assi della Juventus, la cronaca delle disgrazie, degli incidenti
(narrati, sempre, in stile “Cuore”), i fattacci degli immigrati (con
appariscenti titoli: “calabrese ruba…”, “meridionale uccide…”, “siciliano
rapisce…”) ed infine le buone azioni quotidiane.
Il tono è dato pur sempre dallo “Specchio dei tempi”. Questa rubrica epistolare,
che si dice sia personalmente supervisionata dal direttore del giornale, è più
una guida che uno specchio della pubblica opinione. In essa trovano posto
regolarmente le recriminazioni antimeridionali, il patriottismo più vecchio
(specialmente in occasione delle infinite rievocazioni risorgimentali),
un’incredibile dose di richiami al “buon senso”, le piccole proteste (della
vecchietta sui tranvieri scortesi, ad esempio, ma anche di Togliatti sugli
chalet scomparsi dalla Valle d’Aosta o su “l’amore del prossimo”), e infine i
“casi pietosi”. La soluzione miracolistica dei problemi più gravi, attraverso la
sottoscrizione del “caro Specchio”, serve a contrabbandare il più vecchio dei
paternalismi. Ma gli esempi più chiari sono sempre dati dalle lettere,
accuratamente scelte e presentate con appropriati titoletti, che riguardano gli
operai. L’esaltazione sfacciata del crumiro, condotta durante gli scioperi Fiat
(e nella pagina di fronte, si trovava l’articolo di qualche noto scrittore o
intellettuale di sinistra) col ricorso al patetico familiare o a quello della
“libertà da difendere”; l’appoggio “fraterno” agli operai delle piccole
fabbriche come ai tessili della valle di Susa, che guadagnano così poco, e che
serve a ricordare agli operai Fiat la loro “condizione di privilegio”; la
richiesta di un’automobile che un impiegato Fiat fa allo “Specchio” e che serve
di pretesto per stimolare dozzine e dozzine di lettere che lo accuseranno di non
volersi accontentare e lo inviteranno a ringraziare il cielo e Valletta del suo
stato di privilegio – tutto questo mira al mantenimento di un clima di
subordinazione passiva e addormentamento delle coscienze, mira alla
conservazione di una Torino che si vorrebbe tranquillamente sottomessa e che non
pensi da sé, ma si lasci guidare, accontentandosi di sentirsi blandita ed
esaltata per il suo “buon senso”, le sue “tradizioni di civismo” e la sua
“operosità”.
Per gli immigrati il discorso viene ripetuto fino alla ossessione, alla nausea:
la Torino dal buon cuore che li accoglie, nonostante i loro difetti e i loro
demeriti, chiede delle condizioni. Si dice insomma, e con il tono del padrone:
siete sporchi e incivili, sfaticati e violenti, analfabeti e disonesti, ma noi –
così bravi! – vi lasciamo venire… ma, attenzione!, c’è un patto da seguire:
dovete cioè diventare come noi vi diciamo, come il bravo torinese medio, il buon
operaio o impiegato che non dà fastidio, il cittadino gentilmente egoista.
Dovete “adattarvi” e adeguarvi: adattamento è una parola che si legge con
estrema frequenza sulle pagine de “La Stampa” e si sente nelle relazioni e nei
discorsi ufficiali sull’immigrazione, come nelle chiacchiere del tram o
dell’osteria. I sociologi e gli psicologi – di fabbrica o no – ne fanno poi un
uso superlativo, premurandosi tutt’al più di mascherare il concetto con il
termine più intelligente di “integrazione”, ma intendendovi esattamente le
stesse cose: tutta la tematica dell’immigrazione si riduce per loro, in fondo, a
questo. Adattarsi vuol dire dunque inserirsi in uno stato di fatto accettandone
in pieno le regole, non provocando scosse, non protestando per la propria
condizione inferiore, seguendo i modelli offerti da chi comanda.
(disegno di peppe cerillo)
Celebrazioni ovunque per il 2 novembre, cinquantenario dell’omicidio di Pasolini
a Ostia. Un’associazione dell’Idroscalo – il quartiere autocostruito a pochi
passi dal luogo dell’omicidio – ricrea la partita del ’75 interrotta allora, e
convoca gli “Stati generali dell’Idroscalo” per discutere del futuro della zona.
Il 3 crolla un pezzo della Torre dei Conti tra via Cavour e Fori Imperiali,
uccidendo un operaio romeno sessantaseienne, Octay Stroici, rimasto intrappolato
per undici ore sotto le macerie. La sera una dozzina di neofascisti fa irruzione
al liceo Righi occupato, con caschi, bottiglie e canti per Mussolini.
Il 4 il presidente del municipio V chiede la fine degli sgomberi al
Quarticciolo. Presidio davanti al ministero della pubblica istruzione contro la
censura nelle scuole e nelle università. Di nuovo un gruppo di fascisti tenta di
attaccare il Righi ma viene respinto. Il 5 sgomberi a Cinecittà, in via Eudo
Giulioli, “palazzi occupati dai latinos” secondo la stampa. Di notte ancora un
attacco di neofascisti, al liceo Aristofane occupato. Il 6 arriva a Roma il
presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, per incontrare il papa e il
presidente della repubblica. Stretta di mano con Mattarella, che continua a
inviare armi per massacrare i palestinesi. Il sindaco riceve Robert De Niro, a
cui consegna un’onorificenza, la Lupa capitolina. Poi presenta un “rapporto alla
città” che sostanzialmente dice che va tutto a gonfie vele.
Il 7 gli studenti del Righi manifestano contro le aggressioni fasciste subite
durante l’occupazione. Domenica 9 manifestazione a Fiumicino contro
la costruzione del Porto Turistico della Royal Caribbean. Il 10 il sindaco
annuncia l’accordo con Hines, una delle più grandi società di investimento
immobiliare al mondo, per cedere i Mercati Generali sull’Ostiense e farne uno
studentato di lusso. Il 12 nuovi sgomberi a Cinecittà-Don
Bosco: gli appartamenti ex tutelati saranno ceduti al Fondo Scoiattolo. Siccome
sono latinos, gli occupanti sgomberati non avranno nulla. Blitz antidroga su via
dell’Idroscalo. Il 13 un trentenne di Torbellamonaca muore al San Filippo Neri,
forse per un sedativo somministrato dopo un incidente: i parenti protestano
davanti all’ospedale. Il 14 la Regione Lazio scrive al comune di Roma ribadendo
che il bosco di Pietralata è vincolato, pertanto gli scavi archeologici per lo
stadio non possono avere luogo, nonostante gli annunci pubblici. Il 15 grande
assemblea dell’“esercito di terra” per la Palestina alla Sapienza. Al ministero
del Made in Italy un assessore scivola sulle scale e distrugge una vetrata
artistica made in Italy.
Il 16 notte tre ladri sfondano la vetrina di Louis Vuitton a via Condotti e
scappano con migliaia di euro di bottino. Fratelli d’Italia convoca una protesta
in automobile contro le piste ciclabili, ma il corteo non parte perché c’era
troppo traffico. Le auto rimangono bloccate all’Eur, dove erano state convocate.
Il 17 il Comune nomina “sindaco per un giorno” l’attore Carlo Verdone per il suo
settantacinquesimo compleanno. Il 18 il governo approva la creazione di una Zona
Logistica Semplificata nel Lazio, cioè sgravi fiscali per le imprese. A Villa
Gordiani un gruppo di una quarantina di persone capeggiate da Forza Nuova cerca
di impedire l’accesso a una casa popolare a degli assegnatari regolari,
rifugiati dei Balcani, perché rom. Il 19 un compratore anonimo acquista un
attico di duecentottanta metri quadri a piazza di Spagna, pagandolo sedici
milioni di euro, la compravendita più costosa mai realizzata a Roma.
Il 21 inizia il convegno “About a city”, in affidamento diretto alla Fondazione
Feltrinelli per sessantamila euro. La giunta approva una memoria perché le
librerie possano prendersi pezzi di strada e di marciapiede per vendere cibo e
bevande. Intanto il Consiglio di Stato annulla la proibizione delle smartbox dei
bnb e l’identificazione a distanza, approvate dopo le azioni del gruppo Robin
Hood. Il 22 grande corteo di “Non una di meno” da piazza Repubblica contro la
violenza di genere. Il 23 davanti alla stazione Lido Centro a Ostia c’è una
grossa rissa tra ventenni, tre ragazzi accoltellati.
Il 26 la famiglia assegnataria di Torre Angela rinuncia alla casa popolare per
le proteste razziste contro di loro: sindaco e dipartimento patrimonio
assecondano la richiesta dell’estrema destra di “case agli italiani”. A Ostiense
si tiene un incontro sul futuro degli ex Mercati Generali, per cui il Comune ha
già firmato una concessione con il gruppo texano Hines. Decine di abitanti
riempiono la sala per protestare contro lo studentato di lusso. Il 28 un operaio
ucraino di trentatré anni muore schiacciato da un macchinario sulla ferrovia
vicino a Civitavecchia. Muore anche un cinquantenne in motorino, scontrandosi
con un furgone al Quartaccio. Sciopero generale, e il 29 grande manifestazione
per la Palestina: centomila persone in piazza, tra loro Greta Thurnberg,
Francesca Albanese, Thiago Avila. La notte un militare della Folgore muore in un
incidente sulla Braccianese, forse per un colpo di sonno. (stefano portelli)