Source - NapoliMONiTOR

Cronache, libri, disegni e reportages

Avevamo ragione noi! Un corteo ad Acerra per la bonifica della Terra dei fuochi
  Acerra, 10 maggio 2025. In quello che per tre decenni è stato un luogo simbolo dell’emergenza rifiuti, e contemporaneamente delle lotte ambientali, sfila il corteo che pretende l’esecuzione della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo con cui si condanna l’Italia per non aver tutelato la salute dei propri cittadini, imponendole di attuare un piano di bonifiche nell’arco di due anni. Comitati, studenti, attivisti e cittadini da tutta la provincia compresa tra Napoli e Caserta affollano le strade del centro cittadino al grido di “abbiamo sempre avuto ragione noi”. Più che dai presenti il corteo si racconta, però, a partire dagli assenti. Nonostante l’appuntamento sia in piazza Duomo, il primo è proprio il vescovo, monsignor Di Donna. Il pastore gode di grande credito sul territorio, e aveva guidato il proprio “gregge” nel corteo del 2023 contro la quarta linea dell’inceneritore (in aperto scontro con l’esecutivo regionale); oggi, però, sembra aver ripiegato su posizioni più moderate e di dialogo con il commissario unico per le bonifiche, Giuseppe Vadalà. Un repentino cambio di rotta successivo all’ultima legge di stabilità che, come denunciano alcuni consiglieri regionali, vede una pioggia di finanziamenti attribuiti alle diocesi, senza, dall’altro lato, l’elaborazione di particolari progettualità o strategia di sviluppo del territorio. All’appello mancano anche i rappresentanti istituzionali: il presidente del consiglio comunale Raffaele Lettieri (ex sindaco per due mandati) e il sindaco Tito D’Errico, eletto proprio con Lista Lettieri. In un comunicato, la giunta acerrana ha richiamato più alle “responsabilità istituzionali […] che alle azioni dimostrative (in quanto) la difesa dell’ambiente non può diventare terreno di scontro ideologico né strumento di visibilità”. È una sollecitazione che potrebbe anche essere auspicabile, se non fosse che negli ultimi tredici anni le responsabilità sono state in capo a questi stessi amministratori e che i due milioni e settecentomila euro per la bonifica del sito di Calabricito, per esempio, erano già stati stanziati dieci anni fa (proprio con un accordo di programma tra la Regione e RaffaeleLettieri): il  progetto invece non è stato portato a termine, mentre l’ente guidato da Vincenzo De Luca continuava a finanziare programmi di “rigenerazione integrata urbana sostenibile” (PRIUS), l’ultimo dal valore di quattordici milioni di euro. Il comunicato istituzionale si chiude con un richiamo alla fiducia nella “filiera istituita tra diocesi, Comune e Regione, ora ampliata al governo, nelle veci del Commissario unico Vadalà” (“[…] chi si impegna veramente per il Bene di Acerra”). Probabilmente questi esponenti istituzionali non sarebbero stati ben accolti dai partecipanti al corteo, e nello specifico dagli studenti che hanno coniato per loro una serie di slogan divenuti celebri, al suono dei quali li hanno allontanati dalle ultime manifestazioni. Colpito da una feroce campagna di repressione per opera della dirigenza scolastica nel 2024, quando il preside La Montagna sospese settantuno studenti (ritirando poi il provvedimento) dopo l’occupazione del liceo De Liguori, il movimento studentesco ha visto in questi ultimi anni indebolite le proprie capacità organizzative. Ciò nonostante, a questi ragazzi va il merito di farsi portavoce di una libera e sincera rabbia, senza la quale questo corteo trascorrerebbe anche troppo tranquillamente, nonché del coraggio necessario per portare avanti una lotta anche quando non è più così popolare. Mentre la manifestazione prosegue, tra la folla prova a farsi notare qualche altro personaggio che oggi si pone in opposizione alla giunta comunale, e che della tutela dell’ambiente ha fatto il fulcro della propria campagna elettorale nel 2022. Ancora una volta, però, si tratta degli stessi politici che, rivestendo posizioni di rilievo, non hanno portato avanti azioni concrete in tema ambientale nell’ultimo decennio: tra questi vale la pena citare anche solo i membri dell’amministrazione Esposito, responsabili, per esempio, di non aver mai fatto entrare in funzione gli impianti di depurazione della falda acquifera costruiti dall’amministrazione precedente, avendo allo stesso tempo continuato a pagare il personale che vi agiva. “Bonifiche subito!” è uno slogan che ritorna da trent’anni e che rischia di assolvere tutti se non ci si assume la responsabilità di una trasformazione trasversale, come spesso ripete Valentina Centonze, avvocata che ha promosso e vinto il ricorso alla Cedu. Un rischio concreto insito nello strumento stesso del commissariamento promosso dal governo Meloni: in primo luogo, perché il commissario assolve a un incarico che ha un preciso inizio e una fine, connesso strettamente ai fondi stanziati (ne consegue che, laddove lo stanziamento fosse insufficiente, le istituzioni potrebbero trovare il modo di “assolversi” di fronte alla Corte); in secondo perché il decreto legge del 14 marzo che gli conferisce l’incarico demanda al commissario l’individuazione dei fondi e le operazioni di bonifica, il monitoraggio sanitario e il piano comunicativo, ma trascura la prescrizione più significativa della sentenza: l’istituzione di un’autorità indipendente composta dalla società civile, che prenda parte al processo decisionale e vigili sulle operazioni, oltre che l’avvio di una riforma in materia penale e amministrativa in relazione ai reati ambientali e al meccanismo di individuazione delle responsabilità. La Terra dei fuochi non può essere una questione isolata, scindibile dal conteso. Un contesto di piccole e medie imprese che si fondano su regimi di lavoro per lo più irregolare, e che scaricano spesso sulla collettività la voce più onerosa del loro bilancio: quella dello smaltimento dei rifiuti industriali; un contesto in cui agisce una classe politica il cui unico scopo, ben lungi dal farsi espressione delle esigenze del territorio, è stato quello di mantenere lo status quo, tutelando i propri interessi particolari e le proprie clientele. Infine, il contesto di una società che dopo anni di lotte ha smarrito sé stessa, intrappolata in un vuoto politico che ha inaridito il territorio e disintegrato qualsivoglia tendenza all’emancipazione collettiva. Dopo un lungo percorso il corteo si chiude con l’intervento del Comitato unico contro la quarta linea, che prova a dare nuova linfa alla mobilitazione e su cui adesso pesa la responsabilità di tenere alto il conflitto nelle sedi istituzionali, ribaltando una narrazione che mostra la popolazione come un soggetto passivo e vittimizzato. La sfida è quella di non abbassare la guardia rispetto agli interventi in programma, pianificati da chi con una mano firma l’avvio delle bonifiche e con l’altra rinnova il contratto di gestione dell’inceneritore (attraverso una gara di appalto dai contenuti piuttosto ambigui, che aumenta la capacità inceneritiva di ulteriori 100.000 tonnellate). Non c’è più tempo per protagonismi o richiami populistici: è il momento di intervenire direttamente su un modello di sviluppo che antepone il profitto alla salute degli abitanti, di disegnare un futuro diverso anche solo in memoria degli unici assenti giustificati di questo corteo: le vittime. (maddalena de simone)
ambiente
Cartografie del terzo settore e della innovazione sociale a Torino #6. Community Land Trust
(disegno di adriana marineo) Sulle serrande chiuse davanti al giardino Maria Teresa di Calcutta, in corso Giulio Cesare, compaiono due scritte: “meno filantropi, più licantropi” e “Partito Democratico e Sinistra Ecologista: per ogni sgombero un bene comune”. Incalza da anni la repressione delle occupazioni nei quartieri a nord della Dora: l’asilo di via Alessandria è stato sgomberato nel 2019 e un’altra palazzina occupata poco lontano è stata circondata dalla polizia nel gennaio del 2021. E numerosi, solo nell’ultimo anno, sono gli interventi contro le occupazioni delle case popolari: questi sgomberi sono rivendicati dall’amministrazione attuale, guidata dai due partiti menzionati dal graffito. Appare il paesaggio contemporaneo delle politiche per la casa: assieme alle irruzioni di polizia nascono e si diffondono le soluzioni abitative sedicenti innovative, promosse dal terzo settore e dai capitali delle fondazioni bancarie. Forze diverse disegnano un presente dove è rimossa la possibilità di occupare la proprietà. Le serrande su cui compaiono le scritte appartengono al primo Community Land Trust in Italia. *   *   * C’è un palazzo di sei piani in corso Giulio Cesare, vicino alla scuola Parini e di fronte all’ingresso del giardino Madre Teresa di Calcutta. Il palazzo ora è vuoto, le persiane sono chiuse, ma voci in quartiere raccontano di un’occupazione informale sgomberata dalla polizia al tempo della pandemia. In strada, accanto al portone, ci sono un fast food e un bar che prepara frullati alla frutta. Il palazzo accoglierà il primo Community Land Trust (CLT) in Italia. Il CLT è una forma di proprietà che afferisce al diritto privato con il fine di rendere accessibile la piccola proprietà immobiliare alle classi sociali meno abbienti. Il CLT s’origina dalle pratiche abitative comunitarie negli Stati Uniti del secolo scorso ed è giunto in Europa come nuovo strumento delle politiche sociali innovative, ovvero iniziative dove gli interessi privati si armonizzano, almeno nelle intenzioni, con il beneficio pubblico. Alla base del CLT c’è un soggetto privato – un trust – che compra l’intera proprietà e rivende le unità immobiliari singole (gli appartamenti), mantenendo però il controllo del suolo. Un appartamento senza il valore del suolo è così acquistabile a un prezzo inferiore rispetto alle altre unità presenti nella medesima area. Gli acquirenti, in seguito, possono rivendere il loro appartamento soltanto al trust, che trattiene buona parte dell’incremento di valore immobiliare accumulato nel tempo. A sua volta il trust immetterà sul mercato la stessa unità, ma a un prezzo superiore adeguato all’inflazione e all’aumento dei prezzi avvenuto nell’area urbana. Il CLT controlla così il plusvalore immobiliare e al contempo promette prezzi delle case più bassi rispetto agli standard del quartiere. Il palazzo in corso Giulio Cesare è stato rilevato nel 2023 dalla Fondazione di Comunità di Porta Palazzo. La fondazione ha impiegato i fondi (circa mezzo milione di euro) raccolti dalla Compagnia di San Paolo, da enti privati e da singoli cittadini a cui è garantita la restituzione del prestito dopo due anni con il due per cento di interessi. Per governare il trust è stata costituita la Fondazione CLT Terreno Comune che, alla fine della ristrutturazione, venderà gli appartamenti a famiglie selezionate che rispettino criteri stringenti, fra cui quello di avere un unico reddito fra i 1300 e i 1500 euro mensili. Ogni famiglia accederà a un mutuo per acquistare l’appartamento. Il CLT è governato da un consiglio di amministrazione dove siedono rappresentanti dei proprietari, degli abitanti del quartiere e dei portatori di interesse pubblico che insistono sull’area. Il governo del CLT ha il compito, fra gli altri, di investire i capitali accumulati in interventi di rigenerazione dell’isolato, così da incrementare ulteriormente il valore e l’appetibilità del palazzo. I promotori del CLT in corso Giulio Cesare sostengono di aver creato uno strumento volto al contrasto della speculazione immobiliare e dell’esclusione abitativa. Le contraddizioni, tuttavia, appaiono a uno sguardo attento. Nonostante sia un progetto di inclusione sociale con ambizioni di gestione democratica, la selezione delle famiglie che hanno la possibilità di accedere al mutuo per acquistare gli appartamenti sarà appannaggio della stessa fondazione. Ancora una volta sono le classi dirigenti – borghesi, progressiste, bianche – a scegliere chi siano i meritevoli ad accedere ai progetti di innovazione sociale. La selezione, d’altra parte, deve essere ben ponderata: sarebbe spiacevole sfrattare una famiglia perché chi lavora ha perso un impiego precario e non può più pagare il mutuo. Inoltre questo modello non ostacola la rendita immobiliare, anzi la sostiene e fomenta. Le classi dirigenti progressiste si limitano a controllare la speculazione, promettendo di calmierare gli effetti più violenti e redistribuire i dividendi ai loro sostenitori. Più che lotta alla speculazione, il CLT sembra un governo del capitale immobiliare da parte di un soggetto privato e filantropico, capace di elaborare politiche sociali remunerative a del tutto inadeguate a rispondere alle esigenze delle classi sociali più povere e precarie. Un programma di ingegneria sociale governato dai buoni sentimenti di una borghesia convinta d’essere illuminata. (voce a cura di francesco migliaccio) ______________________________ QUI L’INDICE DELLA CARTOGRAFIA
torino
città
“A Silivri fa freddo”. Violazioni dei diritti umani nei Cpr della Turchia
(disegno di martina di gennaro) Può accadere che trovandosi a Istanbul e dicendo che ti stai recando in uno dei suoi distretti, a Silivri, qualcuno ti risponderà che “a Silivri fa freddo”. Anche se è estate inoltrata e ci sono trentacinque gradi. Situata sulla sponda europea della provincia di Istanbul, antico villaggio di pescatori, dal 2008 ospita la più grande prigione europea con una capienza di 11 mila persone e ne detiene attualmente circa 22 mila, tra cui una buona parte di prigionieri politici detenuti in un regime di carcere duro noto come prigione di tipo F. È da questa grigia superficie, che si estende su 955.354 metri quadrati, che proviene l’aria gelida di Silivri. All’interno dello stesso comune, a circa venti chilometri di distanza, sorge un’altra struttura detentiva, meno rinomata, il Centro di permanenza per il rimpatrio femminile di Selimpaşa, uno dei trenta Cpr costruiti in Turchia in seguito agli ingenti finanziamenti che dal 2015 vengono stanziati dall’Unione europea all’interno di progetti per il supporto di “pace e stabilità” (IcPS) con l’intento di contenere e controllare i migranti verso l’Europa da Siria, Iran, Iraq e Afghanistan. In un comunicato stampa in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, il partito Dem (partito dell’uguaglianza e della democrazia tra i popoli) afferma che i Cpr “sono luoghi costruiti appositamente per torture e maltrattamenti” e che “l’accordo con l’Unione europea è di per sé un crimine”. Sono numerosi gli immigrati a essere arrestati e trattenuti arbitrariamente in questi centri e rispediti illegalmente nei paesi di provenienza, anche in seguito a richiesta di asilo, attraverso l’ottenimento delle loro firme di rimpatrio volontario, sottratte utilizzando tecniche ingannevoli o violenza psicologica e fisica. Il numero di arresti si è intensificato notevolmente dopo le ultime elezioni presidenziali, con l’aumento di controlli capillari supportati da camionette predisposte esclusivamente alla detenzione degli immigrati. Nel giugno 2024 il ministro dell’interno Ali Yerlikaya ha dichiarato compiaciuto che “nell’ultimo anno si è raggiunto il numero record di 141.187 espulsioni di stranieri irregolari”. Fuori al Cpr di Selimpaşa, ogni mercoledì, una fitta folla aspetta in fila per registrare le impronte digitali su un veicolo sul quale compaiono, congiunte, la bandiera turca insieme a quella dell’Unione Europea. Per chi è riuscito a uscire e si trova sotto sorveglianza amministrativa con obbligo di firma in attesa di processo, l’incremento dei detenuti è stato tangibile: “Una volta al mese veniamo a firmare – dice una donna in fila –, se prima si aspettava non più di mezz’ora, dalla metà del 2023 la gente che è entrata qui è aumentata e si sta in fila in piedi anche per quattro ore sotto il sole e le intemperie; ci sono donne incinte e bambini piccoli, se ci si lamenta e ci si siede in un angolo fuori dalla fila i gendarmi richiamano all’ordine e minacciano di rimetterci dentro. Se sono stranieri, minacciano anche i nostri accompagnatori”. Alcune attiviste arrestate in seguito al corteo del 25 novembre (giornata mondiale contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere) descrivono lo spazio detentivo come insufficiente e malsano: “La struttura si compone di tre piani riservati alle sezioni. In ognuna di esse, appena superate le sbarre, si è subito catapultati nello stretto corridoio affollato da materassi, ai cui lati si aprono sette stanze fornite di letti. La più grande ne conteneva sei. I bagni utilizzabili nella nostra sezione erano tre. Le docce due, di cui una ricavata da un precedente bagno alla turca riempito grossolanamente con qualcosa di simile allo stucco per chiudere l’orinatoio. Abbiamo provato a contare le donne detenute al terzo piano e crediamo raggiungessero circa il centinaio al nostro ultimo giorno di detenzione. Riscontriamo più persone che entrano rispetto a quelle che escono ed è molto probabile che una buona parte di chi è uscito sia stata in realtà trasferita in altri centri; accade spesso che ti dicano che verrai liberato, ma in realtà ti trasferiscono in Cpr più lontani dal luogo di residenza, a Gaziantep, Şanlıurfa e Erzurum, più vicini ai confini con Siria, Afghanistan e Iran, rallentando cosi le procedure legali per le scarcerazioni e agevolando la procedura di rimpatrio ‘volontario’ in piena violazione del principio di non-refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra. È raro che il trasferimento venga notificato, dal momento che sono frequenti i casi in cui avvocati e famiglie ne sono venuti a conoscenza a deportazione avvenuta. La comunicazione con l’esterno è assai limitata: hai a disposizione dieci minuti due giorni a settimana, dalle 16 alle 20 circa, ma gli orari vengono decisi arbitrariamente dalla guardia di turno. Il tempo non era mai sufficiente per le chiamate di tutte e inoltre, se non hai a disposizione il denaro contante per ricaricare la scheda telefonica non hai possibilità di comunicazione, così come di accedere ai beni di prima necessità venduti allo spaccio del centro a prezzi che superano quelli del mercato fuori. “È negato il diritto alla salute, è ostruito l’accesso a qualsiasi tipo di farmaco proveniente dall’esterno e l’unica cura possibile a qualsiasi tipo di male fornita dal centro è una pillola di ‘antibiotico’ del quale non conosciamo il principio attivo, consegnata direttamente sul palmo della mano, priva del suo blister. Jana, una giovane donna sudamericana [nome e provenienza di fantasia], che riportava una ferita sull’arco palmare suturata con dei punti metallici per spillatrice, svigorita dalla permanenza in quel luogo firmò per il rimpatrio. Per legge, la Direzione provinciale per la gestione delle migrazioni dovrebbe finanziarne i costi, ma fu costretta a chiedere un prestito a qualcuno oltreoceano per acquistare un biglietto aereo. Il giorno del volo partì in direzione aeroporto con la camionetta guidata dai gendarmi. Non sappiamo esattamente cosa accadde ma la riportarono indietro dopo qualche ora. Ci dirigemmo verso di lei non appena oltrepassò le sbarre: il suo sguardo era orientato in una direzione che non era la nostra e quella di nessun altro lì dentro, non rispondeva a nessuno stimolo. Si accostò a uno dei materassi posizionati ai lati del corridoio per sdraiarsi e ci rimase come se fosse morta per i due giorni successivi. Dopodiché siamo uscite e non abbiamo saputo più niente di Jana, non ci ha mai richiamate al recapito che le avevamo lasciato”. In seguito agli arresti arbitrari di cinque persone straniere – tra cui anche di provenienza europea – avvenuti durante il ventunesimo Pride di Istanbul (2023), un’associazione di avvocati volontari ha denunciato le condizioni di detenzione in questi centri, i trattamenti inumani e degradanti, la mancanza di accesso a cure mediche adeguate, alla ventilazione, la scarsa igiene (GGM’lerde Neler Oluyor?). Uno degli attivisti arrestati riportava una ferita alla gamba che non è mai stata curata adeguatamente in un luogo sterile. È stato reso noto il limitato accesso alla protezione internazionale e il contenimento arbitrario della comunicazione con i propri clienti. Nell’autunno 2024 alcune studentesse e attiviste palestinesi dell’organizzazione Filistin için bin genç sono state arrestate (anche con raid domestici a seguito di perquisizioni a casa), trattenute in custodia cautelare per diciotto ore senza possibilità di soddisfare i propri bisogni primari e trasferite nel Cpr di Selimpaşa al cui ingresso, segnala l’organizzazione, è stato strappato loro l’hijab. L’accusa illegittima è di vilipendio al presidente e violazione dei termini della legge n. 2911, entrata in vigore dopo il golpe militare del 1980, che limita il diritto di riunione e manifestazione, per aver esposto all’interno della campagna “Stop fueling genocide” gli accordi commerciali turchi con Israele e la compagnia energetica azera Socar. Da Ceyhan, a sud della Turchia, viene spedito infatti il petrolio azero fino al porto di Ashkelon, circa il trenta per cento del petrolio importato dall’entità israeliana. Attribuendo in aggiunta vaghe accuse come il rappresentare una “minaccia per l’ordine pubblico” questi centri diventano anche il luogo per silenziare studenti non cittadini, migranti e tutte le persone in movimento che denunciano apertamente il razzismo, lo sfruttamento, la violenza patriarcale e le politiche governative. (dalila procopio)
mondo
detenzioni
La parola della settimana. Forma
(disegno di ottoeffe) Avevo vent’anni, ero giovane e inesperto ma scrivevo già meglio di altri colleghi con il doppio della mia età. Il caporedattore di Cronache di Napoli mi mise a fare un’inchiesta sulla casa. Era una roba abbastanza complessa: si trattava di mettere in relazione, andandola a verificare sul campo, la condizione penosa dell’edilizia pubblica nei quartieri più periferici e complicati con il piano politico, e soprattutto con le vicende giudiziarie che stavano coinvolgendo Alfredo Romeo, gestore di quel patrimonio per conto del Comune. In due mesi tirai fuori un bel lavoro, così che qualcuno mi suggerì, dopo la sua pubblicazione, di proporlo anche a un periodico di approfondimento e reportage, all’epoca a me sconosciuto (forse ho già raccontato di questa vicenda, ma la memoria ormai m’inganna). L’inchiesta – ampiamente rivista dal responsabile editoriale – fu il mio primo pezzo per Monitor: andò in prima pagina sul tabloid, una sciccheria che, ad averci i soldi, bisognerebbe riproporre. (n. 26, ottobre 2009) Mentre facevo le interviste, raccolsi anche del materiale video e lo montai in un documentario, dal contenuto interessante ma dalla forma oscena. I redattori di Monitor me lo fecero comunque proiettare in un evento pubblico nella redazione della Sanità, credo per incoraggiarmi a continuare a frequentare il giornale. Quando qualche mese dopo gli chiesi un parere su quel lavoro, R. mi rispose laconico: «La forma è il contenuto». Tuttavia ci sono delle menzogne che, se le si crede, non recano alcun danno, per quanto l’intenzione di ingannare anche con questo tipo di menzogne non è esente da danni: i quali però ricadono su chi mente e non su chi gli presta fede. (sant’agostino, contro la menzogna) Oltre che in matematica, a scuola, ero molto scarso anche in filosofia, complici docenti dalla preparazione e dalle capacità comunicative imbarazzanti. So, però, che su forma e contenuto delle cose interessanti le ha dette Kant, così me ne sono andate a cercare alcune. Oggi mi sembrano più chiare. Nella sua Critica della ragion pura adopera la parola “forma” per descrivere le categorie entro cui la conoscenza è in grado di ordinare la realtà fenomenica. Spazio e tempo cessano di essere contenuti e iniziano ad essere modi, categorie attraverso cui la sensibilità umana può conoscere. Ma la forma, ogni forma, pone sempre il problema della sua necessità. E così, nella Critica del giudizio, Kant si domanda quale sia la facoltà umana in grado di trovare il senso della forma. È l’intelletto, legiferante, che stabilisce i significati. (carlotta bandieramonte, culturefuture.net) Se il linguaggio è contenuto e il contenuto è politico, allora il linguaggio è politico. E quindi ci sono parole precise per discriminare una persona per la sua religione, il suo colore della pelle o la sua provenienza, e altre per attaccarne un’altra che si professa seguace di una ideologia basata sull’omicidio e la deportazione (caso in cui, per quanto mi riguarda, bisognerebbe direttamente menargli, alla persona in questione). Sulla vicenda del blitz di due provocatori sionisti in un ristorante napoletano che aderisce a campagne contro l’apartheid israeliano si è detto e scritto anche troppo: l’importante è che la comunità vicina a Nives Monda (che è proprietaria e organizzatrice di quel luogo) sia riuscita a rispondere con una certa prontezza proteggendola da un linciaggio assai pericoloso, nei tempi in cui un cinguettio e una recensione su Tripadvisor, e le implicazioni che si trascinano dietro, possono far sicuramente più male di un calcio nel sedere. Resta l’indecente figura fatta dal comune di Napoli e dalla sua assessora al turismo Teresa Armato, che si è precipitata a solidarizzare con i provocatori sionisti, invece di provare a capire i fatti e andare a sostenere Nives e i lavoratori di quell’attività. La Suprema Corte (sent. n. 48553/2011) ha stabilito che chiamare “parassita” un personaggio politico costituisce diffamazione a meno che non si argomentino le ragioni dalle quali l’insulto è scaturito. Perché vi sia esercizio del diritto di critica, è necessario insomma che il giudizio – anche severo, anche irriverente – sia collegato col dato fattuale dal quale il “criticante” prende spunto. (laleggepertutti.it) Tornando su piani più alti, se il rapporto tra forma e contenuto, per esempio nell’arte, è tema troppo profondo persino per questa rubrica, alcuni spunti utili possono tornarci da immagini efficaci, pur portatrici di linee discutibili. Apprezzabile, sul tema, è Vladimir Ermakov, critico letterario e traduttore russo: La forma si fonde al meglio con il contenuto proprio quando non si fa notare. È come la buona vodka in un bicchiere trasparente. Un po’ meno Wilde: Odio il realismo volgare nella letteratura. Chi chiama vanga una vanga dovrebbe essere costretto ad usarla. È l’unica cosa per cui è adatto.  Altre suggestioni dal più noto Bertoli: E adesso che farò non so che dire: ho freddo come quando stavo solo, ho sempre scritto i versi con la penna non ho ordini precisi di lavoro. […] Adesso dovrei fare le canzoni con i dosaggi esatti degli esperti. Magari poi vestirmi come un fesso per fare il deficiente nei concerti. E dal solito Tolstoj: Il contenuto deve essere facile da capire, non astratto. È assolutamente falso. Il contenuto può essere come volete. Ma non si deve sostituire l’andare al sodo con le chiacchiere, non si deve nascondere con parole scelte il vuoto del contenuto.  https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/05/bsg-clip.mp4 (credits in nota1) POST SCRIPTUM – Qualche giorno fa, parlando con una cara amica e compagna di forma e contenuto nel discorso politico “interno” (inteso come il confronto tra militanti che fanno parte di uno stesso gruppo), riflettevamo sull’opportunità o meno di inserire dei filtri nel linguaggio, a beneficio degli attivisti più giovani che hanno sviluppato una sensibilità più elevata, rispetto alla nostra, in relazione alla forma-parola. Abbiamo preso atto alla fine che forse dovremmo, ma che probabilmente non ne siamo capaci, per cui la sua soluzione (sensata) è dire a tutti (e tutte) qualcosa tipo: mi dispiace se ho avuto dei modi troppo diretti, fatemelo notare, magari davanti a una birra così siamo tutti più rilassati. Forse sbagliammo ‘e modi ma nun sbagliammo moda. Trasimm’ int’a galera cu ‘a tuta r’a Legea. a cura di riccardo rosa __________________________ ¹ Christoph Waltz in: Bastardi senza gloria, di Quentin Tarantino (2009)  
rubriche
parola della settimana
La malattia contro il potere. Giovanna Ferrara e l’innocenza dei dinosauri
(disegno di escif) Ogni vulnerabilità genera una dinamica di potere. Il malato è un oppresso in questo sistema. Ogni ricovero che mi è capitato è stato lo scontro con la distruzione totale. Il viaggio della malattia è terribile come quello dei migranti, come quelli dei poveri, perché smaschera cose della vita terribili. La prepotenza contro il debole come sistema. E le cure dovrebbero tenere conto della sapienza che soltanto il soggetto-corpo conosce intimamente. Invece il malato è un soggetto minorato escluso dalla gestione del suo stesso destino. Si può usare questa esperienza per diventare persone migliori e per comprendere che la malattia lavora contro il potere perché ti impone di conoscerlo. (Giovanna Ferrara) Se è difficile leggere un libro che sappia unire in una sola trama lucidità di analisi e bellezza di scrittura, L’innocenza dei dinosauri di Giovanna Ferrara (edito da Fuorilinea) è la dimostrazione che – a partire dal proprio dolore – è possibile tenere insieme queste due dimensioni in un equilibrio di scrittura affascinante, lieve e delicato.    L’innocenza dei dinosauri è un romanzo/diario che racconta di desideri e di dolore, di amore e politica, di amicizia e di malattia. Un libro che è lo specchio di un’assenza, perché Giovanna, “generosa, appassionata e danzante” giornalista de il Manifesto, studiosa di storia e cultura europea, è scomparsa a Padova nel 2023, qualche mese dopo un trapianto che sembrava averle ridato una prospettiva di futuro. Tutto il respiro che avevo era pianto Un’ esperienza autobiografica che nasce dalla diagnosi di una rara malattia polmonare (ancora più raro che colpisca una persona giovane) che compromette in modo grave la capacità respiratoria di Giovanna. Una malattia insidiosa che peggiora progressivamente, per di più durante la pandemia che stravolge i fragili equilibri della vita quotidiana. Così i ricoveri diventano un corpo a corpo con le logiche dell’emergenza e con le regole di un sistema ospedaliero in affanno, già svuotato da logiche aziendali e dai tagli alla spesa pubblica. La pandemia da Covid 19 (che G. definisce l’Evento), è solo lo scenario di fondo al racconto,  l’effetto (e non la causa) di una crisi che riusciamo a vedere davvero solo quando ci tocca in prima persona. Giovanna percorre uno a uno i gironi di questo inferno “malattia-cura-malattia”, ne conosce gli angoli più cupi, intuisce la luce che proviene dalle crepe, intravede le possibilità che si conquistano con una lotta personale. Possiamo scomporre il testo, lungo tre nuclei di fondo. La prima è il confronto con il sistema sanitario e i suoi attori (ospedali, medici, infermieri). La lotta contro la malattia produce un rovesciamento, diventa la lotta contro il sistema che dovrebbe prenderti in cura e non trattarti come un sintomo. L’incontro col sistema sanitario si sviluppa in due luoghi. Il primo è quello della soglia, riuscire a farsi prendere in carico, superare le burocrazie dell’attesa per ottenere una visita specialistica o per un ricovero di emergenza: “Nell’attesa del Pronto Soccorso […] si può morire per le loro lentezze, le loro mancanze, le storture di fronte alle quali il personale sanitario dovrebbe allearsi con il paziente e non accanirsi contro il paziente. Perversa è l’autorità, e allora vedi infermiere sfatte da turni inverosimili gridare all’anziano che si lamenta, medici indifferenti, l’abbandono”. Il secondo luogo di lotta comincia quando si è nel reparto. Qui la lotta contro la malattia – quando si è un “corpo senza storia” – è anche un sottostare alle misere vessazioni di chi dovrebbe prendersi cura di te. Piccoli episodi che segnano doppiamente chi è immobilizzato dalla malattia. Dopo un intervento per il drenaggio a un polmone, G. digiuna da un giorno, arriva in reparto alle tre di notte e chiede se può avere dell’acqua. L’infermiere le dice che non è possibile. Solo alle sei e trenta del mattino, un’amica che abita vicino l’Ospedale riesce a farle avere delle bottiglie d’acqua. “Chiesi all’infermiere […] cosa vi avrebbe messo a prendermi dell’acqua almeno alle macchinette che erano lì fuori con l’euro che potevo dargli. Mi disse che il servizio era sospeso. Ma disse qualcosa di più. Qualcosa che ha studiato Foucault, che quando stai male nasce una gerarchia. E tu dipendi dai capricci del più forte, dalle sue simpatie, dalle sue indisponibilità. Che il gioco del potere è mortifero perché degrada l’umanità a sopraffazione e prepotenza”.  Nel momento in cui si varca la soglia, la persona malata diventa un “corpo” senza diritti e dignità: “La regola degli altri ospedali è molto diversa. È fatta di attese senza lancette che scandiscono i controlli. Nella regola degli ospedali s’insinua, sempre, qualcosa di mostruoso. Il malato vive attese interminabili nei corridoi dei reparti. Scambia numeri e aspetta di essere chiamato. Non sa con quali tempi riuscirà a vedere un medico o a fare un controllo. Il tempo del malato non conta niente. Il malato non ha nient’altro da fare che vivere la sua malattia. E in più il malato è lì non sentendosi bene. Ho pianto spesso di rabbia nelle attese all’ospedale San Giovanni di Roma al suo Pronto Soccorso. Ho pianto per me e per tutti noi che aspettavamo sulle barelle un destino imprecisato. Dieci ore. Undici ore. Perdere coscienza di dove sono le tue scarpe. Il neon sempre sparato in faccia. Le porte scorrevoli che fanno entrare nuove barelle. Gli infermieri che fanno finta di non aver sentito che li chiamavi”. Attese a cui seguono altre attese, a brevi dialoghi con medici indaffarati e stanchi che poco tempo hanno da spendere nel dialogo con il paziente. Scrive G.: “Non voglio e non so intessere un discorso teorico sulla necessità che i metodi di cura convergano. Non credo nemmeno che un paziente si debba addentrare in queste analisi, perché rimane uno che non ha studiato medicina. Io ho la mia conoscenza esperienziale. E banalmente mi piacerebbe che, nel rapporto medico paziente, non ci fosse nient’altro che l’incontro di due uomini. Uno che parla dell’incarnazione di quello di cui l’altro ha fatto oggetto di ricerca e studio e pratica e approfondimento”. G. non  contesta, quindi, il “sapere medico” ma chiede di includere in quel sapere la capacità di parlare al malato rispettando le sue emozioni e il suo stato di vulnerabilità. Scrive così G. dell’incontro con un primario che al primo incontro e alla prima domanda, senza nemmeno ascoltare la risposta della paziente, guardando la Tac dice: “Vabbè, qui ci vuole un trapianto urgentissimo”. “Ci si può rivolgere a una donna spaventata, che ti ha cercato per chiederti […] come fare a evitare di morire in caso di pneumotorace; che sta da sola, pallida e confusa sulla sedia di fronte alla tua, alla quale non hai chiesto nemmeno il nome, dicendo “ma sì, facciamo un trapianto urgentissimo (sottointeso: stai per morire)?”. “Ero scioccata. Sedevo sugli scalini di fronte al platano rovinato a terra ed eravamo una sola immagine. Mi cominciò a uscire sangue dal naso. Non avevo fazzoletti. Mi pulivo con le mani. Non sentivo più niente. Promisi a me stessa che non volevo vedere nessun nuovo medico. Che non avrei sopportato nessuna barbarie, nessuna insensibilità ancora […]. Cominciò lì dentro una fase nuova per me. Qual era stato il mio ruolo nel disastro che lamentavo? Cosa raccontava tutto quell’orrore della gestione di me, delle mie condotte? Che responsabilità avevo?”. La lotta contro la malattia, dunque, costringe il malato a una duplice fatica. Si lotta per la propria vita e contro i meccanismi di mortificazione e oggettivazione che la cura ti impone. Una lotta che appare paradossale, che ti costringe a essere vicino a ciò che vorresti allontanare, a imparare a difendere ciò che sei e che viene prima della malattia. Così G. riesce, non senza fatica, a ottenere che in luogo di quanto inizialmente prescritto, le diano un farmaco analogo che non comporti fotosensibilità, perché ciò le consente, nonostante tutto, di andare al mare e di respirare il profumo dei limoni, “la parte di ricchezza che spetta ai poveri, diceva Montale, E ai malati postillo io”. Avessero almeno detto che noi, l’innocenza dei dinosauri, non l’avevamo mai avuta Il secondo nucleo del racconto è la riflessione “politica” che a partire dall’emergenza Covid si sviluppa nella critica al modello economico imposto dal neoliberismo. Comprendere il perché dell’emergenza, l’assenza di farmaci e dei vaccini, la sospensione della vite prigioniere del lockdown, la sospensione delle cure per le altre patologie, “capire che ruolo abbiamo nel disastro che lamentiamo”, sono le domande indispensabili per poter fare della propria vicenda personale un tassello di un quadro molto più grande di una singola biografia. La pandemia ha svelato la fragilità di un sistema sanitario pubblico progressivamente svuotato al suo interno, di una possibilità di cura che separa chi ha risorse per entrare nel sistema privato e per chi invece è costretto a lunghe e infinite attese. La scorciatoia è stata quella di rendere ancora più complicato l’accesso al servizio sanitario pubblico con regole burocratiche e incomprensibili. Tutto senza mettere in discussione la logica liberista che ha fatto a pezzi lo Stato sociale. Persino durante la crisi più acuta, quando era chiaro che servivano nuovi fondi per la Sanità e per promuovere una ricerca pubblica separata dagli interessi delle imprese, Christine Lagarde, presidente della Banca centrale europea, non esitò a ribadire le implacabili ragioni delle autorità monetarie. Scrive G.: “Nella furia dei bollettini ospedalieri, nell’impossibilità di contenere i contagi che si allargavano sulla cartina del mondo senza controllo […] la Lagarde fece sapere al mondo di non avere alcuna intenzione di rivedere i patti fondanti del debito e del credito. Che la pandemia, nonostante il suo numero osceno di morti, non avrebbe influito minimamente sul rigore degli accordi. Non ci sarebbe stato un altro whatever it takes. Le regole di questa economia affamante restavano inalterate, disse quella sera di morti che cadevano senza numero”. L’esperienza diretta con la malattia offre sostanza alla critica. L’analisi politica è profonda perché si fonda  sulla sofferenza personale e sulla conoscenza reale. Non è astrazione, è la riflessione che consente di dare una dimensione pubblica al proprio dolore e di darne una ragione più ampia che la semplice sventura personale. La democrazia vista dall’ospedale assume un aspetto tutt’altro che formale, richiede di comprendere che la condizione del malato è una condizione umana e politica. L’oro tra le macerie “Ora che ci penso, ora che provo a ricordare, ora che metto in fila le immagini di questi anni, ora che traccio una linea che mi separa dal prima e che voglio mi allontani dal dopo, ora che tutto quello che è successo è un materiale che riesco a maneggiare, che comprendo, che non mi fa paura, ora vedo l’oro che ho trovato in queste macerie”. Il terzo nucleo narrativo, il più bello e commovente è quello in cui Giovanna racconta dei legami di amicizia, storici o appena costruiti in corsia, come la sola vera risorsa per attraversare il dolore. La malattia ha un effetto inaspettato, rivela l’esistenza di una rete di solidarietà e di affetti che è in sé un modo di concepire la vita e la politica come un riconoscersi ed essere riconosciuti. Così l’amicizia, la philia, mette riparo alle solitudini e ai limiti della coppia, rende sopportabili le attese, i viaggi, i ricoveri. Ci sono le alleanze solidali che nascono tra pazienti nei reparti, quando intimità e dolore superano i limiti del pudore, quando nel letto accanto al tuo una parola incoraggia, sostiene, accudisce. Una sorellanza che nasce da un dato di fatto, “si è esposti alle stesse intemperie, che questa sia la condizione dell’uomo fuori o dentro una istituzione totale, sfugge a molti”. Nascono legami insoliti e incontri inaspettati. Come con Assunta, compagna di stanza così loquace da essere definita “signora-parola” che in una stanza di ospedale trova l’intimità e l’accoglienza per raccontare la storia della sua vita: “Lei viene dimessa. Chiede di restare. Dice che non si sente ancora bene. Ma io lo so che in quel cubicolo di tre metri ha potuto parlare di sé. Del marito che la trascura da vent’anni. Dell’amarezza del suo sogno svanito, cucire vestiti d’alta moda. Se lei mi ha regalato una finestra e dell’aria, se mi ha lavato il panico dalle ossa, io le ho restituito l’impressione di essere vista. Non è stato uno scambio ragionato. È accaduto come accadono i doni. Nessuno si aspettava niente, entrambe abbiamo avuto molto”.  In questo viaggio tra spirometrie e broncospie, scrive G., “ho conosciuto meglio il Paese snobbato dell’intellighenzia di sinistra. Quella che si lancia in grandi dissertazioni e analisi sulla perdita di soggettività, la sussunzione delle vite da parte del capitale, e la necessità di scansare le passioni tristi […] ma in fondo – ora lo sentivo come la sabbia che scorre tra le mani – il mondo non lo vuole cambiare”. Fuori e prima degli ospedali, quella rete di amicizie costruita in una vita di condivisioni, impegno politico e voglia di vivere la vita come corpo nudo al sole. Amicizie che G. definisce “alfabeti di profondità”, relazioni sotterranee e intime che nascono dalla philia, “traccia di oro di questo mondo faticoso”. Storie di amicizie che si riconoscono nella gioia e nel dolore delle cose quotidiane, nelle attenzioni pratiche, nei viaggi della speranza, nei legami con i sogni giovanili, in uno stare insieme attento e consapevole. Ha scritto Susan Sontag che la malattia è “il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci solo del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese”. Il libro di Giovanna Ferrara ci insegna a riconoscere salute e malattia come parti di un’unica dimensione, certo segnata da un prima e da un dopo. Questo ci obbliga a trovare luce anche nel luogo più oscuro, a non rinunciare a ciò che siamo e, più importante ancora, a ciò che vogliamo essere nel mondo. La malattia che ci conduce fragili di fronte al potere della morte, al sapere dei medici, alla verità della cura e che ci rende ancora più forti nel nostro desiderio di cambiamento personale e collettivo. Come scrive Giovanna, “quanto amore e quanta felicità, proprio là dove nessuno pensa possano abitare. Quanta politica”. (dario stefano dell’aquila)
libri
culture
Casa a Napoli. Il Comune non rispetta gli impegni presi con gli abitanti di Taverna del Ferro
(disegno di ….) Torna in piazza il Comitato di lotta per la casa ex Taverna del Ferro, che sta monitorando il processo di abbattimento e ricostruzione del cosiddetto Bronx di San Giovanni a Teduccio, nell’area orientale di Napoli. Costruite come “soluzione provvisoria” dopo il sisma del 1980, le due “stecche” di edilizia popolare da trecentosessanta alloggi lasceranno il posto a nuovi edifici, si spera finalmente vivibili e circondati da nuovi spazi pubblici, grazie allo stanziamento di centosei milioni di euro tra fondi Pnrr e fondi Pon Metro della Regione. Il cantiere è stato aperto più di un anno fa, ma a un certo punto la procura di Salerno ha bloccato con una interdittiva l’impresa incaricata. Ora i lavori sono ripresi e dopo le demolizioni nell’area dei garage, sono state poste le basi per la costruzione delle prime palazzine, per le quali si attendono però i progetti esecutivi dal Comune. “Il problema non sono i lavori – spiegano gli abitanti che hanno formato il comitato –, perché gli operai stanno andando avanti, anzi da quel che ci dicono nei prossimi mesi dovranno correre parecchio”. Il problema riguarda allora gli impegni presi dal Comune con il comitato fin dal gennaio scorso, data dell’ultimo incontro con la vicesindaca e assessore all’urbanistica Laura Lieto e il Capo di Gabinetto Maria Grazia Falciatore; in particolare, l’impegno che a breve termine sarebbe stato attivato il “piano speciale” per garantire a chi a Taverna del Ferro non è assegnatario ma occupante di poter accedere ai nuovi alloggi attraverso un’assegnazione temporanea della durata di tre anni. Nel 2023 un censimento aveva infatti rilevato circa ottanta nuclei familiari in occupazione presenti nelle due “stecche”. La formula dell’assegnazione temporanea permetterebbe di sanare la posizione locativa e arrivare all’assegnazione definitiva. Per tre anni, infatti, questi nuclei si impegnerebbero con l’amministrazione a pagare il canone d’affitto, risanare il debito e pagare la tassa dei rifiuti. Il piano speciale però tarda a partire. Ed è questo ciò che lamenta il comitato degli abitanti. Nonostante sia stato approvato dalla Regione, e a gennaio il Comune si fosse impegnato ad approvare una delibera per fornire la residenza agli occupanti, che per la legge Lupi del 2014 ne sono privati, tutto è fermo da mesi. “Abbiamo proposto all’amministrazione – spiegano gli abitanti – di agire come ha fatto il comune di Roma che ha attivato una serie di meccanismi per concedere la residenza agli occupanti aggirando la legge Lupi che è di fatto incostituzionale. Questa delibera però non è mai stata fatta e noi siamo ancora senza residenza. Da gennaio sono saltati tutti gli appuntamenti, il dialogo con gli assessori si è interrotto: non si sono più fatti trovare. Abbiamo avanzato richieste formali, poi siamo scesi in piazza, fino a dover occupare, due mesi fa, il consiglio comunale chiedendo un incontro con il sindaco e uno con la conferenza dei capigruppo, con gli assessori al patrimonio e all’urbanistica. L’incontro con i capigruppo avvenne pochi giorni dopo, ma si fece trovare solo la presidente del consiglio comunale e due consiglieri, il terzo era in videochiamata. Noi lasciammo il tavolo e andammo via”. Con il sindaco non è andata meglio. “Ci ha dato appuntamento il 3 aprile – continuano –, poi l’ha cancellato; poi nuovamente il 28 aprile, ma venti minuti prima dell’incontro ci ha fatto comunicare che non c’era. Ma soprattutto ci ha mandato a dire che lui non si siederà a un tavolo con noi fino a quando i suoi assessori non gli diranno quel che si deve fare”. Gli assessori dovrebbero evidentemente predisporre la delibera con l’avvio del piano speciale, l’attivazione della clausola sociale con la partenza dei corsi di formazione per l’occupazione e la lavorazione delle sanatorie. Dal canto loro, gli abitanti insistono per “sistemare” tutte le carte e regolarizzare la situazione prima che siano completati i primi alloggi, in modo che si stabilisca con certezza chi ci dovrà entrare e a quali condizioni. La mattina di lunedì 5 maggio una rappresentanza delle abitanti di Taverna del Ferro si è presentata agli uffici del dipartimento di politiche per la casa del comune di Napoli in via Foria. Intendevano parlare con la nuova dirigente dell’ufficio patrimonio, ma è stato detto loro che non c’era. “I funzionari che conoscono la questione di Taverna del Ferro – spiega una rappresentante del comitato – ci hanno detto: signore mie, noi sappiamo che il piano speciale deve avere inizio, ma finché non c’è la volontà politica di attivare le procedure, noi non possiamo far niente. I dirigenti ovviamente fanno così, se non hanno una copertura politica non si muovono”. Quella stessa mattina un’attivista del comitato ha subito un’aggressione fisica da parte di un funzionario del dipartimento. A quel punto è cominciata un’occupazione degli uffici che è durata fino a pomeriggio inoltrato, quando è stato fissato un incontro in consiglio comunale per il 13 maggio e uno con il sindaco il 22 maggio. (luca rossomando)
casa
città
napoli
Il fuoco fra le urla e i silenzi. Rivolte e solidarietà al CPR di Torino
(archivio disegni napolimonitor) Si chiamava Cie (Centro di Identificazione e di espulsione), però era già molto conosciuto come carcere per stranieri. Allora il governo italiano, per confondere la società e lasciarla disinformata, ha cambiato il nome in Cpr (Centro di permanenza per il rimpatrio). Con la difficoltà di comunicazione gli abitanti di questa penisola vivono per la maggior parte disinformati. Qui a Torino il Cpr ha riaperto questa primavera. Un mese fa ero al presidio sotto il Cpr di corso Brunelleschi. Era un sabato, io sono straccivendola abusiva e dopo il mercato del Balon mi sono direzionata al movimento di resistenza. L’appuntamento per il presidio era alle 16 e io sono arrivata alle 19 dalla parte dell’entrata principale. Il movimento nella strada e l’eco del vuoto mi facevano avere passi decisi mentre fotografavo le mura indegne di questa prigione. “Fuoco ai CPR” era la scritta in rosso a bella vista in un quartiere silenzioso, oppressore e complice del campo di prigionia che trattiene esseri umani senza una carta di soggiorno. Nel prato di corso Brunelleschi le macchine accompagnano il semaforo, mentre davanti al muro, nell’angolo della via, davanti a me sbuca la macchina degli sbirri nel suo blu celeste colore della Madonna. I salvatori dall’ardore infernale mi fermano sul viale mentre cammino verso la fermata. Il poliziotto esce e urla: «Ferma!». Bloccata nel viale invio subito un vocale mentre il discepolo stradale mi chiede: «Documento?». Dico la mia generalità e nel confronto lo sbirro chiede se so il significato di “generalità”. Rimaniamo per quasi venti minuti a fare ricerca su di me. Dico che abito da vent’anni in Italia, neanche così: «Permesso di soggiorno!», «Carta di identità!», ma la carta è solo solo carta e la carta brucerà. Ferma, fisso negli occhi quello che fa la ronda sulla vita delle persone. In dieci minuti si aggiunge la macchina della finanza con i rinforzi, mi ordinano di posare il telefono, dicono che loro sono educati e pazienti: ecco tutti angeli scesi dal Paradiso. Arrivano i compagni e prendono un ruolo nel presepio, poi gli asini della Digos a confermare la mia liberazione. Dopo questa scena la vita procede quotidiana per le vie di Torino. Il 25 aprile, giorno della Liberazione, c’è una biciclettata e ha portato calore musica e tante urla davanti al Cpr. «Hurrya, libertà, freedom!». Scambio di messaggi con conflitto. Mentre urlavamo, da dentro loro gridavano: «Non abbiamo la libertà!». Dentro di me un vuoto e poi niente, niente, non c’era senso, neanche la musica, nessun senso, nessun perché di quelle mura. Perché siamo così pochi? Perché il vicinato accetta quelle mura? Anzi, ci sono due, tre maledetti che dentro casa urlano che gli stranieri devono morire, marcire dentro i Cpr. Continua il 25 aprile di Torino, è festa: gli americani li hanno salvati, ottant’anni fa, e oggi sono gli stranieri i pericolosi, ma gli stranieri non hanno armi, non hanno neanche le possibilità di avere una penna e un quaderno per andare a scuola, non hanno residenza, vivono in cantina come topi, urinano ovunque nei bar mentre fanno una colazione veloci, vivono nel subprecario perché i padroni non vogliono che esistano. Fine aprile, arriva il messaggio di una rivolta in corso Brunelleschi. Ognuno segue la propria vita, così all’improvviso il senso di colpa consuma tutto il tuo corpo e non puoi scapparne anche se sei sotto le coperte con il corpo che chiede riposo. Resistere alla stanchezza e fare un salto verso l’armadio a cercare all’improvviso una maglia per andare da loro, da chi si rivolta. Ancora siamo lontani a prendere una bazooka e far detonare quelle mura. Sono le dieci di sera e non c’è tanto da pensare, si va il più veloce possibile. Ho scelto il pullman, ma come sempre a Torino, una periferia che vuol travestirsi da metropoli, niente funziona. Si arriva in pullman, bici, macchina, tram: l’importante è esserci. Finalmente si arriva e il calore della resistenza è fare un piccolo corteo, con le proprie forze si trovano i vecchi compagni di strada e anche nuove figure che con sorrisi salutano e le urla oltrepassano le mura. Si sentono i ragazzi, si scambia numero di telefono, si chiede come stanno. Loro chiedono la musica che piace: Clandestino. Nel prato gira voce che c’è un ferito, uno in sciopero della fame da dieci giorni in quelle mura maledette e semplicemente perché l’Italia e la sua cupola hanno deciso di sacrificare gli innocenti. Il Papa è morto! Nessun politico nelle vicinanze. Un noto avvocato è passato e ci dice che non lo hanno lasciato entrare, è lì come noi, come uno di noi. È passata mezzanotte, non abbiamo acqua, una birretta nemmeno e non sappiamo neanche come ritornare. Gli sbirri sono lì a osservare le nostre facce già conosciute. Uno spreco di tempo: i burattini del presepio come asini ad aspettare la briciole di pagnotta su racconti fittizi. È passata l’una e ci si saluta con un ciao ragazzi, resistete, non siete soli. Siamo con voi! Già è il primo maggio e il Cpr di Torino è in rivolta. A Brindisi in Puglia muore uno straniero, dicono che si è suicidato. Un inizio di rivolta a Torino e un straniero morto nel Cpr di Brindisi in un primo maggio è una grande scintilla per una rivoluzione. Al corteo del primo maggio i leninisti addestrano gli stranieri in regola; nel centro di Torino la sfilata per i diritti lavorativi porta a tante belle parole con l’accento del latino perfetto, mentre i corpi marciscono dentro le mura del Cpr, gli stessi loro paesani. Importa sventolare le bandiere, così siamo apparentemente più cittadini. Ritorniamo al Cpr per un nuovo saluto, alle sette, con il corpo stanco ma ad alta voce, ognuno con le proprie possibilità mentre nel viale l’anziana con il suo girello prendeva l’aria, il signore con i suoi cento chili sedeva con le gambe larghe sulla panchina lungo il viale di corso Brunelleschi ad ammirare i rivoltosi contro il lager di Torino. Come un cinema all’aperto solo lui era il protagonista della propria solitudine. Fuochi pirotecnici brillavano nel cielo mentre gli angioletti travestiti da traditori passavano appoggiati alle macchine blu. Il traffico va in tilt mentre appaiono due demoni dal tetto del palazzo in costruzione, con le ali della libertà annunciano: «Fuoco ai Cpr!». Si disperde il presidio e il primo maggio prende il volo con l’annuncio indemoniato. Ricordiamo la notte precedente quando il Cpr di corso Brunelleschi è andato in scintille e il fuoco è apparso come simbolo di resistenza degli ultimi stranieri a Torino. Nel viavai dei soccorsi un eroe era evaso. (claudia muniz)
torino
città
detenzioni
Crisi bradisismica, le richieste dell’Assemblea popolare
(disegno di Atti) Riceviamo e pubblichiamo un comunicato diffuso dall’Assemblea popolare di Bagnoli e dei Campi Flegrei relativo all’ultimo incontro con assessori e dirigenti del comune di Napoli. Al termine della riunione gli amministratori hanno garantito un intervento sui punti emersi e risposte precise entro il 14 maggio, data fissata da tempo per un incontro tra l’Assemblea e tutti gli assessori competenti sulla questione bradisismica (politiche sociali e urbanistica, oltre a quelli delegati alla protezione civile e alla polizia municipale).  *     *     * L’ASSEMBLEA POPOLARE INCONTRA IL COMUNE DI NAPOLI: RISPOSTE CHIARE PER GLI ABITANTI DI BAGNOLI E DEI CAMPI FLEGREI Si è tenuto ieri, nella sede bagnolese della X Municipalità, un incontro sul tema della crisi bradisismica tra una delegazione dell’Assemblea popolare di Bagnoli e dei Campi Flegrei e alcuni rappresentanti delle istituzioni: la presidente del consiglio comunale Enza Amato, l’assessore alle politiche sociali Luca Trapanese, la dirigente del Servizio sicurezza abitativa Valeria Vannella e il presidente della municipalità Carmine Sangiovanni. Su richiesta degli abitanti del quartiere presenti, l’incontro si è svolto pubblicamente tra i banchi del parlamentino di via Acate, così che tutti (più di cinquanta persone) hanno potuto prendere atto della dialettica tra le richieste-rivendicazioni degli abitanti e le posizioni istituzionali. Pur mantenendo un approccio critico rispetto all’insufficienza delle azioni intraprese fino a questo momento, come Assemblea popolare abbiamo cercato di mantenere un atteggiamento propositivo e in particolare abbiamo individuato e sottoposto ai rappresentanti istituzionali alcuni punti che necessitano risposte immediate. Gli assessori si sono impegnati a dare risposte concrete a questi punti e a riferirle nell’ambito dell’incontro che si svolgerà il prossimo 14 maggio a palazzo San Giacomo. Queste le rivendicazioni dell’assemblea: 1) Ristrutturazione dello sportello per i cittadini nella sede della municipalità di via Acate. Si richiede il dislocamento in loco, per otto ore al giorno, di professionalità organiche all’amministrazione comunale e non alla municipalità, professionalità capaci di dare risposte ai cittadini su tutta la vasta gamma di questioni sulle quali sono necessarie informazioni o interventi. È fondamentale un contatto diretto tra amministrazione e cittadinanza, senza che nessuno possa più nascondersi dietro ostacoli burocratici, rimpalli di responsabilità o formule del tipo “non è di nostra competenza”. 2) Garanzie sul destino delle persone ospiti delle strutture alberghiere e del centro comunale di Marechiaro allo scadere della proroga del 20 maggio. Ci aspettiamo da subito che il comune rassicuri pubblicamente i cittadini comunicando chiaramente che al 21 maggio nessuno tra gli sfollati verrà mandato in strada. In particolare è necessario pensare a tutti i meccanismi possibili che possano rendere efficace l’utilizzo del CAS per la ricerca di autonoma sistemazione per gli aventi diritto. In assenza di un piano che intervenga sulle garanzie richieste dai proprietari e sulla difficile ricerca di immobili disponibili, il termine del 20 maggio sarà destinato a essere oggetto di richiesta di ulteriori proroghe. Necessaria è inoltre una soluzione immediata per chi ha riscontrato problematiche burocratico-amministrative per l’accesso al CAS e al momento risulta ugualmente sfollato dalla propria abitazione. 3) Chiarezza nell’iter per l’accesso ai fondi relativi alla ristrutturazione degli edifici; proroga dei termini per la richiesta del sopralluogo propedeutico al rilascio della scheda AEDES; sospensione immediata, per chi sta effettuando gli interventi, del canone di occupazione di suolo pubblico. 4) Pubblicazione di una circolare che rassicuri i cittadini rispetto al fatto che chi non riuscirà, per ragioni logistiche (come la difficoltà a trovare ditte che possano intervenire in tempi così brevi) a portare a termine gli interventi prescritti entro i tempi indicati, non incorrerà nell’iter canonico “diffida-ordinanza-denuncia”. 5) Attivazione di un meccanismo burocratico che impedisca l’avvio di provvedimenti amministrativi e giudiziari a danni dei cittadini, nel momento in cui prescrizioni come il transennamento di una strada vengono violate da ignoti. 6) Attivazione di un meccanismo amministrativo che ripensi o ristrutturi i provvedimenti più contraddittori, ostativi persino agli interventi edilizi, emessi fino a questo momento (tra questi le diffide a utilizzare scale – ma non appartamenti – all’interno di edifici, o l’impraticabilità di appartamenti fatte salvo una o due stanze). 7) La chiara, pubblica e se necessario conflittuale rivendicazione da parte del comune di Napoli per un intervento governativo massiccio e immediato in termini di stanziamento di fondi per il miglioramento sismico di tutti gli edifici del quartiere, partendo dal presupposto della totale insufficienza delle risorse messe in campo con il recente decreto. Se l’organo di rappresentanza della cittadinanza intende davvero esserne supporto e alleato, così come sostenuto, è indispensabile che si faccia sentire per pretendere dal governo azioni che impediscano lo svuotamento del quartiere. È questo, infatti, il processo che già si sta innescando, presupposto decisivo per speculazioni che pianificano la graduale deportazione degli abitanti bagnolesi meno tutelati in quartieri più periferici e della provincia, a beneficio di altri settori sociali e di altri insostenibili modelli economici e di sviluppo, come quello turistico. L’assemblea popolare continuerà ad incontrarsi nelle prossime settimane per proseguire l’attività di informazione, monitoraggio e mobilitazione, che durerà tutto il tempo necessario ed in particolare fin quando ogni singolo abitante sfollato dalla propria abitazione non rientrerà nella propria casa.
città
napoli
Antiterrorismo, conflitto sociale e fine della storia. Giovedì a Santa Fede Liberata
Sarà presentato giovedì 8 maggio, alle ore 18 a Santa Fede Liberata (via San Giovanni Maggiore Pignatelli, 2), il saggio di Elio Catania, Antiterrorismo. Conflitto sociale e “fine della storia” in Italia (1968.1922). L’autore discuterà del libro con Andrea Bottalico (Napoli Monitor).  Pubblichiamo a seguire un estratto del volume. *     *     * Terrorismo – o ciò che viene considerato tale – ed antiterrorismo rappresentano una coppia concettuale non separabile perché l’uno modella l’altro. Conflitto non convenzionale per definizione, nella “guerra al terrorismo” acquisisce vantaggio il combattente che riesce meglio a penetrare i meccanismi di pensiero dell’antagonista, così da riconoscerne l’ambiente d’origine e l’architettura della scelta che lo motiva. La dominante psicologica è centrale. In questa dinamica, diventa dirimente l’interpretazione che l’antiterrorismo dà del fenomeno che combatte. L’Italia visse però una situazione paradossale: l’anomalia comunista aveva mantenuto attuale sin dal dopoguerra l’antica questione schmittiana riguardante l’eccezione come essenza del potere sovrano; durante la strategia della tensione, il ricorso allo stragismo attribuito ad estrema sinistra e anarchici, voleva giustificare la proclamazione dello «stato di guerra interna», cercando in questo modo di portare all’approvazione di misure esplicitamente escluse dalla Costituzione. Con il declinare dell’eversione neofascista, anche grazie alla tenuta democratica della mobilitazione sociale che ne svelò la matrice bloccando possibili svolte golpiste, e l’affermarsi della lotta armata rivoluzionaria, tra il 1974 e il 1975, si affermò invece una categoria più sfumata del tradizionale stato di eccezione: l’emergenza. Questa categoria sorse dal linguaggio politico e giornalistico e soltanto in seguito si trasferì sul piano giuridico. L’emergenza non implicava la sospensione di tutte le garanzie costituzionali, ma solo di alcune e in modo limitato, ponendosi come misura temporanea, destinata a rientrare contestualmente al cessare del pericolo. In realtà, molte misure antiterroriste si riversarono in altre emergenze – la lotta alla mafia in particolare; alcune norme passarono direttamente nel nuovo Codice di procedura penale ma, soprattutto, entrarono nella cultura giuridica e si manifestarono pienamente in occasione delle successive inchieste rivolte contro l’estremismo politico e i movimenti radicali, così come in quelle sulla corruzione politica. L’Italia divenne un modello – assieme all’esperienza tedesco-occidentale e, in una certa misura, alla «scuola israeliana» – e ispirò una parte significativa delle convenzioni europee in materia di terrorismo. Il presente lavoro intende operare una storicizzazione del fenomeno della violenza politica e armata di sinistra partendo proprio dalla problematizzazione del suo contraltare: l’emergenza e l’antiterrorismo. Chiariamo: “conflitto” non coincide strettamente con “violenza”, così come “pacifico” non significa per forza “privo di scontro”. Il nostro discorso non vuole rimandare a una presunta “rivoluzione mancata”, rappresentata dalla stagione dei movimenti e dalla lotta armata di estrema sinistra: il contesto dell’epoca non era pre-insurrezionale e le interpretazioni rivoluzionarie del periodo rappresentarono, sotto troppi aspetti, un grande equivoco che portò a confondere opportunità e potenzialità, realtà e desiderata, percezioni e condizioni oggettive, finendo poi per destinarsi all’invisibilità politica e al mero, quanto drammatico, scontro militare con i reparti speciali antiguerriglia. Come ha detto bene Enzo Traverso nel suo bellissimo libro dedicato alla storia della rivoluzione negli ultimi due secoli: Durante il Novecento eravamo abituati a considerare vittorie e sconfitte come scontri militari: le rivoluzioni conquistavano il potere con le armi, le sconfitte prendevano la forma di colpi di Stato militari e dittature fasciste. La sconfitta che abbiamo subìto alla fine del Novecento, tuttavia, dev’essere misurata secondo criteri diversi […]. La sinistra ha completamente abbandonato il terreno in cui nel secolo scorso aveva accumulato notevole esperienza e ottenuto numerosi successi: la rivoluzione armata […] L’esperienza del comunismo novecentesco nelle sue diverse dimensioni – rivoluzione, regime, anticolonialismo, riformismo – si à esaurita. I movimenti anticapitalisti emersi negli ultimi anni non appartengono a nessuna delle tradizioni della sinistra del passato. Non hanno un albero genealogico […] Non sono una reazione contro il Novecento, ma incarnano qualcosa di nuovo. In quanto orfani, devono inventare la propria identità. Questa è a un tempo la loro forza, perché non sono prigionieri di modelli ereditati dal passato, e la loro debolezza, perché mancano di memoria. Sono nati in una tabula rasa e non hanno elaborato il passato. Ridare complessità alle storie di conflitto, lotta armata e antiterrorismo emersi a fine anni Sessanta, ma derivati da continuità di lungo periodo nello Stato e dai nodi irrisolti della modernizzazione in Italia, significa dunque riaprire la questione dell’agibilità e della prospettiva radicale nella storia e nella politica, rimettere in discussione la cultura delle classi dirigenti, riconoscere la possibilità di un diritto di contestazione e di pratica estremo da parte dei governati. Premessa necessaria a ogni possibile immaginazione irriducibilmente antagonista nei confronti dell’esistente. (elio catania)
iniziative