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Dalla giustizia alla forza, il mosaico dell’impunità nelle istituzioni totali
(disegno di mattia vincenzo abbruzzese) Sembra un mosaico in accurata composizione, tassello dopo tassello per rafforzare il potere di chi lo esercita e silenziare la voce di chi lo subisce. Nelle carceri italiane, il tasso di sovraffollamento ha superato il 133 per cento nel giugno 2025: Milano San Vittore ha raggiunto il 220 per cento, Foggia il 212. Secondo il ministero della giustizia, tra gennaio e giugno si sono registrati trentasei suicidi, cui si sommano i novantuno del 2024, triste record assoluto nella storia penitenziaria. È il segno di un sistema al collasso, dove i corpi diventano esuberi amministrativi e la dignità si riduce a statistica. Di fronte a tutto ciò, l’istituzione deputata a garantire trasparenza nei luoghi di privazione della libertà è oggi muta. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, istituito a seguito della sentenza Torreggiani nel 2013, è attualmente presieduto da Riccardo Turrini Vita: magistrato e dirigente di lungo corso del ministero della giustizia, con una carriera soprattutto nel dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Turrini Vita è stato nominato nell’ottobre 2024 su proposta del ministroNordio, con delibera del consiglio dei ministri, affiancato da Irma Conti e Mario Serio. Tuttavia, la relazione annuale al parlamento non è ancora stata presentata dall’attuale collegio, anzi l’ultima risale addirittura al 2023 (sotto la gestione di Mauro Palma). Il garante non effettua inoltre ispezioni non annunciate ed è stato segnalato da avvocati e associazioni come difficilmente raggiungibile dai detenuti, i quali inviano istanze e comunicazioni senza ricevere risposta. A giugno 2025 Michele Passione, storico legale del garante, e le avvocate Maria Brucale, Antonella Calcaterra e Giovanni Rossi, psichiatra e membro esperto, hanno lasciato il loro incarico. La decisione è maturata, da parte di tutti, di fronte a un contesto sempre più impermeabile all’ascolto e al confronto. Passione ha motivato così la sua scelta, in una dichiarazione pubblica: “Se non entri nei luoghi della detenzione, se non guardi, non puoi nemmeno vedere cosa sta succedendo. Io mandavo report, segnalavo, ma nessuno rispondeva. Quando il garante smette di ascoltare, è finita”. Sempre Passione ha rilevato come, dall’inizio del mandato, l’attuale garante “non abbia mai effettuato visite nei centri per migranti in Albania, né svolto alcun monitoraggio dei voli di rimpatrio”. Per quanto riguarda le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), strutture che ospitano persone sottoposte a misure detentive per motivi psichiatrici, risulta che nel primo semestre del 2025 sia stata effettuata soltanto una visita ufficiale, il 30 gennaio, a Rieti. Un dato che lascia perplessi sulla continuità e sull’effettiva incisività dell’attività di monitoraggio in luoghi tanto delicati. Anche il governo, intanto, posizionava i suoi tasselli. Il Decreto sicurezza (Dl 48/2025), convertito in legge il 9 giugno 2025, prevede all’articolo 22 un fondo per coprire le spese legali degli agenti di polizia penitenziaria e delle forze dell’ordine indagati per atti commessi durante il servizio. Il rimborso può arrivare fino a diecimila euro per ciascuna fase del procedimento penale, comprese le indagini preliminari: un vero e proprio scudo legale a favore degli imputati pubblici ufficiali. Contestualmente, il decreto introduce il reato di “rivolta carceraria”, estendendo la resistenza passiva (incluse la battitura delle sbarre e lo sciopero della fame) a una fattispecie punibile con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Si aggiungono aggravanti per le manifestazioni “dentro e fuori le stazioni ferroviarie e della metropolitana”, una nuova disciplina sulla detenzione di materiale “propedeutico al terrorismo” punita con reclusione da due a sei anni anche in assenza di reati collegati, e restrizioni all’accesso a misure alternative per le detenute madri. La Corte di Cassazione, nella Relazione n. 33/2025 (23 giugno 2025), ha mosso critiche durissime al provvedimento. Ha rilevato l’assenza dei presupposti di necessità e urgenza per il ricorso al decreto legge, denunciandone l’eterogeneità, l’approccio repressivo e la vocazione simbolica, definendolo una forma di “ipertrofia penalistica” che rischia di criminalizzare anche le proteste non violente. Secondo la Suprema Corte, il decreto non solo punisce l’intenzione più che l’atto, ma compromette anche l’equilibrio tra accusa e difesa, il principio di proporzionalità, il divieto di trattamenti inumani o degradanti, e il diritto alla libera manifestazione del pensiero. Pochi giorni dopo, il 25 giugno 2025, Matteo Salvini ha annunciato in conferenza stampa alla Camera l’intenzione di proporre una modifica dell’articolo 613 bis del Codice Penale, che disciplina il reato di tortura, introdotto con la legge 110/2017 dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani per i fatti del G8 di Genova, in particolare per le violenze alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Salvini ha dichiarato che il reato di tortura dovrebbe essere modificato per permettere alla polizia penitenziaria di svolgere il proprio lavoro senza rischiare accuse ingiustificate. Ha sottolineato che gli agenti penitenziari sono spesso etichettati come “aguzzini e torturatori” senza motivo. Se Mario Serio, componente del collegio del garante nazionale, ha dichiarato che “il garante continuerà a costituirsi in giudizio contro le forze di polizia accusate di maltrattamenti e tortura”, Michele Passione, a cui è stato richiesto un commento sul punto, ha precisato: “Quanto alla volontà dichiarata di proseguire nell’attività processuale del garante, a oggi non posso affermare con certezza che siano stati nominati nuovi avvocati. Posso solo rilevare che, dopo la mia rinuncia, ho continuato a ricevere notifiche dalle autorità giudiziarie presso le quali ero parte civile. Sembrerebbe quindi che non sia stata ancora depositata una nuova nomina: per legge, infatti, il difensore della parte civile è domiciliatario. Alle date in cui ho ricevuto le notifiche, quindi, un nuovo difensore non era stato probabilmente nominato”. Il 6 aprile 2020, a Santa Maria Capua Vetere, telecamere interne all’istituto riprendevano un vero e proprio raid punitivo condotto da quasi trecento agenti penitenziari. Durante questo raid centosettantasette detenuti furono pestati, insultati, denudati e umiliati. L’inchiesta ha indagato su centoventi persone e portato all’emissione di cinquantadue misure cautelari, ma l’attenzione pubblica si è velocemente dissolta. A Foggia, l’11 agosto 2023, dieci agenti aggredivano e picchiavano due detenuti per oltre mezz’ora: uno di loro soffriva di una grave patologia psichiatrica. L’indagine, supportata da video e testimonianze interne, ha portato a quattordici ordinanze cautelari nel marzo 2024. Nel 2025, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per tortura, concussione e falsità ideologica, evidenziando coperture sanitarie e tentativi di insabbiamento. Non si tratta di episodi isolati. A San Gimignano, il 9 marzo 2023, il Tribunale di Siena ha condannato cinque agenti della polizia penitenziaria a pene tra cinque anni e dieci mesi e i sei anni e sei mesi per tortura, falso e minaccia aggravata. I fatti risalivano all’ottobre 2018, quando un detenuto tunisino era stato brutalmente pestato. La sentenza ha riconosciuto non solo la violenza sproporzionata, ma anche il tentativo sistematico di copertura dell’accaduto. La Corte d’Appello di Firenze ha successivamente confermato tutte le condanne, sebbene cinque imputati abbiano ricevuto uno sconto di pena. Ancora – ma si potrebbe andare avanti a lungo – nel febbraio 2025 il Gup di Reggio Emilia ha condannato dieci agenti di polizia penitenziaria per il pestaggio di un detenuto tunisino avvenuto il 3 aprile 2023 nel carcere della Pulce. In quel caso il reato di tortura non è stato riconosciuto, e le condanne per abuso di autorità, lesioni e falso ideologico sono variate da quattro mesi a due anni (nonostante ciò, l’impianto accusatorio ha mostrato pratiche di violenza istituzionale reiterata, perseguibili solo grazie alla legge 110/2017, oggi sotto attacco).  Alla violenza fisica si accompagna una crescente medicalizzazione della custodia. Il XXI Rapporto di Antigone (Senza Respiro, presentato il 29 maggio 2025) ha rilevato che il quarantaquattro per cento dei detenuti assume sedativi o ipnotici, mentre il venti per cento fa uso di stabilizzanti dell’umore, antidepressivi o antipsicotici, spesso in assenza di una diagnosi psichiatrica formale. Il fenomeno è particolarmente allarmante nelle carceri minorili, dove il consumo di psicofarmaci è aumentato drasticamente (del sessantaquattro per cento all’istituto di Torino e del trecento cinquantadue per cento a Nisida, rispetto al 2022) Nei reparti per l’“osservazione psichiatrica” sono state documentate prassi come l’isolamento prolungato per settimane, la sedazione forzata e la contenzione meccanica. Secondo le linee guida delle Nazioni Unite e le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), tali pratiche possono configurare trattamenti inumani o degradanti. In istituti come Poggioreale e Vigevano il Cpt ha segnalato la totale assenza di monitoraggio esterno, l’uso di farmaci senza consenso informato e gravi lacune nella documentazione degli episodi di contenzione, compromettendo ogni forma di trasparenza e tutela. L’approccio segregativo e le pratiche torturatorie si estendono sempre più anche all’esterno dei luoghi carcerari “tradizionali”. Da gennaio 2025, l’Italia ha avviato i primi trasferimenti di migranti irregolari nei Cpr albanesi costruiti a Shëngjin e Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale del 6 novembre 2023. Queste strutture, gestite con appalti diretti e contratti blindati, sono collocate fuori dal territorio nazionale: secondo la narrazione governativa, ciò le escluderebbe dalla giurisdizione italiana.  La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 23105 del 20 giugno 2025, ha stabilito che i centri albanesi sono “formalmente e sostanzialmente sottratti alle garanzie giurisdizionali italiane”, in violazione della Direttiva 2008/115/CE e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La Suprema Corte ha inoltre sollevato due questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, affermando che il trattenimento nei Cpr albanesi rappresenta “una forma di detenzione extragiudiziale in territorio straniero, priva delle tutele minime previste dal diritto europeo”. Secondo quanto riportato dall’Asgi, nei primi sei mesi del 2025 oltre centoventicinque migranti sono stati trasferiti nei Cpr albanesi di Shengjin e Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale siglato tra Italia e Albania. Diverse autorità giudiziarie italiane, tra cui i giudici di pace di Roma, Bologna e Catania, hanno successivamente disposto il rilascio immediato di alcuni richiedenti asilo, ritenendo il trattenimento “giuridicamente nullo” per l’assenza di tutele legali e giurisdizionali. Il 3 luglio 2025 la Corte Costituzionale (con la sentenza n. 96/2025) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina del trattenimento nei Cpr, per violazione dell’articolo 13 della Costituzione. La Consulta ha rilevato che la privazione della libertà personale nei centri per il rimpatrio avviene sulla base di una norma, l’articolo  14, comma 2 del Testo Unico Immigrazione, che non definisce con sufficiente precisione i modi del trattenimento, rinviando a fonti secondarie e a prassi amministrative, in violazione della riserva assoluta di legge in materia di libertà personale. La Corte ha inoltre sottolineato che l’attuale disciplina non garantisce un controllo giurisdizionale effettivo e continuo, come imposto dall’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che tutela ogni persona da forme di detenzione amministrativa arbitrarie. In assenza di una normativa primaria che disciplini condizioni, durata e modalità del trattenimento, questo si configura come un assoggettamento fisico all’altrui potere, potenzialmente lesivo della libertà personale e privo delle necessarie garanzie di legge. Sono state inoltre sollevate (anche se dichiarate inammissibili) questioni relative alla violazione degli articoli 24 e 111 della Costituzione, in particolare per la mancata effettività del diritto alla difesa, l’assenza di informazioni chiare sui diritti del trattenuto e le difficoltà nell’accesso a un avvocato e nel ricorso contro il trattenimento. La Corte ha ritenuto inoltre non scrutinabili le questioni relative alla violazione dell’articolo 3 della Costituzione, che denunciavano una disparità di trattamento rispetto al regime carcerario ordinario. Nel merito, va sottolineato, non ha fornito una disciplina sostitutiva, ma ha rivolto un preciso monito al legislatore: in mancanza di un intervento normativo che regolamenti in modo chiaro il trattenimento nei Cpr quanto a modalità, durata, condizioni materiali e garanzie giurisdizionali, la misura risulta costituzionalmente inammissibile. È chiaro, tuttavia, che un intervento meramente giurisdizionale non può essere sufficiente davanti a un mosaico che si compone e ricompone di continuo. Un garante che non parla, una legge che protegge chi picchia, un decreto che finanzia la difesa degli imputati in divisa, una riforma che sterilizza il reato di tortura, una giurisdizione che si dissolve verso strutture extraterritoriali: tutto è coerente con l’obiettivo di silenziare la denuncia, ridurre al minimo le garanzie, garantire l’impunità e normalizzare l’eccezione. È il passaggio dalla giustizia alla gestione, dal diritto alla forza, e non è solo una crisi: è una precisa scelta politica. Di fronte a un sistema che si regge sulla paura e sull’opacità, il rischio non riguarda solo i detenuti, i migranti o i marginali: è un rischio per tutti, e per gli equilibri democratici generali, perché quando il potere si protegge dalla legge e non con la legge, la libertà smette di essere un principio, e diventa un privilegio. (luna casarotti – yairaiha ets)
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L’urbanistica milanese come stato d’eccezione
(disegno di adriana marineo) Si susseguono da giorni le notizie di indagini e arresti per personaggi noti della politica e dell’imprenditoria milanese, culminate questa mattina con quelle che riguardano il sindaco Beppe Sala, indagato nell’ambito della maxi inchiesta sull’urbanistica nella capitale lombarda, per la quale già sei arresti sono stati richiesti.  Per quanto concerne il primo cittadino, le ipotesi di reato sono di false dichiarazioni su qualità proprie o di altre persone (relativamente alla nomina del presidente della Commissione per il paesaggio del Comune, Giuseppe Marinoni) e di induzione indebita a dare o a promettere utilità (intorno al progetto del cosiddetto Pirellino, dell’architetto Stefano Boeri e dell’imprenditore Manfredi Catella, presidente del gruppo Coima). Proprio Manfredi Catella, costruttore e principale artefice dello sviluppo del nuovo profilo urbano milanese, era tra le persone per le quali era già stato chiesto l’arresto ieri. Gli altri sono l’assessore alla rigenerazione urbana del comune di Milano Giancarlo Tancredi, l’ex presidente della commissione paesaggio, Giuseppe Marinoni, Federico Pella della J+S spa, Alessandro Scandurra, della Commissione paesaggio ma anche consulente di Coima, e Andrea Bezziccheri, della società Bluestone.  Sulle vicende politico-giudiziarie dell’urbanistica milanese, di cui ampiamente abbiamo scritto, vi proponiamo l’ultimo articolo in ordine di tempo, scritto da Lucia Tozzi e pubblicato sul numero 14 (maggio 2025) de Lo stato delle città. *     *     *  La rilevanza politica delle vicende dell’urbanistica milanese – il particolare modello di turbocapitalismo immobiliare-finanziario che è stato messo in atto, le proteste prima sommesse poi sempre più incalzanti dei cittadini, le inchieste, la legge Salva Milano e gli eventi che si susseguono da allora – è, a gran torto, molto sottovalutata. La vera posta in gioco non è certamente quella di natura giudiziaria. Le eventuali condanne dei vari soggetti inquisiti – funzionari di diverso livello, professionisti, imprese, ma non i politici che hanno concepito e alimentato le politiche filo-immobiliari – faranno il loro corso, e forse costituiranno una spinta per mobilitare finalmente quella parte di popolazione che non riesce a leggere le ingiustizie sociali se non alla luce del discrimine tra legalità e illegalità. Tuttavia, le indagini hanno avuto una funzione importantissima: sono state il perno tra i confitti sollevati dai comitati e dai movimenti e una percezione più diffusa, a Milano e in Italia, del sostrato profondamente malsano e classista, in ultima analisi produttore di diseguaglianza, del cosiddetto Modello Milano. Scaturite da una serie di esposti presentati dagli attivisti, le inchieste dei giudici hanno contribuito a fornire le prove materiali non solo delle irregolarità di molti cantieri, ma soprattutto dell’iniquità strutturale della crescita urbana per come è oggi concepita. Un sistema modellato sulla massima valorizzazione della rendita fondiaria, che impone una trasformazione fisica non solo escludente perché orientata al lusso, ma anche slegata dalla reale necessità di crescere (esistono abbastanza edifici vuoti da soddisfare la domanda abitativa, lavorativa e per i servizi) e funzionale alla concentrazione della ricchezza nelle mani di gruppi sempre più ristretti: costruttori, ricchi proprietari, studi d’affari e consulenza, finanza immobiliare e non. I casi di questi palazzi o grattacieli spuntati in mezzo ai cortili o sul bordo dei parchi, al posto di piccoli box o magazzini, non sono eclatanti in quanto ecomostri (alcuni lo sono, ma non è la cosa più grave), bensì perché il modo in cui sono stati prodotti è l’avanguardia di un metodo che si sta tentando di generalizzare, di estendere a tutta Italia. In poche parole, si è costruito senza lunghi iter di approvazione, aggirando l’obbligo di realizzare i servizi per il quartiere che l’arrivo di nuovi abitanti richiede, cioè raccogliendo altissimi profitti in punti pregiati della città senza pagare quella parte di tasse e standard che la legge obbliga a restituire alla città stessa, e invadendo lo spazio urbano senza sottoporsi a quelle verifiche che il processo democratico e le norme vigenti obbligano ancora (per fortuna, e direi non abbastanza) a rispettare. Se si trattasse di una dozzina o poco più di edifici presunti abusivi sarebbe ancora un fatto insignificante, ma questi sono solo la punta dell’iceberg di una pratica di densificazione diffusa (si parla di centinaia di situazioni analoghe), e sono l’effetto non di singole trasgressioni, ma di un meccanismo che è stato politicamente incoraggiato e alimentato a più livelli. Sono stati pensati e applicati cavilli interpretativi degni della più perversa mentalità burocratica per distorcere leggi urbanistiche chiare e comprensibili e volgerle a favore degli immobiliaristi e della rendita, chiamando questi barocchi palinsesti giuridici “semplificazioni”. Prima sono stati attribuiti eccessivi sconti sulle tasse e premi in cubatura a lavori che ristrutturassero gli edifici esistenti, invece di abbatterli e sostituirli, teoricamente per la buona ragione di limitare le nuove costruzioni e il loro insostenibile impatto ambientale e sociale sulla città. E poi si è provveduto a estendere la definizione di ristrutturazione a operazioni di abbattimento e ricostruzione di edifici anche completamente diversi, molte volte più voluminosi di quelli precedenti. Con questi e altri strumenti si è creato quel paradiso fiscale, quello stato d’eccezione immobiliare che ha reso così facile e conveniente investire a Milano, a scapito sia dei territori concorrenti che dei cittadini milanesi che hanno perso, si calcola, almeno due miliardi di euro in mancati introiti. Il lavoro di disvelamento operato dalle indagini, quindi, è stato ed è fondamentale per portare allo scoperto non solo e non tanto gli episodi di corruzione e truffa che pure sono emersi, quanto le dinamiche complesse e le conseguenze materiali di quella facilitazione degli interessi privati che è incarnata nell’idea e nella pratica della “rigenerazione urbana alla milanese”. Il disagio abitativo, dall’epidemia di sfratti agli studenti con le tende, aveva già reso palpabile il lato oscuro che la neolingua delle politiche inclusive tentava di coprire. Ma fino a ora è stato abbastanza facile per la classe dirigente sostenere che si trattasse solo di esternalità negative di un processo di crescita virtuoso e insostituibile: la rigenerazione urbana, secondo la loro lettura, è lo strumento che serve per concretizzare il diritto alla città. Poi, purtroppo, l’eccesso di attrattività crea un desiderio troppo diffuso per la città rigenerata e alcuni restano fuori. Quello che è emerso mostra invece inequivocabilmente che gli effetti erano previsti, facevano parte delle premesse: Milano doveva diventare una città Alpha, competere nella gara globale per attrarre gli investimenti più succosi, strapparli a città come Hong Kong, Londra e Singapore. Doveva costruirsi una reputazione nuova, allontanare i poveri, costruire i primi edifici di lusso per poi rimpiazzare zona per zona case popolari, servizi pubblici, spazi aperti con ambienti pittoreschi che combinassero un’immagine smart, pseudo green e dedita al consumo. Una gigantesca sostituzione, una modifica del Dna urbano e delle vecchie regole urbanistiche e amministrative che garantivano ancora un regime moderatamente redistributivo, legato al welfare, alla manutenzione, all’accoglienza e al benessere dei cittadini. Rimuovere gli ostacoli di ordine giuridico a un nuovo modello di crescita urbana fondato sulla concentrazione della ricchezza nelle mani della finanza e del blocco immobiliare, sulla massimizzazione della rendita, è un punto cruciale dell’agenda neoliberale, come argomenta, tra gli altri, Antonio Calafati, commentando i fatti di Milano e mettendoli in relazione con un Manifesto for renewing liberalism pubblicato nel 2018 dall’Economist: “Nel Manifesto c’è in evidenza un tema che contraddistingue il paradigma neoliberale sin dalle origini, sin da quando nella Vienna degli anni successivi alla prima guerra mondiale gli economisti del Mises-Kreis iniziavano a definirlo: la pianificazione urbanistica deve essere sostituita dal mercato come dispositivo di regolazione della morfologia fisica della città”. La conferma che non si trattava di incidenti, eccezioni, ma della prima fase di un progetto politico più ampio, mirato a erodere quelle leggi urbanistiche che ancora impongono a livello nazionale dei processi di controllo democratico sulla trasformazione spaziale, è leggibile nelle reazioni scomposte alle indagini. Media, politici, costruttori e funzionari milanesi hanno immediatamente lanciato una ricattatoria campagna d’allarme per il rischio di una paralisi dei cantieri, degli investimenti e dell’economia in generale. Nello stesso tempo hanno elaborato, insieme alla presunta controparte governativa, una legge (la famigerata Salva Milano) che non condonava gli eventuali abusi, ma si poneva come “interpretazione autentica” del complesso di leggi urbanistiche e edilizie in vigore. Era un modo per negare ogni accusa di irregolarità e soprattutto per portare a termine con velocità insperata un colpo pazzesco: si sarebbe potuto estendere a tutta Italia la rigenerazione alla milanese, legalizzando questa forma di ingiustizia sociale e spaziale per l’intera cittadinanza. Per fortuna questa soluzione era talmente insostenibile da destare, finalmente, l’attenzione di costituzionalisti e urbanisti, attivisti, giornalisti e politici anche al di fuori di Milano. Ma se la possibilità di fare approvare la legge Salva Milano si è fortunatamente assottigliata, l’essenza dei suoi contenuti rischia di passare attraverso una vera e propria riforma urbanistica – la legge sulla Rigenerazione urbana – e una modifica al Testo Unico sull’edilizia. Una larga fetta del mondo professionale legato all’immobiliare, così come i sindaci e gli amministratori del resto d’Italia (anche per bocca del loro rappresentante Anci, Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli) hanno dato il loro appoggio alla Salva Milano, mostrando di condividerne lo spirito e la sostanza. Non è difficile immaginare i motivi per cui una classe politica come quella che ci ritroviamo – sia a destra che a sinistra appiattita sull’orizzonte neoliberale – veda di buon occhio la fine della pianificazione pubblica e la dissoluzione delle ultime responsabilità della pubblica amministrazione. Più inspiegabile invece è la scarsa attenzione che la questione riceve nel mondo dell’attivismo, dei movimenti, persino quelli per la casa. Dovrebbe essere ormai evidente che, se il capitale finanziario impiega così tanta energia per cambiare le leggi che ostacolano la propria libertà di azione nell’appropriarsi delle città, allora difenderle è essenziale. Di sicuro non è sufficiente per trasformare una situazione che precipita verso la guerra e forme di diseguaglianza radicale, ma è un passaggio indispensabile per chi cerca di invertire i processi di distruzione climatica e territoriale, di mercificazione della cultura e del lavoro sociale. Se si cancellano i vincoli che ancora impongono alla trasformazione del territorio una funzione orientata all’interesse pubblico, l’impatto della rigenerazione sulle classi svantaggiate sarà sempre più violento. Gli sfratti, le espulsioni, la dissoluzione della dimensione pubblica e gratuita degli spazi aumenterà, mentre si ridurranno le condizioni anche fisiche per lottare ed esprimere il dissenso. La Milano di questi giorni sta assistendo incredula a due nuovi risvolti della crisi urbanistica: il primo è la svendita dello stadio di San Siro alle due società Milan e Inter, che il sindaco sta conducendo come una furia a dispetto del clima di sfiducia politica e di cinque anni di opposizione da parte di comitati e attivisti. Il secondo è la lacrimosa protesta delle centinaia di famiglie coinvolte nell’acquisto degli appartamenti di lusso o semi-lusso bloccati dalle inchieste giudiziarie, che invocano l’approvazione della legge Salva Milano per salvare i loro improvvidi investimenti. Due figure, quella del potere autoritario che persegue il progetto del capitale fino al suicidio, e quella dell’interesse proprietario che non vede altro all’infuori di sé, che lavorano in combutta per richiudere in fretta la finestra di conflitto, critica, ragionevolezza che si è aperta contro la rigenerazione urbana. Le forze che tramano per il ritorno al business as usual, alla cura dell’immagine, a quell’ottimismo crudele che ci distrae mentre chi comanda lavora indisturbato alla nostra rovina, sono molte: i grandi eventi come giubilei, olimpiadi, giù giù fino alle biennali, i saloni, i festival e le città della cultura; la ruota del criceto dell’economia turistica; i fondi che ci stanno spogliando del welfare, dello spazio vitale, delle risorse e delle leggi che ci tutelano; gli intellettuali venduti alla guerra e allo squallore delle loro miserabili quote di prestigio; l’esercito della comunicazione, che non sopporta l’emersione nelle coscienze del piano materiale e si adopera per offuscare la vista e contaminare il linguaggio appena un lembo del velo si solleva. Non lasciamoglielo fare.
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Ballare sul genocidio. Musica, boicottaggio e grandi festival internazionali
(archivio disegni napolimonitor) “Stai dando a un’organizzazione il permesso implicito di essere complice del genocidio in Palestina, per poi fare donazioni a chi riesce a sopravvivere. Non ha davvero alcun senso ed è profondamente ipocrita. Hai potere nell’industria e potresti usare il tuo privilegio con intelligenza. Stai facendo una stronzata!”. “Hai passato così tanto tempo a suonare in Israele e il pubblico ti ha dato tutto il supporto e il rispetto di cui avevi bisogno. È triste e deludente vedere che non dici una parola sugli ostaggi israeliani o sulle persone innocenti uccise al festival musicale Nova. Vergognati!”. “Ecco un artista con le palle! Finalmente!”. Alla fine di maggio 2025, questi tre commenti dai toni decisamente divergenti sono apparsi sotto lo stesso post Instagram. E non sono stati gli unici. In poche ore, il comunicato di Dixon, nome di punta della scena techno e house berlinese, di commenti ne ha raccolti oltre tremila. Il post, molto atteso dai fan e dalla comunità EDM in generale, riguardava la sua partecipazione al Field Day, festival elettronico previsto per il 4 giugno a Brockwell Park, Londra, dove sarebbe stato uno degli headliner insieme a Peggy Gou. In quei giorni il Field Day era sulla bocca di tutti. Una lettera aperta firmata da duecentotrenta artisti – tra cui Ben Ufo, Brian Eno e Robert del Naja – aveva chiesto una presa di posizione forte da parte del festival contro il genocidio in Palestina e l’aderenza alle linee guida del BDS. La mancata risposta del Field Day, diventata poi tardiva, e, secondo molti, rimasta insufficiente, aveva convinto diversi artisti a passare all’azione. Nelle tre settimane precedenti al festival la line up del Field Day si era letteralmente dimezzata, con oltre venti artisti che hanno scelto di ritirarsi. Proprio mentre le cancellazioni iniziavano a prendere piede, Dixon ha pubblicato un post per confermare il proprio set, annunciando che avrebbe devoluto interamente il proprio cachet a un’organizzazione umanitaria attiva nella Striscia di Gaza. La scelta di Dixon ha scontentato molti, e per ragioni evidentemente opposte. Alla fine, pur decimato nella line up, il festival si è svolto regolarmente. Ma qual era il problema del Field Day? Dopo una quindicina di edizioni in crescita, nel 2023 Field Day è passato sotto la proprietà di Superstruct Entertainment, una società britannica attiva nella produzione di festival musicali diventata in pochi anni un gigante del settore. Dalla sua fondazione nel 2017, Superstruct ha condotto un’aggressiva campagna di acquisizione, inglobando oltre ottantacinque cosiddetti macrofestival, tra cui Szieget (Ungheria), Mighty Hoopla (UK), Parookaville (Germania), Øyafestivalen (Norvegia), Hideout (Croazia), Flow Festival (Finalndia), Zwarte Cross (Olanda) e dozzine di altri. Insomma, che siate animali da festival o semplicemente avete viaggiato per ascoltare dal vivo i vostri artisti preferiti negli ultimi anni, è molto probabile che abbiate fatto tappa anche voi a un evento targato Superstruct. Il passaggio non è stato traumatico come ci si potrebbe aspettare. Nella maggior parte dei casi, l’acquisizione ha riguardato non solo il marchio e le licenze, ma anche l’intero team di produzione dietro i singoli festival, assicurando continuità alle scelte artistiche e consolidando il lavoro fatto negli anni con una generosa iniezione di capitale. La campagna acquisti di Superstruct si è fatta più serrata nel post-pandemia, quando molti festival di successo erano sull’orlo della bancarotta. In quel periodo, il passaggio a una compagnia con grosse disponibilità finanziarie è stato visto da molti addetti ai lavori come un’ancora di salvezza – o una strada obbligata – per un comparto devastato da due anni di cancellazioni, incertezze e contributi statali insufficenti. Insomma, fin qui niente di nuovo. It’s capitalism, baby. I problemi veri iniziano nel giugno 2024, quando Superstruct Entertainment viene comprata per 1.7 miliardi di dollari da Providence Equity Partners L.L.C., a sua volta parte di Kohlberg Kravis Roberts & Co – meglio noto come KKR, dai nomi dei tre fondatori. KKR è un fondo fiduciario a stelle e strisce con cinquemila dipendenti, sedi in una ventina di paesi e un portafoglio di investimenti stimato poco sopra i settecento miliardi di dollari. Come è lecito aspettarsi, un fondo di questo tipo non è un esempio di finanza etica. KKR investe letteralmente in tutto il pianeta e in qualunque cosa possa generare profitti: telecomunicazioni e sanità, energie rinnovabili e sviluppo software, raccolta differenziata e costruzioni. E anche nella pulizia etnica. In Israele, KKR detiene quote di società operanti nel settore della cybersicurezza, dell’elaborazione dati e della produzione di armi. È anche azionista di maggioranza in una cordata di compagnie che offrono e pubblicizzano investimenti immobiliari nei territori occupati. Il corto circuito è servito: un comparto che lavora offrendo esperienze culturali e ricreative orientate (almeno sulla carta) alla promozione della diversità, della tolleranza e della pacifica convivenza si ritrova dalla sera alla mattina tra gli asset di un conglomerato che letteralmente investe nel genocidio. Come in un gioco di matrioske, nella più piccola c’è il tuo dj preferito – ma la più grande è sporca di sangue. Dopo il Field Day, l’attenzione si è concentrata sulla Spagna. Qui il dibattito è cresciuto per diversi motivi. In primo luogo, Superstruct in Spagna ha fatto man bassa, acquisendo oltre venti dei festival più amati, tra cui Sónar, Viña Rock, Resurrection Fest, Monegros, Arenal Sound e FIB. In secondo luogo, il sostegno alla causa palestinese nel paese è forte e trasversale, e include (almeno in parte) anche il governo in carica. Infine, i festival in questione non hanno solo un notevole peso economico, ma sono parte integrante dell’identità di un paese che nel giro di trent’anni ha visto crescere la produzione culturale, la qualità della vita e i diritti civili – seppur con tutte le contraddizioni del caso; e che dalla sera alla mattina si ritrova alle dipendenze di un fondo che fa profitti col genocidio. Il primo a finire sotto i riflettori è stato il Sónar, festival simbolo di Barcellona e riferimento europeo per gli appassionati di musica elettronica. Poche settimane prima dell’inizio, una lettera aperta firmata da ottanta artisti ha chiesto al festival di aderire alle raccomandazioni del PACBI (The Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel), una delle entità al cuore del movimento BDS. Le richieste avanzate dal PACBI nei confronti del Sónar riguardavano inizialmente solo gli accordi di sponsorizzazione con McDonald’s e Coca Cola. Dopo un po’ di tentennamenti Sónar ha mollato gli sponsor, e PACBI ha rilanciato con la richiesta di una formale presa di distanza dagli investimenti di KKR e aderenza alle linee guida del BDS in termini di politica culturale. Come già il Field Day, Sónar ha preso tempo, probabilmente sperando che la polemica sfumasse. Alla fine, una tardiva presa di distanza c’è stata, assieme a dei chiarimenti circa la destinazione dei profitti. Nel mentre, circa cinquanta artisti hanno cancellato la propria esibizione. Sónar è comunque riuscito ad assorbire il colpo – per usare un eufemismo – segnando un record di 161 mila presenze tra il 18 e il 20 giugno. I biglietti per l’edizione 2026 sono già in vendita. In attesa che il calendario porti un altro festival sotto i riflettori (mentre questo pezzo viene ultimato stanno iniziando le cancellazioni per il Monegros) ci sembra il caso di prendere spunto dalla vicenda per provare a buttare giù delle considerazioni di carattere più generale sul rapporto tra forme di protesta dal basso, politiche culturali e il funzionamento dell’industria musicale nel post-pandemia. Iniziamo col dire che il boicottaggio spontaneo e diffuso a opera di artisti e pubblico dei festival targati KKR è sicuramente un’ottima notizia – per più di una ragione. Non solo testimonia la sempre più trasversale condanna delle politiche dello stato d’Israele, ma contribuisce a mantenere alta l’attenzione mentre Gaza scivola via dalle prime pagine dei giornali a causa del moltiplicarsi delle tensioni internazionali. Inoltre, cosa forse ancora più importante, segnala la diffusione di una serie di soglie etiche che tanta gente non è più disposta a superare e che riguardano la propria connivenza, anche involontaria, con il genocidio in corso. La pressione sui social costringe gli artisti a prendere posizione, e di conseguenza i festival, che devono dare conto delle assenze nella line up anche agli spettatori meno informati. Ci sono però altri fattori da considerare se si vuole sperare che questa campagna spontanea possa diventare qualcosa di più, e magari forgiare alleanze più ampie. In primo luogo è bene ricordare che un boicottaggio, per essere efficace, deve dotarsi di coordinamento, obiettivi chiari e una strategia per raggiungerli. Per esempio, le linee guida ufficiali del BDS identificano gli eventi o i prodotti culturali da boicottare in quelli che ricevono finanziamenti diretti o indiretti da governo o istituzioni israeliane, ne alimentano la propaganda, o normalizzano l’occupazione. Le stesse linee guida sono inoltre esplicite nell’indicare che il boicottaggio deve essere il più possibile mirato e avanzare richieste specifiche, che di solito consistono nella cancellazione di un accordo di collaborazione, sponsorizzazione o partecipazione. E questo non è esattamente il caso dei festival in questione, dove artisti e pubblico al momento procedono in ordine sparso, e dove il legame con l’occupazione è obliquo e, in molti casi, decisamente sgradito. In Spagna, assieme al dibattito è montato anche il disagio di chi si è trovato, suo malgrado, nell’occhio del ciclone. Il legame tra i singoli festival e KKR non è diretto, ma frutto di una catena di operazioni finanziarie che avvengono senza il coinvolgimento né il consenso dei diretti interessati. Macchine complesse come Sónar o Monegros impiegano migliaia di persone tra produzione, direzione, comparto tecnico e logistico, oltre agli artisti che – non dimentichiamolo – sono anch’essi lavoratori. Parlando con diverse di queste figure, i sentimenti più diffusi sono sconforto e senso di impotenza. Il fatto che larga parte del dibattito si svolga sui social con modalità che oscillano tra callout e shitstorm contribuisce ad aumentare la frustrazione di chi, da un giorno all’altro, si è ritrovato suo malgrado dalla parte sbagliata della storia. Tra quelli che soffrono la contraddizione ma non riescono a partecipare direttamente al boicottaggio ci sono molti lavoratori che non hanno la possibilità economica di rifiutare ingaggi. Per gli artisti di piccolo e medio calibro pesano le penali previste per le cancellazioni e il rapporto con le proprie agenzie. Tra gli artisti maggiori, che sicuramente avrebbero la possibilità economica di cancellare, molti fanno riferimento a una rete di relazioni personali che li legano a determinate organizzazioni attraverso traiettorie condivise negli anni. Per le persone che hanno fondato e diretto questi festival, ora legate a Superstruct da contratti pluriennali, l’unica via d’uscita sarebbe rassegnare le dimissioni, pagare importanti penali e vedere il lavoro di anni andare alle ortiche o passare nelle mani di qualcuno che la contraddizione non la sente neanche. Sono scelte non impossibili ma sicuramente non prive di conseguenze, che sarebbe più facile sostenere collettivamente avendo chiaro il risultato che si vuole ottenere. In assenza di coordinamento e obiettivi tangibili sembra però difficile segnare un punto che vada al di là di quanto già elencato. Se affondare il singolo festival è difficile, come dimostrano il Field Day e il Sónar, colpirne dozzine è praticamente impossibile. E anche se lo fosse, cosa si otterrebbe sul lungo termine? Superstruct è poca roba per KKR, la cui penetrazione nel tessuto economico rende inoltre difficile, se non impossibile, tenersene del tutto alla larga. In Spagna, per esempio, il fondo ha partecipazioni importanti nella prima compagnia telefonica del paese, MasMovil, nella catena di ristoranti Telepizza, nel parco divertimenti Port Aventura, e in decine di altre società. Nel Regno Unito, lo scorso anno è stato a un soffio dall’acquisire Thames Water, la società idrica di Londra. E via così in decine di altri paesi. In altre parole, l’eventuale collasso di Superstruct non sarebbe un grosso colpo per KKR, mentre disporre delle macerie potrebbe essere un compito titanico per il comparto musicale europeo. E allora, che fare? Quello che tanti artisti, fan e lavoratori solidali stanno manifestando nel modo che riescono a permettersi (boicottaggi, comunicati, cancellazioni, devoluzioni del cachet in beneficenza, denunce dal palco, rinuncia al lavoro, e chi più ne ha più ne metta) è l’espressione di un disagio profondo a cui si cerca di trovare una soluzione individuale. E se fosse invece proprio questo disagio – nella sua dimensione collettiva – il dato da cui ripartire per provare a ribaltare il tavolo? Il problema della presenza tossica di KKR non dovrebbe essere un affare del singolo festival, artista o spettatore. È invece un problema strutturale del settore culturale spagnolo e, per alcuni versi, europeo. Come tale, non può essere affrontato solo con scelte e sacrifici individuali, senz’altro ammirevoli, che hanno l’effetto di risolvere il malessere dei singoli senza tuttavia riuscire a intaccare lo stato delle cose. Il disagio, lo sconforto e la frustrazione andrebbero invece coltivati, condivisi, formalizzati e sbattuti sul tavolo con tutto il loro peso. Pensiamo a una piattaforma o una lettera aperta che coinvolga tutte le organizzazioni, gli artisti, i lavoratori, e la comunità degli spettatori e chiami in causa il governo e la società civile. Non per offrire soluzioni che sarebbero necessariamente parziali, ma precisamente per ingigantire la questione a tutti i livelli e farla diventare un problema condiviso. Qualcosa del tipo: “Hey, abbiamo questo grosso problema – così grosso che non è più solo nostro, ma anche vostro. Qualche idea per venirne fuori insieme?”. L’onere della prima mossa in questo senso spetta senz’altro ai festival, che nella maggior parte dei casi hanno gestito la situazione in maniera pasticciata e debole. Comunicati generici e poco efficaci, evidentemente affidati a uffici stampa non avvezzi a gestire questo tipo di questioni, non hanno fatto che peggiorare la situazione. Invece di arroccarsi su posizioni difensive o tentare di salvare il salvabile, i festival dovrebbero invece giocare in attacco, canalizzando il malessere che accomuna tutte la parti coinvolte per provare a rispedirlo al mittente. Ci sono già stati alcuni segnali di apertura in questa direzione. Il ministro spagnolo della cultura Ernest Urtasun ha affermato a maggio che “KKR non è il benvenuto in Spagna” esprimendo “preoccupazione” per la sua penetrazione nel settore della cultura. L’amministrazione di Rivas Vaciamadrid ha rescisso l’accordo con Sharemusic!, altra partecipata di KKR che organizza festival musicali, a partire dal prossimo anno. La creazione di una piattaforma comune potrebbe non solo amplificare ulteriormente le ragioni della protesta, ma anche incentivare il supporto istituzionale e, sul lungo termine, attivare la creazione di protocolli automatici di controllo o di una legislazione specifica che regoli gli investimenti nel settore della cultura. Infine, la situazione dovrebbe servire da monito per una riflessione più ampia sulla direzione della musica dal vivo. Il dogma della crescita a tutti costi negli ultimi venti anni ha avuto un impatto particolarmente forte sulla scena della musica elettronica, riconfezionandone le spinte più anti-normative in favore di un pubblico generalista. Ma prima o poi arriva il conto da  pagare. Oltre una certa soglia, i numeri iniziano a diventare appetibili proprio in quanto numeri, e non per quello che c’è dietro: cultura, sperimentazione, comunità. I grandi festival possono sembrare delle navi da guerra nello specchio d’acqua della musica dal vivo, ma nell’oceano del grande capitalismo finanziario sono poco più che zattere in balia delle onde – e dei pescecani. Voci in disaccordo con la logica dei macro-festival iniziavano a farsi sentire anche prima dell’arrivo di KKR, per motivi che vanno dall’appiattimento dell’esperienza all’impatto ambientale insostenibile. Ma se i dischi non si vendono più, lo streaming paga quasi zero, club e locali chiudono e i piccoli festival indipendenti soffrono l’aumento dei costi e della burocrazia, il peso dei grandi eventi nell’economia del settore cresce in modo esponenziale, fino a diventare irrinunciabile. È tempo, insomma, di ripensare il modo in cui la musica dal vivo si produce, si consuma e si performa. (brian d’aquino) 
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Mario Paciolla, il tribunale archivia il caso ma la famiglia continua a lottare
(foto di archivio famiglia paciolla) Il 30 giugno scorso il tribunale di Roma ha disposto l’archiviazione dell’inchiesta per la morte di Mario Paciolla, cooperante italiano dell’Onu trovato morto nel 2020 nella sua casa di San Vicente del Caguan, in Colombia. L’ipotesi del suicidio, sostenuta dalle autorità colombiane, è stata fortemente messa in discussione da diverse inchieste giornalistiche internazionali e dalla caparbietà nel chiedere giustizia dei genitori di Paciolla, supportati da un comitato nato dopo la sua morte. La procura di Roma ha invece ritenuto che non ci fossero elementi per aprire un nuovo procedimento e ha chiesto pertanto l’archiviazione, ora accordata dal tribunale. Al momento della sua morte Paciolla aveva trentatré anni e si trovava in missione in Colombia per conto delle Nazioni Unite, verificando l’applicazione dell’accordo di pace del 2016 tra le Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia) e il governo colombiano. Già una prima volta la procura romana aveva chiesto l’archiviazione del caso, richiesta respinta dal giudice per le indagini preliminari che aveva argomentato la sua decisione con una dettagliata ordinanza di settanta pagine, dalla quale emergevano le incongruenze e le lacune delle indagini: tra le altre, rimangono tuttora irrisolte la questione relativa alla “bonifica” fatta nell’appartamento in cui abitava Paciolla, nel quale non è stata rintracciata alcuna impronta digitale, e il ruolo rivestito nella vicenda da Christian Thompson, responsabile della sicurezza per la missione a cui partecipava il cooperante italiano, l’uomo che è arrivato prima di tutti sul luogo del delitto e che ha gestito le operazioni (qualche mese dopo la morte di Paciolla, Thompson è stato promosso a capo nazionale del Centro operazioni di sicurezza Onu a Bogotà). Oggi, 15 luglio, a cinque anni dalla morte di Paciolla, i familiari e il comitato hanno organizzato una serie di iniziative a Napoli per denunciare l’illogicità di questa decisione e chiedere giustizia per quello che, a ragion veduta, ritengono essere un omicidio. Un corteo attraverserà il centro a partire dalle 18:00, da piazza Municipio fino a piazza Dante; dopo, al parco Ventaglieri, verrà proiettata una video inchiesta sul caso realizzata dal quotidiano online Fanpage; infine, interventi al microfono di solidali, artisti e musicisti a supporto del comitato. (redazione)
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La presa della battigia a Napoli. Un corteo per riconquistare il litorale ovest
Fotogalleria di Gaia Del Piano Circa cinquecento persone hanno sfilato ieri a Bagnoli in occasione della “Presa della battigia”, la manifestazione convocata ogni anno dai comitati per il mare libero per rivendicare l’accesso alle spiagge per tutti, e per denunciare la selvaggia privatizzazione di beni pubblici e collettivi come la spiaggia e il mare. La manifestazione si è svolta lungo la costa ovest della città, con un corteo che ha percorso i quasi due chilometri che separano piazza a mare dalla spiaggia di Coroglio, mentre attivisti e abitanti del quartiere intervenivano al megafono, distribuivano materiale, appendevano giganti striscioni colorati. Diverse le tappe della pacifica invasione. Prima il Lido Fortuna, concessionario molto frequentato dai bagnolesi, ma che da qualche anno cerca con sempre maggior determinazione di impedire l’attraversamento della spiaggia a chi non vuole affittare un ombrellone o un lettino per recarsi in autonomia sulla parte di spiaggia libera. Poi il Lido comunale, una distesa di sabbia ed erba che il comune di Napoli ha dotato di ombrelloni e passerelle “per l’elioterapia”, perché da trent’anni non è capace di bonificare il mare, che rimane interdetto alla balneazione. Ancora, l’Arenile, altro stabilimento che da trent’anni affaccia su un mare interdetto, che impedisce il libero accesso verso il mare e che si trasforma al tramonto in una discoteca sulla spiaggia, facendo profitti da capogiro. Infine l’ex circolo operaio Ilva, oggi totalmente privatizzato, in quota politica al Partito democratico, e che nulla ha più a che vedere con il tessuto sociale del territorio, tanto è vero che è recintato da cancelli, sbarre automatiche e barriere di vario genere. Ogni volta che si trovavano davanti uno di questi ostacoli illegittimi, che gli impedivano di avvicinarsi al mare, i manifestanti li hanno aggirati, scavalcati o abbattuti, come quando nei pressi del Pontile nord hanno invaso la colmata a mare, che grazie alla firma di un accordo tra il sindaco-commissario Manfredi e la premier Meloni verrà lasciata lì dov’è, impedendo il ripristino della linea di costa antecedente all’industrializzazione. Il corteo ha attraversato interamente la colmata, che una volta “sigillata” sarà utilizzata per grandi eventi e altre iniziative private, a cominciare dalla Coppa America, competizione contestata dai manifestanti, anche perché grimaldello per cambiare i piani urbanistici esistenti e persino il piano di bonifica e rigenerazione urbana in attuazione. Proprio in opposizione alla nuova speculazione in atto, all’estromissione degli abitanti dalle scelte che riguardano il territorio – nonché dalla sua stessa fruizione – e facendo un verso alla più nota Luna Rossa, i manifestanti hanno varato e messo in mare un’imbarcazione dal simbolico nome “ZonaRossa”. (rosa battaglia)
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La parola della settimana. Ricordo
(disegno di ottoeffe) Remember when you were young / Ricorda quando eri giovane how the hero was never hung, / come l’eroe non finiva mai impiccato, always got away. / sempre riusciva a scappare. (john lennon, remember) Se n’è andato all’alba di venerdì, a ottantotto anni, Goffredo Fofi, “il Vecchio”, come lo chiamavano affettuosamente i miei amici più grandi, con alcuni dei quali pure negli anni se ne era detto di tutti i colori. Lucido, corrosivo, impietoso narratore e analista del mondo che ci circonda, è stato instancabile agitatore culturale e riferimento per quei pochi scrittori, autori cinematografici e teatrali, giornalisti e tutto il resto, che ancora possono più o meno dirsi degni di appartenere a queste categorie. Tutte le persone che valeva la pena conoscere, il Vecchio le conosceva e le metteva in contatto, e molte tra queste (e anche non tra queste) in questi giorni lo hanno celebrato sui giornali e sui social network. Parecchi ricordi si concludevano con aneddoti autoreferenziali del tipo “apprezzò molto il mio lavoro su…” o “avevamo spesso parlato di”. Io invece ricordo che nel 2020, dopo una presentazione di Baby Gang a cui partecipò, e a sua domanda sui miei progetti futuri, gli parlai con entusiasmo di un romanzo sulla città postindustriale a cui stavo lavorando, romanzo che forse anche grazie a lui non scriverò mai. Mi ascoltò con attenzione, mi diede un buffetto sul viso e lapidario mi disse: «Sarà sicuramente una cacata…» (qualche anno dopo, durante un pranzo con altre persone, all’improvviso mi guardò, e stupendomi perché si ricordava di quella conversazione mi disse, provocatorio: «Allora, l’hai scritto questo grande romanzo?»). Ma il bambino nel cortile si è fermato, si è stancato di seguire aquiloni. Si è seduto tra i ricordi vicini, i rumori lontani, guarda il muro e si guarda le mani. (fabrizio de andrè, le storie di ieri) In questi giorni si è molto parlato di alcuni studenti che, una volta raggiunto il punteggio minimo per superare l’esame di maturità, si sono rifiutati di sostenere il colloquio orale avendo già ufficialmente ottenuto la promozione grazie alla somma tra i crediti formativi ottenuti durante i cinque anni e i “punti” accumulati con le prove scritte. Gli studenti coinvolti hanno spiegato che la scelta è stata presa per protestare “contro i meccanismi di valutazione scolastici, l’eccessiva competitività, la mancanza di empatia del corpo docente” (il virgolettato è di Maddalena Bianchi, diciannove anni, di Belluno). Gli adulti ovviamente si sono rizelati e in molti (soprattutto docenti e dirigenti scolastici) hanno iniziato ad attaccare pubblicamente questi studenti, come se una scelta del genere non fosse coerente reazione al modello di formazione che loro stessi hanno creato, fatto di punteggi, crediti formativi, valutazioni aritmetiche per ogni scorreggia fatta dagli studenti e dalle studentesse. Raggiungo il punteggio? Sono “dentro”, arrivederci e grazie. Dio cane, dio cane, cominciava a fare quello, che era un torinese. Si chiamano barott, sono quelli della cintura torinese, dei contadini sono. Sono tuttora dei contadini, che c’hanno la terra e la moglie la lavora. Sono i pendolari, gente durissima, ottusi, senza un po’ di fantasia, pericolosi. Mica fascisti, ottusi proprio. PCI erano, pane e lavoro. […] Stavano qua a lavorare per anni, per tre anni, per dieci anni. Che uno invecchia subito e muore presto. Per quei quattro soldi che non ti bastano mai è solo un ottuso, un servo che può farlo. Restare per anni in questa prigione di merda e fare un lavoro che annienta la vita. Comunque questo qua ha il sospetto che voglio fargli il culo e allora abbandona il posto e ferma la linea. Arrivano i capi. Quando si ferma una linea si accende il rosso dove è stata fermata la linea e arrivano tutti i capi lí. Che succede? C’è questo che non vuole lavorare. Ma stai dicendo un’infamia, perché io sto lavorando, non ci riesco perché sto imparando. Mica sono intelligente come te, tu ci stai da dieci anni qua dentro è chiaro che uno come te impara tutto subito. […] Allora il capo mi dice: Senta a me sembra che lei vuole fare un po’ il lavativo. Invece deve mettersi in mente che alla Fiat si deve lavorare, non si deve fare il lavativo. Se vuole fare il lavativo vada a via Roma lí dove ci stanno gli amici suoi. Gli dico: Guardi io non lo so se a via Roma c’ho degli amici. Comunque io vengo qua perché c’ho bisogno dei soldi. Sto lavorando, non ho imparato ancora e quando imparo lavoro. Mi volete dare sei giorni di prova o no? Ma come sei giorni di prova, dice il capo, lei già sta da un mese qua. Sí, da un mese, ma stavo a quel posto là, non a questo qua. Adesso devo avere altri sei giorni di prova e lui il fuorilinea per sei giorni deve stare qua con me. Se no non faccio un cazzo. (nanni balestrini, vogliamo tutto) Al ministro Valditara, che annuncia una riforma perché questa contestazione non possa più ripetersi, verrebbe da dire che chi semina Invalsi raccoglie boicottaggi, e che siamo noi a non meritarci ragazzi che pensano con la loro testa e che si sottraggono al dogma della produttività in nome del minimo risultato utile. Personalmente, delle mie scuole superiori ho un ricordo pessimo: un edificio che assomigliava a un carcere, professori ignoranti come e più degli studenti (salvando la buona pace di un paio tra loro), competitività che fuoriusciva da ogni senga delle porte di legno scricchiolanti, incapacità dell’istituzione di fornire risposte adeguate a una platea molto eterogenea. Alla maturità presi 94/100 e se non mi venne in mente di non presentarmi all’orale è solo perché per prepararlo mi impegnai veramente poco, concentrandomi sul mio futuro. Chillu criaturo all’erta a destra, ‘o taglio a spazzolina: Vittorio Alfieri, terza C, foto ingiallita, tute d’a Lotto tutt’e juorne, niente Tod’s e Paciotti, Air Force 180 nera e blu cobalto, ‘o baffo bianco, ‘a scritta rossa ‘ncopp’o strappo identica e precisa ‘a scena ‘e Get rich or die trying, e io annanz’ ‘e vetrine ‘e Simon a Marano. ‘E 125 erano ‘a marce, sunnavo al massimo ‘a Leovinci sott’o motorino e ‘o gruppo Polini. “Chill’e Mani Pulite erano cchiù politici”, ma quanno maje nuje simm’ stati uniti… ‘E Stati Uniti e Porto Rico, è chello che vulesse ‘a Lega Nord: scennere ‘cca ‘a stagione, e sparagna’ ‘na cosa ‘e sorde. (patto mc ft. co’sang, da venti anni a mo’) (a cura di riccardo rosa)
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parola della settimana
A ognuno il suo ruolo. Note a margine del Rapporto di Antigone sulle prigioni
(disegno di rosario vicidomini) Ogni anno l’Osservatorio di Antigone stila il Rapporto sulle condizioni delle prigioni e sul funzionamento della macchina penale. Senza respiro è il ventunesimo ed è stato presentato il 21 maggio di quest’anno a Roma nella sede dell’associazione. L’analisi come sempre è rigorosa e si articola in un’area tecnica (Temi) in cui si definiscono i contorni maggiormente problematici della detenzione intra ed extra-muraria, due dossier specifici (uno riguardo ai suicidi dal 2024 al 2025, l’altro sui principali processi per tortura in corso), un’ultima area distinta di Approfondimenti riguardo agli aspetti di politica criminale ed esperienze di attivismo all’interno delle galere. Le prigioni, come da sempre sosteniamo, sono un ingranaggio nevralgico per il funzionamento dell’economia capitalistica perché rappresentano l’argine principale per la massa crescente di soggetti espulsi dal sistema produttivo. Per questo l’immagine che viene fuori dalla lettura del Rapporto è interessante per capire la fase che stiamo attraversando. Prima di ogni cosa i numeri. Il 30 aprile i detenuti presenti erano 63.445, il 30 giugno erano 62.728 in spazi che possono contenerne 51.280 (a cui devono sottrarsi ameno 4.500 posti perché spazi inagibili o in ristrutturazione). L’aumento è consistente e “se si pensa che le nostre carceri hanno una capienza media di circa trecento posti significa che la popolazione detenuta sta crescendo dell’equivalente di un nuovo carcere ogni due mesi”. Questi flussi impattano fortemente sull’economia nazionale, tuttavia il bilancio dell’Amministrazione penitenziaria indica che il costo per sostenere ogni recluso è in netta diminuzione e questo significa che all’aumento delle persone detenute non corrispondono maggiori investimenti. A ogni modo, come sempre la voce di spesa più alta dell’intero budget (61,7%) è destinata al pagamento del personale di polizia penitenziaria. A proposito dei costi destinati alla reclusione, l’Osservatorio registra il progressivo allargamento delle attività del terzo settore anche nella gestione dell’esecuzione della pena. Tale processo di privatizzazione non riguarda soltanto l’affidamento di singoli servizi a enti esterni (come la mensa o l’approvvigionamento idrico per le strutture che non hanno l’allaccio), ovvero di percorsi trattamentali (il laboratorio di teatro) e lavorativi (la sartoria) già ampiamente affidati a cooperative, ma della reclusione tout court. Il decreto legge 92/2024, convertito con legge 112/2024, disciplina le nuove “strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale dei detenuti”. Il ministero di giustizia dispone di un elenco delle strutture residenziali e per il funzionamento di questi spazi affida un finanziamento di sette milioni di euro (bacino economico di Cassa delle Ammende). La critica di Antigone è chiara: “Il comma 4 dell’art. 8 cita esplicitamente la disponibilità ad accogliere soggetti in regime di detenzione domiciliare. Quest’ultima è una forma di detenzione a tutti gli effetti, sebbene in privata dimora. Quando la privata dimora non appartiene alla persona stessa che sta scontando la pena bensì ad altro soggetto privato, e quando questo soggetto privato riceve fondi pubblici per provvedere alla reintegrazione sociale del condannato, il risultato somiglia molto a un carcere privato”. L’“impresa del bene”, cresciuta nei margini di questo settore, comincia a recuperare fette di mercato sempre più ampie. È il caso della regione Emilia-Romagna che sostiene le Comunità Educanti con i Carcerati, che propongono un programma di rieducazione del condannato gestito privatamente dalla Comunità Papa Giovanni XXIII. Anche in Campania si trova un’esperienza simile, infatti l’associazione Terra Dorea, costituita a gennaio 2025, già a maggio ha stretto un importante protocollo con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per “creare comunità educative alternative alla detenzione e, così, ridurre il sovraffollamento carcerario”. Di quest’ultima associazione si sa pochissimo, sembra nata dal nulla, ma appare già molto inserita nel contesto istituzionale della pena. Dopo un mese dalla costituzione, il 5 febbraio firma una convenzione con il Tribunale di Napoli Nord per lo svolgimento di percorsi di recupero destinati agli autori di reati di violenza domestica e di genere. Questo ente del terzo settore si sta muovendo su ogni campo del reinserimento. Spiega la giovanissima presidente, avvocata Claudia Majolo, in una delle prime note apparse sulla stampa locale: “Terra Dorea si propone come un ponte tra il carcere e la comunità, promuovendo l’educazione, la formazione professionale e il supporto psicologico. L’obiettivo è fornire gli strumenti necessari affinché chi ha vissuto l’esperienza della detenzione possa riscattarsi, facendo leva su una visione di giustizia che non si limiti alla punizione, ma che favorisca una reale trasformazione sociale e culturale”. L’immagine dell’istituzione che viene fuori dalla lettura del rapporto è di un carcere pronto a implodere di nuovo e che tenta di immaginare possibili traiettorie di riequilibrio in senso securitario, ma tali soluzioni sono del tutto inconsistenti rispetto alle contraddizioni interne e alla enorme pressione degli ingressi. Rispetto a quest’ultimo punto, è interessante la posizione del ministero espressa nel corso della presentazione romana. Il consigliere Ernesto Napolillo, ex magistrato, direttore dell’Ufficio generale detenuti e trattamento, comincia il proprio intervento senza mezzi termini: gli unici dati giusti sono quelli forniti dall’istituzione, le associazioni e gli altri enti non operano con metodo scientifico e devono occuparsi di altro. Entra poi nel merito toccando alcuni punti oggetto della discussione. L’ufficio che dirige l’ex magistrato coniuga le due tensioni del carcere: l’esigenza di sicurezza connessa alla pericolosità penitenziaria e la necessità del trattamento del detenuto. Sulla rieducazione, il consigliere penitenziario afferma senza remore che l’istituzione registra un “cronico e gravissimo problema di effettività del trattamento”. Secondo il ministero l’assenza di lavoro è la causa principale. L’autorità si dilunga, poi, esponendo il posizionamento politico: “Il modello tradizionale di carcere come luogo di segregazione votato anche al trattamento è superato… il carcere non è più il luogo della pena ma è un luogo di conquista della criminalità organizzata. Ci sono delle organizzazioni criminali che preparano i propri affiliati e li mandano in carcere per controllare le piazze di spaccio nelle carceri”. C’è la necessità, quindi, di un nuovo paradigma per riequilibrare l’istituzione ed è quello della legalità: “Garantire il diritto alla sicurezza è il miglior modo per garantire la sicurezza dei diritti”. A ognuno il proprio ruolo: il trattamento è rimesso alla società civile, al volontariato, alle organizzazioni religiose. L’istituzione, invece, deve garantire la sicurezza e l’autorità attacca la vuota retorica dei proclami delle amministrazioni precedenti: “Troppe passarelle ci sono state fino a oggi… ci sono più protocolli che attività, ci sono più iniziative di lavoro che lavoratori”. Il piano politico è coerente con una rappresentazione muscolare dell’istituzione: rispristinare la sicurezza conducendo una guerra totale. In tale prospettiva devono essere letti il decreto sicurezza (convertito in legge 80/2025) e la nuova iniziativa legislativa titolata “Operazioni sotto copertura per la sicurezza degli istituti penitenziari” che estende alla polizia penitenziaria le possibilità dell’art. 9 della legge 146/2006, ammettendo operazioni sotto copertura, uso di identità coperte e lo scudo penale per gli agenti coinvolti, purché le autorità giudiziarie siano previamente informate. Queste misure rappresentano gli armamenti giuridici per condurre il conflitto interno e impedire l’organizzazione collettiva delle lotte. Dal mondo delle prigioni emerge il coerente rafforzamento dei poteri repressivi dello Stato in una fase complicata per il capitalismo italiano ed europeo in cui si deve necessariamente conservare l’ordine sociale mentre occupazione e salari sono in caduta ripida e gli scenari di guerra esterna si fanno sempre più concreti. Ci sono tuttavia delle distonie che rendono problematica la realizzazione del programma politico. Alcune sono emerse sempre nel corso della presentazione del Rapporto di Antigone. Il sindacalista Gennarino De Fazio, segretario Uil Pa, rispondendo punto per punto alle affermazioni del dirigente dell’Amministrazione, ha ricordato che i suicidi tra le fila della polizia penitenziaria sono in aumento (l’ultimo si è ammazzato il 27 giugno, appena finito il turno con un colpo di pistola nel parcheggio del carcere di Secondigliano). La frustrazione al fronte è enorme e senza soluzione. Questa guerra si combatte senza soldati. “I detenuti sono aumentati di 5.000 unità… al di là della propaganda la polizia penitenziaria è aumentata di 133 unità che non sono andate nelle carceri ma a integrare gli uffici dipartimentali dove c’è anche il consigliere Napolillo. Il personale è sempre più senza respiro”. Il sindacalista ha criticato fortemente il graduale processo di omologazione degli agenti penitenziari agli altri corpi di polizia, perché la funzione è sostanzialmente diversa e ha attaccato duramente il piano formativo dei nuovi agenti che vengono mandati al macello con qualche giorno di corso da remoto. Tralasciando il tentativo di rafforzare la propria organizzazione di categoria, le criticità segnalate e la spaccatura interna tra la polizia che opera in trincea e i generali che governano la battaglia dalle scrivanie è reale. Lo registriamo costantemente anche nei corridoi dell’aula bunker durante le lunghe attese del processo sulla Mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Difatti, per quanto gli apparati stiano correndo per prepararsi alla guerra, da tempo le macerie sociali di questo ordine di cose aumentano. Le prigioni sono una di queste e sono pronte a esplodere. Non c’è tempo. La realtà dei fatti, al di là delle lezioni di vita dei dirigenti, è che molti istituti di pena si autogestiscono. In istituti dove persiste un sovraffollamento del 150% circa, dove è assente ogni tipo di intervento anche solo riempitivo della giornata, con le presenze di personale civile e in divisa in sottorganico, l’implosione è scongiurata solo in virtù di autogestione informale e precaria dei poteri interni ufficiosi e ufficiali. “Vengo da laggiù dove tutto è finito… e tutto ricomincia”, sono le parole della Cassandra di Dimitriadis; stiamo ricominciando daccapo ed è necessario per evitare di rimanere sepolti dalle rovine di questo mondo, rivitalizzare e moltiplicare l’organizzazione delle lotte, estendendo l’intervento a ogni ambito della riproduzione sociale. Trovare nei legami collettivi e nei percorsi di resistenza la fiducia per “l’assalto al cielo”. A ognuno il suo ruolo, questo è il nostro. (luigi romano)
detenzioni
I disoccupati organizzati e la trappola del click day. Corteo, scontri e arresti a Napoli
(disegno di escif) Da più di dieci anni uomini e donne organizzati nel Movimento Disoccupati 7 Novembre, a cui si sono poi uniti quelli del Cantiere 167 di Scampia, lottano a Napoli per una formazione qualificata e per un posto di lavoro stabile e dignitoso. Dopo tanto battagliare, e dopo una serie di rinvii, passi falsi e soluzioni fatte saltare dalle istituzioni all’ultimo momento, era previsto per stamattina l’avvio delle procedure – il cosiddetto “click day” – per l’assunzione delle platee di disoccupati storici nell’ambito di lavori di pubblica utilità. Il finanziamento dell’operazione era stato conquistato grazie a un lungo lavoro di pressione, fatto di manifestazioni, cortei e iniziative spesso conflittuali portate avanti dai disoccupati in questi anni, che hanno causato anche numerosi procedimenti giudiziari agli appartenenti ai due gruppi, talvolta fondati su bizzarre indagini come quella per associazione a delinquere: il tutto, per conquistarsi il diritto a partecipare a ottocento tirocini di un anno, pagati seicento euro al mese, che avrebbero dovuto poi comportare l’immissione in organico in aziende, anche private, che si occupano per conto del comune di Napoli di manutenzione e gestione del verde pubblico e di beni culturali. L’assegnazione di questi tirocini, però, non teneva conto dei lunghi e tortuosi percorsi svolti finora, né dei passaggi intermedi effettuati dalle centinaia di persone appartenenti ai due gruppi: corsi di formazione ministeriali nell’ambito del programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori); altri programmi statali per gli over trentacinque; esperienza volontaria nell’ambito dei servizi pubblici, della pulizia delle spiagge, della manutenzione del verde. «Il vero punto – commenta uno dei disoccupati del Movimento 7 Novembre – è la mancata assunzione di una responsabilità politica da parte delle istituzioni, locali e nazionali, che con la scusa di una presunta trasparenza, che sembra una presa in giro quando ci sono centinaia di persone che per un proprio diritto hanno lottato più di dieci anni, non hanno voluto dare conclusione a un processo di emancipazione individuale e collettiva. Una scelta ancora più assurda se l’alternativa è passare attraverso uno strumento informatico farraginoso e di fatto inutilizzabile come il portale che è stato costruito». Stamattina, in effetti, il sistema informatico si è bloccato subito dopo l’avvio della piattaforma, rendendo per ore impossibile l’accesso, e lasciando poi fuori definitivamente una buona parte dei disoccupati organizzati (considerando anche il fatto che dopo un certo numero di tentativi il sistema Click Campania bloccava l’utente, il quale non riusciva ad accedere per colpe non proprie, ed era costretto a ricominciare la procedura partendo da un cambio di credenziali). Nulla di fatto, insomma, per le centinaia di persone che si erano date appuntamento all’esterno della prefettura per affrontare la procedura, e che altro non hanno potuto fare che prendere atto del fatto che l’ennesima possibilità stava rischiando di svanire: «Ci siamo organizzati per vederci fuori la prefettura – continua M. – per espletare tutti insieme, nella massima trasparenza, l’iter che dava il diritto di accedere a un progetto che ci eravamo conquistati con anni di dura lotta. Lo abbiamo fatto perché non ci fidavamo, viste le stranezze già registrate nel corso della notte sulla piattaforma, e alla luce di come è andata evidentemente non avevamo torto». Una volta chiuse le iscrizioni, quando anche chi era finalmente riuscito a completare il processo si ritrovava sul cellulare nulla più che una ricevuta con indicazioni poco chiare per il futuro, la frustrazione si è tramutata in rabbia. Un corteo improvvisato ha cominciato a muoversi per le strade del centro città, ma è stato caricato dalla polizia che ha arrestato tre manifestanti. Subiranno un processo per direttissima domani mattina, mentre un’altra decina di persone sono state ferite. Con una serie di comunicati diffusi in giornata, i disoccupati e le disoccupate dei 7 Novembre e del Cantiere 167 hanno chiesto ai media di raccontare questa assurda giornata, e di partecipare domani mattina alla manifestazione, con conferenza stampa finale, che si svolgerà partendo dalla questura centrale di via Medina alle nove e mezza. (redazione)
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Cos’è veramente la Coppa America? Politici, imprenditori e loro lacchè lo spiegano meglio di tutti
(disegno di mario damiano) 15 maggio: il governo italiano e la Emirates Team New Zeland annunciano che la trentottesima edizione della America’s Cup Louis Vuitton si svolgerà a Napoli nell’estate 2027. Il centro nevralgico sarà il litorale di Bagnoli. La politica nazionale e locale si affanna a rivendicare un grande successo, ma in realtà le altre contendenti a ospitare la manifestazione si erano ritirate per la poca convenienza e gli eccessivi esborsi di denaro pubblico. Fratelli d’Italia piazza per le strade della municipalità giganteschi cartelloni con scritto “Grazie Giorgia!” e sullo sfondo una barca a vela. Il sindaco Manfredi, commissario per Bagnoli, sostiene che una delle cose più importanti della Coppa a Napoli è che accelererà la bonifica e rigenerazione del Sin Bagnoli-Coroglio. Un paio di mesi prima, Manfredi e Meloni avevano modificato con una sospetta fretta le leggi che obbligavano a rimuovere la colmata a mare. Quando si ricominciò a parlare della sua permanenza, commentammo: va bene, volete lasciarla lì? Allora blindatela e scrivete da qualche parte che sarà utilizzata esclusivamente per l’accesso al mare libero e gratuito dei napoletani. Nessuna risposta, anzi sì: dopo un paio di mesi viene fuori che ci costruiranno il villaggio per i velisti della Coppa. 6 giugno: Altreconomia pubblica un articolo di Lucia Tozzi sulla competizione che smonta la retorica della “convenienza per tutti” di una iniziativa di questo genere, richiamando il caso Barcellona, molto contestato nella stessa città catalana. Sul periodico La Directa è emerso che il numero dei visitatori è stato calcolato contando chiunque passasse sul lungomare nei due mesi dell’evento, ed è quindi ben lontano dai 2,5 milioni preventivati e dai circa 1,8 milioni dichiarati. Del resto, per l’edizione del 2013 a San Francisco erano stati previsti 2,6 milioni di visitatori ma quelli effettivi furono 182mila, mentre ad Auckland nel 2021 se ne contarono 52mila a fronte di 860mila annunciati. Inoltre, l’audience televisiva globale dell’edizione di Barcellona non è stata, come viene spacciato, di 941 milioni di persone ma di 64,8, circa un quindicesimo. I finanziamenti pubblici a fondo perduto hanno raggiunto i 58,8 milioni di euro, mentre le autorità portuali hanno dovuto ammettere che la Coppa ha prodotto perdite per 3,5 milioni di euro. I post nella piattaforma “No a la Copa América”, che riunisce più di 145 comitati e associazioni, testimoniano che il lavoro […] è diventato più precario, e che mentre i team coinvolti si sono portati i loro lavoratori specializzati, ai catalani è stato chiesto di fare volontariato. Giovanni Squame intanto risponde su Repubblica Napoli a un intervento dell’ex vicesindaco Marone, che ancora attaccava, a trent’anni di distanza, il piano esecutivo per Bagnoli, che tra le altre cose prevedeva la nascita di un grande parco verde e il ripristino della linea di costa, con una grande spiaggia per tutti. Attribuire la responsabilità del mancato decollo alle scelte di piano è operazione ingenerosa. Non si sottolinea invece abbastanza che quelle scelte presupponevano un intervento tutto pubblico: è razionale, un grande servizio pubblico esige un grande investimento pubblico. […] Lo stesso criterio potrebbe essere allargato alla gestione della grande spiaggia che, ricordiamo, già è limitata dalla prevista realizzazione di un porticciolo per circa settecento barche. […] La Coppa America coi suoi soldoni può essere la soluzione? Qualcuno ci spera e la invoca, bando alle ideologie. Si ricompongono i rimorsi e i pentimenti e come con una bacchetta magica si risolve un problema fermo da venticinque anni. Tutti ne ricaveranno benefici e i napoletani, quelli che non hanno le barche per solcare i mari verso i paradisi vacanzieri, dovranno continuare ad affollarsi tra Rotonda Diaz, Vigliena e un poco di Posillipo. 11 giugno: Luigi Roano firma un articolo sul Mattino in cui attacca la rete di associazioni e gruppi politici che il giorno prima si era incontrata all’ex Asilo Filangieri per avviare un percorso collettivo di opposizione alla competizione. Roano sostiene che dietro quest’incontro ci sia un tentativo di destabilizzare il “modello Napoli” e la sinergia tra comune e governo. Secondo la fantasiosa ricostruzione la rete strizzerebbe l’occhio a una alleanza in fieri tra de Magistris (basta, ancora lui!) e l’uscente non candidabile governatore De Luca. Secondo Roano i “centri sociali” sarebbero stati i più attivi partecipanti all’assemblea: in realtà (Roano non era presente, noi sì) c’erano pochissimi militanti della sinistra “antagonista”. C’erano invece molti professori universitari, esperti di diritto, urbanisti, membri della società civile. Roano magnifica Manfredi e Meloni per aver portato turisti e Coppa a Napoli, e attacca il piano De Lucia, per contestare l’idea del parco pubblico e della spiaggia libera.  Lo stesso giorno il Corriere del Mezzogiorno pubblica un articolo di Fabrizio Geremicca che racconta dell’assemblea, ma anche un pezzo, con annesso titolone, sui “numeri da record” della Coppa America. La fonte è uno studio del ministero del turismo sulla base di dati forniti da Unimpresa; il rapporto è stato presentato dalla ministra Santanchè al convegno di Confindustria Nautica. Nel documento le cifre sono approssimative, e si comincia a capire: che il governo metterà un sacco di soldi in questa cosa; che si arricchiranno solo albergatori e ristoratori; che nessun elemento attendibile esiste su quello che chiamano impact value, tra i cui “potenziali beneficiari” ci sarebbero studenti, associazioni sociali e ambientali. Senza alcuna base reale, Santanchè sostiene che “ogni euro investito nella manifestazione raddoppierà il suo valore sociale per stakeholder e territorio e, nel lungo periodo, lo potrebbe addirittura quadruplicare”. 20 giugno: viene approvato in consiglio dei ministri un decreto che assegna l’onore e onere dell’organizzazione della Coppa a Sport e Salute. L’azienda, che fa capo al ministero dello sport, avrà sette milioni e mezzo di euro per le prime spese. Il decreto sollecita la Cabina di regia dell’ente commissariale per Bagnoli a “rimodulare gli interventi già previsti nell’ambito del programma di risanamento ambientale al fine di individuare quelli prioritari necessari alla realizzazione dell’evento”. Un comitato tecnico di undici componenti, di cui sei nominati dagli organizzatori, tre dal governo, uno da Sport e Salute e uno solo dal comune di Napoli, prenderà le decisioni. È il primo caso al mondo di un commissario governativo commissariato da un ministero (in cambio, come “contentino”, il Comune potrà spendere, per favorire gli interventi necessari alla competizione, novanta milioni in deroga alle regole di bilancio – questa cosa è da ricordare ogni qual volta da palazzo San Giacomo ci diranno: “Eh, ma non ci sono i soldi per fare questo intervento”). Manfredi ci mette qualche giorno a riorganizzare le idee, ma alla fine chiede poteri speciali (per lui) e strumenti di semplificazione per gli interventi sul molo San Vincenzo e la terrazza a mare di San Giovanni a Teduccio, per i posti barca a Nisida e al Molosiglio, al fine di eludere le autorizzazioni ambientali (lo dice chiaramente, senza giri di parole). Il consiglio comunale è confinato a una specie di assemblea di condominio, anzi meno, perché nel merito delle questioni non può neppure discuterne. 24 giugno: scendono in campo gli imprenditori napoletani con un documento di “visione strategica” scritto dall’Unione Industriali, che propone una “collaborazione istituzionale rinnovata tra pubblico e privato”. In realtà, è una proposta a stravolgere i piani esistenti, peraltro ormai già ampiamente stravolti, “basati su scelte ideologiche fatte più di trent’anni fa”. Il testo ha il pregio di parlare chiaro e mostrare la posizione dei possibili investitori locali, preoccupati dal piano Manfredi-Meloni che strizza invece l’occhio al grande capitale internazionale. Le proposte? No al parco verde, al suo posto “resort per ospiti con alto potenziale di spesa”, ristoranti, centri congressi, e affidamento ai privati delle aree dedicate allo sport. 1 luglio: manifestazione organizzata dagli abitanti del Borgo Coroglio, che con l’ente commissariale stanno gestendo una complicata procedura di esproprio. Paola Minieri, rappresentante del comitato di residenti, denuncia l’assenza di dialogo con Invitalia rispetto ai tempi, sfida le istituzioni “a presentarsi con le ruspe”, comunica le imbarazzanti cifre delle valutazioni immobiliari fatte dall’ente commissariale (cinquantamila euro per una casa all’ultimo piano con vista mare, una cifra con cui non acquisti nemmeno un monolocale a sessanta chilometri dalla città). “La gente del Borgo ha sopportato l’inquinamento della fabbrica, il caos delle discoteche e adesso che viene un po’ di benessere ci cacciano via pretendendo di darci quattro spiccioli?” Al momento è noto che gli inquilini avranno una prelazione sul riacquisto degli immobili, che però, rigenerati, costeranno quattro o cinque volte tanto rispetto all’indennizzo. Minieri chiude il suo intervento: “Bloccheremo la Coppa America, diremo a tutto il mondo quello che sta succedendo qui”. 8 luglio: Repubblica Napoli pubblica un intervento di Michelangelo Russo, direttore del dipartimento di Architettura della Federico II. Russo scrive dell’importanza del mare per la città, un mare che è “cultura, storia, paesaggio, identità collettiva, memoria e possibilità” e si entusiasma per l’assegnazione della Coppa America che dà allo stesso “una rinnovata centralità”. Non si capisce se sia ingenuità, cerchiobottismo, o una candidatura a essere coinvolto nelle operazioni, ma nello stesso articolo Russo prima accoglie con soddisfazione la richiesta di poteri speciali avanzata dal sindaco (“segno di profonda sensibilità”) e poi avanza richieste per un miglioramento delle condizioni di accesso al mare per i napoletani. Più sincera e convincente appare la proposta dei comitati per il mare libero e della rete di opposizione alla Coppa (e a tutto quello che avete letto in questo articolo): “Dopo aver informato la cittadinanza dei progetti speculativi del potere, lanciamo la mobilitazione nazionale di domenica 13 luglio a Bagnoli, che consisterà nella presa della battigia per affermare che l’unica grande opera che vogliamo è una vera bonifica e la rimozione della colmata, il ripristino dell’intera linea di costa per la libera, gratuita e pulita balneazione, oltre che la nascita di un grande parco urbano. Non possiamo permettere che dopo decenni di devastazione la baia di Bagnoli diventi una zona esclusiva per ricchi con resort, alberghi e yacht di lusso, che distruggerebbe per sempre la promessa di recuperare la costa per il mare e per il verde”. (riccardo rosa)
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Da Farzåd a Langer. L’Iran e l’Italia in tempi di guerra
Nei primi giorni di giugno Farzåd è venuto a farci visita al centro di aggregazione Approdo di Garbatella, a Roma, dove ha preso vita un laboratorio radiofonico rivolto a ragazze e ragazzi delle scuole medie. Da poche ore sui titoli dei quotidiani campeggiava la notizia del cessate il fuoco in Iran e della fine della “guerra dei dodici giorni”. Prima che Farzåd facesse ingresso nella nostra redazione, ho raccontato ai ragazzi quel poco che sapevo di lui. Ha circa quaranta anni, è nato in Iran, è laureato in letteratura francese, faceva il libraio, vive in Italia da una decina d’anni, è stato il protagonista di un audio documentario trasmesso da Rai Radio3 e realizzato dall’amico e collega Ciro Colonna in cui si dava molto spazio al lavoro di Farzåd qui a Roma: il corriere in bicicletta. Per una ventina di minuti, i ragazzi lo hanno tempestato di domande. Farzåd ha risposto generosamente a ogni questione, seppure la vicenda lo facesse sempre più sudare (i ragazzi mi avevano costretta a spegnere il ventilatore, per evitare che il brusio disturbasse la registrazione). Le loro curiosità mi hanno stupita. Nel corso della chiacchierata abbiamo scoperto che Farzåd legge romanzi russi, che il suo calciatore preferito è Maradona, che tra montagna e mare sceglie montagna, che per fare le consegne utilizza una bicicletta a pedalata assistita, che il suo nome di battesimo (che non corrisponde a quello d’invenzione che stiamo utilizzando in questo articolo) deriva da un libro epico della tradizione iraniana, che è andato via dall’Iran per cercare una vita diversa, che ascolta Mina, De Andrè e la musica tradizionale iraniana, che la cosa che più lo ha colpito di Roma nei primi giorni dopo il suo arrivo erano i palazzi e i monumenti, e che, sì, anche se ci lavora, crede che boicottare G. sia una buona idea. Come nelle migliori interviste, è stato dopo, a microfono spento (e ventilatore riattivato), che Farzåd ha raccontato di questi giorni di guerra. Le notizie arrivavano frammentate, confuse. La comunicazione con la famiglia e gli amici si arrestava per interminabili ore. Lui nella calura di Roma smetteva di fare ogni cosa, il cervello si arrovellava nel tentativo di capire, tuttavia districarsi tra le tante informazioni, a volte discordanti, era impossibile. «Poi c’è stata la tregua e finalmente ho potuto riprendere a parlare con amici e parenti. Dopo gli attacchi degli hacker dello stato di Israele sulle infrastrutture digitali della tv statale dell’Iran, il governo ha deciso di disconnettere Internet sulle reti cellulari e non riuscivo a parlare con nessuno». Nei giorni successivi alcuni amici di Farzåd riescono a connettersi, lo aggiornano sui bombardamenti in tempo reale, lo mettono in contatto con i genitori, portano informazioni sulla guerra e sulle condizioni di salute dei parenti anche ad altri amici residenti all’estero. Farzåd, dal suo appartamento rovente a San Lorenzo, attende notizie giorno e notte. «L’ultima notte prima del cessate il fuoco è stata dura. In quelle ore c’è stato il più pesante attacco delle forze armate di Israele sulle città iraniane. Gli amici a Teheran riportavano le notizie dei bombardamenti e della difesa aerea da parte delle forze iraniane in diretta sulla nostra chat. Mi hanno raccontato di gente traumatizzata dagli attacchi, a molti ancora sembra di sentire i boati dopo quella notte». Dopo due giorni dalla tregua la connessione è stata riallacciata parzialmente. Farzåd passa ore intere a parlare e scrivere con gli amici in Iran, «i cittadini parlano di guerra ovunque, tutto il tempo; dicono che non è ancora finita, aspettano un’imminente minaccia; sono tutti d’accordo sull’idea che ci sarà un nuovo attacco da parte di Israele, ma ovviamente non sanno quando avverrà». Li chiamano i figli della rivoluzione, i figli della guerra. Sono le persone come Farzåd, nate a ridosso della rivoluzione del 1979 che ha rovesciato la monarchia. Sono gli stessi che sono scesi in piazza nel 2009, cantando a gran voce siamo la generazione della guerra e combattiamo fino alla fine contro lo Stato. «Storicamente accade che dopo un tentativo di rovesciamento di un regime, sia che si tratti di un colpo di stato sia che si tratti di un intervento militare di un altro paese, quando non si raggiunge il risultato desiderato, il sistema diventa ancora più aggressivo nei confronti di chi lo critica. Per ora hanno arrestato più di settecento persone e ne hanno impiccate altre sei per spionaggio. Un esempio recente di una situazione simile lo abbiamo visto in Turchia, dopo il colpo di stato fallito nel 2016, che ha portato all’arresto di tanti e alla persecuzione di vari gruppi della società turca». I genitori di Farzåd, entrambi militanti comunisti, hanno avuto un ruolo attivo nella rivoluzione del 1979, prima che si affermasse la componente islamista. Per questo motivo non hanno più potuto esercitare la loro professione (erano due insegnanti), per questa ragione la loro vita ha subito una brusca virata insperata. Racconto a Farzåd di avere parlato con altre persone di origine iraniana qui a Roma, alcuni si sono detti felici dell’attacco. «Nessuno dei miei amici ha gioito degli attacchi sulle città e sulle infrastrutture civili del paese. Anche i dissidenti in Iran non sono felici. Certo, sono felici i dissidenti monarchici che vivono nella calma e nella tranquillità delle società occidentali. Loro sì che sono contenti, credevano e speravano che con questi attacchi finisse la teocrazia. Chiaramente questa loro speranza non coincide con la realtà dei fatti. Questa gente vive in una bolla, in un’altra realtà. Chi si trova in Iran è abbastanza intelligente da vedere quello che è successo. Queste persone hanno visto già questo spettacolo in Iraq, in Libia e in Siria. Il governo genocida di Israele non può essere il salvatore del popolo iraniano. Questo fatto è chiaro ai cittadini iraniani all’interno del paese, ma non ai monarchici all’estero. Il cancelliere tedesco che afferma che “Israel is doing our dirty job” probabilmente dovrebbe pensare alle conseguenze di questo dirty job per l’Europa». Farzåd fa l’esempio della Siria e dell’Iraq e di quello che è accaduto dopo la guerra civile causata dall’intervento militare occidentale. Trenta anni fa, esattamente il 3 luglio 1995, Alexander Langer si impiccava a un albero di albicocco, alle porte di Firenze. Langer amava spesso ripetere che tutto il suo lavoro, da politico, da scrittore, da sociologo, da attivista, aveva un obiettivo: “provare a fare pace tra gli uomini e pace con il creato”. Nello sforzo di tendere verso questa meta, promuoveva trasformazioni ecologiche e trasformazioni sociali con radici ben solide nella non violenza e nel rifiuto verso ogni divisione etnica. Ho pensato a lui dopo avere incontrato Farzåd. Perché la sua storia è impastata di distorsioni, è una biografia che fa i conti spietati con un sistema in cui crisi ambientale e guerre si intrecciano indissolubilmente. E poi perché la vicenda di Farzåd costituisce un prezioso tassello di un mosaico della Storia, di quelli che Langer avrebbe saputo mirabilmente raccontare e appuntare sulla sua immancabile agendina. Salutiamo Farzåd, lo lasciamo alle sue consegne in bicicletta tra le bollenti strade di Roma e alle sue conversazioni con gli amici in Iran. E nella mente rileggo i biglietti lasciati da Langer quel 3 luglio 1995. L’ ultimo è un’esortazione: “Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”. (marzia coronati)
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La contenzione come violazione dei diritti fondamentali. La sentenza della Corte Costituzionale sui Tso
(disegno di canemorto) Con la sentenza n.76 del 2025 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità parziale dell’articolo 35 della legge 833/1978, che norma il Trattamento sanitario obbligatorio, ex articolo 3 della legge 180/78, cosiddetta “legge Basaglia”. In particolare, la sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 35 in relazione alla mancata previsione di tre garanzie fondamentali: il diritto all’informazione e comunicazione del provvedimento alla persona interessata o al suo legale rappresentante (avvocato, amministratore di sostegno, tutore o curatore); il diritto della persona a essere sentita prima della convalida; la notifica del provvedimento di Tso alla persona interessata o al suo legale rappresentante. Il giudizio di legittimità costituzionale era stato sollevato dalla Corte di Cassazione nel settembre 2024, nell’ambito di una controversia promossa da una donna sottoposta a Tso a Caltanissetta. La donna, tramite il suo avvocato, aveva presentato opposizione lamentando di non aver ricevuto alcuna notifica, di non essere stata ascoltata dal giudice e di non avere avuto strumenti effettivi per difendersi. La Cassazione, valutando il ricorso, aveva posto in evidenza una serie di gravi lacune nel procedimento, affermando che “la mancata audizione della persona da parte del giudice tutelare prima della convalida rende il controllo giudiziale meramente formale”. I giudici della Corte Costituzionale, in seguito al ricorso presentato dalla donna in Cassazione, hanno rilevato come l’articolo 35 della legge 833 non garantisca in effetti adeguate tutele, evidenziando che “il sindaco e il giudice tutelare comunicherebbero tra loro, ma nessuno dei due comunicherebbe con il paziente”. La sentenza della Corte Costituzionale dovrebbe avere da ora effetto immediato su tutti i procedimenti in corso e su quelli futuri. I sindaci, in qualità di autorità sanitarie locali, dovranno garantire, ai sensi del pronunciamento, che il provvedimento sia notificato alla persona o al suo legale rappresentante. I giudici tutelari saranno obbligati quindi ad ascoltare l’interessato prima di convalidare il trattamento e la mancata osservanza di tali garanzie potrà determinare l’illegittimità del Tso. Di prassi, il legislatore dovrebbe inoltre intervenire per adeguare il testo normativo al nuovo orientamento costituzionale. LA SENTENZA Abbiamo ritenuto opportuno approfondire i meccanismi interni della sentenza. Secondo la Corte Costituzionale l’assenza della tempestiva informazione sulle modalità di opposizione costituisce “un ostacolo rilevante all’esercizio del diritto a un ricorso effettivo alla difesa e, in ultima istanza, a un giusto processo”, anche se la 833 preveda la possibilità di chiedere la revoca del provvedimento di Tso e di proporre successiva opposizione. La Corte ha sostenuto che la non comunicazione, la mancata audizione del giudice tutelare e la mancata convalida del provvedimento rappresentino “una violazione del diritto al contraddittorio e alla difesa, dunque un deficit costituzionalmente rilevante”. Ha fatto appello in particolare ad articoli fondamentali della Costituzione: il 13, sulla libertà personale, il 24, sul diritto di difesa in giudizio, e il 111, sul giusto processo. La Consulta ha stabilito che la persona sottoposta a Tso deve essere messa a conoscenza del provvedimento restrittivo della libertà personale e deve partecipare al procedimento di convalida, in quanto titolare del diritto costituzionale di agire e di difendersi in giudizio, anche nel caso in cui si trovi in stato di “incapacità naturale”. Nella sentenza è scritto inoltre che l’audizione della persona sottoposta a Tso da parte del giudice tutelare debba avvenire prima della convalida “presso il luogo in cui la persona si trova – normalmente un reparto del servizio psichiatrico di diagnosi e cura”, perché questo incontro tra paziente e giudice “è garanzia che il trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale (articolo 13, quarto comma, della Costituzione) e nei limiti imposti dal rispetto della persona umana (articolo 32, secondo comma, della Costituzione)”. L’audizione per la convalida – che deve avvenire entro quarantotto ore – rappresenta un primo contatto che consente al giudice tutelare di conoscere le condizioni della persona, compresa “l’esistenza di una rete di sostegno familiare e sociale”. La sentenza ha fatto anche riferimento al rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che nel 2023 aveva evidenziato come il Tso in Italia segua un “formato standardizzato e ripetitivo” in cui il giudice tutelare “non incontra mai i pazienti che rimangono disinformati sul loro status legale”. La Corte non si è limitata alla questione Tso, mettendo giustamente in discussione l’analogo dispositivo amministrativo restrittivo della libertà personale che riguarda i migranti senza documenti: “L’accompagnamento coattivo alla frontiera e il trattenimento dello straniero nei centri di permanenza per il rimpatrio devono essere assistiti dal diritto di essere ascoltati dal giudice in sede di convalida, sicché sarebbe irragionevole e lesiva del principio di eguaglianza l’omessa previsione di analogo adempimento nel trattamento sanitario coattivo”.  QUARANTASETTE ANNI SENZA COSTITUZIONE Se il Tso è stato costituzionalmente illegittimo finora, chi ci garantisce che le cose cambieranno? Con che modalità queste persone saranno ascoltate? Verranno tutelate la libertà e il diritto di difesa della persona che la sentenza della Corte Costituzionale, in maniera precisa, definisce? Malgrado la sentenza abbia riportato a chiare lettere che l’audizione debba avvenire nello stesso luogo in cui la persona si trova, il tribunale di Milano ha già chiesto l’attivazione di un numero per fare le audizioni in videochiamata. Il rischio è dunque che questa nuova procedura venga risolta aggirando i dispositivi più tutelanti, in barba alla stessa sentenza. Quale tutela, quale salvaguardia di diritti potrebbe assicurare una videochiamata, magari in presenza di personale sanitario, con un paziente già sedato? In queste condizioni immaginiamo i giudici tutelari convalidare i Tso come un atto meramente burocratico: tutt’altro che come garanzia di controllo sul divieto di violenza fisica e morale indicato nella sentenza. Se la legge prevede il ricovero coatto solo in casi limitati e nel rispetto rigoroso di alcune condizioni, la realtà testimoniata da chi la psichiatria la subisce è ben diversa. Chi scrive sa bene – dopo vent’anni di esperienza accumulata attraverso lotta dura contro le pratiche manicomiali – che il protocollo della procedura di imposizione di Tso molto spesso non è applicato, e che il trattamento non è affatto un provvedimento di extrema ratio. Troppo spesso le procedure giuridiche e mediche durante il Tso vengono aggirate: nella maggior parte dei casi i ricoveri coatti sono eseguiti senza rispettare le norme che li regolano e seguono il loro corso semplicemente per il fatto che quasi nessuno è a conoscenza delle normative e dei diritti della persona. Uno degli inganni del sistema psichiatrico sta nel far credere che un Tso duri in fondo solo sette giorni, o quattordici nel caso peggiore. La verità è che il Tso implica una coatta presa in carico della persona da parte dei servizi di salute mentale del territorio che può durare per decenni. Una volta entrato in questo meccanismo infernale, una volta bollato con lo stigma della “malattia mentale”, il paziente vi rimane invischiato a vita, costretto a continue visite psichiatriche e, soprattutto, alla somministrazione obbligatoria di psicofarmaci, pena un nuovo ricovero coatto. Per i ricoverati in Tso si ricorre ancora spesso all’isolamento e alla contenzione fisica, mentre i cocktails di farmaci somministrati mirano ad annullare la coscienza di sé della persona, a renderla docile ai ritmi e alle regole ospedaliere. Il grado di spersonalizzazione e alienazione che si può raggiungere durante una settimana di Tso ha pochi eguali, anche per il bombardamento chimico a cui si è sottoposti. L’obbligo di cura non significa più necessariamente e solamente reclusione in una struttura, ma si trasforma nell’impossibilità di modificare o sospendere il trattamento psichiatrico, sotto costante minaccia di ricovero coatto, sfruttato come strumento di ricatto, punizione e repressione. IL TSO COME VIOLAZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI Come Collettivo riteniamo però che ci sia una seconda, ulteriore, considerazione di cui tenere conto. La sentenza n.76, pur non menzionando esplicitamente la contenzione meccanica, offre, a nostro avviso, un forte potenziale interpretativo critico. Il nucleo della pronuncia è il rafforzamento del controllo giurisdizionale sul Tso, tramite l’audizione preventiva e in loco della persona da parte del giudice tutelare. La Corte esplicita, ed è questo l’elemento che vorremmo sottolineare, che tale audizione è “garanzia che il trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale” (articolo 13, comma 4 della Costituzione) e “nei limiti imposti dal rispetto della persona umana” (articolo 32, comma 2 della Costituzione). La sentenza parla inoltre di “audizione”, e quindi di ascolto. Deducendo da ciò: la contenzione meccanica, essendo una limitazione fisica diretta e potenzialmente lesiva della dignità, rientra a pieno titolo nelle “violazioni fisiche e morali” e nel mancato “rispetto della persona umana”. Difficilmente si può pensare che, ascoltando la persona in stato di malessere si possa poi procedere a legarne gli arti o a limitarne la mobilità in modo pesantemente coercitivo. La sentenza, esigendo un controllo giudiziale non più formale ma sostanziale sulla concreta esecuzione del trattamento, rende ogni ricorso alla contenzione immediatamente sindacabile e, riteniamo, censurabile sotto il profilo di questi inderogabili principi costituzionali. La sua applicazione, pertanto, è ora direttamente e immediatamente riconducibile a una possibile violazione dei diritti fondamentali della persona, richiedendo una strettissima aderenza ai criteri di necessità ed eccezionalità per sfuggire alla qualificazione di violenza costituzionalmente illegittima. (collettivo antipsichiatrico antonin artaud)
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