(disegno di marco di pietro)
Né Oriente né Occidente. Vivere in un mondo nuovo (Il Mulino, 2025) è un volume
agile e divulgativo, ma allo stesso tempo complesso e necessario, attraverso il
quale Renata Pepicelli, docente di Islamologia e Storia del mondo arabo
contemporaneo all’università di Pisa, compie un’operazione importante: quella di
mostrarci come, fonti ed eventi storici alla mano, nonché un presente che ancor
di più palesa tutto ciò, il confine labile e costruito tra Oriente e Occidente
sia quanto mai strumentale ed effettivamente mai realmente esistito. Infatti, i
continui contatti tra questi due mondi, sempre in una contrapposizione e una
dialettica fertili, conflittuali ma arricchenti, hanno posto le basi per quello
che fecondamente l’autrice chiama, già nel sottotitolo del volume, un “mondo
nuovo” e che definirà poi, nel corso delle pagine, Occiriente.
Ma che cos’è e che cosa rappresenta questa ibridazione, questo modo di vivere
che attraversa i secoli, le epoche e le culture, per arrivare fino a noi, nelle
rappresentazioni, nelle nostre strade, città, margini e periferie, fabbriche,
ristoranti, aule scolastiche? Perché, proprio in riferimento al mondo
dell’educazione, questo volume e questo nuovo paradigma interpretativo appaiono
quasi profetici se si considera la data di uscita del libro (28 febbraio) e
quella delle Nuove indicazioni nazionali per il primo ciclo (11 marzo), nelle
quali il ministro Valditara e le commissioni disciplinari da lui incaricate, ci
dicono che “solo l’Occidente conosce la Storia”. E ancora: in che modo un volume
di questo tipo riesce a mettere insieme storia, quadri, canzoni, dibattito
educativo, Islam, linea del colore e italianità per rendere manifesto che è
proprio insieme che devono stare per spiegare una realtà sociale di inesorabile
complessità che si contrappone ai recenti proclami forieri di altrettanto
irriducibili semplificazioni?
Pepicelli pone questioni e risponde a queste domande con piacevole meticolosità,
rigorosa metodologia e con un linguaggio e uno stile che sanno di un’accademia
che vuole aprirsi a tutti e che non intende arroccarsi. Perché, la domanda che
più di altre balena nella mente di chi legge è questa, ulteriore e più sottile
forse di quelle, pur importanti, precedentemente esposte in queste righe: a chi
può essere destinato questo volume? chi dovrebbe leggerlo? E qui rispondo
subito, non lascio possibilità di speculazione o messa in discussione. Questo è
e dovrebbe essere un libro per tutti, ma in primis dovrebbe far parte di una
bibliografia essenziale e imprescindibile per docenti ed educatori, di giovani
studenti, di genitori che educano i propri figli in Occiriente.
Il lavoro che l’autrice svolge da anni va proprio in questo senso e cerca di
conciliare studi e ricerche con la vita vissuta, reale e presente, trasformando
questo intento in pratiche didattiche e di pensiero-azione, come sempre dovrebbe
essere nella speculazione intellettuale. Tra queste pagine l’intento è reso
vivo. Pepicelli mette sin da subito in chiaro la questione del posizionamento,
sia il suo (infatti, nel prologo, parla in prima persona, da donna occidentale
durante un viaggio in Asia) ma soprattutto quello che ognuno di noi assume, nel
nominare e definire. Scrive infatti che “nominare luoghi e territori è un
esercizio di posizionamento e di potere” per ricordarci come il potere sia
spesso intrinseco, presente ovunque, e di come quello di definire sia stato e
sia ancora, con costante frequenza, in mano all’Occidente e agli occidentali.
Quando a descriversi e spiegarsi sono gli altri, gli orientali, chi è sempre
stato dalla parte del potere vede le mappe capovolte – come nel caso delle
rappresentazioni geografiche di al-Idrisi e la Tabula Rogeriana, espressione del
mondo arabo-islamico del XII secolo – e non sempre riesce a fare lo sforzo,
doveroso e decostruttivo, di concepire questi disegni del mondo come prodotti
culturali, politici, storici, e non come assunti sempre uguali a loro stessi,
immutabili e neutrali.
La relazione tra Oriente e Occidente e, più in generale, tra Occidente e
territori e culture colonizzate, è sempre stata impari e i dominanti hanno
assunto, autoproclamandosi, il ruolo di civilizzatori e salvatori. Il “fardello
dell’uomo bianco” è un modus operandi e una scuola di pensiero facilmente
comprensibile se si guarda alla concezione della donna, in maniera particolare
di quella musulmana. Il velo, le nudità, l’harem, sono elementi sempre presenti
nella rappresentazione delle donne orientali e confermano quanto, con estrema
frequenza e ovunque, il corpo delle donne diventi un campo di battaglia sul
quale, nel caso specifico, si realizza e prende forma l’idea coloniale della
superiorità occidentale. La donna orientale è oppressa, e dagli occidentali
viene salvata per mezzo della civilizzazione che ella, fino a quel momento, non
ha avuto la fortuna e la possibilità di conoscere ed esperire: in poche parole
l’essenza stessa del colonialismo e della colonialità, ieri come oggi. Questa
parte del libro è corredata da immagini esplicative, utilissime per comprendere
a fondo il tema portante, ma anzitutto quanto le stesse (e non solo) abbiamo
contribuito già nei secoli scorsi a creare un immaginario collettivo occidentale
fortemente orientalista e coloniale. Il tema della donna islamica richiama
immediatamente quello dell’Islam, fede religiosa che nei secoli ha rappresentato
e rappresenta tuttora il perfetto alter ego della cristianità; anche in questo
caso di una cristianità assunta a elemento unificatore dell’Europa,
dell’Occidente e della cultura colonizzatrice, senza problematizzare in maniera
critica questa supposta omogeneità, né tantomeno la presenza e la rilevanza
dell’elemento islamico in Europa, sia ieri che, ancor di più, oggi.
Culture e identità sono dunque mobili, plurime e in divenire, come ci mostrano
presenze e soggettività di una qualsiasi aula scolastica italiana. Identità e
sfumature che non si vogliono vedere realmente perché in quelle quattro mura,
per molti troppo spesso anguste e limitanti, non sempre si vuole entrare. O
meglio, l’accesso avviene, ma carico di omologanti idee di standardizzazione e
assimilazione che di rado comprendono le reali esigenze di chi siede su quei
banchi e, soprattutto, vive privazioni, discriminazioni, negazioni e silenzi.
Come già accennato, il libro di Pepicelli sembra a tratti il giusto preludio
alle Nuove indicazioni nazionali ma anche un efficace contraltare a volumi dai
quali le stesse sono state ispirate, come Insegnare l’Italia. Una proposta per
la scuola dell’obbligo di Loredana Perla ed Ernesto Galli Della Loggia. La
scuola proposta in Né Oriente né Occidente si pone difatti in netta
contrapposizione con quella del momento – filogovernativa e ideologica – e
intende agire prima di tutto sulle relazioni e sul senso di comunità, per poi
farsi promotrice di una riforma dei contenuti didattici: revisione dei canoni
autoriali, studio critico di colonialismo e decolonizzazione, storia delle
migrazioni e di tutte quelle tematiche che mettono in risalto le pluralità
presenti nella società e nella scuola, al fianco di quelle più conflittuali,
finora poco affrontate proprio perché capaci di minacciare la presunta
neutralità e omogeneità nazionali.
Per concludere, l’operazione di Pepicelli appare senza dubbio ben riuscita e in
meno di duecento pagine illustra il mondo nuovo, le sue origini e l’esigenza
incontrovertibile di mettere al centro del dibattito pubblico la pluralità e
complessità dei mondi identitari presenti. In tutti i luoghi pubblici e in
maniera particolare nei contesti educativi. Perché è lì che si fa e si insegna
l’Italia, se proprio vogliamo parafrasare indicazioni e dettami ora tanto in
voga. Ma un’Italia occirientale, ça va sans dire. (sara rossetti)
Source - NapoliMONiTOR
Cronache, libri, disegni e reportages
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni)
Domani mercoledì 23 aprile (alle ore 20:30 a Galleria Toledo) si terrà l’ultima
proiezione della rassegna A fuoco!
Il terzo film in proiezione sarà Videograms of a Revolution di Harun Farocki e
Andrei Ujică. A seguire un testo introduttivo al film a cura di Francesco
Migliaccio.
* * *
Videograms of a Revolution di Farocki e Ujică recupera e monta materiali video
realizzati fra il 20 e il 25 dicembre 1989 in Romania, gli ultimi giorni del
regime di Ceaușescu. Gli autori partono da un archivio di 125 ore di girato,
vario per tipologie di immagine. Ci sono video amatoriali di cittadini: gli
sguardi scrutano prima dalle finestre o dai tetti dei palazzi, poi fluiscono
nelle strade in rivolta. Altri video furono trasmessi in diretta dal canale
televisivo nazionale, controllato dal regime socialista prima, dai rivoltosi
poi. Ancora appaiono immagini riprese dagli operatori della televisione ma
eliminate dalla diretta, oppure sequenze tratte dai fuorionda dove si prepara lo
spettacolo. Infine ci sono immagini trasmesse in differita, come le scene che
ritraggono gli ultimi momenti di vita del dittatore e della moglie poco prima di
essere fucilati. I materiali sono commentati da una voce fuori campo
protagonista all’inizio, poi sempre più marginale. Incalza il montaggio e sullo
schermo appaiono le manifestazioni contro il governo, l’ultimo discorso del
dittatore, l’assalto della folla al Comitato Centrale e alla sede della
televisione, i discorsi alla nazione del nuovo potere, gli scontri a fuoco fra
l’esercito ormai sostenitore della rivoluzione e fantomatici rimasugli di
combattenti fedeli a Ceaușescu.
Si vede in una sequenza la piazza antistante al Comitato Centrale di Bucarest.
Un operatore si trova in un furgoncino che giunge veloce e suona con veemenza
per avvertire i manifestanti. La folla si sposta per lasciare libero il
passaggio: è il mezzo della televisione e la diretta sta per raggiungere il
cuore della sommossa. Un altro operatore riprende la scena da lontano, in
posizione sopraelevata. Ecco il furgoncino che procede fra la folla. Una voce
dall’altoparlante afferma: «Fate spazio alla Televisione. Spostatevi! L’esercito
è con voi. Il popolo è l’esercito. Fate passare i mezzi della tv, così tutto il
paese vi potrà vedere! Arriveranno dei generatori e dei riflettori,
trasformeremo la notte in giorno, su questa piazza, in questa città rimasta al
buio per tutto questo tempo». Prima del crollo delle Torri Gemelle, e prima
ancora del conflitto in Iraq, un evento storico epocale si è trasformato in
diretta televisiva. E questo è stato possibile perché gli insorti non hanno
conquistato soltanto le sedi del governo, ma anche l’edificio della televisione
statale: una nuova, spettacolare Bastiglia.
Il montaggio suggerisce costanti cambi di prospettiva. Vediamo prima la diretta
ufficiale, poi i fuorionda e ancora le strade in subbuglio osservate dalla
camera di un manifestante. Questa variazione degli sguardi sfata la coesione
dello spettacolo e risveglia lo sguardo critico, ma solo in parte. In una
sequenza straordinaria un operatore amatoriale riprende il televisore in salotto
ed ecco nel piccolo schermo appare Ceaușescu in diretta impegnato per l’ultima
volta sul pulpito, poi il polso si muove e l’inquadratura sfiora le tende, i
termosifoni, gli infissi della finestra e infine si affaccia in strada dove le
persone, spaventate dai moti di protesta, si allontanano dalla piazza del
discorso presidenziale. Questo movimento rivela una verità inquietante: per
quanto il montaggio rompa la continuità della rappresentazione e moltiplichi i
punti di vista, ogni immagine proviene da una realtà integrata dove sembra non
esistere più uno scarto fra il mondo e le immagini del mondo. Nulla è fuori
dallo spettacolo ed esso si può moltiplicare in innumerevoli prospettive.
Alla fine del film si vede una sala in penombra dove importanti notizie stanno
per essere annunciate dal televisore. Persone sono in piedi in trepida attesa,
seduti stanno alcuni operatori con le macchine da presa rivolte allo schermo. La
voce che commenta torna a parlare dopo un lungo silenzio: «Le telecamere […]
aspettano che lo schermo mostri le immagini dell’unica telecamera che ha accesso
all’evento. Telecamera ed evento. Sin dalla sua invenzione, il cinema sembrava
destinato a rendere visibile la Storia. Poteva rappresentare il passato e
mettere in scena il presente. Abbiamo visto Napoleone a cavallo e Lenin in
treno. Il cinema è stato possibile proprio grazie alla Storia. Senza
accorgercene, come in balia dell’anello di Moebius, abbiamo girato lo sguardo.
Guardiamo e siamo pronti a riflettere: se il cinema è possibile, lo è anche la
Storia». In Videograms of a Revolution il montaggio non distrugge il flusso
dell’immagine che crea l’evento, non può più averne la forza, ma si limita a
distorcerlo affinché possa sorgere almeno, nello spettatore, una consapevolezza.
Sappiamo che nel primo giorno di battaglia nella rivoluzione del 1830 in molti
luoghi, “indipendentemente e nello stesso tempo”, si sparava “contro gli orologi
delle torri”. Si interrompeva il tempo della produzione, o della storia. Forse,
la prossima volta, ci sarà da interrompere le trasmissioni. (francesco
migliaccio)
(disegno di ottoeffe)
Avevamo una gag, con El Trinche Carlovich, che prendeva un po’ in giro Nicolao
Dumitru, giocatore del Napoli nel 2010-11. In realtà la gag era
sull’incontentabilità del tifoso partenopeo che, spazientito per le prestazioni
del calciatore, se la prendeva con lui a ogni occasione, chiedendogli più
sfrontatezza quando lo vedeva timido e diligente in campo, e più umiltà non
appena il povero Dumitru tentava una giocata. Questo atteggiamento provocava
crisi di identità al ragazzo, fino a fargli chiedere all’allenatore di tenerlo
in panchina (vero è che a fine stagione Dumitru andò via da Napoli e non combinò
più nulla in carriera)
Quella gag diventò uno dei migliori pezzi tra i fake che di tanto in tanto ci
divertiamo a pubblicare, talmente riuscito che il procuratore o l’avvocato, ora
non ricordo, del calciatore, ci mandò una mail intimandoci di rimuoverlo (una
cosa simile successe anche con uno dei nostri bersagli preferiti, lo scrittore
Maurizio De Giovanni; per questo articolo Bassolino e i suoi si divertirono
invece parecchio). Più divertente ancora, fu che il pezzo su Dumitru – confuso
dai più per una vera intervista – cominciò a girare sui siti web dedicati al
Napoli, dando vita a un dibattito tra tifosi che riproponeva gli stessi
atteggiamenti su cui noi credevamo di scherzare.
(screenshot dal forum di partenopeo.net)
Nel 2023 il Napoli vinse lo scudetto con largo anticipo. Travolti dal fiume di
retorica che scorreva tra le pagine dei quotidiani, decidemmo di pubblicare un
intero giornale fake. Ancora una volta, i più distratti lo scambiarono per una
cosa reale.
In questi anni ho imparato a fare tutto: ho scritto libri e racconti, ho
mostrato il calcio e la politica, sono stato dalla parte dei deboli e ho girato
spot per gli Agnelli e film commissionati da Hollywood. Ma sono rimasto il
ragazzo con l’orecchino che non ci credeva che “solo ‘e strunz’ vanno a Roma”.
Sono andato e tornato, di nascosto, tanto che una notte di due anni fa un
barbone davanti al centro Paradiso, stupito nel vedermi piangere e baciare un
santino di Ciccio Romano, mi disse: “M’a vuo’ ra’ ‘na sigarett’?”. Va così,
quando mi perdo e la mente vaga. Torno nel mio film.
C’è Silvio Orlando che scrocca le partite sul pezzotto; c’è Bentivoglio che
interpreta De Laurentiis e sale sul motorino di un passante gridando: “Siete
delle merde!”; c’è Morgan Freeman in un flash forward metaforico su Osimhen da
vecchio, che spezza le sue catene e cammina sul prato del Paradiso circondato da
fenicotteri che no, non so che cazzo vogliono dire, ma comunque ce li devo
mettere. (paolo sorrentino, il mio film tricolore in: la gazzella dello sport)
In napoletano c’è una parola che, come l’inglese fake, vuol dire molto di più di
“falso”. “Pezzotto” è la app pirata che ti permette di vedere le partite pagando
un quarto del costo di Sky e Dazn (già negli anni Novanta esistevano le “schede
pezzottate” di Stream e Tele+); “pezzottati” erano i vestiti di marca simili
all’originale ma cuciti chissà dove e smerciati nei mercati di strada (oggi il
termine è passato di moda a favore di “paralleli”); “pezzotta” è una ragazza
bassina e dal carattere forte, “pezzotto” era il cd masterizzato con l’ultimo
album di Tizio o Caio o il gioco appena uscito per la Play Station, ma anche
la zeppa che si infila sotto a un tavolo o un mobile traballante, o una persona
che cerca di imitare altri senza successo.
Compa’ si bell’ comme ‘a sta palla e leccame ‘a caramella che tengo acopp’.
‘O vero mast’ ‘e festa,
‘o peggio guastafeste p’e pezzott’,
vengo aropp’ l’otto pecchè song’ ‘o guaje ‘e notte. […]
Chesta è ‘a ricett si sì ‘nu favez’ MC,
siente e statte: uno, doje, tre e quatte!
Chiste so’ ‘e nummere e accussì va ‘o fatto,
‘ngopp’ ‘o beat spaccamm’ ‘o pezzotto: cinche, sei, sette e otto!
(la famiglia; uno, due, tre e quatto)
Donald Trump ha respinto in settimana la richiesta di un giudice di fornire
informazioni sulla sorte di un migrante erroneamente deportato in El Salvador.
Kilmar Abrego Garcia è stato arrestato il 12 marzo da agenti della polizia
dell’immigrazione e deportato con altre duecentocinquanta persone circa,
ritenute appartenenti a gang che il governo ha equiparato a organizzazioni
terroristiche, utilizzando una legge che gli consente di farlo in caso di guerre
o invasioni. La cosa più inquietante (oltre al fatto che questa storia non è
troppo diversa da quanto accade in Italia) è che in America sta succedendo un
casino per questo poveraccio che non ha nulla a che vedere con la criminalità,
ma nessuno mette realmente in discussione quella che è una vera deportazione
in violazione totale dei diritti umani, basata peraltro su una serie infinta di
fake news. Tanti americani – ma in realtà è un’impostazione, questa, condivisa
da opinioni pubbliche e governi di ogni paese, quando si parla di mafiosi,
camorristi, stupratori – pensano semplicemente che essendo questi uomini
terroristi, sia lecito somministrargli qualsiasi tortura usando qualsiasi
metodo.
.
I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei ministri
e i ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per sapere […]: 1) se il
Governo sia a conoscenza del fatto che, nel corso dell’interrogatorio del 2
febbraio 1982 di fronte al sostituto procuratore della Repubblica di Verona, il
terrorista Cesare Di Lenardo, arrestato nella base di via Pindemonte a Padova
(dove le Brigate rosse tenevano sequestrato il generale della Nato, James Lee
Dozier), avrebbe dichiarato di essere stato sottoposto a tortura: bruciatura su
una mano, tagliuzzamenti ai polpacci delle gambe, scosse elettriche ai
testicoli, rottura di un timpano, finta fucilazione in aperta campagna,
percosse, denudamento, forzato ingerimento di acqua e sale, eccetera; […] 3) se
il Governo sia a conoscenza del fatto che, sui fatti denunciati, la procura
della Repubblica di Padova […] ha aperto una inchiesta giudiziaria […] 4) se il
Governo non ritenga che quanto sopra esposto […] contrasti totalmente con le sue
smentite, tanto più essendo stati smentiti fatti di tale natura anche
specificatamente e nominativamente in relazione al caso del terrorista Di
Lenardo; 5) se il Governo non ritenga doveroso rettificare, di fronte alla
Camera, le affermazioni non vere fatte nel corso della seduta del 15
febbraio. (boato, bonino, pinto, mellini; interrogazione alla camera dei
deputati del 22 marzo 1982)
(immagine da: les complotistes)
Un’amica mi ha regalato qualche settimana fa un fumetto francese dal titolo Les
Complotistes, facendo riferimento alla mia tendenza a vedere ovunque inganni,
insidie, falsi amici e profeti (va detto che il novanta per cento delle volte il
tempo mi dà ragione). Mi ero quasi offeso nel leggerlo, sentendomi accostato a
terrapiattisti e company, poi per fortuna il libricino, e la mia amica, si sono
salvati all’ultima tavola, quando gli autori ci fanno capire che il problema in
fondo non sono le scie chimiche e i cerchi nel grano, ma il capitalismo.
(a cura di riccardo rosa)
(disegno di adriana marineo)
Per circa un anno, alcune ex-lavoratrici dell’associazione Almaterra, insieme ad
altre lavoratrici del terzo settore, hanno portato avanti una mobilitazione
contro le condizioni di sfruttamento nel settore sociale. La contestazione
contro Almaterra è nata quando alcune operatrici hanno deciso di portare alla
luce un episodio di aggressione e ritorsione nei confronti di una collega, a cui
hanno fatto seguito licenziamenti ed estromissioni dall’organo associativo. Le
ex-lavoratrici hanno iniziato una vertenza, chiedendo quello che spetta loro per
gli straordinari non pagati e imposti come volontariato obbligatorio e il
riconoscimento del reale inquadramento contrattuale.
Dando seguito a precedenti assemblee pubbliche per discutere il tema del lavoro
sociale in città, l’11 febbraio un presidio di fronte al tribunale ha portato
solidarietà alle lavoratrici in occasione della prima udienza, con
l’associazione chiamata in giudizio a causa dei licenziamenti impiegati come
ritorsione e quindi ingiustificati. Poi, il 5 marzo, un presidio si è radunato
davanti alla sede della Compagnia di San Paolo per raccontare il ruolo che
questo ente gioca nella trasformazione del terzo settore in uno strumento di
profitto e controllo. Questi momenti sono stati un’occasione per condividere le
proprie esperienze e gli strumenti possibili per costruire una lotta.
* * *
Almaterra è un’associazione del terzo settore di Torino che si presenta come
“un’associazione di donne femministe e transfemministe di diversi paesi”. Il
Centro interculturale delle donne Alma Mater, situato presso un ex edificio
scolastico, nacque su iniziativa di un gruppo di donne riunitesi a partire dal
1990 e fu inaugurato nel dicembre del 1993: oggi è gestito dall’associazione,
istituita nel 1994 proprio a tale scopo.
Nata all’interno della tradizione femminista, Almaterra a oggi lavora su
progetti interculturali dedicati all’empowerment femminile, all’accessibilità al
mercato del lavoro e all’inclusione sociale e culturale delle donne, occupandosi
di questioni di genere e violenza di genere. L’associazione offre un’ampia gamma
di servizi dedicati alle donne e alle soggettività femminili: corsi di
alfabetizzazione, sportello di orientamento sociale, sportello lavoro, sportello
psicologico, consulenza legale, ludoteca, mensa, uno sportello di segreteria e
altro. Inoltre promuove un insieme di progetti che includono sia attività
interne al Centro sia azioni esterne, realizzate attraverso collaborazioni e
convenzioni con istituzioni ed enti, pubblici e privati, a livello locale e non
solo. Tra questi attualmente si annoverano un’unità di contatto per sexworkers e
vittime di tratta; un progetto dedicato alle diverse forme di fragilità sociale
e rivolto alle circoscrizioni 5 e 6 della città, di cui è capofila Arci Torino;
e alcuni progetti correlati all’emergenza abitativa, tra cui un social
housing che offre una sistemazione temporanea a seguito della perdita della
casa.
Almaterra è sostenuta dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dalla
Regione Piemonte, dalla Città di Torino e da UNAR (Ufficio Nazionale
Antidiscriminazioni Razziali), oltre che da una serie di attori privati tra cui
spiccano la fondazione Compagnia di San Paolo e la fondazione CRT.
L’associazione è inoltre un ente accreditato per il Servizio Civile Universale e
accoglie giovani partecipanti al servizio civile, avvalendosi del loro
contributo, oltre che di una più ampia attività di volontariato, definita da
Almaterra stessa “il cuore pulsante della associazione”.
Nel 2023, Almaterra ha partecipato al bando Next Generation You promosso da
Compagnia di San Paolo, un bando volto a promuovere tra le realtà del terzo
settore strumenti gestionali e economici più efficienti, attraverso la
definizione di ruoli interni ben circoscritti, organigrammi, processi
decisionali definiti e verticistici: in pratica un processo di aziendalizzazione
del lavoro sociale. Le associazioni che accedono ai finanziamenti di questo
bando sono tenute a rispettare rigide linee guida, simili a quelle imposte dagli
istituti bancari, e a conformarsi a criteri di efficienza, produttività e
sostenibilità economica tipici del settore privato. Le realtà del sociale sono
così spinte a uniformarsi a una condotta operativa che di fatto incrementa la
standardizzazione delle pratiche e rafforza le dinamiche di controllo e
subordinazione nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici, così come nei
confronti delle persone beneficiarie dei servizi.
Di pari passo con la ridefinizione in chiave sempre più orientata al profitto,
le lavoratrici di Almaterra hanno registrato all’interno dell’associazione
condizioni di forte stress lavorativo, carichi di lavoro eccessivi senza alcun
aumento della retribuzione, l’imposizione del volontariato come obbligatorio,
finanche episodi di prevaricazione nei loro confronti. Le condizioni di
inquadramento e di retribuzione per loro erano quelle di contratti precari e a
tempo determinato, con compensi forfettari a cadenza trimestrale posticipata, e
contratti firmati a posteriori. Erano inoltre inquadrate con contratti di
co-co-co, pur a fronte della richiesta effettiva di una presenza invece
costante, de facto full time, e pur essendo investite di mansioni di
responsabilità e di coordinamento.
Nel febbraio 2024 Almaterra interrompe il contratto di una lavoratrice in
seguito a un episodio nel quale la stessa ha preso le difese della cuoca della
mensa durante una lite con un’amministratrice dell’associazione, ed è stata da
quest’ultima aggredita verbalmente e fisicamente. In seguito alcune colleghe,
che palesano la loro solidarietà alla lavoratrice, ed esprimono la necessita di
risolvere i contrasti interni all’ente, a loro volta sono estromesse dal
lavoro.
Nel suo sito web Almaterra si richiama a valori quali “il rispetto,
l’accoglienza, la solidarietà e la dignità umana” e dichiara “l’intenzione di
contribuire alla decostruzione dei pregiudizi e alla costruzione di comunità”.
L’associazione si presenta come inclusiva e attenta alle discriminazioni,
fornisce un’immagine che deve passare all’esterno, ma è notevole il contrasto
con la realtà interna mostrata da questi fatti. Sotto la veste del lavoro di
cura si riproducono meccanismi di oppressione. Anche nei confronti dei
beneficiari dei servizi, a dispetto della immagine proposta, le lavoratrici
testimoniano di atteggiamenti discriminatori e infantilizzanti, di logiche
premiali e orientate al disciplinamento delle persone che si rivolgono
all’associazione e la attraversano.
La narrazione di Almaterra appare quindi come un’appropriazione dei valori e del
linguaggio dei movimenti sociali e dei contesti di cura: parole come
“accoglienza”, “inclusione”, “empatia” vengono utilizzate per costruire
un’immagine positiva, forse utile per attirare soggetti (possibili volontari)
animati da determinati valori, ma nella sostanza si legittimano nuove forme di
precarietà e disciplinamento.
Il caso di Almaterra mette in luce caratteri comuni a tutto il terzo settore: il
carico sui lavoratori e le lavoratrici di grandi responsabilità, il ricatto del
rinnovo contrattuale, la richiesta di reperibilità continue e disponibilità al
sacrificio a fronte di “una buona causa”. La strumentalizzazione della volontà
di aiutare il prossimo si concretizza spesso, per di più, senza che venga
fornito il dovuto supporto psicologico in caso di situazioni emotivamente
destabilizzanti e senza i dovuti riconoscimenti a livello di retribuzione e
tutele del lavoratore. A partire dalle rivendicazioni e dalle voci coraggiose
delle lavoratrici di Almaterra, si apre forse uno spiraglio per uno sguardo, una
lettura e un discorso critici sul lavoro sociale in città, e per una analisi
critica dei suoi attori. (voce a cura di stefania spinelli)
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QUI L’INDICE DELLA CARTOGRAFIA
(archivio disegni napolimonitor)
L’11 aprile quaranta migranti sono stati trasferiti da centri di permanenza per
il rimpatrio italiani a uno dei centri di detenzione amministrativa di Gjadër,
in Albania. Da alcune testimonianze si è evinto che i migranti sono stati legati
per tutto il viaggio e la fase di sbarco con fascette ai polsi, compresi i
momenti dei pasti e di utilizzo dei servizi igienici (pratica rivendicata
orgogliosamente dai ministri Piantedosi e Salvini).
Poco dopo l’arrivo in Albania i detenuti si sono organizzati e hanno avviato una
protesta. L’Ansa ha comunicato che dopo queste proteste dieci dei quaranta
migranti sono stati reclusi nel carcere del centro, sotto il controllo della
polizia penitenziaria. Qualche ora dopo il Viminale ha smentito, senza tuttavia
diffondere altri elementi.
L’operatività della prigione mascherata per migranti richiedenti asilo,
esternalizzata in Albania su iniziativa del governo Meloni, è finora rimasta
inattuata a causa dello stop da parte dei tribunali italiani. Nonostante le
dichiarazioni ufficiali, ostacoli giuridici hanno bloccato l’avvio
dell’operazione, in particolare relativi alla compatibilità di questa misura con
la normativa europea.
I centri “delocalizzati” sono l’emblema del trattamento differenziato riservato
alle persone migranti, come ha sottolineato l’Asgi. Per “risolvere” il problema
giuridico, il governo ha approvato un decreto, il 28 marzo, trasformando quei
centri in Cpr. Da tempo, d’altronde, il ministro Piantedosi sostiene la
necessità di allargare la rete dei centri di permanenza per il rimpatrio, e il
trasferimento a Gjadër rappresenta un ulteriore colpo al diritto delle persone
migranti, isolate con la deportazione in Albania ancora di più, e con una minore
possibilità – per esempio – di entrare in contatto con i rispettivi legali.
Il sistema della detenzione amministrativa illustra perfettamente il rapporto
che intercorre tra dinamiche di repressione dello Stato e l’accumulazione di
profitto da parte dei privati. Sebbene le strutture siano finanziate dal
governo, la loro gestione è affidata a cooperative e aziende, guidate
esclusivamente dall’obiettivo della massimizzazione dei guadagni. Nati nella
forma di Centri di Permanenza Temporanea (Cpt) nel 1998, gli attuali Cpr sono
diventati simbolo di sofferenza quotidiana, abusi sistematici e violazioni dei
diritti umani protratte in un tempo lunghissimo.
Se la legge Turco-Napolitano aveva previsto che i migranti irregolari potessero
essere trattenuti per un periodo massimo di trenta giorni, ben presto la durata
di questa detenzione venne aumentata. Con la legge Bossi-Fini (governo di
centrodestra) del 2002 venne estesa a sessanta giorni, mentre il decreto
Minniti-Orlando del 2017 (governo di centrosinistra) trasformò i Cpt in Cpr,
innalzando la durata a novanta giorni. Nel 2018, il decreto Sicurezza firmato da
Matteo Salvini la aumentò ulteriormente a centottanta, riducendo nel contempo le
possibilità di regolarizzazione attraverso la protezione umanitaria. Infine, nel
2023, il governo Meloni ha innalzato la durata della detenzione fino a dodici
mesi anche per i richiedenti asilo (oltre a siglare l’accordo di cui sopra con
l’Albania).
Le sofferenze patite dai migranti nei centri italiani sono state ampiamente
provate negli anni. Sovraffollamento, carenze igienico-sanitarie, cibo di scarsa
qualità, uso indiscriminato di psicofarmaci sono solo alcuni tra questi. I
farmaci vengono utilizzati in grande quantità e senza consenso del “paziente”,
non solo per “gestire” il malessere psicologico ma anche per sedare la tendenza
a protestare, naturale in quelle condizioni. Numerose sono le testimonianze di
migranti che hanno sviluppato dipendenze o subito danni permanenti a causa di
trattamenti farmacologici imposti, senza alcun supporto o cura adeguata. Anche
le morti, per suicidi indotti dalla prigionia, sono tristemente note.
Della storia di Wissem Ben Abdel Latif questo giornale si è occupato e si
continua di occupare da tempo. Nel 2022 un’inchiesta è stata aperta nei
confronti di un medico del Cpr di Ponte Galeria per la morte di Mustafà Fannane,
con l’accusa di avergli somministrato trattamenti inadeguati. Ousmane Sylla e
Moussa Balde, invece, si sono tolti la vita nei Cpr rispettivamente di Ponte
Galeria e Torino (una delle strutture più infami). Belmaan Oussama è morto nel
Cpr di Palazzo San Gervasio nel luglio 2024, mentre Aziz Tarhouni ha più volte
tentato il suicidio, in uno stato di estrema sofferenza psichica, mentre era
detenuto a Trapani-Milo. (luna casarotti)
(disegno di martina di gennaro)
Quello per un maggiore finanziamento dell’università pubblica italiana è senza
dubbio uno dei tanti ritornelli che hanno compiuto la maggiore età riecheggiando
nelle piazze italiane. Praticamente a vuoto: se c’è stata infatti qualche
controtendenza al più generale trend di tagli alla spesa per la ricerca, è stato
più per unicum occasionali (come le borse Pnrr post-emergenza Covid) che per la
spinta arrivata dai movimenti di lotta.
Tranne rare eccezioni, a scandire la richiesta sono sempre quelli che,
eventualmente, ne trarrebbero giovamento in termini di assunzione (quella
categoria di precari che restano fuori per un pelo dai meccanismi della
cooptazione). A manifestarsi, anche a questo giro di boa, infatti, sono stati
quasi solo l’attuale generazione di dottorandi, gli assegnisti e qualche
ricercatore più agée. Pochissime voci si levano dai palazzi dorati dei baroni,
dei loro coscritti e delle anime pie, e ne è una prova tangibile il sostegno
della Conferenza dei rettori (Crui) al colpo di grazia targato Anna Maria
Bernini.
Men che meno protesta la base di giovani ricercatori che in questo quarto di
secolo hanno transitato per l’accademia italiana, rimanendone tagliati fuori
circa il novanta per cento di quelli che la tentano, cioè circa novemila dei
diecimila dottorandi annui (di questi, il quattordici per cento circa ha
intrapreso un esodo che li ha portati nelle università estere, mentre gli altri
hanno trovato sbocchi in professioni diverse: il venti per cento, per esempio,
ha ripiegato sull’insegnamento nel sistema scolastico).
Queste persone sono felicemente uscite dal sistema torbido
dell’università, fatto di ricatti, vessazioni, angherie, battaglie fra correnti,
favoritismi, nepotismi e un livello qualitativo sempre più basso. Ben quattro su
dieci non ripeterebbero l’esperienza del dottorato (dato Istat, 2018) tanto che
viene da pensare che forse è anche in ragione di questo che non arriva, da loro,
alcun invito a un ripensamento, né alcun appello a favore dei finanziamenti per
la ricerca.
Eppure farebbe la differenza, se oltre duecentomila ex-dottorandi (a fronte di
centotrentamila strutturati accademici) lottassero per migliorare gli
investimenti pubblici per quello che, nei loro anni migliori, hanno pensato
potesse essere un modo utile di stare al mondo.
Da questo dato di partenza andrebbe forse analizzata la condizione attuale di
una battaglia che, nella sua perenne ricorsività, rischia di perdere a ogni giro
credibilità e richiamo. Se a difendere l’idea di aumentare i finanziamenti
all’attuale università è soprattutto chi ne avrebbe un diretto interesse,
l’alveo all’interno del quale ci muoviamo diventa quello di una lotta meramente
sindacale, una lotta, cioè, fatta per migliorare le condizioni di chi è già
dentro o che, al massimo, a questo mondo gira un po’ intorno. Non che questo sia
sbagliato, anzi: riconoscerla in questi termini permetterebbe probabilmente un
cambio di strategia che forse la renderebbe efficace. Ma così non va.
La richiesta di aumentare i finanziamenti alle università pubbliche, infatti, è
sempre accompagnata da ragionamenti ideologici di pretesa di universalistica. Si
cerca di argomentare rispetto al ruolo del sapere come strumento di crescita
della società, o di convincere della necessità di investire nella ricerca per
migliorare l’innovazione. Battaglie sacrosante, che dovrebbero trovare anzi ben
più ampie alleanze sociali. Se solo fossero vere. Se cioè, davvero, l’università
servisse a contribuire, anche per una piccola parte, al servizio pubblico cui
pretende di farsi carico. Ancora: se fosse davvero tangibile queto presunto
ruolo virtuoso dell’università nei processi democratici, nell’innovazione, nella
produzione di conoscenza pubblica, il tema riguardante il suo futuro non
travalicherebbe forse gli asfittici cortili delle facoltà?
Resta da chiedersi quali siano i motivi per cui l’università ha perso la sua
vocazione, e quindi anche la sua funzione. La colpa è forse della
burocratizzazione che schiaccia la vita lavorativa degli accademici? Della
perenne competizione cui sono costretti i gruppi di ricerca per praticare la
loro sopravvivenza? Che abbia colpa un modello intrinsecamente disciplinare e
incapace di trasformarsi per rispondere alle sfide dell’oggi? Che la
responsabilità risieda, ancora, nei meccanismi di cooptazione che asfissiano il
ricambio basato sul merito, incorporando personale sempre meno capace e libere?
Probabilmente, la risposta è nella somma di tutte queste e molte altre cose. Il
fatto centrale, tuttavia, è che non possiamo più ignorare il gap che c’è tra
società e università, quella distanza che isola e fa riecheggiare nel vuoto la
richiesta di adeguare, per esempio, i finanziamenti agli standard europei.
Continuare a raccontare che possiamo spegnere l’incendio con un arredamento rinnovato,
mentre fuori brucia l’intera città, non è utile alla causa, e venticinque anni
di progressivo isolamento dovrebbero contribuire a farci venire il dubbio.
Davvero si crede possibile che in un contesto in cui il disinvestimento pubblico
colpisce direttamente la vita del paese, nei crudi termini materiali di
infrastrutture scolastiche, mediche, di mobilità e trasporti, di tenuta dei
territori ai disastri ambientali e idro-geologici si possano stringere alleanze,
e pretendere di mettere la salvaguardia dell’università tra le priorità delle
lotte sociali? Allo stesso modo: si crede davvero che raggiungere standard di
finanziamenti di livello europei contribuisca ad avere migliori università?
Naturalmente non si tratta di buttare al fiume il bambino con l’acqua sporca.
Siamo tutti consci di piccole ma importanti sacche di resistenza, che con salti
carpiati ed esercizi faticosissimi mantengono viva l’eredità della via
italiana. Ma se parliamo di una crisi sistemica, con danni alle fondamenta, non
possiamo di certo cullarci sulle rare riserve indiane delle “eccellenze”.
Ciò che dovremmo piuttosto fare è forse prendere atto della portata della sfida
e contribuire a smantellare l’attuale ordine delle cose. Se il sistema è
irriformabile, non lo sono le ragioni che gli hanno dato vita e l’hanno fatto
esistere fino a oggi.
Non esistono scorciatoie: dobbiamo immaginare le universitas del domani, una
evoluzione di quella di oggi che, agonizzante, muore. Rimanere aggrappati a
piangerla e implorare i medici perché possa respirare altri cinque minuti sta
facendo sfuggire di mano l’occasione di vederne rinascere i principi fondativi.
Gli Stati Uniti sono i precursori dei peggiori trend che, a scalare toccano gli
altri paesi occidentali, che prontamente gli vanno a ruota. Tra gli obiettivi
dell’amministrazione Trump, in continuità con le tendenze già intuite dalle
forze di mercato, c’è la definitiva distruzione dell’università americana e la
sua trasformazione in fondazioni private che con quei meccanismi (di mercato)
funzionino. La destra ha colto, in America, la crisi dell’università, e la sua
separazione dalle necessità del corpo sociale per minarne i principi fondativi;
per mettere in dubbio, cioè, l’idea che il sapere e la scienza siano strumenti
utili al miglioramento delle condizioni della specie umana. Stanno distruggendo
l’università per trasformarla in uno strumento al servizio del mercato,
approfittando della crepa aperta con la società per trarne vantaggio.
La destra mondiale sta dimostrando di avere, su questo come in altri campi, la
carta vincente di volere immaginare il futuro. A differenza dei
progressisti-liberali lavora ancora agli immaginari, piuttosto che aggrapparsi
al mantenimento dello stato di cose presenti. Così è riuscita a concepire il
superamento dell’università, chiaramente a favore degli interessi di mercato. E
la sta praticando con misure draconiane.
Se le forze trasformative non si faranno carico di una capacità immaginativa
all’altezza soccomberanno sotto gli stessi colpi, e l’unica differenza con gli
Usa sarà nella tempistica: ci vorrà un po’ più di tempo per picconare una
istituzione millenaria, elitaria e ancora molto radicata nella cultura europea,
ma quel giorno arriverà, magari sull’onda di altre urgenze come un riarmo
qualsiasi. Il solco è tracciato, e se non saremo capaci di cambiargli verso, ci
resteremo seppelliti dentro. (lori sodo)
(disegno di cyop&kaf)
Durante il corso di scrittura che teniamo in questo periodo in redazione, per
parlare di interviste e storie di vita ci è capitato di rispolverare un vecchio
articolo uscito quando facevamo un piccolo festival dal titolo “Chi racconta la
città”, ai tempi del mensile cartaceo.
Dentro ci sono due persone che ci hanno insegnato molto e a cui vogliamo bene:
Sandro Portelli, che parla di Studs Terkel. Abbiamo pensato che, oltre che ai
partecipanti al corso, andava riproposto a tutti. Potete leggerlo qui di
seguito.
* * *
Se domandare, come ascoltare, sono pratiche che s’imparano assecondando una
cocciuta curiosità, il confronto con chi ne ha fatto ragione di vita diventa il
momento di riflettere sul come e sul perché. Animare gli spazi consueti con la
differenza, seguire altre voci e percorsi, disporsi davanti ai metodi della
ricerca con spirito critico. Alessandro Portelli, professore di letteratura
angloamericana alla Sapienza di Roma e storico orale, è approdato da giovane
negli Stati Uniti, c’è rimasto impigliato, tra andate e ritorni, per trent’anni,
raccogliendo storie dalla viva voce di un’affollata assise d’individui:
rappresentanti sindacali e outsider, celebrità e gente comune, minatori e
reverendi; e il frutto di questa lunghissima discesa nel ventre americano, oltre
che nei numerosi volumi già pubblicati, trova sistemazione nel libro America
Profonda, due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky. Il lavoro di gambe
– leg work in gergo – non l’ha stancato, e qui racconta come sia possibile unire
gambe, voce e orecchie nel fare ricerca sulle fonti orali, prendendo le mosse
dalla storia di Studs Terkel, leggendario giornalista radiofonico americano che
per mezzo secolo ha fatto parlare Chicago e con lei l’America intera,
pubblicando libri letti da generazioni.
«Una delle mie medagliette è quella di aver fatto un seminario annuale di
letteratura su Studs Terkel nel 1983-84. Di letteratura per due ragioni. Intanto
perché è la materia che insegno. E poi perché i libri di Terkel sono degli
straordinari libri di narrazioni, delle raccolte di racconti. Al centro del suo
lavoro sta essenzialmente la parola. Terkel è un giornalista e non ha mai
preteso di essere altro, però è un giornalista che ha lavorato sempre fuori dai
parametri e dalle prospettive a brevissima scadenza che si dà il giornalismo.
Studs Terkel nasce all’inizio degli anni Venti, e viene identificato quasi
interamente con la città di Chicago. Egli è stato per molti anni un giornalista
radiofonico, e questo spiega molte cose, perché non è solo la parola che noi
troviamo nei suoi libri, ma anche e soprattutto la voce. La voce, essendo la
trasmissione in diretta, comporta un elemento di relazione con il tempo e con la
performance che è al centro della comunicazione orale. L’oralità radiofonica è
un evento prima di diventare un testo. Qualche tempo fa c’è stato il
cinquantesimo anniversario della terza rete radiofonica, e mi hanno chiesto di
partecipare, io ho detto che a me piace la radio perché le persone si ascoltano
tra loro, a differenza di quello che vediamo in televisione. Alla radio se due
persone parlano contemporaneamente non si capisce niente. La radio è un medium
che impone un minimo d’educazione, di buone maniere. Quel che è importante è il
rapporto col tempo: tu aspetti che l’altro abbia finito di parlare, e se tu
aspetti vuol dire che l’altro ha il tempo di parlare. È questa la caratteristica
che la radio, così come praticata da Studs Terkel, non ha in comune con la
televisione: l’offerta, a chi veniva intervistato, di avere tutto il tempo che
riteneva necessario per raccontarsi. Terkel sapeva usare il tempo, predisponeva
all’ascolto e così facendo ha costruito un pubblico di destinatari capaci di
ascoltare.
«Un altro elemento che lo caratterizza, e che risalta nei suoi libri, è la
capacità che aveva di far venire fuori sempre il meglio dalle persone con cui
parlava. Prendete il suo libro sulla razza, Race, è un libro straordinario, uno
dei libri migliori su questo argomento usciti in America. Però, in un libro
sulla razza, lui intervista il leader del Ku Klux Klan e riesce a farci avere la
sensazione che il leader del Ku Klux Klan non sia un mostro come persona, cosa
che se ci stiamo bene attenti è più preoccupante, perché ci suggerisce quello
che abbiamo in comune con il leader del Ku Klux Klan, quindi ci dice anche “stai
attento a te”. È fondamentale questa capacità di darci un messaggio complessivo
di fiducia nell’intervistato. Questa mi sembra una delle chiavi di Terkel, la
capacità di accettare l’altro, di accettarlo nel senso di riconoscerne la
presenza, riconoscerne il racconto e dirci che vale la pena starlo a sentire.
Ciò non significa essere traditori, le distanze sono sempre molto chiare, ma
significa prendere atto del diritto dell’altro a esistere e del fatto che le
società di cui parliamo sono fatte della presenza anche dell’altro.
«Hard Times esce a metà dei Settanta e scatena una discussione da cui prende le
mosse un cambiamento di paradigma nell’ambito della storia orale. In Hard
Times, Terkel cerca di raccontare in più di cento voci l’evento più
problematico della storia americana del ventesimo secolo, che è la grande
depressione. Il tipo di discussione che all’epoca si apre su Hard Times è
questo: noi abbiamo ascoltato cento voci sulla depressione ma in che misura
questa straordinaria virtù di accettazione che Terkel esprime nei confronti
delle persone con cui parla ci deve indurre a prendere per buono, acriticamente,
il loro punto di vista. Ed è su questo che si apre un dibattito con Michael
Firsch, che nasce come storico urbano e si ricicla poi come storico orale
proprio a partire dalla discussione con Terkel, e pone il problema di come, nel
fare storia con le fonti orali, forse bisogna fare un lavoro in più. E questo a
me sembra assolutamente vero, però i testi di Terkel sono un’altra cosa, non
sono un’elaborazione di riflessione storiografica, sono uno straordinario
mosaico di autorappresentazioni. In un altro libro bellissimo, Working, c’è
l’autorappresentazione del senso del lavoro, con una narrazione in certi momenti
quasi lirica, tant’è vero che Working è stato trasformato in un musical, e James
Taylor ha fatto da una di queste interviste una meravigliosa canzone.
«La domanda è: gli anni Trenta che escono da Hard Times sono gli anni Trenta
come sono stati o come ce li rappresentiamo? Su questa tensione gioca gran parte
della riflessione contemporanea sull’uso delle fonti orali e sull’intervista. In
questo senso, il modo di presentarli risulta rilevante, incentrato com’è quasi
interamente sul monologo, sulla separazione delle voci, per cui la voce
dell’intervistato è separata dalla voce di Terkel, salvo pochissimi momenti
nelle introduzioni. Che poi è quello che abbiamo visto fare in Italia da Nuto
Revelli. E questo insistere sul monologo, sulla separazioni delle voci, ti fa
dimenticare a volte come nascono queste voci. Riflettendoci, è vero che il
grande intervistatore è quello che fa pochissime domande, e che fa delle domande
che aprono alla narrazione. Quel poco di manuali di interviste che ci sono ti
dicono sempre, non fare delle domande a cui si possa rispondere con un sì o con
un no, non fare domande a cui si possa rispondere con una frase, fai domande a
cui si deve rispondere con un racconto. E qui si apre una riflessione non sul
monologo ma sul dialogo, in cui uno dei dialoganti offre il terreno per
l’autorappresentazione dell’intervistato. Noi leggiamo queste cose quasi
dimenticando che le interviste vengono fatte alla radio, quindi a un pubblico, e
poi gli intervistati stanno parlando a Terkel e riescono a parlare così proprio
perché la persona che li sta intervistando ha quella modalità di accettazione,
di ascolto e di costruzione del dialogo. Il fatto che il destinatario sia Studs
Terkel è in qualche maniera riconoscibile solo in questo strano connubio di
umanità che percepiamo in tutte le interviste, perché poi è questo che viene
fuori… Qui c’è anche una modalità di lettura che dobbiamo tener presente, ovvero
dobbiamo pensare al libro stampato non come un testo ma come una
rappresentazione collegata a una performance, un’istantanea di qualcosa e non un
punto d’arrivo. Il lavoro sulla fonte orale è un lavoro di relazioni: la
relazione tra l’io narrante e l’io narrato, cioè chi sei tu nel momento in
cui racconti e chi eri nel momento di cui racconti, e poi la relazione fra te
che racconti e quello che ti ascolta. Questa dimensione è stata rielaborata e
resa uno strumento teorico centrale del lavoro sulle fonti orali a partire dagli
anni Settanta, dalla discussione che Michael Firsch mise in piedi su Hard Times,
dove in qualche modo la critica a Terkel era strumentale alla necessità di
chiarire certi concetti metodologici.
«Un fatto che ho sempre apprezzato è che lui intervista non solo persone che
hanno vissuto la grande depressione, ma intervista anche i ragazzi suoi
contemporanei, intervista i figli e i nipoti di chi ha vissuto la depressione.
Questa cosa non veniva fatta prima di lui, cioè, vedere la memoria anche come
trasmissione generazionale scavalca il senso di come è ricordata la depressione,
e mette in luce il fatto che è ricordata e vissuta praticamente in contrasto con
il tempo presente. La narrazione è sempre implicitamente la narrazione di un
tempo eccezionale, un tempo altro da quello in cui tu stai raccontando. Ora
questo comporta che quando parliamo di fonti orali usiamo un termine che a me
non convince: testimonianza. Perché? La testimonianza ha un valore religioso o
ha un valore giuridico, e soprattutto la testimonianza è pensata come una
modalità in cui chi parla racconta qualcosa che è altro da sè, qualcosa che ha
visto, qualcosa a cui ha assistito, laddove quando ci avviciniamo al racconto,
cominciamo a renderci conto che chi parla mette se stesso al centro della
narrazione. Nel momento in cui racconti è autobiografia, non è testimonianza.
Ieri a Radio Tre grande discussione con lo storico Gentile, se si possono usare
le metafore per fare storia. Ora, il teorico Haider White ha scritto molti libri
dicendo: tutti gli storici non fanno altro che usare metafore, non si può
raccontare senza le metafore… La gran parte di queste narrazioni, e soprattutto
delle narrazioni sul lavoro, sono intessute di metafore. E perché? A che serve
la metafora? Chi è che usa più di tutti la metafora? I bambini. Perché quando tu
devi descrivere una cosa nuova la puoi descrivere solo sulla base del linguaggio
che hai. I bambini fanno come gli indiani nei film western, bastone tonante per
dire fucile, toro di fuoco per dire treno, gli indiani usano le metafore non
perché sono scemi ma perché devono nominare con un linguaggio esistente delle
cose che non conoscono. Oppure, tu parli per metafore perché devi far capire a
uno che non c’era com’era la vita in passato e quindi devi usare il linguaggio
che quella persona conosce per esprimere delle cose che non conosce. E sul
lavoro una delle cose più affascinanti di Working è proprio andare a guardare
come lo descrivono, cercando di mettere in parole qualcosa che hanno appreso in
forma non linguistica. Il lavoro manuale, di fabbrica, artigiano, non è un
lavoro che tu impari con le parole, è un lavoro che impari con gli occhi, con il
corpo. E allora come fai a descrivere a parole qualcosa che tu non hai mai
veramente verbalizzato. Come si lavorava trent’anni fa? “Eh, si lavorava”, cioè
o è tautologico o è poetico. E le descrizioni che io mi metto a fare della
colata di acciaio in un’acciaieria sono descrizioni cariche di metafore. Allora
non puoi venirmi a dire che si tratta di testimonianze, è qualcosa di molto più
complesso, che non ricostruisce l’oggetto, non ricostruisce il tempo, ma cerca a
di dar forma alla relazione con il tempo… Nella mia vita ho lavorato in due
campi di lavoro, su cui ho fatto interviste, la fabbrica e la miniera,
intenzionalmente non sono mai andato personalmente a vedere la miniera e
l’acciaieria, perché m’interessava nell’intervista conoscere il lavoro di
qualcuno che lo doveva spiegare a me che non lo sapevo.
«Il lavoro dell’intervista, e in questo Terkel è maestro, perché è un lavoro di
ascolto? Ma mica perché sei una persona educata o gentile o umile. Certo, se non
sei educato e gentile e umile le interviste non le fai, ma non basta. Tu sei
consapevole che il senso dell’intervista è sapere, sei consapevole che la
persona che stai intervistando sa delle cose che tu non sai, punto. La
dimensione dell’ascolto nasce da una cosa che raramente pensiamo di mettere in
conto: la nostra ignoranza. Quando cominciai a fare questo lavoro, molto
ispirato da Terkel, sulle regioni minerarie del Kentucky sud orientale degli
Stati Uniti, i miei amici americani mi mandarono lettere terrorizzate, dicendo:
tu sei pazzo lì c’hanno tutti il coltello (non è vero perché c’hanno tutti la
pistola), lì i sociologi li ammazzano, e in realtà si riferivano a un fatto
molto preciso, a un giornalista televisivo, progressista e democratico, che era
andato lì a filmare le condizioni di povertà e di sfruttamento della gente di
quella regione e… li offendeva. Poiché essendo quei minatori calvinisti, se tu
vai dicendo che sono poveri, stai anche implicitamente dicendo che sono dei poco
di buono e quindi era successa questa cosa. Però che lì ci fosse una tradizione
di ostilità nei confronti degli estranei era vero. Dopo due, tre anni che
continuavo ad andarci – sono trent’anni che ci vado sistematicamente – ho
cominciato a chiedermi: com’è che non mi sparano? cosa sto facendo di giusto? E
mi capitò di trovare una persona che parlava un po’ la mia lingua, non nel senso
che parlava italiano, ma nel senso che aveva esperienze politiche e culturali
meno aliene dalle mie. Per capirsi, questa era una donna che lavorava in
miniera, però aveva conoscenza dei movimenti contro la guerra e per i diritti
civili. E io le chiesi, com’è che tutti quanti sono così gentili con me? che
faccio di diverso? E lei rispose, primo non sei di New York e non sei di
Chicago, nel senso che non trasmetti la sensazione di essere uno che viene dai
luoghi dove c’è il potere, sei italiano figuriamoci. Secondo, tu sei qui solo
per raccogliere un po’ di informazioni e le persone sono contente di aiutarti.
Quello che si capovolgeva era, almeno nel momento dell’intervista, il rapporto
di potere: erano loro che aiutavano me, infatti quando si dice che facendo
storia orale noi diamo voce a chi non ha voce, è un grande fraintendimento, sono
loro che hanno la voce e la danno a me, e se non fosse per loro non sarei in
grado di scrivere niente.
«Amplificare è molto bello rispetto a un discorso radiofonico. Pensa, siete in
due dentro a questo studiolo e la vostra voce arriva nelle case e in città, e vi
sente anche chi non vi conosce. E l’operazione di un Terkel, che sta dentro una
tradizione letteraria, è un’operazione di ricostruzione. Lui intervista sia
persone famose, sia gente comune. E in questa operazione non è che si dà voce,
ma si trasmette, si amplifica. In questo senso una delle polemiche che nascono
in America, è sul tema della restituzione alla comunità del materiale che
abbiamo raccolto. Che senso ha la restituzione? Le cose che tu hai raccolto la
comunità già le sa, infatti quando io ho fatto questo libro su Terni i compagni
ternani non erano particolarmente eccitati, “Vabbè, sono dieci anni che ci rompi
le scatole con stò libro, finalmente lo hai fatto…”. Quand’è che si sono
interessati? Quando hanno scoperto che i loro racconti erano stati ripresi nel
libro Una guerra civile di Claudio Pavone, e allora si sono resi conto che
attraverso quell’intervista con me loro sono diventati parte della narrazione
complessiva sulla Resistenza in Italia. Non era più limitato alla loro cerchia
ma era diventato un racconto condiviso, comune».
(disegno di copertina da lo stato delle città)
È appena uscito per le edizioni Monitor il volume Un compagno. Storia di Ettore
Davoli (a cura di Chiara Davoli), che racconta la vita del sindacalista e
militante politico di origini calabresi e attivo a Roma, attraverso le sue
parole e quelle di chi ha condiviso un tratto di strada con lui. Pubblichiamo di
seguito la testimonianza che apre il volume: “Il mio cugino di campagna” di
Giancarlo Davoli.
* * *
Nessuna battuta, tanto meno allusione rispetto al titolo di questo racconto: era
letteralmente così che definivo mio cugino Ettore. Anche se poi la sua vita è
andata in tutt’altra maniera.
La prima volta che lo vidi avevo, sì e no, nove anni. Approfittando di un
parente che scendeva da Torino, i miei quell’estate mi mandarono in Calabria.
Era pure la prima volta che uscivo da Roma. Della Calabria e di Taverna avevo
solo i racconti di mio padre e di mia madre e, soprattutto, quelli terrorizzanti
di mia zia Vittoria, fatti di fantasmi inquieti che comparivano in alcune notti
e in alcuni luoghi precisi del paese.
La casa di Ettore si trovava su una piazzetta davanti alla chiesa di Santa
Barbara. Aveva una particolarità, dovuta alla sua collocazione: si elevava su
due piani, ma non vi si accedeva dal primo bensì dal secondo. Comunque, io la
trovai accogliente e piena di vita. La famiglia di mio cugino era, per usare un
eufemismo, numerosa; lui era l’ultimo di dodici figli e, in quella casa, anche
se alcuni dei fratelli se n’erano già andati – chi era emigrato e chi s’era
fatto una famiglia –, si stava abbastanza stretti. Io fui messo con i piccoli,
che dormivano al primo piano, senza distinzione di genere, su due letti che li
contenevano tutti.
Ettore aveva uno sguardo pulito, spavaldo e diffidente, che mi rendeva inquieto;
mi studiava e cercava di capire quale differenza ci potesse essere tra di noi.
Io, forte del fatto che avevo un anno più di lui, che venivo da Roma e che ero
cresciuto tra i prati e le strade di Centocelle, un po’ me la tiravo. Ma lui, a
scanso di equivoci, mise subito tra di noi una distanza, dandomi un soprannome:
“il romano”. Ero “il romano” quando facevo qualcosa fatta bene ed ero “il
romano” pure quando facevo qualcosa che non andava bene, e diciamo che erano più
le volte che mi muovevo in maniera impacciata in quel nuovo contesto che altro.
La mattina ci si svegliava che era ancora buio, tra le cinque e le sei; ci si
lavava sommariamente, si beveva in fretta una tazza di latte freddo in cui lui
inzuppava un pane che chiamava pitta e che io evitavo con cura; poi,
silenziosamente, per non svegliare gli altri, uscivamo per andare all’orto. In
famiglia tutti lavoravano, ma la cura quotidiana dell’orto toccava al più
piccolo e, visto che io avevo quasi la stessa età di Ettore, toccava pure a me.
L’orto era diviso in fasce o terrazzamenti che scendevano verso il fondo valle:
alcune erano sostenute dalle radici dei vari alberi da frutta, altre erano
invece sorrette da rinforzi di legno che ne definivano il perimetro. Uno
stradello in discesa le percorreva tutte, congiungendo le une alle altre.
Bisognava essere agili e avere forza nelle gambe per fare su e giù a chiudere e
aprire i vari sbarramenti che permettevano all’acqua di scorrere nei solchi e
irrigare zucchine, pomodori, cetrioli, insalata, radicchio e tante altre
verdure. Fare ciò per me era divertente, anche se faticoso, mentre Ettore era
come se facesse parte di quel paesaggio: si muoveva tra ortaggi e canali con
grazia, velocità e senza alcuno sforzo, almeno così mi sembrava. Là, tra
quelle timpe, Ettore era un re: ne conosceva ogni curva, ogni avvallamento, ogni
scorciatoia. Usava il falcetto e la zappa, che era quasi più grande di lui, con
maestria e perizia: uno per tagliare le erbacce, l’altra per rendere più
profondi i solchi dove scorreva l’acqua.
Il mio battesimo dell’orto avvenne una mattina mentre risalivamo per tornare a
casa per il pranzo. Una delle cose che avevo notato quasi subito in quella
campagna era che là tutto era più grande e anche i colori erano diversi; per
esempio, le lucertole erano di un verde vivo che, nelle mie scorribande nei
prati di Centocelle, mai avevo visto; e anche le serpi, che io pensavo fossero
grigio-verdi, lì avevano un altro colore: erano nere. Comunque, stavo bene
attento a non dire a Ettore queste mie osservazioni: rimanevo sempre un
“romano”. Ma lui, quasi intuendo questi miei stupori e, in qualche modo, anche
paure, ogni tanto mi rassicurava dandomi dei suggerimenti.
Ma, come dicevo: stiamo risalendo su per lo stradello carichi di frutta e di
verdure dentro cesti di vimini; nei pressi di un piccolo slargo, una grossa
macchia nera attira la mia attenzione. Ettore è dietro di me; quando risaliamo
si posiziona sempre così, forse per proteggermi. Attratto da quella macchia, mi
avvicino e, come per magia, in un attimo quella si disunisce in mille rivoli
quasi scomparendo; metto meglio a fuoco e capisco: sono serpi. Ne rimangono tre,
una completamente srotolata al centro e le altre due di fianco che si stanno
arrotolando assumendo la forma di una molla; mi sento toccare: è mio cugino che
mi supera gridando “corri in salita”; io capisco in prima battuta solo “corri”,
mollo il cesto e mi giro correndo verso la discesa; e mentre mi rendo conto che
la frase di Ettore finisce con “salita”, sento arrivare prima una e poi un’altra
frustata sulla schiena. Goffamente inverto la marcia e correndo lo raggiungo.
Lui, appoggiato a un albero, è là che se la ride di cuore; le due frustate
pizzicano da morire, ma quello che fa veramente male è la figura che ho fatto:
“il romano” di Roma, cresciuto tra gli sterminati prati di Centocelle, messo in
fuga e, per di più, colpito da due serpi innamorate.
La sera si andava a letto presto; la mattina dovevamo svegliarci all’alba, ma in
realtà erano più le volte che questo non accadeva e così, quando tutta la casa
dormiva, Ettore mi faceva un cenno e, vestendoci rapidamente, saltavamo dalla
finestra; poi, evitando i vicoli più battuti per non fare incontri non voluti,
arrivavamo nel corso del paese e, dopo un breve tratto, nella piazza; lì, sotto
la statua di Mattia Preti, trovavamo altri fuggiaschi. Dopo un po’ di battute in
dialetto stretto, di cui non capivo molto, usciva fuori il pallone e, subito,
dopo una strana conta, si formavano le squadre.
In quelle accanite partite uscivano chiari i modi di essere di ognuno di noi.
Mio cugino non aveva molta tecnica, ma si buttava nella mischia con coraggio,
aiutando il compagno in difficoltà; generoso fino all’estremo, aveva una
naturale propensione per il gioco collettivo.
In una di queste sfide senza esclusione di colpi, avvenne qualcosa che poi fece
interrogare l’intero paese per diverso tempo e che, in qualche modo, mi vide
protagonista, anche se involontario. Un avversario dribbla senza esitazione un
mio compagno; gli vado incontro per fermarlo, ma lui, cercando di sorprendermi,
fa partire un tiro che io, con la forza della disperazione, intercetto con il
piede; la palla impazzita schizza in alto e va a sbattere violentemente contro
la punta della spada del povero Mattia Preti, spezzandola. Un silenzio irreale
cala sulla piazza; ci guardiamo senza parlare, poi scoppia all’unisono una
fragorosa risata; qualcuno raccoglie il pezzo e, senza dircelo, sigilliamo un
segreto che forse rivelo per la prima volta.
Per mesi l’intero paese e le sue istituzioni si interrogarono su chi potesse
essere stato. Mattia Preti, pittore caravaggesco detto “il cavaliere calabrese”,
era nato a Taverna ed era un vanto, un segno identitario per l’intero paese: la
sua statua era considerata sacra o giù di lì. Le supposizioni furono molte e di
diversa natura, e solo il tempo le fece sfumare, mitigando l’affronto.
C’è un gesto di mio cugino che è rimasto indelebile nella mia memoria, che mi
diede la dimensione del suo altruismo e che vorrei fosse chiaro che non ha né
connotati ideologici né tanto meno religiosi; credo che facesse parte della sua
natura, se non altro perché è un gesto che risale a una fase della sua vita che
potremmo definire, per economia di discorso, “prepolitica”.
L’orto per la famiglia di Ettore era il maggiore mezzo di sostentamento, le
altre entrate erano misere e saltuarie. Questo lui lo sapeva perfettamente
perché lo viveva sulla sua pelle. Più volte notai che il suo umore cambiava a
seconda di quanta frutta e ortaggi riportavamo a casa alla fine della mattinata;
per me, quando i cesti erano scarsi, era meglio perché si faceva meno fatica;
per lui era il contrario: si scuriva e diventava intrattabile.
Per arrivare a casa c’era un’unica strada che passava sotto una specie di torre,
affiancata a un palazzo antico che, senza un perché, a me metteva tristezza.
Quella mattina, passando lì accanto, sentimmo delle voci che attrassero la
nostra attenzione; in un attimo mio cugino capì, andò sotto la torre e,
guardando in alto, fece un cenno. Dopo poco, vidi calare un piccolo cesto da una
finestra piena di sbarre che si trovava nel punto più alto; non capivo e lo
guardavo interrogativo, poi mi disse: “Sono carcerati” e, senza altre parole né
esitazione, nonostante le nostre ceste quella mattina fossero parecchio scarse,
prese della frutta e della verdura e le mise nel cestino, tirando poi la corda
per far capire che potevano recuperarlo.
In una delle ultime telefonate, forse l’ultima, quando ormai la fase degli esami
medici e delle diagnosi era diventata inutile, lui mi disse che la cosa che lo
affliggeva di più, oltre al fatto di dover lasciare moglie, figlie, nipoti,
amici e compagni, era quella impari partita che lui stava giocando con la morte;
non capiva perché, se era ormai prossima, non si affrettasse ad arrivare; e,
anche se ammetteva senza problemi di averne paura, aveva una voglia sfrenata di
anticiparla, di chiudere quella partita, di non aspettarla più. Mi hanno detto
che Ettore non è morto a letto. A me piace immaginare che lui, un attimo prima,
l’abbia sentita arrivare, si sia alzato e le sia andato incontro con quel suo
sguardo pulito, spavaldo e, forse, anche un po’ diffidente.
(disegno di ottoeffe)
Maje lassat’ ‘a questura
fotografie e impronte,
pecché capette forse
ca ‘eva brucia’ ‘a bandiera ‘e l’obbedienza a l’uniforme.
(co’sang, fuje tanno)
Ho un’amica a cui tengo molto, vive all’estero da tanto tempo – non so se queste
cose siano in relazione tra loro, ma non credo. Credo invece che andiamo
d’accordo perché ha un carattere spigoloso simile al mio, e più di me dice
sempre quello che pensa, a costo di risultare antipatica. Conosce bene Praga,
città in cui vive da anni (forse per questo non la sopporta più) e la
letteratura del paese che l’ha “adottata”.
Qualche tempo fa mi ha parlato di Jaroslav Hašek, irriverente e anticonformista
scrittore ceco, morto solo e in miseria quarantenne, noto soprattutto per il suo
romanzo Le fatidiche (o fatali) avventure del buon soldato Švejk durante la
guerra mondiale, parodistico testo antimilitarista tradotto in centoventi
lingue. Il soldato Švejk è un uomo semplice, gioviale, modesto, amante del bere,
e che cerca sempre di accontentare il prossimo. Vive senza drammi tutte le
assurdità che la vita e il potere gli riservano, dal manicomio alla galera,
dall’esercito alla guerra, agendo assai più razionalmente del mondo pazzo con
cui deve confrontarsi e che non perde occasione per accusarlo di sabotaggio e
diserzione.
M. mi raccontava che a dispetto della chiarezza del messaggio di Hašek, il
soldato Švejk viene oggi ritratto in patria come un ingenuo fessacchiotto (un
pepe, si dice nel suo dialetto). Il gruppo del calcetto del lunedì di cui faccio
parte ha pensato invece di stamparsi sulle maglie un disegno che lo ritrae. La
squadra si chiamerà, anche in suo onore, “I disertori”.
–.Voi avete tradito sua maestà l’imperatore!
–.Gesummaria e quando?
–.Smettetela con queste stupidaggini.
–.Faccio rispettosamente notare che tradire sua maestà l’imperatore non è per
niente una stupidaggine…
–.Non volete confessare? Avete volontariamente indossato un’uniforme russa?
–.Volontariamente.
–.Senza alcuna pressione?
–.Senza alcuna pressione.
–.Sapete che siete perduto?
–.Lo so, al 91º reggimento mi staranno senz’altro cercando…
(da un dialogo tra il soldato švejk e il maggiore che presiede il tribunale
militare)
Al contrario di quanto comunemente noto, la diserzione non è un atto solo
confinato all’ambito militare. Disertare è, da dizionario, anche “abbandonare” o
“non recarsi in un luogo” in cui si è attesi o dove si sarebbe forzati a essere.
Per estensione figurativa, è anche “esimersi dal compimento di un obbligo”.
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/04/high-2.mp4
(credits in nota1)
Qualche anno fa gli ultras del Napoli protestarono per l’emanazione da parte
della società di un regolamento d’uso dello stadio (all’epoca ancora San Paolo)
che sembrava fatto apposta per rompergli le scatole. No fumogeni, no bandiere,
no megafoni per lanciare i cori. Non si poteva vedere la partita in piedi e si
era obbligati a rispettare il posto numerico scritto sul biglietto. Per chi è
abituato a seguire la partita in maniera attiva e non da semplice spettatore, i
gradoni rischiavano di diventare così una specie di servizio militare.
Fortunatamente, col tempo si è arrivati a più miti consigli e, forse
informalmente – personalmente non so che fine abbia fatto quell’astruso
regolamento – almeno in curva si lascia l’agibilità meritata a chi vive la
partita come un precetto (la parola “diserzione”, riferita allo stadio, dice
molto di questo rapporto di vincolo reciproco).
(foto di archivio)
Nelle ultime settimane si è molto parlato del disco di La Niña, cantante
napoletana figlia d’arte, laureata in filosofia e con un master in comunicazione
musicale preso a Milano. Dopo aver vissuto a Londra e aver scritto testi in
inglese La Niña è tornata a Napoli e ha iniziato a cantare in napoletano. È
stata scritturata dalla Sony e da lì la sua produzione si è gradualmente fissata
su un folk-elettronico che mi sembra di aver già sentito molte volte e che trovo
francamente troppo ammiccante. Furesta, l’album del momento, mi è parso
abbastanza scontato e ripetitivo. Rolling Stone (giornale bollito da tempo) ha
definito invece La Niña “la nuova Teresa De Sio”.
Teresa stanca di guerra
senza scarpe se ne va,
su questa terra che è bella
muove i piedi in libertà.
E ha un cappello dalle falde larghe larghe,
che se piange non si sente,
ma se ride tu la puoi sentire mentre ride,
e cantando se ne va.
Teresa stanca di guerra.
(teresa de sio, teresa stanca di guerra)
(a cura di riccardo rosa)
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¹ Totò e Peppino De Filippo in: La banda degli onesti, di Russel Mulcahy (1956)
(archivio disegni napolimonitor)
Sono le 21 e ho appena finito di prepararmi. È sabato e si esce. Aspetto che mi
vengano a prendere e intanto mando qualche messaggio sul gruppo: “Dove
andiamo?”.
Quartieri Spagnoli, “baretti” di Chiaia, centro storico: le opzioni sono sempre
quelle. Parcheggiamo a Fuorigrotta e ci spostiamo con i motorini. Di sabato il
traffico è ingestibile e trovare parcheggio è un’impresa. Su due ruote la
percezione della città cambia: sembra più piccola, più nostra. Le strade strette
e irregolari del centro sono irradiate dalla luce dei lampioni, mentre i vicoli
più interni restano in ombra, con porte socchiuse e finestre parzialmente
illuminate. Il traffico delle strade principali si alterna alla quiete di questi
vicoli, colorati dai vestiti (i panni) appesi ai balconi e dalle mura spoglie di
intonaco.
Più si fa tardi più la città si anima. Più passa il tempo più ci si mescola.
Negli ultimi mesi si è tornato a parlare di episodi di violenza che hanno
coinvolti ragazzi napoletani. Scontri tra giovani, accoltellamenti nei pressi
dei locali, colpi di pistola.
Giuseppe ha ventun’anni, abita a via Foria da quando era piccolo e frequenta la
facoltà di ingegneria navale alla Federico II. «Molti ragazzi girano con armi
bianche. Ho amici con un po’ di precedenti, altri che hanno scontato pene in
carcere o in comunità, e la cosa non sorprende più nessuno. Già a dieci anni
vedevo queste cose e ho imparato a conviverci». Giuseppe mi spiega quanto sia
stato importante per lui imparare a decifrare le dinamiche caratteristiche del
luogo in cui vive, per elaborare una “giusta distanza”. «Non si può insegnare la
violenza, si impara dall’ambiente. Da bambino percepisci l’attrattiva di certe
situazioni, magari per curiosità ti avvicini un po’. Alcuni contesti richiedono
la fortuna – e la capacità – di evitarli, e io sono stato fortunato: i miei
genitori hanno sempre fatto di tutto per tenermi lontano da ambienti violenti,
pur senza impedirmi di vederli e viverli».
Arriviamo a piazza Carità e posiamo i motorini. Saliamo ai Quartieri Spagnoli,
che si riempiono lentamente. Le persone si radunano davanti ai bar, alcuni
sorseggiano il primo drink della serata, altri stanno fermi a fumare. C’è un
continuo via vai. Le strade strette sono piene di gente, bancarelle di street
food vendono frittatine e pizze fritte, motorini sfrecciano tra i vicoli. Ci
sono murales ovunque. Alzando gli occhi alcune donne chiacchierano affacciate ai
balconi. I bambini giocano a pallone tra la gente, mentre il rumore del traffico
poco distante si mescola al vociare. I flash delle insegne luminose dei bar si
riflettono nelle pozzanghere di pioggia o di drink rovesciati. L’atmosfera è
vivace, ma anche caotica.
Dopo un po’ ci spostiamo a Chiaia, dove l’atmosfera è molto diversa. Ai baretti
tutti sono seduti intorno a tavoli colorati e ordinati, la musica è alta. Faccio
difficoltà a muovermi, non vedo nessuno ridere come in piazza ai Quartieri. Rosa
saluta un sacco di persone, ma faceva lo stesso anche dall’altra parte. «Conosco
gente sia qua che là, mi piace frequentare persone diverse», mi spiega facendosi
spazio tra la folla.
Da questa parte della città conta molto l’apparenza: il modo in cui ti vesti, il
posto in cui ti siedi, chi conosci. È un gioco di etichette che Rosa conosce
bene. «Vorrei che cambiassimo questo modo di ghettizzarci tra di noi», dice.
«Dovremmo poter andare ovunque, senza la preoccupazione di essere catalogati».
Rosa ha diciott’anni, abita a Varcaturo e frequenta il liceo scientifico. «In
realtà fin da piccola mi sono sempre sentita un po’ fuori luogo», mi spiega.
«Quando ho iniziata la scuola a Posillipo ero sempre quella “non di Posillipo”,
quando uscivo con quelli della mia zona ero sempre quella che andava a scuola a
Napoli. Negli ultimi anni, a mio parere, la situazione è un po’ migliorata.
Prima, era più comune associare certi luoghi a determinati tipi di persone,
creando pregiudizi e distanze. A un bar come il Cimmino, dove un drink può
costare fino a venti euro, pensavi di trovare solo persone con uno specifico
stile di vita, mentre al Tony spritz, dove puoi ubriacarti con sette euro, te ne
immaginavi altre con abitudini diverse. È vero che ogni locale attira un certo
tipo di clientela, ma questo non significa che una persona non possa sentirsi a
suo agio in contesti diversi; io sono molto socievole, mi piace poter variare,
se poi mi scocciano non mi importa». Mentre ci spostiamo Rosa continua a
raccontarmi pettegolezzi di ogni genere. In effetti quelli su chi frequenta Tony
Spritz non sono molto diversi da quelli del Cimmino.
Dietro l’angolo un ragazzo molto giovane si sente male. Ha bevuto troppo, non
riesce a stare in piedi. Qualcuno prova ad aiutarlo, altri si limitano a ridere.
«In tutti gli ambienti ci stanno droghe e alcol», mi dice Rosa. «Ne gira così
tanta che è normale qualcuno esageri. Una volta c’era la distinzione tra droga
per ricchi, la cocaina, e quella per poveri, la marijuana. Oggi non ci sono
posti dove non si trova del fumo, così come è impossibile trovare un posto dove
non si bevano superalcolici». Effettivamente, mentre i prezzi per entrare nei
locali sono aumentati quello dell’alcool sembra diminuito, tanto che si trovano
facilmente bar che fanno shot di superalcolici da un euro e drink a tre. Se vuoi
andare al cinema è impossibile uscirtene con meno di dieci o quindici euro.
Decidiamo di rientrare, passando per piazza del Gesù. Le luci illuminano la
facciata della chiesa del Gesù Nuovo, il resto è piuttosto buio, dei ragazzi
sono seduti ai piedi dell’obelisco. «Nel centro storico ti puoi sentire libero
di parlare con chiunque, secondo me», spiega Giuseppe. «C’è meno formalità, più
inclusione, ma l’apparenza conta sempre, anche se in modo diverso. Il modo in
cui ti vesti e con cui ti poni non indica solo quanti soldi hai, ma anche chi
sei, come sei fatto e da dove vieni». Nell’aria c’è odore di dolci appena
sfornati. Le pasticcerie sono ancora aperte e vendono sfogliatelle e babà ai
nottambuli.
Riprendiamo i motorini, torniamo alla macchina e mentre siamo in viaggio verso
casa continuo a parlare con Rosa. «Non ho mai avuto un gruppo fisso», mi
racconta guardando la strada. «Ho sempre conosciuto persone in diversi ambienti.
Dovunque vado conosco qualcuno, e non ci sono luoghi che non mi sentirei di
frequentare». Anche Giuseppe, salutandomi mi fa: «È una questione di equilibri,
di sapersi muovere per la città. Saper stare nei posti giusti con le persone
giuste. Puoi avere tutto, devi solo scegliere». (viola varlese)
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A questo link tutte le puntate dell’inchiesta