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Catania, la palestra Lupo sotto sgombero e le trame della “rigenerazione”
  Il 4 dicembre scorso la giunta comunale ha deliberato l’approvazione del progetto definitivo di “demolizione della palestra, realizzazione di parcheggio multipiano e sistemazione a verde piazza Pietro Lupo, giardino pubblico tecnologico”. L’edificio in questione, una ex palestra comunale di Catania, è al centro di una piazza considerata un “margine urbano” da riqualificare. Da un mese, un’assemblea cittadina si riunisce per opporsi allo sgombero della LUPo. Laboratorio Urbano Popolare occupato, realtà autogestita che ha sede proprio nell’ex palestra. L’assemblea iniziale è numerosa, partecipata, sentita. Oltre a chi si prende cura del posto, a esporsi sono anche i frequentatori occasionali sensibili alla questione, o chi è attivo in altri gruppi cittadini, come il comitato per il centro storico, il collettivo di Officina Rebelde e il collettivo del Consultorio Mi cuerpo es mio!, sgomberato nel dicembre 2023 e ancora nomade. Insieme si commenta il progetto appena approvato, si ragiona sul movente dello sgombero mettendolo in relazione con ciò che accade in altre città italiane, ci si confronta su come affrontare lo sgombero e le sue conseguenze. Qualcuno si chiede se questa volta lo sgombero ci sarà davvero o se non si tratta, invece, dell’ennesima trovata politica che cadrà nel nulla. Il passato della “palestra Lupo” legittima questo interrogativo, mostrando il retaggio di un copione antico, fatto di connivenze rodate eppure tremolanti, pochi colpi di scena con finali prevedibili. L’idea di radere al suolo l’edificio per rimpiazzarlo con un parcheggio interrato multipiano risale al 2002, quando la palestra era da poco rimasta abbandonata, dopo essere stata usata per decenni dalla squadra di scherma del Cus Catania. L’allora sindaco Umberto Scapagnini (2000-2008), appena nominato commissario straordinario per l’emergenza traffico dal governo Berlusconi, aveva pianificato la costruzione di cinque parcheggi. Le sorti del progetto di piazza Lupo, legato ai nomi più radicati e potenti dell’imprenditoria catanese (Ciancio e Virlinzi in testa), seguiranno quelle di un altro parcheggio in costruzione, in piazza Europa, bloccato per anni dalla magistratura. In questo arco di tempo l’ex palestra abbandonata, ormai divenuta un rifugio per senzatetto, verrà più volte sgomberata e rioccupata, mentre la prospettiva di un parcheggio in quella piazza continuerà a eccitare i sogni degli speculatori. Il progetto si ripresenta nel 2018, quando un bando regionale che finanziava la costruzione di parcheggi scambiatori fa attivare non solo la giunta Pogliese (2018-2022), ma anche l’ex sindaco democratico Enzo Bianco, che invoca l’intervento del prefetto per accelerare lo sgombero. Neanche quel tentativo, però, andò in porto. Al suo fallimento contribuì un fronte decisamente eterogeneo di oppositori: la borghesia colta della sostenibilità ambientale, del decoro urbano e dell’antimafia; l’associazionismo della democrazia partecipata, della riqualificazione dal basso, dei beni comuni; partiti e sindacati; movimenti e spazi sociali. Oggi questo fronte è meno compatto: la “rigenerazione urbana”, teoricamente “inclusiva” e “sostenibile”, riesce a catturare molti attori locali; eppure in altri quartieri “marginali”, essa ha già mostrato la sua natura classista e razzista, disciplinante e punitiva. Riportare la voce della minoranza che resiste creando spazi informali in cui esercitare un agire critico collettivo sembra allora più urgente che perdersi nel labirinto di soggetti, cifre e interessi coinvolti. Uno sguardo al progetto attuale servirà solo a conoscere meglio “il vuoto” a cui l’assemblea contro lo sgombero vuole opporsi. LA RIQUALIFICAZIONE DELLA PIAZZA Fallito anche il progetto del 2018, il Piano nazionale di ripresa e resilienza offre l’occasione ideale per riesumare l’idea del parcheggio. Il decreto legge di riferimento affida alle Città Metropolitane il compito di elaborare i Piani urbani integrati, strumenti finalizzati a “favorire una migliore inclusione sociale riducendo l’emarginazione e le situazioni di degrado sociale, promuovere la rigenerazione urbana attraverso il recupero, la ristrutturazione e la rifunzionalizzazione ecosostenibile delle strutture edilizie e delle aree pubbliche”. Così, nel marzo del 2022 in Comune si avvia l’iter per l’approvazione di undici progetti, tra cui quello approvato con la delibera del 4 dicembre. Alla demolizione della palestra, costruzione del parcheggio e di un “giardino tecnologico” è destinata una spesa di 3,9 milioni di euro. Nella relazione che accompagna la delibera si legge che la piazza “non svolge la sua funzione di luogo di aggregazione ma viene percepita come una grande area di sosta per veicoli a motore”. “L’unico luogo di aggregazione sociale – viene precisato – è rappresentato dalla palestra Lupo, che presenta gravi criticità strutturali e manutentive che ne compromettono l’uso e il godimento in totale sicurezza”. Per questo motivo, anziché recuperarla, si preferisce abbatterla. Al suo posto, recita ancora il testo, verrà creato un ambiente “piacevole”, fatto di “zone d’ombra” e “arredi urbani in grado di accogliere la collettività”. Così, la “Piazza Libera” diventerà “uno spazio urbano aperto a più funzioni, incoraggiando l’emergenza di usi informali della sfera pubblica […] che favoriscano l’interazione tra gli utenti e la nascita di nuove attività”. La relazione parla poi di un info-point/presidio culturale, una struttura semisferica che fungerà da “punto di gestione e controllo della componente impiantistica evoluta della piazza, basata sulla sostenibilità ambientale”. Esso “garantirà un controllo naturale sulla piazza […] attraverso la presenza continua degli operatori e degli addetti che gestiranno le attività racchiuse all’interno del presidio, aumentando, così, la percezione di sicurezza anche grazie alle mixité di funzioni ospitate dalla piazza”. La semisfera, poi, accoglierà “il vano ascensore che collega la piazza all’autorimessa sottostante”. Tra gli obiettivi principali del progetto vi è infatti la “realizzazione di nuovi posti auto e moto a raso […] con una dimensione tale da poter ospitare circa 150 posti”. A questo punto non si capisce quale sia l’intenzione degli amministratori, si commenta in assemblea: nel passaggio appena citato si parla di posti a raso, nel titolo del progetto di parcheggio multipiano. “È probabile che alla fine faranno solo una zona destinata a dehors per i locali che ci sono attorno”, suggerisce uno degli occupanti. L’ipotesi non sembra campata in aria, perché piazza Lupo si trova in una zona di passaggio tra due quartieri cruciali per il turismo: la Civita, il quartiere del porto, già in gran parte gentrificato, perché è il punto in cui arrivano i crocieristi, a due passi dal Duomo; e San Berillo, quello che chiamano “la ferita della città”. I Piani urbani integrati prevedono anche 1,9 milioni per la “riqualificazione di piazza Teatro Massimo e aree adiacenti, fino a piazza Pietro Lupo”. La via Teatro Massimo, che connette le due piazze, è stata “ripulita” negli anni passati e oggi è sorvegliata da volanti e videocamere. L’intento dichiarato è quello di estendere questo palcoscenico della sicurezza borghese. Al di là delle contraddizioni e delle ipocrisie su cui si regge tutta l’operazione, l’assemblea degli occupanti teme che lo sgombero possa arrivare davvero, perché il finanziamento obbliga all’apertura del cantiere entro sessanta giorni dalla delibera e il completamento dei lavori entro la fine del 2026. LE AUTOGESTIONI Alla fine del 2012, mentre l’ex palestra è ancora attraversata da presenze occasionali e gli amanti del decoro pressano le istituzioni per “sottrarre la piazza al degrado”, entra in scena il Gruppo Azione Risveglio, un “movimento di cittadinanza creativa” nato con la missione di ripulire spazi comunali abbandonati per restituirli all’amministrazione stessa, una volta ultimato il recupero. Questo gruppo ottiene le chiavi della Lupo dall’amministrazione Stancanelli (2008-2013) e, concluso il suo intervento di pulizia, decide però di mantenerle, per “restituire lo spazio alla città” fino alla sua eventuale demolizione. Le dichiarazioni che alcuni di loro rilasciano alla stampa locale parlano chiaro: “non è un’occupazione”, ma una “riappropriazione 2.0” che incentiverà progetti di “innovazione sociale e imprenditoria culturale”. L’intento è quello di trasformare la Lupo in una Palestra delle Arti e delle Culture, un bene comune istituzionalmente riconosciuto e regolamentato. Numerose associazioni aderiscono all’iniziativa, ma il loro tentativo di istituzionalizzazione rimarrà sospeso, e all’interno di quella parentesi di incertezza si farà spazio un mutamento graduale, che riguarderà tanto il gruppo di autogestione quanto le attività offerte dallo spazio. Alcuni occupanti attuali ne ricordano l’evoluzione. “La prima parte di vita della Lupo è stata dedicata principalmente al riutilizzo creativo, soprattutto finalizzato alla creazione di opere d’arte; si facevano meno serate musicali ma più workshop e mostre. Per un periodo è stato occupata anche ad uso abitativo, con tutto quello che ne consegue. Con l’arrivo del Covid si è sospeso tutto, ma subito dopo il posto è stato riattivato. Diverse crew musicali che bazzicavano la Lupo da tempo si sono ritrovate qui. Catania Hardcore, per esempio, è una crew punk hard-core che esiste più o meno dal 2000 e che ha sempre organizzato concerti in posti occupati. Oppure Tifone Crew, che organizza concerti metal, o i rapper della scena hip hop locale, che hanno deciso di fondare una propria etichetta musicale, la Tomato Sauce. Insieme abbiamo portato avanti le iniziative culturali preesistenti e abbiamo ampliato le proposte cercando di dialogare con le persone che c’erano prima, e questo lavoro ha arricchito un po’ tutti. Da quello che dico sembra una situazione legata solo alla scena musicale, ma in realtà è inserita in un movimento di gente che frequenta e autogestisce i posti occupati. Oltre ai concerti facciamo presentazioni di libri, laboratori e mostre con artisti locali e internazionali; ma ci occupiamo anche di osservare la gestione del territorio, la turistificazione, la riqualificazione. C’è stata una fase a Catania in cui fare politica era legato a un collettivo specifico con la sua identità, e quindi se tu non avevi un’identità chiara o eri una collettività magari più ampia ed eterogenea, quello che facevi non era considerata politica. Questo aspetto per noi è importante: tuttora non utilizziamo definizioni e non facciamo riferimento a un’area ideologica precisa, anche perché molti di noi hanno alle spalle esperienze politiche diverse tra loro”. Insieme agli eventi musicali e artistici, la Lupo propone anche un calendario di iniziative sportive. In questo momento sono attivi un corso di fitness e uno di autodifesa personale. C’è anche una squadra di ping pong che si allena da cinque anni. Si chiama The Wolf. “Rispetto a quando siamo arrivati – continuano gli occupanti –, la Lupo è cambiata radicalmente. L’abbiamo sempre considerato un posto libero da certe logiche, ma non era così vivo cinque anni fa. Abbiamo iniziato a fare ping pong principalmente per creare aggregazione, socialità; siamo partiti in due e oggi siamo almeno una ventina; qualcuno viene più assiduamente alle assemblee, altri, tramite la Lupo sono riusciti ad avviare anche altre attività, musicali, ecc. Noi siamo un gruppo totalmente informale, c’è chi pratica lo sport anche a livello agonistico, però non abbiamo mai creato un’associazione; non partecipiamo a tornei ufficiali però siamo riusciti fare cose importanti rimanendo sempre qui”. Mutando la composizione del gruppo che si prende cura dello spazio, anche il modo di organizzare le attività è cambiato negli ultimi anni. “L’assemblea della Lupo fino a qualche tempo fa era solo una, era aperta a chiunque e si discuteva tutti e tutto insieme. Siamo andati avanti così per tre anni, poi ci siamo resi conto che era un po’ limitante e abbiamo deciso di riorganizzarci, non chiudendo l’assemblea, ma facendone due: una con chi vuole proporre qualcosa per la prima volta e un’altra tra chi si occupa della gestione dello spazio, dove però è invitato a partecipare chiunque sia interessato. Il nostro obiettivo è che ogni persona che si avvicina diventi quanto più autonoma possibile, in modo che tutto sia veramente orizzontale. Visto che questo è rimasto l’unico posto che ti permette di organizzare delle cose, mezza città si è riversata sul nostro calendario. Quando riceviamo le proposte cerchiamo di comprendere di cosa si stratta, chi abbiamo di fronte, poi se ne parla tutti insieme e si sceglie cosa fare. Con qualcuno ci si capisce di più, con altri meno, ma se siamo qui a parlarne è perché sta funzionando. Con l’assemblea di gestione invece l’obiettivo è anche di costruire una linea politica, non solo relativa alla Lupo ma più in generale alla città e al contesto nazionale, come sta succedendo con la lotta contro il decreto sicurezza”. Le persone più giovani e arrivate da meno tempo raccontano come si sono inserite nel gruppo che oggi mantiene il posto attivo, e cosa significa per loro farne parte. “La prima volta sono entrata alla Lupo per la Tattoo Circus, poi ho cominciato a frequentare il laboratorio ‘L’arte è pericolosa’, nato in un momento in cui sui giornali si dava del pericoloso a qualsiasi cosa. Poi c’è lo spazio per serigrafare – posso farlo anche a casa, ma qui si è creata una situazione più interessante. Il laboratorio di serigrafia esisteva già, ma per un periodo era rimasto inattivo; lo abbiamo ripreso e stampiamo parecchio. Le varie crew che organizzano concerti fanno qui le loro magliette, hanno imparato a serigrafare e lo fanno insieme a noi, quindi tutto quello che succede alla fine si contamina e ti permette di ragionare sulle cose in modo più complessivo. “Man mano che scoprivo la Lupo, anche grazie agli striscioni che vedevo durante i concerti o altri eventi, mi rendevo conto che quello che offriva non era un semplice ‘servizio’ ma qualcosa che ti permette di evadere dalla gabbia del mondo. Se la frequenti un po’, scopri che questa cosa di autogestirsi è possibile, e questo cambia la tua prospettiva, sia rispetto allo spazio sia rispetto al modo in cui puoi fare le cose”. Se si scorre il calendario della Lupo, nel corso degli ultimi anni si nota un interesse crescente verso questioni più esplicitamente politiche. “Quando abbiamo aperto alla città è nato un dibattito che ha assunto una prospettiva prettamente politica per necessità. Penso alla minaccia di sgombero di due anni fa: qualcuno veniva e chiedeva conto del perché non avessimo intenzione di dialogare con le istituzioni, e allora fu necessario prendere una posizione precisa, consapevole di quali sono i pro e i contro di un percorso di interlocuzione con il Comune. Il politicizzarsi dello spazio è avvenuto anche perché diversi gruppi hanno cominciato a frequentare la Lupo – il collettivo del Parco Falcone, lo studentato, i collettivi artistici che in città non hanno uno spazio – e fatalmente sono stati coinvolti nella gestione, hanno dovuto fare delle scelte, prendere delle decisioni. L’assemblea contro lo sgombero è cresciuta insieme a un’altra a livello cittadino, anch’essa dettata da un’emergenza: il decreto 1660, contestato in tutta Italia. L’ultimo corteo contro decreto, sgomberi e guerre del 21 dicembre è stato vivace, e per quanto poco numeroso ha portato in piazza realtà che solitamente camminano separate. La consapevolezza che non esiste alcuna garanzia di successo non sta impedendo agli abitanti della Lupo di offrire una base fisica e un contributo discorsivo a questo tentativo di convergenza”. Il 4 febbraio 2025 segna il termine entro il quale ci si aspetta lo sgombero. Nel frattempo la Lupo sta continuando a proporre momenti di svago, impegno e respiro a chi rifiuta la bolla del consumo cittadino e l’inganno delle politiche culturali e sociali volte al profitto. Un nuovo corteo è previsto per il 21 gennaio. “Non si sgombera un’idea”, dice una frase scritta sulle pareti dello spazio, quella che forse più di tutte oggi suona come un avvertimento e un auspicio per il futuro. (alessandra ferlito)
January 17, 2025 / NapoliMONiTOR
Alla fiera del sud. Colonialismo e storytelling in Puglia
(collage di stefania spinelli) C’è una musica incalzante e un pugile sul ring. Se ne sta buono nell’angolo mentre si fa riempire di pugni, ha smesso di combattere ma nessuno osa gettare la spugna. Sul viso ha una smorfia di estasi perversa, la scarica di colpi produce una voglia inconcepibile di farsi gonfiare di botte fino a perdere i connotati. Con la stessa smorfia beata e fiera il presidente della Puglia Michele Emiliano ha presentato un mese fa il nuovo marchio unico della regione, esito di un “progetto di identità visiva” che ha prodotto, oltre al logo che affiancherà lo stemma regionale, anche un video promozionale che mi si è conficcato nel petto come il pugnale delle Addolorate di cartapesta portate in processione il venerdì santo. Il logo è un ottagono, simbolo di Castel del Monte, con dentro linee curve intrecciate che rimandano ai rami d’ulivo (ché solo rami secchi ci sono rimasti, non le chiome, dopo oltre dieci anni di “affare xylella”). Ecco come si fondono il patrimonio storico e artistico della regione e “l’integrazione delle diversità, peculiarità dei pugliesi, popolo storicamente vocato all’accoglienza”. Lo spiega Antonio Romano, creatore del nuovo marchio oltre che esperto di “brand identity” e fondatore di Inarea, a cui si devono tra l’altro i loghi di Rai, Enel, Trenitalia. Al logo si aggiunge un claim evocativo: “Puglia, l’Italia levante”. A detta di Rocco De Franchi, direttore regionale della comunicazione istituzionale, lo slogan rimanda alla posizione geografica della regione più a est della penisola, ma soprattutto alla “direttrice aspirazionale di persone accomunate dalla volontà di risollevarsi”. CAFONI IN PARADISO La vera linfa al branding territoriale arriva dal video che accompagna il nuovo logo, in cui si succedono a ritmo folle immagini pensate per tenere insieme la prospettiva di continua crescita e la presenza rassicurante di elementi tradizionali. Il filmato si apre con una sfilza di centri storici patinati, trulli ristrutturati, orecchiette con cime di rapa, pasticciotti, lo sguardo ammaliato di una turista col panama, una famiglia felice in vacanza al mare, feste con fuochi d’artificio e luminarie. Tutto scorre così veloce che quasi sfuggono alcuni fotogrammi frapposti tra le immagini di taralli, calici di vino e spiagge. Se giochiamo a trovare l’intruso e rallentiamo la riproduzione, spuntano macchinari futuristici, pale eoliche su un colle, vigneti a spalliera, distese di pannelli fotovoltaici. Insomma, il gioco è applicare forzatamente schemi precostituiti alla realtà locale, benché prima si dica di assecondare la vocazione del territorio e valorizzare le peculiarità. La scarica di pugni e il ritmo serrato culminano in alcune frasi patetiche: “Puglia, tante identità in una”, “la terra che vede per prima la luce del giorno”, “lo spirito solare dei suoi abitanti nell’elevare il proprio destino”. Si fa leva sul presunto spirito d’identità per abbassare la guardia e lasciar passare come normali, come dato di fatto compiuto, una serie di scenari che non hanno nulla di naturale né di caratteristico all’interno della realtà pugliese. Premere il tasto del sentimento, dei riti e delle tradizioni significa restare nell’ambito del pre-politico, al di qua della storia. Mi soffermo su un’immagine di fitte reti e serbatoi galleggianti su una superficie verdastra. Ammesso che si tratti di un allevamento di cozze, sono sicura che non sia a Taranto né altrove in Puglia. In effetti, con Google lens scopro che è un allevamento superintensivo di mitili nella provincia di Rayong, in Thailandia, e da Greenpeace scovo altre immagini che mostrano i danni provocati dall’industria sulle popolazioni locali e sull’ambiente. “L’allevamento di cozze è situato accanto alla centrale elettrica a carbone BLCP nella zona industriale di Map Ta Phut, nota per i suoi problemi di inquinamento”, spiega una didascalia. “Le cozze prosperano in acque inquinate e i mitilicoltori sono pagati da BLCP per il loro lavoro”, mentre la stessa industria racconta di migliorare lo stile di vita dei nativi da cacciatori ad allevatori. Tutto questo ha del grottesco: non un intruso innocuo, ma una realtà simile a quella di Taranto, dove la mitilicoltura convive con il disastro dell’Ilva, il più grande stabilimento siderurgico italiano. Le recenti gestioni della regione e la trovata del video promozionale non sono funghi velenosi inspiegabilmente cresciuti su un terreno rigoglioso, ma quel terreno è marcio quanto il fungo. Allora non c’è nessun pugile, non è un ring ma un recinto per animali alla fiera del bestiame, e non sono pugni che ci stanno sfinendo ma i colpi del banditore d’asta: progetti, appalti, marketing territoriale, manipolazione della storia e della cultura locali, finanziamenti pubblici attribuiti in modo da alimentare il consenso per le forze politiche al potere. Romano, padre del nuovo logo, vanta le sue origini pugliesi e sogghigna: “Un tempo questa era la terra da cui si emigrava e noi per primi non capivamo cosa avevamo. In Salento le masserie erano il simbolo della sconfitta dell’agricoltura, oggi provate a comprare una masseria in Salento e poi mi fate sapere”. Da cafoni all’inferno arretrati e incapaci di apprezzare la terra che abitano (ché il sottoproletariato è la brutta faccia della medaglia da tenere rovesciata, dimenticando gli emigrati macinati come manodopera a basso costo per l’industria del nord), a fortunati figli della terra della gioia di vivere e delle masserie trasformate in resort. Da terra promessa per poveri senza speranza (ricordando gli anni in cui ogni notte albanesi, kosovari, curdi, bengalesi sbarcavano sulle coste pugliesi) a regione vocata all’accoglienza di turisti, investitori, speculatori. LA SOSTENIBILE LEGGEREZZA Un documentario del 1962 per la nascita dell’Italsider a Taranto si apre con una sequenza in cui terra rossa e ulivi secolari vengono annientati dalle ruspe di un enorme cantiere in costruzione. “Gli ulivi, il sole, le cicale, significavano sonno, abbandono, rassegnazione, miseria”, invece, spiega la voce fuori campo, “acciaio significa vita”. La retorica sviluppista e il mito della società industriale si sono consumati, le promesse di crescita e di futuro sono state disattese, conviviamo con le eredità di un modello di produzione che ha piegato alla logica del profitto l’ambiente e la salute. Eppure la stessa logica ritorna, celata dietro piani di “rigenerazione territoriale”, “sviluppo sostenibile”, “transizione ecologica”. Il mantra è muoversi a qualunque costo, voltare pagina è l’unica soluzione per un futuro migliore. Verdi narrazioni di speranza mascherano un land grabbing spietato, l’istituzione della ZES Unica del Sud, spacciata come volano per il meridione, spiana la strada al consumo di suolo e regala autorizzazioni a complessi turistici di extra lusso. Il tutto in una situazione sistematicamente deregolamentata: solo 46 comuni pugliesi su 257 hanno adottato in via definitiva un Piano urbanistico generale, manca un piano energetico regionale con l’individuazione delle aree non idonee agli impianti industriali di rinnovabili e l’assenza di una politica regionale in materia fa da tappeto alle speculazioni energetiche. L’obiettivo al 2030 stabilito dal Piano energia e clima da raggiungere con la potenza da impianti eolici offshore è di 2,1 GW. Solo le proposte di impianti di fronte alle coste pugliesi raggiungono una potenza complessiva pari a 27,5 GW, “tanto da configurarsi una saturazione complessiva del mare aperto con impianti eolici posti a corona continua delle coste vincolate per legge o per il loro notevole interesse pubblico”. Lo si legge in un documento dello scorso aprile in cui la Soprintendenza speciale per il PNRR esprime parere negativo al progetto di un parco eolico marino nel Gargano. “Nella regione Puglia è in atto, già da tempo, una complessiva azione per la realizzazione di impianti da fonte rinnovabile (fotovoltaica/agrivoltaica, eolico onshore e offshore), tale da prefigurarsi la sostanziale sostituzione del patrimonio culturale e del paesaggio con impianti di taglia industriale per la produzione di energia elettrica, oltre il fabbisogno regionale previsto”. Lo sfruttamento dei territori e l’appropriazione privata di risorse naturali sono tratti del colonialismo, che controlla lo spazio pubblico attraverso la neutralizzazione del dissenso e “cattura” la scelta pubblica, condizionando gli attori istituzionali a favore degli interessi economici delle multinazionali, a discapito degli interessi della collettività. INVASIONE DEI CLONI Il comparto turistico e l’industria culturale sono caratterizzati dalle stesse finalità predatorie di qualsiasi altra industria. La deregolamentazione come precisa linea politica si accompagna a narrazioni semplificate che, oltre a non rendere giustizia alla complessa storia del territorio, celano un altro inganno. Lo storytelling dell’accoglienza e della resilienza su cui è costruito il  nuovo marchio regionale non si limita a descrivere la realtà, ma vuole produrne una ad hoc, cementare una morale comune, trasformare il modo di guardare prima che l’oggetto guardato. Si insiste sull’identità praticando una profonda mistificazione livellatrice, inducendo i pugliesi a identificarsi con costumi cuciti dall’alto fino a restare in contatto solo con la finzione di sé. L’operazione di marketing non è difficile da cogliere, ma c’è anche il sintomo di un disagio profondo, il tentativo di darsi un’identità omogenea mentre cresce la disgregazione del tessuto sociale. Una comunità frantumata ha disperato bisogno di simboli e riti, tanto da convincersi che i simulacri propinati ai turisti corrispondano alla realtà. Mettiamo in piedi il teatrino estivo e ci dimentichiamo di smontarlo d’inverno, finiamo per diventare marionette mosse da mani potenti. Così lo storytelling plasma il territorio e diventa strumento di pacificazione, in una pandemia dell’immaginario che ricorda L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel e anche, come scriveva Leogrande, La città sostituita di Philip Dick. Si appropriano di linguaggi e pratiche svuotandoli di senso e piegandoli a scopi altri, così cominciano ad affollarmi la testa gli scritti di Baudrillard, Wittgenstein, Kripke: la conoscenza del significato di una parola si manifesta nel modo in cui si usa quella parola, una parola ha un certo significato oggi perché l’abbiamo usata in un certo modo nel passato. Se il significato di una parola è dato dall’uso che se ne fa oggi, la rideterminazione semantica in atto deve metterci in guardia che tale uso non sia in accordo con l’uso passato. Mentre il consenso continua ad addensarsi dalla parte sbagliata, facciamo una fatica enorme per trovare una nuova grammatica che interpreti la crisi. La Puglia è tra i luoghi iper-raccontati, eppure la sovraesposizione mediatica non copre affatto tutta la realtà narrabile. Anzi, finisce per non (far) vedere la Puglia per quello che è: una regione fatta di viscere, frammenti. Nell’iper-racconto si smarrisce quella disperata vitalità che impregna campagne e paesi, quella visione lucida delle cose che resiste nelle pieghe dei territori. Da queste pieghe dobbiamo ripartire per analizzare le narrazioni dominanti e disarticolarle, per costruire un discorso critico sul meridione. E per riuscire ad ascoltare la voce subalterna serve cambiare registro, lontano dai vocabolari ufficiali consunti, risemantizzare il vivere politico. (chiara romano)
January 15, 2025 / NapoliMONiTOR
I buoni all’attacco
(disegno di enrico pantani) È in libreria a Napoli, Roma, Bologna, Milano e Torino (quitutti i punti di distribuzione) il numero 13 de Lo stato delle città. A seguire pubblichiamo l’articolo I buoni all’attacco, di Flavia Tumminello. La linea retta che descrive corso Giulio Cesare, a Torino, si estende a perdita d’occhio inseguendo i binari del tram e lo scorrere incessante delle macchine. Dai palazzi sporgono insegne in arabo, cinese, italiano. Narrano un mondo in cui il ritmo delle faccende quotidiane risente di influssi provenienti da paesi lontani: minimarket, telefonia, agenzia viaggi, macelleria. Il televisore acceso in un bar riversa sulla strada i suoni di una partita di calcio. A poca distanza, sulle serrande chiuse al piano terra di un palazzo, al numero 34, è possibile leggere: “Fuori i buoni dai quartieri”, “Per ogni sgombero un bene comune”. Si sussurra che in passato il palazzo, oggi vuoto, avesse offerto riparo a persone in cerca di un tetto finché una mattina è giunta la polizia a sgomberarli. Risalendo la linea del corso, un altro edificio, adesso protetto da telecamere e da luci sempre accese, un tempo ospitava un’occupazione. L’arrivo delle camionette ha lasciato dietro di sé il deserto e la reclame di appartamenti di lusso in un quartiere riqualificato. Ben diversa è la storia raccontata dai graffiti di corso Giulio Cesare 34, una storia che parla di innovazione sociale, cittadinanza attiva e filantropia. La fondazione di comunità Porta Palazzo, un ente nato sotto l’egida di Compagnia di San Paolo e attivo nei quartieri di Aurora e Porta Palazzo, ha recentemente acquistato l’edificio per adibirlo a primo Community Land Trust (CLT) in Italia. Il principio alla base del CLT è la separazione tra la proprietà dell’immobile da quella del suolo. Questa separazione permette di ridurre il costo dei singoli appartamenti, i quali sono venduti a un prezzo calmierato a famiglie che altrimenti faticherebbero ad accedere a un mutuo, mentre la proprietà del terreno rimane, anche in caso di rivendita futura, nelle mani del trust. Si tratta di un modello che trae la propria sostenibilità economica dalla premessa che l’estrazione di plusvalore legata alla costante crescita dei valori immobiliari verrà distribuita equamente tra nuovi e vecchi acquirenti, investitori nel progetto e cittadini che fruiscono dei benefici portati dalla rige- nerazione urbana, tra cui l’apertura al pubblico degli spazi comuni dell’edificio.  La fondazione sostiene di avere come obiettivo principale il contrasto alla gentrificazione del quartiere: alla proprietà privata oppone la proprietà “collettiva”, alla speculazione immobiliare una speculazione “dolce”, appetibile per una borghesia progressista in cerca di profitti etici.  I sostenitori e i fondatori del CLT si definiscono “innovatori sociali”, appellativo che fonde una retorica pionieristica e rampante con suggestioni che rievocano le tradizioni politiche di auto-organizzazione dal basso. Nella realtà essi non solo ricevono ingenti finanziamenti da Compagnia di San Paolo, ma godono anche del sostegno di tutta una classe dirigente e politica che vede nel CLT la prefigurazione di un modello di welfare “innovativo” grazie a cui sopperire al definanziamento delle politiche abitative e sociali pubbliche. La fondazione si è ritrovata al centro di un vero e proprio think tank che si è sostanziato in un ciclo di incontri cui hanno preso parte diversi esponenti della giunta comunale, tra cui l’assessore al welfare Rosatelli, del partito Sinistra Ecologista, che ha tratteggiato il welfare abitativo del futuro come una costellazione di part- nership pubblico-private che coinvolga il terzo settore e il variegato mondo della “cittadinanza attiva”, nonché gli stessi beneficiari delle politiche. In questo solco si colloca l’esperienza di Homes4All, progetto di finanza a impatto sociale che coinvolge un’ampia rete di società private con a capofila il comune di Torino. La start up, fondata nel 2019, si propone di ridurre l’emergenza abitativa attraverso l’acquisto o la gestione da privati di immobili che verranno poi dati in locazione temporanea a un canone “sostenibile” a famiglie selezionate dalle graduatorie dell’agenzia comunale per la locazione. Palazzi fatiscenti in quartieri dai valori immobiliari bassi caratterizzati dalla presenza di immigrati e di altri marginali si trasformano così in asset vantaggiosi non solo per gli investitori, ma anche per la pubblica amministrazione. H4A, infatti, promette un risparmio per le casse comunali di circa 450 mila euro rispetto ai costi legati alla messa a disposizione di strutture di emergenza abitativa. La società, nata a Torino, è già approdata a Genova e in Lombardia e punta a estendersi ulteriormente; ha acquisito 69 immobili e ne gestisce 35, per un totale di 5,2 milioni di capitali raccolti da investitori pubblici e privati. Dati difficilmente compatibili con l’idea di una piccola proprietà diffusa contro la grande speculazione immobiliare, ma coerenti con un modello finanziario che individua nel profitto privato l’impulso necessario al sostentamento del welfare. Secondo Matteo Robiglio, architetto e docente del Politecnico, tra i fondatori di H4A, le politiche sociali basate sull’erogazione di finanziamenti diretti a fondo perduto sarebbero economicamente insostenibili. Il settore pubblico dovrebbe convogliare i propri fondi sulle compartecipazioni con attori privati e creare una regolamentazione (o derego- lamentazione) che favorisca le esperienze innovative. H4A nasce dalla fusione di Brainscapital, società di consulenza specializzata “nello sviluppo di start up” e Homers, che si occupa del recupero di immobili vuoti per la realizzazione di cohousing. Nel 2018 Brainscapital ha fatto parte del “raggruppamento tecnico” che ha supportato la città di Torino nel “Progetto speciale campi nomadi”, culminato nel 2020 con lo sgombero del campo rom e delle baraccopoli di via Germagnano, all’estrema periferia. Evidentemente, esistono ancora poveri che non generano né valore economico né valore sociale misurabili, e che continueranno a esse- re espulsi e allontanati – la storia della loro marginalità rimossa dal discorso pubblico. Tutta questa violenza sarebbe forse meno accettabile se non fosse per l’incessante pantomima dei “buoni”, che sotto la maschera di un capitalismo dal volto umano nascondono la loro stessa natura di classi dirigenti neoliberali; possono assumere le sembianze della filantropia, dei partiti di sinistra, dell’associazionismo, della finanza etica, ma sanno anche mimare pratiche e linguaggi dei movimenti sociali. È il caso della proposta di delibera di iniziativa popolare “Vuoti a rendere” che chiede vengano messe a disposizione della collettività tutte le case sfitte, di proprietà pubblica e privata, nella città di Torino. Con “Vuoti a rendere” siamo tutti invitati ad assumere la prospettiva degli innovatori, immaginandoci come questo patrimonio abitativo possa essere riutilizzato, magari in vista di future speculazioni “etiche”. Allo stesso tempo questa possibilità viene confinata a una partecipazione istituzionalizzata che non considera le esperienze e i bisogni delle persone ai margini, le quali rimangono sullo sfondo come “beneficiari” o come vittime da proteggere fintantoché non rivendicano i propri diritti, per esempio occupando una casa. L’ordine del discorso a partire dal quale si costruisce il consenso a queste operazioni ha le sue fondamenta in un universo simbolico dove gli opposti convivono senza alcuna contraddizione: qui la gentrificazione viene contrastata dal grande capitale finanziario, l’auto-organizzazione dipende dalle elargizioni di fondazioni bancarie, chi sgombera i poveri si batte anche per il “diritto alla casa” e il profitto privato diventa un mezzo per raggiungere il benessere collettivo. In un clima di crescente sfiducia legato alla repressione delle lotte sociali e dei gruppi marginalizzati diventa allora sempre più necessario chiederci che cosa vogliamo, se l’innovazione o il conflitto, se identificarci con i “buoni” o stare al fianco degli ultimi. (flavia tumminello)
January 14, 2025 / NapoliMONiTOR
La Milano di Ramy e quella delle zone rosse
(disegno di cyop&kaf) Il ministro dell’interno Piantedosi ha inviato una direttiva ai prefetti di diverse grandi città italiane per invitarli a individuare, con apposite ordinanze, aree urbane dove vietare la presenza di soggetti considerabili pericolosi o con precedenti penali. I controlli e i fermi sono a discrezione della pattuglia di turno, con un potenziamento degli strumenti per disporre l’allontanamento dalla città di soggetti privi di residenza. A Milano le zone rosse sono distribuite in tutta la città a macchia d’olio, e non includono solo zone centrali ma anche quartieri popolari come via Gola o Corvetto. Istituite a Bologna, a Firenze, il 30 dicembre nel milanese, il 31 a Napoli, il l8 gennaio a Roma, queste aree off limits per alcune persone, saranno in vigore fino al 31 marzo; dalla loro istituzione a oggi, sono state controllate quasi 25 mila persone ed emessi quasi trecento provvedimenti di allontanamento (daspo urbani) a persone che non possedevano la residenza. In realtà, era già da diverso tempo che una particolare fascia di popolazione di Milano subiva questo tipo di controlli e allontanamenti dal territorio cittadino; si tratta per lo più di maschi, giovani e/o originari di altri paesi. Per un controllo dei documenti, un cittadino straniero (con permesso di soggiorno) rischia la deportazione dentro un Cpr, l’espulsione dalla città e anche dal territorio italiano. Ramy Elgaml è figlio di Corvetto, di questa Milano cupa, di un Egitto lontano. L’uscita del lungo video che mostra i suoi ultimi istanti di vita, mentre si trovava su una moto insieme all’amico Fares, inseguiti dai carabinieri, ha restituito un’immagine di Ramy distorta e faticosa oggi da leggere per i razzisti così come per i perbenisti. Per otto chilometri i carabinieri provano a speronare i due ragazzi; la gazzella più vicina prova a fargli perdere l’equilibrio, i militari si arrabbiano quando non ce la fanno e si complimentano in radio quando alla fine succede. Ramy e Fares si schiantano su un palo in via Quaranta, tampinati dai carabinieri fino allo scontro, il petto di Ramy si schiaccia fino a ucciderlo, ed è in quel momento che il suo casco salta via; lo troveranno che era ancora allacciato. L’impatto, fatale per Ramy, porterà Fares in coma per diversi giorni. Prima ancora di chiamare i soccorsi, i carabinieri di un’altra volante arrivata sul posto pochi secondi dopo l’impatto, notano un testimone, Omar; ha visto la scena, l’ha filmata, è ancora lì sotto shock; quando vede i due uomini in divisa nera e rossa avvicinarsi a lui, Omar alza le mani e, sotto richiesta dei due agenti, cancellerà il video che è riuscito a fare. Ora gli inquirenti si stanno impegnando per il recupero del video e per comprendere le dinamiche dello schianto; vogliono capire se la moto sia scivolata da sola per l’alta velocità, se è vero che c’è stato contatto nei secondi ultimi prima dello schianto in Via Quaranta, se e altri se. Un nodo alla gola sale pensando che sarebbe bastato il recupero della targa della moto nel momento in cui si è messa in fuga, con conseguente illecito amministrativo e quindi la preservazione della vita di un giovane di diciannove anni. Ed è meglio evitare di scrollare i commenti sui social dei leoni da tastiera che, con una violenza verbale inaudita, ci tengono a precisare che Ramy sarebbe ancora vivo se fosse rimasto a casa, se si fosse fermato al segnale di stop dei carabinieri, se e altri se. Dopo una morte così tragica, sarebbe bastato il silenzio per lasciare lo spazio che meritano le famiglie in lutto, e invece si sono cercati modi per colpevolizzare la vittima – il suo contesto sociale, la sua provenienza – anche dopo le registrazioni audio dentro le gazzelle, anche dopo aver visto il video che mostra la pericolosa vicinanza della volante alla moto dei ragazzi poco prima dello schianto. Per i due ragazzi, come per la stragrande maggioranza dei giovani abitanti delle sue periferie, Milano rappresenta più sfide che opportunità. Corvetto, Barona, San Siro, ciò che rimane di Giambellino e Lorenteggio fino ad arrivare alle malservite Quarto Oggiaro o Gratosoglio, sono quartieri cosiddetti dormitorio, dove le case si presentano come blocchi di cemento in cui le famiglie si rifugiano prima del tramonto come le api nelle arnie. La sera, l’assenza di luoghi aggregativi (accessibili e gratuiti) come biblioteche, spazi sociali, palestre con prezzi accessibili o discoteche, fa calare su questi quartieri il silenzio della notte illuminata dai lampioni con luce bianca che segnano le strade e forse qualche area con panchine. Per un giovane è veramente difficile poter ampliare il proprio cerchio di amicizie, di conoscenze e opportunità. Chi ha la fortuna di avere la copertura economica di genitori e nonni, può scegliere come tradurre le proprie passioni in qualcosa di concreto: sei bravo a calcio? Iscrizione alla scuola più vicina. Ti piace cantare? Prenotazione allo studio di registrazione. Vorresti fare la veterinaria? Iscrizione al corso universitario apposito. Per molti giovani figli di genitori migranti (e non) delle periferie di Milano, la vita non è così lineare. Ci sono persone nate in Italia che, a causa di una legge sulla cittadinanza antiquata e della burocrazia macchinosa, diventano clandestine al compimento della maggiore età, costrette a interrompere gli studi e anche a non poter lavorare; c’è chi sconta le pene al carcere o al minorile, e nonostante abbia già pagato con la detenzione rischia la deportazione in un Cpr o, con il rafforzamento delle zone rosse, l’allontanamento dalla città, e quindi dalla propria abitazione, dai propri affetti, dal lavoro se c’è; c’è chi vorrebbe cambiare città ma ha carte d’identità non valide per l’espatrio, chi vorrebbe frequentare un corso di studi all’università ma non ha la cittadinanza italiana; e questo senza evidenziare la forte crisi economica che le fasce medio-povere della popolazione stanno subendo da anni, con l’aumento dei prezzi e la diminuzione degli stipendi. I quartieri popolari milanesi hanno una forte impronta giovanile e migrante che non solo non trova spazio di espressione e di crescita personale, ma subisce una criminalizzazione costante. Se non ci si può incontrare in quartiere senza rischiare un controllo collettivo dei documenti, se non si possono frequentare i locali del centro anche solo per festeggiare una giornata speciale, se non si può circolare liberamente per le vie della città rischiando di finire nella ragnatela repressiva del governo, quale dovrebbe essere il luogo di ritrovo per questi giovani? Le zone rosse sono un ostacolo non solo per l’integrazione, ma anche e soprattutto per il senso comune di sicurezza. Non è un caso che i governi italiani tutti abbiano sempre trattato il tema dell’immigrazione da questo punto di vista. Così, i decreti sicurezza diventano funzionali a escludere ogni volta di più chi già vive ai margini della società, isolando chi non rientra nei canoni imposti. Il decreto di Piantedosi, in arrivo in Senato in primavera, prevede l’impossibilità per le persone senza permesso di soggiorno di acquistare legalmente delle simcard per il telefono, aumenta le pene e aggiunge aggravanti per proteste all’interno delle carceri o dei Cpr. Non è un segreto che per poter richiedere un appuntamento in Questura per il rilascio del primo permesso di soggiorno, bisogna rilasciare anche un numero di telefono su cui poi si riceverà il messaggio con orario e giorno in cui presentarsi. E non è nemmeno più sconosciuta la condizione dei detenuti in quelli che chiamiamo lager di Stato, e cioè i Cpr. Questa è solo una piccola parte di una proposta ben più ampia, in linea con l’istituzione delle zone rosse nelle grandi metropoli italiane e con la creazione degli strumenti di deterrenza per chi qui, dallo Stato italiano, non è considerato benvenuto. E dire che basterebbe un alleggerimento della burocrazia legata ai procedimenti di regolarizzazione dei permessi di soggiorno, una modifica coerente con la realtà di oggi della legge sulla cittadinanza (ferma al 1992); si potrebbero costruire corsi di formazione extra-scolastica gratuiti, percorsi di avvicinamento al mondo del lavoro con la possibilità di scegliere opzioni differenti di percorso; basterebbe creare spazi di incontro ed evitare di mostrare la presenza dello Stato sempre e solo attraverso la presenza di molteplici apparati di controllo. Come sta succedendo ancora oggi per le vie di Corvetto, inserita all’interno di una delle zone rosse, e oppressa dalla presenza della polizia che ha sostituito quella dei carabinieri. Le zone rosse non sono da migliorare né prorogare, ma da rimuovere totalmente. Di recente ho guardato la famosa fotografia in bianco e nero del 25 aprile 1945, quella dell’ingresso dei partigiani e delle partigiane in piazza del Duomo a Milano aggrappati a un mezzo militare sequestrato ai fascisti, finalmente cacciati dalla città dopo anni di Resistenza. Chissà come sarebbe andata se avessero saputo che la città che hanno liberato con il loro sangue sarebbe stata svenduta al turismo e ai grandi eventi a discapito di chi la abita nonostante le ristrettezze economiche, relegando ai margini tutte le storie e le contraddizioni di chi non si conforma all’ordine e alla disciplina imposti dall’alto. (rajaa ibnou)
January 13, 2025 / NapoliMONiTOR
La parola della settimana. Polizia
(disegno di ottoeffe) Mercoledì il Tg3 ha mandato in onda un video che mostra il lungo inseguimento al termine del quale è morto Ramy Elgaml, diciannovenne di origini egiziane ammazzato da un carabiniere lo scorso 24 novembre a Milano. Dal video, e soprattutto dagli audio, si capisce bene con quale concitazione e rabbia i carabinieri abbiano cercato di colpire con la loro auto il motorino su cui viaggiavano Ramy e il suo amico Fares. I carabinieri si dicono tra loro che Ramy ha perso il casco, ma nonostante ciò continuano a cercare di speronare il mezzo, fino allo schianto finale contro un palo. Dalle immagini si vede anche il momento in cui due militari si avvicinano a un ragazzo, testimone dell’incidente, per fargli cancellare il video con cui aveva ripreso la scena (circostanza raccontata dallo stesso ragazzo ai magistrati). Ci vorrebbe non un breve articolo ma un libro, per raccontare le storie di tutte le persone che sono state ammazzate nel nostro paese dalle forze di polizia. Un importante sforzo è rappresentato dalle schede costruite nel corso degli anni da Acad – Associazione contro gli abusi in divisa. Mi limito quindi a ricordare solo alcuni tra loro, considerando i recenti o prossimi importanti anniversari dell’assassinio. Lo scorso 5 settembre, per esempio, è ricorso il decimo anniversario della morte di Davide Bifolco, sedicenne ammazzato da un carabiniere in servizio a Napoli, al termine di un inseguimento. Quando è stato sparato, Davide era a terra, disarmato. Il 29 febbraio saranno invece passati cinque anni dalla morte di Ugo Russo, quindici anni, sparato alle spalle da un carabiniere fuori servizio mentre scappava dopo un tentativo fallito di rapina. Sempre a febbraio, il 6 del mese, ma del 2010, moriva invece Aziz Amiri, ucciso da un carabiniere dopo un tentativo di fermo, con una Beretta calibro 9 non in ordinanza all’agente. Sempre quindici anni fa, il 21 settembre 2010, moriva anche Roberto Collina, dopo una colluttazione con due agenti in borghese, fuori servizio, nel comune di Largo Campo, in provincia di Salerno. A settembre, il 25 per la precisione, saranno passati vent’anni dalla morte di Federico Aldrovandi, diciottenne al momento della sua morte, pestato brutalmente con calci, pugni e manganellate da una pattuglia di poliziotti, e poi morto una volta immobilizzato al suolo per “asfissia da posizione”. Luglio 2025: sarà il decimo anniversario della morte di Mauro Guerra, trentatré anni, sparato da un carabiniere in un campo di sterpaglie poco distante da casa sua, a Carmignano di Sant’Urbano (in provincia di Padova), dopo un tentativo di trattamento sanitario obbligatorio. «Mauro era stato bloccato, già gli era stata infilata una delle manette ma il carabiniere lo ha aggredito e lui ha reagito con due o tre pugni. […] È andato via camminando, ma l’agente gli ha sparato alle spalle. E gli altri carabinieri, che erano a cento metri, quando sono arrivati hanno continuato a prenderlo a calci mentre già era a terra», la testimonianza dei familiari. Nell’aprile 2020, cinque anni fa, moriva nel carcere di Santa Maria Capua Vetere Hakimi Lamine, che qualche settimana prima era stato tra i detenuti violentemente pestati nel corso della Mattanza operata dagli agenti di polizia penitenziaria, e non solo. Dopo il pestaggio Hakimi era rimasto fino alla sua morte in isolamento punitivo (qui un diario del processo in corso) Ne approfitto per segnalare che tra gennaio e febbraio ci saranno due iniziative a Napoli, all’università L’Orientale, su questi temi, organizzate da dottorandi e dottorande in Studi Internazionali: il 20 gennaio (ore 10:30, palazzo Giusso, Sala Dottorato) un seminario con Enrico Gargiulo dell’università di Torino, e Gaia Tessitore, avvocato del foro di Napoli); il 3 febbraio una mostra – dalle 10 alle 18, palazzo Giusso, Sala Dottorato – sui familiari dei cittadini uccisi dalle forze dell’ordine (la mostra è promossa da Amnesty International con foto di Antonio De Matteo, che incontrerà gli studenti alle 15 insieme a Francesca Corbo, Luigi Manconi, i familiari di Davide Bifolco e quelli di Ugo Russo). https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/01/polizia-parolasettimana.mp4 (credits in nota1) (a cura di riccardo rosa) __________________________ ¹ Immagini da:  Sulla mia pelle, di Alessio Cremonini (2018) The Sleepers, di Barry Levinson (1996) Blue Bayou, di Junstin Chon (2021) Colorblind, di Mostafa Keshvari (2023) Judas and the Black Messiah, di Shaka King (2021) A Clockwork Orange, di Stanley Kubrick (1971) Hunger, di Steve McQueen (2008)
January 12, 2025 / NapoliMONiTOR
Silvia Curcio. Vita e lavoro di una metalmeccanica irpina # Seconda parte
(disegno di ottoeffe) Ho intervistato la prima volta Silvia Curcio a Napoli nel 2018, in occasione delle proteste dei lavoratori dello stabilimento ex Irisbus di Valle Ufita per il rilancio di Industria Italiana Autobus (IIA). L’ho rivista dopo sei anni alla festa organizzata dal sindacato dei metalmeccanici della FIOM di Avellino, a pochi chilometri di distanza dallo stabilimento Stellantis di Pratola Serra. Sentivo la necessità di raccontare la storia di vita di un’operaia metalmeccanica e sindacalista meridionale. Ci siamo dati appuntamento il 10 ottobre alla Camera del Lavoro di Atripalda. Due ore non sono bastate. Abbiamo ripreso la conversazione il 18 ottobre, durante il viaggio verso Roma con altri cento operai metalmeccanici per partecipare allo sciopero generale dei lavoratori dell’industria automobilistica. Il pullman su cui abbiamo viaggiato e chiacchierato è stato costruito nello stabilimento di Flumeri da Silvia e dai suoi colleghi. La conversazione è stata anche l’occasione per ricostruire i tredici anni di lotte e mobilitazioni operaie in difesa della più grande fabbrica italiana di autobus. Il racconto della lunga vertenza è stato pubblicato nel numero 13 de Lo stato delle città. Qui la prima parte dell’intervista.  NELLA FABBRICA DI POMIGLIANO «A Pomigliano facevo i turni dalle sei alle quattordici. Lo stabilimento dista quasi settanta chilometri da casa mia. Per arrivare alle sei mi alzavo alle tre e mezzo di mattina, arrivavo ad Avellino con l’auto e da lì prendevo il pullman che ci portava davanti allo stabilimento. All’inizio ci siamo organizzati con un pullman privato e pagavamo 120 mila lire di abbonamento al mese. Dopo un po’ noi operai abbiamo fatto pressione sui comuni affinché si impegnassero a istituire una linea giornaliera solo per noi, con un autobus che ci portasse direttamente davanti allo stabilimento. Ne istituirono due di linee, una in partenza da Venticano e un’altra da Avellino. Ovviamente il costo dell’abbonamento era a carico nostro. In un’altra azienda di Caivano, invece, un’azienda che chiuse sempre in quegli anni, il sindacato riuscì a fare un accordo secondo cui il costo dell’autobus era a carico della Fiat. Gli pagavano anche un’ora di straordinario al giorno per il viaggio. «I pullman su cui viaggiavamo erano vecchi e si rompevano di frequente per strada. Io non sapevo mai a che ora sarei rientrata a casa. Una notte siamo rimasti addirittura fermi lì a Pomigliano. Era un venerdì sera. In Irpinia nevicava di brutto e l’autostrada era bloccata. Per entrare nei locali della mensa aziendale e non stare in mezzo alla strada fino al mattino fummo costretti a chiamare i carabinieri perché l’azienda non voleva farci entrare. La Fiat ci fece entrare nella mensa solo alle tre di notte, dopo una lunga trattativa mediata dai carabinieri… Ogni settimana ne succedeva una con quegli autobus. Allora non c’erano ancora i cellulari e mio marito nel 1993 mi comprò un cellulare che costava due milioni per consentirmi di comunicare con la famiglia. «Alla Fiat di Pomigliano fummo trasferiti in più di quattrocento. Ho lavorato lì alla catena di montaggio per tredici anni, dal febbraio 1993 al giugno 2006. Quando sono arrivata si assemblava l’Alfa 33. L’impatto con la fabbrica è stato un trauma, piangevo tutti i giorni. Quando lavoravo sulla catena non mi accorgevo che la linea si fermava. La vedevo sempre in movimento. I colleghi mi dicevano “non preoccuparti, all’inizio è così per tutti, poi ti abituerai e ti passerà”. Ricordo che quando stavo ferma in macchina e mio marito scendeva per andare a fare un servizio, io vedevo la macchina che camminava e d’istinto tiravo il freno a mano. Il letto di sera, prima di coricarmi, sembrava che si muovesse. Per un periodo è stato sempre così. «Per noi di Avellino è stato uno shock, un trauma, il trasferimento. Tra lavoro e viaggio stavamo fuori casa per più di undici ore al giorno. Io avevo i bambini piccoli, mio marito mi ha dato una grande mano, anche i miei genitori, perché altrimenti non sarei potuta andare a lavorare. Non potevo mai prendere ferie perché i giorni di ferie potevano servire per i miei figli se facevano una recita scolastica o se c’era un colloquio con i professori. Non ero libera di dire mi faccio una giornata per me, voglio stare a casa, mi voglio rilassare. Con gli altri operai di Avellino abbiamo fatto anche causa alla Fiat, perché ritenevamo ingiusto il trasferimento. Qui veniva riaperto un nuovo stabilimento e noi avevamo tutto il diritto di lavorare vicino casa. Invece loro ci hanno imposto il trasferimento perché non ci volevano, non volevano una forza lavoro già sindacalizzata lì a Pratola Serra. In tribunale abbiamo sempre perso perché, come ben sai, se hai i soldi ti puoi comprare chi vuoi.  «In fabbrica, a Pomigliano, le lotte si facevano. Si lottava per mantenere quei diritti che erano stati acquisiti e che già allora stavano per vacillare. Quando siamo arrivati, tutti noi di Avellino, per fare un dispetto ai sindacati che non ci avevano tutelato, ci siamo iscritti allo Slai Cobas. C’erano Vittorio Granillo e Mara Malavenda. La Malavenda è stata anche parlamentare di Rifondazione Comunista. A Pomigliano non facevo attività sindacale, però mi informavo e seguivo le vertenze. Lo facevo già all’Arna, in verità. Non partecipavo attivamente al sindacato perché avevo i bambini piccoli e stavo più di undici ore al giorno fuori casa. Al lavoro in fabbrica si aggiungeva il lavoro a casa. A Pomigliano avevano capito che avevo questa attitudine e che ero capace di aggregare i lavoratori, le donne soprattutto: le aiutavo a leggere la busta paga, a interpretare una norma, davo loro informazioni su qualche bonus, ecc. I delegati delle sigle sindacali presenti in fabbrica volevano che io mi candidassi, che entrassi nel loro direttivo, ma io non ne avevo il tempo. «A Pomigliano, quando i Cobas indicevano uno sciopero, noi di Avellino partecipavamo in massa e invogliavamo pure quelli di Pomigliano a seguirci. Siccome ci era stato imposto il trasferimento in quella fabbrica, ogni volta che si indiceva uno sciopero eravamo sempre pronti a farlo. Uno sciopero l’abbiamo fatto durante la produzione dell’Alfa 156. Appena arrivata, io stavo sulla linea di allestimento della vettura. Dopo un po’, per punizione, perché mi ribellavo sempre, mi mandarono alla giostra motori, una linea di ottanta lavoratori, solo uomini. La fabbrica è un posto soprattutto di uomini, le donne sono poche. Ho subito tante piccole molestie a lavoro. Ho sofferto tanto, però ho sempre avuto un bel carattere e mi difendevo bene. Alla giostra motori mi mettono a preparare i semiassi. Ogni semiasse pesava due chili e mezzo. Quelli diesel erano più pesanti. Il capo mi affianca a un altro operaio e mi dice “mettiti vicino a lui e vedi se puoi stare, altrimenti ti devo mandare da un’altra parte”. Mentre eseguo le operazioni inizio a riflettere e dico a me stessa “ma qui sto a fermo, non sto sulla catena, e anche se è più sporco e faticoso, perché c’è grasso di olio ovunque, io comunque riesco a gestire il processo e avere un attimo di respiro”. Sulla linea, invece, il processo è continuo. Se poi trovi un piccolo ostacolo, per esempio un po’ di vernice in una filettatura che ti impedisce di inserire il pezzo velocemente, la macchina si sposta e tu devi corrergli dietro. La linea di montaggio va veloce e non ti lascia un attimo di respiro. Inizio quindi a preparare questi semiassi e ci riesco senza problemi. Ovviamente era un lavoro faticosissimo, infatti mi è venuta l’ernia al disco. I semiassi erano pesanti. Tu ne dovevi prendere due alla volta dal contenitore, metterli sul banchetto, inserire velocemente delle piastrine con delle viti e poi li dovevi portare sulla linea dove altri operai li montavano vicino al motore. La catena andava a una cadenza veloce. Oggi va ancora più veloce di allora. Io cercavo di resistere pur di non stare sulla linea. Allora pesavo quarantacinque chili, per farti capire come ero diventata. Quando vedevo che i colleghi mi facevano gli scherzi, perché loro si divertivano come i militari si divertono con le nuove leve, mi veniva ancora di più la voglia di mostrare la mia forza e la mia determinazione. Subivo scherzi continuamente. Di mattina aprivo il cartone dove stavano i pezzi e trovavo dei falli disegnati. Altre volte mi facevano trovare una scatola vuota di preservativi, altre volte mi lasciavano un’immagine pornografica sotto al banchetto. Io, senza fare sceneggiate, prendevo quelle cose e le buttavo. Se ci penso ora non so come ho fatto a resistere. Il capo, sapendo di questi scherzi, mi voleva mandare a lavorare sulle porte, dove c’erano molte donne. Il lavoro consisteva nel montare i pannelli laterali vicino alle portiere. Era un lavoro meno pesante, però era un lavoro di linea, di catena. Io pur di evitare la catena rifiutai, anche perché i cretini, come stavano nel mio reparto stavano anche nell’altro. Le donne operaie erano poche e subivano molestie continue. Qualche collega mia si è licenziata, perché non ha sopportato, qualcuna dalla rabbia prendeva la cassetta e la lanciava. «In quegli anni a Pomigliano si produceva l’Alfa 155, un altro fallimento della Fiat. Per tenere in piedi la produzione per almeno cinque anni le macchine furono date alla finanza, alla polizia e ai carabinieri. Dopo la 155 arriva l’Alfa 156. Quando arriva la 156 mi spostano in un altro reparto dove vado a preparare le centraline ABS, quelle per il sistema frenante. Vado sempre con la stessa squadra, però non mettono me a preparare i semiassi. Anche lì il lavoro era faticoso, la cadenza della linea era molto veloce. Dovevi seguire lo scorrere della linea però, per il tipo di operazione che svolgevo, non avevo l’ansia della catena. Sulla mia postazione se perdevo un secondo lo potevo recuperare, sulla linea invece no. Io sono stata l’unica donna in quello stabilimento a stare per quattordici anni sempre sulla stessa linea e con lo stesso gruppo di lavoro, un gruppo di soli uomini. Ho sempre tenuto testa agli uomini perché ho avuto tre fratelli maschi. Ora mi chiamano ancora, mi stimano e mi rispettano. Qualcuno faceva le battute e diceva “al marito di quella darei tanti calci perché non può mandare la moglie a lavorare qua dove stanno tutti uomini”. Era un modo per dire che le donne degli altri, quelle che lavorano, sono puttane, e le loro mogli che stanno a casa sono tutte sante… «L’Alfa 156 ebbe un bel successo. C’era un colore che si chiamava nuvola, quel colore celestino che cambiava come cambiava il tempo. Dato che a Mirafiori avevano difficoltà, l’azienda trasferì la produzione delle vetture di quel colore a Torino. Appena l’abbiamo saputo abbiamo bloccato la produzione. Siamo usciti dalla fabbrica e siamo andati a piedi alla stazione di Pomigliano. Poi vennero i sindacati confederali a fare l’assemblea all’esterno della fabbrica e gli operai gli tirarono i bulloni. Gli tirarono di tutto, al punto che furono costretti a interrompere l’assemblea. Ai tavoli di contrattazione avevano ceduto e accettato che la produzione venisse trasferita. Quando sono arrivata a Pomigliano c’erano diecimila dipendenti. Nel frattempo, ogni anno la Fiat apriva la mobilità per accompagnare le persone alla pensione. Allora si andava in pensione a cinquantacinque anni. Qualcuno a cinquantuno, usufruendo della mobilità di quattro anni, già poteva andare in pensione. Con gli anni il numero di operai si è ridotto sempre di più. «Della fabbrica di Pomigliano non conservo un ricordo bellissimo, però ha fatto sì che maturassi, mi ha dato la possibilità di agire successivamente nel mondo sindacale. A Pomigliano gli operai provengono da tutta l’area metropolitana di Napoli e hanno una consapevolezza diversa rispetto agli operai irpini. Anche viaggiare nel pullman per tredici anni con tutti uomini è stato formativo. Eravamo quattro-cinque donne. Quelle trasferite con me a Pomigliano erano pochissime. Molte si sono licenziate. Io ce l’ho fatta solo per spirito di responsabilità, perché avevo una famiglia. Dicevo a me stessa “ho due figli che stanno crescendo, devo farli studiare, non mi posso permettere di fare la sartina di paese”. Mia figlia ha studiato fuori e oggi fa il medico.  L’ARRIVO ALLA IRISBUS «Nel corso degli anni avevo sempre cercato qualcuno di Avellino disposto a trasferirsi a Pomigliano e fare cambio con il suo posto di lavoro. Alcuni ci erano riusciti. Io purtroppo no, forse pure perché ero iscritta allo Slai Cobas. Ne parlavo spesso con il mio capo, una persona molto empatica con la quale poi è nato un rapporto di stima e di amicizia. Abbiamo lavorato insieme per due anni. In fabbrica ogni due anni il capo cambiava, veniva trasferito su un’altra linea e arrivava un altro. L’azienda lo faceva per evitare che si creassero le cupole, gruppi chiusi dove non poteva entrare più nessuno. Una sera del maggio 2006 viene il mio capo e mi fa “Silvia tu da lunedì vai a lavorare ad Avellino, allo stabilimento Irisbus di Valle Ufita”. In pratica c’era un ragazzo disposto a trasferirsi da Avellino a Pomigliano. Il capo disse “lei va, fa un mese e se non si trova bene ritorna”. Il primo giugno del 2006 approdo alla ex Irisbus di Flumeri. Le prime donne operaie erano entrate nello stabilimento nel 1996 e appartenevano alle categorie protette. Non c’era nessuna donna entrata prima del 1996, a eccezione di qualcuna che lavorava negli uffici, senza essere passata per le liste delle categorie protette. L’unica donna che oggi raggiunge l’età pensionabile con i contributi sono io in quell’azienda. Le altre devono aspettare per forza l’età perché non hanno i contributi. Io ce li ho perché lavoro da una vita come metalmeccanica. «All’inizio comincio alla postazione in cui lavorava il collega che si era trasferito a Pomigliano. Vado all’incollaggio, dove si montavano le resine. Bisognava incollare queste resine sul pavimento del pullman, inserire i pannelli laterali, montare il muro di vetroresina dove vengono collocati i cinque posti del pullman, ecc. In maggioranza erano uomini a fare queste lavorazioni. Lì l’impatto con la fabbrica è stato un po’ uno shock perché la cultura dei lavoratori era completamente diversa da quella dei lavoratori a Pomigliano. Quando sono entrata si producevano due tipologie di autobus: il Citelis e il Domino Gran Turismo. Nel 2010 fu rinnovato il consiglio di fabbrica. Quando stavo sulla linea del Gran Turismo avevo delle discussioni perenni con i capi perché volevano fare gli smargiassi. Io avevo problemi di dermatite da contatto e chiedevo i guanti perché a Pomigliano mi venivano dati i guanti antiallergici. Loro mi volevano dare i guanti per lavare i piatti, per capirci. Io non accettavo e gli spiegavo che non ero in sicurezza perché il trapano si arrotolava vicino al guanto. Dal punto di vista del rispetto dei diritti, avevo un’esperienza pregressa che lì non c’era. Quando ottenevo dei risultati con queste piccole battaglie alla fine ne beneficiavano anche gli altri operai. Dissi al capo “io mi rifiuto di lavorare fin quando non arrivano i guanti”. Alla fine, anche perché avevo tutta la documentazione medica a supporto, loro fanno arrivare questi guanti, la misura per le donne. E li hanno dati pure alle altre operaie che avevano lo stesso problema. Dopo questo episodio, per punirmi, mi trasferirono. Mi tolsero dalla preparazione degli sportelli e mi misero dentro l’autobus a montare dei pezzi che pesavano tantissimo. In quella postazione lavorava uno che era alto un metro e ottanta ed era massiccio. Io non ce la facevo a completare la fase di lavoro, non potevo riuscire a fare quei fori nel ferro. Da premettere che erano nove mesi che stavo in fabbrica e non mi avevano dato l’attrezzatura personale. Tutti avevano il carrellino con l’attrezzatura ma a me non l’avevano dato. Siccome avevo litigato con i capi, un giorno fanno un’operazione di intimidazione. Il capo reparto mi chiama dentro l’ufficio e mi dice “tu la fase di lavoro la devi completare”. Quella era una fase di lavoro pesantissima. A un certo punto mi dice “fai una cosa, paga il caffè a un collega e fatti aiutare a chiudere la fase di lavoro”. Dove stava l’inganno? Che se un giorno avessi completato quella fase, il giorno dopo loro avrebbero potuto contestarmi la mancata chiusura della fase. Io non la completavo perché non riuscivo a farla. Non mi muovevo dalla postazione, non andavo in giro, facevo solo le pause che dovevo fare. Non completavo la fase di lavoro e loro non mi potevano fare niente. Dissi al capo “facciamo una cosa, il caffè lo pago a lei così viene lei a darmi una mano”. Non l’avessi mai detto. Il capo va dentro dal capo del personale e mi chiamano dentro l’ufficio. Il capo del personale mi dice “signora, noi le abbiamo fatto un favore per farla venire qua e lei si comporta in questo modo?”. Risposi “lei non mi ha fatto nessun favore perché io ho fatto un cambio con un lavoratore, sono stata in prova un mese e non avete avuto nulla da dire. I feedback che vi hanno dato i miei capi a Pomigliano sono stati positivi, per cui non mi avete fatto nessun favore”. Feci rimanere anche il capo officina. Gliene dissi di tutti i colori, gli dissi “sono nove mesi che sto qua e dopo ventidue anni di lavoro sembro l’ultima arrivata, non mi avete dato un cacciavite, devo andare in prestito dai colleghi a prendere l’attrezzatura”. Non mi diedero nemmeno il tempo di arrivare sulla linea che trovai uno carrello preparato con tutta l’attrezzatura all’interno. All’uscita dall’ufficio il caporeparto, camminando insieme per un corridoio lunghissimo, mi disse “io sono una ruspa, non guardo in faccia a nessuno”. Ah ok, sì, “ognuno usa gli strumenti che ha e basta”, dissi io. Il giorno dopo vedo il caporeparto, il caporeparto della saldatura-carpenteria e il capo del personale. Passano dove stavo io. “Questi mi mandano al reparto 1, il reparto carpenteria”, pensai io. Perché lì c’era qualche donna che lavorava alle piegatrici, dove si piegavano i fogli di lamiera di alluminio. Mi ero già preparata. Dopo un po’ se ne vanno e poi arriva il capo dicendo “Silvia, vi devo accompagnare al reparto 1”. Io allora lancio le chiavi sopra al carrello, mi prendo lo zaino e me ne vado… «Nel reparto c’erano due macchine che facevano i fori vicino ai tubolari per la scocca dell’autobus. Bisognava prendere delle misure, fare dei fori e poi li mettevi su un altro macchinario che faceva dentro i fori la filettatura. Era il 2007 quando sono andata là. Ho creato subito una squadra. Qualcuno disse a Dario, il delegato storico della Fiom, guarda che c’è quella ragazza al reparto 1 che è molto in gamba, si fermano tutti da lei a chiedere informazioni, dovresti convincerla a farla iscrivere alla Fiom e farla candidare. Quando arrivai ero iscritta ai Cobas, però lì non c’erano i Cobas, e quindi restai senza la tessera per circa un anno. Viene Dario e mi convince a farmi la tessera. Così mi iscrivo alla Fiom. Nel 2010 si deve rinnovare il consiglio di fabbrica. Dario pensò di mettere anche una donna. Scelse me perché ero stimata nel reparto carpenteria. Un altro delegato non era d’accordo e riteneva che io non prendessi nemmeno il mio voto. Dario si intestardisce e mi candida. Ottengo dieci preferenze, ma non vengo eletta. Quando l’altro delegato si avvicinò per farmi i complimenti io non accettai nemmeno le congratulazioni. Nel 2010, pur non essendo stata eletta nel consiglio di fabbrica, iniziai il mio impegno sindacale. Nel 2011 iniziò la nostra lotta alla Irisbus. Sono diventata delegata sindacale della Fiom il primo gennaio 2015, quando il collega Dario Meninno andò in pensione». (intervista di giuseppe d’onofrio)
January 10, 2025 / NapoliMONiTOR
Silvia Curcio. Vita e lavoro di una metalmeccanica irpina # Prima parte
(disegno di ottoeffe) Ho intervistato la prima volta Silvia Curcio a Napoli nel 2018, in occasione delle proteste dei lavoratori dello stabilimento ex Irisbus di Valle Ufita per il rilancio di Industria Italiana Autobus (IIA). L’ho rivista dopo sei anni alla festa organizzata dal sindacato dei metalmeccanici della FIOM di Avellino, a pochi chilometri di distanza dallo stabilimento Stellantis di Pratola Serra. Sentivo la necessità di raccontare la storia di vita di un’operaia metalmeccanica e sindacalista meridionale. Ci siamo dati appuntamento il 10 ottobre alla Camera del Lavoro di Atripalda. Due ore non sono bastate. Abbiamo ripreso la conversazione il 18 ottobre, durante il viaggio verso Roma con altri cento operai metalmeccanici per partecipare allo sciopero generale dei lavoratori dell’industria automobilistica. Il pullman su cui abbiamo viaggiato e chiacchierato è stato costruito nello stabilimento di Flumeri da Silvia e dai suoi colleghi. La conversazione è stata anche l’occasione per ricostruire i tredici anni di lotte e mobilitazioni operaie in difesa della più grande fabbrica italiana di autobus. Il racconto della lunga vertenza è stato pubblicato nel numero 13 de Lo stato delle città. LA FAMIGLIA, L’INFANZIA, LA GIOVINEZZA «Io sono nata a San Mango sul Calore, in provincia di Avellino. Sono l’ultima di cinque figli. Mia mamma era contadina e mio padre faceva il manovale nelle ditte edili. Mia mamma si occupava della campagna, che non era la nostra perché allora c’era la mezzadria: una buona parte di quello che raccoglievi andava al padrone e quel poco che rimaneva andava a te. Poi negli anni questa cosa è cambiata e mia mamma ha continuato a coltivare i terreni degli altri, però la maggior parte del raccolto lo teneva per noi. Nonostante la povertà di allora, non ho sofferto la fame. Avevamo i prodotti della campagna: grano, mais, ortaggi, alberi di ulivo, nocciole, noci; e poi polli, galline, conigli, pecore… Mio padre era trasfertista, ha lavorato con varie ditte. Aveva un fratello che pascolava le pecore al paese, poi a sedici anni se ne andò a Prato, dove iniziò a lavorare come manovale e pian piano creò una ditta sua. Negli anni ha guadagnato benissimo, è diventato miliardario. Mio padre è andato a lavorare con lui per un certo periodo. Poi, siccome mia mamma anche di salute non stava bene, è tornato di nuovo in paese. Mia sorella, primogenita, ha vissuto a Battipaglia, mentre i miei fratelli sono tutti emigrati: chi in Germania, chi a Firenze con mio zio… Adesso sono tutti qua, un paio sono già in pensione, uno purtroppo è deceduto. «Conservo un bel ricordo della mia infanzia. Ero una bambina vivace, ribelle fin da piccola, forse perché avevo tre fratelli che mi volevano sempre imporre le cose. Anche non avendo le conoscenze, quando c’è stato il referendum per il divorzio ho detto a mia mamma che doveva votare per il divorzio, e poi per l’aborto. A quei tempi le famiglie duravano in eterno, anche se non andavano d’accordo. I miei genitori sono stati sposati fino alla morte di mia madre, che era più grande di mio padre di cinque anni. Sono stati insieme sessantadue anni e mezzo. Mio padre è stato un esempio, non l’abbiamo mai visto urlare nei confronti di mia mamma, non ha mai alzato le mani. Mia mamma aveva la seconda elementare, ma era molto avanti coi tempi. «Quando ho votato per la prima volta avevo diciotto anni e ho votato il Partito Comunista. La Democrazia Cristiana era sovrana qui in Irpinia, votare il Pci era una forma di ribellione nei confronti di chi aveva amministrato e, per quel che potevo capire, non mi pareva che amministrassero così bene. Io ho la terza media. Dopo la licenzia media mi volevo iscrivere all’istituto d’arte perché mi piaceva disegnare. Mio padre, siccome mia cugina andava all’istituto commerciale, ha assegnato anche me a quella scuola. A quell’epoca ti imponevano queste scelte. Dopo sei mesi mi sono ritirata. Mio padre disse: “Ah, non sei voluta andare? Allora non andrai da nessun’altra parte”. «Dopo un po’, verso settembre, passano per il paese alcune insegnanti che tenevano dei corsi professionali ad Avellino, all’Istituto Guido Dorso. Erano corsi di cucitura industriale, di confezionista in serie e di confezionista in pelle. Con un anno di scuola avevi già un attestato di qualifica e potevi cercare lavoro. La scuola prevedeva dei laboratori, non era solo teoria. C’era la pratica, come in una piccola industria. Mio padre non voleva che andassi, poi mia madre lo convinse. Era tutto gratis, anche l’abbonamento dell’autobus ci pagavano. Non dovevamo comprare nemmeno la penna e la matita, ci forniva tutto l’Istituto. In questa scuola ho scoperto di avere la passione per la cucitura industriale. A fine anno davano un premio di 15 mila lire alla più brava. Io lo prendevo sempre perché avevo questa qualità nascosta di cui non sapevo. Le macchine erano quelle industriali, non la solita macchina per cucire della Singer che tenevamo tutti in casa. Dopo il primo anno conseguivi un attestato, dopo il secondo il diploma di perfezionamento come confezionista in serie. Io ho fatto due anni di perfezionamento. Dopo c’era anche il corso di perfezionamento per cucire la pelle, perché la pelle ha un procedimento diverso dalla stoffa, e ho fatto anche quello. Dopo questo corso mi iscrissi anche a quello di maglieria industriale, però venne il terremoto del 1980 e non ho potuto frequentarlo. «Il ricordo che ho di quegli anni è di tanta spensieratezza. Non si temeva il futuro perché non lo si conosceva. Non avevi i mezzi che si hanno oggi per capire tutto quello che accade intorno a te. Il paese distava venti chilometri da Avellino, ma era come se fosse oltreoceano. In città si andava solo per necessità. La città l’ho frequentata poi durante gli anni della scuola. I miei fratelli, invece, hanno deciso di non studiare e sono emigrati: Germania, Svizzera, Firenze. Non c’erano soldi, però non si moriva di fame. Allora era quella la priorità: non morire di fame. «Dopo il terremoto siamo stati un anno nella roulotte. Ho perso tante amiche a causa del terremoto. Il mio paese, che non era grande, ha avuto ottantaquattro morti. In rapporto alla popolazione residente è stato uno dei primi per numero di morti. Nel paese c’era il campo sportivo e lì avevano allestito un campo di sfollati. Noi invece, con altre due o tre famiglie, stavamo presso un cugino che aveva uno spazio davanti casa dove ci faceva appoggiare le roulotte. «Dopo la roulotte siamo andati nei prefabbricati. Hanno fatto una task force per trovare l’area e hanno creato duecentottanta prefabbricati in un anno. Tutti quelli che abitavano in campagna e che avevano la casa inagibile a fianco dei terreni si sono fatti fare la piazzola e ci hanno messo sopra questo prefabbricato. Erano in legno, abbastanza confortevoli. Io mi ero fidanzata con un ragazzo di un paese vicino al nostro e, considerando tutto quello che era successo, abbiamo pensato di andarcene in Svizzera perché lì c’era mio fratello. Poi però non siamo più partiti. IL LAVORO NERO «In quel periodo mi iscrivo all’ufficio di collocamento e inizio a lavorare in una sartoria dove facevano i jeans. Dentro di me avevo già l’animo da sindacalista perché creavo sempre problemi alla direzione, in modo coerente ovviamente. Per esempio, la mattina arrivavo e dicevano: “Voi avete fatto un minuto di ritardo”. Io dicevo: “Ok, allora metti un orologio in modo che tutti quanti ci atteniamo a quell’orologio, perché tu mi puoi dire che ho fatto un minuto, ma secondo me sono arrivata in orario ed è il tuo orologio che va avanti”. Era un lavoro precario. Il proprietario diceva: “Portatemi il tesserino – allora c’era il tesserino che si andava a timbrare –, che poi vi assicuro. Un giorno mi venne da pensare, e quella fu la fortuna, che quello non ci aveva assicurato. Allora non c’erano gli strumenti per verificare se era vero o no. Quindi gli dissi: “Senti, tu mi devi dare il mio tesserino”. Lui rispose: “Silvia, io ti ho assicurato”. Io dico: “Dammi il mio tesserino”. Lui a un certo punto apre il cassetto e i tesserini stavano tutti là dentro. Non aveva assicurato nessuno. Io mi prendo il tesserino e me ne vado. Non mi voleva pagare nemmeno i quindici giorni che avevo lavorato. Eravamo tutti a nero. Non sono più andata. Dopo di me molte ragazze fecero la stessa scelta e alla fine chiusero. Erano venuti da Alessandria a impiantare la fabbrichetta lì in paese. In un ex frantoio, che non aveva nemmeno il pavimento. C’era fame di lavoro e loro potevano sfruttare la situazione. Eravamo diciassette operai, tutti a nero. I padroni erano una madre con il figlio. Se ne tornarono ad Alessandria. «Dopo questa esperienza, dall’ufficio di collocamento ci mandarono a Solofra, la città dove fanno le pelli. Eravamo in quattro, tutte persone che avevano fatto il corso con me. Sul nostro diploma c’era scritto che eravamo confezioniste in pelle. Dovevamo raggiungere Atripalda e lì salire in un furgone completamente chiuso e senza finestre. Non sapevamo la strada che faceva l’autista, e ci portavano a Solofra. Questo ti fa capire quello che succede col caporalato oggi. Il primo giorno ci fanno scendere all’uscita della galleria di Solofra, dove c’era una fabbrichetta ben attrezzata per quei tempi. Dopo un po’ si avvicinano e ci dicono: “Voi però adesso venite con noi da un’altra parte”. E così ci portano in una campagna sperduta. Eravamo cinque ragazze, tutte dello stesso paese. In questa campagna c’era una casa vecchissima e disabitata. In una stanza c’erano dei telai di ferro dove sopra si mettevano le pelli, si stendevano, si fissavano con delle pinze di ferro ed entravano in un forno dove venivano cotte e diventavano bollenti. Quando uscivano dal forno i capi-operai non ti davano nemmeno il tempo che le pelli si raffreddassero, dovevi prenderle a mani nude. Io vedevo le ragazze e i ragazzi che lavoravano là che avevano le mani tutte callose, piene di piaghe, lesionate dalle ustioni. I telai erano bollenti e non ti potevi nemmeno avvicinare. Le pinze diventavano incandescenti, quando le andavi a togliere dovevi essere veloce altrimenti ti scottavi. Prendevi la pelle, la mettevi sopra le altre, ne mettevi un’altra, la stendevi e poi entrava di nuovo nel forno. Questa era l’operazione che dovevi fare tutta la giornata. Al terzo giorno me ne andai. Beccai il collocatore del paese e dissi: “Lì ci mandi a tua moglie e tua figlia perché tu hai detto che noi saremmo andate a cucire le pelli ma facciamo tutt’altro. Poi ci mettono come bestie in un furgone la mattina per farci arrivare là”. Alla fine non ci pagarono nemmeno i tre giorni di lavoro che avevamo fatto. Non c’era nessuna norma di sicurezza, diciamo che allora non si parlava nemmeno di sicurezza… OPERAIA A PRATOLA SERRA «Insomma, lascio questo lavoro e resto comunque iscritta all’ufficio di collocamento. Nel settembre del 1982 sposo il mio attuale marito perché la nostra intenzione era quella di emigrare in Svizzera. Io però nel frattempo facevo la sarta in casa: cucivo i vestiti per le amiche del paese, facevo gli orli ai pantaloni, ecc. Stavamo preparando i documenti per andarcene, nel frattempo ero rimasta incinta. A febbraio arriva una raccomandata in cui mi chiedono di recarmi a Pratola Serra. Io non sapevo manco dove si trovasse Pratola Serra. Il mio orizzonte finiva a San Mango sul Calore o al massimo ad Avellino. Nella raccomandata c’era scritto di recarsi presso l’Arna (Alfa Romeo Nissan Auto) come sarta. Io pensai che era un’altra di quelle jeanserie dove ero stata. Ero al quinto mese di gravidanza, ma decisi di andare lo stesso. Quando entrai nella fabbrica la persona che ci faceva il colloquio mi chiese a che mese di gravidanza fossi e io risposi al quinto. Dopo abbiamo scoperto che quando l’azienda aveva fatto richiesta di personale specializzato all’ufficio di collocamento e avevano scoperto che erano tutte donne ci rimasero male perché non volevano assumere le donne. Ecco perché lì il sindacato ha fatto un’operazione giusta a quell’epoca, perché era una discriminazione non far entrare le donne. Quindi loro ci hanno chiamato, però si aspettavano che non superassimo il colloquio, in modo da poterci mandare a casa senza problemi. La prova era di dodici giorni. Faccio questo colloquio e non arriva più nessuna notizia. Passano quasi due mesi, poi all’improvviso, era il venerdì santo, mi arriva il telegramma. Era il primo aprile 1983. Il telegramma diceva che mi dovevo presentare il 5 aprile allo stabilimento di Pratola Serra. Pensavo fosse un pesce d’aprile. Il 5 aprile vado e faccio la prova. Per non creare intralcio alla produzione ci facevano fare il turno di prova dalle quindici alle ventitré. Mio marito mi accompagnava e mi veniva a prendere. Avevano creato un indotto dell’Alfa Romeo di Pomigliano qui a Pratola Serra dove avremmo dovuto cucire i rivestimenti dei sedili delle auto. C’era un gruppo di sellatori che confezionava il sedile. Noi cucivamo i sedili, che venivano poi tappezzati da questi lavoratori. Poi c’era un altro macchinario che tagliava i pannelli, quelli che vanno dentro lo sportello, e un capannone a fianco che era di saldatura perché lì facevano anche il telaio dell’Arna Alfa Romeo. C’erano già i robot, due robot per essere precisa. Ci ritrovammo a fare questi colloqui tutti noi ragazzi che eravamo usciti da quella scuola finanziata dalla Regione, perché all’ufficio di collocamento risultavamo come sarti-cucitori. «Il secondo giorno andiamo in aula dove ci viene fatta una specie di formazione. Dopo le diciassette ci portano in reparto per andare a provare la cucitura. C’erano alcuni che erano venuti come formatori da Pomigliano perché quelle lavorazioni, prima di esternalizzarle a Pratola Serra, le facevano lì. Io avevo un pancione enorme e stavo seduta alla macchina per cucire. Il pedale era elettrico. I formatori erano tutti premurosi e venivano vicino a dirmi “non ti devi preoccupare, devi stare tranquilla, pensa che devi partorire, deve nascere un bambino, non devi avere ansia”. Era una sorta di strategia per prepararmi al fatto che non mi avrebbero assunta, perché sarei andata in maternità poco dopo la prova. Nel frattempo iniziamo queste prove. La macchina era formata dagli schienali, poi il sedile, i poggiatesta e il sedile posteriore. Tu dovevi cucire tutti questi pezzi, assemblarli e inserire il cordoncino delle cuciture. Io sono stata l’unica a terminare la produzione. Questo creava un problema all’azienda. In pratica erano costretti ad assumermi perché se non l’avessero fatto avrei potuto rivalermi sul fatto che la prova l’avevo superata. Dopo l’assunzione i formatori mi dissero: “Lei signora è stato il più grande problema che ci è mai capitato perché era brava però allo stesso tempo non avrebbe potuto lavorare perché prossima alla maternità. Però ci siamo assunti la responsabilità di assumerla”. Infatti, finiamo i dodici giorni di prova e alle sette di sera ci portano in una saletta. Eravamo ventuno persone. Iniziano a chiamare tre ragazze e dicono loro di andare all’ufficio retribuzioni per riscuotere l’assegno perché la prova non l’avevano superata. Io avevo il cuore in gola, pensavo “chiameranno anche me”. Alla fine non mi chiamano e così vengo assunta. Dopo l’assunzione dovevamo fare cinque mesi di formazione in un altro capannone vicino al casello dell’autostrada di Avellino Est. Andai solo per i primi due giorni perché poi cominciò la maternità. «Appena rientrata dai cinque mesi di maternità sono riuscita subito a fare la produzione che facevano gli altri operai perché avevo l’esperienza. Infatti il terzo livello me l’hanno dato dopo otto mesi, una delle poche che l’ha preso velocemente, e poi l’ho tenuto per tutta la vita. Noi siamo state assunte come operaie specializzate perché la cucitura era un’attività ad alta specializzazione. Il primo impatto con la fabbrica non è stato traumatico perché l’Alfa Romeo Nissan era parastatale e avevamo tutti i diritti. Diritti che nessuno di noi aveva mai avuto prima. Io ho trovato tutto già fatto perché qualcuno ha fatto le battaglie prima di me. Avevo molta flessibilità, facevo due ore di allattamento e solo sei di lavoro. Poi avevamo la mensa, lo spogliatoio, i camici. Avere tutti i diritti quarantadue anni fa per noi rappresentava un privilegio. Il lavoro non era pesante. All’inizio dovevi imparare a fare il rivestimento completo della macchina. Ognuno di noi doveva rivestire quattro vetture al giorno. Successivamente il lavoro è diventato a catena: c’era chi assemblava, chi inseriva il cordoncino, ecc. Le macchine per cucire avevano duemilacinquecento giri al minuto. «Lo stabilimento dell’Arna nasce nel 1982 per esternalizzare alcune attività svolte all’Alfa Romeo di Pomigliano. Prima della chiusura contava 680 dipendenti. Dopo tre anni l’Arna fallisce perché la macchina non ha mercato e quindi inizia il periodo di cassa integrazione. Allora presidente dell’Iri era Romano Prodi. Dopo il fallimento ci fu una manifestazione di interesse per l’Alfa Romeo da parte della Ford, ma le venne preferita la Fiat, che subentrò nella proprietà nel 1986. Nel 1987, durante la cassa integrazione, nacque il mio secondo figlio. Con l’acquisizione dello stabilimento da parte di Fiat la nostra azienda prese il nome di Somepra. Continuavamo a fare le stesse produzioni, però anche per altri marchi del gruppo: non solo vetture Alfa Romeo, ma anche Lancia, Fiat, ecc. Dopo due anni, nel 1990, hanno aperto un altro periodo di cassa integrazione perché l’azienda aveva intenzione di ristrutturare lo stabilimento per avviare lì la produzione di motori. Più tardi lì nascerà la Fiat di Pratola Serra. Promettevano duemila posti di lavoro. Durante la ristrutturazione iniziarono a chiamare ognuno di noi ad Avellino dicendo che il lavoro alla Somepra non c’era, che l’azienda stava per chiudere e dovevamo andare a Pomigliano. Avrebbero potuto assumerci tutti nella fabbrica per la produzione di motori a Pratola Serra, ma nessun operaio dell’ex Arna è stato assunto in quella fabbrica. La verità è che non volevano lavoratori già sindacalizzati che avrebbero potuto coinvolgere i nuovi assunti. Hanno preferito licenziare noi e fare nuove assunzioni. Ancora oggi quella fabbrica fa fatica se deve fare uno sciopero, gli operai non partecipano. «Nel 1988, quando io sono in cassa integrazione, chiude anche l’Isochimica di Avellino dove lavorava mio marito. Per fortuna, a oggi ha solo le fibre nel liquido dei polmoni, non ci sono placche. Mentre ci sono duecentocinquanta operai ammalati e una trentina sono già morti per mesotelioma pleurico. Dopo una lunga battaglia a mio marito non gli hanno riconosciuto nulla. Il prepensionamento non gli è stato riconosciuto perché non ha le placche, non è malato per loro. A gennaio compirà sessantasei anni. «Insomma, alla fine degli anni Ottanta ci troviamo in una situazione di grande difficoltà perché l’Isochimica chiude e gli operai non vengono pagati. Io, a differenza di mio marito, riesco almeno a percepire la cassa integrazione. Quando mi propongono il trasferimento a Pomigliano cerco di temporeggiare per altri due anni. Dopo un po’ mi propongono di andare alla Denso di Pianodardine, ma non accetto perché pensavo che la nostra fabbrica ripartisse in qualche modo. Nel 1992 mi mandano a chiamare e mi dicono che mi devo presentare a Pomigliano per andare a firmare il contratto. Io non ci vado. Loro che fanno? Mandano un addetto di Pomigliano all’ufficio postale del mio paese a consegnare una raccomandata. Quello dell’ufficio postale mi chiama. Era il 3 febbraio. Il 5 terminava la cassa integrazione e io sarei stata licenziata. Allora penso “ma se questi sanno che mi possono licenziare, perché si sono preoccupati di mandarmi questo signore all’ufficio postale facendomi chiamare a casa per firmare la raccomandata?”. Quando arrivo all’ufficio postale noto un’Alfa 33 targata Napoli e una persona appoggiata alla porta. Era quasi l’una e in un paese piccolo come il mio a quell’ora non c’è più nessuno in giro. Poi conoscevo tutti e sapevo che questa persona ferma lì non era del posto. In pratica, quest’uomo aspettava che io andassi dentro a firmare per poi prendere la ricevuta e portarla in Fiat a Pomigliano. Io entro e leggo la lettera. Vado al sindacato, ma non mi sanno dare risposte. Mi dicono che mi conviene accettare il trasferimento a Pomigliano altrimenti mi avrebbero licenziata. Non era vero, perché i cinque che non accettarono furono poi mandati alla Denso, vicino casa. Il 4 febbraio, di mattina, dopo una notte passata al pronto soccorso perché mio figlio si era fatto male, io e mio marito andiamo a Pomigliano con la mia 126 e consegno la lettera. Loro mi fanno firmare e mi dicono che il 5 febbraio, giorno del mio compleanno, avrei dovuto prendere servizio dalle otto alle diciassette per fare la formazione. Da quel giorno ho iniziato a lavorare come operaia allo stabilimento Fiat di Pomiglianod’Arco». (intervista di giuseppe d’onofrio – continua…)
January 9, 2025 / NapoliMONiTOR
Decoro e recinzioni. Il declino degli spazi pubblici a Trieste
(disegno di davide nespolino) “PalazzoKalister: straordinaria manutenzione e restauro per la conservazione dei caratteri architettonici e tipologici con cambio di destinazione da residenziale a turistico-ricettiva”. Questa chiara dichiarazione di intenti è scritta nel cartello di descrizione dei lavori su uno dei palazzi più importanti di piazza Libertà, a Trieste. Fu costruito in stile eclettico alla fine dell’Ottocento poco dopo la vicina stazione ferroviaria. Dopo esser stato abbandonato per anni, palazzo Kalister si prepara così a diventare un albergo di grandi dimensioni. Il cartello che annuncia l’operazione si trova nei pressi di un’alta gru che di notte viene illuminata con due strisce di luci rosse verticali per segnalarne la presenza. Oltre a essere la piazza della stazione centrale di Trieste piazza Libertà è anche molto altro. È lì che tutti i giorni, da anni, i volontari dell’associazione Linea d’Ombra e di altre organizzazioni accolgono chi arriva dalla rotta balcanica, oltre a chi vive a Trieste da più tempo ma si trova ancora in condizioni molto precarie e disagiate. In questo periodo basta passare un po’ di tempo in piazza dopo le 19 e ci si accorge di quanti cambiamenti avvengano nell’arco di un paio d’ore, a seconda del cibo, delle bevande e/o dei vestiti che arrivano e che vengono distribuiti. Le persone, provenienti soprattutto dall’Afghanistan e dal Pakistan, si dispongono in file al momento delle distribuzioni, altrimenti si spostano nella parte centrale della piazza. Chi vuole raggiungere o lasciare la stazione preferisce fare un giro più largo, anche a costo di allungare un po’. Fino allo scorso 21 giugno buona parte delle persone migranti che frequentavano la piazza abitavano nel Silos, un grande edificio semi-diroccato che costeggia i binari della stazione dei treni. Quel giorno le forze di polizia, agendo in seguito a un’ordinanza del sindaco Roberto Dipiazza, preoccupato per le condizioni sanitarie del luogo, ma anche temendo un danno d’immagine per la città, sgomberarono l’edificio trasferendo altrove le persone presenti all’interno e altre che si trovavano nei paraggi e preferivano non rimanere a Trieste. Ora il Silos è costeggiato da un parcheggio privato, mentre l’interno è stato bonificato. Coop 3.0, proprietaria dell’immobile, dovrebbe essere ora sul punto di vendere l’intera struttura a un gruppo austriaco. L’atto non ha cambiato la postura delle amministrazioni pubbliche rispetto all’accoglienza delle persone in movimento; al contrario di quanto era stato promesso, nel frattempo non sono stati resi disponibili più posti in accoglienza e soprattutto non è stato attivato quel servizio a bassa soglia, cioè accessibile a tutti senza formalità, che le associazioni reclamano da tempo per rispondere alle esigenze delle molte persone che arrivano a Trieste e si fermano poche ore prima di riprendere il viaggio. La conseguenza è stata che per tutta l’estate chi arrivava in città trovava rifugio sotto una tettoia all’ingresso del Porto Vecchio, un’area costituita da magazzini portuali abbandonati costruiti a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Lì le persone si sono accampate con sacchi a pelo e altri materiali, proprio come avveniva nel Silos, senza nemmeno la protezione, comunque parziale, delle arcate in muratura. L’arrivo dell’autunno non ha cambiato le cose e lo scorso 20 novembre le istituzioni hanno deciso di intervenire sgomberando la tettoia con modalità simili a quelle adottate a giugno per il Silos. Le forze dell’ordine sono arrivate prima delle otto e intorno a mezzogiorno la tettoia era occupata solo dagli impiegati di un’azienda di pulizie che stavano ultimando il lavoro coperti da spesse tute bianche. Un comunicato congiunto delle associazioni attive nell’accoglienza delle persone in movimento a Trieste (Consorzio italiano di solidarietà, Linea d’Ombra, Diaconia valdese e No Name Kitchen), pur accogliendo favorevolmente il trasferimento e auspicando che ciò avvenga con una maggior frequenza, ha criticato l’intervento sostenendo che “nonostante venga presentata come un’azione risolutiva ed efficiente, l’operazione odierna rappresenta l’ennesima dimostrazione di una gestione straordinariamente carente. Se infatti i richiedenti asilo avessero avuto accesso, come previsto dalla legge, a un sistema di prima accoglienza adeguato al loro arrivo, con una successiva e rapida redistribuzione sul territorio nazionale, l’indecoroso abbandono nell’area del Porto Vecchio non si sarebbe verificato. La scenografica e onerosa operazione di oggi sarebbe stata così del tutto superflua”. In effetti, per chi segue da almeno alcuni mesi la questione, il copione sembra ripetersi sempre in modo simile senza che poi da parte delle istituzioni ci sia la volontà di trovare delle soluzioni di lungo periodo. Nel frattempo, la città sta cambiando. Al centro di piazza Libertà la statua della principessa Sissi è circondata da circa un anno da alcune transenne per impedire che il retro venisse usato come bagno a cielo aperto. Ora il Comune le sta sostituendo con delle barriere permanenti, sottraendo alla fruizione una parte non piccola della piazza. Da mesi è chiuso il sottopassaggio tra piazza della Libertà e la stazione che in precedenza era stato usato come punto di distribuzione e assistenza durante i giorni di maltempo. Qualche settimana fa il quotidiano locale Il Piccolo ha diffuso la notizia che il Comune starebbe valutando la possibilità di attingere a dei fondi regionali per recintare anche il perimetro più esterno della piazza. Visto che negli anni corsi la stessa cosa è stata fatta anche in un’altra piazza importante (piazza Hortis, sempre in centro) non sembra così impensabile che la stessa scelta venga fatta per una piazza in cui si è creato uno dei pochi spazi di autogestione in città. Inoltre, piazza Hortis, uno spazio alberato su cui affacciano lo storico istituto nautico e la frequentata emeroteca cittadina, fa parte di una delle prime zone di Trieste ad aver cambiato faccia: in pochi anni nuovi locali alla moda hanno affiancato o preso il posto di osterie e altri negozi per i residenti. Le recinzioni comportano degli orari di apertura e di chiusura e sconvolgono le modalità di fruizione di uno spazio pubblico come una piazza. È chiaro l’intento del Comune di scoraggiare una pratica di accoglienza percepita dall’amministrazione come dissonante rispetto all’immagine di città pulita e funzionale che si vuole dare di Trieste, però qui sembra essere in gioco anche la gestione degli spazi pubblici. Poco lontano da piazza Libertà si trova largo Santos, uno spiazzo all’ingresso dell’area del Porto Vecchio su cui fino alla fine del 2022 sorgeva la sala Tripcovich, una struttura usata per concerti e altre iniziative culturali. La sala è stata demolita due anni fa e lo spiazzo che ne è risultato è stato usato in diverse occasioni da alcuni collettivi cittadini per iniziative come concerti o per la partenza o l’arrivo di cortei. In occasione delle festività natalizie del 2024 il largo è stato trasformato in un parcheggio gestito dalla Confcommercio provinciale che fornirà il servizio ancora fino al 31 gennaio. La città sta cambiando anche in modo più eclatante. Come palazzo Kalister in piazza Libertà l’enorme palazzo già delle Ferrovie dello Stato che affaccia sulla centrale piazza Vittorio Veneto sta per essere trasformato in un hotel con una piccola quota di servizi e abitazioni. Anche qui sembra tutto già visto e già sentito: gli affitti sono rincarati molto mentre diversi edifici storici diventano cantieri, in alcuni casi con lo scopo di realizzare delle residenze di lusso. La posizione della giunta comunale è chiara: porre il turismo al centro dell’economia cittadina senza tenere conto di quanto questa scelta influisca in negativo sulla qualità della vita di molti abitanti. Per anni il sindaco Dipiazza si è vantato degli ottimi risultati raggiunti da Triescte nella classifica annuale delle città con la qualità di vita più alta pubblicata dal Sole24Ore. Al di là dell’attendibilità che si vuole attribuire a questo genere di rilevazioni, sembra sempre necessario valutare da che punto di vista si guarda la città. Fino a pochi anni fa la qualità di vita a Trieste non era così determinata solo dalla capacità di spesa mentre ora, anche a causa dei tagli nei servizi pubblici, come la chiusura di due consultori su quattro nel 2024, questa sta diventando un elemento sempre più centrale. (alessandro stoppoloni)
January 8, 2025 / NapoliMONiTOR
Studiare e insegnare a Gaza durante la guerra. Intervista ad Asmaa Abusamra
(disegno di cyop&kaf) Asmaa Abusamra è una docente universitaria. Nel marzo 2024 ha lasciato la Striscia di Gaza per andare in Norvegia nell’ambito del progetto Scholars at Risk (SAR). Mi ha dato appuntamento alla Biblioteca Centrale dell’Università di Oslo. L’intervista si svolgerà al terzo piano ma non prendiamo l’ascensore «perché da quando è cominciata la guerra non riesco più a stare in spazi stretti». Arriviamo in una sala riunioni con larghe finestre che mostrano i palazzi vicini e lei mi indica quello più alto: «È il Policlinico universitario, ogni tanto un elicottero si alza dal tetto e a me viene l’ansia perché il rumore mi ricorda quello dei droni che sono la colonna sonora costante di ogni giorno a Gaza». Mi fa accomodare e si allontana per prendere caffè e acqua. Al suo ritorno, Asma mi racconterà della vita della gente di Gaza durante la guerra iniziata il 7 ottobre 2023, e di come l’educazione e l’insegnamento sono tra le poche cose a cui aggrapparsi per restare umani durante il massacro. «A Gaza prima della guerra c’erano diciassette istituzioni universitarie e circa ottantottomila studenti immatricolati. Noi palestinesi siamo fieri del fatto che abbiamo il più alto tasso di iscritti all’università in tutto il mondo arabo. La mia si trova nella parte sud di Gaza City, vicino al corridoio di Netzarim. Fino a settembre 2024 alcuni edifici erano ancora in piedi e si poteva fare lezione, ma a settembre Israele ha raso al suolo tutto. «Io sono una professoressa di Education Management allo University College of Applied Sciences of Gaza. Sono nata nel nord della Striscia e la mia famiglia, il mio lavoro e la mia vita, tutto ciò che mi appartiene è a Gaza. Vivevo nel quartiere di Shejayah, che era già stato bombardato durante la guerra del 2014. All’epoca la nostra casa subì qualche danno alle finestre, ma dopo una settimana siamo potuti rientrare. Il 7 ottobre avevo capito immediatamente che questa volta sarebbe stato molto diverso». La interrompo per dire che altra gente da Gaza con cui ho parlato non si aspettava una reazione israeliana così devastante dopo il 7 ottobre. «Io invece l’ho capito subito – spiega – perché ho visto tante guerre da quando sono nata. Di solito la gente di Gaza sa che tipo di reazione aspettarsi da Israele, e molti speravano che sarebbe stato come le altre volte. Io mi sono resa conto subito che questa volta era diverso, che avevano bisogno di una scusa per fare qualcosa di molto peggio. Avevo capito che la punizione di Israele non sarebbe stata raddoppiata o triplicata come le altre volte, ma sarebbe stata decuplicata. «Dissi a mia madre e a mio padre qual era la mia sensazione, ma all’inizio non mi presero sul serio. In ogni caso dovevamo andarcene, ma dove? Noi conosciamo solo Gaza e abbiamo qualche parente al sud, ma come fare a traslocare in quella situazione? Abbiamo preso qualcosa, la mia famiglia pensava che in un paio di settimane saremmo tornati a casa. Io presi il mio computer e andammo a Nuseirat, ma anche lì non era sicuro per niente, anche lì c’era la guerra. Arrivammo a piedi il 15 ottobre e c’erano scene di panico, centinaia di migliaia di persone che si muovevano verso sud e Israele bombardava anche chi scappava. Erano bombardamenti a caso, non potevamo sapere chi sarebbe stato il bersaglio. Alcuni miei parenti scamparono per un pelo alle bombe e si unirono a noi. Arrivati a Nuseirat siamo rimasti solo due settimane perché vedevamo le bombe esplodere a duecento metri da noi, le porte e le finestre della casa dove eravamo vennero distrutte, così a novembre fummo costretti a rifugiarci in una scuola. «Io ho quarantatré anni e nella mia vita non ero mai stata rifugiata in una scuola durante i bombardamenti. Questo ha aggiunto altro dolore perché non era facile convivere con altre trentacinque persone sconosciute in una stanza grande quanto un’aula scolastica. Per questo motivo andammo a Rafah, e lì non conoscevamo nessuno e non c’era né acqua né cibo. «Quando dico che non c’era cibo intendo dire che non avevamo né pane né acqua. Io sono la sorella più grande e ho sempre provveduto io alla mia famiglia. Mio fratello ha due figli e sua moglie era incinta in quel momento quindi doveva pensare a loro. Trovare da mangiare era diventata la nostra priorità, per cui ogni giorno mia sorella e io ci mettevamo in fila all’alba, una per il pane e l’altra per l’acqua. A volte tornavamo soltanto a notte fonda. Comprare il pane era troppo costoso». Mentre Asmaa mi raccontava queste cose, ho ripensato alle parole che mi ha detto un’altra persona che era a Gaza in quei giorni: Israele ha bombardato e distrutto tutti i bancomat nella Striscia di Gaza. Per comprare cibo al mercato nero la gente che ha parenti all’estero e qualche soldo sul conto è costretta a versare i soldi sui conti di alcune famiglie di trafficanti che, con metodo mafioso, si tengono i soldi e forniscono cibo a prezzi altissimi: un uovo può costare anche due euro. Quando si parla di crisi umanitaria a Gaza si parla di situazioni come questa, e il vuoto di potere causato dalla guerra ha tolto ogni riferimento istituzionale alla popolazione. «Era il caos. Se penso all’anno scorso penso solo al caos che vivevamo e al fatto che nessuno aveva a cuore la popolazione. Ognuno doveva pensare a sé stesso. Siamo rimasti a Rafah per duecento giorni, sette mesi». Anche in questo caos Asmaa ha ricominciato a fare ciò che aveva sempre fatto: fare ricerca e insegnare, cercando di tenere insieme la comunità accademica di Gaza. «Mi sono messa a scrivere. Per tre mesi il mio laptop è rimasto spento perché non avevamo elettricità. A Rafah riuscimmo a trovare una presa per caricare computer e cellulare e ho cominciato a scrivere un articolo accademico, il titolo è Brain Drain or Brain Circulation. Mi sono chiesta cosa sarebbe successo alla comunità accademica di Gaza, cosa potrebbe succedere se tutti gli accademici lasciassero Gaza con permessi umanitari. In quei giorni mi sono resa conto di quanto sia un privilegio avere internet, quando ho potuto ho aperto Facebook e ho visto le foto di moltissimi miei colleghi uccisi nelle settimane precedenti. Almeno quarantacinque persone, tutte uccise con la loro famiglia perché noi a Gaza diamo molto valore alla famiglia e stiamo sempre insieme. Tutte queste persone, io le conoscevo da vent’anni, ho visto crescere i loro figli, ed è molto difficile parlarne al passato». A questo punto dell’intervista Asmaa apre il computer e comincia a mostrarmi immagini della sua università. Laboratori nuovi di zecca, postazioni di realtà virtuale e strumenti tecnologici. Impressionato, esclamo: «Ma che bella! Molto più avanzata della mia università a Palermo!». Asma mi racconta che c’è stata, che le è piaciuta ma che il cibo non è buono. Ridiamo e le dico che di solito la gente dice il contrario. A lei non piacciono la pasta e la pizza, però il pesce le è piaciuto. «Ho viaggiato molto nella mia vita, ho fatto il dottorato in Indonesia e sono stata a insegnare in Turchia, in Belgio, in Malesia, in Francia. Ma casa mia è Gaza e non me ne sarei mai andata. A dicembre 2023 i miei amici e colleghi norvegesi mi hanno detto che c’era la possibilità di venire qui con un visto per accademici, ma io non avevo la minima intenzione di andarmene e lasciare i miei genitori da soli. I miei amici hanno insistito e hanno detto che ci avrebbero pensato loro a fare tutta la parte burocratica, e poi avrei potuto decidere se partire oppure no. La pratica è andata a buon fine e a gennaio 2024 sarei potuta partire ma non volevo andarmene. Rimasi a Rafah per tutto febbraio finché a marzo mia madre mi disse: “Asmaa, qui non sei utile. Tu devi essere fedele a ciò che sei. Vai, continua la tua carriera e da fuori potrai aiutarci più di quanto tu possa fare da qui”. A quel punto mi sono convinta anche perché non lavoravo e non avevo più soldi». Per arrivare al Cairo e da lì raggiungere la Norvegia, Asmaa ha fatto come tutti i circa centomila abitanti della Striscia che sono riusciti ad andarsene: ha pagato cinquemila dollari a una organizzazione egiziana per attraversare il valico di Rafah. Poco dopo la sua partenza, Israele ha occupato il corridoio di Filadelfi e oggi nessuno, neanche pagando, può scappare. «Adesso sono qui a Oslo con una sensazione che molti chiamano “survivor guilt”, il senso di colpa di chi è sopravvissuto. Quando la gente mi chiede: “Come stai Asmaa?”, io rispondo: “Quale Asmaa? Quella che vive in Norvegia o quella che è rimasta a Gaza?”. «Sono in Norvegia con un permesso temporaneo di un anno, non so cosa accadrà dopo. Sto già cominciando a cercare lavoro ma non è facile in queste condizioni. L’unica cosa che mi dà forza è che devo essere attiva e sveglia per aiutare la mia gente. Io lavoro all’università da vent’anni, ho cresciuto generazioni di studenti. Durante ogni guerra, sotto le bombe, lo studio e la ricerca erano le uniche cose che riuscivano a farci superare i nostri problemi. Ho sempre insegnato ai miei studenti che l’educazione è libertà. Siamo occupati da Israele ma lo studio permette alla tua mente di essere libera, e anche al tuo corpo. Uscire da Gaza non era facile neanche prima della guerra, non era facile neanche per un topo o per un gatto passare il confine, ma se io e molti miei colleghi abbiamo potuto viaggiare è stato solo grazie all’università e alla ricerca. Di recente sono stata invitata da una università tedesca, in Germania non è facile per noi palestinesi ora, ma ho avuto la fortuna di trovare persone disposte ad ascoltare. La direttrice del dipartimento che mi ha invitata mi ha detto: “Noi cerchiamo di preparare gli studenti a capire il mondo, ma in questo momento mi fanno domande a cui non so rispondere, per questo motivo ti ho invitata, perché penso che tu sappia rispondere”; e per questo motivo io continuo a parlare in pubblico, anche se a volte mi sento schiacciata dalla situazione che vivo, comunque la sento come una responsabilità per proteggere la nostra umanità e la nostra storia collettiva. «A Gaza abbiamo creato tante università con lo scopo di preservare la nostra identità e la nostra cultura. Oggi tutte le diciassette università sono state distrutte ma tutte continuano a lavorare! Siamo nel mezzo del primo semestre e le attività vanno avanti. Nella mia università c’erano undicimila studenti immatricolati, oggi novemila di loro stanno continuando a studiare e a dare esami online; anche se non abbiamo server continuiamo a studiare. Abbiamo ricevuto dall’estero donazioni per mantenere i server per la didattica a distanza. I professori insegnano senza stipendio perché i nostri stipendi li pagavano gli studenti che oggi ovviamente non possono pagare. Anche a Rafah abbiamo messo su una scuola e sotto le bombe facevamo lezione ai bambini più piccoli. «La gente fuori pensa che Gaza prima del 7 ottobre fosse un campo di concentramento, ma non è vero. Certo, eravamo sotto occupazione, ma avevamo librerie, università, biblioteche, ristoranti, eventi culturali, la gente andava a rilassarsi in spiaggia. Noi avevamo creato una struttura per l’apprendimento di materie tecniche a Gaza: laboratori per formare meccanici, dentisti, estetisti, per dare lavoro ai ragazzi. Avevamo da poco inaugurato queste strutture e ora è tutto distrutto. Dietro ogni macchinario e apparecchio tecnologico c’è una storia, un lavoro, un progetto che ho seguito personalmente. Vedere tutto distrutto mi fa piangere il cuore, sapere che le persone che hanno lavorato a tutto ciò sono state uccise è qualcosa di irreale, fatico ad abituarmi». Mentre parliamo, Asmaa continua a mostrarmi le foto dell’università, i video dei suoi studenti e altri ricordi dei mesi di guerra a Rafah. Mi mostra la foto di sua nipote, Zeina, che oggi ha cinque mesi. Sua cognata scoprì di essere incinta due settimane prima del 7 ottobre. Oggi Zeina è denutrita e non ha ospedali dove andare per le cure pediatriche. «Nessuno merita di soffrire ma in questo momento vogliono toglierci anche il diritto di piangere e di vivere il lutto. Quando ho pubblicato i video delle conferenze che ho fatto qui, ho ricevuto insulti e minacce, mi hanno scritto via mail che la gente di Gaza si merita di essere distrutta. La verità è che in questo momento non ci sono due fazioni contrapposte sul terreno, c’è solo un esercito che sta bombardando la popolazione civile. Non è una guerra tra due eserciti, è un massacro. «In questo momento non ci sono istituzioni a cui affidarsi, non possiamo neanche fuggire. Ci basterebbe avere lo stesso trattamento che hanno avuto i profughi ucraini, la libertà di raggiungere l’Europa o di muoverci liberamente, ma è ancora impossibile. Io non mi considero una rifugiata, sono stata costretta a fuggire e non avrei mai voluto lasciare Gaza, sono qui contro la mia volontà e il mio obiettivo è tornare a Gaza perché la mia vita è lì. Ma non voglio tornare solo perché costretta da un visto umanitario scaduto. Sono stanca e non voglio che i miei genitori soffrano ancora. A Rafah avevamo almeno dei muri intorno a noi, oggi ci sono le tende, e se arrivano le bombe la gente rimane bruciata viva, distrutta, vaporizzata, non rimane nulla. Molta gente in Europa ancora parla di terrorismo e di continuare la guerra, ma cosa vogliono ancora da noi? Non capisco perché molti vogliono ancora peggiorare la miseria della mia gente, dopo tutto ciò che abbiamo subito. I bambini a Gaza non sanno cosa sono gli aerei civili, hanno visto solo aerei da guerra per tutta la loro breve vita». (carlo trombino)
January 7, 2025 / NapoliMONiTOR
L’oro tra le macerie. Oroscopo di Foucault 2025
(disegno di ginevra naviglio) L’ORO TRA LE MACERIE | OROSCOPO DI FOUCAULT 2025 Ora che ci penso, ora che provo a ricordare, ora che metto in fila le immagini di questi anni, ora che traccio una linea che mi separa dal prima e che voglio mi allontani dal dopo, ora che tutto quello che è successo è un materiale che riesco a maneggiare, che comprendo che non mi fa paura, ora vedo l’oro che ho trovato in queste macerie. (Giovanna Ferrara, L’innocenza dei dinosauri) ARIETE La combattività che Marte regala al vostro segno è l’origine della forza e della vitalità che vi caratterizza. L’entusiasmo di chi supera ogni difficoltà con determinazione e temperamento da battaglia è il vostro tratto distintivo. Allo stesso tempo può essere la causa di mancanza di tatto e di riflessione, di errori di valutazione che compromettono anche le relazioni più vicine fino a farne macerie. Così mi chiedevo se fosse questo l’anno in cui provare a dosare le nostre forze per un equilibrio differente che imprima delicatezza ai vostri slanci. In un libro piccolo e intenso, la scrittrice afroamericana bell hooks (con le iniziali minuscole per precisa scelta dell’autrice) riflette sul tema dell’amore e del filo che lega l’adulto che siamo al bambino che eravamo. Scrive questa frase che è fatta apposta per voi: “Può essere utile cominciare a considerare l’amore come un’azione piuttosto come un sentimento”. Sappiamo che questa frase vi corrisponde: l’amore si esprime in gesti e comportamenti (prendersi cura, essere reciproci, ascoltare, proteggere, dare fiducia) senza i quali resta una parola priva di significati. Però, aggiungiamo noi a vostro beneficio, l’azione, senza la cura di parole che l’accompagnino, rischia di smarrirsi nelle abitudini.  In amore la parola è il reciproco del gesto, tenetelo a mente.  TORO Il principio fondamentale di chi scrive questo povero oroscopo è di essere “impermeabile” alle richieste popolari. Però, nel mentre della scrittura, ho ricevuto questo messaggio: “Scrivi al Toro di muoversi”, che sentivo essere in sintonia con quanto andava scritto. Il tema però non è solo il movimento, ma la direzione. Perché il Toro è segno di una sedentarietà che non è affine alla pigrizia fisica ma all’abitudine mentale. Abitudine agli affetti prima di tutto, che portate addosso come una seconda pelle (e del resto abitudine deriva dal latino habitus), poi ai luoghi (sareste capace di camminare per ore per le strade che trovate familiari), infine alla gioventù. Perché senza tanta fatica si distingue in voi lo sguardo dell’adolescente che attende il suono della campanella dell’ultima ora di lezione. Lo sguardo limpido e impaziente di chi assiste un po’ stupito al mondo degli adulti e al ritmo delle incombenze quotidiane di cui fa fatica ad afferrare il senso. Ci sono, a questo punto, due possibilità di movimento. La prima è muoversi alzando le spalle al mondo verso i luoghi segreti che abitano i nostri sogni d’infanzia, difendendosi dalle pretese degli adulti. Il secondo, più complesso, è prendere per mano il nostro io bambino e uscire allo scoperto in direzione del sole. Usare sogni e ricordi come bussola che orienta il futuro, e non per nostalgia. Sul cuore, come scrive Ingeborg Bachmann, appuntate come medaglia la stella della speranza: “Viene conferita per la diserzione dalle bandiere, per il valore di fronte all’amico, per il tradimento di segreti obbrobriosi e l’inosservanza di tutti gli ordini”.  GEMELLI Secondo il filosofo Salvatore Natoli, l’“opposto della felicità non è il dolore ma la noia” (so che state pensando alla canzone di Franco Califano, vi inviterei però a un po’ di serietà). In virtù di questa tesi, la noia nasce quando il mondo intorno a noi perde significato e rischiamo di ridurre tutto ciò che ci circonda a un riflesso di noi stessi, dimenticando la sua reale ricchezza e varietà. La noia può derivare da questa visione o dal fatto che lo spazio di mondo che abitiamo si restringe, e i paesaggi quotidiani diventano abitudine. Al contrario della noia, la felicità è nell’apertura verso il mondo, nel riconoscere e apprezzare la novità che ogni cosa porta con sé. Quando siamo capaci di guardare al mondo con uno sguardo fresco, senza giudicarlo o ridurlo ai nostri desideri e bisogni (e senza brontolare, aggiungiamo noi) possiamo riscoprire il significato e la bellezza anche nelle esperienze quotidiane. Fino a qui, mi direte, Natoli non ha aggiunto a quanto già sapete. Non siate impazienti, leggete ancora questo: “L’educazione alla felicità è l’educazione alla relazione giusta con le cose, che vuol dire rispettare le cose. La parola chiave è delibare: chi ama il vino lo deliba, non si ubriaca mai, mai da ogni goccia di vino riesce a stillare il suo sapore, e per questo deve avere una competenza. La felicità esige competenza e sapienza, un’educazione alle giuste relazioni con gli altri”. Apertura, capacità di essere curiosi e di guardare nelle cose la loro novità. E, mi raccomando, la giusta misura nelle cose e nelle relazioni.  CANCRO Che anno è stato questo trascorso? Un anno pieno di momenti importanti, in uno scenario complesso intorno a voi. Si fa fatica a trovare nel mondo qualcosa che ci somigli in questo brulicare di conflitti e di ambizioni mediocri. E voi che siete il segno della (iper)sensibilità e dell’intuizione, e che potete stare bene solo quando lo sono anche i vostri affetti intorno, rischiate a volte di scoraggiarvi. Così Mahmud Darwish, poeta e scrittore palestinese, rispondeva a un giornalista statunitense che lo intervistava: “Cosa scrivi, poeta, durante questa guerra?”. “Scrivo il mio silenzio”. “E quando ricomincerai a poetare?”. “Quando i cannoni taceranno per un po’, quando farò esplodere questo mio silenzio carico di voci, quando troverò una lingua adeguata”. Cosa fare allora quando il rumore aggressivo del mondo vi impedisce di prendere parola? Come si trova una lingua adeguata quando intorno il mondo sembra offrire solo macerie per il futuro? La prima cosa da fare è stringersi a chi condivide i nostri pensieri; la seconda è non aver timore a uscire e ad andare in esplorazione nel mondo. Affamati di parole ma mai in silenzio, perché quello che il mondo non ci dà ce lo andremo a prendere, sogno per sogno, casa per casa.  Per questo anno che viene, dunque, vi invitiamo a fare un passo in avanti: portate allo scoperto le vostre parole e abbracciatele forte affinché il vento non le disperda. LEONE Scrive Giovanna Ferrara: “Abitare le proprie possibilità di vivente è una bussola sicura, sicura la direzione d’orientamento”. Che vuol dire? Vuol dire che la felicità interiore nasce dalla consapevolezza della propria potenza di agire. È nell’atto di esplorare questa forza che ci realizziamo, come ha insegnato Spinoza. La comprensione della nostra capacità di trasformarci e di trasformare il mondo ci dà senso e direzione, e ci connette alla nostra essenza più profonda. Una capacità trasformativa non solo personale ma anche politica, nel senso più alto e collettivo della parola. Una capacità non solo personale, ma che ha una dimensione collettiva, nel senso di un impegno per il bene comune, per la costruzione di una società più consapevole e giusta. Ma cosa innesca questa forza e consapevolezza? Per voi, Leone, è piuttosto chiaro: è l’amore che muove il vostro spirito (oltre al Sole e alle altre stelle). Quanto amore, allora, è necessario per alimentare il vostro motore? Ecco la formula segreta, svelata per voi da Mariangela Gualtieri: “Innamorarci ogni giorno, ogni giorno un amore, che sia albero o luce del mattino, che sia nuvola o bambino, un colore, un canto, che sia il gesto di qualcuno, una faccia, una pietra, una collina, una parola, un boccone. Innamorarci. Allora forse la pace viene, viene da sé e rimane”. Agire, amare e trasformare, gli ingredienti di quest’anno sono questi, sta a voi scegliere le proporzioni.  VERGINE Nel 1942 il medico e psicologo viennese Viktor Frankl fu deportato, insieme ai familiari, in un campo di concentramento. Dalla sua esperienza, è venuto fuori un libro (Uno psicologo nei lager) nel quale Frankl ha esaminato le forze psicologiche che consentono di sopportare e superare le esperienze e condizioni più dolorose. Frankl sostiene che l’essere umano è spinto principalmente dal bisogno di trovare un significato nella propria vita, più che dalla ricerca del piacere (come sosteneva Freud) o dalla ricerca del potere (come suggeriva Adler). Secondo Frankl, anche nelle condizioni più tragiche, le persone possono trovare un senso che dia loro la forza di andare avanti. Sulla base di questa tesi, Frankl sviluppò la “logoterapia” che si basa sull’idea che la ricerca del significato della vita sia il motore principale dell’esistenza umana (in greco logos significa “senso” e anche “parola”). Le difficoltà possono acquisire significato quando la persona riesce a comprenderle come parte di un cammino più ampio. In altri termini, non possiamo determinare quello che ci capita o ci circonda, possiamo però decidere in che modo interpretare gli eventi e consentire loro di formarci. Questa lunga premessa, per arrivare a una breve conclusione: se trovate le parole giuste trova un senso la vita che accade. Ricordatevi però anche di pronunciarle, affinché chi vi sta accanto sappia come è meglio accompagnarvi. Mi raccomando, rammentate le regole d’oro: non perdere di vista l’insieme per i particolari, chiedere quando è necessario, lasciare andare quando è giusto, pretendere ciò che meritate.  BILANCIA Qualche tempo fa un’amica mi raccontava della sua separazione, fatta di silenzi ma soprattutto di una mancata attenzione, che più di tutto pesava. Mentre parlava, mi sono venuti alla mente questi versi di Elisa Ruotolo: “Sbagliavo a trascurare la fretta, | chi ama coltiva giardini di virgole | accudisce sillabe e punti di domanda | non è asciutto come il dispaccio | della resa. | Chi ama rileggerà le parole | una ad una prima di congedarle. | L’incuria è già lontananza | ammissione che si è altrove | a sistemare la propria grammatica”. L’ho rincontrata, mesi dopo, rinata e solare, perché aveva deciso di dedicarsi completamente a sé stessa, smantellando anni di pensieri tristi, riprendendo in mano gli studi, i suoi interessi e qualche vecchia passione. È come se avesse deciso di tornare a casa dentro di sé, ritrovando ciò che aveva messo in disparte per troppo tempo. Questo rinascere era dovuto anche alla sua rete di affetti, intessuta negli anni, che le ha regalato coraggio e attenzione. Ogni passaggio era stato accompagnato da amiche e amici pronti a coltivare giardini di virgole e a offrire cura e vicinanza. E allora, direte? Ancora questa storia della resilienza? No, affatto, il tempo che viene può essere bello senza bisogno di eroismi e resilienze, purché teniate a mente la regola fondamentale di ogni trasformazione: il primo passo si può fare da soli, i successivi vanno fatti in compagnia. Che siano “cura” e “reciprocità” le parole nell’anno che viene.   SCORPIONE “Se solo i nostri occhi non fossero visibili agli altri, pensa. Se solo si potessero nascondere i propri occhi al mondo”. Questa frase, pronunciata da un personaggio nel romanzo della premio Nobel 2024 Han Kang, mi è tornata in mente quando ho pensato a voi scorpioni. Perché? A scorrere i testi sacri dell’astrologia, il segno dello scorpione è descritto come “intenso, passionale, riservato e maestro nell’esplorazione dell’animo umano”. È una descrizione che vi corrisponde, in special modo quando si parla della vostra riservatezza. Possedete un equilibrio raro, tra la tensione delle passioni e dei desideri, e la capacità di proteggerli dall’indiscrezione della vita quotidiana. Come se, in ciascuna di queste passioni, poteste vivere molteplici vite, affidando a ognuna di esse un pensiero, un segreto, un tratto particolare del vostro carattere. Eppure, c’è un punto in cui tutte queste sfaccettature si fondono: è negli occhi. Per quanto possiate cercare di nascondere, i vostri occhi parlano più di quanto possiate immaginare, e rivelano più di quanto vorreste. Questa tensione tra desiderio di protezione e intensità delle passioni vi accompagnerà anche nel tempo a venire: sarebbe innaturale suggerirvi altro, così come suggerire la prudenza. Non resta, allora, che augurarvi di essere fino in fondo fedeli a voi stessi e, comunque vada, di avere gli occhi aperti al mondo e all’amore.  SAGITTARIO Per l’anno che viene, se volete segnare una qualche discontinuità con quello passato, dovete darvi da fare per lavorare su voi stessi. So che non amate i conflitti che non siano per ragioni etiche o politiche, che se nella vita quotidiana non trovare sfide impossibili sembra tutto noioso, che preferireste una settimana da Che Guevara che una vita da Fidel Castro, che siete in attesa di qualcosa di impossibile di cui lamentarvi subito dopo, e che potreste certamente migliorare in costanza e capacità di esprimere sentimenti ed emozioni. Ma ciò a cui vogliamo chiamarvi nell’anno è ben riassunto da questo aneddoto che Soffici racconta a proposito del poeta Dino Campana, che vendeva personalmente i suoi Canti orfici a chi volesse acquistarli: “Prima di consegnarglielo, Campana guardava bene in faccia il suo uomo; e secondo la stima che ne faceva strappava dal libro queste o quelle pagine da lui ritenute, per una ragione imperscrutabile, non consone al costui comprendonio. Lo stupore dell’acquirente era grande quanto il suo imbarazzo, ma ormai la cosa era fatta […]. La più bella fu però quando anche Marinetti volle avere il suo libro. Campana, dopo aver meditato alquanto, ne strappò la maggior parte, e non gliene mise in mano che tutt’al più un sedicesimo”. Per l’anno che viene mettete da parte diplomazia e pazienza, fatene scorta in cambio di un po’ di sana fiducia nelle vostre capacità, a costo di confinare con la presunzione (attenzione però a non varcare la linea) che la felicità non si trova nella prudenza e nella quiete.  Come diceva Pasolini: “Non è la felicità che conta? Non è per la felicità che si fa la rivoluzione?”.  CAPRICORNO Quando vi capita di giudicare voi stessi con severità, prima ancora che gli altri, o quando penserete che una piccola imperfezione rischia di fare macerie delle vostre fondamenta, pensate al buon Galileo Galilei. Il nostro coraggioso esploratore dell’universo, la prima volta che osservò Saturno, ingannato dagli anelli che circondano il pianeta e dalla cattiva qualità del suo telescopio, credette di vedere tre oggetti. Fu solo molti anni dopo che un astronomo dotato di un telescopio più potente distinse con precisione gli anelli che circondano il pianeta e gli donano un fascino unico. Parliamo tra l’altro del pianeta che ha il domicilio nel vostro segno, e a cui si associano razionalità e intransigenza. Possiamo dire che questo errore offusca l’importanza che Galilei ebbe nel demolire il sistema tolemaico? Il primo aspetto, dunque, su cui lavorare, è misurare la severità del giudizio verso sé stessi.  Perché a furia di essere esigenti si diventa critici implacabili, demolitori, e si rischia anche di avere timore di analizzare in profondità, per paura di ciò che di imperfetto potremmo trovare.  Se non vi fidate di questo povero astrologo foucaultiano, leggete le parole di Rita Levi Montalcini, premio Nobel per la medicina, che ha scritto: “L’imperfezione ha da sempre consentito continue mutazioni di quel meraviglioso quanto mai imperfetto meccanismo che è il cervello dell’uomo” (Elogio dell’imperfezione). Credetemi, non c’è perfezione nel non voler perdonarsi di essere imperfetti: per l’anno che viene potreste venire a patti con questo aspetto e crescere in uno spazio senza giudizio. Giusti con sé stessi, giusti nel mondo.  ACQUARIO Ci sono fasi della vita in cui per costruire qualcosa occorre prima demolire un’altra. Purtroppo, non sempre la vita ci offre la possibilità di non lasciare cesura tra una fase e l’altra, di impedire un’assenza ci ferisca. Capita alle volte che si demolisca per rabbia o per necessità, senza sapere ancora cosa andare a costruire o a fare di ciò che perdiamo, così come può accadere che non sappiamo interrogarci sul ruolo che abbiamo nella tragedia che lamentiamo. Alla fine, però, non conta l’innesco ma il percorso che farà germogliare una persona nuova dal nostro dolore, quando una nuova casa sorgerà dalla vecchia. Scrive Giovanna Ferrara, in un libro (L’innocenza dei dinosauri) elegante, dolcissimo e immortale come l’autrice: “Ora che ci penso, ora che provo a ricordare, ora che metto in fila le immagini di questi anni, ora che traccio una linea che mi separa dal prima e che voglio mi allontani dal dopo, ora che tutto quello che è successo è un materiale che riesco a maneggiare, che comprendo che non mi fa paura, ora vedo l’oro che ho trovato in queste macerie”. L’anno che viene somiglierà molto a quello passato, nel bene e nel male: la differenza la farete voi, riempiendolo di desideri coraggiosi e di amicizie profonde. PESCI Ci sono due aspetti sui quali possiamo lavorare nell’anno che verrà, due aspetti che si intrecciano e che sono da un lato la vostra capacità di ascolto e comprensione, e dall’altro la tendenza alla fuga dettata dall’urgenza del sogno, quel tipo di sogno che ci apparta dalla realtà. Come tenere insieme le due cose? Come farsi carico dell’ascolto dei dolori del mondo senza poi cercare per noi stessi un’alternativa e cercare nascondigli nelle pieghe della vita? La prima via sarebbe quella più comune, porre limiti e barriere all’ascolto, che però nel vostro caso sarebbe come chiedere a un primo violino di suonare in ultima fila. La seconda strada è vivere dentro relazioni che siano il giusto scambio ed equilibrio tra la possibilità di ascolto e quella di essere ascoltati. Ha scritto Giovanna Ferrara: “Non lo so se gli uomini parlino tra di loro nella spietata e selvaggia onestà e intelligenza con cui a me capita di farlo con le amiche più care o con gli amici più fraterni. Forse sì, perché questi alfabeti di profondità sono attitudini alla ricerca di qualcosa che luccica. Certo, dietro molti degli svincoli della vita c’è la relazione sotterranea e intima e regalata che nasce alla philia, traccia d’oro di questo mondo faticoso”. Per quest’anno non abbiate timore di mettervi in cammino, ci sarà sempre la traccia capace di illuminare le strade più scure.   
January 6, 2025 / NapoliMONiTOR