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Cronache, libri, disegni e reportages

L’impresa del bene, terzo settore e turismo a Napoli. Giovedì allo Scugnizzo Liberato
(disegno di diego miedo) Sarà presentato giovedì 27 febbraio 2025, alle ore 18:00 allo Scugnizzo Liberato (salita Pontecorvo, 46), L’impresa del bene. Terzo settore e turismo a Napoli, un libro di Luca Rossomando. Con l’autore ne discuteranno Gaetano Quattromani e Giovanni Zoppoli. L’espansione non regolata del turismo di massa a Napoli ha prodotto cambiamenti impensabili fino a pochissimi anni fa, modificando il paesaggio e la struttura socio-economica della città. I grandi enti del Terzo settore attivi nel centro storico – fondazione Foqus, fondazione di comunità San Gennaro, L’Altra Napoli Onlus – esercitano un’influenza crescente sulle scelte dei governanti, indicando le priorità operative ed elaborando le narrazioni egemoniche intorno alle quali si costruisce il consenso e si rimodella la città. La loro azione risponde a logiche strettamente imprenditoriali, basate sulla  convenienza economica, la competitività, la reputazione mediatica; la loro priorità è lo sviluppo di nuovi segmenti di mercato in cui dispiegare senza ostacoli le proprie attività. Queste  dinamiche, sullo sfondo della “città del turismo”, stanno producendo conseguenze opposte a quelle propagandate dai grandi enti: non la vivibilità dei quartieri, la partecipazione, il benessere delle comunità, ma la precarietà abitativa, lavorativa ed esistenziale dei suoi abitanti più fragili.
February 22, 2025 / NapoliMONiTOR
Cartografie del terzo settore e della innovazione sociale a Torino #1. La Compagnia di San Paolo
(disegno di adriana marineo) Pubblichiamo qui una voce enciclopedica, la prima di tante. Vogliamo assemblare un archivio di informazioni sulle modalità di welfare erogato da enti privati o garantito da una collaborazione fra pubblico e privato. I concetti scelti nel titolo sono dirimenti: il “terzo settore” descrive la galassia di enti di natura privata e dotati di finalità di utilità sociale; la “innovazione sociale” identifica una serie di strategie capaci di portare benefici alla società pur appartenendo a logiche gestionali private. Come redazione torinese studiamo da anni associazioni, fondazioni, progetti culturali o sociali che svolgono queste funzioni. Si tratta di una realtà composita e frastagliata nella quale non è semplice orientarsi. Ogni voce è allora una mappa a beneficio di chi scrive e di chi legge. Lo sguardo, almeno all’inizio, sarà parziale: partiremo dai fenomeni che conosciamo meglio, ordinando appunti e riflessioni di anni. Speriamo di aumentare in esaustività nel corso del tempo, allargando la collaborazione a tutti i complici che vorranno unirsi. Il nostro approccio vuole essere preciso e documentato, ma certo non neutrale: questa mappatura ha l’ambizione di criticare il sogno di una virtuosa collaborazione fra pubblico e privato per il miglioramento della società. Un obiettivo non semplice, perché la filantropia, per sua natura, tende a sfuggire al pensiero critico. Queste cartografie sono dunque una sfida lanciata a pratiche ed entità che si rendono sfuggenti e opache grazie alle buone intenzioni dichiarate. La prima voce riguarda una delle matrici più rilevanti dei processi di cui scriveremo: la Compagnia di San Paolo, fondazione di origine bancaria. *   *   * La Compagnia di San Paolo domina le attività culturali e sociali in città. Quasi non vi è iniziativa, progetto o evento che non mostri il logo della fondazione bancaria. Essa sostiene, grazie ai suoi finanziamenti, una variegata categoria di operatori sociali, creativi, artisti, mandarini e imbonitori, imprenditori e dirigenti di Torino. Lo sguardo dunque incontra i segni della Compagnia in ogni angolo urbano, eppure non è semplice delineare la storia, la natura, la funzione e le pratiche della fondazione. Gran parte di questa voce si ispira allora a un libro recente scritto in modo rigoroso e ben documentato: Élite, filantropia e trasformazioni dello stato. La Compagnia di San Paolo a Torino di Paola Arrigoni (il Mulino, 2024). La Compagnia di San Paolo (CSP, d’ora in poi) è un ente di diritto privato con finalità di intervento sociale e filantropico nata in seguito alla privatizzazione del sistema bancario italiano. L’atto originario risale al 1990 con la legge Amato-Carli. Gli istituti bancari pubblici vengono privatizzati, ma tutte le loro azioni sono affidate a “enti conferenti” che hanno il compito di venderle sul mercato; viene così separata la funzione di gestione delle banche, ormai privata, da quella del controllo delle azioni. Le fondazioni di origine bancaria discendono direttamente da questi enti conferenti. “L’ente conferente – scrive Arrigoni – oltre al controllo delle aziende bancarie, ereditava le finalità filantropiche dei vecchi istituti. Pertanto si sarebbe dovuto occupare, anche, di devolvere in attività di utilità sociale i dividendi percepiti dalle banche controllate”. Gli enti conferenti, quindi, sono strumenti neoliberali volti, al contempo, a realizzare il processo di privatizzazione del sistema bancario e ad affiancare lo stato nella erogazione di servizi a finalità sociale e culturale. Nel 1998 la legge Ciampi obbliga le fondazioni a cedere sul mercato gran parte delle azioni delle banche da cui traggono origine. Inoltre la legge Ciampi stabilisce che i “boards” delle fondazioni “avrebbero dovuto essere espressione dei principali stakeholders locali (pubblici e privati, profit e non profit)” e che “circa la metà dei consiglieri avrebbe dovuto essere espressione della cosiddetta società civile”. La CSP è dunque l’ente conferente della banca Sanpaolo. Dopo la fusione con Intesa, la CSP rimane la prima azionista del gruppo Intesa Sanpaolo, detenendo a oggi il 6,4 % delle azioni. La fondazione è un ente “geneticamente ibrido” nato in un periodo storico peculiare: “Dall’Inghilterra – continua Arrigoni – venivano progressivamente mutuati i principi del NPM (New Public Management), che cambiavano le regole del gioco riconoscendo all’autorità pubblica il compito di fissare obiettivi di risultato e parametri di valutazione, delegando la loro attuazione a soggetti esterni”. La CSP è un ente privato, ma persegue finalità pubbliche e i suoi vertici sono eletti per cooptazione interna o su suggerimento degli enti pubblici. La CSP, dunque, è un’entità capace di realizzare politiche pubbliche senza un diretto controllo democratico del loro operato. Nei decenni la Compagnia di San Paolo ha erogato sussidi per la cultura, i servizi sanitari, l’istruzione e l’assistenza sociale. Quest’ultima voce di spesa ha visto aumentare in modo considerevole la percentuale di capitali impiegati: mentre il pubblico taglia le spese al welfare, è la CSP a sostenere la fragile tenuta dei servizi sociali in città. Inoltre dal 2016, con la prima presidenza di Francesco Profumo, la Compagnia s’impegna nel sostegno della finanza a impatto sociale, ovvero nella promozione di investimenti capaci di generare effetti misurabili e di garantire un ritorno economico per gli investitori. L’aumento notevole dei capitali devoluti in progetti di housing sociale è un sintomo evidente di questa tendenza. Sembra che ogni esigenza dell’uomo possa essere esaudita da servizi erogati da enti che promettono un profitto. Un’altra linea di investimento recente converge sulle fondazioni di comunità, enti filantropici territoriali capaci di declinare in aree peculiari le politiche di innovazione sociale volute da CSP. In sintesi si può notare un’evoluzione: la Compagnia non si limita a erogare capitali a fondo perduto, ma seleziona progetti e entità capaci di generare strategie di impresa e profitti grazie alle relative attività filantropiche. In questo senso CSP appare come un soggetto di governo, capace di intervenire in modo diretto nello spazio pubblico e modulare una precisa idea di società. Sin dalla sua origine la CSP è controllata da un Consiglio Generale che a sua volta nomina un Consiglio di Gestione composto da cinque membri, fra cui il Presidente della fondazione. L’incarico dei consiglieri e del Presidente ha durata quadriennale. I consiglieri sono nominati su indicazione di enti pubblici strategici come il Comune di Torino, la Regione, la Camera di Commercio di Torino, le accademie della città, oppure entrano in fondazione per cooptazione interna. Ai vertici di CSP si sono avvicendate negli anni classi dirigenti provenienti dalla banca di riferimento, dalle università della città, dalla Camera di Commercio, dal mondo della cultura e dalla ristretta cerchia di classi dirigenti che amministrano le sorti di Torino. Le aree di intervento sono divise in tre grandi obiettivi: Obiettivo Persone, Obiettivo Cultura, Obiettivo Pianeta. Il primo copre le politiche abitative, educative e i servizi sociali; il secondo orienta il lavoro culturale in città; il terzo invece riguarda l’innovazione tecnologica, la ricerca e le politiche dedicate a realizzare la transizione energetica. La vocazione umanitaria e filantropica della CSP rende questo ente in apparenza incontestabile. Se non ci fosse la Compagnia, direbbe un dirigente della fondazione, Torino e il suo intero sistema metropolitano collasserebbero. Eppure bisogna indagare le origini di questo assunto. La Città eroga sempre meno servizi perché ha un debito considerevole: a fine 2020, prima di un ingente sussidio statale, ammontava a più di tre miliardi di euro, rendendo Torino la città con il maggiore debito pubblico pro capite in Italia. Ogni anno la Città spende circa il dieci per cento del suo bilancio soltanto per pagare gli interessi sul debito. Uno dei principali creditori è proprio Intesa Sanpaolo, di cui CSP detiene ancora la quota principale di azioni. Gli utili della banca verso cui la Città è debitrice sono dunque distribuiti dalla Compagnia per supplire ai tagli al welfare causati proprio dal debito e dalla ingente spesa sui relativi interessi. Un circolo vizioso nascosto dal velo illusorio della filantropia. E poi, nel concreto, sono validi i progetti sostenuti dalla Compagnia di San Paolo? A un primo sguardo pullulano in città iniziative insulse, vuote e autoreferenziali, partecipate soltanto dalle classi dirigenti dominanti e dalle relative cerchie di sodali. Le attività sono accompagnate da un linguaggio omologato, melenso e ipocrita che contribuisce ad abbassare il livello della riflessione. Ancora, gran parte delle energie critiche sono cooptate dalla fondazione bancaria e costrette in un languido silenzio o in inefficaci pantomime. Si respira in città un’aria dolce e soporifera di ottundimento delle coscienze. Le affermazioni di questo ultimo paragrafo, tuttavia, possono apparire sommarie o poco documentate. Compito dell’intera mappatura è quello di esplorare nel dettaglio le sorti e i risultati della innovazione sociale a Torino. (voce a cura di francesco migliaccio)
February 21, 2025 / NapoliMONiTOR
Corpi senza tomba. Storia di Mohamed Amine e gli altri dispersi di Bizerte
(disegno di irene servillo) Farah è una madre e una donna coraggiosa che si è rivolta alla nostra associazione per avere notizie di suo figlio Aouina Mohamed Amine, di soli sedici anni, scomparso durante un viaggio verso l’Europa. Mohamed Amine è partito la notte del 5 febbraio 2024 da Bizerte, a bordo di un gommone nero, insieme ad altre diciassette persone, tra le quali sono noti i nomi di Helmi, Yassim, Mohamed, Bilel, Ayoub, Seif, Fahmi, Mahdi, Maher, Mohamed Omar, Ghanim, Souahail e del piccolo Anas, di appena cinque anni. La destinazione era Cagliari, con arrivo previsto per il giorno successivo. Di lui non si sono mai più trovate tracce. Alla partenza da Bizerte, Mohamed Amine indossava un maglione nero, pantaloni da jogging, un giubbotto e scarpe Nike nere. Il giovane aveva una piccola cicatrice sulla gamba sinistra, poco sotto il ginocchio, ricordo sul suo corpo di un infortunio subito in passato. Tre giorni dopo la partenza sua madre Farah ha ricevuto un messaggio da un numero tedesco che riferiva di un possibile avvistamento del figlio in un ospedale di Cagliari. Tuttavia, nonostante il messaggio sia ancora disponibile, il numero a oggi risulta inesistente, rendendo impossibile sia risalire al mittente che verificare se la segnalazione sia veritiera. Contattata la polizia, all’ufficio immigrazione sostengono che le verifiche iniziali condotte dalle autorità non abbiano portato a risultati concreti. Tra gennaio e marzo 2024 non risultano sbarchi di cittadini tunisini a Cagliari, ma solo gruppi di algerini. Inoltre, il confronto tra la fotografia del passaporto di Mohamed Amine e le immagini delle persone sottoposte a foto-segnalamento in Italia non ha dato esito positivo. La questura di Palermo sostiene che sul territorio siciliano non risulti alcuna traccia del ragazzo, e che pertanto il nominativo rimane sconosciuto. Successivamente si viene a sapere che il 7 febbraio un attivista ed ex parlamentare tunisino, Majdi Karbai, noto per il suo impegno sui temi dell’immigrazione, era stato contattato da una persona, familiare di alcuni migranti in viaggio, per segnalare una situazione di emergenza. Un’imbarcazione partita da Bizerte e diretta a Cagliari si trovava bloccata in mezzo al mare a causa di un guasto al motore. I passeggeri a bordo, riusciti a raggiungere telefonicamente i propri parenti, avevano lanciato l’allarme. Karbai aveva immediatamente contattato la Guardia Costiera di Roma, quella di Cagliari e quella siciliana, oltre alla sala operativa della capitale. Nonostante l’intervento dei soccorsi, però, l’imbarcazione non venne intercettata. La barca su cui viaggiavano Mohamed Amine e gli altri dovrebbe essere naufragata al largo della Sardegna, in condizioni di mare tempestoso, il 6 febbraio del 2024. Con l’arrivo della scorsa primavera il mare iniziò a restituire corpi di vittime, e tra marzo e aprile diversi cadaveri furono ritrovati al largo delle Eolie e di Rodia, sulle coste della Sicilia, della Calabria e della Campania. Tra i corpi recuperati, alcuni furono identificati grazie a dettagli diffusi dalla stampa. Per esempio, il 13 aprile, il corpo di un’uomo fu trovato in stato di avanzata decomposizione dalla Capitaneria di Porto di Milazzo, nella zona di mare tra l’isola di Vulcano e il promontorio di Capo Tindari, nel comune di Patti (Messina). Il fratello della vittima lo riconobbe grazie a una serie di tatuaggi distintivi: un dragone, una tela di ragno e uno scorpione. Il giorno successivo, i resti del piccolo Anas furono rinvenuti da un pescatore nei pressi della zona industriale di Lamezia. Di suo padre Souahail, invece, non sembra essere rimasta nessuna traccia. Grazie all’intervento dell’associazione Mem. Med. Memoria Mediterranea, ulteriori indagini furono attivate. Tra le diciotto persone disperse si riuscì però a trovare e identificare solo cinque cadaveri. In quei giorni Farah si sottopose al test del Dna, ma l’esito fu negativo: nessuno di quei corpi era quello di suo figlio. A oggi, il nome di Mohamed Amine dovrebbe essere incluso nella lista ufficiale dei dispersi diffusa dal consolato tunisino a Roma all’epoca dei ritrovamenti, ma nonostante quattro solleciti, il consolato non fornisce alcuna conferma a riguardo. Se così non fosse, sarebbe ancora più difficile che eventuali tracce del corpo di Mohamed Amine vengano associate al suo nome, in caso di ritrovamento. Intanto, l’incertezza è diventata per questa donna un tormento insostenibile. Da un lato, la speranza che Mohamed Amine possa essere sopravvissuto le dà la forza di continuare a cercarlo e di non arrendersi. Dall’altra, il timore che il mare, silenzioso custode di innumerevoli tragedie, possa un giorno restituirle il corpo del figlio non le dà pace. In bilico tra questa speranza e questo dolore Farah continua a lottare per la verità, e perché anche di fronte all’immensità del mare ogni vita venga ricordata; e ogni storia, per quanto tragica, raccontata. (luna casarotti – yairaiha ets)
February 20, 2025 / NapoliMONiTOR
Università e precariato. Le prospettive della mobilitazione contro la riforma Bernini
(disegno di escif) A partire dallo scorso autunno, in molte città d’Italia si sono costituite decine di assemblee, formate da precari e precarie della ricerca, studentesse e studenti, docenti e personale tecnico-amministrativo, in netta opposizione al Ddl Bernini, riforma che accelera lo smantellamento dell’università pubblica e si inserisce in un processo di lunga durata di precarizzazione e privatizzazione di didattica e ricerca. A questi primi provvedimenti che consistono nell’introduzione di nuovi contratti precari (borse junior, senior, professore aggiunto) e tagli di circa settecento milioni nel prossimo triennio, che si sommano al mezzo miliardo del 2024, seguirà una riforma strutturale della governance universitaria che si sta preparando a porte chiuse e riguarderà l’intero sistema universitario. Dietro aule, uffici e laboratori si cela una realtà spesso ignorata, quella di chi, pur essendo il motore della didattica, della ricerca e dei servizi, lavora con contratti a termine, senza prospettive di stabilità o garanzie di rinnovo. Dottorandi, assegnisti, ricercatori, docenti a contratto e personale tecnico-amministrativo, sono tutti vittime di un sistema fatto di incertezza e sfruttamento. A fronte dell’attuale prospettiva, per chi entra nel circuito della ricerca, di anni e anni di precariato prima di arrivare, forse, alla stabilizzazione, la ministra introduce nuove figure intermedie, ancora una volta prive di dignità e diritti, ancora una volta ferme in una zona burocraticamente grigia che non le riconosce come lavoratrici. Le precarie e i precari della ricerca, però, lavorano eccome: mandano avanti progetti e didattica, integrano le attività dei docenti strutturati, e spesso li sostituiscono. La ministra a parole chiama all’unità nazionale, definendo la ricerca italiana come “settore d’eccellenza” ma di fatto contribuisce a normalizzare il precariato che da tempo immemore affligge l’università pubblica. Nel frattempo, i tagli al Fondo di finanziamento ordinario rafforzano un sistema in cui la ricerca dipende da fondi straordinari e progetti europei e internazionali (Marie-Curie, Erc grants, ecc.) estremamente competitivi, incentivando una logica produttivista che soffoca la libertà di ricerca e di insegnamento. Dispositivi come i Vqr (Valutazioni della qualità della ricerca) dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) assegnano i fondi sulla base del numero di pubblicazioni dell’ateneo, numero di grants europei vinti, valutazione media degli studenti e delle studentesse, progressioni di carriera, ma anche qualità delle strutture, digitalizzazione e altri criteri basati su logiche premiali e non sul bisogno, concentrando la gran parte dei finanziamenti in grandi poli e pochi settori che rispondono alle esigenze di mercato. In questo senso, la retorica meritocratica che si cela dietro i parametri di premialità, eccellenza e autonomia è in realtà un sistema viziato a monte che esacerba le diseguaglianze territoriali e mette a rischio l’esistenza stessa delle università considerate di “serie B”, lontane dalle grandi metropoli universitarie. Il discorso del merito e della premialità vincola anche l’assegnazione di alloggi e borse in una logica competitiva che discrimina in base alle condizioni socio-economiche di partenza, svantaggiando chi deve conciliare lo studio con un lavoro esterno e le persone, molto spesso donne, su cui grava il peso del lavoro di cura. Mentre l’università pubblica viene de-finanziata, il sistema formativo privato e telematico si rafforza, presentandosi come unica alternativa a chi non può permettersi la mobilità. Parallelamente, i finanziamenti seguono logiche di mercato: le tematiche di ricerca sono sempre più dettate da finanziatori privati, direttive europee orientate all’industria e interessi legati al riarmo. Questo meccanismo riduce la ricerca, anche quella dell’università pubblica, a un ingranaggio della macchina produttiva, subordinandola alle esigenze delle grandi aziende e del complesso militare-industriale. Il caso delle collaborazioni con aziende come Leonardo o Eni, coinvolte per giunta nel genocidio del popolo palestinese, mostra come il sapere venga sempre più piegato a interessi economici e geopolitici. Nel medesimo processo di militarizzazione dell’università è coinvolto anche il Ddl sicurezza 1236, firmato dai ministri Nordio, Piantedosi e Crosetto che all’articolo 31 prevede l’obbligo di collaborazione e assistenza di enti pubblici, compresi quelli di formazione, con i servizi segreti nazionali, mettendo in serio pericolo la libertà di ricerca, di insegnamento e la privacy di studenti e lavoratori. Alla luce di tutto ciò, nel fine settimana tra l’8 e il 9 febbraio, le varie assemblee precarie, insieme a collettivi e sindacati, si sono date appuntamento a Bologna. La sede di via Zamboni 38 dell’università, è stata raggiunta da oltre quattrocento persone provenienti da tutta Italia. Sono stati due giorni di rabbia e di elaborazione, di scambio di pratiche ed esperienze di lotta contro i tagli, la riforma del pre-ruolo e le logiche premiali di assegnazione di fondi agli atenei, di borse di studio e di ricerca. Da novembre 2024, esiste anche a Napoli un’assemblea precaria, che lavora incessantemente dentro e oltre l’università, attraverso momenti pubblici di discussione e proposte di mozioni all’interno degli organi istituzionali degli atenei, nonché organizzando la mobilitazione per un rigetto secco del decreto Bernini, dei tagli che impone e del modello di università entro cui si inserisce, per la realizzazione di un sistema formativo pubblico democratico, finanziato e partecipato. A Bologna, l’assemblea precaria napoletana ha portato la prospettiva di chi vive le università del Sud, marginali e periferiche per definizione, penalizzate dai meccanismi premiali dei finanziamenti, e sempre più dipendenti da investimenti di privati che in questo modo hanno il potere di influenzare didattica e ricerca. Le assemblee precarie che da mesi lavorano tra Napoli, Pisa, Firenze, Roma, Palermo, Salerno e tante altre città, a Bologna non si sono riunite solo per opporsi a riforme e tagli, ma si sono proposte di ripensare l’intero sistema universitario e si sono date una piattaforma rivendicativa chiara e condivisa: stabilizzazione del precariato dalla ricerca e del personale tecnico-amministrativo, rigetto della riforma Bernini, raddoppio del fondo di finanziamento ordinario, abolizione dell’Anvur, rescissione di ogni accordo e partnership con imprese che alimentano e sostengono guerre e massacri, affermazione del diritto ad alloggi e borse di studio svincolato dalla performance universitaria e dai criteri di premialità, pretesa di una ricerca autonoma e libera, che non sia piegata all’interesse del mercato. È un’esperienza, quella di Bologna, che invita a costruire una mobilitazione ampia e trasversale capace di affermare con forza che questo modello non è sostenibile né equo: non c’è niente da difendere del sistema universitario pubblico vigente, ma tutto da costruire, immaginare e ripensare. Precarie e precari dell’università, insieme alla componente studentesca, hanno capito di essere centrali e rivendicano il loro protagonismo, ribadendo la necessità di organizzarsi e lottare insieme per un modello nuovo, che garantisca tutele e prospettive e che sia capace di assolvere ai bisogni di tutte e tutti. La mobilitazione è appena iniziata e continuerà in tutte le città in cui le assemblee precarie sono presenti e operano dentro e fuori l’università. L’obiettivo è quello di costruire uno sciopero che coinvolga tutte le componenti sfruttate e precarie della formazione. (flora molettieri)
February 19, 2025 / NapoliMONiTOR
Taranto inerme. Il progetto del dissalatore tra criticità e pareri contrari
(disegno di india santella) Risulta difficile ragionare sulla città di Taranto senza conoscerne le origini. La storia racconta di una comunità millenaria, capitale della Magna Grecia, e di un passato che spesso ritorna, intrecciandosi con il presente. Ne è un esempio il fiume Tara, un fiume di origine carsica lungo appena due chilometri, il cui nome deriva da Taras, personaggio della mitologia greca, che secondo il mito fu salvato da un delfino inviato da suo padre Poseidone dopo un naufragio, raggiungendo la costa nei pressi del fiume. Ma oltre al mito è possibile associare al Tara alcune vicende storiche, come l’incontro nel 35 a.C. tra Marco Antonio e Ottaviano, che avvenne proprio al centro del fiume; e nel 1594 la battaglia tra Cristiani e Saraceni presso le sponde del Tara, questi ultimi respinti dalla popolazione della vicina Massafra. A oggi il Tara è frequentato da una numerosa comunità, che ne approfitta durante le calde estati per trovarvi ristoro. In occasione del rito della Madonna del Tara, il primo giorno di settembre i credenti si riuniscono per pregare affinché le acque del fiume possano proteggere la salute dei devoti; è credenza popolare che bagnarsi nel Tara e cospargersi dei suoi fanghi comporti dei benefici. Al di là del valore storico e sociale, va riconosciuto al Tara il suo importante contributo dal punto di vista ambientale, infatti il suo ecosistema è parte integrante del paesaggio ionico. Le acque e la vegetazione ripariale costituiscono una forte attrattiva per le specie selvatiche tipiche delle zone fluviali della Puglia: aironi, salamandre, anguille, diversi pesci d’acqua dolce, una notevole quantità di insetti, e ultimamente è stata avvistata anche la lontra, un mammifero considerato specie protetta. Pertanto, il fiume rappresenta una vera e propria oasi naturale in un’area fortemente caratterizzata dalle attività antropiche. Il Tara, dunque, possiede tutte le caratteristiche necessarie affinché possano essere intraprese azioni di tutela dello stesso da parte delle istituzioni, ma negli anni nulla è stato fatto per preservare l’area. Oggi il fiume è minacciato da un controverso progetto promosso da Acquedotto Pugliese, una società partecipata della Regione Puglia. Si tratta di un dissalatore che avrebbe le dimensioni di circa cinque volte l’attuale dissalatore più grande d’Italia, quello di Cagliari. L’impianto sarà finanziato con fondi provenienti da Pnrr e Fsc, quindi spendibili non oltre il 2026. Il 25 settembre 2023, per un costo che si aggira intorno ai cento milioni di euro, al netto del ribasso d’asta, vengono aggiudicati i lavori all’associazione temporanea di imprese costituita dalle società Suez Italy, Suez International, Edil Alta con sede ad Altamura, la tarantina Ecologicia e la massafrese Cisa, società molto attiva nel settore dei rifiuti. Dopo diverse sedute, la conferenza dei servizi del 10 gennaio 2025 ha dato il via libera alla realizzazione del dissalatore. Un fattore rilevante è la modalità di approvazione che viene utilizzata, ovvero a prevalenza di pareri. Durante le precedenti conferenze si è sempre deciso di procedere all’unanimità, salvo ora cambiare modalità di approvazione. Spiccano infatti i rumorosissimi “no” provenienti dalla Soprintendenza del ministero della cultura, da Arpa Puglia e Asl Taranto, con pareri ampiamente motivati dagli stessi enti; ma la maggioranza non ha esitato nel procedere alla concessione della Valutazione d’impatto ambientale, necessaria al rilascio di tutte le autorizzazioni che consentiranno la realizzazione dell’impianto, lasciando aperto il dibattito sul peso della componente politica rispetto a quella tecnica. Il ministero della cultura, attraverso un documento di cinquanta pagine, afferma la sua decisa contrarietà al progetto, dichiarando che l’opera andrebbe realizzata altrove, essendo in netto contrasto con il paesaggio e l’ambiente, e che nessuna modifica al progetto potrà modificare il parere contrario. Anche Arpa Puglia indica che esistono criticità che non considerano l’importanza naturalistica, geomorfologica e idrologica del sistema delle sorgenti e del fiume, riconosciuta dalla pianificazione della stessa Regione Puglia.  Arpa fa notare inoltre che il progetto prevede l’espianto di circa novecento ulivi (nella zona sono presenti ulivi secolari), e circa mille e quattrocento alberi da frutto, di cui la maggior parte agrumi. In risposta, Acquedotto Pugliese ha dichiarato che gli ulivi verranno reimpiantati, non si sa però dove, e alcune voci sollevano dubbi sulla capacità degli alberi di adattarsi a nuove aree ed eventualmente ad avere frutti. Un’altra osservazione dell’ente di controllo ambientale riguarda l’utilizzo delle acque, indicando come la quantità minima di acqua che deve rimanere nel fiume debba essere maggiore o uguale a 2.000 l/s, considerando che la portata media del Tara equivale a 3.700 l/s, e affinché i prelievi non abbiano impatti negativi sull’ecosistema il limite massimo di prelievo è fissato a 1.300 l/s. A oggi esiste già un prelievo di acque autorizzato dall’Autorità idrica pugliese pari a 1.100 l/s, per uso destinato all’ex Ilva e all’irrigazione; il Wwf di Taranto ha fatto sapere che questo prelievo può arrivare a 3.500 l/s. Il progetto del dissalatore prevede un prelievo di 1.000 l/s, quindi la somma dei prelievi potrebbe superare di gran lunga non solo il deflusso ecologico (quantità minima necessaria), ma addirittura anche la portata del fiume stesso. Il Tara ha origine carsica, la sua portata varia in funzione delle piogge. Non si capisce come l’impianto possa sopperire a una mancanza delle stesse, se strettamente legato ai fenomeni piovosi. Acquedotto Pugliese ha proposto durante la conferenza dei servizi che se dovesse non esserci acqua a sufficienza, tutti gli utilizzatori dovranno ridurre i prelievi secondo regole concordate. In concomitanza con l’avanzare di questo progetto, si registrano le attività di associazioni, comitati e liberi cittadini che hanno prodotto opposizioni, anche tecniche, sufficienti per dimostrare quanto l’operazione sia inopportuna e impattante dal punto di vista ambientale. Per esempio, il Wwf di Taranto ha prodotto osservazioni sul consumo di suolo che questo progetto produrrà. È prevista la costruzione di due grandi condotte: una di quattro chilometri, condurrà gli scarichi della lavorazione in mare; l’altra, di quattordici chilometri, accompagnerà le acque depurate al centro di raccolta. Inoltre, in prossimità delle tubazioni, è prevista la costruzione di strade di servizio. La somma di suolo occupato da strade, condotte e stabilimento occuperà quindi all’incirca otto ettari di suolo, che corrispondono a una dozzina di campi da calcio. Bisogna inoltre segnalare un fatto di cronaca non irrilevante, ovvero la comparsa di una numerazione registrata di nascosto su ulivi secolari all’interno di proprietà private, secondo i proprietari dei terreni proprio in corrispondenza del tratto che vede passare la condotta di quattordici chilometri. Non è possibile attribuire alcuna colpevolezza in quanto non si dispone di prove, ma i titolari degli alberi hanno sporto denuncia contro ignoti e presentato un esposto ai carabinieri sottoscritto da circa centocinquanta cittadini. Altro punto critico: l’impianto si avvarrà della tecnologia a osmosi inversa per desalinizzare le acque già dolci. La bassa salinità delle acque, di fatto, costituisce un punto di forza del progetto di Acquedotto Pugliese: l’ente sostiene che il dissalatore comporterebbe un consumo di energia minore per produrre la stessa quantità di acqua che verrebbe prodotta lavorando acque più salate. Sempre secondo il Wwf di Taranto, però, oltre la salamoia giungerebbero in mare fanghi, metalli, anti-incrostanti e cloruri, che sarebbero poi soggetti a un processo di stratificazione, determinando un’alterazione dell’habitat marino. Un altro interrogativo riguarda il consumo di energia: gli impianti di dissalazione sono energivori, e in questa fattispecie i proponenti hanno dichiarato che le fonti energetiche che alimenteranno l’impianto sono di tipo rinnovabile. Dopo mesi di dibattito sul dissalatore, solo ora viene annunciato che l’impianto sarà alimentato al cento per cento da energia rinnovabile. Questo aspetto, che non era stato incluso nel progetto originale né menzionato nei documenti ufficiali, appare più come un tentativo di rassicurare l’opinione pubblica che come il frutto di una reale programmazione strategica. In altre parole, sembra un’aggiunta dell’ultimo minuto piuttosto che un elemento strutturale del piano iniziale.  Nonostante questo annuncio, però, analizzando i dettagli scopriamo che il quattordici per cento dell’energia sarà autoprodotta tramite fotovoltaico, mentre il restante arriverà dalla rete con “garanzie di origine”: una modalità che non garantisce affatto che l’energia consumata in tempo reale sia davvero rinnovabile. Si potrebbe continuare a elencare una serie di interrogativi da porre alla Regione Puglia riguardanti il progetto, ma è altrettanto importante soffermarsi sull’aspetto politico della vicenda. Regione Puglia e Acquedotto Pugliese hanno scelto Taranto come sede per la costruzione dell’impianto, pur essendo a conoscenza della critica situazione ambientale del capoluogo ionico, definendo questo progetto strategico per la Puglia (stessa cosa fu detta in altre situazioni da altri attori). Il progetto è giunto alle battute finali, accompagnato da una scarsa partecipazione da parte della comunità locale, ormai fragile e stanca di dover affrontare spesso problemi che hanno natura comune. La politica ionica da diversi anni ha smesso di avere un ruolo centrale nelle decisioni prese altrove, sebbene questo territorio abbia già dato troppo in termini ambientali, e i suoi cittadini continuino a pagarne le conseguenze. Considerando che già oggi la rete idrica pugliese perde il 43,6% (fonte Istat), caro presidente Emiliano, non sarebbe il caso di prendere in considerazione un’altra alternativa per risolvere la crisi? (domenico colucci)
February 18, 2025 / NapoliMONiTOR
Quale salute mentale? Un’intervista a Luigi Gallini
(disegno di cristina moccia) Lo scorso mese di luglio abbiamo pubblicato la prefazione di Nicola Valentino a Socialmente Pericoloso. La triste ma vera storia di un ergastolo bianco, libro di Luigi Gallini (Edizioni Contrabbandiera). con contributi di Nicola Valentino, del collettivo Informacarcere e del collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud. Gallini è un ex ricercatore universitario e insegnante, che nell’acutizzarsi di una patologia psichiatrica tentò di rapire una bambina, con l’intento di salvarla da un pericolo imminente. Giudicato “pericolosissimo”, Gallini è allo stato attuale in una comunità forense, dalla quale non è dato sapere se uscirà mai. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la sua storia, e non solo.  *     *    * LG: Mi chiamo Luigi Gallini, sono attualmente detenuto in una residenza psichiatrica a media intensità dell’Asl della città di Torino. Si tratta di una residenza psichiatrica chiusa: io e gli altri detenuti non abbiamo libertà di movimento, e possiamo uscire solo col permesso degli operatori. RI: Perché sei recluso qui? LG: Parto dalla mia storia di vita. Ho ventitré anni di scolarizzazione, un diploma di perito agrario e una scuola estiva da tecnico dirigente di società cooperative, una laurea in Scienza della Terra, un dottorato in Chimica agraria. Ho lavorato dieci anni nella ricerca come chimico ambientale e vent’anni nell’ insegnamento, però ho anche una storia alle spalle di quarant’anni di psichiatrizzazione. L’ultimo episodio acuto risale al Covid, periodo in cui avevo smesso di prendere gli psicofarmaci. Avevo completamente smesso di dormire, e vivevo in un mondo di sogno fantastico in cui gli alieni erano arrivati sulla Terra su una grossa astronave. Era un sogno a occhi aperti, che mi faceva fare delle cose stranissime. Un giorno entrai in un bar e cercai di portare via una bambina di tre mesi sul passeggino, convinto di doverla salvare da un rito sacrificale che gli alieni barionici rettiliani stavano organizzando nei suoi confronti. Loro mi intimavano: «O tu cerchi di salvarle questa bambina, allora noi crocifiggiamo te; oppure non la salvi, e allora la uccidiamo noi…». Io, non sapendo che fare, la presi per portarla via. E niente…è stato difficile dare una spiegazione logica dell’accaduto. I genitori mi hanno raggiunto e ammazzato di botte: mi hanno rotto il polso a calci e pugni. Ho chiamato la polizia, che è arrivata e mi ha arrestato, portandomi direttamente al Sestante, il reparto di osservazione psichiatrica del Carcere delle Vallette di Torino. RI: Adesso il Sestante è stato chiuso? LG: È stato chiuso dopo la denuncia di Antigone, ma poi ristrutturato e riaperto. Il Sestante è una bocca dell’inferno sulla Terra… Una dozzina di celle isolate, vuote, sorvegliate da un complesso sistema di videocamere attive ventiquattr’ore su ventiquattro. Dentro c’era gente anche piuttosto grave, che non connetteva più per nulla. Io avevo il braccio ingessato e non potevo lavarmi: il primo cambio d’abito l’ho avuto dopo tre settimane, la carta da lettere dopo due. RI: Era un reparto specificatamente destinato a persone psichiatrizzate? LG: Sì, un reparto di osservazione psichiatrica (Articolazione per la Salute Mentale). Una volta alla settimana venivi portato a colloquio con la psichiatra o con lo psicologo. RI: Quando eri al Sestante eri in attesa di processo o eri stato già processato? LG: Sono stato processato per direttissima, perché le telecamere di sorveglianza del bar mi hanno ripreso mentre cercavo di prelevare la bambina. Mi hanno processato mentre ero al Sestante, giudicandomi “Incapace di intendere e di volere” e “Socialmente Pericoloso”. Da allora, sono recluso all’ergastolo bianco. RI: Cosa vuol dire essere giudicato “incapace di intendere e di volere”? LG: Con “incapacità di intendere e di volere” si intende una profonda disconnessione dal reale, che non permette di comprendere quello che succede, né di scegliere in modo razionale e logico. Quando sono stato arrestato mi trovavo in uno stato allucinatorio praticamente permanente: avevo allucinazioni auditive, visive, mentali, di tutti i tipi. Successivamente, mi è stato detto che anche nel mio caso il criterio di “incapacità di intendere e di volere” è discutibile: ma, in quel momento, il perito del tribunale decise così, in base ai criteri della sua Scienza. RI: Quante persone sono recluse qui con te in residenza psichiatrica? A che tipo di trattamenti sono sottoposti? LG: Qui dentro siamo in sedici. Io prendo un neuroplegico iniettato intramuscolo, ma in generale cerco di oppormi a un eccessivo trattamento farmacologico, perché so che gli psicofarmaci hanno solo un effetto palliativo sul malessere psichico: sopprimono il sintomo senza agire sulle cause. Sugli altri, non so… vedo che prendono molte pillole, taluni ne prendono una manciata, ma nessuno parla apertamente della terapia. C’è una forte vergogna che spinge al silenzio. RI: I farmaci vengono dati per vari motivi: per sedare, ma anche per rispondere alle richieste di pazienti che hanno sviluppato dipendenze decennali… LG: I giovani qui dentro sono pochissimi: quasi tutti i pazienti hanno una certa età, dunque sono in cura psichiatrica e psicofarmacologica da moltissimi anni e hanno sviluppato una grande dipendenza. Intraprendere uno scalaggio richiederebbe un lavoro certosino di cura e di attenzione notevole, che in questo momento politico non c’è intenzione di fornire. E poi, il neurolettico è sedativo: il personale è poco, i detenuti sono tanti, e si ricorre allo psicofarmaco per tenerli buoni e gestibili. Non dimentichiamo poi che lo psicofarmaco rimane lo strumento principe per trattare la devianza psichica perché è un grosso business: si stima sia un giro d’affari di duecento miliardi di dollari all’anno. RI: Prima hai definito la tua condizione di reclusione psichiatrica “ergastolo bianco”: cosa vuol dire? LG:  L’ergastolo bianco è un termine che, in gergo, indica il caso in cui un internato psichiatrico è privato della libertà per un periodo di tempo senza limite superiore massimo. L’ergastolo bianco è commutato dal tribunale quando sussistono tre circostanze a carico dell’internato: egli commette un reato; è giudicato incapace di intendere e di volere al momento del reato; è valutato socialmente pericoloso, ovvero il giudice valuta che esiste una certa probabilità che egli possa commettere un nuovo reato se messo in libertà. La pericolosità sociale è un dispositivo introdotto nel corpo delle leggi dello stato italiano dal codice Rocco: è una legge fascista. Diversi giuristi ne chiedono da tempo l’abrogazione. RI: Spostandoci su questioni più teoriche, secondo te quali sono le sfide dell’antipsichiatria contemporanea? In cosa differiscono da quelle che affrontava il movimento antimanicomiale degli anni Sessanta e Settanta, che lottava per la deistituzionalizzazione? LG: Quando sono nato io, i manicomi erano ancora attivi, e ho seguito la riforma Basaglia leggendola sui giornali. Al tempo esisteva un largo movimento libertario, marxista, leninista, anarchico, socialista, che riusciva a mettere insieme le lotte per il lavoro, sul reddito, di proprietà dei mezzi di produzione, riflettendo sui dispositivi chiusi della società borghese, come il carcere, il manicomio, la scuola. Al giorno d’oggi quel movimento sociale non c’è più: non solo, al governo ci sono i fascisti, e col DDL 1660 viene criminalizzata qualsiasi forma di protesta. RI: Io penso però che la fine del movimento antipsichiatrico come movimento di massa non sia solo dovuto all’indebolimento generale delle lotte. Mentre molte altre lotte, infatti, hanno mutato di forma per adattarsi alle esigenze sociali – basti pensare alle istanze dei lavoratori, che oggi parlano di precarizzazione, lavoro digitale, esternalizzazione – le lotte antipsichiatriche hanno perso presa sul discorso della salute mentale, che è stato canalizzato in altri linguaggi. Eppure è assurdo, se pensiamo che non si fa altro che parlare di salute mentale in giro! Mi chiedo allora se questa tendenza abbia a che fare con i movimenti stessi, o piuttosto con qualcosa che è cambiato nella psichiatria. LG: La seconda cosa che dici mi sembra più accurata. Sicuramente la psichiatria è stata capace di veicolare un’immagine positiva di sé, e un’immagine negativa del folle. L’immagine offerta dai media del folle è quella di una persona imprevedibile, pericolosa, infida, cattiva, crudele; oppure, al contrario, una povera vittima delle circostanze. Eppure, se guardiamo la realtà, il folle non commette più reati della persona comune. La psichiatria, però, si è configurata come disciplina che tutela la sicurezza pubblica, e che, al contempo, si fa carico del bisognoso: accudisce il sofferente psichico, lo cura. Questa è un’immagine abbastanza distorta, perché la realtà è che la psichiatria è strumento di coercizione. Nei reparti psichiatrici i pazienti continuano a essere legati al letto. Altro motivo per cui è difficile fare una lotta antipsichiatrica ai giorni nostri è che i giovani fanno grande richiesta di servizi di salute mentale: cosa che, di per sé, è assolutamente comprensibile. Penso che la salute sia un diritto, anche la salute mentale. Viviamo purtroppo in una società che causa ansia, disagio, disadattamento: una società che da un lato causa follia, dall’altro lo medicalizza. Lo medicalizza nelle scuole, attraverso le diagnosi di  DSA, BES, dislessia, disgrafia, discalculia e altre patologie dell’età dello sviluppo. Lo medicalizza nelle carceri, nei Cpr. Tutta la società è medicalizzata. I giovani chiedono maggiore psichiatria non sapendo, secondo me, che la psichiatria è essenzialmente la branca della medicina che serve a regolamentare il comportamento umano, per renderlo funzionale a una società liberista e capitalista. Insomma, la psichiatria non produce benessere psichico: semplicemente, lo tratta con i farmaci per ricondurlo alla normalità, una normalità funzionale a quella che è l’espressione della Repubblica liberale. Insomma, i giovani fanno bene a chiedere maggior salute mentale, ma fanno male a chiedere che la soluzione venga data dall’apparato psichiatrico. L’opinione pubblica è favorevole allo psichiatra ed è avversa allo psichiatrizzato, mentre negli anni di Basaglia si tematizzava il fatto che lo psichiatra era un oppressore del paziente. Parlando di Basaglia, è anche difficile riconoscere che molto del sistema psichiatrico pre-basagliano sopravvive ancora oggi. Il manicomio non è cambiato, ma è difficile riconoscerle l’edificio manicomiale post-basagliano. Esiste, chi, come me, lo attraversa in tutte le sue fasi, ne ha le cicatrici sulla pelle e nell’animo, ma diventa difficile di svelarlo alla pubblica osservazione. Anche perché risulta frammentato in tanti piccoli enti, territori e strutture di cui il territorio è disseminato ed è difficile ricostruirlo nel suo insieme come un’entità manicomiale unica. RI: Cosa è cambiato e cosa è rimasto nella transizione dal manicomio alla costellazione di servizi e strutture psichiatriche della psichiatria territoriale oggi? LG: I manicomi li conosco essenzialmente per quello che ho letto di Basaglia. I reparti erano divisi in agitati e meno agitati, e questa divisione sopravvive ai giorni nostri. Il reparto agitati lo ritroviamo in SPDC, il Servizio di diagnosi e cura che è presente in tutti gli ospedali, in cui il paziente a cui è stato fatto un Tso viene internato per periodi di sette, quattordici o ventuno giorni, rinnovabili con l’aggiustamento delle terapie. Qui è comune che il paziente venga legato al letto. Ancora: i Reparti di osservazione psichiatrica nelle carceri sono molto simili ai vecchi Opg. Poi ci sono le Rems, che sono delle specie di ospedali chiusi dove viene recluso il Folle Reo, ovvero chi è giudicato incapace di intendere e di volere al momento del reato: da Reo si passa a essere internati all’interno delle strutture residenziali psichiatriche residenziali ad alta e media intensità, che di fatto sono dei piccoli manicomi, dai quali non si esce se non accompagnati dagli operatori. Sicuramente non esiste più il principio basagliano di “dare cittadinanza alla follia”, ovvero di rendere la follia un’esperienza comune e diffusa tra il genere umano: oggi, dare cittadinanza alla follia non è più nelle agende politici, anzi! Nelle agende dei politici c’è l’intenzione di eradicare il genio della follia della popolazione. Ai tempi di Besaglia si cercava di curare senza sradicare il folle dal suo contesto sociale, ma lasciandolo inserito nel suo contesto sociale e andare a intervenire in gruppo. In équipe, si cercava di deistituzionalizzare il trattamento della follia lasciando la persona libera di muoversi sul territorio, a casa sua, in famiglia, se possibile, o comunque nella sua realtà. Ora questo trattamento ambulatoriale viene meno per questioni di soldi, di interesse politico, per cui si tende a recludere nelle residenze psichiatriche il folle che non riesce a essere gestito ambulatoriamente da una seduta al mese che gli aggiusta la terapia. Dunque, la domanda di salute mentale che oggi avanzano i giovani è una domanda malposta: non si può chiedere più psichiatria a meno che si voglia chiedere meno libertà, meno autonomia. La richiesta dovrebbe riguardare più benessere psichico, il che significherebbe modificare l’intera struttura sociale per renderla meno nociva: ma ciò sarebbe antieconomico, dunque impossibile. Molti giovani sono in ansia per il futuro: per la questione ambientale, per la questione della salute, per la questione lavorativa, per la pace. Bisognerebbe dare una prospettiva di pace e benessere al mondo, cosa che le democrazie liberali non considerano economicamente vantaggiosa: insomma, non hanno l’intenzione di concederla.
February 14, 2025 / NapoliMONiTOR
Merito o diritti? Bologna riscrive le regole per gli alloggi pubblici
(disegno di chiara tirro) SELEZIONARE I “BUONI” A Bologna è stata adottata una nuova modalità di assegnazione di alloggi pubblici densa di implicazioni, la cui portata va ben al di là del modesto patrimonio immobiliare messo a disposizione in questa occasione specifica (dieci alloggi classificati nella categoria dell’Edilizia residenziale sociale). Si tratta del Cohousing Fioravanti 14, situato nel quartiere popolare della Bolognina, a poca distanza dalla stazione ferroviaria. Sulla collocazione (che ha un preciso significato politico) mi soffermerò alla fine. L’attenzione va posta innanzitutto sul bando per l’assegnazione degli alloggi: non si tratta solo di un documento amministrativo, ma del segno di un mutamento culturale nell’amministrazione pubblica. Il bando (il cui slogan è “collegare vite/coltivare idee”) parte dal presupposto che per concorrere a un posto nel “cohousing” occorra possedere una predisposizione verso questa specifica tipologia abitativa. Chi abiterà in quel luogo dovrà essere parte di una comunità, gestire le zone comuni (lo spazio verde e la lavanderia), “avere una spiccata sensibilità alla riduzione dei consumi” e la capacità di promuovere “un nuovo modo di vivere la città, il quartiere, la casa”. Di conseguenza, secondo l’amministrazione comunale, i candidati devono dimostrare di possedere determinate caratteristiche, a ciascuna delle quali corrisponde un punteggio attribuito dalla commissione di valutazione, come stabilito nella sezione intitolata “requisiti di affinità al progetto”. I requisiti previsti sono: esperienze documentate di volontariato o attivismo in campo sociale o ambientale; esperienze lavorative in ambito sociale o ambientale; titolo o percorso di studio attinente a materie sociali, educative, del mondo cooperativo e simili o in campo energetico e ambientale. Salta agli occhi l’assenza di un nesso logico. Per quale ragione una persona che ha fatto del volontariato, o lavora in campo ambientale, o ha studiato “materie sociali” possiede, solo per questo, in modo automatico, una particolare “predisposizione” ad abitare in un cohousing? E per quale misterioso motivo si esclude a priori che persone prive delle esperienze elencate possano avere ugualmente tale “predisposizione”? E soprattutto: su quali criteri la commissione attribuirà il punteggio? In base a cosa verrà stabilito che un’esperienza di “attivismo” merita un punteggio più elevato rispetto a un’altra? Come verrà valutato l’“attivismo” svolto in contesti informali, dal momento che non potrà essere documentato?  Gli interrogativi non si fermano qui. La commissione, infatti, dovrà valutare anche la “rispondenza” al “Profilo di Comunità”, sulla base di un questionario compilato dai candidati. Queste sono alcune delle domande cui saranno chiamati a rispondere: Perché sei interessato/a a partecipare alla selezione dei candidati per il Progetto? In base a quanto hai potuto comprendere sull’iniziativa, quali sono gli aspetti che maggiormente ti attraggono? E quelli che più ti preoccupano? Prova a immaginare alcuni aspetti della tua vita una volta entrato/a a far parte del progetto. In cosa vorresti che si differenziasse rispetto alla tua situazione attuale? In base a cosa la commissione attribuirà un punteggio a queste risposte? Non è dato saperlo, nessun criterio specifico è indicato (anche perché sarebbe impossibile stabilire parametri rigorosi). In pratica, la commissione avrà carta bianca.  Questa arbitrarietà non rappresenta solo una evidente carenza nell’impianto del bando. Si tratta piuttosto di un elemento funzionale alla sua logica. Il nucleo centrale della questione, infatti, è lo spostamento del punto di osservazione: dall’esame delle condizioni oggettive dei richiedenti (reddito, età, composizione familiare, figli minorenni a carico, disabilità, disoccupazione, etc.) si passa al giudizio sui comportamenti. Sono i comportamenti il vero oggetto della valutazione. La “costruzione della comunità” è il quadro retorico che legittima questa inquietante innovazione. Qualche tempo fa, in un articolo sul credito sociale, avevo messo a confronto decisioni politiche di varia natura in campi diversi della sfera pubblica che hanno in comune l’adozione di forme molteplici (ma in definitiva convergenti) di valutazione dei comportamenti, mostrandone l’espansione ed evidenziandone i pericoli. L’analisi prendeva le mosse proprio da Bologna, dove l’amministrazione comunale aveva immaginato l’istituzione di un “portafoglio del cittadino virtuoso” (che sembra, fortunatamente, caduto nel dimenticatoio) e aveva introdotto negli anni scorsi una sorta di “patente a punti” per gli abitanti degli alloggi popolari finalizzata, di nuovo, a classificare e sanzionare comportamenti. I meritevoli e i non meritevoli, insomma. Quando un’autorità politica – o chi per essa svolge una specifica funzione pubblica (per esempio un’agenzia di valutazione) – decide chi sta da una parte e chi sta dall’altra, bisognerebbe iniziare a preoccuparsi. D’altra parte, le indicazioni contenute nel bando di cui ci stiamo occupando non sono una novità assoluta. Il testo, infatti, ricalca quello adottato nel 2016 per il cohousing Porto 15, a dimostrazione della continuità tra questa amministrazione e le precedenti. Ma con il nuovo bando il comune di Bologna fa un passo ulteriore, attribuendo punteggi a comportamenti individuali, e questo è un fatto inedito. In sostanza, determinati elementi culturali sono in circolazione già da tempo, ma stavolta si sono combinati in una formulazione più insidiosa. Quale sarà il passo successivo? In quale ambito verranno applicati criteri analoghi, o appartenenti alla stessa famiglia? Sono interrogativi legittimi, che spingono a non sottovalutare la portata di quello che, a prima vista, si presenta come un esperimento su scala ridotta. CHI INSEGNA A CHI? Torniamo al bando. Dopo la prima scrematura fin qui descritta, basata sull’ambiguo e intrinsecamente discriminatorio concetto di “merito” (mai esplicitamente nominato ma di cui si percepisce la minacciosa presenza), la procedura prevede una seconda fase, denominata “Progettazione partecipata del cohousing”. Si tratta di una serie di otto incontri a frequenza obbligatoria, i cui obiettivi sono spiegati in un paragrafo illuminante: “Avviare un cohousing presuppone di mettere in comune una serie di interessi, opinioni, stili di vita, disponibilità economiche, regole di comportamento. Al fine di costituire un gruppo affiatato è importante avviare una riflessione che coinvolga questi temi in maniera efficace, partendo dal modo d’intendere l’abitare comune: come deve essere, su quali principi deve essere basato e quali aspettative deve soddisfare. Dal tema dell’abitare si passerà poi alla riflessione sulla solidarietà, la sostenibilità ambientale e la collaborazione reciproca. Per misurarsi su queste tematiche è necessario imparare a comunicare e apprendere una corretta gestione delle riunioni: come prendere la parola, costruire un ordine del giorno, fare sintesi, fare in modo che le riunioni siano efficaci e partecipate”. Otto incontri per imparare a vivere, in sostanza. Con il presupposto che qualcuno lo deve insegnare (a vivere, si intende). Il verbo “fornire” utilizzato per introdurre gli scopi di questa fase è indicativo: “fornire ai/alle partecipanti gli strumenti per diventare protagonisti/e del proprio progetto”. In poche righe è sintetizzata l’idea di città che gli amministratori hanno in mente, una città in cui i modi di abitare non nascono dalle relazioni quotidiane e dagli scambi nei luoghi di vita e di lavoro – come è sempre avvenuto nella storia – ma vengono “insegnati” a partire da un modello normativo. Questa “pedagogia dall’alto” si coniuga perfettamente con il modello di partecipazione perseguito dalle amministrazioni che si sono susseguite al governo di Bologna da almeno quindici anni a questa parte, fortemente centralizzato e “dirigista” anche se imbevuto di una retorica che lo promuove come diffuso e spontaneo. Anche il percorso “formativo” previsto dal bando per il cohousing rientra in questo schema. Gli incontri, infatti, saranno guidati da professionisti, secondo un copione che si ripete invariabilmente. Stuoli di “facilitatori” hanno attraversato negli ultimi anni decine e decine di “percorsi partecipativi” intorno ai temi della “rigenerazione urbana”, senza che ne sia mai risultato davvero accresciuto il potere decisionale delle cittadine e dei cittadini, senza il quale la partecipazione si riduce a pura operazione di marketing. C’è un altro aspetto da cogliere nella procedura prevista dal bando: la sua contraddittorietà. Agli incontri saranno chiamati a partecipare i richiedenti che abbiano superato la prima fase della selezione (quella dei punteggi attribuiti ai comportamenti) in numero doppio rispetto alla disponibilità degli alloggi. Al termine del “processo partecipativo” undici nuclei familiari rimarranno esclusi dall’assegnazione. In pratica, all’interno di un processo finalizzato a promuovere la solidarietà, viene insediato un meccanismo di concorrenza e competizione. Mentre siederanno intorno allo stesso tavolo per discutere come “costruire la comunità”, i candidati dovranno sgomitare per prevalere l’uno sull’altro e aggiudicarsi una casa in affitto, un bene oggi rarissimo. Una contraddizione stridente, fulcro dell’ideologia del merito che pervade il bando. Chi deciderà quali saranno gli esclusi? E con quali criteri? Nell’impossibilità di individuare parametri “oggettivi” per governare questa fase così delicata, il bando prevede due passaggi. Il primo si chiama  “autoselezione”: “Dopo i primi otto incontri, l’individuazione dei futuri dieci nuclei di coabitanti sarà basata sull’autoselezione da parte degli stessi partecipanti che decideranno se Fioravanti 24 è il progetto di cohousing che fa per loro”. Sostanzialmente, il Comune spera che la metà dei partecipanti rinunci perché scoprirà di non essere interessata al progetto. Però gli incontri non sono informativi, ma formativi. Perché formare sperando contemporaneamente che per almeno metà dei partecipanti la formazione non serva a nulla, anzi sia addirittura dissuasiva? E cosa succede se, invece, i rinunciatari non sono sufficienti? Se, folgorati dalla maestria dei “facilitatori”, oppure – in modo strumentale ma non per questo meno legittimo – spinti dall’assoluta necessità di dare un tetto a sé stessi e alla propria famiglia a un prezzo abbordabile, nessuno si “autoseleziona”? La risposta è semplice, per certi aspetti disarmante: “si procederà per sorteggio”. Può sembrare una soluzione brutale, vista la posta in gioco: non si tratta di una partita di calcio terminata in parità dopo i rigori, ma del soddisfacimento del diritto alla casa. Ma nella logica del bando si tratta di una scelta perfettamente coerente: se si prevedono meccanismi di valutazione arbitrari, come quelli basati sul comportamento, non ci si deve stupire se all’arbitrarietà viene affidata anche la scelta finale. LUOGHI REALI, LUOGHI ARTIFICIALI Il cohousing Fioravanti 24 sorge sulle ceneri di XM24, uno spazio sociale autogestito, attivo per diciassette anni fino al 6 agosto 2019. Quel giorno un massiccio spiegamento di polizia eseguì uno sgombero violento, con tanto di ruspa al seguito, su richiesta del comune di Bologna. XM24 non poteva più stare lì, in quei locali dismessi del vecchio mercato ortofrutticolo, perché – sosteneva il Comune – proprio lì era assolutamente necessario e urgente costruire un cohousing. La bugia era patetica, allora come oggi (e infatti ha avuto varie versioni, nel corso del tempo: all’inizio l’urgenza derivava dalla necessità di realizzare in quel luogo una caserma dei carabinieri). Si trattava, in realtà, di portare a termine l’opera di “normalizzazione” in atto da tempo. Di sgomberi il Comune ne aveva realizzati molti altri, mostrando un’avversione profonda per tutti gli spazi autogestiti. Ne rimaneva solo uno, bisognava completare l’opera. E poi quel luogo disturbava il progetto di “rigenerazione urbana” noto come Trilogia Navile, un insediamento abitativo di grandi dimensioni, proprio lì accanto, rimasto incompiuto per anni a seguito del fallimento di una delle imprese edili. I lavori stavano per ripartire, meglio sarebbe stato non avere vicini “scomodi”. È il mercato, e il Comune ha mostrato in molte occasioni di essere assai sensibile alle sue regole. Ora il cohousing c’è. Nel giorno dello sgombero, una formazione politica in quel momento all’opposizione – e che ora, invece, fa parte della maggioranza di governo e siede in giunta con l’assessora alla casa artefice del bando – aveva scritto un comunicato di critica all’amministrazione comunale, che si concludeva in questo modo: “Non sarà certo la sostituzione di uno spazio di creatività e socialità con dieci appartamenti in co-housing a risollevare le sorti del deserto urbanistico creato in quell’area […]”. Giuste parole, alle quali si potrebbe aggiungere che non sarà l’abito nuovo confezionato intorno all’opera a cambiare a posteriori la sua natura strumentale. Un abito alla moda, ma di pessimo gusto. (mauro boarelli)
February 13, 2025 / NapoliMONiTOR
La storia del collettivo e della rivista S-Contro. Un libro sugli anni Ottanta a Torino
(archivio disegni napolimonitor) S-Contro. Un collettivo antagonista nella Torino degli anni Ottanta (DeriveApprodi, 2024) è un libro di Sergio Gambino e Luca Perrone e racconta la storia di S-Contro, collettivo redazionale e militante torinese legato all’omonima rivista “aperiodica con intenti bellicosamente classisti” apparsa fra il 1984 e il 1987. S-Contro nasce nei primi anni Ottanta per iniziativa di un ristretto gruppo di giovani proletari delle periferie torinesi di Lucento, Vallette e Parella, attivi politicamente all’interno del Collettivo studentesco autonomo e del Comitato disoccupati, emanazioni del gruppo marxista-leninista torinese “Proletari”. Il gruppo si distingue presto dalla matrice ortodossa per una spiccata vocazione antidogmatica e un’apertura al dialogo con le altre componenti politiche della sinistra extraparlamentare. Nel 1983, assieme ad altri compagni torinesi provenienti da diverse esperienze, fondano un Centro di Documentazione, e poco dopo, con i disoccupati dei Banchi Nuovi di Napoli e i Nuclei leninisti milanesi, danno vita a un gruppo nazionale: l’Organizzazione comunista internazionalista (Oci). Centro di documentazione e Oci condividono la medesima sede in via Po 12, dove ogni sabato ci si ritrova per discutere e confrontarsi. È qui che, nel 1984, vede la luce il primo numero della rivista S-Contro. Il libro di Gambino e Perrone dedica uno spazio all’analisi dei cinque numeri di S-Contro comparsi fra il 1984 e il 1987, mettendo anche a disposizione un link per poter consultare l’intera collezione digitalizzata. Rivista di taglio giovanile, sia nelle tematiche, sia nel linguaggio, S-Contro mescola ai temi politici fondamentali (la disoccupazione, l’antimilitarismo, la scuola) il gusto per l’arte e la controcultura, con un’attenzione particolare per il teatro (Brecht, Majakovskij) e le nuove tendenze musicali (punk e new wave). Colpisce, fin dal primo sguardo, l’aspetto grafico della rivista: dinamica, ricca di immagini e di collage neodadaisti. L’intento è quello di “raggiungere una grafica che si faccia anch’essa portatrice di determinati messaggi e non mero appoggio formale agli articoli”. Se da un lato S-Contro si richiama all’esperienza bolognese di A/traverso, la rivista rappresentativa della cosiddetta “ala creativa” del movimento del ‘77, dall’altro abbraccia un’estetica più punk. Il nome stesso della rivista porta in sé questa doppia ispirazione: il trattino (orizzontale, anziché obliquo) è una strizzata d’occhio ad A/traverso; il nome della rivista, invece, è la traduzione di quello del leggendario gruppo punk The Clash. La storia del collettivo S-Contro non si esaurisce, tuttavia, alla sola attività redazionale. Fin dal primo numero la redazione si presenta come “aperta a chiunque voglia intervenire / confrontarsi / s-contrarsi per costruire delle iniziative (che non si riducono al solo giornale) di aggregazione giovanile sul filo di un discorso politico e culturale”. Obiettivo esplicito della rivista, insomma, “non è creare opinione pubblica”, bensì “fare politica, creare lotte, creare organizzazione”. Ripercorrendo con l’aiuto degli autori le diverse fasi del collettivo vediamo S-Contro trasformarsi da semplice gruppo controculturale giovanile a vero gruppo organizzato di redattori-militanti, impegnati direttamente nei principali movimenti politici di quel periodo, dal movimento studentesco del 1985 a quello antinucleare che sarà poi protagonista degli eventi del 10 ottobre 1986 a Trino Vercellese. In seguito, intorno al 1988, S-Contro abbandona la rivista, si apre a interventi politici nel settore del lavoro, e in particolare davanti ai cancelli di Mirafiori, prendendo parte al progetto nazionale di “Politica e Classe”. Infine, con la caduta dell’Unione Sovietica e l’aprirsi di una nuova fase storica, il collettivo si dissolve naturalmente. Per alcuni anni ancora resteranno visibili, sui muri della città, le scritte “S-Contro” accompagnate dal simbolo del martello e del regolo incrociati. Il percorso del collettivo è ricostruito dagli autori del libro attraverso gli strumenti propri della storia culturale e della storia orale. Se la firma è di Gambino e Perrone, i curatori del volume, la voce che da esso emerge è collettiva. Il libro si apre con due capitoli di analisi dell’esperienza di S-Contro e di suo inquadramento storico-sociale, nella conrnice della militanza politica nella Torino post-fordista (uno a firma dello stesso Perrone, l’altro di Salvatore Cominu). Segue un doppio intermezzo musicale: un excursus sulla scena musicale torinese degli anni Ottanta (a cura del critico musicale Alberto Campo), seguita da un’intervista a due suoi esponenti (Oliver e Bruno dei CCC CNC NCN). Infine, la seconda metà del volume riporta una lunga intervista collettiva agli ex-militanti di S-Contro, dove la storia del collettivo viene narrata di nuovo, ma stavolta “dall’interno” e “dal basso”, direttamente dai suoi protagonisti e protagoniste. Questa struttura del libro, al contempo corale e orale, appare riuscita. La prima parte permette un inquadramento storico-culturale fondamentale per apprezzare la seconda parte. Qui, il discorso procede disegnando una spirale, con eventi e nomi che ritornano, ma ogni volta da uno specifico punto di vista, narrati da una voce diversa. Ne risulta una ricostruzione che mantiene vive le contraddizioni e le differenze di vedute (gli s-contri, per l’appunto), mentre la complessità dell’esperienza storica diventa “esperienza unica” contro ogni “immagine eterna del passato”, come raccomanda Walter Benjamin nelle sue Tesi di filosofia della storia. Osservando la Torino degli anni Ottanta attraverso la lente della “microstoria” di S-Contro, il libro permette di esplorare un aspetto ancora trascurato e sottovalutato nella narrazione di quella fase storica: quello della multiforme galassia militante e controculturale, certamente minoritaria, che, nella Torino delle sconfitte operaie, della fine della lotta armata e del riflusso, è comunque rimasta in fermento, navigando controcorrente e provando, malgrado le condizioni avverse, a organizzarsi collettivamente. Dalla lettura emerge una composita cartografia di gruppi, luoghi di incontro e riviste della militanza torinese di quel decennio, con le loro peculiarità, affinità e controversie ideologiche. È un documento di grande interesse: sia per chi ha vissuto quell’epoca in prima persona (e, tramite la lettura, può riviverla e rielaborarla); sia per chi, anagraficamente più giovane, abbia interesse a ricostruire e a comprendere la Torino di quella fase. Proprio in questo secondo senso sembra orientata la nota introduttiva degli autori che presenta il volume principalmente come un ponte verso le giovani generazioni: un passaggio di testimone verso chi prova a remare ancora contro, affinare il senso critico e organizzarsi collettivamente. (lucio serafino)
February 12, 2025 / NapoliMONiTOR
Parco Don Bosco, Bologna. Postumi e repressione
(disegno di martina di gennaro) A un anno dall’inizio del presidio in difesa del parco, e sei mesi dopo il “passo di lato” con cui il sindaco Lepore ha deciso di rinunciare al progetto delle “nuove Besta”, sono ancora giornate piuttosto vive per le creature che si sono mobilitate per impedire la cementificazione di quel fazzoletto di terra proprio sotto i palazzi della Regione, quartiere SanDonato(Bologna), pianeta Terra. A tenerci sveglie e unite in questi strani, caldi giorni della merla non sono più il timore dello sgombero o le chiacchiere sui sogni condivise fino a tardi sotto al telone blu del presidio, ma l’ombra molto tangibile di un brutto mostro che generalmente chiamiamo “Repressione” o “Sbatti Legali”. Chi è SbattiLegali? E in che forma si sta materializzando tra di noi, costringendoci ad adoperarci per cercare di capirlo ed essere in grado di fargli fronte? Dopo mesi passati a confrontarci, cercando di non lasciare indietro nessuna di noi, abbiamo deciso di fare il punto della situazione e provare a dare, per tutti, dei tratti un po’ più definiti a questo signorSbatti. Ecco dunque i risvolti giudiziari con cui abbiamo dovuto e stiamo tutt’ora dovendo fare i conti, comodamente elencati in ordine cronologico a partire dal momento in cui abbiamo avuto notizia della loro esistenza. Saremo un po’ meno simpatiche che in queste prime righe. La prima creatura a essere stata puntata da SbattiLegali è stata quella placcata all’ingresso del Don Bosco da due agenti della polizia municipale il 29 gennaio 2024, giorno in cui un’imprevista folata di vento ha fatto sbocciare nel parco, invece che un cantiere, il noto presidio. Denunciata per resistenza e aggressione a pubblico ufficiale, la creatura non è nemmeno andata a processo, ma ha direttamente ricevuto un decreto penale di condanna a sei mesi di reclusione con pena sospesa, convertibile in pena pecuniaria o lavori socialmente utili, da parte del giudice. Ma siamo solo all’inizio, SbattiLegali stava solo prendendo le misure. La successiva creatura su cui Sbatti ha messo le mani – non solo in senso figurato – è stata Gio, che alle primissime ore del 5 aprile 2024, da solo e inseguito, è stato a sua volta atterrato sul suolo del parco da un nutrito gruppo di carabinieri. Su di lui sono stati usati più volte il taser e lo spray al peperoncino, al punto da dover essere portato via in ambulanza. La mattina stessa Gio è finito davanti al giudice per l’inizio di un processo svoltosi con rito abbreviato e arrivato a conclusione nel corso di tre udienze. L’esito: una condanna a dieci mesi di reclusione con pena sospesa per i reati di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, oltre che tentato furto plurimo aggravato. La violenza fisica esercitata su di lui quella notte, non meno di quella giudiziaria perpetrata nei mesi seguenti, non smette di apparirci indegna e rivoltante. Arriviamo così al 20 giugno 2024, giorno in cui, nel contesto di un’intensa mattinata di scontri per cui il Comitato Besta lamenterà, da parte della polizia, “modalità da G8 di Genova”, quattro creature vengono poste in stato di fermo e tradotte in questura. Ne usciranno dopo parecchie ore con quattro notifiche di apertura indagini (per resistenza aggravata, oltraggio, rifiuto di fornire le generalità a pubblico ufficiale e tentata rapina – per aver afferrato un manganello) e due fogli di via dal comune di Bologna della durata di due e tre anni. Il ricorso per la sospensiva dei fogli di via intentato nei mesi successivi, nonostante l’estrema debolezza e vacuità delle ragioni su cui si basano i due provvedimenti, non ha avuto successo. Questo quanto emerso e subìto nel corso dell’esistenza del presidio. Sarebbe stato bello – e lo diciamo con tutta l’ingenuità del caso – se, terminato “favorevolmente” lo scontro “politico” in difesa del parco, anche sul versante giudiziario si fosse potuto assistere a una sospensione delle ostilità da parte di polizia e procura (nonché, magari, a una presa di posizione da parte del Comune). Così purtroppo non è stato. Verso la fine dell’agosto 2024 vengono notificati a quattordici creature gli avvisi di apertura indagini per una lunga serie di reati riferiti alla giornata del 3 aprile. Quel giorno, con un sollevamento agile, corale e determinato, sciami di creature si sono opposti all’attacco portato sul Don Bosco da decine e decine di poliziotti e dalla ditta in appalto, riuscendo a respingerlo e disinnescando quindi il potenziale sgombero del presidio e la conseguente distruzione del parco. I reati contestati ad alcune delle creature che quel giorno erano tra le linee, riferiti con alcune eccezioni quasi a tutte allo stesso modo, sono i seguenti: 1) omesso preavviso di pubblica manifestazione; 2) resistenza aggravata a pubblico ufficiale in concorso; 3) interruzione di pubblico servizio durante pubblica manifestazione in luogo aperto al pubblico in concorso; 4) lesioni aggravate a pubblico ufficiale in concorso; 5) travisamento durante una pubblica manifestazione; 6) lancio di oggetti durante una pubblica manifestazione; 7) danneggiamento aggravato; 8) violenza privata. SbattiLegali si accanisce con tutta la sua forza, attingendo a tutti gli stratagemmi della sua arte. Il 17 gennaio 2025 vengono quindi ricevuti i primi avvisi di chiusura indagini, che confermano i reati di cui sopra, e rispetto ai quali attendiamo ora che a esprimersi sia, nei prossimi mesi, il giudice per l’udienza preliminare. Non c’è stata necessità di attendere, invece, per l’emissione di un’altra pesante e insensata misura di polizia preventiva: tre Daspo da stadio ad altrettante creature, appioppati sempre in relazione alle vicende del 3 aprile. La misura è già di per sé nuova e sorprendente perché assegnata “fuori contesto”, ovvero a partire da eventi che nulla hanno a che fare con dinamiche legate al tifo sportivo. Al divieto di andare allo stadio si somma inoltre l’obbligo di firma in questura in concomitanza con le partite – in casa e in trasferta, amichevoli e non – del Bologna, e questo per due volte a partita. Tradotto nel vocabolario di Sbatti: una media di quattro firme in questura a settimana per essersi opposti a un progetto di cementificazione di un’area verde sotto casa, senza nemmeno ancora essere andati a processo. Tutto qui? Quasi! Non poteva mancare infatti un’ulteriore stoccata rispetto ai fatti del 20 giugno, per i quali nelle ultime settimane il signor Sbatti ha sfoderato una nuova serie di notifiche di apertura indagini a un numero di creature ancora da precisare. Anche a loro, comunque, si contesta più o meno la solita sequela di reati, e in particolare i primi tra quelli riportati sopra. Non ci facciamo illusioni: se fino a ora il trattamento che ci hanno riservato è stato questo non ci aspettiamo sconti. Nelle conseguenze legali che iniziano a prefigurarsi e materializzarsi per alcune delle creature che in tutte queste occasioni si sono fatte trovare, per fortuna e per convinzione, dove il signorSbatti non avrebbe voluto che fossero, emerge forte uno degli aspetti più subdoli e contradditori di Repressione: riuscire a impedire la chiusura di un parco, mantenerlo vivo con la propria presenza, battersi per lunghe ore contro decine e decine di poliziotti armati e ipereccitati, mobilitarsi insieme per un obiettivo comune che finisce per avere la meglio sulle mire devastatrici della giunta… ecco, tutto questo ha un costo. Non solo il costo immediato, fisico e psicologico del confronto sul campo, ma anche quello dilatato, economico, nervoso e sociale di doversi vedere indagate, imputate e processate proprio per quelle azioni che hanno portato all’ottenimento del risultato sperato, e messo in scacco la brama ecocida dell’amministrazione. Lo diciamo chiaramente: quello che oggi ci viene contestato è quello che ieri ha fatto sì che il Don Bosco potesse rimanere aperto, vivo e libero. Quello che ha fatto sì che ditta e polizia dovessero desistere dai loro intenti, riporre motoseghe e manganelli, ritirarsi indispettiti al cospetto di una resistenza che non erano stati in grado né di prevedere né tantomeno di fronteggiare adeguatamente. Così, Sbatti vorrebbe dirci che la lotta costa: costa i bolli allo Stato e le parcelle degli avvocati, l’allontanamento da Bologna, gli obblighi di firma in questura e il rischio di mesi o anni di condanne. Noi diciamo invece che la lotta paga: paga la permanenza di un polmone verde in una città sempre più grigia e inquinata, e vogliamo che paghi anche la libertà per tutte le persone colpite dalla repressione. A partire da settembre 2024, il gruppo di creature che ha portato avanti la resistenza ha continuato il suo impegno incontrandosi regolarmente, mettendo in piedi un’assemblea antirepressione che potesse occuparsi, attraverso le stesse pratiche messe in atto al parco, di tutti gli accolli legati a SbattiLegali: dalla necessità di comprendere i fogliacci del potere giudiziario a quella di organizzare la raccolta fondi necessaria a – detta come tristemente è – “pagare la lotta”. Sono così state necessarie, oltre alle assemblee, il lancio di una raccolta fondi online che oggi giunge al termine, numerosi banchetti in diversi contesti cittadini e una nutrita serie di eventi in giro per la penisola, in solidarietà con le nostre vicende e con la necessità di far fronte a spese legali che stimiamo di decine di migliaia di euro. Sul peso e le responsabilità politiche di tutto ciò qui non ci soffermeremo – d’altra parte, questo voleva essere solo un bollettino relativo a una serie di vicissitudini giudiziarie che ci riguardano. Teniamo invece a chiudere questo testo ringraziando tutte le persone, i gruppi, i collettivi e le realtà che in questi mesi ci hanno mostrato vicinanza, affetto e sostegno. Sono le oltre duecento persone che hanno donato online, ma sono anche quelle centinaia e migliaia che, a partire dall’inizio del presidio ma non solo, hanno continuato a nutrire quella comunità vasta, diffusa e resistente che crede in un mondo profondamente diverso. Profondo quanto le radici degli alberi del parco, diverso quanto un parco da un palazzo del potere. (le creature del don bosco)
February 11, 2025 / NapoliMONiTOR