(disegno di mattia vincenzo abbruzzese)
Sembra un mosaico in accurata composizione, tassello dopo tassello per
rafforzare il potere di chi lo esercita e silenziare la voce di chi lo subisce.
Nelle carceri italiane, il tasso di sovraffollamento ha superato il 133 per
cento nel giugno 2025: Milano San Vittore ha raggiunto il 220 per cento, Foggia
il 212. Secondo il ministero della giustizia, tra gennaio e giugno si sono
registrati trentasei suicidi, cui si sommano i novantuno del 2024, triste record
assoluto nella storia penitenziaria. È il segno di un sistema al collasso, dove
i corpi diventano esuberi amministrativi e la dignità si riduce a statistica.
Di fronte a tutto ciò, l’istituzione deputata a garantire trasparenza nei luoghi
di privazione della libertà è oggi muta. Il Garante nazionale dei diritti delle
persone private della libertà, istituito a seguito della sentenza Torreggiani
nel 2013, è attualmente presieduto da Riccardo Turrini Vita: magistrato e
dirigente di lungo corso del ministero della giustizia, con una carriera
soprattutto nel dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Turrini Vita è
stato nominato nell’ottobre 2024 su proposta del ministroNordio, con delibera
del consiglio dei ministri, affiancato da Irma Conti e Mario Serio. Tuttavia, la
relazione annuale al parlamento non è ancora stata presentata dall’attuale
collegio, anzi l’ultima risale addirittura al 2023 (sotto la gestione di Mauro
Palma). Il garante non effettua inoltre ispezioni non annunciate ed è stato
segnalato da avvocati e associazioni come difficilmente raggiungibile dai
detenuti, i quali inviano istanze e comunicazioni senza ricevere risposta.
A giugno 2025 Michele Passione, storico legale del garante, e le avvocate Maria
Brucale, Antonella Calcaterra e Giovanni Rossi, psichiatra e membro esperto,
hanno lasciato il loro incarico. La decisione è maturata, da parte di tutti, di
fronte a un contesto sempre più impermeabile all’ascolto e al confronto.
Passione ha motivato così la sua scelta, in una dichiarazione pubblica: “Se non
entri nei luoghi della detenzione, se non guardi, non puoi nemmeno vedere cosa
sta succedendo. Io mandavo report, segnalavo, ma nessuno rispondeva. Quando il
garante smette di ascoltare, è finita”. Sempre Passione ha rilevato come,
dall’inizio del mandato, l’attuale garante “non abbia mai effettuato visite nei
centri per migranti in Albania, né svolto alcun monitoraggio dei voli di
rimpatrio”. Per quanto riguarda le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure
di sicurezza), strutture che ospitano persone sottoposte a misure detentive per
motivi psichiatrici, risulta che nel primo semestre del 2025 sia stata
effettuata soltanto una visita ufficiale, il 30 gennaio, a Rieti. Un dato che
lascia perplessi sulla continuità e sull’effettiva incisività dell’attività di
monitoraggio in luoghi tanto delicati.
Anche il governo, intanto, posizionava i suoi tasselli. Il Decreto sicurezza
(Dl 48/2025), convertito in legge il 9 giugno 2025, prevede all’articolo 22 un
fondo per coprire le spese legali degli agenti di polizia penitenziaria e delle
forze dell’ordine indagati per atti commessi durante il servizio. Il rimborso
può arrivare fino a diecimila euro per ciascuna fase del procedimento penale,
comprese le indagini preliminari: un vero e proprio scudo legale a favore degli
imputati pubblici ufficiali. Contestualmente, il decreto introduce il reato di
“rivolta carceraria”, estendendo la resistenza passiva (incluse la battitura
delle sbarre e lo sciopero della fame) a una fattispecie punibile con la
reclusione da sei mesi a cinque anni. Si aggiungono aggravanti per le
manifestazioni “dentro e fuori le stazioni ferroviarie e della metropolitana”,
una nuova disciplina sulla detenzione di materiale “propedeutico al terrorismo”
punita con reclusione da due a sei anni anche in assenza di reati collegati, e
restrizioni all’accesso a misure alternative per le detenute madri. La Corte di
Cassazione, nella Relazione n. 33/2025 (23 giugno 2025), ha mosso critiche
durissime al provvedimento. Ha rilevato l’assenza dei presupposti di necessità e
urgenza per il ricorso al decreto legge, denunciandone l’eterogeneità,
l’approccio repressivo e la vocazione simbolica, definendolo una forma di
“ipertrofia penalistica” che rischia di criminalizzare anche le proteste non
violente. Secondo la Suprema Corte, il decreto non solo punisce l’intenzione più
che l’atto, ma compromette anche l’equilibrio tra accusa e difesa, il principio
di proporzionalità, il divieto di trattamenti inumani o degradanti, e il diritto
alla libera manifestazione del pensiero. Pochi giorni dopo, il 25 giugno 2025,
Matteo Salvini ha annunciato in conferenza stampa alla Camera l’intenzione di
proporre una modifica dell’articolo 613 bis del Codice Penale, che disciplina il
reato di tortura, introdotto con la legge 110/2017 dopo la condanna dell’Italia
da parte della Corte europea dei diritti umani per i fatti del G8 di Genova, in
particolare per le violenze alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto.
Salvini ha dichiarato che il reato di tortura dovrebbe essere modificato per
permettere alla polizia penitenziaria di svolgere il proprio lavoro senza
rischiare accuse ingiustificate. Ha sottolineato che gli agenti penitenziari
sono spesso etichettati come “aguzzini e torturatori” senza motivo.
Se Mario Serio, componente del collegio del garante nazionale, ha dichiarato che
“il garante continuerà a costituirsi in giudizio contro le forze di polizia
accusate di maltrattamenti e tortura”, Michele Passione, a cui è stato richiesto
un commento sul punto, ha precisato: “Quanto alla volontà dichiarata di
proseguire nell’attività processuale del garante, a oggi non posso affermare con
certezza che siano stati nominati nuovi avvocati. Posso solo rilevare che, dopo
la mia rinuncia, ho continuato a ricevere notifiche dalle autorità giudiziarie
presso le quali ero parte civile. Sembrerebbe quindi che non sia stata ancora
depositata una nuova nomina: per legge, infatti, il difensore della parte civile
è domiciliatario. Alle date in cui ho ricevuto le notifiche, quindi, un nuovo
difensore non era stato probabilmente nominato”.
Il 6 aprile 2020, a Santa Maria Capua Vetere, telecamere interne all’istituto
riprendevano un vero e proprio raid punitivo condotto da quasi trecento agenti
penitenziari. Durante questo raid centosettantasette detenuti furono pestati,
insultati, denudati e umiliati. L’inchiesta ha indagato su centoventi persone e
portato all’emissione di cinquantadue misure cautelari, ma l’attenzione pubblica
si è velocemente dissolta. A Foggia, l’11 agosto 2023, dieci agenti aggredivano
e picchiavano due detenuti per oltre mezz’ora: uno di loro soffriva di una grave
patologia psichiatrica. L’indagine, supportata da video e testimonianze interne,
ha portato a quattordici ordinanze cautelari nel marzo 2024. Nel 2025, la
Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per tortura, concussione e falsità
ideologica, evidenziando coperture sanitarie e tentativi di insabbiamento.
Non si tratta di episodi isolati. A San Gimignano, il 9 marzo 2023, il Tribunale
di Siena ha condannato cinque agenti della polizia penitenziaria a pene tra
cinque anni e dieci mesi e i sei anni e sei mesi per tortura, falso e minaccia
aggravata. I fatti risalivano all’ottobre 2018, quando un detenuto tunisino era
stato brutalmente pestato. La sentenza ha riconosciuto non solo la violenza
sproporzionata, ma anche il tentativo sistematico di copertura dell’accaduto. La
Corte d’Appello di Firenze ha successivamente confermato tutte le condanne,
sebbene cinque imputati abbiano ricevuto uno sconto di pena. Ancora – ma si
potrebbe andare avanti a lungo – nel febbraio 2025 il Gup di Reggio Emilia ha
condannato dieci agenti di polizia penitenziaria per il pestaggio di un detenuto
tunisino avvenuto il 3 aprile 2023 nel carcere della Pulce. In quel caso il
reato di tortura non è stato riconosciuto, e le condanne per abuso di autorità,
lesioni e falso ideologico sono variate da quattro mesi a due anni (nonostante
ciò, l’impianto accusatorio ha mostrato pratiche di violenza istituzionale
reiterata, perseguibili solo grazie alla legge 110/2017, oggi sotto attacco).
Alla violenza fisica si accompagna una crescente medicalizzazione della
custodia. Il XXI Rapporto di Antigone (Senza Respiro, presentato il 29 maggio
2025) ha rilevato che il quarantaquattro per cento dei detenuti assume sedativi
o ipnotici, mentre il venti per cento fa uso di stabilizzanti dell’umore,
antidepressivi o antipsicotici, spesso in assenza di una diagnosi psichiatrica
formale. Il fenomeno è particolarmente allarmante nelle carceri minorili, dove
il consumo di psicofarmaci è aumentato drasticamente (del sessantaquattro per
cento all’istituto di Torino e del trecento cinquantadue per cento a Nisida,
rispetto al 2022) Nei reparti per l’“osservazione psichiatrica” sono state
documentate prassi come l’isolamento prolungato per settimane, la sedazione
forzata e la contenzione meccanica. Secondo le linee guida delle Nazioni Unite e
le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt),
tali pratiche possono configurare trattamenti inumani o degradanti. In istituti
come Poggioreale e Vigevano il Cpt ha segnalato la totale assenza di
monitoraggio esterno, l’uso di farmaci senza consenso informato e gravi lacune
nella documentazione degli episodi di contenzione, compromettendo ogni forma di
trasparenza e tutela.
L’approccio segregativo e le pratiche torturatorie si estendono sempre più anche
all’esterno dei luoghi carcerari “tradizionali”. Da gennaio 2025, l’Italia ha
avviato i primi trasferimenti di migranti irregolari nei Cpr albanesi costruiti
a Shëngjin e Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale del 6 novembre 2023.
Queste strutture, gestite con appalti diretti e contratti blindati, sono
collocate fuori dal territorio nazionale: secondo la narrazione governativa, ciò
le escluderebbe dalla giurisdizione italiana. La Corte di Cassazione, con
l’ordinanza n. 23105 del 20 giugno 2025, ha stabilito che i centri albanesi sono
“formalmente e sostanzialmente sottratti alle garanzie giurisdizionali
italiane”, in violazione della Direttiva 2008/115/CE e della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea. La Suprema Corte ha inoltre sollevato due
questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, affermando
che il trattenimento nei Cpr albanesi rappresenta “una forma di detenzione
extragiudiziale in territorio straniero, priva delle tutele minime previste dal
diritto europeo”.
Secondo quanto riportato dall’Asgi, nei primi sei mesi del 2025 oltre
centoventicinque migranti sono stati trasferiti nei Cpr albanesi di Shengjin e
Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale siglato tra Italia e Albania.
Diverse autorità giudiziarie italiane, tra cui i giudici di pace di Roma,
Bologna e Catania, hanno successivamente disposto il rilascio immediato di
alcuni richiedenti asilo, ritenendo il trattenimento “giuridicamente nullo” per
l’assenza di tutele legali e giurisdizionali. Il 3 luglio 2025 la Corte
Costituzionale (con la sentenza n. 96/2025) ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale della disciplina del trattenimento nei Cpr, per violazione
dell’articolo 13 della Costituzione. La Consulta ha rilevato che la privazione
della libertà personale nei centri per il rimpatrio avviene sulla base di una
norma, l’articolo 14, comma 2 del Testo Unico Immigrazione, che non definisce
con sufficiente precisione i modi del trattenimento, rinviando a fonti
secondarie e a prassi amministrative, in violazione della riserva assoluta di
legge in materia di libertà personale. La Corte ha inoltre sottolineato che
l’attuale disciplina non garantisce un controllo giurisdizionale effettivo e
continuo, come imposto dall’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo (Cedu), che tutela ogni persona da forme di detenzione amministrativa
arbitrarie. In assenza di una normativa primaria che disciplini condizioni,
durata e modalità del trattenimento, questo si configura come un assoggettamento
fisico all’altrui potere, potenzialmente lesivo della libertà personale e privo
delle necessarie garanzie di legge. Sono state inoltre sollevate (anche se
dichiarate inammissibili) questioni relative alla violazione degli articoli 24 e
111 della Costituzione, in particolare per la mancata effettività del diritto
alla difesa, l’assenza di informazioni chiare sui diritti del trattenuto e le
difficoltà nell’accesso a un avvocato e nel ricorso contro il trattenimento. La
Corte ha ritenuto inoltre non scrutinabili le questioni relative alla violazione
dell’articolo 3 della Costituzione, che denunciavano una disparità di
trattamento rispetto al regime carcerario ordinario. Nel merito, va
sottolineato, non ha fornito una disciplina sostitutiva, ma ha rivolto un
preciso monito al legislatore: in mancanza di un intervento normativo che
regolamenti in modo chiaro il trattenimento nei Cpr quanto a modalità, durata,
condizioni materiali e garanzie giurisdizionali, la misura risulta
costituzionalmente inammissibile.
È chiaro, tuttavia, che un intervento meramente giurisdizionale non può essere
sufficiente davanti a un mosaico che si compone e ricompone di continuo. Un
garante che non parla, una legge che protegge chi picchia, un decreto che
finanzia la difesa degli imputati in divisa, una riforma che sterilizza il reato
di tortura, una giurisdizione che si dissolve verso strutture extraterritoriali:
tutto è coerente con l’obiettivo di silenziare la denuncia, ridurre al minimo le
garanzie, garantire l’impunità e normalizzare l’eccezione. È il passaggio dalla
giustizia alla gestione, dal diritto alla forza, e non è solo una crisi: è una
precisa scelta politica. Di fronte a un sistema che si regge sulla paura e
sull’opacità, il rischio non riguarda solo i detenuti, i migranti o i marginali:
è un rischio per tutti, e per gli equilibri democratici generali, perché quando
il potere si protegge dalla legge e non con la legge, la libertà smette di
essere un principio, e diventa un privilegio. (luna casarotti – yairaiha ets)
Source - NapoliMONiTOR
Cronache, libri, disegni e reportages
(disegno di adriana marineo)
Si susseguono da giorni le notizie di indagini e arresti per personaggi noti
della politica e dell’imprenditoria milanese, culminate questa mattina con
quelle che riguardano il sindaco Beppe Sala, indagato nell’ambito della maxi
inchiesta sull’urbanistica nella capitale lombarda, per la quale già sei arresti
sono stati richiesti.
Per quanto concerne il primo cittadino, le ipotesi di reato sono di false
dichiarazioni su qualità proprie o di altre persone (relativamente alla nomina
del presidente della Commissione per il paesaggio del Comune, Giuseppe Marinoni)
e di induzione indebita a dare o a promettere utilità (intorno al progetto del
cosiddetto Pirellino, dell’architetto Stefano Boeri e dell’imprenditore Manfredi
Catella, presidente del gruppo Coima).
Proprio Manfredi Catella, costruttore e principale artefice dello sviluppo del
nuovo profilo urbano milanese, era tra le persone per le quali era già stato
chiesto l’arresto ieri. Gli altri sono l’assessore alla rigenerazione urbana del
comune di Milano Giancarlo Tancredi, l’ex presidente della commissione
paesaggio, Giuseppe Marinoni, Federico Pella della J+S spa, Alessandro
Scandurra, della Commissione paesaggio ma anche consulente di Coima, e Andrea
Bezziccheri, della società Bluestone.
Sulle vicende politico-giudiziarie dell’urbanistica milanese, di cui ampiamente
abbiamo scritto, vi proponiamo l’ultimo articolo in ordine di tempo, scritto da
Lucia Tozzi e pubblicato sul numero 14 (maggio 2025) de Lo stato delle città.
* * *
La rilevanza politica delle vicende dell’urbanistica milanese – il particolare
modello di turbocapitalismo immobiliare-finanziario che è stato messo in atto,
le proteste prima sommesse poi sempre più incalzanti dei cittadini, le
inchieste, la legge Salva Milano e gli eventi che si susseguono da allora – è,
a gran torto, molto sottovalutata.
La vera posta in gioco non è certamente quella di natura giudiziaria. Le
eventuali condanne dei vari soggetti inquisiti – funzionari di diverso livello,
professionisti, imprese, ma non i politici che hanno concepito e alimentato le
politiche filo-immobiliari – faranno il loro corso, e forse costituiranno una
spinta per mobilitare finalmente quella parte di popolazione che non riesce a
leggere le ingiustizie sociali se non alla luce del discrimine tra legalità e
illegalità. Tuttavia, le indagini hanno avuto una funzione importantissima:
sono state il perno tra i confitti sollevati dai comitati e dai movimenti e una
percezione più diffusa, a Milano e in Italia, del sostrato profondamente
malsano e classista, in ultima analisi produttore di diseguaglianza, del
cosiddetto Modello Milano. Scaturite da una serie di esposti presentati dagli
attivisti, le inchieste dei giudici hanno contribuito a fornire le prove
materiali non solo delle irregolarità di molti cantieri, ma soprattutto
dell’iniquità strutturale della crescita urbana per come è oggi concepita. Un
sistema modellato sulla massima valorizzazione della rendita fondiaria, che
impone una trasformazione fisica non solo escludente perché orientata al lusso,
ma anche slegata dalla reale necessità di crescere (esistono abbastanza edifici
vuoti da soddisfare la domanda abitativa, lavorativa e per i servizi) e
funzionale alla concentrazione della ricchezza nelle mani di gruppi sempre più
ristretti: costruttori, ricchi proprietari, studi d’affari e consulenza, finanza
immobiliare e non.
I casi di questi palazzi o grattacieli spuntati in mezzo ai cortili o sul bordo
dei parchi, al posto di piccoli box o magazzini, non sono eclatanti in quanto
ecomostri (alcuni lo sono, ma non è la cosa più grave), bensì perché il modo
in cui sono stati prodotti è l’avanguardia di un metodo che si sta tentando di
generalizzare, di estendere a tutta Italia. In poche parole, si è costruito
senza lunghi iter di approvazione, aggirando l’obbligo di realizzare i servizi
per il quartiere che l’arrivo di nuovi abitanti richiede, cioè raccogliendo
altissimi profitti in punti pregiati della città senza pagare quella parte di
tasse e standard che la legge obbliga a restituire alla città stessa, e
invadendo lo spazio urbano senza sottoporsi a quelle verifiche che il processo
democratico e le norme vigenti obbligano ancora (per fortuna, e direi non
abbastanza) a rispettare.
Se si trattasse di una dozzina o poco più di edifici presunti abusivi sarebbe
ancora un fatto insignificante, ma questi sono solo la punta dell’iceberg di una
pratica di densificazione diffusa (si parla di centinaia di situazioni
analoghe), e sono l’effetto non di singole trasgressioni, ma di un meccanismo
che è stato politicamente incoraggiato e alimentato a più livelli. Sono stati
pensati e applicati cavilli interpretativi degni della più perversa mentalità
burocratica per distorcere leggi urbanistiche chiare e comprensibili e volgerle
a favore degli immobiliaristi e della rendita, chiamando questi barocchi
palinsesti giuridici “semplificazioni”. Prima sono stati attribuiti eccessivi
sconti sulle tasse e premi in cubatura a lavori che ristrutturassero gli edifici
esistenti, invece di abbatterli e sostituirli, teoricamente per la buona ragione
di limitare le nuove costruzioni e il loro insostenibile impatto ambientale e
sociale sulla città. E poi si è provveduto a estendere la definizione di
ristrutturazione a operazioni di abbattimento e ricostruzione di edifici anche
completamente diversi, molte volte più voluminosi di quelli precedenti.
Con questi e altri strumenti si è creato quel paradiso fiscale, quello stato
d’eccezione immobiliare che ha reso così facile e conveniente investire a
Milano, a scapito sia dei territori concorrenti che dei cittadini milanesi che
hanno perso, si calcola, almeno due miliardi di euro in mancati introiti.
Il lavoro di disvelamento operato dalle indagini, quindi, è stato ed è
fondamentale per portare allo scoperto non solo e non tanto gli episodi di
corruzione e truffa che pure sono emersi, quanto le dinamiche complesse e le
conseguenze materiali di quella facilitazione degli interessi privati che è
incarnata nell’idea e nella pratica della “rigenerazione urbana alla milanese”.
Il disagio abitativo, dall’epidemia di sfratti agli studenti con le tende, aveva
già reso palpabile il lato oscuro che la neolingua delle politiche inclusive
tentava di coprire. Ma fino a ora è stato abbastanza facile per la classe
dirigente sostenere che si trattasse solo di esternalità negative di un
processo di crescita virtuoso e insostituibile: la rigenerazione urbana, secondo
la loro lettura, è lo strumento che serve per concretizzare il diritto alla
città. Poi, purtroppo, l’eccesso di attrattività crea un desiderio troppo
diffuso per la città rigenerata e alcuni restano fuori.
Quello che è emerso mostra invece inequivocabilmente che gli effetti erano
previsti, facevano parte delle premesse: Milano doveva diventare una città
Alpha, competere nella gara globale per attrarre gli investimenti più succosi,
strapparli a città come Hong Kong, Londra e Singapore. Doveva costruirsi una
reputazione nuova, allontanare i poveri, costruire i primi edifici di lusso per
poi rimpiazzare zona per zona case popolari, servizi pubblici, spazi aperti con
ambienti pittoreschi che combinassero un’immagine smart, pseudo green e dedita
al consumo.
Una gigantesca sostituzione, una modifica del Dna urbano e delle vecchie regole
urbanistiche e amministrative che garantivano ancora un regime moderatamente
redistributivo, legato al welfare, alla manutenzione, all’accoglienza e al
benessere dei cittadini. Rimuovere gli ostacoli di ordine giuridico a un nuovo
modello di crescita urbana fondato sulla concentrazione della ricchezza nelle
mani della finanza e del blocco immobiliare, sulla massimizzazione della
rendita, è un punto cruciale dell’agenda neoliberale, come argomenta, tra gli
altri, Antonio Calafati, commentando i fatti di Milano e mettendoli in relazione
con un Manifesto for renewing liberalism pubblicato nel 2018 dall’Economist:
“Nel Manifesto c’è in evidenza un tema che contraddistingue il paradigma
neoliberale sin dalle origini, sin da quando nella Vienna degli anni successivi
alla prima guerra mondiale gli economisti del Mises-Kreis iniziavano a
definirlo: la pianificazione urbanistica deve essere sostituita dal mercato come
dispositivo di regolazione della morfologia fisica della città”.
La conferma che non si trattava di incidenti, eccezioni, ma della prima fase di
un progetto politico più ampio, mirato a erodere quelle leggi urbanistiche che
ancora impongono a livello nazionale dei processi di controllo democratico sulla
trasformazione spaziale, è leggibile nelle reazioni scomposte alle indagini.
Media, politici, costruttori e funzionari milanesi hanno immediatamente lanciato
una ricattatoria campagna d’allarme per il rischio di una paralisi dei cantieri,
degli investimenti e dell’economia in generale. Nello stesso tempo hanno
elaborato, insieme alla presunta controparte governativa, una legge (la
famigerata Salva Milano) che non condonava gli eventuali abusi, ma si poneva
come “interpretazione autentica” del complesso di leggi urbanistiche e edilizie
in vigore. Era un modo per negare ogni accusa di irregolarità e soprattutto per
portare a termine con velocità insperata un colpo pazzesco: si sarebbe potuto
estendere a tutta Italia la rigenerazione alla milanese, legalizzando questa
forma di ingiustizia sociale e spaziale per l’intera cittadinanza.
Per fortuna questa soluzione era talmente insostenibile da destare, finalmente,
l’attenzione di costituzionalisti e urbanisti, attivisti, giornalisti e politici
anche al di fuori di Milano. Ma se la possibilità di fare approvare la legge
Salva Milano si è fortunatamente assottigliata, l’essenza dei suoi contenuti
rischia di passare attraverso una vera e propria riforma urbanistica – la legge
sulla Rigenerazione urbana – e una modifica al Testo Unico sull’edilizia. Una
larga fetta del mondo professionale legato all’immobiliare, così come i sindaci
e gli amministratori del resto d’Italia (anche per bocca del loro rappresentante
Anci, Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli) hanno dato il loro appoggio alla
Salva Milano, mostrando di condividerne lo spirito e la sostanza.
Non è difficile immaginare i motivi per cui una classe politica come quella che
ci ritroviamo – sia a destra che a sinistra appiattita sull’orizzonte
neoliberale – veda di buon occhio la fine della pianificazione pubblica e la
dissoluzione delle ultime responsabilità della pubblica amministrazione. Più
inspiegabile invece è la scarsa attenzione che la questione riceve nel mondo
dell’attivismo, dei movimenti, persino quelli per la casa.
Dovrebbe essere ormai evidente che, se il capitale finanziario impiega così
tanta energia per cambiare le leggi che ostacolano la propria libertà di azione
nell’appropriarsi delle città, allora difenderle è essenziale. Di sicuro non
è sufficiente per trasformare una situazione che precipita verso la guerra e
forme di diseguaglianza radicale, ma è un passaggio indispensabile per chi
cerca di invertire i processi di distruzione climatica e territoriale, di
mercificazione della cultura e del lavoro sociale. Se si cancellano i vincoli
che ancora impongono alla trasformazione del territorio una funzione orientata
all’interesse pubblico, l’impatto della rigenerazione sulle classi svantaggiate
sarà sempre più violento. Gli sfratti, le espulsioni, la dissoluzione della
dimensione pubblica e gratuita degli spazi aumenterà, mentre si ridurranno le
condizioni anche fisiche per lottare ed esprimere il dissenso.
La Milano di questi giorni sta assistendo incredula a due nuovi risvolti della
crisi urbanistica: il primo è la svendita dello stadio di San Siro alle due
società Milan e Inter, che il sindaco sta conducendo come una furia a dispetto
del clima di sfiducia politica e di cinque anni di opposizione da parte di
comitati e attivisti. Il secondo è la lacrimosa protesta delle centinaia di
famiglie coinvolte nell’acquisto degli appartamenti di lusso o semi-lusso
bloccati dalle inchieste giudiziarie, che invocano l’approvazione della legge
Salva Milano per salvare i loro improvvidi investimenti. Due figure, quella del
potere autoritario che persegue il progetto del capitale fino al suicidio, e
quella dell’interesse proprietario che non vede altro all’infuori di sé, che
lavorano in combutta per richiudere in fretta la finestra di conflitto, critica,
ragionevolezza che si è aperta contro la rigenerazione urbana.
Le forze che tramano per il ritorno al business as usual, alla cura
dell’immagine, a quell’ottimismo crudele che ci distrae mentre chi comanda
lavora indisturbato alla nostra rovina, sono molte: i grandi eventi come
giubilei, olimpiadi, giù giù fino alle biennali, i saloni, i festival e le
città della cultura; la ruota del criceto dell’economia turistica; i fondi che
ci stanno spogliando del welfare, dello spazio vitale, delle risorse e delle
leggi che ci tutelano; gli intellettuali venduti alla guerra e allo squallore
delle loro miserabili quote di prestigio; l’esercito della comunicazione, che
non sopporta l’emersione nelle coscienze del piano materiale e si adopera per
offuscare la vista e contaminare il linguaggio appena un lembo del velo si
solleva. Non lasciamoglielo fare.
(archivio disegni napolimonitor)
“Stai dando a un’organizzazione il permesso implicito di essere complice del
genocidio in Palestina, per poi fare donazioni a chi riesce a sopravvivere. Non
ha davvero alcun senso ed è profondamente ipocrita. Hai potere nell’industria e
potresti usare il tuo privilegio con intelligenza. Stai facendo una stronzata!”.
“Hai passato così tanto tempo a suonare in Israele e il pubblico ti ha dato
tutto il supporto e il rispetto di cui avevi bisogno. È triste e deludente
vedere che non dici una parola sugli ostaggi israeliani o sulle persone
innocenti uccise al festival musicale Nova. Vergognati!”.
“Ecco un artista con le palle! Finalmente!”.
Alla fine di maggio 2025, questi tre commenti dai toni decisamente divergenti
sono apparsi sotto lo stesso post Instagram. E non sono stati gli unici. In
poche ore, il comunicato di Dixon, nome di punta della scena techno e house
berlinese, di commenti ne ha raccolti oltre tremila. Il post, molto atteso dai
fan e dalla comunità EDM in generale, riguardava la sua partecipazione al Field
Day, festival elettronico previsto per il 4 giugno a Brockwell Park, Londra,
dove sarebbe stato uno degli headliner insieme a Peggy Gou.
In quei giorni il Field Day era sulla bocca di tutti. Una lettera aperta firmata
da duecentotrenta artisti – tra cui Ben Ufo, Brian Eno e Robert del Naja – aveva
chiesto una presa di posizione forte da parte del festival contro il genocidio
in Palestina e l’aderenza alle linee guida del BDS. La mancata risposta del
Field Day, diventata poi tardiva, e, secondo molti, rimasta insufficiente, aveva
convinto diversi artisti a passare all’azione. Nelle tre settimane precedenti al
festival la line up del Field Day si era letteralmente dimezzata, con oltre
venti artisti che hanno scelto di ritirarsi. Proprio mentre le cancellazioni
iniziavano a prendere piede, Dixon ha pubblicato un post per confermare il
proprio set, annunciando che avrebbe devoluto interamente il proprio cachet a
un’organizzazione umanitaria attiva nella Striscia di Gaza. La scelta di Dixon
ha scontentato molti, e per ragioni evidentemente opposte. Alla fine, pur
decimato nella line up, il festival si è svolto regolarmente. Ma qual era il
problema del Field Day?
Dopo una quindicina di edizioni in crescita, nel 2023 Field Day è passato sotto
la proprietà di Superstruct Entertainment, una società britannica attiva nella
produzione di festival musicali diventata in pochi anni un gigante del settore.
Dalla sua fondazione nel 2017, Superstruct ha condotto un’aggressiva campagna di
acquisizione, inglobando oltre ottantacinque cosiddetti macrofestival, tra cui
Szieget (Ungheria), Mighty Hoopla (UK), Parookaville (Germania),
Øyafestivalen (Norvegia), Hideout (Croazia), Flow Festival (Finalndia), Zwarte
Cross (Olanda) e dozzine di altri. Insomma, che siate animali da festival o
semplicemente avete viaggiato per ascoltare dal vivo i vostri artisti preferiti
negli ultimi anni, è molto probabile che abbiate fatto tappa anche voi a un
evento targato Superstruct.
Il passaggio non è stato traumatico come ci si potrebbe aspettare. Nella maggior
parte dei casi, l’acquisizione ha riguardato non solo il marchio e le licenze,
ma anche l’intero team di produzione dietro i singoli festival, assicurando
continuità alle scelte artistiche e consolidando il lavoro fatto negli anni con
una generosa iniezione di capitale. La campagna acquisti di Superstruct si è
fatta più serrata nel post-pandemia, quando molti festival di successo erano
sull’orlo della bancarotta. In quel periodo, il passaggio a una compagnia con
grosse disponibilità finanziarie è stato visto da molti addetti ai lavori come
un’ancora di salvezza – o una strada obbligata – per un comparto devastato da
due anni di cancellazioni, incertezze e contributi statali insufficenti.
Insomma, fin qui niente di nuovo. It’s capitalism, baby.
I problemi veri iniziano nel giugno 2024, quando Superstruct Entertainment viene
comprata per 1.7 miliardi di dollari da Providence Equity Partners L.L.C., a sua
volta parte di Kohlberg Kravis Roberts & Co – meglio noto come KKR, dai nomi dei
tre fondatori. KKR è un fondo fiduciario a stelle e strisce con cinquemila
dipendenti, sedi in una ventina di paesi e un portafoglio di investimenti
stimato poco sopra i settecento miliardi di dollari. Come è lecito aspettarsi,
un fondo di questo tipo non è un esempio di finanza etica. KKR investe
letteralmente in tutto il pianeta e in qualunque cosa possa generare profitti:
telecomunicazioni e sanità, energie rinnovabili e sviluppo software, raccolta
differenziata e costruzioni. E anche nella pulizia etnica.
In Israele, KKR detiene quote di società operanti nel settore della
cybersicurezza, dell’elaborazione dati e della produzione di armi. È anche
azionista di maggioranza in una cordata di compagnie che offrono e pubblicizzano
investimenti immobiliari nei territori occupati. Il corto circuito è servito: un
comparto che lavora offrendo esperienze culturali e ricreative orientate (almeno
sulla carta) alla promozione della diversità, della tolleranza e della pacifica
convivenza si ritrova dalla sera alla mattina tra gli asset di un conglomerato
che letteralmente investe nel genocidio. Come in un gioco di matrioske, nella
più piccola c’è il tuo dj preferito – ma la più grande è sporca di sangue.
Dopo il Field Day, l’attenzione si è concentrata sulla Spagna. Qui il dibattito
è cresciuto per diversi motivi. In primo luogo, Superstruct in Spagna ha fatto
man bassa, acquisendo oltre venti dei festival più amati, tra cui Sónar, Viña
Rock, Resurrection Fest, Monegros, Arenal Sound e FIB. In secondo luogo, il
sostegno alla causa palestinese nel paese è forte e trasversale, e include
(almeno in parte) anche il governo in carica. Infine, i festival in questione
non hanno solo un notevole peso economico, ma sono parte integrante
dell’identità di un paese che nel giro di trent’anni ha visto crescere la
produzione culturale, la qualità della vita e i diritti civili – seppur con
tutte le contraddizioni del caso; e che dalla sera alla mattina si ritrova alle
dipendenze di un fondo che fa profitti col genocidio.
Il primo a finire sotto i riflettori è stato il Sónar, festival simbolo di
Barcellona e riferimento europeo per gli appassionati di musica elettronica.
Poche settimane prima dell’inizio, una lettera aperta firmata da ottanta artisti
ha chiesto al festival di aderire alle raccomandazioni del PACBI (The
Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel), una delle
entità al cuore del movimento BDS. Le richieste avanzate dal PACBI nei confronti
del Sónar riguardavano inizialmente solo gli accordi di sponsorizzazione con
McDonald’s e Coca Cola. Dopo un po’ di tentennamenti Sónar ha mollato gli
sponsor, e PACBI ha rilanciato con la richiesta di una formale presa di distanza
dagli investimenti di KKR e aderenza alle linee guida del BDS in termini di
politica culturale. Come già il Field Day, Sónar ha preso tempo, probabilmente
sperando che la polemica sfumasse. Alla fine, una tardiva presa di distanza c’è
stata, assieme a dei chiarimenti circa la destinazione dei profitti. Nel mentre,
circa cinquanta artisti hanno cancellato la propria esibizione. Sónar è comunque
riuscito ad assorbire il colpo – per usare un eufemismo – segnando un record di
161 mila presenze tra il 18 e il 20 giugno. I biglietti per l’edizione 2026 sono
già in vendita.
In attesa che il calendario porti un altro festival sotto i riflettori (mentre
questo pezzo viene ultimato stanno iniziando le cancellazioni per il Monegros)
ci sembra il caso di prendere spunto dalla vicenda per provare a buttare giù
delle considerazioni di carattere più generale sul rapporto tra forme di
protesta dal basso, politiche culturali e il funzionamento dell’industria
musicale nel post-pandemia.
Iniziamo col dire che il boicottaggio spontaneo e diffuso a opera di artisti e
pubblico dei festival targati KKR è sicuramente un’ottima notizia – per più di
una ragione. Non solo testimonia la sempre più trasversale condanna delle
politiche dello stato d’Israele, ma contribuisce a mantenere alta l’attenzione
mentre Gaza scivola via dalle prime pagine dei giornali a causa del
moltiplicarsi delle tensioni internazionali. Inoltre, cosa forse ancora più
importante, segnala la diffusione di una serie di soglie etiche che tanta gente
non è più disposta a superare e che riguardano la propria connivenza, anche
involontaria, con il genocidio in corso. La pressione sui social costringe gli
artisti a prendere posizione, e di conseguenza i festival, che devono dare conto
delle assenze nella line up anche agli spettatori meno informati. Ci sono però
altri fattori da considerare se si vuole sperare che questa campagna spontanea
possa diventare qualcosa di più, e magari forgiare alleanze più ampie.
In primo luogo è bene ricordare che un boicottaggio, per essere efficace, deve
dotarsi di coordinamento, obiettivi chiari e una strategia per raggiungerli. Per
esempio, le linee guida ufficiali del BDS identificano gli eventi o i prodotti
culturali da boicottare in quelli che ricevono finanziamenti diretti o indiretti
da governo o istituzioni israeliane, ne alimentano la propaganda, o normalizzano
l’occupazione. Le stesse linee guida sono inoltre esplicite nell’indicare che il
boicottaggio deve essere il più possibile mirato e avanzare richieste
specifiche, che di solito consistono nella cancellazione di un accordo di
collaborazione, sponsorizzazione o partecipazione. E questo non è esattamente il
caso dei festival in questione, dove artisti e pubblico al momento procedono in
ordine sparso, e dove il legame con l’occupazione è obliquo e, in molti casi,
decisamente sgradito.
In Spagna, assieme al dibattito è montato anche il disagio di chi si è trovato,
suo malgrado, nell’occhio del ciclone. Il legame tra i singoli festival e KKR
non è diretto, ma frutto di una catena di operazioni finanziarie che avvengono
senza il coinvolgimento né il consenso dei diretti interessati. Macchine
complesse come Sónar o Monegros impiegano migliaia di persone tra produzione,
direzione, comparto tecnico e logistico, oltre agli artisti che – non
dimentichiamolo – sono anch’essi lavoratori. Parlando con diverse di queste
figure, i sentimenti più diffusi sono sconforto e senso di impotenza. Il fatto
che larga parte del dibattito si svolga sui social con modalità che oscillano
tra callout e shitstorm contribuisce ad aumentare la frustrazione di chi, da un
giorno all’altro, si è ritrovato suo malgrado dalla parte sbagliata della
storia.
Tra quelli che soffrono la contraddizione ma non riescono a partecipare
direttamente al boicottaggio ci sono molti lavoratori che non hanno la
possibilità economica di rifiutare ingaggi. Per gli artisti di piccolo e medio
calibro pesano le penali previste per le cancellazioni e il rapporto con le
proprie agenzie. Tra gli artisti maggiori, che sicuramente avrebbero la
possibilità economica di cancellare, molti fanno riferimento a una rete di
relazioni personali che li legano a determinate organizzazioni attraverso
traiettorie condivise negli anni. Per le persone che hanno fondato e diretto
questi festival, ora legate a Superstruct da contratti pluriennali, l’unica via
d’uscita sarebbe rassegnare le dimissioni, pagare importanti penali e vedere il
lavoro di anni andare alle ortiche o passare nelle mani di qualcuno che la
contraddizione non la sente neanche. Sono scelte non impossibili ma sicuramente
non prive di conseguenze, che sarebbe più facile sostenere collettivamente
avendo chiaro il risultato che si vuole ottenere.
In assenza di coordinamento e obiettivi tangibili sembra però difficile segnare
un punto che vada al di là di quanto già elencato. Se affondare il singolo
festival è difficile, come dimostrano il Field Day e il Sónar, colpirne dozzine
è praticamente impossibile. E anche se lo fosse, cosa si otterrebbe sul lungo
termine? Superstruct è poca roba per KKR, la cui penetrazione nel tessuto
economico rende inoltre difficile, se non impossibile, tenersene del tutto alla
larga. In Spagna, per esempio, il fondo ha partecipazioni importanti nella prima
compagnia telefonica del paese, MasMovil, nella catena di ristoranti Telepizza,
nel parco divertimenti Port Aventura, e in decine di altre società. Nel Regno
Unito, lo scorso anno è stato a un soffio dall’acquisire Thames Water, la
società idrica di Londra. E via così in decine di altri paesi. In altre parole,
l’eventuale collasso di Superstruct non sarebbe un grosso colpo per KKR, mentre
disporre delle macerie potrebbe essere un compito titanico per il comparto
musicale europeo. E allora, che fare?
Quello che tanti artisti, fan e lavoratori solidali stanno manifestando nel modo
che riescono a permettersi (boicottaggi, comunicati, cancellazioni, devoluzioni
del cachet in beneficenza, denunce dal palco, rinuncia al lavoro, e chi più ne
ha più ne metta) è l’espressione di un disagio profondo a cui si cerca di
trovare una soluzione individuale. E se fosse invece proprio questo disagio –
nella sua dimensione collettiva – il dato da cui ripartire per provare a
ribaltare il tavolo?
Il problema della presenza tossica di KKR non dovrebbe essere un affare del
singolo festival, artista o spettatore. È invece un problema strutturale del
settore culturale spagnolo e, per alcuni versi, europeo. Come tale, non può
essere affrontato solo con scelte e sacrifici individuali, senz’altro
ammirevoli, che hanno l’effetto di risolvere il malessere dei singoli senza
tuttavia riuscire a intaccare lo stato delle cose. Il disagio, lo sconforto e la
frustrazione andrebbero invece coltivati, condivisi, formalizzati e sbattuti sul
tavolo con tutto il loro peso. Pensiamo a una piattaforma o una lettera aperta
che coinvolga tutte le organizzazioni, gli artisti, i lavoratori, e la comunità
degli spettatori e chiami in causa il governo e la società civile. Non per
offrire soluzioni che sarebbero necessariamente parziali, ma precisamente per
ingigantire la questione a tutti i livelli e farla diventare un problema
condiviso. Qualcosa del tipo: “Hey, abbiamo questo grosso problema – così grosso
che non è più solo nostro, ma anche vostro. Qualche idea per venirne fuori
insieme?”.
L’onere della prima mossa in questo senso spetta senz’altro ai festival, che
nella maggior parte dei casi hanno gestito la situazione in maniera pasticciata
e debole. Comunicati generici e poco efficaci, evidentemente affidati a uffici
stampa non avvezzi a gestire questo tipo di questioni, non hanno fatto che
peggiorare la situazione. Invece di arroccarsi su posizioni difensive o tentare
di salvare il salvabile, i festival dovrebbero invece giocare in attacco,
canalizzando il malessere che accomuna tutte la parti coinvolte per provare a
rispedirlo al mittente.
Ci sono già stati alcuni segnali di apertura in questa direzione. Il ministro
spagnolo della cultura Ernest Urtasun ha affermato a maggio che “KKR non è il
benvenuto in Spagna” esprimendo “preoccupazione” per la sua penetrazione nel
settore della cultura. L’amministrazione di Rivas Vaciamadrid ha rescisso
l’accordo con Sharemusic!, altra partecipata di KKR che organizza festival
musicali, a partire dal prossimo anno. La creazione di una piattaforma comune
potrebbe non solo amplificare ulteriormente le ragioni della protesta, ma anche
incentivare il supporto istituzionale e, sul lungo termine, attivare la
creazione di protocolli automatici di controllo o di una legislazione specifica
che regoli gli investimenti nel settore della cultura.
Infine, la situazione dovrebbe servire da monito per una riflessione più ampia
sulla direzione della musica dal vivo. Il dogma della crescita a tutti costi
negli ultimi venti anni ha avuto un impatto particolarmente forte sulla scena
della musica elettronica, riconfezionandone le spinte più anti-normative in
favore di un pubblico generalista. Ma prima o poi arriva il conto da pagare.
Oltre una certa soglia, i numeri iniziano a diventare appetibili proprio in
quanto numeri, e non per quello che c’è dietro: cultura, sperimentazione,
comunità. I grandi festival possono sembrare delle navi da guerra nello specchio
d’acqua della musica dal vivo, ma nell’oceano del grande capitalismo finanziario
sono poco più che zattere in balia delle onde – e dei pescecani.
Voci in disaccordo con la logica dei macro-festival iniziavano a farsi sentire
anche prima dell’arrivo di KKR, per motivi che vanno dall’appiattimento
dell’esperienza all’impatto ambientale insostenibile. Ma se i dischi non si
vendono più, lo streaming paga quasi zero, club e locali chiudono e i piccoli
festival indipendenti soffrono l’aumento dei costi e della burocrazia, il peso
dei grandi eventi nell’economia del settore cresce in modo esponenziale, fino a
diventare irrinunciabile. È tempo, insomma, di ripensare il modo in cui la
musica dal vivo si produce, si consuma e si performa. (brian d’aquino)
(foto di archivio famiglia paciolla)
Il 30 giugno scorso il tribunale di Roma ha disposto l’archiviazione
dell’inchiesta per la morte di Mario Paciolla, cooperante italiano dell’Onu
trovato morto nel 2020 nella sua casa di San Vicente del Caguan, in Colombia.
L’ipotesi del suicidio, sostenuta dalle autorità colombiane, è stata fortemente
messa in discussione da diverse inchieste giornalistiche internazionali e dalla
caparbietà nel chiedere giustizia dei genitori di Paciolla, supportati da un
comitato nato dopo la sua morte. La procura di Roma ha invece ritenuto che non
ci fossero elementi per aprire un nuovo procedimento e ha chiesto pertanto
l’archiviazione, ora accordata dal tribunale. Al momento della sua morte
Paciolla aveva trentatré anni e si trovava in missione in Colombia per conto
delle Nazioni Unite, verificando l’applicazione dell’accordo di pace del 2016
tra le Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia) e il governo
colombiano.
Già una prima volta la procura romana aveva chiesto l’archiviazione del caso,
richiesta respinta dal giudice per le indagini preliminari che aveva argomentato
la sua decisione con una dettagliata ordinanza di settanta pagine, dalla quale
emergevano le incongruenze e le lacune delle indagini: tra le altre, rimangono
tuttora irrisolte la questione relativa alla “bonifica” fatta nell’appartamento
in cui abitava Paciolla, nel quale non è stata rintracciata alcuna impronta
digitale, e il ruolo rivestito nella vicenda da Christian Thompson, responsabile
della sicurezza per la missione a cui partecipava il cooperante italiano, l’uomo
che è arrivato prima di tutti sul luogo del delitto e che ha gestito le
operazioni (qualche mese dopo la morte di Paciolla, Thompson è stato promosso a
capo nazionale del Centro operazioni di sicurezza Onu a Bogotà).
Oggi, 15 luglio, a cinque anni dalla morte di Paciolla, i familiari e il
comitato hanno organizzato una serie di iniziative a Napoli per denunciare
l’illogicità di questa decisione e chiedere giustizia per quello che, a ragion
veduta, ritengono essere un omicidio. Un corteo attraverserà il centro a partire
dalle 18:00, da piazza Municipio fino a piazza Dante; dopo, al parco
Ventaglieri, verrà proiettata una video inchiesta sul caso realizzata dal
quotidiano online Fanpage; infine, interventi al microfono di solidali, artisti
e musicisti a supporto del comitato. (redazione)
Fotogalleria di Gaia Del Piano
Circa cinquecento persone hanno sfilato ieri a Bagnoli in occasione della “Presa
della battigia”, la manifestazione convocata ogni anno dai comitati per il mare
libero per rivendicare l’accesso alle spiagge per tutti, e per denunciare la
selvaggia privatizzazione di beni pubblici e collettivi come la spiaggia e il
mare.
La manifestazione si è svolta lungo la costa ovest della città, con un corteo
che ha percorso i quasi due chilometri che separano piazza a mare dalla spiaggia
di Coroglio, mentre attivisti e abitanti del quartiere intervenivano al
megafono, distribuivano materiale, appendevano giganti striscioni colorati.
Diverse le tappe della pacifica invasione. Prima il Lido Fortuna, concessionario
molto frequentato dai bagnolesi, ma che da qualche anno cerca con sempre maggior
determinazione di impedire l’attraversamento della spiaggia a chi non vuole
affittare un ombrellone o un lettino per recarsi in autonomia sulla parte di
spiaggia libera. Poi il Lido comunale, una distesa di sabbia ed erba che il
comune di Napoli ha dotato di ombrelloni e passerelle “per l’elioterapia”,
perché da trent’anni non è capace di bonificare il mare, che rimane interdetto
alla balneazione. Ancora, l’Arenile, altro stabilimento che da trent’anni
affaccia su un mare interdetto, che impedisce il libero accesso verso il mare e
che si trasforma al tramonto in una discoteca sulla spiaggia, facendo profitti
da capogiro. Infine l’ex circolo operaio Ilva, oggi totalmente privatizzato, in
quota politica al Partito democratico, e che nulla ha più a che vedere con il
tessuto sociale del territorio, tanto è vero che è recintato da cancelli, sbarre
automatiche e barriere di vario genere.
Ogni volta che si trovavano davanti uno di questi ostacoli illegittimi, che gli
impedivano di avvicinarsi al mare, i manifestanti li hanno aggirati, scavalcati
o abbattuti, come quando nei pressi del Pontile nord hanno invaso la colmata a
mare, che grazie alla firma di un accordo tra il sindaco-commissario Manfredi e
la premier Meloni verrà lasciata lì dov’è, impedendo il ripristino della linea
di costa antecedente all’industrializzazione. Il corteo ha attraversato
interamente la colmata, che una volta “sigillata” sarà utilizzata per grandi
eventi e altre iniziative private, a cominciare dalla Coppa America,
competizione contestata dai manifestanti, anche perché grimaldello per cambiare
i piani urbanistici esistenti e persino il piano di bonifica e rigenerazione
urbana in attuazione. Proprio in opposizione alla nuova speculazione in atto,
all’estromissione degli abitanti dalle scelte che riguardano il territorio –
nonché dalla sua stessa fruizione – e facendo un verso alla più nota Luna Rossa,
i manifestanti hanno varato e messo in mare un’imbarcazione dal simbolico nome
“ZonaRossa”. (rosa battaglia)
(disegno di ottoeffe)
Remember when you were young / Ricorda quando eri giovane
how the hero was never hung, / come l’eroe non finiva mai impiccato,
always got away. / sempre riusciva a scappare.
(john lennon, remember)
Se n’è andato all’alba di venerdì, a ottantotto anni, Goffredo Fofi, “il
Vecchio”, come lo chiamavano affettuosamente i miei amici più grandi, con alcuni
dei quali pure negli anni se ne era detto di tutti i colori. Lucido, corrosivo,
impietoso narratore e analista del mondo che ci circonda, è stato instancabile
agitatore culturale e riferimento per quei pochi scrittori, autori
cinematografici e teatrali, giornalisti e tutto il resto, che ancora possono più
o meno dirsi degni di appartenere a queste categorie.
Tutte le persone che valeva la pena conoscere, il Vecchio le conosceva e le
metteva in contatto, e molte tra queste (e anche non tra queste) in questi
giorni lo hanno celebrato sui giornali e sui social network. Parecchi ricordi si
concludevano con aneddoti autoreferenziali del tipo “apprezzò molto il mio
lavoro su…” o “avevamo spesso parlato di”. Io invece ricordo che nel 2020, dopo
una presentazione di Baby Gang a cui partecipò, e a sua domanda sui miei
progetti futuri, gli parlai con entusiasmo di un romanzo sulla città
postindustriale a cui stavo lavorando, romanzo che forse anche grazie a lui non
scriverò mai. Mi ascoltò con attenzione, mi diede un buffetto sul viso e
lapidario mi disse: «Sarà sicuramente una cacata…» (qualche anno dopo, durante
un pranzo con altre persone, all’improvviso mi guardò, e stupendomi perché si
ricordava di quella conversazione mi disse, provocatorio: «Allora, l’hai scritto
questo grande romanzo?»).
Ma il bambino nel cortile si è fermato,
si è stancato di seguire aquiloni.
Si è seduto tra i ricordi vicini, i rumori lontani,
guarda il muro e si guarda le mani.
(fabrizio de andrè, le storie di ieri)
In questi giorni si è molto parlato di alcuni studenti che, una volta raggiunto
il punteggio minimo per superare l’esame di maturità, si sono rifiutati di
sostenere il colloquio orale avendo già ufficialmente ottenuto la promozione
grazie alla somma tra i crediti formativi ottenuti durante i cinque anni e i
“punti” accumulati con le prove scritte. Gli studenti coinvolti hanno spiegato
che la scelta è stata presa per protestare “contro i meccanismi di valutazione
scolastici, l’eccessiva competitività, la mancanza di empatia del corpo docente”
(il virgolettato è di Maddalena Bianchi, diciannove anni, di Belluno).
Gli adulti ovviamente si sono rizelati e in molti (soprattutto docenti e
dirigenti scolastici) hanno iniziato ad attaccare pubblicamente questi studenti,
come se una scelta del genere non fosse coerente reazione al modello di
formazione che loro stessi hanno creato, fatto di punteggi, crediti formativi,
valutazioni aritmetiche per ogni scorreggia fatta dagli studenti e dalle
studentesse. Raggiungo il punteggio? Sono “dentro”, arrivederci e grazie.
Dio cane, dio cane, cominciava a fare quello, che era un torinese. Si chiamano
barott, sono quelli della cintura torinese, dei contadini sono. Sono tuttora dei
contadini, che c’hanno la terra e la moglie la lavora. Sono i pendolari, gente
durissima, ottusi, senza un po’ di fantasia, pericolosi. Mica fascisti, ottusi
proprio. PCI erano, pane e lavoro. […] Stavano qua a lavorare per anni, per tre
anni, per dieci anni. Che uno invecchia subito e muore presto. Per quei quattro
soldi che non ti bastano mai è solo un ottuso, un servo che può farlo. Restare
per anni in questa prigione di merda e fare un lavoro che annienta la vita.
Comunque questo qua ha il sospetto che voglio fargli il culo e allora abbandona
il posto e ferma la linea. Arrivano i capi. Quando si ferma una linea si accende
il rosso dove è stata fermata la linea e arrivano tutti i capi lí. Che succede?
C’è questo che non vuole lavorare. Ma stai dicendo un’infamia, perché io sto
lavorando, non ci riesco perché sto imparando. Mica sono intelligente come te,
tu ci stai da dieci anni qua dentro è chiaro che uno come te impara tutto
subito. […] Allora il capo mi dice: Senta a me sembra che lei vuole fare un po’
il lavativo. Invece deve mettersi in mente che alla Fiat si deve lavorare, non
si deve fare il lavativo. Se vuole fare il lavativo vada a via Roma lí dove ci
stanno gli amici suoi. Gli dico: Guardi io non lo so se a via Roma c’ho degli
amici. Comunque io vengo qua perché c’ho bisogno dei soldi. Sto lavorando, non
ho imparato ancora e quando imparo lavoro. Mi volete dare sei giorni di prova o
no? Ma come sei giorni di prova, dice il capo, lei già sta da un mese qua. Sí,
da un mese, ma stavo a quel posto là, non a questo qua. Adesso devo avere altri
sei giorni di prova e lui il fuorilinea per sei giorni deve stare qua con me. Se
no non faccio un cazzo. (nanni balestrini, vogliamo tutto)
Al ministro Valditara, che annuncia una riforma perché questa contestazione non
possa più ripetersi, verrebbe da dire che chi semina Invalsi raccoglie
boicottaggi, e che siamo noi a non meritarci ragazzi che pensano con la loro
testa e che si sottraggono al dogma della produttività in nome del minimo
risultato utile. Personalmente, delle mie scuole superiori ho un ricordo
pessimo: un edificio che assomigliava a un carcere, professori ignoranti come e
più degli studenti (salvando la buona pace di un paio tra loro), competitività
che fuoriusciva da ogni senga delle porte di legno scricchiolanti, incapacità
dell’istituzione di fornire risposte adeguate a una platea molto eterogenea.
Alla maturità presi 94/100 e se non mi venne in mente di non presentarmi
all’orale è solo perché per prepararlo mi impegnai veramente poco,
concentrandomi sul mio futuro.
Chillu criaturo all’erta a destra, ‘o taglio a spazzolina:
Vittorio Alfieri, terza C, foto ingiallita,
tute d’a Lotto tutt’e juorne, niente Tod’s e Paciotti,
Air Force 180 nera e blu cobalto,
‘o baffo bianco, ‘a scritta rossa ‘ncopp’o strappo
identica e precisa ‘a scena ‘e Get rich or die trying,
e io annanz’ ‘e vetrine ‘e Simon a Marano.
‘E 125 erano ‘a marce,
sunnavo al massimo ‘a Leovinci sott’o motorino
e ‘o gruppo Polini.
“Chill’e Mani Pulite erano cchiù politici”,
ma quanno maje nuje simm’ stati uniti…
‘E Stati Uniti e Porto Rico, è chello che vulesse ‘a Lega Nord:
scennere ‘cca ‘a stagione, e sparagna’ ‘na cosa ‘e sorde.
(patto mc ft. co’sang, da venti anni a mo’)
(a cura di riccardo rosa)
(disegno di rosario vicidomini)
Ogni anno l’Osservatorio di Antigone stila il Rapporto sulle condizioni delle
prigioni e sul funzionamento della macchina penale. Senza respiro è il
ventunesimo ed è stato presentato il 21 maggio di quest’anno a Roma nella sede
dell’associazione.
L’analisi come sempre è rigorosa e si articola in un’area tecnica (Temi) in cui
si definiscono i contorni maggiormente problematici della detenzione intra ed
extra-muraria, due dossier specifici (uno riguardo ai suicidi dal 2024 al 2025,
l’altro sui principali processi per tortura in corso), un’ultima area distinta
di Approfondimenti riguardo agli aspetti di politica criminale ed esperienze di
attivismo all’interno delle galere.
Le prigioni, come da sempre sosteniamo, sono un ingranaggio nevralgico per il
funzionamento dell’economia capitalistica perché rappresentano l’argine
principale per la massa crescente di soggetti espulsi dal sistema produttivo.
Per questo l’immagine che viene fuori dalla lettura del Rapporto è interessante
per capire la fase che stiamo attraversando.
Prima di ogni cosa i numeri. Il 30 aprile i detenuti presenti erano 63.445, il
30 giugno erano 62.728 in spazi che possono contenerne 51.280 (a cui devono
sottrarsi ameno 4.500 posti perché spazi inagibili o in ristrutturazione).
L’aumento è consistente e “se si pensa che le nostre carceri hanno una capienza
media di circa trecento posti significa che la popolazione detenuta sta
crescendo dell’equivalente di un nuovo carcere ogni due mesi”.
Questi flussi impattano fortemente sull’economia nazionale, tuttavia il bilancio
dell’Amministrazione penitenziaria indica che il costo per sostenere ogni
recluso è in netta diminuzione e questo significa che all’aumento delle persone
detenute non corrispondono maggiori investimenti. A ogni modo, come sempre la
voce di spesa più alta dell’intero budget (61,7%) è destinata al pagamento del
personale di polizia penitenziaria.
A proposito dei costi destinati alla reclusione, l’Osservatorio registra il
progressivo allargamento delle attività del terzo settore anche nella gestione
dell’esecuzione della pena. Tale processo di privatizzazione non riguarda
soltanto l’affidamento di singoli servizi a enti esterni (come la mensa o
l’approvvigionamento idrico per le strutture che non hanno l’allaccio), ovvero
di percorsi trattamentali (il laboratorio di teatro) e lavorativi (la sartoria)
già ampiamente affidati a cooperative, ma della reclusione tout court. Il
decreto legge 92/2024, convertito con legge 112/2024, disciplina le nuove
“strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale dei
detenuti”. Il ministero di giustizia dispone di un elenco delle strutture
residenziali e per il funzionamento di questi spazi affida un finanziamento di
sette milioni di euro (bacino economico di Cassa delle Ammende). La critica di
Antigone è chiara: “Il comma 4 dell’art. 8 cita esplicitamente la disponibilità
ad accogliere soggetti in regime di detenzione domiciliare. Quest’ultima è una
forma di detenzione a tutti gli effetti, sebbene in privata dimora. Quando la
privata dimora non appartiene alla persona stessa che sta scontando la pena
bensì ad altro soggetto privato, e quando questo soggetto privato riceve fondi
pubblici per provvedere alla reintegrazione sociale del condannato, il risultato
somiglia molto a un carcere privato”.
L’“impresa del bene”, cresciuta nei margini di questo settore, comincia a
recuperare fette di mercato sempre più ampie. È il caso della regione
Emilia-Romagna che sostiene le Comunità Educanti con i Carcerati, che propongono
un programma di rieducazione del condannato gestito privatamente dalla Comunità
Papa Giovanni XXIII. Anche in Campania si trova un’esperienza simile, infatti
l’associazione Terra Dorea, costituita a gennaio 2025, già a maggio ha stretto
un importante protocollo con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria
per “creare comunità educative alternative alla detenzione e, così, ridurre il
sovraffollamento carcerario”. Di quest’ultima associazione si sa pochissimo,
sembra nata dal nulla, ma appare già molto inserita nel contesto istituzionale
della pena. Dopo un mese dalla costituzione, il 5 febbraio firma una convenzione
con il Tribunale di Napoli Nord per lo svolgimento di percorsi di recupero
destinati agli autori di reati di violenza domestica e di genere. Questo ente
del terzo settore si sta muovendo su ogni campo del reinserimento. Spiega la
giovanissima presidente, avvocata Claudia Majolo, in una delle prime note
apparse sulla stampa locale: “Terra Dorea si propone come un ponte tra il
carcere e la comunità, promuovendo l’educazione, la formazione professionale e
il supporto psicologico. L’obiettivo è fornire gli strumenti necessari affinché
chi ha vissuto l’esperienza della detenzione possa riscattarsi, facendo leva su
una visione di giustizia che non si limiti alla punizione, ma che favorisca una
reale trasformazione sociale e culturale”.
L’immagine dell’istituzione che viene fuori dalla lettura del rapporto è di un
carcere pronto a implodere di nuovo e che tenta di immaginare possibili
traiettorie di riequilibrio in senso securitario, ma tali soluzioni sono del
tutto inconsistenti rispetto alle contraddizioni interne e alla enorme pressione
degli ingressi.
Rispetto a quest’ultimo punto, è interessante la posizione del ministero
espressa nel corso della presentazione romana. Il consigliere Ernesto Napolillo,
ex magistrato, direttore dell’Ufficio generale detenuti e trattamento, comincia
il proprio intervento senza mezzi termini: gli unici dati giusti sono quelli
forniti dall’istituzione, le associazioni e gli altri enti non operano con
metodo scientifico e devono occuparsi di altro. Entra poi nel merito toccando
alcuni punti oggetto della discussione. L’ufficio che dirige l’ex magistrato
coniuga le due tensioni del carcere: l’esigenza di sicurezza connessa alla
pericolosità penitenziaria e la necessità del trattamento del detenuto. Sulla
rieducazione, il consigliere penitenziario afferma senza remore che
l’istituzione registra un “cronico e gravissimo problema di effettività del
trattamento”. Secondo il ministero l’assenza di lavoro è la causa principale.
L’autorità si dilunga, poi, esponendo il posizionamento politico: “Il modello
tradizionale di carcere come luogo di segregazione votato anche al trattamento è
superato… il carcere non è più il luogo della pena ma è un luogo di conquista
della criminalità organizzata. Ci sono delle organizzazioni criminali che
preparano i propri affiliati e li mandano in carcere per controllare le piazze
di spaccio nelle carceri”. C’è la necessità, quindi, di un nuovo paradigma per
riequilibrare l’istituzione ed è quello della legalità: “Garantire il diritto
alla sicurezza è il miglior modo per garantire la sicurezza dei diritti”. A
ognuno il proprio ruolo: il trattamento è rimesso alla società civile, al
volontariato, alle organizzazioni religiose. L’istituzione, invece, deve
garantire la sicurezza e l’autorità attacca la vuota retorica dei proclami delle
amministrazioni precedenti: “Troppe passarelle ci sono state fino a oggi… ci
sono più protocolli che attività, ci sono più iniziative di lavoro che
lavoratori”.
Il piano politico è coerente con una rappresentazione muscolare
dell’istituzione: rispristinare la sicurezza conducendo una guerra totale. In
tale prospettiva devono essere letti il decreto sicurezza (convertito in legge
80/2025) e la nuova iniziativa legislativa titolata “Operazioni sotto copertura
per la sicurezza degli istituti penitenziari” che estende alla polizia
penitenziaria le possibilità dell’art. 9 della legge 146/2006, ammettendo
operazioni sotto copertura, uso di identità coperte e lo scudo penale per gli
agenti coinvolti, purché le autorità giudiziarie siano previamente informate.
Queste misure rappresentano gli armamenti giuridici per condurre il conflitto
interno e impedire l’organizzazione collettiva delle lotte. Dal mondo delle
prigioni emerge il coerente rafforzamento dei poteri repressivi dello Stato in
una fase complicata per il capitalismo italiano ed europeo in cui si deve
necessariamente conservare l’ordine sociale mentre occupazione e salari sono in
caduta ripida e gli scenari di guerra esterna si fanno sempre più concreti.
Ci sono tuttavia delle distonie che rendono problematica la realizzazione del
programma politico. Alcune sono emerse sempre nel corso della presentazione del
Rapporto di Antigone. Il sindacalista Gennarino De Fazio, segretario Uil Pa,
rispondendo punto per punto alle affermazioni del dirigente
dell’Amministrazione, ha ricordato che i suicidi tra le fila della polizia
penitenziaria sono in aumento (l’ultimo si è ammazzato il 27 giugno, appena
finito il turno con un colpo di pistola nel parcheggio del carcere di
Secondigliano). La frustrazione al fronte è enorme e senza soluzione. Questa
guerra si combatte senza soldati. “I detenuti sono aumentati di 5.000 unità… al
di là della propaganda la polizia penitenziaria è aumentata di 133 unità che non
sono andate nelle carceri ma a integrare gli uffici dipartimentali dove c’è
anche il consigliere Napolillo. Il personale è sempre più senza respiro”.
Il sindacalista ha criticato fortemente il graduale processo di omologazione
degli agenti penitenziari agli altri corpi di polizia, perché la funzione è
sostanzialmente diversa e ha attaccato duramente il piano formativo dei nuovi
agenti che vengono mandati al macello con qualche giorno di corso da remoto.
Tralasciando il tentativo di rafforzare la propria organizzazione di categoria,
le criticità segnalate e la spaccatura interna tra la polizia che opera in
trincea e i generali che governano la battaglia dalle scrivanie è reale. Lo
registriamo costantemente anche nei corridoi dell’aula bunker durante le lunghe
attese del processo sulla Mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.
Difatti, per quanto gli apparati stiano correndo per prepararsi alla guerra, da
tempo le macerie sociali di questo ordine di cose aumentano. Le prigioni sono
una di queste e sono pronte a esplodere. Non c’è tempo. La realtà dei fatti, al
di là delle lezioni di vita dei dirigenti, è che molti istituti di pena si
autogestiscono. In istituti dove persiste un sovraffollamento del 150% circa,
dove è assente ogni tipo di intervento anche solo riempitivo della giornata, con
le presenze di personale civile e in divisa in sottorganico, l’implosione è
scongiurata solo in virtù di autogestione informale e precaria dei poteri
interni ufficiosi e ufficiali.
“Vengo da laggiù dove tutto è finito… e tutto ricomincia”, sono le parole della
Cassandra di Dimitriadis; stiamo ricominciando daccapo ed è necessario per
evitare di rimanere sepolti dalle rovine di questo mondo, rivitalizzare e
moltiplicare l’organizzazione delle lotte, estendendo l’intervento a ogni ambito
della riproduzione sociale. Trovare nei legami collettivi e nei percorsi di
resistenza la fiducia per “l’assalto al cielo”. A ognuno il suo ruolo, questo è
il nostro. (luigi romano)
(disegno di escif)
Da più di dieci anni uomini e donne organizzati nel Movimento Disoccupati 7
Novembre, a cui si sono poi uniti quelli del Cantiere 167 di Scampia, lottano a
Napoli per una formazione qualificata e per un posto di lavoro stabile e
dignitoso. Dopo tanto battagliare, e dopo una serie di rinvii, passi falsi e
soluzioni fatte saltare dalle istituzioni all’ultimo momento, era previsto per
stamattina l’avvio delle procedure – il cosiddetto “click day” – per
l’assunzione delle platee di disoccupati storici nell’ambito di lavori di
pubblica utilità.
Il finanziamento dell’operazione era stato conquistato grazie a un lungo lavoro
di pressione, fatto di manifestazioni, cortei e iniziative spesso conflittuali
portate avanti dai disoccupati in questi anni, che hanno causato anche numerosi
procedimenti giudiziari agli appartenenti ai due gruppi, talvolta fondati su
bizzarre indagini come quella per associazione a delinquere: il tutto, per
conquistarsi il diritto a partecipare a ottocento tirocini di un anno, pagati
seicento euro al mese, che avrebbero dovuto poi comportare l’immissione in
organico in aziende, anche private, che si occupano per conto del comune di
Napoli di manutenzione e gestione del verde pubblico e di beni culturali.
L’assegnazione di questi tirocini, però, non teneva conto dei lunghi e tortuosi
percorsi svolti finora, né dei passaggi intermedi effettuati dalle centinaia di
persone appartenenti ai due gruppi: corsi di formazione ministeriali nell’ambito
del programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori); altri programmi
statali per gli over trentacinque; esperienza volontaria nell’ambito dei servizi
pubblici, della pulizia delle spiagge, della manutenzione del verde. «Il vero
punto – commenta uno dei disoccupati del Movimento 7 Novembre – è la mancata
assunzione di una responsabilità politica da parte delle istituzioni, locali e
nazionali, che con la scusa di una presunta trasparenza, che sembra una presa in
giro quando ci sono centinaia di persone che per un proprio diritto hanno
lottato più di dieci anni, non hanno voluto dare conclusione a un processo di
emancipazione individuale e collettiva. Una scelta ancora più assurda se
l’alternativa è passare attraverso uno strumento informatico farraginoso e di
fatto inutilizzabile come il portale che è stato costruito».
Stamattina, in effetti, il sistema informatico si è bloccato subito dopo l’avvio
della piattaforma, rendendo per ore impossibile l’accesso, e lasciando poi fuori
definitivamente una buona parte dei disoccupati organizzati (considerando anche
il fatto che dopo un certo numero di tentativi il sistema Click Campania
bloccava l’utente, il quale non riusciva ad accedere per colpe non proprie, ed
era costretto a ricominciare la procedura partendo da un cambio di credenziali).
Nulla di fatto, insomma, per le centinaia di persone che si erano date
appuntamento all’esterno della prefettura per affrontare la procedura, e che
altro non hanno potuto fare che prendere atto del fatto che l’ennesima
possibilità stava rischiando di svanire: «Ci siamo organizzati per vederci fuori
la prefettura – continua M. – per espletare tutti insieme, nella massima
trasparenza, l’iter che dava il diritto di accedere a un progetto che ci eravamo
conquistati con anni di dura lotta. Lo abbiamo fatto perché non ci fidavamo,
viste le stranezze già registrate nel corso della notte sulla piattaforma, e
alla luce di come è andata evidentemente non avevamo torto».
Una volta chiuse le iscrizioni, quando anche chi era finalmente riuscito a
completare il processo si ritrovava sul cellulare nulla più che una ricevuta con
indicazioni poco chiare per il futuro, la frustrazione si è tramutata in rabbia.
Un corteo improvvisato ha cominciato a muoversi per le strade del centro città,
ma è stato caricato dalla polizia che ha arrestato tre manifestanti. Subiranno
un processo per direttissima domani mattina, mentre un’altra decina di persone
sono state ferite.
Con una serie di comunicati diffusi in giornata, i disoccupati e le disoccupate
dei 7 Novembre e del Cantiere 167 hanno chiesto ai media di raccontare questa
assurda giornata, e di partecipare domani mattina alla manifestazione, con
conferenza stampa finale, che si svolgerà partendo dalla questura centrale di
via Medina alle nove e mezza. (redazione)
(disegno di mario damiano)
15 maggio: il governo italiano e la Emirates Team New Zeland annunciano che la
trentottesima edizione della America’s Cup Louis Vuitton si svolgerà a Napoli
nell’estate 2027. Il centro nevralgico sarà il litorale di Bagnoli. La politica
nazionale e locale si affanna a rivendicare un grande successo, ma in realtà le
altre contendenti a ospitare la manifestazione si erano ritirate per la poca
convenienza e gli eccessivi esborsi di denaro pubblico. Fratelli d’Italia piazza
per le strade della municipalità giganteschi cartelloni con scritto “Grazie
Giorgia!” e sullo sfondo una barca a vela. Il sindaco Manfredi, commissario per
Bagnoli, sostiene che una delle cose più importanti della Coppa a Napoli è che
accelererà la bonifica e rigenerazione del Sin Bagnoli-Coroglio. Un paio di mesi
prima, Manfredi e Meloni avevano modificato con una sospetta fretta le leggi che
obbligavano a rimuovere la colmata a mare. Quando si ricominciò a parlare della
sua permanenza, commentammo: va bene, volete lasciarla lì? Allora blindatela e
scrivete da qualche parte che sarà utilizzata esclusivamente per l’accesso al
mare libero e gratuito dei napoletani. Nessuna risposta, anzi sì: dopo un paio
di mesi viene fuori che ci costruiranno il villaggio per i velisti della Coppa.
6 giugno: Altreconomia pubblica un articolo di Lucia Tozzi sulla competizione
che smonta la retorica della “convenienza per tutti” di una iniziativa di questo
genere, richiamando il caso Barcellona, molto contestato nella stessa città
catalana.
Sul periodico La Directa è emerso che il numero dei visitatori è stato calcolato
contando chiunque passasse sul lungomare nei due mesi dell’evento, ed è quindi
ben lontano dai 2,5 milioni preventivati e dai circa 1,8 milioni dichiarati. Del
resto, per l’edizione del 2013 a San Francisco erano stati previsti 2,6 milioni
di visitatori ma quelli effettivi furono 182mila, mentre ad Auckland nel 2021 se
ne contarono 52mila a fronte di 860mila annunciati. Inoltre, l’audience
televisiva globale dell’edizione di Barcellona non è stata, come viene
spacciato, di 941 milioni di persone ma di 64,8, circa un quindicesimo. I
finanziamenti pubblici a fondo perduto hanno raggiunto i 58,8 milioni di euro,
mentre le autorità portuali hanno dovuto ammettere che la Coppa ha prodotto
perdite per 3,5 milioni di euro. I post nella piattaforma “No a la Copa
América”, che riunisce più di 145 comitati e associazioni, testimoniano che il
lavoro […] è diventato più precario, e che mentre i team coinvolti si sono
portati i loro lavoratori specializzati, ai catalani è stato chiesto di fare
volontariato.
Giovanni Squame intanto risponde su Repubblica Napoli a un intervento dell’ex
vicesindaco Marone, che ancora attaccava, a trent’anni di distanza, il piano
esecutivo per Bagnoli, che tra le altre cose prevedeva la nascita di un grande
parco verde e il ripristino della linea di costa, con una grande spiaggia per
tutti.
Attribuire la responsabilità del mancato decollo alle scelte di piano è
operazione ingenerosa. Non si sottolinea invece abbastanza che quelle scelte
presupponevano un intervento tutto pubblico: è razionale, un grande servizio
pubblico esige un grande investimento pubblico. […] Lo stesso criterio potrebbe
essere allargato alla gestione della grande spiaggia che, ricordiamo, già è
limitata dalla prevista realizzazione di un porticciolo per circa settecento
barche. […] La Coppa America coi suoi soldoni può essere la soluzione? Qualcuno
ci spera e la invoca, bando alle ideologie. Si ricompongono i rimorsi e i
pentimenti e come con una bacchetta magica si risolve un problema fermo da
venticinque anni. Tutti ne ricaveranno benefici e i napoletani, quelli che non
hanno le barche per solcare i mari verso i paradisi vacanzieri, dovranno
continuare ad affollarsi tra Rotonda Diaz, Vigliena e un poco di Posillipo.
11 giugno: Luigi Roano firma un articolo sul Mattino in cui attacca la rete di
associazioni e gruppi politici che il giorno prima si era incontrata all’ex
Asilo Filangieri per avviare un percorso collettivo di opposizione alla
competizione.
Roano sostiene che dietro quest’incontro ci sia un tentativo di destabilizzare
il “modello Napoli” e la sinergia tra comune e governo. Secondo la fantasiosa
ricostruzione la rete strizzerebbe l’occhio a una alleanza in fieri tra de
Magistris (basta, ancora lui!) e l’uscente non candidabile governatore De Luca.
Secondo Roano i “centri sociali” sarebbero stati i più attivi partecipanti
all’assemblea: in realtà (Roano non era presente, noi sì) c’erano pochissimi
militanti della sinistra “antagonista”. C’erano invece molti professori
universitari, esperti di diritto, urbanisti, membri della società civile. Roano
magnifica Manfredi e Meloni per aver portato turisti e Coppa a Napoli, e attacca
il piano De Lucia, per contestare l’idea del parco pubblico e della spiaggia
libera.
Lo stesso giorno il Corriere del Mezzogiorno pubblica un articolo di Fabrizio
Geremicca che racconta dell’assemblea, ma anche un pezzo, con annesso titolone,
sui “numeri da record” della Coppa America. La fonte è uno studio del ministero
del turismo sulla base di dati forniti da Unimpresa; il rapporto è stato
presentato dalla ministra Santanchè al convegno di Confindustria Nautica. Nel
documento le cifre sono approssimative, e si comincia a capire: che il governo
metterà un sacco di soldi in questa cosa; che si arricchiranno solo albergatori
e ristoratori; che nessun elemento attendibile esiste su quello che
chiamano impact value, tra i cui “potenziali beneficiari” ci sarebbero studenti,
associazioni sociali e ambientali. Senza alcuna base reale, Santanchè sostiene
che “ogni euro investito nella manifestazione raddoppierà il suo valore sociale
per stakeholder e territorio e, nel lungo periodo, lo potrebbe addirittura
quadruplicare”.
20 giugno: viene approvato in consiglio dei ministri un decreto che assegna
l’onore e onere dell’organizzazione della Coppa a Sport e Salute. L’azienda, che
fa capo al ministero dello sport, avrà sette milioni e mezzo di euro per le
prime spese. Il decreto sollecita la Cabina di regia dell’ente commissariale per
Bagnoli a “rimodulare gli interventi già previsti nell’ambito del programma di
risanamento ambientale al fine di individuare quelli prioritari necessari alla
realizzazione dell’evento”. Un comitato tecnico di undici componenti, di cui sei
nominati dagli organizzatori, tre dal governo, uno da Sport e Salute e uno solo
dal comune di Napoli, prenderà le decisioni. È il primo caso al mondo di un
commissario governativo commissariato da un ministero (in cambio, come
“contentino”, il Comune potrà spendere, per favorire gli interventi necessari
alla competizione, novanta milioni in deroga alle regole di bilancio – questa
cosa è da ricordare ogni qual volta da palazzo San Giacomo ci diranno: “Eh, ma
non ci sono i soldi per fare questo intervento”).
Manfredi ci mette qualche giorno a riorganizzare le idee, ma alla fine chiede
poteri speciali (per lui) e strumenti di semplificazione per gli interventi sul
molo San Vincenzo e la terrazza a mare di San Giovanni a Teduccio, per i posti
barca a Nisida e al Molosiglio, al fine di eludere le autorizzazioni ambientali
(lo dice chiaramente, senza giri di parole). Il consiglio comunale è confinato a
una specie di assemblea di condominio, anzi meno, perché nel merito delle
questioni non può neppure discuterne.
24 giugno: scendono in campo gli imprenditori napoletani con un documento di
“visione strategica” scritto dall’Unione Industriali, che propone una
“collaborazione istituzionale rinnovata tra pubblico e privato”. In realtà, è
una proposta a stravolgere i piani esistenti, peraltro ormai già ampiamente
stravolti, “basati su scelte ideologiche fatte più di trent’anni fa”. Il testo
ha il pregio di parlare chiaro e mostrare la posizione dei possibili investitori
locali, preoccupati dal piano Manfredi-Meloni che strizza invece l’occhio al
grande capitale internazionale. Le proposte? No al parco verde, al suo posto
“resort per ospiti con alto potenziale di spesa”, ristoranti, centri congressi,
e affidamento ai privati delle aree dedicate allo sport.
1 luglio: manifestazione organizzata dagli abitanti del Borgo Coroglio, che con
l’ente commissariale stanno gestendo una complicata procedura di esproprio.
Paola Minieri, rappresentante del comitato di residenti, denuncia l’assenza di
dialogo con Invitalia rispetto ai tempi, sfida le istituzioni “a presentarsi con
le ruspe”, comunica le imbarazzanti cifre delle valutazioni immobiliari fatte
dall’ente commissariale (cinquantamila euro per una casa all’ultimo piano con
vista mare, una cifra con cui non acquisti nemmeno un monolocale a sessanta
chilometri dalla città). “La gente del Borgo ha sopportato l’inquinamento della
fabbrica, il caos delle discoteche e adesso che viene un po’ di benessere ci
cacciano via pretendendo di darci quattro spiccioli?” Al momento è noto che gli
inquilini avranno una prelazione sul riacquisto degli immobili, che però,
rigenerati, costeranno quattro o cinque volte tanto rispetto all’indennizzo.
Minieri chiude il suo intervento: “Bloccheremo la Coppa America, diremo a tutto
il mondo quello che sta succedendo qui”.
8 luglio: Repubblica Napoli pubblica un intervento di Michelangelo Russo,
direttore del dipartimento di Architettura della Federico II. Russo scrive
dell’importanza del mare per la città, un mare che è “cultura, storia,
paesaggio, identità collettiva, memoria e possibilità” e si entusiasma per
l’assegnazione della Coppa America che dà allo stesso “una rinnovata
centralità”. Non si capisce se sia ingenuità, cerchiobottismo, o una candidatura
a essere coinvolto nelle operazioni, ma nello stesso articolo Russo prima
accoglie con soddisfazione la richiesta di poteri speciali avanzata dal sindaco
(“segno di profonda sensibilità”) e poi avanza richieste per un miglioramento
delle condizioni di accesso al mare per i napoletani. Più sincera e convincente
appare la proposta dei comitati per il mare libero e della rete di opposizione
alla Coppa (e a tutto quello che avete letto in questo articolo): “Dopo aver
informato la cittadinanza dei progetti speculativi del potere, lanciamo la
mobilitazione nazionale di domenica 13 luglio a Bagnoli, che consisterà nella
presa della battigia per affermare che l’unica grande opera che vogliamo è una
vera bonifica e la rimozione della colmata, il ripristino dell’intera linea di
costa per la libera, gratuita e pulita balneazione, oltre che la nascita di un
grande parco urbano. Non possiamo permettere che dopo decenni di devastazione la
baia di Bagnoli diventi una zona esclusiva per ricchi con resort, alberghi e
yacht di lusso, che distruggerebbe per sempre la promessa di recuperare la costa
per il mare e per il verde”. (riccardo rosa)
Nei primi giorni di giugno Farzåd è venuto a farci visita al centro di
aggregazione Approdo di Garbatella, a Roma, dove ha preso vita un laboratorio
radiofonico rivolto a ragazze e ragazzi delle scuole medie. Da poche ore sui
titoli dei quotidiani campeggiava la notizia del cessate il fuoco in Iran e
della fine della “guerra dei dodici giorni”. Prima che Farzåd facesse ingresso
nella nostra redazione, ho raccontato ai ragazzi quel poco che sapevo di lui. Ha
circa quaranta anni, è nato in Iran, è laureato in letteratura francese, faceva
il libraio, vive in Italia da una decina d’anni, è stato il protagonista di un
audio documentario trasmesso da Rai Radio3 e realizzato dall’amico e collega
Ciro Colonna in cui si dava molto spazio al lavoro di Farzåd qui a Roma: il
corriere in bicicletta.
Per una ventina di minuti, i ragazzi lo hanno tempestato di domande. Farzåd ha
risposto generosamente a ogni questione, seppure la vicenda lo facesse sempre
più sudare (i ragazzi mi avevano costretta a spegnere il ventilatore, per
evitare che il brusio disturbasse la registrazione). Le loro curiosità mi hanno
stupita. Nel corso della chiacchierata abbiamo scoperto che Farzåd legge romanzi
russi, che il suo calciatore preferito è Maradona, che tra montagna e mare
sceglie montagna, che per fare le consegne utilizza una bicicletta a pedalata
assistita, che il suo nome di battesimo (che non corrisponde a quello
d’invenzione che stiamo utilizzando in questo articolo) deriva da un libro epico
della tradizione iraniana, che è andato via dall’Iran per cercare una vita
diversa, che ascolta Mina, De Andrè e la musica tradizionale iraniana, che la
cosa che più lo ha colpito di Roma nei primi giorni dopo il suo arrivo erano i
palazzi e i monumenti, e che, sì, anche se ci lavora, crede che boicottare G.
sia una buona idea.
Come nelle migliori interviste, è stato dopo, a microfono spento (e ventilatore
riattivato), che Farzåd ha raccontato di questi giorni di guerra. Le notizie
arrivavano frammentate, confuse. La comunicazione con la famiglia e gli amici si
arrestava per interminabili ore. Lui nella calura di Roma smetteva di fare ogni
cosa, il cervello si arrovellava nel tentativo di capire, tuttavia districarsi
tra le tante informazioni, a volte discordanti, era impossibile. «Poi c’è stata
la tregua e finalmente ho potuto riprendere a parlare con amici e parenti. Dopo
gli attacchi degli hacker dello stato di Israele sulle infrastrutture digitali
della tv statale dell’Iran, il governo ha deciso di disconnettere Internet sulle
reti cellulari e non riuscivo a parlare con nessuno».
Nei giorni successivi alcuni amici di Farzåd riescono a connettersi, lo
aggiornano sui bombardamenti in tempo reale, lo mettono in contatto con i
genitori, portano informazioni sulla guerra e sulle condizioni di salute dei
parenti anche ad altri amici residenti all’estero. Farzåd, dal suo appartamento
rovente a San Lorenzo, attende notizie giorno e notte.
«L’ultima notte prima del cessate il fuoco è stata dura. In quelle ore c’è stato
il più pesante attacco delle forze armate di Israele sulle città iraniane. Gli
amici a Teheran riportavano le notizie dei bombardamenti e della difesa aerea da
parte delle forze iraniane in diretta sulla nostra chat. Mi hanno raccontato di
gente traumatizzata dagli attacchi, a molti ancora sembra di sentire i boati
dopo quella notte».
Dopo due giorni dalla tregua la connessione è stata riallacciata parzialmente.
Farzåd passa ore intere a parlare e scrivere con gli amici in Iran, «i cittadini
parlano di guerra ovunque, tutto il tempo; dicono che non è ancora finita,
aspettano un’imminente minaccia; sono tutti d’accordo sull’idea che ci sarà un
nuovo attacco da parte di Israele, ma ovviamente non sanno quando avverrà».
Li chiamano i figli della rivoluzione, i figli della guerra. Sono le persone
come Farzåd, nate a ridosso della rivoluzione del 1979 che ha rovesciato la
monarchia. Sono gli stessi che sono scesi in piazza nel 2009, cantando a gran
voce siamo la generazione della guerra e combattiamo fino alla fine contro lo
Stato. «Storicamente accade che dopo un tentativo di rovesciamento di un regime,
sia che si tratti di un colpo di stato sia che si tratti di un intervento
militare di un altro paese, quando non si raggiunge il risultato desiderato, il
sistema diventa ancora più aggressivo nei confronti di chi lo critica. Per ora
hanno arrestato più di settecento persone e ne hanno impiccate altre sei per
spionaggio. Un esempio recente di una situazione simile lo abbiamo visto in
Turchia, dopo il colpo di stato fallito nel 2016, che ha portato all’arresto di
tanti e alla persecuzione di vari gruppi della società turca».
I genitori di Farzåd, entrambi militanti comunisti, hanno avuto un ruolo attivo
nella rivoluzione del 1979, prima che si affermasse la componente islamista. Per
questo motivo non hanno più potuto esercitare la loro professione (erano due
insegnanti), per questa ragione la loro vita ha subito una brusca virata
insperata. Racconto a Farzåd di avere parlato con altre persone di origine
iraniana qui a Roma, alcuni si sono detti felici dell’attacco. «Nessuno dei miei
amici ha gioito degli attacchi sulle città e sulle infrastrutture civili del
paese. Anche i dissidenti in Iran non sono felici. Certo, sono felici i
dissidenti monarchici che vivono nella calma e nella tranquillità delle società
occidentali. Loro sì che sono contenti, credevano e speravano che con questi
attacchi finisse la teocrazia. Chiaramente questa loro speranza non coincide con
la realtà dei fatti. Questa gente vive in una bolla, in un’altra realtà. Chi si
trova in Iran è abbastanza intelligente da vedere quello che è successo. Queste
persone hanno visto già questo spettacolo in Iraq, in Libia e in Siria. Il
governo genocida di Israele non può essere il salvatore del popolo iraniano.
Questo fatto è chiaro ai cittadini iraniani all’interno del paese, ma non ai
monarchici all’estero. Il cancelliere tedesco che afferma che “Israel is doing
our dirty job” probabilmente dovrebbe pensare alle conseguenze di questo dirty
job per l’Europa». Farzåd fa l’esempio della Siria e dell’Iraq e di quello che è
accaduto dopo la guerra civile causata dall’intervento militare occidentale.
Trenta anni fa, esattamente il 3 luglio 1995, Alexander Langer si impiccava a un
albero di albicocco, alle porte di Firenze. Langer amava spesso ripetere che
tutto il suo lavoro, da politico, da scrittore, da sociologo, da attivista,
aveva un obiettivo: “provare a fare pace tra gli uomini e pace con il creato”.
Nello sforzo di tendere verso questa meta, promuoveva trasformazioni ecologiche
e trasformazioni sociali con radici ben solide nella non violenza e nel rifiuto
verso ogni divisione etnica. Ho pensato a lui dopo avere incontrato Farzåd.
Perché la sua storia è impastata di distorsioni, è una biografia che fa i conti
spietati con un sistema in cui crisi ambientale e guerre si intrecciano
indissolubilmente. E poi perché la vicenda di Farzåd costituisce un prezioso
tassello di un mosaico della Storia, di quelli che Langer avrebbe saputo
mirabilmente raccontare e appuntare sulla sua immancabile agendina.
Salutiamo Farzåd, lo lasciamo alle sue consegne in bicicletta tra le bollenti
strade di Roma e alle sue conversazioni con gli amici in Iran. E nella mente
rileggo i biglietti lasciati da Langer quel 3 luglio 1995. L’ ultimo è
un’esortazione: “Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”. (marzia
coronati)
(disegno di canemorto)
Con la sentenza n.76 del 2025 la Corte Costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità parziale dell’articolo 35 della legge 833/1978, che norma il
Trattamento sanitario obbligatorio, ex articolo 3 della legge 180/78, cosiddetta
“legge Basaglia”. In particolare, la sentenza ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’articolo 35 in relazione alla mancata previsione di tre
garanzie fondamentali: il diritto all’informazione e comunicazione del
provvedimento alla persona interessata o al suo legale rappresentante (avvocato,
amministratore di sostegno, tutore o curatore); il diritto della persona a
essere sentita prima della convalida; la notifica del provvedimento di Tso alla
persona interessata o al suo legale rappresentante.
Il giudizio di legittimità costituzionale era stato sollevato dalla Corte di
Cassazione nel settembre 2024, nell’ambito di una controversia promossa da una
donna sottoposta a Tso a Caltanissetta. La donna, tramite il suo avvocato, aveva
presentato opposizione lamentando di non aver ricevuto alcuna notifica, di non
essere stata ascoltata dal giudice e di non avere avuto strumenti effettivi per
difendersi. La Cassazione, valutando il ricorso, aveva posto in evidenza una
serie di gravi lacune nel procedimento, affermando che “la mancata audizione
della persona da parte del giudice tutelare prima della convalida rende il
controllo giudiziale meramente formale”. I giudici della Corte Costituzionale,
in seguito al ricorso presentato dalla donna in Cassazione, hanno rilevato come
l’articolo 35 della legge 833 non garantisca in effetti adeguate tutele,
evidenziando che “il sindaco e il giudice tutelare comunicherebbero tra loro, ma
nessuno dei due comunicherebbe con il paziente”.
La sentenza della Corte Costituzionale dovrebbe avere da ora effetto immediato
su tutti i procedimenti in corso e su quelli futuri. I sindaci, in qualità di
autorità sanitarie locali, dovranno garantire, ai sensi del pronunciamento, che
il provvedimento sia notificato alla persona o al suo legale rappresentante. I
giudici tutelari saranno obbligati quindi ad ascoltare l’interessato prima di
convalidare il trattamento e la mancata osservanza di tali garanzie potrà
determinare l’illegittimità del Tso. Di prassi, il legislatore dovrebbe inoltre
intervenire per adeguare il testo normativo al nuovo orientamento
costituzionale.
LA SENTENZA
Abbiamo ritenuto opportuno approfondire i meccanismi interni della sentenza.
Secondo la Corte Costituzionale l’assenza della tempestiva informazione sulle
modalità di opposizione costituisce “un ostacolo rilevante all’esercizio del
diritto a un ricorso effettivo alla difesa e, in ultima istanza, a un giusto
processo”, anche se la 833 preveda la possibilità di chiedere la revoca del
provvedimento di Tso e di proporre successiva opposizione. La Corte ha sostenuto
che la non comunicazione, la mancata audizione del giudice tutelare e la mancata
convalida del provvedimento rappresentino “una violazione del diritto al
contraddittorio e alla difesa, dunque un deficit costituzionalmente rilevante”.
Ha fatto appello in particolare ad articoli fondamentali della Costituzione: il
13, sulla libertà personale, il 24, sul diritto di difesa in giudizio, e il 111,
sul giusto processo.
La Consulta ha stabilito che la persona sottoposta a Tso deve essere messa a
conoscenza del provvedimento restrittivo della libertà personale e deve
partecipare al procedimento di convalida, in quanto titolare del diritto
costituzionale di agire e di difendersi in giudizio, anche nel caso in cui si
trovi in stato di “incapacità naturale”.
Nella sentenza è scritto inoltre che l’audizione della persona sottoposta a Tso
da parte del giudice tutelare debba avvenire prima della convalida “presso il
luogo in cui la persona si trova – normalmente un reparto del servizio
psichiatrico di diagnosi e cura”, perché questo incontro tra paziente e giudice
“è garanzia che il trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di
violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà
personale (articolo 13, quarto comma, della Costituzione) e nei limiti imposti
dal rispetto della persona umana (articolo 32, secondo comma, della
Costituzione)”. L’audizione per la convalida – che deve avvenire entro
quarantotto ore – rappresenta un primo contatto che consente al giudice tutelare
di conoscere le condizioni della persona, compresa “l’esistenza di una rete di
sostegno familiare e sociale”.
La sentenza ha fatto anche riferimento al rapporto del Comitato europeo per la
prevenzione della tortura, che nel 2023 aveva evidenziato come il Tso in Italia
segua un “formato standardizzato e ripetitivo” in cui il giudice tutelare “non
incontra mai i pazienti che rimangono disinformati sul loro status legale”. La
Corte non si è limitata alla questione Tso, mettendo giustamente in discussione
l’analogo dispositivo amministrativo restrittivo della libertà personale che
riguarda i migranti senza documenti: “L’accompagnamento coattivo alla frontiera
e il trattenimento dello straniero nei centri di permanenza per il rimpatrio
devono essere assistiti dal diritto di essere ascoltati dal giudice in sede di
convalida, sicché sarebbe irragionevole e lesiva del principio di eguaglianza
l’omessa previsione di analogo adempimento nel trattamento sanitario coattivo”.
QUARANTASETTE ANNI SENZA COSTITUZIONE
Se il Tso è stato costituzionalmente illegittimo finora, chi ci garantisce che
le cose cambieranno? Con che modalità queste persone saranno ascoltate? Verranno
tutelate la libertà e il diritto di difesa della persona che la sentenza della
Corte Costituzionale, in maniera precisa, definisce? Malgrado la sentenza abbia
riportato a chiare lettere che l’audizione debba avvenire nello stesso luogo in
cui la persona si trova, il tribunale di Milano ha già chiesto l’attivazione di
un numero per fare le audizioni in videochiamata. Il rischio è dunque che questa
nuova procedura venga risolta aggirando i dispositivi più tutelanti, in barba
alla stessa sentenza. Quale tutela, quale salvaguardia di diritti potrebbe
assicurare una videochiamata, magari in presenza di personale sanitario, con un
paziente già sedato? In queste condizioni immaginiamo i giudici tutelari
convalidare i Tso come un atto meramente burocratico: tutt’altro che come
garanzia di controllo sul divieto di violenza fisica e morale indicato nella
sentenza.
Se la legge prevede il ricovero coatto solo in casi limitati e nel rispetto
rigoroso di alcune condizioni, la realtà testimoniata da chi la psichiatria la
subisce è ben diversa. Chi scrive sa bene – dopo vent’anni di esperienza
accumulata attraverso lotta dura contro le pratiche manicomiali – che il
protocollo della procedura di imposizione di Tso molto spesso non è applicato, e
che il trattamento non è affatto un provvedimento di extrema ratio. Troppo
spesso le procedure giuridiche e mediche durante il Tso vengono aggirate: nella
maggior parte dei casi i ricoveri coatti sono eseguiti senza rispettare le norme
che li regolano e seguono il loro corso semplicemente per il fatto che quasi
nessuno è a conoscenza delle normative e dei diritti della persona.
Uno degli inganni del sistema psichiatrico sta nel far credere che un Tso duri
in fondo solo sette giorni, o quattordici nel caso peggiore. La verità è che il
Tso implica una coatta presa in carico della persona da parte dei servizi di
salute mentale del territorio che può durare per decenni. Una volta entrato in
questo meccanismo infernale, una volta bollato con lo stigma della “malattia
mentale”, il paziente vi rimane invischiato a vita, costretto a continue visite
psichiatriche e, soprattutto, alla somministrazione obbligatoria di
psicofarmaci, pena un nuovo ricovero coatto. Per i ricoverati in Tso si ricorre
ancora spesso all’isolamento e alla contenzione fisica, mentre i cocktails di
farmaci somministrati mirano ad annullare la coscienza di sé della persona, a
renderla docile ai ritmi e alle regole ospedaliere. Il grado di
spersonalizzazione e alienazione che si può raggiungere durante una settimana di
Tso ha pochi eguali, anche per il bombardamento chimico a cui si è sottoposti.
L’obbligo di cura non significa più necessariamente e solamente reclusione in
una struttura, ma si trasforma nell’impossibilità di modificare o sospendere il
trattamento psichiatrico, sotto costante minaccia di ricovero coatto, sfruttato
come strumento di ricatto, punizione e repressione.
IL TSO COME VIOLAZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI
Come Collettivo riteniamo però che ci sia una seconda, ulteriore, considerazione
di cui tenere conto. La sentenza n.76, pur non menzionando esplicitamente la
contenzione meccanica, offre, a nostro avviso, un forte potenziale
interpretativo critico. Il nucleo della pronuncia è il rafforzamento del
controllo giurisdizionale sul Tso, tramite l’audizione preventiva e in loco
della persona da parte del giudice tutelare. La Corte esplicita, ed è questo
l’elemento che vorremmo sottolineare, che tale audizione è “garanzia che il
trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di violenza fisica e morale
sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale” (articolo 13,
comma 4 della Costituzione) e “nei limiti imposti dal rispetto della persona
umana” (articolo 32, comma 2 della Costituzione). La sentenza parla inoltre di
“audizione”, e quindi di ascolto.
Deducendo da ciò: la contenzione meccanica, essendo una limitazione fisica
diretta e potenzialmente lesiva della dignità, rientra a pieno titolo nelle
“violazioni fisiche e morali” e nel mancato “rispetto della persona umana”.
Difficilmente si può pensare che, ascoltando la persona in stato di malessere si
possa poi procedere a legarne gli arti o a limitarne la mobilità in modo
pesantemente coercitivo.
La sentenza, esigendo un controllo giudiziale non più formale ma sostanziale
sulla concreta esecuzione del trattamento, rende ogni ricorso alla contenzione
immediatamente sindacabile e, riteniamo, censurabile sotto il profilo di questi
inderogabili principi costituzionali. La sua applicazione, pertanto, è ora
direttamente e immediatamente riconducibile a una possibile violazione dei
diritti fondamentali della persona, richiedendo una strettissima aderenza ai
criteri di necessità ed eccezionalità per sfuggire alla qualificazione di
violenza costituzionalmente illegittima. (collettivo antipsichiatrico antonin
artaud)