Acerra, 10 maggio 2025. In quello che per tre decenni è stato un luogo simbolo
dell’emergenza rifiuti, e contemporaneamente delle lotte ambientali, sfila il
corteo che pretende l’esecuzione della sentenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo con cui si condanna l’Italia per non aver tutelato la salute dei
propri cittadini, imponendole di attuare un piano di bonifiche nell’arco di due
anni.
Comitati, studenti, attivisti e cittadini da tutta la provincia compresa tra
Napoli e Caserta affollano le strade del centro cittadino al grido di “abbiamo
sempre avuto ragione noi”. Più che dai presenti il corteo si racconta, però, a
partire dagli assenti.
Nonostante l’appuntamento sia in piazza Duomo, il primo è proprio il vescovo,
monsignor Di Donna. Il pastore gode di grande credito sul territorio, e aveva
guidato il proprio “gregge” nel corteo del 2023 contro la quarta linea
dell’inceneritore (in aperto scontro con l’esecutivo regionale); oggi, però,
sembra aver ripiegato su posizioni più moderate e di dialogo con il commissario
unico per le bonifiche, Giuseppe Vadalà. Un repentino cambio di rotta successivo
all’ultima legge di stabilità che, come denunciano alcuni consiglieri regionali,
vede una pioggia di finanziamenti attribuiti alle diocesi, senza, dall’altro
lato, l’elaborazione di particolari progettualità o strategia di sviluppo del
territorio.
All’appello mancano anche i rappresentanti istituzionali: il presidente del
consiglio comunale Raffaele Lettieri (ex sindaco per due mandati) e il sindaco
Tito D’Errico, eletto proprio con Lista Lettieri. In un comunicato, la giunta
acerrana ha richiamato più alle “responsabilità istituzionali […] che alle
azioni dimostrative (in quanto) la difesa dell’ambiente non può diventare
terreno di scontro ideologico né strumento di visibilità”. È una sollecitazione
che potrebbe anche essere auspicabile, se non fosse che negli ultimi tredici
anni le responsabilità sono state in capo a questi stessi amministratori e che i
due milioni e settecentomila euro per la bonifica del sito di Calabricito, per
esempio, erano già stati stanziati dieci anni fa (proprio con un accordo di
programma tra la Regione e RaffaeleLettieri): il progetto invece non è stato
portato a termine, mentre l’ente guidato da Vincenzo De Luca continuava a
finanziare programmi di “rigenerazione integrata urbana sostenibile” (PRIUS),
l’ultimo dal valore di quattordici milioni di euro. Il comunicato istituzionale
si chiude con un richiamo alla fiducia nella “filiera istituita tra diocesi,
Comune e Regione, ora ampliata al governo, nelle veci del Commissario unico
Vadalà” (“[…] chi si impegna veramente per il Bene di Acerra”).
Probabilmente questi esponenti istituzionali non sarebbero stati ben accolti dai
partecipanti al corteo, e nello specifico dagli studenti che hanno coniato per
loro una serie di slogan divenuti celebri, al suono dei quali li hanno
allontanati dalle ultime manifestazioni. Colpito da una feroce campagna di
repressione per opera della dirigenza scolastica nel 2024, quando il preside La
Montagna sospese settantuno studenti (ritirando poi il provvedimento) dopo
l’occupazione del liceo De Liguori, il movimento studentesco ha visto in questi
ultimi anni indebolite le proprie capacità organizzative. Ciò nonostante, a
questi ragazzi va il merito di farsi portavoce di una libera e sincera rabbia,
senza la quale questo corteo trascorrerebbe anche troppo tranquillamente, nonché
del coraggio necessario per portare avanti una lotta anche quando non è più così
popolare.
Mentre la manifestazione prosegue, tra la folla prova a farsi notare qualche
altro personaggio che oggi si pone in opposizione alla giunta comunale, e che
della tutela dell’ambiente ha fatto il fulcro della propria campagna elettorale
nel 2022. Ancora una volta, però, si tratta degli stessi politici che,
rivestendo posizioni di rilievo, non hanno portato avanti azioni concrete in
tema ambientale nell’ultimo decennio: tra questi vale la pena citare anche solo
i membri dell’amministrazione Esposito, responsabili, per esempio, di non aver
mai fatto entrare in funzione gli impianti di depurazione della falda acquifera
costruiti dall’amministrazione precedente, avendo allo stesso tempo continuato a
pagare il personale che vi agiva.
“Bonifiche subito!” è uno slogan che ritorna da trent’anni e che rischia di
assolvere tutti se non ci si assume la responsabilità di una trasformazione
trasversale, come spesso ripete Valentina Centonze, avvocata che ha promosso e
vinto il ricorso alla Cedu. Un rischio concreto insito nello strumento stesso
del commissariamento promosso dal governo Meloni: in primo luogo, perché il
commissario assolve a un incarico che ha un preciso inizio e una fine, connesso
strettamente ai fondi stanziati (ne consegue che, laddove lo stanziamento fosse
insufficiente, le istituzioni potrebbero trovare il modo di “assolversi” di
fronte alla Corte); in secondo perché il decreto legge del 14 marzo che gli
conferisce l’incarico demanda al commissario l’individuazione dei fondi e le
operazioni di bonifica, il monitoraggio sanitario e il piano comunicativo, ma
trascura la prescrizione più significativa della sentenza: l’istituzione di
un’autorità indipendente composta dalla società civile, che prenda parte al
processo decisionale e vigili sulle operazioni, oltre che l’avvio di una riforma
in materia penale e amministrativa in relazione ai reati ambientali e al
meccanismo di individuazione delle responsabilità.
La Terra dei fuochi non può essere una questione isolata, scindibile dal
conteso. Un contesto di piccole e medie imprese che si fondano su regimi di
lavoro per lo più irregolare, e che scaricano spesso sulla collettività la voce
più onerosa del loro bilancio: quella dello smaltimento dei rifiuti industriali;
un contesto in cui agisce una classe politica il cui unico scopo, ben lungi dal
farsi espressione delle esigenze del territorio, è stato quello di mantenere lo
status quo, tutelando i propri interessi particolari e le proprie clientele.
Infine, il contesto di una società che dopo anni di lotte ha smarrito sé stessa,
intrappolata in un vuoto politico che ha inaridito il territorio e disintegrato
qualsivoglia tendenza all’emancipazione collettiva.
Dopo un lungo percorso il corteo si chiude con l’intervento del Comitato unico
contro la quarta linea, che prova a dare nuova linfa alla mobilitazione e su cui
adesso pesa la responsabilità di tenere alto il conflitto nelle sedi
istituzionali, ribaltando una narrazione che mostra la popolazione come un
soggetto passivo e vittimizzato. La sfida è quella di non abbassare la guardia
rispetto agli interventi in programma, pianificati da chi con una mano firma
l’avvio delle bonifiche e con l’altra rinnova il contratto di gestione
dell’inceneritore (attraverso una gara di appalto dai contenuti piuttosto
ambigui, che aumenta la capacità inceneritiva di ulteriori 100.000 tonnellate).
Non c’è più tempo per protagonismi o richiami populistici: è il momento di
intervenire direttamente su un modello di sviluppo che antepone il profitto alla
salute degli abitanti, di disegnare un futuro diverso anche solo in memoria
degli unici assenti giustificati di questo corteo: le vittime. (maddalena de
simone)
Source - NapoliMONiTOR
Cronache, libri, disegni e reportages
(disegno di adriana marineo)
Sulle serrande chiuse davanti al giardino Maria Teresa di Calcutta, in corso
Giulio Cesare, compaiono due scritte: “meno filantropi, più licantropi” e
“Partito Democratico e Sinistra Ecologista: per ogni sgombero un bene comune”.
Incalza da anni la repressione delle occupazioni nei quartieri a nord della
Dora: l’asilo di via Alessandria è stato sgomberato nel 2019 e un’altra
palazzina occupata poco lontano è stata circondata dalla polizia nel gennaio del
2021. E numerosi, solo nell’ultimo anno, sono gli interventi contro
le occupazioni delle case popolari: questi sgomberi sono rivendicati
dall’amministrazione attuale, guidata dai due partiti menzionati dal graffito.
Appare il paesaggio contemporaneo delle politiche per la casa: assieme alle
irruzioni di polizia nascono e si diffondono le soluzioni abitative
sedicenti innovative, promosse dal terzo settore e dai capitali delle fondazioni
bancarie. Forze diverse disegnano un presente dove è rimossa la possibilità di
occupare la proprietà. Le serrande su cui compaiono le scritte appartengono al
primo Community Land Trust in Italia.
* * *
C’è un palazzo di sei piani in corso Giulio Cesare, vicino alla scuola Parini e
di fronte all’ingresso del giardino Madre Teresa di Calcutta. Il palazzo ora è
vuoto, le persiane sono chiuse, ma voci in quartiere raccontano di
un’occupazione informale sgomberata dalla polizia al tempo della pandemia. In
strada, accanto al portone, ci sono un fast food e un bar che prepara frullati
alla frutta.
Il palazzo accoglierà il primo Community Land Trust (CLT) in Italia. Il CLT è
una forma di proprietà che afferisce al diritto privato con il fine di rendere
accessibile la piccola proprietà immobiliare alle classi sociali meno abbienti.
Il CLT s’origina dalle pratiche abitative comunitarie negli Stati Uniti del
secolo scorso ed è giunto in Europa come nuovo strumento delle politiche sociali
innovative, ovvero iniziative dove gli interessi privati si armonizzano, almeno
nelle intenzioni, con il beneficio pubblico. Alla base del CLT c’è un soggetto
privato – un trust – che compra l’intera proprietà e rivende le unità
immobiliari singole (gli appartamenti), mantenendo però il controllo del suolo.
Un appartamento senza il valore del suolo è così acquistabile a un prezzo
inferiore rispetto alle altre unità presenti nella medesima area. Gli
acquirenti, in seguito, possono rivendere il loro appartamento soltanto al
trust, che trattiene buona parte dell’incremento di valore immobiliare
accumulato nel tempo. A sua volta il trust immetterà sul mercato la stessa
unità, ma a un prezzo superiore adeguato all’inflazione e all’aumento dei prezzi
avvenuto nell’area urbana. Il CLT controlla così il plusvalore immobiliare e al
contempo promette prezzi delle case più bassi rispetto agli standard del
quartiere.
Il palazzo in corso Giulio Cesare è stato rilevato nel 2023 dalla Fondazione di
Comunità di Porta Palazzo. La fondazione ha impiegato i fondi (circa mezzo
milione di euro) raccolti dalla Compagnia di San Paolo, da enti privati e da
singoli cittadini a cui è garantita la restituzione del prestito dopo due anni
con il due per cento di interessi. Per governare il trust è stata costituita la
Fondazione CLT Terreno Comune che, alla fine della ristrutturazione, venderà gli
appartamenti a famiglie selezionate che rispettino criteri stringenti, fra cui
quello di avere un unico reddito fra i 1300 e i 1500 euro mensili. Ogni
famiglia accederà a un mutuo per acquistare l’appartamento.
Il CLT è governato da un consiglio di amministrazione dove siedono
rappresentanti dei proprietari, degli abitanti del quartiere e dei portatori di
interesse pubblico che insistono sull’area. Il governo del CLT ha il compito,
fra gli altri, di investire i capitali accumulati in interventi di rigenerazione
dell’isolato, così da incrementare ulteriormente il valore e l’appetibilità del
palazzo. I promotori del CLT in corso Giulio Cesare sostengono di aver creato
uno strumento volto al contrasto della speculazione immobiliare e
dell’esclusione abitativa.
Le contraddizioni, tuttavia, appaiono a uno sguardo attento. Nonostante sia un
progetto di inclusione sociale con ambizioni di gestione democratica, la
selezione delle famiglie che hanno la possibilità di accedere al mutuo per
acquistare gli appartamenti sarà appannaggio della stessa fondazione. Ancora una
volta sono le classi dirigenti – borghesi, progressiste, bianche – a scegliere
chi siano i meritevoli ad accedere ai progetti di innovazione sociale.
La selezione, d’altra parte, deve essere ben ponderata: sarebbe spiacevole
sfrattare una famiglia perché chi lavora ha perso un impiego precario e non può
più pagare il mutuo. Inoltre questo modello non ostacola la rendita immobiliare,
anzi la sostiene e fomenta. Le classi dirigenti progressiste si limitano a
controllare la speculazione, promettendo di calmierare gli effetti più violenti
e redistribuire i dividendi ai loro sostenitori. Più che lotta alla
speculazione, il CLT sembra un governo del capitale immobiliare da parte di un
soggetto privato e filantropico, capace di elaborare politiche sociali
remunerative a del tutto inadeguate a rispondere alle esigenze delle classi
sociali più povere e precarie. Un programma di ingegneria sociale governato dai
buoni sentimenti di una borghesia convinta d’essere illuminata. (voce a cura di
francesco migliaccio)
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QUI L’INDICE DELLA CARTOGRAFIA
(disegno di martina di gennaro)
Può accadere che trovandosi a Istanbul e dicendo che ti stai recando in uno dei
suoi distretti, a Silivri, qualcuno ti risponderà che “a Silivri fa freddo”.
Anche se è estate inoltrata e ci sono trentacinque gradi. Situata sulla sponda
europea della provincia di Istanbul, antico villaggio di pescatori, dal 2008
ospita la più grande prigione europea con una capienza di 11 mila persone e ne
detiene attualmente circa 22 mila, tra cui una buona parte di prigionieri
politici detenuti in un regime di carcere duro noto come prigione di tipo F. È
da questa grigia superficie, che si estende su 955.354 metri quadrati, che
proviene l’aria gelida di Silivri.
All’interno dello stesso comune, a circa venti chilometri di distanza, sorge
un’altra struttura detentiva, meno rinomata, il Centro di permanenza per il
rimpatrio femminile di Selimpaşa, uno dei trenta Cpr costruiti in Turchia in
seguito agli ingenti finanziamenti che dal 2015 vengono stanziati dall’Unione
europea all’interno di progetti per il supporto di “pace e stabilità” (IcPS) con
l’intento di contenere e controllare i migranti verso l’Europa da Siria, Iran,
Iraq e Afghanistan.
In un comunicato stampa in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, il
partito Dem (partito dell’uguaglianza e della democrazia tra i popoli) afferma
che i Cpr “sono luoghi costruiti appositamente per torture e maltrattamenti” e
che “l’accordo con l’Unione europea è di per sé un crimine”. Sono numerosi gli
immigrati a essere arrestati e trattenuti arbitrariamente in questi centri e
rispediti illegalmente nei paesi di provenienza, anche in seguito a richiesta di
asilo, attraverso l’ottenimento delle loro firme di rimpatrio volontario,
sottratte utilizzando tecniche ingannevoli o violenza psicologica e fisica. Il
numero di arresti si è intensificato notevolmente dopo le ultime elezioni
presidenziali, con l’aumento di controlli capillari supportati da camionette
predisposte esclusivamente alla detenzione degli immigrati. Nel giugno 2024 il
ministro dell’interno Ali Yerlikaya ha dichiarato compiaciuto che “nell’ultimo
anno si è raggiunto il numero record di 141.187 espulsioni di stranieri
irregolari”.
Fuori al Cpr di Selimpaşa, ogni mercoledì, una fitta folla aspetta in fila per
registrare le impronte digitali su un veicolo sul quale compaiono, congiunte, la
bandiera turca insieme a quella dell’Unione Europea. Per chi è riuscito a uscire
e si trova sotto sorveglianza amministrativa con obbligo di firma in attesa di
processo, l’incremento dei detenuti è stato tangibile: “Una volta al mese
veniamo a firmare – dice una donna in fila –, se prima si aspettava non più di
mezz’ora, dalla metà del 2023 la gente che è entrata qui è aumentata e si sta in
fila in piedi anche per quattro ore sotto il sole e le intemperie; ci sono donne
incinte e bambini piccoli, se ci si lamenta e ci si siede in un angolo fuori
dalla fila i gendarmi richiamano all’ordine e minacciano di rimetterci dentro.
Se sono stranieri, minacciano anche i nostri accompagnatori”.
Alcune attiviste arrestate in seguito al corteo del 25 novembre (giornata
mondiale contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere)
descrivono lo spazio detentivo come insufficiente e malsano: “La struttura si
compone di tre piani riservati alle sezioni. In ognuna di esse, appena superate
le sbarre, si è subito catapultati nello stretto corridoio affollato da
materassi, ai cui lati si aprono sette stanze fornite di letti. La più grande ne
conteneva sei. I bagni utilizzabili nella nostra sezione erano tre. Le docce
due, di cui una ricavata da un precedente bagno alla turca riempito
grossolanamente con qualcosa di simile allo stucco per chiudere l’orinatoio.
Abbiamo provato a contare le donne detenute al terzo piano e crediamo
raggiungessero circa il centinaio al nostro ultimo giorno di detenzione.
Riscontriamo più persone che entrano rispetto a quelle che escono ed è molto
probabile che una buona parte di chi è uscito sia stata in realtà trasferita in
altri centri; accade spesso che ti dicano che verrai liberato, ma in realtà ti
trasferiscono in Cpr più lontani dal luogo di residenza, a Gaziantep, Şanlıurfa
e Erzurum, più vicini ai confini con Siria, Afghanistan e Iran, rallentando cosi
le procedure legali per le scarcerazioni e agevolando la procedura di rimpatrio
‘volontario’ in piena violazione del principio di non-refoulement sancito dalla
Convenzione di Ginevra. È raro che il trasferimento venga notificato, dal
momento che sono frequenti i casi in cui avvocati e famiglie ne sono venuti a
conoscenza a deportazione avvenuta. La comunicazione con l’esterno è assai
limitata: hai a disposizione dieci minuti due giorni a settimana, dalle 16 alle
20 circa, ma gli orari vengono decisi arbitrariamente dalla guardia di turno. Il
tempo non era mai sufficiente per le chiamate di tutte e inoltre, se non hai a
disposizione il denaro contante per ricaricare la scheda telefonica non hai
possibilità di comunicazione, così come di accedere ai beni di prima necessità
venduti allo spaccio del centro a prezzi che superano quelli del mercato fuori.
“È negato il diritto alla salute, è ostruito l’accesso a qualsiasi tipo di
farmaco proveniente dall’esterno e l’unica cura possibile a qualsiasi tipo di
male fornita dal centro è una pillola di ‘antibiotico’ del quale non conosciamo
il principio attivo, consegnata direttamente sul palmo della mano, priva del suo
blister. Jana, una giovane donna sudamericana [nome e provenienza di fantasia],
che riportava una ferita sull’arco palmare suturata con dei punti metallici per
spillatrice, svigorita dalla permanenza in quel luogo firmò per il rimpatrio.
Per legge, la Direzione provinciale per la gestione delle migrazioni dovrebbe
finanziarne i costi, ma fu costretta a chiedere un prestito a qualcuno
oltreoceano per acquistare un biglietto aereo. Il giorno del volo partì in
direzione aeroporto con la camionetta guidata dai gendarmi. Non sappiamo
esattamente cosa accadde ma la riportarono indietro dopo qualche ora. Ci
dirigemmo verso di lei non appena oltrepassò le sbarre: il suo sguardo era
orientato in una direzione che non era la nostra e quella di nessun altro lì
dentro, non rispondeva a nessuno stimolo. Si accostò a uno dei materassi
posizionati ai lati del corridoio per sdraiarsi e ci rimase come se fosse morta
per i due giorni successivi. Dopodiché siamo uscite e non abbiamo saputo più
niente di Jana, non ci ha mai richiamate al recapito che le avevamo lasciato”.
In seguito agli arresti arbitrari di cinque persone straniere – tra cui anche di
provenienza europea – avvenuti durante il ventunesimo Pride di Istanbul (2023),
un’associazione di avvocati volontari ha denunciato le condizioni di detenzione
in questi centri, i trattamenti inumani e degradanti, la mancanza di accesso a
cure mediche adeguate, alla ventilazione, la scarsa igiene (GGM’lerde Neler
Oluyor?). Uno degli attivisti arrestati riportava una ferita alla gamba che non
è mai stata curata adeguatamente in un luogo sterile. È stato reso noto il
limitato accesso alla protezione internazionale e il contenimento arbitrario
della comunicazione con i propri clienti. Nell’autunno 2024 alcune studentesse e
attiviste palestinesi dell’organizzazione Filistin için bin genç sono state
arrestate (anche con raid domestici a seguito di perquisizioni a casa),
trattenute in custodia cautelare per diciotto ore senza possibilità di
soddisfare i propri bisogni primari e trasferite nel Cpr di Selimpaşa al cui
ingresso, segnala l’organizzazione, è stato strappato loro l’hijab. L’accusa
illegittima è di vilipendio al presidente e violazione dei termini della legge
n. 2911, entrata in vigore dopo il golpe militare del 1980, che limita il
diritto di riunione e manifestazione, per aver esposto all’interno della
campagna “Stop fueling genocide” gli accordi commerciali turchi con Israele e la
compagnia energetica azera Socar. Da Ceyhan, a sud della Turchia, viene spedito
infatti il petrolio azero fino al porto di Ashkelon, circa il trenta per cento
del petrolio importato dall’entità israeliana. Attribuendo in aggiunta vaghe
accuse come il rappresentare una “minaccia per l’ordine pubblico” questi centri
diventano anche il luogo per silenziare studenti non cittadini, migranti e tutte
le persone in movimento che denunciano apertamente il razzismo, lo sfruttamento,
la violenza patriarcale e le politiche governative. (dalila procopio)
(disegno di ottoeffe)
Avevo vent’anni, ero giovane e inesperto ma scrivevo già meglio di altri
colleghi con il doppio della mia età. Il caporedattore di Cronache di Napoli mi
mise a fare un’inchiesta sulla casa. Era una roba abbastanza complessa: si
trattava di mettere in relazione, andandola a verificare sul campo, la
condizione penosa dell’edilizia pubblica nei quartieri più periferici e
complicati con il piano politico, e soprattutto con le vicende giudiziarie che
stavano coinvolgendo Alfredo Romeo, gestore di quel patrimonio per conto del
Comune. In due mesi tirai fuori un bel lavoro, così che qualcuno mi suggerì,
dopo la sua pubblicazione, di proporlo anche a un periodico di approfondimento e
reportage, all’epoca a me sconosciuto (forse ho già raccontato di questa
vicenda, ma la memoria ormai m’inganna). L’inchiesta – ampiamente rivista dal
responsabile editoriale – fu il mio primo pezzo per Monitor: andò in prima
pagina sul tabloid, una sciccheria che, ad averci i soldi, bisognerebbe
riproporre.
(n. 26, ottobre 2009)
Mentre facevo le interviste, raccolsi anche del materiale video e lo montai in
un documentario, dal contenuto interessante ma dalla forma oscena. I redattori
di Monitor me lo fecero comunque proiettare in un evento pubblico nella
redazione della Sanità, credo per incoraggiarmi a continuare a frequentare il
giornale. Quando qualche mese dopo gli chiesi un parere su quel lavoro, R. mi
rispose laconico: «La forma è il contenuto».
Tuttavia ci sono delle menzogne che, se le si crede, non recano alcun danno, per
quanto l’intenzione di ingannare anche con questo tipo di menzogne non è esente
da danni: i quali però ricadono su chi mente e non su chi gli presta
fede. (sant’agostino, contro la menzogna)
Oltre che in matematica, a scuola, ero molto scarso anche in filosofia, complici
docenti dalla preparazione e dalle capacità comunicative imbarazzanti. So, però,
che su forma e contenuto delle cose interessanti le ha dette Kant, così me ne
sono andate a cercare alcune. Oggi mi sembrano più chiare.
Nella sua Critica della ragion pura adopera la parola “forma” per descrivere le
categorie entro cui la conoscenza è in grado di ordinare la realtà fenomenica.
Spazio e tempo cessano di essere contenuti e iniziano ad essere modi, categorie
attraverso cui la sensibilità umana può conoscere. Ma la forma, ogni forma, pone
sempre il problema della sua necessità. E così, nella Critica del giudizio, Kant
si domanda quale sia la facoltà umana in grado di trovare il senso della forma.
È l’intelletto, legiferante, che stabilisce i significati. (carlotta
bandieramonte, culturefuture.net)
Se il linguaggio è contenuto e il contenuto è politico, allora il linguaggio è
politico. E quindi ci sono parole precise per discriminare una persona per la
sua religione, il suo colore della pelle o la sua provenienza, e altre per
attaccarne un’altra che si professa seguace di una ideologia basata
sull’omicidio e la deportazione (caso in cui, per quanto mi riguarda,
bisognerebbe direttamente menargli, alla persona in questione). Sulla vicenda
del blitz di due provocatori sionisti in un ristorante napoletano che aderisce a
campagne contro l’apartheid israeliano si è detto e scritto anche troppo:
l’importante è che la comunità vicina a Nives Monda (che è proprietaria e
organizzatrice di quel luogo) sia riuscita a rispondere con una certa prontezza
proteggendola da un linciaggio assai pericoloso, nei tempi in cui un cinguettio
e una recensione su Tripadvisor, e le implicazioni che si trascinano dietro,
possono far sicuramente più male di un calcio nel sedere.
Resta l’indecente figura fatta dal comune di Napoli e dalla sua assessora al
turismo Teresa Armato, che si è precipitata a solidarizzare con i provocatori
sionisti, invece di provare a capire i fatti e andare a sostenere Nives e i
lavoratori di quell’attività.
La Suprema Corte (sent. n. 48553/2011) ha stabilito che chiamare “parassita” un
personaggio politico costituisce diffamazione a meno che non si argomentino le
ragioni dalle quali l’insulto è scaturito. Perché vi sia esercizio del diritto
di critica, è necessario insomma che il giudizio – anche severo, anche
irriverente – sia collegato col dato fattuale dal quale il “criticante” prende
spunto. (laleggepertutti.it)
Tornando su piani più alti, se il rapporto tra forma e contenuto, per esempio
nell’arte, è tema troppo profondo persino per questa rubrica, alcuni spunti
utili possono tornarci da immagini efficaci, pur portatrici di linee
discutibili.
Apprezzabile, sul tema, è Vladimir Ermakov, critico letterario e traduttore
russo:
La forma si fonde al meglio con il contenuto proprio quando non si fa notare. È
come la buona vodka in un bicchiere trasparente.
Un po’ meno Wilde:
Odio il realismo volgare nella letteratura. Chi chiama vanga una vanga dovrebbe
essere costretto ad usarla. È l’unica cosa per cui è adatto.
Altre suggestioni dal più noto Bertoli:
E adesso che farò non so che dire:
ho freddo come quando stavo solo,
ho sempre scritto i versi con la penna
non ho ordini precisi di lavoro. […]
Adesso dovrei fare le canzoni
con i dosaggi esatti degli esperti.
Magari poi vestirmi come un fesso
per fare il deficiente nei concerti.
E dal solito Tolstoj:
Il contenuto deve essere facile da capire, non astratto. È assolutamente falso.
Il contenuto può essere come volete. Ma non si deve sostituire l’andare al sodo
con le chiacchiere, non si deve nascondere con parole scelte il vuoto del
contenuto.
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/05/bsg-clip.mp4
(credits in nota1)
POST SCRIPTUM – Qualche giorno fa, parlando con una cara amica e compagna di
forma e contenuto nel discorso politico “interno” (inteso come il confronto tra
militanti che fanno parte di uno stesso gruppo), riflettevamo sull’opportunità o
meno di inserire dei filtri nel linguaggio, a beneficio degli attivisti più
giovani che hanno sviluppato una sensibilità più elevata, rispetto alla nostra,
in relazione alla forma-parola. Abbiamo preso atto alla fine che forse dovremmo,
ma che probabilmente non ne siamo capaci, per cui la sua soluzione (sensata) è
dire a tutti (e tutte) qualcosa tipo: mi dispiace se ho avuto dei modi troppo
diretti, fatemelo notare, magari davanti a una birra così siamo tutti più
rilassati.
Forse sbagliammo ‘e modi
ma nun sbagliammo moda.
Trasimm’ int’a galera
cu ‘a tuta r’a Legea.
a cura di riccardo rosa
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¹ Christoph Waltz in: Bastardi senza gloria, di Quentin Tarantino (2009)
(una storia disegnata di ginevra naviglio)
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A questo link tutte le puntate dell’inchiesta
(disegno di escif)
Ogni vulnerabilità genera una dinamica di potere. Il malato è un oppresso in
questo sistema. Ogni ricovero che mi è capitato è stato lo scontro con la
distruzione totale. Il viaggio della malattia è terribile come quello dei
migranti, come quelli dei poveri, perché smaschera cose della vita terribili. La
prepotenza contro il debole come sistema. E le cure dovrebbero tenere conto
della sapienza che soltanto il soggetto-corpo conosce intimamente. Invece il
malato è un soggetto minorato escluso dalla gestione del suo stesso destino. Si
può usare questa esperienza per diventare persone migliori e per comprendere che
la malattia lavora contro il potere perché ti impone di conoscerlo. (Giovanna
Ferrara)
Se è difficile leggere un libro che sappia unire in una sola trama lucidità di
analisi e bellezza di scrittura, L’innocenza dei dinosauri di Giovanna Ferrara
(edito da Fuorilinea) è la dimostrazione che – a partire dal proprio dolore – è
possibile tenere insieme queste due dimensioni in un equilibrio di scrittura
affascinante, lieve e delicato.
L’innocenza dei dinosauri è un romanzo/diario che racconta di desideri e di
dolore, di amore e politica, di amicizia e di malattia. Un libro che è lo
specchio di un’assenza, perché Giovanna, “generosa, appassionata e danzante”
giornalista de il Manifesto, studiosa di storia e cultura europea, è scomparsa a
Padova nel 2023, qualche mese dopo un trapianto che sembrava averle ridato una
prospettiva di futuro.
Tutto il respiro che avevo era pianto
Un’ esperienza autobiografica che nasce dalla diagnosi di una rara malattia
polmonare (ancora più raro che colpisca una persona giovane) che compromette in
modo grave la capacità respiratoria di Giovanna. Una malattia insidiosa che
peggiora progressivamente, per di più durante la pandemia che stravolge i
fragili equilibri della vita quotidiana. Così i ricoveri diventano un corpo a
corpo con le logiche dell’emergenza e con le regole di un sistema ospedaliero in
affanno, già svuotato da logiche aziendali e dai tagli alla spesa pubblica. La
pandemia da Covid 19 (che G. definisce l’Evento), è solo lo scenario di fondo al
racconto, l’effetto (e non la causa) di una crisi che riusciamo a vedere
davvero solo quando ci tocca in prima persona. Giovanna percorre uno a uno i
gironi di questo inferno “malattia-cura-malattia”, ne conosce gli angoli più
cupi, intuisce la luce che proviene dalle crepe, intravede le possibilità che si
conquistano con una lotta personale.
Possiamo scomporre il testo, lungo tre nuclei di fondo. La prima è il confronto
con il sistema sanitario e i suoi attori (ospedali, medici, infermieri). La
lotta contro la malattia produce un rovesciamento, diventa la lotta contro il
sistema che dovrebbe prenderti in cura e non trattarti come un sintomo.
L’incontro col sistema sanitario si sviluppa in due luoghi. Il primo è quello
della soglia, riuscire a farsi prendere in carico, superare le burocrazie
dell’attesa per ottenere una visita specialistica o per un ricovero di
emergenza: “Nell’attesa del Pronto Soccorso […] si può morire per le loro
lentezze, le loro mancanze, le storture di fronte alle quali il personale
sanitario dovrebbe allearsi con il paziente e non accanirsi contro il paziente.
Perversa è l’autorità, e allora vedi infermiere sfatte da turni inverosimili
gridare all’anziano che si lamenta, medici indifferenti, l’abbandono”.
Il secondo luogo di lotta comincia quando si è nel reparto. Qui la lotta contro
la malattia – quando si è un “corpo senza storia” – è anche un sottostare alle
misere vessazioni di chi dovrebbe prendersi cura di te. Piccoli episodi che
segnano doppiamente chi è immobilizzato dalla malattia. Dopo un intervento per
il drenaggio a un polmone, G. digiuna da un giorno, arriva in reparto alle tre
di notte e chiede se può avere dell’acqua. L’infermiere le dice che non è
possibile. Solo alle sei e trenta del mattino, un’amica che abita vicino
l’Ospedale riesce a farle avere delle bottiglie d’acqua. “Chiesi all’infermiere
[…] cosa vi avrebbe messo a prendermi dell’acqua almeno alle macchinette che
erano lì fuori con l’euro che potevo dargli. Mi disse che il servizio era
sospeso. Ma disse qualcosa di più. Qualcosa che ha studiato Foucault, che quando
stai male nasce una gerarchia. E tu dipendi dai capricci del più forte, dalle
sue simpatie, dalle sue indisponibilità. Che il gioco del potere è mortifero
perché degrada l’umanità a sopraffazione e prepotenza”.
Nel momento in cui si varca la soglia, la persona malata diventa un “corpo”
senza diritti e dignità: “La regola degli altri ospedali è molto diversa. È
fatta di attese senza lancette che scandiscono i controlli. Nella regola degli
ospedali s’insinua, sempre, qualcosa di mostruoso. Il malato vive attese
interminabili nei corridoi dei reparti. Scambia numeri e aspetta di essere
chiamato. Non sa con quali tempi riuscirà a vedere un medico o a fare un
controllo. Il tempo del malato non conta niente. Il malato non ha nient’altro da
fare che vivere la sua malattia. E in più il malato è lì non sentendosi bene. Ho
pianto spesso di rabbia nelle attese all’ospedale San Giovanni di Roma al suo
Pronto Soccorso. Ho pianto per me e per tutti noi che aspettavamo sulle barelle
un destino imprecisato. Dieci ore. Undici ore. Perdere coscienza di dove sono le
tue scarpe. Il neon sempre sparato in faccia. Le porte scorrevoli che fanno
entrare nuove barelle. Gli infermieri che fanno finta di non aver sentito che li
chiamavi”.
Attese a cui seguono altre attese, a brevi dialoghi con medici indaffarati e
stanchi che poco tempo hanno da spendere nel dialogo con il paziente. Scrive G.:
“Non voglio e non so intessere un discorso teorico sulla necessità che i metodi
di cura convergano. Non credo nemmeno che un paziente si debba addentrare in
queste analisi, perché rimane uno che non ha studiato medicina. Io ho la mia
conoscenza esperienziale. E banalmente mi piacerebbe che, nel rapporto medico
paziente, non ci fosse nient’altro che l’incontro di due uomini. Uno che parla
dell’incarnazione di quello di cui l’altro ha fatto oggetto di ricerca e studio
e pratica e approfondimento”.
G. non contesta, quindi, il “sapere medico” ma chiede di includere in quel
sapere la capacità di parlare al malato rispettando le sue emozioni e il suo
stato di vulnerabilità. Scrive così G. dell’incontro con un primario che al
primo incontro e alla prima domanda, senza nemmeno ascoltare la risposta della
paziente, guardando la Tac dice: “Vabbè, qui ci vuole un trapianto
urgentissimo”.
“Ci si può rivolgere a una donna spaventata, che ti ha cercato per chiederti […]
come fare a evitare di morire in caso di pneumotorace; che sta da sola, pallida
e confusa sulla sedia di fronte alla tua, alla quale non hai chiesto nemmeno il
nome, dicendo “ma sì, facciamo un trapianto urgentissimo (sottointeso: stai per
morire)?”.
“Ero scioccata. Sedevo sugli scalini di fronte al platano rovinato a terra ed
eravamo una sola immagine. Mi cominciò a uscire sangue dal naso. Non avevo
fazzoletti. Mi pulivo con le mani. Non sentivo più niente. Promisi a me stessa
che non volevo vedere nessun nuovo medico. Che non avrei sopportato nessuna
barbarie, nessuna insensibilità ancora […]. Cominciò lì dentro una fase nuova
per me. Qual era stato il mio ruolo nel disastro che lamentavo? Cosa raccontava
tutto quell’orrore della gestione di me, delle mie condotte? Che responsabilità
avevo?”.
La lotta contro la malattia, dunque, costringe il malato a una duplice fatica.
Si lotta per la propria vita e contro i meccanismi di mortificazione e
oggettivazione che la cura ti impone. Una lotta che appare paradossale, che ti
costringe a essere vicino a ciò che vorresti allontanare, a imparare a difendere
ciò che sei e che viene prima della malattia. Così G. riesce, non senza fatica,
a ottenere che in luogo di quanto inizialmente prescritto, le diano un farmaco
analogo che non comporti fotosensibilità, perché ciò le consente, nonostante
tutto, di andare al mare e di respirare il profumo dei limoni, “la parte di
ricchezza che spetta ai poveri, diceva Montale, E ai malati postillo io”.
Avessero almeno detto che noi, l’innocenza dei dinosauri, non l’avevamo mai
avuta
Il secondo nucleo del racconto è la riflessione “politica” che a partire
dall’emergenza Covid si sviluppa nella critica al modello economico imposto dal
neoliberismo. Comprendere il perché dell’emergenza, l’assenza di farmaci e dei
vaccini, la sospensione della vite prigioniere del lockdown, la sospensione
delle cure per le altre patologie, “capire che ruolo abbiamo nel disastro che
lamentiamo”, sono le domande indispensabili per poter fare della propria vicenda
personale un tassello di un quadro molto più grande di una singola biografia.
La pandemia ha svelato la fragilità di un sistema sanitario pubblico
progressivamente svuotato al suo interno, di una possibilità di cura che separa
chi ha risorse per entrare nel sistema privato e per chi invece è costretto a
lunghe e infinite attese. La scorciatoia è stata quella di rendere ancora più
complicato l’accesso al servizio sanitario pubblico con regole burocratiche e
incomprensibili. Tutto senza mettere in discussione la logica liberista che ha
fatto a pezzi lo Stato sociale. Persino durante la crisi più acuta, quando era
chiaro che servivano nuovi fondi per la Sanità e per promuovere una ricerca
pubblica separata dagli interessi delle imprese, Christine Lagarde, presidente
della Banca centrale europea, non esitò a ribadire le implacabili ragioni delle
autorità monetarie. Scrive G.: “Nella furia dei bollettini ospedalieri,
nell’impossibilità di contenere i contagi che si allargavano sulla cartina del
mondo senza controllo […] la Lagarde fece sapere al mondo di non avere alcuna
intenzione di rivedere i patti fondanti del debito e del credito. Che la
pandemia, nonostante il suo numero osceno di morti, non avrebbe influito
minimamente sul rigore degli accordi. Non ci sarebbe stato un altro whatever it
takes. Le regole di questa economia affamante restavano inalterate, disse quella
sera di morti che cadevano senza numero”.
L’esperienza diretta con la malattia offre sostanza alla critica. L’analisi
politica è profonda perché si fonda sulla sofferenza personale e sulla
conoscenza reale. Non è astrazione, è la riflessione che consente di dare una
dimensione pubblica al proprio dolore e di darne una ragione più ampia che la
semplice sventura personale. La democrazia vista dall’ospedale assume un aspetto
tutt’altro che formale, richiede di comprendere che la condizione del malato è
una condizione umana e politica.
L’oro tra le macerie
“Ora che ci penso, ora che provo a ricordare, ora che metto in fila le immagini
di questi anni, ora che traccio una linea che mi separa dal prima e che voglio
mi allontani dal dopo, ora che tutto quello che è successo è un materiale che
riesco a maneggiare, che comprendo, che non mi fa paura, ora vedo l’oro che ho
trovato in queste macerie”.
Il terzo nucleo narrativo, il più bello e commovente è quello in cui Giovanna
racconta dei legami di amicizia, storici o appena costruiti in corsia, come la
sola vera risorsa per attraversare il dolore. La malattia ha un effetto
inaspettato, rivela l’esistenza di una rete di solidarietà e di affetti che è in
sé un modo di concepire la vita e la politica come un riconoscersi ed essere
riconosciuti. Così l’amicizia, la philia, mette riparo alle solitudini e ai
limiti della coppia, rende sopportabili le attese, i viaggi, i ricoveri. Ci sono
le alleanze solidali che nascono tra pazienti nei reparti, quando intimità e
dolore superano i limiti del pudore, quando nel letto accanto al tuo una parola
incoraggia, sostiene, accudisce. Una sorellanza che nasce da un dato di fatto,
“si è esposti alle stesse intemperie, che questa sia la condizione dell’uomo
fuori o dentro una istituzione totale, sfugge a molti”. Nascono legami insoliti
e incontri inaspettati. Come con Assunta, compagna di stanza così loquace da
essere definita “signora-parola” che in una stanza di ospedale trova l’intimità
e l’accoglienza per raccontare la storia della sua vita: “Lei viene dimessa.
Chiede di restare. Dice che non si sente ancora bene. Ma io lo so che in quel
cubicolo di tre metri ha potuto parlare di sé. Del marito che la trascura da
vent’anni. Dell’amarezza del suo sogno svanito, cucire vestiti d’alta moda. Se
lei mi ha regalato una finestra e dell’aria, se mi ha lavato il panico dalle
ossa, io le ho restituito l’impressione di essere vista. Non è stato uno scambio
ragionato. È accaduto come accadono i doni. Nessuno si aspettava niente,
entrambe abbiamo avuto molto”.
In questo viaggio tra spirometrie e broncospie, scrive G., “ho conosciuto meglio
il Paese snobbato dell’intellighenzia di sinistra. Quella che si lancia in
grandi dissertazioni e analisi sulla perdita di soggettività, la sussunzione
delle vite da parte del capitale, e la necessità di scansare le passioni tristi
[…] ma in fondo – ora lo sentivo come la sabbia che scorre tra le mani – il
mondo non lo vuole cambiare”.
Fuori e prima degli ospedali, quella rete di amicizie costruita in una vita di
condivisioni, impegno politico e voglia di vivere la vita come corpo nudo al
sole. Amicizie che G. definisce “alfabeti di profondità”, relazioni sotterranee
e intime che nascono dalla philia, “traccia di oro di questo mondo faticoso”.
Storie di amicizie che si riconoscono nella gioia e nel dolore delle cose
quotidiane, nelle attenzioni pratiche, nei viaggi della speranza, nei legami con
i sogni giovanili, in uno stare insieme attento e consapevole.
Ha scritto Susan Sontag che la malattia è “il lato notturno della vita, una
cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia
cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male.
Preferiremmo tutti servirci solo del passaporto buono, ma prima o poi ognuno
viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di
quell’altro paese”.
Il libro di Giovanna Ferrara ci insegna a riconoscere salute e malattia come
parti di un’unica dimensione, certo segnata da un prima e da un dopo. Questo ci
obbliga a trovare luce anche nel luogo più oscuro, a non rinunciare a ciò che
siamo e, più importante ancora, a ciò che vogliamo essere nel mondo. La malattia
che ci conduce fragili di fronte al potere della morte, al sapere dei medici,
alla verità della cura e che ci rende ancora più forti nel nostro desiderio di
cambiamento personale e collettivo. Come scrive Giovanna, “quanto amore e quanta
felicità, proprio là dove nessuno pensa possano abitare. Quanta politica”.
(dario stefano dell’aquila)
(disegno di ….)
Torna in piazza il Comitato di lotta per la casa ex Taverna del Ferro, che sta
monitorando il processo di abbattimento e ricostruzione del
cosiddetto Bronx di San Giovanni a Teduccio, nell’area orientale di Napoli.
Costruite come “soluzione provvisoria” dopo il sisma del 1980, le due “stecche”
di edilizia popolare da trecentosessanta alloggi lasceranno il posto a nuovi
edifici, si spera finalmente vivibili e circondati da nuovi spazi pubblici,
grazie allo stanziamento di centosei milioni di euro tra fondi Pnrr e fondi Pon
Metro della Regione.
Il cantiere è stato aperto più di un anno fa, ma a un certo punto la procura di
Salerno ha bloccato con una interdittiva l’impresa incaricata. Ora i lavori sono
ripresi e dopo le demolizioni nell’area dei garage, sono state poste le basi per
la costruzione delle prime palazzine, per le quali si attendono però i progetti
esecutivi dal Comune. “Il problema non sono i lavori – spiegano gli abitanti che
hanno formato il comitato –, perché gli operai stanno andando avanti, anzi da
quel che ci dicono nei prossimi mesi dovranno correre parecchio”.
Il problema riguarda allora gli impegni presi dal Comune con il comitato fin dal
gennaio scorso, data dell’ultimo incontro con la vicesindaca e assessore
all’urbanistica Laura Lieto e il Capo di Gabinetto Maria Grazia Falciatore; in
particolare, l’impegno che a breve termine sarebbe stato attivato il “piano
speciale” per garantire a chi a Taverna del Ferro non è assegnatario ma
occupante di poter accedere ai nuovi alloggi attraverso un’assegnazione
temporanea della durata di tre anni.
Nel 2023 un censimento aveva infatti rilevato circa ottanta nuclei familiari in
occupazione presenti nelle due “stecche”. La formula dell’assegnazione
temporanea permetterebbe di sanare la posizione locativa e arrivare
all’assegnazione definitiva. Per tre anni, infatti, questi nuclei si
impegnerebbero con l’amministrazione a pagare il canone d’affitto, risanare il
debito e pagare la tassa dei rifiuti.
Il piano speciale però tarda a partire. Ed è questo ciò che lamenta il comitato
degli abitanti. Nonostante sia stato approvato dalla Regione, e a gennaio il
Comune si fosse impegnato ad approvare una delibera per fornire la residenza
agli occupanti, che per la legge Lupi del 2014 ne sono privati, tutto è fermo da
mesi. “Abbiamo proposto all’amministrazione – spiegano gli abitanti – di agire
come ha fatto il comune di Roma che ha attivato una serie di meccanismi per
concedere la residenza agli occupanti aggirando la legge Lupi che è di fatto
incostituzionale. Questa delibera però non è mai stata fatta e noi siamo ancora
senza residenza. Da gennaio sono saltati tutti gli appuntamenti, il dialogo con
gli assessori si è interrotto: non si sono più fatti trovare. Abbiamo avanzato
richieste formali, poi siamo scesi in piazza, fino a dover occupare, due mesi
fa, il consiglio comunale chiedendo un incontro con il sindaco e uno con la
conferenza dei capigruppo, con gli assessori al patrimonio e all’urbanistica.
L’incontro con i capigruppo avvenne pochi giorni dopo, ma si fece trovare solo
la presidente del consiglio comunale e due consiglieri, il terzo era in
videochiamata. Noi lasciammo il tavolo e andammo via”.
Con il sindaco non è andata meglio. “Ci ha dato appuntamento il 3 aprile –
continuano –, poi l’ha cancellato; poi nuovamente il 28 aprile, ma venti minuti
prima dell’incontro ci ha fatto comunicare che non c’era. Ma soprattutto ci ha
mandato a dire che lui non si siederà a un tavolo con noi fino a quando i suoi
assessori non gli diranno quel che si deve fare”.
Gli assessori dovrebbero evidentemente predisporre la delibera con l’avvio del
piano speciale, l’attivazione della clausola sociale con la partenza dei corsi
di formazione per l’occupazione e la lavorazione delle sanatorie. Dal canto
loro, gli abitanti insistono per “sistemare” tutte le carte e regolarizzare la
situazione prima che siano completati i primi alloggi, in modo che si stabilisca
con certezza chi ci dovrà entrare e a quali condizioni.
La mattina di lunedì 5 maggio una rappresentanza delle abitanti di Taverna del
Ferro si è presentata agli uffici del dipartimento di politiche per la casa del
comune di Napoli in via Foria. Intendevano parlare con la nuova dirigente
dell’ufficio patrimonio, ma è stato detto loro che non c’era. “I funzionari che
conoscono la questione di Taverna del Ferro – spiega una rappresentante del
comitato – ci hanno detto: signore mie, noi sappiamo che il piano speciale deve
avere inizio, ma finché non c’è la volontà politica di attivare le procedure,
noi non possiamo far niente. I dirigenti ovviamente fanno così, se non hanno una
copertura politica non si muovono”.
Quella stessa mattina un’attivista del comitato ha subito un’aggressione fisica
da parte di un funzionario del dipartimento. A quel punto è cominciata
un’occupazione degli uffici che è durata fino a pomeriggio inoltrato, quando è
stato fissato un incontro in consiglio comunale per il 13 maggio e uno con il
sindaco il 22 maggio. (luca rossomando)
(archivio disegni napolimonitor)
Si chiamava Cie (Centro di Identificazione e di espulsione), però era già molto
conosciuto come carcere per stranieri. Allora il governo italiano, per
confondere la società e lasciarla disinformata, ha cambiato il nome in Cpr
(Centro di permanenza per il rimpatrio). Con la difficoltà di comunicazione gli
abitanti di questa penisola vivono per la maggior parte disinformati. Qui a
Torino il Cpr ha riaperto questa primavera.
Un mese fa ero al presidio sotto il Cpr di corso Brunelleschi. Era un sabato, io
sono straccivendola abusiva e dopo il mercato del Balon mi sono direzionata al
movimento di resistenza. L’appuntamento per il presidio era alle 16 e io sono
arrivata alle 19 dalla parte dell’entrata principale. Il movimento nella strada
e l’eco del vuoto mi facevano avere passi decisi mentre fotografavo le mura
indegne di questa prigione. “Fuoco ai CPR” era la scritta in rosso a bella vista
in un quartiere silenzioso, oppressore e complice del campo di prigionia che
trattiene esseri umani senza una carta di soggiorno.
Nel prato di corso Brunelleschi le macchine accompagnano il semaforo, mentre
davanti al muro, nell’angolo della via, davanti a me sbuca la macchina degli
sbirri nel suo blu celeste colore della Madonna. I salvatori dall’ardore
infernale mi fermano sul viale mentre cammino verso la fermata. Il poliziotto
esce e urla: «Ferma!».
Bloccata nel viale invio subito un vocale mentre il discepolo stradale mi
chiede: «Documento?». Dico la mia generalità e nel confronto lo sbirro chiede se
so il significato di “generalità”. Rimaniamo per quasi venti minuti a fare
ricerca su di me. Dico che abito da vent’anni in Italia, neanche così: «Permesso
di soggiorno!», «Carta di identità!», ma la carta è solo solo carta e la carta
brucerà.
Ferma, fisso negli occhi quello che fa la ronda sulla vita delle persone. In
dieci minuti si aggiunge la macchina della finanza con i rinforzi, mi ordinano
di posare il telefono, dicono che loro sono educati e pazienti: ecco tutti
angeli scesi dal Paradiso. Arrivano i compagni e prendono un ruolo nel presepio,
poi gli asini della Digos a confermare la mia liberazione.
Dopo questa scena la vita procede quotidiana per le vie di Torino. Il 25 aprile,
giorno della Liberazione, c’è una biciclettata e ha portato calore musica e
tante urla davanti al Cpr. «Hurrya, libertà, freedom!». Scambio di messaggi con
conflitto. Mentre urlavamo, da dentro loro gridavano: «Non abbiamo la libertà!».
Dentro di me un vuoto e poi niente, niente, non c’era senso, neanche la musica,
nessun senso, nessun perché di quelle mura. Perché siamo così pochi? Perché il
vicinato accetta quelle mura? Anzi, ci sono due, tre maledetti che dentro casa
urlano che gli stranieri devono morire, marcire dentro i Cpr.
Continua il 25 aprile di Torino, è festa: gli americani li hanno salvati,
ottant’anni fa, e oggi sono gli stranieri i pericolosi, ma gli stranieri non
hanno armi, non hanno neanche le possibilità di avere una penna e un quaderno
per andare a scuola, non hanno residenza, vivono in cantina come topi, urinano
ovunque nei bar mentre fanno una colazione veloci, vivono nel subprecario perché
i padroni non vogliono che esistano.
Fine aprile, arriva il messaggio di una rivolta in corso Brunelleschi. Ognuno
segue la propria vita, così all’improvviso il senso di colpa consuma tutto il
tuo corpo e non puoi scapparne anche se sei sotto le coperte con il corpo che
chiede riposo. Resistere alla stanchezza e fare un salto verso l’armadio a
cercare all’improvviso una maglia per andare da loro, da chi si rivolta. Ancora
siamo lontani a prendere una bazooka e far detonare quelle mura.
Sono le dieci di sera e non c’è tanto da pensare, si va il più veloce possibile.
Ho scelto il pullman, ma come sempre a Torino, una periferia che vuol
travestirsi da metropoli, niente funziona. Si arriva in pullman, bici, macchina,
tram: l’importante è esserci. Finalmente si arriva e il calore della resistenza
è fare un piccolo corteo, con le proprie forze si trovano i vecchi compagni di
strada e anche nuove figure che con sorrisi salutano e le urla oltrepassano le
mura. Si sentono i ragazzi, si scambia numero di telefono, si chiede come
stanno. Loro chiedono la musica che piace: Clandestino.
Nel prato gira voce che c’è un ferito, uno in sciopero della fame da dieci
giorni in quelle mura maledette e semplicemente perché l’Italia e la sua cupola
hanno deciso di sacrificare gli innocenti. Il Papa è morto! Nessun politico
nelle vicinanze. Un noto avvocato è passato e ci dice che non lo hanno lasciato
entrare, è lì come noi, come uno di noi.
È passata mezzanotte, non abbiamo acqua, una birretta nemmeno e non sappiamo
neanche come ritornare. Gli sbirri sono lì a osservare le nostre facce già
conosciute. Uno spreco di tempo: i burattini del presepio come asini ad
aspettare la briciole di pagnotta su racconti fittizi. È passata l’una e ci si
saluta con un ciao ragazzi, resistete, non siete soli. Siamo con voi!
Già è il primo maggio e il Cpr di Torino è in rivolta. A Brindisi in Puglia
muore uno straniero, dicono che si è suicidato. Un inizio di rivolta a Torino e
un straniero morto nel Cpr di Brindisi in un primo maggio è una grande scintilla
per una rivoluzione. Al corteo del primo maggio i leninisti addestrano gli
stranieri in regola; nel centro di Torino la sfilata per i diritti lavorativi
porta a tante belle parole con l’accento del latino perfetto, mentre i corpi
marciscono dentro le mura del Cpr, gli stessi loro paesani. Importa sventolare
le bandiere, così siamo apparentemente più cittadini.
Ritorniamo al Cpr per un nuovo saluto, alle sette, con il corpo stanco ma ad
alta voce, ognuno con le proprie possibilità mentre nel viale l’anziana con il
suo girello prendeva l’aria, il signore con i suoi cento chili sedeva con le
gambe larghe sulla panchina lungo il viale di corso Brunelleschi ad ammirare i
rivoltosi contro il lager di Torino. Come un cinema all’aperto solo lui era il
protagonista della propria solitudine. Fuochi pirotecnici brillavano nel cielo
mentre gli angioletti travestiti da traditori passavano appoggiati alle macchine
blu.
Il traffico va in tilt mentre appaiono due demoni dal tetto del palazzo in
costruzione, con le ali della libertà annunciano: «Fuoco ai Cpr!». Si disperde
il presidio e il primo maggio prende il volo con l’annuncio indemoniato.
Ricordiamo la notte precedente quando il Cpr di corso Brunelleschi è andato in
scintille e il fuoco è apparso come simbolo di resistenza degli ultimi stranieri
a Torino. Nel viavai dei soccorsi un eroe era evaso. (claudia muniz)
(disegno di Atti)
Riceviamo e pubblichiamo un comunicato diffuso dall’Assemblea popolare di
Bagnoli e dei Campi Flegrei relativo all’ultimo incontro con assessori e
dirigenti del comune di Napoli. Al termine della riunione gli amministratori
hanno garantito un intervento sui punti emersi e risposte precise entro il 14
maggio, data fissata da tempo per un incontro tra l’Assemblea e tutti gli
assessori competenti sulla questione bradisismica (politiche sociali e
urbanistica, oltre a quelli delegati alla protezione civile e alla polizia
municipale).
* * *
L’ASSEMBLEA POPOLARE INCONTRA IL COMUNE DI NAPOLI: RISPOSTE CHIARE PER GLI
ABITANTI DI BAGNOLI E DEI CAMPI FLEGREI
Si è tenuto ieri, nella sede bagnolese della X Municipalità, un incontro sul
tema della crisi bradisismica tra una delegazione dell’Assemblea popolare di
Bagnoli e dei Campi Flegrei e alcuni rappresentanti delle istituzioni: la
presidente del consiglio comunale Enza Amato, l’assessore alle politiche sociali
Luca Trapanese, la dirigente del Servizio sicurezza abitativa Valeria Vannella e
il presidente della municipalità Carmine Sangiovanni. Su richiesta degli
abitanti del quartiere presenti, l’incontro si è svolto pubblicamente tra i
banchi del parlamentino di via Acate, così che tutti (più di cinquanta persone)
hanno potuto prendere atto della dialettica tra le richieste-rivendicazioni
degli abitanti e le posizioni istituzionali. Pur mantenendo un approccio critico
rispetto all’insufficienza delle azioni intraprese fino a questo momento, come
Assemblea popolare abbiamo cercato di mantenere un atteggiamento propositivo e
in particolare abbiamo individuato e sottoposto ai rappresentanti istituzionali
alcuni punti che necessitano risposte immediate. Gli assessori si sono impegnati
a dare risposte concrete a questi punti e a riferirle nell’ambito dell’incontro
che si svolgerà il prossimo 14 maggio a palazzo San Giacomo.
Queste le rivendicazioni dell’assemblea:
1) Ristrutturazione dello sportello per i cittadini nella sede della
municipalità di via Acate. Si richiede il dislocamento in loco, per otto ore al
giorno, di professionalità organiche all’amministrazione comunale e non alla
municipalità, professionalità capaci di dare risposte ai cittadini su tutta la
vasta gamma di questioni sulle quali sono necessarie informazioni o interventi.
È fondamentale un contatto diretto tra amministrazione e cittadinanza, senza che
nessuno possa più nascondersi dietro ostacoli burocratici, rimpalli di
responsabilità o formule del tipo “non è di nostra competenza”.
2) Garanzie sul destino delle persone ospiti delle strutture alberghiere e del
centro comunale di Marechiaro allo scadere della proroga del 20 maggio. Ci
aspettiamo da subito che il comune rassicuri pubblicamente i cittadini
comunicando chiaramente che al 21 maggio nessuno tra gli sfollati verrà mandato
in strada. In particolare è necessario pensare a tutti i meccanismi possibili
che possano rendere efficace l’utilizzo del CAS per la ricerca di autonoma
sistemazione per gli aventi diritto. In assenza di un piano che intervenga sulle
garanzie richieste dai proprietari e sulla difficile ricerca di immobili
disponibili, il termine del 20 maggio sarà destinato a essere oggetto di
richiesta di ulteriori proroghe. Necessaria è inoltre una soluzione immediata
per chi ha riscontrato problematiche burocratico-amministrative per l’accesso al
CAS e al momento risulta ugualmente sfollato dalla propria abitazione.
3) Chiarezza nell’iter per l’accesso ai fondi relativi alla ristrutturazione
degli edifici; proroga dei termini per la richiesta del sopralluogo propedeutico
al rilascio della scheda AEDES; sospensione immediata, per chi sta effettuando
gli interventi, del canone di occupazione di suolo pubblico.
4) Pubblicazione di una circolare che rassicuri i cittadini rispetto al fatto
che chi non riuscirà, per ragioni logistiche (come la difficoltà a trovare ditte
che possano intervenire in tempi così brevi) a portare a termine gli interventi
prescritti entro i tempi indicati, non incorrerà nell’iter canonico
“diffida-ordinanza-denuncia”.
5) Attivazione di un meccanismo burocratico che impedisca l’avvio di
provvedimenti amministrativi e giudiziari a danni dei cittadini, nel momento in
cui prescrizioni come il transennamento di una strada vengono violate da ignoti.
6) Attivazione di un meccanismo amministrativo che ripensi o ristrutturi i
provvedimenti più contraddittori, ostativi persino agli interventi edilizi,
emessi fino a questo momento (tra questi le diffide a utilizzare scale – ma non
appartamenti – all’interno di edifici, o l’impraticabilità di appartamenti fatte
salvo una o due stanze).
7) La chiara, pubblica e se necessario conflittuale rivendicazione da parte del
comune di Napoli per un intervento governativo massiccio e immediato in termini
di stanziamento di fondi per il miglioramento sismico di tutti gli edifici del
quartiere, partendo dal presupposto della totale insufficienza delle risorse
messe in campo con il recente decreto. Se l’organo di rappresentanza della
cittadinanza intende davvero esserne supporto e alleato, così come sostenuto, è
indispensabile che si faccia sentire per pretendere dal governo azioni che
impediscano lo svuotamento del quartiere. È questo, infatti, il processo che già
si sta innescando, presupposto decisivo per speculazioni che pianificano la
graduale deportazione degli abitanti bagnolesi meno tutelati in quartieri più
periferici e della provincia, a beneficio di altri settori sociali e di altri
insostenibili modelli economici e di sviluppo, come quello turistico.
L’assemblea popolare continuerà ad incontrarsi nelle prossime settimane per
proseguire l’attività di informazione, monitoraggio e mobilitazione, che durerà
tutto il tempo necessario ed in particolare fin quando ogni singolo abitante
sfollato dalla propria abitazione non rientrerà nella propria casa.
Sarà presentato giovedì 8 maggio, alle ore 18 a Santa Fede Liberata (via San
Giovanni Maggiore Pignatelli, 2), il saggio di Elio Catania, Antiterrorismo.
Conflitto sociale e “fine della storia” in Italia (1968.1922). L’autore
discuterà del libro con Andrea Bottalico (Napoli Monitor). Pubblichiamo a
seguire un estratto del volume.
* * *
Terrorismo – o ciò che viene considerato tale – ed antiterrorismo rappresentano
una coppia concettuale non separabile perché l’uno modella l’altro. Conflitto
non convenzionale per definizione, nella “guerra al terrorismo” acquisisce
vantaggio il combattente che riesce meglio a penetrare i meccanismi di pensiero
dell’antagonista, così da riconoscerne l’ambiente d’origine e l’architettura
della scelta che lo motiva. La dominante psicologica è centrale. In questa
dinamica, diventa dirimente l’interpretazione che l’antiterrorismo dà del
fenomeno che combatte. L’Italia visse però una situazione paradossale:
l’anomalia comunista aveva mantenuto attuale sin dal dopoguerra l’antica
questione schmittiana riguardante l’eccezione come essenza del potere sovrano;
durante la strategia della tensione, il ricorso allo stragismo attribuito ad
estrema sinistra e anarchici, voleva giustificare la proclamazione dello «stato
di guerra interna», cercando in questo modo di portare all’approvazione di
misure esplicitamente escluse dalla Costituzione.
Con il declinare dell’eversione neofascista, anche grazie alla tenuta
democratica della mobilitazione sociale che ne svelò la matrice bloccando
possibili svolte golpiste, e l’affermarsi della lotta armata rivoluzionaria, tra
il 1974 e il 1975, si affermò invece una categoria più sfumata del tradizionale
stato di eccezione: l’emergenza. Questa categoria sorse dal linguaggio politico
e giornalistico e soltanto in seguito si trasferì sul piano giuridico.
L’emergenza non implicava la sospensione di tutte le garanzie costituzionali, ma
solo di alcune e in modo limitato, ponendosi come misura temporanea, destinata a
rientrare contestualmente al cessare del pericolo. In realtà, molte misure
antiterroriste si riversarono in altre emergenze – la lotta alla mafia in
particolare; alcune norme passarono direttamente nel nuovo Codice di procedura
penale ma, soprattutto, entrarono nella cultura giuridica e si manifestarono
pienamente in occasione delle successive inchieste rivolte contro l’estremismo
politico e i movimenti radicali, così come in quelle sulla corruzione politica.
L’Italia divenne un modello – assieme all’esperienza tedesco-occidentale e, in
una certa misura, alla «scuola israeliana» – e ispirò una parte significativa
delle convenzioni europee in materia di terrorismo.
Il presente lavoro intende operare una storicizzazione del fenomeno della
violenza politica e armata di sinistra partendo proprio dalla problematizzazione
del suo contraltare: l’emergenza e l’antiterrorismo. Chiariamo: “conflitto” non
coincide strettamente con “violenza”, così come “pacifico” non significa per
forza “privo di scontro”. Il nostro discorso non vuole rimandare a una presunta
“rivoluzione mancata”, rappresentata dalla stagione dei movimenti e dalla lotta
armata di estrema sinistra: il contesto dell’epoca non era pre-insurrezionale e
le interpretazioni rivoluzionarie del periodo rappresentarono, sotto troppi
aspetti, un grande equivoco che portò a confondere opportunità e potenzialità,
realtà e desiderata, percezioni e condizioni oggettive, finendo poi per
destinarsi all’invisibilità politica e al mero, quanto drammatico, scontro
militare con i reparti speciali antiguerriglia. Come ha detto bene Enzo Traverso
nel suo bellissimo libro dedicato alla storia della rivoluzione negli ultimi due
secoli:
Durante il Novecento eravamo abituati a considerare vittorie e sconfitte come
scontri militari: le rivoluzioni conquistavano il potere con le armi, le
sconfitte prendevano la forma di colpi di Stato militari e dittature fasciste.
La sconfitta che abbiamo subìto alla fine del Novecento, tuttavia, dev’essere
misurata secondo criteri diversi […]. La sinistra ha completamente abbandonato
il terreno in cui nel secolo scorso aveva accumulato notevole esperienza e
ottenuto numerosi successi: la rivoluzione armata […] L’esperienza del comunismo
novecentesco nelle sue diverse dimensioni – rivoluzione, regime,
anticolonialismo, riformismo – si à esaurita. I movimenti anticapitalisti emersi
negli ultimi anni non appartengono a nessuna delle tradizioni della sinistra del
passato. Non hanno un albero genealogico […] Non sono una reazione contro il
Novecento, ma incarnano qualcosa di nuovo. In quanto orfani, devono inventare la
propria identità. Questa è a un tempo la loro forza, perché non sono prigionieri
di modelli ereditati dal passato, e la loro debolezza, perché mancano di
memoria. Sono nati in una tabula rasa e non hanno elaborato il passato.
Ridare complessità alle storie di conflitto, lotta armata e antiterrorismo
emersi a fine anni Sessanta, ma derivati da continuità di lungo periodo nello
Stato e dai nodi irrisolti della modernizzazione in Italia, significa dunque
riaprire la questione dell’agibilità e della prospettiva radicale nella storia e
nella politica, rimettere in discussione la cultura delle classi dirigenti,
riconoscere la possibilità di un diritto di contestazione e di pratica estremo
da parte dei governati. Premessa necessaria a ogni possibile immaginazione
irriducibilmente antagonista nei confronti dell’esistente. (elio catania)