(disegno di bruttebestie)
La struttura al civico 1 di vico Trinità delle Monache, edificata nel 1600 per
ospitare un convento e adibita negli ultimi due secoli a ospedale militare, è
oggi conosciuta come il Parco dei Quartieri Spagnoli, uno spazio di 26 mila mq
ben celati dalle costruzioni successive, dal vicolo che costeggia le sue mura,
dal silenzio interno rotto solo dai motorini e dalle auto che scendono di qui
per arrivare a una delle strade più “appese” di Napoli: via Pasquale Scura nel
quartiere Montesanto.
Dal 1999, anno in cui il Demanio ha ceduto a titolo oneroso per vent’anni
l’enorme spazio al comune di Napoli, all’Università Federico II e all’Istituto
Suor Orsola Benincasa, ci sono stati tentativi di integrazione del luogo con il
resto della città ma con tempi mai certi e contraddistinti spesso da chiusure.
Un primo processo di progettazione partecipata è avvenuto nel 2016 quando la
Commissione europea ha ammesso Napoli, insieme ad altre città europee, al
progetto “2nd Chance – Waking up the sleeping giants”, nell’ambito del programma
internazionale Urbact III, con l’obiettivo di confrontarsi sul tema del riuso
dei grandi immobili abbandonati o parzialmente utilizzati ed elaborare strategie
e piani di azione locale. Nel 2018, durante la conferenza stampa per la chiusura
della fase partecipata, l’allora assessore al diritto alla città, Carmine
Piscopo, riportò alcuni dei risultati e gli obiettivi ancora da raggiungere
riassunti nel recupero di tutta la rete ecologica dei percorsi che dalla Certosa
di San Martino arriva alla struttura dell’ex ospedale, il completo recupero
degli spazi interni, oltre alla generazione di nuove economie tra cittadini e
istituzioni.
Nel 2023 si torna a parlare dell’ospedale militare con un nuovo accordo
temporaneo, stavolta non oneroso, tra il Demanio e la nuova amministrazione
comunale, finanziato nell’ambito del Contratto Istituzionale di Sviluppo “Napoli
– Centro Storico” con sei milioni di euro per la riqualificazione delle aree
verdi e di alcuni edifici del complesso SS. Trinità delle Monache all’interno
del Parco. “Community Hub – Incubatore di cittadinanza attiva” è il nome del
progetto, simile nelle sue fasi a quello del 2016. C’è stata una call to action
(2024) rivolta alle proposte dei cittadini con incontri e dibattiti con i
progettisti che dovranno deciderne la fattibilità e in ogni caso rendere
possibile la fruizione del parco e dei locali entro il 2026, pena la perdita del
finanziamento.
Nel marzo scorso, durante un’indagine preliminare sulle aree verdi, gli agronomi
chiamati dal Comune hanno constatato la pericolosità di circa venti tra le
specie arboree presenti, per cui si è reso necessario un intervento di messa in
sicurezza e la chiusura del parco. Trattandosi di un bene vincolato non è chiaro
se esista anche un vincolo paesaggistico e quindi se ci sarà poi l’obbligo di
piantare altri alberi dopo l’abbattimento. Questa volta i tempi per l’intervento
e la riapertura del parco sono stati relativamente più brevi perché, se da
sempre mancano le risorse per la manutenzione ordinaria, grazie al finanziamento
del CIS è invece possibile attivare subito quella straordinaria. Il parco è
stato riaperto il 5 giugno scorso.
LA GESTIONE PRIVATA
Se una parte dell’ex ospedale militare fatica a trovare un’identità che risponda
alle richieste e ai bisogni dei cittadini, un’altra spiccatamente più
commerciale non ha avuto difficoltà a esprimersi in meno di un anno.
All’inizio del 2024 l’Agenzia del demanio ha infatti affidato per quarantotto
mesi alla società privata Urban Value s.r.l., l’edificio principale del
complesso, per una estensione di circa 7.500 mq. E così l’estate scorsa, con
l’avvio dei lavori, in tanti nel quartiere hanno assistito al “risveglio” del
gigante. I camion dell’Asia hanno sgomberato gli enormi spazi da faldoni zeppi
di documenti, probabilmente risalenti all’attività dell’ex ospedale, mentre i
cortili hanno accolto le piante di banano cresciute nel palazzo Fondi in via
Medina, sede del precedente intervento della società Urban Value a Napoli.
L’edificio non ha subito abbellimenti né interventi strutturali ma solo le prove
di carico per permetterne l’apertura al pubblico. Una nuova umanità ha
cominciato a frequentare il complesso, mostre d’arte, musica dal vivo e mercati
sono stati organizzati negli spazi de La Santissima, il nome scelto per questo
contenitore, anzi questo “hub” come si legge dalla descrizione sui social.
Dopo quattro mesi di attività, a seguito di un controllo della polizia
municipale durante un evento privato di musica elettronica, alcune sale della
Santissima sono state sottoposte a sequestro giudiziario preventivo per la
mancanza di autorizzazioni. Riguardo l’accaduto i responsabili hanno diffuso a
mezzo stampa numerose dichiarazioni per riportare l’attenzione sulla complessità
del progetto e sul lavoro in corso: “Da più di un anno lavoriamo con fondi
privati per riaprire e dare nuova vita a uno spazio rimasto chiuso per oltre
trent’anni. E ci stiamo ancora lavorando. La Santissima è un progetto in
divenire, che cresce giorno dopo giorno, e di cui oggi si percepisce solo una
parte del potenziale”. Improvvisamente la città e le sue diverse anime hanno
perso Filippo e il Panaro, così commentavano i custodi rimasti a presidiare il
malandato cancello del parco su cui sono stati apposti i due provvedimenti.
LA TERZA VIA. I COMITATI DEI PARCHI PUBBLICI
Oltre alla gestione privata e ai tentativi istituzionali di riqualificazione del
Parco esiste una terza via, una visione comune del verde portata avanti
caparbiamente dai cittadini dei diversi quartieri della città, la comunità dei
parchi pubblici. Cristiano è un educatore, collaborava al doposcuola dello
Scugnizzo Liberato, nell’ex carcere Filangieri, e in questo contesto ha
incontrato alcuni dei gruppi che poi hanno dato vita alla comunità dei parchi
pubblici. “I comitati nascono alla fine del 2024 – racconta – dalle esperienze
di alcuni parchi pubblici e in particolare il San Gennaro alla Sanità, in cui
erano previsti dei lavori nelle aree verdi di cui si voleva conoscere la natura
e la durata. Esistevano già delle comunità che hanno deciso di organizzarsi per
mettere in relazione le esperienze e muoversi meglio nel dialogo con le
istituzioni. Anche la travagliata scrittura di una regolamentazione del verde da
parte del consiglio comunale ha acceso l’interesse dei cittadini che vogliono
essere coinvolti nelle decisioni. Si sente forte la preoccupazione di vedere
ulteriormente ridotto lo spazio all’aria aperta, come è accaduto con la
questione abitativa e la fruizione del suolo pubblico nel centro storico. Si
protesta contro l’approvazione del regolamento comunale del verde perché, avendo
letto la bozza gli attivisti vedono nella parola ‘gestione’, riferita ad
associazioni e soggetti privati, il pericolo di creare luoghi con un utilizzo
limitato da parte degli abitanti. Inoltre la possibilità che la gestione di
terzi possa durare fino a dieci anni viene considerato un tempo davvero lungo
per un affidamento”.
Nel comunicato della Commissione salute e verde del Comune si legge della
conclusione di un percorso di confronto con i rappresentanti dei comitati
cittadini e delle associazioni ambientaliste. A fronte di diverse criticità e
dubbi espressi dalle associazioni, soprattutto sul tema del possibile
coinvolgimento dei privati nella gestione e/o manutenzione dei parchi cittadini,
la presidente Saggese ha chiarito che la gestione del verde, così come il
servizio di guardiania nei parchi, resteranno integralmente in capo al servizio
pubblico, escludendo ogni forma di privatizzazione o speculazione economica. Ciò
che potrà invece essere oggetto di collaborazione tra pubblico e privato saranno
le attività di manutenzione del verde urbano, sempre senza finalità di lucro e
coerenti con le possibilità offerte dal regolamento sul mecenatismo. “Conclusa
questa fase di ascolto – continua Cristiano –, bisogna aspettare che il
regolamento venga votato per capire se le istanze dei cittadini sono state
ascoltate o meno, in particolare il punto 3 della bozza riguardante la gestione
privata temporanea delle aree verdi che abbiamo chiesto di rivedere”.
Le proposte dei comitati riguardano anche alcune pratiche che in passato hanno
funzionato, come la manutenzione di una parte del verde affidata ai disoccupati
organizzati del progetto Bros, spesso abitanti degli stessi quartieri dove
andavano a intervenire, da cui poi sono stati allontanati e spostati alla
manutenzione stradale fuori città. “Una buona gestione è possibile perché
l’abbiamo vissuta – sostiene Cristiano –. Oltre al progetto Bros, va ricordato
che a oggi circa settecento persone sono state formate per la cura del verde ma
non hanno mai iniziato a lavorare. Una nuova platea di disoccupati per i quali
si è investito in formazione senza un chiaro obiettivo di occupazione. Per
fortuna nell’ultimo incontro con la commissione erano presenti anche loro a
rendere chiaro che oggi ci sono tanto le risorse quanto i lavoratori. Le
pratiche per assumere queste persone non vanno avanti e nemmeno c’è una
richiesta alla regione Campania per riavere i Bros, circa milleduecento persone,
magari per una sperimentazione in alcuni quartieri, un investimento che
porterebbe benefici anche a livello sociale”. (grazia della cioppa)
Source - NapoliMONiTOR
Cronache, libri, disegni e reportages
(disegno di dalila amendola)
Quello che è successo il 20 giugno, sotto un caldo torrido, lungo il tratto
della tangenziale di Bologna compreso tra l’uscita n.7 di via Stalingrado e
quella successiva di viale Europa, merita un momento di riflessione più
approfondita. Stiamo parlando del corteo dei metalmeccanici emiliani, convenuti
a Bologna nell’ambito della giornata nazionale di sciopero per il rinnovo
contrattuale – agitazione sfociata nella marcia in tangenziale che ha
conquistato tutte le prime pagine nazionali. A corteo ancora in corso, infatti,
la questura di Bologna aveva diramato una nota rabbiosa in cui si avvisava che
tutti i lavoratori entrati in tangenziale erano passibili di denuncia penale, in
virtù del nuovo decreto sicurezza.
Il giorno dopo i commenti mainstream sono stati all’insegna del sensazionalismo
– gli operai rischiano il carcere! –, oppure dello sdegno “per i disagi
provocati agli utenti”. Qualcuno si è persino accorto che esiste una cosa che si
chiama contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici – una fastidiosa e
desueta sopravvivenza del passato. Qualche altro osservatore, invece, ha
minimizzato: le minacce giudiziarie erano state solo l’uscita improvvida di un
questore zelante, che ha agitato un polverone per un azione, più o meno
concordata, che altrimenti sarebbe passata inosservata.
E così sono state pubblicate paginate con le dichiarazioni dei leader sindacali,
dei politici che si sono schierati un po’ di qua, un po’ di là – ripetendo le
loro prevedibili banalità –, dei giuristi che hanno puntigliosamente esaminato
il decreto sicurezza alla voce “blocco stradale”. Più o meno tutti si sono
dimenticati di parlare dei protagonisti della giornata: gli operai
metalmeccanici e la loro soggettività. Chi erano quei diecimila? Che facce
avevano? Che dicevano? Erano consapevoli che stavano violando in forma di massa
una legge dello Stato – che è tra l’altro l’unico provvedimento di segno
identitario che il governo di destra può vantare? O sono stati condotti in via
Stalingrado come bestie al pascolo? Volevano andarci in tangenziale, loro: si o
no? E come vedono la propria condizione, davanti a quaranta ore di sciopero
accumulate e una prospettiva di rinnovo sempre più complicata? Ed erano davvero
lì solo per il contratto?
Allora fotografiamoli, un po’, questi metalmeccanici “illegalisti” che hanno
passeggiato in tangenziale. Età media: altina (ma lo sapevamo). I giovani
accedono con difficoltà al lavoro, visto che in trent’anni l’età di
pensionamento si è alzata di un decennio. E comunque i ragazzi giovani sono
invischiati dentro percorsi di stabilizzazione ardui e lunghi come una via
crucis (stage, tirocini formativi, apprendistato, contratti a tempo
indeterminato privi dell’art. 18). Quando, dopo quattro o cinque anni, diventi
un lavoratore fatto e finito, non sai un ostia di sindacato, assemblee e
scioperi, perché te ne sei sempre tenuto coscienziosamente alla larga.
Il livello professionale di quelli in piazza, così, a naso, non sembra molto
alto. Colpa del paradosso per cui più le mansioni tecnico-intellettuali si
standardizzano (e si proletarizzano) più facilmente sorgono muri invisibili
basati sulla gerarchia di produzione. E ovviamente, salendo anche di poco i
gradini della piramide delle gratifiche e delle responsabilità, è raro
imbattersi in un lavoratore consapevole in sciopero. Le catene di comando si
stanno allungando artificialmente, i ruoli e le mansioni si moltiplicano, il
prefisso “capo” (capoteam, caposquadra, caporeparto, capoturno) si elargisce al
di là di ogni funzionalità organizzativa, tanto per fidelizzare.
Le donne invece sono molte, mediamente più giovani e vitali dei maschi – diverse
le ragazze intorno ai venticinque. Ben curate, più in forma dei colleghi maschi,
non hanno l’aspetto un po’ arcigno e casalingo delle rezdore di fabbrica di
qualche anno fa – del resto per scarpinare a trentotto gradi sotto il sole
rovente di via Stalingrado, bisogna essere atleticamente competitivi.
Tutti, maschi e femmine, sembrano disabituati alla pratica di piazza, non
conoscono slogan – al massimo scandiscono “contratto, contratto” o soffiano
negli odiosi fischietti da manifestazione. Tutti però esprimono una gioia e un
protagonismo che non si vedeva da anni. Si applaudono tra loro, rispondono ai
clacson dei camionisti che salutano l’anomalo corteo, scherzano come ragazzi in
gita con i colleghi. Un conoscente, pio imam solitamente molto compassato,
saltella sull’asfalto appiccicoso tutto contento. Sanno perfettamente che stare
in quel pezzo di orrenda periferia bolognese, costeggiando l’autostrada, li sta
proiettando dentro una ribalta mediatica di cui non hanno mai goduto. Questa
generazione operaia è figlia, anche anagraficamente, della mitica figura
dell’operaio professionale emiliano, il testimonial benpensante e socialmente
integrato del rinomato modello emiliano – protagonista di una “centralità
operaia” un po’ pelosa che rappresentava la base di legittimazione del potere
Pci. Trenta anni dopo, questi figli ignoti conoscono poco o niente di quella
storia, perché abituati in generale a contare zero. Possono al massimo
testimoniare la fine dell’emilian dream, il mito del welfare perfetto e della
mobilità sociale perpetua. Intanto, però, in questo venerdì mattina afoso e
soleggiato, i nostri se la stanno godendo. Sono soddisfatti e orgogliosi. E
quelli della Fim e della Uilm sono identici ai loro colleghi con le bandiere
rosse – e questo riporta a un dato banale, spesso ignorato: i proletari sono
proletari al di là del colore della tesserina che hanno in tasca.
La voce che il percorso non è stato concordato né autorizzato dalla Questura e
si sta muovendo dentro una forzatura di piazza, si è sparsa subito,
ringalluzzendo il serpentone colorato e madido. Adesso tutti capiscono perché il
plotoncino di celerini con caschi e manganelli si è aperto all’altezza
dell’uscita 7 per farli passare. Non è stata una concessione. È stato un
rapporto di forza. Questo ha aumentato la soddisfazione collettiva. Stanno
violando il decreto sicurezza, stanno violando una legge dello Stato: stanno
violando l’ordine costituito e questo per la stragrande maggioranza di loro è
una gioiosa novità.
Questa generazione operaia è cresciuta all’ombra di grandi sconfitte storiche e
ne ha ricevuto l’imprinting in maniera naturale. Sono lavoratori abituati a non
uscire dal seminato, solitamente sfiduciati. Le loro manifestazioni sindacali
sono spesso segnate da passività e ritualismi fuori tempo. Se delocalizzazioni o
crisi aziendali, mettono a rischio il posto di lavoro si agitano un po’, ma il
più delle volte finiscono con l’implorare interventi dall’alto. Insomma: una
psicologia di massa da sconfitti dignitosi.
Invece quella mattina, questo popolo operaio si è ritrovato all’improvviso al
centro della scena. E i marciatori sembravano dirsi: non siamo gli ultimi, siamo
importanti, e se ci incazziamo diventiamo pure pericolosi, perché anche solo per
l’inerzia dei nostri corpi sudati, possiamo bloccare l’Italia. Per molti di loro
il rientro in fabbrica lunedì sarà più interessante, racconteranno ai colleghi
pigri o crumiri che bella giornata hanno vissuto; forse terranno la schiena
dritta con più decisione, davanti alla sfilza di capi, capetti e sottocapi – che
del resto, quando sentono puzza di incazzatura operaia, lanciano sempre segnali
di accondiscendenza o complicità. E poi gli economisti ce lo dicevano tutti,
negli anni duri della crisi: se non facciamo la fine della Grecia è perché
abbiamo la manifattura, che è il nerbo dell’economia italiana. E allora che
qualcuno cominci a chiedere il conto, di cotanta importanza sociale.
Qualcuno ha inquadrato la vicenda della tangenziale bolognese, nella dimensione
del paradosso: potrebbero essere proprio i confederali, ultra legalitari e
concertativi, le prime vittime del decreto sicurezza. Si, in certi tornanti
della vicenda italiana può capitare anche che venga fuori il lato surreale o
ironico. Ma davvero, le sigle e le affiliazioni non sono la lente principale
attraverso cui leggere il conflitto e la composizione di classe. Del resto, i
sindacati non sono moloch immutabili; sono corpi sociali sottoposti alle
contraddizioni interne e alle tensioni esterne. E in certi passaggi la
dialettica della trasformazione è inesorabile. Non c’è bisogno di riesumare il
Presidente Mao né di scambiare la Uil per il Kuomitang; semplicemente quando
cambiano le condizioni sociali e politiche il tuo ruolo muta e diventi altro,
sei costretto a fare cose che prima non avresti mai osato, ed è la storia che
agisce attraverso te. E sono i proletari che ti usano come strumento momentaneo,
perché da sempre usano quello che trovano davanti – madonne, preti, jaquerie,
brigantaggio, partiti e sindacati – per attivare la propria difesa di classe.
Certo, la lezione bolognese è stata fulminante. Il decreto sicurezza – come
qualsiasi altra legge stupida o oppressiva – è un’arma vuota davanti alle masse.
Se un pezzo di popolo si organizza e dice no, nessuna minaccia o sbarramento
produce effetti concreti. E il fatto che siano stati proprio i metalmeccanici –
quelli degli scioperi del ’43, dell’autunno caldo, dello Statuto, delle grandi
mobilitazioni antifasciste e antistragiste –, che siano stati proprio i
metalmeccanici, dicevo, a insegnare questa cosa, dà un sapore ancora più intenso
ai fatti di via Stalingrado.
Il governo non farà l’errore di insistere sul terreno giudiziario; neanche la
procura di Bologna, credo. Chi vorrebbe prendere una simile patata bollente in
mano? Chi vorrebbe gestire una faccenda tanto compromettente? Se hanno ancora un
qualche rapporto con la realtà, tutti i diversi soggetti interessati lasceranno
cadere la cosa. Il che rafforzerà nel popolaccio l’idea che le “leggi canaglia”
si possono violare, quando hai la forza del numero e un bel po’ di ragioni da
mettere sul piatto.
Sempre a Bologna, un anno fa, in occasione delle mobilitazioni pro-Gaza, decine
di studenti e attivisti occuparono la stazione cittadina provocando trambusto e
ritardi. In questi giorni sta cominciando il processo a chi venne identificato.
A difesa degli occupanti, un collegio difensivo “militante” si è costituito e ha
reso pubblica la linea che porterà in tribunale: rivendicare l’occupazione dei
binari come forma legittima di protesta sulla base dell’urgenza, della necessità
e dell’alta moralità di tale azione, volta al contrasto di crimini di guerra di
cui il governo italiano sarebbe complice. Una linea coerente e coraggiosa, che
si potrebbe estendere pari pari ai metalmeccanici. Basterebbe portare una busta
paga in tribunale e le alte motivazioni etiche, nonché l’urgenza indifferibile,
non potrebbero essere negate da nessun pubblico ministero in buona fede. Lo
stipendio medio italiano non consente livelli dignitosi di vita a nessuno,
specie nelle grandi città del Nord. Cioè, la struttura retributiva italiana
costituisce nel suo complesso una violazione palese dell’art. 36
della Costituzione. Questo significa che le decisioni assunte da più di un
tribunale circa la non costituzionalità di alcuni Ccnl – vedi la vigilanza
privata nel 2024 – andrebbero estese alla stragrande maggioranza dei contratti e
degli stipendi di questo paese, in cui si può essere poveri in canna passando la
maggior parte del proprio tempo di vita dentro un capannone, su un ponteggio di
cantiere o dietro le casse di un supermercato.
In via Stalingrado non è successo niente di epocale, certo. Ma non è stato
neanche un passaggio banale. Leggiamolo piuttosto come il segno dei nuvoloni
cupi in arrivo, di tempi che saranno sempre meno concertativi ed educatamente
collaborativi – mentre dietro l’angolo della storia si avverte il rumore sordo e
incessante delle esplosioni. Sul popolo delle fabbriche arriveranno prima i
benefici del keynesismo di guerra, o le macerie sociali di un ordine che non
regge più? (giovanni iozzoli)
(disegno di ottoeffe)
Io e Paola ci saremmo dovute incontrare dopodomani, ma il suo spettacolo è
saltato a causa di una cisti tendinea alla mano e una brutta cervicale.
«Solitamente insorge intorno ai quarant’anni», mi dice con un sorriso strozzato
ma tenace, lo stesso con cui ha affrontato gli ultimi cinque anni in alcune
delle tante aziende, disseminate tra Napoli e Caserta, che producono conto terzi
per i grandi brand del lusso. Se ne contano circa settemila in quest’area. La
regione Campania, che copre il quindici per cento della produzione calzaturiera
nazionale, è una delle nove regioni europee con il maggior numero di dipendenti
nel settore.
Sono appena le otto di sera e Paola già si strofina gli occhi dalla stanchezza,
mi ricorda che domani deve svegliarsi presto e quindi mi affretto a chiederle
come è iniziato il suo percorso. «Quando mi sono diplomata – dice –, la mia idea
era di proseguire con l’accademia di moda, mi sarebbe piaciuto cucire vestiti di
scena». Nonostante conservi ancora a casa macchina da cucire, busto sartoriale e
cartamodelli, molto presto ha dovuto fare i conti con la realtà: quindicimila
euro l’anno la retta necessaria per accedere alle accademie di moda, per lei
insostenibile – «però mi avrebbero regalato matita, squadretta e album con logo
dell’istituto», sottolinea ironicamente.
Così, scorrendo gli annunci sui siti di lavoro, forse anche per restare
aggrappata a quel sogno, si è ritrovata alle porte di un’impresa calzaturiera
nell’hinterland a nord di Napoli. «Mio nonno ha fatto questo mestiere tutta la
vita, ricordo ancora l’odore nauseante di colla in casa. Ironia della sorte sono
stata l’unica in famiglia a seguire le sue orme. Alla fine, è come se fossi un
po’ una designer delle scarpe».
All’esterno dell’edificio neppure un’insegna col nome della ditta, ma solo una
targa impolverata con su scritto “tomaificio”. All’interno non è raro che alcuni
dei trenta dipendenti – per lo più donne e senza contratto – svengano per via
delle esalazioni provenienti dai collanti e dal taglio della pelle, che l’unico
finestrone semiaperto del piccolo stabile non riesce a filtrare. «Nella prima
azienda – continua Paola – ho trascorso solo sei mesi, lavoravo dalle 8 alle 17
per venti euro al giorno, quindi poco più di quattrocento euro al mese.
Producevamo per Ferragamo e Vuitton. All’inizio ero eccitata di produrre per
queste grandi firme, quasi non mi sentivo all’altezza, poi sono dovuta scappare:
la vista è iniziata a peggiorare, ho scoperto dopo per via dell’assenza di
aeratori vicino ai macchinari che erogavano colla, sempre senza etichetta».
La produzione si suddivide in grandi commesse da circa trecento pezzi a cui
lavorano una decina di banconiste, svolgendo affannosamente anche più fasi del
processo; e una produzione più selettiva a cui lavorano solo in poche operaie,
spesso le più anziane. Nonostante Paola non avesse esperienza nel settore,
nessuna tra queste ultime le ha mai insegnato come svolgere correttamente il suo
compito, nel timore di essere sostituite da una giovane tirocinante
eventualmente capace di svolgere più mansioni, più velocemente. Quando poi, a
causa di consigli “inesatti”, ha danneggiato più di un paio di scarpe, attirando
su di sé l’ira e gli insulti del datore di lavoro, ha compreso l’unico
imperativo da tenere in conto: non fidarsi di nessuno.
Nonostante l’ambiente ostile, è in quei sei mesi che ha maturato buona parte
delle competenze che le hanno permesso di approdare nella seconda azienda, in
cui lavora da quattro anni, il primo con un contratto di rimborso spese, gli
ultimi tre con uno di tirocinio. «Qui le cose vanno meglio: ho un contratto con
ferie pagate e malattia, si svolgono visite mediche periodiche e controlli da
parte dell’ispettorato del lavoro e dell’azienda committente». Eppure, qualcosa
non torna ancora: la busta paga segna sei ore al giorno per milleduecento euro
mensili, ma Paola in fabbrica ne trascorre otto per ottocento euro al mese, lo
stesso prezzo di uno solo delle centinaia di stivali di Hermes e Vuitton che
lasciano la fabbrica quotidianamente. Il capannone, in provincia di Napoli, è
molto più grande e ospita fino a settanta dipendenti, anche in questo caso in
maggioranza donne, tutte con forme contrattuali differenti (le neoassunte sono
retribuite appena venticinque euro al giorno). Diversamente dall’azienda
precedente, la produzione è automatizzata e avviene in manovia: tra banchi molto
stretti scorre un nastro, lungo il quale la singola addetta svolge una sola fase
produttiva, a un ritmo che (in)segue le richieste dell’azienda committente. «È
questa la cosa disumana; se, per esempio, dobbiamo produrre cento scarpe abbiamo
a disposizione cinque minuti per ogni fase, ma se la settimana successiva la
commessa è di trecento o quattrocento paia, la caporeparto aumenta il ritmo, e
quindi ti ritrovi a svolgere la stessa operazione in due minuti». Questo perché,
mentre gli ordini più grandi sono evasi in Asia, al mercato europeo, che può
sfruttare il sistema di distribuzione su gomma, sono destinati ordini più
piccoli e brevi, che rendono impossibile pianificare la produzione e inducono a
ripiegare su subappaltatori e lavoro a domicilio. Come testimoniano alcuni
produttori nel report Clean Clothes Campaign, tutto il sistema moda si fonda su
una profonda asimmetria di potere contrattuale: da un lato l’azienda committente
e i rivenditori impongo il prezzo, con contratti che vincolano unicamente al
rispetto degli standard qualitativi e delle tempistiche di consegna, e non un
impegno sulle quantità da produrre. Dall’altro i produttori accettano prezzi
bassi per non essere estromessi dal mercato, operando con un margine di profitto
tra il cinque e il dieci per cento, corrispondente a pochi centesimi a pezzo,
che il marchio rivende a un prezzo decuplicato. Ai fornitori non resta dunque
che puntare sulla quantità, ma a risentirne in termini di salari e di salute
sono le lavoratrici: «All’inizio – racconta Paola – per recuperare uscivo anche
alle sette di sera, poi il corpo si abitua, ma molte non riescono a reggere,
vivono tutti i giorni con l’ansia: alcune sono tornate a casa piangendo, altre
iniziano a lavorare prima che suoni la sirena o non vanno in bagno per tutto il
turno».
Anche il suo di corpo sembra mostrare i primi segni di cedimento, ostacolandola
sempre più nell’unica attività che la sottrae al grigiore di quello stabile e al
fracasso delle macchine da cucire. Me lo racconta lei stessa quando le chiedo a
cosa pensa durante il turno: «Io metto le cuffiette con la musica e immagino le
coreografie di ballo, balli di gruppo, di coppia. Non ci sono in fabbrica, c’è
il mio corpo ma non la mia testa. Penso a quello e basta, perché in realtà io là
non ci voglio stare».
La sua insofferenza, oltre che dalle pessime condizioni salariali in un settore
che costituisce il cinque per cento del Pil nazionale, pare essere motivata
proprio dall’ambiente di lavoro, che sembra accomunare entrambe le sue
esperienze. Le aziende assumono principalmente donne, molto anziane o molto
giovani: le prime hanno iniziato a lavorare a domicilio quando avevano appena
dodici anni, spesso attendendo anni prima di vedersi riconosciute una qualche
forma di retribuzione; per le seconde, giovani madri poco più che ventenni, il
salario costituisce solo un’integrazione secondaria del reddito familiare. «Lei
vent’anni, lui trenta, contratto a tempo indeterminato, casa, una brava ragazza.
Ma che gli manca? Niente. Lei, che lo conosce da dieci anni, che gli manca?
Tutto, dipende da lui anche per la macchina. Mi dicono “sono felicissima, ma
tornassi indietro…”, allora forse non lo sei veramente, penso io». Tutte poco
scolarizzate, spaventate dall’idea di cambiare azienda o semplicemente di
chiedere un aumento, finiscono per accettare salari da fame.
Ormai è l’una di notte e mi sento tremendamente in colpa per aver fatto tardare
così tanto Paola. Lei, che di giorno sogna le coreografie e di notte la manovia,
scende dall’auto salutandomi, ma prima di chiudere la portiera mi dice: «Lo sai,
prima non ci pensavo nemmeno io, ma ora me lo chiedo spesso, chissà se loro si
chiedono chi c’è dietro quelle scarpe». (maddalena de simone)
(disegno di adriana marineo)
Tra il 24 e il 27 giugno si svolgeranno, in concomitanza con le udienze previste
presso il tribunale di L’Aquila, una serie di iniziative di mobilitazione a
sostegno dei tre cittadini palestinesi Anaan Yaeesh, Ali Irar e Mansour
Doghmosh.
Tra queste iniziative c’è la presentazione del numero 14 de Lo stato delle città
al laboratorio Radici, partendo dall’articolo scritto sulla questione
da Francesca Di Egidio, e con il supporto di CaseMatte L’Aquila e Fuori Genere.
L’incontro si svolgerà martedì 24 al laboratorio Radici (via Leosini, 6) a
partire dalle 18:30. Di quell’articolo vi proponiamo a seguire un estratto.
* * *
Il procedimento, che oggi entra nella fase dibattimentale, è stato preceduto da
quasi un anno di mobilitazioni. Un percorso cominciato con l’arresto di Anan,
che nelle ultime settimane ha ripreso forza con assemblee, presìdi,
manifestazioni in diverse città italiane. Una rete, quella di “Free Anan”, che
negli ultimi tempi ha raggiunto anche altre città europee come Marsiglia e
Parigi. Questa storia, che oggi porta un centinaio di persone davanti a un
tribunale, comincia proprio qui, all’Aquila, nel marzo 2024, quando Anan Yaeesh
viene arrestato su richiesta di Israele. Inizialmente si trattava di una
richiesta di estradizione: lo stato israeliano lo accusava di appartenere a una
cellula terroristica attiva a Tulkarem. Il ministro della giustizia, Carlo
Nordio, trasmetteva prontamente gli atti alla Corte d’Appello dell’Aquila, che
ne disponeva la custodia cautelare. Il 13 marzo 2024, la Corte d’Appello negava
l’estradizione, riconoscendo che, in caso di consegna a Israele, l’uomo avrebbe
rischiato trattamenti crudeli, inumani e degradanti. I giudici basano queste
decisioni su documenti delle Nazioni Unite, rapporti di Ong internazionali e
osservazioni costanti su ciò che accade nelle carceri israeliane. Accolgono così
il principio di non-refoulement, secondo il quale nessuno può essere trasferito
verso un paese dove rischia tortura o violenza.
La vicenda giudiziaria però non si conclude. L’Italia, dopo aver negato la
consegna a Israele, decide di trattenere Anan e di aprire un nuovo procedimento,
stavolta su iniziativa autonoma della procura. L’11 marzo, due giorni prima
della decisione della Corte d’Appello, i magistrati aquilani ottengono una nuova
ordinanza di custodia cautelare. Oltre ad Anan, vengono arrestati anche Ali Irar
e Mansour Doghmosh, accusati di associazione con finalità di terrorismo
internazionale (ex art. 270 bis c.p.). Secondo l’accusa, i due sono coinvolti
soprattutto per la loro vicinanza ad Anan: è anche grazie a questo legame che
viene costruita l’ipotesi di un’associazione terroristica.
Non si tratta più di eseguire una richiesta estera. Questa volta è lo stato
italiano che si fa carico dell’inchiesta, che prolunga la detenzione di Anan,
che assume l’impianto accusatorio costruito da Israele in un altro ordinamento
giuridico e in un altro contesto politico. E lo fa utilizzando le stesse fonti,
le stesse prove, gli stessi verbali raccolti dalle autorità israeliane nei
territori occupati. È difficile non vedere, in questa scelta, una forma di
supplenza. Per alcuni osservatori è un precedente grave, esempio di come il
sistema penale possa diventare strumento di repressione politica anche fuori dai
propri confini.
[…]
Il processo che si è aperto all’Aquila rappresenta un precedente giuridico e
politico delicato e non privo di implicazioni. Da un lato, ci mostra fino a che
punto possa spingersi la cooperazione giudiziaria in materia di antiterrorismo:
l’Italia si ritrova a giudicare atti avvenuti nei territori palestinesi
occupati, basandosi su elementi istruttori prodotti da uno stato straniero,
Israele, e assumendo in proprio un impianto accusatorio costruito dentro un
altro ordinamento giuridico e in un altro contesto politico. Dall’altro,
evidenzia quanto le dinamiche geopolitiche riescano a infiltrarsi nei margini
della giustizia, spingendola oltre i suoi confini ordinari: il principio di
giurisdizione territoriale, il diritto alla difesa, la necessità di rispettare
il diritto internazionale vengono messi alla prova da logiche di alleanze e
rapporti di forza. Fino a che punto uno stato che si professa democratico può
processare una forma di resistenza armata legata a una causa di liberazione
nazionale, e farlo in nome della lotta al terrorismo? La distinzione tra
terrorismo e resistenza, tra dissenso e minaccia, appare oggi sempre più fragile
nel linguaggio giuridico, soprattutto in un’Europa che, dopo il 7 ottobre,
sembra tollerare sempre meno ogni forma di mobilitazione legata alla causa
palestinese.
Nei prossimi mesi il dibattimento proseguirà con un calendario serrato.
L’udienza del 16 aprile ha intanto aggiunto alcuni elementi rilevanti. Tra i
testi dell’accusa ascoltati vi era un perito balistico, incaricato di
analizzare un fucile apparso in una delle fotografie del materiale probatorio e
attribuito ad Anan. Dalla sua perizia è emerso che si trattava di un’arma
giocattolo, in plastica, facilmente reperibile in commercio, priva di qualsiasi
funzionalità. Il fatto stesso che su un oggetto del genere sia stata disposta
una perizia balistica, poi acquisita come prova, ha suscitato un momento di
ilarità tra i presenti. È stato questo uno dei momenti in cui il processo si è
spinto su un piano quasi surreale. Una sensazione che si è manifestata anche in
altri momenti, quando si è fatto ricorso a fonti aperte (post Facebook, video
YouTube, fotografie, materiali pubblici), utilizzate come elementi probatori. Un
aspetto che in quella giornata è affiorato appena, ma che tornerà con ogni
probabilità al centro delle prossime udienze, quando verrà riconvocato l’ex
commissario della Digos a cui fu affidata l’operazione che portò all’arresto di
Anan e per la quale avrebbe ricevuto una premiazione.
Ben più rilevante, però, è ancora una volta quanto accaduto sul fronte dei
verbali d’interrogatorio raccolti da Israele. La difesa, infatti, ha presentato
una ricerca giurisprudenziale articolata che richiama un principio consolidato
del nostro ordinamento, secondo cui gli atti raccolti da autorità straniere
possono entrare in un processo italiano solo se rispettano le garanzie
fondamentali del diritto interno, come il contraddittorio, la presenza di un
difensore, il divieto di coercizione. Ed è proprio l’assenza di queste garanzie
a rendere quegli atti incompatibili con un processo giusto. A differenza di
quanto accaduto il 2 aprile, quando la Corte aveva ammesso i verbali senza
esitazioni, questa volta i giudici hanno deciso di riservarsi la decisione, che
sarà sciolta il 7 maggio. Da tale decisione potrebbe dipendere molto, poiché una
parte sostanziale dell’impianto accusatorio si fonda proprio su quei verbali.
Come già si intuisce da queste prime fasi, il cuore del processo non risiede
solo nel suo esito finale, ma anche nelle modalità con cui verranno affrontati i
nodi giuridici ancora aperti: l’utilizzabilità di prove raccolte da un altro
stato, il riconoscimento o la negazione del contesto in cui quei fatti si sono
prodotti. In gioco non c’è solo la sorte giudiziaria di tre uomini (uno dei
quali, va ricordato, è detenuto in regime cautelare da oltre un anno, senza
condanna definitiva) ma il senso stesso del diritto. Capire quindi se questo
processo sarà fondato sulla ricerca della giustizia o se sarà, invece, piegato
alle logiche della ragion di stato. (francesca di egidio – versione integrale
dell’articolo sul numero 14 de lo stato delle città)
(disegno di ottoeffe)
Un’amica mi ha raccontato che nel piccolo paese da cui proviene è ancora molto
in voga, pure tra i giovani, “Padrone e sotto”, antico gioco praticato in molte
regioni meridionali. Funziona più o meno così: la prima parte è una partita a
scopa a squadre, o una tirata a tocco; chi ha il punto di primiera più alto, o
chi ha vinto il tocco, viene nominato “padrone”, mentre chi ha il secondo è il
“sotto”; il sotto e il padrone decidono di volta in volta il giocatore che potrà
bere dalla brocca o dalle bottiglie comuni, cercando di lasciare fuori qualcuno
di non gradito. A volte, però, facendo finta di volergli offrire da bere a
oltranza, i due cercano di mettere in mezzo uno dei partecipanti, concentrando
su di lui le bevute per farlo ubriacare e denigrarlo. Non è detto che le
alleanze portino al risultato prefissato, e in quel caso tanto vino sarà andato
sprecato.
Durante la prima presentazione di un libro che ho scritto molto tempo fa (La
sfida. Storia del re della sceneggiata), alla Sala Assoli del Teatro Nuovo di
Napoli, il maestro Pino Mauro, accompagnato da Franco Ricciardi, Carmine
Paternoster e Marco Giusti, si mise a recitare Questione ‘e tuocco, di E.A.
Mario, che parla di una vendetta all’arma bianca consumata durante una giocata a
Padrone e sotto.
Proprio accussì, tre anne carcerato
pe ‘na quistione ‘e tuocco e mo’ so’ asciuto,
maje s’è appurato ‘o fatto comm’è juto
e ‘a chesta vocca maje se po’ appura’.
Però nun fuje p’o vino, fuje pe’ ‘na parola
ascette ‘mmiezo ‘o nomme ‘e ‘na figliola
ca nun s’aveva proprio annumena’…
– Meh, jammo’: a chi adda essere?
Adda essere a vuje, ‘gnorsì cumpa’!
[…] Sbagliaje, curtellaje ‘nnucentemente
a chi nun era ‘nfame comme a te,
embè stasera ‘o vendico:
chesta è pe’ isso, e chesta ‘cca è pe’ me!
(pino mauro, questione ‘e tuocco)
Si è ormai diffusa in diverse città d’Italia la pratica del Graduation day,
durante il quale i neolaureati si ritrovano in una sede universitaria o in una
piazza della città per celebrare il raggiungimento dell’obiettivo lanciando in
aria il tocco, cappello che simboleggia la fine e il successo di un percorso di
studio. A Novara in piazza dei Martiri erano, lo scorso weekend, in più di
mille; a Macerata, in piazza Vittorio Veneto, diverse centinaia, provenienti da
più di trenta paesi. Gli studenti sono stati salutati dal rettore McCourt, primo
straniero a capo di un ateneo italiano, che ha esaltato la capacità
dell’università nel formare i giovani “a capire, pensare, affrontare le
complessità del presente”. Da più di un anno il rettore (membro del cda di
UniItalia, ente che si occupa della cooperazione accademica internazionale)
viene duramente contestato per gli accordi dell’università con atenei
israeliani, accordi che non ha finora voluto rescindere, a differenza di quanto
fatto con le università russe dopo l’invasione dell’Ucraina.
(da: al jazeera)
Dieci anni fa ricevetti in regalo per il mio compleanno un libro che riprende i
migliori discorsi tenuti da Kurt Vonnegut ai laureandi, al termine dell’anno
accademico.
Il rettore voleva eliminare ogni forma di pensiero negativo dal suo discorso di
saluto, e quindi mi ha chiesto di farvi quest’annuncio: “Tutti quelli che hanno
ancora in sospeso il pagamento del parcheggio sono pregati saldare il conto
prima di uscire da questo edificio, altrimenti si ritroveranno una sorpresina
sul libretto”.
Quando ero ragazzino a Indianapolis c’era uno scrittore umoristico di nome Kin
Hubbard. Ogni giorno scriveva una freddura di qualche riga per l’Indianapolis
News. […] Spesso era arguto quanto Oscar Wilde. Disse, per esempio, che era
meglio avere il proibizionismo che stare senza alcool. O che chiunque sostenga
che il sapore della birra analcolica si avvicina a quello della birra è incapace
di misurare le distanze. Do per scontato che le cose veramente importanti vi
siano già state insegnate nel corso dei quattro anni qui e non abbiate gran
bisogno di sentire granché dal sottoscritto. Buon per me. Ho solo una cosa da
dire: questa è la fine, questa è sicuramente la fine dell’infanzia. “Ci dispiace
tanto”, come dicevano durante la guerra del Vietnam. (kurt vonnegut, fredonia
college, new york, 20 maggio 1978)
Ancora, a proposito di tocco e di università: gira su Youtube un video in cui
padre Mike Schmitz, cappellano all’Università del Minnesota Duluth (una via di
mezzo tra l’Hugh Grant di Nottingh Hill e lo Sturby di Marco Marzocca), spiega
il rapporto tra sorte e Spirito Santo quando c’è da prendere qualche decisione
importante. Nello specifico si parla di Conclave ed elezione del Papa:
Una mia amica una volta mi ha detto: “Pensavo che tutto il processo fosse molto
più… santo. Una cosa quasi mistica. Tipo, entri nella Cappella Sistina, ti metti
in preghiera e chiedi allo Spirito Santo di guidare le decisioni”. Invece ha
scoperto che i cardinali parlano, discutono, dibattono. Possono
persino cercare consensi, cercare voti. E questo le sembrava… meno spirituale,
diciamo così. Eppure, se torniamo alla Bibbia, vediamo che
lo Spirito Santo agisce attraverso persone comuni, attraverso mezzi, eventi
e circostanze che non ci aspetteremmo. Per esempio, negli Atti degli Apostoli,
Giuda è morto, e gli apostoli si riuniscono per decidere chi prenderà il suo
posto. Come scelgono tra Giuseppe il Giusto e Mattia? Tirano a sorte! È come se
lanciassero i dadi per decidere chi sarà il prossimo apostolo. Non sembra molto
santo, ma è proprio quello che fecero. E questi sono uomini che camminarono con
Gesù, che furono istruiti e formati da lui. Eppure, dicono: “Non lo sappiamo.
Tiriamo a sorte”. (fr. mike schmitz, da uccr online, davvero lo spirito santo
elegge il nuovo papa?)
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/06/la-banda-tagliato.mp4
(credits in nota1)
(a cura di riccardo rosa)
__________________________
¹ Totò e Peppino De Filippo in: La banda degli onesti, di Camillo Mastrocinque
(1956)
(collage di stefania spinelli)
In un crepuscolo di metà maggio un elicottero dei carabinieri gira in circolo
sopra Barriera di Milano, il quartiere di Torino fra la Dora e la Stura.
Volteggia l’elicottero come un insetto assordante e gli abitanti escono in
strada intimoriti: migliaia di occhi s’alzano in cielo. Lungo corso Giulio
Cesare sfrecciano moto blu scuro e cinque, sei auto in fila dei carabinieri.
L’elicottero è sospeso sopra un palazzo e poco dopo escono dal portone
carabinieri con il passamontagna e un ariete per sfondare. Un’altra pattuglia
controlla i documenti accanto a un bar. Poco più a sud, sempre su corso Giulio
Cesare, un drappello di agenti di polizia e guardia di finanza circonda uomini
seduti al tavolini di un caffè. Le guardie hanno le gambe larghe, le mani sui
fianchi o dietro la schiena e fissano chi era in strada per bere una birra, un
caffè. Poliziotti in borghese dirigono il controllo dei permessi di soggiorno.
Nella luce incerta della sera si vede ancora il verde dei tendoni che coprono i
balconi, in strada cuoce il kebab nel fast-food turco e s’abbassano le serrande
del negozio che vende schede telefoniche e offre servizi di assistenza fiscale e
invio di denaro. L’elicottero non smette di ronzare assordante in cielo e il
rumore grava sull’animo di chi vive qui da dannato, e braccato.
“Cento identificati, un’intera palazzina perquisita e due arresti. È il bilancio
dei controlli effettuati dai carabinieri in Barriera di Milano, quartiere nella
zona nord scosso dagli ultimi episodi di violenza. Dopo l’omicidio di Mamoud
Diane, ucciso nella notte tra il 2 e il 3 maggio in via Monte Rosa, e gli
accoltellamenti che si sono susseguiti, il prefetto Donato Cafagna aveva
ordinato un giro di vite. Il blitz di mercoledì sera è solo l’inizio”. Caterina
Stamin, La Stampa, pagine torinesi, 16 maggio 2025.
“Blitz” è termine così inflazionato da oscurare la sua provenienza:
abbreviazione di “Blitzkrieg”, guerra lampo. Vedo immagini di un’occupazione in
quartiere – soldati con i fucili automatici in grembo, ronde di polizia e
carabinieri – e ricordo Gerusalemme. Alla Porta di Damasco c’era il presidio
fisso dell’esercito, soldati israeliani controllavano gli snodi principali fra
le vie della città vecchia. Dietro transenne sostavano due soldati, accanto alla
torrefazione fra i banchi del pane e dei pomodori. Le truppe presidiavano le
strade in nome della guerra al terrorismo, ma il terrorismo era una
giustificazione: la guerra era contro chi viveva sotto occupazione, senza
cittadinanza e diritti.
“Una coltellata alla schiena ha trafitto il cuore di Mamoud Diane, 19 anni, di
origini ivoriane. Lo hanno ucciso in strada nel quartiere Barriera di Milano, a
Torino. Il ragazzo era davanti a un bar all’angolo tra via Monte Rosa e corso
Novara quando è scoppiata una rissa fra due gruppi di persone di origine
africana, nata per debiti di droga secondo i primi riscontri. Erano almeno in
venti. ‘Una decina contro altri sette – racconta un testimone – due gang si sono
fronteggiate con calci, pugni, sputi, bottigliate. Due ragazzi sono caduti a
terra. Uno si è alzato, l’altro si è trascinato per un centinaio di metri. A un
certo punto non si è mosso più. Io credevo si rialzasse, non avevo visto il
coltello’. Sono arrivate le volanti della polizia, l’esercito. ‘Invece
l’ambulanza ci ha messo circa un’ora – prosegue il testimone – quel ragazzo era
già morto’”. Giada Lo Porto, La Repubblica, pagine torinesi, 4 maggio 2025.
La mediocrità del giornalismo torinese deve essere vagliata nonostante la nausea
che induce. Fra le idiozie, le frasi automatiche e i dati dettati dalla questura
emerge a volte un elemento inconscio, una rottura nell’ordine del discorso. Se
un ragazzo riceve una coltellata in Barriera di Milano, arrivano subito i
soldati e le volanti blu; l’ambulanza invece ci mette un’ora.
SOLDATI NELLE STRADE
Venerdì 19 gennaio 2024 i giornali annunciano che i militari dell’operazione
Strade Sicure s’apprestano a presidiare le vie di Barriera di Milano.
Un’operazione volta a contrastare “spaccio, risse, furti, scippi e degrado” –
scrive La Stampa. Sono annunciati quarantadue soldati in più soltanto nel
quartiere. Era inverno in Barriera e i militari hanno iniziato a piantonare lo
slargo di corso Palermo che dà sul mercato di piazza Foroni. L’invio
dell’esercito era una mossa del governo a supporto di una circoscrizione
amministrata da Fratelli d’Italia. Così il sindaco Lo Russo, afferente al
Partito Democratico, ricordava in un’intervista a La Stampa: “Più controlli
interforze e militari, bene, ma la stessa attenzione che oggi si rivolge a
Barriera non va circoscritta”. Il sindaco non contestava il paradigma della
sicurezza, chiedeva soltanto che venisse applicato anche ai quartieri governati
dal suo partito.
Frammento da un taccuino di appunti, 25 gennaio 2024. “Angolo fra via Malone e
via Lombardore. Vedo un ragazzo appoggiato con la schiena alla parete, si
schiarisce la voce. Poco dopo, da lontano, vedo che il ragazzo è circondato da
tre militari e due poliziotti. Il presidio fisso di corso Palermo può diventare
mobile e pattugliare le vie interne. I militari non possono agire in alcun modo,
per questo sono affiancati dalla polizia di stato. Gli uomini armati in divisa
mimetica sono un corteggio spettacolare. Mi avvicino al gruppo. Il ragazzo ha
sempre le spalle al muro, ma questa volta ha un militare a destra e due a
sinistra, di fronte i due poliziotti. Un poliziotto basso mi osserva e mi fa
cenno di circolare, circolare, un poliziotto alto si occupa del ragazzo. Lo
hanno costretto a togliersi le scarpe: ne controllano la suola. Il ragazzo si
lamenta perché gli hanno fatto male al braccio. Il poliziotto alto: «Ti abbiamo
fatto male? Vuoi un massaggino? Vuoi un massaggino lì? Ascolta, my friends
[sic]. My friends [sic]. You are a good boy, ma non ti voglio più vedere qui.
Capito? Te ne devi andare da qui». Per spiegare il concetto fischia due volte e
muove il polso su e giù con la mano tesa: «Vedi di andartene». Si avvicina il
poliziotto basso e mi guarda: «Per favore, vada via, stiamo facendo un
controllo». Ora si concentrano su di me – al nero dai del tu, al bianco dia del
lei. Il poliziotto alto mi chiede il documento e, intanto, i tre militari mi
circondano e mi fissano”.
L’esercito è inutile, un’operazione di propaganda visibile in una società dello
spettacolo – scrivevo. Eppure lo spettacolo è materiale e il suo arbitrio agisce
sui dannati fermati. Gli esclusi sono disturbati, spesso puniti, a volte
reclusi: lo spettacolo non è rifrazione eterea, ma azione concreta che s’incide
sui corpi.
In che senso posso definire un presidio di soldati “inutile”? Esso è inutile
perché le regole d’ingaggio e le modalità di impiego non servono a contrastare
lo spaccio o i fenomeni di devianza. Mi rendo conto che l’inutilità
dell’esercito è un argomento valido solo se accolgo come veri gli scopi
dichiarati dal governo, se adeguo la mia mente ai proclami del potere.
L’esercito non presidia le strade di Barriera per contrastare lo spaccio,
l’esercito è qui per realizzare un’occupazione militare del quartiere. La lotta
al piccolo crimine è solo una giustificazione: bisogna invertire le cause e gli
effetti. Ricorda Gerusalemme.
(collage di stefania spinelli)
ZONE ROSSE
Il 17 dicembre 2024 il ministero dell’Interno emana una direttiva che dichiara
“l’importanza di individuare, con apposite ordinanze, aree urbane dove vietare
la presenza di soggetti pericolosi con precedenti penali e poterne quindi
disporre l’allontanamento”. Si tratta di aree urbane dove funzionano leggi
speciali. Insegno a scuola e un giorno ho spiegato la legge Pica, ovvero le
misure speciali contro il brigantaggio varate nel 1863. L’articolo 1 afferma:
“Fino al 31 dicembre corrente anno, nelle Province infestate dal brigantaggio, e
che tali saranno chiamate con Decreto Reale, i componenti comitiva, o banda
armata, composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche vie
o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici, saranno
giudicati dai Tribunali militari, di cui nel libro II , parte II del Codice
penale militare, e con la procedura determinata dal capo III del detto libro”.
Esistevano zone speciali, ovvero specifiche aree appenniniche dove valevano
leggi diverse, eccezionali. Il fine era l’occupazione militare, e coloniale, del
territorio.
Per rispondere alla direttiva ministeriale, la Città di Torino istituisce
all’inizio del 2025 le “zone a vigilanza rafforzata”. Sono quattro aree speciali
– l’area attorno alla stazione di Porta Nuova, il lungofiume della Dora, il
cuore di Barriera di Milano, piazza Vittorio – dove sono intensificati i
controlli di polizia. In queste zone è legittimo imporre “il divieto di
stazionamento e l’allontanamento di soggetti con specifici precedenti per reati
predatori, contro la persona ed inerenti agli stupefacenti, che assumano
comportamenti aggressivi, minacciosi e insistentemente molesti”.
Ricostruisco la logica delle “zone a vigilanza rafforzata”. Nelle aree speciali
avvengono frequenti pattugliamenti con collaborazione fra soldati e forze
dell’ordine. Compito dei controlli è individuare i soggetti molesti, gli
indisciplinati e i fastidiosi ed esaminare i loro documenti. Se la persona
controllata ha precedenti per piccoli reati, l’autorità pubblica dispone
l’allontanamento dalla zona in questione per le successive 48 ore. La violazione
di questa disposizione è un’infrazione della legge e di conseguenza può scattare
un provvedimento penale. L’autorità pubblica ha creato un nuovo reato: sostare
in aree definite speciali dopo un’ingiunzione di allontanamento. Si tratta di
uno strumento in più da applicare a discrezione contro chi è ritenuto fonte di
turbamento dell’ordine pubblico. Accade lo stesso nelle scuole: si definiscono
nuove regole disciplinari in modo da avere più strumenti discrezionali da
impiegare contro gli studenti mal sopportati. «Non dovete controllare chi si
comporta bene», diceva un graduato dei carabinieri ai soldati in presidio in
Borgo Dora – era l’inizio di questa primavera.
La mente rimugina sui dati, scrutina le visioni per tentare un’astrazione. Se la
sicurezza è un pretesto, qual è la causa materiale dei controlli di polizia? Il
governo deve disciplinare e reprimere gli scarti, ovvero la forza lavoro –
precaria, spesso senza documenti, dunque facilmente sfruttabile – che non
s’adatta silente e quieta al meccanismo della riproduzione sociale. Gli atti (i
controlli, le retate) e le infrastrutture (la cella in questura, il carcere, il
Cpr) costruiscono un paradigma di contenimento di sfaccendati refrattari alla
schiavitù.
Mentre volteggia l’elicottero sopra Barriera di Milano assisto al controllo dei
documenti richiesti agli avventori del bar. Sferraglia il tram mentre siamo
circondati dagli agenti, in particolare sono tenuti d’occhio tre ragazzi mentre
un poliziotto in borghese dirige le operazioni di accertamento sui loro
passaporti. Poco fa sedevano senza pensieri al tavolino, sorseggiavano il caffè
dopo, chissà, una giornata di lavoro. I controlli paiono lunghi e meticolosi.
Forse qualcosa non va? S’è fatta sera. Repentini dieci agenti si stringono in un
muro blu e s’avvicina una camionetta. Oltre le schiene dei poliziotti i tre
ragazzi sono caricati nella camionetta, scorre il portello e si allontanano le
luci lampeggianti. Due di loro saranno gli unici arrestati di questa
spettacolare esibizione dello stato. Così, per un irragionevole movimento degli
eventi, due uomini finiscono forse in una struttura detentiva per il rimpatrio.
I tre fermati non mi sembrano diseredati, emarginati o soggetti che lo sguardo
della polizia può definire “pericolosi”; paiono piuttosto tre lavoratori
impigliati per caso nella rete della sicurezza. Le esperienze concrete allentano
la tenuta della teoria e alla mente non resta che tornare ai dati, alle visioni.
REPRESSIONE AL PONTE CARPANINI
In Borgo Dora, lungo la riva destra del fiume, le istituzioni si impegnano da
anni a contrastare e reprimere il mercato di straccivendoli, robivecchi e
raccoglitori di rifiuti che esiste da più di un secolo. Nel 2019 è stata
impiegata la Celere per sgomberare centinaia di mercanti, nelle stagioni
successive la polizia municipale s’è impegnata a contrastare e cacciare chi ha
tentato il ritorno. In questi mesi, accanto al ponte Carpanini, squadre di
vigili organizzano presidi all’alba del sabato per impedire che gli
straccivendoli dispongano le loro stuoie. È notevole il dispendio di energie
pubbliche per una repressione che non riesce a soffocare del tutto il fenomeno,
e nonostante i duri colpi inferti. Vedo le nuove insorgenze del mercato come
fioriture d’una vita spontanea, espressione di un’esigenza incontenibile;
l’operato della polizia e delle istituzioni m’appare come un’induzione di morte:
morte artificiale, o seconda morte.
Ascolto spesso gli straccivendoli chiedere ai vigili: «Che cosa dobbiamo fare?
Andare a rubare? Spacciare? Andiamo a spacciare allora!». È il meccanismo
circolare del potere: più reprime, più crea condizioni di vita che giustificano
la repressione.
Mi sono chiesto quale sia la catena di comando che induce i vigili, all’alba del
sabato, a piantonare il marciapiede accanto alla struttura in acciaio del ponte
Carpanini. Chi emana l’ordine, e perché, e secondo quali modalità? Diverse forze
chiedono l’allontanamento dei lavoratori informali: l’associazione che gestisce
il vicino mercato dell’antiquariato, l’ente filantropico e cattolico disturbato
dalle attività autonome dei poveri. Poi immagino che sia il comando dei vigili
di zona, su pressione del comune e della circoscrizione, a mandare gli agenti.
Per ricostruire i passaggi formali e le ragioni peculiari di una tattica di
controllo urbano ho deciso di consultare i verbali del Tavolo di osservazione
per la sicurezza della circoscrizione pertinente. A questo tavolo siedono il
presidente di circoscrizione, un rappresentante della prefettura, uno del comune
e i referenti delle forze di polizia che agiscono sul campo.
Ho richiesto i verbali del Tavolo di osservazione per la sicurezza della
Circoscrizione 7 tramite accesso civico generalizzato. La risposta è stata
emanata direttamente dalla prefettura: “Al riguardo, si rileva che la
documentazione richiesta è riconducibile alle previsioni di cui all’art. 5 lett.
a) D.Lgs 33/2013: ‘L’accesso civico […] è rifiutato se il diniego è necessario
per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici
inerenti a: a) la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico’”. La sicurezza è un
allucinante spettacolo visibile e mediatico, eppure oscure e invisibili sono le
origini delle sue procedure.
La sicurezza. La sicurezza è il pretesto ideologico per legittimare il controllo
militare e poliziesco di aree urbane peculiari. La sicurezza è un motore
pragmatico che produce atti politici territoriali e modifica il volto dei
quartieri e la vita degli abitanti, ma il meccanismo di questo motore emanante,
o principio primo, è invisibile, inafferrabile. La sicurezza è un incubo che
abita le nostre menti e ci impedisce di immaginare la possibilità che essa possa
essere smantellata, cancellata dall’orizzonte d’ogni pensiero e discorso.
(collage di stefania spinelli)
SICUREZZA INTEGRATA
I tavoli di osservazione per la sicurezza delle circoscrizioni sono stati
istituiti dall’articolo 4 di un protocollo del dicembre 2019: “Accordo per la
sicurezza integrata e lo sviluppo della Città di Torino”. Era il tempo della
giunta guidata da Appendino, il protocollo porta la firma, fra gli altri, dei
rappresentanti della Città, della Regione Piemonte, dell’Ufficio Scolastico
Regionale, dell’Unione Industriali, della Compagnia di San Paolo e di CGIL, CISL
e UIL.
La sicurezza è “integrata” – leggo nel protocollo – perché prevede una
“collaborazione tra amministrazioni centrali, istituzioni locali […] società
civile” e forze dell’ordine. Le premesse sono in questo senso illuminanti: in
nome del principio di “sussidiarietà” si ritiene necessario delineare una
“strategia di intervento complessiva che mette la città e i cittadini al centro
delle politiche di sicurezza”. La “sicurezza” infatti è un “bene primario dei
cittadini […] per la cui efficace realizzazione si rende necessario il concorso
di diversi soggetti, tutti funzionali, in una governance multilivello”. Il
documento propone d’incentivare “un processo di partecipazione alla gestione
della sicurezza […] nel quadro di una sicurezza sempre più integrata e
partecipata”. In sostanza non può essere soltanto l’operato della polizia a
“rimuovere le cause profonde di devianza e di degrado”, ma deve esistere “il
coinvolgimento” della cittadinanza attiva attraverso i patti di collaborazione
e, in modo più generale, la partecipazione intrisa di valori civici. Il
“contenimento dei fattori criminogeni” è il punto di confluenza dove possono
incontrarsi poliziotti, amministratori, sindacati confederali, fondazioni
bancarie, scuole e, immancabilmente, gli “enti del terzo settore di comprovata
esperienza ed [sic] attivi sul territorio”.
Il protocollo stipulava l’ampliamento dei sistemi di videosorveglianza per il
controllo “pubblico e privato” del territorio, un più intenso scambio
informativo tra polizia locale e polizia di stato, la detrazione fiscale per gli
esercizi commerciali e condominî dotati di telecamere in strada, il
rafforzamento dell’illuminazione pubblica, una rinnovata sinergia fra enti
amministrativi e realtà territoriali per la prevenzione delle occupazioni. Il
patto aveva durata di due anni, molte soluzioni erano soltanto proclami,
tuttavia permangono ancora i tavoli di sicurezza delle circoscrizioni e i
presupposti ideologici di quell’approccio. In un’intervista del 30 maggio 2025
per le pagine torinesi del Corriere della Sera, il prefetto Cafagna annuncia la
nascita di un osservatorio sulle periferie: “L’obiettivo, su indicazione
ministeriale, è ideare e organizzare nuove iniziative concrete e coordinate fra
i diversi enti coinvolti, per affrontare tutte le problematiche. L’11 giugno
saranno presenti Regione, Città, associazioni sindacali e di volontariato,
fondazioni bancarie e rappresentanti della scuola e dell’autorità giudiziaria”.
Il giornalista chiede da dove si debba partire. E il prefetto: lotta al degrado,
implementazione di illuminazione pubblica e videosorveglianza.
So che nell’area metropolitana di Torino ci sono enti del terzo settore
coinvolti attivamente in pratiche di repressione e controllo del territorio:
esistono associazioni direttamente responsabili degli sgomberi dei campi
informali, un centro d’accoglienza cattolico ha collaborato all’esilio di
centinaia di straccivendoli, una cooperativa sociale è disposta a montare
telecamere di videosorveglianza attorno al perimetro del proprio locale,
numerosi soggetti hanno accettato finanziamenti europei in nome del
miglioramento della sicurezza percepita, una fondazione di comunità impedisce
alle persone senza casa di dormire nel parco pubblico che controlla. La
sicurezza non si risolve soltanto nell’operato violento e razzista delle forze
dell’ordine, ma è un dispositivo che coinvolge anche le iniziative dolci, e
democratiche, delle aggregazioni progressiste diffuse a diversi livelli
operativi nella società civile. Se il governo del territorio mostra una
capillare attitudine a escludere e discriminare, questo è l’esito di un
esercizio integrato che coinvolge tanto i soggetti apertamente razzisti quanto
le forze benevolenti e paternalistiche.
In un regime di sicurezza integrata la critica deve analizzare e smontare tutti
gli elementi che lo compongono. Per questo l’antifascismo declinato come
denuncia dei partiti di destra non è più sufficiente. Chiedo a chi incontro in
strada, ai compagni di viaggio, quanto sia allucinante il delirio spettacolare
cui assistiamo, e se ci sono delle formule per sfatarlo. Domando a chi legge se
è possibile risvegliarsi da questo incubo della sicurezza; e se esiste una forza
frenante, e collettiva. La disperazione ha in dono un residuo di energie?
(francesco migliaccio)
(disegno di elena mistrello)
Qualche anno fa, in una concitata assemblea di lavoratori sociali, qualcuno
suggeriva ai presenti di guardare al sociale come un laboratorio dove il sistema
neoliberale sperimenta processi di sfruttamento, e di auto-sfruttamento, che nel
tempo, a macchia d’olio, si consolidano in altri settori del mercato del lavoro.
In questo settore, a fronte della crescita del fatturato e dell’organico
dell’impresa sociale, si mantiene una struttura apparentemente orizzontale, che
attraverso la permanenza delle figure dei soci lavoratori diffonde un’idea di
cooperativa come famiglia, funzionale in realtà alla cancellazione dei diritti
residuali sanciti dal contratto collettivo nazionale. In questo scenario si
colloca la storia che vogliamo raccontare.
L’Apriti Sesamo, accreditata al servizio di inclusione scolastica di Roma
Capitale, nel 2023 vantava un fatturato di circa quattro milioni e un organico
di centosettanta persone tra soci e dipendenti; ma nell’ottobre 2024 ratificava
nell’assemblea tagli sugli stipendi per i soci: 85 euro lordi sulla retribuzione
lorda, sulla quattordicesima, sui permessi retribuiti, le ferie, la malattia, e
inoltre formazione pagata al cinquanta per cento, con una riduzione dello
stipendio, per ogni lavoratore, tra i duecento e i trecento euro al mese.
L’8 aprile 2025, Apriti Sesamo invia una email ai lavoratori non soci, dove a
seguito di motivazioni legate alla pandemia, li convoca per discutere
sull’applicazione dei tagli. Il 22 aprile, i dipendenti vengono chiamati in
un’assemblea, alla presenza dei sindacati confederali (Cgil, Cisl, Uil), dove i
dirigenti della cooperativa illustrano il quadro economico e chiedono di fare
sacrifici facendo leva sul solito schema familistico. La cooperativa informa poi
i dipendenti sulla decisione di indire un referendum, il 23, 24 e 28 aprile, per
“decidere” se accettare o meno i tagli.
Ai sindacati di base (Usb e Cub) viene preclusa la possibilità di partecipare,
negando di fatto una discussione sulla vicenda. Il 21 aprile l’Usb, il sindacato
della lavoratrice che intervistiamo, e la Cub, proclamano lo stato di agitazione
e inviano due lettere di diffida: una il 30 aprile e l’altra il 5 maggio, contro
l’applicazione dei tagli ai loro iscritti. Il 30 aprile vengono pubblicati i
risultati del referendum: su 99 aventi diritto, il sì prevale di 62 voti, mentre
il no si ferma a 14. Mentre sono 23 le persone che si astengono. I tagli partono
dal primo maggio, ma i lavoratori li vedranno applicati in busta paga solo a
luglio, poiché lo stipendio viene erogato abitualmente con due mesi di ritardo.
Il 12 maggio, i consiglieri dell’assemblea capitolina, Antonio De Santis e
Flavia De Gregorio, chiedono la convocazione urgente della commissione scuola di
Roma Capitale, per analizzare la situazione della cooperativa Apriti Sesamo. Un
passaggio importante, quest’ultimo, visto che secondo la legge 104/92, il Comune
è titolare del servizio di assistenza scolastica che supporta i ragazzi con
disabilità nelle scuole di ogni ordine e grado.
A partire dall’anno scolastico 2022-23, l’erogazione del servizio avviene
tramite il sistema dell’accreditamento. Al momento in cui intervistiamo la
lavoratrice, i dipendenti Apriti Sesamo attendono risposte ufficiali dal comune
di Roma Capitale.
Che è successo l’8 aprile?
«Quel giorno ricevo una mail in cui vengo convocata dalla cooperativa insieme ai
miei colleghi, dipendenti non soci, per parlare di un piano di tagli che sarebbe
stato approvato qualora i dipendenti avessero votato sì. Leggo la mail e penso:
parlerò con i sindacati di base. È una questione collettiva e non ho pensato di
agire da sola, non ho nemmeno risposto alla mail. Il risultato è stato che il
sindacato ha dichiarato lo stato di agitazione dei suoi iscritti. Sono andata
all’assemblea con questa consapevolezza. Ma soprattutto non ero preoccupata
perché ho pensato: ti pare che una persona va a votare per il taglio del proprio
stipendio? Ho avuto fiducia nelle persone e come sempre ho sbagliato.
Quando hai capito che la situazione avrebbe preso una brutta piega?
«Il giorno dopo aver ricevuto la mail sono andata a parlare con le poche
colleghe che lavorano con me a scuola, pensando che fossimo tutte d’accordo. In
particolare una ragazza mi dice: “Non abbiamo altra scelta, io con loro mi trovo
bene, ci lavoro da anni, perché dobbiamo votare no? Sono sacrifici che dobbiamo
fare tutti quanti!”. Quando anche le altre colleghe mi hanno detto che avrebbero
votato sì, mi è salita una rabbia incredibile. Ho dormito male e ho provato a
immaginare quello che i miei colleghi avrebbero potuto dire e quello che avrei
potuto rispondere. Iniziavo a pensare che saremmo stati una minoranza. In
assemblea c’erano una cinquantina di persone, tutte silenti, pendevano dalle
labbra del presidente della cooperativa, ascoltavano, annuivano. Avevano già
accettato i tagli. Io e una collega che la pensava come me, ci siamo messe in
fondo alla sala. Allora una delle lavoratrici storiche della cooperativa si è
messa dietro di noi per vedere se stavamo registrando la riunione. Quando ho
chiesto il microfono, ho detto una cosa molto semplice: “Come alcuni di voi
sapranno è stato dichiarato lo stato di agitazione dei dipendenti iscritti a
Usb. Noi non siamo d’accordo rispetto ai tagli e faremo tutto quello che è in
nostro potere per impedire che venga applicata una cosa del genere”. Mi tolgono
il microfono dalle mani e vengo attaccata da una lavoratrice per una questione
personale: tempo prima mi ero confidata con una collega della scuola, dicendo
che volevo cambiare lavoro e questa è andata a raccontarlo alla cooperativa. Lei
mi ha urlato in faccia e io mi sono un po’ spaventata. Ero sola, non avevo il
mio sindacato di riferimento, erano tutti palesemente contrari a quello che
stavo dicendo. Ho iniziato a tremare, non ho vissuto bene l’aggressione, me ne
sono andata via. Sono tornata a casa e sono rimasta per tutto il fine settimana
a letto, non sono riuscita a studiare, non ho visto nessuno. Mi sentivo l’ansia,
il mal di stomaco, non riuscivo a dormire al pensiero di tornare al lavoro. A
scuola non mi sono esposta.
Che significa per te lavorare nel sociale?
«Quando inizi sei contenta perché pensi di stare facendo qualcosa di utile. Nel
momento in cui ti rendi conto che vai a lavorare per il benessere altrui, ma che
il tuo benessere è messo da parte, questo ti lascia svuotato. E quella
motivazione che avevi nello svegliarti la mattina viene meno. Per citare Freire,
l’educazione deve servire alle persone per liberarsi dalla loro condizione di
oppressi. Ma nel momento in cui tu stesso sei oppresso dal sistema, c’è un
meccanismo che si inceppa. Lavorare nel sociale ti sfinisce: sai che vieni
sfruttato fino all’osso, che vieni pagato poco, che il tuo lavoro è invisibile.
E quello che ti viene a mancare è l’umanità. Parlando di scuola, quest’anno, non
ho avuto una parola di conforto da parte di nessuna insegnante. Colleghe che
fanno un lavoro assimilabile al mio, ma lavorano quattro ore al giorno. Tu sei
vista come quella che deve lavorare otto ore al giorno. C’è qualcosa che non
funziona. E il prezzo di tutto questo lo pagano non gli imprenditori sociali, ma
le persone fragili e quelle che lavorano.
Che idea ti sei fatta dei sindacati?
«I sindacati confederali rappresentano il fallimento dei sindacati. Hanno una
struttura profondamente gerarchica, sono lì a parlare in rappresentanza dei
lavoratori, ma hanno mai parlato con i lavoratori? Se, come in questo caso,
difendi datori di lavoro che avallano il taglio allo stipendio di chi svolge un
lavoro povero, significa che non stai facendo il tuo lavoro. Io mi chiedo come
fanno a potersi definire sindacato. Hanno fortemente voluto il sistema
dell’accreditamento. Il contratto collettivo nazionale l’anno scorso lo hanno
firmato loro.
Come ti senti a essere una lavoratrice sospesa?
«Ho un rapporto ambivalente: c’è una parte di me che vive i tre mesi di
disoccupazione quasi come una liberazione dal lavoro, e dall’idea di essere
sfruttata. Nonostante a livello economico sia molto duro sopravvivere, visto che
pago l’affitto e vivo in una città molto cara, in qualche modo lo percepisco
come un tempo per liberarmi dalle pressioni, quasi come se preferissi percepire
un reddito più basso piuttosto che sentirmi sfruttata. Avere tre mesi di libertà
è un pensiero che mi aiuta ad arrivare viva a giugno. Trovo assurda la questione
del part-time ciclico verticale, perché i colleghi e le colleghe che hanno
dovuto firmare un contratto a tempo indeterminato, per quei tre mesi non hanno
accesso alla disoccupazione, quindi devono continuare a lavorare nei centri
estivi in cui vengono sfruttati di più rispetto alle scuole, perché ti pagano
cinque euro l’ora. E soprattutto il lavoro di educatore è usurante, anche noi
come i docenti dovremmo avere dei mesi per riprenderci. Viviamo in un ambiente
lavorativo talmente precario e ingiusto, che sono arrivata a considerare la
disoccupazione come una manna dal cielo. Io non firmerò mai un contratto a tempo
indeterminato con una cooperativa. Non lo farò mai, e questo mi aiuta a
percepire questo lavoro come temporaneo, perché non lo puoi fare tutta la vita».
(giuseppe mammana)
(disegno di francesca ferrara)
Una mattina di qualche mese fa ci siamo seduti a chiacchierare con Arturo
all’esterno del circolo di piazza Bagnoli che gestisce. Gli abbiamo chiesto di
raccontarci della sua vita, del posto in cui è nato, ha lavorato e ha messo su
famiglia. Pubblichiamo a seguire la sua storia.
Io a Bagnoli ci sono nato, a via Di Niso, il palazzo era di mio nonno che faceva
il farmacista alla Pignasecca, una farmacia molto nota a Napoli. Il palazzo lo
costruì nel 1926, c’è ancora la scritta per terra. All’epoca nonno litigava con
papà perché lui aveva fatto dieci figli, più di tutti gli altri fratelli messi
insieme, e non era facile portare avanti la famiglia. Mio padre dava diecimila
lire di affitto a mia nonna per l’appartamento che stava dentro a questa
palazzina, poi mio nonno di nascosto se li prendeva e glieli dava un’altra volta
indietro a mio padre. Dopo la scuola, alla Vito Fornari, ho fatto l’avviamento,
nel 1953, ma subito ho mollato per andare a lavorare.
Qua dove ora c’è piazza Bagnoli era molto più stretto, c’era il muro di cinta e
dentro c’era la fabbrica. Io lavoravo nel bar Di Lauro, di fronte l’ingresso
della fabbrica. Prendevo mille lire a settimana. Poi sono entrato con la Cesud,
avevo diciassette anni, era una ditta che lavorava dentro l’Ilva, si occupava
degli impianti elettrici. Io ero aiuto elettricista, giravo col motorino, andavo
dove lavoravano gli elettricisti e gli portavo il materiale che serviva. Poi
sono andato a fare il soldato e dopo il militare sono entrato definitivo in
fabbrica, perché nel frattempo c’era stato il passaggio delle ditte
all’Italsider, hanno internalizzato. All’Italsider sono stato fino al 1990.
Stavo sui carroponti, scaricavamo le navi di carbone dal pontile. Era un lavoro
facile, tu stavi sempre sul carroponte, non era un lavoro fisico come altri
nella fabbrica. La nave di solito restava in sosta per tre-quattro giorni.
Arrivavano per lo più dall’Italia, da Piombino soprattutto. C’erano momenti in
cui non si lavorava molto e altri di più, perché la nave doveva rimanere un
tempo massimo stabilito, sennò pagavano la penale. E allora in certi momenti il
capoturno diceva che bisognava accelerare.
I festivi prendevi di più, le navi arrivavano tutti i giorni, io lavoravo pure a
Natale. Per scaricare una nave ci volevano giorni, le navi aspettavano a largo
che una finiva e cominciava un’altra. Noi eravamo un gruppo di cinquanta operai
circa e dieci capoturno, col caporeparto che comandava tutto. La gente a volte
dice “eh ma nel cantiere, tanti anni col posto fisso, non si faceva niente”,
sono tutte cretinate. Il posto fisso era buono perché potevi lavorare
prendendotela comoda. Noi tenevamo il televisore, vedevamo le puntate. Ma quando
poi si dovevano buttare le mani ti facevi un cuore così! E questo per quanto
riguarda noi. Ma chi stava nell’acciaieria, la cokeria, quando usciva il fuoco,
tu dovevi stare là. Non ti potevi allontanare, non ti potevi manco distrarre.
Per non parlare poi degli incidenti. E della gente che è morta con le malattie.
Là dentro era tutto amianto. Mi ricordo che c’era l’altalena che passava sopra
la colata, sopra la lava, c’era questo ponticino piccolino di un metro, un metro
e mezzo fatto di loppa. Una volta sentimmo urlare mentre uno passava, la loppa
non si era indurita, era venuta meno e si era squagliata mezza gamba di questo
là dentro. Se non lo tiravamo fuori se lo risucchiava sano sano. Io sono stato
pure come trasfertista a Taranto, a Piombino, là sì che non si faceva niente! E
poi era tutto più nuovo, perché l’avevano costruita dopo.
Quando la fabbrica ha chiuso ci hanno mandato all’aeroporto a fare dei corsi, e
poi ci volevano far assumere con una ditta che faceva le pulizie ma io ho
rifiutato. Loro facevano apposta a proporti dei lavori che non erano all’altezza
di quello che uno faceva prima. Provarono pure a mandarci all’Alfa Sud a
Pomigliano d’Arco, io dovevo prendere il pullman alle cinque di mattina e
tornare alle cinque di sera, erano dodici ore, un inferno.
Quando si firmava la buonuscita, con alcuni compagni miei andammo al Centro
Direzionale, tutti vestiti bene, ci facemmo la barba i capelli, e firmammo il
licenziamento per settanta milioni. Pochi giorni dopo la firma, mio cugino mi
avvisò che l’Italsider stava mettendo una cifra di buonauscita uguale per tutti,
di cento milioni. Disse: «Vai là e ferma tutto, muoviti!». Allora io andai, feci
tutta una recita dicendo che avevo litigato con mia moglie che voleva che
continuavo a lavorare, che tenevo due figli e non mi volevo licenziare più.
Dissi che ci avevo ripensato, eccetera eccetera. Alla fine l’impiegata che si
occupava di questa cosa si convinse e mi cancellò dalla lista dei settanta
milioni. Passano tre giorni, diventa ufficiale la cosa dei cento milioni e io
subito mi precipito per licenziarmi e prendermeli. E chi trovo all’ufficio? La
stessa signora: «Ah, e che ha fatto vostra moglie, già ha cambiato idea?».
Intanto poi con quei soldi mi sono aperto la sala giochi.
Anche durante gli anni della fabbrica, Bagnoli era stato un posto vivo,
turistico. C’era il bagno Fortuna, c’era l’albergo Tricarico, dove adesso ci sta
la scuola, che teneva le terme, stava l’entrata dove ora c’è il commissariato.
C’era il lido Sirena, che era il bagno delle guardie, dei poliziotti. Poi c’era
l’ospedale e poi il lido Nettuno. Per entrare si pagava, ma c’era una spiaggia
libera grande dove adesso c’è l’Arenile, lo chiamavamo ‘o Mappatella, la gente
del quartiere andava là. Il Tricarico ha lavorato molto fino all’inizio degli
anni Ottanta, fino agli anni Settanta c’era molta attività turistica, c’erano i
ristoranti, poi cominciò a lavorare di meno, e nell’83 ci misero i terremotati
del bradisismo. In giro vedevi sempre tanta gente: c’erano i marinai, i
trasfertisti, i turisti dell’albergo, la sera si usciva, c’era il circolo, si
giocava a carte. Lavoravano i ristoranti, le pizzerie, si faceva la passeggiata
a mare, c’era un certo benessere.
All’epoca c’era la quindicina, lo stipendio si pagava ogni quindici giorni, il
giorno 9 e il giorno 22 del mese. E quando l’operaio prendeva la quindicina… e
come spendeva! La mattina compravano le graffe, mezza per una, e poi pagavano
quanto prendevano la quindicina, si faceva il conticino tanto tu sapevi che ti
pagavano perché lo stipendio era fisso. Molta gente alla mattina arrivava da
fuori Bagnoli coi pullman, non abitavano tutti in zona. C’erano diversi
ingressi, quattro o cinque: uno per l’acciaieria, uno dove stava la banca,
eccetera. Il bar lavorava molto: ci stava il tram, la cumana, scendeva un mare
di gente. C’erano tre turni: dalle sette alle tre, poi dalle tre alle undici di
sera, e dalle undici alle sette di mattina.
Quando la fabbrica ha chiuso secondo me gli operai non sono andati male, in
molti sono andati in pensione giovani e hanno potuto fare dei lavoretti fuori
mano per arrotondare. Che poi già prima così si faceva: chi faceva
l’elettricista, chi aggiustava le cose. Il problema è stato per chi è venuto
dopo. Io sono riuscito a sistemarmi perché ho fatto l’investimento. Nel 2015 il
circoletto è diventato pure un’agenzia di scommesse, ma prima lavoravamo come
sala giochi, il bigliardo, il ping pong, le carte.
Oggi ho due figli, uno che vive a Udine che ha una tabaccheria, tiene
quarantacinque anni ed è già nonno. Ho molti nipoti, uno si chiama Arturo come
me, c’ha diciassette anni, sta nell’accademia aeronautica, sta studiando per
diventare ingegnere spaziale. Ti dico solo che nella stanza sua c’ha un
televisore gigante, un tavolo, due-tre computer, studia i motori di formula uno.
Io amo stare qua, passeggiare, sono nato e cresciuto a Bagnoli. Però se tutta la
mia famiglia fosse d’accordo me ne andrei da mio figlio al Nord, per stare
vicino ai nipoti miei. Mio figlio mo’ che c’è stato il bradisismo mi ha detto:
«Ma a chi stai aspettando?». Però vedi, in questa piazza io sono il più vecchio,
conosco tutti quanti, ci sto bene. La mattina accompagno mio nipote alla Madonna
Assunta, mo’ finisce le medie e l’anno prossimo va al Nautico. Poi lo accompagno
pure a giocare a pallone, sto sempre appresso a lui, e certo vorrei fare queste
cose pure con quelli che stanno sopra. (intervista a cura di gabriella boscarino
e riccardo rosa, pubblicata anche su bagnolinformazione.it)
(disegno di ginevra naviglio)
Qualche anno fa a Roma, nel parcheggio attiguo a una di quelle strutture
denominate dalle amministrazioni pubbliche “residence” ma che tutto possiedono
al loro interno fuorché servizi, comodità, spazio e manutenzione, si era fermata
a vivere una famiglia di sinti napoletani. La loro epopea aveva avuto inizio
molti anni prima, quando erano stati sgomberati da un campo poco fuori il comune
di Napoli. Da tempo, ormai, avevano deciso che la loro casa sarebbe diventata
l’unica cosa che possedevano, ossia il camper. Da qui, si dicevano, non possono
sgomberarci. In parte era vero, in parte no.
All’alba una pattuglia della polizia si accostò accanto al camper con le sirene
spiegate. Chiesero i documenti al padre e dopo un rapido controllo trovarono dei
vecchi precedenti. Erano passati dieci anni da quando aveva scontato l’ultimo
giorno di galera e, nel frattempo, gli erano nati tre figli, aveva iniziato un
nuovo lavoro e aveva cambiato città.
Ma aver scontato una pena non bastava a cancellare la sua presunta pericolosità,
anzi, in qualche modo ne costituiva una conferma. Fu così che l’uomo ricevette
un foglio, che scoprì poi essere un foglio di via obbligatorio, ovvero una
misura limitativa della libertà di movimento di natura amministrativa prevista
dall’articolo 2 del decreto legislativo 159/2011 (conosciuto come Codice
antimafia e delle misure di prevenzione). Lo strumento agisce preventivamente,
nel senso che non occorre aver commesso un reato, basta essere considerato un
soggetto pericoloso tanto da impedirgli il ritorno in un determinato luogo fino
a un massimo di tre anni.
Mesi dopo ripassai davanti a quel parcheggio, quella famiglia era scomparsa, ma
di camper simili ne tornarono a decine. Avevano appena sgomberato altre aree
della città e le persone, non sapendo dove andare, si rifugiarono nel luogo più
vicino.
Dal 2011 a oggi è stato fatto un utilizzo esplicitamente politico di questo
strumento preventivo: non solo persone senza casa, ma anche militanti che
protestano davanti alle carceri, attivisti del clima, lavoratori in sciopero
sono solo alcune delle categorie colpite. Un provvedimento che ha le sue origini
nel fascismo (il confino per gli oppositori politici) e che si è adattato alle
maglie larghe di questo stato di diritto, finendo per censurare, controllare e
intimidire il dissenso.
Come ha spiegato bene l’avvocato Nicola Canestrini sono misure “basate sul
sospetto: prevedere il futuro e sulla base di questo giudizio prognostico
stabilire la probabilità, la possibilità che un soggetto sia pericoloso e quindi
evitare che commetta dei reati. Un po’ come in Minority Report con Tom Cruise,
dove i Precog dicevano quello che succedeva. Ma nella realtà è assai più
preoccupante: sono misure che incidono moltissimo sulla libertà delle persone,
la libertà di movimento, circolazione, proprietà”.
Evidentemente non era abbastanza. Nel 2017 è stato introdotto un ulteriore
strumento giuridico finalizzato a garantire l’ordine pubblico e la sicurezza: il
Divieto di accesso a spazi pubblici (Daspo urbano), simile al Daspo sportivo ma
adattato ai contesti cittadini.
Considerato meno afflittivo del foglio di via obbligatorio, in quanto pregiudica
l’ingresso solo a determinate aree della municipalità e perché la sua violazione
non comporta un illecito penale ma una sanzione amministrativa pecuniaria (fino
a trecento euro), in realtà evidenzia una preoccupante tendenza:
l’amministrativizzazione del diritto penale; che, come spiega Federica Borlizzi
riprendendo l’analisi del giurista Luigi Ferrajoli, “nasconde la consapevolezza
del legislatore di poter giocare sul nomen iuris delle sanzioni, con delle
misure afflittive denominate ‘amministrative’ che, tuttavia, nella sostanza
costituiscono delle vere e proprie pene”.
Per quanto ampia e discrezionale l’applicazione di questi strumenti sia,
tuttavia, non sono sembrati abbastanza all’attuale ministero dell’Interno che,
se possibile, è riuscito nell’impresa di portare alle estreme conseguenze la
possibilità di decidere su chi ha il diritto di vivere nelle nostre città.
L’istituzione delle cosiddette zone rosse si inserisce in una logica strutturale
di gestione urbana che promuove metropoli sempre più disgregate al loro interno,
con interi quartieri commissariati e residenti colpevolizzati in base a fasce
d’età, classe sociale e background migratorio.
Attivate prima a Bologna e poi a Firenze negli ultimi mesi del 2024, le zone
rosse hanno comportato l’allontanamento di centinaia di persone dai Comuni in
cui erano solite abitare o semplicemente stare. È la presenza stessa a essere
punita, l’esistenza in quanto essere umano che copre con il proprio corpo un
segmento di spazio urbano: lo chiarisce bene la circolare del prefetto di Milano
del 27 dicembre scorso che, istituendo la zona rossa anche nel capoluogo
lombardo, intende “fronteggiare la presenza di soggetti molesti e aggressivi,
dediti alla commissione di reati e non in regola con la normativa in materia di
immigrazione, tale da incidere negativamente sulla percezione di sicurezza dei
cittadini e dei turisti che fruiranno di quelle aree”.
L’entusiasmo del ministro Piantedosi rispetto al moltiplicarsi delle zone rosse
in Italia (dopo Bologna e Firenze anche Milano, Napoli e Roma) si percepisce dal
tono esaltato di queste sue dichiarazioni: “Da quando l’ho emanata ci sono stati
seicentomila identificazioni e cinquemila allontanamenti, che hanno portato a
numerosi arresti e rimpatri. Sono numeri importanti che testimoniano il valore
positivo dell’iniziativa, peraltro molto apprezzata dai cittadini” (Il
Messaggero Veneto, 3 giugno).
A chi fa notare al ministro che c’è un rischio ghettizzazione nei territori
colpiti dal provvedimento, Piantedosi risponde: “La ghettizzazione avviene
quando si verifica l’assenza di iniziative dello Stato. La presenza delle forze
di polizia è stata sempre molto ambita sotto ogni latitudine e chi sostiene il
contrario lo fa solo per un pregiudizio ideologico che non trova corrispondenza
nelle aspirazioni dei cittadini. C’è chi vorrebbe attenuare la presenza dello
Stato invece di rafforzarla. Sono le posizioni di chi guarda con ostilità alle
forze di polizia. Noi pensiamo esattamente l’opposto. Più polizia c’è sul
territorio e meglio è».
Tra le risposte più inquietanti c’è quella che riguarda i tempi. Poiché se le
zone rosse sono prorogabili quando le circostanze lo richiedono, di fatto, è
ipotizzabile che esse possano durare senza alcun tipo di limitazione: “Si va
avanti finché serve”, chiosa il capo del Viminale.
Mentre il governo tira dritto, costruendo tramite decreti e circolari
prefettizie città punitive, c’è però chi si oppone e reagisce. Nei giorni
scorsi, infatti, è stato presentato presso il Tribunale Amministrativo Regionale
di Napoli il ricorso per l’annullamento dell’ordinanza del prefetto che proroga
per ulteriori tre mesi il divieto di stazionamento in ampie aree del centro
cittadino per soggetti ritenuti “aggressivi, minacciosi o insistentemente
molesti”, in base a semplici segnalazioni di polizia. Tra i ricorrenti compaiono
associazioni come A Buon Diritto, ASGI, Libridazioni, ma anche cittadini e
residenti nelle zone colpite dal provvedimento, rappresentanti istituzionali e
spazi sociali.
«Il ricorso – spiega l’avvocata Stella Arena – è stato redatto con la
collaborazione di Andrea Eugenio Chiappetta, dottorando di ricerca in diritto
costituzionale, rispondendo a un’esigenza venuta dal basso: le realtà che
insistono nelle aree della città indicate nell’ordinanza prefettizia, e che in
città stabilmente lavorano per dare risposte di inclusione (oltre che culturali
e sociali) hanno ritenuto necessario auto-convocarsi e rispondere legalmente a
quella che ritengono una limitazione dei diritti costituzionalmente garantiti.
Il provvedimento impugnato fonda l’adozione di misure limitative delle libertà
fondamentali sulla base di meri indizi o segnalazioni, senza la necessità di un
accertamento giudiziario, configurando una presunzione di pericolosità che è
giuridicamente inammissibile».
L’udienza del ricorso è fissata per il 17 giugno, data in cui il Tar potrebbe
quindi annullare un’ordinanza che è lesiva dei principi fondamentali di un
ordinamento democratico. Come spiega la rete No alle zone rosse di Napoli,
infatti, questo dispositivo può riguardare chiunque – da piazza Garibaldi a via
Mezzocannone, da piazza Bellini a molte altre aree ancora – venga ritenuto un
ostacolo all’accessibilità e alla fruizione delle stesse, sia colto in stato di
manifesta ubriachezza o a compiere atti contrari alla pubblica decenza; pratichi
accattonaggio; sia stato segnalato per reati in materia di stupefacenti, contro
la persona, predatori, invasioni di terreni o edifici, porto abusivo di armi o
oggetti atti a offendere. La rete, che comprende anche molti spazi liberati che
provano a resistere e difendere chi abita la città, attende. Nel frattempo, si è
mobilitata affinché più cittadini possibili sappiano che cosa significa
passeggiare all’interno di una zona rossa.
Se vieni allontanato e non sai il perché, è molto probabile che la ragione non
esista. (marica fantauzzi)
(disegno di ottoeffe)
Ruinosa è senza la base del timor ogni clemenza. (torquato tasso, gerusalemme
liberata; canto quinto)
Sono giorni di attacchi missilistici incrociati tra Israele e Iran, attacchi che
assai assomigliano a una guerra, e che un po’ di preoccupazione destano,
considerando le potenze che ne sono protagoniste e il possibile innesco del
sistema di alleanze internazionali.
Israele ha presentato l’attacco come un’azione preventiva contro la minaccia
rappresentata dal programma nucleare iraniano, sostenendo che l’Iran ha al
momento troppo uranio arricchito, utilizzabile per quindici potenziali bombe
(solo pochi mesi fa l’intelligence americana aveva escluso che l’Iran stesse
allestendo un arsenale militare nucleare).
L’attacco israeliano è partito da Teheran, e in particolare da una base segreta
di droni costruita dal Mossad vicino la capitale. L’intelligence israeliana
avrebbe sfruttato una rete logistica interna al paese per far entrare armi,
veicoli e sistemi di comando.
E già gli altri, insieme al glorioso Odisseo,
stavano nella piazza di Troia, nascosti dentro il cavallo:
gli stessi Troiani lo avevano tirato fin sull’acropoli.
Così quello era lì: ed essi confusamente a lungo parlavano,
seduti all’intorno: tre pareri piacevano loro,
o infilzare il cavo legno con bronzo spietato,
o gettarlo giù dalle rocce, trascinato fino a un dirupo,
o lasciare che fosse un gran dono propiziatorio per gli dei.
E proprio così poi doveva andare:
infatti, era destino che essi perissero, appena la città avesse accolto
il grande cavallo di legno, dove sedevano tutti i più forti
degli Argivi, portando strage e rovina ai Troiani.
E cantava come distrussero la città i figli degli Achei,
calati giù dal cavallo, dopo aver lasciato la concava insidia.
(omero, odissea VIII; vv. 485-522)
Nelle ultime ore il governo iraniano ha annunciato che colpirà anche le basi
degli alleati di Israele, facendo riferimento neppure troppo velatamente agli
Stati Uniti. Proprio alcune mosse dell’imprevedibile Trump sono state, in
realtà, secondo molti analisti, una delle cause indirette dell’accelerazione
israeliana nell’avvio del conflitto: il criminale di guerra Netanyahu sarebbe
stato parecchio indispettito dalla riapertura dei negoziati tra gli Usa e l’Iran
sul nucleare, dalla tregua americana con i principali gruppi armati yemeniti e
dall’apertura di un canale diplomatico e soprattutto commerciale (ovviamente si
parla di armi…) con l’Arabia Saudita.
Qualche giorno fa hanno dato in televisione Rain Man, film a dir poco
sopravvalutato che si lascia guardare per la bellezza di Valeria Golino e per un
paio di spunti indovinati. Il migliore, ma solo in lingua originale, è la
ripresa di una vecchia gag di Abbott e Costello (in italiano Gianni e Pinotto),
in cui i due discutono dei nomi dei giocatori di una squadra di baseball.
Costello chiede al suo partner chi è il giocatore in prima base, e Abbott gli
risponde che si chiama Who (che in inglese significa “chi”). “Who’s on first!”,
continua a ripetergli, generando confusione nell’altro, il quale pensa che
Abbott stia rispondendo alla sua domanda sulla posizione del giocatore (mi rendo
conto che a spiegarla così non fa ridere, per cui meglio godersela in video e
zitti):
In chimica inorganica, si dicono “basi” quelle sostanze che in soluzione acquosa
si scindono dando ioni idrossido OH-; oppure, parlando di sistemi acido-base, le
sostanze in grado di acquistare uno o più protoni da un’altra sostanza (acido):
hanno l’effetto di far divenire rossa una soluzione incolore di fenolftaleina, e
azzurra una soluzione rossa di tornasole. In chimica organica, invece, le “basi”
sono i derivati contenenti azoto, ottenuti sostituendo con radicali organici gli
atomi d’idrogeno dell’ammoniaca o dell’idrossido d’ammonio.
In riferimento agli stupefacenti, il termine indica la forma non-salificata di
una sostanza che può essere vaporizzata o fumata (una forma che può avere
un’assimilazione più rapida rispetto alla sua forma salificata, più comunemente
usata per la somministrazione orale o endovenosa).
Fra’, nun sì ‘e ccà,
nun saje che ‘e a fa cu l’ammoniaca:
scarfa a nuvanta grad’ int’a cucina,
‘e frate mieje so’ chef, io arap’ ‘e ristorant’.
(luchè, ‘e cumpagne mie)
In napoletano, “base” è anche una delle tante parole usate per indicare “la
piazza” (di spaccio). Molti anni fa ascoltai a teatro un pezzo di Lanzetta che
parlava della solitudine del “palo”, quello che fa la vedetta alla base per
avvisare dell’eventuale arrivo della polizia, uno degli ultimi gradini della
scala socio-criminale. Non di rado, in effetti, si tratta di poveracci a
malapena organici al Sistema, che tirano fuori non pochi soldi per un lavoro che
non sporca le mani e che forse proprio per questo, pur nella sua importanza
strategica, è tenuto in poca o nulla considerazione.
E guardie stanno ‘nculo, ormai se so’ ncullate
vacce a spiega’ che ‘e a fa’ magna’ ‘e criature,
biberon, ciuccio, pannuline e ‘n ce a faje cchiù a senti’ “pipì e puppù!”.
Perciò staje abbascio all’edificio e cirche e te fa’ ricco,
e si ce daje ‘o dentifricio sicc’ chill’ s’o pippa pure.
Ma diciteme vuje: quale persona nun vulesse nu burzone ‘e Loui-V
chin’ ‘e fasul’ e parti’ a luglio? ‘E a fa’ sule duje biglietti!
Fitta ‘na vettura e vire comme te divierte,
invece ‘e a bere latte Berna scaduto, si addeventato sgarrupo,
t’adatti o fernisc’ int’a ‘na traversa vattutto
cu tre ‘nfamune ca colpiscen’ a turno ‘a cavia d’a caccia notturna.
Craccomani acrobati arrobbano ‘ncopp’ e balcune,
perdono ‘o malloppo pe’ fujì d’e robocòp,
Range Evoque, roba over’ io e Rocco!
(nto ft. rocco hunt, quante cose)
a cura di riccardo rosa