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Cronache, libri, disegni e reportages

La legge SalvaMilano, la fine della città pubblica e l’autocrazia
(disegno di federica pagano) Possiamo chiamare il decennio milanese dall’elezione di Pisapia al Covid (2011-2020) l’epoca d’oro della rigenerazione urbana alla milanese, in cui è stato progettato e realizzato un modello di crescita urbana profondamente classista, basato sull’attrazione di fondi finanziari, la “lussificazione” della città e l’espulsione dei ceti meno agiati, la distruzione sistematica del welfare urbano e la glorificazione della rendita immobiliare. La città si è trasformata inseguendo la massima valorizzazione del metro quadro, ed è stata quindi densificata in barba al consumo di suolo, al rispetto dei vuoti che garantiscono vivibilità, luce e aria, privatizzando spazi e servizi pubblici. Per dispiegare indisturbati una tale quantità di violenza urbana e sociale sui cittadini è stato necessario fare due cose: esercitare un controllo assoluto sulla comunicazione – affiancando la propaganda alla censura – ed erodere le leggi urbanistiche che ancora ostacolano l’aggressione degli interessi privati al tessuto urbano privando gli abitanti del diritto all’abitare e alla stessa vita civile. Intrecciando dei Pgt (Piani di governo del territorio) costruiti per ridurre al minimo le decisioni pubbliche con un reticolo di norme edilizie e urbanistiche regionali e nazionali che si sono giustapposte dagli anni Novanta in poi per “sbloccare” lo sviluppo, hanno tentato di smantellare l’impianto normativo che imponeva un certo tasso di redistribuzione della ricchezza prodotta dal comparto edilizio immobiliare. Per esempio, in questo modo, facendo uso perverso di consulenze legali e amministrative, hanno creato quella zona grigia del diritto che ha consentito che si costruissero decine e decine di “grattacieli con la Scia”: palazzi alti eretti al posto di box e magazzini con la sola autocertificazione, senza piani e permessi urbanistici, fatti passare per ristrutturazione e per questo motivo esenti dalle tasse e dagli standard che consentono di compensare con nuovi servizi ai quartieri il carico urbanistico. Quando cioè la retorica parla di “semplificazione delle norme”, la politica fa l’esatto contrario di quello che la popolazione si aspetta. Lungi dal riorganizzare il diritto in poche leggi semplici e chiare, lo ingabbia in un labirinto barocco di rimandi complessi che ostacola la comprensione ai più e semplifica una sola cosa: la libera appropriazione delle città e del territorio da parte dei capitali immobiliari. DISVELAMENTO ED EMERSIONE DEL CONFLITTO Dopo anni di ottimismo forzato ed egemonia del modello Milano, attivisti, comitati e critici riescono a far emergere la voce del dissenso, rompendo la narrazione e sfidando il pensiero unico. Si torna a lottare in primo luogo per il diritto alla casa, ma anche contro gli interventi di cosiddetta rigenerazione urbana che producono diseguaglianze. Si manifesta per salvare aree verdi minacciate da speculazione come la Goccia della Bovisa e Piazza d’Armi, contro le Olimpiadi e la trasformazione di piazzale Loreto in un centro commerciale, contro l’assurda distruzione dello stadio di San Siro, per l’assegnazione di migliaia di case popolari vuote alle famiglie in lista d’attesa, contro l’ondata di sfratti e il caro affitti; si moltiplicano articoli e saggi che mettono in relazione la morte dell’urbanistica democratica con i processi della concentrazione della ricchezza ed evidenziano il ruolo manipolatorio esercitato dal terzo settore, dalla finta partecipazione e dal lavoro culturale sempre più al servizio degli eventi e della gentrificazione. I giornali sono costretti, malvolentieri, a rompere il silenzio sulle contraddizioni aperte. A seguito di esposti presentati da cittadini e comitati, si aprono una serie di inchieste sui “grattacieli con la Scia” che confermano e arricchiscono il quadro interpretativo degli oppositori del Modello. Al di là degli illeciti e degli abusi che saranno confermati o meno dall’esito dei processi, dei casi di concussione e corruzione, da un calcolo a spanne risulta che il Comune abbia perso almeno due miliardi in oneri e monetizzazioni non incassati per sua stessa volontà: due miliardi che avrebbero potuto essere spesi in manutenzione ordinaria e straordinaria di case popolari, scuole e strutture sportive pubbliche, parchi, in personale assunto nei musei e nei trasporti, ecc. Le prove di una politica deliberatamente classista ed escludente. L’ARROCCAMENTO DEL POTERE Mai la giunta e il ceto politico e imprenditoriale che la sostiene sono stati così deboli: divisioni nella maggioranza, disaffezione dei pochi elettori, informazioni che trapelano bucando il muro di gomma così capillarmente costruito, rischi di condanne penali e civili, e soprattutto un’immagine di incertezza che inquina la reputazione della città creando un clima di sfiducia negli investitori. La reazione delle classi dominanti è stata immediata: una squadra eterogenea  e bipartisan composta da costruttori, avvocati d’affari, professionisti e politici coinvolti a vario titolo nel sistema di facilitazione ha disegnato una legge (la “SalvaMilano”) che non è assimilabile a un condono, ma si pone come “interpretazione autentica” delle leggi urbanistiche in vigore, e che estenderebbe le regole inique del modello Milano a tutto il territorio italiano. Per fare pressione sul parlamento per una rapida approvazione, il Comune chiude gli sportelli dell’edilizia, mettendo in atto una vera e propria serrata per inscenare un drammatico blocco della città causato dalla persecuzione giudiziaria. Il parlamento approva la disgraziata legge in autunno, ma finalmente un appello di urbanisti e costituzionalisti riesce a smuovere l’opinione pubblica italiana e a porre, come non succedeva da anni, la questione urbanistica al centro di un piccolo dibattito nazionale, che miracolosamente fa slittare l’approvazione in Senato e getta ulteriore discredito sulla giunta, sul sindaco e sul sistema urbanistica, cui si aggiungono nuove ombre a seguito di nuove indagini su un concorso truccato per la nuova Biblioteca Europea e su altri cantieri irregolari. A fronte di una situazione così compromessa, il potere si è arroccato. Non solo in senso letterale, evitando di chiedere scusa e di farsi da parte (con l’unica eccezione dell’assessore alla casa Bardelli, uno dei meno coinvolti), ma soprattutto accelerando tutti i progetti più divisivi in corso: Milano non si ferma, non si deve fermare, e con lei non deve essere messo in discussione il processo di controriforma urbanistica generale. Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli ma soprattutto presidente dell’Anci, l’associazione dei comuni Italiani, manifesta la solidarietà degli amministratori di tutta Italia al sistema Milano. Tutti anelano, evidentemente, alla deregulation urbanistica e a competere per l’attrattività; e sono pronti a fare pressione per una nuova legge sulla rigenerazione urbana o per una modifica del testo unico per l’edilizia che ripropongano le stesse modifiche della SalvaMilano. In pochi giorni Beppe Sala ha convocato le società di Inter e Milan per concludere la vendita sottocosto dell’area dello stadio, premessa al suo abbattimento e ricostruzione sul parco adiacente dei Capitani, prima che un vincolo della Soprintendenza comprometta l’operazione. Poi ha organizzato un incontro con gli immobiliaristi e costruttori coinvolti nei cantieri indagati e le “1.600 famiglie” che hanno acquistato le case di lusso o semi-lusso che rischiano di essere dichiarate abusive, proponendo una soluzione interamente a loro favore che sbloccherebbe le vendite e il proseguimento dei cantieri, con buona pace della giustizia sociale, dei residenti vicini danneggiati dai grattacieli, e soprattutto delle 13 mila famiglie in attesa da anni di una casa popolare che non sono mai state ricevute da nessuno. Ha poi invocato per l’ennesima volta il ministro della cultura per sbloccare una serie di interventi di “rigenerazione-gentrificazione” che già in origine erano stati avviati dal ministero: si tratta del Museo della Resistenza, fatto calare da Franceschini su un giardino autogestito molto amato dagli abitanti di Sarpi (ci si può opporre all’antifascismo?), dei depositi e laboratori della Scala a Rubattino, per estendere la trasformazione di Lambrate, e della famigerata Beic, Biblioteca europea di informazione e cultura, travolta dallo scandalo del concorso truccato. Ha confermato Stefano Boeri, sospeso dall’università e dai concorsi pubblici per un anno, alla guida della Triennale, nonostante il coinvolgimento in due inchieste e l’evidente conflitto di interessi generato dal presiedere l’istituzione culturale più autorevole in campo architettonico e urbanistico e che per sua natura dovrebbe essere oggi l’epicentro del dibattito sull’urbanistica e sui fatti di Milano. I giornali, entusiasti, sono tornati a dare manforte al sindaco, interpellando chiunque possa e voglia difendere lo status quo: raccontando l’incertezza degli acquirenti “sospesi”, intervistando i sostenitori dello sviluppo, rilanciando l’approvazione di nuovi progetti e piani per “porre fine all’agonia dell’immagine milanese”. Come Macron in Francia, la von der Leyen in Europa o Erdogan in Turchia, anche qui chi governa non lascia mai che una crisi vada sprecata: ogni volta che il conflitto e il dissenso emergono, ne approfitta per instaurare un equilibrio sempre più autocratico, abbandonando anche le ultime simulazioni di partecipazione e di convenzioni democratiche, come la trasparenza sulle informazioni o il rispetto delle funzioni del consiglio comunale, e scommettendo sull’esaurimento delle energie di chi si oppone. La posta politica in gioco è molto alta. Dopo la rimozione dell’articolo 18 e lo smantellamento del sistema pensionistico, ora a essere sotto attacco sono la città pubblica, la difesa del territorio e con esse i presupposti della redistribuzione della ricchezza prodotta e della giustizia spaziale. (lucia tozzi)
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La parola della settimana. Stress
I danni strutturali. Le crepe, le signore del quartiere, Rosa, Fortuna, Mena, produci consuma crolla. Il sindaco, il prefetto, Musumeci, la Protezione civile, Bertolaso, Berto-naso, le discariche, gli scontri, l’Opus Dei. Gli zaini pieni, le mutande da lavare, le camicie, l’acidità di stomaco, dormire male, mangiare peggio. Le birre, il liquore all’arancio, l’aria nella pancia. Ciro, Pietro, il divano, Fisciano, il gruppo Whatsapp, gli sfollati, i ritardi. I baraccati, la mensa, le patate, il sopralluogo, la Protezione civile, i pompieri, Propaganda Live, via Enea, via Di Niso, via Caio Asinio Pollione. L’assemblea, il bonus affitto, il tendone. Le brandine, le carte, le cartine, le canne, il vino scadente, l’acidità di stomaco. La Botte Buona, le botte buone, i celerini, le casse, il corteo. Lo spazzolino, il dentifricio, i pezzi di muro, l’intonaco, i vicini, l’amministratore, la signora delle pulizie. C’a facimm’ ‘a galera! ‘A dint’ o ‘a fore è ‘o stess’: mutanda Uomo, cazettin’ No Stress. (speranza, givova) Il telefono scarico, la penna di tre euro e cinquanta, la tesi di dottorato, il Manifesto. Il filo del computer, il caffè a letto, il letto sfatto, il Labriola, lo sfratto, gli sgomberi, i crolli, i pompieri, il mare, il Praru, la radio, l’armadio. Il centro analisi, l’assicurazione della macchina, l’assicurazione del motorino, l’assicurazione che ne usciamo sempre. Il cibo nel frigorifero, la tisana zenzero e limone, i crampi, le scarpe nuove, la pancia gonfia, il jeans sporco, la camicia pulita. – ‘E visto ‘cca che panza ca sto facenno, ma’? – Uh mamma mia, mo’ caccia n’ata nuvità: ‘a panza! Ma aro’ a vire ‘sta panza? Quello è il nervosismo. […] Tu te crire ca quanno uno sta accussì, senza fa’ niente, sta calmo e sta tranquillo: Vince’, la mente ave bisogno di sta’… occupata, insomma, ‘e fa qualche cosa, non so, un lavoro… – Eh, ‘nu lavoro… ‘o ‘ssapevo! – Eh! ‘Nu lavoro… nun l’hai visto a tuo fratello? – Uh ma’, ja lasciami… Vai ja, mo’ vengo! Io ‘o ‘ssapevo: tuo fratello! Quanno parl’ ‘e chill’ mamma mia d’o Carmine… Me saglie ‘o nervosismo… saje addo’? Me faje veni’ ‘na panza ‘e chesta manera! (massimo troisi e olimpia di maio, scusate il ritardo) Il casello, l’autostrada, Marcianise, i Quartieri, il Vomero. La genovese, la dieta, il cornetto vegano, il registratore, l’operaio più anziano. Il bonus affitti, Alessia, Antonella, Pina, i guardiani della Nato, la Protezione civile, la dirigente incivile. L’ingegnere strutturista, i pompieri, l’ingegnere strutturale, il raffreddore, l’umidità, le scale a piedi, i borsoni, i giradischi, il rione Sanità, la sanità pubblica, la sanità privata, la sanità mentale, l’insanità statale. Breathe the pressure, come play my game, I’ll test ya. Psychosomatic, addict, insane. Come play my game. L’Africa, Parigi, 18 vagues. I senza tetto, i senza casa, i balconi pericolanti. I tramezzi, i muri maestri, i venerabili maestri, i maestri di strada, i maestri in strada, la strada maestra, le bandiere, la Digos. La delegazione, palazzo Chigi, Musumeci. Le nuove edificazioni, il Praru, Manfredi, Meloni, Fitto, Mattarella. Daniele, Enzina, Carmela, libanese grande, libanese piccola. Via Boezio, Cupa Starza, il pazzo del quartiere, i cazzi da cacare, il freddo, le guardie. Walter, Paone, la colmata, la stuccata, i polacchi, gli albanesi, l’assemblea popolare. Iskra, l’Assise, i No Box, Mare Libero. Villa Medusa, Villa Avellino, Potere al popolo, potere al povero, potere scomodo, potere lurido. Perditempo, Alfonso, Tonino, la Nastro, le casse, le tasse. Il garage, i debiti, i crediti, l’abilitazione, gli anni Sessanta, Boccaccio Settanta. Pasolini, il Peroncino, le birrette. Vonk, i pozzi, le fumarole, Tonino lo scienziato, i terremotati, la grondaia, la colata, la colmata. I miei mali fisici andavano e venivano sovente o a distanza di tempo, proprio come un cambiare e rimettersi del tempo che dobbiamo subire e che non possiamo modificare. […] I medici mi dichiaravano malato perché sapevano quanto io soffrissi e come certe volte, ogni giorno, facessi fatica a resistere, ad andare avanti. E loro invece di aiutarmi a prevalere sui miei mali li rafforzavano per sgominarmi del tutto. […] Avevo denunciato i miei mali perché ero abituato a farlo mentalmente; perché il farlo costituiva ormai un fatto quotidiano o almeno frequente della mia vita; un’operazione che mi consentiva allora di sollevare i miei mali un momento dal mio corpo e dalla mia anima e di vederli distanti, lontani, come sopra un davanzale dal quale fosse poi possibile farli sparire o riprenderli, secondo la mia volontà. […]. Ma insieme avevo il timore che fossero improvvisamente scomparsi. (paolo volponi, memoriale) Subito, Tecnocasa, Bakeka, Idealista. Un idealista, un turnista, un ciclista. Un prete, un poeta, un comunista. Due comunisti, tre comunisti, quattro comunisti, i muri, i graffiti, le crepe, le crepe a croce, le croci con la mano sinistra, i disoccupati, i proletari, gli affittuari, i proprietari, i magliari, i falsari. Licola, Varcaturo, Monteruscello. Gli speculatori, i mediatori, i sensali, i muratori. Le caparre, le agenzie, le referenze, le competenze, i vulcanologi, gli urbanisti, gli ingegneri, la Protezione civile. Il 110, il bonus sisma, il bonus affitto, il bonus nella bolletta. La sosta del campionato, la sosta sull’autogrill, le pizze, le cocacole, le frittate di maccheroni, i copertoni, il gommista, il cambio d’olio, il tagliando in corso, il tagliando vecchio, il passato il presente il futuro, è meglio niente ‘nzieme che essere ricco sulo. (a cura di riccardo rosa)
parola della settimana
Chi toglie casa toglie vita. Mille persone in piazza a Napoli per il diritto all’abitare
Fotografie di Giuseppe Carrella Un corteo unitario di circa mille persone ha sfilato ieri pomeriggio a Napoli per rivendicare il diritto alla casa, alla sicurezza abitativa e alla gestione pubblica dei beni comuni. Contro sfratti e caro affitti, insieme ai promotori della mobilitazione della rete Resta Abitante hanno manifestato i comitati di lotta per la casa di Melito e San Giovanni a Teduccio, le famiglie del Frullone e dell’ex Motel Agip. Il corteo è partito da piazza Dante, ha attraversato Montesanto e ha raggiunto Palazzo San Giacomo. Le settemila firme raccolte in questi mesi per la petizione cittadina “Stop B&B” sono state consegnate al Comune, proprio mentre uno striscione calato da un’impalcatura, in riferimento al recente suicidio di un trentunenne, avvenuto a seguito della notifica di sfratto a Caivano, ha sottolineato che “chi toglie casa toglie vita”.
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Precarietà sveltata: cronaca dalla mobilitazione universitaria a Napoli
(disegno di malov) Ieri pomeriggio, nel cortile di Porta di Massa, precarie, precari della ricerca, studentesse e studenti si sono incontrati in occasione del consiglio di dipartimento di studi umanistici. Hanno richiesto e ottenuto che una delegazione intervenisse durante l’assemblea per proporre una mozione che prevede il rifinanziamento dell’università pubblica, il contrasto al Ddl Bernini 1240, l’impegno per la stabilizzazione del personale precario e l’istituzione di un osservatorio permanente che si incarichi di monitorare la situazione di ricercatrici e ricercatori al fine di riconoscerne i diritti e le garanzie in quanto lavoratori. È il secondo dipartimento della Federico II in cui viene proposta e approvata all’unanimità questa mozione e l’obiettivo è quello di portare avanti le istanze di precari e studenti al senato accademico dell’ateneo. Quello di ieri non è però un episodio isolato bensì l’ultima tappa di un percorso cominciato nel novembre 2024 e i cui lavori si sono intensificati nel corso dei mesi con assemblee e iniziative. Il 14 marzo, per esempio, si è tenuta una contestazione alle porte del conservatorio San Pietro a Majella, dove la ministra Bernini si trovava in occasione dell’inaugurazione della stagione concertistica. Tuttavia, il momento più significativo è stato lo scorso 20 marzo, data scelta dalla Conferenza dei rettori delle università italiane come giornata nazionale delle università. Il ciclo di eventi organizzati per l’occasione aveva per titolo “Università svelate”. A Napoli vi sono state conferenze, proiezioni, mostre e aperture straordinarie dei musei di proprietà degli atenei. A dover essere svelata però, non è l’avanguardia del sistema formativo pubblico, bensì la sua graduale dismissione che si protrae da più di un decennio e che con il Ddl Bernini 1240 rischia di diventare irreparabile. L’8 e il 9 febbraio, due giorni di assemblee a Bologna hanno prodotto un manifesto che denuncia la precarietà del lavoro accademico in Italia, risultato di decenni di sotto-finanziamento, e si oppone alla riforma Bernini del pre-ruolo, ai tagli lineari al fondo di finanziamento ordinario, ai meccanismi premiali nell’assegnazione dei fondi gestiti da dispositivi come l’Agenzia nazionale valutazione università e ricerca, e alla crescente influenza di logiche di mercato e militari su didattica e ricerca. Sulla scorta di questa piattaforma, a Napoli, come in molte altre città, il 20 marzo tutte le componenti subalterne dell’università si sono mobilitate. Al mattino ricercatori, docenti e studenti sono intervenuti in vari corsi di molte sedi della Federico II e dell’Orientale per spiegare le ragioni della protesta e invitare i presenti a seguirli negli altri appuntamenti della giornata. In seguito, un presidio nella sede del dipartimento di studi umanistici della Federico II, in via Porta di Massa: al centro del cortile, banchi con sopra ammassati articoli, libri, ricerche e tesi di laurea di studentesse e studenti a cui precarie e precari del dipartimento hanno lavorato; di fianco, un cartello, “ricerca precaria, didattica gratis”, a rappresentare l’enorme lavoro di cui il personale non strutturato si fa carico per uno stipendio inadeguato, senza tutele e prospettive di stabilizzazione. Mentre i tagli all’università pubblica nel triennio 2024-2027 arriveranno complessivamente a 1,2 miliardi di euro, le spese in difesa sfiorano i massimi storici. Le pareti del porticato si ricoprono di cartelli con su scritto “Vendesi l’università pubblica, per info chiedere a Leonardo S.p.A.” o “a Unipegaso”, che ironicamente denunciano l’intrusione di interessi privati nel sistema universitario pubblico e le agevolazioni che il Ddl Bernini porterà alle università telematiche.  Intanto, una delegazione dell’assemblea precaria si dirigeva verso l’università – privata – Suor Orsola Benincasa, dove erano riuniti per un convegno tutti i rettori campani e il sindaco di Napoli. La delegazione, scortata dalla Digos che tentava di identificare i partecipanti e sequestrava uno striscione e qualche cartello, otteneva di intervenire, criticando la compiacenza della governance accademica rispetto alla riforma Bernini ed esponendo la piattaforma rivendicativa sviluppata durante l’assemblea di Bologna. “Noi proponiamo il raddoppio dei finanziamenti ordinari. Voi cosa dite? Noi proponiamo la stabilizzazione di precari e precarie della ricerca. Voi cosa dite? Noi proponiamo la sospensione degli accordi con aziende belliche e con stati genocidi. Voi cosa dite?”. Sono state le parole della ricercatrice intervenuta per conto dell’assemblea precaria, tra l’interesse della platea, gli applausi della delegazione e i volti dei rettori visibilmente imbarazzati. La Conferenza dei rettori ha di recente ribadito il suo pieno sostegno alla riforma Bernini, attualmente sospesa. Il lavoro accademico italiano si regge infatti sulle spalle di precarie e precari, che costituiscono più del quaranta per cento del personale docente, e rettrici e rettori sanno perfettamente che senza questa altissima quota di manodopera, sfruttata e ricattabile, la macchina accademica si fermerebbe. Quello che l’assemblea precaria chiede dunque ai rettori è di prendere una posizione chiara e pubblica in merito al definanziamento e alla privatizzazione dell’università pubblica. La risposta è vaga e non esaustiva. Nel centro storico la mobilitazione è poi proseguita con azioni simboliche in diversi plessi universitari. Quando il corteo è arrivato alla sede centrale di Corso Umberto, ha trovato le porte già chiuse: si scoprirà poi che la governance universitaria aveva deciso di sospendere le lezioni previste in sede e di interdirne l’accesso per ragioni di “sicurezza”. Nel primo pomeriggio, in piazza San Domenico, la professoressa Simona Taliani ha tenuto una lezione pubblica. Le circa duecento persone rimaste dopo sei ore di mobilitazione si sono dirette da lì verso il complesso di San Marcellino, dove sono entrate nella sala prevista per la proiezione di un cortometraggio cui avrebbero dovuto partecipare il rettore della Federico II, Lorito, e il sindaco Manfredi; ma, come prevedibile, del rettore e del sindaco non c’era traccia. C’era però la prorettrice Angela Zampella, che in un primo momento ha provato a ignorare l’elefante nella stanza (centinaia di precari e studenti con uno striscione e dei cartelli piuttosto vistosi) ma dopo un po’ i manifestanti hanno preso la parola chiedendo un confronto con Zampella. Piuttosto che rispondere, la prorettrice ha abbandonato la sala invitando i presenti a fare lo stesso e cancellando l’evento in programma per la giornata.  Si è conclusa così la mobilitazione nazionale del 20 marzo in cui il precariato accademico si è riconosciuto intorno a rivendicazioni comuni. Rettori e governance accademica, si sono invece dimostrati silenti di fronte alle decisioni del governo e restii a comunicare con le parti sociali coinvolte. A partire da questo, le assemblee precarie di tutta Italia ora intendono costruire, nei prossimi mesi, uno sciopero nazionale dell’università. (flora molettieri)
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Ci siamo cancellate? Riflessioni a partire da un libro sulla giustizia trasformativa
(disegno di ottoeffe) Uscito nel 2020 in inglese e tradotto in italiano nel 2024 dal collettivo Dalla Ridda, il libro Per una giustizia trasformativa. Una critica alla cancel culture, di adrienne maree brown, contiene nella sua traduzione, oltre al testo dell’autrice statunitense, uno scritto del Laboratorio Smaschieramenti dal titolo: Ci siamo cancellate? Note su una giustizia trasformativa e soggettivazione vittimaria nel contesto italiano. Se il testo di borwn ci fornisce strumenti per avvicinarci alla pratica della giustizia trasformativa e per comprenderne la sua portata rivoluzionaria all’interno di un panorama abolizionista, quello di Smaschieramenti ci stimola a uno sguardo critico, interrogando la sua capacità di scardinare la logica securitario-carceraria che alimenta le violenze del sistema di giustizia punitiva. Proprio sulla scia di questa riflessione è fondamentale, a mio avviso, rileggere la proposta di adrienne maree brown. Trama alternativa (citando Giusi Palomba) che si contrappone alla risposta individualizzante e criminalizzante della giustizia punitiva, la giustizia trasformativa è innanzitutto una presa di responsabilità collettiva di fronte a un conflitto, a un danno, un abuso o una violenza. Con la consapevolezza che ogni evento accade all’interno di una cornice più ampia, e che l’agire individuale è frutto del contesto sociale di cui partecipa, la giustizia trasformativa mette in discussione la reazione punitiva, escludente e repressiva che caratterizza la gestione tradizionale dei “crimini”, una risposta troppo sbrigativa che semplicemente elude il problema, senza preoccuparsi di affrontarlo nella sua complessità. Con l’obiettivo di intervenire sulle situazioni e le motivazioni che hanno contribuito al realizzarsi dell’“evento problematico” (è così che il criminologo abolizionista olandese Louck Hulsman ci invita a risignificare il “crimine”), la giustizia trasformativa conferisce centralità alle soggettività coinvolte, occupandosi di guarire le ferite delle persone violate e di costruire percorsi di cambiamento per chi le ha inflitte. “La giustizia trasformativa è relazionale, accade su scala comunitaria”, scrive l’autrice: è una gestione condivisa delle violenze e delle ingiustizie, il cui verificarsi, lungi dall’essere semplicemente giudicato, è colto come occasione di riflessione e di apprendimento per l’intera comunità. Lo scritto del Laboratorio Smaschieramenti problematizza l’affidamento della gestione dei conflitti alle comunità come pratica capace di garantire necessariamente l’eliminazione di ogni risvolto punitivo dal processo di giustizia (il rischio che vi sia un ricatto “penale” di sottofondo può rimanere anche all’interno di una proposta trasformativa): è solo decostruendo alla radice le ragioni che alimentano la reazione punitiva su scala personale e sociale, che si può intraprendere una gestione abolizionista degli eventi problematici – radicalmente alternativa non solo alle strutture repressive del complesso carcerario industriale, ma anche alla stessa logica dominante che ne giustifica e ne alimenta l’esistenza. Quest’idea è in effetti condivisa anche dalla stessa maree brown, che scrive: “Finché non ci dotiamo di un’analisi dell’abolizione e dello smantellamento dei sistemi di oppressione, non realizzeremo cosa abbiamo nelle nostre mani, non deporremo mai gli strumenti del predatore e non capiremo mai quali sono e potrebbero essere i nostri strumenti” (nello scritto di Smarchieramenti, così: “Se vuoi cambiare un comportamento non ti puoi limitare a dire: ‘è sbagliato’, ti devi chiedere che gusto ci prova la gente, che cosa ci trova, e cercare delle alternative”). Dietro la logica punitiva, sostiene brown, si cela l’affermazione del potere e della correttezza di una parte a discapito di un’altra. Punire chi devia dalle norme o dai valori condivisi, chi commette ingiustizie o attua violenze, consente a una parte di rafforzarsi dall’indebolimento di un’altra: “Il giudizio e la punizione sono pratiche di potere su altre persone. È ciò che chi detiene il potere fa a chi non è in grado di fermarlo, a chi non può chiedere giustizia”. Come ci suggeriscono anche Angela Davis, Gina Dent, Erica Meiners e Berth Richie in Abolizionismo. Femminismo. Adesso, quello perpetuato dal sistema securitario-carcerario è lo stesso atteggiamento dominante dello Stato patriarcale, nel suo relegare “esseri umani e altre creature allo status di oggetti di cui disporre”. La violenza strutturale è sempre la stessa: la legittimazione di un linguaggio, di un punto di vista, di un modo d’essere, di una norma giuridica o sociale, attraverso la discriminazione dell’alterità. Immediatamente “colpevole”, “sbagliata” o “deviante”, la singolarità non-conforme, qualsiasi essa sia, non può esprimersi nella sua differenza: privata del proprio potere, l’alterità non può alla fine fungere da limite conflittuale per il ripensamento delle strutture sovrane (e patriarcali), che anzi si rafforzano della sua esclusione. Alla luce di questo, come può la giustizia trasformativa porre fine a quella ciclicità del danno che brown rintraccia nella tradizionale gestione dei conflitti e degli abusi? Come ci si può liberare da questa violenza e attuare un processo di giustizia non-violento? Come, ovvero, non-violare l’alterità, non privarla della sua autonomia, non renderla subalterna? Alcuni spunti nel merito possono forse dare un contributo a una indispensabile riflessione collettiva. Prima di tutto, un progetto abolizionista radicalmente alternativo alla logica securitario-carceraria dovrebbe assicurarsi di estendere le implicazioni delle sue decostruzioni a qualsiasi alterità, tanto a quella della “vittima”, quanto – per dirne una – a quella dell’“offensore”; muoversi in un orizzonte in cui non si pretenda di giudicare la legittimità o l’illegittimità della sofferenza, ma si immagini di dover curare le soggettività ferite per il solo fatto che si stiano percependo tali, senza attribuire la responsabilità a una delle parti e senza proporgli un percorso di cambiamento privandola della possibilità di condividere o discutere le ragioni che motivano quell’attribuzione di responsabilità. Farlo significherebbe uscire – e a questo ci invitano sia Smaschieramenti che adrienne maree brown – dall’idea a cui siamo abituati, per cui la possibilità di ricevere supporto per la sofferenza che proviamo sia associata al riconoscimento condiviso di una colpa individuale, e la presenza di un conflitto o un danno sia associata alla facoltà di giudicare o responsabilizzare l’individuo ritenuto colpevole. Significherebbe, cioè, rinunciare a presupporre come valido uno dei punti di vista, ammettendo la possibilità che vi siano prospettive divergenti, ulteriori e capaci di mettere in discussione i nostri criteri di valutazione – tanto quelli con cui si legittimano le sofferenze, quanto quelli con cui si attribuisce la responsabilità o si propone il cambiamento. Sarebbe, altrimenti, una posizione ancora subalterna, quella della soggettività “vittima” (etero-determinata), così come quella della soggettività “offensore” (etero-normata). Un processo di giustizia alternativo e abolizionista dovrebbe, in sostanza, trovare le modalità per immaginarsi radicalmente orizzontale senza che vi siano parti giuste e altre sbagliate già in partenza, ma in cui tutte le parti – compresa quella che attua la “mediazione” – possano essere messe in discussione. Per quanto possa apparire a istinto ingiusto, confusionario o paradossale, non è forse lasciando a chiunque la possibilità di esprimere il proprio disaccordo, che il processo trasformativo può riguardare l’intera collettività? Non è forse aprendosi anche alla possibilità di cambiare i parametri con cui si valuta ciò che è giusto o sbagliato all’interno di una comunità, che si può accogliere, delle relazioni, tutta la loro complessità? (zoe ermini)
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Faccio a pezzi Bagnoli. Manfredi e Meloni preparano il banchetto ai privati
(foto di massimo velo) Le condizioni per la rigenerazione urbana dell’ex area industriale Bagnoli-Coroglio sono molto cambiate negli ultimi mesi. Dal momento dell’attribuzione per opera del governo Meloni di risorse per un miliardo e duecento milioni al processo di risanamento, una serie di colpi sono stati assestati al piano in applicazione: un attacco ad alcuni tra i più importanti elementi del progetto, che erano stati recepiti dalle istituzioni solo grazie alle lotte portate avanti sul territorio per tre decenni dagli abitanti, e che sono state invece messe in un angolo in pochi mesi. Agitando lo spauracchio di costi troppo alti, prefigurando scenari distopici talmente poco credibili da risultare comici (tipo centinaia di camion che per mesi sfilano nel quartiere portandosi dietro pezzi di colmata, quando è cosa arcinota che la colmata rimossa avrebbe dovuto viaggiare via mare), Manfredi e Meloni non hanno avuto scrupoli a modificare le leggi esistenti che imponevano il ripristino della morfologia della linea di costa allo stato pre-industriale. La colmata resta dunque lì dov’è: oggi, dicono i pianificatori, trasformandola in una terrazza a mare (anche se con una delibera comunale imposta dalla raccolta di quattordicimila firme, i napoletani avevano detto che al posto della colmata volevano la spiaggia, definita in italiano “tratto di costa pianeggiante, ricoperto di sabbia più o meno fine o anche di ghiaia o di ciottoli”); domani, considerando il vizio degli amministratori che si occupano di Bagnoli di cambiare continuamente le carte in tavola (sempre in peggio naturalmente), chissà cosa potremmo trovarci sopra. Il secondo punto riguarda i “servizi” che doteranno l’area del parco urbano e le strutture circostanti l’ex acciaieria (i quotidiani e il sindaco paventano la possibilità che quest’ultima diventi l’ennesimo centro congressi, a due chilometri e mezzo di distanza dalla Mostra d’Oltremare; il direttore amministrativo dell’ente commissariale, contattato sul punto, bolla la questione come una boutade). Una volta accantonata l’idea di un’area verde boschiva, che ha notoriamente bassi costi di manutenzione, si sente parlare sempre più di servizi all’interno del parco (bar e ristoranti compresi, nonostante la città possa già ben mostrare gli effetti degli invasivi processi di tavolinizzazione dello spazio pubblico). D’altro canto, per tutto quello che sorgerà attorno all’acciaieria – ognuno spara ciò che vuole, al momento, perché non ci sono né progetti né investitori – l’ente commissariale sostiene la necessità di rendere lo spazio “più attrattivo possibile” per gli imprenditori che andranno a metterci i soldi. Una guerra all’ultimo sangue per strappare al pubblico condizioni logisticamente ed economicamente favorevoli al privato, è pronta a iniziare. La società civile, gli esperti di urbanistica, gli intellettuali, i docenti universitari che per decenni hanno consumato litri di inchiostro e costruito carriere sulle sfortune dell’area, sembrano ora piuttosto distratti. A voler essere indulgenti potrebbe trattarsi della comprensibile stanchezza (uno dei più importanti personaggi che si è occupato di Bagnoli in questi decenni ha riferito al telefono di non volerne “mai più sentir parlare”) che ha logorato anche la comunità del territorio, che pure continua a fare quel che può, agitandosi per denunciare lo scempio e raccogliendo le poche energie residue per opporvicisi. Più probabile che la comunione di intenti che sta guidando all’azione i due principali partiti del centrodestra e del centrosinistra sia stata assorbita anche da tutti quei soggetti sopra citati, per i quali dire oggi anche mezza parola su Bagnoli fuori dallo spartito diventerebbe motivo di isolamento. Un’ultima questione merita, infine, di essere affrontata, riguardo i possibili cambiamenti in termini di edificazioni nell’area della ex fabbrica, che è inspiegabilmente fuori, per una parte, dal perimetro della “zona rossa ristretta” dei Campi Flegrei. Il fatto che si possa decidere di ridurre le cubature per le case considerando i fenomeni naturali dell’area è ovviamente una buona notizia. Meno, il fatto che si parli solo di cambiare destinazione d’uso a una parte di queste edificazioni: se è impensabile costruire un palazzo su un lotto X, perché non è pericoloso costruirci un centro commerciale o un ristorante? Se le scuole del quartiere hanno dovuto essere evacuate a causa dell’emergere – INASPETTATO – di Co2, chi ci assicura che fenomeni naturali altrettanto inattesi non possano presentarsi tra sei mesi o sei anni, rendendo pericolose quelle strutture? Se si scegliesse di trasformare le cubature residenziali in commerciali, facendo una bonifica meno impegnativa e costosa, dove andrebbero a finire i soldi stanziati “avanzati”? Per questa e altre questioni (per esempio l’idea di una “scogliera soffolta” artificiale da piazzare in mare dopo la bonifica, operazione discutibile per una parte della comunità scientifica, o il parametro della “sostenibilità” economica messo a fondamento di qualsiasi scelta, il che significa che per la tutela del paesaggio e della popolazione non si è disposti a spendere un euro) la popolazione aspetta da settimane di incontrare il commissario, se possibile in una modalità che non sia la solita chiacchierata “informativa” alla Porta del Parco, comunicata con una mail a pochi fortunati presenti in mailing list, e che finisce per diventare lo sfogatoio delle frustrazioni degli abitanti su amministratori che continuano a prendere decisioni con dei colpi di mano, cambiando il destino di un territorio senza nemmeno mai doversi prendere il disturbo di portare le loro mascalzonate in un consiglio comunale. (riccardo rosa)
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Paris est une fête. Domani il primo film della rassegna A Fuoco!
(a fuoco! rivoluzioni / contraddizioni) Si apre mercoledì 26 marzo (alle ore 20:30 a Galleria Toledo) la terza edizione della rassegna A fuoco!. Il primo film in proiezione sarà Paris est une fête. Un film en 18 vagues, di Sylvain George. La proiezione sarà preceduta da una lezione dell’autore all’Accademia delle Belle Arti di Napoli (ore 15:30).  A seguire un testo introduttivo al film a cura di Francesco Migliaccio.  *     *     * Alcune immagini da Paris est une fête. Un film en 18 vagues (2017) di Sylvain George provengono dagli scontri del 2016 al tempo della mobilitazione contro la loi Travail. La polizia antisommossa alza gli scudi e avanza per una carica, i manifestanti lanciano bottiglie e lontano esplode una bomba carta. Accanto agli stivali degli agenti c’è un piccolo mezzo blindato, un giocattolo per bambini, che viene colpito da una tazza volante. Poco prima la macchina da presa aveva inquadrato in primo piano il giocattolo nel tumulto, poi una scarpa con tacco lasciata sull’asfalto. Il cinema di Sylvain George è uno sguardo sui detriti e il montaggio appare come un accostamento di frammenti di materia in dispersione. Già nel 2011 in Les Éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom) lo sguardo della camera esplorava rimasugli a Calais in territori incerti dove sostavano persone in viaggio, irregolari in cerca di passare il mare e raggiungere le coste inglesi. C’erano una scatola con la scritta “Le Flamboyant” in mezzo all’erba di un campo, calzini penzolanti da un ramo, uno straccio bianco disperso in primo piano e sullo sfondo una camionetta della polizia in pattuglia. E ancora compare un tubetto pressato di dentifricio Fresh Time e una lattina aperta di macedonia Videca lungo la costa marocchina accanto a Mellila nell’ultimo Nuit obscure (2023), film sugli harraga che bruciano dal desiderio di giungere in Europa. In francese “éclat” è un “frammento violentemente distaccato da un corpo che esplode o che è stato infranto da qualcuno”. L’esplorazione dei detriti è un rendiconto delle esplosioni che smuovono la storia. Chi esplora la frontiera fra Italia e Francia può andare alla ricerca di resti. Sotto al cavalcavia, accanto al fiume Roja, si possono trovare rasoi senza lamette da barba, mappe geografiche del Mediterraneo meridionale, scritte in amarico. Sul sentiero segreto che portava a Menton, in Francia, i passanti lasciano shampoo e bagnoschiuma accanto alle rocce e documenti timbrati dalla questura di Trieste. Forse, prima di entrare in Francia, è necessario eliminare la sporcizia del viaggio? E i viaggiatori provengono dalla rotta d’Oriente? Il cinema di George suggerisce che queste domande sono sbagliate, perché ancora intendono i detriti come tracce, ovvero oggetti portatori di senso. Il senso, però, rischia di inquadrare i resti ritrovati in una cornice interpretativa, ovvero in un discorso che spiega e definisce. George, invece, osserva senza l’ansia di interpretare e questo mette al sicuro le immagini dal giudizio, soprattutto dal giudizio morale. Distruggere le tracce, dunque. In  Les Éclats un uomo arroventa un chiodo nel fuoco e poi poggia i polpastrelli, in piccoli tocchi fugaci, sul metallo. Deve cancellare le sue impronte digitali per scampare al regolamento di Dublino, così si rende irriconoscibile ai database dei computer gestiti dalle polizie d’Europa. L’immagine è oscena, non dovrebbe essere rappresentata, ma uno sguardo disperato e notturno, lo sguardo di chi ha abbandonato l’illusione della interpretazione, riesce a configurarla. Allo stesso modo diventano legittime e laceranti le immagini dei senzatetto accampati a Parigi in  Paris est une fête o dei ragazzi che in Nuit obscure sono ripresi mentre tentano di violare il confine.  È così raro, nei nostri giorni, vedere volti e gesti dei dannati della terra senza che siano ingabbiati dal giudizio, dalla tesi dell’autore. Sin da L’Impossible. Pages arrachées (2009) le immagini di viaggiatori fra frontiere e desolazioni metropolitane incontrano le rivolte di strada. In Vers Madrid. The Burning Bright (2011-2014) le riprese delle assemblee degli Indignados si alternano con inquietudine ai volti e alle voci di chi è condannato a non avere documenti. In  Paris est une fête, infine, gli scontri urbani e le vite di chi non ha dimora s’aprono a un incontro ancora possibile, un fragile legame: nell’occupazione di Place de la République s’intravvede l’alleanza fra lavoratori, attivisti e dannati. Poi arriva la polizia a sgomberare: in una sequenza sono cacciate le persone di un piccolo accampamento urbano; in un’altra scena operatori della nettezza urbana smantellano l’occupazione di Place de la République sotto gli occhi della polizia in abbigliamento antisommossa. La rimozione dei detriti è un tema che accomuna di nuovo rivoltosi e randagi: sono tutte esistenze sottoposte al governo di un potere ossessionato dalla eliminazione dei rifiuti, dalla pulizia e dall’igiene. Forse il rimasuglio scarno può scatenare un moto di attesa, se non di speranza; certo nel cinema di George la notte è il tempo migliore in cui scrutare la luce che balugina. (francesco migliaccio)
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culture
Molto più che un incidente ferroviario. Sulle ultime mobilitazioni in Grecia
(disegno di bonnie colin) Il 28 febbraio è stata una data storica per le mobilitazioni di piazza in Grecia. È stata, ormai su questo concordano tutti, anche i media mainstream, la più grande manifestazione mai avvenuta nel paese. Non solo ad Atene e a Salonicco. Nelle piazze di tutte le città e paesi le persone sono accorse per manifestare. Ed è qui, purtroppo, che comincia anche la narrazione dei media stranieri, sicuramente di quelli italiani. Quali sono le ragioni che hanno portato in piazza questo “popolo con le palle”? Nessuno lo sapeva veramente. Sono state abbozzate congetture e approssimazioni. Quando è stato assodato che il motivo erano i cinquantasette morti in un incidente ferroviario avvenuto due anni prima, qualcuno ha detto “ma evidentemente ci sono altre cose”. Non può essere solo questo. Durante gli anni della crisi, la Grecia, e in modo metonimico Atene, sono diventate per i movimenti di mezza Europa un modello di conflittualità sociale. “Fare come in Grecia”, era uno slogan diffusissimo, che alludeva più agli sforzi muscolari delle piazze, che non alla miriade di complesse negoziazioni e aggiustamenti che gruppi formali e informali, sindacati, persino confederazioni di professionisti si sono trovati a mettere in pratica per far funzionare le reti dal basso che hanno permesso alle persone di sopravvivere con dignità, in un periodo di grande depressione e di prepotenti ingerenze da parte delle istituzioni finanziarie e politiche europee. Purtroppo, l’Europa della solidarietà e dell’internazionalismo non è stata in grado, come non lo è ora, di costruire uno sguardo e delle pratiche che fossero veramente di supporto, e si è finiti (ora come allora) per parassitare un immaginario conflittuale che era utile all’immobilismo nostrano. Per un curioso cortocircuito, l’anarcoturismo che all’inizio era guardato come la possibilità, sebbene limitata nel tempo, di uno scambio di saperi e pratiche conflittuali, si è trasformato in uno dei motori della gentrificazione di quartieri come Exarchia, per esempio, mecca di questo genere di pratiche che con il tempo si sono fatte sempre meno interessate a una comprensione delle dinamiche interne e sempre più incentrate sull’esperienza individuale. Come scrive il geografo anarchico Antonis Vradis, Exarchia si è sempre caratterizzata per essere il luogo di un “contratto spaziale”: “La peculiare concentrazione di rivolte nel quartiere durante l’era post-dittatoriale in Grecia è […] la manifestazione di una sorta di contratto spaziale, in cui il conflitto locale e la contestazione della sovranità statale persistono all’interno della più ampia riproduzione regionale e nazionale dell’egemonia statale. La reputazione e la continuità di Exarchia come luogo di protesta diventano così spiegabili attraverso un tacito ma duraturo patto tra Stato e società, che permette la prosecuzione della contestazione locale a condizione che essa rimanga anche spazialmente circoscritta”. Questa condizione ha reso il quartiere il luogo mitico dell’insurrezionalismo europeo, il catalizzatore di una narrazione, non importa se veritiera, ma sicuramente funzionale alla riaffermazione del sé. Il 28 febbraio scorso abbiamo perso un’altra grande occasione. Lo sguardo coloniale, mitico, ha narrato una giornata complessa e articolata, e ha soprattutto schiacciato tutta la sua portata storica nell’immaginario funzionale che essa evocava: quella di un popolo indomito. Per questo le ragioni della mobilitazione sembravano fuori luogo, inadatte, insufficienti. Cosa c’entra un incidente ferroviario con la rivolta, con il sempre evocato “fuoco greco”? Serve in questo senso fare un passo indietro e spiegare forse dal principio cosa è successo a Tempe più di due anni fa. Alle 23:21 del 28 febbraio 2023, un treno passeggeri InterCity che correva alla velocità di 160 km/h verso Salonicco si è scontrato frontalmente con un merci che proseguiva in direzione opposta, a 100 km/h, in prossimità della Valle di Tempe, vicino a Larissa. L’impatto ha generato un calore che ha letteralmente sciolto l’acciaio dei vagoni, alcuni dei quali si sono letteralmente disintegrati. E questo sarà un punto importante, che vale la pena tenere a mente. È stato uno degli incidenti ferroviari più gravi della storia europea dei trasporti su rotaia. Nelle ore immediatamente successive, a una dimissione formale del ministro delle infrastrutture e dei trasporti Konstantinos Karamanlis, è seguito l’arresto del capostazione di Larissa, identificato come unico colpevole dell’errore umano che ha causato l’incidente. Inoltre, “qualcuno” ha dato l’ordine di cementare il luogo dell’incidente, prima che gli ufficiali preposti alle indagini giungessero sul campo, e quando ancora si estraevano letteralmente pezzi di corpi e di effetti personali dal terreno e dalle lamiere. Chi sia quel “qualcuno”, a oltre due anni dall’incidente, è ancora sconosciuto e oggetto di dibattito. Nella linea ferroviaria Atene-Salonicco, l’unica del paese, mancano i telecomandi indispensabili agli scambiatori e al funzionamento ordinario delle linee, obbligando il personale a comunicare attraverso i propri telefoni cellulari e attivando tutto manualmente; dal 2009 al 2013, nonostante una spesa di 460 milioni di euro e nove diversi contratti, nessun sistema di segnalazione è stato mai installato nei punti critici della linea, come nella Valle di Tempe. Appena pochi giorni prima dell’incidente, il 24 febbraio, il sindacato nazionale dei ferrovieri aveva rilasciato un comunicato che denunciava la fatiscenza del sistema ferroviario, dichiarando a chiare lettere che “la politica delle privatizzazioni concepita e attuata da tutti i governi, specialmente dalla crisi in poi, ha decisamente peggiorato le condizioni della rete” e che “lo stato di profonda incuria in cui versa tutto il comparto, sia per quanto riguarda i mezzi che il personale”, con sistemi di sicurezza obsoleti e il blocco delle assunzioni dal 1985, metteva in grave pericolo la sicurezza di viaggiatori e personale. In effetti, dal 2018 al 2020 la Grecia ha avuto il più alto tasso di incidenti ferroviari mortali per chilometro di tutta l’Europa. In un’interrogazione parlamentare sul tema, il ministro dei trasporti si era rivolto con sdegno al sindacato dei ferrovieri per aver mosso tali insinuazioni circa la sicurezza della linea ferroviaria. Pochi giorni dopo è avvenuto lo scontro a Tempe. Fino al 2017, anno della privatizzazione delle ferrovie greche, come parte delle riforme imposte dalla Troika durante i dolorosi anni della crisi economica, quando Ferrovie Italiane si è assicurata il monopolio del trasporto merci e passeggeri comprando TrainOse per circa cinquanta milioni di euro, il trasporto su rotaia da e verso Salonicco poteva contare su un paio di treni al giorno che ci mettevano parecchie ore (si era soliti dire “una notte”) per connettere le due città. Tuttavia, da allora TrainOse, rinominata dai nuovi padroni italiani Hellenic Train, si è dotata di “treni veloci” (alcuni vecchi convogli dismessi che Trenitalia ha comprato dalla Svizzera) che riducono il tempo di viaggio a quattro ore e la politica commerciale delle offerte fa talvolta preferire questo mezzo di trasporto alle più comunemente utilizzate corriere. Le infrastrutture di terra e le linee invece sono rimaste “greche”, di proprietà di una partecipata, e versano da anni in uno stato di grave trascuratezza. Proprio questo tema era stato oggetto di forte critica dall’allora opposizione di Nea Demokratia, che riferiva come il governo di Syriza, attraverso la svendita del servizio su rotaia agli italiani, facesse circolare treni troppo “nuovi” su un’infrastruttura fatiscente. Una volta al governo però nessun ammodernamento di questa infrastruttura è mai stato portato in parlamento, nemmeno come proposta. Nei due anni trascorsi dalla tragedia, il governo ha fatto di tutto per insabbiare le indagini. È servito che il comitato delle famiglie delle vittime e dei sopravvissuti andasse alla Commissione europea a chiedere che l’indagine non venisse chiusa, che si indagasse sulle responsabilità specifiche. Il governo, oltre ad aver cercato di gettare tutta la colpa sul capostazione, ha più volte insultato le famiglie delle vittime accusandole di alzare polveroni per guadagnare più soldi dai risarcimenti. Un mese fa è stato pubblicato un audio inedito, nel quale si sentono le voci dei passeggeri del treno qualche minuto dopo la collisione, mentre chiamano il pronto intervento chiedendo aiuto. Nel video, che è stato montato dai periti di parte in modo tale da far coincidere i tempi reali dell’impatto con le chiamate dei passeggeri, le persone riferiscono di non riuscire a respirare, di non avere ossigeno. Inoltre, uno studio accurato da parte degli ingegneri di diversi politecnici del paese ha dimostrato che il grande fungo di fuoco scaturito durante l’incidente, sarebbe stato ingiustificato se nel treno merci non ci fosse stato – probabilmente nascosto, visto che il carico dichiarato erano recinzioni metalliche – del materiale infiammabile ed esplosivo. Queste due notizie hanno aperto una ferita profonda nell’opinione pubblica e già a fine gennaio la gente si è riversata nelle strade in una gigantesca mobilitazione, chiamata dal comitato delle famiglie delle vittime e dei sopravvissuti, per chiedere giustizia. Dalla pubblicazione di quel video non è passato un giorno senza che alle quotidiane rivelazioni sulla reale dinamica dei fatti seguissero reazioni scomposte da parte del governo, che hanno diffuso la comune percezione che non solo ci fosse qualcosa da nascondere, ma anche e soprattutto che si facesse sempre più difficile arrivare alla verità, e quindi alla giustizia, per le vittime e i sopravvissuti di questo incidente. In questo clima, il 28 febbraio, a due anni esatti dall’incidente, le persone sono scese in ogni piazza della Grecia e in diverse piazze del mondo, per chiedere giustizia per i morti e per protestare contro i tentativi di insabbiamento del governo. La manifestazione non aveva colore politico e, in effetti, erano svariate le componenti sociali che vi hanno partecipato. Da qualunque parte di Atene si cercasse di raggiungere Syntagma, strade e viali erano colmi di persone che si affrettavano a passo svelto verso il centro della città. Subito dopo gli interventi delle famiglie da piazza Syntagma e un collegamento con Larissa dove aveva luogo una commemorazione religiosa, sono cominciati gli scontri, al coro di “Mitsotaki gamiese”, letteralmente “Mitsotakis fottiti”, che sono durati alcune ore. La gestione della piazza da parte delle forze dell’ordine è stata una delle ragioni principali che ha spinto le persone a tornare sul posto anche i giorni successivi. Le cariche violente al corteo oceanico, che faticava a uscire dalla piazza e non trovava vie d’uscita, mentre ai crocevia gli operatori delle ambulanze prestavano aiuto a persone di tutte le età che si erano sentite male per i lacrimogeni o le bombe stordenti, ha suscitato ulteriore sdegno. Tanto che in quella, come nelle altre manifestazioni che da quel giorno si sono succedute a ritmi serrati per le strade, soprattutto di Atene e Salonicco, le persone respinte dalle cariche hanno poi sempre cercato di fare ritorno nella piazza dei presidi. Questa persistenza, questa volontà di riaffermare la propria contrarietà, non può essere ridotta al momento dello scontro di piazza che pure c’è stato ed è importante. Infatti, già nel corso degli scontri del 28 febbraio, hanno cominciato a diffondersi luoghi comuni e discorsi, ormai noti, sul fatto che ci fossero infiltrati che fomentavano gli scontri tra la folla pacifica che chiedeva solo giustizia. Se da un lato lo spauracchio dell’infiltrato può essere visto come funzionale alla “pessima reputazione” delle forze di polizia, dall’altra, e questo è il rischio a cui per fortuna molti sono riusciti a dare una risposta forte, è anche una retorica utile a pacificare le istanze radicali e le pratiche che sorgono dalla rabbia autentica di una componente importante della piazza. Come ha scritto l’antropologo Nikòlas Kosmatopoulos: “La rinuncia alla violenza politica come mezzo di liberazione da parte di alcuni settori della sinistra, in cambio della loro accettazione da parte del sistema borghese, ha come risultato il vedere ovunque agenti infiltrati all’interno del movimento, così come il non ‘vedere’ i movimenti di liberazione violenti del Sud Globale come solidali, vicini e spesso più avanzati – politicamente e strategicamente – rispetto a loro. […] Ciò che ora è necessario è una violenza politica efficace. Scioperi, occupazioni, scontri. Altrimenti, il governo fa finta di nulla (definendo le manifestazioni di rabbia collettiva come ‘cerimonie commemorative’) e investe nella teoria della provocazione per delegittimare la resistenza e guadagnare terreno. Una risposta di massa, organizzata ed efficace alla violenza governativa può diventare la scintilla del crollo, purché avvenga secondo principi di azione collettiva, autodifesa e obiettivi politici”.  Le manifestazioni in Grecia stanno continuando. Pur senza la massiccia portata del 28 febbraio, le persone sembrano non voler lasciare che la morte e la rassegnazione si impossessino delle loro vite. Quello che rimane da capire, ma serve uno sguardo non pruriginoso e più accorto di quello che i movimenti internazionali hanno riservato finora alla dimensione politica di questo paese, è in che modo le istanze di questa grande sollevazione anti-necropolitica, saranno in grado di non lasciarsi incanalare nella politica della rappresentanza e saranno invece capaci, come al momento sembrano perfettamente in grado di fare, di unire i punti di una politica oppressiva e neoliberale che causa morte e distruzione dovunque si posi: dai grandi incendi che devastano il paese ogni estate e che celano, malamente, il progetto di far diventare la Grecia un hub dell’energia “verde” in Europa, alla “rigenerazione urbana” dei grandi gruppi immobiliari greci e internazionali che erode patrimonio costruito a beneficio del turismo di massa e degli interessi finanziari di gruppi multinazionali, sino ai progetti faraonici come quello delle nuove linee metropolitane che hanno messo e metteranno in scacco gli spazi urbani di Atene e Salonicco e l’incolumità di abitanti e passeggeri. Se la ristrutturazione neoliberale e neocoloniale di questo paese potrà essere messa alla prova da un movimento in grado di reggere lo schianto delle retoriche interne della pacificazione sociale e dello sguardo mitizzante dei suoi osservatori internazionali, sarà la grande sfida dei prossimi tempi. (anna giulia della puppa)
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Portuali. Il documentario di Perla Sardella all’ex Asilo Filangeri
(archivio disegni napolimonitor) Sarà presentato il 23 marzo alle 19, all’ex Asilo Filangieri (vico Giuseppe Maffei, 4), Portuali, un documentario di Perla Sardella sulle lotte politiche e sindacali condotte nel porto di Genova dal Calp – Collettivo autonomo lavoratori portuali. *     *     * Sono il punto flessibile che esige la merce. I decenni trascorsi sotto i colpi della rivoluzione logistica li hanno ridimensionati, eppure i portuali di Genova sono ancora là. Esposti a un lavoro usurante, agli incidenti e ai ricatti delle multinazionali del mare, che in tutti i modi cercano di sbarazzarsi di questa forza lavoro fatta di piantagrane con le stimmate da facinorosi. I diritti conquistati sono stati l’esito di decenni di lotte. Sono diritti che compensano la precarietà del lavoro a chiamata e la flessibilità just in time assicurata in banchina. Le vediamo in una fase delicata, quelle lotte, nel documentario di Perla Sardella. L’autrice ha seguito per tre anni i lavoratori del Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali) mentre organizzano iniziative, discutono nelle assemblee, si mobilitano. Cosa dobbiamo ai portuali? A vedere questo documentario viene da chiederselo. In prima battuta c’è un tentativo di coesione. La storia del Calp rappresenta uno sforzo per la ricomposizione tra lavoratori con culture del lavoro diverse, in uno scenario di disgregazione del lavoro organizzato, laddove sembra impossibile uscire dalla spirale del “cane mangia cane padrone sorride”. Lo vediamo, per esempio, nelle scene di un’assemblea di filiera a cui partecipano sia i portuali che i lavoratori e le lavoratrici della logistica. Nel porto di Genova c’è un collettivo che ha provato a tenere insieme i pezzi dentro e fuori al porto evitando la deriva corporativa, nonostante le fratture storiche tra organizzazioni sindacali in competizione tra loro sulle tessere e gli iscritti. Un gruppo la cui lotta è stata criminalizzata come le altre nel ciclo di mobilitazioni condotte dal sindacalismo autonomo. La vicenda della repressione subita è spiegata anche nel libro, firmato dallo stesso Calp, di recente uscita per i tipi di Red Star Press, Fino all’ultimo di noi. La percepiamo bene, quella frattura, che in tempo di pandemia si lacera quasi del tutto un po’ ovunque. La telecamera a un certo punto mostra tutta la tensione nella faccia del Vecchio, che prende parola all’assemblea in cui avviene la scelta dei membri del Calp di passare dalla Cgil al sindacato di base Usb. Chi parla dice senza giri di parole quanto la decisione dell’autonomia sindacale sia difficile, perché tra di loro c’è gente che in Cgil è cresciuta senza abdicare all’esercizio del dissenso. Quella scena mostra la spaccatura in diretta, senza filtri, scaturita dal deteriorarsi dei rapporti con le segreterie del sindacato confederale, responsabile di un atteggiamento troppo remissivo nei confronti di una controparte datoriale sempre più potente. Un atteggiamento ondivago, che ha assunto nel tempo “il punto di vista dei padroni” – come afferma il Vecchio, che aggiunge: “Se non c’è il conflitto il lavoratore perde”. Ma non è solo questo sforzo di ricomposizione che dobbiamo ai portuali del Calp. Nel suo saggio sulla Rivoluzione, Enzo Traverso sostiene che i movimenti anticapitalisti emersi negli ultimi anni non hanno un albero genealogico, sono orfani, privi di tradizione politica, e devono inventare la propria identità. Non saprei dire se le lotte del Calp siano ascrivibili in toto all’interno di questo solco, ma di sicuro queste caratteristiche non riguardano loro. Le prime scene del documentario lo rivelano. Jose – sindacalista e membro del collettivo – mostra una vecchia foto in bianco e nero a lavoratori e dirigenti sindacali connessi da remoto durante una riunione in tempo di Covid. È una folla di lavoratori. “Le assemblee di una volta”, dice. Poco dopo la telecamera indugia sul volto di un uomo presente alla riunione. È Bruno Rossi. Una figura fondamentale del porto di Genova, appartenente a quella generazione di portuali artefici dello slogan che fece scalpore nei giorni del sequestro Moro – “Né con lo stato, né con le Br”. A un certo punto vediamo il Vecchio che lo abbraccia durante una manifestazione di solidarietà, perché Bruno, oltre a essere un riferimento per i portuali genovesi, è anche il padre di Martina Rossi, ventenne precipitata dal sesto piano di un albergo di Maiorca per sfuggire a una violenza. In un’altra scena conviviale, dopo la commemorazione dei colleghi morti di lavoro in porto, Bruno parla e tutti gli altri ascoltano. Osservando quella scena ho ricordato ciò che una volta disse durante una nostra conversazione: “Finché vivo cercherò di lavorare per l’unificazione dei compagni, perché la mia vita è sempre stata un trauma, non siamo mai riusciti a mettere insieme i lavoratori portuali perché è troppo grande la contraddizione…”. Allo sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, bisogna allora aggiungere la volontà dei portuali del Calp di riprodurre un legame con la cultura originaria, nonostante le difficoltà, le contraddizioni e i mutamenti avvenuti in settant’anni di ristrutturazioni capitalistiche. Ce ne rendiamo conto anche quando un emozionato Danilo Oliva, sindacalista storico della Cgil del porto genovese, prende parola nel corso di un incontro per l’associazione a tutela delle donne dedicato al ricordo di Martina Rossi. Nel porto di Genova c’è un gruppo politico consapevole del proprio passato – il che non significa idealizzarlo. Lo dice bene Jose al microfono, durante una manifestazione all’interno del porto – le uniche immagini che mostrano lo spazio portuale, sempre più inaccessibile agli estranei: “La battaglia del Calp è nata anche grazie a compagni storici del porto come Bruno Rossi, che ci ha insegnato a stare sul posto di lavoro e a stare al mondo. La storia del Calp è in continuità con Bruno. È una battaglia per dare continuità al lavoro fatto dai nostri vecchi”. I vecchi di cui parla Jose, negli anni Settanta appartenevano al Comitato di Agitazione (poi Collettivo Operaio Portuale). Agivano all’interno del porto in autonomia rispetto alle organizzazioni sindacali e partitiche, ponendosi nei loro confronti in maniera dialettica. Amanzio Pezzolo, uno dei principali protagonisti di quegli anni, nel corso di un’intervista dirà: “Noi rappresentavamo il tentativo di uscire dal porto e di collegarci con gli altri lavoratori del trasporto merci”. Il Collettivo Operaio Portuale si poneva il problema di dare una risposta politica al processo di ristrutturazione in atto e all’attacco ai bisogni dei lavoratori portuali, sempre più disgregati e minacciati sul piano salariale. Il terreno sul quale iniziarono a muoversi era proprio la critica della rivoluzione logistica, all’interno di un processo più generale di burocratizzazione sindacale. Ecco cosa dobbiamo ai portuali del Calp. Lo capiamo dalle immagini in cui discutono tra loro sullo sciopero per l’aumento in busta paga o contro il decreto sicurezza. Lo vediamo con chiarezza nelle scene della mobilitazione collettiva contro le navi delle armi, partita da un gruppo di lavoratori che rifiutava di essere inserito nell’ingranaggio della logistica militare, ostacolando l’approdo di navi cariche di ordigni. Lo sguardo di Perla Sardella è un omaggio schietto alla lotta di questi lavoratori, ci rivela il debito di riconoscenza che il mondo del lavoro ha nei loro confronti. Ci ricorda quanto lo sforzo della ricomposizione, spesso frustrante, a tratti fallimentare, sia indispensabile, a meno che non vogliamo cadere nel tranello del “cancro gruppuscolare”, come lo chiamava qualcuno negli anni Settanta, o predicare l’unità della classe solo a parole nei comunicati. Questo documentario ha il pregio di mostrare le pratiche di un gruppo di lavoratori sindacalizzati con una precisa eredità storica, e restituisce un’immagine realistica dell’intreccio tra il fare politica (nel suo significato più nobile) e il fare sindacato, un intreccio non immune da contraddizioni, perché laddove l’azione politica distingue, l’azione sindacale ricompone. Allo sforzo di tenere insieme i pezzi nonostante le fratture storiche, e alla volontà di riprodurre un legame con la cultura originaria, i portuali del Calp aggiungono la necessità di istanze sindacali dotate di un orizzonte politico, contribuendo alla creazione di un immaginario alternativo, in un momento storico desolante, in cui certe pratiche si possono solo sperimentare. (andrea bottalico)
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