Riceviamo e diffondiamo:
Riceviamo e diffondiamo
Traduzione in Italiano del comunicato stampa del 18/04/2025 dei Collectifs
Contre le deuxième Lyon Turin (CCLT) Ennesima assoluzione per la lotta contro il
mega progetto TAV, TELT ridicolizzato. Questo pomeriggio, […]
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ridicolizzato. first appeared on notav.info.
CORTEO ANTIFA
Alba, via Pinot Gallizio - Via Pinot Gallizio
(sabato, 26 aprile 15:00)
Il fascismo è vivo in Italia e nel mondo e non si riduce a un manipolo di
nostalgici picchiatori, che per quanto sgradevoli rimangono ridicoli. Spesso
assume altre forme. Un disegno di legge liberticida, per esempio o un centro di
permanenza e rimpatrio in Albania.
Chi è fascista vuole ordine: un operaio che sciopera, una studentessa che
protesta rappresentano una minaccia e un danno per il benessere della nazione.
Chi è fascista vuole disciplina: aumentare il controllo significa evitare
subbuglio, evitare consapevolezza.
Chi è fascista vuole divisione: diffonde cultura xenofoba, per via di una
presunta superiorità morale e culturale. In altre parole , in nome nazionalismo,
la destra sta coi padroni - desidera che chi detiene il potere continui a
mantenerlo senza intoppi . E contribuisce a colpire le fasce basse della
società, olea la macchina del profitto impedendo l'organizzazione e il dissenso
dal basso; il risultato: contratti precari, disoccupazione, stipendi miseri e la
fine del mese che pare un traguardo irraggiungibile.
Lo sfruttamento, la disparità li tocchiamo con mano nel nostro territorio.
Quattro mesi fa morivano vittime della disuguaglianza sociale Issa e Mamadou,
due braccianti simbolo del sistema schiavista e razzista intrinseco nel settore
agroalimentare.
Un anno fa cominciava la lotta contro Ferrero, da parte delle lavoratrici
Proteco: confezionano cioccolatini a 5€/h . E gli esempi potrebbero essere
centinaia, paradossale per un territorio famoso per qualità di vita eccellente e
ricchezza. Ricchezza di pochi, sulle spalle dei molti. Noi non ci stiamo.
Prevaricazione, razzismo e classismo si combattono solo con la solidarietà, con
l'organizzazione e con la lotta . Il 26 aprile continuiamo il nostro percorso,
per un mondo equo e giusto. Operai e operaie , studenti e studentesse, precari e
precarie unite e uniti.
25 APRILE 25 - CONTRO IMPERIALISMO E GUERRA
Csoa Gabrio - Via Millio 42, Torino
(venerdì, 25 aprile 13:00)
Ci avviciniamo a celebrare l'80esimo anniversario della liberazione dal
nazi-fascismo immersi in un'atmosfera da fine del mondo.
Se non fosse bastata la promessa distruttiva della crisi ecologica in cui siamo
immers*, con la sindemia del covid come trauma collettivo già quasi-rimosso, la
guerra aperta è nuovamente esplosa anche nella "pacifica" Europa.
Sappiamo bene che per i popoli e per le soggettività oppresse, così come per le
lavoratrici e i lavoratori, la guerra, nelle sue forme più esplicite delle bombe
in Palestina o in quelle meno dichiarate come femminicidi, transicidi, morti sul
lavoro o in mare, non si era mai fermata.
Al contempo però assistiamo ad un cambio di paradigma, esemplificato dai
discorsi intorno alla guerra guerreggiata, dal via libera al riarmo come unica
soluzione per salvarci dalla barbarie, dal riaccendersi dei nazionalismi e dalle
guerre commerciali.
Eppure, di fronte all'intensificarsi del genocidio in Palestina, all'aumento
vertigionoso delle spese in armamenti in Europa e nel mondo, alla violenta
repressione del dissenso che, partendo dagli USA di Trump e passando per la
"democratica" Germania, arriva fino alla fascistissima Italia, non è il momento
di abbandonarci allo sconforto nè di soccombere alla disillusione.
Il macro della geopolitica estera si riflette e rafforza nel micro delle nostre
vite e dei quartieri in cui viviamo come nodi in tensione da cui rispondere,
opporsi e resistere, soprattutto quando la sospensione totale di qualsiasi forma
di democrazia si rende evidente. Ci scontriamo infatti con disuguaglianze di
classe sempre più amplificate, le stesse che rendono impossibile a moltx avere
una casa ed arrivare a fine mese nonostante un contesto urbano colmo di spazi
abbandonati lasciati a marcire. Le città che abitiamo si rivelano divise in
frontiere interne che separano i quartieri “riqualificati”, accessibili a
poch*, da quelli “indecorosi”, raccontati come pericolosi attraverso le famose
“zone rosse” fino a rendere di nuovo legittimi e desiderabili luoghi di confine
e tortura come le carceri e i cpr. Nel clima di guerra diffuso, non sono solo le
fasce più marginalizzati a subire il neofascismo, siamo tutt noi, perché i tagli
all’istruzione, alla ricerca, alla salute pubblica, ai centri antiviolenza hanno
effetti reali sui corpi senza distinzioni, seppur con differenti gradi di
severità. In questo meccanismo stratificato, la guerra si presenta come realtà
pronta a riscrivere i presupposti di ulteriori divisioni sociali, nuovi sommersi
e salvati mentre si allarga la fascia di persone e corpi sacrificabili.
Se la confusione è grande sotto il cielo, il momento non è certo eccellente,
eppure il mondo è lungi dall'essere pacificato: in Palestina il movimento di
resistenza palestinese affronta con determinata ostinazione il tentativo di
cancellazione del loro popolo, negli Stati Uniti studentesse e studenti
infiammano le università sfidando l'ira repressiva del governo repubblicano,
mentre dal Chiapas arriva l'appello a costruire "il giorno dopo" della tempesta
capitalista.
IL 25 aprile ci pare allora quanto mai attuale, nel suo interrogarci in maniera
urgente, non solo oggi ma nelle lotte che animiamo tutti i giorni: di fronte
alle crisi del mondo che conosciamo, con i suoi immancabili risvolti violenti e
sanguinari, da che parte stiamo? Quali responsabilità, individuali e collettive,
ci chiamano all'azione?
Ieri come oggi, resistere rimane per noi una postura necessaria quanto
diversificata nella molteplicità di pratiche, forme e idee disposte a
contrastare imperialismi e fascismi vecchi e nuovi. Che sia nell'opporsi a
progetti estrattivi ed ecocidi tramite sabotaggi e picchetti, occupando
fabbriche e rivoluzionando gli assetti produttivi in chiave anti-capitalista,
dis-armando una guerra contro le donne e le soggettività non conformi al mito
patriarcale e alle sue soluzioni punitive e securitarie. Smontando il mito del
progresso e della pace basate su violenza e sfruttamento lontano dai nostri
occhi. Resistiamo e ci organizziamo nella lotta liberando spazi e menti,
salvando il desiderio di un'alternativa rispetto a un mondo in fiamme, occupando
case, palazzi, quartieri e università per dar spazio a nuove forme del sociale,
di alleanze e di solidarietà nelle lotte di ciascun contro nemici comuni, perchè
nessunx rimanga solx.
Oggi, dopo 80 anni, siamo qui per ricordare, e per non dimenticare mai, il costo
della nostra libertà e la sua necessità, uno sforzo continuo da compiere
insieme, giorno dopo giorno.
Sarà un giorno di festa e di lotta, vogliamo passarlo con l nostr compagn, sicur
che le nostre strade si incontreranno ancora e spesso nei tempi prossimi di
resistenza.
Fino alla rivoluzione
PROGRAMMA
(disegno di ottoeffe)
Avevamo una gag, con El Trinche Carlovich, che prendeva un po’ in giro Nicolao
Dumitru, giocatore del Napoli nel 2010-11. In realtà la gag era
sull’incontentabilità del tifoso partenopeo che, spazientito per le prestazioni
del calciatore, se la prendeva con lui a ogni occasione, chiedendogli più
sfrontatezza quando lo vedeva timido e diligente in campo, e più umiltà non
appena il povero Dumitru tentava una giocata. Questo atteggiamento provocava
crisi di identità al ragazzo, fino a fargli chiedere all’allenatore di tenerlo
in panchina (vero è che a fine stagione Dumitru andò via da Napoli e non combinò
più nulla in carriera)
Quella gag diventò uno dei migliori pezzi tra i fake che di tanto in tanto ci
divertiamo a pubblicare, talmente riuscito che il procuratore o l’avvocato, ora
non ricordo, del calciatore, ci mandò una mail intimandoci di rimuoverlo (una
cosa simile successe anche con uno dei nostri bersagli preferiti, lo scrittore
Maurizio De Giovanni; per questo articolo Bassolino e i suoi si divertirono
invece parecchio). Più divertente ancora, fu che il pezzo su Dumitru – confuso
dai più per una vera intervista – cominciò a girare sui siti web dedicati al
Napoli, dando vita a un dibattito tra tifosi che riproponeva gli stessi
atteggiamenti su cui noi credevamo di scherzare.
(screenshot dal forum di partenopeo.net)
Nel 2023 il Napoli vinse lo scudetto con largo anticipo. Travolti dal fiume di
retorica che scorreva tra le pagine dei quotidiani, decidemmo di pubblicare un
intero giornale fake. Ancora una volta, i più distratti lo scambiarono per una
cosa reale.
In questi anni ho imparato a fare tutto: ho scritto libri e racconti, ho
mostrato il calcio e la politica, sono stato dalla parte dei deboli e ho girato
spot per gli Agnelli e film commissionati da Hollywood. Ma sono rimasto il
ragazzo con l’orecchino che non ci credeva che “solo ‘e strunz’ vanno a Roma”.
Sono andato e tornato, di nascosto, tanto che una notte di due anni fa un
barbone davanti al centro Paradiso, stupito nel vedermi piangere e baciare un
santino di Ciccio Romano, mi disse: “M’a vuo’ ra’ ‘na sigarett’?”. Va così,
quando mi perdo e la mente vaga. Torno nel mio film.
C’è Silvio Orlando che scrocca le partite sul pezzotto; c’è Bentivoglio che
interpreta De Laurentiis e sale sul motorino di un passante gridando: “Siete
delle merde!”; c’è Morgan Freeman in un flash forward metaforico su Osimhen da
vecchio, che spezza le sue catene e cammina sul prato del Paradiso circondato da
fenicotteri che no, non so che cazzo vogliono dire, ma comunque ce li devo
mettere. (paolo sorrentino, il mio film tricolore in: la gazzella dello sport)
In napoletano c’è una parola che, come l’inglese fake, vuol dire molto di più di
“falso”. “Pezzotto” è la app pirata che ti permette di vedere le partite pagando
un quarto del costo di Sky e Dazn (già negli anni Novanta esistevano le “schede
pezzottate” di Stream e Tele+); “pezzottati” erano i vestiti di marca simili
all’originale ma cuciti chissà dove e smerciati nei mercati di strada (oggi il
termine è passato di moda a favore di “paralleli”); “pezzotta” è una ragazza
bassina e dal carattere forte, “pezzotto” era il cd masterizzato con l’ultimo
album di Tizio o Caio o il gioco appena uscito per la Play Station, ma anche
la zeppa che si infila sotto a un tavolo o un mobile traballante, o una persona
che cerca di imitare altri senza successo.
Compa’ si bell’ comme ‘a sta palla e leccame ‘a caramella che tengo acopp’.
‘O vero mast’ ‘e festa,
‘o peggio guastafeste p’e pezzott’,
vengo aropp’ l’otto pecchè song’ ‘o guaje ‘e notte. […]
Chesta è ‘a ricett si sì ‘nu favez’ MC,
siente e statte: uno, doje, tre e quatte!
Chiste so’ ‘e nummere e accussì va ‘o fatto,
‘ngopp’ ‘o beat spaccamm’ ‘o pezzotto: cinche, sei, sette e otto!
(la famiglia; uno, due, tre e quatto)
Donald Trump ha respinto in settimana la richiesta di un giudice di fornire
informazioni sulla sorte di un migrante erroneamente deportato in El Salvador.
Kilmar Abrego Garcia è stato arrestato il 12 marzo da agenti della polizia
dell’immigrazione e deportato con altre duecentocinquanta persone circa,
ritenute appartenenti a gang che il governo ha equiparato a organizzazioni
terroristiche, utilizzando una legge che gli consente di farlo in caso di guerre
o invasioni. La cosa più inquietante (oltre al fatto che questa storia non è
troppo diversa da quanto accade in Italia) è che in America sta succedendo un
casino per questo poveraccio che non ha nulla a che vedere con la criminalità,
ma nessuno mette realmente in discussione quella che è una vera deportazione
in violazione totale dei diritti umani, basata peraltro su una serie infinta di
fake news. Tanti americani – ma in realtà è un’impostazione, questa, condivisa
da opinioni pubbliche e governi di ogni paese, quando si parla di mafiosi,
camorristi, stupratori – pensano semplicemente che essendo questi uomini
terroristi, sia lecito somministrargli qualsiasi tortura usando qualsiasi
metodo.
.
I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei ministri
e i ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per sapere […]: 1) se il
Governo sia a conoscenza del fatto che, nel corso dell’interrogatorio del 2
febbraio 1982 di fronte al sostituto procuratore della Repubblica di Verona, il
terrorista Cesare Di Lenardo, arrestato nella base di via Pindemonte a Padova
(dove le Brigate rosse tenevano sequestrato il generale della Nato, James Lee
Dozier), avrebbe dichiarato di essere stato sottoposto a tortura: bruciatura su
una mano, tagliuzzamenti ai polpacci delle gambe, scosse elettriche ai
testicoli, rottura di un timpano, finta fucilazione in aperta campagna,
percosse, denudamento, forzato ingerimento di acqua e sale, eccetera; […] 3) se
il Governo sia a conoscenza del fatto che, sui fatti denunciati, la procura
della Repubblica di Padova […] ha aperto una inchiesta giudiziaria […] 4) se il
Governo non ritenga che quanto sopra esposto […] contrasti totalmente con le sue
smentite, tanto più essendo stati smentiti fatti di tale natura anche
specificatamente e nominativamente in relazione al caso del terrorista Di
Lenardo; 5) se il Governo non ritenga doveroso rettificare, di fronte alla
Camera, le affermazioni non vere fatte nel corso della seduta del 15
febbraio. (boato, bonino, pinto, mellini; interrogazione alla camera dei
deputati del 22 marzo 1982)
(immagine da: les complotistes)
Un’amica mi ha regalato qualche settimana fa un fumetto francese dal titolo Les
Complotistes, facendo riferimento alla mia tendenza a vedere ovunque inganni,
insidie, falsi amici e profeti (va detto che il novanta per cento delle volte il
tempo mi dà ragione). Mi ero quasi offeso nel leggerlo, sentendomi accostato a
terrapiattisti e company, poi per fortuna il libricino, e la mia amica, si sono
salvati all’ultima tavola, quando gli autori ci fanno capire che il problema in
fondo non sono le scie chimiche e i cerchi nel grano, ma il capitalismo.
(a cura di riccardo rosa)
Cosa c’entra l’incidente ferroviario di Tempe (Larissa, Tessaglia, 28 febbraio
2023), un’orribile strage di Stato cui è seguita un’intensa mobilitazione da
parte della popolazione greca, e la gestione autoritaria, militarista e
criminale del Covid-19? Ce lo spiegano due antropologi greci, opportunamente
introdotti dalla nostra amica antropologa Stefania Consigliere.
Da
https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/30104-eri-samikou-e-lazaros-tentomas-antigone-in-grecia-dalla-pandemia-di-covid-19-sino-a-tempe-la-verita-sepolta-dal-silenzio-di-stato.html
ANTIGONE IN GRECIA: DALLA PANDEMIA DI COVID-19 SINO A TEMPE, LA VERITÀ SEPOLTA
DAL SILENZIO DI STATO
ERI SAMIKOU E LÁZAROS TENTOMAS
Gli anni post-pandemici hanno reso evidente la disturbante continuità nelle
strategie politiche: dalla comunicazione propagandistica alle priorità
economiche, dalla militarizzazione di ogni piega della vita all’uso sfacciato
della necropolitica, dalla criminalizzazione del dissenso alla manomissione del
bene pubblico. A livello alto, una linea ininterrotta collega Covid-19, Ucraina
e Gaza; a livello medio, essa unisce le politiche vaccinali del blocco
atlantico, la corsa al riarmo dell’UE e la soppressione delle ricerche
accademiche su disuguaglianza, razzismo e violenza strutturale; ma anche a
livello spicciolo, su quella stessa linea inciampiamo ogni volta che sentiamo
erosi i margini della vita quotidiana, dei legami di affetto e di senso,
dell’autonomia individuale e collettiva. È qui che dobbiamo allenarci per
tornare a sentire che niente può giustificare l’abbandono del minimo sindacale
che ci rende umani: la cura dei nuovi nati, la cura delle ecologie collettive,
il saluto ai morti. In questo articolo, apparso sui siti greci Kosmodromio e
Edromos, due antropolog* dell’università di Atene mettono a confronto le
politiche pubbliche e sanitarie in risposta a un tragico incidente ferroviario
con quelle che, pochissimi anni prima, hanno deciso della vita dell’intera
nazione (Stefania Consigliere)
Il 28 febbraio 2023 la Grecia ha vissuto uno dei disastri ferroviari più gravi
della sua storia, quando un treno passeggeri si è scontrato frontalmente con un
treno merci vicino a Tempe, nella Grecia centrale. La collisione si è verificata
poco prima di mezzanotte, sulla tratta Atene-Salonicco e ha causato un grave
deragliamento e un enorme incendio che ha avvolto diverse carrozze, portando
alla morte orribile di decine di passeggeri.
Le carrozze anteriori sulle quali viaggiavano soprattutto giovani, compresi
studenti universitari di ritorno dalle vacanze, hanno subito l’impatto più
violento. Ufficialmente, almeno 57 persone sono state registrate come decedute,
ma numerosi indizi lasciano supporre che il numero delle vittime sia maggiore.
Le indagini hanno rivelato che non si tratta solo del risultato di un errore
umano, ma di un crimine di Stato, poiché il Governo e le autorità competenti
erano consapevoli delle importanti carenze in materia di sicurezza all’interno
del sistema ferroviario greco. Le strutture della rete erano obsolete, e i
controlli automatizzati inadeguati, nonostante le ripetute segnalazioni da parte
dei ferrovieri. Dopo la tragedia, ci sono state accuse di insabbiamento, poiché
dai rapporti è emerso come il sito dell’incidente sia stato rapidamente sepolto
dai detriti (probabilmente in presenza di alcuni resti umani ancora sul posto)
nel tentativo di eliminare le prove. I sopravvissuti e i familiari delle vittime
hanno accusato le autorità di un’assenza di trasparenza nelle procedure di
identificazione dei cadaveri, lasciando molte questioni irrisolte.
Nel gennaio 2025, in una dichiarazione ai media, l’avvocato di Maria Karystianou
– la presidente dell’Associazione delle Famiglie delle Vittime e dei
Sopravvissuti nell’incidente di Tempe, che perse sua figlia nella catastrofe –
ha denunciato la mancanza di risposte, da sei mesi, in merito alla «illegittima
mancanza di alcuni rapporti medico-legali, al rifiuto di prelevare campioni
biologici inclusi i test tossicologici, e alla redazione di rapporti
medico-legali quasi identici tra loro che individuano un’unica causa di morte».
Nel dicembre 2024, il giudice istruttore aveva già respinto la richiesta di
Panagiotis Aslanidis, il padre di una vittima, che chiedeva l’esumazione del
corpo di suo figlio per un’analisi del DNA e la conduzione di esami biochimici a
conferma della sua identità.
I corpi delle vittime rimangono al centro delle domande di verità e giustizia.
Tuttavia, una rete governativa, mediatica e medico-legale sembra agire
orchestrando sistematicamente l’occultamento delle prove.
In un’intervista recente a Libération, Maria Karystianou ha espresso la profonda
sfiducia nel sistema giudiziario greco da parte delle famiglie delle vittime:
«Non abbiamo più fiducia nella giustizia del nostro Paese». Maria Karystianou ha
denunciato la mancanza di trasparenza e l’omissione di prove cruciali, come
registrazioni audio e documenti digitali, che avrebbero dovuto essere inclusi
nel fascicolo giudiziario. Due anni dopo il disastro, non è stata fornita alcuna
risposta alle famiglie in cerca di verità.
Con i sopravvissuti gravemente feriti e le vittime ancora non identificate –
come Erietta Molcho, che risulta ufficialmente scomparsa senza che nessun corpo
sia stato ritrovato – la tragedia di Tempe rivela la portata dell’occultamento
della verità. Questa situazione illustra le connessioni tra la gestione politica
delle crisi e il paternalismo medico-legale: ciò che è stato ereditato dalla
narrazione pandemica elaborata durante l’epidemia da Covid-19, la quale ha
imposto una verità unica con il pretesto della “protezione” e del “bene comune”.
Rievocando quanto accaduto in quel periodo Martha, una donna che ha perso sua
madre durante la pandemia, racconta: «Era un caso grave. Non sarebbe comunque
sopravvissuta a causa di un ictus. Ma hanno scritto “Covid-19” – prima “ictus”,
poi “Covid-19” – sul certificato di morte. Quindi è stato applicato il
protocollo Covid-19. Le pompe funebri mi hanno spiegato che ciò implicava una
sacca mortuaria, un doppio involucro, del cellophane e una tuta speciale per
coloro che maneggiavano il corpo, con un costo aggiuntivo di 400 euro. Il
cimitero, anziché una concessione triennale, ne ha richiesta una settennale.
Queste spese erano supplementari. In totale, ho pagato 400 euro in più e quattro
anni aggiuntivi di concessione per la tomba. Non ho mai visto mia madre. Da
quando l’hanno portata in ospedale, non l’ho mai più vista. Non ci hanno neanche
concesso il tempo di un breve elogio funebre. Una sepoltura veloce, questo è
tutto. Non sono ancora riuscita a elaborare il lutto».
Anche Aphrodite, un’infermiera di terapia intensiva durante la pandemia di
Covid-19, ha raccontato: «Con la mia esperienza professionale, ho capito
velocemente che cosa stava accadendo. Ciò che chiamavano “pandemia” non riusciva
a convincermi. Stavano classificando come morti per Covid pazienti con gravi
patologie preesistenti. Per esempio, pazienti con tumori in fase terminale nei
reparti di terapia intensiva Covid, sono stati dichiarati morti di Covid-19. Non
era vero. Ho le competenze per capire di che cosa morivano realmente questi
pazienti. Molti sono morti a causa di infezioni ospedaliere che provocavano
un’insufficienza multiorgano, ma venivano sistematicamente registrati come
decessi per Covid-19».
L’ombra della gestione dei morti durante la pandemia di Covid 19 aleggia ancora
sulla tragedia di Tempe. Durante la crisi di Covid-19, qualsiasi contestazione
dei protocolli medici e delle restrizioni sanitarie veniva sistematicamente
etichettata come “complottista”. La stessa dinamica sembra essere oggi applicata
a Tempe: le bare sigillate, l’impossibilità di condurre autopsie e le procedure
di identificazione dei cadaveri basate esclusivamente sul DNA, impediscono
qualsiasi contestazione ufficiale sulle cause dei decessi.
Questa continuità solleva numerosi interrogativi. Nel nostro libro Did We Take
Our Lives Back? An Anthropological Study of the (Post)Pandemic Discourse in
Greece (Alistou Mnimis Editions, 2023), abbiamo analizzato come la gestione dei
decessi legati al Covid-19 abbia instaurato una logica autoritaria di
classificazione delle morti. Fino alla fine del 2023, il protocollo funebre in
Grecia vietava l’apertura delle bare, impedendo così le autopsie e qualsiasi
indagine sulle cause dei decessi.
Pochi giorni dopo il disastro di Tempe, il Ministero della Salute greco ha
applicato la stessa logica ai corpi delle vittime, imponendo bare sigillate e
un’identificazione da condursi esclusivamente tramite il test del DNA; ha
giustificato questa decisione con la volontà di proteggere le famiglie da
ulteriori forme di sofferenza. Questa misura ha impedito qualsiasi riesame
indipendente sulle cause delle morti.
In Antigone, Sofocle illustra l’importanza della sepoltura come diritto
inalienabile, un atto di rispetto verso i morti e una sfida all’arbitrarietà del
potere. Dalla pandemia sino al disastro di Tempe, il modello rimane lo stesso:
uno Stato che impone bare sigillate, impedisce qualsiasi indagine indipendente e
mette a tacere le famiglie in cerca di verità. Ma, come Antigone, esse rifiutano
di restare in silenzio. La loro lotta per la verità è un atto di resistenza
contro l’oblio e la manipolazione della storia. La dignità dei morti non può
essere cancellata per decreto, né la giustizia sepolta sotto le menzogne di
Stato.
Questo articolo mira a mettere in luce l’intreccio tra narrazioni ufficiali e
realtà nascoste. Rifiutando di accettare le narrazioni imposte, esigendo
indagini trasparenti e chiedendo giustizia, la memoria delle vittime viene
onorata. È nostro dovere rifiutare l’oblio e interrogare incessantemente ciò che
ci viene presentato come una verità assoluta.
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ERI SAMIKOU: ANTROPOLOGA SOCIALE, UNIVERSITÀ PANTEION, ATENE.
LÁZAROS TENTOMAS: ANTROPOLOGO SOCIALE, DIPARTIMENTO DI POLITICA SOCIALE,
UNIVERSITÀ PANTEION, ATENE.
Riprendiamo da “pungolo
rosso”(https://pungolorosso.com/2025/03/29/il-clown-e-il-circo-a-bihr-j-m-heinrich-r-pfefferkorn-y-thanassekos/)
e rilanciamo questo interessante dibattito, che fa il punto sulle ragioni della
guerra in Ucraina tra NATO e Federazione Russa. Ci pare che le argomentazioni
degli autori de “Il clown e il circo” e della redazione del Pungolo si integrino
più di quanto si contraddicono: da una parte dei sani giudizi di fatto sulle
preponderanti responsabilità occidentali nel provocare la guerra (giudizi di
fatto tanto più necessari di fronte a una propaganda che ha compiuto e compie
salti mortali per nasconderle); dall’altro la verità di fondo che ogni Stato
combatte le guerre per i propri interessi di potenza. Di fronte alle attuali
“manovre di pace”, condividiamo in particolare l’idea del Pungolo che “la
possibilità di contrastare la tendenza alla guerra con ‘la mobilitazione delle
masse in tutta Europa’ deve saper denunciare per tempo le stesse soluzioni
diplomatiche, per quanto ‘ragionevoli’ possano apparire, come altrettanti passi
verso un nuovo conflitto mondiale.”
Qui il seguito del dibattito:
https://pungolorosso.com/2025/04/06/la-replica-di-a-bihr-j-m-heinrich-r-pfefferkorn-e-y-thanassekos-italiano-francais/
[Qui in apertura l’introduzione della redazione di “Pungolo rosso”]
A dispetto del titolo, ironico e scanzonato, l’articolo di Alain Bihr, J.M.
Heinrich, R. Pfefferkorn e Y. Thanassekos tratta di una questione molto
importante: la guerra NATO/Russia in Ucraina e la sua possibile sospensione.
Diciamo “sospensione”, non “pace”, perché quest’ultima, intesa come un’organica
conclusione del conflitto, ci sembra largamente irrealistica, se non
impossibile. Quello che si va prospettando è dunque un congelamento delle
attività belliche, che asseconda gli interessi immediati sia della Russia che,
sul versante opposto, degli USA, capofila dello schieramento occidentale.
Il testo collettivo che pubblichiamo ha il pregio di sottolineare alcuni punti
importanti, tanto “ragionevoli” quanto mistificati e sommersi dalla martellante
propaganda di guerra USA/NATO/UE e dalla russofobia isterica di cui è intrisa:
primo fra questi, quello che qualifica la guerra tuttora in corso come un
conflitto fra Russia e Nato, e non fra Russia e Ucraina. A seguire, gli autori
richiamano alcune delle principali contraddizioni della propaganda occidentale:
tale è, ad esempio, la tesi circa la pretesa intenzione di Mosca di invadere i
paesi confinanti e addirittura l’Europa occidentale, nonostante, dopo tre anni
di guerra, essa sia riuscita a conquistare, con notevoli sforzi, appena un
quinto del territorio ucraino. E che dire dello stridente contrasto fra gli
strepiti odierni sulla mancanza di sufficienti mezzi militari per contrastare la
Russia e la ribadita volontà di sostenere lo sforzo bellico di Kiev affinché
riconquisti i territori perduti? Per non parlare, poi, della fulminea decisione
di finanziare a debito un gigantesco piano di riarmo, infrangendo il dogma
ostile alla spesa in deficit quando essa riguardi salari, pensioni e servizi
sociali.
Il lettore troverà dunque in questo breve scritto un utile antidoto alle
menzogne sparse a piene mani dai “nostri” governi negli ultimi tre anni. Allo
stesso tempo, l’articolo dà un’interpretazione discutibile su molti
punti-cardine, che non condividiamo. Ad esempio, nel negare, giustamente, che il
conflitto sia limitato all’Ucraina, ma coinvolge invece “l’Occidente globale”,
gli autori liquidano il “presunto desiderio [russo] di perpetuare o ricostituire
la sua area di influenza nell’Europa centrale e orientale – e anche oltre”.
Questa contrapposizione rimane all’interno delle giustificazioni “formali” della
guerra, senza coglierne le radici strutturali, che risiedono nella lotta per la
difesa dei reciproci interessi di sfruttamento e supremazia sullo scacchiere
internazionale. Certo, in questa lotta, Mosca è partita da una situazione di
svantaggio, ereditata dallo sfacelo dell’URSS e dalla conseguente espansione
della NATO, ma ciò non significa affatto che la sua azione avesse e abbia
motivazioni di altro tipo che la difesa della propria sfera di influenza. Anzi,
quella ucraina era/è per Mosca una linea rossa non oltrepassabile proprio perché
chiama in causa un’area vitale per i propri interessi.
Analogamente, non condividiamo la lettura dei propositi riarmisti dell’UE e dei
suoi singoli Stati come una sorta di allucinazione collettiva, il cui rischio
consisterebbe nel “dar vita ad una profezia che si autoavvera”. Per quanto le
cancellerie del vecchio continente versino in stato confusionale a seguito
dell’inversione di rotta della nuova amministrazione USA, va detto che gli
stanziamenti per la “difesa”, l’eliminazione del vincolo sul debito da parte
della Germania, la decisione di alzare da subito la percentuale del PIL dedicata
alle spese militari, la rapida virata verso l’economia di guerra e la conclamata
volontà di utilizzare il riarmo come antidoto alla stagnazione e alla crisi
economica, non rispondono alla falsa percezione di dover fronteggiare senza
l’aiuto di Washington “il grande lupo cattivo russo”. Rispondono invece alla
consapevolezza, che si va facendo strada, che, indipendentemente dalla struttura
delle alleanze future, ogni Stato, per mantenere il suo posto al sole fra le
canaglie del sistema imperialista, deve armarsi, armarsi, armarsi. E,
nell’immediato, cercare, con le unghie e coi denti, di esigere la parte “che ci
spetta” del bottino ucraino, che rischia di sparire per intero nelle fauci di
USA e Russia.
Se, come ipotizzano gli autori, la possibilità di Mosca di vincere la pace, dopo
aver vinto la guerra, passa per la convocazione di una conferenza di pace nel
quadro dell’OSCE – ad oggi solo una vaga ipotesi – la possibilità di contrastare
la tendenza alla guerra con “la mobilitazione delle masse in tutta Europa” deve
saper denunciare per tempo le stesse soluzioni diplomatiche, per quanto
“ragionevoli” possano apparire, come altrettanti passi verso un nuovo conflitto
mondiale. Trasformare le condizioni verso la guerra imperialista in condizioni
per la rivoluzione proletaria è l’unica strada per sfuggire davvero
all’alternativa “pensioni o munizioni”, un’alternativa che, negli ultimi tempi,
ha davvero fatto passi da gigante. (Red.)
IL CLOWN E IL CIRCO
“Se eleggi un clown, aspettati un circo”
La guerra in Ucraina sta per finire come è iniziata: come un faccia a faccia tra
Stati Uniti e Russia. Con una differenza : che, avendo lo scontro tra i due
stati portato alla guerra, si è passati ora alla collaborazione in vista della
pace. Il che, tra l’altro, dà ragione a posteriori a tutti coloro, noi compresi,
che, contro l’interpretazione dominante di questo conflitto, hanno sostenuto la
tesi che si trattasse effettivamente, per l’essenziale, di un conflitto tra
l’Occidente globale (sotto la guida statunitense e la bandiera della NATO) e la
Russia, per interposta Ucraina, e non di un conflitto tra questi ultimi due
paesi generato dal presunto desiderio della Russia di perpetuare o ricostituire
la sua zona di influenza nell’Europa orientale e centrale – o anche oltre.
Cerchiamo qui di fare un bilancio di questi tre anni di guerra e dell’inversione
di tendenza appena avvenuta, dei guadagni e delle perdite registrate dai vari
protagonisti e di discernere, di conseguenza, le possibilità che si aprono a
ciascuno di loro.
Ubu alla Casa Bianca
La guerra in Ucraina è nata dalla volontà della NATO, contrariamente agli
impegni verbali assunti dopo il crollo del Muro di Berlino, di espandersi
nell’Europa centrale e orientale. Perseguita nonostante le sempre più forti
proteste russe durante le prime due ondate del 1999 e del 2004, questa
espansione ha raggiunto un punto critico nel 2008, quando si è trattato di
integrare l’Ucraina e la Georgia nell’Alleanza Atlantica, cosa che avrebbe
portato quest’ultima a diretto contatto con la Russia, offrendole per una
invasione l’immensa breccia costituita dalla pianura ucraina al di là del
Dniepr e minacciando la strategica base navale di Sebastopoli. Una linea rossa
per Mosca, che dichiarò allora che sarebbe entrata in guerra se fosse stata
oltrepassata. Gli occidentali non ne ha tenuto conto. Nel 2014, durante
Euromaidan, hanno contribuito ad insediare a Kiev un governo filo-occidentale e
anti-russo : cosa che ha aggravato le tensioni con le popolazioni russofone e
russofile degli oblast’ orientali e di Odessa, portando alla guerra civile. Allo
stesso tempo, gli occidentali hanno rigiutato sprezzantemente le proposte russe
di concludere un accordo nel quadro della Conferenza sulla sicurezza e la
cooperazione in Europa (CSCE) finalizzato alla neutralizzazione
(“finlandizzazione”) dell’Ucraina. Tutto questo, dopo che gli Stati Uniti si
erano ritirati nel 2001 dal Trattato ABM (Anti-Balistic Missile) firmato nel
1972, e nel 2018 dal Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces) firmato
nel 1988. La strada verso la guerra era ormai aperta.
Per tre anni, l’Occidente ha condotto questa guerra contro la Russia, con
l’intermediazione dell’Ucraina, con l’obiettivo di imporre con la forza ciò che
la Russia aveva ripetutamente dichiarato di non voler accettare. Gli errori di
valutazione iniziali durante l’operazione militare russa, la mobilitazione
nazionale e lo slancio nazionalista della società ucraina hanno creato
l’illusione che la partita potesse essere vinta e che, con il massiccio sostegno
dell’Occidente, l’Ucraina potesse cacciare l’aggressore dai suoi confini. Questa
illusione è stata rapidamente dissipata quando la controffensiva ucraina del
giugno-agosto 2023, con il massiccio sostegno militare e logistico
dell’Occidente, è fallita miseramente. Da allora, la situazione in Ucraina ha
continuato a deteriorarsi, sia in termini di operazioni militari che di coesione
della società ucraina stessa, a dispetto delle decine di miliardi di dollari in
aiuti di ogni tipo (armi, munizioni, addestramento delle truppe, assistenza
tecnica, intelligence, prestiti, incoraggiamento, ecc.) che l’Occidente ha
fornito, per non parlare delle sanzioni commerciali e finanziarie inflitte
all’aggressore russo. Qualsiasi osservatore lucido dello sviluppo della
situazione negli ultimi mesi ha chiaro che essa non può portare che ad una
sconfitta militare ucraina nel più o meno breve termine.
Per evitare un simile esito la nuova amministrazione Trump ha deciso di porre
fine a questa guerra concludendo, se non la pace, almeno un accordo con il
nemico russo, trasformato di colpo in un avversario con cui è possibile un
accordo. La ragione di fondo di questa inversione di rotta degli Stati Uniti è
che l’amministrazione Trump, ancor più delle precedenti, ha come priorità delle
priorità quella di affrontare la sfida costituita, ai suoi occhi, dall’ascesa
della Cina, che minaccia il suo dominio globale. In questo contesto, la vicenda
ucraina diventa secondaria, se non addirittura trascurabile, e deve essere
liquidata nel modo più rapido ed economico possibile. In questo caso, per gli
Stati Uniti si tratta di una riedizione di quanto fatto negli ultimi decenni
ogni volta che sono stati tenuti in scacco, come in Vietnam nel 1973, in Iraq
nel 2011, ad Haiti nel 1995 e in Afghanistan nel 2021: ritirarsi e lasciare che
il caos creato dal loro intervento sia gestito dai loro alleati locali e dai
precedenti nemici: in breve, lavarsene le mani.
L’unica differenza è lo stile con cui lo scenario si ripete questa volta. Con
l’Ubu (ri)eletto lo scorso novembre, la silenziosa vergogna di un Obama o la
contrizione da coccodrillo di un Biden hanno lasciato il posto a una vistosa
negazione delle schiaccianti responsabilità americane nella vicenda, con gli
Stati Uniti che hanno assunto la vantaggiosa posizione della colomba per far
dimenticare il loro ruolo di falco. Il palese fallimento militare ucraino viene
imputato a Kiev, che non ha voluto mobilitare la gioventù del Paese per mandarla
a farsi sventrare sul campo di battaglia, e ai suoi alleati europei, che non
hanno messo mano abbastanza alle loro tasche né per sostenere lo sforzo bellico
ucraino, né per garantire la propria difesa. Per non parlare del fatto che, in
linea con il suo tropismo e il suo credo super attivistici, Trump intende
recuperare la sua quota di sfruttamento del sottosuolo ucraino ricco di terre
rare.
Panico a Londra, Parigi, Berlino, Varsavia…
… e in altre capitali europee. Perché, non avendo capito nulla di quello che è
successo, stanno inventando un futuro immaginario in cui credono di dover
affrontare, ormai da solie, private dell’aiuto dello zio Sam, il lupo cattivo
russo. E, poiché ritengono di non avere i mezzi per farlo militarmente, l’unica
opzione che prendono in considerazione o almeno favoriscono, stanno lanciando
folli programmi di riarmo, buttando centinaia di miliardi di euro che solo il
giorno prima affermavano di non avere se si trattava di aumentare gli stipendi,
rafforzare i servizi pubblici e le strutture comunitarie, soddisfare i bisogni
sociali più elementari, ecc. Tutto ciò fa presagire un nuovo ciclo di austerità
crescente per le loro popolazioni, che non offrirà loro altra prospettiva se non
quella di stringere la cinghia ancora un po’ per gli anni a venire, prima di
“morire per la libertà”, creando fin da ora un’atmosfera da « vigilia di
guerra ».
Tuttavia, la natura immaginaria di questo scenario futuro è tradita dalla natura
incoerente dei loro propositi. Sono le stesse persone che ora dicono che i russi
sono alle nostre porte e che non abbiamo i mezzi per impedirgli di entrare con
la forza, e che appena il giorno prima, se non in contemporanea, sostengono che
è necessario e giusto aiutare gli ucraini, anche inviando loro delle truppe,
perché è possibile sconfiggere il nemico sulle rive del Dniepr o nel Donbass. E
allora la Russia cos’è ? Orco insaziabile e assetato di sangue, o colosso dai
piedi d’argilla?
Questo scenario è ancora immaginario perché non tiene conto della realtà
dei rapporti di forza così come si presenta sul campo. Dopo tre anni di guerra,
le truppe russe sono faticosamente e cautamente riuscite a conquistare appena un
quinto del territorio ucraino. Una domanda degna di un problema di quinta
elementare: di questo passo, quanto ci metteranno i cosacchi ad abbeverare i
loro cavalli nei sobborghi di Brest e Lisbona?
Immaginario, infine, perché, come prima del 2022, gli Europei non ascoltano, o
non danno credito alle parole dei russi. I russi hanno ripetuto a gran voce che
non avrebbero accettato le forze della NATO alle loro porte in Ucraina e che, se
avessero persistito nella loro intenzione di farlo, sarebbero entrati in guerra.
E così è stato. Quando, al contrario, li abbiamo sentiti dichiarare di avere
altre pretese, se non sui loro immediati vicini ? per forza di cose sull’Europa
occidentale? Doppiezza da parte loro? Allora perché accusarli contemporaneamente
di cinismo?
Il pericolo, tuttavia, è che questo scenario, per quanto immaginario, possa dar
luogo a una profezia che si autoavvera. Infatti, rilanciando la corsa agli
armamenti in Europa, si crea proprio una situazione favorevole alla guerra.
Contrariamente al vecchio adagio romano, quando si prepara la guerra, si ottiene
… la guerra! Non lo ha forse dimostrato ancora una volta l’estensione, negli
anni ’90, dell’alleanza militare all’Europa centrale e orientale, che avrebbe
dovuto garantire la pace?
Intrappolate dalle loro posizioni “campiste” sui conflitti inter-imperialisti e
internazionali, la maggior parte delle organizzazioni della sinistra e
dell’estrema sinistra sta adottando questo scenario, arrivando a tacciare di
filo-russismo o addirittura di filo putinismo qualsiasi presa di distanza
critica. Dopo essersi già arruolati nella crociata antirussa sotto la bandiera a
stelle e strisce e aver fallito nella loro missione di mobilitare le classi
lavoratrici contro la guerra, si preparano a fare lo stesso cadendo nella rete
dell’Union sacrée. Permettendo così all’estrema destra, d’un colpo solo, di
monopolizzare il discorso contro la guerra, e offrendole un’altra opportunità di
essere in consonanza con le preoccupazioni popolari e di aumentare il
proprio pubblico e, cosa altrettanto disastrosa, permettendo al blocco
politico-mediatico al potere di identificare come di estrema destra qualsiasi
critica alle proprie posizioni.
Peggio ancora, queste organizzazioni si impediscono di denunciare e lottare con
le classi lavoratrici, non solo contro le molte forme di sfruttamento aggravato
(in termini di salari e tasse, attraverso la crescita della disoccupazione e il
deterioramento dei servizi pubblici, ecc.) per le quali queste minacce e
necessità immaginarie serviranno come legittimazione “incontrovertibile”, ma
anche di lottare contro il keynesismo militare, cioè un modo per rilanciare
l’economia [attraverso la spesa bellica], e quindi di aumentare ulteriormente i
profitti, senza aumentare la domanda di beni di consumo, a favore della sola
domanda di beni distruttivi, finanziata da tasse e debito. Va da sé che di
questo tipo di stimolo beneficeranno soprattutto gli Stati Uniti, il maggior
esportatore mondiale di attrezzature e tecnologie militari, anche se alcuni
Paesi europei possono sperare di approfittarne per aumentare la propria
produzione e le proprie esportazioni (nell’ordine: Francia, Germania, Italia,
Regno Unito e Spagna).
Blues in Kiev
Ma le persone più da compatire sono ovviamente gli ucraini, gli unici che hanno
dovuto entrare nella tana del leone. Sono quelli che hanno pagato il prezzo più
alto, in termini di sfollamento ed esilio di massa della popolazione, di morti e
distruzioni militari e civili, per il cinico gioco dell’Occidente, che ha fatto
precipitare un conflitto che si è svolto sul loro territorio e in cui hanno
occupato gli avamposti, presumibilmente per forzare la mano ai russi e
indebolirli definitivamente. Senza dubbio hanno creduto, e credono tuttora, che
questo fosse l’unico modo per difendere la loro sovranità e integrità
territoriale, anche se era possibile un’altra strada, quella di un compromesso
con la Russia, che avrebbe permesso loro di salvare l’essenziale sotto entrambi
i punti di vista. Una strada che l’Occidente ha vietato loro di percorrere, sia
prima che subito dopo il lancio dell’offensiva russa del 24 febbraio 2022:
mentre alla fine di marzo era in vista un accordo russo-ucraino, è stato
l’Occidente a decidere che gli ucraini dovevano abbandonarlo.
E sono ancora questi ultimi che si preparano a pagare il prezzo più alto quando
arriverà il momento, che non tarderà ad arrivare, di una pace forzata. D’ora in
poi, la pace sarà firmata alle condizioni che i russi, vincitori sul campo,
accetteranno o imporranno. Dopodiché, gli ucraini dovranno ancora pagare
l’enorme debito di guerra accumulato e ricostruire il loro Paese, in parte
devastato dalla guerra, con una popolazione che si è ridotta notevolmente (da 45
milioni nel 2013 a 33 milioni nel 2023). Rimuginando, nel frattempo,
sull’amarezza della sconfitta e del tradimento, sulle cui ragioni avranno tutto
il tempo di riflettere, ricordando il famoso monito: “Dio, proteggimi dai miei
amici, che ai miei nemici ci penso io”.
Il sangue freddo a Mosca
La sobrietà delle ultime dichiarazioni di Mosca contrasta con i deliri
megalomani di Washington, con la febbre angosciosa delle capitali europee e con
l’ostinazione di Zelensky nel suo errore iniziale. Eppure la Russia avrebbe
tutte le ragioni per pavoneggiarsi. Lungi dal crollare sotto l’impatto delle
sanzioni commerciali e finanziarie attuate dagli occidentali, come questi ultimi
avevano annunciato urbi et orbi, essendo riuscita a rimettersi in piedi dopo un
inizio militare fallimentare e avendo dimostrato la solidità delle sue alleanze,
in particolare con la Cina e l’Iran, al momento la Russia sembra essere la
grande vincitrice di questo conflitto, a un passo dall’aver raggiunto gli
obiettivi che si era prefissata.
Senza dubbio sa anche che non basta vincere la guerra, deve vincere anche la
pace. E per farlo, dovrà pagare il prezzo della sua vittoria. Tra questi, il
fatto che l’odiata NATO, pur non riuscendo a stabilirsi in Ucraina, è ora
presente lungo i 1.340 chilometri del confine comune con la Finlandia. A ciò si
aggiungono i massicci programmi di riarmo che gli alleati europei della NATO (o
ciò che ne rimane) stanno pianificando di intraprendere. Per non parlare
dell’odio duraturo che avrà suscitato nella maggior parte della popolazione
ucraina e in coloro che hanno sposato la sua causa.
Se evitare l’instaurarsi di una nuova guerra fredda è nei piani russi, non c’è
altra soluzione che proporre, come hanno continuato a fare dall’inizio della
guerra in Ucraina, la convocazione di una conferenza di pace nel quadro
dell’OSCE. Questo metterà a tacere ogni speculazione sulle loro mire
espansioniste, mire di cui si faticherebbe a trovare tracce nella storia recente
delle relazioni internazionali (quando mai la Russia ha intrapreso operazioni
simili alla doppia invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan ?). Potranno sostenere
di fronte ai nemici occidentali che non si sceglie il proprio nemico, ma è
sempre con lui che si deve firmare la pace.
E noi ?
Di fronte alle politiche di riarmo a tutto vapore, a fronte del clima di guerra
e di « vigilia di guerra » che coltivano i governi bellicisti europei con
l’appoggio della grande maggioranza dei media, la sinistra, e in particolare la
sinistra radicale, deve superare gli errori di ieri e dell’altro ieri. Si deve
chiamare alla mobilitazione delle masse dappertutto in Europa per bloccare una
politica che fa già dire a qualcuno che si deve scegliere fra «pensioni o
munizioni » (w) e pavimenta la via di una possibile discesa negli abissi.
Alain Bihr, Jean-Marie Heinrich
Roland Pfefferkorn, Yannis Thanassekos
(1) https://fr.statista.com/statistiques/688554/population-totale-ukaine/
(2) Dominique Seux, « Pensions ou munitions ? », Les Echos, 5 mars 2025.
Riceviamo e diffondiamo
La campagna contro i profughi. L’Egitto e la Tunisia “paesi sicuri” nella lista
preparata dalla commissione europea. Per giustificare la scelta si dice che i
governi hanno promesso riforme liberali. Già, intanto ammazzano le persone nel
deserto. Sicuro vuol dire che rispetta la democrazia e il diritto. È sicura la
Turchia che arresta gli oppositori? L’assurda regola del 20%
di Gianfranco Schiavone da l’Unità
Il 16 aprile 2015 la Commissione Europea ha presentato una proposta di riforma
di nuovo Regolamento (COM – 2025 – 186 finale) finalizzato a modificare alcuni
articoli del nuovo Regolamento (UE) 2024/1348 (sulle procedure per l’esame delle
domande) che andrà a sostituire la vigente Direttiva 2023/32/UE e che si
applicherà a partire dal 12.06.2026. Le proposte hanno l’obiettivo di modificare
alcuni aspetti delle procedure accelerate di frontiera e soprattutto di
anticipare l’entrata in vigore delle stesse procedure accelerate nel caso di
provenienza dei richiedenti asilo da paesi di origine ritenuti sicuri o
provenienti da paesi terzi rispetto ai quali la percentuale di decisioni di
accoglimento delle domande di asilo presentate dai cittadini di quegli stati è
pari o inferiore al 20%.
Premettendo che è censurabile la scelta della Commissione di volere modificare
un regolamento che è in vigore ma non ancora applicabile, la prima modifica che
la Commissione propone è quella di modificare l’art.61 del Regolamento procedure
allo scopo di poter automaticamente dichiarare paesi di origine sicuri tutti i
paesi candidati all’adesione all’Unione Europea, salvo che in tali paesi non ci
siano situazioni di conflitto armato o le domande di asilo dei cittadini di tali
paesi vengano accolte nell’UE con una media superiore al 20%. I candidati
attuali all’adesione sono Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia. La
Bosnia-Erzegovina, la Georgia e il Kosovo sono candidati potenziali. Anche la
Turchia rientra tra i paesi candidati anche se i negoziati sono congelati dal
2018. Apparentemente la proposta della Commissione potrebbe sembrare
ragionevole, dal momento che il primo requisito per avere lo status di candidati
è aderire ai principi dell’Unione e rispettare lo stato di diritto.
Un rapido sguardo alla lista degli aspiranti fa comprendere come si tratti
invece di una scelta del tutto impropria che confonde criteri giuridici con
criteri politici. Tra i paesi candidati figurano infatti Paesi come la Turchia
nel quale le violazioni dei diritti umani sono estese e sistematiche, come reso
evidente agli occhi del mondo anche dai tragici eventi delle ultime settimane.
Nel 2023 oltre centomila cittadini turchi hanno presentato domanda di asilo nei
paesi dell’UE, con un aumento dell’82 % rispetto all’anno precedente, divenendo
la terza nazionalità più numerosa in cerca di protezione nell’UE dopo i siriani
e gli afghani. È paradossale che l’UE condanni le violenze politiche in Turchia
e nello stesso tempo elabori proposte normative così palesemente irragionevoli.
La Commissione propone delle modifiche al testo del Regolamento procedure per
consentire agli stati la facoltà (non l’obbligo) di anticipare l’applicazione di
una nozione assai controversa già introdotta con il nuovo regolamento, ovvero la
possibilità di applicare la procedura accelerata di frontiera ai richiedenti
provenienti da un paese terzo “la cui percentuale di decisioni di riconoscimento
della protezione internazionale da parte dell’autorità accertante è, stando agli
ultimi dati medi annuali Eurostat disponibili per tutta l’Unione, pari o
inferiore al 20 %” . Poichè si trattava appunto di una misura futura la cui
applicazione sarebbe avvenuta appena a metà 2026 quasi nessuno ne ha parlato
finora. È stato introdotto nell’ordinamento giuridico una sorta di criterio
statistico di fondatezza della domanda che non appare compatibile con l’obbligo
da parte dello Stato di condurre un esame equo e completo della domanda di asilo
su base individuale.
L’incoerenza logica risulta ancor più chiara se si considera che, diversamente
da quanto un lettore assennato può pensare, la cosiddetta regola del 20% (che
non ha, nel testo di legge, neppure un nome per definirla) non si sovrappone né
sostituisce la nozione di paese di origine sicuro che continua ad essere
prevista dal nuovo Regolamento procedure. Tale normativa viene giustificata come
necessaria per limitare l’abuso della procedura di asilo da parte di persone la
cui domanda verrà quasi sicuramente rigettata. Non ci si accorge tuttavia della
irrazionalità di quanto si è proposto (e approvato); la percentuale di
accoglimento della domanda di asilo che può arrivare fino al 20% (non fino al
2%) indica un tasso affatto inconsistente rendendo confusa ed incoerente la
asserita ratio della norma. Inoltre, in modo del tutto arbitrario la percentuale
è calcolata solo sulla base delle domande accolte in sede amministrativa e non
tiene conto dei ricorsi, nonostante essi facciano pienamente parte della
procedura. Nel diritto dell’Unione con la nozione di “decisione definitiva” su
una domanda di asilo si deve infatti intendere l’esaurirsi, in senso di
accoglimento o di rigetto, di tutte le procedure. Il vero tasso di accoglimento
dovrebbe essere calcolato sulle decisioni definitive; se così fosse fatto, esso
si attesterebbe sul 30%.
Per comprendere quanto sia incredibile ciò di cui stiamo trattando faccio il
seguente esempio: se io fossi un medico e sostenessi che una malattia che ha un
tasso di mortalità del 20% o del 30% è in fondo assai poco pericolosa verrei
preso per pazzo. Se invece si sostiene che un tasso di accoglimento del 20%
delle domande di asilo è indice di una generale infondatezza l’irrazionalità di
quanto viene sostenuto passa del tutto inosservata. La realtà della vita degli
“altri” da cui dobbiamo difenderci è infatti divenuto da tempo un terreno nel
quale le nozioni giuridiche, e in generale ogni forma di logica, hanno perso il
loro significato lasciando il campo a disgustose (ma rimosse) forme di violenza
verso esseri umani.
La creazione di una lista europea di paesi di origine sicuri è nozione che non
viene affatto introdotta dalla nuova proposta di regolamento presentata dalla
Commissione ma è già presente nel Regolamento procedure. La nuova proposta si
limita a prevedere che “I paesi terzi elencati nell’allegato II sono designati
come Paesi di origine sicuri a livello dell’Unione” e li indica (si tratta di
Bangladesh, Egitto, Colombia, India, Kosovo, Marocco, Tunisia). Viene così
stravolta la procedura corretta che dovrebbe essere seguita per la designazione
di paesi terzi come sicuri; innanzitutto la normativa che la prevede deve essere
applicata (cosa che al momento non è). In seguito a ciò, sulla base della
situazione oggettiva dei diversi paesi e dei criteri che la stessa normativa
prevede per effettuare la designazione come paese di origine sicuro (in primis
il requisito della democraticità dell’ordinamento di tali paesi) la Commissione
con atti delegati potrebbe predisporre una lista di paesi di origine sicuri
indicando le ragioni e le fonti che giustificano tale delicatissima scelta.
Nelle premesse alla sua nuova proposta di Regolamento che già in anticipo
contiene i futuri paesi di origine sicuri, la Commissione omette di indicare le
sue fonti; a ognuno dei paesi indicati come di origine sicura sono dedicate più
o meno dieci righe piene di affermazioni non veritiere o contestabili.
Prendiamo ad esempio l’Egitto su cui la Commissione scrive che “ Il Paese ha
ratificato i principali strumenti internazionali sui diritti umani (…) Nella sua
strategia nazionale per i diritti umani, l’Egitto ha dichiarato l’intenzione di
riformare la legge sulla detenzione preventiva, migliorare le condizioni di
detenzione, limitare il numero di reati puniti con la pena di morte e rafforzare
la cultura dei diritti umani in tutte le istituzioni governative. È necessaria
un’attuazione efficace, ma finora sono stati compiuti progressi”. Rinvii a
generici impegni e nessun riferimento alla realtà della presenza di migliaia di
detenuti politici, alla repressione di ogni forma di dissenso, al fatto che la
“tortura e altro maltrattamento sono rimasti metodi utilizzati regolarmente
nelle carceri, nei commissariati di polizia e nelle strutture gestite
dall’agenzia per la sicurezza interna” (rapporto globale di Amnesty
International 2023).
Sulla Tunisia, ignorando la violenta involuzione autoritaria in corso negli
ultimi anni, lo stesso impedimento all’ingresso nel Paese della delegazione dei
parlamentari europei avvenuto nel 2023, il pubblico linciaggio degli stranieri,
specie se di colore, la mancata applicazione della Convenzione di Ginevra, la
deportazione degli stranieri nel deserto documentata dal rapporto “State
Trafficking” presentato il 29.01.25 al Parlamento Europeo, la Commissione scrive
che la Tunisia “ha ratificato la Convenzione contro la tortura e altre pene o
trattamenti crudeli, inumani o degradanti. In Tunisia non è in corso alcun
conflitto armato e quindi non esiste alcuna minaccia di violenza indiscriminata
in situazioni di conflitto armato internazionale o interno. In generale, non vi
sono persecuzioni nel Paese”. La nozione di paese di origine sicuro viene così
fatta a pezzi, ridicolizzata, stravolta, e viene sostituita da affermazioni
ideologiche e da parole prive di alcun contenuto. Non posso smettere di pensare
che la Commissione europea dovrebbe operare per “promuove l’interesse generale
dell’Unione” nonché vigilare “sull’applicazione del diritto dell’Unione sotto il
controllo della Corte di giustizia dell’Unione europea” (art. 17 del Trattato
sull’Unione Europea). È inquietante leggere i testi che oggi scrive perché mai,
almeno a mia memoria (che sfortunatamente non è più breve), è stato raggiunto un
livello così basso.
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Con grande gioia riceviamo e pubblichiamo questo comunicato.
Si è concluso martedì 25 marzo 2025, dopo sette anni e quattro mesi, il processo
a carico di 4 compagn*, accusat* di essersi oppost* in diversi modi all’apertura
della sede di Cagapound di Cesena avvenuta a gennaio 2018 in via Albertini 28/D
(poi chiusa e riaperta prima in via Giorgio Amendola 9 e nel maggio 2024 in
Corte Dandini 4).
Inizialmente condannate in primo grado dal Tribunale di Forlì, la sentenza di
Appello a Bologna ha invece assolto tutte e quattro le persone imputate,
annullando quindi le iniziali condanne che (lo ricordiamo) erano:
– per tre imputat* una multa di 800 euro a testa per diffamazione (nello
specifico accusat* di aver diffuso un volantino che ricordava la complicità di
chi concede i propri locali in affitto ai gruppi neofascisti, affisso per
Cesena, con indicati nomi e cognomi dei summenzionati proprietari);
– per la quarta compagna una condanna a 7 mesi di carcere per tentata violenza
privata, con l’accusa di aver tentato di convincere verbalmente i proprietari a
non affittare il loro negozio a un gruppo di fascisti dichiarati.
Oltre alle condanne gli imputati avrebbero dovuto pagare le spese processuali
anche della controparte e un risarcimento ai proprietari del locale, Daniele e
Francesco Lombardini, di circa 9000 euro, dato che questi si erano costituiti
come parte civile al processo, che verteva sulle testimonianze accusatorie di
alcuni poliziotti e degli stessi fascisti.
Il tentativo, palese, era quello di intimidire l’antifascismo militante con
titoloni sui giornali locali, processi, condanne ed estorsioni da migliaia di
euro.
Ora aspettiamo le motivazioni della sentenza, ma possiamo già dire che questo
tentativo è fallito.
In questi anni di processo sono state fatte numerose iniziative per sostenere le
nostre compagne e i nostri compagni: assemblee, presidi sotto al tribunale in
occasione delle udienze, trekking solidali ultra-partecipati (di cui l’ultimo il
16 marzo scorso), cene e concerti benefit, cortei.
E proprio uno di questi cortei vogliamo ora menzionare, nello specifico quello
che si è svolto a Cesena il 13 novembre 2021, di contrasto alle politiche
antiproletarie e filopadronali del governo Draghi e contro la narrazione dello
Stato e dei media della gestione Covid e quella dei gruppi fascisti che volevano
parlare di libertà (proprio loro!) strumentalizzando alcune delle proteste
contro il green pass.
In seguito a questo corteo, nato anche come momento benefit per le spese
processuali delle persone indagate per l’opposizione a Cagapound, altri 3
compagn* sono stati accusati di aver sottratto una telecamere ad un digos.
Nello specifico, due accusat* di rapina aggravata e resistenza a pubblico
ufficiale, e un terzo accusato di favoreggiamento. Nella recente sentenza di
Appello il compagno accusato di favoreggiamento è stato assolto, mentre per le
altre due persone è caduta la rapina aggravata ed è rimasta una condanna a poco
più di 4 mesi per resistenza a pubblico ufficiale.
Di fronte all’arroganza del potere, che con le sue leggi prova a schiacciare chi
protesta e chi lotta – ultimo esempio è il ddl sicurezza che il governo Meloni
vorrebbe approvare definitivamente nei prossimi mesi – e allo sdoganamento
odierno (anche istituzionale) delle peggiori ideologie razziste, suprematiste,
militariste e fasciste a livello mondiale, bisogna continuare a mobilitarsi.
La solidarietà ci dimostra che chi lotta non è mai sol*!
Gratitudine e amicizia va a chi in questi anni ha continuato a sostenere chi si
trovava sotto processo. I contributi solidali a sostegno delle persone assolte
in appello, tolte le spese per gli avvocati, saranno usati per chi si trova
ancora a fare i conti con la repressione che in questi tempi non risparmia di
certo i suoi colpi.
Antifasciste ed Antifascisti di Forlì e Cesena
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Dopo il fermo nella giornata di ieri e il presidio serale solidale sotto la
Questura nella mattinata di oggi si è svolto il processo presso l’Ufficio
Immigrazione nei confronti di Ayoub, un attivista del centro sociale Lambretta
che è stato rilasciato.
Qui il comunicato.
Il nostro compagno è stato rilasciato, ma il razzismo istituzionale in Italia
resta una realtà strutturale.
Dopo una notte di fermo, il nostro compagno Ayoub è stato finalmente rilasciato.
La mobilitazione è stata immediata e trasversale: la lotta e la solidarietà
pagano. Siamo sollevat* ma non possiamo che ribadire quanto l’Italia continui a
essere attraversata da dinamiche sistemiche di razzismo istituzionale. Quanto
accaduto nelle ultime 24 ore non rappresenta un’eccezione, bensì una prassi
consolidata, espressione di un dispositivo giuridico e politico che criminalizza
sistematicamente le persone migranti.
Non si tratta di semplici slogan o di accuse infondate. L’arresto arbitrario e
il trattamento riservato ad Ayoub sono sintomatici di un regime di controllo e
repressione che si alimenta della condizione di irregolarità giuridica di
centinaia di migliaia di persone. Per circa un milione di persone migranti che
vivono in Italia senza documenti, l’arbitrarietà dell’azione delle forze
dell’ordine non è un’eccezione: è la regola.
Questo regime produce una condizione esistenziale sospesa: l’impossibilità di
accedere a un lavoro regolare, di stipulare un contratto di affitto, di
denunciare abusi subiti, di vivere una quotidianità dignitosa. In tale contesto,
la detenzione amministrativa e i rimpatri forzati appaiono come l’estrema
conseguenza di un meccanismo di esclusione che opera ben prima del carcere.
Ogni regime autoritario si fonda anche su forme di consenso sociale e
normalizzazione. Ed è proprio attraverso episodi come quello di Ayoub –
apparentemente marginali ma emblematici – che possiamo cogliere la misura della
violenza sistemica, della prepotenza istituzionale, dell’erosione dello stato di
diritto. Per oltre un milione di persone, l’inferno può cominciare con un
semplice controllo dei documenti, in un giorno qualsiasi.
Ayoub per adesso è libero anche grazie alla lotta e alla solidarietà. In vista
del prossimo 25 Aprile, non possiamo che rilanciare, dunque, una riflessione
profonda sul significato dell’antifascismo oggi. Se vogliamo costruire una
società antirazzista, transfemminista e antifascista, è necessario smantellare –
dalle fondamenta – le strutture di oppressione e discriminazione integrate nei
sistemi democratici occidentali. La lotta contro i neofascismi e contro la
stretta securitaria è la lotta per un’alternativa allo status quo, non un
ritorno a ciò che era prima.
Se voi fate il fascismo, noi facciamo la Resistenza.
(da Milano in Movimento)
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