[2025-04-26] CORTEO ANTIFA @ Alba, via Pinot Gallizio
CORTEO ANTIFA Alba, via Pinot Gallizio - Via Pinot Gallizio (sabato, 26 aprile 15:00) Il fascismo è vivo in Italia e nel mondo e non si riduce a un manipolo di nostalgici picchiatori, che per quanto sgradevoli rimangono ridicoli. Spesso assume altre forme. Un disegno di legge liberticida, per esempio o un centro di permanenza e rimpatrio in Albania. Chi è fascista vuole ordine: un operaio che sciopera, una studentessa che protesta rappresentano una minaccia e un danno per il benessere della nazione. Chi è fascista vuole disciplina: aumentare il controllo significa evitare subbuglio, evitare consapevolezza. Chi è fascista vuole divisione: diffonde cultura xenofoba, per via di una presunta superiorità morale e culturale. In altre parole , in nome nazionalismo, la destra sta coi padroni - desidera che chi detiene il potere continui a mantenerlo senza intoppi . E contribuisce a colpire le fasce basse della società, olea la macchina del profitto impedendo l'organizzazione e il dissenso dal basso; il risultato: contratti precari, disoccupazione, stipendi miseri e la fine del mese che pare un traguardo irraggiungibile. Lo sfruttamento, la disparità li tocchiamo con mano nel nostro territorio. Quattro mesi fa morivano vittime della disuguaglianza sociale Issa e Mamadou, due braccianti simbolo del sistema schiavista e razzista intrinseco nel settore agroalimentare. Un anno fa cominciava la lotta contro Ferrero, da parte delle lavoratrici Proteco: confezionano cioccolatini a 5€/h . E gli esempi potrebbero essere centinaia, paradossale per un territorio famoso per qualità di vita eccellente e ricchezza. Ricchezza di pochi, sulle spalle dei molti. Noi non ci stiamo. Prevaricazione, razzismo e classismo si combattono solo con la solidarietà, con l'organizzazione e con la lotta . Il 26 aprile continuiamo il nostro percorso, per un mondo equo e giusto. Operai e operaie , studenti e studentesse, precari e precarie unite e uniti.
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[2025-04-25] 25 APRILE 25 - CONTRO IMPERIALISMO E GUERRA @ Csoa Gabrio
25 APRILE 25 - CONTRO IMPERIALISMO E GUERRA Csoa Gabrio - Via Millio 42, Torino (venerdì, 25 aprile 13:00) Ci avviciniamo a celebrare l'80esimo anniversario della liberazione dal nazi-fascismo immersi in un'atmosfera da fine del mondo. Se non fosse bastata la promessa distruttiva della crisi ecologica in cui siamo immers*, con la sindemia del covid come trauma collettivo già quasi-rimosso, la guerra aperta è nuovamente esplosa anche nella "pacifica" Europa. Sappiamo bene che per i popoli e per le soggettività oppresse, così come per le lavoratrici e i lavoratori, la guerra, nelle sue forme più esplicite delle bombe in Palestina o in quelle meno dichiarate come femminicidi, transicidi, morti sul lavoro o in mare, non si era mai fermata.  Al contempo però assistiamo ad un cambio di paradigma, esemplificato dai discorsi intorno alla guerra guerreggiata, dal via libera al riarmo come unica soluzione per salvarci dalla barbarie, dal riaccendersi dei nazionalismi e dalle guerre commerciali. Eppure, di fronte all'intensificarsi del genocidio in Palestina, all'aumento vertigionoso delle spese in armamenti in Europa e nel mondo, alla violenta repressione del dissenso che, partendo dagli USA di Trump e passando per la "democratica" Germania, arriva fino alla fascistissima Italia, non è il momento di abbandonarci allo sconforto nè di soccombere alla disillusione. Il macro della geopolitica estera si riflette e rafforza nel micro delle nostre vite e dei quartieri in cui viviamo come nodi in tensione da cui rispondere, opporsi e resistere, soprattutto quando la sospensione totale di qualsiasi forma di democrazia si rende evidente. Ci scontriamo infatti con disuguaglianze di classe sempre più amplificate, le stesse che rendono impossibile a moltx avere una casa ed arrivare a fine mese nonostante un contesto urbano colmo di spazi abbandonati lasciati a marcire. Le città che abitiamo si rivelano divise in frontiere interne che separano i quartieri  “riqualificati”, accessibili a poch*, da quelli “indecorosi”, raccontati come pericolosi attraverso le famose “zone rosse” fino a rendere di nuovo legittimi e desiderabili luoghi di confine e tortura come le carceri e i cpr. Nel clima di guerra diffuso, non sono solo le fasce più marginalizzati a subire il neofascismo, siamo tutt noi, perché i tagli all’istruzione, alla ricerca, alla salute pubblica, ai centri antiviolenza hanno effetti reali sui corpi senza distinzioni, seppur con differenti gradi di severità. In questo meccanismo stratificato, la guerra si presenta come realtà pronta a riscrivere i presupposti di ulteriori divisioni sociali, nuovi sommersi e salvati mentre si allarga la fascia di persone e corpi sacrificabili. Se la confusione è grande sotto il cielo, il momento non è certo eccellente, eppure il mondo è lungi dall'essere pacificato: in Palestina il movimento di resistenza palestinese affronta con determinata ostinazione il tentativo di cancellazione del loro popolo, negli Stati Uniti studentesse e studenti infiammano le università sfidando l'ira repressiva del governo repubblicano, mentre dal Chiapas arriva l'appello a costruire "il giorno dopo" della tempesta capitalista. IL 25 aprile ci pare allora quanto mai attuale, nel suo interrogarci in maniera urgente, non solo oggi ma nelle lotte che animiamo tutti i giorni: di fronte alle crisi del mondo che conosciamo, con i suoi immancabili risvolti violenti e sanguinari, da che parte stiamo? Quali responsabilità, individuali e collettive, ci chiamano all'azione? Ieri come oggi, resistere rimane per noi una postura necessaria quanto diversificata nella molteplicità di pratiche, forme e idee disposte a contrastare imperialismi e fascismi vecchi e nuovi. Che sia nell'opporsi a progetti estrattivi ed ecocidi tramite sabotaggi e picchetti, occupando fabbriche e rivoluzionando gli assetti produttivi in chiave anti-capitalista, dis-armando una guerra contro le donne e le soggettività non conformi al mito patriarcale e alle sue soluzioni punitive e securitarie. Smontando il mito del progresso e della pace basate su violenza e sfruttamento lontano dai nostri occhi. Resistiamo e ci organizziamo nella lotta liberando spazi e menti, salvando il desiderio di un'alternativa rispetto a un mondo in fiamme, occupando case, palazzi, quartieri e università per dar spazio a nuove forme del sociale, di alleanze e di solidarietà nelle lotte di ciascun contro nemici comuni, perchè nessunx rimanga solx.  Oggi, dopo 80 anni, siamo qui per ricordare, e per non dimenticare mai, il costo della nostra libertà e la sua necessità, uno sforzo continuo da compiere insieme, giorno dopo giorno. Sarà un giorno di festa e di lotta, vogliamo passarlo con l nostr compagn, sicur che le nostre strade si incontreranno ancora e spesso nei tempi prossimi di resistenza.  Fino alla rivoluzione PROGRAMMA
25 aprile
resistenza
Zona San Paolo Antifascista
25 Aprile
Antimperialismo
La parola della settimana. Fake
(disegno di ottoeffe) Avevamo una gag, con El Trinche Carlovich, che prendeva un po’ in giro Nicolao Dumitru, giocatore del Napoli nel 2010-11. In realtà la gag era sull’incontentabilità del tifoso partenopeo che, spazientito per le prestazioni del calciatore, se la prendeva con lui a ogni occasione, chiedendogli più sfrontatezza quando lo vedeva timido e diligente in campo, e più umiltà non appena il povero Dumitru tentava una giocata. Questo atteggiamento provocava crisi di identità al ragazzo, fino a fargli chiedere all’allenatore di tenerlo in panchina (vero è che a fine stagione Dumitru andò via da Napoli e non combinò più nulla in carriera) Quella gag diventò uno dei migliori pezzi tra i fake che di tanto in tanto ci divertiamo a pubblicare, talmente riuscito che il procuratore o l’avvocato, ora non ricordo, del calciatore, ci mandò una mail intimandoci di rimuoverlo (una cosa simile successe anche con uno dei nostri bersagli preferiti, lo scrittore Maurizio De Giovanni; per questo articolo Bassolino e i suoi si divertirono invece parecchio). Più divertente ancora, fu che il pezzo su Dumitru – confuso dai più per una vera intervista – cominciò a girare sui siti web dedicati al Napoli, dando vita a un dibattito tra tifosi che riproponeva gli stessi atteggiamenti su cui noi credevamo di scherzare. (screenshot dal forum di partenopeo.net) Nel 2023 il Napoli vinse lo scudetto con largo anticipo. Travolti dal fiume di retorica che scorreva tra le pagine dei quotidiani, decidemmo di pubblicare un intero giornale fake. Ancora una volta, i più distratti lo scambiarono per una cosa reale. In questi anni ho imparato a fare tutto: ho scritto libri e racconti, ho mostrato il calcio e la politica, sono stato dalla parte dei deboli e ho girato spot per gli Agnelli e film commissionati da Hollywood. Ma sono rimasto il ragazzo con l’orecchino che non ci credeva che “solo ‘e strunz’ vanno a Roma”. Sono andato e tornato, di nascosto, tanto che una notte di due anni fa un barbone davanti al centro Paradiso, stupito nel vedermi piangere e baciare un santino di Ciccio Romano, mi disse: “M’a vuo’ ra’ ‘na sigarett’?”. Va così, quando mi perdo e la mente vaga. Torno nel mio film. C’è Silvio Orlando che scrocca le partite sul pezzotto; c’è Bentivoglio che interpreta De Laurentiis e sale sul motorino di un passante gridando: “Siete delle merde!”; c’è Morgan Freeman in un flash forward metaforico su Osimhen da vecchio, che spezza le sue catene e cammina sul prato del Paradiso circondato da fenicotteri che no, non so che cazzo vogliono dire, ma comunque ce li devo mettere. (paolo sorrentino, il mio film tricolore in: la gazzella dello sport) In napoletano c’è una parola che, come l’inglese fake, vuol dire molto di più di “falso”. “Pezzotto” è la app pirata che ti permette di vedere le partite pagando un quarto del costo di Sky e Dazn (già negli anni Novanta esistevano le “schede pezzottate” di Stream e Tele+); “pezzottati” erano i vestiti di marca simili all’originale ma cuciti chissà dove e smerciati nei mercati di strada (oggi il termine è passato di moda a favore di “paralleli”); “pezzotta” è una ragazza bassina e dal carattere forte, “pezzotto” era il cd masterizzato con l’ultimo album di Tizio o Caio o il gioco appena uscito per la Play Station, ma anche la zeppa che si infila sotto a un tavolo o un mobile traballante, o una persona che cerca di imitare altri senza successo. Compa’ si bell’ comme ‘a sta palla e leccame ‘a caramella che tengo acopp’. ‘O vero mast’ ‘e festa, ‘o peggio guastafeste p’e pezzott’, vengo aropp’ l’otto pecchè song’ ‘o guaje ‘e notte. […] Chesta è ‘a ricett si sì ‘nu favez’ MC, siente e statte: uno, doje, tre e quatte! Chiste so’ ‘e nummere e accussì va ‘o fatto, ‘ngopp’ ‘o beat spaccamm’ ‘o pezzotto: cinche, sei, sette e otto! (la famiglia; uno, due, tre e quatto) Donald Trump ha respinto in settimana la richiesta di un giudice di fornire informazioni sulla sorte di un migrante erroneamente deportato in El Salvador. Kilmar Abrego Garcia è stato arrestato il 12 marzo da agenti della polizia dell’immigrazione e deportato con altre duecentocinquanta persone circa, ritenute appartenenti a gang che il governo ha equiparato a organizzazioni terroristiche, utilizzando una legge che gli consente di farlo in caso di guerre o invasioni. La cosa più inquietante (oltre al fatto che questa storia non è troppo diversa da quanto accade in Italia) è che in America sta succedendo un casino per questo poveraccio che non ha nulla a che vedere con la criminalità, ma nessuno mette realmente in discussione quella che è una vera deportazione in violazione totale dei diritti umani, basata peraltro su una serie infinta di fake news. Tanti americani – ma in realtà è un’impostazione, questa, condivisa da opinioni pubbliche e governi di ogni paese, quando si parla di mafiosi, camorristi, stupratori – pensano semplicemente che essendo questi uomini terroristi, sia lecito somministrargli qualsiasi tortura usando qualsiasi metodo.  . I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per sapere […]: 1) se il Governo sia a conoscenza del fatto che, nel corso dell’interrogatorio del 2 febbraio 1982 di fronte al sostituto procuratore della Repubblica di Verona, il terrorista Cesare Di Lenardo, arrestato nella base di via Pindemonte a Padova (dove le Brigate rosse tenevano sequestrato il generale della Nato, James Lee Dozier), avrebbe dichiarato di essere stato sottoposto a tortura: bruciatura su una mano, tagliuzzamenti ai polpacci delle gambe, scosse elettriche ai testicoli, rottura di un timpano, finta fucilazione in aperta campagna, percosse, denudamento, forzato ingerimento di acqua e sale, eccetera; […] 3) se il Governo sia a conoscenza del fatto che, sui fatti denunciati, la procura della Repubblica di Padova […] ha aperto una inchiesta giudiziaria […] 4) se il Governo non ritenga che quanto sopra esposto […] contrasti totalmente con le sue smentite, tanto più essendo stati smentiti fatti di tale natura anche specificatamente e nominativamente in relazione al caso del terrorista Di Lenardo; 5) se il Governo non ritenga doveroso rettificare, di fronte alla Camera, le affermazioni non vere fatte nel corso della seduta del 15 febbraio. (boato, bonino, pinto, mellini; interrogazione alla camera dei deputati del 22 marzo 1982) (immagine da: les complotistes) Un’amica mi ha regalato qualche settimana fa un fumetto francese dal titolo Les Complotistes, facendo riferimento alla mia tendenza a vedere ovunque inganni, insidie, falsi amici e profeti (va detto che il novanta per cento delle volte il tempo mi dà ragione). Mi ero quasi offeso nel leggerlo, sentendomi accostato a terrapiattisti e company, poi per fortuna il libricino, e la mia amica, si sono salvati all’ultima tavola, quando gli autori ci fanno capire che il problema in fondo non sono le scie chimiche e i cerchi nel grano, ma il capitalismo.  (a cura di riccardo rosa)
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parola della settimana
Antigone in Grecia. Dalla pandemia di Covid-19 fino a Tempe
Cosa c’entra l’incidente ferroviario di Tempe (Larissa, Tessaglia, 28 febbraio 2023), un’orribile strage di Stato cui è seguita un’intensa mobilitazione da parte della popolazione greca, e la gestione autoritaria, militarista e criminale del Covid-19? Ce lo spiegano due antropologi greci, opportunamente introdotti dalla nostra amica antropologa Stefania Consigliere. Da https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/30104-eri-samikou-e-lazaros-tentomas-antigone-in-grecia-dalla-pandemia-di-covid-19-sino-a-tempe-la-verita-sepolta-dal-silenzio-di-stato.html ANTIGONE IN GRECIA: DALLA PANDEMIA DI COVID-19 SINO A TEMPE, LA VERITÀ SEPOLTA DAL SILENZIO DI STATO ERI SAMIKOU E LÁZAROS TENTOMAS Gli anni post-pandemici hanno reso evidente la disturbante continuità nelle strategie politiche: dalla comunicazione propagandistica alle priorità economiche, dalla militarizzazione di ogni piega della vita all’uso sfacciato della necropolitica, dalla criminalizzazione del dissenso alla manomissione del bene pubblico. A livello alto, una linea ininterrotta collega Covid-19, Ucraina e Gaza; a livello medio, essa unisce le politiche vaccinali del blocco atlantico, la corsa al riarmo dell’UE e la soppressione delle ricerche accademiche su disuguaglianza, razzismo e violenza strutturale; ma anche a livello spicciolo, su quella stessa linea inciampiamo ogni volta che sentiamo erosi i margini della vita quotidiana, dei legami di affetto e di senso, dell’autonomia individuale e collettiva. È qui che dobbiamo allenarci per tornare a sentire che niente può giustificare l’abbandono del minimo sindacale che ci rende umani: la cura dei nuovi nati, la cura delle ecologie collettive, il saluto ai morti. In questo articolo, apparso sui siti greci Kosmodromio e Edromos, due antropolog* dell’università di Atene mettono a confronto le politiche pubbliche e sanitarie in risposta a un tragico incidente ferroviario con quelle che, pochissimi anni prima, hanno deciso della vita dell’intera nazione (Stefania Consigliere) Il 28 febbraio 2023 la Grecia ha vissuto uno dei disastri ferroviari più gravi della sua storia, quando un treno passeggeri si è scontrato frontalmente con un treno merci vicino a Tempe, nella Grecia centrale. La collisione si è verificata poco prima di mezzanotte, sulla tratta Atene-Salonicco e ha causato un grave deragliamento e un enorme incendio che ha avvolto diverse carrozze, portando alla morte orribile di decine di passeggeri. Le carrozze anteriori sulle quali viaggiavano soprattutto giovani, compresi studenti universitari di ritorno dalle vacanze, hanno subito l’impatto più violento. Ufficialmente, almeno 57 persone sono state registrate come decedute, ma numerosi indizi lasciano supporre che il numero delle vittime sia maggiore. Le indagini hanno rivelato che non si tratta solo del risultato di un errore umano, ma di un crimine di Stato, poiché il Governo e le autorità competenti erano consapevoli delle importanti carenze in materia di sicurezza all’interno del sistema ferroviario greco. Le strutture della rete erano obsolete, e i controlli automatizzati inadeguati, nonostante le ripetute segnalazioni da parte dei ferrovieri. Dopo la tragedia, ci sono state accuse di insabbiamento, poiché dai rapporti è emerso come il sito dell’incidente sia stato rapidamente sepolto dai detriti (probabilmente in presenza di alcuni resti umani ancora sul posto) nel tentativo di eliminare le prove. I sopravvissuti e i familiari delle vittime hanno accusato le autorità di un’assenza di trasparenza nelle procedure di identificazione dei cadaveri, lasciando molte questioni irrisolte. Nel gennaio 2025, in una dichiarazione ai media, l’avvocato di Maria Karystianou – la presidente dell’Associazione delle Famiglie delle Vittime e dei Sopravvissuti nell’incidente di Tempe, che perse sua figlia nella catastrofe – ha denunciato la mancanza di risposte, da sei mesi, in merito alla «illegittima mancanza di alcuni rapporti medico-legali, al rifiuto di prelevare campioni biologici inclusi i test tossicologici, e alla redazione di rapporti medico-legali quasi identici tra loro che individuano un’unica causa di morte». Nel dicembre 2024, il giudice istruttore aveva già respinto la richiesta di Panagiotis Aslanidis, il padre di una vittima, che chiedeva l’esumazione del corpo di suo figlio per un’analisi del DNA e la conduzione di esami biochimici a conferma della sua identità. I corpi delle vittime rimangono al centro delle domande di verità e giustizia. Tuttavia, una rete governativa, mediatica e medico-legale sembra agire orchestrando sistematicamente l’occultamento delle prove. In un’intervista recente a Libération, Maria Karystianou ha espresso la profonda sfiducia nel sistema giudiziario greco da parte delle famiglie delle vittime: «Non abbiamo più fiducia nella giustizia del nostro Paese». Maria Karystianou ha denunciato la mancanza di trasparenza e l’omissione di prove cruciali, come registrazioni audio e documenti digitali, che avrebbero dovuto essere inclusi nel fascicolo giudiziario. Due anni dopo il disastro, non è stata fornita alcuna risposta alle famiglie in cerca di verità. Con i sopravvissuti gravemente feriti e le vittime ancora non identificate – come Erietta Molcho, che risulta ufficialmente scomparsa senza che nessun corpo sia stato ritrovato – la tragedia di Tempe rivela la portata dell’occultamento della verità. Questa situazione illustra le connessioni tra la gestione politica delle crisi e il paternalismo medico-legale: ciò che è stato ereditato dalla narrazione pandemica elaborata durante l’epidemia da Covid-19, la quale ha imposto una verità unica con il pretesto della “protezione” e del “bene comune”. Rievocando quanto accaduto in quel periodo Martha, una donna che ha perso sua madre durante la pandemia, racconta: «Era un caso grave. Non sarebbe comunque sopravvissuta a causa di un ictus. Ma hanno scritto “Covid-19” – prima “ictus”, poi “Covid-19” – sul certificato di morte. Quindi è stato applicato il protocollo Covid-19. Le pompe funebri mi hanno spiegato che ciò implicava una sacca mortuaria, un doppio involucro, del cellophane e una tuta speciale per coloro che maneggiavano il corpo, con un costo aggiuntivo di 400 euro. Il cimitero, anziché una concessione triennale, ne ha richiesta una settennale. Queste spese erano supplementari. In totale, ho pagato 400 euro in più e quattro anni aggiuntivi di concessione per la tomba. Non ho mai visto mia madre. Da quando l’hanno portata in ospedale, non l’ho mai più vista. Non ci hanno neanche concesso il tempo di un breve elogio funebre. Una sepoltura veloce, questo è tutto. Non sono ancora riuscita a elaborare il lutto». Anche Aphrodite, un’infermiera di terapia intensiva durante la pandemia di Covid-19, ha raccontato: «Con la mia esperienza professionale, ho capito velocemente che cosa stava accadendo. Ciò che chiamavano “pandemia” non riusciva a convincermi. Stavano classificando come morti per Covid pazienti con gravi patologie preesistenti. Per esempio, pazienti con tumori in fase terminale nei reparti di terapia intensiva Covid, sono stati dichiarati morti di Covid-19. Non era vero. Ho le competenze per capire di che cosa morivano realmente questi pazienti. Molti sono morti a causa di infezioni ospedaliere che provocavano un’insufficienza multiorgano, ma venivano sistematicamente registrati come decessi per Covid-19». L’ombra della gestione dei morti durante la pandemia di Covid 19 aleggia ancora sulla tragedia di Tempe. Durante la crisi di Covid-19, qualsiasi contestazione dei protocolli medici e delle restrizioni sanitarie veniva sistematicamente etichettata come “complottista”. La stessa dinamica sembra essere oggi applicata a Tempe: le bare sigillate, l’impossibilità di condurre autopsie e le procedure di identificazione dei cadaveri basate esclusivamente sul DNA, impediscono qualsiasi contestazione ufficiale sulle cause dei decessi. Questa continuità solleva numerosi interrogativi. Nel nostro libro Did We Take Our Lives Back? An Anthropological Study of the (Post)Pandemic Discourse in Greece (Alistou Mnimis Editions, 2023), abbiamo analizzato come la gestione dei decessi legati al Covid-19 abbia instaurato una logica autoritaria di classificazione delle morti. Fino alla fine del 2023, il protocollo funebre in Grecia vietava l’apertura delle bare, impedendo così le autopsie e qualsiasi indagine sulle cause dei decessi. Pochi giorni dopo il disastro di Tempe, il Ministero della Salute greco ha applicato la stessa logica ai corpi delle vittime, imponendo bare sigillate e un’identificazione da condursi esclusivamente tramite il test del DNA; ha giustificato questa decisione con la volontà di proteggere le famiglie da ulteriori forme di sofferenza. Questa misura ha impedito qualsiasi riesame indipendente sulle cause delle morti. In Antigone, Sofocle illustra l’importanza della sepoltura come diritto inalienabile, un atto di rispetto verso i morti e una sfida all’arbitrarietà del potere. Dalla pandemia sino al disastro di Tempe, il modello rimane lo stesso: uno Stato che impone bare sigillate, impedisce qualsiasi indagine indipendente e mette a tacere le famiglie in cerca di verità. Ma, come Antigone, esse rifiutano di restare in silenzio. La loro lotta per la verità è un atto di resistenza contro l’oblio e la manipolazione della storia. La dignità dei morti non può essere cancellata per decreto, né la giustizia sepolta sotto le menzogne di Stato. Questo articolo mira a mettere in luce l’intreccio tra narrazioni ufficiali e realtà nascoste. Rifiutando di accettare le narrazioni imposte, esigendo indagini trasparenti e chiedendo giustizia, la memoria delle vittime viene onorata. È nostro dovere rifiutare l’oblio e interrogare incessantemente ciò che ci viene presentato come una verità assoluta. -------------------------------------------------------------------------------- ERI SAMIKOU: ANTROPOLOGA SOCIALE, UNIVERSITÀ PANTEION, ATENE. LÁZAROS TENTOMAS: ANTROPOLOGO SOCIALE, DIPARTIMENTO DI POLITICA SOCIALE, UNIVERSITÀ PANTEION, ATENE.
Contributi
Il clown e il circo
Riprendiamo da “pungolo rosso”(https://pungolorosso.com/2025/03/29/il-clown-e-il-circo-a-bihr-j-m-heinrich-r-pfefferkorn-y-thanassekos/) e rilanciamo questo interessante dibattito, che fa il punto sulle ragioni della guerra in Ucraina tra NATO e Federazione Russa. Ci pare che le argomentazioni degli autori de “Il clown e il circo” e della redazione del Pungolo si integrino più di quanto si contraddicono: da una parte dei sani giudizi di fatto sulle preponderanti responsabilità occidentali nel provocare la guerra (giudizi di fatto tanto più necessari di fronte a una propaganda che ha compiuto e compie salti mortali per nasconderle); dall’altro la verità di fondo che ogni Stato combatte le guerre per i propri interessi di potenza. Di fronte alle attuali “manovre di pace”, condividiamo in particolare l’idea del Pungolo che “la possibilità di contrastare la tendenza alla guerra con ‘la mobilitazione delle masse in tutta Europa’ deve saper denunciare per tempo le stesse soluzioni diplomatiche, per quanto ‘ragionevoli’ possano apparire, come altrettanti passi verso un nuovo conflitto mondiale.” Qui il seguito del dibattito: https://pungolorosso.com/2025/04/06/la-replica-di-a-bihr-j-m-heinrich-r-pfefferkorn-e-y-thanassekos-italiano-francais/ [Qui in apertura l’introduzione della redazione di “Pungolo rosso”] A dispetto del titolo, ironico e scanzonato, l’articolo di Alain Bihr, J.M. Heinrich, R. Pfefferkorn e Y. Thanassekos tratta di una questione molto importante: la guerra NATO/Russia in Ucraina e la sua possibile sospensione. Diciamo “sospensione”, non “pace”, perché quest’ultima, intesa come un’organica conclusione del conflitto, ci sembra largamente irrealistica, se non impossibile. Quello che si va prospettando è dunque un congelamento delle attività belliche, che asseconda gli interessi immediati sia della Russia che, sul versante opposto, degli USA, capofila dello schieramento occidentale. Il testo collettivo che pubblichiamo ha il pregio di sottolineare alcuni punti importanti, tanto “ragionevoli” quanto mistificati e sommersi dalla martellante propaganda di guerra USA/NATO/UE e dalla russofobia isterica di cui è intrisa: primo fra questi, quello che qualifica la guerra tuttora in corso come un conflitto fra Russia e Nato, e non fra Russia e Ucraina. A seguire, gli autori richiamano alcune delle principali contraddizioni della propaganda occidentale: tale è, ad esempio, la tesi circa la pretesa intenzione di Mosca di invadere i paesi confinanti e addirittura l’Europa occidentale, nonostante, dopo tre anni di guerra, essa sia riuscita a conquistare, con notevoli sforzi, appena un quinto del territorio ucraino. E che dire dello stridente contrasto fra gli strepiti odierni sulla mancanza di sufficienti mezzi militari per contrastare la Russia e la ribadita volontà di sostenere lo sforzo bellico di Kiev affinché riconquisti i territori perduti? Per non parlare, poi, della fulminea decisione di finanziare a debito un gigantesco piano di riarmo, infrangendo il dogma ostile alla spesa in deficit quando essa riguardi salari, pensioni e servizi sociali. Il lettore troverà dunque in questo breve scritto un utile antidoto alle menzogne sparse a piene mani dai “nostri” governi negli ultimi tre anni. Allo stesso tempo, l’articolo dà un’interpretazione discutibile su molti punti-cardine, che non condividiamo. Ad esempio, nel negare, giustamente, che il conflitto sia limitato all’Ucraina, ma coinvolge invece “l’Occidente globale”, gli autori liquidano il “presunto desiderio [russo] di perpetuare o ricostituire la sua area di influenza nell’Europa centrale e orientale – e anche oltre”. Questa contrapposizione rimane all’interno delle giustificazioni “formali” della guerra, senza coglierne le radici strutturali, che risiedono nella lotta per la difesa dei reciproci interessi di sfruttamento e supremazia sullo scacchiere internazionale. Certo, in questa lotta, Mosca è partita da una situazione di svantaggio, ereditata dallo sfacelo dell’URSS e dalla conseguente espansione della NATO, ma ciò non significa affatto che la sua azione avesse e abbia motivazioni di altro tipo che la difesa della propria sfera di influenza. Anzi, quella ucraina era/è per Mosca una linea rossa non oltrepassabile proprio perché chiama in causa un’area vitale per i propri interessi. Analogamente, non condividiamo la lettura dei propositi riarmisti dell’UE e dei suoi singoli Stati come una sorta di allucinazione collettiva, il cui rischio consisterebbe nel “dar vita ad una profezia che si autoavvera”. Per quanto le cancellerie del vecchio continente versino in stato confusionale a seguito dell’inversione di rotta della nuova amministrazione USA, va detto che gli stanziamenti per la “difesa”, l’eliminazione del vincolo sul debito da parte della Germania, la decisione di alzare da subito la percentuale del PIL dedicata alle spese militari, la rapida virata verso l’economia di guerra e la conclamata volontà di utilizzare il riarmo come antidoto alla stagnazione e alla crisi economica, non rispondono alla falsa percezione di dover fronteggiare senza l’aiuto di Washington “il grande lupo cattivo russo”. Rispondono invece alla consapevolezza, che si va facendo strada, che, indipendentemente dalla struttura delle alleanze future, ogni Stato, per mantenere il suo posto al sole fra le canaglie del sistema imperialista, deve armarsi, armarsi, armarsi. E, nell’immediato, cercare, con le unghie e coi denti, di esigere la parte “che ci spetta” del bottino ucraino, che rischia di sparire per intero  nelle fauci di USA e Russia. Se, come ipotizzano gli autori, la possibilità di Mosca di vincere la pace, dopo aver vinto la guerra, passa per la convocazione di una conferenza di pace nel quadro dell’OSCE – ad oggi solo una vaga ipotesi – la possibilità di contrastare la tendenza alla guerra con “la mobilitazione delle masse in tutta Europa” deve saper denunciare per tempo le stesse soluzioni diplomatiche, per quanto “ragionevoli” possano apparire, come altrettanti passi verso un nuovo conflitto mondiale. Trasformare le condizioni verso la guerra imperialista in condizioni per la rivoluzione proletaria è l’unica strada per sfuggire davvero all’alternativa “pensioni o munizioni”, un’alternativa che, negli ultimi tempi, ha davvero fatto passi da gigante. (Red.) IL CLOWN E IL CIRCO “Se eleggi un clown, aspettati un circo” La guerra in Ucraina sta per finire come è iniziata: come un faccia a faccia tra Stati Uniti e Russia. Con una differenza : che, avendo lo scontro tra i due stati portato alla guerra, si è passati ora alla collaborazione in vista della pace. Il che, tra l’altro, dà ragione a posteriori a tutti coloro, noi compresi, che, contro l’interpretazione dominante di questo conflitto, hanno sostenuto la tesi che si trattasse effettivamente, per l’essenziale, di un conflitto tra l’Occidente globale (sotto la guida statunitense e la bandiera della NATO) e la Russia, per interposta Ucraina, e non di un conflitto tra questi ultimi due paesi generato dal presunto desiderio della Russia di perpetuare o ricostituire la sua zona di influenza nell’Europa orientale e centrale – o anche oltre. Cerchiamo qui di fare un bilancio di questi tre anni di guerra e dell’inversione di tendenza appena avvenuta, dei guadagni e delle perdite registrate dai vari protagonisti e di discernere, di conseguenza, le possibilità che si aprono a ciascuno di loro. Ubu alla Casa Bianca La guerra in Ucraina è nata dalla volontà della NATO, contrariamente agli impegni verbali assunti dopo il crollo del Muro di Berlino, di espandersi nell’Europa centrale e orientale. Perseguita nonostante le sempre più forti proteste russe durante le prime due ondate del 1999 e del 2004, questa espansione ha raggiunto un punto critico nel 2008, quando si è trattato di integrare l’Ucraina e la Georgia nell’Alleanza Atlantica, cosa che avrebbe portato quest’ultima a diretto contatto con la Russia, offrendole per una invasione l’immensa breccia  costituita dalla pianura ucraina al di là del Dniepr e minacciando la strategica base navale di Sebastopoli. Una linea rossa per Mosca, che dichiarò allora che sarebbe entrata in guerra se fosse stata oltrepassata. Gli occidentali non ne ha tenuto conto. Nel 2014, durante Euromaidan, hanno contribuito ad insediare a Kiev un governo filo-occidentale e anti-russo : cosa che ha aggravato le tensioni con le popolazioni russofone e russofile degli oblast’ orientali e di Odessa, portando alla guerra civile. Allo stesso tempo, gli occidentali hanno rigiutato sprezzantemente le proposte russe di concludere un accordo nel quadro della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE) finalizzato alla neutralizzazione (“finlandizzazione”) dell’Ucraina. Tutto questo, dopo che gli Stati Uniti si erano ritirati nel 2001 dal Trattato ABM (Anti-Balistic Missile) firmato nel 1972, e nel 2018 dal Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces) firmato nel 1988. La strada verso la guerra era ormai aperta. Per tre anni, l’Occidente ha condotto questa guerra contro la Russia, con l’intermediazione dell’Ucraina, con l’obiettivo di imporre con la forza ciò che la Russia aveva ripetutamente dichiarato di non voler accettare. Gli errori di valutazione iniziali durante l’operazione militare russa, la mobilitazione nazionale e lo slancio nazionalista della società ucraina hanno creato l’illusione che la partita potesse essere vinta e che, con il massiccio sostegno dell’Occidente, l’Ucraina potesse cacciare l’aggressore dai suoi confini. Questa illusione è stata rapidamente dissipata quando la controffensiva ucraina del giugno-agosto 2023, con il massiccio sostegno militare e logistico dell’Occidente, è fallita miseramente. Da allora, la situazione in Ucraina ha continuato a deteriorarsi, sia in termini di operazioni militari che di coesione della società ucraina stessa, a dispetto delle decine di miliardi di dollari in aiuti di ogni tipo (armi, munizioni, addestramento delle truppe, assistenza tecnica, intelligence, prestiti, incoraggiamento, ecc.) che l’Occidente ha fornito, per non parlare delle sanzioni commerciali e finanziarie inflitte all’aggressore russo. Qualsiasi osservatore lucido dello sviluppo della situazione negli ultimi mesi ha chiaro che essa non può portare che ad una sconfitta militare ucraina nel più o meno breve termine. Per evitare un simile esito la nuova amministrazione Trump ha deciso di porre fine a questa guerra concludendo, se non la pace, almeno un accordo con il nemico russo, trasformato di colpo in un avversario con cui è possibile un accordo. La ragione di fondo di questa inversione di rotta degli Stati Uniti è che l’amministrazione Trump, ancor più delle precedenti, ha come priorità delle priorità quella di affrontare la sfida costituita, ai suoi occhi, dall’ascesa della Cina, che minaccia il suo dominio globale. In questo contesto, la vicenda ucraina diventa secondaria, se non addirittura trascurabile, e deve essere liquidata nel modo più rapido ed economico possibile. In questo caso, per gli Stati Uniti si tratta di una riedizione di quanto fatto negli ultimi decenni ogni volta che sono stati tenuti in scacco, come in Vietnam nel 1973, in Iraq nel 2011, ad Haiti nel 1995 e in Afghanistan nel 2021: ritirarsi e lasciare che il caos creato dal loro intervento sia gestito dai loro alleati locali e dai precedenti nemici: in breve, lavarsene le mani. L’unica differenza è lo stile con cui lo scenario si ripete questa volta. Con l’Ubu (ri)eletto lo scorso novembre, la silenziosa vergogna di un Obama o la contrizione da coccodrillo di un Biden hanno lasciato il posto a una vistosa negazione delle schiaccianti responsabilità americane nella vicenda, con gli Stati Uniti che hanno assunto la vantaggiosa posizione della colomba per far dimenticare il loro ruolo di falco. Il palese fallimento militare ucraino viene imputato a Kiev, che non ha voluto mobilitare la gioventù del Paese per mandarla a farsi sventrare sul campo di battaglia, e ai suoi alleati europei, che non hanno messo mano abbastanza alle loro tasche né per sostenere lo sforzo bellico ucraino, né per garantire la propria difesa. Per non parlare del fatto che, in linea con il suo tropismo e il suo credo super attivistici, Trump intende recuperare la sua quota di sfruttamento del sottosuolo ucraino ricco di terre rare. Panico a Londra, Parigi, Berlino, Varsavia… … e in altre capitali europee. Perché, non avendo capito nulla di quello che è successo, stanno inventando un futuro immaginario in cui credono di dover affrontare, ormai da solie, private dell’aiuto dello zio Sam, il lupo cattivo russo. E, poiché ritengono di non avere i mezzi per farlo militarmente, l’unica opzione che prendono in considerazione o almeno favoriscono, stanno lanciando folli programmi di riarmo, buttando centinaia di miliardi di euro che solo il giorno prima affermavano di non avere se si trattava di aumentare gli stipendi, rafforzare i servizi pubblici e le strutture comunitarie, soddisfare i bisogni sociali più elementari, ecc. Tutto ciò fa presagire un nuovo ciclo di austerità crescente per le loro popolazioni, che non offrirà loro altra prospettiva se non quella di stringere la cinghia ancora un po’ per gli anni a venire, prima di “morire per la libertà”, creando fin da ora un’atmosfera da « vigilia di guerra ». Tuttavia, la natura immaginaria di questo scenario futuro è tradita dalla natura incoerente dei loro propositi. Sono le stesse persone che ora dicono che i russi sono alle nostre porte e che non abbiamo i mezzi per impedirgli di entrare con la forza, e che appena il giorno prima, se non in contemporanea, sostengono che è necessario e giusto aiutare gli ucraini, anche inviando loro delle truppe, perché è possibile sconfiggere il nemico sulle rive del Dniepr o nel Donbass. E allora la Russia cos’è ? Orco insaziabile e assetato di sangue, o colosso dai piedi d’argilla? Questo scenario è ancora immaginario perché non tiene conto della realtà dei rapporti di forza così come si presenta sul campo. Dopo tre anni di guerra, le truppe russe sono faticosamente e cautamente riuscite a conquistare appena un quinto del territorio ucraino. Una domanda degna di un problema di quinta elementare: di questo passo, quanto ci metteranno i cosacchi ad abbeverare i loro cavalli nei sobborghi di Brest e Lisbona? Immaginario, infine, perché, come prima del 2022, gli Europei non ascoltano, o non danno credito alle parole dei russi. I russi hanno ripetuto a gran voce che non avrebbero accettato le forze della NATO alle loro porte in Ucraina e che, se avessero persistito nella loro intenzione di farlo, sarebbero entrati in guerra. E così è stato. Quando, al contrario, li abbiamo sentiti dichiarare di avere altre pretese, se non sui loro immediati vicini ? per forza di cose sull’Europa occidentale? Doppiezza da parte loro? Allora perché accusarli contemporaneamente di cinismo? Il pericolo, tuttavia, è che questo scenario, per quanto immaginario, possa dar luogo a una profezia che si autoavvera. Infatti, rilanciando la corsa agli armamenti in Europa, si crea proprio una situazione favorevole alla guerra. Contrariamente al vecchio adagio romano, quando si prepara la guerra, si ottiene … la guerra! Non lo ha forse dimostrato ancora una volta l’estensione, negli anni ’90, dell’alleanza militare all’Europa centrale e orientale, che avrebbe dovuto garantire la pace? Intrappolate dalle loro posizioni “campiste” sui conflitti inter-imperialisti e internazionali, la maggior parte delle organizzazioni della sinistra e dell’estrema sinistra sta adottando questo scenario, arrivando a tacciare di filo-russismo o addirittura di filo putinismo qualsiasi presa di distanza critica. Dopo essersi già arruolati nella crociata antirussa sotto la bandiera a stelle e strisce e aver fallito nella loro missione di mobilitare le classi lavoratrici contro la guerra, si preparano a fare lo stesso cadendo nella rete dell’Union sacrée. Permettendo così all’estrema destra, d’un colpo solo, di monopolizzare il discorso contro la guerra, e offrendole un’altra opportunità di essere in consonanza con le preoccupazioni popolari e di aumentare il proprio pubblico e, cosa altrettanto disastrosa, permettendo al blocco politico-mediatico al potere di identificare come di estrema destra qualsiasi critica alle proprie posizioni. Peggio ancora, queste organizzazioni si impediscono di denunciare e lottare con le classi lavoratrici, non solo contro le molte forme di sfruttamento aggravato (in termini di salari e tasse, attraverso la crescita della disoccupazione e il deterioramento dei servizi pubblici, ecc.) per le quali queste minacce e necessità immaginarie serviranno come legittimazione “incontrovertibile”, ma anche di lottare contro il keynesismo militare, cioè un modo per rilanciare l’economia [attraverso la spesa bellica], e quindi di aumentare ulteriormente i profitti, senza aumentare la domanda di beni di consumo, a favore della sola domanda di beni distruttivi, finanziata da tasse e debito. Va da sé che di questo tipo di stimolo beneficeranno soprattutto gli Stati Uniti, il maggior esportatore mondiale di attrezzature e tecnologie militari, anche se alcuni Paesi europei possono sperare di approfittarne per aumentare la propria produzione e le proprie esportazioni (nell’ordine: Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Spagna). Blues in Kiev Ma le persone più da compatire sono ovviamente gli ucraini, gli unici che hanno dovuto entrare nella tana del leone. Sono quelli che hanno pagato il prezzo più alto, in termini di sfollamento ed esilio di massa della popolazione, di morti e distruzioni militari e civili, per il cinico gioco dell’Occidente, che ha fatto precipitare un conflitto che si è svolto sul loro territorio e in cui hanno occupato gli avamposti, presumibilmente per forzare la mano ai russi e indebolirli definitivamente. Senza dubbio hanno creduto, e credono tuttora, che questo fosse l’unico modo per difendere la loro sovranità e integrità territoriale, anche se era possibile un’altra strada, quella di un compromesso con la Russia, che avrebbe permesso loro di salvare l’essenziale sotto entrambi i punti di vista. Una strada che l’Occidente ha vietato loro di percorrere, sia prima che subito dopo il lancio dell’offensiva russa del 24 febbraio 2022: mentre alla fine di marzo era in vista un accordo russo-ucraino, è stato l’Occidente a decidere che gli ucraini dovevano abbandonarlo. E sono ancora questi ultimi che si preparano a pagare il prezzo più alto quando arriverà il momento, che non tarderà ad arrivare, di una pace forzata. D’ora in poi, la pace sarà firmata alle condizioni che i russi, vincitori sul campo, accetteranno o imporranno. Dopodiché, gli ucraini dovranno ancora pagare l’enorme debito di guerra accumulato e ricostruire il loro Paese, in parte devastato dalla guerra, con una popolazione che si è ridotta notevolmente (da 45 milioni nel 2013 a 33 milioni nel 2023). Rimuginando, nel frattempo, sull’amarezza della sconfitta e del tradimento, sulle cui ragioni avranno tutto il tempo di riflettere, ricordando il famoso monito: “Dio, proteggimi dai miei amici, che ai miei nemici ci penso io”. Il sangue freddo a Mosca La sobrietà delle ultime dichiarazioni di Mosca contrasta con i deliri megalomani di Washington, con la febbre angosciosa delle capitali europee e con l’ostinazione di Zelensky nel suo errore iniziale. Eppure la Russia avrebbe tutte le ragioni per pavoneggiarsi. Lungi dal crollare sotto l’impatto delle sanzioni commerciali e finanziarie attuate dagli occidentali, come questi ultimi avevano annunciato urbi et orbi, essendo riuscita a rimettersi in piedi dopo un inizio militare fallimentare e avendo dimostrato la solidità delle sue alleanze, in particolare con la Cina e l’Iran, al momento la Russia sembra essere la grande vincitrice di questo conflitto, a un passo dall’aver raggiunto gli obiettivi che si era prefissata. Senza dubbio sa anche che non basta vincere la guerra, deve vincere anche la pace. E per farlo, dovrà pagare il prezzo della sua vittoria. Tra questi, il fatto che l’odiata NATO, pur non riuscendo a stabilirsi in Ucraina, è ora presente lungo i 1.340 chilometri del confine comune con la Finlandia. A ciò si aggiungono i massicci programmi di riarmo che gli alleati europei della NATO (o ciò che ne rimane) stanno pianificando di intraprendere. Per non parlare dell’odio duraturo che avrà suscitato nella maggior parte della popolazione ucraina e in coloro che hanno sposato la sua causa. Se evitare l’instaurarsi di una nuova guerra fredda è nei piani russi, non c’è altra soluzione che proporre, come hanno continuato a fare dall’inizio della guerra in Ucraina, la convocazione di una conferenza di pace nel quadro dell’OSCE. Questo metterà a tacere ogni speculazione sulle loro mire espansioniste, mire di cui si faticherebbe a trovare tracce nella storia recente delle relazioni internazionali (quando mai la Russia ha intrapreso operazioni simili alla doppia invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan ?). Potranno sostenere di fronte ai nemici occidentali che non si sceglie il proprio nemico, ma è sempre con lui che si deve firmare la pace. E noi ? Di fronte alle politiche di riarmo a tutto vapore, a fronte del clima di guerra e di « vigilia di guerra » che coltivano i governi bellicisti europei con l’appoggio della grande maggioranza dei media, la sinistra, e in particolare la sinistra radicale, deve superare gli errori di ieri e dell’altro ieri. Si deve chiamare alla mobilitazione delle masse dappertutto in Europa per bloccare una politica che fa già dire a qualcuno che si deve scegliere fra «pensioni o munizioni » (w) e pavimenta la via di una possibile discesa negli abissi. Alain Bihr, Jean-Marie Heinrich Roland Pfefferkorn, Yannis Thanassekos (1) https://fr.statista.com/statistiques/688554/population-totale-ukaine/  (2) Dominique Seux, « Pensions ou munitions ? », Les Echos, 5 mars 2025.
Contributi
Rompere le righe
Nei Paesi sicuri l’unica cosa sicura è la tortura…
La campagna contro i profughi. L’Egitto e la Tunisia “paesi sicuri” nella lista preparata dalla commissione europea. Per giustificare la scelta si dice che i governi hanno promesso riforme liberali. Già, intanto ammazzano le persone nel deserto. Sicuro vuol dire che rispetta la democrazia e il diritto. È sicura la Turchia che arresta gli oppositori? L’assurda regola del 20% di Gianfranco Schiavone da l’Unità Il 16 aprile 2015 la Commissione Europea ha presentato una proposta di riforma di nuovo Regolamento (COM – 2025 – 186 finale) finalizzato a modificare alcuni articoli del nuovo Regolamento (UE) 2024/1348 (sulle procedure per l’esame delle domande) che andrà a sostituire la vigente Direttiva 2023/32/UE e che si applicherà a partire dal 12.06.2026. Le proposte hanno l’obiettivo di modificare alcuni aspetti delle procedure accelerate di frontiera e soprattutto di anticipare l’entrata in vigore delle stesse procedure accelerate nel caso di provenienza dei richiedenti asilo da paesi di origine ritenuti sicuri o provenienti da paesi terzi rispetto ai quali la percentuale di decisioni di accoglimento delle domande di asilo presentate dai cittadini di quegli stati è pari o inferiore al 20%. Premettendo che è censurabile la scelta della Commissione di volere modificare un regolamento che è in vigore ma non ancora applicabile, la prima modifica che la Commissione propone è quella di modificare l’art.61 del Regolamento procedure allo scopo di poter automaticamente dichiarare paesi di origine sicuri tutti i paesi candidati all’adesione all’Unione Europea, salvo che in tali paesi non ci siano situazioni di conflitto armato o le domande di asilo dei cittadini di tali paesi vengano accolte nell’UE con una media superiore al 20%. I candidati attuali all’adesione sono Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia. La Bosnia-Erzegovina, la Georgia e il Kosovo sono candidati potenziali. Anche la Turchia rientra tra i paesi candidati anche se i negoziati sono congelati dal 2018. Apparentemente la proposta della Commissione potrebbe sembrare ragionevole, dal momento che il primo requisito per avere lo status di candidati è aderire ai principi dell’Unione e rispettare lo stato di diritto. Un rapido sguardo alla lista degli aspiranti fa comprendere come si tratti invece di una scelta del tutto impropria che confonde criteri giuridici con criteri politici. Tra i paesi candidati figurano infatti Paesi come la Turchia nel quale le violazioni dei diritti umani sono estese e sistematiche, come reso evidente agli occhi del mondo anche dai tragici eventi delle ultime settimane. Nel 2023 oltre centomila cittadini turchi hanno presentato domanda di asilo nei paesi dell’UE, con un aumento dell’82 % rispetto all’anno precedente, divenendo la terza nazionalità più numerosa in cerca di protezione nell’UE dopo i siriani e gli afghani. È paradossale che l’UE condanni le violenze politiche in Turchia e nello stesso tempo elabori proposte normative così palesemente irragionevoli. La Commissione propone delle modifiche al testo del Regolamento procedure per consentire agli stati la facoltà (non l’obbligo) di anticipare l’applicazione di una nozione assai controversa già introdotta con il nuovo regolamento, ovvero la possibilità di applicare la procedura accelerata di frontiera ai richiedenti provenienti da un paese terzo “la cui percentuale di decisioni di riconoscimento della protezione internazionale da parte dell’autorità accertante è, stando agli ultimi dati medi annuali Eurostat disponibili per tutta l’Unione, pari o inferiore al 20 %” . Poichè si trattava appunto di una misura futura la cui applicazione sarebbe avvenuta appena a metà 2026 quasi nessuno ne ha parlato finora. È stato introdotto nell’ordinamento giuridico una sorta di criterio statistico di fondatezza della domanda che non appare compatibile con l’obbligo da parte dello Stato di condurre un esame equo e completo della domanda di asilo su base individuale. L’incoerenza logica risulta ancor più chiara se si considera che, diversamente da quanto un lettore assennato può pensare, la cosiddetta regola del 20% (che non ha, nel testo di legge, neppure un nome per definirla) non si sovrappone né sostituisce la nozione di paese di origine sicuro che continua ad essere prevista dal nuovo Regolamento procedure. Tale normativa viene giustificata come necessaria per limitare l’abuso della procedura di asilo da parte di persone la cui domanda verrà quasi sicuramente rigettata. Non ci si accorge tuttavia della irrazionalità di quanto si è proposto (e approvato); la percentuale di accoglimento della domanda di asilo che può arrivare fino al 20% (non fino al 2%) indica un tasso affatto inconsistente rendendo confusa ed incoerente la asserita ratio della norma. Inoltre, in modo del tutto arbitrario la percentuale è calcolata solo sulla base delle domande accolte in sede amministrativa e non tiene conto dei ricorsi, nonostante essi facciano pienamente parte della procedura. Nel diritto dell’Unione con la nozione di “decisione definitiva” su una domanda di asilo si deve infatti intendere l’esaurirsi, in senso di accoglimento o di rigetto, di tutte le procedure. Il vero tasso di accoglimento dovrebbe essere calcolato sulle decisioni definitive; se così fosse fatto, esso si attesterebbe sul 30%. Per comprendere quanto sia incredibile ciò di cui stiamo trattando faccio il seguente esempio: se io fossi un medico e sostenessi che una malattia che ha un tasso di mortalità del 20% o del 30% è in fondo assai poco pericolosa verrei preso per pazzo. Se invece si sostiene che un tasso di accoglimento del 20% delle domande di asilo è indice di una generale infondatezza l’irrazionalità di quanto viene sostenuto passa del tutto inosservata. La realtà della vita degli “altri” da cui dobbiamo difenderci è infatti divenuto da tempo un terreno nel quale le nozioni giuridiche, e in generale ogni forma di logica, hanno perso il loro significato lasciando il campo a disgustose (ma rimosse) forme di violenza verso esseri umani. La creazione di una lista europea di paesi di origine sicuri è nozione che non viene affatto introdotta dalla nuova proposta di regolamento presentata dalla Commissione ma è già presente nel Regolamento procedure. La nuova proposta si limita a prevedere che “I paesi terzi elencati nell’allegato II sono designati come Paesi di origine sicuri a livello dell’Unione” e li indica (si tratta di Bangladesh, Egitto, Colombia, India, Kosovo, Marocco, Tunisia). Viene così stravolta la procedura corretta che dovrebbe essere seguita per la designazione di paesi terzi come sicuri; innanzitutto la normativa che la prevede deve essere applicata (cosa che al momento non è). In seguito a ciò, sulla base della situazione oggettiva dei diversi paesi e dei criteri che la stessa normativa prevede per effettuare la designazione come paese di origine sicuro (in primis il requisito della democraticità dell’ordinamento di tali paesi) la Commissione con atti delegati potrebbe predisporre una lista di paesi di origine sicuri indicando le ragioni e le fonti che giustificano tale delicatissima scelta. Nelle premesse alla sua nuova proposta di Regolamento che già in anticipo contiene i futuri paesi di origine sicuri, la Commissione omette di indicare le sue fonti; a ognuno dei paesi indicati come di origine sicura sono dedicate più o meno dieci righe piene di affermazioni non veritiere o contestabili. Prendiamo ad esempio l’Egitto su cui la Commissione scrive che “ Il Paese ha ratificato i principali strumenti internazionali sui diritti umani (…) Nella sua strategia nazionale per i diritti umani, l’Egitto ha dichiarato l’intenzione di riformare la legge sulla detenzione preventiva, migliorare le condizioni di detenzione, limitare il numero di reati puniti con la pena di morte e rafforzare la cultura dei diritti umani in tutte le istituzioni governative. È necessaria un’attuazione efficace, ma finora sono stati compiuti progressi”. Rinvii a generici impegni e nessun riferimento alla realtà della presenza di migliaia di detenuti politici, alla repressione di ogni forma di dissenso, al fatto che la “tortura e altro maltrattamento sono rimasti metodi utilizzati regolarmente nelle carceri, nei commissariati di polizia e nelle strutture gestite dall’agenzia per la sicurezza interna” (rapporto globale di Amnesty International 2023). Sulla Tunisia, ignorando la violenta involuzione autoritaria in corso negli ultimi anni, lo stesso impedimento all’ingresso nel Paese della delegazione dei parlamentari europei avvenuto nel 2023, il pubblico linciaggio degli stranieri, specie se di colore, la mancata applicazione della Convenzione di Ginevra, la deportazione degli stranieri nel deserto documentata dal rapporto “State Trafficking” presentato il 29.01.25 al Parlamento Europeo, la Commissione scrive che la Tunisia “ha ratificato la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. In Tunisia non è in corso alcun conflitto armato e quindi non esiste alcuna minaccia di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno. In generale, non vi sono persecuzioni nel Paese”. La nozione di paese di origine sicuro viene così fatta a pezzi, ridicolizzata, stravolta, e viene sostituita da affermazioni ideologiche e da parole prive di alcun contenuto. Non posso smettere di pensare che la Commissione europea dovrebbe operare per “promuove l’interesse generale dell’Unione” nonché vigilare “sull’applicazione del diritto dell’Unione sotto il controllo della Corte di giustizia dell’Unione europea” (art. 17 del Trattato sull’Unione Europea). È inquietante leggere i testi che oggi scrive perché mai, almeno a mia memoria (che sfortunatamente non è più breve), è stato raggiunto un livello così basso.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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migranti
Cesena: Assoluzione in appello per l’opposizione alla sede fascista!
Con grande gioia riceviamo e pubblichiamo questo comunicato. Si è concluso martedì 25 marzo 2025, dopo sette anni e quattro mesi, il processo a carico di 4 compagn*, accusat* di essersi oppost* in diversi modi all’apertura della sede di Cagapound di Cesena avvenuta a gennaio 2018 in via Albertini 28/D (poi chiusa e riaperta prima in via Giorgio Amendola 9 e nel maggio 2024 in Corte Dandini 4). Inizialmente condannate in primo grado dal Tribunale di Forlì, la sentenza di Appello a Bologna ha invece assolto tutte e quattro le persone imputate, annullando quindi le iniziali condanne che (lo ricordiamo) erano: – per tre imputat* una multa di 800 euro a testa per diffamazione (nello specifico accusat* di aver diffuso un volantino che ricordava la complicità di chi concede i propri locali in affitto ai gruppi neofascisti, affisso per Cesena, con indicati nomi e cognomi dei summenzionati proprietari); – per la quarta compagna una condanna a 7 mesi di carcere per tentata violenza privata, con l’accusa di aver tentato di convincere verbalmente i proprietari a non affittare il loro negozio a un gruppo di fascisti dichiarati. Oltre alle condanne gli imputati avrebbero dovuto pagare le spese processuali anche della controparte e un risarcimento ai proprietari del locale, Daniele e Francesco Lombardini, di circa 9000 euro, dato che questi si erano costituiti come parte civile al processo, che verteva sulle testimonianze accusatorie di alcuni poliziotti e degli stessi fascisti. Il tentativo, palese, era quello di intimidire l’antifascismo militante con titoloni sui giornali locali, processi, condanne ed estorsioni da migliaia di euro. Ora aspettiamo le motivazioni della sentenza, ma possiamo già dire che questo tentativo è fallito. In questi anni di processo sono state fatte numerose iniziative per sostenere le nostre compagne e i nostri compagni: assemblee, presidi sotto al tribunale in occasione delle udienze, trekking solidali ultra-partecipati (di cui l’ultimo il 16 marzo scorso), cene e concerti benefit, cortei. E proprio uno di questi cortei vogliamo ora menzionare, nello specifico quello che si è svolto a Cesena il 13 novembre 2021, di contrasto alle politiche antiproletarie e filopadronali del governo Draghi e contro la narrazione dello Stato e dei media della gestione Covid e quella dei gruppi fascisti che volevano parlare di libertà (proprio loro!) strumentalizzando alcune delle proteste contro il green pass. In seguito a questo corteo, nato anche come momento benefit per le spese processuali delle persone indagate per l’opposizione a Cagapound, altri 3 compagn* sono stati accusati di aver sottratto una telecamere ad un digos. Nello specifico, due accusat* di rapina aggravata e resistenza a pubblico ufficiale, e un terzo accusato di favoreggiamento. Nella recente sentenza di Appello il compagno accusato di favoreggiamento è stato assolto, mentre per le altre due persone è caduta la rapina aggravata ed è rimasta una condanna a poco più di 4 mesi per resistenza a pubblico ufficiale. Di fronte all’arroganza del potere, che con le sue leggi prova a schiacciare chi protesta e chi lotta – ultimo esempio è il ddl sicurezza che il governo Meloni vorrebbe approvare definitivamente nei prossimi mesi – e allo sdoganamento odierno (anche istituzionale) delle peggiori ideologie razziste, suprematiste, militariste e fasciste a livello mondiale, bisogna continuare a mobilitarsi. La solidarietà ci dimostra che chi lotta non è mai sol*! Gratitudine e amicizia va a chi in questi anni ha continuato a sostenere chi si trovava sotto processo. I contributi solidali a sostegno delle persone assolte in appello, tolte le spese per gli avvocati, saranno usati per chi si trova ancora a fare i conti con la repressione che in questi tempi non risparmia di certo i suoi colpi. Antifasciste ed Antifascisti di Forlì e Cesena     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
antifascismo
Ayoub è stato rilasciato, ma il razzismo istituzionale in Italia resta una realtà strutturale
Dopo il fermo nella giornata di ieri e il presidio serale solidale sotto la Questura nella mattinata di oggi si è svolto il processo presso l’Ufficio Immigrazione nei confronti di Ayoub, un attivista del centro sociale Lambretta che è stato rilasciato. Qui il comunicato. Il nostro compagno è stato rilasciato, ma il razzismo istituzionale in Italia resta una realtà strutturale. Dopo una notte di fermo, il nostro compagno Ayoub è stato finalmente rilasciato. La mobilitazione è stata immediata e trasversale: la lotta e la solidarietà pagano. Siamo sollevat* ma non possiamo che ribadire quanto l’Italia continui a essere attraversata da dinamiche sistemiche di razzismo istituzionale. Quanto accaduto nelle ultime 24 ore non rappresenta un’eccezione, bensì una prassi consolidata, espressione di un dispositivo giuridico e politico che criminalizza sistematicamente le persone migranti. Non si tratta di semplici slogan o di accuse infondate. L’arresto arbitrario e il trattamento riservato ad Ayoub sono sintomatici di un regime di controllo e repressione che si alimenta della condizione di irregolarità giuridica di centinaia di migliaia di persone. Per circa un milione di persone migranti che vivono in Italia senza documenti, l’arbitrarietà dell’azione delle forze dell’ordine non è un’eccezione: è la regola. Questo regime produce una condizione esistenziale sospesa: l’impossibilità di accedere a un lavoro regolare, di stipulare un contratto di affitto, di denunciare abusi subiti, di vivere una quotidianità dignitosa. In tale contesto, la detenzione amministrativa e i rimpatri forzati appaiono come l’estrema conseguenza di un meccanismo di esclusione che opera ben prima del carcere. Ogni regime autoritario si fonda anche su forme di consenso sociale e normalizzazione. Ed è proprio attraverso episodi come quello di Ayoub – apparentemente marginali ma emblematici – che possiamo cogliere la misura della violenza sistemica, della prepotenza istituzionale, dell’erosione dello stato di diritto. Per oltre un milione di persone, l’inferno può cominciare con un semplice controllo dei documenti, in un giorno qualsiasi. Ayoub per adesso è libero anche grazie alla lotta e alla solidarietà. In vista del prossimo 25 Aprile, non possiamo che rilanciare, dunque, una riflessione profonda sul significato dell’antifascismo oggi. Se vogliamo costruire una società antirazzista, transfemminista e antifascista, è necessario smantellare – dalle fondamenta – le strutture di oppressione e discriminazione integrate nei sistemi democratici occidentali. La lotta contro i neofascismi e contro la stretta securitaria è la lotta per un’alternativa allo status quo, non un ritorno a ciò che era prima. Se voi fate il fascismo, noi facciamo la Resistenza.   (da Milano in Movimento)   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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