La vertenza di Acciaierie d’Italia, ex Ilva, è tornata nelle ultime settimane al
centro del dibattito nazionale. Una vicenda che mette in luce il nodo cruciale
dell’industria in Italia e le conseguenze dirette su migliaia di lavoratori e
lavoratrici.
L’ultimo piano del governo prevedeva lo stop del ciclo produttivo a Genova e a
Novi Ligure, con il conseguente aumento della cassa integrazione in attesa che,
a fine febbraio, nuovi privati sostituissero i commissari.
Di fronte a questa prospettiva, i lavoratori e le lavoratrici dell’ex Ilva hanno
deciso collettivamente di non sottostare ai ricatti. È nato così uno sciopero
permanente, tradotto in giornate di blocchi, cortei, occupazioni, fino alla
grande manifestazione di giovedì, che ha mostrato con chiarezza la
determinazione operaia nel rivendicare il proprio peso in una vertenza
complessa.
Il risultato concreto è stato il ritiro, seppur parziale, del precedente piano e
la conferma della produzione negli stabilimenti liguri, un segnale che la
mobilitazione dal basso può incidere sulle decisioni aziendali.
Durante la settimana di sciopero si sono registrati anche momenti di convergenza
tra le vertenze cittadine, con presenze in piazza di lavoratori Ansaldo,
Fincantieri, Ikea ed ex Ilva. Questo ha messo in evidenza una mobilitazione
cittadina più ampia, nata dalla crisi del sistema produttivo genovese e dalla
consapevolezza che le vertenze locali non sono isolate.
In questi mesi, Genova si è confermata laboratorio di conflitto e resistenza,
con portuali, operai siderurgici e lavoratori di altri settori capaci di
coordinare iniziative diffuse e solidarietà concreta. Nonostante questo, non
siamo di fronte a un ritorno della classe operaia, si tratta piuttosto di
momenti di lotta che trovano terreno in un determinato contesto e grazie anche a
un lavoro politico e sindacale costante e incisivo, che dimostrano il potenziale
della mobilitazione dal basso e la necessità di costruire pratiche di lotta
capaci di diventare comprensibili e attraversabili.
Source - InfoAut: Informazione di parte
Informazione di parte
Siamo alla vigilia della conferenza stampa istituzionale che dovrebbe
ufficializzare l’avvio del cronoprogramma del tirocinio-lavoro.
da Movimento di Lotta – Disoccupati 7 Novembre
Nel primo pomeriggio di venerdì 5 dicembre Maria, Eddy, Dario, Vincenzo, Enrico,
Marco, Luigi, Davide, tutte/i compagne/i del nostro movimento dei disoccupati
organizzati sono state/i condannate/i in primo grado a due anni e due mesi di
reclusione per un’iniziativa di lotta nel 2019 al Teatro Sannazzaro, dove
chiedemmo di intervenire in occasione dell’inaugurazione della campagna
elettorale delle europee del PD e dove era prevista la presenza di Nicola
Zingaretti, del Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca e di altri
esponenti al convegno “Prima il Lavoro in Europa”.
La lotta per il salario, per la giustizia sociale, per il lavoro socialmente
utile contro precarietà, contro lo sfruttamento, i salari da fame, i ricatti, il
lavoro povero viene criminalizzata e condannata da un lato (dove prosegue il
maxiprocesso e continuano ad arrivare gli avvisi orali, le condanne e le
denunce) mentre dall’altra compie concreti passi in avanti per il futuro di
oltre mille disoccupati/e in città.
Nuova giornata di sciopero contro il servizio militare da parte di studenti e
studentesse tedeschi, mentre si votava nelle aule del Bundestag la riforma della
leva del governo di Friedrich Merz.
Approvata, nella tarda mattinata di venerdì, la leva militare che resta
volontaria, ma tutti i giovani di sesso maschile tedeschi saranno obbligati a
rispondere ai formulari dell’esercito e sottoporsi alla visita di leva. 323 sì,
272 no e una astensione.
Contro il riarmo, la guerra e la militarizzazione della società, studenti-esse
portano avanti uno sciopero storico, visto che normalmente gli istituti
superiori non sono attraversati da un particolare attivismo e protagonismo. La
nuova legge del Governo tedesco, però, è riuscita a mobilitare oltre 100 piazze
oggi.
Il collegamento dalla mobilitazione studentesca a Berlino con Ivana, studentessa
italiana in Germania e dell’organizzazione giovanile socialista Young
Struggle. Ascolta o scarica.
Aggiornamento ore 16: il bilancio delle manifestazioni con Ivana di Young
Struggle.Ascolta o scarica
da Radio Onda d’Urto
Torna disponibile in una nuova edizione ampliata, nella collana Femminismi di
ombre corte, L’arcano della riproduzione di Leopoldina Fortunati, uno dei testi
di riferimento nella teoria femminista marxista italiana — e non solo.
da Machina
Scritto nel 1981, all’indomani del violento attacco repressivo ai movimenti
sociali in Italia, il libro raccoglie le riflessioni elaborate negli anni della
lotta femminista del decennio precedente e porta al centro il tema
della riproduzione sociale come fulcro della produzione capitalistica. In
dialogo serrato con Marx e il marxismo, e facendo propria l’elaborazione
politica della campagna per il Salario al lavoro domestico, Fortunati costruisce
una delle prime e più radicali sistematizzazioni dell’analisi del lavoro
riproduttivo.
La nuova edizione, arricchita da un lungo capitolo conclusivo in cui l’autrice
porta alla prova del presente le riflessioni e le categorie analitiche elaborate
nell’Arcano, si presenta come un’occasione politica oltre che editoriale:
l’opera di Fortunati continua, infatti, a interrogarci su questioni cruciali —
cos’è la riproduzione sociale e come si articola nel capitalismo contemporaneo
il rapporto tra produzione e riproduzione? Possiamo ancora parlare di «operaia
della casa»? Come si rapporta l’analisi della riproduzione alle nuove sfide
teoriche e politiche che attraversiamo nella congiuntura presente di guerra,
genocidio e sfruttamento?
Oggi Fortunati è anche tra le figure chiave del Reproductive Labor Network, un
network internazionale di ricerca e attivismo che indaga il lavoro riproduttivo
— dalla cura domestica al lavoro affettivo, dalla maternità alla mercificazione
dei corpi — promuovendo analisi marxiste-femministe e progetti collettivi di
trasformazione.
Il brano che segue è la traduzione di un testo del 2013 in cui Fortunati
ripercorre la propria formazione politica, il rapporto con l’operaismo, le
urgenze dei femminismi in quegli anni e le tensioni irrisolte di quella
stagione. Sono elementi indispensabili per comprendere non solo la genesi
de L’Arcano, ma anche la sua attualità: immaginare oggi un femminismo
materialista capace di leggere i processi di valorizzazione della
femminilizzazione e di assumere il femminismo come strumento rivoluzionario in
grado di riattivare l’articolazione tra genere e classe. Perché, come
scriveva, «a noi non interessa liberarci dal lavoro domestico per assimilarci
allo sfruttamento dell’operaio. Né ci interessa cambiare il tipo di sfruttamento
cui siamo soggette per poterci dire emancipate […] è la strada esattamente
opposta a quella percorsa da questo saggio che vede come momento centrare della
strategia politica femminista non la lotta per il lavoro extradomestico, ma la
lotta organizzata contro il lavoro, per la definitiva distruzione del lavoro non
direttamente salariato, oltre che di quello salariato» (pp. 8-9).
Traduzione e corsivo a cura di Chiara Luce Breccia.
Il testo è tratto da Learning to struggle: my story between workerism and
feminism – Leopoldina Fortunati | libcom.org.
***
Quando ho incontrato l’operaismo avevo diciannove anni ed ero una militante del
movimento studentesco dell’Università di Padova. All’inizio ero molto giovane e
ascoltavo più che parlare. Ricordo bene quante volte avrei voluto intervenire
nelle assemblee, ma ero timida e insicura e alla fine preferivo restare in
silenzio.
I leader del movimento erano studenti con esperienze politiche precedenti,
spesso già legati a partiti o organizzazioni. Io invece avevo solo le mie
convinzioni: volevo un mondo più giusto, libero ed eguale. La mia unica
esperienza politica era stata, a quattordici anni, la partecipazione agli
scioperi contro i test nucleari francesi nel Pacifico. Frequentavo il liceo Tito
Livio di Padova, e gli studenti in sciopero erano pochissimi. Ricordo il preside
che cercò di prendermi per un orecchio per farmi rientrare in classe: io mi
liberai e gli risposi che non poteva trattarmi così. Tutti gli studenti
coinvolti furono puniti, con conseguenze che comportarono un ritardo nel loro
avanzamento scolastico.
La seconda grande esperienza che mi ha preparato alla militanza politica è stata
dichiararmi atea a 16 anni. Vivevo con la mia famiglia a Dolo, un piccolo paese
tra Padova e Venezia, e la mia famiglia era molto cattolica. Guardandomi
attorno, vedevo talmente tanta povertà e ingiustizia, e una Chiesa che faceva
troppo poco. La mia presa di posizione, che era soprattutto contro il ruolo
della gerarchia ecclesiastica, fu inizialmente uno shock per i miei genitori,
che alla fine la accettarono.
A diciott’anni decisi di lasciare casa per essere indipendente mentre studiavo
all’università. Non tanto perché i miei genitori non avessero i mezzi per
sostenermi, al contrario, erano benestanti. Il punto era che volevo avere più
controllo sulla mia vita e vivere senza privilegi. Ho fatto un sacco di lavori
diversi: commessa in una libreria, rappresentante d’arte, bibliotecaria
all’università. In quel periodo i miei genitori piangevano spesso: dal loro
punto di vista, la loro unica figlia (avevo tre fratelli) era la più ribelle e
affrontava la vita in una maniera che le avrebbe creato difficoltà.
Quando entrai all’università, nella Facoltà di Lettere, il movimento studentesco
era in piena espansione. Era un movimento straordinario: voleva reinventare la
vita quotidiana e la società, a partire dal cambiamento dell’università. Mi unii
subito, con entusiasmo. In quanto studenti, però, eravamo isolati dal resto
delle persone, specialmente dai lavoratori, che in quel periodo erano impegnati
nelle loro lotte. Per questo motivo decisi di partecipare alle lotte dei
pendolari e dei magazzinieri.
I pendolari chiedevano che il tempo di viaggio fosse riconosciuto come tempo di
lavoro, e non come un problema personale. I treni erano i peggiori di tutte le
ferrovie dello Stato: fatiscenti e sempre in ritardo, senza alcun rispetto per i
lavoratori – per esempio, se c’era un ritardo, nessuno informava le persone sul
perché o su quando effettivamente sarebbe arrivato il treno. I lavoratori dei
grandi magazzini chiedevano salari più alti e condizioni di lavoro più umane, a
partire da un orario più breve. Partecipare a queste lotte mi forzò a
comprendere meglio il ruolo dei lavoratori nella società capitalista e a
riflettere su come capire meglio questo ruolo.
In quel periodo seguii un seminario di Ferruccio Gambino su Il Capitale di Marx,
alla Facoltà di Scienze Politiche. Finalmente iniziai a comprendere il
significato di molte categorie e concetti che venivano usati nel movimento, ma
che per me erano sempre rimasti vaghi. Le cose più importanti che imparai
durante quelle lezioni furono concetti di base come classe, capitale, classe
operaia, lavoro produttivo e improduttivo, plusvalore, e via dicendo,
reinterpretati alla luce del presente, capace quindi di cogliere i cambiamenti
prodotti dal capitale nella storia. La lettura proposta da Ferruccio era molto
diversa dalla visione ortodossa elaborata dal Partito Comunista Italiano.
Mi resi presto conto che, in questo contesto, c’era una grande intelligenza
politica nel confrontarsi con il presente, ma anche nel comprendere il passato,
e che il gruppo Potere Operaio e il suo discorso offrivano una formidabile
cassetta degli attrezzi per tutti i militanti nelle loro lotte politiche. E
soprattutto, questo gruppo era impegnato a costruire un’organizzazione dove
studenti e lavoratori potessero trovare uno spazio per unirsi. In quel momento,
il grande problema era rompere le barriere sociali che separavano ostinatamente
gli studenti dai lavoratori, sia quelli nelle fabbriche che tutti gli altri.
Comunque, questo Marx ripensato, nonostante la sua forza rispetto
all’ortodossia, rimaneva cieco rispetto all’esperienza delle donne. Il discorso
di Potere Operaio rimaneva d’avanguardia quando si trattava di nuove fabbriche e
del nuovo ruolo dei lavoratori nel sistema capitalista contemporaneo, ma
ignorava tutto ciò che riguardava il lavoro domestico, le relazioni, le
emozioni, la sessualità, l’educazione, la famiglia, la socialità e così via.
Non mi piace troppo parlare dei limiti di Potere Operaio; come femministe li
abbiamo contestati e criticati in varie maniere per la loro mancanza di
consapevolezza riguardo alla condizione sociale delle donne. Ma, comunque, penso
che i militanti di quel movimento facessero davvero di tutto per allargare il
campo degli attivisti e per attrarre diverse sezioni di classe, dagli operai
agli impiegati, dagli studenti dei licei agli insegnanti. E hanno fatto davvero
dei progressi enormi nell’espandere il discorso politico oltre l’ortodossia
marxista. Hanno reso la tradizione marxiana qualcosa di dinamico e utile
nell’analizzare e comprendere la società della seconda metà del XX secolo. Hanno
insegnato a tutti i militanti, me compresa, l’abilità di usare Marx senza
temerlo. La mia partecipazione in Potere Operaio è stata limitata, in ogni caso,
perché ad un certo punto ho iniziato a organizzarmi con l’emergente gruppo di
Lotta Femminista.
A quel punto avevo 22 anni. Nel frattempo, ero cresciuta, avevo imparato molto,
avevo superato la mia timidezza nel parlare in pubblico, e avevo capito che era
arrivato il momento di dare un significato politico anche alle mie scelte
personali. La lotta quotidiana che molte donne avevano intrapreso per cambiare
la propria condizione e la società intera aveva bisogno di una cassa di
risonanza e di una forza unificante che ne aumentasse il potere. Questa forza fu
la scoperta della coscienza di classe, che servì alle organizzazioni politiche
per organizzare le loro lotte sociali. Lotta Femminista portò l’esperienza
operaista al movimento femminista.
A partire da questa esperienza politica, decisi di dedicare tutti i miei sforzi
ad analizzare le condizioni delle donne tramite la chiave di lettura
dell’economia politica marxiana, riconsiderando le categorie marxiste alla luce
dell’esperienza politica femminista. Scrissi L’arcano della riproduzione, spinta
dalle esigenze della lotta femminista. Mi aiutarono molto Mariarosa Dalla Costa
e Sandro Serafini (di Potere Operaio), che lessero e discussero il testo
capitolo per capitolo.
Questo libro discuteva i principali temi politici dibattuti all’interno del
movimento all’epoca. Dovevamo gestire il dibattito pubblico e politico
all’interno dei nostri gruppi, all’interno del movimento femminista e nel più
ampio movimento, composto da studenti e organizzazioni politiche come Potere
Operaio e Lotta Continua. Avevamo bisogno di fare chiarezza e spiegare, prima a
noi stesse e poi all’intero movimento, perché i militanti avessero bisogno di
andare oltre le categorie marxiane e in che modo. Per esempio, in che modo le
donne possono essere considerate classe operaia? Quali donne?
Lotta Femminista è sempre stata una tendenza minoritaria all’interno del più
ampio movimento femminista, perché le donne nel movimento femminista erano
inizialmente comprensibilmente diffidenti verso qualsiasi teoria politica
sviluppata nelle tradizioni politiche maschili.
Tuttavia, per me l’ironia sta nel fatto che l’intero movimento femminista
sarebbe stato molto più forte se avesse condiviso la proposta politica del
«salario al lavoro domestico» (cioè, lavoro di cura, educazione, assistenza,
genitorialità), piuttosto che assumere, senza davvero saperlo, la strategia
leninista di combattere per il lavoro oltre il lavoro domestico, in modo da
assicurarsi uno stipendio. Ma era molto difficile per il gruppo del Salario al
lavoro domestico trovare consenso con la loro proposta, perché le femministe
tendenzialmente pensavano fosse meglio rifiutare il lavoro domestico in toto,
fuoriuscendo così dalle case.
In questo periodo, noi femministe operaiste non siamo state capaci di convincere
l’intero movimento che il rifiuto del lavoro dovesse passare da un processo di
contrattazione salariale, altrimenti il lavoro domestico sarebbe tornato in
un’altra forma insieme al lavoro fuori dalla casa, che rimaneva comunque un
orizzonte di lotta. In altre parole, il movimento femminista non ha mai incluso
nel suo programma politico generale il nostro obiettivo di ottenere per prima
cosa un riconoscimento sociale del valore del lavoro domestico tramite il mezzo
del salario. La strategia che le femministe applicavano al lavoro domestico
passava semplicemente dal rifiuto di questo. Ma dopo poco è diventato chiaro che
questa strategia non era sufficiente, perché non era capace di far sparire il
lavoro domestico su scala di massa.
Il movimento femminista ha avuto il grande merito di dare alle donne un potere
di contrattazione a livello sociale. Ma, come avevamo anticipato, il problema
del lavoro domestico non è sparito dall’agenda politica delle donne.
Sfortunatamente, una riflessione sul fallimento di questa strategia non è ancora
stata fatta. Nuove generazioni di donne hanno bisogno di imparare da questo
errore politico e capire che il lavoro domestico, nei suoi aspetti materiali e
immateriali, deve essere riconosciuto socialmente come lavoro produttivo.
*Da: Learning to struggle: my story between workerism and feminism – Leopoldina
Fortunati | libcom.org
***
Leopoldina Fortunati tra le protagoniste della campagna per il salario al lavoro
domestico e figura centrale del femminismo materialista europeo, è Senior
Professor di Sociologia della Comunicazione all’Università di Udine. Fra le sue
pubblicazioni più influenti figurano L’arcano della riproduzione (1981), scritto
all’interno del dibattito sul lavoro riproduttivo; Il grande Calibano (con
Silvia Federici, 1984), testo chiave sulla genealogia della subordinazione
femminile; e volumi pionieristici negli studi su media e tecnologie come Gli
Italiani al telefono (1995) e Telecomunicando in Europa (1998).
Nonostante la campagna di sterminio contro la popolazione palestinese della
Striscia di Gaza, Arma dei Carabinieri e Polizia di Stato continuano ad
equipaggiare i propri reparti di pronto intervento rifornendosi presso le più
importanti aziende israeliane.
di Antonio Mazzeo, da Pagine Esteri
L’11 novembre 2025, in occasione di “Milipol”, l’esposizione internazionale
delle attrezzature per le forze di polizia che si tiene annualmente in Francia,
l’azienda SOURCE Tactical Gear di Tirat Carmel (distretto di Haifa) ha
annunciato che fornirà ai Carabinieri italiani 15.000 giubbotti antiproiettile
predisposti specificatamente per il personale femminile. I giubbotti saranno
dotati di particolari tasche ad accesso rapido e da combattimento ACCS per
“migliorare la protezione dei militari e le prestazioni operative”.
Secondo quanto riportato dalla testata specializzata IsraelDefense, il valore
della commessa è di 8.685.000 euro. I giubbotti saranno acquistati con fondi del
Ministero dell’Interno italiano per essere poi consegnati all’Arma dei
Carabinieri. SOURCE Tactical Gear assicura che i giubbotti antiproiettile
offriranno la “piena copertura balistica e la protezione dalle coltellate
mantenendo la superiorità ergonometrica ed il comfort”.
“I nostri giubbotti sono appositamente realizzati per adattarsi all’anatomia
femminile: sono sagomati sul petto, sulla vita, sui fianchi e sulle spalle”,
afferma il manager del settore marketing di SOURCE, Dovik Gal. “Il risultato
conferisce un’ottima protezione, ventilazione e sicura performance in ogni
scenario operativo, dai pattugliamenti e le missioni a bordo di veicoli al
controllo della folla. L’equipaggiamento consente tempi di reazione rapidissimi,
una maggiore resistenza e la sicurezza del personale durante le operazioni di
ordine pubblico in ambito urbano”.
Quella annunciata a Parigi non è purtroppo la prima fornitura alle forze di
polizia militare italiane di equipaggiamento made in Israel. Da quanto
verificato nell’archivio on line dell’Arma dei Carabinieri, il 13 marzo 2024
l’Ufficio approvvigionamento del Comando generale ha avviato l’iter di gara per
l’acquisizione di 5.000 giubbotti antiproiettile in conformazione femminile con
una spesa presunta di 5.569.300 euro, IVA compresa. Il bando prevedeva il
diritto di opzione, limitatamente al biennio successivo al contratto iniziale,
per l’approvvigionamento di ulteriori 3.000 giubbotti. Il 20 agosto 2024 il
lotto da 5.000 giubbotti è stato aggiudicato alla SOURCE Vagabond Systems Ltd.,
società dell’omonimo gruppo SOURCE di Tirat Carmel, che ha offerto lo sconto
percentuale del 7% sul prezzo posto a base di gara.
La Source Vagabond Systems Ltd. è nota a livello internazionale per la
produzione di sandali e attrezzature da trekking e sportive e di zaini e
vestiario destinati al personale militare (in particolare il SOURCE Virtus
Soldier System, venduto alle forze armate israeliane e al ministero della Difesa
del Regno Unito per il British Army).
Il Gruppo SOURCE è stato fondato nel 1989 dagli imprenditori israeliani Yoki
Gill e Daniel Benoziliyo. Attualmente fornisce sistemi di protezione tattica e
balistica, idratazione corporea in ambienti CBRN
(chimici-batteriologici-radiologici-nucleari) e soluzioni modulari per il
trasporto del carico. I prodotti SOURCE sono progettati da ex ufficiali dei
reparti speciali delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) e sono stati venduti
alle forze armate e di sicurezza di Corea del Sud, Francia, Germania, Gran
Bretagna, Israele, Singapore, Svezia e Stati Uniti d’America (il Corpo dei
Marines ha acquistato 250.000 sacchi idratanti da 3 litri). I manager SOURCE
rivendicano di aver equipaggiato le forze da combattimento israeliane con i
propri zaini da 90 litri e con le sacche d’acqua tattiche da tre litri, in
occasione della sanguinosa campagna “Piombo Fuso” del 2008-2009 contro la
Striscia di Gaza.
La rivista IsraelDefense ha pure riportato che “parallelamente alla commessa
recentemente vinta da SOURCE, la società israeliana Marom Dolphin consegnerà 500
elmetti balistici alle forze di pronto intervento della Polizia italiana”. La
rivelazione trova riscontro documentale nell’archivio on line del Ministero
dell’Interno. Il 26 marzo 2025 la Direzione Centrale dei Servizi tecnico
logistici della Polizia di Stato ha infatti aggiudicato l’acquisizione di “500
caschi antiproiettile (6° lotto) completi di visiera per U.O.P.I.” (si tratta
delle Unità Operative di Primo Intervento, le squadre speciali della Polizia
addestrate per intervenire in situazioni ad alto rischio, come minacce
terroristiche, attacchi violenti o criminalità con soggetti armati e barricati).
La commessa è stata affidata alla Prima Armi Srl in qualità di “ausiliaria”
della società israeliana Marom Dolphin Ltd., per il valore di 318.250 euro, IVA
esclusa.
Al bando di gara avevano partecipato anche due aziende italiane, la Raleri Srl
di Bologna e la Protos Srl di Taranto, ambedue escluse dalla Commissione
aggiudicatrice per non aver prodotto i documenti “coerenti” alla richiesta (la
prima) e per la “non conformità del campione presentato” (la seconda). In prima
battuta l’offerta della Prima Armi Srl era risultata “anomala” in quanto sia il
punteggio ottenuto relativo al prezzo offerto, che quello ottenuto dalla
valutazione dell’offerta tecnica “avevano superato i quattro quinti dei punteggi
massimi ottenibili tecnici ed economici”. Poi però la Commissione della Polizia
di Stato, “alla luce delle giustificazioni prodotte dalla Società relativamente
all’offerta formulata”, aveva ritenuto la medesima “congrua, seria, sostenibile
e realizzabile”.
La Prima Armi Srl ha sede a Pinasca (Torino) e ha registrato un fatturato nel
2024 di 3.660.000 euro. La società è “distributrice unica” in Italia della
israeliana Marom Dolphin. Con sede e stabilimenti nella zona industriale di Alon
Tavor di Afula (distretto settentrionale di Israele, nella piana di Esdraleon,
al confine con la West Bank), la società è stata fondata nel 1993 da un gruppo
di esperti con l’obiettivo di sviluppare soluzioni avanzate per il settore della
sicurezza e della difesa, in “stretta collaborazione con le forze armate e di
polizia israeliane, utilizzando il loro feedback per migliorare continuamente i
propri prodotti”.
Ad oggi la Marom Dolphin ha fornito equipaggiamenti alle forze di sicurezza,
militari e alle agenzie governative di una cinquantina di paesi. Realizza in
particolare giubbotti antiproiettile, zaini militari, cinture tattiche, elmetti,
sistemi automatizzati e robot armati.
Genova. La rabbia operaia continua a riempire le strade della città ligure
contro il (non) piano del governo Meloni sul destino di migliaia di operai
ex-Ilva e sul futuro del comparto siderurgico in Italia.
Dopo i blocchi stradali e l’occupazione dell’aeroporto, i sindacati dei
metalmeccanici, Fiom e Fim, hanno indetto per oggi, giovedì 4 dicembre, uno
sciopero generale territoriale. Aderiscono gli operai di tutte le fabbriche del
settore in solidarietà ai colleghi dell’Ilva. Il corteo, diretto in Prefettura,
ha trovato sul suo percorso le barriere di metallo e i mezzi blindati della
polizia. Gli operai, con tanto di mezzi da lavoro, hanno provato ad avanzare
comunque, sfondando le reti. La celere ha risposto con un fitto lancio di
lacrimogeni.
L’aggiornamento delle ore 12 con Roberto, di Genova City Strike. Ascolta o
scarica.
Gli operai, a fine mattinata, sono poi ripartiti in corteo dirigendosi verso la
Stazione Genova Brignole, dove hanno occupato l’atrio di ingresso.
Il commento a inizio mattinata con Bruno Manganaro, oggi segretario del Sunia
Genova, per anni segretario generale della Fiom del capoluogo ligure. Ascolta o
scarica.
da Radio Onda d’Urto
Altri due carabinieri sono stati iscritti nel registro degli indagati con le
accuse di aver fornito false informazioni al pubblico ministero e di falso
ideologico in atti pubblici nell’ambito dell’indagine sulla morte di Ramy
Elgaml, il 19enne del quartiere Corvetto di Milano morto lo scorso novembre dopo
essere caduto dal motorino su cui viaggiava con un amico durante un inseguimento
da parte dei carabinieri.
da Osservatorio Repressione
I due militari appartengono al nucleo radiomobile intervenuto quella notte. Non
è ancora chiaro a quali episodi si riferiscano esattamente le contestazioni, ma
è verosimile che l’accusa di false informazioni riguardi le dichiarazioni
fornite ai magistrati come persone informate sui fatti, mentre il presunto falso
ideologico riguarderebbe il verbale redatto subito dopo la morte di Ramy Elgaml.
Complessivamente salgono a sette i carabinieri indagati, anche se uno solo è
accusato di omicidio stradale: si tratta di Antonio Lenoci, alla guida dell’auto
che stava inseguendo Ramy. Con la stessa accusa è indagato Fares Bouzidi, che
guidava lo scooter su cui viaggiava il 19enne. Gli altri militari sono invece
coinvolti in una seconda indagine per presunto depistaggio: sono accusati di
aver fatto cancellare un video girato da un testimone che mostrava il momento
della caduta, ritenuto importante perché una delle prime ipotesi era che fosse
stata provocata da un contatto tra l’auto dei carabinieri e il motorino,
circostanza su cui le perizie finora effettuate hanno fornito risultati
contrastanti.
Sullo sfondo di queste indagini ancora aperte pesa la decisione del Comune di
Milano di attribuire l’Ambrogino d’Oro proprio al Nucleo Radiomobile coinvolto
nell’inseguimento che portò alla morte di Ramy. Una scelta non solo inopportuna,
ma politicamente grave: avviene infatti nello stesso anno dell’episodio, mentre
le responsabilità non sono ancora state accertate e persistono zone d’ombra
nelle ricostruzioni ufficiali. L’inseguimento stesso – privo di motivazioni
solide e segnato da versioni contraddittorie – solleva interrogativi profondi
sull’uso della forza, sulla legittimazione di pratiche rischiose e sul clima
sociale in cui certe azioni trovano copertura. Per la famiglia di Ramy, per chi
chiede verità e giustizia e per una parte della città, questo riconoscimento
rischia di trasformare un caso ancora aperto in una narrazione già chiusa,
spostando l’attenzione dalla ricerca dei fatti alla celebrazione
dell’istituzione coinvolta. Ed è proprio contro questa normalizzazione che molti
continuano a mobilitarsi: perché una medaglia non cancelli le responsabilità, né
impedisca che su quella notte si faccia piena luce.
Martedì 2 dicembre, durante l’assemblea popolare, i/le giovani No Tav, hanno
fatto un importante annuncio: casa Zuccotti, dopo essere stata espropriata da
Telt, torna a nuova vita.
da notav.info
Il 20 novembre l’immagine della signora Ines in lacrime mentre la ditta Effe2
iniziava la devastazione della sua casa, ha lasciato un segno in tutti e tutte
noi. Sanitari spaccati, tetto sventrato, griglie metalliche alle finestre: in un
attimo 50 anni di vita spezzati.
Il presidio non è solo una risposta all’emergenza: è un modo per riprenderci
spazio e dignità. È dire con chiarezza che qui nessuno sarà lasciato solo, che
non accetteremo l’ennesima violenza su un territorio che da decenni porta sulle
spalle il peso di decisioni imposte. È il gesto concreto di una comunità che si
rialza e si difende insieme.
Invitiamo tutti e tutte a passare, portare presenza, idee, cibo caldo, legna da
ardere, musica e parole. A far vivere questo luogo ogni giorno, perché un
territorio che resiste insieme è più forte di qualsiasi grande opera imposta.
Dove abbattono case, noi costruiamo resistenza!
L’8 dicembre 2005 può avvenire tutti i giorni, per questo continueremo a
marciare nella nostra Valle contro quest’opera devastatrice.
A SAN GIULIANO NASCE IL NUOVO PRESIDIO PERMANENTE
A San Giuliano sta succedendo qualcosa che riguarda ognuno di noi: un intero
pezzo di territorio viene messo sotto pressione, tra espropri, prese di possesso
di case, futuri cantieri e decisioni calate dall’alto che ignorano la vita delle
persone che qui abitano e abitavano.
Le case non sono “interferenze” su una mappa: sono storie, relazioni, comunità.
E proprio per questo non possono essere trattate come un ostacolo da aggirare in
nome di un’opera che continua a chiedere sacrifici senza restituire nulla.
Negli ultimi giorni abbiamo visto la rabbia e la disperazione di chi ha perso la
propria abitazione, ma abbiamo visto anche la forza collettiva di chi non è
disposto a farsi spazzare via. Da qui nasce la scelta di costruire insieme un
presidio permanente alle case di San Giuliano: un luogo vivo, aperto,
attraversabile, in cui difendere le case e vegliare sulla nostra terra, ma anche
rafforzare legami, informare e organizzare resistenza.
Il presidio non è solo una risposta all’emergenza: è un modo per riprenderci
spazio e dignità. È dire con chiarezza che qui nessuno sarà lasciato solo, che
non accetteremo l’ennesima violenza su un territorio che da decenni porta sulle
spalle il peso di decisioni imposte. È il gesto concreto di una comunità che si
rialza e si difende insieme.
Invitiamo tutti e tutte a passare, portare presenza, idee, cibo caldo, musica,
parole. A far vivere questo luogo ogni giorno, perché un territorio che resiste
insieme è più forte di qualsiasi grande opera imposta.
Dove abbattono case, noi costruiamo resistenza!
A San Giuliano non è finita, la comunità resta, sorveglia e lotta!
Il centro sociale Askatasuna di Torino è tornato al centro del dibattito
politico nazionale dopo l’azione alla redazione de La Stampa del 28 novembre
durante la manifestazione nel giorno dello sciopero generale indetto dal
sindacalismo di base contro la finanziaria di guerra e il genocidio in
Palestina.
Diverse centinaia di giovani sono usciti dallo spezzone di Torino per Gaza e
hanno fatto irruzione nella sede del giornale. Bilancio, due scritte sui muri,
letame lasciato davanti alla sede, qualche foglio di carta buttato per terra.
Poco dopo il CUA – Collettivo Universitario Autonomo vicino al centro sociale
rivendicava di fatto l’azione sui social come ” sanzionamento alla sede della
Stampa, versati chili di letame sui giornalisti complici. “La stampa di tutto
il paese in questi giorni ha dipinto Mohamed Shahin come uno spaventoso
terrorista, aderendo alle veline commissionate direttamente dalla Digos su
volere del governo. Torino, che conosce Shahin meglio di chiunque altrə, sa bene
distinguere la verità dalla prezzolata propaganda sionista. La verità la
scrivono le milioni di persone che in tutta Italia hanno partecipato ai cortei
che denunciano le complicità dei nostri politici con lo stato di Israele e
l’industria bellica, sapendo che gli unici terroristi sono loro. Mohamed è uno
di noi”. Il comunicato terminava con l’invito a partecipare alle 18 al presidio
di Piazza Castello per Shahin partecipato da migliaia di persone.
Senza voler generalizzare l’azione è stata definita in maniera bipartisan come
“assalto squadrista e attacco alla liberta’ di stampa”. Non sono mancati
paragoni con l’assalto alla sede della Cgil da parte di Forza Nuova durante una
manifestazione No Green Pass del 9 ottobre 2021 a Roma. Gli assalitori
devastarono violentemente il piano terra della sede sindacale, destinato alla
redazione della pubblicazione sindacale “Collettiva”. Vennero così distrutti
vetri, mobili, computer. Altre testate hanno paragonato l’azione con l’assalto
alla sede del giornale socialista Avanti! che avvenne a Milano il 15 aprile
1919. L’assalto si concluse con la devastazione della redazione e della
tipografia e ci furono anche dei morti.
A livello locale l’azione e’ stata usata in maniera strumentale per mettere nel
mirino il CS Askatasuna. Il centrodestra regionale parla di «base logistica» per
i violenti, mentre il ministro Giuli, il 1 dicembre ha portato la sua
solidarieta’ alla redazione della Stampa dichiarando a Torino “c’è un brutto
clima, al limite dell’eversione”.
Sul cosiddetto “assalto squadrista e attacco alla liberta’ di stampa” abbiamo
raccolto i pareri di Giorgio Cremaschi Pap e garante Askatasuna, Cibele della
redazione Radio Blackout di Torino, Alice Ravinale Consigliera Regionale
Capogruppo AVS Piemonte e Angelo D’Orsi Storico della Resistenza gia docente
all’UniTo per 45 anni Ascolta o scarica
da Radio Onda d’Urto
Riportiamo l’appello di docenti, ricercatori e ricercatrici per la liberazione
di Mohamed Shahin, per firmare a questo link.
Noi docenti, ricercatori e ricercatrici delle università italiane esprimiamo
profonda preoccupazione per la situazione di Mohamed Shahin, imam della moschea
Omar Ibn al-Khattab di Torino, attualmente trattenuto nel Centro di Permanenza
per il Rimpatrio di Caltanissetta a seguito di un decreto di espulsione emesso
dal Ministero dell’Interno.
La revoca del suo permesso di soggiorno di lungo periodo, e il conseguente
rischio di rimpatrio forzato in Egitto, sollevano interrogativi gravi sul
rispetto dei diritti fondamentali della persona. È noto che il sig. Shahin,
prima del suo arrivo in Italia oltre vent’anni fa, era considerato oppositore
politico del regime egiziano. La prospettiva di un suo ritorno forzato in Egitto
lo esporrebbe concretamente a rischi di persecuzione, detenzione arbitraria e
trattamenti inumani.
Le motivazioni alla base della revoca del permesso appaiono collegate alle sue
dichiarazioni pubbliche sulla situazione a Gaza e alle sue posizioni critiche
rispetto all’operato del governo israeliano. Se così fosse, ci troveremmo di
fronte a un precedente estremamente preoccupante: l’uso di strumenti
amministrativi per colpire l’esercizio della libertà di opinione, tutelata
dall’articolo 21 della Costituzione e da convenzioni internazionali cui l’Italia
aderisce.
Casi analoghi, registrati negli ultimi anni, confermano una tendenza a
sanzionare cittadini stranieri per opinioni politiche o per manifestazioni di
solidarietà nei confronti del popolo palestinese. L’impiego dei CPR in questo
quadro rischia di trasformarsi in una forma di repressione indiretta del
dissenso e di limitazione arbitraria dello spazio democratico.
È importante ricordare che Mohamed Shahin è da lungo tempo impegnato in pratiche
di dialogo interreligioso e cooperazione sociale. Numerose comunità religiose,
associazioni civiche e gruppi interconfessionali hanno pubblicamente attestato
il suo contributo alla costruzione di relazioni pacifiche tra diverse componenti
della città di Torino, evidenziando la natura collaborativa e aperta della sua
attività. In particolare, la Rete del dialogo cristiano islamico di Torino, in
un comunicato indirizzato al Presidente delle Repubblica e al Ministro
dell’Interno, ha evidenziato il ruolo centrale di Mohamed Shahin nel dialogo
interreligioso e nella vita associata del quartiere San Salvario,
Alla luce di tutto ciò, riteniamo indispensabile un intervento immediato per
garantire il pieno rispetto dei principi costituzionali, della Convenzione di
Ginevra e degli obblighi internazionali dell’Italia in materia di diritti umani
e protezione contro il refoulement.
Chiediamo pertanto:
La liberazione immediata di Mohamed Shahin e la sospensione dell’esecuzione del
decreto di espulsione.
La revisione del provvedimento di revoca del permesso di soggiorno di Mohamed
Shahin, garantendo un esame imparziale e conforme agli standard giuridici
nazionali e internazionali.
La tutela del diritto alla libertà di espressione in ambito accademico,
culturale e religioso, indipendentemente dalla provenienza o dalla fede delle
persone coinvolte.
La chiusura dei CPR, luoghi di lesione dei diritti umani.
Come docenti e ricercatori riconosciamo la responsabilità civica dell’università
nel difendere i valori democratici, promuovere il pluralismo e opporci a ogni
forma di discriminazione o compressione illegittima delle libertà fondamentali.
Riceviamo e pubblichiamo volentieri il comunicato stampa di Extinction rebellion
Torino.
Extinction Rebellion ha bloccato l’Aerospace and Defence Meeting, la convention
internazionale su aerospazio e difesa. Una trentina di persone si sono
incatenate ai cancelli, mentre tre di loro sono riuscite ad arrampicarsi su una
struttura dietro il Palazzo della Regione. Il movimento denuncia il
coinvolgimento delle aziende presenti nei conflitti globali e le profonde
responsabilità del Governo e della Regione nel sostenere un settore che causa
vittime e accelera il collasso climatico.
Questa mattina, a Torino, Extinction Rebellion ha bloccato la decima edizione
dell’Aerospace and Defence Meeting (ADM) all’Oval di Lingotto, una delle più
importanti business convention internazionali per l’industria aerospaziale e
della difesa. L’evento, che si svolge ogni due anni nella città piemontese, vede
infatti riunirsi aziende e istituzioni di livello internazionale nel campo della
difesa e dell’aerospazio, con l’obiettivo di “consolidare alleanze commerciali,
sviluppare tecnologie avanzate e promuovere partnership strategiche nel settore
militare”. Poco prima dell’apertura delle porte, un gruppo di circa 30 persone è
riuscito a entrare nel cortile della struttura, incatenarsi ai pali e ai
cancelli, esponendo striscioni con scritto “Difendere la Terra, non i confini” e
ostacolare quindi l’ingresso alla convention. Pochi minuti dopo, tre persone
sono riuscite a salire su un edificio dietro il Grattacielo della Regione, una
forma di protesta già messa in atto alla precedente edizione, nel novembre 2023,
e hanno appeso un enorme striscione con la scritta “Qui si finanziano guerra e
crisi climatica” (lo stesso che era stato sequestrato dalla polizia due anni fa
e poi dissequestrato dopo le archiviaizoni delle denunce e l’annullamento dei
fogli di via da parte del TAR).
“Blocchiamo nuovamente la più importante fiera italiana del settore bellico,
dove vengono strette partnership e firmati accordi tra molte delle aziende i cui
investimenti e profitti portano a perdita di vite umane e distruzione dei
territori” commenta Pietro di Extinction Rebellion. “Un evento immorale,
sostenuto dal Governo, dalla Regione e dal Comune di Torino, in aperto contrasto
con i nostri stessi valori costituzionali”. Nell’ultimo decennio, nonostante
secondo la Costituzione l’Italia dovrebbe “ripudiare la guerra”, la spesa
militare nazionale è aumentata di circa il 30%, a discapito di quelle in sanità,
istruzione e ambiente. La nuova legge di bilancio, inoltre, si appresta ad
essere votata entro la fine dell’anno e prevede un ulteriore aumento di circa 10
miliardi. “Molte delle aziende che sono qui dentro – come Leonardo, Thales, Avio
– sono alcune delle più grandi aziende produttrici di armi che stanno traendo
profitto dall’aggravarsi delle crisi globali” aggiunge ancora Pietro. Come
riporta l’ultimo report di Greenpeace, infatti, dal 2021 al 2024 le prime 15
aziende italiane produttrici di armi hanno raddoppiato i propri utili (+97%),
per un totale di 876 milioni di euro di maggiori profitti.
“Investire in armamenti come sta facendo il governo e sostenere eventi come
questo, in questo momento storico, significa condannare a morte intere
popolazioni, mettendo a repentaglio la sopravvivenza dell’umanità, della terra e
delle altre specie viventi” commenta Rachele, una appesa sull’edificio dietro il
Grattacielo. È ormai noto, infatti, che vi è un legame profondo tra le attività
militari e l’aggravarsi della crisi ecoclimatica: il 5% delle emissioni
climalteranti totali è prodotto dagli eserciti di tutto il mondo e i territori
dove si combatte vengono compromessi per decenni a causa della distruzione e
della permanenza nei terreni e nelle falde acquifere delle sostanze tossiche
rilasciate durante i combattimento, perpetuando le sofferenze anche quando “un
cessate il fuoco” è stato dichiarato. A Gaza, infatti, dal 2023 sono scomparsi
il 97% delle colture arboree, il 95% degli arbusti, l’82% delle colture annuali,
facendo collassare il sistema agricolo. L’acqua è contaminata da munizioni e
liquami. Sessantuno milioni di tonnellate di detriti aspettano di essere
rimossi, prima che la contaminazione diventi irreversibile. E in novembre, al
Consiglio di Sicurezza dell’ONU, Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’UNEP
(il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) ha chiesto con forza di
riconoscere l’ecocidio come crimine internazionale, al pari dei crimini di
guerra e contro l’umanità.
“Viviamo un momento cruciale”, ha aggiunto Rachele. “Le scelte che facciamo oggi
determineranno la vita delle prossime generazioni. È ora di smettere di
investire nella militarizzazione e nella devastazione della Terra, e iniziare a
costruire un futuro di pace, giustizia climatica e giustizia sociale”.
Diamo il via all’inchiesta collettiva sugli investimenti israeliani sui progetti
delle grandi rinnovabili che abbiamo deciso di iniziare durante la “Due giorni a
difesa dell’Appennino” a Villore, di cui qui si può leggere un resoconto e le
indicazioni per collaborare a questo lavoro.
Questa inchiesta vuole indagare l’origine degli investimenti per quanto riguarda
i progetti di grandi rinnovabili che hanno come obiettivo la speculazione
energetica. Ciò che abbiamo rilevato è la diffusa presenza di società
israeliane, molto “avanzate” nella ricerca in questo mercato a forte espansione,
finanziatrici delle aziende italiane promotrici dei progetti di eolico e
fotovoltaico o agrivoltaico.
Come viene riportato in un documento datato agosto 2024 a cura del Who Profits
Research Center dal titolo Greenwashing dispossession: the Israeli Renewable
Energy Industry and the Exploitation of Occupied Natural Resources (scaricabile
qui)
Greenwashing dispossession – The Israeli Renewable Energy IndustryDownload
“Negli ultimi due decenni, il governo israeliano ha adottato misure volte a
incoraggiare la creazione di impianti commerciali per la produzione di energia
rinnovabile e ad aumentare la produzione di energia rinnovabile. Il bilancio del
Ministero dell’Energia e delle Infrastrutture israeliano per il 2023-2024 ha
raggiunto un livello senza precedenti, pari a circa 1.380 miliardi di NIS, e
comprendeva la promozione di piani per la produzione di energia rinnovabile e la
realizzazione di impianti di stoccaggio.” Un mercato molto redditizio che ha
assunto un ruolo prioritario nelle scelte governative israeliane, “nel marzo
2020, il Ministero dell’Energia israeliano ha formulato un piano per accelerare
gli investimenti nelle infrastrutture energetiche” e, continua il documento,
“dalla costruzione, gestione e funzionamento di progetti solari ed eolici alla
produzione di pannelli solari e turbine eoliche, le aziende private israeliane e
internazionali sono gli attori più importanti nel campo delle energie
rinnovabili”.
Questa fonte di profitto si lega in maniera indissolubile con l’occupazione
delle terre palestinesi, come viene sottolineato dal report “La nascita
dell’industria israeliana delle energie rinnovabili è stata indissolubilmente
legata al controllo israeliano sui territori palestinesi e siriani occupati.
Negli ultimi anni si è assistito a un aumento significativo del numero e della
portata dei progetti di energia solare in Cisgiordania e dei progetti di energia
eolica nel Golan siriano”.
Oggi Israele arriva anche in Italia, sui nostri campi agricoli, sulle nostre
colline, finanziando progetti che impiantano sul suolo nazionale pannelli
fotovoltaici e turbine eoliche finanziate direttamente dall’economia del
genocidio.
Invitiamo, dunque, a svolgere un piccolo lavoro di ricerca relativamente al
progetto contro il quale ci si sta organizzando sul proprio territorio e farci
pervenire le informazioni in merito all’indirizzo
mail confluenza.info@gmail.com entro il mese di gennaio. Questo lavoro potrà
così comporre un quadro il più possibile complessivo di quello che si muove su
suolo nazionale oltre a essere utile per elaborare strategie nell’ottica di
contrastare questa complicità.
Iniziamo con un primo contributo in questo senso grazie al prezioso lavoro di
ricerca e osservazione di Daniele Gamba, di cui riportiamo il testo che segue, e
Andrea Maggi in merito al progetto di stazione elettrica a Carisio, facente
parte del più esteso progetto di campi agrivoltaici tra Cavaglià e Santhià, nel
territorio tra Biella e Vercelli, di cui abbiamo già approfondito il caso qui e
qui.
“La società israeliana Econergy Renewable Energy Ltd intende investire 29
milioni di euro per realizzare dei campi agrivoltaici tra Cavaglià e Santhià.
Il progetto, che interessa ben 117 ha di terreni agricoli, avrà una potenza
nominale di 47 Mwp e l’energia prodotta sarà immessa nella rete ad Alta Tensione
in quel di Carisio, con un cavidotto interrato.
Econergy si muove in Europa in partnership con l’israeliano Phoenix Group e la
francese Rivage Investment. Le due società israeliane beneficiano
paradossalmente del boom al rialzo dei titoli che caratterizza la borsa di Tel
Aviv dal 7 ottobre ad oggi, da quando è in corso il genocidio Palestinese e, di
fatto, queste risorse sono in certa misura insanguinate, frutto della guerra.”
Inoltre, il Circolo Tavo Burat di Biella ha portato avanti un’iniziativa nel
corso della presentazione delle osservazioni su questo progetto tematizzando
questa questione.
Riportiamo di seguito il comunicato dal titolo INACCETTABILI GLI INVESTIMENTI
ISRAELIANI IN ITALIA QUANDO LE VITE E I DIRITTI DEI PALESTINESI SONO CALPESTATI
( e da cui prendiamo in prestito l’immagine di copertina)
Il “Circolo Tavo Burat – Pro Natura” ha presentato in procedura VIA diverse
osservazioni sul progetto di un nuovo impianto agrivoltaico da 47 MW in Cavaglià
(BI) Santhià, Carisio, Formigliana (VC), proposto da “ECONERGY SOLAR PARK 3”
S.r.l, una società italiana del ramo europeo della società israeliana Econergy
Renewable Energy Ltd ECNR, società quotata alla borsa di Tel Aviv.
In aggiunta a varie osservazioni di natura tecnica, in particolare per la tutela
del riso DOP Baraggia, produzione incompatibile con l’agrivoltaico, è stata
formulata una osservazione, al punto 10, relativa all’investimento di una
società che ha sede legale in uno Stato accusato di genocidio, che qui di
seguito si riporta integralmente:
10) Investimenti israeliani
Il Circolo Tavo Burat – Pro Natura ritiene moralmente inaccettabile che
investitori israeliani operino nel nostro territorio con risorse economiche
accresciute grazie al genocidio perpetrato da Israele a danno del popolo
Palestinese.
Non solo tutti gli indici della borsa di Tel Aviv sono notevolmente cresciuti
dal 7 ottobre ad oggi a seguito della repressione decisa dal Governo Israeliano
nei confronti dei Gazawi, ma anche la capitalizzazione di Econergy Renewable
Energy Ltd ECNR è notevolmente incrementata: il valore delle azioni quotate è
infatti passato dai 1.000-1.200 ILa prima del 7 ottobre 2023 a circa 4.050-4.080
ILa del 14 novembre 2025.
Un incremento ben superiore agli incrementi medi conseguiti da altre imprese
operanti nello stesso settore (prevalentemente la realizzazione di impianti FER
in UE) e quotate in altre piazze finanziarie.
Econergy Renewable Energy Ltd ha dunque beneficiato, anche in assenza di
responsabilità dirette, di questo assurdo trend al rialzo della Borsa di Tel
Aviv, piazza impropriamente “premiata” dai mercati finanziari per le azioni
belliche intraprese dal Governo a guida Netanyau.
Econergy Renewable Energy Ltd ha però tra i propri partner finanziari ed
assicurativi il gruppo Phoenix (PHOE), altra società israeliana quotata alla
borsa di Tel Aviv (il titolo è triplicato, passando da 3.470 Ila prima del 7
ottobre 2023 al valore di 13.600 Ila del 14/11/2025).
Come dimostrato da precedenti ricerche di Who Profits, Phoenix e altre
importanti compagnie assicurative israeliane sono complici del finanziamento
della costruzione degli insediamenti, dei progetti di trasporto degli
insediamenti, dello sfruttamento delle risorse naturali occupate (ndr: tra
queste rientrano le energie rinnovabili) e del complesso militare-industriale di
Israele, sia direttamente sia attraverso le loro partecipazioni in altre società
complici. Si veda al link che segue:
(https://www.whoprofits.org/companies/company/7348?the-phoenix-holdings)
Questo Circolo ricorda inoltre che il settore delle energie rinnovabili in
Israele è sotto accusa in quanto le potenze occupanti, secondo l’art. 55 della
IV Convenzione di Ginevra, non possono utilizzare le risorse naturali dei
territori occupati per fini propri o esclusivi della propria popolazione. La
produzione di energia rinnovabile a fini commerciali in questi contesti è dunque
una violazione del diritto internazionale. Il centro di ricerca Who Profits ha
pubblicato nel 2024 il report dal titolo “Greenwashing Dispossession: the
Israeli Renewable Energy Industry” documentando che una parte rilevante
degli impianti fotovoltaici si trova nei territori palestinesi occupati della
Cisgiordania, all’interno o nei pressi di insediamenti illegali secondo il
diritto internazionale (allegato).
Per tali ragioni stigmatizza fortemente questo investimento israeliano nel
biellese poiché parte delle risorse finanziarie necessarie sono state conseguite
grazie a questo “premio bellico” e al contributo di un partner fortemente
coinvolto a sostegno delle illegali azioni perpetrate da Israele nei confronti
del popolo Palestinese. Tali risorse devono, pertanto, essere considerate
“risorse insanguinate”.
Chiede dunque alla Provincia di Biella di agire con coraggio:
1. disponendo una immediata sospensione del procedimento relativo alla istanza
presentata da ECONERGY SOLAR PARK 3” S.r.l.
2. illustrando contestualmente al Governo la necessità di adempiere agli
obblighi internazionali per evitare qualsiasi forma di complicità nel
genocidio e per prevenire ulteriori crimini, ancora in corso, disponendo
anche sanzioni economiche che sono notoriamente la modalità più efficace,
senza far uso della forza, per fare desistere gli stati da comportamenti
criminali.
3. chiedendo conseguentemente che sia esclusa per le società Israeliane e per
le rispettive ramificate europee/internazionali, e nel caso concreto in
procedura presso la Provincia di Biella, la possibilità di investimenti in
Italia.
Le disposizioni internazionali, nel momento in cui si rilevi il rischio che
possa configurarsi il crimine di genocidio, obbligano infatti gli stati ad
adottare tutte le misure necessarie per prevenirlo e per evitare qualsiasi forma
di complicità. Questo obbligo si è manifestato dal 26 gennaio 2024, quando la
Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia ha riconosciuto l’esistenza di un
rischio plausibile che Israele potesse commettere atti di genocidio contro la
popolazione palestinese nella Striscia di Gaza.
L’Italia, occorre tenere presente, è stata denunciata da più volte alla CPI per
complicità diretta con lo Stato di Israele per l’attuazione e il sostegno al
genocidio (forniture varie e cooperazione militare, ecc.) e non ha messo in atto
e adottato alcuna sanzione nei confronti di Israele, tra cui le sanzioni
economiche con limitazioni commerciali ed imprenditoriali alle società con sede
legale in Israele (comprese le ramificazioni europee/internazionali di tali
società) diversamente da quanto fatto per il conflitto Russo-Ucraino: un
indubbio sostegno, se pur indiretto, all’azione criminale di Israele e tra i
fattori che hanno favorito il rialzo dei titoli della borsa di Tel Aviv.
Il Circolo Tavo Burat ha concluso le proprie osservazioni chiedendo, in prima
istanza, che la procedura sia sospesa stante la necessità di illustrare
preliminarmente al Governo la problematicità degli investimenti israeliani nel
territorio tenuto conto dei procedimenti disposti dalla CPI e TPI nei confronti
di Israele e le denunce di complicità nei confronti dell’Italia stessa. In
subordine ha chiesto che non sia rilasciato il positivo parere di compatibilità
ambientale per le ragioni tecnico ambientali sovraesposte.