Con il ritiro degli Stati Uniti e la cautela della Cina, la conferenza in
Brasile metterà alla prova la capacità del mondo di rispettare l’Accordo di
Parigi e gli obiettivi finanziari
di Amanda Magnani, tradotto da Rebellión
A partire dal 10 novembre, i rappresentanti di oltre 100 paesi si riuniranno a
Belém, in Brasile, la città amazzonica che ospiterà il vertice sul clima COP30.
Questa edizione della conferenza è stata descritta dalle Nazioni Unite come una
tappa fondamentale per consentire ai paesi di aggiornare i propri piani d’azione
sul clima e compiere progressi nell’attuazione di misure contro il riscaldamento
globale.
In qualità di paese ospitante, il Brasile pretende che questo vertice sia
caratterizzato dai risultati. “Ora è il momento di agire”, ha affermato il
presidente della conferenza, André Corrêa do Lago, in un evento preparatorio
tenutosi ad agosto. “La COP30 sarà il momento di mettere a punto gli strumenti e
accelerare l’attuazione”.
Ma le aspettative per la COP30 sono grandi quanto le sfide che la circondano. La
conferenza coincide con il decimo anniversario dell’Accordo di Parigi, una
pietra miliare mondiale nella lotta contro la crisi climatica. Questo trattato
storico ha dato impulso all’espansione delle politiche nazionali volte a
realizzare economie a basse emissioni di carbonio, ma i progressi verso il
raggiungimento dei suoi obiettivi rimangono insufficienti: nel 2024, la
temperatura media del pianeta ha superato per la prima volta l’obiettivo
concordato di 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali, una soglia definita
dagli scienziati come il massimo per evitare gli effetti peggiori dei fenomeni
climatici sempre più gravi.
All’inizio di quest’anno, gli esperti hanno avvertito che il pianeta aveva
raggiunto il suo primo “punto di non ritorno”, con la morte generalizzata delle
barriere coralline in più di 80 paesi a causa del riscaldamento degli oceani.
Gli scienziati e gli ambientali responsabili dell’analisi hanno anche
sottolineato il rischio di collasso della foresta amazzonica, un bioma
essenziale per l’equilibrio climatico globale e proprio il luogo in cui si terrà
il vertice COP30.
L’ACCORDO DI PARIGI MESSO ALLA PROVA
Con l’aggravarsi della crisi climatica, la COP30 metterà alla prova la volontà
dei paesi di mantenere l’Accordo di Parigi come elemento centrale della
governance globale. La COP28, tenutasi a Dubai nel 2023, ha rappresentato il
primo bilancio globale e la prima menzione in un testo finale della COP alla
transizione dai combustibili fossili. Da parte sua, la COP29 dello scorso anno
in Azerbaigian ha stabilito un nuovo obiettivo di finanziamento per il clima. A
Belém, l’attenzione si concentrerà sulla revisione e l’attuazione degli
obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni, i contributi determinati a
livello nazionale (NDC), che vengono aggiornati ogni cinque anni.
Una relazione di sintesi raccoglierà le proposte per orientare l’azione per il
clima fino al 2030 e valuterà il rispetto degli impegni assunti dai paesi
nell’ambito degli NDC. Tuttavia, finora meno di 70 dei oltre 190 firmatari
dell’Accordo di Parigi hanno aggiornato i propri obiettivi. Nel complesso, i
paesi che hanno già presentato i propri piani rappresentano più di un terzo
delle emissioni globali.
“I piani presentati non ci avvicinano affatto al percorso necessario per un
futuro sicuro”, ha affermato Miriam García, direttrice delle politiche
climatiche del World Resources Institute Brazil (WRI), un’organizzazione
dedicata alla ricerca di soluzioni climatiche.
Ha sottolineato che, secondo stime recenti, il mondo dovrebbe ridurre le
emissioni di gas serra di circa 31 gigatonnellate entro il 2030 per mantenere il
riscaldamento globale entro il limite di 1,5 °C. Tuttavia, anche tenendo conto
degli NDC aggiornati e di altri impegni già annunciati, la riduzione prevista
non supera i 2 gigatonnellate.
La conferenza si concentrerà anche sull’adattamento ai fenomeni climatici
estremi, su una transizione energetica equa e sull’attuazione della Roadmap di
Baku-Belém, un documento che descrive il percorso per raggiungere 1,3 trilioni
di dollari di finanziamenti annuali per il clima entro il 2035, un obiettivo
concordato alla COP29 a Baku, la capitale dell’Azerbaigian.
Parallelamente ai negoziati ufficiali, il governo brasiliano si è impegnato in
un ampio “Programma d’azione”, con oltre 350 eventi che vedono la partecipazione
di governi locali, aziende, ricercatori e rappresentanti della società civile.
Tuttavia, l’approccio di questa agenda ha suscitato opinioni divergenti, secondo
Karla Maass, consulente per l’incidenza politica della Rete di Azione Climatica
dell’America Latina (CAN-LA), la divisione regionale della coalizione mondiale
CAN, che raggruppa oltre 1.900 organizzazioni ambientaliste. “Alcuni ritengono
che sia lo scenario in cui si sviluppano la politica e l’economia reali, ma
altri lo considerano una cortina fumogena per distogliere l’attenzione dai
negoziati ufficiali”, ha dichiarato a Dialogue Earth.
Per Maass, i processi di negoziazione formali e paralleli “possono essere
complementari, ma l’Agenda d’azione non può monopolizzare tutta l’attenzione”.
RAFFORZAMENTO DEL MULTILATERALISMO
Oltre alle difficoltà tecniche, la COP30 si svolge in un contesto geopolitico
“molto delicato”, secondo García, del WRI Brasile. Egli ha affermato che la
crescente sfiducia tra i paesi – già identificata dai leader mondiali come uno
dei principali ostacoli ai negoziati sul clima – ha indebolito le alleanze e
ridotto la volontà di cooperare. Il ritorno alla presidenza degli Stati Uniti di
Donald Trump, che ha già promosso tagli ai programmi internazionali sul clima e
all’assistenza del Paese, insieme al riorientamento delle risorse governative
verso questioni militari e di sicurezza nel contesto delle guerre in Ucraina e
Gaza, ha esacerbato il declino globale dei finanziamenti per il clima.
Di fronte alle tensioni geopolitiche che potrebbero distogliere l’attenzione dai
dibattiti, i leader della COP30 in Brasile, come la direttrice esecutiva del
vertice Ana Toni, hanno cercato di riaffermare il loro impegno a favore del
multilateralismo. Questa è anche l’opinione di García, che lo ha descritto come
l’unico modo possibile per affrontare la crisi climatica. “Non c’è altro spazio
in cui i paesi più vulnerabili possano esprimere le loro richieste”, ha
aggiunto.
Dopo tre edizioni del vertice tenutesi in paesi i cui regimi sono considerati
autoritari, ci sono grandi aspettative che la COP30 segni il ritorno di una
forte partecipazione della società civile, nonché la messa in primo piano delle
richieste e delle ambizioni del Sud del mondo.
Tuttavia, questa speranza è stata offuscata dai prezzi esorbitanti degli alloggi
nella città ospitante, Belém, che hanno limitato la presenza dei rappresentanti
dei movimenti sociali e dei paesi più poveri. Nonostante l’aumento del sostegno
finanziario delle Nazioni Unite, il problema persiste: alla fine di ottobre, 49
delegazioni non sapevano ancora dove avrebbero alloggiato durante la conferenza,
mentre più di 130 avevano già la garanzia di un alloggio.
Di fronte a questa situazione, l’Osservatorio sul Clima, una delle
organizzazioni brasiliane che ha seguito più da vicino le conferenze delle
Nazioni Unite sul clima, ha avvertito che questa potrebbe diventare la “COP meno
inclusiva della storia”.
“Senza le delegazioni dei paesi in via di sviluppo, la legittimità delle
decisioni sarà messa in discussione”, ha affermato Stela Herschmann, esperta di
politica climatica dell’Osservatorio sul clima.
Anche tra le delegazioni che sono riuscite a confermare la loro partecipazione,
la tendenza è stata quella di ridurre le dimensioni dei team, compreso il caso
delle Nazioni Unite e del Brasile. Questa limitazione, secondo Herschmann, può
influire sul ritmo e sulla qualità dei negoziati.
“I team di piccole dimensioni devono dividersi in diverse sale, il che
sovraccarica i negoziatori. Di conseguenza, le ambizioni tendono a diminuire”,
ha spiegato.
GLI STATI UNITI FUORI GIOCO E L’AMBIZIONE DELLA CINA SOTTO I RIFLETTORI
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca nel gennaio 2025 ha provocato un
nuovo ritiro dall’Accordo di Parigi da parte degli Stati Uniti, il secondo
maggior emettitore di gas serra al mondo. “Oltre agli effetti sull’obiettivo
globale di riduzione delle emissioni, questa uscita ha anche un impatto sul
finanziamento globale per il clima”, ha affermato García. Tuttavia, ha
sottolineato che il Paese non ha mai rispettato pienamente i propri impegni
finanziari e ha aggiunto che i governi statali e municipali del Paese potrebbero
cercare di colmare il vuoto lasciato dall’amministrazione federale.
Con il ritiro, gli NDC presentati dagli Stati Uniti nel 2024 non sono più
validi. Per quanto riguarda gli altri attori chiave nel campo del clima,
l’Unione Europea non ha ancora presentato i suoi piani e la Cina ha annunciato
obiettivi che, in generale, sono considerati al di sotto delle aspettative.
In un discorso pronunciato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a
settembre, il leader cinese Xi Jinping ha annunciato che il Paese intende
ridurre le proprie emissioni di gas serra tra il 7% e il 10% entro il 2035,
prendendo come riferimento il picco registrato negli ultimi anni.
Gli esperti hanno ritenuto questo impegno vago e insufficiente, soprattutto
considerando che la Cina rappresenta circa un terzo delle emissioni globali.
Tuttavia, Pechino ha una storia di superamento dei propri obiettivi, a volte
cauti.
Inoltre, con il ritiro della leadership climatica degli Stati Uniti e
dell’Unione Europea, cresce la pressione affinché la Cina assuma l’iniziativa
nell’agenda climatica mondiale. Nonostante i suoi obiettivi modesti, il Paese è
considerato l’unico con un peso politico e una capacità tecnologica sufficienti
per svolgere questo ruolo.
Pechino ha spesso rifiutato l’idea di posizionarsi esplicitamente come leader
climatico. Secondo Niklas Weins, professore presso il dipartimento di studi
internazionali dell’Università Xi’an Jiaotong-Liverpool, la Cina non ritiene
strategico assumere il ruolo di “leader unico” nelle questioni internazionali,
compreso l’ambiente.
“Gli Stati Uniti occupano solitamente questa posizione e i cinesi comprendono il
peso che questa immagine comporta. Pertanto, in ambito ambientale, ciò che il
Paese desidera è una leadership distribuita con una cooperazione Sud-Sud
rafforzata”, ha spiegato Weins a Dialogue Earth.
IL SUD GLOBALE SOTTO I RIFLETTORI
Gli esperti sostengono inoltre un ruolo più attivo delle economie emergenti
nella transizione ecologica. Secondo García, la leadership dei paesi a reddito
medio come Cina, Indonesia, Sudafrica e Brasile è essenziale per rendere
possibile un’economia globale a basse emissioni di carbonio.
“Essi producono circa la metà delle emissioni globali, una percentuale che
probabilmente aumenterà. Se non riusciranno a ridurre queste emissioni e ad
adattarsi agli imminenti impatti climatici, l’intera transizione ecologica sarà
in pericolo”, ha affermato.
Allo stesso tempo, molti ritengono che la transizione climatica globale stia
aprendo un’opportunità di sviluppo unica per i paesi del Sud del mondo, in
particolare in America Latina. “Questi paesi hanno ancora una grande opportunità
per espandere i loro mercati [energetici] e dare alle loro popolazioni accesso
all’energia che proviene già da fonti rinnovabili”, ha affermato Herschmann. “È
un’opportunità per sfruttare questo momento di trasformazione e correggere le
disuguaglianze e le ingiustizie strutturali”.
Secondo Corrêa do Lago, l’America Latina ha davanti a sé l’opportunità di
assumere una leadership senza precedenti nella ricerca della giustizia
climatica. Storicamente caratterizzata da posizioni frammentate nell’agenda
climatica, la regione ha cercato un maggiore coordinamento nei forum
multilaterali, con l’obiettivo di arrivare alla COP30 con un’agenda più
unificata e influente.
Sia Herschmann che Maass hanno commentato che rafforzare la posizione del Sud
del mondo nel dibattito sarà essenziale, ma insufficiente senza la
partecipazione delle grandi potenze. “Stiamo assistendo a un rafforzamento del
Sud del mondo, ma leader come gli Stati Uniti e l’Unione Europea devono rimanere
impegnati e fissare obiettivi ambiziosi. Dopo tutto, sono storicamente
responsabili del cambiamento climatico”, ha affermato Herschmann.
La COP30 si terrà a Belém, in Brasile, dal 10 al 21 novembre. Maggiori
informazioni sulla copertura del vertice qui.
Amanda Magnani è una giornalista e fotografa brasiliana. Il suo lavoro si
concentra sulla giustizia climatica, la transizione energetica, le comunità
tradizionali e la decolonizzazione dei processi giornalistici. È stata borsista
del Pulitzer Center, del Metcalf Institute e del Climate Tracker e ha pubblicato
articoli su National Geographic, Mongabay, Al Jazeera e Folha de São Paulo.
Immagine: Una delegazione presidenziale brasiliana naviga verso l’isola di
Combu, nella città amazzonica di Belém. Delegazioni internazionali arriveranno
in città questo mese per i negoziati sul clima della COP30 (Immagine: Ricardo
Stuckert / Presidência da República / Agência Brasil)
Source - InfoAut: Informazione di parte
Informazione di parte
Il Sudan continua a precipitare in una spirale di violenza che sembra non avere
fine. Dopo la caduta di El Fasher, capitale del Darfur settentrionale, il
conflitto ha assunto i contorni di un massacro.
da Pagine Esteri
Le testimonianze che emergono descrivono esecuzioni sommarie, uccisioni di
civili, ospedali trasformati in teatri di orrore. Interi reparti medici sono
stati annientati: centinaia di operatori sanitari, pazienti e familiari sono
stati uccisi durante l’assalto delle milizie, mentre le strutture sono state
saccheggiate e date alle fiamme.
A guidare l’offensiva sarebbe stato il generale al-Fateh Abdullah Idris,
conosciuto come Abu Lulu, uno dei comandanti più spietati delle Forze di
supporto rapido (RSF). Secondo numerosi testimoni, avrebbe ordinato di fucilare
prigionieri disarmati ignorando gli appelli dei suoi stessi uomini. Il suo nome
è ormai legato a crimini di guerra di una brutalità tale da scuotere anche
alcuni vertici della stessa milizia, che hanno annunciato un’inchiesta interna
mai realmente avviata.
Dopo aver conquistato El Fasher, le RSF si stanno muovendo verso est, con
l’obiettivo di prendere il controllo del Kordofan settentrionale. La regione
rappresenta un corridoio strategico fra il Darfur e la parte centrale del paese:
dominarla significa controllare le rotte commerciali, la ferrovia e le basi
aeree che collegano le zone occidentali alla capitale. La caduta della città di
Bara ha segnato l’inizio di una nuova fase, mentre le milizie avanzano verso El
Obeid con la stessa logica di devastazione applicata in Darfur.
Villaggi rasi al suolo, case bruciate, intere comunità costrette alla fuga: la
popolazione civile è la prima vittima. Donne e bambini vengono uccisi o rapiti,
le abitazioni saccheggiate, i pozzi avvelenati per impedire il ritorno dei
profughi. La guerra, che in origine opponeva le RSF all’esercito regolare
sudanese, è degenerata in un conflitto etnico e territoriale che sta disgregando
il paese.
La figura di Abu Lulu è emblematica di questa deriva. Proveniente da una
famiglia con legami diretti con la leadership delle RSF, il generale è accusato
di aver guidato reparti responsabili di massacri deliberati contro civili non
armati. Le immagini e i racconti che filtrano da El Fasher parlano di corpi
abbandonati nelle strade e di fosse comuni scavate in fretta per nascondere le
prove.
Mentre la comunità internazionale tenta di rilanciare la proposta di una tregua
umanitaria, la guerra si sposta di provincia in provincia, lasciando dietro di
sé soltanto macerie. Nel Kordofan, i timori di una nuova catastrofe umanitaria
crescono di giorno in giorno. Gli sfollati che fuggono dal Darfur vengono
accolti da regioni già impoverite e incapaci di sostenere nuovi arrivi, mentre
le milizie consolidano le proprie posizioni.
A El Obeid, principale città del Kordofan, le autorità locali parlano di assedi
imminenti e di combattimenti alle porte. Le forze regolari appaiono indebolite,
logorate da mesi di battaglie e da una crisi di comando che paralizza ogni
risposta coordinata. Nelle aree rurali, intanto, bande armate e mercenari legati
alle RSF impongono il proprio controllo su strade e villaggi, chiedendo denaro e
armi in cambio di una fragile protezione.
Il conflitto in Sudan, da guerra tra fazioni rivali, è diventato sistema di
potere fondato sulla paura, sulla conquista e sullo sterminio. Le Forze di
supporto rapido, forti delle loro vittorie militari, mirano a costruire una
nuova geografia del potere, estendendo la loro influenza oltre il Darfur e
ridisegnando con la violenza i confini politici del paese. Pagine Esteri
«Non riesco più a contare quanti ragazzi abbiamo accecato! È stato davvero
divertente!»
tradotto da Contre Attaque
Le immagini diffuse mercoledì 5 novembre da Médiapart e Libération fanno venire
voglia di bruciare tutto e confermano ciò che tutte le persone presenti a
Sainte-Soline il 25 marzo 2023 hanno provato: la volontà da parte dello Stato di
uccidere, traumatizzare, distruggere mentalmente e psicologicamente un intero
movimento ecologista, nel bel mezzo di un grande movimento sociale per le
pensioni.
I due media hanno avuto accesso alle telecamere indossate dai gendarmi presenti
intorno al controverso megabacino quel giorno. I militari sanno di essere
ripresi e registrati, eppure si lasciano andare. Si possono sentire decine di
insulti, inviti a commettere omicidi e persino discorsi apertamente fascisti.
Soprattutto, questi video e questi scambi costituiscono prove schiaccianti di
fatti criminali che rientrano nella competenza della corte d’assise.
Tra gli scambi registrati, questa discussione tra due gendarmi che lanciano
granate sulla folla: «Non conto più i ragazzi a cui abbiamo cavato un occhio!».
Il suo collega gli risponde: «Spero proprio che tu gli abbia cavato un occhio!».
Il primo grida di gioia: «Che figata!».
Si sentono anche ripetutamente gli ordini impartiti dai superiori di uccidere o
mutilare i manifestanti. Ad esempio questo ordine: «Mettigli una GM2L in bocca».
Una «GM2L» è una granata esplosiva, potenzialmente letale, contenente C4. Queste
armi da guerra possono strappare arti e hanno già polverizzato mani o piedi.
Lanciata all’altezza del viso, una granata di questo tipo può strappare la
testa. Altri ufficiali gridano ai loro uomini: «Teso, teso! Abbassa il fucile!».
Un altro grida: «Ben fatto, dritto in faccia». Un gendarme chiede ai suoi
colleghi tiratori: «Ancora più in basso, più in basso». Un capo ordina: «Sul
gruppo, davanti, teso! Davanti, teso! Lanciate in tensione!» Un altro dice a un
tiratore: «In tensione, in tensione, abbassa il fucile, cazzo, sbrigati».
Questi ordini dimostrano una volontà deliberata di colpire i corpi, in una
situazione di illegalità generalizzata. L’arma che lancia i proiettili
antisommossa si chiama «lanciatore Cougar», è un’arma da fuoco, considerata
materiale bellico, che lancia proiettili di 56 millimetri di circonferenza in
plastica dura, a piena velocità, fino a 200 metri. È categoricamente vietato
utilizzare questi «lanciatori» con tiro diretto, poiché si rischia di uccidere.
I tiri devono sempre essere effettuati con traiettoria ad arco affinché le
granate abbiano il tempo di esplodere in aria. I lanciatori Cougar sono inoltre
appositamente angolati per impedire un uso illegale. Per effettuare un tiro
diretto, i gendarmi devono quindi inclinare o capovolgere la loro arma, un gesto
necessariamente volontario. A Sainte-Soline, la direttiva dei superiori era
quella di utilizzare sistematicamente le armi nel modo più pericoloso e
devastante possibile, in palese violazione della legge e delle regole interne
alla gendarmeria.
Nelle registrazioni, i militari chiamano i manifestanti anche “figli di
puttana”, ‘stronzi’, “puzza di piscio”… Si rallegrano di aver causato danni
irreversibili in tempo reale: ad esempio, di aver colpito “in pieno volto”.
Ridono di “fare male”, dicono che “bisogna ucciderli”.
In due ore, attorno a una buca in mezzo alla campagna, senza alcun interesse
materiale, senza alcun obiettivo di mantenimento dell’ordine, un dispositivo di
3000 militari, supportati da droni, elicotteri e blindati, ha lanciato più di
5000 granate su una folla di civili. Quel momento è stato il culmine della
codardia: i gendarmi sono pesantemente protetti dai loro elmetti, dalle loro
corazze e dai loro scudi. Quel giorno erano anche in posizione dominante,
schierati su cumuli di terra, e sempre a distanza dai manifestanti che non sono
mai riusciti a raggiungere la conca. Quest’ultima era circondata da diverse file
di recinzioni.
Bisogna quindi immaginare degli immensi codardi in uniforme, pagati e
pesantemente equipaggiati dallo Stato, che riversano ridacchiando una pioggia di
munizioni letali, senza correre il minimo rischio, su persone che difendono il
bene comune.
Il giorno prima della manifestazione di Saint-Soline, Darmanin è intervenuto su
Cnews per annunciare: «I francesi vedranno nuove immagini estremamente
violente». Il ministro dell’Interno sapeva esattamente cosa era previsto per il
giorno successivo a Sainte-Soline: una partita di tiro al piattello destinata a
spezzare le reti ecologiste e anticapitaliste, nel pieno del movimento sociale.
Tutto era stato pianificato, sceneggiato, dall’alto verso il basso della catena
di repressione.
Nelle registrazioni del 25 marzo 2023 appena rese pubbliche, i militari non
provano il minimo rimorso e dicono addirittura che hanno adorato versare sangue.
Un tiratore dice al suo collega: «Questa gli darà un bel colpo sul naso,
guarda». Risposta: «Bene», seguita da un’osservazione entusiasta: «L’ha preso
nelle palle».
Un gendarme di nome Eduardo moltiplica i colpi mortali. Si sentono i suoi
colleghi entusiasti: «Quello di Eduardo lì, l’ha colpito in pieno alla testa»,
«Il colpo di Eduardo è stato magnifico […] è quello che avrebbero dovuto fare
tutti, così non si può identificare nessuno, grosso». Un altro ricorda:
«Riparliamo del tiro teso di poco fa, pensavo che quel tizio non si sarebbe mai
rialzato!».
I criminali in uniforme godono della propria violenza. Un ufficiale dello
squadrone di Grenoble assume un accento tedesco e dichiara: «A tutti i piloti di
Panzer, avanti». Mima un nazista e ne è orgoglioso. I militari esprimono il loro
piacere dopo il massacro: «È magnifico», o ancora: «Ho firmato per questo,
amico, ho aspettato dieci anni nella gendarmeria per vivere questo momento». Un
altro si vanta: «Ho sparato 7 LBD, ne ho stesi almeno quattro».
Ricordate, nel marzo 2023, tutti i media ci avevano fatto credere che i gendarmi
fossero “traumatizzati” dalla “estrema violenza dei manifestanti”, che alcuni
fossero “gravemente feriti”. Per giorni abbiamo sentito infinite menzogne su
questi poveri agenti esposti a pericolosi ambientalisti. Hanno cercato di
suscitare la compassione della popolazione e hanno creato una narrazione
completamente falsa. La realtà, come dicono gli stessi gendarmi, è che si sono
“divertiti”.
Sono passati più di due anni da quella manifestazione che ha traumatizzato una
generazione di attivisti. Più di 400 persone sono rimaste gravemente ferite quel
giorno, due sono state messe in coma e molte sono rimaste mutilate a vita.
Diversi chili di esplosivo hanno devastato i campi, le detonazioni hanno scavato
crateri, come in una scena di guerra.
E nonostante le prove schiaccianti, le immagini, le testimonianze e le
registrazioni degli stessi gendarmi, non è successo nulla. L’Ispettorato
Generale della Gendarmeria Nazionale (IGPN) afferma di non aver “identificato”
alcun autore di violenze. Eppure basterebbe collegare le registrazioni video al
possessore della telecamera, dato che vengono citati nomi e identificati i
mandanti! L’IGGN non ha nemmeno fatto finta di indagare: Mediapart spiega che
nessun gendarme è stato interrogato sul contenuto delle immagini. E che tre
squadroni di gendarmeria hanno persino rifiutato di consegnare le loro
registrazioni agli investigatori, senza che ciò provocasse la minima reazione.
Dopo questa manifestazione, Serge, che era venuto a manifestare, è rimasto in
coma per diverse settimane. Un colpo diretto alla testa gli ha fratturato il
cranio, provocando lesioni irreversibili al cervello. Mentre era in bilico tra
la vita e la morte, i gendarmi hanno impedito ai soccorsi di venire a prenderlo.
Ha sfiorato il peggio e sta ancora lottando per recuperare le sue capacità.
Anche Mickaël, colpito al collo da un proiettile di gomma, è finito in coma.
Avrebbe potuto morire a causa dell’ematoma cerebrale provocato dal proiettile.
Alix è stata colpita da una granata alla mascella, che le ha frantumato le ossa
del viso. Il proiettile è poi esploso nelle sue gambe.
Decine di altre persone, che hanno preferito mantenere l’anonimato, sono state
colpite da proiettili mutilanti agli occhi, agli zigomi, al cranio, da
esplosioni alle gambe o ai piedi, hanno avuto i timpani perforati dalle
detonazioni. Migliaia di altre persone rimangono traumatizzate.
Sainte-Soline è stata la dimostrazione del fascismo già presente: per due ore,
in un campo, lo Stato francese ha ordinato ai suoi soldati di massacrare una
marcia di ecologisti. E la nostra risposta si fa ancora attendere. Queste
rivelazioni, anche se arrivano in ritardo, meriterebbero di provocare da sole
una rivolta.
La vittoria del candidato sindaco democratico Mamdani è stata in prima pagina su
tutti i giornali nostrani sia ieri che oggi.
Potrebbe essere definito un prodotto della fase che attraversiamo e che tocca le
giuste corde per piacere a “sinistra” grazie alla frizzante gestione social e al
suo profilo, giovane, razzializzato, musulmano e socialista, così definito dalla
narrazione mainstream.
E’ interessante analizzare quali fattori hanno determinato la sua vittoria nella
città di New York, come si può spiegare questa anomalia, se di questo si tratta,
rispetto alle figure dell’establishment democratico americano. Ma, soprattutto,
quali sono i temi al centro del suo mandato e quali sfide dovrà affrontare per
non cadere in contraddizione.
Ne parliamo con Felice Mometti, ricercatore indipendente esperto di USA
da Radio Blackout
Diffondiamo la notizia di preavviso di esproprio dei terreni dell’agricoltore di
Carisio Andrea Maggi, qui avevamo raccontato la sua storia. Il tema della
transizione energetica a spese dei territori per le grandi rinnovabili che
sfruttano terreni agricoli causando consumo di suolo e esproprio della propria
fonte di reddito e del lavoro di intere generazioni di agricoltori era stata
oggetto dell’Assemblea Regionale tenutasi quest’estate a Mazzé dal titolo IL
DESTINO DELL’AGRICOLTURA E DEL SUOLO IN PIEMONTE: TRA AGRI-FOTOVOLTAICO E
NUCLEARE.
Di seguito riportiamo un commento scritto da Daniele Gamba, del Circolo Tavo
Burat – Pronatura di Biella che sta seguendo la vicenda.
Per soddisfare il fabbisogno energetico nazionale con pannelli fotovoltaici
sarebbe sufficiente utilizzare le coperture esistenti (è la valutazione emersa a
seguito di un’analisi condotta da ISPRA) senza necessariamente posare pannelli
fotovoltaici su terreni agricoli.
Tale modalità costerebbe un po’ di più in fase di installazione e richiede
maggior tempo per la sua attuazione ma offrirebbe il vantaggio, per chi la
realizza, di sottrarsi dal mercato dell’energia ove la speculazione incide molto
sui prezzi finali posti all’utenza.
Ovviamente le imprese energetiche sono interessate a fare business, a vendere
energia, e la loro soluzione alla transizione energetica è la realizzazione di
grandissimi impianti FV o AV su terreni agricoli secondo la logica “bassi costi,
massimi profitti”. Gli indirizzi governativi sono volti a premiare il mercato e
meno la produzione dal basso.
Nel biellese e nel vercellese sono stati depositati numerosi progetti per
realizzare tali impianti e le imprese energetiche hanno acquisito i terreni o il
diritto di superficie con offerte economiche elevate, anche 3/4 volte il valore
fondiario dei terreni agricoli. Alcuni agricoltori si sono lasciati tirare da
queste offerte, alcuni le hanno declinate perché legati al mestiere e alle
tradizioni di famiglia.
Per allacciare questi impianti fotovoltaici di grande potenza è necessario
connettersi alle dorsali di trasmissione dell’energia ad alta tensione tramite
la realizzazione di Stazioni Elettriche (SE) dedicate. La proposta delle varie
imprese tra loro associate è stata quella di collocare la SE in quel di Carisio
(VC), limitrofa all’impianto che lavora alluminio della Sacal.
L’istanza per la realizzazione di questa SE è stata presentata da Juwi
Development 09 Srl quale capofila, per opera di connessione alla rete di un
progetto agrivoltaico da 92 MWp, previsto a Buronzo (VC). Il progetto è stato
presentato nel 2022 in VIA nazionale sezione (PNIEC-PNRR); il procedimento è
attualmente in corso presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri poiché sono
emersi diversi pareri contrari di vari enti in procedura.
La proposta di una SE a Carisio, si badi bene, non è stata preliminarmente
esaminata nell’ambito di una Valutazione Ambientale Strategica come previsto nel
PEAR regionale, ovvero non vi è stata alcuna pianificazione pubblica per
contenere concentrazioni impiantistiche ed elevati sfruttamenti territoriali.
La capacità di esercizio della proposta SE di Carisio è elevatissima e vi
confluiranno le produzioni di tantissimi altri impianti FV-AV nel raggio di 15
km. Al momento molti di questi impianti sono in procedura autorizzativa ma in
“stand by” perché non ancora conclusa la procedura di VIA della capofila per la
SE, la Juwi Development 09 Srl.
Va precisato che per l’acquisizione dei terreni necessari alla realizzazione
delle Stazioni Elettriche di connessione alla AT le imprese non operano
nell’ambito del libero mercato come per l’acquisizione dei terreni per posare i
pannelli solari. Si avvarranno della possibilità loro consentita dalla normativa
vigente di esproprio per pubblica utilità (art. 12 DPR 387/2003).
E guarda caso questo esproprio, per quattro soldi, una vera BEFFA, interesserà
un agricoltore, Andrea Maggi della cascina Baraggia in Carisio, che ha sempre
diniegato le vantaggiosissime proposte per la cessione dei propri terreni alle
imprese energetiche per proseguire nella sua attività famigliare.
Di seguito il video in cui Andrea racconta la situazione a seguito della notizia
appena ricevuta
L’Italia è un paese anziano e in calo demografico ma gli investimenti nel
comparto sanitario e socio-assistenziale sono sempre meno.
La manovrina di quest’autunno, la terza per il governo Meloni, propaganda di
avere dato centralità alla sanità per fare fronte alle liste d’attesa e ai
disagi che, sempre più spesso, portano la popolazione italiana a decidere di non
curarsi per l’inaccessibilità alla salute. Eppure sembra chiaro che i pochi
soldi stanziati non copriranno nemmeno un’unghia del reale fabbisogno per un
intervento strutturale nel comparto. Infatti le priorità del governo sono
dichiaratamente altre, il riarmo, la spesa bellica, attenersi alle indicazioni
dell’Europa.. alla faccia del governo sovranista!
Una delle regioni che sta subendo una maggior regressione in termini di
accessibilità e qualità del servizio è il Piemonte. In queste settimane sono
scoppiati non pochi bubboni tra le mani di chi intende gestire l’ambito
sanitario come il proprio cortile di casa. Se da un lato soffia il vento dello
scandalo per le vicende legate all’Asl To4 e alla cricca di Agostino Ghiglia –
agli onori delle cronache per diversi argomenti in questi giorni – dall’altro
lato le amicizie di alcuni personaggi con la Questura e la Procura fanno
capolino per strumentalizzare vicende che riguardano i movimenti sociali,
sperimentando l’uso amministrativo della repressione.
Ma andiamo con ordine.
“QUEGLI ANNOSI PROBLEMI”
Basta scorrere le pagine dei quotidiani dell’ultimo anno per accorgersi che i
problemi che riguardano la sanità pubblica nella città di Torino e nella regione
Piemonte sono molteplici. Partiamo dalle questioni strutturali: ricordiamo la
caduta del controsoffitto delle Molinette, uno dei maggiori e importanti
ospedali della città. Solo un segnale del graduale degrado delle condizioni
delle strutture: davanti all’evidenza l’assessore alla sanità Federico Riboldi
in quota FdI rispose “l’ospedale è vecchio ed è quindi chiaro che si corra un
maggior rischio”. Quando piove poi chi si trova ai piani inferiori rischia
l’allagamento, come successo sia alle Molinette che al Mauriziano qualche
settimana fa. Invece di preoccuparsi di attuare un piano di ristrutturazione e
manutenzione la Regione Piemonte guarda però verso altri lidi, sicuramente più
convenienti: risale a giugno la firma per l’intesa con l’Inail per la
costruzione di 7 nuovi ospedali in tutta la regione per la cifra stanziata di
2,257 miliardi di euro. Tra questi è previsto anche quello di Torino Nord, ossia
un nuovo ospedale che andrebbe a cementificare il parco pubblico della
Pellerina, per il quale il comitato che da tempo segue la vicenda ha scritto
molte pagine in un dossier con l’aiuto di esperti quali medici, tecnici
urbanisti, geologi, studiosi della mobilità per denunciare le numerose criticità
del progetto quali consumo di suolo, rischio di esondazioni, assenza di
pianificazione sanitaria, cementificazione.
Occorre poi sottolineare le difficoltà che incontra il personale sanitario nel
dover lavorare a determinate condizioni, a tal proposito nel 2024 si è
registrato un picco di dimissioni di medici, infermieri e oss, una sorta di onda
lunga del periodo Covid che ha sicuramente avuto il “pregio” di svelare la
maschera dei problemi cronici in ambito sanitario per poi anche dimostrare come
non si facesse nulla per intervenire. Lo dicono i dati: a Torino servirebbero
almeno 500 medici in più, questo significa che un medico lavora 594 ore l’anno
in più del dovuto, come se dovesse lavorare 16 mesi invece di 12 l’anno.
Rispetto poi ai medici di famiglia la situazione è disastrosa, in overbooking da
anni, messi nelle condizioni di non poter svolgere il loro servizio in maniera
seria, costretti a svolgere diagnosi per telefono e a sacrificare la
prevenzione. Ampliando lo sguardo ai vari ambiti della salute possiamo
sottolineare le difficoltà riscontrate nella presa in carico della salute
mentale, risale infatti a poco tempo fa la denuncia dei familiari e delle
associazioni che supportano i pazienti psichiatrici in città, che riguarda
l’esigenza di ottenere investimenti (si parla di 125 milioni di euro) per
aumentare il personale dato che i tempi per le visite sono lunghissimi e le
risposte sono principalmente farmaci non accompagnati da un lavoro complessivo
sulla persona. La Regione spende 62 milioni in antidepressivi e antipsicotici ma
la spesa a persona per il servizio si attesta a meno 8 punti percentuali
rispetto alla media nazionale riservata alla categoria.
A questo punto occorrerebbe aprire il capitolo “prevenzione” che in ogni settore
sanitario, Covid docet, dovrebbe essere la priorità assoluta. Eppure continua ad
essere carente e la vicenda che andremo a raccontare più avanti e che riguarda
lo Spazio Popolare Neruda è soltanto uno degli esempi in questo senso. Il buco
nero in cui sono caduti i progetti delle famose “case di comunità” che
dovrebbero assolvere il ruolo di assistenza territoriale al di fuori
dell’ospedale, potenziare la medicina di prossimità, migliorare il rapporto
medico-paziente, è un esempio. Sono ancora una chimera e oggetto di servizi
giornalistici che ne dimostrano la truffa. Il dato che registriamo è che al
posto di prevenire si continua a privatizzare. In merito allo stato dell’arte
della sanità andrebbe approfondito il nuovo piano socio-sanitario presentato da
Riboldi e Marrone bocciato dall’Ordine dei Medici in quanto vago e illeggibile.
Si denuncia l’assenza di un piano serio rispetto alla mancanza di personale,
alle mancanze nel settore epidemiologico, al mancato rilievo dei temi
ambientali, all’inesistenza di indicazioni sulle case di comunità, sul rapporto
tra sanità territoriale e ospedale. Nella nota dell’OMCeO vengono dettagliati
tutti i punti sui quali si evidenziano importanti criticità.
Rispetto alla privatizzazione innanzitutto vanno spese due parole sul tema
dell’intramoenia, attività libero professionale svolta dai medici dipendenti
all’interno degli ospedali pubblici, al di fuori dell’orario di servizio. A
Città della Salute, nonostante il termine intramoenia intenda letteralmente “
dentro le mura” , ben l 86% di questa attività è svolta fuori dall’ospedale, in
centri privati. Dato nettamente oltre la media nazionale: la Regione con
maggiore Intramoenia svolta all’esterno è infatti la Calabria, ma con una
percentuale di circa il 40% , meno della metà di quella svolta in CDSS. Nei
conti che non tornano del bilancio della Città della Salute si è infatti aperta
una questione sul disavanzo relativo all’attività intramoenia, ossia nel 2024
l’attività libero-professionale dei medici dell’ospedale avrebbe comportato
costi superiori agli introiti. Ciò significa che l’attività privata, svolta
all’interno o all’esterno dell’ospedale pubblico, andrebbe a gravare sul
bilancio della sanità pubblica. Proprio su questo tema si è consumata la vicenda
che ha visto il neo eletto commissario della Città della Salute di Torino Thomas
Schael (nominato commissario data l’opposizione alla sua nomina da parte dell’ex
rettore dell’Università Geuna), prima chiamato a svolgere il ruolo di revisore
dei conti (con sulle spalle un buco di milioni di euro su cui torneremo dopo)
dall’assessore Riboldi e poi, dopo pochissimo tempo, sfiduciato da Alberto
Cirio. E’ un dato che le attività in intramoenia svolte all’esterno
dell’ospedale finiscono per finanziare la sanità privata, in particolare
cliniche quali Humanitas, sulla quale è stata aperta un’inchiesta, che reggono
buona parte dei loro introiti e del loro prestigio sull’ attività svolta da
medici, spesso primari o professori, assunti dal SSN. Tra gli obiettivi di
Schael, pare da fonti interne, vi sarebbe stato anche quello di portare sotto la
gestione dell’Azienda Ospedaliera le convenzioni con le compagnie assicurative,
sottraendole alle cliniche private e riducendo così il rischio di accordi
indiretti tra strutture private e assicurazioni per i rimborsi. In ogni caso, il
progetto di Schael di riportare all’interno delle mura dell’ospedale l’attività
di intramoenia è probabilmente stata una delle cause del suo addio forzato.
Andiamo a rimettere ordine nelle vicende che riguardano la Città della Salute, i
conti in rosso, dirigenti amici dei provita, le carriere truccate.
“CITTÀ DELLA SALUTE O CITTÀ DEL MAGNA MAGNA?”
Pochi mesi fa, a giugno 2025, veniva avviato il processo a seguito
dell’inchiesta per sedici dirigenti sotto accusa per i bilanci truccati per una
cifra che si aggira intorno ai 120 milioni di euro. I conti di dieci anni sono
stati truccati in favore della salvaguardia di determinati personaggi e un certo
tipo di gestione. Tra gli imputati Giovanni La Valle, in quota PD, ex direttore
generale della Città della Salute e Beatrice Borghese, già direttrice
amministrativa, accusati di aver coperto le operazioni causando un buco di
bilancio di oltre 10 milioni di euro che, secondo l’accusa, potrebbe arrivare a
120 milioni.
Qui Chiara Rivetti del sindacato Anaao racconta l’origine della vicenda a
partire dal 2024
E’ interessante fare un focus sulla figura di La Valle, già al centro di
scandali in passato per le sue nomine e i suoi passi di lato per poi ritornare
sul centro della scena in piena pandemia, momento perfetto per farsi passare
inosservati. La Valle è lo stesso personaggio che ha presieduto la
sottoscrizione del patto tra ospedale pubblico e associazione Movimento per La
Vita insieme all’assessore per le Politiche Sociali Maurizio Marrone, FdI, il
direttore sanitario dell’ospedale Sant’Anna Roberto Fiandra e il Presidente
regionale del Movimento per la Vita Claudio Larocca per l’apertura della “stanza
dell’ascolto” all’Ospedale Sant’Anna di Torino. Un bel quartetto di uomini in
giacca e cravatta al quale spetterebbe il diritto di scelta di una donna che
vorrebbe interrompere una gravidanza per qualsivoglia motivo. Una scena
raccapricciante. Grazie alla mobilitazione che in città ha visto la
partecipazione di tantissime persone anche tramite l’occupazione dell’ospedale
per contrapporsi all’apertura della stanza dell’ascolto e alla presenza di
associazioni provita all’interno della sanità pubblica e grazie all’accoglimento
del ricorso presentato al TAR da CGIL Torino e Se Non Ora Quando, la convenzione
tra Città della Salute e movimento antiabortista è stata considerata
illegittima.
Consigliamo l’ascolto di questa intervista con Non Una di Meno Torino che
riassume le tappe della lotta.
Arriviamo dunque alle notizie di questi giorni. Il primo scandalo riguarda l’Asl
To4 e, in particolare, l’ospedale di Settimo Torinese. L’accusa riguarda il
maltrattamento di alcuni pazienti e concorsi truccati. Si parla di oltre 30
persone indagate tra dirigenti, medici, infermieri, referenti di cooperative
esterne per truffa, corruzione e esercizio abusivo della professione. Non
vogliamo addentrarci nei dettagli giudiziari ma ciò che ci sembra rilevante è il
coinvolgimento dell’organo per la prevenzione delle malattie e degli infortuni
sul lavoro, ossia lo Spresal, all’interno di queste indagini. A quanto pare la
dirigente di Asl To4 Carla Fasson (amica dell’ex pm antinotav Antonio Rinaudo)
al centro della bufera avrebbe incitato il coordinatore dello Spresal di Ivrea a
dissuadere una candidata dal presentare trasferimento. Lo Spresal è a processo
anche per centinaia di fascicoli sugli infortuni del Canavese mai arrivati in
Procura. Anche in altre occasioni lo Spresal non si è risparmiato dallo svolgere
ruoli al limite della propria missione professionale, come nel caso Askatasuna,
in quel caso però in accordo con la Procura.
L’altro elemento interessante della questione riguarda il caso Agostino Ghiglia,
componente del Collegio del Garante della Privacy in quota FdI, nonché cugino di
Carla Fasson al centro dell’inchiesta dell’Asl To4, personaggio controverso
salito agli onori della cronaca in questi giorni per aver commisurato una
sanzione a Report dopo una visita alla sede di FdI. Al primo la multa è di 150
mila euro per il servizio incriminato su Boccia e Corsini sotto suggerimento
dell’ex ministro Sangiuliano, per la cugina è stata assicurata una multa non
superiore a 5 mila euro. Le indagini riguardano infatti la richiesta da parte di
Carla Fasson di non essere troppo severo in merito alla vicenda risalente al
novembre 2022 quando l’AslTo4 avrebbe inviato 45 mail a pazienti fragili del
reparto di neurologia di Cirié senza nascondere gli indirizzi, andando dunque a
contravvenire alla privacy su dati sensibili. Sui quotidiani del 29 ottobre
viene raccontata la storia in merito all’indagine che riguarda Carla Fasson e
suo cugino: emergono favori anche nei confronti dell’ex pm Rinaudo, all’epoca
commissario dell’Unità di Crisi regionale per i vaccini del covid, il quale,
mentre dichiarava che sarebbero stati perseguitati tutti i “furbetti”,
telefonava all’amico per fare vaccinare un “soggetto che deve lavorare”
chiedendo di farlo in fretta e dando anche le proprie preferenze sul vaccino da
fare, non Moderna ma Pfizer. Sui giornali non ne viene dato grande risalto ma a
noi sembra piuttosto significativo che l’avvocata di Carla Fasson per questa
vicenda sia proprio Beatrice Rinaudo, oggi Vicesegretario cittadino e
Responsabile del dipartimento Legalità e Giustizia di Forza Italia Torino,
nonché figlia del ex pm Antonio.
“Dove c’è Ghiglia, c’è destra” era lo slogan dei suoi manifesti elettorali,
infatti la carriera di Agostino è lunga e, tralasciando i vari tentativi alle
elezioni prima con Fini poi con FdI, senza mai essere eletto, arriva a sedere
all’Autorità per nomina politica. Ma è soprattutto interessante sottolineare le
origini della sua carriera: giovane del Fronte della Gioventù, nel 2019 quando
presentò le liste del FUAN in Università rivendicò in alcuni suoi post Facebook
l’aver “combattuto la sinistra comunista e la sua ideologia assassina”.
Consigliere comunale e poi regionale del MSI viene ricordato nei titoli de La
Stampa del 1986 per aver picchiato insieme ad altri due aderenti al Fronte uno
studente del liceo Volta che aveva strappato un manifesto del MSI.
L’USO AMMINISTRATIVO DELLA SANITÀ E DELLA SICUREZZA PER ATTACCARE LE REALTÀ
SOCIALI E DI MOVIMENTO
La privatizzazione rampante della sanità, il disinvestimento nel pubblico e l’
“amichettismo” sembrano essere la cifra della destra al governo nell’ambito
della salute a livello nazionale. Questo quadro, già ributtante, in Piemonte si
arricchisce di ulteriori dettagli, infatti si ha la sensazione sempre più chiara
che questa rete di potere incistata nel sistema sanitario faccia un uso politico
spregiudicato delle istituzioni dedicate alla salute per attaccare i movimenti
sociali.
Gli esempi che si affastellano in questi anni sono molti e differenti: dal ruolo
dell’Asl nel tentativo di sgombero dell’Askatasuna, fino alle vicende più
recenti che riguardano lo Spazio Popolare Neruda.
Iniziamo dalla fine: il 22 ottobre La Stampa pubblica un articolo riguardo alla
presenza di alcuni casi di tubercolosi all’interno dello Spazio Popolare Neruda.
Immediatamente si è scatenato un polverone alimentato da alcuni media e dai
politicanti di destra con in testa il solito Maurizio Marrone. Niente di nuovo:
la destra piemontese è ossessionata dai movimenti sociali e su una vicenda del
genere può ricamare le sue velleità. L’aspetto più preoccupante di questa
vicenda, che si lega al metodo già sperimentato con il tentativo di sgombero di
Askatasuna, è che a sedere negli uffici del Dipartimento Prevenzione dell’Asl di
Torino è Roberto Testi, medico legale già noto per le sue amicizie in Procura,
in particolare con l’ex pm Antonio Rinaudo e per scandali vari per negligenza e
scarico di responsabilità durante la pandemia da Covid19. “Gli anziani nelle
RSA? Non prendiamoci la responsabilità diretta”, diceva quando sedeva a fianco
di Rinaudo nell’Unità di Crisi per la gestione dell’emergenza Covid.
Come sottolineato a gran voce dal comunicato scritto dallo Spazio Popolare
Neruda
la questione che ha fatto scatenare i giornali, ossia il caso di Tbc già gestito
e messo in sicurezza verificatosi tra le persone che abitano lo spazio, rivela
questioni ben più profonde che hanno a che fare con la prevenzione, l’accesso
alla salute, il razzismo istituzionale anche in ambito sanitario. Ne riportiamo
alcuni passaggi che ricostruiscono quanto avvenuto e il perchè chi ha avuto a
cuore la salute collettiva all’interno e all’esterno dello Spazio Popolare
Neruda si sia dovuto confrontare proprio con un personaggio come Testi.
> “Ci teniamo a precisare che fin dal primo momento in cui abbiamo saputo che
> una persona che viveva qui era affetta da tubercolosi con il rischio di
> contagio ci siamo attivati per la tutela della salute dell3 abitatnt3 dello
> spazio, di chi lo frequenta e del quartiere; siamo stati presi in carico
> comunità dalla ASL e la situazione dal punto di vista sanitario e del rischio
> contagio è stato messo sotto controllo. Quello che ci sembra invece fuori
> controllo sono le strumentalizzazioni politiche da parte della destra
> regionale sulla salute delle persone in condizione di precarietà abitativa e
> con background migratorio.”
A seguito della necessità di garantire la salute e di contenere il rischio
epidemiologico la risposta da parte di chi siede a capo degli uffici preposti è
stata invece quella di aprire un caso che va nella direzione di criminalizzare
chi lotta per la questione abitativa e l’accesso ai servizi, chi è di origine
straniera e dunque stigmatizzabile soprattutto quando si tratta di un certo tipo
di malattia, di strumentalizzare questo evento per creare le condizioni e il
terreno per eventuali sgomberi giustificati da problemi inerenti alla sicurezza
pubblica e l’agibilità dello stabile. Ancora non è noto quali saranno le
conseguenze di questi passaggi ma è fondamentale evidenziare i nodi politici che
emergono dalle dinamiche che intrecciano in maniera incontrovertibile Asl di
Torino, Procura, Questura e istituzioni regionali. In questa intervista viene
raccontata la vicenda, le modalità di gestione dell’emergenza, i ragionamenti
che hanno spinto ad agire nell’ottica di garantire la salute collettiva da parte
delle persone che vivono e rendono vivo lo Spazio Popolare Neruda. E’ importante
anche sottolineare come questo fatto abbia aperto delle contraddizioni interne
alla sfera istituzionale facendo schierare professionisti della salute dalla
parte del Neruda, come si evince dal Comunicato del Comitato per il diritto alla
tutela della salute e alle cure e che si può leggere anche qui, del quale
vogliamo sottolineare questo passaggio:
> “Quando emergono casi di malattia, il compito delle istituzioni e dei servizi
> è quello di informare correttamente la popolazione, non di alimentare paure o
> pregiudizi. Il Centro Neruda, che diversi membri del nostro Comitato
> frequentano come volontari, è uno spazio sociale della città che ha permesso a
> tante persone e famiglie di trovare una casa e una rete di sostegno.
>
> Nel recente caso di tubercolosi, è probabile che proprio la vita comunitaria
> all’interno del Neruda, e il fatto che la paziente vivesse insieme alla
> propria famiglia in un contesto organizzato, abbia consentito una diagnosi più
> tempestiva e una gestione più efficace della situazione.Tutte le famiglie
> residenti nel centro hanno collaborato con piena disponibilità ai controlli
> sanitari: questo è verosimilmente stato possibile grazie al clima di fiducia
> costruito nel tempo all’interno del Neruda.”
E’ significativo che venga riconosciuto il tema della fiducia costruita nel
tempo e che si voglia valorizzare proprio il contesto in cui le famiglie senza
accesso alla casa hanno costruito negli anni un esempio di vita basata su legami
di solidarietà e un modo di vivere la collettività, con tutte le sue difficoltà,
meritevole e capace di poter intervenire in maniera coordinata e collettiva in
casi come questo. Non è stato dello stesso parere Roberto Testi che, come
accennavamo prima, ha già dato prova della sua ostilità nei confronti dei
movimenti sociali. In questo lungo articolo, a seguito del suo coinvolgimento
nell’operazione che causò la dichiarazione di “inagibilità” del centro sociale
Askatasuna e l’ispezione di Asl, Spresal e Vigili del Fuoco, viene raccontato il
curriculum del personaggio. Non solo incuria e presa di distanza dalle sue
responsabilità nel momento di maggior emergenza attraversato negli ultimi anni,
ma anche perizie che, guarda caso, arrivano sempre firmate al momento giusto e
per colpire chi non va a genio. E’ infatti questo il caso delle conseguenze
dovute alla violenza della polizia durante lo sgombero del presidio di San
Didero dell’aprile 2021 quando una compagna notav viene colpita all’occhio da un
lacrimogeno lanciato ad altezza uomo causandole gravi danni e diversi interventi
maxillo-facciali. Come scrivevamo nell’articolo, “Pochi mesi dopo, a seguito
della visita dell’ex ministra degli Interni, Vittoria Lamorgese, del Capo della
Polizia, del Questore e del Prefetto per parlare di “violenze in Val di Susa” il
quotidiano torinese La Stampa pubblica un articolo in cui viene data notizia che
la consulenza medica, effettuata per conto della Procura sulla compagna No Tav
neghi che sia stata colpita da un lacrimogeno, presentandola come fosse una
verità assoluta e strategicamente data in pasto ai giornali compiacenti ancor
prima di informare i suoi legali. Guarda caso il dottore che firmò la perizia
era proprio Roberto Testi”. Ma è importante anche riportare che “ Il dottor
Testi ritorna anche in un altro caso importante a Torino, ossia il decesso di
Andrea Soldi, malato di schizofrenia morto a seguito di un TSO. Secondo Roberto
Testi “La causa del decesso del paziente non può essere stata la presa per il
collo. In nessun caso. Se strangoli qualcuno, la morte è immediata. Altro che
venti o trenta minuti”. Testi in questo caso è il consulente tecnico di una
delle quattro persone coinvolte nella morte di Soldi (lo psichiatra Pier Carlo
Della Porta) indagato per la fine di Andrea Soldi, come viene riportato in un
articolo su LaVoce. Dopo 7 anni si è chiusa la vicenda giudiziaria con quattro
condanne per la morte di Andrea Soldi. La Cassazione ha respinto i ricorsi degli
avvocati difensori, confermando così la colpevolezza dei tre agenti di polizia
municipale (Manuel Vair, Stefano Del Monaco ed Enri Botturi) che materialmente
eseguirono il Tso e del medico psichiatra Pier Carlo Della Porta che aveva in
cura Andrea. A voi le conclusioni.”
CONCLUSIONI
In un Paese in cui la priorità è il riarmo, l’investimento pubblico nelle
aziende belliche e la tutela di un generale atteggiamento di “copertura”
dell’enorme voragine di soldi pubblici dalla quale bene o male tutti hanno
beneficiato se passati a ricoprire ruoli istituzionali, le dinamiche della città
di Torino e della Regione Piemonte sono soltanto un esempio. Al Sud del nostro
Paese i rifiuti tossici vengono lasciati marcire e bruciare sotto e sopra la
terra, innalzando senza limiti i dati del registro tumori regionale. Se il
registro tumori nemmeno c’è, come in Sardegna, chissà quando si potranno
verificare le conseguenze sulla salute delle esercitazioni militari sul proprio
territorio o degli impianti di Portovesme o dei miasmi della Saras, come viene
riportato dal documento del GrIG (Gruppo d’Intervento Giuridico). Secondo il
Report della Fondazione GIMBE, a un anno dalla pubblicazione del DL Liste
d’Attesa, a giugno del 2025 ben 6 milioni di italiani rinunciano alle cure:
secondo l’ISTAT, nel 2024 una persona su dieci ha rinunciato ad almeno una
prestazione sanitaria, il 6,8% a causa delle lunghe liste di attesa e il 5,3%
per ragioni economiche. E la motivazione relativa alle liste di attesa è
cresciuta del 51% rispetto al 2023. Nel frattempo però il Governo produce in
maniera sistematica decreti che delegano a se stesso pieno margine di manovra su
materie delicate e prioritarie: è il caso del Dl sugli Sfratti e del Ddl sul
Nucleare per entrambi i casi le parole d’ordine sono snellire e accelerare le
procedure, istituire Autorità ad hoc per gestire questi ambiti scavalcando
Tribunali ordinari da una parte e Comuni e Regioni dall’altra. Entrambe le
questioni riguardano pienamente la salute collettiva, la possibilità di vivere
bene sul proprio territorio, garantendo il diritto di una casa, di un ambiente
sano e salubre.
La gravità di quanto accade tra gli uffici torinesi, gli interessi che vengono
tutelati e garantiti per colpire chi propone un’opzione diversa e indica le
responsabilità di inadempienze pubbliche, si inserisce in un quadro disastroso
rendendo il tutto ancor più preoccupante e soprattutto rendendo ancora più forte
il desiderio di riscatto.
Qualche giorno addietro un parente di Pietra Ligure nell’augurarmi un buon
compleanno mi ricordava come quando nacqui o giù di lì d’inverno in Liguria
nevicava, e non nell’interno, bensì proprio sulle spiagge.
di Fabio Balocco, da Volere la Luna
Già quando mi trasferii a Torino all’inizio degli Ottanta quella neve candida e
lieve era diventata solo un ricordo e, a parte la precipitazione del secolo del
gennaio 1985, anche nella città subalpina di neve ne ho vista ben poca.
Se non fosse stato per la casuale scoperta canadese degli anni Quaranta,
perfezionata e adattata negli anni, molte stazioni sciistiche dell’arco alpino
occidentale avrebbero chiuso i battenti da un bel po’. Parlo ovviamente della
neve artificiale o programmata o finta che dir si voglia, che ha sopperito in
questi decenni alla carenza di quella che scende naturalmente dal cielo. Seppure
con costi talmente elevati in termini di energia elettrica e di consumo di acqua
da “costringere” spesso le amministrazioni pubbliche a intervenire per coprire i
buchi di bilancio delle stazioni invernali.
Fino ad oggi la neve artificiale per essere prodotta necessitava pur sempre di
un elemento imprescindibile, e cioè che facesse freddo. Almeno quello. Ma,
dicevo, fino ad oggi. Perché la TechnoAlpin, azienda leader nel campo della
produzione di neve, si è inventata una SnowFactory, “un’innovativa tecnologia
che consente di produrre neve della migliore qualità in modo completamente
indipendente dalla temperatura dell’aria… La neve prodotta presenta una
consistenza particolare che ne rallenta il processo di scioglimento
indipendentemente dalle condizioni atmosferiche, mentre il volume rimane
inalterato anche in seguito al passaggio di un veicolo battipista”
(https://www.technoalpin.com/it/generatori-di-neve/snowfactory/).
Quindi una neve che si riesce a produrre indipendentemente dal fatto che faccia
caldo o freddo, chissenefrega, ma che resiste anche al passaggio di un gatto
delle nevi: non si compatta! Un’invenzione che sicuramente sarà adottata a
Trojena, la futura località sciistica dell’Arabia Saudita
(www.dovesciare.it/news/2024-01-23/trojena-la-futuristica-localita-sciistica-dellarabia-saudita-video-e-fotogallery)
ma che garantirà altresì sicure aperture di stagione alle località sciistiche
dell’arco alpino, quanto meno a quelle che avranno la capacità finanziaria per
potersi dotare della fabbrica della neve.
Con la fabbrica della neve la fine dello sci di pista che molti preconizzavano a
breve si sposterà nel tempo e dunque ben vengano nuovi ampliamenti. Altro che
accanimento terapeutico! E dunque ben vengano i nuovi collegamenti: Cime
Bianche, Civetta-Cinque Torri, Còlere-lIzzola, solo per citarne alcuni. È il
progresso, bellezza, e tu non puoi farci niente, niente (“L’ultima minaccia”
docet).
Riprendiamo da “Senza Tregua contro i Padroni” il recente scritto* di Marwan
Abdel Al – dirigente del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (3
novembre 2025).
Da Balfour a Trump, dal distintivo giallo alla linea gialla, la stessa storia si
ripete in un unico colore, un colore che macchia le mappe e dipinge sia la
geografia che la memoria.
Più di un secolo dopo la Dichiarazione Balfour, la tragedia palestinese continua
a rinnovarsi in forme diverse, ma conserva un’unica essenza: la persistenza del
progetto coloniale occidentale attraverso nuovi strumenti e nomi mutevoli. La
Dichiarazione Balfour del 1917 era, nella sua essenza, la proclamazione di un
ordine mondiale costruito sulla negazione dei popoli indigeni e sulla loro
sostituzione con i coloni, non come un incidente storico, ma come una pietra
angolare della moderna “civiltà occidentale”. Non era tanto una promessa agli
ebrei quanto una promessa all’Impero britannico stesso: una garanzia che il suo
dominio in Oriente sarebbe durato attraverso la creazione di uno Stato che
svolge una duplice funzione: servire gli interessi occidentali e smantellare la
geografia araba dall’interno.
Quasi un secolo dopo, la prima promessa di Trump è arrivata nel 2017,
riconoscendo Gerusalemme come capitale dell’Occupazione, seguita dalla sua
seconda promessa nel 2025, il cosiddetto “Piano Trump”. Ancora una volta, la
scena è apparsa nella sua forma più cruda. Proprio come Balfour ha concesso
terre che non possedeva a coloro che non le meritavano, Trump ora offre un
“cessate il fuoco” che non cessa il fuoco, una cosiddetta fine della guerra che
non pone fine alla guerra, ma piuttosto riprogetta la geografia palestinese per
adattarla al progetto di sterminio sistematico.
Ciò che oggi viene chiamato “cessate il fuoco” è semplicemente il
perfezionamento dei massacri di ieri, la trasformazione dell’uccisione da atto
militare a sistema amministrativo. In passato, lo sterminio veniva effettuato
mediante bombardamenti; oggi, viene esercitato attraverso il controllo dei
valichi, dell’elettricità, dell’acqua e del cibo, attraverso mappe a colori che
dividono Gaza in zone “di sicurezza” e “umanitarie” sotto una supervisione
tutt’altro che internazionale, consolidando la separazione invece di porvi fine.
Tra la promessa di Balfour e quella di Trump, persiste la stessa traiettoria: un
colonialismo che cambia il suo linguaggio ma non la sua essenza. Il primo ha
creato il mito della “terra senza popolo” – concedendo ciò che non possedeva a
coloro che non lo meritavano – mentre il secondo crea il mito del “Consiglio per
la pace umanitaria”. Entrambi poggiano sulle stesse fondamenta: la cancellazione
del palestinese come soggetto politico, riducendolo a una figura puramente
umanitaria, una vittima perpetua la cui vita è gestita dall’esterno. Così, il
ghetto diventa la forma moderna dello Stato che non è mai stato autorizzato a
esistere; “l’aiuto umanitario” sostituisce la sovranità nazionale e il
“monitoraggio” diventa una nuova maschera per il controllo coloniale.
Un lettore della storia occidentale moderna riconoscerà questi schemi. Quando
l’Europa nazista dipinse linee gialle sui negozi ebraici e li costrinse a
indossare distintivi gialli, stava aprendo la strada all’isolamento e allo
sterminio. Quando fu creato il “Ghetto di Varsavia”, si disse che era
temporaneo, per “organizzare la vita”, ma in realtà era un preludio all’omicidio
di massa. Oggi, quando sulle mappe di Gaza compaiono linee gialle che separano
le “zone sicure” dalle “aree proibite” e quando si dice che una tregua mira alla
ricostruzione, è in atto la stessa logica: l’isolamento come preludio a una
cancellazione politica a lungo termine.
È lo stesso segno giallo, trasferito dal braccio alla geografia, da un simbolo
di vergogna individuale a un intero sistema imposto a un intero popolo.
Questa logica trova un precedente anche nella storia americana, nella creazione
delle “riserve” dei nativi americani. Lì, l’idea di “protezione” era una
maschera per la totale cancellazione culturale e geografica. Le riserve sono
state istituite in nome della pace, ma sono servite come strumenti di lento
annientamento, confinando le popolazioni indigene in zone isolate controllate
dall’esterno. Oggi, quell’esperimento viene ripetuto sulle coste di Gaza, non
nella sua vecchia forma grezza ma attraverso nuovi meccanismi legali e politici:
“amministrazione umanitaria”, “supervisione della sicurezza”, “supervisione
internazionale”, termini morbidi che nascondono la continuazione del
colonialismo nella sua forma tecnologicamente più raffinata.
Nell’era Balfour, il linguaggio era apertamente imperiale. Nell’era Trump, il
linguaggio è “umanitario”, ripulito attraverso il vocabolario dei diritti umani,
ma con lo stesso scopo: legittimare il controllo. I “piani di pace” politici
possono sembrare orientati verso l’insediamento, ma in sostanza sono
insediamenti sul sangue e sulla memoria. Il riconoscimento richiesto ai
palestinesi oggi non è dei loro diritti ma della loro sottomissione; il cessate
il fuoco offerto loro non è la fine dell’aggressione ma la sua continuazione in
una forma silenziosa e prolungata.
Ciò che si sta verificando oggi a Gaza non è semplicemente una catastrofe
causata dall’Occupazione: è uno specchio trasparente della storia coloniale
dell’Occidente, che si estende dal distintivo giallo alla linea gialla, alla
promessa gialla; dal ghetto di Varsavia al ghetto di Gaza; dalle riserve dei
nativi americani alle zone di isolamento disegnate con inchiostro americano.
Sono tutti anelli della stessa catena di credenze: la dottrina della superiorità
che giustifica l’esclusione e la maschera da civiltà o pace. Ma ciò che cambia
oggi è che la vittima non è più silenziosa. Gaza, il ghetto moderno, è diventata
il simbolo inverso di quello antico. Il segno giallo non è più un distintivo di
vergogna, ma un segno di resistenza. I ghetti non sono più tombe della memoria,
ma laboratori di puro significato umano. Nell’affrontare l’isolamento, emerge
una nuova consapevolezza: che la lotta non è più solo per la terra, ma per il
significato stesso. Chi definisce la vittima? Chi garantisce la legittimità? Chi
detiene il diritto di narrare?
Affrontare la promessa di Trump del 2025 non si otterrà accettandone i termini o
gestendo una versione migliorata del ghetto, ma smascherandone la logica
coloniale e ripristinando l’essenza morale e politica del riconoscimento: il
riconoscimento dei diritti storici del popolo palestinese, non del dominio
impostogli. Un vero cessate il fuoco non consiste nella riduzione dei
bombardamenti, ma nello smantellamento del sistema che li produce. La giustizia
non può basarsi su un falso equilibrio tra carnefice e vittima, ma sulla
responsabilità e sul ripristino del diritto.
Da Balfour a Trump, dal distintivo giallo alla linea gialla, la grande domanda
morale si ripete: quante volte il palestinese deve essere punito prima che
l’Occidente sia soddisfatto della sua sopravvivenza? La risposta sorge
dall’interno del ghetto stesso – dalle rovine delle case, tunnel e dagli
accampamenti della fermezza: questo popolo non cerca aiuti umanitari senza la
liberazione nazionale, nessuna tregua che diventi una bomba a orologeria, ma
piena libertà e piena giustizia. Questo è il vero significato di porre fine al
crimine – l’unico significato che può far crollare sia le promesse di Balfour
che quelle di Trump, riscrivendo la Storia in nome di una Palestina democratica
e libera – portando al mondo la sua redenzione da una Storia inquinata dal
razzismo e dal genocidio.
La “promessa gialla” non è mai stata un evento passeggero, ma un sistema
autoperpetuante di inganno, illusione e dominio – che si riproduce ogni volta
che i palestinesi si ribellano, resistono e dichiarano la loro libertà. Ogni
“tregua” per l’occupazione è solo un trucco per l’assedio; ogni “piano di pace”
è un altro capitolo di una vecchia promessa che deve ancora cadere.
Pubblicato su Al-Akhbar lunedì 3 novembre 2025
*traduzione a cura della Redazione di Senza Tregua Contro i Padroni
Di fronte alla recente elezione di Rodrigo Paz nel ballottaggio presidenziale
del 19 ottobre scorso i movimenti sociali, sindacali e delle popolazioni
originarie del Paese si preparano ad avviare una nuova fase di resistenza in
difesa dei risultati sociali raggiunti e della sovranità nazionale, ma per ora
soono divisi e disorganizzati, senza dirigenti indiscussi e senza partito di
fronte ad una destra che, nella sua campagna elettorale, ha chiesto la fine
dello Stato Plurinazionale.
di Marco Consolo, da La Bottega del Barbieri
Tutto come previsto nel ballottaggio elettorale per decidere il nuovo presidente
della Bolivia. Con una alta partecipazione (l’85% dei quasi 8 milioni di aventi
diritto al voto, compresi i voti all’estero) dopo 19 anni, il governo torna alla
destra. Rodrigo Paz, del Partido Demócrata Cristiano (PDC), figlio dell’ex
presidente Jaime Paz Zamora, ha ottenuto il 54,5% dei voti, contro l’ex
presidente Jorge “Tuto” Quiroga, (Alleanza Libre) con il 45,5%. Mentre il
candidato della destra “moderata” pro-USA, Rodrigo Paz, (che aveva vinto il
primo turno) ha vinto al suo primo tentativo di andare a Palacio Quemado,
viceversa (e per la quarta volta) non ce la fa Quiroga, il grande sconfitto di
questa tornata elettorale.
Con questo risultato, si chiude, per il momento, l’egemonia del Movimento al
Socialismo (MAS) di Evo Morales, dopo quasi venti anni di governo con la
presidenza di Evo Morales (2006-2019) e di Luis Arce (2020-2025), interrotta
solo dal golpe contro Evo (con la complicità della UE e degli Stati Uniti) con
il governo de facto di Jeanine Áñez tra il 2019 e il 2020. Nel 2020, la miscela
di repressione, inefficienza e corruzione del governo golpista aveva facilitato
la vittoria elettorale ed il ritorno del MAS, dato che si manteneva la sintonia
tra il campo popolare e lo “strumento politico”, riattivata per riprendere il
governo.
La svolta elettorale a destra si è immediatamente irradiata anche al potere
giudiziario, che ha annullato le sentenze contro Áñez, non appena il MAS ha
perso al primo turno, senza neanche aspettare il ballottaggio.
Al ballottaggio del 2025, non ha funzionato la strategia del “voto nullo”
impulsata da Evo Morales, che nel ballottaggio ha raccolto un misero 4%.
La campagna di Paz ha combinato le “reti sociali” con azioni tradizionali, che
includevano viaggi negli angoli più remoti del Paese, tra cui una piccola città
nel profondo Altiplano, luogo di nascita di Evo Morales. La sua strategia è
stata quella di mostrarsi più vicino alla gente comune, che
alle élite economiche tradizionali. Rodrigo Paz ha anche parlato con insistenza
di Dio e di religione, con una volontà evidente di rivolgersi al mondo
evangelico pentecostale che, come in tutta la regione, è molto più forte che in
passato.
Il suo insediamento è previsto per il prossimo 8 novembre.
L’elezione di Paz, pur segnando una svolta a destra, si caratterizza come il
“male minore” e la ricetta neo-liberista sarà un po’ meno brutale di quella che
avrebbe potuto realizzare Quiroga.
Alcuni elementi del voto
Rispetto alla geografia elettorale, la mappa del voto ha mantenuto la storica
divisione Occidente/Oriente del Paese. Nelle Ande occidentali, Paz ha vinto con
un ampio vantaggio, mentre a Oriente, Quiroga ha vinto con meno distacco. Paz ha
ereditato parte dei voti dal MAS, che era forte nelle Ande occidentali a
maggioranza dei popoli originari. Al contrario, i voti che hanno spinto “Tuto”
Quiroga sono venuti per lo più dalle città capoluogo, oltre al sostegno diffuso
dei dipartimenti di Beni e Santa Cruz: un voto da parte del ceto medio
tradizionale e dei settori “aspirazionali”, predominanti nell’est del Paese,
storica roccaforte della destra boliviana.
Per quanto riguarda la componente sociale, al secondo turno una maggioranza
urbana-rurale dei popoli nativi ha optato per Paz, come ha fatto per Evo tra il
2005 e il 2014 e per il MAS nel 2020. Ad una prima lettura, una minoranza urbana
di classe alta bianca si è ritrovata attorno a Tuto Quiroga, come ha fatto per
Mesa nel 2019 e in maniera sparsa tra il 2005 e il 2014.
MAS: un tramonto annunciato
Come si ricorderà, all’inizio della decade del 2000, c’erano state massicce
mobilitazioni popolari (“guerra dell’acqua” e “guerra del gas”) contro le
privatizzazioni, ma che reclamavano (nelle strade e nelle urne) anche la
possibilità di ricambio politico e di autogoverno.
In termini sociali ed elettorali, questo è stato l’inizio del Processo del
Cambiamento. È stata la nozione di autodeterminazione di questi settori, per lo
più dei popoli originari, che nel 2003 ha rovesciato il regime neoliberista e
che, nel 2005, ha eletto Evo Morales Presidente. In una società con una forte
presenza dei popoli originari, ha avuto un ruolo importante avere un candidato
in cui riconoscersi. Poter votare qualcuno che ha lo stesso colore della pelle,
lo stesso modo di essere, di camminare, di vestirsi, parlare, etc. in una sorta
di auto-rappresentazione popolare.
A partire dall’unità raggiunta nelle mobilitazioni, si era rafforzato ed
ampliato il tessuto di alleanze e di unità tra i movimenti sociali (urbani e
rurali), sindacati, organizzazioni dei popoli originari e parte della sinistra
politica, che aveva dato vita al Movimento al Socialismo – Strumento per la
Sovranità dei Popoli (MAS-IPSP). Un ombrello ampio, più movimento che partito
tradizionale, fortemente dipendente dalla figura di Evo Morales, ma che
raccoglieva in maniera unitaria le tante anime della ribellione popolare.
Viceversa, nelle elezioni del 2025, il MAS si è presentato diviso in tre e con
due candidati: l’ex ministro Eduardo del Castillo, con la sigla ufficiale, che
ha ottenuto solo il 3,17% dei voti; Andrónico Rodríguez, che si è presentato con
una sigla “prestata”, ha avuto l’8,5%. Infine, l’ex presidente Evo Morales, a
cui i tribunali hanno impedito di presentarsi, che al primo turno ha fatto
campagna per il voto nullo con un risultato non trascurabile: il 19% degli
elettori ha annullato il voto. Anche se si esclude il 3,5-4 % dei voti nulli
delle elezioni precedenti, si può attribuire all’ex presidente circa il 15-16%
di questi voti. Con questi risultati, con una candidatura unitaria, il MAS
probabilmente sarebbe potuto passare al ballottaggio. E anche in caso di
sconfitta, avrebbe potuto contare su una presenza parlamentare ben maggiore di
quella ottenuta al primo turno del 17 agosto, quando è praticamente scomparso
dalla vita parlamentare. Va ricordato che, prima di quella data, non ha
funzionato la strategia di Evo Morales di mobilitazione e di blocchi stradali
per revocare la sua proscrizione elettorale. Blocchi che non solo sono stati
repressi dal governo Arce, ma hanno anche provocato un rifiuto sociale, vista la
crisi economica ed istituzionale. Nonostante ciò, l’ex Presidente rimane un
importante attore politico.
In conclusione, ha funzionato la strategia imperialista di provocare
un’implosione nel MAS e nelle organizzazioni sociali. Il partito che ha dominato
la politica boliviana dal 2005 e che è stato l’anima e il motore della
“Rivoluzione Democratica e Culturale” – con risultati storici del 64% dei voti
alle elezioni del 2009, del 61% nel 2014 e del 55% nel 2020 – non solo è stato
lasciato fuori dal secondo turno delle elezioni e dal parlamento, ma è
praticamente imploso come movimento-partito.
Economia
I primi anni del MAS hanno mostrato capacità di inclusione “etnica” e sociale,
ampliando la “foto di famiglia della nazione” e consentendo un lungo periodo di
crescita economica e di ridistribuzione dei benefici. Ma, poco a poco, quel
modello ha mostrato i suoi punti deboli dato che l’espansione economica, in
gran parte, era basata sugli alti prezzi internazionali delle materie prime e su
precedenti scoperte di giacimenti di gas. E in questi due decenni, i governi del
MAS non sono riusciti a consolidare uno “Stato sociale” che andasse oltre la
logica dei “buoni” specifici ai settori di basso reddito. In un Paese
caratterizzato dal forte peso dell’economia informale, il progetto nazionalista
del MAS sebbene abbia permesso una crescita economica significativa con una
bassa inflazione, non è riuscito a industrializzare il Paese come aveva
promesso.
Oggi, la Bolivia sta attraversando una crisi economica che tutti i candidati
avevano promesso di risolvere. Sembra aver funzionato la promessa di Paz di
“capitalismo per tutti”, che combini l’attrazione di capitali stranieri con un
certo intervento statale. Un esperimento ancora indefinito che dovrà affrontare
una crisi che si trascina da tempo, tra l’altro con una scarsezza di
combustibile e di divisa.
Con la presidenza di Paz, il cammino che prenderà la Bolivia sarà molto distante
dalle politiche del MAS di rafforzamento dello Stato (dopo decenni di
neo-liberismo selvaggio), di nazionalizzazioni delle imprese strategiche (gas,
litio, etc.), di ridistribuzione della ricchezza. Il nuovo governo ha già
promesso un durissimo aggiustamento neoliberista, fiscale, monetario e
cambiario, la limitazione delle tasse al 10 %, l’apertura agli organismi
finanziari internazionali, oltre ad incentivi al settore privato per rilanciare
gli investimenti nel settore estrattivo (idrocarburi e miniere, litio in
particolare). Un bottino che fa gola a molte multinazionali occidentali, anche
rispetto alla cosiddetta “transizione energetica”.
Anche la proposta di Paz di redistribuire il bilancio a favore delle province
(che in altre latitudini risponderebbe ad una decentralizzazione), in Bolivia si
traduce automaticamente nel rafforzamento delle élite locali, estremamente
violente e storicamente inclini al separatismo. C’è il rischio concreto di
ri-cattura dello Stato nazionale da parte di caudillos locali, nostalgici del
periodo coloniale, nonché di un possibile tentativo di secessione, un’ipotesi
mai abbandonata dalle élite locali delle aree ricche del Paese. È bene ricordare
che la Bolivia non ha mai avuto un sistema di democrazia liberale e fino al 2005
è stato governato da un’oligarchia classista e profondamente xenofoba. Con il
risultato dell’esclusione della maggioranza della popolazione (rappresentata dai
popoli originari) dagli spazi di potere e dai benefici delle risorse naturali,
che hanno arricchito l’oligarchia locale e le multinazionali occidentali.
Per applicare il suo programma, visti i numeri di Paz in Parlamento che non gli
garantiscono la maggioranza (16 senatori su 36 e 49 deputati su 130), il nuovo
governo dipenderà dalla capacità di costruire alleanze e coalizioni con il resto
delle destre. Il tono conciliante di Paz è stato chiaramente funzionale alla
caccia dell’appoggio parlamentare di Quiroga e/o di Doria Medina (7 senatori e
26 deputati), l’altro sconfitto a destra. Come si sa, i voti nulli non eleggono
deputati.
La politica estera
Per le sue implicazioni geopolitiche verso tutto il Cono Sud, la Bolivia è una
delle chiavi dell’egemonia statunitense nel sub-continente, ancor più dopo la
vittoria di Rodrigo Paz. Naturalmente, la sua vittoria è stata salutata con
gioia dalla Casabianca, che spera di riprendere i rapporti diplomatici (e non
solo) dopo l’espulsione dell’ambasciatore statunitense nel 2008 e della DEA,
l’Agenzia “antidroga” statunitense.
A distanza di 20 anni, l’implosione del modello politico ed economico realizzato
dal MAS è una vittoria di Washington, che non ha mai smesso di destabilizzare il
processo di trasformazione boliviano per riprendere il controllo del Paese. Il
dominio totale (oggi reso possibile dalla vittoria elettorale della destra
locale) era un obiettivo perseguito da Washington durante i governi di Evo
Morales e Luis Arce. Da parte sua, Rodrigo Paz ha chiarito che manterrà una
“posizione aggressiva” per cercare accordi di libero scambio con diversi paesi,
tra cui gli Stati Uniti.
La svolta a destra, tra l’altro, metterà certamente in discussione gli accordi
raggiunti con la Cina e con la Russia per lo sfruttamento del litio, del gas e
delle altre risorse naturali strategiche. Si riprenderanno i rapporti
diplomatici con Israele, mentre sono a rischio quelli con il Venezuela e Cuba.
C’è ancora incertezza su cosa farà il nuovo governo nei confronti dei BRICS,
alleanza in cui la Bolivia è stata ammessa da poco.
Sul versante delle alleanze regionali, la Bolivia è stata appena espulsa
dall’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America – Trattato di
Commercio dei Popoli (ALBA-TCP) dopo i commenti del neo-eletto presidente,
Rodrigo Paz, con cui ne sminuiva il ruolo. Sia l’attuale presidente Luis Arce,
che l’ex presidente Evo Morales, hanno espresso pubblicamente il loro impegno
nei confronti del blocco regionale che ha promosso numerosi programmi sociali
per sradicare l’analfabetismo nella regione, risolvere i problemi abitativi o
restituire la vista (Operaciòn Milagro) a chi vive in zone isolate nel
continente. La difesa dell’ALBA arriva dopo la decisione del blocco di
sospendere la Bolivia per la “condotta antibolivariana, antilatinoamericana,
proimperialista e colonialista” del governo eletto, dopo che quest’ultimo non ha
invitato alla sua investitura i Capi di Stato di Cuba, Nicaragua e Venezuela,
senza reali giustificazioni politiche.
Anticomunista da “guerra fredda”, Paz è meno entusiasta delle guerre culturali
condotte dalla nuova destra, anche se ha dichiarato di voler chiedere aiuto al
salvadoregno Bukele per la “sicurezza” e ha elogiato l’argentino Milei e il
cileno José Antonio Kast.
E rispetto al Cile, rimane complicata la relazione con la Bolivia, in
particolare per il netto rifiuto da parte cilena di risolvere le storiche
rivendicazioni marittime del Paese andino, messe nero su bianco nell’art. 268
della Costituzione boliviana.
Più in generale, è chiaro che la svolta a destra comporterà l’allineamento con
gli alleati di Washington nella regione ed un distanziamento dalle alleanze
internazionali tenute in questi 20 anni (Cina, Russia, Cuba, Venezuela, Iran),
che la Casabianca vede come il fumo negli occhi.
Una nuova tappa di resistenza
Con l’implosione del MAS, si chiude un ciclo politico e ideologico aperto con le
guerre dell’acqua e del gas del 2000 e del 2003. La sinistra boliviana ritorna
così alla situazione di prima del 2005, con il rischio che una parte dei
movimenti possa essere comprata con prebende statali. Il MAS è stato un partito
di movimenti, fonte di forza, ma anche di debolezza, dato che non aveva una
struttura organica e dipendeva da Evo Morales per mantenere l’unità. Oggi,
la leadership di Evo non è più come la conoscevamo, ma la sua figura, sebbene
messa al bando, continua a essere un fattore chiave nello scenario politico ed
elettorale, dopo essere stato rieletto due volte con una ampia maggioranza.
Così, per ora divisi e disorganizzati, senza dirigenti indiscussi e senza
partito, la sinistra politica e sociale e la maggioranza dei popoli originari
devono fermare una destra che nella sua campagna elettorale ha chiesto la fine
dello Stato Plurinazionale, il ritorno alla Repubblica tradizionale (e non più
pluri-nazionale) e l’espulsione dei “masticatori di coca” dal governo.
Di fronte a questo nuovo scenario, i movimenti sociali, sindacali e delle
popolazioni originarie del Paese si preparano ad avviare una nuova fase di
resistenza in difesa dei risultati sociali raggiunti e della sovranità
nazionale.
Il primo difficile compito è quello di rimarginare le profonde ferite provocate
dalla spaccatura nel “Patto di unità” delle organizzazioni sindacali, sociali,
di contadini e popoli originari. Il Patto riuniva la Confederación Nacional de
Mujeres Campesinas Indígenas Originarias de Bolivia “Bartolina Sisa”
(CNMCIOB-BS), la Confederación Sindical de Comunidades Interculturales
Originarias de Bolivia (CSCIOB), il Consejo Nacional de Ayllus y Markas del
Qullasuyu (CONAMAQ) e la Confederación de Pueblos Indígenas de Bolivia (CIDOB),
oltre alla Confederación Sindical Única de Trabajadores Campesinos de Bolivia
(CSUTCB).
Un segnale positivo è stato il recente Congresso della principale centrale
sindacale, la storica Central Obrera Boliviana (COB), con l’elezione di un nuovo
gruppo dirigente. Dando un segnale chiaro, i nuovi dirigenti hanno già
dichiarato la loro opposizione a qualsiasi misura governativa di carattere
neoliberista, sia che si tratti della soppressione dei sussidi sui combustibili,
della privatizzazione della sanità e dell’istruzione o della svendita delle
risorse naturali.
Seppure in grande difficoltà, sarebbe quindi un errore considerare concluso il
Processo del Cambiamento che, seppur disperso, è ancora vivo in quel tessuto a
rete costruito in questi anni.
Per riprendere il cammino della trasformazione è necessario avviare da subito un
processo di dialogo di tutte le organizzazioni popolari, non solo per realizzare
le necessarie autocritiche, ma soprattutto per elaborare insieme le basi di una
piattaforma programmatica comune, come strumento per mobilitare la popolazione
nella difesa dei diritti conquistati ed affrontare le misure neoliberiste nel
prossimo quinquennio. Senza negare l’importanza della crescita di nuovi
dirigenti che potrebbero emergere dai conflitti sociali.
Vedremo se il presidente eletto saprà muoversi con il dovuto realismo rispetto a
un’opposizione dal basso che, nonostante la sconfitta della sua espressione
elettorale, rimane organizzata per resistere agli attacchi anti-popolari.
La strada dell’unità del campo popolare è piena di buche ed in salita, ma
all’orizzonte non ne appaiono altre.
Link all’articolo originale:
https://marcoconsolo.altervista.org/sulla-sconfitta-boliviana/
Il presidente ecuadoriano cerca di eliminare l’articolo costituzionale che
proibisce basi straniere, nonostante il rifiuto sociale e ambientale.
Il presidente dell’Ecuador, Daniel Noboa, ha incluso nella consultazione
popolare del 16 novembre una domanda affinché la cittadinanza approvi
l’installazione di una base militare statunitense nelle isole Galápagos, con
l’argomento di combattere la pesca illegale e il narcotraffico.
L’iniziativa fa rivivere l’esperienza della base statunitense a Manta
(1999-2009), installata con lo stesso pretesto, ma i cui risultati furono
contestati per la sua mancanza di validità e per denunce di violazioni di
sovranità e diritti umani.
Rischi per l’ecosistema e la sovranità nazionale
Le isole Galápagos, dichiarate Patrimonio Naturale dell’Umanità nel 1978,
costituiscono una delle regioni ecologicamente più fragili del pianeta.
Secondo gli esperti, una base militare potrebbe incrementare la contaminazione
marina, alterare l’ecosistema e limitare l’accesso degli stessi ecuadoriani, che
avrebbero bisogno di permessi speciali per entrare in zone sotto il controllo
militare straniero.
Il costituzionalista Ramiro Ávila, nella sua opera La mirada imperial puesta en
las Galápagos (Lo sguardo imperiale posto sulle Galápagos), domanda: Patrimonio
dell’Umanità o dell’Esercito nordamericano?
Ávila mette in allerta sull’installazione della base e la violazione
dell’articolo 5 della Costituzione, che stabilisce: “L’Ecuador è un territorio
di pace. Non si permetterà lo stabilimento di basi militari straniere né di
installazioni a scopo militare”.
Precedenti storici di presenza statunitense
La presenza militare degli USA nelle Galápagos risale alla Seconda Guerra
Mondiale, quando nel 1942 furono firmati degli accordi segreti per permettere il
dispiegamento di truppe statunitensi a Salinas e Baltra, i medesimi punti
menzionati oggi da Noboa.
Già nel 1929, l’allora presidente della Banca Centrale, Neptalí Bonifaz, propose
di vendere le isole a Washington per cancellare il debito estero, idea rifiutata
dal Congresso ma segnò l’inizio di un’agenda geopolitica di lungo respiro.
Durante il governo di Guillermo Lasso, Washington riuscì a riprendere la
cooperazione militare e l’accesso logistico, considerato dagli analisti come
l’inizio del ritorno statunitense nello spazio strategico ecuadoriano.
Nuova strategia regionale degli Stati Uniti
Noboa ha dichiarato il suo allineamento alla politica estera degli Stati Uniti e
di Donald Trump, e ha giustificato la presenza della NATO in Europa come esempio
per l’Ecuador.
Parallelamente, Washington avanza nella regione con la costruzione di un porto
speciale a Talara, Perú, che rafforzerebbe il suo controllo militare sul
Pacifico Sud e la sua posizione strategica di fronte alla Cina.
Il sociologo Luis Córdova Galarza, nella sua ricerca Nuevos enclaves militares
en Perú y Ecuador (Nuove enclave militari in Perù ed Ecuador), avverte sulla
presenza statunitense, che cerca di convertire ambedue i paesi in piattaforme di
sicurezza e controllo marittimo, legate alla disputa globale per l’influenza tra
potenze.
Resistenza sociale e ambientale
Movimenti indigeni, ambientalisti, giovanili e dei diritti umani hanno rifiutato
il progetto, hanno denunciato il suo impatto ecologico, il rischio di
coinvolgere l’Ecuador in conflitti internazionali e la violazione del principio
di sovranità nazionale.
Hanno condannato, inoltre, la decisione del governo di promuovere una campagna
pubblicitaria nelle reti e nei media nazionali per promuovere la base militare
come un “vantaggio strategico” per il paese, mentre nasconde le sue implicazioni
costituzionali e ambientali.
Dopo un mese di sciopero indigeno e popolare, il governo di Noboa cerca di
riposizionarsi politicamente con la consultazione popolare e un discorso di
“sicurezza nazionale”, mentre la presenza militare statunitense cresce in
America Latina.
29 ottobre 2025
Resumen Latinoamericano
Traduzione a cura di Comitato Carlos Fonseca
Mentre Trump elogia la “pace”, Israele sta consolidando un nuovo regime di
confini fortificati, governo per procura e disperazione orchestrata, con
l’espulsione ancora obiettivo finale.
Fonte: English version
Di Muhammad Shehada , 31 ottobre 2025
Immagine di copertina: Palestinesi camminano tra le rovine delle loro case nel
quartiere di Tal Al-Hawa, nella parte meridionale di Gaza, 17 ottobre 2025.
(Khalil Kahlout/Flash90)
Dall’entrata in vigore del cessate il fuoco tra Israele e Hamas,
l’amministrazione Trump ha salutato con entusiasmo l’inizio di un nuovo capitolo
a Gaza. “Dopo tanti anni di guerra incessante e pericoli infiniti, oggi i cieli
sono calmi, le armi tacciono, le sirene sono ferme e il sole sorge su una Terra
Santa finalmente in pace”, ha dichiarato il presidente durante il suo discorso
alla Knesset all’inizio di questo mese. Ma i fatti sul campo rivelano una realtà
drammaticamente più cupa e gettano luce sul nuovo piano di Israele per il
dominio permanente dell’enclave.
Con la cosiddetta “Linea Gialla”, Israele ha diviso la Striscia in due: Gaza
Ovest, che comprende il 42 percento dell’enclave, dove Hamas mantiene il
controllo e dove sono stipate oltre 2 milioni di persone; e Gaza Est, che
comprende il 58 percento del territorio, che è stato completamente spopolato dai
civili ed è controllato dall’esercito israeliano e da quattro bande per procura
.
Secondo il piano Trump, questa linea era intesa come un indicatore temporaneo,
la prima fase del graduale ritiro di Israele dalla Striscia, mentre una Forza
Internazionale di Stabilizzazione assumeva il controllo sul territorio. Invece,
le forze israeliane si stanno trincerando, rafforzando la divisione con
terrapieni, fortificazioni e barriere che suggeriscono un passaggio verso la
permanenza.
La parte occidentale di Gaza sta diventando simile al Libano meridionale, che
l’esercito israeliano ha continuato a bombardare periodicamente dopo la firma di
un cessate il fuoco con Hezbollah lo scorso novembre. Dall’inizio della tregua a
Gaza, attacchi aerei, droni e mitragliatrici israeliani hanno continuato a
colpire la popolazione quotidianamente, solitamente con il pretesto infondato di
“sventare un attacco imminente”, per rappresaglia contro presunti attacchi ai
soldati israeliani o prendendo di mira individui che si avvicinano alla Linea
Gialla. Finora, questi attacchi hanno ucciso oltre 200 palestinesi, tra cui
decine di bambini.
Israele continua a limitare gli aiuti a Gaza occidentale, con una media di circa
95 camion in entrata al giorno durante i primi 20 giorni di cessate il fuoco,
ben al di sotto dei 600 al giorno previsti dall’accordo tra Israele e Hamas. La
maggior parte dei residenti ha perso la casa , ma Israele continua a impedire
l’ingresso di tende, roulotte, unità abitative prefabbricate e altri beni
essenziali, con l’inverno alle porte.
Forze di sicurezza palestinesi sequestrano camion di aiuti umanitari che entrano
nella Striscia di Gaza attraverso il valico di Kerem Shalom, 16 ottobre 2025.
(Saeed Mohammed/Flash90)
Gaza Est, un tempo granaio dell’enclave, è ora una landa desolata. Colleghi e
amici che vivono nelle vicinanze descrivono il rumore costante di esplosioni e
demolizioni: soldati israeliani e coloni privati stanno ancora sistematicamente
radendo al suolo tutti gli edifici rimasti, tranne i piccoli accampamenti
destinati alle bande che vivono sotto la protezione dell’esercito israeliano e
sono dotati di armi, denaro, veicoli e altri beni di lusso.
Israele non ha intenzione di lasciare Gaza Est a breve. L’esercito ha rafforzato
la Linea Gialla con blocchi di cemento, inglobando ampie fasce di Gaza Ovest, e
il Ministro della Difesa Israel Katz si è apertamente vantato di autorizzare il
fuoco su chiunque si avvicini alla barriera, anche solo per cercare di
raggiungere la propria casa. Alcuni rapporti suggeriscono anche che Israele stia
pianificando di estendere ulteriormente la Linea Gialla nella Gaza Ovest, ma
l’amministrazione Trump per ora sembra rimandare questa mossa.
E in una conferenza stampa della scorsa settimana, l’inviato di Trump, Jared
Kushner, ha annunciato che la ricostruzione avverrà solo nelle aree attualmente
completamente controllate dall’esercito israeliano, mentre il resto di Gaza
rimarrà un cumulo di macerie e cenere finché Hamas non si disarmerà
completamente e porrà fine al suo governo.
Queste divisioni sempre più profonde tra Gaza Est e Ovest preannunciano quella
che il Ministro israeliano per gli Affari Strategici Ron Dermer ha definito “la
soluzione dei due stati… all’interno di Gaza stessa”. Israele permetterebbe una
ricostruzione simbolica nelle aree di Rafah governate dalle sue bande per
procura, mentre il resto di Gaza Est diventerebbe probabilmente una zona
cuscinetto rasa al suolo e una discarica per Israele. In questo scenario, Gaza
Ovest rimarrebbe in un perpetuo stato di guerra, devastazione e privazioni.
Questa non è una ricostruzione postbellica, ma piuttosto una disperazione
architettata, imposta attraverso muri, la costante minaccia di violenza militare
e reti di collaborazionisti. Gaza viene ricostruita non per il bene della sua
popolazione, ma per consolidare il controllo israeliano permanente e perseguire
il suo obiettivo di lunga data: costringere i palestinesi a lasciare la
Striscia.
Hamas riafferma il controllo
Da parte sua, Hamas ha cercato di riaffermare il controllo nella Striscia di
Gaza occidentale per invertire il collasso sociale provocato da Israele in due
anni di genocidio. Non appena il cessate il fuoco è entrato in vigore, Hamas ha
avviato una stretta sulla sicurezza per perseguire i criminali e disarmare i
clan e le milizie sostenute da Israele.
Membri mascherati di Hamas durante un’operazione per arrestare presunti
collaboratori della milizia di Yasser Abu Shabab, nella Striscia di Gaza
meridionale. (Saeed Mohammed/Flash90)
La campagna ha raggiunto l’apice con l’esecuzione pubblica di otto presunti
collaboratori, insieme a pesanti scontri con il clan Daghmoush : una calcolata
dimostrazione di forza volta a intimidire i gruppi rivali. La strategia è
sembrata efficace: diverse famiglie hanno consegnato le armi ad Hamas senza
combattere.
Con questa campagna, Hamas mira anche a comunicare, sia a livello nazionale che
internazionale, che non è stato sconfitto nonostante le ingenti perdite subite
durante la guerra, e che non può essere escluso nei dibattiti sul futuro di
Gaza. Allo stesso tempo, il gruppo sta cercando di ripristinare una parvenza di
ordine civile e di vendicarsi dei membri di bande criminali che hanno sfruttato
il caos della guerra per saccheggiare e depredare i civili. Questo fa anche
parte di uno sforzo per recuperare legittimità dopo aver perso gran parte del
suo sostegno popolare a causa della vasta distruzione di Gaza.
Nel frattempo, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha cercato disperatamente di
convincere Trump a permettere a Israele di riprendere il genocidio, sfruttando
episodi isolati a Rafah per giustificare una nuova azione militare. In un caso,
due soldati israeliani sarebbero stati uccisi dopo aver investito ordigni
inesplosi; in un altro, i soldati sono stati attaccati da quella che sembrava
essere una piccola cellula di Hamas , ignara del cessate il fuoco o di qualsiasi
legame con la catena di comando del gruppo.
Netanyahu ha anche trasformato in un’arma l’operazione di sicurezza da parte di
Hamas , descrivendola come una strage di civili e accusando il gruppo di
rifiutarsi di restituire i corpi degli ostaggi, il tutto nel tentativo di
convincere Washington a dare il via libera a una nuova offensiva a Gaza con il
pretesto di fare pressione su Hamas.
Il presidente degli Stati Uniti, ancora euforico per la rara ondata di copertura
mediatica positiva che ha circondato il cessate il fuoco a Gaza, ha finora
tenuto a freno Israele , anche se non è chiaro per quanto tempo durerà. Il capo
di stato maggiore congiunto è il prossimo in lizza per fare da babysitter a
Netanyahu, dopo le visite di Trump, del vicepresidente J.D. Vance e del
segretario di Stato Marco Rubio.
Per ora, il presidente è determinato a mantenere il cessate il fuoco, anche solo
nominalmente, per evitare che venga percepito come un fallimento o come un
gioco di prestigio da parte di Netanyahu. Ma il primo ministro israeliano
scommette che, col tempo, Trump si lascerà distrarre dalla prossima grande
novità, perderà interesse per Gaza e gli darà di nuovo carta bianca.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu interviene in una sessione
speciale della Knesset insieme al presidente degli Stati Uniti Donald Trump, a
Gerusalemme, il 13 ottobre 2025. (Yonatan Sindel/Flash90)
‘Una Nuova Rafah’
Ma se non fosse in grado di tornare a un assalto su vasta scala, il piano di
riserva di Israele è stato quello di persuadere la Casa Bianca a limitare la
ricostruzione alla striscia di Gaza orientale controllata da Israele, iniziando
da Rafah, convenientemente lungo il confine con l’Egitto, dove oltre 150.000
abitanti di Gaza sono già fuggiti (la ricostruzione nel nord, in aree come Beit
Lahiya, è assente da questi piani). Secondo quanto riportato dai media
israeliani, la città ricostruita, che includerebbe “scuole, cliniche, edifici
pubblici e infrastrutture civili”, sarebbe circondata da una vasta area
cuscinetto, di fatto una ” zona di morte “.
Alla fine, Israele potrebbe consentire o addirittura incoraggiare i palestinesi
a trasferirsi nelle aree ricostruite di Rafah, come “zona sicura” a Gaza dove i
civili possono fuggire da Hamas – un’idea che le voci filo-israeliane sui media
americani hanno cercato di vendere. Poiché Hamas non può essere completamente
eliminato da Gaza, come ha recentemente ammesso Amit Segal, editorialista
politico israeliano e alleato di Netanyahu , l’unico “futuro” per i palestinesi
nell’enclave sarà nell’Est smilitarizzato sotto il controllo israeliano.
“Una nuova Rafah… questa sarebbe la Gaza moderata”, ha detto Segal a Ezra Klein
del New York Times. “E l’altra Gaza sarebbe ciò che giace tra le rovine di Gaza
City e nei campi profughi nella Gaza centrale”.
Attualmente, gli unici abitanti palestinesi a Rafah sono membri della milizia di
Yasser Abu Shabaab, un gruppo legato all’ISIS, armato, finanziato e protetto da
Israele. Sembra altamente improbabile che molti palestinesi accettino di vivere
sotto il dominio di un signore della guerra, spacciatore condannato e
collaborazionista che ha sistematicamente saccheggiato le scorte alimentari e
imposto la fame a Gaza su ordine di Israele. Inoltre, chiunque attraversi la
Striscia di Gaza orientale controllata da Israele rischia di essere visto come
un collaborazionista, come è successo al famoso attivista anti-Hamas Moumen
Al-Natour, fuggito dalla recente repressione di Hamas verso il territorio di Abu
Shabaab e successivamente ripudiato dalla sua famiglia.
Anche se alcuni abitanti di Gaza disperati accettassero di trasferirsi a Rafah,
Israele non li lascerebbe semplicemente passare in massa da Gaza Ovest a Gaza
Est, invocando il pretesto di impedire l’infiltrazione di Hamas tra la folla. Il
piano delle ” bolle di sicurezza ” – proposto per la prima volta dall’allora
Ministro della Difesa Yoav Gallant nel giugno 2024 – che prevedeva la creazione
di 24 campi chiusi in cui la popolazione di Gaza sarebbe stata gradualmente
trasferita, fornisce un modello: l’esercito israeliano probabilmente
ispezionerebbe e autorizzerebbe ogni individuo autorizzato ad attraversare Gaza
Est, producendo inevitabilmente un lungo e invasivo processo burocratico basato
sull’intelligenza artificiale che lascerebbe i richiedenti vulnerabili al
ricatto delle agenzie di sicurezza israeliane, che potrebbero richiedere
collaborazione in cambio dell’ingresso.
Israele ha chiarito ampiamente che chiunque attraversi quella “zona sterile” di
Rafah non sarà autorizzato a tornare dall’altra parte di Gaza, trasformando
Rafah in un “campo di concentramento”, come ha affermato l’ex primo ministro
israeliano Ehud Olmert . Molti palestinesi eviteranno quindi di entrare nella
Gaza orientale per paura che, se Israele riprendesse il genocidio con la sua
precedente intensità, potrebbero essere spinti in Egitto. Infatti, pur
predisponendo piani per consentire la ricostruzione di Rafah, l’esercito
israeliano continua a demolire e far saltare in aria le case e gli edifici
rimasti proprio in quella zona.
Migliaia di palestinesi si radunano alla rotonda di Tahlia, Rafah, nel disperato
tentativo di ottenere farina, Striscia di Gaza, 23 luglio 2025. (Doaa
Albaz/Activestills)
In definitiva, la “Nuova Rafah” israeliana fungerebbe da villaggio Potemkin –
una facciata esterna per far credere al mondo che la situazione sia migliore di
quanto non sia in realtà, offrendo solo un rifugio di base e una sicurezza
marginalmente maggiore ai palestinesi che vi fuggono. E senza una ricostruzione
completa o un orizzonte politico, questo piano sembra assomigliare a quanto
promesso dal Ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich a maggio: “I
cittadini di Gaza saranno concentrati nel sud. Saranno totalmente disperati,
comprendendo che non c’è speranza e nulla da cercare a Gaza, e cercheranno di
essere trasferiti per iniziare una nuova vita altrove”.
Il disarmo come trappola
Indipendentemente dal fatto che la ricostruzione nella Striscia di Gaza
orientale proceda o meno, Israele continuerà a definirla sempre più una zona
“libera dal terrorismo” e “deradicalizzata” e continuerà a bombardare l’altra
parte con il pretesto di disarmare e deporre Hamas.
Il gruppo islamista ha già accettato di consegnare Gaza a un comitato tecnico
amministrativo e di consentire il dispiegamento nell’enclave di una nuova forza
di sicurezza palestinese addestrata da Egitto e Giordania, insieme a una
missione di protezione internazionale. Netanyahu, tuttavia, ha respinto
categoricamente l’ingresso di 5.500 poliziotti palestinesi a Gaza, ha rifiutato
di consentire l’ingresso nella Striscia di forze di stabilizzazione turche o
qatariote e ha ostacolato la creazione del comitato amministrativo.
Allo stesso modo, il disarmo è un’area di ambiguità che fornisce a Israele un
pretesto pressoché infinito per impedire la ricostruzione nella Striscia di Gaza
occidentale e mantenere il controllo militare. Hamas ha fatto sapere che
accetterebbe di smantellare le sue armi offensive (come i razzi) e ha già
accettato la rinuncia al resto del suo armamento difensivo leggero (incluse armi
da fuoco e missili anticarro) come risultato di un accordo di pace, piuttosto
che come prerequisito.
Hamas è anche aperta a un processo simile a quello dell’Irlanda del Nord, in
base al quale rinchiuderebbe le sue armi difensive nei magazzini e si
impegnerebbe a una completa cessazione reciproca delle ostilità per un decennio
o due, o fino alla fine dell’occupazione illegale di Israele. In tal caso, le
rimanenti armi leggere fungerebbero da garanzia che Israele non rinnegherebbe le
sue promesse di ritirarsi da Gaza e porre fine al genocidio.
Membri delle Brigate Qassam di Hamas mettono in sicurezza la zona mentre le
squadre utilizzano macchinari pesanti per cercare i corpi degli ostaggi
israeliani, nel campo profughi di Nuseirat, nella Striscia di Gaza centrale, 27
ottobre 2025. (Ali Hassan/Flash90)
Sia il governo britannico che quello egiziano , insieme all’Arabia Saudita e ad
altre potenze regionali, stanno attualmente spingendo per il modello di disarmo
dell’Irlanda del Nord, un segno che riconoscono la delicatezza e la complessità
della questione del disarmo.
L’insistenza di Israele sul disarmo totale immediato è una trappola
deliberatamente inattuabile che esige la resa completa dei palestinesi. Anche se
la leadership di Hamas a Doha fosse in qualche modo costretta ad accettare
questa capitolazione, molti dei suoi stessi membri e di altri gruppi militanti a
Gaza sarebbero destinati a disobbedire. Ciò sarebbe simile all’accordo di
disarmo della Colombia , in cui molti militanti delle FARC hanno disertato e
creato nuove milizie o si sono uniti a bande.
E finché l’esercito israeliano rimarrà all’interno di Gaza, senza una reale
prospettiva di porre fine all’assedio e al regime di apartheid di Israele, ci
sarà sempre un incentivo per alcuni attori a imbracciare le armi. Israele potrà
quindi indicare quei gruppi separatisti o singoli militanti come giustificazione
per continuare a bombardare e occupare Gaza.
Israele ha impiegato oltre 740 giorni, quasi 100 miliardi di dollari e perso
circa 470 soldati per ridurre Gaza in polvere. Come si è vantato Netanyahu a
maggio , Israele sta “distruggendo sempre più case [a Gaza, e di conseguenza i
palestinesi] non hanno un posto dove tornare”, aggiungendo: “L’unica conseguenza
ovvia sarà che i cittadini di Gaza sceglieranno di emigrare fuori dalla
Striscia”.
Anche dopo aver fallito nel tentativo di ottenere un’espulsione di massa
attraverso un attacco militare diretto, la leadership israeliana sta ora
perseguendo lo stesso risultato attraverso la disperazione orchestrata, usando
macerie, assedi e bombardamenti periodici come strumenti di riorganizzazione
demografica. La prospettiva della pulizia etnica non è scomparsa con il cessate
il fuoco; si è semplicemente evoluta in una nuova politica, mascherata e
normalizzata attraverso una pianificazione burocratica.
Muhammad Shehada è uno scrittore e analista politico di Gaza, ricercatore ospite
presso l’EuropeanCouncil on Foreign Relations.
Traduzione a cura di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente
uguali”, per Invictapalestina.org
La maggioranza accelera sul “Piano Casa” della premier Meloni, che in realtà è
un piano…sfratti. A mostrarlo, plasticamente, la proposta di un disegno di legge
che punta a velocizzare in maniera drastica gli sfratti per morosità.
Il cosiddetto “Decreto sfratti” è già stato depositato in Senato da Fratelli
d’Italia – la prima firma è del senatore FdI Paolo Marcheschi – e, in cinque
articoli, punta a snellire e accelerare le procedure di sgombero degli inquilini
morosi, anche di quelli che dimostrano un’insolvenza di pochi mesi.
Secondo quanto al momento contenuto nel nuovo dl, l’inquilino avrà solo 15
giorni per pagare le rate dell’affitto mancanti, altrimenti ad entrare in gioco
sarà una nuova Autorità Amministrativa che, “verificati documenti e condizioni,
potrà disporre lo sgombero entro 7 giorni”. L’istituzione di questa Autorità ad
hoc scavallerebbe però, di fatto, i tribunali ordinari, lasciando unicamente ai
manganelli la gestione della situazione abitativa.
Nei prossimi giorni sono previste riunioni sul tema e non è da escludere che il
testo approdi sul tavolo di discussione già al prossimo Consiglio dei Ministri,
previsto per mercoledì 5 novembre.
Ai microfoni di Radio Onda d’Urto, Silvia Paoluzzi, Segretaria nazionale
dell’Unione Inquilini, con la quale abbiamo guardato da vicino questa nuova
proposta di legge che “accelera gli sfratti invece di garantire il passaggio da
casa a casa”. Ascolta o scarica
da Radio Onda d’Urto