Gli investimenti Esg nelle aziende della difesa hanno subìto un’impennata negli
ultimi anni fino a raggiungere i 50 miliardi di euro, sull’onda delle pressioni
congiunte dell’industria bellica e della Commissione europea.
**
di Giorgio Michalopoulos e Stefano Valentino (*)
«La guerra è pace, la pace è guerra».
Insieme all’industria della difesa, la commissione europea sembra aver fatto
proprio lo slogan più famoso del distopico 1984 di George Orwell per convincere
i mercati finanziari che la produzione di armi può essere considerata
sostenibile.
L’obiettivo: aprire all’industria della difesa le porte del crescente mercato
degli investimenti sostenibili o Esg (che promuovono attività ecologiche,
sociali o di buona governance), il segmento “verde” della finanza europea che
attira capitali globali per settemila miliardi di euro, secondo gli ultimi dati
Morningstar.
Attraverso un linguaggio calibrato, documenti strategici e una serie di incontri
ufficiali, Bruxelles ha progressivamente ampliato il concetto di
“sostenibilità”, fino a includere nel suo perimetro settori apparentemente
estranei quali la difesa e la sicurezza.
Come rivela questa inchiesta coordinata da Voxeurop, in collaborazione con
IrpiMedia, Mediapart ed El Pais, il fenomeno è già in piena attività, e in
continua crescita. Produttori di droni come la francese Safran, di bombe come la
tedesca Rheinmetall, e di carri armati come la britannica Bae Systems, ricevono
miliardi di investimenti “verdi” da asset manager di tutto il mondo autorizzati
ad operare nei mercati europei.
Persino Elbit Systems, primo produttore di armi israeliano e direttamente
coinvolto nella guerra a Gaza, figura oggi in fondi di transizione climatica o
Esg. Così i piccoli risparmiatori europei potrebbero essersi trovati a
finanziare quello che le Nazioni Unite hanno definito come un genocidio nella
striscia di Gaza.
50 miliardi di fondi “verdi” finiti in carri armati e droni militari
In soli quattro anni, gli investimenti “verdi” nell’industria bellica sono più
che triplicati.
Da 14,5 miliardi di euro nel 2021 a 49,8 miliardi nel 2025. Tra il 2024 e il
2025 la quota di investimenti nel settore è raddoppiata, secondo dati che
abbiamo estratto dalla London Stock Exchange Group, una piattaforma
internazionale di dati finanziari.
L’inchiesta analizza i dati sugli investimenti verdi in 118 tra le società del
settore della difesa quotate in borsa con la maggiore capitalizzazione al mondo,
cioè quelle con maggior valore di mercato. Abbiamo anche analizzato 3.037 fondi
che dal 2021 al 2025 hanno inserito titoli del settore della difesa nei loro
portafogli “verdi”.
Investimenti “verdi” nelle armi
Il totale degli investimenti cosiddetti “verdi” nel settore Difesa dal 2021 al
2025.
++
Gli investimenti “verdi” sono quelli disciplinati dal Regolamento europeo
relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari
(detto Sfdr) in vigore dal 2021, che disciplina gli investimenti che promuovono
«caratteristiche ambientali e/o sociali» (articolo 8) e quelli che devono
essere propriamente «sostenibili» (articolo 9).
Si applica a tutte le istituzioni finanziarie attive nel mercato dell’Unione
europea.
Dal 2021 al 2025 il valore di mercato di tutte le società oggetto dell’analisi è
raddoppiato raggiungendo i 3.000 miliardi di euro, l’equivalente del pil della
Francia nel 2024.
Solo nel 2025 circa 769 fondi “verdi” hanno accumulato profitti per sette
miliardi di euro tra compravendita di azioni e distribuzione di dividendi da
parte delle società attive nella difesa.
Nicola Koch, dell’Osservatorio sulla Finanza Sostenibile, commenta così questo
aumento: «In questo periodo le aziende della difesa hanno generato forti
profitti e investire è diventato conveniente. Tuttavia, i produttori di armi non
dovrebbero rientrare nella definizione di investimenti sostenibili perché la
funzione ultima dei loro prodotti è quella di ferire, distruggere o uccidere,
generando così impatti negativi sulla vita umana e sugli ecosistemi che non sono
in linea con i principi dello sviluppo sostenibile».
Le aziende di armi che stanno beneficiando dei fondi Esg
Nel 2025 sono 104 le società che si sono spartite i 49,8 miliardi di euro di
investimenti “verdi” offerti da società di gestione del risparmio. Metà di
questa somma è andata a 27 società europee. La prima è la francese Safran, con
5,6 miliardi di euro, segue la tedesca Rheinmetall con quattro miliardi.
Tra le dieci società della difesa che attirano più investimenti verdi ci sono
anche la tedesca MTU Aero Engines, l’italiana Leonardo, la filiale olandese di
Airbus, la francese Thales, la spagnola Indra, la svedese Saab e le britanniche
Rolls Royce e BAE Systems.
Secondo recenti studi, BAE Systems produrrebbe una varietà di armi utilizzate
dall’esercito israeliano nelle operazioni di guerra a Gaza, tra cui l’Obice
Semovente M109, prodotto con Rheinmetall. Rolls Royce, che controlla la filiale
tedesca MTU è invece fornitore di componenti ingegneristiche di carri armati
israeliani che secondo recenti inchieste avrebbero ucciso civili innocenti a
Gaza.
Armi “sostenibili”
Le prime 15 società della difesa che hanno ricevuto investimenti “verdi” nel
secondo trimestre 2025.
Uscendo dai confini europei le società statunitensi fanno da padrone:
fabbricanti di armamenti come Howmet Aerospace, General Electric, Axon, Boeing,
TransDigm e RTX dominano la classifica, attirando 13 miliardi di euro sui 18
destinati agli investimenti fuori dall’Unione europea.
Fondi “sostenibili”
I primi 15 asset manager per investimenti “verdi” nel settore difesa nel secondo
trimestre 2025.
Le scomode domande del manager di banca alla Commissione europea
Tommy Piemonte è un ex-manager della banca tedesca Pax-Bank für Kirche und
Caritas (Banca della pace per la chiesa e la carità). Metà italiano e metà
tedesco, da anni lavora nel campo della finanza sostenibile.
Il 27 novembre 2024 ha partecipato a un incontro organizzato dalla Commissione
europea: il Forum sugli investimenti industriali nel settore della difesa
dell’Ue, intitolato Investire nella difesa e nella sicurezza dell’Ue: una nuova
priorità politica. L’incontro aveva un obiettivo preciso: sottolineare la
necessità di aprire le porte dei fondi sostenibili all’industria della difesa.
In qualità di rappresentante di una banca etica e membro dell’associazione per
lo sviluppo sostenibile Shareholders for Change, Piemonte si aspettava risposte
chiare dalla Commissione. Invece, è stato espulso dall’evento dopo aver messo in
discussione la presunta “sostenibilità” del settore della difesa. Lo abbiamo
sentito pochi mesi dopo, a gennaio, per farci raccontare cosa è accaduto.
All’incontro – che riuniva funzionari della Commissione, rappresentanti
dell’industria bellica e operatori finanziari – Piemonte, collegato online, ha
posto alcune domande semplici: «Perché pensate che sia così importante per
l’industria delle armi essere etichettata come sostenibile?». L’ultima delle sue
osservazioni, disponibile nella ricostruzione che ci ha fornito, gli è costata
l’espulsione: «Non evitate le mie domande solo perché vi sembrano troppo
critiche».
La ricostruzione è stata confermata da Andrea Baranes, presidente della
Fondazione Finanza Etica, anche lui presente al Forum: «Quasi tutti i relatori
hanno ripetuto lo stesso slogan: non c’è sostenibilità senza sicurezza. È un
tentativo esplicito di dimostrare che la finanza sostenibile è compatibile con
il settore della difesa», ha spiegato. «Come se io fossi vegetariano e al
ristorante mi servissero una bistecca, dicendo che da oggi tutte le bistecche
sono vegetariane».
Un rapporto interno della Commissione rivela invece che gli organizzatori erano
soddisfatti: hanno apprezzato le «discussioni produttive sulle sfide e le
opportunità di investimento» nell’ambito di un incontro che avrebbe promosso «il
dialogo tra il settore finanziario, la Commissione e l’industria sugli incentivi
agli investimenti nel settore della difesa».
Le slide dell’evento, che abbiamo ottenuto in esclusiva, confermano questo
messaggio. Diversi dipartimenti della Commissione – dalle Direzioni generali per
la difesa e lo spazio a quella per la stabilità finanziaria – affermano che i
produttori di armi possono essere inclusi nei fondi “verdi” senza violare alcuna
normativa. Anne Fort, vice capo di gabinetto del commissario europeo per la
difesa e lo spazio Andrius Kubilius, ha dichiarato che «il quadro finanziario
sostenibile dell’Ue non impone alcuna limitazione al finanziamento del settore
della difesa».
Joanna Sikora-Wittnebel, responsabile per la finanza sostenibile nella Direzione
generale per la stabilità finanziaria, ha aggiunto: «Il quadro finanziario
sostenibile dell’Ue è compatibile con gli investimenti nella difesa»,
sottolineando in una slide che «l’Sfdr è neutrale dal punto di vista
settoriale».
Nessun danno significativo
Secondo la finanza sostenibile europea un investimento non deve recare danni
significativi agli obiettivi di sostenibilità. Per questo motivo la Commissione
ha fornito una lista di indicatori chiamati «Principali impatti negativi delle
decisioni di investimento sui fattori di sostenibilità» (Principal adverse
impacts of investment decisions on sustainability factors).
L’unica menzione del settore militare nell’ambito di questi indicatori è quello
di esposizione ad armi controverse. Il 26 novembre, inoltre in Parlamento
europeo è stata approvata la proposta della Commissione, di sostituire il
termine “armi controverse” con il termine “armi vietate”, escludendo di fatto
solo quattro categorie dai fondi sostenibili: le mine antiuomo, le munizioni a
grappolo, le armi biologiche e le armi chimiche. Le armi all’uranio impoverito,
le armi laser accecanti, frammenti non rilevabili, le armi incendiarie come il
fosforo bianco, e i sistemi d’arma autonomi letali, meglio conosciuti come robot
killer sono finanziabili con investimenti sostenibili.
Per la normativa tutte queste altre armi non provocherebbero danni
significativi.
Questi indicatori non includono inoltre le armi atomiche.
Come le armi sono diventate sostenibili in Europa
La campagna per far riconoscere l’industria della difesa come sostenibile inizia
già nel 2021, anno dell’entrata in vigore dell’Sfdr. In ottobre l’Associazione
europea delle industrie aerospaziali, della sicurezza e della difesa (Asd) – che
riunisce le principali aziende al centro di questa inchiesta tra cui Safran,
Airbus, Rheinmetall, Leonardo, e BAE Systems – ha pubblicato un articolo che
dettava la linea per includere la produzione bellica negli investimenti verdi.
«La difesa è una componente essenziale della sicurezza, e la sicurezza
costituisce il presupposto per la pace, la prosperità, la cooperazione
internazionale e lo sviluppo economico e sociale», scriveva l’allora segretario
generale Jan Pie, aggiungendo: «Contribuendo a garantire la sicurezza, i
produttori europei del settore della difesa danno di fatto un contributo
fondamentale a un mondo più sostenibile».
L’articolo denunciava le restrizioni che i fondi “verdi” delle banche imponevano
alle imprese militari. L’obiettivo era accreditare la difesa nel settore Esg e
chiedere alle istituzioni europee di diffondere quel messaggio, semplificando al
tempo stesso i criteri di esclusione adottati dalla Banca europea per gli
investimenti.
La narrativa si è diffusa anche tramite iniziative nazionali. Un gruppo di
rappresentanti del settore della difesa provenienti da Germania, Finlandia,
Francia, Belgio, Paesi Bassi e Norvegia ha pubblicato un comunicato dal titolo
Non c’è sostenibilità senza difesa e sicurezza, richiamando il linguaggio
dell’Asd.
L’urgenza del settore di entrare nel mercato degli investimenti “verdi” emerge
anche dai documenti interni. Il resoconto degli incontri tra i lobbisti della
difesa e la commissione europea – che abbiamo ottenute dopo una lunga e
complessa richiesta di accesso agli atti – rivela chiaramente il tono delle
pressioni. In uno di questi incontri, nel marzo 2021, l’Asd lamentava che i
«prodotti finanziari verdi escludono sempre più la difesa e ne limitano
l’accesso ai finanziamenti».
A novembre dello stesso anno Alessandro Profumo, ad di Leonardo – azienda
italiana produttrice, tra l’altro, di munizioni d’artiglieria a lungo raggio e
sistemi di artiglieria navale – ha incontrato Timo Pesonen, dg per l’industria
della difesa e lo spazio della commissione europea. In quella riunione, spiega
una minuta che abbiamo ottenuto, Profumo «ha espresso preoccupazione per il
fatto che l’industria della difesa sia esclusa dalla tassonomia dell’Ue per le
attività sostenibili».
Questo fronte coordinato ha gradualmente trovato ascolto e supporto a Bruxelles,
con un’impennata dopo l’invasione su larga scala della Russia all’Ucraina.
Nel febbraio 2022, una settimana prima che cominciasse l’“operazione speciale”
russa, una comunicazione della Commissione al parlamento europeo chiedeva con
urgenza maggiori fondi al settore della difesa per via delle crescenti tensioni
ai confini ucraini, aggiungendo poi: «È altrettanto importante garantire che
altre politiche orizzontali, quali le iniziative in materia di finanza
sostenibile, rimangano coerenti con gli sforzi dell’Unione europea volti a
facilitare un accesso sufficiente dell’industria europea della difesa ai
finanziamenti e agli investimenti».
L’invasione a tutto campo ha rafforzato gli argomenti dell’industria, anche in
ambito finanziario: «Dall’invasione russa dell’Ucraina, il valore delle azioni
delle società europee operanti nel settore della difesa, in precedenza depresso,
ha registrato una notevole ripresa», scrive l’Asd nell’ottobre 2022. In questa
nota suggerisce che la Commissione e le autorità di vigilanza europee competenti
emanino linee guida per chiarire che i gestori del risparmio non debbano rendere
pubblici gli impatti negativi degli investimenti in società europee del settore
della difesa che non siano coinvolte nelle quattro categorie di armi vietate.
Il testo sembra anche riconoscere l’avversione del pubblico nei confronti degli
investimenti militari: «Fino a quando e anche quando il pregiudizio normativo
sarà eliminato, l’Asd teme che i gestori patrimoniali possano continuare ad
attuareesclusioni nel settore della difesa, in particolare a causa della
pressione dell’opinione pubblica o dei requisiti specifici per gli investitori».
L’Asd chiede dunque un ancora più intenso supporto politico da parte delle
istituzioni europee, scrivendo che occorre «intensificare le azioni volte a
convincere i gestori patrimoniali che l’Unione e i suoi stati membri sostengono
le imprese del settore della difesa e sono determinati a garantire loro
l’accesso ai finanziamenti privati».
Un anno dopo la posizione dell’Asd viene ribadita quasi parola per parola in una
nota della Commissione europea: «La Commissione riconosce la necessità di
garantire l’accesso ai finanziamenti e agli investimenti, anche da parte del
settore privato, per tutti i settori strategici, in particolare l’industria
della difesa che contribuisce alla sicurezza dei cittadini europei».
«La riabilitazione del settore della difesa nell’immaginario collettivo e
successivamente nel quadro normativo è stato il frutto di una sapiente,
sofisticata e coordinata strategia di comunicazione e lobbying da parte dei
campioni industriali nazionali e associazioni di categorie», così ha commentato
a Voxeurop Alberto Alemanno, professore universitario e fondatore di The Good
Lobby.
Il processo si completa nel 2024, con la Strategia industriale europea per la
difesa.
Nel documento la Commissione afferma che nessuna norma ostacola gli investimenti
privati nel settore militare e riprende apertamente lo slogan coniato tre anni
prima: «L’industria della difesa dell’Unione contribuisce in modo determinante
alla resilienza e alla sicurezza dell’Unione e, di conseguenza, alla pace e alla
sostenibilità sociale.
In tale contesto, il quadro dell’Ue per la finanza sostenibile è pienamente
coerente con gli sforzi dell’Unione volti a facilitare un accesso sufficiente
dell’industria europea della difesa ai finanziamenti e agli investimenti. Esso
non impone alcuna limitazione al finanziamento del settore della difesa»
Elbit Systems, dai fondi verdi alla guerra a Gaza
Prima del 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco di Hamas su Israele e inizio della
risposta israeliana, il valore di un’azione di Elbit Systems ruotava sui 200
dollari. Oggi il valore è più che raddoppiato, raggiungendo quota 480 dollari.
Il suo rapporto di bilancio del 2024 descrive chiaramente il ruolo attivo di
Elbit nella fornitura di armi all’esercito israeliano: «Dall’inizio della
guerra, Elbit Systems ha registrato un aumento significativo della domanda dei
propri prodotti e soluzioni da parte del ministero della difesa israeliano
rispetto ai livelli precedenti al conflitto […] Nel corso del 2024, la società
si è aggiudicata contratti dal ministero per un valore complessivo di oltre 5
miliardi di dollari».
Come ha già dimostrato il centro Action on Armed Violence, numerose armi
prodotte da Elbit Systems, tra cui bombe e proiettili, sono state usate a Gaza
durante l’operazione Iron Sword.
Non solo: con la guerra Elbit ha avuto modo di sperimentare l’uso
dell’intelligenza artificiale (ia) e innovare i propri prodotti. Lo conferma
un’intervista ad Haim Delmar, direttore generale della divisione C4I & Cyber di
Elbit Systems, pubblicata sul sito della stessa: «L’intelligenza artificiale
generativa è più importante della rivoluzione di internet. Il suo impatto sul
processo decisionale in campo militare sta appena cominciando a manifestarsi. In
questa guerra abbiamo visto il suo potenziale: elaborare informazioni di
intelligence a una velocità senza precedenti. E questo è solo l’inizio».
Nel 2025 sono stati 25 i fondi “verdi” che hanno investito complessivamente 23
milioni di euro nella società israeliana. Tra questi compaiono un fondo “ESG
Ottimizzato” offerto dalla VP Bank del Liechtenstein, venduto anche in Germania,
o il “BGF Climate Transition” offerto da BlackRock Investment Management UK,
venduto in diversi paesi Ue.
Altri fondi “verdi” che investono milioni in Elbit come il Fidelity Global
Multiasset, dichiarano di utilizzare criteri di investimento Esg o di escludere
aziende che violino i principi del Global Compact delle Nazioni Unite, il cui
primo articolo recita: «Le imprese dovrebbero sostenere e rispettare la
protezione dei diritti umani proclamati a livello internazionale».
**
(*) Tratto da Irpimedia.
Questa inchiesta collaborativa è stata coordinata da Voxeurop, in collaborazione
con El País, IrpiMedia e Mediapart. La produzione di questa inchiesta è
sostenuta da un grant del fondo IJ4EU.
***
Source - InfoAut: Informazione di parte
Informazione di parte
Giunta al cinquantesimo giorno di rifiuto del cibo, la manifestante di Palestine
Action detenuta in carcere, Qesser Zuhrah, è ora in pericolo di vita
da Les Enfants Terribles
Oggi è il cinquantesimo giorno dello sciopero della fame di Qesser Zuhrah,
iniziato dopo oltre un anno trascorso nel carcere di HMP Bronzefield, nel
Surrey, dove attende il processo.
In un appunto scritto dal letto d’ospedale, dopo essere stata trasferita in
ambulanza, ha raccontato che le guardie le avevano chiesto perché si rifiutasse
di mangiare. «Forse si stavano vergognosamente interrogando su ciò che
significavano la catena al mio braccio destro e la flebo a quello sinistro», ha
scritto.
«Tutto ciò che vogliamo è poter tornare a casa, alla sicurezza, alla libertà e
alla dignità. Una casa per noi e una casa per il popolo palestinese».
La polizia antiterrorismo ha arrestato Zuhrah nel novembre dello scorso anno con
l’accusa di rapina aggravata, danneggiamento criminale e disordini violenti,
nell’ambito di un’azione di Palestine Action contro un centro di ricerca nel
Regno Unito di proprietà del maggiore produttore di armi israeliano, Elbit
Systems.
Per alcuni è una prigioniera politica che prende posizione contro quella che
ritiene la complicità del governo britannico in un genocidio. Per altri è una
giovane fuorviata, sospettata di terrorismo, che mette a rischio la propria vita
in un atto di politica simbolica.
Esiste ora un rischio imminente che Zuhrah, che ha compiuto 20 anni in carcere
lo scorso gennaio, diventi la persona più giovane a morire durante uno sciopero
della fame in una prigione del Regno Unito, e la prima a farlo senza processo né
condanna.
«Abbiamo parlato molte volte di tutti i possibili esiti – e anche della morte –
sedute l’una di fronte all’altra, con il tavolo del carcere tra noi e entrambe
spaventate», ha detto Ella Moulsdale, migliore amica di Zuhrah e sua compagna di
studi all’University College London.
«C’è sempre il rischio di morire», ha aggiunto Moulsdale, spiegando che la
frequenza cardiaca a riposo dell’amica aveva raggiunto i 127 battiti al minuto
(la norma è tra i 60 e i 100 bpm). «Stai portando il tuo corpo a un livello di
fame che non dovrebbe mai raggiungere e per cui non è fatto, un punto in cui il
corpo inizia a divorare se stesso».
Zuhrah, studentessa al secondo anno di scienze sociali, ha quattro fratelli più
piccoli, uno dei quali, Salaam Mahmood, 19 anni, è detenuto nel carcere di HMP
Belmarsh con l’accusa di aver preso parte a un’azione di Palestine Action. Non
ha parlato pubblicamente dei suoi genitori.
Moulsdale, 21 anni, sta agendo come parente di riferimento. Ha raccontato che
quando si sono conosciute «aveva questa energia contagiosa: una diciannovenne
frizzante e divertente che cambiava l’atmosfera di una stanza».
«Tutti la conoscono come una persona coraggiosa, e lo è, ma poi mi telefona
dalla sua cella dicendo: “Ciao, c’è un ragno. Che faccio? Aiutami a farlo
uscire”».
Zuhrah è una delle cinque persone in sciopero della fame, di età compresa tra i
20 e i 31 anni, in attesa di processo per presunti reati legati alle campagne di
Palestine Action. Tutte rifiutano il cibo da almeno 42 giorni e stanno
sviluppando complicazioni sanitarie sempre più gravi. Tra loro c’è Teuta Hoxha,
29 anni, al 43° giorno del suo secondo sciopero della fame negli ultimi mesi.
Amu Gib, 30 anni, è al 50° giorno, mentre Heba Muraisi è al 49°.
Il governo ha rifiutato di interloquire con i detenuti o con i loro avvocati in
merito a una lista di richieste che comprende la libertà su cauzione, la fine di
quella che definiscono censura delle loro comunicazioni, l’annullamento della
decisione di mettere al bando Palestine Action come organizzazione terroristica
e la chiusura delle varie attività di Elbit nel Regno Unito.
Gli avvocati dei detenuti stanno valutando un’azione legale, sostenendo che le
linee guida del Ministero della Giustizia (MoJ) in materia di scioperi della
fame prevedono che un rappresentante del governo – un alto funzionario o un
superiore – debba incontrarli o accettare di operare tramite un mediatore per
risolvere la situazione. James Timpson, ministro per le carceri, ha cercato di
minimizzare le pressioni della campagna, esplose la scorsa settimana quando le
famiglie degli scioperanti hanno tenuto una conferenza stampa descrivendo il
rapido deterioramento delle loro condizioni.
Timpson ha affermato che il servizio penitenziario è «molto esperto nella
gestione degli scioperi della fame» e che nelle carceri britanniche se ne
registrano in media più di 200 all’anno. Questa cifra si baserebbe su dati
relativi ai «rifiuti di mangiare», categoria che comprende tutti i detenuti che
hanno rifiutato il cibo per 48 ore, o liquidi e cibo per 24 ore.
Secondo dati governativi, otto uomini sono morti in carcere tra il 1999 e il
2022 dopo aver rifiutato il cibo. Nessuna donna è morta nello stesso periodo.
Una fonte del MoJ ha dichiarato che i detenuti sono stati posti in custodia
cautelare da un giudice e che non spetta al dipartimento interferire.
Una fonte di alto livello del sistema carcerario ha detto: «Sono oltre i 40
giorni. Potrebbero provocarsi danni irreparabili. Sono davvero preoccupato che
molte persone stiano incoraggiando dei giovanissimi a fare cose davvero stupide.
Si sono messi con le spalle al muro, questi ragazzi», ha aggiunto, affermando
che il governo sta prendendo la questione seriamente ma senza mostrare segni di
voler cedere per primo.
Non è chiaro se una donna sia mai morta in una prigione del Regno Unito durante
uno sciopero della fame come atto di protesta, ma Mary Jane Clarke, una
suffragetta, morì il giorno di Natale del 1910, due giorni dopo aver trascorso
un mese in carcere per aver infranto una finestra. Iniziò uno sciopero della
fame e venne alimentata forzatamente, pratica che si ritiene collegata alla sua
morte per emorragia cerebrale. L’alimentazione forzata dei detenuti capaci di
rifiutare razionalmente il cibo è considerata un atto di tortura dagli anni
Settanta.
Kerry Moscogiuri, di Amnesty International UK, ha invitato il governo a «fare
tutto ciò che è in suo potere per porre fine a questa terribile situazione».
Moulsdale, che è in contatto quasi quotidiano con Zuhrah, ha detto di credere
che l’amica sia determinata a proseguire lo sciopero della fame, ma ha aggiunto:
«Voglio che viva. Voglio davvero che viva. E so che anche lei vuole vivere».
Riprendiamo da Osservatorio repressione
Colpire i palestinesi in Italia per coprire il genocidio a Gaza. La
criminalizzazione della solidarietà come arma politica al servizio israeliano.
Ancora una volta lo Stato italiano colpisce le organizzazioni palestinesi
presenti nel nostro Paese. Nove persone arrestate, la solita accusa di “sostegno
a Hamas”, il solito copione costruito per criminalizzare un intero popolo e
spezzare il movimento di solidarietà con la Palestina. Questa volta il pretesto
sono presunti finanziamenti, diretti o indiretti, che alcune associazioni
avrebbero inviato a Gaza. Ma il quadro politico è chiarissimo: non siamo davanti
a un’operazione di giustizia, bensì a un atto di repressione politica funzionale
agli interessi dello Stato di Israele.
Non entreremo nel merito dell’inchiesta giudiziaria. Quello che conta è il
contesto: un governo italiano totalmente subalterno al governo genocida di
Netanyahu, complice sul piano militare, economico e diplomatico dello sterminio
in corso del popolo palestinese. Mentre l’Italia rafforza gli accordi
commerciali e militari con Israele, mentre Leonardo continua a produrre e
vendere armi che alimentano il massacro di Gaza, le forze di polizia vengono
utilizzate come manganello politico contro contro chiunque esprima solidarietà
con il popolo palestinese.
Il doppio standard è disgustoso. Il ministro Piantedosi non ha mai mosso un dito
per indagare sui cittadini italiani con doppio passaporto israeliano che hanno
partecipato alle operazioni militari a Gaza, nonostante interrogazioni
parlamentari precise. Nessuna parola, nessuna indagine. Nessun problema, invece,
a garantire vacanze tranquille in Italia ai militari israeliani, protetti dalla
polizia mentre il loro esercito rade al suolo Gaza. Questo è il senso reale
della “lotta al terrorismo” del governo Meloni: protezione totale per chi
massacra, repressione per chi solidarizza.
Il messaggio politico è limpido: il genocidio dei palestinesi viene presentato
come “legittima difesa”, mentre la resistenza di un popolo oppresso e ogni forma
di sostegno umanitario o politico vengono automaticamente marchiate come
terrorismo. È la narrativa di Israele, ripetuta parola per parola dal governo
italiano.
Questa operazione repressiva ha un obiettivo preciso: colpire e intimidire il
movimento di solidarietà con la Palestina, che negli ultimi mesi ha riempito le
piazze, bloccato le città, messo in discussione la complicità italiana con il
sionismo. Mentre i media oscurano il genocidio in corso, amplificano gli arresti
per costruire un teorema infame: milioni di persone scese in piazza sarebbero
manovrate dal terrorismo. Una menzogna utile solo a giustificare la repressione.
Ma il vero terrorismo è quello praticato dallo Stato di Israele, con la
copertura e il sostegno attivo delle potenze occidentali. È il terrorismo dei
bombardamenti, dell’assedio, della fame usata come arma di guerra. È il
terrorismo di chi oggi spinge il mondo verso una nuova fase di riarmo
generalizzato e di guerra permanente. Gli arresti di oggi puzzano di complicità
fino in fondo. Quando verranno arrestati i vertici di Leonardo per concorso nei
crimini di guerra? Quando verranno indagati i ministri che firmano accordi
militari con Israele?
Per questo governo, come ha ammesso Tajani, “il diritto internazionale vale fino
a un certo punto”. Vale pochissimo quando Israele bombarda ospedali, scuole e
campi profughi. Vale tantissimo, invece, quando c’è da colpire attivisti,
associazioni, manifestazioni di piazza. Se l’accusa contro i palestinesi
arrestati è quella di aver avuto rapporti con istituzioni locali della Striscia
di Gaza per consegnare aiuti umanitari, allora bisognerebbe arrestare anche
funzionari dell’ONU, della UE e di tutte le ONG internazionali che operano sul
territorio.
Equiparare sindaci, ospedali, scuole e strutture umanitarie palestinesi a
“emanazioni terroristiche” non è una tesi giuridica: è propaganda di guerra. È
la stessa tesi del governo israeliano, che considera ogni palestinese di Gaza un
nemico da eliminare. Ed è gravissimo che lo Stato italiano la faccia propria.
Aspettiamo di vedere le prove di questo teorema giudiziario, perché dalle
dichiarazioni entusiaste della destra di governo emerge chiaramente la natura
politica di questa operazione. Serve a criminalizzare la solidarietà, a
intimidire chi lotta, a spezzare un fronte di opposizione che negli ultimi mesi
è cresciuto nelle fabbriche, nelle scuole, nelle piazze.
La solidarietà non è terrorismo. Il problema è che non esiste alcuna indagine
autonoma delle autorità italiane: l’inchiesta si basa su documenti forniti dallo
Stato di Israele. Uno Stato che non ammette controlli indipendenti e che accusa
di complicità con Hamas chiunque osi criticarlo. Questo non è diritto, è
sudditanza coloniale.
Mohammed Hannoun e gli altri arrestati sono accusati di aver finanziato Hamas
per milioni di euro. Ma dagli stessi atti emerge che quei fondi sarebbero stati
destinati a istituzioni pubbliche di Gaza, riconosciute dalla comunità
internazionale. Israele le considera illegali, ma non le Nazioni Unite. Da
quando l’Italia applica i criteri giudiziari di uno Stato genocida?
Da anni è in corso una campagna politica e mediatica contro Hannoun e contro le
associazioni palestinesi in Italia. Giornali di destra, ambienti sionisti e loro
terminali istituzionali hanno lavorato a lungo per costruire il bersaglio. Oggi
quella campagna trova il pieno sostegno del governo Meloni, che applaude e
incoraggia la repressione. È l’ennesima conferma della complicità strutturale
dell’Italia con la politica genocida di Israele.
Il governo ha scelto: repressione, criminalizzazione, obbedienza agli interessi
israeliani. È la risposta a un’opposizione sociale e politica che cresce contro
la guerra, contro il riarmo, contro una finanziaria di guerra che taglia tutto
tranne le spese militari. Le mobilitazioni dell’autunno e la due giorni del 28 e
29 novembre hanno fatto paura. E oggi arriva la repressione.
La complicità con Israele non è un incidente: è un pilastro della strategia
dell’Occidente imperialista. Per questo colpiscono i palestinesi. Per questo
colpiscono la solidarietà. Ma la repressione non fermerà chi sta dalla parte
giusta della storia.
Aleppo torna nuovamente a essere teatro di scontri tra le forze di sicurezza
siriane e le SDF (Syrian Democratic Forces), la coalizione a guida curda. Gli
scontri sono avvenuti nei quartieri di Ashrafieh e Sheikh Maqsoud, nel nord
della città di Aleppo. Entrambi i quartieri sono a maggioranza curda e sotto il
controllo delle SDF.
di Silvia Casadei, da Pagine Esteri
Le sparatorie cominciate il 22 dicembre, proseguite durante la notte, hanno
ucciso due persone e ferito almeno 15 civili secondo quanto riportato
dall’agenzia di stampa siriana SANA.
Testimoni hanno riferito che sono state le fazioni Hamzat e Amshat, recentemente
unite all’esercito siriano, ad aver attaccato i quartieri di Sheikh Maqsoud e
Ashrafieh bombardandoli con carri armati e armi pesanti. Si tratta di milizie
armate filo-turche, attive soprattutto nel nord del Paese, nelle aree di Afrin,
Azaz, al-Bab e Jarablus. Formalmente ora rientrano nelle strutture dell’Esercito
Nazionale Siriano, ma nella pratica continuano a operare anche come gruppi
autonomi. Di ispirazione sunnita, si sono distinte per espropri di case e
terreni ai danni di famiglie curde, violenze contro donne e civili e per
l’inserimento nelle proprie file di ex combattenti jihadisti. Inoltre le forze
di sicurezza legate a Damasco avrebbero preso di mira depositi di armi e cercato
di intercettare spedizioni di armamenti destinate, pare, alle SDF, come
riportato dal giornale libanese The Cradle.
Gli scontri a fuoco seguono quelli verificatisi poco più di due mesi fa sempre
ad Aleppo, iniziati l’8 ottobre nell’area della diga di Tishrin e poi estesi al
centro urbano. Si conclusero due giorni dopo con la firma di un cessate il fuoco
e con l’impegno, da entrambe le parti, a rispettare gli accordi firmati il 10
marzo 2025. L’accordo di marzo stabiliva, tra i vari punti, che le strutture
militari delle forze curde si sarebbero dovute integrare all’interno
dell’esercito siriano entro la fine del 2025. Un’intesa che, dopo i primi mesi,
ha conosciuto una fase di stallo, legata anche alla diffidenza delle istituzioni
curde nei confronti del governo centrale di Damasco, a seguito dei massacri
perpetrati contro le minoranze alawita e drusa, ma che, dopo gli scontri di
ottobre, sembrava aver riaperto uno spazio negoziale, con la ripresa di contatti
diretti tra le due leadership.
Nell’attuale partita tra Damasco e le forze curde sta giocando un ruolo
importante anche il pressing del governo turco, rafforzato dalla visita del
ministro degli Esteri Hakan Fidan, attualmente a Damasco. Ankara ha infatti da
sempre considerato le forze curde in Siria come una propaggine del PKK,
classificandole come forze ostili e “terroristiche”. È stato proprio il ministro
degli Esteri turco, Hakan Fidan, a lanciare una velata minaccia alla leadership
delle SDF, affermando in un comunicato del 18 dicembre che «la pazienza di
Ankara nei confronti delle SDF stava finendo», dichiarando di aspettarsi una
piena integrazione delle forze curde nell’esercito siriano entro la fine del
2025.
Nel medesimo comunicato, il ministro aveva inoltre dichiarato, in riferimento
all’accordo del 10 marzo: «Tutti si aspettano che venga rispettato senza alcun
ritardo o modifica, perché non vogliamo vedere alcuna deviazione da esso»,
facendo esplicito riferimento alle forze curde.
L’appoggio di Ankara all’attuale governo siriano è un’alleanza nata da tempo,
fatta di sovvenzioni e supporto logistico, che ha visto la Turchia tra i
maggiori sostenitori del governo di Ahmed al-Sharaa già prima della presa del
potere dell’8 dicembre 2024. Non a caso, nel governatorato di Idlib, roccaforte
dell’ormai “defunto” (a parole) HTS, la moneta principale è la lira turca, così
come le linee telefoniche mobili sono agganciate a ripetitori turchi. A ciò si
aggiunge la presenza di diverse basi militari che, anche a seguito
dell’occupazione del cantone di Afrin nel 2019 con l’operazione “Ramoscello
d’Ulivo”, ha segnato in modo stabile la presenza turca nel nord-ovest della
Siria.
Nella giornata del 23 dicembre, il ministero della Difesa siriano e la
controparte curda avrebbero ordinato la sospensione degli attacchi. Secondo
l’agenzia di stampa ufficiale dello Stato siriano, l’ordine di sospensione
mirerebbe a limitare gli scontri e ad allontanarli dalle aree civili.
Nonostante l’apertura di questa nuova fase di “non aggressione”, appare ancora
molto lontana l’implementazione reale degli accordi del 10 marzo, che sembrano
configurarsi più come un atto simbolico che come una reale possibilità di
accordo.
C’è anche Mohammad Hannoun, presidente dell’Associazione dei Palestinesi in
Italia – API, tra gli arresti di questa mattina nella nuova ondata repressiva
(targata Piantedosi) contro le lotte e la solidarietà per la Palestina in
Italia.
Questa volta l’attacco è sul piano dei finanziamenti: polizia e guardia di
finanza italiane hanno arrestato 9 persone, tra cui Mohammad Hannoun, accusate
di aver finanziato associazioni palestinesi facenti capo ad Hamas. Non si
conoscono, al momento, i nomi delle realtà che ricevevano gli aiuti
dall’associazione palestinese in Italia e come avrebbero – secondo le indagini –
finanziato Hamas.
Hannoun, residente da anni a Genova, ha partecipato alle numerose manifestazioni
che si sono svolte negli scorsi mesi a sostegno della popolazione di Gaza. A
fine ottobre di quest’anno aveva ricevuto la notifica di un Daspo urbano per un
anno da Milano per la sua partecipazione ai cortei per Gaza. Hannoun era già
stato indagato dalla Procura di Genova negli anni Duemila, ma l’inchiesta era
stata archiviata. Lo scorso anno era finito nella black list del dipartimento
del Tesoro americano.
Similmente alle azioni di criminalizzazione portate avanti da Israele contro le
Ong che operano a Gaza o contro la stessa Onu – colpevoli, secondo Tel Aviv, di
essere “affiliate” ad Hamas -, ora anche diverse figure sociali e politiche
palestinesi in Italia sono al centro di indagini, arresti e tentativi di
espulsione: solo poche settimane fa, il governo Meloni aveva cercato di
espellere dall’Italia Mohamed Shahin, volto noto delle mobilitazioni contro
genocidio e occupazione israeliana a Torino, colpito da un decreto di espulsione
per presunti “motivi di sicurezza”, poi revocato dalla Corte di Appello di
Torino.
da Radio Onda d’Urto
Riprendiamo e aggiorniamo il nostro contributo sulla Legge di Bilancio 2026 alla
luce del maxiemendamento approvato nel mese di dicembre, che ha scosso in modo
evidente la coalizione di governo.
Come sostenevamo già nel mese di ottobre, il governo Meloni è impegnato in una
delle politiche di austerità più dure dai governi tecnici che tanto ha
contestato a parole. Un’impostazione che non rappresenta una deviazione
contingente, ma la linea strutturale lungo cui si sta muovendo un governo molto
impegnato nel mostrarsi “responsabile”.
Questo processo, che tradisce oltre un decennio di retorica anti-austerità e di
promesse elettorali di Fratelli d’Italia, è accompagnato da un crescente
malcontento e disillusione sociale verso scelte politiche che incidono
direttamente su salari, pensioni e welfare. Di fronte a questo scenario, la
consorteria che si è installata al governo è costretta a cercare quotidianamente
nuovi simboli e nuove emergenze mediatiche su cui deviare l’attenzione pubblica,
mentre procede allo smantellamento delle tutele sociali. Come scrivevamo qua,
che si tratti della “famiglia nel bosco” o dello sgombero di Askatasuna,
l’obiettivo resta quello di spostare il dibattito su un terreno diverso da
quello delle decisioni politico-economiche che stanno ridisegnando il paese.
In questo senso, il passaggio parlamentare della finanziaria non ha modificato
l’impianto che avevamo già analizzato nel nostro precedente contributo, ma ne ha
reso più espliciti i vincoli e le priorità. Le differenze emerse nelle ultime
settimane sono poche, ma politicamente significative, e riguardano soprattutto
il reperimento delle risorse, l’ulteriore irrigidimento delle regole
pensionistiche e il ruolo centrale assunto dal rigore di bilancio in funzione
del riarmo.
Il 23 dicembre 2025 il Senato della Repubblica ha dato il via libera al testo
principale della Legge di Bilancio 2026, approvando il maxiemendamento del
governo. Il disegno di legge passa ora alla Camera per l’ultimo via libera entro
il 31 dicembre, in un quadro che non lascia spazio a un reale intervento
parlamentare.
Il caos che si è manifestato nelle ultime settimane all’interno di un governo
apparentemente coeso è il prodotto diretto di margini di manovra estremamente
ridotti, che rendono impossibile realizzare gran parte delle promesse
elettorali. Una condizione tanto più difficile da digerire per una forza come la
Lega, che non solo non incide sulle scelte strategiche, ma continua a perdere
consenso nei sondaggi.
In questo contesto, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha
attraversato due mesi particolarmente complessi. Confindustria, facendo leva
sulla retorica del rilancio degli investimenti e della crescita del Pil, ha
preteso e ottenuto circa 3,5 miliardi di euro di incentivi e sgravi
fiscali legati agli investimenti in Industria 4.0 e 5.0. Risorse che non
potevano essere finanziate a debito, perché il rigore di bilancio resta il
vincolo assoluto della manovra. Anzi, il fatto che questo vincolo venga sospeso
solo sul fronte della spesa militare rende il rigore ancora più stringente su
tutte le altre voci di spesa.
Il conflitto dentro la maggioranza non si spiega soltanto con la competizione
tra partiti in vista delle prossime elezioni, in un quadro in cui l’opposizione
appare politicamente marginale. Esplode soprattutto perché il percorso che ha
portato ad allargare la manovra da 18,7 a 22 miliardi di euro è stato
estremamente accidentato: in uno Stato già ridotto all’osso, lo spazio per nuovi
tagli è minimo. Da qui il ricorso a regalini e operazioni di maquillage
contabile per finanziare gli interessi di Confindustria, mentre il resto
dell’impianto rimane sostanzialmente invariato.
Tra ottobre e dicembre, proprio questa esigenza ha alimentato tensioni dentro la
maggioranza e prodotto una serie di scelte che chiariscono la natura della
manovra. Non prudenza, ma austerità. Un rigore contabile che non risponde a
un’esigenza astratta di “responsabilità”, bensì a un obiettivo preciso:
consentire all’Italia di uscire dalla procedura europea per deficit eccessivo
entro marzo 2026 e accedere, a partire dall’estate, ai nuovi fondi europei per
la difesa (SAFE).
L’accelerazione impressa al bilancio non è casuale. L’uscita dalla procedura
d’infrazione è la condizione necessaria per poter attingere a circa 14,5
miliardi di euro in crediti e cofinanziamenti europei destinati al riarmo.
Formalmente si parla di “rafforzamento della capacità difensiva europea”; nella
sostanza, si tratta di finanziare la spesa militare attraverso debito comune,
con tassi più bassi rispetto al debito nazionale. Restano comunque soldi
pubblici presi a prestito, che graveranno nel tempo sui contribuenti e sulla
spesa sociale.
È in questo quadro che va letto l’ulteriore irrigidimento della manovra sul
fronte previdenziale. Non solo la legge Fornero non viene superata, ma alcuni
suoi meccanismi vengono rafforzati. Aumentano le finestre tra maturazione del
diritto e accesso effettivo alla pensione, vengono ridotti i fondi complessivi
per il sistema previdenziale e scompare ogni ipotesi di flessibilità strutturale
in uscita. Quota 103 e Opzione Donna non vengono rinnovate, mentre l’Ape sociale
resta confinata a una platea ristretta. Il messaggio è chiaro: trattenere più a
lungo le persone al lavoro per risparmiare spesa pubblica.
A questo si aggiunge un intervento particolarmente delicato sul Tfr e sui fondi
pensione. Si estende la platea delle imprese obbligate a versare il Tfr al fondo
Inps e, soprattutto, si introduce il meccanismo di silenzio-assenso che
indirizza automaticamente il Tfr verso la previdenza complementare privata,
salvo esplicita opposizione del lavoratore. Si tratta di un passaggio che
accelera la finanziarizzazione della previdenza, trasferendo masse ingenti di
risparmio verso fondi gestiti da assicurazioni e intermediari finanziari. Le
stime parlano di 50 miliardi di euro potenzialmente convogliati verso il sistema
assicurativo, a fronte di un contributo diretto allo Stato di circa un miliardo,
ottenuto attraverso l’inasprimento della tassazione su Rc auto e polizze
accessorie. Il costo finale, ancora una volta, ricade sui consumatori.
Sul piano fiscale, le novità introdotte nel corso dell’iter restano in gran
parte di dettaglio e non modificano l’impianto redistributivo già sbilanciato
della manovra. Il taglio dell’Irpef sulla seconda aliquota beneficia in misura
sproporzionata i redditi medio-alti, mentre per lavoratori dipendenti e
pensionati l’impatto resta marginale. Accanto a questo compaiono misure
simboliche come la tassa sui pacchi extra-UE o l’aumento della Tobin tax, che
producono gettito ma non incidono sugli squilibri strutturali del sistema
fiscale. Sul fronte delle imprese, invece, si consolidano sgravi e incentivi per
oltre 3,5 miliardi, a conferma di una linea che privilegia la “competitività”
d’impresa rispetto alla redistribuzione.
Il reperimento delle risorse passa anche attraverso tagli lineari ai ministeri e
una compressione della spesa corrente, emersa chiaramente solo nel passaggio
parlamentare di dicembre. Una scelta che riduce ulteriormente gli spazi di
intervento pubblico in settori già sotto pressione, dalla scuola alla sanità,
mentre la crescita del Fondo sanitario resta sostanzialmente allineata al Pil e
non compensa l’aumento dei costi, in particolare sul fronte farmaceutico.
Nel frattempo, il Parlamento viene progressivamente svuotato del suo ruolo. Le
modifiche introdotte nelle ultime settimane, concentrate in un maxiemendamento e
approvate a ridosso delle festività, impediscono qualsiasi dibattito reale. La
discussione parlamentare si riduce a un passaggio formale, mentre le decisioni
fondamentali vengono prese altrove, sotto il vincolo stringente dei conti e
delle priorità geopolitiche.
La legge di bilancio 2026 consegna così un quadro coerente: rigore sui salari,
sulle pensioni e sulla spesa sociale, espansione selettiva degli incentivi alle
imprese e preparazione del terreno per un aumento strutturale della spesa
militare, che punta al 5% del Pil entro il 2035. Un keynesismo militare che
sostituisce l’investimento pubblico produttivo con quello bellico, garantendo
profitti ai grandi gruppi industriali della difesa – da Leonardo a Fincantieri –
e rafforzando al contempo la dipendenza tecnologica e strategica dagli Stati
Uniti, principali fornitori di sistemi d’arma.
L’Italia si indebita per comprare armi, contenendo il deficit attraverso
l’austerità sociale. È questo il vero equilibrio della manovra: conti in ordine
per armarsi.
Ripensare il due, la divisione, la rivoluzione
di Maurizio Lazzarato, da Machina
Dopo l’analisi sviluppata nel precedente articolo Potenza e impotenza
contemporanee, Maurizio Lazzarato riprende la sua disamina per comprendere le
ragioni per cui le mobilitazioni degli ultimi anni non sono riuscite a mettere
in crisi la macchina Stato–Capitale.
Nell’articolo odierno, l’autore riflette su come vadano ripensate la rivoluzione
e il «due» nell’epoca della gestione liberal-democratica e capitalistica del
genocidio.
***
Il neoliberismo non è mai esistito!
Il passaggio dal fordismo al cosiddetto neoliberismo avviene attraverso il
dispiegarsi della «potenza del negativo», operata non da individui – come
vorrebbe il liberalismo – ma da Stati, istituzioni, monopoli, gruppi sociali,
partiti politici, forze militari, ecc.L’affermazione di un nuovo sistema
economico-politico-militare si realizza innanzitutto attraverso la distruzione:
negazione delle classi così come erano uscite dalla Seconda guerra mondiale (sia
le classi rivoluzionarie del Sud del mondo, sia quelle impegnate in lotte più
riformiste, ma anche le classi dominanti di ispirazione keynesiana); negazione
dei dispositivi economici dei «trent’anni gloriosi» (il funzionamento della
moneta, del salario, del welfare, dei servizi pubblici, ecc. secondo i principi
keynesiani); negazione delle istituzioni di quell’epoca, in particolare della
democrazia, giudicata incompatibile con il capitale; negazione della cultura del
«compromesso» instaurata nel dopoguerra.
Riportiamo solo alcune date «simboliche» (e gli eventi che vi si collegano) di
questo processo al contempo di negazione e di affermazione, descrivibile come
una lunga serie di decisioni, minacce, intimidazioni, ricatti, guerre civili,
imposizioni unilaterali fondate sulla forza dell’impero statunitense. A
differenza della trasformazione in corso, della rivoluzione conservatrice degli
anni ’70 e ’80 abbiamo tutti i documenti necessari per fare un bilancio del suo
svolgimento e possiamo constatare facilmente che si tratta della matrice del
nostro presente.
* 1971: lo Stato Usa dichiara la fine della convertibilità del dollaro in oro,
fondamento dell’impero monetario e finanziario che fa del deficit commerciale
l’arma di imposizione della propria moneta sovrana. Il Presidente americano
dell’epoca, Nixon , svaluta il dollaro e impone un dazio doganale del 10% a
tutto il mondo occidentale.
* 1972: Nixon e Kissinger, ristabiliscono i rapporti politici con la Cina,
momento fondamentale della strategia dello Stato, senza i quali non ci
sarebbe stata la «globalizzazione» né l’accumulazione mondiale del Capitale,
da cui nasce il cosiddetto «neoliberismo».
* 1973: colpo di Stato in Cile organizzato dal Pentagono e dai militari
fascisti per porre fine militarmente alla riproduzione delle “rivoluzioni”
nel Sud del mondo e installare il primo governo neoliberale/golpista.
Fondazione della Commissione Trilaterale.
* 1974: accordo politico tra lo Stato Usa e Arabia Saudita affinché l’acquisto
del petrolio avvenga in dollari (in pratica, la sua indicizzazione all’«oro
nero»).
* 1975: crisi fiscale dello Stato di New York (le pensioni dei funzionari
vengono utilizzate per riequilibrare il bilancio) e dichiarazione della
Trilaterale contro la democrazia (giudicata incompatibile con il
capitalismo).
* 1976: colpo di Stato in Argentina, che continua a spianare il terreno per
l’installazione del «neoliberismo», come era avvenuto in Cile. La morte di
Mao e l’arresto della «Banda dei Quattro» pongono definitivamente fine al
periodo della Rivoluzione culturale (che minacciava costantemente di sfociare
in guerra civile). La Cina accompagna l’instaurazione della
finanziarizzazione statunitense, bloccando i salari, incorporando l’industria
occidentale e inondando il mercato americano di prodotti a basso costo.
* 1977: primo viaggio di Hayek in Cile per incontrate Pinochet e tessere le
lodi dello Stato fascista, precondizione del suo mercato libero e
concorrenziale. Inizia la repressione in Germania e in Italia da parte dei
rispettivi Stati per spegnere gli ultimi fuochi del 1968 (o le prime
anticipazioni di lotte future). Dal 1969 si dispiega in Italia una «strategia
della tensione»: una serie di attentati organizzati da fascisti, dai servizi
segreti italiani e americani, nel paese più combattivo d’Europa.
* 1979: la controrivoluzione conquista lo Stato con Thatcher: nuove leggi e
nuovo diritto per distruggere leggi e diritto imposte dagli stessi Usa lel
dopo guerre. Volcker, espressione della nuova strategia statale, fa esplodere
i tassi d’interesse per fermare l’inflazione e lanciare l’economia della
finanza e del debito (a questi tassi conviene speculare piuttosto che
produrre).
* 1980: la controrivoluzione prende il controllo anche del potere statale negli
Stati Uniti con Reagan che lancia politiche fiscali regressive, tagli alle
imposte per i ricchi, aumento della spesa militare e attacca il sistema di
protezione sociale. Sia lo Stato americano che quello inglese attaccano
sistematicamente le forze sindacali e sconfiggono le classi operaie del Nord
del mondo.
* 1983: invasione di Grenada da parte dello Stato Usa per destituire i marxisti
al potere e secondo viaggio di Hayek presso i fascisti cileni.
* 1985: conclusione della prima fase della guerra civile quando lo Stato Usa
impone al Giappone (la «Cina» dell’epoca) di suicidarsi economicamente per
salvare l’Impero (rivalutazione della moneta giapponese, investimenti negli
USA, acquisto del debito statunitense, ecc.). L’economia giapponese non si
risolleverà più.
La diversità degli interventi (sociali, mediatici, accademici, militari,
economici, geopolitici esterni, politici interni, ecc.) necessari per cambiare
le modalità dell’accumulazione è impressionante, ma nessuno di essi è affidato
al libero mercato concorrenziale. Ciò che riappare continuamente è l’azione
dello Stato e della forza, perché è stato, ed è tuttora, il luogo dello
sviluppo, della gestione e della mediazione (con altri monopoli di potere, in
particolare quelli finanziari) della strategia statunitense.
La strategia di Trump è una replica di quella praticata dalle amministrazioni di
Stato americane tra il 1971 e il 1985. Con l’unica differenza che allora
esisteva ancora l’Unione Sovietica e non esistevano i BRICS. La grande
maggioranza della produzione mondiale era frutto del «capitalismo collettivo»
(USA, Europa, Giappone), mentre oggi i BRICS producono più del G7 e il Sud del
mondo rifiuta di farsi sfruttare, rendendo impossibile la strategia americana.
Finita la guerra civile occidentale con una vittoria schiacciante degli Usa,
esplode la narrazione neo liberale. Il neoliberismo pretende di fare
dell’economia un’alternativa radicale alla sovranità e al monopolio della
decisione (lo Stato) che lo hanno istituito. Il modello hobbesiano della
«protezione» assicurata dal sovrano in cambio dell’ «obbedienza» dei sudditi
lascia il posto al mercato, in cui nessuno decide e tutti scelgono: dalla
molteplicità delle scelte individuali coordinate dalla concorrenza nasce un
ordine spontaneo («Cosmos», secondo il golpista Hayek).
Le conseguenze della fede nella vittoria totale del capitalismo e nella
definitiva eliminazione del negativo sono al tempo stesso drammatiche e comiche.
Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, mentre si impone il Washington
Consensus (riconoscimento dell’egemonia unilaterale degli USA sul mercato
mondiale), si stabilisce una convergenza paradossale e contro natura tra il
pensiero critico e i nuovi movimenti da un lato, e il liberalismo dall’altro. La
sconfitta del comunismo è celebrata come la neutralizzazione del «negativo». La
scomparsa del nemico sorto con la rivoluzione sovietica apre la via all’azione
«positiva» del mercato, alla democrazia esportabile nel mondo intero, alla
riduzione delle guerre a fenomeni marginali, alla pace e — nientemeno — alla
fine della storia, che, come tutti sanno, avanzava fino alla vittoria liberale,
sempre dal lato negativo: attraverso la guerra, la distruzione, la dominazione.
Ben prima del 1991, per tutto il corso degli anni ’60 e ’70, il pensiero critico
aveva concentrato i suoi sforzi teorici nel liberarsi del «negativo». La
politica rivoluzionaria, fondata sulla negazione del nemico di classe e sulla
distruzione delle sue istituzioni (Stato, mercato, esercito, polizia), sarebbe,
secondo questa prospettiva, all’origine della propria sconfitta. La nuova
politica deve essere «affermativa» (o performativa): il negativo o non esiste, o
ha soltanto un’esistenza «fenomenologica»; l’essere è assolutamente positivo.
Anche l’azione del potere deve essere considerata anzitutto come positiva,
poiché essa produce piuttosto che vietare, accresce la potenza della vita invece
di distruggerla (Foucault) — pensato e scritto mentre la controrivoluzione era
giunta fino all’eliminazione fisica del nemico politico.Doppio accecamento : del
pensiero liberale (che con la «guerra infinita al terrorismo» si è semplicemente
sbagliato di nemico) e del pensiero critico, poiché il «due» della dominazione,
dello sfruttamento, dell’imperialismo, della guerra, della guerra civile, del
colonialismo e del genocidio esistono e persistono nonostante il rimosso del
«negativo». Se non sono solubili nel mercato, non lo sono neppure nell’etica del
rapporto con sé, nella produzione di soggettività, nel potere costituente della
Moltitudine, nel divenire rivoluzionario.
La molteplicità e il due
Il rapporto molteplicità/dualismo è il nostro problema politico, ma, nella
congiuntura teorica e politica dei movimenti contemporanei, è quasi impossibile
porlo. La situazione degli ultimi cinquant’anni potrebbe essere sintetizzata in
questo modo: organizzazione locale, intermittente, distribuita, versatile,
multipla contro le diverse modalità di dominazione/sfruttamento (né orizzontale,
né verticale afferma il compagno brasiliano Rodrigo Nunes) e disorganizzazione
assoluta (fino al suo rifiuto), incapacità di costruire e imporre rapporti di
forza, mancanza di teoria e pratica dell’uso della forza nello scontro con la
totalità divisa (a questo proposito il compagno brasiliano è ben rappresentativo
dell’impasse contemporanea). Solo il nemico di classe considera questo livello
del conflitto strategico. È in questo modo che continua a vincere. Serie
interrotta solo dai rivoluzionari del XX secolo che decisero di confrontarsi
risolutamente con il «due» del potere, perché è per quella via che sono arrivate
tutte le sconfitte del XIX secolo. Cosa fare affinché la molteplicità delle
lotte manifestatesi con la Comune di Parigi non finisca con la «settimana
sanguinosa», con il massacro degli insorti?
Lo sterminio è tornato sotto forma di genocidio che le democrazie liberali e il
capitalismo progressista non hanno alcun problema a incitare, finanziare,
armare, legittimare. Il problema si ripropone, con urgenza, in nuove condizioni.
Gaza è molto più che uno dei focolai della guerra civile mondiale «a pezzi»,
Gaza è il nostro destino! Gli Stati Uniti distribuiscono milioni di dollari che
non hanno (Milei, Israele, Ucraina, tutte le «rivoluzioni» colorate, ecc.) come
se fossero noccioline, grazie a un’enorme bolla finanziaria che non si sa
quando, ma sicuramente scoppierà. Allora i governi occidentali avranno a
disposizione procedure, dispositivi, tecniche sperimentate nel genocidio dei
palestinesi, da usare contro i poveri del Nord, perché ciò che Israele pratica è
una guerra contro la popolazione. Nelle due guerre mondiali un gran numero di
civili è stato ucciso, ma perché preso tra i combattimenti di due eserciti
nemici. Qui i civili sono l’unico vero obiettivo dell’esercito israeliano. Cosa
simile si verificherà quando il cambiamento climatico spingerà i «barbari» del
Sud verso Nord in cerca disperata di condizioni per poter vivere e respirare. I
signori del mondo hanno un nuovo modello di guerra civile contro i proletari del
pianeta intero pronto all’uso, concepito dai sionisti.
L’imperativo categorico della nostra epoca: bisogna pensare a partire da Gaza,
cioè a partire dalla violenza assoluta che la macchina Stato-Capitale non ha
alcuno scrupolo a mettere in atto. Non si può limitare la critica del
capitalismo alla critica del lavoro, del welfare, dello Stato regolatore o anche
di polizia considerando queste istituzioni come fondamentalmente pacificate,
perché il genocidio è prodotto dalle stesse imprese e dallo stesso Stato. Non si
può limitare la critica del potere alla critica delle discipline, della
biopolitica, delle società de controllo, della sorveglianza. Il genocidio non è
l’espressione di un altro potere, ma di questi stessi dispositivi che insistiamo
nel vedere funzionare senza guerra, senza guerra civile, senza la radicale
ostilità di classe. Le democrazie non si oppongono alle autocrazie perché
organizzano direttamente il genocidio e reprimono quelli che denunciano. Di
fatto, abbiamo giudicato il nazismo come una parentesi, un’interruzione di un
capitalismo e di uno Stato fondamentalmente «progressisti», anche se abbiamo
affermato il contrario. In realtà non abbiamo mai pensato rigorosamente «dopo
Auschwitz» e ora la nostra coscienza pusillanime e spensierata è spiazzata da
Gaza, cimitero delle nostre teorie affermative, delle nostre filosofie senza il
negativo, della nostra radicalità senza odio di classe, della nostra politica
senza rottura rivoluzionaria con la distruzione e l’autodistruzione della
macchina genocidaria Stato-Capitale.
Dopo due anni di apparente indifferenza, Gaza ha suscitato forme di
mobilitazione che ripropongono le questioni alle quali avevano risposto i
rivoluzionari della prima metà del XX secolo, confrontati con le guerre mondiali
scatenate dalle crisi del capitalismo concorrenziale e dalla sua forma di
governo, il liberalismo.
Il movimento italiano dell’inizio dell’autunno ha mostrato che la forza si crea,
che la potenza si fa quando si attacca direttamente il «tutto diviso», che lo
scontro produce una massificazione quando l’offensiva è diretta contro la forma
più generale dell’esercizio del potere, il genocidio, la guerra civile mondiale,
la guerra fra Stati. Il movimento diventa forza politica quando la molteplicità,
elevandosi all’altezza della strategia del nemico, assume il due, il dualismo
globale imposto dalla totalizzazione impossibile del potere.
Né diserzione, né esodo, né linea di fuga, ma rottura globale. L’esodo è stato
pensato come un’alternativa alle rivoluzioni e al loro confronto/scontro diretto
con il potere. Aggirare, deviare, schivare, eludere, evitare il potere, come se
si avesse la forza di imporre un’altra vita, altri comportamenti, un’altra
soggettività e come se tale forza, quando si è manifestata, non fosse stata il
risultato di un secolo di rivoluzioni e lotte e dunque di rapporti di forza
sempre reversibili (e che si sono effettivamente ribaltati!), ma una
acquisizione, un potenziale ontologico. Da una dimensione spaziale, l’esodo, la
sottrazione, la diserzione, si trasformano dando luogo a un ethos, a una «vita
altra», a un modello etico-politico su cui converge l’insieme del pensiero
critico. Sono stati opposti i conflitti di mondi ai conflitti di forze sempre
nell’illusione di sfuggire al due della lotta, ma i mondi senza la forza
diventano rapidamente angusti, poveri sotto ogni punto di vista, fino a
spegnersi nella dominazione/sfruttamento. Anche ammettendo che la molteplicità
espressasi nei movimenti sia un esodo in atto, la prova del due arriva sempre.
Se non altro perché il tutto diviso e imperiale non intende in alcun modo
perdere la sua egemonia. Anche la positività di un ipotetico modello
etico-politico deve misurarsi con il negativo, e due volte piuttosto che una.
Innanzitutto, la forza e la potenza dell’affermazione non possono sorgere che
grazie a una negazione. La storia non avanza secondo un piano predeterminato,
non c’è alcuna direzione o senso inscritti in essa; essa procede secondo gli
«azzardi» dei conflitti, secondo le strategie delle guerre e delle guerre
civili. Ma anche in questo caso, è dal «lato negativo» delle cose che si fa la
storia. Molte illusioni del pensiero critico e dei nuovi movimenti sono cadute
dopo il 2008.
Come ogni affermazione, quella del movimento ha bisogno di una doppia negazione
per imporsi: una preliminare al suo evento che funziona come condizione del suo
emergere e una seconda, da costruire, che la consolida e la realizza pienamente
attaccando la macchina capitale-Stato nel suo insieme.
Il negativo è doppiamente subordinato all’affermazione del movimento contro il
genocidio, ma non può, in alcun caso, essere eliminato: una prima volta
l’affermazione presuppone la negazione dell’inesistenza a cui il proletariato
italiano era condannato prima del suo sollevamento (condannato all’afasia,
dall’asimmetria dei rapporti di sfruttamento, dominazione, subordinazione al
padrone, al maschio, all’uomo bianco) che è stata, allo stesso tempo, la
negazione della politica di guerra, la negazione del sionismo genocida. Ma per
durare, strutturarsi, organizzarsi servirà una seconda negazione da inventare e
praticare. Dalla forza del sollevamento, il suo sviluppo nel tempo e nello
spazio, dipende dalla sua capacità di negare la totalità divisa, cioè l’insieme
dei dispositivi, dei valori e delle istituzioni della totalizzazione impossibile
del capitalismo e del suo Stato.Questa seconda negazione è diversa da quella
manifestata dall’ «insurrezione», dal tumulto, dalla rivolta : essa implica
un’altra temporalità e una strategia di lunga durata. La lotta per il salario,
per il welfare, per i diritti politici e sociali è necessaria, ma non
sufficiente. La lotta politica è un doppio movimento dal basso verso l’alto, ma
anche l’inverso: la lotta generale contro la totalità divisa che dà forza,
coerenza e prospettiva alle lotte particolari (almeno così è stato per tutto il
XIX e XX secolo). La lotta radicale contro il potere globale ritorna sulla
molteplicità, sul micro, sulle lotte specifiche per rafforzarle, intensificarle,
renderle capaci di costruire rapporti di forza, conferendo loro al contempo una
profondità storica. Questa seconda fase si amplifica se riesce a coniugare il
basso e l’alto, la molteplicità e il due: è questa l’opportunità politica che
occorre saper cogliere.
Dalla rottura emerge un processo di costituzione di una soggettività che, prima
dell’atto del rifiuto, non esisteva, creando nuove possibilità la cui
attualizzazione non è soltanto un «rapporto con sé», compiaciuto della propria
mutazione, della propria differenziazione e del proprio divenire, ma
organizzazione della forza da dispiegare nella lotta per distruggere la macchina
della dominazione e dello sfruttamento, e l’eterno ritorno delle guerre mondiali
e civili che essa è sempre pronta a scatenare.
Storicamente, questa doppia negazione dell’affermazione in politica è stata
chiamata rivoluzione. Non so quale forma prenderà questo movimento italiano, se
assumerà la strategia e la temporalità della seconda negazione, ma una cosa è
certa: se non vuole rifluire, se rifiuta di ricadere nelle diverse modalità
della dominazione servo-padrone», se non vuole tornare a essere una semplice
molteplicità dispersa e frammentata, deve affrontare il problema del rapporto
tra molteplicità e dualismo, deve chiedersi come disfare il «tutto diviso». E,
se il caso si presenta, non deve chiudere gli occhi davanti alla questione della
forza.
Se la natura della lotta è radicalmente non deterministica, tanto più necessaria
è la strategia. È l’atto della rivolta che crea la forza, la rottura che crea il
possibile, la rivolta che apre il processo di soggettivazione. Non esiste un
proletariato «in sé» (ontologia delle forze produttive) che deve diventare «per
sé» (la loro attualizzazione), come nella tradizione hegeliano-marxista, che da
questo punto di vista è aristotelica.
Non so se il ciclo delle rivoluzioni sia finito, se la “1rivoluzione sia già
avvenuta», se sia fallita a causa della guerra e della violenza, se al posto
della rivoluzione si possa mettere un pallido e impotente «divenire
rivoluzionario». Ciò che mi interessa è trovare una risposta alle domande che i
rapporti di potere (e in particolare la guerra) pongono. Le rivoluzioni del XX
secolo hanno dato le loro risposte.
La rivoluzione è stata una «semplificazione» capace di ritornare ai fondamenti;
ha praticato un ritorno ai principi, per dirla con Machiavelli, cioè ha fatto
riemergere la divisione, il dualismo di classe, proprietari e non proprietari,
che fonda la società capitalista. Oggi questa semplificazione è regolarmente
imposta e organizzata solo dai nostri nemici, sotto forma di guerra civile a
bassa intensità o di violenza aperta.
Nella rivoluzione, il rovesciamento dei rapporti degli «uomini in rapporti tra
cose» non opera più. Essa ci pone immediatamente di fronte a un nemico che non è
più protetto dagli automatismi economici (moneta, mercato, ecc.).
L’impersonalità dei rapporti capitalistici ridiventa «personale»: il re è nudo.
La rivoluzione interviene quando il potere è in gioco e le classi dominanti sono
disposte ad accumulare montagne di cadaveri pur di conservarlo.
La rivoluzione è stata una trasformazione della violenza subita in forza diretta
contro il tutto diviso del potere. Si identifica la rivoluzione con la violenza,
ma la violenza sociale (sessismo, razzismo, sfruttamento, dominazione) è
enormemente più vasta della violenza rivoluzionaria, il cui obiettivo primario è
proprio quello di circoscriverla e trasformarla in forza.
La rivoluzione è stata un enorme processo di doppia soggettivazione:
soggettivazione delle organizzazioni politiche rivoluzionarie e soggettivazione
del proletariato. La strategia è stata pensata a partire dal loro rapporto e dal
confronto con il nemico.
Il capitalismo si ripete nella differenza, ma la differenziazione non ne elimina
i principi. Al contrario. La macchina Stato-Capitale è cambiata, ma i problemi
che abbiamo appena elencato a titolo di esempio, restano. Nuove risposte ai
dualismi della guerra, della militarizzazione, del fascismo devono essere
rapidamente ricercate, perché la forza di distruzione che la macchina
Capitale-Stato dispiega nelle epoche di radicalizzazione dei rapporti di potere
tra classi e tra Stati rischia di trasformarsi in autodistruzione (che già
colpisce l’Europa in modo irreversibile). Questo pericolo oggi è moltiplicato
dal fatto che la sovranità Usa (non solo lo Stato, ma l’insieme dei centri di
potere) non ha più la possibilità di accoppiare l’azione distruttiva
all’invenzione di un nuovo capitalismo. Ciò che può offrire al resto del mondo è
la perpetuazione di un dominio militare-finanziario che non ha altra
legittimazione se non la propria riproduzione.
Parallelamente, nel cuore dell’Impero, là dove risiedono le istituzioni
monetarie e finanziarie della società dei rentiers, la parola «socialismo» –
bandita, maledetta, demonizzata, riaffiora — altro sintomo dell’intensificazione
dei conflitti e del loro dualismo.
È per questa ragione che interrogare la divisione di classe, la totalizzazione
impossibile, il suo sfrontato, cinico, sadico uso della violenza che raggiunge
il suo apice nel genocidio, e cercare di dare risposte commisurate al livello
dello scontro, tenendo a mente i grandi successi e i grandi fallimenti delle
rivoluzioni, è oggi estremamente urgente!
***
Maurizio Lazzarato vive e lavora a Parigi. Tra le sue pubblicazioni con
DeriveApprodi: La fabbrica dell’uomo indebitato (2012), Il governo dell’uomo
indebitato(2013), Il capitalismo odia tutti(2019), Guerra o rivoluzione (2022),
Guerra e moneta (2023). Il suo ultimo lavoro è: Guerra civile mondiale? (2024).
La sera dello scorso 2 ottobre, in occasione di una delle manifestazioni
spontanee contro il genocidio in Palestina e l’attacco dell’esercito israeliano
alla Global Sumud Flotilla, nei pressi della stazione centrale di Bologna
un’attivista di 33 anni ha perso un occhio a causa di un lacrimogeno lanciato ad
altezza d’uomo dalle forze dell’ordine.
Oggi, gli avvocati Marina Prosperi e Elia De Caro, insieme a Laura Renzi,
rappresentante di Amnesty International, alle compagne dell’attivista,
ribattezzata Lince, animale dalla proverbiale vista, hanno tenuto una conferenza
stampa per ricostruire quella vicenda, chiedere la fine della repressione del
dissenso e l’introduzione di codici identificativi per le forze dell’ordine, e
lanciare una campagna di sostegno all’attivista.
LA STORIA DELL’ATTIVISTA CHE HA PERSO UN OCCHIO PER UN LACRIMOGENO A BOLOGNA
Secondo le testimonianze raccolte, Lince si trovava in viale Masini quando è
stata colpita al volto da un lacrimogeno sparato ad altezza d’uomo. L’impatto
l’ha fatta cadere a terra, provocandole gravi lesioni a un occhio.
Mentre un’amica chiedeva l’intervento di un medico, le due donne, ancora a
terra, sono state raggiunte da agenti che le hanno manganellate. In quei minuti
la zona era avvolta da un fitto uso di lacrimogeni che, secondo i presenti,
avrebbe reso difficile ogni intervento di soccorso. Le prime cure alla giovane
sono infatti arrivate da altri manifestanti.
Lince ha riportato una lesione permanente e, come confermato dai legali, ha
perso la vista da un occhio.
Gli avvocati Prosperi e De Caro, insieme alla rappresentante di Amnesty
International Laura Renzi, parlano di un episodio che non può essere considerato
un incidente, ma il risultato di scelte operative che trasformano lo spazio
pubblico in un ambito rischioso per chi esercita il diritto di protesta.
Per gli avvocati, l’utilizzo di strumenti ad alto potenziale lesivo in contesti
affollati rende sempre più labile il confine tra gestione dell’ordine pubblico e
violenza istituzionale.
LA CAMPAGNA “LINCE – OCCHI SUGLI ABUSI”
Nonostante la gravità dei fatti denunciati, i promotori dell’appello invitano a
non cedere alla paura. A loro avviso, la repressione mira a scoraggiare la
presenza nelle piazze, ma la risposta della città ha dimostrato una volontà
collettiva di continuare a manifestare. «Il dissenso – sostengono – rimane un
diritto fondamentale che non può essere limitato dalla forza».
Gli avvocati, in particolare, chiedono piena trasparenza sull’operato delle
forze dell’ordine coinvolte, una revisione dell’uso di dispositivi
potenzialmente mutilanti nei contesti di piazza e un cambio di passo nel
trattamento pubblico del dissenso. Tornano inoltre a sollecitare l’introduzione
di codici identificativi ben visibili sugli agenti impegnati in operazioni di
ordine pubblico, misura che permetterebbe di tracciare ogni intervento e di
individuare eventuali responsabilità individuali.
Lince si prepara ora ad affrontare spese sanitarie e legali rilevanti. La
giovane ha infatti deciso di presentare denuncia per l’accertamento delle
responsabilità di chi ha operato in modo scorretto durante la gestione della
piazza, chiedendo allo Stato anche il risarcimento dei danni subiti.
Per questa ragione è nata la campagna “Lince – Occhi sugli abusi” che, oltre ad
un’immagine realizzata da Zerocalcare, presenta un crowdfunding a sostegno della
battaglia.
da Radio Città Fujiko
* immagine realizzata da Zerocalcare a sostegno della campagna “Lince – Occhi
sugli abusi”
Perché ogni anno, Una poltrona per due (Trading Places, 1983), di John Landis,
viene puntualmente trasmesso dalla televisione italiana in occasione della
vigilia di Natale?
di gvs, da Codice Rosso
E perché ogni anno raggiunge altissimi livelli di ascolto tali da superare, come
leggiamo nella pagina wikipedia dedicata al film, la messa di mezzanotte
trasmessa quasi contemporaneamente? La visione di questo film, almeno da noi, è
diventata un classico natalizio, ancora più natalizio della messa di Natale. Si
potrebbe pensare che esso venga associato al Natale perché è una facile commedia
che, tra l’altro, si svolge nel periodo natalizio e perché, alla fine, trionfano
i buoni sentimenti. Eppure, se lo analizziamo attentamente, si scopre che si
tratta di una storia che racconta un feroce spaccato di un’altrettanto feroce
guerra, quella finanziaria. Due ricchi capitalisti, i fratelli Duke, per una
scommessa, decidono di sostituire il loro agente di cambio, il benestante Louis
Winthorpe III (Dan Aykroid), con il povero senzatetto Billy Ray Valentine (Eddie
Murphy). Winthorpe e Valentine, inizialmente rivali, si alleeranno contro i
Duke. Tutto il film è incentrato sul desiderio di arricchirsi a tutti i costi,
sull’odio e sulla gelosia che si prova per chi gode una qualsiasi situazione di
privilegio, sull’aspirazione al benessere e ai confort che si possono acquistare
con il denaro. In questo senso, si tratta di un film in linea con l’ideologia
reaganiana degli anni Ottanta americani ma anche di quelli italiani. Non è un
caso che ogni anno a Natale venga programmato da Italia 1 o, comunque, da una
rete Mediaset, fondata da Berlusconi, il personaggio simbolo della “Milano da
bere” anni Ottanta.
Altro che storia natalizia sui buoni sentimenti. Protagonista assoluta è una
guerra fra poveri, fra poveri e ricchi e fra ricchi e ricchi: i Duke vogliono
annientare Whintorpe e Valentine, Winthorpe vuole eliminare Valentine e
Valentine Winthorpe; infine, entrambi, insieme a una giovane prostituta e al
maggiordomo di Winthorpe, si coalizzeranno contro i Duke con l’unico scopo di
vendicarsi e di arricchirsi. Su tutta la vicenda narrata dal film campeggia
quindi un’atroce guerra all’ultimo sangue: quella della finanza e della borsa;
le scene clou si ambientano infatti alla borsa di futures e opzioni sulle
materie prime di Chicago. Non è un caso che mentre camminano dirigendosi alla
borsa, Whintorpe dica a Valentine: “Qui o uccidi o sei ucciso”. Evidentemente,
al pubblico natalizio piace un film di guerra mascherato da fiaba natalizia. Un
film sorretto da un’unica ideologia: è terribile e vergognoso essere poveri
mentre è bellissimo e appagante essere ricchi. I buoni sentimenti equivalgono
alla vendetta e la felicità equivale alla ricchezza. Più anni Ottanta di così si
muore.
Ma cosa c’entra il Natale con tutto ciò? C’entra, eccome se c’entra. Il Natale,
sotto le parvenze dei buoni sentimenti e della bontà, non è altro che il momento
culminante e più feroce della società capitalistica. È il momento in cui si
acuisce il divario tra chi ha possibilità economiche e chi non le ha: acquisti,
regali, cenoni, feste più o meno sfarzose. È il momento in cui gli individui
fanno a gara per accaparrarsi più merce a qualsiasi costo ed è quello in cui i
poveri sono ancora più poveri. I buoni sentimenti e la generosità, nel mondo
dominato dal capitale, sono soltanto messinscene per creduloni; sono materia da
fiaba e da favoletta, né più né meno. Sotto la maschera della bontà e della
generosità, il periodo natalizio rappresenta, ogni anno, la guerra mondiale
imposta dal capitale. Una guerra che gli stessi paesi ricchi e occidentali
dichiarano a quelli più poveri. Se nel ricco Occidente, milioni di individui
paffuti e benestanti affollano le strade disposti a massacrarsi a vicenda per un
parcheggio dove posteggiare il loro Suv o per accaparrarsi l’ultimo ritrovato
tecnologico in vendita presso un superstore, nei paesi emarginati dell’est e del
sud del mondo altri milioni di individui stanno morendo di fame o vengono
massacrati dalle bombe di governi filo-occidentali, come nella Striscia di
Gaza. Quello stesso capitale che produce il Natale, le feste e i regali produce
anche le armi da esportare nelle guerre e utilizzate per massacrare popolazioni
inermi. Nell’universo capitalistico non c’è nessuna differenza fra produrre un
panettone, uno smartphone, una bottiglia di spumante per brindare alle festività
e produrre bombe, missili e droni.
Non è un caso che il Natale sia stato sempre al centro dello sguardo della
società capitalistica fin dai suoi primordi. Il Canto di Natale (A Christmas
Carol) di Charles Dickens esce nel 1843 e racconta la conversione alla bontà di
un ricco banchiere e capitalista, Ebenezer Scrooge. Sotto l’involucro dei buoni
sentimenti si nasconde l’indicibile violenza della corsa alla ricchezza imposta
dal capitale e le orribili condizioni in cui versano gli strati più poveri della
società londinese dell’Ottocento. Banche e capitali sono alla base anche di
un’altra storia natalizia edificante che rappresenta quasi una rilettura del
racconto di Dickens: ci riferiamo al film La vita è meravigliosa (It’s a
Wonderful Life, 1946) di Frank Capra, in cui la bontà e le buone azioni
avvengono sullo sfondo di una furiosa guerra finanziaria (nel film compare anche
la crisi di Wall Strett del 1929) fra ricchi e poveri emarginati. Sotto Natale,
nel momento dell’euforia degli acquisti, sono ambientate anche alcune sequenze
di un altro film, Rapporto confidenziale (Confidential Report, 1955) di Orson
Welles: siamo a Monaco di Baviera e il mio omonimo Guy Van Stratten incontra
Jakob Zouk, ormai ridotto in miseria, uno degli ultimi a conoscere il segreto
del misterioso miliardario Gregory Arkadin (Orson Welles). Fra i fasti natalizi,
mentre Van Stratten cerca invano del paté d’oca, cibo di lusso per soddisfare il
desiderio dell’ex galeotto Zouk, il potente capitalista Arkadin elimina lo
stesso Zouk, piantandogli un coltello nella schiena, in un fatiscente
appartamento del centro. Dietro i canti natalizi, la neve e l’atmosfera della
festa, il capitale celebra ancora una volta le sue vendette. Ma, in questo
grande film, nell’atmosfera natalizia, il capitalista spaccone e prepotente
viene inchiodato a una dimensione buffonesca e carnevalesca: Arkadin, pur di
prendere l’ultimo aereo in partenza da Monaco ormai già completo, in aeroporto
grida ai passeggeri che è disposto ad offrire qualsiasi cifra per un biglietto
ma Van Stratten lo tratta come un pazzo esaltato dal Natale. Il tragico potere
del capitale, che pretende di comprare qualsiasi individuo per soddisfare i
propri capricci, viene in tal modo scoronato e ricondotto a una dimensione
funereamente carnevalesca.
Piace così tanto Una poltrona per due sotto Natale, allora, forse perché
inconsciamente rappresenta lo status di guerra cui sono sottoposti gli individui
asserviti in tutto e per tutto alle dinamiche capitalistiche; uno status che,
come abbiamo visto, raggiunge sotto le feste i suoi momenti culminanti. Non ci
sono buoni sentimenti che tengono, non ci sono conversioni alla Scrooge che
possano proteggere dalla guerra fintamente piacevole che il capitale impone ogni
giorno. Perché nessuno proverà un qualsiasi dolore o fastidio se, per sbaglio,
cambiando canale per pochi attimi dalla visione natalizia di Italia 1, si
troverà di fronte immagini di guerra dalla Striscia di Gaza. Perché
nell’irrealtà che ci circonda tutto diventa irreale, illusorio, mediaticamente
finto. Tutto una grande favola mediatica e digitale, anche la guerra, la
distruzione e la morte. Buona guerra e felice nuova distruzione.
Condividiamo di seguito l’interessante articolo di Sergio Fontegher Bologna
sullo sgombero del centro sociale Askatasuna su Officina Primo Maggio ed una sua
intervista a Radio Onda d’Urto in cui sviluppa gli spunti dell’articolo.
--------------------------------------------------------------------------------
Una volta chiamavano Torino la città dell’automobile. Se la definizione era
sbrigativa, è pur vero che il settore dell’automotive non solo ha rappresentato
storicamente una componente importante dell’occupazione, ma è stato, come dire,
un tratto del DNA della città quanto a Genova il know how marittimo-portuale.
Dubito però che Genova, se le chiudessero il porto, se ne starebbe zitta e
tranquilla. A Torino il buon Elkann e soci chiudono il settore automotive e
Torino non brucia, anzi si barcamena, s’attacca alle smentite di Stellantis,
sembra non avere il coraggio di accettare la realtà. Non contento, il buon
Elkann vende il quotidiano “La Stampa”, giornalisti inclusi nel pacchetto, come
fossero carne di porco o fazzoletti Tempo. Dimostrando quanta stima avesse il
padrone per i suoi servi ubbidienti che poche settimane prima erano stati
esaltati come custodi della libertà di stampa, colonne della democrazia, dopo
che un gruppo di studenti un po’ vivaci aveva osato buttare all’aria un po’ di
carte posate sulle loro scrivanie. Hanno buttato all’aria delle carte, non hanno
dato fuoco al palazzo.
A rivederla, questa sequenza, ha del grottesco. Elkann chiude il settore
automotive. Non succede nulla. Ragazzi buttano all’aria delle carte nella
redazione di un giornale. Apriti cielo! interviene anche Mattarella. Elkann
pochi giorni dopo vende quel giornale, una testata che fa parte dell’identità di
Torino. Non succede ancora nulla, sì i giornalisti fanno gli offesi (“Come, a
noi colonne della democrazia, questa partaccia, sig. Elkann!”) in sostanza tutti
zitti, perché è vero che si vende, ma a un amico della Meloni. Qualche giorno
dopo dei ragazzi vengono trovati a dormire nel centro sociale Askatasuna.
Dormivano, non stavano confezionando ordigni esplosivi. E succede il finimondo,
il Ministro dell’Interno scatena le sue truppe, il sindaco con fare solenne
indossa la fascia tricolore e dichiara che quei ragazzi non sono più cittadini
rispettabili. E quando mai lo sono stati, quando mai lo hanno voluto essere!
Un ricordo personale. Il tema è la Torino-Lione e il movimento di rivolta nella
Val di Susa. Una tema che fa parte dell’identità di Askatasuna. Siamo al volgere
del secolo, da più di un anno mi hanno inserito in un comitato di esperti che
deve tracciare al Ministero le linee guida del nuovo Piano dei Trasporti e della
Logistica. Tutto il trasporto merci è di mia competenza, autostrade del mare,
trasporto intermodale su rotaia, come si fa a ridurre l’impatto del traffico di
camion sulle strade ecc.. Per questo la Torino-Lione non serve, i colleghi che
sono responsabili dei problemi infrastrutturali, ambientali, regolativi, sono
d’accordo. Diremo diplomaticamente che “non è una priorità”. Il nostro documento
va al CIPE, in Parlamento passa con voto bipartisan, ma poco dopo ci sono le
elezioni, Berlusconi rivince e il nostro bel Piano finisce nel cestino. Passo
dal Ministero alle FS, consulente dell’AD di Trenitalia, e lì ho informazioni di
prima mano su come stanno le cose nel traffico merci su ferrovia. Tra tutti i
diversi (sono cinque) valichi alpini su rotaia il Fréjus sembra il meno
importante rispetto al Gottardo, al Brennero, a Tarvisio e financo Opicina.
Prima di lavorare per Trenitalia però mi capita di andare a Torino, per un
evento di associazioni d’imprenditori. Ricordo che avevo Pininfarina (buonanima)
in prima fila seduto accanto a Virano (buonanima), che è stato per decenni il
principale promotore della Torino-Lione. Io faccio il mio ragionamento, la
Torino-Lione non serve. E spiego perché. In economia dei trasporti – che io non
ho mai studiato ma che mi è stata insegnata dai lavoratori – le caratteristiche
del traffico dipendono dalla composizione merceologica dell’interscambio tra due
paesi. Tra Francia e Italia c’era molta merce di massa (cereali per esempio),
soprattutto in import. Le merci di massa si trasportano su carri particolari ma
fanno parte ancora di un’epoca fordista, il trasporto merci del futuro sarà
sempre più intermodale (container, casse mobili, semirimorchi) per portare
componenti, semilavorati, beni di consumo. Un traffico che ha spedizioni molto
più frequenti, dunque il carico sulla linea aumenta. Sul Gottardo, sul Brennero,
stava già diventando l’unico traffico, dunque era sotto gli occhi di tutti la
tendenza del mercato. È vero che la linea ferroviaria del Fréjus era quasi
satura, ma la sua crescita era gestibile, non era necessario fare una nuova
linea, con lunghe gallerie e tempi lunghissimi di realizzazione. Se il governo
italiano avesse dovuto scegliere quali investimenti erano più urgenti, avrebbe
dovuto investire sul Gottardo, sul Brennero, tanto più che Svizzera ed Austria,
ben consapevoli dell’evoluzione del mercato, ci sollecitavano a farlo. Mentre ai
francesi non importava gran che e nemmeno adesso, dopo vent’anni, hanno fretta
di fare la Torno-Lione. Ero andato anche a Parigi, accompagnato da un alto
funzionario del CNEL, per capire come la pensavano. Ci ricevettero al Senato nel
Jardin du Luxembourg e li trovammo piuttosto freddi.
Dissi queste cose e vidi gli sguardi allibiti di Pininfarina e di Virano, ma ero
pur sempre un consulente del Ministero, inghiottirono in silenzio, anzi,
Pininfarina mi ringraziò per averli informati su come la pensavano a Roma
(magari subito dopo avranno telefonato al Ministro, era Bersani se non sbaglio,
“ma che razza di consulente si è preso”?). Passai poco dopo alle FS e lì mi
convinsi ancor più di avere ragione. Divenni amico addirittura della funzionaria
che aveva la responsabilità della circolazione sulla linea del Fréjus, coi suoi
dati di prima mano sbaragliavo qualunque avversario. Come vicepresidente
dell’Associazione Italiana di Logistica (per pochi mesi) avevo fatto amicizia
coi colleghi tedeschi, erano allora i leader mondiali, mi nominarono socio
onorario della loro Associazione. Potevo parlare con il direttore del traffico
merci della Deutsche Bahn, coi manager dei più potenti spedizionieri europei,
Schenker, Kühne&Nagel, DSV. A quei livelli si decide il mercato, chi li
frequenta non ha bisogno di grandi studi. La forza del consulente vero – poi ci
sono i faccendieri, ma è un altro discorso – sono le informazioni riservate.
Così mi convinsi che la battaglia degli abitanti della Val di Susa era una
battaglia sacrosanta, per impedire un’opera inutile o, nel migliore dei casi,
non prioritaria. Invece le lobby del cemento, gli sventra-montagne, hanno vinto
una volta ancora e il potenziamento del Gottardo e del Brennero lo hanno dovuto
fare gli svizzeri e gli austriaci, con gli italiani assenti o a rimorchio.
In Val di Susa questo nostro paese ha rischiato la guerra civile per imporre
un’opera inutile e oggi minaccia d’infliggere anni e anni di carcere a chi ha
combattuto una battaglia giusta.
Per questo gridiamo “Viva Askatasuna”! Ci sono andato una volta sola a parlare
di lotte nella logistica e mi dispiace. Era il tempo del Covid e ci passò
davanti un corteo di No Vax, uscimmo per vederli passare, ci fischiarono, un
esaltato mi venne quasi addosso, “traditori!”. Tanto per non farmi mancare
nulla.
Quando penso alla storia della Torino-Lione mi coglie una tristezza infinita.
Gli avversari di allora avevano un’altra statura rispetto alle mezze calzette di
oggi. Penso alle merducole di Stellantis, che mettono sul lastrico migliaia di
famiglie e si beccano i bonus. Al loro confronto Pininfarina sembra un gigante.
--------------------------------------------------------------------------------
“Bisogna portare la discussione su un piano più avanzato di quello che
l’avversario ti propone, questo è l’unico modo dove delle lotte possono avere un
risultato: quando loro ti dicono parliamo dello sgombero, tu dici no, parliamo
di Stellantis e della deindustrializzazione; quando loro ti dicono perchè
continuate a fare opposizione alla linea Tav, parliamo in generale di una
politica dei trasporti, scelte strategiche per un paese”.
Così Sergio Fontegher Bologna, studioso del movimento operaio, ex docente
universitario, esperto di trasporti, attualmente redattore di Officina 1 maggio,
ai microfoni di Radio Onda d’Urto.
Sergio Bologna in un articolo Viva Askasatuna pubblicato su Officina 1 maggio
propone degli elementi di riflessione partendo da questa considerazione: “A
Torino il buon Elkann e soci chiudono il settore automotive e Torino non brucia,
anzi si barcamena, s’attacca alle smentite di Stellantis. Non succede nulla.
Ragazzi buttano all’aria delle carte nella redazione di un giornale. Apriti
cielo!”
Nell’articolo si analizza poi uno dei temi e dei terreni di lotta che fanno
parte dell’identità di Askasatuna, l’opposizione alla linea Tav Torino-Lione.
“In Val di Susa questo nostro paese ha rischiato la guerra civile per imporre
un’opera inutile e oggi minaccia d’infliggere anni e anni di carcere a chi ha
combattuto una battaglia giusta. Per questo gridiamo “Viva Askatasuna”, conclude
l’articolo.
“Il mio tentativo era di porre degli elementi per portare il movimento a
spostare la discussione sempre su un piano più avanzato sul quale è evidente che
abbiamo ragione. Come per i centri sociali che possono aver fatto anche grandi
errori hanno rappresentato in certi momenti vitali della storia italiana un
elemento anche di difesa, quanta gente è stata protetta dalla droga pesante
proprio perchè stava nei centri sociali; i centri sociali sono stati posti dove
l’arte, la musica hanno percorso strade innovative”.
L’intervista di Radio Onda d’Urto a Sergio Bologna. Ascolta o scarica.
Riceviamo e pubblichiamo volentieri…
di Daniela
«E’ questo un libro che può sembrare scritto e pubblicato in ritardo, perché è
stato concluso nel novembre 1976, periodo in cui lo Stato iniziava a costruire
meticolosamente e lucidamente quel clima che oggi ci troviamo a vivere nel
nostro paese: quello dell’autoblindo e dello stato d’assedio ovunque si esprima
e si organizzi la volontà di lotta contro il governo della rivincita padronale
contro la classe operaia e i movimenti di massa».
(Il diritto all’odio. Dentro/fuori/ai bordi dell’area dell’autonomia)
In questo momento più del solito, ma non è un fenomeno specifico di questi
giorni, sembra esserci una gara a mettere etichette su Aska e sulle persone che
fanno parte di quella proposta organizzativa. “E’ un covo di delinquenti”, “è il
motore delle proteste violente”, “è un luogo in cui si fa socialità”, “è un
posto in cui si produce cultura”. Di conseguenza, le persone che ne fanno parte
sarebbero violente o, all’estremo opposto, dipinte come delle persone che,
generosamente, si prendono cura del quartiere di cui Aska è parte integrante,
fanno le merende per l3 bambin3 che passano il pomeriggio in via Balbo,
organizzano il Carnevale, mettono a disposizione il giardino per le feste di
compleanno dato che non ci sono posti in cui non vi sia l’obbligo di consumare
per poter stare insieme.
Aska non è un gruppo di boy-scout (anche se più di qualcun ha fatto
quell’esperienza e, chissà, magari anche in quel contesto ha potuto fare
esperienza di cosa vuol dire stare in gruppo, cooperare per fini comuni) e non è
un covo di delinquenti. Aska è sicuramente una proposta organizzativa che si
rifà a una genealogia precisa e che negli anni ha costruito un suo metodo e l’ha
praticato. Aska è tante, tantissime cose per le persone che l’attraversano, che
ne fanno parte, che hanno messo tutta la propria vita in quel progetto, che
hanno ascoltato concerti, trascorso le proprie serate in un posto in cui non
serve spendere chissà quanti soldi per ascoltare musica, chiacchierare, bere in
compagnia, giocare a calcetto. “Non siamo un partito, non ci sono tessere.
Quindi il dentro e il fuori è molto più sfumato, il noi che si crea dura ben al
di là delle diverse forme di militanza che in fasi diverse della vita possono
legare le persone ad Aska”. Questa più o meno letteralmente è una frase di cui
molt riconosceranno l’autore. O, almeno, la prima persona a cui l’ho sentita
dire io, parecchi anni fa ormai.
In questi giorni il tentativo cui stiamo assistendo talvolta in modo più
sottile, per la maggior parte del tempo in modi molto più scomposti e grotteschi
è quello di bollare Aska, squalificarla, parlare per, rinchiuderla in un
recinto…e allora può essere utile soffermarsi un attimo su questi tentativi. Il
linguaggio, la lotta per chi riesce a definire cosa e chi ha indubbiamente a che
fare con il potere; le rappresentazioni e l’immaginario sono una posta in gioco
importante. Cos’è che fa esistere ciò che nominiamo? Chi ha il potere di
nominare? Questi sono interrogativi che il movimento femminista e il movimento
transfemminista si pongono da tempo. Negli anni ’60 – ricorda Remedios Zafra
introducendo l’importante saggio di Brigitte Vassallo “Linguaggio inclusivo ed
esclusione di classe” – Betty Friedan si riferiva al problema delle donne come
al “problema senza nome”. La rivendicazione femminista ha messo al centro le
lotte per poter nominare, per avere un linguaggio che non invisibilizzasse
all’insegna di un presunto universale che universale non è. Oggi Vassallo invita
a non trascurare ciò che si rifiuta di essere confinato nelle parole del padrone
e contribuisce ad affrontare la necessaria complessità del linguaggio per
l’emancipazione collettiva. Appiattire i concetti, svuotare di senso alcune
parole abusandone, etichettare, fare apparire neutri quelli che sono giudizi e
punti di vista soggettivi, sono alcuni dei meccanismi su cui questi movimenti
non hanno cessato di interrogarsi e, talvolta a caro prezzo, di immaginare
antidoti, pratiche altre per disvelarne i rapporti di dominio. Questo patrimonio
di pratiche e di conoscenze è prezioso per farci analizzare con consapevolezza
alcuni meccanismi all’opera in questa vicenda. Tra questi troviamo il tentativo
di negare i diversi ruoli sociali e le appartenenze multiple delle persone per
proporne una visione stereotipata e distante, all’opera per esempio quando
durante le proteste studentesche si dice di chi fa parte dei collettivi “quelli
non sono studenti, sono giovani dei centri sociali” come se le due cose fossero
mutualmente esclusive. Squalificare 30 anni di lotte, di socialità, di comunità
e tentare di racchiuderli in “è un covo di delinquenti” è uno dei tentativi più
grotteschi insieme all’enfasi sull’illegalità e sull’abusivismo che, portati
avanti da personaggi di questo governo, farebbero quasi ridere se non fosse che
trovano pure tutto lo spazio che vogliono sui giornali senza essere minimamente
messi in discussione da qualche domanda che dovrebbe sorgere quantomeno
spontanea rispetto al fatto che la legalità, come dimostrano i fatti, non sembra
essere proprio il primo dei loro valori morali né l’abusivismo pare essere
qualcosa che vogliono contrastare, se non ovviamente quello dei centri sociali.
Perché lì la posta in gioco è ben altra. E la sinistra? La sinistra lo sa che la
posta in gioco è ben altra? Provare a nascondersi, anche in questo caso, dietro
al non rispetto delle regole, all’abusivismo da sanare non apre nessuno spazio
in cui potersi riconoscere in cui potersi sentire rappresentat da coloro che
fanno questi discorsi e si comportano come fossero gli amministratori di un
condominio. La politica estera sta mostrando che sarebbe decisamente il caso di
percorrere altre vie, di prendersi la responsabilità di nominare il
conflitto come qualcosa di ben diverso dalla violenza cui lo si vorrebbe
relegare. E anche nominare apertamente che di fronte alla reazione popolare che
si sta dando, questo governo ha di nuovo paura. Per quanto mostri i muscoli, ha
paura. Come ha avuto paura delle manifestazioni per la Palestina perché sebbene
si affannino con tutti i mezzi a loro disposizione – e sono tanti – a dire che
in piazza a protestare per Aska ci sono solo i violenti e a riempire lo spazio
mediatico di interviste a presunti commercianti a cui è la polizia stessa a dire
di abbassare le saracinesche, le persone che vivono in città e ancor più quelle
che vivono in quartiere, si conoscono e parlano tra loro. Ai cortei ci sono,
sanno bene che Aska mai ha fatto alcun danno ai negozi. E la solidarietà è più
che mai trasversale. Sempre meno sono le persone che si informano sui giornali –
presidio di valore inestimabile di democrazia al punto che se Elkann decide di
vendere trattando i lavoratori e le lavoratrici come carta straccia, la galassia
della politica istituzionale lascia fare come se nulla fosse.
Aska – sarà che la boxe popolare in quelle mura non è mancata – non sarà così
semplice da mettere all’angolo. Il fatto che sui social network praticamente
chiunque stia prendendo parola per condividere un ricordo, per dire cosa è per
lei Aska, cosa per lui, cosa per loro, per raccontare di quella volta che…è
significativo. Aska non è solo un simbolo, ma è anche indubbiamente un simbolo.
Piantedosi lo sa ed è per questo che si è affrettato a intestarsi a mezzo
social, l’operazione. Ma sta correndo troppo nel dire che quell’esperienza è
finita perché come diceva uno dei cori di sabato “Piantedosi, Askatasuna non è
solo un palazzo”. In città è come se si fosse trattato di una scintilla, non si
sta in strada solo per Aska. Si sta in strada perché si vuole stare insieme,
perché si vuole di più della mera sopravvivenza, perché si vuole cambiare di
tutto di questo presente di miseria, di sensazione di impotenza, asfittico e ora
pure guerrafondaio, a cui vorrebbero condannarci. Come si è detto, la Torino che
lotta e la Torino partigiana è scesa in piazza. E non solo.
Anche nel caso dei blocchi in solidarietà alla Palestina, lo spazio mediatico
era saturo di una narrazione quasi univoca davvero lontana dalla realtà, ma le
persone non si sono fatte raccontare quel che avevano davanti agli occhi e hanno
partecipato, si sono messe in gioco. In quelle settimane il senso di ingiustizia
schiacciante, il senso di impotenza si è convertito in motore politico, e ha
dimostrato tutta la sua forza. Aska nel movimento Blocchiamo tutto è un simbolo
e un punto di riferimento. È il contrario della rassegnazione ed è un esempio di
coerenza in un contesto in cui non è che non è che se ne possano fare facilmente
molti altri. Tutto questo, riprendendo le genealogie da cui nasce questa
proposta politica organizzativa parla al «futuro anteriore».
La Commissione di Garanzia sulla legge 146 ha emesso la sua prima sentenza
contro gli scioperi dello scorso autunno, facendo partire una prima pesante
raffica di sanzioni contro l’agitazione che è stata proclamata senza rispettare
i termini di preavviso a causa dell’attacco che stava subendo la Flotilla.
La delibera della CGSSE si riferisce allo sciopero generale del 3 ottobre,
scattato a seguito del sequestro illegittimo operato dall’esercito israeliano
nei confronti di tutte le imbarcazioni della Global Sumud Flotilla, che stavano
cercando di raggiungere le popolazioni di Gaza, per portare loro aiuti umanitari
e aprire un valico permanente di soccorso.
Il governo Meloni non solo si è rifiutato di intervenire per far rispettare il
diritto internazionale – le imbarcazioni sono state sequestrate infatti in acque
internazionali e quindi fuori dalla giurisdizione israeliana – ma non ha
ritenuto necessario di dover agire a sostegno dei cittadini italiani imbarcati,
manifestando ancora una volta la totale complicità con il governo genocida di
Tel Aviv. Come sappiamo i nostri concittadini, assieme al resto dell’equipaggio
della Flotilla, sono stati arrestati e condotti nelle carceri israeliane,
sottoposti a gravi vessazioni e violenze ed infine espulsi dopo alcuni giorni di
sequestro illegittimo. Non una nota di protesta è mai partita dal nostro governo
verso le autorità israeliane.
Lo sciopero generale del 3 ottobre ha rappresentato un moto di indignazione
popolare capace di legare l’orrore per quanto avveniva (e purtroppo ancora
continua) in Palestina con lo sdegno per il comportamento complice del nostro
governo. Centinaia di migliaia di persone invadevano le piazze di tutto il paese
e molte attività si fermarono. La circolazione è stata paralizzata ma in molte
occasioni i manifestanti hanno ricevuto gli applausi dei cittadini intrappolati
nel traffico e tuttavia solidali con la protesta.
Il governo ha vissuto in quei giorni i momenti più difficili dal suo
insediamento. La Meloni balbettava frasi senza senso, Tajani appariva in grande
imbarazzo, il resto del governo preferiva rimanere in silenzio. Ora che l’ondata
emotiva si è ridotta, è cominciata la vendetta. In diverse città, da Bergamo a
Catania, da Ravenna a Torino, sono state impartite decine e decine di sanzioni
individuali contro i manifestanti con migliaia di euro di multe e, a seguire,
sono cominciate ad arrivare le sanzioni contro le organizzazioni sindacali. Le
somme più pesanti, 20mila euro, sono per l’USB assieme alla Cgil. E la
Commissione ha già fatto sapere all’USB che ne sono in arrivo altre.
Bloccare il paese è una pratica che ha dimostrato di essere efficace. Il governo
ha potuto sperimentare in quelle giornate tutta l’inutilità dei suoi dispositivi
repressivi e dei decreti sicurezza di fronte all’espressione popolare. E si è
messo paura. Non ci lasceremo intimidire dalla sua vendetta e ci prepariamo a
tornare all’attacco. Ci sono mille buone ragioni per bloccare di nuovo tutto.
Unione Sindacale di Base