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COP30: Cosa aspettarsi dal vertice mondiale sui cambiamenti climatici
Con il ritiro degli Stati Uniti e la cautela della Cina, la conferenza in Brasile metterà alla prova la capacità del mondo di rispettare l’Accordo di Parigi e gli obiettivi finanziari di Amanda Magnani, tradotto da Rebellión A partire dal 10 novembre, i rappresentanti di oltre 100 paesi si riuniranno a Belém, in Brasile, la città amazzonica che ospiterà il vertice sul clima COP30. Questa edizione della conferenza è stata descritta dalle Nazioni Unite come una tappa fondamentale per consentire ai paesi di aggiornare i propri piani d’azione sul clima e compiere progressi nell’attuazione di misure contro il riscaldamento globale. In qualità di paese ospitante, il Brasile pretende che questo vertice sia caratterizzato dai risultati. “Ora è il momento di agire”, ha affermato il presidente della conferenza, André Corrêa do Lago, in un evento preparatorio tenutosi ad agosto. “La COP30 sarà il momento di mettere a punto gli strumenti e accelerare l’attuazione”. Ma le aspettative per la COP30 sono grandi quanto le sfide che la circondano. La conferenza coincide con il decimo anniversario dell’Accordo di Parigi, una pietra miliare mondiale nella lotta contro la crisi climatica. Questo trattato storico ha dato impulso all’espansione delle politiche nazionali volte a realizzare economie a basse emissioni di carbonio, ma i progressi verso il raggiungimento dei suoi obiettivi rimangono insufficienti: nel 2024, la temperatura media del pianeta ha superato per la prima volta l’obiettivo concordato di 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali, una soglia definita dagli scienziati come il massimo per evitare gli effetti peggiori dei fenomeni climatici sempre più gravi. All’inizio di quest’anno, gli esperti hanno avvertito che il pianeta aveva raggiunto il suo primo “punto di non ritorno”, con la morte generalizzata delle barriere coralline in più di 80 paesi a causa del riscaldamento degli oceani. Gli scienziati e gli ambientali responsabili dell’analisi hanno anche sottolineato il rischio di collasso della foresta amazzonica, un bioma essenziale per l’equilibrio climatico globale e proprio il luogo in cui si terrà il vertice COP30. L’ACCORDO DI PARIGI MESSO ALLA PROVA Con l’aggravarsi della crisi climatica, la COP30 metterà alla prova la volontà dei paesi di mantenere l’Accordo di Parigi come elemento centrale della governance globale. La COP28, tenutasi a Dubai nel 2023, ha rappresentato il primo bilancio globale e la prima menzione in un testo finale della COP alla transizione dai combustibili fossili. Da parte sua, la COP29 dello scorso anno in Azerbaigian ha stabilito un nuovo obiettivo di finanziamento per il clima. A Belém, l’attenzione si concentrerà sulla revisione e l’attuazione degli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni, i contributi determinati a livello nazionale (NDC), che vengono aggiornati ogni cinque anni. Una relazione di sintesi raccoglierà le proposte per orientare l’azione per il clima fino al 2030 e valuterà il rispetto degli impegni assunti dai paesi nell’ambito degli NDC. Tuttavia, finora meno di 70 dei oltre 190 firmatari dell’Accordo di Parigi hanno aggiornato i propri obiettivi. Nel complesso, i paesi che hanno già presentato i propri piani rappresentano più di un terzo delle emissioni globali. “I piani presentati non ci avvicinano affatto al percorso necessario per un futuro sicuro”, ha affermato Miriam García, direttrice delle politiche climatiche del World Resources Institute Brazil (WRI), un’organizzazione dedicata alla ricerca di soluzioni climatiche. Ha sottolineato che, secondo stime recenti, il mondo dovrebbe ridurre le emissioni di gas serra di circa 31 gigatonnellate entro il 2030 per mantenere il riscaldamento globale entro il limite di 1,5 °C. Tuttavia, anche tenendo conto degli NDC aggiornati e di altri impegni già annunciati, la riduzione prevista non supera i 2 gigatonnellate. La conferenza si concentrerà anche sull’adattamento ai fenomeni climatici estremi, su una transizione energetica equa e sull’attuazione della Roadmap di Baku-Belém, un documento che descrive il percorso per raggiungere 1,3 trilioni di dollari di finanziamenti annuali per il clima entro il 2035, un obiettivo concordato alla COP29 a Baku, la capitale dell’Azerbaigian. Parallelamente ai negoziati ufficiali, il governo brasiliano si è impegnato in un ampio “Programma d’azione”, con oltre 350 eventi che vedono la partecipazione di governi locali, aziende, ricercatori e rappresentanti della società civile. Tuttavia, l’approccio di questa agenda ha suscitato opinioni divergenti, secondo Karla Maass, consulente per l’incidenza politica della Rete di Azione Climatica dell’America Latina (CAN-LA), la divisione regionale della coalizione mondiale CAN, che raggruppa oltre 1.900 organizzazioni ambientaliste. “Alcuni ritengono che sia lo scenario in cui si sviluppano la politica e l’economia reali, ma altri lo considerano una cortina fumogena per distogliere l’attenzione dai negoziati ufficiali”, ha dichiarato a Dialogue Earth. Per Maass, i processi di negoziazione formali e paralleli “possono essere complementari, ma l’Agenda d’azione non può monopolizzare tutta l’attenzione”. RAFFORZAMENTO DEL MULTILATERALISMO Oltre alle difficoltà tecniche, la COP30 si svolge in un contesto geopolitico “molto delicato”, secondo García, del WRI Brasile. Egli ha affermato che la crescente sfiducia tra i paesi – già identificata dai leader mondiali come uno dei principali ostacoli ai negoziati sul clima – ha indebolito le alleanze e ridotto la volontà di cooperare. Il ritorno alla presidenza degli Stati Uniti di Donald Trump, che ha già promosso tagli ai programmi internazionali sul clima e all’assistenza del Paese, insieme al riorientamento delle risorse governative verso questioni militari e di sicurezza nel contesto delle guerre in Ucraina e Gaza, ha esacerbato il declino globale dei finanziamenti per il clima. Di fronte alle tensioni geopolitiche che potrebbero distogliere l’attenzione dai dibattiti, i leader della COP30 in Brasile, come la direttrice esecutiva del vertice Ana Toni, hanno cercato di riaffermare il loro impegno a favore del multilateralismo. Questa è anche l’opinione di García, che lo ha descritto come l’unico modo possibile per affrontare la crisi climatica. “Non c’è altro spazio in cui i paesi più vulnerabili possano esprimere le loro richieste”, ha aggiunto. Dopo tre edizioni del vertice tenutesi in paesi i cui regimi sono considerati autoritari, ci sono grandi aspettative che la COP30 segni il ritorno di una forte partecipazione della società civile, nonché la messa in primo piano delle richieste e delle ambizioni del Sud del mondo. Tuttavia, questa speranza è stata offuscata dai prezzi esorbitanti degli alloggi nella città ospitante, Belém, che hanno limitato la presenza dei rappresentanti dei movimenti sociali e dei paesi più poveri. Nonostante l’aumento del sostegno finanziario delle Nazioni Unite, il problema persiste: alla fine di ottobre, 49 delegazioni non sapevano ancora dove avrebbero alloggiato durante la conferenza, mentre più di 130 avevano già la garanzia di un alloggio. Di fronte a questa situazione, l’Osservatorio sul Clima, una delle organizzazioni brasiliane che ha seguito più da vicino le conferenze delle Nazioni Unite sul clima, ha avvertito che questa potrebbe diventare la “COP meno inclusiva della storia”. “Senza le delegazioni dei paesi in via di sviluppo, la legittimità delle decisioni sarà messa in discussione”, ha affermato Stela Herschmann, esperta di politica climatica dell’Osservatorio sul clima. Anche tra le delegazioni che sono riuscite a confermare la loro partecipazione, la tendenza è stata quella di ridurre le dimensioni dei team, compreso il caso delle Nazioni Unite e del Brasile. Questa limitazione, secondo Herschmann, può influire sul ritmo e sulla qualità dei negoziati. “I team di piccole dimensioni devono dividersi in diverse sale, il che sovraccarica i negoziatori. Di conseguenza, le ambizioni tendono a diminuire”, ha spiegato. GLI STATI UNITI FUORI GIOCO E L’AMBIZIONE DELLA CINA SOTTO I RIFLETTORI Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca nel gennaio 2025 ha provocato un nuovo ritiro dall’Accordo di Parigi da parte degli Stati Uniti, il secondo maggior emettitore di gas serra al mondo. “Oltre agli effetti sull’obiettivo globale di riduzione delle emissioni, questa uscita ha anche un impatto sul finanziamento globale per il clima”, ha affermato García. Tuttavia, ha sottolineato che il Paese non ha mai rispettato pienamente i propri impegni finanziari e ha aggiunto che i governi statali e municipali del Paese potrebbero cercare di colmare il vuoto lasciato dall’amministrazione federale. Con il ritiro, gli NDC presentati dagli Stati Uniti nel 2024 non sono più validi. Per quanto riguarda gli altri attori chiave nel campo del clima, l’Unione Europea non ha ancora presentato i suoi piani e la Cina ha annunciato obiettivi che, in generale, sono considerati al di sotto delle aspettative. In un discorso pronunciato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a settembre, il leader cinese Xi Jinping ha annunciato che il Paese intende ridurre le proprie emissioni di gas serra tra il 7% e il 10% entro il 2035, prendendo come riferimento il picco registrato negli ultimi anni. Gli esperti hanno ritenuto questo impegno vago e insufficiente, soprattutto considerando che la Cina rappresenta circa un terzo delle emissioni globali. Tuttavia, Pechino ha una storia di superamento dei propri obiettivi, a volte cauti. Inoltre, con il ritiro della leadership climatica degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, cresce la pressione affinché la Cina assuma l’iniziativa nell’agenda climatica mondiale. Nonostante i suoi obiettivi modesti, il Paese è considerato l’unico con un peso politico e una capacità tecnologica sufficienti per svolgere questo ruolo. Pechino ha spesso rifiutato l’idea di posizionarsi esplicitamente come leader climatico. Secondo Niklas Weins, professore presso il dipartimento di studi internazionali dell’Università Xi’an Jiaotong-Liverpool, la Cina non ritiene strategico assumere il ruolo di “leader unico” nelle questioni internazionali, compreso l’ambiente. “Gli Stati Uniti occupano solitamente questa posizione e i cinesi comprendono il peso che questa immagine comporta. Pertanto, in ambito ambientale, ciò che il Paese desidera è una leadership distribuita con una cooperazione Sud-Sud rafforzata”, ha spiegato Weins a Dialogue Earth. IL SUD GLOBALE SOTTO I RIFLETTORI Gli esperti sostengono inoltre un ruolo più attivo delle economie emergenti nella transizione ecologica. Secondo García, la leadership dei paesi a reddito medio come Cina, Indonesia, Sudafrica e Brasile è essenziale per rendere possibile un’economia globale a basse emissioni di carbonio. “Essi producono circa la metà delle emissioni globali, una percentuale che probabilmente aumenterà. Se non riusciranno a ridurre queste emissioni e ad adattarsi agli imminenti impatti climatici, l’intera transizione ecologica sarà in pericolo”, ha affermato. Allo stesso tempo, molti ritengono che la transizione climatica globale stia aprendo un’opportunità di sviluppo unica per i paesi del Sud del mondo, in particolare in America Latina. “Questi paesi hanno ancora una grande opportunità per espandere i loro mercati [energetici] e dare alle loro popolazioni accesso all’energia che proviene già da fonti rinnovabili”, ha affermato Herschmann. “È un’opportunità per sfruttare questo momento di trasformazione e correggere le disuguaglianze e le ingiustizie strutturali”. Secondo Corrêa do Lago, l’America Latina ha davanti a sé l’opportunità di assumere una leadership senza precedenti nella ricerca della giustizia climatica. Storicamente caratterizzata da posizioni frammentate nell’agenda climatica, la regione ha cercato un maggiore coordinamento nei forum multilaterali, con l’obiettivo di arrivare alla COP30 con un’agenda più unificata e influente. Sia Herschmann che Maass hanno commentato che rafforzare la posizione del Sud del mondo nel dibattito sarà essenziale, ma insufficiente senza la partecipazione delle grandi potenze. “Stiamo assistendo a un rafforzamento del Sud del mondo, ma leader come gli Stati Uniti e l’Unione Europea devono rimanere impegnati e fissare obiettivi ambiziosi. Dopo tutto, sono storicamente responsabili del cambiamento climatico”, ha affermato Herschmann. La COP30 si terrà a Belém, in Brasile, dal 10 al 21 novembre. Maggiori informazioni sulla copertura del vertice qui. Amanda Magnani è una giornalista e fotografa brasiliana. Il suo lavoro si concentra sulla giustizia climatica, la transizione energetica, le comunità tradizionali e la decolonizzazione dei processi giornalistici. È stata borsista del Pulitzer Center, del Metcalf Institute e del Climate Tracker e ha pubblicato articoli su National Geographic, Mongabay, Al Jazeera e Folha de São Paulo. Immagine: Una delegazione presidenziale brasiliana naviga verso l’isola di Combu, nella città amazzonica di Belém. Delegazioni internazionali arriveranno in città questo mese per i negoziati sul clima della COP30 (Immagine: Ricardo Stuckert / Presidência da República / Agência Brasil)
Sudan. Dopo il Darfur le RSF puntano al Kordofan, proseguono i massacri
Il Sudan continua a precipitare in una spirale di violenza che sembra non avere fine. Dopo la caduta di El Fasher, capitale del Darfur settentrionale, il conflitto ha assunto i contorni di un massacro. da Pagine Esteri Le testimonianze che emergono descrivono esecuzioni sommarie, uccisioni di civili, ospedali trasformati in teatri di orrore. Interi reparti medici sono stati annientati: centinaia di operatori sanitari, pazienti e familiari sono stati uccisi durante l’assalto delle milizie, mentre le strutture sono state saccheggiate e date alle fiamme. A guidare l’offensiva sarebbe stato il generale al-Fateh Abdullah Idris, conosciuto come Abu Lulu, uno dei comandanti più spietati delle Forze di supporto rapido (RSF). Secondo numerosi testimoni, avrebbe ordinato di fucilare prigionieri disarmati ignorando gli appelli dei suoi stessi uomini. Il suo nome è ormai legato a crimini di guerra di una brutalità tale da scuotere anche alcuni vertici della stessa milizia, che hanno annunciato un’inchiesta interna mai realmente avviata. Dopo aver conquistato El Fasher, le RSF si stanno muovendo verso est, con l’obiettivo di prendere il controllo del Kordofan settentrionale. La regione rappresenta un corridoio strategico fra il Darfur e la parte centrale del paese: dominarla significa controllare le rotte commerciali, la ferrovia e le basi aeree che collegano le zone occidentali alla capitale. La caduta della città di Bara ha segnato l’inizio di una nuova fase, mentre le milizie avanzano verso El Obeid con la stessa logica di devastazione applicata in Darfur. Villaggi rasi al suolo, case bruciate, intere comunità costrette alla fuga: la popolazione civile è la prima vittima. Donne e bambini vengono uccisi o rapiti, le abitazioni saccheggiate, i pozzi avvelenati per impedire il ritorno dei profughi. La guerra, che in origine opponeva le RSF all’esercito regolare sudanese, è degenerata in un conflitto etnico e territoriale che sta disgregando il paese. La figura di Abu Lulu è emblematica di questa deriva. Proveniente da una famiglia con legami diretti con la leadership delle RSF, il generale è accusato di aver guidato reparti responsabili di massacri deliberati contro civili non armati. Le immagini e i racconti che filtrano da El Fasher parlano di corpi abbandonati nelle strade e di fosse comuni scavate in fretta per nascondere le prove. Mentre la comunità internazionale tenta di rilanciare la proposta di una tregua umanitaria, la guerra si sposta di provincia in provincia, lasciando dietro di sé soltanto macerie. Nel Kordofan, i timori di una nuova catastrofe umanitaria crescono di giorno in giorno. Gli sfollati che fuggono dal Darfur vengono accolti da regioni già impoverite e incapaci di sostenere nuovi arrivi, mentre le milizie consolidano le proprie posizioni. A El Obeid, principale città del Kordofan, le autorità locali parlano di assedi imminenti e di combattimenti alle porte. Le forze regolari appaiono indebolite, logorate da mesi di battaglie e da una crisi di comando che paralizza ogni risposta coordinata. Nelle aree rurali, intanto, bande armate e mercenari legati alle RSF impongono il proprio controllo su strade e villaggi, chiedendo denaro e armi in cambio di una fragile protezione. Il conflitto in Sudan, da guerra tra fazioni rivali, è diventato sistema di potere fondato sulla paura, sulla conquista e sullo sterminio. Le Forze di supporto rapido, forti delle loro vittorie militari, mirano a costruire una nuova geografia del potere, estendendo la loro influenza oltre il Darfur e ridisegnando con la violenza i confini politici del paese. Pagine Esteri
Sainte-Soline: le prove dell’intento di massacrare i manifestanti
«Non riesco più a contare quanti ragazzi abbiamo accecato! È stato davvero divertente!» tradotto da Contre Attaque Le immagini diffuse mercoledì 5 novembre da Médiapart e Libération fanno venire voglia di bruciare tutto e confermano ciò che tutte le persone presenti a Sainte-Soline il 25 marzo 2023 hanno provato: la volontà da parte dello Stato di uccidere, traumatizzare, distruggere mentalmente e psicologicamente un intero movimento ecologista, nel bel mezzo di un grande movimento sociale per le pensioni. I due media hanno avuto accesso alle telecamere indossate dai gendarmi presenti intorno al controverso megabacino quel giorno. I militari sanno di essere ripresi e registrati, eppure si lasciano andare. Si possono sentire decine di insulti, inviti a commettere omicidi e persino discorsi apertamente fascisti. Soprattutto, questi video e questi scambi costituiscono prove schiaccianti di fatti criminali che rientrano nella competenza della corte d’assise. Tra gli scambi registrati, questa discussione tra due gendarmi che lanciano granate sulla folla: «Non conto più i ragazzi a cui abbiamo cavato un occhio!». Il suo collega gli risponde: «Spero proprio che tu gli abbia cavato un occhio!». Il primo grida di gioia: «Che figata!». Si sentono anche ripetutamente gli ordini impartiti dai superiori di uccidere o mutilare i manifestanti. Ad esempio questo ordine: «Mettigli una GM2L in bocca». Una «GM2L» è una granata esplosiva, potenzialmente letale, contenente C4. Queste armi da guerra possono strappare arti e hanno già polverizzato mani o piedi. Lanciata all’altezza del viso, una granata di questo tipo può strappare la testa. Altri ufficiali gridano ai loro uomini: «Teso, teso! Abbassa il fucile!». Un altro grida: «Ben fatto, dritto in faccia». Un gendarme chiede ai suoi colleghi tiratori: «Ancora più in basso, più in basso». Un capo ordina: «Sul gruppo, davanti, teso! Davanti, teso! Lanciate in tensione!» Un altro dice a un tiratore: «In tensione, in tensione, abbassa il fucile, cazzo, sbrigati». Questi ordini dimostrano una volontà deliberata di colpire i corpi, in una situazione di illegalità generalizzata. L’arma che lancia i proiettili antisommossa si chiama «lanciatore Cougar», è un’arma da fuoco, considerata materiale bellico, che lancia proiettili di 56 millimetri di circonferenza in plastica dura, a piena velocità, fino a 200 metri. È categoricamente vietato utilizzare questi «lanciatori» con tiro diretto, poiché si rischia di uccidere. I tiri devono sempre essere effettuati con traiettoria ad arco affinché le granate abbiano il tempo di esplodere in aria. I lanciatori Cougar sono inoltre appositamente angolati per impedire un uso illegale. Per effettuare un tiro diretto, i gendarmi devono quindi inclinare o capovolgere la loro arma, un gesto necessariamente volontario. A Sainte-Soline, la direttiva dei superiori era quella di utilizzare sistematicamente le armi nel modo più pericoloso e devastante possibile, in palese violazione della legge e delle regole interne alla gendarmeria. Nelle registrazioni, i militari chiamano i manifestanti anche “figli di puttana”, ‘stronzi’, “puzza di piscio”… Si rallegrano di aver causato danni irreversibili in tempo reale: ad esempio, di aver colpito “in pieno volto”. Ridono di “fare male”, dicono che “bisogna ucciderli”. In due ore, attorno a una buca in mezzo alla campagna, senza alcun interesse materiale, senza alcun obiettivo di mantenimento dell’ordine, un dispositivo di 3000 militari, supportati da droni, elicotteri e blindati, ha lanciato più di 5000 granate su una folla di civili. Quel momento è stato il culmine della codardia: i gendarmi sono pesantemente protetti dai loro elmetti, dalle loro corazze e dai loro scudi. Quel giorno erano anche in posizione dominante, schierati su cumuli di terra, e sempre a distanza dai manifestanti che non sono mai riusciti a raggiungere la conca. Quest’ultima era circondata da diverse file di recinzioni. Bisogna quindi immaginare degli immensi codardi in uniforme, pagati e pesantemente equipaggiati dallo Stato, che riversano ridacchiando una pioggia di munizioni letali, senza correre il minimo rischio, su persone che difendono il bene comune. Il giorno prima della manifestazione di Saint-Soline, Darmanin è intervenuto su Cnews per annunciare: «I francesi vedranno nuove immagini estremamente violente». Il ministro dell’Interno sapeva esattamente cosa era previsto per il giorno successivo a Sainte-Soline: una partita di tiro al piattello destinata a spezzare le reti ecologiste e anticapitaliste, nel pieno del movimento sociale. Tutto era stato pianificato, sceneggiato, dall’alto verso il basso della catena di repressione. Nelle registrazioni del 25 marzo 2023 appena rese pubbliche, i militari non provano il minimo rimorso e dicono addirittura che hanno adorato versare sangue. Un tiratore dice al suo collega: «Questa gli darà un bel colpo sul naso, guarda». Risposta: «Bene», seguita da un’osservazione entusiasta: «L’ha preso nelle palle». Un gendarme di nome Eduardo moltiplica i colpi mortali. Si sentono i suoi colleghi entusiasti: «Quello di Eduardo lì, l’ha colpito in pieno alla testa», «Il colpo di Eduardo è stato magnifico […] è quello che avrebbero dovuto fare tutti, così non si può identificare nessuno, grosso». Un altro ricorda: «Riparliamo del tiro teso di poco fa, pensavo che quel tizio non si sarebbe mai rialzato!». I criminali in uniforme godono della propria violenza. Un ufficiale dello squadrone di Grenoble assume un accento tedesco e dichiara: «A tutti i piloti di Panzer, avanti». Mima un nazista e ne è orgoglioso. I militari esprimono il loro piacere dopo il massacro: «È magnifico», o ancora: «Ho firmato per questo, amico, ho aspettato dieci anni nella gendarmeria per vivere questo momento». Un altro si vanta: «Ho sparato 7 LBD, ne ho stesi almeno quattro». Ricordate, nel marzo 2023, tutti i media ci avevano fatto credere che i gendarmi fossero “traumatizzati” dalla “estrema violenza dei manifestanti”, che alcuni fossero “gravemente feriti”. Per giorni abbiamo sentito infinite menzogne su questi poveri agenti esposti a pericolosi ambientalisti. Hanno cercato di suscitare la compassione della popolazione e hanno creato una narrazione completamente falsa. La realtà, come dicono gli stessi gendarmi, è che si sono “divertiti”. Sono passati più di due anni da quella manifestazione che ha traumatizzato una generazione di attivisti. Più di 400 persone sono rimaste gravemente ferite quel giorno, due sono state messe in coma e molte sono rimaste mutilate a vita. Diversi chili di esplosivo hanno devastato i campi, le detonazioni hanno scavato crateri, come in una scena di guerra. E nonostante le prove schiaccianti, le immagini, le testimonianze e le registrazioni degli stessi gendarmi, non è successo nulla. L’Ispettorato Generale della Gendarmeria Nazionale (IGPN) afferma di non aver “identificato” alcun autore di violenze. Eppure basterebbe collegare le registrazioni video al possessore della telecamera, dato che vengono citati nomi e identificati i mandanti! L’IGGN non ha nemmeno fatto finta di indagare: Mediapart spiega che nessun gendarme è stato interrogato sul contenuto delle immagini. E che tre squadroni di gendarmeria hanno persino rifiutato di consegnare le loro registrazioni agli investigatori, senza che ciò provocasse la minima reazione. Dopo questa manifestazione, Serge, che era venuto a manifestare, è rimasto in coma per diverse settimane. Un colpo diretto alla testa gli ha fratturato il cranio, provocando lesioni irreversibili al cervello. Mentre era in bilico tra la vita e la morte, i gendarmi hanno impedito ai soccorsi di venire a prenderlo. Ha sfiorato il peggio e sta ancora lottando per recuperare le sue capacità. Anche Mickaël, colpito al collo da un proiettile di gomma, è finito in coma. Avrebbe potuto morire a causa dell’ematoma cerebrale provocato dal proiettile. Alix è stata colpita da una granata alla mascella, che le ha frantumato le ossa del viso. Il proiettile è poi esploso nelle sue gambe. Decine di altre persone, che hanno preferito mantenere l’anonimato, sono state colpite da proiettili mutilanti agli occhi, agli zigomi, al cranio, da esplosioni alle gambe o ai piedi, hanno avuto i timpani perforati dalle detonazioni. Migliaia di altre persone rimangono traumatizzate. Sainte-Soline è stata la dimostrazione del fascismo già presente: per due ore, in un campo, lo Stato francese ha ordinato ai suoi soldati di massacrare una marcia di ecologisti. E la nostra risposta si fa ancora attendere. Queste rivelazioni, anche se arrivano in ritardo, meriterebbero di provocare da sole una rivolta.
NYC: la vittoria di Mamdani
La vittoria del candidato sindaco democratico Mamdani è stata in prima pagina su tutti i giornali nostrani sia ieri che oggi. Potrebbe essere definito un prodotto della fase che attraversiamo e che tocca le giuste corde per piacere a “sinistra” grazie alla frizzante gestione social e al suo profilo, giovane, razzializzato, musulmano e socialista, così definito dalla narrazione mainstream. E’ interessante analizzare quali fattori hanno determinato la sua vittoria nella città di New York, come si può spiegare questa anomalia, se di questo si tratta, rispetto alle figure dell’establishment democratico americano. Ma, soprattutto, quali sono i temi al centro del suo mandato e quali sfide dovrà affrontare per non cadere in contraddizione. Ne parliamo con Felice Mometti, ricercatore indipendente esperto di USA da Radio Blackout
Carisio: arrivato il preavviso di esproprio sui terreni di un agricoltore in vista del progetto di stazione elettrica per impianti agri-fotovoltaici
Diffondiamo la notizia di preavviso di esproprio dei terreni dell’agricoltore di Carisio Andrea Maggi, qui avevamo raccontato la sua storia. Il tema della transizione energetica a spese dei territori per le grandi rinnovabili che sfruttano terreni agricoli causando consumo di suolo e esproprio della propria fonte di reddito e del lavoro di intere generazioni di agricoltori era stata oggetto dell’Assemblea Regionale tenutasi quest’estate a Mazzé dal titolo IL DESTINO DELL’AGRICOLTURA E DEL SUOLO IN PIEMONTE: TRA AGRI-FOTOVOLTAICO E NUCLEARE. Di seguito riportiamo un commento scritto da Daniele Gamba, del Circolo Tavo Burat – Pronatura di Biella che sta seguendo la vicenda. Per soddisfare il fabbisogno energetico nazionale con pannelli fotovoltaici sarebbe sufficiente utilizzare le coperture esistenti (è la valutazione emersa a seguito di un’analisi condotta da ISPRA) senza necessariamente posare pannelli fotovoltaici su terreni agricoli. Tale modalità costerebbe un po’ di più in fase di installazione e richiede maggior tempo per la sua attuazione ma offrirebbe il vantaggio, per chi la realizza, di sottrarsi dal mercato dell’energia ove la speculazione incide molto sui prezzi finali posti all’utenza. Ovviamente le imprese energetiche sono interessate a fare business, a vendere energia, e la loro soluzione alla transizione energetica è la realizzazione di grandissimi impianti FV o AV su terreni agricoli secondo la logica “bassi costi, massimi profitti”. Gli indirizzi governativi sono volti a premiare il mercato e meno la produzione dal basso. Nel biellese e nel vercellese sono stati depositati numerosi progetti per realizzare tali impianti e le imprese energetiche hanno acquisito i terreni o il diritto di superficie con offerte economiche elevate, anche 3/4 volte il valore fondiario dei terreni agricoli. Alcuni agricoltori si sono lasciati tirare da queste offerte, alcuni le hanno declinate perché legati al mestiere e alle tradizioni di famiglia. Per allacciare questi impianti fotovoltaici di grande potenza è necessario connettersi alle dorsali di trasmissione dell’energia ad alta tensione tramite la realizzazione di Stazioni Elettriche (SE) dedicate. La proposta delle varie imprese tra loro associate è stata quella di collocare la SE in quel di Carisio (VC), limitrofa all’impianto che lavora alluminio della Sacal. L’istanza per la realizzazione di questa SE è stata presentata da Juwi Development 09 Srl quale capofila, per opera di connessione alla rete di un progetto agrivoltaico da 92 MWp, previsto a Buronzo (VC). Il progetto è stato presentato nel 2022 in VIA nazionale sezione (PNIEC-PNRR); il procedimento è attualmente in corso presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri poiché sono emersi diversi pareri contrari di vari enti in procedura. La proposta di una SE a Carisio, si badi bene, non è stata preliminarmente esaminata nell’ambito di una Valutazione Ambientale Strategica come previsto nel PEAR regionale, ovvero non vi è stata alcuna pianificazione pubblica per contenere concentrazioni impiantistiche ed elevati sfruttamenti territoriali. La capacità di esercizio della proposta SE di Carisio è elevatissima e vi confluiranno le produzioni di tantissimi altri impianti FV-AV nel raggio di 15 km. Al momento molti di questi impianti sono in procedura autorizzativa ma in “stand by” perché non ancora conclusa la procedura di VIA della capofila per la SE, la Juwi Development 09 Srl. Va precisato che per l’acquisizione dei terreni necessari alla realizzazione delle Stazioni Elettriche di connessione alla AT le imprese non operano nell’ambito del libero mercato come per l’acquisizione dei terreni per posare i pannelli solari. Si avvarranno della possibilità loro consentita dalla normativa vigente di esproprio per pubblica utilità (art. 12 DPR 387/2003). E guarda caso questo esproprio, per quattro soldi, una vera BEFFA, interesserà un agricoltore, Andrea Maggi della cascina Baraggia in Carisio, che ha sempre diniegato le vantaggiosissime proposte per la cessione dei propri terreni alle imprese energetiche per proseguire nella sua attività famigliare. Di seguito il video in cui Andrea racconta la situazione a seguito della notizia appena ricevuta
Asl di Torino: un sistema di favori al servizio della politica?
L’Italia è un paese anziano e in calo demografico ma gli investimenti nel comparto sanitario e socio-assistenziale sono sempre meno. La manovrina di quest’autunno, la terza per il governo Meloni, propaganda di avere dato centralità alla sanità per fare fronte alle liste d’attesa e ai disagi che, sempre più spesso, portano la popolazione italiana a decidere di non curarsi per l’inaccessibilità alla salute. Eppure sembra chiaro che i pochi soldi stanziati non copriranno nemmeno un’unghia del reale fabbisogno per un intervento strutturale nel comparto. Infatti le priorità del governo sono dichiaratamente altre, il riarmo, la spesa bellica, attenersi alle indicazioni dell’Europa.. alla faccia del governo sovranista!  Una delle regioni che sta subendo una maggior regressione in termini di accessibilità e qualità del servizio è il Piemonte. In queste settimane sono scoppiati non pochi bubboni tra le mani di chi intende gestire l’ambito sanitario come il proprio cortile di casa. Se da un lato soffia il vento dello scandalo per le vicende legate all’Asl To4 e alla cricca di Agostino Ghiglia – agli onori delle cronache per diversi argomenti in questi giorni – dall’altro lato le amicizie di alcuni personaggi con la Questura e la Procura fanno capolino per strumentalizzare vicende che riguardano i movimenti sociali, sperimentando l’uso amministrativo della repressione.  Ma andiamo con ordine.  “QUEGLI ANNOSI PROBLEMI” Basta scorrere le pagine dei quotidiani dell’ultimo anno per accorgersi che i problemi che riguardano la sanità pubblica nella città di Torino e nella regione Piemonte sono molteplici. Partiamo dalle questioni strutturali: ricordiamo la caduta del controsoffitto delle Molinette, uno dei maggiori e importanti ospedali della città. Solo un segnale del graduale degrado delle condizioni delle strutture: davanti all’evidenza l’assessore alla sanità Federico Riboldi in quota FdI rispose “l’ospedale è vecchio ed è quindi chiaro che si corra un maggior rischio”. Quando piove poi chi si trova ai piani inferiori rischia l’allagamento, come successo sia alle Molinette che al Mauriziano qualche settimana fa. Invece di preoccuparsi di attuare un piano di ristrutturazione e manutenzione la Regione Piemonte guarda però verso altri lidi, sicuramente più convenienti: risale a giugno la firma per l’intesa con l’Inail per la costruzione di 7 nuovi ospedali in tutta la regione per la cifra stanziata di 2,257 miliardi di euro. Tra questi è previsto anche quello di Torino Nord, ossia un nuovo ospedale che andrebbe a cementificare il parco pubblico della Pellerina, per il quale il comitato che da tempo segue la vicenda ha scritto molte pagine in un dossier con l’aiuto di esperti quali medici, tecnici urbanisti, geologi, studiosi della mobilità per denunciare le numerose criticità del progetto quali consumo di suolo, rischio di esondazioni, assenza di pianificazione sanitaria, cementificazione.  Occorre poi sottolineare le difficoltà che incontra il personale sanitario nel dover lavorare a determinate condizioni, a tal proposito nel 2024 si è registrato un picco di dimissioni di medici, infermieri e oss, una sorta di onda lunga del periodo Covid che ha sicuramente avuto il “pregio” di svelare la maschera dei problemi cronici in ambito sanitario per poi anche dimostrare come non si facesse nulla per intervenire. Lo dicono i dati: a Torino servirebbero almeno 500 medici in più, questo significa che un medico lavora 594 ore l’anno in più del dovuto, come se dovesse lavorare 16 mesi invece di 12 l’anno. Rispetto poi ai medici di famiglia la situazione è disastrosa, in overbooking da anni, messi nelle condizioni di non poter svolgere il loro servizio in maniera seria, costretti a svolgere diagnosi per telefono e a sacrificare la prevenzione. Ampliando lo sguardo ai vari ambiti della salute possiamo sottolineare le difficoltà riscontrate nella presa in carico della salute mentale, risale infatti a poco tempo fa la denuncia dei familiari e delle associazioni che supportano i pazienti psichiatrici in città, che riguarda l’esigenza di ottenere investimenti (si parla di 125 milioni di euro) per aumentare il personale dato che i tempi per le visite sono lunghissimi e le risposte sono principalmente farmaci non accompagnati da un lavoro complessivo sulla persona. La Regione spende 62 milioni in antidepressivi e antipsicotici ma la spesa a persona per il servizio si attesta a meno 8 punti percentuali rispetto alla media nazionale riservata alla categoria.  A questo punto occorrerebbe aprire il capitolo “prevenzione” che in ogni settore sanitario, Covid docet, dovrebbe essere la priorità assoluta. Eppure continua ad essere carente e la vicenda che andremo a raccontare più avanti e che riguarda lo Spazio Popolare Neruda è soltanto uno degli esempi in questo senso. Il buco nero in cui sono caduti i progetti delle famose “case di comunità” che dovrebbero assolvere il ruolo di assistenza territoriale al di fuori dell’ospedale, potenziare la medicina di prossimità, migliorare il rapporto medico-paziente, è un esempio. Sono ancora una chimera e oggetto di servizi giornalistici che ne dimostrano la truffa. Il dato che registriamo è che al posto di prevenire si continua a privatizzare. In merito allo stato dell’arte della sanità andrebbe approfondito il nuovo piano socio-sanitario presentato da Riboldi e Marrone bocciato dall’Ordine dei Medici in quanto vago e illeggibile. Si denuncia l’assenza di un piano serio rispetto alla mancanza di personale, alle mancanze nel settore epidemiologico, al mancato rilievo dei temi ambientali, all’inesistenza di indicazioni sulle case di comunità, sul rapporto tra sanità territoriale e ospedale. Nella nota dell’OMCeO vengono dettagliati tutti i punti sui quali si evidenziano importanti criticità.  Rispetto alla privatizzazione innanzitutto vanno spese due parole sul tema dell’intramoenia, attività libero professionale svolta dai medici dipendenti all’interno degli ospedali pubblici, al di fuori dell’orario di servizio. A Città della Salute, nonostante il termine intramoenia intenda letteralmente “ dentro le mura” , ben l 86% di questa attività è svolta fuori dall’ospedale, in centri privati. Dato nettamente oltre la media nazionale: la Regione con maggiore Intramoenia svolta all’esterno è infatti la Calabria, ma con una percentuale di circa il  40% , meno della metà di quella svolta in CDSS.  Nei conti che non tornano del bilancio della Città della Salute si è infatti aperta una questione sul disavanzo relativo all’attività intramoenia, ossia nel 2024 l’attività libero-professionale dei medici dell’ospedale avrebbe comportato costi superiori agli introiti. Ciò significa che l’attività privata, svolta all’interno o all’esterno dell’ospedale pubblico, andrebbe a gravare sul bilancio della sanità pubblica. Proprio su questo tema si è consumata la vicenda che ha visto il neo eletto commissario della Città della Salute di Torino Thomas Schael (nominato commissario data l’opposizione alla sua nomina da parte dell’ex rettore dell’Università Geuna), prima chiamato a svolgere il ruolo di revisore dei conti (con sulle spalle un buco di milioni di euro su cui torneremo dopo) dall’assessore Riboldi e poi, dopo pochissimo tempo, sfiduciato da Alberto Cirio. E’ un dato che le attività in intramoenia svolte all’esterno dell’ospedale finiscono per finanziare la sanità privata, in particolare cliniche quali Humanitas, sulla quale è stata aperta un’inchiesta, che reggono buona parte dei loro introiti e del loro prestigio sull’ attività svolta da medici, spesso primari o professori, assunti dal SSN. Tra gli obiettivi di Schael, pare da fonti interne, vi sarebbe stato anche quello di portare sotto la gestione dell’Azienda Ospedaliera le convenzioni con le compagnie assicurative, sottraendole alle cliniche private e riducendo così il rischio di accordi indiretti tra strutture private e assicurazioni per i rimborsi. In ogni caso, il progetto di Schael di riportare all’interno delle mura dell’ospedale l’attività di intramoenia è probabilmente stata una delle cause del suo addio forzato. Andiamo a rimettere ordine nelle vicende che riguardano la Città della Salute, i conti in rosso, dirigenti amici dei provita, le carriere truccate.  “CITTÀ DELLA SALUTE O CITTÀ DEL MAGNA MAGNA?”   Pochi mesi fa, a giugno 2025, veniva avviato il processo a seguito dell’inchiesta per sedici dirigenti sotto accusa per i bilanci truccati per una cifra che si aggira intorno ai 120 milioni di euro. I conti di dieci anni sono stati truccati in favore della salvaguardia di determinati personaggi e un certo tipo di gestione. Tra gli imputati Giovanni La Valle, in quota PD, ex direttore generale della Città della Salute e Beatrice Borghese, già direttrice amministrativa, accusati di aver coperto le operazioni causando un buco di bilancio di oltre 10 milioni di euro che, secondo l’accusa, potrebbe arrivare a 120 milioni.  Qui Chiara Rivetti del sindacato Anaao racconta l’origine della vicenda a partire dal 2024 E’ interessante fare un focus sulla figura di La Valle, già al centro di scandali in passato per le sue nomine e i suoi passi di lato per poi ritornare sul centro della scena in piena pandemia, momento perfetto per farsi passare inosservati. La Valle è lo stesso personaggio che ha presieduto la sottoscrizione del patto tra ospedale pubblico e associazione Movimento per La Vita insieme all’assessore per le Politiche Sociali Maurizio Marrone, FdI, il direttore sanitario dell’ospedale Sant’Anna Roberto Fiandra e il Presidente regionale del Movimento per la Vita Claudio Larocca per l’apertura della “stanza dell’ascolto” all’Ospedale Sant’Anna di Torino. Un bel quartetto di uomini in giacca e cravatta al quale spetterebbe il diritto di scelta di una donna che vorrebbe interrompere una gravidanza per qualsivoglia motivo. Una scena raccapricciante. Grazie alla mobilitazione che in città ha visto la partecipazione di tantissime persone anche tramite l’occupazione dell’ospedale per contrapporsi all’apertura della stanza dell’ascolto e alla presenza di associazioni provita all’interno della sanità pubblica e grazie all’accoglimento del ricorso presentato al TAR da CGIL Torino e Se Non Ora Quando, la convenzione tra Città della Salute e movimento antiabortista è stata considerata illegittima.  Consigliamo l’ascolto di questa intervista con Non Una di Meno Torino che riassume le tappe della lotta. Arriviamo dunque alle notizie di questi giorni. Il primo scandalo riguarda l’Asl To4 e, in particolare, l’ospedale di Settimo Torinese. L’accusa riguarda il maltrattamento di alcuni pazienti e concorsi truccati. Si parla di oltre 30 persone indagate tra dirigenti, medici, infermieri, referenti di cooperative esterne per truffa, corruzione e esercizio abusivo della professione. Non vogliamo addentrarci nei dettagli giudiziari ma ciò che ci sembra rilevante è il coinvolgimento dell’organo per la prevenzione delle malattie e degli infortuni sul lavoro, ossia lo Spresal, all’interno di queste indagini. A quanto pare la dirigente di Asl To4 Carla Fasson (amica dell’ex pm antinotav Antonio Rinaudo) al centro della bufera avrebbe incitato il coordinatore dello Spresal di Ivrea a dissuadere una candidata dal presentare trasferimento. Lo Spresal è a processo anche per centinaia di fascicoli sugli infortuni del Canavese mai arrivati in Procura. Anche in altre occasioni lo Spresal non si è risparmiato dallo svolgere ruoli al limite della propria missione professionale, come nel caso Askatasuna, in quel caso però in accordo con la Procura.  L’altro elemento interessante della questione riguarda il caso Agostino Ghiglia, componente del Collegio del Garante della Privacy in quota FdI, nonché cugino di Carla Fasson al centro dell’inchiesta dell’Asl To4,  personaggio controverso salito agli onori della cronaca in questi giorni per aver commisurato una sanzione a Report dopo una visita alla sede di FdI. Al primo la multa è di 150 mila euro per il servizio incriminato su Boccia e Corsini sotto suggerimento dell’ex ministro Sangiuliano, per la cugina è stata assicurata una multa non superiore a 5 mila euro. Le indagini riguardano infatti la richiesta da parte di Carla Fasson di non essere troppo severo in merito alla vicenda risalente al novembre 2022 quando l’AslTo4 avrebbe inviato 45 mail a pazienti fragili del reparto di neurologia di Cirié senza nascondere gli indirizzi, andando dunque a contravvenire alla privacy su dati sensibili. Sui quotidiani del 29 ottobre viene raccontata la storia in merito all’indagine che riguarda Carla Fasson e suo cugino: emergono favori anche nei confronti dell’ex pm Rinaudo, all’epoca commissario dell’Unità di Crisi regionale per i vaccini del covid, il quale, mentre dichiarava che sarebbero stati perseguitati tutti i “furbetti”, telefonava all’amico per fare vaccinare un “soggetto che deve lavorare” chiedendo di farlo in fretta e dando anche le proprie preferenze sul vaccino da fare, non Moderna ma Pfizer. Sui giornali non ne viene dato grande risalto ma a noi sembra piuttosto significativo che l’avvocata di Carla Fasson per questa vicenda sia proprio Beatrice Rinaudo, oggi Vicesegretario cittadino e Responsabile del dipartimento Legalità e Giustizia di Forza Italia Torino, nonché figlia del ex pm Antonio.  “Dove c’è Ghiglia, c’è destra” era lo slogan dei suoi manifesti elettorali, infatti la carriera di Agostino è lunga e, tralasciando i vari tentativi alle elezioni prima con Fini poi con FdI, senza mai essere eletto, arriva a sedere all’Autorità per nomina politica. Ma è soprattutto interessante sottolineare le origini della sua carriera: giovane del Fronte della Gioventù, nel 2019 quando presentò le liste del FUAN in Università rivendicò in alcuni suoi post Facebook l’aver “combattuto la sinistra comunista e la sua ideologia assassina”. Consigliere comunale e poi regionale del MSI viene ricordato nei titoli de La Stampa del 1986 per aver picchiato insieme ad altri due aderenti al Fronte uno studente del liceo Volta che aveva strappato un manifesto del MSI.  L’USO AMMINISTRATIVO DELLA SANITÀ E DELLA SICUREZZA PER ATTACCARE LE REALTÀ SOCIALI E DI MOVIMENTO La privatizzazione rampante della sanità, il disinvestimento nel pubblico e l’ “amichettismo” sembrano essere la cifra della destra al governo nell’ambito della salute a livello nazionale. Questo quadro, già ributtante, in Piemonte si arricchisce di ulteriori dettagli, infatti si ha la sensazione sempre più chiara che questa rete di potere incistata nel sistema sanitario faccia un uso politico spregiudicato delle istituzioni dedicate alla salute per attaccare i movimenti sociali. Gli esempi che si affastellano in questi anni sono molti e differenti: dal ruolo dell’Asl nel tentativo di sgombero dell’Askatasuna, fino alle vicende più recenti che riguardano lo Spazio Popolare Neruda.  Iniziamo dalla fine: il 22 ottobre La Stampa pubblica un articolo riguardo alla presenza di alcuni casi di tubercolosi all’interno dello Spazio Popolare Neruda. Immediatamente si è scatenato un polverone alimentato da alcuni media e dai politicanti di destra con in testa il solito Maurizio Marrone. Niente di nuovo: la destra piemontese è ossessionata dai movimenti sociali e su una vicenda del genere può ricamare le sue velleità. L’aspetto più preoccupante di questa vicenda, che si lega al metodo già sperimentato con il tentativo di sgombero di Askatasuna, è che a sedere negli uffici del Dipartimento Prevenzione dell’Asl di Torino è Roberto Testi, medico legale già noto per le sue amicizie in Procura, in particolare con l’ex pm Antonio Rinaudo e per scandali vari per negligenza e scarico di responsabilità durante la pandemia da Covid19. “Gli anziani nelle RSA? Non prendiamoci la responsabilità diretta”, diceva quando sedeva a fianco di Rinaudo nell’Unità di Crisi per la gestione dell’emergenza Covid.  Come sottolineato a gran voce dal comunicato scritto dallo Spazio Popolare Neruda la questione che ha fatto scatenare i giornali, ossia il caso di Tbc già gestito e messo in sicurezza verificatosi tra le persone che abitano lo spazio, rivela questioni ben più profonde che hanno a che fare con la prevenzione, l’accesso alla salute, il razzismo istituzionale anche in ambito sanitario. Ne riportiamo alcuni passaggi che ricostruiscono quanto avvenuto e il perchè chi ha avuto a cuore la salute collettiva all’interno e all’esterno dello Spazio Popolare Neruda si sia dovuto confrontare proprio con un personaggio come Testi.  > “Ci teniamo a precisare che fin dal primo momento in cui abbiamo saputo che > una persona che viveva qui era affetta da tubercolosi con il rischio di > contagio ci siamo attivati per la tutela della salute dell3 abitatnt3 dello > spazio, di chi lo frequenta e del quartiere; siamo stati presi in carico > comunità dalla ASL e la situazione dal punto di vista sanitario e del rischio > contagio è stato messo sotto controllo. Quello che ci sembra invece fuori > controllo sono le strumentalizzazioni politiche da parte della destra > regionale sulla salute delle persone in condizione di precarietà abitativa e > con background migratorio.”  A seguito della necessità di garantire la salute e di contenere il rischio epidemiologico la risposta da parte di chi siede a capo degli uffici preposti è stata invece quella di aprire un caso che va nella direzione di criminalizzare chi lotta per la questione abitativa e l’accesso ai servizi, chi è di origine straniera e dunque stigmatizzabile soprattutto quando si tratta di un certo tipo di malattia, di strumentalizzare questo evento per creare le condizioni e il terreno per eventuali sgomberi giustificati da problemi inerenti alla sicurezza pubblica e l’agibilità dello stabile. Ancora non è noto quali saranno le conseguenze di questi passaggi ma è fondamentale evidenziare i nodi politici che emergono dalle dinamiche che intrecciano in maniera incontrovertibile Asl di Torino, Procura, Questura e istituzioni regionali. In questa intervista viene raccontata la vicenda, le modalità di gestione dell’emergenza, i ragionamenti che hanno spinto ad agire nell’ottica di garantire la salute collettiva da parte delle persone che vivono e rendono vivo lo Spazio Popolare Neruda. E’ importante anche sottolineare come questo fatto abbia aperto delle contraddizioni interne alla sfera istituzionale facendo schierare professionisti della salute dalla parte del Neruda, come si evince dal Comunicato del Comitato per il diritto alla tutela della salute e alle cure e che si può leggere anche qui, del quale vogliamo sottolineare questo passaggio:  > “Quando emergono casi di malattia, il compito delle istituzioni e dei servizi > è quello di informare correttamente la popolazione, non di alimentare paure o > pregiudizi. Il Centro Neruda, che diversi membri del nostro Comitato > frequentano come volontari, è uno spazio sociale della città che ha permesso a > tante persone e famiglie di trovare una casa e una rete di sostegno. > > Nel recente caso di tubercolosi, è probabile che proprio la vita comunitaria > all’interno del Neruda, e il fatto che la paziente vivesse insieme alla > propria famiglia in un contesto organizzato, abbia consentito una diagnosi più > tempestiva e una gestione più efficace della situazione.Tutte le famiglie > residenti nel centro hanno collaborato con piena disponibilità ai controlli > sanitari: questo è verosimilmente stato possibile grazie al clima di fiducia > costruito nel tempo all’interno del Neruda.”  E’ significativo che venga riconosciuto il tema della fiducia costruita nel tempo e che si voglia valorizzare proprio il contesto in cui le famiglie senza accesso alla casa hanno costruito negli anni un esempio di vita basata su legami di solidarietà e un modo di vivere la collettività, con tutte le sue difficoltà, meritevole e capace di poter intervenire in maniera coordinata e collettiva in casi come questo. Non è stato dello stesso parere Roberto Testi che, come accennavamo prima, ha già dato prova della sua ostilità nei confronti dei movimenti sociali. In questo lungo articolo, a seguito del suo coinvolgimento nell’operazione che causò la dichiarazione di “inagibilità” del centro sociale Askatasuna e l’ispezione di Asl, Spresal e Vigili del Fuoco, viene raccontato il curriculum del personaggio. Non solo incuria e presa di distanza dalle sue responsabilità nel momento di maggior emergenza attraversato negli ultimi anni, ma anche perizie che, guarda caso, arrivano sempre firmate al momento giusto e per colpire chi non va a genio. E’ infatti questo il caso delle conseguenze dovute alla violenza della polizia durante lo sgombero del presidio di San Didero dell’aprile 2021 quando una compagna notav viene colpita all’occhio da un lacrimogeno lanciato ad altezza uomo causandole gravi danni e diversi interventi maxillo-facciali. Come scrivevamo nell’articolo, “Pochi mesi dopo, a seguito della visita dell’ex ministra degli Interni, Vittoria Lamorgese, del Capo della Polizia, del Questore e del Prefetto per parlare di “violenze in Val di Susa” il quotidiano torinese La Stampa pubblica un articolo in cui viene data notizia che la consulenza medica, effettuata per conto della Procura sulla compagna No Tav neghi che sia stata colpita da un lacrimogeno, presentandola come fosse una verità assoluta e strategicamente data in pasto ai giornali compiacenti ancor prima di informare i suoi legali. Guarda caso il dottore che firmò la perizia era proprio Roberto Testi”. Ma è importante anche riportare che “ Il dottor Testi ritorna anche in un altro caso importante a Torino, ossia il decesso di Andrea Soldi, malato di schizofrenia morto a seguito di un TSO. Secondo Roberto Testi “La causa del decesso del paziente non può essere stata la presa per il collo. In nessun caso. Se strangoli qualcuno, la morte è immediata. Altro che venti o trenta minuti”. Testi in questo caso è il consulente tecnico di una delle quattro persone coinvolte nella morte di Soldi (lo psichiatra Pier Carlo Della Porta) indagato per la fine di Andrea Soldi, come viene riportato in un articolo su LaVoce. Dopo 7 anni si è chiusa la vicenda giudiziaria con quattro condanne per la morte di Andrea Soldi. La Cassazione ha respinto i ricorsi degli avvocati difensori, confermando così la colpevolezza dei tre agenti di polizia municipale (Manuel Vair, Stefano Del Monaco ed Enri Botturi) che materialmente eseguirono il Tso e del medico psichiatra Pier Carlo Della Porta che aveva in cura Andrea. A voi le conclusioni.” CONCLUSIONI  In un Paese in cui la priorità è il riarmo, l’investimento pubblico nelle aziende belliche e la tutela di un generale atteggiamento di “copertura” dell’enorme voragine di soldi pubblici dalla quale bene o male tutti hanno beneficiato se passati a ricoprire ruoli istituzionali, le dinamiche della città di Torino e della Regione Piemonte sono soltanto un esempio. Al Sud del nostro Paese i rifiuti tossici vengono lasciati marcire e bruciare sotto e sopra la terra, innalzando senza limiti i dati del registro tumori regionale. Se il registro tumori nemmeno c’è, come in Sardegna, chissà quando si potranno verificare le conseguenze sulla salute delle esercitazioni militari sul proprio territorio o degli impianti di Portovesme o dei miasmi della Saras, come viene riportato dal documento del GrIG (Gruppo d’Intervento Giuridico). Secondo il Report della Fondazione GIMBE, a un anno dalla pubblicazione del DL Liste d’Attesa, a giugno del 2025 ben 6 milioni di italiani rinunciano alle cure: secondo l’ISTAT, nel 2024 una persona su dieci ha rinunciato ad almeno una prestazione sanitaria, il 6,8% a causa delle lunghe liste di attesa e il 5,3% per ragioni economiche. E la motivazione relativa alle liste di attesa è cresciuta del 51% rispetto al 2023. Nel frattempo però il Governo produce in maniera sistematica decreti che delegano a se stesso pieno margine di manovra su materie delicate e prioritarie: è il caso del Dl sugli Sfratti e del Ddl sul Nucleare per entrambi i casi le parole d’ordine sono snellire e accelerare le procedure, istituire Autorità ad hoc per gestire questi ambiti scavalcando Tribunali ordinari da una parte e Comuni e Regioni dall’altra. Entrambe le questioni riguardano pienamente la salute collettiva, la possibilità di vivere bene sul proprio territorio, garantendo il diritto di una casa, di un ambiente sano e salubre.  La gravità di quanto accade tra gli uffici torinesi, gli interessi che vengono tutelati e garantiti per colpire chi propone un’opzione diversa e indica le responsabilità di inadempienze pubbliche, si inserisce in un quadro disastroso rendendo il tutto ancor più preoccupante e soprattutto rendendo ancora più forte il desiderio di riscatto. 
Tutti a sciare, ovvero la fabbrica della neve
Qualche giorno addietro un parente di Pietra Ligure nell’augurarmi un buon compleanno mi ricordava come quando nacqui o giù di lì d’inverno in Liguria nevicava, e non nell’interno, bensì proprio sulle spiagge. di Fabio Balocco, da Volere la Luna Già quando mi trasferii a Torino all’inizio degli Ottanta quella neve candida e lieve era diventata solo un ricordo e, a parte la precipitazione del secolo del gennaio 1985, anche nella città subalpina di neve ne ho vista ben poca. Se non fosse stato per la casuale scoperta canadese degli anni Quaranta, perfezionata e adattata negli anni, molte stazioni sciistiche dell’arco alpino occidentale avrebbero chiuso i battenti da un bel po’. Parlo ovviamente della neve artificiale o programmata o finta che dir si voglia, che ha sopperito in questi decenni alla carenza di quella che scende naturalmente dal cielo. Seppure con costi talmente elevati in termini di energia elettrica e di consumo di acqua da “costringere” spesso le amministrazioni pubbliche a intervenire per coprire i buchi di bilancio delle stazioni invernali. Fino ad oggi la neve artificiale per essere prodotta necessitava pur sempre di un elemento imprescindibile, e cioè che facesse freddo. Almeno quello. Ma, dicevo, fino ad oggi. Perché la TechnoAlpin, azienda leader nel campo della produzione di neve, si è inventata una SnowFactory, “un’innovativa tecnologia che consente di produrre neve della migliore qualità in modo completamente indipendente dalla temperatura dell’aria… La neve prodotta presenta una consistenza particolare che ne rallenta il processo di scioglimento indipendentemente dalle condizioni atmosferiche, mentre il volume rimane inalterato anche in seguito al passaggio di un veicolo battipista” (https://www.technoalpin.com/it/generatori-di-neve/snowfactory/). Quindi una neve che si riesce a produrre indipendentemente dal fatto che faccia caldo o freddo, chissenefrega, ma che resiste anche al passaggio di un gatto delle nevi: non si compatta! Un’invenzione che sicuramente sarà adottata a Trojena, la futura località sciistica dell’Arabia Saudita (www.dovesciare.it/news/2024-01-23/trojena-la-futuristica-localita-sciistica-dellarabia-saudita-video-e-fotogallery) ma che garantirà altresì sicure aperture di stagione alle località sciistiche dell’arco alpino, quanto meno a quelle che avranno la capacità finanziaria per potersi dotare della fabbrica della neve. Con la fabbrica della neve la fine dello sci di pista che molti preconizzavano a breve si sposterà nel tempo e dunque ben vengano nuovi ampliamenti. Altro che accanimento terapeutico! E dunque ben vengano i nuovi collegamenti: Cime Bianche, Civetta-Cinque Torri, Còlere-lIzzola, solo per citarne alcuni. È il progresso, bellezza, e tu non puoi farci niente, niente (“L’ultima minaccia” docet).
Quando fallirà la promessa gialla?
Riprendiamo da “Senza Tregua contro i Padroni” il recente scritto* di Marwan Abdel Al – dirigente del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (3 novembre 2025). Da Balfour a Trump, dal distintivo giallo alla linea gialla, la stessa storia si ripete in un unico colore, un colore che macchia le mappe e dipinge sia la geografia che la memoria. Più di un secolo dopo la Dichiarazione Balfour, la tragedia palestinese continua a rinnovarsi in forme diverse, ma conserva un’unica essenza: la persistenza del progetto coloniale occidentale attraverso nuovi strumenti e nomi mutevoli. La Dichiarazione Balfour del 1917 era, nella sua essenza, la proclamazione di un ordine mondiale costruito sulla negazione dei popoli indigeni e sulla loro sostituzione con i coloni, non come un incidente storico, ma come una pietra angolare della moderna “civiltà occidentale”. Non era tanto una promessa agli ebrei quanto una promessa all’Impero britannico stesso: una garanzia che il suo dominio in Oriente sarebbe durato attraverso la creazione di uno Stato che svolge una duplice funzione: servire gli interessi occidentali e smantellare la geografia araba dall’interno. Quasi un secolo dopo, la prima promessa di Trump è arrivata nel 2017, riconoscendo Gerusalemme come capitale dell’Occupazione, seguita dalla sua seconda promessa nel 2025, il cosiddetto “Piano Trump”. Ancora una volta, la scena è apparsa nella sua forma più cruda. Proprio come Balfour ha concesso terre che non possedeva a coloro che non le meritavano, Trump ora offre un “cessate il fuoco” che non cessa il fuoco, una cosiddetta fine della guerra che non pone fine alla guerra, ma piuttosto riprogetta la geografia palestinese per adattarla al progetto di sterminio sistematico. Ciò che oggi viene chiamato “cessate il fuoco” è semplicemente il perfezionamento dei massacri di ieri, la trasformazione dell’uccisione da atto militare a sistema amministrativo. In passato, lo sterminio veniva effettuato mediante bombardamenti; oggi, viene esercitato attraverso il controllo dei valichi, dell’elettricità, dell’acqua e del cibo, attraverso mappe a colori che dividono Gaza in zone “di sicurezza” e “umanitarie” sotto una supervisione tutt’altro che internazionale, consolidando la separazione invece di porvi fine. Tra la promessa di Balfour e quella di Trump, persiste la stessa traiettoria: un colonialismo che cambia il suo linguaggio ma non la sua essenza. Il primo ha creato il mito della “terra senza popolo” – concedendo ciò che non possedeva a coloro che non lo meritavano – mentre il secondo crea il mito del “Consiglio per la pace umanitaria”. Entrambi poggiano sulle stesse fondamenta: la cancellazione del palestinese come soggetto politico, riducendolo a una figura puramente umanitaria, una vittima perpetua la cui vita è gestita dall’esterno. Così, il ghetto diventa la forma moderna dello Stato che non è mai stato autorizzato a esistere; “l’aiuto umanitario” sostituisce la sovranità nazionale e il “monitoraggio” diventa una nuova maschera per il controllo coloniale. Un lettore della storia occidentale moderna riconoscerà questi schemi. Quando l’Europa nazista dipinse linee gialle sui negozi ebraici e li costrinse a indossare distintivi gialli, stava aprendo la strada all’isolamento e allo sterminio. Quando fu creato il “Ghetto di Varsavia”, si disse che era temporaneo, per “organizzare la vita”, ma in realtà era un preludio all’omicidio di massa. Oggi, quando sulle mappe di Gaza compaiono linee gialle che separano le “zone sicure” dalle “aree proibite” e quando si dice che una tregua mira alla ricostruzione, è in atto la stessa logica: l’isolamento come preludio a una cancellazione politica a lungo termine. È lo stesso segno giallo, trasferito dal braccio alla geografia, da un simbolo di vergogna individuale a un intero sistema imposto a un intero popolo. Questa logica trova un precedente anche nella storia americana, nella creazione delle “riserve” dei nativi americani. Lì, l’idea di “protezione” era una maschera per la totale cancellazione culturale e geografica. Le riserve sono state istituite in nome della pace, ma sono servite come strumenti di lento annientamento, confinando le popolazioni indigene in zone isolate controllate dall’esterno. Oggi, quell’esperimento viene ripetuto sulle coste di Gaza, non nella sua vecchia forma grezza ma attraverso nuovi meccanismi legali e politici: “amministrazione umanitaria”, “supervisione della sicurezza”, “supervisione internazionale”, termini morbidi che nascondono la continuazione del colonialismo nella sua forma tecnologicamente più raffinata. Nell’era Balfour, il linguaggio era apertamente imperiale. Nell’era Trump, il linguaggio è “umanitario”, ripulito attraverso il vocabolario dei diritti umani, ma con lo stesso scopo: legittimare il controllo. I “piani di pace” politici possono sembrare orientati verso l’insediamento, ma in sostanza sono insediamenti sul sangue e sulla memoria. Il riconoscimento richiesto ai palestinesi oggi non è dei loro diritti ma della loro sottomissione; il cessate il fuoco offerto loro non è la fine dell’aggressione ma la sua continuazione in una forma silenziosa e prolungata. Ciò che si sta verificando oggi a Gaza non è semplicemente una catastrofe causata dall’Occupazione: è uno specchio trasparente della storia coloniale dell’Occidente, che si estende dal distintivo giallo alla linea gialla, alla promessa gialla; dal ghetto di Varsavia al ghetto di Gaza; dalle riserve dei nativi americani alle zone di isolamento disegnate con inchiostro americano. Sono tutti anelli della stessa catena di credenze: la dottrina della superiorità che giustifica l’esclusione e la maschera da civiltà o pace. Ma ciò che cambia oggi è che la vittima non è più silenziosa. Gaza, il ghetto moderno, è diventata il simbolo inverso di quello antico. Il segno giallo non è più un distintivo di vergogna, ma un segno di resistenza. I ghetti non sono più tombe della memoria, ma laboratori di puro significato umano. Nell’affrontare l’isolamento, emerge una nuova consapevolezza: che la lotta non è più solo per la terra, ma per il significato stesso. Chi definisce la vittima? Chi garantisce la legittimità? Chi detiene il diritto di narrare? Affrontare la promessa di Trump del 2025 non si otterrà accettandone i termini o gestendo una versione migliorata del ghetto, ma smascherandone la logica coloniale e ripristinando l’essenza morale e politica del riconoscimento: il riconoscimento dei diritti storici del popolo palestinese, non del dominio impostogli. Un vero cessate il fuoco non consiste nella riduzione dei bombardamenti, ma nello smantellamento del sistema che li produce. La giustizia non può basarsi su un falso equilibrio tra carnefice e vittima, ma sulla responsabilità e sul ripristino del diritto. Da Balfour a Trump, dal distintivo giallo alla linea gialla, la grande domanda morale si ripete: quante volte il palestinese deve essere punito prima che l’Occidente sia soddisfatto della sua sopravvivenza? La risposta sorge dall’interno del ghetto stesso – dalle rovine delle case, tunnel e dagli accampamenti della fermezza: questo popolo non cerca aiuti umanitari senza la liberazione nazionale, nessuna tregua che diventi una bomba a orologeria, ma piena libertà e piena giustizia. Questo è il vero significato di porre fine al crimine – l’unico significato che può far crollare sia le promesse di Balfour che quelle di Trump, riscrivendo la Storia in nome di una Palestina democratica e libera – portando al mondo la sua redenzione da una Storia inquinata dal razzismo e dal genocidio. La “promessa gialla” non è mai stata un evento passeggero, ma un sistema autoperpetuante di inganno, illusione e dominio – che si riproduce ogni volta che i palestinesi si ribellano, resistono e dichiarano la loro libertà. Ogni “tregua” per l’occupazione è solo un trucco per l’assedio; ogni “piano di pace” è un altro capitolo di una vecchia promessa che deve ancora cadere. Pubblicato su Al-Akhbar lunedì 3 novembre 2025 *traduzione a cura della Redazione di Senza Tregua Contro i Padroni
La Bolivia nel suo labirinto
Di fronte alla recente elezione di Rodrigo Paz nel ballottaggio presidenziale del 19 ottobre scorso i movimenti sociali, sindacali e delle popolazioni originarie del Paese si preparano ad avviare una nuova fase di resistenza in difesa dei risultati sociali raggiunti e della sovranità nazionale, ma per ora soono divisi e disorganizzati, senza dirigenti indiscussi e senza partito di fronte ad una destra che, nella sua campagna elettorale, ha chiesto la fine dello Stato Plurinazionale. di Marco Consolo, da La Bottega del Barbieri Tutto come previsto nel ballottaggio elettorale per decidere il nuovo presidente della Bolivia. Con una alta partecipazione (l’85% dei quasi 8 milioni di aventi diritto al voto, compresi i voti all’estero) dopo 19 anni, il governo torna alla destra. Rodrigo Paz, del Partido Demócrata Cristiano (PDC), figlio dell’ex presidente Jaime Paz Zamora, ha ottenuto il 54,5% dei voti, contro l’ex presidente Jorge “Tuto” Quiroga, (Alleanza Libre) con il 45,5%. Mentre il candidato della destra “moderata” pro-USA, Rodrigo Paz, (che aveva vinto il primo turno) ha vinto al suo primo tentativo di andare a Palacio Quemado, viceversa (e per la quarta volta) non ce la fa Quiroga, il grande sconfitto di questa tornata elettorale. Con questo risultato, si chiude, per il momento, l’egemonia del Movimento al Socialismo (MAS) di Evo Morales, dopo quasi venti anni di governo con la presidenza di Evo Morales (2006-2019) e di Luis Arce (2020-2025), interrotta solo dal golpe contro Evo (con la complicità della UE e degli Stati Uniti) con il governo de facto di Jeanine Áñez tra il 2019 e il 2020. Nel 2020, la miscela di repressione, inefficienza e corruzione del governo golpista aveva facilitato la vittoria elettorale ed il ritorno del MAS, dato che si manteneva la sintonia tra il campo popolare e lo “strumento politico”, riattivata per riprendere il governo. La svolta elettorale a destra si è immediatamente irradiata anche al potere giudiziario, che ha annullato le sentenze contro Áñez, non appena il MAS ha perso al primo turno, senza neanche aspettare il ballottaggio. Al ballottaggio del 2025, non ha funzionato la strategia del “voto nullo” impulsata da Evo Morales, che nel ballottaggio ha raccolto un misero 4%. La campagna di Paz ha combinato le “reti sociali” con azioni tradizionali, che includevano viaggi negli angoli più remoti del Paese, tra cui una piccola città nel profondo Altiplano, luogo di nascita di Evo Morales. La sua strategia è stata quella di mostrarsi più vicino alla gente comune, che alle élite economiche tradizionali. Rodrigo Paz ha anche parlato con insistenza di Dio e di religione, con una volontà evidente di rivolgersi al mondo evangelico pentecostale che, come in tutta la regione, è molto più forte che in passato. Il suo insediamento è previsto per il prossimo 8 novembre. L’elezione di Paz, pur segnando una svolta a destra, si caratterizza come il “male minore” e la ricetta neo-liberista sarà un po’ meno brutale di quella che avrebbe potuto realizzare Quiroga. Alcuni elementi del voto Rispetto alla geografia elettorale, la mappa del voto ha mantenuto la storica divisione Occidente/Oriente del Paese. Nelle Ande occidentali, Paz ha vinto con un ampio vantaggio, mentre a Oriente, Quiroga ha vinto con meno distacco. Paz ha ereditato parte dei voti dal MAS, che era forte nelle Ande occidentali a maggioranza dei popoli originari. Al contrario, i voti che hanno spinto “Tuto” Quiroga sono venuti per lo più dalle città capoluogo, oltre al sostegno diffuso dei dipartimenti di Beni e Santa Cruz: un voto da parte del ceto medio tradizionale e dei settori “aspirazionali”, predominanti nell’est del Paese, storica roccaforte della destra boliviana. Per quanto riguarda la componente sociale, al secondo turno una maggioranza urbana-rurale dei popoli nativi ha optato per Paz, come ha fatto per Evo tra il 2005 e il 2014 e per il MAS nel 2020. Ad una prima lettura, una minoranza urbana di classe alta bianca si è ritrovata attorno a Tuto Quiroga, come ha fatto per Mesa nel 2019 e in maniera sparsa tra il 2005 e il 2014. MAS: un tramonto annunciato Come si ricorderà, all’inizio della decade del 2000, c’erano state massicce mobilitazioni popolari (“guerra dell’acqua” e “guerra del gas”) contro le privatizzazioni, ma che reclamavano (nelle strade e nelle urne) anche la possibilità di ricambio politico e di autogoverno. In termini sociali ed elettorali, questo è stato l’inizio del Processo del Cambiamento. È stata la nozione di autodeterminazione di questi settori, per lo più dei popoli originari, che nel 2003 ha rovesciato il regime neoliberista e che, nel 2005, ha eletto Evo Morales Presidente. In una società con una forte presenza dei popoli originari, ha avuto un ruolo importante avere un candidato in cui riconoscersi. Poter votare qualcuno che ha lo stesso colore della pelle, lo stesso modo di essere, di camminare, di vestirsi, parlare, etc. in una sorta di auto-rappresentazione popolare. A partire dall’unità raggiunta nelle mobilitazioni, si era rafforzato ed ampliato il tessuto di alleanze e di unità tra i movimenti sociali (urbani e rurali), sindacati, organizzazioni dei popoli originari e parte della sinistra politica, che aveva dato vita al Movimento al Socialismo – Strumento per la Sovranità dei Popoli (MAS-IPSP). Un ombrello ampio, più movimento che partito tradizionale, fortemente dipendente dalla figura di Evo Morales, ma che raccoglieva in maniera unitaria le tante anime della ribellione popolare. Viceversa, nelle elezioni del 2025, il MAS si è presentato diviso in tre e con due candidati: l’ex ministro Eduardo del Castillo, con la sigla ufficiale, che ha ottenuto solo il 3,17% dei voti; Andrónico Rodríguez, che si è presentato con una sigla “prestata”, ha avuto l’8,5%. Infine, l’ex presidente Evo Morales, a cui i tribunali hanno impedito di presentarsi, che al primo turno ha fatto campagna per il voto nullo con un risultato non trascurabile: il 19% degli elettori ha annullato il voto. Anche se si esclude il 3,5-4 % dei voti nulli delle elezioni precedenti, si può attribuire all’ex presidente circa il 15-16% di questi voti. Con questi risultati, con una candidatura unitaria, il MAS probabilmente sarebbe potuto passare al ballottaggio. E anche in caso di sconfitta, avrebbe potuto contare su una presenza parlamentare ben maggiore di quella ottenuta al primo turno del 17 agosto, quando è praticamente scomparso dalla vita parlamentare. Va ricordato che, prima di quella data, non ha funzionato la strategia di Evo Morales di mobilitazione e di blocchi stradali per revocare la sua proscrizione elettorale. Blocchi che non solo sono stati repressi dal governo Arce, ma hanno anche provocato un rifiuto sociale, vista la crisi economica ed istituzionale. Nonostante ciò, l’ex Presidente rimane un importante attore politico. In conclusione, ha funzionato la strategia imperialista di provocare un’implosione nel MAS e nelle organizzazioni sociali. Il partito che ha dominato la politica boliviana dal 2005 e che è stato l’anima e il motore della “Rivoluzione Democratica e Culturale” – con risultati storici del 64% dei voti alle elezioni del 2009, del 61% nel 2014 e del 55% nel 2020 – non solo è stato lasciato fuori dal secondo turno delle elezioni e dal parlamento, ma è praticamente imploso come movimento-partito. Economia I primi anni del MAS hanno mostrato capacità di inclusione “etnica” e sociale, ampliando la “foto di famiglia della nazione” e consentendo un lungo periodo di crescita economica e di ridistribuzione dei benefici. Ma, poco a poco, quel modello ha mostrato i suoi punti deboli dato che l’espansione economica,  in gran parte, era basata sugli alti prezzi internazionali delle materie prime e su precedenti scoperte di giacimenti di gas. E in questi due decenni, i governi del MAS non sono riusciti a consolidare uno “Stato sociale” che andasse oltre la logica dei “buoni” specifici ai settori di basso reddito. In un Paese caratterizzato dal forte peso dell’economia informale, il progetto nazionalista del MAS sebbene abbia permesso una crescita economica significativa con una bassa inflazione, non è riuscito a industrializzare il Paese come aveva promesso. Oggi, la Bolivia sta attraversando una crisi economica che tutti i candidati avevano promesso di risolvere. Sembra aver funzionato la promessa di Paz di “capitalismo per tutti”, che combini l’attrazione di capitali stranieri con un certo intervento statale. Un esperimento ancora indefinito che dovrà affrontare una crisi che si trascina da tempo, tra l’altro con una scarsezza di combustibile e di divisa. Con la presidenza di Paz, il cammino che prenderà la Bolivia sarà molto distante dalle politiche del MAS di rafforzamento dello Stato (dopo decenni di neo-liberismo selvaggio), di nazionalizzazioni delle imprese strategiche (gas, litio, etc.), di ridistribuzione della ricchezza. Il nuovo governo ha già promesso un durissimo aggiustamento neoliberista, fiscale, monetario e cambiario, la limitazione delle tasse al 10 %, l’apertura agli organismi finanziari internazionali, oltre ad incentivi al settore privato per rilanciare gli investimenti nel settore estrattivo (idrocarburi e miniere, litio in particolare). Un bottino che fa gola a molte multinazionali occidentali, anche rispetto alla cosiddetta “transizione energetica”. Anche la proposta di Paz di redistribuire il bilancio a favore delle province (che in altre latitudini risponderebbe ad una decentralizzazione), in Bolivia si traduce automaticamente nel rafforzamento delle élite locali, estremamente violente e storicamente inclini al separatismo. C’è il rischio concreto di ri-cattura dello Stato nazionale da parte di caudillos locali, nostalgici del periodo coloniale, nonché di un possibile tentativo di secessione, un’ipotesi mai abbandonata dalle élite locali delle aree ricche del Paese. È bene ricordare che la Bolivia non ha mai avuto un sistema di democrazia liberale e fino al 2005 è stato governato da un’oligarchia classista e profondamente xenofoba. Con il risultato dell’esclusione della maggioranza della popolazione (rappresentata dai popoli originari) dagli spazi di potere e dai benefici delle risorse naturali, che hanno arricchito l’oligarchia locale e le multinazionali occidentali. Per applicare il suo programma, visti i numeri di Paz in Parlamento che non gli garantiscono la maggioranza (16 senatori su 36 e 49 deputati su 130), il nuovo governo dipenderà dalla capacità di costruire alleanze e coalizioni con il resto delle destre. Il tono conciliante di Paz è stato chiaramente funzionale alla caccia dell’appoggio parlamentare di Quiroga e/o di Doria Medina (7 senatori e 26 deputati), l’altro sconfitto a destra. Come si sa, i voti nulli non eleggono deputati. La politica estera Per le sue implicazioni geopolitiche verso tutto il Cono Sud, la Bolivia è una delle chiavi dell’egemonia statunitense nel sub-continente, ancor più dopo la vittoria di Rodrigo Paz. Naturalmente, la sua vittoria è stata salutata con gioia dalla Casabianca, che spera di riprendere i rapporti diplomatici (e non solo) dopo l’espulsione dell’ambasciatore statunitense nel 2008 e della DEA, l’Agenzia “antidroga” statunitense. A distanza di 20 anni, l’implosione del modello politico ed economico realizzato dal MAS è una vittoria di Washington, che non ha mai smesso di destabilizzare il processo di trasformazione boliviano per riprendere il controllo del Paese. Il dominio totale (oggi reso possibile dalla vittoria elettorale della destra locale) era un obiettivo perseguito da Washington durante i governi di Evo Morales e Luis Arce. Da parte sua, Rodrigo Paz ha chiarito che manterrà una “posizione aggressiva” per cercare accordi di libero scambio con diversi paesi, tra cui gli Stati Uniti. La svolta a destra, tra l’altro, metterà certamente in discussione gli accordi raggiunti con la Cina e con la Russia per lo sfruttamento del litio, del gas e delle altre risorse naturali strategiche. Si riprenderanno i rapporti diplomatici con Israele, mentre sono a rischio quelli con il Venezuela e Cuba. C’è ancora incertezza su cosa farà il nuovo governo nei confronti dei BRICS, alleanza in cui la Bolivia è stata ammessa da poco. Sul versante delle alleanze regionali, la Bolivia è stata appena espulsa dall’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America – Trattato di Commercio dei Popoli (ALBA-TCP) dopo i commenti del neo-eletto presidente, Rodrigo Paz, con cui ne sminuiva il ruolo. Sia l’attuale presidente Luis Arce, che l’ex presidente Evo Morales, hanno espresso pubblicamente il loro impegno nei confronti del blocco regionale che ha promosso numerosi programmi sociali per sradicare l’analfabetismo nella regione, risolvere i problemi abitativi o restituire la vista (Operaciòn Milagro) a chi vive in zone isolate nel continente. La difesa dell’ALBA arriva dopo la decisione del blocco di sospendere la Bolivia per la “condotta antibolivariana, antilatinoamericana, proimperialista e colonialista” del governo eletto, dopo che quest’ultimo non ha invitato alla sua investitura i Capi di Stato di Cuba, Nicaragua e Venezuela, senza reali giustificazioni politiche. Anticomunista da “guerra fredda”, Paz è meno entusiasta delle guerre culturali condotte dalla nuova destra, anche se ha dichiarato di voler chiedere aiuto al salvadoregno Bukele per la “sicurezza” e ha elogiato l’argentino Milei e il cileno José Antonio Kast. E rispetto al Cile, rimane complicata la relazione con la Bolivia, in particolare per il netto rifiuto da parte cilena di risolvere le storiche rivendicazioni marittime del Paese andino, messe nero su bianco nell’art. 268 della Costituzione boliviana. Più in generale, è chiaro che la svolta a destra comporterà l’allineamento con gli alleati di Washington nella regione ed un distanziamento dalle alleanze internazionali tenute in questi 20 anni (Cina, Russia, Cuba, Venezuela, Iran), che la Casabianca vede come il fumo negli occhi. Una nuova tappa di resistenza Con l’implosione del MAS, si chiude un ciclo politico e ideologico aperto con le guerre dell’acqua e del gas del 2000 e del 2003. La sinistra boliviana ritorna così alla situazione di prima del 2005, con il rischio che una parte dei movimenti possa essere comprata con prebende statali. Il MAS è stato un partito di movimenti, fonte di forza, ma anche di debolezza, dato che non aveva una struttura organica e dipendeva da Evo Morales per mantenere l’unità. Oggi, la leadership di Evo non è più come la conoscevamo, ma la sua figura, sebbene messa al bando, continua a essere un fattore chiave nello scenario politico ed elettorale, dopo essere stato rieletto due volte con una ampia maggioranza. Così, per ora divisi e disorganizzati, senza dirigenti indiscussi e senza partito, la sinistra politica e sociale e la maggioranza dei popoli originari devono fermare una destra che nella sua campagna elettorale ha chiesto la fine dello Stato Plurinazionale, il ritorno alla Repubblica tradizionale (e non più pluri-nazionale) e l’espulsione dei “masticatori di coca” dal governo. Di fronte a questo nuovo scenario, i movimenti sociali, sindacali e delle popolazioni originarie del Paese si preparano ad avviare una nuova fase di resistenza in difesa dei risultati sociali raggiunti e della sovranità nazionale. Il primo difficile compito è quello di rimarginare le profonde ferite provocate dalla spaccatura nel “Patto di unità” delle organizzazioni sindacali, sociali, di contadini e popoli originari. Il Patto riuniva la Confederación Nacional de Mujeres Campesinas Indígenas Originarias de Bolivia “Bartolina Sisa” (CNMCIOB-BS), la Confederación Sindical de Comunidades Interculturales Originarias de Bolivia (CSCIOB), il Consejo Nacional de Ayllus y Markas del Qullasuyu (CONAMAQ) e la Confederación de Pueblos Indígenas de Bolivia (CIDOB), oltre alla Confederación Sindical Única de Trabajadores Campesinos de Bolivia (CSUTCB). Un segnale positivo è stato il recente Congresso della principale centrale sindacale, la storica Central Obrera Boliviana (COB), con l’elezione di un nuovo gruppo dirigente. Dando un segnale chiaro, i nuovi dirigenti hanno già dichiarato la loro opposizione a qualsiasi misura governativa di carattere neoliberista, sia che si tratti della soppressione dei sussidi sui combustibili, della privatizzazione della sanità e dell’istruzione o della svendita delle risorse naturali. Seppure in grande difficoltà, sarebbe quindi un errore considerare concluso il Processo del Cambiamento che, seppur disperso,  è ancora vivo in quel tessuto a rete costruito in questi anni. Per riprendere il cammino della trasformazione è necessario avviare da subito un processo di dialogo di tutte le organizzazioni popolari, non solo per realizzare le necessarie autocritiche, ma soprattutto per elaborare insieme le basi di una piattaforma programmatica comune, come strumento per mobilitare la popolazione nella difesa dei diritti conquistati ed affrontare le misure neoliberiste nel prossimo quinquennio. Senza negare l’importanza della crescita di nuovi dirigenti che potrebbero emergere dai conflitti sociali. Vedremo se il presidente eletto saprà muoversi con il dovuto realismo rispetto a un’opposizione dal basso che, nonostante la sconfitta della sua espressione elettorale, rimane organizzata per resistere agli attacchi anti-popolari. La strada dell’unità del campo popolare è piena di buche ed in salita, ma all’orizzonte non ne appaiono altre. Link all’articolo originale: https://marcoconsolo.altervista.org/sulla-sconfitta-boliviana/
Ecuador: Noboa cerca di autorizzare una base militare USA nelle isole Galápagos
Il presidente ecuadoriano cerca di eliminare l’articolo costituzionale che proibisce basi straniere, nonostante il rifiuto sociale e ambientale. Il presidente dell’Ecuador, Daniel Noboa, ha incluso nella consultazione popolare del 16 novembre una domanda affinché la cittadinanza approvi l’installazione di una base militare statunitense nelle isole Galápagos, con l’argomento di combattere la pesca illegale e il narcotraffico. L’iniziativa fa rivivere l’esperienza della base statunitense a Manta (1999-2009), installata con lo stesso pretesto, ma i cui risultati furono contestati per la sua mancanza di validità e per denunce di violazioni di sovranità e diritti umani. Rischi per l’ecosistema e la sovranità nazionale Le isole Galápagos, dichiarate Patrimonio Naturale dell’Umanità nel 1978, costituiscono una delle regioni ecologicamente più fragili del pianeta. Secondo gli esperti, una base militare potrebbe incrementare la contaminazione marina, alterare l’ecosistema e limitare l’accesso degli stessi ecuadoriani, che avrebbero bisogno di permessi speciali per entrare in zone sotto il controllo militare straniero. Il costituzionalista Ramiro Ávila, nella sua opera La mirada imperial puesta en las Galápagos (Lo sguardo imperiale posto sulle Galápagos), domanda: Patrimonio dell’Umanità o dell’Esercito nordamericano? Ávila mette in allerta sull’installazione della base e la violazione dell’articolo 5 della Costituzione, che stabilisce: “L’Ecuador è un territorio di pace. Non si permetterà lo stabilimento di basi militari straniere né di installazioni a scopo militare”. Precedenti storici di presenza statunitense La presenza militare degli USA nelle Galápagos risale alla Seconda Guerra Mondiale, quando nel 1942 furono firmati degli accordi segreti per permettere il dispiegamento di truppe statunitensi a Salinas e Baltra, i medesimi punti menzionati oggi da Noboa. Già nel 1929, l’allora presidente della Banca Centrale, Neptalí Bonifaz, propose di vendere le isole a Washington per cancellare il debito estero, idea rifiutata dal Congresso ma segnò l’inizio di un’agenda geopolitica di lungo respiro. Durante il governo di Guillermo Lasso, Washington riuscì a riprendere la cooperazione militare e l’accesso logistico, considerato dagli analisti come l’inizio del ritorno statunitense nello spazio strategico ecuadoriano. Nuova strategia regionale degli Stati Uniti Noboa ha dichiarato il suo allineamento alla politica estera degli Stati Uniti e di Donald Trump, e ha giustificato la presenza della NATO in Europa come esempio per l’Ecuador. Parallelamente, Washington avanza nella regione con la costruzione di un porto speciale a Talara, Perú, che rafforzerebbe il suo controllo militare sul Pacifico Sud e la sua posizione strategica di fronte alla Cina. Il sociologo Luis Córdova Galarza, nella sua ricerca Nuevos enclaves militares en Perú y Ecuador (Nuove enclave militari in Perù ed Ecuador), avverte sulla presenza statunitense, che cerca di convertire ambedue i paesi in piattaforme di sicurezza e controllo marittimo, legate alla disputa globale per l’influenza tra potenze. Resistenza sociale e ambientale Movimenti indigeni, ambientalisti, giovanili e dei diritti umani hanno rifiutato il progetto, hanno denunciato il suo impatto ecologico, il rischio di coinvolgere l’Ecuador in conflitti internazionali e la violazione del principio di sovranità nazionale. Hanno condannato, inoltre, la decisione del governo di promuovere una campagna pubblicitaria nelle reti e nei media nazionali per promuovere la base militare come un “vantaggio strategico” per il paese, mentre nasconde le sue implicazioni costituzionali e ambientali. Dopo un mese di sciopero indigeno e popolare, il governo di Noboa cerca di riposizionarsi politicamente con la consultazione popolare e un discorso di “sicurezza nazionale”, mentre la presenza militare statunitense cresce in America Latina. 29 ottobre 2025 Resumen Latinoamericano Traduzione a cura di Comitato Carlos Fonseca
Cosa c’è dietro il nuovo piano di Israele per dividere Gaza in due
Mentre Trump elogia la “pace”, Israele sta consolidando un nuovo regime di confini fortificati, governo per procura e disperazione orchestrata, con l’espulsione ancora obiettivo finale. Fonte: English version Di Muhammad Shehada , 31 ottobre 2025 Immagine di copertina: Palestinesi camminano tra le rovine delle loro case nel quartiere di Tal Al-Hawa, nella parte meridionale di Gaza, 17 ottobre 2025. (Khalil Kahlout/Flash90) Dall’entrata in vigore del cessate il fuoco tra Israele e Hamas, l’amministrazione Trump ha salutato con entusiasmo l’inizio di un nuovo capitolo a Gaza. “Dopo tanti anni di guerra incessante e pericoli infiniti, oggi i cieli sono calmi, le armi tacciono, le sirene sono ferme e il sole sorge su una Terra Santa finalmente in pace”, ha dichiarato il presidente durante il suo discorso alla Knesset all’inizio di questo mese. Ma i fatti sul campo rivelano una realtà drammaticamente più cupa e gettano luce sul nuovo piano di Israele per il dominio permanente dell’enclave. Con la cosiddetta “Linea Gialla”, Israele ha diviso la Striscia in due: Gaza Ovest, che comprende il 42 percento dell’enclave, dove Hamas mantiene il controllo e dove sono stipate oltre 2 milioni di persone; e Gaza Est, che comprende il 58 percento del territorio, che è stato completamente spopolato dai civili ed è controllato dall’esercito israeliano e da quattro bande per procura . Secondo il piano Trump, questa linea era intesa come un indicatore temporaneo, la prima fase del graduale ritiro di Israele dalla Striscia, mentre una Forza Internazionale di Stabilizzazione assumeva il controllo sul territorio. Invece, le forze israeliane si stanno trincerando, rafforzando la divisione con terrapieni, fortificazioni e barriere che suggeriscono un passaggio verso la permanenza. La parte occidentale di Gaza sta diventando simile al Libano meridionale, che l’esercito israeliano ha continuato a bombardare periodicamente dopo la firma di un cessate il fuoco con Hezbollah lo scorso novembre. Dall’inizio della tregua a Gaza, attacchi aerei, droni e mitragliatrici israeliani hanno continuato a colpire la popolazione quotidianamente, solitamente con il pretesto infondato di “sventare un attacco imminente”, per rappresaglia contro presunti attacchi ai soldati israeliani o prendendo di mira individui che si avvicinano alla Linea Gialla. Finora, questi attacchi hanno ucciso oltre 200 palestinesi, tra cui decine di bambini. Israele continua a limitare gli aiuti a Gaza occidentale, con una media di circa 95 camion in entrata al giorno durante i primi 20 giorni di cessate il fuoco, ben al di sotto dei 600 al giorno previsti dall’accordo tra Israele e Hamas. La maggior parte dei residenti ha perso la casa , ma Israele continua a impedire l’ingresso di tende, roulotte, unità abitative prefabbricate e altri beni essenziali, con l’inverno alle porte. Forze di sicurezza palestinesi sequestrano camion di aiuti umanitari che entrano nella Striscia di Gaza attraverso il valico di Kerem Shalom, 16 ottobre 2025. (Saeed Mohammed/Flash90) Gaza Est, un tempo granaio dell’enclave, è ora una landa desolata. Colleghi e amici che vivono nelle vicinanze descrivono il rumore costante di esplosioni e demolizioni: soldati israeliani e coloni privati stanno ancora sistematicamente radendo al suolo tutti gli edifici rimasti, tranne i piccoli accampamenti destinati alle bande che vivono sotto la protezione dell’esercito israeliano e sono dotati di armi, denaro, veicoli e altri beni di lusso. Israele non ha intenzione di lasciare Gaza Est a breve. L’esercito ha rafforzato la Linea Gialla con blocchi di cemento, inglobando ampie fasce di Gaza Ovest, e il Ministro della Difesa Israel Katz si è apertamente vantato di autorizzare il fuoco su chiunque si avvicini alla barriera, anche solo per cercare di raggiungere la propria casa. Alcuni rapporti suggeriscono anche che Israele stia pianificando di estendere ulteriormente la Linea Gialla nella Gaza Ovest, ma l’amministrazione Trump per ora sembra rimandare questa mossa. E in una conferenza stampa della scorsa settimana, l’inviato di Trump, Jared Kushner, ha annunciato che la ricostruzione avverrà solo nelle aree attualmente completamente controllate dall’esercito israeliano, mentre il resto di Gaza rimarrà un cumulo di macerie e cenere finché Hamas non si disarmerà completamente e porrà fine al suo governo. Queste divisioni sempre più profonde tra Gaza Est e Ovest preannunciano quella che il Ministro israeliano per gli Affari Strategici Ron Dermer ha definito “la soluzione dei due stati… all’interno di Gaza stessa”. Israele permetterebbe una ricostruzione simbolica nelle aree di Rafah governate dalle sue bande per procura, mentre il resto di Gaza Est diventerebbe probabilmente una zona cuscinetto rasa al suolo e una discarica per Israele. In questo scenario, Gaza Ovest rimarrebbe in un perpetuo stato di guerra, devastazione e privazioni. Questa non è una ricostruzione postbellica, ma piuttosto una disperazione architettata, imposta attraverso muri, la costante minaccia di violenza militare e reti di collaborazionisti. Gaza viene ricostruita non per il bene della sua popolazione, ma per consolidare il controllo israeliano permanente e perseguire il suo obiettivo di lunga data: costringere i palestinesi a lasciare la Striscia. Hamas riafferma il controllo Da parte sua, Hamas ha cercato di riaffermare il controllo nella Striscia di Gaza occidentale per invertire il collasso sociale provocato da Israele in due anni di genocidio. Non appena il cessate il fuoco è entrato in vigore, Hamas ha avviato una stretta sulla sicurezza per perseguire i criminali e disarmare i clan e le milizie sostenute da Israele. Membri mascherati di Hamas durante un’operazione per arrestare presunti collaboratori della milizia di Yasser Abu Shabab, nella Striscia di Gaza meridionale. (Saeed Mohammed/Flash90) La campagna ha raggiunto l’apice con l’esecuzione pubblica di otto presunti collaboratori, insieme a pesanti scontri con il clan Daghmoush : una calcolata dimostrazione di forza volta a intimidire i gruppi rivali. La strategia è sembrata efficace: diverse famiglie  hanno consegnato le armi ad Hamas senza combattere. Con questa campagna, Hamas mira anche a comunicare, sia a livello nazionale che internazionale, che non è stato sconfitto nonostante le ingenti perdite subite durante la guerra, e che non può essere  escluso nei dibattiti sul futuro di Gaza. Allo stesso tempo, il gruppo sta cercando di ripristinare una parvenza di ordine civile e di vendicarsi dei membri di bande criminali  che hanno sfruttato il caos della guerra per saccheggiare e depredare i civili. Questo fa anche parte di uno sforzo per recuperare legittimità dopo aver perso gran parte del suo sostegno popolare a causa della vasta distruzione di Gaza. Nel frattempo, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha cercato disperatamente di convincere Trump a permettere a Israele di riprendere il genocidio, sfruttando episodi isolati a Rafah per giustificare una nuova azione militare. In un caso, due soldati israeliani sarebbero stati uccisi dopo aver investito ordigni inesplosi; in un altro, i soldati sono stati attaccati da quella che sembrava essere una piccola cellula di Hamas , ignara del cessate il fuoco o di qualsiasi legame con la catena di comando del gruppo. Netanyahu ha anche trasformato in un’arma l’operazione di sicurezza da parte di Hamas , descrivendola come una strage di civili e accusando il gruppo di rifiutarsi di restituire i corpi degli ostaggi, il tutto nel tentativo di convincere Washington a dare il via libera a una nuova offensiva a Gaza con il pretesto di fare pressione su Hamas. Il presidente degli Stati Uniti, ancora euforico per la rara ondata di copertura mediatica positiva che ha circondato il cessate il fuoco a Gaza, ha finora tenuto a freno Israele , anche se non è chiaro per quanto tempo durerà. Il capo di stato maggiore congiunto è il prossimo in lizza per fare da babysitter a Netanyahu, dopo le visite di Trump, del vicepresidente J.D. Vance e del segretario di Stato Marco Rubio. Per ora, il presidente è determinato a mantenere il cessate il fuoco, anche solo nominalmente, per evitare che venga  percepito come un fallimento o come un gioco di prestigio da parte di Netanyahu. Ma il primo ministro israeliano scommette che, col tempo, Trump si lascerà distrarre dalla prossima grande novità, perderà interesse per Gaza e gli darà di nuovo carta bianca. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu interviene in una sessione speciale della Knesset insieme al presidente degli Stati Uniti Donald Trump, a Gerusalemme, il 13 ottobre 2025. (Yonatan Sindel/Flash90) ‘Una Nuova Rafah’ Ma se non fosse in grado di tornare a un assalto su vasta scala, il piano di riserva di Israele è stato quello di persuadere la Casa Bianca a limitare la ricostruzione alla striscia di Gaza orientale controllata da Israele, iniziando da Rafah, convenientemente lungo il confine con l’Egitto, dove oltre 150.000 abitanti di Gaza sono già fuggiti (la ricostruzione nel nord, in aree come Beit Lahiya, è assente da questi piani). Secondo quanto riportato dai media israeliani, la città ricostruita, che includerebbe “scuole, cliniche, edifici pubblici e infrastrutture civili”, sarebbe circondata da una vasta area cuscinetto, di fatto una ” zona di morte “. Alla fine, Israele potrebbe consentire o addirittura incoraggiare i palestinesi a trasferirsi nelle aree ricostruite di Rafah, come “zona sicura” a Gaza dove i civili possono fuggire da Hamas – un’idea che le voci filo-israeliane sui media americani hanno cercato di vendere. Poiché Hamas non può essere completamente eliminato da Gaza, come ha recentemente ammesso Amit Segal, editorialista politico israeliano e alleato di Netanyahu , l’unico “futuro” per i palestinesi nell’enclave sarà nell’Est smilitarizzato sotto il controllo israeliano. “Una nuova Rafah… questa sarebbe la Gaza moderata”, ha detto Segal a Ezra Klein del New York Times. “E l’altra Gaza sarebbe ciò che giace tra le rovine di Gaza City e nei campi profughi nella Gaza centrale”. Attualmente, gli unici abitanti palestinesi a Rafah sono membri della milizia di Yasser Abu Shabaab, un gruppo legato all’ISIS, armato, finanziato e protetto da Israele. Sembra altamente improbabile che molti palestinesi accettino di vivere sotto il dominio di un signore della guerra, spacciatore condannato e collaborazionista che ha sistematicamente saccheggiato le scorte alimentari e imposto la fame a Gaza su ordine di Israele. Inoltre, chiunque attraversi la Striscia di Gaza orientale controllata da Israele rischia di essere visto come un collaborazionista, come è successo al famoso attivista anti-Hamas Moumen Al-Natour, fuggito dalla recente repressione di Hamas verso il territorio di Abu Shabaab e successivamente ripudiato dalla sua famiglia. Anche se alcuni abitanti di Gaza disperati accettassero di trasferirsi a Rafah, Israele non li lascerebbe semplicemente passare in massa da Gaza Ovest a Gaza Est, invocando il pretesto di impedire l’infiltrazione di Hamas tra la folla. Il piano delle ” bolle di sicurezza ” – proposto per la prima volta dall’allora Ministro della Difesa Yoav Gallant nel giugno 2024 – che prevedeva la creazione di 24 campi chiusi in cui la popolazione di Gaza sarebbe stata gradualmente trasferita, fornisce un modello: l’esercito israeliano probabilmente ispezionerebbe e autorizzerebbe ogni individuo autorizzato ad attraversare Gaza Est, producendo inevitabilmente un lungo e invasivo processo burocratico basato sull’intelligenza artificiale che lascerebbe i richiedenti vulnerabili al ricatto delle agenzie di sicurezza israeliane, che potrebbero richiedere collaborazione in cambio dell’ingresso. Israele ha chiarito ampiamente che chiunque attraversi quella “zona sterile” di Rafah non sarà autorizzato a tornare dall’altra parte di Gaza, trasformando Rafah in un “campo di concentramento”, come ha affermato l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert . Molti palestinesi eviteranno quindi di entrare nella Gaza orientale per paura che, se Israele riprendesse il genocidio con la sua precedente intensità, potrebbero essere spinti in Egitto. Infatti, pur predisponendo piani per consentire la ricostruzione di Rafah, l’esercito israeliano continua a demolire e far saltare in aria le case e gli edifici rimasti proprio in quella zona. Migliaia di palestinesi si radunano alla rotonda di Tahlia, Rafah, nel disperato tentativo di ottenere farina, Striscia di Gaza, 23 luglio 2025. (Doaa Albaz/Activestills) In definitiva, la “Nuova Rafah” israeliana fungerebbe da villaggio Potemkin – una facciata esterna per far credere al mondo che la situazione sia migliore di quanto non sia in realtà, offrendo solo un rifugio di base e una sicurezza marginalmente maggiore ai palestinesi che vi fuggono. E senza una ricostruzione completa o un orizzonte politico, questo piano sembra assomigliare a quanto promesso dal Ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich a maggio: “I cittadini di Gaza saranno concentrati nel sud. Saranno totalmente disperati, comprendendo che non c’è speranza e nulla da cercare a Gaza, e cercheranno di essere trasferiti per iniziare una nuova vita altrove”. Il disarmo come trappola Indipendentemente dal fatto che la ricostruzione nella Striscia di Gaza orientale proceda o meno, Israele continuerà a definirla sempre più una zona “libera dal terrorismo” e “deradicalizzata” e continuerà a bombardare l’altra parte con il pretesto di disarmare e deporre Hamas. Il gruppo islamista ha già accettato di consegnare Gaza a un comitato tecnico amministrativo e di consentire il dispiegamento nell’enclave di una nuova forza di sicurezza palestinese addestrata da Egitto e Giordania, insieme a una missione di protezione internazionale. Netanyahu, tuttavia, ha respinto categoricamente l’ingresso di 5.500 poliziotti palestinesi a Gaza, ha rifiutato di consentire l’ingresso nella Striscia di forze di stabilizzazione turche o qatariote e ha ostacolato la creazione del comitato amministrativo. Allo stesso modo, il disarmo è un’area di ambiguità che fornisce a Israele un pretesto pressoché infinito per impedire la ricostruzione nella Striscia di Gaza occidentale e mantenere il controllo militare. Hamas ha fatto sapere che accetterebbe di smantellare le sue armi offensive (come i razzi) e ha già accettato la rinuncia al resto del suo armamento difensivo leggero (incluse armi da fuoco e missili anticarro) come risultato di un accordo di pace, piuttosto che come prerequisito. Hamas è anche aperta a un processo simile a quello dell’Irlanda del Nord, in base al quale rinchiuderebbe le sue armi difensive nei magazzini e si impegnerebbe a una completa cessazione reciproca delle ostilità per un decennio o due, o fino alla fine dell’occupazione illegale di Israele. In tal caso, le rimanenti armi leggere fungerebbero da garanzia che Israele non rinnegherebbe le sue promesse di ritirarsi da Gaza e porre fine al genocidio. Membri delle Brigate Qassam di Hamas mettono in sicurezza la zona mentre le squadre utilizzano macchinari pesanti per cercare i corpi degli ostaggi israeliani, nel campo profughi di Nuseirat, nella Striscia di Gaza centrale, 27 ottobre 2025. (Ali Hassan/Flash90) Sia il governo britannico che quello egiziano , insieme all’Arabia Saudita e ad altre potenze regionali, stanno attualmente spingendo per il modello di disarmo dell’Irlanda del Nord, un segno che riconoscono la delicatezza e la complessità della questione del disarmo. L’insistenza di Israele sul disarmo totale immediato è una trappola deliberatamente inattuabile che esige la resa completa dei palestinesi. Anche se la leadership di Hamas a Doha fosse in qualche modo costretta ad accettare questa capitolazione, molti dei suoi stessi membri e di altri gruppi militanti a Gaza sarebbero destinati a disobbedire. Ciò sarebbe simile all’accordo di disarmo della Colombia , in cui molti militanti delle FARC hanno disertato e creato nuove milizie o si sono uniti a bande. E finché l’esercito israeliano rimarrà all’interno di Gaza, senza una reale prospettiva di porre fine all’assedio e al regime di apartheid di Israele, ci sarà sempre un incentivo per alcuni attori a imbracciare le armi. Israele potrà quindi indicare quei gruppi separatisti o singoli militanti come giustificazione per continuare a bombardare e occupare Gaza. Israele ha impiegato oltre 740 giorni, quasi 100 miliardi di dollari e perso circa 470 soldati per ridurre Gaza in polvere. Come si è vantato Netanyahu a maggio , Israele sta “distruggendo sempre più case [a Gaza, e di conseguenza i palestinesi] non hanno un posto dove tornare”, aggiungendo: “L’unica conseguenza ovvia sarà che i cittadini di Gaza sceglieranno di emigrare fuori dalla Striscia”. Anche dopo aver fallito nel tentativo di ottenere un’espulsione di massa attraverso un attacco militare diretto, la leadership israeliana sta ora perseguendo lo stesso risultato attraverso la disperazione orchestrata, usando macerie, assedi e bombardamenti periodici come strumenti di riorganizzazione demografica. La prospettiva della pulizia etnica non è scomparsa con il cessate il fuoco; si è semplicemente evoluta in una nuova politica, mascherata e normalizzata attraverso una pianificazione burocratica. Muhammad Shehada è uno scrittore e analista politico di Gaza, ricercatore ospite presso l’EuropeanCouncil on Foreign Relations. Traduzione a cura di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali”, per Invictapalestina.org
Diritto all’abitare: presentato il DL Sfratti. Unione Inquilini: “Ennesimo attacco ai diritti di chi vive in precarietà abitativa”
La maggioranza accelera sul “Piano Casa” della premier Meloni, che in realtà è un piano…sfratti. A mostrarlo, plasticamente, la proposta di un disegno di legge che punta a velocizzare in maniera drastica gli sfratti per morosità. Il cosiddetto “Decreto sfratti” è già stato depositato in Senato da Fratelli d’Italia – la prima firma è del senatore FdI Paolo Marcheschi – e, in cinque articoli, punta a snellire e accelerare le procedure di sgombero degli inquilini morosi, anche di quelli che dimostrano un’insolvenza di pochi mesi. Secondo quanto al momento contenuto nel nuovo dl, l’inquilino avrà solo 15 giorni per pagare le rate dell’affitto mancanti, altrimenti ad entrare in gioco sarà una nuova Autorità Amministrativa che, “verificati documenti e condizioni, potrà disporre lo sgombero entro 7 giorni”. L’istituzione di questa Autorità ad hoc scavallerebbe però, di fatto, i tribunali ordinari, lasciando unicamente ai manganelli la gestione della situazione abitativa. Nei prossimi giorni sono previste riunioni sul tema e non è da escludere che il testo approdi sul tavolo di discussione già al prossimo Consiglio dei Ministri, previsto per mercoledì 5 novembre. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto, Silvia Paoluzzi, Segretaria nazionale dell’Unione Inquilini, con la quale abbiamo guardato da vicino questa nuova proposta di legge che “accelera gli sfratti invece di garantire il passaggio da casa a casa”. Ascolta o scarica da Radio Onda d’Urto