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Informazione di parte

Torino città partigiana: Que viva Askatasuna!
Ripubblichiamo il comunicato uscito dal centro sociale Askatasuna in merito alla giornata di lotta di ieri. Alleghiamo anche un video racconto della giornata. credits to danisol74 L’attacco da parte del governo Meloni è duplice: un attacco alla città di Torino in quanto anomalia, esempio di resistenza e di lotta e un attacco alle lotte sociali e al movimento in solidarietà alla Palestina.  Il governo, a seguito di due mesi di mobilitazioni in tutta Italia che hanno avuto la capacità di bloccare il Paese, si è intimorito perché ha avuto la consapevolezza che l’Italia avesse scelto da che parte stare.  Pensiamo che in questi giorni, la “medaglia d’oro per la Resistenza assegnata alla città, stia venendo difesa da un attacco pesante da parte del Governo. Prosperina Vallet, nome di battaglia “Lisetta”, è il volto che ha accompagnato il corteo. Gigantografia sottratta alla bieca servitù delle forze di polizia e operai che lavorano da giorni per rendere completamente inagibile il palazzo di corso Regina Margherita 47 e che hanno strappato la targa di Giovanni Accomasso, partigiano torinese unitosi alla resistenza nel ’44.  Ieri in piazza c’era la Torino partigiana: c’erano i giovani e giovanissimi che stanno crescendo nelle lotte di ora, c’erano le famiglie e i bambini e le bambine che hanno vissuto sulla propria pelle la privazione del diritto all’educazione per permettere lo sgombero di un loro spazio di incontro, c’erano gli abitanti e le abitanti di Vanchiglia, ancora increduli a fronte dell’istituzione di un nuovo cantiere nel cuore del quartiere protetto da jersey e mezzi di polizia, c’erano i comitati cittadini, associazioni, anziani, compagni e compagne da territori vicini che hanno voluto portare la loro solidarietà sapendo che lo sgombero dell’Aska riguarda tutti e tutte.  Questa è la città che vogliamo ed è con tutti e tutte coloro che in questi giorni sono stati al fianco dell’Askatasuna che vogliamo immaginare il futuro.  10 mila persone unite da un sentimento comune: c’è la necessità che lo spazio di corso Regina Margherita 47 venga riconsegnato alla città e al quartiere e c’è la volontà di guardare avanti riallargando collettivamente gli spazi di agibilità, aprendo dimensioni di scambio e di ragionamento collettivo con la Torino che quotidianamente sceglie come vivere il proprio territorio, che vuole organizzarsi per un presente diverso, che vuole rappresentare una forza con cui doversi confrontare perché autonoma. Costruire istituzioni collettive, spazi di discussione, di socialità, di possibilità è un percorso che va continuato, sedimentato, insieme.  Insieme come ci si è avvicinati alle mura circondate da jersey e mezzi della polizia, tra idranti e lacrimogeni, per indicare un’esigenza comune, praticando il terreno del conflitto. Molte le parole spese sulle pagine dei quotidiani oggi per riproporre il trito e ritrito ritornello: i violenti, gli incappucciati che scavalcano i bambini per cercare lo scontro. Piacerebbe a Marrone, Tajani, Piantedosi – che oggi si congratula con la gestione del questore Sirna da poco silurato – che questa narrazione corrispondesse alla realtà eppure, spiace dover ribadire l’ovvio, a Torino non funziona così. Ognuno e ognuna, secondo le proprie possibilità, dà il suo contributo in una sinergia che solo la Val Susa ci ha insegnato. Chi non ha le scarpe buone è pronto a sostenere dove l’aria è un po’ più respirabile, chi non ha abbastanza fiato è presente con sguardo attento per capire insieme dove occorre esserci.  Non funziona così in nessuno di quei territori in cui esistono esperienze di organizzazione autonoma della società, non funziona così nei quartieri popolari a Roma, nelle periferie di Milano, non funziona così nei porti dove in questi mesi “non è passato nemmeno un chiodo per la guerra”, non funziona così, cari Piantedosi, Salvini e Meloni, nessuna ruspa potrà distruggere il sogno collettivo. E’ il sogno che sta in fondo agli occhi di chi ha fatto esperienza dei blocchi nelle stazioni, di chi ha bloccato il porto di Genova e di Livorno, di chi ha occupato le scuole e le università per la Palestina libera, di chi ha camminato fianco a fianco con la consapevolezza di poter rompere la complicità con il genocidio in Palestina. Ed è da lì che si va avanti, con immaginazione e con la potenza che solo la percezione di stare costruendo la liberazione collettiva può permettere. Sono passati solo tre giorni e la strada è ancora lunga, verrà inaugurato un nuovo anno di lotta con il Capodanno, ci si incontrerà in una grande assemblea cittadina il 17 gennaio e si riattraverseranno le strade della città di Torino il 31 gennaio per il corteo nazionale. E’ una prospettiva da costruire insieme: oggi il governo ci vuole disciplinati per poterci armare, parla di leva obbligatoria, finanzia il genocidio in Palestina e manda al collasso la sanità pubblica, la scuola e i servizi essenziali. Il governo coltiva l’illusione che basterà continuare così per mandarci in guerra ma questo percorso sarà un’ulteriore occasione per dimostrare che si sbaglia di grosso.  Intanto, qui da queste parti, noi abbiamo da fare e c’è poco tempo da perdere: continuare a monitorare quanto accade in Vanchiglia è una delle priorità, ci uniamo alla voce del quartiere che pretendono che cessi la militarizzazione, perchè sta colpendo non solo la sua riproduzione economica ma la stessa vivibilità. Continueremo la lotta condividendo spazi di incontro e socialità durante queste settimane, perché Natale, si sa, è il momento di andare a trovare la famiglia, e anche in queste feste saranno in giro i ragazzi di Vanchiglia.  Qui un video racconto della giornata
Sgombero di Askatasuna: chi fa i piani e chi fa la storia
Lo sgombero di Askatasuna non può essere trattato come un semplice atto di repressione da parte di un governo di ultradestra. Questo fatto politico è la somma di vicende complesse ed articolate che è necessario comprendere a fondo.  Sarebbe consolatorio, ma inefficace, ridurlo ad un atto di fascismo istituzionale. Attenzione: non neghiamo la progressiva deriva autoritaria in cui il governo Meloni è impegnato, ma ciò che ci interessa di più sono gli scopi di questa deriva ed i suoi dispositivi concreti. Per capire cosa significa lo sgombero di Askatasuna bisogna provare ad inoltrarsi nei diversi livelli di realtà su cui impatta questo fatto. 1. La politica del simbolico. Lo storico centro sociale torinese è stato per quasi tre decenni un simbolo che rappresentava significati differenti a seconda di chi lo narrava. Per alcuni era un’alternativa credibile alla politica istituzionale, una rappresentazione romantica del conflitto sociale, un luogo di socialità differente, una fucina culturale e politica. Altri lo rappresentavano come una “centrale della violenza”, il “centro sociale più duro d’Italia”, una manica di teppisti e perdigiorno. Queste narrazioni erano come ombre cinesi, proiezioni di un soggetto mutevole che, a seconda della direzione da cui proveniva la luce che lo illuminava, cambiava forma. Su Askatasuna venivano proiettate speranze e paure, aspettative e timori. Questo portato simbolico è stato croce e delizia, ma non ha mai rappresentato realmente la natura di questo spazio sociale. Le centinaia di militanti che hanno attraversato le sue mura in questi decenni hanno sempre radicalmente rifiutato la rappresentazione di un oggetto alieno, di una riserva indiana, di un residuo antistorico e si sono sempre impegnate ed impegnati in prima persona nel tentare di capire la società che avevano davanti per cambiarla. In una società in cui la politica procede per lo più su un livello del simbolico, appunto, i militanti e le militanti hanno cercato invece di costruire delle trasformazioni concrete nel quartiere, in città, in Val Susa. Le quattro mura del centro sociale non hanno mai rappresentato l’interezza della proposta politica di un’area militante, quella dell’autonomia torinese che è un’esperienza vivace, fortemente radicata nella città e tra le pieghe delle sue contraddizioni. Lo sgombero di quelle quattro mura è stato in primo luogo un atto simbolico. Il governo Meloni in questo momento è impegnato in una delle politiche di austerity più dure dai governi tecnici che tanto ha contestato a parole. Non solo: è il governo protagonista del riarmo del nostro paese. Tra la popolazione italiana vi è un malcontento crescente ed una forte ostilità nei confronti di queste scelte politiche concrete, dunque la consorteria che si è installata al governo deve ogni giorno cercare nuovi simboli su cui deviare l’attenzione mentre procede allo smantellamento del welfare. Che si tratti della “famiglia nel bosco” o dello sgombero di un centro sociale, l’importante è deviare l’attenzione mediatica su un terreno differente da quello delle decisioni politiche-economiche del governo. Lo sgombero di Aska arriva proprio nei giorni in cui si compie il redde rationem interno al governo ed alla Lega sulle pensioni. Questa politica del simbolico ha due scopi principali: da un lato, come detto, spostare la discussione pubblica su argomenti meno spinosi per il governo, dall’altro quello di mantenere la fedeltà dello zoccolo duro di elettori di destra che si consolano della crisi sociale godendo di un po’ di pugno di ferro contro comunisti e migranti. Le decisioni chiave del governo sono tutte pilotate da Washington e Bruxelles e dunque bisogna sparare un po’ di fuochi d’artificio perché la gente guardi altrove.  2. Il governo della città. Se c’è un progetto chiaro da parte della destra di governo è quello di espugnare tutte le istituzioni che per un motivo o per l’altro non si allineano con il suo progetto. Il modello è quello trumpista, ma in una versione soft-core. Torino è una di quelle città che per tradizione, ma soprattutto per composizione sociale si è sempre dimostrata ostile alla destra. Anche in questi decenni di profonda crisi sociale e di vocazione i torinesi hanno cercato risposte a sinistra piuttosto che a destra, nonostante i ripetuti tentativi delle compagini fasciste e post-fasciste di mestare le acque nei quartieri popolari ed indirizzare la rabbia verso gli immigrati. Coloro che in Fratelli d’Italia si candidano a governare Torino nella prossima legislatura sono vecchie conoscenze dell’antagonismo torinese. Maurizio Marrone ed Augusta Montaruli fin dall’inizio della loro carriera politica nel FUAN si sono misurati con la forte opposizione antifascista ed antirazzista alla loro propaganda. Sanno che “a Torino non si passeggia” e che i movimenti sociali della città sono un ostacolo concreto alle loro mire politiche. Non tanto e non solo per via dell’antifascismo militante che è impresso nel DNA di uno dei territori al centro della Resistenza Partigiana, ma soprattutto perché la presenza di movimenti sociali radicati, strutturati e socialmente organizzati impedisce alla destra di incanalare il malcontento nelle loro narrazioni rancorose e, come si diceva sopra, nella loro politica simbolica. È questo il vero punto che tanto il centro-sinistra istituzionale che i tanti commentatori progressisti non riescono a capire. Finché le forze sociali sono organizzate e vigili, finché l’antagonismo si esprime sul terreno del conflitto sociale di massa, la destra non ha spazi per insediarsi nelle pieghe della città. La controparte punta proprio a disorganizzare queste forze, a gettarle nell’isolamento, a rompere il vincolo solidale che esse costituiscono nella prospettiva di un cambiamento radicale dello stato di cose presente. Solo così una città come Torino è espugnabile. Sono anni che la destra lavora a questo progetto. Si mormora nei precedenti tentativi di sgombero di incontri in Prefettura con il Ministro Piantedosi alla presenza di Augusta Montaruli, non si sa a che titolo. La stessa Montaruli dalla cui segnalazione sarebbero partite le pratiche per l’espulsione di Mohamed Shahin. Sui giornali i retroscena parlano di Maurizio Marrone, papabile candidato sindaco del centrodestra, come vero regista dell’operazione di sgombero. È uno spartito più o meno simile, anche se con intensità diverse, a quello che viene suonato in altre città governate dal centro-sinistra o in territori come la Val Susa dove i movimenti sociali sono particolarmente strutturati e forti. La pavidità del sindaco Lo Russo di fronte all’ennesimo tentativo di portare a termine questo progetto avrà un costo politico per la città ben più profondo di qualsiasi nenia sulla legalità e la sicurezza. Alle ultime elezioni il PD a Torino ha vinto più per il rifiuto di lasciare la città in mano alla destra che per la convinzione verso un’amministrazione che si è dimostrata, salvo rari casi, impalpabile, compromessa con gli interessi imprenditoriali che hanno mandato allo sfascio la città e per lo più inadatta a governare la profonda crisi sociale. Il patto per il bene comune era, non va nascosto, il punto d’incontro tattico tra esigenze e storie profondamente diverse. Da parte dei militanti e delle militanti dell’autonomia torinese c’era il bisogno di rispondere ad un attacco a 360 gradi nei confronti delle esperienze di autorganizzazione in città, ma anche di prendere atto che una stagione delle forme che aveva assunto questa autorganizzazione in passato si stava chiudendo, senza rinnegare la propria storia e la propria natura antagonista. Dall’altro lato l’amministrazione di centro-sinistra voleva evitare che la compagine di destra al governo del paese utilizzasse lo sgombero per pesare sugli assetti politici cittadini dall’esterno e che esso potesse influire sulla tenuta della maggioranza in Comune. Era chiaro fin dall’inizio che questo patto tra esperienze politiche radicalmente differenti e spesso contrapposte si reggeva, fuor di retorica, sul mutuo interesse nel contrastare il progetto delle destre e non su un tentativo di recupero istituzionale del centro sociale. Nonostante ciò la retorica che il sindaco ha messo in campo è sempre stata sulla difensiva, un tentativo di mascherare la realtà dei fatti dietro un velo di ipocrisia che si può riassumere nella parola “legalizzazione”. Questo terreno ambiguo battuto dalla comunicazione istituzionale ha costruito le premesse per il disastro politico che l’amministrazione sta affrontando. Ciò che è tristemente grottesco è che mentre il governo di destra produce quotidianamente forzature nell’ambito della legalità data, affrontando persino processi giudiziari come momento di rafforzamento della propria narrazione, il centro-sinistra giustizialista si impicca con le proprie mani alla corda della legalità. Il patto per il bene comune aveva acceso molte speranze e forse illusioni in settori della società torinese stanchi di un centro-sinistra incolore ed insapore, ma il sindaco invece di rivendicare la legittimità sociale riconosciuta di questo processo ha sempre giocato di rimessa, accettando le retoriche delle destre sul centro sociale, ma sostenendo che una sua “legalizzazione” sarebbe stata più efficace di uno sgombero violento. L’ennesimo tentativo di mascherare una scelta politica come un atto amministrativo, invece di rivendicarla apertamente. Il sindaco in parole povere voleva la botte piena e la moglie ubriaca, sperava di portare avanti la sua immagine di moderato affidabile (una posa che in questa epoca storica non produce nessun consenso) senza alienarsi i consensi di chi in città vorrebbe una sinistra perlomeno più coraggiosa. Non ha avuto né l’una, né l’altra sventolando la bandiera bianca. Il sindaco ieri si è nuovamente pronunciato mostrando di avere, almeno in parte, capito di essere caduto nella trappola appositamente confezionata. Ha ventilato l’ipotesi di una nuova assegnazione e del rilancio del patto. Difficile dire come si giocherà la partita istituzionale per recuperare il consenso a sinistra mentre i guastatori della milizia di Piantedosi stanno occupando militarmente e tentando di rendere inutilizzabile lo stabile. 3. Sumud. Nelle dichiarazioni ai giornali attivisti ed attiviste hanno collocato lo sgombero all’interno della più ampia dinamica di attacco nei confronti del movimento in solidarietà con la Palestina che ha riempito le piazze italiane negli ultimi mesi. La stessa sequenza storica lo dimostra chiaramente: prima il tentativo di espulsione di Mohamed Shahin, punto di riferimento del movimento contro il genocidio a Torino, poi, quando l’inconsistenza delle accuse su cui era basato il decreto di esplulsione è stata confermata dalla Corte d’Appello di Torino, lo sgombero di Askatasuna. A Torino il movimento “Blocchiamo tutto” è stata un’esperienza di effettiva ricomposizione sociale che ha visto il protagonismo di scuole, università, luoghi di lavoro, quartieri popolari. Una forza trasversale e radicale che ha investito molti ambiti della vita cittadina.  Come in molti altri posti d’Italia la mobilitazione ha raggiunto picchi che non si vedevano da decenni. Questo movimento ha mandato in crisi di nervi la narrazione del governo tesa a disegnare il conflitto sociale sempre in una forma criminalizzante. Gli attacchi scomposti degli esponenti della maggioranza nei confronti dei manifestanti raccontano quanto questo movimento gli sia indigesto e insopportabile. Questo per vari motivi: dal fatto che rivela la subordinazione internazionale dell’Italia ad altre potenze, fino alla dimostrazione che uno sciopero sociale reale può contare persino sugli equilibri degli scenari internazionali (ne abbiamo parlato più lungamente qui). Nonostante il finto cessate il fuoco nella Striscia di Gaza i presupposti sociali e politici che hanno portato allo sviluppo di questo movimento sono ancora tutti sul tavolo. Ma nel frattempo si sono solidificate anche nuove militanze, nuovi spazi e nuove forme di attivazione politica. La spallata al governo, più che dalle opposizioni parlamentari e dai giudici, sfere con cui la destra è abituata ad utilizzare una retorica collaudata ed efficace, può venire da questa forza potenziale delle piazze. È per questo motivo che gli apparati di disciplinamento statuali da mesi procedono con un tentativo scientifico di disarticolazione del movimento, tanto sul piano della delegittimazione delle istanze, quanto su quello poliziesco e giudiziario. Ondate di troll hanno invaso i social media con commenti fotocopia sperando di spostare un’opinione pubblica drasticamente ostile al genocidio ed ancora una volta spezzare il vincolo di solidarietà. L’efficacia di questi dispositivi è relativa: in parte perché ai tentativi di repressione si sovrappone un rancore politico tipico di quella compagine che può compiacere i fedelissimi, ma appare disarmante al resto della popolazione. Ed in parte perché questo movimento ha realmente trasformato i rapporti sociali, ha mostrato nuove possibilità di fare politica dal basso, ha generato nuovi modi di informarsi e confrontarsi, specialmente tra le giovani generazioni. 4. L’elmetto. Quasi tutte le società europee, indipendentemente dalle compagini che le governano, stanno restringendo sistematicamente gli spazi di dissenso e contestazione. Il motivo è molto semplice: il popolo non vuole la guerra, quindi bisogna disciplinarlo alla guerra per difendere gli interessi di un capitalismo, quello europeo, in crisi profonda. Il principale problema che si trova di fronte la politica di riarmo e militarizzazione dell’UE è proprio l’opinione pubblica interna, in gran parte indisponibile a diventare carne da cannone, sia a livello economico-sociale, sia a livello prettamente militare. Per preparare la guerra non bastano gli investimenti nella difesa, la reintroduzione della leva, l’ampliamento degli eserciti di professione: bisogna che almeno in una parte significativa la società sia convinta della necessità dello scontro. Dunque bisogna neutralizzare e silenziare le forze sociali che si oppongono ad essa, bisogna impedire che questo senso comune si faccia mobilitazione, che il rifiuto della guerra da opinione passiva e privata prenda le forme di un’opposizione sociale. È proprio nelle lotte contro la guerra che sta iniziando a nascere una nuova consapevolezza politica che collega il regime di militarizzazione con la crisi economica, la stagnazione dei salari, i tagli al welfare e l’austerità. È necessario collocare l’attacco ad Askatasuna all’interno di questo scenario per comprendere quante partite si giocano all’interno di questo evento, ma soprattutto per capire che la risposta non può riguardare solo l’identità storica dei centri sociali come spazi di  aggregazione e pensiero alternativo, ma deve investire le contraddizioni del presente ed essere all’altezza del futuro che abbiamo di fronte. È ancora un altro inizio.
Askatasuna: uno sgombero contro la città
All’alba di ierila polizia ha “sgomberato” a Torino, con una operazione altamente spettacolare, il centro sociale Astakasuna. di Livio Pepino, da Volere La Luna Così dichiarano, in coro, ministri e vertici istituzionali e così titolano i giornali scritti e parlati. Vero, ovviamente, il fatto, ma la vicenda è, in realtà, più complessa di un semplice sgombero. Conviene, dunque, andare con ordine e riavvolgere il nastro. Askatasuna è stato, fino a un paio di anni fa, il centro sociale più noto e frequentato della città, attivo da trent’anni in un ex asilo occupato in corso Regina Margherita 47, luogo di attività sociali e di eventi culturali e musicali, politicamente impegnato su molti fronti (dalla lotta per la casa all’opposizione al Tav), portatore di una forte carica antagonista. Ma, da ultimo, esso è stato anche protagonista di un’inedita iniziativa di confronto/collaborazione con le istituzioni cittadine. In particolare, insieme con altre realtà del territorio, Aska, come abitualmente chiamato dai suoi frequentatori, ha lanciato l’idea di una trasformazione del centro sociale in una struttura articolata e partecipata a disposizione del quartiere. L’iniziativa ha avuto seguito e il 30 gennaio 2024 la Giunta comunale ha adottato una delibera con la quale lo stabile occupato da Askatasuna è stato individuato come “bene comune” da assoggettare a un “governo condiviso” con il gruppo dei proponenti, rappresentativo anche degli occupanti. È così iniziata una fase di “co-progettazione” finalizzata a mettere l’edificio in condizioni di sicurezza e di maggior agibilità per attività sociali, culturali e ricreative utili al territorio (https://volerelaluna.it/politica/2024/02/02/ce-qualcosa-di-nuovo-sotto-il-sole-askatasuna-e-il-futuro-dei-centri-sociali/ ). Il progetto – seppur con la lentezza tipica delle operazioni burocratiche e con rapporti spesso complicati tra le parti – è proseguito in questi due anni, nel corso dei quali il collettivo di Askatasuna ha mantenuto un’intensa attività, soprattutto in città e in Valle di Susa, ma ha sostanzialmente dismesso l’edificio di corso Regina Margherita di cui è stato usato per iniziative solo – e saltuariamente – il cortile (non interessato ai lavori di riqualificazione). Questo lo stato delle cose oggi, quando è intervenuto lo sgombero, effettuato da ingenti forze di polizia, carabinieri e guardia di finanza in tenuta antisommossa, che hanno bloccato il quartiere Vanchiglia, chiuso due scuole, deviato il traffico e finanche il tragitto dei mezzi pubblici e fatto irruzione nello stabile dell’ex asilo, provvedendo, all’esito, a murarne gli accessi e a disattivare le utenze di acqua e luce. Superfluo dire che la dismissione dell’edificio è stata constatata dalle stesse forze di polizia intervenute che, nel corso della perquisizione effettuata, hanno trovato solo, ai piani superiori, sei “attivisti” dormienti e due gatti (sic!): davvero poco per un centro sociale operativo e tale da attentare, addirittura, all’ordine pubblico! Nonostante ciò, la vicenda ha avuto grande eco di stampa, accompagnata da dichiarazioni trionfalistiche del Governo e della destra. Ciò impone alcune considerazioni. Primo. L’avversione della destra per i centri sociali non è certo una novità. Negli anni, poi, Askatasunaè diventata, per l’attuale maggioranza politica (a livello locale e nazionale), una vera e propria ossessione, contrassegnata da reiterate richieste di sgombero e da una campagna di criminalizzazione a cui hanno dato sponda le forze di polizia (con frequenti perquisizioni e arresti di suoi aderenti), la Procura della Repubblica cittadina (che si è spinta a istruire un processo per associazione a delinquere, dichiarata totalmente inesistente, all’esito del dibattimento di primo grado, dal Tribunale di Torino: https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/04/16/15-giorni-dopo-lassoluzione-di-askatasuna-un-silenzio-istruttivo/) e la stampa, che si è distinta, quasi senza eccezioni, nell’indicare il centro sociale come responsabile di ogni disordine o nefandezza avvenuta a Torino, in Valle di Susa e, da qualche tempo, in ogni parte (o quasi) del territorio nazionale. Fino ad oggi, tuttavia, nessuno sgombero era stato neppure tentato. L’attuale operazione, avvenuta senza alcun nuovo elemento, rappresenta, dunque, un salto di qualità dettato da scelte politiche nazionali, essendo evidente la sproporzione – a dir poco – tra lo sgombero e il perseguimento di eventuali specifici reati commessi da persone presenti nel centro sociale. La sua finalità è chiara e consiste nel tentativo del Governo e della maggioranza politica di riguadagnare terreno dopo le ripetute smentite ricevute dall’autorità giudiziaria (a cominciare dall’esito del già ricordato processo per associazione a delinquere); di contrastare e indebolire le mobilitazioni(di cui Askatasunaè stata ed è parte significativa) contro il genocidio in Palestina e contro le derive autoritarie e la repressione delle opinioni dissenzienti in atto in città e nel Paese; di ostacolare la politica di governo inclusivo del territorio intrapresa, in questo caso, dal Comune di Torino. Secondo. L’ultimo rilievo introduce una seconda, inquietante considerazione. L’operazione di sgombero effettuata dalla polizia è stata diretta non solo contro Askatasuna ma anche contro il Comune di Torino, a cui – insieme ai cittadini proponenti – fa attualmente capo lo stabile sgomberato e che ha approvato e gestito il progetto di riqualificazione bruscamente e autoritativamente interrotto. Il fatto, rivelatore di un conflitto aperto tra istituzioni sulle modalità di governo della città (https://volerelaluna.it/politica/2024/02/06/torino-e-il-caso-askatasuna-due-modelli-di-citta/), è di una gravità inaudita. Per questo, ha dell’incredibile l’atteggiamento del sindaco che, lungi dall’opporsi – come pure sarebbe stato doveroso – a un intervento teso a vanificare un proprio progetto, ha dichiarato in tempo reale la “cessazione” del patto di collaborazione per la riqualificazione dello stabile in conseguenza dell’“accertamento della violazione delle prescrizioni relative all’interdizione all’accesso ai locali” (circostanza idonea a motivare, eventualmente, richieste di chiarimento e successive prescrizioni ma non certo la chiusura d’autorità – e da parte di altri – dell’edificio e del progetto per esso elaborato). La dichiarazione è del tutto incongrua (non foss’altro perché il “patto di collaborazione” era stato sottoscritto non con Askatasuna ma con i proponenti il percorso di riqualificazione) e, per i suoi tempi e il suo tenore, evidenzia un’intesa con l’autorità di polizia e una subalternità al Governo centrale che si addice a un podestà di epoca fascista più che a un sindaco di una Repubblica costituzionale. Terzo. Lo sgombero apre nuovi scenari, anzitutto per Askatasuna, la cui scelta di aprire un rapporto con l’istituzione cittadina, fin dall’inizio non indolore, lasciava intravedere nuove possibili strategie per i movimenti antagonisti (https://volerelaluna.it/politica/2024/02/02/ce-qualcosa-di-nuovo-sotto-il-sole-askatasuna-e-il-futuro-dei-centri-sociali/). Oggi ciò è ancor più necessario. Lo scrivevamo qualche mese fa, all’indomani dello sgombero, a Milano, del Leoncavallo: «In società complesse e conflittuali come la nostra non è pensabile che le realtà aggregative si riducano alle parrocchie e ai circoli Arci… Le realtà borderline come i centri sociali non sono un lusso ma una necessità. Oggi più di ieri. Ma la loro realizzazione richiede, probabilmente, nuove modalità, nuove strade, nuove alleanze» (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/08/25/cera-una-volta-il-leoncavallo/). All’inizio del percorso che ieri si è traumaticamente interrotto, il collettivo di Askatasuna, in un comunicato stampa dall’ironico titolo “Così è se vi pare”, scriveva: «Sospenderemo la programmazione delle serate musicali e culturali, con la promessa di farne un orizzonte reale. Temporaneamente faremo in modo che queste iniziative possano vivere nelle strade della nostra città e del quartiere. Sicuramente continueremo a partecipare alle numerose lotte e percorsi che da anni portiamo avanti in città». Una rivendicazione di continuità, pur in una dimensione nuova, che ieri era una scelta, oggi diventa una necessità. Ed è una questione che coinvolge tutti. Quarto. La vicenda interpella anche le forze democratiche della città, già ferita da recenti attentati alle libertà più elementari, dall’annullamento di autorità di un incontro sulla imperante russofobia, anche allora con un coinvolgimento del Comune (https://volerelaluna.it/controcanto/2025/11/11/liberta-vigilata/), al provvedimento di espulsione dell’imam di San Salvario (https://volerelaluna.it/commenti/2025/12/01/limam-mohamed-shahin-noi-il-maccartismo/). È tempo che le forze democratiche riprendano l’iniziativa e facciano sentire la propria voce. Un’indicazione in tal senso viene dai “garanti” dell’operazione di riqualificazione e rilancio del centro sociale di corso Regina Margherita che, in un comunicato emesso subito dopo lo sgombero, propongono di riaprite la partita: «Chiediamo alla Giunta comunale e alle forze politiche che la sostengono di adoperarsi per la riattivazione del progetto e ribadiamo il nostro impegno ad operare in tale direzione, convinti che le complesse dinamiche cittadine richiedono dialogo e confronto e non interventi autoritari e repressivi che – è facile prevederlo – determineranno solo ulteriori contrapposizioni e violenze» (https://viatrivero.volerelaluna.it/comunicato-stampa-su-sgombero-di-askatasuna/).
Falce ed Algoritmo, eccedenza e dispositivi
Note a partire dal disordine complessivo contemporaneo Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo contributo al dibattito sul movimento “Blocchiamo Tutto” di Collettivo Sumud… “Maybe I like this roller coaster. Maybe it keeps me high”. Lana del Rey, Diet mountain dew “Amore, fai presto, io non resisto. Se tu non arrivi non esisto Non esisto, non esisto” Ornella Vanoni, L’appuntamento “L’ennesimo spasmo nella storia senza storia delle popolazioni depauperate” “Una teoria del presente può nascere dall’esperienza diretta dei conflitti” Joshua Clover, Riot, sciopero, riot. Partiamo da questo, che è il punto più semplice. Sono i conflitti a definire il nostro pensiero e la nostra azione. Non siamo noi a decretare il conflitto, ad agirlo, ma è il conflitto che agisce su di noi. Noi non esistiamo fuori da esso, ed è proprio quest’ultimo il referente a cui costantemente ci rifacciamo. Quando questo conflitto, inteso come rapporto sociale sempre presente, si esplicita nelle molteplici forme, bisogna essere lì dove questo si dà. Ma quando torna nel sottosuolo, allora dobbiamo fermarci, per provare a capirlo e studiarlo, nella speranza di farsi trovare prontx alla sua prossima emersione autonoma. Proprio come i funghi, il conflitto è un rapporto sociale che possiede una fitta rete sotterranea, invisibile ma sempre presente, che ogni tanto emerge per entrare nella vita e nei discorsi di tuttx. Insomma, il conflitto per noi non è semplicemente lo scontro di piazza, l’organizzazione di classe, le strutture militanti, ma è un qualcosa di più ampio, che eccede tutte queste cose qua. Pensiamo sia quindi necessario interrogarsi sulla recente emersione del conflitto dal sottosuolo in cui stava proliferando. Dal 22 settembre a Milano, al 14 ottobre a Udine, passando più volte per Roma, Torino e Bologna, un qualcosa si è dato. Che sia un principio di nuove forme di lotta di classe, di rivolte urbane, di sollevazione etica o politica risvegliatasi, è troppo presto per dirlo, e soprattutto è poco interessante cercare di incasellare precisamente quanto successo, anche per la complessità caotica che l’ha caratterizzato. Ogni piazza per la Palestina che è stata attraversata dal conflitto ha delle proprie particolarità che proveremo a riassumere, ma non c’è sicuramente un qualcosa che possa tenere insieme il tutto. Intanto, possiamo chiederci che grammatica dare a questo conflitto, cosa lo ha prodotto e cosa ha messo in moto. Ma soprattutto, se andrà avanti. Notiamo delle evidenti differenze tra fine settembre/inizio ottobre, e tutto novembre, le cui ultime grandi chiamate di fine mese (ovvero Bologna e Milano/Roma) sembrano segnare il definitivo ritorno nel sottosuolo del conflitto per rimpiazzarlo invece con le classiche dinamiche dei movimenti sociali (politica della denuncia, della rappresentazione, degli scontri organizzati, dell’egemonia della sinistra, etc). Ma la storia procede a spasmi. Senza nessun tipo di positività o ottimismo, oggi vediamo la storia prodursi dalle mani delle popolazioni depauperate, di chi non ha presenza, da chi deve emanciparsi dalla non-esistenza. Non è importante sapere chi è sceso in piazza a settembre/ottobre/novembre; ciò che conta è cosa è stato fatto, e cosa faccia emergere. Questi mesi hanno prodotto una storia, quella della plebe contemporanea, e dobbiamo chiederci noi, in quanto compagnx, come ci situiamo all’interno di questa storia. PRESUPPOSTO Questo testo viene scritto per provare a stimolare un dibattito rispetto a dei grumi, a dei nodi, che chi scrive non riesce a superare. La speranza è che le questioni presentate siano temi caldi per chi leggerà, con la volontà di generare riflessioni e scambi, di avanzare delle domande per intravedere un orizzonte comune. Come probabilmente chi legge, siamo statx nelle varie piazze dove, per questioni generazionali, abbiamo assistito a cose mai viste e, adesso, sentiamo di chiederci come andare avanti: ovvero, cosa sopravviverà di questi mesi. Siamo compagnx giovani che si sono trovatx per la prima volta in vita loro di fronte ad un effettivo movimento di massa. Forse a livello numerico la cosa più vicina fu il Fridays for Future, nel 2018/19, ma lontano per pratiche e discorsi, che infatti non produssero eccedenza. Tutto rimase nei ranghi delle modalità classiche del movimento sociale: ovvero un’aggregazione volta alla denuncia di una presunta distanza tra le volontà del Potere e le persone. Il movimento per la Palestina, invece, soprattutto negli ultimi mesi, ha visto rivolte, blocchi e occupazioni attraversare l’Italia. È diventato sì un movimento di massa, ma ha visto l’emergere di nuove soggettività, la messa in campo di nuove pratiche, e così via. Come diremo più avanti, questo non è affatto un testo autocelebrativo, nè intendiamo esaltare il lavoro delle componenti soggettive (gruppetti, aree politiche, partitini di sinistra etc.), il cui ruolo è tutt’al più cavalcare i movimenti di massa, o dare loro un’infrastruttura organizzativa nei migliori dei casi. No; l’attenzione la poniamo invece sull’eccedenza, su quella fascia di popolazione che è emersa con nuove pratiche, che ha saputo strabordare da quelle classiche dei movimenti sociali o dei discorsi umanitari. Riteniamo sia grazie a questa componente soggettiva che il movimento per la Palestina sia diventato al contempo di massa e conflittuale, e non per le scelte politiche di chissà chi –che anzi il più delle volte agiscono da pacificatori e limiti interni. Il presupposto è quindi questo: concentrare l’attenzione sulle nuove pratiche di piazza, a quali soggettivazioni corrispondono, senza nessuna volontà autocelebrativa; perché come si diceva prima, è il conflitto che ci definisce, non il contrario. Per questo motivo, l’attenzione del testo è sulle forme evidenti di conflitto che hanno definito le piazze nei mesi di settembre, ottobre e novembre; non vuole essere assolutamente un’analisi complessiva su questi due anni di mobilitazioni, né tantomeno una perlustrazione di tutte le forme di lotta che si sono utilizzate, né di dare una gerarchia della conflittualità, cosa davvero poco interessante. Ci concentriamo su quelle dinamiche di piazza in cui il conflitto e la violenza sono diventate una questione collettiva; senza sminuire altre pratiche, come ad esempio i blocchi degli hub logistici (come è successo a Pioltello Limito), che creano effettivi danni economici ad aziende. Per chiarezza, quando usiamo il “noi” in questo testo, non vogliamo identificarci in un’area politica delimitata, o in una soggettività militante precisa. Il “noi” è quell’insieme di compagnx che si sentono toccatx dalla nostra stessa urgenza, ovvero interrogare il conflitto, a prescindere dalle aree politiche, dal fatto che si organizzino in strutture militanti o no. Insomma, il “noi” è chi assume la “disposizione etica a condividere ciò che è comune”, ovvero il comunismo di Tiqqun. Il comunismo lo troviamo tra i fumi dei lacrimogeni e in un cassonetto ribaltato per fare una barricata, più che nei programmi politici o altro. TEMPORALITA’ DELLE ECCEDENZE E DEI DISPOSITIVI Questo testo non può essere preciso: non si può essere ovunque, per quanto ci si provi, ed è quindi possibile scambiare lucciole per lanterne, o ingigantire piccole novità, tanto quanto perdersi pezzi per strada, e non cogliere qualcosa. Nonostante questo, proviamo a darci degli strumenti di analisi. Dal 22 settembre, in particolare a Milano, passando per il 4 ottobre a Roma, il 7 ottobre e Bologna e arrivando al 14 ottobre di Udine, si sono viste piazze che hanno ecceduto nelle pratiche di strada senza però far saltare gli schemi classici dei movimenti sociali. Questo è successo generalmente in tutta Italia, dove cortei anche pacifici strabordavano i centri cittadini per andare a occupare tangenziali, autostrade, stazioni e aeroporti, bloccando gli spazi della circolazione delle metropoli. Questa eccedenza si è presa la scena, accompagnando liminalmente i vari obiettivi o motivazioni di fondo che spingevano le persone a manifestare. La rabbia che hanno espresso queste date non era organizzata, mediatizzata o concordata, ma appunto esprimeva un sentimento di indisponibilità, di violenza, di rivalsa, di possibilità; una rabbia ingovernabile spinta dal puro istinto di sopravvivenza. Però per chi ha attraversato le mobilitazioni di questi mesi, questa traiettoria sembra già spegnersi, o quantomeno tornare nel sottosuolo. La piazza di Bologna del 21 novembre ha di fatto riconsegnato questa mobilitazione al movimento sociale, inteso come dispositivo mediatico, organizzato in accordo con la polizia, circondato dai soliti discorsi e le solite pratiche reiterate, pacificando così ogni possibilità di scontro reale. Le due giornate per la Palestina del 28 e 29 novembre invece hanno riportato migliaia di persone sotto gli interessi dei partiti di sinistra o di aree politiche extraparlamentari, che mettendosi in testa al movimento hanno tolto spazio alle pratiche più conflittuali. Settembre e ottobre 2025 hanno segnato la riproduzione di pratiche conflittuali allargandosi e così eccedendo rispetto alle forme classiche dei movimenti sociali. Il conflitto è sempre latente e noi ci aspettiamo che nei prossimi mesi riemerga, ma nelle piazze di novembre ha visto un arresto, con il ritorno del dispositivo movimento sociale (concetto approfondito nei link a fine testo). PUNTO DI PARTENZA Il movimento o, meglio, il conflitto che emerge da questo movimento, in particolare degli ultimi mesi, ha visto la solidarietà alla resistenza palestinese aprire contraddizioni e spazi di agibilità su diversi temi. Si sono individuate varie connessioni tra un “lì” e un “qui” come piattaforme per analizzare il mondo a noi circostante, ma questo lavoro di preparazione, informazione e divulgazione politica non è solo ciò che ha attivato le persone portandole a scendere in strada. Non per sminuirne l’importanza, o screditare il lavoro fatto: il tempo della controinformazione si è già in gran parte esaurito. Infatti, chi è scesx in piazza tra settembre e ottobre 2025 non crediamo l’abbia fatto contro il tecno-controllo o l’imperialismo, per il de- colonialismo, o l’intersezionalità, e così via; queste sono categorie di interpretazione nostre e di natura politica, ma che raramente aderiscono perfettamente alla quotidianità di chi sopravvive e lotta nelle nostre città. La ricerca di un linguaggio comune o di una causa superiore che unisce tuttx è solo un modo per provare a leggere l’illeggibile, facendo rientrare il tutto in canoni discorsivi e dialogici. Il tentativo di questo testo è proprio cercare di togliersi queste lenti di analisi strettamente politica della realtà, e porre invece l’attenzione sulla concretezza dei motivi per i quali le persone si rivoltano, che non pensiamo si trovino in questi “grandi temi” appena citati. C’è qualcosa di prepolitico, e ante-politico, alla base di questa emersione autonoma del conflitto negli ultimi mesi. Chi tirava indietro i lacrimogeni, ribaltava un cassonetto, resisteva a una carica della polizia, non pensiamo l’abbia fatto per presa di posizione morale e ideologica; questo si dà, più che altro, nei gruppi già militanti di sinistra, spesso restii al conflitto sociale, se questo non prende le forme ideologiche di loro gusto. Piuttosto, le soggettività protagoniste del conflitto spesso si attivano a partire dall’odio, dal bisogno, dal disgusto: prima della politica ci sono le viscere, ovvero un sentimento prepolitico di sopravvivenza in un mondo in cui il vivere è sempre più lontano. E quindi le cause di questa emersione autonoma del conflitto non rientrano più nella sfera della denuncia – di questa o quella istituzione, azienda, banca, etc. – né nella sfera dell’ideologia politica. Anche se importante, non è sicuramente grazie al lavoro “politico” che la gente in strada ribaltava cassonetti e rilanciava i lacrimogeni. Per quanto il lavoro militante sia necessario per collettivizzare conoscenze e coscienze, non può paternamente considerarsi protagonista né promotore del conflitto sociale. E allora cosa ha portato all’attivazione di sempre più persone? A cosa è dovuto questo innalzamento della conflittualità di piazza, della collettivizzazione e riproduzione di pratiche di strada? Avanziamo due proposte. Per chiarezza, quando usiamo i termini prepolitici o ante-politica, non li usiamo in maniera dispregiativa, o infantile, anzi l’opposto. Vogliamo però concentrare l’attenzione sui processi che spingono le persone in piazza a rivoltarsi contro la polizia; il perno di questi processi non pensiamo sia da ricercare nella politica classica del movimento sociale (denuncia, indignazione, auto-rappresentazione, etc.), in un lessico comune, o nel discorso umanitario, ma in una sfera situata prima di questa, ovvero quella della vita o, meglio, della sopravvivenza e dell’autoconservazione. È questo istinto, che non trova una lingua collettiva nella sfera della politica, e che non ha cause ideologicamente leggibili, se non la mera sopravvivenza, che pensiamo sia alla base dell’emersione autonoma del conflitto. Ed è questo slancio vitale che invalida le costruzioni politiche e ideologiche su quanto succede, lasciandoci con più domande che risposte. “Non vediamo l’insufficienza della nostra città, e crediamo naturale l’insufficienza delle nostre vite. Per uscire da questo condizionamento, dobbiamo ricercare un altro uso del paesaggio urbano, cercare passioni nuove: non possiamo aspettarci niente da ciò che non abbiamo modificato noi stessi” Guy Debord, Sur le passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de temps FALCE E ALGORITMO Avanziamo l’idea che la situazione che si è data da settembre a novembre sia la sintesi di due processi di soggettivazione, opposti tra di loro e fondamentali per l’emersione del conflitto. Fondamentali, quindi, anche per capire il conflitto. Ovviamente, sono i due che vediamo come “nuovi” sulla scena, ma sicuramente non gli unici ad esistere. Soggettività algoritmica Con questo termine, vogliamo indicare quel processo di soggettivazione, e di consequenziale attivazione, indissolubilmente legato al ruolo dei social network. Non per essere tecno-positivisti, o al contrario primitivisti, ma non si può non comprendere l’importanza degli algoritmi nei processi di soggettivazione; l’accezione di questa importanza è per noi neutra. Le piazze si sono riempite perché il continuo bombardamento social di immagini, sia di distruzione di Gaza che di attivazione di massa, hanno imposto una scelta morale di attivarsi a chi le guardava. Le intifade studentesche dell’estate 2024 sono state anticipate da qualche mese di costante esposizione ai video delle occupazioni americane, delle loro barricate, e così via. Se non ci fosse stato questo boost algoritmico di quello che succedeva lì, non sappiamo se ci sarebbe stata la stessa risposta di massa studentesca all’appello ad occupare. La stessa dinamica si è data quest’estate e successivamente nei mesi da settembre a novembre. Porre l’accento sulla soggettività algoritmica, cioè la fetta di popolazione che si è attivata a partire dalle immagini spinte sui social, non è un modo per delegittimare la sua azione, né cercare un ruolo salvifico nei social network. Piuttosto ne parliamo nel tentativo di capirne i punti di partenza, e per capire i periodi di riflusso e di “bassa”, a cui adesso andiamo oggettivamente incontro, più che giudicare le forme di attivazioni, o i motivi alla base di essa. E come i social network hanno un ruolo nel far attivare le persone, così possono anche disattivarle, caricarle di un dolore ingestibile e debilitante, come spesso succede con le immagini che riceviamo dalla Palestina (la cosiddetta pornografia del dolore) che hanno invaso i nostri spazi di vita creando un fortissimo senso di impotenza. Questo non pretende di essere un discorso nuovo, ma piuttosto uno snodo su cui continuare a riflettere sulle forme di attivazione, la loro costanza, la loro incisività, e le pratiche di piazza che vi corrispondono, che sono in effetti le cose che ci interessano, ovvero i modi in cui il conflitto emerge. La questione è quindi capire il rapporto tra processi di soggettivazione e le corrispettive pratiche di piazza. Prendiamo come esempio l’attivazione di massa dovuta alla grande attenzione mediatica data alla Global Sumud Flotilla, che ha creato una bolla dell’informazione, esplosa appena sceso il clamore mediatico. Il discorso umanitario alla base della Flotilla, e la bolla algoritmico-mediatica che l’ha accompagnata, hanno portato a una mobilitazione di massa, che è però rimasta per lo più dentro gli schemi dei movimenti sociali classici di sinistra (piazze molto numerose ma pacificate, politica della denuncia, tentativi egemonici di aree o partitini, etc.). Si può dire, in termini molto generali, che questo processo di soggettivazione ha interessato soprattutto studentx, sia di scuole superiori che università, e fasce di popolazioni di sinistra, caratterizzate generalmente da un’attivazione etico-morale e da una condanna e un rifiuto della violenza di piazza, tanto che appunto le pratiche consequenziali a questa attivazione da parte di queste fasce di popolazioni sono quelle pacifiche. Non è questa la componente eccedente a cui ci rifacciamo, come non lo è quella componente militante che ha aderito a queste chiamate più per tornaconti che per un reale interesse nel conflitto. Ma è qua che si situa la contraddizione, sintomo della complessità caotica dell’emersione autonoma del conflitto. Questa soggettivazione algoritmica, ovviamente non da sola, e il discorso umanitario della Flotilla, hanno portato milioni di persone in piazza; una parte di questa, quella che si può definire “eccedente”, ha colto queste occasioni per entrare in gioco, e ridefinire le piazze in senso conflittuale, e non più di denuncia o rappresentazione. Tra fine settembre e inizio ottobre, con le due date simboliche del 22 settembre a Milano, e il 4 ottobre a Roma, grazie appunto a questa componente eccedente (che eccede dai discorsi e dalle pratiche classiche della militanza di sinistra), da piazze e scioperi legati al discorso umanitario della Flotilla, si è passati a scenari di rivolta urbana, che hanno quindi ecceduto rispetto alle motivazioni alla base di queste chiamate. Questo non pensiamo sia dovuta ad una casualità, ma appunto all’incrocio di questi due processi di soggettivazione. Abbiamo parlato del primo, quello algoritmico, ora parliamo del secondo, la falce. Les Jacquerie Il secondo processo di soggettivazione su cui vorremmo porre l’attenzione e dibattere l’abbiamo chiamato “jacquerie”. Con questo termine, tagliando con l’accetta, ci si riferisce alle rivolte dei contadini che nel ‘500 attraversarono l’Europa, tra cui anche il nordest italiano (Val di Non in Trentino, Mestre e Udine, territori di chi scrive questo testo, o in cui les jacquerie è tornata, come il 14 ottobre a Udine). Queste rivolte sono un po’ uno spasmo nella storia, una lotta contro l’accumulazione originaria, una lotta anticapitalista in un momento storico pre-capitalista; un primo sussulto di lotta di classe. Venivano bruciati castelli dei principi dai contadini che facevano sempre la fame, e protette le scorte di grano per evitare che abbandonassero le città e venissero esportate. Non c’erano particolari rivendicazioni politiche, e mancava soprattutto qualsivoglia organizzazione organica a questi spasmi di classe, a questa emersione autonoma del conflitto, a questa storia di chi non è nella storia. A queste rivolte si intrecciavano le riforme religiose e le consequenziali guerre, generando appunto quel fermento che fece tremare il potere religioso ed imperiale in tutta Europa. Per chi scrive, settembre e ottobre somigliavano a un ritorno delle jacquerie nelle metropoli contemporanee, ovviamente di portata e intensità infinitamente minore, ma che ne raccolgono certe specificità e peculiarità. Le rivolte che hanno caratterizzato le grandi date in varie città italiane non avanzano effettivamente nessun tipo di richiesta politica, o istanza comune, se non una generica indisponibilità nel farsi governare, e uno slancio vitale alla sopravvivenza in un mondo in cui guerra e sterminio sono tornati in diretta. Resistere alle cariche della polizia non corrisponde ad altro che all’odio per questo mondo, la voglia e il piacere di vederlo in fiamme. C’è stata un’eccedenza di pratiche di piazza, che non trova un corrispettivo negli slogan, nei programmi politici di chi prova a mettersi a capo di queste mobilitazioni, a chi ci sta dentro per tornaconti di area. Anche qua, non si tratta di esaltare questo sentimento “ante politico” della rivolta, che non trova spiegazioni politiche o ideologiche, ma di capire il processo di soggettivazione che porta la gente in piazza in un determinato modo che si è dato tra settembre, ottobre ed è finito a novembre. Come detto prima, l’interesse è nel legame tra processo di soggettivazione e pratica di piazza: in questo caso il processo di soggettivazione della jacquerie, che riassunto potremmo definire come slancio vitale alla sopravvivenza, indisponibilità a farsi governare, ha portato all’eccedenza delle pratiche classiche del movimento sociale, sfociando così in situazioni di rivolte urbane, conflitto reale e non pacificato, mediatico, organizzato o concordato; è questo sentimento di jacquerie che sta alla base della soggettivazione e attivazione delle fasce di popolazione scese in piazza negli ultimi mesi. Si scende in strada perché in pericolo c’è la vita umana nella sua totalità, più che per altri motivi politici (opposizione al tecno-controllo, antimperialismo, intersezionalità, de colonialismo); ovviamente ci sono persone che manifestano anche per questi motivi politici, ma l’eccedenza di soggetti e pratiche non è data da questi, ma da altro. Perché appunto l’emersione autonoma del conflitto è dovuta a questa eccedenza qua, che, come dicevamo prima, si riferisce all’attivazione di soggetti che non stanno inquadrati negli schemi militanti, che non ne condividono un lessico comune; non si sa chi sono, sono i nuovi barbari che parlano la lingua della rivolta, del cassonetto in fiamme come strumento di difesa della vita. Non si tratta di mitizzare soggetti o azioni, ma di provare a prenderle per quello che sono, ovvero un’eccedenza rispetto al già visto e già sentito. I dispositivi del movimento sociale (pacificazione, autorappresentazione, scontro mediatico e concordato) e del discorso umanitario (Flotilla) non hanno intrappolato queste pratiche, che ne sono quindi eccedute, rompendo gli argini della pacificazione per imporre il discorso della violenza, della rivolta, dell’insubordinazione. Ovviamente, non si sono imposte definitivamente, tanto che le rivolte sono state puntuali nel tempo e nello spazio, non si sono diffuse e non sono state durature; già a novembre si è notato quanto la rabbia sia rientra negli argini del movimento sociale, non riuscendo più ad eccederlo. Ma è questa eccedenza, di soggetti e pratiche, che brevemente ha imposto una nuova lingua, quella barbara della rivolta, che non ha nessun significato se non nell’azione in sé, che non parla a nessunx e non dice nulla, proprio come i contadini del ‘500. La potenza del “bloccare tutto” non sta tanto nei danni materiali che si fanno al nemico, ma quanto invece nella naturale e spontanea occupazione di stazioni, autostrade e tangenziali, in quanto strutture della circolazione del genocidio, e la consequenziale tattica diffusa di colpirle. Per quanto l’obiettivo di questo testo sia molto diverso da quello del libro Riot. Sciopero. Riot di Joshua Clover, è interessante provare a metterli in comunicazione. Come già detto, il senso di questo testo non è andare alla radice dei motivi per i quali la gente scende in piazza, o capire chi scende in piazza, o cercare spiegazioni politiche nella situazione. Si tenta di evidenziare dei processi di soggettivazione e le consequenziali pratiche, tattiche, azioni, etc. È il cosa che interessa, non il chi. Ma giusto per ampliare il discorso e lasciare uno spunto di riflessione più ampio, ci sentiamo di porre questa questione. In questo libro Clover concentra l’attenzione sull’alternarsi dei riot e degli scioperi, dove i primi corrispondono a lotte nella circolazione, i secondi nella produzione. Le prime corrispondono a un momento in cui a rischio è la riproduzione della vita, contrapposte alle lotte fatte sul luogo del lavoro, legate quindi ai salari e agli scioperi. Il genocidio in corso dimostra la possibilità algoritmica di sterminare una popolazione con la complicità dell’Occidente tutto; a rischio c’è la vita umana su questo pianeta, e la sua riproduzione, e da questa consapevolezza ritornano le jacquerie, le lotte nella sfera della circolazione, in quanto gridi di battaglia di fronte al nuovo sterminio. Ma anche di più. Le jacquerie e le prime lotte sul piano della circolazione, si opponevano inconsapevolmente all’accumulazione originaria alla base dell’ascesa del capitalismo. Sono state il primo sussulto di lotta di classe, al contempo pre e anticapitaliste. Oggi ci troviamo di fronte a una nuova accumulazione originaria, fatta sì di profitto, ma anche di tecnologie di sterminio, che è l’accumulazione del capitalismo di guerra. Le rivolte di settembre e ottobre, che hanno ecceduto il centro cittadino, andando a strabordare negli spazi della circolazione del capitale, del profitto, del genocidio e della guerra, sono l’ultimo e primo grido di battaglia contro l’accumulazione originaria del capitalismo della guerra. “La logistica è l’arte della guerra del capitale”, scrive Clover. Questo discorso va in contraddizione con quanto detto finora, perché appunto ricerca delle spiegazioni politiche nelle lotte contemporanee; non è questo ciò che vogliamo fare, ma pensiamo sia utile al dibattito. CONCLUSIONE E MATERIALE PER IL DIBATTITO I cicli di lotta si chiudono, e non ci possiamo fasciare la testa. Il conflitto emerge, salvo poi tornare nel sottosuolo, e non siamo noi a decidere su questo. Ci possiamo però fare delle domande. Cosa hanno prodotto questi mesi di mobilitazione per la Palestina? Il conflitto che si è dato è riuscito brevemente a mettere in crisi i vari dispositivi di controllo, abolendo ogni “linguaggio comune” a favore di un’unica grammatica della rivolta, strabordando quindi i movimenti sociali, la pacificazione, lo scontro mediatico ed organizzato, il discorso umanitario. Ma perché a novembre, rispetto settembre e ottobre, tutto è tornato all’interno delle solite dinamiche, e questo conflitto si è già spento? Come possiamo essere un tramite, una forza che spinge il conflitto, da opporre a chi lo vuole pacificare o mediatizzare? Pensiamo queste siano delle domande su cui ragionare collettivamente per, come si diceva inizialmente, cercare di farsi trovare prontx di fronte alla prossima emersione autonoma del conflitto. Per questo motivo condividiamo pubblicamente questo testo, per cercare di costruire un dibattito sul conflitto, che parta dal conflitto in quanto rapporto sociale. Condividiamo anche dei testi che pensiamo coerenti per il dibattito. Il primo, scritto a partire dalle mobilitazioni dei Jilet Jaunes in Francia e dalle George Floyd Rebellion in America, spiega molto bene il concetto di “dispositivo movimento sociale”, in questo testo più volte richiamato. Il secondo testo condiviso ha come focus di analisi lo stesso nostro, ovvero il conflitto emerso dalle mobilitazioni per la Palestina. Il terzo è una riflessione più generale sul conflitto. Buona lettura! > Meme senza fine https://www.nigredo.org/2025/10/30/non-vogliamo-la-pace-note-sulle-mobilitazioni-per-lapalestina/ https://illwill.com/autonomy-in-conflict
Lo sgombero di Askatasuna riguarda tutti noi
L’azione violenta del governo contro il centro sociale torinese è un attacco a tutte le forme di resistenza sociale e dissenso di Salvatore Cannavò, da Jacobin Italia Ci sono azioni che costituiscono punti simbolici di rottura. Lo sgombero di Askatasuna, il centro sociale torinese protagonista di innumerevoli lotte a partire da quella contro il Tav Torino-Lione, è uno di questi. Scegliendo l’azione di forza da parte della polizia, quindi del governo, l’esecutivo alza trionfante lo scalpo di una realtà particolarmente indigesta e che vuole essere un monito alle varie resistenze sociali.  L’operazione  è avvenuta all’alba, senza una disposizione giudiziaria, nel bel mezzo di una trattativa tra il centro sociale e il Comune di Torino, a guida Pd, per una riassegnazione di spazi adeguati e a pochi giorni di distanza dall’azione dimostrativa che viene utilizzata come pretesto per colpire questa realtà sociale, l’occupazione della redazione della Stampa per manifestare contro la detenzione dell’imam di Torino (poi liberato nei giorni successivi). Azione discutibile, quella alla Stampa, avvenuta tra l’altro in spazi lasciati vuoti dallo sciopero dei giornalisti, stigmatizzata dall’intero arco costituzionale e dalla gran parte dei commenti giornalistici paragonata addirittura a una violenza fascista. E invece, la violenza, quella vera, tangibile, misurabile con effetti duraturi sia umani che politici, è oggi quella di Stato che si erge a giudice supremo della legittimità delle lotte sociali. Può sembrare un paragone azzardato, ma la soddisfazione governativa per aver conquistato il fortino di Askatasuna somiglia a quella delle camicie nere che assaltavano le case del popolo. Lo dimostra la lista infinita di dichiarazioni che provengono dai piani alti della maggioranza politica, contenti di esibire al proprio elettorato il volto di un governo forte e autorevole che non si piega davanti a nessuno. Ha cominciato il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, con un messaggio di «vittoria» sui social, ma si è scomodato persino il ministro degli Esteri, il saltellante anticomunista Antonio Tajani, che ha commentato la notizia  con un «era ora».  «Era un bene comune dei violenti, di quelli che hanno aggredito La Stampa – dice Tajani – che vanno a fare danni contro la Tav, sono quelli che fanno violenza ogni giorno per le strade di Torino. Era giusto che si liberasse questo centro sociale perché non si può sempre avere la possibilità di fare ciò che si vuole violando le leggi, e questi signori l’hanno fatto più volte e con violenza. Sono pericolosi, ed è giusto che il centro sociale sia stato liberato, sono anche qui d’accordo con il ministro Piantedosi». Il volto della repressione di Stato non può essere più esplicito di così.  Ma non è solo Tajani, ovviamente. Nel corso della giornata ci sono state dichiarazioni di ministri, sottosegretari, capigruppo e semplici parlamentari, in un’abbuffata di soddisfazione e gioia inusitati. E a questa parata di regime le opposizioni, il Pd e il M5S in realtà, non hanno saputo far meglio che invocare l’analogo trattamento, lo sgombero, anche per i fascisti di Casa Pound e il loro stabile occupato a Roma. Come se un’azione punitiva nei confronti dell’occupazione di marca fascista potesse giustificare quanto avvenuto a Torino. Sorprende, ma forse nemmeno troppo, che una parola di lucidità venga dal mondo dello spettacolo: «Ciò che è evidente, è che oggi abbiamo assistito a un’esibizione di forza repressiva sulla quale alcuni esponenti della destra nazionale e locale hanno già fieramente messo il cappello. Peccato che per farlo abbiano dovuto forzare i fatti a beneficio di narrativa». Lo ha detto Max Casacci dei Subsonica il quale ricorda opportunamente che «non esiste una relazione diretta tra lo sgombero e una ‘ferma risposta’ a recenti episodi violenti, tra cui l’irruzione nella sede della Stampa, su cui sono in corso indagini». E infatti, se il garantismo giuridico non valesse solo per i colletti bianchi e gli amici della politica finiti sotto le attenzioni della magistratura, si capirebbe facilmente che un conto è la persecuzione legale per un’azione come quella alla Stampa, altra cosa è l’azione violenta e repressiva contro un’esperienza sociale. Una condanna per quanto avvenuto nella redazione del giornale piemontese dovrebbe essere espressione di un regolare processo giudiziario, del suo dibattimento, di una pubblica accusa davanti a una difesa legale. La condanna non può essere comminata da Giorgia Meloni e Matteo Piantedosi via forze di polizia. Per questo rappresenta letteralmente quel che sembra: uno Stato di polizia.  Ed è davvero deprimente la coazione a ripetere del Pd che evidentemente non vedeva l’ora di tirarsi via di dosso l’accusa, da parte della destra, di fiancheggiamento degli estremisti di Askatasuna e che ora può tornare – dopo aver avviato la trattativa per assegnare definitivamente uno spazio al centro sociale – a mimare la maschera dell’ordine costituito. Lo sgombero di Askatasuna è più di un errore, è un crimine. Come sostiene una struttura che non è certamente tacciabile di estremismo, l’Arci, «rappresenta una scelta grave e miope, che colpisce non solo uno spazio fisico, ma un’esperienza sociale, culturale e politica che da decenni fa parte della storia di Torino». Per il governo però, come detto, è uno scalpo da esibire, un esempio della propria concezione repressiva, ma anche una vendetta per quanto accaduto all’imam di Torino. Incarcerato e pronto per essere espulso sulla base di una misura di polizia, il suo rilascio da parte della magistratura, sulla base delle carte e delle evidenze giudiziarie quindi sulla base dello stato di diritto, è stato vissuto come un affronto da parte di un governo che sulla volontà di esercitare la massima forza repressiva non è certamente tacciabile di ipocrisia. Anzi, il governo cerca lo scontro con la massima determinazione, sia per inviare messaggi al proprio elettorato che al fronte avverso, ai movimenti innanzitutto, con una intimidazione evidente e crescente.  Repressione, quindi, vendetta postuma rispetto allo smacco subito sull’imam e poi ancora l’ennesimo messaggio relativo alle mobilitazioni di solidarietà con Gaza e i palestinesi. Askatasuna è stata l’epicentro delle mobilitazioni torinesi e quel movimento, che nelle scorse settimane ha attraversato le piazze di tutta Italia, continua a rappresentare un vulnus nell’operazione di tacitazione sociale cara al governo Meloni. Un’anomalia mal sopportata, come si è visto anche dalla presenza del presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmud Abbas, alla festa Atreju di Fratelli d’Italia: un’esibizione, priva di risvolti politici concreti, per cercare di smentire il pieno appoggio che il governo italiano ha dato e continua a dare a Benjamin Netanyahu, ma utile per scrollarsi di dosso l’immagine di governo «complice del genocidio», accusa che Meloni ha subito come un affronto. Ogni occasione è buona per mandare un messaggio minatorio sul terreno della solidarietà alla Palestina. Anche le reazioni scomposte alle parole di Francesca Albanese sull’azione contro la redazione della Stampa sono andate in questa direzione. E lo sgombero di Askatasuna ne rappresenta un altro tassello. Più in generale è un’operazione dimostrativa che colpisce chiunque manifesti e voglia opporsi. Portata avanti nel modo che più è congeniale a chi intende governare a colpi di fermezza e autoritarismo, affezionato per storia e cultura a questo linguaggio e ben lieto di rivendicarlo e mostrarlo con orgoglio ogni volta che è possibile. Non solo come effetto diversivo. Le misure contenute nella manovra di Bilancio su pensioni, fisco e tagli sociali chiedevano sicuramente di sviare l’attenzione del proprio elettorato. Ma la violenza di Stato esercitata a Torino va oltre: è una dimostrazione della natura profonda del governo, l’evidenza del suo Dna culturale, il collante che meglio di tutti tiene unita la destra italiana e che il governo Meloni, molto meglio di quanto abbiano mai fatto i governi di Berlusconi, ostenta con fierezza. Da vera patriota, come direbbe lei. Per questo, lo sgombero dell’Askatasuna riguarda tutte e tutti noi. *Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, 2018) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme, 2023).
L’economia genocida di Israele è sull’orlo del baratro?
L’economista Shir Hever spiega come la mobilitazione per la guerra di Gaza abbia alimentato un’”economia zombie” che sembra funzionare ma non ha prospettive future. Di Amos Brison – 16 dicembre 2025 Fonte: https://www.972mag.com Dall’ottobre 2023, Israele sta affrontando una convergenza di shock economici. Decine di migliaia di residenti sono stati sfollati dalle regioni di confine del Sud e del Nord a causa delle ostilità con Hamas e Hezbollah, mentre centinaia di migliaia di riservisti sono stati sottra dal mercato del lavoro per lunghi periodi, lasciando i settori chiave a corto di personale e con una produttività ridotta. I servizi pubblici, l’istruzione e l’assistenza sanitaria sono peggiorati a causa del dirottamento della spesa pubblica verso la guerra e quasi 50.000 aziende sono fallite. La fuga di capitali, in particolare nel settore dell’alta tecnologia, insieme alla crescente dipendenza dai prestiti esteri, ha aggiunto una notevole pressione all’economia, con un debito che dovrebbe raggiungere il 70% del PIL nel 2025. Anche la reputazione internazionale di Israele si è indebolita: gli alleati commerciali, un tempo stabili, si stanno allontanando, le sanzioni e i boicottaggi si stanno espandendo e i principali investitori stanno iniziando a guardare altrove. Un rapporto annuale sulla povertà pubblicato l’8 dicembre dalla ONG israeliana Latet sottolinea la gravità della crisi sociale. Le spese familiari sono aumentate drasticamente dopo la guerra, quasi il 27% delle famiglie e oltre un terzo dei bambini ora soffrono di “insicurezza alimentare” e circa un quarto dei beneficiari degli aiuti sono “nuovi poveri” spinti in difficoltà negli ultimi due anni. Eppure, allo stesso tempo, l’economia israeliana ha anche mostrato segni di resilienza. Lo Shekel si è rafforzato di quasi il 20% rispetto al dollaro statunitense dall’inizio della guerra e la Borsa di Tel Aviv ha raggiunto massimi storici, sostenuta in parte dalle spese militari e dall’intervento delle banche centrali. Per dare un senso a questi segnali apparentemente contrastanti, mercati in crescita insieme a crescenti turbolenze sociali ed economiche, è necessario guardare oltre gli indicatori tradizionali. Il ricercatore economico israeliano e attivista BDS Shir Hever sostiene che Israele stia ora operando in quella che lui definisce una “economia zombie”, alimentata da ingenti spese militari, credito estero e negazionismo politico. Dr. Shir Hever (Courtesy) Per oltre due decenni, Hever ha esaminato i legami tra l’economia israeliana, il militarismo e l’Occupazione. In un’intervista con +972 Magazine, spiega perché la crisi economica di Israele non può essere misurata semplicemente in termini di PIL o inflazione, e perché i pilastri che un tempo ne sostenevano la crescita, investimenti esteri, innovazione tecnologica e integrazione globale, stanno iniziando a erodersi. Discute anche dell’illusione di un’economia sostenibile in tempo di guerra, del costo sociale ed economico di una prolungata mobilitazione di massa e di come il crescente isolamento di Israele nei mercati globali possa segnalare l’inizio di un declino a lungo termine. L’intervista è stata modificata per motivi di lunghezza e chiarezza. Amos Brison: Per iniziare, se ipotizziamo che la guerra di Gaza, nella forma in cui è stata condotta negli ultimi due anni, sia finalmente terminata, si aspetta che l’economia israeliana si riprenda e, in tal caso, come potrebbe accadere? Shir Hever: Penso che sia importante chiedersi innanzitutto: riprendersi da cosa? Il problema economico di Israele è multiforme. Primo, vi è un danno diretto alla produttività a causa dello sfollamento di decine di migliaia di famiglie dalle aree vicine ai confini con Gaza e il Libano, e dei danni diretti inflitti da missili e razzi in quelle aree. Secondo, il reclutamento di quasi 300.000 riservisti per un periodo di tempo molto lungo ha causato un calo notevole della partecipazione alla forza lavoro. Ha anche cancellato innumerevoli giorni di formazione che erano stati investiti in questi lavoratori, in un momento in cui i mezzi per istruire e formare i sostituti sono ben lungi dall’essere pienamente disponibili. Terzo, la classe media istruita in Israele sta iniziando a considerare l’emigrazione, e decine di migliaia di famiglie sono già emigrate. Passengers at the departure hall at Ben Gurion International airport, near Tel Aviv, September 18, 2025. (Chaim Goldberg/Flash90) Quarto, la crisi finanziaria: molti israeliani hanno portato i propri risparmi all’estero in previsione dell’inflazione, a cui si è aggiunta la perdita di valore della moneta israeliana, il calo della valutazione creditizia di Israele e l’aumento del premio di rischio. Con il dirottamento delle risorse per la guerra, con i dati del governo stesso che mostrano l’acquisto di armi a credito per decine di miliardi di dollari, la qualità dei servizi pubblici e dell’istruzione superiore è diminuita drasticamente. Israele non è mai stato così vicino nella sua storia a cadere nella trappola del debito, una situazione in cui lo Stato è costretto a contrarre prestiti per coprire gli interessi sui prestiti più vecchi. Infine, e questo è molto importante, l’immagine di Israele è diventata tossica. Il Paese deve affrontare boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni a un livello mai visto prima. Le aziende israeliane si accorgono che gli ex alleati commerciali all’estero evitano di trattare con loro. Ho letto questo articolo su Ynet in cui hanno intervistato un gruppo di imprenditori israeliani che raccontavano di quanto si sentissero isolati e di come i loro alleati commerciali, anche quelli di lunga data, affermassero di non voler più avere niente a che fare con loro. Hanno descritto come, persino in “Paesi molto amici di Israele”, sia stato detto loro “per favore, cancellate tutti i verbali di questo incontro, non vogliamo che nessuno sappia che ci siamo incontrati con voi”. Molto probabilmente si riferivano alla Germania, dato che la fiera IFA si era appena tenuta a Berlino prima dell’intervista. Amos Brison: Negli ultimi mesi lei ha descritto l’economia israeliana durante la guerra di Gaza come un’”economia zombie”. Potrebbe spiegare cosa intende? Shir Hever: La chiamo economia zombie nel senso che è un’economia che si muove ma non è consapevole del proprio stato di crisi o della sua imminente fine. People shop at the Ayalon shopping mall during the Passover holiday, in Ramat Gan, April 14, 2025. (Miriam Alster/Flash90) Un’economia capitalista si basa sull’idea di un orizzonte futuro costante. Non si può avere un mercato capitalista senza investimenti, e gli investimenti si basano sull’idea di investire denaro ora per ottenere un profitto in futuro. Ma in Israele, il governo ha approvato un bilancio slegato dalla spesa effettiva, portando il debito fuori controllo, e la bozza del bilancio del prossimo anno è altrettanto delirante. Allo stesso tempo, molte delle persone più talentuose e istruite stanno lasciando il Paese perché non vogliono crescere i propri figli lì. Questo è esattamente l’opposto di un orizzonte futuro: uno Stato che pianifica per l’immediato piuttosto che per il lungo termine. Quindi, sebbene l’economia possa sembrare funzionante in superficie, ciò è dovuto in gran parte al fatto che una parte significativa della popolazione è stata mobilitata per il servizio di riserva, armata, equipaggiata, nutrita e trasportata per sostenere la guerra. La guerra è la principale attività economica intrapresa dal governo; anche ora, a due mesi dal cosiddetto cessate il fuoco di Trump, non c’è stata una restituzione di massa di riservisti alla vita civile. Haaretz ha calcolato che la distruzione della Striscia di Gaza è il più grande progetto ingegneristico nella storia di Israele. La quantità di cemento, materiali da costruzione, veicoli e carburante utilizzati supera la costruzione di HaMovil HaArtzi (la conduttura idrica nazionale), che è stato il grande progetto infrastrutturale ingegneristico degli anni ’50, e del Muro di Separazione in Cisgiordania, che è stato il grande progetto ingegneristico dei primi anni 2000. Quindi questa è in realtà un’economia che sembra funzionare, ma senza alcuna traiettoria per il futuro. Si basa su un’illusione. Amos Brison: Presumibilmente, tutti i riservisti che hanno prestato servizio in guerra e tutte le persone sfollate dalle loro case nel Sud e nel Nord, prima o poi torneranno a lavorare. Questo potrebbe permettere a Israele di sfuggire a una crisi economica? Shir Hever: Innanzitutto, molti di questi riservisti semplicemente non avranno un lavoro a cui tornare, perché più di 46.000 aziende sono fallite durante la guerra. C’è anche l’aspetto psicologico. Non sono qualificato per rispondere a cosa succede quando queste persone cercano di riprendere la vita civile, ma l’impatto sarà probabilmente drammatico. Ricorreranno alla violenza ogni volta che qualcosa li infastidisce, come hanno fatto per centinaia di giorni a Gaza? Avranno bisogno di un trattamento psicologico intensivo per gestire il trauma e il senso di colpa? Stiamo già assistendo a molti suicidi tra i soldati. Israeli soldiers who suffer from PTSD stage a protest demanding better rights and conditions, outside the Knesset, Jerusalem, November 3, 2025. (Chaim Goldberg/Flash90) Bisogna tenere presente che si tratta anche di persone che non hanno dedicato tempo a tenersi al passo con gli sviluppi delle loro professioni e che invece hanno commesso un Genocidio a Gaza, il che alimenta anche la crisi tecnologica e educativa. Le iscrizioni universitarie non hanno tenuto il passo con la crescita demografica, il che significa che Israele è sulla buona strada per diventare meno istruito a lungo termine. Poi ci sono i circa 250.000 israeliani sfollati dalle loro case vicino ai confini con Gaza o il Libano, che vivono da oltre un anno in hotel. Vivono con la convinzione che da un momento all’altro potrebbero essere invitati a tornare. È molto difficile trovare un nuovo lavoro in queste condizioni, poiché il loro compenso dipende dalla loro volontà di tornare nelle loro comunità di origine. In altre parole, devono scegliere tra obbedire alle condizioni del governo o rinunciare al loro compenso e lasciare il Paese, cosa che alcuni di loro hanno effettivamente fatto. Amos Brison: Tuttavia, vediamo il mercato azionario israeliano raggiungere nuovi massimi e lo Shekel è stabile. Come si spiega questo? Shir Hever: È importante notare che il mercato azionario non sta andando in una sola direzione. Ad esempio, è crollato dopo il “discorso di Sparta” di Netanyahu a settembre. La gente è andata nel panico quando ha detto questo, perché ha riconosciuto in una certa misura che Israele è stato colpito da sanzioni, boicottaggi e dall’isolamento economico. È stato un piccolo buco nel pallone dell’illusione. Ma ci sono altre ragioni per questo, una delle quali è che Israele ha cambiato le sue regole su quanto paga i riservisti, al punto che ora vengono pagati 29.000 NIS (7.640 euro) al mese, più del doppio dello stipendio medio di mercato in Israele e più di quattro volte il salario minimo. Alcuni ufficiali di carriera dell’esercito hanno persino lasciato l’esercito per poter rientrare come riservisti e guadagnare di più. Questi riservisti non avevano nulla su cui spendere tutti questi soldi perché si trovano a Gaza, quindi li hanno investiti in azioni, o li hanno depositati in una sorta di fondo fiduciario tramite una banca, il che significa che, di nuovo, finiscono in azioni. Questo continua a convogliare sempre più denaro nel mercato azionario, quindi ovviamente il mercato azionario è in rialzo. La domanda importante è da dove provengono questi soldi? Il direttore generale del Ministero delle Finanze ha osservato che questi pagamenti ai riservisti non sono ancora inclusi nel bilancio della difesa. Lo saranno a posteriori, e quando ciò accadrà, il divario tra il bilancio approvato e la spesa effettiva verrà a galla. A quel punto, mi aspetto che la valutazione creditizia di Israele diminuisca e che le banche internazionali siano molto timorose di commerciare con Israele. Oltre a ciò, l’enorme spesa sta anche aumentando l’inflazione, mentre la produttività non aumenta. Le persone con un reddito disponibile cercano di proteggere i propri risparmi investendo nel mercato azionario in rialzo, contribuendo alla bolla. Si crea quindi una sorta di stagflazione, in cui l’inflazione aumenta parallelamente a un rallentamento economico. La Banca Centrale israeliana ha gestito la situazione vendendo ingenti quantità di dollari, soprattutto all’inizio della guerra, il che ha creato l’impressione che tutto fosse sotto controllo e che Israele potesse permettersi di continuare a combattere. Questo trucco ha funzionato, e ha funzionato soprattutto sugli investitori internazionali. Ciò ha creato una situazione molto strana in cui, da un lato, gli economisti israeliani che scrivono in ebraico dicono: “Non è strano che le agenzie di credito stiano riducendo la valutazione di Israele solo di un livello? Credono ancora che il governo ripagherà i suoi debiti. Quanto possono essere ingenui?”. E dall’altro lato, le agenzie di credito, pur leggendo i media finanziari israeliani, si rifiutano di reagire. Penso che questa sia una forma di complicità da parte dei media finanziari internazionali. Temono che, se riportassero i fatti, verrebbero accusati di essere “anti-Israele”. Vedono come i governi di Stati Uniti, Regno Unito e Germania stiano diffondendo bugie e agendo come se Israele stesse semplicemente subendo una battuta d’arresto temporanea. Se i media finanziari contraddicono questi governi, rischiano la repressione, quindi preferiscono nascondere le informazioni ai loro lettori. Sulla base di queste informazioni parziali, anche le agenzie di valutazione hanno paura di prendere decisioni basate sui fatti. Amos Brison: Come si manifesta la situazione economica che stai descrivendo nella vita quotidiana degli israeliani? Shir Hever: C’è una differenza enorme tra la risposta del mercato azionario o della valuta e l’impatto effettivo sul tenore di vita. Un recente articolo del quotidiano finanziario israeliano The Marker ha calcolato il costo della guerra per famiglia (confrontando il tasso di crescita medio dell’economia israeliana con il tasso di crescita effettivo degli ultimi due anni) in 111.000 NIS (29.000 euro), una cifra molto elevata. Se oltre il 40% delle famiglie israeliane spende più di quanto guadagna ogni mese, significa che sono già in crisi. Si indebitano sempre di più ogni mese solo per sopravvivere: fare la spesa, pagare l’affitto, eccetera. L’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale israeliano non ha ancora pubblicato il suo rapporto ufficiale sulla povertà per il 2024, ma un rapporto alternativo dell’organizzazione della società civile Latet ha rilevato che molti israeliani che non sono ufficialmente classificati come persone che vivono al di sotto della soglia di povertà si trovano comunque in una grave crisi. La percentuale di persone che non sono in grado di acquistare cibo a sufficienza, classificate come insicure dal punto di vista alimentare, è aumentata di quasi il 29% nel 2025. Il rapporto ha descritto la situazione come uno “stato di emergenza”. Amos Brison: È noto che un’ampia percentuale di famiglie israeliane è in “perdita” da anni, ovvero ha scoperto i propri conti e ha acquistato a credito. Gli israeliani non sono già abituati a questa situazione? Cosa è cambiato durante la guerra? Shir Hever: La percentuale di famiglie israeliane che acquistano a credito e prelevano in scoperto dai propri conti è stata di circa il 40% negli ultimi cinque anni, ma durante la guerra sono state notate due differenze. La prima, i prodotti che le persone finanziano con il credito sono meno beni di lusso e più beni di prima necessità. La seconda, c’è una differenza tra le famiglie che mantengono un livello più o meno costante di prestiti bancari e pagano interessi ogni mese, e quelle il cui debito aumenta ogni mese e anche gli interessi aumentano, fino a quando non sono costrette a vendere i propri beni. Abbiamo visto sempre più spesso quest’ultimo tipo di famiglie durante la guerra. E nel frattempo, tutti i soldi del governo, tutti gli sforzi, tutte le risorse vanno alla guerra. Certo che la gente lo percepisce. Il costo della vita aumenta e il livello dei servizi governativi sta crollando, in termini di qualità dei trasporti, dei servizi sanitari e dei servizi educativi. Il reddito sta diminuendo per quasi tutti, tranne che per i riservisti, che, come abbiamo detto, non spendono più di quanto guadagnano. Amos Brison: Che dire del fatto che gli investimenti esteri rimangono elevati, in particolare le grandi “uscite” nel settore tecnologico? Questo non riflette forse che il modello economico israeliano, per quanto distorto, è sostenibile? Shir Hever: Se si escludono le “uscite” gigantesche come Wiz, la variazione netta degli investimenti è negativa, e profondamente negativa. Gli investimenti stanno calando drasticamente, soprattutto nel settore tecnologico. Ma anche se si esaminano attentamente queste uscite, si vedrà che l’importo che il governo israeliano dovrebbe riscuotere in tasse è ridicolmente esiguo rispetto all’entità dell’accordo. Nel settore tecnologico è molto comune che i lavoratori abbiano delle opzioni, il che significa che i dipendenti, soprattutto quelli ben pagati come i programmatori, possiedono effettivamente azioni dell’azienda. Quindi, se un’azienda straniera come Google acquista le azioni, in realtà le sta acquistando da loro. Quindi si arricchiscono, ma non spendono questi soldi in Israele, perché se ne stanno andando. I soldi vengono portati via. Queste uscite sono fondamentalmente il settore tecnologico israeliano che fugge dal Paese. Queste aziende hanno già un piede fuori dalla porta, e anche l’altro piede, che è ancora in Israele, vuole andarsene. Amos Brison: Ho sentito descrivere il comportamento di Israele durante la guerra di Gaza come una forma di keynesismo militare, suggerendo che si tratti di un approccio economico almeno in parte praticabile. Potrebbe spiegarlo meglio? Shir Hever: È innanzitutto importante notare che non esiste un keynesismo militare nel ventunesimo secolo, in nessuna parte del mondo. È una teoria sviluppata principalmente negli anni ’60, e durante la Guerra Fredda aveva un senso, in un modo oscuro e macabro. In sostanza, i governi degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale creavano posti di lavoro artificialmente, spendendo molti soldi in armi, invece di investire nello Stato Sociale, istruzione e una società sana, e convincevano l’opinione pubblica ad assecondarli per paura dell’annientamento nucleare. Ma poiché il valore produttivo delle armi è zero, anzi, negativo, dato che le armi distruggono anziché produrre, questo ha funzionato solo per un periodo molto breve. Negli anni ’70, ha causato una crisi, ed è stato allora che è nato il neoliberismo, che ha affermato che anche le spese militari devono essere tagliate. Ora, il Ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich ha questa fantasia: “Ehi, qual è il problema? Torniamo ai bei vecchi tempi degli anni ’60 e abbiamo una nazione in uniforme e invece di andare a lavorare, andremo a fare la riserva”. Ma non si può semplicemente tornare indietro. Il motivo è che ai tempi del keynesismo militare, il commercio globale era una frazione di quello odierno. Le aziende di consumo che soffrivano a causa del minor reddito disponibile non avrebbero potuto semplicemente trasferirsi in un altro Paese. Oggi, alcuni israeliani sono effettivamente bloccati in Israele per motivi personali, di salute e familiari, e non hanno altra scelta che operare come parte di un’economia militarista, nonostante il loro tenore di vita sia in declino. Ma il capitale non ha tali vincoli e può spostarsi in altri Paesi. Amos Brison: Che dire del Sudafrica durante l’Apartheid e della Russia oggi? Israele non potrebbe emulare quei Regimi nel modo in cui trasforma la sua economia in un modo che gli consenta di rimanere belligerante? Shir Hever: Innanzitutto, non dimentichiamo che il Regime di Apartheid in Sudafrica alla fine è crollato. Ma per anni è riuscito a sostenersi nonostante i boicottaggi diffusi perché era ricco di risorse naturali e aveva un’economia relativamente autosufficiente. Questo non è certamente il caso di Israele, che dipende fortemente dal commercio estero e non può mantenere la popolazione in uno stato di permanente prontezza militare. Israele dipende dalle importazioni di energia, materie prime, tecnologia, componenti e prodotti finiti per tutti i suoi settori, e dipende anche dalle esportazioni per autofinanziarsi e ottenere la valuta estera necessaria a sostenere le importazioni. Per quanto riguarda la Russia, ciò che credo possa spiegare la sua capacità di sostenere la propria economia è la vendita di armi, così come di petrolio e altre risorse naturali, ad altri Paesi. E qui, a mio avviso, sta la principale differenza tra Russia e Israele. Perché la Russia, a seguito della guerra in Ucraina, ha effettivamente ampliato la sua influenza internazionale. Ci sono Paesi come Cina, India, Iran e Turchia che vedono un potenziale nel migliorare le relazioni con la Russia, mentre Israele, al contrario, non sta esattamente prosperando diplomaticamente a causa della guerra, e di fatto si sta isolando dai suoi stessi alleati. Israele ha cercato di costruire nuove alleanze e partenariati commerciali al di fuori dell’Occidente, ma il tentativo è ampiamente fallito. L’Europa rimane il principale alleato commerciale di Israele, seguita dagli Stati Uniti. Gli Accordi di Abramo sono stati presentati come una nuova frontiera per l’influenza e le alleanze israeliane, ma in pratica sono poco più di una collaborazione nel commercio di armi, precedente agli accordi stessi. Tuttavia, dopo che gli Emirati Arabi Uniti hanno bandito le aziende israeliane dalla fiera delle armi di Dubai in seguito all’attacco israeliano a Doha, resta da vedere cosa ne sarà rimasto degli Accordi di Abramo. Amos Brison: Fino a poco tempo fa, lei era anche il coordinatore dell’embargo militare nel comitato ufficiale del movimento BDS. Quindi sono curioso di sapere cosa pensa della campagna per un embargo sulle armi contro Israele dopo due anni di guerra e in prospettiva futura. Shir Hever: Quando ho iniziato il lavoro nel 2022, credevo fermamente nella campagna per l’embargo militare, ma pensavo che sarebbe stato probabilmente l’ultimo aspetto del BDS ad avere successo, perché i singoli individui non possono davvero boicottare le armi. Mi aspettavo di vedere prima campagne di boicottaggio contro le aziende di consumo, poi campagne di disinvestimento e infine, con l’inasprimento delle sanzioni, un embargo militare. Quindi stavo pianificando a lungo termine. Ma poi, quando Israele ha iniziato a commettere un Genocidio, mi sono ritrovato seduto di fronte a ministri di diversi governi e a dire loro che è contro la legge per il loro Paese commerciare armi con Israele. E loro si agitavano sulle loro sedie e non avevano altra scelta che ammettere che questo è un dato di fatto. Si sono quindi trovati in una situazione molto difficile, e molti governi hanno effettivamente preso provvedimenti. Non abbastanza e non abbastanza rapidamente, possiamo sempre chiedere di più, e dovremmo chiederlo di più, ma se guardo solo alla velocità con cui gli embarghi militari sono aumentati in diversi Paesi, soprattutto nel Sud del mondo ma anche in Europa, è davvero incredibile. E non è paragonabile ad altri casi di Genocidio. Certo, la maggior parte del mondo non si preoccupava molto delle relazioni con il Regime ruandese, quindi rispettava il Diritto Internazionale e imponeva un embargo militare. Ma ci sono stati Paesi, come Israele, che hanno violato l’embargo e non sono stati puniti per questo. Ora, tuttavia, vediamo che nei Paesi che non impongono l’embargo militare, i lavoratori portuali nei porti dicono: “Beh, in tal caso, abbiamo l’obbligo legale e morale di non caricare le armi sulle navi”. E gli Stati Uniti, che sono il principale fornitore di armi a Israele, e, naturalmente, il più Complice e il più interessato a prolungare il Genocidio, hanno ancora un serio problema logistico perché le armi devono passare attraverso l’Europa per raggiungere Israele. Non è tecnicamente fattibile farlo altrimenti. Per questo motivo, anche i trasferimenti di armi statunitensi a Israele ne subiscono le conseguenze. Amos Brison: Come prevede che si svilupperà l’economia israeliana nei prossimi anni? Shir Hever: Se avessi saputo prevedere l’andamento economico, sarei molto ricco. Ma credo che dovremmo prestare attenzione a fine anno, quando il Ministero delle Finanze riferirà quanto il governo ha effettivamente speso per la guerra rispetto agli impegni assunti nel bilancio 2025. Mi aspetto che molti investitori e istituzioni internazionali perdano fiducia. Nel lungo termine, mentre la Banca Centrale israeliana ha avvertito che l’economia si riprenderà lentamente, se non addirittura mai, l’opinione pubblica si aspetta una rapida ripresa. La delusione colpirà duramente la società israeliana e, se si tradurrà in una maggiore emigrazione di professionisti qualificati, l’esercito israeliano cesserà di funzionare come un esercito moderno entro 2-3 anni. Possiamo già vedere i segni di questo nel crollo della disciplina militare. Alcune unità adottano le proprie insegne, operano impunemente e seguono catene di comando informali. In Cisgiordania, i soldati si uniscono sempre più spesso alle milizie dei coloni e partecipano a Pogrom contro i palestinesi. E mentre migliaia di soldati crollano mentalmente e moralmente, e altre migliaia lasciano il Paese, il governo risponde aumentando gli stipendi dei riservisti. Il risultato è una sorta di forza mercenaria che migra da un’unità all’altra invece di servire all’interno di una struttura coerente e disciplinata. In questo senso, la disintegrazione della società israeliana si riflette sempre più nel suo esercito. Amos Brison è un redattore di +972, residente a Berlino. Traduzione a cura di Beniamino Rocchetto, da InvictaPalestina
Lo Stato in assetto di guerra contro il dissenso
Askatasuna, il culto della legalità e la resa definitiva al linguaggio dell’ordine di Vincenzo Scalia* Ieri la polizia, ha sgomberato lo storico centro sociale torinese Askatasuna, occupato da 30 anni. Contemporaneamente, le case di militanti della stessa struttura, e quelle di altri attivisti, sono state perquisite. Il sindaco della ex Detroit italiana plaude al blitz delle forze dell’ordine. Gli fa eco il Ministro dell’Interno, che parla di un segnale da parte dello Stato. Se non sorprende l’entusiasmo che si leva da destra, suscitano perplessità e sconcerto sia le prese di posizione dell’altra sponda, sia l’azione messa in atto dalle forze repressive. Blitz, retate, sgomberi. Un rituale frequente, ormai logoro, che ricorda il film Prima Pagina di Billy Wilder, quando la polizia cittadina si mobilita in forze per ricercare una persona già arrestata. Si tratta di una modalità scenografica, dal valore comunicativo, ma deteriore per quanto riguarda la tutela delle libertà civili. Le azioni repressive di massa, sbandierate sulla scena mediatica, come si sa, sono destinate a sgonfiarsi in corso d’opera, spesso addirittura durante l’istruttoria. Con la differenza che i ridimensionamenti della valenza penale che ne seguono non conquistano quasi mai le prime pagine o i titoli di apertura dei TG. Viceversa, rimane in piedi tutta la valenza scenografica, ad uso intimidatorio. Da un lato, l’assalto a La Stampa è stata indubbiamente un’iniziativa deprecabile, già abbondantemente condannata. Dall’altro lato, la responsabilità penale è personale, e, soprattutto, va accertata. Sgomberare un centro sociale attivo da trent’anni, perno del tessuto alternativo torinese, in nome di un’aggressione in cui potrebbero essere stati coinvolti alcuni dei suoi militanti, equivale a riproporre un attitudine torquemadesca. Una riedizione dei teoremi e delle narrazioni dei grandi vecchi che da anni devastano il dibattito pubblico italiano, ostruendo una discussione laica sulle vicende degli anni Settanta. Soprattutto, si traducono nella criminalizzazione, nell’indebolimento, nella marginalizzazione, di chi propone discorsi alternativi. Bastano pochi episodi controversi e discutibili, ancorché marginali, per innescare la stigmatizzazione pubblica degli attivisti che si mobilitano per la pace e per la Palestina. Un’altra fonte di preoccupazione riguarda il luogo, geografico e giudiziario, di origine di queste inchieste. La Procura della Repubblica torinese vanta una tradizione almeno quarantennale in materia di arresti indiscriminati, retate, sgomberi, accuse. Una genealogia inquisitoria che può essere fatta risalire quantomeno alla repressione delle formazioni armate degli anni settanta, con l’uso indiscriminato del pentitismo e gli arresti ingiustificati. Che in tempi recenti si è arricchita con la criminalizzazione del movimento NO-TAV, con accuse di terrorismo smontatesi nel corso dell’iter giudiziario, ma che è costata la carcerazione preventiva a svariati militanti e ha comportato la marginalizzazione del movimento a livello di opinione pubblica. E che recentemente si è manifestata con la pervicacia con cui ha insistito sul mantenimento del regime 41 bis nei confronti di Alfredo Cospito. Lungi dall’ipotizzare l’esistenza di una longa manus, si può ritenere che la cultura inquisitoria che caratterizza da quasi mezzo secolo la cultura subalpina abbia la tendenza a riprodursi. Ad inquietare ulteriormente, infine, è l’atteggiamento dell’opinione pubblica di centro-sinistra nei confronti della vicenda. Da tre anni ci si oppone ai provvedimenti liberticidi emanati dall’attuale compagine governativa, che, dal decreto anti-rave al ddl sicurezza, hanno nella restrizione degli spazi del dissenso il loro nocciolo duro. Però, non appena la magistratura si muove, fioccano i distinguo, in nome di una presunta difesa della legalità che conferma, tristemente, come le radici del giustizialismo stiano a sinistra, e siano anche difficili da estirpare. Tangentopoli insegna che il declinare di legge, ordine e legalità va sempre a vantaggio della destra. Una lezione che non si vuole imparare. Se i campi larghi devono riempirsi a suon di manette, meglio sgomberarli. Invece di Askatasuna. *da l’Unità
Sgombero Askatasuna. Giorgio Rossetto: “Rispondere logorando l’avversario come in Val Susa”
“E’ importantissimo difendere l’Askasatuna ma non è il centro di tutto, come spacciano i politicanti di destra. Ormai c’è un’articolazione anche nelle università, nelle scuole, nei territori e nel sociale, che spinge ai livelli di mobilitazione che vanno ben oltre le quattro mura del centro sociale Askasatuna, che oggi viene messo sotto attacco.” Così, ai microfoni di Radio Onda d’Urto, Giorgio Rossetto, storico compagno torinese dell’area autonoma e del movimento No Tav, attualmente agli arresti domiciliari in Val Susa per condanne relative soprattutto a iniziative contro la grande opera inutile e devastante. Il suo punto di vista è uno stimolo interessante per una lettura politica dello sgombero dello storico centro sociale torinese occupato nel 1996 e della risposta da dare a questa ennesima operazione repressiva. “C’è  stata un’attivazione nelle università, nelle scuole, nei quartieri molto più forte. Mai abbiamo avuto una presenza così forte di studenti e così anche nelle università e nel rapporto con i quartieri, con i giovani che vengono dalle comunità, di seconda generazione; c’è stata una partecipazione che una volta non c’era.”  Con questi presupposti che reazione ci si può aspettare dai movimenti? “Ritengo anche utile, nella possibilità di qui in futuro, di  riuscire ad avere lo sgombero dell’Askasatuna come elemento detonatore di possibili altri protagonismi, anche a livello nazionale, di realtà giovanili. Ma oggi l’importante  sono i livelli di mobilitazione  che si potranno dare  nei prossimi giorni, settimane e anche mesi. Spero che la risposta sia adeguata e mi sembra che la scelta della questura di fare prima delle feste natalizie questa operazione sia un po’ avventata; c’è la possibilità di tenere il fiato sul collo, in modo che sia lo stesso fiato sul collo che si tiene sulle montagne della Val Susa, ai cantieri,  e penso che ci siano i margini anche nella zona di Vanchiglia, la zona dell’Askasatuna, per  poter lavorare ad un logoramento dello schieramento avversario. Bisogna accettare i terreni anche quando non si sono scelti, il terreno del conflitto, della lotta, a volte anche dello scontro e l’esercizio della forza da parte dei movimenti; questo è ciò che si è prodotto in questi mesi nelle mobilitazioni per la Palestina con il tentativo di  bloccare le città che è stato reale.” L’intervista di Radio Onda d’Urto dopo lo sgombero del centro sociale Askatasuna a Giorgio Rossetto, compagno torinese dell’area autonoma e del movimento No Tav, attualmente agli arresti domiciliari da Radio Onda d’Urto
Aska non è sola – Solidarietà in tutta Italia contro lo sgombero
Dallo sgombero di questa mattina sono decine i comunicati di solidarietà e prese di posizione di collettivi e realtà in tutta Italia contro l’attacco verso lo storico centro sociale torinese. Di seguito ne raccogliamo alcuni. CAU Torino SI Cobas Torino – TIR Potere al Popolo Torino Rete dei Comunisti Torino – Cambiare Rotta Torino – OSA Torino -------------------------------------------------------------------------------- SA Newroz – CUA Pisa Coordinamento Studentesco Romano Gruppo Autonomo Portuali Livorno – Azione Livorno Antifascista – Teatro Refugio – Ex Caserma Occupata – Scuola di Carta Livorno – Potere al Popolo Livorno AlterPolis – Rete Link – Rete della Conoscenza – UDS – ADI Torino Centri sociali del Nord-Est Iskra Napoli – Disoccupati 7 novembre – Villa Medusa Bagnoli – Aversa Palestina Rete Libere di Lottare – No DDL1660 – Giovani Palestinesi – Global Movement to Gaza Ecologia Politica Network Pagina in aggiornamento…
Askatasuna: “È solo l’inizio. Per voi.”
Questa mattina è avvenuto lo sgombero di Askatasuna, storico centro sociale torinese attivo da quasi tre decadi. Negli ultimi tempi Askatasuna era al centro di un attacco politico-giudiziario per via del suo impegno nelle lotte sociali sul territorio piemontese. Attacco che si è approfondito con l’insediamento del governo Meloni e del Ministro degli Interni Piantedosi. Di seguito riprendiamo la prima presa di parola a caldo di Askatasuna e la diretta di Radio Onda d’Urto su quanto avvenuto questa mattina. -------------------------------------------------------------------------------- Questa mattina alle prime luci dell’alba è andata in scena un’operazione in grande stile per arrivare allo sgombero del centro sociale Askatasuna. Prenderemo il tempo di raccontare e di dare spazio alle voci che lo animano da ormai quasi trent’anni e che continueranno a farlo nei prossimi, ma intanto vogliamo fare chiarezza su alcuni punti. A quanto si apprende la perquisizione di questa mattina era inerente al procedimento di indagine a riguardo di diverse iniziative degli ultimi mesi in solidarietà alla Palestina che hanno visto milioni di persone scendere in piazza; la perquisizione è avvenuta sia in alcune case di compagni e compagne e al contempo all’interno del centro sociale. Durante la mattina il sindaco Lo Russo ha rilasciato una dichiarazione dal piglio puramente tecnico sulla “violazione del patto di collaborazione con il Comune” in quanto sarebbero venute meno le condizioni per continuare il percorso per il bene comune. La questione sembra si sia svolta su due piani paralleli, da un lato la perquisizione per il procedimento penale, dall’altro sembrerebbe sia stata fatta una pressione nei confronti del sindaco per rescindere il patto. E’ chiaro che il governo voglia colpire il movimento per la Palestina e voglia attaccare le lotte sociali, il Sindaco con la rescissione del patto ha spianato la strada al governo e quindi allo sgombero. L’intervento di un’abitante del quartiere Vanchiglia al presidio permanente sorto dopo lo sgombero. Questo sgombero rappresenta un attacco a chi ha a cuore la città di Torino e la possibilità di un vivere migliore: chi difende Torino è pronto a riprendersi i propri spazi. Il Comune farà l’utile idiota del governo Meloni? Oggi si tratta di scendere in strada per difendere un’idea di città, un’idea di mondo, diverse. La risposta che seguirà dovrà essere compatta e rispedire al mittente i tentativi di intimidire chi ha capito che si può contare, che insieme si possono trasformare le scelte politiche. Hanno capito che bisogna tenere conto di chi non ci sta e questo gli fa paura. Continueremo oggi e domani e dopodomani a costruire dove distruggono, a lottare dove restringono gli spazi di agibilità, a incontrarci a creare rapporti solidali veri. Niente sarà più come prima, il campo è stato tracciato, chi con noi continua a volere un presente e un futuro diversi sa che la partita non è finita, ma solo iniziata. TORINO: UFFICIALIZZATO LO SGOMBERO DI ASKATASUNA, “RAGGIUNGETECI PER DIFENDERE LO SPAZIO SOCIALE”. ALLE 18 LA MANIFESTAZIONE È in corso dall’alba di questo 18 dicembre 2025 una vasta operazione di polizia al centro sociale Askatasuna di Torino, in corso Regina Margherita 47. La Digos della questura torinese e i reparti mobili stanno effettuando perquisizioni all’interno dello stabile, liberato  dal 1996. Perquisizioni sono in corso anche in abitazioni di una decina di  militanti dello spazio sociale e dei collettivi studenteschi nell’ambito delle mobilitazioni per il popolo palestinesi che hanno riempito le strade della città in questi mesi. Ore 12.15: l’aggiornamento con Martina, dal presidio permanente sotto la sede sgomberata.  Ascolta o scarica Ore 11.15: il collegamento con il giornalista del quotidiano Il Manifesto Mario Di Vito, che aveva seguito il maxi processo “sovrano” contro Askatasuna. Ascolta o scarica Ore 11.00: il collegamento con Giorgio Cremaschi, dell’esecutivo di Potere al Popolo e del Comitato dei proponenti e dei garanti per un progetto sui beni comuni. Ascolta o scarica. Ore 10.20: confermato lo sgombero, la polizia sta murando gli ingressi di Askatasuna. Appuntamento con una manifestazione solidale alle 18 di questo pomeriggio con appuntamento in Corso Regina Margherita 47. Ore 9.20: Proseguono le perquisizioni di Polizia mentre si ingrossa il presidio di compagne e compagni all’esterno di Askatasuna. Un altro aggiornamento con Martina. Ascolta o scarica. Ore 8.10: Si teme possa andare nella direzione di uno sgombero o uno sequestro dello spazio sociale torinese. L’appello è quello di raggiungere Corso Margherita 47. Un aggiornamento con Martina. Ascolta o scarica. Ore 7.05: L’operazione sarebbe collegata alle inchieste di polizia sulle manifestazioni per la Palestina nei mesi scorsi. Si teme però possa trattarsi anche di uno sgombero ed è stato lanciato un appello a raggiungere lo spazio, come ci spiega Martina dal presidio allestito all’esterno di Corso Regina Margherita. Ascolta o scarica La polizia apre gli idranti contro il Presidio Permanente.
Rexhino “Gino” Abazaj di nuovo arrestato a Parigi: il rischio di una nuova estradizione verso l’Ungheria
Nonostante il rifiuto della giustizia francese all’estradizione verso l’Ungheria di Orbán, il militante antifascista italo-albanese è stato arrestato su mandato tedesco. Il rischio è che il procedimento riparta da capo. da Osservatorio Repressione Rexhino «Gino» Abazaj, militante antifascista italo-albanese di 33 anni, è stato nuovamente arrestato a Parigi nella serata del 16 dicembre. A darne notizia è stato il Comitato di solidarietà per gli arrestati di Budapest, secondo cui Abazaj è stato fermato e trattenuto dalla Sdat, la sottodirezione antiterrorismo della polizia francese. L’arresto riapre un caso che sembrava chiuso appena pochi mesi fa, quando la giustizia francese aveva respinto in via definitiva la sua estradizione verso l’Ungheria di Viktor Orbán. Secondo il Comitato, Abazaj rischia ora «di essere estradato verso l’Ungheria», in violazione della decisione presa lo scorso aprile dalla Corte d’appello di Parigi. Nella mattinata del 17 dicembre l’attivista è stato ascoltato dai giudici della stessa corte, mentre all’esterno del tribunale si è svolto un presidio di solidarietà. Il precedente rifiuto dell’estradizione Abazaj è coinvolto nello stesso procedimento che ha portato all’arresto e alla lunga detenzione dell’attuale europarlamentare Ilaria Salis. I fatti contestati risalgono al febbraio 2023, quando a Budapest si svolsero le manifestazioni antifasciste contro il cosiddetto Giorno dell’onore, un raduno annuale neonazista che celebra soldati tedeschi e ungheresi sconfitti dall’Armata Rossa durante la Seconda guerra mondiale. Per quegli eventi la giustizia ungherese ha colpito almeno 17 militanti antifascisti in tutta Europa, tra cui Salis e la cittadina tedesca Maja T. Abazaj era stato arrestato una prima volta nel novembre 2024 a Parigi, dopo essere fuggito dalla Finlandia, dove viveva dal 2015. In precedenza, infatti, Helsinki aveva accolto una richiesta di estradizione avanzata da Budapest e l’attivista si era trovato agli arresti domiciliari. «Mi sono trovato davanti a un dilemma: o spezzare l’anello elettronico e trovare rifugio altrove, o aspettare che la polizia di Orbán bussasse alla mia porta», aveva raccontato in un’intervista concessa a il manifesto mentre era detenuto nel carcere di Fresnes, nella banlieue parigina. Dopo l’arresto in Francia, Abazaj aveva trascorso quattro mesi in carcere prima di essere liberato e posto ai domiciliari. L’8 aprile 2025 la Corte d’appello di Parigi aveva infine respinto definitivamente la richiesta di estradizione ungherese, ordinandone la liberazione e la revoca di tutte le misure cautelari. Nella sentenza, i giudici avevano riconosciuto il rischio concreto di «trattamenti disumani e degradanti» nelle carceri ungheresi e denunciato «défaillances sistemiche» riguardanti l’indipendenza del potere giudiziario in Ungheria. Per motivare il rifiuto, la Corte aveva citato esplicitamente il caso di Ilaria Salis e le «misure di sicurezza estreme» applicate nei suoi confronti, giudicate «sproporzionate rispetto all’entità dei fatti contestati». Una decisione accolta come una vittoria politica e giuridica dagli avvocati di Abazaj, dagli ambienti antifascisti e da numerosi osservatori internazionali, alla luce delle ripetute denunce mosse contro il sistema giudiziario ungherese da ong e dallo stesso Parlamento europeo. Il nuovo mandato d’arresto tedesco Il nuovo arresto di dicembre avviene però in un contesto diverso. Come spiegato a Domani dal suo avvocato francese, Youri Krassoulia, questa volta il fermo è stato eseguito sulla base di un mandato d’arresto europeo emesso dalla Germania, sempre in relazione ai fatti di Budapest del 2023. «È un arresto molto sorprendente», ha dichiarato il legale, «soprattutto alla luce della pronuncia della Corte d’Appello dello scorso aprile». Nei prossimi giorni il tribunale dovrà decidere se mantenere Abazaj in custodia cautelare o rilasciarlo. Il 24 dicembre è invece prevista l’udienza decisiva sulla possibile estradizione in Germania. Un’eventuale consegna alle autorità tedesche, spiega l’avvocato, farebbe ripartire da capo il procedimento di estradizione verso l’Ungheria, aggirando di fatto la precedente decisione della giustizia francese. Un clima repressivo sempre più ampio Il caso di Abazaj non è isolato. Negli ultimi mesi le autorità francesi hanno intensificato i controlli e i provvedimenti nei confronti di militanti antifascisti, in particolare italiani. A novembre la disegnatrice Elena Mistrello è stata espulsa dalla Francia mentre si recava a Tolosa per un festival di fumetti, ritenuta un pericolo per l’ordine pubblico per aver partecipato nel 2023 a una commemorazione parigina di Clément Méric, giovane antifascista ucciso da estremisti di destra. Episodi simili hanno riguardato anche altri attivisti, sottoposti a controlli prolungati alle frontiere, interrogatori e minacce di espulsione pur in assenza di procedimenti giudiziari a loro carico. In questo contesto, reti e collettivi come Free All Antifà hanno annunciato l’avvio di una mobilitazione permanente per chiedere la liberazione di Abazaj e di tutti gli antifascisti colpiti dalla repressione giudiziaria in Ungheria e in Europa. «Deportazione e segregazione sembrano essere le caratteristiche irrinunciabili della nuova Europa di guerra», si legge in uno dei comunicati. «Se l’Europa chiede la mobilitazione, mobilitazione avrà».
Milano: maxi-operazione di polizia a Baggio. Sgomberati alloggi popolari ed utenze tagliate
Ieri mattina una maxi-operazione interforze disposta dalla prefettura ha impiegato quasi 250 uomini delle FFOO per effettuare 2 arresti e controllare oltre 600 persone, quasi per la metà di origine non italiana. L’iniziativa, che segue quelle messe in campo nei quartieri Giambellino e San Siro, ha avuto per epicentro via Quarti a Baggio. Decine di perquisizioni e denunce, una ventina di alloggi popolari sgomberati, utenze tagliate a centinaia di persone abitanti nei caseggiati (in molti casi famiglie con minori a carico) che in piena stagione fredda si ritrovano senza elettricità né gas. Con l’occasione di un intervento su spaccio e altre ipotesi di reato si reprime una comunità vessata da vuoto di politiche pubbliche, diritto all’abitare negato e incuria del patrimonio. Mercoledi pomeriggio è confermata dalle 16.30 la “festa” di natale in via Quarti. Giovedì mattina alle 8 il presidio a tutela della famiglia palestinese abitante in via Quarti 28. La corrispondenza con Gianluca abitante di Baggio  Ascolta o scarica da Radio Onda d’Urto