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Informazione di parte

L’Europa chiama alla guerra
Rearm Eu prevede 800 miliardi per il riarmo europeo, il piano di Ursula Von Der Leyen viene discusso oggi in Consiglio Europeo. Emmanuel Macron lancia dichiarazioni inquietanti sulla sua offerta di ombrello nucleare made in France. da Radio Blackout Le elites europee si preparano sul terreno della guerra e della sicurezza ora che gli USA hanno cambiato strategia lasciandole spiazzate e nessuno riesce ad ammettere che la guerra in Ucraina è stata un fallimento, non ha incontrato alcun tipo di interesse da un punto di vista politico ed economico, anzi ha peggiorato le condizioni di tutti i Paesi. Le cause della guerra propagandate in questi anni evidentemente non erano quelle; la guerra è stata persa (dall’Ucraina e dall’Europa); si è pronti a correre al riarmo verso la terza guerra mondiale. Il governo italiano si trova in imbarazzo in un teatrino in cui deve obbedire alle direttive americane da un lato e europee dall’altro, avendo al suo interno l’ala sovranista incarnata da Salvini e l’ala europeista incarnata dalla parte forzista. E in questo scenario vediamo addirittura giornalisti, che in questi anni hanno propugnato la propaganda più mistificatoria sulla guerra in Ucraina, lanciare un appello per scendere in piazza per l’Europa, a difendere gli ideali e i valori occidentali ed europei. Di quali valori parla la piazza del 15 marzo chiamata da Michele Serra su La Repubblica, con il suo richiamo alla nostra presunta “identità di europei”? L’Europa di questi anni per noi – spacciata come un mito dei diritti, di pace, del welfare – è stata ciò che ha distrutto il sistema del welfare, ha peggiorato lo stile di vita degli europei, è l’Europa di Mario Draghi, è quell’Europa che accoglie il ministro israeliano complice di genocidio, quella che non ha proposto nessun tipo di ipotesi di pace. Ne parliamo con Giorgio Monestarolo, dottore di ricerca in storia delle società europee, docente di storia e filosofia.
Verso lo sciopero dell’8 marzo: lotto, boicotto, sciopero
Ripubblichiamo questa puntata speciale in avvicinamento a L8 marzo curata da Radio Fabbrica e Non Una di Meno Torino. Dopo una breve introduzione sulla cornice rivendicativa dello sciopero e sulle modalità con cui si svolgerà a Torino, abbiamo ascoltato i contributi da ospiti in studio e in collegamento. Da tuttx lx ospiti ci sono arrivate esperienze di attivazione locale e nazionale contro la crescente precarizzazione delle condizioni di lavoro e di vita. Da Pisa (Non Una di Meno Pisa) a Torino (ex lavoratrici Almaterra che hanno creato la rete “Lottiamo per il sociale!” e una compagna dell’Assemblea Precaria Universitaria, una rete attiva a livello nazionale), dal settore museale al terzo settore alla ricerca. Alle esperienze di lotta, si è aggiunta la voce della neonata associazione Altr3 Voci, un’ esperimento di ex lavoratorx del sociale, che hanno deciso di provare a liberarsi da ricatti e condizioni lavorative soffocanti, autorganizzandosi in un’associazione educativa di stampo transfemminista. Tutte queste realtà hanno attraversato il processo di costruzione dello sciopero e saranno in piazza L8 marzo perché chi lotta non è mai solx. Lo sciopero transfemminista è uno sciopero contro la guerra in quanto massima espressione della violenza patriarcale. Approfondiamo insieme a Non Una di Meno Torino questa iniziativa che si iscrive all’interno della giornata di sciopero e mobilitazione di sabato 8 marzo, l’appuntamento a Torino è previsto alle ore 13 in piazza Massaua per dirigersi verso l’industria che nella nostra città più rappresenta lo scenario bellico, i profitti delle fabbriche di armi, gli interessi di una politica guerrafondaia, ossia Leonardo. Ne parliamo qui
Quarticciolo resiste
Dopo il week end di mobilitazione nel quartiere Quarticciolo è tempo di alcune valutazioni su questo passaggio importante. da Radio Blackout La manifestazione di sabato 1 marzo ha visto la partecipazione di moltissime persone soprattutto del territorio, questo è un dato da cui partire non scontato. La piazza ha espresso l’esigenza di decidere per il proprio quartiere mettendo in avanti le proprie priorità, dando spazio ai vissuti e all’esperienze di chi vive quel contesto. Un tema che ha attraversato le parole delle due giornate di iniziativa, l’assemblea e il corteo popolare, è stato quello sulla domanda di sicurezza, un concetto molto controverso, ambivalente e appannaggio delle destre. Ciò che viene sottolineato a Quarticciolo è la mancanza di una sicurezza sociale che parli di welfare, servizi e possibilità concrete e collettive di un vivere dignitoso. Sicuramente il “modello Caivano” non sarà la soluzione alle criticità del territorio, anzi, andrà ad approfondire le difficoltà, generando e alimentando un clima di violenza e di controllo sociale. In questa intervista a una compagna di Quarticciolo approfondiamo questi aspetti nel tentativo di complessificare una lettura di una realtà contraddittoria e in cui bisogna stare.
Islam politico e religione: reazione o possibilità emancipatrice?
A gennaio 2025 a Torino è stata organizzata una auto-formazione con Said Bouamama, storico militante algerino che abita in Francia e con cui avevamo già avuto modo di confrontarci in passato. Le pagine che seguono sono la trascrizione (e traduzione) di una parte di quel momento e quindi restituiscono il flusso del discorso direttamente dalle sue parole. Prima di addentrarsi nella lettura, occorre sottolineare due aspetti, da un lato l’attualità di questo ragionamento rispetto a una questione aperta: l’incapacità delle sinistre – o sedicenti tali – di proporre un’opzione credibile che parli di un immaginario di trasformazione desiderabile e che lo costituisca come ipotesi programmatica; dall’altro lato, il metodo si rivela ancora una volta uno strumento dirimente per sostanziare un’ipotesi di ricomposizione. Proponiamo questo estratto perché ci sembra che il tema risulti all’ordine del giorno, seppur su scale di intensità diverse a diverse latitudini. Buona lettura! Said Bouamama: Partiamo dando alcuni elementi di riferimento che mi sembrano ineludibili se vogliamo comprendere un minimo la questione, altrimenti rischiamo derive culturaliste, attribuendo uno sguardo riduzionista sugli altri, le stesse riprodotte dalle classi dominanti.  1. Ripartire quindi dall’Abc del materialismo: ciò che determina l’attivazione dei dominati è il loro vissuto concreto e materiale e non un piano ideologico. L’ideologia ha un ruolo ma è inefficace se non si basa sulla materialità, le rivolte e i conflitti radicali sono sempre momenti scaturiti da una spinta su base materiale. Nel risultato della rivolta che prende avvio da spinte materiali i dominati assumono le forme della rivolta che sono disponibili. I dominati si rivoltano nelle forme che sono disponibili in dato momento, secondo le griglie di lettura e i canali di organizzazione esistenti. 2. Uno strumento che permette di leggere la questione dell’islam politico oggi, nelle sue contraddizioni, è l’apporto di Marx alla questione religiosa. Questo contributo di Marx è stato letto in modo riduttivista dai militanti, la sua nota frase sulla religione molto spesso si usa interrompendola a metà: “la religione è l’oppio dei popoli” senza concludere con “ma è il soffio dello spirito oppresso”. La religione ha questo aspetto contraddittorio di essere contemporaneamente una forma di espressione dell’oppresso e anche strumento delle classi dominanti che lo opprimono. Ciò significa che delle rivolte a base sociale, per motivi economici possono prendere delle forme religiose, quando altri canali di espressione non sono adeguati, non sono disponibili o poco credibili. Bisogna rileggere i testi di Engels sulla Guerra dei contadini, in cui viene analizzato un movimento che a primo sguardo assume caratteri religiosi, ma che in realtà si basa su caratteri materiali dello sfruttamento di quel segmento di classe. Quindi i dominati si rivoltano come possono, noi dobbiamo riflettere sulle nostre attitudini, interroghiamoci su ciò che viene messo a disposizione. In Francia abbiamo avuto un dibattito molto polemico al momento delle rivolte dei quartieri popolari, bisogna partire dal presupposto che in Francia è esistito un importante movimento operaio fortemente rivendicativo e rivoluzionario che però ha negato le oppressioni della parte di proletariato dei quartieri popolari, quindi quando sono emerse queste rivolte esse hanno assunto una forma spuria con le forme che erano disponibili. L’assenza di legami con il movimento storico operaio, assenza di organizzazioni sui territori, assenza di rivendicazioni antirazziste spiega come è stato possibile che queste rivolte prendessero una forma anche brutale, senza un programma politico, perché hanno utilizzato le forme che avevano a disposizione. 3. Va considerata poi la conclusione di Fanon sui processi di emancipazione del dominato, dove descrive il passaggio dall’accettazione della dominazione alla rottura con essa. Ci propone di assumere questa griglia di lettura sia per leggere le traiettorie che vivono le persone a livello individuale, sia per le espressioni a livello di classe, collettiva. Questo approccio vale non solo per la dimensione della schiavitù e del colonialismo, ma anche per altre dominazioni di genere e classe. Parte da un dato, che anche quando viene riconosciuto è sottostimato per gli effetti che ha avuto, ossia la violenza totale che significa la schiavitù. Perché se sottostimiamo cosa ha significato per le società colonizzate la dimensione di questa violenza che ha significato la distruzione di modi di vita secolari, distruggendo la coerenza stessa (la possibilità di riproduzione) delle società, allora non capiremmo perché il processo ha preso la direzione che ora descrivo. Per Fanon ciò che ha reso possibile questa violenza sui popoli colonizzati, schiavizzati, è il fatto che bisogna presupporre che ci sia un sentimento di inferiorità che viene assunto dagli stessi popoli dominati. E contestualmente nei popoli dei paesi dominanti si sviluppa un sentimento diffuso di superiorità. La presa di coscienza di questo sentimento è quella che esprimo i soldati africani e asiatici che hanno partecipato alla prima e seconda guerra mondiale, quando, a livello storico, si sono resi conto che il soldato bianco al proprio fianco piangeva e soffriva esattamente come loro. In quel momento si è infranto il sentimento di invincibilità. La prima tappa per fare fronte a questa violenza totale e al sentimento di interiorizzazione dell’inferiorità, consiste nel fatto che il dominato cerca di somigliare al dominante. Il primo riflesso è questo e non un riflesso di contestazione, non è un riflesso rivoluzionario. L’idea è che se, essendo io inferiore, corrispondo al desiderio dei dominanti allora posso accedere all’uguaglianza. In questa fase il modello della bellezza è il bianco (vi sono esempi di sbiancamento della pelle in Africa ancora oggi). Soltanto la constatazione progressiva, nonostante lo sforzo di sottomissione e di dominazione, può permettere un processo di rottura. Vediamo poi svilupparsi una fase di reazione, ossia il tentativo di intraprendere un itinerario completamente inverso rispetto al dominante, ciò significa che tutto ciò che viene svalorizzato dai dominanti viene rivalorizzato, è il periodo di Black is Beautiful. Ma ancora questo passaggio non è sufficiente per l’emancipazione. È il periodo descritto da Aimé Cèsaire con la frase “le negre t’emmerde” ossia “il negro ti smerda”. Fanon lo descrive dicendo “la plongé dans le trou noir” “il tuffo nel buco nero”. In questa fase tutto quello che è svalorizzato dal dominante viene rivendicato dal dominato, lo stigma è ripreso come bandiera, questa fase può fermarsi qui ma c’è un’altra fase necessaria, ossia quando non si è più nella reazione, ma nella comprensione del sistema politico ed economico-sociale, del rapporto di dominazione e dunque si entra nella fase della coscienza politica.  Durante la seconda fase, quindi quella del rigetto di quello che viene valorizzato dal dominante, la religione assume un ruolo centrale, perché le religioni dei dominati sono definite come religioni retrograde, non sviluppate, e ciò andrebbe anche a spiegare il carattere non sviluppato delle economie delle società dominate e giustifica così la colonizzazione. Bisogna evitare una lettura meccanicista delle “epoche della rivolta”, che vedrebbe una rivolta dal volto politico (marxista panafricanista) e che oggi lascerebbe il posto a una dimensione caratterizzata prioritariamente dalla religione. Non è andata così. I movimenti decoloniali hanno tutti avuto una dimensione religiosa, erano certo ispirati ai dibatti del mondo militante marxista ma avevano anche una base religiosa e, questo presupposto è valido per tutti i movimenti di liberazione nazionale, tutti i movimenti sono stati un mix dei due aspetti. Ciò che è vero invece è che assistiamo a una dismissione progressiva delle griglie di analisi della sinistra nel periodo attuale che avviene da 20-30 anni a questa parte, questo è vero, ma ciò non significa che il discorso religioso non esistesse prima.  L’islam politico non è qualcosa di nuovo, la differenza è che quello del passato era influenzato esso stesso dalle griglie di lettura progressiste e una teologia della liberazione musulmana tendeva a emergere in determinati contesti così come in America del Sud emergeva una teologia della liberazione cristiana. Il FLN algerino ha prodotto dei testi tra il 1954 e il 1962 che si basano sull’islam e su una sua interpretazione progressista. In seguito, ci sono state le indipendenze che non sono state soltanto un’emancipazione, sono state un movimento contraddittorio che unisce il fallimento dei colonizzatori ma anche la reazione, la controffensiva dei colonizzatori. Una strategia dei paesi colonizzatori per cambiare tutto senza cambiare niente, mutare le forme pur mantenendo un’egemonia. Per comprendere gli ideali che hanno nutrito la lotta di liberazione nazionale bisogna tenere in conto la questione delle classi sociali. Per definizione il colonialismo impedisce, blocca, lo sviluppo di tutte le classi sociali compresa la borghesia. Le indipendenze sono seguite da anni in cui c’è stata un’accelerazione della cristallizzazione delle classi sociali che prima era contenuta e compressa dalle dinamiche coloniali. I movimenti di liberazione nazionale sono stati diretti da coloro che avevano accesso alla cultura politica, tramite insegnamento, lettura, chi aveva la possibilità di studiare, quindi dalla piccola borghesia. Si trovarono quindi poi davanti a una scelta: o mantenere i propri ideali e rinunciare a diventare borghesia a propria volta, oppure suicidarsi in quanto classe.  “Suicidio di classe” è un concetto che ha proposto Amilcar Cabral, chiamato il Lenin africano, colui che ha spinto più in avanti una lettura marxista della realtà africana. Per Cabral la piccola borghesia che accede al potere se non ha preso coscienza finisce per diventare strumento delle borghesie europee. In molti Stati nascono leader, originariamente individuati dai popoli durante i movimenti come dei grandi rivoluzionari, che poi finiscono per trasformarsi nei cani da guardia delle borghesie europee. Allora la reazione dei popoli è stata quella di cercare altri canali di espressione politica che si discostassero da questi leader, che pur mantenendo discorsi marxisti e di sinistra, si allineavano agli interessi imperialisti.  L’islam politico diventa quindi un’opzione in questo senso. Le speranze nutrite nei movimenti di liberazione sono deluse dalla realtà post indipendenza che rimane neocoloniale, questo contribuisce a relativizzare i discorsi di liberazione presenti in precedenza. Se a questo aggiungiamo la crisi del movimento progressista internazionale degli anni 80, la fine dell’URSS, la fine della credibilità dei canali progressisti storici, allora i dominati non possono autorisolversi e cercano altri canali, tra cui l’islam politico. Coloro che elaborano le teorie utili a giustificare l’imperialismo prendono in considerazione questo fatto, esattamente nello stesso momento in cui invece i progressisti sottostimano la dimensione di ciò che stava accadendo a livello soggettivo nei popoli dominati. Gli strateghi imperialisti l’avevano ben capito: vi sono rapporti della CIA che descrivono lo spazio e il ruolo che prende l’islam politico tra i dominati. E capiscono subito che l’islam politico può sia orientarsi nella direzione di mettere in discussione la dominazione, sia il fatto che si può agire in altro senso e canalizzare le rivolte verso degli impasse. L’alleanza tra USA e wahabiti in Arabia Saudita per esempio, si costruisce strategicamente, perché è fondata sull’idea di rompere la dinamica potenzialmente rivoluzionaria della dimensione religiosa per orientarla verso una dimensione reazionaria. L’errore da non fare è quello di considerare l’islam politico un blocco omogeneo perché è al contempo il risultato delle aspirazioni dei dominati di emanciparsi e il risultato del tentativo strumentalizzazione dei dominanti verso l’impasse politico, è il rapporto di forza tra questi due aspetti che determina la direzione in cui va l’islam politico.  Dipende molto dai territori e dai Paesi, per esempio ci sono dei luoghi in cui la colonizzazione è una realtà ancora molto pregnante come la Palestina e l’islam politico è globalmente, quasi maggioritariamente in una dimensione progressista, di orientamento rivoluzionario. Se leggete le analisi di Hamas che fanno il bilancio del cessate il fuoco, se andate all’essenziale dell’analisi togliendo la frase iniziale e finale che omaggia a dio, vedrete che sono basate sull’analisi del rapporto di forza, della strategia politica, perché in un contesto coloniale tutte le altre questioni sono sovradeterminate dal contesto coloniale. Stessa cosa per Hezbollah, ma è completamente diverso se prendete il discorso dell’Arabia Saudita o del Qatar.  Nell’immigrazione la questione dell’islam politico è sovraccaricata dalla questione identitaria. Una serie di elementi che attirano dell’islam dipendono dalla loro forte dimensione identitaria nei termini di affermazione, perché si vive in un contesto di negazione della propria appartenenza e identità, quindi ci si riappropria di una dimensione caratterizzata da un sussulto di dignità e di affermazione attraverso questo strumento. Nel rapporto quindi con l’affermazione dell’islam politico nei quartieri popolari bisogna evitare dinamiche di semplice reazione, ma impegnarsi in un lavoro di alleanza senza cedere su delle rigidità che riguardano i valori progressisti, per poter lavorare, analizzare, per capire quali elementi riguardano la reazione identitaria e quali appartengono a dinamiche di emancipazione, terreno sul quale ci si può incontrare. Le attitudini, ancora molto diffuse, che rifuggono i contatti con chi non appartiene a una dimensione di purezza ideologica ci impediscono di prendere i dominati per quello che sono e quindi non permettono di cambiare le cose. Consiglio di Lenin: non ci sono rivoluzioni pure, tutte le rivoluzioni emergono piene di contraddizioni e queste rivoluzioni o aspettiamo che diventino pure per sostenerle oppure ci impegniamo nella lotta in modo da direzionarne il terreno, la discussione, il dibattito, in un rapporto che si costruisce nella lotta.  Per fare un esempio, pensiamo ai Gilets Jeunes, uno degli ultimi più grandi movimenti in Francia: una gran parte dei militanti di sinistra in Europa ha rifiutato di prenderne parte perché li ha etichettati come fascistoidi, perché certo all’interno vi erano elementi reazionari, perché era un movimento pieno di contraddizioni, ma c’erano anche punti di vista progressisti. Così il movimento francese di sinistra ha lasciato andare questo movimento invece di entrarci, lavorarci e orientarlo in una certa direzione.  Il momento di passaggio di due epoche da una capitalista a una socialista, è un processo storico che ha una sua durata e non avviene come l’avvento di una “grande sera” della rivoluzione che in un dato momento ci porta la liberazione. È un processo di flussi e di riflussi, di vittorie e di arretramenti, di offensiva e di controffensiva, se non lo concepiamo in questo modo finiremo nell’impotenza perché per forza di cose ci saranno delle sconfitte a un certo punto e allora a quel punto penseremo che tutto è perduto. La questione è individuare ciò che va nella direzione della trasformazione e ciò che va nella direzione della reazione. Questi aspetti devono essere chiari oggi ed è ancor più importante che lo siano perché siamo in una fase storica in cui riemergono griglie d’analisi marxiste, nazionaliste, panafricaniste in Africa, un dibattito che è molto poco percepito da qua.  L’Africa è in ebollizione in questi anni, c’è stato un seminario internazionale a Dakar sull’attualità del panafricanismo, partecipato da diversi movimenti africani, in Niger una conferenza internazionalista antimperialista.. quindi mentre qui abbiamo impressione che non si riesca a disegnare una prospettiva rivoluzionaria vediamo invece in Africa un’effervescenza che riutilizza un vocabolario marxista, questo pone davvero la questione del nostro punto di vista qui, di cosa guardiamo e di cosa lasciamo fuori dalla nostra prospettiva. Senza idealizzare perché bisogna guardare la situazione, sia in Niger che a Dakar c’erano dei movimenti che si rivendicavano di essere marxisti-musulmani, una rivendicazione che non esisteva da molto tempo e per loro questo non poneva contraddizioni.  Quindi la percezione dell’islam politico come blocco omogeneo reazionario che invisibilizza la parte dell’islam politico che si muove in un’ottica emancipatoria è una riproduzione del discorso dominante che vuole universalizzare tutte le istanze riferite all’islam come inevitabilmente reazionarie. Se anche noi ci poniamo in questo modo, senza tenere in conto che l’islam politico è contraddittorio, che ci sono ispirazioni, rapporti di forza, allora anche noi arriviamo alla stessa conclusione delle classi dominanti, alimentando islamofobia. Bisogna aggiungere per comprendere le forme della rivolta di oggi, le forme di occultazione e invisibilizzazione di tutte le teorie che vengono dalle vecchie colonie basate su approcci progressisti, panafricanisti, marxisti. Il mio libro “Figures de la Révolution africaine” è stato quello che ha avuto più successo in Africa, presenta diversi leader dagli anni ‘50 agli anni ‘80 fino a Sankara che raccontano con griglie materialiste, panafricaniste e marxiste la storia dei movimenti di liberazione nazionale, perché sono state figure che sono state occultate quindi oggi siamo in una fase di riscoperta, in Senegal si rilegge Fanon, riferimenti che erano spartiti da 30 anni. I militanti di sinistra nei paesi dominati non fanno gli stessi errori che facciamo noi qua e hanno un approccio molto più dialettico rispetto all’islam politico. Se discutete con i compagni del FLP, militanti marxisti, il loro approccio è mettere davanti la dimensione emancipatrice di Hamas o Hezbollah e, rispetto alla base, comprendono che la scelta di ingaggio con l’uno o con l’altro movimento è una scelta che risponde al bisogno di azione. Ci sono dei compagni del FLP che hanno deciso di aderire a Hamas perché semplicemente è l’organizzazione che ha più strumenti e chances di portare avanti la lotta armata, non perché aderiscano ideologicamente. Questo perché assolvono a una funzione ossia rispondere a quella che è la prima preoccupazione, perché la priorità è come ci si organizza a fronte del colonizzatore, siamo lontani da discorsi che parlano di incompatibilità tra islam politico e altre opzioni. Bisogna tenere a mente una frase di un poeta della resistenza francese Paul Eluard “Face a l’oppression ceux qui croit au ciel et ceux qui y ne croit pas sont unis dans le meme combat” “davanti all’oppressione coloro che credono in dio e coloro che non ci credono sono uniti nella stessa lotta”.  La laicità  Bisogna individuare gli interessi sul tema della laicità e gli interessi che la borghesia ha messo su questo terreno per creare l’idea di un pericolo fittizio nelle nostre società, per farlo prima di tutto bisogna smettere di pensare che la laicità sia un’invenzione europea. Tutte le società che sono marchiate da una dimensione multiculturale o multireligiosa sono state obbligate a trovare un modo di funzionare che permettesse a tutte queste anime di vivere insieme secondo regole comuni. Per esempio, nel mio villaggio c’è un autorità religiosa che è l’imam e un’autorità della vita sociale, un amine. Questi due poteri hanno una separazione. La parola laicità non è mai stata inventata, ma funziona così. La pretesa di aver inventato la laicità ha permesso di giustificare la missione civilizzatrice. Perché anche su questo discorso quindi occorre insegnare agli altri, retrogradi e selvaggi, ciò che non hanno imparato, questo è ciò che c’è dietro il ragionamento sulla laicità della classe dominante.  Il secondo elemento da tenere a mente è che anche in un paese come la Francia dove viene utilizzato in maniera ideologica il concetto di laicità, essa è nata come strumento di protezione delle minoranze religiose, quindi originariamente per ebrei e protestanti, ma oggi vediamo la contraddizione di come è stato ribaltato il concetto di laicità usato per brandirlo come strumento di lotta di fronte alla radicalizzazione della religione islamica, pur essendo oggi una religione minoritaria in Francia.  Mano a mano che l’Europa sprofonda in una crisi che porta le classi dominanti alla paura del rischio di un’esplosione sociale allora mettono davanti alla contraddizione reale una contraddizione falsa, che sposta il focus. La contraddizione centrale rimane la contraddizione di classe e la contraddizione superficiale, quella artificialmente promessa, è l’idea di un mondo in cui ciascuna società sia divisa tra i partigiani del progresso che sarebbero gli europei, gli occidentali, e gli altri, partigiani della reazione, che sono dei retrogradi, barbari, quindi prende piede l’idea della lotta dei lumi della ragione contro l’oscurantismo viene a sostituire la contraddizione di classe. E questo permette di costruire il nemico interno che è il musulmano, come minaccia, creando una reazione di unità contro di loro. La laicità è uno dei vettori essenziali affinché si costruisca il musulmano come nemico interno, è un concetto che si propone non più come un metodo ma come una realtà che si assume come consustanziale alla civiltà occidentale, assumendo quindi una forma essenzialista.  Ho scritto un libro che si chiama “Un racisme respectable” che parla della laicità e della sua strumentalizzazione, un razzismo che si copre di bei valori, sono stato portato a rileggere la Bibbia per vedere se davvero c’era questa separazione tra temporale e spirituale, mentre viene detto per i musulmani non ci sarebbe questa separazione tra vita privata e pubblica, tra potere temporale e spirituale, così come la società occidentale, europea, viene descritta come la culla della democrazia, come se nella cultura occidentale ci fossero i valori di laicità e democrazia dalla notte dei tempi. Ebbene, non ho trovato nulla che desse prova di questo, ma è una ricostruzione ideologica. Concludo dicendo che l’islam come il cattolicesimo come l’ateismo, come tutte le forme di visione del mondo, sono allo stesso tempo forme diverse, ambivalenti, non sono blocchi omogenei, in ognuna convivono aspetti emancipatori e reazionari, non bisogna farsi ingannare da una visione che omogeneizza, chiude in blocchi, secondo un discorso essenzialista e universalista. 
Associazione a Resistere: le lotte prendono parola
In vista della sentenza per il processo Sovrano che vede coinvolti numerosi compagni e compagne che, dalla città alla Val Susa, hanno preso parte a percorsi di lotta e esperienze sociali di grande valore vogliamo incontrarci per prendere parola a fronte di questo attacco. Doppio appuntamento da Associazione a Resistere : assemblea aperta venerdì 14 marzo alle ore 18 nel giardino dell’Askatasuna e presidio al Tribunale di Torino lunedì 31 marzo in occasione della sentenza Sin da subito la risposta all’accusa di associazione, sovversiva prima e per delinquere poi, è stata rimettere al centro quella che per noi è la posta in gioco: questo processo rappresenta un attacco alle lotte sociali e alla possibilità di organizzarsi per provare a cambiare un presente insostenibile. La libertà o è collettiva o non è. Questo è il punto dal quale vorremo ripartire per ragionare insieme sul significato di questa fase storica e di come la controparte, dalla questura alla procura passando per la magistratura e il governo, tenti in tutti i modi di restringere spazi di agibilità, limitare la libertà di dissenso – vedi ddl 1660 – colpire chi agisce per un interesse collettivo, più alto. Come abbiamo scritto qui (Processo Askatasuna: la giustizia dei ricchi e potenti): “il punto è che dietro questa coltre di finalità evanescenti vi è il tentativo di nascondere il senso della militanza politica. In questa contemporaneità non è concepibile, o almeno non dovrebbe esserlo secondo i canoni dominanti, che delle persone antepongano l’idea di agire per il benessere collettivo ai propri interessi individuali. Ci dev’essere qualcosa dietro: se non sono i soldi e non è il potere, bisogna tornare a concezioni della devianza di inizio novecento. Ma per fare ciò non basta il codice penale, bisogna uscire dalle aule di tribunale e spargere fango”. Abbiamo visto agitarsi sulla scena personaggi meschini di vecchia conoscenza, rinvigoriti soltanto quando c’è da chiedere lo sgombero di Askatasuna o attaccare chi mette in discussione “lo stato delle cose”.. gli stessi capaci di abbaiare cinque minuti di seguito in diretta tv. Poco ci importa di questo annaspare nel maremagnum di confusione generale che questa fase storica comporta, molto di più invece avremmo da dire su cosa significa Associarsi per Resistere e su quali sono i tentativi di mobilitazione in atto che, trasversalmente, vengono osteggiati ma, a partire dai quali, possiamo immaginare una proposta che si ponga l’obiettivo di trasformare la realtà che viviamo perché pensiamo che un progetto autonomo di liberazione dallo sfruttamento e dalle ingiustizie vada costruito collettivamente. Quali saranno gli esiti di questo goffo tentativo di criminalizzare le lotte non possiamo saperlo, ciò che sappiamo bene è che le istituzioni conducono questo attacco sul piano giuridico perché è l’unico su cui hanno speranza di ottenere il risultato sperato. La partita che si apre, indipendentemente da ciò che disporranno i giudici, é da giocarsi sul terreno dell’iniziativa e della capacità di conquistare nuovi spazi di possibilità, rafforzando e radicando proposte politiche concrete. Per questi motivi invitiamo tutti e tutte coloro che hanno a cuore un futuro migliore a partecipare a un momento di assemblea aperta venerdì 14 marzo alle ore 18 nel giardino dell’Askatasuna per condividere una lettura di questa fase storica, di questo processo politico e che vogliono assumersi la responsabilità di costruire una forza collettiva in grado di resistere e di guardare lucidamente alle sfide del presente. Invitiamo, inoltre, a partecipare al presidio fuori dal Tribunale di Torino che si terrà il 31 marzo in occasione della sentenza. Essere militanti vuol dire scegliere di assumersi delle responsabilità che nessuno ci ha imposto, ma che ci siamo addossati/e perché riteniamo che possa esistere un futuro migliore di quello che ci è stato consegnato e con pragmatismo, cura e coerenza proviamo a realizzarlo.
Il Comune di Bussoleno allunga le mani sulla stazione internazionale ed è subito bufera
“Metti la cera, togli la cera”. Chi di noi non si ricorda della famosa frase pronunciata dal maestro Miyagi nel film “Karate Kid” all’inizio degli anni 80. da notav.info Espressione che sembra quantomai azzeccata per la diatriba tra le cittadine di Susa e Bussoleno che, nella giornata di ieri, sono tornate a contendersi la stazione internazionale della nuova Torino-Lione in barba a ciò che quest’ultima significherebbe in termini di disagi e devastazione del territorio. Insomma, togli di là e costruisci di qua e non ti preoccupare di chi questa valle la abita, se ne prende cura e subisce da anni il peso di scelte scellerate che hanno avuto come conseguenze, tra le altre, alti tassi di inquinamento, impoverimento del suolo e delle acque, disastri ambientali e disservizi. D’altronde, fa sempre comodo pensare al proprio tornaconto personale sacrificando interi territori ai fini di un’economia di consumo che di green non ha proprio nulla e che punta a prosciugare ogni risorsa di questi luoghi alterandone completamente l’ambiente contro la volontà di chi li abita. Ma andiamo con ordine. La sindaca di Bussoleno Antonella Zoggia, a mezzo stampa, nella giornata di ieri ha dato notizia di uno studio tecnico affidato a Meta (società milanese già autrice del documento sulla Gronda Est) che dimostrerebbe come la stazione internazionale non dovrebbe essere più costruita da zero a Susa ma, bensì, sul suolo del suo di Comune affermando che “si risparmierebbero più di 100 milioni di euro, riutilizzando anche una struttura già esistente, solo da rammodernare”. Grande supporter di questa ipotesi la Città Metropolitana che, attraverso le parole del vicesindaco Jacopo Suppo, dichiara  “[..]caldeggiamo l’idea di spostare la stazione a Bussoleno e siamo disponibili a costruire un progetto di mobilità territoriale attorno a questa ipotesi”. “I motivi sono tanti: si risparmiano soldi pubblici, si riutilizza il polo di Bussoleno, scongiuriamo definitivamente un’opera come il tunnel dell’Orsiera e colleghiamo meglio la linea storica e i comuni dell’alta valle”. Apriti cielo. Le dichiarazioni della Zoggia e di Suppo hanno fatto andare su tutte le furie Piero Genovese, sindaco di Susa che, sempre a mezzo stampa, ha voluto rispondere con un comunicato ufficiale del Comune : “Rispetto a quanto apparso su alcuni giornali in data odierna ringraziamo fin da subito l’Assessore Regionale Bussalino che ha voluto confermare il progetto della Stazione Internazionale dell’Alta velocità a Susa, fulcro dell’opera ormai giunta alla fase esecutiva. Per contro, di fronte alle dichiarazioni di Jacopo Suppo, siamo rimasti a dir poco allibiti: nell’articolo si legge infatti che il Vicepresidente della Città Metropolitana sostiene la tesi dello spostamento della Stazione Internazionale a Bussoleno, secondo i desiderata dell’attuale Sindaco del Comune Antonella Zoggia. Il nostro sconcerto deriva dalla convinzione, forse ingenua, che il progetto di una linea ferroviaria internazionale, come di ogni altra grande opera pubblica, si basi su valutazioni di merito, che tengono presenti le esigenze territoriali e nazionali, al di là di chi occupa momentaneamente un incarico comunale, metropolitano, regionale o nazionale”. Ed ecco che si riapre la querelle sulla collocazione della famigerata stazione internazionale a colpi di tiramenti di giacchetta, illazioni e prese di posizione. Dibattito già in corso da anni che si basa su un grandioso progetto datato 2012 e che, all’oggi, costerebbe ai contribuenti oltre 100 milioni di euro. Con il comunicato stampa del Comune di Susa, sono giunte anche ambiziose istanze “chiediamo a gran voce di rivedere l’intero progetto ferroviario, poiché sarebbe intollerabile lasciare che Susa sostenga dieci anni di cantieri e di disagi gravi e che Bussoleno benefici della Stazione Internazionale. A ragione, in questo folle caso, esigiamo che sia rivista l’intera Linea Ferroviaria e che il tunnel esca a Bussoleno, sede a quel punto di tutta la relativa cantieristica! Per altro da un po’ di tempo a questa parte siamo anche preoccupati che la curiosa ipotesi di spostamento della stazione (neanche fosse una fioriera [n.d.r Sigh]) nasconda in realtà la volontà di evitare qualsiasi fermata in Valle di Susa isolandola drammaticamente”. E cosa dire del trasferimento del già inutile autoporto di Susa presso San Didero? Alle soglie della sua inaugurazione, dopo anni di cantieri devastanti, ci verranno a dire che, forse, potevano fare a meno di spostarlo lasciandolo nella sua vecchia sede di San Giuliano laddove la progettazione attuale prevede la realizzazione della stazione internazionale? Il groviglio di asfalto e cemento alle porte di Susa è già da decenni una zona altamente inquinata e impermeabilizzata. Che decidano, del resto, di costruirci un autoporto, una fantasmagorica stazione, un centro commerciale o la piramide di Cheope, è una scelta che per Telt e Sitaf è assolutamente di secondaria importanza e rende evidente quanto costoro reputino la valle una zona compromessa su cui continuare a compiere abusi, anche a costo di cambiare programmi ogni dieci anni. La Valsusa e i suoi abitanti non si meritano questo teatrino politico di basso rango: è ormai chiaro che non stiamo parlando di una fioriera. Stiamo parlando di opere complementari alla costruzione di un mostro ecocida che, se realizzato, non farà che aggiungere disagi ad una situazione già compromessa da molti anni, ampliando sempre più l’idea di una vallata vista e percepita come una zona di sacrificio in cui, Governi e imprese in collusione tra di loro, continuano a danneggiare irrimediabilmente l’ecosistema e le generazioni presenti e future in un circolo a dir poco vizioso all’interno del quale, riempiendosi la bocca di parole come “greenwashing” e “sviluppo sostenibile”, si dribblano abilmente il rispetto, la cura, il diritto a un ambiente davvero sostenibile, sano e pulito e si calpestano i diritti e i bisogni primari della popolazione. Se, però, da un lato si dibatte su quale possa essere una soluzione certamente devastante ma meno impattante (che ossimoro!), dall’altro, i primi cittadini dei comuni di San Didero e Bruzolo, insieme all’Unione Montana Vallesusa, in un comunicato congiunto (redatto in seguito ad un incontro con rappresentanti di Telt e Anas tenutosi su invito del prefetto di Torino) in merito alla realizzazione della nuova rotonda che dovrebbe dare accesso al futuro autoporto di San Didero, nell’affermare la loro contrarietà all’opera, si mettono di traverso e puntano i piedi chiedendo spiegazioni rispetto ai lavori di quest’opera accessoria, ai notevoli disagi che porterebbe una ventilata chiusura totale della SS 25 nel tratto che collega i due paesi e alle motivazioni per cui, per l’ennesima volta, le amministrazioni locali non sono state interpellate e neanche lontanamente avvisate. Ebbene, nonostante la costante presenza dei soliti sostenitori della NLTL, la Valsusa, chi l’amministra e i suoi abitanti, dimostrano ogni giorno la determinazione e la risolutezza di non volersi piegare a intenzioni e decisioni imposte e di voler continuare a contrapporsi alla costruzione della Linea ad Alta Velocità per un futuro che possa essere dignitoso, sano e sostenibile per questa valle già profondamente inquinata e sfruttata nel corso degli anni.
Perché non c’è nulla di esaltante nell’arrivo di più donne ai vertici della polizia
Pochi giorni fa è stato pubblicato su La Stampa Torino un articolo intitolato “Anche in Questura si può rompere il tetto di cristallo”. da Non Una di Meno Torino Il giornale celebra le “otto donne ai vertici degli uffici più strategici della polizia” di Torino. Questa sarebbe la dimostrazione di nuovi traguardi in cui “è l’universo delle donne che avanza”. Cosa leggere in questa narrazione? Capiamo insieme perché l’accaduto NON simboleggia una vittoria femminista. Questo tipo di descrizione della società che avanza grazie a un maggior numero di donne al potere è spesso utilizzato da governi reazionari che nulla hanno a che vedere con il transfemminismo come orizzonte rivoluzionario (ma neanche con semplici politiche pubbliche a favore di donne e persone LGBTQIA+). Come Meloni al governo, come ora Alice Weidel in Germania con AfD, essere donne in posizioni di potere tipicamente coperte da uomini non significa molto se si è dalla parte politica che opprime altre donne*, persone razzializzate e classi più povere. Questo articolo è un esempio della narrazione liberale e autoritaria del concetto della non-discriminazione sul lavoro, con l’intento di dipingere la polizia come un ambiente progressista. In altre parole un esercizio di pink-washing mentre viviamo un attacco senza precedenti al diritto di protesta in Europa e in Italia. Torino, più in particolare, è un laboratorio di repressione e criminalizzazione mirata del dissenso che colpisce i movimenti che mettono a critica le ingiustizie alla base di questa società, tra cui le discriminazioni e la violenza di genere in Italia e in altre parti del mondo. Sono queste forze dell’ordine che inoltre sono chiamate a portare avanti forme di repressione sempre più stigmatizzanti come “zone rosse” appena introdotte anche nella nostra città, o come i centri per il rimpatrio (CPR, di imminente riapertura a Torino). L’arrivo di otto poliziotte ai vertici non è una fotografia rappresentativa della condizione collettiva che viviamo come donne e persone LGBTQIA+. In Italia il divario di genere sul lavoro è doppio rispetto agli altri paesi europei e, secondo il global gender gap index, la situazione italiana è addirittura peggiorata negli ultimi anni. Viviamo sulla nostra pelle quelle che sono le condizioni più diffuse: la precarietà lavorativa, la mancanza di reddito e di riconoscimento, i mestieri usuranti, il carico doppio del lavoro di cura, le molestie sul posto di lavoro (secondo gli ultimi dati ISTAT, il Piemonte è la regione italiana al primo posto per percentuale di lavoratrici molestate: due su dieci). Sono tantx lx pensatrici transfemministx che ci insegnano a riconoscere l’oppressione che le donne in posizione di potere possono esercitare, come attraverso il loro ruolo in strutture poliziesche e securitarie. Nel mondo, la violenza razzista e classista della polizia – come il numero di persone uccise nelle comunità nere e latine degli Stati Uniti o in Palestina – sono la dimostrazione che non può esistere la liberazione delle donne senza una rivoluzione antirazzista e anticapitalista. Come suggerisce Angela Davis, definanziare la polizia (dallo slogan del movimento Black Lives Matter “defund the police”), prelevando fondi dalle forze dell’ordine, permetterebbe di costruire nuove istituzioni e nuovi servizi sia per l’educazione che per il diritto all’abitare, perché: “la sicurezza, salvaguardata dalla violenza, non è davvero sicurezza”. Oggi più che mai è importante riconoscere come le destre portino avanti una vera e propria propaganda con i nostri corpi. Si appropriano della categoria politica di donna preoccupandosi delle condizioni apparenti di poche donne bianche che possano lavorare a servizio di regimi sempre più autoritari. Di recente, autrici come Sophie Lewis ci mettono in guardia contro questi tipi di “femminismi nemici” che, ad esempio, vogliono “difendere le donne dall’ideologia gender” e negare l’esistenza (e di conseguenza i diritti) delle persone trans, come da programma di Trump. La liberazione di donne e persone LGBTQIA+ non passerà attraverso la riproduzione delle strutture repressive, ne attraverso la loro femminilizzazione. Non avverrà attraverso il primato dei meccanismi dell’ordine e del capitalismo sulla giustizia sociale. Ed è per tutto questo che l’accaduto NON simboleggia una vittoria femminista. È necessario rimanere ben saldx di fronte a una propaganda che fa uso di queste narrazioni mentre perpetua attacchi sempre più forti allo stato di diritto. È necessario portare avanti una contro narrazione e una contro proposta che tenga insieme le nostre esperienze vissute, qui e dallx nostrx sorellx nel mondo. Un approccio di classe, decoloniale e transfemminista, che continui a portare a galla tutte le contraddizioni di questo sistema. E che con la promozione di alcune donne ai vertici della polizia non ha nulla a che fare.
Messico: La guerra contro i popoli continua
Nel quadro delle Giornate Globali Giustizia per Samir Flores Soberanes!, a sei anni dal suo assassinio, il Congresso Nazionale Indigeno e l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale hanno reso pubblica una dichiarazione a sostegno dell’Unione delle Comunità Indigene della Zona Nord dell’Istmo (Ucizoni), condannando l’imboscata avvenuta nella zona di confine tra Santo Domingo Petapa e San Juan Mazatlán, Oaxaca, nella quale furono uccisi tre dei loro difensori del territorio. di Gilberto López y Rivas su Comitato Carlos Fonseca Affermano che questa violenza non è un fatto isolato, ma parte della guerra di sterminio che i cattivi governi, i cacicchi e gli interessi capitalisti ingaggiano contro i popoli, per spogliarli delle loro terre. Chiedono giustizia per i loro compagni caduti, il rispetto dell’autonomia delle comunità indigene e la garanzia di sicurezza per la popolazione di El Platanillo, rendendo responsabili i governi statale e federale per le loro omissioni e complicità in questo aumento di violenza. Come nel caso di Samir Flores, che con coraggio si opponeva al Progetto Integrale Morelos, l’Ucizoni, a 41 anni dalla sua fondazione, dal 2019 ha resistito alla megaopera del corridoio transistimico e, di conseguenza, è stata il bersaglio della persecuzione giudiziaria e della criminalizzazione di molti dei suoi militanti e dirigenti, con 64 contadini imputati penalmente, così come dell’attacco frontale contro le comunità che si sono opposte alla megaopera, da parte di elementi della Segreteria della Marina, della Guardia Nazionale, di poliziotti statali e gruppi criminali sostenuti dallo stato. Alla fine dello scorso gennaio, è stato denunciato l’assassinio di Arnoldo Nicolás Romero, commissario ejidal di Buena Vista, agenzia di San Juan Guichicovi, Oaxaca. L’Ucizoni ha fatto un appello urgente alla presidente Claudia Sheinbaum affinché intervenga e fermi le violazioni dei diritti umani nell’istmo, dichiarando che non permetteranno che li si minacci nelle loro proprie terre, e chiedendo al governatore dell’Oaxaca, Salomón Jara, di aprire spazi di dialogo serio e rispettoso. Denuncia l’omissione della Commissione Nazionale dei Diritti Umani, alla quale hanno presentato quattro denuncie senza aver ricevuto risposta. “Non si può parlare di sviluppo nell’istmo quando si violano i diritti della popolazione indigena e persistono carenze nella salute, nell’educazione e nelle infrastrutture”, dichiarano. (Somos el Medio, 7/2/25). Proprio la Giornata Globale per la Giustizia per Samir Flores Soberanes si incammina a continuare a collocare l’imminenza della giustizia, della pace e della dignità dei popoli al centro delle loro resistenze e richieste alle autorità nazionali e statali, che non ascoltano il Messico che è in basso. Questa mobilitazione include attività in Messico e in paesi come Colombia, Spagna, Stati Uniti, Francia, Argentina e Grecia, con 69 eventi in 17 paesi, con la partecipazione di 234 invitati. Il 13 febbraio il CNI ha portato a termine una conferenza stampa fuori della Procura Generale della Repubblica  (FGR), a Città del Messico, per denunciare l’impunità e la complicità delle autorità nel caso di Samir Flores. Considerano che la sua morte fu il risultato della sua lotta contro il megaprogetto Integrale Morelos e della sua difesa del territorio, fatto che lo trasformò in un obiettivo del crimine organizzato e del governo. “Giustizia per Samir, grida la resistenza per la vita contro il Progetto Integrale Morelos e contro il narcogoverno, giustizia grida ciascuno dei popoli, dei luoghi e cuori che lo hanno conosciuto prima o dopo la sua morte. Giustizia gridiamo dalla lotta per la vita a Gaza, nel Chiapas, ad Ostula, nella lotta contro la discarica di Cholula, nel grido delle famiglie dei nostri fratelli scomparsi, nella lotta contro il Tren Maya, contro il Corridoio Interoceanico, la xenofobia e lo sfollamento forzato, la miniera, la diga, il corridoio, il gasdotto, l’impianto termoelettrico, il fracking, il cartello immobiliare, l’affare dell’immondizia, la difesa dei fiumi, dei mari e dei corpi dell’acqua, dei boschi e degli spazi autonomi nella terra o nell’aria. Giustizia costruì Samir durante la sua vita”. Ricordiamo il caro collega e amico Luis Arizmendi, che, a partire dal caso messicano, sosteneva che nel nostro paese si era imposta una configurazione storico-decadente di accumulazione attraverso il saccheggio fondata su una politica di morte e su un’economia criminale, che ha chiamato capitalismo necropolitico, nel quale si impone, oltre alle altre rendite provenienti dal salario, dai territori o dal saccheggio delle risorse pubbliche, un ampio ventaglio di fonti di un nuovo tipo di rendita, la rendita criminale. (Luis Arizmendi/Jorge Beinstein. Tiempos de peligro: Estado de excepción y guerra mundial, Universidad de Zacatecas, Plaza y Valdés Editores, 2018, p. 31). La guerra contro i popoli continua, contemporaneamente si globalizzano le resistenze e le lotte contro il saccheggio e la violenza, como dimostra questa giornata in memoria di Samir Flores. 21 febbraio 2025 La Jornada
Caro bollette: “inefficace il decreto varato dal governo per contenere i costi di gas e energia” dovuti in gran parte ancora da dinamiche speculative
I prezzi all’ingrosso dell’energia elettrica e del gas continuano a crescere, creando forti difficoltà alle famiglie. A gennaio 2025 le bollette elettriche hanno segnano un aumento medio del 24% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente e del 56,5% rispetto al 2019. Per quanto riguarda il gas, l’aumento è del 27% rispetto al 2024 e del 90,4% rispetto al 2019. Le cifre sono particolarmente penalizzanti soprattutto se confrontate con quelle di altri Paesi europei. A gennaio 2025, infatti, il costo dell’elettricità in Italia (143 €/MWh) è superiore del 40% rispetto alla Spagna e di quasi il 30% rispetto a Francia e Germania. Nel corso degli ultimi due anni, questo divario si è costantemente ampliato: nel 2023 l’elettricità in Italia era più cara del 24% rispetto alla Francia e del 33% rispetto alla Germania e del 41% rispetto alla Spagna. Nel 2024, il differenziale è aumentato a +49% rispetto alla Francia, a +42% rispetto alla Spagna e a +31% rispetto alla Germania. Dal 2019 al 2024, i prezzi dell’energia elettrica in Italia sono aumentati del 107%, mentre in Francia l’incremento è stato del 39% e in Spagna del 32%. In Germania, l’aumento è stato più alto (+74%), ma comunque inferiore a quello registrato in Italia. Per Alessandro Volpi docente di Geografia Politica la causa è ancora e soprattutto legata alle dinamiche speculative delle borse e dei mercati finanziari che avevano causato aumenti anche negli anni precedenti allo scoppio della guerra in Ucraina; per le associazioni dei consumatori il decreto varato dal Governo per contenere i costi in bolletta e pubblicato venerdi scorso in Gazzetta Ufficiale che prevedono un bonus di 200 euro in favore di tutte le famiglie con ISEE fino a 25.000 euro è totalmente inefficace per risolvere la questione del “caro bollette”. Ne parliamo con lo stesso Alessandro Volpi e Marco Vignola Unione Nazionale Consumatori 
La violenza colpisce la scienza: gli esperti sono minacciati per aver rivelato gli impatti sulla biodiversità
Messaggi intimidatori, attacchi fisici, avvertimenti. Secondo l’International Council on Science, gli scienziati ambientali latinoamericani sono sempre più minacciati. di Ana Cristina Alvarado, da ECOR Network “Stiamo assistendo a casi di persone che pubblicano informazioni scomode e, alla fine, si attaccano gli scienziati al fine di mettere a tacere il loro lavoro”, afferma Laura Furones, autrice principale del rapporto annuale di Global Witness sulla violenza contro i difensori della terra e dell’ambiente. A causa della novità del fenomeno, Global Witness non registra sistematicamente gli attacchi ai ricercatori, spiega Furones. L’organizzazione, con sedi in Europa e negli Stati Uniti, documenta dal 2012 gli omicidi, gli attacchi, le minacce e la criminalizzazione dei difensori dell’ambiente. Secondo il rapporto più recente, nel 2023 sono state uccise in tutto il mondo 193 persone impegnate nella lotta per la protezione della natura. “Abbiamo sicuramente casi di scienziati che sono stati minacciati e persino uccisi per aver ricercato o pubblicato informazioni scomode per certi interessi”, afferma Furones. Nel 2023, Cuauhtémoc Márquez e Álvaro Arvizu, due ricercatori e difensori dell’acqua, furono assassinati a Tlalmanalco, nello stato di México. Il loro operato ostacolava attività quali il disboscamento illegale, l’espansione agrozootecnica, la crescita urbana disorganizzata e l’estrazione idrica. Gli omicidi sono stati commessi in giorni consecutivi, il 12 e il 13 giugno 2023. Arvizu è stato aggredito con un’ascia. “Volevano ucciderli con grande brutalità e determinazione”, afferma il membro di Global Witness. Furones sottolinea che il narcotraffico, l’attività mineraria, l’agroindustria e l’industria del legname sono le principali minacce per i difensori dell’ambiente in America Latina. “Le strategie assolutamente violente della criminalità organizzata stanno colpendo gli scienziati perché le ricerche di questi stanno infastidendo a tutti i livelli”, ha aggiunto. La criminalità organizzata ha preso il controllo di aree di interesse naturalistico. In Colombia e Perù, 30 aree protette sono sotto assedio da parte dell’attività mineraria e del narcotraffico. Di fronte a tutto ciò, esistono strumenti come l’Accordo di Escazú per l’America Latina e i Caraibi o l’ Impegno Dovuto delle Imprese in Materia di Sostenibilità dell’Unione Europea, che mira a proteggere i difensori dell’ambiente. “Sono misure relativamente recenti e dobbiamo ancora vedere se rimarranno solo sulla carta o se serviranno a ridurre la violenza”, afferma Furones. Mongabay Latam ha parlato con quattro scienziati che sono stati minacciati per aver condotto ricerche sugli impatti ambientali delle attività illegali. In alcuni casi, i loro nomi, sesso, posizione geografica e specializzazione sono stati modificati o omessi per proteggere la loro identità, in quanto a rischio. Ecco alcuni casi di scienziati che hanno visto la loro vita in pericolo in America Latina. “SE TORNASSIMO SUL TERRITORIO CI SEQUESTREREBBERO” Un gruppo di specialisti di un’organizzazione colombiana impegnata nella conservazione della biodiversità ha dovuto abbandonare durante la notte una cittadina nella regione dell’Orinoquía. Nell’ottobre 2023, tre persone del team hanno ricevuto messaggi WhatsApp in cui un presunto gruppo armato si lamentava di alcune decisioni e azioni del progetto. “Insieme a queste lamentele, c’erano anche delle minacce: se fossimo tornati nel territorio, ci avrebbero sequestrati”, ha detto lo scienziato che guidava le attività, che non si trovava nel territorio in quel momento. L’esperto afferma che questa zona è “strategica per i gruppi illegali”. Per l’esercito e la polizia è assai difficile coprire un’area così vasta e remota. Ciò consente alle bande criminali di rafforzarsi e di essere “coloro che prendono le decisioni sul territorio, al di sopra delle comunità”, afferma. Di fronte alle minacce, l’organizzazione ha immediatamente allestito un dipartimento per la sicurezza, supportato da esperti che per diversi giorni hanno dato istruzioni precise alle persone coinvolte. Le persone che si trovavano sul campo hanno potuto lasciare la zona tranquillamente. “Non diffondiamo le informazioni per non creare allarmismo”, afferma l’esperto. A seguito di questi eventi, l’organizzazione ha deciso di chiudere immediatamente il progetto. È stata inviata una lettera alla comunità con cui stavano lavorando per informarli che, a causa del rischio pubblico, il programma sarebbe stato ritirato per evitare di mettere in pericolo il personale che lavorava nella zona. Ciò ha avuto un impatto sulla comunità beneficiaria, visto che ha smesso di ricevere supporto tecnico e finanziario per le azioni di conservazione che si stavano realizzando. “Sebbene negli ultimi anni abbiano acquisito maggiore empowerment e abbiano iniziato a sviluppare progetti propri, un ritiro così improvviso lascerà un vuoto”, afferma l’esperto. Attualmente gli impegni che l’organizzazione aveva preso con la comunità vengono rispettati da remoto. Gli esperti che hanno ricevuto i messaggi sui loro numeri personali hanno subìto impatti emotivi. “Crea una sensazione di paura che non è facile da gestire, è angosciante”, ha dichiarato il biologo, che afferma che dopo il fatto, molte delle vittime delle minacce hanno sofferto di depressione. L’organizzazione ambientalista ha fornito supporto psicologico e legale per garantire il benessere dei membri del team coinvolti. “MI HANNO DETTO CHE PARLAVO TROPPO” In Ecuador, la Fondazione Ecociencia conduce ricerche scientifiche per promuovere la conservazione biologica. Uno dei suoi rami è quello dei sistemi di informazione geografica, con cui i suoi membri raccolgono dati su uso e copertura del suolo, rivelando l’aumento della frontiera agricola, dei bacini idrici artificiali, dell’infrastruttura urbana, delle concessioni per le industrie estrattive e dell’attività mineraria illegale. Nel 2023, un membro dell’organizzazione, che preferisce non rivelare il suo nome per motivi di sicurezza, ha ricevuto un messaggio di testo pochi giorni dopo che Ecociencia aveva pubblicato un report che rivelava l’aumento dell’estrazione illegale di oro in un’area prioritaria di conservazione nell’Amazzonia ecuadoriana. Il messaggio “conteneva una serie di avvertimenti su cosa sarebbe successo” se le indagini fossero proseguite, ha affermato lo scienziato. “Era una minaccia, dicevano che parlavo troppo, che ero osservato e che dovevo stare attento”, ha aggiunto. Nessun gruppo criminale o individuo ha firmato la lettera, ma è noto che dietro l’attività mineraria illegale in Ecuador ci sono dei gruppi criminali. L’esperto afferma che il messaggio ha avuto effetto: ha portato il terrore nell’organizzazione e ha temporaneamente bloccato la ricerca in quell’area.   Le minacce ebbero un grande impatto emotivo. L’esperto afferma che la tutela dell’ambiente è una carriera che richiede molto tempo, lavoro e investimenti, ma fino ad ora non è stato necessario prepararsi per sapere come comportarsi di fronte a minacce e intimidazioni. “Quelli di noi che hanno vissuto questa esperienza soffrono di grave ansia, paura, nervosismo e terrore. “Tutto ciò ostacola il nostro lavoro”, assicura. Da quel momento in poi, Ecociencia ha adottato misure di sicurezza fisiche e digitali. Lo scienziato ha anche presentato una denuncia. Tuttavia, un avvocato lo ha informato di recente che “oltre il 90% di queste denunce restano sulla carta”. Sebbene riconosca che il suo lavoro ha sempre incontrato l’opposizione di persone e aziende legate all’estrazione o al saccheggio delle risorse naturali, questa è la prima volta che riceve una minaccia. “Quello che ci aspettiamo come scienziati è che il nostro lavoro sia realmente garantito, sia attraverso l’attuazione di accordi, sia attraverso azioni più incisive da parte dello Stato”, sostiene. “VALERIA SOUZA CONTRO LO STATO MESSICANO” La scienziata messicana Valeria Souza ha lavorato per 25 anni come ecologa evoluzionista a Cuatro Ciénegas, un’oasi nel deserto di Coahuila, nel Messico settentrionale. Racconta che la NASA, l’ agenzia spaziale americana, la portò sul sito nel 1999 con l’obiettivo di studiare l’oasi con più di 300 pozze, simili a un mare primitivo della Terra e, forse, anche su Marte. “Abbiamo scoperto che non si trattava di una similitudine, che esisteva davvero un mare primitivo”, afferma Souza. Una montagna ha protetto le sue acque per miliardi di anni, “insieme ai batteri che hanno reso questo un pianeta blu ”, aggiunge. Tuttavia, questo luogo “molto speciale” e area naturale protetta dal 1994 potrebbe scomparire a causa dello sfruttamento eccessivo della sua falda acquifera profonda. Gli agricoltori di erba medica coltivano i loro raccolti nel deserto e li irrigano con l’acqua estratta dalla falda acquifera. “Le minacce arrivano quando inizio ad apparire sulla stampa per dire che coltivare erba medica nel deserto è stupido, soprattutto quando ci sono 50 gradi sotto il sole estivo e richiede moltissima acqua”, racconta. Assicura che i giornali locali incoraggiavano i lettori a lanciare pietre contro il suo veicolo. “Fortunatamente non è successo”, dice. Souza ha generato dati molecolari per dimostrare che i pozzi perforati a sud di Cuatro Ciénegas utilizzavano la stessa acqua proveniente dalla falda acquifera profonda. “Nel 2003 hanno chiuso i pozzi e la cosa non è piaciuta per niente. Da quel momento è stata Valeria Souza contro lo Stato messicano”, dice. La dottoressa in ecologia e gli abitanti del posto sono riusciti a far vietare l’uso dell’acqua della falda acquifera, ma “la Commissione nazionale per l’acqua non ha mai monitorato, non ha mai protetto, non si è mai preoccupata”, afferma. Ha aggiunto che fino al 2024 si è continuato sfruttarla nello stesso modo. L’acquifero di Cuatro Ciénegas è inoltre drenato da diversi canali, uno dei quali è il canale Saca Salada, per l’irrigazione delle colture. Nel 2020, insieme a Mauricio de la Maza, allora direttore dell’organizzazione Pronatura Noreste, chiusero il canale. De la Maza e il fotografo e videomaker David Jaramillo sono stati aggrediti verbalmente e fisicamente da una banda. Souza era in una macchina a cinque metri di distanza. “Mi hanno detto al telefono: ‘Tu non muoverti nemmeno dalla macchina’”, ricorda. “È stato un po’ un miracolo. Nessuno ha attraversato il ponte di cinque metri per tirarmi giù dalla macchina. “Quella che volevano ero io”, dice. La scienziata ha sporto denuncia e rilasciato interviste. David Jaramillo, da parte sua, ha pubblicato un video dell’accaduto sulla televisione nazionale, ma non ci sono state conseguenze per gli aggressori. Sebbene Souza non abbia mai avuto paura, ammette che suo marito e collaboratore, lo scienziato Luis Eguiarte, “rimase molto angosciato”. La sicurezza della specialista si basa sul fatto che educa i bambini di Cuatro Ciénegas da 24 anni. “I loro genitori apprezzano il lavoro che ho svolto, quindi mi proteggono.” Tuttavia, nel 2023 ha rinunciato a lavorare per questa zona umida. “Sta morendo e non voglio più piangere per le tartarughe e i pesci morti”, dice. “O chiudono quel canale, come abbiamo cercato di fare nel 2020, oppure non c’è via d’uscita”, conclude. “QUANDO DEVO VIAGGIARE NEL MIO AMBITO DI STUDIO C’È INCERTEZZA” Un biologo marino sudamericano responsabile di una “grande scoperta” che mostra la grande diversità del mare in una parte della regione ha dovuto affrontare diverse minacce per il suo lavoro di conservazione. “Abbiamo risorse incredibili che devono essere protette. Se si lavorasse in modo adeguato, con manuali e protocolli, si potrebbero generare entrate turistiche mostrando la bellezza di questa regione”, afferma. Non può rivelare la sua identità o la zona in cui lavora, perché ritiene che ciò potrebbe metterlo nuovamente in pericolo. Afferma inoltre di non essere l’unico scienziato impegnato nelle ricerche sul mare ad essere stato oggetto di intimidazioni. In questo articolo sono stati omessi dati quali la sua posizione geografica per impedirne l’identificazione. La prima volta che vide la sua vita e la sua attività in pericolo fu quando denunciò atti di corruzione in un dipartimento pubblico legato alla biodiversità. Ricevette minacce telefoniche. Sebbene non si siano concretizzate, hanno creato un precedente per lo sviluppo delle dinamiche sociali sulla costa del loro Paese, ormai assediata dalla criminalità. Questo ambiente teso fece sì che il biologo cominciasse ad ammalarsi. Dopo la pandemia di Covid-19 si è trasferito fuori regione. “Ho lasciato il Paese perché era diventato un posto pericoloso e c’erano anche molte attività illegali nel settore in cui lavoravo”, racconta. Un secondo allarme è arrivato circa quattro anni fa, dopo che il ricercatore ha rivelato informazioni sull’impatto della pesca illegale sulle specie protette. Un rappresentante del settore della pesca lo ha minacciato di impedirgli di parlare apertamente del problema. “Ho imparato la lezione”, aggiunge. Non presentò denuncia perché ritiene che questa misura non funzioni, nel suo Paese. Ora, ogni volta che deve tornare nella zona in cui conduce le sue ricerche, lo fa mantenendo un basso profilo. “Quando devo recarmi nella mia area di ricerca vivo nell’incertezza, anche se amo quello che faccio”, afferma. La lontananza dalla regione influì sulla sua capacità di raccogliere fondi per finanziare il suo lavoro scientifico. “Amo il mio paese, amo i mari, ma è una sensazione brutta”, dice. E aggiunge: “Non c’è modo nemmeno di camminare nelle località costiere, perché c’è un clima di insicurezza che prima non esisteva, di paura”. → L’articolo qui tradotto, originariamente pubblicato da Mongabay Latam, è stato ripreso dal sito  e tradotto dallo  spagnolo. *  Foto di copertina: Enormi aree della Nueva Austria del Sira sono state invase e saccheggiate, alcune per piantare foglie di coca. Foto: Hugo Alejos. ** Traduzione di Giorgio Tinelli per Ecor.Network