Haaretz ha pubblicato un nuovo rapporto sul lavoro dei soldati israeliani presso
il GHG a Gaza. Un soldato veterano ha rivelato che qualsiasi appaltatore privato
che lavori a Gaza con attrezzature ingegneristiche riceve 5.000 shekel [circa
1.500 dollari] per ogni casa demolita, aggiungendo che stanno guadagnando una
fortuna e che ogni momento in cui non demoliscono case è una perdita di denaro.
da InfoPal
Il soldato ha anche affermato che gli appaltatori sono protetti dalle forze
israeliane e che, per questo, scoppia una sparatoria e delle persone vengono
uccise. “Queste sono zone in cui ai palestinesi è permesso stare – siamo noi che
ci siamo avvicinati e abbiamo deciso che ci mettevano in pericolo. Quindi, per
un appaltatore che vuole guadagnare altri 5.000 shekel demolendo una casa, è
considerato accettabile uccidere persone che cercano solo cibo”, ha concluso il
soldato.
Quds News. Nell’ultimo mese, soldati israeliani hanno deliberatamente aperto il
fuoco contro richiedenti disarmati vicino o presso i siti di distribuzione di
aiuti umanitari sostenuti dagli Stati Uniti a Gaza, agendo su ordine dei loro
comandanti.
Secondo Haaretz, conversazioni con ufficiali e soldati rivelano che i comandanti
hanno ordinato alle forze di sparare sulla folla in attesa di cibo vicino o
presso i siti di distribuzione di aiuti umanitari della Gaza Humanitarian
Foundation (GHF), sostenuta dagli Stati Uniti, per allontanarla o disperderla,
nonostante non rappresentasse alcuna minaccia.
Le uccisioni di massa da parte di Israele di richiedenti aiuti umanitari vicino
ai siti di distribuzione della GHF sono diventate una triste realtà quotidiana,
tra scene caotiche, poiché ai palestinesi disperati viene concesso solo un breve
lasso di tempo per correre in cerca di cibo e vengono successivamente presi di
mira dalle forze israeliane.
L’ufficio stampa del governo di Gaza (GMO) e le Nazioni Unite hanno descritto
questi siti come “trappole di massa” e “macelli”.
Oltre 540 richiedenti aiuti sono stati uccisi e più di 4.000 sono rimasti feriti
dalle forze israeliane nei pressi dei siti di distribuzione degli aiuti della
GHF, dall’inizio delle sue operazioni a Gaza, il 27 maggio, secondo il ministero
della Salute palestinese.
Inoltre, altre 39 persone sono state dichiarate disperse dopo che si erano
recate ai siti della GHF per procurarsi cibo.
Dopo oltre 80 giorni di blocco totale, carestia e crescente indignazione
internazionale, la GHF, un’organizzazione coinvolta da scandali e sostenuta da
Stati Uniti e Israele, creata per aggirare l’infrastruttura di distribuzione
degli aiuti delle Nazioni Unite nella Striscia di Gaza, avrebbe distribuito solo
aiuti limitati.
La maggior parte delle organizzazioni umanitarie, tra cui le Nazioni Unite, ha
preso le distanze dalla GHF, sostenendo che il gruppo viola i principi umanitari
limitando gli aiuti alla Striscia di Gaza meridionale e centrale, costringendo i
palestinesi a percorrere lunghe distanze a piedi per ricevere gli aiuti e
fornendo solo aiuti limitati, tra le altre critiche. Medici Senza Frontiere
(MSF) ha avvertito che “militarizzare gli aiuti in questo modo può costituire
crimine contro l’umanità”.
“Ogni giorno i palestinesi si scontrano con una carneficina nel tentativo di
ricevere rifornimenti dall’insufficiente quantità di aiuti che arriva a Gaza”,
ha dichiarato MSF.
Dall’apertura dei centri di distribuzione rapida, Haaretz ha contato 19
sparatorie nelle loro vicinanze.
Testimonianze dei soldati.
Un soldato ha descritto la situazione come un crollo totale dei codici etici
dell’esercito israeliano a Gaza.
“È un campo di sterminio“, ha detto un soldato. “Dove ero di stanza, venivano
uccise da una a cinque persone ogni giorno. Vengono trattate come una forza
ostile: niente misure di controllo della folla, niente gas lacrimogeni,
solo fuoco vivo con tutto l’immaginabile: mitragliatrici pesanti, lanciagranate,
mortai. Poi, una volta aperto il centro, gli spari cessano e sanno di potersi
avvicinare. Il nostro mezzo di comunicazione è il fuoco nemico”.
Il soldato ha aggiunto: “Apriamo il fuoco la mattina presto se qualcuno cerca di
mettersi in fila da poche centinaia di metri di distanza, e a volte lo colpiamo
da distanza ravvicinata. Ma non c’è pericolo per le forze”. Secondo lui, “Non
sono a conoscenza di un singolo caso di fuoco di risposta. Non c’è nemico, non
ci sono armi”.
Ha anche affermato che l’attività nella sua area di servizio è nota
come Operazione Pesce Salato, il nome della versione israeliana del gioco per
bambini “Luce rossa, luce verde”.
Ufficiali israeliani hanno dichiarato a Haaretz che l’esercito non permette al
pubblico, in Israele o all’estero, di vedere filmati di ciò che accade intorno
ai centri di distribuzione alimentare.
“Gaza non interessa più a nessuno“, ha detto un riservista che ha completato un
altro turno di servizio nella Striscia settentrionale, questa settimana. “È
diventato un luogo con le sue regole. La perdita di vite umane non significa
nulla. Non è nemmeno uno ‘sfortunato incidente’, come si diceva una volta“.
Un ufficiale in servizio nella sicurezza di un centro di distribuzione ha
descritto l’approccio israeliano come profondamente imperfetto: “Lavorare con
una popolazione civile quando l’unico modo di interagire è aprire il fuoco è
altamente problematico, per usare un eufemismo”, ha dichiarato a Haaretz. “Non è
né eticamente né moralmente accettabile che le persone debbano raggiungere, o
non raggiungere, una [zona umanitaria] sotto il fuoco di carri armati, cecchini
e colpi di mortaio”. L’ufficiale ha sottolineato un altro problema relativo ai
centri di distribuzione: la loro mancanza di coerenza. I residenti non sanno
quando ciascun centro aprirà, il che aumenta la pressione sui siti e
contribuisce a danneggiare i civili.
“Non so chi prenda le decisioni, ma diamo istruzioni alla popolazione e poi o
non le seguiamo o le modifichiamo“, ha affermato.
Le testimonianze di comandanti e soldati israeliani rivelano una netta
discrepanza tra le direttive ufficiali israeliane e le azioni sul campo a Gaza.
Mentre alle truppe è stato ordinato di evitare le aree civili e i siti di aiuti
umanitari, gli appaltatori privati, pagati per ogni casa demolita, stanno
spostando le operazioni più vicino ai punti di distribuzione alimentare,
innescando attacchi mortali contro palestinesi disarmati in cerca di aiuti.
“Queste sono aree in cui ai palestinesi è consentito stare: siamo noi che ci
siamo avvicinati e abbiamo deciso che ci mettevano in pericolo. Quindi, per un
appaltatore guadagnare altri 5.000 shekel e demolire una casa, è considerato
accettabile uccidere persone che cercano solo cibo“, ha detto un soldato. Un
alto ufficiale il cui nome compare ripetutamente nelle testimonianze sulle
sparatorie vicino ai siti di soccorso è il Generale di Brigata, Yehuda Vach,
comandante della Divisione 252. Haaretz ha precedentemente riferito di come Vach
abbia trasformato il corridoio di Netzarim in una via di fuga mortale, mettendo
in pericolo i soldati sul campo e sospettato di aver ordinato la distruzione di
un ospedale a Gaza senza autorizzazione.
Ora, un ufficiale della divisione afferma che Vach ha deciso di disperdere i
raduni di palestinesi in attesa dei camion degli aiuti delle Nazioni Unite,
aprendo il fuoco. “Questa è la politica di Vach”, ha detto l’ufficiale, “ma
molti comandanti e soldati l’hanno accettata senza fare domande. [I palestinesi]
non dovrebbero essere lì, quindi l’idea è di assicurarsi che se ne vadano, anche
se sono lì solo per procurarsi del cibo”.
Si è tenuta una discussione al Comando Sud, da cui è emerso che le truppe
avevano iniziato a disperdere la folla affamata usando proiettili di
artiglieria.
“Parlano di usare l’artiglieria su un incrocio pieno di civili come se fosse
normale”, ha detto una fonte militare presente all’incontro. “Un’intera
discussione sul fatto che sia giusto o sbagliato usare l’artiglieria, senza
nemmeno chiedersi perché quell’arma fosse necessaria in primo luogo. Ciò che
preoccupa tutti è se continuare a operare a Gaza danneggerà la nostra
legittimità. L’aspetto morale è praticamente inesistente. Nessuno si ferma a
chiedere perché decine di civili in cerca di cibo vengano uccisi ogni giorno“.
Un altro alto ufficiale ha affermato che la normalizzazione dell’uccisione di
civili ha spesso incoraggiato a sparare contro di loro vicino ai centri di
distribuzione degli aiuti.
“Il fatto che il fuoco sia diretto contro la popolazione civile – che si tratti
di artiglieria, carri armati, cecchini o droni – va contro tutto ciò che
l’esercito dovrebbe rappresentare”, ha spiegato, criticando le decisioni prese
sul campo. “Perché le persone che raccolgono cibo vengono uccise solo perché
hanno oltrepassato i limiti, o perché a qualche comandante non piace che si
intromettano? Perché siamo arrivati al punto in cui un adolescente è disposto a
rischiare la vita solo per tirare giù un sacco di riso da un camion? Ed è a loro
che stiamo sparando addosso.
Banda di Abu Shabab.
Oltre al fuoco israeliano, fonti militari hanno riferito a Haaretz che alcune
delle uccisioni vicino ai centri di distribuzione degli aiuti sono state causate
da colpi d’arma da fuoco da parte di membri della banda di Yasser Abu Shabab,
sostenuta e armata da Israele e collaborazionista con Israele.
“Corri o muori“: gli abitanti di Gaza affamati descrivono il caos e gli spari
durante la corsa quotidiana per la sopravvivenza
Il rapporto di Haaretz ha confermato le testimonianze raccolte in precedenza
da Quds News Network. Chi raggiunge questi centri di aiuti rischia la vita. Chi
non ce la fa, torna a casa affamato, ammesso che ci riesca.
Parlando a QNN, Yasser Eyad, un palestinese sfollato e affamato, ha descritto
cosa succede prima ancora che le persone raggiungano la presunta “zona sicura”.
“Prima che arriviamo lì”, ha spiegato, “i soldati sui carri armati aprono il
fuoco. Se li guardi, sparano. Cecchini e droni ci sparano o sganciano bombe per
impedirci di avvicinarci”.
Ha aggiunto che molti rimangono feriti prima ancora di vedere il cibo.
Non ci sono code, né registrazioni. “Chi corre più veloce mangia”, ha spiegato
Eyad. “Non è un sistema. È una fuga precipitosa. Se esiti, muori di fame”.
Quello che Israele chiama “corridoio umanitario” è tutt’altro che sicuro.
Alla gente viene detto di arrivare un’ora prima dei camioncini del cibo. Ma
quando arrivano, sono già sotto tiro.
“Non viene chiesto un documento d’identità”, ha detto Eyad. “Si corre e basta.
Chi ce la fa ottiene del cibo. Chi non ce la fa, crolla per la fame o per i
proiettili“.
Source - InfoAut: Informazione di parte
Informazione di parte
Filippo Focardi – Santo Peli (a cura di), Resistenza. La guerra partigiana in
Italia (1943-1945), Carocci editore, Roma 2025
di Sandro Moiso, da Carmilla
> «Una nuova retorica patriottarda o pseudo-liberale non venga ad esaltare la
> formazione dei purissimi eroi: siamo quel che siamo: […] gli uomini sono
> uomini». (Emanuele Artom, Diario di un partigiano ebreo)
In tempi in cui anche i rappresentanti della destra più conservatrice e
reazionaria possono, e devono, fare professione di antifascismo con la
benedizione di una sinistra istituzionale esangue, le parole di Emanuele Artom
appaiono davvero profetiche. Una Resistenza spogliata, quasi fin da subito e dai
maggiori partiti rappresentati nell’agone parlamentare fin dalla caduta del
regime fascista, della sua reale valenza di classe, rivolta e rifiuto
dell’ordine costituito, allora dagli ordinamenti mussoliniani e di quelli
pericolosamente in essere nel passaggio alla repubblica borghese, è diventata
così il cardine su cui articolare una narrazione immaginifica e interclassista
della rifondazione patriottarda dello Stato nazionale dopo la fine
dell’identitarismo nazionalistico che aveva ispirato sia il regime che le sue
guerre e avventure coloniali. Una narrazione retorica che ne ha confuso
l’immagine, offuscandola, e tradito le concrete motivazioni.
Ben vengano dunque ricerche come quelle accluse nel testo curato da Focardi e
Peli che, nel solco degli studi iniziati da Claudio Pavone1 e della sua
attenzione all’economia morale che aveva fondato l’insurrezione contro il
governo non solo di Mussolini, del PNF e dei suoi gerarchi, ma anche contro
l’ordine morale, economico e politico borghese che ne aveva costituito l’essenza
e giustificato l’esistenza, riportano la storia e gli avvenimenti di quei
tragici e convulsi anni sui binari delle concrete condizioni materiali sui quali
effettivamente viaggiarono.
Una Storia che non solo deve liberarsi dalle incrostazioni con cui gli
interpreti di destra hanno cercato di ridurre, in sintonia con quelli
appartenenti ai partiti “nemici”, quel periodo ad una sorta di confronto tra
fazioni politiche avverse, di cui i partiti sarebbero stata la forma naturale di
espressione, ma anche delle interpretazioni mitopoietiche con cui tanta ricerca
di parte avversa l’ha imbastardita riducendola a mera funzione del progresso
degli organismi della democrazia parlamentare e dello Stato. Come sostengono da
subito i due curatori, affermando come sia oggi necessario rivalutare, ricordare
e ricostruire, le enormi fatiche della guerra partigiana che ne hanno segnato le
«opere e giorni»:
> Riportare al centro dell’attenzione la guerra partigiana nella sua
> concretezza, nella sua difficoltà e drammaticità, nel suo accidentato farsi,
> nel complicato intreccio tra spontaneità e organizzazione, di storia militare
> e storia politica, di localismi e di utopie, di durezze materiali e
> solidarismi trasversali: questo l’obiettivo che ci siamo prefissi progettando
> l’impegnativo lavoro collettivo da cui è nato questo volume. […] A stimolare
> l’”impresa” hanno concorso parecchi motivi.
> Il principale, abbastanza evidente per chiunque segua con interesse il
> discorso pubblico sulla Resistenza, è costituito dal fatto che quasi
> esclusivamente, da almeno tre decenni, si è scritto e parlato di resistenza
> senz’armi, di resistenza civile o di resistenza dei militari (Cefalonia) […]
> Ma ciò non dovrebbe occultare il fatto che la più importante discontinuità
> della storia nazionale […] non si sarebbe realizzato senza la scelta di
> impugnare le armi compiuta da un’esigua minoranza, senza un esercito di
> volontari disposti ad assumere su di sé il compito arduo di combattere, di
> uccidere e farsi uccidere2.
Una considerazione che potrebbe apparire scontata se non fosse, come proseguono
Focardi e Peli, che:
> Nella narrazione mediaticamente vincente si tornano invece a privilegiare, a
> discapito dell’aspra, complicata e divisiva insurrezione antifascista, gli
> aspetti unitari, nazional-patriottici della Resistenza. La centralità della
> sanguinosa e divisiva guerra partigiana è stata via via edulcorata e di fatto
> sostituita da una Resistenza più rassicurante, che piace immaginare condivisa
> dalla maggioranza del popolo. Dunque, sconfortante eterogenesi dei fini, la
> Resistenza diviene paradossalmente anche veicolo di un’autoassoluzione
> collettiva, fondamento di un’illusoria identità nazionale miracolosamente
> votata alla libertà3.
E’ un messaggio forte quello dei due curatori che, per molti versi, si avvicina
di più alla letteratura e alle memorie di Fenoglio, Calvino, Revelli, Bianco,
Meneghello, Chiodi e tanti altri, che non alle ricostruzioni storiche troppo
spesso ispirate alla necessità di superare le divisioni, un tempo tra PCI e DC
(il cui risultato fu una costituzione spoglia del “diritto alla resistenza”
proposto come articolo della stessa da Aldo Capitini e altri), e oggi, ancora
più platealmente, tra”destra “ e “sinistra”, entrambe di governo grazie all’idea
di “alternanza” che pervade il discorso politico moderno ispirato dal
liberalismo, soprattutto, economico. In cui a contare non sono più le differenze
tra i partiti e i loro programmi, ma la capacità di garantire continuità e la
stabilità all’ordine esistente e alle sue “necessità” proprietarie, finanziarie
e produttive.
Santo Peli si è laureato in Lettere nel 1973, ha insegnato Storia Contemporanea
presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova, fino al 2013.
I suoi campi di ricerca sono sempre stati costituiti dalla conflittualità
operaia tra Prima e Seconda guerra mondiale e dalla Resistenza italiana. Per
Franco Angeli ha dato alle stampe La Resistenza difficile nel 1999, poi
ripubblicato dalle edizioni dalla Biblioteca Franco Serantini (BFS) di Pisa nel
2018. Con Einaudi ha invece pubblicato, La Resistenza in Italia (2004), Storia
della Resistenza in Italia (2006 e 2015), Storie di Gap. Terrorismo urbano e
Resistenza (2014) e La necessità, il caso, l’utopia. Saggi sulla guerra
partigiana e dintorni, ancora per BFS Edizioni (2022).
Filippo Focardi si è laureato nel 1993 e svolge la sua attività presso il
Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali
dell’Università degli Studi di Padova. Si occupa di storia moderna e
contemporanea e la sua opera si è concentrata soprattutto sulla storia italiana
durante la seconda guerra mondiale e sul recupero della memoria storica di quel
periodo. Tra i suoi studi vanno ricordati: La guerra della memoria. La
Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 ad oggi (Laterza 2005), Il
cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda
guerra mondiale (Laterza 2013) e Nel cantiere della memoria. Fascismo,
Resistenza, Shoa, Foibe (Viella 2020).
I due storici, ancora nell’introduzione al testo, sottolineano infine come:
> La messa in sordina degli aspetti divisivi fatalmente connessi alla guerra
> partigiana, e la forte sottolineatura di una coralità, di un afflato
> nazional-patriottico, ricorda in qualche modo, e con molte diverse sfumature
> sulle quali non è dato qui soffermarsi, la narrazione prevalente negli anni
> Cinquanta […]. In una narrazione di questo tipo, la concreta esperienza
> storica della guerra partigiana, per nulla esente da difficoltà e spinte
> contrastanti, rischia di evaporare, di disciogliersi in un astratto pantheon
> di eroi, a discapito di fare i conti con «il partigianato così com’era, non
> come vorremmo fosse stato4 » 5.
Considerazioni che ci devono far ricordare come Una guerra civile di Claudio
Pavone, al suo apparire nel 1991, avesse fatto storcere il naso a molti
rappresentanti dell’antifascismo istituzionale e sollevato numerose perplessità
tra gli storici, quasi sempre di sinistra, che si occupavano della storia della
Resistenza proprio per l’accento messo sullo scontro interno al paese che la
guerra partigiana aveva suscitato, mettendo così in crisi e in discussione
l’immagine edulcorata e priva di contraddizioni della stessa che sembrava aver
ormai uniformato gli studi in materia.
Per raggiungere l’obiettivo dichiarato i due curatori del testo pubblicato da
Carocci hanno messo insieme sedici saggi, suddivisi in tre
parti: Combattere, Vivere, Narrare. Composte rispettivamente da sei la prima e
da cinque saggi ciascuna per entrambe le altre parti. Chiamando a raccolta
l’opera di storici, docenti e ricercatori di Eric Gobetti, Gabriele Pedullà,
Maria Teresa Sega, Chiara Colombini e Nicola Labanca, solo per citarne alcuni,
oltre ai due saggi scritti dagli stessi curatori.
Riuscendo a dare vita ad un complesso e intenso mosaico in cui vengono
ricostruiti differenti aspetti della guerra partigiana e della sua memoria. Gli
argomenti trattati vanno così dalla prima creazione delle bande partigiane ai
loro nemici e alla presenza di stranieri nelle loro fila, oltre che il
contributo, spesso sminuito, del Meridione alla storia della Resistenza oppure
sul ruolo delle donne nell’esercito di liberazione. Oltre a questi, altri temi
riguardano il vissuto e le passioni che alimentarono la Resistenza, la geografia
degli studi storici sulla guerra partigiana, la violenza insita nella stessa, il
“tradimento” dei manuali scolastici e il discorso pubblico sulla stessa,
infarcito inevitabilmente di innagini di “martiri” e “patrioti”.
Tra questi, che non si possono certo riassumere tutti nel corso di una
recensione, risaltano, almeno agli occhi di chi qui scrive il saggio di Santo
Peli su Guerra partigiana e rifiuto della guerra ( pp. 139-161), quello di
Francesco Fusi su La “sporca” guerra del partigiano: alimentazione, salute,
territorio (pp. 179-195) e, ancora, quello di Chiara Colombini intitolato «Non
un esercito di santi». Vissuto e passioni della guerra partigiana (pp. 163-177).
Non certo a discapito della validità degli altri tredici, ma soltanto perché
riguardanti argomenti spesso disattesi dalla ricerca storica sul periodo
1943-1945 in Italia e, invece, molto importanti per aprire un confronto più
approfondito sulle cause e conseguenze della “guerra civile”.
Nel primo dei tre qui indicati, Santo Peli torna su un argomento di cui si era
già occupato in altri suoi testi e in particolare nella parte finale della
sua Storia della Resistenza in Italia ovvero ristabilire una verità spesso
rimossa, quella del peso del rifiuto della guerra nell’alimentare la scelta di
molti giovani italiani di aderire alle fila o, almeno, alle motivazioni della
Resistenza, che venne ancor prima di una scelta di carattere ideologica o
politica, che troppo spesso viene ancora indicata come motivazione primaria,
forse per un malinteso senso del dovere nei confronti della patria che alimenta
ancora oggi, in tempi di nuove e imminenti guerre, un certo immaginario
patriottardo non soltanto di “destra”.
Peli cita, come riassunto della sua tesi, le riflessioni e le memorie di una
partigiana piemontese, Tersilla Oppedisano (nome di battaglia Trottolina),
risalenti alla metà degli anni Settanta del ‘900.
> Non so se la popolazione fosse tutta dalla nostra parte, non lo so. Certo, la
> gente era stanca del fascismo e quindi sentiva inconsciamente che eravamo i
> loro, anche perché la presenza dei partigiani aveva impedito che molti ragazzi
> del posto finissero in Germania. D’altronde, il grosso dei partigiani non era
> formato di volontari ma di ragazzi che erano stati costretti a scappare per
> non arruolarsi, perché la repubblica di Salò aveva fatto la coscrizione
> obbligatoria.
> La Resistenza è proprio la guerra dei disertori, la guerra degli imboscati,
> cioè gente che va nei boschi perché non la piglino. «E se venite a pigliarmi
> afferro un mitra e vi sparo!». Imboscati proprio in questo senso. E’ il primo
> momento della storia in cui ci si ribella alla guerra e ai fautori della
> guerra. In questo senso è importantissima la Resistenza. Io non so se sia
> opportuno dire queste cose, ma penso che bisogna dirle, anche per
> demistificare la figura dell’eroe che si butta nella guerra, il nazionalismo,
> il milite ignoto e mille storie di questo genere. Io mi trovo un po’ isolata a
> dire queste cose, perché al partito non si dicono, nella scuola non si dicono,
> e si fa l’elogio del volontarismo della massa del popolo italiano che si arma
> e combatte, mentre, quando si va a vedere sotto sotto, appare quell’aspetto
> del rifiuto della guerra, che pure è importantissimo6.
Peli prosegue poi ancora affermando che:
> La guerra partigiana, guerra di volontari che «si adunarono per dignità e non
> per odio, decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo», è
> un’immagine magnifica e tranquillizzante, che rischia di scambiare la parte
> con il tutto. Ci furono questi volontari, eccome, e senza di loro poco o nulla
> di politicamente ed eticamente significativo sarebbe accaduto. Ma forse sono
> più numerosi i protagonisti cui dà voce la partigiana Trottolina: una turba di
> sbandati in fuga dalla guerra, che in modi e in tempi diversi, e in buona
> parte all’inizio senza ideali motivazioni, si trasformano in partigiani, certo
> non tutti, e conservando caratteristiche e modi di intendere la lotta e i suoi
> obiettivi assai diversificati. Che la genealogia della guerra partigiana vada
> ricercata anche in una confusa ed eterogenea massa di italiani in fuga dalla
> guerra è immagine assai poco seducente, perché evoca uno stato di passività,
> una regressione o una permanenza nel particulare, e anche un’incerta, scarsa
> propensione all’amor di patria, al riscatto dell’onore militare tracollato
> nell’implosione dell’8 settembre […] Eppure una ricca memorialistica
> partigiana lascia pochi dubbi in proposito7.
Il saggio di Fusi, sottolineando le difficoltà di approvvigionamento delle
formazioni partigiane e dei problemi che ciò causò talvolta con le popolazioni
dei territori in cui operavano, non cerca sicuramente di mitizzare o edulcorare
il fatto che i partigiani si comportassero talvolta come “banditi” anche solo
per necessità logistiche.
> Oltreché una guerra contro tedeschi e fascisti, quella partigiana è al
> contempo una lotta contro le avversità: fattori ambientali proibitivi,
> scarsità di alimentazione e di vestiario, rischi fisici e psicologici dovuti
> alla forzata mobilità e ai continui pericoli. E’ perciò una guerra per la
> sopravvivenza, individuale e di gruppo, la cui urgenza talvolta ogni altra
> considerazione: «in molti casi sono più importanti le scarpe che le conferenze
> politiche». […] In ogni caso, sopravvivere fu la prima preoccupazione di chi
> salì in montagna. Oltre all’incognita della morte inflitta dal nemico, stava
> quella legata alle disagevoli condizioni di vita: «I fascisti sono un di più,
> ci ammazza da solo il freddo», sentenzia Ettore nel Partigiano Johnny. E così
> Giambattista Lazagna, il partigiano Carlo: «la lotta più terribile deve essere
> condotta contro le difficoltà di nutrirsi, di vestirsi, di armarsi, di
> nascondersi. […] Ci voleva a quel tempo, oltre ad un certo coraggio, un fisico
> molto robusto, uno stomaco molto piccolo, una buona dose di fantasia per
> andare ai monti». […] La memorialistica partigiana e le pagine di scrittori
> partigiani quali Fenoglio, Calvino e Meneghello sono popolate di questa
> umanità partigiana spesso sofferente, incerta o inadeguata in cui i resistenti
> sono presentati come «uomini simili ad altri nei loro meriti e nei loro
> difetti». Raffigurazioni che le prime stagioni storiografiche sulla Resistenza
> avevano lasciato spesso in ombra, per dare spazio ad immagini più edificanti,
> se non eroiche. Parlando della “sporca” vita del partigiano giova perciò
> l’avvertimento di Nuto Revelli a guardare a loro come a «gente comune», non a
> «un esercito di santi», e a contrapporre alla vulgata che vuole i «partigiani
> in gamba, tutti robusti, tutti perfetti, politicamente ben inquadrati, che di
> mangiare non parlavano mai» un più aderente e disincantato sguardo sul vero
> partigiano, afflitto quotidianamente «da un’infinità di piccoli problemi – le
> scarpe, il sacco di farina, il chilo di sale, il partigiano lazzarone, il
> partigiano fifone, il comandante sfessato e mille altre diavolerie» e nel
> quale «sovente i problemi logistici erano più impegnativi di quelli
> militari»8.
Chiara Colombini, nel suo saggio, continua necessariamente sulla linea
interpretativa tratteggiata fino ad ora:
> Qualsiasi tentazione di monumentalizzare eventi e persone diventa
> impraticabile qualora ci si affidi alle «scartoffie di allora». Perchè,
> facendo ricorso ai documenti prodotti durante la guerra partigiana, ci si
> ritrova immersi in un presente forzatamente scandito da incertezze e
> contraddizioni, quelle che accompagnano un sentiero sconosciuto, senza sapere
> esattamente dove condurrà»9.
Una memorialistica, letteraria e non che non esclude affatto sentimenti e stati
d’animo, in particolar modo presenti in quella delle donne e che serve a
riscoprire, come fece Claudio Pavone nella sua monumentale e imprescindibile
opera, la soggettività che operò nelle scelte partigiane e che, sempre, opera
nella Storia.
Lo spazio di una recensione non può espandersi oltre, ma rimane inconfutabile il
fatto che l’opera di Santo Peli, Filippo Focardi e di tutte le autrici e di
tutti gli autori coinvolti è destinata a segnare un ulteriore passo in avanti
nello studio e nella comprensione delle condizioni concrete e materiali che
stanno alla base degli eventi sociali, in cui spesso ad intervenire per ultime
sono proprio le motivazioni ideologiche o dichiaratamente politiche. Una lezione
importante per l’oggi e per il domani.
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1. Si vedano: C. Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla moralità delle
Resistenza (1991 e 2006) e, ancora, Alle origini della Repubblica. Scritti
su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato (1995 e 2025).
2. F. Focardi – S. Peli (a cura di), Resistenza. La guerra partigiana in Italia
(1943-1945), Carocci editore, Roma 2025, p. 15.
3. Ivi, pp. 15-16.
4. Nuto Revelli, lettera ad Alessandro Galante Garrone del 1° luglio 1955.
5. Focardi – Peli, op. cit., p. 16.
6. T. Fenoglio Oppedisano (Trottolina), in A. Bruzzone, R. Farina (a cura
di), La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, Bollati
Boringieri, Torino 2003 (prima edizione 1976), pp. 162- 163, cit. in S.
Peli, Guerra partigiana e rifiuto della guerra in F. Focardi, S. Peli,
op.cit., p. 139.
7. S. Peli, op. cit., p. 141.
8. F. Fusi, La “sporca” guerra del partigiano: alimentazione, salute,
territorio in Focardi – Peli, op. cit., pp. 181-184.
9. C. Colombini, «Non un esercito di santi». Vissuto e passioni della guerra
partigiana in Focardi – Peli, op. cit., p. 164.
Riprendiamo dal sito Phenomenalword questo interessante contributo sulle
antinomie della Trumpeconomics a cura di Di Benjamin Braun (Assistant Professor
of Political Economy, LSE), Cédric Durand (Professor of Political Economy,
University of Geneva).
Fazioni del capitale nella seconda amministrazione Trump.
Secondo lo storico Fernand Braudel, il declino egemonico è storicamente
accompagnato dalla finanziarizzazione. Di fronte a una redditività in calo nella
produzione e nel commercio, i detentori di capitale spostano sempre più i loro
investimenti verso la finanza. Questo, secondo Braudel, è un «segno d’autunno»,
momento in cui gli imperi «si trasformano in una società di rentier-investitori
in cerca di qualcosa che garantisca una vita tranquilla e privilegiata» (1).
Questo spettro di declino braudeliano aleggia sui principali attori della
cosiddetta seconda amministrazione Trump. «Dimmi cosa hanno in comune tutte le
ex valute di riserva», rifletteva durante la campagna Scott Bessent, ora
ministro del Tesoro. «Portogallo, Spagna, Olanda, Francia, Regno Unito… Come
hanno perso il ruolo di valuta di riserva?» La risposta: «Si sono fortemente
indebitati e non hanno potuto più sostenere il loro apparato militare.» Pur
negando ufficialmente un programma di deprezzamento del dollaro, da quando Trump
ha assunto la carica a gennaio gli speculatori hanno spinto il tasso di cambio
verso il basso.
Il segretario di Stato Marco Rubio è autore di un rapporto del 2019
sull’«investimento americano nel XXI secolo», in cui critica Wall Street per il
suo paradigma del valore per l’azionista, che «inclinerebbe le decisioni
aziendali verso la restituzione di denaro rapida e prevedibile agli investitori
invece che alla costruzione di capacità aziendali di lungo termine». Questa
ostilità residua verso la finanza è condivisa da populisti repubblicani come
Josh Hawley.
Questa rottura ideologica ha segnato i primi mesi della seconda amministrazione
Trump: da un lato le tariffe del “Liberation Day”, dall’altro la reazione
nervosa dei mercati finanziari innescata da Wall Street. Resta da vedere se la
coalizione populista MAGA, che punta a rilanciare la produzione nazionale e
ridurre i lavoratori immigrati per alzare i salari, sarà sostenibile. Le aziende
dei combustibili fossili e le imprese tecnologiche orientate alla difesa, come
Palantir e Anduril, trovano molti motivi per apprezzare il nazionalismo
militarizzato. Tuttavia, la politica commerciale di Trump danneggia chiaramente
la finanza privata e le big tech, due settori che lo hanno sostenuto con
coerenza e si aspettano di essere ricompensati. Attaccare questi settori rischia
di alienare proprio quelle fazioni del capitale statunitense che lo hanno
riportato al potere.
Per queste fazioni del capitale, il declino degli Stati Uniti è relativo e può –
come nel caso del Giappone – essere gestito in modo composto. Come osservava
Giovanni Arrighi nel 1994, la finanza ha sempre svolto un ruolo di
intermediazione, traendo vantaggio dalle transizioni egemoniche (2). Oggi, i
colossi della gestione patrimoniale traggono profitto sia dal riequilibrio dei
portafogli statunitensi rispetto all’egemone in declino, sia dall’offerta di
accesso agli asset statunitensi ai bacini di capitale in rapida crescita
provenienti dalla Cina e da altre economie asiatiche emergenti. Le big tech, nel
frattempo, puntano al controllo generale della conoscenza e del coordinamento
economico (3). Hanno molto da perdere da una frammentazione geo-economica che
potrebbe tagliarle fuori dall’accesso ai dati, ridurre i loro effetti di rete,
aumentare i costi delle infrastrutture materiali e spingere i Paesi non
allineati a perseguire la sovranità digitale.
Nel suo tentativo di rilanciare l’Impero Americano, l’amministrazione Trump
dovrà quindi bilanciare con delicatezza gli interessi sia dei nativisti
orientati alla manifattura, sia delle fazioni del capitale i cui interessi si
estendono su scala globale. Navigare tra queste agende contrastanti
rappresenterà una sfida enorme per la tenuta della coalizione trumpiana – e per
la stabilità dell’intero sistema finanziario globale.
La finanza privata sostiene Trump
Le elezioni del 2016 hanno segnato una netta spaccatura all’interno di Wall
Street. Mentre le banche “too big to fail” e i gestori di capitale “pubblico”
(come gli asset manager tradizionali) si sono allineati retoricamente ai
Democratici, il “capitale privato” – cioè i gestori di asset alternativi come il
private equity, il venture capital e gli hedge fund – si è schierato apertamente
a favore della prima candidatura di Trump. Questa spaccatura ha rispecchiato
quanto accaduto nel Regno Unito, dove un gruppo rafforzato di magnati del
private equity e degli hedge fund aveva sostenuto la Brexit, mentre la finanza
tradizionale tendeva a sostenere il campo del Remain (4).
I gestori di asset alternativi vogliono essenzialmente due cose: agevolazioni
fiscali e deregolamentazione. Il fattore più importante alla base dell’ascesa
inarrestabile dei magnati della finanza privata nelle classifiche Forbes 400 è
il trattamento fiscale privilegiato del carried interest. Negli ultimi
venticinque anni, il “carry” – cioè la remunerazione basata sulla performance
percepita dai general partner dei fondi privati – ha raggiunto la cifra
sbalorditiva di 1.000 miliardi di dollari (5).
Nel 2010, Obama tentò (senza successo) di chiudere questa scappatoia fiscale,
un’iniziativa che il CEO di Blackstone, Stephen Schwarzman, arrivò a paragonare
all’invasione della Polonia da parte della Germania nazista. Mantenere questa
scappatoia è stata la condizione imposta in extremis dalla senatrice Kyrsten
Sinema all’amministrazione Biden per approvare l’Inflation Reduction Act –
andando così a completare il più ampio fallimento nel tentativo di aumentare le
tasse su imprese e ricchi durante gli anni di Biden.
Sul fronte della deregolamentazione, il premio più ambito dalla finanza privata
è l’accesso all’enorme bacino dei risparmi previdenziali individuali.
Attualmente, il private equity e gli hedge fund raccolgono capitali da individui
ultra-ricchi e da grandi investitori istituzionali. Il loro cliente più
importante, di gran lunga, sono i fondi pensione a prestazione definita, sia
pubblici che privati – investitori istituzionali con passività fisse. Tuttavia,
dalla crisi finanziaria del 2008, i piani individuali a contribuzione definita –
come i 401(k) e gli IRA – sono cresciuti a un ritmo doppio rispetto ai fondi
collettivi. Oggi, poco meno di 10.000 miliardi di dollari sono detenuti in
queste due tipologie di piani, tutti gestiti dai baluardi della fazione liberal
di Wall Street: BlackRock, Vanguard e State Street
Nel suo sforzo di lungo periodo per ottenere accesso a questo enorme bacino di
risparmi, la fazione della finanza privata ha segnato la sua prima vittoria
durante il primo mandato di Trump. Nel 2020, il Dipartimento del Lavoro (DOL),
sotto la guida del segretario Eugene Scalia – figlio del celebre giudice
conservatore della Corte Suprema Antonin Scalia – ha emesso una lettera in cui
si affermava che le normative già in vigore consentivano agli sponsor dei piani
401(k) di allocare i fondi anche a società di private equity. Certo, una lettera
del DOL – a differenza di una modifica formale delle regole da parte della SEC –
poggia su basi giuridiche fragili, ma resta comunque significativa. Poco dopo il
ritorno di Trump alla Casa Bianca per un secondo mandato, i colossi del private
equity hanno raddoppiato gli sforzi per aprire il rubinetto dei 401(k), convinti
che questo possa raddoppiare la domanda per i loro fondi.
Non c’è alcun mistero sull’interesse del private equity ad accedere ai 60
milioni di partecipanti ai piani 401(k) statunitensi. La linea d’attacco è
chiara: limitando le opzioni di investimento ad azioni e obbligazioni quotate in
borsa, i regolatori priverebbero i titolari dei 401(k) di diversificazione e
rendimento. Marc Rowan, CEO di Apollo, ha lamentato che i fondi 401(k) “sono
investiti in fondi indicizzati liquidi giornalieri, per lo più nell’S&P 500.”
Larry Fink, CEO di BlackRock – che recentemente ha fatto il suo ingresso nel
settore delle infrastrutture – ha espresso un rammarico simile, sostenendo che
questi asset “si trovano nei mercati privati, chiusi dietro alte mura, con
cancelli che si aprono solo per i più ricchi o per i partecipanti più grandi al
mercato.” La spinta di BlackRock verso il private equity riflette il più ampio
spostamento a destra in corso tra i gestori di capitali “pubblici”, i quali
presentano l’accesso ai rendimenti del private equity ai risparmiatori americani
come un passo verso una maggiore democrazia finanziaria.
In realtà, il settore del private equity sta cercando un salvataggio per quella
che l’economista Ludovic Phalippou definisce la sua “fabbrica di miliardari”
(6). Dal 2006, i rendimenti degli investimenti dei fondi di private equity non
sono riusciti a superare quelli del mercato azionario, pur avendo visto il
numero dei miliardari del settore salire da tre nel 2005 a ventidue nel 2020.
Negli ultimi anni, questi fondi di buyout hanno faticato a uscire dai loro
investimenti, passandosi invece le aziende in un gioco settoriale simile a una
patata bollente. Nel 2024, il settore del private equity si è ristretto per la
prima volta in decenni. Le operazioni di fusione e acquisizione (M&A), colpite
durante gli anni di Biden, rappresentano una possibile via per tornare alla
crescita. “L’industria ha suonato la carica per il ritorno delle M&A, in parte
per giustificare la quantità di capitale che ha raccolto,” ha recentemente detto
agli investitori il Chief Investment Officer del gestore di asset alternativi
Sixth Street. “Il problema è che tra il 2019 e il 2022 la gente ha pagato troppo
per quegli asset, e ora nessuno vuole venderli senza ottenere un ritorno
accettabile.”
Con aspettative di rendimento irrealistiche accumulate nel tempo, il modo più
sicuro per garantire un’uscita redditizia agli investitori attuali è far entrare
nuovi investitori. Secondo la logica del settore, far affluire 1.000 miliardi di
dollari di “denaro stupido” dai 401(k) permetterebbe a fondi pensione, fondi
sovrani e grandi patrimoni individuali di liquidare le proprie partecipazioni
con profitto. I piccoli risparmiatori si ritroverebbero così in mano un
pacchetto di asset sopravvalutati. In altre parole, uno schema Ponzi.
Riallineamento delle big tech
Mentre la finanza si divideva in due fazioni politiche, l’élite della Silicon
Valley si è spostata a destra con un’unità sorprendente. Per tre decenni,
imprenditori tecnologici e finanziatori privati hanno potuto “muoversi in fretta
e rompere tutto” senza temere conseguenze significative imposte dallo Stato.
Avendo avuto vita fin troppo facile, questi predatori al vertice hanno deciso
che l’inasprimento delle politiche antitrust da parte dell’amministrazione Biden
e del Partito Democratico andava fermato. In questo senso, il loro schierarsi
sotto la bandiera di Trump mira a restaurare lo status quo ante antitrust
dell’era Obama-Trump. A testimonianza dell’ansia percepita dai leader del
settore, il venture capitalist Marc Andreesen ha parlato di segnali di una
“rivoluzione sociale” tanto nei campus universitari quanto nella Silicon Valley,
dove una “rinascita della Nuova Sinistra” avrebbe radicalizzato la forza lavoro.
“È molto chiaro che le aziende stanno praticamente venendo dirottate a
diventare motori di cambiamento sociale, di rivoluzione sociale. La base dei
dipendenti sta diventando incontrollabile. Durante l’era Trump [I] ci sono stati
casi in cui più aziende che conosco sembravano essere a poche ore dal
precipitare in vere e proprie rivolte violente all’interno dei propri campus,
scatenate dagli stessi dipendenti”. (M. Andreesen)
Il liberalismo della Silicon Valley, si scopre, è stato una fase temporanea
legata a un periodo ormai passato di massima liquidità e minima regolamentazione
nel capitalismo statunitense. Poi è arrivato il Covid, e il governo ha fornito
ingenti trasferimenti ai lavoratori, alcuni dei quali si sono sentiti
legittimati a esprimere nuove rivendicazioni. Contemporaneamente, il ramo più
attivista dell’amministrazione Biden, la Federal Trade Commission guidata da
Lina Khan, ha indirizzato le sue politiche antitrust verso le big tech.
Aggiungendo la timida coordinazione internazionale sulla tassazione delle
imprese da parte della segretaria al Tesoro Janet Yellen e il sostegno retorico
del presidente democratico alle mobilitazioni sindacali, si capisce perché
Andreesen abbia definito questo periodo “un enorme momento di radicalizzazione”
e abbia speso moltissimo tempo in chat di gruppo per promuovere la coscienza di
classe dei miliardari.
Sono queste le circostanze che hanno spinto le big tech a unirsi alla finanza
privata come seconda fazione del capitale a sostenere il ritorno di Trump.
L’incontro inaugurale tra i boss delle big tech ha suggellato questa alleanza.
Essi sono stati rapidamente ricompensati con una serie di ordini esecutivi che
hanno eliminato le tutele pubbliche per la sicurezza delle aziende di
intelligenza artificiale e gli ostacoli regolatori per le imprese di
criptovalute. Infatti, a differenza della rapida azione dell’amministrazione
Biden contro il piano di Facebook per il sistema di pagamenti globale Libra,
lanciato nel 2019 e archiviato nel 2022, la nuova amministrazione sembra pronta
a sostenere il settore delle criptovalute con la piena fiducia e garanzia dello
Stato.
Gli interessi legati alle criptovalute hanno adottato la strategia del private
equity cercando di attirare denaro dai fondi pensione. Dalla rielezione di
Trump, ventitré stati hanno introdotto leggi per consentire agli enti pubblici
di investire in criptovalute. In diversi casi, i provvedimenti includono
esplicitamente i fondi pensione pubblici. E mentre il Guiding and Establishing
National Innovation for US Stablecoins (Genius) Act, volto a creare un quadro
normativo permissivo per gli stablecoin, ha superato un importante ostacolo al
Senato, l’assalto da parte di DOGE alle agenzie di regolamentazione finanziaria
— dalla Securities Exchange Commission (SEC) al Consumer Financial Protection
Bureau (CFPB) — sta indebolendo la supervisione e aumentando gli incentivi al
rischio in tutto il sistema finanziario. Poco ostacola il piano di Elon Musk per
un conto X Money in partnership con Visa. Sono così gettati i semi per una crisi
ben più ampia di quella della Silicon Valley Bank.
Il risultato è che la grave tensione finanziaria che ha caratterizzato i primi
mesi della nuova amministrazione potrebbe essere tanto una caratteristica quanto
un difetto della coalizione aziendale del Presidente. Le ambizioni della nuova
élite della Silicon Valley non sono solo di paralizzare la burocrazia federale,
ma anche di spodestare Wall Street.
Il dilemma della Fed
Questo ci porta all’arbitro decisivo in ogni confronto tra finanza e Stato: la
Federal Reserve. Nonostante una grande crisi finanziaria, la Fed ha goduto di un
lungo periodo di predominio monetario nella politica macroeconomica
statunitense. Con l’inizio dell’inflazione legata alla riapertura, la politica
monetaria si è presentata come uno strumento promettente per garantire sia la
stabilità finanziaria sia quella dei prezzi, mentre la politica fiscale ha
assunto un ruolo secondario. L’economia ad alta pressione ingegnata sotto la
strategia “go-big-go-early” di Yellen in risposta alla recessione pandemica,
combinata con l’aumento dei prezzi dovuto ai ritardi nelle catene di
approvvigionamento, ha giustificato l’inasprimento della politica monetaria da
parte della Fed per far deflazionare sia i mercati finanziari sia il mercato del
lavoro.
Sotto il secondo mandato di Trump, tuttavia, la Fed si trova su un sentiero
molto più pericoloso. I dazi di Trump e un dollaro indebolito rendono il ritorno
delle pressioni inflazionistiche una possibilità concreta. Un’amministrazione
competente e disciplinata potrebbe forse evitare l’aumento dei prezzi dei beni
essenziali attraverso scorte strategiche e controlli sui prezzi (7). L’attuale
amministrazione, però, non è né competente né disciplinata, e l’assalto
sistematico di DOGE al governo federale non fa che rafforzare l’idea che l’onere
di contenere l’inflazione ricada interamente sulla Fed.
Qui Jerome Powell si trova davanti a un dilemma. Se le pressioni
inflazionistiche aumentassero sotto la doppia offensiva di dazi e dollaro
debole, la Fed sarebbe normalmente chiamata ad aumentare i tassi d’interesse. La
Fed sta già lasciando salire i rendimenti obbligazionari. Tuttavia, un
peggioramento dello stress finanziario dovuto a tassi d’interesse più alti del
previsto e a una crescita dei redditi più bassa del previsto – con i proprietari
di auto che saltano i pagamenti dei prestiti al tasso più alto da tre decenni –
potrebbe costringere la Fed a intervenire per sostenere i valori degli asset,
come già fatto alla fine del 2019 e all’inizio del 2023, attraverso prestiti di
emergenza e acquisti di asset. Inoltre, Trump e Bessent hanno chiarito di volere
tassi di interesse più bassi sul debito pubblico statunitense – una prospettiva
che complica enormemente qualsiasi progetto di restrizione monetaria.
Il dilemma di Powell è ancora più urgente perché in gioco sembra esserci il più
grande asset di tutti: lo status dei Treasury USA come asset sicuro globale e,
di conseguenza, il ruolo del dollaro come valuta di riserva e di finanziamento
globale. L’appetito dei gestori ufficiali di riserve per i titoli statunitensi è
in calo da anni, mentre la quota del dollaro nelle riserve globali è passata dal
71% nel 2000 al 57% nel 2024. Segnali di crescente preoccupazione tra gli
investitori obbligazionari sono emersi già a febbraio, quando il Chief
Investment Officer del gestore francese Amundi, rispondendo agli ordini della
Casa Bianca che indebolivano la regolamentazione dei titoli, ha osservato che
“sempre più cose… vengono fatte che potrebbero iniziare a erodere la fiducia…
nel sistema USA, nella Fed, nell’economia statunitense.” Nelle settimane
successive questa minaccia appena velata ha iniziato a concretizzarsi con una
forte correzione dei mercati azionari e, cosa più preoccupante, con un aumento
dei rendimenti dei Treasury USA. Dopo l’annuncio da parte di Trump di dazi
“reciproci” il 2 aprile, gli Stati Uniti hanno vissuto un evento straordinario:
la fuga di capitali. Se la Fed dovesse essere costretta a lasciare scendere i
tassi d’interesse reali mentre l’inflazione aumenta, una fuga di capitali su
scala molto più ampia diventerebbe una concreta possibilità.
Gli obiettivi di eliminare il deficit commerciale degli Stati Uniti mantenendo
allo stesso tempo lo status del dollaro come valuta di riserva sono da tempo
considerati incompatibili. Fin dal lavoro di Robert Triffin alla fine degli anni
’50 sul “surplus del dollaro”, gli economisti monetari internazionali hanno
compreso che la crescita economica globale basata sul commercio dipende dalla
disponibilità di riserve. In assenza di un nuovo standard di riserva, ciò è
stato interpretato come la necessità di un’ampia offerta di dollari, fornita al
resto del mondo tramite deficit commerciali statunitensi perpetui. Sebbene un
mondo di eurodollari e flussi finanziari transfrontalieri lordi illimitati
significhi che la liquidità globale non è necessariamente legata al conto
corrente statunitense, le idee dell’amministrazione per districare i due aspetti
sono tutt’altro che rassicuranti. Esse includono, in particolare, la promessa di
“promuovere lo sviluppo e la crescita di stablecoin legali e legittimi garantiti
dal dollaro in tutto il mondo.” Eric Monnet ha definito questo approccio
“criptomercantilismo,” una strategia volta a estendere, piuttosto che a minare,
il dominio del dollaro nel sistema monetario globale, dato che il valore degli
stablecoin sarà garantito da asset in dollari.
Le insidie della classe dominante al governo.
Il ritorno di Trump alla Casa Bianca ha messo in luce le crepe all’interno della
coalizione che ha contribuito alla sua vittoria. Le fazioni popolari del MAGA si
sono appoggiate a Trump per la sua posizione nazionalista, che ha ben poco in
comune con gli interessi della finanza tradizionale e del settore tecnologico,
favorevoli a mercati finanziari e digitali globali e aperti. Tecnologia e MAGA
potrebbero forse incontrarsi a metà strada nell’ambizione di rilanciare la base
industriale statunitense, ma questo metterebbe in discussione le fondamenta del
dollaro forte, su cui sia la finanza tradizionale sia quella privata basano la
propria supremazia. Anche se, come dice Steve Bannon, “molti tra i MAGA sono in
Medicaid,” il bilancio federale recentemente approvato dalla Camera controllata
dai repubblicani include tagli radicali al welfare sostenuti dalla finanza
privata. Nonostante la retorica, questi tagli alla spesa non compensano la
riduzione fiscale: i deficit pubblici continueranno, così come l’agenda
tariffaria e deregolamentatrice dell’amministrazione minaccia la stabilità
finanziaria.
I teorici dello Stato hanno a lungo sostenuto che “la classe dominante non
governa”. Seguendo la felice espressione di Fred Block, le democrazie liberali
si sono caratterizzate per una divisione del lavoro tra capitalisti, che
gestiscono le loro aziende, e “manager dello Stato,” che governano (8). Poiché i
capitalisti tendono a guardare soprattutto al proprio profitto, la loro fortuna
dipende dal successo dei manager statali nel mantenere le condizioni per la
riproduzione sociale, ecologica e finanziaria.
Secondo Block, lo Stato capitalistico assicura la propria sopravvivenza
aggregando interessi diversi. Ora sorge la domanda: il governo statunitense
attuale, nella sua forma indebolita, sarà in grado di aggregare gli interessi
delle molteplici fazioni in competizione che sostengono il Trump II? Tariffe che
risparmiano gli interessi manifatturieri della tecnologia USA in Cina ma che
accontentano i nazionalisti MAGA, unite a una svalutazione del dollaro
orchestrata a livello internazionale, potrebbero contribuire a sostenere il boom
degli investimenti manifatturieri promosso dalla Bidenomics. La
deregolamentazione finanziaria e l’apertura dei rubinetti dei 401(k) per il
private equity potrebbero essere combinate con il ritorno delle aliquote fiscali
più alte per i redditi elevati, dal 37% al livello pre-2017 del 39,6%, come
prospettato da Trump durante il dibattito alla Camera sul bilancio federale.
Resta però da vedere se emergerà un consenso di questo tipo. A pochi mesi
dall’inizio del mandato, le antinomie della Trumponomics sono già ben evidenti e
senza una soluzione chiara all’orizzonte.
Note:
1. Braudel, F. (1984). Civilization and capitalism, 15th-18th century.
University of California Press, pp. 246 and 266-267. (Back)
2. Arrighi, G. (1994). The long twentieth century: Money, power, and the origins
of our times. Verso. (Back)
3. Durand, C. (2024). How Silicon Valley Unleashed Techno-feudalism: The Making
of the Digital Economy. Verso Books. (Back)
4. Marlène Benquet and Théo Bourgeron, Alt-Finance: How the City of London
Bought Democracy, Pluto: London, 2022. (Back)
5. Phalippou, L. (2024). The Trillion Dollar Bonus of Private Capital Fund
Managers (SSRN Scholarly Paper No. 4860083).
https://papers.ssrn.com/abstract=4860083 (Back)
6. Ludovic Phalippou, “An Inconvenient Fact: Private Equity Returns and the
Billionaire Factory,” The Journal of Investing, December 2020, 30 (1) 11 –
39. (Back)
7. Weber, I. M., Lara Jauregui, J., Teixeira, L., & Nassif Pires, L. (2024).
Inflation in times of overlapping emergencies: Systemically significant prices
from an input–output perspective. Industrial and Corporate Change, 33(2),
297–341. https://doi.org/10.1093/icc/dtad080 (Back)
8. Block, F. (1987). The ruling class does not rule: Notes on the Marxist theory
of the state. In Revising state theory: Essays in politics and postindustrialism
(pp. 51–68). Temple University Press. (Back)
Potere al popolo ha scoperto l’esistenza di altri 3 poliziotti infiltrati nel
partito, in particolare nelle sue organizzazioni giovanili, dopo che lo scorso
mese di maggio 2025 i portavoce del partito avevano denunciato un primo caso di
agente che si era infiltrato tramite il Collettivo Autorganizzato Universitario
di Napoli.
“Si tratta di 4 agenti di polizia usciti dallo stesso corso, tutti giovanissimi
e tutti quanti infiltrati in città metropolitane a partire da contesti giovanili
e studenteschi come l’organizzazione ‘Cambiare rotta’”, spiega Giuliano
Granato ai microfoni di Radio Onda d’Urto. “Non appena terminato il corso –
aggiunge Granato – sono stati trasferiti alla direzione dell’Antiterrorismo e
poi infiltrati nella nostra organizzazione”.
Oltre a Napoli, gli agenti infiltrati hanno avvicinato l’organizzazione
giovanile Cambiare Rotta a Milano e Bologna. Ci sarebbe stato un altro tentativo
di infiltrazione a Roma. Quest’ultimo, però, non è andato a buon fine.
Nel pomeriggio di venerdì 27 giugno 2025 i portavoce di Potere al popolo
terranno una conferenza stampa in Senato per denunciare la vicenda ed esigere
spiegazioni da parte del governo Meloni, in particolare dalla premier e dal
ministro dell’Interno Piantedosi. Parteciperanno anche i parlamentari di Avs,
M5S e Pd che hanno presentato un’interrogazione parlamentare, oltre ai
giornalisti di Fanpage e gli attivisti di Mediterranea Saving Humans spiati con
lo spyware Graphite dell’azienda israeliana Paragon.
“Si tratta di un quadro estremamente preoccupante in questo Paese, che non
riguarda soltanto le organizzazioni interessate. Tocca un po’ tutti perché viene
meno il presupposto di uno Stato democratico: la libertà di associazione e di
riunione. Se dei poliziotti possono infiltrarsi in un partito politico, allora
vale tutto…”, conclude Giuliano Granato ai nostri microfoni.
L’intervista di Radio Onda d’Urto a Giuliano Granato, portavoce nazionale di
Potere al popolo. Ascolta o scarica.
da Radio Onda d’Urto
Nel silenzio assordante del governo italiano e dell’Unione Europea assistiamo
quotidianamente al massacro in diretta streaming del popolo palestinese.
Nessuna parola di condanna per chi sta commettendo crimini contro l’umanità!
In un momento così complicato, l’Europa ed in primis l’Italia, al posto di
occuparsi ed utilizzare risorse per aumentare e migliorare servizi collegati
all’istruzione, alla sanità pubblica, ai rinnovi dei contratti e di ricerca,
spenderà il 5% del PIL in armamenti!!!
Una decisione scellerata che si tradurrà in un ulteriore impoverimento delle
persone con un aumento ed allargamento dei conflitti mondiali!
Come la FIOM Nazionale anche noi delegati di AVIOAERO Rivalta, non possiamo
restare in silenzio. Il conflitto impoverisce le persone, aumenta le
disuguaglianze e cancella i diritti!
Siamo profondamente preoccupati dal ruolo attivo dell’Italia nel sostenere
l’escalation militare internazionale e denunciamo la totale assenza di una
politica estera autonoma e di pace.
RIBADIAMO IL NOSTRO IMPEGNO A FAVORE DEL POPOLO PALESTINESE, VITTIMA DI UN
GENOCIDIO DA PARTE DELLO STATO DI ISRAELE.
La nostra solidarietà è anche una presa di coscienza: chiediamo con forza la
fine immediata dei bombardamenti e lo stop allo sterminio ed al massacro nei
confronti di bambini, donne ed uomini palestinesi, vittime innocenti di un
conflitto che li sta ignorando in quanto esseri umani.
Come organizzazione sindacale, continueremo ad impegnarci a costruire iniziative
concrete di solidarietà verso il popolo palestinese, coinvolgendo le lavoratrici
ed i lavoratori in azioni reali, visibili, collettive, nel rapporto diffuso con
movimenti e reti pacifiste!
Per tutte queste ragioni e per la consapevolezza della responsabilità storica
alla quale è chiamato il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori, ci
batteremo affinché il sindacato torni ad essere una voce collettiva contro la
guerra, il riarmo e l’arretramento democratico con la consapevolezza che solo
l’unità dei lavoratori, a prescindere da nazionalità, lingua e religione, e la
loro lotta può portare alla fine dei conflitti.
L’UMANITÀ COMINCIA DOVE FINISCE L’INDIFFERENZA!
L’ITALIA RIPUDIA LA GUERRA!!!
(ART. 11 della COSTITUZIONE ITALIANA)
RIVALTA, 26/06/2025
RSU/ESPERTI FIOM AvioAero Rivalta
Riceviamo e pubblichiamo…
L’azione di Extinction Rebellion di questa mattina in piazza San Marco è stata
sgomberata con violenza dalle forze dell’ordine dopo soli 20 minuti dal suo
inizio.
Sebbene tutti i presenti fossero già stati identificati e la manifestazione non
ponesse alcun pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico, 43 persone in
totale – anche chi stava semplicemente dando volantini o facendo foto e video –
sono state trascinate prima nella sede della polizia locale e poi in Questura.
Alcune persone hanno riportato contusioni e profondi graffi sulla schiena, una
ragazza è svenuta dopo aver avuto un attacco di panico, e un’altra persona – con
la caviglia fasciata – è stata gettata a terra nonostante stesse comunicando
agli agenti la sua condizione. Due persone, inoltre, sono state portate in
Questura nonostante non facessero parte della manifestazione e si erano fermate
a guardare lo striscione.
Le 43 persone presenti in piazza sono state poste in stato di fermo, dove
“verranno loro notificate denunce e fogli di via”, a quanto dicono gli agenti.
“È inaccettabile che una manifestazione estremamente pacifica del diritto al
dissenso non possa essere effettuata nella principale piazza di Venezia. È
inaccettabile che chi sceglie di farlo venga sbattuto a terra e trattenuto per
ore in modo illegittimo in Questura. È inaccettabile che mentre decine di
ultraricchi stanno occupando intere aree di Venezia, dei semplici cittadini
vengano denunciati in modo pretestuoso e cacciati dalla città come il più
violento e pericoloso dei criminali”, commenta Extinction Rebellion.
Denunce che fanno eco alle dichiarazioni del sindaco di Venezia e del presidente
della Regione Veneto, che negli scorsi giorni invitavano i veneziani a rimanere
asettici di fronte al matrimonio della seconda persona più ricca al mondo. “Lo
ribadiamo anche dalla Questura della città simbolo della crisi climatica: è il
momento di tassare i super-ricchi per usare quei soldi per la transizione
ecologica e il welfare sociale. Non ci sarà denuncia o foglio di via che potrà
salvare Venezia” conclude Extinction Rebellion.
Extinction Rebellion
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Venezia, finto matrimonio in Piazza San Marco: nuova protesta di Extinction
Rebellion per le nozze di Bezos: “L’1% rovina il pianeta”
Venezia, 26/06/2025 – Extinction Rebellion ha organizzato un finto matrimonio in
Piazza San Marco, in segno di protesta contro lo sfarzoso matrimonio del
miliardario Jeff Bezos e Lauren Sanchez. Il movimento denuncia le influenze dei
super ricchi sulla crisi ecoclimatica e sugli equilibri democratici di molti
paesi del mondo.
È il primo dei tre giorni del matrimonio di lusso di Jeff Bezos e Lauren
Sanchez, e a Venezia non si fermano le proteste. Questa mattina è tornata in
azione Extinction Rebellion, con due figure mascherate in abito nuziale comparse
in Piazza San Marco, legate con una mano a un finto pianeta e con l’altra ad
altre persone che reggevano cartelli con scritto “i governi”, “i media”,
“l’economia” e la “giustizia”. Alle loro spalle avrebbero dovuto issare un
grande striscione che recitava “The 1% ru(i)ns the world” (ovvero “L’un percento
rovina il mondo”). Ma la polizia è intervenuta immediatamente disperdendo una
pacifica manifestazione e sgomberando di peso decine di persone. Questo
nonostante non vi fossero problemi per ordine pubblico e sicurezza.
“Il diritto di manifestare pacificamente è garantito dalla Costituzione e la
polizia può disperdere i manifestanti solo se pongono un pericolo per la
sicurezza e l’ordine pubblico” afferma Elisa, una delle persone spostate di peso
“Il nostro messaggio di dissenso non può essere silenziato con la forza: il
matrimonio di Jeff Bezos e dei suoi 250 invitati ultraricchi nella città simbolo
della crisi climatica è uno dei paradossi del nostro tempo” continua Elisa
“Questo accade mentre la concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi super
miliardari sta influenzando l’intero sistema globale, condizionando i governi, i
media, minacciando le democrazie e aggravando la crisi ecoclimatica, di cui
Venezia ne è un triste simbolo tangibile”. Ancora una volta, Extinction
Rebellion riporta l’attenzione sull’impatto sproporzionato dei consumi e dello
stile di vita delle persone più ricche del pianeta sul riscaldamento globale.
Secondo uno degli ultimi studi pubblicati su Nature, infatti, si stima che l’1%
più ricco della popolazione mondiale sia responsabile di circa il 20%
dell’aumento delle temperature globali. Negli ultimi anni, inoltre, l’influenza
delle persone più ricche del mondo è cresciuta in molti settori, da quello
politico e quello mediatico. Sono diversi infatti i governi che sono stati, e
vengono ancora oggi, supportati direttamente o indirettamente da ultra
miliardari, influenzando molte delle politiche in tema di diritti, innovazione
tecnologica e transizione energetica. Molte sono anche le piattaforme mediatiche
di proprietà di pochi imprenditori miliardari che ne influenzano la libertà e la
qualità di informazione, come Mark Zuckerberg, Elon Musk e lo stesso Bezos. Egli
è infatti proprietario del Washington Post, giornale al quale, a partire
dall’autunno scorso, ha imposto una linea editoriale che si occuperà solo di
“libertà personali e libero mercato”, non potendo quindi più pubblicare opinioni
contrarie a questi principi.
“Mentre Venezia combatte, anno dopo anno, con l’intensificarsi degli effetti
della crisi climatica e della speculazione, i nostri politici invitano la città
a rimanere asettica di fronte all’arrivo di chi sta contribuendo in modo
sproporzionato alla condizione in cui siamo” commenta Angela, il riferimento è
al commento del presidente della Regione Veneto sulle numerose proteste degli
ultimi giorni. “Democrazia non è stare zitti, ma poter esercitare il diritto al
pacifico dissenso!”. La protesta di oggi segue infatti quella di martedì
all’Hotel Danieli, in cui 4 persone avevano appeso uno striscione in cima ad una
gru con scritto “Tassare i ricchi per ridare al pianeta”, e quelle del comitato
cittadino “No space for Bezos” e di Greenpeace. Proteste che sono state capaci
di far spostare le nozze dalla Scuola Grande della Misericordia all’Arsenale, un
luogo più semplice da “difendere” da eventuali altre iniziative di dissenso.
Iniziano così tre giorni di festeggiamenti che promettono sfarzo senza
precedenti, tra feste in palazzi storici e l’invasione di yacht di lusso della
laguna di Venezia, mentre crescono le diseguaglianze nel mondo, che hanno
raggiunto livelli estremi e costituiscono, come ricorda il Presidente
Mattarella, una minaccia per la democrazia.
Extinction Rebellion
Entro il 2035 la spesa militare dei 32 paesi della Nato dovrà raggiungere il 5%
del PIL.
La spesa sarà così ripartita: un 3,5 per cento di spese per la “difesa”, cioè
per gli armamenti e il personale; e un 1,5 per cento di spese per la “sicurezza”
che come spiega Mil€x consisterebbe in:
> “cybersicurezza, resilienza delle infrastrutture critiche (centrali elettriche
> e reti di telecomunicazione terrestri e satellitari), efficientamento delle
> infrastrutture strategiche di mobilità militare (ferrovie, strade, ponti,
> porti e aeroporti), difesa delle frontiere, mezzi e personale delle forze di
> polizia militare, presidi medici contro attacchi
> nucleari-chimici-batteriologici, chimici e batteriologici e altri capitoli di
> spesa a discrezione delle singole nazioni. Da sottolineare che il
> 1,5% comprende anche spese per “promuovere l’innovazione e rafforzare la
> nostra base industriale della difesa”: una dicitura che potrebbe facilmente
> ricomprendere un canale aggiuntivo di finanziamento al riarmo.”
A partire già solo da questi dati abbiamo la possibilità di comprendere almeno
due degli scopi principali dell’accordo sottoscritto all’Aia.
Se lo guardiamo dal lato economico quello descritto è un enorme stimolo pubblico
ad alcune industrie specifiche: ovviamente quella degli armamenti che già da
tempo sta facendo affari d’oro. Ma non solo, di quell’1,5% del PIL investito in
sicurezza beneficeranno le corporation impegnate nella cybersecurity, il partito
del cemento e del tondino, che, già come successo in Val Susa e come sta
succedendo nello Stretto di Messina, potrà accedere a questi fondi per costruire
grandi opere inutili da giustificare con l’importanza strategica militare, le
aziende metalmeccaniche (come si sta già vedendo in Germania ed in parte del
nostro tessuto industriale) che potranno riconvertirsi nella produzione armiera
e quella estrattiva usando il tema della sicurezza energetica. Sarà da vedere
poi come andrà la spartizione del maltolto e quali settori o singole industrie
riusciranno ad imporsi nell’accaparramento di questi denari.
Ciò che è certo è che questa, ci si perdoni il gioco di parole, è una vera e
propria rapina a mano armata. Vengono sottratte risorse a cui lo Stato può
accedere grazie alle tasse che paghiamo per consegnarle nelle mani dei mercanti
di morte e di quel capitalismo europeo che non è in grado di sopravvivere senza
i continui stimoli che gli Stati gli accordano. E’ chiaro che questa
ripartizione tra “difesa” e “sicurezza” è il frutto di una contrattazione in cui
per difesa si intende, al netto del personale, la quantità di soldi che dovremo
spendere per acquistare armi dagli Stati Uniti, da Israele e dagli altri stati
occidentali, mentre la sicurezza è quella porzione di spesa dedicata ai mercati
interni. L’ennesima tornata di concentrazione dei capitali nella speranza che
non si disperdano nelle correnti del capitale fittizio.
L’altro aspetto evidente è che all’interno dell’accordo Nato è contemplata la
guerra esterna, ma anche la guerra interna verso le proprie popolazioni. Il
potenziamento degli apparati di sicurezza, di intelligence, la difesa delle
frontiere, la costruzione di grandi opere mirano, nel loro complesso, al
disciplinamento delle popolazioni dei singoli stati che in gran parte si
mostrano ostili all’intruppamento, alla devastazione dei territori e sono sempre
più intolleranti verso le condizioni di vita a cui sono sottoposte.
Al di là della prostrazione mostrata da Mark Rutte nei messaggi inviati a Trump
ciò che emerge evidentemente da questo vertice è che i capi di stato europei, al
netto dell’eccezione spagnola, non sono solo servili verso l’imperatore a stelle
e strisce, ma ne sono apertamente complici. Pronti a svolgere il proprio ruolo
nelle guerre volte a conservare l’egemonia occidentale, pronti a portare la
guerra alle proprie popolazioni per garantire un rilancio dell’accumulazione.
“Si vis in pacem, para bellum” dice la Meloni paragonando l’accordo alla postura
di un impero, quello romano che è stato in guerra permanente per secoli.
Menzogne, qui si vuole la guerra per preparare la guerra. Si agitano spettri di
nemici alle porte, mentre diffondono kaos e distruzione in mezzo pianeta, mentre
la guerra nelle sue forme più brutali e disumane la stanno conducendo le
articolazioni del dominio occidentale.
Mentre tutto questo accade nella pseudo-sinistra europea si vaneggia sulla
costruzione di un’esercito comune, alcuni addirittura sostengono che questo
accordo fosse un passo necessario in tal senso. Vivono in un mondo di fantasie
altrettanto oscure, ma meno concrete.
Intanto sentiamo il governo sostenere che l’obiettivo del 5% in 10 anni non
peserà sulla spesa sociale. Da dove si materializzeranno allora magicamente
questi 700 miliardi di euro che cumulativamente dovranno essere spesi nel
decennio? Per caso faranno una patrimoniale di guerra? Vedremo le madamine della
borghesia andare a fondere l’oro per finanziare l’impresa patriottica? Per avere
chiara la portata di questi numeri basta paragonarli con il valore dell’ultima
manovra economica: 30 miliardi… ed è presto detto da dove prenderanno i soldi.
La speranza di alcuni è che passato Trump finisca tutto a tarallucci e vino,
superata la bufera dei dazi e della contrattazione dura si tornerà alla vecchia
sudditanza mascherata e imbellettata. Nessuno può crederci, il genio sta uscendo
dalla lampada e solo una trasformazione radicale dello stato di cose presenti
può offrire un’orizzonte che non sia costellato di povertà, sfruttamento, morte
e devastazione.
Con l’Iran la Russia ha un accordo strategico che però non prevede l’assistenza
militare reciproca formalizzato nel Trattato di partenariato strategico del
gennaio 2025, in realtà è un accorod molto più all’insegna del pragmatismo e
degli interessi reciproci anche perchè Mosca continua ad avere buone relazioni
con Israele non fosse altro perchè un sesto circa della popolazione israeliana è
costituito da russi di origine più o meno ebraica.
A San Pietroburgo al Forum economico internazionale ,Putin ha ribadito il
diritto iraniano a possedere energia atomica a scopi civili anche perchè il
nucleare civile iraniano è gestito dalla “Rosatom”,azienda pubblica russa del
settore nucleare. Le scorie della lavorazione vengono lavorate e processate in
Russia ,l’arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran avviene in siti dedicati
che sono stati colpiti con esiti ancora incerti dagli attacchi americani.
Nonostante l’ambiguo ruolo dell’Aiea che prima denuncia l’arricchimento e poi fa
retromarcia appare evidente l’utilizzo strumentale della questione nucleare nel
determinare l’aggressione israeliana .
Ne parliamo con Francesco Dall’Aglio esperto in storia dell’Europa orientale e
di strategia .
Da Radio Blackout
Il governo di José Raúl Mulino impone lo stato d’emergenza, sospende i diritti
costituzionali e silenzia le proteste sociali.
Una nuova ondata repressiva scuote Panama. Il governo di José Raúl Mulino ha
decretato lo stato d’emergenza nella provincia di Bocas del Toro -alla frontiera
con la Costa Rica- tra il 20 e il 25 giugno, con un saldo provvisorio, secondo
denunce cittadine, di 192 detenuti, un morto e decine di feriti.
Il decreto presidenziale sospende garanzie fondamentali: diritti di riunione,
protesta, libero transito, habeas corpus, inviolabilità del domicilio e perfino
la libertà religiosa. In pratica, permette detenzioni senza un ordine
giudiziario e senza spiegazione (art. 21-22), la sospensione dell’habeas corpus
(art. 23), perquisizioni arbitrarie (art. 26-27), controllo sui dispositivi
elettronici (art. 29), e censura nelle reti sociali, anche di riunioni sociali o
religiose (art. 37-38).
Il detonatore è stata l’approvazione della Legge 462, che riforma il sistema
delle pensioni. Anche se i blocchi a Bocas del Toro si erano fermati, l’arresto
di tre dirigenti sindacali ha riattivato la protesta. Da quel momento, sono
state riportate una violenta repressione, blocco delle comunicazioni, scomparse
forzate e trattamenti degradanti, specialmente contro la popolazione indigena:
ci sono denunce cittadine di uomini denudati, rasati ed esibiti dalle forze di
sicurezza.
Oltre al giovane di 24 anni assassinato a colpi d’arma da fuoco, non ci sono
cifre ufficiali sui feriti o i morti civili. Le informazioni sono scarse e
stanno venendo bloccate: le autorità hanno ristretto nelle zone chiave l’accesso
ad internet e alla telefonia mobile.
Lo sfondo storico non passa inosservato: molti degli attuali manifestanti sono
figli e nipoti di coloro che rimasero cechi durante la repressione esercitata da
Mulino quando era ministro della Sicurezza. Oggi, come mandatario nazionale,
torna ad affrontarli con una mano ancor più dura.
Mulino, che in passato chiese alla sinistra “di andarse a vivere nelle
dittature”, applica ora misure che evocano esattamente questo: un regime
autoritario in pieno XXI secolo.
Foto: Membri delle Forze Armate panamensi controllano venerdì 20 giugno una zona
della città di Changuinola, una delle principali della provincia di Bocas del
Toro (Panama). Foto EFE.
23 giugno 2025
TeleSUR
Da Comitato Carlos Fonseca
Vittoria per lavoratrici e lavoratori. Revocato lo sciopero.
“No al transito di armi all’aeroporto civile di Montichiari“. Vittoria per i
lavoratori e lavoratrici che questo mercoledì 25 giugno avevano deciso –
sostenuti da Usb – di scioperare dopo aver saputo del transito di un carico di
razzi. Cancellato il volo carico di armi.
Oltre 150 lavoratori e solidali dalle 11 di questa mattina hanno dato vita a un
presidio fuori dallo scalo, la cui direzione ha nel frattempo deciso di far
passare il carico di armi da un altro aeroporto. Questa mattina, infatti,
l’Unione Sindacale di Base ha avuto notizie certe sulla cancellazione del volo
che sarebbe dovuto atterrare allo scalo civile in giornata e che avrebbe
trasportato dei missili da spedire in Qatar. Revocato quindi lo sciopero di 12
ore annunciato ieri da USB.
Lavoratori e lavoratrici della logistica aeroportuale civile e commerciale si
erano detti indisponibili a partecipare alle operazioni di carico e scarico,
rifiutando la complicità con l’economia di guerra e della movimentazione di
armamenti che non rientra nelle loro mansioni contrattuali, e hanno deciso di
scioperare nonostante siano soggetti alla legge 146/90 che regola il diritto
allo sciopero nei servizi essenziali, come gli aeroporti.
Presidio comunque partecipato, quello indetto da USB alle ore 11 di questa
mattina. Presenti i vertici del sindacato di base e una delegazione dei Calp, il
collettivo autonomo dei lavoratori portuali di Genova, e dove si è recata Giulia
della nostra redazione per raccogliere le voci dal presidio e dalla conferenza
stampa.
Da Radio Onda D’Urto
Venerdì 13 giugno la questura di Cagliari ha posto il compagno Luca agli arresti
domiciliari. È accusato di aver lanciato un petardo durante una manifestazione
per la palestina e in particolare contro l’esercitazione militare “joint stars”.
Riceviamo e pubblichiamo la sua lettera dagli arresti domiciliari.
Per me la resistenza palestinese non ha il solo merito di non demordere anche
davanti alla più brutale delle oppressioni, svelandoci la forza di un popolo
fiero che si oppone alle cause della sua miseria, ma ha anche quello di aver
contagiato centinaia di migliaia di persone in tutto il pianeta, dando vita ad
una mobilitazione internazionale dalle varie forme ed espressioni.
Per chi, come me, è cresciuto nel nuovo millennio, gli esempi simili
scarseggiano.
A fianco, una situazione geopolitica angosciante, tra conflitti aperti, continui
sconvolgimenti e l’opzione di una guerra nucleare dietro l’angolo.
E così inizia a scricchiolare anche il nostro privilegio europeo, gradualmente
fiaccato da un costo della vita sempre più proibitivo, mentre ci si consola con
l’idea, sbiadita anch’essa, che “tanto qui le bombe non arriveranno mai”.
Anche qui, nello Stato italiano (sotto il quale siamo costretti a vivere pur
essendo sardi) il quadro non è meno preoccupante. Se da un lato le condizioni
della vita peggiorano e i nostri territori sono sempre più esposti alla
predazione delle multinazionali (energetiche, di estrazione di materiali e così
via) dall’altro le porte del carcere si aprono sempre più facilmente per chi
decide di organizzarsi ed opporsi.
La Sardegna ne è esempio lampante: alta disoccupazione, stipendi da fame, scarsa
assistenza sanitaria. Ad aumentare sono solo i progetti di estrattivismo
energetico, gli aerei militari sulle nostre teste e le sezioni speciali nelle
prigioni. E non dimentichiamoci che cosa significa, in un periodo di conflitto
come quello che stiamo attraversando, vivere circondati da basi militari. Non
solo per l’intensificarsi delle attività, e questi ultimi giorni ne sono una
conferma, ma anche per la consapevolezza di essere sempre un “buon bersaglio”.
Io, che attualmente mi trovo agli arresti domiciliari per aver partecipato ad un
corteo a Cagliari in solidarietà al popolo palestinese e contro l’occupazione
militare in Sardegna, sono accusato proprio di alcuni dei reati (resistenza,
lesioni e minacce a pubblico ufficiale) per i quali il decreto sicurezza prevede
un aumento delle pene. Una sorte che temo toccherà a tanti e tante. Una sorte
inevitabile per chi decide di non tacere davanti ai soprusi e alle imposizioni.
Mando un saluto a Tarek, con il quale ho orgogliosamente condiviso la piazza del
5 ottobre a Roma, ad Anan, Alì e Mansour, che sulla loro pelle pagano il prezzo
del servilismo italiano nei confronti dello Stato d’Israele e a tutti i giovani
e le giovani che in giro per il mondo rischiano la propria libertà, per la
libertà del popolo palestinese e per una vita diversa.
E un abbraccio fraterno a Paolo Todde, rinchiuso nel carcere di Uta (Cagliari),
in sciopero della fame dall’8 maggio per protestare contro le condizioni
detentive.
Sempri ainnantis
Sardinnia libera
Palestina libera
Casteddu, 23 giugno 2025
Luca
*Ci segnalano che il compagno Paolo Todde ha interrotto ieri lo sciopero della
fame.
Pubblichiamo la traduzione del seguente articolo:
Palantir sta progettando l’infrastruttura della repressione — e ci sta dicendo
il perché.
Una nuova campagna di reclutamento è apparsa nei campus delle università d’élite
statunitensi nell’aprile scorso. In scuole come Cornell e UPenn, manifesti alle
fermate degli autobus, su uno sfondo nero austero, lanciavano un cupo
avvertimento: “È arrivato un momento di resa dei conti per l’Occidente”, per poi
accusare la maggior parte delle aziende tecnologiche di non considerare lo
“scopo nazionale” quando decidono “cosa dovrebbe essere costruito”.
In contrasto, Palantir, il contraente della difesa specializzato in analisi dei
dati e autore dei manifesti, ha dichiarato che non costruisce semplicemente
prodotti tecnologici “per garantire il futuro dell’America”, ma “per dominare”.
Il messaggio implicito della campagna riflette la convinzione dei dirigenti di
Palantir — tra cui il fondatore Peter Thiel e il CEO Alex Karp — secondo cui il
vero mandato della Silicon Valley è quello di consolidare la supremazia militare
degli Stati Uniti e dell’Occidente: una nostalgia reazionaria per la fusione tra
Stato, ingegneria e capitale propria della Guerra Fredda.
In questa versione del nazionalismo tecnologico, “rendere l’America di nuovo
grande” si traduce in una spinta alla dominazione non solo contro avversari
stranieri, ma anche contro il “capitalismo woke”, il consumismo effeminato e un
sistema universitario dedicato alla giustizia sociale e alla diversità. (I
manifesti di Palantir sono stati lanciati insieme a una nuova iniziativa che
invita studenti brillanti delle superiori a “saltare l’indottrinamento”
dell’università, preferendo una fellowship di quattro mesi presso l’azienda.)
Palantir ha motivi concreti per intraprendere una campagna di reclutamento
aggressiva. Anche se i critici avevano esultato quando il suo titolo era
crollato brevemente dopo l’annuncio dei dazi da parte dell’amministrazione
Trump, da allora ha triplicato il proprio valore rispetto alle elezioni
presidenziali di novembre. Inoltre, la capacità dell’azienda di coltivare legami
di alto livello con i responsabili della sicurezza nazionale le ha fruttato una
valanga di contratti governativi, legati all’autoritarismo crescente del
presidente Donald Trump.
Palantir ha già avviato collaborazioni con la SpaceX di Elon Musk e con
l’appaltatore di AI e robotica Anduril per iniziare la costruzione della “Cupola
d’Oro” di Trump — una versione statunitense del sistema di difesa aerea Iron
Dome di Israele. Sta anche lavorando con il Dipartimento per l’Efficienza
Governativa (DOGE, guidato sempre da Musk) alla creazione di una API
(interfaccia di programmazione) che permetta al Dipartimento per la Sicurezza
Interna di scandagliare i dati dell’IRS per identificare contribuenti privi di
documenti da deportare.
Ad aprile, Palantir — che da tempo collabora con esercito, polizia e autorità di
frontiera — ha ottenuto un contratto da 29,8 milioni di dollari con l’ICE
(l’agenzia per l’immigrazione) per potenziare il suo distopico “Sistema
operativo del ciclo di vita dell’immigrazione”, che fornisce informazioni
dettagliate sugli immigrati che il governo intende monitorare, detenere o
espellere. Inoltre, l’azienda è incaricata di rinnovare il sistema di gestione
dei casi investigativi dell’ICE, per seguire meglio le “popolazioni” bersaglio
attraverso centinaia di categorie di dati: dal colore degli occhi e tatuaggi
fino all’indirizzo di lavoro e al numero di previdenza sociale. Alcuni ex
dipendenti, allarmati dal ruolo dell’azienda nel rafforzare l’agenda repressiva
di Trump, hanno recentemente pubblicato una lettera aperta, intitolata “La
purificazione della Contea” (“The Scouring of the Shire”), in cui avvertono che
Palantir — e l’intero settore tecnologico — sta “normalizzando l’autoritarismo
sotto le spoglie di una ‘rivoluzione’ guidata dagli oligarchi”.
Il lavoro di ricerca e sviluppo fascista di Palantir non si ferma ai confini
statunitensi: l’azienda e Karp hanno pubblicamente vantato il loro sostegno
ideologico e materiale a Israele, mentre questo attua quello che molti
osservatori definiscono genocidio a Gaza. In un straordinario consiglio di
amministrazione a Tel Aviv, nel gennaio 2024, l’azienda ha elogiato la sua
partnership strategica con il Ministero della Difesa israeliano, fornendo
tecnologie da combattimento — forse anche la sua Artificial Intelligence
Platform, che secondo quanto riferito impiega chatbot di IA per decisioni in
tempo reale in zone di guerra. I dirigenti di Palantir hanno chiarito che per
loro la supremazia occidentale implica tanto la difesa intransigente del
sionismo all’estero quanto il nazionalismo di estrema destra in patria.
In tutto questo, Palantir è diventata l’esempio perfetto del nazionalismo
autoritario abbracciato dall’industria tecnologica, molto più delle provocazioni
di Musk — tra saluti nazisti, natalismo da tabloid e trolling “dark MAGA”. Come
scrive lo studioso di tecnologia Jathan Sadowski, “Fin dalla sua nascita, lo
scopo di Palantir è stato fornire… lo ‘strato ontologico’ del fascismo —
aiutando a dare realtà materiale ai suoi obiettivi ideologici”.
In altre parole, Palantir sta creando infrastrutture digitali per le molteplici
forme di violenza e controllo statale da cui dipende l’autoritarismo
contemporaneo: dal software che facilita le deportazioni di massa all’IA
impiegata nelle guerre contro popolazioni colonizzate.
Meno di un mese dopo il ritorno alla Casa Bianca di Trump, Karp ha pubblicato il
suo nuovo libro: “The Technological Republic: Hard Power, Soft Belief, and the
Future of the West”, un miscuglio strano e prolisso tra opuscolo aziendale e
trattato neoconservatore. Al suo centro vi è una variante tech delle lamentele
tipiche della destra: secondo Karp, le élite liberali “woke”, i manifestanti
studenteschi e persino studiosi come Edward Said avrebbero “emasculato”
l’Occidente, prosciugandone il dinamismo tecnologico proprio mentre affronta una
rivoluzione dell’intelligenza artificiale e l’emergere dell’egemonia cinese. Ma
al di là della solita retorica da guerra culturale, non è difficile cogliere la
rabbia di Karp verso la resistenza organizzata dei lavoratori tech — attraverso
campagne come #NoTechForICE o il Tech Workers Coalition — contro il progetto di
costruire la cassetta degli attrezzi del fascismo. Qui, l’ideologia è
indistinguibile dal marketing.
Palantir trae profitto non solo dalla paura — dei migranti, dell’IA o delle
guerre future combattute da sciami di droni — che spalanca i cordoni della borsa
pubblica, ma anche dal semplice hype attorno al suo modello distopico, che
promette di fondere analisi dei dati e violenza statale. La capitalizzazione di
mercato dell’azienda è aumentata di oltre cinque volte nell’ultimo anno —
superando oggi i 290 miliardi di dollari — molto più velocemente dei suoi
ricavi. Questo divario è colmato dalla speculazione sul futuro — un futuro che
Palantir dipinge come un bivio tra supremazia statunitense e dominio cinese.
Dietro tutte le lamentele di Karp sulla presunta crisi di “fede” dell’Occidente,
ciò in cui vuole davvero che crediamo è Palantir: una nuova interfaccia
scintillante per l’antico mestiere del razzismo, della repressione e della
guerra.