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Informazione di parte

Los Angeles, o la fine dell’assimilazione
Traduciamo questo articolo di Victor Artola del 15 giugno 2025, tratto dal sito illwill. Lo facciamo nello spirito di restituire il dibattito del movimento d’oltre oceano, ma anche per aiutarci a fotografare l’importanza storica di quanto sta succedendo negli USA. Col passare dei giorni, quello che ci sembrava di intravedere dai report della caotica infosfera, sembra confermarsi, i fatti di Los Angeles rappresentano diversi punti di svolta, in alto e in basso. Nel particolare l’autore ci sembra cattutare alcuni elementi importanti: l’iquadramento della forntiera esterna e interna nella materiale organizzione della forza lavoro nell’ordine capitalista Usa, la vera natura della riorganizzazione trumpiana della forntiera e come essa si inquadra nel suo progetto complessivo, con una eclettica capacità di individuare i “modi” trumpiani nella gestione delle rivolte senza scadere nei luoghi comuni della left. Inoltre, dopo una prima parte di analisi generale, ci offre una puntuale e ragionata ricostruzione delle rivolte attraverso il prisma materialista di classe della rivoluzione. Le domande poste al movimento sembrano puntuali e situate, date da precise dinamiche “geografiche” dettate dal processo materiale del movimento. Avvertendoci della possibile frattura istituzionale e della conseguente “guerra civile”, l’articolo ammonisce chi si pone il compito della trasformazione “di questo stato di cose presesenti”, ricordandoci e focalizzando quali sono i compiti e i luoghi in cui la pratica comunista forgia il suo verbo. Buona lettura! Quando siamo entrati nel quinto mese della seconda era Trump, gli esplosivi movimenti sociali che hanno segnato la fine degli anni 2010 sembravano un lontano ricordo. Il quinto anniversario dell’incendio del Terzo distretto di Minneapolis è passato quasi inosservato e nelle settimane precedenti le voci di una grazia per Derek Chauvin si sono rincorse tra i giornali. Il conflitto sembrava relegato ai tagli al personale dei dipartimenti e ai rimpasti di bilancio, mentre gli intrighi di palazzo dell’affare Musk offrivano un divertimento surrettizio in assenza di quello reale. Tuttavia, la mobilitazione di massa anti-ICE di Los Angeles – innescata dall’apertura di una nuova fase della strategia di deportazione dello Stato – ha riacceso quella vecchia sensazione estiva. Privata per il momento della “resistenza”, la ribellione è di nuovo nell’aria. Uno stato adeguato al suo tempo Cogliere la portata del cambiamento sismico avvenuto nell’ultima settimana richiede una riconcettualizzazione di ciò che forse smentisce la raffica di scandali, truffe e rovesci che compongono qualsiasi osservazione puramente empirica dei primi cinque mesi della seconda presidenza Trump. Mentre le macchinazioni di bilancio e i licenziamenti di massa del DOGE hanno dato volume a quella che è stata definita la strategia di “allagamento della zona”, le manovre chiave all’interno dell’esecutivo lasciano intendere un progetto più ampio di trasformazione dello Stato. Scommettiamo che si tratta di un progetto di modernizzazione dello Stato. Sebbene il capitale abbia da tempo espulso la riproduzione totale del suo presunto altro, il lavoro, dalla sua dinamica interna di accumulazione, lo Stato americano che è persistito è vecchio quanto il capitale fisso incolto che infesta la rust belt. Un intero apparato, con le sue origini nell’intervento positivo dello Stato nella vita di una classe operaia nazionale considerata come oggetto civico primario, è rimasto in piedi. In quest’ottica, il DOGE è forse solo una forma di distruzione creativa e di “riattrezzamento”, appropriata per modellarsi sull’orientamento manageriale “move fast and break stuff” del capitale fintech della Silicon Valley. Se ogni progetto positivo dello Stato dipendente dall’integrazione di una classe operaia di massa in un “corpo civico operante” (corpo intermedio ndt) appartiene al passato, cosa rimane? Si potrebbe naturalmente rispondere invocando la vecchia ortodossia weberiana: lo Stato è ciò che detiene il monopolio della violenza. Ed è vero che, se guardiamo oltre le confusioni provocate dall’austerità sotto le vesti del DOGE e dalla politica commerciale condotta come una negoziazione immobiliare commerciale, c’è una chiarezza di intenti negli eventi recenti: rimodellare il lato disciplinare dell’esecutivo. Mentre altri potrebbero aver dimenticato le lezioni della rivolta di George Floyd, Trump e la sua cricca sicuramente no. La ribellione del 2020 è la scena primordiale dell’umiliazione e dell’impotenza che ha portato al fallimento dei suoi sforzi di rielezione. Sebbene la Guardia Nazionale abbia infine ristabilito l’ordine in ventitré Stati, gli integralisti di Trump non hanno mai placato la loro sete di sangue, ostacolati da burocrati di carriera come il generale Mark Milley e il procuratore generale William Barr che hanno rifiutato di inviare l’esercito. Vista in quest’ottica, l’attuale riconfigurazione dell’apparato esecutivo disciplinare americano si mostra come uno sforzo piuttosto chiaro per evitare un altro momento del genere. Adeguata alla nostra epoca contemporanea, una ristrutturazione profondamente consequenziale si rivela il meschino progetto di un indegno raket. Trump ha occupato le posizioni chiave di questo guscio duro dello Stato in gran parte con personalità mediatiche di terzo livello che difficilmente potranno attenuare la natura antidemocratica dello zoccolo duro dell’amministrazione. La riconfigurazione è avvenuta anche al Dipartimento di Giustizia, all’FBI e al Dipartimento della Difesa, con l’epurazione di elementi percepiti come “bidenisti” e l’assoggettamento del personale rimanente a test di fedeltà. Come prodotto dell’era della Guerra al Terrore, il Dipartimento della Sicurezza Nazionale, e con esso l’ICE, è sempre stato un solido baluardo del progetto reazionario più profondo. Se a ciò si aggiunge l’ambivalenza nei confronti dell’intervento straniero e la percezione di un mandato popolare per realizzare rapidamente il programma anti-immigrati della classe operaia bianca revanscista, non sorprende che il monopolio della violenza si sia concentrato all’interno e si sia rivelato in tutta la sua bassezza. Se i proletari non devono più essere necessariamente anche cittadini, ne consegue che, per la massa di immigrati dall’America Latina arrivati dopo le ristrutturazioni degli anni Settanta, non ci sarà un’integrazione finale come quella che ha seguito le precedenti ondate di sottoproletariato europeo. Il licenziamento di massa trova il suo analogo politico nella deportazione di massa. La costruzione del muro L’analisi abbozzata di seguito non esclude le contingenze e le particolarità della storia e della politica che sarebbero necessarie per un’analisi a grana più fine dell’apparato di deportazione contemporaneo e della sua strategia a lungo termine. Il nostro obiettivo è quello di dimostrare che ciò che si presenta a molti come un dibattito politico è, in realtà, legato a una più ampia trasformazione del modo in cui lo Stato compone e media la sua riserva nazionale di forza lavoro. La riproduzione del proletariato nella nostra epoca è stata soggetta a una profonda ristrutturazione che la esteriorizza sempre più dalla dinamica di accumulazione del capitale. Questa tendenza più generale è cruciale per spiegare perché la lotta per l’immigrazione che sta prendendo forma oggi ha tratto i suoi contorni dalla sequenza del BLM, piuttosto che dal precedente movimento politico verso l’assimilazione e la legalizzazione emerso durante il dibattito pre-crisi finanziaria globale (GFC) sulla “riforma globale dell’immigrazione”. Crediti immagine: Jesse Rodriguez Sebbene sottolineare le continuità tra i regimi di deportazione di Obama, Trump e Biden sia diventato una sorta di ritornello di sinistra, è stata prestata meno attenzione a ciò che rivelano le specificità della logica spaziale e legale dell’esecuzione. Se si considerano le categorie di fermi interni e di fermi al confine, si può scorgere una logica più profonda, che ha meno a che fare con gli orientamenti dei partiti politici. Nel crepuscolo del progetto di “riforma globale dell’immigrazione”, che apparteneva al boom edilizio e finanziario dell’inizio e della metà degli anni Duemila, l’emergere di una brusca flessione del mercato del lavoro con la crisi finanziaria del 2007-2008 ha coinciso con il rafforzamento della macchina delle deportazioni interne sotto l’amministrazione Obama, ma questa volta con una nuova svolta. La migrazione messicana di metà secolo tendeva a essere caratterizzata dalla stagionalità e dalla flessibilità degli spostamenti attraverso il confine. Al contrario, sostenuto dall’inondazione di finanziamenti al DHS nei primi anni della guerra al terrorismo, il regime istituito dall’amministrazione Obama si è basato sull’allontanamento permanente di una classe lavoratrice transnazionale attraverso procedure formali piuttosto che volontarie, che limitano fortemente le possibilità di ritorno dei migranti negli Stati Uniti. Con lo sfruttamento transfrontaliero della manodopera saldamente stabilito dal NAFTA e dalle successive riconfigurazioni della catena di approvvigionamento, un confine poroso che potesse assorbire ed espellere la manodopera migrante con flessibilità è diventato una condizione meno necessaria per il capitale americano. Con la ripresa del mercato del lavoro a metà degli anni ’90, gli arresti all’interno del Paese sono diminuiti (in gran parte grazie alla diminuzione dei rimpatri volontari), mentre quelli alla frontiera sono aumentati sensibilmente. Il capitale poteva mantenere qui la manodopera di cui aveva bisogno, ma le prospettive di accumulazione a lungo termine richiedevano ancora una fortificazione dell’ingresso nel contenitore nazionale della classe operaia. Un confine rigido, fisico alla frontiera e virtuale all’interno del Paese, è diventato la struttura centrale attorno alla quale la macchina delle deportazioni ha manifestato la sua “legge e ordine”. Lo slogan di Trump del 2016, “Costruite il muro”, non era tanto una controreplica alla politica democratica, quanto piuttosto una cooptazione della prassi esistente. Tuttavia, il regime di deportazione della prima amministrazione Trump ha portato solo aumenti modesti, senza nemmeno avvicinarsi ai livelli del 2008-2011. Sebbene le ragioni siano complesse e la mancanza di competenze burocratiche dell’amministrazione abbia giocato un ruolo importante, si può ipotizzare che la ripresa del mercato del lavoro, iniziata sotto Obama, sia stata una variabile esplicativa importante. Sebbene il precipitoso calo dei livelli di migrazione durante la pandemia abbia fatto sì che Biden abbia presieduto all’inizio a una massiccia diminuzione degli arresti totali, la normalizzazione di un regime di deportazione incentrato sulle azioni al confine è ricominciata seriamente nel 2024. Anche in questo caso, assistiamo a uno schema in cui Trump si limita ad articolare politicamente in modo esplicito il controllo tecnocratico del confine già esistente e a portare a compimento il compito storico delle deportazioni di massa, da sempre implicito. In sintesi, il secondo mandato di Trump rappresenta la continuazione e il culmine di un particolare orizzonte. Uno sguardo più attento agli spostamenti interni e di confine degli ultimi mesi rivela che la disciplina e la militarizzazione della frontiera si sta estendendo sempre più all’interno. Con le retate nei luoghi di lavoro e nei quartieri, iniziate seriamente a maggio – l’obiettivo è di 3.000 arresti giornalieri – la violenza statica al confine è stata spettacolarmente rivolta verso l’interno. La disciplina di una forza lavoro considerata esterna e sacrificabile dal capitale per mano dello Stato trova ora la sua forma adeguata nello scatenamento dell’intero apparato del monopolio statale della violenza nelle zone di lavoro formali e informali che costellano la metropoli. 72 ore a Los Angeles Non staremo a raccontare i dettagli delle varie strade percorse dalla seconda amministrazione Trump per raggiungere il suo obiettivo di deportazioni di massa nei primi cento giorni. Basti dire che prima della recente offensiva nella tentacolare metropoli gestita dai democratici, le operazioni oscillavano tra lo spettacolo (il “reportage” incorporato del Dr. Phil all’interno dei raid) e le scommesse che sondavano e provocavano sfide legali (l’affare CECOT, la fine della cittadinanza per diritto di nascita tramite ordine esecutivo, ecc.) Una dinamica che rievocava quella della prima amministrazione Trump stava apparentemente andando al suo posto – salti improvvisi che altrettanto improvvisamente portavano a ritirate. La recente incursione a Los Angeles, nonostante le apparenze, ha invertito la tendenza. Piuttosto che ritirarsi, la macchina delle deportazioni si è insediata, radicandosi nel tessuto della vita quotidiana. Raid e sequestri avvengono a caso, in accordo con l’informalità e la dislocazione del lavoro degli immigrati all’interno della più ampia zona economica di Los Angeles. Iniziata con una task force congiunta di DHS, FBI, DEA e ATF, il 5 giugno la forza d’invasione ha rapidamente aggiunto un’ala militare formale con la federalizzazione di 700 soldati della Guardia Nazionale della California. Giorni dopo, con l’aumentare della resistenza, il numero è salito a 4.000 soldati della Guardia Nazionale con 700 Marines in attesa, che hanno seguito un corso intensivo di controllo delle rivolte nei campi da calcio appena fuori dal centro. Come per tutti i cambiamenti strategici dell’amministrazione Trump, la chiarezza iniziale ha rapidamente ceduto alla sovradeterminazione, la precisione tattica ha lasciato il posto al caos opportunistico. Per iniziare ad affinare una visione precisa del nostro attuale momento politico e della direzione che potrebbe prendere, vale la pena osservare da vicino i luoghi iniziali di lotta nelle prime 72 ore dell’incursione di Los Angeles. Gli attacchi dell’ICE a Los Angeles sono iniziati in sordina, con la detenzione degli immigrati che si presentavano alle udienze di routine per l’immigrazione nella settimana precedente all’escalation aperta. Tuttavia, un presagio delle incursioni di strada a venire poteva essere visto nelle esplosioni di polemiche che hanno segnato il passaggio da maggio a giugno (a Chicago, San Diego e Minneapolis). L’invasione federale di Los Angeles è iniziata seriamente venerdì 5 giugno. L’ICE e altre agenzie federali hanno scatenato una serie di grandi incursioni a sorpresa, pesantemente armate, in luoghi mirati della città. Intorno alle 9 del mattino, hanno fatto irruzione in un Home Depot a Westlake/MacArthur Park, una delle enclave di immigrati della classe operaia più densamente popolate del centro di Los Angeles. Quando i membri della comunità ne sono venuti a conoscenza attraverso le reti di risposta rapida, si sono affrettati a raggiungere la scena nel tentativo di fermarli, ma sono arrivati troppo tardi – un limite spaziale alla zona di lotta che è diventata chiara fin da subito. La notizia di queste incursioni si è diffusa, così come la risposta. Intorno alle 11, l’ICE è arrivata con i mandati in due diverse sedi della Ambiance Apparel, un’azienda di abbigliamento del Fashion District della città – un’industria che dipende quasi totalmente dalla manodopera immigrata latina. Non molto tempo dopo, sono arrivati sul posto anche centinaia di manifestanti, che hanno circondato gli ingressi di entrambe le sedi. Uno era un negozio nel mezzo del vivace quartiere della moda, l’altro un magazzino a un chilometro di distanza, nel vicolo industriale e logistico lungo il fiume LA. Questi confronti segnano il riemergere della dinamica spaziale conflittuale dei momenti più interessanti della Rivolta di George Floyd (e della precedente ribellione di Ferguson). Al posto del centro storico, per lo più vuoto, e dei suoi simboli di potere politico locale, le incursioni hanno aperto una zona di conflitto nell’arcipelago industriale e logistico periferico che costituisce l’attuale realtà materiale di Los Angeles. Mentre gli agenti dell’immigrazione trattenevano i dipendenti all’interno del Fashion District, la folla militante si è confrontata con la task force federale. Nella sede periferica del magazzino, l’ICE ha caricato i veicoli con i lavoratori catturati, mentre i manifestanti hanno messo in campo una azzardata risposta che ha portato all’arresto del presidente del SEIU David Huerta. La folla era composta da attivisti esperti, lavoratori vicini e passanti, familiari di lavoratori detenuti, rappresentanti della macchina politica liberale locale e giovani latinos indisciplinati della classe operaia. Questa composizione eterogenea forse spiega alcune delle carenze della risposta iniziale: i manifestanti che hanno compreso la necessità di uno sforzo coordinato hanno esitato tra l’agire come testimoni e garanti dei diritti legali e l’essere determinati nei loro tentativi di bloccare i tentativi di detenzione. Il coordinamento di questi ultimi, quando è arrivato, è stato confuso e ritardato. Al magazzino Ambiance, il DHS è riuscito ad andarsene per lo più senza opporre resistenza attraverso un’uscita laterale non difesa. Mentre gli attivisti hanno insistito nel controllare moralmente la polizia locale che si è posta come mediatore statico tra la folla e il magazzino, non è stato stabilito un vero senso strategico delle reali possibilità di difesa. Dato che queste incursioni sono avvenute e continueranno ad avvenire in spazi sconosciuti ai soccorritori, acquisire e condividere rapidamente una consapevolezza spaziale sarà fondamentale per il futuro. Data la sua posizione nel fitto reticolo del quartiere della moda, l’irruzione nel negozio ha favorito un conflitto più intenso tra militanti e agenti federali, che si è protratto per ore. Solo l’uso estremo della forza e le misure di controllo della folla da parte di una combinazione di agenti del DHS e dell’FBI hanno permesso ai veicoli di fuggire. Sebbene le esigenze tattiche di queste incursioni diano la priorità a un confronto familiare con lo Stato disciplinare, esse pongono anche una domanda che non può che portare alle prime crepe del cosiddetto “pavimento di vetro” della produzione. Qual è la natura di questi spazi di lavoro e di accumulo di ricchezza materiale sotto forma di merci da cui la comunità “esterna” è attratta? Che cosa occorre per difendere il luogo di lavoro e i lavoratori dagli attacchi dello Stato? Qual è il potenziale della lotta alle porte per riflettere sul luogo del lavoro, ora che la sua stessa composizione è diventata un luogo di contesa pubblica? Queste domande chiave, che costituiscono il nocciolo di ogni futuro movimento verso misure comuniste, sono già in gioco in ogni difesa contro un’irruzione sul posto di lavoro. La fase successiva della lotta ha seguito la macchina delle deportazioni. Poche ore dopo, i manifestanti si sono riuniti in gran numero per una manifestazione indetta dal SEIU davanti al Centro Federale di Detenzione (a pochi chilometri a nord dei luoghi del raid), dove i lavoratori catturati venivano processati. La folla, composta da circa 500 persone, presentava un’ampia varietà di obiettivi politici e tattiche. C’erano membri di gruppi comunitari, sindacati professionali e organizzazioni non profit. Alcuni si sono espressi a favore di una protesta pacifica in stile “sit-in”, avvertendo la folla del rischio di essere arrestati nella proprietà federale. Altri attori più radicali si sono concentrati sul blocco diretto degli ingressi del centro di detenzione con i loro corpi, per poi erigere barricate fatte di cassonetti, pezzi di automobili, sedie da ufficio, scooter, coni stradali e qualsiasi altra cosa si potesse racimolare nelle vicinanze. Lo status di Los Angeles come “città santuario” ha creato confusione tattica e politica da parte dello Stato, permettendo al confronto di prolungarsi per ore. La polizia di Los Angeles è rimasta per lo più a distanza, mentre dall’interno dell’ingresso del garage la polizia del DHS ha iniziato a reagire, elargendo bombe flash, proiettili meno letali, gas lacrimogeni e spray al peperoncino. Questo ha indotto alcuni dei manifestanti più passivi a sgomberare, ma più di un centinaio di altri sono rimasti in piedi, distruggendo la guardiola di fronte al parcheggio e mandando in frantumi i dissuasori di cemento per poter scagliare pezzi contro la polizia. Questi manifestanti hanno mantenuto la linea per altre ore, fino a quando il gruppo più numeroso della polizia di Los Angeles ha finalmente disperso la folla lungo il viale. Ma la notte non era ancora finita. Intorno alle 21, sono iniziate a circolare notizie di una massiccia task force federale in un parcheggio privato nella vicina Chinatown, dove erano radunati orde di agenti dell’HSI, dell’ICE e dell’FBI insieme a decine di veicoli governativi. I manifestanti si sono diretti verso questo luogo ed è iniziato un altro teso stallo. Mentre gli agenti cercavano di far rientrare i veicoli nel lotto, la folla ha tentato di bloccarli fisicamente con i loro corpi, spingendo il contingente dell’FBI ad attivare due massicci veicoli blindati dotati di cannoni sonori e luci di segnalazione. Bloccati dai carri armati e dalle file di agenti di frontiera pesantemente armati, i veicoli governativi sono stati fatti uscire dal parcheggio e alla fine sono fuggiti dalla scena. Un altro marcatore geografico della lotta, la forza d’invasione a riposo, è entrata nel regno dell’intervento immaginabile (che continuerà nei giorni successivi con le proteste negli hotel che ospitano gli agenti del DHS). Sabato mattina, l’assalto dell’ICE a Los Angeles è proseguito, con la messa in scena di un parcheggio di Home Depot per un’apparente incursione nella città di Paramount, una comunità operaia a maggioranza latina nella periferia industriale della contea. È qui che è emerso il conflitto più imponente e ampio di sabato, che si è protratto fino alle prime ore del mattino di domenica, riecheggiando alcuni dei momenti più dinamici delle rivolte di Ferguson e poi di George Floyd. L’architettura incentrata sulle automobili che caratterizza gran parte di Los Angeles – e dell’America in generale – è spesso vista come un limite negativo all’insurrezione. Tuttavia, la lotta nel sud-est di Los Angeles dovrebbe indurci a considerarla come una forma particolare, che crea un terreno quasi impossibile da controllare per i federali. Il conflitto ha evocato il classico ritmo del traffico di Los Angeles, con i blocchi statici su alcune linee di schermaglia mentre altri scorrevano liberamente lungo i viali verso la vicina Compton. Domenica, quando è stato chiaro che la militarizzazione del centro di detenzione federale sarebbe rimasta e che la vicenda si era trasformata politicamente in uno stallo tra funzionari statali e comunali e l’amministrazione Trump, la lotta si è estesa al centro della città. Una manifestazione di migliaia di persone di fronte al municipio si è rapidamente estesa oltre l’area di allestimento per i discorsi del PSL e dei partner della coalizione e si è unita a gruppi militanti più piccoli, anche se ancora numerosi, intorno al centro di detenzione. Le linee della Guardia Nazionale all’ingresso del garage assediato del centro hanno respinto i primi piccoli gruppi di manifestanti, ma le forze dell’ordine prima linea sono presto diventate la LAPD, polizia di Los Angeles. Probabilmente nel tentativo di smentire le affermazioni dell’amministrazione Trump, secondo cui l’insurrezione avrebbe sopraffatto le capacità della città e dello Stato, i reggimenti di polizia locale hanno avuto il via libera per colpire aggressivamente i manifestanti. La giornata è esplosa in una prevedibile rivolta contro la polizia, con gruppi di diverse centinaia di persone che hanno assediato le linee di poliziotti in più isolati, divisi dalla superstrada 101. Mentre la distinzione immaginaria tra gli “anarchici professionisti” e i manifestanti pacifici ha spesso la sua espressione reale nella separazione spaziale e temporale tra la manifestazione di massa e il blocco militante minoritario, la massa che ha agito quel giorno ha definitivamente trasceso questa dicotomia. Se una vera consapevolezza spaziale e tattica è riuscita a cristallizzarsi, è in parte perché il terreno stesso forniva obiettivi chiari. Qui c’è il punto in cui le persone entrano ed escono, qui c’è un punto nodale nella macchina della deportazione senza il quale il passo successivo non può procedere e quello precedente non può contare. La diffusione capillare della consapevolezza di strada e della chiarezza su chi sia il nemico testimonia l’esperienza collettiva acquisita da una coorte di giovani militanti nel 2020 e dal movimento di solidarietà palestinese. E a differenza della Rivolta di George Floyd, che è emersa all’apice della distanza sociale e tendeva a essere caratterizzata da un’assenza di comunicazione sul campo, qui c’erano gli inizi di un’apertura creativa e di un coordinamento ad hoc. Gli attivisti e i pro-rivoluzionari, pur non dissolvendosi in blocchi distinti, si muovevano tra e di concerto con una classe operaia militante composta da giovani latinos di Los Angeles il cui mondo di vita era direttamente sotto attacco. Il compito del vero santuario Mentre scriviamo, è trascorsa una settimana dall’inizio dell’incursione federale a Los Angeles. Le incursioni sono continuate a ritmo serrato, senza alcuna logica apparente se non quella dell’opportunismo. Autolavaggi, parcheggi di Home Depot, aziende di autotrasporti e chiese sono diventati un bersaglio facile nel tentativo di distruggere materialmente qualsiasi politica di “città santuario” presente nei libri di diritto. Anche se resta da vedere fino a che punto il Partito Democratico sia disposto o in grado di far fronte alla situazione, per l’amministrazione Trump tutto ciò che manca al sostegno materiale diretto e aperto alle operazioni di deportazione di massa fa parte dell’insurrezione immaginata. Non bisogna scartare la possibilità concreta di una drammatica rottura costituzionale, soprattutto se il governo federale mantiene la promessa di portare la guerra alle città santuario in altri Stati. Non è nostro compito inventare strategie che potrebbero permettere al Partito dell’Ordine di respingere il diluvio. Il nostro compito è piuttosto quello di individuare quali compiti necessari ci vengono assegnati giorno per giorno, quali forze di creatività, determinazione e solidarietà vengono chiamate in causa, e quali forme di azione appaiono ora ovvie a tutti. Già, oltre alle manifestazioni e agli scontri nel centro cittadino, si è sviluppata una pratica auto-organizzata di proteste notturne davanti agli hotel sospettati di ospitare agenti del DHS. Contemporaneamente agli scontri con la polizia di Los Angeles scoppiati domenica, i manifestanti a Pasadena sono riusciti a cacciare gli agenti dell’ICE dall’hotel AC. Oltre a questi sforzi visibili, alcuni militanti si sono organizzati per colpire clandestinamente i mezzi inutilizzati della macchina delle deportazioni in diversi parcheggi. La prossima fase richiederà la reale estensione di un’infrastruttura quotidiana di difesa. Le basi sono evidenti: si trovano ovunque i lavoratori immigrati si riuniscano apertamente, prede in ogni momento delle retate del DHS. Il compito immediato è costruire delle vere e proprie zone di santuario all’interno della metropoli tentacolare, andare incontro ai lavoratori e presentare chiaramente la crescente costruzione di una pace reale, fraternizzare e iniziare a dissolvere le differenze sociologiche che strutturerebbero questa lotta come composta da alleati da una parte e soggetti a rischio dall’altra. L’esistenza di queste zone disperse di difesa, se portata avanti fino in fondo di fronte a un nemico che non ha ancora fatto marcia indietro, pone l’inizio di una risposta a una domanda non ancora formulata. Nella loro riproduzione quotidiana, nella loro crescita e trasformazione, esse ci spingono a immaginare la creazione di una vera comunità umana — il comunismo — come un compito sempre più evidente per tutti i soggetti coinvolti, riducibile a problemi concreti e a riconfigurazioni del territorio e della vita quotidiana. Giugno 2025 Immagine di copertina: Gabriela Bhaskar
Stop Riamo: giornata a Torino contro riarmo, guerra e genocidio in Palestina
Riprendiamo il programma della giornata dal canale telegram @STOPRIARMO, percorso cittadino e territoriale che intende costruire una dimensione ampia di attivazione contro la guerra, contro il piano di riarmo e vuole opporsi al genocidio in Palestina. 🔴GIORNATA STOP RIARMO//  SABATO 5 LUGLIO 2025 PARCO DEL VALENTINO // INGRESSO DALL’ARCO DI PIAZZA VITTORIO // ore 16 🔴 Banchetti e performance teatrale con TC Te Cunto “Il mondo va alla guerra” Tavola rotonda : “BLOCCARE LA GUERRA DAI NOSTRI TERRITORI E’ POSSIBILE” Il piano di riarmo europeo aggraverà le già compromesse condizioni in diversi ambiti della vita: dalla formazione alla sanità, passando per la ricerca, il lavoro salariato e la messa a disposizione di territori considerati sacrificabili. Il governo Meloni ha dichiarato la sua guerra alla popolazione accettando le indicazioni dell’amministrazione statunitense di alzare la spesa militare al 5%. La violenza con cui la guerra si manifesta per garantire al modello occidentale di sopravvivere è sotto gli occhi di tutti: il genocidio a Gaza continua sotto le telecamere a livello mondiale, soldati israeliani sparano sulla folla in attesa dei pacchi alimentari, la narrazione dominante costruisce il presunto “nemico” dal quale doversi difendere. Oggi è necessario intervenire collettivamente, ovunque, per fermare questa deriva. Conoscere i meccanismi della guerra qui e ora può permettere di organizzarsi per incepparli. A partire da un’analisi del complesso militare industriale che diventa il paradigma in base al quale strutturare l’organizzazione sociale, produttiva e non, individuiamo chi guadagna dalla finanziarizzazione della guerra e dalla riconversione industriale prendendo ad esempio la città di Torino. Per poi dare spazio alle esperienze di lotta e resistenza che già da ora hanno rappresentato dei tentativi per bloccare la guerra e praticare sostegno al popolo palestinese, a partire dai propri territori.  Complesso militare industriale/finanziarizzazione della guerra/riconversione industriale:  Michele Lancione, professore di Geografia economica e politica al Politecnico di Torino Susanno De Guio per Recommon, è un’associazione che lotta contro gli abusi di potere e il saccheggio dei territori per creare spazi di trasformazione nella società, in Italia, in Europa e nel mondo. Gianni Aliotti, Sindacalista, membro dell’Osservatorio “The Weapon Watch”.  Eleonora Artesio, per il Comitato per il Diritto alla Tutela della Salute e alle Cure Terry Silvestrini per Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle Università Come bloccare la guerra:  Movimento No Base, lotta che si oppone al progetto di base delle forze speciali dell’esercito nel territorio pisano  Testimonianze da chi ha partecipato alla March to Gaza da Torino   GAP, Gruppo Autonomo Portuali di Livorno A seguire cena popolare e musica
Sa – hara – lento: sotto attacco la foresta degli ulivi di Puglia
Sa – hara – lento è una di quelle costruzioni terminologiche di fantasia (putroppo solo dal punto di vista lessicale!) che richiede un piccolo sforzo iniziale per comprenderne il senso. Noi ne siamo subito stati incuriositi e la lettura del documento che alleghiamo, curato e inviatoci dal Coordinamento interprovinciale a tutela dei territori, ci ha appassionato, svelandoci meccanismi e analisi che evidenziano ancora una volta, semmai fosse necessario, come l’intreccio di interessi di mercato non si ponga alcun tipo di scrupolo nel devastare un territorio, la sua cultura e tradizione.  Uliveto in Salento – foto di Cesare Quinto E allora in questa lettura storica del territorio salentino emerge la contraddizione tra un’economia agricola tradizionale e la proprietà moderna, tra la cultura contadina ricca di saperi e la sua odierna mera sopravvivenza e  trasformazione in imprenditoria agricola cui è stata soggetta. I saperi tradizionali storici non sono necessari a condurre un terreno abbandonato, una coltura superintensiva, una distesa di fotovoltaico e un turismo spietato. Automaticamente questi saperi vengono esclusi dal nuovo paesaggio imposto da un modello di sviluppo diverso. (..) Si continuano a sradicare gli imponenti ulivi, nonostante le evidenti contraddizioni emerse, perché così si espianta un modello di vita per il quale non tutto diventa merce.  Emergono anche connessioni di metodo con la contemporaneità: la creazione di “mostri dell’emergenza” (il batterio killer degli ulivi nonostante le contraddizioni scientifiche) e dell’interesse strategico, meccanismi di finanziamento, dispiegamento di forze dell’ordine e chiusura di strade, sanzioni amministrative e condanne in opposizione a presidi, manifestazioni: semi sparsi per la nascita di un decreto sicurezza che nel frattempo è maturato sul campo nazionale.  Il capitalismo va veloce, ancor più con una certa scienza a esso soggiogata, e la natura stessa fatica o rimane impotente. Fenomeni quali il consumo di suolo, il land grabbing, la messa al bando di una continuità storica e di ciò che è autoctono, gli OGM, le colture intensive, l’agrochimica, la GDO, la presenza militare, il business del comparto energetico (la Puglia come hub energetico – TAP, fotovoltaico) e di un modello di turismo intensivo hanno contribuito non solo allo sterminio di ulivi millenari ma anche a ridurre il territorio a un deserto asfittico. Il mito della scala sociale da scalare nel modello proposto dagli anni ’60 in poi ha contribuito all’abbandono delle terre e a un “ritorno del latifondo”, non soltanto per un loro uso agricolo ma per speculazioni di diverso tipo. Attraverso un mercato manipolato, si svantaggia un’economia agricola tradizionale, agevolando un abbandono dei terreni e un deprezzamento degli stessi.  I casi legati all’Ilva di Taranto (costruita sulle ceneri di distese di ulivi), all’albero del fico (antica risorsa agricola sostituita da vigneti e ulivi intensivi) e al Metapontino e le sue trasformazioni (un’immensa superficie di colture superintensive e serre gigantesche a discapito di grano e ulivi) rendono l’idea di come il mercato bruci tutto.  Colture sostitutive che necessitano di cospicua irrigazione in un territorio che per ragioni diverse è sempre più soggeto a carenza idrica e infertilità del terreno.  Un Sahara che quindi avanza lento (Sa -hara – lento) laddove gli squilibri e gli effetti causati dall’uomo non sembrano venire messi a critica per cercare di arginare una situazione deteriorata. E’ una specie, quella umana, che si è autocandidata ed autoimposta al vertice di chissà quale fantomatica piramide, quando l’insieme ambiente, a cui realmente essa appartiene, ha sempre avuto una strutturazione circolare e non verticistica.   Vi invitiamo alla lettura di questo documento lasciandovi con questa riflessione in esso contenuto: La concezione valida risiede nella biodiversità intesa come ricchezza insostituibile, nel rispetto di ogni soggettività ambientale, a tutela del diritto di libertà e saggezza storiche, contro ogni sopraffazione e repressione. Bisogna invertire la rotta per la quale si sottomette tutto e tutti, si dominano risorse e beni comuni, si asservono culture e saperi. Contrastare la logica di finanziamenti ed incentivi per soggiogare informazione, sapienza e mondi accademici, allo scopo di creare qualsiasi narrazione: economica, produttiva e commerciale, industriale e agricola, militare e di guerra.  Saharalento_A5_opuscoloDownload Il tema dell’agricoltura e della svendita dei territori, del business e della speculazione a partire dal consumo di suolo e del sacrificio di ciò che lì vi cresce saranno oggetto dell’Assemblea Regionale di Confluenza in Piemonte dal titolo “Il destino dell’agricoltura e del suolo in Piemonte: tra agri-fotovoltaico e nucleare”. Dal Sud al Nord le linee di tendenza dello sfruttamento della terra si articolano, su scalarità e misure diverse, pur mantenendo ovunque la stessa logica: quella del profitto sopra ogni cosa.
Il riscaldamento globale non sta solo aumentando. Sta aumentando più velocemente
Emissioni di gas serra, aumento delle temperature, innalzamento del livello del mare, squilibrio energetico della Terra… un nuovo studio pubblicato da 61 scienziati coinvolti nel lavoro dell’IPCC lancia l’allarme sullo stato dei cambiamenti climatici su scala globale. da Antropocene.org «Le cose non stanno solo peggiorando. Stanno peggiorando più velocemente. Ci stiamo muovendo concretamente nella direzione sbagliata in un periodo critico in  cui avremmo bisogno di raggiungere i nostri obiettivi climatici più ambiziosi. In alcuni rapporti c’è un lato positivo. Non credo che ce ne sia uno in questo caso».  Zeke Hausfather, coautore dello studio -------------------------------------------------------------------------------- Ai livelli attuali delle emissioni, un aumento della temperatura globale di 1,5°C sarà inevitabile nel giro di poco più di tre anni, mentre entro nove anni si potrebbe arrivare a 1,6°C o 1,7°C. Questa è una delle conclusioni principali dell’ultimo rapporto sugli indicatori del cambiamento climatico globale, pubblicato il 19 giugno. Tra il 2015 e il 2024, le temperature medie globali sono state di 1,24°C superiori rispetto al periodo preindustriale, con 1,22°C causati dalle attività umane. In sostanza, ciò significa che tutto il riscaldamento riscontrato nell’ultimo decennio è stato indotto dall’uomo. Soprattutto a causa della combustione di combustibili fossili e della deforestazione, nell’ultimo decennio, ogni anno sono state rilasciate nell’atmosfera circa 53 miliardi di tonnellate di CO2 (Gt CO2e). Anche le emissioni dell’aviazione internazionale – il settore con il calo più netto durante la pandemia – sono tornate, nel 2024, ai livelli pre-pandemici. Il calore in eccesso, che si accumula nel sistema terrestre a un ritmo sempre più accelerato, sta determinando cambiamenti in ogni componente del sistema climatico. Il tasso di riscaldamento globale registrato tra il 2012 e il 2024 è quasi raddoppiato rispetto ai livelli registrati negli anni ’70 e ’80, con conseguenti cambiamenti dannosi in componenti vitali, tra cui l’innalzamento del livello del mare, il riscaldamento degli oceani, la perdita di ghiaccio e lo scioglimento del permafrost. L’oceano immagazzina circa il 91% di questo calore in eccesso, generato dalle emissioni di gas serra, che ne causa il riscaldamento. Le acque più calde portano all’innalzamento del livello del mare e all’intensificazione degli eventi meteorologici estremi, con un impatto devastante sugli ecosistemi marini e sulle comunità che ne dipendono. Nel 2024, l’oceano ha raggiunto valori record a livello mondiale. Tra il 2019 e il 2024, il livello medio globale del mare è aumentato di circa 26 mm, più che raddoppiando il tasso a lungo termine di 1,8 mm all’anno registrato dall’inizio del XX secolo. L’innalzamento del livello del mare in risposta ai cambiamenti climatici è relativamente lento, quindi, sono già previsti ulteriori aumenti nei prossimi anni e decenni. Altri risultati chiave: (Materiali forniti dall’Università di Leeds) Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org Fonte: Climate&Capitalism 19.06.2025
Piacenza: aggressione fascista per “Ripulire la città dagli stranieri”. Manifestazione antifascista mercoledì 2 giugno
A Piacenza, nella notte tra il 25 e il 26 giugno, un gruppo di fascisti di CasaPound e affini ha aggredito alcuni passanti, tra cui diversi minorenni. L’episodio è avvenuto a margine di una manifestazione indetta da sigle dell’estrema destra locale e da parte degli ultras della ” Curva Nord – Piacenza 1919″, contro quello che hanno definito il “degrado” a Piacenza. “Ripuliamo la città dagli stranieri”, gridavano gli aggressori, come riferito da diversi testimoni. Durante l’aggressione sono stati usati oggetti contundenti, come cinghie e bottiglie. In questo contesto, è arrivata immediata la risposta della città. Diversi collettivi e realtà di base hanno organizzato un’assemblea pubblica (appuntamento martedì 1 luglio, alle ore 18:30, presso la cooperativa Infragibile di Via Alessandria 16) e una manifestazione antifascista per mercoledì 2 luglio. Una mobilitazione ampia della comunità piacentina come risposta contro l’intolleranza. “La nostra città non è quella dei fascisti. La Piacenza che vogliamo è inclusiva, solidale e antirazzista. Rispondiamo con unità e determinazione, per far capire a questi gruppi che non hanno spazio nella nostra società”, ha commentato ai microfoni di Radio Onda d’Urto Carlo, compagno del collettivo ControTendenza Piacenza, ribadendo l’importanza di una risposta collettiva e determinata contro questo fenomeno. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto l’intervista a Carlo, compagno del collettivo ControTendenza Piacenza. Ascolta o scarica da Radio Onda d’Urto
Smilitarizziamo Sigonella. Contro guerra, riarmo, genocidio
Fermiamo il genocidio del popolo palestinese Impediamo la terza guerra mondiale ed il riarmo europeo Smantelliamo le basi Usa-Nato – Smilitarizziamo Sigonella. da Rete Siciliana di solidarietà alla Palestina In questi giorni i ministri degli Esteri dell’UE sono a Bruxelles per decidere, a porte chiuse, se continuare a premiare Israele con un accordo commerciale da 45 miliardi di euro mentre bombarda i civili e affama un’intera popolazione. Dobbiamo imporre all’UE e al governo italiano di fermare il genocidio del popolo Palestinese messo in atto da Israele, e di fare pressione sullo stato sionista per fermare i crimini di guerra, l’apartheid, l’occupazione militare e la pulizia etnica. La Sicilia, con la presenza diffusa delle basi USA e Nato, come Sigonella e il Muos a Niscemi, da troppo tempo supporta gli interventi militari in Medio Oriente. Ricordiamo, in particolare, l’invio di aerei cargo Globemaster con munizioni per la base di Nevatim, la flotta di velivoli-spia Boeing P-8 Poseidon, che affiancano i droni Global Hawk e Triton, e che transitano e stazionano a Sigonella. Ancora, il recente attacco ai siti nucleari in Iran, è stato eseguito dal sottomarino nucleare USS Georgia sotto il comando navale USA in Europa e Africa NAVEUR-NAVAF, con sede a Napoli. È arrivato il momento che il popolo della pace in Sicilia riprenda la Lotta e la Resistenza – dopo le grandi mobilitazioni contro gli euromissili a Comiso e contro il Muos a Niscemi – con una nuova, grande mobilitazione popolare per fermare le micidiali spirali guerrafondaie, alimentate dai criminali aumenti delle spese militari e dai paralleli tagli alle spese sociali. La Sicilia sarà più bella senza il Muos e senza Sigonella! Domenica 6 luglio, alle ore 10,00, Manifestazione regionale a Sigonella. Promotori: Catanesi Solidali con il Popolo Palestinese; Comitato Messina Palestina; Comitato per il sostegno al popolo palestinese della riviera jonica messinese; Comitato provinciale per la Palestina Libera Caltanissetta; Adesioni: Alleanza Verdi Sinistra Sicilia; Anpi Catania; Antudo; ARCI Catania; Associazione Comunista Olga Benario CT; Associazione Radio Aut PA; Carovane Migranti; Casa del Popolo Peppino Impastato PA; Casa22 CL; Catanesi Solidali con il Popolo Curdo; Circolo Tina Modotti Associazione di amicizia Italia-Cuba CT; Cobas Scuola Sicilia; Comitato No MUOS Niscemi; Comitato Nour Palermo; Democrazia Sovrana e Popolare CL; FLC CGIL Caltanissetta, Enna; Generazioni Future; La Città Felice CT; LHIVE CT; Fridays For Future CL; Global March to Gaza Italia; Movimento NO MUOS; Movimento Siciliano D’azione; No Riarmo CL; Nuova Unione Popolare di Enna; Potere al Popolo Sicilia; Potere al Popolo CT; Segreteria Rifondazione Comunista Sicilia; Rifondazione Comunista SR/RG; Sinistra Anticapitalista; SUNIA; UGS Sicilia; USB Sicilia; Zona Aut Palermo
Conferenza stampa al Comune di Mazzé verso l’assemblea regionale “Il destino dell’agricoltura e del suolo in Piemonte: tra agri-fotovoltaico e nucleare”
Questa mattina si è tenuta la conferenza stampa di lancio dell’Assemblea Regionale di Confluenza dal titolo “Il destino dell’agricoltura e del suolo in Piemonte: tra agri-fotovoltaico e nucleare” che si terrà al Palaeventi di Mazzé sabato 12 luglio dalle ore 9.30, a conclusione dei dibattiti la serata proseguirà con una cena e un concerto degli Egin. Di seguito pubblichiamo il video con gli interventi di Elena di Confluenza, di Silvano, attivo nelle lotte a difesa del territorio da anni e del sindaco di Mazzé, Marco Formia, che ha patrocinato l’evento. Per garantire al meglio l’accoglienza della giornata si prega di compilare il FORM qui per avere indicazioni sulla partecipazione.  Per info scrivi a confluenza.info@gmail.com
Guerra alla guerra
Un appello per la costruzione di un percorso contro la guerra, il riarmo e il genocidio in Palestina Facciamo appello a tutti e tutte coloro che sentono la necessità di sviluppare un percorso largo e partecipato contro la guerra, contro il riarmo dell’Europa e il genocidio in Palestina. A tutt coloro che già si mobilitano in tal senso e vogliono condividere i loro percorsi, a tutt coloro che vogliono mettersi in dialogo e che vogliono convergere per curvare un destino che sembra ineluttabile. La pace è finita da un bel pezzo, la guerra e la sua espansione non è più una possibilità ma uno scenario consolidato e con cui ci stiamo abituando a convivere. Conviviamo con migliaia di morti in tutto il mondo, con i saccheggi e i soprusi, con le occupazioni e gli espropri. I recenti avvenimenti e lerivolte scoppiate nelle principali città statunitensi contro le deportazioni dei migranti ci raccontano come la guerra sia uno stato diffuso e permanente e si dispiega su vari livelli di intensità. Come non pensare ai nostri decreti sicurezza e ai dl emergenza sulle periferie, alle zone speciali, ai siti di interesse nazionale. Non stiamo assistendo a qualcosa da lontano. Siamo dentro la grande bestia, quella che decide della guerra, che la finanzia che la alimenta. Le industrie italiane di armi aumentano i loro profitti intensificando la produzione, grandi porzioni di territorio sono basi militari della Nato, i nostri porti sono scali logistici di guerra, le nostre università contribuiscono a creare un sapere utile alla guerra, il nostro governo appoggia Israele e sostiene la retorica civilizzatrice dell’Occidente. Lo fa Meloni quando dichiara alla Casa Bianca che l’obiettivo comune è quello di rendere di nuovo grande l’Occidente, lo fa Valditara quando cambia le linee guida della scuola in chiave suprematista, lo fa Giuli quando taglia le risorse pubbliche al cinema perché troppo di “sinistra”. La cosa peggiore che può succedere è abituarsi a convivere con la paura e il pericolo di un mondo in frantumi. Come se la nostra guerra l’avessimo già persa. Vi invitiamo a costruire un percorso che abbia l’ambizione di interrogarsi sul proprio agire, su quali sono le corde tese che non siamo stati ancora in grado di toccare, su come è possibile mettersi al servizio di una sfida che faccia breccia sulle persone che sentono il pericolo di quello che sta avvenendo e, quindi, che sia in grado di curvare le decisioni politiche del governo Meloni a partire dal sostegno di Israele. Vi invitiamo a partecipare ad un processo non già dato ma che possa porsi delle domande su come nasce e cresce un movimento in Italia e in Europa contro la guerra interna ed esterna. Come si muove insieme una guerra contro la guerra, per invertire la rotta di un mondo che vede sempre più paesi arruolarsi nelle fila del pensiero di destra e conservatore in tutto il mondo. L’altra faccia del militarismo progressista di matrice liberal che ha preparato il terreno nei decenni precedenti e che oggi non tenta nemmeno più di mascherare di ipocrisia il suo bellicismo. Vi invitiamo a proporre strumenti di condivisione, a condividere pratiche contro la guerra: boicottaggi, scioperi, mobilitazioni di piazza, sabotaggi, dibattiti nelle università e nelle scuole dando voce a chi voce non ha o non può più avere. Vi invitiamo a puntare alla pratica dell’obiettivo comune come unica prospettiva, tutta da conquistare collettivamente per aprire spazi di possibilità che superino i confini delle forme organizzate. Vi invitiamo ovunque siate a raggiungerci in Val Susa, a Venaus durante il Festival Alta Felicità il 27 luglio alle ore 12:30, per condividere riflessioni e prospettive, ritornare nelle nostre città e moltiplicare gli appuntamenti, guardare insieme a un momento di mobilitazione nazionale in autunno che sia il primo di tanti a venire, confidando nella capacità di cogliere con flessibilità le occasioni che si potranno aprire nell’accelerazione degli eventi. Siamo sicuri che faremo del nostro meglio per resistere e trovare il modo di curvare la linea della storia. Contro la guerra. Abbiamo amici dappertutto! per condividere l’appello: bit.ly/guerraallaguerra
Fuoco e ghiaccio: lezioni dalla battaglia di Los Angeles
Traduciamo questo articolo anonimo dal sito ill will. Il testo è del 14 giugno, quindi scritto nei giorni caldi delle rivolte. Ci sembra importante cercare di seguire il dibattito interno al movimento che si sta dando negli Usa, per provare a restituire la complessità delle questioni che esso mette sul tappeto. Nonostante la loro chiara collocazione di parte e parzialità, i ragionamenti che vengono esposti nell’articolo potrebbero aiutare a restituire un dibattito fra i militanti statunitensi che hanno partecipato alle rivolte, in un contesto in cui faticano ad arrivare, alle nostre latitudini, valutazioni complesse su quanto accaduto a giugno a Los Angeles e in altre città. Buona lettura! -------------------------------------------------------------------------------- Penso che resterò su questa faglia sismica vicino a questo vulcano ancora attivo in questa fortezza armata di fronte a un oceano morente e coperto di terra mentre le strade bruciano e le rocce volano e il gas al peperoncino ci stende perché è lì che sono i miei amici, bastardi, non che non che sappiate cosa significhi. -Diane Di Prima, “Lettera rivoluzionaria n. 52”. Il movimento contro le deportazioni di massa si è sviluppato per settimane. Da San Diego a Martha’s Vineyard, si erano già verificati scontri spontanei con gli agenti dell’ICE. A ciò si sono aggiunte azioni coordinate di attivisti e reti di risposta rapida, tra cui gli sforzi per bloccare i furgoni dell’ICE nel centro di Manhattan. Tutti sapevano che stava per esplodere. Poi, a Los Angeles, è finalmente successo. La folla si è radunata in risposta alle incursioni dell’ICE in diversi quartieri. Le proteste si sono susseguite notte dopo notte davanti al Metropolitan Detention Center, dove erano detenuti i migranti arrestati. Gli sforzi per bloccare le incursioni dell’ICE e il centro di detenzione hanno portato a scontri con la polizia. La folla si è radunata in tutto il centro e in altri quartieri. I manifestanti hanno bloccato strade e autostrade, hanno combattuto la polizia con pietre e fuochi d’artificio, hanno costruito barricate e hanno incendiato diverse auto. Domenica sera, il capo della polizia ha annunciato che la polizia di Los Angeles era sovraccarica. Trump aveva già deciso di inviare la Guardia Nazionale e, poco dopo, i Marines. L’esplosione era iniziata a Los Angeles. Ma ora che l’incendio era iniziato, stava cominciando a espandersi. Le proteste si sono diffuse in decine di città in tutto il Paese. Sono stati effettuati un migliaio di arresti e si sta contando. Il Texas e il Missouri hanno schierato la Guardia Nazionale. I disordini si sono diffusi all’interno dei centri di detenzione per immigrati. Una rivolta all’interno del centro di detenzione di Delaney Hall, a Newark, nel New Jersey, ha portato diversi migranti ad abbattere un muro e a fuggire. Il centro di detenzione, appena riaperto, potrebbe chiudere. Di seguito sono riportate alcune lezioni della battaglia di Los Angeles che potrebbero rivelarsi utili oggi, mentre il movimento per fermare la macchina delle deportazioni inizia a diffondersi e ad approfondirsi. I. Le proteste sono efficaci solo se sono dirompenti. Il movimento contro l’ICE è stata la sfida più importante per la nuova amministrazione Trump. Disturbando la macchina delle deportazioni, il movimento rivela l’unica fonte di potere che la gente comune ha. II. Per continuare a essere efficace, la protesta deve diffondersi. I disordini si sono diffusi da un quartiere all’altro di Los Angeles e poi in decine di città del Paese. Ma le proteste sono ora in gran parte contenute in piccoli settori del centro città. Per avere successo, il movimento deve continuare a espandersi in ogni città e in tutto il Paese, coinvolgendo strati più ampi della società. III. Bloccare tutto. Durante la battaglia di Los Angeles, i blocchi si sono diffusi dai quartieri al Metropolitan Detention Center, e poi alle autostrade e alle linee ferroviarie. Ben presto le barricate sono state disseminate in tutto il centro. Man mano che il movimento si espande, i blocchi devono continuare a diffondersi dai quartieri ai centri di detenzione, alle autostrade e alle linee di trasporto pubblico, e poi agli aeroporti e ad altre infrastrutture in tutto il Paese. Crediti: Getty IV. Il potere è logistico, risiede nelle infrastrutture. La macchina della deportazione richiede infrastrutture e un vasto apparato logistico. Questa logistica può essere studiata e l’infrastruttura mappata. Questo rivelerà i punti critici e aprirà possibilità per nuove tattiche. V. Un ritmo coerente dà al movimento qualcosa intorno a cui orientarsi, consentendo un’auto-organizzazione più ampia. I centri di detenzione e gli edifici federali sono simbolici e infrastrutturali. Le proteste in questi edifici ogni notte possono aprire lo spazio per la crescita di un movimento diversificato e auto-organizzato. Ma questo ha i suoi limiti. Può facilmente intrappolare i partecipanti in un’estenuante guerra di logoramento con rendimenti decrescenti. VI. L’intera città è un terreno di lotta. La diffusione di disordini in tutta la città interromperà il funzionamento della macchina delle deportazioni. Questo vale anche quando i manifestanti non bloccano direttamente le infrastrutture di deportazione. VII. La spontaneità è spesso già organizzata. I movimenti mobilitano le persone sulla base di come sono già organizzate nella vita quotidiana. Dietro la spontaneità delle rivolte ci sono strati di organizzazione invisibile. Le persone che si sono messe in moto a Los Angeles erano organizzate in vari modi, tra cui gruppi Whatsapp, famiglie, associazioni di inquilini e bande. VIII. Il modo in cui si sostiene lo slancio è una questione di organizzazione. Le rivolte sono spesso spontanee. Ma l’organizzazione può contribuire alla loro diffusione, estensione e intensità. Le folle hanno iniziato a riunirsi spontaneamente in risposta alle retate dell’ICE a Los Angeles. Poi i gruppi di attivisti hanno indetto proteste presso il centro di detenzione. Questo ha contribuito a sostenere lo slancio e a diffondere l’attività in tutta la città. Le proteste continueranno ad emergere come risposta spontanea alle incursioni. Ma il movimento dovrà imparare a prendere la propria iniziativa e a stabilire il proprio ritmo. IX. Gli attivisti possono contribuire alla diffusione del movimento. I canali di comunicazione che sono chiari, affidabili, degni di fiducia e coerenti sono fondamentali. Questo contribuirà a far crescere il numero dei partecipanti e a costruire un’ecologia in cui sono possibili molti livelli di iniziativa e auto-organizzazione. X. Questi eventi rivelano che è emerso un nuovo strato di militanti. Secondo il capo della polizia di Los Angeles, la folla di Los Angeles era piena di “anarchici” che viaggiano tra i diversi momenti di agitazione sociale. Vale la pena ricordare che una generazione a Los Angeles e altrove ha acquisito esperienza nelle tattiche di strada difendendo gli accampamenti studenteschi l’anno scorso. XI. Le folle determinate possono sopraffare la polizia. La polizia di Los Angeles è stata sopraffatta da folle combattive, ma anche diverse, creative, imprevedibili, decentrate e sparse. XII. La repressione può far sì che le proteste si diffondano. Il dispiegamento della Guardia Nazionale a volte pone fine ai disordini. Ma altre volte porta le proteste a diventare più diffuse e intense, poiché sempre più persone scendono in piazza. XIII. Una situazione rivoluzionaria si apre quando le forze armate vengono dispiegate nelle strade. Non abbiamo ancora raggiunto il livello di crisi. Ma è necessario iniziare a considerare le questioni che questo solleva ora. XIV. La vera infrastruttura necessaria allo Stato per realizzare deportazioni di massa non esiste ancora. Viene messa insieme in modo frammentario. Il loro obiettivo, per ora, è creare uno spettacolo. Su questo palcoscenico possono essere sconfitti. XV. La strategia dell’amministrazione Trump è quella di aumentare la polarizzazione e il disordine. Trump sta rendendo le città americane meno governabili. Questo può essere ritorto contro di loro. Spesso gli aspiranti autocrati sono rovinati dai loro stessi errori. Le rivolte portano sempre a un aumento della polarizzazione. È inevitabile. Ma in seguito diventerà un limite. XVI. Le tensioni tra i governi locali e l’amministrazione Trump hanno creato aperture per le rivolte di George Floyd. Il movimento attuale può trarre vantaggio da queste contraddizioni. Ma è importante evitare che la lotta venga reindirizzata verso le urne. I Biden, i Kamala e i Newsom di questo mondo non hanno nulla da offrire. Manifestanti anti-ICE di Tuscon dietro gli scudi. (Immagine: Adrian O’Farrill) XVII. Le rivolte sono spesso messe in moto da un particolare gruppo sociale. Ma la base sociale deve poi espandersi per avere successo. La lotta per sconfiggere o abolire l’ICE è iniziata nelle comunità di immigrati. Ma per avere successo dovrà espandersi, coinvolgendo strati molto più ampi della società. XVIII. I governi imparano dai successi e dai fallimenti delle agitazioni sociali. Gli insorti dovranno fare lo stesso. Trump si è spesso lamentato di non aver inviato prima la Guardia Nazionale a Minneapolis. Se il governo federale sarà più rapido e proattivo nell’intervenire nei disordini locali, le rivolte potrebbero avere una finestra di opportunità più piccola. Gli insorti dovranno imparare ad avere la fiducia e la capacità di intraprendere azioni coraggiose e di agire con decisione. XIX. Il futuro appartiene agli audaci. Il movimento deve prendere e mantenere l’iniziativa, imponendo il suo ritmo agli eventi. Una volta iniziata l’insurrezione, il movimento deve agire con la massima determinazione e, con tutti i mezzi, senza mai sbagliare, passare all’offensiva. Cogliere il nemico di sorpresa e cogliere il momento in cui le sue forze si disperdono. Cercare di ottenere successi quotidiani, anche se piccoli, e mantenere a tutti i costi un morale superiore. XX. Non c’è un solo modo di procedere. Ci vorranno tutti noi, spingendo la cosa da tutti i lati, per abbatterla. XXI. “Due, tre, molte Los Angeles”. Ci vorrà l’apertura di nuovi fronti e la diffusione di tattiche sempre più dirompenti per tirare il freno d’emergenza alla macchina delle deportazioni. La scelta è chiara: deportazione o insurrezione. di Anonimo Immagine di copertina: Eric Thayer
Ex-GKN: partecipata assemblea dopo le notizie di sgombero
In vista della due giorni di mobilitazione del prossimo 11-12 luglio. Giovedì 26 giugno, al presidio del collettivo di fabbrica dell’ex GKN di Campi Bisenzio, si è tenuta un’affollata assemblea, dopo che nei giorni scorsi si è avuta notizia di un’ordine di sgombero del presidio stesso. Sullo sgombero, i lavoratori non hanno ricevuto comunicazioni ufficiali, ma la notizia arriva proprio mentretre comuni (Campi Bisenzio, Calenzano e Sesto Fiorentino) stanno per entrare con la Regione Toscana nel Consorzio industriale pubblico, per la reindustrializzazione dello stabilimento sulla base del progetto della cooperativa Gff. Tra pochi giorni ci sarà il quarto anniversario dell’inizio della lotta, quando il 9 luglio 2021 arrivarono via messaggio le lettere di licenziamento per quasi 500 persone. Per questo, il prossimo 11 e 12 luglio ci sarà una due giorni di lotta al presidio. Ne abbiamo parlato con Matteo Moretti del collettivo di fabbrica ex GKN. Ascolta o scarica da Radio Onda d’Urto
Haaretz: soldati israeliani sparano deliberatamente contro richiedenti aiuti disarmati vicino ai siti di distribuzione sostenuti dagli USA a Gaza
Haaretz ha pubblicato un nuovo rapporto sul lavoro dei soldati israeliani presso il GHG a Gaza. Un soldato veterano ha rivelato che qualsiasi appaltatore privato che lavori a Gaza con attrezzature ingegneristiche riceve 5.000 shekel [circa 1.500 dollari] per ogni casa demolita, aggiungendo che stanno guadagnando una fortuna e che ogni momento in cui non demoliscono case è una perdita di denaro. da InfoPal Il soldato ha anche affermato che gli appaltatori sono protetti dalle forze israeliane e che, per questo, scoppia una sparatoria e delle persone vengono uccise. “Queste sono zone in cui ai palestinesi è permesso stare – siamo noi che ci siamo avvicinati e abbiamo deciso che ci mettevano in pericolo. Quindi, per un appaltatore che vuole guadagnare altri 5.000 shekel demolendo una casa, è considerato accettabile uccidere persone che cercano solo cibo”, ha concluso il soldato. Quds News. Nell’ultimo mese, soldati israeliani hanno deliberatamente aperto il fuoco contro richiedenti disarmati vicino o presso i siti di distribuzione di aiuti umanitari sostenuti dagli Stati Uniti a Gaza, agendo su ordine dei loro comandanti. Secondo Haaretz, conversazioni con ufficiali e soldati rivelano che i comandanti hanno ordinato alle forze di sparare sulla folla in attesa di cibo vicino o presso i siti di distribuzione di aiuti umanitari della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), sostenuta dagli Stati Uniti, per allontanarla o disperderla, nonostante non rappresentasse alcuna minaccia. Le uccisioni di massa da parte di Israele di richiedenti aiuti umanitari vicino ai siti di distribuzione della GHF sono diventate una triste realtà quotidiana, tra scene caotiche, poiché ai palestinesi disperati viene concesso solo un breve lasso di tempo per correre in cerca di cibo e vengono successivamente presi di mira dalle forze israeliane. L’ufficio stampa del governo di Gaza (GMO) e le Nazioni Unite hanno descritto questi siti come “trappole di massa” e “macelli”. Oltre 540 richiedenti aiuti sono stati uccisi e più di 4.000 sono rimasti feriti dalle forze israeliane nei pressi dei siti di distribuzione degli aiuti della GHF, dall’inizio delle sue operazioni a Gaza, il 27 maggio, secondo il ministero della Salute palestinese. Inoltre, altre 39 persone sono state dichiarate disperse dopo che si erano recate ai siti della GHF per procurarsi cibo. Dopo oltre 80 giorni di blocco totale, carestia e crescente indignazione internazionale, la GHF, un’organizzazione coinvolta da scandali e sostenuta da Stati Uniti e Israele, creata per aggirare l’infrastruttura di distribuzione degli aiuti delle Nazioni Unite nella Striscia di Gaza, avrebbe distribuito solo aiuti limitati. La maggior parte delle organizzazioni umanitarie, tra cui le Nazioni Unite, ha preso le distanze dalla GHF, sostenendo che il gruppo viola i principi umanitari limitando gli aiuti alla Striscia di Gaza meridionale e centrale, costringendo i palestinesi a percorrere lunghe distanze a piedi per ricevere gli aiuti e fornendo solo aiuti limitati, tra le altre critiche. Medici Senza Frontiere (MSF) ha avvertito che “militarizzare gli aiuti in questo modo può costituire crimine contro l’umanità”. “Ogni giorno i palestinesi si scontrano con una carneficina nel tentativo di ricevere rifornimenti dall’insufficiente quantità di aiuti che arriva a Gaza”, ha dichiarato MSF. Dall’apertura dei centri di distribuzione rapida, Haaretz ha contato 19 sparatorie nelle loro vicinanze. Testimonianze dei soldati. Un soldato ha descritto la situazione come un crollo totale dei codici etici dell’esercito israeliano a Gaza. “È un campo di sterminio“, ha detto un soldato. “Dove ero di stanza, venivano uccise da una a cinque persone ogni giorno. Vengono trattate come una forza ostile: niente misure di controllo della folla, niente gas lacrimogeni, solo fuoco vivo con tutto l’immaginabile: mitragliatrici pesanti, lanciagranate, mortai. Poi, una volta aperto il centro, gli spari cessano e sanno di potersi avvicinare. Il nostro mezzo di comunicazione è il fuoco nemico”. Il soldato ha aggiunto: “Apriamo il fuoco la mattina presto se qualcuno cerca di mettersi in fila da poche centinaia di metri di distanza, e a volte lo colpiamo da distanza ravvicinata. Ma non c’è pericolo per le forze”. Secondo lui, “Non sono a conoscenza di un singolo caso di fuoco di risposta. Non c’è nemico, non ci sono armi”. Ha anche affermato che l’attività nella sua area di servizio è nota come Operazione Pesce Salato, il nome della versione israeliana del gioco per bambini “Luce rossa, luce verde”. Ufficiali israeliani hanno dichiarato a Haaretz che l’esercito non permette al pubblico, in Israele o all’estero, di vedere filmati di ciò che accade intorno ai centri di distribuzione alimentare. “Gaza non interessa più a nessuno“, ha detto un riservista che ha completato un altro turno di servizio nella Striscia settentrionale, questa settimana. “È diventato un luogo con le sue regole. La perdita di vite umane non significa nulla. Non è nemmeno uno ‘sfortunato incidente’, come si diceva una volta“. Un ufficiale in servizio nella sicurezza di un centro di distribuzione ha descritto l’approccio israeliano come profondamente imperfetto: “Lavorare con una popolazione civile quando l’unico modo di interagire è aprire il fuoco è altamente problematico, per usare un eufemismo”, ha dichiarato a Haaretz. “Non è né eticamente né moralmente accettabile che le persone debbano raggiungere, o non raggiungere, una [zona umanitaria] sotto il fuoco di carri armati, cecchini e colpi di mortaio”. L’ufficiale ha sottolineato un altro problema relativo ai centri di distribuzione: la loro mancanza di coerenza. I residenti non sanno quando ciascun centro aprirà, il che aumenta la pressione sui siti e contribuisce a danneggiare i civili. “Non so chi prenda le decisioni, ma diamo istruzioni alla popolazione e poi o non le seguiamo o le modifichiamo“, ha affermato. Le testimonianze di comandanti e soldati israeliani rivelano una netta discrepanza tra le direttive ufficiali israeliane e le azioni sul campo a Gaza. Mentre alle truppe è stato ordinato di evitare le aree civili e i siti di aiuti umanitari, gli appaltatori privati, pagati per ogni casa demolita, stanno spostando le operazioni più vicino ai punti di distribuzione alimentare, innescando attacchi mortali contro palestinesi disarmati in cerca di aiuti. “Queste sono aree in cui ai palestinesi è consentito stare: siamo noi che ci siamo avvicinati e abbiamo deciso che ci mettevano in pericolo. Quindi, per un appaltatore guadagnare altri 5.000 shekel e demolire una casa, è considerato accettabile uccidere persone che cercano solo cibo“, ha detto un soldato. Un alto ufficiale il cui nome compare ripetutamente nelle testimonianze sulle sparatorie vicino ai siti di soccorso è il Generale di Brigata, Yehuda Vach, comandante della Divisione 252. Haaretz ha precedentemente riferito di come Vach abbia trasformato il corridoio di Netzarim in una via di fuga mortale, mettendo in pericolo i soldati sul campo e sospettato di aver ordinato la distruzione di un ospedale a Gaza senza autorizzazione. Ora, un ufficiale della divisione afferma che Vach ha deciso di disperdere i raduni di palestinesi in attesa dei camion degli aiuti delle Nazioni Unite, aprendo il fuoco. “Questa è la politica di Vach”, ha detto l’ufficiale, “ma molti comandanti e soldati l’hanno accettata senza fare domande. [I palestinesi] non dovrebbero essere lì, quindi l’idea è di assicurarsi che se ne vadano, anche se sono lì solo per procurarsi del cibo”. Si è tenuta una discussione al Comando Sud, da cui è emerso che le truppe avevano iniziato a disperdere la folla affamata usando proiettili di artiglieria. “Parlano di usare l’artiglieria su un incrocio pieno di civili come se fosse normale”, ha detto una fonte militare presente all’incontro. “Un’intera discussione sul fatto che sia giusto o sbagliato usare l’artiglieria, senza nemmeno chiedersi perché quell’arma fosse necessaria in primo luogo. Ciò che preoccupa tutti è se continuare a operare a Gaza danneggerà la nostra legittimità. L’aspetto morale è praticamente inesistente. Nessuno si ferma a chiedere perché decine di civili in cerca di cibo vengano uccisi ogni giorno“. Un altro alto ufficiale ha affermato che la normalizzazione dell’uccisione di civili ha spesso incoraggiato a sparare contro di loro vicino ai centri di distribuzione degli aiuti. “Il fatto che il fuoco sia diretto contro la popolazione civile – che si tratti di artiglieria, carri armati, cecchini o droni – va contro tutto ciò che l’esercito dovrebbe rappresentare”, ha spiegato, criticando le decisioni prese sul campo. “Perché le persone che raccolgono cibo vengono uccise solo perché hanno oltrepassato i limiti, o perché a qualche comandante non piace che si intromettano? Perché siamo arrivati al punto in cui un adolescente è disposto a rischiare la vita solo per tirare giù un sacco di riso da un camion? Ed è a loro che stiamo sparando addosso. Banda di Abu Shabab. Oltre al fuoco israeliano, fonti militari hanno riferito a Haaretz che alcune delle uccisioni vicino ai centri di distribuzione degli aiuti sono state causate da colpi d’arma da fuoco da parte di membri della banda di Yasser Abu Shabab, sostenuta e armata da Israele e collaborazionista con Israele. “Corri o muori“: gli abitanti di Gaza affamati descrivono il caos e gli spari durante la corsa quotidiana per la sopravvivenza Il rapporto di Haaretz ha confermato le testimonianze raccolte in precedenza da Quds News Network. Chi raggiunge questi centri di aiuti rischia la vita. Chi non ce la fa, torna a casa affamato, ammesso che ci riesca. Parlando a QNN, Yasser Eyad, un palestinese sfollato e affamato, ha descritto cosa succede prima ancora che le persone raggiungano la presunta “zona sicura”. “Prima che arriviamo lì”, ha spiegato, “i soldati sui carri armati aprono il fuoco. Se li guardi, sparano. Cecchini e droni ci sparano o sganciano bombe per impedirci di avvicinarci”. Ha aggiunto che molti rimangono feriti prima ancora di vedere il cibo. Non ci sono code, né registrazioni. “Chi corre più veloce mangia”, ha spiegato Eyad. “Non è un sistema. È una fuga precipitosa. Se esiti, muori di fame”. Quello che Israele chiama “corridoio umanitario” è tutt’altro che sicuro. Alla gente viene detto di arrivare un’ora prima dei camioncini del cibo. Ma quando arrivano, sono già sotto tiro. “Non viene chiesto un documento d’identità”, ha detto Eyad. “Si corre e basta. Chi ce la fa ottiene del cibo. Chi non ce la fa, crolla per la fame o per i proiettili“.
«Banditi» per necessità ovvero la Resistenza così come fu
Filippo Focardi – Santo Peli (a cura di), Resistenza. La guerra partigiana in Italia (1943-1945), Carocci editore, Roma 2025 di Sandro Moiso, da Carmilla > «Una nuova retorica patriottarda o pseudo-liberale non venga ad esaltare la > formazione dei purissimi eroi: siamo quel che siamo: […] gli uomini sono > uomini». (Emanuele Artom, Diario di un partigiano ebreo) In tempi in cui anche i rappresentanti della destra più conservatrice e reazionaria possono, e devono, fare professione di antifascismo con la benedizione di una sinistra istituzionale esangue, le parole di Emanuele Artom appaiono davvero profetiche. Una Resistenza spogliata, quasi fin da subito e dai maggiori partiti rappresentati nell’agone parlamentare fin dalla caduta del regime fascista, della sua reale valenza di classe, rivolta e rifiuto dell’ordine costituito, allora dagli ordinamenti mussoliniani e di quelli pericolosamente in essere nel passaggio alla repubblica borghese, è diventata così il cardine su cui articolare una narrazione immaginifica e interclassista della rifondazione patriottarda dello Stato nazionale dopo la fine dell’identitarismo nazionalistico che aveva ispirato sia il regime che le sue guerre e avventure coloniali. Una narrazione retorica che ne ha confuso l’immagine, offuscandola, e tradito le concrete motivazioni. Ben vengano dunque ricerche come quelle accluse nel testo curato da Focardi e Peli che, nel solco degli studi iniziati da Claudio Pavone1 e della sua attenzione all’economia morale che aveva fondato l’insurrezione contro il governo non solo di Mussolini, del PNF e dei suoi gerarchi, ma anche contro l’ordine morale, economico e politico borghese che ne aveva costituito l’essenza e giustificato l’esistenza, riportano la storia e gli avvenimenti di quei tragici e convulsi anni sui binari delle concrete condizioni materiali sui quali effettivamente viaggiarono. Una Storia che non solo deve liberarsi dalle incrostazioni con cui gli interpreti di destra hanno cercato di ridurre, in sintonia con quelli appartenenti ai partiti “nemici”, quel periodo ad una sorta di confronto tra fazioni politiche avverse, di cui i partiti sarebbero stata la forma naturale di espressione, ma anche delle interpretazioni mitopoietiche con cui tanta ricerca di parte avversa l’ha imbastardita riducendola a mera funzione del progresso degli organismi della democrazia parlamentare e dello Stato. Come sostengono da subito i due curatori, affermando come sia oggi necessario rivalutare, ricordare e ricostruire, le enormi fatiche della guerra partigiana che ne hanno segnato le «opere e giorni»: > Riportare al centro dell’attenzione la guerra partigiana nella sua > concretezza, nella sua difficoltà e drammaticità, nel suo accidentato farsi, > nel complicato intreccio tra spontaneità e organizzazione, di storia militare > e storia politica, di localismi e di utopie, di durezze materiali e > solidarismi trasversali: questo l’obiettivo che ci siamo prefissi progettando > l’impegnativo lavoro collettivo da cui è nato questo volume. […] A stimolare > l’”impresa” hanno concorso parecchi motivi. > Il principale, abbastanza evidente per chiunque segua con interesse il > discorso pubblico sulla Resistenza, è costituito dal fatto che quasi > esclusivamente, da almeno tre decenni, si è scritto e parlato di resistenza > senz’armi, di resistenza civile o di resistenza dei militari (Cefalonia) […] > Ma ciò non dovrebbe occultare il fatto che la più importante discontinuità > della storia nazionale […] non si sarebbe realizzato senza la scelta di > impugnare le armi compiuta da un’esigua minoranza, senza un esercito di > volontari disposti ad assumere su di sé il compito arduo di combattere, di > uccidere e farsi uccidere2. Una considerazione che potrebbe apparire scontata se non fosse, come proseguono Focardi e Peli, che: > Nella narrazione mediaticamente vincente si tornano invece a privilegiare, a > discapito dell’aspra, complicata e divisiva insurrezione antifascista, gli > aspetti unitari, nazional-patriottici della Resistenza. La centralità della > sanguinosa e divisiva guerra partigiana è stata via via edulcorata e di fatto > sostituita da una Resistenza più rassicurante, che piace immaginare condivisa > dalla maggioranza del popolo. Dunque, sconfortante eterogenesi dei fini, la > Resistenza diviene paradossalmente anche veicolo di un’autoassoluzione > collettiva, fondamento di un’illusoria identità nazionale miracolosamente > votata alla libertà3. E’ un messaggio forte quello dei due curatori che, per molti versi, si avvicina di più alla letteratura e alle memorie di Fenoglio, Calvino, Revelli, Bianco, Meneghello, Chiodi e tanti altri, che non alle ricostruzioni storiche troppo spesso ispirate alla necessità di superare le divisioni, un tempo tra PCI e DC (il cui risultato fu una costituzione spoglia del “diritto alla resistenza” proposto come articolo della stessa da Aldo Capitini e altri), e oggi, ancora più platealmente, tra”destra “ e “sinistra”, entrambe di governo grazie all’idea di “alternanza” che pervade il discorso politico moderno ispirato dal liberalismo, soprattutto, economico. In cui a contare non sono più le differenze tra i partiti e i loro programmi, ma la capacità di garantire continuità e la stabilità all’ordine esistente e alle sue “necessità” proprietarie, finanziarie e produttive. Santo Peli si è laureato in Lettere nel 1973, ha insegnato Storia Contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova, fino al 2013. I suoi campi di ricerca sono sempre stati costituiti dalla conflittualità operaia tra Prima e Seconda guerra mondiale e dalla Resistenza italiana. Per Franco Angeli ha dato alle stampe La Resistenza difficile nel 1999, poi ripubblicato dalle edizioni dalla Biblioteca Franco Serantini (BFS) di Pisa nel 2018. Con Einaudi ha invece pubblicato, La Resistenza in Italia (2004), Storia della Resistenza in Italia (2006 e 2015), Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza (2014) e La necessità, il caso, l’utopia. Saggi sulla guerra partigiana e dintorni, ancora per BFS Edizioni (2022). Filippo Focardi si è laureato nel 1993 e svolge la sua attività presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali dell’Università degli Studi di Padova. Si occupa di storia moderna e contemporanea e la sua opera si è concentrata soprattutto sulla storia italiana durante la seconda guerra mondiale e sul recupero della memoria storica di quel periodo. Tra i suoi studi vanno ricordati: La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 ad oggi (Laterza 2005), Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale (Laterza 2013) e Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoa, Foibe (Viella 2020). I due storici, ancora nell’introduzione al testo, sottolineano infine come: > La messa in sordina degli aspetti divisivi fatalmente connessi alla guerra > partigiana, e la forte sottolineatura di una coralità, di un afflato > nazional-patriottico, ricorda in qualche modo, e con molte diverse sfumature > sulle quali non è dato qui soffermarsi, la narrazione prevalente negli anni > Cinquanta […]. In una narrazione di questo tipo, la concreta esperienza > storica della guerra partigiana, per nulla esente da difficoltà e spinte > contrastanti, rischia di evaporare, di disciogliersi in un astratto pantheon > di eroi, a discapito di fare i conti con «il partigianato così com’era, non > come vorremmo fosse stato4 » 5. Considerazioni che ci devono far ricordare come Una guerra civile di Claudio Pavone, al suo apparire nel 1991, avesse fatto storcere il naso a molti rappresentanti dell’antifascismo istituzionale e sollevato numerose perplessità tra gli storici, quasi sempre di sinistra, che si occupavano della storia della Resistenza proprio per l’accento messo sullo scontro interno al paese che la guerra partigiana aveva suscitato, mettendo così in crisi e in discussione l’immagine edulcorata e priva di contraddizioni della stessa che sembrava aver ormai uniformato gli studi in materia. Per raggiungere l’obiettivo dichiarato i due curatori del testo pubblicato da Carocci hanno messo insieme sedici saggi, suddivisi in tre parti: Combattere, Vivere, Narrare. Composte rispettivamente da sei la prima e da cinque saggi ciascuna per entrambe le altre parti. Chiamando a raccolta l’opera di storici, docenti e ricercatori di Eric Gobetti, Gabriele Pedullà, Maria Teresa Sega, Chiara Colombini e Nicola Labanca, solo per citarne alcuni, oltre ai due saggi scritti dagli stessi curatori. Riuscendo a dare vita ad un complesso e intenso mosaico in cui vengono ricostruiti differenti aspetti della guerra partigiana e della sua memoria. Gli argomenti trattati vanno così dalla prima creazione delle bande partigiane ai loro nemici e alla presenza di stranieri nelle loro fila, oltre che il contributo, spesso sminuito, del Meridione alla storia della Resistenza oppure sul ruolo delle donne nell’esercito di liberazione. Oltre a questi, altri temi riguardano il vissuto e le passioni che alimentarono la Resistenza, la geografia degli studi storici sulla guerra partigiana, la violenza insita nella stessa, il “tradimento” dei manuali scolastici e il discorso pubblico sulla stessa, infarcito inevitabilmente di innagini di “martiri” e “patrioti”. Tra questi, che non si possono certo riassumere tutti nel corso di una recensione, risaltano, almeno agli occhi di chi qui scrive il saggio di Santo Peli su Guerra partigiana e rifiuto della guerra ( pp. 139-161), quello di Francesco Fusi su La “sporca” guerra del partigiano: alimentazione, salute, territorio (pp. 179-195) e, ancora, quello di Chiara Colombini intitolato «Non un esercito di santi». Vissuto e passioni della guerra partigiana (pp. 163-177). Non certo a discapito della validità degli altri tredici, ma soltanto perché riguardanti argomenti spesso disattesi dalla ricerca storica sul periodo 1943-1945 in Italia e, invece, molto importanti per aprire un confronto più approfondito sulle cause e conseguenze della “guerra civile”. Nel primo dei tre qui indicati, Santo Peli torna su un argomento di cui si era già occupato in altri suoi testi e in particolare nella parte finale della sua Storia della Resistenza in Italia ovvero ristabilire una verità spesso rimossa, quella del peso del rifiuto della guerra nell’alimentare la scelta di molti giovani italiani di aderire alle fila o, almeno, alle motivazioni della Resistenza, che venne ancor prima di una scelta di carattere ideologica o politica, che troppo spesso viene ancora indicata come motivazione primaria, forse per un malinteso senso del dovere nei confronti della patria che alimenta ancora oggi, in tempi di nuove e imminenti guerre, un certo immaginario patriottardo non soltanto di “destra”. Peli cita, come riassunto della sua tesi, le riflessioni e le memorie di una partigiana piemontese, Tersilla Oppedisano (nome di battaglia Trottolina), risalenti alla metà degli anni Settanta del ‘900. > Non so se la popolazione fosse tutta dalla nostra parte, non lo so. Certo, la > gente era stanca del fascismo e quindi sentiva inconsciamente che eravamo i > loro, anche perché la presenza dei partigiani aveva impedito che molti ragazzi > del posto finissero in Germania. D’altronde, il grosso dei partigiani non era > formato di volontari ma di ragazzi che erano stati costretti a scappare per > non arruolarsi, perché la repubblica di Salò aveva fatto la coscrizione > obbligatoria. > La Resistenza è proprio la guerra dei disertori, la guerra degli imboscati, > cioè gente che va nei boschi perché non la piglino. «E se venite a pigliarmi > afferro un mitra e vi sparo!». Imboscati proprio in questo senso. E’ il primo > momento della storia in cui ci si ribella alla guerra e ai fautori della > guerra. In questo senso è importantissima la Resistenza. Io non so se sia > opportuno dire queste cose, ma penso che bisogna dirle, anche per > demistificare la figura dell’eroe che si butta nella guerra, il nazionalismo, > il milite ignoto e mille storie di questo genere. Io mi trovo un po’ isolata a > dire queste cose, perché al partito non si dicono, nella scuola non si dicono, > e si fa l’elogio del volontarismo della massa del popolo italiano che si arma > e combatte, mentre, quando si va a vedere sotto sotto, appare quell’aspetto > del rifiuto della guerra, che pure è importantissimo6. Peli prosegue poi ancora affermando che: > La guerra partigiana, guerra di volontari che «si adunarono per dignità e non > per odio, decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo», è > un’immagine magnifica e tranquillizzante, che rischia di scambiare la parte > con il tutto. Ci furono questi volontari, eccome, e senza di loro poco o nulla > di politicamente ed eticamente significativo sarebbe accaduto. Ma forse sono > più numerosi i protagonisti cui dà voce la partigiana Trottolina: una turba di > sbandati in fuga dalla guerra, che in modi e in tempi diversi, e in buona > parte all’inizio senza ideali motivazioni, si trasformano in partigiani, certo > non tutti, e conservando caratteristiche e modi di intendere la lotta e i suoi > obiettivi assai diversificati. Che la genealogia della guerra partigiana vada > ricercata anche in una confusa ed eterogenea massa di italiani in fuga dalla > guerra è immagine assai poco seducente, perché evoca uno stato di passività, > una regressione o una permanenza nel particulare, e anche un’incerta, scarsa > propensione all’amor di patria, al riscatto dell’onore militare tracollato > nell’implosione dell’8 settembre […] Eppure una ricca memorialistica > partigiana lascia pochi dubbi in proposito7. Il saggio di Fusi, sottolineando le difficoltà di approvvigionamento delle formazioni partigiane e dei problemi che ciò causò talvolta con le popolazioni dei territori in cui operavano, non cerca sicuramente di mitizzare o edulcorare il fatto che i partigiani si comportassero talvolta come “banditi” anche solo per necessità logistiche. > Oltreché una guerra contro tedeschi e fascisti, quella partigiana è al > contempo una lotta contro le avversità: fattori ambientali proibitivi, > scarsità di alimentazione e di vestiario, rischi fisici e psicologici dovuti > alla forzata mobilità e ai continui pericoli. E’ perciò una guerra per la > sopravvivenza, individuale e di gruppo, la cui urgenza talvolta ogni altra > considerazione: «in molti casi sono più importanti le scarpe che le conferenze > politiche». […] In ogni caso, sopravvivere fu la prima preoccupazione di chi > salì in montagna. Oltre all’incognita della morte inflitta dal nemico, stava > quella legata alle disagevoli condizioni di vita: «I fascisti sono un di più, > ci ammazza da solo il freddo», sentenzia Ettore nel Partigiano Johnny. E così > Giambattista Lazagna, il partigiano Carlo: «la lotta più terribile deve essere > condotta contro le difficoltà di nutrirsi, di vestirsi, di armarsi, di > nascondersi. […] Ci voleva a quel tempo, oltre ad un certo coraggio, un fisico > molto robusto, uno stomaco molto piccolo, una buona dose di fantasia per > andare ai monti». […] La memorialistica partigiana e le pagine di scrittori > partigiani quali Fenoglio, Calvino e Meneghello sono popolate di questa > umanità partigiana spesso sofferente, incerta o inadeguata in cui i resistenti > sono presentati come «uomini simili ad altri nei loro meriti e nei loro > difetti». Raffigurazioni che le prime stagioni storiografiche sulla Resistenza > avevano lasciato spesso in ombra, per dare spazio ad immagini più edificanti, > se non eroiche. Parlando della “sporca” vita del partigiano giova perciò > l’avvertimento di Nuto Revelli a guardare a loro come a «gente comune», non a > «un esercito di santi», e a contrapporre alla vulgata che vuole i «partigiani > in gamba, tutti robusti, tutti perfetti, politicamente ben inquadrati, che di > mangiare non parlavano mai» un più aderente e disincantato sguardo sul vero > partigiano, afflitto quotidianamente «da un’infinità di piccoli problemi – le > scarpe, il sacco di farina, il chilo di sale, il partigiano lazzarone, il > partigiano fifone, il comandante sfessato e mille altre diavolerie» e nel > quale «sovente i problemi logistici erano più impegnativi di quelli > militari»8. Chiara Colombini, nel suo saggio, continua necessariamente sulla linea interpretativa tratteggiata fino ad ora: > Qualsiasi tentazione di monumentalizzare eventi e persone diventa > impraticabile qualora ci si affidi alle «scartoffie di allora». Perchè, > facendo ricorso ai documenti prodotti durante la guerra partigiana, ci si > ritrova immersi in un presente forzatamente scandito da incertezze e > contraddizioni, quelle che accompagnano un sentiero sconosciuto, senza sapere > esattamente dove condurrà»9. Una memorialistica, letteraria e non che non esclude affatto sentimenti e stati d’animo, in particolar modo presenti in quella delle donne e che serve a riscoprire, come fece Claudio Pavone nella sua monumentale e imprescindibile opera, la soggettività che operò nelle scelte partigiane e che, sempre, opera nella Storia. Lo spazio di una recensione non può espandersi oltre, ma rimane inconfutabile il fatto che l’opera di Santo Peli, Filippo Focardi e di tutte le autrici e di tutti gli autori coinvolti è destinata a segnare un ulteriore passo in avanti nello studio e nella comprensione delle condizioni concrete e materiali che stanno alla base degli eventi sociali, in cui spesso ad intervenire per ultime sono proprio le motivazioni ideologiche o dichiaratamente politiche. Una lezione importante per l’oggi e per il domani. -------------------------------------------------------------------------------- 1. Si vedano: C. Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla moralità delle Resistenza (1991 e 2006) e, ancora, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato (1995 e 2025).   2. F. Focardi – S. Peli (a cura di), Resistenza. La guerra partigiana in Italia (1943-1945), Carocci editore, Roma 2025, p. 15.   3. Ivi, pp. 15-16.   4. Nuto Revelli, lettera ad Alessandro Galante Garrone del 1° luglio 1955.   5. Focardi – Peli, op. cit., p. 16.   6. T. Fenoglio Oppedisano (Trottolina), in A. Bruzzone, R. Farina (a cura di), La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, Bollati Boringieri, Torino 2003 (prima edizione 1976), pp. 162- 163, cit. in S. Peli, Guerra partigiana e rifiuto della guerra in F. Focardi, S. Peli, op.cit., p. 139.   7. S. Peli, op. cit., p. 141.   8. F. Fusi, La “sporca” guerra del partigiano: alimentazione, salute, territorio in Focardi – Peli, op. cit., pp. 181-184.   9. C. Colombini, «Non un esercito di santi». Vissuto e passioni della guerra partigiana in Focardi – Peli, op. cit., p. 164.