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Informazione di parte

Palestina libera, Taranto libera
Riceviamo e pubblichiamo da Taranto per la Palestina: Il porto di Taranto non è complice di genocidio: i nostri mari sono luoghi di liberazione! Domani, la nostra comunità e il nostro territorio torneranno in piazza per ribadire la solidarietà politica alla resistenza palestinese. Taranto rifiuta di essere zona di guerra e complice del genocidio: non esiste pace, non esiste tregua, finché la Palestina non sarà libera — dal fiume al mare. La giornata di domani ci chiama ancora una volta a praticare questo orizzonte collettivo. Nei nostri mari — marginalizzati e subordinati a politiche di industrializzazione nociva e turistificazione predatoria — la bellezza e la resistenza delle acque cristalline si scontrano con l’imposizione dello stabilimento Ex Ilva, della Raffineria Eni e delle navi dei padroni, siano esse petrolifere, militari o da crociera. Presso il Molo Sant’Eligio, è previsto l’arrivo della Flotilla “Ghassan Kanafani”, imbarcazione della Freedom Flotilla. Sempre domani, alle 22:00, al Porto di Taranto, è previsto l’attracco della nave petroliera SeaSalvia. La SeaSalvia, con la complicità dell’ autorità portuale di Taranto, dell’Eni e dell’amministrazione comunale, ha già attraccato in passato per poi dirigersi verso le acque palestinesi, trasportando 30.000 tonnellate di greggio a sostegno della violenza coloniale dell’aviazione sionista. Mentre Eni cerca di nascondere il vero volto di fautore di ecocidi ne Sud Globale dietro operazioni di “greenwashing”, una comunità plurale — donne, lavoratrici e lavorator, madri, genitori, student, insegnanti, disoccupat* — ha scelto di mettere corpi e voci a disposizione per fermare quella nave. Il 27 settembre abbiamo percorso in migliaia un corteo fino alla sede Leonardo di Grottaglie, denunciandone la complicità nella produzione di strumenti di guerra. Nel pomeriggio, ci siamo ritrovat* davanti al molo Eni: anche se non siamo riuscit* a bloccare del tutto il carico, abbiamo occupato e rallentato i lavori per l’intera giornata. Chi poteva agire, come le istituzioni, non l’ha fatto si è reso complice. Chi invece resiste ogni giorno in un territorio dove il diritto a respirare è sistematicamente negato, precarizzando i nostri bisogni e desideri, ha ribadito che la Palestina ci sta liberando: perché ci costringe a fare i conti con il nostro privilegio bianco ed europeo e ci mostra che la resistenza palestinese è una lotta di liberazione collettiva. Domani, questi orizzonti diversi di mari e di mondi, si scontreranno e mostrano da un lato una visione di Taranto relegata a zona di sacrificio e dall’altra, espressione di margine di liberazione. Domani, i nostri mari ci chiamano ancora a scegliere da che parte stare: con le flotte che liberano le acque o con le navi che colonizzano. Sostenere la Flotilla Ghassan Kanafani significa rifiutare le navi da guerra come la SeaSalvia, mettersi di traverso a chi — come Eni — vuole relegare Taranto a zona di sacrificio e complicità nel genocidio. Le flotte che rompono l’assedio, che difendono la libertà di movimento contro ogni confine e legge binaria, e che esprimono concretamente solidarietà politica ai popoli in lotta che liberano i nostri mari, fiumi, le nostre terre ed i nostri quartieri. Le istituzioni che parlano di “pace” o “tregua” nascondono in realtà un progetto neocoloniale, figlio dello stesso sistema di apartheid e pulizia etnica su cui si fonda il progetto sionista. Ci preme sottolineare che, a seguito dell’illusoria narrazione di pace promossa dagli Stati Uniti, Qatar ed Egitto, lo Stato illegittimo di Israele non ha mai smesso di bombardare Gaza, il Libano e di continuare il suo progetto di aggressione e colonizzazione della Cisgiordania. Per questo, Invitiamo tutta la cittadinanza a seguire i nostri canali per aggiornamenti e a partecipare, domani dalle ore 18:0, in Piazza Maria Immacolata per un momento di volantinaggio e controinformazione: informeremo la comunità sull’arrivo della SeaSalvia, sulla complicità dell’Eni e daremo il benvenuto collettivo alla Flotilla Ghassan Kanafani. Domani 30 ottobre ore 18 piazza Maria Immacolata.
Intelligenza artificiale: l’umanità è diventata obsoleta per i padroni?
La distopia è già qui. Negli Stati Uniti, negli ultimi giorni, una pubblicità che sembra uscita da un film di fantascienza è apparsa ovunque. Tradotto da Contre Attaque Lungo le strade, alle fermate degli autobus, all’interno dei mezzi pubblici… Rivolgendosi ai datori di lavoro, proclama: «Smettete di assumere esseri umani. È arrivata l’era dei dipendenti IA“. Questa aggressiva campagna pubblicitaria è diffusa da un’azienda di IA con sede a San Francisco chiamata ”Artisan”. Da notare l’ironia di un nome del genere. Sui social network, l’azienda spiega: “Formiamo dipendenti IA, chiamati ‘artigiani’. Smettete di assumere esseri umani per compiti che l’IA può svolgere meglio. Assumete Ava come vostra rappresentante commerciale IA”. Ava è il robot digitale dell’azienda. L’IA sta conquistando i posti di lavoro degli esseri umani e i suoi promotori promettono una rivoluzione. Proprio questa settimana abbiamo appreso dal quotidiano Le Monde che Amazon sta organizzando «il primo licenziamento di massa causato dall’intelligenza artificiale». Un dispaccio dell’agenzia Reuters parla di 30.000 dipendenti licenziati, il più grande piano di licenziamenti mai attuato da questa multinazionale. E si tratterebbe solo di una prima fase, poiché sarebbe già prevista un’«ondata più importante». Amazon è uno dei principali datori di lavoro negli Stati Uniti e conta 1,5 milioni di dipendenti in tutto il mondo, di cui oltre due terzi negli Stati Uniti. Questa immensa forza lavoro è concentrata nei grandi magazzini alla periferia delle città o nella consegna dei pacchi. L’azienda di Jeff Bezos realizza un fatturato annuo di 670 miliardi di dollari e lo scorso anno ha registrato 70 miliardi di profitti. L’intelligenza artificiale consentirebbe di aumentare ulteriormente questi importi colossali, distruggendo al contempo posti di lavoro. L’ondata di licenziamenti che sta iniziando presso Amazon dovrebbe interessare fino al 10% delle “funzioni di supporto”, ovvero i colletti bianchi, ovvero i dipendenti che lavorano negli uffici dell’azienda, davanti ai computer. Amazon ne conta 350.000. In una lettera risalente a giugno, il CEO di Amazon spiegava ai dipendenti che l’intelligenza artificiale porterà l’azienda a “ridurre il numero totale dei dipendenti” nei prossimi anni. Un altro documento reso pubblico in ottobre spiega che l’azienda intende automatizzare fino al 75% delle sue operazioni. Walmart, un’enorme azienda di grande distribuzione, ha annunciato che non è previsto alcun aumento del personale nei prossimi anni, nonostante l’aumento delle vendite. Questo aumento dell’attività, e quindi dei profitti, sarà garantito dall’automazione delle mansioni. Il capo di Walmart spiega: “L’IA sta cambiando tutti i lavori, questo è molto chiaro. Non ne vedo nessuno che non ne sia interessato“. Nel settore digitale, Intel ha eliminato 22.000 posti di lavoro nel 2025, Microsoft ha licenziato 15.000 persone tra maggio e luglio, realizzando miliardi di profitti. Il Wall Street Journal riassume la situazione: ”Le grandi aziende scommettono sulla crescita senza assumere”. Il senatore democratico Bernie Sanders si interroga sui social network riguardo alla campagna pubblicitaria per l’IA: «Una domanda semplice: come sopravviveranno questi lavoratori licenziati senza lavoro né reddito?». La risposta va cercata tra i libertari e i signori della tecnologia. Uno dei loro rappresentanti in Francia è Laurent Alexandre, fondatore di Doctissimo, transumanista e tecnofilo, editorialista e vicino a Emmanuel Macron. Già nel 2019, in un discorso tenuto davanti agli studenti del Politecnico, riassumeva la visione del mondo di queste persone: «Vivrete un’età dell’oro… voi, dei, che padroneggerete e gestirete le tecnologie, creerete un divario rispetto agli inutili… e i gilet gialli sono la prima manifestazione di questo insopportabile divario intellettuale». La gerarchia è chiara: da un lato, i nuovi dei, gli ingegneri e i grandi capi che padroneggiano la tecnologia, dall’altro, gli esseri umani inutili, obsoleti, che saranno stati sostituiti dai robot. Per queste persone, non si tratta di condividere gli enormi guadagni derivanti dall’automazione delle attività. La prova: in un secolo di progressi tecnici, tutti avrebbero potuto lavorare molto meno, avendo risorse più che sufficienti per nutrirsi, alloggiarsi e vivere bene. Ma gli enormi “guadagni di produttività” già realizzati nelle fabbriche con i robot, negli ipermercati con le casse automatiche, nell’agricoltura con le macchine… si sono concentrati in poche tasche invece di essere equamente distribuiti. Con la diffusione dell’intelligenza artificiale, milioni di posti di lavoro sono a rischio. Cosa ne sarà dei disoccupati e dei senzatetto? Cosa fare di questa umanità diventata scomoda e superflua per i dominanti? Perché non metterli tutti insieme? Negli Stati Uniti, lo Utah ha appena approvato la creazione di un “mega-campo” per i senzatetto, il cui numero è in aumento nel Paese. Si tratta di un terreno di diversi ettari situato a 11 chilometri da Salt Lake City, senza collegamenti di trasporto, che ospiterà 1300 senzatetto. Vivranno in alloggi “adatti al lavoro”. Per i nostri signori moderni, si tratta di una soluzione umana e accettabile, un internamento mascherato da “aiuto”. In questa distopia, ci sarebbe un’umanità a due velocità, con la maggioranza mantenuta in uno stato di non-vita, in un mondo in cui le macchine produrrebbero la maggior parte della ricchezza.
Gaza è Rio de Janeiro. Gaza è il mondo intero
Non ci sono parole sufficienti per descrivere l’orrore che ci provoca il massacro di oltre 130 giovani neri, poveri, uccisi dalla polizia di Rio de Janeiro, con la scusa di combattere il narcotraffico. di Raúl Zibechi, traduzione a cura di Nodo Solidale Si è trattato di un’operazione di guerra urbana in cui il governo dello Stato ha mobilitato 2.500 poliziotti in assetto da guerra, oltre a blindati ed elicotteri per attaccare i complessi delle favelas Penha e Alemao nella zona nord della città, un’area con un’alta concentrazione di popolazione povera. Si tratta di due complessi di favelas che superano i 150.000 abitanti, con un’enorme densità di popolazione. Il governo di Rio ha dichiarato che ci sono stati 60 morti, ma la popolazione delle favelas ha portato nelle piazze più di 50 corpi che non figuravano nel conteggio ufficiale, lasciando il dubbio su quanti siano stati uccisi. Finora il numero supera i 120. Le reazioni non si sono fatte attendere, dalle organizzazioni per i diritti umani alle Nazioni Unite, che si sono dette “inorridite” dal massacro. Al di là dei dati, ci sono fatti rilevanti. Il genocidio palestinese a Gaza è lo specchio in cui devono guardarsi i popoli e le persone oppresse del mondo. Per chi sta in alto, si apre un periodo di caccia indiscriminata alla popolazione “in esubero”, perché hanno la garanzia dell’impunità. Ora più che mai, Gaza siamo tutti noi. Può essere Quito, San Salvador, Rosario o Tegucigalpa; il Cauca colombiano o Wall Mapu; la montagna di Guerrero o le comunità del Chiapas. Ora siamo tutti nel mirino di un capitalismo che uccide per accumulare sempre più rapidamente. Dicono narcotrafficanti con la stessa indifferenza con cui dicono palestinesi, mapuche o maya. Sono solo scuse. Argomenti per le classi medie urbane. Ma la storia recente ci mostra che quello che stanno facendo è creare laboratori per il genocidio. Nel tranquillo Ecuador, quando i popoli indigeni li hanno sconfitti nella rivolta del 2019, hanno reagito liberando i più feroci criminali nelle carceri trasformate in luoghi di sterminio, dove i media mostravano i detenuti che giocavano a calcio con la testa di un decapitato. Nel Cauca, l’estrazione mineraria a cielo aperto e la coltivazione di droga hanno esacerbato la violenza paramilitare contro le comunità Nasa e Misak che resistono e non si arrendono, rendendo la regione la più violenta di un paese già di suo violento. Nel territorio mapuche, sia in Cile che in Argentina, i poteri forti hanno deciso che coloro che non si arrendono devono essere definiti “terroristi”, con il risultato che oggi ci sono più prigionieri mapuche che sotto le dittature di Pinochet e Videla. In Messico, tutto è chiaro, così chiaro che i media e i governi non vogliono farcelo vedere, mascherando la violenza con discorsi che ne sottolineano solo la complicità. La violenza sistematica in Guerrero e in Chiapas dovrebbe essere motivo di scandalo. A Rio de Janeiro, un sociologo dice spesso che il narco non è uno Stato parallelo, ma lo Stato realmente esistente. Compresi tutti i governatori degli ultimi decenni, con il loro entourage di imprenditori mafiosi, deputati e consiglieri comunali che costituiscono un potere ereditato dagli squadroni della morte della dittatura militare. Gaza ci pone in un altro luogo, di fronte ad altre sfide. La prima è comprendere che la morte è la ragion d’essere del sistema capitalista. La seconda è capire che questo sistema è composto dalla destra e dalla sinistra, dai conservatori e dai progressisti. La terza è che dobbiamo organizzarci per proteggerci da soli, perché nessuno lo farà per noi. Il mondo che abbiamo conosciuto sta crollando. Piangiamo quei giovani uccisi a Rio, quei corpi distesi sull’asfalto. Trasformiamo le nostre lacrime in fiumi di indignazione e in torrenti di ribellione.
I “potenti attacchi” su Gaza ordinati da Netanyahu hanno ucciso 100 palestinesi
I palestinesi uccisi ieri dai raid aerei israeliani sono un centinaio, tra cui 24 bambini, decine i feriti. da Pagine Esteri Lo riferiscono questa mattina fonti degli ospedali di Gaza. I raid aerei sono arrivati dopo l’ordine del premier israeliano Netanyahu di “effettuare attacchi potenti” in risposta ai colpi sparati da una cellula combattente palestinese contro una postazione israeliana nella zona occupata di Rafah in cui è rimasto ucciso un riservista. Nei giorni scorsi ripetuti bombardamenti israeliani avevano fatto un centinaio di morti palestinesi, mentre un agguato aveva ucciso due soldati. Hamas nega di avere responsabilità dirette nell’accaduto di ieri e afferma che Netanyahu cerca pretesti per far saltare la tregua scattata il 10 ottobre sulla base dell’accordo tra Israele e il movimento islamico raggiunto in Egitto. Israele invece afferma che il gruppo islamista continua deliberatamente a ritardare la consegna dei corpi degli ostaggi israeliani morti a Gaza. Non solo, avrebbe anche inscenato il ritrovamento di una salma. L’ala militare di Hamas intanto ha annunciato di essere riuscita a “recuperare” i corpi di altri due ostaggi senza fornire indicazioni su quando li consegnerà alla Croce Rossa. In precedenza, era stato ritrovato un altro ostaggio morto, si tratta di un soldato, Amiram Cooper.  L’operazione di trasferimento alla Croce Rossa del suo corpo è stata sospesa “per le violazioni dell’esercito israeliano”, ha spiegato Hamas. Il recupero dei resti degli ostaggi morti è diventato un nodo del cessate il fuoco. Hamas ha promesso di consegnare i corpi di tutti gli israeliani morti ancora dispersi, ma sottolinea che il processo richiede tempo a causa della distruzione dell’enclave e dei rischi connessi alle operazioni nei tunnel. L’organizzazione inoltre accusa Israele di “perseguire una politica sistematica di ostacolo” alle ricerche, rifiutando l’ingresso di squadre recupero in diverse aree di Gaza e bloccando l’ingresso di macchinari pesanti che consentirebbero scavi più rapidi. Gli analisti israeliani osservano che Netanyahu, politicamente indebolito dalle proteste e dalle pressioni dell’estrema destra, potrebbe aver scelto di tornare alla forza militare come strumento di consenso interno. “Il premier sta cercando di riacquistare controllo e consenso attraverso un linguaggio di guerra”, ha commentato Amos Harel su Haaretz, ricordando che “ogni accusa a Hamas serve anche a rinviare le difficili discussioni sul dopoguerra”. Il presidente Usa Donald Trump da parte sua si dice ottimista sulla tenuta della tregua. “Nulla metterà a rischio il cessate il fuoco”, ha detto qualche ora fa, aggiungendo però che Israele “ha il diritto di reagire” agli attacchi contro i suoi soldati. Simili le dichiarazioni rilasciate in precedenza dal vicepresidente JD Vance. Nella Striscia, intanto, la tregua non ha portato alcun sollievo concreto alla popolazione civile. Centinaia di migliaia di sfollati vivono ancora in tende, senza elettricità e con poco cibo e acqua. Gli ospedali, in gran parte danneggiati, operano con scorte minime e personale ridotto. “I soldati israeliani non si sono mai completamente ritirati”, ha avvertito un giovane palestinese. “Le loro postazioni restano lungo il confine, i droni sorvolano ogni giorno le nostre case. Viviamo in una tregua che non è mai iniziata davvero”.
Monza: martedì 4 novembre corteo “contro la guerra e chi la produce”
Martedì 4 novembre a Monza la Rete Lotte Sociali Monza e Brianza e i Collettivi studenteschi di Monza hanno organizzato un corteo “Contro la guerra e chi la produce “.  Concentramento in via D’Annunzio ang. via Aquileia alle h 17.30. Tappa importante verso lo sciopero del 28 novembre indetto dal sindacalismo di base. La presentazione con Paolo del Foa Boccaccio di Monza Ascolta o scarica COMUNICATO DELLE REALTA’ PROMOTRICI La Commissione Europea ci dice che dobbiamo essere pronti alla guerra entro quattro anni: il conflitto in Ucraina, che vede la NATO contrapposta a Putin, ha già un impatto diretto sulle nostre vite, ma nei prossimi anni la questione potrebbe aggravarsi drammaticamente se non si costruisce una solida opposizione agli interessi economici che si celano dietro alla guerra. Fino a pochi mesi fa si chiamava “ReArm Europe”, oggi è stata ribattezzata “Readiness 2030”, ma la sostanza non cambia: la programmazione militare europea comprende, oltre al finanziamento alle armi, investimenti su infrastrutture, mobilità militare e guerra elettronica moderna. Un gigantesco affare per piccoli e grandi gruppi industriali, spese militari che paghiamo noi, investimenti pubblici che vengono sottratti alla spesa sociale. Noi con la stessa reattività dobbiamo saper raccogliere tutto ciò che di vivo e politico è successo nelle scorse settimane per dire chiaramente NO ALLA GUERRA. NO AL RIARMO. NO ALLA PRODUZIONE BELLICA. NO ALLA MILITARIZZAZIONE nelle strade e nelle scuole. Lo abbiamo affermato in tutta la Brianza durante l’Italian Raid Commando a maggio e di nuovo lo faremo il 4 novembre, durante la cosiddetta “Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze armate”, diventata con il Governo Meloni una celebrazione ancor più funzionale a promuovere pericolose retoriche guerrafondaie. Ancora una volta saremo in piazza per ribadire il rifiuto di questa retorica e per consolidare la crescita del movimento contro la guerra, coinvolgendo sia il mondo del lavoro che della scuola, rivendicando il blocco degli investimenti militari e l’incremento delle risorse per scuola e sanità pubbliche! da Radio Onda d’Urto
Occupazioni a Torino: cronaca di un mese senza precedenti.
Una cronaca dalle occupazioni e autogestioni delle scuole torinesi del mese di ottobre. Ottobre 2025, Torino e provincia. Il movimento “Blocchiamo tutto” scuote la metropoli e la provincia piemontese, come nel resto d’Italia. Il movimento per la Palestina e contro il genocidio a Gaza esplode muovendo nel profondo la società italiana che da anni sembrava sepolta da una coltre di rassegnazione. Il movimento assume una dimensione storica e arriva a toccare e mobilitare le masse popolari del paese, tra queste, le giovani generazioni sono le protagoniste indiscusse di blocchi, scioperi, scontri e cortei. Con l’esuberanza che arriva solo dai momenti di liberazione collettiva, si prendono spazio e prendono parola. Quello che si vede in strada e nelle scuole, è un espressione di autonomia e autorganizzazione conto le istituzioni responsabili dell’organizzazione sociale che permette e organizza il Genocidio. Dopo lo sciopero generale del 22 settembre, una scossa eletrica inizia ad attraversare le scuole superiori di Torino e della provincia, dalla pianura fino alle valli è una sollevazione generale, tutti vogliono fare qualcosa, tutti hanno visto che è possibile bloccare il Paese. Chi ha visto lo sciopero ne è uscito cambiato, e il pensiero si posa subito sul principale luogo di vita attraversato tutti i giorni, la scuola. La parola d’ordine nasce spontanea: occupazione! Si crea una situazione per certi versi inedita e potenziante, nella quale i collettivi “storici” delle scuole aiutano le altre scuole a organizzarsi. Il sapere sovversivo del potere studentesco si diffonde a macchia d’olio. Il 29 settembre a rompere il ghiaccio è il liceo Gioberti di Torino, a seguire arrivano Primo, Galfer, Coplux, Gobetti e Einstein. La partecipazione è altissima e i presidi sceriffi sono costretti a concedere molto a chi vuole occupare. Ad aiutare gli studenti e le studentesse ci sono anche molti prof; anche loro si stanno mobilitando. L’impensabile diventa possibile, la repressione delle presidenze, che in questi anni ha creato una cappa irrespirabile nelle scuole, batte in ritirata, c’è aria di rivolta. Il 3 ottobre un corteo oceanico invade Torino con un altro sciopero generale, dopo l’attacco dell’Idf alla Sumud Flottiglia la città vive un momento di mobilitazione generale incredibile, sono giorni che valgono anni. Oltre a marciare per le strade in 100 mila, vengono accerchiate le Ogr, invase già la sera prima, dove si tiene un convegno con Jeff Bezos e Von der Layen, dopo è il turno di Leonardo Spa, i cui cancelli prima tremano e poi crollano sotta la rabbia popolare. Il lunedì seguente più di 15 scuole occupano praticamente in simultanea, chi prende il controllo totale della scuola, chi riesce a strappare un’autogestione, non importa, l’importante è riuscire a bloccare il normale flusso della vita disciplinata della scuola. Sono settimane di vita comune e discussioni nelle aule, nei cortili e nelle palestre trasformati in basi studentesche del movimento. Nascono e si ampliano forme di coordinamento fra le scuole e i collettivi, in molte e molti prendono protagonismo. Le sere di questa settimana sono costellate di cortei e presidi da migliaia di persone. Il 7 ottobre 10 mila persone sfidano i divieti della Questura e marciano per la resistenza palestinese, per Gaza, la volontà di fermare il genocidio è ferrea e il Governo è in difficoltà palese. Il 13 ottobre entra in vigore la “tregua” a Gaza, ma le occupazioni continuano, nelle scuole la coscienza che la guerra non è realmente finita e che la Palestina non è libera è ormai patrimonio collettivo. Il Lagrange è occupato e barricato, seguono altri istituti tecnici. Alla mobilitazione si aggiungono molte istanze proprie di ogni scuola che partono dai problemi generali del mondo studentesco fino ai particolari problemi di ogni scuola. Si diffonde la capacità di collegare quello che succede in Palestina alla vita materiale di tutti i giorni. Nelle assemblee e nei laboratori si parla di problemi generali fino ad arrivare ai propri vissuti personali. Chi si mobilita ha imparato e condiviso moltissime cose che sarà difficile scordare. A questa breve cronaca di ottobre 2025 di mobilitazione studentesca, segue una raccolta di testimonianze a caldo raccolte in alcune delle scuole occupate. È un insieme parziale di racconti molto schematici di quello che ci è stato possibile raccogliere come testimonianza. Abbiamo provato anche a fare una piccola tabella degli istituti occupati o autogestiti alla quale sicuramente mancano all’appello alcune scuole. Nella speranza di poter integrare e ampliare questa cronaca, vi restituiamo le corrispondenze così come ci sono arrivate, perché nel loro essere dirette ci sembra trasmettano bene sentimenti, rivendicazioni e pratiche di questi giorni incredibili. Free Palestine! SETTIMANA 29-3SETTIMANA 6-10SETTIMANA 13-17Gioberti (liceo)Alfieri (liceo)Lagrange (tecnico)Primo (liceo)Berti (liceoNatta (tecnico)Galfer (liceo)Regina Margherita (liceo)Peano (tecnico)Coplux (liceo e tecnico)Convitto (liceo)Bodoni (tecnico)Gobetti (liceo)Dazeglio (liceo) Einstein (liceo)Santorre (liceo e tecnico) Cavour (liceo) Steiner (tecnico e liceo) Passoni (liceo) Avogadro (liceo) Darwin (liceo) Giolitti (tecnico) Volta (liceo) Plana (professionale e liceo) Majorana (liceo) Porporato (liceo) Spinelli (liceo) DARWIN la nostra occupazione è andata e sta andando bene (finisce oggi venerdì 10 ottobre) abbiamo avuto un buon riscontro da parte di professori, studenti e anche da parte della preside. noi abbiamo deciso di optare per un’occupazione in cui il nostro intento era quello di educare i ragazzi sul genocidio, su vari campi. per esempio degli interventi di aspetto storico (la storia della palestina e del conflitto), sul campo artistico e abbiamo contattato anche degli esterni. SANTORRE Il 6 e 7 ottobre il Santorre di Santarosa é riuscito ad occupare, dopo anni di silenzio, per protestare contro l’assedio ed il genocidio da parte dello stato assassino di Israele contro il popolo palestinese. Attraverso una mediazione col preside, con il collettivo recentemente istituito siamo riuscitə a coinvolgere ben 600 persone e a bloccare parzialmente le lezioni in corso. I laboratori, mirati a diffondere conoscenze storiche e geopolitiche, hanno riscontrato molto successo sia per la diffusione di notizie da moltə sconosciute o ignorate che per la creazione di un clima di unità e collaborazione fra studentə. Ciò che è stato fatto è stato un vero gesto di inclusione e sostegno per paesi come la Palestina che di voce in capitolo non ne ha mai avuta. Una massa intera di persone diverse che questi due giorni si sono unite e usando la loro voce, la forza più grande che ci contraddistingue, hanno fatto sentire tutti parte di qualcosa. L’impegno che ci abbiamo messo tutti può dimostrare solo in piccolissima parte le aspirazioni e le ambizioni che abbiamo. Quelle di creare un posto sicuro, dove manifestare e occupare non significa non avere voglia di studiare, ma avere voglia di farci sentire, anche oltre al banco di scuola. Questi due giorni hanno quindi fatto rinascere il Santorre dalla passività che lo infestava e accresciuto la grandezza del collettivo che continuerà a facilitare tra gli studenti lo scambio e il dibattito pacifico e rispettoso attraverso nuovi progetti ed iniziative. MAJORANA Come istituto Majorana di Torino abbiamo anche noi deciso di occupare. Abbiamo occupato in accordo con la dirigenza e quindi c’è stata una collaborazione tra le due parti. Siamo molto soddisfatt3 di come é stata organizzata e di come poi si é svolta. Hanno partecipato molti e molte ospiti che ci hanno aiutato a riflettere sul mondo e sulla situazione in Palestina, sul nostro impatto e sull’impegno politico che possiamo portare nelle nostre vite. Insieme a Fridays, NUDM, il testo “ogni mattina a Jenin”, articoli di Internazionale e di Ilan Pappé, Frank Fossati (autore del podcast “manuale per giovani di successo”), GIOC, Carlo Tagliacozzo del movimento BDS abbiamo creato uno spazio di incontro e di formazione senza giudizio. Sono stati due giorni pieni in cui ci siamo fatt3 sentire, in cui siamo risucit3 a partecipare. Ci siamo informat3 per essere più consapevoli e per poter scegliere indipendenti da che parte stare. CONVITTO Questo venerdi 10 ottobre, si è conclusa l’occupazione della nostra scuola, il convitto umberto primo. Abbiamo occupato la succursale di via bertola 10 dal lunedì 6 ottobre, ottenendo la partecipazione di quasi 400 studenti. I membri del collettivo si sono impegnati nell’organizzazione delle attività e degli spazi in modo autogestito e collaborativo. I partecipanti all’occupazione sono stati attivi e interessati a molte delle attività che abbiamo proposto, che trattavano sia di temi riguardanti la situazione palestinese, altri genocidi in corso e passati, e alcuni argomenti riguardanti la riforma valditara. In origine l’occupazione si sarebbe dovuta concludere il mercoledì, ma siamo riusciti, tramite un dialogo cooperativo e disponibile con la preside e il corpo docenti, a prolungarla fino a venerdi. REGINA Al Regina Margherita-Giulio Juvarra durante la co-occupazione delle due scuole abbiamo riscontrato una altissima partecipazione da parte degli alunni ed una collaborazione da parte dei professori altrettanto importante, ciò nonostante le numerose difficoltà organizzative e di logistica ci ha permesso di portare avanti la lotta e raggiungere o sensibilizzare gli studenti sui punti della nozione per cui avremmo occupato portando inoltre una grandissima unità tra i due istituti SPINELLI L’occupazione della S.I.E.S A. Spinelli è durata due giorni ed ha avuto come temi centrali il nodo Israelo-Palestinese e i conflitti attualmente e storicamente affrontati al livello mondiale, con particolare enfasi su dibattiti riguardo al raggiungimento della pace e all’etica di guerra. Ci siamo riuniti per discutere, confrontarci ed informarci su e contro ogni forma di violenza sistematica. Attraverso quest’occupazione abbiamo cercato di dimostrare la nostra presenza ed il nostro interesse, usandola come segno di disapprovazione e come piattaforma di conversazione costruttiva e pacifica. VOLTA Mercoledì 8 ottobre, noi studenti e studentesse del Liceo Scientifico Alessandro Volta abbiamo deciso di occupare la scuola. L’abbiamo fatto per la Palestina, per mandare un segnale politico forte e per esprimere solidarietà alle altre scuole che avevano già iniziato la mobilitazione. Non volevamo restare indifferenti di fronte all’immobilità dei governi riguardo il genocidio in Palestina e abbiamo scelto di agire. Durante l’occupazione abbiamo avuto diversi riscontri con la preside, perciò c’è stata un’assemblea d’istituto in cui abbiamo deciso insieme se continuare l’occupazione o trasformarla in autogestione. Alla fine abbiamo occupato per un giorno, ma quel giorno è bastato per farci sentire. È servito per bloccare tutto. L’autogestione si è svolta il 13 e il 14 ottobre e l’abbiamo sfruttata al meglio per sensibilizzare gli studenti sulla questione palestinese. Abbiamo infatti invitato diversi ospiti tra cui Maria Elena Delia, la portavoce della Global Sumud Flotilla Italia, Ugo Mattei, Paolo Romano, radio blackout e organizzato diversi dibattiti. Quello che è successo al Volta non è stato solo un gesto simbolico, ma un atto collettivo di presa di posizione. Non sappiamo cosa accadrà nei prossimi mesi, ma sappiamo che non resteremo zitti davanti all’ingiustizia. L’occupazione è stata solo l’inizio. CAVOUR Martedì sette ottobre alcuni studenti del liceo Cavour di Torino non hanno partecipato alle lezioni nelle aule e si sono organizzati per svolgere dei laboratori sul tema palestinese. Dopo alcune discussioni tra gli studenti per le modalità da attuare per la protesta c’è stato un confronto con il preside e ci si è accordati per fare due giornate (mercoledì e giovedì) di assemblea d’istituto. In queste in due giornate sono continuati interventi e laboratori sul tema ed essi hanno visto anche una grande partecipazione attiva da parte dei docenti e di esterni. Sono state anche organizzate due serate di musica che hanno contribuito a creare un momento di comunità scolastica. COPLUX La nostra scuola è stata un luogo di resistenza e di speranza. Anche se solo per due giorni, abbiamo occupato le aule per dire basta alla violenza e all’occupazione, e per chiedere un mondo più giusto e pacifico. Abbiamo organizzato assemblee infuocate, dibattiti accesi e attività culturali che hanno fatto vibrare le pareti della scuola. La nostra lotta non è stata solo per Gaza, ma per un futuro migliore per tutti. Siamo stati sorpresi dalla risposta positiva della comunità e dalla solidarietà mostrata dagli altri studenti e insegnanti. La nostra occupazione è stata un esempio di come la passione e la determinazione possano creare cambiamento. Siamo orgogliosi di aver fatto parte di questo movimento e speriamo che la nostra esperienza possa ispirare altri a prendere posizione e a lottare per i propri diritti in risposta ad uno stato che sta collaborando a creare una situazione di caso e di crisi umanitaria nella striscia. Siamo tutti palestinesi, e siamo stanchi di essere rappresentati da uno stato bellico che promuove il genocidio tagliandoci i fondi all’istruzione, alle cure mediche e aumentando il costo del carrello spesa. Ora e sempre resistenza
Due giorni per la difesa dell’Appennino
Pubblichiamo l’indizione per la due giorni del 22-23 novembre prossimi nel Mugello per la difesa dell’Appennino dalla speculazione energetica INDIZIONE  In tempi come questi la falsa narrazione della transizione ecologica mostra il suo vero volto: un attacco nei confronti dell’ambiente e della salute che non tiene conto di un’analisi complessiva dei problemi dei territori. Impoverimento, abbandono, assenza di cura e manutenzione del territorio, consumo di suolo, inquinamento, nocività ambientali e risorse dirottate per gli interessi economici e bellici attuali sono solo alcuni esempi concreti del quadro in cui ci troviamo a vivere.  Incontreremo tutti i comitati che difendo l’Appennino a Villore il 22 e 23 novembre per confrontarci sullo stato dell’arte dei progetti di speculazione energetica tra Toscana, Emilia Romagna, Liguria, Marche, Alto Abruzzo, Lazio e concretamente continuare il lavoro di mappatura dal basso. Vogliamo continuare a costituire una forza collettiva per mettere in campo iniziative che si oppongano ai progetti dannosi sui territori: riprendiamoci le strade, le colline, le montagne, per dire no alla cementificazione, al consumo di suolo, alla minaccia per gli ecosistemi e per l’avifauna.  Il governo parla di transizione energetica puntando sul mix di fonti energetiche: da un lato le fonti rinnovabili, privilegiando le rinnovabili su scala industriale per ottenere profitto; dall’altro lato, guarda al nucleare cosiddetto di ultima generazione chiamandolo “sostenibile”. In queste settimane è passato il nuovo ddl nucleare a firma Gilberto Pichetto Fratin e potremo dover affrontare la riapertura di nuove centrali nucleari sul nostro territorio in barba alla sicurezza collettiva e alla tutela dell’ambiente e della salute.  Invitiamo comitati, singoli, associazioni, cittadini che credono in un’altra gestione dei territori e che vogliono organizzarsi per contrapporsi a questa deriva a partecipare alla due giorni che si terrà a Villore il 22 e 23 novembre.  Di seguito il programma e le informazioni logistiche, per ulteriori informazioni scrivere alla mail confluenza.info@gmail.com PROGRAMMA SABATO 22 NOVEMBRE 2025 ore 15.30 ASSEMBLEA PER LA DIFESA DELL’APPENNINO Localita’ Il Santo Villore Vicchio, FI, Chiesa di San Lorenzo PRESENTAZIONE: intervento TESS e CONFLUENZA  PRIMA PARTE  Introduzione: intervento della Società dei territorialisti con Anna Marson, professoressa ordinaria di Pianificazione del territorio presso IUAV di Venezia, in merito al significato del territorio, del paesaggio e della nostra appartenenza ad esso   Conosciamo i comitati che difendo l’Appennino: stato dell’arte dei progetti e delle mobilitazioni  Pausa  SECONDA PARTE inizio ore 17.30 Impatti della speculazione energetica da rinnovabili sull’agricoltura e sui territori rurali  Narrazione dei media mainstream e del governo : disinformazione, mafia dell’eolico e falsi miti della transizione sul nucleare insostenibile  DISCUSSIONE  CONCLUSIONI : quali proposte? Come coinvolgere più persone? Organizzazione e lancio dell’appuntamento di Confluenza nazionale di marzo.  Fine ore 19.30  Cena collettiva PER PRENOTAZIONI per il pernottamento e per la cena collettiva presso la Casa Parrocchiale di don Santoro a Villore telefonare al numero +39 339 263 7865  PORTARE IL SACCO A PELO / 20 POSTI LETTO disponibili, allo riempimento di tutti occorrerà trovare una sistemazione nei dintorni DOMENICA 23 NOVEMBRE  Partenza da Villore per la passeggiata al Monte Giogo alle ore 8.30 con pranzo al sacco, ritorno subito dopo pranzo. La passeggiata è un percorso adatto a tutti ma servono scarpe comode.   Le foto sono del Comitato Tutela Crinale Mugellano (TESS) Crinali Liberi
Cosa c’entra Leonardo con il genocidio a Gaza?
Gianni Alioti, ricercatore di The Weapon Watch – Osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei, ha scritto per Pressenza un approfondimento, con notizie inedite, sulle responsabilità di Leonardo nel genocidio a Gaza. da Pressenza Come ha scritto in un bellissimo articolo il regista e drammaturgo Carlo Orlando, nativo di Novi e genovese di adozione, «Viviamo il tempo del genocidio. Da oltre 700 giorni. I palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, i milioni di profughi che vivono in diaspora da generazioni, vivono la realtà della pulizia etnica da oltre mezzo secolo e ora quella del genocidio. […] l’orrore di questo genocidio ci peserà addosso per anni (per sempre) e presto tardi ne pagheremo le conseguenze. […] Spesso si dice che “l’Occidente è indifferente” mettendo sullo stesso piano, implicitamente, governi e persone. É una narrazione tossica, che non rende giustizia alla realtà e contribuisce a generare paralisi e sconforto. Contribuisce, secondo me, all’accettazione di questo massacro quasi fosse un destino inevitabile, a cui l’Occidente non può sottrarsi. […] È una narrazione tossica che vede solo l’ombra e non la luce, umilia e offende. Il nostro governo non è indifferente. È complice. I giornalisti che fanno propaganda attiva al genocidio, non sono indifferenti. Sono complici». E complici di ciò che Francesca Albanese, nel suo rapporto all’Onu sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, definisce “economia del genocidio” ci sono anche diverse multinazionali, specie operanti nell’industria bellica, come la statunitense Lockheed Martin (la numero uno al mondo per fatturato militare) e l’italiana Leonardo. Controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze che detiene il 30,2% delle azioni la Leonardo ha una significativa presenza internazionale. Degli oltre 60 mila dipendenti alla fine del 2024, il 15% operano nel Regno Unito, il 13% negli Usa, il 5% in Polonia, il 60% in Italia e il 7% nel resto del mondo tra cui 250 persone in Israele. Fino al 2023, nella pubblicazione “Leonardo at a Glance” contenuta nel sito web del Gruppo, Israele figurava come il quinto “mercato domestico” dopo quello italiano, inglese, americano e polacco. Dal 2024, per una questione di opportunità (o di opacità), è stato ricompreso nel “resto del mondo”. Ma la realtà non si cancella. Nel momento che il portafoglio ordini e il titolo in Borsa di Leonardo hanno iniziato a gonfiarsi, spinti dalle politiche di riarmo dei paesi europei della Nato e dalle guerre in Ucraina e in Medio-Oriente, le politiche di comunicazione aziendale si sono preoccupate di non dare di sé un’immagine militarista e ‘muscolare’, preferendo collocarsi in un generico mercato dual use per l’aero-spazio, la difesa e la sicurezza. Insistendo sul proprio profilo ‘sostenibile’. Ma non sempre le politiche d’immagine riescono a nascondere l’evidenza dei fatti, come quando, nel gennaio 2024, Papa Francesco rifiutò una donazione di 1,5 milioni di euro da parte della Leonardo per l’ospedale romano del Bambin Gesù. L’azienda, risentita per quel gesto del pontefice, rispose con un comunicato dove affermava che in tutti i teatri di guerra in corso, a partire dall’Ucraina e dal Medio Oriente, non c’era nessun sistema offensivo di loro produzione. Peccato che, come The Weapon Watch, abbiamo subito dimostrato, utilizzando fonti ufficiali della Israel Defense Forces – Idf, che i cannoni navali super rapidi Oto Melara 76/62 costruiti dalla Leonardo negli stabilimenti di Spezia e montati sulle corvette israeliane fossero usati nei bombardamenti dal mare su Gaza, colpendo aree urbane densamente abitate da popolazione civile. Un quotidiano, nel pubblicare il nostro articolo, aggiunse un bellissimo titolo «Non si dicono bugie al Papa». Bugie e omissioni (con qualche “ammissione”) che abbiamo riascoltato a fine settembre di quest’anno. Roberto Cingolani, amministratore delegato della Leonardo, dopo la scelta del Festival della Scienza di Genova di escludere l’azienda dagli sponsor dell’evento e, preoccupato per le sempre più frequenti manifestazioni davanti alle sedi di Leonardo contro la complicità con il genocidio a Gaza, ha affermato in un’intervista al Corriere della Sera che le accuse a Leonardo sono false: «non vendiamo armamenti ai paesi in guerra come Israele» . È vera questa affermazione categorica dell’amministratore delegato di Leonardo? Cominciamo ad analizzare le prime ammissioni Roberto Cingolani nel tentativo di allontanare le accuse di ‘complicità nel genocidio’ di Israele ha ammesso (smentendo due anni di falsità raccontate dai ministri Tajani e Crosetto) che Leonardo ha continuato a esportare materiale dʼarmamento verso Tel Aviv dopo il 7 ottobre 2023, in forza di autorizzazioni – rilasciate prima di quella data – dallʼUnità per le autorizzazioni dei materiali dʼarmamento (Uama), istituita presso il Ministero Affari Esteri. Autorizzazioni che non sono mai state sospese o revocate dal Governo, che pure avrebbe potuto e dovuto farlo in forza della legge 185/1990, che prevede esplicitamente la circostanza della sospensione o revoca di licenze già autorizzate “quando vengano a cessare le condizioni prescritte per il rilascio” (articolo 15). Come nel caso specifico di Israele entrato in guerra, non solo contro Hamas, ma verso altri paesi della regione. Oltre alle palesi e gravi violazioni a Gaza, sia della Legge 185/90, sia delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani fondamentali, denunciate prima e poi accertate da numerosi organismi internazionali, anche in seno alle Nazioni Unite. Si tratta del contratto in essere relativo alla fornitura di attività di supporto logistico, assistenza tecnica da remoto, riparazioni e ricambi per i trenta M-346 Aermacchi (aerei da addestramento militare sviluppato e prodotto a Varese). Il contratto per i velivoli M-346 e relativi simulatori di volo fu firmato nel 2012. È superfluo ricordare che con gli M-346 e i relativi simulatori di volo si sono addestrati e continuano a farlo i piloti dell’aviazione israeliana degli F-16 e F-35 che hanno bombardato e ancora bombardano Gaza. Analizziamo ora le omissioni Roberto Cingolani non è il direttore della “filiale italiana” di Leonardo, ma lo Chief Executive Officer (cioè il massimo dirigente) del gruppo. E, come tale, la sua gestione non è a responsabilità limitata, sia da un punto di vista geografico, sia societario (rispetto alle aziende controllate e partecipate. Per questo, in quanto Ceo del gruppo, non può sorvolare sui due contratti di fornitura a Israele (il primo nel 2019 e il secondo nel 2022) per un totale di dodici elicotteri da addestramento militare AW119Kx sviluppati e prodotti dalla AgustaWestland di Philadelphia, società statunitense controllata al 100% da Leonardo. Il valore complessivo dei due contratti di 67,4 milioni di dollari comprende anche i simulatori di volo e altri equipaggiamenti dedicati, nuove infrastrutture e il supporto tecnico per 20 anni. In questo caso, a onore del vero, che non c’è alcuna violazione della Legge 185/90 sull’export, essendo un trasferimento diretto dagli Usa. C’è solo un problema di policy aziendale coerente o no con il proprio Codice Etico. Diversa, e più grave, è l’omissione reiterata sul trasferimento a Israele dei cannoni navali super rapidi Oto Melara 76/62, installati sulle corvette già in dotazione della marina militare israeliana e di quelli che saranno installati nelle nuove corvette in costruzione. Eppure la Leonardo avevo reso nota nel 2022 la consegna dei primi quattro cannoni navali super rapidi e il loro allestimento a bordo delle corvette classe Magen (tipo Sa’ar 6) costruite per Israele dalla tedesca ThyssenKrupp Marine Systems. L’“accettazione” veniva celebrata il 13 settembre del 2022 con una cerimonia ufficiale presso la base navale di Haifa. Di questa commessa per la fornitura di tredici cannoni navali super rapidi Oto Melara 76/62 alla forze di difesa israeliane, nonostante sia uno dei maggiori affari mai realizzati da Leonardo nello scacchiere di guerra mediorientale, per un valore di 440 milioni di dollari compresi i servizi di supporto, test e manutenzione, non c’è alcuna traccia tra le esportazioni di materiale d’armamento dall’Italia a Israele. L’arcano è presto svelato. I cannoni navali di Leonardo sono stati esportati negli Usa e, questi, attraverso una classica triangolazione tipica nel mercato opaco delle armi, li hanno girati a Israele. Il tutto violando la Legge 185/90, la quale prevede che l’uso finale sia conforme all’autorizzazione della licenza di esportazione rilasciata dall’Uama. E visto che i cannoni navali di Leonardo saranno installati anche nelle corvette di nuova generazione classe Reshef, la cui costruzione delle prime 5 unità è iniziata a febbraio di quest’anno nei cantieri della Israel Shipyards, bisognerebbe mettere fine a questa pratica illecita di triangolazione. La stessa pratica illecita (in questo caso non alla luce del sole come Italia-Usa-Israele) che, probabilmente, è alla base dei cannoni navali di Leonardo finiti sulle corvette della marina militare del Myanmar, in violazione non solo della Legge 185/90 ma anche dell’embargo internazionale. Con i manager di Leonardo che, invece di assumersi la responsabilità di ricostruire come sia potuto accadere, hanno minacciato querele a chi ha denunciato il fatto, come l’Associazione di solidarietà Italia-Birmania. L’ultima omissione di Roberto Cingolani riguarda la corresponsabilità di Leonardo sulle bombe GBU-39 co-prodotte da MBDA e fornite a Israele. MBDA è la principale azienda missilistica europea, di cui Leonardo possiede il 25% del controllo azionario, con la restante quota ripartita equamente (il 37,5%) da Airbus Group e BAE Systems. Secondo un’esclusiva del “Guardian” a luglio del 2025, MBDA vende componenti chiave per le bombe che sono state spedite a migliaia in Israele e utilizzate in numerosi attacchi aerei, in cui secondo le ricerche effettuate, sono stati uccisi anche bambini palestinesi e altri civili. MBDA possiede uno stabilimento negli Stati Uniti, che produce le “ali” che vengono montate sulle GBU-39, prodotte da Boeing. Esse si dispiegano dopo il lancio, consentendo alla bomba di essere guidata verso il suo obiettivo. I ricavi della società statunitense MBDA Incorporated passano attraverso MBDA Uk, con sede in Inghilterra, che poi trasferisce i profitti al gruppo MBDA, con sede in Francia. L’anno scorso l’azienda ha distribuito dividendi per quasi 350 milioni di sterline (400 milioni di euro) ai suoi tre azionisti, tra cui Leonardo. E finiamo con l’esaminare altre gravi responsabilità e una giustificazione imbarazzante Il fatto che Leonardo sia direttamente coinvolta come partner di 2° livello al programma internazionale degli F-35, gestito dalla multinazionale statunitense Lockheed Martin, attraverso la produzione nello stabilimento di Cameri (Novara) dei cassoni alari per la versione F-35A e la fornitura di componenti elettronici, è innegabile. Israele è stato il primo paese a dotarsi dei caccia-bombardieri F-35 fuori dagli Usa, acquistandone 50 unità (gli ultimi lotti per un totale di 14 aerei sono stati consegnati nel 2024). Nel giugno 2024 Israele ha ordinato agli Usa altri 25 F-35A. La Leonardo ha partecipato (e partecipa) alla fabbricazione degli F-35A destinati a Israele e impiegati nei bombardamenti su Gaza. Non è confutabile. Non è, quindi, una forzatura o peggio una strumentalizzazione aver incluso la Leonardo, in quanto co-produttore degli F-35 venduti a Israele, tra le aziende multinazionali implicate nell’economia del genocidio, come ha fatto Francesca Albanese nel suo rapporto Onu sui territori palestinesi occupati. Infine la Leonardo, attraverso la società controllata Leonardo DRS con sede negli Usa ha incorporato per fusione l’azienda israeliana Rada Electronic Industries, specializzata in radar per la difesa a corto raggio e anti-droni, la quale opera esclusivamente in campo militare. La società nata da questa fusione, la DRS Rada Technologies ha 3 siti produttivi in Israele che occupano 250 persone. Nel 2023 ha partecipato alla realizzazione di “Iron Fist”, un sistema di protezione attivo montato sui nuovi mezzi corazzati da combattimento delle Israel Defence Forces, gli “Eitan” a otto ruote destinati a sostituire i vecchi M113. Subito testati negli attacchi a Gaza. Anche i giganteschi bulldozer blindati Caterpillar D9 dell’Esercito israeliano si sono dotati dei sistemi di protezione attiva e dei radar tattici di DRS Rada. Rispetto alle responsabilità di Leonardo sulla gestione di queste aziende controllate, le cose scritte da Roberto Cingolani alla direzione e alla presidenza del Festival della Scienza di Genova sono realmente imbarazzanti sia per lui amministratore delegato di Leonardo, sia per il Governo italiano che ne detiene il controllo azionario. «[…] L’azienda [Leonardo DRS] è una ‘proxy’, dove tutti i membri del Cda devono essere americani e le questioni di sicurezza e difesa nazionale Usa non sono accessibili nemmeno a noi soci. Si tratta di attività esclusivamente americane in cui Leonardo e l’Italia non hanno alcuna voce in capitolo». Se le cose stanno così, l’amministratore delegato del Gruppo Leonardo e l’azionista di controllo (cioè il Governo italiano) dovrebbero avere la dignità e il coraggio di mettere subito in vendita l’azienda americana Leonardo DRS, come a suo tempo nel 2015 avrebbe voluto fare l’ex-AD di Finmeccanica, Mauro Moretti. La DRS nel 2008 non è costata un euro, come propongono i fondi americani per comprare oggi la ex-Ilva, ma ben 5,2 miliardi di dollari (più 3 miliardi di dollari di perdite fino al 2015). Ingenti risorse trasferite allora dal nostro paese agli Usa. Risorse rastrellate da Finmeccanica svendendo importanti asset civili del gruppo, in buona parte baricentrati su Genova.
Bolivia in fiamme: dentro un ecocidio latinoamericano
Bolivia Burning: Inside a Latin American Ecocide è un documentario di 52 minuti di The Gecko Project che porta gli spettatori all’interno di una delle crisi ambientali più sottovalutate al mondo: la rapida distruzione delle foreste in Bolivia. di The Gecko Project, da ECOR Network Il 2024 è stato l’anno peggiore mai registrato per le foreste tropicali primarie del mondo e la Bolivia ha perso 1,5 milioni di ettari, più di qualsiasi altro paese ad eccezione del Brasile. Gli incendi appiccati per liberare la terra per l’agricoltura sono andati fuori controllo, trasformando aree del paese in un inferno. In questo contesto, il film segue i ricercatori di The Gecko Project mentre viaggiano attraverso la foresta arida di Chiquitano nelle pianure orientali della Bolivia, la regione più profondamente colpita da incendi e deforestazione. I ricercatori hanno deciso di esaminare il ruolo di due importanti attori in questa crisi: i mennoniti, un gruppo cristiano ultra-conservatore che ha creato “colonie” in parti sempre più remote della foresta per sfuggire alle forze modernizzatrici della civiltà, e Cargill, un gigante globale dell’agrobusiness che afferma di essere impegnato a contribuire a porre fine alla deforestazione. Il loro viaggio mette a nudo il costo umano di quello che l’ONG boliviana TIERRA definisce il peggior disastro ambientale nella storia del paese. Le fonti presenti nel film affermano che la crisi del 2024 è un chiaro appello a porre fine alle politiche governative “ecocide” che l’hanno consentita. “Siamo sull’orlo di un precipizio”, afferma Alcides Vadillo di TIERRA. “Se continuiamo allo stesso modo, cadremo in quel precipizio. Quindi dobbiamo cambiare rotta, se vogliamo sopravvivere”.   LE PRINCIPALI SCOPERTE Una scommessa politica che ha incendiato la Bolivia Il governo della Bolivia è stato elogiato per le sue credenziali ambientaliste progressiste, con due leggi che sanciscono i diritti della “Madre Terra” nel 2010 e nel 2012. Ma da allora, un’ondata di deregolamentazione e politiche volte all’espansione dell’agricoltura hanno incentivato la deforestazione e garantito l’impunità per i crimini ambientali. Fonti di esperti spiegano come questo abbia dato origine a incendi incontrollati e a una deforestazione alle stelle. Una setta cristiana ultraconservatrice “colonizza” il Chiquitano I Mennoniti, una confessione cristiana anabattista le cui origini possono essere fatte risalire all’Europa del XVI secolo, migrarono per la prima volta in Bolivia negli anni ’50, ricavando dalla foresta “colonie” rurali, piene di prati ben curati e staccionate. Da allora sono arrivati a svolgere un ruolo di primo piano nella produzione di soia e recenti ricerche suggeriscono che il 16% della deforestazione tra il 2016 e il 2022 si è verificata nelle colonie mennonite. Bolivia Burning documenta come le famiglie mennonite siano alla ricerca di ancora più terra, e The Gecko Project scopre una colonia di nuova costituzione, dove i coloni si stanno preparando a disboscare migliaia di ettari di foresta. Le grandi imprese incassano mentre il mondo guarda dall’altra parte  La produzione di soia, insieme all’allevamento di bestiame, è uno dei principali fattori di deforestazione in Bolivia. Cargill, il gigante delle materie prime con sede negli Stati Uniti e uno dei maggiori acquirenti di soia boliviana, si è impegnata ad eliminare la deforestazione dalle sue catene di approvvigionamento entro il 2025 in Amazzonia e in altre regioni. Ma nella foresta arida di Chiquitano, sottovalutata in Bolivia, la scadenza è il 2030. In Bolivia Burning, The Gecko Project visita una colonia mennonita che ha disboscato migliaia di ettari di foresta negli ultimi anni e continua a vendere soia e altri prodotti alla Cargill. La sofferenza delle comunità indigene – e una fonte di speranza  Il film presenta gli indigeni che hanno marciato dal Chiquitano al centro di Santa Cruz de la Sierra, la più grande città della Bolivia, per attirare l’attenzione sulla devastazione che gli incendi hanno provocato sulle loro vite. La leader indigena Monkoxi Maria Choré racconta la lunga e ardua lotta per assicurarsi i titoli legali sul loro territorio ancestrale. Da quando ha ottenuto il titolo legale, c’è stata pochissima foresta persa nella terra della comunità, in netto contrasto con l’ondata di distruzione che sta avanzando intorno a loro. Il film è uscito in Bolivia a giugno attraverso proiezioni organizzate da accademici, politici e attivisti. The Gecko Project invita le ONG, le università e i gruppi comunitari ad ospitare discussioni e proiezioni in Bolivia, in Europa e oltre. Se desideri organizzare una proiezione o saperne di più, contatta info@thegeckoproject.org. Seguici The Gecko Project X, Instagram e iscriviti al nostro canale YouTube per aggiornamenti sul film. –> Tratto da The Gecko Project, una redazione senza scopo di lucro che indaga il ruolo dell’uso del suolo in alcune delle sfide globali più urgenti: cambiamenti climatici, deforestazione, crollo della biodiversità, sicurezza alimentare e diritti delle comunità emarginate.   -------------------------------------------------------------------------------- Fasi del film 0:00 Bolivia in fiamme 6:08 Dieci milioni di ettari bruciati 12:20 Lettera al presidente 16:58 I Mennoniti – Swift Current 29:15 I Mennoniti – Bella Italia 36:26 Il ruolo di Cargill 43:20 “Terra senza male” 48:53 Risposta del governo -------------------------------------------------------------------------------- Bolivia Burning: Inside a Latin American Ecocide The Gecko Project Durata: min. 51:47 – Anno: 2025 Regista e produttore: Tom Johnson Montatore e direttore della fotografia: Leo Plunkett Produttori associati: Alvaro Bozo Garcia, David Hill Riprese aggiuntive: Eduardo Franco Berton, Jorge Luis Aradivi Siviora Guarda il documentario su youtube (ENG-ESP).
Libano: continuano gli attacchi israeliani nonostante la tregua del novembre 2024. Due persone uccise
Ancora bombardamenti israeliani nel sud del Libano, nonostante l’accordo di tregua concordato nel novembre 2024. Lunedì 27 ottobre due persone sono state uccise e una è rimasta ferita in un attacco israeliano compiuto con un drone nei pressi di una fabbrica di legno nel villaggio di Biyad, a sud di Tiro, nel Libano meridionale. Questo mentre ieri pomeriggio la missione delle Nazioni Unite dislocata nel Libano meridionale (Unifil) ha annunciato che “verso le 17:45, un drone israeliano si è avvicinato a una pattuglia dell’Unifil in azione nei pressi di Kfar Kila e ha sganciato una granata” aggiungendo che “pochi istanti dopo, un carro armato israeliano ha sparato un colpo contro le forze di peacekeeping. Fortunatamente, non sono stati causati feriti o danni”. Ai microfoni, la corrispondenza da Beirut con il giornalista Mauro Pompili. Ascolta o scarica. da Radio Onda d’Urto
Contrattacco al nucleare: prepariamolo insieme!
Verso l’assemblea pubblica di lunedì 3 novembre alle ore 18 al Campus Luigi Einaudi a Torino organizzata insieme a Ecologia Politica Torino La lotta al nucleare è eredità e fondamento del movimento ecologista: tocca a noi adesso scendere in campo e raccogliere il testimone. Il 2 ottobre è stata approvata la legge delega al Governo in materia di energia nucleare, creando il quadro giuridico necessario alla sua reintroduzione in Italia: un’operazione che, attraverso il cavallo di Troia della transizione energetica, mira a far passare una riorganizzazione interna in funzione della nuova dimensione strategica globale, cercando di aprire strade che garantiscano forniture stabili a settori energivori in espansione (hi-tech e filiera bellica), dirigendo investimenti verso soggetti come Ansaldo, Enel e Leonardo ed eludendo l’opposizione dei territori, che sul nucleare è sempre stata chiara. I due referendum popolari del 1986 e del 2011, esito di lotte decennali, sono stati aggirati attaccandosi al mutato “quadro politico” e alla presunta incomparabilità tecnologica tra il vecchio e il nuovo nucleare, “sostenibile”. Un colpo di mano che, giustificato dall’esagerazione di tecnologie comunque ancora lontane, cerca di minimizzare il problema delle scorie – per la gestione e stoccaggio delle quali (presenti e future) manca ancora un quadro nazionale di lungo periodo che non si riduca al sacrificio imposto di interi territori. Il “nucleare sostenibile” è dunque una favola non meno del “nucleare civile”: il nucleare nasce con e per la guerra. La narrazione strumentale sulla “neutralità della scienza” non può farci dimenticare che la stessa tecnologia impiegata nelle centrali nucleari civili potrà sempre essere rinconvertita all’uso militare (come insegna la storia del programma nucleare israeliano), e che la fame d’energia dell’EU si spiega anche nella ricerca di fonti che sostengano la sua corsa al riarmo, garantendo stabilità ai massicci approvigionamenti necessari alla produzione bellica. Se il Governo accelera sul nucleare, noi non possiamo aspettare oltre. Il 3 novembre troviamoci al Campus Einaudi alle ore 18 per discuterne e cominciare a organizzare una risposta che, partendo dalle nostre città e territori, blocchi ancora una volta l’avanzata dell’atomo!
Coloni lanciano attacchi coordinati contro agricoltori e terreni della Cisgiordania
Cisgiordania. Negli ultimi giorni, gruppi di coloni hanno lanciato una serie di attacchi coordinati contro agricoltori e terreni agricoli palestinesi a Betlemme, al-Khalil/Hebron e nella Valle del Giordano settentrionale. da InfoPal Tali attacchi, condotti sotto protezione militare, includono vandalismi di ulivi, piantagioni su terreni di proprietà palestinese e recinzioni di aree di pascolo come preludio alla loro annessione. Nel villaggio di al-Maniya, a sud di Betlemme, il capo del consiglio locale Zayed Kawazbeh ha riferito che i coloni dell’insediamento illegale di Ma’ale Amos hanno vandalizzato decine di ulivi piantati su circa due dunum di terreno in un’area nota come al-Qarm. Questi dunum appartengono a un cittadino palestinese di nome Mahmoud Jabarin, aggredito dai coloni in un violento attacco che gli ha causato la frattura di un braccio. Nonostante fosse la vittima, Jabarin è stato rapito dai soldati israeliani, mentre i coloni che lo hanno aggredito non sono stati arrestati. Ad al-Khalil/Hebron, decine di coloni hanno piantato alberi su appezzamenti di terreno di proprietà palestinese nel villaggio di Birin, a sud-est. Farid Burqan, capo del consiglio del villaggio di Birin, ha accusato i coloni di volersi impadronire del terreno. Burqan ha spiegato che i coloni hanno piantato gli alberi sotto la protezione delle forze armate israeliane, sottolineando che simili violazioni da parte dei coloni si verificano di frequente in aree come Masafer Yatta e la città di Bani Na’im, dove agli agricoltori palestinesi viene regolarmente impedito l’accesso alle loro terre, mentre i coloni liberano deliberatamente il loro bestiame nei campi per distruggere i raccolti. In un altro incidente, un gruppo di coloni ha tentato di assaltare l’abitazione di un cittadino palestinese nel villaggio di Susya, a sud di al-Khalil/Hebron, ma i residenti locali sono riusciti a respingerli. Nella Valle del Giordano settentrionale, i coloni hanno recintato nuove aree di terreno agricolo di proprietà palestinese a Khirbet al-Farisiya, con l’obiettivo di imporre il controllo sull’area e impedire ai proprietari terrieri palestinesi di accedere alle loro proprietà. Secondo fonti locali, l’accaparramento di terreni a Khirbet al-Farisiya è avvenuto prima della stagione della semina invernale, da cui i residenti dipendono per produrre foraggio per il loro bestiame. Negli ultimi mesi, i coloni hanno recintato centinaia di dunum di terreni nella Valle del Giordano settentrionale nell’ambito di una politica più ampia volta a esercitare pressioni sui residenti palestinesi e a costringerli ad abbandonare le loro terre. (Fonti: PIC, Quds News, PressTV).