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Informazione di parte

Vittoria dei portuali di Marsiglia e Genova. Rimaste a terra le mitragliatrici, la nave cargo diretta ad Haifa viaggia vuota
Vittoria dei lavoratori solidali con la Palestina al porto Fos-sur-mer di Marsiglia, dove i portuali francesi della CGT si sono rifiutati di caricare 14 tonnellate di munizioni e pezzi di ricambio per fucili mitragliatori israeliani su una nave cargo della compagnia ZIM diretta ad Haifa. La nave è dovuta ripartire vuota di armamenti israeliani, e vuota farà tappa sabato a Genova soltanto per un “rifornimento tecnico”. Anche nel capoluogo ligure era stata annunciata una mobilitazione contro il genocidio e per la Palestina dai portuali del CALP e dal sindacato di base Usb. Alle 18 di questo venerdì la conferenza stampa dei portuali del CALP e di Usb Porto. Posticipato invece il presidio a domani, sabato, alle 8 del mattino al varco di Ponte Etiopia di Genova per “sorvegliare” i movimenti della nave. L’aggiornamento con Josè Nivoi, del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova e di Usb. Ascolta o scarica. da Radio Onda d’Urto
Alcune riflessioni sulla natura e sulla guerra dei contadini tedeschi
Nel 1525 gran parte dell’Europa centrale è stata infiammata da una rivolta sociale: i contadini si sollevarono contro coloro che governavano le loro vite. Cosa spinse questa rivolta, quale fu il ruolo della religione, quali visioni di una società futura conteneva, e perché fu sconfitta? di Martin Empson, da Antropocene.org Uno degli aspetti più interessanti per chi studia la guerra dei contadini tedeschi, il grande movimento rivoluzionario che ha attraversato la Germania centrale nel 1524 e 1525, è che le richieste del movimento sono state registrate in modo molto dettagliato. Le più famose sono quelle raccolte nei Dodici Articoli, scritti nella città tedesca di Memmingen dai delegati degli eserciti contadini nel marzo del 1525. Esistono innumerevoli altri documenti di questo tipo. Nelle loro richieste, i contadini rivoluzionari esprimevano la loro opposizione alla servitù della gleba, allo sfruttamento e all’oppressione. Ma poiché la ricchezza nella società feudale era basata sulla proprietà della terra, i contadini dovettero affrontare un altro aspetto fondamentale del loro sfruttamento: il rapporto della società con il mondo naturale. Alcuni di questi aspetti si riflettono nelle richieste di rendita e di accesso alla terra. Ma più esplicitamente i contadini spesso sollevavano richieste che evidenziavano il loro rapporto con la natura e il modo in cui pensavano di doverla usare. Due dei Dodici Articoli rendono esplicito questo aspetto: «È stato uso finora che a nessun povero fosse permesso di catturare selvaggina, volatili, o pesci in acque correnti, il che ci appare assai ingiusto e contrario al buon vicinato, e per di più egoista e contrario alla Parola di Dio. Vi sono luoghi dove i signori conservano la selvaggina con nostro enorme danno e patimento. Ci tocca sopportare che bestie dissennate divorino sfrenatamente e senza ragione i nostri raccolti, fatti crescere da Dio perché gli uomini se ne servano; sarebbe empio e contro ogni norma di buon vicinato tacere questo abuso». L’articolo prosegue: «Quando infatti Dio nostro Signore creò l’uomo, gli concesse il dominio su tutti gli animali, sugli uccelli dell’aria e i pesci delle acque. Noi dunque chiediamo che se qualcuno ha delle acque egli debba provare con documenti adeguati che quell’acqua gli sia stata volontariamente venduta … Ma chi non sia in grado di produrre prove conformi dovrà cedere debitamente le acque alla comunità». Il Quinto Articolo sviluppa questo tema: «Abbiamo una rimostranza riguardo al taglio della legna, poiché i nostri signori si sono appropriati dei boschi … A nostro avviso i boschi tenuti dai signori, sia ecclesiastici che secolari, senza che questi ne abbiano fatto acquisto, devono ritornare all’intera comunità. La comunità dovrebbe essere libera di consentire a tutti, ordinatamente, di usare gratuitamente quanto necessitano per il fuoco domestico». Anche in questo caso non viene contestata la proprietà privata delle risorse naturali, ma piuttosto la sua ingiusta proprietà: «Se la proprietà era stata venduta in seguito a un esproprio arbitrario verrà raggiunto un accordo secondo le circostanze del caso e i precetti dell’amore fraterno e della Sacra Scrittura». Il decimo articolo si oppone alla recinzione (privatizzazione) delle terre e delle risorse: «Siamo afflitti per il fatto che alcuni si sono impadroniti dei prati o dei campi arabili che un tempo appartenevano alla comunità. Noi li restituiremo alla proprietà comunale, salvo che siano stati debitamente acquistati». Queste e altre richieste simili non furono avanzate solo nei Dodici Articoli. Nei sessantadue articoli dei contadini di Stühlingen, un’area in cui la rivolta era iniziata nell’estate del 1524, i contadini sollevarono una serie di lamentele specifiche su come veniva loro permesso, o limitato, l’uso delle risorse naturali: Articolo 14: «La foresta demaniale e altri boschi sono stati sottratti al nostro uso,contrariamente all’antica tradizione». Articolo 16: «Abbiamo molte proprietà e prati liberi attraverso i quali scorre l’acqua corrente; finora l’abbiamo usata secondo le nostre necessità per la macinazione o per irrigare i prati, così come le acque che sono comuni a tutti; ma negli ultimi anni i nostri signori ci hanno tolto queste acque e non ci permettono di usarle; invece le affittano ai pescatori che poi arrecano notevoli danni alle nostre proprietà». Articolo 28: «Ci è stato proibito di tagliare e bruciare stoppie e le erbacce sui pascoli e sui prati in primavera, contrariamente alla consuetudine». Nel 42° articolo, i contadini di Stühlingen si lamentavano del fatto che i signori potessero costruire recinzioni per creare delle riserve di selvaggina sulle loro terre. Ma i contadini non possono liberarle senza essere puniti e la selvaggina distrugge i loro raccolti. Centinaia di esempi simili si trovano in decine di altri documenti dei ribelli. La terra, l’acqua, le risorse naturali, gli animali selvatici e il legname caduto erano diventati un motivo di lotta di classe, poiché le classi proprietarie terriere stavano recintando, privatizzando e controllando la natura nel loro interesse. Questo processo era in corso e spesso significava la distruzione o lo smantellamento dei diritti consuetudinari su cui i contadini avevano fatto affidamento per secoli. Questo processo non è inaspettato. Eventi simili si stavano verificando in tutta Europa. Rifletteva i cambiamenti nell’economia feudale, che vedeva elementi della società feudale considerare sempre più l’impresa privata come un modo per massimizzare la propria ricchezza. In questo senso, gli albori del capitalismo gettarono i semi di una grande rivolta, perché c’era una contraddizione tra gli interessi economici delle classi dominanti feudali e il modo in cui i contadini volevano utilizzare la natura per le loro comunità. Nel suo recente resoconto della ribellione, Lyndal Roper pone le rivendicazioni sull’uso della natura al centro della rivolta. Egli scrive: «Per i contadini la terra era un ambiente di lavoro, per i signori era un luogo di piacere e una risorsa da sfruttare per il profitto[1]». Secondo l’autrice, i contadini «volevano che le decisioni fossero prese collettivamente e che le risorse naturali fossero gestite in modo da rispettare l’ambiente che Dio aveva creato». In seguito afferma che «le rimostranze dei contadini si concentravano sull’ambiente naturale, sulla creazione stessa». Anche altri cambiamenti economici stavano avendo il loro impatto. Come nota Roper, l’attività mineraria stava inquinando i fiumi. La domanda di combustibile per il crescente numero di processi industriali su piccola scala aveva un impatto sulle foreste. Si trattava di un mondo in cui la natura esisteva per l’uso degli esseri umani, che si trovavano al di sopra e separati dalla flora e dalla fauna [poste] sotto di loro. Un buon esempio di questo pensiero è dato da Keith Thomas, che cita una poesia del XVII secolo: Il fagiano, la pernice e l’allodola volano alla tua casa, come già all’Arca. Il bue volenteroso, da sé si reca, con l’agnello, al suo massacro; e ogni bestia qui si porta quale offerta. Thomas parla specificamente dell’Inghilterra dei Tudor e degli Stuart, ma le sue idee sono rilevanti per la Germania del XVI secolo. La teologia insegnava che la natura era stata predisposta da Dio ad uso dell’umanità. Ogni pianta e animale aveva un ruolo particolare. Nel 1653, Henry More poteva scrivere che gli animali vivono solo «finché non avremo bisogno di mangiarli». Come continua Thomas: «La teologia contemporanea forniva così le basi morali per la supremazia dell’uomo sulla natura che all’inizio del periodo moderno era diventata l’obiettivo accettato dell’impresa umana. La tradizione religiosa dominante non aveva nulla a che fare con quella ‘venerazione’ della natura che molte religioni orientali ancora conservavano». La lotta dei contadini per il controllo della natura e delle sue risorse deve essere compresa in questo contesto ideologico. Roper sostiene che non si trattava di «conservazione nel senso moderno del termine, perché si riteneva che l’ambiente fosse a disposizione degli esseri umani». Ma potrebbe portare alla comprensione che l’ambiente deve essere protetto per il bene della comunità e non per il profitto individuale. D’altra parte, la classe dominante si muoveva nella direzione opposta. Anche il suo approccio alla natura, come qualcosa da utilizzare per il profitto, si adattava all’approccio ideologico egemone. È l’inizio di una concezione della natura che, con l’ulteriore sviluppo delle relazioni economiche capitalistiche e il definitivo superamento del vecchio ordine, avrebbe visto la natura come mera parte del processo produttivo. Come scriveva Marx nei Grundrisse, con l’avvento del capitalismo, «la natura diviene qui per la prima volta puro oggetto per l’uomo, puro oggetto dell’utilità; cessa di essere riconosciuta come potenza per sé; e la stessa conoscenza teoretica delle sue leggi autonome appare soltanto come un’astuzia per assoggettarla ai bisogni umani sia come oggetto del consumo sia come mezzo della produzione».[2] Detto questo, dobbiamo fare attenzione a non rifiutare totalmente l’approccio dei contadini alla natura. La loro visione di un paesaggio post-rivoluzionario di comuni contadine democratiche, in cui il potere dei signori feudali era stato distrutto e le comunità di villaggio erano in grado di gestire il proprio rapporto con la natura nell’interesse della collettività, è più vicina alla moderna visione socialista di una società post-capitalista. Il problema, come ha sottolineato Friedrich Engels nel suo resoconto sulla guerra dei contadini tedeschi, era che non esistevano ancora le basi economiche per una tale società comunitaria. I contadini non avevano la capacità di sconfiggere i signori feudali nelle campagne, e le città non erano ancora centri di potenziale potere della classe operaia. Tuttavia, se consideriamo il loro desiderio di utilizzare il mondo naturale e le sue risorse nell’interesse di tutti, attraverso l’abbattimento della servitù della gleba e la sconfitta del feudalesimo, i contadini tedeschi del 1525 rimangono fonte di ispirazione. La questione oggi, proprio come per i contadini del 1525, è quella del potere. Chi aveva il potere di controllare le risorse della natura e come poteva essere loro sottratto questo potere a beneficio dell’umanità? Pensatori e attivisti successivi, come Karl Marx, avrebbero sviluppato pienamente una critica del rapporto del capitalismo con la natura e del modo in cui la natura era incorporata nel processo di accumulazione del capitale, ma poterono basarsi sulle intuizioni e sull’attività rivoluzionaria di figure come Michael Gaismair, che sognava e lottava per un mondo in cui la terra e il lavoro potessero essere organizzati in modo che i più poveri potessero «essere forniti non solo di cibo e bevande, ma anche di vestiti e di tutti i beni di prima necessità» e che «la terra diventasse più sana» attraverso la gestione razionale di paludi e acquitrini. Opuure su Thomas Münzter, incitato all’insurrezione dal «presupposto dei nostri signori e principi che tutte le creature sono di loro proprietà. I pesci nell’acqua, gli uccelli nell’aria, le piante sulla faccia della Terra». Note [1] N.d.T. Sarebbe stato più opportuno parlare piuttosto di “rendita”, tranne che non si intenda “vantaggio”. [2] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, (Grundisse), Opere complete, Vol. XXIX, Scritti economici di Karl Marx luglio 1857-febbraio 1858, Editori Riuniti, Roma, 1986, p. 342. (N.d.T.) Martin Empson è l’autore di “The Time of the Harvest Has Come!”. Revolution, Reformation and the German Peasants’ War, pubblicato quest’anno da Bookmarks Publications, in occasione del 500° anniversario della rivolta. Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org Fonte: Climate&Capitalism 23.05.2025
Torino: al Peano convocati genitori di studenti e studentesse che si mobilitano contro i femminicidi
Costruiamo solidarietà tra le scuole contro i presidi-sceriffo… da KSA Torino Il 4 giugno 2025 nel cortile dell’Istituto Superiore Giuseppe Peano si è tenuto un momento di riflessione in memoria delle vittime di femminicidio. Un’iniziativa nata dalla nostra volontà di studenti e studentesse di opporci alla violenza di genere, in seguito all’ennesimo femminicidio, questa volta nei confronti di una nostra coetanea, Martina. Durante l’intervallo sono stati appesi degli striscioni dalle scale antincendio. Noi crediamo che non ci sia stato alcun uso improprio degli ambienti scolastici, ma anzi la valorizzazione di un luogo comune per un fine profondamente formativo. Eppure, a questa azione pacifica è seguita una risposta sproporzionata: convocazioni dei genitori di chi ha partecipato alla protesta, contestazioni procedurali, tentativi di delegittimazione dell’iniziativa. Una reazione che si inserisce in un clima più ampio di repressione del dissenso studentesco, spesso mascherata da esigenze di “sicurezza”. Ma quale sicurezza, se le scuole restano fatiscenti, sovraffollate e trascurate? Non è la prima volta che i presidi di questa città provano ad usare strategie di questo tipo per fermare sul nascere qualsiasi forma di protesta. Chi manifesta e si impegna per la giustizia viene troppo spesso punito, come in questo caso, invece che valorizzato. E non ci interessa chi vuole lucrare sulle nostre lotte, noi vogliamo unirci tra scuole e persone che vivono le stesse condizioni per costruire qualcosa di diverso. In un tempo in cui si accusa la gioventù di apatia, chi dimostra il contrario viene messo a tacere. Ma noi non ci stiamo. Siamo cittadini e cittadine consapevoli, pronti a prendere parola contro ogni forma di discriminazione e violenza. Il gesto del 4 giugno è stato simbolico, civile e politico: un atto di memoria e di denuncia perché non vogliamo essere costretti/e a contare i nostri morti, che siano femminicidi o morti in alternanza scuola lavoro. La scuola dovrebbe essere il cuore pulsante della formazione del pensiero critico, non un luogo di repressione. Il dissenso non è un crimine, ma un valore da coltivare. Gli studenti non sono un problema da contenere, ma una risorsa da ascoltare. Difendiamo il diritto alla parola, alla partecipazione, all’impegno civile. Oggi più che mai invitiamo tutte le scuole a lottare per una scuola in cui si possa parlare di politica, delle nostre condizioni, in cui si possa vivere veramente. Perché la partecipazione non si può punire, e la libertà non si può negoziare.
Torino cambia lavoro – Tra deindustrializzazione e riconversione
Gli operai prendono parola: il lavoro cambia, la città si interroga A Torino si apre una nuova fase di trasformazione industriale e non solo. Non siamo ancora difronte a una riconversione bellica vera e propria, ma è evidente che il governo, in linea con le direttive europee, sta ragionando su un rilancio dell’industria attraverso il settore della difesa. In questo scenario, Torino – storicamente città operaia e industriale – è candidata a diventare uno dei nodi centrali di questa strategia. La presenza di grandi gruppi come la Leonardo, attivi nella produzione di tecnologie militari, e progetti come la Cittadella dell’Aerospazio, già orientati al cosiddetto dual use, spingono sempre più verso una vocazione bellica del territorio. Il dual use non riguarda ormai solo le fabbriche ma è già in atto su scuole e università, spingendo la formazione e la ricerca verso filiere funzionali all’industria della difesa. In nome dell’innovazione, si formano competenze che rischiano di essere messe al servizio della guerra. Un altro dato ormai evidente è come la riconversione bellica ha rapidamente preso il posto di quella verde. Dopo anni di promesse sulla transizione ecologica e la sostenibilità industriale, oggi fondi e politiche si orientano verso l’industria della difesa. Dove si parlava di futuro pulito, ora si progettano armamenti. La “transizione” ci sarà, ma nella direzione opposta. Cambiano gli impianti, aumentano le pressioni produttive, ma per quali finalità? Che lavoro è quello che produce armi? A quale sicurezza contribuisce? Questa trasformazione coinvolgerà inevitabilmente l’intera città, si ridisegnano le filiere, si orientano le scelte pubbliche, si plasma la formazione, si modifica la ricerca. CAMBIA NON SOLO IL LAVORO CAMBIA TORINO Il dibattito che proponiamo parte da chi questo cambiamento lo vivrà direttamente: gli operai e le operaie delle fabbriche, chiamati ancora una volta a vivere la contraddizione tra un diritto al lavoro sempre più sotto ricatto e il significato sociale di ciò che si produce. A fare da cornice a tutto questo vi è la tematica relativa al rinnovo del ccnl dei metalmeccanici che si inserisce in un momento di grande trasformazione per l’industria italiana. La chiusura al dialogo rispetto alle proposte di modifica strutturali ed economiche avanzate dai lavoratori ci restituiscono l’altro aspetto della guerra, quello interno che si abbatte contro i diritti sociali. Se da una parte si aumentano gli investimenti sugli armamenti dall’altra su temi centrali quali i salari, il welfare e la salute le risorse vengono dimezzate. È ancora possibile porre un freno alla deriva bellica? È possibile immaginare alleanze sociali capaci di riconoscersi contro e oltre la guerra? Per rispondere alle tante domande che ci poniamo e per aprire una riflessione cittadina su questi temi proponiamo un incontro pubblico dove lavoratrici e lavoratori prendono parola. Le loro voci – troppo spesso ignorate – sono fondamentali per capire cosa sta accadendo davvero. Il 12 giugno dalle 17.00 presso Palazzo Nuovo insieme agli operai della Lear, di Tubiflex, di Stellantis Mirafiori, Mopar Rivalta e Leonardo discuteremo di questo e di tanto altro con l’importante contributo di Massimo Alberti, giornalista di radio popolare che ci illustrerà l’inchiesta sulla riconversione bellica che ha condotto all’interno del tessuto industriale piemontese.
Genova: i portuali pronti a rifiutare di caricare il cargo di armi per Israele
I portuali in Francia si rifiutano di caricare il cargo di armi per Israele: pronti al blocco anche a Genova. Dopo il porto di Marsiglia, il cargo israeliano prevede un primo scalo a Genova e un secondo a Salerno, prima di tornare a Haifa, da dove è salpato il 31 maggio da Osservatorio Repressione Una nave cargo israeliana dovrebbe approdare oggi al porto francese di Fos-sur-Mer, vicino a Marsiglia, per imbarcare «in segreto 14 tonnellate di pezzi di ricambio per fucili mitragliatori» destinati all’esercito israeliano, hanno rivelato ieri il media d’inchiesta francese Disclose e il media irlandese The Ditch. Il sindacato dei portuali di Fos-sur-Mer ha reagito immediatamente. In un comunicato pubblicato ieri, la sezione Cgt dei portuali ha avvertito che «il container non sarà caricato sulla nave», perché gli operatori non intendono «partecipare al genocidio in corso orchestrato dal governo israeliano». Il container con i pezzi di ricambio per l’esercito israeliano «è stato identificato ed è stato messo da parte», si legge nel comunicato, nel quale i portuali affermano che «il porto di Marsiglia non deve servire ad alimentare l’esercito israeliano». “I lavoratori portuali del Golfo di Fos e Marsiglia non parteciperanno al genocidio in corso orchestrato dal governo israeliano”. Così i sindacalisti francesi della Confederazione generale del lavoro (CGT) annunciano il rifiuto a caricare il cargo di armi destinato all’esercito israeliano, come rivelato dall’inchiesta congiunta del sito investigativo Disclose e il media irlandese The Ditch. “Ci hanno informato che giovedì 5 giugno avrebbero caricato dal nostro porto pezzi di ricambio per mitragliatrici che l’esercito israeliano utilizza per proseguire il massacro della popolazione palestinese – spiega il più rappresentativo sindacato francese – siamo a favore della pace tra i popoli e contro tutte le guerre, dopo aver avvisato datori di lavoro e autorità competenti, siamo riusciti a individuare questo container carico di componenti per munizioni prodotte dall’azienda marsigliese Eurolinks. I pallet sono stati messi da parte e i lavoratori portuali non li caricheranno sulla nave diretta a Haifa”. Secondo Disclose, il cargo israeliano «Contship Era» dovrebbe caricare il materiale bellico fabbricato dalla società francese Eurolinks a destinazione dell’azienda di armamenti Israel Military Industries, una filiale di Elbit Systems, «una delle principali industrie israeliane del settore delle armi» che «fornisce munizioni di piccolo e grosso calibro all’esercito israeliano», scrive il media francese. Dopo l’operazione di carico a Marsiglia, la nave israeliana dovrebbe poi salpare verso sud, facendo scalo a Genova e Salerno, prima di approdare a Haifa, nel nord d’Israele. La spedizione di materiale militare sull’asse Marsiglia-Israele sarebbe la terza nel suo genere dall’inizio del 2025, riporta Disclose. La prima sarebbe avvenuta il 3 aprile scorso, la seconda il 22 maggio. Entrambe le spedizioni contenevano decine di tonnellate ciascuna di materiale per fucili mitragliatori, tra i quali una serie di pezzi di ricambio «compatibili con il Negev 5», un fucile «utilizzato a Gaza dall’esercito israeliano durante il ‘massacro della farina’», scrive Disclose, in riferimento all’uccisione di un centinaio di civili palestinesi durante una distribuzione di aiuti alimentari il 29 febbraio 2024. «Di fronte al genocidio l’unica risposta possibile è la disobbedienza civile», ha twittato l’eurodeputata de La France Insoumise Rima Hassan, attualmente imbarcata sulla Madleen della Freedom Flotilla diretta a Gaza. «Ovunque nel mondo, ci si organizza per lottare contro il genocidio a Gaza», ha scritto Manuel Bompard, deputato Lfi di Marsiglia. La deputata comunista Elsa Faucillon si è invece chiesta come sia possibile che la Francia permetta tali consegne, mentre «la Spagna annulla i contratti di vendita delle armi a Israele», si legge in un suo post su X. La rivelazione di Disclose e The Ditch è l’ultima di una serie di inchieste pubblicate dai media francesi negli ultimi due anni sulle vendite di armi a Israele. Nel 2023, sempre Disclose aveva rivelato come la Francia avesse autorizzato, alla fine del 2023, la consegna di almeno 100mila pezzi di ricambio per fucili, suscettibili di essere utilizzati a Gaza. L’anno scorso, a fine 2024, il giornale d’inchiesta Mediapart aveva pubblicato un rapporto del governo sulle vendite di armi francesi a Tel Aviv. Il rapporto – che era stato tenuto segreto – rivelava che nel 2023 la Francia aveva venduto armi a Israele per un valore complessivo di circa 30 milioni di euro. Il governo aveva rifiutato di chiarire se tali consegne fossero avvenute prima o dopo l’inizio dell’offensiva su Gaza. Infine, sempre Disclose aveva pubblicato nel giugno 2024 una serie di documenti segreti, che dimostravano come il governo francese avesse «autorizzato la consegna a Israele di equipaggiamenti elettronici per droni» utilizzati nei bombardamenti a Gaza, materiale fabbricato dal gigante francese dell’armamento Thales. Ricevuta dai colleghi francesi la comunicazione del carico di armamenti dal porto di Marsiglia-Fos, il Collettivo dei lavoratori portuali di Genova (CALP), sostenuto dall’Usb, ha convocato un presidio ai varchi “con l’obiettivo di impedire l’attracco della nave ZIM Contship ERA”. Come ricostruito da Disclose e The Ditch, il cargo israeliano prevede un primo scalo a Genova e un secondo a Salerno, prima di tornare a Haifa, da dove è salpato il 31 maggio. “Ci opponiamo fermamente a tutte le guerre e non vogliamo essere complici del genocidio che continua a Gaza“, scrivono nel comunicato con il quale invitano la cittadinanza a partecipare al presidio “a fianco di chi si mobilita contro le guerre perpetrate dai nostri governi e in solidarietà alle vittime”. Se giovedì verrà confermato il blocco del carico annunciato dai colleghi francesi, i portuali di Genova sospenderanno il presidio. In ogni caso rilanciano lo sciopero generale indetto per il 20 giugno per contestare le stesse dinamiche. “La parola d’ordine dello sciopero sarà ‘Disarmiamoli‘, ed è stato indetto proprio contro l’economia di guerra che stiamo vivendo, che genera impoverimento dei lavoratori”, spiega José Nivoi, del Collettivo autonomo lavoratori portuali e USB Mare e porti, impegnati da anni nel contrasto del transito di armi dal porto di Genova. La manifestazione del 20 giugno a Genova partirà dal varco di San Benigno. Il giorno dopo i portuali hanno organizzato due pullman per unirsi alla manifestazione nazionale, a Roma, “contro l’aumento delle spese militari e la devastazione prodotta da decenni di moderazione salariale, ora esasperata in nome della guerra“. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto Josè Nivoi, del CALP e di Usb. Ascolta o scarica
L’ipocrisia della sinistra liberale sul genocidio in Palestina
Riceviamo e pubblichiamo da Intifada Studentesca Torino… Stiamo assistendo ad un inquietante teatrino messo in piedi da tutto il mondo intellettuale, dai media e dalla politica istituzionale: da un giorno all’altro, dopo due anni di esplicita complicità con il genocidio e di diffusione di propaganda sionista, anche i giornali più affezionati all’IDF titolano con condanne al massacro e i partiti guerrafondai indicono manifestazioni di carattere umanitario per “salvare Gaza”. Bisogna fare attenzione a dove è rivolta questa improvvisa indignazione: non al nemico che minaccia la Palestina, ovvero l’occupazione sionista, ma solo a uno dei suoi burattini, al governo e alla persona di Netanyahu.  Non si tratta di solidarietà, nè di presa di coscienza, ma di bieco sciacallaggio al fine di salire sul carro dei vincitori ed evitare la caduta. Stiamo assistendo a un’operazione di salvaguardia dello status quo: condannare il governo “israeliano” attuale, salvando i propri interessi strategici in Palestina mettendo al riparo il sionismo che permette di portarli avanti. Condannare Netanyahu per salvare il sionismo. Anche Unito, dal canto suo, si sta costruendo una facciata sulle spalle della Palestina: non ha mai rescisso gli accordi con le università sioniste e ospita eventi esplicitamente sionisti, ma ha pensato bene di aderire come molte università italiane al bando IUPALS, bando che avrebbe dovuto offrire borse di studio agli studenti palestinesi, ma che si è rivelato inapplicabile per gli studenti in Cisgiordania e inaccessibile per quelli di Gaza. Ma qual è la ragione dietro questo cambio di passo? Fondamentalmente, un’insofferenza sempre maggiore da parte degli Stati Uniti di Trump verso Tel Aviv. Infatti, le politiche del governo israeliano rischiano di compromettere l’egemonia statunitense in Medio Oriente il cui obiettivo è mantenere la stabilità e arginare il più possibile l’influenza di Teheran in Medio Oriente. Netanyahu è molto più oltranzista e sta spingendo per un conflitto diretto con gli iraniani, rischiando di spingere gli alleati mediorientali tra le braccia di Teheran. Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti stanno puntando sono favorevoli a un accordo con l’Iran che eviti un conflitto regionale, ma le politiche israeliane in Medio Oriente rischiano di mandare all’aria i piani dei Paesi del Golfo. Avere rapporti distesi con le monarchie del Golfo è fondamentale per gli Usa per lo sviluppo della Via del Cotone, essenziale alternativa commerciale alla Via della Seta cinese, che vede Arabia Saudita e Israele come hub strategici e connette Europa, Medio Oriente e India. Ma la sua realizzazione passa soprattutto attraverso la normalizzazione dei rapporti tra sauditi e israeliani tramite gli “Accordi di Abramo”, che però sono a un punto morto da dopo l’inizio della campagna di Gaza. Anche i governi dei paesi arabi stanno avendo un gran da fare nel cercare di gestire le opinioni pubbliche interne, tutte apertamente schierate con la Palestina, e sono in forte imbarazzo per il fatto di star comunque mantenendo rapporti economici e commerciali con Tel Aviv. L’occupazione ogni giorno più violenta della Striscia di Gaza sta radicalizzando sempre di più il mondo arabo, che inizia a vedere nell’Iran e nei suoi alleati Houthi gli unici argini allo strapotere e all’impunità israeliana. Inoltre Israele vorrebbe sfollare oltre 2 milioni di persone verso Egitto e Giordania, entrambi buoni alleati degli Stati Uniti, che si ritroverebbero a dover gestire un afflusso senza precedenti di profughi che non hanno né intenzione, né la capacità di accogliere.E’ anche per questo che le politiche del governo israeliano rischiano sempre più di raffreddare i rapporti tra gli Stati Uniti (che continuano comunque a inviare supporto militare ed economico a Tel Aviv). Netanyahu è un alleato che non riescono più a controllare e quindi adesso il probabile obiettivo è quello di isolare il primo ministro israeliano, pur senza mettere in discussione la legittimità di Israele in quanto partner fondamentale di Washington. Ed ecco qua che improvvisamente il massacro è diventato intollerabile, ed esporsi sulla Palestina è tutto a un tratto molto più facile: non è una casualità o un’improvvisa presa di coscienza, ma il segno di un chiaro riallineamento geopolitico. Sfortunatamente per le istituzioni e i partiti, abbiamo preso molti appunti in questi due anni: sappiamo chi è mandante e complice del genocidio, chi ha stretto le mani all’aggressore e ha condannato chi resiste. Infatti, ciò che ha dato spazio e legittimità al sionismo e gli ha permesso di compiere quella che è solo l’ultima manifestazione di più di 77 anni di pulizia etnica sono gli interessi economici energetici, l’invio di armamenti, il supporto mediatico, gli accordi di cooperazione e scambio con università, istituzioni ed aziende sioniste.  Le loro maschere non hanno scampo, perche chi verrà estirpato non è un Netanyahu, ma il sionismo. Israele non è infatti che una colonia illegittima, frutto storico di un progetto piu ampio di colonialismo di insediamento, che si caratterizza per la violenza e il saccheggio della terra palestinese; e come tutte le colonie è destinata a cadere sotto il peso della Resistenza dei popoli indigeni.  Forti della consapevolezza e dell’esperienza che abbiamo costruito in questi due anni, non ci faremo ingannare e non lasceremo che venga neutralizzata la lotta al sionismo per fare spazio agli interessi economici, alla deportazione e alla spartizione della Palestina nel rantolo reazionario delle condanne umanitarie. Le masse popolari hanno ereditato dalla Resistenza palestinese la speranza e la volontà concreta di mobilitarsi per cambiare l’esistente, anche quando i rapporti di forza sono enormemente sbilanciati. 
Militari israeliani in “libera uscita” in Italia
Da pressenza di Stefano Bertoldi 28.5.25 Stress da genocidio? Se vuoi rilassarti vieni nel Bel Paese! Non è uno slogan pubblicitario di un mondo distopico, ma potremmo rappresentarcela così l’offerta, comprensiva di relax,  tour turistici alle bellezze naturalistiche e culturali delle Marche, di cui ha usufruito a fine 2024 un gruppo di giovani militari israeliani in “libera uscita”, ma pur sempre scortati e protetti dalla DIGOS per garantirne la massima riservatezza. L’IDF, insomma, cerca varie strategie per mandare in decompressione i propri soldati alle prese con droni che valicano corridoi e scale e che per colpirne uno ne ammazzano altri dieci, venti o trenta, spesso bambini. In patria sono stimati in almeno 6.500 quelli sottoposti a percorsi di psicoterapia  ovvero in un breve periodo, tre volte tanto le terapie somministrate in tutto il 2022 (fonte: ministero israeliano ripresa in Italia dall’agenzia Nova). Il centro di riabilitazione psichiatrica del Ministero della Difesa di Israele assiste più di 64.000 soldati, tra cui 8.000 affetti da disturbi da stress post-traumatico. Per alcuni invece, l’anomalo pacchetto turistico è stato organizzato da un’agenzia marchigiana specializzata proprio in “itinerari ebraici marchigiani” che facendo tappa fissa tra Fermo e Porto S. Giorgio, ha poi raggiunto anche mete naturalistiche di grande pregio come la riviera del Conero o le grotte di Frasassi, entrambe a poca distanza una dall’altra. Dalla nostra inchiesta giornalistica emergono diverse testimonianze dirette che raccontano di gruppi di giovani israeliani, con la kippah indosso, che hanno girato di recente le Marche apprezzandone i numerosi siti naturalistici e culturali, bellissimi e rilassanti, ma soprattutto un po’ più “defilati” rispetto a città d’arte come Roma o Firenze. A parte le guide che hanno aperto le porte di sinagoghe semisconosciute e altri luoghi di interesse ebraico, le altre persone che non indossavano la kippah erano appunto gli agenti della DIGOS. Questi turisti con particolari esigenze di riservatezza, “vengono presentati agli albergatori – ci ha rivelato la fonte presso una di queste agenzie specializzate – con nomi di fantasia e solo all’ultimo con quello reale, al momento della loro registrazione. Nei siti naturalistici e culturali – ha aggiunto – si può accedere in via riservata con visite a loro dedicate, in via del tutto esclusiva”. Più di una guida, incuriosita dagli insoliti gruppi con scorta al seguito, ci ha confermato la loro presenza nel fermano e il fatto che non fossero dei semplici cittadini israeliani, ma appunto, dei militari in libera uscita “defatigante”. “Sono guida ambientale AIGAE” ci ha rivelato la nostra fonte “e lavoro da anni tra il Parco del Conero e quello dei Sibillini. A inizio dicembre 2024, mentre stavo a Sirolo sul Conero per lavoro, ho visto in paese un gruppo di giovani dai tratti mediorientali, alcuni dei quali indossavano la kippah. Con loro un uomo di età più matura. Erano accompagnati da un italiano mio conoscente. Incontrandolo ho chiesto chi fossero e mi ha risposto che erano dei militari israeliani che sotto la copertura di semplici turisti stranieri, trascorrevano un periodo di vacanza nelle Marche, dopo essere stati impiegati in servizi operativi a Gaza. Poi sarebbero tornati in servizio. Un periodo di decompressione dallo stress del combattimento. Durante la loro permanenza nelle Marche, venivano accompagnati in altre località naturalistiche e città d’arte della regione”. La Regione Marche, dove ad Ancona e in altri centri minori, sono attive alcune delle più antiche comunità ebraiche italiane, con una legge regionale ha istituito del 2021, proprio l’”Itinerario Ebraico Marchigiano” che mette a sistema il patrimonio ebraico di 25 Comuni tra i quali Fermo, dove sembrerebbe abbiano fatto tappa fissa i giovani dell’IDF. I militi ebrei insomma, per superare i traumi dei massacri perpetrati pochi giorni prima contro donne e bambini palestinesi, si ritemprano, lontani da occhi e orecchie indiscrete, con le bellezze italiche di una regione che ha dato i natali a musicisti, pittori, scrittori e architetti del calibro di Rossini, Raffaello, Leopardi e Vanvitelli, solo per citarne alcuni. D’altra parte, l’Itinerario Ebraico Marchigiano rappresenta uno dei tanti tasselli di iniziative sparse finalizzate a riscoprire le radici comuni delle comunità giudaico-cristiane nel quadro di un dialogo interreligioso dove spicca, per iniziative di rilievo e organizzazione, il Cammino Internazionale Neocatecumenale, con sede proprio tra Porto S. Giorgio e Fermo. Ma è invece in Galilea dove, sul Monte delle Beatitudini, vicino al lago di Tiberiade, viene ospitata la cosiddetta Domus Galilaee. Il Cammino Internazionale Neocatecumenale, esattamente dieci anni fa, si è reso protagonista dell’incontro forse più significativo della storia delle due religioni, cristiana ed ebraica: 120 rabbini provenienti da ogni parte del mondo si sono incontrati con laici e religiosi cristiani, tra i quali 20 vescovi e 7 cardinali. Il tentativo, più che lodevole, di avvicinare le due religioni prosegue tuttora anche con visite svolte presso la Domus Galilaee addirittura dell’esercito israeliano. “A scaglioni vengono a visitare il nostro centro” ci spiega il direttore, don Rino Rossi “incuriositi dalla struttura, ma soprattutto per conoscere la fede cristiana”. Una curiosità che deve aver contagiato anche un alto ufficiale dell’IDF, che visitando la Domus “ne è rimasto impressionato”. Ciò che sorprende, però, vista la vicinanza tra questo centro di preghiera e i luoghi ad altissima intensità bellica, dove l’esercito insieme a coloni ebrei ultra-ortodossi sta spianando interi villaggi palestinesi in Cisgiordania, imprigionando decine di migliaia di persone attraverso l’abuso della cosiddetta detenzione amministrativa, è che la realtà del momento non traspare in nessun modo nelle parole dei responsabili del Cammino intervistati. Nemmeno le notizie di guerra in un periodo tragico come quello recentissimo, intorno ai giorni di Pasqua, hanno fatto sì che durante l’incontro che ha coinvolto nella Domus 250, tra vescovi e arcivescovi, provenienti dai cinque continenti, per un totale di 500 persone tra laici e religiosi da tutto il mondo, si facesse il minimo cenno a un dialogo interreligioso che comprendesse, in maniera sistematica e concreta, la terza più importante religione monoteista al mondo, quella mussulmana, ampiamente maggioritaria, proprio lì, in Medio Oriente: insomma un dialogo interreligioso a dir poco sbilanciato verso la sola riscoperta delle comuni radici culturali giudaico-cristiane, considerato che musulmani e i cristiani rappresentano, ognuna, una fetta di circa il 30% della popolazione mondiale, mentre l’ebraismo sfiora lo 0,2%. Leggendo il sito web ufficiale della location neocatecumenale di Porto S. Giorgio, l’unico scossone emotivo degno di essere riportato nella newsletter è stata la morte di Bergoglio. Il cammino neocatecumenale, per quanto riguarda il dialogo interreligioso tra ebrei e cristiani, secondo le testimonianze rilasciate al telefono dai responsabili, è molto attivo in numerosi Paesi del mondo, tra i quali gli USA, dove si cita anche un memorabile concerto a New York offerto dalla comunità ebraica locale.  Per quanto riguarda invece un’eventuale accoglienza in Italia di ebrei organizzati in gruppi, tutte le fonti laiche e religiose intervistate si sono trincerate dietro un generico “no-comment”; anzi, di eventuali presenze sul territorio marchigiano di gruppi provenienti da Israele non se ne vuole proprio parlare. Su un piano invece laico, accademico e strategico-militare, prosegue a gonfie vele l’impegno dell’Italia, in questo caso lontano dai riflettori mediatici, in sostegno attivo all’IDF. È di non molte settimane fa, infatti, la notizia riportata da “Il Manifesto”, dell’ennesimo carico di armi che il tribunale del riesame di Ravenna ha definitivamente bloccato in porto confermando la sentenza di sequestro di 14 tonnellate di componenti per un valore di 250 mila. La fornitura proveniva dalla Valforge di Lecco ed era destinata alla IMI System, principale produttore di armi e munizioni per l’esercito israeliano. Il tutto in violazione di quel che resta della legge 185 del 1990 e senza essere iscritta nell’infame registro nazionale degli esportatori di sistema d’armamento. La spiaggia di Sirolo, una delle località marchigiane visitate dai soldati israeliani in “libera uscita” in Italia (Foto di Luca Boldrini, Wikimedia Commons)
Pescara: colpito col TASER dalla Polizia, giovane ha un malore e muore.
Ennesima vittima degli abusi della polizia che stamattina, a Pescara, ha arrestato un 30enne coinvolto poco prima in una lite stradale. Durante l’arresto gli agenti hanno usato il taser, a loro dire per vincere la resistenza al fermo che sarebbe stata opposta dall’uomo. Condotto nelle celle della questura, il 30enne si è sentito subito male ed è stato prima soccorso sul posto dal 118 e poi trasportato in ospedale dove sono stati effettuati alcuni tentativi di rianimazione. I soccorsi non hanno evitato il decesso. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto il commento di Susanna Marietti, dell’Associazione Antigone. Ascolta o scarica. Da Radio Onda d’urto
2 Giugno: Torino scende in piazza contro il razzismo!
Riprendiamo il comunicato di diversi collettivi sul corteo svoltosi il 2 giugno a Torino. L’8 e il 9 giugno si terrà un referendum popolare che prevede quattro quesiti sul lavoro e un quesito per ridurre da 10 e 5 anni i prerequisiti di residenza continuativa in Italia per l’ottenimento della cittadinanza. Durante questi ultimi mesi, in tant3 ci siamo mobilitati per portare una voce che fosse dal basso contro discriminazione e segregazione razzista! Ieri, il 2 giugno, giorno in cui le istituzioni festeggiavano la festa della Repubblica, un corteo antirazzista ha invaso le strade del centro città per dare visibilità al referendum e per risignificare la giornata in cui si festeggia una repubblica fondata sul razzismo istituzionale. Una Repubblica in cui migliaia di persone non vengono considerate cittadine, sono costantemente discriminate, aggredite e a volte private della propria libertà e torturate. Il razzismo istituzionale si trova nei cpr in Italia e in Albania,in quanto luoghi di reclusione e tortura; si trova nel ricatto delle questure per i rinnovi dei documenti e nella violenza delle code che hanno costretto le persone a dormire al freddo; si trova nella violenza della polizia che prende di mira, picchia e uccide persone non bianche; si trova nel mercato abitativo che discrimina chi è straniero, ed è costretto ad accettare abitazioni sovraprezzate e fatiscenti; si trova nel ricatto del lavoro vincolato al permesso di soggiorno (e viceversa) e nelle discriminazioni razziste sul lavoro; si trova nella dispersione scolastica che colpisce più duramente le fasce di popolazione povere e razializzate. Il razzismo istituzionale si trova nella morte di Hamid, che due settimane fa si è tolto la vita in carcere a seguito di un pestaggio della polizia per paura di tornare nel cpr in Albania. Il razzismo istituzionale si trova nell’esclusione dalla cittadinanza di moltissime persone. La cittadinanza Italiana è un prerequisito necessario per accedere a moltissimi diritti: libertà di movimento, possibilità di partecipare a concorsi pubblici o iscrizione all’albo per diversi lavori, possibilità di scioperare o esprimere dissenso senza rischiare ricatti sui propri documenti, possibilità di aprire un mutuo per non essere vincolati al mercato degli affitti escludente e razzista. Ma, soprattutto, senza la cittadinanza italiana si è vincolati al perenne ricatto del rinnovo del permesso di soggiorno, sottoposti al potere e alla discriminazione delle questure. La cittadinanza deve essere un diritto garantito per chi vive in Italia, non una “concessione” da parte dello stato nei confronti di persone considerate straniere nel luogo in cui hanno i propri affetti, parte della propria famiglia, in cui lavorano e pagano le tasse. Ottenere la cittadinanza oggi è una corsa a ostacoli a causa dei requisiti richiesti: il reddito minimo di 11 mila euro annui, i dieci anni di residenza continuativi, la fedina penale pulita, la discrezionalità della commissione che valuta le relazioni e attività che svolge la persona sottoposta a esame per la cittadinanza. Il dimezzamento degli anni di residenza necessari può essere un primo piccolo passo per cambiare una legge ingiusta e escludente. Il corteo, partecipato da diverse centinaia di persone, ha attraversato le vie del centro disseminando la città di manifesti e scritte contro i cpr, per i documenti per tuttə, contro il razzismo istituzionale in generale. Attraverso una partecipazione potente è stato espresso in modo chiaro che non ci possiamo accontentare di questa riforma di legge, se dovesse passare. È stato ribadito che è necessario mettere in campo una lotta quotidiana contro tutte le forme di razzismo istituzionale e contro la costante propaganda di odio e discriminazione veicolata da chi governa. Andremo a votare ma non ci accontentiamo del voto, il razzismo va combattuto ogni giorno in ogni sua forma. Alzare la testa e la voce per opporsi a tutto ciò che va cambiato è il primo passo. Collettivo Ujamaa Progetto Palestina Non una di meno Torino Spazio Popolare Neruda Cub Sanità Torino
Infiltrati tra attivisti e partiti: il caso italiano ed europeo
Riprendiamo questo ariticolo di Checchino Antonini da Diogene Notizie, che partendo dal caso italiano del poliziotto infiltrato dentro Potere al popolo, ricostruisce alcuni dei maggiori casi degli ultimi anni. Buona lettura! Giovani, carini e appena arruolati. Praticamente infiltrati Dopo la denuncia di Pap abbiamo ripercorso due celebri cicli di infiltrazioni nello stato spagnolo e in Gran Bretagna Potere al Popolo ha denunciato il 27 maggio che per ben dieci mesi un giovane agente di polizia, fresco di corso, ha partecipato a riunioni, manifestazioni di piazza, assemblee nazionali, volantinaggi e alla vita quotidiana di partito a Napoli. Perché questa operazione? si chiede Pap, e ancora: chi l’ha decisa, pianificata, ordinata? La rivelazione arriva dopo il caso Paragon-Mediterranea emerso quando una comunicazione ufficiale di Meta, proprietaria di Whatsapp ha avvertito Luca Casarini, capomissione di Mediterranea, che il suo telefono era stato violato da una operazione di “spyware” ad alto livello, attraverso l’uso di un software definito “tra i più sofisticati al mondo”. Era il 31 gennaio scorso e Meta consigliava di cambiare subito il cellulare e, quasi contestualmente, testate internazionali davano notizia della violazione dei sistemi di sicurezza di Whatsapp, che coinvolgeva 90 “target” in tutto il mondo, in particolare attivisti della società civile e giornalisti. Il sospetto che il governo Meloni spii partiti di opposizione, ong e giornalisti è fortissimo (una pratica che non disdegnava nemmeno Conte e supponiamo sia bipartisan) e non sembrano convincenti le smentite di rito di Palazzo Chigi tanto su Paragon, sistema di fabbricazione israeliana, tanto su Pap, tanto sul razzismo così diffuso in polizia al punto da inorridire perfino il Consiglio d’Europa. Ma sono legali in Italia le infiltrazioni di poliziotti in organismi che operano alla luce del sole? In qualche modo deve essere autorizzata in un contesto di indagini su droga, armi, terrorismo ma quest’ultimo concetto è così dilatabile che una “funzione di monitoraggio” da parte dell’intelligence è attività nota negli ambiti parlamentari. Vista la smentita maldestra di un’infiltrazione altrettanto maldestra, resta la domanda: chi ha autorizzato quel poliziotto? Forse l’AISI? Forse una polizia parallela di fascisti? Certo i precedenti non mancano, soprattutto di quell’infiltrazione di piazza, ovvero finti manifestanti traditi da particolari del loro outfit oppure dal bozzo del calcio della pistola. Una delle più celebrate infiltrazioni è quella dell’agente immortalato, in borghese, mentre faceva oscillare un cellulare assieme a un gruppo di squadristi che presero d’assalto la sede della Cgil nell’ottobre del 2021. Riavvolgendo il nastro, un altro famoso è Giovanni Santone, fotografato da Tano D’Amico il 12 maggio del 1977, in tenuta settantasettina ma con la pistola d’ordinanza in pugno. Osservatorio Repressione, in un pezzo di qualche anno fa, ricorda che gli infiltrati a volte stanno lì per provocare, altre per uccidere, oltre che per spiare. Certo, l’evoluzione tecnologica, con ogni probabilità ha alleggerito l’esigenza di mimetizzarsi per captare segnali di movimento. Poliziotti infiltrati, il giorno dell’uccisione di Giorgiana Masi, 12 maggio 1977 Tana per Nieves Giovane e appena arruolato: la vicenda del poliziotto infiltrato ricorda da vicino quello che sta accadendo nello Stato Spagnolo dove già sono stati scoperti almeno tredici casi di infiltrazione di agenti da quando, nel 2022, due media alternativi – La Directa, catalano, e El Salto – hanno avviato un’inchiesta su questo tipo di pratiche di polizia tra gruppi anarchici, occupazioni di case, organizzazioni ambientaliste. La numero 12 è venuta fuori poche settimane fa, il 23 aprile: dietro la falsa identità di Nieves López Medina si nascondeva una funzionaria di polizia che rispondeva alle iniziali di N.M.C.F., diplomata alla 37° corso dell’Accademia di Avila e infiltrata a Madrid, all’interno di gruppi ambientalisti come Rebelión o Extinción e Fridays For Future per circa sei mesi. Il profilo di Nieves coincide con quello della maggior parte dei casi scoperti compreso quello venuto alla luce a Napoli: un’agente appena diplomata alla Scuola Nazionale di Polizia di Avila, che viene introdotta nei movimenti sociali poco dopo il suo giuramento. E’ da notare che l’infiltrazione sotto finta identità di Nieves è avvenuta quando molti di questi casi erano già venuti alla luce; infatti, uno degli agenti scoperti da El Salto, Mavi, è stato scoperto nel marzo 2023, mentre Nieves ha cercato di entrare in questi stessi ambienti nel dicembre dello stesso anno. Di Nieves sappiamo qualcosa di più di quanto si sa dell’infiltrato presunto in Pap: è entrata per la prima volta in contatto con l’ambiente militante quando ha compilato un modulo per partecipare a un’azione di disobbedienza civile contro l’industria dei combustibili fossili organizzata da Rebellion o Extinction (XR). È apparsa per la prima volta in una formazione che si è svolta il 10 dicembre 2023 per preparare questa azione. Il giorno seguente, una trentina di attivisti sono entrati nel recinto di Arganzuela per ancorarsi agli alberi e impedirne l’abbattimento. Sono stati tutti sgomberati con violenza e multati per disobbedienza. Nieves ha partecipato all’azione. Tuttavia, il suo atteggiamento ha presto generato diffidenza tra i suoi nuovi compagni. Da quando la sua collega Mavi si è infiltrata in XR nel 2022, gli attivisti spagnoli sanno che “nei movimenti per il clima ci sono agenti che fanno solo disobbedienza civile, quindi abbiamo imparato a tenerli d’occhio”. Oltre a XR, Nieves partecipava alle assemblee di Fridays For Future. Aveva trent’anni, era arrivata in moto e diceva di essere una magazziniera in un Carrefour. In FFF la maggior parte sono studenti, anche liceali, e nessuno gira in moto. Inoltre non aveva profili social. Fin dall’inizio, Nieves ha mostrato un grande interesse per la disobbedienza civile non violenta e ha chiesto con insistenza di far parte del comitato “relazioni esterne”, cosa insolita per un nuovo membro. Probabilmente il suo obiettivo era quello di avvicinarsi a gruppi più radicali come Futuro Vegetal. Quando è stata multata per “disobbedienza” non ha esitato a inviare la multa a XR affinché la aiutasse a fare ricorso e proprio questo ha permesso al gruppo ambientalista di ottenere una fotocopia della sua carta d’identità farlocca. Con quel documento XR ha richiesto un certificato di nascita all’anagrafe ma non c’era non traccia di lei all’Ufficio del Registro Civile nonostante quella carta d’identità dichiarasse che era nata a Murcia. Tana per Nieves. El Salto ha chiesto chiarimenti al Ministero dell’Interno ricevendo come unica risposta un appello all’articolo 104 della Costituzione spagnola, che stabilisce che “le Forze e i Corpi di Sicurezza dello Stato garantiscono la sicurezza e il libero esercizio dei diritti e delle libertà di tutti i cittadini, e che agiscono in questi termini, con una rigorosa sottomissione all’ordinamento giuridico”. Da parte sua, la Stazione Generale di Polizia di Madrid, dove sarebbe stata assegnata, si è rifiutata di fare qualsiasi tipo di valutazione. Vale la pena ricordare che, in base all’attuale quadro giuridico iberico, questo tipo di infiltrazione può essere effettuata solo su ordine del tribunale, nei casi di terrorismo, criminalità organizzata e traffico di droga. María, infiltrata con la sua vera madre A Girona, in Catalogna, a un anno e mezzo dalla denuncia, il tribunale ha rifiutato di incriminare una poliziotta infiltrata con un’ordinanza di sole quattro pagine, in cui si conclude che l’agente non avrebbe oltrepassato i suoi limiti. L’ordinanza di archiviazione riconosce che María Isern Torres, agente sotto copertura, stabilì la relazione con l’attivista indipendentista Òscar Campos per ordine dei suoi comandanti, ma non ammette che “fu iniziata e mantenuta in condizioni di disparità” né che l’intenzione fosse quella di “danneggiarlo psicologicamente”. La denuncia accredita, attraverso una perizia, i “postumi psicologici sotto forma di disturbo depressivo e sintomi di stress post-traumatico” causati da “una relazione sentimentale fallace, ingannevole e spuria” e dall’“invasione dei diritti fondamentali”. Durante l’infiltrazione, l’agente ha persino coinvolto la sua vera madre nell’operazione, fornendo una copertura per la missione che era stata assegnata alla figlia. L’attivista di Girona ha soggiornato nella casa di famiglia a Palma, dove madre e figlia hanno mentito sull’attività lavorativa dell’infiltrata. Da quel momento in poi, la madre stabilì una stretta relazione telefonica con la persona spiata e il suo entourage a Girona, con cui condivise momenti di intimità. La relazione è avvenuta tra il 2020 e il 2023. Maria Isern Torres, in realtà è un’agente del Cuerpo Nacional de Policía, operante sotto il falso nome di Maria Perelló Amengual. Nel luglio 2023, Campos scoprì la vera identità e denunciò pubblicamente la “torturadora a les ordres de l’Estat espanyol” (“torturatrice agli ordini dello Stato spagnolo”). La Procura di Girona ha giustificato l’operazione sostenendo che l’agente agiva nell’ambito delle sue funzioni per prevenire azioni secessioniste, ritenendo quindi legittima la sua infiltrazione nei movimenti sociali catalani. L’intera vicenda è stata documentata nel reportage “Infiltrats”, prodotto da 3Cat e La Directa, che ha portato all’attenzione pubblica le modalità e le implicazioni delle infiltrazioni della polizia spagnola nei movimenti sociali catalani. Queste infiltrazioni della polizia violano i diritti fondamentali e sono più tipiche di uno Stato di polizia che dello Stato di diritto ma la sentenza del tribunale, pur riconoscendo che la relazione sentimentale, ha facilitato l’accesso dell’agente alla sfera privata di Òscar Campos e ad attività riservate, afferma che non ci sono elementi nella denuncia per ritenere che non ci sia stato consenso. Anche la denuncia per tortura contro Ramon, infiltrato della polizia nei movimenti sociali di Valencia, è stato definitivamente archiviata lo scorso 5 maggio. Ora, ovviamente, di Nieves non si hanno più tracce e gli attivisti ritengono che probabilmente è stata fatta fuori perché non è riuscita a passare inosservata. Ci si interroga sulla relativa facilità con cui è stato possibile smascherare l’infiltrazione: o la Brigata d’Informazione l’ha messa lì apposta per far credere che XR fosse già in grado di individuare gli infiltrati, oppure era semplicemente stupida. Di sicuro i movimenti denunciano la crudeltà di un metodo che genera paranoia, sfiducia, indignazione e paura tra gli attivisti. L’infiltrazione come forma di tortura Pau Pérez-Sales, psichiatra e direttore del SIRA, un centro di assistenza alle vittime di tortura e maltrattamenti, ha spiegato a El Salto che l’infiltrazione è una tortura perché “per essere considerata tale, devono essere presenti quattro elementi: devono esserci gravi sofferenze, deve esserci intenzionalità, deve esserci uno scopo, come ottenere informazioni, punire, umiliare, reprimere o discriminare e, infine, deve essere eseguita da un funzionario statale”. L’eco di queste vicende nello stato spagnolo ha stimolato il progetto militante di pubblicazione, lo scorso febbraio, di un “Manual para destapar a un infiltrado”, operazione che ha infastidito sia la polizia sia i politici che la fiancheggiano. Sabato 24 maggio il Comune di Malaga ha cercato di impedire la presentazione del manuale comunicando agli organizzatori che era necessario avere un permesso speciale in base alla legge sugli spettacoli pubblici, una norma che non può essere applicata a proposte no-profit e a eventi pubblici come la presentazione di un libro, attività peraltro garantite dall’articolo 20 della Costituzione spagnola sulla libertà di espressione e di cultura, e dall’articolo 21 che tutela la libertà di riunione pacifica in spazi privati. A proposito di Nieves è stato detto che almeno, a differenza di Mavi (un altro finto ecologista, vero sbirro) non è andata a letto con nessuno. Non possono dire altrettanto le decine di donne britanniche vittime di altrettanti agenti infiltrati per decenni nelle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, ecologista del Regno Unito. Lo scandalo Spycops Per oltre quarant’anni, la polizia britannica ha condotto un’operazione segreta di spionaggio su migliaia di cittadini. L’opinione pubblica non aveva alcun sentore di questa operazione segreta e solo un ristretto numero di ufficiali di polizia ne era a conoscenza. La polizia ha inviato 140 agenti sotto copertura per spiare più di 1.000 gruppi politici e compilare file riservati sulle attività politiche degli attivisti. La storia, partita nel 1968, è venuta alla luce nell’autunno 2010 quando cominciarono a emergere notizie su Mark Kennedy, un agente di polizia sotto copertura, noto come Mark Stone, che si era infiltrato nei gruppi di protesta ambientalisti provocando molti arresti. Stone viveva tra gli attivisti ed era riuscito ad assumere un ruolo di primo piano in molte azioni, stringendo relazioni intime a lungo termine e relazioni sessuali più brevi con molte donne. In generale era visto come un membro fidato del movimento. E’ attiva una campagna – Police Spies Out of Lives – a sostegno delle donne colpite da relazioni intime con agenti di polizia sotto copertura della SDS, Special Demonstration Squad della Metropolitan Police Special Branch e della National Public Order Intelligence Unit (NPIOU) controllata dall’Association of Chief Police Officers (ACPO). Negli anni sono stati svelati sempre più dettagli, grazie soprattutto al lavoro investigativo degli attivisti e dei giornalisti. Rivelazioni che hanno costretto Theresa May, quando era ministro degli Interni, a commissionare un’inchiesta pubblica guidata da un giudice in pensione, Sir John Mitting partita nell’estate del 2020, con sei anni di ritardo. C’è da capire come gli agenti sotto copertura abbiano ingannato le donne in relazioni intime a lungo termine, alcune durate molti anni e “allietate” dalla nascita di figli. L’inchiesta ha recentemente ammesso per la prima volta che il monitoraggio dei sindacalisti da parte di agenti sotto copertura dell’SDS può essere stato utilizzato dai datori di lavoro a fini di blacklist. Nel 2009, si legge sul Guardian, i membri di un sindacato che erano stati presi di mira dai datori di lavoro per essere licenziati a causa delle loro attività sindacali sono stati riconosciuti come vittime di uno scandalo decennale di liste nere. Un’incursione nella Consulting Association, un’organizzazione segreta che gestiva la lista nera, ha portato alla luce migliaia di file sui lavoratori edili, utilizzati dalle principali imprese edili per “vagliare” l’appartenenza al sindacato dei candidati al momento dell’assunzione. Gli agenti sotto copertura hanno adottato misure elaborate per sviluppare i loro falsi personaggi. Rubavano l’identità di bambini morti, dopo aver setacciato pagine di certificati di morte per trovare una corrispondenza adeguata. Le spie ricevevano documenti ufficiali come patenti di guida e passaporti con nomi falsi, in modo che i loro travestimenti apparissero credibili alla cerchia di manifestanti in cui si infiltravano. Durante le missioni, che in genere duravano quattro anni, gli agenti sotto copertura fingevano di essere manifestanti impegnati. Ma per tutto questo tempo hanno fornito ai loro superiori informazioni sui piani e sui movimenti dei manifestanti. I loro rapporti includevano anche valutazioni delle figure chiave all’interno dei gruppi. L’elenco completo dei gruppi politici presi di mira dal 1968 non è stato pubblicato dall’inchiesta pubblica. Tuttavia, un’analisi dei gruppi pubblicati suggerisce che le spie della polizia hanno monitorato soprattutto gruppi di sinistra e progressisti che sfidavano lo status quo, mentre solo tre gruppi di estrema destra sono stati infiltrati: il British National Party, Combat 18 e la United British Alliance. Un gruppo trotzkista in particolare – il Socialist Workers Party (SWP) – è stato pesantemente infiltrato con più di 20 agenti, molto più di qualsiasi altro gruppo. Con cinismo e vigliaccheria Dopo che l’esistenza dell’operazione segreta è stata resa nota nel 2010, le donne si sono raggruppate e hanno intrapreso con successo un’azione legale contro la polizia ottenendo decine di risarcimenti. Quando le donne hanno iniziato a fornire i loro resoconti e a condividere le loro storie, è emerso chiaramente che il comportamento degli uomini nelle relazioni, i loro retroscena e i metodi per sparire discretamente presentavano notevoli somiglianze che suggerivano metodi sistematici di infiltrazione e minavano il mito dell’agente disonesto. Raccontano i legali che è stato evidente che tutte le donne hanno subito un notevole impatto emotivo e psicologico dalla scoperta dell’inganno e della violazione personale. In particolare, il loro senso di sicurezza nel mondo in cui vivevano e la capacità di fidarsi degli altri erano stati gravemente danneggiati. Tuttavia, poiché le loro esperienze erano insolite ma simili, e poiché provenivano tutte da ambienti politicamente impegnati, hanno rapidamente sviluppato un approccio di sostegno reciproco e collettivo per lavorare insieme al loro caso legale. Ci sono ancora troppi agenti, secondo Police Spies Out of Lives, la cui identità reale e fittizia rimane segreta. Sono stati scoperti altri comportamenti scorretti. In casi giudiziari che riguardavano l’incriminazione di attivisti, gli agenti sotto copertura e i loro supervisori hanno nascosto prove vitali che avrebbero potuto portare alla loro assoluzione. Finora si sa che almeno 50 manifestanti sono stati condannati o perseguiti ingiustamente perché le prove relative alle attività delle spie della polizia sono state ingiustamente insabbiate nei procedimenti giudiziari. Solo uno degli agenti sotto copertura è diventato un informatore. Peter Francis, che è stato inviato a spiare i manifestanti antirazzisti per quattro anni negli anni Novanta, ha rivelato come funzionava la sua ex unità, la Squadra speciale per le dimostrazioni. Ha anche rivelato che la squadra aveva raccolto informazioni sui genitori di Stephen Lawrence nel momento in cui stavano conducendo una campagna per convincere la polizia a condurre un’indagine adeguata sull’omicidio razzista del figlio. Lawrence, studente di origine giamaicana, fu ucciso il 22 aprile 1993 a Eltham, nel sud-est di Londra da un branco di ragazzi bianchi mentre aspettava l’autobus con un amico. Il rapporto Macpherson del 1999 concluse che la Metropolitan Police era “istituzionalmente razzista”. La polizia è stata costretta ad ammettere che i suoi agenti sotto copertura avevano spiato almeno 18 famiglie in lutto che si battevano per ottenere giustizia dalla polizia. Tra queste c’erano anche famiglie i cui parenti erano stati uccisi o erano morti sotto la custodia della polizia. L’inchiesta pubblica sull’uso di agenti sotto copertura nel Regno Unito, nota come Spycops Inquiry o Undercover Policing Inquiry, è attualmente in corso ma sta affrontando numerose difficoltà operative, ritardi e critiche da parte delle vittime e dei partecipanti. L’inchiesta, spiega Campaign Opposing Police Surveillance, è suddivisa in “tranche” tematiche. Le udienze della Tranche 2 (1983–1992) si sono svolte tra luglio 2024 e febbraio 2025. La Tranche 3 (1993–2007), inizialmente prevista per aprile 2025, è stata posticipata a ottobre 2025. È probabile che anche la Tranche 4, dedicata alla National Public Order Intelligence Unit (NPOIU), subisca ritardi. Più di 100 vittime e gruppi coinvolti hanno firmato una lettera aperta rifiutandosi di fornire prove entro le scadenze imposte, considerate irragionevoli. Il sito Freedom News riferisce che, nonostante il rinvio delle udienze, i termini per la presentazione delle testimonianze non sono stati estesi, suscitando accuse di trattamento iniquo. Inoltre l’inchiesta sta procedendo in modo squilibrato, favorendo le forze dell’ordine: mancanza di trasparenza, distruzione intenzionale di documenti da parte della polizia e pressione esercitata per rispettare una scadenza finale arbitraria fissata per dicembre 2026, che potrebbe compromettere la credibilità dell’intero processo che dovrebbe essere cruciale nel dibattito sul controllo democratico delle forze di polizia nel Regno Unito. Solo nel luglio 2024, la Metropolitan Police ha pubblicamente condannato le operazioni della Special Demonstration Squad (SDS), ammettendo gravi violazioni, tra cui relazioni sessuali ingannevoli con attiviste e infiltrazioni in gruppi per la giustizia razziale. Tre mesi più tardi, nuove prove hanno suggerito che Bob Lambert, ex agente sotto copertura e figura chiave dell’inchiesta, avrebbe partecipato a un incendio doloso in un negozio Debenhams nel 1987 mentre si fingeva attivista per i diritti degli animali. Della brutalità e della spregiudicatezza della polizia francese s’è letto molto anche in Italia in questi anni, segno che questa ondata di malapolizia è sintomo delle tendenze più ampie di regimi ormai post-democratici tuttavia oltralpe è stata registrata un’infiltrazione al contrario: nel settembre 2020, la pubblicazione del libro Flic di Valentin Gendrot ha fatto scalpore. Dopo aver trascorso due anni sotto copertura nella polizia di Parigi, dove era stato assunto come dipendente a contratto (tra gli “assistenti di sicurezza”, poi ribattezzati “assistenti di polizia”), il giornalista ha descritto una quotidianità mediocre, la miseria sociale e la mancanza di rispetto per gli utenti. Soprattutto, ha accusato diversi suoi colleghi, di stanza nel 19° arrondissement di Parigi, di aver commesso atti di violenza e di averli coperti con false denunce. Le sue rivelazioni hanno indotto la magistratura ad aprire un’inchiesta. Ma questa è un’altra storia.
TRUMP II: La guerra commerciale si fa globale.
Riprendiamo e traduciamo il contribuito che i compagni di Chuang hanno dato al neonato progetto editoriale “Heatwave”.  Buona lettura. In questo primo contributo al nuovo progetto Heatwave, rispondiamo alle domande di questo collettivo sull’impatto globale delle ultime ondate di dazi americani. La panoramica completa di questa inchiesta può essere letta sul loro sito web, insieme alle risposte dei compagni di diversi Paesi, che saranno stampate come dossier, intitolato “Madness and Capitalist Civilization: International Perspectives on the MAGA 2.0 Tariffs”, che sarà allegato al secondo numero della rivista.  La guerra commerciale di Trump è tornata: più grande, più rumorosa e in qualche modo ancora più stupida. Alcuni dicono che questa volta è diversa. Ma come per la maggior parte dei sequel, la trama è familiare. I personaggi sono logori. I registi sembrano decisi a girare sempre le stesse scene. Come finirà? Probabilmente in modo molto simile all’originale. Mentre i “Trump I” aveva attaccato i grandi partner commerciali come la Cina e l’Europa, il “Trump II” ha aperto il fuoco contro l’ordine globale stesso e questa volta il sistema ha risposto. La guerra commerciale, un eterno déjà-vu.  Nel 2018, l’amministrazione ha lanciato una raffica di dazi sulla Cina, sostenendo che avrebbe frenato anni di “abusi” cinesi nei confronti dei lavoratori americani. Pechino ha reagito in modo più limitato e cauto, e l’intera vicenda si è trascinata in negoziati estenuanti. Nel gennaio 2020 è stato firmato l’accordo di “fase uno”, con la Cina che si è impegnata ad aumentare gli acquisti di beni statunitensi, nel tentativo di soddisfare uno dei principi fondamentali della teoria commerciale trumpiana: comprare americano. Un accordo di “fase due” è stato ventilato ma non si è mai concretizzato. Cosa è successo in seguito? Il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina è diminuito per un breve periodo… per poi risalire quando Biden è entrato in carica nel 2021, proprio quando la pandemia ha messo a soqquadro i flussi commerciali globali. Biden, da parte sua, ha tranquillamente mantenuto in vigore la maggior parte delle tariffe cinesi di Trump, segnalando una continuità piuttosto che un’inversione di tendenza. In sintesi, la presidenza Trump I si è conclusa con un piagnisteo: due accordi poco convincenti, una manciata di fabbriche dubbiamente “rilocate in patria” (per lo più nei comunicati stampa), gli agricoltori sono stati salvati e il deficit commerciale si è a malapena ridotto. Alla fine, le linee di battaglia sono tornate quasi esattamente al punto di partenza. Mentre i primi passi del Trump II insistono sulla terra bruciata americana, possiamo aspettarci  che il copione sia simile al passato: forti minacce, vaghe speranze di nuovi accordi, modesti cambiamenti nei modelli di acquisto e, nel migliore dei casi, un’ammaccatura marginale in quello che rimane uno sbadiglioso deficit commerciale tra Stati Uniti e Cina. Questa volta, però, Trump si sta scagliando con più forza non solo contro la Cina, ma contro lo stesso sistema economico globale. Ne sta mettendo alla prova i limiti, si sta scagliando in ogni direzione e sta facendo arrabbiare alcuni funzionari del capitale globale. Tuttavia, a meno che non si verifichi una vera e propria rottura, come l’innesco di un contagio finanziario o l’azionamento del “grande bottone rosso”, il sistema, ancora una volta, assorbirà lo shock e tornerà indietro. Trump ne ha già avuto un piccolo assaggio dopo aver sparato i primi colpi nel “giorno della liberazione”: i mercati hanno preso una brutta piega e i deficit si sono allargati, finché non ha fatto dei passi indietro, ammorbidendo le minacce tariffarie e promettendo di risolvere le turbolente onde macroeconomiche con una serie di accordi commerciali. Ma i rapporti globali di produzione non possono essere ricostruiti da un giorno all’altro, né con l’innalzamento di barriere commerciali né con una serie di accordi “buy American”. Non si può semplicemente imporre un dazio su una lavatrice e aspettarsi che le catene di approvvigionamento mondiali, costruite nel corso di decenni, invertano le loro correnti a comando.  La saga della soia Nella stagione Trump I, gran parte dell’azione si è concentrata sulla saga della soia. Dopo l’imposizione dei dazi iniziali, la Cina ha imposto tariffe di ritorsione sui semi di soia statunitensi e ha ridotto drasticamente gli acquisti. Le importazioni dal Brasile sono aumentate, tanto che nel 2018 il Brasile ha fornito l’82% della soia cinese, mentre la quota di mercato degli Stati Uniti è crollata. Ma la storia non è finita lì. I semi di soia americani non sono semplicemente scomparsi. Sono stati dirottati verso altri mercati come Messico, Egitto e Sud-Est asiatico, spesso a prezzi più bassi. La Cina, nel frattempo, aveva ancora bisogno di soia per alimentare la sua enorme industria suinicola e alla fine ha ripreso ad acquistare dagli Stati Uniti, nonostante i. dazi e tutto il resto, soprattutto nei periodi di bassa stagione quando l’offerta brasiliana era scarsa.  La struttura di base del commercio globale non è crollata. I materiali dirottati hanno continuato a fluire nella stessa direzione generale, venduti dagli stessi consorzi di aziende consolidate e acquistati dagli stessi clienti, solo con un maggior numero di intermediari. Il risultato reale è stato un “gioco della sedia” globale, non un disaccoppiamento rivoluzionario. Il “triangolo della soia” tra Stati Uniti, Brasile e Cina si è dimostrato straordinariamente resistente, a riprova del fatto che le profonde catene di approvvigionamento e le dipendenze agricole non vengono annullate da qualche minaccia in conferenza stampa e dall’aumento delle tariffe. La vita è andata avanti. I lavoratori cinesi hanno pagato di più la carne di maiale. Gli americani hanno pagato di più per l’elettronica. L’economia mondiale si è adattata, perché è questo che fa. Per costruire le reti di produzione che alimentano “Chimerica” ci sono voluti almeno trent’anni. Le fabbriche sono state messe a punto per servire i mercati esteri. Acquirenti e fornitori hanno sviluppato fiducia, contratti e canali logistici che non possono essere facilmente liquidati con un ordine esecutivo. Ad oggi, quindi, possiamo ipotizzare che Trump si accontenterà probabilmente – proprio come ha fatto l’ultima volta – di un modesto aumento degli acquisti e dei prezzi da parte della Cina e degli alleati, concordato attraverso una serie di accordi a Mar-a-Lago. Il copione seguirà probabilmente il regime tariffario delineato dal consigliere Stephen Miran, dividendo alleati e avversari in diversi “cestini” definiti dal loro livello di accesso al mercato (e forse anche dagli accordi di sicurezza) – con la Cina scaricata in quello più punitivo, ovviamente.  In ultima analisi, però, il vero dramma delle guerre commerciali non si svolge tra i container, ma nelle forze sottostanti che li fanno muovere, tra cui le correnti finanziarie basate sul dollaro che trascinano le merci in tutto il mondo, le condizioni di lavoro massacranti che le fanno fluire e i sottili margini di profitto che tengono a galla l’intero sistema. Questi sono i meccanismi profondi del sistema e, quando vengono spinti con sufficiente forza, si ribellano.  Può l’ascesa salariale cinese allontanare la guerra commerciale? Ancora all’inizio del primo atto, il balbettio dei dazi iniziati, sospesi, reiniziati e nuovamente sospesi stava aggiungendo instabilità alla già traballante economia cinese. Le esportazioni cinesi continuano comunque a sbarcare negli Stati Uniti, anche se a prezzi più alti, o a riversarsi su mercati alternativi in Europa o nel Sud-Est asiatico. Finora, i dazi non hanno esercitato alcun impatto reale sulla struttura di base del commercio globale.  Le turbolenze sono comunque importanti, soprattutto per i lavoratori. Anche una modesta flessione del motore delle esportazioni cinesi minaccia il sostentamento di milioni di persone che dipendono dal suo incessante funzionamento. Come riporta il Wall Street Journal, le esportazioni costituiscono circa il 13% del PIL cinese e le sole esportazioni verso gli Stati Uniti ne rappresentano quasi un quarto, pari a quasi il 3% dell’intera economia cinese. Gli analisti prevedono che le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti subiranno un duro colpo e che le esportazioni totali della Cina diminuiranno fino al 10% quest’anno. Sebbene possa sembrare poco, questo colpo si abbatterà anche sul mercato del lavoro: le tariffe potrebbero mettere a rischio fino a 15,8 milioni di posti di lavoro cinesi nei settori manifatturiero, logistico, delle materie prime e finanziario. Questo si aggiunge a una lenta ondata di fallimenti nel settore manifatturiero negli ultimi anni, che ha portato a un aumento degli scioperi difensivi e dei casi di arbitrato sul lavoro, e a tassi di disoccupazione storicamente elevati, soprattutto tra i giovani che stanno entrando nel mondo del lavoro.[1]  Un’altra soluzione proposta per assorbire la produzione della vasta base industriale cinese orientata all’esportazione è quella di reindirizzarla all’interno, verso il mercato interno. Le crescenti minacce al motore delle esportazioni cinesi hanno riacceso le richieste, sia all’interno che all’esterno del Paese, di una riforma macroeconomica volta ad aumentare i consumi interni. Sebbene possa sembrare assurdo, vista l’enorme capacità di esportazione della Cina, è proprio ciò che molti esperti di politica economica hanno chiesto. Per alcuni analisti cinesi, incrementare i consumi interni significherebbe rendere l’economia cinese meno dipendente dai mercati esteri. I capitali stranieri sperano anche che la Cina “consumi” internamente almeno una parte dei prodotti che normalmente produce per l’esportazione. Alcuni sostengono addirittura che questo spostamento porterebbe a una crescita dei salari cinesi e aprirebbe ulteriormente i mercati cinesi agli investimenti e ai prodotti stranieri (dai formaggi e i vini europei agli aerei e ai programmi televisivi americani), a spese dei produttori cinesi, mettendo così più soldi nelle mani dell’industria occidentale.[2]  Ma anche gli esperti sanno che si tratta di una chimera che non si è mai avverata, nonostante anni di promesse.[3] Un aumento significativo dei consumi delle famiglie richiederebbe cambiamenti strutturali sistemici, come l’aumento dei salari, l’espansione della sicurezza sociale e lo smantellamento della vasta infrastruttura finanziaria costruita attorno a politiche favorevoli ai produttori. Ma questi cambiamenti intaccherebbero i margini di profitto e rischierebbero di far fallire innumerevoli aziende (già in difficoltà). Dall’inizio degli anni 2010, i tassi di profitto sono diminuiti sia nell’economia cinese nel suo complesso che nei settori industriali in particolare. Il declino è stato particolarmente forte in settori come quello dell’abbigliamento, ad esempio, che ha portato a un flusso quasi continuo di delocalizzazioni nell’ultimo decennio. In settori più difficili da delocalizzare come l’elettronica, la concorrenza spietata ha portato la redditività ai minimi storici. Nel frattempo, in settori come quello dell’acciaio, molte aziende (siano esse nominalmente di proprietà dello Stato o private) sono state tenute in vita solo grazie a sussidi e accordi di acquisto mirati. Di conseguenza, l’attuazione del tipo di politiche sociali necessarie per elevare i consumi richiederebbe sia uno stimolo impossibile e massiccio per evitare i fallimenti, sia la rapida creazione di catene di approvvigionamento offshore attraverso investimenti diretti da parte delle imprese cinesi, in grado di reimmettere nel mercato cinese beni di consumo a prezzi ridotti. Tuttavia, non esiste una soluzione a breve termine e anche questa trasformazione strutturale a lungo termine rappresenterebbe un rischio enorme, con il rischio di rallentare la crescita e di generare nuove forme di instabilità sociale.[4] In definitiva, è più probabile che lo Stato compri la capacità in eccesso dalle aziende (cosa che ha già fatto per anni con la capacità in eccesso nell’industria siderurgica) prima di spingere per aumenti salariali diffusi e sostanziali. A titolo di esempio, la Cina sta attualmente elaborando il suo 15° Piano quinquennale. Se si guarda al 13° piano (2016-2020), l’amministrazione si era già impegnata a bilanciare le importazioni e le esportazioni, una mossa salutata come una svolta verso una crescita più sostenibile e guidata dai consumi.[5] Quasi un decennio dopo, tuttavia, il divario delle esportazioni si è solo ampliato. Il mercato interno rimane incapace, allo stato attuale, di assorbire i volumi delle esportazioni e le fantasie dei media sul riorientamento delle merci verso l’interno ignorano per lo più la matematica di base. Prendiamo ad esempio gli ombrelli. Quelli destinati all’esportazione lasciano i porti cinesi a una valutazione media di 3-4 dollari USA per ombrello (21-29 yuan),[6] mentre l’ombrello medio viene venduto dalla fabbrica ai grossisti nazionali a circa 10 yuan.[7] La Cina produce circa 1,2 miliardi di ombrelli all’anno, 900 milioni dei quali vengono esportati,[8] e gli Stati Uniti sono il principale acquirente.[9] Per fare un riferimento all’economia cinese nel suo complesso, la dimensione totale delle esportazioni è pari a circa la metà del consumo domestico annuo.[10]  Nessuno, nemmeno Trump, sta suggerendo che la Cina debba smettere di vendere al mondo. Tuttavia, nonostante anni di retorica ufficiale sul riequilibrio dell’economia verso i consumi interni, le dimensioni del settore delle esportazioni cinese rendono straordinariamente difficile qualsiasi serio cambiamento di direzione, soprattutto in questo precario momento storico. Anche un aumento sostanziale della spesa delle famiglie non sarebbe in grado di sostituire la domanda attualmente fornita dai mercati globali. L’ascesa economica della Cina dipende fondamentalmente dagli acquirenti stranieri e, soprattutto, dalla volontà del mondo sviluppato di continuare ad acquistare beni cinesi. Trump può inveire contro lo squilibrio quanto vuole, ma al massimo otterrà piccole concessioni, qualche acquisto simbolico di beni americani e una nuova serie di promesse televisive.[11] Affondare o servire La guerra commerciale probabilmente scatenerà una nuova ondata di scioperi e agitazioni dei lavoratori in Cina, se non lo ha già fatto. Ma l’impatto non sarà limitato alla manodopera cinese. Dovremmo anche aspettarci che acceleri i piani delle aziende per diversificare le loro catene di approvvigionamento in tutta l’Asia, con nuovi hub in Vietnam, Indonesia e persino in India. Di conseguenza, si verificheranno nuove ondate di scioperi tra i lavoratori più giovani, proprio come quelle che hanno seguito ondate simili di delocalizzazione industriale nel corso del XX secolo in luoghi come l’Italia, la Corea del Sud e, naturalmente, la stessa Cina. Ma non si tratta di spostamenti notturni. Si sviluppano lentamente, come una marea mutevole che scolpisce nuovi contorni in un vecchio litorale. Allo stesso modo, non c’è alcuna garanzia che anche queste soluzioni di “friendshoring” (rilocalizzare la produzione in paese “amici”) siano considerate accettabili in un ambiente politico sempre più instabile. Si guardi al caso di Apple, che ha avviato investimenti in India nel 2016 spinto dalle pressioni del Trump I per poi sentirsi dire dallo stesso Trump nel 2025 “Non voglio che tu costruisca in India” [12]. La struttura generale della produzione globale può rimanere in gran parte intatta, ma le linee di frattura si stanno allargando.  Allo stesso tempo, mentre la situazione economica della Cina peggiora, la condizione proletaria cinese sembra simile a quella degli Stati Uniti, anche se forse si sviluppa a un ritmo più veloce: lavori di servizio senza senso e vite isolate con poche speranze per i figli, la famiglia o la comunità. Nessun futuro. Quando il tasso ufficiale di disoccupazione giovanile urbana della Cina ha recentemente raggiunto il 16,9% (molto più alto se si considerano le popolazioni rurali), il governo ha subito invitato i giovani cinesi a lanciarsi nel volontariato e a dedicarsi alla modernizzazione della Cina, senza alcuna retribuzione. Questo è il classico paternalismo dello stato, solo uno dei tanti “vaffanculo” alla sofferenza vissuta dai giovani cinesi negli ultimi anni, emersi dall’incubo della pandemia solo per non trovare alcun sollievo, ma piuttosto una crisi economica ad attenderli dall’altra parte. Durante la pandemia, i giovani cinesi hanno coniato termini come neijuan (内卷 o “involuzione”), una reazione di disgusto paralizzante verso l’infinito e competitivo criceto-lavoro, e tangping (躺平 o “sdraiarsi”), un rifiuto passivo di partecipare al gioco. Il governo ha risposto direttamente alla diffusione di questi slogan in discorsi e altre dichiarazioni pubbliche, e la replica è stata brutale: non ci sarà nessuno che si sdraia. Alzatevi, e tornate al lavoro. Eppure, il problema di fondo rimane: che aspetto avrà il lavoro per questa generazione, mentre la deindustrializzazione accelera e la crescita continua a rallentare? Contro la marea dei dollari Una delle caratteristiche più strane della rottura aggressiva di Donald Trump con le norme egemoniche degli Stati Uniti è quanto essa metta in evidenza la forza del sistema globale che lui stesso afferma di voler contrastare. Nonostante tutto il parlare del declino americano, i dazi e le minacce di Trump non hanno fatto altro che sottolineare quanto siano profondamente radicate le fondamenta del dominio statunitense. Questo è particolarmente evidente nel ruolo del dollaro. Il capitalismo globale non funziona senza una valuta guida: l’oro nel XIX secolo, la sterlina all’inizio del XX, il dollaro oggi. Ma questo pone un dilemma: gestire la valuta globale significa, per così dire, lasciare entrare il resto del mondo in casa propria. Gli Stati Uniti aprono il loro sistema finanziario — i mercati, il settore immobiliare, i titoli di Stato — a chiunque abbia dollari da spendere. È il prezzo da pagare per emettere la valuta di riserva globale. Significa accettare un’estrema apertura, convertibilità legale e flessibilità dei conti capitali che nessun altro Paese è disposto a tollerare. Sicuramente non la Cina. Pechino non permetterà agli investitori stranieri di muoversi liberamente nella propria economia, acquistando terreni, aziende o debito a piacimento (come gli Stati Uniti consentono più o meno). Il governo cinese vuole ottenere surplus commerciali senza l’esposizione strutturale che comporta essere un hub finanziario globale. Ed è per questo che — anche mentre Trump lancia minacce di dazi — la banca centrale cinese continua silenziosamente a reinvestire i dollari delle esportazioni in titoli del Tesoro statunitensi, senza fare alcuna mossa per offrire il renminbi come valuta di riserva alternativa. Non perché ami l’America, ma perché non c’è nessun altro posto dove parcheggiare quella quantità di denaro in modo sicuro e su larga scala. Anche se i BRICS escogitassero un nuovo meccanismo di compensazione, sarebbe poco più di una piccola isola in un oceano di dollari — utile per gestire alcuni flussi intra-blocco, ma impotente contro il richiamo della marea del sistema globale del dollaro, che ancora domina commercio, finanza e riserve. Il sistema del dollaro resta l’unica opzione e, per di più, c’è Trump là fuori a difenderlo. Infatti, ha minacciato dazi del 100% contro i Paesi BRICS quando la Russia ha proposto un’alternativa valutaria BRICS per bypassare il dollaro. Un recente studio cinese prevede che, anche entro il 2050, il renminbi potrebbe rappresentare solo circa il 10% delle riserve globali, rimanendo ben lontano dal dollaro. Alla fine del 2024, il dollaro rappresentava ancora quasi il 58% delle riserve valutarie mondiali, seguito dall’euro con circa il 20%, dallo yen giapponese con quasi il 6% e dal renminbi fermo poco sopra il 2% (più o meno al pari del dollaro australiano e canadese). In altre parole, anche dopo decenni di discorsi sulla multipolarità e sull’internazionalizzazione, il dollaro resta onnipresente, lasciando il sistema finanziario mondiale immerso in un mare di dollari ancora per molto tempo. Senza una seria alternativa all’orizzonte, l’intera economia globale — inclusi gli stessi Stati Uniti — rimane in balia delle maree volatili dei flussi valutari (in gran parte basati sul dollaro). Anche Trump lo ha capito: quando ha iniziato a scuotere troppo i mercati, in particolare quello dei titoli del Tesoro, i suoi alleati più ricchi gli hanno fatto capire che stava facendo oscillare troppo la barca, e lui ha fatto marcia indietro. Trump potrebbe anche essere tornato al timone della nave, cercando di manovrare il gigantesco e lento vascello dell’economia statunitense, ma sta comunque navigando in un oceano di dollari che obbedisce a correnti più profonde di qualsiasi timoniere.  Ribaltare il copione Come in ogni sequel, una campagna pubblicitaria appariscente piena di azione è di solito un segnale sicuro che il prodotto finale prometterà troppo e manterrà poco. Per i comunisti, c’è almeno una lezione semplice: non bisogna scambiare il caos delle élite per un cambiamento trasformativo. Le guerre commerciali possono scuotere il sistema, ma spesso si concludono con compromessi parziali e accordi dietro le quinte. Il nostro lavoro è altrove — sul terreno, costruendo reti di amici e compagni oltre i confini, e sviluppando un’intelligenza collettiva orientata alla creazione di un altro mondo. Mentre il sistema prosegue a fatica, passando dalle minacce di dazi alla guerra vera, non ci basterà resistere: ci servirà immaginazione. Se Trump può cercare di riscrivere l’ordine globale da un resort di golf, allora possiamo sicuramente osare di immaginare qualcosa di meglio. Il futuro non è loro per diritto acquisito. È uno spazio conteso, e dovremmo trattarlo come tale. Note: [1] La disoccupazione giovanile urbana ha raggiunto il picco nel 2023, attestandosi intorno al 20%. Tuttavia, questa misura non escludeva sistematicamente tutti gli studenti ed è stata sospesa nell’estate del 2023. È stata poi sostituita, all’inizio del 2024, da un nuovo indicatore con fasce d’età più dettagliate e un’esclusione più rigorosa degli studenti. Secondo questa nuova misura, il tasso di disoccupazione per i non studenti tra i 16 e i 24 anni è inizialmente diminuito per poi tornare a salire nel 2024, raggiungendo il 18,8% nell’agosto 2024 e scendendo leggermente al 16,5% nel marzo 2025. Analogamente, il tasso di disoccupazione per i non studenti tra i 25 e i 29 anni è passato dal 6,1% nel dicembre 2023 al 7,3% nel febbraio 2025. Tutti i dati citati provengono dalla serie mensile “Tasso di disoccupazione rilevato nelle aree urbane” (城镇调查失业率) pubblicata dall’Ufficio Nazionale di Statistica, disponibile in inglese e in cinese. [2] The Economist, ad esempio, ha sostenuto che gli sforzi del governo cinese per stimolare il consumo interno avrebbero riacceso l’interesse degli investitori stranieri: “Can foreign investors learn to love China again?” (27 marzo 2025). Analogamente, la Camera di Commercio Europea in Cina considera l’aumento dei consumi cinesi come un’opportunità per i marchi stranieri, affermando che l’incapacità di stimolare la domanda interna “è diventata una delle principali preoccupazioni per le aziende europee, le cui conseguenze si stanno ormai ripercuotendo sul resto del mondo”: European Business in China Position Paper 2024/2025 (p. 13). Nel frattempo, anche il governo cinese e i media ufficiali promuovono frequentemente l’aumento del potere d’acquisto interno come occasione per i marchi stranieri di trarre profitto, ad esempio nell’articolo di Fan Feifei, “Consumers pull out all stops for high-quality, foreign brands”, China Daily Global (16 settembre 2024). [3] Uno dei tanti esempi risale all’amministrazione Hu–Wen di oltre un decennio fa: Kevin Yao e Aileen Wang, “China bets on consumer-led growth to cure social ills”, Reuters (5 marzo 2013). [4] Proprio per questo motivo, importanti teorici del Partito come Wu Zhongmin, economista e professore di punta presso la Scuola Centrale del Partito (dove si formano i funzionari di più alto livello), hanno ripetutamente messo in guardia contro i pericoli di una spesa eccessivamente egualitaria per i servizi sociali, esortando i leader ad evitare il percorso seguito dall’Europa. In un recente libro, Why is Social Justice Possible? Social Justice Issues during China’s Period of Transition(Springer Nature, 2024), Wu afferma: “In alcuni paesi sviluppati europei, l’egualitarismo si manifesta sotto forma di sistemi di welfare che superano di gran lunga ogni limite ragionevole” (p. 299); e: “Anche nei paesi sviluppati europei e americani, la crescita dei servizi pubblici ha prodotto problemi sociali irrisolvibili… Durante quest’era di spesa pubblica, la crescita economica dei paesi europei è stata molto più lenta” (pp. 368-369). Se una politica simile fosse adottata in Cina, Wu avverte che “le persone diventerebbero generalmente apatiche nei confronti del lavoro. Alla fine, la società perderebbe la propria vitalità e il potenziale di sviluppo sociale” (p. 369). [5] L’incremento del consumo interno è da tempo un obiettivo dichiarato della politica cinese, e il 13° Piano Quinquennale è solo uno dei tanti documenti che riflettono questa intenzione. In quel piano, il governo menziona esplicitamente l’obiettivo di bilanciare importazioni ed esportazioni, sebbene in termini vaghi e flessibili. Vi si fa riferimento a un “raffinamento della composizione delle importazioni ed esportazioni” e al mantenimento di un “equilibrio di base nei pagamenti internazionali”, lasciando aperte le modalità di attuazione. Vedi: Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme, 13° Piano Quinquennale per lo sviluppo economico e sociale della Repubblica Popolare Cinese (2016–2020)(Central Compilation & Translation Press, 2016). [6] “2024年中国伞出口数量、出口金额及出口均价统计分析” [Analisi statistica delle esportazioni cinesi di ombrelli nel 2024: quantità, valore e prezzo medio all’export], 华经情报网 (25 febbraio 2025). [7] È difficile determinare con precisione il prezzo di fabbrica degli ombrelli venduti sul mercato interno, ma questa è la nostra migliore stima. I prezzi esatti e i margini di profitto in ciascuna fase della filiera – dalla fabbrica al rivenditore finale – sono informazioni altamente riservate e inferiori ai prezzi di listino online. Questa stima di 10 yuan si basa su un breve sondaggio tra i siti di vendita all’ingrosso come Made-in-China, 1688 e Alibaba, integrato da conversazioni con persone del settore import-export. Uno di questi interlocutori ha anche osservato che molti produttori cinesi adottano un approccio rudimentale “costo più margine”, solitamente pari al costo + 5–10%. Questo approccio, pur considerato elementare nei mercati più sviluppati, riflette la forte concorrenza e le strategie improvvisate che caratterizzano il settore manifatturiero cinese, duro e volatile. [8] “雨伞市场数据深度调研与发展趋势分析报告” [Rapporto di ricerca approfondita e analisi delle tendenze di sviluppo del mercato degli ombrelli], 先略研究院 (21 maggio 2024). [9] “Umbrellas in China,” Observatory of Economic Complexity (s.d.). [10] Secondo i dati della Banca Mondiale per il 2023, la spesa finale per consumi delle famiglie in Cina ha rappresentato circa il 39,1% del PIL, mentre le esportazioni ammontavano al 19,74%. [11] Poi c’è l’altro lato della medaglia, quello finanziario del commercio, che spesso riceve meno attenzione. I profitti derivanti dalle esportazioni cinesi vengono incanalati attraverso le banche cinesi, trasferiti alla banca centrale e infine reinvestiti nel sistema finanziario statunitense tramite l’acquisto di titoli del Tesoro e altri asset denominati in dollari, completando un circuito strettamente interconnesso di commercio e finanza che funziona da decenni. È solo un altro fronte del conflitto USA–Cina, che coinvolge anche i banchieri americani – un fronte che Trump ha già provato a forzare, con scarso successo. Per ora, tuttavia, la struttura di fondo di questo sistema probabilmente resterà intatta: le merci continuano a fluire e il denaro torna alla Banca Popolare Cinese dagli Stati Uniti, con tanto di interessi. [12] Arjun Kharpal, “Trump dice di non volere che Apple produca in India: ‘Ho avuto un piccolo problema con Tim Cook’,” CNBC (15 maggio 2025). [13] Allo stesso modo, al governo statunitense non importa nulla delle condizioni lavorative generali (o della loro assenza) del cittadino medio americano. Trump e i suoi hanno usato ogni leva dello Stato per tagliare la spesa pubblica e arricchire chi è già scandalosamente ricco, senza muovere un dito per affrontare crisi come la precarietà lavorativa, l’alloggio o l’assicurazione sanitaria. In effetti, mentre il secondo mandato di Trump è iniziato con la dichiarazione di una “età dell’oro” per i ricchi, le sue istruzioni per la classe lavoratrice americana si sono sostanzialmente ridotte ad aspettare qualche anno dopo l’inizio della sua campagna tariffaria affinché si materializzasse una grande rinascita manifatturiera. Vedi: Alexandra Hutzler, “Trump says it could take 2 years before tariffs result in American manufacturing boom,” ABC News (4 aprile 2025).
El Salvador: Sei anni di Bukele con poteri ampliati, stato d’emergenza e detenzione degli oppositori
La deriva autoritaria del presidente di El Salvador. Bukele celebra il suo sesto anno di mandato e il primo dalla sua controversa rielezione, sostenendosi su un regime d’emergenza che accumula denunce per violazioni dei diritti umani e la persecuzione delle voci critiche. Da Comitato CarlosFonseca Questa domenica il presidente di El Salvador, Nayib Bukele, ha compiuto sei anni a capo dell’Esecutivo, nel quadro del primo anniversario della sua rielezione nonostante la proibizione costituzionale. Bukele guida un governo che mantiene l’economia come una sfida irrisolta, e sostiene la propria popolarità mediante uno stato d’emergenza e non avendo dubbi nel silenziare le voci critiche. Il mandatario, che coltiva un’immagine di leader moderno e di sfida, ricorre anche ai classici meccanismi dell’autoritarismo per blindare il proprio potere di fronte alla minaccia della dissidenza. Questo nuovo anniversario giunge nel momento più alto del suo consolidamento autoritario: solo a maggio, il suo governo ha arrestato almeno15 oppositori, e una dozzina di giornalisti e attivisti hanno abbandonato il paese per timore di rappresaglie. Lo scorso 19 maggio, Ruth López, avvocata anticorruzione dell’organizzazione Cristosal e una delle voci più critiche del governo, è stata arrestata per una presunta malversazione di fondi pubblici. Finora, non è stata formulata nessuna accusa formale, e continua ad essere detenuta senza che sia rispettato il dovuto processo. Simultaneamente, il governo ha approvato la Legge sugli Agenti Stranieri, strumento che permette al governo di controllare e di restringere l’attività di organizzazioni che mettono in discussione la sua politica di sicurezza e la sua legalità. Con doppia nazionalità, salvadoregna e statunitense, Bukele è giunto al potere nel 2019 e si è trasformato nel primo presidente del paese a sfidare apertamente la Costituzione cercando ed ottenendo la rielezione. Durante questo secondo periodo, ha promesso di “sanare” l’economia dopo, secondo lui, aver curato il paese dal “cancro” della violenza delle pandillas. Bukele ha ottenuto la sua rielezione appoggiandosi su uno stato d’emergenza -una misura straordinaria adottata nella sua lotta contro le pandillas- che da anni sostiene, e ha mandato alle stelle la propria popolarità avendo ridotto gli indici di violenza, arrestando circa 87.000 persone. Questo meccanismo è stato segnalato da molteplici organizzazioni per le sistematiche violazioni dei diritti umani, incluse detenzioni arbitrarie. Dalla sua implementazione, l’Assemblea Legislativa -dominata dal partito governativo Nuevas Ideas- ha prorogato lo stato d’emergenza per periodi di 30 giorni in 39 occasioni. In questo contesto, si sono registrate più di 400 morti di persone sotto la custodia statale e più di 6.000 denunce di violazioni dei diritti umani. Nonostante il suo discorso trionfalistico, i sondaggi indicano che, già alla fine del suo primo mandato, la principale preoccupazione della popolazione ha smesso di essere la sicurezza ed è diventata la situazione economica: durante la sua gestione, El Salvador è rimasto indietro nella crescita economica nella regione e, secondo cifre ufficiali, la povertà generale è passata dal 22,8 al 27,2 per cento delle famiglie. 2 giugno 2025 Página 12 * Immagine: Prigionieri nel Centro di Confino contro il Terrorismo a Tecoluca, El Salvador. (Ufficio stampa della presidenza di El Salvador attraverso AP, Archivio) tratto da Kaos en la Red