Vittoria dei lavoratori solidali con la Palestina al porto Fos-sur-mer di
Marsiglia, dove i portuali francesi della CGT si sono rifiutati di caricare 14
tonnellate di munizioni e pezzi di ricambio per fucili mitragliatori
israeliani su una nave cargo della compagnia ZIM diretta ad Haifa.
La nave è dovuta ripartire vuota di armamenti israeliani, e vuota farà tappa
sabato a Genova soltanto per un “rifornimento tecnico”. Anche nel capoluogo
ligure era stata annunciata una mobilitazione contro il genocidio e per la
Palestina dai portuali del CALP e dal sindacato di base Usb.
Alle 18 di questo venerdì la conferenza stampa dei portuali del CALP e di Usb
Porto. Posticipato invece il presidio a domani, sabato, alle 8 del mattino al
varco di Ponte Etiopia di Genova per “sorvegliare” i movimenti della nave.
L’aggiornamento con Josè Nivoi, del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di
Genova e di Usb. Ascolta o scarica.
da Radio Onda d’Urto
Source - InfoAut: Informazione di parte
Informazione di parte
Nel 1525 gran parte dell’Europa centrale è stata infiammata da una rivolta
sociale: i contadini si sollevarono contro coloro che governavano le loro vite.
Cosa spinse questa rivolta, quale fu il ruolo della religione, quali visioni di
una società futura conteneva, e perché fu sconfitta?
di Martin Empson, da Antropocene.org
Uno degli aspetti più interessanti per chi studia la guerra dei contadini
tedeschi, il grande movimento rivoluzionario che ha attraversato la Germania
centrale nel 1524 e 1525, è che le richieste del movimento sono state registrate
in modo molto dettagliato. Le più famose sono quelle raccolte nei Dodici
Articoli, scritti nella città tedesca di Memmingen dai delegati degli eserciti
contadini nel marzo del 1525. Esistono innumerevoli altri documenti di questo
tipo.
Nelle loro richieste, i contadini rivoluzionari esprimevano la loro opposizione
alla servitù della gleba, allo sfruttamento e all’oppressione. Ma poiché la
ricchezza nella società feudale era basata sulla proprietà della terra, i
contadini dovettero affrontare un altro aspetto fondamentale del loro
sfruttamento: il rapporto della società con il mondo naturale. Alcuni di questi
aspetti si riflettono nelle richieste di rendita e di accesso alla terra. Ma più
esplicitamente i contadini spesso sollevavano richieste che evidenziavano il
loro rapporto con la natura e il modo in cui pensavano di doverla usare. Due
dei Dodici Articoli rendono esplicito questo aspetto:
«È stato uso finora che a nessun povero fosse permesso di catturare selvaggina,
volatili, o pesci in acque correnti, il che ci appare assai ingiusto e contrario
al buon vicinato, e per di più egoista e contrario alla Parola di Dio. Vi sono
luoghi dove i signori conservano la selvaggina con nostro enorme danno e
patimento. Ci tocca sopportare che bestie dissennate divorino sfrenatamente e
senza ragione i nostri raccolti, fatti crescere da Dio perché gli uomini se ne
servano; sarebbe empio e contro ogni norma di buon vicinato tacere questo
abuso».
L’articolo prosegue:
«Quando infatti Dio nostro Signore creò l’uomo, gli concesse il dominio su tutti
gli animali, sugli uccelli dell’aria e i pesci delle acque. Noi dunque chiediamo
che se qualcuno ha delle acque egli debba provare con documenti adeguati che
quell’acqua gli sia stata volontariamente venduta … Ma chi non sia in grado di
produrre prove conformi dovrà cedere debitamente le acque alla comunità».
Il Quinto Articolo sviluppa questo tema:
«Abbiamo una rimostranza riguardo al taglio della legna, poiché i nostri signori
si sono appropriati dei boschi … A nostro avviso i boschi tenuti dai signori,
sia ecclesiastici che secolari, senza che questi ne abbiano fatto acquisto,
devono ritornare all’intera comunità. La comunità dovrebbe essere libera di
consentire a tutti, ordinatamente, di usare gratuitamente quanto necessitano per
il fuoco domestico».
Anche in questo caso non viene contestata la proprietà privata delle risorse
naturali, ma piuttosto la sua ingiusta proprietà:
«Se la proprietà era stata venduta in seguito a un esproprio arbitrario verrà
raggiunto un accordo secondo le circostanze del caso e i precetti dell’amore
fraterno e della Sacra Scrittura».
Il decimo articolo si oppone alla recinzione (privatizzazione) delle terre e
delle risorse:
«Siamo afflitti per il fatto che alcuni si sono impadroniti dei prati o dei
campi arabili che un tempo appartenevano alla comunità. Noi li restituiremo alla
proprietà comunale, salvo che siano stati debitamente acquistati».
Queste e altre richieste simili non furono avanzate solo nei Dodici Articoli.
Nei sessantadue articoli dei contadini di Stühlingen, un’area in cui la rivolta
era iniziata nell’estate del 1524, i contadini sollevarono una serie di
lamentele specifiche su come veniva loro permesso, o limitato, l’uso delle
risorse naturali:
Articolo 14: «La foresta demaniale e altri boschi sono stati sottratti al nostro
uso,contrariamente all’antica tradizione».
Articolo 16: «Abbiamo molte proprietà e prati liberi attraverso i quali scorre
l’acqua corrente; finora l’abbiamo usata secondo le nostre necessità per la
macinazione o per irrigare i prati, così come le acque che sono comuni a tutti;
ma negli ultimi anni i nostri signori ci hanno tolto queste acque e non ci
permettono di usarle; invece le affittano ai pescatori che poi arrecano notevoli
danni alle nostre proprietà».
Articolo 28: «Ci è stato proibito di tagliare e bruciare stoppie e le erbacce
sui pascoli e sui prati in primavera, contrariamente alla consuetudine».
Nel 42° articolo, i contadini di Stühlingen si lamentavano del fatto che i
signori potessero costruire recinzioni per creare delle riserve di selvaggina
sulle loro terre. Ma i contadini non possono liberarle senza essere puniti e la
selvaggina distrugge i loro raccolti.
Centinaia di esempi simili si trovano in decine di altri documenti dei ribelli.
La terra, l’acqua, le risorse naturali, gli animali selvatici e il legname
caduto erano diventati un motivo di lotta di classe, poiché le classi
proprietarie terriere stavano recintando, privatizzando e controllando la natura
nel loro interesse. Questo processo era in corso e spesso significava la
distruzione o lo smantellamento dei diritti consuetudinari su cui i contadini
avevano fatto affidamento per secoli.
Questo processo non è inaspettato. Eventi simili si stavano verificando in tutta
Europa. Rifletteva i cambiamenti nell’economia feudale, che vedeva elementi
della società feudale considerare sempre più l’impresa privata come un modo per
massimizzare la propria ricchezza. In questo senso, gli albori del capitalismo
gettarono i semi di una grande rivolta, perché c’era una contraddizione tra gli
interessi economici delle classi dominanti feudali e il modo in cui i contadini
volevano utilizzare la natura per le loro comunità.
Nel suo recente resoconto della ribellione, Lyndal Roper pone le rivendicazioni
sull’uso della natura al centro della rivolta. Egli scrive: «Per i contadini la
terra era un ambiente di lavoro, per i signori era un luogo di piacere e una
risorsa da sfruttare per il profitto[1]». Secondo l’autrice, i contadini
«volevano che le decisioni fossero prese collettivamente e che le risorse
naturali fossero gestite in modo da rispettare l’ambiente che Dio aveva creato».
In seguito afferma che «le rimostranze dei contadini si concentravano
sull’ambiente naturale, sulla creazione stessa». Anche altri cambiamenti
economici stavano avendo il loro impatto. Come nota Roper, l’attività mineraria
stava inquinando i fiumi. La domanda di combustibile per il crescente numero di
processi industriali su piccola scala aveva un impatto sulle foreste.
Si trattava di un mondo in cui la natura esisteva per l’uso degli esseri umani,
che si trovavano al di sopra e separati dalla flora e dalla fauna [poste] sotto
di loro. Un buon esempio di questo pensiero è dato da Keith Thomas, che cita una
poesia del XVII secolo:
Il fagiano, la pernice e l’allodola
volano alla tua casa, come già all’Arca.
Il bue volenteroso, da sé si reca,
con l’agnello, al suo massacro;
e ogni bestia qui si porta
quale offerta.
Thomas parla specificamente dell’Inghilterra dei Tudor e degli Stuart, ma le sue
idee sono rilevanti per la Germania del XVI secolo. La teologia insegnava che la
natura era stata predisposta da Dio ad uso dell’umanità. Ogni pianta e animale
aveva un ruolo particolare. Nel 1653, Henry More poteva scrivere che gli animali
vivono solo «finché non avremo bisogno di mangiarli». Come continua Thomas: «La
teologia contemporanea forniva così le basi morali per la supremazia dell’uomo
sulla natura che all’inizio del periodo moderno era diventata l’obiettivo
accettato dell’impresa umana. La tradizione religiosa dominante non aveva nulla
a che fare con quella ‘venerazione’ della natura che molte religioni orientali
ancora conservavano».
La lotta dei contadini per il controllo della natura e delle sue risorse deve
essere compresa in questo contesto ideologico. Roper sostiene che non si
trattava di «conservazione nel senso moderno del termine, perché si riteneva che
l’ambiente fosse a disposizione degli esseri umani». Ma potrebbe portare alla
comprensione che l’ambiente deve essere protetto per il bene della comunità e
non per il profitto individuale.
D’altra parte, la classe dominante si muoveva nella direzione opposta. Anche il
suo approccio alla natura, come qualcosa da utilizzare per il profitto, si
adattava all’approccio ideologico egemone. È l’inizio di una concezione della
natura che, con l’ulteriore sviluppo delle relazioni economiche capitalistiche e
il definitivo superamento del vecchio ordine, avrebbe visto la natura come mera
parte del processo produttivo.
Come scriveva Marx nei Grundrisse, con l’avvento del capitalismo, «la natura
diviene qui per la prima volta puro oggetto per l’uomo, puro oggetto
dell’utilità; cessa di essere riconosciuta come potenza per sé; e la stessa
conoscenza teoretica delle sue leggi autonome appare soltanto come un’astuzia
per assoggettarla ai bisogni umani sia come oggetto del consumo sia come mezzo
della produzione».[2]
Detto questo, dobbiamo fare attenzione a non rifiutare totalmente l’approccio
dei contadini alla natura. La loro visione di un paesaggio post-rivoluzionario
di comuni contadine democratiche, in cui il potere dei signori feudali era stato
distrutto e le comunità di villaggio erano in grado di gestire il proprio
rapporto con la natura nell’interesse della collettività, è più vicina alla
moderna visione socialista di una società post-capitalista.
Il problema, come ha sottolineato Friedrich Engels nel suo resoconto sulla
guerra dei contadini tedeschi, era che non esistevano ancora le basi economiche
per una tale società comunitaria. I contadini non avevano la capacità di
sconfiggere i signori feudali nelle campagne, e le città non erano ancora centri
di potenziale potere della classe operaia. Tuttavia, se consideriamo il loro
desiderio di utilizzare il mondo naturale e le sue risorse nell’interesse di
tutti, attraverso l’abbattimento della servitù della gleba e la sconfitta del
feudalesimo, i contadini tedeschi del 1525 rimangono fonte di ispirazione.
La questione oggi, proprio come per i contadini del 1525, è quella del potere.
Chi aveva il potere di controllare le risorse della natura e come poteva essere
loro sottratto questo potere a beneficio dell’umanità?
Pensatori e attivisti successivi, come Karl Marx, avrebbero sviluppato
pienamente una critica del rapporto del capitalismo con la natura e del modo in
cui la natura era incorporata nel processo di accumulazione del capitale, ma
poterono basarsi sulle intuizioni e sull’attività rivoluzionaria di figure come
Michael Gaismair, che sognava e lottava per un mondo in cui la terra e il lavoro
potessero essere organizzati in modo che i più poveri potessero «essere forniti
non solo di cibo e bevande, ma anche di vestiti e di tutti i beni di prima
necessità» e che «la terra diventasse più sana» attraverso la gestione razionale
di paludi e acquitrini.
Opuure su Thomas Münzter, incitato all’insurrezione dal «presupposto dei nostri
signori e principi che tutte le creature sono di loro proprietà. I pesci
nell’acqua, gli uccelli nell’aria, le piante sulla faccia della Terra».
Note
[1] N.d.T. Sarebbe stato più opportuno parlare piuttosto di “rendita”, tranne
che non si intenda “vantaggio”.
[2] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica,
(Grundisse), Opere complete, Vol. XXIX, Scritti economici di Karl Marx luglio
1857-febbraio 1858, Editori Riuniti, Roma, 1986, p. 342. (N.d.T.)
Martin Empson è l’autore di “The Time of the Harvest Has Come!”. Revolution,
Reformation and the German Peasants’ War, pubblicato quest’anno da Bookmarks
Publications, in occasione del 500° anniversario della rivolta.
Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org
Fonte: Climate&Capitalism 23.05.2025
Costruiamo solidarietà tra le scuole contro i presidi-sceriffo…
da KSA Torino
Il 4 giugno 2025 nel cortile dell’Istituto Superiore Giuseppe Peano si è tenuto
un momento di riflessione in memoria delle vittime di femminicidio.
Un’iniziativa nata dalla nostra volontà di studenti e studentesse di opporci
alla violenza di genere, in seguito all’ennesimo femminicidio, questa volta nei
confronti di una nostra coetanea, Martina.
Durante l’intervallo sono stati appesi degli striscioni dalle scale antincendio.
Noi crediamo che non ci sia stato alcun uso improprio degli ambienti scolastici,
ma anzi la valorizzazione di un luogo comune per un fine profondamente
formativo. Eppure, a questa azione pacifica è seguita una risposta
sproporzionata: convocazioni dei genitori di chi ha partecipato alla protesta,
contestazioni procedurali, tentativi di delegittimazione dell’iniziativa. Una
reazione che si inserisce in un clima più ampio di repressione del dissenso
studentesco, spesso mascherata da esigenze di “sicurezza”. Ma quale sicurezza,
se le scuole restano fatiscenti, sovraffollate e trascurate?
Non è la prima volta che i presidi di questa città provano ad usare strategie di
questo tipo per fermare sul nascere qualsiasi forma di protesta.
Chi manifesta e si impegna per la giustizia viene troppo spesso punito, come in
questo caso, invece che valorizzato. E non ci interessa chi vuole lucrare sulle
nostre lotte, noi vogliamo unirci tra scuole e persone che vivono le stesse
condizioni per costruire qualcosa di diverso.
In un tempo in cui si accusa la gioventù di apatia, chi dimostra il contrario
viene messo a tacere. Ma noi non ci stiamo. Siamo cittadini e cittadine
consapevoli, pronti a prendere parola contro ogni forma di discriminazione e
violenza. Il gesto del 4 giugno è stato simbolico, civile e politico: un atto di
memoria e di denuncia perché non vogliamo essere costretti/e a contare i nostri
morti, che siano femminicidi o morti in alternanza scuola lavoro.
La scuola dovrebbe essere il cuore pulsante della formazione del pensiero
critico, non un luogo di repressione. Il dissenso non è un crimine, ma un valore
da coltivare. Gli studenti non sono un problema da contenere, ma una risorsa da
ascoltare. Difendiamo il diritto alla parola, alla partecipazione, all’impegno
civile. Oggi più che mai invitiamo tutte le scuole a lottare per una scuola in
cui si possa parlare di politica, delle nostre condizioni, in cui si possa
vivere veramente. Perché la partecipazione non si può punire, e la libertà non
si può negoziare.
Gli operai prendono parola: il lavoro cambia, la città si interroga
A Torino si apre una nuova fase di trasformazione industriale e non solo. Non
siamo ancora difronte a una riconversione bellica vera e propria, ma è evidente
che il governo, in linea con le direttive europee, sta ragionando su un rilancio
dell’industria attraverso il settore della difesa. In questo scenario, Torino –
storicamente città operaia e industriale – è candidata a diventare uno dei nodi
centrali di questa strategia.
La presenza di grandi gruppi come la Leonardo, attivi nella produzione di
tecnologie militari, e progetti come la Cittadella dell’Aerospazio, già
orientati al cosiddetto dual use, spingono sempre più verso una vocazione
bellica del territorio.
Il dual use non riguarda ormai solo le fabbriche ma è già in atto su scuole e
università, spingendo la formazione e la ricerca verso filiere funzionali
all’industria della difesa. In nome dell’innovazione, si formano competenze che
rischiano di essere messe al servizio della guerra.
Un altro dato ormai evidente è come la riconversione bellica ha rapidamente
preso il posto di quella verde. Dopo anni di promesse sulla transizione
ecologica e la sostenibilità industriale, oggi fondi e politiche si orientano
verso l’industria della difesa. Dove si parlava di futuro pulito, ora si
progettano armamenti. La “transizione” ci sarà, ma nella direzione opposta.
Cambiano gli impianti, aumentano le pressioni produttive, ma per quali finalità?
Che lavoro è quello che produce armi? A quale sicurezza contribuisce?
Questa trasformazione coinvolgerà inevitabilmente l’intera città, si ridisegnano
le filiere, si orientano le scelte pubbliche, si plasma la formazione, si
modifica la ricerca.
CAMBIA NON SOLO IL LAVORO CAMBIA TORINO
Il dibattito che proponiamo parte da chi questo cambiamento lo vivrà
direttamente: gli operai e le operaie delle fabbriche, chiamati ancora una volta
a vivere la contraddizione tra un diritto al lavoro sempre più sotto ricatto e
il significato sociale di ciò che si produce.
A fare da cornice a tutto questo vi è la tematica relativa al rinnovo del ccnl
dei metalmeccanici che si inserisce in un momento di grande trasformazione per
l’industria italiana. La chiusura al dialogo rispetto alle proposte di modifica
strutturali ed economiche avanzate dai lavoratori ci restituiscono l’altro
aspetto della guerra, quello interno che si abbatte contro i diritti sociali. Se
da una parte si aumentano gli investimenti sugli armamenti dall’altra su temi
centrali quali i salari, il welfare e la salute le risorse vengono dimezzate.
È ancora possibile porre un freno alla deriva bellica? È possibile immaginare
alleanze sociali capaci di riconoscersi contro e oltre la guerra?
Per rispondere alle tante domande che ci poniamo e per aprire una riflessione
cittadina su questi temi proponiamo un incontro pubblico dove lavoratrici e
lavoratori prendono parola.
Le loro voci – troppo spesso ignorate – sono fondamentali per capire cosa sta
accadendo davvero.
Il 12 giugno dalle 17.00 presso Palazzo Nuovo insieme agli operai della Lear, di
Tubiflex, di Stellantis Mirafiori, Mopar Rivalta e Leonardo discuteremo di
questo e di tanto altro con l’importante contributo di Massimo Alberti,
giornalista di radio popolare che ci illustrerà l’inchiesta sulla riconversione
bellica che ha condotto all’interno del tessuto industriale piemontese.
I portuali in Francia si rifiutano di caricare il cargo di armi per Israele:
pronti al blocco anche a Genova. Dopo il porto di Marsiglia, il cargo israeliano
prevede un primo scalo a Genova e un secondo a Salerno, prima di tornare a
Haifa, da dove è salpato il 31 maggio
da Osservatorio Repressione
Una nave cargo israeliana dovrebbe approdare oggi al porto francese di
Fos-sur-Mer, vicino a Marsiglia, per imbarcare «in segreto 14 tonnellate di
pezzi di ricambio per fucili mitragliatori» destinati all’esercito israeliano,
hanno rivelato ieri il media d’inchiesta francese Disclose e il media irlandese
The Ditch.
Il sindacato dei portuali di Fos-sur-Mer ha reagito immediatamente. In un
comunicato pubblicato ieri, la sezione Cgt dei portuali ha avvertito che «il
container non sarà caricato sulla nave», perché gli operatori non intendono
«partecipare al genocidio in corso orchestrato dal governo israeliano». Il
container con i pezzi di ricambio per l’esercito israeliano «è stato
identificato ed è stato messo da parte», si legge nel comunicato, nel quale i
portuali affermano che «il porto di Marsiglia non deve servire ad alimentare
l’esercito israeliano».
“I lavoratori portuali del Golfo di Fos e Marsiglia non parteciperanno al
genocidio in corso orchestrato dal governo israeliano”. Così i sindacalisti
francesi della Confederazione generale del lavoro (CGT) annunciano il rifiuto a
caricare il cargo di armi destinato all’esercito israeliano, come rivelato
dall’inchiesta congiunta del sito investigativo Disclose e il media irlandese
The Ditch. “Ci hanno informato che giovedì 5 giugno avrebbero caricato dal
nostro porto pezzi di ricambio per mitragliatrici che l’esercito israeliano
utilizza per proseguire il massacro della popolazione palestinese – spiega il
più rappresentativo sindacato francese – siamo a favore della pace tra i popoli
e contro tutte le guerre, dopo aver avvisato datori di lavoro e autorità
competenti, siamo riusciti a individuare questo container carico di componenti
per munizioni prodotte dall’azienda marsigliese Eurolinks. I pallet sono stati
messi da parte e i lavoratori portuali non li caricheranno sulla nave diretta a
Haifa”.
Secondo Disclose, il cargo israeliano «Contship Era» dovrebbe caricare il
materiale bellico fabbricato dalla società francese Eurolinks a destinazione
dell’azienda di armamenti Israel Military Industries, una filiale di Elbit
Systems, «una delle principali industrie israeliane del settore delle armi» che
«fornisce munizioni di piccolo e grosso calibro all’esercito israeliano», scrive
il media francese.
Dopo l’operazione di carico a Marsiglia, la nave israeliana dovrebbe poi salpare
verso sud, facendo scalo a Genova e Salerno, prima di approdare a Haifa, nel
nord d’Israele.
La spedizione di materiale militare sull’asse Marsiglia-Israele sarebbe la terza
nel suo genere dall’inizio del 2025, riporta Disclose. La prima sarebbe avvenuta
il 3 aprile scorso, la seconda il 22 maggio. Entrambe le spedizioni contenevano
decine di tonnellate ciascuna di materiale per fucili mitragliatori, tra i quali
una serie di pezzi di ricambio «compatibili con il Negev 5», un fucile
«utilizzato a Gaza dall’esercito israeliano durante il ‘massacro della farina’»,
scrive Disclose, in riferimento all’uccisione di un centinaio di civili
palestinesi durante una distribuzione di aiuti alimentari il 29 febbraio 2024.
«Di fronte al genocidio l’unica risposta possibile è la disobbedienza civile»,
ha twittato l’eurodeputata de La France Insoumise Rima Hassan, attualmente
imbarcata sulla Madleen della Freedom Flotilla diretta a Gaza. «Ovunque nel
mondo, ci si organizza per lottare contro il genocidio a Gaza», ha scritto
Manuel Bompard, deputato Lfi di Marsiglia. La deputata comunista Elsa Faucillon
si è invece chiesta come sia possibile che la Francia permetta tali consegne,
mentre «la Spagna annulla i contratti di vendita delle armi a Israele», si legge
in un suo post su X.
La rivelazione di Disclose e The Ditch è l’ultima di una serie di inchieste
pubblicate dai media francesi negli ultimi due anni sulle vendite di armi a
Israele. Nel 2023, sempre Disclose aveva rivelato come la Francia avesse
autorizzato, alla fine del 2023, la consegna di almeno 100mila pezzi di ricambio
per fucili, suscettibili di essere utilizzati a Gaza.
L’anno scorso, a fine 2024, il giornale d’inchiesta Mediapart aveva pubblicato
un rapporto del governo sulle vendite di armi francesi a Tel Aviv. Il rapporto –
che era stato tenuto segreto – rivelava che nel 2023 la Francia aveva venduto
armi a Israele per un valore complessivo di circa 30 milioni di euro. Il governo
aveva rifiutato di chiarire se tali consegne fossero avvenute prima o dopo
l’inizio dell’offensiva su Gaza. Infine, sempre Disclose aveva pubblicato nel
giugno 2024 una serie di documenti segreti, che dimostravano come il governo
francese avesse «autorizzato la consegna a Israele di equipaggiamenti
elettronici per droni» utilizzati nei bombardamenti a Gaza, materiale fabbricato
dal gigante francese dell’armamento Thales.
Ricevuta dai colleghi francesi la comunicazione del carico di armamenti dal
porto di Marsiglia-Fos, il Collettivo dei lavoratori portuali di Genova (CALP),
sostenuto dall’Usb, ha convocato un presidio ai varchi “con l’obiettivo di
impedire l’attracco della nave ZIM Contship ERA”. Come ricostruito da Disclose e
The Ditch, il cargo israeliano prevede un primo scalo a Genova e un secondo a
Salerno, prima di tornare a Haifa, da dove è salpato il 31 maggio. “Ci opponiamo
fermamente a tutte le guerre e non vogliamo essere complici del genocidio che
continua a Gaza“, scrivono nel comunicato con il quale invitano la cittadinanza
a partecipare al presidio “a fianco di chi si mobilita contro le guerre
perpetrate dai nostri governi e in solidarietà alle vittime”.
Se giovedì verrà confermato il blocco del carico annunciato dai colleghi
francesi, i portuali di Genova sospenderanno il presidio. In ogni caso
rilanciano lo sciopero generale indetto per il 20 giugno per contestare le
stesse dinamiche. “La parola d’ordine dello sciopero sarà ‘Disarmiamoli‘, ed è
stato indetto proprio contro l’economia di guerra che stiamo vivendo, che genera
impoverimento dei lavoratori”, spiega José Nivoi, del Collettivo autonomo
lavoratori portuali e USB Mare e porti, impegnati da anni nel contrasto del
transito di armi dal porto di Genova.
La manifestazione del 20 giugno a Genova partirà dal varco di San Benigno. Il
giorno dopo i portuali hanno organizzato due pullman per unirsi alla
manifestazione nazionale, a Roma, “contro l’aumento delle spese militari e la
devastazione prodotta da decenni di moderazione salariale, ora esasperata in
nome della guerra“.
Ai microfoni di Radio Onda d’Urto Josè Nivoi, del CALP e di Usb. Ascolta o
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Riceviamo e pubblichiamo da Intifada Studentesca Torino…
Stiamo assistendo ad un inquietante teatrino messo in piedi da tutto il mondo
intellettuale, dai media e dalla politica istituzionale: da un giorno all’altro,
dopo due anni di esplicita complicità con il genocidio e di diffusione di
propaganda sionista, anche i giornali più affezionati all’IDF titolano con
condanne al massacro e i partiti guerrafondai indicono manifestazioni di
carattere umanitario per “salvare Gaza”. Bisogna fare attenzione a dove è
rivolta questa improvvisa indignazione: non al nemico che minaccia la Palestina,
ovvero l’occupazione sionista, ma solo a uno dei suoi burattini, al governo e
alla persona di Netanyahu.
Non si tratta di solidarietà, nè di presa di coscienza, ma di bieco
sciacallaggio al fine di salire sul carro dei vincitori ed evitare la caduta.
Stiamo assistendo a un’operazione di salvaguardia dello status quo: condannare
il governo “israeliano” attuale, salvando i propri interessi strategici in
Palestina mettendo al riparo il sionismo che permette di portarli avanti.
Condannare Netanyahu per salvare il sionismo.
Anche Unito, dal canto suo, si sta costruendo una facciata sulle spalle della
Palestina: non ha mai rescisso gli accordi con le università sioniste e ospita
eventi esplicitamente sionisti, ma ha pensato bene di aderire come molte
università italiane al bando IUPALS, bando che avrebbe dovuto offrire borse di
studio agli studenti palestinesi, ma che si è rivelato inapplicabile per gli
studenti in Cisgiordania e inaccessibile per quelli di Gaza.
Ma qual è la ragione dietro questo cambio di passo? Fondamentalmente,
un’insofferenza sempre maggiore da parte degli Stati Uniti di Trump verso Tel
Aviv.
Infatti, le politiche del governo israeliano rischiano di compromettere
l’egemonia statunitense in Medio Oriente il cui obiettivo è mantenere la
stabilità e arginare il più possibile l’influenza di Teheran in Medio Oriente.
Netanyahu è molto più oltranzista e sta spingendo per un conflitto diretto con
gli iraniani, rischiando di spingere gli alleati mediorientali tra le braccia di
Teheran.
Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti stanno puntando sono favorevoli a un
accordo con l’Iran che eviti un conflitto regionale, ma le politiche israeliane
in Medio Oriente rischiano di mandare all’aria i piani dei Paesi del Golfo.
Avere rapporti distesi con le monarchie del Golfo è fondamentale per gli Usa per
lo sviluppo della Via del Cotone, essenziale alternativa commerciale alla Via
della Seta cinese, che vede Arabia Saudita e Israele come hub strategici e
connette Europa, Medio Oriente e India. Ma la sua realizzazione passa
soprattutto attraverso la normalizzazione dei rapporti tra sauditi e israeliani
tramite gli “Accordi di Abramo”, che però sono a un punto morto da dopo l’inizio
della campagna di Gaza.
Anche i governi dei paesi arabi stanno avendo un gran da fare nel cercare di
gestire le opinioni pubbliche interne, tutte apertamente schierate con la
Palestina, e sono in forte imbarazzo per il fatto di star comunque mantenendo
rapporti economici e commerciali con Tel Aviv. L’occupazione ogni giorno più
violenta della Striscia di Gaza sta radicalizzando sempre di più il mondo arabo,
che inizia a vedere nell’Iran e nei suoi alleati Houthi gli unici argini allo
strapotere e all’impunità israeliana.
Inoltre Israele vorrebbe sfollare oltre 2 milioni di persone verso Egitto e
Giordania, entrambi buoni alleati degli Stati Uniti, che si ritroverebbero a
dover gestire un afflusso senza precedenti di profughi che non hanno né
intenzione, né la capacità di accogliere.E’ anche per questo che le politiche
del governo israeliano rischiano sempre più di raffreddare i rapporti tra gli
Stati Uniti (che continuano comunque a inviare supporto militare ed economico a
Tel Aviv).
Netanyahu è un alleato che non riescono più a controllare e quindi adesso il
probabile obiettivo è quello di isolare il primo ministro israeliano, pur senza
mettere in discussione la legittimità di Israele in quanto partner fondamentale
di Washington.
Ed ecco qua che improvvisamente il massacro è diventato intollerabile, ed
esporsi sulla Palestina è tutto a un tratto molto più facile: non è una
casualità o un’improvvisa presa di coscienza, ma il segno di un chiaro
riallineamento geopolitico.
Sfortunatamente per le istituzioni e i partiti, abbiamo preso molti appunti in
questi due anni: sappiamo chi è mandante e complice del genocidio, chi ha
stretto le mani all’aggressore e ha condannato chi resiste. Infatti, ciò che ha
dato spazio e legittimità al sionismo e gli ha permesso di compiere quella che è
solo l’ultima manifestazione di più di 77 anni di pulizia etnica sono gli
interessi economici energetici, l’invio di armamenti, il supporto mediatico, gli
accordi di cooperazione e scambio con università, istituzioni ed aziende
sioniste.
Le loro maschere non hanno scampo, perche chi verrà estirpato non è un
Netanyahu, ma il sionismo. Israele non è infatti che una colonia illegittima,
frutto storico di un progetto piu ampio di colonialismo di insediamento, che si
caratterizza per la violenza e il saccheggio della terra palestinese; e come
tutte le colonie è destinata a cadere sotto il peso della Resistenza dei popoli
indigeni.
Forti della consapevolezza e dell’esperienza che abbiamo costruito in questi due
anni, non ci faremo ingannare e non lasceremo che venga neutralizzata la lotta
al sionismo per fare spazio agli interessi economici, alla deportazione e alla
spartizione della Palestina nel rantolo reazionario delle condanne umanitarie.
Le masse popolari hanno ereditato dalla Resistenza palestinese la speranza e la
volontà concreta di mobilitarsi per cambiare l’esistente, anche quando i
rapporti di forza sono enormemente sbilanciati.
Da pressenza di Stefano Bertoldi 28.5.25
Stress da genocidio? Se vuoi rilassarti vieni nel Bel Paese! Non è uno slogan
pubblicitario di un mondo distopico, ma potremmo rappresentarcela così
l’offerta, comprensiva di relax, tour turistici alle bellezze naturalistiche e
culturali delle Marche, di cui ha usufruito a fine 2024 un gruppo di giovani
militari israeliani in “libera uscita”, ma pur sempre scortati e protetti dalla
DIGOS per garantirne la massima riservatezza.
L’IDF, insomma, cerca varie strategie per mandare in decompressione i propri
soldati alle prese con droni che valicano corridoi e scale e che per colpirne
uno ne ammazzano altri dieci, venti o trenta, spesso bambini. In patria sono
stimati in almeno 6.500 quelli sottoposti a percorsi di psicoterapia ovvero in
un breve periodo, tre volte tanto le terapie somministrate in tutto il 2022
(fonte: ministero israeliano ripresa in Italia dall’agenzia Nova). Il centro di
riabilitazione psichiatrica del Ministero della Difesa di Israele assiste più di
64.000 soldati, tra cui 8.000 affetti da disturbi da stress post-traumatico. Per
alcuni invece, l’anomalo pacchetto turistico è stato organizzato da un’agenzia
marchigiana specializzata proprio in “itinerari ebraici marchigiani” che facendo
tappa fissa tra Fermo e Porto S. Giorgio, ha poi raggiunto anche mete
naturalistiche di grande pregio come la riviera del Conero o le grotte di
Frasassi, entrambe a poca distanza una dall’altra.
Dalla nostra inchiesta giornalistica emergono diverse testimonianze dirette che
raccontano di gruppi di giovani israeliani, con la kippah indosso, che hanno
girato di recente le Marche apprezzandone i numerosi siti naturalistici e
culturali, bellissimi e rilassanti, ma soprattutto un po’ più “defilati”
rispetto a città d’arte come Roma o Firenze. A parte le guide che hanno aperto
le porte di sinagoghe semisconosciute e altri luoghi di interesse ebraico, le
altre persone che non indossavano la kippah erano appunto gli agenti della
DIGOS. Questi turisti con particolari esigenze di riservatezza, “vengono
presentati agli albergatori – ci ha rivelato la fonte presso una di queste
agenzie specializzate – con nomi di fantasia e solo all’ultimo con quello reale,
al momento della loro registrazione. Nei siti naturalistici e culturali – ha
aggiunto – si può accedere in via riservata con visite a loro dedicate, in via
del tutto esclusiva”. Più di una guida, incuriosita dagli insoliti gruppi con
scorta al seguito, ci ha confermato la loro presenza nel fermano e il fatto che
non fossero dei semplici cittadini israeliani, ma appunto, dei militari in
libera uscita “defatigante”.
“Sono guida ambientale AIGAE” ci ha rivelato la nostra fonte “e lavoro da anni
tra il Parco del Conero e quello dei Sibillini. A inizio dicembre 2024, mentre
stavo a Sirolo sul Conero per lavoro, ho visto in paese un gruppo di giovani dai
tratti mediorientali, alcuni dei quali indossavano la kippah. Con loro un uomo
di età più matura. Erano accompagnati da un italiano mio conoscente.
Incontrandolo ho chiesto chi fossero e mi ha risposto che erano dei militari
israeliani che sotto la copertura di semplici turisti stranieri, trascorrevano
un periodo di vacanza nelle Marche, dopo essere stati impiegati in servizi
operativi a Gaza. Poi sarebbero tornati in servizio. Un periodo di
decompressione dallo stress del combattimento. Durante la loro permanenza nelle
Marche, venivano accompagnati in altre località naturalistiche e città d’arte
della regione”.
La Regione Marche, dove ad Ancona e in altri centri minori, sono attive alcune
delle più antiche comunità ebraiche italiane, con una legge regionale ha
istituito del 2021, proprio l’”Itinerario Ebraico Marchigiano” che mette a
sistema il patrimonio ebraico di 25 Comuni tra i quali Fermo, dove sembrerebbe
abbiano fatto tappa fissa i giovani dell’IDF. I militi ebrei insomma, per
superare i traumi dei massacri perpetrati pochi giorni prima contro donne e
bambini palestinesi, si ritemprano, lontani da occhi e orecchie indiscrete, con
le bellezze italiche di una regione che ha dato i natali a musicisti, pittori,
scrittori e architetti del calibro di Rossini, Raffaello, Leopardi e Vanvitelli,
solo per citarne alcuni. D’altra parte, l’Itinerario Ebraico Marchigiano
rappresenta uno dei tanti tasselli di iniziative sparse finalizzate a riscoprire
le radici comuni delle comunità giudaico-cristiane nel quadro di un dialogo
interreligioso dove spicca, per iniziative di rilievo e organizzazione, il
Cammino Internazionale Neocatecumenale, con sede proprio tra Porto S. Giorgio e
Fermo.
Ma è invece in Galilea dove, sul Monte delle Beatitudini, vicino al lago di
Tiberiade, viene ospitata la cosiddetta Domus Galilaee. Il Cammino
Internazionale Neocatecumenale, esattamente dieci anni fa, si è reso
protagonista dell’incontro forse più significativo della storia delle due
religioni, cristiana ed ebraica: 120 rabbini provenienti da ogni parte del mondo
si sono incontrati con laici e religiosi cristiani, tra i quali 20 vescovi e 7
cardinali. Il tentativo, più che lodevole, di avvicinare le due religioni
prosegue tuttora anche con visite svolte presso la Domus Galilaee addirittura
dell’esercito israeliano. “A scaglioni vengono a visitare il nostro centro” ci
spiega il direttore, don Rino Rossi “incuriositi dalla struttura, ma soprattutto
per conoscere la fede cristiana”. Una curiosità che deve aver contagiato anche
un alto ufficiale dell’IDF, che visitando la Domus “ne è rimasto impressionato”.
Ciò che sorprende, però, vista la vicinanza tra questo centro di preghiera e i
luoghi ad altissima intensità bellica, dove l’esercito insieme a coloni ebrei
ultra-ortodossi sta spianando interi villaggi palestinesi in Cisgiordania,
imprigionando decine di migliaia di persone attraverso l’abuso della cosiddetta
detenzione amministrativa, è che la realtà del momento non traspare in nessun
modo nelle parole dei responsabili del Cammino intervistati. Nemmeno le notizie
di guerra in un periodo tragico come quello recentissimo, intorno ai giorni di
Pasqua, hanno fatto sì che durante l’incontro che ha coinvolto nella Domus 250,
tra vescovi e arcivescovi, provenienti dai cinque continenti, per un totale di
500 persone tra laici e religiosi da tutto il mondo, si facesse il minimo cenno
a un dialogo interreligioso che comprendesse, in maniera sistematica e concreta,
la terza più importante religione monoteista al mondo, quella mussulmana,
ampiamente maggioritaria, proprio lì, in Medio Oriente: insomma un dialogo
interreligioso a dir poco sbilanciato verso la sola riscoperta delle comuni
radici culturali giudaico-cristiane, considerato che musulmani e i cristiani
rappresentano, ognuna, una fetta di circa il 30% della popolazione mondiale,
mentre l’ebraismo sfiora lo 0,2%.
Leggendo il sito web ufficiale della location neocatecumenale di Porto S.
Giorgio, l’unico scossone emotivo degno di essere riportato nella newsletter è
stata la morte di Bergoglio. Il cammino neocatecumenale, per quanto riguarda il
dialogo interreligioso tra ebrei e cristiani, secondo le testimonianze
rilasciate al telefono dai responsabili, è molto attivo in numerosi Paesi del
mondo, tra i quali gli USA, dove si cita anche un memorabile concerto a New York
offerto dalla comunità ebraica locale. Per quanto riguarda invece un’eventuale
accoglienza in Italia di ebrei organizzati in gruppi, tutte le fonti laiche e
religiose intervistate si sono trincerate dietro un generico “no-comment”; anzi,
di eventuali presenze sul territorio marchigiano di gruppi provenienti da
Israele non se ne vuole proprio parlare.
Su un piano invece laico, accademico e strategico-militare, prosegue a gonfie
vele l’impegno dell’Italia, in questo caso lontano dai riflettori mediatici, in
sostegno attivo all’IDF. È di non molte settimane fa, infatti, la notizia
riportata da “Il Manifesto”, dell’ennesimo carico di armi che il tribunale del
riesame di Ravenna ha definitivamente bloccato in porto confermando la sentenza
di sequestro di 14 tonnellate di componenti per un valore di 250 mila. La
fornitura proveniva dalla Valforge di Lecco ed era destinata alla IMI System,
principale produttore di armi e munizioni per l’esercito israeliano. Il tutto in
violazione di quel che resta della legge 185 del 1990 e senza essere iscritta
nell’infame registro nazionale degli esportatori di sistema d’armamento.
La spiaggia di Sirolo, una delle località marchigiane visitate dai soldati
israeliani in “libera uscita” in Italia (Foto di Luca Boldrini, Wikimedia
Commons)
Ennesima vittima degli abusi della polizia che stamattina, a Pescara, ha
arrestato un 30enne coinvolto poco prima in una lite stradale. Durante l’arresto
gli agenti hanno usato il taser, a loro dire per vincere la resistenza al fermo
che sarebbe stata opposta dall’uomo.
Condotto nelle celle della questura, il 30enne si è sentito subito male ed è
stato prima soccorso sul posto dal 118 e poi trasportato in ospedale dove sono
stati effettuati alcuni tentativi di rianimazione. I soccorsi non hanno evitato
il decesso.
Ai microfoni di Radio Onda d’Urto il commento di Susanna Marietti,
dell’Associazione Antigone. Ascolta o scarica.
Da Radio Onda d’urto
Riprendiamo il comunicato di diversi collettivi sul corteo svoltosi il 2 giugno
a Torino.
L’8 e il 9 giugno si terrà un referendum popolare che prevede quattro quesiti
sul lavoro e un quesito per ridurre da 10 e 5 anni i prerequisiti di residenza
continuativa in Italia per l’ottenimento della cittadinanza.
Durante questi ultimi mesi, in tant3 ci siamo mobilitati per portare una voce
che fosse dal basso contro discriminazione e segregazione razzista!
Ieri, il 2 giugno, giorno in cui le istituzioni festeggiavano la festa della
Repubblica, un corteo antirazzista ha invaso le strade del centro città per dare
visibilità al referendum e per risignificare la giornata in cui si festeggia una
repubblica fondata sul razzismo istituzionale. Una Repubblica in cui migliaia di
persone non vengono considerate cittadine, sono costantemente discriminate,
aggredite e a volte private della propria libertà e torturate.
Il razzismo istituzionale si trova nei cpr in Italia e in Albania,in quanto
luoghi di reclusione e tortura; si trova nel ricatto delle questure per i
rinnovi dei documenti e nella violenza delle code che hanno costretto le persone
a dormire al freddo; si trova nella violenza della polizia che prende di mira,
picchia e uccide persone non bianche; si trova nel mercato abitativo che
discrimina chi è straniero, ed è costretto ad accettare abitazioni sovraprezzate
e fatiscenti; si trova nel ricatto del lavoro vincolato al permesso di soggiorno
(e viceversa) e nelle discriminazioni razziste sul lavoro; si trova nella
dispersione scolastica che colpisce più duramente le fasce di popolazione povere
e razializzate.
Il razzismo istituzionale si trova nella morte di Hamid, che due settimane fa si
è tolto la vita in carcere a seguito di un pestaggio della polizia per paura di
tornare nel cpr in Albania.
Il razzismo istituzionale si trova nell’esclusione dalla cittadinanza di
moltissime persone. La cittadinanza Italiana è un prerequisito necessario per
accedere a moltissimi diritti: libertà di movimento, possibilità di partecipare
a concorsi pubblici o iscrizione all’albo per diversi lavori, possibilità di
scioperare o esprimere dissenso senza rischiare ricatti sui propri documenti,
possibilità di aprire un mutuo per non essere vincolati al mercato degli affitti
escludente e razzista. Ma, soprattutto, senza la cittadinanza italiana si è
vincolati al perenne ricatto del rinnovo del permesso di soggiorno, sottoposti
al potere e alla discriminazione delle questure.
La cittadinanza deve essere un diritto garantito per chi vive in Italia, non una
“concessione” da parte dello stato nei confronti di persone considerate
straniere nel luogo in cui hanno i propri affetti, parte della propria famiglia,
in cui lavorano e pagano le tasse. Ottenere la cittadinanza oggi è una corsa a
ostacoli a causa dei requisiti richiesti: il reddito minimo di 11 mila euro
annui, i dieci anni di residenza continuativi, la fedina penale pulita, la
discrezionalità della commissione che valuta le relazioni e attività che svolge
la persona sottoposta a esame per la cittadinanza.
Il dimezzamento degli anni di residenza necessari può essere un primo piccolo
passo per cambiare una legge ingiusta e escludente.
Il corteo, partecipato da diverse centinaia di persone, ha attraversato le vie
del centro disseminando la città di manifesti e scritte contro i cpr, per i
documenti per tuttə, contro il razzismo istituzionale in generale. Attraverso
una partecipazione potente è stato espresso in modo chiaro che non ci possiamo
accontentare di questa riforma di legge, se dovesse passare. È stato ribadito
che è necessario mettere in campo una lotta quotidiana contro tutte le forme di
razzismo istituzionale e contro la costante propaganda di odio e discriminazione
veicolata da chi governa.
Andremo a votare ma non ci accontentiamo del voto, il razzismo va combattuto
ogni giorno in ogni sua forma.
Alzare la testa e la voce per opporsi a tutto ciò che va cambiato è il primo
passo.
Collettivo Ujamaa
Progetto Palestina
Non una di meno Torino
Spazio Popolare Neruda
Cub Sanità Torino
Riprendiamo questo ariticolo di Checchino Antonini da Diogene Notizie, che
partendo dal caso italiano del poliziotto infiltrato dentro Potere al popolo,
ricostruisce alcuni dei maggiori casi degli ultimi anni. Buona lettura!
Giovani, carini e appena arruolati. Praticamente infiltrati
Dopo la denuncia di Pap abbiamo ripercorso due celebri cicli di infiltrazioni
nello stato spagnolo e in Gran Bretagna
Potere al Popolo ha denunciato il 27 maggio che per ben dieci mesi un giovane
agente di polizia, fresco di corso, ha partecipato a riunioni, manifestazioni di
piazza, assemblee nazionali, volantinaggi e alla vita quotidiana di partito a
Napoli. Perché questa operazione? si chiede Pap, e ancora: chi l’ha decisa,
pianificata, ordinata? La rivelazione arriva dopo il caso Paragon-Mediterranea
emerso quando una comunicazione ufficiale di Meta, proprietaria di Whatsapp ha
avvertito Luca Casarini, capomissione di Mediterranea, che il suo telefono era
stato violato da una operazione di “spyware” ad alto livello, attraverso l’uso
di un software definito “tra i più sofisticati al mondo”.
Era il 31 gennaio scorso e Meta consigliava di cambiare subito il cellulare e,
quasi contestualmente, testate internazionali davano notizia della violazione
dei sistemi di sicurezza di Whatsapp, che coinvolgeva 90 “target” in tutto il
mondo, in particolare attivisti della società civile e giornalisti.
Il sospetto che il governo Meloni spii partiti di opposizione, ong e giornalisti
è fortissimo (una pratica che non disdegnava nemmeno Conte e supponiamo sia
bipartisan) e non sembrano convincenti le smentite di rito di Palazzo Chigi
tanto su Paragon, sistema di fabbricazione israeliana, tanto su Pap, tanto sul
razzismo così diffuso in polizia al punto da inorridire perfino il Consiglio
d’Europa.
Ma sono legali in Italia le infiltrazioni di poliziotti in organismi che operano
alla luce del sole? In qualche modo deve essere autorizzata in un contesto di
indagini su droga, armi, terrorismo ma quest’ultimo concetto è così dilatabile
che una “funzione di monitoraggio” da parte dell’intelligence è attività nota
negli ambiti parlamentari. Vista la smentita maldestra di un’infiltrazione
altrettanto maldestra, resta la domanda: chi ha autorizzato quel poliziotto?
Forse l’AISI? Forse una polizia parallela di fascisti? Certo i precedenti non
mancano, soprattutto di quell’infiltrazione di piazza, ovvero finti manifestanti
traditi da particolari del loro outfit oppure dal bozzo del calcio della
pistola.
Una delle più celebrate infiltrazioni è quella dell’agente immortalato, in
borghese, mentre faceva oscillare un cellulare assieme a un gruppo di squadristi
che presero d’assalto la sede della Cgil nell’ottobre del 2021. Riavvolgendo il
nastro, un altro famoso è Giovanni Santone, fotografato da Tano D’Amico il 12
maggio del 1977, in tenuta settantasettina ma con la pistola d’ordinanza in
pugno. Osservatorio Repressione, in un pezzo di qualche anno fa, ricorda che gli
infiltrati a volte stanno lì per provocare, altre per uccidere, oltre che per
spiare. Certo, l’evoluzione tecnologica, con ogni probabilità ha alleggerito
l’esigenza di mimetizzarsi per captare segnali di movimento.
Poliziotti infiltrati, il giorno dell’uccisione di Giorgiana Masi, 12 maggio
1977
Tana per Nieves
Giovane e appena arruolato: la vicenda del poliziotto infiltrato ricorda da
vicino quello che sta accadendo nello Stato Spagnolo dove già sono stati
scoperti almeno tredici casi di infiltrazione di agenti da quando, nel 2022, due
media alternativi – La Directa, catalano, e El Salto – hanno avviato
un’inchiesta su questo tipo di pratiche di polizia tra gruppi anarchici,
occupazioni di case, organizzazioni ambientaliste. La numero 12 è venuta fuori
poche settimane fa, il 23 aprile: dietro la falsa identità di Nieves López
Medina si nascondeva una funzionaria di polizia che rispondeva alle iniziali di
N.M.C.F., diplomata alla 37° corso dell’Accademia di Avila e infiltrata a
Madrid, all’interno di gruppi ambientalisti come Rebelión o Extinción e Fridays
For Future per circa sei mesi.
Il profilo di Nieves coincide con quello della maggior parte dei casi scoperti
compreso quello venuto alla luce a Napoli: un’agente appena diplomata alla
Scuola Nazionale di Polizia di Avila, che viene introdotta nei movimenti sociali
poco dopo il suo giuramento.
E’ da notare che l’infiltrazione sotto finta identità di Nieves è avvenuta
quando molti di questi casi erano già venuti alla luce; infatti, uno degli
agenti scoperti da El Salto, Mavi, è stato scoperto nel marzo 2023, mentre
Nieves ha cercato di entrare in questi stessi ambienti nel dicembre dello stesso
anno.
Di Nieves sappiamo qualcosa di più di quanto si sa dell’infiltrato presunto in
Pap: è entrata per la prima volta in contatto con l’ambiente militante quando ha
compilato un modulo per partecipare a un’azione di disobbedienza civile contro
l’industria dei combustibili fossili organizzata da Rebellion o Extinction (XR).
È apparsa per la prima volta in una formazione che si è svolta il 10 dicembre
2023 per preparare questa azione. Il giorno seguente, una trentina di attivisti
sono entrati nel recinto di Arganzuela per ancorarsi agli alberi e impedirne
l’abbattimento. Sono stati tutti sgomberati con violenza e multati per
disobbedienza. Nieves ha partecipato all’azione.
Tuttavia, il suo atteggiamento ha presto generato diffidenza tra i suoi nuovi
compagni. Da quando la sua collega Mavi si è infiltrata in XR nel 2022, gli
attivisti spagnoli sanno che “nei movimenti per il clima ci sono agenti che
fanno solo disobbedienza civile, quindi abbiamo imparato a tenerli d’occhio”.
Oltre a XR, Nieves partecipava alle assemblee di Fridays For Future. Aveva
trent’anni, era arrivata in moto e diceva di essere una magazziniera in un
Carrefour. In FFF la maggior parte sono studenti, anche liceali, e nessuno gira
in moto. Inoltre non aveva profili social. Fin dall’inizio, Nieves ha mostrato
un grande interesse per la disobbedienza civile non violenta e ha chiesto con
insistenza di far parte del comitato “relazioni esterne”, cosa insolita per un
nuovo membro. Probabilmente il suo obiettivo era quello di avvicinarsi a gruppi
più radicali come Futuro Vegetal. Quando è stata multata per “disobbedienza” non
ha esitato a inviare la multa a XR affinché la aiutasse a fare ricorso e proprio
questo ha permesso al gruppo ambientalista di ottenere una fotocopia della sua
carta d’identità farlocca. Con quel documento XR ha richiesto un certificato di
nascita all’anagrafe ma non c’era non traccia di lei all’Ufficio del Registro
Civile nonostante quella carta d’identità dichiarasse che era nata a Murcia.
Tana per Nieves.
El Salto ha chiesto chiarimenti al Ministero dell’Interno ricevendo come unica
risposta un appello all’articolo 104 della Costituzione spagnola, che stabilisce
che “le Forze e i Corpi di Sicurezza dello Stato garantiscono la sicurezza e il
libero esercizio dei diritti e delle libertà di tutti i cittadini, e che
agiscono in questi termini, con una rigorosa sottomissione all’ordinamento
giuridico”. Da parte sua, la Stazione Generale di Polizia di Madrid, dove
sarebbe stata assegnata, si è rifiutata di fare qualsiasi tipo di valutazione.
Vale la pena ricordare che, in base all’attuale quadro giuridico iberico, questo
tipo di infiltrazione può essere effettuata solo su ordine del tribunale, nei
casi di terrorismo, criminalità organizzata e traffico di droga.
María, infiltrata con la sua vera madre
A Girona, in Catalogna, a un anno e mezzo dalla denuncia, il tribunale ha
rifiutato di incriminare una poliziotta infiltrata con un’ordinanza di sole
quattro pagine, in cui si conclude che l’agente non avrebbe oltrepassato i suoi
limiti. L’ordinanza di archiviazione riconosce che María Isern Torres, agente
sotto copertura, stabilì la relazione con l’attivista indipendentista Òscar
Campos per ordine dei suoi comandanti, ma non ammette che “fu iniziata e
mantenuta in condizioni di disparità” né che l’intenzione fosse quella di
“danneggiarlo psicologicamente”. La denuncia accredita, attraverso una perizia,
i “postumi psicologici sotto forma di disturbo depressivo e sintomi di stress
post-traumatico” causati da “una relazione sentimentale fallace, ingannevole e
spuria” e dall’“invasione dei diritti fondamentali”.
Durante l’infiltrazione, l’agente ha persino coinvolto la sua vera madre
nell’operazione, fornendo una copertura per la missione che era stata assegnata
alla figlia. L’attivista di Girona ha soggiornato nella casa di famiglia a
Palma, dove madre e figlia hanno mentito sull’attività lavorativa
dell’infiltrata. Da quel momento in poi, la madre stabilì una stretta relazione
telefonica con la persona spiata e il suo entourage a Girona, con cui condivise
momenti di intimità.
La relazione è avvenuta tra il 2020 e il 2023. Maria Isern Torres, in realtà è
un’agente del Cuerpo Nacional de Policía, operante sotto il falso nome di Maria
Perelló Amengual. Nel luglio 2023, Campos scoprì la vera identità e denunciò
pubblicamente la “torturadora a les ordres de l’Estat espanyol” (“torturatrice
agli ordini dello Stato spagnolo”). La Procura di Girona ha giustificato
l’operazione sostenendo che l’agente agiva nell’ambito delle sue funzioni per
prevenire azioni secessioniste, ritenendo quindi legittima la sua infiltrazione
nei movimenti sociali catalani.
L’intera vicenda è stata documentata nel reportage “Infiltrats”, prodotto da
3Cat e La Directa, che ha portato all’attenzione pubblica le modalità e le
implicazioni delle infiltrazioni della polizia spagnola nei movimenti sociali
catalani.
Queste infiltrazioni della polizia violano i diritti fondamentali e sono più
tipiche di uno Stato di polizia che dello Stato di diritto ma la sentenza del
tribunale, pur riconoscendo che la relazione sentimentale, ha facilitato
l’accesso dell’agente alla sfera privata di Òscar Campos e ad attività
riservate, afferma che non ci sono elementi nella denuncia per ritenere che non
ci sia stato consenso. Anche la denuncia per tortura contro Ramon, infiltrato
della polizia nei movimenti sociali di Valencia, è stato definitivamente
archiviata lo scorso 5 maggio.
Ora, ovviamente, di Nieves non si hanno più tracce e gli attivisti ritengono che
probabilmente è stata fatta fuori perché non è riuscita a passare inosservata.
Ci si interroga sulla relativa facilità con cui è stato possibile smascherare
l’infiltrazione: o la Brigata d’Informazione l’ha messa lì apposta per far
credere che XR fosse già in grado di individuare gli infiltrati, oppure era
semplicemente stupida. Di sicuro i movimenti denunciano la crudeltà di un metodo
che genera paranoia, sfiducia, indignazione e paura tra gli attivisti.
L’infiltrazione come forma di tortura
Pau Pérez-Sales, psichiatra e direttore del SIRA, un centro di assistenza alle
vittime di tortura e maltrattamenti, ha spiegato a El Salto che l’infiltrazione
è una tortura perché “per essere considerata tale, devono essere presenti
quattro elementi: devono esserci gravi sofferenze, deve esserci intenzionalità,
deve esserci uno scopo, come ottenere informazioni, punire, umiliare, reprimere
o discriminare e, infine, deve essere eseguita da un funzionario statale”.
L’eco di queste vicende nello stato spagnolo ha stimolato il progetto militante
di pubblicazione, lo scorso febbraio, di un “Manual para destapar a un
infiltrado”, operazione che ha infastidito sia la polizia sia i politici che la
fiancheggiano. Sabato 24 maggio il Comune di Malaga ha cercato di impedire la
presentazione del manuale comunicando agli organizzatori che era necessario
avere un permesso speciale in base alla legge sugli spettacoli pubblici, una
norma che non può essere applicata a proposte no-profit e a eventi pubblici come
la presentazione di un libro, attività peraltro garantite dall’articolo 20 della
Costituzione spagnola sulla libertà di espressione e di cultura, e dall’articolo
21 che tutela la libertà di riunione pacifica in spazi privati.
A proposito di Nieves è stato detto che almeno, a differenza di Mavi (un altro
finto ecologista, vero sbirro) non è andata a letto con nessuno. Non possono
dire altrettanto le decine di donne britanniche vittime di altrettanti agenti
infiltrati per decenni nelle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria,
ecologista del Regno Unito.
Lo scandalo Spycops
Per oltre quarant’anni, la polizia britannica ha condotto un’operazione segreta
di spionaggio su migliaia di cittadini. L’opinione pubblica non aveva alcun
sentore di questa operazione segreta e solo un ristretto numero di ufficiali di
polizia ne era a conoscenza.
La polizia ha inviato 140 agenti sotto copertura per spiare più di 1.000 gruppi
politici e compilare file riservati sulle attività politiche degli attivisti. La
storia, partita nel 1968, è venuta alla luce nell’autunno 2010 quando
cominciarono a emergere notizie su Mark Kennedy, un agente di polizia sotto
copertura, noto come Mark Stone, che si era infiltrato nei gruppi di protesta
ambientalisti provocando molti arresti. Stone viveva tra gli attivisti ed era
riuscito ad assumere un ruolo di primo piano in molte azioni, stringendo
relazioni intime a lungo termine e relazioni sessuali più brevi con molte donne.
In generale era visto come un membro fidato del movimento.
E’ attiva una campagna – Police Spies Out of Lives – a sostegno delle donne
colpite da relazioni intime con agenti di polizia sotto copertura della SDS,
Special Demonstration Squad della Metropolitan Police Special Branch e della
National Public Order Intelligence Unit (NPIOU) controllata dall’Association of
Chief Police Officers (ACPO).
Negli anni sono stati svelati sempre più dettagli, grazie soprattutto al lavoro
investigativo degli attivisti e dei giornalisti. Rivelazioni che hanno costretto
Theresa May, quando era ministro degli Interni, a commissionare un’inchiesta
pubblica guidata da un giudice in pensione, Sir John Mitting partita nell’estate
del 2020, con sei anni di ritardo. C’è da capire come gli agenti sotto copertura
abbiano ingannato le donne in relazioni intime a lungo termine, alcune durate
molti anni e “allietate” dalla nascita di figli. L’inchiesta ha recentemente
ammesso per la prima volta che il monitoraggio dei sindacalisti da parte di
agenti sotto copertura dell’SDS può essere stato utilizzato dai datori di lavoro
a fini di blacklist. Nel 2009, si legge sul Guardian, i membri di un sindacato
che erano stati presi di mira dai datori di lavoro per essere licenziati a causa
delle loro attività sindacali sono stati riconosciuti come vittime di uno
scandalo decennale di liste nere. Un’incursione nella Consulting Association,
un’organizzazione segreta che gestiva la lista nera, ha portato alla luce
migliaia di file sui lavoratori edili, utilizzati dalle principali imprese edili
per “vagliare” l’appartenenza al sindacato dei candidati al momento
dell’assunzione.
Gli agenti sotto copertura hanno adottato misure elaborate per sviluppare i loro
falsi personaggi. Rubavano l’identità di bambini morti, dopo aver setacciato
pagine di certificati di morte per trovare una corrispondenza adeguata. Le spie
ricevevano documenti ufficiali come patenti di guida e passaporti con nomi
falsi, in modo che i loro travestimenti apparissero credibili alla cerchia di
manifestanti in cui si infiltravano.
Durante le missioni, che in genere duravano quattro anni, gli agenti sotto
copertura fingevano di essere manifestanti impegnati. Ma per tutto questo tempo
hanno fornito ai loro superiori informazioni sui piani e sui movimenti dei
manifestanti. I loro rapporti includevano anche valutazioni delle figure chiave
all’interno dei gruppi.
L’elenco completo dei gruppi politici presi di mira dal 1968 non è stato
pubblicato dall’inchiesta pubblica. Tuttavia, un’analisi dei gruppi pubblicati
suggerisce che le spie della polizia hanno monitorato soprattutto gruppi di
sinistra e progressisti che sfidavano lo status quo, mentre solo tre gruppi di
estrema destra sono stati infiltrati: il British National Party, Combat 18 e la
United British Alliance. Un gruppo trotzkista in particolare – il Socialist
Workers Party (SWP) – è stato pesantemente infiltrato con più di 20 agenti,
molto più di qualsiasi altro gruppo.
Con cinismo e vigliaccheria
Dopo che l’esistenza dell’operazione segreta è stata resa nota nel 2010, le
donne si sono raggruppate e hanno intrapreso con successo un’azione legale
contro la polizia ottenendo decine di risarcimenti. Quando le donne hanno
iniziato a fornire i loro resoconti e a condividere le loro storie, è emerso
chiaramente che il comportamento degli uomini nelle relazioni, i loro retroscena
e i metodi per sparire discretamente presentavano notevoli somiglianze che
suggerivano metodi sistematici di infiltrazione e minavano il mito dell’agente
disonesto.
Raccontano i legali che è stato evidente che tutte le donne hanno subito un
notevole impatto emotivo e psicologico dalla scoperta dell’inganno e della
violazione personale. In particolare, il loro senso di sicurezza nel mondo in
cui vivevano e la capacità di fidarsi degli altri erano stati gravemente
danneggiati. Tuttavia, poiché le loro esperienze erano insolite ma simili, e
poiché provenivano tutte da ambienti politicamente impegnati, hanno rapidamente
sviluppato un approccio di sostegno reciproco e collettivo per lavorare insieme
al loro caso legale.
Ci sono ancora troppi agenti, secondo Police Spies Out of Lives, la cui identità
reale e fittizia rimane segreta.
Sono stati scoperti altri comportamenti scorretti. In casi giudiziari che
riguardavano l’incriminazione di attivisti, gli agenti sotto copertura e i loro
supervisori hanno nascosto prove vitali che avrebbero potuto portare alla loro
assoluzione. Finora si sa che almeno 50 manifestanti sono stati condannati o
perseguiti ingiustamente perché le prove relative alle attività delle spie della
polizia sono state ingiustamente insabbiate nei procedimenti giudiziari.
Solo uno degli agenti sotto copertura è diventato un informatore. Peter Francis,
che è stato inviato a spiare i manifestanti antirazzisti per quattro anni negli
anni Novanta, ha rivelato come funzionava la sua ex unità, la Squadra speciale
per le dimostrazioni.
Ha anche rivelato che la squadra aveva raccolto informazioni sui genitori di
Stephen Lawrence nel momento in cui stavano conducendo una campagna per
convincere la polizia a condurre un’indagine adeguata sull’omicidio razzista del
figlio. Lawrence, studente di origine giamaicana, fu ucciso il 22 aprile 1993 a
Eltham, nel sud-est di Londra da un branco di ragazzi bianchi mentre aspettava
l’autobus con un amico. Il rapporto Macpherson del 1999 concluse che la
Metropolitan Police era “istituzionalmente razzista”.
La polizia è stata costretta ad ammettere che i suoi agenti sotto copertura
avevano spiato almeno 18 famiglie in lutto che si battevano per ottenere
giustizia dalla polizia. Tra queste c’erano anche famiglie i cui parenti erano
stati uccisi o erano morti sotto la custodia della polizia.
L’inchiesta pubblica sull’uso di agenti sotto copertura nel Regno Unito, nota
come Spycops Inquiry o Undercover Policing Inquiry, è attualmente in corso ma
sta affrontando numerose difficoltà operative, ritardi e critiche da parte delle
vittime e dei partecipanti.
L’inchiesta, spiega Campaign Opposing Police Surveillance, è suddivisa in
“tranche” tematiche. Le udienze della Tranche 2 (1983–1992) si sono svolte tra
luglio 2024 e febbraio 2025. La Tranche 3 (1993–2007), inizialmente prevista per
aprile 2025, è stata posticipata a ottobre 2025. È probabile che anche la
Tranche 4, dedicata alla National Public Order Intelligence Unit (NPOIU),
subisca ritardi.
Più di 100 vittime e gruppi coinvolti hanno firmato una lettera aperta
rifiutandosi di fornire prove entro le scadenze imposte, considerate
irragionevoli. Il sito Freedom News riferisce che, nonostante il rinvio delle
udienze, i termini per la presentazione delle testimonianze non sono stati
estesi, suscitando accuse di trattamento iniquo. Inoltre l’inchiesta sta
procedendo in modo squilibrato, favorendo le forze dell’ordine: mancanza di
trasparenza, distruzione intenzionale di documenti da parte della polizia e
pressione esercitata per rispettare una scadenza finale arbitraria fissata per
dicembre 2026, che potrebbe compromettere la credibilità dell’intero processo
che dovrebbe essere cruciale nel dibattito sul controllo democratico delle forze
di polizia nel Regno Unito.
Solo nel luglio 2024, la Metropolitan Police ha pubblicamente condannato le
operazioni della Special Demonstration Squad (SDS), ammettendo gravi violazioni,
tra cui relazioni sessuali ingannevoli con attiviste e infiltrazioni in gruppi
per la giustizia razziale. Tre mesi più tardi, nuove prove hanno suggerito che
Bob Lambert, ex agente sotto copertura e figura chiave dell’inchiesta, avrebbe
partecipato a un incendio doloso in un negozio Debenhams nel 1987 mentre si
fingeva attivista per i diritti degli animali.
Della brutalità e della spregiudicatezza della polizia francese s’è letto molto
anche in Italia in questi anni, segno che questa ondata di malapolizia è sintomo
delle tendenze più ampie di regimi ormai post-democratici tuttavia oltralpe è
stata registrata un’infiltrazione al contrario: nel settembre 2020, la
pubblicazione del libro Flic di Valentin Gendrot ha fatto scalpore. Dopo aver
trascorso due anni sotto copertura nella polizia di Parigi, dove era stato
assunto come dipendente a contratto (tra gli “assistenti di sicurezza”, poi
ribattezzati “assistenti di polizia”), il giornalista ha descritto una
quotidianità mediocre, la miseria sociale e la mancanza di rispetto per gli
utenti.
Soprattutto, ha accusato diversi suoi colleghi, di stanza nel 19° arrondissement
di Parigi, di aver commesso atti di violenza e di averli coperti con false
denunce. Le sue rivelazioni hanno indotto la magistratura ad aprire
un’inchiesta. Ma questa è un’altra storia.
Riprendiamo e traduciamo il contribuito che i compagni di Chuang hanno dato al
neonato progetto editoriale “Heatwave”.
Buona lettura.
In questo primo contributo al nuovo progetto Heatwave, rispondiamo alle domande
di questo collettivo sull’impatto globale delle ultime ondate di dazi americani.
La panoramica completa di questa inchiesta può essere letta sul loro sito web,
insieme alle risposte dei compagni di diversi Paesi, che saranno stampate come
dossier, intitolato “Madness and Capitalist Civilization: International
Perspectives on the MAGA 2.0 Tariffs”, che sarà allegato al secondo numero della
rivista.
La guerra commerciale di Trump è tornata: più grande, più rumorosa e in qualche
modo ancora più stupida. Alcuni dicono che questa volta è diversa. Ma come per
la maggior parte dei sequel, la trama è familiare. I personaggi sono logori. I
registi sembrano decisi a girare sempre le stesse scene. Come finirà?
Probabilmente in modo molto simile all’originale. Mentre i “Trump I” aveva
attaccato i grandi partner commerciali come la Cina e l’Europa, il “Trump II” ha
aperto il fuoco contro l’ordine globale stesso e questa volta il sistema ha
risposto.
La guerra commerciale, un eterno déjà-vu.
Nel 2018, l’amministrazione ha lanciato una raffica di dazi sulla Cina,
sostenendo che avrebbe frenato anni di “abusi” cinesi nei confronti dei
lavoratori americani. Pechino ha reagito in modo più limitato e cauto, e
l’intera vicenda si è trascinata in negoziati estenuanti. Nel gennaio 2020 è
stato firmato l’accordo di “fase uno”, con la Cina che si è impegnata ad
aumentare gli acquisti di beni statunitensi, nel tentativo di soddisfare uno dei
principi fondamentali della teoria commerciale trumpiana: comprare americano. Un
accordo di “fase due” è stato ventilato ma non si è mai concretizzato. Cosa è
successo in seguito? Il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina è
diminuito per un breve periodo… per poi risalire quando Biden è entrato in
carica nel 2021, proprio quando la pandemia ha messo a soqquadro i flussi
commerciali globali. Biden, da parte sua, ha tranquillamente mantenuto in vigore
la maggior parte delle tariffe cinesi di Trump, segnalando una continuità
piuttosto che un’inversione di tendenza. In sintesi, la presidenza Trump I si è
conclusa con un piagnisteo: due accordi poco convincenti, una manciata di
fabbriche dubbiamente “rilocate in patria” (per lo più nei comunicati stampa),
gli agricoltori sono stati salvati e il deficit commerciale si è a malapena
ridotto. Alla fine, le linee di battaglia sono tornate quasi esattamente al
punto di partenza.
Mentre i primi passi del Trump II insistono sulla terra bruciata americana,
possiamo aspettarci che il copione sia simile al passato: forti minacce, vaghe
speranze di nuovi accordi, modesti cambiamenti nei modelli di acquisto e, nel
migliore dei casi, un’ammaccatura marginale in quello che rimane uno sbadiglioso
deficit commerciale tra Stati Uniti e Cina. Questa volta, però, Trump si sta
scagliando con più forza non solo contro la Cina, ma contro lo stesso sistema
economico globale. Ne sta mettendo alla prova i limiti, si sta scagliando in
ogni direzione e sta facendo arrabbiare alcuni funzionari del capitale globale.
Tuttavia, a meno che non si verifichi una vera e propria rottura, come l’innesco
di un contagio finanziario o l’azionamento del “grande bottone rosso”, il
sistema, ancora una volta, assorbirà lo shock e tornerà indietro.
Trump ne ha già avuto un piccolo assaggio dopo aver sparato i primi colpi nel
“giorno della liberazione”: i mercati hanno preso una brutta piega e i deficit
si sono allargati, finché non ha fatto dei passi indietro, ammorbidendo le
minacce tariffarie e promettendo di risolvere le turbolente onde macroeconomiche
con una serie di accordi commerciali. Ma i rapporti globali di produzione non
possono essere ricostruiti da un giorno all’altro, né con l’innalzamento di
barriere commerciali né con una serie di accordi “buy American”. Non si può
semplicemente imporre un dazio su una lavatrice e aspettarsi che le catene di
approvvigionamento mondiali, costruite nel corso di decenni, invertano le loro
correnti a comando.
La saga della soia
Nella stagione Trump I, gran parte dell’azione si è concentrata sulla saga della
soia. Dopo l’imposizione dei dazi iniziali, la Cina ha imposto tariffe di
ritorsione sui semi di soia statunitensi e ha ridotto drasticamente gli
acquisti. Le importazioni dal Brasile sono aumentate, tanto che nel 2018 il
Brasile ha fornito l’82% della soia cinese, mentre la quota di mercato degli
Stati Uniti è crollata. Ma la storia non è finita lì. I semi di soia americani
non sono semplicemente scomparsi. Sono stati dirottati verso altri mercati come
Messico, Egitto e Sud-Est asiatico, spesso a prezzi più bassi. La Cina, nel
frattempo, aveva ancora bisogno di soia per alimentare la sua enorme industria
suinicola e alla fine ha ripreso ad acquistare dagli Stati Uniti, nonostante i.
dazi e tutto il resto, soprattutto nei periodi di bassa stagione quando
l’offerta brasiliana era scarsa.
La struttura di base del commercio globale non è crollata. I materiali dirottati
hanno continuato a fluire nella stessa direzione generale, venduti dagli stessi
consorzi di aziende consolidate e acquistati dagli stessi clienti, solo con un
maggior numero di intermediari. Il risultato reale è stato un “gioco della
sedia” globale, non un disaccoppiamento rivoluzionario. Il “triangolo della
soia” tra Stati Uniti, Brasile e Cina si è dimostrato straordinariamente
resistente, a riprova del fatto che le profonde catene di approvvigionamento e
le dipendenze agricole non vengono annullate da qualche minaccia in conferenza
stampa e dall’aumento delle tariffe. La vita è andata avanti. I lavoratori
cinesi hanno pagato di più la carne di maiale. Gli americani hanno pagato di più
per l’elettronica. L’economia mondiale si è adattata, perché è questo che fa.
Per costruire le reti di produzione che alimentano “Chimerica” ci sono voluti
almeno trent’anni. Le fabbriche sono state messe a punto per servire i mercati
esteri. Acquirenti e fornitori hanno sviluppato fiducia, contratti e canali
logistici che non possono essere facilmente liquidati con un ordine esecutivo.
Ad oggi, quindi, possiamo ipotizzare che Trump si accontenterà probabilmente –
proprio come ha fatto l’ultima volta – di un modesto aumento degli acquisti e
dei prezzi da parte della Cina e degli alleati, concordato attraverso una serie
di accordi a Mar-a-Lago. Il copione seguirà probabilmente il regime tariffario
delineato dal consigliere Stephen Miran, dividendo alleati e avversari in
diversi “cestini” definiti dal loro livello di accesso al mercato (e forse anche
dagli accordi di sicurezza) – con la Cina scaricata in quello più punitivo,
ovviamente.
In ultima analisi, però, il vero dramma delle guerre commerciali non si svolge
tra i container, ma nelle forze sottostanti che li fanno muovere, tra cui le
correnti finanziarie basate sul dollaro che trascinano le merci in tutto il
mondo, le condizioni di lavoro massacranti che le fanno fluire e i sottili
margini di profitto che tengono a galla l’intero sistema. Questi sono i
meccanismi profondi del sistema e, quando vengono spinti con sufficiente forza,
si ribellano.
Può l’ascesa salariale cinese allontanare la guerra commerciale?
Ancora all’inizio del primo atto, il balbettio dei dazi iniziati, sospesi,
reiniziati e nuovamente sospesi stava aggiungendo instabilità alla già
traballante economia cinese. Le esportazioni cinesi continuano comunque a
sbarcare negli Stati Uniti, anche se a prezzi più alti, o a riversarsi su
mercati alternativi in Europa o nel Sud-Est asiatico. Finora, i dazi non hanno
esercitato alcun impatto reale sulla struttura di base del commercio globale.
Le turbolenze sono comunque importanti, soprattutto per i lavoratori. Anche una
modesta flessione del motore delle esportazioni cinesi minaccia il sostentamento
di milioni di persone che dipendono dal suo incessante funzionamento. Come
riporta il Wall Street Journal, le esportazioni costituiscono circa il 13% del
PIL cinese e le sole esportazioni verso gli Stati Uniti ne rappresentano quasi
un quarto, pari a quasi il 3% dell’intera economia cinese. Gli analisti
prevedono che le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti subiranno un duro
colpo e che le esportazioni totali della Cina diminuiranno fino al 10%
quest’anno. Sebbene possa sembrare poco, questo colpo si abbatterà anche sul
mercato del lavoro: le tariffe potrebbero mettere a rischio fino a 15,8 milioni
di posti di lavoro cinesi nei settori manifatturiero, logistico, delle materie
prime e finanziario. Questo si aggiunge a una lenta ondata di fallimenti nel
settore manifatturiero negli ultimi anni, che ha portato a un aumento degli
scioperi difensivi e dei casi di arbitrato sul lavoro, e a tassi di
disoccupazione storicamente elevati, soprattutto tra i giovani che stanno
entrando nel mondo del lavoro.[1]
Un’altra soluzione proposta per assorbire la produzione della vasta base
industriale cinese orientata all’esportazione è quella di reindirizzarla
all’interno, verso il mercato interno. Le crescenti minacce al motore delle
esportazioni cinesi hanno riacceso le richieste, sia all’interno che all’esterno
del Paese, di una riforma macroeconomica volta ad aumentare i consumi interni.
Sebbene possa sembrare assurdo, vista l’enorme capacità di esportazione della
Cina, è proprio ciò che molti esperti di politica economica hanno chiesto. Per
alcuni analisti cinesi, incrementare i consumi interni significherebbe rendere
l’economia cinese meno dipendente dai mercati esteri. I capitali stranieri
sperano anche che la Cina “consumi” internamente almeno una parte dei prodotti
che normalmente produce per l’esportazione. Alcuni sostengono addirittura che
questo spostamento porterebbe a una crescita dei salari cinesi e aprirebbe
ulteriormente i mercati cinesi agli investimenti e ai prodotti stranieri (dai
formaggi e i vini europei agli aerei e ai programmi televisivi americani), a
spese dei produttori cinesi, mettendo così più soldi nelle mani dell’industria
occidentale.[2]
Ma anche gli esperti sanno che si tratta di una chimera che non si è mai
avverata, nonostante anni di promesse.[3] Un aumento significativo dei consumi
delle famiglie richiederebbe cambiamenti strutturali sistemici, come l’aumento
dei salari, l’espansione della sicurezza sociale e lo smantellamento della vasta
infrastruttura finanziaria costruita attorno a politiche favorevoli ai
produttori. Ma questi cambiamenti intaccherebbero i margini di profitto e
rischierebbero di far fallire innumerevoli aziende (già in difficoltà).
Dall’inizio degli anni 2010, i tassi di profitto sono diminuiti sia
nell’economia cinese nel suo complesso che nei settori industriali in
particolare. Il declino è stato particolarmente forte in settori come quello
dell’abbigliamento, ad esempio, che ha portato a un flusso quasi continuo di
delocalizzazioni nell’ultimo decennio. In settori più difficili da delocalizzare
come l’elettronica, la concorrenza spietata ha portato la redditività ai minimi
storici. Nel frattempo, in settori come quello dell’acciaio, molte aziende
(siano esse nominalmente di proprietà dello Stato o private) sono state tenute
in vita solo grazie a sussidi e accordi di acquisto mirati.
Di conseguenza, l’attuazione del tipo di politiche sociali necessarie per
elevare i consumi richiederebbe sia uno stimolo impossibile e massiccio per
evitare i fallimenti, sia la rapida creazione di catene di approvvigionamento
offshore attraverso investimenti diretti da parte delle imprese cinesi, in grado
di reimmettere nel mercato cinese beni di consumo a prezzi ridotti. Tuttavia,
non esiste una soluzione a breve termine e anche questa trasformazione
strutturale a lungo termine rappresenterebbe un rischio enorme, con il rischio
di rallentare la crescita e di generare nuove forme di instabilità sociale.[4]
In definitiva, è più probabile che lo Stato compri la capacità in eccesso dalle
aziende (cosa che ha già fatto per anni con la capacità in eccesso
nell’industria siderurgica) prima di spingere per aumenti salariali diffusi e
sostanziali.
A titolo di esempio, la Cina sta attualmente elaborando il suo 15° Piano
quinquennale. Se si guarda al 13° piano (2016-2020), l’amministrazione si era
già impegnata a bilanciare le importazioni e le esportazioni, una mossa salutata
come una svolta verso una crescita più sostenibile e guidata dai consumi.[5]
Quasi un decennio dopo, tuttavia, il divario delle esportazioni si è solo
ampliato. Il mercato interno rimane incapace, allo stato attuale, di assorbire i
volumi delle esportazioni e le fantasie dei media sul riorientamento delle merci
verso l’interno ignorano per lo più la matematica di base. Prendiamo ad esempio
gli ombrelli. Quelli destinati all’esportazione lasciano i porti cinesi a una
valutazione media di 3-4 dollari USA per ombrello (21-29 yuan),[6] mentre
l’ombrello medio viene venduto dalla fabbrica ai grossisti nazionali a circa 10
yuan.[7] La Cina produce circa 1,2 miliardi di ombrelli all’anno, 900 milioni
dei quali vengono esportati,[8] e gli Stati Uniti sono il principale
acquirente.[9] Per fare un riferimento all’economia cinese nel suo complesso, la
dimensione totale delle esportazioni è pari a circa la metà del consumo
domestico annuo.[10]
Nessuno, nemmeno Trump, sta suggerendo che la Cina debba smettere di vendere al
mondo. Tuttavia, nonostante anni di retorica ufficiale sul riequilibrio
dell’economia verso i consumi interni, le dimensioni del settore delle
esportazioni cinese rendono straordinariamente difficile qualsiasi serio
cambiamento di direzione, soprattutto in questo precario momento storico. Anche
un aumento sostanziale della spesa delle famiglie non sarebbe in grado di
sostituire la domanda attualmente fornita dai mercati globali. L’ascesa
economica della Cina dipende fondamentalmente dagli acquirenti stranieri e,
soprattutto, dalla volontà del mondo sviluppato di continuare ad acquistare beni
cinesi. Trump può inveire contro lo squilibrio quanto vuole, ma al massimo
otterrà piccole concessioni, qualche acquisto simbolico di beni americani e una
nuova serie di promesse televisive.[11]
Affondare o servire
La guerra commerciale probabilmente scatenerà una nuova ondata di scioperi e
agitazioni dei lavoratori in Cina, se non lo ha già fatto. Ma l’impatto non sarà
limitato alla manodopera cinese. Dovremmo anche aspettarci che acceleri i piani
delle aziende per diversificare le loro catene di approvvigionamento in tutta
l’Asia, con nuovi hub in Vietnam, Indonesia e persino in India. Di conseguenza,
si verificheranno nuove ondate di scioperi tra i lavoratori più giovani, proprio
come quelle che hanno seguito ondate simili di delocalizzazione industriale nel
corso del XX secolo in luoghi come l’Italia, la Corea del Sud e, naturalmente,
la stessa Cina. Ma non si tratta di spostamenti notturni. Si sviluppano
lentamente, come una marea mutevole che scolpisce nuovi contorni in un vecchio
litorale. Allo stesso modo, non c’è alcuna garanzia che anche queste soluzioni
di “friendshoring” (rilocalizzare la produzione in paese “amici”) siano
considerate accettabili in un ambiente politico sempre più instabile. Si guardi
al caso di Apple, che ha avviato investimenti in India nel 2016 spinto dalle
pressioni del Trump I per poi sentirsi dire dallo stesso Trump nel 2025 “Non
voglio che tu costruisca in India” [12]. La struttura generale della produzione
globale può rimanere in gran parte intatta, ma le linee di frattura si stanno
allargando.
Allo stesso tempo, mentre la situazione economica della Cina peggiora, la
condizione proletaria cinese sembra simile a quella degli Stati Uniti, anche se
forse si sviluppa a un ritmo più veloce: lavori di servizio senza senso e vite
isolate con poche speranze per i figli, la famiglia o la comunità. Nessun
futuro. Quando il tasso ufficiale di disoccupazione giovanile urbana della Cina
ha recentemente raggiunto il 16,9% (molto più alto se si considerano le
popolazioni rurali), il governo ha subito invitato i giovani cinesi a lanciarsi
nel volontariato e a dedicarsi alla modernizzazione della Cina, senza alcuna
retribuzione.
Questo è il classico paternalismo dello stato, solo uno dei tanti “vaffanculo”
alla sofferenza vissuta dai giovani cinesi negli ultimi anni, emersi dall’incubo
della pandemia solo per non trovare alcun sollievo, ma piuttosto una crisi
economica ad attenderli dall’altra parte. Durante la pandemia, i giovani cinesi
hanno coniato termini come neijuan (内卷 o “involuzione”), una reazione di
disgusto paralizzante verso l’infinito e competitivo criceto-lavoro,
e tangping (躺平 o “sdraiarsi”), un rifiuto passivo di partecipare al gioco. Il
governo ha risposto direttamente alla diffusione di questi slogan in discorsi e
altre dichiarazioni pubbliche, e la replica è stata brutale: non ci sarà nessuno
che si sdraia. Alzatevi, e tornate al lavoro. Eppure, il problema di fondo
rimane: che aspetto avrà il lavoro per questa generazione, mentre la
deindustrializzazione accelera e la crescita continua a rallentare?
Contro la marea dei dollari
Una delle caratteristiche più strane della rottura aggressiva di Donald Trump
con le norme egemoniche degli Stati Uniti è quanto essa metta in evidenza la
forza del sistema globale che lui stesso afferma di voler contrastare.
Nonostante tutto il parlare del declino americano, i dazi e le minacce di Trump
non hanno fatto altro che sottolineare quanto siano profondamente radicate le
fondamenta del dominio statunitense. Questo è particolarmente evidente nel ruolo
del dollaro. Il capitalismo globale non funziona senza una valuta guida: l’oro
nel XIX secolo, la sterlina all’inizio del XX, il dollaro oggi. Ma questo pone
un dilemma: gestire la valuta globale significa, per così dire, lasciare entrare
il resto del mondo in casa propria. Gli Stati Uniti aprono il loro sistema
finanziario — i mercati, il settore immobiliare, i titoli di Stato — a chiunque
abbia dollari da spendere. È il prezzo da pagare per emettere la valuta di
riserva globale. Significa accettare un’estrema apertura, convertibilità legale
e flessibilità dei conti capitali che nessun altro Paese è disposto a tollerare.
Sicuramente non la Cina. Pechino non permetterà agli investitori stranieri di
muoversi liberamente nella propria economia, acquistando terreni, aziende o
debito a piacimento (come gli Stati Uniti consentono più o meno). Il governo
cinese vuole ottenere surplus commerciali senza l’esposizione strutturale che
comporta essere un hub finanziario globale. Ed è per questo che — anche mentre
Trump lancia minacce di dazi — la banca centrale cinese continua silenziosamente
a reinvestire i dollari delle esportazioni in titoli del Tesoro statunitensi,
senza fare alcuna mossa per offrire il renminbi come valuta di riserva
alternativa. Non perché ami l’America, ma perché non c’è nessun altro posto dove
parcheggiare quella quantità di denaro in modo sicuro e su larga scala. Anche se
i BRICS escogitassero un nuovo meccanismo di compensazione, sarebbe poco più di
una piccola isola in un oceano di dollari — utile per gestire alcuni flussi
intra-blocco, ma impotente contro il richiamo della marea del sistema globale
del dollaro, che ancora domina commercio, finanza e riserve. Il sistema del
dollaro resta l’unica opzione e, per di più, c’è Trump là fuori a difenderlo.
Infatti, ha minacciato dazi del 100% contro i Paesi BRICS quando la Russia ha
proposto un’alternativa valutaria BRICS per bypassare il dollaro.
Un recente studio cinese prevede che, anche entro il 2050, il renminbi potrebbe
rappresentare solo circa il 10% delle riserve globali, rimanendo ben lontano dal
dollaro. Alla fine del 2024, il dollaro rappresentava ancora quasi il 58% delle
riserve valutarie mondiali, seguito dall’euro con circa il 20%, dallo yen
giapponese con quasi il 6% e dal renminbi fermo poco sopra il 2% (più o meno al
pari del dollaro australiano e canadese). In altre parole, anche dopo decenni di
discorsi sulla multipolarità e sull’internazionalizzazione, il dollaro resta
onnipresente, lasciando il sistema finanziario mondiale immerso in un mare di
dollari ancora per molto tempo. Senza una seria alternativa all’orizzonte,
l’intera economia globale — inclusi gli stessi Stati Uniti — rimane in balia
delle maree volatili dei flussi valutari (in gran parte basati sul dollaro).
Anche Trump lo ha capito: quando ha iniziato a scuotere troppo i mercati, in
particolare quello dei titoli del Tesoro, i suoi alleati più ricchi gli hanno
fatto capire che stava facendo oscillare troppo la barca, e lui ha fatto marcia
indietro. Trump potrebbe anche essere tornato al timone della nave, cercando di
manovrare il gigantesco e lento vascello dell’economia statunitense, ma sta
comunque navigando in un oceano di dollari che obbedisce a correnti più profonde
di qualsiasi timoniere.
Ribaltare il copione
Come in ogni sequel, una campagna pubblicitaria appariscente piena di azione è
di solito un segnale sicuro che il prodotto finale prometterà troppo e manterrà
poco. Per i comunisti, c’è almeno una lezione semplice: non bisogna scambiare il
caos delle élite per un cambiamento trasformativo. Le guerre commerciali possono
scuotere il sistema, ma spesso si concludono con compromessi parziali e accordi
dietro le quinte. Il nostro lavoro è altrove — sul terreno, costruendo reti di
amici e compagni oltre i confini, e sviluppando un’intelligenza collettiva
orientata alla creazione di un altro mondo. Mentre il sistema prosegue a fatica,
passando dalle minacce di dazi alla guerra vera, non ci basterà resistere: ci
servirà immaginazione. Se Trump può cercare di riscrivere l’ordine globale da un
resort di golf, allora possiamo sicuramente osare di immaginare qualcosa di
meglio. Il futuro non è loro per diritto acquisito. È uno spazio conteso, e
dovremmo trattarlo come tale.
Note:
[1]
La disoccupazione giovanile urbana ha raggiunto il picco nel 2023, attestandosi
intorno al 20%. Tuttavia, questa misura non escludeva sistematicamente tutti gli
studenti ed è stata sospesa nell’estate del 2023. È stata poi sostituita,
all’inizio del 2024, da un nuovo indicatore con fasce d’età più dettagliate e
un’esclusione più rigorosa degli studenti. Secondo questa nuova misura, il tasso
di disoccupazione per i non studenti tra i 16 e i 24 anni è inizialmente
diminuito per poi tornare a salire nel 2024, raggiungendo il 18,8% nell’agosto
2024 e scendendo leggermente al 16,5% nel marzo 2025. Analogamente, il tasso di
disoccupazione per i non studenti tra i 25 e i 29 anni è passato dal 6,1% nel
dicembre 2023 al 7,3% nel febbraio 2025. Tutti i dati citati provengono dalla
serie mensile “Tasso di disoccupazione rilevato nelle aree urbane” (城镇调查失业率)
pubblicata dall’Ufficio Nazionale di Statistica, disponibile in inglese e in
cinese.
[2]
The Economist, ad esempio, ha sostenuto che gli sforzi del governo cinese per
stimolare il consumo interno avrebbero riacceso l’interesse degli investitori
stranieri: “Can foreign investors learn to love China again?” (27 marzo 2025).
Analogamente, la Camera di Commercio Europea in Cina considera l’aumento dei
consumi cinesi come un’opportunità per i marchi stranieri, affermando che
l’incapacità di stimolare la domanda interna “è diventata una delle principali
preoccupazioni per le aziende europee, le cui conseguenze si stanno ormai
ripercuotendo sul resto del mondo”: European Business in China Position Paper
2024/2025 (p. 13). Nel frattempo, anche il governo cinese e i media ufficiali
promuovono frequentemente l’aumento del potere d’acquisto interno come occasione
per i marchi stranieri di trarre profitto, ad esempio nell’articolo di Fan
Feifei, “Consumers pull out all stops for high-quality, foreign brands”, China
Daily Global (16 settembre 2024).
[3]
Uno dei tanti esempi risale all’amministrazione Hu–Wen di oltre un decennio fa:
Kevin Yao e Aileen Wang, “China bets on consumer-led growth to cure social
ills”, Reuters (5 marzo 2013).
[4]
Proprio per questo motivo, importanti teorici del Partito come Wu Zhongmin,
economista e professore di punta presso la Scuola Centrale del Partito (dove si
formano i funzionari di più alto livello), hanno ripetutamente messo in guardia
contro i pericoli di una spesa eccessivamente egualitaria per i servizi sociali,
esortando i leader ad evitare il percorso seguito dall’Europa. In un recente
libro, Why is Social Justice Possible? Social Justice Issues during China’s
Period of Transition(Springer Nature, 2024), Wu afferma: “In alcuni paesi
sviluppati europei, l’egualitarismo si manifesta sotto forma di sistemi di
welfare che superano di gran lunga ogni limite ragionevole” (p. 299); e: “Anche
nei paesi sviluppati europei e americani, la crescita dei servizi pubblici ha
prodotto problemi sociali irrisolvibili… Durante quest’era di spesa pubblica, la
crescita economica dei paesi europei è stata molto più lenta” (pp. 368-369). Se
una politica simile fosse adottata in Cina, Wu avverte che “le persone
diventerebbero generalmente apatiche nei confronti del lavoro. Alla fine, la
società perderebbe la propria vitalità e il potenziale di sviluppo sociale” (p.
369).
[5]
L’incremento del consumo interno è da tempo un obiettivo dichiarato della
politica cinese, e il 13° Piano Quinquennale è solo uno dei tanti documenti che
riflettono questa intenzione. In quel piano, il governo menziona esplicitamente
l’obiettivo di bilanciare importazioni ed esportazioni, sebbene in termini vaghi
e flessibili. Vi si fa riferimento a un “raffinamento della composizione delle
importazioni ed esportazioni” e al mantenimento di un “equilibrio di base nei
pagamenti internazionali”, lasciando aperte le modalità di attuazione. Vedi:
Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme, 13° Piano Quinquennale per
lo sviluppo economico e sociale della Repubblica Popolare Cinese
(2016–2020)(Central Compilation & Translation Press, 2016).
[6]
“2024年中国伞出口数量、出口金额及出口均价统计分析” [Analisi statistica delle esportazioni cinesi di
ombrelli nel 2024: quantità, valore e prezzo medio all’export], 华经情报网 (25
febbraio 2025).
[7]
È difficile determinare con precisione il prezzo di fabbrica degli ombrelli
venduti sul mercato interno, ma questa è la nostra migliore stima. I prezzi
esatti e i margini di profitto in ciascuna fase della filiera – dalla fabbrica
al rivenditore finale – sono informazioni altamente riservate e inferiori ai
prezzi di listino online. Questa stima di 10 yuan si basa su un breve sondaggio
tra i siti di vendita all’ingrosso come Made-in-China, 1688 e Alibaba, integrato
da conversazioni con persone del settore import-export. Uno di questi
interlocutori ha anche osservato che molti produttori cinesi adottano un
approccio rudimentale “costo più margine”, solitamente pari al costo + 5–10%.
Questo approccio, pur considerato elementare nei mercati più sviluppati,
riflette la forte concorrenza e le strategie improvvisate che caratterizzano il
settore manifatturiero cinese, duro e volatile.
[8]
“雨伞市场数据深度调研与发展趋势分析报告” [Rapporto di ricerca approfondita e analisi delle tendenze
di sviluppo del mercato degli ombrelli], 先略研究院 (21 maggio 2024).
[9]
“Umbrellas in China,” Observatory of Economic Complexity (s.d.).
[10]
Secondo i dati della Banca Mondiale per il 2023, la spesa finale per consumi
delle famiglie in Cina ha rappresentato circa il 39,1% del PIL, mentre le
esportazioni ammontavano al 19,74%.
[11]
Poi c’è l’altro lato della medaglia, quello finanziario del commercio, che
spesso riceve meno attenzione. I profitti derivanti dalle esportazioni cinesi
vengono incanalati attraverso le banche cinesi, trasferiti alla banca centrale e
infine reinvestiti nel sistema finanziario statunitense tramite l’acquisto di
titoli del Tesoro e altri asset denominati in dollari, completando un circuito
strettamente interconnesso di commercio e finanza che funziona da decenni. È
solo un altro fronte del conflitto USA–Cina, che coinvolge anche i banchieri
americani – un fronte che Trump ha già provato a forzare, con scarso successo.
Per ora, tuttavia, la struttura di fondo di questo sistema probabilmente resterà
intatta: le merci continuano a fluire e il denaro torna alla Banca Popolare
Cinese dagli Stati Uniti, con tanto di interessi.
[12]
Arjun Kharpal, “Trump dice di non volere che Apple produca in India: ‘Ho avuto
un piccolo problema con Tim Cook’,” CNBC (15 maggio 2025).
[13]
Allo stesso modo, al governo statunitense non importa nulla delle condizioni
lavorative generali (o della loro assenza) del cittadino medio americano. Trump
e i suoi hanno usato ogni leva dello Stato per tagliare la spesa pubblica e
arricchire chi è già scandalosamente ricco, senza muovere un dito per affrontare
crisi come la precarietà lavorativa, l’alloggio o l’assicurazione sanitaria. In
effetti, mentre il secondo mandato di Trump è iniziato con la dichiarazione di
una “età dell’oro” per i ricchi, le sue istruzioni per la classe lavoratrice
americana si sono sostanzialmente ridotte ad aspettare qualche anno dopo
l’inizio della sua campagna tariffaria affinché si materializzasse una grande
rinascita manifatturiera. Vedi: Alexandra Hutzler, “Trump says it could take 2
years before tariffs result in American manufacturing boom,” ABC News (4 aprile
2025).
La deriva autoritaria del presidente di El Salvador.
Bukele celebra il suo sesto anno di mandato e il primo dalla sua controversa
rielezione, sostenendosi su un regime d’emergenza che accumula denunce per
violazioni dei diritti umani e la persecuzione delle voci critiche.
Da Comitato CarlosFonseca
Questa domenica il presidente di El Salvador, Nayib Bukele, ha compiuto sei anni
a capo dell’Esecutivo, nel quadro del primo anniversario della sua rielezione
nonostante la proibizione costituzionale. Bukele guida un governo che mantiene
l’economia come una sfida irrisolta, e sostiene la propria popolarità mediante
uno stato d’emergenza e non avendo dubbi nel silenziare le voci critiche.
Il mandatario, che coltiva un’immagine di leader moderno e di sfida, ricorre
anche ai classici meccanismi dell’autoritarismo per blindare il proprio potere
di fronte alla minaccia della dissidenza. Questo nuovo anniversario giunge nel
momento più alto del suo consolidamento autoritario: solo a maggio, il suo
governo ha arrestato almeno15 oppositori, e una dozzina di giornalisti e
attivisti hanno abbandonato il paese per timore di rappresaglie.
Lo scorso 19 maggio, Ruth López, avvocata anticorruzione dell’organizzazione
Cristosal e una delle voci più critiche del governo, è stata arrestata per una
presunta malversazione di fondi pubblici. Finora, non è stata formulata nessuna
accusa formale, e continua ad essere detenuta senza che sia rispettato il dovuto
processo. Simultaneamente, il governo ha approvato la Legge sugli Agenti
Stranieri, strumento che permette al governo di controllare e di restringere
l’attività di organizzazioni che mettono in discussione la sua politica di
sicurezza e la sua legalità.
Con doppia nazionalità, salvadoregna e statunitense, Bukele è giunto al potere
nel 2019 e si è trasformato nel primo presidente del paese a sfidare apertamente
la Costituzione cercando ed ottenendo la rielezione. Durante questo secondo
periodo, ha promesso di “sanare” l’economia dopo, secondo lui, aver curato il
paese dal “cancro” della violenza delle pandillas.
Bukele ha ottenuto la sua rielezione appoggiandosi su uno stato d’emergenza -una
misura straordinaria adottata nella sua lotta contro le pandillas- che da anni
sostiene, e ha mandato alle stelle la propria popolarità avendo ridotto gli
indici di violenza, arrestando circa 87.000 persone. Questo meccanismo è stato
segnalato da molteplici organizzazioni per le sistematiche violazioni dei
diritti umani, incluse detenzioni arbitrarie. Dalla sua implementazione,
l’Assemblea Legislativa -dominata dal partito governativo Nuevas Ideas- ha
prorogato lo stato d’emergenza per periodi di 30 giorni in 39 occasioni.
In questo contesto, si sono registrate più di 400 morti di persone sotto la
custodia statale e più di 6.000 denunce di violazioni dei diritti umani.
Nonostante il suo discorso trionfalistico, i sondaggi indicano che, già alla
fine del suo primo mandato, la principale preoccupazione della popolazione ha
smesso di essere la sicurezza ed è diventata la situazione economica: durante la
sua gestione, El Salvador è rimasto indietro nella crescita economica nella
regione e, secondo cifre ufficiali, la povertà generale è passata dal 22,8 al
27,2 per cento delle famiglie.
2 giugno 2025
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* Immagine: Prigionieri nel Centro di Confino contro il Terrorismo a Tecoluca,
El Salvador. (Ufficio stampa della presidenza di El Salvador attraverso AP,
Archivio)
tratto da Kaos en la Red