Riprendiamo da Comitato Carlos Fonseca questo interessante commento sul
comportamento della sinistra latinoamericana di questi ultimi mesi.
Di Raúl Zibechi
In Ecuador e in Bolivia si stanno mettendo in evidenza i peggiori comportamenti
delle sinistre e dei progressismi. In ambedue i casi si tratta di una deriva
pragmatica che sostituisce l’etica per ambizione di potere e di lusso, mettendo
da parte qualsiasi proposta programmatica, trasformando la politica in un mero
esercizio di convenienze personali per ottenere vantaggi. Non è nuovo,
certamente, ma nei due paesi menzionati tutto già passa senza il minimo
tentativo di dissimularlo.
In Ecuador, i nove membri dell’assemblea del Pachakutik, partito di sinistra
legato al movimento indigeno, hanno firmato un accordo con il governo di Daniel
Noboa (giudicato da queste correnti come di ultradestra), per permettergli di
governare dato che non ha una maggioranza parlamentare. Hanno dichiarato che lo
hanno fatto per “amore del paese”, ma nascondono i benefici che ottengono con un
tale atteggiamento che apre le porte ad un governo antipopolare, privatizzatore
e fortemente repressivo.
Il partito di Rafael Correa non è rimasto indietro. Dopo aver firmato un accordo
con la sinistra indigena e con il Pachakutik per il sostegno a Luisa González al
secondo turno delle recenti elezioni, la candidata ha proposto niente di meno
che Jan Topic (un altro di ultradestra) come futuro ministro dell’Interno nel
caso avesse vinto le elezioni. Tranelli su tranelli, sgambetti da tutti i lati,
che non fanno altro che screditare le forze che si dicono di sinistra.
In Bolivia c’è poco da aggiungere al teatro dell’assurdo di cui sono
protagonisti Evo Morales e il presidente Luis Arce, ambedue dello stesso
partito. Rafael Bautista lo ha detto in modo chiaro in un recente articolo:
“Dietro tutte le offerte di «salvare la Bolivia», non c’è nessuna salvezza ma il
vantaggio che dà una situazione generata per dare una continuità illegittima al
medesimo circolo vizioso di un sistema e una cultura politica esaurita (che
intendono ancora preservare coloro che a malapena vedono il potere politico come
un pulsante patrimoniale)”.
Il pensatore boliviano aggiunge che “nei 14 anni del «governo del cambiamento»,
ugualmente si è continuato con il sistema delle prebende e il corporativismo dei
dirigenti per dare potere a dei settori per pura convenienza politica”. Senza
differenze programmatiche, il contrasto tra Morales e Arce rimane una semplice e
brutale lotta per il potere personale, dove i caudillios sostituiscono le
proposte politiche per ambizioni personali.
A questo si è ridotta la sinistra nel continente: ambizioni di caudillos e di
piccoli gruppi per impadronirsi delle briciole che cadono dal tavolo del
banchetto neoliberale. I popoli rimangono fuori da questa speculazione di élite
progressiste e appaiono solo come risorse per vincere l’avversario. Perché non
riescono più a dissimulare con le parole la crisi etica che li sta screditando
senza rimedio.
La cosa più triste è che non c’è il minimo sintomo di autocritica, che i
dirigenti persistono nell’inganno, a continuare un cammino che conduce al
disastro senza consultare nessuno, oltre che la propria ombra. Aver separato
l’etica dalla politica è stato come consegnarsi al più crudo pragmatismo, nel
quale risaltano le ambizioni personali. Poco più.
Dobbiamo comprendere che la sinistra è una cosa del passato. Non possiamo
continuare ad essere abbindolati dall’assurda idea, smentita mille volte dai
fatti, che esista una contraddizione destra-sinistra, perché sono esattamente la
stessa cosa. Le presunte differenze sono appena un teatro, uno show, per
mantenere la popolazione e i movimenti sospesi in un inesistente dilemma.
La fine delle sinistre va di pari passo con la crisi dell’Occidente, nel cui
seno sono nate, e con i cambiamenti sismici e traumatici del sistema-mondo, che
non presuppongono nessun miglioramento per i popoli ma per le élite che già si
sono sistemate di fronte ai cambiamenti futuri.
Ma, soprattutto, dobbiamo comprendere che i politici di sinistra fanno parte
delle élite, di quelli che stanno in alto, che hanno appreso a maneggiare i modi
di coloro che stanno in basso per ingannarli meglio. Gli inganni impiegheranno
un po’ di tempo ad essere scoperti dalla popolazione che li sostiene, ma non
saranno eterni per quanto dannosi possono essere.
Un’ultima questione: il capitalismo non potrebbe reggersi se non esistesse tale
“sinistra”. Il sistema ne ha bisogno, come sono necessarie le droghe per
facilitare il dominio perché in questo modo controllano i desideri popolari e le
sue organizzazioni. Insomma, la sinistra è una droga sistemica.
7 maggio 2025
Desinformémonos
Traduzione del comitato Carlos Fonseca
Source - InfoAut: Informazione di parte
Informazione di parte
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sta viaggiando in Medio Oriente
come annunciato da giorni incontrando diverse personalità politiche e
tratteggiando la sua strategia in politica estera.
da Radio Blackout
Al secondo giorno nel Golfo Trump ha incontrato Al Sharaa, leader siriano.
L’esito dell’incontro ha visto la sospensione delle sanzioni contro la Siria e
il ritiro dei Marines dalle basi Usa. In cambio di alcune pesanti richieste che
hanno un duplice obiettivo: da un lato, fare sì che il maggior numero di Paesi
arabi debba riconoscere Israele entrando negli Accordi di Abramo e, dall’altro,
ricomponendo una scacchiera in favore degli Usa puntando su chi pendeva sul
piatto della bilancia rappresentato dai BRICS. Tra le altre richieste di Trump
figurano l’espulsione dai confini siriani dei “terroristi”, dunque palestinesi,
Hezbollah e milizie filo-Iran, prendere in consegna i tre campi di detenzione in
cui si trovano gli affiliati a Daesh nel nord-est della Siria, escludendo dalla
gestione la coalizione curda del Rojava e, infine, viene richiesto a Al Sharaa
di combattere le sacche di Daesh ancora attive sul territorio.
Un altro obiettivo del viaggio di Trump riguarda la distensione con l’Iran, in
particolare per quanto riguarda il programma di arricchimento dell’uranio
infatti, l’Iran sembrerebbe disposto a fare delle concessioni sul programma
nucleare in cambio di un alleggerimento delle sanzioni economiche.
Trump nel suo viaggio ha inoltre approfittato per concludere ampissimi affari:
si parla di accordi che in Qatar stanno venendo firmati per la cifra totale di
1200 miliardi di euro sul volume degli scambi e che riguardano la vendita di
Boeing 737 al Qatar, investimenti sul GNL americano, sulle infrastrutture e su
vendite di armamenti, in particolare droni e sistemi anti-drone.
Ai nostri microfoni Giorgio Monestarolo, docente di storia della rete Scuola per
la Pace
Il 26 maggio a Napoli si terrà un summit della NATO sul tema della “Sicurezza
nel Mediterraneo”, i movimenti sociali cittadini hanno indetto un contro summit
per ribadire la contrarietà alla guerra, l’opposizione al riarmo e al genocidio
in Palestina.
da Radio Blackout
Di seguito ripubblichiamo il testo della chiamata diffusa da Laboratorio
Politico Iskra in cui vengono messi in luce i temi della mobilitazione e, ai
nostri microfoni, Ciccio di Iskra approfondisce il significato del concetto di
“sicurezza”, quanto oggi venga strumentalmente utilizzato dall’alto quando i
territori hanno esigenze reali di messa in sicurezza e tutela che restano
completamente ignorate.
L’indizione di un summit “per la sicurezza del mediterraneo”, allargato alle
delegazioni di paesi quali Libia e Israele, è semplicemente un ossimoro. Ci
chiediamo infatti quale sicurezza garantiscano ai cittadini del mediterraneo i
massacri di Israele a Gaza e in Cisgiordania e le bombe sganciate sul Medio
Oriente. Una situazione che assume tratti ancor più grotteschi, se si pensa che
sol pochi giorni fa il governo israeliano ha annunciato il piano di invasione e
occupazione militare di Gaza. O quale sicurezza garantiscano agli esseri umani i
padroni dei lager libici, ai quali il governo italiano e l’unione europea,
attuale e precedenti, appaltano la gestione dell’immigrazione.
“Sicurezza” oggi è il termine ombrello sotto il quale vanno le peggiori torsioni
autoritarie del nostro presente: genocidio, guerra e militarizzazione verso
l’esterno e repressione di qualsiasi voce dissonante verso l’interno con
l’approvazione recente di un pacchetto sicurezza- l’ex disegno legge 1660
convertito in decreto ed entrato in vigore un mese fa – liberticida e da stato
di polizia. una manovra che mette in discussione il diritto di sciopero e di
protesta dei lavorator in un paese dove le disuguaglianze sociali aumentano, la
marginalità e sempre più diffusa, l’impossibilità di avere un futuro dignitoso
ci isola dagli altri, costringendoci a vite sempre più precarie, la ricchezza di
pochi si alimenta sulla miseria di molti, chi ci governa ha già deciso qual è la
soluzione per affrontare la crisi: spendere soldi pubblici in armi per far
arricchire l’industria delle armi, corrispondere all’innalzamento della spesa
bellica al 3,5 0 addirittura al 5% del pil come richiesto dagli usa e sperare in
una riconversione militare dell’automotive. miliardi di euro verranno regalati
alle aziende belliche che hanno sempre avuto l’interesse a speculare
economicamente sui conflitti nel mondo.
Quelle stesse aziende che finanziano Israele guadagnando sul genocidio del
popolo palestinese e sulla pulizia etnica di quei territori, che direzionano la
ricerca pubblica a fini bellici, che lucrano sulla guerra e sullo sfruttamento
estrattivo dei territori colonizzati. in questo contesto noi siamo semplici
ingranaggi di un meccanismo che non è in grado di offrirci un futuro dignitoso,
di autodeterminazione, benessere, più tempo libero, pace ed equilibrio con i
popoli e la natura. mentre i signori della guerra si riuniscono nello splendido
isolamento delle dorate sale, ad attenderli all’esterno ci sarà una città
blindata, chiusa alle proprie cittadine e cittadini. quale migliore immagine
della nostra società: da un lato il consesso che prepara le future guerre e
dall’altro i lavoratori e le lavoratrici sulle cui spalle ricadrà la futura
miseria. alla luce di ciò risulta necessario opporsi con forza al riarmo
dell’unione europea e combattere la narrazione bellicista promossa a reti
unificate.
Rigettiamo qualsiasi tipo di argomento atto a giustificare le ipocrite “spese
per la sicurezza” come una necessità inderogabile. come di consueto, il prezzo
di questa follia guerrafondaia viene fatto pagare ai popoli, non solo tramite il
loro sangue, ma anche con continue privazioni economiche non c’è nulla di
inevitabile in questo presente di povertà e nel futuro di sofferenza che ci
prospettano. non cadiamo nella vuota propaganda di un sistema che ci stritola.
la guerra non è una fatalità. la guerra è la degna soluzione alle irrisolvibili
contraddizioni di un sistema economico inumano.
Riceviamo e pubblichiamo da compagne e compagni di Roma questo appello in
solidarietà a Tarek Dridi, Anan, Alì e Mansour.
Mercoledì 21 si invitano tutt a partecpare al presidio in solidarietà al
tribunale a L’Aqula per il procecesso di Anan, Alì e Mansour, mentre giovedì 22
al faro del gianicolo si porterà solidarietà a Tarek chiuso tra le mura del
carcere di Regina Coeli.
Arrivato dalla Tunisia nel 2008 a 25 anni, in questo momento Tarek si trova nel
carcere di Regina Coeli, arrestato in differita per la manifestazione del 5
ottobre in solidarietà con il genocidio della popolazione palestinese nella
striscia di Gaza. Il 14 aprile è stato condannato a 4 anni e 8 mesi con rito
abbreviato. Gli si contesta il reato di resistenza, di aver lanciato bottiglie e
aver attaccato il plotone con un ombrello, tutti fatti che non vengono però
comprovati dai video.
Libertà per Tarek,Anan, Ali e Mansour
Il 5 ottobre è piovuto tantissimo. Finita la pioggia, i lacrimogeni: hanno fatto
di tutto per impedire che il sole illuminasse le bandiere della Palestina.
Hanno fatto di tutto affinché in quella giornata, a Roma, non ci fosse una
manifestazione contro il genocidio. Hanno fatto di tutto e nonostante ciò, non
ci sono riusciti. Lo Stato italiano ha scelto quel giorno da che parte stare, ma
lo ha scelto anche il giorno in cui ha deciso di arrestare Anan, Ali e Mansour,
perché facenti parte della resistenza palestinese. È chiara la scelta di campo.
In un contesto generale così radicale, fatto di migliaia di morti, altrettanti
che resistono e lo Stato italiano che attacca la solidarietà, non c’è spazio per
ambiguità. Ci possono essere differenze, diversi modi, ma è indubbia la scelta
di campo e il processo al quale appartengono. Non è filosofia quanto realtà
concreta.
La storia di Tarek racconta questa realtà qui: molto chiara, molto concreta,
molto ingiusta. Un ragazzo tunisino, arrivato in Italia nel 2008 e che il 5
ottobre, quando ha visto la polizia caricare le bandiere della Palestina, non ha
avuto dubbi su che parte prendere. Si è messo in mezzo, come poteva, come ha
creduto più opportuno. Racconta la storia di un ragazzo come tanti, uno dei
tanti dannati di questa terra, che in quanto tale, per un reato di resistenza, è
stato condannato a 4 anni e 8 con rito abbreviato (più di quanto avesse chiesto
il pm). Tarek è la storia di questo tempo, di questa democrazia coloniale,
perché non è ricco, non è bianco, non ha reti di solidarietà, e quel giorno ha
preso parte a una manifestazione per la Palestina in cui ci sono stati scontri
con le f.d.o. Quanto basta per esercitare tutta la (“legittima”) violenza di uno
Stato occidentale e colonialista.
Quello che però racconta quella giornata è anche un’altra realtà, fatta di
persone che a questo stato di cose non ci stanno. Che contro i valori razzisti e
prevaricatori di questo mondo hanno sfidato i filtri della polizia, preso le
botte, respirato l’odore acre dei lacrimogeni.
Dire che in quella piazza c’eravamo tutti e tutte non è solo uno slogan, eravamo
realmente tantissim*. Come anche tantissime sono le persone che in piazza non
sono mai riuscite ad arrivare, a causa della militarizzazione della città, ma
quel giorno c’erano ugualmente.
L’obiettivo della giornata era fare un corteo per la città, gli scontri, poi,
sono stati l’inevitabile conseguenza. I filtri della polizia all’ingresso della
piazza, la politica sorda che, per impedire la giornata, fa una levata di scudi
unitaria, l’informazione che stigmatizza le ragioni. Nulla di nuovo, l’aspetto
inedito è stata la quantità, e la determinazione, delle persone che quel giorno
sono scese in strada. Lo Stato italiano ha scelto da che parte stare, e per
difendere la propria ragione è disposto a tutto. Ad esempio approva, sotto forma
di decreto, quello che era il ddl1660, ennesimo passaggio che riduce gli spazi
di libertà.
Quel giorno la realtà è stata chiara: la libertà non si concede, si prende a
spinta.
CI VEDIAMO MERCOLEDÌ 21 MAGGIO ORE 9:30 AL TRIBUNALE A L’AQUILA PER IL PROCESSO
DI ANAN, ALÌ E MANSOUR.
CI VEDIAMO GIOVEDÌ 22 MAGGIO ORE 17:30 AL FARO DEL GIANICOLO PER ROMPERE IL
SILENZIO E PORTARE SOLIDARIETÀ A TAREK.
SCUOLE E UNIVERSITÀ DI PACE.
FERMIAMO LA FOLLIA DELLA GUERRA
Riprendiamo da Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle
università
CONVEGNO NAZIONALE, ROMA 16 MAGGIO 2025
SPIN TIME, VIA DI SANTA CROCE IN GERUSALEMME, 55, ROMA ORE 9.00-17.30
ASSEMBLEA NAZIONALE, ROMA 17 MAGGIO 2025
SEDE NAZIONALE UAAR, VIA FRANCESCO NEGRI 67/69, ROMA ORE 9.00-18.00
Dopo l’esperienza positiva dello scorso anno (clicca qui per tutti i
riferimenti), l’Associazione Nazionale “Per la Scuola della Repubblica“- OdV,
(soggetto accreditato alla formazione Decreto MIUR 5.7.2013 Elenco Enti
Accreditati/Qualificati 23.11.2016) insieme all’Osservatorio contro la
militarizzazione delle scuole e delle università hanno organizzato a Roma per il
16 maggio 2025 un Convegno nazionale in presenza e online sul processo di
militarizzazione dei luoghi della formazione e sulla necessità di costruire
percorsi di pace all’interno di un quadro europeo e mondiale che vira
inesorabilmente verso un conflitto globale.
Il corso, aperto a tutta la cittadinanza e gratuito, rientra nell’ambito della
Formazione docente; tutto il personale scolastico è esonerato per tutta la
giornata dal servizio, ai sensi del CCNL vigente. Per iscrizione del personale a
tempo indeterminato Codice SOFIA 98693 (clicca qui per aprire la piattaforma
SOFIA, accedi con SPID e cerca il corso con il codice 98693). Al convegno si
potrà partecipare anche da remoto con il link
https://us02web.zoom.us/j/84347922587?pwd=poPvxORKgLQxohsaP3YT8rJOMUWHuq.1 su
piattaforma ZOOM:
Coloro che volessero informazioni e il personale a tempo determinato possono
inviare un messaggio o telefonare al n. 347-9421408 (Cosimo Forleo).
Prenotazioni fino ad esaurimento posti.
«Il sei marzo scorso, a Bruxelles, il Consiglio europeo dei capi di Stato e di
governo ha approvato ufficialmente ReArm Europe, il piano per il riarmo europeo
da 800 miliardi di euro per potenziare la difesa comune. 800 miliardi che
saranno sottratti alle spese sociali (sanità, scuola, trasporti…), nonostante le
difficoltà economiche che oggi attraversano le maggiori potenze continentali. Di
più, il riarmo è indicato anche come un credibile volano, grazie alla
cooperazione fra capitale pubblico e privato, per lo sviluppo economico europeo.
[…] Come negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, tanti, troppi,
intellettuali stanno assecondando questa escalation bellica. C’è chi ribadisce
la superiorità intellettuale/culturale del mondo occidentale (roba da far
impallidire persino le teorizzazioni del Darwinismo sociale) e chi si rammarica
nel vedere una gioventù europea incline alle “mollezze” e, quindi, poco
disponibile alla guerra. […] Impediamo che ragazze e ragazzi siano
quotidianamente oggetto della propaganda militare, facciamo vivere nei processi
didattici la bellezza dell’educazione alla pace, perché la nostra Costituzione
ripudia la guerra. Ma, soprattutto, perché solo degli irresponsabili verso
l’intera umanità, possono essere tanto indifferenti di fronte ai conflitti da
auspicarli e prepararli»…dal Bollettino n. 3 dell’Osservatorio contro la
militarizzazione delle scuole e delle università.
PROGRAMMA 16 MAGGIO
MATTINO (9.00-13.00)
8.30 Accoglienza e registrazione dei partecipanti
Moderatrice Alessandra Alberti
Scuole e Università di Pace. Fermiamo la follia della guerra
Ludovico Chianese, Presidente Osservatorio contro la militarizzazione delle
scuole e delle università
La scuola del ReArm Europe: insegnare le competenze di guerra
Anna Angelucci, Presidente Associazione Nazionale Per la Scuola della Repubblica
OdV
Il sistema guerra. Ideologia e pratica dello sterminio nell’età del
turbocapitalismo
Angelo d’Orsi, Già Ordinario di Storia del pensiero politico, Università degli
Studi di Torino
Il commercio di armi mondiale e il ruolo dell’Italia
Futura D’Aprile, Giornalista freelance – Il Fatto Quotidiano, Domani,
Altraeconomia
Pausa caffè
Moderatrice Maria Teresa Silvestrini
La costruzione sociale della guerra. Una prospettiva di analisi
Maria Perino, Già docente di Analisi dei Processi Migratori all’Università del
Piemonte Orientale
Sull’orlo dell’abisso: nonviolenza o non-esistenza
Alex Zanotelli, Missionario comboniano, Direttore Mosaico di Pace
POMERIGGIO (14.30-18.00)
Moderatore Michele Lucivero
Il ritorno della leva e l’impatto sulla scuola
Serena Tusini, Docente Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e
delle università
Militarismo e antimilitarismo in Turchia e Israele
Murat Cinar, Giornalista freelance
Umanità violata. La pace e il diritto internazionale
Roberta de Monticelli, Già docente di Filosofia all’Università di Ginevra e
all’Università San Raffaele di Milano
Previsto intervento di rappresentanti di associazioni studentesche e dibattito
Conclusioni: Pace e diritti, decolonizzare il pensiero per costruire nuovi
percorsi didattico-educativi
Antonino De Cristofaro, Docente Osservatorio contro la militarizzazione delle
scuole e delle università
PROGRAMMA 17 MAGGIO 2025
Assemblea Nazionale Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle
università
Si è spento Pepe Mujica, guerrigliero tupamaro ed ex-presidente dell’Uruguay.
Nato a Montevideo il 20 maggio 1935 contadino fioricoltore, José Alberto Mujica
Cordano, negli anni ‘60 divenne membro della guerriglia rivoluzionaria di
sinistra Movimento di Liberazione Nazionale – Tupamaros, passando per questo in
galera oltre dieci anni, molti dei quali in isolamento totale, assieme ad altre
migliaia di compagne-i.
Subì torture, privazioni, malattie. «A volte, il dolore è una cosa positiva se
si è in grado di trasformarlo in qualcos’altro», dirà Mujica agli studenti
dell’American University di Washington nel 2014. La prigione «è stata brutta, ma
allo stesso tempo ho ritrovato me stesso. Se mai vi dovesse succedere qualcosa,
cercate di ricordare che siete forti, che potete ricominciare e che ne vale la
pena». Mujica fu liberato solo nel 1985 grazie all’amnistia generale concessa
dalle forze democratiche.
Uscito dal carcere, nel post-dittatura aveva scelto la strada della politica
parlamentare, diventando tra il 2010 e il 2015 presidente della Repubblica con
la coalizione del centrosinistra uruguaiano, il Frente Amplio.
Al di là delle sue note citazioni e delle sua coerenza nell’attenersi ad uno
stile di vita sobrio anche durante gli anni della sua presidenza Mujica è stato
uno dei punti di riferimento della sinistra latinoamericana anche per la sua
interpretazione del rapporto tra progresso e sviluppo, visti come utili quando
funzionali alla “felicità umana” e non al “dio mercato”. Una figura scevra dal
carrierismo e dalla sete di potere che caratterizza ormai gran parte della
politica istituzionale, protagonista di quella ondata di movimentazioni sociali
che ha portato la sinistra a governare il continente in una fase di profondi
cambiamenti tra gli anni ’90 ed il primo decennio del 2000.
Oggi il suo feretro è stato salutato tra gli applausi dalla popolazione di
Montevideo. Un guerrigliero presidente, un presidente contadino, una radicale
alterità.
Un ricordo ai microfoni di Radio Onda d’Urto da Rodrigo Andrea Rivas,
giornalista di origini latinoamericane.
Riprendiamo l’indizione dell’assemblea pubblica e segnaliamo il percorso di Stop
Riarmo che si sta sviluppando a Torino.
ASSEMBLEA PUBBLICA / STOP RIARMO / 22 MAGGIO ORE 18 / COMALA
Abbiamo l’esigenza di incontrarci per organizzare lo stop al riarmo generale,
contrastare il partito della guerra che si riassume nelle posizioni
liberal-sovraniste, rappresentare una proposta praticabile per chi non si
riconosce in un futuro di militarizzazione e guerra in ogni ambito delle nostre
vite.
A seguito della grande giornata contro il riarmo e a sostegno della Palestina
del primo maggio scorso che ha visto scendere in piazza nello spezzone sociale
cinquemila persone, pensiamo sia importante continuare a mobilitarsi su questi
temi.
Non soltanto il primo maggio ha rappresentato questa necessità generale ma
numerose piazze, dal 24 aprile torinese a piazze sparse in tutta Italia contro
la guerra, mostrano quanto la questione sia sentita in maniera trasversale alla
società.
Invitiamo dunque realtà, collettivi, singoli cittadini e cittadine, attivist*,
comitati, persone, chiunque pensi che sia ora di unirsi per fermare la corsa al
riarmo che stiamo vivendo quotidianamente a partecipare all’assemblea pubblica
di giovedì 22 maggio ore 18 presso l’Associazione Comala.
Riarmo, oltre a preparare un terreno di disponibilità all’andare in guerra,
significa già qui ed ora investimenti nell’industria bellica, peso e ruolo
politico di aziende belliche come Leonardo e tutte quelle presenti sul nostro
territorio nelle scelte politiche, significa che il lavoro, la formazione, la
ricerca, la vivibilità nei quartieri e sui territori, la sanità vengano
sacrificati in nome della guerra.
Significa che le poche risorse vengono dirottate verso la ricerca bellica e il
dual use civile – militare, come le mobilitazioni delle Intifade Studentesche
hanno mostrato in oltre un anno di lotta.
L’assemblea avrà l’obiettivo di condividere un quadro composito di tutti i
motivi per i quali sia urgente attivarsi contro il riarmo della società e di
delineare le prossime tappe per mobilitarsi collettivamente in modo da essere
incisivi nello stoppare questo ingranaggio.
A pochi giorni dalla manifestazione del 10 maggio, che ha portato migliaia di
valsusini nuovamente in marcia contro il deposito di smarino spostato da
Salbertrand alla piana di Susa, ci teniamo a pubblicare in due puntate questa
intervista alla ricercatrice Paola Imperatore.
da notav.info
Abbiamo invitato Paola all’assemblea che si è tenuta mercoledì 7 maggio al
centro sociale Borgesa di Avigliana, a cui hanno partecipato istituzioni locali,
comitati No Tav della bassa valle, il Coordinamento Pendolari Valsusa, docenti
del liceo Norberto Rosa e tant* giovani che animano la vita politica della
nostra Valle.
Ci sembrava importante condividere e sostanziare con tutt* una riflessione che
da qualche tempo si sta discutendo all’interno del Movimento: i primi due
cantieri stanno cominciando a mostrare le loro conseguenze disastrose sul nostro
territorio, un terzo sta per essere installato e sarà potenzialmente il più
impattante su tutto l’eco-sistema (ambientale, economico e sociale) valsusino.
Vediamo sempre meno risorse stanziate per il nostro territorio, servizi basilari
dal trasporto pubblico all’istruzione, dalla sanità alle opere per il dissesto
idro-geologico, sempre più in difficoltà, il tutto per dirottare denaro su
guerra e grandi infrastrutture che hanno funzioni “dual-use” (civile e
militare).
La Val di Susa è stata eletta a zona di sacrificio in favore di una opera
“strategica” (ma per chi?) e non importa quanta devastazione, impoverimento,
disastri ambientali, perdita di biodiversità, salute, abbandono della propria
terra dovrà costare al territorio e all* valsusin*, noi siamo solo un “prezzo
che loro sono disposti a pagare” per il loro obiettivo.
Ribellarsi a questo destino già segnato è ciò che ci sta muovendo oggi a
continuare una lotta trentennale e quella dello scorso sabato è solo la prima
tappa di un percorso per continuare a liberarci da un colonizzatore interno e
garantirci la possibilità di un futuro.
***********
Se ti va di iniziare cominciando a presentarti e posizionarti, così inquadriamo
un po’ le tue ricerche e da dove si sviluppa il tuo punto di vista.
Sono una ricercatrice precaria all’Università di Pisa dove mi occupo di ecologia
politica, ecologia operaia, e sono anche una militante; quindi, sono impegnata
nel mio territorio nelle varie battaglie, come quella contro la base militare
prevista nell’area del parco di San Rossore.
Da ormai una decina d’anni faccio ricerca nell’ambito di conflitti ambientali e
territoriali. Sono partita da un evento più vicino a dove abito, l’alluvione che
nel 2014 ha colpito Carrara, che ha fatto emergere il legame tra la distruzione
del territorio, l’estrattivismo legato al settore lapideo nelle Alpi Apuane e
gli effetti che poi si registravano a valle sulla comunità.
In quell’occasione ci fu una mobilitazione enorme che portò all’occupazione del
Comune che durò per più di due mesi e che diede vita ad un’Assemblea Permanente.
In quel caso, quello che mi colpì molto fu vedere come quel meccanismo di
devastazione avesse innescato un processo comunitario molto forte, senza
precedenti. In generale, mi incuriosiva la capacità di aprire intorno alla
difesa del territorio uno spazio politico nuovo.
A partire da questa esperienza, ho continuato a fare ricerche sui conflitti
territoriali e ho avuto un po’ la fortuna e l’occasione di incontrare territori
e lotte differenti: da quelle contro gasdotti come Tap e Rete Adriatica, a
quelle contro le Grandi Navi, il Muos, il Terzo Valico, l’estrazione intensiva
di marmo. Allargare lo sguardo a quello che succedeva lungo tutto lo stivale mi
fede anche rendere conto che alcune dinamiche di sfruttamento non sono
eccezionali, ma ordinarie e strutturali, e che d’altra parte era necessario
approfondire in modo altrettanto strutturale anche il lato della contestazione e
quello che da essa poteva nascere.
Partiremmo con la prima domanda che un po’ ci interessa approfondire, per poi
arrivare sulla parte che ci tocca più da vicino alla lotta in Val di Susa. Che
cos’è una zona di sacrificio, quali sono le sue caratteristiche e quali sono i
meccanismi che portano un territorio a trasformarsi ed a essere eletto in quanto
tale?
La definizione proviene dagli Stati Uniti e dal gergo burocratico-militare che
definì Zone di Sacrificio Nazionale quelle aree del Paese che venivano
individuate per depositare le scorie radioattive legate ai test nucleari.
Quindi, già nella sua origine, pur venendo dall’alto come concetto, emerge
subito la dimensione di sacrificio per alcuni luoghi considerati di serie B.
Negli ultimi anni questo concetto è stato recuperato dal basso, dai movimenti
sociali e dall’ecologia politica per identificare territori e comunità di scarto
che in qualche modo vengono definite sacrificabili in nome di un presunto
interesse collettivo.
La domanda interessante è, non solo cosa denota il concetto di zona di
sacrificio, ma anche come si diventa una zona di sacrificio e quali processi
innescano questa dinamica centro-periferia che ha tante forme e che dà luogo a
una geografia del potere che non è granitica ma che si muove continuamente
secondo linee di potere. Se storicamente il rapporto gerarchico tra centro e
periferia si innestava nella frattura tra paese colonizzatore/colonie e in
quella città/campagna, credo che la violenta ondata di mercificazione del
vivente sostenuta dalle politiche neoliberiste degli anni Novanta abbia
moltiplicato in modo significativo il numero di territori e comunità divenute
sacrificabili, mettendo in evidenza come la periferia non sia tanto una
delimitazione geografica quanto una condizione di marginalità che tocca da
vicino anche le nostre vite.
Quando si pensa alle zone di sacrificio, si pensa a quei territori che vengono
ritenuti ricattabili, poveri, a basso costo, competitivi e convenienti per il
capitale. La competitività proviene dal fatto che i costi della terra, i costi
fondiari, siano bassi, che si possa reclutare manodopera a basso costo e che si
possa contare su istituzioni con scarso potere di negoziazione. Inoltre, molto
spesso, una delle scommesse di chi investe nei territori marginali – o meglio,
resi marginali – è quella di non incontrare resistenza. Questa è una cosa molto
interessante perché, prima di essere presentati e messi in atto, molti dei
progetti che vengono valutati e stimati dalle imprese, sono stimati anche in
base al rischio di eventuali contestazioni (per esempio furono proprio questi
criteri che mossero la scelta di Melendugno in Puglia per posizionare TAP).
Da questo punto di vista è però importante notare che tante volte queste
valutazioni sono errate, perch non tengono conto delle capacità di reazione
delle comunità e dei territori, e della loro attitudine a mettersi in moto
quando le proprie condizioni di vita e sopravvivenza vengono minacciate.
Questi sono sicuramente elementi di contorno che le aziende e le istituzioni
valutano quando scelgono chi può essere sacrificato, ma ce ne sono anche altri:
quali vite, quali comunità contano di meno dentro la scala del valore
capitalista? A tal proposito, mi viene in mente una riflessione di Razmig
Keucheyan1, un sociologo francese, sul razzismo ambientale. Lui partiva un po’
dal fatto – emerso grazie alle mobilitazioni delle persone razzializzate – che
negli Stati Uniti la maggior parte delle discariche di rifiuti chimici e tossici
fossero localizzate vicino ad aree abitate da persone nere. Nello spiegare
questo meccanismo cercava di mettere in chiaro un elemento: non è che un’azienda
individua una comunità di persone nere o – traslando il discorso all’Italia –
una comunità di persone meridionali o persone povere e decide di conseguenza di
andare lì. Semplicemente il mercato ha un meccanismo molto razionale di
allocazione delle risorse e sceglie di andare dove i prezzi sono più bassi. Il
punto è che la presenza, in quei territori, di alcune categorie inferiorizzate
fa sì che il prezzo di quelle terre e quegli immobili sia più basso, che valga
meno, rendendo competitivo per il mercato investire lì. Questo evidenzia la
dinamica di sedimentazione spaziale delle diseguaglianze, ovvero come la
discriminazione agisce su scala spaziale aumentando i margini di accumulazione
del capitale.
Quello che poi caratterizza la zona in sacrificio è la logica di scambio
ecologico ineguale. Il modello estrattivista regge sullo strutturale processo di
estrazione di risorse, manodopera e natura da territori considerati inferiori
verso i centri economici e finanziari. Questo è un meccanismo che va messo bene
a fuoco perché ci aiuta a capire quando viene riprodotto anche in chiave green o
con retoriche diverse.
Concentrarsi su cosa si produce è necessario ma non sufficiente. Sicuramente ci
sono un produzioni o infrastrutture problematiche di per sé, ma anche quando non
sono immediatamente e chiaramente problematiche dobbiamo capire entro quale
meccanismo si iscrivono e quindi quale logica vanno ad asservire e assecondare.
Per concludere, quindi, in questo senso ciò che caratterizza la zona in
sacrificio è l’elemento di costante inferiorità rispetto ai centri economici e
finanziari che determinano quel flusso e quella logica.
Secondo te, i processi di industrializzazione quanto sono contati in passato
nell’elezione di alcuni territori a zone di sacrificio e quanto contano al
giorno d’oggi in questo sistema nuovi processi come, ad esempio, la transizione
energetica?
Pur concentrandomi negli anni in particolare sui processi che si sono innescati
con il neoliberismo e con la globalizzazione, di sicuro, puntando lo sguardo al
Novecento, ci si rende conto che il polo industriale è un po’ la cifra del
modello di sviluppo di quel secolo: in qualche modo intorno a questo si sono
innescate delle trasformazioni, dei meccanismi e dei processi che
successivamente abbiamo conosciuto anche noi e che hanno portato a delle impasse
in cui siamo ancora oggi impantanati. Penso all’Ilva, ma anche a tantissimi poli
petrolchimici o altre industrie con le quali abbiamo difficoltà a trovare delle
forme di fuoriuscita dal ricatto strutturale.
Guardando invece dagli anni Novanta ad oggi – e il TAV in Valsusa ha fatto un
po’ da preludio a quello che poi sarebbe successo altrove – la grande opera è
diventata a mio avviso il principale meccanismo di accumulazione del capitale:
una volta cambiata e riorganizzata lacatena del valore su scala globale, i
territori a quel punto dovevano fungere da supporto economico alla
globalizzazione, quindi in qualche modo funzionare da anelli di questa catena
economica globale che aveva bisogno sempre di più di linee di trasporto ad alta
velocità, hub del gas e tutta un’altra serie di infrastrutture che oggi sono
pensate, progettate su scala globale e che rispondono a esigenze di un mercato
finanziario su scala mondiale. Tanto intorno al TAV quanto intorno a TAP gli
interessi in gioco non possono assolutamente essere circoscritti né al
territorio né al contesto nazionale, ma chiamano in causa tutta un’altra serie
di soggetti, di attività, di strategie speculative.
Quando parliamo di grande opera parliamo di qualcosa di molto specifico. Non
parliamo di un’infrastruttura che è grande, ma parliamo di un paradigma ben
preciso che ha delle caratteristiche e che è totalmente disgiunto e dissociato
dalla dimensione sociale. I movimenti popolari ed ecologisti negli anni hanno
lottato per avere delle infrastrutture, quindi è fazioso trattare i movimenti
contro le grandi opere come movimenti che si oppongono all’esistenza di
infrastrutture e al progresso. Al centro della discussione c’è un’altra
questione, ovvero: “questa infrastruttura a chi serve? per quale motivo la
facciamo? a quale bisogno risponde?”, ed è questo che in qualche modo i
movimenti hanno messo in evidenza negli ultimi anni nel contestare la grande
opera appunto come paradigma di governo dei territori.
Da un lato la grande opera risponde alle logiche di trasformazione del
capitalismo su scala globale, dall’altro agisce su una serie di assi che
consentono in qualche modo a questo meccanismo di stare in piedi e di
riprodursi.
Il primo è la socializzazione dei costi e la privatizzazione dei profitti che è
un elemento che abbiamo visto essere ricorrente ma anche strutturale, nel senso
che la maggior parte degli investimenti in grandi opere non avrebbero senso di
esistere, non sarebbero mai promossi da nessuno se non ci fosse la possibilità
sistematica di scaricare tutti i costi sociali, ambientali e sanitari verso il
basso e incassare solo i profitti. Questo aiuta anche a capire per quale motivo
si aprono cantieri che non terminano mai: il vero obiettivo è mettere in moto un
meccanismo di spartizione economica e non raggiungere un fine che potrebbe
essere contestato ma quantomeno chiaro.
Il secondo elemento è l’imposizione di un regime di eccezionalità nel governo
dei territori. Questa condizione, se nei primi anni si è in qualche modo
manifestata come una conseguenza della grande opera, in quanto, di fronte
all’incapacità di gestire il conflitto e le contestazioni, le istituzioni e i
capitali si riorganizzavano creando un’impalcatura straordinaria di governo per
annientare la protesta, in un secondo momento questo regime di eccezionalità da
conseguenza è diventato condizione della grande opera. Oggi, in qualche modo,
chi sostiene questo paradigma di distruzione e sviluppo, si prepara le carte in
tavola facendo del regime di eccezionalità unmodello ordinario di governo dei
territori. Questo, ad esempio, lo stiamo vedendo tantissimo anche con il Ponte
sullo stretto di Messina, dove tutta una serie di dispositivi di
militarizzazione, controllo e repressione sono stati disposti in maniera
preventiva, ma lo vediamoanche nel lento, graduale ed inesorabile processo di
svuotamento dei processi democratici attraverso decreti di semplificazione,
decreti sicurezza, decreti sblocca cantieri, e così via, che, uno per uno, hanno
cercato di smontare tutta l’impalcatura di norme che erano state frutto delle
lotte e che senza altro erano insufficienti, ma che comunque garantivano degli
spazi di partecipazione della società alle decisioni.
Il terzo asse su cui si fonda il paradigma grande opere è l’utilizzo di un
modello coloniale di rapporto ai territori che si rivela sia nel modo in cui
vengono narrate le contestazioni delle persone che si oppongono, sia nella
militarizzazione, che è l’espressione più esplicita di un controllo su una
colonia che non risponde all’autorità centrale. Si tratta di un meccanismo che
evidenza il volto più violento del sistema capitalista sorretto dalle
istituzioni e che appoggia su una modalità di narrazione delegittimante, che
agisce in modo costante a screditare chi si oppone.
Ritorno al tema del Ponte sullo Stretto per fare un esempio: una delle tante
pagine Facebook che fanno propaganda pro-ponte ha creato una grafica in cui fa
vedere tutte le città (secondo loro evolute) con un ponte e poi rappresenta
Messina con il volto di una scimmia, associando gli autoctoni ad un
atteggiamento primitivo, come fatto anche dal Ministro delle Infrastrutture
Matteo Salvini in visita a Messina. Vediamo quindi questo tentativo costante di
ricodificare le opposizioni secondo il linguaggio coloniale del progresso.
Oggi la grande opera è esattamente questo meccanismo che trova nell’interesse
strategico nazionale la saldatura tra l’interesse del capitale e l’interesse
dello Stato-Nazione. Mi sembra importante evidenziare un’altra cosa: la grande
opera è un po’ la cifra del neoliberismo e quindi anche del mercato globale.
Per quanto la globalizzazione ci sia stata raccontata come la fase in cui i
confini andavano a erodersi, stiamo vedendo un affermarsi violentissimo degli
stati-nazione e dei confini, e le grandi opere che dovevano servire i flussi
economici globale sono improvvisamente divenute anche strategiche in ambito
militare.
Credo che questo sia un esito in qualche modo naturale del neoliberismo. Il
punto, secondo me, è avere una politica delle infrastrutture che sia vincolata
ai valori etici e sociali di una comunità. Nel momento in cui questi due
elementi – infrastruttura e comunità – non vannoinsieme, l’infrastruttura
diventa uno strumento di violenza che agisce e trasforma il territorio, spesso
anche in modo irreversibile, ridisegnando completamente la geografia sociale ed
ecologica di un territorio.
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1. Nato il 20 novembre 1975, è un sociologofranco-svizzero e attivista della
sinistra radicale, professore all’Università Paris-Descartes. Si interessa
tra le altre cose, al problema dell’ecologia e dimostra che la crisi
ecologica non è indipendente dalle questioni e dalle lotte politiche.
Sottolinea che le conseguenze ambientali dovute all’attività umana
colpiscono in primo luogo le popolazioni e le classi dominate. Secondo lui,
le opposizioni di classe non dovrebbero essere ignorate quando si affronta
la questione dell’ambiente. In numerosi discorsi e forum sviluppa e analizza
il fenomeno che chiama “razzismo ambientale”. Partendo da situazioni
edificanti come la decisione, presa nel 1982, di installare una discarica di
rifiuti tossici nella contea di Warren ( Carolina del Nord ), popolata in
gran parte da neri poveri, Razmig Keucheyan mostra come «la distribuzione
delle popolazioni più vulnerabili debba essere correlata alla divisione
razzista dello spazio fisico, ma anche ai rapporti di potere di genere e
alla distribuzione del danno ecologico contemporaneo (industrie tossiche,
riserve di rifiuti, ecc.)» Reportage di Jérôme Lamy e Arnaud
Saint-Martin sul sito ZILSEL: “ L’État, la nature et le capital : le
triptyque infernal. Compte rendu et entretien flash avec Razmig Keucheyan”,
21 giugno 2014.
Ieri in occasione della giornata di sciopero oltre 20 città si sono mobilitate
in tutta Italia contro la riforma Bernini, contro i tagli alla ricerca e contro
gli investimenti in ottica bellica. Lo sciopero promosso da diversi sindacati
(Flc-Cgil, Usi, Cub, Usb, Cobas, Adl Cobas, Clap) ha visto l’attivazione di
molti atenei attraverso iniziative di blocco, presidi, cortei e occupazioni,
grazie alla mobilitazione delle Assemblee Precarie Universitarie.
Riprendiamo il comunicato conclusivo dell’Assemblea Precaria Universitaria
dell’Università di Torino.
Oggi, a conclusione di una grande giornata di sciopero, siamo entrate in corteo
nel rettorato dell’Università di Torino ed abbiamo deciso in assemblea di
occuparlo.
Quella di oggi è stata una giornata iniziata alla prime luci dell’alba col
blocco della sede del Castello del Valentino: si è trattato di un blocco
integrale della sede durato oltre sette ore, durante le quali abbiamo sospeso
lezioni, attività di ricerca ed uffici amministrativi, per dimostrare quanto il
nostro lavoro sia essenziale per l’università e ribadire come, senza di noi,
questa non possa che fermarsi.
Abbiamo poi sfilato in corteo per le vie della città per dare visibilità alle
nostre rivendicazioni: le abbiamo condivise sia attraversando con le nostre
riflessioni i poli in cui lavoriamo quotidianamente sia portando la nostra voce
nelle strade al di fuori dalle mura dei due atenei della città. É stato un
corteo dell’Università come non lo si vedeva da anni: più di cinquecento
precarie e precari della ricerca, studenti, personale esternalizzato,
tecnico-amministrativo e dei multiservizi si sono conquistate le vie del centro
per portare la loro opposizione contro tagli, guerra e precarietà tra cori,
interventi pubblici e musica. Per le stesse ragioni, il personale bibliotecario
ha chiuso diverse strutture della città per tutta la giornata. É infatti proprio
contro un governo che continua a tagliare risorse a welfare e servizi per
finanziare il business del riarmo – anche attraverso la ricerca universitaria –
che abbiamo costruito il nostro discorso politico, intrecciandolo con quello dei
movimenti studenteschi e delle loro Intifade.
Al termine del pomeriggio, dopo aver toccato i poli di Fisica, Chimica ed
esserci prese diverse importanti arterie del centro, abbiamo raggiunto Palazzo
Nuovo, dove abbiamo raccolto la solidarietà di tantissime studenti che si sono
unite a noi. Da lì abbiamo ancora proseguito verso la prefettura di piazza
Castello per contestare le politiche di riarmo e taglio del welfare del governo,
non prima di fermarci davanti alla Rai per contestare la narrazione tossica dei
media. Il corteo ha poi raggiunto il rettorato, dove ci siamo raccolte in una
numerosissima assemblea in cui siamo confrontate sulle prospettive di bilancio e
rilancio della mobilitazione, decidendo infine di fermarci in occupazione.
Proprio mentre eravamo in assemblea ci è giunta la notizia dell’approvazione di
un ordine del giorno del Consiglio comunale di Torino che si è espresso in
solidarietà della nostre richieste chiedendo il rifinanziamento dell’Università
e la stabilizzazione della sua componente precaria con la conseguente
abrogazione della riforma Bernini.
Il principale dato politico della giornata è questo: la prima mobilitazione
lanciata proprio dalla componente precaria delle università racconta di come nel
corso di questa stagione si sia costruita, a Torino come in tutta Italia, una
profonda consapevolezza collettiva di chi anima quotidianamente le università
fino ad oggi frammentata e finalmente unita. Questo è stato possibile solo
grazie ad un lavoro di rete che ha visto nascere alleanze inedite tra tutte le
figure più invisibilizzate eppure essenziali per l’accademia tutta e che ha
saputo raccogliere una solidarietà trasversale dai sindacati ai movimenti
sociali.
Da oggi la nostra voce suonerà all’unisono ancora più forte e ancora più
consapevole: CONTRO TAGLI, RIARMO E PRECARIETÀ CI RIPRENDEREMO LE UNIVERSITÀ
Di seguito riportiamo la cronaca delle iniziative coperta da Radio Onda d’Urto
Presidi, manifestazioni e assemblee pubbliche sono previste in tutta Italia in
almeno 20 città. Le corrispondenze su Radio Onda d’Urto:
A Torino presidio fin dalle 7.30 di questa mattina. Il collegamento con Matteo,
dell’Assemblea precaria universitaria di Torino.
A Pisa sette concentramenti partiti da singoli atenei sono confluiti in un unico
presidio, come ci racconta Enrico, dell’Assemblea precaria universitaria di
Pisa.
A Milano, appuntamento al presidio alle ore 11.00 in Piazza dell’Ateneo Nuovo
davanti all’Edificio U6 dell’Università degli Studi Milano – Bicocca (M5 Bicocca
o Ponale; stazione ferroviaria di Milano Greco Pirelli). Qui abbiamo raggiunto
Mattia Scolari, segretario della Cub di Milano.
Da Milano, nel pomeriggio, abbiamo sentito anche Carlotta, dell’Assemblea
precaria universitaria, alla quale abbiamo chiesto una valutazione della
giornata di mobilitazione.
A Roma presidio molto partecipato all’Università La Sapienza. Stefano Bertoldi,
nostro collaboratore e conduttore della trasmissione “Scuola Resistente”, ha
realizzato alcune interviste.
A Bologna presidio in Rettorato nel corso della mattinata e corteo a partire
dalle 17.30. Abbiamo sentito Marco, dell’Assemblea precaria universitaria di
Bologna.
Dal corteo bolognese delle 17.30, la corrispondenza su Radio Onda d’Urto di
Maria Giulia, dottoranda dell’Assemblea precaria universitaria felsinea.
Abbiamo tradotto il testo di Mylène Gaulard, docente di economia presso
Università Pierre Mendes France – Grenoble 2, apparso originariamente su
Hors-serie in quanto intende mettere a nudo l’enorme distanza tra la narrazione
dominante occidentale (e principalmente europea) sul conflitto in Ucraina e la
realtà materiale dei rapporti di forza economici e geopolitici che si stanno
ridefinendo su scala globale.
La guerra contro la Russia è oggi il fulcro di una trasformazione sistemica
attraverso la quale il Capitale euro-atlantico tenta di riconfigurare le proprie
economie, principalmente attraverso l’estensione del paradigma bellico.
In Europa, la costruzione della Russia come “nemico esistenziale” risponde a
esigenze strutturali prima ancora che strategiche: serve a fornire un quadro
ideologico coerente per una profonda ristrutturazione industriale, che
altrimenti sarebbe politicamente difficilmente giustificabile. In Germania –
locomotiva industriale dell’UE e oggi per il secondo anno consecutivo in
recessione – si parla esplicitamente di «Wirtschaftswende», una svolta economica
che punta alla riconversione massiccia della filiera industriale verso la
produzione militare: dai settori storici come l’automotive, sempre più orientati
verso veicoli blindati e logistica militare, fino all’industria aerospaziale,
oggi investita da programmi accelerati per la produzione di UAV, droni, sensori
e sistemi di puntamento integrati. A cascata, come stabilito dal piano di
finanziamento europeo presentato a marzo, questa riconversione dovrebbe
interessare gli altri paesi europei, in cui i settori industriali languono o
risentono della decrescita tedesca in quanto integrati nella catena di
produzione a trazione tedesca.
La strategia politica che accompagna questo piano è tanto ambiziosa quanto
fragile: si tratta di bloccare la Russia nel pantano ucraino, logorarla sul
campo garantendo un flusso continuo di armi e aiuti finanziari all’esercito
ucraino e al contempo strangolarne l’economia con un impianto sanzionatorio
senza precedenti, confische extragiudiziali, interruzioni nei flussi commerciali
(do you remember Nord Stream?) e nel sistema dei pagamenti globali.
Tuttavia, come i dati raccolti nel testo dimostrano con chiarezza, questa
proiezione è sempre più lontana dalla realtà. Mentre le economie europee si
muovono a fatica in un contesto segnato da stagnazione, calo degli investimenti
e crescente disoccupazione industriale, la Russia registra una crescita del PIL
che supera il 4%, trainata da una riconversione interna accelerata e da nuovi
circuiti economici alternativi. La crisi non ha marginalizzato Mosca: l’ha
costretta a diversificare, a spostarsi verso l’Asia, a investire nella propria
capacità produttiva – e tutto questo in un contesto in cui il dollaro, pur
restando egemone, vede erodersi lentamente la sua presa sulle dinamiche di
scambio internazionale ed in cui gli Stati Uniti sembrano fare del ritorno al
«protezionismo» e del disimpegno militare un nuovo terreno di manovra.
In questo scenario, la «vittoria finale» sulla Russia come unico esito
accettabile di un conflitto «alle porte d’Europa» appare non solo militarmente
improbabile, ma economicamente di difficile realizzazione. È vero, alla lunga
l’economia russa potrebbe risentire di un conflitto prolungato, ma solo al
prezzo di una lunga e sanguinosa guerra combattuta da centinaia di migliaia di
proletari (per ora russi e ucraini; poi, chissá…). Nel frattempo, l’Europa si
impoverisce, smantella i residui del proprio welfare per alimentare un’economia
di guerra, e si lega mani e piedi alla subordinazione industriale e tecnologica
verso gli Stati Uniti (importando armi, gas liquefatto, software militari e ora
persino munizioni e acciaio) e verso altre nazioni il cui complesso
militare-industriale vede nel riarmo europeo una ghiotta occasione di crescita
(si pensi alla Turchia, che si candida a primo produttore mondiale di droni ed è
pronta ad intraprendere massicce campagne di marketing in Europa).
Essere contro questa guerra – e contro l’ideologia bellicista che la sostiene –
significa rifiutare un paradigma imperiale che si nutre di conflitti permanenti,
destabilizzazione sistematica e compressione delle condizioni materiali di
milioni di persone in nome di un’illusoria supremazia strategica. Non si tratta
di prendere parte al gioco delle potenze, né di «tifare» per Mosca: si tratta di
acquisire ed avere tra le mani gli strumenti per leggere ed interpretare la
realtà senza affidarsi alle costruzioni propagandistiche europee, e saper
utilizzare questi strumenti per indicare il baratro verso cui il capitale
europeo ci sta trascinando.
Buona lettura!
Le cifre della resilienza
Bruno Le Maire, all’epoca ministro dell’Economia, annunciava nel marzo 2022
l’intenzione della Francia e dell’Unione europea di condurre una «guerra
economica e finanziaria totale contro la Russia». Sperava così di provocare «il
crollo della sua economia». Tre anni dopo, sembra che il raggiungimento di
questo obiettivo sia assai lontano: la crescita francese supera di poco l’1%, la
Germania registra un secondo anno consecutivo di recessione, mentre la Russia,
lungi dal crollare, illustra al contrario una crescita del 3,6% nel 2023 e del
4,1% nel 2024. Paradosso inquietante: mentre, secondo le recenti dichiarazioni
di Emmanuel Macron, il paese si è imposto come una «minaccia esistenziale» per
l’Unione europea, la sua traiettoria economica non sembra interessare gli
ambienti accademici[1].
L’uscita della Russia dalla «trappola dei redditi intermedi» nel 2023, ad
esempio, è stata assai poco commentata dagli economisti occidentali. Tuttavia,
una simile prestazione non è affatto trascurabile. Il concetto di «trappola dei
redditi intermedi», reso popolare nel 2007 dagli economisti della Banca
Mondiale[2], evidenzia le difficoltà strutturali incontrate dai paesi il cui
reddito nazionale lordo (RNL) pro capite si colloca tra 1136 e 13845 dollari, e
in particolare la loro quasi-incapacità di accedere al livello dei redditi più
elevati. Generalmente, queste economie faticano a mantenere la propria crescita,
messa in discussione dalla perdita di competitività, dalla limitatezza dei
mercati interni o da una produttività stagnante. Ora, con un reddito nazionale
lordo pro capite che raggiunge i 14250 dollari nel 2023, la Russia risulta
essere il primo paese del gruppo dei BRICS a sfuggire a questa trappola,
superando addirittura la Cina (13390 dollari). Un’evoluzione tanto più
rimarchevole nella misura in cui si dà nonostante le sanzioni e in un clima
geopolitico teso.
Questo stato di fatto dovrebbe incoraggiare un esame rigoroso: siamo di fronte
ad una resilienza economica congiunturale, legata agli idrocarburi e
all’economia di guerra, o a una dinamica più duratura? Cercheremo qui di
decifrare i meccanismi concreti che hanno permesso alla Russia, durante la grave
crisi geopolitica che ha attraversato, di preservare le sue basi economiche.
Le misure prese da questa «economia di rendite» contro le sanzioni
Fino ad oggi, il ruolo di fanalino di coda in seno al gruppo dei BRICS veniva
tanto più facilmente dato per scontato per la Russia, che questa era sospettata
di vivere delle sue risorse naturali, in particolare delle rendite derivanti dal
petrolio e dal gas. Questa critica, che assimila l’economia russa a una
«economia di rendite», insistendo sul fatto che questi due idrocarburi sono
all’origine di quasi il 15% del PIL russo e di un terzo delle entrate pubbliche,
dev’essere tuttavia sfumata.
In effetti il concetto di rendita, quando applicato al caso della Russia,
trascura gli sforzi di diversificazione intrapresi dal Paese negli ultimi
vent’anni. Come «economia di rendite», la Russia avrebbe dovuto sperimentare un
collasso economico, data un’economia pericolosamente compromessa da più di
20.000 sanzioni imposte dal 2014 e aumentate dopo il 2022. Queste sanzioni hanno
contribuito, è vero, a una diminuzione del 24% delle entrate russe derivanti da
petrolio e gas nel 2023, cui è seguito un ulteriore calo del 10% nel 2024.
Questo calo si spiega principalmente attraverso due fattori: il tetto di 60
dollari al barile imposto al prezzo del petrolio russo e l’embargo europeo sulle
importazioni di idrocarburi. Per aggirare queste restrizioni, la Russia ha anche
dovuto ricorrere a una flotta petrolifera parallela, generando costi logistici
elevati al fine di trasportare le sue esportazioni presso i suoi principali
clienti, la Cina e l’India. Ma alla fine, piuttosto che avere un impatto sulla
crescita economica russa, la quasi rottura dei legami commerciali con l’Unione
europea e gli Stati Uniti ha soprattutto permesso di accelerare un
riorientamento del commercio russo verso l’Asia, rafforzando la posizione della
Cina come primo partner del Paese. Allo stesso modo, l’esclusione parziale del
sistema SWIFT (la rete di messaggistica criptata utilizzata dalle banche per
effettuare transazioni finanziarie internazionali), una sanzione che avrebbe
dovuto paralizzare il funzionamento delle banche russe, è stata rapidamente
aggirata grazie all’introduzione anticipata di soluzioni alternative come il
sistema SPFS, l’equivalente russo di SWIFT sviluppato dal 2014 e l’uso crescente
di valute regionali.
Queste misure puntuali, che vengono spesso citate, non sono tuttavia sufficienti
a spiegare la resistenza dell’economia russa. Piuttosto che soffermarci su
fenomeni secondari e congiunturali, dobbiamo tornare sulla strategia economica
implementata dall’inizio del decennio 2000. Il processo di diversificazione
intrapreso a quei tempi spiega infatti il mantenimento di una crescita
relativamente elevata, anche nel recente periodo di calo dei prezzi del
petrolio. Tanto più in un Paese che il crollo del sistema sovietico sembrava
aver condannato alla stagnazione.
Ritorno dello Stato dopo il crollo degli anni ’90
Gli anni ’90 rimangono infatti per la Russia il teatro di un disastro economico
senza precedenti in tempo di pace: la terapia d’urto neoliberista, con la sua
panoplia di privatizzazioni (il 70% del parco pubblico venne ceduto a una
manciata di oligarchi e di imprese straniere), ha comportato un calo del PIL del
42% tra il 1991 e il 1998. I salari reali sono stati dimezzati, mentre la
povertà è esplosa. Le devastazioni della liberalizzazione finanziaria sono
culminate con la crisi del 1998: fuga massiccia di capitali, crollo del rublo e
un’inflazione galoppante che privava i russi dell’accesso ai beni essenziali. È
su queste rovine che Vladimir Putin, nominato presidente del governo nel 1999 e
poi eletto presidente della Federazione Russa nel 2000, ha intrapreso una
revisione completa del modello economico.
Che sia per alleviare almeno temporaneamente una popolazione traumatizzata da un
decennio di liberalismo brutale, o per uno scetticismo profondo nei confronti
delle capacità di autoregolamentazione del mercato, Putin opera, a partire dal
2000, un ritorno in forze dello Stato negli ingranaggi economici. Questa svolta
storica è vissuta come un vero affronto dai cantori del neoliberismo
occidentale, quelli che non esitano a giustificare il salvataggio delle banche e
dei mercati finanziari durante ogni crisi, e paradossalmente si ostinano a
smantellare pezzo per pezzo le fondamenta dello Stato sociale così come quelle
di uno Stato che svolga una funzione strategica in ambito economico. Appena
arrivato al potere, il presidente russo mette invece in pratica le teorie
economiche che aveva sviluppato nella sua tesi di dottorato, discussa nel 1997
alla Scuola mineraria di San Pietroburgo. I suoi lavori accademici, dedicati
alla gestione strategica delle risorse naturali, rivelavano già una sfiducia
caratteristica nei confronti degli attori privati, giudicati incapaci di
garantire la stabilità nazionale in tempi di crisi[3]. Ancora più notevolmente,
le sue pubblicazioni successive hanno stilato un elenco esplicito di settori
ritenuti «vitali», tra cui le materie prime energetiche, che secondo lui
dovevano assolutamente tornare sotto il controllo statale[4].
Questa dottrina trova la sua concretizzazione a partire dal 2003. Il colpo di
scena legato all’arresto per frode dell’oligarca Michail Chodorkovskij, seguito
dalla nazionalizzazione della sua compagnia petrolifera Jukos, segna una svolta
decisiva. Rosneft, il fiore all’occhiello del petrolio di Stato, acquirente di
Jukos, diventa immediatamente il simbolo di questa riconquista economica. Il
movimento accelera nel 2005 con l’acquisizione di Sibneft, altra grande azienda
petrolifera, da parte di Gazprom (azienda leader nel gas naturale, al 50,2%
statale), completando il riposizionamento delle risorse strategiche entro il
perimetro statale. Questo ritorno in forza metodico pone quindi fine a un
decennio di anarchia post-sovietica in cui gli interessi privati avevano fatto a
pezzi il patrimonio industriale russo.
Un vasto programma di nazionalizzazioni avviato da vent’anni
Un decreto dell’agosto 2004 stabiliva quindi un elenco di imprese pubbliche non
privatizzabili in settori strategici dichiarati inalienabili: dalle
infrastrutture logistiche vitali (porti, aeroporti), ai fiori all’occhiello
dell’industria agroalimentare, fino ai simboli culturali del Paese. Lo Stato
riprendeva così il controllo dei livelli più alti del capitalismo russo
(energia, aviazione, finanza, elettricità). Le cifre parlano da sole: nel giro
di un decennio, la sua quota nell’economia russa subisce un’inversione
spettacolare, passando dal 10% del PIL nel 1999 a più del 50% di oggi, superando
di gran lunga la media mondiale del 30%.
A differenza della Francia, che dagli anni 1980 ha progressivamente smantellato
il suo settore pubblico preservando gli interessi dei suoi «oligarchi»[5], la
Russia opera un sorprendente movimento inverso. Lungi dal limitarsi a semplici
nazionalizzazioni, questa politica consiste in una ristrutturazione completa
dell’apparato produttivo attorno a conglomerati statali. Oltre alle acquisizioni
nel settore energetico effettuate da Rosneft e Gazprom e già citate,
Rosoboronexport (creata nel 2001 per beneficiare del monopolio delle
esportazioni di armi) si vede persino affidare nel 2005 le redini di AvtoVAZ, il
costruttore di automobili Lada (prima di un’apertura parziale a Renault nel
2008). Questa logica di consolidamento settoriale raggiunge il suo apice tra il
2006 e il 2007 con la creazione delle «corporazioni di Stato»: OAK per
l’aeronautica (civile e militare), OSK per il comparto navale, Rosatom per il
nucleare, o ancora Rostechnologies e Rusnano per le nuove tecnologie. Un modello
originale in cui lo Stato svolge un compito di strategia industriale più che di
semplice di gestore.
Il processo di nazionalizzazione accelera anche dopo il 2022, in un contesto di
sanzioni economiche, in particolare con l’assunzione del controllo sugli asset
strategici delle imprese che hanno abbandonato la Russia. Sono ad esempio
coinvolte società come Danone o Renault, così come le partecipazioni di
ExxonMobil e Shell nei progetti Sakhaline 1 e 2 legati all’esplorazione e alla
produzione di idrocarburi. Va notato che Shell era già diventata partner di
minoranza nel 2006 dopo essere stata costretta a cedere più del 50% della sua
quota di Sakhaline 2 a Gazprom, a seguito di accuse più o meno fondate di
violazioni ambientali…
Volontà di reindustrializzazione per ridurre la dipendenza dagli idrocarburi
Al di là della riconquista da parte dello Stato di settori chiave dell’economia
nazionale, emerge dalla politica economica condotta dalla Russia un’altra
lezione essenziale. Lungi dall’accontentarsi di sfruttare passivamente la
rendita del petrolio e del gas, il paese cerca attivamente di
reindustrializzarsi sfruttandone i proventi. Nessuna modernizzazione economica
sostenibile è effettivamente possibile senza un solido sviluppo del tessuto
industriale; il rallentamento che accompagna la deindustrializzazione osservata
nei paesi occidentali nel corso degli ultimi cinquant’anni ne è una prova
lampante. Come enunciato dalla legge economica di Kaldor-Verdoorn, solo
l’industria è effettivamente in grado di stimolare la produttività e di
garantire un forte accrescimento del PIL nel medio/lungo termine.
Per questo motivo, dopo il brusco declino del peso dell’industria sul valore
aggiunto nazionale durante gli anni ’90, viene accordata un’importanza crescente
alla reindustrializzazione. Nella fattispecie, tale caduta corrispondeva anche
alla volontà di diversificare l’economia riducendo la dipendenza dall’industria
pesante e dai settori estrattivi, eredità di un’era sovietica che aveva
trascurato l’agricoltura e l’industria dei beni di consumo. Tuttavia, nemmeno
questi ultimi sono stati risparmiati dal movimento di deindustrializzazione di
quegli anni. Tra il 1990 e il 1998, la produzione industriale russa è crollata
del 56%, con cali particolarmente pronunciati nell’ambito dei beni strumentali
(-64%) e dell’industria leggera (-89%).
Senza ricorrere necessariamente a un protezionismo virulento come quello di
Donald Trump nei primi mesi del suo secondo mandato, la Russia ha
progressivamente lavorato alla ricostruzione del suo apparato produttivo
nazionale. A partire dal 2005, vengono introdotti incentivi per rilanciare
l’industria automobilistica, in particolare riduzioni dei dazi doganali sulla
componentistica d’importazione, agevolazioni fiscali e l’obbligo per i
costruttori stranieri di associarsi a imprese locali per l’assemblaggio e la
fornitura di pezzi di ricambio[6]. E sebbene un decreto del 2011 avesse già
vietato l’importazione di macchine utensili in caso di disponibilità di un
equivalente prodotto localmente, nell’aprile del 2014 è stata ufficialmente
lanciata l’industrializzazione per sostituzione delle importazioni (ISI), con un
programma incentrato prioritariamente sui beni strumentali, ovvero quasi un
terzo delle importazioni russe, poi con la creazione nell’agosto 2014 della
Commissione governativa per la sostituzione delle importazioni.
Approfittando del significativo deprezzamento del rublo a partire dal 2014, che
ha perso più della metà del suo valore rispetto al dollaro, la Russia ha messo
in atto una serie di misure per sostenere i settori più colpiti dalle sanzioni
occidentali decise dopo l’annessione della Crimea nel marzo 2014, in particolare
nel settore energetico e nell’industria militare. Ma anche settori come la
farmaceutica e l’informatica ne beneficiano. Per sostenere questi rami
strategici, la VEB, ovvero la Vnešeconombank, precedentemente responsabile delle
transazioni finanziarie internazionali della Russia sovietica e trasformata nel
2007 in banca di sviluppo, così come il Fondo di sviluppo industriale, creato
nell’agosto 2014, offrono alle imprese interessate prestiti a tasso ridotto.
Allo stesso tempo, il governo impone regole severe: per gli ordini pubblici, i
prodotti stranieri devono essere almeno il 15% più economici dei loro
equivalenti locali per essere acquistati, e le imprese straniere sono obbligate
a collaborare con le società russe per beneficiare di alcune esenzioni fiscali.
Il finanziamento oculato di questa reindustrializzazione
Tutte queste misure adottate a favore della reindustrializzazione sono
ovviamente costose, motivo per cui la Russia mobilita sia il suo fondo sovrano,
riciclando una parte delle entrate petrolifere, sia una tassazione
particolarmente avveduta delle esportazioni di materie prime.
Creato nel 2004, il Fondo di stabilizzazione russo assorbiva allora il 15% delle
entrate petrolifere e del gas. Diviso nel 2008 in un Fondo di ricchezza
nazionale (dedicato alle pensioni e ai progetti interni) e un Fondo di riserva
(per gli investimenti effettuati all’estero), esso viene progressivamente
riorganizzato: il Fondo di riserva è stato sciolto nel 2018, lasciando solo il
Fondo di ricchezza nazionale le cui risorse raggiungono i 130 miliardi di
dollari alla fine del 2024 (ovvero il 6% del PIL), di cui un terzo in asset
liquidi rapidamente mobilitabili. Questo fondo, l’undicesimo su scala mondiale,
ha svolto un ruolo di stabilizzazione chiave nel 2022, ammortizzando la scossa
sul mercato azionario in seguito all’invasione dell’Ucraina, e oggi finanzia le
infrastrutture, l’agricoltura e la sostituzione delle importazioni, come il
progetto di costruzione di 600 aerei commerciali lanciato alla fine del 2023[7].
Inoltre, con la medesima logica di diversificazione, a partire dagli anni 2000,
materie prime come i semi di girasole o i cereali, così come il petrolio e il
gas, vengono tassate non appena il loro prezzo supera un certo livello: sono
queste risorse che, unite a quelle del fondo sovrano, permettono di
sovvenzionare l’industria nazionale, scoraggiando le esportazioni di prodotti
non trasformati. Nel 2020 e nel 2021, le esportazioni provenienti dalla
metallurgia subiscono la stessa sorte. Nell’ottobre 2023, è il turno dei
fertilizzanti e di tutte le materie prime diverse dal legno, dal petrolio, dal
gas e dai cereali (già interessati da questo sistema di tassazione[8]).
Queste misure aiutano a limitare il deficit delle finanze pubbliche, che ammonta
all’1,7% del PIL nel 2024 (contro il 5,8% della Francia) nonostante la guerra e
la continuazione dell’ISI. Per tutti questi motivi, il debito pubblico russo
rimane quindi contenuto, e rimane il più basso del gruppo BRICS, attestandosi al
17% del PIL nel 2024 (contro il 114% della Francia). La Russia dimostra così la
praticabilità finanziaria del suo modello protezionistico, anche in contesto
bellico.
Una reindustrializzazione che non si riduce ad un semplice stimolo all’industria
militare
Anche se fortemente criticate dagli economisti neoliberisti dell’Istituto Gaidar
di Mosca, eredi della terapia d’urto degli anni 1990, che attribuiscono loro la
causa dell’inflazione, del calo di qualità dei prodotto e delle penurie[9], le
politiche industriali russe hanno dimostrato la loro efficacia. Secondo i dati
della Banca Mondiale e dell’UNIDO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo
sviluppo industriale, il valore aggiunto del settore manifatturiero russo è più
che raddoppiato dal 2009, confermando un vero e proprio processo di
reindustrializzazione. Tale progressione, verificabile presso queste due fonti
internazionali, sconfessa sia le previsioni catastrofiche che i sospetti di
manipolazione statistica.
Spesso percepito come il sintomo di una «economia del Kalašnikov»[10], cioè
un’economia incentrata sulla produzione militare a discapito di una qualunque
efficienza complessiva, il rinnovamento dell’industria manifatturiera non si
limita tuttavia al solo settore della difesa. Non si può negare che il
«keynesismo militare» abbia contribuito alla crescita degli ultimi tre anni: le
spese militari rappresentano il 30% della spesa federale, il 7% del PIL nel
2024, essendo quasi raddoppiate dal 2022. Già nel 1940, John Maynard Keynes
constatava che «per una democrazia capitalista sembra politicamente impossibile,
tranne che in tempo di guerra, organizzare spese nelle proporzioni necessarie
per realizzare i grandi esperimenti che dimostrerebbero la mia tesi»[11]. Questa
idea non era nuova: un secolo prima, l’economista tedesco Friedrich List notava
che l’Inghilterra aveva conosciuto uno sviluppo industriale spettacolare durante
il blocco napoleonico[12]. Tuttavia, sarebbe riduttivo fare dell’industria
militare l’unico motore dell’attuale successo russo, tanto sono state profonde
le trasformazioni economiche avviate negli ultimi vent’anni.
Nell’ambito della sua politica di ISI, la Russia si è concentrata sui settori
più dipendenti dalle importazioni, sulla farmaceutici, sui beni strumentali e
sui trasporti, pur mantenendo le sue spese militari intorno al 4,5% del PIL fino
al 2022, prima dell’aumento legato all’escalation del conflitto ucraino. Secondo
i dati dell’UNIDO, il valore aggiunto nell’industria farmaceutica come in quella
dei beni di trasporto è aumentato del 2,4% dal 2015; quello nell’industria
informatica ed elettronica dell’1,9%. Soprattutto, le esportazioni
manifatturiere russe, che rappresentavano solo lo 0,8% del commercio mondiale
nel 2000, sono aumentate fino a raggiungere l’1,5% di questa quota nel 2023, con
progressi significativi nei fertilizzanti, nell’agroalimentare, ma anche nei
macchinari e nelle attrezzature industriali, in particolare nelle tecnologie del
nucleare, e nei beni di trasporto (automobili e camion). Sebbene questa quota
rimanga modesta, riflette un miglioramento della competitività industriale del
Paese, parallelamente a una diminuzione della dipendenza dalle importazioni.
Una certa capacità di resistere alla concorrenza cinese
Questa politica di reindustrializzazione mira dunque fin dal principio a
correggere gli eccessi del neoliberismo post-sovietico rivitalizzando i settori
industriali trascurati durante il periodo sovietico, e non a riprodurre lo
schema del suo produttivismo militarizzato. Il compito è tutt’altro che facile,
tanto più in un contesto internazionale che vede la predominanza dalla Cina, che
da sola assicura il 30% della produzione manifatturiera mondiale.
Mentre il gigante asiatico rappresenta ormai il 53% delle importazioni russe,
Mosca cerca di limitare questa dipendenza con una strategia che combina
protezionismo e rilocalizzazione della produzione: aumento dei dazi doganali
(fino al 25% sui veicoli cinesi dal 2023, riprendendo misure simili adottate
nell’elettronica a partire dagli anni 2010) e obbligo per i produttori di
automobili cinesi come Chery, Haval o Geely di aprire stabilimenti sul
territorio.
Se il settore dell’elettronica e l’industria automobilistica russa rimangono
parzialmente dipendenti dall’assemblaggio di componenti cinesi, i dati
dell’UNIDO mostrano un progresso significativo: il valore aggiunto derivante da
questi due settori è triplicato dal 2009, a fronte di un «semplice» raddoppio
della produzione manifatturiera complessiva. Nonostante lo sviluppo dei tre
marchi cinesi menzionati in precedenza, i costruttori russi come AvtoVAZ sono ad
esempio ancora particolarmente attivi, intestandosi quasi il 40% delle quote di
mercato nel settore automobilistico e oltre i tre quarti per i camion e i
veicoli commerciali con marchi leader come KamAZ o GAZ. Queste osservazioni
attestano che la politica industriale ha effettivamente dinamizzato la base
produttiva nazionale, e non si riduce a una questione di etichettatura o al
semplice assemblaggio di componenti intermedie provenienti dalla Cina.
Dei progressi sociali innegabili nonostante un sistema sociale sotto pressione
Diversamente da quanto dovrebbe accadere in un’«economia di rendite», in Russia
la produttività del lavoro aumenta rapidamente, e questo secondo i dati stessi
della Banca Mondiale[13]. Alcuni potrebbero suggerire che questa espansione
industriale improntata all’export vada a disscapito dei lavoratori e della
popolazione russa. Tuttavia, i dati smentiscono questa ipotesi: nel 2023, il
consumo delle famiglie è cresciuto quasi due volte più velocemente del PIL.
Questa dinamica inaspettata smentisce l’idea di un degrado generalizzato del
tenore di vita e sottolinea la necessità di analizzare più precisamente gli
effetti concreti della politica economica russa sui redditi.
Anche se a lungo mantenuto al di sotto della soglia degli incrementi di
produttività del lavoro, perlopiù nell’ottica di preservare la competitività e
limitare il surriscaldamento economico, il salario reale medio è aumentato del
150% dal 2005 ad oggi, cioè è stato moltiplicato per 2 volte e mezzo[14]. Questo
forte aumento dei salari si spiega principalmente con una contrazione senza
precedenti della manodopera russa, con 4 milioni di lavoratori in meno tra il
2017 e il 2023. Questo declino demografico è il risultato di tre fattori chiave:
un invecchiamento accelerato, una massiccia emigrazione di lavoratori
qualificati dal 2022 e un aumento allarmante della mortalità degli attivi a
causa del Covid-19 e della guerra in Ucraina.
Con un tasso di disoccupazione tra i più bassi al mondo, al 3% della popolazione
attiva nel 2024, i lavoratori russi si trovano quindi in una posizione
favorevole che oggi permette loro di beneficiare in maniera crescente dei frutti
della crescita economica. Mentre la Russia era tra i paesi con più
disuguaglianze alla fine degli anni 1990, con un indice di Gini[15] ancora a
0,42 nel 2007 – livello paragonabile a quello degli Stati Uniti – essa presenta
oggi un livello di disuguaglianze di reddito paragonabile a quello dell’Italia o
del Portogallo (0,35 nel 2023). Questo miglioramento riflette l’impatto della
crescita economica e delle politiche pubbliche sulla riduzione delle
disuguaglianze, anche se permangono differenze significative, in particolare tra
regioni e categorie sociali.
Concretamente, sono stati compiuti notevoli progressi in molti settori devastati
dalle politiche neoliberiste degli anni 1990. Ad esempio, il tasso di povertà,
che misura la percentuale di persone che beneficiano di meno di 6,85 dollari al
giorno per vivere, è passato dal 48% nel 1999 ad appena il 2% nel 2021. Anche
l’aspettativa di vita ha registrato un netto miglioramento, passando da 65 a 73
anni, principalmente grazie al miglioramento dei servizi sanitari. Allo stesso
modo, la mortalità infantile è diminuita, da 15,3 per mille nascite nel 2000 a
4,5 nel 2022, un tasso inferiore a quello degli Stati Uniti (5,6) e prossimo a
quello della Francia (4,1).
Anche le pensioni sono state rafforzate grazie all’aumento della spesa pubblica
e all’indicizzazione delle pensioni all’inflazione. Tuttavia, le disuguaglianze
regionali persistono ancora a questo livello, e molti pensionati delle regioni
rurali continuano a vivere con pensioni inferiori alla soglia di povertà.
Tensioni di questa natura sono emerse anche durante la riforma delle pensioni
del 2018, che ritarderà l’età pensionabile a 65 anni per gli uomini e a 60 anni
per le donne entro il 2028. In effetti, l’invecchiamento della popolazione
rappresenta un problema importante per la Russia, probabilmente ancor più
importante che per l’Europa occidentale. Si prevede un calo della popolazione
attiva di oltre 15 milioni di persone entro il 2050, mentre i pensionati
potrebbero rappresentare il 40% della popolazione, un fenomeno che eserciterà
una pressione aggiuntiva sulle finanze pubbliche e sul sistema sociale del
paese.
I rischi di una continuazione della guerra in Ucraina
Nonostante i numerosi fattori che hanno contribuito alla crescita economica
della Russia, persistono alcune debolezze. Un’inflazione elevata, vicina al 10%
nel 2024, rimane un’evidente fonte di preoccupazione. L’aumento dei prezzi
deriva sia dalla svalutazione del rublo, dai maggiori costi di produzione
interni legati alla progressiva sostituzione delle importazioni, sia
dall’aumento dei costi generato dall’elusione delle sanzioni (attraverso
l’importazione di prodotti vietati per il tramite di Paesi terzi[16]).
Soprattutto, il surriscaldamento dell’economia russa rischia di essere
esacerbato negli anni a venire dall’aumento dei salari, un aumento indotto dalla
carenza di lavoratori già menzionata.
In un tale contesto, un’inflazione «solo» del 10% potrebbe essere percepita come
un male minore, o addirittura come il segno del fatto che la situazione
economica è sotto controllo, soprattutto se si confronta questa cifra con il
230% di inflazione registrato in Venezuela nel 2024 o con il 32% in Iran, due
paesi anch’essi isolati sulla scena internazionale. Tuttavia, se le strategie di
sviluppo attuate da Mosca negli ultimi due decenni sembrano averle conferito una
maggiore capacità di resilienza, la politica monetaria restrittiva, con un tasso
di interesse mantenuto nel marzo 2025 al 21% per contrastare il surriscaldamento
economico, potrebbe rapidamente diventare un ostacolo agli investimenti. Senza
una continuazione degli aiuti concessi dalle autorità pubbliche alle imprese
nazionali, questa politica monetaria potrebbe limitare la crescita dell’economia
a medio termine.
Ora, l’aumento vertiginoso delle spese militari, che aggrava il surriscaldamento
economico e lo squilibrio di bilancio (certo, ancora ridotto), aumenta la
pressione che si esercita sul sistema. E sebbene la quota delle esportazioni di
manufatti sia aumentata nell’ambito delle esportazioni totali, quasi il 55% di
queste rimane dominato dal petrolio e dal gas, il che mantiene l’economia russa
in una situazione di grande vulnerabilità rispetto all’evoluzione dei prezzi
delle materie prime. Si stima che un calo duraturo del prezzo del barile di
petrolio al di sotto dei 50 dollari, un’evoluzione legata soprattutto
all’attuale rallentamento economico mondiale, potrebbe aggravare notevolmente il
deficit pubblico e portare a lungo termine a una recessione. Questo crescente
squilibrio potrebbe quindi minacciare la stabilità macroeconomica e ridurre il
margine di manovra delle autorità per sostenere in modo durevole la crescita.
La continuazione del conflitto in Ucraina rappresenterebbe quindi un rischio per
l’economia russa qualora il calo dei prezzi del petrolio dovesse compromettere
il finanziamento della spesa pubblica. Sebbene il keynesismo militare possa
sostenere la crescita a breve termine, la sua efficacia a lungo termine è
infatti limitata dai suoi effetti inflazionistici e dalla distorsione che impone
alla struttura produttiva. Una soluzione negoziata al conflitto potrebbe quindi
diventare rapidamente necessaria, non solo per ragioni morali e geopolitiche, ma
anche, e in modo sempre più vitale, per ragioni economiche.
[1] È anche molto raro trovare specialisti della Russia contemporanea che
mantengano una vera imparzialità e la distanza indispensabile per analizzare
questo paese, come lo fa il geografo David Teurtrie, insignito del premio
Thibaudet 2024 per la sua opera essenziale Russie: le retour de la puissace
(Dunod, 2024).
[2] GILL Indermit, KHARAS Homi, An East Asian Renaissance, Ideas for Economic
Growth, Washington 2007, World Bank Report
[3] DANCHENKO Igor, GADDY Clifford (2006), «The Mystery of Vladimir Putin’s
Dissertation», Brookings Institution, Foreign Policy Program Panel, 30 marzo.
[4] PUTIN Vladimir (2006), « Mineral Natural Resources in the Strategy for
Development of the Russian Economy », Problems of Post-Communism, vol. 53, n°1
(trad. di un articolo del 1999, St Petersburg Mining Institute).
[5] È a dir poco irritante constatare che il termine «oligarchia», così
volentieri applicato ai magnati russi, trova curiosamente poca eco quando si
tratta di descrivere le relazioni incestuose tra alcuni capitani dell’industria
francesi e il potere politico. I nostri famosi miliardari sono trattati con meno
deferenza dal potere rispetto ai loro omologhi di Mosca? Le distribuzioni al
volo di Legioni d’onore, le cene all’Eliseo, le telefonate direttamente al
ministro interessato quando un dossier li preoccupa… tutto questo non rientra in
una forma di oligarchia alla francese, semplicemente più controllata, più
ovattata, drappeggiata nel velluto delle convenienze repubblicane?
[6] TRAUB-MERZ Rudolf (2015), « Oil or Cars. The prospects of Russia’s
Reindustrialization », Friedrich Ebert Stiftung, Study FES Moscow, aprile.
[7] STOLYAROV Gleb (2024), «Russia splashes $12 billion to keep aviation sector
in the air», Reuters, 21 dicembre 2023
[8] ASTROV Vasily, KOCHNEV Artom, STAMER Vincent, TETI Feodora (2024), «The
Russian Economy Amidst the War and Sanctions», Russia Monitor, The Vienna
Institute for International Economic Studies, gennaio
[9] SIMOLA Heli (2024), “Recent trends in Russia’s import substitution of
technology products”, BOFIT Policy Brief 5/2024. Bank of Finland Institute for
Economies in Transition, Helsinki,
[10] CONNOLLY Richard, The Russian Economy: A Very Short Introduction, Oxford
University Press, Oxford 2020, p. 88
[11] KEYNES John Maynard, «The United States and the Keynes plan». New
Republic, 103 (seconda parte), 1940, p.156.
[12] «I preparativi militari, le guerre e i debiti che in alcuni casi comportano
possono, come dimostra l’esempio dell’Inghilterra, contribuire oltre misura
all’aumento delle forze produttive di un Paese. I capitali materiali possono
essere consumati in modo improduttivo nel senso stretto del termine, eppure
questi consumi provocano nelle manifatture sforzi straordinari, nuove
invenzioni, miglioramenti e, in generale, determinano un aumento della potenza
produttivo» (LIST Friedrich, Il Sistema nazionale di economia politica [1841],
Feltrinelli, Milano, 1976).
[13] Banca Mondiale, World Development Indicators data base.
[14] KAPELIUSHNIKOV, Rostislav (2023), «The Russian Labor Market: Long Term
Trends and Short Term Fluctuations», Russian Journal of Economics 9, pp.
245-270.
[15] Il coefficiente di Gini, compreso tra 0 e 1, è un indicatore fondamentale
che permette di misurare il livello di disuguaglianze nella distribuzione dei
redditi o della ricchezza in seno ad una popolazione. Più il suo valore si
avvicina a 0, più equa è la distribuzione; al contrario, una cifra vicina a 1
riflette forti disparità. Per garantire un confronto internazionale coerente, i
dati qui presentati provengono dalla Banca Mondiale. Tuttavia, le cifre
pubblicate da Rosstat, l’agenzia statistica russa, differiscono leggermente in
ragione di una metodologia propria. Secondo questo istituto, l’indice di Gini ha
raggiunto 0,408 nel 2024, contro 0,405 nel 2023, segnando un leggero
aggravamento delle disuguaglianze dopo una tendenza al ribasso iniziata nel
2007. Questa evoluzione è confermata dall’aumento del rapporto tra i redditi del
10% più ricco e quelli del 10% più povero. Diversi fattori possono spiegare
questa dinamica, in particolare l’aumento dei salari nei settori in espansione,
in particolare quelli legati allo sforzo bellica, che ha beneficiato
maggiormente i lavoratori qualificati. Di fronte a questa situazione, le
autorità russe hanno fatto della riduzione delle disuguaglianze una priorità. Il
presidente russo ha così definito queste disparità come «piaga della società
moderna» e si è posto un obiettivo ambizioso: riportare il coefficiente di Gini
a 0,37 entro il 2030. Resta il fatto che Rosstat osserva anche nel 2024,
nonostante questo leggero aumento delle disuguaglianze, un aumento globale dei
redditi reali (+8,4%) di cui han beneficiato tutti i decili della popolazione, e
ciò nonostante l’inflazione.
[16] EMLINGER Charlotte, LEFEBVRE Kevin, «Working Around Sanctions. Quanto costa
la Russia? », Policy Brief, Cepii, n°50, febbraio 2025