Il centro sociale Askatasuna di Torino è tornato al centro del dibattito
politico nazionale dopo l’azione alla redazione de La Stampa del 28 novembre
durante la manifestazione nel giorno dello sciopero generale indetto dal
sindacalismo di base contro la finanziaria di guerra e il genocidio in
Palestina.
Diverse centinaia di giovani sono usciti dallo spezzone di Torino per Gaza e
hanno fatto irruzione nella sede del giornale. Bilancio, due scritte sui muri,
letame lasciato davanti alla sede, qualche foglio di carta buttato per terra.
Poco dopo il CUA – Collettivo Universitario Autonomo vicino al centro sociale
rivendicava di fatto l’azione sui social come ” sanzionamento alla sede della
Stampa, versati chili di letame sui giornalisti complici. “La stampa di tutto
il paese in questi giorni ha dipinto Mohamed Shahin come uno spaventoso
terrorista, aderendo alle veline commissionate direttamente dalla Digos su
volere del governo. Torino, che conosce Shahin meglio di chiunque altrə, sa bene
distinguere la verità dalla prezzolata propaganda sionista. La verità la
scrivono le milioni di persone che in tutta Italia hanno partecipato ai cortei
che denunciano le complicità dei nostri politici con lo stato di Israele e
l’industria bellica, sapendo che gli unici terroristi sono loro. Mohamed è uno
di noi”. Il comunicato terminava con l’invito a partecipare alle 18 al presidio
di Piazza Castello per Shahin partecipato da migliaia di persone.
Senza voler generalizzare l’azione è stata definita in maniera bipartisan come
“assalto squadrista e attacco alla liberta’ di stampa”. Non sono mancati
paragoni con l’assalto alla sede della Cgil da parte di Forza Nuova durante una
manifestazione No Green Pass del 9 ottobre 2021 a Roma. Gli assalitori
devastarono violentemente il piano terra della sede sindacale, destinato alla
redazione della pubblicazione sindacale “Collettiva”. Vennero così distrutti
vetri, mobili, computer. Altre testate hanno paragonato l’azione con l’assalto
alla sede del giornale socialista Avanti! che avvenne a Milano il 15 aprile
1919. L’assalto si concluse con la devastazione della redazione e della
tipografia e ci furono anche dei morti.
A livello locale l’azione e’ stata usata in maniera strumentale per mettere nel
mirino il CS Askatasuna. Il centrodestra regionale parla di «base logistica» per
i violenti, mentre il ministro Giuli, il 1 dicembre ha portato la sua
solidarieta’ alla redazione della Stampa dichiarando a Torino “c’è un brutto
clima, al limite dell’eversione”.
Sul cosiddetto “assalto squadrista e attacco alla liberta’ di stampa” abbiamo
raccolto i pareri di Giorgio Cremaschi Pap e garante Askatasuna, Cibele della
redazione Radio Blackout di Torino, Alice Ravinale Consigliera Regionale
Capogruppo AVS Piemonte e Angelo D’Orsi Storico della Resistenza gia docente
all’UniTo per 45 anni Ascolta o scarica
da Radio Onda d’Urto
Source - InfoAut: Informazione di parte
Informazione di parte
Riportiamo l’appello di docenti, ricercatori e ricercatrici per la liberazione
di Mohamed Shahin, per firmare a questo link.
Noi docenti, ricercatori e ricercatrici delle università italiane esprimiamo
profonda preoccupazione per la situazione di Mohamed Shahin, imam della moschea
Omar Ibn al-Khattab di Torino, attualmente trattenuto nel Centro di Permanenza
per il Rimpatrio di Caltanissetta a seguito di un decreto di espulsione emesso
dal Ministero dell’Interno.
La revoca del suo permesso di soggiorno di lungo periodo, e il conseguente
rischio di rimpatrio forzato in Egitto, sollevano interrogativi gravi sul
rispetto dei diritti fondamentali della persona. È noto che il sig. Shahin,
prima del suo arrivo in Italia oltre vent’anni fa, era considerato oppositore
politico del regime egiziano. La prospettiva di un suo ritorno forzato in Egitto
lo esporrebbe concretamente a rischi di persecuzione, detenzione arbitraria e
trattamenti inumani.
Le motivazioni alla base della revoca del permesso appaiono collegate alle sue
dichiarazioni pubbliche sulla situazione a Gaza e alle sue posizioni critiche
rispetto all’operato del governo israeliano. Se così fosse, ci troveremmo di
fronte a un precedente estremamente preoccupante: l’uso di strumenti
amministrativi per colpire l’esercizio della libertà di opinione, tutelata
dall’articolo 21 della Costituzione e da convenzioni internazionali cui l’Italia
aderisce.
Casi analoghi, registrati negli ultimi anni, confermano una tendenza a
sanzionare cittadini stranieri per opinioni politiche o per manifestazioni di
solidarietà nei confronti del popolo palestinese. L’impiego dei CPR in questo
quadro rischia di trasformarsi in una forma di repressione indiretta del
dissenso e di limitazione arbitraria dello spazio democratico.
È importante ricordare che Mohamed Shahin è da lungo tempo impegnato in pratiche
di dialogo interreligioso e cooperazione sociale. Numerose comunità religiose,
associazioni civiche e gruppi interconfessionali hanno pubblicamente attestato
il suo contributo alla costruzione di relazioni pacifiche tra diverse componenti
della città di Torino, evidenziando la natura collaborativa e aperta della sua
attività. In particolare, la Rete del dialogo cristiano islamico di Torino, in
un comunicato indirizzato al Presidente delle Repubblica e al Ministro
dell’Interno, ha evidenziato il ruolo centrale di Mohamed Shahin nel dialogo
interreligioso e nella vita associata del quartiere San Salvario,
Alla luce di tutto ciò, riteniamo indispensabile un intervento immediato per
garantire il pieno rispetto dei principi costituzionali, della Convenzione di
Ginevra e degli obblighi internazionali dell’Italia in materia di diritti umani
e protezione contro il refoulement.
Chiediamo pertanto:
La liberazione immediata di Mohamed Shahin e la sospensione dell’esecuzione del
decreto di espulsione.
La revisione del provvedimento di revoca del permesso di soggiorno di Mohamed
Shahin, garantendo un esame imparziale e conforme agli standard giuridici
nazionali e internazionali.
La tutela del diritto alla libertà di espressione in ambito accademico,
culturale e religioso, indipendentemente dalla provenienza o dalla fede delle
persone coinvolte.
La chiusura dei CPR, luoghi di lesione dei diritti umani.
Come docenti e ricercatori riconosciamo la responsabilità civica dell’università
nel difendere i valori democratici, promuovere il pluralismo e opporci a ogni
forma di discriminazione o compressione illegittima delle libertà fondamentali.
Riceviamo e pubblichiamo volentieri il comunicato stampa di Extinction rebellion
Torino.
Extinction Rebellion ha bloccato l’Aerospace and Defence Meeting, la convention
internazionale su aerospazio e difesa. Una trentina di persone si sono
incatenate ai cancelli, mentre tre di loro sono riuscite ad arrampicarsi su una
struttura dietro il Palazzo della Regione. Il movimento denuncia il
coinvolgimento delle aziende presenti nei conflitti globali e le profonde
responsabilità del Governo e della Regione nel sostenere un settore che causa
vittime e accelera il collasso climatico.
Questa mattina, a Torino, Extinction Rebellion ha bloccato la decima edizione
dell’Aerospace and Defence Meeting (ADM) all’Oval di Lingotto, una delle più
importanti business convention internazionali per l’industria aerospaziale e
della difesa. L’evento, che si svolge ogni due anni nella città piemontese, vede
infatti riunirsi aziende e istituzioni di livello internazionale nel campo della
difesa e dell’aerospazio, con l’obiettivo di “consolidare alleanze commerciali,
sviluppare tecnologie avanzate e promuovere partnership strategiche nel settore
militare”. Poco prima dell’apertura delle porte, un gruppo di circa 30 persone è
riuscito a entrare nel cortile della struttura, incatenarsi ai pali e ai
cancelli, esponendo striscioni con scritto “Difendere la Terra, non i confini” e
ostacolare quindi l’ingresso alla convention. Pochi minuti dopo, tre persone
sono riuscite a salire su un edificio dietro il Grattacielo della Regione, una
forma di protesta già messa in atto alla precedente edizione, nel novembre 2023,
e hanno appeso un enorme striscione con la scritta “Qui si finanziano guerra e
crisi climatica” (lo stesso che era stato sequestrato dalla polizia due anni fa
e poi dissequestrato dopo le archiviaizoni delle denunce e l’annullamento dei
fogli di via da parte del TAR).
“Blocchiamo nuovamente la più importante fiera italiana del settore bellico,
dove vengono strette partnership e firmati accordi tra molte delle aziende i cui
investimenti e profitti portano a perdita di vite umane e distruzione dei
territori” commenta Pietro di Extinction Rebellion. “Un evento immorale,
sostenuto dal Governo, dalla Regione e dal Comune di Torino, in aperto contrasto
con i nostri stessi valori costituzionali”. Nell’ultimo decennio, nonostante
secondo la Costituzione l’Italia dovrebbe “ripudiare la guerra”, la spesa
militare nazionale è aumentata di circa il 30%, a discapito di quelle in sanità,
istruzione e ambiente. La nuova legge di bilancio, inoltre, si appresta ad
essere votata entro la fine dell’anno e prevede un ulteriore aumento di circa 10
miliardi. “Molte delle aziende che sono qui dentro – come Leonardo, Thales, Avio
– sono alcune delle più grandi aziende produttrici di armi che stanno traendo
profitto dall’aggravarsi delle crisi globali” aggiunge ancora Pietro. Come
riporta l’ultimo report di Greenpeace, infatti, dal 2021 al 2024 le prime 15
aziende italiane produttrici di armi hanno raddoppiato i propri utili (+97%),
per un totale di 876 milioni di euro di maggiori profitti.
“Investire in armamenti come sta facendo il governo e sostenere eventi come
questo, in questo momento storico, significa condannare a morte intere
popolazioni, mettendo a repentaglio la sopravvivenza dell’umanità, della terra e
delle altre specie viventi” commenta Rachele, una appesa sull’edificio dietro il
Grattacielo. È ormai noto, infatti, che vi è un legame profondo tra le attività
militari e l’aggravarsi della crisi ecoclimatica: il 5% delle emissioni
climalteranti totali è prodotto dagli eserciti di tutto il mondo e i territori
dove si combatte vengono compromessi per decenni a causa della distruzione e
della permanenza nei terreni e nelle falde acquifere delle sostanze tossiche
rilasciate durante i combattimento, perpetuando le sofferenze anche quando “un
cessate il fuoco” è stato dichiarato. A Gaza, infatti, dal 2023 sono scomparsi
il 97% delle colture arboree, il 95% degli arbusti, l’82% delle colture annuali,
facendo collassare il sistema agricolo. L’acqua è contaminata da munizioni e
liquami. Sessantuno milioni di tonnellate di detriti aspettano di essere
rimossi, prima che la contaminazione diventi irreversibile. E in novembre, al
Consiglio di Sicurezza dell’ONU, Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’UNEP
(il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) ha chiesto con forza di
riconoscere l’ecocidio come crimine internazionale, al pari dei crimini di
guerra e contro l’umanità.
“Viviamo un momento cruciale”, ha aggiunto Rachele. “Le scelte che facciamo oggi
determineranno la vita delle prossime generazioni. È ora di smettere di
investire nella militarizzazione e nella devastazione della Terra, e iniziare a
costruire un futuro di pace, giustizia climatica e giustizia sociale”.
Diamo il via all’inchiesta collettiva sugli investimenti israeliani sui progetti
delle grandi rinnovabili che abbiamo deciso di iniziare durante la “Due giorni a
difesa dell’Appennino” a Villore, di cui qui si può leggere un resoconto e le
indicazioni per collaborare a questo lavoro.
Questa inchiesta vuole indagare l’origine degli investimenti per quanto riguarda
i progetti di grandi rinnovabili che hanno come obiettivo la speculazione
energetica. Ciò che abbiamo rilevato è la diffusa presenza di società
israeliane, molto “avanzate” nella ricerca in questo mercato a forte espansione,
finanziatrici delle aziende italiane promotrici dei progetti di eolico e
fotovoltaico o agrivoltaico.
Come viene riportato in un documento datato agosto 2024 a cura del Who Profits
Research Center dal titolo Greenwashing dispossession: the Israeli Renewable
Energy Industry and the Exploitation of Occupied Natural Resources (scaricabile
qui)
Greenwashing dispossession – The Israeli Renewable Energy IndustryDownload
“Negli ultimi due decenni, il governo israeliano ha adottato misure volte a
incoraggiare la creazione di impianti commerciali per la produzione di energia
rinnovabile e ad aumentare la produzione di energia rinnovabile. Il bilancio del
Ministero dell’Energia e delle Infrastrutture israeliano per il 2023-2024 ha
raggiunto un livello senza precedenti, pari a circa 1.380 miliardi di NIS, e
comprendeva la promozione di piani per la produzione di energia rinnovabile e la
realizzazione di impianti di stoccaggio.” Un mercato molto redditizio che ha
assunto un ruolo prioritario nelle scelte governative israeliane, “nel marzo
2020, il Ministero dell’Energia israeliano ha formulato un piano per accelerare
gli investimenti nelle infrastrutture energetiche” e, continua il documento,
“dalla costruzione, gestione e funzionamento di progetti solari ed eolici alla
produzione di pannelli solari e turbine eoliche, le aziende private israeliane e
internazionali sono gli attori più importanti nel campo delle energie
rinnovabili”.
Questa fonte di profitto si lega in maniera indissolubile con l’occupazione
delle terre palestinesi, come viene sottolineato dal report “La nascita
dell’industria israeliana delle energie rinnovabili è stata indissolubilmente
legata al controllo israeliano sui territori palestinesi e siriani occupati.
Negli ultimi anni si è assistito a un aumento significativo del numero e della
portata dei progetti di energia solare in Cisgiordania e dei progetti di energia
eolica nel Golan siriano”.
Oggi Israele arriva anche in Italia, sui nostri campi agricoli, sulle nostre
colline, finanziando progetti che impiantano sul suolo nazionale pannelli
fotovoltaici e turbine eoliche finanziate direttamente dall’economia del
genocidio.
Invitiamo, dunque, a svolgere un piccolo lavoro di ricerca relativamente al
progetto contro il quale ci si sta organizzando sul proprio territorio e farci
pervenire le informazioni in merito all’indirizzo
mail confluenza.info@gmail.com entro il mese di gennaio. Questo lavoro potrà
così comporre un quadro il più possibile complessivo di quello che si muove su
suolo nazionale oltre a essere utile per elaborare strategie nell’ottica di
contrastare questa complicità.
Iniziamo con un primo contributo in questo senso grazie al prezioso lavoro di
ricerca e osservazione di Daniele Gamba, di cui riportiamo il testo che segue, e
Andrea Maggi in merito al progetto di stazione elettrica a Carisio, facente
parte del più esteso progetto di campi agrivoltaici tra Cavaglià e Santhià, nel
territorio tra Biella e Vercelli, di cui abbiamo già approfondito il caso qui e
qui.
“La società israeliana Econergy Renewable Energy Ltd intende investire 29
milioni di euro per realizzare dei campi agrivoltaici tra Cavaglià e Santhià.
Il progetto, che interessa ben 117 ha di terreni agricoli, avrà una potenza
nominale di 47 Mwp e l’energia prodotta sarà immessa nella rete ad Alta Tensione
in quel di Carisio, con un cavidotto interrato.
Econergy si muove in Europa in partnership con l’israeliano Phoenix Group e la
francese Rivage Investment. Le due società israeliane beneficiano
paradossalmente del boom al rialzo dei titoli che caratterizza la borsa di Tel
Aviv dal 7 ottobre ad oggi, da quando è in corso il genocidio Palestinese e, di
fatto, queste risorse sono in certa misura insanguinate, frutto della guerra.”
Inoltre, il Circolo Tavo Burat di Biella ha portato avanti un’iniziativa nel
corso della presentazione delle osservazioni su questo progetto tematizzando
questa questione.
Riportiamo di seguito il comunicato dal titolo INACCETTABILI GLI INVESTIMENTI
ISRAELIANI IN ITALIA QUANDO LE VITE E I DIRITTI DEI PALESTINESI SONO CALPESTATI
( e da cui prendiamo in prestito l’immagine di copertina)
Il “Circolo Tavo Burat – Pro Natura” ha presentato in procedura VIA diverse
osservazioni sul progetto di un nuovo impianto agrivoltaico da 47 MW in Cavaglià
(BI) Santhià, Carisio, Formigliana (VC), proposto da “ECONERGY SOLAR PARK 3”
S.r.l, una società italiana del ramo europeo della società israeliana Econergy
Renewable Energy Ltd ECNR, società quotata alla borsa di Tel Aviv.
In aggiunta a varie osservazioni di natura tecnica, in particolare per la tutela
del riso DOP Baraggia, produzione incompatibile con l’agrivoltaico, è stata
formulata una osservazione, al punto 10, relativa all’investimento di una
società che ha sede legale in uno Stato accusato di genocidio, che qui di
seguito si riporta integralmente:
10) Investimenti israeliani
Il Circolo Tavo Burat – Pro Natura ritiene moralmente inaccettabile che
investitori israeliani operino nel nostro territorio con risorse economiche
accresciute grazie al genocidio perpetrato da Israele a danno del popolo
Palestinese.
Non solo tutti gli indici della borsa di Tel Aviv sono notevolmente cresciuti
dal 7 ottobre ad oggi a seguito della repressione decisa dal Governo Israeliano
nei confronti dei Gazawi, ma anche la capitalizzazione di Econergy Renewable
Energy Ltd ECNR è notevolmente incrementata: il valore delle azioni quotate è
infatti passato dai 1.000-1.200 ILa prima del 7 ottobre 2023 a circa 4.050-4.080
ILa del 14 novembre 2025.
Un incremento ben superiore agli incrementi medi conseguiti da altre imprese
operanti nello stesso settore (prevalentemente la realizzazione di impianti FER
in UE) e quotate in altre piazze finanziarie.
Econergy Renewable Energy Ltd ha dunque beneficiato, anche in assenza di
responsabilità dirette, di questo assurdo trend al rialzo della Borsa di Tel
Aviv, piazza impropriamente “premiata” dai mercati finanziari per le azioni
belliche intraprese dal Governo a guida Netanyau.
Econergy Renewable Energy Ltd ha però tra i propri partner finanziari ed
assicurativi il gruppo Phoenix (PHOE), altra società israeliana quotata alla
borsa di Tel Aviv (il titolo è triplicato, passando da 3.470 Ila prima del 7
ottobre 2023 al valore di 13.600 Ila del 14/11/2025).
Come dimostrato da precedenti ricerche di Who Profits, Phoenix e altre
importanti compagnie assicurative israeliane sono complici del finanziamento
della costruzione degli insediamenti, dei progetti di trasporto degli
insediamenti, dello sfruttamento delle risorse naturali occupate (ndr: tra
queste rientrano le energie rinnovabili) e del complesso militare-industriale di
Israele, sia direttamente sia attraverso le loro partecipazioni in altre società
complici. Si veda al link che segue:
(https://www.whoprofits.org/companies/company/7348?the-phoenix-holdings)
Questo Circolo ricorda inoltre che il settore delle energie rinnovabili in
Israele è sotto accusa in quanto le potenze occupanti, secondo l’art. 55 della
IV Convenzione di Ginevra, non possono utilizzare le risorse naturali dei
territori occupati per fini propri o esclusivi della propria popolazione. La
produzione di energia rinnovabile a fini commerciali in questi contesti è dunque
una violazione del diritto internazionale. Il centro di ricerca Who Profits ha
pubblicato nel 2024 il report dal titolo “Greenwashing Dispossession: the
Israeli Renewable Energy Industry” documentando che una parte rilevante
degli impianti fotovoltaici si trova nei territori palestinesi occupati della
Cisgiordania, all’interno o nei pressi di insediamenti illegali secondo il
diritto internazionale (allegato).
Per tali ragioni stigmatizza fortemente questo investimento israeliano nel
biellese poiché parte delle risorse finanziarie necessarie sono state conseguite
grazie a questo “premio bellico” e al contributo di un partner fortemente
coinvolto a sostegno delle illegali azioni perpetrate da Israele nei confronti
del popolo Palestinese. Tali risorse devono, pertanto, essere considerate
“risorse insanguinate”.
Chiede dunque alla Provincia di Biella di agire con coraggio:
1. disponendo una immediata sospensione del procedimento relativo alla istanza
presentata da ECONERGY SOLAR PARK 3” S.r.l.
2. illustrando contestualmente al Governo la necessità di adempiere agli
obblighi internazionali per evitare qualsiasi forma di complicità nel
genocidio e per prevenire ulteriori crimini, ancora in corso, disponendo
anche sanzioni economiche che sono notoriamente la modalità più efficace,
senza far uso della forza, per fare desistere gli stati da comportamenti
criminali.
3. chiedendo conseguentemente che sia esclusa per le società Israeliane e per
le rispettive ramificate europee/internazionali, e nel caso concreto in
procedura presso la Provincia di Biella, la possibilità di investimenti in
Italia.
Le disposizioni internazionali, nel momento in cui si rilevi il rischio che
possa configurarsi il crimine di genocidio, obbligano infatti gli stati ad
adottare tutte le misure necessarie per prevenirlo e per evitare qualsiasi forma
di complicità. Questo obbligo si è manifestato dal 26 gennaio 2024, quando la
Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia ha riconosciuto l’esistenza di un
rischio plausibile che Israele potesse commettere atti di genocidio contro la
popolazione palestinese nella Striscia di Gaza.
L’Italia, occorre tenere presente, è stata denunciata da più volte alla CPI per
complicità diretta con lo Stato di Israele per l’attuazione e il sostegno al
genocidio (forniture varie e cooperazione militare, ecc.) e non ha messo in atto
e adottato alcuna sanzione nei confronti di Israele, tra cui le sanzioni
economiche con limitazioni commerciali ed imprenditoriali alle società con sede
legale in Israele (comprese le ramificazioni europee/internazionali di tali
società) diversamente da quanto fatto per il conflitto Russo-Ucraino: un
indubbio sostegno, se pur indiretto, all’azione criminale di Israele e tra i
fattori che hanno favorito il rialzo dei titoli della borsa di Tel Aviv.
Il Circolo Tavo Burat ha concluso le proprie osservazioni chiedendo, in prima
istanza, che la procedura sia sospesa stante la necessità di illustrare
preliminarmente al Governo la problematicità degli investimenti israeliani nel
territorio tenuto conto dei procedimenti disposti dalla CPI e TPI nei confronti
di Israele e le denunce di complicità nei confronti dell’Italia stessa. In
subordine ha chiesto che non sia rilasciato il positivo parere di compatibilità
ambientale per le ragioni tecnico ambientali sovraesposte.
Iniziamo a restituire parte della ricchezza della due giorni a difesa
dell’Appennino, svoltasi in una cornice incantevole a Villore, Comune di
Vicchio, in provincia di Firenze, piccolo paese inerpicato tra boschi di
marronete e corsi d’acqua, alle porte del parco nazionale delle Foreste
Casentinesi. In conclusione del testo mettiamo a fuoco i punti chiave usciti
dall’assemblea tra i comitati del territorio, agricoltori, singoli e
associazioni.
Riprendiamo alcuni passaggi di due contributi usciti nei giorni immediatamente
successivi che raccontano l’incontro tra comitati del territorio nel quadro del
progetto Confluenza in collaborazione con la rete interregionale della
Coalizione ambientale TESS.
In questo articolo comparso su OkMugello viene riassunto il weekend:
“Nonostante la neve e l’allerta meteo, la due giorni dedicata alla difesa
dell’Appennino, organizzata da Confluenza in collaborazione con la Coalizione
ambientale TESS – Transizione Energetica Senza Speculazione, si è svolta con
piena partecipazione il 22 e 23 novembre a Villore, nel Mugello. L’iniziativa ha
visto la presenza di numerosi comitati e associazioni impegnati nella tutela dei
territori appenninici dai progetti ritenuti espressione di speculazione
energetica.
[…]
L’incontro è stato aperto dalla professoressa Anna Marson, docente di
Pianificazione del territorio allo IUAV di Venezia ed ex assessora regionale,
che ha offerto una riflessione sul significato del paesaggio e del senso di
appartenenza ai luoghi. Tra i partecipanti erano presenti Don Alessandro
Santoro, fondatore della Comunità delle Piagge che ha ospitato la due giorni al
Santo di San Lorenzo, oltre a rappresentanti di comitati, associazioni,
movimenti e realtà come la GKN di Firenze, la rivista Altracittà e i referenti
di Confluenza e TESS. Nel corso degli interventi sono stati approfonditi gli
impatti dei progetti eolici industriali sui crinali appenninici, le ricadute
sull’agricoltura e sui territori rurali e le proposte alternative contenute nel
Piano nazionale per le energie rinnovabili senza consumo di suolo elaborato da
TESS. È stata inoltre espressa una critica alla narrazione dei media mainstream
e del governo in tema di transizione energetica, con riferimento alla
disinformazione, alle inchieste legate all’eolico e ai presunti miti sulla
ripresa del nucleare.”
La seconda giornata si è svolta con una camminata sui luoghi della devastazione.
Grazie alle persone che hanno a cuore il territorio e che quotidianamente
monitorano l’avanzamento dei lavori abbiamo “attraversato i crinali innevati di
Corella e Villore, immersi in un paesaggio suggestivo con il Monte Falterona
sullo sfondo. Lungo il percorso è stato possibile osservare la deforestazione
che interessa il Sentiero Italia, il Sentiero Europa E1 e la Grande Escursione
Appenninica, insieme agli sbancamenti realizzati per trasformare la
sentieristica in infrastruttura di servizio al trasporto dei componenti
destinati all’impianto eolico industriale di Monte Giogo di Villore, area
indicata come habitat dell’aquila reale. In prossimità del Sentiero 18
l’elicottero dei carabinieri ha sorvolato più volte la zona abbassandosi a
un’altezza tale da sollevare nuvole di nevischio, senza tuttavia creare disagi
ai partecipanti. La camminata si è conclusa al bivio tra il Muraglione e la
Colla a causa dell’altezza della neve che impediva di proseguire in sicurezza.”
Alcune considerazioni interessanti vengono riportate anche da un articolo
scritto dalla redazione di Per Un’altra città, presente all’assemblea, in
particolare rispetto alla difficoltà di reperire i dati sui progetti in fase di
presentazione e di realizzazione :
“Da un punto di vista istituzionale è difficile avere un quadro dei progetti
presentati o realizzati sul territorio. L’ISPRA (Istituto Superiore per la
Protezione e la Ricerca Ambientale) e SNPA (Sistema Nazionale Protezione
Ambiente) hanno presentato gli ultimi dati Ambiente: Europa, Italia e regioni a
confronto Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici.
Edizione 2025. Il Gestore dei servizi energetici – GSE S.p.A. ha elaborato studi
e scenari contenenti dati e analisi sugli impianti a fonti rinnovabili, sugli
interventi di efficienza energetica, sull’evoluzione del sistema energetico e
sugli strumenti di promozione dello sviluppo sostenibile a livello nazionale e
internazionale.
I progetti ad oggi reperibili sul sito del Ministero sono suddivisi solo per
tipologia:
* Eolico offshore n.135
* Eolico onshore n.931
* Fotovoltaico n.362
* Agrivoltaico n.1334
Le mappe web-GIS riportate nel sito non sono consultabili e risulta impossibile
separare i progetti conclusi da quelli archiviati o in istruttoria. Pertanto i
dati non sono comparabili e quindi di difficile lettura.”
A tal proposito vogliamo mettere in evidenza alcune indicazioni uscite dal
confronto in modo che possano essere utili per costruire un lavoro coordinato e
condiviso su tutto il territorio nazionale.
1. Proprio a partire dall’esperienza del territorio in cui i comitati si
attivano in opposizione al progetto eolico in previsione sul Monte Giogo di
Villore, veniamo a conoscenza di una dinamica sulla quale occorre monitorare
e intervenire in anticipo. Come successo a Londa, dove si è creato un nuovo
comitato da poco tempo, intermediari contattano i proprietari dei terreni
utili al progetto eolico prima che sia stato pubblicato. Diventa
fondamentale dunque stimolare un lavoro di informazioni sui territori nei
pressi di progetti già avviati affinché si abbia l’attenzione di
approfondire le motivazioni di eventuali proposte di acquisto dei terreni.
Informare per prevenire la svendita dei terreni a scopo di speculazione
energetica.
2. Il settore del movimento terra, le aziende che si occupano di cementificare
e che lavorano nel settore dei grandi impianti da rinnovabili industriali,
sono molto spesso riconducibili a dimensioni con forti interessi economici e
politici. In particolare alcuni casi di cui siamo venuti a conoscenza
rivelano un ulteriore tassello di questo quadro che intreccia responsabilità
e poli di interesse a riguardo delle società finanziatrici delle ditte
promotrici dei progetti di eolico e fotovoltaico: queste sono, in diversi
casi società israeliane. Lanciamo un’inchiesta per rilevare questo dato e
uscire con una campagna pubblica di boicottaggio di aziende e società con le
mani sporche di sangue.
3. Il supporto ai territori sotto attacco, molto spesso montani o provinciali,
poco abitati e marginalizzati a causa delle politiche che esplicitamente
spingono all’abbandono delle cosiddette aree interne e che inaspriscono la
crisi del settore agricolo al quale, soprattutto ai piccoli e medi
agricoltori, non viene destinato alcun supporto economico adeguato, è
fondamentale. Questo supporto è importante che giunga dalla città e dalle
realtà che hanno a disposizione capitale mediatico e che rappresentano una
forza e un simbolo a livello nazionale: pensiamo, per il territorio toscano,
in particolare all’esperienza di GKN che in questa fase sta portando avanti
un discorso che tiene insieme la necessaria riconversione produttiva in
chiave ecologica. Per questo, in vista di un appuntamento di mobilitazione
che si preparerà nel mese di marzo sul territorio mugellano, vogliamo dare
vita a un percorso di coinvolgimento di tutti coloro che vedono le
implicazioni generali della speculazione energetica sui loro territori, al
fine di moltiplicare iniziative di lancio e di pubblicizzazione della
manifestazione.
4. La transizione energetica viene accompagnata da una narrazione volta a
mistificare la direzione intrapresa dal governo, ossia la formula del mix
energetico che, al contrario delle roboanti dichiarazioni, non intende
abbandonare le fonti fossili quanto più a diversificare le proprie fonti
energetiche, ampliando il campo, nell’ottica di garantire una fantomatica
“sicurezza energetica”. In particolare, a farla da padrona in questo senso è
la doppia narrazione che unisce alle energie rinnovabili il nuovo falso mito
del nucleare di ultima generazione. Questo tema continua a preoccupare i
comitati e chi ha a cuore la sostenibilità reale dell’ambiente e delle
persone che lo vivono in un clima di aperta escalation bellica “il nucleare
o è strumento o è obiettivo di guerra” e sarà oggetto di futuri percorsi.
Alcune note di metodo per continuare a sostanziare il lavoro collettivo:
* La rubrica Confluenza sul sito di informazione indipendente infoaut.org è uno
strumento a disposizione di tutti i comitati che vogliono contribuire a
costruire in maniera collettiva un punto di vista chiaro su questi temi oltre
che un mezzo per dare visibilità alle proprie lotte
* La mappatura in collaborazione con il Movimento No Base disponibile sul sito
Mappature dal basso continua a essere un modo per indagare i siti di
interesse che si affastellano su tutto il territorio nazionale ma anche per
aprire la possibilità di mettersi in contatto tra comitati o persone che
monitorano il territorio e si attivano per difenderlo: partecipare si può a
questo link
* Per dare avvio all’inchiesta collettiva sulle aziende e sulle società
finanziatrici chiediamo dunque di fare un piccolo lavoro di ricerca
relativamente al progetto contro il quale ci si sta organizzando e farci
pervenire le informazioni in merito all’indirizzo mail
confluenza.info@gmail.com entro il mese di gennaio. L’obiettivo è quello di
creare un quadro composito della filiera e ricostruire la paternità di tali
progetti, a partire dalle società israeliane e di tutti coloro che finanziano
il genocidio in Palestina.
I nostri territori non sono territori di conquista, le mani sporche del sangue
del popolo palestinese sono inaccettabili sui nostri campi, sulle nostre terre,
sui nostri frutti della terra, così come lo schiavismo dei lavoratori che
producono pale eoliche e pannelli fotovoltaici.
A breve uscirà un ulteriore contributo in forma di reportage a partire dagli
incontri e dalle chiacchierate di queste giornate per dare voce a chi lotta sul
territorio. Nel frattempo, buon lavoro!
Molto lontano dai campi di Entre Ríos o Santa Fe, i bambini contadini della
California lavorano dagli 11 ai 12 anni, sfruttati, mal pagati, in terreni
affumicati con pesticidi e con il terrore di essere deportati insieme alle loro
famiglie di migranti.
di Silvana Melo, traduzione a cura di Comitato Carlos Fonseca
Tra i cinquemila e i diecimila bambini di famiglie migranti raccolgono nei
fertili campi della California fragole e verdure in foglia, che dopo i
consumatori nordamericani gustano nei loro piatti. Hanno tra gli undici e i
diciassette anni, lo fanno in pieno sole, con temperature estreme, sopportando
un peso che li piega, curvi per ore, esposti ai pesticidi che coloro che li
applicano spruzzano senza vederli. Vivono con le loro famiglie in insediamenti
lungo le coltivazioni, intimoriti per le retate del governo trumpista che
minaccia di espellere fino all’ultimo migrante dal suo territorio. Anche se dopo
dovrebbe pensare chi farà il peggior lavoro, il più sacrificato, il più crudele,
la peggiore paga, quello che si rifiuta di fare il nordamericano bianco medio.
Quella pellicola del 2004, “Un giorno senza messicani”, pensava a passi di
commedia ad un embrionale scenario che è cresciuto quando la decisione politica
delle deportazioni immaginava gli Stati Uniti senza migranti.
In California i ragazzi di dodici anni possono lavorare legalmente in
agricoltura. Un settore dove lavoro e sfruttamento toccano un limite molto
sottile. Le condizioni in cui lavorano i bambini sono state esposte nel Los
Angeles Time attraverso un’indagine di Capital&Main e mette a nudo il volto più
crudele del capitalismo: i bambini di famiglie migranti condannati ad un lavoro
pericoloso, estenuante, senza alcun tipo di sicurezza, con la salute esposta per
tutto il tempo, alle spalle delle leggi sul lavoro e dell’uso di pesticidi e con
sommarie ispezioni le cui infrazioni non si concretizzano in multe per gli
impresari.
Capital&Main ha intervistato 61 ragazzi e ragazze che lavorano nei campi
californiani, tra i 12 e i 18 anni. “Molti hanno detto di aver sofferto di
dolori di testa, eruzioni cutanee o bruciore agli occhi mentre lavoravano nei
campi che puzzavano di sostanze chimiche. Altri hanno detto che essere stati
contrattati per lavori a cottimo con salari inferiori al minimo. Molti hanno
ricordato di aver lavorato sotto il sole estivo senza ombra né un ulteriore
riposo per bere acqua. Alcuni hanno parlato di usare bagni portatili sporchi e
senza sapone per lavarsi le mani”, descrive il Los Angeles Time.
Alcuni dei bambini e adolescenti hanno attraversato la frontiera da soli dal
Messico. Ma la maggioranza sono nati in terra nordamericana e lavorano nel campo
con i loro genitori migranti mixtechi, giunti dall’Oaxaca, dal Michoacán e dal
Guerrero. Molte di queste famiglie sono senza documenti e oltre alle tremende
condizioni di vita temono di risvegliarsi un giorno con le autorità migratorie
che se ne portano via una parte per deportarli, e la famiglia rimane separata,
ferita, divisa in due. Per questo, inoltre, non si lamentano delle loro
sofferenze lavorative. E per questo, inoltre, i loro padroni approfittano ancor
più della loro fragilità e del loro terrore.
Nella maggior parte dei campi della California per anni intere famiglie sono
state sfruttate senza che l’agenzia statale ispezionasse le condizioni di lavoro
dell’infanzia lavoratrice. Dice il Los Angeles Time che durante otto anni lo
stato ha emesso appena 27 multe per violazioni del lavoro infantile alle
migliaia di imprese della California. Nonostante ciò il 90% delle multe non è
stato mai pagato.
I campi californiani non differiscono troppo dal modello produttivo estrattivo e
avvelenato che sempre più si approfondisce in Argentina. La produzione di
alimenti, oltre a concretizzarsi sulle ossa e le sofferenze dell’infanzia, si
conclude con un’indiscriminata fumigazione con pesticidi la cui pericolosità
(distruttori endocrini, cancerogeni, ecc.) è scientificamente comprovata e costa
concrete morti nelle zone di sacrificio.
I bambini intervistati nell’indagine lavoravano sei giorni alla settimana in
estate e durante il periodo scolastico i fine settimana. Uno degli adolescenti
aveva cominciato a lavorare a sei anni e un altro a nove. Gran parte di loro si
è inserita nello sfruttamento del lavoro tra gli 11 e i 13 anni. Salgono su
enormi scale per raggiungere i limoni, non hanno nessuna protezione contro un
sole travolgente, usano coltelli affilati per tagliare i rami dei peschi,
riempiono tremendi cesti di dieci chili di pomodori e guadagnano tre dollari per
ognuno che riempiono.
Tutti loro lavorano e consumano i loro piccoli corpi per una delle industrie
agricole più grandi del mondo.
Quesi bambini, che si consumano e si avvelenano per un dollaro, schiavi nella
grande democrazia del mondo, non arriveranno vecchi. E sicuramente saranno
scacciati quando non serviranno più, dai campi, da questo paese verso il quale
migrarono con una nascente speranza, dalla vita stessa che non ha mai dato loro
una fiche.
Da questo paese a cui questa terra caduta alla fine del mondo si aggrappa come
quello che affoga alla zattera. Come lo schiavo al sovrano che lo perdonerà.
Fonte: indagine di Capital&Main per il Los Angeles Time
26/11/2025
Pelota de Trapo
Lotte operaie. Strade bloccate e Genova divisa in due per la discesa in piazza
dei lavoratori dell’ex Ilva di Cornigliano in lotta contro il piano di
dismissione dell’azienda senza soluzioni avanzato dal governo Meloni, che da
marzo 2026 mette sul piatto la…dismissione totale.
Risposta operaia: corteo dalla fabbrica alla stazione, tagliando in due la
viabilità ligure, e ri-allestito il presidio permanente con tende e falò che
nonostante le fredde temperature invernali resterà attivo almeno fino a venerdì
6 dicembre, quando è previsto a Roma l’ennesimo incontro con il ministro Urso,
nel mirino della rabbia operaia.
Dai blocchi in corso a Genova su Radio Onda d’Urto Armando Palombo, rsu Fiom
Cgil all’ex Ilva di Genova Cornigliano. Ascolta o scarica
da Radio Onda d’Urto
Un nuovo attacco dei coloni israeliani ha colpito la comunità di Ein al-Duyuk,
vicino a Gerico, nella Cisgiordania occupata.
di Moira Amargi, da L’Indipendente
Questa volta a subire le conseguenze delle violenze che quotidianamente
colpiscono i villaggi e le comunità palestinesi sono stati 4 attivisti
internazionali, di cui tre italiani e una cittadina canadese. Gli attivisti
italiani fanno parte della campagna Faz3a, iniziativa palestinese attiva in
Cisgiordania. Una decina, i coloni mascherati che hanno fatto irruzione all’alba
nella casa dove dormivano, picchiandoli con bastoni e rubando i loro oggetti
personali, tra cui i passaporti e i telefoni. Alcuni coloni erano armati con
fucili. «Quando sono arrivati hanno puntato le torce dentro la casa dicendo che
erano dell’esercito», testimonia a L’Indipendente uno degli attivisti del
gruppo. «Sapevano che c’erano internazionali lì dentro». «Li hanno picchiati
anche con i calci dei fucili, li hanno ripetutamente colpiti sulle costole, in
faccia, nelle parti geniali. Un vero e proprio attacco squadrista», continua
l’attivista, anche lui italiano. Tutti e quattro gli attivisti sono stati
successivamente portati in ospedale a Gerico a causa delle ferite subite, e poi
dimessi.
«Sicuramente questo attacco cambia il livello di escalation che i coloni hanno
anche con gli internazionali, oltre alle già gravissime violenze che
quotidianamente compiono contro i palestinesi». Le violenze dei coloni si stanno
intensificando, e la comunità di Ein al-Duyuk ne è testimone: negli ultimi due
mesi le famiglie residenti si sono viste rubare quasi duecento pecore e galline,
e i coloni, provenienti da uno degli avamposti illegali che stanno prolificando
in Cisgiordania dal 7 di ottobre, hanno assaltato ripetutamente la comunità,
danneggiando pannelli solari, macchine, e abitazioni. «Venivano di giorno e di
notte a disturbare, minacciare, attaccare gli abitanti del villaggio»,
testimonia ancora l’attivista, che ha passato alcuni giorni nella comunità prima
della recente aggressione. «Il loro obiettivo è chiaro: terrorizzare i
palestinesi per spingerli ad abbandonare le loro terre sulle quali vivono da
sempre», conclude.
La valle del Giordano, dove si situa il villaggio, è uno dei territori più
colpiti dalla pulizia etnica in corso in West Bank; il territorio,
che costituisce quasi il 30% della Cisgiordania, è categorizzato “area C”,
ossia sotto controllo completo israeliano. Il villaggio di Ein al-Duyuk tuttavia
è zona A, ossia – teoricamente – sotto il pieno controllo dell’Autorità
palestinese. Ma Tel Aviv non ha mai rispettato queste categorie
amministrative. Da decenni Israele si impegna nel rendere invivibile la zona,
con l’obiettivo di costringere i palestinesi ad abbandonarla. Centinaia di
ettari sono stati classificati come “zone naturali protette”, o “aree militari”,
vietando l’accesso ai pastori e agli agricoltori palestinesi e minando il
sostentamento dei villaggi. Ma la repressione negli ultimi due anni sta
aumentando, e l’impunità dei coloni, connessa con numerosi ordini di demolizione
di case nella zona, hanno costretto decine di comunità beduine a lasciare
l’area.
Migliaia di persone hanno partecipato nel pomeriggio del 29 novembre 2025
alla manifestazione contro il ponte sullo Stretto a Messina.
La mobilitazione di oggi era stata promossa da 5 comitati “No ponte” ed ha visto
l’adesione di 47 associazioni ambientaliste, 36 tra associazioni e movimenti, 7
organizzazioni politiche, 5 organizzazioni sindacali, insieme per “salvaguardare
i il territorio e chiedere opere e interventi veramente utili”.
Da Messina la corrispondenza di Federico Alagna, Assemblea No Ponte da
Messina. Ascolta o scarica
Fadi Tamer Abu Assi e Juma Tamer Abu Assi, bambini palestinesi di 10 e 12 anni,
sono stati ammazzati da un drone israeliano a est di Khan Yunis (sud della
Striscia) mentre raccoglievano legna per il padre ferito. A Betlemme i coloni
sparano, ferita una donna.
di Chiara Cruciati*, da Osservatorio Repressione
Ieri mattina Fadi e Jumaa’ Tamer Abu Asi si sono avventurati per le strade
divelte di Bani Suhaila, a Khan Younis, alla ricerca di un po’ di legna da
ardere. Non serviva a scaldarsi nell’inverno già insopportabile di Gaza ma a
venderla. Con i soldi la famiglia avrebbe acquistato del cibo e un vestito per
il padre, costretto su una sedia a rotelle: il giorno dopo era atteso in
ospedale per un controllo.
Fadi e Jumaa’, otto e dieci anni, sono tornati a casa avvolti in un sudario
bianco. Li ha ammazzati un quadricottero israeliano, di quelli che da mesi
infestano gli incubi notturni e la sopravvivenza diurna di Gaza. L’esercito ha
dato la sua versione: i due avrebbero attraverso la linea gialla, confine vago,
mobile e non chiaramente identificato, che separa la fascia occidentale della
Striscia da quella orientale. È una linea tracciata nella testa delle autorità
israeliane, a volte a segnalarla sul terreno sono dei blocchi di cemento
verniciati di giallo.
Secondo le Nazioni unite e le ong sul campo, la linea non è fissa, avanza. Così,
nelle poche settimane dalla firma degli accordi di Sharm el-Sheikh,
l’unilaterale ed ennesimo confine tracciato da Israele – frontiera letterale tra
la vita e la morte – si è spostato sempre di più verso la costa: all’inizio si è
mangiato il 53% di Gaza, oggi è arrivato quasi al 60%.
FADI E JUMAA’ probabilmente non sapevano di aver attraversato la «frontiera».
Non costituivano alcuna minaccia all’esercito occupante, ai soldati che quei
quadricotteri li manovrano da remoto con il loro incessante ronzio – quando va
bene – e le esplosioni di ordigni – quando va male – terrorizzando un’intera
popolazione.
Che fossero due bambini è molto probabile che l’esercito lo sapesse. I
quadricotteri non sono ciechi, possono vedere. «Sospetti eliminati», così il
comunicato dell’esercito israeliano ha raccontato l’omicidio. «Conducevano
attività sospette», ha aggiunto l’ufficio stampa delle forze armate. «Sono
bambini…che hanno fatto? Non hanno missili, non hanno bombe», ha singhiozzato ai
funerali lo zio Mohamed.
LA LINEA GIALLA non c’è, non si vede, eppure uccide e ferisce. Ieri altri tre
palestinesi sono stati colpiti a nord-est di Khan Younis. Continuerà a farlo, in
numeri ben maggiori, quando scatterà l’operazione di «ricostruzione»
israelo-statunitense: secondo i piani di Trump e Netanyahu, la fascia
occidentale di Gaza sarà lasciata in macerie, perché si ricostruirà solo nella
zona est sotto il controllo dell’esercito israeliano. Lo si farà nelle
cosiddette «Alternate Safe Communities», di cui hanno dato conto nelle scorse
settimane inchieste giornalistiche statunitensi. L’ultima, di al-Jazeera, risale
a due giorni fa: il Dipartimento di Stato, ha detto una fonte all’emittente
qatarina, ha approvato il piano definendolo «il modo più veloce per trasferire
persone in abitazioni sicure».
Non molte però: si parla di poche comunità da 20-25mila persone da stipare in
container, tutti soggetti autorizzati prima dall’intelligence israeliana. Nessun
dettaglio del piano parla al momento di infrastrutture idriche, elettriche,
opportunità di lavoro: solo di «aree residenziali» con una scuola e una clinica.
Fonti sentite da al-Jazeera parlano di costi – solo per il primo compound – pari
a decine di milioni di dollari. Che non si sa chi pagherà: anche su questo
nessuna chiarezza. Intanto Gaza supera il bilancio ufficiale e accertato di
70mila uccisi dal 7 ottobre 2023, numero dato da più di istituto di ricerca per
ampiamente sottostimato.
DUE MURI PIÙ IN LÀ, anche in Cisgiordania prosegue la pulizia etnica silenziosa
dei palestinesi. Con la città di Tubas al quarto giorno di assedio totale da
parte dell’esercito israeliano e 166 feriti per le botte subite in strada, ad
agire sono i coloni in un’escalation di violenza sempre crescente: ieri a
Khallet al-Louza, villaggio alle porte di Betlemme, hanno aggredito un gruppo di
palestinesi per poi aprire il fuoco con armi automatiche.
Una giovane donna è rimasta ferita al fianco da una pallottola, altri dieci per
i pestaggi e il lancio di pietre. Poco dopo è arrivato l’esercito: nessun
arresto ma la dichiarazione dell’area come «zona militare». Difficile che venga
ritirata, d’ora in poi l’accesso ai palestinesi sarà vietato. Una confisca di
fatto.
NON SI PROSPETTANO punizioni all’orizzonte nemmeno per i tre poliziotti di
frontiera responsabili, giovedì, dell’esecuzione di due palestinesi a Jenin, il
26enne Montasir Abdullah e il 37enne Yusuf Asasa, ripresa in un video. Sentiti
dal ministero della giustizia, hanno parlato di autodifesa perché uno dei due
avrebbe tentato di fuggire. Le immagini raccontano un’altra storia:
inginocchiati a terra, con le mani alzate, poi i colpi.
*originariamente pubblicato da il manifesto
La due giorni di mobilitazioni del 28-29 novembre contro la finanziaria di
guerra ed il genocidio del popolo palestinese ha nuovamente portato in piazza
decine di migliaia di persone da nord a sud.
La giornata di sciopero generale del 28 ottobre ha visto manifestazioni e cortei
diffusi in tutta Italia. Da Trento a Palermo decine di città si sono mobilitate
contro la finanziaria di guerra e per la fine del genocidio del popolo
palestinese. A Milano fin dalla mattina hanno avuto luogo due blocchi “contro i
signori della guerra e i padroni della città” uno al centro direzionale ENI di
San Donato Milanese (qui il comunicato) ed uno all’hub di Pioltello centro della
“logistica di guerra”.
Blocchi anche a Venezia dove in migliaia per più di tre ore hanno impedito
l’accesso alla sede di Leonardo. La polizia ha caricato duramente i manifestanti
con manganellate ed idranti.
A Genova migliaia di persone sono scese in piazza a fianco dei CALP. Al corteo
erano presenti Francesca Albanese, Greta Thunberg e Thiago Avila, entrambi già
sulla Global Sumud Flotilla. Di seguito la corrispondenza di Radio Onda d’Urto
con Riccardo Rudino, Calp Genova.
In diverse città poi sono andati in scena blocchi di aziende legate alle filiere
delle armi e snodi di importanza logistica. A Porto Sant’Elpidio (Fermo), sono
stati bloccati gli accessi dell’azienda Civitanavi Systems. A Ravenna la rotonda
che conduce al porto e a Tortona il polo logistico che serve Liguria e Piemonte.
A Torino hanno avuto luogo due cortei da migliaia di persone che hanno chiesto a
gran voce la liberazione di Mohamed Shahin, imam della moschea di San Salvario
fortemente impegnato nelle mobilitazioni a favore della Palestina che su ordine
di Piantedosi è stato deportato nel CPR di Caltanissetta e rischia di essere
trasferito in Egitto dove è considerato un oppositore politico.
Cortei hanno avuto luogo in altre decine di città italiane tra cui Palermo,
Napoli, Livorno, Imperia, Firenze, Cuneo,
Oristano, Cagliari, Ancona, Parma, Pisa, Perugia, Rimini, Reggio
Emilia, Modena, Termoli, Trento, Trieste, Frosinone, Potenza, Bari, Civitavecchia, Siena.
Il 29 novembre poi migliaia di persone hanno partecipato ai due cortei nazionali
di Milano e Roma. A Milano è partito da piazza XXIV maggio il corteo, proprio
accanto alla Darsena e ai Navigli, nella giornata internazionale di solidarietà
con il popolo palestinese. Oltre 5 mila i partecipanti. Di seguito la
corrispondenza di Radio Onda d’Urto
A Roma centomila le persone hanno percorso le vie del centro per la
manifestazione nazionale in solidarietà con la Palestina e contro la finanziaria
del governo Meloni. In testa al corteo Francesca Albanese e Greta Thunberg
dietro lo striscione “Stop accordi con Israele. Sanzioni ed embargo ora”. La
manifestazione è stata organizzata dal Movimento degli studenti palestinesi e
dall’USB, e vede l’adesione di Potere al Popolo, Unione democratica Arabo
Palestinese, Arci Roma, movimenti per la casa, studenti di Osa e Cambiare Rotta,
oltre che numerose altre realtà sociali arrivate da tutta Italia.
L’adesione a questa due giorni di lotta dimostra che il movimento “Blocchiamo
Tutto” non è stato una fiammata, ma è un processo ancora in corso che va
ampliato ed alimentato.
Cisgiordania occupata – PressTv. Un membro israeliano della Knesset (Parlamento)
ha affermato che Tel Aviv sta “importando” la sua “guerra di sterminio” dalla
Striscia di Gaza alla Cisgiordania occupata.
da InfoPal
Ofer Cassif, membro della coalizione politica Hadash alla Knesset, ha rilasciato
tali commenti giovedì, dopo che le forze israeliane hanno ucciso due uomini
palestinesi nella città cisgiordana di Jenin durante un’incursione prolungata.
Le morti sono state confermate dall’Autorità Palestinese, che ha identificato le
vittime come Al-Muntasir Mahmoud Qassem Abdullah, 26 anni, e Youssef Ali Youssef
Asasa, 37 anni, e ha condannato la sparatoria come “un crimine di guerra a tutti
gli effetti e una flagrante violazione di tutte le leggi, convenzioni, norme e
valori umanitari internazionali”.
Un video circolato online mostrava entrambi gli uomini uscire dalla struttura
con le mani alzate prima di essere colpiti. Riprese successive hanno mostrato
una delle vittime distesa a terra, immobile, dopo diverse raffiche di colpi
uditi chiaramente.
In una dichiarazione congiunta, il portavoce militare israeliano e la polizia
israeliana hanno affermato che le truppe hanno aperto il fuoco dopo una
“procedura di resa” volta a catturare gli uomini, che Tel Aviv aveva accusato di
violenze.
Cassif ha definito l’incidente “omicidio a sangue freddo” e ha lamentato che “il
mondo continua nel suo silenzio,” esortando gli attori globali a confrontarsi
con quella che ha descritto come una campagna in espansione di impunità
militare.
Ahmad Tibi, un altro membro della Knesset, ha riecheggiato la definizione di
crimine di guerra sui social media, scrivendo: “Ecco come appare l’occupazione.
Ed ecco come appare un crimine di guerra”.
> Israel deploys AI system to monitor soldiers’ social media, block war crimes
> evidence https://t.co/AXctDVRdFc
>
> — Press TV 🔻 (@PressTV) November 27, 2025
Anche la direttrice internazionale del gruppo israeliano per i diritti umani
B’Tselem, Sarit Michaeli, ha descritto la sparatoria come “un’esecuzione a
sangue freddo”.
Il ministro estremista israeliano Itamar Ben-Gvir, tuttavia, ha elogiato
pubblicamente l’operazione, scrivendo: “I combattenti (le forze israeliane)
hanno agito esattamente come previsto – i terroristi devono morire!”
Gli sviluppi sono avvenuti in mezzo alle violazioni mortali quotidiane del
regime israeliano contro un presunto accordo di cessate il fuoco che dovrebbe
porre fine alla guerra di genocidio di Tel Aviv a Gaza, iniziata nell’ottobre
2023.
Centinaia di persone sono state uccise durante le violazioni dall’inizio
dell’attuazione dell’accordo, agli inizi di ottobre.
La guerra aveva già causato la morte di decine di migliaia di palestinesi, per
lo più donne e bambini.