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Informazione di parte

Processo Askatasuna: L’associazione a resistere non si arresta
Riprendiamo l’intervista di Radio onda d’urto a Vincenzo, uno dei compagni processati: Crollata la montatura giudiziaria-poliziesca che ha cercato di criminalizzare le lotte sociali e l’opposizione alla grande opera inutile e dannosa del TAV con l’accusa di associazione a delinquere, l’associazione a resistere in un comunicato ribadisce che “Non si può fermare, perché associazione a resistere é chi mette a rischio se stesso per difendere un pezzo di territorio, é chi partecipa a un picchetto, chi a uno sciopero, l’associazione a resistere é chi occupa una scuola, é chi vuole costruire per sé e per tutti un futuro migliore, associazione a resistere é chi blocca una nave piena di armi, é chi si organizza per non lasciare nessuna da sola. Non si può circoscrivere, perché ogni giorno c’è chi resiste al ricatto del lavoro, alla perdita della propria terra, allo sfruttamento delle menti.”
Gli “operai del nuovo millennio”: racconti dalla piazza
Durante il corteo del 28 Marzo abbiamo raccolto i contributi di alcuni giovani lavoratori di Dumarey, ex General motors, un’ azienda specializzata nella progettazione di sistemi di propulsione, che conta circa 700 dipendenti nello stabilimento torinese. Riportiamo le testimonianze di due ingegneri e di un operaio che lavorano nel sito all’interno della “Cittadella Politecnica”. Ciao chi siete e perché siete qui oggi? Qual è la situazione all’interno della vostra azienda? F: Sono un operaio del settore Automotive, dipendente di Dumarey, sono qui oggi naturalmente per richiedere il rinnovo del CCNL dei metalmeccanici e a sostenere le proposte avanzate dalla piattaforma unitaria che Federmeccanica si sta rifiutando assertivamente di accettare. Dentro la mia azienda c’è una bella novità, ovvero che la parte di ingegneria inizia finalmente a scioperare, si rendono conto che la nuova carne da macello, per quanto laureati, sono loro. Per quanto riguarda gli operai mi rendo conto che non tutti come me hanno la possibilità di scioperare perché chi deve mandare avanti una famiglia purtroppo non si può permettere nemmeno di perdere una giornata di lavoro, quindi sono qua anche per loro. Comunque l’adesione alle assemblee di preparazione, è stata discreta mentre per quanto riguarda lo sciopero è decisamente ben riuscito. M: Siamo dei dipendenti di Dumarey Automotive, una multinazionale che produce software e motori. Siamo qui perché vogliamo far sentire la nostra voce anche alla nostra azienda riguardo il rinnovo del CCNL e all’esigenza di una riduzione dell’orario lavorativo. Il discorso dell’orario si connette all’ingresso dell’IA in un lavoro come il nostro, ci parlano sempre di più di bisogno di efficienza da parte dei lavoratori ma questo si traduce per noi in un carico di lavoro maggiore da portare a termine nello stesso tempo, ovvero 40 ore settimanali, arricchendo alla fine l’azionista dell’ azienda e portando il lavoratore a doversi occupare di 10 cose contemporaneamente, questo logora il lavoro del “nuovo operaio”, noi infatti siamo entrambi ingegneri. A: La nostra azienda è un po’ particolare perché la maggior parte dei dipendenti sono ingegneri, quindi impiegati, per cui persone che in alcuni casi possono intendere la lotta con senso di colpa, come se uno sciopero fosse un problema. La cosa positiva è che l’asticella dell’arroganza del padrone si è spostata sempre più in alto e quindi anche i nostri colleghi si sono svegliati. Di solito a partecipare agli scioperi eravamo solo noi delegati, magari nemmeno tutti, e una buona parte di operai. Oggi siamo un bel po’, qui facendo una stima saremo una cinquantina, ed è un successo perché di solito non arrivavamo a 10. M: Questo è significativo perché conferma che il rinnovo del CCNL è una cosa sentita, non solo da noi che magari siamo più interni alle dinamiche del sindacato come RSU, ma in generale dalle persone, l’inflazione che ha mangiato gli stipendi, i servizi che scendono sempre di più, a fronte di ciò è importante che ci sia un risveglio collettivo per i nostri diritti, che sono stati conquistati dai nostri nonni e genitori negli anni 60/70 e che adesso nel tempo vengono deteriorati dalla visione di profitto delle aziende che ricercano un profitto sempre più alto e abbassano sempre di più quelli che sono i diritti dei singoli lavoratori. A: Secondo me la cosa che più è riuscita da parte degli imprenditori italiani, oltre a farsi finanziare dallo stato da trent’anni e piangere comunque miseria, e ci va coraggio, è quello di aver detto da un lato la lotta di classe non esiste, siamo tutti sulla stessa barca, dall’altro però loro la lotta contro la classe l’hanno fatta, infatti negli ultimi 30 anni i lavoratori hanno perso potere d’acquisto vedendo detassarsi anche i loro dividendi. M: Infine un altro motivo per cui siamo qui oggi è la precarietà, anche le aziende come le nostre, sfruttando sempre di più quello che la tecnologia offre, ad esempio lo smart working, va alla ricerca di consulenza estera a basso costo, principalmente nei paesi del Maghreb, per pagare poco i dipendenti, non assumerli direttamente ma attraverso contratti di consulenza così “quando non mi servi più stacco la spina”, andando a sminuire magari un ingegnere che ha impiegato molto tempo ed energie nel prendere una laurea e un certo tipo di “know how” per poi venire sfruttato, siamo diventati gli “operai del nuovo millennio” e questa direzione non ci piace. Come vivete questo vento di guerra e corsa al riarmo? E cosa pensate dell’ipotesi di riconversione dell’Automotive a settore bellico? F: Da parte mia la corsa al riarmo è percepita male, riconvertire un settore che è stato storicamente votato al trasporto e alla mobilità alla guerra ovviamente è un gioco sporco. M: Ci sono pro e contro, le migliori tecnologie sono state sviluppate nei periodi di guerra e non ci si può nascondere, perché lì vengono investiti i soldi. Ad esempio in campo farmaceutico durante la guerra contro il covid le aziende hanno investito nella ricerca per vaccini che prima non esistevano. La guerra non è mai una cosa bella, sono per la difesa dell’Europa ma non so se è il metodo giusto andare a spendere sul riarmo togliendo così investimenti su quello che ci tocca tutti i giorni, ad esempio l’istruzione, negli asili nido non ci sono i soldi per comprare la carta e i materiali e sono costi che ricadono sui genitori, le strutture sono fatiscenti e anche di quello si devono occupare i genitor perché non ci sono i soldi per metterli a posto, le rette vengono 600/700 euro al mese, ci parlano di incentivazione alle nascite ma come si fa, in famiglie in cui ci sono giovani (non più tanto giovani perché ormai per arrivare ad avere una situazione stabile si parla di arrivare ai quarant’anni) a far fronte a tutte queste spese? L’istruzione è andata in malora, la sanità sta andando in malora, per fare una visita ci impieghi mesi e alla fine ti costringono ad andare nel privato. Se la guerra significa, togliamo soldi alla società perché dobbiamo investire nelle armi no. Se si dice dobbiamo difendere il nostro territorio va bene ma sempre valutando tutte le possibili soluzioni a una guerra, quindi non solo il riarmo ma attraverso molte altre misure. A: Io non sono d’accordo con la riconversione, in generale la politica industriale la fanno gli stati, quindi se da parte degli stati UE c’è una corsa al riarmo le imprese li seguono, sembra quasi che fino a ieri non investissero nel bellico ma in realtà lo facevano anche prima, ora stanno incrementando la produzione, in un momento tra l’altro in cui lo stato sociale è devastato e stanno continuando a distruggerlo e poi ricordiamoci che in guerra, da che mondo è mondo, ci vanno i poveri a morire per i ricchi. Se vuoi raccontarci la tua storia scrivici a: inchiesta.lavoro@gmail.com Scopri gli altri articoli del percorso d’inchiesta sul lavoro a questo link.
Cade l’accusa per associazione a delinquere: una vittoria per le lotte sociali del Paese!
Riprendiamo il comunicato di associazione a resistere: Oggi il Tribunale di Torino ha pronunciato la sentenza in primo grado per il processo “Sovrano”: tutti e tutte assolti per il capo di associazione a delinquere! Le pene per i reati singoli sono stati ridimensionati. Un passaggio epocale per le lotte di tutto il Paese. Questo non ci basta, di seguito accenniamo ad alcune considerazioni a caldo. La storia dei movimenti sociali voleva essere negata sul palcoscenico in cui va in scena la giustizia. Il tentativo della questura e della procura della città di Torino viene squalificato e rimandato al mittente. Quella che conosciamo oggi è una giustizia finalizzata a garantire lo status quo, atta ad alimentare la disuguaglianza sociale, tutelando gli interessi borghesi pronti a volersi riprodurre sulla pelle di chi non ha gli stessi privilegi. Per questo finché non saremo tutti e tutte libere non sarà finita. Le misure preventive indicate dalla procuratrice generale Lucia Musti in occasione dell’udienza di oggi mostrano ostentatamente il disprezzo e la repulsione nei confronti di chi in questo Paese ha il coraggio di non girarsi dall’altra parte, oltre alla volontà di creare un clima di tensione e allarmismo. Un teorema basato su fantasie morbose di alcuni individui pronti a tutto pur di fare carriera, come dimostra la promozione del dirigente della digos Carlo Ambra che ha diretto le indagini, non viene accolto. L’Askatasuna, il Movimento No Tav e lo Spazio Popolare Neruda non sono un’associazione a delinquere. Ora non c’è più tempo per perdere tempo. Se oggi l’ostinazione del potere è una condizione con cui dover fare i conti in maniera sempre più stringente, ancor più urgente diventa ambire a un orizzonte differente, radicalmente diverso. E praticarlo. L’associazione a resistere non è uno slogan ma è l’espressione effettiva delle lotte che autonomamente sono capaci di incidere nel proprio ambito. Non si può fermare, perché associazione a resistere é chi mette a rischio se stesso per difendere un pezzo di territorio, é chi partecipa a un picchetto, chi a uno sciopero, l’associazione a resistere é chi occupa una scuola, é chi vuole costruire per sé e per tutti un futuro migliore, associazione a resistere é chi blocca una nave piena di armi, é chi si organizza per non lasciare nessuna da sola. Non si può circoscrivere, perché ogni giorno c’è chi resiste al ricatto del lavoro, alla perdita della propria terra, allo sfruttamento delle menti. Le scadenze che si susseguiranno nei prossimi mesi saranno la risposta a una fase generale di guerra e criminalizzazione del dissenso che, a testa alta, dovrà venire messa in campo. Contro la guerra, contro il riarmo, contro la militarizzazione della società, alimentando la possibilità di una società più giusta a fronte di governi che ci vorrebbero inerme carne da cannone. Con la certezza nel cuore che i compagni e la compagne colpite dalla condanna per i reati singoli non saranno mai lasciati indietro, guardiamo avanti perché la responsabilità di assolvere nel miglior modo possibile il compito storico dei militanti politici oggi, per tutti coloro che si riconoscono in una scelta che antepone gli interessi collettivi a quelli individuali, é prioritaria. L’associazione a resistere sta nel sogno realizzato che quotidianamente viene costruito collettivamente, per questo non ci farete più perdere tempo.
Rinnovo del CCNL e guerra: reportage dal corteo dei metalmeccanici di Torino
Ieri mattina i metalmeccanici sono scesi in piazza in tutta Italia in occasione dello sciopero nazionale di categoria, per richiedere il rinnovo del CCNL e la riapertura della trattativa ostacolata da Federmeccanica e Assistal.  Lo sciopero ha toccato punte in alcuni stabilimenti del 90%. La piazza torinese ha visto la partecipazione di oltre 5 mila lavoratori, provenienti da tutta la regione. In piazza si respirava aria di determinazione nel portare avanti la lotta fino al raggiungimento del rinnovo contrattuale, secondo la piattaforma proposta e votata dagli stessi lavoratori. Da tempo ormai si susseguono all’interno dei posti di lavoro eterogenee iniziative come blocchi degli straordinari, delle flessibilità, e presidi fuori dalle fabbriche, oltre agli scioperi disarticolati su tutta la settimana, per fare pressione sulle aziende e sulle istituzioni al fine di riaprire il tavolo di trattative.  La composizione del corteo era variegata, hanno partecipato molti lavoratori dell’indotto dell’automotive, ma anche del settore del bianco, dell’informatica, quest’ultimi non hanno il loro contratto specifico rientrando di fatto in quello metalmeccanico, ed infine i lavoratori dell’aereospace. Significativo la volontà di prendere parola da parte dei metalmeccanici più giovani, nonostante la loro presenza minoritaria nel corteo. Questi infatti ci raccontano come si traducano sulla dimensione umana i ritmi lavorativi, e di come il lavoro abbia sussunto le loro vite.  Nonostante Stellantis non faccia parte del CCNL, hanno partecipato al corteo anche operai di Stellantis Mirafiori e Rivalta, nei quali è stato indetto sciopero. Questo a conferma del fatto di come anche nel settore dell’automotive nostrana si vivano delle condizione di disagio non indifferente dovute allea crisi ormai ventennale della fiat, con le conseguenze legate anche allo spropositato ricorso alla CIGS.  Oltre alle note difficoltà dovute alla finta conversione all’elettrico che ha portato nel tempo ad un calo produttivo e di vendita, che sta lacerando il tessuto operaio industriale del nostro territorio.  Un altro dato significativo è il punto di vista espresso riguardo il riarmo. Si riscontra una contrarietà generale alla guerra, ma la consapevolezza della possibilità di un aumento di posti di lavoro e di investimenti nel settore della ricerca e dagli investimenti messi in cantiere da parte dell’UE.  Crediamo sia importante attraversare queste piazze, coglierne le possibili tendenze e se possibile favorire la riconoscibilità tra i lavoratori. A fronte di ciò pensiamo che questi mesi di mobilitazioni, sulle sacrosante richieste sul CCLN, siano un primo passo significativo, all’interno di un contesto generale di crisi del mondo del lavoro che avrà bisogno di una presa di parola sempre più incisiva da parte dei lavoratori, considerato che il quadro europeo determinerà ricadute su tutto il comparto torinese e non solo.
Roghi e lotta per la vita in Macedonia: avete acceso le fiamme, ora preparatevi al fuoco
Il 16 marzo, 59 giovani sono morti tra le fiamme a Kocani, in Macedonia, in un club notturno. Avevano tra i 14 e i 25 anni. Condividiamo questo contributo da Immigrital Le istituzioni hanno dichiarato sette giorni di lutto. Ma non basta. Migliaia di persone sono scese in strada, in più città, oltre ogni divisione etnica e religiosa. Non solo per ricordare, ma per lottare. La rabbia ha travolto auto e locali del gestore del club. Quel club non era a norma, mancavano perfino le più basilari misure di sicurezza, aggirate attraverso corruzione e complicità istituzionale. Il sindaco si è dimesso. Dopo le proteste, il parlamento si è preso due settimane di vacanza: un insulto a chi chiede giustizia, ma anche un segnale di paura. Perché è la stessa corruzione che soffoca e uccide ovunque nei Balcani. Sanità, istruzione, lavoro sfruttato. Le prime generazioni costrette a emigrare, oggi ancora migliaia di giovani costretti a partire. E chi resta viene lasciato morire. Nelle fiamme dell’ospedale modulare covid di Tetov. Nell’incidente di un bus, che ha ucciso 45 persone. Nelle fiamme di questo club, in una notte che doveva essere di svago. Questa rabbia è giustizia popolare. Acqua per respirare. Spesso, in questi anni, la mobilitazione esplode in massa in tutti i Balcani. L’Italia ha un ruolo nei Balcani, visti storicamente come il proprio giardino. E gran parte della diaspora balcanica ed est-europea vive qui, tra sfruttamento, silenziamento, razzismo e classismo. Per questo è necessario sostenere le lotte nei paesi di origine: perché nessuno sia più costretto ad andarsene, ma possa scegliere se farlo. Nei Balcani, come altrove, la trasformazione passa attraverso il rovesciamento di regimi corrotti, la lotta per maggiore democrazia e partecipazione, la redistribuzione di ricchezze e potere. Vostri i profitti, nostre le vite. Il sistema sarà il prossimo. Oggi, insieme a giovani di seconda generazione del gruppo Immigrital di Pisa (dove tra l’altro sono state trasportate e ad oggi sono ricoveratə alcunə persone ferite nell’incendio) e a giovani balcanici student3 internazionali, abbiamo condiviso memoria, rabbia e lotta. Contro la corruzione e i sistemi che costringono a partire o lasciano morire. Tutti i giorni. Anche solo se ci proviamo a svagare una notte. Ne abbiamo abbastanza: il sistema ci uccide. Il sistema sarà il prossimo REAZIONE ALLA TRAGEDIA DI KOČANI (DOLORE, RABBIA E DOMANDE APERTE) Ancora mancano le parole per descrivere lo shock, il dolore e la rabbia causati dalla tragedia di ieri a Kočani, dove un incendio ha tolto la vita a 59 persone, principalmente giovani ragazzi e ragazze. Esprimiamo le nostre più sentite condoglianze alle famiglie e ai cari delle vittime. La loro perdita è irreparabile. Le loro vite sono state distrutte. Distrutte dalla corsa al profitto, dal desiderio di guadagni rapidi, dai privilegi senza responsabilità, senza consapevolezza delle possibili conseguenze… Ogni società di classe nasconde i propri crimini. Durmo Turs, Besa Trans, l’ospedale modulare di Tetovo sono finiti come “eventi dimenticati in tre giorni”. La democrazia capitalista si basa su una propaganda quotidiana che trova costantemente nuovi temi di conflitto sociale per distrarre le menti dei lavoratori. Ma ieri, ancora una volta, un incendio: ancora una volta norme e regolamenti violati, ancora una volta un evidente crimine. Una volta era il cosiddetto trasporto internazionale, poi un ospedale, e infine una discoteca. Tutte le disgrazie hanno un denominatore comune: il profitto. In quasi ogni città, edifici abbandonati si sono trasformati in discoteche, cabaret e club notturni che improvvisamente diventano centri regionali per centinaia di giovani, mentre autorizzazioni per cambi d’uso vengono rilasciate senza i dovuti studi tecnici, si effettuano corsi di sicurezza fittizi, si emettono licenze false, si effettuano ispezioni senza sopralluoghi. Nella corsa al profitto e al guadagno rapido, le regole servono solo per essere aggirate, e le competenze vengono mercificate. Mentre il governo e l’opposizione si accuseranno a vicenda in vista delle elezioni su chi sia responsabile della tragedia, e mentre la procura e il sistema giudiziario cercheranno nei prossimi giorni di recuperare una fiducia che non hanno mai avuto, è tempo di puntare il dito direttamente contro l’élite imprenditoriale locale e i potenti locali che qualcuno ha messo a fare da “sceriffi”. È tempo di puntare il dito contro di loro come classe, non come individui. La cosiddetta discoteca ha operato indisturbata per oltre 10 anni. Durante questo periodo, il potere centrale e locale è cambiato più volte, mentre la burocrazia invecchiava e veniva sostituita. Ma gli schemi criminali sono rimasti e continuano a esistere, perché è impossibile che il capitalismo funzioni senza di essi: sono il suo prodotto. È tempo di puntare il dito contro l’intero sistema capitalistico, senza paura di essere accusati di relativizzare la tragedia. Perché non dobbiamo dimenticare che tragedie simili accadono ovunque nel mondo, poiché il capitalismo governa ovunque. Dai paesi più sviluppati a quelli meno avanzati. Perché anche lì, come qui, la corsa al profitto e ai guadagni rapidi è il motore che muove la macchina sociale così com’è progettata. È un sistema in cui alcuni rispondono alla legge per i più piccoli errori, mentre altri non rispondono nemmeno per i crimini più gravi. Questo sistema non può essere riformato. Il capitalismo svilisce e disumanizza le vite umane ovunque nel mondo. Questo sistema non può essere aggiustato. Continuerà a trattarci come schiavi, servi e risorse. Considerando tutto ciò, è tempo di cambiare il nostro modo di concepire ciò che è normale e accettabile. Dal sollevare le spalle e accettare passivamente le situazioni attuali, all’organizzazione politica completa degli oppressi che porterà i cambiamenti rivoluzionari necessari! Contributo dellə compagnə dell’ organizzazione Alba Socialista e spazio sociale Dunja, Skopje Di seguito i link alle traduzioni in albanese, macedone ed inglese: https://docs.google.com/document/d/1-zrjmayzfC6na5DSPQ_Ai3U2fCL9vJhXQOcjZwUKfn4/edit https://docs.google.com/document/d/12v9FVEetVSNkPnKDMoajOnSMiFQZJjBH6RCTsUgPs1A/edit
Tre morti sul lavoro in poche ore: “strage senza fine” o indifferenza senza vergogna?
La segretaria generale della CISL, a fronte delle ultime 3 persone morte lo stesso giorno sul proprio luogo di lavoro, ha sbrigativamente commentato: “è una strage che non finisce mai”. Commento peculiare, visto che il compito di politica e sindacati sarebbe lavorare non solo affinché nessuna strage abbia più luogo, ma affinché non una sola persona perda la vita per colpa del proprio lavoro. D’altronde, quest’affermazione sbrigativa ha una sua evidenza scientifica che trova riscontro non solo nei dati dell’INAIL – che si basano esclusivamente sulle denunce d’infortunio – bensì, da altre fonti informative – come le inchieste infortunio dei Servizi PreSAL delle ASL – che ci dicono che solo in Piemonte ci sono dai 35 ai 40 morti sul lavoro, una media stabile da 10 anni. I comparti più a rischio risultano essere agricoltura e edilizia e la popolazione più a rischio è ovviamente quella straniera. C’è di più: dall’analisi di 800 infortuni mortali in 20 anni, è risultato che un terzo degli incidenti si sarebbe potuto evitare grazie all’intervento di un operatore di vigilanza e ispezione. In edilizia, almeno la metà. Dati interessanti si possono trovare qui . È d’altronde chiaro che l’attività di controllo sulla sicurezza non può essere fatta solo dai servizi delle ASL. Devono farlo anche gli RSPP e i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, e avere un approccio più integrato sia tra loro che con coloro con i quali svolgono il lavoro di vigilanza e d’ispezione. Ma i controlli da soli non bastano: servirebbe integrare fonti, saperi ed esperienze. Importantissima è la divulgazione dell’esperienza dei lavoratori e, per questo, abbiamo intervistato un epidemiologo del lavoro che da anni si occupa di raccogliere le storie dei singoli eventi su questo sito. L’idea è che, da una parte, leggere retrospettivamente quello che è successo possa aiutare a capire se si sarebbe potuto evitare, e, dall’altra, fare di ogni singolo caso un principio di diffusione della conoscenza tra lavoratori e lavoratrici che si trovano ad affrontare il rischio, spesso in maniera contingente ed estemporanea. Ai nostri microfoni, Osvaldo Pasqualini. Buon ascolto. da Radio Blackout
Il processo contro Askatasuna e No Tav “riguarda tutti”. Sotto accusa il diritto al dissenso. Lunedì la sentenza
Lunedì 31 di marzo è una giornata importante per le persone che si rivedono nelle lotte e nei movimenti nati attorno alla storia dei centri sociali in Italia: è il giorno in cui il Tribunale di Torino deciderà sul destino di 28 persone, 16 delle quali accusate di associazione a delinquere, legate al Movimento Notav, al centro sociale torinese Askatasuna e allo spazio popolare Neruda. Sono complessivamente 88 gli anni di carcere chiesti dall’accusa, 72 i capi di imputazione, oltre 7 i milioni pretesi dalla Procura e dalle partici civili, compresi i Ministeri e l’avvocatura di Stato, 3 milioni dei quali chiesti per danno d’immagine allo Stato. Richieste basate su costosissime indagini durate anni, ore di intercettazioni ambientali e telefoniche, pedinamenti, migliaia di soldi pubblici consumati per strutturare un teorema che, come sottolineano gli avvocati della difesa, vuole rendere il dissenso un reato. L’Assocazione a Resistere, che si è costituita a seguito delle accuse mosse contro il movimento torinese e che ha trovato l’adesione di migliaia di persone solidali, ha sottolineato in un comunicato come questo processo e l’impianto accusatorio tenti di “mettere sotto accusa il senso della militanza politica“. Askatasuna è, con ogni probabilità, il centro sociale più citato d’Italia. Lo è per la sua lunga storia politica, per la sua ampia comunità che si è formata attorno a Corso Regina Margherita e alle lotte in Val di Susa e, in parte, per gli accanimenti giudiziari che in questi anni si sono abbattuti su attivisti e attiviste. L’ipotesi iniziale della Digos, attraverso le lunghe indagini e il massiccio impianto accusatorio, era dimostrare che Askatasuna fosse una associazione sovversiva. Una volta caduta la paradossale accusa di sovversione, la fase successiva è stata quella di dimostrare che dentro al centro sociale torinese si annidasse un’associazione criminosa. Il senso di questo maxi-processo, definito Sovrano dal nome delle indagini, secondo la difesa e le realtà coinvolte dalle accuse è quello al contrario di riuscire a costituire il conflitto sociale come reato, processando chi agisce il conflitto ed escludendo il cosidetto “diritto penale del nemico”, cioè il diritto al dissenso. Per ripercorrere i punti chiave e le anomalie del processo Sovrano, Radio Onda d’Urto ha intervistato Dana, una delle imputate coinvolte. Ascolta o scarica. Sul processo Sovrano, il quotidiano Il Manifesto ha realizzato un inserto speciale in uscita oggi venerdì 28 marzo. Ce ne parla di Giansandro Merli de Il Manifesto. Ascolta o scarica. L’inserto de “Il Manifesto” in edicola oggi con la splendida copertina di ZeroCalcare da Radio Onda d’Urto
Ravenna: sequestrato materiale militare. Era diretto in Israele senza licenza
Ottocento pezzi acquistati dall’azienda Imi Systems, che rifornisce l’esercito. Il porto romagnolo teatro di proteste e di blocchi dei portuali di armi e navi israeliane di Linda Maggiori da il manifesto Nel porto di Ravenna da oltre un mese è bloccato un carico di 14 tonnellate di componenti di armi diretto a Israele. In tutto ottocento pezzi metallici classificati come materiale d’armamento e diretti all’azienda israeliana IMI Systems Ltd che rifornisce l’esercito israeliano. Il sequestro d’urgenza risale al 4 febbraio scorso, effettuato dall’Agenzia delle Dogane e convalidato dal Gip. Una notizia finora passata sotto silenzio, senza comunicati stampa, giunta alla stampa locale solo ieri, quando il Tribunale di Ravenna ha esaminato la richiesta di dissequestro avanzata dall’avvocato Luca Perego che assiste la ditta Valforge di Lecco. Tutto è iniziato a metà 2024 quando la società lecchese, specializzata in fucina e stampa di articoli metallici, ha ricevuto un ordine di oltre 250mila euro dalla IMI Systems e a sua volta ha commissionato la fabbricazione dei pezzi a due aziende di Varese. LA VALFORGE PERÒ, come contesta la procura, non ha l’autorizzazione a esportare il materiale bellico, né è iscritta nel Registro nazionale delle imprese istituito presso il ministero della difesa. È stato quindi indagato l’amministratore unico della società. La linea della difesa sostiene che l’azienda non era a conoscenza della destinazione militare, essendo questi prodotti dalla «funzione indistinguibile», usati anche nel settore civile. Eppure la natura totalmente militare della Imi Systems e la classificazione dei pezzi come componenti militari avrebbe dovuto far sorgere sospetti già al momento dell’ordine. Ma a quanto pare non ne ha destato nessuno. Così la “merce” prodotta a Varese, dopo aver passato il “test di qualità” a Lecco, è stata trasportata tramite tir al porto di Ravenna, dove l’attendeva una nave incaricata dall’azienda militare israeliana e diretta in Israele. Ma qualcosa si è inceppato. Lo spedizioniere avrebbe chiesto all’azienda di Lecco di sottoscrivere una certificazione e, secondo quanto riferisce l’avvocato nel ricorso, l’azienda si sarebbe soltanto a quel punto resa conto della destinazione militare e avrebbe annullato la spedizione, cercando di far tornare a Lecco la merce. Nel frattempo però è intervenuta l’Agenzia delle Dogane con il sequestro. I container ora si trovano al Terminal container (Tcr) e il Tribunale del Riesame si è riservato alcuni giorni per esprimersi nel merito del ricorso. Non è la prima volta che Ravenna è crocevia di traffici militari. Nel 2023 una protesta aveva atteso il passaggio della nave israeliana Zim e nel maggio 2021 i sindacati del porto di Ravenna avevano bloccato il carico di armi per Israele, proclamando sciopero. «ABBIAMO a che fare tutti i giorni con tantissimi container – spiega un portuale – Ci accorgiamo degli armamenti solo se abbiamo una soffiata o se sono ben visibili. Ma se sono pezzi smontati chiusi dentro ai container non è facile sapere di che si tratta. Non credo che questo sia l’unico né l’ultimo carico di armi di passaggio nel porto di Ravenna». Un attivista del Coordinamento lecchese Stop al Genocidio e del Bds (la campagna Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni lanciata dalla società civile palestinese nel 2005) commenta: «La notizia è un’ulteriore dimostrazione del triste ruolo di aziende della Provincia di Lecco nell’esportazione di materiale di armamento a Israele sia nel 2023 che nel 2024 come riportano le statistiche del commercio estero dell’Istat e recenti inchieste di Altreconomia. Insieme all’Assemblea permanente lecchese contro le guerre, stiamo combattendo da mesi una lotta per raccogliere dati, denunciare e fermare queste produzioni di morte. Noi monitoriamo l’export autorizzato, che è già troppo, ma se a questo si aggiunge il traffico illegale di armi verso Israele il quadro è ancora più fosco». Per il 29 marzo è indetto un presidio in piazza a Ravenna contro il transito di armi nel porto.
Argentina: Ancora negazionismo, ad un giorno dall’anniversario del colpo di stato il Governo ha demolito un monumento allo scrittore Osvaldo Bayer
Invece di occuparsi dello stato delle strade di fronte all’abbandono delle opere pubbliche, la Viabilità Nazionale è stata utilizzata come strumento di provocazione nell’ambito di un nuovo anniversario dell’ultimo colpo di stato. Questo martedì, soltanto un giorno dopo un nuovo anniversario del sanguinoso colpo di stato perpetrato il 24 marzo 1976, il governo di Javier Milei ha demolito un monumento a Osvaldo Bayer, storico, giornalista e autore di La Patagonia Ribelle, che era situato all’ingresso della città di Río Gallegos, Santa Cruz. Nell’amministrazione di ultradestra, il pessimo stato delle strade di fronte all’abbandono delle opere pubbliche non fa parte dell’agenda della Viabilità Nazionale. Né le grandi buche, né la mancanza di pittura, né la segnaletica in cattivo stato. Al suo posto, l’organismo incaricato della costruzione e manutenzione delle vie a livello nazionale è utilizzato per la “battaglia culturale” che porta avanti il governo nazionale. A poche ore dal 24 marzo, Viabilità Nazionale ha demolito il monumento in omaggio ad Osvaldo Bayer che era stato inaugurato 2 anni fa, durante la gestione di Alicia Kirchner come governatrice di Santa Cruz. Commissione per la Memoria degli Scioperi del 1920-1921 – Río Gallegos Da parte della Commissione per la Memoria degli Scioperi del 1920-1921 di Río Gallegos, ripudiamo quanto successo con l’immagine di Osvaldo Bayer che stava all’entrata della nostra città capitale. Consideriamo che sia una vendetta di coloro che rivendicano il genocidio avvenuto negli Scioperi Patagonici. Un massacro perpetrato dai gruppi di potere e il loro braccio armato che fucilarono 1.500 persone che desideravano una vita migliore per loro e le loro famiglie. Fu grazie all’enorme apporto di Bayer,  e delle sue indagini che gli costarono vari anni della sua vita, che fu permesso di trarre dall’oblio, quanto avvenuto a Santa Cruz tra il 1920 e il 1921 e, inoltre, di rivendicare la causa giusta di quello sciopero operaio che commosse tutta la Patagonia e il resto del paese. Allora, non è casuale che, ad un giorno dal 24 Marzo, e a 49 anni dal golpe civico, ecclesiastico, militare ed imprenditoriale, si porti a termine l’abbattimento dell’immagine di Osvaldo Bayer, come una vendetta di coloro che rivendicano tutti i genocidi avvenuti in Argentina e in particolare in Patagonia. Sono coloro che oggi sono nello stato e vogliono una “Storia Completa”, come una falsa discussione. Se così volessero, dicano dove sono le fosse comuni, per ritrovare i resti di coloro che furono fucilati nel 1921 e quanti furono giustiziati nel massacro. Non è nemmeno causale che questo 25 marzo, festeggino la caduta del monumento di Bayer, quando è il “Giorno del Lavoratore della Stampa”, come lo fu Osvaldo e il suo prezioso lavoro di indagine, che gli costò l’esilio durante la dittatura militare. Allora, noi che rivendichiamo la memoria di quegli scioperanti, con più ragione e con più forza dobbiamo continuare a lottare per impedire che occultino quello che realmente avvenne a Santa Cruz, perché è impossibile che possano riuscirci con l’abbattimento di un monumento. Come disse Bayer: “Voglia che il silenzio patagonico non sia più ferito dall’eco dei proiettili; voglia che il paesaggio patagonico non soffra più il corsetto di frontiere inventate dall’egoismo umano, e si estenda dall’Atlantico al Pacifico come nel sogno di Bolivar; voglia che l’uomo e la donna patagonici possano allevare i propri figli in mansuetudine e allegria, e respirare le sue arie e aromi con tranquillità di sapersi sicuri nella propria dignità; voglia che la natura patagonica possa continuare a crescere la propria fauna e la propria flora come quando c’erano i suoi abitanti naturali, che staranno sempre affacciati a vigilare dalle coste, dai laghi e dalle cordigliere cosa facciamo della loro madre terra. L’ingiustizia con le sue armi da fuoco continua a stabilire la legge. Se continua così, non rimarrà alcun dubbio che continueranno a sorgere altre Patagonie ribelli”. 25 marzo 2025 Resumen Latinoamericano Traduzione a cura del Comitato Carlos Fonseca
Guerra e lavoro: interviste ai lavoratori dell’aereospace
Pubblichiamo due interviste raccolte all’esterno di due delle maggiori aziende del settore strategico dell’aereospace, dove i lavoratori metalmeccanici si sono raggruppati in presidio per il rinnovo del CCNL durante la giornata di sciopero del 15 Febbraio, questa mobilitazione sta vedendo coinvolti migliaia di lavoratori e lavoratrici che in più occasioni quest’anno sono scesi in piazza e hanno scioperato arrivando a toccare picchi del 90% di adesione in alcuni settori. La chiusura alla trattativa da parte di federmeccanica prosegue e per questo venerdì sono previste 8 ore di sciopero con varie iniziative territoriali. Non a caso scegliamo di pubblicare questi contributi proprio in questi giorni in cui si parla sempre più insistentemente di riarmo e di riconversione dell’automotive alla produzione di materiali bellici. Proprio ieri il commissario Ue alla Difesa Andrius Kubilius ha lodato il lavoro di Leonardo come “più forte potenza UE nella difesa” sostenendo poi il piano di ReArm come occasione per la creazione nuovi posti di lavoro. Crediamo che sia importante interrogarsi su ciò che sta accadendo in questo mondo, su come la guerra stia trasformando e continuerà a trasformare i tessuti produttivi dei nostri territori, come saranno riorganizzate le nostre metropoli e come queste contraddizioni vengano percepite dai lavoratori. Questa raccolta di materiale non darà sicuramente risposte o certezze su come navigare in questa tempesta ma speriamo possa servirci da bussola per orientare lo sguardo verso possibili contraddizioni da attraversare. Qui sotto riportiamo il contributo di un lavoratore del sito divisione velivoli della Leonardo dove si procede al fattivo assemblaggio dei pezzi da parte degli operai: Lavori per Leonardo, giusto? Puoi spiegarci il motivo della vostra presenza qui oggi? Oggi stiamo partecipando a uno sciopero indetto per il contratto nazionale dei metalmeccanici. Abbiamo deciso di fare quattro ore di sciopero. Leonardo ha un ruolo importante all’interno di Federmeccanica, l’associazione di industriali, e per questo motivo un’iniziativa qui ha un impatto maggiore rispetto a una piccola fabbrica. Siamo in una situazione privilegiata, soprattutto in tempi di guerra. La nostra azienda ha commesse importanti, ci sono assunzioni in corso, e quindi, da un certo punto di vista, siamo in una posizione favorevole. Però questa posizione ci permette anche di influire su un mondo imprenditoriale più ampio. Leonardo, con i suoi 33.000 dipendenti in tutta Italia, ha una grande influenza. Qui, nello stabilimento di Venegono, siamo circa 1.600 persone. Le altre sedi, come Torino, Tessera, Pomigliano, e altre ancora, fanno parte di un grande insieme. Ogni volta che ci sono riunioni sindacali, è fondamentale che l’iniziativa prenda piede qui, per avere un impatto positivo anche sulle realtà meno fortunate. In passato, il mondo dei metalmeccanici era dominato dalla Fiat, ma ora che la Fiat non fa più parte del contratto nazionale, siamo rimasti uno dei gruppi industriali più grandi e pesanti. Cosa si produce esattamente in questo stabilimento? Qui produciamo una vasta gamma di veivoli, sia civili che militari, come l’Eurofighter, il C27J, e il Falcon. Come vivono i lavoratori la contraddizione della guerra, considerando che qui si producono anche aerei militari? È una domanda complessa. Dal punto di vista umano, è difficile. Alla fine, però, ciascuno tende a guardare alle proprie esigenze e alla propria situazione. Qui, grazie anche a una contrattazione interna, gli operai guadagnano abbastanza bene, con una maggiorazione del 20% sui turni. Il nostro stipendio si aggira sui 1900-2000 euro al mese, quindi non possiamo dire che siamo in difficoltà economiche. Questo significa che la contraddizione tra lavorare per un’industria militare e il nostro benessere personale non è molto sentita, almeno nella quotidianità. È vero che tutti vorremmo lavorare in un settore che produca cose più pacifiche, come ferri da stiro invece di aerei da guerra, ma alla fine si fa un ragionamento egoistico, pensando alla famiglia e alla propria sicurezza economica. È un tema complesso, perché la coscienza di classe non è la stessa per tutti. Alcuni operai sono più individualisti, altri più impegnati dal punto di vista sociale e politico. Quindi, la maggior parte dei lavoratori è concentrata sul guadagnarsi da vivere piuttosto che riflettere sulla natura del proprio lavoro? Esattamente. Ci sono anche riflessioni sindacali che cerchiamo di portare avanti nelle assemblee, ma alla fine molti sono focalizzati sul proprio benessere immediato. A livello culturale possiamo fare molto, ma individualmente le persone poi si comportano in modo diverso, in base alla propria situazione personale. Non posso dirti esattamente quante persone abbiano una coscienza pacifista, ma sicuramente non siamo un gruppo di militari. Questo pone una questione più ampia. Il nostro paese ha un problema industriale, soprattutto con l’industria legata alla difesa che viene considerata strategica. Ci sono investimenti, programmi, ma molte altre aree industriali sono in crisi. Per esempio, molti lavoratori, come quelli di Mirafiori, guadagnano meno di quanto necessario per vivere dignitosamente. Cosa ne pensi? Hai ragione. In Italia c’è una grande difficoltà nel mondo del lavoro. Nonostante l’industria legata alla difesa riceva investimenti, il resto dell’industria è in una situazione drammatica. Molti lavoratori sono in cassa integrazione, come gli operai di Mirafiori, e guadagnano solo 1000-1200 euro al mese, che è sotto la soglia di povertà. Questo significa che anche lavorando, molti vivono in povertà. Anche qui dentro, oltre ai lavoratori diretti di Leonardo, c’è una grande parte di lavoratori indiretti, che provengono da subappalti. Abbiamo visto di tutto: lavoratori con contratti di commercio, partite IVA, contratti edili… Spesso questi lavoratori si trovano in condizioni di sfruttamento molto alte, anche all’interno di Leonardo. Non posso darti una cifra precisa, ma sono tanti. Se qui ci sono 2.000 dipendenti, probabilmente oltre 500 lavorano per aziende esterne, senza i diritti dei metalmeccanici. Quindi Leonardo influenza anche il cambiamento in atto sul contratto nazionale dei metalmeccanici? Assolutamente. Leonardo, che è parte di Federmeccanica, ha un’influenza molto forte. Un tempo, la Fiat era la più grande azienda dentro il contratto nazionale, ma ora non è più così. Oggi Leonardo è il gruppo industriale più grande in Italia. Questo è importante, perché Leonardo non è solo aerospaziale; è un agglomerato che unisce elettronica, velivoli, aerostrutture, cyber security. È un mondo enorme. Leonardo ha sedi in tutte le regioni d’Italia, quindi ogni coordinamento nazionale coinvolge una varietà di realtà. La sua forza oggi è maggiore, ed è fondamentale che il sindacato continui a lavorare per tutelare i diritti di tutti i lavoratori, anche quelli indiretti. Abbiamo intervistato i lavoratori di Alenia Space nel giorno dello sciopero dei metalmeccanici Nello stesso giorno abbiamo incontrato anche alcuni lavoratori, tecnici informatici e ricercatori di Alenia Space: Siete i lavoratori di Alenia Space? Sì, oggi siamo in sciopero per il contratto nazionale dei metalmeccanici. Federmeccanica ha fatto saltare le trattative, rifiutando tutte le proposte che avevamo presentato, che non erano per nulla strampalate, ma anzi, molto concrete. Chiediamo principalmente di recuperare un po’ dell’inflazione che abbiamo perso negli ultimi anni, senza dimenticare l’inflazione arretrata. Inoltre, proponiamo una riduzione dell’orario di lavoro, iniziando una sperimentazione in tal senso. Con lo sviluppo tecnologico, l’intelligenza artificiale e la crisi del settore automobilistico che ha portato a molti licenziamenti, il concetto è semplice: lavorare tutti, ma lavorare meno. Cosa si produce in questo stabilimento? Qui produciamo sistemi spaziali, satelliti scientifici, e tutti i moduli per le stazioni spaziali, come quella terrestre, ma anche quelle lunari. Abbiamo già iniziato la produzione di moduli che saranno inviati attorno alla Luna nei prossimi anni. Producete anche per il settore militare? No, macchinari propriamente militari non li produciamo. Tuttavia, molte delle tecnologie che sviluppiamo sono duali. Per esempio, produciamo i satelliti Galileo, che sono utilizzati per il GPS europeo. Questi satelliti sono duali: li utilizziamo per navigare, ma servono anche per guidare le bombe intelligenti. Lo stesso vale per i satelliti di telecomunicazione e quelli di osservazione, che vengono usati per applicazioni civili come l’agricoltura o per monitorare le inondazioni. Ma sono anche utilizzati dai militari per scopi di sorveglianza, come ad esempio per monitorare i movimenti delle truppe. Come vivono i lavoratori questa contraddizione? Siamo metalmeccanici che lavorano per il salario. Sappiamo bene che viviamo in una società piena di contraddizioni, dove le nazioni e le potenze si scontrano anche attraverso la forza militare. Stiamo vedendo in queste settimane le guerre in Medio Oriente, la guerra in Ucraina, e così via. I lavoratori vengono mandati a combattere da una parte e dall’altra, per difendere gli interessi delle proprie borghesie. Com’è stata l’adesione allo sciopero oggi? Non possiamo dirlo con certezza, perché avremo una visione chiara solo nei prossimi giorni. Sicuramente c’è stata una maggiore adesione rispetto all’ultima volta, ma per sapere quanto effettivamente l’iniziativa abbia avuto successo, dobbiamo aspettare. Avete già pensato a delle prossime mosse? Le prossime mosse dipendono molto da come andrà questo sciopero. È stato indetto per il contratto dei metalmeccanici, con l’obiettivo di costringere Federmeccanica a sedersi di nuovo al tavolo delle trattative. Finora, purtroppo, hanno rifiutato ogni nostra proposta, e la controproposta che ci hanno presentato è assolutamente inaccettabile, perché ci farebbe fare dei passi indietro. Se lo sciopero avrà successo, riprenderemo la trattativa. Se invece non dovesse andare come speriamo, allora dovremo organizzare altre forme di protesta. Se anche tu vuoi raccontare la tua storia da lavoratore o condividere un contributo a riguardo scrivici a: inchiesta.lavoro@gmail.com