Traduciamo questo articolo di Victor Artola del 15 giugno 2025, tratto dal sito
illwill. Lo facciamo nello spirito di restituire il dibattito del movimento
d’oltre oceano, ma anche per aiutarci a fotografare l’importanza storica di
quanto sta succedendo negli USA.
Col passare dei giorni, quello che ci sembrava di intravedere dai report della
caotica infosfera, sembra confermarsi, i fatti di Los Angeles rappresentano
diversi punti di svolta, in alto e in basso. Nel particolare l’autore ci sembra
cattutare alcuni elementi importanti: l’iquadramento della forntiera esterna e
interna nella materiale organizzione della forza lavoro nell’ordine capitalista
Usa, la vera natura della riorganizzazione trumpiana della forntiera e come essa
si inquadra nel suo progetto complessivo, con una eclettica capacità di
individuare i “modi” trumpiani nella gestione delle rivolte senza scadere nei
luoghi comuni della left. Inoltre, dopo una prima parte di analisi generale, ci
offre una puntuale e ragionata ricostruzione delle rivolte attraverso il prisma
materialista di classe della rivoluzione. Le domande poste al movimento sembrano
puntuali e situate, date da precise dinamiche “geografiche” dettate dal processo
materiale del movimento. Avvertendoci della possibile frattura istituzionale e
della conseguente “guerra civile”, l’articolo ammonisce chi si pone il compito
della trasformazione “di questo stato di cose presesenti”, ricordandoci e
focalizzando quali sono i compiti e i luoghi in cui la pratica comunista forgia
il suo verbo. Buona lettura!
Quando siamo entrati nel quinto mese della seconda era Trump, gli esplosivi
movimenti sociali che hanno segnato la fine degli anni 2010 sembravano un
lontano ricordo. Il quinto anniversario dell’incendio del Terzo distretto di
Minneapolis è passato quasi inosservato e nelle settimane precedenti le voci di
una grazia per Derek Chauvin si sono rincorse tra i giornali. Il conflitto
sembrava relegato ai tagli al personale dei dipartimenti e ai rimpasti di
bilancio, mentre gli intrighi di palazzo dell’affare Musk offrivano un
divertimento surrettizio in assenza di quello reale. Tuttavia, la mobilitazione
di massa anti-ICE di Los Angeles – innescata dall’apertura di una nuova fase
della strategia di deportazione dello Stato – ha riacceso quella vecchia
sensazione estiva. Privata per il momento della “resistenza”, la ribellione è di
nuovo nell’aria.
Uno stato adeguato al suo tempo
Cogliere la portata del cambiamento sismico avvenuto nell’ultima settimana
richiede una riconcettualizzazione di ciò che forse smentisce la raffica di
scandali, truffe e rovesci che compongono qualsiasi osservazione puramente
empirica dei primi cinque mesi della seconda presidenza Trump. Mentre le
macchinazioni di bilancio e i licenziamenti di massa del DOGE hanno dato volume
a quella che è stata definita la strategia di “allagamento della zona”, le
manovre chiave all’interno dell’esecutivo lasciano intendere un progetto più
ampio di trasformazione dello Stato.
Scommettiamo che si tratta di un progetto di modernizzazione dello Stato.
Sebbene il capitale abbia da tempo espulso la riproduzione totale del suo
presunto altro, il lavoro, dalla sua dinamica interna di accumulazione, lo Stato
americano che è persistito è vecchio quanto il capitale fisso incolto che
infesta la rust belt. Un intero apparato, con le sue origini nell’intervento
positivo dello Stato nella vita di una classe operaia nazionale considerata come
oggetto civico primario, è rimasto in piedi. In quest’ottica, il DOGE è forse
solo una forma di distruzione creativa e di “riattrezzamento”, appropriata per
modellarsi sull’orientamento manageriale “move fast and break stuff” del
capitale fintech della Silicon Valley.
Se ogni progetto positivo dello Stato dipendente dall’integrazione di una classe
operaia di massa in un “corpo civico operante” (corpo intermedio ndt) appartiene
al passato, cosa rimane? Si potrebbe naturalmente rispondere invocando la
vecchia ortodossia weberiana: lo Stato è ciò che detiene il monopolio della
violenza. Ed è vero che, se guardiamo oltre le confusioni provocate
dall’austerità sotto le vesti del DOGE e dalla politica commerciale condotta
come una negoziazione immobiliare commerciale, c’è una chiarezza di intenti
negli eventi recenti: rimodellare il lato disciplinare dell’esecutivo. Mentre
altri potrebbero aver dimenticato le lezioni della rivolta di George Floyd,
Trump e la sua cricca sicuramente no. La ribellione del 2020 è la scena
primordiale dell’umiliazione e dell’impotenza che ha portato al fallimento dei
suoi sforzi di rielezione. Sebbene la Guardia Nazionale abbia infine ristabilito
l’ordine in ventitré Stati, gli integralisti di Trump non hanno mai placato la
loro sete di sangue, ostacolati da burocrati di carriera come il generale Mark
Milley e il procuratore generale William Barr che hanno rifiutato di inviare
l’esercito.
Vista in quest’ottica, l’attuale riconfigurazione dell’apparato esecutivo
disciplinare americano si mostra come uno sforzo piuttosto chiaro per evitare un
altro momento del genere. Adeguata alla nostra epoca contemporanea, una
ristrutturazione profondamente consequenziale si rivela il meschino progetto di
un indegno raket. Trump ha occupato le posizioni chiave di questo guscio duro
dello Stato in gran parte con personalità mediatiche di terzo livello che
difficilmente potranno attenuare la natura antidemocratica dello zoccolo duro
dell’amministrazione. La riconfigurazione è avvenuta anche al Dipartimento di
Giustizia, all’FBI e al Dipartimento della Difesa, con l’epurazione di elementi
percepiti come “bidenisti” e l’assoggettamento del personale rimanente a test di
fedeltà. Come prodotto dell’era della Guerra al Terrore, il Dipartimento della
Sicurezza Nazionale, e con esso l’ICE, è sempre stato un solido baluardo del
progetto reazionario più profondo.
Se a ciò si aggiunge l’ambivalenza nei confronti dell’intervento straniero e la
percezione di un mandato popolare per realizzare rapidamente il programma
anti-immigrati della classe operaia bianca revanscista, non sorprende che il
monopolio della violenza si sia concentrato all’interno e si sia rivelato in
tutta la sua bassezza. Se i proletari non devono più essere necessariamente
anche cittadini, ne consegue che, per la massa di immigrati dall’America Latina
arrivati dopo le ristrutturazioni degli anni Settanta, non ci sarà
un’integrazione finale come quella che ha seguito le precedenti ondate di
sottoproletariato europeo. Il licenziamento di massa trova il suo analogo
politico nella deportazione di massa.
La costruzione del muro
L’analisi abbozzata di seguito non esclude le contingenze e le particolarità
della storia e della politica che sarebbero necessarie per un’analisi a grana
più fine dell’apparato di deportazione contemporaneo e della sua strategia a
lungo termine. Il nostro obiettivo è quello di dimostrare che ciò che si
presenta a molti come un dibattito politico è, in realtà, legato a una più ampia
trasformazione del modo in cui lo Stato compone e media la sua riserva nazionale
di forza lavoro. La riproduzione del proletariato nella nostra epoca è stata
soggetta a una profonda ristrutturazione che la esteriorizza sempre più dalla
dinamica di accumulazione del capitale. Questa tendenza più generale è cruciale
per spiegare perché la lotta per l’immigrazione che sta prendendo forma oggi ha
tratto i suoi contorni dalla sequenza del BLM, piuttosto che dal precedente
movimento politico verso l’assimilazione e la legalizzazione emerso durante il
dibattito pre-crisi finanziaria globale (GFC) sulla “riforma globale
dell’immigrazione”.
Crediti immagine: Jesse Rodriguez
Sebbene sottolineare le continuità tra i regimi di deportazione di Obama, Trump
e Biden sia diventato una sorta di ritornello di sinistra, è stata prestata meno
attenzione a ciò che rivelano le specificità della logica spaziale e legale
dell’esecuzione. Se si considerano le categorie di fermi interni e di fermi al
confine, si può scorgere una logica più profonda, che ha meno a che fare con gli
orientamenti dei partiti politici. Nel crepuscolo del progetto di “riforma
globale dell’immigrazione”, che apparteneva al boom edilizio e finanziario
dell’inizio e della metà degli anni Duemila, l’emergere di una brusca flessione
del mercato del lavoro con la crisi finanziaria del 2007-2008 ha coinciso con il
rafforzamento della macchina delle deportazioni interne sotto l’amministrazione
Obama, ma questa volta con una nuova svolta.
La migrazione messicana di metà secolo tendeva a essere caratterizzata dalla
stagionalità e dalla flessibilità degli spostamenti attraverso il confine. Al
contrario, sostenuto dall’inondazione di finanziamenti al DHS nei primi anni
della guerra al terrorismo, il regime istituito dall’amministrazione Obama si è
basato sull’allontanamento permanente di una classe lavoratrice transnazionale
attraverso procedure formali piuttosto che volontarie, che limitano fortemente
le possibilità di ritorno dei migranti negli Stati Uniti.
Con lo sfruttamento transfrontaliero della manodopera saldamente stabilito dal
NAFTA e dalle successive riconfigurazioni della catena di approvvigionamento, un
confine poroso che potesse assorbire ed espellere la manodopera migrante con
flessibilità è diventato una condizione meno necessaria per il capitale
americano. Con la ripresa del mercato del lavoro a metà degli anni ’90, gli
arresti all’interno del Paese sono diminuiti (in gran parte grazie alla
diminuzione dei rimpatri volontari), mentre quelli alla frontiera sono aumentati
sensibilmente. Il capitale poteva mantenere qui la manodopera di cui aveva
bisogno, ma le prospettive di accumulazione a lungo termine richiedevano ancora
una fortificazione dell’ingresso nel contenitore nazionale della classe operaia.
Un confine rigido, fisico alla frontiera e virtuale all’interno del Paese, è
diventato la struttura centrale attorno alla quale la macchina delle
deportazioni ha manifestato la sua “legge e ordine”. Lo slogan di Trump del
2016, “Costruite il muro”, non era tanto una controreplica alla politica
democratica, quanto piuttosto una cooptazione della prassi esistente. Tuttavia,
il regime di deportazione della prima amministrazione Trump ha portato solo
aumenti modesti, senza nemmeno avvicinarsi ai livelli del 2008-2011. Sebbene le
ragioni siano complesse e la mancanza di competenze burocratiche
dell’amministrazione abbia giocato un ruolo importante, si può ipotizzare che la
ripresa del mercato del lavoro, iniziata sotto Obama, sia stata una variabile
esplicativa importante.
Sebbene il precipitoso calo dei livelli di migrazione durante la pandemia abbia
fatto sì che Biden abbia presieduto all’inizio a una massiccia diminuzione degli
arresti totali, la normalizzazione di un regime di deportazione incentrato sulle
azioni al confine è ricominciata seriamente nel 2024. Anche in questo caso,
assistiamo a uno schema in cui Trump si limita ad articolare politicamente in
modo esplicito il controllo tecnocratico del confine già esistente e a portare a
compimento il compito storico delle deportazioni di massa, da sempre implicito.
In sintesi, il secondo mandato di Trump rappresenta la continuazione e il
culmine di un particolare orizzonte. Uno sguardo più attento agli spostamenti
interni e di confine degli ultimi mesi rivela che la disciplina e la
militarizzazione della frontiera si sta estendendo sempre più all’interno. Con
le retate nei luoghi di lavoro e nei quartieri, iniziate seriamente a maggio –
l’obiettivo è di 3.000 arresti giornalieri – la violenza statica al confine è
stata spettacolarmente rivolta verso l’interno. La disciplina di una forza
lavoro considerata esterna e sacrificabile dal capitale per mano dello Stato
trova ora la sua forma adeguata nello scatenamento dell’intero apparato del
monopolio statale della violenza nelle zone di lavoro formali e informali che
costellano la metropoli.
72 ore a Los Angeles
Non staremo a raccontare i dettagli delle varie strade percorse dalla seconda
amministrazione Trump per raggiungere il suo obiettivo di deportazioni di massa
nei primi cento giorni. Basti dire che prima della recente offensiva nella
tentacolare metropoli gestita dai democratici, le operazioni oscillavano tra lo
spettacolo (il “reportage” incorporato del Dr. Phil all’interno dei raid) e le
scommesse che sondavano e provocavano sfide legali (l’affare CECOT, la fine
della cittadinanza per diritto di nascita tramite ordine esecutivo, ecc.) Una
dinamica che rievocava quella della prima amministrazione Trump stava
apparentemente andando al suo posto – salti improvvisi che altrettanto
improvvisamente portavano a ritirate.
La recente incursione a Los Angeles, nonostante le apparenze, ha invertito la
tendenza. Piuttosto che ritirarsi, la macchina delle deportazioni si è
insediata, radicandosi nel tessuto della vita quotidiana. Raid e sequestri
avvengono a caso, in accordo con l’informalità e la dislocazione del lavoro
degli immigrati all’interno della più ampia zona economica di Los Angeles.
Iniziata con una task force congiunta di DHS, FBI, DEA e ATF, il 5 giugno la
forza d’invasione ha rapidamente aggiunto un’ala militare formale con la
federalizzazione di 700 soldati della Guardia Nazionale della California. Giorni
dopo, con l’aumentare della resistenza, il numero è salito a 4.000 soldati della
Guardia Nazionale con 700 Marines in attesa, che hanno seguito un corso
intensivo di controllo delle rivolte nei campi da calcio appena fuori dal
centro.
Come per tutti i cambiamenti strategici dell’amministrazione Trump, la chiarezza
iniziale ha rapidamente ceduto alla sovradeterminazione, la precisione tattica
ha lasciato il posto al caos opportunistico. Per iniziare ad affinare una
visione precisa del nostro attuale momento politico e della direzione che
potrebbe prendere, vale la pena osservare da vicino i luoghi iniziali di lotta
nelle prime 72 ore dell’incursione di Los Angeles.
Gli attacchi dell’ICE a Los Angeles sono iniziati in sordina, con la detenzione
degli immigrati che si presentavano alle udienze di routine per l’immigrazione
nella settimana precedente all’escalation aperta. Tuttavia, un presagio delle
incursioni di strada a venire poteva essere visto nelle esplosioni di polemiche
che hanno segnato il passaggio da maggio a giugno (a Chicago, San Diego e
Minneapolis).
L’invasione federale di Los Angeles è iniziata seriamente venerdì 5 giugno.
L’ICE e altre agenzie federali hanno scatenato una serie di grandi incursioni a
sorpresa, pesantemente armate, in luoghi mirati della città. Intorno alle 9 del
mattino, hanno fatto irruzione in un Home Depot a Westlake/MacArthur Park, una
delle enclave di immigrati della classe operaia più densamente popolate del
centro di Los Angeles. Quando i membri della comunità ne sono venuti a
conoscenza attraverso le reti di risposta rapida, si sono affrettati a
raggiungere la scena nel tentativo di fermarli, ma sono arrivati troppo tardi –
un limite spaziale alla zona di lotta che è diventata chiara fin da subito.
La notizia di queste incursioni si è diffusa, così come la risposta. Intorno
alle 11, l’ICE è arrivata con i mandati in due diverse sedi della Ambiance
Apparel, un’azienda di abbigliamento del Fashion District della città –
un’industria che dipende quasi totalmente dalla manodopera immigrata latina. Non
molto tempo dopo, sono arrivati sul posto anche centinaia di manifestanti, che
hanno circondato gli ingressi di entrambe le sedi. Uno era un negozio nel mezzo
del vivace quartiere della moda, l’altro un magazzino a un chilometro di
distanza, nel vicolo industriale e logistico lungo il fiume LA.
Questi confronti segnano il riemergere della dinamica spaziale conflittuale dei
momenti più interessanti della Rivolta di George Floyd (e della precedente
ribellione di Ferguson). Al posto del centro storico, per lo più vuoto, e dei
suoi simboli di potere politico locale, le incursioni hanno aperto una zona di
conflitto nell’arcipelago industriale e logistico periferico che costituisce
l’attuale realtà materiale di Los Angeles.
Mentre gli agenti dell’immigrazione trattenevano i dipendenti all’interno del
Fashion District, la folla militante si è confrontata con la task force
federale. Nella sede periferica del magazzino, l’ICE ha caricato i veicoli con i
lavoratori catturati, mentre i manifestanti hanno messo in campo una azzardata
risposta che ha portato all’arresto del presidente del SEIU David Huerta.
La folla era composta da attivisti esperti, lavoratori vicini e passanti,
familiari di lavoratori detenuti, rappresentanti della macchina politica
liberale locale e giovani latinos indisciplinati della classe operaia. Questa
composizione eterogenea forse spiega alcune delle carenze della risposta
iniziale: i manifestanti che hanno compreso la necessità di uno sforzo
coordinato hanno esitato tra l’agire come testimoni e garanti dei diritti legali
e l’essere determinati nei loro tentativi di bloccare i tentativi di detenzione.
Il coordinamento di questi ultimi, quando è arrivato, è stato confuso e
ritardato.
Al magazzino Ambiance, il DHS è riuscito ad andarsene per lo più senza opporre
resistenza attraverso un’uscita laterale non difesa. Mentre gli attivisti hanno
insistito nel controllare moralmente la polizia locale che si è posta come
mediatore statico tra la folla e il magazzino, non è stato stabilito un vero
senso strategico delle reali possibilità di difesa. Dato che queste incursioni
sono avvenute e continueranno ad avvenire in spazi sconosciuti ai soccorritori,
acquisire e condividere rapidamente una consapevolezza spaziale sarà
fondamentale per il futuro.
Data la sua posizione nel fitto reticolo del quartiere della moda, l’irruzione
nel negozio ha favorito un conflitto più intenso tra militanti e agenti
federali, che si è protratto per ore. Solo l’uso estremo della forza e le misure
di controllo della folla da parte di una combinazione di agenti del DHS e
dell’FBI hanno permesso ai veicoli di fuggire.
Sebbene le esigenze tattiche di queste incursioni diano la priorità a un
confronto familiare con lo Stato disciplinare, esse pongono anche una domanda
che non può che portare alle prime crepe del cosiddetto “pavimento di vetro”
della produzione. Qual è la natura di questi spazi di lavoro e di accumulo di
ricchezza materiale sotto forma di merci da cui la comunità “esterna” è
attratta? Che cosa occorre per difendere il luogo di lavoro e i lavoratori dagli
attacchi dello Stato? Qual è il potenziale della lotta alle porte per riflettere
sul luogo del lavoro, ora che la sua stessa composizione è diventata un luogo di
contesa pubblica? Queste domande chiave, che costituiscono il nocciolo di ogni
futuro movimento verso misure comuniste, sono già in gioco in ogni difesa contro
un’irruzione sul posto di lavoro.
La fase successiva della lotta ha seguito la macchina delle deportazioni. Poche
ore dopo, i manifestanti si sono riuniti in gran numero per una manifestazione
indetta dal SEIU davanti al Centro Federale di Detenzione (a pochi chilometri a
nord dei luoghi del raid), dove i lavoratori catturati venivano processati. La
folla, composta da circa 500 persone, presentava un’ampia varietà di obiettivi
politici e tattiche. C’erano membri di gruppi comunitari, sindacati
professionali e organizzazioni non profit. Alcuni si sono espressi a favore di
una protesta pacifica in stile “sit-in”, avvertendo la folla del rischio di
essere arrestati nella proprietà federale. Altri attori più radicali si sono
concentrati sul blocco diretto degli ingressi del centro di detenzione con i
loro corpi, per poi erigere barricate fatte di cassonetti, pezzi di automobili,
sedie da ufficio, scooter, coni stradali e qualsiasi altra cosa si potesse
racimolare nelle vicinanze.
Lo status di Los Angeles come “città santuario” ha creato confusione tattica e
politica da parte dello Stato, permettendo al confronto di prolungarsi per ore.
La polizia di Los Angeles è rimasta per lo più a distanza, mentre dall’interno
dell’ingresso del garage la polizia del DHS ha iniziato a reagire, elargendo
bombe flash, proiettili meno letali, gas lacrimogeni e spray al peperoncino.
Questo ha indotto alcuni dei manifestanti più passivi a sgomberare, ma più di un
centinaio di altri sono rimasti in piedi, distruggendo la guardiola di fronte al
parcheggio e mandando in frantumi i dissuasori di cemento per poter scagliare
pezzi contro la polizia. Questi manifestanti hanno mantenuto la linea per altre
ore, fino a quando il gruppo più numeroso della polizia di Los Angeles ha
finalmente disperso la folla lungo il viale. Ma la notte non era ancora finita.
Intorno alle 21, sono iniziate a circolare notizie di una massiccia task force
federale in un parcheggio privato nella vicina Chinatown, dove erano radunati
orde di agenti dell’HSI, dell’ICE e dell’FBI insieme a decine di veicoli
governativi. I manifestanti si sono diretti verso questo luogo ed è iniziato un
altro teso stallo. Mentre gli agenti cercavano di far rientrare i veicoli nel
lotto, la folla ha tentato di bloccarli fisicamente con i loro corpi, spingendo
il contingente dell’FBI ad attivare due massicci veicoli blindati dotati di
cannoni sonori e luci di segnalazione. Bloccati dai carri armati e dalle file di
agenti di frontiera pesantemente armati, i veicoli governativi sono stati fatti
uscire dal parcheggio e alla fine sono fuggiti dalla scena. Un altro marcatore
geografico della lotta, la forza d’invasione a riposo, è entrata nel regno
dell’intervento immaginabile (che continuerà nei giorni successivi con le
proteste negli hotel che ospitano gli agenti del DHS).
Sabato mattina, l’assalto dell’ICE a Los Angeles è proseguito, con la messa in
scena di un parcheggio di Home Depot per un’apparente incursione nella città di
Paramount, una comunità operaia a maggioranza latina nella periferia industriale
della contea. È qui che è emerso il conflitto più imponente e ampio di sabato,
che si è protratto fino alle prime ore del mattino di domenica, riecheggiando
alcuni dei momenti più dinamici delle rivolte di Ferguson e poi di George Floyd.
L’architettura incentrata sulle automobili che caratterizza gran parte di Los
Angeles – e dell’America in generale – è spesso vista come un limite negativo
all’insurrezione. Tuttavia, la lotta nel sud-est di Los Angeles dovrebbe indurci
a considerarla come una forma particolare, che crea un terreno quasi impossibile
da controllare per i federali. Il conflitto ha evocato il classico ritmo del
traffico di Los Angeles, con i blocchi statici su alcune linee di schermaglia
mentre altri scorrevano liberamente lungo i viali verso la vicina Compton.
Domenica, quando è stato chiaro che la militarizzazione del centro di detenzione
federale sarebbe rimasta e che la vicenda si era trasformata politicamente in
uno stallo tra funzionari statali e comunali e l’amministrazione Trump, la lotta
si è estesa al centro della città. Una manifestazione di migliaia di persone di
fronte al municipio si è rapidamente estesa oltre l’area di allestimento per i
discorsi del PSL e dei partner della coalizione e si è unita a gruppi militanti
più piccoli, anche se ancora numerosi, intorno al centro di detenzione. Le linee
della Guardia Nazionale all’ingresso del garage assediato del centro hanno
respinto i primi piccoli gruppi di manifestanti, ma le forze dell’ordine prima
linea sono presto diventate la LAPD, polizia di Los Angeles.
Probabilmente nel tentativo di smentire le affermazioni dell’amministrazione
Trump, secondo cui l’insurrezione avrebbe sopraffatto le capacità della città e
dello Stato, i reggimenti di polizia locale hanno avuto il via libera per
colpire aggressivamente i manifestanti. La giornata è esplosa in una prevedibile
rivolta contro la polizia, con gruppi di diverse centinaia di persone che hanno
assediato le linee di poliziotti in più isolati, divisi dalla superstrada 101.
Mentre la distinzione immaginaria tra gli “anarchici professionisti” e i
manifestanti pacifici ha spesso la sua espressione reale nella separazione
spaziale e temporale tra la manifestazione di massa e il blocco militante
minoritario, la massa che ha agito quel giorno ha definitivamente trasceso
questa dicotomia.
Se una vera consapevolezza spaziale e tattica è riuscita a cristallizzarsi, è in
parte perché il terreno stesso forniva obiettivi chiari. Qui c’è il punto in cui
le persone entrano ed escono, qui c’è un punto nodale nella macchina della
deportazione senza il quale il passo successivo non può procedere e quello
precedente non può contare. La diffusione capillare della consapevolezza di
strada e della chiarezza su chi sia il nemico testimonia l’esperienza collettiva
acquisita da una coorte di giovani militanti nel 2020 e dal movimento di
solidarietà palestinese. E a differenza della Rivolta di George Floyd, che è
emersa all’apice della distanza sociale e tendeva a essere caratterizzata da
un’assenza di comunicazione sul campo, qui c’erano gli inizi di un’apertura
creativa e di un coordinamento ad hoc. Gli attivisti e i pro-rivoluzionari, pur
non dissolvendosi in blocchi distinti, si muovevano tra e di concerto con una
classe operaia militante composta da giovani latinos di Los Angeles il cui mondo
di vita era direttamente sotto attacco.
Il compito del vero santuario
Mentre scriviamo, è trascorsa una settimana dall’inizio dell’incursione federale
a Los Angeles. Le incursioni sono continuate a ritmo serrato, senza alcuna
logica apparente se non quella dell’opportunismo. Autolavaggi, parcheggi di Home
Depot, aziende di autotrasporti e chiese sono diventati un bersaglio facile nel
tentativo di distruggere materialmente qualsiasi politica di “città santuario”
presente nei libri di diritto. Anche se resta da vedere fino a che punto il
Partito Democratico sia disposto o in grado di far fronte alla situazione, per
l’amministrazione Trump tutto ciò che manca al sostegno materiale diretto e
aperto alle operazioni di deportazione di massa fa parte dell’insurrezione
immaginata. Non bisogna scartare la possibilità concreta di una drammatica
rottura costituzionale, soprattutto se il governo federale mantiene la promessa
di portare la guerra alle città santuario in altri Stati.
Non è nostro compito inventare strategie che potrebbero permettere al Partito
dell’Ordine di respingere il diluvio. Il nostro compito è piuttosto quello di
individuare quali compiti necessari ci vengono assegnati giorno per giorno,
quali forze di creatività, determinazione e solidarietà vengono chiamate in
causa, e quali forme di azione appaiono ora ovvie a tutti. Già, oltre alle
manifestazioni e agli scontri nel centro cittadino, si è sviluppata una pratica
auto-organizzata di proteste notturne davanti agli hotel sospettati di ospitare
agenti del DHS. Contemporaneamente agli scontri con la polizia di Los Angeles
scoppiati domenica, i manifestanti a Pasadena sono riusciti a cacciare gli
agenti dell’ICE dall’hotel AC. Oltre a questi sforzi visibili, alcuni militanti
si sono organizzati per colpire clandestinamente i mezzi inutilizzati della
macchina delle deportazioni in diversi parcheggi.
La prossima fase richiederà la reale estensione di un’infrastruttura quotidiana
di difesa. Le basi sono evidenti: si trovano ovunque i lavoratori immigrati si
riuniscano apertamente, prede in ogni momento delle retate del DHS. Il compito
immediato è costruire delle vere e proprie zone di santuario all’interno della
metropoli tentacolare, andare incontro ai lavoratori e presentare chiaramente la
crescente costruzione di una pace reale, fraternizzare e iniziare a dissolvere
le differenze sociologiche che strutturerebbero questa lotta come composta da
alleati da una parte e soggetti a rischio dall’altra.
L’esistenza di queste zone disperse di difesa, se portata avanti fino in fondo
di fronte a un nemico che non ha ancora fatto marcia indietro, pone l’inizio di
una risposta a una domanda non ancora formulata. Nella loro riproduzione
quotidiana, nella loro crescita e trasformazione, esse ci spingono a immaginare
la creazione di una vera comunità umana — il comunismo — come un compito sempre
più evidente per tutti i soggetti coinvolti, riducibile a problemi concreti e a
riconfigurazioni del territorio e della vita quotidiana.
Giugno 2025
Immagine di copertina: Gabriela Bhaskar
Source - InfoAut: Informazione di parte
Informazione di parte
Riprendiamo il programma della giornata dal canale telegram @STOPRIARMO,
percorso cittadino e territoriale che intende costruire una dimensione ampia di
attivazione contro la guerra, contro il piano di riarmo e vuole opporsi al
genocidio in Palestina.
🔴GIORNATA STOP RIARMO// SABATO 5 LUGLIO 2025 PARCO DEL VALENTINO // INGRESSO
DALL’ARCO DI PIAZZA VITTORIO // ore 16 🔴
Banchetti e performance teatrale con TC Te Cunto “Il mondo va alla guerra”
Tavola rotonda :
“BLOCCARE LA GUERRA DAI NOSTRI TERRITORI E’ POSSIBILE”
Il piano di riarmo europeo aggraverà le già compromesse condizioni in diversi
ambiti della vita: dalla formazione alla sanità, passando per la ricerca, il
lavoro salariato e la messa a disposizione di territori considerati
sacrificabili. Il governo Meloni ha dichiarato la sua guerra alla popolazione
accettando le indicazioni dell’amministrazione statunitense di alzare la spesa
militare al 5%. La violenza con cui la guerra si manifesta per garantire al
modello occidentale di sopravvivere è sotto gli occhi di tutti: il genocidio a
Gaza continua sotto le telecamere a livello mondiale, soldati israeliani sparano
sulla folla in attesa dei pacchi alimentari, la narrazione dominante costruisce
il presunto “nemico” dal quale doversi difendere. Oggi è necessario intervenire
collettivamente, ovunque, per fermare questa deriva. Conoscere i meccanismi
della guerra qui e ora può permettere di organizzarsi per incepparli. A partire
da un’analisi del complesso militare industriale che diventa il paradigma in
base al quale strutturare l’organizzazione sociale, produttiva e non,
individuiamo chi guadagna dalla finanziarizzazione della guerra e dalla
riconversione industriale prendendo ad esempio la città di Torino. Per poi dare
spazio alle esperienze di lotta e resistenza che già da ora hanno rappresentato
dei tentativi per bloccare la guerra e praticare sostegno al popolo palestinese,
a partire dai propri territori.
Complesso militare industriale/finanziarizzazione della guerra/riconversione
industriale:
Michele Lancione, professore di Geografia economica e politica al Politecnico di
Torino
Susanno De Guio per Recommon, è un’associazione che lotta contro gli abusi di
potere e il saccheggio dei territori per creare spazi di trasformazione nella
società, in Italia, in Europa e nel mondo.
Gianni Aliotti, Sindacalista, membro dell’Osservatorio “The Weapon Watch”.
Eleonora Artesio, per il Comitato per il Diritto alla Tutela della Salute e alle
Cure
Terry Silvestrini per Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e
delle Università
Come bloccare la guerra:
Movimento No Base, lotta che si oppone al progetto di base delle forze speciali
dell’esercito nel territorio pisano
Testimonianze da chi ha partecipato alla March to Gaza da Torino
GAP, Gruppo Autonomo Portuali di Livorno
A seguire cena popolare e musica
Sa – hara – lento è una di quelle costruzioni terminologiche di fantasia
(putroppo solo dal punto di vista lessicale!) che richiede un piccolo sforzo
iniziale per comprenderne il senso. Noi ne siamo subito stati incuriositi e la
lettura del documento che alleghiamo, curato e inviatoci dal Coordinamento
interprovinciale a tutela dei territori, ci ha appassionato, svelandoci
meccanismi e analisi che evidenziano ancora una volta, semmai fosse necessario,
come l’intreccio di interessi di mercato non si ponga alcun tipo di scrupolo nel
devastare un territorio, la sua cultura e tradizione.
Uliveto in Salento – foto di Cesare Quinto
E allora in questa lettura storica del territorio salentino emerge la
contraddizione tra un’economia agricola tradizionale e la proprietà moderna, tra
la cultura contadina ricca di saperi e la sua odierna mera sopravvivenza e
trasformazione in imprenditoria agricola cui è stata soggetta. I saperi
tradizionali storici non sono necessari a condurre un terreno abbandonato, una
coltura superintensiva, una distesa di fotovoltaico e un turismo spietato.
Automaticamente questi saperi vengono esclusi dal nuovo paesaggio imposto da un
modello di sviluppo diverso. (..) Si continuano a sradicare gli imponenti ulivi,
nonostante le evidenti contraddizioni emerse, perché così si espianta un modello
di vita per il quale non tutto diventa merce.
Emergono anche connessioni di metodo con la contemporaneità: la creazione di
“mostri dell’emergenza” (il batterio killer degli ulivi nonostante le
contraddizioni scientifiche) e dell’interesse strategico, meccanismi di
finanziamento, dispiegamento di forze dell’ordine e chiusura di strade, sanzioni
amministrative e condanne in opposizione a presidi, manifestazioni: semi sparsi
per la nascita di un decreto sicurezza che nel frattempo è maturato sul campo
nazionale.
Il capitalismo va veloce, ancor più con una certa scienza a esso soggiogata, e
la natura stessa fatica o rimane impotente. Fenomeni quali il consumo di suolo,
il land grabbing, la messa al bando di una continuità storica e di ciò che è
autoctono, gli OGM, le colture intensive, l’agrochimica, la GDO, la presenza
militare, il business del comparto energetico (la Puglia come hub energetico –
TAP, fotovoltaico) e di un modello di turismo intensivo hanno contribuito non
solo allo sterminio di ulivi millenari ma anche a ridurre il territorio a un
deserto asfittico. Il mito della scala sociale da scalare nel modello proposto
dagli anni ’60 in poi ha contribuito all’abbandono delle terre e a un “ritorno
del latifondo”, non soltanto per un loro uso agricolo ma per speculazioni di
diverso tipo. Attraverso un mercato manipolato, si svantaggia un’economia
agricola tradizionale, agevolando un abbandono dei terreni e un deprezzamento
degli stessi.
I casi legati all’Ilva di Taranto (costruita sulle ceneri di distese di ulivi),
all’albero del fico (antica risorsa agricola sostituita da vigneti e ulivi
intensivi) e al Metapontino e le sue trasformazioni (un’immensa superficie di
colture superintensive e serre gigantesche a discapito di grano e ulivi) rendono
l’idea di come il mercato bruci tutto. Colture sostitutive che necessitano di
cospicua irrigazione in un territorio che per ragioni diverse è sempre più
soggeto a carenza idrica e infertilità del terreno.
Un Sahara che quindi avanza lento (Sa -hara – lento) laddove gli squilibri e gli
effetti causati dall’uomo non sembrano venire messi a critica per cercare di
arginare una situazione deteriorata. E’ una specie, quella umana, che si è
autocandidata ed autoimposta al vertice di chissà quale fantomatica piramide,
quando l’insieme ambiente, a cui realmente essa appartiene, ha sempre avuto una
strutturazione circolare e non verticistica.
Vi invitiamo alla lettura di questo documento lasciandovi con questa riflessione
in esso contenuto:
La concezione valida risiede nella biodiversità intesa come ricchezza
insostituibile, nel rispetto di ogni soggettività ambientale, a tutela del
diritto di libertà e saggezza storiche, contro ogni sopraffazione e repressione.
Bisogna invertire la rotta per la quale si sottomette tutto e tutti, si dominano
risorse e beni comuni, si asservono culture e saperi. Contrastare la logica di
finanziamenti ed incentivi per soggiogare informazione, sapienza e mondi
accademici, allo scopo di creare qualsiasi narrazione: economica, produttiva e
commerciale, industriale e agricola, militare e di guerra.
Saharalento_A5_opuscoloDownload
Il tema dell’agricoltura e della svendita dei territori, del business e della
speculazione a partire dal consumo di suolo e del sacrificio di ciò che lì vi
cresce saranno oggetto dell’Assemblea Regionale di Confluenza in Piemonte dal
titolo “Il destino dell’agricoltura e del suolo in Piemonte: tra
agri-fotovoltaico e nucleare”. Dal Sud al Nord le linee di tendenza dello
sfruttamento della terra si articolano, su scalarità e misure diverse, pur
mantenendo ovunque la stessa logica: quella del profitto sopra ogni cosa.
Emissioni di gas serra, aumento delle temperature, innalzamento del livello del
mare, squilibrio energetico della Terra… un nuovo studio pubblicato da 61
scienziati coinvolti nel lavoro dell’IPCC lancia l’allarme sullo stato dei
cambiamenti climatici su scala globale.
da Antropocene.org
«Le cose non stanno solo peggiorando. Stanno peggiorando più velocemente. Ci
stiamo muovendo concretamente nella direzione sbagliata in un periodo critico
in cui avremmo bisogno di raggiungere i nostri obiettivi climatici più
ambiziosi. In alcuni rapporti c’è un lato positivo. Non credo che ce ne sia uno
in questo caso». Zeke Hausfather, coautore dello studio
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Ai livelli attuali delle emissioni, un aumento della temperatura globale di
1,5°C sarà inevitabile nel giro di poco più di tre anni, mentre entro nove anni
si potrebbe arrivare a 1,6°C o 1,7°C.
Questa è una delle conclusioni principali dell’ultimo rapporto sugli indicatori
del cambiamento climatico globale, pubblicato il 19 giugno. Tra il 2015 e il
2024, le temperature medie globali sono state di 1,24°C superiori rispetto al
periodo preindustriale, con 1,22°C causati dalle attività umane. In sostanza,
ciò significa che tutto il riscaldamento riscontrato nell’ultimo decennio è
stato indotto dall’uomo.
Soprattutto a causa della combustione di combustibili fossili e della
deforestazione, nell’ultimo decennio, ogni anno sono state rilasciate
nell’atmosfera circa 53 miliardi di tonnellate di CO2 (Gt CO2e). Anche le
emissioni dell’aviazione internazionale – il settore con il calo più netto
durante la pandemia – sono tornate, nel 2024, ai livelli pre-pandemici.
Il calore in eccesso, che si accumula nel sistema terrestre a un ritmo sempre
più accelerato, sta determinando cambiamenti in ogni componente del sistema
climatico. Il tasso di riscaldamento globale registrato tra il 2012 e il 2024 è
quasi raddoppiato rispetto ai livelli registrati negli anni ’70 e ’80, con
conseguenti cambiamenti dannosi in componenti vitali, tra cui l’innalzamento del
livello del mare, il riscaldamento degli oceani, la perdita di ghiaccio e lo
scioglimento del permafrost.
L’oceano immagazzina circa il 91% di questo calore in eccesso, generato dalle
emissioni di gas serra, che ne causa il riscaldamento. Le acque più calde
portano all’innalzamento del livello del mare e all’intensificazione degli
eventi meteorologici estremi, con un impatto devastante sugli ecosistemi marini
e sulle comunità che ne dipendono. Nel 2024, l’oceano ha raggiunto valori record
a livello mondiale.
Tra il 2019 e il 2024, il livello medio globale del mare è aumentato di circa 26
mm, più che raddoppiando il tasso a lungo termine di 1,8 mm all’anno registrato
dall’inizio del XX secolo. L’innalzamento del livello del mare in risposta ai
cambiamenti climatici è relativamente lento, quindi, sono già previsti ulteriori
aumenti nei prossimi anni e decenni.
Altri risultati chiave:
(Materiali forniti dall’Università di Leeds)
Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org
Fonte: Climate&Capitalism 19.06.2025
A Piacenza, nella notte tra il 25 e il 26 giugno, un gruppo di fascisti di
CasaPound e affini ha aggredito alcuni passanti, tra cui diversi minorenni.
L’episodio è avvenuto a margine di una manifestazione indetta da sigle
dell’estrema destra locale e da parte degli ultras della ” Curva Nord – Piacenza
1919″, contro quello che hanno definito il “degrado” a Piacenza. “Ripuliamo la
città dagli stranieri”, gridavano gli aggressori, come riferito da diversi
testimoni. Durante l’aggressione sono stati usati oggetti contundenti, come
cinghie e bottiglie.
In questo contesto, è arrivata immediata la risposta della città. Diversi
collettivi e realtà di base hanno organizzato un’assemblea
pubblica (appuntamento martedì 1 luglio, alle ore 18:30, presso la cooperativa
Infragibile di Via Alessandria 16) e una manifestazione antifascista per
mercoledì 2 luglio.
Una mobilitazione ampia della comunità piacentina come risposta contro
l’intolleranza. “La nostra città non è quella dei fascisti. La Piacenza che
vogliamo è inclusiva, solidale e antirazzista. Rispondiamo con unità e
determinazione, per far capire a questi gruppi che non hanno spazio nella nostra
società”, ha commentato ai microfoni di Radio Onda d’Urto Carlo, compagno del
collettivo ControTendenza Piacenza, ribadendo l’importanza di una risposta
collettiva e determinata contro questo fenomeno.
Ai microfoni di Radio Onda d’Urto l’intervista a Carlo, compagno del collettivo
ControTendenza Piacenza. Ascolta o scarica
da Radio Onda d’Urto
Fermiamo il genocidio del popolo palestinese
Impediamo la terza guerra mondiale ed il riarmo europeo
Smantelliamo le basi Usa-Nato – Smilitarizziamo Sigonella.
da Rete Siciliana di solidarietà alla Palestina
In questi giorni i ministri degli Esteri dell’UE sono a Bruxelles per decidere,
a porte chiuse, se continuare a premiare Israele con un accordo commerciale da
45 miliardi di euro mentre bombarda i civili e affama un’intera popolazione.
Dobbiamo imporre all’UE e al governo italiano di fermare il genocidio del popolo
Palestinese messo in atto da Israele, e di fare pressione sullo stato sionista
per fermare i crimini di guerra, l’apartheid, l’occupazione militare e la
pulizia etnica.
La Sicilia, con la presenza diffusa delle basi USA e Nato, come Sigonella e il
Muos a Niscemi, da troppo tempo supporta gli interventi militari in Medio
Oriente. Ricordiamo, in particolare, l’invio di aerei cargo Globemaster con
munizioni per la base di Nevatim, la flotta di velivoli-spia Boeing P-8
Poseidon, che affiancano i droni Global Hawk e Triton, e che transitano e
stazionano a Sigonella.
Ancora, il recente attacco ai siti nucleari in Iran, è stato eseguito dal
sottomarino nucleare USS Georgia sotto il comando navale USA in Europa e Africa
NAVEUR-NAVAF, con sede a Napoli.
È arrivato il momento che il popolo della pace in Sicilia riprenda la Lotta e la
Resistenza – dopo le grandi mobilitazioni contro gli euromissili a Comiso e
contro il Muos a Niscemi – con una nuova, grande mobilitazione popolare per
fermare le micidiali spirali guerrafondaie, alimentate dai criminali aumenti
delle spese militari e dai paralleli tagli alle spese sociali.
La Sicilia sarà più bella senza il Muos e senza Sigonella!
Domenica 6 luglio, alle ore 10,00,
Manifestazione regionale a Sigonella.
Promotori:
Catanesi Solidali con il Popolo Palestinese; Comitato Messina Palestina;
Comitato per il sostegno al popolo palestinese della riviera jonica messinese;
Comitato provinciale per la Palestina Libera Caltanissetta;
Adesioni:
Alleanza Verdi Sinistra Sicilia; Anpi Catania; Antudo; ARCI Catania;
Associazione Comunista Olga Benario CT; Associazione Radio Aut PA; Carovane
Migranti; Casa del Popolo Peppino Impastato PA; Casa22 CL; Catanesi Solidali con
il Popolo Curdo; Circolo Tina Modotti Associazione di amicizia Italia-Cuba CT;
Cobas Scuola Sicilia; Comitato No MUOS Niscemi; Comitato Nour Palermo;
Democrazia Sovrana e Popolare CL; FLC CGIL Caltanissetta, Enna; Generazioni
Future; La Città Felice CT; LHIVE CT; Fridays For Future CL; Global March to
Gaza Italia; Movimento NO MUOS; Movimento Siciliano D’azione; No Riarmo CL;
Nuova Unione Popolare di Enna; Potere al Popolo Sicilia; Potere al Popolo CT;
Segreteria Rifondazione Comunista Sicilia; Rifondazione Comunista SR/RG;
Sinistra Anticapitalista; SUNIA; UGS Sicilia; USB Sicilia; Zona Aut Palermo
Questa mattina si è tenuta la conferenza stampa di lancio dell’Assemblea
Regionale di Confluenza dal titolo “Il destino dell’agricoltura e del suolo in
Piemonte: tra agri-fotovoltaico e nucleare” che si terrà al Palaeventi di Mazzé
sabato 12 luglio dalle ore 9.30, a conclusione dei dibattiti la serata
proseguirà con una cena e un concerto degli Egin.
Di seguito pubblichiamo il video con gli interventi di Elena di Confluenza, di
Silvano, attivo nelle lotte a difesa del territorio da anni e del sindaco di
Mazzé, Marco Formia, che ha patrocinato l’evento.
Per garantire al meglio l’accoglienza della giornata si prega di compilare
il FORM qui per avere indicazioni sulla partecipazione.
Per info scrivi a confluenza.info@gmail.com
Un appello per la costruzione di un percorso contro la guerra, il riarmo e il
genocidio in Palestina
Facciamo appello a tutti e tutte coloro che sentono la necessità di sviluppare
un percorso largo e partecipato contro la guerra, contro il riarmo dell’Europa e
il genocidio in Palestina. A tutt coloro che già si mobilitano in tal senso e
vogliono condividere i loro percorsi, a tutt coloro che vogliono mettersi in
dialogo e che vogliono convergere per curvare un destino che sembra
ineluttabile.
La pace è finita da un bel pezzo, la guerra e la sua espansione non è più una
possibilità ma uno scenario consolidato e con cui ci stiamo abituando a
convivere. Conviviamo con migliaia di morti in tutto il mondo, con i saccheggi e
i soprusi, con le occupazioni e gli espropri. I recenti avvenimenti e lerivolte
scoppiate nelle principali città statunitensi contro le deportazioni dei
migranti ci raccontano come la guerra sia uno stato diffuso e permanente e si
dispiega su vari livelli di intensità. Come non pensare ai nostri decreti
sicurezza e ai dl emergenza sulle periferie, alle zone speciali, ai siti di
interesse nazionale.
Non stiamo assistendo a qualcosa da lontano. Siamo dentro la grande bestia,
quella che decide della guerra, che la finanzia che la alimenta. Le industrie
italiane di armi aumentano i loro profitti intensificando la produzione, grandi
porzioni di territorio sono basi militari della Nato, i nostri porti sono scali
logistici di guerra, le nostre università contribuiscono a creare un sapere
utile alla guerra, il nostro governo appoggia Israele e sostiene la retorica
civilizzatrice dell’Occidente. Lo fa Meloni quando dichiara alla Casa Bianca che
l’obiettivo comune è quello di rendere di nuovo grande l’Occidente, lo fa
Valditara quando cambia le linee guida della scuola in chiave suprematista, lo
fa Giuli quando taglia le risorse pubbliche al cinema perché troppo di
“sinistra”. La cosa peggiore che può succedere è abituarsi a convivere con la
paura e il pericolo di un mondo in frantumi. Come se la nostra guerra l’avessimo
già persa.
Vi invitiamo a costruire un percorso che abbia l’ambizione di interrogarsi sul
proprio agire, su quali sono le corde tese che non siamo stati ancora in grado
di toccare, su come è possibile mettersi al servizio di una sfida che faccia
breccia sulle persone che sentono il pericolo di quello che sta avvenendo e,
quindi, che sia in grado di curvare le decisioni politiche del governo Meloni a
partire dal sostegno di Israele.
Vi invitiamo a partecipare ad un processo non già dato ma che possa porsi delle
domande su come nasce e cresce un movimento in Italia e in Europa contro la
guerra interna ed esterna. Come si muove insieme una guerra contro la guerra,
per invertire la rotta di un mondo che vede sempre più paesi arruolarsi nelle
fila del pensiero di destra e conservatore in tutto il mondo. L’altra faccia del
militarismo progressista di matrice liberal che ha preparato il terreno nei
decenni precedenti e che oggi non tenta nemmeno più di mascherare di ipocrisia
il suo bellicismo.
Vi invitiamo a proporre strumenti di condivisione, a condividere pratiche contro
la guerra: boicottaggi, scioperi, mobilitazioni di piazza, sabotaggi, dibattiti
nelle università e nelle scuole dando voce a chi voce non ha o non può più
avere.
Vi invitiamo a puntare alla pratica dell’obiettivo comune come unica
prospettiva, tutta da conquistare collettivamente per aprire spazi di
possibilità che superino i confini delle forme organizzate.
Vi invitiamo ovunque siate a raggiungerci in Val Susa, a Venaus durante il
Festival Alta Felicità il 27 luglio alle ore 12:30, per condividere riflessioni
e prospettive, ritornare nelle nostre città e moltiplicare gli appuntamenti,
guardare insieme a un momento di mobilitazione nazionale in autunno che sia il
primo di tanti a venire, confidando nella capacità di cogliere con flessibilità
le occasioni che si potranno aprire nell’accelerazione degli eventi. Siamo
sicuri che faremo del nostro meglio per resistere e trovare il modo di curvare
la linea della storia.
Contro la guerra. Abbiamo amici dappertutto!
per condividere l’appello: bit.ly/guerraallaguerra
Traduciamo questo articolo anonimo dal sito ill will. Il testo è del 14 giugno,
quindi scritto nei giorni caldi delle rivolte. Ci sembra importante cercare di
seguire il dibattito interno al movimento che si sta dando negli Usa, per
provare a restituire la complessità delle questioni che esso mette sul tappeto.
Nonostante la loro chiara collocazione di parte e parzialità, i ragionamenti che
vengono esposti nell’articolo potrebbero aiutare a restituire un dibattito fra i
militanti statunitensi che hanno partecipato alle rivolte, in un contesto in cui
faticano ad arrivare, alle nostre latitudini, valutazioni complesse su quanto
accaduto a giugno a Los Angeles e in altre città. Buona lettura!
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Penso che resterò su questa
faglia sismica vicino a questo
vulcano ancora attivo in questa
fortezza armata di fronte a un
oceano morente e
coperto di terra
mentre le
strade bruciano e le
rocce volano e il gas al peperoncino
ci stende
perché
è lì che sono i miei amici,
bastardi, non che
non che sappiate cosa significhi.
-Diane Di Prima, “Lettera rivoluzionaria n. 52”.
Il movimento contro le deportazioni di massa si è sviluppato per settimane. Da
San Diego a Martha’s Vineyard, si erano già verificati scontri spontanei con gli
agenti dell’ICE. A ciò si sono aggiunte azioni coordinate di attivisti e reti di
risposta rapida, tra cui gli sforzi per bloccare i furgoni dell’ICE nel centro
di Manhattan.
Tutti sapevano che stava per esplodere. Poi, a Los Angeles, è finalmente
successo. La folla si è radunata in risposta alle incursioni dell’ICE in diversi
quartieri. Le proteste si sono susseguite notte dopo notte davanti al
Metropolitan Detention Center, dove erano detenuti i migranti arrestati.
Gli sforzi per bloccare le incursioni dell’ICE e il centro di detenzione hanno
portato a scontri con la polizia. La folla si è radunata in tutto il centro e in
altri quartieri. I manifestanti hanno bloccato strade e autostrade, hanno
combattuto la polizia con pietre e fuochi d’artificio, hanno costruito barricate
e hanno incendiato diverse auto. Domenica sera, il capo della polizia ha
annunciato che la polizia di Los Angeles era sovraccarica. Trump aveva già
deciso di inviare la Guardia Nazionale e, poco dopo, i Marines.
L’esplosione era iniziata a Los Angeles. Ma ora che l’incendio era iniziato,
stava cominciando a espandersi. Le proteste si sono diffuse in decine di città
in tutto il Paese. Sono stati effettuati un migliaio di arresti e si sta
contando. Il Texas e il Missouri hanno schierato la Guardia Nazionale.
I disordini si sono diffusi all’interno dei centri di detenzione per immigrati.
Una rivolta all’interno del centro di detenzione di Delaney Hall, a Newark, nel
New Jersey, ha portato diversi migranti ad abbattere un muro e a fuggire. Il
centro di detenzione, appena riaperto, potrebbe chiudere.
Di seguito sono riportate alcune lezioni della battaglia di Los Angeles che
potrebbero rivelarsi utili oggi, mentre il movimento per fermare la macchina
delle deportazioni inizia a diffondersi e ad approfondirsi.
I. Le proteste sono efficaci solo se sono dirompenti. Il movimento contro l’ICE
è stata la sfida più importante per la nuova amministrazione Trump. Disturbando
la macchina delle deportazioni, il movimento rivela l’unica fonte di potere che
la gente comune ha.
II. Per continuare a essere efficace, la protesta deve diffondersi. I disordini
si sono diffusi da un quartiere all’altro di Los Angeles e poi in decine di
città del Paese. Ma le proteste sono ora in gran parte contenute in piccoli
settori del centro città. Per avere successo, il movimento deve continuare a
espandersi in ogni città e in tutto il Paese, coinvolgendo strati più ampi della
società.
III. Bloccare tutto. Durante la battaglia di Los Angeles, i blocchi si sono
diffusi dai quartieri al Metropolitan Detention Center, e poi alle autostrade e
alle linee ferroviarie. Ben presto le barricate sono state disseminate in tutto
il centro. Man mano che il movimento si espande, i blocchi devono continuare a
diffondersi dai quartieri ai centri di detenzione, alle autostrade e alle linee
di trasporto pubblico, e poi agli aeroporti e ad altre infrastrutture in tutto
il Paese.
Crediti: Getty
IV. Il potere è logistico, risiede nelle infrastrutture. La macchina della
deportazione richiede infrastrutture e un vasto apparato logistico. Questa
logistica può essere studiata e l’infrastruttura mappata. Questo rivelerà i
punti critici e aprirà possibilità per nuove tattiche.
V. Un ritmo coerente dà al movimento qualcosa intorno a cui orientarsi,
consentendo un’auto-organizzazione più ampia. I centri di detenzione e gli
edifici federali sono simbolici e infrastrutturali. Le proteste in questi
edifici ogni notte possono aprire lo spazio per la crescita di un movimento
diversificato e auto-organizzato. Ma questo ha i suoi limiti. Può facilmente
intrappolare i partecipanti in un’estenuante guerra di logoramento con
rendimenti decrescenti.
VI. L’intera città è un terreno di lotta. La diffusione di disordini in tutta la
città interromperà il funzionamento della macchina delle deportazioni. Questo
vale anche quando i manifestanti non bloccano direttamente le infrastrutture di
deportazione.
VII. La spontaneità è spesso già organizzata. I movimenti mobilitano le persone
sulla base di come sono già organizzate nella vita quotidiana. Dietro la
spontaneità delle rivolte ci sono strati di organizzazione invisibile. Le
persone che si sono messe in moto a Los Angeles erano organizzate in vari modi,
tra cui gruppi Whatsapp, famiglie, associazioni di inquilini e bande.
VIII. Il modo in cui si sostiene lo slancio è una questione di organizzazione.
Le rivolte sono spesso spontanee. Ma l’organizzazione può contribuire alla loro
diffusione, estensione e intensità. Le folle hanno iniziato a riunirsi
spontaneamente in risposta alle retate dell’ICE a Los Angeles. Poi i gruppi di
attivisti hanno indetto proteste presso il centro di detenzione. Questo ha
contribuito a sostenere lo slancio e a diffondere l’attività in tutta la città.
Le proteste continueranno ad emergere come risposta spontanea alle incursioni.
Ma il movimento dovrà imparare a prendere la propria iniziativa e a stabilire il
proprio ritmo.
IX. Gli attivisti possono contribuire alla diffusione del movimento. I canali di
comunicazione che sono chiari, affidabili, degni di fiducia e coerenti sono
fondamentali. Questo contribuirà a far crescere il numero dei partecipanti e a
costruire un’ecologia in cui sono possibili molti livelli di iniziativa e
auto-organizzazione.
X. Questi eventi rivelano che è emerso un nuovo strato di militanti. Secondo il
capo della polizia di Los Angeles, la folla di Los Angeles era piena di
“anarchici” che viaggiano tra i diversi momenti di agitazione sociale. Vale la
pena ricordare che una generazione a Los Angeles e altrove ha acquisito
esperienza nelle tattiche di strada difendendo gli accampamenti studenteschi
l’anno scorso.
XI. Le folle determinate possono sopraffare la polizia. La polizia di Los
Angeles è stata sopraffatta da folle combattive, ma anche diverse, creative,
imprevedibili, decentrate e sparse.
XII. La repressione può far sì che le proteste si diffondano. Il dispiegamento
della Guardia Nazionale a volte pone fine ai disordini. Ma altre volte porta le
proteste a diventare più diffuse e intense, poiché sempre più persone scendono
in piazza.
XIII. Una situazione rivoluzionaria si apre quando le forze armate vengono
dispiegate nelle strade. Non abbiamo ancora raggiunto il livello di crisi. Ma è
necessario iniziare a considerare le questioni che questo solleva ora.
XIV. La vera infrastruttura necessaria allo Stato per realizzare deportazioni di
massa non esiste ancora. Viene messa insieme in modo frammentario. Il loro
obiettivo, per ora, è creare uno spettacolo. Su questo palcoscenico possono
essere sconfitti.
XV. La strategia dell’amministrazione Trump è quella di aumentare la
polarizzazione e il disordine. Trump sta rendendo le città americane meno
governabili. Questo può essere ritorto contro di loro. Spesso gli aspiranti
autocrati sono rovinati dai loro stessi errori. Le rivolte portano sempre a un
aumento della polarizzazione. È inevitabile. Ma in seguito diventerà un limite.
XVI. Le tensioni tra i governi locali e l’amministrazione Trump hanno creato
aperture per le rivolte di George Floyd. Il movimento attuale può trarre
vantaggio da queste contraddizioni. Ma è importante evitare che la lotta venga
reindirizzata verso le urne. I Biden, i Kamala e i Newsom di questo mondo non
hanno nulla da offrire.
Manifestanti anti-ICE di Tuscon dietro gli scudi. (Immagine: Adrian O’Farrill)
XVII. Le rivolte sono spesso messe in moto da un particolare gruppo sociale. Ma
la base sociale deve poi espandersi per avere successo. La lotta per sconfiggere
o abolire l’ICE è iniziata nelle comunità di immigrati. Ma per avere successo
dovrà espandersi, coinvolgendo strati molto più ampi della società.
XVIII. I governi imparano dai successi e dai fallimenti delle agitazioni
sociali. Gli insorti dovranno fare lo stesso. Trump si è spesso lamentato di non
aver inviato prima la Guardia Nazionale a Minneapolis. Se il governo federale
sarà più rapido e proattivo nell’intervenire nei disordini locali, le rivolte
potrebbero avere una finestra di opportunità più piccola. Gli insorti dovranno
imparare ad avere la fiducia e la capacità di intraprendere azioni coraggiose e
di agire con decisione.
XIX. Il futuro appartiene agli audaci. Il movimento deve prendere e mantenere
l’iniziativa, imponendo il suo ritmo agli eventi. Una volta iniziata
l’insurrezione, il movimento deve agire con la massima determinazione e, con
tutti i mezzi, senza mai sbagliare, passare all’offensiva. Cogliere il nemico di
sorpresa e cogliere il momento in cui le sue forze si disperdono. Cercare di
ottenere successi quotidiani, anche se piccoli, e mantenere a tutti i costi un
morale superiore.
XX. Non c’è un solo modo di procedere. Ci vorranno tutti noi, spingendo la cosa
da tutti i lati, per abbatterla.
XXI. “Due, tre, molte Los Angeles”. Ci vorrà l’apertura di nuovi fronti e la
diffusione di tattiche sempre più dirompenti per tirare il freno d’emergenza
alla macchina delle deportazioni. La scelta è chiara: deportazione o
insurrezione.
di Anonimo
Immagine di copertina: Eric Thayer
In vista della due giorni di mobilitazione del prossimo 11-12 luglio.
Giovedì 26 giugno, al presidio del collettivo di fabbrica dell’ex GKN di Campi
Bisenzio, si è tenuta un’affollata assemblea, dopo che nei giorni scorsi si è
avuta notizia di un’ordine di sgombero del presidio stesso.
Sullo sgombero, i lavoratori non hanno ricevuto comunicazioni ufficiali, ma la
notizia arriva proprio mentretre comuni (Campi Bisenzio, Calenzano e Sesto
Fiorentino) stanno per entrare con la Regione Toscana nel Consorzio industriale
pubblico, per la reindustrializzazione dello stabilimento sulla base del
progetto della cooperativa Gff.
Tra pochi giorni ci sarà il quarto anniversario dell’inizio della lotta, quando
il 9 luglio 2021 arrivarono via messaggio le lettere di licenziamento per quasi
500 persone. Per questo, il prossimo 11 e 12 luglio ci sarà una due giorni di
lotta al presidio.
Ne abbiamo parlato con Matteo Moretti del collettivo di fabbrica ex GKN. Ascolta
o scarica
da Radio Onda d’Urto
Haaretz ha pubblicato un nuovo rapporto sul lavoro dei soldati israeliani presso
il GHG a Gaza. Un soldato veterano ha rivelato che qualsiasi appaltatore privato
che lavori a Gaza con attrezzature ingegneristiche riceve 5.000 shekel [circa
1.500 dollari] per ogni casa demolita, aggiungendo che stanno guadagnando una
fortuna e che ogni momento in cui non demoliscono case è una perdita di denaro.
da InfoPal
Il soldato ha anche affermato che gli appaltatori sono protetti dalle forze
israeliane e che, per questo, scoppia una sparatoria e delle persone vengono
uccise. “Queste sono zone in cui ai palestinesi è permesso stare – siamo noi che
ci siamo avvicinati e abbiamo deciso che ci mettevano in pericolo. Quindi, per
un appaltatore che vuole guadagnare altri 5.000 shekel demolendo una casa, è
considerato accettabile uccidere persone che cercano solo cibo”, ha concluso il
soldato.
Quds News. Nell’ultimo mese, soldati israeliani hanno deliberatamente aperto il
fuoco contro richiedenti disarmati vicino o presso i siti di distribuzione di
aiuti umanitari sostenuti dagli Stati Uniti a Gaza, agendo su ordine dei loro
comandanti.
Secondo Haaretz, conversazioni con ufficiali e soldati rivelano che i comandanti
hanno ordinato alle forze di sparare sulla folla in attesa di cibo vicino o
presso i siti di distribuzione di aiuti umanitari della Gaza Humanitarian
Foundation (GHF), sostenuta dagli Stati Uniti, per allontanarla o disperderla,
nonostante non rappresentasse alcuna minaccia.
Le uccisioni di massa da parte di Israele di richiedenti aiuti umanitari vicino
ai siti di distribuzione della GHF sono diventate una triste realtà quotidiana,
tra scene caotiche, poiché ai palestinesi disperati viene concesso solo un breve
lasso di tempo per correre in cerca di cibo e vengono successivamente presi di
mira dalle forze israeliane.
L’ufficio stampa del governo di Gaza (GMO) e le Nazioni Unite hanno descritto
questi siti come “trappole di massa” e “macelli”.
Oltre 540 richiedenti aiuti sono stati uccisi e più di 4.000 sono rimasti feriti
dalle forze israeliane nei pressi dei siti di distribuzione degli aiuti della
GHF, dall’inizio delle sue operazioni a Gaza, il 27 maggio, secondo il ministero
della Salute palestinese.
Inoltre, altre 39 persone sono state dichiarate disperse dopo che si erano
recate ai siti della GHF per procurarsi cibo.
Dopo oltre 80 giorni di blocco totale, carestia e crescente indignazione
internazionale, la GHF, un’organizzazione coinvolta da scandali e sostenuta da
Stati Uniti e Israele, creata per aggirare l’infrastruttura di distribuzione
degli aiuti delle Nazioni Unite nella Striscia di Gaza, avrebbe distribuito solo
aiuti limitati.
La maggior parte delle organizzazioni umanitarie, tra cui le Nazioni Unite, ha
preso le distanze dalla GHF, sostenendo che il gruppo viola i principi umanitari
limitando gli aiuti alla Striscia di Gaza meridionale e centrale, costringendo i
palestinesi a percorrere lunghe distanze a piedi per ricevere gli aiuti e
fornendo solo aiuti limitati, tra le altre critiche. Medici Senza Frontiere
(MSF) ha avvertito che “militarizzare gli aiuti in questo modo può costituire
crimine contro l’umanità”.
“Ogni giorno i palestinesi si scontrano con una carneficina nel tentativo di
ricevere rifornimenti dall’insufficiente quantità di aiuti che arriva a Gaza”,
ha dichiarato MSF.
Dall’apertura dei centri di distribuzione rapida, Haaretz ha contato 19
sparatorie nelle loro vicinanze.
Testimonianze dei soldati.
Un soldato ha descritto la situazione come un crollo totale dei codici etici
dell’esercito israeliano a Gaza.
“È un campo di sterminio“, ha detto un soldato. “Dove ero di stanza, venivano
uccise da una a cinque persone ogni giorno. Vengono trattate come una forza
ostile: niente misure di controllo della folla, niente gas lacrimogeni,
solo fuoco vivo con tutto l’immaginabile: mitragliatrici pesanti, lanciagranate,
mortai. Poi, una volta aperto il centro, gli spari cessano e sanno di potersi
avvicinare. Il nostro mezzo di comunicazione è il fuoco nemico”.
Il soldato ha aggiunto: “Apriamo il fuoco la mattina presto se qualcuno cerca di
mettersi in fila da poche centinaia di metri di distanza, e a volte lo colpiamo
da distanza ravvicinata. Ma non c’è pericolo per le forze”. Secondo lui, “Non
sono a conoscenza di un singolo caso di fuoco di risposta. Non c’è nemico, non
ci sono armi”.
Ha anche affermato che l’attività nella sua area di servizio è nota
come Operazione Pesce Salato, il nome della versione israeliana del gioco per
bambini “Luce rossa, luce verde”.
Ufficiali israeliani hanno dichiarato a Haaretz che l’esercito non permette al
pubblico, in Israele o all’estero, di vedere filmati di ciò che accade intorno
ai centri di distribuzione alimentare.
“Gaza non interessa più a nessuno“, ha detto un riservista che ha completato un
altro turno di servizio nella Striscia settentrionale, questa settimana. “È
diventato un luogo con le sue regole. La perdita di vite umane non significa
nulla. Non è nemmeno uno ‘sfortunato incidente’, come si diceva una volta“.
Un ufficiale in servizio nella sicurezza di un centro di distribuzione ha
descritto l’approccio israeliano come profondamente imperfetto: “Lavorare con
una popolazione civile quando l’unico modo di interagire è aprire il fuoco è
altamente problematico, per usare un eufemismo”, ha dichiarato a Haaretz. “Non è
né eticamente né moralmente accettabile che le persone debbano raggiungere, o
non raggiungere, una [zona umanitaria] sotto il fuoco di carri armati, cecchini
e colpi di mortaio”. L’ufficiale ha sottolineato un altro problema relativo ai
centri di distribuzione: la loro mancanza di coerenza. I residenti non sanno
quando ciascun centro aprirà, il che aumenta la pressione sui siti e
contribuisce a danneggiare i civili.
“Non so chi prenda le decisioni, ma diamo istruzioni alla popolazione e poi o
non le seguiamo o le modifichiamo“, ha affermato.
Le testimonianze di comandanti e soldati israeliani rivelano una netta
discrepanza tra le direttive ufficiali israeliane e le azioni sul campo a Gaza.
Mentre alle truppe è stato ordinato di evitare le aree civili e i siti di aiuti
umanitari, gli appaltatori privati, pagati per ogni casa demolita, stanno
spostando le operazioni più vicino ai punti di distribuzione alimentare,
innescando attacchi mortali contro palestinesi disarmati in cerca di aiuti.
“Queste sono aree in cui ai palestinesi è consentito stare: siamo noi che ci
siamo avvicinati e abbiamo deciso che ci mettevano in pericolo. Quindi, per un
appaltatore guadagnare altri 5.000 shekel e demolire una casa, è considerato
accettabile uccidere persone che cercano solo cibo“, ha detto un soldato. Un
alto ufficiale il cui nome compare ripetutamente nelle testimonianze sulle
sparatorie vicino ai siti di soccorso è il Generale di Brigata, Yehuda Vach,
comandante della Divisione 252. Haaretz ha precedentemente riferito di come Vach
abbia trasformato il corridoio di Netzarim in una via di fuga mortale, mettendo
in pericolo i soldati sul campo e sospettato di aver ordinato la distruzione di
un ospedale a Gaza senza autorizzazione.
Ora, un ufficiale della divisione afferma che Vach ha deciso di disperdere i
raduni di palestinesi in attesa dei camion degli aiuti delle Nazioni Unite,
aprendo il fuoco. “Questa è la politica di Vach”, ha detto l’ufficiale, “ma
molti comandanti e soldati l’hanno accettata senza fare domande. [I palestinesi]
non dovrebbero essere lì, quindi l’idea è di assicurarsi che se ne vadano, anche
se sono lì solo per procurarsi del cibo”.
Si è tenuta una discussione al Comando Sud, da cui è emerso che le truppe
avevano iniziato a disperdere la folla affamata usando proiettili di
artiglieria.
“Parlano di usare l’artiglieria su un incrocio pieno di civili come se fosse
normale”, ha detto una fonte militare presente all’incontro. “Un’intera
discussione sul fatto che sia giusto o sbagliato usare l’artiglieria, senza
nemmeno chiedersi perché quell’arma fosse necessaria in primo luogo. Ciò che
preoccupa tutti è se continuare a operare a Gaza danneggerà la nostra
legittimità. L’aspetto morale è praticamente inesistente. Nessuno si ferma a
chiedere perché decine di civili in cerca di cibo vengano uccisi ogni giorno“.
Un altro alto ufficiale ha affermato che la normalizzazione dell’uccisione di
civili ha spesso incoraggiato a sparare contro di loro vicino ai centri di
distribuzione degli aiuti.
“Il fatto che il fuoco sia diretto contro la popolazione civile – che si tratti
di artiglieria, carri armati, cecchini o droni – va contro tutto ciò che
l’esercito dovrebbe rappresentare”, ha spiegato, criticando le decisioni prese
sul campo. “Perché le persone che raccolgono cibo vengono uccise solo perché
hanno oltrepassato i limiti, o perché a qualche comandante non piace che si
intromettano? Perché siamo arrivati al punto in cui un adolescente è disposto a
rischiare la vita solo per tirare giù un sacco di riso da un camion? Ed è a loro
che stiamo sparando addosso.
Banda di Abu Shabab.
Oltre al fuoco israeliano, fonti militari hanno riferito a Haaretz che alcune
delle uccisioni vicino ai centri di distribuzione degli aiuti sono state causate
da colpi d’arma da fuoco da parte di membri della banda di Yasser Abu Shabab,
sostenuta e armata da Israele e collaborazionista con Israele.
“Corri o muori“: gli abitanti di Gaza affamati descrivono il caos e gli spari
durante la corsa quotidiana per la sopravvivenza
Il rapporto di Haaretz ha confermato le testimonianze raccolte in precedenza
da Quds News Network. Chi raggiunge questi centri di aiuti rischia la vita. Chi
non ce la fa, torna a casa affamato, ammesso che ci riesca.
Parlando a QNN, Yasser Eyad, un palestinese sfollato e affamato, ha descritto
cosa succede prima ancora che le persone raggiungano la presunta “zona sicura”.
“Prima che arriviamo lì”, ha spiegato, “i soldati sui carri armati aprono il
fuoco. Se li guardi, sparano. Cecchini e droni ci sparano o sganciano bombe per
impedirci di avvicinarci”.
Ha aggiunto che molti rimangono feriti prima ancora di vedere il cibo.
Non ci sono code, né registrazioni. “Chi corre più veloce mangia”, ha spiegato
Eyad. “Non è un sistema. È una fuga precipitosa. Se esiti, muori di fame”.
Quello che Israele chiama “corridoio umanitario” è tutt’altro che sicuro.
Alla gente viene detto di arrivare un’ora prima dei camioncini del cibo. Ma
quando arrivano, sono già sotto tiro.
“Non viene chiesto un documento d’identità”, ha detto Eyad. “Si corre e basta.
Chi ce la fa ottiene del cibo. Chi non ce la fa, crolla per la fame o per i
proiettili“.
Filippo Focardi – Santo Peli (a cura di), Resistenza. La guerra partigiana in
Italia (1943-1945), Carocci editore, Roma 2025
di Sandro Moiso, da Carmilla
> «Una nuova retorica patriottarda o pseudo-liberale non venga ad esaltare la
> formazione dei purissimi eroi: siamo quel che siamo: […] gli uomini sono
> uomini». (Emanuele Artom, Diario di un partigiano ebreo)
In tempi in cui anche i rappresentanti della destra più conservatrice e
reazionaria possono, e devono, fare professione di antifascismo con la
benedizione di una sinistra istituzionale esangue, le parole di Emanuele Artom
appaiono davvero profetiche. Una Resistenza spogliata, quasi fin da subito e dai
maggiori partiti rappresentati nell’agone parlamentare fin dalla caduta del
regime fascista, della sua reale valenza di classe, rivolta e rifiuto
dell’ordine costituito, allora dagli ordinamenti mussoliniani e di quelli
pericolosamente in essere nel passaggio alla repubblica borghese, è diventata
così il cardine su cui articolare una narrazione immaginifica e interclassista
della rifondazione patriottarda dello Stato nazionale dopo la fine
dell’identitarismo nazionalistico che aveva ispirato sia il regime che le sue
guerre e avventure coloniali. Una narrazione retorica che ne ha confuso
l’immagine, offuscandola, e tradito le concrete motivazioni.
Ben vengano dunque ricerche come quelle accluse nel testo curato da Focardi e
Peli che, nel solco degli studi iniziati da Claudio Pavone1 e della sua
attenzione all’economia morale che aveva fondato l’insurrezione contro il
governo non solo di Mussolini, del PNF e dei suoi gerarchi, ma anche contro
l’ordine morale, economico e politico borghese che ne aveva costituito l’essenza
e giustificato l’esistenza, riportano la storia e gli avvenimenti di quei
tragici e convulsi anni sui binari delle concrete condizioni materiali sui quali
effettivamente viaggiarono.
Una Storia che non solo deve liberarsi dalle incrostazioni con cui gli
interpreti di destra hanno cercato di ridurre, in sintonia con quelli
appartenenti ai partiti “nemici”, quel periodo ad una sorta di confronto tra
fazioni politiche avverse, di cui i partiti sarebbero stata la forma naturale di
espressione, ma anche delle interpretazioni mitopoietiche con cui tanta ricerca
di parte avversa l’ha imbastardita riducendola a mera funzione del progresso
degli organismi della democrazia parlamentare e dello Stato. Come sostengono da
subito i due curatori, affermando come sia oggi necessario rivalutare, ricordare
e ricostruire, le enormi fatiche della guerra partigiana che ne hanno segnato le
«opere e giorni»:
> Riportare al centro dell’attenzione la guerra partigiana nella sua
> concretezza, nella sua difficoltà e drammaticità, nel suo accidentato farsi,
> nel complicato intreccio tra spontaneità e organizzazione, di storia militare
> e storia politica, di localismi e di utopie, di durezze materiali e
> solidarismi trasversali: questo l’obiettivo che ci siamo prefissi progettando
> l’impegnativo lavoro collettivo da cui è nato questo volume. […] A stimolare
> l’”impresa” hanno concorso parecchi motivi.
> Il principale, abbastanza evidente per chiunque segua con interesse il
> discorso pubblico sulla Resistenza, è costituito dal fatto che quasi
> esclusivamente, da almeno tre decenni, si è scritto e parlato di resistenza
> senz’armi, di resistenza civile o di resistenza dei militari (Cefalonia) […]
> Ma ciò non dovrebbe occultare il fatto che la più importante discontinuità
> della storia nazionale […] non si sarebbe realizzato senza la scelta di
> impugnare le armi compiuta da un’esigua minoranza, senza un esercito di
> volontari disposti ad assumere su di sé il compito arduo di combattere, di
> uccidere e farsi uccidere2.
Una considerazione che potrebbe apparire scontata se non fosse, come proseguono
Focardi e Peli, che:
> Nella narrazione mediaticamente vincente si tornano invece a privilegiare, a
> discapito dell’aspra, complicata e divisiva insurrezione antifascista, gli
> aspetti unitari, nazional-patriottici della Resistenza. La centralità della
> sanguinosa e divisiva guerra partigiana è stata via via edulcorata e di fatto
> sostituita da una Resistenza più rassicurante, che piace immaginare condivisa
> dalla maggioranza del popolo. Dunque, sconfortante eterogenesi dei fini, la
> Resistenza diviene paradossalmente anche veicolo di un’autoassoluzione
> collettiva, fondamento di un’illusoria identità nazionale miracolosamente
> votata alla libertà3.
E’ un messaggio forte quello dei due curatori che, per molti versi, si avvicina
di più alla letteratura e alle memorie di Fenoglio, Calvino, Revelli, Bianco,
Meneghello, Chiodi e tanti altri, che non alle ricostruzioni storiche troppo
spesso ispirate alla necessità di superare le divisioni, un tempo tra PCI e DC
(il cui risultato fu una costituzione spoglia del “diritto alla resistenza”
proposto come articolo della stessa da Aldo Capitini e altri), e oggi, ancora
più platealmente, tra”destra “ e “sinistra”, entrambe di governo grazie all’idea
di “alternanza” che pervade il discorso politico moderno ispirato dal
liberalismo, soprattutto, economico. In cui a contare non sono più le differenze
tra i partiti e i loro programmi, ma la capacità di garantire continuità e la
stabilità all’ordine esistente e alle sue “necessità” proprietarie, finanziarie
e produttive.
Santo Peli si è laureato in Lettere nel 1973, ha insegnato Storia Contemporanea
presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova, fino al 2013.
I suoi campi di ricerca sono sempre stati costituiti dalla conflittualità
operaia tra Prima e Seconda guerra mondiale e dalla Resistenza italiana. Per
Franco Angeli ha dato alle stampe La Resistenza difficile nel 1999, poi
ripubblicato dalle edizioni dalla Biblioteca Franco Serantini (BFS) di Pisa nel
2018. Con Einaudi ha invece pubblicato, La Resistenza in Italia (2004), Storia
della Resistenza in Italia (2006 e 2015), Storie di Gap. Terrorismo urbano e
Resistenza (2014) e La necessità, il caso, l’utopia. Saggi sulla guerra
partigiana e dintorni, ancora per BFS Edizioni (2022).
Filippo Focardi si è laureato nel 1993 e svolge la sua attività presso il
Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali
dell’Università degli Studi di Padova. Si occupa di storia moderna e
contemporanea e la sua opera si è concentrata soprattutto sulla storia italiana
durante la seconda guerra mondiale e sul recupero della memoria storica di quel
periodo. Tra i suoi studi vanno ricordati: La guerra della memoria. La
Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 ad oggi (Laterza 2005), Il
cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda
guerra mondiale (Laterza 2013) e Nel cantiere della memoria. Fascismo,
Resistenza, Shoa, Foibe (Viella 2020).
I due storici, ancora nell’introduzione al testo, sottolineano infine come:
> La messa in sordina degli aspetti divisivi fatalmente connessi alla guerra
> partigiana, e la forte sottolineatura di una coralità, di un afflato
> nazional-patriottico, ricorda in qualche modo, e con molte diverse sfumature
> sulle quali non è dato qui soffermarsi, la narrazione prevalente negli anni
> Cinquanta […]. In una narrazione di questo tipo, la concreta esperienza
> storica della guerra partigiana, per nulla esente da difficoltà e spinte
> contrastanti, rischia di evaporare, di disciogliersi in un astratto pantheon
> di eroi, a discapito di fare i conti con «il partigianato così com’era, non
> come vorremmo fosse stato4 » 5.
Considerazioni che ci devono far ricordare come Una guerra civile di Claudio
Pavone, al suo apparire nel 1991, avesse fatto storcere il naso a molti
rappresentanti dell’antifascismo istituzionale e sollevato numerose perplessità
tra gli storici, quasi sempre di sinistra, che si occupavano della storia della
Resistenza proprio per l’accento messo sullo scontro interno al paese che la
guerra partigiana aveva suscitato, mettendo così in crisi e in discussione
l’immagine edulcorata e priva di contraddizioni della stessa che sembrava aver
ormai uniformato gli studi in materia.
Per raggiungere l’obiettivo dichiarato i due curatori del testo pubblicato da
Carocci hanno messo insieme sedici saggi, suddivisi in tre
parti: Combattere, Vivere, Narrare. Composte rispettivamente da sei la prima e
da cinque saggi ciascuna per entrambe le altre parti. Chiamando a raccolta
l’opera di storici, docenti e ricercatori di Eric Gobetti, Gabriele Pedullà,
Maria Teresa Sega, Chiara Colombini e Nicola Labanca, solo per citarne alcuni,
oltre ai due saggi scritti dagli stessi curatori.
Riuscendo a dare vita ad un complesso e intenso mosaico in cui vengono
ricostruiti differenti aspetti della guerra partigiana e della sua memoria. Gli
argomenti trattati vanno così dalla prima creazione delle bande partigiane ai
loro nemici e alla presenza di stranieri nelle loro fila, oltre che il
contributo, spesso sminuito, del Meridione alla storia della Resistenza oppure
sul ruolo delle donne nell’esercito di liberazione. Oltre a questi, altri temi
riguardano il vissuto e le passioni che alimentarono la Resistenza, la geografia
degli studi storici sulla guerra partigiana, la violenza insita nella stessa, il
“tradimento” dei manuali scolastici e il discorso pubblico sulla stessa,
infarcito inevitabilmente di innagini di “martiri” e “patrioti”.
Tra questi, che non si possono certo riassumere tutti nel corso di una
recensione, risaltano, almeno agli occhi di chi qui scrive il saggio di Santo
Peli su Guerra partigiana e rifiuto della guerra ( pp. 139-161), quello di
Francesco Fusi su La “sporca” guerra del partigiano: alimentazione, salute,
territorio (pp. 179-195) e, ancora, quello di Chiara Colombini intitolato «Non
un esercito di santi». Vissuto e passioni della guerra partigiana (pp. 163-177).
Non certo a discapito della validità degli altri tredici, ma soltanto perché
riguardanti argomenti spesso disattesi dalla ricerca storica sul periodo
1943-1945 in Italia e, invece, molto importanti per aprire un confronto più
approfondito sulle cause e conseguenze della “guerra civile”.
Nel primo dei tre qui indicati, Santo Peli torna su un argomento di cui si era
già occupato in altri suoi testi e in particolare nella parte finale della
sua Storia della Resistenza in Italia ovvero ristabilire una verità spesso
rimossa, quella del peso del rifiuto della guerra nell’alimentare la scelta di
molti giovani italiani di aderire alle fila o, almeno, alle motivazioni della
Resistenza, che venne ancor prima di una scelta di carattere ideologica o
politica, che troppo spesso viene ancora indicata come motivazione primaria,
forse per un malinteso senso del dovere nei confronti della patria che alimenta
ancora oggi, in tempi di nuove e imminenti guerre, un certo immaginario
patriottardo non soltanto di “destra”.
Peli cita, come riassunto della sua tesi, le riflessioni e le memorie di una
partigiana piemontese, Tersilla Oppedisano (nome di battaglia Trottolina),
risalenti alla metà degli anni Settanta del ‘900.
> Non so se la popolazione fosse tutta dalla nostra parte, non lo so. Certo, la
> gente era stanca del fascismo e quindi sentiva inconsciamente che eravamo i
> loro, anche perché la presenza dei partigiani aveva impedito che molti ragazzi
> del posto finissero in Germania. D’altronde, il grosso dei partigiani non era
> formato di volontari ma di ragazzi che erano stati costretti a scappare per
> non arruolarsi, perché la repubblica di Salò aveva fatto la coscrizione
> obbligatoria.
> La Resistenza è proprio la guerra dei disertori, la guerra degli imboscati,
> cioè gente che va nei boschi perché non la piglino. «E se venite a pigliarmi
> afferro un mitra e vi sparo!». Imboscati proprio in questo senso. E’ il primo
> momento della storia in cui ci si ribella alla guerra e ai fautori della
> guerra. In questo senso è importantissima la Resistenza. Io non so se sia
> opportuno dire queste cose, ma penso che bisogna dirle, anche per
> demistificare la figura dell’eroe che si butta nella guerra, il nazionalismo,
> il milite ignoto e mille storie di questo genere. Io mi trovo un po’ isolata a
> dire queste cose, perché al partito non si dicono, nella scuola non si dicono,
> e si fa l’elogio del volontarismo della massa del popolo italiano che si arma
> e combatte, mentre, quando si va a vedere sotto sotto, appare quell’aspetto
> del rifiuto della guerra, che pure è importantissimo6.
Peli prosegue poi ancora affermando che:
> La guerra partigiana, guerra di volontari che «si adunarono per dignità e non
> per odio, decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo», è
> un’immagine magnifica e tranquillizzante, che rischia di scambiare la parte
> con il tutto. Ci furono questi volontari, eccome, e senza di loro poco o nulla
> di politicamente ed eticamente significativo sarebbe accaduto. Ma forse sono
> più numerosi i protagonisti cui dà voce la partigiana Trottolina: una turba di
> sbandati in fuga dalla guerra, che in modi e in tempi diversi, e in buona
> parte all’inizio senza ideali motivazioni, si trasformano in partigiani, certo
> non tutti, e conservando caratteristiche e modi di intendere la lotta e i suoi
> obiettivi assai diversificati. Che la genealogia della guerra partigiana vada
> ricercata anche in una confusa ed eterogenea massa di italiani in fuga dalla
> guerra è immagine assai poco seducente, perché evoca uno stato di passività,
> una regressione o una permanenza nel particulare, e anche un’incerta, scarsa
> propensione all’amor di patria, al riscatto dell’onore militare tracollato
> nell’implosione dell’8 settembre […] Eppure una ricca memorialistica
> partigiana lascia pochi dubbi in proposito7.
Il saggio di Fusi, sottolineando le difficoltà di approvvigionamento delle
formazioni partigiane e dei problemi che ciò causò talvolta con le popolazioni
dei territori in cui operavano, non cerca sicuramente di mitizzare o edulcorare
il fatto che i partigiani si comportassero talvolta come “banditi” anche solo
per necessità logistiche.
> Oltreché una guerra contro tedeschi e fascisti, quella partigiana è al
> contempo una lotta contro le avversità: fattori ambientali proibitivi,
> scarsità di alimentazione e di vestiario, rischi fisici e psicologici dovuti
> alla forzata mobilità e ai continui pericoli. E’ perciò una guerra per la
> sopravvivenza, individuale e di gruppo, la cui urgenza talvolta ogni altra
> considerazione: «in molti casi sono più importanti le scarpe che le conferenze
> politiche». […] In ogni caso, sopravvivere fu la prima preoccupazione di chi
> salì in montagna. Oltre all’incognita della morte inflitta dal nemico, stava
> quella legata alle disagevoli condizioni di vita: «I fascisti sono un di più,
> ci ammazza da solo il freddo», sentenzia Ettore nel Partigiano Johnny. E così
> Giambattista Lazagna, il partigiano Carlo: «la lotta più terribile deve essere
> condotta contro le difficoltà di nutrirsi, di vestirsi, di armarsi, di
> nascondersi. […] Ci voleva a quel tempo, oltre ad un certo coraggio, un fisico
> molto robusto, uno stomaco molto piccolo, una buona dose di fantasia per
> andare ai monti». […] La memorialistica partigiana e le pagine di scrittori
> partigiani quali Fenoglio, Calvino e Meneghello sono popolate di questa
> umanità partigiana spesso sofferente, incerta o inadeguata in cui i resistenti
> sono presentati come «uomini simili ad altri nei loro meriti e nei loro
> difetti». Raffigurazioni che le prime stagioni storiografiche sulla Resistenza
> avevano lasciato spesso in ombra, per dare spazio ad immagini più edificanti,
> se non eroiche. Parlando della “sporca” vita del partigiano giova perciò
> l’avvertimento di Nuto Revelli a guardare a loro come a «gente comune», non a
> «un esercito di santi», e a contrapporre alla vulgata che vuole i «partigiani
> in gamba, tutti robusti, tutti perfetti, politicamente ben inquadrati, che di
> mangiare non parlavano mai» un più aderente e disincantato sguardo sul vero
> partigiano, afflitto quotidianamente «da un’infinità di piccoli problemi – le
> scarpe, il sacco di farina, il chilo di sale, il partigiano lazzarone, il
> partigiano fifone, il comandante sfessato e mille altre diavolerie» e nel
> quale «sovente i problemi logistici erano più impegnativi di quelli
> militari»8.
Chiara Colombini, nel suo saggio, continua necessariamente sulla linea
interpretativa tratteggiata fino ad ora:
> Qualsiasi tentazione di monumentalizzare eventi e persone diventa
> impraticabile qualora ci si affidi alle «scartoffie di allora». Perchè,
> facendo ricorso ai documenti prodotti durante la guerra partigiana, ci si
> ritrova immersi in un presente forzatamente scandito da incertezze e
> contraddizioni, quelle che accompagnano un sentiero sconosciuto, senza sapere
> esattamente dove condurrà»9.
Una memorialistica, letteraria e non che non esclude affatto sentimenti e stati
d’animo, in particolar modo presenti in quella delle donne e che serve a
riscoprire, come fece Claudio Pavone nella sua monumentale e imprescindibile
opera, la soggettività che operò nelle scelte partigiane e che, sempre, opera
nella Storia.
Lo spazio di una recensione non può espandersi oltre, ma rimane inconfutabile il
fatto che l’opera di Santo Peli, Filippo Focardi e di tutte le autrici e di
tutti gli autori coinvolti è destinata a segnare un ulteriore passo in avanti
nello studio e nella comprensione delle condizioni concrete e materiali che
stanno alla base degli eventi sociali, in cui spesso ad intervenire per ultime
sono proprio le motivazioni ideologiche o dichiaratamente politiche. Una lezione
importante per l’oggi e per il domani.
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1. Si vedano: C. Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla moralità delle
Resistenza (1991 e 2006) e, ancora, Alle origini della Repubblica. Scritti
su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato (1995 e 2025).
2. F. Focardi – S. Peli (a cura di), Resistenza. La guerra partigiana in Italia
(1943-1945), Carocci editore, Roma 2025, p. 15.
3. Ivi, pp. 15-16.
4. Nuto Revelli, lettera ad Alessandro Galante Garrone del 1° luglio 1955.
5. Focardi – Peli, op. cit., p. 16.
6. T. Fenoglio Oppedisano (Trottolina), in A. Bruzzone, R. Farina (a cura
di), La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, Bollati
Boringieri, Torino 2003 (prima edizione 1976), pp. 162- 163, cit. in S.
Peli, Guerra partigiana e rifiuto della guerra in F. Focardi, S. Peli,
op.cit., p. 139.
7. S. Peli, op. cit., p. 141.
8. F. Fusi, La “sporca” guerra del partigiano: alimentazione, salute,
territorio in Focardi – Peli, op. cit., pp. 181-184.
9. C. Colombini, «Non un esercito di santi». Vissuto e passioni della guerra
partigiana in Focardi – Peli, op. cit., p. 164.