Ripubblichiamo la convocazione del movimento no base
Rivolgiamo questo appello alla cittadinanza, alle associazioni, ai comitati, ai
sindacati, ai partiti, alle realtà solidali, al mondo ambientalista, pacifista e
sociale per la partecipazione ai due giorni di mobilitazione del 26-27 Aprile a
San Piero a Grado. Invitiamo all’adesione e alla partecipazione il 26 Aprile a
un grande Presidio popolare e territoriale di fronte ai cancelli del CISAM, per
puntare i riflettori sul nuovo progetto di base militare e levare una voce
molteplice, forte e comune contro questo progetto e contro guerra, riarmo,
devastazione ambientale e spese militari. Invitiamo per il 27 Aprile
all’Assemblea “Disarmare la Pace!” al Presidio dei “Tre Pini” a San Piero a
Grado, per discutere e confrontarci insieme sulle prospettive di Pace per il
nostro territorio nello scenario mondiale.
Il mondo è in guerra e questa guerra prevede dei costi e dei sacrifici anche
sulle nostre vite e sui nostri territori. Mentre le spese sociali continuano a
essere compresse e tagliate e il costo della vita minaccia di aumentare
spaventosamente, ci troviamo di fronte a cifre miliardarie per il riarmo e la
corsa alla guerra in Europa e nel nostro Paese: è il caso degli 800 miliardi di
euro previsti per il piano “Rearm Europe” in parte a debito e in parte sottratti
dal Fondo di Coesione e Sviluppo, originariamente destinato alle spese sociali;
è il caso dei 50 miliardi di euro che l’Italia dovrà investire in spese militari
in questo scenario, così come dei 1,2 miliardi di euro per la costruzione e il
rifacimento di infrastrutture militari stanziati lo scorso autunno dal Governo.
Dentro questo quadro ci troviamo di fronte a un fatto concreto e inaccettabile:
un nuovo, ennesimo, progetto di base militare per l’addestramento di forze
speciali dell’esercito impegnate quotidianamente in decine di missioni militari
all’estero. Un mega-progetto di 140 ettari previsto a Pontedera, all’interno
della tenuta Isabella, e a San Piero a Grado, dentro il Parco Naturale di
Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli, area protetta a livello europeo e di
enorme valore ambientale, sociale e culturale per il nostro territorio; un Parco
già inquinato dalla presenza di un reattore nucleare dismesso, di cui si fa
sapere poco o nulla. La spesa stimata è di 520 milioni di euro solo per la
realizzazione della base, di cui una parte inopportunamente già stanziata dal
Ministero Infrastrutture e Trasporti e dal Fondo di Coesione e Sviluppo. La
gestione politica, dal Governo, sino alla Regione, ai Comuni e all’Ente Parco,
appare a dir poco opaca e priva di relazione con la cittadinanza e la
popolazione dei territori interessati dal progetto.
Inoltre, con una proposta di legge a firma Fratelli d’Italia, il Governo
vorrebbe deregolamentare i vincoli ambientali previsti per la costruzione di
infrastrutture militari all’interno di aree protette in nome della “sicurezza
nazionale”, di fatto assecondando questa folle corsa alla guerra e al riarmo a
scapito di una effettiva messa in sicurezza dei territori e dell’importanza
della
rigenerazione e protezione dell’ambiente. Il primo “test” di questa
deregolamentazione dovrebbe essere proprio la base pisana: una dichiarazione di
guerra al Parco Naturale di San Rossore, all’interno del quale è prevista una
porzione di base per un consumo complessivo di 100 ettari di suolo nell’area
CISAM, con l’abbattimento di migliaia di alberi, cementificazione ed effetti
distruttivi per l’ecosistema e la sicurezza idrogeologica dell’area.
Di fronte a questo scenario, il nostro appello è a convergere, confrontarci e
manifestare per un orizzonte comune di cambiamento: desideriamo con forza la
pace nel mondo e sui nostri territori, non guerre e basi militari; vogliamo che
venga rispettato e difeso il Parco Naturale, con le normative che lo tutelano,
di fronte all’attacco che sta subendo; vogliamo che Pontedera e la Valdera, già
colpite dall’inquinamento di keu, inceneritori e discariche e da rischi
idrogeologici costanti, vedano investimenti per bonifiche e messa in sicurezza,
non ulteriore cementificazione per un poligono di tiro per testare armi e bombe
in mezzo ai campi, con effetti nocivi per la salute di persone, piante e
animali; vogliamo manifestare affinché le spese e le politiche del nostro Paese
si rivolgano ai bisogni sociali delle persone, non alla guerra, alla
devastazione ambientale, al riarmo e alla riconversione dell’industria civile in
militare.
La popolazione ha diritto di conoscere il progetto di base militare previsto nel
nostro territorio, di conoscerne la documentazione e avere voce in capitolo a
partire dalle reali esigenze che ogni giorno chi abita la nostra provincia
incontra. A Pisa e Pontedera, come in tutta Italia, non servono 520 milioni per
la guerra, bensì maggiori spese per case, cura dei quartieri popolari, diritto
allo studio scolastico e universitario, sistema sanitario efficace, pensioni e
welfare, per mettere in sicurezza i territori di fronte ad alluvioni o eventi
estremi, per tutto ciò che riguarda un vivere dignitoso e pacifico.
Saremo per due giorni a San Piero a Grado perché vogliamo che le istituzioni che
governano il nostro territorio rendano trasparente e pubblica la documentazione
relativa alla base militare e che venga fatta tutta la pressione necessaria
nelle dovute sedi affinché la popolazione sia informata dei progetti, dei loro
tempi e del loro contenuto. Continuare a negare l’esistenza di queste
informazioni, o tenerle nascoste, come finora è stato fatto, costituisce un atto
di grave mancanza di democrazia e manifesta incuria nei confronti del territorio
e di chi lo abita.
Tramite manifestazioni, iniziative, informazione, mozioni e monitoraggio attivo
del territorio ci stiamo mobilitando in tutta Pisa e provincia, e da anni si sta
sempre di più alzando la voce di coloro che aspirano a un futuro di pace e che
chiedono di poter decidere sulla propria vita e i propri bisogni. Ora più che
mai è il momento per dire insieme NO a queste scelte e prenderci insieme la
responsabilità di rendere questo NO una costellazione di SÍ a un destino diverso
e democratico, fatto di giustizia ambientale, sociale e di pace per il nostro
territorio.
Ribadiamo l’invito a chiunque si riconosca in queste motivazioni ed esigenze a
unirsi alla due giorni di mobilitazione, portare il proprio contributo,
discutere, confrontarsi e agire per dare un segnale politico e sociale di
contrarietà e cambiamento.
Tavolo “Trasparenza e Istituzioni” – Movimento No Base
Sabato 26 Aprile
Ore 15.00 Presidio davanti al CISAM (in fondo a Via Bigattiera Lato Monte, San
Piero a Grado)
Domenica 27 Aprile
Ore 15.00 Disarmare la Pace! Assemblea e dialogo sulle prospettive di Pace
(Presidio dei “Tre Pini”, San Piero a Grado)
Invitiamo alla massima diffusione degli appuntamenti!
Per aderire rispondere o scrivere a: movimentonobasepisa@gmail.com
Source - InfoAut: Informazione di parte
Informazione di parte
“Per liberarsi dalle guerre: Resistenza. Da ottant’anni il nostro modello”: con
queste parole d’ordine è stato lanciato il 25 aprile 2025 del
quartiere Quarticciolo, a Roma, nell’ottantesimo anniversario della Liberazione
dal nazifascismo.
La giornata prevede diversi appuntamenti. Il ritrovo è fissato per le 9.30 del
mattino con l’omaggio ai partigiani e alle partigiane. Segue, con concentramento
alle ore 10 in Piazza delle Camelie, lo storico corteo antifascista che
attraversa i quartieri di Roma est (in particolare Centocelle e Quarticciolo).
Nel pomeriggio, invece, l’appuntamento è con il grande concerto al parco Modesto
Di Veglia al Quarticciolo. Sul palco sono previsti concerti e reading con, anche
quest’anno, diversi nomi importanti del mondo dello spettacolo:
da Gemitaiz a Margherita Vicario, da MicheleRiondino a Valentina Lodovini e
molti altri.
Su Radio Onda d’Urto abbiamo presentato l’iniziativa insieme a Michele, compagno
di Quarticciolo ribelle.
Di seguito il comunicato di lancio del 25 aprile 2025 al Quarticciolo, Roma:
“E’ il più leggendario, il popolo ne racconta le gesta fremendo […] Per ben due
mesi tedeschi e fascisti rinunciarono, addirittura, ad entrare nei quartieri
Centocelle e Quarticciolo a causa delle fulminee azioni dei giovani resistenti
della zona, guidati da Giuseppe Albano, detto il Gobbo […] Sicuramente fu la sua
banda, la prima, a reagire alla rappresaglia delle Ardeatine”.
Quarticciolo nasce durante la resistenza e con la resistenza. Un piccolo
quartiere abitato da persone molto povere. Agli inizi degli anni ’40 le prime
case vennero assegnate a famiglie numerose, vedove di guerra, mutilati,
combattenti. Il resto degli appartamenti vennero occupati in seguito ai
bombardamenti del ’43. Durante i mesi dell’occupazione tedesca, la borgata fu la
zona operativa di alcune note bande partigiane, come quella capeggiata dal
Gobbo.
Un pezzo di storia della Resistenza romana scritto da persone comuni, lavoratori
e banditi, studenti, contadini, persone coraggiose e indisciplinate. E’
impossibile farne una descrizione non contraddittoria.
Rispetto alla narrazione ufficiale del partito comunista, fuori dal CLN, rimane
una resistenza di confine: quella delle borgate, territori per decenni
considerati né campagna né città ed esclusi dalle cartine di Roma.
È qua che le illusioni della liberazione dai nazifascisti si infrangono nel
perdurare di condizioni di vita durissime per i proletari, è qua che la fine
della Resistenza viene vissuta come un tradimento.
A 80 anni dal 25 aprile del 1945 al Quarticciolo, come nel resto delle borgate,
quel bisogno di resistenza è ancora estremamente attuale, per non essere
considerati abitanti di serie B, per veder riconosciuti i diritti più basilari.
Un piccolo quartiere che ha dovuto lottare per tutto, che in questi mesi ha
avuto il coraggio e la forza di mettersi di traverso a una decisione presa dal
governo Meloni sulla propria pelle: il decreto Caivano bis.
Quest’anno, il passaggio del corteo del 25 aprile attraverso le vie della
borgata e la giornata di festa che vivremo insieme in un parco intitolato a un
partigiano dell’VIII zona, Modesto di Veglia, ha un significato particolare.
Traccia un filo rosso fra la Resistenza per le vie della borgata di allora e
quella di oggi: da 80 anni il nostro unico modello.
da Radio Onda d’Urto
Levante: nuova puntata, ad aprile 2025, dell’approfondimento mensile di Radio
Onda d’Urto sull’Asia orientale, all’interno della trasmissione “C’è Crisi”,
dedicata agli scenari internazionali.
In collegamento con noi Dario Di Conzo, collaboratore di Radio Onda d’Urto e
dottorando alla Normale di Pisa in Political economy cinese e Felice Farina,
ricercatore all’Orientale di Napoli, docente di Politiche e istituzioni del
Giappone contemporaneo sempre all’Ateneo partenopeo e autore, tra i vari lavori,
del libro “La via della soia. Una storia politica, economica e diplomatica del
Giappone contemporaneo“, volume dedicato alla strategia “gastronazionalistica”
del Giappone, volta a una “riappropriazione culturale della soia e alla sua
(ri)trasformazione in un food from somewhere”
Nella puntata odierna andiamo in Giappone, facendo il punto sulla politica
domestica del Paese nipponico e sugli scenari internazionali del quadrante
asiatico, che riguardano da vicino anche Tokyo, a 80 anni esatti dalla fine
della Seconda Guerra Mondiale, con le due bombe nucleari Usa che colpirono
Hiroshima e Nagasaki, lasciando un segno profondo sulla coscienza collettiva e
sulla politica giapponese, dentro e fuori i propri confini nazionali.
La puntata di aprile 2025 di “Levante” con Dario Di Conzo e Felice Farina,
dedicata al Giappone. Ascolta o scarica
da Radio Onda d’Urto
È iniziata il aprile a L’Aquila la sessione in Corte d’Appello del processo
all’attivista cisgiordano Anan Yaeesh, arrestato in Abruzzo con Alì Irar e
Mansour Doghmosh (e ancor oggi detenuto) per fatti accaduti a Tulkarem. Un
processo iniziato con palesi forzature ed arbitrii che conducono con ogni
evidenza a una “sentenza già scritta” Manteniamo alta l’attenzione sul processo
da Osservatorio Repressione
“Cara, sapevo che la Corte mi avrebbe attaccato fin dal primo minuto, come in
Israele, nessuna differenza. Ma io sono contento che sia successo perché vorrei
che tutti lo vedessero e imparassero come ci trattano in tutto il mondo. Ma non
temere, non siamo finiti, e verrà il giorno in cui noi saremo i giudici e avremo
il potere nelle nostre mani” (Da una lettera di Anan Yaeesh del 10 aprile)
È iniziato il 2 aprile a L’Aquila il processo in primo grado ad Anan Yaeesh, Ali
Irar e Mansour Doghmosh, per fatti che sarebbero accaduti a Tulkarem,
Cisgiordania occupata.
E’ iniziato con palesi forzature ed arbitrii che conducono con ogni evidenza a
una “sentenza già scritta”:
* sono state ammesse al dibattimento le “prove” raccolte dalle autorità
israeliane e dallo Shin bet sulla base di interrogatori svolti nei Territori
occupati, senza la presenza degli avvocati difensori e su cui grava “il
sospetto” – per usare un eufemismo – di torture;
* la lista dei testimoni della difesa è stata falcidiata (ammessi 3 testimoni
su 47 e per un unico imputato);
* il Giudice ha fatto sgomberare l’aula dalla presenza dei solidali dopo le
proteste contro il palese stravolgimento delle parole di Anan Yaeesh da parte
dell’interprete, egiziana.
* E’ stato fissato un calendario di udienze fittissimo per logorare la
solidarietà e far calare l’attenzione dei media su questo caso (16 aprile – 7
maggio – 21 maggio – 18 giugno – 25 giugno – 9 luglio).
Esigua o praticamente nulla era infatti la presenza dei giornalisti in aula
nell’udienza del 16 aprile, dove tra l’altro non compariva, negli schermi della
videoconferenza con cui era collegato Anan dal carcere, l’inquadratura sulla
difesa e sul pubblico, quasi a volergli negare un sostegno, anche solo visivo.
E così è proseguito il processo il 16 aprile. Un processo politico di cui si
dichiarava in maniera ossessiva la neutralità, evitando con pervicacia che si
parlasse del contesto violento e coloniale in cui si sarebbero svolti i fatti.
Uno scenario politico che nonostante gli sforzi per ostracizzarlo, è emerso
inevitabilmente, con la naturalezza che gli spettava già al primo testimone
palestinese dell’accusa:
* è bastato per lui fornire le proprie generalità (un palestinese di Sidone),
per scoprire che si trattava di uno dei 2 milioni di palestinesi cacciati via
dall’occupazione militare israeliana durante la prima nakba, nel ‘48.
Una farsa giudiziaria che si è disvelata per quello che è, man mano che gli
interrogatori andavano avanti, fino alle affermazioni del perito balistico,
chiamato a testimoniare dall’accusa sulla natura dell’arma visibile in una foto
dei tre imputati:
* si trattava di un’arma giocattolo, di plastica, e per giunta non funzionante
* Ma la reale natura di questo processo è emersa con forza dalla dichiarazione
spontanea di Anan (quella del 2 aprile è rimasta imprigionata in una
traduzione fedele ad Israele, piuttosto che alla sua testimonianza):
“Oggi non parlo della causa palestinese, ma parlo di altre cose, perché avete
chiesto che non dobbiamo fare entrare la politica nell’aula di tribunale. Però
io credo che siamo qua per una decisione politica e non giuridica”
[Il giudice interrompe, ripetendo ossessivamente che in aula si prendono solo
decisioni giuridiche e costringendo l’avvocato a intervenire. La difesa fa
notare che in una dichiarazione spontanea dell’imputato, non c’è la possibilità
di un confronto con la Corte. La Corte può non apprezzare quello che intende
dire l’imputato, ma lo deve lasciar parlare, poi magari potrà motivare in ordine
a quello che dice l’imputato, ma non può contestare quello che pensa l’imputato.
Il giudice interrompe ripetutamente anche la difesa, chiedendo se anch’essa la
pensi come l’imputato, e l’avvocato risponde giustamente che nel codice di
procedura penale non è ancora previsto l’esame del difensore. “Poi lo
controlliamo, ma penso di no” è la risposta con cui il giudice finalmente si
tace, prima di ridare la parola ad Anan].
“Io sono qua per un motivo politico, perché non ho commesso alcun reato contro
la legge italiana in Italia. Però rispetto la decisione di non far entrare la
politica dentro l’aula del tribunale. Perché voi usate la politica per
giudicarmi, perché se volete giudicarmi secondo la legge italiana dovete
considerare tutti i documenti e tutti gli atti della comunità internazionale che
voi riconoscete. E dovete considerare che tutti gli enti internazionali
riconoscono che nelle prigioni israeliane si pratica la tortura e le regole dei
diritti umani non vengono rispettate.
Però non avete preso in considerazione tutto questo. Avete preso invece in
considerazione la relazione politica tra il governo italiano e il governo
israeliano.
Signor giudice, voi non mi avete dato il diritto di difendermi. La stessa cosa
succede nei tribunali di Israele.
Avete preso in considerazione i testimoni dell’accusa e invece non avete preso
in considerazione la mia testimonianza.
Il procuratore ha usato dei documenti stranieri contro di me, però avete
rifiutato i documenti che ho presentato io e avete deciso di non sentire i
testimoni che ho proposto io, questo contro la legge in Italia.
E mettete fretta quando parlo io, e mettete fretta anche quando parla la mia
difesa.
Non volete darci il tempo che ci serve per parlare, come se, dopo l’udienza, io
tornassi alle isole Maldive e non in carcere.
Questo perché avete fretta di finire la causa invece di applicare la giustizia.
Sento di essere tanto oppresso, sento che sto subendo una grande ingiustizia in
questo tribunale. Come se fossi in un tribunale finto, come successo in Francia
contro gli algerini o come avviene in un tribunale militare in Israele.
Se quello che sento è giusto, significa che la mia condanna è già decisa.
Allora emettete la vostra condanna!
Non è necessario fare tutte queste udienze!
Così sconto quello che devo scontare in prigione tutto il tempo!
Se invece questo tribunale rispetta la democrazia e rispetta i vostri diritti
come umani, e se abbiamo il diritto come gli altri popoli di vivere in libertà,
allora dovete darmi i miei diritti come essere umano, perché abbiamo già subito
abbastanza oppressione dai vostri amici israeliani.
Dovete lasciarci in pace!
Viva la resistenza palestinese, fino alla libertà!”
Al termine dell’udienza del 16 aprile, la Corte si è riservata di deliberare,
nell’udienza del 7 maggio, sull’eccezione presentata dalla difesa, che ha
presentato una ricerca giudiziaria con l’obiettivo di dimostrare
l’inammissibilità dell’acquisizione dei verbali degli interrogatori dei
prigionieri palestinesi.
Il 21 maggio invece, dopo l’avvenuta traduzione delle chat ad opera di un perito
della Corte di Assise sui telefonini degli imputati, verranno ascoltati i testi
della Digos
https://www.instagram.com/reel/DIg70VSMpNB/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=MzRlODBiNWFlZA==
In questi mesi la storia corre veloce, in poco tempo alcuni dei capisaldi su cui
si è retto l’ordine mondiale definitivamente consolidatosi dopo il crollo del
muro di Berlino stanno vivendo profonde tensioni e ristrutturazioni.
Non sono che sintomi di processi più profondi e radicali che ribollono come
magma sotto la crosta terrestre tentando di farsi strada, di trovare sbocchi,
sfiati ed infine ridefinire il paesaggio.
Obiettivo di questo testo è sì quello di fare uno sforzo di chiarezza poiché
leggere quanto accade nel mondo intorno è un primo passo per immaginare dove
intervenire in maniera efficace, ma anche uno strumento che vuole spingere a
praticare un’ipotesi e a calpestare un terreno che, seppur pregno di limiti e
ostacoli, si presta ad essere una finestra di possibilità che si apre e che non
va lasciata richiudersi senza nemmeno aver fatto un tentativo.
Proviamo ad orientarci.
PRIMA PARTE
I MOVIMENTI TELLURICI
I primi segni superficiali di questi processi si sono avvertiti con la crisi del
2007-2008. La terra ha tremato, le forme che aveva assunto per i quarant’anni
precedenti il sistema capitalista sono entrate in fibrillazione.
Non si può comprendere ciò che è venuto dopo senza considerare questo fatto
nella sua interezza. Quelle scosse che avevano sconvolto i mercati finanziari
sono state il segnale del magma che si stava rimettendo in moto.
In questo articolo non possiamo restituire l’intera complessità di quell’evento,
ma ci vogliamo soffermare su quattro aspetti che come vedremo sono stati
determinanti per gli sviluppi successivi.
Lotta di classe in Cina
La globalizzazione a guida USA si è retta sulla delocalizzazione della
produzione industriale in Cina. Gli Stati Uniti e più in generale le forze
capitaliste occidentali hanno ritenuto per lungo tempo che trasformare la Cina
ed i suoi vicini asiatici nella “fabbrica del mondo” avrebbe portato diversi
vantaggi. Ovviamente si sarebbero abbassati enormemente i costi di produzione: i
salari cinesi erano molto più convenienti di quelli degli operai occidentali, le
norme di sicurezza sul lavoro più morbide, i ritmi più serrati. Allo stesso
tempo l’esternalizzazione della produzione industriale avrebbe definitivamente
disarticolato la riottosa classe operaia statunitense ed europea che manteneva
un certo grado di potere, che fosse nelle forme peculiari dei sindacati
statunitensi o in quelle dei movimenti dei lavoratori in Europa. Infine la
delocalizzazione avrebbe posto un freno anche alla crescente sensibilità
ecologista che stava sorgendo in quegli anni in occidente. Spostare le
esternalità negative della produzione industriale altrove avrebbe permesso
almeno in parte di evitare il proliferare dei conflitti ambientali.
Enormi porzioni della popolazione cinese hanno vissuto in pochi decenni il
processo che in Occidente era durato secoli, la proletarizzazione di una classe
contadina che era stata riferimento e protagonista della rivoluzione maoista.
Questa nuova ed enorme classe operaia ha iniziato a pretendere di poter godere
almeno in parte delle ricchezze che il suo lavoro ha generato. In pochissimi
anni i salari sono aumentati esponenzialmente andando ad intaccare il gigantesco
surplus che i capitalisti occidentali estraevano dalla “fabbrica del mondo”. Non
solo: con la crescita dei salari si è andato a formare un florido mercato
interno che per un certo tempo ha fornito un nuovo sbocco per le merci
occidentali, ma presto è stato occupato da quelle costruite all’interno della
Cina o nei suoi addentellati asiatici. Tornando velocemente al presente, il caso
delle auto elettriche è emblematico.
La dinamica dei salari in Cina ha contribuito, assieme ad altri fattori, a
“raffreddare” la realizzazione del valore nella produzione industriale. Gli
investimenti non consegnavano più i profitti di prima e una parte significativa
dei capitalisti preferiva valorizzare le proprie ricchezze sui mercati
finanziari.
La crescita dei salari in Cina non è stata però l’unico punto di blocco della
valorizzazione.
Punti di blocco della valorizzazione
Quando il capitale non trova sufficiente realizzazione nelle forze produttive si
rifugia nei mercati finanziari. Ma questa, come vedremo, è una contraddizione,
perché se nell’immediato la valorizzazione finanziaria genera soldi facili, a
lungo andare crea le famose “bolle”, come quella dei mutui subprime che scatenò
la crisi del 2008, ed inevitabilmente gli esiti sono catastrofici.
Ma la valorizzazione capitalista è un processo perpetuo, non può fermarsi o
rallentare: come spiega Marx, nel momento stesso in cui essa dovesse fermarsi
smette di essere capitale, diventa solo ricchezza. E’ la tendenza a farsi totale
del capitale, a mercificare ogni ambito della vita umana e della natura, ad
aumentare l’intensità e l’estensione dell’estrazione di profitto. Il capitale
deve trovare sempre nuovi modi di valorizzarsi, pena la fine stessa del modo di
produzione capitalistico.
Questa tendenza del capitalismo si scontra con diversi limiti.
La riproduzione della natura: molte risorse naturali sono finite, non si possono
sfruttare all’infinito. Oppure hanno dei tempi propri per riprodursi che non
sono interamente scalabili dentro i processi di produzione capitalisti. Questa
evidenza confligge inevitabilmente con la tendenza alla valorizzazione continua.
L’estrazione di materie prime diventa sempre più costosa e complicata
tecnicamente. Le famigerate “guerre per il petrolio” che hanno caratterizzato il
primo decennio di questo secolo sono in parte figlie della bulimia di materie
prime che caratterizza il capitalismo. Negli stessi anni avviene un altro fatto
esemplificativo: il fallimento della Enron Corporation, una delle più grandi
multinazionali dell’energia degli Stati Uniti. La Enron crolla perché sposta
progressivamente il suo business verso il risk management ed il mercato dei
derivati collegato alle commodities. In sostanza verso la finanziarizzazione.
Presto viene scoperto che la multinazionale ha centinaia di milioni di dollari
di perdite che non vengono calcolate nei bilanci. Per provare a salvarsi dal
crollo la Enron aveva inscenato dei blackout in California per far crescere i
costi dell’energia. La multinazionale era in rapporti confidenziali con
l’amministrazione Bush e si dice che fu a causa delle pressioni della
multinazionale che gli USA non firmarono il protocollo di Kyoto. La vicenda di
Enron è indicativa di un contesto più generale dove ormai mercati importanti
delle materie prime come quelli del petrolio e del gas sono estremamente
finanziarizzati. Non va sottovalutato poi l’impatto dei movimenti ecologisti,
specialmente nel Sud globale, che hanno imposto alla controparte limitazioni e
freni allo sfruttamento incontrollato dei territori ed al modo (sicurezza
ambientale e sul lavoro) in cui avviene lo sfruttamento.
Più in generale l’estrazione di risorse incontra limiti spaziali e temporali. I
giacimenti di materie prime, come ad esempio le terre rare, possono essere
localizzati in territori specifici, possono soffrire di colli di bottiglia
importanti e di difficoltà tecniche di estrazione. Tutto ciò ha a che fare con
l’imperialismo e con il secondo limite, quello politico “intracapitalista”.
Rigidità intracapitalistiche: per lungo tempo anche in parti della sinistra
radicale si è pensato che con la globalizzazione avrebbero smesso di esistere i
capitalismi “nazionali” a fronte della nascita di un unico complessivo mercato
globale senza barriere. Questa interpretazione semplificata dell’evoluzione del
capitalismo si basava su due facce della medaglia, l’internazionalizzazione
delle catene del valore e gli scambi generali sul mercato finanziario. Ma questa
lettura cancellava, più o meno consapevolmente, le gerarchie che strutturavano
entrambi questi processi. Dentro l’internazionalizzazione delle catene del
valore vi è stata una vera e propria divisione internazionale del lavoro, come
abbiamo accennato sopra, e le leve finanziarie non sono certamente “equamente
distribuite” tra gli attori del capitalismo globale. Il comando “politico” è
sempre stato in mano al paese guida di questa “nuova” globalizzazione, cioè gli
USA. Il mercato globale senza barriere poteva esistere solo alle condizioni del
capitalismo statunitense, tutti gli altri paesi si dovevano attenere a svolgere
il proprio ruolo nella catena del valore globale ed eventualmente godere dei
limitati e momentanei benefici di questa architettura. Ma se per certi paesi,
come la Cina, per un certo periodo il ruolo nella catena globale poteva essere
un volano di sviluppo, per altri, come ad esempio la Russia, accodarsi senza
limitazioni alla globalizzazione a guida USA avrebbe semplicemente voluto dire
divenire terreno di predazione per il capitale occidentale. Gli anni ‘90 in
Russia erano stati un monito in questo senso: aprire senza condizioni i confini
della Federazione al mercato internazionale avrebbe avuto dei costi enormi non
solo per la popolazione, ma soprattutto per la nuova classe capitalista russa
che sull’appropriazione delle risorse precedentemente statalizzate in epoca
sovietica stava costruendo la propria accumulazione privata. Ma come abbiamo
visto la bulimia del capitalismo non concede sconti e la Federazione doveva
mettere a disposizione le proprie risorse senza rigidità. Per qualche anno
dunque si è assistito ad un balletto di distanze e riavvicinamenti tra gli USA
ed il nuovo corso russo impersonato da Putin, a volte corteggiato, altre
minacciato. D’altro canto, anche la Cina per i processi descritti sopra era
debordata dal suo ruolo di fabbrica del mondo, diventando un attore economico
globale e competitivo nei confronti del capitale occidentale. A sostenere poi la
globalizzazione vi era la strutturazione di un rigido sistema neocoloniale, che
solo dal nostro punto di vista occidentale abbiamo dimenticato di considerare,
che obbligava alcuni paesi nella divisione internazionale del lavoro a rivestire
il ruolo di bacini di risorse e manodopera a basso costo, quando non, come in
alcuni paesi africani, vere e proprie discariche delle esternalità dannose. A
ben vedere il ciclo del “Socialismo del XXI secolo” che ha caratterizzato una
serie di movimentazioni spurie e sfaccettate in America Latina tra gli anni ‘90
e 2000 e che continua a trascinarsi in parte ancora oggi è stato per lo più un
tentativo di riprendere il controllo almeno in parte sulle risorse drenate dal
Nord globale. I conflitti intracapitalistici comunque non si muovono solo sulle
frontiere, ma anche all’interno dello stesso capitalismo occidentale, dove
diversi “modi di valorizzazione” non sempre riescono a conciliare fini ed
obiettivi.
La riproduzione della classe operaia: la classe operaia in Occidente non è
sparita insieme alle delocalizzazioni in Cina, Messico od est Europa. Anzi, la
nostra tesi è che grandi fette del lavoro salariato fuori dalle fabbriche
tradizionali sono andate incontro a processi di operaizzazione. Non stiamo
parlando solo delle funzioni lasche del terziario, come ad esempio i call
center, che già da tempo hanno vissuto a loro volta una fase di
esternalizzazione, ma in generale di mansioni e ruoli più complessi da rendere
“scalabili” dentro la classica forma industriale. Su questi processi ci
torneremo più avanti, per il momento basta dire che alla globalizzazione dei
mercati non è corrisposta, se non per un brevissimo lasso di tempo, la creazione
di una società di “classe media” che ha goduto del proprio benessere a discapito
del Sud del mondo proletario. La realtà si è mostrata decisamente più complessa.
Per quanto riguarda invece i settori tradizionali una parte delle imprese
capitalistiche hanno preferito mantenere la fase di assemblaggio della
componentistica prodotta altrove in Europa e negli USA, al contempo proprio per
il dilatarsi delle catene del valore ha assunto una centralità senza precedenti
la fase della circolazione delle merci, fossero esse i semi-lavorati o il
prodotto finito; quella che viene chiamata la rivoluzione della logistica. A
latere rispetto a questi ambiti si sono sviluppate una miriade di modi del
lavoro povero con vere e proprie sacche interne agli stati occidentali dove
vigono le più aberranti forme di sfruttamento. In quasi ogni paese occidentale
si è assistito allo stesso tempo ad una diminuzione (o stagnazione) del salario
reale ed ad una sostanziale diminuzione del salario indiretto (servizi, welfare,
formazione). La controrivoluzione neoliberista ha cercato in ogni modo di radere
a zero le conquiste operaie del dopoguerra e di valorizzare ambiti della
riproduzione che grazie alle lotte erano almeno in parte usciti dalla morsa del
mercato. Questo ha generato una vera e propria crisi della riproduzione sociale
che spesso si è accompagnata ad un invecchiamento complessivo della società.
Negli USA in particolare il paradigma del welfare è stato sostituito
completamente da quello dell’indebitamento facile. E’ venuta a formarsi una
classe operaia sempre più anziana, debilitata (senza la possibilità di pagarsi
le cure), precaria e priva di prospettive ascendenti. In alcuni paesi come il
nostro si è assistito a due tendenze solo apparentemente in contrasto, da un
lato la fuga di forza lavoro particolarmente qualificata, dall’altro ad una
prolungata scarsità di forza lavoro a cui si è provato a porre rimedio
attraverso lo sfruttamento dei flussi migratori prima dall’est e poi
dall’Africa. E’ difficile contabilizzare l’effetto della crisi della
riproduzione sociale sulla valorizzazione del capitale, ma se si considera che
una delle cause prossime della crisi del 2008 è l’insolvenza di massa rispetto
ai mutui che i proletari americani hanno contratto per comprarsi una casa è
evidente che questa ha avuto un ruolo tutt’altro che indifferente.
Finanziarizzazione e debito
Lo abbiamo già accennato, quando il capitale non è in grado di realizzarsi con
l’intensità necessaria nella produzione reale cerca altre vie per moltiplicarsi.
La strada privilegiata è quella dei mercati finanziari in cui dagli anni ‘80 in
poi si è assistito ad una moltiplicazione di strumenti per, apparentemente, fare
soldi coi soldi. Ma la finanziarizzazione non è solo uno strumento della
valorizzazione, è anche uno strumento di comando. Fondi speculativi, banche
d’investimento, trust di padroni attraverso i mercati finanziari, attraverso
partecipazioni ben piazzate possono orientare l’economia, persino determinare il
destino di un dato paese.
In questo ambito dalla fine degli anni ‘90 fino ad oggi abbiamo assistito ad un
lungo e continuativo formarsi di bolle sui mercati finanziari: la bolla dell’IT
di inizio 2000, quella già citata dei mutui subprime, quella della green
economy, mai veramente decollata, quella delle industrie high tech e adesso,
come ci spiega Maurizio Lazzarato in questo articolo, quella del riarmo.
Progressivamente il numero di attori in grado di esercitare una leva sul mercato
finanziario si è ristretto, fondi speculativi sempre più pesanti sui mercati
finanziari hanno fatto e stanno facendo shopping in giro per il mondo,
raschiando partecipazioni su partecipazioni (Qui abbiamo parlato del caso
italiano) che di fatto non permettono solo di conservare e moltiplicare valore,
ma diventano strumenti di comando e controllo sulla filiera finanziaria, ma
anche sulla produzione reale.
Esiste una relazione tra la concentrazione del capitale e le difficoltà di
realizzazione. Infatti meno il capitale investito è produttivo di valore e meno
i soggetti economici di piccole e medie dimensioni sono competitivi sul mercato,
meno riescono a nuotare nella piscina degli squali. Allo stesso tempo una minore
intensità di valorizzazione del capitale significa che solo chi possiede una
grande concentrazione di ricchezza può permettersi degli investimenti redditizi.
Non bisogna farsi illusioni sulla favoletta delle start up che partendo da un
garage conquistano il mercato globale: queste aziende nascono all’interno di
incubatori che fin dall’inizio vedono una grande intensità d’investimento di
capitale privato (o più raramente pubblico) dei soliti grandi soggetti
economici. Ma, tornando a quanto detto prima, questi capitali investiti quasi
sempre non si realizzano nella produzione reale di merci, ma si valorizzano
nelle fulminee ascese finanziarie delle aziende, che presto o tardi andranno
incontro ad altrettanto violenti crolli, il recente andamento di Tesla ne è un
esempio.
Se consideriamo anche gli stati nella loro natura finanziarizzata riusciamo a
cogliere un altro aspetto significativo della lunga frattura. La globalizzazione
a guida USA si è fondata su una peculiare forma di scambio che ne è stata
garante dell’egemonia, ma oggi rappresenta un problema non secondario. Il
modello era questo: chiunque avesse acquistato debito estero statunitense
avrebbe ricevuto in cambio un flusso di valuta pregiata, il dollaro, che è
presto diventata la moneta di scambio del commercio globale. Tra i principali
acquirenti del debito estero americano c’era naturalmente la Cina. Attraverso
questo meccanismo, paradossalmente, gli Stati Uniti riuscivano ad esercitare il
proprio controllo sul mercato globale attraverso il debito (per quanto peculiare
questo non è un meccanismo nuovo, anche l’impero britannico verso la fine della
sua egemonia sul mercato globale viveva un dilemma del genere). Con il debito
contratto gli USA hanno tenuto in piedi la propria proiezione imperiale, la
potenza militare, la sicurezza interna e la possibilità di intervenire in caso
di interventi catastrofici per il mercato finanziario come la crisi del 2008.
D’altro canto però questo enorme quantitativo di debito contratto non ha in
alcun modo giovato alla vita dell’americano medio che ha visto ridursi ogni tipo
di accesso al welfare, ma dei servizi, delle infrastrutture, persino della
prontezza di risposta alle catastrofi climatiche come ad esempio gli incendi.
Dal 2008 in poi la Cina ha progressivamente smesso di acquistare il debito
pubblico statunitense. L’effetto contagio in occasione del crollo dei mercati
finanziari che aveva provocato la dipendenza della Cina dall’economia
statunitense ha fatto da monito. Come vedremo più avanti questo è oggi uno dei
grandi temi sul tavolo dell’amministrazione Trump.
Esternalizzazione della crisi
Ogni crisi rappresenta un’opportunità. Alla crisi del 2008 è seguita a ruota la
crisi dei debiti sovrani nei paesi più esposti dell’Unione Europea come Grecia,
Spagna, Irlanda, Portogallo ed Italia. Quest’ultima non è stata semplicemente un
contagio, ma è stata una vera e propria occasione per la finanza a stelle e
strisce di lanciare un attacco speculativo al continente. Attacco che è stato
contenuto al costo di anni ed anni di austerity e tagli alla spesa sociale.
Questo evento ha rappresentato un monito che solo in pochi hanno voluto
ascoltare, evidenziando almeno tre aspetti. In primo luogo quando si tratta di
drenare valore non esistono “paesi amici” nella dinamica capitalista. Gli
alleati non sono veramente alleati, ma soggetti con cui si instaura un paradigma
di dipendenza e subordinazione. La natura espansiva del capitalismo prevede che
in tempi di crisi, lì dove ci sono poli economici competitivi e subordinati
questi vivano un drenaggio delle risorse verso il centro.
In secondo luogo, e di conseguenza, l’attacco speculativo verso i paesi europei
ha certificato che il capitalismo occidentale non era uno spazio omogeneo, o
almeno non è considerato tale dagli Stati Uniti. Guardandola a posteriori la
Brexit non è stata solo un afflato di nazionalismo, ma una volontà della Gran
Bretagna di svincolarsi dall’abbraccio europeo per avvicinarsi ancora di più al
cugino d’oltremare.
Infine la crisi del debito sovrano era un’avvisaglia, più che evidente, che
l’Europa, come spazio economico-politico, non era semplicemente un
alleato-concorrente, ma una vittima sacrificale. In diverse versioni tanto i
democratici, quanto i repubblicani hanno portato prima la guerra economica e poi
la guerra guerreggiata all’Europa, e non in Europa come siamo abituati a
pensare. Come spiega Raffaele Sciortino:
> “[…] la distruzione è la conditio sine qua non di una ripresa
> dell’accumulazione globale. Solo che nel frattempo questo avviene con crisi,
> guerre, e dove ogni attore a partire dagli Stati Uniti vorrebbe e cercherà di
> scaricare i costi di questa svalorizzazione sugli altri.”
ERUZIONI
Ucraina: guerra dell’Europa, guerra all’Europa?
Prendiamo la guerra in Ucraina, provando a comprenderne la portata e i
significati all’interno dei meccanismi che abbiamo tratteggiato fino ad ora.
La retorica europea e statunitense degli ultimi anni ci ha abituato a una
spiegazione del conflitto tutta centrata sugli attributi politici del
personaggio Putin e del regime che incarna. I media nostrani si affannano a
dipingere il presidente russo come uno zar paranoico, animato da un’ostilità
viscerale verso l’Occidente, mossa da una supposta indole autoritaria
intrinsecamente russa. A noi sembra invece più utile – e, crediamo, necessario
per chi tenta di orientarsi nel terreno complesso della guerra che viene –
inquadrare il ritorno del conflitto su larga scala in Europa dentro le faglie
che si aprono nell’ordine globale.
Se ci affidiamo a una genealogia storica degli eventi che hanno portato
all’escalation del 2022, bisogna risalire almeno al golpe di EuroMaidan del
2014: evento che si colloca, pur semplificando, all’interno di quella dinamica
di pressione crescente esercitata da Stati Uniti e Unione Europea sulla Russia,
che ha comportato la destabilizzazione del regime ucraino legato agli interessi
russi e la progressiva costruzione dell’Ucraina come avamposto strategico della
proiezione politico-militare occidentale in Europa orientale.
Una pressione che ha operato su due piani. Da un lato, il rafforzamento del
rapporto di forza militare nei confronti di una Russia considerata inaffidabile:
rapporto di forza che, come abbiamo visto, rappresenta uno dei cardini – insieme
alla tirannia del debito – del dominio egemonico statunitense, fondato sulla
capacità di garantire, anche con la forza, la propria posizione al vertice delle
catene globali del valore. Una dottrina costruita negli ultimi trent’anni sui
pilastri della “deterrenza” e della “pronta risposta”, ma che oggi comincia a
dimostrare alcuni segnali di instabilità soprattutto a partire dalla crisi della
superiorità tecnologica che l’ha resa possibile.
Dall’altro lato, la posta in gioco riguardava la ridefinizione degli equilibri
all’interno delle catene del valore legate ai combustibili fossili: risorse
essenziali per l’alimentazione energetica e per la sopravvivenza di segmenti
strategici del capitale europeo e statunitense, ma finite – e dunque non
valorizzabili indefinitamente – e contese anche da altri attori globali, in
primis la Cina. Il controllo dell’infrastruttura di trasporto e raffinazione era
stato fino al 2022 il terreno di un serrato scontro tra capitale russo e
capitale europeo, in particolare tedesco.
Su questo terreno, e non a caso, è avvenuto il primo tentativo da parte degli
Stati Uniti di scaricare sull’Europa la pressione derivante dalla crisi ucraina.
In questa direzione si collocano sia il sabotaggio delle relazioni energetiche
tra Russia e Unione Europea, sia la distruzione fisica dell’infrastruttura Nord
Stream. Scelte che miravano a riaffermare con forza la subordinazione
dell’Europa rispetto agli interessi strategici statunitensi e a costringere le
economie dell’“alleato” europeo ad accollarsi il peso maggiore della guerra. Già
dopo sei mesi di conflitto, infatti, è apparso chiaro che l’esercito ucraino,
seppur pesantemente armato da Stati Uniti ed Europa e composto almeno in parte
da elementi fortemente ideologizzati a destra, non sarebbe stato in grado di
ottenere quella “vittoria totale” su cui – tra eccesso di ottimismo e clamorosi
errori di calcolo – si era basato il massiccio invio di armamenti e fondi da
parte dell’Occidente.
L’America, dal canto suo, sconta da anni una riluttanza sociale sempre più
marcata nei confronti di interventi militari con presenza diretta delle proprie
truppe (“boots on the ground”), dopo mezzo secolo di operazioni belliche spesso
fallimentari o quantomeno costose, sia in termini di vite umane sia per le
conseguenze sulle condizioni materiali del proletariato statunitense,
penalizzato da continui tagli al salario indiretto per coprire i costi di lunghe
guerre fondate anche sulla costruzione artificiale di regimi fantoccio. Nel
tentativo di uscire da questo vicolo cieco, il progetto imperialista
statunitense ha sviluppato negli ultimi anni forme di subappalto della propria
potenza militare, delegando il ruolo di prima linea del conflitto a potenze
“sub-imperiali” che, pur agendo in buona parte secondo interessi propri, sono
spinte – se le cose si mettono male – a sobbarcarsi da sole i costi politici ed
economici dei fallimenti militari.
E infatti, in Ucraina abbiamo visto chiaramente l’atteggiamento degli Stati
Uniti: retorica sulla prosecuzione della guerra e insistenza sulla necessità
della vittoria ucraina, con i danni – in primo luogo l’aumento del costo
dell’energia e l’inasprirsi della crisi economica – scaricati interamente sugli
alleati. L’Europa è risultata sin da subito l’area più colpita dalla crisi
ucraina, ed è tecnicamente già in recessione. La durissima crisi del settore
industriale tedesco, centrato sull’Automotive, ne è la prova evidente: i
licenziamenti in Volkswagen hanno scatenato un vero e proprio cataclisma
sociale, mentre lo spettro di un’insicurezza economica diffusa ha segnato la
recente campagna elettorale, con risultati che esprimono chiaramente
l’inquietudine di ampie fasce dell’elettorato di fronte a una politica di cieca
prosecuzione della guerra.
L’intervento di Mario Draghi davanti al Parlamento europeo, lo scorso febbraio,
ha sintetizzato quella che appare l’unica via d’uscita che il capitale europeo è
in grado di immaginare: per l’ex presidente della BCE, occorre istituire un
debito europeo per finanziare riarmo, innovazione tecnologica e intelligenza
artificiale. Un debito da sottoscrivere con il risparmio privato dei cittadini
europei, e non con l’intervento della Banca centrale. A stretto giro è seguita
la sua traduzione pratica, con la presentazione del piano “ReArm EU” da parte di
Ursula von der Leyen, accompagnata dalla necessaria campagna
ideologico-mediatica volta a legittimare questa nuova postura europea. Campagna
a cui hanno aderito con entusiasmo i principali organi di stampa liberali, e
persino qualche guerrafondaio nostrano sceso in piazza il 15 marzo.
Ciò che sembra emergere con maggiore chiarezza è l’esaurirsi della capacità
statunitense di finanziare, e ancor più di legittimare “internamente”, la
propria tradizionale politica di intervento militare come garanzia del
mantenimento dell’egemonia globale. Una conseguenza quasi naturale di questo
logoramento è il ricorso a una delega – mai completamente consensuale – di tale
funzione a spazi economico-politici “alleati”, costretti oggi a sacrificarsi
senza reali contropartite, e senza alcuna garanzia sulla possibilità di reggere
il peso di questa nuova fase.
Segno, quest’ultimo, di una crisi che si struttura e si dispiega dunque su
molteplici piani – militare, economico, geopolitico – e che coinvolge l’intero
scenario globale, tanto sul versante materiale quanto su quello immateriale. In
gioco ci sono nodi cruciali come il ruolo dominante del dollaro e quello che,
forse con un certo eccesso retorico ma non senza ragioni, si può definire il
“declino dell’Occidente”. Negli ultimi decenni si è andato sgretolando il telaio
di certezze che aveva sorretto la riproduzione ideologica e materiale
dell’ordine mondiale emerso nella seconda metà del Novecento. Quello che
appariva come un equilibrio stabile – un continuum in cui le forme della
dominazione potevano rinnovarsi senza scosse, persino nei loro centri – si è
progressivamente trasformato in un campo disseminato di faglie, dove le stesse
coordinate interpretative fornite da istituzioni e media iniziano a vacillare
sotto il peso delle contraddizioni che esse stesse hanno contribuito a generare.
Palestina: la crisi del comando e la resistenza
Ciò che per lungo tempo è stato rappresentato come “normalità” – la continuità
produttiva, la governabilità garantita, la distanza protettiva dai teatri del
disastro – si rivela oggi per quello che è sempre stato: un’eccezione costruita
sulla stabilizzazione violenta di tutto ciò che si trovava al di fuori. Oggi la
crisi si manifesta anche nel cuore delle metropoli globali, sotto forma di
instabilità politica, polarizzazione sociale, impoverimento di massa e
smottamento delle forme stesse della soggettivazione. Non è dunque sorprendente
che una parte crescente della popolazione si ritrovi preda di un sentimento
diffuso di spaesamento e impotenza: non più semplicemente per l’incertezza del
futuro, ma per l’assenza stessa di un linguaggio condiviso per pensarlo. Quando
non si trasforma in un’adesione difensiva allo status quo, questo spaesamento si
esprime nella nostalgia per un passato idealizzato o nella ricerca di ancore
identitarie rassicuranti, mentre la realtà si frammenta sotto i colpi della
ristrutturazione globale.
Ma è proprio da questa condizione, segnata dalla disarticolazione del comando
imperiale e dalla frattura del suo immaginario, che possono emergere nuove
possibilità di lettura e di azione. Ci sembra che alcuni segnali inizino a
delineare uno spazio possibile per ripensare il conflitto, la solidarietà, la
trasformazione. Uno di questi segnali, forse il più evidente e radicale, è ciò
che sta accadendo in Palestina.
Lo Stato d’Israele è da lunghi anni la sintesi di molte delle contraddizioni del
sistema di dominio in cui viviamo ed è in parte la prefigurazione dei
dispositivi politici e tecnici che il capitale potrebbe mettere in opera (o ha
già messo in opera) anche da noi. Ma anche lo Stato di Israele soffre la crisi
del sistema di dominio in cui viviamo, sistema di cui è l’emanazione in Medio
Oriente: una crisi che, pur assumendo forme diverse nei vari segmenti della
geografia imperiale, rimanda sempre allo stesso nodo, cioé la crescente
difficoltà del capitale globale a mantenere il proprio comando sulla
riproduzione sociale su scala planetaria.
Prima del 7 ottobre, il regime israeliano in Palestina operava come una
sofisticata macchina di comando in cui apartheid, assedio e sorveglianza
formavano un dispositivo integrato di governo coloniale. Gaza era ridotta ad uno
spazio di confinamento assoluto e veniva gestita come laboratorio necropolitico,
mentre in Cisgiordania la frammentazione territoriale e il controllo capillare
governavano l’accesso della popolazione palestinese alla vita e al suo
inserimento all’interno delle catene produttive israeliane secondo una logica di
disciplinamento e contenimento. Questo regime non era solo puro esercizio di
forza, ma una forma di dominio che si presentava come amministrazione tecnica
della normalità e di fronte alla cui inamovibilità e progressione la
testimonianza di solidarietà alla Palestina a cui eravamo abituati alle nostre
latitudini si dimostrava sempre più incapace di incidere.
Ad altre latitudini, invece, qualcosa si muoveva eccome. A partire dalla
resistenza palestinese, che ha dimostrato una capacità di costruzione
organizzativa e militare passata clamorosamente sotto il radar delle forze
d’intelligence israeliane – dimostrazione concreta di un vecchio assioma di ogni
insorgenza anticoloniale, intriso anche di un certo portato simbolico: quello
che vede un esercito straccione, eppure altamente determinato, colpire il cuore
delle forze occupanti, nonostante la loro schiacciante superiorità tecnologica e
militare. Ma anche altri attori della regione – a cominciare da quelle forze
nazionali e confessionali, di segno conservatore e teocratico, storicamente
impegnate nella costruzione di un rapporto di forza da opporre all’egemonia
indiscussa israelo-statunitense in Medio Oriente – hanno saputo intercettare il
momento e cogliere l’occasione. Il 7 ottobre è arrivato in un momento in cui gli
Stati Uniti apparivano visibilmente impantanati nel teatro ucraino, mentre lo
Stato d’Israele era attraversato da profonde convulsioni generate dalla
competizione interna tra diverse forme e gerarchie del comando: da un lato
Netanyahu che cercava di vincolare l’esercito e lo Shin Bet al progetto
apertamente suprematista rappresentato da Ben Gvir e Smotrich, dall’altro un
progressismo israeliano ancora legato ai suoi feticci democratici e
all’insediamento produttivo dei kibbutz che tentava di contenerne la «deriva».
A partire dal 7 ottobre 2023, questa crescente difficoltà di Israele e, tramite
esso, del capitale globale a mantenere il proprio comando sulla Palestina e sul
Medio Oriente si è, dunque, manifestata nella sua forma più nuda e brutale. Ciò
che abbiamo visto è una crisi del comando non solo in senso militare, ma
soprattutto sul piano della sua funzione ordinatrice: della capacità del
capitale di stabilire una narrazione egemonica e di modulare il conflitto
sociale entro forme gestibili o neutralizzabili. E quando questa capacità si
frattura, il capitale non esita a mostrare il volto più feroce del suo
dispositivo disciplinare: le bombe, le recinzioni, l’assedio, i droni, i media
asserviti, l’accusa sistematica di antisemitismo come perimetrazione e
costruzione del nemico, la delegittimiazione completa di qualsiasi meccanismo di
giurisprudenza e diritto internazionale, che ancora una volta sono costretti a
mostrare umiliantemente la loro subordinazione al comando capitalista.
Ma è proprio nel cuore di questa crisi del comando che si aprono delle fessure,
delle possibilità. In mezzo al terrore sistemico e alla ristrutturazione
permanente dei dispositivi di controllo, emergono variabili impreviste. La
resistenza del popolo palestinese rappresenta una di queste fessure. Non è,
oggi, un progetto politico compiuto, e forse non è vincente. Ma è un inizio. In
questo senso, la Palestina – oggi come ieri – non è soltanto una tragedia
umanitaria, ma una lente per leggere l’intero campo delle contraddizioni
contemporanee: dal collasso ambientale alla guerra per bande tra potenze
sub-imperiali, dalla crisi delle forme statali alla decomposizione del legame
sociale nei centri metropolitani. Un punto di fuga che mostra, in modo quasi
brutale, il nesso tra accumulazione e violenza, tra governance globale e
apartheid. E dunque anche il luogo dove, paradossalmente, può prendere forma un
nuovo internazionalismo — non ancora pienamente definito, non ancora codificato,
ma già in cammino.
Transizione egemonica? Taiwan, Cina e le catene del valore globali
Bisogna, però, fare attenzione a non farsi affascinare e a non prendere per vere
prospettive che, per quanto interessanti, si situano ancora molto più nel campo
delle possibilità che in quello della certezza.
Proprio l’idea che ci troviamo all’interno di una fase di piena ed irreversibile
crisi dell’egemonia statunitense ci sembra, se presa in toto, come un’assunzione
che rischia di confinare il nostro pensiero alla proiezione su nuovi scenari
futuri e non ci permette di misurarci e fare i conti con le necessità del
presente. È infatti il naturale corollario di questa idea che andrebbe preso con
cautela, cioé che le conseguenze di questa crisi corrispondano ad una
ridefinizione degli equilibri economici e militari globali che porterebbero o
all’idea di un «mondo multipolare» oppure ad una sostanziale ridefinizione degli
equilibri egemonici con il “sorpasso” della Cina sugli Stati Uniti.
L’idea, infatti, che siamo in una sorta di «interregno» tra l’egemonia
statunitense e quella cinese è, di per sé, un’immagine ideologica creata
dall’operazione del potere imperiale statunitense stesso. L’egemonia
statunitense, infatti, non si è mai presentata come un semplice dominio di
forza, ma come un progetto ideologico raffinato, costruito attraverso una
costante narrazione che ne legittima l’esistenza e ne anticipa – quasi
strategicamente – la possibile fine. Fin dalla fine della Seconda guerra
mondiale, gli Stati Uniti hanno elaborato una complessa infrastruttura teorica
per giustificare il proprio ruolo globale: dal contenimento del comunismo
(Kennan) fino alla teorizzazione di un ordine mondiale liberale e capitalistico
«naturalmente» destinato a trionfare (Fukuyama). Questa narrazione, tuttavia, è
sempre stata accompagnata dalla previsione ciclica del proprio tramonto e dalla
definizione e costruzione di un attore responsabile di questo declino, un «nuovo
sfidante» a livello economico e militare pronto a minacciare l’economia
statunitense. Durante la Guerra Fredda, questo ruolo veniva attribuito all’URSS,
mentre oggi ricade sulla Cina. In questo senso, l’idea dell’attuale «interregno»
tra l’egemonia americana e quella cinese è una forma di proiezione di questa
possibilità sul presente, parte integrante del dispositivo ideologico che
consente agli Stati Uniti di ridefinire continuamente la propria centralità
attraverso la gestione del declino annunciato. È proprio questa dialettica tra
crisi e rigenerazione che alimenta l’egemonia americana, trasformando ogni
minaccia in un’occasione per riaffermare il proprio ruolo nel mondo.
Questa retorica è stata storicamente impiegata durante la Guerra Fredda per
legittimare enormi spese per armamenti, incluse le armi nucleari, e il
finanziamento di proxy wars in tutto il mondo. Negli anni ’80, la stessa logica
è stata rivolta contro il Giappone, con l’imposizione di dazi punitivi e il
Plaza Accord, un accordo monetario imposto con la forza che contribuì a far
precipitare l’economia giapponese in una stagnazione prolungata. Oggi, quello
stesso copione viene riproposto nei confronti della Cina: i fautori dello
scontro a Washington mirano a sabotarne i progressi economici, provocare
instabilità interna e, nel caso più estremo, trascinare la regione del Pacifico
– e in particolare lo Stretto di Taiwan – in un conflitto distruttivo e
sanguinoso.
NUOVE FAGLIE
È evidente, però, che un cambiamento è in atto. Eppure, questo mutamento resta
ancora ambiguo: sembra indicare la fine dell’egemonia statunitense, ma allo
stesso tempo ne conferma la persistenza; scarica sull’Europa il peso della
«ritirata strategica» di un alleato americano che si scopre improvvisamente
essere egoista e autoritario, ma allo stesso tempo vede gli Stati Uniti
rispondere in grande stile alla «minaccia cinese» con un cambiamento repentino
nella politica economica e con l’aumento generalizzato dei dazi per tornare,
così dice Trump, a controllare i flussi di produzione di valore.
Nuove geografie della produzione globale
Per capire queste apparenti contraddizioni, ci sembra utile guardare ai
cambiamenti nella geografia della produzione globale, laddove alcune utili
indicazioni fornite sono state fornite da Phil Neel in questa intervista ed in
altri suoi recenti interventi. Come abbiamo già visto nei paragrafi precedenti,
sin dal secondo dopoguerra, sotto la guida statunitense, il sistema produttivo
mondiale si è riorganizzato sulle basi di una divisione internazionale del
lavoro strutturata attorno a una logica di efficientamento dei costi. In questo
senso, è avvenuto lo spostamento graduale dell’industria manifatturiera
nell’asse Pacifico, con la Cina come «fabbrica del mondo»: in questo processo,
si sono sviluppati nuovi poli industriali in Asia orientale, si sono consolidate
infrastrutture energetiche nei paesi del Golfo, si è ristrutturata
selettivamente l’Europa, ed è stato costruito il complesso militare-industriale
israeliano – tutti elementi funzionali al progetto imperiale americano.
Questo modello ha prodotto una struttura gerarchica dove poche imprese
dominanti, situate nei centri del capitalismo avanzato (America, Europa ed in
minor misura Israele ed il Giappone), detengono il potere decisionale, mentre
quote crescenti di produzione vengono delegate a subappaltatori nei paesi più
periferici. Le imprese leader mantengono un potere quasi monopolistico,
sfruttando la concorrenza tra fornitori per comprimere i costi lungo tutta la
catena del valore. Tuttavia, proprio questo processo di esternalizzazione ha
permesso ad alcune aziende subalterne di crescere, acquisire tecnologie,
organizzarsi su scala globale e, in certi casi, diventare nuovi attori dominanti
all’interno delle catene del valore. Emergono così nuove frazioni di capitale,
sia nazionali che settoriali, che competono per una quota maggiore del valore
prodotto globalmente. Ma questa competizione è sempre intrecciata a forme di
cooperazione forzata e dipendenza asimmetrica che, naturalmente, ricalcano la
distribuzione geografica del grande Capitale: le imprese più deboli restano
legate ai grandi committenti, che esercitano un controllo diretto sui ritmi, i
costi e le innovazioni della produzione. In questo contesto, la cosiddetta
«guerra commerciale» tra Stati Uniti e Cina si rivela in larga parte una
finzione mediatica, mentre la vera battaglia si gioca più in basso nella catena
del valore – tra imprese cinesi, taiwanesi, sudcoreane, e un tempo tra quelle
del sud-est asiatico, molte delle quali sono state schiacciate dalla concorrenza
cinese post-crisi asiatica.
Fondamentalmente, si tratta di una lotta competitiva intensa tra diverse
frazioni di capitale per appropriarsi di una quota maggiore del valore
complessivo. Questo processo genera inevitabilmente sovra-capacità nei settori
coinvolti, il che alimenta ulteriormente la competizione. Da qui derivano i
cambiamenti tecnici, i processi di consolidamento organizzativo e
delocalizzazioni industriali, tutte dinamiche che trasformano continuamente la
vita produttiva e riproduttiva di decine di milioni di persone. Alla base del
sistema produttivo, infatti, migliaia di piccole imprese operano con margini
minimi, spesso destinate a fallire. Le poche che sopravvivono lo fanno
ristrutturandosi rapidamente: investono in tecnologia, meccanizzano
l’assemblaggio, tagliano personale, delocalizzano e puntano a innovazioni
organizzative per restare competitive. Alcune riescono a scalare la gerarchia
globale fino a diventare conglomerati con un potere monopolistico proprio.
Marx descriveva questo tipo di conflitto inter-capitalista come una lotta tra
“fratelli ostili” che si dividono il bottino. È una definizione estremamente
efficace, perché coglie sia la realtà del conflitto, sia il fatto che si tratta
comunque di una contesa interna alla stessa classe. In ultima analisi, questi
capitali condividono un interesse di classe comune: sono loro ad appropriarsi
del valore, non coloro che sono costretti a produrlo. Ci auguriamo, chiaramente,
che questi segmenti di capitale dovranno un giorno pagare un prezzo estremamente
alto di fronte alle spinte di classe che si articolano nelle tensioni interne al
rapporto tra la classe operaia della «fabbrica mondo» e la gerarchia del comando
nazionale e internazionale: è, questa, una partita fondamentale che si gioca
tutta all’interno delle «fabbriche globali» (confronta «Lotta di classe in
Cina»).
Quello che osserviamo lungo le catene globali del valore è quindi una lotta
simultaneamente competitiva e cooperativa, in cui ogni impresa, così come ogni
blocco di capitale (settoriale, regionale, nazionale, ecc.), è al tempo stesso
dipendente dagli altri e in competizione con essi. Tuttavia, tutti condividono
un interesse fraterno di classe, soprattutto quando si tratta di disciplinare la
forza lavoro e garantire che le infrastrutture fondamentali del mercato
continuino a funzionare senza intoppi.
A livello globale questo processo, lungi dal risolvere i problemi del sistema,
li aggrava: aumenta la sovrapproduzione, riduce i tassi di profitto di ogni
settore e intensifica la pressione a ridurre i costi, generando una spirale di
competizione permanente. Il risultato è un’economia globale strutturalmente in
tensione, dove l’emergere di nuovi centri produttivi non smantella l’egemonia
americana, ma la riorganizza su nuove basi, attraverso nuove forme di delega,
controllo e dipendenza. Nonostante alcuni segmenti di capitale asiatico abbiano
acquisito un peso crescente nella catena globale del valore, rimangono infatti
strutturalmente subordinati alle grandi imprese transnazionali con sede nei
centri imperiali del capitalismo avanzato. Sebbene la crescita dimensionale
consenta una maggiore capacità di negoziazione, il rapporto resta quindi
fondamentalmente asimmetrico: la forza contrattuale è sempre mediata dal
controllo che il capitale centrale statunitense esercita sull’accesso al
mercato, alla tecnologia, al credito e alle infrastrutture logistiche. Questa
dinamica produce un’apparente contraddizione: la progressiva decentralizzazione
del potere produttivo verso nuovi nuclei regionali di capitale – soprattutto in
Asia orientale – si accompagna al mantenimento dell’egemonia da parte del
capitale monopolistico transnazionale radicato negli Stati Uniti e nei suoi
alleati.
È per questo che, forse, prima di parlare di fine dell’egemonia statunitense o
di transizione egemonica verso la Cina bisognerebbe provare a porsi il problema
nei termini di una riarticolazione del progetto egemonico: una nuova fase della
governance imperialista in cui le funzioni del comando vengono sempre più
delegate, ma senza cedere realmente il controllo dell’accumulazione. L’egemonia
si esprime come governance transnazionale della produzione, sostenuta da
un’infrastruttura finanziaria e militare ancora relativamente saldamente
controllata dall’imperialismo statunitense.
Crisi e ristrutturazione del progetto imperialista
Come nei cicli storici precedenti, anche questa configurazione instabile genera
frizioni e lascia intravedere la possibilità di futuri slittamenti egemonici. Al
di là della retorica del declino e delle fantasie multipolari, non si intravede
però (ancora?) all’orizzonte una trasformazione strutturale di questo ordine. Il
dollaro resta il pilastro delle transazioni globali, le istituzioni finanziarie
statunitensi hanno ampliato la loro sfera d’influenza, e l’apparato militare
americano mantiene un certo vantaggio strategico.
Tuttavia, come dimostra la guerra in Ucraina, l’esercito USA non è più la
macchina imbattibile capace di imporre «deterrenza» e, nel caso, provvedere ad
una sicuramente vittoriosa «pronta risposta». Basti pensare al fatto che il
Corpo dei Marines, la fanteria d’assalto dell’esercito statunitense, ha
introdotto il suo primo programma di addestramento e combattimento tramite droni
solo pochi giorni fa, con una reazione che appare essere esageratamente lenta e
tardiva rispetto alla proliferazione di questa forma di guerra meccanizzata e
impersonale e all’utilizzo di droni da combattimento su ormai tutti i fronti di
guerra globali, dall’Ucraina a Gaza fino al Kurdistan. In questo senso, una
certa (paventata o reale) debolezza militare si esprime, come abbiamo visto con
lo sganciamento statunitense dal pantano ucraino, con una forma delegata di
dominio, in cui il potere imperiale agisce per interposta persona e tende a
ridurre al minimo la sua esposizione diretta in termini economici e di vite
umane, mobilitando al suo posto quei soggetti regionali subordinati come Europa
ed Israele per gestire crisi e conflitti. Così, l’ordine imperialista globale si
riorganizza decentrando le operazioni ma mantenendo il controllo strategico
sulle leve fondamentali dell’accumulazione, della moneta e della forza.
La politica dei dazi introdotta sotto la prima amministrazione Trump – in buona
parte mantenuta e ristrutturata sotto Biden ed adesso duramente riconfermata dal
governo Trump II – deve essere letta non tanto come un ritorno al protezionismo
in senso classico, ma come una risposta reattiva e contraddittoria a queste
trasformazioni interne alla stessa architettura imperiale globale. In un momento
in cui il capitale transnazionale è ormai largamente de-territorializzato e
interdipendente, l’imposizione di barriere commerciali rappresenta una forma di
disciplinamento interno a questa catena della produzione planetaria che gli
Stati Uniti non controllano e comandano più interamente, ma da cui continuano a
trarre profitti fondamentali. I dazi non mirano tanto a difendere l’industria
statunitense, quanto a rallentare l’avanzamento tecnologico e la scalata di
segmenti di capitale asiatico – in particolare cinese – che stanno minacciando
la rendita monopolistica delle imprese occidentali nei settori strategici come
semiconduttori, batterie, telecomunicazioni e green tech: basta pensare al ruolo
decisivo che hanno ricoperto i segmenti di capitale legati alla Silicon Valley e
all’industria dei semiconduttori all’interno della campagna elettorale di Trump
e delle operazioni di lobbying che hanno convinto il neo-presidente a imporre
con tanta durezza i dazi di marzo, scavalcando in termini di importanza il ruolo
che invece avevano avuto le lobby del petrolio nella campagna elettorale
trumpiana del 2016.
In questo senso, si tratta di una politica di contenimento economico, ma agita
nel contesto frammentato di un mercato mondiale dove il capitale statunitense
dipende esso stesso dalle reti che intende ostacolare. La logica dei dazi
riflette questa crisi e necessità di ristrutturazione del comando imperiale
statunitense sul ciclo globale del valore: invece di rafforzare un modello
produttivo interno, finisce spesso per incentivare ulteriori processi di
delocalizzazione verso regioni meno visibili del sistema, come il Vietnam, il
Messico o l’Europa orientale, generando nuovi poli semi-periferici di
accumulazione subordinata.
Allo stesso tempo, i dazi servono a ricomporre il consenso interno all’egemonia
statunitense, non attraverso una reale redistribuzione della ricchezza e un
aumento dei salari diretti ed indiretti, ma tramite quella tattica
consustanziale al progetto imperialista di costruzione simbolica di un “nemico
esterno” di cui abbiamo già parlato, e della necessità di una politica di unità
nazionale tesa a fermarne l’espansione, espansione che, si dice, avrebbe come
conseguenze l’impoverimento massiccio della società statunitense in termini
materiali e la fine del «modo di vita americano» in termini culturali.
Così, l’offensiva commerciale trumpiana si inserisce in questa dialettica
marxiana tra cooperazione forzata e competizione distruttiva tra capitali. Le
aziende americane continuano a trarre valore dalla cooperazione con fornitori e
subappaltatori asiatici, ma al contempo sostengono – o sono costrette a
sostenere – una guerra commerciale che ha effetti devastanti sui margini della
filiera, soprattutto nei suoi anelli più deboli. Il protezionismo odierno è
quindi una ristrutturazione coercitiva attraverso cui il centro imperiale tenta
di riaffermare una supremazia che ormai non è più garantita dalla sola fluidità
dei mercati. Come già avvenuto in altre epoche di crisi egemonica, la guerra
commerciale rappresenta un tentativo di rinegoziare le gerarchie del sistema
mondiale, senza però risolvere le contraddizioni strutturali dell’accumulazione
globale: finisce anzi spesso per esasperarle, aprendo nuove faglie tra i blocchi
di capitale e moltiplicando le tensioni inter-imperiali.
SECONDA PARTE
COSA BOLLE IN PENTOLA
In questo enorme intreccio di contraddizioni e complessità sembra mancare
all’appello, almeno in occidente, una variabile importante: i movimenti sociali
e popolari. Si ha questa forte impressione che qualcosa ribolla dentro i settori
proletari, ma questo qualcosa non assume (per il momento?) delle forme sociali e
politiche esplicite, spesso si disperde in rivoli di confusione, delega e
rimozione.
Esiste uno “strano paradosso” all’interno della soggettività che si è prodotta
nella “fase neoliberale”. Nel tentativo di socializzare ogni cosa al mercato il
neoliberismo ha generato una condotta ultraindividualistica in cui l’eventuale
rapporto con ogni tipo di comunità viene visto solo come un rapporto
opportunistico da cui trarre beneficio. In particolare in Europa, ma in un certo
senso anche negli Stati Uniti questo processo ha rotto l’identificazione con
ogni tipo di idea comunitaria, che essa sia la patria, la nazione, una
religione, la famiglia, la classe. In poche parole il neoliberismo ha posto
l’individuo davanti ad ognuna di queste istituzioni sociali. Adesso il paradosso
è che l’occidente si trova sprovvisto di idee-forza per mobilitare le masse
verso la guerra. Se la gente non scende in piazza perché non crede nell’azione
collettiva, tanto meno è disposta ad andare alla guerra per dei concetti
astratti e delegittimati. Può fare il tifo, può persino essere d’accordo con la
guerra, ma purché non debba andare sul fronte in prima persona. Persino sulla
linea del fronte in Ucraina osserviamo questo paradosso all’opera: se si guarda
al piano della narrazione al netto di un consistente manipolo di nazionalisti di
ultradestra fortemente ideologizzati la propaganda non è riuscita a trovare
altri appigli per disegnare una “guerra di popolo” contro l’invasore. Recenti
sondaggi mostrano una situazione apparentemente schizofrenica: mentre una parte
consistente della popolazione rimasta sul territorio ucraino ha più fiducia
nell’esercito che nell’establishment politico, questa stessa popolazione è
ostile all’arruolamento di massa e pensa che la guerra non dovrebbe riguardarla
in prima persona. Queste considerazioni possono apparire sconfortanti: come
pensiamo di mobilitare le masse contro la guerra se queste sono chiuse nel loro
privato? Ma l’ipotesi che facciamo è proporre un nuovo paradosso: per difendere
la propria individualità dalla minaccia della guerra, i proletari, qui in un
senso molto largo, saranno costretti a ragionare di nuovo nei termini
dell’azione collettiva, ed è dentro questo processo che potrà svilupparsi una
contro-soggettività che progressivamente sia in grado di maturare in nuove
identità collettive.
L’effervescenza giovanile dei tempi recenti scavalca i confini del nostro Paese
e si manifesta in maniera piuttosto inedita, anche in contesti e territori di
non scontata attivazione. Pensiamo alla mobilitazione partita nel cuore
dell’impero mossa proprio dalla necessità di esprimere la propria solidarietà
alla Palestina. Gli scorsi mesi hanno definito una nuova fase in cui l’idealismo
più puro si è scontrato con le contraddizioni del reale spingendo centinaia di
migliaia di giovani nel mondo a mobilitarsi. Non soltanto in occidente, o tra
chi si riconosce socializzato come tale, anzi, guardando a territori molto meno
mediatizzati o raccontati come l’Africa possiamo attestare una nuova generale
ripresa dell’attivazione giovanile che, superati i temi del panafricanismo degli
anni post indipendenze, ritrova la necessità di incontro e di riaggiornare
griglie di lettura marxiste. Seppur non ve ne sia traccia nel dibattito
occidentale sono anni di ebollizione in Africa, di convegni antimperialisti e
internazionalisti, di nuove identità che ricompongono istanze materialiste e
islam. Vediamo anche come la questione coloniale si imponga e venga scomposta a
livello effettivo: seppur con grandi e profonde contraddizioni al loro interno i
movimenti anti-francesi verificatisi in Africa sub sahariana degli ultimi tempi
indicano una misura colma. Possiamo chiederci se siamo di fronte alla
possibilità di un nuovo internazionalismo che, a partire dalle attivazioni
territoriali giovanili, travalichi i confini nazionali e che faccia
dell’opposizione alla guerra e al colonialismo una bandiera di resistenza? I
movimenti per la Palestina hanno sottolineato in maniera precisa che la
resistenza dei popoli oppressi è in grado di indicare itinerari di emancipazione
anche alle nostre latitudini.
Un’altra linea di possibilità è data dall’unica mobilitazione tendente alla
massa della nostra epoca, ossia quella delle donne contro la violenza di genere.
All’acuirsi della crisi sociale, e in tempi di guerra il dato certo è il
peggioramento delle condizioni di vita oltre all’insensatezza del vivere,
corrisponde un aumento esponenziale della violenza degli uomini sulle donne.
Assistiamo dunque al definirsi di un campo preciso in cui collocarsi, in cui
leggere possibilità e spazi in cui una soggettività che mette in campo delle
rigidità si sta strutturando in una vera e propria lotta per la vita, maturando
una coscienza non scontata che va maneggiata con cura per non farla incontrare
con i limiti del purismo.
La guerra apre all’aggressione sui territori e alla ridefinizione di questi in
base al loro grado di utilità nell’estrazione di valore per la messa a profitto.
Negli ultimi decenni abbiamo visto come la lotta per la difesa di un territorio
contro una grande opera abbia portato alla crescita e allo sviluppo di un
movimento tra i più longevi della nostra penisola. Oggi assistiamo alla
ristrutturazione dei territori, in particolare al di fuori delle metropoli,
nell’ottica di sancirne la disponibilità infinita per garantire la crescita e la
produzione di energia, fondamentale per il riarmo e per l’innovazione
tecnologica, utile anch’essa al riarmo. Queste faglie hanno aperto un terreno di
iniziativa e rigidità soggettiva importante che non scende a patti con le
pallide compensazioni ma anzi, riporta una forte anti-istituzionalità nelle
situazioni in cui si trova ad agire. Ceto medio impoverito che si trova
sacrificato in nome della difesa di una patria alla quale non si sente di dovere
niente. Questo sentimento è coincidente con il rifiuto di una guerra, o più
guerre, con il rifiuto di privilegiare la produzione e il “progresso” in nome
dello sviluppo a scapito della conservazione e della tutela dei territori in cui
si abita. La delusione della sinistra considerata lontana anni luce dalle reali
esigenze, lo svuotamento tangibile della proposta democratica, la fine della
credibilità delle destre populiste che non si discostano nemmeno di facciata
dalle indicazioni dei signori della guerra e dai partiti che impongono lacrime e
sangue dall’alto dello scranno europeo, completamente disconosciuti e additati
come responsabili, sono l’hummus sul quale si possono innestare processi di
attivazione.
Oggi, a fronte dell’accelerazione data dall’approvazione del Piano di Riarmo
europeo, dalla politica estera di Trump, dalla guerra commerciale e dal
rinnovato fallimento delle ipotesi conservatrici che coincidono con l’ormai
esplicita e sfrontata scelta di campo delle politiche europeiste e cosiddette
progressiste, si riapre uno spazio politico che sta venendo in prima istanza
cavalcato da quelle forze politiche che più fanno lo sforzo di avvicinarsi alle
istanze popolari, pensiamo alla compagine che rappresentano le forze cosiddette
di “sinistra”, con sicuramente genuina volontà di praticare una possibilità di
massa contro il riarmo e contro la guerra ma che scontano il limite insito di
rappresentare un’alternativa politica che non ha la forza di essere credibile
per la massa. Questo non significa che non siano da considerare significative le
100mila persone in piazza con Conte, coscienti dell’unico problema di quella
piazza, ossia la chiamata di un partito che ha già tradito, ma vuol dire che
occorre avere la capacità di allargare lo spazio e ricomporre su un piano
generale tutte queste opzioni. Gli scioperi generali e la mobilitazione per il
rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici e una, seppur parziale e
ancora troppo limitata, disponibilità all’iniziativa dei sindacati come la FIOM
e altri pezzi dei confederali, indicano un’altra strada che si apre in assenza
di risposte ai lavoratori e lavoratrici che conoscono sin da ora quale sarà il
loro destino. Nelle parole vuote della riconversione industriale verso il Green
Deal e l’elettrico europeo si nasconde nemmeno troppo velatamente il semplice
rimandare una crisi profondissima che non vedrà soluzioni intermedie né alcuna
mediazione possibile.
CREPACCI
Se sul piano sociale assistiamo ai primi promettenti, per quanto ristretti,
cenni di mobilitazione, sul piano della politica istituzionale sono in corso di
ridefinizione assetti e paradigmi. Si vanno strutturando nuovi campi che
ridefiniscono quelli precedenti. In termini generali la fase precedente era
rappresentata dai commentatori mainstream come uno scontro tra democrazie ed
autoritarismi. Questa mistificazione ideologica è andata incontro ad una
mutazione con il sorgere del trumpismo, oggi è ridefinita in una competizione
tra liberali e la cosiddetta internazionale sovranista. Ma anche questa visione
soffre di idealismo come possiamo ben vedere in questi giorni.
Sia il quadro liberale che quello sovranista sono molto meno solidi di quanto
vengano rappresentati. I sovranisti finché hanno rappresentato una forza
d’opposizione a livello globale hanno goduto dei benefici di presentarsi come
qualcosa di nuovo e hanno potuto mostrare unità d’intenti su temi di “cultural
war” come le migrazioni, la lotta contro il woke, i diritti LGBTQ+, la sicurezza
percepita ecc… Ma ora che governano in diversi paesi occidentali collocati
differentemente all’interno delle catene del valore capitalistico questa unità
non è più così scontata. L’equilibrismo e l’imbarazzo del governo Meloni
rispetto a Trump ne è un’evidenza. Dall’altro lato il campo liberale, sconfitto
quasi ovunque, ma ancora in grado di pesare nei processi politici, è in uno
stato di confusione. Si possono intravedere almeno tre movimenti diversi: chi si
copre a destra scimmiottando i programmi sovranisti nella speranza di evitare il
sorpasso, chi vuole continuare il business as usual convinto che presto o tardi
le trappole piazzate qui e là riusciranno a scardinare il trumpismo e chi
momentaneamente cerca un timido rinnovamento appropriandosi opportunisticamente
di battaglie e visioni dei movimenti sociali.
Se ci si attiene all’Europa più prosaicamente il punto di frattura politico del
quadro istituzionale borghese oggi ci pare sia tra chi pensa che sia ancora
fruttuoso, e che si debba ulteriormente ampliare, il rapporto di dipendenza con
gli USA accettando la “cura da cavallo” trumpiana con qualche concessione e chi
pensa che sia ora di guardare altrove, ad un ruolo dell’Europa un po’ più
indipendente sul piano economico e politico con un riavvicinamento alla Cina ed
una de-escalation con la Russia. I primi si immaginano una dinamica in cui
l’Europa diventa una sorta di “Impero d’Oriente” (immaginiamo che il parallelo
con l’antica Roma ecciti i think tank conservatori, ma in realtà ci offre anche
una utile assonanza con la tendenza al declino egemonico imperiale rispetto
all’idea di una transizione egemonica tra USA e Cina che è più che altro
propaganda) subordinato agli interessi ed al mercato statunitense, ma con una
sorta di “delega” nella difesa militare dei “confini”. I secondi invece
ragionano sulla possibilità che sorga un nuovo ordine multipolare in cui la
ridefinizione degli assetti internazionali apre nuove possibilità economiche e
politiche. In mezzo vi è una strada lastricata di illusioni tra chi pensa che in
questo contesto possa sorgere un qualche tipo di Europa politica e chi vorrebbe
farne un vero e proprio polo imperialista autonomo. Pura propaganda.
Queste fratture hanno delle ricadute concrete anche sul teatrino politico
italiano. Le manovre di avvicinamento tra Calenda e Meloni, il riposizionamento
di Renzi, la collocazione del M5S, l’ennesima crisi d’identità dentro il PD: la
versione all’italiana dei rimescolamenti dovuti al cambio di paradigma.
I posizionamenti di cui sopra sono in parte il riflesso di una borghesia, quella
italiana, che si trova stretta tra la nuova politica economica statunitense e la
forte integrazione nella catena del valore tedesca. Germania, Stati Uniti e
Francia sono i principali paesi per esportazioni con circa un valore di 50
miliardi a testa. E’ evidente che in un clima di guerra economica i diversi
interessi delle differenti filiere si inaspriscono.
Nessuna di queste visioni porta con sé un qualche tipo di ridefinizione dei
rapporti sociali interni allo spazio europeo, ma mentre la prima ci conduce ad
essere inevitabilmente un’appendice bellicista degli Stati Uniti con costi
sociali, economici e politici enormi, la seconda può generare proficue e
profonde contraddizioni che aprono spazi di possibilità per l’emersione di
agende diverse da quella dominante. Non è la nostra tazza di tè, ma può darsi
che dovremo dividere un pezzo di strada con chi si immagina uno sbocco
multipolare alla crisi. Dovremo farlo senza la puzza sotto il naso, perché in
questo brodo di coltura naviga anche un pezzo della “nostra parte” con cui se ci
muoviamo bene, se riusciamo ad essere credibili e pragmatici possiamo
condividere un orizzonte immaginativo differente.
Un’ennesima frattura nel campo storico neo-conservatore si dà con le élite del
Big tech. Questi moderni baroni del comando capitalista si trovano ad appoggiare
opportunisticamente alcune posizioni politiche sovraniste, costretti nel collo
di bottiglia del dover scegliere fra la globalizzazione e le sue dinamiche e i
suoi immaginari, e il doversi appoggiare alle dimensioni statali, in primis lo
stato USA, per poter beneficiare del monopolio della forza, impossibilitati, per
le dinamiche interne al loro sviluppo come corporation, a poter esprimere un
livello di autonomia sul campo militare.
Le accelerazioni e le fratture geopolitiche nello scontro inter capitalista
aprono la strada ad una nuova corsa all’oro per il monopolio sull’uso e lo
sviluppo dell’intelligenza artificiale. Questo campo apre un orizzonte di
riflessione nuovo per le soggettività militanti sulla tecnoscienza e il suo uso
controinsurrezionale preventivo, che viene sviluppato dalle compagini statali
per disinnescare le possibili fratture che muoverebbero ipoteticamente verso uno
scontro di classe e la guerra civile come alternativa alla guerra
intercapitalista. Il genocidio in corso a Gaza e la Resistenza Palestinese sono
un monito terribile per il futuro delle forme di contrapposizione al sentiero
verso la barabarie intrapreso dalla storia del capitalismo odierno. Un nuovo
paradigma del potere si afferma reggendosi sull’uso tecnoscientifico
reazionario, capace di piegare e trasformare la guerra al cosiddetto
“terrorismo”, trasformandola in ancora di salvezza per il mantenimento delle
“democrazie occidentali”. Cittadelle ultra tecnologiche in cui far vivere le
elite capitaliste capaci di militarizzare l’intera società e i rapporti sociali
per la produzione di merci e la mercificazione dell’umano, in cui la tecnologia
e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale diventano l’olio lubrificante della
macchina riproduttiva del dominio. Lo sviluppo di un sentiero nuovo, stretto fra
un ipotetico neo-luddismo e un altrettanto ipotetico contro uso operaio delle
macchine, si presenta sempre più chiaramente come precondizione per un
riemergere delle masse iper-proletarie come attori e per la costruzione di una
macro classe per sè, capace di esprimere una qualche forma di autonomia
effettiva ed intraprendere il sentiero che conduce alla fuoriuscita dal sistema
capitalista. Contro-sapere dei produttori, degli operai della fabbrica sociale,
come pratica materialista contro la razionalità strumentale-calcolante
industriale (Demichelis 2023), si intreccia alla possibilità e al pensiero
creativo di parte per la creazione di ipotetiche, ma necessarie, nuove forme
organizzative della classe. Più prosaicamente si potrebbe evidenziare quanto la
critica globale al dual-use del sapere universitario, mossa dal movimento in
solidarietà alla Resistenza Palestinese, sia intrecciata e consustanziale alla
possibilità di pensare un nuovo corso organizzativo dell’iperproletariato. Di
nuovo, come nella Comune, dal rifiuto dell’organizzazione del tempo e dei modi
della produzione capitalista, sorgono le precondizioni per una proposta di
contro-soggettivazione. Il programma di classe-parte trova spazio partendo dal
rifiuto profondo dell’uso mercificante della capacità umana, dandosi come unica
precondizione per l’affermarsi del contropotere.
DORSALI E DEPRESSIONI
Risalire la corrente e stare nelle contraddizioni è la regola aurea, le
dimensioni tratteggiate prima sono alcune di quelle più estese ed esplicite ma
ne mancano sicuramente alcune che ritagliano i loro spazi di possibilità nella
quotidiana lotta per la sopravvivenza. A uno sguardo attento non possono mancare
però i limiti di fronte ai quali non è opportuno chiudere un occhio facendo
finta che non esistano ma nemmeno pensare che siano ostacoli insormontabili. Ci
troviamo innanzitutto davanti a spinte che restringono il campo di agibilità, e
non parliamo dei dispositivi statali che impongono nuove leggi e nuove misure di
sanzionamento e disciplinamento, quanto più della tendenza
all’autorappresentazione e alla automarginalizzazione delle dinamiche di
movimento. La residualità di cui ci dobbiamo fare carico a livello generico e
generale ha da un lato favorito la strada a movimenti per il “nuovismo”,
tendenti alla purezza ideologica poco comprensibili per la massa proletaria e
dall’altro, stigmatizzato ciò che ancora di buono c’è delle esperienze di
autorganizzazione dal basso al di fuori delle sfere istituzionali. Non per
buttare via il bambino con l’acqua sporca, ma occorre trovare le giuste rigidità
per non rimanere inermi a fronte del dilagare di perdite di tempo. Il tema è
quale sia il significato che diamo al conflitto e all’ambizione di incidere
nella realtà. Sul piano oggettivo, i tentativi di accanimento da parte della
controparte e il solco tracciato per esempio dal decreto sicurezza, impongono
una seria riflessione che non lascia più spazio a chi avrebbe cercato una sponda
di dialogo o di compromissione con le forze dell’ordine, questa fase ridefinisce
e colloca ognuno al proprio posto. Ne possiamo quindi leggere un’opportunità per
immaginare nuove possibilità laddove ci siano delle istanze reali che si fanno
promotrici di esperienze di lotta, sgombrando il campo dall’autorappresentazione
fine a se stessa. La barbarie capitalista si traduce in violenza orizzontale
nella parte bassa della classe e questo pone gravi ostacoli alla ricomposizione
sociale e di classe, imponendo divisioni e fratture, paura e odio. Su questo
piano soltanto un lavoro di radicamento e internità può portare a risultati
concreti senza mai dimenticare quando operare delle forzature e delle messe a
verifica, per evitare di sonnecchiare nelle zone di comfort che ci
autoproponiamo e risvegliarci assediati da una società nichilista e
individualista in cui solo passaggi di rottura forti possono determinare un
cambio di passo. La rottura avviene di per sé ma anche con un costante lavorio
di fino che va messo in campo nelle militanze quotidiane all’interno dei
contesti sociali. L’arma a doppio taglio messa in opera dal capitalismo si può
disarticolare costruendo fiducia laddove la sfiducia dilaga, costruendo legami
sociali autentici laddove dilaga l’opportunismo e la strumentalità, costruendo
contesti di aggregazione genuini laddove dilaga il consumismo e la socialità
mediata dalle sostanze. L’ultima dimensione che rappresenta un ostacolo alla
ricomposizione e alla possibilità di contrapposizione è la dimensione
dell’informazione e della comunicazione. Da un lato, l’informazione mercificata
e servile alle dinamiche di potere apre le porte a nuove forme di informazione
che strutturano una vera e propria realtà parallela nella quale è molto più
semplice rifugiarsi in quanto elimina di partenza lo sforzo soggettivo che
occorrerebbe fare per porsi nell’ottica di trasformazione e non di delega.
Questo implica che sia sempre più difficile porsi come punto di riferimento nel
magma comunicativo e che si scontino limiti di carattere materiale, di
immaginario e di linguaggio; dall’altro lato, i rapporti sociali mediati dai
social network e dalle strutture virtuali hanno effetti quasi immediati nella
costruzione delle soggettività rendendo sempre più tortuoso il cammino per una
possibilità di controsoggettivazione. Le relazioni sociali mediate da questi
strumenti vengono completamente falsate da un mondo con nuovi codici, nuovi
riferimenti, nuovi paradigmi che assumono un vero e proprio grado di realtà con
conseguenze non indifferenti. La propaganda di guerra è un terreno
esemplificativo: la normalizzazione sui quotidiani nazionali dell’emergenza e
dell’allarmismo della guerra avviene a colpi di articoli su quanto gli italiani
siano affascinati dai bunker antiatomici di ultima generazione, dai reel su
instagram che spiegano come sopravvivere 72 ore con il kit dell’Unione Europea,
sulla plasticità di un volantino che dà disposizioni su come agire in caso di
attacco, di guerra o di cataclisma climatico. Ma ancora peggio è la retorica
dell’unico nemico che l’Europa dovrebbe fronteggiare e che in tre anni di guerra
in Ucraina ha portato a strutturare una narrazione completamente falsa atta
soltanto a garantire l’egemonia statunitense che ora si ritorce contro tutti
quelli che hanno pensato di valere ancora qualcosa nel gioco globale. E questo
ha portato alla domanda sociale di altri riferimenti e alla ricerca di nuovi
canali che, al momento, ci ha trovato completamente impreparati.
L’uso massiccio di reti di informazione sempre più chiuse e disciplinanti è
trasversale nella società e ne fortifica e cementa i rapporti di produzione.
Pratiche di rifiuto delle forme classiche del mass media sono subito ricondotte
in nuovi circuiti di mercificazione e ulteriore chiusura a possibili contro-usi
in senso operaio: la macchina informatizzandosi sempre di più diventa magica e
incomprensibile, nonostante i meccanismi di incorporazione del lavoro vivo che
la determinano siano gli stessi del passato nel profondo. Informazione del
governo e del dominio dei rapporti di produzione, gli accadimenti e i fatti
dello scorrere della società umana sono intrecciati in un meccanismo
mercificante digitale delle personalità, fondendosi insieme. La spinta delle
individualità all’autovalorizzazione viene indirizzata verso forme di
rappresentazione mediate dal digitale (nella sua forma più estesa) mercificando,
instupidendo, plasmando le soggettività. Per questo praticare oggi questo
terreno in maniera antagonista ci sembra sempre più essenziale, perché è capace
di incidere nel profondo. Fuori da qualsiasi dimensione velleitaria ci sembra
importante incominciare contro-percorsi nuovi su questo piano, partendo anche
dalle militanze, dalle nostre contraddizioni e esplorando possibili forme di
rifiuto tramutabili, anche in nuovi mezzi. Si aprono domande essenziali: è
possibile un contro uso collettivo se questo non è anche la somma di forme di
rifiuto e sottrazioni individuali dalle reti? Quanto del dibattito e della
formazione delle soggettività militanti è plasmato e disciplinato dagli stessi
meccanismi che costruiscono nella sfera dell’informazione le catene per il resto
degli individui? Quali sono le funzioni di questo tipo di infosfera nel segno
del controllo sociale? Nell’epoca dei dissing di movimento consumati su
instagram, ci sembrano questioni sostanziali.
ROMPERE GLI INDUGI
In conclusione, a fronte del complesso panorama all’interno del quale
navighiamo, proviamo a chiarificare un orizzonte al quale tendere
collettivamente. La prospettiva di iniziativa sul tema della guerra deve avere
alcune caratteristiche che sono oggi dirimenti: deve porsi il problema di essere
di massa offrendo una proposta nella quale tutti si possano riconoscere, deve
porsi il problema delle condizioni oggettive in cui si muove e si ristruttura la
controparte e, infine, indicare quest’ultima concretamente assumendo
contestualmente l’esigenza di un immaginario/di una proposta/di un “sogno” di
parte desiderabile. Come veniva descritto sopra, il partito della guerra è oggi
una dimensione che assume confini sempre più larghi ma allo stesso tempo ben
precisi, in quanto materialmente in questa fase le istituzioni politiche si
trovano costrette a posizionarsi a favore o contro il riarmo della società. Il
fantoccio di una comunità di intenti e di ideali di un’Unione Europea che sta
insieme soltanto per debolezza insita in un progetto vuoto è lampante. Allo
stesso tempo i partiti nostrani sono in grado di dire tutto e il contrario di
tutto, di schierarsi come bandiere al vento da un lato e poi dall’altro, finendo
di perdere anche quel briciolo di credibilità che l’opzione Meloni ha
rappresentato per una parentesi brevissima. Lo spazio politico che si apre oggi
è dunque un’occasione che non va sprecata.
La proposta deve tratteggiarsi a partire dalla necessità di ricomporre in una
dimensione larga tutti e tutte coloro che oggi non accettano una società in
guerra, indipendentemente dal livello di analisi geopolitica o dal grado di
purezza ideologica, dobbiamo essere in grado di riconoscerci in un contesto
comune, ossia quello che vuole interrompere la dinamica di riarmo e
militarizzazione della società perché non ci si vuole sacrificare né per Trump
né per Von Der Leyen. La guerra oggi ha molte facce: la guerra quotidiana alle
donne, la guerra alle soggettività in formazione, la guerra ai territori che
vengono votati al sacrificio energetico, la guerra ai lavoratori e lavoratrici,
la guerra a chi sta venendo additato come soggetto “deviante”. L’uso di
categorie tipiche di metà ottocento per costruire il nemico interno – il nero
stupratore, il maghrebino rapinatore, il giovane criminale (di strada e dei
movimenti) – viene sostanziato dalla moltiplicazione e accelerazione delle
norme: il decreto sicurezza, il decreto Caivano, i tentativi di associazione a
delinquere ai movimenti sociali e ai sindacati di base, le misure come la
sorveglianza speciale, l’avviso orale, il foglio di via, il daspo urbano. Ciò
dimostra l’oliatura della cinghia di trasmissione tra retorica della sicurezza e
preparazione di un terreno disponibile ad entrare in guerra. Perché, nonostante
il raffinato sviluppo della tecnologia di guerra, le guerre vanno fatte con gli
eserciti. Eserciti di ricercatori precari pronti a produrre l’arma più
intelligente, eserciti di giovani atomizzati pronti a accoltellare il coetaneo
per un litigio, eserciti di uomini pronti a uccidere le mogli, le madri, le
compagne di classe perché non sufficientemente sottomesse.
Se non si coglie il nesso profondo dell’esigenza del capitale, in crisi, di
ristrutturazione della società affinché sia pronta alla guerra e l’occasione che
si apre, data dall’adesione a un’ipotesi che non è reazionaria, ma anzi di segno
opposto, sempre più trasversale nella società, non saremo in grado di fare una
scommessa all’altezza. Al di là degli ideali, occorre rendere immaginario comune
il programma implicito della composizione e assistiamo, molto spesso senza la
capacità di esserci, a un proliferare di attivazioni dal basso, spurie magari
confuse che esprimono rigidità, che possono fare la differenza. Questo perchè a
mobilitarsi contro le molteplici sfumature con cui si articola la guerra nelle
dimensioni della vita produttiva e riproduttiva a livello generale ci sono
persone che sono disponibili ad aderire a un’opzione autonoma, popolare,
radicale nel senso più profondo del termine. La radicalità che va colta e
amplificata è la capacità di mettere a critica il sistema capitalistico a
partire dai livelli bassi e, al contempo, il bisogno di saldare un ragionamento
complessivo che abbia la forza di mettere in discussione i livelli alti. La
potenza che rappresenta questa opportunità è ciò che può permettere un salto di
qualità che tenda alla mobilitazione di massa.
Di seguito una sintesi di quanto uscito dalle due ricche giornate di convegno
nazionale No alla Servitù energetica tenutosi a Livorno il 29 e 30 marzo scorsi.
Prossimo appuntamento a metà settembre!
INTRODUZIONE & OBIETTIVI DEL CONVEGNO
Il momento di incontro nazionale è nato cogliendo la necessità trasversale di
smascherare le false narrazioni sulla cosiddetta transizione verde e svelare gli
inganni utilizzati dalla controparte che, sulla base della necessità di
contrastare il cambiamento climatico, legittima l’aggressione sui territori. In
particolare, individuiamo due inganni principali: la transizione verde è
promessa disattesa per il risparmio in bolletta dei consumatori ; la transizione
verde avverrà con l’abbandono delle fonti fossili ricorrendo a energie come il
nucleare in quanto energia considerata sostenibile.
Ci siamo dunque posti alcuni obiettivi:
1. CONTRASTARE UNA RETORICA figlia della sinistra, paternalista e fintamente
progressista – che ben viene espressa dalla logica del tav ma che oggi
vediamo espandersi su tutti i territori e relativamente a ogni genere di
progetto – e la strumentalizzazione delle destre sovraniste che,
appropriandosi delle istanze popolari, cercano di cavalcarle senza trovare
reali soluzioni. Ciò che deve essere rimesso al centro è la volontà popolare
di decidere e riprendere potere sui propri territori, sulla gestione stessa
delle risorse, in tutte le dimensioni dell’esistente ma, prima fra tutte, le
sfere che riguardano la possibilità stessa della riproduzione sociale:
quindi l’energia e il cibo. Dietro tutti i nostri no ci sono tanti si, il
punto è collocarsi sul terreno della contesa ed essere in grado di
conquistare un orizzonte di sovranità energetica e alimentare che sia il
prodotto di un’altra visione dell’esistente, definita dai principi
dell’equità, della giustizia sociale e climatica e della sostenibilità;
2. CONTRAPPORSI E BLOCCARE materialmente l’aggressione sui territori, tenendo
in conto la dinamica di frammentazione sui territori dei progetti e degli
impianti energetici: questi molto spesso coinvolgono territori rurali,
spesso poco vissuti e con pochi spazi di aggregazione. La necessità è quella
di stimolare aggregazioni sub-territoriali e di organizzarsi collettivamente
per interrompere i flussi del capitale sui nostri territori, supportandoci
per avere un ruolo di blocco nella circolazione delle merci interrompendo la
catena del profitto;
3. COSTRUIRE UNA FORZA COMUNICATIVA che sia in grado di restituire la
complessità dei ragionamenti che portano a maturare l’opposizione sui
territori, perché la necessità è quella di uscire dal giogo
dell’informazione mainstream che si pone in maniera infantilizzante e che
dipinge in maniera grottesca le attivazioni sui territori ma anzi, dare
valore ai saperi tecnici, scientifici, sociali, ambientali che provengono
dalle attivazioni dal basso.
La proposta di Confluenza si basa su questi tre principi cardine: il sapere,
l’iniziativa e l’aggregazione. Questa è la proposta che in occasione del
convegno è stata messa sul piatto, affinché, se fatta propria, si possa lavorare
in un’unica direzione riproducendola sui territori e accumulare una forza.
UNA SCOMMESSA RIUSCITA
Qualche parola va spesa in merito alla partecipazione che possiamo definire
importante e che ha visto coinvolti territori da nord a sud alle isole. E’ molto
difficile citare tutti ma ci proviamo, a partire dalla traccia dei contatti che
sono stati lasciati: partendo dalla Toscana, terra che ci ha ospitato, quindi
Livorno e la Val di Cornia ma anche Arezzo, Firenze, dal Mugello, Valmarecchia,
Calci, Pisa, ma anche dalla Calabria, da Scilla a Torino, passando da Roma, sino
a Brindisi, dalle Marche, dalla Sardegna passando per Isili, Selargius,
Oristano, Orgosolo e Nulvi, da Pesaro a Massarosa, da Messina a Pratomagno, da
Pizzone a Collesalvetti, da Palermo a Vada, da San Lorenzo in provincia di
Reggio Calabria a Bologna, a Prato a Cosenza sino alla Val Susa. Vorremmo anche
sottolineare la qualità del ragionamento e la tensione e l’ambizione a guardare
il quadro complessivo, non solo alla propria istanza, come elementi preziosi per
un ragionamento che è stato aperto con ottime premesse.
ANALISI DEL TERRITORIO DAL PUNTO DI VISTA OGGETTIVO
I numerosi interventi che si sono succeduti nella giornata di sabato hanno
sottolineato diversi e importanti aspetti che proviamo a riassumere qui di
seguito.
Innanzitutto si evince la volontà di una resistenza che superi il livello
locale, perché se i territori si trovano da soli la battaglia è impari. E’
necessario tenere in conto dei fenomeni di colonizzazione interna e creazione di
aree di sacrificio che molto spesso vengono individuate “fuori” affinché vi sia
una canalizzazione delle esternalità negative; viene evocata dunque l’esigenza
di una battaglia per un ritorno dell‘energia all’interno dei beni comuni. Allo
stesso tempo è importante tener conto dei tentativi di repressione messi in atto
(sanzioni pecuniarie spropositate, come viene riportato dai comitati che lottano
contro il progetto del ponte sullo Stretto di Messina ma che è il modus operandi
messo in campo da anni in Val Susa, senza dimenticare il recente Decreto
sicurezza) e approfondire le conseguenze e gli impatti dei progetti sui
territori. Per nominarne alcuni, ricorrenti e diffusi su tutti i territori
riportiamo qui un elenco: impatti sulla salute, sugli ecosistemi, sulla
biodiversità, sul consumo di suolo, sull’economia locale, sui legami sociali,
sul turismo, sui rischi idrogeologici, sul paesaggio, la privatizzazione, la
deforestazione, gli aumenti sulle bollette.
L’agricoltura è un tema centrale in quasi tutti gli interventi, abbandonata a
livello politico nazionale ed europeo, viene percepita come una categoria in via
di estinzione. In alcuni contesti quindi l’abbandono delle aree interne sommata
alla crisi agricola agevola dinamiche speculative per l’acquisto dei terreni
che, in aggiunta al poco ricambio generazionale e alla non redditività del
settore, incoraggia fortemente la vendita dei terreni e il conseguente
esponenziale allontanamento delle nuove generazioni. E’ pertanto indispensabile
tener conto delle esigenze economiche di chi è proprietario della terra, ma
anche delle pressioni esterne a cui sono soggette certe aree del Paese, in
questo senso è fondamentale tenere in considerazione gli intrecci tra politica e
mafie.
Di seguito gli interventi introduttivi che hanno aperto le sessioni di
discussione:
Angelo Tartaglia “Fabbisogno energetico nazionale” Elena Gerebizza di ReCommon
“Piano energetico nazionale”
ALCUNI CONCETTI CARDINE
* Il processo di trasformazione dei territori è irreversibile, non sarà più
possibile ripristinare ecosostenibilità in un territorio devastato: questo
significa che non ci sono compensazioni possibili;
* La controparte per agire sui territori mette in competizione interessi
diversi: occorre ingaggiare una riflessione sul rapporto uomo-natura e sul
rapporto metropoli-ruralità;
* La terra è fonte di reddito ed è fonte di identità, in questa fase storica è
la terra ad essere messa sotto ricatto;
* Impatti ecologici e sociali a causa degli impianti energetici coinvolgono
diversi fattori, in particolare ne vogliamo sottolineare alcuni
particolarmente allarmanti, come la perdita di terreni fertili, l’aumento
rischi idrogeologici, l’approfondirsi della crisi agricola, moltiplicazione
di parchi naturali a rischio;
* Povertà energetica: costruire una transizione democratica possibile dal basso
in una fase di guerra è fondamentale, per questo facciamo nostro lo slogan
“Tenetevi la guerra, ridateci la terra”
* Ci sono diverse controparti: le multinazionali private, le Regioni e il
Governo, su un livello ancora successivo vanno messe in discussione la PAC e
le direttive dell’UE
DI COSA ABBIAMO BISOGNO COLLETTIVAMENTE
1. Costruire e alimentare un ambito di ragionamento complessivo che superi le
istanze singole per andare nella direzione di solidificare un’analisi
politica organica all’altezza della fase che ci permetta di strutturare dei
rapporti di forza: deve essere un discorso di SENSO COMUNE;
2. Approfondire l’articolazione e il radicamento sui singoli territori per
avviare un processo di ricomposizione affinché la nostra proposta sui
territori sia quella credibile perché di buon senso e perché ancorata ai
bisogni e alle esigenze reali: ciascuno deve alimentare il PROCESSO
SOCIALE;
3. “Il movimento non solo parla, ma fa” abbiamo bisogno di essere gli ostacoli
che il capitale trova sul suo cammino, altrimenti si può prendere tutto:
occorre SCARDINARE L’INGRANAGGIO se possiamo essere sabbia per rallentare
ora dobbiamo, insieme, essere ghiaia per sradicare il meccanismo di
estrazione del valore per il profitto.
Per fare tutto questo bisogna partire dalle possibilità che vediamo per rendere
la “speranza possibile”, il quadro analitico ci serve per inquadrare come si
muove la controparte, non ci serve per rimanere nell’immobilismo, e per
anticipare le sue mosse.
3 PIANI DI FALSITA’ DA SVELARE CHE STANNO SOTTO LA DOMANDA INFINITA DI ENERGIA
CHE IMPLICANO 3 AMBITI DI INIZIATIVA POSSIBILE:
* In questa fase storica a chi serve e per cosa serve tutta questa energia: il
piano Rearm Eu indica la strada scelta dai governi, il riarmo e la
militarizzazione della società;
* La fame di energia deriva dalla necessità di affinare il livello di
sofisticatezza della ricerca tecnologica e digitale: la transizione digitale
ha bisogno di enormi quantità di energia;
* La risposta neoliberista alle emissioni climalteranti è da un lato la
compensazione che va a beneficiare i profitti delle aziende e, dall’altro, la
privatizzazione dei rischi favorendo un approccio dell’emergenzialità a
scapito di interventi strutturali.
Gli ambiti su cui dobbiamo agire sono 3:
* SPECULAZIONE ENERGETICA DA GRANDI RINNOVABILI
* MILITARIZZAZIONE E COLONIALISMO
* CONSUMO DI SUOLO
Paolo Cacciari “Proposte e prospettive”
LA PROPOSTA ASSUNTA DALL’ASSEMBLEA PREVEDE ALCUNE TAPPE, ANCHE MOLTO CONCRETE :
1. Approfondire il punto di vista comune attraverso l’allargamento degli
strumenti di cui Confluenza si è dotata: la rubrica CONFLUENZA sul sito
infoaut.org è lo strumento da usare per produrre e sistematizzare sapere di
qualità che derivi da un’inchiesta sul territorio a partire dalle
conoscenze, i rapporti, la messa a servizio di sapere tecnico e scientifico
in modo da sviluppare un ambito in cui si ragioni collettivamente e si possa
agire a partire da ciò che si sa e si conosce, per anticipare fenomeni e per
porre le condizioni di una posizione di forza. Inoltre, poniamo l’ambizione
di costruire un linguaggio e un immaginario che sia patrimonio delle lotte;
2. Alimentare i processi sui territori e tenersi in contatto attraverso una
MAILING LIST sulla quale è possibile segnalare i contributi da fare
circolare e/o pubblicare. Di pari passo avverrà la costruzione di una
MAPPATURA che individui i nodi centrali sui territori sui 3 ambiti di cui
sopra (a partire dalla mappa che segnala i presidi militari già esistente
messa a disposizione dal Movimento No Base) oltre a assumere il MANIFESTO DI
CONFLUENZA come un programma politico da riportare sui territori e
praticare;
3. Essere incisivi e interferire con l’aggressione sui territori: organizzare
un momento di INIZIATIVA e MOBILITAZIONE COLLETTIVA tenendo conto di tre
aspetti usciti dalla discussione: il rapporto città-campagna (dunque
privilegiare territori rurali dove sorgono impianti energetici o
sorgeranno); non vogliamo essere perimetrabili e vogliamo dimostrare che la
contrapposizione a questa aggressione non è un caso isolato (privilegiare
territori sul continente per evitare di contribuire alla narrazione che
vorrebbe la Sardegna “il caso”); organizzare e esserci in occasione di una
mobilitazione su un territorio specifico implica il rafforzamento di tutte
le lotte.
Abbiamo concluso lasciandoci con il PROSSIMO APPUNTAMENTO NAZIONALE DI
CONFLUENZA che sarà a metà settembre su un territorio ancora da definire
insieme. Sarà compito collettivo organizzare una due giorni di discussione e di
iniziativa su un territorio che si renderà disponibile in questo senso, laddove
c’è la necessità di dare un segnale che possa essere da esempio per altri.
Per iscriversi alla mailing list basta scriverci una mail a questo indirizzo
confluenza.info@gmail.com
In un mondo in cui comanda la prevaricazione e l’ipocrisia la morte di Papa
Francesco segna un passaggio politico della nostra storia.
Gli stessi ministri, capi di governo, commentatori tv, giornalisti che nei
prossimi giorni si sperticheranno nel dipingere il suo ricordo sono gli stessi
rimasti totalmente sordi all’unica indicazione chiara in merito alla guerra e al
genocidio in Palestina di cui, bisogna riconoscerlo, Papa Francesco è stato
altresì l’unico a farsi portavoce.
Fuori dalla retorica e dal romanticismo di cui la contemporaneità è imbevuta
quando si tratta di narrare qualsiasi fatto, non va offuscato il ricordo che il
cardinale Jorge Mario Bergoglio, origini piemontese, chiamato il “Papa degli
ultimi” fu arcivescovo di Buenos Aires e venne accusato di collusione con la
dittatura argentina che sterminò novemila persone. Poco dopo la sua elezione le
madri di Plaza de Mayo levarono la propria voce contro i media, impegnati a
ritrarre unanimemente un’Argentina in festa per l’elezione del nuovo Papa e
hanno ricordato come Bergoglio all’epoca della dittatura di Videla si fosse
rifiutato di riceverle perché rappresentava una Chiesa ampiamente collusa col
regime.
Nel corso del suo pontificato il papa ha avuto la capacità di porre l’attenzione
laddove il dibattito politico era assuefatto e silente. Nel 2013 va a Lampedusa,
ricoprendo uno spazio politico lasciato vuoto dalle istituzioni, in particolare
da una “sinistra” incapace di sintonizzarsi con le istanze sociali che, anche in
questo caso, lasció vincere a mani basse la partita sul tema dei migranti alla
Chiesa. Nel 2016 si reca in Chiapas, visita la tomba di Don Samuel Ruiz, ex
vescovo di San Cristobal vicino agli zapatisti e praticante della teologia della
liberazione. Con la sua seconda enciclica intitolata “laudato si” guadagna il
ruolo dell’unico critico del capitalismo neo-liberale al mondo. E ancora, nel
2019 incontra Greta Thunberg, proprio a sancire l’impegno per il clima in un
momento di forte effervescenza giovanile su questo tema.
Se papa Francesco è stato utile al mantenimento degli equilibri del potere al
livello generale in tutta la prima fase della sua storia ecclesiastica e
politica, il cambiamento repentino e le accelerazioni imposte dal 2020 in avanti
ridefiniscono il campo e i ruoli.
É un dato oggettivo che a rompere le ipocrisie sulle responsabilità della guerra
in Ucraina e della NATO sia stato il papa, oltre a essere l’unica istituzione
politica a riconoscere il genocidio in Palestina. La scorsa Pasqua lava i piedi
alle detenute del carcere di Rebibbia e parla di amnistia, in una fase di
governo in cui la guerra ai proletari si acuisce.
La realtà è che anche se ad assumere un posizionamento forte sulle questioni
bollenti dell’attualità sia stato il papa, nessun leader politico ha scelto di
dargli il benché minimo credito. A riprova del fatto che l’unico potere in grado
di influenzare chi sta nei gradi più alti della catena di comando sia sempre
soltanto il dollaro e ci sia sempre una sola egemonia da garantire.
Più in generale, va fatto un bagno di realtà e, senza paura di doverlo ammettere
e con estremo realismo, va anche detto che in questa fase di guerra e attacco ai
territori un certo tipo di cattolicesimo aperto ai movimenti sociali e che
condivide con noi la necessità di ragionare, seppur in altri termini, di
comunità in lotta di fronte all’individualismo imperante e alla legge del
profitto è un compagno di strada con cui poter immaginare alleanze strategiche.
“Niente di questo mondo ci risulta indifferente” è quanto più ci sembri
riassumere una lucidità di sguardo che di questi tempi è tutt’altro che
scontata. E che se anche viene dal papa va fatta propria, per essere all’altezza
della sfida.
Le notizie e le immagini che si susseguono in queste ore, ci parlano di una
valle alpina che non ha bisogno di grandi opere e nocività ma di interventi
strutturali che possano salvaguardare e mettere in sicurezza un territorio.
da notav.info
Situazioni come quella attuale in cui rii, fiumi e torrenti stanno esondando
ovunque e non si contano gli smottamenti, non possono più essere trattati come
emergenziali perché qui di emergenza (intesa come un evento inavvertibile e
inaspettato) non c’è proprio nulla: ci troviamo davanti alle conseguenze di una
crisi ambientale ed ecologica che è il frutto di politiche di gestione dei
territori che rispondono a leggi di sfruttamento utili solo al sistema economico
che ci governa.
Modelli di amministrare che sono stati perpetrati nel tempo senza mai mettersi
in ascolto rispetto alle proteste e alle istanze portate avanti dalle comunità
locali e che sempre hanno risposto a norme regolate dal profitto. Tutto ciò, in
un momento in cui, a livello nazionale e regionale, si discute di destinare i
fondi coesione alla difesa e al riarmo quale unica priorità per il partito della
guerra.
Diventa, dunque, necessario pretendere che le rivendicazioni dei singoli
territori acquistino centralità in un dibattito economico e politico basato su
modelli di sviluppo alternativi costruiti su un utilizzo consapevole del
ambiente che ci circonda.
In gioco c’è il futuro di tuttə noi!
Carcerazione domiciliare di due anni per il referente del sindacato in lotta Si
Cobas di Modena, Enrico Semprini, esponente anche della redazione di Radio Onda
d’Urto Emilia Romagna. Tale disposizione riguarda una condanna collegata alle
lotte No Tav e una per un’iniziativa antifascista a Modena.
A Enrico Semprini non è stato consentito di accedere a pene alternative alla
detenzione domiciliare per altre denunce relative alla sua attività sindacale,
con gli scioperi e le lotte svolte col sindacato di base al fianco di operai/e.
Enrico Semprini ai microfoni di Radio Onda d’Urto. Ascolta o scarica
Di seguito il comunicato di solidarietà del SI Cobas Nazionale:
AL FIANCO DI ENRICO RISPONDERE COMPATTI CONTRO LA REPRESSIONE
In queste ore è arrivato un ordine di carcerazione domiciliare di due anni per
il compagno di Modena, Enrico Semprini.
Tale ordine riguarderebbe una condanna collegata alle lotte No Tav ed alla
partecipazione ad alcune iniziative di solidarietà.
Il compagno non ha ottenuto di espiare la pena utilizzando i servizi sociali a
seguito delle denunce per gli scioperi e per l’attività svolta col nostro
sindacato al fianco di operai/e.
Da anni rispondiamo colpo su colpo all’arsenale repressivo che Stato e padroni
scagliano contro le lotte dentro e fuori i magazzini, che conduciamo senza
tregua evidenziando l’escalation repressiva in atto.
In particolare da mesi avevamo indicato nel ddl 1660 poi divenuto Decreto
Sicurezza uno strumento atto a colpire le lotte dei lavoratori e delle
lavoratrici e dei movimenti. Ne abbiamo avuto la plastica rappresentazione lo
scorso sabato alla manifestazione per la Palestina a Milano con l’attacco a
freddo al corteo e oggi con la detenzione domiciliare di Enrico.
E’ la “legge-manganello” da Stato di polizia con la quale il governo vuole
“regolare i conti” con le lotte operaie e tutte le realtà ed esperienze di lotta
in corso utilizzando tutti gli strumenti giuridici necessari per stroncare sul
nascere i futuri, inevitabili conflitti sociali.
La sempre più marcata tendenza alla guerra sul fronte esterno richiede sul
fronte interno un contesto sociale pacificato, e a questo “lavorano” tutti gli
apparati dello stato.
Solidarietà ad Enrico!!
S.I. COBAS NAZIONALE
Il ministro israeliano della Difesa Katz ha dichiarato oggi, mercoledì 16 aprile
2025, che “Israele non ha alcuna intenzione di permettere l’ingresso degli aiuti
umanitari nella Striscia di Gaza”.
Il blocco totale degli aiuti da parte delle autorità israeliane dura da un mese
e mezzo, mentre si avvicina il primo mese da quando, il 18 marzo scorso, è
ripreso il genocidio su larga scala con la rottura unilaterale della tregua da
parte di Tel Aviv. Solo oggi i raid israeliani sulla Striscia hanno ucciso più
di trenta palestinesi e ne hanno feriti un centinaio da sud, tra Rafah e Khan
Younis, fino a nord, attorno a Beit Lahia, dove oggi ci sono state oggi nuove
proteste contro il genocidio, l’occupazione e anche contro Hamas. Da parte sua,
il movimento islamico palestinese oggi ha fatto sapere di aver perso i contatti
con il gruppo a guardia del soldato israelo-Usa Edan Alexander dopo che l’Idf ha
lanciato un “bombardamento diretto” sull’area in cui il prigioniero è
detenuto. Tra le vittime di oggi la reporter Fatima Hassouneh, ammazzata nella
sua abitazione a Gaza city insieme a 10 membri della famiglia.
Le violenze sono quotidiane anche nella Cisgiordania occupata. Oggi ci sono
state due vittime a sud di Jenin, un 19enne e un 23enne, durante le proteste
contro l’abbattimento di diverse abitazioni. I video girati dai residenti
mostrano le ruspe e i soldati israeliani mutilare i corpi dei due giovani
uccisi. Un centinaio i palestinesi uccisi dalle truppe di occupazione – insieme
ai coloni – in West Bank dall’inizio del 2025. 40mila persone risultano invece
sfollate, in particolare tra Jenin, Tulkarem e Nur Shams, mentre raid e violenze
di esercito e coloni si susseguono in tutta la Cisgiordania.
Radio Onda d’Urto si è collegata, per la seconda volta, con attiviste e
attivisti italiani della campagna West Climbing Bank che si trovano in
Cisgiordania. Oggi, si sono spostati nell’area urbana di Betlemme, tra i campi
profughi di Dheisheh e Aida:
“Rispetto a due anni fa, le colonie nell’area urbana di Betlemme si sono espanse
in maniera inquietante e spaventosa“, commenta Norberto di West Climbing
Bank nella corrispondenza realizzata al termine della giornata. “Un villaggio
palestinese vicino a dove ci troviamo era conosciuto per la purezza delle sue
acque – racconta Norberto – ma da quando è stata costruita una colonia illegale
a pochi chilometri non dispone più di acqua. Ora dipende dalle forniture dello
stato israeliano o dalle cisterne sui tetti delle case”.
“I palestinesi con cui abbiamo avuto modo di parlare – prosegue Norberto nel
racconto – sono convinti della loro resistenza, ma allo stesso tempo
sono consapevoli di essere abbandonati a loro stessi da parte dei potenti e dei
governi del mondo”.
“Le persone ci raccontano però di una grande solidarietà internazionale e di
delegazioni che giungono da tutto il mondo. A quanto pare, quindi, i popoli
sostengono la causa palestinese mentre chi detiene il potere abbandona i
palestinesi a loro stessi“, conclude Norberto nella sua seconda corrispondenza
ai nostri microfoni dalla Cisgiordania occupata.
La corrispondenza dalla Cisgiordania occupata di Norberto, attivista di West
Climbing Bank, ai microfoni di Radio Onda d’Urto. Ascolta o scarica.
[Foto: West Climbing Bank]