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“Li hanno uccisi senza che muovessero un muscolo”: Esecuzioni sommarie, fame e sfollamenti forzati da parte dell’esercito israeliano nel Nord di Gaza
La squadra sul campo dell’Osservatorio Euro-Mediterraneo ha documentato strazianti episodi di uccisioni sommarie ed esecuzioni extragiudiziali di civili da parte di soldati israeliani, eseguite senza alcuna giustificazione. Fonte: English version Dell’Osservatorio Euro-Mediterraneo per i Diritti Umani – 17 novembre 2024Immagine di copertina: Il fumo si alza da un edificio residenziale dopo un attacco israeliano a Beit Lahia, nella Striscia di Gaza settentrionale, 1 novembre 2024 (AFP) Territorio Palestinese – L’Osservatorio Euro-Mediterraneo ha documentato decine di uccisioni deliberate e nuove esecuzioni sommarie effettuate dalle Forze di Occupazione Israeliane contro numerosi civili nel Nord di Gaza. Queste azioni fanno parte della recrudescenza in corso e del quadro più ampio del Genocidio perpetrato contro i palestinesi per oltre 13 mesi. Negli ultimi 43 giorni, l’esercito israeliano ha condotto la sua terza incursione e offensiva militare contro il Nord di Gaza e i suoi residenti, commettendo orribili atrocità. Tra queste, l’uccidere e il terrorizzare i civili obbligandoli a lasciare le loro case con la forza e sfollandoli al di fuori della provincia settentrionale di Gaza. Ciò costituisce uno dei più grandi casi di sfollamento forzato nella storia moderna. Tra le numerose atrocità commesse dalle forze israeliane, che vanno dal bombardamento di case con residenti all’interno, alle Uccisioni di Massa di civili sfollati nei rifugi e al bombardamento di raduni e veicoli, la squadra sul campo dell’Osservatorio Euro-Mediterraneo ha documentato strazianti episodi di uccisioni sommarie ed esecuzioni extragiudiziali di civili da parte di soldati israeliani, eseguite senza alcuna giustificazione. È stata documentata l’uccisione di Khaled Mustafa Ismail Al-Shafai, 58 anni, e del suo figlio maggiore Ibrahim, di 21, da parte delle forze israeliane. Sono stati assassinati all’interno della loro casa a Beit Lahia di fronte alla loro famiglia mercoledì 13 novembre 2024. Tamam Abdel Maqadmeh, 61 anni, un residente di Beit Lahia, ha condiviso i dettagli strazianti del crimine con il personale dell’Osservatorio Euro-Mediterraneo. “Le condizioni sono peggiorate in Viale Al-Shemaa a Beit Lahia, a causa dei bombardamenti dell’artiglieria pesante e dell’Aviazione. Di conseguenza, ci siamo trasferiti dalla nostra casa vicino alla clinica Al-Shemaa alla zona di Abbas Kilani nel mezzo di Viale Al-Shemaa. Sono andato a casa di mia sorella, che è sposata con un membro della famiglia Omar, così come mia sorella Haifa, suo marito Khaled Al-Shafai e i loro nove figli. Ci siamo riuniti nella casa a due piani; mia sorella sposata con la famiglia Al-Shafai, suo marito e i loro figli sono rimasti al piano terra, mentre io sono rimasto con la mia famiglia e mia sorella sposata con la famiglia Omar al primo piano”, ha raccontato Maqadmeh. “Mercoledì, le Forze di Occupazione Israeliane hanno iniziato ad avanzare nella zona in cui ci eravamo rifugiati. Siamo rimasti intrappolati in casa e meno di due ore più tardi, le forze hanno fatto saltare la porta e preso d’assalto l’edificio. Sono rimasto al piano di sopra con la mia famiglia, mentre mia sorella Haifa, suo marito Khaled Mustafa Ismail Al-Shafai, 58 anni e i loro figli sono rimasti al piano terra. Abbiamo sentito degli spari ma eravamo troppo spaventati per guardare e siamo rimasti aggrappati insieme in una singola stanza al piano di sopra. Nel giro di pochi minuti, i soldati sono entrati e ci hanno ordinato di evacuare rapidamente verso la zona orientale vicino allo stadio e alla scuola Abu Tammam di Beit Lahia”. Maqadmeh ha continuato: “Quando siamo scesi al piano terra, ho trovato mio cognato Khaled steso sul pavimento ucciso con due colpi di fucile all’addome, il sangue che gli colava. Il suo figlio maggiore, Ibrahim, 21 anni, era stato colpito alla testa. Sono rimasto sotto shock per un attimo prima che un soldato mi minacciasse di spostarmi altrimenti mi avrebbe ucciso. Eravamo circa 26 persone in totale. Mia sorella Hiyafa si era buttata sul marito e sul figlio, implorando di dire loro addio, ma i 12 soldati presenti si sono rifiutati. Abbiamo cercato di allontanarla perché continuava a dire: “Li hanno giustiziati davanti a me”. Siamo usciti di corsa dalla casa mentre un drone quadrirotore volteggiava sopra di noi, con circa 15 soldati di stanza intorno alla casa. Mia sorella continuava a ripetere: “Li hanno giustiziati davanti a me”. Mentre uscivamo, mia sorella ha raccontato che non appena i soldati hanno fatto saltare la porta e fatto irruzione, hanno immediatamente sparato a suo marito e a suo figlio mentre erano fermi sul lato della stanza. Li hanno uccisi senza che muovessero un muscolo”. La moglie della vittima ha detto: “Ci hanno ordinato di andarcene in fretta. Ho cercato di trascinare mio marito e mio figlio, ma si sono rifiutati di far avvicinare nessuno, minacciandoci con le armi per allontanarci. Questo è successo davanti ai bambini piccoli, quattro maschi e quattro femmine, che hanno assistito all’esecuzione del padre e del fratello davanti ai loro occhi”. Haifa e i suoi figli continuano a soffrire di gravi traumi psicologici, con Haifa che si rifiuta di parlare con chiunque. Al momento della documentazione di questa testimonianza, i corpi dell’uomo e di suo figlio si trovano ancora sul luogo della loro esecuzione, poiché la famiglia e le squadre di soccorso non sono state in grado di recuperarli. Migliaia di altri palestinesi intrappolati nel Nord di Gaza soffrono la fame e la paura. I feriti spesso non sono in grado di ricevere cure o addirittura di essere trasportati in strutture mediche, il che porta molti a morire lentamente a causa della mancanza di cure mediche salvavita. L’Osservatorio Euro-Mediterraneo ha documentato decine di vittime morte sotto le macerie dopo che le loro case sono state bombardate, poiché le forze israeliane hanno impedito alle squadre umanitarie di lavorare per 25 giorni consecutivi. A.J., 54 anni, il cui nome viene omesso per la sua sicurezza poiché si trova in una zona ad alto rischio, ha fornito una testimonianza sull’assedio, le tattiche di fame e le esecuzioni sommarie eseguite dall’esercito israeliano a Beit Lahia: “Negli ultimi 10 giorni, Beit Lahia è stata sottoposta dall’esercito israeliano a una vasta Campagna di rastrellamenti, costringendo le persone a lasciare le loro case e a recarsi in punti di raccolta specifici designati dall’esercito. L’esercito israeliano fa irruzione nelle case, arresta alcuni residenti e ordina ad altri di trasferirsi nella parte orientale della città, vicino alla scuola Abu Tammam. Attualmente, i residenti di Beit Lahia sono concentrati in tre rifugi adiacenti vicino allo stadio municipale di Beit Lahia: la Scuola Abu Tammam, la Scuola Professionale e la Scuola Superiore a Beit Lahia”, ha affermato. “Dormo all’ingresso della scuola Abu Tammam a causa del sovraffollamento nel rifugio. Mia moglie, che è stata gravemente ferita in precedenza, soffre di un grave peggioramento delle sue condizioni. È impossibilitata a muoversi, ma è obbligata a sdraiarsi sul pavimento a causa della mancanza di un letto, nonostante il suo estremo bisogno perché paralizzata. Ogni residente che tenta di tornare a casa per dormire viene preso di mira; la sua casa viene bombardata e vengono sparati colpi di artiglieria per costringerli ad uscire. Attualmente, non c’è cibo disponibile per le circa 5.000 persone che si sono rifugiate nelle tre scuole. Per procurarsi il cibo, gli sfollati rischiano di avventurarsi nelle loro case per recuperare le provviste rimanenti. Decine di coloro che hanno tentato di farlo non sono tornati, poiché sono stati giustiziati per strada”. Un palestinese della famiglia Hamouda che è riuscito a raggiungere la sua casa vicino alla rotonda occidentale e a recuperare un sacco di farina ha testimoniato: “Mentre tornavo, ho visto cani che sbranavano i cadaveri di cinque giovani uomini che giacevano sul ciglio della strada, persone che conoscevo dalle famiglie Zayed e Rajab”. Ha aggiunto: “Accanto a una delle vittime, c’era un sacco di farina. Sembra che l’abbia recuperato con successo da casa sua, ma l’esercito israeliano gli ha sparato mentre tornava al rifugio. La situazione alimentare nei tre rifugi è estremamente disperata. Tutto il cibo che riusciamo a procurarci dalle case vicine viene distribuito principalmente ai bambini, seguiti dagli anziani in porzioni più piccole. I giovani adulti ricevono, al massimo, una sola pagnotta di pane al giorno.” Ribadiamo che la riluttanza della comunità internazionale a intraprendere azioni decisive contro i Massacri di Israele nella Striscia di Gaza, in particolare nella parte settentrionale, la rende complice di questi Crimini e concede a Israele il via libera per intensificare il suo Genocidio. Ciò riflette anche un’indifferenza scioccante per la vita e la dignità dei palestinesi. Il sistema internazionale, tra cui la Corte Penale Internazionale, l’Unione Europea e vari organismi delle Nazioni Unite, non è riuscito collettivamente a raggiungere gli obiettivi e far valere i principi fondamentali su cui si fondava. Negli ultimi 13 mesi, hanno dimostrato un vergognoso fallimento nel proteggere i civili e fermare il Genocidio che Israele sta perpetrando contro i palestinesi a Gaza, un dovere che è al centro della loro missione ed esistenza. L’Osservatorio Euro-Mediterraneo invita le Nazioni Unite e la comunità internazionale a intervenire immediatamente per salvare centinaia di migliaia di residenti nella parte settentrionale di Gaza, fermare il Genocidio in corso da parte di Israele, imporre un embargo totale sulle armi a Israele, ritenerlo responsabile di tutti i suoi Crimini e adottare tutte le misure pratiche per proteggere i civili palestinesi nella Strisci Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
November 20, 2024 / InfoAut: Informazione di parte
Nuova Zelanda: migliaia di indigeni Maori assediano il Parlamento
Dopo poco più di una settimana, la marcia lanciata dal popolo Maori in difesa dei propri diritti è arrivata a Wellington. di Dario Lucisano, da L’Indipendente Ieri, martedì 19 novembre, decine di migliaia di neozelandesi si sono radunati davanti al Parlamento, dando vita a una delle più grandi proteste nella storia del Paese. Una folla imponente, stimata dalla polizia in oltre 40.000 persone, ha manifestato davanti alle istituzioni della capitale, dove all’inizio del mese è stato presentato un disegno di legge sui principi del Trattato di Waitangi, firmato 184 anni fa tra la Corona britannica e il popolo indigeno Maori. La proposta, ritengono i manifestanti, minerebbe i diritti degli indigeni Maori e rischierebbe di far regredire di decenni le relazioni razziali. Il disegno di legge, di preciso, mira a reinterpretare i principi del Trattato, inserendolo di fatto nella legislazione del Paese e rendendolo modificabile dall’intero Parlamento, a scapito degli organismi indipendenti che oggi ne regolano l’interpretazione. La hīkoi, “protesta pacifica” in lingua maori, tenutasi ieri a Wellington ha visto radunarsi fuori dal palazzo del Parlamento circa 42.000 persone. In occasione della manifestazione, molti Maori hanno deciso di vestirsi in abiti tradizionali, e la piazza del Parlamento è stata ricoperta da bandiere del popolo indigeno. Il progetto di legge, avanzato da Associazione Consumatori e Contribuenti (ACT), uno dei partiti di minoranza della coalizione di governo, era già stato discusso in Parlamento il 14 novembre; in quell’occasione, la seduta era stata interrotta da una parlamentare Maori, che ha strappato una copia del testo e messo in atto, assieme a diversi colleghi, una haka, la danza tradizionale del popolo indigeno. In occasione della prima votazione, la proposta è passata con il sostegno dell’intera coalizione governativa, ma sembra improbabile che essa venga approvata in via definitiva. In Nuova Zelanda, infatti, una legge deve passare al vaglio di tre distinte votazioni, e il Partito Nazionale della Nuova Zelanda del primo ministro Christopher Luxon ha già comunicato al leader di ACT che non voterà nuovamente a favore della legge. La protesta del popolo Maori è iniziata all’alba di lunedì 11 novembre, in seguito a una cerimonia svoltasi a Capo Reinga, nell’estremo nord del Paese. Dopo l’inaugurazione della manifestazione, centinaia di Maori hanno iniziato una lunga marcia verso la capitale, culminata nella manifestazione di ieri. Durante la marcia, i manifestanti sono passati da Auckland, la più grande città della Nuova Zelanda, e hanno organizzato proteste in tutto il Paese. Una serie di proteste era scoppiata già lo scorso giovedì 7 novembre, quando il governo neozelandese aveva deciso di anticipare la discussione della legge di circa due settimane. In quell’occasione i manifestanti si erano concentrati proprio ad Auckland, e un piccolo gruppo di indigeni era giunto anche a Wellington, davanti al palazzo del Parlamento. Il cosiddetto “Trattato sui Principi di legge” sancirebbe un’interpretazione più ristretta delle Carte di Waitangi. Esse sono state firmate nel 1840 e sono rimaste immutate fino al 1975, quando l’allora governo laburista approvò la “legge sul Trattato di Waitangi”. Questa stabiliva che il compito di interpretare i principi del Trattato spettasse al Tribunale di Waitangi, una commissione permanente di inchiesta istituita appositamente. Da allora, il Tribunale e il servizio pubblico hanno gradualmente elaborato questi principi, in modo autonomo rispetto alle istituzioni neozelandesi, rilasciando giudizi perlopiù non vincolanti in merito al loro rispetto da parte della Corona. Al di là delle questioni di merito, il Trattato sui Principi di legge intende inserire il Trattato di Waitangi nella legislazione del Paese, dando al Parlamento il potere di cambiarne i principi e togliendo spazio al Tribunale di Waitangi.
November 20, 2024 / InfoAut: Informazione di parte
Sardegna: sgomberato il presidio “La rivolta degli ulivi”
Sgombero di polizia in corso questa mattina a Selargius, nel Cagliaritano, del presidio permanente “La rivolta degli ulivi” sorto per contestare il cavidotto elettrico “Tyrrhenian Link” tra Sardegna e Sicilia.  Da mesi un gruppo di attivisti protesta contro gli espropri e in difesa degli ulivi che sorgono nell’area dove Terna s.p.a. vuole invece costruire la futura stazione di conversione elettrica legata al progetto dei cavi sottomarini tra le due isole. Il Tyrrhenian Link è un’infrastruttura considerata strategica dal Governo. Tuttavia, il progetto ha suscitato forti opposizioni in diverse aree, con accuse di scarsa trasparenza nei processi decisionali e mancanza di tutela ambientale. Questo cavidotto rappresenta una delle opere principali per la cosiddetta “transizione energetica italiana”, ma continua a dividere l’opinione pubblica. I manifestanti di Selargius promettono di non fermarsi, nonostante lo sgombero, e si preparano a nuove forme di protesta per difendere il territorio. Dal presidio “La Rivolta degli ulivi” sentiamo Robi Ladu Ascolta o scarica da Radio Onda d’Urto
November 20, 2024 / InfoAut: Informazione di parte
Il cambiamento climatico è una questione di classe/1
“Si tratta di un libro piccolo, ma il suo messaggio è vitale. Coloro che sfruttano il lavoro altrui per profitto, sfruttano anche le preziose risorse della terra per lo stesso motivo. Se protesti per salvare il pianeta, unisciti a un picchetto e viceversa. La lotta non cambia – è la lotta di classe, e questa volta dobbiamo vincere. Grazie Sarah e John”. Ken Loach di Sarah Glynn, tradotto da ECOR Network Alla fine, il cambiamento climatico ha un impatto su tutti. Raggiungerà anche coloro che stanno rastrellando fortune distruggendo il pianeta: persone che possono comprare la loro via d’uscita da disagi temporanei. Il cambiamento climatico impatta sulla totalità del mondo naturale. Allora perché sostenere che si tratta di una questione di classe? Questo piccolo libro si propone di rispondere a questa domanda. Esamina anche il motivo per cui questo è importante e cosa significa che possiamo agire per evitare la minaccia che incombe su tutti noi. Il cambiamento climatico è il nostro pericolo più grande e più imminente, ma la nostra crisi mondiale va oltre. Trattando il pianeta come una risorsa illimitata, la nostra società moderna sta distruggendo l’ambiente ovunque. Anche questa è una questione di classe, e fa parte di questa discussione. Iniziamo con ciò che possiamo vedere intorno a noi. Non è solo perché l’uno per cento produce la maggior parte dell’anidride carbonica, anche se è così … Sappiamo che l’anidride carbonica nell’aria lascia passare la luce del sole, ma intrappola il calore emesso dalla terra riscaldata. Già nel diciannovesimo secolo, si cominciava a riconoscere che l’aumento dell’anidride carbonica prodotta dalla rivoluzione industriale poteva aumentare il calore intrappolato e rendere il nostro pianeta più caldo. L’anidride carbonica viene prodotta quando bruciamo carburante per riscaldare le nostre case o guidiamo automobili o pilotiamo aerei. Viene prodotta anche quando l’energia viene utilizzata per produrre e trasportare le cose. Anche le cose che vengono vendute per risparmiare energia possono aver già utilizzato molta energia e prodotto molta anidride carbonica durante la loro produzione. La maggior parte delle cose che acquistiamo sono realizzate con materiali che saranno riciclati solo in parte. Saranno gettate via come se quei materiali fossero sostituibili, ma non possiamo continuare a farlo per sempre. Non possiamo continuare a seppellire e bruciare miliardi di bidoni della spazzatura pieni di roba ogni settimana. Le persone più ricche hanno case più grandi e più auto. Prendono più voli e hanno più beni e buttano via più cose. La loro ricchezza si basa su imprese e investimenti che producono anidride carbonica e stimolano il consumismo. Più le persone sono ricche, più anidride carbonica tendono a produrre, più risorse usano, più investono in combustibili fossili e più contribuiscono alla crisi ambientale. O perché quelli che stanno in fondo sentono per primi gli effetti, anche se è vero … Alla fine la crisi raggiungerà anche i ricchi, ma per ora possono comprarsi un po’ di protezione. Possono permettersi case lontane dalle pianure alluvionali più pericolose e installare sistemi di raffreddamento che consumano energia. Possono scegliere di non lavorare in condizioni di caldo estremo. Quando i cambiamenti climatici riducono le scorte di cibo, possono pagare un extra per assicurarsi di ottenere ancora ciò che desiderano. Più le persone sono povere, più è probabile che subiscano gravi conseguenze in caso di calamità o che siano escluse dalle forniture essenziali in tempi di scarsità. O perché le élite usano la loro crisi come scusa per spremere gli altri … Oltre a questo, coloro che sono al potere stanno usando la crisi per sfruttare ulteriormente le persone che sono meno responsabili di causarla. Proprio come hanno usato il crollo economico del 2008. Esigono sacrifici da parte di coloro che hanno meno da dare. Nei paesi occidentali, la politica degli ultimi quarantacinque anni è stata volta a invertire le conquiste fatte dai lavoratori nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Ha avuto lo scopo di garantire che la maggior parte della ricchezza creata andasse a beneficio di coloro che sono già ricchi; che i servizi conquistati a fatica venissero svenduti a società private che sfruttano i loro utenti; e che la capacità di protestare contro queste cose diventasse sempre più limitata. Le potenze occidentali hanno usato il loro dominio economico per imporre politiche simili al Sud del mondo. Ogni disastro è stato usato come un’opportunità per i ricchi di riprendersi maggiori risorse mondiali, e il collasso ambientale non fa eccezione. C’è sempre una pressione per preservare le gerarchie esistenti e per estrarre di più dai lavoratori. I politici sostengono di poter combattere il cambiamento climatico senza disturbare il modo in cui funziona la nostra società attuale. Le loro politiche spesso finiscono per penalizzare i meno abbienti, pur avendo scarso impatto sulla produzione di anidride carbonica. Alcune addirittura ne causano un aumento. I responsabili politici affermano di poter convincere le persone a produrre meno anidride carbonica utilizzando le tasse per aumentare i costi energetici. Ma le persone ricche, che sono i maggiori produttori, possono permettersi di pagare di più, e i risparmi energetici ottenuti sono molto lontani da ciò che è necessario. Nel frattempo, l’aumento dei costi colpisce tutti e può fare la differenza tra una famiglia a basso reddito che riesce a gestirli e una famiglia che si indebita a spirale. In Francia, l’aumento dell’imposta sul carburante, introdotta come “politica verde”, ha innescato massicce manifestazioni popolari nel movimento che è diventato noto come gilets jaunes, dal nome dei gilet gialli indossati dai manifestanti. Piuttosto che affrontare l’introduzione di sistemi di risparmio energetico in modo logico ed efficiente, questa politica le tratta come un’altra opportunità di business. I sussidi per il miglioramento delle case green hanno sfamato gli azionisti di una nuova generazione di aziende private. Laddove le società sono state adeguatamente regolamentate, hanno anche beneficiato i proprietari di case, ma gli affittuari continuano a pagare i costi aggiuntivi della vita in case inefficienti dal punto di vista energetico. Il mancato rispetto dei moderni standard di isolamento è stato usato come scusa per demolire le case popolari e vendere il terreno a sviluppatori privati, anche se la demolizione e la ricostruzione sono un processo ad alta intensità energetica. La classe operaia è la meno responsabile della catastrofe ambientale e la più colpita, e le cosiddette politiche ambientali spesso aumentano la disuguaglianza. Le politiche che rendono la vita più difficile per la classe operaia sono giustamente contestate. Ma le politiche ambientali non devono essere così, anzi, è proprio il contrario. O perché i paesi che inquinano di meno soffriranno di più … Cose simili stanno accadendo su scala internazionale. I paesi ricchi e “sviluppati” hanno già prodotto molto più della loro giusta quota di anidride carbonica; mentre i paesi poveri dell’ex colonia sono i meno protetti dall’innalzamento del livello del mare e dalle condizioni meteorologiche estreme che il cambiamento climatico sta rendendo sempre più comuni. Decenni di saccheggi, insieme alle privatizzazioni imposte dalla Banca Mondiale, li hanno lasciati senza le infrastrutture necessarie per la vita quotidiana, per non parlare di far fronte a disastri di massa. Questi paesi più poveri sono stati a lungo sfruttati per le loro risorse dai paesi più ricchi e dalle multinazionali. Il cambiamento climatico offre nuove opportunità di sfruttamento. Comporta nuove richieste di minerali rari per alimentare le nuove tecnologie verdi (come il litio per le batterie) e la pressione delle imprese dei paesi più ricchi che vogliono delocalizzare le loro industrie inquinanti. I paesi più ricchi possono quindi sembrare in grado di raggiungere i loro obiettivi ecologici e le imprese possono evitare le rigide normative ambientali. All’interno dei paesi più poveri, sono ancora una volta quelli che hanno meno ad essere più esposti agli impatti del cambiamento climatico e allo sfruttamento effettuato in nome della lotta al cambiamento climatico.   … Ma perché il sistema che sfrutta il pianeta fino alla distruzione è lo stesso che dipende dallo sfruttamento di classe: il sistema che vede tutto in termini di profitto – che è esattamente ciò che è il capitalismo La ragione della discrepanza tra responsabilità e sofferenza è la stessa per il cambiamento climatico e per la più ampia crisi ambientale come per tutti gli aspetti della crescente e brutale disuguaglianza del mondo. È il risultato del capitalismo: della priorità del capitalismo per il profitto e del suo bisogno di una crescita economica costante. La concorrenza di mercato significa che nessuna impresa può permettersi di accontentarsi di ciò che ha, poiché rischia di essere superata dai suoi concorrenti. Deve trovare nuovi mercati e creare nuova domanda. Deve convincerci ad acquistare prodotti e servizi di cui non abbiamo bisogno né che vogliamo veramente, a scapito di sempre maggiori risorse del mondo. Tutto è considerato una potenziale fonte di profitto. Il capitalismo sfrutta la natura nello stesso modo in cui il capitalismo sfrutta la classe operaia. Il modo in cui entrambi vengono trattati dipende solo dal loro potenziale di fare soldi. Quando tutto è lasciato al mercato, cioè alle imprese private, l’economia non funziona al servizio della società. Piuttosto, la società lavora per l’economia, e quell’economia è bloccata in una rapace espansione divoratrice di mondi. Se ci chiedessero di inventare un sistema per soddisfare i bisogni umani, saremmo giustamente diffidenti nei confronti di qualsiasi proposta che metta la priorità non sul bisogno, ma sul profitto privato. E rifiuteremmo categoricamente qualsiasi proposta che dipenda dal consumo illimitato della nostra limitata eredità comune. Nel frattempo, il costante bisogno del capitalismo di più materie prime e più mercati aiuta a spingere i paesi verso la guerra, dove la classe operaia è usata come carne da cannone e l’ambiente è considerato altrettanto superfluo. Le regole – create dall’uomo – del sistema capitalista sono generalmente indicate come se fossero leggi immutabili della natura: come se non avessimo altra scelta che organizzare la società per mettere il profitto prima di tutto. Potremmo pensare che sarebbe meglio concentrarsi sui bisogni e sul benessere umano e sul vivere in sintonia con il nostro ambiente naturale, ma ci viene detto che non è così che funziona il mondo. Ci viene detto che le persone sono egoiste per natura e che è solo attraverso la competizione egoistica che la società si sviluppa. Tuttavia, se fossimo davvero le creature egoiste dipinte dagli economisti, la società umana non sarebbe mai decollata. La forza dell’umanità viene dalla nostra capacità di organizzarci e di aiutarci a vicenda. Ci viene detto che pianificare qualsiasi forma di società diversa da quella capitalista non è realistico, come se continuare con un sistema che sta rendendo il nostro pianeta invivibile fosse una cosa “realistica” da fare. Mentre i cambiamenti necessari per riportare il nostro mondo fuori dal precipizio sono gli stessi che porrebbero fine a questo sfruttamento di classe: un’economia popolare dalla gente e per la gente – che è ciò che il socialismo dovrebbe essere La cosa assurda è che sappiamo che è perfettamente possibile per l’umanità vivere – e vivere bene – senza che questo costi alla terra. Conosciamo i cambiamenti che devono essere apportati al modo in cui la nostra società è organizzata e sappiamo come utilizzare i finanziamenti pubblici per fornire beni e servizi pubblici e un lavoro veramente utile. Sappiamo che se le risorse fossero condivise equamente e utilizzate razionalmente, ce ne sarebbero abbastanza per tutti. I cambiamenti richiesti sono grandi, ma sono necessari per la sopravvivenza. Possono anche portare a uno stile di vita molto più felice e meno stressante. Tuttavia, questi cambiamenti minacciano le gerarchie esistenti e sono contrastati da coloro che sono al potere. Un modo in cui le élite convincono il resto di noi a sostenere i loro interessi – i loro interessi a brevissimo termine in questo caso – è quello di renderci timorosi del cambiamento. Ci viene detto che perderemo la nostra libertà e il nostro modo di vivere. Non dovremmo mettere in discussione quali libertà siano minacciate – la libertà di rendere il mondo inabitabile, per esempio, o la libertà di sfruttare gli altri. Né ci si aspetta che ci si chieda se uno stile di vita che genera enormi disuguaglianze e che vede la maggior parte delle persone trascorrere la maggior parte delle ore di veglia legate a un lavoro noioso e insicuro sia uno stile di vita che dovrebbe essere preservato immutato. Molte delle cose che apprezziamo di più – stare con la famiglia e gli amici, fare e godere della musica o dell’arte, ballare, giocare e guardare lo sport, esplorare il mondo naturale che ci circonda – non hanno bisogno di utilizzare grandi quantità di energia preziosa, né di consumare risorse insostituibili e limitate. Ma siamo sempre limitati nel nostro godimento di queste cose perché siamo costretti a passare così tanto della nostra vita sul tapis roulant capitalista. Usiamo energia e risorse per produrre sempre più cose che aggiungono molto poco al benessere umano, e usiamo il nostro ingegno per convincere gli altri che queste cose sono la chiave per la loro felicità futura. Questo è ciò che il sistema capitalista ci richiede. Non dobbiamo mai essere contenti di quello che abbiamo, altrimenti non ne compreremmo di più. Lavoriamo per molte ore, spesso in lavori che possiamo percepire come intrinsecamente inutili, e poi spendiamo i nostri guadagni duramente guadagnati in cose che potrebbero farci risparmiare un po’ di tempo o che sembrano sostituire un po’ della gioia perduta. Siamo intrappolati su un tapis roulant progettato per privarci sia del tempo che della voglia di pensare oltre le aspettative capitaliste. La maggior parte dei lavori non contribuisce molto all’umanità, ma i lavoratori che svolgono quei lavori dipendono da loro per vivere. Non possono permettersi di vedere scomparire i loro mezzi di sostentamento. I capitalisti sfruttano la paura della disoccupazione come fanno sempre. Usano questa paura per rendere le persone resistenti a qualsiasi cambiamento che vedrebbe questi lavori scomparire. Tuttavia, un sistema sociale sostenibile richiede anche lavoro, solo un lavoro diverso. Un tale sistema può pagare le persone per fare il lavoro che la loro comunità ritiene importante, e può garantire, attraverso una distribuzione più equa delle risorse, che tutti abbiano abbastanza per vivere e abbastanza tempo per godersi la vita. La proprietà pubblica delle risorse diventa ancora più importante con la crescita dell’Intelligenza Artificiale. L’IA ha il potenziale per generare grandi risparmi nella quantità di lavoro umano necessaria per sostenere le società. Nelle mani pubbliche, può consentire a tutti di trarne beneficio. Se lasciata ai mercati capitalistici, produrrà solo una maggiore disuguaglianza. Gli investimenti pubblici nelle energie alternative possono garantire che queste siano sviluppate nel modo più vantaggioso per la società, piuttosto che per il massimo profitto privato. Il capitalismo ci insegna anche a credere che la crescita economica infinita sia essenziale per il nostro benessere. Solo quando guardiamo fuori senza i paraocchi capitalisti, possiamo vedere una chiara via d’uscita da questo percorso verso la distruzione. Se le organizzazioni pubbliche e comunali, a tutti i livelli, sono in grado di provvedere ai nostri bisogni primari, allora non dobbiamo più fare affidamento sul mercato, con il suo appetito insaziabile. In ogni occasione in cui chiediamo la spesa pubblica per il bene pubblico, ci viene detto che i soldi non sono disponibili. Allo stesso tempo, siamo circondati dalla ricchezza – dai prodotti di generazioni di lavoro – e disponiamo di nuove tecnologie che consentono al lavoro di raggiungere una produttività sempre maggiore. Se solo ci fosse un modo per indirizzare quella ricchezza dove è più necessaria… Ma, naturalmente, c’è. I governi – nazionali e regionali – hanno gli strumenti: è solo che il capitalismo esige che non li usino. Le autorità pubbliche, a tutti i livelli, hanno la capacità di investire in cambiamenti che consentano uno stile di vita più sostenibile, come ad esempio un trasporto pubblico completo e a prezzi accessibili. Possono farlo in modo simile a come l’economia britannica martoriata dalla guerra ha costruito il servizio sanitario nazionale. E i governi possono progettare sistemi di tassazione che impediscano che la ricchezza venga accumulata dai ricchi e che ne consentano l’uso a beneficio di tutti. Le tasse sul patrimonio, così come le imposte sul reddito, possono accedere alla ricchezza che è stata accumulata, così come alla ricchezza che viene creata oggi. Quando le autorità pubbliche investono in questo modo, il denaro non scompare, ma viene utilizzato per costruire la nostra ricchezza comune. Ciò può fornire una fonte di entrate per maggiori investimenti pubblici o può consentire la fornitura di beni e servizi pubblici. I beni e i servizi, gratuiti o sovvenzionati, contribuiscono a una società più equa. Possono portarci un passo avanti verso un’economia basata maggiormente sui bisogni e incentrata sulla comunità. Siamo stati condizionati dal capitalismo a rifiutare l’aumento delle tasse e della spesa pubblica, ma se vogliamo un mondo razionale, con un controllo democratico sull’economia, questi sono strumenti vitali. Questo non è un argomento a favore del ritorno a burocrazie centralizzate e insensibili, come quelle dominate dall’Europa orientale o quelle che gestivano i programmi di edilizia popolare della socialdemocrazia del dopoguerra. Il controllo democratico richiede che le persone abbiano l’opportunità di essere coinvolte nella gestione della propria vita e nel prendere le decisioni che le riguardano. Significa prendere decisioni al livello più locale possibile. Il capitalismo ci ha persuaso che la proprietà e il controllo pubblico dovrebbero essere l’ultima risorsa temporanea quando una parte dell’economia capitalista ha fallito. Ma, se vogliamo un uso sostenibile ed equo delle risorse, il nostro obiettivo dovrebbe essere un’economia di proprietà e gestione pubblica. Ciò non riguarderebbe le piccole imprese, ma solo i servizi vitali e le grandi imprese che sono arrivate a dettare legge nella nostra economia e stanno sacrificando il futuro dell’umanità per il loro profitto a breve termine. Gli imprenditori protesteranno che gli investimenti pubblici forniscono una concorrenza sleale, rendendo la loro attività meno redditizia. Se queste imprese stanno fornendo un ruolo necessario e non possono sopravvivere, anche loro possono essere assunte in proprietà e controllo pubblico. La perdita di posti di lavoro nel settore privato potrebbe essere più che compensata da posti di lavoro più sicuri nel settore pubblico. Il successo della propaganda contro il cambiamento ha permesso ai “pragmatici” di dichiarare impossibile il cambiamento sociale a causa della mancanza di sostegno pubblico. Al contrario, sostengono che tutto ciò che è necessario per fermare il cambiamento climatico è una soluzione tecnologica. Le nuove tecnologie hanno un ruolo importante. L’energia eolica, solare e le pompe di calore possono dare un contributo vitale alla riduzione delle emissioni di carbonio. Ma, da sole, le nuove tecnologie incentrate sull’energia verde non saranno sufficienti. Esse non impediranno il consumo sempre crescente delle risorse mondiali, alcune consumano ancora più risorse, compresi i metalli rari. Alcune tecnologie rischiano di generare nuovi problemi, potenzialmente enormi, sconosciuti. E, senza cambiamenti sociali, ogni aumento dell’energia rinnovabile tende ad essere utilizzato per giustificare un maggiore consumo di energia. Se una frazione degli sforzi spesi a inseguire il miraggio della panacea tecnologica fosse reindirizzata alla riorganizzazione della società, le nostre prospettive future sarebbero molto più luminose. Mentre i politici e gli uomini d’affari guardano verso la tecnologia per salvare il capitalismo, gli scienziati stanno riconoscendo sempre più che è solo ponendo fine al capitalismo che l’umanità può salvare sé stessa.   E cosa può far sì che ciò accada se non il potere combinato della classe operaia? Quando la classe operaia agisce insieme, abbiamo il potere di affrontare gli interessi acquisiti che ci stanno mandando tutti velocemente all’inferno. In effetti, questa è la nostra unica speranza. Le conquiste del passato non sono state il prodotto della generosità dell’élite. Sono state vinte dopo lunghe campagne in cui le persone si sono unite in modo che fosse impossibile resistergli. In questa lotta per la sopravvivenza dell’umanità, abbiamo visto una coraggiosa resistenza da parte dei popoli indigeni la cui esistenza è stata minacciata, abbiamo visto gli scienziati del clima gettare la museruola della “neutralità” politica e abbiamo visto milioni di studenti chiedere un futuro, ma senza la classe operaia, questa lotta per la sopravvivenza non ha il peso e la forza per fare la differenza. La sopravvivenza richiede un cambiamento rivoluzionario dell’economia, e la spina dorsale dell’economia sono i suoi lavoratori. Quando i lavoratori agiscono insieme, compreso il ritiro pianificato e strategico del loro lavoro, hanno il potere di rendere impossibile la continuazione con le pratiche esistenti: il potere di forzare il cambiamento. Hanno anche conoscenze e abilità che possono essere trasformate nella creazione di un modo diverso di fare le cose. Quattro decenni di neoliberismo hanno ristretto gli orizzonti del lavoro organizzato. I sindacati sono vincolati dalla legge e i leader sindacali hanno interiorizzato le restrizioni [che gli vietano] di andare oltre le questioni immediate nel singolo luogo di lavoro. Ma la situazione può cambiare, come è stato fatto in passato. L’urgenza della nostra attuale situazione dovrebbe alimentare le forze del cambiamento, che non verranno da dichiarazioni di obiettivi che inducono al sonno, ma dalla pressione dei lavoratori in massa. Il potere del lavoro organizzato può costringere a cambiamenti sia l’industria che il governo. Anche al di fuori del luogo di lavoro, quando le comunità della classe operaia si riuniscono, possono salvare aspetti della loro vita dal colosso capitalista e dimostrare, su scala comunitaria, che sono possibili altri approcci migliori all’organizzazione sociale. (1. Continua) * Traduzione di Ecor.Network -------------------------------------------------------------------------------- Immagini: – La Piramide del Sistema Capitalista, disegnata per l’Industrial Worker nel 1911, che annega per l’innalzamento del livello del mare. L’onda è basata sulla Grande Onda di Kanagawa di Hokusai. – Strisce climatiche – ideate da Ed Hawkins – che mostrano le temperature medie annuali globali dal 1850 al 2018, con gli anni freddi in blu e caldi in rosso. – Immagini restanti tratte dal libro. -------------------------------------------------------------------------------- INDICE – IL CAMBIAMENTO CLIMATICO È UNA QUESTIONE DI CLASSE Sarah Glynn – UN MANIFESTO PER IL CAMBIAMENTO Sarah Glynn – CLIMA E LOTTA DI CLASSE John Clarke
November 20, 2024 / InfoAut: Informazione di parte
Nessun bacino a Saint-Sauvan, uno sguardo sulla marcia popolare e contadina
Sabato 16 novembre 2024, nonostante il freddo e i blocchi stradali della gendarmeria, quasi 1.000 persone hanno manifestato a Saint Sauvant contro i mega bacini e a favore di un’equa condivisione dell’acqua, in risposta all’appello lanciato dai collettivi Bassines Non merci, A l’eau la Vonne e dalla Confédération Paysanne. da Bassines Non Merci A causa di contrattempi legali, difficoltà finanziarie (alcune compagnie assicurative si stanno addirittura ritirando dai progetti!) e di un’opposizione massiccia e crescente, la costruzione di questo bacino, inizialmente prevista per il 2021, non è ancora iniziata. Con questa marcia popolare e contadina, il movimento anti-bacino mantiene alta la pressione sul progetto del mega-bacino SEV14 a Saint-Sauvant, a 15 km da Sainte-Soline, e continua a prepararsi a intervenire in caso di inizio dei lavori. Il comune di Saint-Sauvant, attraverso il progetto SEV14, è stato al centro delle questioni relative alla condivisione dell’acqua per diversi anni. Nel 2021, un migliaio di persone aveva manifestato contro l’avvio del progetto, bloccato a seguito di un incendio di un mezzo del cantiere. Nel 2023, 600 ciclisti e decine di trattori hanno attraversato il villaggio per chiedere che l’Agenzia per l’acqua Loira-Brittany di Orléans smettesse di finanziare i mega-bacini. Poiché lo Stato è rimasto sordo alle loro richieste di condivisione dell’acqua, il movimento ha pianificato di tornare a manifestare nel luglio 2024. In risposta, il governo ha deciso di militarizzare Saint Sauvant e i comuni limitrofi e di incendiare il campo di 16 ettari di un agricoltore nel comune di Migné-Auxances, per impedire lo svolgimento della marcia contro i bacini. Nonostante la violenza usata dallo Stato, la marcia del 19 luglio ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica e a mantenere la pressione sulle multinazionali che spingono per i progetti di bacino, come Terrena e la sua filiale, la società di sementi Cérience. “L’OTARDA CANTERÀ IN PRIMAVERA, NIENTE BACINI A ST-SAUVANT” Eravamo in 1.000, accompagnati da diversi trattori e da alcune capre, nella città mercato di St-Sauvant sabato 16 novembre. Nonostante la presenza di 200 agenti di polizia, questa marcia popolare e contadina si è svolta in un’atmosfera festosa e determinata verso l’appezzamento di terreno dove verrà costruito il bacino. Sul posto, abbiamo denunciato gli scandali che hanno macchiato il progetto del bacino. Attraverso diverse iniziative, abbiamo anche ricordato che le alternative a questi progetti mortali sono possibili, per questo appezzamento di terreno e per il mondo agricolo nel suo complesso. UN OSSERVATORIO PER TENERE D’OCCHIO L’EVENTUALE AVVIO DEI LAVORI DI COSTRUZIONE E PER PRENDERSI CURA DELLE PICCOLE OTARDE. La costruzione della SEV14 comporterebbe un forte aumento dei prelievi irrigui e un incremento del numero di appezzamenti irrigabili. È stato dimostrato che l’irrigazione a pioggia ha conseguenze irreparabili per l’otarda e che la costruzione di questo bacino sarebbe devastante per la sopravvivenza di questa specie protetta, classificata come in pericolo. Insieme ai naturalisti locali, abbiamo costruito un osservatorio per monitorare il ritorno delle popolazioni migratorie di otarda la prossima primavera. In una piccola area di appena 200 ettari a ovest di SEV14 vive il 10% della popolazione europea di otarda continentale. L’ALLEVAMENTO DI CAPRE E LA SEMINA COLLETTIVA PER APRIRE LA STRADA ALL’AGRICOLTURA SU PICCOLA SCALA Vista la minaccia che i bacini rappresentano per la condivisione dell’acqua nella regione, per le otarde e per il mondo agricolo, abbiamo effettuato una semina collettiva di una miscela di cereali con la Confédération Paysanne su un appezzamento di mais. Questa miscela di cereali (in questo caso triticale e piselli) viene solitamente utilizzata per l’alimentazione degli animali, come complemento all’erba. Mentre le cooperative di burro della DOP Charentes-Poitou, rispondendo alle ingiunzioni dell’agroindustria, impongono, ad esempio, una percentuale minima del 50% di mais nell’alimentazione delle vacche da latte, l’obiettivo era dimostrare che è possibile nutrire il bestiame in modo diverso, sviluppando al contempo i pascoli. Il drink d’addio del prefetto Girier Mentre bevevamo succo di mela caldo per festeggiare la partenza dell’uomo che il 19 luglio ha incendiato un campo e messo in pericolo migliaia di persone, il prefetto Girier si è distinto ancora una volta come difensore degli interessi privati. Era a poche centinaia di metri dalla manifestazione, per salutare uno dei membri delle 5 aziende agricole collegate al SEV14, Girier ha cercato invano di intimidire un’ultima volta il movimento annunciando una denuncia per aver calpestato un campo coltivato. Evidentemente non è un esperto di agronomia, perché anche se si seminasse un miscuglio di avena e trifoglio intorno al bordo (e solo al bordo) dell’appezzamento, la compattazione causata dal calpestio sarebbe benefica. Il ritorno graduale della nebbia ha contribuito a eliminare la presenza della polizia dal paesaggio. Questa marcia è un’altra vittoria: la lotta contro i bacini e per l’acqua condivisa sta mobilitando persone al di là del Poitou ️ e restiamo determinati a impedire l’avvio del cantiere e di tutti gli altri progetti di bacino. No bassaran
November 19, 2024 / InfoAut: Informazione di parte
Basta armi a Israele: manifestazione regionale a Torino
Nella giornata di sabato 5000 persone provenienti da tutto il Piemonte si sono radunate a Torino per dare vita ad un ricco e partecipato corteo regionale. dal Coordinamento cittadino Torino per Gaza La manifestazione ha sfilato per le strade del centro cittadino ribadendo con numerosi interventi i punti fermi che ci vedranno in mobilitazione continua ancora per molto tempo: Stop immediato alle esportazioni di armi verso Israele e i suoi alleati, per non contribuire ulteriormente al genocidio in corso. Sospensione delle collaborazioni accademiche e scientifiche con le istituzioni israeliane. Interrompere i finanziamenti alla Difesa e all’industria bellica e il reindirizzamento di questi fondi verso servizi pubblici essenziali come la sanità e l’istruzione, per rispondere alle vere necessità della popolazione. La pluralità di volti, di interventi, spezzoni e bandiere è stata la caratteristica più evidente insieme alla vivacità che l’intero corteo sprigionava, così come la mobilitazione studentesca svolta in città venerdì mattina, che ha dato prova di una forte energia giovanile in grado di portare la causa palestinese all’ordine del giorno della politica nazionale, ancora una volta. Vediamo quotidianamente scorrere sotto i nostri occhi le immagini del genocidio palestinese e della guerra che l’entità sionista sta indirizzando contro tutti coloro che si contrappongono al progetto espansionistico della “Grande Israele”, e sentiamo le narrazioni distorte che la Stampa nazionale fornisce per avallare la posizione di sostegno a Israele che il governo italiano ha deciso di assumere. Siamo stanchə di subire passivamente questo scenario di intruppamento alla guerra sempre più pervasivo operato dai governi nazionali, dall’Unione Europea e da tutto il sistema occidentale orientato dagli interessi statunitensi. Vogliamo prendere parola e fare pressione sulla politica istituzionale, come una forza coesa costruita dal basso affinché vengano assunte posizioni politiche ed economiche che siano negli interessi del popolo palestinese e delle persone comuni che non godono di alcuna utilità nell’incrementare uno scenario di guerra mondiale. Per farlo, bisogna continuare la mobilitazione permanente e rafforzare i legami che abbiamo stabilito nella manifestazione regionale di sabato, le occasioni per farlo le abbiamo, martedì ore 18.30 ci sarà l’assemblea del coordinamento Torino per Gaza, un momento importante per organizzare tutti e tutte insieme i successivi passi della mobilitazione, in particolare le giornate di sciopero del 29 novembre e del 13 dicembre. I popoli in rivolta scrivono la storia! Scriviamola insieme!
November 19, 2024 / InfoAut: Informazione di parte
Incontro a Imperia: contro il progetto di parco eolico simbolo concreto della speculazione energetica
Il Comitato di InterVento Popolare organizza una serata di confronto sul progetto di parco eolico “monti Moro e Guardiabella”, per unire i saperi e costruire una rete di realtà pronte a difendere i propri territori contro progetti inutili, dannosi e imposti dall’alto. Venerdì 22 novembre alle ore 21 presso il Teatro dell’Attrito a Imperia interverrà il Comitato di InterVento Popolare, Confluenza in qualità di proposta e progetto di rete sui territori e il Comitato 4 Province con il contributo di Paolo Ferrari studioso dell’appennino ligure. Il progetto contro cui il Comitato di InterVento Popolare si sta organizzando riguarda 32 pale eoliche denominato “IMPERIA Monti Moro e Guardiabella” che vorrebbe essere realizzato nei Comuni di Aurigo, Borgomaro, Castellaro, Cipressa, Dolcedo, Pietrabruna, Pieve di Teco, Prelà, Rezzo con strada di accesso in San Lorenzo al Mare e Costarainera (IM). Riprendiamo dal Manifesto del Comitato: “E’ il grido che si alza dalle valli Arroscia, Impero, Argentina, Prino e San Lorenzo per contrastare una politica energetica più preoccupata a raggiungere nuovi traguardi in fatto di produzione che, piuttosto, di tutelare il paesaggio, di evitare la sottrazione di suolo e l’alterazione di aree naturali o di zone montane comunque incompatibili con insediamenti di tipo industriale. La realizzazione di una centrale per la produzione di energia eolica in questi luoghi stride in maniera evidente con i principi della nostra Carta Costituzionale, che all’art. 9 pone proprio la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione tra quei principi fondamentali.” Il tema dell’arroganza della speculazione sui territori è centrale ed è rappresentativo di una deregolamentazione che lascia spazio a un vero e proprio assalto portato avanti da aziende prestanome con capitale sociale irrisorio utili al profitto delle multinazionali dell’energia. Il Comitato continua dicendo “Come è noto l’azienda privata 18+ Energia prevede la realizzazione di un impianto costituito da 32 aerogeneratori di un’altezza fino a 209 mt, in una porzione sud ovest del territorio del Ponente Ligure, territorio altresì condizionato da un elevato rischio idrogeologico, con una prevalenza di aree boscate e habitat naturali che favoriscono ecosistemi floro-faunistici molto particolari in un territorio valorizzato dal riconoscimento di ben quattro siti afferenti alla Rete Natura 2000, Zone Speciali di Conservazione (ZSC) e ricco di siti archeologici, in parte in fase di studio o ancora inesplorati”. Non è l’unico caso tra Piemonte e Liguria, infatti il Comitato 4 Pronvice rende noto un altro progetto, quello del Monte Giarolo “Il caso del “monte Giarolo” è un chiaro esempio della proliferazione incontrollata di progetti di impianti da Fonte di Energia Rinnovabile (FER), un vero e proprio assalto alla diligenza.” Ma sappiamo anche del progetto sul Monte Cerchio (di cui parliamo qui). Si rende urgente un dibattito rispetto alla questione delle cosiddette “aree idonee”, cavallo di battaglia dei comitati sardi contro la speculazione energetica che sostengono con determinazione che “non ci sono aree idonee”. La falsa narrazione verde sulla transizione ecologica ed energetica impone una nuova sfida per la difesa dei territori. Come sostiene il Comitato InterVento Popolare “Non si può perseverare nell’attuale modello di sviluppo sostituendo semplicemente alle tecnologie delle fonti fossili quelle delle rinnovabili, mantenendo quel modello di crescita infinita della produzione e del consumo che ci ha condotto all’attuale situazione.” Ed è esattamente ciò che sosteniamo nel Manifesto di Confluenza ed è ciò che vorremo condividere in questa serata informativa che ha l’obiettivo di costruire rete e alleanze. Per sostenere con la raccolta firme Per rimanere aggiornati sugli appuntamenti di Confluenza c’è il canale Telegram!
November 18, 2024 / InfoAut: Informazione di parte
Un rito meneghino per l’edilizia
Soprattutto a sinistra (?) si levano alti lai per la mancata partecipazione degli elettori ad ogni tornata di voto. di Fabio Balocco, da Volere la Luna Si guardi alle recentissime elezioni regionali liguri, in cui l’astensionismo ha toccato il 55%: meno della metà della popolazione si riconosce nello stanco rito, come sottolineava in tempi non sospetti il grande Giorgio Gaber («È proprio vero che fa bene un po’ di partecipazione con cura piego le due schede e guardo ancora la matita così perfetta è temperata… io quasi quasi mela porto via. Democrazia!»). Gli alti lai di cui sopra vengono dalla cosiddetta “sinistra” che ritiene – probabilmente a ragione – che sia questa fetta di elettorato che non va più alle urne. Al riguardo i sociologi in questi anni hanno elaborato svariate teorie per comprendere il fenomeno. Una è quella della percezione della sostanziale inutilità del rito, posto che tu elettore voti quel candidato con un certo programma e poi te lo ritrovi da eletto a fare tutt’altro, o addirittura a cambiare casacca. Come accadde sempre in Liguria per la sindaca piddina Monica Giuliano transitata nel partito di Toti, lei, favorevole a quella sciagura del rigassificatore tanto caro all’allora presidente di regione. Ma del resto – e qui faccio un discorso da uomo della strada, che non è detto che sia superficiale o inveritiero – sono da fustigare moralmente gli astensionisti? Guardiamo una notizia giusto di questi giorni riportata da quella bella firma de Il Fatto Quotidiano, Gianni Barbacetto, che ha seguito con dovizia di particolari il cosiddetto “rito meneghino dell’edilizia”, che ha avuto successo giusto con un sindaco di sinistra come Giuseppe Sala. Sul quotidiano del giorno 7 novembre, compare un suo ultimo aggiornamento sotto il titolo “Il Salva-città. Un emendamento di FdI, chiesto dal sindaco Sala, ferma i pm e dà carta bianca per il futuro”. Cos’è questo rito meneghino dell’edilizia? In poche parole la concessione a costruire data dal Comune a palazzinari di un certo spessore (non certo artigiani edili) di tirare su palazzi e talvolta grattacieli al posto di bassi fabbricati, applicando la normativa relativa alla ristrutturazione. Poi c’è anche dell’altro, ma per riassumere al massimo questo è il dato più clamoroso che emerge dall’indagine che negli ultimi anni sta svolgendo la Procura della Repubblica di Milano. E come si difendono Sala & C.? Affermando che le norme in materia non sono chiare. A parte il fatto che non si comprende perché solo i politici e i dirigenti milanesi, in tutta Italia, siano così tonti da fraintendere le norme in materia, favorendo in tal modo la grande speculazione edilizia, a parte questo, resta il fatto che invece è evidente che le norme sono chiarissime e loro le hanno violate, prova ne sia il fatto che Sala ha chiesto – lui di sinistra – al governo di destra di far approvare una sostanziale sanatoria, ed è giusto di questo che tratta l’articolo di Barbacetto (https://www.ilfattoquotidiano.it/24/11/08/e-arrivato-il-condono-di-destra-peggiorato-dalla-sinistra/). Così la cittadinanza milanese si ritroverà cornuta e mazziata, con dei palazzoni che non dovevano sorgere e con degli oneri di urbanizzazione ridicoli, che non consentono di realizzare quelle opere di pubblica utilità che accompagnano ogni nuova costruzione. Ma sempre lo stesso giorno e sempre sullo stesso quotidiano compare un’altra notizia a coronamento di quella precedente: “Una residenza universitaria (già abitata) e due palazzi in costruzione, il cosiddetto progetto Scalo House, sono stati sequestrati a Milano nell’ambito di una nuova inchiesta sulla gestione urbanistica della città” (https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/11/07/milano-sequestro-scalo-house-valtellina/). Nel provvedimento si parla di «sistema di illegalità manipolatoria e di falsificazione ideologica dei titoli edilizi e alterazione del procedimento di cui l’ultimo caso è solo uno dei fulgidi esempi […] non accenna ad arrestarsi e sembra anzi avere subito un’accelerazione ed essere diventato ancora più pervasivo». Reati contestati: abusi edilizi, lottizzazione abusiva e falso. Tra gli indagati Paolo Mazzoleni che, già componente della Commissione Paesaggio a Milano, ritroviamo promosso assessore all’urbanistica nella giunta comunale di Torino. Di sinistra, beninteso. Ma riguardo alla gestione dell’edilizia a Milano non può passare inosservata l’evoluzione che sta avendo la vicenda dello stadio Meazza. E qui ricordiamo che la cosiddetta “legge stadi”, che consente alle società sportive di avere uno stadio in proprietà, ma, non solo, di costruirci attorno tutta una serie di opere forse ancor più lucrose (Juventus docet), è di un governo di centro sinistra, quello di Enrico Letta. A Milano dunque, Milan e Inter erano d’accordo per abbattere lo stadio Meazza, creando una relativamente piccola bomboniera con un po’ di opere attorno, leggasi qualche palazzone, qualche centro commerciale. Qui, grazie a un bellicoso comitato di cittadini e anche alla Soprintendenza, fino ad oggi non se ne è fatto nulla. Ma ecco, sorpresa di questi giorni: compare un nuovo attore sulla scena gradito al sindaco, quella Webuild che ha praticamente il monopolio delle opere pubbliche in Italia, la quale Webuild si offre di ricostruire lo stadio in maniera soft e in tempi certi e relativamente brevi. È quella Webuild che realizzerà la imponente diga foranea di Genova, tanto cara a Toti, ed è la stessa Webuild che plaudiva alle nuove inutili linee di alta velocità ferroviaria nel sud Italia, benedette dal governo Draghi, in cui tutti, sinistra, destra, grillini (ma, domanda: si chiamano ancora così?) si ritrovavano. Non voglio tediarvi oltre, ma torno agli astenuti: sono davvero da condannare perché rinunciano al diritto-dovere?
November 17, 2024 / InfoAut: Informazione di parte
Gino Libero! Free All Antifas
Riceviamo e pubblichiamo… “Abbiamo appreso che questa settimana il nostro amico e compagno Gino è stato arrestato in Francia, a Parigi, con un mandato d´arresto europeo. A richiedere la sua estradizione sono le autorità ungheresi, che lo accusano di essere coinvolto nei fatti avvenuti a Budapest nel febbraio 2023, in occasione delle proteste antifasciste che si contrapponevano alla cosiddetta “Giornata dell’Onore” neonazista. Attualmente si trova detenuto nel carcere di Fresnes ed è in attesa della decisione del giudice francese sulla sua estradizione. Esprimiamo tutta la nostra solidarietà a Gino e invitiamo tutti a mobilitarsi per impedire che un altro compagno antifascista finisca nelle mani di Orban. Nessuna estradizione verso l’Ungheria! Gino libero! Free all antifas! I suoi compagni e compagne”
November 17, 2024 / InfoAut: Informazione di parte
Libano: la Francia (forse) libererà Georges Abdallah, militante comunista incarcerato dal 1987
In Francia il Tribunale per l’esecuzione delle sentenze ha accolto l’undicesima domanda di liberazione condizionata presentata dall’avvocato Jean-Louis Chalanset, legale di Georges Ibrahim Abdallah, storico militante rivoluzionario comunista libanese e combattente della resistenza palestinese, in galera dal 1987, liberabile dal 1999 ma a tutt’oggi in carcere; da allora infatti – un quarto di secolo – il governo francese ha sistematicamente impedito la sua liberazione. Originario di Kobayat, nel nord del Libano, militante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina prima e tra i fondatori delle Fazioni Armate Rivoluzionarie Libanesi dopo l’invasione israeliana del Libano, nel 1982, Abdallah fu arrestato due anni dopo, nel 1984, a Lione per possesso di documenti falsi e poi condannato all’ergastolo nel 1987 per complicità nell’omicidio del colonnello Charles Ray, collaboratore militare dell’ambasciata Usa a Parigi, e di Yacov Barsimentov, consigliere dell’ambasciata di Israele, a seguito di un processo molto discusso già ai tempi. Come ricorda Contropiano.org,  ” un mese dopo la sentenza, nel libro “L’agent noir. Une taupe dans l’affaire Abdallah” (“L’agente oscuro. Una talpa nell’affare Abdallah”), il suo primo avvocato, Jean-Paul Mazurier, rivelava al giornalista Laurent Gally di aver agito per conto dei servizi segreti francesi“. Per chiedere l’immediata scarcerazione di Abdallah, a fine ottobre 2024, 4mila persone avevano raggiunto il carcere di Lannemezan, nei Pirenei, dove si trova rinchiuso l’ormai 73enne. Dal 6 dicembre Abdallah potrebbe quindi essere liberato, a condizione che lasci la Francia immediatamente e che non venga accolto il ricorso già annunciato dall’accusa. Sulla figura di Abdallah l’intervista di Radio Onda d’Urto a Romana Rubeo, caporedattrice di Palestine Chronicle. Ascolta o scarica da Radio Onda d’Urto
November 17, 2024 / InfoAut: Informazione di parte