Ripubblichiamo il comunicato uscito dal centro sociale Askatasuna in merito alla
giornata di lotta di ieri. Alleghiamo anche un video racconto della giornata.
credits to danisol74
L’attacco da parte del governo Meloni è duplice: un attacco alla città di Torino
in quanto anomalia, esempio di resistenza e di lotta e un attacco alle lotte
sociali e al movimento in solidarietà alla Palestina.
Il governo, a seguito di due mesi di mobilitazioni in tutta Italia che hanno
avuto la capacità di bloccare il Paese, si è intimorito perché ha avuto la
consapevolezza che l’Italia avesse scelto da che parte stare.
Pensiamo che in questi giorni, la “medaglia d’oro per la Resistenza assegnata
alla città, stia venendo difesa da un attacco pesante da parte del Governo.
Prosperina Vallet, nome di battaglia “Lisetta”, è il volto che ha accompagnato
il corteo. Gigantografia sottratta alla bieca servitù delle forze di polizia e
operai che lavorano da giorni per rendere completamente inagibile il palazzo di
corso Regina Margherita 47 e che hanno strappato la targa di Giovanni Accomasso,
partigiano torinese unitosi alla resistenza nel ’44.
Ieri in piazza c’era la Torino partigiana: c’erano i giovani e giovanissimi che
stanno crescendo nelle lotte di ora, c’erano le famiglie e i bambini e le
bambine che hanno vissuto sulla propria pelle la privazione del diritto
all’educazione per permettere lo sgombero di un loro spazio di incontro, c’erano
gli abitanti e le abitanti di Vanchiglia, ancora increduli a fronte
dell’istituzione di un nuovo cantiere nel cuore del quartiere protetto da jersey
e mezzi di polizia, c’erano i comitati cittadini, associazioni, anziani,
compagni e compagne da territori vicini che hanno voluto portare la loro
solidarietà sapendo che lo sgombero dell’Aska riguarda tutti e tutte.
Questa è la città che vogliamo ed è con tutti e tutte coloro che in questi
giorni sono stati al fianco dell’Askatasuna che vogliamo immaginare il futuro.
10 mila persone unite da un sentimento comune: c’è la necessità che lo spazio di
corso Regina Margherita 47 venga riconsegnato alla città e al quartiere e c’è la
volontà di guardare avanti riallargando collettivamente gli spazi di agibilità,
aprendo dimensioni di scambio e di ragionamento collettivo con la Torino che
quotidianamente sceglie come vivere il proprio territorio, che vuole
organizzarsi per un presente diverso, che vuole rappresentare una forza con cui
doversi confrontare perché autonoma. Costruire istituzioni collettive, spazi di
discussione, di socialità, di possibilità è un percorso che va continuato,
sedimentato, insieme.
Insieme come ci si è avvicinati alle mura circondate da jersey e mezzi della
polizia, tra idranti e lacrimogeni, per indicare un’esigenza comune, praticando
il terreno del conflitto. Molte le parole spese sulle pagine dei quotidiani oggi
per riproporre il trito e ritrito ritornello: i violenti, gli incappucciati che
scavalcano i bambini per cercare lo scontro. Piacerebbe a Marrone, Tajani,
Piantedosi – che oggi si congratula con la gestione del questore Sirna da poco
silurato – che questa narrazione corrispondesse alla realtà eppure, spiace dover
ribadire l’ovvio, a Torino non funziona così. Ognuno e ognuna, secondo le
proprie possibilità, dà il suo contributo in una sinergia che solo la Val Susa
ci ha insegnato. Chi non ha le scarpe buone è pronto a sostenere dove l’aria è
un po’ più respirabile, chi non ha abbastanza fiato è presente con sguardo
attento per capire insieme dove occorre esserci.
Non funziona così in nessuno di quei territori in cui esistono esperienze di
organizzazione autonoma della società, non funziona così nei quartieri popolari
a Roma, nelle periferie di Milano, non funziona così nei porti dove in questi
mesi “non è passato nemmeno un chiodo per la guerra”, non funziona così, cari
Piantedosi, Salvini e Meloni, nessuna ruspa potrà distruggere il sogno
collettivo. E’ il sogno che sta in fondo agli occhi di chi ha fatto esperienza
dei blocchi nelle stazioni, di chi ha bloccato il porto di Genova e di Livorno,
di chi ha occupato le scuole e le università per la Palestina libera, di chi ha
camminato fianco a fianco con la consapevolezza di poter rompere la complicità
con il genocidio in Palestina. Ed è da lì che si va avanti, con immaginazione e
con la potenza che solo la percezione di stare costruendo la liberazione
collettiva può permettere.
Sono passati solo tre giorni e la strada è ancora lunga, verrà inaugurato un
nuovo anno di lotta con il Capodanno, ci si incontrerà in una grande assemblea
cittadina il 17 gennaio e si riattraverseranno le strade della città di Torino
il 31 gennaio per il corteo nazionale. E’ una prospettiva da costruire insieme:
oggi il governo ci vuole disciplinati per poterci armare, parla di leva
obbligatoria, finanzia il genocidio in Palestina e manda al collasso la sanità
pubblica, la scuola e i servizi essenziali. Il governo coltiva l’illusione che
basterà continuare così per mandarci in guerra ma questo percorso sarà
un’ulteriore occasione per dimostrare che si sbaglia di grosso.
Intanto, qui da queste parti, noi abbiamo da fare e c’è poco tempo da perdere:
continuare a monitorare quanto accade in Vanchiglia è una delle priorità, ci
uniamo alla voce del quartiere che pretendono che cessi la militarizzazione,
perchè sta colpendo non solo la sua riproduzione economica ma la stessa
vivibilità. Continueremo la lotta condividendo spazi di incontro e socialità
durante queste settimane, perché Natale, si sa, è il momento di andare a trovare
la famiglia, e anche in queste feste saranno in giro i ragazzi di Vanchiglia.
Qui un video racconto della giornata
Source - InfoAut: Informazione di parte
Informazione di parte
Lo sgombero di Askatasuna non può essere trattato come un semplice atto di
repressione da parte di un governo di ultradestra. Questo fatto politico è la
somma di vicende complesse ed articolate che è necessario comprendere a fondo.
Sarebbe consolatorio, ma inefficace, ridurlo ad un atto di fascismo
istituzionale. Attenzione: non neghiamo la progressiva deriva autoritaria in cui
il governo Meloni è impegnato, ma ciò che ci interessa di più sono gli scopi di
questa deriva ed i suoi dispositivi concreti. Per capire cosa significa lo
sgombero di Askatasuna bisogna provare ad inoltrarsi nei diversi livelli di
realtà su cui impatta questo fatto.
1. La politica del simbolico. Lo storico centro sociale torinese è stato per
quasi tre decenni un simbolo che rappresentava significati differenti a
seconda di chi lo narrava. Per alcuni era un’alternativa credibile alla
politica istituzionale, una rappresentazione romantica del conflitto
sociale, un luogo di socialità differente, una fucina culturale e politica.
Altri lo rappresentavano come una “centrale della violenza”, il “centro
sociale più duro d’Italia”, una manica di teppisti e perdigiorno. Queste
narrazioni erano come ombre cinesi, proiezioni di un soggetto mutevole che,
a seconda della direzione da cui proveniva la luce che lo illuminava,
cambiava forma. Su Askatasuna venivano proiettate speranze e paure,
aspettative e timori. Questo portato simbolico è stato croce e delizia, ma
non ha mai rappresentato realmente la natura di questo spazio sociale. Le
centinaia di militanti che hanno attraversato le sue mura in questi decenni
hanno sempre radicalmente rifiutato la rappresentazione di un oggetto
alieno, di una riserva indiana, di un residuo antistorico e si sono sempre
impegnate ed impegnati in prima persona nel tentare di capire la società che
avevano davanti per cambiarla. In una società in cui la politica procede per
lo più su un livello del simbolico, appunto, i militanti e le militanti
hanno cercato invece di costruire delle trasformazioni concrete nel
quartiere, in città, in Val Susa. Le quattro mura del centro sociale non
hanno mai rappresentato l’interezza della proposta politica di un’area
militante, quella dell’autonomia torinese che è un’esperienza vivace,
fortemente radicata nella città e tra le pieghe delle sue contraddizioni. Lo
sgombero di quelle quattro mura è stato in primo luogo un atto simbolico. Il
governo Meloni in questo momento è impegnato in una delle politiche di
austerity più dure dai governi tecnici che tanto ha contestato a parole. Non
solo: è il governo protagonista del riarmo del nostro paese. Tra la
popolazione italiana vi è un malcontento crescente ed una forte ostilità nei
confronti di queste scelte politiche concrete, dunque la consorteria che si
è installata al governo deve ogni giorno cercare nuovi simboli su cui
deviare l’attenzione mentre procede allo smantellamento del welfare. Che si
tratti della “famiglia nel bosco” o dello sgombero di un centro sociale,
l’importante è deviare l’attenzione mediatica su un terreno differente da
quello delle decisioni politiche-economiche del governo. Lo sgombero di Aska
arriva proprio nei giorni in cui si compie il redde rationem interno al
governo ed alla Lega sulle pensioni. Questa politica del simbolico ha due
scopi principali: da un lato, come detto, spostare la discussione pubblica
su argomenti meno spinosi per il governo, dall’altro quello di mantenere la
fedeltà dello zoccolo duro di elettori di destra che si consolano della
crisi sociale godendo di un po’ di pugno di ferro contro comunisti e
migranti. Le decisioni chiave del governo sono tutte pilotate da Washington
e Bruxelles e dunque bisogna sparare un po’ di fuochi d’artificio perché la
gente guardi altrove.
2. Il governo della città. Se c’è un progetto chiaro da parte della destra di
governo è quello di espugnare tutte le istituzioni che per un motivo o per
l’altro non si allineano con il suo progetto. Il modello è quello trumpista,
ma in una versione soft-core. Torino è una di quelle città che per
tradizione, ma soprattutto per composizione sociale si è sempre dimostrata
ostile alla destra. Anche in questi decenni di profonda crisi sociale e di
vocazione i torinesi hanno cercato risposte a sinistra piuttosto che a
destra, nonostante i ripetuti tentativi delle compagini fasciste e
post-fasciste di mestare le acque nei quartieri popolari ed indirizzare la
rabbia verso gli immigrati. Coloro che in Fratelli d’Italia si candidano a
governare Torino nella prossima legislatura sono vecchie conoscenze
dell’antagonismo torinese. Maurizio Marrone ed Augusta Montaruli fin
dall’inizio della loro carriera politica nel FUAN si sono misurati con la
forte opposizione antifascista ed antirazzista alla loro propaganda. Sanno
che “a Torino non si passeggia” e che i movimenti sociali della città sono
un ostacolo concreto alle loro mire politiche. Non tanto e non solo per via
dell’antifascismo militante che è impresso nel DNA di uno dei territori al
centro della Resistenza Partigiana, ma soprattutto perché la presenza di
movimenti sociali radicati, strutturati e socialmente organizzati impedisce
alla destra di incanalare il malcontento nelle loro narrazioni rancorose e,
come si diceva sopra, nella loro politica simbolica. È questo il vero punto
che tanto il centro-sinistra istituzionale che i tanti commentatori
progressisti non riescono a capire. Finché le forze sociali sono organizzate
e vigili, finché l’antagonismo si esprime sul terreno del conflitto sociale
di massa, la destra non ha spazi per insediarsi nelle pieghe della città. La
controparte punta proprio a disorganizzare queste forze, a gettarle
nell’isolamento, a rompere il vincolo solidale che esse costituiscono nella
prospettiva di un cambiamento radicale dello stato di cose presente. Solo
così una città come Torino è espugnabile. Sono anni che la destra lavora a
questo progetto. Si mormora nei precedenti tentativi di sgombero di incontri
in Prefettura con il Ministro Piantedosi alla presenza di Augusta Montaruli,
non si sa a che titolo. La stessa Montaruli dalla cui segnalazione sarebbero
partite le pratiche per l’espulsione di Mohamed Shahin. Sui giornali i
retroscena parlano di Maurizio Marrone, papabile candidato sindaco del
centrodestra, come vero regista dell’operazione di sgombero. È uno spartito
più o meno simile, anche se con intensità diverse, a quello che viene
suonato in altre città governate dal centro-sinistra o in territori come la
Val Susa dove i movimenti sociali sono particolarmente strutturati e forti.
La pavidità del sindaco Lo Russo di fronte all’ennesimo tentativo di portare
a termine questo progetto avrà un costo politico per la città ben più
profondo di qualsiasi nenia sulla legalità e la sicurezza. Alle ultime
elezioni il PD a Torino ha vinto più per il rifiuto di lasciare la città in
mano alla destra che per la convinzione verso un’amministrazione che si è
dimostrata, salvo rari casi, impalpabile, compromessa con gli interessi
imprenditoriali che hanno mandato allo sfascio la città e per lo più
inadatta a governare la profonda crisi sociale. Il patto per il bene comune
era, non va nascosto, il punto d’incontro tattico tra esigenze e storie
profondamente diverse. Da parte dei militanti e delle militanti
dell’autonomia torinese c’era il bisogno di rispondere ad un attacco a 360
gradi nei confronti delle esperienze di autorganizzazione in città, ma anche
di prendere atto che una stagione delle forme che aveva assunto questa
autorganizzazione in passato si stava chiudendo, senza rinnegare la propria
storia e la propria natura antagonista. Dall’altro lato l’amministrazione di
centro-sinistra voleva evitare che la compagine di destra al governo del
paese utilizzasse lo sgombero per pesare sugli assetti politici cittadini
dall’esterno e che esso potesse influire sulla tenuta della maggioranza in
Comune. Era chiaro fin dall’inizio che questo patto tra esperienze politiche
radicalmente differenti e spesso contrapposte si reggeva, fuor di retorica,
sul mutuo interesse nel contrastare il progetto delle destre e non su un
tentativo di recupero istituzionale del centro sociale. Nonostante ciò la
retorica che il sindaco ha messo in campo è sempre stata sulla difensiva, un
tentativo di mascherare la realtà dei fatti dietro un velo di ipocrisia che
si può riassumere nella parola “legalizzazione”. Questo terreno ambiguo
battuto dalla comunicazione istituzionale ha costruito le premesse per il
disastro politico che l’amministrazione sta affrontando. Ciò che è
tristemente grottesco è che mentre il governo di destra produce
quotidianamente forzature nell’ambito della legalità data, affrontando
persino processi giudiziari come momento di rafforzamento della propria
narrazione, il centro-sinistra giustizialista si impicca con le proprie mani
alla corda della legalità. Il patto per il bene comune aveva acceso molte
speranze e forse illusioni in settori della società torinese stanchi di un
centro-sinistra incolore ed insapore, ma il sindaco invece di rivendicare la
legittimità sociale riconosciuta di questo processo ha sempre giocato di
rimessa, accettando le retoriche delle destre sul centro sociale, ma
sostenendo che una sua “legalizzazione” sarebbe stata più efficace di uno
sgombero violento. L’ennesimo tentativo di mascherare una scelta politica
come un atto amministrativo, invece di rivendicarla apertamente. Il sindaco
in parole povere voleva la botte piena e la moglie ubriaca, sperava di
portare avanti la sua immagine di moderato affidabile (una posa che in
questa epoca storica non produce nessun consenso) senza alienarsi i consensi
di chi in città vorrebbe una sinistra perlomeno più coraggiosa. Non ha avuto
né l’una, né l’altra sventolando la bandiera bianca. Il sindaco ieri si è
nuovamente pronunciato mostrando di avere, almeno in parte, capito di essere
caduto nella trappola appositamente confezionata. Ha ventilato l’ipotesi di
una nuova assegnazione e del rilancio del patto. Difficile dire come si
giocherà la partita istituzionale per recuperare il consenso a sinistra
mentre i guastatori della milizia di Piantedosi stanno occupando
militarmente e tentando di rendere inutilizzabile lo stabile.
3. Sumud. Nelle dichiarazioni ai giornali attivisti ed attiviste hanno
collocato lo sgombero all’interno della più ampia dinamica di attacco nei
confronti del movimento in solidarietà con la Palestina che ha riempito le
piazze italiane negli ultimi mesi. La stessa sequenza storica lo dimostra
chiaramente: prima il tentativo di espulsione di Mohamed Shahin, punto di
riferimento del movimento contro il genocidio a Torino, poi, quando
l’inconsistenza delle accuse su cui era basato il decreto di esplulsione è
stata confermata dalla Corte d’Appello di Torino, lo sgombero di Askatasuna.
A Torino il movimento “Blocchiamo tutto” è stata un’esperienza di effettiva
ricomposizione sociale che ha visto il protagonismo di scuole, università,
luoghi di lavoro, quartieri popolari. Una forza trasversale e radicale che
ha investito molti ambiti della vita cittadina.
Come in molti altri posti d’Italia la mobilitazione ha raggiunto picchi che
non si vedevano da decenni. Questo movimento ha mandato in crisi di nervi la
narrazione del governo tesa a disegnare il conflitto sociale sempre in una
forma criminalizzante. Gli attacchi scomposti degli esponenti della
maggioranza nei confronti dei manifestanti raccontano quanto questo
movimento gli sia indigesto e insopportabile. Questo per vari motivi: dal
fatto che rivela la subordinazione internazionale dell’Italia ad altre
potenze, fino alla dimostrazione che uno sciopero sociale reale può contare
persino sugli equilibri degli scenari internazionali (ne abbiamo parlato più
lungamente qui). Nonostante il finto cessate il fuoco nella Striscia di Gaza
i presupposti sociali e politici che hanno portato allo sviluppo di questo
movimento sono ancora tutti sul tavolo. Ma nel frattempo si sono
solidificate anche nuove militanze, nuovi spazi e nuove forme di attivazione
politica. La spallata al governo, più che dalle opposizioni parlamentari e
dai giudici, sfere con cui la destra è abituata ad utilizzare una retorica
collaudata ed efficace, può venire da questa forza potenziale delle piazze.
È per questo motivo che gli apparati di disciplinamento statuali da mesi
procedono con un tentativo scientifico di disarticolazione del movimento,
tanto sul piano della delegittimazione delle istanze, quanto su quello
poliziesco e giudiziario. Ondate di troll hanno invaso i social media con
commenti fotocopia sperando di spostare un’opinione pubblica drasticamente
ostile al genocidio ed ancora una volta spezzare il vincolo di solidarietà.
L’efficacia di questi dispositivi è relativa: in parte perché ai tentativi
di repressione si sovrappone un rancore politico tipico di quella compagine
che può compiacere i fedelissimi, ma appare disarmante al resto della
popolazione. Ed in parte perché questo movimento ha realmente trasformato i
rapporti sociali, ha mostrato nuove possibilità di fare politica dal basso,
ha generato nuovi modi di informarsi e confrontarsi, specialmente tra le
giovani generazioni.
4. L’elmetto. Quasi tutte le società europee, indipendentemente dalle compagini
che le governano, stanno restringendo sistematicamente gli spazi di dissenso
e contestazione. Il motivo è molto semplice: il popolo non vuole la guerra,
quindi bisogna disciplinarlo alla guerra per difendere gli interessi di un
capitalismo, quello europeo, in crisi profonda. Il principale problema che
si trova di fronte la politica di riarmo e militarizzazione dell’UE è
proprio l’opinione pubblica interna, in gran parte indisponibile a diventare
carne da cannone, sia a livello economico-sociale, sia a livello prettamente
militare. Per preparare la guerra non bastano gli investimenti nella difesa,
la reintroduzione della leva, l’ampliamento degli eserciti di professione:
bisogna che almeno in una parte significativa la società sia convinta della
necessità dello scontro. Dunque bisogna neutralizzare e silenziare le forze
sociali che si oppongono ad essa, bisogna impedire che questo senso comune
si faccia mobilitazione, che il rifiuto della guerra da opinione passiva e
privata prenda le forme di un’opposizione sociale. È proprio nelle lotte
contro la guerra che sta iniziando a nascere una nuova consapevolezza
politica che collega il regime di militarizzazione con la crisi economica,
la stagnazione dei salari, i tagli al welfare e l’austerità.
È necessario collocare l’attacco ad Askatasuna all’interno di questo scenario
per comprendere quante partite si giocano all’interno di questo evento, ma
soprattutto per capire che la risposta non può riguardare solo l’identità
storica dei centri sociali come spazi di aggregazione e pensiero alternativo,
ma deve investire le contraddizioni del presente ed essere all’altezza del
futuro che abbiamo di fronte. È ancora un altro inizio.
All’alba di ierila polizia ha “sgomberato” a Torino, con una operazione
altamente spettacolare, il centro sociale Astakasuna.
di Livio Pepino, da Volere La Luna
Così dichiarano, in coro, ministri e vertici istituzionali e così titolano i
giornali scritti e parlati. Vero, ovviamente, il fatto, ma la vicenda è, in
realtà, più complessa di un semplice sgombero. Conviene, dunque, andare con
ordine e riavvolgere il nastro.
Askatasuna è stato, fino a un paio di anni fa, il centro sociale più noto e
frequentato della città, attivo da trent’anni in un ex asilo occupato in corso
Regina Margherita 47, luogo di attività sociali e di eventi culturali e
musicali, politicamente impegnato su molti fronti (dalla lotta per la casa
all’opposizione al Tav), portatore di una forte carica antagonista. Ma, da
ultimo, esso è stato anche protagonista di un’inedita iniziativa di
confronto/collaborazione con le istituzioni cittadine. In particolare, insieme
con altre realtà del territorio, Aska, come abitualmente chiamato dai suoi
frequentatori, ha lanciato l’idea di una trasformazione del centro sociale in
una struttura articolata e partecipata a disposizione del quartiere.
L’iniziativa ha avuto seguito e il 30 gennaio 2024 la Giunta comunale ha
adottato una delibera con la quale lo stabile occupato da Askatasuna è stato
individuato come “bene comune” da assoggettare a un “governo condiviso” con il
gruppo dei proponenti, rappresentativo anche degli occupanti. È così
iniziata una fase di “co-progettazione” finalizzata a mettere l’edificio in
condizioni di sicurezza e di maggior agibilità per attività sociali, culturali e
ricreative utili al
territorio (https://volerelaluna.it/politica/2024/02/02/ce-qualcosa-di-nuovo-sotto-il-sole-askatasuna-e-il-futuro-dei-centri-sociali/ ). Il
progetto – seppur con la lentezza tipica delle operazioni burocratiche e con
rapporti spesso complicati tra le parti – è proseguito in questi due anni, nel
corso dei quali il collettivo di Askatasuna ha mantenuto un’intensa attività,
soprattutto in città e in Valle di Susa, ma ha sostanzialmente dismesso
l’edificio di corso Regina Margherita di cui è stato usato per iniziative solo
– e saltuariamente – il cortile (non interessato ai lavori di riqualificazione).
Questo lo stato delle cose oggi, quando è intervenuto lo sgombero, effettuato da
ingenti forze di polizia, carabinieri e guardia di finanza in tenuta
antisommossa, che hanno bloccato il quartiere Vanchiglia, chiuso due scuole,
deviato il traffico e finanche il tragitto dei mezzi pubblici e fatto irruzione
nello stabile dell’ex asilo, provvedendo, all’esito, a murarne gli accessi e a
disattivare le utenze di acqua e luce. Superfluo dire che la dismissione
dell’edificio è stata constatata dalle stesse forze di polizia intervenute
che, nel corso della perquisizione effettuata, hanno trovato solo, ai piani
superiori, sei “attivisti” dormienti e due gatti (sic!): davvero poco per un
centro sociale operativo e tale da attentare, addirittura, all’ordine pubblico!
Nonostante ciò, la vicenda ha avuto grande eco di stampa, accompagnata da
dichiarazioni trionfalistiche del Governo e della destra. Ciò impone alcune
considerazioni.
Primo. L’avversione della destra per i centri sociali non è certo una
novità. Negli anni, poi, Askatasunaè diventata, per l’attuale maggioranza
politica (a livello locale e nazionale), una vera e propria ossessione,
contrassegnata da reiterate richieste di sgombero e da una campagna di
criminalizzazione a cui hanno dato sponda le forze di polizia (con frequenti
perquisizioni e arresti di suoi aderenti), la Procura della
Repubblica cittadina (che si è spinta a istruire un processo per associazione a
delinquere, dichiarata totalmente inesistente, all’esito del dibattimento di
primo grado, dal Tribunale di
Torino: https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/04/16/15-giorni-dopo-lassoluzione-di-askatasuna-un-silenzio-istruttivo/) e
la stampa, che si è distinta, quasi senza eccezioni, nell’indicare il centro
sociale come responsabile di ogni disordine o nefandezza avvenuta a Torino, in
Valle di Susa e, da qualche tempo, in ogni parte (o quasi) del territorio
nazionale. Fino ad oggi, tuttavia, nessuno sgombero era stato neppure
tentato. L’attuale operazione, avvenuta senza alcun nuovo elemento, rappresenta,
dunque, un salto di qualità dettato da scelte politiche nazionali, essendo
evidente la sproporzione – a dir poco – tra lo sgombero e il perseguimento di
eventuali specifici reati commessi da persone presenti nel centro sociale. La
sua finalità è chiara e consiste nel tentativo del Governo e della maggioranza
politica di riguadagnare terreno dopo le ripetute smentite ricevute
dall’autorità giudiziaria (a cominciare dall’esito del già ricordato processo
per associazione a delinquere); di contrastare e indebolire le mobilitazioni(di
cui Askatasunaè stata ed è parte significativa) contro il genocidio in
Palestina e contro le derive autoritarie e la repressione delle opinioni
dissenzienti in atto in città e nel Paese; di ostacolare la politica di governo
inclusivo del territorio intrapresa, in questo caso, dal Comune di Torino.
Secondo. L’ultimo rilievo introduce una seconda, inquietante
considerazione. L’operazione di sgombero effettuata dalla polizia è stata
diretta non solo contro Askatasuna ma anche contro il Comune di Torino, a cui –
insieme ai cittadini proponenti – fa attualmente capo lo stabile sgomberato e
che ha approvato e gestito il progetto di riqualificazione bruscamente e
autoritativamente interrotto. Il fatto, rivelatore di un conflitto aperto tra
istituzioni sulle modalità di governo della città
(https://volerelaluna.it/politica/2024/02/06/torino-e-il-caso-askatasuna-due-modelli-di-citta/),
è di una gravità inaudita. Per questo, ha dell’incredibile l’atteggiamento del
sindaco che, lungi dall’opporsi – come pure sarebbe stato doveroso – a un
intervento teso a vanificare un proprio progetto, ha dichiarato in tempo
reale la “cessazione” del patto di collaborazione per la riqualificazione dello
stabile in conseguenza dell’“accertamento della violazione delle prescrizioni
relative all’interdizione all’accesso ai locali” (circostanza idonea
a motivare, eventualmente, richieste di chiarimento e successive prescrizioni ma
non certo la chiusura d’autorità – e da parte di altri – dell’edificio e del
progetto per esso elaborato). La dichiarazione è del tutto incongrua (non
foss’altro perché il “patto di collaborazione” era stato sottoscritto non
con Askatasuna ma con i proponenti il percorso di riqualificazione) e, per i
suoi tempi e il suo tenore, evidenzia un’intesa con l’autorità di polizia e una
subalternità al Governo centrale che si addice a un podestà di epoca fascista
più che a un sindaco di una Repubblica costituzionale.
Terzo. Lo sgombero apre nuovi scenari, anzitutto per Askatasuna, la cui scelta
di aprire un rapporto con l’istituzione cittadina, fin dall’inizio non
indolore, lasciava intravedere nuove possibili strategie per i movimenti
antagonisti (https://volerelaluna.it/politica/2024/02/02/ce-qualcosa-di-nuovo-sotto-il-sole-askatasuna-e-il-futuro-dei-centri-sociali/). Oggi ciò
è ancor più necessario. Lo scrivevamo qualche mese fa, all’indomani dello
sgombero, a Milano, del Leoncavallo: «In società complesse e conflittuali come
la nostra non è pensabile che le realtà aggregative si riducano alle parrocchie
e ai circoli Arci… Le realtà borderline come i centri sociali non sono un lusso
ma una necessità. Oggi più di ieri. Ma la loro realizzazione richiede,
probabilmente, nuove modalità, nuove strade, nuove alleanze»
(https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/08/25/cera-una-volta-il-leoncavallo/). All’inizio del
percorso che ieri si è traumaticamente interrotto, il collettivo
di Askatasuna, in un comunicato stampa dall’ironico titolo “Così è se vi
pare”, scriveva: «Sospenderemo la programmazione delle serate musicali e
culturali, con la promessa di farne un orizzonte reale. Temporaneamente faremo
in modo che queste iniziative possano vivere nelle strade della nostra città e
del quartiere. Sicuramente continueremo a partecipare alle numerose lotte e
percorsi che da anni portiamo avanti in città». Una rivendicazione di
continuità, pur in una dimensione nuova, che ieri era una scelta, oggi diventa
una necessità. Ed è una questione che coinvolge tutti.
Quarto. La vicenda interpella anche le forze democratiche della città, già
ferita da recenti attentati alle libertà più elementari, dall’annullamento di
autorità di un incontro sulla imperante russofobia, anche allora con un
coinvolgimento del Comune
(https://volerelaluna.it/controcanto/2025/11/11/liberta-vigilata/), al
provvedimento di espulsione dell’imam di San Salvario
(https://volerelaluna.it/commenti/2025/12/01/limam-mohamed-shahin-noi-il-maccartismo/). È
tempo che le forze democratiche riprendano l’iniziativa e facciano sentire la
propria voce. Un’indicazione in tal senso viene dai “garanti” dell’operazione di
riqualificazione e rilancio del centro sociale di corso Regina Margherita che,
in un comunicato emesso subito dopo lo sgombero, propongono di riaprite la
partita: «Chiediamo alla Giunta comunale e alle forze politiche che la
sostengono di adoperarsi per la riattivazione del progetto e ribadiamo il nostro
impegno ad operare in tale direzione, convinti che le complesse dinamiche
cittadine richiedono dialogo e confronto e non interventi autoritari e
repressivi che – è facile prevederlo – determineranno solo ulteriori
contrapposizioni e violenze»
(https://viatrivero.volerelaluna.it/comunicato-stampa-su-sgombero-di-askatasuna/).
Note a partire dal disordine complessivo contemporaneo
Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo contributo al dibattito sul movimento
“Blocchiamo Tutto” di Collettivo Sumud…
“Maybe I like this roller coaster. Maybe it keeps me high”.
Lana del Rey, Diet mountain dew
“Amore, fai presto, io non resisto. Se tu non arrivi non esisto Non esisto, non
esisto”
Ornella Vanoni, L’appuntamento
“L’ennesimo spasmo nella storia senza storia delle popolazioni depauperate” “Una
teoria del presente può nascere dall’esperienza diretta dei conflitti”
Joshua Clover, Riot, sciopero, riot.
Partiamo da questo, che è il punto più semplice. Sono i conflitti a definire il
nostro pensiero e la nostra azione. Non siamo noi a decretare il conflitto, ad
agirlo, ma è il conflitto che agisce su di noi. Noi non esistiamo fuori da esso,
ed è proprio quest’ultimo il referente a cui costantemente ci rifacciamo. Quando
questo conflitto, inteso come rapporto sociale sempre presente, si esplicita
nelle molteplici forme, bisogna essere lì dove questo si dà. Ma quando torna nel
sottosuolo, allora dobbiamo fermarci, per provare a capirlo e studiarlo, nella
speranza di farsi trovare prontx alla sua prossima emersione autonoma.
Proprio come i funghi, il conflitto è un rapporto sociale che possiede una fitta
rete sotterranea, invisibile ma sempre presente, che ogni tanto emerge per
entrare nella vita e nei discorsi di tuttx.
Insomma, il conflitto per noi non è semplicemente lo scontro di piazza,
l’organizzazione di classe, le strutture militanti, ma è un qualcosa di più
ampio, che eccede tutte queste cose qua.
Pensiamo sia quindi necessario interrogarsi sulla recente emersione del
conflitto dal sottosuolo in cui stava proliferando. Dal 22 settembre a Milano,
al 14 ottobre a Udine, passando più volte per Roma, Torino e Bologna, un
qualcosa si è dato. Che sia un principio di nuove forme di lotta di classe, di
rivolte urbane, di sollevazione etica o politica risvegliatasi, è troppo presto
per dirlo, e soprattutto è poco interessante cercare di incasellare precisamente
quanto successo, anche per la complessità caotica che l’ha caratterizzato. Ogni
piazza per la Palestina che è stata attraversata dal conflitto ha delle proprie
particolarità che proveremo a riassumere, ma non c’è sicuramente un qualcosa che
possa tenere insieme il tutto. Intanto, possiamo chiederci che grammatica dare a
questo conflitto, cosa lo ha prodotto e cosa ha messo in moto. Ma soprattutto,
se andrà avanti.
Notiamo delle evidenti differenze tra fine settembre/inizio ottobre, e tutto
novembre, le cui ultime grandi chiamate di fine mese (ovvero Bologna e
Milano/Roma) sembrano segnare il definitivo ritorno nel sottosuolo del conflitto
per rimpiazzarlo invece con le classiche dinamiche dei movimenti sociali
(politica della denuncia, della rappresentazione, degli scontri organizzati,
dell’egemonia della sinistra, etc).
Ma la storia procede a spasmi.
Senza nessun tipo di positività o ottimismo, oggi vediamo la storia prodursi
dalle mani delle popolazioni depauperate, di chi non ha presenza, da chi deve
emanciparsi dalla non-esistenza. Non è importante sapere chi è sceso in piazza a
settembre/ottobre/novembre; ciò che conta è cosa è stato fatto, e cosa faccia
emergere. Questi mesi hanno prodotto una storia, quella della plebe
contemporanea, e dobbiamo chiederci noi, in quanto compagnx, come ci situiamo
all’interno di questa storia.
PRESUPPOSTO
Questo testo viene scritto per provare a stimolare un dibattito rispetto a dei
grumi, a dei nodi, che chi scrive non riesce a superare. La speranza è che le
questioni presentate siano temi caldi per chi leggerà, con la volontà di
generare riflessioni e scambi, di avanzare delle domande per intravedere un
orizzonte comune. Come probabilmente chi legge, siamo statx nelle varie piazze
dove, per questioni generazionali, abbiamo assistito a cose mai viste e, adesso,
sentiamo di chiederci come andare avanti: ovvero, cosa sopravviverà di questi
mesi.
Siamo compagnx giovani che si sono trovatx per la prima volta in vita loro di
fronte ad un effettivo movimento di massa. Forse a livello numerico la cosa più
vicina fu il Fridays for Future, nel 2018/19, ma lontano per pratiche e
discorsi, che infatti non produssero eccedenza. Tutto rimase nei ranghi delle
modalità classiche del movimento sociale: ovvero un’aggregazione volta alla
denuncia di una presunta distanza tra le volontà del Potere e le persone. Il
movimento per la Palestina, invece, soprattutto negli ultimi mesi, ha visto
rivolte, blocchi e occupazioni attraversare l’Italia. È diventato sì un
movimento di massa, ma ha visto l’emergere di nuove soggettività, la messa in
campo di nuove pratiche, e così via.
Come diremo più avanti, questo non è affatto un testo autocelebrativo, nè
intendiamo esaltare il lavoro delle componenti soggettive (gruppetti, aree
politiche, partitini di sinistra etc.), il cui ruolo è tutt’al più cavalcare i
movimenti di massa, o dare loro un’infrastruttura organizzativa nei migliori dei
casi. No; l’attenzione la poniamo invece sull’eccedenza, su quella fascia di
popolazione che è emersa con nuove pratiche, che ha saputo strabordare da quelle
classiche dei movimenti sociali o dei discorsi umanitari. Riteniamo sia grazie a
questa componente soggettiva che il movimento per la Palestina sia diventato al
contempo di massa e conflittuale, e non per le scelte politiche di chissà chi
–che anzi il più delle volte agiscono da pacificatori e limiti interni.
Il presupposto è quindi questo: concentrare l’attenzione sulle nuove pratiche di
piazza, a quali soggettivazioni corrispondono, senza nessuna volontà
autocelebrativa; perché come si diceva prima, è il conflitto che ci definisce,
non il contrario.
Per questo motivo, l’attenzione del testo è sulle forme evidenti di conflitto
che hanno definito le piazze nei mesi di settembre, ottobre e novembre; non
vuole essere assolutamente un’analisi complessiva su questi due anni di
mobilitazioni, né tantomeno una perlustrazione di tutte le forme di lotta che si
sono utilizzate, né di dare una gerarchia della conflittualità, cosa davvero
poco interessante. Ci concentriamo su quelle dinamiche di piazza in cui il
conflitto e la violenza sono diventate una questione collettiva; senza sminuire
altre pratiche, come ad esempio i blocchi degli hub logistici (come è successo a
Pioltello Limito), che creano effettivi danni economici ad aziende.
Per chiarezza, quando usiamo il “noi” in questo testo, non vogliamo
identificarci in un’area politica delimitata, o in una soggettività militante
precisa. Il “noi” è quell’insieme di compagnx che si sentono toccatx dalla
nostra stessa urgenza, ovvero interrogare il conflitto, a prescindere dalle aree
politiche, dal fatto che si organizzino in strutture militanti o no. Insomma, il
“noi” è chi assume la “disposizione etica a condividere ciò che è comune”,
ovvero il comunismo di Tiqqun. Il comunismo lo troviamo tra i fumi dei
lacrimogeni e in un cassonetto ribaltato per fare una barricata, più che nei
programmi politici o altro.
TEMPORALITA’ DELLE ECCEDENZE E DEI DISPOSITIVI
Questo testo non può essere preciso: non si può essere ovunque, per quanto ci si
provi, ed è quindi possibile scambiare lucciole per lanterne, o ingigantire
piccole novità, tanto quanto perdersi pezzi per strada, e non cogliere qualcosa.
Nonostante questo, proviamo a darci degli strumenti di analisi.
Dal 22 settembre, in particolare a Milano, passando per il 4 ottobre a Roma, il
7 ottobre e Bologna e arrivando al 14 ottobre di Udine, si sono viste piazze che
hanno ecceduto nelle pratiche di strada senza però far saltare gli schemi
classici dei movimenti sociali. Questo è successo generalmente in tutta Italia,
dove cortei anche pacifici strabordavano i centri cittadini per andare a
occupare tangenziali, autostrade, stazioni e aeroporti, bloccando gli spazi
della circolazione delle metropoli. Questa eccedenza si è presa la scena,
accompagnando liminalmente i vari obiettivi o motivazioni di fondo che
spingevano le persone a manifestare. La rabbia che hanno espresso queste date
non era organizzata, mediatizzata o concordata, ma appunto esprimeva un
sentimento di indisponibilità, di violenza, di rivalsa, di possibilità; una
rabbia ingovernabile spinta dal puro istinto di sopravvivenza. Però per chi ha
attraversato le mobilitazioni di questi mesi, questa traiettoria sembra già
spegnersi, o quantomeno tornare nel sottosuolo. La piazza di Bologna del 21
novembre ha di fatto riconsegnato questa mobilitazione al movimento sociale,
inteso come dispositivo mediatico, organizzato in accordo con la polizia,
circondato dai soliti discorsi e le solite pratiche reiterate, pacificando così
ogni possibilità di scontro reale. Le due giornate per la Palestina del 28 e 29
novembre invece hanno riportato migliaia di persone sotto gli interessi dei
partiti di sinistra o di aree politiche extraparlamentari, che mettendosi in
testa al movimento hanno tolto spazio alle pratiche più conflittuali. Settembre
e ottobre 2025 hanno segnato la riproduzione di pratiche conflittuali
allargandosi e così eccedendo rispetto alle forme classiche dei movimenti
sociali. Il conflitto è sempre latente e noi ci aspettiamo che nei prossimi mesi
riemerga, ma nelle piazze di novembre ha visto un arresto, con il ritorno del
dispositivo movimento sociale (concetto approfondito nei link a fine testo).
PUNTO DI PARTENZA
Il movimento o, meglio, il conflitto che emerge da questo movimento, in
particolare degli ultimi mesi, ha visto la solidarietà alla resistenza
palestinese aprire contraddizioni e spazi di agibilità su diversi temi. Si sono
individuate varie connessioni tra un “lì” e un “qui” come piattaforme per
analizzare il mondo a noi circostante, ma questo lavoro di preparazione,
informazione e divulgazione politica non è solo ciò che ha attivato le persone
portandole a scendere in strada. Non per sminuirne l’importanza, o screditare il
lavoro fatto: il tempo della controinformazione si è già in gran parte esaurito.
Infatti, chi è scesx in piazza tra settembre e ottobre 2025 non crediamo l’abbia
fatto contro il tecno-controllo o l’imperialismo, per il de- colonialismo, o
l’intersezionalità, e così via; queste sono categorie di interpretazione nostre
e di natura politica, ma che raramente aderiscono perfettamente alla
quotidianità di chi sopravvive e lotta nelle nostre città. La ricerca di un
linguaggio comune o di una causa superiore che unisce tuttx è solo un modo per
provare a leggere l’illeggibile, facendo rientrare il tutto in canoni discorsivi
e dialogici. Il tentativo di questo testo è proprio cercare di togliersi queste
lenti di analisi strettamente politica della realtà, e porre invece l’attenzione
sulla concretezza dei motivi per i quali le persone si rivoltano, che non
pensiamo si trovino in questi “grandi temi” appena citati.
C’è qualcosa di prepolitico, e ante-politico, alla base di questa emersione
autonoma del conflitto negli ultimi mesi. Chi tirava indietro i lacrimogeni,
ribaltava un cassonetto, resisteva a una carica della polizia, non pensiamo
l’abbia fatto per presa di posizione morale e ideologica; questo si dà, più che
altro, nei gruppi già militanti di sinistra, spesso restii al conflitto sociale,
se questo non prende le forme ideologiche di loro gusto.
Piuttosto, le soggettività protagoniste del conflitto spesso si attivano a
partire dall’odio, dal bisogno, dal disgusto: prima della politica ci sono le
viscere, ovvero un sentimento prepolitico di sopravvivenza in un mondo in cui il
vivere è sempre più lontano. E quindi le cause di questa emersione autonoma del
conflitto non rientrano più nella sfera della denuncia – di questa o quella
istituzione, azienda, banca, etc. – né nella sfera dell’ideologia politica.
Anche se importante, non è sicuramente grazie al lavoro “politico” che la gente
in strada ribaltava cassonetti e rilanciava i lacrimogeni. Per quanto il lavoro
militante sia necessario per collettivizzare conoscenze e coscienze, non può
paternamente considerarsi protagonista né promotore del conflitto sociale. E
allora cosa ha portato all’attivazione di sempre più persone? A cosa è
dovuto questo innalzamento della conflittualità di piazza, della
collettivizzazione e riproduzione di pratiche di strada? Avanziamo due proposte.
Per chiarezza, quando usiamo i termini prepolitici o ante-politica, non li
usiamo in maniera dispregiativa, o infantile, anzi l’opposto. Vogliamo però
concentrare l’attenzione sui processi che spingono le persone in piazza a
rivoltarsi contro la polizia; il perno di questi processi non pensiamo sia da
ricercare nella politica classica del movimento sociale (denuncia, indignazione,
auto-rappresentazione, etc.), in un lessico comune, o nel discorso umanitario,
ma in una sfera situata prima di questa, ovvero quella della vita o, meglio,
della sopravvivenza e dell’autoconservazione. È questo istinto, che non trova
una lingua collettiva nella sfera della politica, e che non ha cause
ideologicamente leggibili, se non la mera sopravvivenza, che pensiamo sia alla
base dell’emersione autonoma del conflitto. Ed è questo slancio vitale che
invalida le costruzioni politiche e ideologiche su quanto succede, lasciandoci
con più domande che risposte.
“Non vediamo l’insufficienza della nostra città, e crediamo naturale
l’insufficienza delle nostre vite. Per uscire da questo condizionamento,
dobbiamo ricercare un altro uso del paesaggio urbano, cercare passioni nuove:
non possiamo aspettarci niente da ciò che non abbiamo modificato noi stessi” Guy
Debord, Sur le passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de
temps
FALCE E ALGORITMO
Avanziamo l’idea che la situazione che si è data da settembre a novembre sia la
sintesi di due processi di soggettivazione, opposti tra di loro e fondamentali
per l’emersione del conflitto. Fondamentali, quindi, anche per capire il
conflitto. Ovviamente, sono i due che vediamo come “nuovi” sulla scena, ma
sicuramente non gli unici ad esistere.
Soggettività algoritmica
Con questo termine, vogliamo indicare quel processo di soggettivazione, e di
consequenziale attivazione, indissolubilmente legato al ruolo dei social
network. Non per essere tecno-positivisti, o al contrario primitivisti, ma non
si può non comprendere l’importanza degli algoritmi nei processi di
soggettivazione; l’accezione di questa importanza è per noi neutra. Le piazze si
sono riempite perché il continuo bombardamento social di immagini, sia di
distruzione di Gaza che di attivazione di massa, hanno imposto una scelta morale
di attivarsi a chi le guardava. Le intifade studentesche dell’estate 2024 sono
state anticipate da qualche mese di costante esposizione ai video delle
occupazioni americane, delle loro barricate, e così via. Se non ci fosse stato
questo boost algoritmico di quello che succedeva lì, non sappiamo se ci sarebbe
stata la stessa risposta di massa studentesca all’appello ad occupare. La stessa
dinamica si è data quest’estate e successivamente nei mesi da settembre a
novembre. Porre l’accento sulla soggettività algoritmica, cioè la fetta di
popolazione che si è attivata a partire dalle immagini spinte sui social, non è
un modo per delegittimare la sua azione, né cercare un ruolo salvifico nei
social network. Piuttosto ne parliamo nel tentativo di capirne i punti di
partenza, e per capire i periodi di riflusso e di “bassa”, a cui adesso andiamo
oggettivamente incontro, più che giudicare le forme di attivazioni, o i motivi
alla base di essa. E come i social network hanno un ruolo nel far attivare le
persone, così possono anche disattivarle, caricarle di un dolore ingestibile e
debilitante, come spesso succede con le immagini che riceviamo dalla Palestina
(la cosiddetta pornografia del dolore) che hanno invaso i nostri spazi di vita
creando un fortissimo senso di impotenza. Questo non pretende di essere un
discorso nuovo, ma piuttosto uno snodo su cui continuare a riflettere sulle
forme di attivazione, la loro costanza, la loro incisività, e le pratiche di
piazza che vi corrispondono, che sono in effetti le cose che ci interessano,
ovvero i modi in cui il conflitto emerge. La questione è quindi capire il
rapporto tra processi di soggettivazione e le corrispettive pratiche di piazza.
Prendiamo come esempio l’attivazione di massa dovuta alla grande attenzione
mediatica data alla Global Sumud Flotilla, che ha creato una bolla
dell’informazione, esplosa appena sceso il clamore mediatico. Il discorso
umanitario alla base della Flotilla, e la bolla algoritmico-mediatica che l’ha
accompagnata, hanno portato a una mobilitazione di massa, che è però rimasta per
lo più dentro gli schemi dei movimenti sociali classici di sinistra (piazze
molto numerose ma pacificate, politica della denuncia, tentativi egemonici di
aree o partitini, etc.). Si può dire, in termini molto generali, che questo
processo di soggettivazione ha interessato soprattutto studentx, sia di scuole
superiori che università, e fasce di popolazioni di sinistra, caratterizzate
generalmente da un’attivazione etico-morale e da una condanna e un rifiuto della
violenza di piazza, tanto che appunto le pratiche consequenziali a questa
attivazione da parte di queste fasce di popolazioni sono quelle pacifiche. Non è
questa la componente eccedente a cui ci rifacciamo, come non lo è quella
componente militante che ha aderito a queste chiamate più per tornaconti che per
un reale interesse nel conflitto. Ma è qua che si situa la contraddizione,
sintomo della complessità caotica dell’emersione autonoma del conflitto. Questa
soggettivazione algoritmica, ovviamente non da sola, e il discorso umanitario
della Flotilla, hanno portato milioni di persone in piazza; una parte di questa,
quella che si può definire “eccedente”, ha colto queste occasioni per entrare in
gioco, e ridefinire le piazze in senso conflittuale, e non più di denuncia o
rappresentazione. Tra fine settembre e inizio ottobre, con le due date
simboliche del 22 settembre a Milano, e il 4 ottobre a Roma, grazie appunto a
questa componente eccedente (che eccede dai discorsi e dalle pratiche classiche
della militanza di sinistra), da piazze e scioperi legati al discorso umanitario
della Flotilla, si è passati a scenari di rivolta urbana, che hanno quindi
ecceduto rispetto alle motivazioni alla base di queste chiamate. Questo non
pensiamo sia dovuta ad una casualità, ma appunto all’incrocio di questi due
processi di soggettivazione. Abbiamo parlato del primo, quello algoritmico, ora
parliamo del secondo, la falce.
Les Jacquerie
Il secondo processo di soggettivazione su cui vorremmo porre l’attenzione e
dibattere l’abbiamo chiamato “jacquerie”. Con questo termine, tagliando con
l’accetta, ci si riferisce alle rivolte dei contadini che nel ‘500
attraversarono l’Europa, tra cui anche il nordest italiano (Val di Non in
Trentino, Mestre e Udine, territori di chi scrive questo testo, o in cui les
jacquerie è tornata, come il 14 ottobre a Udine). Queste rivolte sono un po’ uno
spasmo nella storia, una lotta contro l’accumulazione originaria, una lotta
anticapitalista in un momento storico pre-capitalista; un primo sussulto di
lotta di classe. Venivano bruciati castelli dei principi dai contadini che
facevano sempre la fame, e protette le scorte di grano per evitare che
abbandonassero le città e venissero esportate. Non c’erano particolari
rivendicazioni politiche, e mancava soprattutto qualsivoglia organizzazione
organica a questi spasmi di classe, a questa emersione autonoma del conflitto, a
questa storia di chi non è nella storia. A queste rivolte si intrecciavano le
riforme religiose e le consequenziali guerre, generando appunto quel fermento
che fece tremare il potere religioso ed imperiale in tutta Europa. Per chi
scrive, settembre e ottobre somigliavano a un ritorno delle jacquerie nelle
metropoli contemporanee, ovviamente di portata e intensità infinitamente minore,
ma che ne raccolgono certe specificità e peculiarità. Le rivolte che hanno
caratterizzato le grandi date in varie città italiane non avanzano
effettivamente nessun tipo di richiesta politica, o istanza comune, se non una
generica indisponibilità nel farsi governare, e uno slancio vitale alla
sopravvivenza in un mondo in cui guerra e sterminio sono tornati in diretta.
Resistere alle cariche della polizia non corrisponde ad altro che all’odio per
questo mondo, la voglia e il piacere di vederlo in fiamme. C’è stata
un’eccedenza di pratiche di piazza, che non trova un corrispettivo negli slogan,
nei programmi politici di chi prova a mettersi a capo di queste mobilitazioni, a
chi ci sta dentro per tornaconti di area. Anche qua, non si tratta di esaltare
questo sentimento “ante politico” della rivolta, che non trova spiegazioni
politiche o ideologiche, ma di capire il processo di soggettivazione che porta
la gente in piazza in un determinato modo che si è dato tra settembre, ottobre
ed è finito a novembre. Come detto prima, l’interesse è nel legame tra processo
di soggettivazione e pratica di piazza: in questo caso il processo di
soggettivazione della jacquerie, che riassunto potremmo definire come slancio
vitale alla sopravvivenza, indisponibilità a farsi governare, ha portato
all’eccedenza delle pratiche classiche del movimento sociale, sfociando così in
situazioni di rivolte
urbane, conflitto reale e non pacificato, mediatico, organizzato o concordato; è
questo sentimento di jacquerie che sta alla base della soggettivazione e
attivazione delle fasce di popolazione scese in piazza negli ultimi mesi. Si
scende in strada perché in pericolo c’è la vita umana nella sua totalità, più
che per altri motivi politici (opposizione al tecno-controllo, antimperialismo,
intersezionalità, de colonialismo); ovviamente ci sono persone che manifestano
anche per questi motivi politici, ma l’eccedenza di soggetti e pratiche non è
data da questi, ma da altro. Perché appunto l’emersione autonoma del conflitto è
dovuta a questa eccedenza qua, che, come dicevamo prima, si riferisce
all’attivazione di soggetti che non stanno inquadrati negli schemi militanti,
che non ne condividono un lessico comune; non si sa chi sono, sono i nuovi
barbari che parlano la lingua della rivolta, del cassonetto in fiamme come
strumento di difesa della vita. Non si tratta di mitizzare soggetti o azioni, ma
di provare a prenderle per quello che sono, ovvero un’eccedenza rispetto al già
visto e già sentito. I dispositivi del movimento sociale (pacificazione,
autorappresentazione, scontro mediatico e concordato) e del discorso umanitario
(Flotilla) non hanno intrappolato queste pratiche, che ne sono quindi eccedute,
rompendo gli argini della pacificazione per imporre il discorso della violenza,
della rivolta, dell’insubordinazione. Ovviamente, non si sono imposte
definitivamente, tanto che le rivolte sono state puntuali nel tempo e nello
spazio, non si sono diffuse e non sono state durature; già a novembre si è
notato quanto la rabbia sia rientra negli argini del movimento sociale, non
riuscendo più ad eccederlo. Ma è questa eccedenza, di soggetti e pratiche, che
brevemente ha imposto una nuova lingua, quella barbara della rivolta, che non ha
nessun significato se non nell’azione in sé, che non parla a nessunx e non dice
nulla, proprio come i contadini del ‘500. La potenza del “bloccare tutto” non
sta tanto nei danni materiali che si fanno al nemico, ma quanto invece nella
naturale e spontanea occupazione di stazioni, autostrade e tangenziali, in
quanto strutture della circolazione del genocidio, e la consequenziale tattica
diffusa di colpirle.
Per quanto l’obiettivo di questo testo sia molto diverso da quello del libro
Riot. Sciopero. Riot di Joshua Clover, è interessante provare a metterli in
comunicazione. Come già detto, il senso di questo testo non è andare alla radice
dei motivi per i quali la gente scende in piazza, o capire chi scende in piazza,
o cercare spiegazioni politiche nella situazione. Si tenta di evidenziare dei
processi di soggettivazione e le consequenziali pratiche, tattiche, azioni, etc.
È il cosa che interessa, non il chi. Ma giusto per ampliare il discorso e
lasciare uno spunto di riflessione più ampio, ci sentiamo di porre questa
questione. In questo libro Clover concentra l’attenzione sull’alternarsi dei
riot e degli scioperi, dove i primi corrispondono a lotte nella circolazione, i
secondi nella produzione. Le prime corrispondono a un momento in cui a rischio è
la riproduzione della vita, contrapposte alle lotte fatte sul luogo del lavoro,
legate quindi ai salari e agli scioperi. Il genocidio in corso dimostra la
possibilità algoritmica di sterminare una popolazione con la complicità
dell’Occidente tutto; a rischio c’è la vita umana su questo pianeta, e la sua
riproduzione, e da questa consapevolezza ritornano le jacquerie, le lotte nella
sfera della circolazione, in quanto gridi di battaglia di fronte al nuovo
sterminio. Ma anche di più. Le jacquerie e le prime lotte sul piano della
circolazione, si opponevano inconsapevolmente all’accumulazione originaria alla
base dell’ascesa del capitalismo. Sono state il primo sussulto di lotta di
classe, al contempo pre e anticapitaliste. Oggi ci troviamo di fronte a una
nuova accumulazione originaria, fatta sì di profitto, ma anche di tecnologie di
sterminio, che è l’accumulazione del capitalismo di guerra. Le rivolte di
settembre e ottobre, che hanno ecceduto il centro cittadino, andando a
strabordare negli spazi della circolazione del capitale, del profitto, del
genocidio e della guerra, sono l’ultimo e primo grido di battaglia contro
l’accumulazione originaria del capitalismo della guerra. “La logistica è l’arte
della guerra del capitale”, scrive Clover. Questo discorso va in contraddizione
con quanto detto finora, perché appunto ricerca delle spiegazioni politiche
nelle lotte contemporanee; non è questo ciò che vogliamo fare, ma pensiamo sia
utile al dibattito.
CONCLUSIONE E MATERIALE PER IL DIBATTITO
I cicli di lotta si chiudono, e non ci possiamo fasciare la testa. Il conflitto
emerge, salvo poi tornare nel sottosuolo, e non siamo noi a decidere su questo.
Ci possiamo però fare delle domande.
Cosa hanno prodotto questi mesi di mobilitazione per la Palestina? Il conflitto
che si è dato è riuscito brevemente a mettere in crisi i vari dispositivi di
controllo, abolendo ogni “linguaggio comune” a favore di un’unica grammatica
della rivolta, strabordando quindi i movimenti sociali, la pacificazione, lo
scontro mediatico ed organizzato, il discorso umanitario.
Ma perché a novembre, rispetto settembre e ottobre, tutto è tornato all’interno
delle solite dinamiche, e questo conflitto si è già spento? Come possiamo essere
un tramite, una forza che spinge il conflitto, da opporre a chi lo vuole
pacificare o mediatizzare?
Pensiamo queste siano delle domande su cui ragionare collettivamente per, come
si diceva inizialmente, cercare di farsi trovare prontx di fronte alla prossima
emersione autonoma del conflitto. Per questo motivo condividiamo pubblicamente
questo testo, per cercare di costruire un dibattito sul conflitto, che parta dal
conflitto in quanto rapporto sociale. Condividiamo anche dei testi che pensiamo
coerenti per il dibattito. Il primo, scritto a partire dalle mobilitazioni dei
Jilet Jaunes in Francia e dalle George Floyd Rebellion in America, spiega molto
bene il concetto di “dispositivo movimento sociale”, in questo testo più volte
richiamato. Il secondo testo condiviso ha come focus di analisi lo stesso
nostro, ovvero il conflitto emerso dalle mobilitazioni per la Palestina. Il
terzo è una riflessione più generale sul conflitto. Buona lettura!
> Meme senza fine
https://www.nigredo.org/2025/10/30/non-vogliamo-la-pace-note-sulle-mobilitazioni-per-lapalestina/
https://illwill.com/autonomy-in-conflict
L’azione violenta del governo contro il centro sociale torinese è un attacco a
tutte le forme di resistenza sociale e dissenso
di Salvatore Cannavò, da Jacobin Italia
Ci sono azioni che costituiscono punti simbolici di rottura. Lo sgombero di
Askatasuna, il centro sociale torinese protagonista di innumerevoli lotte a
partire da quella contro il Tav Torino-Lione, è uno di questi. Scegliendo
l’azione di forza da parte della polizia, quindi del governo, l’esecutivo alza
trionfante lo scalpo di una realtà particolarmente indigesta e che vuole essere
un monito alle varie resistenze sociali.
L’operazione è avvenuta all’alba, senza una disposizione giudiziaria, nel bel
mezzo di una trattativa tra il centro sociale e il Comune di Torino, a guida Pd,
per una riassegnazione di spazi adeguati e a pochi giorni di distanza
dall’azione dimostrativa che viene utilizzata come pretesto per colpire questa
realtà sociale, l’occupazione della redazione della Stampa per manifestare
contro la detenzione dell’imam di Torino (poi liberato nei giorni successivi).
Azione discutibile, quella alla Stampa, avvenuta tra l’altro in spazi lasciati
vuoti dallo sciopero dei giornalisti, stigmatizzata dall’intero arco
costituzionale e dalla gran parte dei commenti giornalistici paragonata
addirittura a una violenza fascista. E invece, la violenza, quella vera,
tangibile, misurabile con effetti duraturi sia umani che politici, è oggi quella
di Stato che si erge a giudice supremo della legittimità delle lotte sociali.
Può sembrare un paragone azzardato, ma la soddisfazione governativa per aver
conquistato il fortino di Askatasuna somiglia a quella delle camicie nere che
assaltavano le case del popolo. Lo dimostra la lista infinita di dichiarazioni
che provengono dai piani alti della maggioranza politica, contenti di esibire al
proprio elettorato il volto di un governo forte e autorevole che non si piega
davanti a nessuno. Ha cominciato il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi,
con un messaggio di «vittoria» sui social, ma si è scomodato persino il ministro
degli Esteri, il saltellante anticomunista Antonio Tajani, che ha commentato la
notizia con un «era ora». «Era un bene comune dei violenti, di quelli che
hanno aggredito La Stampa – dice Tajani – che vanno a fare danni contro la Tav,
sono quelli che fanno violenza ogni giorno per le strade di Torino. Era giusto
che si liberasse questo centro sociale perché non si può sempre avere la
possibilità di fare ciò che si vuole violando le leggi, e questi signori l’hanno
fatto più volte e con violenza. Sono pericolosi, ed è giusto che il centro
sociale sia stato liberato, sono anche qui d’accordo con il ministro
Piantedosi». Il volto della repressione di Stato non può essere più esplicito di
così.
Ma non è solo Tajani, ovviamente. Nel corso della giornata ci sono state
dichiarazioni di ministri, sottosegretari, capigruppo e semplici parlamentari,
in un’abbuffata di soddisfazione e gioia inusitati. E a questa parata di regime
le opposizioni, il Pd e il M5S in realtà, non hanno saputo far meglio che
invocare l’analogo trattamento, lo sgombero, anche per i fascisti di Casa Pound
e il loro stabile occupato a Roma. Come se un’azione punitiva nei confronti
dell’occupazione di marca fascista potesse giustificare quanto avvenuto a
Torino.
Sorprende, ma forse nemmeno troppo, che una parola di lucidità venga dal mondo
dello spettacolo: «Ciò che è evidente, è che oggi abbiamo assistito a
un’esibizione di forza repressiva sulla quale alcuni esponenti della destra
nazionale e locale hanno già fieramente messo il cappello. Peccato che per farlo
abbiano dovuto forzare i fatti a beneficio di narrativa». Lo ha detto Max
Casacci dei Subsonica il quale ricorda opportunamente che «non esiste una
relazione diretta tra lo sgombero e una ‘ferma risposta’ a recenti episodi
violenti, tra cui l’irruzione nella sede della Stampa, su cui sono in corso
indagini».
E infatti, se il garantismo giuridico non valesse solo per i colletti bianchi e
gli amici della politica finiti sotto le attenzioni della magistratura, si
capirebbe facilmente che un conto è la persecuzione legale per un’azione come
quella alla Stampa, altra cosa è l’azione violenta e repressiva contro
un’esperienza sociale. Una condanna per quanto avvenuto nella redazione del
giornale piemontese dovrebbe essere espressione di un regolare processo
giudiziario, del suo dibattimento, di una pubblica accusa davanti a una difesa
legale. La condanna non può essere comminata da Giorgia Meloni e Matteo
Piantedosi via forze di polizia. Per questo rappresenta letteralmente quel che
sembra: uno Stato di polizia.
Ed è davvero deprimente la coazione a ripetere del Pd che evidentemente non
vedeva l’ora di tirarsi via di dosso l’accusa, da parte della destra, di
fiancheggiamento degli estremisti di Askatasuna e che ora può tornare – dopo
aver avviato la trattativa per assegnare definitivamente uno spazio al centro
sociale – a mimare la maschera dell’ordine costituito.
Lo sgombero di Askatasuna è più di un errore, è un crimine. Come sostiene una
struttura che non è certamente tacciabile di estremismo, l’Arci, «rappresenta
una scelta grave e miope, che colpisce non solo uno spazio fisico, ma
un’esperienza sociale, culturale e politica che da decenni fa parte della storia
di Torino». Per il governo però, come detto, è uno scalpo da esibire, un esempio
della propria concezione repressiva, ma anche una vendetta per quanto accaduto
all’imam di Torino. Incarcerato e pronto per essere espulso sulla base di una
misura di polizia, il suo rilascio da parte della magistratura, sulla base delle
carte e delle evidenze giudiziarie quindi sulla base dello stato di diritto, è
stato vissuto come un affronto da parte di un governo che sulla volontà di
esercitare la massima forza repressiva non è certamente tacciabile di ipocrisia.
Anzi, il governo cerca lo scontro con la massima determinazione, sia per inviare
messaggi al proprio elettorato che al fronte avverso, ai movimenti innanzitutto,
con una intimidazione evidente e crescente.
Repressione, quindi, vendetta postuma rispetto allo smacco subito sull’imam e
poi ancora l’ennesimo messaggio relativo alle mobilitazioni di solidarietà con
Gaza e i palestinesi. Askatasuna è stata l’epicentro delle mobilitazioni
torinesi e quel movimento, che nelle scorse settimane ha attraversato le piazze
di tutta Italia, continua a rappresentare un vulnus nell’operazione di
tacitazione sociale cara al governo Meloni. Un’anomalia mal sopportata, come si
è visto anche dalla presenza del presidente dell’Autorità nazionale palestinese
(Anp), Mahmud Abbas, alla festa Atreju di Fratelli d’Italia: un’esibizione,
priva di risvolti politici concreti, per cercare di smentire il pieno appoggio
che il governo italiano ha dato e continua a dare a Benjamin Netanyahu, ma utile
per scrollarsi di dosso l’immagine di governo «complice del genocidio», accusa
che Meloni ha subito come un affronto. Ogni occasione è buona per mandare un
messaggio minatorio sul terreno della solidarietà alla Palestina. Anche le
reazioni scomposte alle parole di Francesca Albanese sull’azione contro la
redazione della Stampa sono andate in questa direzione. E lo sgombero di
Askatasuna ne rappresenta un altro tassello.
Più in generale è un’operazione dimostrativa che colpisce chiunque manifesti e
voglia opporsi. Portata avanti nel modo che più è congeniale a chi intende
governare a colpi di fermezza e autoritarismo, affezionato per storia e cultura
a questo linguaggio e ben lieto di rivendicarlo e mostrarlo con orgoglio ogni
volta che è possibile. Non solo come effetto diversivo. Le misure contenute
nella manovra di Bilancio su pensioni, fisco e tagli sociali chiedevano
sicuramente di sviare l’attenzione del proprio elettorato. Ma la violenza di
Stato esercitata a Torino va oltre: è una dimostrazione della natura profonda
del governo, l’evidenza del suo Dna culturale, il collante che meglio di tutti
tiene unita la destra italiana e che il governo Meloni, molto meglio di quanto
abbiano mai fatto i governi di Berlusconi, ostenta con fierezza. Da vera
patriota, come direbbe lei. Per questo, lo sgombero dell’Askatasuna riguarda
tutte e tutti noi.
*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore
editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al
futuro per la sinistra (Alegre, 2018) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme,
2023).
L’economista Shir Hever spiega come la mobilitazione per la guerra di Gaza abbia
alimentato un’”economia zombie” che sembra funzionare ma non ha prospettive
future.
Di Amos Brison – 16 dicembre 2025
Fonte: https://www.972mag.com
Dall’ottobre 2023, Israele sta affrontando una convergenza di shock economici.
Decine di migliaia di residenti sono stati sfollati dalle regioni di confine del
Sud e del Nord a causa delle ostilità con Hamas e Hezbollah, mentre centinaia di
migliaia di riservisti sono stati sottra dal mercato del lavoro per lunghi
periodi, lasciando i settori chiave a corto di personale e con una produttività
ridotta. I servizi pubblici, l’istruzione e l’assistenza sanitaria sono
peggiorati a causa del dirottamento della spesa pubblica verso la guerra e quasi
50.000 aziende sono fallite.
La fuga di capitali, in particolare nel settore dell’alta tecnologia, insieme
alla crescente dipendenza dai prestiti esteri, ha aggiunto una notevole
pressione all’economia, con un debito che dovrebbe raggiungere il 70% del PIL
nel 2025. Anche la reputazione internazionale di Israele si è indebolita: gli
alleati commerciali, un tempo stabili, si stanno allontanando, le sanzioni e i
boicottaggi si stanno espandendo e i principali investitori stanno iniziando a
guardare altrove.
Un rapporto annuale sulla povertà pubblicato l’8 dicembre dalla ONG israeliana
Latet sottolinea la gravità della crisi sociale. Le spese familiari sono
aumentate drasticamente dopo la guerra, quasi il 27% delle famiglie e oltre un
terzo dei bambini ora soffrono di “insicurezza alimentare” e circa un quarto dei
beneficiari degli aiuti sono “nuovi poveri” spinti in difficoltà negli ultimi
due anni.
Eppure, allo stesso tempo, l’economia israeliana ha anche mostrato segni di
resilienza. Lo Shekel si è rafforzato di quasi il 20% rispetto al dollaro
statunitense dall’inizio della guerra e la Borsa di Tel Aviv ha raggiunto
massimi storici, sostenuta in parte dalle spese militari e dall’intervento delle
banche centrali.
Per dare un senso a questi segnali apparentemente contrastanti, mercati in
crescita insieme a crescenti turbolenze sociali ed economiche, è necessario
guardare oltre gli indicatori tradizionali. Il ricercatore economico israeliano
e attivista BDS Shir Hever sostiene che Israele stia ora operando in quella che
lui definisce una “economia zombie”, alimentata da ingenti spese militari,
credito estero e negazionismo politico.
Dr. Shir Hever (Courtesy)
Per oltre due decenni, Hever ha esaminato i legami tra l’economia israeliana, il
militarismo e l’Occupazione. In un’intervista con +972 Magazine, spiega perché
la crisi economica di Israele non può essere misurata semplicemente in termini
di PIL o inflazione, e perché i pilastri che un tempo ne sostenevano la
crescita, investimenti esteri, innovazione tecnologica e integrazione globale,
stanno iniziando a erodersi. Discute anche dell’illusione di un’economia
sostenibile in tempo di guerra, del costo sociale ed economico di una prolungata
mobilitazione di massa e di come il crescente isolamento di Israele nei mercati
globali possa segnalare l’inizio di un declino a lungo termine.
L’intervista è stata modificata per motivi di lunghezza e chiarezza.
Amos Brison: Per iniziare, se ipotizziamo che la guerra di Gaza, nella forma in
cui è stata condotta negli ultimi due anni, sia finalmente terminata, si aspetta
che l’economia israeliana si riprenda e, in tal caso, come potrebbe accadere?
Shir Hever: Penso che sia importante chiedersi innanzitutto: riprendersi da
cosa?
Il problema economico di Israele è multiforme. Primo, vi è un danno diretto alla
produttività a causa dello sfollamento di decine di migliaia di famiglie dalle
aree vicine ai confini con Gaza e il Libano, e dei danni diretti inflitti da
missili e razzi in quelle aree.
Secondo, il reclutamento di quasi 300.000 riservisti per un periodo di tempo
molto lungo ha causato un calo notevole della partecipazione alla forza lavoro.
Ha anche cancellato innumerevoli giorni di formazione che erano stati investiti
in questi lavoratori, in un momento in cui i mezzi per istruire e formare i
sostituti sono ben lungi dall’essere pienamente disponibili.
Terzo, la classe media istruita in Israele sta iniziando a considerare
l’emigrazione, e decine di migliaia di famiglie sono già emigrate.
Passengers at the departure hall at Ben Gurion International airport, near Tel
Aviv, September 18, 2025. (Chaim Goldberg/Flash90)
Quarto, la crisi finanziaria: molti israeliani hanno portato i propri risparmi
all’estero in previsione dell’inflazione, a cui si è aggiunta la perdita di
valore della moneta israeliana, il calo della valutazione creditizia di Israele
e l’aumento del premio di rischio.
Con il dirottamento delle risorse per la guerra, con i dati del governo stesso
che mostrano l’acquisto di armi a credito per decine di miliardi di dollari, la
qualità dei servizi pubblici e dell’istruzione superiore è diminuita
drasticamente. Israele non è mai stato così vicino nella sua storia a cadere
nella trappola del debito, una situazione in cui lo Stato è costretto a
contrarre prestiti per coprire gli interessi sui prestiti più vecchi.
Infine, e questo è molto importante, l’immagine di Israele è diventata tossica.
Il Paese deve affrontare boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni a un livello
mai visto prima. Le aziende israeliane si accorgono che gli ex alleati
commerciali all’estero evitano di trattare con loro.
Ho letto questo articolo su Ynet in cui hanno intervistato un gruppo di
imprenditori israeliani che raccontavano di quanto si sentissero isolati e di
come i loro alleati commerciali, anche quelli di lunga data, affermassero di non
voler più avere niente a che fare con loro. Hanno descritto come, persino in
“Paesi molto amici di Israele”, sia stato detto loro “per favore, cancellate
tutti i verbali di questo incontro, non vogliamo che nessuno sappia che ci siamo
incontrati con voi”. Molto probabilmente si riferivano alla Germania, dato che
la fiera IFA si era appena tenuta a Berlino prima dell’intervista.
Amos Brison: Negli ultimi mesi lei ha descritto l’economia israeliana durante la
guerra di Gaza come un’”economia zombie”. Potrebbe spiegare cosa intende?
Shir Hever: La chiamo economia zombie nel senso che è un’economia che si muove
ma non è consapevole del proprio stato di crisi o della sua imminente fine.
People shop at the Ayalon shopping mall during the Passover holiday, in Ramat
Gan, April 14, 2025. (Miriam Alster/Flash90)
Un’economia capitalista si basa sull’idea di un orizzonte futuro costante. Non
si può avere un mercato capitalista senza investimenti, e gli investimenti si
basano sull’idea di investire denaro ora per ottenere un profitto in futuro. Ma
in Israele, il governo ha approvato un bilancio slegato dalla spesa effettiva,
portando il debito fuori controllo, e la bozza del bilancio del prossimo anno è
altrettanto delirante.
Allo stesso tempo, molte delle persone più talentuose e istruite stanno
lasciando il Paese perché non vogliono crescere i propri figli lì. Questo è
esattamente l’opposto di un orizzonte futuro: uno Stato che pianifica per
l’immediato piuttosto che per il lungo termine.
Quindi, sebbene l’economia possa sembrare funzionante in superficie, ciò è
dovuto in gran parte al fatto che una parte significativa della popolazione è
stata mobilitata per il servizio di riserva, armata, equipaggiata, nutrita e
trasportata per sostenere la guerra. La guerra è la principale attività
economica intrapresa dal governo; anche ora, a due mesi dal cosiddetto cessate
il fuoco di Trump, non c’è stata una restituzione di massa di riservisti alla
vita civile.
Haaretz ha calcolato che la distruzione della Striscia di Gaza è il più grande
progetto ingegneristico nella storia di Israele. La quantità di cemento,
materiali da costruzione, veicoli e carburante utilizzati supera la costruzione
di HaMovil HaArtzi (la conduttura idrica nazionale), che è stato il grande
progetto infrastrutturale ingegneristico degli anni ’50, e del Muro di
Separazione in Cisgiordania, che è stato il grande progetto ingegneristico dei
primi anni 2000. Quindi questa è in realtà un’economia che sembra funzionare, ma
senza alcuna traiettoria per il futuro. Si basa su un’illusione.
Amos Brison: Presumibilmente, tutti i riservisti che hanno prestato servizio in
guerra e tutte le persone sfollate dalle loro case nel Sud e nel Nord, prima o
poi torneranno a lavorare. Questo potrebbe permettere a Israele di sfuggire a
una crisi economica?
Shir Hever: Innanzitutto, molti di questi riservisti semplicemente non avranno
un lavoro a cui tornare, perché più di 46.000 aziende sono fallite durante la
guerra.
C’è anche l’aspetto psicologico. Non sono qualificato per rispondere a cosa
succede quando queste persone cercano di riprendere la vita civile, ma l’impatto
sarà probabilmente drammatico. Ricorreranno alla violenza ogni volta che
qualcosa li infastidisce, come hanno fatto per centinaia di giorni a Gaza?
Avranno bisogno di un trattamento psicologico intensivo per gestire il trauma e
il senso di colpa? Stiamo già assistendo a molti suicidi tra i soldati.
Israeli soldiers who suffer from PTSD stage a protest demanding better rights
and conditions, outside the Knesset, Jerusalem, November 3, 2025. (Chaim
Goldberg/Flash90)
Bisogna tenere presente che si tratta anche di persone che non hanno dedicato
tempo a tenersi al passo con gli sviluppi delle loro professioni e che invece
hanno commesso un Genocidio a Gaza, il che alimenta anche la crisi tecnologica e
educativa. Le iscrizioni universitarie non hanno tenuto il passo con la crescita
demografica, il che significa che Israele è sulla buona strada per diventare
meno istruito a lungo termine.
Poi ci sono i circa 250.000 israeliani sfollati dalle loro case vicino ai
confini con Gaza o il Libano, che vivono da oltre un anno in hotel. Vivono con
la convinzione che da un momento all’altro potrebbero essere invitati a tornare.
È molto difficile trovare un nuovo lavoro in queste condizioni, poiché il loro
compenso dipende dalla loro volontà di tornare nelle loro comunità di origine.
In altre parole, devono scegliere tra obbedire alle condizioni del governo o
rinunciare al loro compenso e lasciare il Paese, cosa che alcuni di loro hanno
effettivamente fatto.
Amos Brison: Tuttavia, vediamo il mercato azionario israeliano raggiungere nuovi
massimi e lo Shekel è stabile. Come si spiega questo?
Shir Hever: È importante notare che il mercato azionario non sta andando in una
sola direzione. Ad esempio, è crollato dopo il “discorso di Sparta” di Netanyahu
a settembre. La gente è andata nel panico quando ha detto questo, perché ha
riconosciuto in una certa misura che Israele è stato colpito da sanzioni,
boicottaggi e dall’isolamento economico. È stato un piccolo buco nel pallone
dell’illusione.
Ma ci sono altre ragioni per questo, una delle quali è che Israele ha cambiato
le sue regole su quanto paga i riservisti, al punto che ora vengono pagati
29.000 NIS (7.640 euro) al mese, più del doppio dello stipendio medio di mercato
in Israele e più di quattro volte il salario minimo. Alcuni ufficiali di
carriera dell’esercito hanno persino lasciato l’esercito per poter rientrare
come riservisti e guadagnare di più.
Questi riservisti non avevano nulla su cui spendere tutti questi soldi perché si
trovano a Gaza, quindi li hanno investiti in azioni, o li hanno depositati in
una sorta di fondo fiduciario tramite una banca, il che significa che, di nuovo,
finiscono in azioni. Questo continua a convogliare sempre più denaro nel mercato
azionario, quindi ovviamente il mercato azionario è in rialzo. La domanda
importante è da dove provengono questi soldi?
Il direttore generale del Ministero delle Finanze ha osservato che questi
pagamenti ai riservisti non sono ancora inclusi nel bilancio della difesa. Lo
saranno a posteriori, e quando ciò accadrà, il divario tra il bilancio approvato
e la spesa effettiva verrà a galla. A quel punto, mi aspetto che la valutazione
creditizia di Israele diminuisca e che le banche internazionali siano molto
timorose di commerciare con Israele.
Oltre a ciò, l’enorme spesa sta anche aumentando l’inflazione, mentre la
produttività non aumenta. Le persone con un reddito disponibile cercano di
proteggere i propri risparmi investendo nel mercato azionario in rialzo,
contribuendo alla bolla.
Si crea quindi una sorta di stagflazione, in cui l’inflazione aumenta
parallelamente a un rallentamento economico. La Banca Centrale israeliana ha
gestito la situazione vendendo ingenti quantità di dollari, soprattutto
all’inizio della guerra, il che ha creato l’impressione che tutto fosse sotto
controllo e che Israele potesse permettersi di continuare a combattere. Questo
trucco ha funzionato, e ha funzionato soprattutto sugli investitori
internazionali.
Ciò ha creato una situazione molto strana in cui, da un lato, gli economisti
israeliani che scrivono in ebraico dicono: “Non è strano che le agenzie di
credito stiano riducendo la valutazione di Israele solo di un livello? Credono
ancora che il governo ripagherà i suoi debiti. Quanto possono essere ingenui?”.
E dall’altro lato, le agenzie di credito, pur leggendo i media finanziari
israeliani, si rifiutano di reagire.
Penso che questa sia una forma di complicità da parte dei media finanziari
internazionali. Temono che, se riportassero i fatti, verrebbero accusati di
essere “anti-Israele”. Vedono come i governi di Stati Uniti, Regno Unito e
Germania stiano diffondendo bugie e agendo come se Israele stesse semplicemente
subendo una battuta d’arresto temporanea. Se i media finanziari contraddicono
questi governi, rischiano la repressione, quindi preferiscono nascondere le
informazioni ai loro lettori. Sulla base di queste informazioni parziali, anche
le agenzie di valutazione hanno paura di prendere decisioni basate sui fatti.
Amos Brison: Come si manifesta la situazione economica che stai descrivendo
nella vita quotidiana degli israeliani?
Shir Hever: C’è una differenza enorme tra la risposta del mercato azionario o
della valuta e l’impatto effettivo sul tenore di vita.
Un recente articolo del quotidiano finanziario israeliano The Marker ha
calcolato il costo della guerra per famiglia (confrontando il tasso di crescita
medio dell’economia israeliana con il tasso di crescita effettivo degli ultimi
due anni) in 111.000 NIS (29.000 euro), una cifra molto elevata.
Se oltre il 40% delle famiglie israeliane spende più di quanto guadagna ogni
mese, significa che sono già in crisi. Si indebitano sempre di più ogni mese
solo per sopravvivere: fare la spesa, pagare l’affitto, eccetera.
L’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale israeliano non ha ancora pubblicato
il suo rapporto ufficiale sulla povertà per il 2024, ma un rapporto alternativo
dell’organizzazione della società civile Latet ha rilevato che molti israeliani
che non sono ufficialmente classificati come persone che vivono al di sotto
della soglia di povertà si trovano comunque in una grave crisi. La percentuale
di persone che non sono in grado di acquistare cibo a sufficienza, classificate
come insicure dal punto di vista alimentare, è aumentata di quasi il 29% nel
2025. Il rapporto ha descritto la situazione come uno “stato di emergenza”.
Amos Brison: È noto che un’ampia percentuale di famiglie israeliane è in
“perdita” da anni, ovvero ha scoperto i propri conti e ha acquistato a credito.
Gli israeliani non sono già abituati a questa situazione? Cosa è cambiato
durante la guerra?
Shir Hever: La percentuale di famiglie israeliane che acquistano a credito e
prelevano in scoperto dai propri conti è stata di circa il 40% negli ultimi
cinque anni, ma durante la guerra sono state notate due differenze.
La prima, i prodotti che le persone finanziano con il credito sono meno beni di
lusso e più beni di prima necessità. La seconda, c’è una differenza tra le
famiglie che mantengono un livello più o meno costante di prestiti bancari e
pagano interessi ogni mese, e quelle il cui debito aumenta ogni mese e anche gli
interessi aumentano, fino a quando non sono costrette a vendere i propri beni.
Abbiamo visto sempre più spesso quest’ultimo tipo di famiglie durante la guerra.
E nel frattempo, tutti i soldi del governo, tutti gli sforzi, tutte le risorse
vanno alla guerra. Certo che la gente lo percepisce. Il costo della vita aumenta
e il livello dei servizi governativi sta crollando, in termini di qualità dei
trasporti, dei servizi sanitari e dei servizi educativi. Il reddito sta
diminuendo per quasi tutti, tranne che per i riservisti, che, come abbiamo
detto, non spendono più di quanto guadagnano.
Amos Brison: Che dire del fatto che gli investimenti esteri rimangono elevati,
in particolare le grandi “uscite” nel settore tecnologico? Questo non riflette
forse che il modello economico israeliano, per quanto distorto, è sostenibile?
Shir Hever: Se si escludono le “uscite” gigantesche come Wiz, la variazione
netta degli investimenti è negativa, e profondamente negativa. Gli investimenti
stanno calando drasticamente, soprattutto nel settore tecnologico.
Ma anche se si esaminano attentamente queste uscite, si vedrà che l’importo che
il governo israeliano dovrebbe riscuotere in tasse è ridicolmente esiguo
rispetto all’entità dell’accordo.
Nel settore tecnologico è molto comune che i lavoratori abbiano delle opzioni,
il che significa che i dipendenti, soprattutto quelli ben pagati come i
programmatori, possiedono effettivamente azioni dell’azienda. Quindi, se
un’azienda straniera come Google acquista le azioni, in realtà le sta
acquistando da loro. Quindi si arricchiscono, ma non spendono questi soldi in
Israele, perché se ne stanno andando. I soldi vengono portati via.
Queste uscite sono fondamentalmente il settore tecnologico israeliano che fugge
dal Paese. Queste aziende hanno già un piede fuori dalla porta, e anche l’altro
piede, che è ancora in Israele, vuole andarsene.
Amos Brison: Ho sentito descrivere il comportamento di Israele durante la guerra
di Gaza come una forma di keynesismo militare, suggerendo che si tratti di un
approccio economico almeno in parte praticabile. Potrebbe spiegarlo meglio?
Shir Hever: È innanzitutto importante notare che non esiste un keynesismo
militare nel ventunesimo secolo, in nessuna parte del mondo.
È una teoria sviluppata principalmente negli anni ’60, e durante la Guerra
Fredda aveva un senso, in un modo oscuro e macabro. In sostanza, i governi degli
Stati Uniti e dell’Europa occidentale creavano posti di lavoro artificialmente,
spendendo molti soldi in armi, invece di investire nello Stato Sociale,
istruzione e una società sana, e convincevano l’opinione pubblica ad
assecondarli per paura dell’annientamento nucleare.
Ma poiché il valore produttivo delle armi è zero, anzi, negativo, dato che le
armi distruggono anziché produrre, questo ha funzionato solo per un periodo
molto breve. Negli anni ’70, ha causato una crisi, ed è stato allora che è nato
il neoliberismo, che ha affermato che anche le spese militari devono essere
tagliate.
Ora, il Ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich ha questa fantasia:
“Ehi, qual è il problema? Torniamo ai bei vecchi tempi degli anni ’60 e abbiamo
una nazione in uniforme e invece di andare a lavorare, andremo a fare la
riserva”. Ma non si può semplicemente tornare indietro.
Il motivo è che ai tempi del keynesismo militare, il commercio globale era una
frazione di quello odierno. Le aziende di consumo che soffrivano a causa del
minor reddito disponibile non avrebbero potuto semplicemente trasferirsi in un
altro Paese. Oggi, alcuni israeliani sono effettivamente bloccati in Israele per
motivi personali, di salute e familiari, e non hanno altra scelta che operare
come parte di un’economia militarista, nonostante il loro tenore di vita sia in
declino. Ma il capitale non ha tali vincoli e può spostarsi in altri Paesi.
Amos Brison: Che dire del Sudafrica durante l’Apartheid e della Russia oggi?
Israele non potrebbe emulare quei Regimi nel modo in cui trasforma la sua
economia in un modo che gli consenta di rimanere belligerante?
Shir Hever: Innanzitutto, non dimentichiamo che il Regime di Apartheid in
Sudafrica alla fine è crollato. Ma per anni è riuscito a sostenersi nonostante i
boicottaggi diffusi perché era ricco di risorse naturali e aveva un’economia
relativamente autosufficiente. Questo non è certamente il caso di Israele, che
dipende fortemente dal commercio estero e non può mantenere la popolazione in
uno stato di permanente prontezza militare.
Israele dipende dalle importazioni di energia, materie prime, tecnologia,
componenti e prodotti finiti per tutti i suoi settori, e dipende anche dalle
esportazioni per autofinanziarsi e ottenere la valuta estera necessaria a
sostenere le importazioni.
Per quanto riguarda la Russia, ciò che credo possa spiegare la sua capacità di
sostenere la propria economia è la vendita di armi, così come di petrolio e
altre risorse naturali, ad altri Paesi. E qui, a mio avviso, sta la principale
differenza tra Russia e Israele. Perché la Russia, a seguito della guerra in
Ucraina, ha effettivamente ampliato la sua influenza internazionale. Ci sono
Paesi come Cina, India, Iran e Turchia che vedono un potenziale nel migliorare
le relazioni con la Russia, mentre Israele, al contrario, non sta esattamente
prosperando diplomaticamente a causa della guerra, e di fatto si sta isolando
dai suoi stessi alleati.
Israele ha cercato di costruire nuove alleanze e partenariati commerciali al di
fuori dell’Occidente, ma il tentativo è ampiamente fallito. L’Europa rimane il
principale alleato commerciale di Israele, seguita dagli Stati Uniti.
Gli Accordi di Abramo sono stati presentati come una nuova frontiera per
l’influenza e le alleanze israeliane, ma in pratica sono poco più di una
collaborazione nel commercio di armi, precedente agli accordi stessi. Tuttavia,
dopo che gli Emirati Arabi Uniti hanno bandito le aziende israeliane dalla fiera
delle armi di Dubai in seguito all’attacco israeliano a Doha, resta da vedere
cosa ne sarà rimasto degli Accordi di Abramo.
Amos Brison: Fino a poco tempo fa, lei era anche il coordinatore dell’embargo
militare nel comitato ufficiale del movimento BDS. Quindi sono curioso di sapere
cosa pensa della campagna per un embargo sulle armi contro Israele dopo due anni
di guerra e in prospettiva futura.
Shir Hever: Quando ho iniziato il lavoro nel 2022, credevo fermamente nella
campagna per l’embargo militare, ma pensavo che sarebbe stato probabilmente
l’ultimo aspetto del BDS ad avere successo, perché i singoli individui non
possono davvero boicottare le armi. Mi aspettavo di vedere prima campagne di
boicottaggio contro le aziende di consumo, poi campagne di disinvestimento e
infine, con l’inasprimento delle sanzioni, un embargo militare.
Quindi stavo pianificando a lungo termine. Ma poi, quando Israele ha iniziato a
commettere un Genocidio, mi sono ritrovato seduto di fronte a ministri di
diversi governi e a dire loro che è contro la legge per il loro Paese
commerciare armi con Israele. E loro si agitavano sulle loro sedie e non avevano
altra scelta che ammettere che questo è un dato di fatto.
Si sono quindi trovati in una situazione molto difficile, e molti governi hanno
effettivamente preso provvedimenti. Non abbastanza e non abbastanza rapidamente,
possiamo sempre chiedere di più, e dovremmo chiederlo di più, ma se guardo solo
alla velocità con cui gli embarghi militari sono aumentati in diversi Paesi,
soprattutto nel Sud del mondo ma anche in Europa, è davvero incredibile.
E non è paragonabile ad altri casi di Genocidio. Certo, la maggior parte del
mondo non si preoccupava molto delle relazioni con il Regime ruandese, quindi
rispettava il Diritto Internazionale e imponeva un embargo militare. Ma ci sono
stati Paesi, come Israele, che hanno violato l’embargo e non sono stati puniti
per questo. Ora, tuttavia, vediamo che nei Paesi che non impongono l’embargo
militare, i lavoratori portuali nei porti dicono: “Beh, in tal caso, abbiamo
l’obbligo legale e morale di non caricare le armi sulle navi”.
E gli Stati Uniti, che sono il principale fornitore di armi a Israele, e,
naturalmente, il più Complice e il più interessato a prolungare il Genocidio,
hanno ancora un serio problema logistico perché le armi devono passare
attraverso l’Europa per raggiungere Israele. Non è tecnicamente fattibile farlo
altrimenti. Per questo motivo, anche i trasferimenti di armi statunitensi a
Israele ne subiscono le conseguenze.
Amos Brison: Come prevede che si svilupperà l’economia israeliana nei prossimi
anni?
Shir Hever: Se avessi saputo prevedere l’andamento economico, sarei molto ricco.
Ma credo che dovremmo prestare attenzione a fine anno, quando il Ministero delle
Finanze riferirà quanto il governo ha effettivamente speso per la guerra
rispetto agli impegni assunti nel bilancio 2025. Mi aspetto che molti
investitori e istituzioni internazionali perdano fiducia.
Nel lungo termine, mentre la Banca Centrale israeliana ha avvertito che
l’economia si riprenderà lentamente, se non addirittura mai, l’opinione pubblica
si aspetta una rapida ripresa. La delusione colpirà duramente la società
israeliana e, se si tradurrà in una maggiore emigrazione di professionisti
qualificati, l’esercito israeliano cesserà di funzionare come un esercito
moderno entro 2-3 anni.
Possiamo già vedere i segni di questo nel crollo della disciplina militare.
Alcune unità adottano le proprie insegne, operano impunemente e seguono catene
di comando informali. In Cisgiordania, i soldati si uniscono sempre più spesso
alle milizie dei coloni e partecipano a Pogrom contro i palestinesi. E mentre
migliaia di soldati crollano mentalmente e moralmente, e altre migliaia lasciano
il Paese, il governo risponde aumentando gli stipendi dei riservisti. Il
risultato è una sorta di forza mercenaria che migra da un’unità all’altra invece
di servire all’interno di una struttura coerente e disciplinata. In questo
senso, la disintegrazione della società israeliana si riflette sempre più nel
suo esercito.
Amos Brison è un redattore di +972, residente a Berlino.
Traduzione a cura di Beniamino Rocchetto, da InvictaPalestina
Askatasuna, il culto della legalità e la resa definitiva al linguaggio
dell’ordine
di Vincenzo Scalia*
Ieri la polizia, ha sgomberato lo storico centro sociale torinese Askatasuna,
occupato da 30 anni. Contemporaneamente, le case di militanti della stessa
struttura, e quelle di altri attivisti, sono state perquisite. Il sindaco della
ex Detroit italiana plaude al blitz delle forze dell’ordine. Gli fa eco il
Ministro dell’Interno, che parla di un segnale da parte dello Stato.
Se non sorprende l’entusiasmo che si leva da destra, suscitano perplessità e
sconcerto sia le prese di posizione dell’altra sponda, sia l’azione messa in
atto dalle forze repressive. Blitz, retate, sgomberi. Un rituale frequente,
ormai logoro, che ricorda il film Prima Pagina di Billy Wilder, quando la
polizia cittadina si mobilita in forze per ricercare una persona già arrestata.
Si tratta di una modalità scenografica, dal valore comunicativo, ma deteriore
per quanto riguarda la tutela delle libertà civili. Le azioni repressive di
massa, sbandierate sulla scena mediatica, come si sa, sono destinate a
sgonfiarsi in corso d’opera, spesso addirittura durante l’istruttoria. Con la
differenza che i ridimensionamenti della valenza penale che ne seguono non
conquistano quasi mai le prime pagine o i titoli di apertura dei TG.
Viceversa, rimane in piedi tutta la valenza scenografica, ad uso intimidatorio.
Da un lato, l’assalto a La Stampa è stata indubbiamente un’iniziativa
deprecabile, già abbondantemente condannata. Dall’altro lato, la responsabilità
penale è personale, e, soprattutto, va accertata. Sgomberare un centro sociale
attivo da trent’anni, perno del tessuto alternativo torinese, in nome di
un’aggressione in cui potrebbero essere stati coinvolti alcuni dei suoi
militanti, equivale a riproporre un attitudine torquemadesca. Una riedizione dei
teoremi e delle narrazioni dei grandi vecchi che da anni devastano il dibattito
pubblico italiano, ostruendo una discussione laica sulle vicende degli anni
Settanta. Soprattutto, si traducono nella criminalizzazione, nell’indebolimento,
nella marginalizzazione, di chi propone discorsi alternativi. Bastano pochi
episodi controversi e discutibili, ancorché marginali, per innescare la
stigmatizzazione pubblica degli attivisti che si mobilitano per la pace e per la
Palestina.
Un’altra fonte di preoccupazione riguarda il luogo, geografico e giudiziario, di
origine di queste inchieste. La Procura della Repubblica torinese vanta una
tradizione almeno quarantennale in materia di arresti indiscriminati, retate,
sgomberi, accuse. Una genealogia inquisitoria che può essere fatta risalire
quantomeno alla repressione delle formazioni armate degli anni settanta, con
l’uso indiscriminato del pentitismo e gli arresti ingiustificati. Che in tempi
recenti si è arricchita con la criminalizzazione del movimento NO-TAV, con
accuse di terrorismo smontatesi nel corso dell’iter giudiziario, ma che è
costata la carcerazione preventiva a svariati militanti e ha comportato la
marginalizzazione del movimento a livello di opinione pubblica. E che
recentemente si è manifestata con la pervicacia con cui ha insistito sul
mantenimento del regime 41 bis nei confronti di Alfredo Cospito. Lungi
dall’ipotizzare l’esistenza di una longa manus, si può ritenere che la cultura
inquisitoria che caratterizza da quasi mezzo secolo la cultura subalpina abbia
la tendenza a riprodursi.
Ad inquietare ulteriormente, infine, è l’atteggiamento dell’opinione pubblica di
centro-sinistra nei confronti della vicenda. Da tre anni ci si oppone ai
provvedimenti liberticidi emanati dall’attuale compagine governativa, che, dal
decreto anti-rave al ddl sicurezza, hanno nella restrizione degli spazi del
dissenso il loro nocciolo duro. Però, non appena la magistratura si muove,
fioccano i distinguo, in nome di una presunta difesa della legalità che
conferma, tristemente, come le radici del giustizialismo stiano a sinistra, e
siano anche difficili da estirpare. Tangentopoli insegna che il declinare di
legge, ordine e legalità va sempre a vantaggio della destra. Una lezione che non
si vuole imparare. Se i campi larghi devono riempirsi a suon di manette, meglio
sgomberarli. Invece di Askatasuna.
*da l’Unità
“E’ importantissimo difendere l’Askasatuna ma non è il centro di tutto, come
spacciano i politicanti di destra. Ormai c’è un’articolazione anche nelle
università, nelle scuole, nei territori e nel sociale, che spinge ai livelli di
mobilitazione che vanno ben oltre le quattro mura del centro sociale Askasatuna,
che oggi viene messo sotto attacco.”
Così, ai microfoni di Radio Onda d’Urto, Giorgio Rossetto, storico compagno
torinese dell’area autonoma e del movimento No Tav, attualmente agli arresti
domiciliari in Val Susa per condanne relative soprattutto a iniziative contro la
grande opera inutile e devastante. Il suo punto di vista è uno stimolo
interessante per una lettura politica dello sgombero dello storico centro
sociale torinese occupato nel 1996 e della risposta da dare a questa ennesima
operazione repressiva.
“C’è stata un’attivazione nelle università, nelle scuole, nei quartieri molto
più forte. Mai abbiamo avuto una presenza così forte di studenti e così anche
nelle università e nel rapporto con i quartieri, con i giovani che vengono dalle
comunità, di seconda generazione; c’è stata una partecipazione che una volta non
c’era.” Con questi presupposti che reazione ci si può aspettare dai movimenti?
“Ritengo anche utile, nella possibilità di qui in futuro, di riuscire ad avere
lo sgombero dell’Askasatuna come elemento detonatore di possibili altri
protagonismi, anche a livello nazionale, di realtà giovanili. Ma oggi
l’importante sono i livelli di mobilitazione che si potranno dare nei
prossimi giorni, settimane e anche mesi.
Spero che la risposta sia adeguata e mi sembra che la scelta della questura di
fare prima delle feste natalizie questa operazione sia un po’ avventata; c’è la
possibilità di tenere il fiato sul collo, in modo che sia lo stesso fiato sul
collo che si tiene sulle montagne della Val Susa, ai cantieri, e penso che ci
siano i margini anche nella zona di Vanchiglia, la zona dell’Askasatuna, per
poter lavorare ad un logoramento dello schieramento avversario.
Bisogna accettare i terreni anche quando non si sono scelti, il terreno del
conflitto, della lotta, a volte anche dello scontro e l’esercizio della forza da
parte dei movimenti; questo è ciò che si è prodotto in questi mesi nelle
mobilitazioni per la Palestina con il tentativo di bloccare le città che è
stato reale.”
L’intervista di Radio Onda d’Urto dopo lo sgombero del centro sociale Askatasuna
a Giorgio Rossetto, compagno torinese dell’area autonoma e del movimento No Tav,
attualmente agli arresti domiciliari
da Radio Onda d’Urto
Dallo sgombero di questa mattina sono decine i comunicati di solidarietà e prese
di posizione di collettivi e realtà in tutta Italia contro l’attacco verso lo
storico centro sociale torinese. Di seguito ne raccogliamo alcuni.
CAU Torino
SI Cobas Torino – TIR
Potere al Popolo Torino
Rete dei Comunisti Torino – Cambiare Rotta Torino – OSA Torino
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SA Newroz – CUA Pisa
Coordinamento Studentesco Romano
Gruppo Autonomo Portuali Livorno – Azione Livorno Antifascista – Teatro Refugio
– Ex Caserma Occupata – Scuola di Carta Livorno – Potere al Popolo Livorno
AlterPolis – Rete Link – Rete della Conoscenza – UDS – ADI Torino
Centri sociali del Nord-Est
Iskra Napoli – Disoccupati 7 novembre – Villa Medusa Bagnoli – Aversa Palestina
Rete Libere di Lottare – No DDL1660 – Giovani Palestinesi – Global Movement to
Gaza
Ecologia Politica Network
Pagina in aggiornamento…
Questa mattina è avvenuto lo sgombero di Askatasuna, storico centro sociale
torinese attivo da quasi tre decadi. Negli ultimi tempi Askatasuna era al centro
di un attacco politico-giudiziario per via del suo impegno nelle lotte sociali
sul territorio piemontese. Attacco che si è approfondito con l’insediamento del
governo Meloni e del Ministro degli Interni Piantedosi.
Di seguito riprendiamo la prima presa di parola a caldo di Askatasuna e la
diretta di Radio Onda d’Urto su quanto avvenuto questa mattina.
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Questa mattina alle prime luci dell’alba è andata in scena un’operazione in
grande stile per arrivare allo sgombero del centro sociale Askatasuna.
Prenderemo il tempo di raccontare e di dare spazio alle voci che lo animano da
ormai quasi trent’anni e che continueranno a farlo nei prossimi, ma intanto
vogliamo fare chiarezza su alcuni punti.
A quanto si apprende la perquisizione di questa mattina era inerente al
procedimento di indagine a riguardo di diverse iniziative degli ultimi mesi in
solidarietà alla Palestina che hanno visto milioni di persone scendere in
piazza; la perquisizione è avvenuta sia in alcune case di compagni e compagne e
al contempo all’interno del centro sociale.
Durante la mattina il sindaco Lo Russo ha rilasciato una dichiarazione dal
piglio puramente tecnico sulla “violazione del patto di collaborazione con il
Comune” in quanto sarebbero venute meno le condizioni per continuare il percorso
per il bene comune.
La questione sembra si sia svolta su due piani paralleli, da un lato la
perquisizione per il procedimento penale, dall’altro sembrerebbe sia stata fatta
una pressione nei confronti del sindaco per rescindere il patto.
E’ chiaro che il governo voglia colpire il movimento per la Palestina e voglia
attaccare le lotte sociali, il Sindaco con la rescissione del patto ha spianato
la strada al governo e quindi allo sgombero.
L’intervento di un’abitante del quartiere Vanchiglia al presidio permanente
sorto dopo lo sgombero.
Questo sgombero rappresenta un attacco a chi ha a cuore la città di Torino e la
possibilità di un vivere migliore: chi difende Torino è pronto a riprendersi i
propri spazi. Il Comune farà l’utile idiota del governo Meloni?
Oggi si tratta di scendere in strada per difendere un’idea di città, un’idea di
mondo, diverse.
La risposta che seguirà dovrà essere compatta e rispedire al mittente i
tentativi di intimidire chi ha capito che si può contare, che insieme si possono
trasformare le scelte politiche. Hanno capito che bisogna tenere conto di chi
non ci sta e questo gli fa paura.
Continueremo oggi e domani e dopodomani a costruire dove distruggono, a lottare
dove restringono gli spazi di agibilità, a incontrarci a creare rapporti
solidali veri. Niente sarà più come prima, il campo è stato tracciato, chi con
noi continua a volere un presente e un futuro diversi sa che la partita non è
finita, ma solo iniziata.
TORINO: UFFICIALIZZATO LO SGOMBERO DI ASKATASUNA, “RAGGIUNGETECI PER DIFENDERE
LO SPAZIO SOCIALE”. ALLE 18 LA MANIFESTAZIONE
È in corso dall’alba di questo 18 dicembre 2025 una vasta operazione di polizia
al centro sociale Askatasuna di Torino, in corso Regina Margherita 47.
La Digos della questura torinese e i reparti mobili stanno effettuando
perquisizioni all’interno dello stabile, liberato dal 1996. Perquisizioni sono
in corso anche in abitazioni di una decina di militanti dello spazio sociale e
dei collettivi studenteschi nell’ambito delle mobilitazioni per il popolo
palestinesi che hanno riempito le strade della città in questi mesi.
Ore 12.15: l’aggiornamento con Martina, dal presidio permanente sotto la sede
sgomberata. Ascolta o scarica
Ore 11.15: il collegamento con il giornalista del quotidiano Il Manifesto Mario
Di Vito, che aveva seguito il maxi processo “sovrano” contro Askatasuna. Ascolta
o scarica
Ore 11.00: il collegamento con Giorgio Cremaschi, dell’esecutivo di Potere al
Popolo e del Comitato dei proponenti e dei garanti per un progetto sui beni
comuni. Ascolta o scarica.
Ore 10.20: confermato lo sgombero, la polizia sta murando gli ingressi di
Askatasuna. Appuntamento con una manifestazione solidale alle 18 di questo
pomeriggio con appuntamento in Corso Regina Margherita 47.
Ore 9.20: Proseguono le perquisizioni di Polizia mentre si ingrossa il presidio
di compagne e compagni all’esterno di Askatasuna.
Un altro aggiornamento con Martina. Ascolta o scarica.
Ore 8.10: Si teme possa andare nella direzione di uno sgombero o uno sequestro
dello spazio sociale torinese. L’appello è quello di raggiungere Corso
Margherita 47. Un aggiornamento con Martina. Ascolta o scarica.
Ore 7.05: L’operazione sarebbe collegata alle inchieste di polizia sulle
manifestazioni per la Palestina nei mesi scorsi. Si teme però possa trattarsi
anche di uno sgombero ed è stato lanciato un appello a raggiungere lo spazio,
come ci spiega Martina dal presidio allestito all’esterno di Corso Regina
Margherita. Ascolta o scarica
La polizia apre gli idranti contro il Presidio Permanente.
Nonostante il rifiuto della giustizia francese all’estradizione verso l’Ungheria
di Orbán, il militante antifascista italo-albanese è stato arrestato su mandato
tedesco. Il rischio è che il procedimento riparta da capo.
da Osservatorio Repressione
Rexhino «Gino» Abazaj, militante antifascista italo-albanese di 33 anni, è stato
nuovamente arrestato a Parigi nella serata del 16 dicembre. A darne notizia è
stato il Comitato di solidarietà per gli arrestati di Budapest, secondo cui
Abazaj è stato fermato e trattenuto dalla Sdat, la sottodirezione antiterrorismo
della polizia francese. L’arresto riapre un caso che sembrava chiuso appena
pochi mesi fa, quando la giustizia francese aveva respinto in via definitiva la
sua estradizione verso l’Ungheria di Viktor Orbán.
Secondo il Comitato, Abazaj rischia ora «di essere estradato verso l’Ungheria»,
in violazione della decisione presa lo scorso aprile dalla Corte d’appello di
Parigi. Nella mattinata del 17 dicembre l’attivista è stato ascoltato dai
giudici della stessa corte, mentre all’esterno del tribunale si è svolto un
presidio di solidarietà.
Il precedente rifiuto dell’estradizione
Abazaj è coinvolto nello stesso procedimento che ha portato all’arresto e alla
lunga detenzione dell’attuale europarlamentare Ilaria Salis. I fatti contestati
risalgono al febbraio 2023, quando a Budapest si svolsero le manifestazioni
antifasciste contro il cosiddetto Giorno dell’onore, un raduno annuale
neonazista che celebra soldati tedeschi e ungheresi sconfitti dall’Armata Rossa
durante la Seconda guerra mondiale. Per quegli eventi la giustizia ungherese ha
colpito almeno 17 militanti antifascisti in tutta Europa, tra cui Salis e la
cittadina tedesca Maja T.
Abazaj era stato arrestato una prima volta nel novembre 2024 a Parigi, dopo
essere fuggito dalla Finlandia, dove viveva dal 2015. In precedenza, infatti,
Helsinki aveva accolto una richiesta di estradizione avanzata da Budapest e
l’attivista si era trovato agli arresti domiciliari. «Mi sono trovato davanti a
un dilemma: o spezzare l’anello elettronico e trovare rifugio altrove, o
aspettare che la polizia di Orbán bussasse alla mia porta», aveva raccontato in
un’intervista concessa a il manifesto mentre era detenuto nel carcere di
Fresnes, nella banlieue parigina.
Dopo l’arresto in Francia, Abazaj aveva trascorso quattro mesi in carcere prima
di essere liberato e posto ai domiciliari. L’8 aprile 2025 la Corte d’appello di
Parigi aveva infine respinto definitivamente la richiesta di estradizione
ungherese, ordinandone la liberazione e la revoca di tutte le misure cautelari.
Nella sentenza, i giudici avevano riconosciuto il rischio concreto di
«trattamenti disumani e degradanti» nelle carceri ungheresi e denunciato
«défaillances sistemiche» riguardanti l’indipendenza del potere giudiziario in
Ungheria.
Per motivare il rifiuto, la Corte aveva citato esplicitamente il caso di Ilaria
Salis e le «misure di sicurezza estreme» applicate nei suoi confronti, giudicate
«sproporzionate rispetto all’entità dei fatti contestati». Una decisione accolta
come una vittoria politica e giuridica dagli avvocati di Abazaj, dagli ambienti
antifascisti e da numerosi osservatori internazionali, alla luce delle ripetute
denunce mosse contro il sistema giudiziario ungherese da ong e dallo stesso
Parlamento europeo.
Il nuovo mandato d’arresto tedesco
Il nuovo arresto di dicembre avviene però in un contesto diverso. Come spiegato
a Domani dal suo avvocato francese, Youri Krassoulia, questa volta il fermo è
stato eseguito sulla base di un mandato d’arresto europeo emesso dalla Germania,
sempre in relazione ai fatti di Budapest del 2023. «È un arresto molto
sorprendente», ha dichiarato il legale, «soprattutto alla luce della pronuncia
della Corte d’Appello dello scorso aprile».
Nei prossimi giorni il tribunale dovrà decidere se mantenere Abazaj in custodia
cautelare o rilasciarlo. Il 24 dicembre è invece prevista l’udienza decisiva
sulla possibile estradizione in Germania. Un’eventuale consegna alle autorità
tedesche, spiega l’avvocato, farebbe ripartire da capo il procedimento di
estradizione verso l’Ungheria, aggirando di fatto la precedente decisione della
giustizia francese.
Un clima repressivo sempre più ampio
Il caso di Abazaj non è isolato. Negli ultimi mesi le autorità francesi hanno
intensificato i controlli e i provvedimenti nei confronti di militanti
antifascisti, in particolare italiani. A novembre la disegnatrice Elena
Mistrello è stata espulsa dalla Francia mentre si recava a Tolosa per un
festival di fumetti, ritenuta un pericolo per l’ordine pubblico per aver
partecipato nel 2023 a una commemorazione parigina di Clément Méric, giovane
antifascista ucciso da estremisti di destra.
Episodi simili hanno riguardato anche altri attivisti, sottoposti a controlli
prolungati alle frontiere, interrogatori e minacce di espulsione pur in assenza
di procedimenti giudiziari a loro carico.
In questo contesto, reti e collettivi come Free All Antifà hanno annunciato
l’avvio di una mobilitazione permanente per chiedere la liberazione di Abazaj e
di tutti gli antifascisti colpiti dalla repressione giudiziaria in Ungheria e in
Europa. «Deportazione e segregazione sembrano essere le caratteristiche
irrinunciabili della nuova Europa di guerra», si legge in uno dei comunicati.
«Se l’Europa chiede la mobilitazione, mobilitazione avrà».
Ieri mattina una maxi-operazione interforze disposta dalla prefettura ha
impiegato quasi 250 uomini delle FFOO per effettuare 2 arresti e controllare
oltre 600 persone, quasi per la metà di origine non italiana. L’iniziativa, che
segue quelle messe in campo nei quartieri Giambellino e San Siro, ha avuto per
epicentro via Quarti a Baggio.
Decine di perquisizioni e denunce, una ventina di alloggi popolari sgomberati,
utenze tagliate a centinaia di persone abitanti nei caseggiati (in molti casi
famiglie con minori a carico) che in piena stagione fredda si ritrovano senza
elettricità né gas. Con l’occasione di un intervento su spaccio e altre ipotesi
di reato si reprime una comunità vessata da vuoto di politiche pubbliche,
diritto all’abitare negato e incuria del patrimonio. Mercoledi pomeriggio è
confermata dalle 16.30 la “festa” di natale in via Quarti. Giovedì mattina alle
8 il presidio a tutela della famiglia palestinese abitante in via Quarti 28.
La corrispondenza con Gianluca abitante di Baggio Ascolta o scarica
da Radio Onda d’Urto