Raccontare è anche Resistere

Osservatorio Repressione - Friday, February 28, 2025

L’umiliante affronto d’essere interrotti, zittiti, può aiutarci a capire quale ruolo abbia il silenzio nel mantenimento della distribuzione del potere

di Marco Sommariva*

Non so se anche voi avete la mia stessa sensazione: a me sembra non si stia mai un attimo zitti. Abbiamo sempre qualcosa da dire. Persino a teatro, al cinema, al cimitero o a tavola quando si ha la bocca piena, non c’è più un attimo di silenzio, abbiamo sempre bisogno di parlare, raccontare.

Quando raccontiamo qualcosa, non importa cosa, raccontiamo una storia; al di là dell’importanza dell’argomento trattato da questa storia – dalla descrizione della malattia che ha ucciso nostra figlia a com’è fatto il proprio ombelico, da come siamo riusciti a guadagnare un pacco di soldi in poco tempo con un banale investimento alle conseguenze del nervoso che ci siamo fatti domenica sera quando la nostra squadra del cuore ha perso per l’ennesima volta – dicevo, al di là dell’importanza dell’argomento trattato da questa storia, tutte le narrazioni hanno un comune denominatore: le abbiamo scelte fra mille altre che avremmo potuto raccontare. Non è una conclusione così banale, credetemi.

Un esempio: “Quando parla dell’occupazione tedesca della Norvegia, dove è andato come medico militare dopo la laurea, racconta di meravigliose discese con gli sci al chiaro di luna nelle località di montagna. A sentirlo sembra quasi che i tedeschi abbiano occupato la Norvegia per amore degli sport invernali” – Autunno tedesco, Stig Dagerman.

Pensiamo davvero che non ci sia un motivo dietro la scelta di raccontare di meravigliose discese con gli sci al chiaro di luna, anziché le tante altre cose che sicuramente ha visto un medico militare facente parte dell’esercito d’occupazione? Non scherziamo.

La storia che abbiamo deciso di raccontare l’abbiamo scelta perché – in quel momento, in quel contesto, per il nostro stato d’animo, eccetera – è ritenuta più importante delle altre.

A chi serve raccontare una storia?

A chi l’ascolta, per esempio: può incamerare esperienze altrui trovando, un giorno, ispirazione da queste e, chissà, magari evitare possibili errori.

Ma raccontare una storia serve anche a chi la espone: così facendo si riordina la nostra esperienza, e pure il mondo che stava intorno quando la storia è accaduta e, forse, persino il mondo che sta attorno mentre la raccontiamo. Spesso, quando si termina il racconto, come per magia, si ha già pronta un’idea che porta all’azione; un’idea che, prima d’aprir bocca, neppure sospettavamo d’essere in grado di produrre, nata proprio mentre si raccontava la storia perché, come ci insegnavano le nostre mamme quando eravamo bambini, è quando la lezione la esponi a voce alta che sei certo d’averla chiara in testa – finché te la raccontavi a mente, non eri mai certo d’avere afferrato tutto.

A cosa serve raccontare una storia?

Le storie, si sa, cambiano il mondo; diversamente, perché chi sta al Potere si sbatterebbe tanto per creare fake news che veicolino ciò che può far loro comodo?

Le storie possono direzionare i singoli e le masse.

Le storie sono testimonianza, aiutano a non perdere il lume della ragione, possono divertire.

Sono testimonianza: “Nel gennaio del 1974 me ne andai dal Cile. Non ci sono più tornato. Sono stati coraggiosi i cileni della mia generazione? Sì, sono stati coraggiosi. In Messico mi raccontarono la storia di una ragazza del MIR [Movimento di Sinistra Rivoluzionaria] che avevano torturato infilandole topi vivi nella vagina. La ragazza riuscì ad andare in esilio e arrivò nel Distrito Federal. Viveva là, ma era ogni giorno più triste e un giorno morì per via di tutta quella tristezza. […] Si può morire di tristezza? Sì, si può morire di tristezza […]” – Puttane assassine, Roberto Bolano.

Aiutano a non perdere il lume della ragione: “Vedere il sole sorgere o tramontare ogni giorno, così da poter raccontare a noi stessi un fatto universale, ci manterrà per sempre assennati” – Vita senza princìpi, Henry David Thoreau.

Possono divertire: “Capiva sicuramente che stavo mentendo, ma il trucco era tener duro con la mia versione. Dopo un po’, anche la bugia più assurda assumeva il colore della verità. Avrei ripetuto la stessa dinamica, ma su una scala diversa, di lì a qualche anno, dopo la Rivoluzione iraniana. Imparammo a stare al loro gioco, inventando le storie più assurde per giustificare l’alito che sapeva di alcol, le tracce di rossetto sulle labbra, il nastro di un cantante vietato in bella mostra sul cruscotto; loro, dopo aver intascato i soldi, tanti o pochi a seconda delle circostanze, ci lasciavano andare. Poi, per settimane, alle feste, ci divertivamo a raccontare i nostri patetici trionfi” – Le cose che non ho detto, Azar Nafisi.

All’essere umano piace raccontare, è anche terapeutico: non siete circondati anche voi da persone che vi chiedono come state solo perché hanno bisogno di raccontarvi tutti i loro mali, dolori, e neanche s’accorgono che avete appena risposto “Male. Ho un cancro al pancreas”? Non avete anche voi a che fare tutti i giorni con chi vi racconta, con gli occhi fuori dalla testa, di tutti i problemi che lo affliggono e, questi, altro non sono che la figlia che deve sostenere un esame all’università, il gatto che ha vomitato e la lavastoviglie che non pulisce più bene come una volta, mentre voi siete lì e vorreste dir loro che i bulbi oculari possono tranquillamente rientrare nelle orbite a loro dedicate, dato che i vostri problemi sono vostra figlia che s’è suicidata l’anno prima lanciandosi dal quinto piano del vostro appartamento dove, da quel giorno, non riuscite più ad abitare o che avete perso il lavoro a due anni dalla pensione e state lavando le scale con un cappello calcato sulla fronte e i baffi finti per non essere riconosciuto da vostro figlio che non sa nulla del vostro licenziamento e abita proprio in uno di quei condomini dove v’inginocchiate su ogni scalino, due volte la settimana.

Pur di raccontare di noi – spesso, del nulla di ciò che noi siamo – interrompiamo continuamente e, se l’altro non smette, gli parliamo sopra, anche a voce più alta se necessario.

C’è qualcosa di brutto nell’interrompere: “Eravamo ancora studenti quando io e mia moglie visitammo Firenze per la prima volta. Proprio quando il tramonto stava per tingere di bronzo l’Arno, trovammo un piccolo ristorante vicino alla pensione infestata di pipistrelli dove soggiornavamo. Marsha, essendo stata cresciuta da una nonna originaria di Viareggio, ordinò da mangiare in un italiano del quale il nostro anziano cameriere deve aver riconosciuto le inflessioni toscane. Si rifiutò, comunque, di scrivere alcunché sul suo taccuino fino a che, spazientito, la interruppe con un deciso “Signorina!”, rivolgendosi quindi verso di me con aria interrogativa. Solo dopo che ebbi annuito, annotò la nostra ordinazione. Tempo dopo, mentre cercavo di perfezionarmi nel mestiere di professore, lessi un articolo sulla tendenza degli insegnanti, sia uomini che donne, a interrompere le studentesse – ma non gli studenti – mentre rispondono alle domande. […] Viviamo in un mondo in cui le donne vengono spesso messe a tacere, a volte anche in modo violento. Ma l’umiliante affronto di zittire le donne con nonchalance è un’esperienza talmente radicata nella nostra quotidianità che questi piccoli esempi di imposizione del silenzio su un altro essere umano – la brusca interruzione del cameriere o dell’insegnante – in realtà possono aiutare, anche meglio di casi più eclatanti, a chiarire quale ruolo abbia il silenzio nel mantenimento dell’attuale distribuzione del potere nella società” – Elogio del silenzio, John Biguenet.

Mi sentirei di dire che l’umiliante affronto d’essere interrotti, zittiti, è un’esperienza talmente radicata nella nostra quotidianità che può aiutarci a capire quale ruolo abbia il silenzio nel mantenimento della distribuzione del potere, al di là del contesto in cui ci si trovi.

Guai a farci zittire, ma impariamo ad ascoltare senza interrompere.

Interrompere gli altri per raccontare le proprie storie, impedire all’altro di andare avanti, ha tanti scopi, anche quello di annullare la possibilità che chi ti sta di fronte riesca a dirti qualcosa di così tragico che non ti resterebbe da fare altro che tacere: la gara a chi l’ha più lungo non è solo una pratica degli adolescenti e tanto meno si ferma alle dimensioni del pene.

È talmente raro raccontare storie a qualcuno che ti ascolta e non favella che, quando accade, si ha quasi l’impressione d’esser stati presi in giro, che l’altro stia pensando a chissacché. E invece no, quando tu termini di parlare e lui espone il suo pensiero logicamente collegato con quanto hai appena finito di dire, ti commuovi, ti emozioni, credi d’essere in presenza di un alieno e ti devi trattenere perché la tentazione è quella di abbracciarlo, baciarlo.

Abbiamo bisogno di raccontare storie anche perché, avendo bisogno di credere in qualcosa, crediamo fortemente in ciò che esponiamo: quante volte ci siamo trovati di fronte personaggi che raccontavano fatti stupidamente incredibili, che non si reggevano minimamente in piedi neppure nella sequenza in cui venivano esposti, ma che non li spostavano di un millimetro nonostante le nostre continue osservazioni mosse con sopracciglia aggrottate o naso arricciato?

Insomma, non abbiamo solo bisogno di raccontare ma pure di crederci. E questo è un altro motivo per cui interrompiamo: non vorremmo mai ascoltare ipotesi che destabilizzino quanto ci siamo preparati con cura certosina, durante intere nottate in bianco.

Raccontare è Storia e politica: “Gunnar Widforss […] non è senza una certa costernazione che racconta delle sparizioni notturne e delle deportazioni in Siberia. «Nemmeno i parenti sanno dove vanno a finire»” – L’arte della fuga, Fredrik Sjöberg.

E ancora: “La Coppa del Mondo si tenne in Argentina nel ’78, […] mi racconta come alcuni sostengano che fu usata come un paravento per sbarazzarsi di coloro che diventarono desaparecidos. Il governo diede un enorme appoggio all’evento sportivo, sfruttandolo astutamente per far sparire la gente mentre ben pochi stavano prestando attenzione” – Diari della bicicletta, David Byrne.

Si raccontano i racconti degli altri: “[…] vi racconterò la storia di mio padre, anche se posso raccontarla solo per come l’hanno raccontata a me, quindi non ci giuro. Il fatto è che i pashtun lo avevano obbligato – non solo lui, lui e molti altri uomini hazara della nostra provincia – ad andare in Iran e a tornare con il camion, per prendere i prodotti da vendere nei loro negozi: coperte, stoffe o certi sottili materassi di spugna che servivano per non so cosa. Questo perché gli abitanti dell’Iran sono sciiti, come noi hazara, mentre i pashtun sono sunniti – e tra fratelli di religione, si sa, ci si tratta meglio – e poi perché loro, i pashtun, non parlano persiano mentre noi un pochetto lo capiamo. Per obbligarlo, hanno detto a mio padre: se tu non vai in Iran a prendere quella merce per noi, noi uccidiamo la tua famiglia, se quando arrivi manca della merce o è rovinata, noi uccidiamo la tua famiglia, se ti fai truffare, noi uccidiamo la tua famiglia. Insomma, qualunque cosa fosse andata male: noi uccidiamo la tua famiglia” – Nel mare ci sono i coccodrilli, Fabio Geda.

L’essere umano è un prodotto di racconti, ed è un racconto egli stesso.

L’essere umano racconta un po’ di tutto, dalle barzellette alle imprese epiche, dalle fandonie alle favole.

L’essere umano racconta per divertire e per commuovere, per rinfrescare la propria e l’altrui memoria.

L’essere umano racconta anche per Resistere. Non dimentichiamolo.

 

*scrittore sul sito  www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni

 

 

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