Emergeranno forme di controllo nuove e più sofisticate, non solo perché
l’intelligenza artificiale è nata per controllare quello che pensiamo e facciamo
in modo da fare sempre più profitti, ma perché chi sta in basso trova sempre il
modo di resistere e superare in astuzia chi sta in alto.
di Raúl Zibechi da Comune-Info
La diffusione dell’intelligenza artificiale (AI) e la naturalizzazione dei suoi
risultati non vanno di pari passo con la comprensione dei suoi meccanismi, di
chi la promuove, con quali interessi e obiettivi. Se non facciamo questo
esercizio, saremo vittime passive in modi che non conosciamo.
In una recente intervista, lo storico e filosofo Yuval Harari sostiene che
l’intelligenza artificiale consente “una sorveglianza totale che pone fine a
ogni libertà”. Egli avverte che la capacità di sorveglianza supera di gran lunga
quella di qualsiasi dittatura o regime totalitario, poiché attraverso telecamere
di sorveglianza con capacità di riconoscimento facciale e telefoni cellulari, si
ha la capacità di controllare i minimi atteggiamenti di tutte le persone ovunque
arrivi Internet.
Personalmente ho verificato che mi inviano pubblicità di prodotti o marchi di
cui sto parlando con la mia famiglia e i miei amici, quasi immediatamente.
Sappiamo che l’intelligenza artificiale ci consente di ascoltare qualsiasi
conversazione, non importa quanto intima, e ogni movimento e comunicazione che
facciamo tramite i telefoni cellulari.
Harari dice che “l’intelligenza artificiale è diversa da qualsiasi tecnologia
inventata in precedenza”, perché a differenza delle tecnologie precedenti, non è
nelle mani degli esseri umani né è uno strumento che deve essere attivato dalle
persone, ma piuttosto “un agente indipendente” che ha la capacità di prendere le
proprie decisioni “da solo”. Sostiene che nei media, che “costituiscono la base
di una democrazia su larga scala”, non sono più gli editori a prendere le
decisioni editoriali, ma piuttosto “sono gli algoritmi a decidere quale dovrebbe
essere la storia consigliata”.
Penso che molti degli argomenti di Harari siano interessanti e che la sua
denuncia della massiccia manipolazione dell’informazione sia molto importante.
Facciamo un ulteriore passo avanti, per approfondire le conseguenze
dell’intelligenza artificiale: “Gli algoritmi aziendali hanno scoperto che è
necessario diffondere fake news e teorie che aumentino le dosi di odio, paura e
rabbia negli utenti, perché questo spinge le persone a impegnarsi, a trascorrere
più tempo sulle piattaforme e a inviare link in modo che anche i loro amici
possano arrabbiarsi e spaventarsi”. Conclude che si tratta di un modello di
business perché “il coinvolgimento degli utenti è alla base di tutto”, per cui
il tempo che ciascun utente trascorre sulle piattaforme porta le aziende a
guadagnare di più, poiché vendono più annunci e, soprattutto, “raccolgono dati
che poi venderanno a terzi”. Un’analisi molto interessante, che si conclude con
una frase devastante: “Le persone del settore sono intrappolate in una mentalità
da corsa agli armamenti, da concorrenza e da non lasciarsi vincere”.
Credo, tuttavia, che mancano due aspetti per completare il quadro perché, in
caso contrario, si può perdere il contesto di ciò che sta realmente accadendo:
il primo è che gli algoritmi non hanno vita propria, ma sono stati creati dal
sistema per migliorare i suoi profitti, approfondendo il controllo delle nostre
menti; il secondo è che la storia del capitalismo è proprio questa.
Harari sostiene che l’intelligenza artificiale prende le decisioni da sola:
questo è vero solo in parte se guardiamo solo alla tecnologia ma non a chi l’ha
creata e la gestisce per conoscere anche i desideri più profondi delle persone.
In secondo luogo, dobbiamo tornare alla storia del Panopticon, del Taylorismo e
del Fordismo per vedere come il controllo del capitalismo si è approfondito.
Negli eserciti emerge il panopticon. Le tende dei soldati dovevano essere
rigorosamente allineate in modo che gli ufficiali potessero rilevare il minimo
movimento. Poi si è spostato nelle carceri, negli ospedali, nei centri
educativi, nelle fabbriche; sempre per limitare l’autonomia delle persone. Le
telecamere che si moltiplicano nelle nostre città hanno lo stesso obiettivo.
Nelle fabbriche, durante il periodo produttivo, l’operaio specializzato
controllava le macchine e i loro tempi di lavoro. Verso la fine del XIX secolo
venne imposta l’“organizzazione scientifica del lavoro” ideata da Frederick
Taylor, che divideva i compiti tra chi esegue i movimenti e chi pianifica e
impartisce ordini. L’obiettivo era trasformare l’operaio in un “gorilla
ammaestrato”, sottoposto alle macchine, capace solo di compiere movimenti
precisi e cronometrati.
Con la catena di montaggio creata nelle fabbriche Ford, si chiuse un primo ciclo
di controllo operaio, poi approfondito con il “toyotismo”, quando gli operai
riuscirono a neutralizzare le precedenti modalità di sfruttamento, nel decennio
delle lotte operaie degli anni Sessanta.
Il miglioramento delle tecnologie per il controllo della vita, della natura e di
tutto ciò che è umano è il segno distintivo del capitalismo. In questo modo
aumenta i suoi profitti, sottomettendo sempre di più gli esseri umani.
Emergeranno forme di controllo nuove e più sofisticate, perché chi sta in basso
trova sempre il modo di resistere e superare in astuzia chi sta in alto.
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Source - Osservatorio Repressione
La speranza e il dolore Farah che continua a lottare per la verità, e perché
anche di fronte all’immensità del mare ogni vita venga ricordata; e ogni
storia, per quanto tragica, raccontata
di Luna Casarotti – Yairaiha ets da Monitor
Farah è una madre e una donna coraggiosa che si è rivolta alla nostra
associazione per avere notizie di suo figlio Aouina Mohamed Amine, di soli
sedici anni, scomparso durante un viaggio verso l’Europa.
Mohamed Amine è partito la notte del 5 febbraio 2024 da Bizerte, a bordo di un
gommone nero, insieme ad altre diciassette persone, tra le quali sono noti i
nomi di Helmi, Yassim, Mohamed, Bilel, Ayoub, Seif, Fahmi, Mahdi, Maher, Mohamed
Omar, Ghanim, Souahail e del piccolo Anas, di appena cinque anni. La
destinazione era Cagliari, con arrivo previsto per il giorno successivo. Di lui
non si sono mai più trovate tracce.
Alla partenza da Bizerte, Mohamed Amine indossava un maglione nero, pantaloni da
jogging, un giubbotto e scarpe Nike nere. Il giovane aveva una piccola cicatrice
sulla gamba sinistra, poco sotto il ginocchio, ricordo sul suo corpo di un
infortunio subito in passato. Tre giorni dopo la partenza sua madre Farah ha
ricevuto un messaggio da un numero tedesco che riferiva di un possibile
avvistamento del figlio in un ospedale di Cagliari. Tuttavia, nonostante il
messaggio sia ancora disponibile, il numero a oggi risulta inesistente, rendendo
impossibile sia risalire al mittente che verificare se la segnalazione fosse
veritiera.
Contattata la polizia, all’ufficio immigrazione sostengono che le verifiche
iniziali condotte dalle autorità non abbiano portato a risultati concreti. Tra
gennaio e marzo 2024 non risultano sbarchi di cittadini tunisini a Cagliari, ma
solo gruppi di algerini. Inoltre, il confronto tra la fotografia del passaporto
di Mohamed Amine e le immagini delle persone sottoposte a foto-segnalamento in
Italia non ha dato esito positivo. La questura di Palermo sostiene che sul
territorio siciliano non risulti alcuna traccia del ragazzo, pertanto il
nominativo rimane sconosciuto.
Successivamente si viene a sapere che il 7 febbraio un attivista ed ex
parlamentare tunisino, Majdi Karbai, noto per il suo impegno sui temi
dell’immigrazione, era stato contattato da una persona, familiare di alcuni
migranti in viaggio, per segnalare una situazione di emergenza. Un’imbarcazione
partita da Bizerte e diretta a Cagliari si trovava bloccata in mezzo al mare a
causa di un guasto al motore. I passeggeri a bordo, riusciti a raggiungere
telefonicamente i propri parenti, avevano lanciato l’allarme. Karbai aveva
immediatamente contattato la Guardia Costiera di Roma, quella di Cagliari e
quella siciliana, oltre alla sala operativa della capitale. Nonostante
l’intervento dei soccorsi, però, l’imbarcazione non venne intercettata.
La barca su cui viaggiavano Mohamed Amine e gli altri dovrebbe essere naufragata
al largo della Sardegna, in condizioni di mare tempestoso, il 6 febbraio del
2024. Con l’arrivo della scorsa primavera il mare iniziò a restituire corpi di
vittime, e tra marzo e aprile diversi cadaveri furono ritrovati al largo delle
Eolie e di Rodia, sulle coste della Sicilia, della Calabria e della Campania.
Tra i corpi recuperati, alcuni furono identificati grazie a dettagli diffusi
dalla stampa.
Per esempio, il 13 aprile, il corpo di un’uomo fu trovato in stato di avanzata
decomposizione dalla Capitaneria di Porto di Milazzo, nella zona di mare tra
l’isola di Vulcano e il promontorio di Capo Tindari, nel comune di Patti
(Messina). Il fratello della vittima lo riconobbe grazie a una serie di tatuaggi
distintivi: un dragone, una tela di ragno e uno scorpione. Il giorno successivo,
i resti del piccolo Anas furono rinvenuti da un pescatore nei pressi della zona
industriale di Lamezia. Di suo padre Souahail, invece, non sembra essere rimasta
nessuna traccia.
Grazie all’intervento dell’associazione Mem. Med. – Memoria Mediterranea,
ulteriori indagini furono attivate. Tra le diciotto persone disperse si riuscì
però a trovare e identificare solo cinque cadaveri. In quei giorni Farah si
sottopose al test del Dna, ma l’esito fu negativo: nessuno di quei corpi era
quello di suo figlio. A oggi, il nome di Mohamed Amine dovrebbe essere incluso
nella lista ufficiale dei dispersi diffusa dal consolato tunisino a Roma
all’epoca dei ritrovamenti, ma nonostante quattro solleciti, il consolato non
fornisce alcuna conferma a riguardo. Se così non fosse, sarebbe ancora più
difficile che eventuali tracce del corpo di Mohamed Amine vengano associate al
suo nome, in caso di ritrovamento.
Intanto, l’incertezza è diventata per questa donna un tormento insostenibile.
Da un lato, la speranza che Mohamed Amine possa essere sopravvissuto le dà la
forza di continuare a cercarlo e di non arrendersi. Dall’altra, il timore che il
mare, silenzioso custode di innumerevoli tragedie, possa un giorno restituirle
il corpo del figlio non le dà pace. In bilico tra questa speranza e questo
dolore Farah continua a lottare per la verità, e perché anche di fronte
all’immensità del mare ogni vita venga ricordata; e ogni storia, per quanto
tragica, raccontata.
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L’antifascista tedesca queer Maja T. compare in tribunale in catene per
l’udienza preliminare del processo: è accusata di aggressioni ai danni di
militanti di estrema destra e rischia fino a 24 anni di carcere
di Michele Gambirasi da il manifesto
È iniziato a Budapest il processo a carico di Maja T., la militante antifascista
tedesca accusata dai giudici ungheresi di aver partecipato, come Ilaria Salis, a
delle aggressioni nei confronti di estremisti di destra in occasione del Giorno
dell’onore di due anni, l’11 febbraio 2023, nella capitale magiara. Maja,
persona non binaria, è entrata in aula per l’udienza preliminare di fronte al
giudice così come accadde a Salis lo scorso anno: in manette e tenuta al
guinzaglio da agenti della polizia ungherese. L’accusa è di essere responsabile
di quattro aggressioni con ferite potenzialmente letali a militanti di estrema
destra, per cui la pena potrebbe arrivare a 24 anni di carcere.
“HO APPENA VISTO questo video dal Tribunale di Budapest, e il cuore mi esplode
di rabbia e dolore. Ma nemmeno di fronte a questo trattamento degradante e
indegno la dignità di Maja si piega. Siamo tutte con te. La Germania, dopo
averla estradata illegalmente, deve ora riportarla subito a casa” ha scritto su
X Ilaria Salis. Maja T. infatti è stata estradata a giugno 2024 dalle autorità
tedesche, dopo averla prelevata nel cuore della notte dal carcere di Dresda in
cui si trovava, prima ancora che il tribunale costituzionale tedesco potesse
pronunciarsi sulla legittimità dell’estradizione. Un atto ritenuto poi
fuorilegge dai giudici, come stabilito da una sentenza pronunciata due settimane
fa.
NON HA NASCOSTO il proprio livore nei confronti di Salis il governo ungherese,
che poco dopo le dichiarazioni dell’eurodeputata ha replicato su X attraverso il
proprio portavoce, Zoltan Kovacs. “Che bizzarro, Ilaria Salis, agitarsi contro
una procedura giudiziaria equa dal comfort del tuo comodo seggio al Parlamento
europeo! Se sei così sicura della tua innocenza, perché non abbandoni l’immunità
e affronti la musica? Non lo farai perché sai esattamente che quello che tu e i
tuoi compagni delinquenti avete fatto è stato un crimine violento e abominevole”
ha scritto.
AD ATTENDERE Maja ieri fuori dal tribunale ieri c’è stato un presidio di
militanti antifascisti e della comunità Lgbt+. «Orbàn fuck off. Trans liberation
now» hanno scritto su uno striscione: come persona non binaria Maja ha documenti
maschili ed è detenuta in un carcere maschile, con i rischi che comporta. «Sono
accusata in un paese in cui non esisto come Maja» ha detto in aula la militante.
Poi ha rifiutato la proposta dei magistrati ungheresi di patteggiare una pena di
14 anni ammettendo la propria colpevolezza: «Questo processo riguarda molto più
di me stessa» ha aggiunto, lamentando le condizioni detentive, fatte di
privazione del sonno, scarse condizioni igieniche e mancata traduzione degli
atti processuali in tedesco, sua lingua madre. In aula erano presenti anche
l’europarlamentare tedesco del gruppo The Left Martin Schirdewan e la deputata
della Linke Martina Renner, che avevano fatto visita a Maja in carcere a
Budapest in agosto, denunciandone le condizioni. Fino al termine del processo
rimarrà in carcere a Budapest, poi potrà scontare la pena in Germania. Processo
che, però, potrebbe andare avanti molto a lungo.
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Manifestazioni contro ddl sicurezza e zone rosse, la circolare ai prefetti:
“attente misure di ordine pubblico e mirata attività informativa per
l’acquisizione di ogni utile elemento conoscitivo ai fini preventivi e di
sicurezza”
Predisporre ‘‘attente misure di ordine e sicurezza pubblica volte a garantire il
regolare svolgimento delle manifestazioni e a scongiurare turbative, non
potendosi escludere tentativi di strumentalizzazione della tematica per
l’attuazione di iniziative estemporanee o come pretesto per episodi di
intemperanza o azioni improntate all’illegalità da parte di frange estremiste”.
E’ quanto viene richiesto in una circolare inviata dal Dipartimento di Ps a
prefetti e questori, secondo quanto apprende l’Adnkronos, in vista delle
mobilitazioni contro il ddl sicurezza e le zone rosse indette per sabato 22
febbraio in diverse città italiane.
Nella circolare si raccomanda inoltre lo sviluppo di una ”mirata attività
informativa per l’acquisizione di ogni utile elemento conoscitivo ai fini
preventivi e di sicurezza’‘ e di intensificare dei servizi di ”controllo del
territorio e prevenzione” sensibilizzando i dispositivi di vigilanza agli
”obiettivi ritenuti sensibili”. (fonte Adnkronos)
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Il nostro Belpaese ha perso forse un po’ della sua umanità? Se guardiamo le
reazioni dell’opinione pubblica a certe notizie (quando le notizie vengono
diffuse), si direbbe di sì. Dopo la guerra, e la Resistenza, e la difficile
ricostruzione, la gente poteva non essere d’accordo ma rispettava la
contestazione. Oggi conosco persone di centrosinistra che, senza sapere nulla
del Centro Sociale, ripetono che “quelli di Askatasuna sono drogati e
delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire da Genova 2001: disinformare
prima in modo da avere una maggioranza consenziente e poter agire indisturbati
dopo.
di Haidi Gaggio Giuliani da Centro Studi Sereno Regis
Per venti anni ho vagato affannosamente di qua e di là in cerca di risposte al
mio dolore. Ho incontrato molte madri come me. Una moglie, due sorelle,
soprattutto madri. I figli uccisi come il mio dalla violenza di apparati
statali, direttamente o indirettamente responsabili.
Sono stata a Milano per Giovanni Ardizzone, Roberto Franceschi, Fausto Tinelli e
“Iaio” Lorenzo Iannucci, Luca Rossi, Saverio Saltarelli, Claudio Varalli,
Giannino Zibecchi. A Bologna per Francesco Lorusso (e per le vittime della
stazione). A Reggio Emilia per Ovidio Franchi, il più giovane di cinque
assassinati. E a Pisa per Franco Serantini, un “figlio di nessuno” con molti
compagni che lo ricordano sempre. A Roma per Fabrizio Ceruso, Piero Bruno, Mario
Salvi, Giorgiana Masi, Walter Rossi… Non sono tutti.
La maggior parte di loro non ha avuto una verità giudiziaria. Lo Stato non si
processa.
Volevo riuscire a fare luce sull’uccisione di Carlo per evitare questo dolore
insopportabile ad altre madri. Mai più dicevamo.
Invece due anni dopo Federico Aldrovandi a Ferrara ha incontrato i suoi
assassini in divisa mentre tornava a casa. Riccardo Rasman, a Trieste, legato
alle caviglie col fil di ferro, imbavagliato e ammanettato, è morto come George
Floyd. Davide Cesare, a Milano, è stato accoltellato da due balordi fascisti ma
la polizia ha impedito a lungo l’arrivo delle ambulanze e poi ha inseguito i
suoi amici, sfasciando teste e vetrate al Pronto Soccorso.
Stefania, che ha formato le Madri per Roma città aperta, può raccontare la sua
lotta per la verità dopo l’uccisione del figlio, Renato Biagetti. Lucia Uva, a
Varese, ha tanto combattuto nei tribunali per il fratello Giuseppe: è stata
processata lei, per diffamazione dei poliziotti, infine prosciolta. Mi devo
fermare, la lista è lunga, ma non posso non citare i genitori di Giulio: Paola e
Claudio Regeni, fermamente uniti, stanno lottando per affermare il diritto alla
vita di tutte e tutti i giovani del mondo…
Nel mio percorso faticoso ho avuto grandi maestre: Licia Pinelli, Felicia
Impastato e l’argentina Hebe de Bonafini, co-fondatrice e a lungo presidente
delle Madri di Plaza de Mayo. So che in Turchia le Madri del sabato cercano da
molto tempo di avere notizie dei loro parenti scomparsi forzatamente. Invece di
essere ascoltate, finiscono sotto processo. E madri palestinesi e israeliane si
uniscono, all’interno del movimento Combattenti per la pace.
Sono ambientalista da sempre, è stato naturale per me andare, seguendo le orme
di Carlo, a conoscere il movimento in Valle di Susa. Così ho incontrato le mamme
torinesi. Che sono un passo avanti. Mi spiego: tutte noi ci siamo mosse dopo,
per reclamare la vita dei nostri cari. Le Mamme in piazza per la libertà di
dissenso, invece, sono insieme ai ragazzi e alle ragazze, al loro fianco anche
se non sempre condividono la loro protesta. Come è raccontato in questo bel
libro, appena uscito con il titolo “Carcere ai Ribell3 – Storie di attivist3”
(Ed Multimage), le mamme di Torino sostengono il sacrosanto diritto di non
essere d’accordo con le decisioni imposte da ministri e amministratori. E di
dirlo a voce alta.
Spesso mi sono chiesta, nell’arco delle mie esperienze, che cosa è cambiato: che
differenza c’è tra la repressione agita negli anni ’60 e quella di oggi. Anche
allora polizia e carabinieri picchiavano, e ammazzavano. Ricordo – vivevo a
Milano – che nei giorni più caldi della lotta contro la guerra in Vietnam
dovevamo stare particolarmente attenti quando arrivava la famosa Celere di
Padova. Tuttavia, non tutte le volte si arrivava allo scontro.
Un esempio? Un giorno eravamo andate a sostenere lo sciopero delle commesse
della Standa, eravamo tutte donne e stavamo a braccetto a fare cordone; ai
regolari tre squilli di tromba, che precedevano la carica, abbiamo avuto paura
ma nessuna ha lasciato la stretta. La carica non è arrivata: i manganelli
penzolavano inerti nelle mani degli uomini che avrebbero dovuto aggredirci.
L’ometto con la fascia tricolore li fulminava con minacce sprezzanti ma niente
da fare, quelli non si muovevano, non se la sentivano proprio di sfondare la
fragile barriera tremante di figlie madri sorelle di fronte a loro.
Ricordo che a quel punto ci sono venute le lagrime agli occhi al pensiero di
quello che avrebbero subito quegli uomini. Uomini, appunto. Mi è capitato
raramente, anni dopo, di trovare un uomo o una donna dentro a una divisa. E ho
imparato a non amarle, le divise. Ho imparato che nascondere un essere umano
sotto una divisa equivale, nella maggior parte dei casi, a negare la sua
individualità, la sua umanità, le sue capacità di discernere e di scegliere.
Essere usi a ubbidir tacendo può risultare comodo, risparmia la fatica della
decisione; per questo, io credo, fa male all’intelligenza, e a volte può
avvelenare l’anima.
È stato un caso particolare, è vero, ma a Genova nel 2001 e in Valsusa e a
Torino e a Pisa… in tutti questi anni gli agenti non si sono mai fermati davanti
a donne e nemmeno a ragazzini di scuola media. Perché? Hanno influito, in questo
deterioramento, decenni di impunità. Non penso a una detenzione, naturalmente,
ma a intensi percorsi formativi/rieducativi. Che garanzie può dare una
poliziotta che, alla morte di un ragazzo, conclude soddisfatta “Uno a zero per
noi”?!
In generale – mi chiedo – il nostro Belpaese ha perso forse un po’ della sua
umanità? Se guardiamo le reazioni dell’opinione pubblica a certe notizie (quando
le notizie vengono diffuse), si direbbe di sì. Dopo la guerra, e la Resistenza,
e la difficile ricostruzione, la gente poteva non essere d’accordo ma rispettava
la contestazione. Oggi conosco persone di centrosinistra che, senza sapere nulla
del Centro Sociale, ripetono che “quelli di Askatasuna sono drogati e
delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire da Genova 2001: disinformare
prima in modo da avere una maggioranza consenziente e poter agire indisturbati
dopo.
Questo libro, con le storie di Dana, di Cecca, di Emiliano Francesco Jacopo,
delle “Ragazze di Torino”, è prezioso. Prezioso per le testimonianze. Perché
spiega benissimo la sostanza risibile di molte accuse. Prezioso perché
contribuisce ad accendere una luce sulla vita in carcere, luogo solitamente e
volutamente tenuto nel buio. A questo aveva già pensato Nicoletta Dosio con il
suo Fogli dal carcere (i molti testi che si occupano di reclusione sono scritti
per lo più da professionisti per altri studiosi della materia).
Prezioso perché denuncia chiaramente la volontà di punire la o il “ribelle” –
prima ancora della condanna – con tutte le persone di famiglia che subiscono, in
un modo o nell’altro, la stessa pena. L’accanimento su chi ha meno difese
(affettive, fisiche, economiche, sociali). Ricorda ai distratti le
manifestazioni di protesta per Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, uccisi da una
legge criminale che fornisce gratuitamente forza lavoro, giovane e inesperta,
agli industriali.
Si parla anche di vergogna, in questo libro, per le manette, il braccialetto
elettronico, il cellulare che ti accompagna (certamente non per gentilezza) fino
alla porta di casa. Mi viene in mente don Gallo: Su la testa! ci spronava,
ballando sul piccolo palco di piazza Alimonda. Non sono i nostri figli che si
devono vergognare ma chi li persegue!
Un libro prezioso, dicevo: bisognerebbe poterlo diffondere nelle scuole,
suggerirne la lettura alle madri… Io sono vecchia. Nella mia vita ho visto molti
ministri, nei governi di centro destra e di centrosinistra, colpevoli di
devastazione e saccheggio. Devastazione dei territori e saccheggio del bene
comune. Ho visto magistrati strabici, capaci di usare le leggi e leggere le
carte a senso unico, ladri di vite umane. Ho visto amministratori pubblici
interessati più al tornaconto della propria cricca che alle necessità della
cittadinanza, colpevoli di furto. E ho visto giornalisti lacchè umiliare la
propria categoria distorcendo la realtà dei fatti, responsabili di falso.
Per tutti e tutte loro non esiste galera, solo il nostro disprezzo. Sono le
persone come quelle raccontate in questo libro la ventata di aria fresca che,
prima o poi, li spazzerà via.
“Carcere ai Ribell3, Storie di attivist3 – Il carcere come strumento di
repressione del dissenso” a cura di Nicoletta Salvi Ouazzene (Mamme in piazza
per la libertà del dissenso) – Ed. Multimage, € 12.00.
Acquistabile on line (https://multimage.org/libri/carcere-ai-ribell3/) e presso
alcune librerie (per la città di Torino: Libreria Belgravia, Via Vicoforte 14d).
Per restare in contatto e organizzare presentazioni: mammeinpiazza@libero.it –
https://www.facebook.com/mammeinpiazza
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In piena orgia di retorica securitaria il parlamento con l’approvazione del
decreto “milleproroghe” ha dato il via per la dotazione del taser alla polizia
locale di tutti i comuni Italiani
Nel decreto “Milleproroghe, approvato in via definitiva dalla Camera dei
Deputati è previsto che tutti i Comuni – non solo i capoluoghi di provincia o
quelli con più di 20mila abitanti – potranno dotare la Polizia Municipale della
letale pistole elettronica “taser”. La misura sarà sperimentale fino alla fine
dell’anno.
L’ampliamento dell’uso del taser ha seguito una traiettoria progressiva negli
ultimi anni. Introdotto nel 2018 con i decreti Sicurezza dal Governo Conte I, su
proposta dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, il dispositivo era
inizialmente riservato alle sole Città metropolitane e ai Comuni con più di
100mila abitanti. Successivamente, con il decreto legge PA dello scorso anno, un
emendamento sostenuto da Lega e Fratelli d’Italia aveva abbassato la soglia,
consentendone l’utilizzo anche nei centri con oltre 20mila abitanti. Ora, la
misura viene estesa a tutti i Comuni, eliminando di fatto ogni limitazione
demografica.
COME FUNZIONA IL TASER. Si presenta più o meno come una pistola. Quando si preme
il grilletto invece dei proiettili vengono sparati due piccoli dardi di metallo
collegati entrambi a un filo. Una volta che i due punteruoli, che restano sempre
collegati al filo, toccano l’obiettivo, una scossa di corrente passa da una
puntale di metallo all’altro creando un’immediata paralisi dei muscoli. Non è
necessario che i due dardi si infilino sotto la pelle, è sufficiente che
tocchino i vestiti. Come altre armi il taser prende il nome dal suo inventore,
infatti è l’acronimo di Thomas A. Swift’s electronic rifle, il fucile eletrico
di Thomas A. Swift.
GLI EFFETTI SUL CORPO. Nel settembre 2015 un collettivo di Youtuber ha mostrato
gli effetti di questa arma. Gli Slow Mo Guys hanno registrato in slow motion il
momento esatto in cui i dardi colpiscono la vittima. A fare da cavia umana per
la causa è stato Dan Hafen, responsabile delle vendite di un’azienda che produce
telecamere. Il video ha superato i 25 milioni di visualizzazioni. La fama val
bene una scossa.
In Italia i taser non si possono acquistare liberamente. Può comprarli solo chi
possiede un porto d’armi ma alcune armerie vendono versioni depotenziate. Nel
2007 una commissione dell’Onu si è espressa molto duramente sull’uso di
quest’arma: «Costituisce una forma di tortura, che in certi casi può condurre
alla morte com’è dimostrato da numerosi studi e da episodi accaduti in seguito
all’uso pratico di questi strumenti».
I RISCHI SECONDO AMNESTY. ll rischio infatti è che la polizia li usi con più
disinvoltura rispetto alle armi da fuoco. Sulla stessa linea anche Amnesty
International, come dichiarato dal suo portavoce Riccardo Noury in un’intervista
a Radio Popolare: «Ci sono tantissimi casi in cui vengono usati al termine di un
inseguimento e dunque quando la persona che viene colpita è in condizioni di
stress. Il problema è che non sai chi hai di fronte. Quando non sai chi hai di
fronte e usi un’arma come quella rischi di fare un danno molto elevato».
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Dopo la prima puntata dedicata alle zone rosse, ecco la seconda dedicata alla
libertà giornalistica e Julian Assange.
Marco Sommariva, della redazione di Osservatorio Repressione ha intervistato
Stefania Maurizi, giornalista e autrice del libro “Il potere segreto – Perché
vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks“– edito da Chiarelettere
La storia di un’incredibile congiura nel racconto della giornalista che ha
pubblicato i principali scoop dai documenti segreti di WikiLeaks e con le sue
inchieste sul caso sta contribuendo in maniera decisiva alla battaglia per
Julian Assange e i suoi giornalisti.
Un storia che nasce dal coraggio Bradley Edward Manning , ora Chelsea Elizabeth
Manning, attivista ed ex militare statunitense. Accusata di aver trafugato
decine di migliaia di documenti riservati mentre svolgeva il suo incarico di
analista di intelligence durante le operazioni militari in Iraq, e di averli
consegnati all’organizzazione WikiLeaks. Arrestata, imputata di svariati reati
contro la sicurezza nazionale e detenuta in condizioni considerate lesive dei
diritti umani. Il suo caso ha suscitato un acceso dibattito in quanto quei
dossier riguardavano l’omicidio di diversi civili iracheni disarmati da parte
dell’esercito americano.
Ascolta la puntata:
https://www.nientedimenomedia.com/post/colpevole-di-giornalismo-s-margini-02
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Nel Regno Unito per via Terrorism Act, è diventato un crimine parlare
favorevolmente della “resistenza palestinese”: farlo costituisce infatti la
cosiddetta apologia del terrorismo.
di Patrick Boylan da pressenza
Oggi, in quella rinomata cittadella della libertà di espressione e della libertà
di stampa che è stato il Regno Unito, se professi il tuo sostegno alla
resistenza palestinese puoi essere arrestato e incarcerato, il tuo cellulare e
il tuo PC possono essere confiscati e la tua casa devastata dalla polizia in
assetto d’assalto; puoi addirittura perdere il tuo posto di lavoro ed essere
espulso dal Paese.
Non era così in passato. Persino Karl Marx, benché strettamente sorvegliato
dalla polizia, godette pienamente della libertà di espressione e di stampa
mentre risiedeva a Londra dal 1849 fino alla sua morte nel 1883. Non solo poté
far stampare il suo Manifesto del Partito Comunista (che invocava una rivolta
armata), ma fu anche libero di distribuire il suo controverso saggio Sulla
questione ebraica – un testo che, pur rispettando l’ebraismo etnico, fustiga
duramente l’ebraismo economico, o “sionismo” come diremmo oggi.
Bei tempi passati. Oggi nel Regno Unito criticare il sionismo o proclamare
sostegno alla rivolta armata palestinese viene accolto con una feroce
repressione. Prendiamo il caso dei giornalisti pro-pal.
La lunga mano della lobby sionista e l’intimidazione dei giornalisti
Cosa s’intende per “lobby sionista”? Il “sionismo”, originariamente un movimento
identitario e nazionalistico che rivendicava una patria per gli ebrei, oggi si è
trasformato in “imperialismo fideistico”, cioè nella difesa del “diritto divino”
di Israele ad occupare non solo le terre originariamente sottratte ai
palestinesi, ma anche altri territori limitrofi, che si estendono fino al fiume
Giordano e addirittura all’Eufrate. Chiunque abbia questa convinzione è un
“sionista”, ebreo o non ebreo che sia. Ad esempio, i cristiani sionisti
evangelici negli Stati Uniti desiderano una “Grande Israele” come presagio del
ritorno di Cristo. Pertanto, il termine “lobby sionista” indica oggi una rete di
sionisti, in uno o più Paesi, che cercano di favorire l’espansione territoriale
di uno Stato ebraico integralista. Un ultimo punto: l’antisionismo (la posizione
etico-politica – perfettamente legittima – che condanna l’espansionismo
israeliano a scapito di altri popoli) non deve essere confuso con
l’antisemitismo (l’ostilità vile e razzista verso gli ebrei come gruppo etnico).
Cercare di equiparare le due cose è semplicemente un tentativo disonesto di
screditare le critiche all’imperialismo fideistico israeliano.
Il 16 ottobre 2023, il giornalista britannico Craig Murray, attivista
filo-palestinese ed ex diplomatico del Regno Unito, è stato arrestato dalla
polizia antiterrorismo all’aeroporto di Glasgow, di ritorno da un incontro con
lo staff di WikiLeaks in Islanda. Gli sono stati sequestrati il PC e il
cellulare e ha dovuto subire un interrogatorio di un’ora – e riguardante non
solo i suoi legami con WikiLeaks. Infatti, la polizia – forse informata dalla
lobby sionista del Regno Unito, che tiene d’occhio ogni spostamento di attivisti
come Murray – era ben consapevole che il giornalista aveva partecipato a una
manifestazione pro-palestinese mentre si trovava in Islanda e gli agenti
volevano sapere cosa fosse stato detto in quell’occasione. “Non ne ho idea, non
parlo islandese, ho semplicemente partecipato alla manifestazione per
solidarietà”, ha risposto Murray, con grande disappunto degli agenti, che alla
fine hanno dovuto rilasciarlo – senza i suoi dispositivi elettronici, però.
Il 15 agosto 2024, la polizia ha arrestato il giornalista filopalestinese
Richard Medhurst al suo arrivo all’aeroporto londinese di Heathrow,
apparentemente a causa dei suoi servizi a favore della resistenza palestinese,
considerati “apologia (sostegno) del terrorismo”. Gettato in cella per 15 ore,
Medhurst ha dovuto dormire – semisvestito – su un freddo blocco di cemento. Alla
fine il giornalista è stato rilasciato, ma con l’obbligo di presentarsi a una
stazione di polizia tre mesi dopo e con l’avvertimento di fare attenzione, nel
frattempo, a ciò che avrebbe scritto.
Due settimane dopo, il 29 agosto 2024, all’alba, la polizia in tenuta
antisommossa ha fatto irruzione nella casa della giornalista e attivista
filopalestinese Sarah Wilkinson, mettendo a soqquadro ogni stanza e confiscando
il suo passaporto e i suoi dispositivi elettronici. Con irriverente crudeltà,
gli agenti hanno persino sparso sul pavimento e calpestato le ceneri della
madre, che Sarah conservava in un’urna sigillata su una mensola. Messa agli
arresti domiciliari per sospetto sostegno al terrorismo, la 61enne non ha potuto
nemmeno andare in farmacia a comprare le medicine di cui aveva bisogno.
Essendole stato sottratto il suo telefono cellulare e non potendo uscire di
casa, non ha potuto nemmeno chiedere ai vicini di farlo per lei. Ora rischia un
massimo di 14 anni di carcere. Il suo crimine? Gli articoli che ha scritto a
favore della resistenza palestinese. “Vogliono instillare la paura”, ha detto,
“per farmi smettere di denunciare il genocidio a Gaza; ma non ci riusciranno”.
Poi, il 17 ottobre 2024, all’alba, la polizia antiterrorismo ha fatto irruzione
nella casa del noto giornalista Asa Winstanley, vice caporedattore di Electronic
Intifada. Il suo telefono cellulare, il suo PC e altri dispositivi elettronici
sono stati confiscati e, durante la perquisizione, il giornalista è stato
continuamente intimidito. Anche in questo caso, il suo “reato” sarebbero i suoi
scritti a favore della resistenza palestinese, scritti che qualcuno
evidentemente ha denunciato alla polizia come apologia del terrorismo. Ed è
facile immaginare chi poteva essere quella persona e quale potente lobby
l’avesse incoraggiata a setacciare ogni parola degli articoli di Winstanley per
trovare affermazioni che potessero farlo arrestare.
Questi e altri esempi di azioni repressive contro giornalisti ed attivisti
filo-palestinesi nel Regno Unito sono stati denunciati in un rapporto che non
lascia scampo, redatto dalle Nazioni Unite e reso pubblico una settimana fa
(5/2/2025). Il rapporto era stato inviato in via confidenziale al Primo
Ministro Starmer lo scorso 4 dicembre, con la richiesta di un riscontro entro 60
giorni; trascorso tale periodo senza alcuna risposta da parte di Starmer, gli
autori del rapporto – quattro Relatori Speciali delle Nazioni Unite – hanno ora
scelto di rivelarne il contenuto. “Le disposizioni del Terrorism Act 2000, del
Terrorism Act 2006 e dell’Anti-Terrorism and Border Security Act 2019,” scrivono
i quattro Relatori, “sembrano essere state utilizzate per indagare, detenere,
raccogliere dati e perseguire attivisti politici e giornalisti, sollevando
preoccupazioni per le potenziali violazioni dei loro diritti fondamentali”.
La strumentalizzazione delle leggi contro il terrorismo
Infatti, gli abusi sopra descritti – ed altri ancora, che il rapporto ONU elenca
– sono stati resi possibili da una legge antiterrorismo draconiana che risale al
2000, il Terrorism Act. In particolare, la sezione 12 criminalizza qualsiasi
tipo di sostegno fornito a un’organizzazione proibita e qualsiasi espressione
pubblica di simpatia per tale organizzazione.
La legge elenca, poi, le organizzazioni proibite che non possono essere aiutate
e di cui non si può nemmeno parlare in modo favorevole. La maggior parte sono
veri e propri gruppi terroristici, come al-Qaida e ISIS (nei Paesi musulmani),
Boko Haram (in Nigeria), al Shabaab (in Somalia) e le Tigri Tamil (in Sri
Lanka).
Ma nel 2019 e poi nel 2021, su pressione della potente lobby sionista nel Regno
Unito, l’elenco delle organizzazioni proibite è stato ampliato per includere i
due gruppi armati che si oppongono all’occupazione israeliana delle loro terre.
Uno di essi è Hezbollah, la resistenza armata creata nel 1982 per respingere
l’esercito israeliano che aveva invaso e stava occupando il Libano. L’altro è
Hamas, la resistenza armata creata nel 1987 per cacciare l’esercito israeliano
che occupava Gaza.
Vale la pena notare che né l’uno né l’altro di questi due gruppi era attivo o
esisteva prima dell’invasione e dell’occupazione israeliana delle loro terre.
Inoltre, nessuno dei due ha mai cercato di occupare e di dominare territori
israeliani. Entrambi sono semplicemente forze difensive che cercano di
scacciare le truppe straniere, segnatamente l’IDF, che occupano la loro terra.
In questo senso, possono essere paragonati ai partigiani cinesi, guidati da Mao
Tse-Tung, che cacciarono gli occupanti giapponesi e fondarono la Repubblica
Popolare Cinese.
Alla luce di tutto ciò, è palesemente pretestuoso designare Hezbollah e Hamas
come organizzazioni “terroristiche”, soprattutto dal momento che la 20a
Assemblea Generale delle Nazioni Unite (1965) ha legittimato “la lotta [armata]
dei popoli sotto il dominio coloniale… per l’autodeterminazione e
l’indipendenza”. Naturalmente, la lotta per cacciare una forza straniera
occupante non autorizza i resistenti a commettere crimini di guerra o crimini
contro l’umanità; se ne commettono, devono risponderne davanti ad un tribunale.
Molte delle atrocità attribuite a Hamas il 7 ottobre 2024 (come la mai
verificata “decapitazione di bambini”) si sono rivelate solo propaganda
israeliana, ma altre, invece, sono documentate e andrebbero sanzionate, a
partire dalla stessa presa di ostaggi, che è un crimine di guerra.
Dunque, Hamas – come lo stesso Hezbollah – rimangono forze di resistenza
(armata), malgrado i delitti eventualmente commessi. Chiamarli “gruppi
terroristici” facendoli inserire in qualche lista nera come la Sezione 12 del
Terrorism Act britannico è solo uno stratagemma per demonizzarli e per impedire
che se ne parli. E’ una vecchia tattica: durante la Resistenza in Italia, i
nazisti chiamavano i partigiani italiani “banditi”, così come, durante la
Resistenza in Cina, i giapponesi chiamavano i partigiani cinesi “diavoli” – in
entrambi i casi, per alienare loro il consenso e la simpatia della popolazione.
“Terrorista” è il termine demonizzante usato oggi da Israele per screditare le
forze che si oppongono con le armi al suo espansionismo.
Conclusione
Per via della Sezione 12 del Terrorism Act, nel Regno Unito è diventato un
crimine parlare favorevolmente di Hezbollah o di Hamas o anche semplicemente
della “resistenza palestinese”: farlo costituisce infatti la cosiddetta apologia
del terrorismo. Da qui gli arresti, le perquisizioni e le intimidazioni nei
confronti di quei giornalisti e attivisti britannici che hanno osato sostenere
il diritto dei palestinesi a liberare la propria terra, anche tramite la lotta
armata (purché venga condotta secondo il diritto bellico e le relative
convenzioni internazionali).
Ma la legge sul terrorismo, così come è stata scritta, è estremamente ampia e
vaga – a tal punto che la polizia non potrebbe mai essere in grado di verificare
tutte le possibili violazioni dell’articolo 12; per farlo, sarebbe loro
necessario leggere tutti gli scritti di tutti i giornalisti e attivisti del
Regno Unito e soppesare le sfumature di tutte le parole che usano: un compito
immane, anche con l’aiuto dell’AI. Chiaramente, dunque, l’ondata di repressione
dei giornalisti e degli attivisti filopalestinesi attualmente in corso nel Regno
Unito, presuppone l’esistenza di una rete di “informatori” di base, in grado di
fornire alla polizia le segnalazioni di cui ha bisogno. Si tratta, molto
probabilmente, di una rete di comuni cittadini britannici – ma con spiccate
simpatie sioniste – alla quale è stato chiesto di tenere d’occhio determinati
giornalisti e attivisti filopalestinesi e di fare una segnalazione quando essi
dicono o scrivono qualcosa che possa passare per “apologia del terrorismo”,
secondo la vaga definizione della Sezione 12. Poi, chi ha reclutato questi
informatori – si tratta molto probabilmente di sionisti altolocati o comunque
influenti – può usare queste segnalazioni per indurre la polizia ad emettere
mandati di perquisizione allo scopo di accertare i fatti. Questo stratagemma ha
un duplice scopo: serve ad intimidire i giornalisti o gli attivisti in questione
e, allo stesso tempo, consente alla polizia di accedere ai contatti privati sui
loro rispettivi cellulari e a tutti i documenti riservati presenti nei loro
computer e nelle loro apparecchiature elettroniche. Così facendo, ecco che essi
risultano totalmente spiati. Non solo, ma anche il nome di ciascun loro
contatto entrerà in una data base e, quindi, anche quella persona diventerà
“schedata”.
Si tratta solo di una pura congettura? Forse no. Un indizio dell’esistenza di
una cinica operazione di questo tipo è, come sottolinea Craig Murray, la totale
assenza di interventi della polizia nei casi in cui un giornalista o una
personalità di spicco esprime sostegno – come ormai fanno in tanti –
all’organizzazione terroristica l’HTS (Hay’at Tahrir al-Sham) in Siria.
Infatti, l’HTS, benché ufficialmente proscritto, viene ora corteggiato
dall’Occidente, con il risultato che la legge sul terrorismo sembra non esistere
più nei suoi confronti. La prova è che nessuno, dal Primo Ministro in giù, è mai
stato arrestato o perquisito per aver espresso simpatie per questa
organizzazione terroristica.
Tutto lascia pensare, quindi, che la polizia sia stata indotta a scovare e ad
arrestare, ai sensi della Sezione 12, solo quegli individui che esprimono
simpatie per la resistenza palestinese. Indotta da chi? Verosimilmente dalla
lobby sionista che, oltre ad avere i motivi e i mezzi, è in grado di offrire
alla polizia una fitta rete di informatori.
C’è una via d’uscita a tutto questo? Sì. Gli attivisti britannici potrebbero
intentare una causa chiedendo all’Alta Corte di stabilire che, sebbene Hezbollah
e Hamas siano effettivamente forze di resistenza armata, non sono da
considerarsi “terroristi”. Non dovrebbero quindi figurare nel Terrorism Act e
non dovrebbe essere un crimine appoggiarli.
Esiste un precedente per una sentenza di questo tipo: la Corte d’Appello del
Regno Unito è stata recentemente in grado di bloccare il trasferimento di
migranti dal Regno Unito al Ruanda, annullando l’inclusione di quel Paese,
promossa dal governo, tra i luoghi “sicuri” per la deportazione. Allo stesso
modo, la Corte potrebbe ora annullare l’inclusione di Hezbollah e di Hamas
nell’elenco dei gruppi terroristici di cui al Terrorism Act. Questo servirebbe a
porre fine all’attuale repressione dell’attivismo filopalestinese, repressione
che non fa altro che offuscare la reputazione del Regno Unito. Anzi, la fine
della persecuzione di giornalisti e di attivisti filopalestinesi rafforzerebbe
le libertà fondamentali di espressione e di stampa nel Regno Unito. Le isole
britanniche tornerebbero a essere viste come la cittadella di queste libertà nel
mondo.
————–
NOTA 1: Quest’articolo è apparso, in forma ridotta, sul mensile de
L’Indipendente di febbraio 2025 (1:1, pp. 44-45) con il titolo UK: vietato
difendere la resistenza palestinese.
Quest’articolo è disponibile anche in: Inglese
Il Corriere titola “Il Viminale a prefetti e questori: aumentare i rimpatri, un
terzo di chi viene denunciato o arrestato è straniero“. Durante la conferenza
dei prefetti e dei questori d’Italia, Piantendosi ha rilanciato la persecuzione
degli immigrati. E ha dato i numeri che “dimostrerebbero che gli stranieri
irregolari hanno una tendenza alla delittuosità superiore a quella dei regolari
e degli italiani”_
di Salvatore Turi Palidda da pressenza
“Su un totale di 822.801 persone arrestate o denunciate nel 2024, il 34,72% sono
stranieri. In particolare, tra gli arrestati o denunciate gli stranieri
sarebbero quindi 285.676 e di questi 23,80% per omicidio volontario; il 35,73%
per tentato omicidio; il 43,99% per violenza sessuale; il 47,84% per furto; il
52,47% per rapina; il 39,52% per reati in materia di stupefacenti; il 43,25% per
sfruttamento della prostituzione”.
Questi sarebbero i dati che avrebbero spinto il governo “a dare un forte input a
prefetti e questori ad aumentare i rimpatri di migranti irregolari”. E’ la
direttiva a prefetti e questori d’Italia fra le politiche di contrasto
all’immigrazione irregolare, in presenza della duce Meloni e altri. Secondo loro
questi dati sono la dimostrazione che “gli stranieri irregolari hanno una
tendenza alla delittuosità superiore a quella dei regolari e degli italiani”.
Per mostrare la loro efficienza persecutoria in tale riunione è stato
sbandierato anche il successo di aver espulso a forza 5.406 nel 2024, il 14% in
più rispetto al 2023, e un aumento del 12% rispetto al 2022 quindi nel 2024, 29%
in più sugli espulsi 2021. E il governo vanta anche un calo degli arrivi di
migranti nel 2024 (66.317 contro i 157.651 del 2023), anche se complessivamente
c’è stato un aumento del 26% tra il 2022 e il 2024.
Guardando bene questi dati appare palese che non c’è alcuna dimostrazione che
gli immigrati irregolari abbiano una tendenza alla delittuosità superiore a
quella dei regolari e degli italiani. Innanzitutto perché:
1) l’arresto o la denuncia non è ancora condanna e quindi prova giudiziaria del
reato di cui è imputata la persona che ne è oggetto;
2) come scrivono anche Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei in articolo per
ilSole24ore : “Quasi i due terzi dei fascicoli usciti dalle procure non va a
giudizio (e le condanne per i reati ‘minori’ sono meno del 37%)”; inoltre “il
54,8% dei processi definiti nel giudizio ordinario si è concluso con
un’assoluzione. La quota di assoluzioni arriva al 68,7% (dati forniti dal primo
presidente della Cassazione, Pietro Curzio, durante l’inaugurazione del nuovo
anno giudiziario 2022 che da anni non variano molto -cfr. ibidem);
3) trent’anni di ricerche sulle pratiche delle polizie (vedi riferimenti in
nota) dimostrano che sistematicamente gli immigrati, così come i rom e anche i
marginali se non i poveracci, sono le “prede facili” nei controlli, denunce e
arresti : è quello che si chiama il “delitto di aspetto somatico o di aspetto
(in francese délit de faciès).
In altre parole, è assai frequente che gli operatori delle polizie che
perlustrano le strade fermino abitualmente queste categorie di persone anziché
quelli che hanno l’aspetto da italiano o da persona considerata “perbene”. E se
cittadini perbenisti protestano più volte perché sotto casa loro sostano degli
immigrati o dei rom o dei marginali, gli operatori di polizia sono allora
sollecitati a fare “pulizia etnica e sociale” e anche se questi perseguitati non
hanno commesso alcun reato “se lo inventano” (come racconta anche uno di loro).
“Bisogna toglierli dalla strada. Danno fastidio. Non c’è altra soluzione che
imputarli magari di più reati così non escono” (testimonianza di altri operatori
di polizia che coincidono con quelle di avvocati e operatori sociali).
Inoltre, non è difficile far passare un semplice litigio per un tentato omicidio
o un tentato furto magari di un bene alimentare di qualche euro per tentata
rapina (perché il ladruncolo ha cercato di scappare alla “presa” della guardia
del supermercato che per giunta dichiara di essere stato aggredito e dispone
della testimonianza a favore dell’amica cassiera. E’ quindi probabile che quel
34,72% di denunciati e arrestati sia alquanto gonfiato proprio a causa della
criminalizzazione razzista dell’immigrato, del rom e del marginale in genere,
che qualifica la produzione delle polizie, ma non sempre quella dei magistrati,
anche se una parte di questi – apriori – prendono per oro colato quello che
scrivono le polizie nelle loro relazioni all’Autorità Giudiziaria.
Infine, è da 50 anni che l’Italia sfrutta l’immigrazione irregolare con leggi
che impediscono l’arrivo e l’integrazione regolare perché oltre il 35%
dell’economia italiana è costituita da economie sommerse, cioè semi-precariato e
lavoro nero, caporalato anche criminale (si vede la stima Eurispes che è un ente
di ricerca che lavora anche per il governo).
Scaricabili gratuitamente:
https://www.academia.edu/30790365/MIGRANTI_-_Devianza_e_vittimizzazione;
Razzismo democratico;
https://effimera.org/far-morire-lasciar-morire-la-scelta-tanatopolitica-del-governo-meloni-e-dei-suoi-ministri
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
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Il processo per associazione a delinquere nei confronti di alcuni/e militanti di
Askatasuna, del Movimento No Tav e dello Spazio Popolare Neruda sta per giungere
alla conclusione e al netto della cronaca delle singole udienze, comunque vada,
è ora di iniziare a fare un bilancio provvisorio per capire cosa sta succedendo
e dove stiamo andando.
di Associazione a Resistere
La vicenda è piuttosto indicativa di vari aspetti che riguardano non solo i
movimenti sociali, ma i mutamenti della società, della giustizia dei tribunali e
più in generale delle democrazie borghesi.
Proviamo brevemente a riassumere la vicenda (chi volesse comprenderla in modo
più esteso può leggere questo articolo): dal 2019 la DIGOS di Torino porta
avanti un’inchiesta che ha come obiettivo il movimento No Tav, Askatasuna e lo
Spazio Popolare Neruda. E’ un’inchiesta in grande stile con microspie,
telecamere e intercettazioni. Decine di migliaia di euro dei contribuenti
vengono spesi per scavare nella vita di militanti ed attivisti che si battono
contro le grandi opere inutili, la devastazione ambientale, gli sfratti e
l’impoverimento sociale. Alla conclusione delle indagini la Digos guidata da
Carlo Ambra e la Procura vorrebbero contestare il reato di Associazione
Sovversiva ad una settantina di persone tra Movimento No Tav e lotte sociali
torinesi. Peccato che il Giudice per le indagini preliminari smonta tutto, non
solo l’associazione sovversiva, ma anche altri reati pesanti che vengono
ipotizzati dalla Questura come il sequestro di persona. Nonostante l’inchiesta
si riveli un flop parte una canea mediatica di significative dimensioni, nutrita
scientemente dalle veline che la Digos fa quotidianamente trapelare. In questo
contesto la PM con l’elmetto Pedrotta, corre ai ripari e riformula le accuse:
non più associazione sovversiva contro 69 persone, ma associazione a delinquere
contro 16 militanti che, secondo la nuova tesi della procura, si sarebbero
incistati dentro il Movimento No Tav, il centro sociale Askatasuna e lo Spazio
Popolare Neruda per mettere in atto i propri “propositi violenti”. Ecco che qui
assistiamo al primo paradosso.
Il senso della militanza politica
Sì perché una volta caduta l’ipotesi di associazione sovversiva bisogna spiegare
per quali fini gli imputati si sarebbero associati: con un’accusa di questo
genere non basta evidenziare che i soggetti coinvolti hanno commesso
ripetutamente dei reati insieme (cosa che in questo caso non è a sua volta vera
se ci si attiene lo storico dei processi e delle condanne), ma bisogna
dimostrare che questi reati fanno parte di un “programma criminale” condiviso
con dei fini specifici.
L’approccio più ovvio, quello tentato in altre occasioni, è provare a tirare
fuori delle motivazioni economiche. Abbiamo osservato negli ultimi anni diversi
tentativi, di solito finiti nel nulla, in cui le procure hanno perseguito i
movimenti di lotta per la casa o i sindacati di base attaccandosi a presunti
“racket” che regolarmente si sono palesati come invenzioni giudiziarie e
giornalistiche. Ma su questo piano nell’inchiesta Sovrano non c’è ciccia che
sostanzi neanche minimamente le motivazioni economiche. Non che non ci abbiano
provato, almeno per quanto riguarda lo Spazio Popolare Neruda, ma non sarebbe
stata in piedi.
Ecco dunque che Pedrotta e Gatti, come di fatto ammettono in una nelle prime
udienze, vogliono fare un esperimento: vedere se, per la prima volta in un
tribunale, si può dimostrare che la finalità di una associazione a delinquere
può essere la ripetizione di atti violenti di per sé. L’idea quasi lombrosiana
che sottintende l’accusa è che nel caso di Askatasuna la politica è un mezzo per
fare violenza. D’altronde questo è un pregiudizio molto diffuso nei confronti
dei movimenti sociali, specialmente negli ambienti di destra e qualunquisti:
“Quelli vanno agli scioperi/alle manifestazioni solo perché vogliono fare
casino”.
Ovviamente questo tipo di retorica da bar può funzionare sui social network, ma
nel concreto presenta una serie di fallacie logiche, tanto che le motivazioni
cambiano di udienza in udienza. Si spiega che l’obiettivo di questo sodalizio
sarebbe quello di impedire la realizzazione della Torino-Lione, cioè li si
accusa in sostanza di essere No Tav. Poi si aggiunge che la vorrebbero impedire
con l’uso della forza, ma è talmente evidente la sproporzione tra i mezzi delle
forze dell’ordine e quelli dei No Tav che il livello della forza necessaria per
impedire “sul piano militare” il Tav sarebbe totalmente fuori scala per un
movimento popolare come quello valsusino. Questa concatenazione di fallacie
logiche non ha via d’uscita, tanto che il Procuratore Generale Lucia Musti nel
suo comizio all’inaugurazione dell’anno giudiziario è tornata a parlare di
“eversione” tesi già smentita, come abbiamo visto, dal giudice istruttore che
non ha confermato l’accusa di associazione sovversiva.
Il punto è che dietro questa coltre di finalità evanescenti vi è il tentativo di
nascondere il senso della militanza politica. In questa contemporaneità non è
concepibile, o almeno non dovrebbe esserlo secondo i canoni dominanti, che delle
persone antepongano l’idea di agire per il benessere collettivo ai propri
interessi individuali. Ci dev’essere qualcosa dietro: se non sono i soldi e non
è il potere, bisogna tornare a concezioni della devianza di inizio novecento. Ma
per fare ciò non basta il codice penale, bisogna uscire dalle aule di tribunale
e spargere fango.
Character assassination
Le finalità evanescenti proposte dall’accusa non sono l’unico aspetto ballerino
di questo processo, perché non si capisce bene nemmeno chi sia seduto
“effettivamente” sul banco degli imputati. O meglio, dalle carte sono 22 gli
accusati, di cui 16 per Associazione a Delinquere, ma in realtà a seconda delle
occasioni ad essere tirato in ballo è l’intero Centro Sociale Askatasuna e/o
l’intero Movimento No Tav. Spesso condotte individuali vengono attribuite
all’intero movimento e viceversa: condotte collettive vengono trattate come se
attuate da un gruppo ristretto di individui.
Nonostante la PM Pedrotta abbia spesso ripetuto che il processo non sarebbe
stato “contro Askatasuna” varie volte durante il dibattimento le sue
argomentazioni si sono riferite implicitamente all’intero centro sociale.
Ovviamente questo non stupisce: semplicemente non si può dimostrare la tesi
secondo cui un gruppetto di militanti, all’insaputa dei più, si è incistato
dentro un collettivo e ne ha preso il controllo per le proprie finalità. Accusa
particolarmente svilente non solo per chi è finito a processo, ma anche per i
compagni e le compagne che fanno parte di questi percorsi che vengono disegnati
come succubi di un complotto. Dunque si processano questi 16 per processare,
almeno davanti all’opinione pubblica, le intere collettività di riferimento.
Chiunque sia stato almeno una volta ad una marcia No Tav o ad un’iniziativa del
Neruda o conosca la realtà di Aska sa bene che non è così, ma poco importa,
perché sebbene decine di professori universitari, intellettuali, giornalisti,
politici, attivisti tutt’altro che “organici” all’autonomia torinese abbiano
testimoniato in aula che questa regia occulta non esiste, sui giornali viene
settimanalmente ripetuto lo stesso copione.
La narrazione che viene fatta sui media ci dice molto di quali siano i reali
obiettivi della controparte. Ad ogni manifestazione in città o in valle (ed in
alcuni casi anche in manifestazioni nazionali) l’ufficio stampa della Questura
rilascia veline in cui si parla di una regia di Askatasuna. Incredibilmente le
indagini sono estremamente celeri nell’attribuire la responsabilità al centro
sociale torinese il giorno stesso del corteo o il giorno dopo, anche se poi ci
vogliono mesi, se non anni per accertare le responsabilità individuali, in
inchieste e processi che non poche volte si sono conclusi con pene lievi o
assoluzioni per i/le militanti coinvolti/e. Regolarmente la realtà si dimostra
più complessa, persino alla luce delle sentenze dei tribunali in cui
regolarmente negli anni questa tesi è stata smentita. Ma non importa: “una bugia
ripetuta mille volte diventa la verità”, specie se una gran parte dei media
riprende acriticamente tutto ciò che esce dagli uffici di Via Grattoni. Senza
considerare quei “giornalisti” che proprio sulle relazioni speciali con
l’ufficio della Digos ci hanno costruito e ci costruiscono carriere.
Ma se l’obiettivo è tentare di isolare i compagni e le compagne che fanno parte
di Askatasuna mostrandoli come dei burattinai senza scrupoli, nella pratica
questa è rimasta una pura bolla mediatica per tre motivi principali: in primo
luogo le lotte sociali in città ed in valle coinvolgono un tessuto di militanti,
attivisti/e e gente comune molto più esteso e non riconducibile all’autonomia.
Il protagonismo all’interno delle mobilitazioni sociali è ampio, diffuso e
trasversale anche in questi tempi di riflusso generale, dalle assemblee, alle
manifestazioni fino ad i momenti di conflitto sociale. In secondo luogo, è
chiaro a molti e molte che nell’ultimo decennio spesso e volentieri se una regia
delle tensioni di piazza c’è stata questa è imputabile alla Questura. Una
dimostrazione su tutte è quella della gestione di piazza del primo maggio da un
po’ di tempo a questa parte, in cui la tattica della polizia è sempre la stessa:
tentare di negare ripetutamente l’agibilità della manifestazione allo spezzone
sociale che riunisce i movimenti, con la celere che si introduce nel corteo e
carica violentemente sempre negli stessi punti. Questa dinamica, sebbene sui
giornali venga raccontata attraverso le veline di polizia, è ormai ben chiara a
tutti/e coloro che partecipano alla manifestazione, tanto che personalità,
organizzazioni e persino figure istituzionali lontane dall’autonomia hanno preso
posizione su questa gestione della piazza. Ma questa pratica provocatoria non ha
avuto luogo solo in occasione del primo maggio, sono decine negli anni le
manifestazioni in cui la questura ha acuito le tensioni e cercato l’incidente di
piazza. Alcuni esempi possono essere le manifestazioni di EsseNon dove la celere
ha caricato ben dodici volte i manifestanti per impedire la partenza del corteo
oppure la manifestazione degli studenti medi contro l’alternanza scuola lavoro
dove Piazza Albarello è stata blindata e gli studenti e le studentesse sono
stati malmenati ripetutamente. Infine ad essere fallace è il tentativo di
scindere il centro sociale come luogo di socialità e sostegno alla comunità
dall’intervento che i compagni e le compagne portano avanti quotidianamente nei
settori sociali di riferimento, o il tentativo di presentare l’uno come
strumentale all’altro. Chi conosce Aska sa bene che ha portato un contributo in
molte lotte, anche politicamente e giuridicamente costose, a viso aperto non
perché fossero utili a chissà quale fine occulto, ma semplicemente perché erano
giuste e necessarie.
Dunque se non si riesce ad isolare Askatasuna dipingendola come la centrale
della violenza lo si tenta di fare attraverso la calunnia. Fin dall’inizio di
questa vicenda si sono susseguite fughe di notizia ad hoc che utilizzando
spezzoni di intercettazioni estratte dal loro contesto e sapientemente
selezionate hanno provato a spargere fango sulla coerenza dei compagni e delle
compagne coinvolte nel processo. Battute infelici e conversazioni private sono
state selezionate per presentare i/le militanti come razzisti, antisemiti,
insultanti della memoria partigiana e chi più ne ha più ne metta. Una vera e
propria campagna diffamatoria il cui scopo processuale secondo la procura era
dimostrare che le persone coinvolte utilizzavano determinate istanze politiche
per i propri fini occulti, anche se spesso leggendo i brogliacci completi delle
intercettazioni erano gli/le stessi/e militanti a schernirsi per queste battute,
ad affermare che si stava scherzando e a sottolineare il contesto ironico in cui
erano state fatte. Ma lo scopo reale della diffusione di queste intercettazioni
è delegittimare di fronte all’opinione pubblica, tentando di influenzare il
processo, le lotte e le posizioni politiche espresse da Askatasuna, dal Neruda e
dal Movimento No Tav.
Si tratta di un tipico tentativo di “character assassination” in questo caso
mosso contro delle realtà politiche e sociali invece che verso singoli
individui. La “character assassination” è una strategia mediatico-politica ormai
consolidata che consiste in un attacco intenzionale e duraturo atto a
distruggere la credibilità e la reputazione di una persona o di un gruppo
sociale. Può scaturire da invettive, false accuse, esagerazioni, mezze verità
fuorvianti o manipolazione dei fatti, per presentare un quadro falsato della
persona o del gruppo preso di mira. In quest’epoca in cui la sfera mediatica è
diventata così centrale non sono pochi i casi in cui questo tipo di strategie
hanno influenzato elezioni, processi e addirittura l’economia (è noto come
questo genere di attacchi sia spesso utilizzato da fondi speculativi che
scommettono contro un dato operatore economico e che hanno interesse nel vederlo
affondare).
Questi tentativi di distruggere la reputazione diventano particolarmente infami
quando vi è una profonda asimmetria di potere come nel caso del processo di cui
stiamo parlando. Da un lato vi sono istituzioni dello stato, i principali media,
politici di ogni risma e colore e squali in cerca di notorietà, dall’altro delle
realtà autorganizzate a cui è spesso negata ogni possibilità di replica e i cui
social media addirittura vengono chiusi un mese ogni tre per via di una presunta
“pericolosità sociale” o perché sostengono cause scomode come quella del popolo
palestinese e della rivoluzione confederale del Rojava.
Ma nonostante i quintali di letame che sono stati spalati contro Aska, il Neruda
ed il Movimento No Tav il punto è che se le accuse che vengono mosse non hanno
neanche un briciolo di aderenza con il reale le persone che conoscono l’agire
politico di queste realtà si fanno al massimo una amara risata. Non bastano le
trasmissioni della TV sovranista e gli editoriali del giornalismo compiacente a
far cambiare idea a chi conosce bene il contesto in cui si muovono questi
tentativi. Tanto che ultimamente si leggono articoli in cui le persone di
buonsenso che non si allineano alla narrazione dominante vengono indicati come
“fiancheggiatori”, come utili idioti ecc… ecc… utilizzando ancora una volta un
lessico atto a richiamare gli anni ’70 in una versione squisitamente italiana
della “Reductio ad Hitlerum”, ma di segno opposto.
Quali partite si giocano
E’ chiaro che Askatasuna, il Neruda ed il Movimento No Tav sono dei bocconi
indigesti per molti. Ma il processo in corso si inserisce in un quadro di
interessi più ampi che tangenzialmente o direttamente toccano questa vicenda.
Il nodo più ovvio di questo intreccio di interessi è quello dei vari
post-fascisti che ormai occupano poltrone ai diversi livelli istituzionali, ma
che a Torino hanno avuto vita dura, non solo per via di Askatasuna, ma per un
diffuso sentimento di rifiuto che in città permane nei loro confronti.
Personaggi della risma dell’abbaiatrice Augusta Montaruli o dell’ex-consorte
Maurizio Marrone non aspettavano altro che sedere su qualche scranno
istituzionale per levarsi il sassolone dalla scarpa. Ed infatti non sono mancate
le pressioni “poco istituzionali” ed addirittura le leggi regionali
“ad-askatasunam”.
La mentalità di questi figuri è quella di una giustizia selettiva che deve
colpire nemici e poveri, mentre deve essere indulgente verso i ricchi e potenti,
o almeno verso quelli amici. Ciò è evidente se si guarda al garantismo ostentato
in molte delle vicende che hanno coinvolto membri del governo, come ad esempio
la ministra del turismo Santanché, a fronte di un giustizialismo feroce rivolto
verso Askatasuna ed il Movimento No Tav. Ma se questo fa parte ormai della
tradizionale ipocrisia di una classe politica che è quasi sempre sovrapponibile
ad un determinato comitato d’affari, qualche timore in più dovrebbe nascere dal
fatto che un assessore regionale utilizzi la sua posizione per scrivere una
legge ad hoc contro degli avversari politici.
Su un piano più generale si possono osservare dinamiche simili a quelle di tutte
le medie e grandi città governate dal centrosinistra. Queste vengono considerate
dal governo alla stregua di ultime sacche di opposizione dentro un paese che,
complice la sfiducia totale nella politica istituzionale ed un voto che ormai è
sempre più per censo, ha svoltato a destra. In questo quadro abbiamo assistito
negli ultimi mesi allo scontro istituzionale tra le istituzioni locali ed
esponenti del governo in occasione di fatti come la marcia fascista a Bologna.
Il terreno su cui la destra locale e nazionale attacca il governo della città di
Torino è ossessivamente atto a costruire una percezione di un luogo in preda ad
una violenza politica fuori controllo. A fare da sponda a questa narrazione ci
ha pensato il Procuratore Generale Lucia Musti che come accennato sopra ha
definito Torino la “capitale dell’eversione”.
In questo solco si inserisce un partito trasversale che più che alle moine sulla
sicurezza è interessato agli affari. Un partito che vede nei movimenti sociali a
Torino ed in valle un fastidioso intralcio ai piani di messa a valore dei
territori. Molti di quelli che oggi chiedono il pugno duro contro Askatasuna
sono gli stessi che hanno partecipato alla piazza “spontanea” delle madamine nel
settembre del 2018, tra di essi vi è il Ministro della Pubblica Amministrazione
Paolo Zangrillo, ex medico personale di Silvio Berlusconi, che di recente ha
concesso una intervista al Corriere chiedendo lo sgombero di Askatasuna. Ad
affollare le fila di chi vorrebbe entrare nel partito vi sono tutta una serie di
figure in cerca d’autore, come il sempreverde Stefano Esposito che dopo una
parentesi garantista dettata dai suoi guai giudiziari è tornato a rilasciare
interviste e partecipare a talk televisivi in cerca di una nuova notorietà,
naturalmente sempre sulle spalle dei No Tav.
Tra questi naturalmente spicca il coagulo di interessi e poteri legati alla
realizzazione del Tav Torino-Lione. Anche in questo caso il processo ha avuto
uno svolgimento singolare: mentre la retorica di Telt e dei suoi addentellati
politici è che l’opera arriverà a compimento a breve, che i lavori corrono
veloci e che il Movimento No Tav è ormai sconfitto, dall’altro lato vengono
fatte richieste danni spropositate nei confronti degli attivisti e delle
attiviste e si cerca di attribuire da più parti il ritardo nel cronoprogramma
dell’opera al movimento. Delle due l’una: o i No Tav stanno realmente incidendo
sulla realizzazione della Torino-Lione oppure tutto procede liscio come l’olio.
La realtà è un’altra: come ha più volte sostenuto il movimento l’opera è dal
punto di vista ingegneristico un incubo, è estremamente dispendiosa e più che la
realizzazione dell’opera in sé tra chi la promuove ciò che interessa è il flusso
di denaro da spartirsi. Niente possono le svariate inchieste che ormai hanno
provato le infiltrazioni mafiose nei cantieri: il 10 gennaio il Consiglio di
Stato ha sospeso l’interdittiva antimafia per Co.Ge.Fa azienda coinvolta nei
lavori complementari del TAV Torino-Lione finita nel mirino dell’inchiesta
della Dda di Torino sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta. Miliardi di euro di
denaro pubblico vengono dilapidati nella voragine del TAV tra scandali
giudiziari e problemi ingegneristici, ma l’associazione a delinquere sarebbe
composta dagli attivisti e dalle attiviste che difendono il territorio da questo
mostro ecocida?
Non bisogna infatti dimenticarsi che questa inchiesta è iniziata ben prima che
il Governo Meloni salisse al potere. E’ diventata operativa a partire dal 2019,
nel periodo in cui Salvini dal Papeete fece crollare il governo Conte I proprio
con la scusa della reticenza che il Movimento 5 Stelle aveva mostrato nei
confronti dell’opera. E’ difficile non pensare che i due fatti siano in qualche
modo connessi, e cioè che dopo la caduta del governo i vari interessi coinvolti
volessero mettere al sicuro definitivamente la costruzione dell’opera
sgomberando il campo da una forza sociale come il Movimento No Tav che, dal
basso e senza mai entrare nelle istituzioni, era riuscita a mettere in
discussione questo spreco di denaro pubblico. Non va dimenticato che la prima
versione dell’inchiesta coinvolgeva un numero significativo di militanti ed
attivisti/e del movimento. Forse più che impedire il taglio di qualche metro di
concertina e le battiture ai cantieri l’obiettivo era quello di dimostrare che
un movimento popolare di massa non può contare ed incidere realmente. La storia
confermerà o smentirà questa ipotesi, ma molti elementi ad oggi lo fanno
pensare.
Infine non si può non inserire questa vicenda all’interno di un contesto
nazionale ed internazionale in cui al sommarsi di crisi ecologiche, sociali ed
economiche rispondono i tamburi di guerra. Quasi ovunque osserviamo un
restringimento degli spazi di libera espressione e della possibilità di
organizzarsi per lottare per i propri diritti. Vediamo tentativi di introdurre
leggi preventive, come il DDL Sicurezza, che più che rispondere ad un effettivo
dilagare del conflitto sociale ha obbiettivi propagandistici, ideologici e di
normalizzazione della società in vista dei tempi di guerra che ci attendono.
L’uso degli strumenti giuridici dedicati alla criminalità organizzata nei
confronti dei movimenti politici non ha riguardato solo Askatasuna, il Neruda ed
il Movimento No Tav: negli ultimi anni abbiamo visto fioccare accuse di
associazione a delinquere nei confronti dei sindacati conflittuali, della lotta
per la casa e degli attivisti climatici. Il sistema di sviluppo in cui siamo
costretti a vivere è talmente incapace di offrire la prospettiva di una vita
dignitosa per una parte significativa della società che non può fare altro che
tentare di rivolgere la rabbia altrove e agire preventivamente cercando di
impedire che ci si organizzi dal basso per costruire un mondo più giusto e più
libero.
Resistere
Questa vicenda ci mostra il pozzo nero in cui questo sistema politico-sociale ci
sta gettando. Alcuni stanno iniziando a rendersi conto che quanto sta succedendo
ai compagni ed alle compagne coinvolte non riguarda solo Askatasuna ed il
Movimento No Tav, ma ha a che fare con l’intera società. E’ uno dei molteplici
sintomi della barbarie che ci attende se non si riuscirà ad invertire il corso.
Ma quanto sta succedendo ci offre anche alcune lezioni importanti per provare a
resistere. Nonostante tutto il fango, la violenza istituzionale e la disgustosa
tela ordita intorno al processo i compagni e le compagne coinvolti/e non sono
soli/e, ma c’è un’intera comunità al loro fianco. Ciò perché sebbene con limiti,
fatiche e pesanti tentativi di silenziamento le realtà di cui fanno parte hanno
sempre rifuggito l’autoreferenzialità, hanno sempre pensato che la
trasformazione sociale è possibile solo partendo dai bisogni e dalle aspirazioni
degli oppressi, degli sfruttati per quanto questi bisogni ed aspirazioni possano
essere nascosti, mistificati, compressi dentro la desolante quotidianità del
presente.
Essere militanti in questi tempi vuol dire avere pazienza, sopportare le
frustrazioni, provare ad adottare uno sguardo lungo, ma non rinunciare
all’agire. Senza isteria, senza fughe in avanti. Bisogna rendersi conto che ciò
che ci separa dai nostri compagni di lotta è una bazzecola in confronto al
futuro che ci si prospetta davanti e che gli sterili politicismi, i
posizionamenti ideologici, le divisioni che ci vengono imposte dall’alto servono
solo il progetto della controparte. Serve discutere francamente, senza timore e
senza paranoie, ma consapevoli che il nemico è altrove.
Serve “uscire dalle nostre stanze”, dai perimetri che ci hanno imposto, ma che
spesso ci siamo imposti/e da soli/e alla ricerca della purezza ideologica, di
referenti sociali privi di contraddizioni, di situazioni che non ci mettessero
in difficoltà con la nostra coscienza. Serve contribuire alla costruzione di
identità collettive che non grondino di romanticismo per un passato ormai
andato, ma che di quel passato comprendano le intuizioni, le possibilità ancora
inesplorate per parlare a quelle persone che condividono con noi la carrozza di
coda su questo treno in corsa verso un binario morto. Serve comprendere che
intorno a noi è pieno di gente che soffre, che è incazzata, che non sopporta più
questo stato di cose, ma non capisce la lingua che parliamo, non ci vede come
un’opzione credibile, a volte non sa neanche che esistiamo se non nella versione
macchiettistica che dipingono di noi media e politica.
Serve prendersi sul serio, perché la situazione è dannatamente seria. Serve più
capacità organizzativa e meno strette organizzative, più intelligenza
collettiva, più fantasia, più studio. Dobbiamo essere in grado di muoverci in un
contesto estremamente complesso, ma con una chiarezza limpida rispetto a ciò che
pensiamo, che comunichiamo, che pratichiamo.
Essere militanti vuol dire scegliere di assumersi delle responsabilità che
nessuno ci ha imposto, ma che ci siamo addossati/e perché riteniamo che possa
esistere un futuro migliore di quello che ci è stato consegnato e con
pragmatismo, cura e coerenza proviamo a realizzarlo.
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