Source - Osservatorio Repressione

“Gino” Abazaj rifiuta di farsi consegnare all’Ungheria. Decideranno i giudici francesi
Prima udienza dopo l’arresto per l’antifascista italo-albanese Rexhino Abazaj, «Gino» . Prossimo appuntamento il 18 dicembre. Intanto resta in carcere, a Fresnes. Il gruppo parlamentare Insoumis si schiera dalla sua parte di Filippo Ortona da il manifesto I due gendarmi hanno aperto una porticina e Rexhino «Gino» Abazaj è comparso, ammanettato, nel box degli accusati della Corte d’appello di Parigi. Arrestato venerdì scorso in una banlieue parigina, il 32enne militante antifascista italo-albanese è ricercato dalla giustizia ungherese, che ne chiede l’estradizione. Ai giudici francesi spetta ora l’onere di esaminare la richiesta. Quella di stamattina è stata la prima udienza. Gino è nel mirino dei magistrati magiari per gli stessi fatti imputati a Ilaria Salis, ovvero gli scontri avvenuti intorno al Giorno dell’onore del febbraio 2023, durante il quale neonazisti provenienti da tutta Europa si erano riuniti per celebrare – come ogni anno – le gesta delle Ss alla fine della Seconda guerra mondiale. Nell’ultimo anno e mezzo, l’Ungheria di Viktor Orbàn ha intentato una serie di procedimenti contro vari attivisti antifascisti che avevano partecipato a quelle contestazioni. A farne le spese sono stati l’italiano Gabriele Marchesi, per il quale però la giustizia italiana ha negato l’estradizione, e la tedesca Maja T., rocambolescamente estradata dalla Germania malgrado l’opposizione intempestiva della Corte costituzionale tedesca. L’udienza di ieri era in realtà una formalità, serviva a sapere se Abazaj fosse disposto a farsi consegnare all’Ungheria. L’attivista ha risposto prontamente di No. Il prossimo appuntamento sarà il 18 dicembre, quando la difesa potrà «fare delle domande, in particolare sul rischio di trattamenti disumani e degradanti e sul rispetto del diritto a un giusto processo», ha detto uno degli avvocati del ragazzo, Youri Krassoulia. Criteri «che possono incidere sulla procedura del mandato d’arresto europeo», secondo il legale. Fino ad allora, tuttavia, c’è il serio rischio che Abazaj rimanga alla prigione di Fresnes, nella banlieue parigina, dove è attualmente detenuto. Così affermano i suoi avvocati, che comunque faranno il possibile per farlo uscire ai domiciliari. Secondo Laurent Pasquet-Marinacce, anch’egli nel collegio difensivo, l’attivista sarebbe stato fermato dalla Sdat, la sezione antiterrorismo della polizia francese, «sulla base di intelligence proveniente da un paese alleato», ha riferito l’avvocato. «Dobbiamo in qualche modo bloccare l’ingranaggio del mandato di arresto europeo», ha detto Pasquet-Marinacce, per il quale è necessario far capire alla Corte d’appello di Parigi che, oltre ai dubbi sulle condizioni di detenzione e la violazione del diritto a un giusto processo in Ungheria, vi è il rischio che le pene previste in Ungheria siano «spropositate» rispetto ai capi di reato imputati all’attivista. Soprattutto in confronto a quanto previsto dal diritto francese. Oltre ai genitori di Abazaj, venuti apposta dall’Italia, nella sala della Corte d’appello erano presenti anche due deputati de La France Insoumise, Thomas Portes e Raphaël Arnault. «Ci tenevo a venire a sostenere un militante antifascista che è stato arrestato per essersi opposto a una manifestazione neonazi a Budapest», ha detto Arnault che, prima di divenire deputato alle ultime legislative, è stato tra i fondatori del collettivo antifascista La Jeune Garde. Per Arnault, il mandato di arresto europeo diramato dall’Ungheria è sintomo «di una volontà di vendetta che fa freddo alla schiena». «Nell’Ungheria di Orbàn, non ci sono le condizioni affinché Gino venga giudicato in maniera imparziale», ha scritto il gruppo parlamentare di Lfi in un comunicato diramato martedì sera. «Chiediamo che la Francia rifiuti l’estradizione di Gino Abazaj, al fine di garantirne il diritto a un giusto processo come previsto dall’articolo 6 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo», hanno scritto i deputati insoumis.   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 20, 2024 / Osservatorio Repressione
Italiani, brava gente. Che tortura
Torture made in Italy di Marco Sommariva Non so se succede anche a voi ma, mentre mi capita di dimenticare facilmente letture che non son state in grado di lasciare in me alcun segno e, al contrario, diverse le ricordo a lungo, ce ne sono alcune che diventano vere e proprie pietre miliari della mia crescita, perché capaci di modificare fortemente ciò che ero, per via dei ragionamenti che mi hanno costretto a fare, frutto dei nuovi e più ampi orizzonti che hanno saputo aprirmi; per esempio, per il dodicenne che ero, sono state pietre miliari Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach, Fantozzi di Paolo Villaggio, L’assassinio di Roger Ackroyd di Agatha Christie e Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque oppure, molti anni dopo, Non ho risposte semplici di Stanley Kubrick, L’isola dei pinguini di Anatole France, Memorie intime di Georges Simenon e Autunno tedesco di Stig Dagerman. Fra le altre mie pietre miliari, è senza dubbio compresa Sala 8 di Mauricio Rosencof. L’autore di questo libro – dirigente dell’MLN-T, Movimiento de Liberación Nacional – Tupamaros, organizzazione di guerriglia urbana d’ispirazione comunista, attiva in Uruguay tra gli anni Sessanta e i Settanta – viene fatto prigioniero nel 1972 e, a partire dal settembre 1973, è tenuto in isolamento per undici anni, ostaggio dell’allora dittatura militare; Rosencof verrà liberato solo dopo tredici anni di prigionia, nel 1985. La Sala 8 del titolo è quella dell’ospedale militare dove arrivano i prigionieri ridotti in fin di vita per essere rimessi in sesto e di nuovo rimandati nella sala delle torture, oppure alla “soluzione finale”; è un luogo senza possibilità di futuro, dove il tempo è fermo e il destino già deciso: “Gli conficcarono un manganello nel culo, fino al manico, dopo una tortura di quelle pesanti, chiedendogli: “Ti è piaciuto, negro? […] Te lo muovo?” Ma a quel punto squillò la tromba del rancio, e avevamo fame. “Andiamo” disse uno. “Lo lasciamo così?” chiese l’altro. “Tiralo fuori, ne sentirà la mancanza. Dai, presto, si fredda la polenta.” Tolsero il manganello di scatto, si creò un vuoto e insieme al bastone estrassero venti centimetri di intestino. Una fatica staccare le viscere dal manganello ma alla fine ce la fecero”. La voce narrante è quella di un desaparecido che si muove in questo spazio spettrale raccontandoci la terribile condizione delle vittime dell’ultima dittatura militare uruguagia, private della loro stessa umanità da un regime deciso ad annientare ogni loro traccia, come se non fossero mai esistite; qui lo fa sotto forma di metafora: “Conosco molte storie sulla mia vita come pane. Sono stato condiviso, tagliato, sminuzzato, mi hanno messo il nastro da pacchi sugli occhi, tre giri di nastro, mi hanno legato col fil di ferro, quieto, duro, mi hanno dovuto togliere dal bidone perché, a mollo, la mollica diventava poltiglia e si afflosciavano i giri di fil di ferro. […] Mi hanno spezzato il cantuccio con le tenaglie, mi hanno lasciato senza crosta, mi hanno ridotto in briciole. Poi le hanno spazzate e, di sicuro, le hanno buttate sulla piazza d’armi dove immagino che passerotti e piccioni abbiano fagocitato i miei resti. Quello che è rimasto è andato a finire nella Sala 8”. Quando leggo storie di torture non riesco a farle scivolare via, finisco col provare a masticarle e ingoiarle, e benché il reflusso me le riporti continuamente in gola per farmele vomitare, alla fine le ributto giù non per provare a digerirle ma perché non mi va di sbarazzare lo stomaco: è bene che qualcosa ci sia sempre ad appesantirlo; se no, temo mi sfugga la Realtà. In Notturno cileno Roberto Bolaño fa i conti con la storia del suo Cile, e lo fa scegliendo il punto di vista di un uomo equivoco, che ha badato a tenersi lontano dai rischi, che s’è piegato a compromessi e macchiato di viltà: un sacerdote che, in una notte di agonia e delirio, ripercorre la propria esistenza: “poi ammazzarono il consigliere militare di Allende e ci furono disordini, male parole, i cileni bestemmiarono, scrissero sui muri e poi quasi mezzo milione di persone sfilò in una grande marcia di appoggio ad Allende, e poi ci fu il colpo di Stato, il sollevamento, il pronunciamento militare, e bombardarono il palazzo della Moneda e quando smisero di bombardare il presidente si suicidò e tutto finì. Allora io rimasi immobile, con un dito sulla pagina che stavo leggendo, e pensai: che pace. Mi alzai e mi affacciai alla finestra: che silenzio. Il cielo era azzurro, un azzurro profondo e limpido, spruzzato qua e là di nuvole. In lontananza vidi un elicottero. Senza chiudere la finestra mi inginocchiai e pregai, per il Cile, per tutti i cileni, per i morti e per i vivi”. Il colpo di stato in Cile avviene l’11 settembre 1973, stesso mese e anno in cui inizia l’isolamento del prigioniero Rosencof. Il rovesciamento del governo democraticamente eletto e presieduto da Salvador Allende che morì durante il colpo di stato, è opera dell’esercito e della polizia nazionale; le forze armate cilene diedero vita a una giunta militare guidata da Augusto Pinochet che – instaurando un regime autoritario e dittatoriale, e rendendosi responsabile di crimini contro l’umanità – restò al potere sino al marzo del 1990. Durante il regime di Pinochet, funzionarono in tutto il Cile centinaia di centri di detenzione dove le persone arrestate venivano torturate e molte delle quali non sono state mai più viste; dal sito di Amnesty International leggo che sono state oltre 40.000 le vittime di violazioni dei diritti umani tra il 1973 e il 1990, mentre il numero ufficiale delle persone uccise o scomparse è di 3.216 e quello di chi ha subìto detenzione politica e/o tortura è di 38.254. Quasi tutte le donne che furono torturate subirono violenze sessuali, a prescindere dall’età; una donna arrestata nel 1974, racconterà d’esser stata costretta a far sesso con suo padre e suo fratello, mentre una ragazza di sedici anni dichiarerà d’esser stata bruciata con le sigarette, seviziata, tenuta legata a una barella dove alcuni cani addestrati la violentarono e le furono messi dei topi vivi “dentro”. In Puttane assassine, l’ultima raccolta di racconti allestita prima di morire nel 2003, Roberto Bolaño scrive: “Nel gennaio del 1974 me ne andai dal Cile. Non ci sono più tornato. Sono stati coraggiosi i cileni della mia generazione? Sì, sono stati coraggiosi. In Messico mi raccontarono la storia di una ragazza del MIR [Movimento di Sinistra Rivoluzionaria] che avevano torturato infilandole topi vivi nella vagina. La ragazza riuscì ad andare in esilio e arrivò nel Distrito Federal. Viveva là, ma era ogni giorno più triste e un giorno morì per via di tutta quella tristezza. […] Si può morire di tristezza? Sì, si può morire di tristezza”. Dietro queste torture c’era la DINA, ossia la polizia segreta cilena nel primo periodo della dittatura di Pinochet. Nominata la DINA, non posso fare a meno di riprendere un passaggio del sopraccitato Notturno cileno: “E poi arrivò la democrazia […] e allora si seppe che James Thompson era stato uno dei più importanti agenti della DINA e che usava la sua casa come luogo di interrogatori. I sovversivi passavano dai seminterrati di James, dove lui li interrogava, gli tirava fuori tutte le informazioni possibili, e poi li mandava in altri centri di detenzione. A casa sua, di regola, non si ammazzava nessuno. Si interrogava soltanto, anche se qualcuno era morto”. In quella casa succedeva che, ogni tanto, mentre gli inquilini guardavano la televisione coi bambini, andava via un momento la luce; dallo scantinato non arrivava alcun urlo, unico segnale delle torture che avvenivano era l’elettricità che se ne andava di colpo e poi tornava. Restando in argomento tortura, mi torna in mente la storia di Anna Politkovskaja, giornalista russa con cittadinanza statunitense, che il 7 ottobre 2006 viene ritrovata nell’androne della sua casa moscovita uccisa da quattro colpi d’arma da fuoco. Pochi giorni dopo avrebbe pubblicato sul giornale Novaja Gazeta i risultati di una sconvolgente inchiesta sulle torture perpetrate in Cecenia dai russi – l’ultimo reportage di una carriera giornalistica sempre all’insegna del coraggio e della verità. Il killer, ripreso dalle telecamere dell’edificio, le spara un colpo al petto e tre al capo. Subito, amici e colleghi che stimavano il suo lavoro si dirigono sul luogo del delitto per renderle omaggio; anche l’intervento della polizia è tempestivo: entrano in casa della giornalista e le sequestrano il computer. Dopo l’omicidio, Putin puntualizzerà che la Politkovskaja “aveva un’influenza minima sulla vita politica russa”, e che “il suo assassinio reca più danno alla Russia e alla Cecenia che qualunque dei suoi articoli”; questo potrebbe essere il motivo per cui i telegiornali governativi russi non parlarono del funerale. Verrebbe da pensare qualcosa tipo “Va be’, comunque si sta parlando di regimi – uruguagio, cileno e russo – e di un bel po’ di anni fa, di certo non accadrà nulla di simile in Italia nel 2024”. Ma non si fa in tempo a terminare un pensiero un po’ superficiale come questo – ogni tanto, giusto per sopravvivere, provo a raccontarmela – che già un amico mi spedisce sul cellulare questo link https://www.lindipendente.online/2024/09/20/roma-agente-confessa-hasib-ragazzo-disabile-e-finito-in-coma-per-sfuggire-alle-torture/ con tanto di invito a leggere l’articolo. E così vengo a conoscenza che Fabrizio Ferrari, l’agente di polizia che il 25 luglio 2022 si trovava al terzo piano di un edificio in zona Primavalle, a Roma, mentre il suo collega Andrea Pellegrini sottoponeva a tortura Hasib Omerovic – un giovane sordomuto di etnia rom senza precedenti penali –, ha patteggiato una pena a undici mesi di reclusione. Leggo che il “Ferrari ha confessato di aver assistito al momento in cui il ragazzo si è lanciato dalla finestra per sfuggire alle torture di Pellegrini, un gesto disperato che gli è costato lunghi mesi di coma in ospedale e un lungo percorso di recupero ancora in corso”. In pratica, succede che manca poco all’ora di pranzo quando quattro agenti in borghese si presentano alla porta del trentaseienne Hasib Omerovic, riferendo di dover eseguire un controllo dei documenti. Nonostante non vi sia mai stata conferma o riscontro, gli agenti decidono d’intervenire dopo che alcuni residenti hanno accusato Hasib su Facebook, di aver importunato alcune ragazze del quartiere. Secondo il racconto reso da Ferrari al Pubblico Ministero, Pellegrini avrebbe prima schiaffeggiato Omerovic, per poi minacciarlo con un coltello da cucina. L’agente avrebbe poi sfondato la porta della stanza dell’uomo, nonostante questi “si fosse prontamente attivato per consegnare le chiavi”, lo avrebbe costretto a sedersi legandogli i polsi con il filo elettrico del ventilatore e, continuando a minacciarlo con il coltello, avrebbe aggiunto “Se lo rifai, te lo ficco nel c…”, continuando nel mentre a schiaffeggiarlo. Una volta riuscito a liberarsi, Omerovic si è poi gettato dal balcone della sua stanza per sfuggire ai soprusi, finendo in coma in ospedale per diversi mesi. “Se lo rifai, te lo ficco nel c…”, avrebbe detto l’agente; proprio come succedeva in Uruguay durante la dittatura militare degli anni Settanta: “Gli conficcarono un manganello nel culo”, ricordate? Non faccio in tempo ad “archiviare” questa brutta notizia che già ne leggo una peggiore: “11 poliziotti penitenziari arrestati e altri 14 agenti sono stati sospesi per le torture sui detenuti nel carcere di Trapani. A incastrarli le telecamere installate dopo le denunce dei reclusi. Sono accusati di tortura e abuso d’autorità. Undici agenti penitenziari in servizio nel carcere “Pietro Cerulli” di Trapani sono stati arrestati e messi ai domiciliari. Altri 14 sono stati sospesi dal servizio in esecuzione all’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Trapani su richiesta del procuratore capo Gabriele Paci.” Messo al corrente di questi casi di tortura made in Italy, un collega mi confessa di non riuscire a spiegarsi come un popolo di così “brava gente”, tanto affettuoso con gli animali in generale e coi cani in particolare, possa commettere atti del genere. Mi sorprendo nell’aver la risposta pronta, e questo grazie al fatto che ho avuto la fortuna d’aver letto poco prima un interessante articolo su Il Foglio Quotidiano, intitolato “Cani e gatti nel Terzo Reich”, a firma di Siegmund Ginzberg. E così, riporto al mio collega diverse informazioni lette sul giornale, su cui ragionare, giusto per non farsi fagocitare dall’oscuro tunnel della superficialità dove, anche il sottoscritto, ogni tanto è tentato d’infilarsi. Una delle primissime leggi approvate con Hitler cancelliere fu quella contro “la crudeltà verso gli animali” in cui si proibisce la vivisezione, il procurare loro ogni forma di “tormento e maltrattamento” e il loro utilizzo in esperimenti medici. Il dottor Mengele, assolutamente ligio alle leggi, come i suoi colleghi medici ad Auschwitz, non vivisezionava animali. I suoi orribili e sadici esperimenti, senza anestesia, li conduceva su esseri che per lui erano subumani, molto meno che animali. Poi tornava a casa a coccolare il suo cane: “Coccolano i loro cani, ma erigono Dachau”, da La scimmia e l’essenza di Aldous Huxley. E ancora, Hitler ebbe e si affezionò a numerosi cani, fino all’ultimo: la femmina di pastore tedesco Blondi, che volle accanto a sé anche nel bunker di Berlino, l’avvelenò amorevolmente prima di suicidarsi. Infine, altro grande amante degli animali e orgoglioso allevatore di cani, fu Rudolf Höss, il comandante del campo di sterminio su scala industriale di Auschwitz. Se qualcuno di voi ritenesse d’aver, comunque, riscontrato una certa logica in quanto letto sinora, aggiungo un ultimo elemento: alla fine del loro arruolamento, le reclute della unità cinofili delle SS erano costrette a spezzare il collo del cane che avevano addestrato, di fronte al proprio ufficiale superiore, per dimostrare disciplina, obbedienza assoluta e necessaria spietatezza. Chiuderei con una frase del già menzionato Bolaño, che mi pare la degna conclusione a quanto riportato sinora: “Che Dio, se esiste, abbia pietà di noi. È a questo che si riduce tutto”. www.marcosommariva.com       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
November 20, 2024 / Osservatorio Repressione
Torture sui detenuti di Trapani, arrestati undici poliziotti penitenziari
11 poliziotti penitenziari arrestati e altri 14 agenti sono stati sospesi per le torture sui detenuti nel carcere di Trapani. A incastrarli le telecamere installate dopo le denunce dei reclusi Sono accusati di tortura e abuso d’autorità. Undici agenti penitenziari in servizio nel carcere “Pietro Cerulli” di Trapani sono stati arrestati e messi ai domiciliari. Altri 14 sono stati sospesi dal servizio in esecuzione all’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Trapani su richiesta del procuratore capo Gabriele Paci. L’indagine sono scattate dopo alcune denunce effettuate dai detenuti del penitenziario trapanese che avrebbero subito maltrattamenti in luoghi privi di telecamere, che una volta installate avrebbero registrato violenze reiterate da parte di agenti i nei confronti di detenuti. L’indagine condotta dal nucleo investigativo regionale di Palermo, coordinato dal nucleo investigativo centrale, sono scattate dopo alcune denunce effettuate dai detenuti del penitenziario trapanese che avrebbero subito maltrattamenti in luoghi privi di telecamere, che una volta installate avrebbero registrato violenze reiterate da parte di agenti nei confronti di detenuti.   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 20, 2024 / Osservatorio Repressione
Sardegna: sgomberato il presidio “la rivolta degli ulivi”
Sgombero di polizia in corso questa mattina (20 novembre) a Selargius, nel Cagliaritano, del presidio permanente “La rivolta degli ulivi” sorto per contestare il cavidotto elettrico “Tyrrhenian Link” tra Sardegna e Sicilia. Da mesi un gruppo di attivisti protesta contro gli espropri e in difesa degli ulivi che sorgono nell’area dove Terna s.p.a. vuole invece costruire la futura stazione di conversione elettrica legata al progetto dei cavi sottomarini tra le due isole. Dal presidio “La Rivolta degli ulivi” Radio Onda d’Urto ha sentito Robi Ladu Ascolta o scarica > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 20, 2024 / Osservatorio Repressione
La violenza è del Governo
Esponenti del governo evocano il clima di odio e di violenza, scenari di altri tempi, per criminalizzare le manifestazioni degli studenti. Ma, a ben guardare, la violenza – che non è mai accettabile in democrazia – la esercita soprattutto il Governo: contro la magistratura, contro i migranti, contro chi dissente. Il tutto condito dal vittimismo di un potere che travalica i suoi limiti e pretende di incarnare anche l’oppresso dal potere. di Alessandra Algostino da Volere la Luna Sembra di vivere in una distopia surreale, ma è la realtà. Esponenti del governo evocano il clima di odio e di violenza, scenari di altri tempi, per criminalizzare le manifestazioni degli studenti. È il diritto di protesta in sé ad essere stigmatizzato e delegittimato; si citano gli slogan come fossero prove di reato. Una democrazia – scriveva Passerin d’Entrèves – è improntata alla «tolleranza del dissenso sino all’estremo limite possibile». La violenza, certo, non è mai accettabile in una democrazia: non lo è quando proviene dai manifestanti (e qui la reazione certo non manca, tanto da far ragionare di un eccesso punitivo, con sovradeterminazione delle fattispecie, abuso di misure cautelari…); non lo è quando assume la forma di violenza verbale da parte di chi rappresenta le istituzioni o di violenza fisica ingiustificata da parte delle forze di polizia. E non lo è quando assume le vesti di una legislazione violenta, che chiude gli spazi del dissenso e punisce il disagio sociale, come emblematicamente fa il disegno di legge sicurezza in discussione. E ancora non è tollerabile la violenza di un Governo che attacca frontalmente la magistratura, o di un magnate multimiliardario con prossimi incarichi di governo in altro Stato che rincara la dose, o la violenza esercitata contro le persone che migrano trattate letteralmente come pedine da muovere sullo scacchiere politico. L’aggressione del Governo e di Musk (sic!) alla magistratura mostra con chiarezza la rottura di due argini fondamentali della democrazia costituzionale: l’equilibrio dei poteri e l’autonomia della politica dall’economia (o, meglio, il controllo che la politica dovrebbe esercitare sull’economia). Certo, non è nulla di nuovo sotto il sole, ma colpisce la protervia con la quale, in Italia, il Governo attacca la magistratura, attraverso delegittimazione, falsificazione di dati di fatto (l’incontestabilità dell’applicazione delle norme in tema di rapporti tra ordinamento italiano ed europeo) e riforme ad hoc. Il tutto condito dal vittimismo di un potere che travalica i suoi limiti e pretende di incarnare anche l’oppresso dal potere. Ad essere travolti sono l’indipendenza della magistratura, il senso proprio della sua soggezione soltanto alla legge e il Parlamento, ancora una volta piegato al compito di dare forma legislativa ai voleri del Governo. D’oltreoceano, alle pretese assolutiste del neoeletto presidente, ahimè aiutate dal venir meno di fatto dei check and balances, si aggiunge una accettata – ma inaccettabile – sovrapposizione diretta del potere economico alla politica, con il conseguente asservimento delle istituzioni pubbliche al profitto dei privati. Sono episodi e contesti diversi, ma che hanno un comune precipitato nel fotografare in modo nitido la concentrazione del potere, la deriva decisionista e autoritaria, e il suo legame con gli interessi dell’oligarchia che possiede le leve di un modello economico predatorio, imperniato sulla massimizzazione del profitto di pochi. Provvedimenti come il disegno di legge sicurezza chiudono il cerchio, blindando il modello, non a caso tenendo insieme la punizione della marginalità sociale e della divergenza politica. Sembra quasi irreale tanto è una realtà limpida sotto i nostri occhi. Tuttavia è reale. È reale come il genocidio – concretizzo il termine: la morte, la disperazione, la fame, la distruzione della possibilità di vivere – che il Governo di Israele sta compiendo in Palestina. È reale come il trattamento dei migranti come non-persone, moderni schiavi o eccedenti da confinare ed espellere. È tutto reale ma allo stesso tempo è giustificato e mistificato da menzogne, ripetute al di là di ogni evidenza, finché (è la “logica dell’insistenza” dei regimi autoritari) divengono la “verità”. Il genocidio è autodifesa, la disumanizzazione dei migranti è “difesa dei confini”, l’attacco alla separazione e all’equilibrio dei poteri è giustificato con il vittimismo. Il diritto che stabilisce limiti, costituzionale e internazionale, è trattato alla stregua di un fastidioso orpello, da ignorare o modificare, inserito nella folta schiera dei nemici. La violenza si intreccia con la menzogna, per legittimarsi e delegittimare l’altro, esercitando una ulteriore violenza. È la costruzione del nemico, da espellere, da eliminare politicamente (quando non fisicamente). È il contrario della democrazia come pluralismo, discussione e conflitto; è il contrario dell’uguaglianza, dell’eguale riconoscimento, che è fondamento della democrazia, così come del diritto internazionale dei diritti umani. Reale è un governo che pretende di esercitare un potere assoluto, delegittimando le altre istituzioni così come criminalizzando chi critica e contesta (il disegno di legge sicurezza facilmente sarà approvato e la repressione del dissenso è già in stadio avanzato); reali sono le diseguaglianze e la devastazione ambientale causate da poteri economici selvaggi; reale è il genocidio in diretta dei palestinesi. Se guardiamo al presente, con gli occhi di chi (si spera) vivrà il futuro, non vorrei che si dicesse, non avete voluto vedere. Non è la realtà che la nostra Costituzione e il diritto internazionale prescrivono, non è la realtà che vogliamo. E allora è necessario vedere la realtà e insieme tenere bene a mente, come la dialettica della storia insegna, che la trasformazione è possibile. Di scelte umane si discorre. È reale quanto vediamo, ma reali sono anche le tante piccole isole, persone, azioni, organizzazioni, movimenti che resistono, vivono e agiscono alternative. Siamo realisti, ma proprio per questo, non arresi. È l’insegnamento della nostra Costituzione, un realismo emancipante: gli ostacoli esistono, rimuoviamoli. L’orizzonte, certo, è fosco, nero, ma proprio per questo è necessario agire e resistere in direzione contraria: non c’è un’unica via e non c’è una via già scritta. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 20, 2024 / Osservatorio Repressione
Quarantacinque attivisti condannati a Hong Kong
Il 19 novembre un tribunale di Hong Kong ha condannato quarantacinque attivisti per la democrazia a pene fino a dieci anni di prigione per “sovversione”, al termine del più grande processo mai tenuto nell’ex colonia britannica per fatti legati alla sicurezza nazionale. di Serena Console da il manifesto Tutto quello che restava del fronte democratico di Hong Kong ora ha vita solo nelle aule di tribunale e nelle carceri. A più di 1400 giorni dall’arresto degli attivisti del gruppo dei “47 di Hong Kong”, ieri è arrivata la condanna per 45 di loro con pene fino a 10 anni di carcere. Tutti colpevoli di «sovversione dei poteri dello Stato». Due invece sono stati prosciolti. Con questo verdetto, si è concluso il maxi processo mai intentato finora contro l’opposizione democratica nell’ex colonia britannica in base alla legge sulla sicurezza nazionale. La stessa che la Cina ha imposto per stroncare le proteste di massa del 2019. La loro colpa è aver organizzato e preso parte alle primarie non ufficiali tenutesi nel 2020, nel tentativo di scegliere i candidati da presentare alle elezioni del Legislative Council, il parlamento locale. Quelle elezioni furono rinviate ufficialmente per la pandemia di Covid-19, per poi essere indette una volta introdotto un nuovo sistema elettorale per consegnare il governo di Hong Kong nelle sole mani dei «patrioti» e fedeli al Partito comunista cinese. La gran parte degli imputati ha già trascorso più di tre anni in prigione, precisamente da quando nel gennaio 2021 una maxi retata della polizia locale ha portato all’arresto di 53 persone tra attivisti ed ex deputati dell’opposizione, tutti accusati di cospirazione per sovversione ai sensi di una legge sulla sicurezza nazionale. Il processo è iniziato lo scorso anno e dei 47 imputati, 31 si erano dichiarati colpevoli e tra i 16 che avevano respinto le accuse, due erano stati assolti a maggio e 14, invece, erano stato giudicati colpevoli. Tra coloro che si erano dichiarati colpevoli – sperando in una riduzione della pena ed evitare l’ergastolo – figurano i nomi di spicco del professore di diritto Benny Tai e Joshua Wong, giovane promessa politica emersa durante le proteste della Rivoluzione degli Ombrelli del 2014 che bloccarono per 79 giorni le strade dell’ex colonia britannica al grido di piena democrazia ed elezioni a suffragio universale. Considerato la «mente del gruppo», Tai aveva inizialmente ricevuto una condanna a 15 anni, ridotta a 10 anni dopo che i giudici – scelti appositamente dal governo locale per i casi relativi alla legge sulla sicurezza nazionale – hanno preso in considerazione la sua dichiarazione di colpevolezza. A Wong sono stati dati 4 anni e 8 mesi. Dura condanna anche per l’australiano con doppia cittadinanza Gordon Ng, a cui è stata inflitta una pena a 7 anni e 3 mesi che ha provocato la dura protesta di Canberra. Gli altri imputati e imputate, tra cui l’ex giornalista Gwyneth Ho, l’ex parlamentare Claudia Mo e l’attivista Leung Kwok-hung (meglio noto come “Long Hair”) dovranno scontare tra i quattro e i sette anni di detenzione. Per l’accusa, l’obiettivo del fronte pro-democrazia era ottenere la maggioranza dei seggi del parlamento e porre il veto alla legge di bilancio, così da mettere in difficoltà l’esecutivo e spingere l’allora leader Carrie Lam alle dimissioni. Nel leggere la sentenza, i tre giudici hanno preso in considerazione fattori quali il grado di pianificazione, il numero di persone coinvolte e i potenziali danni generati, indipendentemente dal fatto che il piano si sarebbe realizzato. Dure le reazioni di Usa, Taiwan, Regno Unito e Onu alla condanna dei 45 attivisti. Ma Pechino difende le decisioni del tribunale locale, affermando che le condanne servono come monito per coloro che tentano di minare la sicurezza nazionale. E contesta «le interferenze di alcuni Paesi occidentali» che «calpestano seriamente lo stato di diritto». > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 20, 2024 / Osservatorio Repressione
Giulio Regeni, il video di due testimoni: «Era sfinito dalle torture, lo portavano in cella a spalla»
Nel processo in corso sull’omicidio di Giulio Regeni,  la testimonianza di due palestinesi detenuti con lui nello stesso carcere in Egitto. «Abbiamo Giulio bendato, sfinito dalle torture con le scosse elettriche. I carcerieri volevano sapere dove aveva imparato ad affrontare quel trattamento, insistevano molto su questo punto» di Eleonora Martini da il manifesto «Era bendato e sfinito dalla tortura: le guardie lo portavano a spalla, verso la sua cella». Parla attraverso una video intervista, realizzata dall’emittente qatariota Al Jazeera, il testimone oculare delle torture inflitte a Giulio Regeni dalla National Security egiziana tra il 25 gennaio e il 3 febbraio 2016, giorno in cui il suo cadavere venne ritrovato lungo l’autostrada tra il Cairo e Alessandria. Si tratta di un cittadino palestinese che era detenuto nella stessa prigione adibita a luogo di sevizie degli stranieri sospettati di minare la sicurezza nazionale egiziana. La sua è la prima testimonianza acquisita dai giudici della Prima corte d’assise di Roma nel processo in contumacia ai quattro 007 cairoti: il generale Tareq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif (il presunto aguzzino e boia del ricercatore friulano). Il 28 e il 29 gennaio 2016 l’ex detenuto palestinese incontra Regeni, senza però rivolgergli mai la parola. «L’ho visto arrivare nel corridoio, era a circa cinque metri da me. Giulio era ammanettato con le mani dietro la schiena, con gli occhi bendati e accompagnato da due guardie carcerarie. Gli interrogatori duravano ore, l’ho rivisto dopo, era sfinito dalla tortura: le guardie lo portavano a spalla, verso la sua cella. Non era nudo indossava degli abiti, dei pantaloni scuri e una maglietta bianca». Il testimone ricorda la domanda insistente dei carcerieri rivolta al prigioniero italiano: «Giulio dove hai imparato a superare le tecniche per affrontare l’interrogatorio». «Erano nervosi, usavano la scossa elettrica e lo torturavano con la corrente – continua il teste – Oltre ai carcerieri c’erano gli investigatori, ufficiali che non avevo visto prima e un colonnello, Ahmad, un dottore specializzato in psicologia. Anche il colonnello Tareq ha ripetutamente assistito agli interrogatori di Giulio». Durante le indagini, nel 2020, la procura raccolse la testimonianza di cinque persone identificate con le prime lettere dell’alfabeto greco. Il teste epsilon aveva visto Giulio mezzo nudo e sdraiato a terra, ammanettato e «tra catene di ferro», «con due ufficiali e due agenti», nella stanza 13 del primo piano della villa degli orrori utilizzata dalla National security. L’ex detenuto palestinese dunque sarebbe il secondo testimone delle torture subite da Regeni. Racconta di detenzione senza regole, in «celle molto strette, fredde, umide e maleodoranti», praticamente un «sepolcro». > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 20, 2024 / Osservatorio Repressione
Se Johan Cruijff segna per Gaza
I fatti avvenuti ad Amsterdam lo scorso 7 novembre, relativi agli scontri tra le tifoserie calcistiche dell’Ajax di Amsterdam e del Maccabi di Tel Aviv, e la messa in scena da parte dei media che non tengono conto delle dinamiche che hanno regolato il verificarsi degli eventi, e nemmeno i contesti sociali interessati. di Vincenzo Scalia da Studi sulla Questione Criminale  A volte gli schemi utilizzati per rappresentare la realtà si trasformano in pregiudizi, in quanto non tengono conto delle dinamiche che hanno regolato il verificarsi degli eventi, e nemmeno i contesti sociali interessati. Ne consegue uno scarto vistoso tra la realtà e la sua messa in scena, che scaturisce in interpretazioni distorte, che fanno leva sull’interesse ad assecondare una rappresentazione dominante. A lungo andare, questo processo di distorsione della realtà, si traduce nella produzione,  riproduzione e circolazione di pregiudizi e pratiche discriminatorie nei confronti di individui e gruppi sociali. I fatti avvenuti nella capitale dei Paesi Bassi lo scorso 7 novembre, relativi agli scontri tra le tifoserie calcistiche  dell’Ajax di Amsterdam e del Maccabi di Tel Aviv, e la loro messa in scena da parte dei media, esemplificano questa impostazione. Da un lato i fatti, documentati da foto e video, suffragate dalle testimonianze dei presenti, dei tifosi e persino dai rapporti della polizia di Amsterdam, parlano di tifosi del Maccabi Tel Aviv arrivati ad Amsterdam in assetto paramilitare, armati di oggetti contundenti, pronti allo scontro. Soprattutto, documentano bandiere palestinesi strappate, cori contro la Palestina, tra cui quello, agghiacciante, urlato allo stadio: “a Gaza non ci sono scuole perché non ci sono più bambini”, sommati ad atti di vandalismo in giro per la città. Insomma, un campionario di atti violenti e provocazioni messe in atto dai settori delle tifoserie che cercano lo scontro coi gruppi avversari. Dall’altro lato, però, i mezzi di informazione occidentali, si impegnano da giorni alacremente a ribaltare le dinamiche dei fatti, se non addirittura ad occultarle, assecondando la lettura del premier israeliano Netanyahu, che parla addirittura di una nuova notte dei cristalli. Eppure ci sono stati solo sei feriti lievi, secondo quanto riportato dalla polizia olandese, senza contare i danni arrecati dei tifosi del Maccabi, notoriamente di destra. Soprattutto, l’Ajax è una squadra che, come il Tottenham a Londra, può contare su una cospicua tifoseria ebraica. Non è perciò casuale che i gruppi di supporter organizzati delle due squadre, siano gemellati. I conti, rispetto a una presunta nuova “notte dei cristalli”, non tornano. Nessuno mette in dubbio che la violenza, prevalentemente reattiva, ci sia stata anche da parte dei tifosi dell’Ajax. Ma cosa è successo in realtà il 7 novembre? Alessandro Dal Lago (1990) ci spiegava che una partita di calcio è lungi dall’essere un fenomeno all’insegna del decoubertiniano “l’importante è partecipare”, così come viene rappresentata dalle narrazioni dominanti. Sia sugli spalti, sia sul terreno di gioco, si assiste alla produzione di un fenomeno sociale totale, ovvero un evento che elabora e mette in scena le contraddizioni e le fratture che attraversano la società. Il tifo calcistico, in altre parole, rappresenta un potente veicolo di formazione delle identità di classe, politiche, etniche, nonché della loro circolazione. Non a caso la guerra jugoslava cominciò, a metà degli anni ottanta, sugli spalti, quando i tifosi serbi cominciarono a coalizzarsi contro quelli croati, che si unirono contro i bosgnacchi, formando i primi nuclei di quegli squadroni paramilitari destinati a diventare tristemente famosi pochi anni dopo. Ad Amsterdam, lo scorso 7 novembre, abbiamo assistito a uno scenario analogo. I tifosi del Maccabi hanno infranto la barriera del gemellaggio, ovvero della solidarietà e del sostegno tra tifoserie, in nome del loro nazionalismo, per la prima volta ostentato pubblicamente fuori dai confini nazionali. Probabilmente contavano di fare leva sull’identità ebraica della tifoseria della squadra che fu di Crujiff, di Van Basten, di Davids. In realtà Amsterdam è una città multiculturale, e il caleidoscopio etnico si riflette anche nella tifoseria dei lancieri1, dove è presente anche una forte componente di origine musulmana e araba. In ogni caso, gli ultras dell’Ajax, non si caratterizzano per l’appartenenza alla destra radicale come quelli del Feyenoord di Rotterdam. L’eterogeneità culturale, la forte presenza araba e musulmana, l’approccio aggressivo e violento da parte dei tifosi del Maccabi, hanno finito per suscitare la reazione dei supporter dell’Ajax, e di parte della popolazione di Amsterdam. La questione palestinese, d’altra parte, ha conquistato da un anno e mezzo la ribalta pubblica internazionale, giungendo anche a provocare prese di posizioni nette da parte di istituzioni internazionali come l’ONU e la Corte Internazionale di Giustizia contro la politica del governo Netanyahu e gli oltre 40.000 morti provocati in un anno e mezzo di rappresaglia. Tuttavia, la crescente consapevolezza che si diffonde presso l’opinione pubblica internazionale, stride con il mantenimento degli equilibri politici esistenti, allineati sugli interessi e sulla politica estera statunitense, che si traducono in una difesa ostinata, talvolta ottusa, delle atrocità commesse dal governo israeliano, e della presunta democraticità di Israele. Viceversa, le comunità arabe e musulmane rappresentano la polarità negativa della vicenda, in quanto sarebbero popolate da feroci fondamentalisti che alimenterebbero una nuova ondata di antisemitismo. Non a caso, la destra olandese, ha subito parlato della necessità di espellere i musulmani sospettati di collateralità col fondamentalismo. Se da un lato è vero che gruppi come Hamas ed Hezbollah si caratterizzano per il loro radicalismo islamico, dall’altro lato è anche vero che dobbiamo la loro crescita alla politica israeliana, che ha decapitato le forze laiche e progressiste uccidendone o imprigionando i leaders, con l’avallo degli USA, che dagli anni 70 hanno blandito i fondamentalisti in chiave anticomunista. Inoltre, l’esistenza e la popolarità di Hamas ed Hezbollah, non giustificano il massacro sistematico di civili inermi, né le vessazioni quotidiane a loro inflitte, che vanno dalla fame alla violenza sessuale. Infine, non si può non rivolgere un pensiero all’UEFA. Da anni a Nyon, dove la federazione calcistica europea ha sede, parlano di fair play, coltivano l’immagine del calcio come veicolo di integrazione, promuovono campagne antiomofobiche, antisessiste, antirazziste, pacifiste, ma non si spostano più in là degli slogan. Nessun calciatore ha fatto coming out negli ultimi anni. L’unico che lo fece agli inizi degli anni 80, l’inglese di origine nigeriana Justin Fashanu, venne letteralmente cacciato dallo show business calcistico, fino a commettere il suicidio. Né la UEFA, né la federazione inglese, hanno mai promosso un’iniziativa che lo ricordasse. Quanto alla politica internazionale,  a Nyon, hanno sempre dimostrato di sapere bene da che parte si deve stare. Sin dagli anni novanta, quando la Jugoslavia fu esclusa dalle competizioni, sia delle rappresentative nazionali che di club. Fino ad arrivare all’oggi, con la parola “Peace” che campeggia negli stadi e negli score televisivi, mentre la Russia ha subito un trattamento analogo a quello dei club serbi 30 anni fa. Soprattutto, la UEFA ignora la Palestina, o fa finta di farlo. Ai tifosi dell’Ajax va dato il merito di avere smascherato questo teatrino ipocrita. Sulla scia di quanto insegnava Johan Crujiff, il più grande calciatore olandese di tutti i tempi e uno dei migliori di sempre a livello mondiale, che ricordava che il calcio nasce sulla strada. E prima o poi smaschera l’ipocrisia mercantilista dei fair play. Speriamo che la lezione serva. 1.  Soprannome dell’Ajax, derivante dal logo. ↩︎ Riferimenti bibliografici: A. DAL LAGO, A. (1990), Descrizione di una battaglia, Il Mulino, Bologna.       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 19, 2024 / Osservatorio Repressione
Angela Davis e la repressione
La militante afroamericana individuò il ruolo delle strutture poliziesche e sicuritarie nel disciplinamento e nella gestione delle crisi capitalistiche. La sua lezione nell’Italia di oggi è ancora più attuale di Cecilia Sebastian da Jacobin Italia A ventisei anni, Angela Davis divenne una delle prigioniere politiche più famose al mondo e un’icona rivoluzionaria, la sua immagine era riconoscibile come quelle di Mao Zedong o Che Guevara. Le circostanze che portarono alla sua detenzione furono complesse e in parte artificiose. Nell’agosto del 1970, diverse armi registrate a nome di Davis erano state brandite nel tentativo di liberare tre uomini non bianchi incarcerati in un tribunale della contea di Marin, in California. Dopo che le guardie della prigione di San Quentin aprirono il fuoco, quattro persone furono uccise, tra cui un giudice distrettuale. Davis non era a conoscenza degli eventi, ma venne implicata a causa delle armi. Ancora più significativo, Davis era un membro noto del Partito Comunista degli Usa e un’attivista nera emergente: lo Stato la voleva morta o rinchiusa. Emise un mandato di arresto per accuse di cospirazione, rapimento e omicidio, che prevedevano la pena di morte, e Davis fu inserita nella lista dei più ricercati dall’Fbi. Davis sostiene che furono la campagna di pressione internazionale condotta dal Pc degli Usa e dal National United Committee to Free Angela Davis a salvarle la vita. Tra il 1970 e il 1972 trascorse diciassette mesi in prigione prima di essere rilasciata su cauzione e infine assolta da tutte le accuse. Durante questo periodo, lettere di solidarietà da posti come Cuba, Francia, Germania dell’Est e Unione Sovietica inondarono la prigione di San Jose e il tribunale dove sarebbe stata processata. Per gente da tutto il mondo, non era Angela Davis a essere processata, ma il sistema di giustizia penale statunitense: avrebbe assolto una comunista nera palesemente innocente? Ciò che rende l’esempio di Davis degno di nota è che non ha mai smesso di ripagare il debito che sente di avere nei confronti della sinistra internazionale per averle garantito la libertà e la vita. Dal movimento di boicottaggio contro l’apartheid sudafricano a Occupy Wall Street e alla ribellione dopo l’uccisione di George Floyd, nell’ultimo mezzo secolo si è presentata a quasi ogni mobilitazione di massa. In mezzo a una repressione e censura crescenti, ha espresso fermo appoggio alla lotta di liberazione palestinese. Ancora più importante, ha offerto alla sinistra una delle critiche più taglienti al profondo legame dello stato di sicurezza degli Stati uniti con lo sfruttamento e l’oppressione, individuando il nesso con gli ostacoli per l’organizzazione rivoluzionaria. La Johannesburg del Sud Angela Davis nacque nel 1944 sotto un sistema di apartheid razziale a Birmingham, Alabama. Suo padre gestiva una stazione di servizio; sua madre era attiva nel Southern Negro Youth Congress, un’organizzazione di sinistra per i diritti civili con una forte presenza comunista. A Birmingham, nota come la Johannesburg del Sud, la minaccia della violenza bianca era costante. La famiglia Davis viveva in un quartiere che era stato soprannominato Dynamite Hill a causa dei frequenti attentati ai danni dei proprietari di case neri. Vicini e amici morirono a causa di attacchi razzisti, tra di essi l’attentato del Ku Klux Klan del 1963 alla 16th Street Baptist Church, che plasmò profondamente la coscienza politica di Angela Davis. Angela frequentò scuole segregate fino all’età di quattordici anni, quando fu accettata da un programma quacchero che ammetteva studenti neri del Sud in scuole integrate del Nord. Scelse la Elisabeth Irwin High School di New York per la sua reputazione progressista. Alla Elisabeth Irwin, Davis lesse il Manifesto del Partito comunista, che la colpì «come un fulmine», come ricordò in seguito. Iniziò a considerare la liberazione dei neri come parte della lotta più ampia dei lavoratori e delle lavoratrici. Aderì ad Advance, un’organizzazione giovanile socialista fondata da diversi suoi coetanei red diaper [letteralmente pannolino rosso, l’espressione indica i figli dei militanti comunisti, Ndt]. Tra di essi c’erano Eugene Dennis Jr, figlio del leader omonimo; Bettina Aptheker, figlia dello storico Herbert Aptheker; e Mary Lou Patterson, il cui padre, l’avvocato William L. Patterson, aveva consegnato alle Nazioni unite la famosa petizione We Charge Genocide per protestare contro i linciaggi dei neri nel Sud degli Stati uniti. Il gruppo di giovani organizzò manifestazioni contro i test nucleari e fece picchetti al Woolworth’s per via dei banconi riservati ai bianchi. Si riunirono nel seminterrato dell’Apthekers tra le carte di WEB Du Bois, che Herbert Aptheker stava allora conservando. Molto più tardi, Davis sarebbe tornata alla nozione di «democrazia abolizionista» di Du Bois per elaborare il concetto di una radicale trasformazione sociale in assenza del rovesciamento dello Stato. Ma all’età di diciassette anni, la rivoluzione le appariva nitidamente ancora all’orizzonte. Il fronte estero Nel 1961, Angela Davis si iscrisse alla Brandeis University. Era una dei tre studenti neri nella sua classe. La sua attenzione fu presto attratta dal principale intellettuale di sinistra del campus, Herbert Marcuse. Marcuse era parte del gruppo di intellettuali marxisti ebrei tedeschi noti come Scuola di Francoforte. Costretti negli anni Trenta all’esilio negli Stati uniti, avevano ridefinito le categorie marxiste classiche come classe e sfruttamento per interpretare la loro esperienza storica dell’antisemitismo eliminazionista. Entro gli anni Cinquanta, avevano individuato molti degli impedimenti materiali e psichici che bloccavano la rivolta collettiva. Nella loro lettura, la violenza razzializzata funzionava come una manifestazione esteriore delle tendenze di crisi del capitalismo e una componente chiave nell’arsenale dello Stato per interrompere le lotte di liberazione dei lavoratori e delle lavoratrici. L’interpretazione del marxismo da parte della Scuola di Francoforte era una scelta naturale per Angela Davis, già attenta agli interessi condivisi, seppur spesso frustrati, del comunismo e della liberazione dei neri. A loro volta, il suo entusiasmo intellettuale e la sua notevole propensione a confrontarsi con le contraddizioni della filosofia idealista tedesca, il quadro analitico preferito dalla Scuola di Francoforte, impressionarono Marcuse, che ne divenne mentore per tutta la vita. Grazie al legame con Marcuse, Davis si trasferì a Francoforte nel 1965 per proseguire gli studi in filosofia con Theodor Adorno. Si unì rapidamente al nucleo radicale della sezione di Francoforte della German Socialist Student Union (Sds). Si trasferì in un edificio industriale fatiscente con diversi membri della Sds, tra cui il leader studentesco Hans-Jürgen Krahl. Di giorno, frequentavano le lezioni all’università con Adorno, Max Horkheimer e Jürgen Habermas. Di notte, trascrivevano e ciclostilavano opere di teoria critica fuori catalogo, producendo edizioni pirata che vendevano agli eventi Sds per finanziare le loro attività politiche. Tra il 1965 e il 1967, le attività politiche dell’Sds tedesco si concentrarono sulle lotte di liberazione anticoloniali, in particolare sul Vietnam. Gli studenti erano convinti che la decolonizzazione avrebbe rotto il continuum capitalista globale, ed erano determinati a ostacolare le operazioni neocoloniali degli Stati uniti, per le quali la Germania Ovest fungeva da avamposto militare cruciale. Chiesero lo scioglimento della Nato, costruirono forme organizzative extraparlamentari, contestarono la disinformazione dei media e si scontrarono con la polizia. La loro militanza impressionò Davis, che in seguito avrebbe ricordato la serietà con cui i suoi compagni Sds avevano cercato di sviluppare «forme di resistenza pratica» in modo da rompere l’apatia della loro stessa società e colmare le divisioni globali. L’esperienza evidenziò le possibilità di costruire coalizioni multi-classe, multirazziali e internazionali, che Angela Davis avrebbe sostenuto per il resto della sua vita. Teoria critica e pratica rivoluzionaria Nel 1967, Davis decise di tornare a casa per unirsi alla lotta per la liberazione dei neri. Marcuse si era nel frattempo trasferito alla neonata University of California, San Diego (Ucsd), così si iscrisse al suo corso di laurea in filosofia e iniziò a esplorare il ricco panorama dell’organizzazione politica radicale nella California meridionale. Nei due anni successivi, si organizzò con lo Student Nonviolent Coordinating Committee (Sncc), il Black Panther Party for Self-Defense (Bpp) e il Che-Lumumba Club, sezione afroamericana del Partito comunista degli Usa nelle quali incontrò alcuni dei suoi compagni più stretti, tra cui la coppia Franklin e Kendra Alexander e i fratelli Charlene e Deacon Mitchell. Tutto il lavoro politico di Davis si concentrò sulla violenza razzista della polizia e sulla sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Tuttavia, le organizzazioni in cui era attiva avevano opinioni diverse sul percorso strategico e sul contenuto della liberazione dei neri, e a volte litigavano. Nel 1969, Angela Davis fu assunta come professore associato di filosofia dall’Università della California, Los Angeles, dopo aver ufficialmente avanzato la candidatura presso l’Ucsd con una tesi sul problema della forza, o violenza, nella filosofia di Immanuel Kant. Il suo lavoro preliminare indicava che la nozione di libertà morale di Kant prevedeva logicamente un diritto individuale di resistenza e persino di rivoluzione, che era altrimenti negato nella sua filosofia politica proto-borghese. Fedele alla sua formazione marxista, Davis sosteneva che questa contraddizione teorica, che trovava il suo corollario contemporaneo nei dibattiti sulla legalità dell’attivismo, poteva essere risolta solo nella pratica, attraverso la totale trasformazione dello Stato costituzionale borghese. Tuttavia, prima che il semestre autunnale alla Ucla potesse iniziare, un informatore dell’Fbi rivelò pubblicamente che Angela Davis era un membro del Partito comunista, e fu licenziata dal Board of Regents dell’Università della California. Da un giorno all’altro, divenne oggetto attacchi e minacce di morte anticomunisti, razzisti, misogini e anti-intellettuali. Davis contestò con successo il suo licenziamento in tribunale, citando i suoi diritti del Primo Emendamento alla libertà di parola e di riunione e il suo diritto come professoressa alla libertà accademica. Ma aveva trovato un nemico determinato nel governatore di destra della California, Ronald Reagan, che riuscì a farla licenziare di nuovo alla fine dell’anno accademico. Nel frattempo, Davis usò la sua fama per mettere in luce il lavoro del Soledad Brothers Defense Committee, a cui si era unita nel febbraio 1970. George Jackson, Fleeta Drumgo e John Clutchette erano tre afroamericani incarcerati nella prigione di Soledad, accusati dell’omicidio di una guardia carceraria bianca. Il comitato di difesa sostenne che erano stati presi di mira per la loro agitazione politica in prigione e cercò di ottenere il sostegno pubblico. Fu attraverso il suo lavoro nel comitato di difesa che Davis strinse amicizia con il fratello minore di George Jackson, Jonathan, che alla fine avrebbe guidato il fallito tentativo di liberare altri tre uomini di colore, James McClain, William Christmas e Ruchell Magee, presso il tribunale della contea di Marin nell’agosto del 1970. I fratelli Soledad furono infine assolti nel marzo del 1972, sebbene George Jackson fosse già morto a quel punto, essendo stato ucciso nell’agosto del 1971 da una guardia carceraria durante un altro tentativo di fuga. Una lotta costante Nel novembre del 1970, Marcuse scrisse a Davis, allora incarcerata a New York, per dirle che aveva fatto un’importante scoperta filosofica mentre rileggeva i suoi scritti accademici: «La libertà non è solo l’obiettivo della liberazione, inizia con la liberazione; è lì per essere ‘praticata’. Questo, lo confesso, l’ho imparato da te!». Angela Davis si attiene ancora a questa convinzione, come è evidente nel suo mantra più noto: «La libertà è una lotta costante». La libertà, insiste, non è una proprietà fissa. Non può essere conferita a una persona, men che meno da uno Stato. Allo stesso modo, non può essere ridotta alla dimostrazione negativa che siamo liberi perché ci sono altri che non sono liberi, altri che lo Stato ha rinchiuso. Per essere degna del concetto, la libertà deve avere il suo contenuto materiale positivo, che, poiché non esiste ancora, deve prima essere promulgato. L’esperienza personale di Angela Davis dietro le sbarre è stata formativa per la sua comprensione critica non solo della negazione materiale della libertà che la prigionia costituisce, ma anche della pratica dinamica della libertà. A sua volta, il progetto abolizionista che ha iniziato a immaginare dalla prigione di San Jose ha trasformato il modo in cui la sinistra concepisce la politica contemporanea. Mentre era incarcerata nel 1971, Davis scrisse con la sua compagna comunista e amica Bettina Aptheker che il ricorso dello Stato alla repressione violenta indicava che le sue istituzioni, inclusa la prigione, erano «impermeabili a riforme significative» e «devono essere trasformate in senso rivoluzionario». Nella pagina successiva, chiedevano «l’abolizione» del sistema carcerario in quanto tale. La rivendicazione abolizionista di Davis e Aptheker si allontanava dall’attenzione ortodossa all’organizzazione intenzionale del lavoro industriale. Negli Stati Uniti, l’occupazione dei colletti blu era in declino dagli anni Cinquanta e quei lavoratori che erano stati storicamente gli ultimi a entrare nel rapporto salariale industriale (i neri e altre minoranze) furono i primi a esserne esclusi, ridotti allo status di sottoclasse definita dalle porte girevoli della precarietà salariale e da ciò che Davis allora chiamava «apparato giudiziario-penale-poliziesco». Modulando il focus sulla polizia e sugli ostacoli carcerari alla lotta di classe, Davis cercò di valorizzare quella che riteneva essere la maggiore spinta oppositiva di quei proletari che erano più vulnerabili alla ridondanza economica e alla violenza dello Stato. Mirava anche a contrastare direttamente la capacità dello Stato di continuare a costringerli alla sottomissione molto tempo dopo che l’ordine capitalista razziale aveva cessato di elargire i salari necessari per l’auto-riproduzione della classe operaia. L’abolizione era una strategia rivoluzionaria, in altre parole, in sintonia con le contraddizioni del tardo capitalismo. Ma l’abolizione, come sarebbe diventato chiaro, era anche una strategia rivoluzionaria adatta a un’epoca di riflusso della sinistra. La speranza della New Left di una rottura rivoluzionaria non si era concretizzata, non da ultimo a causa dell’enorme capacità di repressione dello Stato. Possiamo discutere le carenze e i punti ciechi della strategia della New Left, ma la sua sconfitta aveva più a che fare con programmi governativi come Cointelpro che con gli hippy e l’orizzontalismo. In seguito alla sconfitta, gli obiettivi di chiudere le prigioni, riscrivere le leggi sulle condanne, bloccare la costruzione di nuove prigioni e carceri e istituzionalizzare alternative riparatrici alla reclusione sono diventate forme diffuse e frammentarie per estendere la visione di una radicale trasformazione sociale, erodendo al contempo la capacità controrivoluzionaria dello Stato. Il significato strategico di questo lavoro diventa ancora più chiaro quando agli attivisti di Stop Cop City viene contestato il reato associativo e quando gli attivisti pro-Palestina sono sottoposti alla di polizia e vigilanti, alla censura e alla perdita del lavoro. Ora che ha ottant’anni, il continuo sostegno di Angela Davis alle proteste di massa sta iniziando ad assomigliare a quello del suo ex mentore. Negli anni Sessanta, Marcuse ottenne il titolo onorifico di nonno della Nuova Sinistra e i giovani attivisti modificarono il loro slogan in: «Non fidarti di nessuno sopra i 30, tranne che di Herbert Marcuse». Pur essendone lusingato, Marcuse insistette sul fatto che non era lui la causa delle rivolte. Ciò che aveva cercato di fare era identificare le fratture materiali e psichiche all’interno della società che erano mature per lo scontro, e poi consolidare teoricamente i gruppi che emergevano da quelle fratture in una coalizione rivoluzionaria. Angela Davis ha fatto qualcosa di simile e possiamo ancora imparare dal suo esempio. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 19, 2024 / Osservatorio Repressione
Haaretz su Gaza: «Se sembra una pulizia etnica, probabilmente lo è»
Il quotidiano israeliano Haaretz spiega come le atrocità commesse al nord di Gaza servano per installare nuove colonie. E così il francese Le Monde di Luca Pisapia da Valori.it «Se sembra una pulizia etnica, probabilmente lo è». Così titola l’editoriale del quotidiano israeliano Haaretz lo scorso 29 ottobre.  Haaretz è un quotidiano progressista, da sempre critico nei confronti dell’amministrazione di Benjamin Netanyahu, che dall’inizio dell’invasione della Palestina ha però giustificato ogni tipo di atrocità commessa dall’esercito israeliano in nome dell’unità nazionale. Ma ora, evidentemente, si è superato il limite. Oltre 44mila morti, di cui almeno i due terzi donne e bambini. Omicidi di giornalisti, volontari e membri delle organizzazioni umanitarie. Case, scuole, ospedali e infrastrutture rase al suolo. E adesso l’assedio per fame del territorio a nord di Gaza City che comprende Jabaliya, Beit Lahiya, Beit Hanoun. Con l’obiettivo di sfollare, o sterminare, i suoi 400mila abitanti per sostituirli con nuovi coloni israeliani. «Per tre settimane e mezza, le forze israeliane hanno assediato la Striscia di Gaza settentrionale. Israele ha bloccato quasi completamente l’ingresso degli aiuti umanitari, facendo così morire di fame le centinaia di migliaia di persone che vivono lì». Comincia così il durissimo editoriale di Haaretz del 29 ottobre, a segnare una svolta anche dello sguardo internazionale. Poi prosegue: «Le informazioni che emergono dall’area assediata sono solo parziali, perché fin dall’inizio della guerra, Israele ha impedito ai giornalisti di entrare a Gaza. Ma anche in base al poco che è stato rivelato al pubblico, si possono dire due cose sull’assedio. In primo luogo, la portata delle vittime civili dei bombardamenti quotidiani dell’esercito sulle città e sui campi profughi nella Striscia di Gaza settentrionale – bambini, donne, anziani e uomini innocenti di qualsiasi crimine – è enorme». Haaretz: «La macchia morale e legale di questo crimine perseguiterà ogni israeliano» «Eppure Israele si è astenuto dal dare agli sfollati qualsiasi garanzia che saranno in grado di tornare una volta finita la guerra. Considerato ciò, non c’è da stupirsi che siano sorti gravi sospetti che Israele stia effettivamente perpetrando una pulizia etnica nella parte settentrionale di Gaza e che questa operazione abbia lo scopo di svuotare definitivamente questa zona dai palestinesi». Scrive ancora Haaretz il 29 ottobre, utilizzando per la prima volta in oltre un secolo di vita il termine “pulizia etnica” per attribuirlo alle politiche dello Stato di Israele. E lo usa di nuovo, una seconda volta, nello stesso articolo. Questa volta accusando direttamente non solo il governo Netanyahu e la sua corte di estrema destra, da Itamar Ben Gvir a Bezalel Smotrich. Ma anche e soprattutto la codardia dell’opposizione di centro-sinistra e l’ignavia della società civile palestinese. «Israele sta scivolando nella pulizia etnica; i suoi soldati stanno portando avanti le politiche criminali della destra messianica e kahanista, e persino l’opposizione di centro e centro-sinistra non fa una piega. Questo consenso dietro alla pulizia etnica è vergognoso, e ogni leader che non chiede la fine dell’espulsione di fatto sta sostenendo questo crimine e ne è diventato complice». Poi conclude: «Se questo processo non si ferma immediatamente, centinaia di migliaia di persone diventeranno rifugiate, intere comunità saranno distrutte e la macchia morale e legale di questo crimine perseguiterà ogni israeliano». Per la prima volta il quotidiano attribuisce il termine «pulizia etnica» a Israele Ma il quotidiano israeliano non si ferma qui, di fronte all’intensificarsi di episodi di violenza bieca e gratuita da parte dell’esercito di Israele. Come il deliberato incendio di un camion di aiuti alimentari e umanitari appena giunto nel cortile di una scuola di Beit Hanoun, città affamata e in piena carestia. Haaretz prima titola il suo editoriale: «Israele sta scatenando un’apocalisse nel nord di Gaza» (6 novembre). E poi di nuovo «La pulizia etnica di Netanyahu a Gaza è sotto gli occhi di tutti» (10 novembre). «La popolazione israeliana deve guardare dritto in faccia ciò che il suo esercito sta facendo in suo nome nella Striscia di Gaza settentrionale», scrive infatti il quotidiano. «L’esercito israeliano sta conducendo un’operazione di pulizia etnica nella Striscia di Gaza settentrionale. I pochi palestinesi rimasti nell’area sono evacuati con la forza, case e infrastrutture sono state distrutte». E citando il suo corrispondente militare Yaniv Kubovich che dice «sembra che l’area sia stata colpita da un disastro naturale», conclude: «Quello che Kubovich ha visto, tuttavia, non è stato un disastro naturale, ma piuttosto un atto premeditato di distruzione umana». Premeditato perché è evidente che lo scopo di Israele sia quello di liberarsi dei 400mila residenti di Gaza Nord, con ogni mezzo necessario, per installare nuove colonie. The Guardian: «Non c’è alcuna intenzione di consentire ai residenti di Gaza di tornare alle loro case» Lo scrive nei due editoriali sempre Haaretz: «Ai residenti della Striscia di Gaza settentrionale è stato detto di spostarsi a sud, nello spirito del cosiddetto “Piano dei generali” proposto dal Maggiore generale Giora Eiland, sebbene ufficialmente Israele neghi di averlo implementato. Il concetto di base del piano è di evacuare i residenti, dichiarare l’area una zona militare chiusa e quindi affermare che chiunque vi rimanga sarà considerato un terrorista che può essere ucciso». E poi: «Un alto ufficiale dell’IDF, identificato dal quotidiano londinese The Guardian come il generale Itzik Cohen, comandante della 162ma Divisione, ha spiegato ai giornalisti: “Non c’è alcuna intenzione di consentire ai residenti della Striscia di Gaza settentrionale di tornare alle loro case“». Anche su Le Monde oramai campeggiano i racconti dell’orrore a Gaza Nord È evidente che si è sorpassato il limite. Tanto che il 14 novembre anche il quotidiano francese Le Monde, da mesi impegnato in esercizi di equilibrismo, non si trattiene. E a proposito di Gaza Nord scrive: «Coloro che accettano di fuggire sono tutt’altro che fuori pericolo. I palestinesi riferiscono di essere stati bombardati pochi minuti dopo aver ricevuto l’ordine di evacuare. “Non si tratta di evacuazioni umanitarie ma di deportazioni”, afferma Jan Egeland, segretario generale della ong Norwegian Refugee Council (NRC). Le persone vengono svegliate all’alba da droni dotati di altoparlanti che comunicano loro che hanno due ore per prendere ciò che possono trasportare e partire. E non hanno alcun posto dove andare». «I camion e i bulldozer israeliani distruggono gli edifici lungo le strade, ritagliando ampie arterie per i veicoli militari. Sui social circolano diversi video, girati dagli stessi soldati, che li mostrano mentre bruciano case a Jabaliya e Beit Lahiya», prosegue Le Monde. «“L’esercito ha iniziato la fase di sgombero del nord della Striscia [di Gaza] e si prepara a mantenervi una presenza prolungata”, conclude il giornalista di Haaretz. D’altra parte, in territorio israeliano, a pochi chilometri dal nord-est di Gaza, una famiglia di coloni originari di Ariel, nella Cisgiordania occupata, si è già insediata in un accampamento improvvisato ai margini di una strada a quattro corsie, con tacita approvazione della polizia. Stanno aspettando l’opportunità di stabilirsi nell’enclave palestinese». Per entrambi i quotidiani scopo dell’inaudita violenza di Israele è installare nuove colonie Questo è il punto. La distruzione economica e la pulizia etnica del popolo palestinese a Gaza hanno lo scopo di ri-colonizzare il territorio. Lo dicono i palestinesi in primis, gli attivisti delle ong, i rappresentanti delle Nazioni Unite. Lo scrivono Haaretz e Le Monde. «L’opinione israeliana rimane in larga maggioranza contraria alla ri-colonizzazione di Gaza. Ma i sostenitori del ritorno di Gush Katif, le ex colonie dell’enclave palestinese, evacuate nel 2005, beneficiano di importanti staffette ai vertici dello Stato: i ministri suprematisti Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich. E anche molti deputati del Likud, il partito del primo ministro Benjamin Netanyahu». Scrive il quotidiano francese. «Dal 7 ottobre, questi due leader estremisti e altri membri del governo hanno moltiplicato le dichiarazioni provocatorie: “Faremo ciò che è meglio per Israele: facilitare il reinsediamento di centinaia di migliaia di persone da Gaza”, ha affermato Ben Gvir all’inizio di gennaio, suggerendo una massiccia emigrazione degli abitanti di Gaza», prosegue il quotidiano francese. «“La responsabilità di queste atrocità non è solo di Israele, ma anche della comunità internazionale che le condona”, precisa Shai Parnes (portavoce dell’ong israeliana per i diritti umani B’Tselem ndr.). Approfittando del tumulto post-elezioni presidenziali americane, le truppe israeliane continuano la loro offensiva”.» Chissà, forse un giorno troveremo queste parole anche sui cosiddetti quotidiani progressisti e liberal italiani.   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
November 18, 2024 / Osservatorio Repressione