Mentre il movimento di liberazione curdo depone le armi e si impegna per una
soluzione politica del conflitto, Ankara continua a riarmarsi
di Gianni Sartori
Ovviamente il mio auspicio è che la questione si risolva alla sudafricana (con
la liberazione dei prigionieri, la fine delle discriminazioni, la possibilità
per il movimento di liberazione di svolgere attività politica legale senza
subire la solita, sistematica repressione…) e non alla colombiana (con
ritorsioni, esecuzioni extragiudiziali nei confronti di decine di ex
combattenti. sindacalisti, indigeni, oppositori …).
Quindi, per rispetto alla lotta di autodeterminazione condotta dal popolo curdo
e agli innumerevoli caduti, non mi permetterei mai di criticare (oltretutto
comodamente da casa) la decisione del PKK di auto-scioglimento e di consegna
delle armi dopo l’appello in tal senso di Abdullah Öcalan.
Tuttavia permane una buona dose di inquietudine in quanto la nuova situazione
potrebbe fornire a Erdogan & C. la possibilità per risolvere la questione una
volta per tutte. A modo suo naturalmente.
Attaccando – direttamente o indirettamente, gli ascari non gli mancano – un
movimento curdo non proprio inerme, ma comunque disarmato.
Preoccupa in tal senso il comunicato del ministero della Difesa turco del 15
maggio. Con cui si certifica che l’esercito turco proseguirà nelle sue
operazioni contro il PKK “fino a quando la regione sarà ripulita”. In
riferimento alle aree del nord Iraq (Bashur) dove si concentra maggiormente la
guerriglia curda.
Come appunto ha poi confermato in conferenza stampa un portavoce del ministero,
le operazioni militari turche “nelle zone utilizzate dall’organizzazione
terrorista separatista PKK proseguiranno con determinazione fino quando la
regione sarà ripulita e non costituiràpiù una minaccia per il nostro paese”.
Stando alle prime indiscrezioni, i servizi segreti turchi supervisioneranno la
raccolta delle armi del PKK con la collaborazione delle forze irachene e
siriane, ma “senza la partecipazione di osservatori internazionali dell’ONU”
(come invece chiedevano i curdi).
L’esercito turco controlla decine di posizioni nel nord dell’Iraq (nel Kurdistan
autonomo) da dove per anni ha colpito sistematicamente le zone dove è presente
il PKK.
E – sempre in conferenza stampa – si è ribadito di voler continuare – nonostante
la dissoluzione del PKK – a colpire rifugi, grotte e postazioni dove si trovano
i curdi.
“Lo smantellamento del PKK deve avvenire senza alcun ritardo” ha ripetuto il
portavoce del ministero.
Paradossalmente, mentre i curdi “disarmano”, lo Stato turco pare intenzionato ad
aumentare ulteriormente le sue già ingenti spese militari.
Secondo il sito Yeni Özgür Politika la Turchia sarebbe in procinto di acquistare
dagli USA missili ed equipaggiamento per 304 milioni di dollari. Si tratta di
una sessantina di missili AIM-9X Sidewinder Block II, di missili aria-aria di
media portata AIM-120C-8 e di undici attrezzature di guida tattica .
Manca soltanto l’approvazione del Congresso statunitense, mentre esiste già
quella alla vendita da parte del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.
Per il Pentagono questi missili dovrebbero garantire maggiore difesa aerea sia
alla Turchia (fantasiosamente definita una “forza importante per la stabilità
politicaed economica in Europa”) che al personale statunitense qui presente.
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Source - Osservatorio Repressione
Il Csm approva un parere critico sul decreto sicurezza, che però non è
vincolante: il ricorso accentuato allo strumento penale, “declinato nelle due
forme dell’inasprimento delle pene attualmente previste e dell’introduzione di
nuove fattispecie di reato”, rischia di avere un impatto “sul carico di lavoro e
sull’assetto organizzativo degli uffici”
di Mario Di Vito da il manifesto
L’impatto che avrà il decreto sicurezza sui tribunali “non è prevedibile”, ma di
sicuro ci saranno ripercussioni “sul carico di lavoro e sull’assetto
organizzativo degli uffici”. Lo dice il Consiglio superiore della magistratura
in un parere approvato ieri dal plenum. Al di là dei numeri con cui è passato il
documento (19 favorevoli, 4 contrari e un astenuto) la discussione è stata di
quelle pesanti.
L’opinione dell’organo di governo autonomo delle toghe, infatti, non era
richiesta, né ha un valore vincolante. E però ha indubbiamente un suo ruolo nel
dibattito che circonda le nuove disposizioni in materia di ordine pubblico e
sicurezza, da un anno e mezzo ormai in parlamento. Dove, nonostante il testo sia
sempre stato blindatissimo e nessuno sia mai riuscito a emendarlo davvero,
continua a languire in attesa di approvazione.
Il problema che più si evidenzia nel “parere critico” verso il decreto è il
ricorso quasi indiscriminato al codice penale. Si rileva infatti che è
“acclarato” il fatto che “in linea di principio” sono solo gli “interventi
ispirati alla logica opposta della depenalizzazione” a “favorire una migliore
efficacia dell’organizzazione”, mentre nel decreto sicurezza “è presente un
ricorso accentuato allo strumento penale” in termini di inasprimento delle pene
e introduzione di nuove fattispecie di reato. Il discorso è semplice: più sono i
reati da perseguire e più gli organi inquirenti vedono aumentare la quantità di
carte sulle loro scrivanie.
Il risultato finale non è difficile da immaginare. “Senza nessuna pretesa di
invadere l’ambito riservato esclusivamente al legislatore – ha detto durante il
plenum la prima presidente della Cassazione Margherita Cassano – penso sia
doveroso da parte del Csm, in un’ottica di leale collaborazione tra autorità
dello Stato, richiamare l’attenzione in sede di conversione sulle ricadute che
rischiano di avere pesanti effetti per gli uffici giudiziari”.
Il problema, per Cassano, è che “se continuano a essere emanate una pluralità di
leggi spesso sullo stesso ambito di materia, in un breve arco di tempo, senza
risolvere preventivamente a livello legislativo il tema, non solo del
coordinamento di queste disposizioni, ma su quale deve essere l’ambito effettivo
dell’intervento penale, si provocano ricadute con effetti dirompenti sul sistema
giudiziario”. Un concetto simile l’ha espresso anche il consigliere laico
Michele Papa: “L’espansione incontrollata del diritto penale simbolico finisce
per snaturare la funzione stessa della legislazione, trasformandola in un mero
veicolo di comunicazione mediatica incapace di incidere realmente sui fenomeni
criminali e, soprattutto, di garantire il cittadino dai rischi di arbitrari
interventi punitivi”. Perplessità sono arrivate anche dalla destra togata. La
consigliera di Magistratura indipendente Bernadette Nicotra ha infatti espresso
forti perplessità “sul metodo” della “decretazione d’urgenza in materia penale,
non solo da parte di questo governo. Mi chiedo se effettivamente ci fosse
necessità e urgenza per questo intervento”. Tullio Morello di Area pure ha
affondato il colpo. “Che paese stiamo diventando – ha detto -. A queste parole
si può aggiungere un punto esclamativo, un punto interrogativo o i puntini di
sospensione. Io penso che siamo un paese molto diviso e il paese invece ha
bisogno di unirsi”. I consiglieri laici della destra hanno votato contro. Ma non
in maniera compatta, perché Felice Giuffré, eletto in quota Fratelli d’Italia,
si è astenuto.
Per il resto, la tristemente consueta difesa del governo al Csm si è limitata a
sottolineare come il documento partorito dal plenum non abbia in realtà un peso
formale. “Questo parere non serve a nulla – ha detto Bertolini annunciando il
suo voto contrario – potevamo spendere meglio le nostre energia”. Magari, cioè,
evitando proprio l’argomento.
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Appello in solidarietà a Tarek Dridi, Anan, Alì e Mansour.
Mercoledì 21 si invitano tutt a partecpare al presidio in solidarietà al
tribunale a L’Aqula per il procecesso di Anan, Alì e Mansour, mentre giovedì 22
al faro del gianicolo si porterà solidarietà a Tarek chiuso tra le mura del
carcere di Regina Coeli.
Arrivato dalla Tunisia nel 2008 a 25 anni, in questo momento Tarek si trova nel
carcere di Regina Coeli, arrestato in differita per la manifestazione del 5
ottobre in solidarietà con il genocidio della popolazione palestinese nella
striscia di Gaza. Il 14 aprile è stato condannato a 4 anni e 8 mesi con rito
abbreviato. Gli si contesta il reato di resistenza, di aver lanciato bottiglie e
aver attaccato il plotone con un ombrello, tutti fatti che non vengono però
comprovati dai video.
Libertà per Tarek,Anan, Ali e Mansour
Il 5 ottobre è piovuto tantissimo. Finita la pioggia, i lacrimogeni: hanno fatto
di tutto per impedire che il sole illuminasse le bandiere della Palestina.
Hanno fatto di tutto affinché in quella giornata, a Roma, non ci fosse una
manifestazione contro il genocidio. Hanno fatto di tutto e nonostante ciò, non
ci sono riusciti. Lo Stato italiano ha scelto quel giorno da che parte stare, ma
lo ha scelto anche il giorno in cui ha deciso di arrestare Anan, Ali e Mansour,
perché facenti parte della resistenza palestinese. È chiara la scelta di campo.
In un contesto generale così radicale, fatto di migliaia di morti, altrettanti
che resistono e lo Stato italiano che attacca la solidarietà, non c’è spazio per
ambiguità. Ci possono essere differenze, diversi modi, ma è indubbia la scelta
di campo e il processo al quale appartengono. Non è filosofia quanto realtà
concreta.
La storia di Tarek racconta questa realtà qui: molto chiara, molto concreta,
molto ingiusta. Un ragazzo tunisino, arrivato in Italia nel 2008 e che il 5
ottobre, quando ha visto la polizia caricare le bandiere della Palestina, non ha
avuto dubbi su che parte prendere. Si è messo in mezzo, come poteva, come ha
creduto più opportuno. Racconta la storia di un ragazzo come tanti, uno dei
tanti dannati di questa terra, che in quanto tale, per un reato di resistenza, è
stato condannato a 4 anni e 8 con rito abbreviato (più di quanto avesse chiesto
il pm). Tarek è la storia di questo tempo, di questa democrazia coloniale,
perché non è ricco, non è bianco, non ha reti di solidarietà, e quel giorno ha
preso parte a una manifestazione per la Palestina in cui ci sono stati scontri
con le f.d.o. Quanto basta per esercitare tutta la (“legittima”) violenza di uno
Stato occidentale e colonialista.
Quello che però racconta quella giornata è anche un’altra realtà, fatta di
persone che a questo stato di cose non ci stanno. Che contro i valori razzisti e
prevaricatori di questo mondo hanno sfidato i filtri della polizia, preso le
botte, respirato l’odore acre dei lacrimogeni.
Dire che in quella piazza c’eravamo tutti e tutte non è solo uno slogan, eravamo
realmente tantissim*. Come anche tantissime sono le persone che in piazza non
sono mai riuscite ad arrivare, a causa della militarizzazione della città, ma
quel giorno c’erano ugualmente.
L’obiettivo della giornata era fare un corteo per la città, gli scontri, poi,
sono stati l’inevitabile conseguenza. I filtri della polizia all’ingresso della
piazza, la politica sorda che, per impedire la giornata, fa una levata di scudi
unitaria, l’informazione che stigmatizza le ragioni. Nulla di nuovo, l’aspetto
inedito è stata la quantità, e la determinazione, delle persone che quel giorno
sono scese in strada. Lo Stato italiano ha scelto da che parte stare, e per
difendere la propria ragione è disposto a tutto. Ad esempio approva, sotto forma
di decreto, quello che era il ddl1660, ennesimo passaggio che riduce gli spazi
di libertà.
Quel giorno la realtà è stata chiara: la libertà non si concede, si prende a
spinta.
CI VEDIAMO MERCOLEDÌ 21 MAGGIO ORE 9:30 AL TRIBUNALE A L’AQUILA PER IL PROCESSO
DI ANAN, ALÌ E MANSOUR.
CI VEDIAMO GIOVEDÌ 22 MAGGIO ORE 17:30 AL FARO DEL GIANICOLO PER ROMPERE IL
SILENZIO E PORTARE SOLIDARIETÀ A TAREK.
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Salvini chiede, la Calabria esegue. Il cambio di marcia della giunta calabrese
sulla costituzione di parte civile nel processo sulla strage dei migranti è
dettato dalle pressioni del vicepremier sul presidente della giunta regionale
Occhiuto
di Tiziana Barillà
Nell’aula del Tribunale di Crotone, dove è in corso il processo per i mancati
soccorsi che hanno portato alla strage di Cutro, si tiene il processo a carico
di quattro finanzieri e due ufficiali della Guardia costiera, accusati di
naufragio colposo e omicidio colposo plurimo.
Nessuno – spero – ha dimenticato che il 26 febbraio 2023, il caicco “Summer
love” si è schiantato nella secca a un chilometro dalla costa calabrese. Di
quella strage non sappiamo nemmeno il numero dei dispersi, abbiamo contato i 94
corpi che hanno raggiunto la spiaggia di Steccato di Cutro, senza vita. Di quei
morti, 35 erano bambini, persino le bare bianche erano finite.
Quello che sappiamo – invece – è che ritardi e inerzie, hanno rappresentato una
“grave negligenza, imprudenza, imperizia” da parte dei militari imputati che
hanno violato, secondo i pm, la normativa europea e nazionale in materia di
soccorsi in mare.
Il 12 maggio si è tenuta l’udienza preliminare, con 113 richieste di
costituzione di parte civile: i familiari delle vittime e i superstiti, le
associazioni e le organizzazioni non governative. Ma le istituzioni no. La
Regione Calabria no, né i Comuni di Crotone e di Cutro. Figuriamoci il governo
di Meloni, Salvini e Piantedosi.
Dopo aver loro voltato le spalle in mare, negando il soccorso, lo Stato, la
Regione e i Comuni interessati hanno voltato le spalle alle vittime di Cutro, ai
loro familiari e ai superstiti, anche in Tribunale.
La mancata costituzione di parte civile del governo era scontata, vista
l’assoluzione d’ufficio garantita ai militari dal governo ancora prima che la
Procura di Crotone e i Carabinieri concludessero le indagini. Ma i Comuni
interessati? E la Calabria di Roberto Occhiuto – lo stesso che si è battuto il
petto in quelle ore e nelle cerimonie successive?
Roberto Occhiuto, se possibile, ha fatto ancora peggio del governo
vergognosamente coerente. Fino a poco prima dell’udienza, la Regione Calabria
era l’unico ente ad aver chiesto di essere inserito tra le parti offese. Poi, ha
fatto marcia indietro per sopperire al disappunto dell’Usim, il sindacato della
guardia costiera, e al rimprovero di Matteo Salvini.
La Regione si è rimangiata tutto con una nota imbarazzata e imbarazzante,
appellandosi a un errore: credevano fosse un processo contro gli scafisti, non
contro i militari! Occhiuto, insomma, ha parlato di errore ma il sindacato dei
militari ha rivendicato il successo politico suo e di Salvini.
Roma ordina, Catanzaro obbedisce. Come da copione, di una tragica e classica
abitudine meridionale. Manza un anno alle elezioni regionali, tra lotte
intestine e un’eterna campagna elettorale da portare avanti, la retorica della
Calabria straordinaria panacea di ogni problema, non basta più.
Se c’è da impugnare il bastone, si impugni. Tanto più se bisogna puntarlo contro
centinaia di disperati, che manco votano.
La Calabria è un’altra cosa.
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La polizia fa togliere la bandiera della Palestina dal balcone: “Deve passare il
Giro d’Italia” È successo a Putignano (Bari), in Puglia: a denunciarlo Sofia
Mirizzi, proprietaria della casa.
Deve passare il Giro d’Italia, vietato esporre bandiere della Palestina. Anche
se sono su un balcone di proprietà privata. Questa è la linea seguita dalla
polizia a Putignano, in Puglia
Così succede che a Putignano, comune di 25 mila abitanti in provincia di Bari
famoso per il suo carnevale, le forze dell’ordine bussino alla porta di una
residente chiedendo di rimuovere quella bandiera. Senza altre spiegazioni.
La denuncia di Sofia Mirizzi
La denuncia è arrivata dall’interessata, Sofia Mirizzi, che sui social ha
spiegato quanto avvenuto: “Oggi (ieri, 13 maggio, ndr.) la polizia è salita a
casa nostra per chiederci di rimuovere la bandiera della Palestina esposta sul
nostro balcone privato. Non stavamo disturbando nessuno. Non stavamo violando
alcuna legge. Stavamo semplicemente esercitando il nostro diritto di espressione
in uno spazio che ci appartiene. Ci è dato ad intendere – ha aggiunto – che la
bandiera doveva essere tolta perché il Giro d’Italia sarebbe passato proprio
sotto casa nostra e la bandiera sarebbe stata inquadrata dalle telecamere
nazionali”. Poi, nel suo post di denuncia, Mirizzi continua con due domande: “Da
quando esporre una bandiera che rappresenta un popolo e una causa umanitaria è
diventato motivo d’intervento delle forze dell’ordine? In quale momento il
sostegno civile e pacifico a un popolo sotto occupazione è diventato un problema
di ordine pubblico? Chiediamo chiarezza, rispetto e il riconoscimento di un
principio fondamentale in una democrazia – ha concluso –. Nessuno dovrebbe
essere intimidito per aver espresso la propria solidarietà in modo pacifico e
legittimo”.
Un episodio inquietante e di enorme gravità. Dopo Il 25 aprile ad Ascoli dove
uno striscione antifascista era stato fatto rimuovere alla fornaia che lo aveva
esposto e a Mottola (Taranto) 10 cittadini sono stati identificati per aver
intonato “Bella Ciao”, a Roma attivisti della Cgil fermati per un volantinaggio
sui referendum ora questo nuovo episodio che ci dice chiaramente che siamo
dentro uno Stato di polizia dove non sia più consentito neanche esporre una
bandiera dal balcone se questa non è gradita al governo.
Tra qualche settimana (il 26 maggio è prevista la votazione alla Camera) il
decreto sicurezza sarà convertito in legge. Iniziamo concretamente a disobbedire
esponendo le bandiere Palestinesi in ogni balcone come atto di solidarietà alla
Palestina e contro lo Stato di Polizia
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Negli USA il rifiuto di collaborare con il governo nella caccia ai migranti ha
provocato l’arresto di un sindaco e di un giudice e il taglio dei fondi federali
ai comuni renitenti. Una virata autoritaria in cui nessuno può più sentirsi al
sicuro.
di Elisabetta Grande da Volere la Luna
Quanto nell’era Trump la pura forza bruta si stia dispiegando senza freni contro
chiunque si ponga come ostacolo ai piani del governo è parso drammaticamente
evidente venerdì 9 maggio, quando gli agenti dell’Immigration and Custom
Enforcement (ICE) hanno arrestato il sindaco di Newark, in New Jersey, per aver
osato protestare contro l’apertura e l’uso di un centro di detenzione privato
per migranti, illegale in base alle regole dello Stato del New Jersey e della
città. Insieme ad alcuni rappresentanti al Congresso federale e ad altri
esponenti della società civile, il sindaco Ras Baraka era davanti ai cancelli
per dimostrare la propria contrarietà all’uso da parte del governo federale
della struttura, data di recente in appalto per la gestione dei migranti a una
delle più grandi e famigerate società private del mondo della carcerazione, la
GEO – un tempo Wackenhut – Corporation. Aperta per contenere e deportare –
secondo i piani governativi – 1000 migranti alla volta, il centro è però in
contrasto tanto con una legge dello Stato del New Jersey, firmata dal
governatore Phil Murphy quattro anni fa (che proibisce l’apertura di centri
privati di detenzione per migranti) quanto con i regolamenti cittadini (che
prevedono permessi e controlli non rispettati dal centro in questione). La
controffensiva federale all’espressione pacifica del più che legittimo dissenso
da parte del sindaco è consistita nel suo arresto per violazione di domicilio
del centro privato (trespass), nel quale peraltro il sindaco non pare però
avesse messo piede. L’obiettivo di un simile uso sconsiderato della forza bruta
da parte dell’amministrazione Trump è evidente. Si tratta di reprimere con la
paura il dissenso nei confronti dell’operato del Governo, che in questo caso
riguarda l’immigrazione, ma che ovviamente potrà nel tempo riguardare qualsiasi
altro campo.
L’arresto del sindaco di Newark, fa d’altronde il paio con un altro arresto
eccellente, come il primo senza precedenti: quello della giudice di contea di
Milwakee (Wiscounsin), Hannan Dugan, colpevole di non aver permesso agli agenti
dell’ICE di arrestare un imputato chiamato a dibattimento di fronte a lei. Le
regole dell’amministrazione locale impongono, infatti, alla polizia – e per
estensione ai giudici – di collaborare con gli agenti federali nell’apprensione
del migrante solo se c’è un mandato giudiziario e non soltanto amministrativo,
come invece era avvenuto nel caso in questione. L’accusa di fronte al
giudiziario federale di ostruzione all’attività dell’ICE e di occultamento di un
individuo, nonché il plateale arresto della giudice qualche giorno dopo
l’accaduto, sono anche in questo caso gli strumenti di deterrenza usati
dall’amministrazione Trump per piegare e terrorizzare chiunque – giudici,
amministratori locali o cittadini – abbia in mente di opporsi al disegno di
deportare in massa i migranti, legalmente o illegalmente poco importa.
«Più di 77 milioni di Americani hanno dato al presidente il mandato di deportare
i criminali migranti illegali» ha detto Kush Desai, portavoce della Casa Bianca,
rivendicando il potere politico del presidente di liberarsi da qualsiasi vincolo
il sistema giuridico possa imporgli, siano esse leggi ordinarie o
costituzionali, locali, statali o federali. «Chi salva l’America, non può
violare la legge» aveva peraltro affermato Trump poco dopo la sua elezione e il
tema dell’immigrazione si presenta quale ottimo terreno per sondare la reale
possibilità di dichiararsi legibus solutus.
È in questo quadro che si inserisce il suo secondo executive order volto a
togliere i fondi federali a tutti i comuni che si dichiarino sanctuary city,
ossia che si rifiutino di collaborare con il governo federale nell’apprensione
dei migranti, emanato quattro giorni dopo che il primo era stato bloccato da un
giudice federale e quindi nuovamente bloccato dallo stesso, perché solleva il
dubbio che serva «per costringere incostituzionalmente le città e le counties (e
altre giurisdizioni analoghe) a cambiare le proprie politiche per conformarsi
alla preferenze dell’amministrazione Trump».
Si tratta di un duro scontro fra l’amministrazione federale e i limiti
provenienti dalla rule of law, che Trump ha messo pesantemente in atto anche a
livello federale. Ne sono esempi lampanti le minacce di impeachment al giudice
James E. Boasberg, che aveva osato ordinare all’amministrazione Trump di non far
partire e poi riportare indietro 200 Venezuelani inviati senza giusto processo
nel famigerato CECOT, prigione salvadoregna nota per i suoi metodi contrari ai
diritti fondamentali degli individui; o la presa in giro da parte
dell’amministrazione Trump della stessa decisione della Corte Suprema che aveva
richiesto che fosse facilitato il ritorno di uno di essi, riconosciutamente
inviatovi per errore. «Certo» – hanno detto gli avvocati dell’amministrazione
alla giudice del Maryland che chiedeva loro l’ottemperanza di quella pronuncia –
«se si presenterà al confine faciliteremo senz’altro il suo rientro!».
Senza giusto processo, nonostante un orientamento costante della Corte Suprema
federale che legge la formula del quinto emendamento della Costituzione –
secondo cui nessuno può essere privato della libertà, della proprietà e della
vita without a due process of law – come applicabile a tutti, non cittadini
compresi, sono stati deportati in tanti, perfino dei bimbi cittadini. Gli
arresti e le detenzioni in orridi centri di rimpatrio senza giustificazione e
spiegazione (se non il ricorso a un oscura legge del 1952 che consentirebbe al
Segretario di Stato di espellere chiunque venga considerato pregiudizievole per
i rapporti di politica estera del governo) dei tanti studenti che – come Ozturk
o Kahlil, in possesso di un regolare visto o addirittura di un permesso di
residenza permanente – hanno protestato pacificamente ed espresso indignazione
per la carneficina in atto a Gaza, rappresentano un altro atto di forza per
reprimere il dissenso e terrorizzare chi osi criticare od opporsi alle politiche
di un presidente che in quanto votato dal popolo ritiene per questo di non avere
limiti.
In molti si domandano ormai dove sia finito quel sistema americano che si è
sempre presentato come paladino delle libertà individuali e del free speech. Ciò
tanto più a fronte delle dichiarazioni di Stephen Miller che, al grido di un
colpo di stato dei giudici che non lascerebbero fare al presidente e alla sua
amministrazione il loro mestiere, minaccia addirittura l’eliminazione
dell’habeas corpus, la fondamentale e ancestrale garanzia che nel mondo di
common law assicura agli individui il controllo giurisdizionale sulla
legittimità della loro detenzione. Così mentre Trump inveisce su X contro chi
intende ricondurlo all’interno dei limiti della rule of law («le nostre Corti
non mi lasciano fare il lavoro per il quale sono stato eletto»), la sua
amministrazione rilancia dichiarandosi libera di deportare i migranti ovunque,
anche in Libia, senza previo avviso né esplicita approvazione di un giudice, sia
pur dell’immigrazione (parte non del giudiziario ordinario, bensì di quello
amministrativo alle dipendenze del dipartimento di giustizia), purché assicurino
di non torturali.
E mentre la deportazione all’inferno senza giusto processo pare a Trump il modo
migliore per assolvere al suo mandato presidenziale, la più antica democrazia
costituzionale del mondo si avvia a subire una virata autoritaria in cui nessuno
può più sentirsi al sicuro. «Quando viene tolto a qualcuno il fondamentalissimo
diritto della libertà, quella persona ha diritto almeno a un processo minimo;
altrimenti, tutti noi rischiamo di essere detenuti — e forse deportati — perché
qualcuno nel governo pensa che non dovremmo essere qui» scrive in proposito il
giudice Vilardo del distretto federale di New York.
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Gaza è trasformata in una zona di morte, Gaza è annientata. Un genocidio
visibile. Il libro Le anime invincibili di Gaza, prefazione di Moni Ovadia
compresa, è contributo nella direzione di una presa di coscienza, per capire da
che parte stare.
di Edoardo Todaro da La Città Invisibile
Quanto sta avvenendo in Palestina, Gaza e Cisgiordania, è qualcosa a cui mai
potevamo pensare di assistere, praticamente in diretta. Crimini di guerra e
crimini contro l’umanità vengono commessi su scala mai vista. Non c’è rifugio,
non c’è luogo sicuro. I palestinesi vengono bruciati vivi nelle tende. Vengono
attirati nei “ luoghi sicuri” e poi bombardati. Vengono lasciati morire di fame,
privati di cibo, acqua ed elettricità, condannando così a morte i pazienti degli
ospedali.
Gaza è trasformata in una zona di morte, Gaza è annientata. Un genocidio
visibile, rai ed affini a parte, a chiunque abbia un minimo di interesse nel
volersi fare un proprio punto di vista sugli avvenimenti in corso, e nel vedere
le immagini che scorrono sul televisore, o meglio sul pc, i sentimenti che si
accavallano sono commozione e frustrazione. Sul primo non credo sia necessario
dire chissà cosa, ognuno fa i conti con i propri sentimenti, ma la frustrazione
è dovuta semplicemente al fatto che stiamo facendo tanto per essere solidali con
i palestinesi, ma siamo consapevoli che ancora non facciamo quanto dovremmo.
Il libro Le anime invincibili di Gaza, prefazione di Moni Ovadia compresa, lo
considero un ulteriore contributo nella direzione di una presa di coscienza, per
capire da che parte stare. Hanin Soufan ci porta all’interno di quello che è
divenuto un vero e proprio deserto, ci offre una luce nel buio del genocidio,
una vera e propria inchiesta sul campo.
Il primo contributo riportato si riferisce a coloro i quali con il proprio
incessante lavoro sono sotto attacco continuo, da parte delle forze
d’occupazione: i giornalisti, che sono odiati da Israele in quanto testimoniano
cosa significa raccontare i diritti di un popolo oppresso, una verità che è
immortale. Wael Al-Dahdouh che lavora per Al Jazeera ha già passato in carcere 7
anni in occasione della prima Intifada. Un lavoro fatto come fosse una missione,
perché il mondo ha bisogno di sapere quanto sta succedendo. Quanto descritto è
sotto gli occhi di tutti: nessuna zona definibile sicura; bombardamenti ovunque
anche le ambulanze che portano i feriti da parte di quello che in occidente
viene definito l’unica democrazia del Medio Oriente, con quello che è ritenuto
l’ esercito ritenuto “morale”.
Passando alla seconda testimonianza, che dire? Emerge il ruolo delle donne,
delle madri che fanno figli, molti figli, come atto di resistenza, delle mogli
con i mariti che lavorano nelle colonie israeliane, con le difficoltà, e già
definirle così è attenuare cosa vuol dire “difficoltà”, che Gaza subisce per il
blocco economico in corso ben prima del 7 ottobre, senza cibo, senza acqua,
senza medicine. Dal ’73 c’è uno slogan che ritengo del tutto attuale: “Potremo
morire tutti, ma se resterà una donna incinta essa darà alla luce un figlio che
libererà la Palestina”.
Leggere il terzo contributo, con Ahmad testimone dell’orrore, è come vedere
quanto quotidianamente i palestinesi subiscono: non solo i bombardamenti, ma le
urla strazianti, i pianti inconsolabili. Gaza: un assedio ininterrotto di
massacri, che porta inevitabilmente al genocidio. Gaza meglio morire che “vivere
“ nell’inferno. Gli occupanti distruggono tutto perché non è la loro terra.
Motal Azaiza, nella quarta testimonianza, ci parla di una Gaza sotto assedio,
dimenticata da tutti, dove chi vive è rinchiuso in una gabbia e ciò che è
concesso è dato dall’occupazione con il contagocce. Motal si è posto un compito,
un compito che l’essere giornalista/testimone impone: portare avanti un’opera di
sensibilizzazione, far emergere voci, le voci di chi non ha voce, far emergere
la forza e la sofferenza di un popolo.
Quindi con Khaled Nebhan, nel contributo seguente, è la speranza, quella
speranza che non si piega, ad essere valorizzata, la speranza che vive anche nel
campo profughi: un vero e proprio labirinto di sogni, una battaglia l’accesso
all’acqua, mangiare carne un lusso, con le giornate che trascorrono lentamente e
nonostante tutto questo ciò che conta è che la miseria non divide, ma unisce.
Una frase su tutte deve essere da riferimento: “ Non usciremo da qui, accada
quel che accada”.
Incontrando Nadine, nel sesto, è il ruolo di unità nella resistenza
all’oppressione delle comunità religiose; la solidarietà nella lotta che unisce
al di là dei riferimenti religiosi, nel sogno di una terra libera
dall’oppressione. Vangelo e Corano …. uniti nella lotta. A dispetto dei
bombardamenti è la solidarietà che vince.
Con Mohammad Abu Salimah, dopo aver visto il ruolo dei giornalisti e
dell’informazione, conosciamo il coraggio di un medico sotto assedio: le sfide
continue dovute all’imperativo categorico autoimposto del dover salvare vite;
l’assenza di medicinali, di carburante, di elettricità, e la lotta quotidiana
per la sopravvivenza è la normalità. L’ospedale un luogo di possibile guarigione
diviene rifugio per migliaia di sfollati e poi luogo di morte. L’assurdità
raggiunta dal governo israeliano nel dichiarare che le autoambulanze e gli
ospedali sono un rifugio di Hamas. Ma una cosa su tutto: il popolo Gaza non si
piega anche se Israele non rispetta la vita e nemmeno la morte. Avvilire,
umiliare, distruggere psicologicamente in questi comportamenti si può riassumere
il comportamento degli occupanti. Infine l’atto di accusa, dovuto, verso una
comunità internazionale, paesi arabi compresi, complice e che è brava solo ad
usare parole di circostanza.
Giungiamo all’ottavo contributo, con Israa Jaabis: è l’istinto alla
sopravvivenza più forte della disperazione che attrae la nostra attenzione,
quell’istinto che si contrappone a quei soldati, occupanti, che non hanno alcuna
sensibilità umana. Una insensibilità che si concretizza nella descrizione dei
diritti umani negati in carcere. Una parola ci fa capire il modo di porsi
rispetto alla resistenza ed al 7 ottobre: la resistenza ha dato un duro colpo
all’occupazione.
Ci avviamo alla conclusione, con il nono contributo, nel quale ci addentriamo ad
esaminare cosa significa la detenzione amministrativa, le torture di ogni tipo
alle quali associazioni come Addameer dedicano il loro impegno, cosa significa
essere la voce di chi non può parlare e quando sei fuori dal carcere non
abbandonare mai chi vi resta e l’idea di una Palestina libera deve essere con
animo più determinato che mai.
Arriviamo all’ultima parte, sempre con il carcere sotto la lente d’osservazione,
vero e proprio luogo di tortura e di sfogo per le guardie, che sono
esclusivamente capaci di essere vendicative in particolare quando si sentono
messe in difficoltà. Per finire ritengo fondamentale riportare questa frase che
dà senso a queste 124 pagine: “Gaza è libera, è il resto del mondo che è sotto
occupazione”.
Hanin A. Soufan, Le anime invincibili di Gaza. Dieci squarci di luce nell’ombra
del genocidio, Editori della luce, 2024, pp 125, euro 15
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E’ morto Pepe Mujica lo storico leader dell’Uruguay. Era nato il 20 maggio 1935.
Una vita straordinaria, da tupamaro a presidente
di Checchino Antonini da Popoff
Demetrio perse la sua terra a Casupá durante la crisi degli anni Trenta. Il suo
nuovo progetto, il cemento prefabbricato, lo portò nella città coloniale di
Carmelo per costruire i capannoni necessari al nuovo progetto. Lì conobbe Lucy,
che proveniva da una famiglia piemontese dedita ai vigneti. La nuova famiglia
non ha avuto fortuna nemmeno con l’azienda familiare che ha sviluppato su un
ettaro situato sul Paso de la Arena, a Montevideo. Alla fine, Lucy e i suoi
figli, José e María, rimasero senza il padre, che morì quando i bambini avevano
rispettivamente 8 e 2 anni.
Tutti e tre vissero “in dignitosa povertà”. Giacche logore, vestiti rattoppati,
ma c’era carne da mangiare. E c’era lo zio “Angelito”, che gli fece conoscere la
passione per i libri e la politica.
José Mujica, per tutti Pepe, lo ha ricordato nel libro di María Ester Gilio
“Mujica, de tupamaro a presidente”. José “Pepe” Mujica, storico leader ricordato
per la magia delle sue parole, è morto martedì 13 maggio. La vita dell’ex leader
uruguaiano è stata un film, come ha scritto Mercedes López San Miguel
sull’argentino Pagina12.
Pepe, come lo chiamavano tutti in Uruguay, sarà ricordato per la saggezza delle
sue parole. Era nato il 20 maggio 1935. Ed è entrato nella storia: un ex
guerrigliero tumaparo che il 1° marzo 2010 è diventato presidente del suo
piccolo Paese.
All’inizio del 2025, Pepe Mujica ha detto addio alla vita pubblica e ha chiesto
di poter riposare nell’intimità della sua fattoria, già affetto da un cancro
all’esofago in fase molto avanzata. “Quello che chiedo è che mi lascino in pace.
Non chiedetemi più interviste o altro. Il mio ciclo è finito. Onestamente, sto
morendo. Il guerriero ha diritto al riposo”, ha dichiarato al settimanale
Búsqueda.
Durante il suo governo, il suo discorso davanti alle Nazioni Unite è stato
riprodotto in innumerevoli video su YouTube e la sua figura è stata catapultata
con l’avanzamento dell’agenda dei diritti, come la regolamentazione del mercato
della cannabis, la depenalizzazione dell’aborto e il matrimonio egualitario, che
ha persino generato un costante pellegrinaggio di stranieri alla sua fattoria a
Rincón del Cerro. Pepe Mujica ha donato quasi il 90% del suo stipendio da
presidente in beneficenza e ha sempre vissuto a vivere nella sua fattoria di
Rincón del Cerro, alla periferia di Montevideo, insieme a Lucía Topolansky,
allora senatrice e anch’essa ex tupamaro. Una piccola parte del mondo della
coppia, che non aveva figli, uno stile di vita semplice, l’amore per il tango e
la coltivazione di fiori e ortaggi, è stata raccontata dal regista Emir
Kusturica nel documentario “El Pepe, una vida suprema”.
Una volta che la sua compagna di sempre sarà morta, la fattoria passerà nelle
mani del MPP, il partito che hanno fondato insieme.
In una recente intervista al New York Times, l’autorevole quotidiano
statunitense lo ha descritto come un “filosofo schietto”. “La vita è bella. Con
tutte le sue vicissitudini, amo la vita. E la sto perdendo perché sono nel
momento di andarmene”, ha detto Mujica. Alla domanda su come vorrebbe essere
ricordato, è stato categorico: “Per quello che sono: un vecchio pazzo che ha la
magia della parola”.
Una vita da militante
Mujica è diventato un attivista da adolescente. “Avevo 14 anni quando ho
iniziato a far parte di un gruppo anarchico”, racconta a María Ester Gilio nel
libro Pepe Mujica, de tupamaro a presidente (Pepe Mujica, da tupamaro a
presidente). Da giovane, dopo un esordio al seguito di Enrique Erro, leader di
un settore minoritario del Partito Nazionale intorno al 1956, è stato sempre più
coinvolto nei partiti di sinistra ed è diventato marxista. Un marxismo difficile
da inquadrare nelle visioni dei socialisti e dei comunisti dell’epoca. Quella di
un curioso e avido lettore.
In questa ricerca, si unì alla lotta armata con il Movimiento de Liberación
Nacional-Tupamaros, un movimento di guerriglia urbana ispirato alla rivoluzione
cubana. Fu imprigionato per la prima volta nel 1964 per il tentato assalto a una
filiale dell’azienda Sudamtex e nel 1969 entrò in clandestinità perché la
polizia scoprì armi e munizioni che i guerriglieri gli avevano consegnato in
custodia.
Mujica partecipò alla presa della città di Pando (a Canelones, a pochi
chilometri da Montevideo) l’8 ottobre 1969, quando decine di guerriglieri
presero il controllo della stazione di polizia, della caserma dei pompieri e
altri assaltarono la centrale telefonica e le filiali bancarie. L’operazione
durò mezz’ora, tanto durò la fuga e lo scontro con la polizia, che causò la
morte di tre tupamaros, un poliziotto e un civile. Una scena in bianco e nero
che mette insieme parte della sua vita.
Un’altra volta una pattuglia gli sparò sei volte a terra. Fu arrestato più
volte. Nel 1971 fu protagonista di un altro momento da film: l’evasione
attraverso un tunnel di 111 prigionieri (106 guerriglieri) dal carcere di Punta
Carretas, una delle più grandi fughe dalla prigione della storia.
Dopo il colpo di Stato del 1973, Mujica divenne ostaggio della dittatura. Nel
libro Memorias del calabozo, Fernández Huidobro ha parlato con Mauricio Rosencof
della dolorosa esperienza che hanno vissuto insieme a Raúl Sendic, Jorge Manera,
Henry Engler, Adolfo Wasem, Jorge Zabalza e Julio Marenales, che venivano fatti
avvicendare tra le caserme. “Una notte del settembre 1973, nove militanti del
Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaros furono prelevati di sorpresa da
ognuna delle nostre celle nella prigione di Libertad….. Quel lungo viaggio di
nove ostaggi della tirannia durò esattamente undici anni, sei mesi e sette
giorni”.
“Fummo prelevati di sorpresa da ognuna delle nostre celle”, raccontano gli ex
guerriglieri Mauricio Rosencof ed Eleuterio Fernández Huidobro nell’introduzione
al libro Memorias del calabozo (Ricordi della prigione) nel carcere di Libertad.
Nella solitudine del gelido mattino presto di quell’inverno crescente, persino
il motore dei camion che ci aspettavano sembrava voler parlare a bassa voce
perché gli altri prigionieri (migliaia) non sentissero”. “Fu un trasferimento
vergognoso, un trasferimento con la consapevolezza che si stava commettendo
qualcosa di grave”, aggiungono pagine dopo.
Questo “viaggio” avrebbe occupato 11 anni della loro vita, con brevi soggiorni
in diverse caserme dell’esercito nell’interno del Paese. Mujica, insieme a
Rosencof e Huidobro, sarebbe stato assegnato alla IV Divisione dell’Esercito,
responsabile della costa orientale. Oltre ai continui trasferimenti, la
punizione imposta dalle Forze Armate era crudele: gli ostaggi erano tagliati
fuori sia gli uni dagli altri che dal mondo esterno, in modo che il loro unico
contatto con esso fosse momentaneo, o attraverso gli spioncini installati nelle
porte delle rispettive prigioni o nel giornale che i soldati usavano nel bagno,
a cui i prigionieri potevano accedere solo una volta al giorno.
Dal canto suo, il mutevole “habitat”, spiega, era privo di mobili e non superava
mai i due metri quadrati. Inoltre, i carcerieri imponevano di “stare seduti su
una piccola panca di legno, con le spalle alla porta e la faccia premuta contro
il muro” per periodi di tempo prolungati, oltre ad altri metodi di tortura e
umiliazione che caratterizzavano le dittature latinoamericane.
Mujica iniziò a parlare con le formiche e ad avere delle allucinazioni e finì
nell’Ospedale Militare all’inizio degli anni Ottanta. Uno psichiatra gli
consigliò di leggere e scrivere. A proposito di quel periodo, Pepe racconta:
“Prendevo le pillole che mi dava e le buttavo in bagno”. C’era qualcosa, però,
che questa donna mi aiutò a fare. Mi diede il permesso di leggere libri di
scienze… Mi autorizzò anche a scrivere, e l’esercizio della scrittura disciplinò
il mio cervello”, ha raccontato in Pepe Mujica, de tupamaro a presidente.
Dalla guerriglia al Frente Amplio
L’8 marzo 1985, un uomo magro fu rilasciato dal carcere. La descrizione potrebbe
valere per lui o per gli altri compagni che lasciarono il carcere senza altri
progetti che la vita di tutti i giorni. Un vecchio trattore e alcuni cani
accompagnarono le mattine di Pepe e Lucía Topolansky, la sua compagna, nella
loro fattoria di Rincón del Cerro, il luogo dove ricominciò con ciò che
conosceva: l’agricoltura. Pepe Mujica ha riacquistato la libertà con un’amnistia
nel 1985 e, con alcuni membri del MLN-T iniziò un processo di incorporazione nel
sistema politico uruguaiano. Nel 1989 gli ex guerriglieri fondarono il
Movimiento de Participación Popular (MPP) e si unirono al Frente Amplio (FA).
Nel 1994 Mujica fu eletto deputato e nel 1999 senatore; l’MPP cominciava a
mostrare una grande capacità di accumulazione che lo avrebbe portato a essere,
nelle elezioni del 2004 e in quelle successive, il settore più votato della
coalizione di sinistra. Prima di diventare presidente della Repubblica è stato
ministro dell’Allevamento e dell’Agricoltura nel primo governo del Frente Amplio
guidato da Tabaré Vázquez.
All’epoca, Mujica dichiarò al giornale di essere consapevole che “c’è una
sinistra uruguaiana con cui non ci troviamo bene”, ma che “camminiamo perché
abbiamo bisogno l’uno dell’altro”. “Siamo uniti dalla paura. La paura che vinca
la destra. E la stessa cosa deve accadere ai nostri compagni”, ha detto. Nel
2009 si è presentato come candidato unico del Frente Amplio (coalizione di una
trentina di partiti, movimenti e correnti di sinistra, socialisti, comunisti,
trotzkisti e democristiani. Nel loro programma comune si definiscono
progressisti, antimperialisti, antirazzisti e antipatriarcali), e ha vinto in
coppia con Danilo Astori e da quel momento la sua figura è diventata nota in
tutto il mondo. La notizia della sua morte è l’apertura di tutti i giornali
latino americani.
I governi del Frente Amplio, quelli dei socialisti Tabaré Vázquez (2005-2010 e
2015-2020) e Pepe Mujica (2010-2015), hanno definitivamente rotto il sistema
bipartitico, l’alternanza pluridecennale del Partido Nacional e del Partido
Colorado.
La vita austera del vecchio guerrigliero, la sua semplicità, il suo modo di
parlare semplice e diretto, la sua lotta contro la corruzione e gli sprechi, il
suo impegno sociale, la sua capacità di parlare e dialogare sia con la gente
comune che con i leader delle grandi potenze, la sua tolleranza e la costante
ricerca del consenso con chi difendeva altre posizioni ideologiche, gli valsero
il rispetto anche di molti politici e persone con posizioni diametralmente
opposte alle sue.
Critiche da sinistra
Tuttavia, scrive Roberto Montoya su El Salto Diario, un sito spagnolo, la sua
vita politica pubblica non è stata esente da aspre critiche da parte di settori
che condividevano la sua militanza nei Tupamaros e da militanti di altri gruppi
di sinistra. Molti sostenevano che Mujica si stesse facendo assorbire dal
sistema stesso contro cui aveva combattuto fin da giovane.
Nel maggio 2007 aveva rilasciato una dichiarazione in cui faceva autocritica sul
suo passato di guerrigliero: “Mi pento profondamente di aver preso le armi con
poca abilità e di non aver evitato una dittatura in Uruguay”.
L’adattamento del vecchio guerrigliero ai nuovi tempi, il suo modo peculiare di
fare politica dalla base, prima come deputato, poi come senatore e infine come
presidente, è stato spesso visto dai settori più radicali della sinistra come un
abbandono dei valori ideologici dei Tupamaros.
Le critiche ricevute da settori della sinistra, alcune delle quali molto aspre,
si sono concentrate su vari aspetti delle sue posizioni politiche: l’assenza di
progressi significativi nella redistribuzione della ricchezza durante il suo
mandato, i suoi cambiamenti di posizione nei confronti dei militari o le sue
divergenze con il movimento femminista.
Più di qualche attivista dei Tupamaros ha sostenuto che Mujica si stava facendo
assorbire proprio dal sistema contro cui aveva lottato fin da giovane.
Nel 2019, dopo essere stato eletto senatore, ha rilasciato alcune dichiarazioni
controverse e aggressive al settimanale uruguaiano Voces. Mujica ha riconosciuto
il machismo, ha denunciato la società patriarcale, ma ha sostenuto che il
femminismo non può sostituire la lotta di classe. “Vedo anche classi sociali
all’interno dello stesso movimento femminista”, ha sostenuto.
Mujica non è stato l’unico dei tanti ex leader della guerriglia divenuti
presidenti con l’avvento della democrazia nei Paesi dell’America Latina e
dell’Africa ad essere rimproverato per la sua metamorfosi dai suoi ex compagni
di militanza.
Lo ha sperimentato personalmente Nelson Mandela, leader dell’African National
Congress (ANC) e dell’organizzazione guerrigliera Umkhonti we Sizwe (MK) (Lancia
della Nazione), che dopo 27 anni di carcere è diventato presidente del
Sudafrica. Molti dei suoi ex compagni lo criticarono per aver fatto troppe
concessioni a coloro che erano stati complici dell’apartheid, dell’oppressione,
della brutale repressione e dei crimini subiti per decenni dalla maggioranza
della popolazione nera, di cui Mandela stesso faceva parte.
È successo anche con Dilma Rousseff, marxista come Mandela e Mujica, militante
della guerriglia Grupo Política Operária (Polop), anch’essa torturata e
incarcerata per due anni, che finirà per diventare presidente del Brasile. La
sinistra radicale metteva in discussione la sua politica di coesistenza al
potere con settori della destra, che erano proprio quelli che avrebbero finito
per tradirla e per organizzare un golpe morbido contro di lei per rovesciarla.
Il capitolo di verità e giustizia
Nonostante la promozione di un programma di misure sociali progressiste fin dal
primo governo del Frente Amplio, le divisioni al suo interno sono apparse presto
evidenti.
Tabaré Vázquez pose il veto su una proposta della maggioranza della coalizione,
approvata in Parlamento, per legalizzare l’interruzione di gravidanza, e pose
nuovamente il veto su una proposta legislativa del Frente Amplio per abolire la
Ley de Caducidad, che aveva lasciato impuniti i crimini commessi da militari,
polizia e civili durante la dittatura militare. Tabaré Vázquez accettò solo che
alcuni dei responsabili di questi crimini non sarebbero stati coperti da questa
amnistia.
Una delle controversie che da anni si protraggono all’interno del Frente Amplio
è la posizione da assumere nei confronti della legge sulla scadenza delle
pretese punitive dello Stato, approvata nel 1986 durante il governo di Julio
María Sanguinetti, leader del tradizionale partito conservatore Colorado, che
aveva vinto le prime elezioni dopo il ritorno alla democrazia nel 1984.
Questa legge de Caducidad concedeva l’amnistia per i reati commessi dalla
dittatura militare tra il 1973 e il 1° marzo 1985, quando Sanguinetti entrò in
carica. Mujica denunciò Sanguinetti per aver usato la controversa legge per
ostacolare le indagini sui casi di prigionieri scomparsi ma da presidente non
sarebbe mai riuscito ad abrogarla.
Come riparazione storica più che simbolica, è stato l’ex tupamaro Mujica a
chiedere pubblicamente scusa, a nome dello Stato uruguaiano, per la scomparsa di
María Claudia Iruretagoyena, nuora del poeta Juan Gelman. Lo ha fatto nel marzo
2012, in ottemperanza a una sentenza della Corte interamericana dei diritti
umani sul caso Gelman.
Il capitolo della memoria, della verità e della giustizia non è stato privo di
difficoltà durante il governo di Mujica, con gravi difficoltà nel rovesciare la
Ley de Caducidad, che dava l’impunità a militari e poliziotti accusati di
crimini contro l’umanità. E anche a causa della nomina di Guido Manini Ríos, a
capo dell’esercito e poi esponente dell’estrema destra, alleato del governo
uscente di Luis Lacalle Pou.
Mujica al governo
Mujica ha sostituito Tabaré Vázquez nel 2010 dopo il secondo trionfo elettorale
del Frente Amplio e ha dato al governo un carattere più progressista. Durante il
suo mandato, sono stati legalizzati l’aborto e il matrimonio omosessuale e
l’Uruguay è diventato il primo Paese al mondo a legalizzare la vendita e il
consumo controllati di marijuana, regolati dallo Stato.
Per quanto riguarda il matrimonio omosessuale, ha detto: “Dicono che è moderno,
ma è più vecchio di tutti noi. È una realtà oggettiva. Esiste e non legalizzarlo
significherebbe torturare inutilmente le persone”. “Lasciate che ognuno faccia
quello che vuole con il proprio culo”, ha detto in un’intervista. E sul consumo
di marijuana: “È uno strumento per combattere il traffico di droga, che è un
reato grave, e per proteggere la società”. Mujica ha fatto una precisazione: “Ma
attenzione, gli stranieri non potranno venire in Uruguay per comprare marijuana;
non ci sarà turismo della marijuana”.
Anche durante il governo di Mujica ci sono state polemiche per varie iniziative
fallite, come il progetto minerario a cielo aperto di Aratirí, la costruzione
del rigassificatore di Gas Sayago e la chiusura di Pluna, che costarono il posto
all’allora ministro dell’Economia e delle Finanze, Fernando Lorenzo, e al
presidente del Banco República, Fernando Calloia. A ciò si aggiunge il
fallimento della compagnia aerea Alas U.
Pepe e il Sudamerica
Una delle ossessioni del politico veterano era il Sudamerica. “Non vedo
l’integrazione per domani. Penso a 25, 30 anni da oggi. Dobbiamo imparare a
sopportarci a vicenda, a destra e a sinistra”, ha detto Mujica a questo
giornalista durante il suo ultimo viaggio a Buenos Aires a proposito della tanto
agognata integrazione regionale. Lui, che ha avuto un ruolo di primo piano
accanto a Lula, Chávez, Cristina Kirchner, Rafael Correa ed Evo Morales in un
momento in cui questo desiderio sembrava possibile e le condizioni di vita dei
settori più svantaggiati stavano migliorando.
Il quotidiano uruguaiano di sinistra, La Diaria, ricorda che in una delle sue
ultime interviste al giornale, Mujica ha riflettuto sul fatto che anche nel
MLN-T erano “prigionieri di un’epoca e di un tempo”. Il “problema”, sottolineava
Mujica all’epoca, era che “non si impara nulla dalla realtà se non si ha una
visione critica di essa e non la si vede più complicata”.
Nonostante sia un piccolo Paese di 3,5 milioni di abitanti senza particolare
rilevanza a livello internazionale, durante i governi del Frente Amplio, e
soprattutto durante il mandato di Mujica, l’Uruguay ha svolto un ruolo attivo
nelle nuove organizzazioni regionali dell’America Latina e dei Caraibi nei primi
decenni del XXI secolo, quando sono saliti al potere più governi progressisti
che mai nella storia della regione.
Forze progressiste con caratteristiche diverse sono salite al potere in
Argentina, Uruguay, Cile, Brasile, Paraguay, Bolivia, Ecuador, El Salvador,
Venezuela e Nicaragua, e in contrasto con le turbolenze, le divisioni interne e
le gravi deviazioni ideologiche sperimentate da molti di questi processi, il
Frente Amplio è riuscito a mantenere una relativa stabilità interna nonostante
le differenze tra i suoi gruppi costituenti.
Mujica ha attribuito queste deviazioni in altri Paesi al personalismo e
all’allontanamento di molti leader dai movimenti sociali e dalle maggioranze che
li hanno portati al potere.
Ricorda Montoya che Pepe, negli ultimi anni ha finito per essere molto critico
non solo nei confronti di Daniel Ortega, seguendo la deriva dittatoriale del
vecchio leader del FSLN, o di Nicolás Maduro, che considerava aver tradito
l’ideologia chavista; ma si è anche arrabbiato con Cristina Kirchner o Evo
Morales per non aver accettato che “il loro tempo è finito” e ai quali ha
raccomandato di farsi da parte e passare il testimone alle nuove generazioni.
Dopo la sua presidenza, Mujica è diventato una figura mondiale: è stato
mediatore nel processo di pace tra le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia
e il governo colombiano.
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Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, il Pkk, ha annunciato di avere tenuto a
inizio maggio il 12/mo congresso, che ha deciso di sciogliere la struttura
organizzativa e porre fine alla lotta armata. Il Pkk, in una dichiarazione
scritta, ha dato quindi sostanza all’appello lanciato a febbraio dal leader
Abdullah Ocalan (da 26 anni rinchiuso nell’isola carcere di Imrali) per una
soluzione politica e non militare del conflitto pluridecennale con Ankara.
“Tutte le attività sotto il nome di Pkk sono terminate”, si legge nella
dichiarazione conclusiva del congresso.
Da capire ora la risposta di Erdogan, visto che tra le condizioni del Pkk c’è la
possibilità che sia lo stesso Ocalan a condurre la nuova fase politica, fuori
quindi dal carcere, con contestuale disarmo in tre fasi, vigilato da esponenti
delle Nazioni Unite. La dichiarazione del PKK non riguarda, infatti, solo la
Turchia; sono molti altri i Paesi – Siria, Iraq e Iran in particolare – che
saranno in qualche modo coinvolti dalla svolta politica della lotta di
liberazione, curda ma non solo, così come delineata dal “nuovo paradigma”
confederale dello stesso Ocalan.
Nella mattina di lunedì 12 maggio Radio Onda d’Urto ne ha parlato con Michele
della redazione e Murat Cinar, giornalista turco che vive in Italia Ascolta o
scarica
Duran Kalkan, del comitato esecutivo del Pkk, aprendo il congresso ha infatti
affermato: “Questo congresso è diverso dagli altri. In un certo senso, può
essere paragonato al nostro primo congresso. Si tiene per concludere e collocare
storicamente, in maniera corretta, l’esperienza del Pkk. Ma questo non è il fine
ultimo; piuttosto, l’obiettivo è creare spazio per nuove iniziative e
opportunità”. Anche di questo aspetto abbiamo parlato con Jacopo Bindi,
dell’Accademia della Modernità Democratica, nell’intervista realizzata da Radio
Onda d’Urto nel pomeriggio di lunedì 12 maggio 2025. Ascolta o scarica.
Di seguito, la traduzione del comunicato dell’agenzia di stampa filo-curda, Anf,
tradotto dalla redazione di Radio Onda d’Urto. Ascolta o scarica
Tradotto da
https://anfenglishmobile.com/kurdistan/pkk-final-declaration-activities-under-the-pkk-name-have-ended-79294
Il 12° Congresso del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ha rilasciato
la seguente dichiarazione: “Il processo avviato dalla dichiarazione del leader
Abdullah Öcalan il 27 febbraio, e ulteriormente plasmato dal suo ampio lavoro e
dalle sue prospettive multidimensionali, è culminato nel 12° Congresso di
Partito, convocato con successo tra il 5 e il 7 maggio.
Nonostante gli scontri in corso, gli attacchi aerei e di terra, il continuo
assedio delle nostre regioni e l’embargo del KDP, il nostro congresso si è
svolto in condizioni di sicurezza in condizioni difficili. A causa di problemi
di sicurezza, il congresso si è svolto contemporaneamente in due luoghi diversi.
Con la partecipazione di 232 delegati in totale, il 12° Congresso del PKK ha
discusso di leadership, martiri, veterani, struttura organizzativa del PKK e
lotta armata e costruzione di una società democratica, culminando in decisioni
storiche che segnano l’inizio di una nuova era per il nostro movimento di
libertà.
Cessano tutte le attività sotto il nome del PKK
Il 12° Congresso straordinario ha valutato che la lotta del PKK ha smantellato
le politiche di negazione e annientamento imposte al nostro popolo, portando la
questione curda a un punto in cui può essere risolta attraverso la politica
democratica. Ha concluso che il PKK ha compiuto la sua missione storica. Su
questa base, il 12° Congresso ha deciso di sciogliere la struttura organizzativa
del PKK e di porre fine alla lotta armata, con il processo di attuazione che
sarà gestito e guidato dal leader Apo [Abdullah Öcalan]. Tutte le attività
condotte sotto il nome del PKK sono state quindi terminate.
Il nostro partito, il PKK, è emerso come movimento per la libertà dei curdi in
opposizione alle politiche di negazione e annientamento radicate nel Trattato di
Losanna e nella Costituzione del 1924. Influenzato dal socialismo reale al suo
inizio, ha abbracciato il principio dell’autodeterminazione nazionale e ha
portato avanti una lotta legittima e giusta attraverso la resistenza armata. Il
PKK si è formato in condizioni dominate da politiche aggressive di negazione,
annientamento, genocidio e assimilazione dei curdi.
Dal 1978, il PKK ha condotto una lotta per la libertà volta a garantire il
riconoscimento dell’esistenza curda e a stabilire la questione curda come realtà
fondamentale della Turchia. Grazie al successo di questa lotta, il nostro
movimento ha realizzato una rivoluzione di resurrezione per il nostro popolo,
diventando un simbolo di speranza e di vita dignitosa per i popoli della
regione.
Negli anni ’90, periodo di grandi conquiste per il nostro popolo, il presidente
turco Turgut Özal iniziò a cercare una soluzione politica alla questione curda.
In risposta, il Leader Apo dichiarò un cessate il fuoco il 17 marzo 1993, dando
il via a una nuova fase. Tuttavia, il collasso del socialismo reale,
l’imposizione di tattiche di tipo brigatista alla nostra strategia di guerra e
l’eliminazione di Özal e della sua squadra da parte dello Stato profondo hanno
sabotato questa iniziativa. Lo Stato intensificò le sue politiche di negazione e
annientamento, intensificando la guerra. Migliaia di villaggi sono stati
evacuati e bruciati; milioni di curdi sono stati sfollati; decine di migliaia
sono stati torturati e imprigionati; e migliaia sono stati uccisi in circostanze
sospette.
In risposta, il Movimento per la Libertà crebbe sia in termini di dimensioni che
di capacità. La guerriglia si diffuse in tutto il Kurdistan e in Turchia.
L’impatto della guerriglia portò il popolo curdo a sollevarsi in rivolte di
massa (serhildan), trasformando la guerra nell’opzione principale per entrambe
le parti. L’escalation bellica che ne derivò non poté essere invertita e gli
sforzi del leader Apo per risolvere la questione curda con mezzi democratici e
pacifici alla fine fallirono”.
Ricostruire le relazioni turco-curde è inevitabile.
Il processo è entrato in una fase diversa con la cospirazione internazionale del
15 febbraio 1999. In questo processo, uno degli obiettivi principali della
cospirazione, una guerra curdo-turca, è stato impedito grazie ai grandi
sacrifici e agli sforzi del leader Apo. Nonostante fosse stato detenuto nel
sistema di tortura e genocidio di Imralı, ha persistito nella ricerca di una
soluzione democratica e pacifica alla questione curda. Per 27 anni, il leader
Apo ha resistito al sistema di annientamento di Imralı, vanificando la
cospirazione internazionale. Nella sua lotta, ha analizzato il sistema
statalista dominato dagli uomini e guidato dal potere e ha sviluppato un
paradigma per una società democratica, ecologica e orientata alla libertà delle
donne. In questo modo, ha materializzato un sistema di libertà alternativo per
il nostro popolo, le donne e l’umanità oppressa.
Il leader Apo, riferendosi al periodo precedente al Trattato di Losanna e alla
Costituzione del 1924, in cui le relazioni curdo-turche divennero problematiche,
ha proposto un quadro per la risoluzione della questione curda basato sulla
Repubblica Democratica di Turchia e sul concetto di Nazione Democratica, fondato
sull’idea di una Patria Comune e di popoli co-fondatori. Le rivolte curde nel
corso della storia della Repubblica, la dialettica curdo-turca lunga 1000 anni e
i 52 anni di lotta per la leadership hanno dimostrato che la questione curda può
essere risolta solo sulla base di una Patria Comune e di una cittadinanza
paritaria. Gli attuali sviluppi in Medio Oriente, nell’ambito della Terza Guerra
Mondiale, rendono inoltre inevitabile la ristrutturazione delle relazioni
curdo-turche.
Il nostro popolo comprenderà lo scioglimento del PKK e la fine della lotta
armata meglio di chiunque altro e si assumerà i doveri di quest’era.
Il nostro onorato popolo, che ha aderito al percorso della leadership e del PKK
per 52 anni a caro prezzo, opponendosi a politiche di negazione, annientamento,
genocidio e assimilazione, sosterrà il processo di pace e di una società
democratica in modo più consapevole e organizzato. Crediamo fermamente che il
nostro popolo comprenderà la decisione di sciogliere il PKK e porre fine al
metodo della lotta armata meglio di chiunque altro e si assumerà le
responsabilità dell’era della lotta democratica, basata sulla costruzione di una
società democratica. È di vitale importanza che il nostro popolo, guidato da
donne e giovani, costruisca le proprie auto-organizzazioni in tutti gli ambiti
della vita, si organizzi sulla base dell’autosufficienza attraverso la propria
lingua, identità e cultura, si autodifenda di fronte agli attacchi e costruisca
una società democratica comunitaria con spirito di mobilitazione. Su questa
base, crediamo che i partiti politici curdi, le organizzazioni democratiche e i
leader d’opinione adempiranno alle loro responsabilità per promuovere la
democrazia curda e la nazione democratica dei curdi. Grazie all’eredità della
nostra storia di libertà, lotta e resistenza, e alle decisioni del XII Congresso
del PKK, il percorso politico democratico si svilupperà con maggiore forza e il
futuro dei nostri popoli progredirà basandosi su principi di libertà e
uguaglianza. I poveri e i lavoratori, tutti i gruppi religiosi, le donne e i
giovani, i lavoratori, i contadini e tutti i segmenti esclusi rivendicheranno i
propri diritti e svilupperanno una vita comune in un ambiente giusto e
democratico.
Invitiamo tutti a unirsi al processo di pace e di società democratica.
La decisione del nostro Congresso di sciogliere il PKK e porre fine al metodo
della lotta armata offre una solida base per una pace duratura e una soluzione
democratica. L’attuazione di queste decisioni richiede che il Leader Apo conduca
e guidi il processo, che il suo diritto alla politica democratica sia
riconosciuto e che vengano stabilite solide e complete garanzie legali. In
questa fase, è essenziale che la Grande Assemblea Nazionale della Turchia svolga
il suo ruolo con responsabilità storica. Allo stesso modo, invitiamo il governo,
il principale partito di opposizione, tutti i partiti politici rappresentati in
parlamento, le organizzazioni della società civile, le comunità religiose e di
fede, i media democratici, i leader d’opinione, gli intellettuali, gli
accademici, gli artisti, i sindacati, le organizzazioni femminili e giovanili e
i movimenti ecologisti ad assumersi la responsabilità e ad unirsi al processo di
pace e di una società democratica.
Il coinvolgimento delle forze socialiste di sinistra turche, delle strutture
rivoluzionarie, delle organizzazioni e degli individui nel processo di pace e di
una società democratica eleverà la lotta dei popoli, delle donne e degli
oppressi a un nuovo livello. Ciò significherà il raggiungimento degli obiettivi
dei grandi rivoluzionari le cui ultime parole furono: “Lunga vita alla
fratellanza dei popoli turco e curdo e a una Turchia pienamente indipendente!”.
Con il Socialismo della Società Democratica che rappresenta una nuova fase nel
processo di pace e di una società democratica e nella lotta per il socialismo,
il movimento democratico globale avanzerà e un mondo giusto e paritario
emergerà. Su questa base, invitiamo l’opinione pubblica democratica, in
particolare i nostri compagni che guidano la Global Freedom Initiative, ad
ampliare la solidarietà internazionale nel quadro della teoria della modern ità
democratica.
Invitiamo le potenze internazionali a riconoscere le proprie responsabilità
nelle politiche di genocidio che durano da un secolo contro il nostro popolo, a
non ostacolare una soluzione democratica e a contribuire costruttivamente al
processo.
Annunciamo il martirio di Ali Haydar Kaytan e Riza Altun
Il nostro 12° Congresso del PKK, convocato su appello della nostra leadership,
ha proclamato il martirio di Fuat-Ali Haydar Kaytan, uno dei quadri dirigenti
del nostro partito, martirizzato il 3 luglio 2018, e del compagno Riza Altun,
martirizzato il 25 settembre 2019. Su questa base, ha riconosciuto il compagno
Fuat-Ali Haydar Kaytan, uno dei quadri dirigenti fondatori del PKK, come simbolo
di “Lealtà al Leader, Verità e Vita Sacra”, e il compagno Riza Altun, uno dei
primi compagni del Leader Apo, come simbolo di “Libertà e Cameratismo”.
Dedichiamo il nostro storico XII Congresso del Partito a questi due grandi
compagni martiri che ci hanno guidato dall’inizio del nostro Movimento per la
Libertà fino a oggi con la loro lotta ininterrotta. In loro nome, rinnoviamo la
nostra promessa a tutti i martiri della lotta e affermiamo il nostro impegno a
realizzare i sogni della compagno martire di Pace e Democrazia Sırrı Süreyya
Önder.
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La Commissione Bilancio valuta favorevolmente l’acquisto di tecnologia militare
israeliana. La seduta è durata 5 minuti: non viene mai citata la Israel
Aerospace Industries (IAI) e la sua divisione ELTA Systems che forniscono la
tecnologia militare. Ma i deputati lo sanno?
di Alex Zanotelli da il manifesto
Devo purtroppo constatare che in Parlamento bastano cinque minuti per votare
milioni di euro da destinare a nuove tecnologie di guerra. È quanto avvenuto
nella Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, dove, senza alcun vero
dibattito, è stato approvato lo schema di decreto ministeriale SMD 19/2024. Si
tratta della prosecuzione di un programma militare di lungo periodo per la
dotazione di sofisticati sistemi «Multi-Missione Multi-Sensore» (MMMS) montati
su aerei Gulfstream G550. Stiamo parlando dell’Atto del Governo n. 264
sottoposto a parere parlamentare. Il suo esame è durato dalle ore 13.40 alle
13.45 del 6 maggio.
Tutto questo, ripeto, in cinque minuti. E con un silenzio assordante su un fatto
gravissimo: la tecnologia alla base di questi sistemi è israeliana. Una
tecnologia nata da decenni di occupazione, repressione e controllo militare su
un intero popolo.
Mentre a Gaza si muore, mentre l’opinione pubblica internazionale si interroga
sui crimini di guerra di Netanyahu, l’Italia rafforza i suoi legami militari con
l’apparato bellico israeliano. E lo fa nel modo peggiore: senza trasparenza,
senza discussione, senza che i parlamentari stessi – in molti casi – siano
pienamente consapevoli di ciò che stanno votando. Infatti nei resoconti
parlamentari viene omessa la parola Israele. Non viene scritto che queste
tecnologie vengono da Israele, dal suo complesso industriale-militare.
In questo Atto di Governo n. 264 si perpetua la segretezza, e questo lo si
riscontra nel linguaggio criptico degli atti parlamentari, nei tempi compressi
che impediscono ogni approfondimento.
Come cittadino, come credente, come testimone della sofferenza umana, non posso
tacere. Questo voto frettoloso e opaco è una ferita alla democrazia. È un
insulto al dolore delle vittime dei conflitti armati. È un tradimento dei valori
di pace, giustizia e solidarietà che dovrebbero guidare le scelte pubbliche.
È assurdo che questo accordo commerciale militare avvenga in un momento in cui
si sta consumando la tragedia di Gaza.
Mentre un popolo rischia di scomparire sotto le bombe, l’Italia stringe accordi
con Israele per rendere ancora più terribile e devastante la guerra. Dovremmo
boicottare il governo di Netanyahu e invece acquistiamo i sistemi d’arma
israeliani.
Chiedo ai parlamentari di risvegliarsi dal torpore. Chiedo ai cittadini di
informarsi, di vigilare, di opporsi. Chiedo alla stampa di fare il suo dovere e
di informare. E chiedo, infine, alla coscienza collettiva di interrogarsi: in
silenzio stiamo per acquistare da Israele delle tecnologie di morte.
Diciamo stop, contattiamo i parlamentari, poniamoli di fronte alle loro
responsabilità! E boicottiamo l’apparato bellico di Israele.
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