Source - Osservatorio Repressione

Il Pkk depone le armi, la Turchia no
Mentre il movimento di liberazione curdo depone le armi e si impegna per una soluzione politica del conflitto, Ankara continua a riarmarsi di Gianni Sartori Ovviamente il mio auspicio è che la questione si risolva alla sudafricana (con la liberazione dei prigionieri, la fine delle discriminazioni, la possibilità per il movimento di liberazione di svolgere attività politica legale senza subire la solita, sistematica repressione…) e non alla colombiana (con ritorsioni, esecuzioni extragiudiziali nei confronti di decine di ex combattenti. sindacalisti, indigeni, oppositori …). Quindi, per rispetto alla lotta di autodeterminazione condotta dal popolo curdo e agli innumerevoli caduti, non mi permetterei mai di criticare (oltretutto comodamente da casa) la decisione del PKK di auto-scioglimento e di consegna delle armi dopo l’appello in tal senso di Abdullah Öcalan. Tuttavia permane una buona dose di inquietudine in quanto la nuova situazione potrebbe fornire a Erdogan & C. la possibilità per risolvere la questione una volta per tutte. A modo suo naturalmente. Attaccando – direttamente o indirettamente, gli ascari non gli mancano – un movimento curdo non proprio inerme, ma comunque disarmato. Preoccupa in tal senso il comunicato del ministero della Difesa turco del 15 maggio. Con cui si certifica che l’esercito turco proseguirà nelle sue operazioni contro il PKK “fino a quando la regione sarà ripulita”. In riferimento alle aree del nord Iraq  (Bashur) dove si concentra maggiormente la guerriglia curda. Come appunto ha poi confermato in conferenza stampa un portavoce del ministero, le operazioni militari turche “nelle zone utilizzate dall’organizzazione terrorista separatista PKK proseguiranno con determinazione fino quando la regione sarà ripulita e non costituiràpiù una minaccia per il nostro paese”.  Stando alle prime indiscrezioni, i servizi segreti turchi supervisioneranno la raccolta delle armi del PKK con la collaborazione delle forze irachene e siriane, ma “senza la partecipazione di osservatori internazionali dell’ONU” (come invece chiedevano i curdi). L’esercito turco controlla decine di posizioni nel nord dell’Iraq (nel Kurdistan autonomo) da dove per anni ha colpito sistematicamente le zone dove è presente il PKK. E – sempre in conferenza stampa – si è ribadito di voler continuare – nonostante la dissoluzione del PKK – a colpire rifugi, grotte e postazioni dove si trovano i curdi.  “Lo smantellamento del PKK deve avvenire senza alcun ritardo” ha ripetuto il portavoce del ministero. Paradossalmente, mentre i curdi “disarmano”, lo Stato turco pare intenzionato ad aumentare ulteriormente le sue già ingenti spese militari. Secondo il sito Yeni Özgür Politika la Turchia sarebbe in procinto di acquistare dagli USA missili ed equipaggiamento per 304 milioni di dollari. Si tratta di una sessantina di missili AIM-9X Sidewinder Block II, di missili aria-aria di media portata AIM-120C-8 e di undici attrezzature di guida tattica . Manca soltanto l’approvazione del Congresso statunitense, mentre esiste già quella alla vendita da parte del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Per il Pentagono questi missili dovrebbero garantire maggiore difesa aerea sia alla Turchia (fantasiosamente definita una “forza importante per la stabilità politicaed economica in Europa”) che al personale statunitense qui presente.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp    
Dal mondo
Il Csm dice no al decreto sicurezza: “Rischi per la democrazia”
Il Csm approva un parere critico sul decreto sicurezza, che però non è vincolante: il ricorso accentuato allo strumento penale, “declinato nelle due forme dell’inasprimento delle pene attualmente previste e dell’introduzione di nuove fattispecie di reato”, rischia di avere un impatto “sul carico di lavoro e sull’assetto organizzativo degli uffici” di Mario Di Vito da il manifesto L’impatto che avrà il decreto sicurezza sui tribunali “non è prevedibile”, ma di sicuro ci saranno ripercussioni “sul carico di lavoro e sull’assetto organizzativo degli uffici”. Lo dice il Consiglio superiore della magistratura in un parere approvato ieri dal plenum. Al di là dei numeri con cui è passato il documento (19 favorevoli, 4 contrari e un astenuto) la discussione è stata di quelle pesanti. L’opinione dell’organo di governo autonomo delle toghe, infatti, non era richiesta, né ha un valore vincolante. E però ha indubbiamente un suo ruolo nel dibattito che circonda le nuove disposizioni in materia di ordine pubblico e sicurezza, da un anno e mezzo ormai in parlamento. Dove, nonostante il testo sia sempre stato blindatissimo e nessuno sia mai riuscito a emendarlo davvero, continua a languire in attesa di approvazione. Il problema che più si evidenzia nel “parere critico” verso il decreto è il ricorso quasi indiscriminato al codice penale. Si rileva infatti che è “acclarato” il fatto che “in linea di principio” sono solo gli “interventi ispirati alla logica opposta della depenalizzazione” a “favorire una migliore efficacia dell’organizzazione”, mentre nel decreto sicurezza “è presente un ricorso accentuato allo strumento penale” in termini di inasprimento delle pene e introduzione di nuove fattispecie di reato. Il discorso è semplice: più sono i reati da perseguire e più gli organi inquirenti vedono aumentare la quantità di carte sulle loro scrivanie. Il risultato finale non è difficile da immaginare. “Senza nessuna pretesa di invadere l’ambito riservato esclusivamente al legislatore – ha detto durante il plenum la prima presidente della Cassazione Margherita Cassano – penso sia doveroso da parte del Csm, in un’ottica di leale collaborazione tra autorità dello Stato, richiamare l’attenzione in sede di conversione sulle ricadute che rischiano di avere pesanti effetti per gli uffici giudiziari”. Il problema, per Cassano, è che “se continuano a essere emanate una pluralità di leggi spesso sullo stesso ambito di materia, in un breve arco di tempo, senza risolvere preventivamente a livello legislativo il tema, non solo del coordinamento di queste disposizioni, ma su quale deve essere l’ambito effettivo dell’intervento penale, si provocano ricadute con effetti dirompenti sul sistema giudiziario”. Un concetto simile l’ha espresso anche il consigliere laico Michele Papa: “L’espansione incontrollata del diritto penale simbolico finisce per snaturare la funzione stessa della legislazione, trasformandola in un mero veicolo di comunicazione mediatica incapace di incidere realmente sui fenomeni criminali e, soprattutto, di garantire il cittadino dai rischi di arbitrari interventi punitivi”. Perplessità sono arrivate anche dalla destra togata. La consigliera di Magistratura indipendente Bernadette Nicotra ha infatti espresso forti perplessità “sul metodo” della “decretazione d’urgenza in materia penale, non solo da parte di questo governo. Mi chiedo se effettivamente ci fosse necessità e urgenza per questo intervento”. Tullio Morello di Area pure ha affondato il colpo. “Che paese stiamo diventando – ha detto -. A queste parole si può aggiungere un punto esclamativo, un punto interrogativo o i puntini di sospensione. Io penso che siamo un paese molto diviso e il paese invece ha bisogno di unirsi”. I consiglieri laici della destra hanno votato contro. Ma non in maniera compatta, perché Felice Giuffré, eletto in quota Fratelli d’Italia, si è astenuto. Per il resto, la tristemente consueta difesa del governo al Csm si è limitata a sottolineare come il documento partorito dal plenum non abbia in realtà un peso formale. “Questo parere non serve a nulla – ha detto Bertolini annunciando il suo voto contrario – potevamo spendere meglio le nostre energia”. Magari, cioè, evitando proprio l’argomento. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
misure repressive
Libertà per Tarek, Anan, Ali e Mansour. Libertà per il popolo palestinese
Appello in solidarietà a Tarek Dridi, Anan, Alì e Mansour. Mercoledì 21 si invitano tutt a partecpare al presidio in solidarietà al tribunale a L’Aqula per il procecesso di Anan, Alì e Mansour, mentre giovedì 22 al faro del gianicolo si porterà solidarietà a Tarek chiuso tra le mura del carcere di Regina Coeli. Arrivato dalla Tunisia nel 2008 a 25 anni, in questo momento Tarek si trova nel carcere di Regina Coeli, arrestato in differita per la manifestazione del 5 ottobre in solidarietà con il genocidio della popolazione palestinese nella striscia di Gaza. Il 14 aprile è stato condannato a 4 anni e 8 mesi con rito abbreviato. Gli si contesta il reato di resistenza, di aver lanciato bottiglie e aver attaccato il plotone con un ombrello, tutti fatti che non vengono però comprovati dai video. Libertà per Tarek,Anan, Ali e Mansour Il 5 ottobre è piovuto tantissimo. Finita la pioggia, i lacrimogeni: hanno fatto di tutto per impedire che il sole illuminasse le bandiere della Palestina. Hanno fatto di tutto affinché in quella giornata, a Roma, non ci fosse una manifestazione contro il genocidio. Hanno fatto di tutto e nonostante ciò, non ci sono riusciti. Lo Stato italiano ha scelto quel giorno da che parte stare, ma lo ha scelto anche il giorno in cui ha deciso di arrestare Anan, Ali e Mansour, perché facenti parte della resistenza palestinese. È chiara la scelta di campo. In un contesto generale così radicale, fatto di migliaia di morti, altrettanti che resistono e lo Stato italiano che attacca la solidarietà, non c’è spazio per ambiguità. Ci possono essere differenze, diversi modi, ma è indubbia la scelta di campo e il processo al quale appartengono. Non è filosofia quanto realtà concreta. La storia di Tarek racconta questa realtà qui: molto chiara, molto concreta, molto ingiusta. Un ragazzo tunisino, arrivato in Italia nel 2008 e che il 5 ottobre, quando ha visto la polizia caricare le bandiere della Palestina, non ha avuto dubbi su che parte prendere. Si è messo in mezzo, come poteva, come ha creduto più opportuno. Racconta la storia di un ragazzo come tanti, uno dei tanti dannati di questa terra, che in quanto tale, per un reato di resistenza, è stato condannato a 4 anni e 8 con rito abbreviato (più di quanto avesse chiesto il pm). Tarek è la storia di questo tempo, di questa democrazia coloniale, perché non è ricco, non è bianco, non ha reti di solidarietà, e quel giorno ha preso parte a una manifestazione per la Palestina in cui ci sono stati scontri con le f.d.o. Quanto basta per esercitare tutta la (“legittima”) violenza di uno Stato occidentale e colonialista. Quello che però racconta quella giornata è anche un’altra realtà, fatta di persone che a questo stato di cose non ci stanno. Che contro i valori razzisti e prevaricatori di questo mondo hanno sfidato i filtri della polizia, preso le botte, respirato l’odore acre dei lacrimogeni. Dire che in quella piazza c’eravamo tutti e tutte non è solo uno slogan, eravamo realmente tantissim*. Come anche tantissime sono le persone che in piazza non sono mai riuscite ad arrivare, a causa della militarizzazione della città, ma quel giorno c’erano ugualmente. L’obiettivo della giornata era fare un corteo per la città, gli scontri, poi, sono stati l’inevitabile conseguenza. I filtri della polizia all’ingresso della piazza, la politica sorda che, per impedire la giornata, fa una levata di scudi unitaria, l’informazione che stigmatizza le ragioni. Nulla di nuovo, l’aspetto inedito è stata la quantità, e la determinazione, delle persone che quel giorno sono scese in strada. Lo Stato italiano ha scelto da che parte stare, e per difendere la propria ragione è disposto a tutto. Ad esempio approva, sotto forma di decreto, quello che era il ddl1660, ennesimo passaggio che riduce gli spazi di libertà. Quel giorno la realtà è stata chiara: la libertà non si concede, si prende a spinta. CI VEDIAMO MERCOLEDÌ 21 MAGGIO ORE 9:30 AL TRIBUNALE A L’AQUILA PER IL PROCESSO DI ANAN, ALÌ E MANSOUR. CI VEDIAMO GIOVEDÌ 22 MAGGIO ORE 17:30 AL FARO DEL GIANICOLO PER ROMPERE IL SILENZIO E PORTARE SOLIDARIETÀ A TAREK. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp    
lotte sociali
La Calabria di Occhiuto volta le spalle alle vittime di Cutro. E obbedisce a Salvini.
Salvini chiede, la Calabria esegue. Il cambio di marcia della giunta calabrese sulla costituzione di parte civile nel processo sulla strage dei migranti è dettato dalle pressioni del vicepremier sul presidente della giunta regionale  Occhiuto di Tiziana Barillà Nell’aula del Tribunale di Crotone, dove è in corso il processo per i mancati soccorsi che hanno portato alla strage di Cutro, si tiene il processo a carico di quattro finanzieri e due ufficiali della Guardia costiera, accusati di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo. Nessuno – spero – ha dimenticato che il 26 febbraio 2023, il caicco “Summer love” si è schiantato nella secca a un chilometro dalla costa calabrese. Di quella strage non sappiamo nemmeno il numero dei dispersi, abbiamo contato i 94 corpi che hanno raggiunto la spiaggia di Steccato di Cutro, senza vita. Di quei morti, 35 erano bambini, persino le bare bianche erano finite. Quello che sappiamo – invece – è che ritardi e inerzie, hanno rappresentato una “grave negligenza, imprudenza, imperizia” da parte dei militari imputati che hanno violato, secondo i pm, la normativa europea e nazionale in materia di soccorsi in mare. Il 12 maggio si è tenuta l’udienza preliminare, con 113 richieste di costituzione di parte civile: i familiari delle vittime e i superstiti, le associazioni e le organizzazioni non governative. Ma le istituzioni no. La Regione Calabria no, né i Comuni di Crotone e di Cutro. Figuriamoci il governo di Meloni, Salvini e Piantedosi. Dopo aver loro voltato le spalle in mare, negando il soccorso, lo Stato, la Regione e i Comuni interessati hanno voltato le spalle alle vittime di Cutro, ai loro familiari e ai superstiti, anche in Tribunale. La mancata costituzione di parte civile del governo era scontata, vista l’assoluzione d’ufficio garantita ai militari dal governo ancora prima che la Procura di Crotone e i Carabinieri concludessero le indagini. Ma i Comuni interessati? E la Calabria di Roberto Occhiuto – lo stesso che si è battuto il petto in quelle ore e nelle cerimonie successive? Roberto Occhiuto, se possibile, ha fatto ancora peggio del governo vergognosamente coerente. Fino a poco prima dell’udienza, la Regione Calabria era l’unico ente ad aver chiesto di essere inserito tra le parti offese. Poi, ha fatto marcia indietro per sopperire al disappunto dell’Usim, il sindacato della guardia costiera, e al rimprovero di Matteo Salvini. La Regione si è rimangiata tutto con una nota imbarazzata e imbarazzante, appellandosi a un errore: credevano fosse un processo contro gli scafisti, non contro i militari! Occhiuto, insomma, ha parlato di errore ma il sindacato dei militari ha rivendicato il successo politico suo e di Salvini. Roma ordina, Catanzaro obbedisce. Come da copione, di una tragica e classica abitudine meridionale. Manza un anno alle elezioni regionali, tra lotte intestine e un’eterna campagna elettorale da portare avanti, la retorica della Calabria straordinaria panacea di ogni problema, non basta più. Se c’è da impugnare il bastone, si impugni. Tanto più se bisogna puntarlo contro centinaia di disperati, che manco votano. La Calabria è un’altra cosa. Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
migranti
A Putignano (Bari), bandiera palestinese fatta rimuovere dal balcone per il passaggio del Giro d’Italia
La polizia fa togliere la bandiera della Palestina dal balcone: “Deve passare il Giro d’Italia” È successo a Putignano (Bari), in Puglia: a denunciarlo Sofia Mirizzi, proprietaria della casa. Deve passare il Giro d’Italia, vietato esporre bandiere della Palestina. Anche se sono su un balcone di proprietà privata. Questa è la linea seguita dalla polizia a Putignano, in Puglia Così succede che a Putignano, comune di 25 mila abitanti in provincia di Bari famoso per il suo carnevale, le forze dell’ordine bussino alla porta di una residente chiedendo di rimuovere quella bandiera. Senza altre spiegazioni. La denuncia di Sofia Mirizzi La denuncia è arrivata dall’interessata, Sofia Mirizzi, che sui social ha spiegato quanto avvenuto: “Oggi (ieri, 13 maggio, ndr.) la polizia è salita a casa nostra per chiederci di rimuovere la bandiera della Palestina esposta sul nostro balcone privato. Non stavamo disturbando nessuno. Non stavamo violando alcuna legge. Stavamo semplicemente esercitando il nostro diritto di espressione in uno spazio che ci appartiene. Ci è dato ad intendere – ha aggiunto – che la bandiera doveva essere tolta perché il Giro d’Italia sarebbe passato proprio sotto casa nostra e la bandiera sarebbe stata inquadrata dalle telecamere nazionali”. Poi, nel suo post di denuncia, Mirizzi continua con due domande: “Da quando esporre una bandiera che rappresenta un popolo e una causa umanitaria è diventato motivo d’intervento delle forze dell’ordine? In quale momento il sostegno civile e pacifico a un popolo sotto occupazione è diventato un problema di ordine pubblico? Chiediamo chiarezza, rispetto e il riconoscimento di un principio fondamentale in una democrazia – ha concluso –. Nessuno dovrebbe essere intimidito per aver espresso la propria solidarietà in modo pacifico e legittimo”. Un episodio inquietante e di enorme gravità. Dopo Il 25 aprile ad Ascoli dove uno striscione antifascista era stato fatto rimuovere alla fornaia che lo aveva esposto e a Mottola (Taranto) 10 cittadini sono stati identificati per aver intonato “Bella Ciao”, a Roma attivisti della Cgil fermati per un volantinaggio sui referendum ora questo nuovo episodio che ci dice chiaramente che siamo dentro uno Stato di polizia dove non sia più consentito neanche esporre una bandiera dal balcone se questa non è gradita al governo. Tra qualche settimana (il 26 maggio è prevista la votazione alla Camera) il decreto sicurezza sarà convertito in legge. Iniziamo concretamente a disobbedire esponendo le bandiere Palestinesi in ogni balcone come atto di solidarietà alla Palestina e contro lo Stato di Polizia     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
lotte sociali
Stati Uniti: arrestati per dissenso!
Negli USA il rifiuto di collaborare con il governo nella caccia ai migranti ha provocato l’arresto di un sindaco e di un giudice e il taglio dei fondi federali ai comuni renitenti. Una virata autoritaria in cui nessuno può più sentirsi al sicuro. di Elisabetta Grande da Volere la Luna Quanto nell’era Trump la pura forza bruta si stia dispiegando senza freni contro chiunque si ponga come ostacolo ai piani del governo è parso drammaticamente evidente venerdì 9 maggio, quando gli agenti dell’Immigration and Custom Enforcement (ICE) hanno arrestato il sindaco di Newark, in New Jersey, per aver osato protestare contro l’apertura e l’uso di un centro di detenzione privato per migranti, illegale in base alle regole dello Stato del New Jersey e della città. Insieme ad alcuni rappresentanti al Congresso federale e ad altri esponenti della società civile, il sindaco Ras Baraka era davanti ai cancelli per dimostrare la propria contrarietà all’uso da parte del governo federale della struttura, data di recente in appalto per la gestione dei migranti a una delle più grandi e famigerate società private del mondo della carcerazione, la GEO – un tempo Wackenhut – Corporation. Aperta per contenere e deportare – secondo i piani governativi – 1000 migranti alla volta, il centro è però in contrasto tanto con una legge dello Stato del New Jersey, firmata dal governatore Phil Murphy quattro anni fa (che proibisce l’apertura di centri privati di detenzione per migranti) quanto con i regolamenti cittadini (che prevedono permessi e controlli non rispettati dal centro in questione). La controffensiva federale all’espressione pacifica del più che legittimo dissenso da parte del sindaco è consistita nel suo arresto per violazione di domicilio del centro privato (trespass), nel quale peraltro il sindaco non pare però avesse messo piede. L’obiettivo di un simile uso sconsiderato della forza bruta da parte dell’amministrazione Trump è evidente. Si tratta di reprimere con la paura il dissenso nei confronti dell’operato del Governo, che in questo caso riguarda l’immigrazione, ma che ovviamente potrà nel tempo riguardare qualsiasi altro campo. L’arresto del sindaco di Newark, fa d’altronde il paio con un altro arresto eccellente, come il primo senza precedenti: quello della giudice di contea di Milwakee (Wiscounsin), Hannan Dugan, colpevole di non aver permesso agli agenti dell’ICE di arrestare un imputato chiamato a dibattimento di fronte a lei. Le regole dell’amministrazione locale impongono, infatti, alla polizia – e per estensione ai giudici – di collaborare con gli agenti federali nell’apprensione del migrante solo se c’è un mandato giudiziario e non soltanto amministrativo, come invece era avvenuto nel caso in questione. L’accusa di fronte al giudiziario federale di ostruzione all’attività dell’ICE e di occultamento di un individuo, nonché il plateale arresto della giudice qualche giorno dopo l’accaduto, sono anche in questo caso gli strumenti di deterrenza usati dall’amministrazione Trump per piegare e terrorizzare chiunque – giudici, amministratori locali o cittadini – abbia in mente di opporsi al disegno di deportare in massa i migranti, legalmente o illegalmente poco importa. «Più di 77 milioni di Americani hanno dato al presidente il mandato di deportare i criminali migranti illegali» ha detto Kush Desai, portavoce della Casa Bianca, rivendicando il potere politico del presidente di liberarsi da qualsiasi vincolo il sistema giuridico possa imporgli, siano esse leggi ordinarie o costituzionali, locali, statali o federali. «Chi salva l’America, non può violare la legge» aveva peraltro affermato Trump poco dopo la sua elezione e il tema dell’immigrazione si presenta quale ottimo terreno per sondare la reale possibilità di dichiararsi legibus solutus. È in questo quadro che si inserisce il suo secondo executive order volto a togliere i fondi federali a tutti i comuni che si dichiarino sanctuary city, ossia che si rifiutino di collaborare con il governo federale nell’apprensione dei migranti, emanato quattro giorni dopo che il primo era stato bloccato da un giudice federale e quindi nuovamente bloccato dallo stesso, perché solleva il dubbio che serva «per costringere incostituzionalmente le città e le counties (e altre giurisdizioni analoghe) a cambiare le proprie politiche per conformarsi alla preferenze dell’amministrazione Trump». Si tratta di un duro scontro fra l’amministrazione federale e i limiti provenienti dalla rule of law, che Trump ha messo pesantemente in atto anche a livello federale. Ne sono esempi lampanti le minacce di impeachment al giudice James E. Boasberg, che aveva osato ordinare all’amministrazione Trump di non far partire e poi riportare indietro 200 Venezuelani inviati senza giusto processo nel famigerato CECOT, prigione salvadoregna nota per i suoi metodi contrari ai diritti fondamentali degli individui; o la presa in giro da parte dell’amministrazione Trump della stessa decisione della Corte Suprema che aveva richiesto che fosse facilitato il ritorno di uno di essi, riconosciutamente inviatovi per errore. «Certo» – hanno detto gli avvocati dell’amministrazione alla giudice del Maryland che chiedeva loro l’ottemperanza di quella pronuncia – «se si presenterà al confine faciliteremo senz’altro il suo rientro!». Senza giusto processo, nonostante un orientamento costante della Corte Suprema federale che legge la formula del quinto emendamento della Costituzione – secondo cui nessuno può essere privato della libertà, della proprietà e della vita without a due process of law – come applicabile a tutti, non cittadini compresi, sono stati deportati in tanti, perfino dei bimbi cittadini. Gli arresti e le detenzioni in orridi centri di rimpatrio senza giustificazione e spiegazione (se non il ricorso a un oscura legge del 1952 che consentirebbe al Segretario di Stato di espellere chiunque venga considerato pregiudizievole per i rapporti di politica estera del governo) dei tanti studenti che – come Ozturk o Kahlil, in possesso di un regolare visto o addirittura di un permesso di residenza permanente – hanno protestato pacificamente ed espresso indignazione per la carneficina in atto a Gaza, rappresentano un altro atto di forza per reprimere il dissenso e terrorizzare chi osi criticare od opporsi alle politiche di un presidente che in quanto votato dal popolo ritiene per questo di non avere limiti. In molti si domandano ormai dove sia finito quel sistema americano che si è sempre presentato come paladino delle libertà individuali e del free speech. Ciò tanto più a fronte delle dichiarazioni di Stephen Miller che, al grido di un colpo di stato dei giudici che non lascerebbero fare al presidente e alla sua amministrazione il loro mestiere, minaccia addirittura l’eliminazione dell’habeas corpus, la fondamentale e ancestrale garanzia che nel mondo di common law assicura agli individui il controllo giurisdizionale sulla legittimità della loro detenzione. Così mentre Trump inveisce su X contro chi intende ricondurlo all’interno dei limiti della rule of law («le nostre Corti non mi lasciano fare il lavoro per il quale sono stato eletto»), la sua amministrazione rilancia dichiarandosi libera di deportare i migranti ovunque, anche in Libia, senza previo avviso né esplicita approvazione di un giudice, sia pur dell’immigrazione (parte non del giudiziario ordinario, bensì di quello amministrativo alle dipendenze del dipartimento di giustizia), purché assicurino di non torturali. E mentre la deportazione all’inferno senza giusto processo pare a Trump il modo migliore per assolvere al suo mandato presidenziale, la più antica democrazia costituzionale del mondo si avvia a subire una virata autoritaria in cui nessuno può più sentirsi al sicuro. «Quando viene tolto a qualcuno il fondamentalissimo diritto della libertà, quella persona ha diritto almeno a un processo minimo; altrimenti, tutti noi rischiamo di essere detenuti — e forse deportati — perché qualcuno nel governo pensa che non dovremmo essere qui» scrive in proposito il giudice Vilardo del distretto federale di New York. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Dal mondo
Le anime invincibili di Gaza
Gaza è trasformata in una zona di morte, Gaza è annientata. Un genocidio visibile. Il libro Le anime invincibili di Gaza, prefazione di Moni Ovadia compresa, è contributo nella direzione di una presa di coscienza, per capire da che parte stare.  di Edoardo Todaro da La Città Invisibile Quanto sta avvenendo in Palestina, Gaza e Cisgiordania, è qualcosa a cui mai potevamo pensare di assistere, praticamente in diretta. Crimini di guerra e crimini contro l’umanità vengono commessi su scala mai vista. Non c’è rifugio, non c’è luogo sicuro. I palestinesi vengono bruciati vivi nelle tende. Vengono attirati nei “ luoghi sicuri” e poi bombardati. Vengono lasciati morire di fame, privati di cibo, acqua ed elettricità, condannando così a morte i pazienti degli ospedali. Gaza è trasformata in una zona di morte, Gaza è annientata. Un genocidio visibile, rai ed affini a parte, a chiunque abbia un minimo di interesse nel volersi fare un proprio punto di vista sugli avvenimenti in corso, e nel vedere le immagini che scorrono sul televisore, o meglio sul pc, i sentimenti che si accavallano sono commozione e frustrazione. Sul primo non credo sia necessario dire chissà cosa, ognuno fa i conti con i propri sentimenti, ma la frustrazione è dovuta semplicemente al fatto che stiamo facendo tanto per essere solidali con i palestinesi, ma siamo consapevoli che ancora non facciamo quanto dovremmo. Il libro Le anime invincibili di Gaza, prefazione di Moni Ovadia compresa, lo considero un ulteriore contributo nella direzione di una presa di coscienza, per capire da che parte stare. Hanin Soufan ci porta all’interno di quello che è divenuto un vero e proprio deserto, ci offre una luce nel buio del genocidio, una vera e propria inchiesta sul campo. Il primo contributo riportato si riferisce a coloro i quali con il proprio incessante lavoro sono sotto attacco continuo, da parte delle forze d’occupazione: i giornalisti, che sono odiati da Israele in quanto testimoniano cosa significa raccontare i diritti di un popolo oppresso, una verità che è immortale. Wael Al-Dahdouh che lavora per Al Jazeera ha già passato in carcere 7 anni in occasione della prima Intifada. Un lavoro fatto come fosse una missione, perché il mondo ha bisogno di sapere quanto sta succedendo. Quanto descritto è sotto gli occhi di tutti: nessuna zona definibile sicura; bombardamenti ovunque anche le ambulanze che portano i feriti da parte di quello che in occidente viene definito l’unica democrazia del Medio Oriente, con quello che è ritenuto l’ esercito ritenuto “morale”. Passando alla seconda testimonianza, che dire? Emerge il ruolo delle donne, delle madri che fanno figli, molti figli, come atto di resistenza, delle mogli con i mariti che lavorano nelle colonie israeliane, con le difficoltà, e già definirle così è attenuare cosa vuol dire “difficoltà”, che Gaza subisce per il blocco economico in corso ben prima del 7 ottobre, senza cibo, senza acqua, senza medicine. Dal ’73 c’è uno slogan che ritengo del tutto attuale: “Potremo morire tutti, ma se resterà una donna incinta essa darà alla luce un figlio che libererà la Palestina”. Leggere il terzo contributo, con Ahmad testimone dell’orrore, è come vedere quanto quotidianamente i palestinesi subiscono: non solo i bombardamenti, ma le urla strazianti, i pianti inconsolabili. Gaza: un assedio ininterrotto di massacri, che porta inevitabilmente al genocidio. Gaza meglio morire che “vivere “ nell’inferno. Gli occupanti distruggono tutto perché non è la loro terra. Motal Azaiza, nella quarta testimonianza, ci parla di una Gaza sotto assedio, dimenticata da tutti, dove chi vive è rinchiuso in una gabbia e ciò che è concesso è dato dall’occupazione con il contagocce. Motal si è posto un compito, un compito che l’essere giornalista/testimone impone: portare avanti un’opera di sensibilizzazione, far emergere voci, le voci di chi non ha voce, far emergere la forza e la sofferenza di un popolo. Quindi con Khaled Nebhan, nel contributo seguente, è la speranza, quella speranza che non si piega, ad essere valorizzata, la speranza che vive anche nel campo profughi: un vero e proprio labirinto di sogni, una battaglia l’accesso all’acqua, mangiare carne un lusso, con le giornate che trascorrono lentamente e nonostante tutto questo ciò che conta è che la miseria non divide, ma unisce. Una frase su tutte deve essere da riferimento: “ Non usciremo da qui, accada quel che accada”. Incontrando Nadine, nel sesto, è il ruolo di unità nella resistenza all’oppressione delle comunità religiose; la solidarietà nella lotta che unisce al di là dei riferimenti religiosi, nel sogno di una terra libera dall’oppressione. Vangelo e Corano …. uniti nella lotta. A dispetto dei bombardamenti è la solidarietà che vince. Con Mohammad Abu Salimah, dopo aver visto il ruolo dei giornalisti e dell’informazione, conosciamo il coraggio di un medico sotto assedio: le sfide continue dovute all’imperativo categorico autoimposto del dover salvare vite; l’assenza di medicinali, di carburante, di elettricità, e la lotta quotidiana per la sopravvivenza è la normalità. L’ospedale un luogo di possibile guarigione diviene rifugio per migliaia di sfollati e poi luogo di morte. L’assurdità raggiunta dal governo israeliano nel dichiarare che le autoambulanze e gli ospedali sono un rifugio di Hamas. Ma una cosa su tutto: il popolo Gaza non si piega anche se Israele non rispetta la vita e nemmeno la morte. Avvilire, umiliare, distruggere psicologicamente in questi comportamenti si può riassumere il comportamento degli occupanti. Infine l’atto di accusa, dovuto, verso una comunità internazionale, paesi arabi compresi, complice e che è brava solo ad usare parole di circostanza. Giungiamo all’ottavo contributo, con Israa Jaabis: è l’istinto alla sopravvivenza più forte della disperazione che attrae la nostra attenzione, quell’istinto che si contrappone a quei soldati, occupanti, che non hanno alcuna sensibilità umana. Una insensibilità che si concretizza nella descrizione dei diritti umani negati in carcere. Una parola ci fa capire il modo di porsi rispetto alla resistenza ed al 7 ottobre: la resistenza ha dato un duro colpo all’occupazione. Ci avviamo alla conclusione, con il nono contributo, nel quale ci addentriamo ad esaminare cosa significa la detenzione amministrativa, le torture di ogni tipo alle quali associazioni come Addameer dedicano il loro impegno, cosa significa essere la voce di chi non può parlare e quando sei fuori dal carcere non abbandonare mai chi vi resta e l’idea di una Palestina libera deve essere con animo più determinato che mai. Arriviamo all’ultima parte, sempre con il carcere sotto la lente d’osservazione, vero e proprio luogo di tortura e di sfogo per le guardie, che sono esclusivamente capaci di essere vendicative in particolare quando si sentono messe in difficoltà. Per finire ritengo fondamentale riportare questa frase che dà senso a queste 124 pagine: “Gaza è libera, è il resto del mondo che è sotto occupazione”. Hanin A. Soufan, Le anime invincibili di Gaza. Dieci squarci di luce nell’ombra del genocidio, Editori della luce, 2024,  pp 125, euro 15 Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
recensioni
Addio Pepe Mujica, il guerrigliero che divenne presidente
E’ morto Pepe Mujica lo storico leader dell’Uruguay. Era nato il 20 maggio 1935. Una vita straordinaria, da tupamaro a presidente di Checchino Antonini da Popoff Demetrio perse la sua terra a Casupá durante la crisi degli anni Trenta. Il suo nuovo progetto, il cemento prefabbricato, lo portò nella città coloniale di Carmelo per costruire i capannoni necessari al nuovo progetto. Lì conobbe Lucy, che proveniva da una famiglia piemontese dedita ai vigneti. La nuova famiglia non ha avuto fortuna nemmeno con l’azienda familiare che ha sviluppato su un ettaro situato sul Paso de la Arena, a Montevideo. Alla fine, Lucy e i suoi figli, José e María, rimasero senza il padre, che morì quando i bambini avevano rispettivamente 8 e 2 anni. Tutti e tre vissero “in dignitosa povertà”. Giacche logore, vestiti rattoppati, ma c’era carne da mangiare. E c’era lo zio “Angelito”, che gli fece conoscere la passione per i libri e la politica. José Mujica, per tutti Pepe, lo ha ricordato nel libro di María Ester Gilio “Mujica, de tupamaro a presidente”. José “Pepe” Mujica, storico leader ricordato per la magia delle sue parole, è morto martedì 13 maggio. La vita dell’ex leader uruguaiano è stata un film, come ha scritto Mercedes López San Miguel sull’argentino Pagina12. Pepe, come lo chiamavano tutti in Uruguay, sarà ricordato per la saggezza delle sue parole. Era nato il 20 maggio 1935. Ed è entrato nella storia: un ex guerrigliero tumaparo che il 1° marzo 2010 è diventato presidente del suo piccolo Paese. All’inizio del 2025, Pepe Mujica ha detto addio alla vita pubblica e ha chiesto di poter riposare nell’intimità della sua fattoria, già affetto da un cancro all’esofago in fase molto avanzata. “Quello che chiedo è che mi lascino in pace. Non chiedetemi più interviste o altro. Il mio ciclo è finito. Onestamente, sto morendo. Il guerriero ha diritto al riposo”, ha dichiarato al settimanale Búsqueda. Durante il suo governo, il suo discorso davanti alle Nazioni Unite è stato riprodotto in innumerevoli video su YouTube e la sua figura è stata catapultata con l’avanzamento dell’agenda dei diritti, come la regolamentazione del mercato della cannabis, la depenalizzazione dell’aborto e il matrimonio egualitario, che ha persino generato un costante pellegrinaggio di stranieri alla sua fattoria a Rincón del Cerro. Pepe Mujica ha donato quasi il 90% del suo stipendio da presidente in beneficenza e ha sempre vissuto a vivere nella sua fattoria di Rincón del Cerro, alla periferia di Montevideo, insieme a Lucía Topolansky, allora senatrice e anch’essa ex tupamaro. Una piccola parte del mondo della coppia, che non aveva figli, uno stile di vita semplice, l’amore per il tango e la coltivazione di fiori e ortaggi, è stata raccontata dal regista Emir Kusturica nel documentario “El Pepe, una vida suprema”. Una volta che la sua compagna di sempre sarà morta, la fattoria passerà nelle mani del MPP, il partito che hanno fondato insieme. In una recente intervista al New York Times, l’autorevole quotidiano statunitense lo ha descritto come un “filosofo schietto”. “La vita è bella. Con tutte le sue vicissitudini, amo la vita. E la sto perdendo perché sono nel momento di andarmene”, ha detto Mujica. Alla domanda su come vorrebbe essere ricordato, è stato categorico: “Per quello che sono: un vecchio pazzo che ha la magia della parola”. Una vita da militante Mujica è diventato un attivista da adolescente. “Avevo 14 anni quando ho iniziato a far parte di un gruppo anarchico”, racconta a María Ester Gilio nel libro Pepe Mujica, de tupamaro a presidente (Pepe Mujica, da tupamaro a presidente). Da giovane, dopo un esordio al seguito di Enrique Erro, leader di un settore minoritario del Partito Nazionale intorno al 1956, è stato sempre più coinvolto nei partiti di sinistra ed è diventato marxista. Un marxismo difficile da inquadrare nelle visioni dei socialisti e dei comunisti dell’epoca. Quella di un curioso e avido lettore. In questa ricerca, si unì alla lotta armata con il Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaros, un movimento di guerriglia urbana ispirato alla rivoluzione cubana. Fu imprigionato per la prima volta nel 1964 per il tentato assalto a una filiale dell’azienda Sudamtex e nel 1969 entrò in clandestinità perché la polizia scoprì armi e munizioni che i guerriglieri gli avevano consegnato in custodia. Mujica partecipò alla presa della città di Pando (a Canelones, a pochi chilometri da Montevideo) l’8 ottobre 1969, quando decine di guerriglieri presero il controllo della stazione di polizia, della caserma dei pompieri e altri assaltarono la centrale telefonica e le filiali bancarie. L’operazione durò mezz’ora, tanto durò la fuga e lo scontro con la polizia, che causò la morte di tre tupamaros, un poliziotto e un civile. Una scena in bianco e nero che mette insieme parte della sua vita. Un’altra volta una pattuglia gli sparò sei volte a terra. Fu arrestato più volte. Nel 1971 fu protagonista di un altro momento da film: l’evasione attraverso un tunnel di 111 prigionieri (106 guerriglieri) dal carcere di Punta Carretas, una delle più grandi fughe dalla prigione della storia. Dopo il colpo di Stato del 1973, Mujica divenne ostaggio della dittatura.  Nel libro Memorias del calabozo, Fernández Huidobro ha parlato con Mauricio Rosencof della dolorosa esperienza che hanno vissuto insieme a Raúl Sendic, Jorge Manera, Henry Engler, Adolfo Wasem, Jorge Zabalza e Julio Marenales, che venivano fatti avvicendare tra le caserme. “Una notte del settembre 1973, nove militanti del Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaros furono prelevati di sorpresa da ognuna delle nostre celle nella prigione di Libertad….. Quel lungo viaggio di nove ostaggi della tirannia durò esattamente undici anni, sei mesi e sette giorni”. “Fummo prelevati di sorpresa da ognuna delle nostre celle”, raccontano gli ex guerriglieri Mauricio Rosencof ed Eleuterio Fernández Huidobro nell’introduzione al libro Memorias del calabozo (Ricordi della prigione) nel carcere di Libertad. Nella solitudine del gelido mattino presto di quell’inverno crescente, persino il motore dei camion che ci aspettavano sembrava voler parlare a bassa voce perché gli altri prigionieri (migliaia) non sentissero”. “Fu un trasferimento vergognoso, un trasferimento con la consapevolezza che si stava commettendo qualcosa di grave”, aggiungono pagine dopo. Questo “viaggio” avrebbe occupato 11 anni della loro vita, con brevi soggiorni in diverse caserme dell’esercito nell’interno del Paese. Mujica, insieme a Rosencof e Huidobro, sarebbe stato assegnato alla IV Divisione dell’Esercito, responsabile della costa orientale. Oltre ai continui trasferimenti, la punizione imposta dalle Forze Armate era crudele: gli ostaggi erano tagliati fuori sia gli uni dagli altri che dal mondo esterno, in modo che il loro unico contatto con esso fosse momentaneo, o attraverso gli spioncini installati nelle porte delle rispettive prigioni o nel giornale che i soldati usavano nel bagno, a cui i prigionieri potevano accedere solo una volta al giorno. Dal canto suo, il mutevole “habitat”, spiega, era privo di mobili e non superava mai i due metri quadrati. Inoltre, i carcerieri imponevano di “stare seduti su una piccola panca di legno, con le spalle alla porta e la faccia premuta contro il muro” per periodi di tempo prolungati, oltre ad altri metodi di tortura e umiliazione che caratterizzavano le dittature latinoamericane. Mujica iniziò a parlare con le formiche e ad avere delle allucinazioni e finì nell’Ospedale Militare all’inizio degli anni Ottanta. Uno psichiatra gli consigliò di leggere e scrivere. A proposito di quel periodo, Pepe racconta: “Prendevo le pillole che mi dava e le buttavo in bagno”. C’era qualcosa, però, che questa donna mi aiutò a fare. Mi diede il permesso di leggere libri di scienze… Mi autorizzò anche a scrivere, e l’esercizio della scrittura disciplinò il mio cervello”, ha raccontato in Pepe Mujica, de tupamaro a presidente. Dalla guerriglia al Frente Amplio L’8 marzo 1985, un uomo magro fu rilasciato dal carcere. La descrizione potrebbe valere per lui o per gli altri compagni che lasciarono il carcere senza altri progetti che la vita di tutti i giorni. Un vecchio trattore e alcuni cani accompagnarono le mattine di Pepe e Lucía Topolansky, la sua compagna, nella loro fattoria di Rincón del Cerro, il luogo dove ricominciò con ciò che conosceva: l’agricoltura. Pepe Mujica ha riacquistato la libertà con un’amnistia nel 1985 e, con alcuni membri del MLN-T iniziò un processo di incorporazione nel sistema politico uruguaiano. Nel 1989 gli ex guerriglieri fondarono il Movimiento de Participación Popular (MPP) e si unirono al Frente Amplio (FA). Nel 1994 Mujica fu eletto deputato e nel 1999 senatore; l’MPP cominciava a mostrare una grande capacità di accumulazione che lo avrebbe portato a essere, nelle elezioni del 2004 e in quelle successive, il settore più votato della coalizione di sinistra. Prima di diventare presidente della Repubblica è stato ministro dell’Allevamento e dell’Agricoltura nel primo governo del Frente Amplio guidato da Tabaré Vázquez. All’epoca, Mujica dichiarò al giornale di essere consapevole che “c’è una sinistra uruguaiana con cui non ci troviamo bene”, ma che “camminiamo perché abbiamo bisogno l’uno dell’altro”. “Siamo uniti dalla paura. La paura che vinca la destra. E la stessa cosa deve accadere ai nostri compagni”, ha detto. Nel 2009 si è presentato come candidato unico del Frente Amplio (coalizione di una trentina di partiti, movimenti e correnti di sinistra, socialisti, comunisti, trotzkisti e democristiani. Nel loro programma comune si definiscono progressisti, antimperialisti, antirazzisti e antipatriarcali), e ha vinto in coppia con Danilo Astori e da quel momento la sua figura è diventata nota in tutto il mondo. La notizia della sua morte è l’apertura di tutti i giornali latino americani. I governi del Frente Amplio, quelli dei socialisti Tabaré Vázquez (2005-2010 e 2015-2020) e Pepe Mujica (2010-2015), hanno definitivamente rotto il sistema bipartitico, l’alternanza pluridecennale del Partido Nacional e del Partido Colorado. La vita austera del vecchio guerrigliero, la sua semplicità, il suo modo di parlare semplice e diretto, la sua lotta contro la corruzione e gli sprechi, il suo impegno sociale, la sua capacità di parlare e dialogare sia con la gente comune che con i leader delle grandi potenze, la sua tolleranza e la costante ricerca del consenso con chi difendeva altre posizioni ideologiche, gli valsero il rispetto anche di molti politici e persone con posizioni diametralmente opposte alle sue. Critiche da sinistra Tuttavia, scrive Roberto Montoya su El Salto Diario, un sito spagnolo, la sua vita politica pubblica non è stata esente da aspre critiche da parte di settori che condividevano la sua militanza nei Tupamaros e da militanti di altri gruppi di sinistra. Molti sostenevano che Mujica si stesse facendo assorbire dal sistema stesso contro cui aveva combattuto fin da giovane. Nel maggio 2007 aveva rilasciato una dichiarazione in cui faceva autocritica sul suo passato di guerrigliero: “Mi pento profondamente di aver preso le armi con poca abilità e di non aver evitato una dittatura in Uruguay”. L’adattamento del vecchio guerrigliero ai nuovi tempi, il suo modo peculiare di fare politica dalla base, prima come deputato, poi come senatore e infine come presidente, è stato spesso visto dai settori più radicali della sinistra come un abbandono dei valori ideologici dei Tupamaros. Le critiche ricevute da settori della sinistra, alcune delle quali molto aspre, si sono concentrate su vari aspetti delle sue posizioni politiche: l’assenza di progressi significativi nella redistribuzione della ricchezza durante il suo mandato, i suoi cambiamenti di posizione nei confronti dei militari o le sue divergenze con il movimento femminista. Più di qualche attivista dei Tupamaros ha sostenuto che Mujica si stava facendo assorbire proprio dal sistema contro cui aveva lottato fin da giovane. Nel 2019, dopo essere stato eletto senatore, ha rilasciato alcune dichiarazioni controverse e aggressive al settimanale uruguaiano Voces. Mujica ha riconosciuto il machismo, ha denunciato la società patriarcale, ma ha sostenuto che il femminismo non può sostituire la lotta di classe. “Vedo anche classi sociali all’interno dello stesso movimento femminista”, ha sostenuto. Mujica non è stato l’unico dei tanti ex leader della guerriglia divenuti presidenti con l’avvento della democrazia nei Paesi dell’America Latina e dell’Africa ad essere rimproverato per la sua metamorfosi dai suoi ex compagni di militanza. Lo ha sperimentato personalmente Nelson Mandela, leader dell’African National Congress (ANC) e dell’organizzazione guerrigliera Umkhonti we Sizwe (MK) (Lancia della Nazione), che dopo 27 anni di carcere è diventato presidente del Sudafrica. Molti dei suoi ex compagni lo criticarono per aver fatto troppe concessioni a coloro che erano stati complici dell’apartheid, dell’oppressione, della brutale repressione e dei crimini subiti per decenni dalla maggioranza della popolazione nera, di cui Mandela stesso faceva parte. È successo anche con Dilma Rousseff, marxista come Mandela e Mujica, militante della guerriglia Grupo Política Operária (Polop), anch’essa torturata e incarcerata per due anni, che finirà per diventare presidente del Brasile. La sinistra radicale metteva in discussione la sua politica di coesistenza al potere con settori della destra, che erano proprio quelli che avrebbero finito per tradirla e per organizzare un golpe morbido contro di lei per rovesciarla. Il capitolo di verità e giustizia Nonostante la promozione di un programma di misure sociali progressiste fin dal primo governo del Frente Amplio, le divisioni al suo interno sono apparse presto evidenti. Tabaré Vázquez pose il veto su una proposta della maggioranza della coalizione, approvata in Parlamento, per legalizzare l’interruzione di gravidanza, e pose nuovamente il veto su una proposta legislativa del Frente Amplio per abolire la Ley de Caducidad, che aveva lasciato impuniti i crimini commessi da militari, polizia e civili durante la dittatura militare. Tabaré Vázquez accettò solo che alcuni dei responsabili di questi crimini non sarebbero stati coperti da questa amnistia. Una delle controversie che da anni si protraggono all’interno del Frente Amplio è la posizione da assumere nei confronti della legge sulla scadenza delle pretese punitive dello Stato, approvata nel 1986 durante il governo di Julio María Sanguinetti, leader del tradizionale partito conservatore Colorado, che aveva vinto le prime elezioni dopo il ritorno alla democrazia nel 1984. Questa legge de Caducidad concedeva l’amnistia per i reati commessi dalla dittatura militare tra il 1973 e il 1° marzo 1985, quando Sanguinetti entrò in carica. Mujica denunciò Sanguinetti per aver usato la controversa legge per ostacolare le indagini sui casi di prigionieri scomparsi ma da presidente non sarebbe mai riuscito ad abrogarla. Come riparazione storica più che simbolica, è stato l’ex tupamaro Mujica a chiedere pubblicamente scusa, a nome dello Stato uruguaiano, per la scomparsa di María Claudia Iruretagoyena, nuora del poeta Juan Gelman. Lo ha fatto nel marzo 2012, in ottemperanza a una sentenza della Corte interamericana dei diritti umani sul caso Gelman. Il capitolo della memoria, della verità e della giustizia non è stato privo di difficoltà durante il governo di Mujica, con gravi difficoltà nel rovesciare la Ley de Caducidad, che dava l’impunità a militari e poliziotti accusati di crimini contro l’umanità. E anche a causa della nomina di Guido Manini Ríos, a capo dell’esercito e poi esponente dell’estrema destra, alleato del governo uscente di Luis Lacalle Pou. Mujica al governo Mujica ha sostituito Tabaré Vázquez nel 2010 dopo il secondo trionfo elettorale del Frente Amplio e ha dato al governo un carattere più progressista. Durante il suo mandato, sono stati legalizzati l’aborto e il matrimonio omosessuale e l’Uruguay è diventato il primo Paese al mondo a legalizzare la vendita e il consumo controllati di marijuana, regolati dallo Stato. Per quanto riguarda il matrimonio omosessuale, ha detto: “Dicono che è moderno, ma è più vecchio di tutti noi. È una realtà oggettiva. Esiste e non legalizzarlo significherebbe torturare inutilmente le persone”. “Lasciate che ognuno faccia quello che vuole con il proprio culo”, ha detto in un’intervista. E sul consumo di marijuana: “È uno strumento per combattere il traffico di droga, che è un reato grave, e per proteggere la società”. Mujica ha fatto una precisazione: “Ma attenzione, gli stranieri non potranno venire in Uruguay per comprare marijuana; non ci sarà turismo della marijuana”. Anche durante il governo di Mujica ci sono state polemiche per varie iniziative fallite, come il progetto minerario a cielo aperto di Aratirí, la costruzione del rigassificatore di Gas Sayago e la chiusura di Pluna, che costarono il posto all’allora ministro dell’Economia e delle Finanze, Fernando Lorenzo, e al presidente del Banco República, Fernando Calloia. A ciò si aggiunge il fallimento della compagnia aerea Alas U. Pepe e il Sudamerica Una delle ossessioni del politico veterano era il Sudamerica. “Non vedo l’integrazione per domani. Penso a 25, 30 anni da oggi. Dobbiamo imparare a sopportarci a vicenda, a destra e a sinistra”, ha detto Mujica a questo giornalista durante il suo ultimo viaggio a Buenos Aires a proposito della tanto agognata integrazione regionale. Lui, che ha avuto un ruolo di primo piano accanto a Lula, Chávez, Cristina Kirchner, Rafael Correa ed Evo Morales in un momento in cui questo desiderio sembrava possibile e le condizioni di vita dei settori più svantaggiati stavano migliorando. Il quotidiano uruguaiano di sinistra, La Diaria, ricorda che in una delle sue ultime interviste al giornale, Mujica ha riflettuto sul fatto che anche nel MLN-T erano “prigionieri di un’epoca e di un tempo”. Il “problema”, sottolineava Mujica all’epoca, era che “non si impara nulla dalla realtà se non si ha una visione critica di essa e non la si vede più complicata”. Nonostante sia un piccolo Paese di 3,5 milioni di abitanti senza particolare rilevanza a livello internazionale, durante i governi del Frente Amplio, e soprattutto durante il mandato di Mujica, l’Uruguay ha svolto un ruolo attivo nelle nuove organizzazioni regionali dell’America Latina e dei Caraibi nei primi decenni del XXI secolo, quando sono saliti al potere più governi progressisti che mai nella storia della regione. Forze progressiste con caratteristiche diverse sono salite al potere in Argentina, Uruguay, Cile, Brasile, Paraguay, Bolivia, Ecuador, El Salvador, Venezuela e Nicaragua, e in contrasto con le turbolenze, le divisioni interne e le gravi deviazioni ideologiche sperimentate da molti di questi processi, il Frente Amplio è riuscito a mantenere una relativa stabilità interna nonostante le differenze tra i suoi gruppi costituenti. Mujica ha attribuito queste deviazioni in altri Paesi al personalismo e all’allontanamento di molti leader dai movimenti sociali e dalle maggioranze che li hanno portati al potere. Ricorda Montoya  che Pepe, negli ultimi anni ha finito per essere molto critico non solo nei confronti di Daniel Ortega, seguendo la deriva dittatoriale del vecchio leader del FSLN, o di Nicolás Maduro, che considerava aver tradito l’ideologia chavista; ma si è anche arrabbiato con Cristina Kirchner o Evo Morales per non aver accettato che “il loro tempo è finito” e ai quali ha raccomandato di farsi da parte e passare il testimone alle nuove generazioni. Dopo la sua presidenza, Mujica è diventato una figura mondiale: è stato mediatore nel processo di pace tra le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia e il governo colombiano. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp          
Dal mondo
Il Pkk annuncia lo scioglimento della struttura organizzativa e la fine della lotta armata
Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, il Pkk, ha annunciato di avere tenuto a inizio maggio il 12/mo congresso, che ha deciso di sciogliere la struttura organizzativa e porre fine alla lotta armata. Il Pkk, in una dichiarazione scritta, ha dato quindi sostanza all’appello lanciato a febbraio dal leader Abdullah Ocalan (da 26 anni rinchiuso nell’isola carcere di Imrali) per una soluzione politica e non militare del conflitto pluridecennale con Ankara. “Tutte le attività sotto il nome di Pkk sono terminate”, si legge nella dichiarazione conclusiva del congresso. Da capire ora la risposta di Erdogan, visto che tra le condizioni del Pkk c’è la possibilità che sia lo stesso Ocalan a condurre la nuova fase politica, fuori quindi dal carcere, con contestuale disarmo in tre fasi, vigilato da esponenti delle Nazioni Unite. La dichiarazione del PKK non riguarda, infatti, solo la Turchia; sono molti altri i Paesi – Siria, Iraq e Iran in particolare – che saranno in qualche modo coinvolti dalla svolta politica della lotta di liberazione, curda ma non solo, così come delineata dal “nuovo paradigma” confederale dello stesso Ocalan. Nella mattina di lunedì 12 maggio Radio Onda d’Urto ne ha parlato con Michele della redazione e Murat Cinar,  giornalista turco che vive in Italia  Ascolta o scarica Duran Kalkan, del comitato esecutivo del Pkk, aprendo il congresso ha infatti affermato: “Questo congresso è diverso dagli altri. In un certo senso, può essere paragonato al nostro primo congresso. Si tiene per concludere e collocare storicamente, in maniera corretta, l’esperienza del Pkk. Ma questo non è il fine ultimo; piuttosto, l’obiettivo è creare spazio per nuove iniziative e opportunità”. Anche di questo aspetto abbiamo parlato con Jacopo Bindi, dell’Accademia della Modernità Democratica, nell’intervista realizzata da Radio Onda d’Urto nel pomeriggio di lunedì 12 maggio 2025. Ascolta o scarica. Di seguito, la traduzione del comunicato dell’agenzia di stampa filo-curda, Anf, tradotto dalla redazione di Radio Onda d’Urto.  Ascolta o scarica Tradotto da https://anfenglishmobile.com/kurdistan/pkk-final-declaration-activities-under-the-pkk-name-have-ended-79294 Il  12° Congresso del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Il processo avviato dalla dichiarazione del leader Abdullah Öcalan il 27 febbraio, e ulteriormente plasmato dal suo ampio lavoro e dalle sue prospettive multidimensionali, è culminato nel 12° Congresso di Partito, convocato con successo tra il 5 e il 7 maggio. Nonostante gli scontri in corso, gli attacchi aerei e di terra, il continuo assedio delle nostre regioni e l’embargo del KDP, il nostro congresso si è svolto in condizioni di sicurezza in condizioni difficili. A causa di problemi di sicurezza, il congresso si è svolto contemporaneamente in due luoghi diversi. Con la partecipazione di 232 delegati in totale, il 12° Congresso del PKK ha discusso di leadership, martiri, veterani, struttura organizzativa del PKK e lotta armata e costruzione di una società democratica, culminando in decisioni storiche che segnano l’inizio di una nuova era per il nostro movimento di libertà. Cessano tutte le attività sotto il nome del PKK Il 12° Congresso straordinario ha valutato che la lotta del PKK ha smantellato le politiche di negazione e annientamento imposte al nostro popolo, portando la questione curda a un punto in cui può essere risolta attraverso la politica democratica. Ha concluso che il PKK ha compiuto la sua missione storica. Su questa base, il 12° Congresso ha deciso di sciogliere la struttura organizzativa del PKK e di porre fine alla lotta armata, con il processo di attuazione che sarà gestito e guidato dal leader Apo [Abdullah Öcalan]. Tutte le attività condotte sotto il nome del PKK sono state quindi terminate. Il nostro partito, il PKK, è emerso come movimento per la libertà dei curdi in opposizione alle politiche di negazione e annientamento radicate nel Trattato di Losanna e nella Costituzione del 1924. Influenzato dal socialismo reale al suo inizio, ha abbracciato il principio dell’autodeterminazione nazionale e ha portato avanti una lotta legittima e giusta attraverso la resistenza armata. Il PKK si è formato in condizioni dominate da politiche aggressive di negazione, annientamento, genocidio e assimilazione dei curdi. Dal 1978, il PKK ha condotto una lotta per la libertà volta a garantire il riconoscimento dell’esistenza curda e a stabilire la questione curda come realtà fondamentale della Turchia. Grazie al successo di questa lotta, il nostro movimento ha realizzato una rivoluzione di resurrezione per il nostro popolo, diventando un simbolo di speranza e di vita dignitosa per i popoli della regione. Negli anni ’90, periodo di grandi conquiste per il nostro popolo, il presidente turco Turgut Özal iniziò a cercare una soluzione politica alla questione curda. In risposta, il Leader Apo dichiarò un cessate il fuoco il 17 marzo 1993, dando il via a una nuova fase. Tuttavia, il collasso del socialismo reale, l’imposizione di tattiche di tipo brigatista alla nostra strategia di guerra e l’eliminazione di Özal e della sua squadra da parte dello Stato profondo hanno sabotato questa iniziativa. Lo Stato intensificò le sue politiche di negazione e annientamento, intensificando la guerra. Migliaia di villaggi sono stati evacuati e bruciati; milioni di curdi sono stati sfollati; decine di migliaia sono stati torturati e imprigionati; e migliaia sono stati uccisi in circostanze sospette. In risposta, il Movimento per la Libertà crebbe sia in termini di dimensioni che di capacità. La guerriglia si diffuse in tutto il Kurdistan e in Turchia. L’impatto della guerriglia portò il popolo curdo a sollevarsi in rivolte di massa (serhildan), trasformando la guerra nell’opzione principale per entrambe le parti. L’escalation bellica che ne derivò non poté essere invertita e gli sforzi del leader Apo per risolvere la questione curda con mezzi democratici e pacifici alla fine fallirono”. Ricostruire le relazioni turco-curde è inevitabile. Il processo è entrato in una fase diversa con la cospirazione internazionale del 15 febbraio 1999. In questo processo, uno degli obiettivi principali della cospirazione, una guerra curdo-turca, è stato impedito grazie ai grandi sacrifici e agli sforzi del leader Apo. Nonostante fosse stato detenuto nel sistema di tortura e genocidio di Imralı, ha persistito nella ricerca di una soluzione democratica e pacifica alla questione curda. Per 27 anni, il leader Apo ha resistito al sistema di annientamento di Imralı, vanificando la cospirazione internazionale. Nella sua lotta, ha analizzato il sistema statalista dominato dagli uomini e guidato dal potere e ha sviluppato un paradigma per una società democratica, ecologica e orientata alla libertà delle donne. In questo modo, ha materializzato un sistema di libertà alternativo per il nostro popolo, le donne e l’umanità oppressa. Il leader Apo, riferendosi al periodo precedente al Trattato di Losanna e alla Costituzione del 1924, in cui le relazioni curdo-turche divennero problematiche, ha proposto un quadro per la risoluzione della questione curda basato sulla Repubblica Democratica di Turchia e sul concetto di Nazione Democratica, fondato sull’idea di una Patria Comune e di popoli co-fondatori. Le rivolte curde nel corso della storia della Repubblica, la dialettica curdo-turca lunga 1000 anni e i 52 anni di lotta per la leadership hanno dimostrato che la questione curda può essere risolta solo sulla base di una Patria Comune e di una cittadinanza paritaria. Gli attuali sviluppi in Medio Oriente, nell’ambito della Terza Guerra Mondiale, rendono inoltre inevitabile la ristrutturazione delle relazioni curdo-turche. Il nostro popolo comprenderà lo scioglimento del PKK e la fine della lotta armata meglio di chiunque altro e si assumerà i doveri di quest’era. Il nostro onorato popolo, che ha aderito al percorso della leadership e del PKK per 52 anni a caro prezzo, opponendosi a politiche di negazione, annientamento, genocidio e assimilazione, sosterrà il processo di pace e di una società democratica in modo più consapevole e organizzato. Crediamo fermamente che il nostro popolo comprenderà la decisione di sciogliere il PKK e porre fine al metodo della lotta armata meglio di chiunque altro e si assumerà le responsabilità dell’era della lotta democratica, basata sulla costruzione di una società democratica. È di vitale importanza che il nostro popolo, guidato da donne e giovani, costruisca le proprie auto-organizzazioni in tutti gli ambiti della vita, si organizzi sulla base dell’autosufficienza attraverso la propria lingua, identità e cultura, si autodifenda di fronte agli attacchi e costruisca una società democratica comunitaria con spirito di mobilitazione. Su questa base, crediamo che i partiti politici curdi, le organizzazioni democratiche e i leader d’opinione adempiranno alle loro responsabilità per promuovere la democrazia curda e la nazione democratica dei curdi. Grazie all’eredità della nostra storia di libertà, lotta e resistenza, e alle decisioni del XII Congresso del PKK, il percorso politico democratico si svilupperà con maggiore forza e il futuro dei nostri popoli progredirà basandosi su principi di libertà e uguaglianza. I poveri e i lavoratori, tutti i gruppi religiosi, le donne e i giovani, i lavoratori, i contadini e tutti i segmenti esclusi rivendicheranno i propri diritti e svilupperanno una vita comune in un ambiente giusto e democratico. Invitiamo tutti a unirsi al processo di pace e di società democratica. La decisione del nostro Congresso di sciogliere il PKK e porre fine al metodo della lotta armata offre una solida base per una pace duratura e una soluzione democratica. L’attuazione di queste decisioni richiede che il Leader Apo conduca e guidi il processo, che il suo diritto alla politica democratica sia riconosciuto e che vengano stabilite solide e complete garanzie legali. In questa fase, è essenziale che la Grande Assemblea Nazionale della Turchia svolga il suo ruolo con responsabilità storica. Allo stesso modo, invitiamo il governo, il principale partito di opposizione, tutti i partiti politici rappresentati in parlamento, le organizzazioni della società civile, le comunità religiose e di fede, i media democratici, i leader d’opinione, gli intellettuali, gli accademici, gli artisti, i sindacati, le organizzazioni femminili e giovanili e i movimenti ecologisti ad assumersi la responsabilità e ad unirsi al processo di pace e di una società democratica. Il coinvolgimento delle forze socialiste di sinistra turche, delle strutture rivoluzionarie, delle organizzazioni e degli individui nel processo di pace e di una società democratica eleverà la lotta dei popoli, delle donne e degli oppressi a un nuovo livello. Ciò significherà il raggiungimento degli obiettivi dei grandi rivoluzionari le cui ultime parole furono: “Lunga vita alla fratellanza dei popoli turco e curdo e a una Turchia pienamente indipendente!”. Con il Socialismo della Società Democratica che rappresenta una nuova fase nel processo di pace e di una società democratica e nella lotta per il socialismo, il movimento democratico globale avanzerà e un mondo giusto e paritario emergerà. Su questa base, invitiamo l’opinione pubblica democratica, in particolare i nostri compagni che guidano la Global Freedom Initiative, ad ampliare la solidarietà internazionale nel quadro della teoria della modern ità democratica. Invitiamo le potenze internazionali a riconoscere le proprie responsabilità nelle politiche di genocidio che durano da un secolo contro il nostro popolo, a non ostacolare una soluzione democratica e a contribuire costruttivamente al processo. Annunciamo il martirio di Ali Haydar Kaytan e Riza Altun Il nostro 12° Congresso del PKK, convocato su appello della nostra leadership, ha proclamato il martirio di Fuat-Ali Haydar Kaytan, uno dei quadri dirigenti del nostro partito, martirizzato il 3 luglio 2018, e del compagno Riza Altun, martirizzato il 25 settembre 2019. Su questa base, ha riconosciuto il compagno Fuat-Ali Haydar Kaytan, uno dei quadri dirigenti fondatori del PKK, come simbolo di “Lealtà al Leader, Verità e Vita Sacra”, e il compagno Riza Altun, uno dei primi compagni del Leader Apo, come simbolo di “Libertà e Cameratismo”. Dedichiamo il nostro storico XII Congresso del Partito a questi due grandi compagni martiri che ci hanno guidato dall’inizio del nostro Movimento per la Libertà fino a oggi con la loro lotta ininterrotta. In loro nome, rinnoviamo la nostra promessa a tutti i martiri della lotta e affermiamo il nostro impegno a realizzare i sogni della compagno martire di Pace e Democrazia Sırrı Süreyya Önder.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Dal mondo
Il parlamento italiano vota l’acquisto di nuove tecnologie militari da Israele
La Commissione Bilancio valuta favorevolmente l’acquisto di tecnologia militare israeliana. La seduta è durata 5 minuti: non viene mai citata la Israel Aerospace Industries (IAI) e la sua divisione ELTA Systems che forniscono la tecnologia militare. Ma i deputati lo sanno? di Alex Zanotelli da il manifesto Devo purtroppo constatare che in Parlamento bastano cinque minuti per votare milioni di euro da destinare a nuove tecnologie di guerra. È quanto avvenuto nella Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, dove, senza alcun vero dibattito, è stato approvato lo schema di decreto ministeriale SMD 19/2024. Si tratta della prosecuzione di un programma militare di lungo periodo per la dotazione di sofisticati sistemi «Multi-Missione Multi-Sensore» (MMMS) montati su aerei Gulfstream G550. Stiamo parlando dell’Atto del Governo n. 264 sottoposto a parere parlamentare. Il suo esame è durato dalle ore 13.40 alle 13.45 del 6 maggio. Tutto questo, ripeto, in cinque minuti. E con un silenzio assordante su un fatto gravissimo: la tecnologia alla base di questi sistemi è israeliana. Una tecnologia nata da decenni di occupazione, repressione e controllo militare su un intero popolo. Mentre a Gaza si muore, mentre l’opinione pubblica internazionale si interroga sui crimini di guerra di Netanyahu, l’Italia rafforza i suoi legami militari con l’apparato bellico israeliano. E lo fa nel modo peggiore: senza trasparenza, senza discussione, senza che i parlamentari stessi – in molti casi – siano pienamente consapevoli di ciò che stanno votando. Infatti nei resoconti parlamentari viene omessa la parola Israele. Non viene scritto che queste tecnologie vengono da Israele, dal suo complesso industriale-militare. In questo Atto di Governo n. 264 si perpetua la segretezza, e questo lo si riscontra nel linguaggio criptico degli atti parlamentari, nei tempi compressi che impediscono ogni approfondimento. Come cittadino, come credente, come testimone della sofferenza umana, non posso tacere. Questo voto frettoloso e opaco è una ferita alla democrazia. È un insulto al dolore delle vittime dei conflitti armati. È un tradimento dei valori di pace, giustizia e solidarietà che dovrebbero guidare le scelte pubbliche. È assurdo che questo accordo commerciale militare avvenga in un momento in cui si sta consumando la tragedia di Gaza. Mentre un popolo rischia di scomparire sotto le bombe, l’Italia stringe accordi con Israele per rendere ancora più terribile e devastante la guerra. Dovremmo boicottare il governo di Netanyahu e invece acquistiamo i sistemi d’arma israeliani. Chiedo ai parlamentari di risvegliarsi dal torpore. Chiedo ai cittadini di informarsi, di vigilare, di opporsi. Chiedo alla stampa di fare il suo dovere e di informare. E chiedo, infine, alla coscienza collettiva di interrogarsi: in silenzio stiamo per acquistare da Israele delle tecnologie di morte. Diciamo stop, contattiamo i parlamentari, poniamoli di fronte alle loro responsabilità! E boicottiamo l’apparato bellico di Israele. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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