A marzo Trump ha chiesto a tutte le amministrazioni di far confluire i dati in
loro possesso in un unico calderone da affidare all’analisi degli specialisti
informatici di Palantir, la società di Peter Thiel, compagno di strada di Musk.
Scansione massiccia e non autorizzata dei social media. Analisi di dati
biometrici, reddituali, sanitari e di sicurezza sociale. Intercettazione delle
comunicazioni telefoniche. Geolocalizzazione tramite dispositivi mobili.
Tracciamento dei viaggi in auto tramite lettori di targhe.
a cura di Salvatore Palidda
Mentre cerca limitare i danni degli assalti di Elon Musk, il best buddy
diventato toro scatenato che gli imputa di somministrare agli americani un
bilancio da bancarotta, Donald Trump finisce sotto accusa anche per sospetti da
«grande fratello» orwelliano: l’uso dell’enorme volume di dati sui cittadini in
possesso o reperibili dal governo (fiscali, previdenziali, sanitari, scolastici,
ma anche creditizi) per costruire profili di ogni individuo. A marzo Trump ha
emesso un poco notato ordine esecutivi presidenziale: ha chiesto a tutte le
amministrazioni di far confluire i dati in loro possesso in un unico calderone
da affidare all’analisi degli specialisti informatici di Palantir, la società di
Peter Thiel, compagno di strada di Musk. Questa impresa analizza e classifica
dati segretissimi per conto del Pentagono e dei servizi di intelligence di mezzo
mondo.
La Casa Bianca non ha mai parlato di questo limitandosi a dire che l’ordine
impartito da Trump a ministeri e agenzie punta a migliorare le procedure
amministrative. Gli esperti considerano, invece, pericolosissima questa
concentrazione di informazioni: possibili abusi per creare sistemi di
sorveglianza dei cittadini in stile cinese, magari da utilizzare contro gli
avversari politici. E si rischia anche una diffusa perdita di fiducia: molti,
sospettando il peggio, potrebbero smettere di fornire i loro dati personali (o
fornirli alterati).
Che i pericoli ci siano lo sostengono anche una dozzina di dipendenti che hanno
lasciato Palantir denunciando ordini interni che espongono i risultati del loro
lavoro analitico al rischio di abusi dell’autorità politica. Rischi che hanno
già spinto le organizzazioni per i diritti civili a chiedere ai giudici di
bloccare questa «raccolta a strascico» di dati. Ora cominciano a ribellarsi
anche gruppi MAGA con un credo libertario: hanno seguito Trump condividendo la
sua lotta contro il deep state, ma ora si chiedono cosa ci sia di più deep, di
una schedatura elettronica di massa. Dopo Musk, dunque, anche Thiel lambito
dalla bufera. Fin qui ha solo seguito le direttive di Trump, dopo che è stato
proprio il Doge di Elon ad aprire la strada a Palantir. Ma ora, con Musk fuori
dal governo e il Doge in ritirata, i riflettori si accendono anche su di lui: il
vero architetto dell’adesione al trumpismo del mondo tecnologico orientato a
destra.
Gli Stati Uniti diventano uno stato di tecno-sorveglianza di massa
Scansione massiccia e non autorizzata dei social media. Analisi di dati
biometrici, reddituali, sanitari e di sicurezza sociale. Intercettazione delle
comunicazioni telefoniche. Geolocalizzazione tramite dispositivi mobili.
Tracciamento dei viaggi in auto tramite lettori di targhe.
“La sorveglianza negli Stati Uniti non è iniziata con Trump, né finirà quando
lascerà la Casa Bianca. Le fondamenta dell’attuale stato di tecno-sorveglianza
sono state gettate nel corso di decenni, con il sostegno bipartisan a politiche
che hanno normalizzato le pratiche invasive nelle forze dell’ordine,
nell’esercito e nel controllo delle frontiere” (lo dice un militante per i
diritti civili del Bahrein Esra’a Al Shafei, che da anni studia questo problema,
in una conversazione con El País).
“Questo sistema è alimentato da grandi budget assegnati alle agenzie di
intelligence e a fornitori privati, con il pretesto della sicurezza nazionale e
della prevenzione del crimine”. Aziende come Palantir, Anduril e GEO Group
stanno fornendo a Washington gli strumenti digitali per costruire questa intera
infrastruttura di sorveglianza.
Trump continua ad aggiungere strati a questo sistema. Il Dipartimento di
Sicurezza Nazionale […] ha confermato ad aprile che sta utilizzando uno
strumento chiamato Babel X per raccogliere informazioni sui social media dei
viaggiatori che potrebbero essere soggetti a una maggiore sorveglianza, secondo
quanto dichiarato dalla stessa agenzia.
L’Immigration and Customs Enforcement (ICE), da parte sua, ha ammesso di
utilizzare un altro programma, SocialNet, che aggrega dati da oltre 200 fonti,
tra cui Facebook, Twitter/X, Instagram, LinkedIn e app di incontri.
Washington riconosce ufficialmente che la semplice ricerca di “attività
antisemite” sui feed, come la protesta per il massacro di Gaza, è sufficiente
alle autorità per negare l’asilo o la cittadinanza.
I social media sono solo la superficie. Per alimentare questa macchina
automatizzata per rintracciare i sospetti, sono necessari dati di qualità sui
cittadini. Alcune di queste informazioni vengono ottenute acquistandole da
grandi broker di dati, come Thomson Reuters o Lexis Nexis, che creano profili
esaustivi di milioni di persone, utilizzando fino a 10.000 tipi di dati su ogni
individuo in base alle sue tracce online.
Si va dal nome, all’indirizzo, al livello di reddito o al luogo in cui si fa la
spesa, alle attività preferite per il tempo libero, all’età in cui gli amici si
sono sposati, alla storia sessuale e al profilo emotivo: tutte queste
informazioni sono disponibili.
Ma l’altra parte di questo vasto archivio di dati viene distillata all’interno
del governo federale stesso. Si tratta di uno dei progetti più importanti di
Trump e, finora, del suo consigliere di punta, Elon Musk: il Department of
Government Efficiency (DOGE), guidato dallo stesso Musk, che per mesi ha
raccolto da altre agenzie federali dati ufficiali sensibili su centinaia di
milioni di cittadini, dalla situazione fiscale alle cartelle cliniche. Alcuni
osservatori avvertono che questi dati potrebbero essere presi da Musk ora che ha
deciso di lasciare la Casa Bianca.
I dati raccolti dal DOGE vengono utilizzati da Palantir, che ha contratti con
l’amministrazione per oltre 2,7 miliardi di dollari, per costruire una nuova
piattaforma di deportazione per l’Immigration and Customs Enforcement,
ImmigrationOS. Secondo la sintesi del contratto, che specifica che il primo
prototipo dovrebbe essere pronto entro settembre, i dati serviranno a
“supportare un’analisi completa delle popolazioni target” e a contribuire al
sistema di tracciamento individuale.
I tentacoli dello Stato di sorveglianza tecnologica sono molto estesi. Elabora
dati, ma ha anche occhi ovunque. “L’infrastruttura comprende strumenti come i
droni di sorveglianza con riconoscimento facciale, la raccolta di dati
biometrici, i lettori di targhe, le torri di guardia dotate di telecamere ad
alta risoluzione e sensori, gli strumenti di polizia predittiva e la
localizzazione, solo per citarne alcuni”, afferma Al Shafei, fondatore di
Surveillance Watch, un archivio di fama internazionale di informazioni sulle
aziende coinvolte nel business e sugli obiettivi noti.
Negli ultimi mesi, il DHS ha acquistato diverse licenze per software utilizzati
per spiare i telefoni cellulari da Cellebrite, Paragon Solutions, Venntel e NSO
Group, gli sviluppatori del software spia Pegasus, secondo i dati raccolti da
Just Futures Law.
Questa tecnologia viene utilizzata per accedere ai dispositivi e vedere tutto
ciò che vi accade, ma esistono anche altri strumenti per tracciare la posizione
dei cellulari. Un’inchiesta della rivista Time ha mostrato che le donne che
attraversano i confini dello Stato e si avvicinano alle cliniche abortive per
interrompere le gravidanze sono state identificate in questo modo senza un
mandato.
Nessuno ignora le implicazioni della macchina che Trump sta lucidando e oliando.
Un rapporto preparato da diverse ONG per le Nazioni Unite parla di “evaporazione
dei diritti umani” in riferimento a quanto sta accadendo alle frontiere
terrestri degli Stati Uniti.
“Un rapporto più stretto tra il governo e le società di sorveglianza, unito a
un’intensificazione della sorveglianza negli Stati Uniti, rappresenta una
minaccia reale per i diritti e le libertà fondamentali”, afferma Michael De
Dora, ricercatore specializzato in politica statunitense presso l’organizzazione
per i diritti digitali Access Now.
“L’amministrazione Trump attribuisce alla sicurezza nazionale un valore
superiore a quello dei diritti umani e della privacy, o addirittura a spese di
questi. I membri della sua amministrazione non solo sorvegliano le persone, ma
hanno persino discusso la sospensione di principi democratici fondamentali, come
l’habeas corpus”.
L’Europa non è immune da quanto sta accadendo negli Stati Uniti: “Agenzie come
Frontex ed Europol stanno investendo in database biometrici, riconoscimento
facciale e strumenti di monitoraggio basati sull’intelligenza artificiale che
ricordano da vicino i sistemi già in vigore negli Stati Uniti” (cf. Aljosa
Ajanovic, analista dell’European Digital Rights Institute -EDRi).
Negli Stati Uniti, molti osservatori ritengono che sia molto difficile limitare
l’applicazione di tutti questi controlli tecnologici sugli stranieri. Nemmeno i
più convinti trumpisti, ritiene De Dora, dovrebbero sostenere il dispiegamento
dello Stato di tecno-sorveglianza. “Una volta che questo macchinario è accettato
e operativo, può essere usato contro chiunque”.
(fonti: Massimo Gaggi | 5 giugno 2025
https://www.corriere.it/opinioni/25_giugno_05/trump-e-il-fantasma-del-grande-fratello-49831f2e-b292-4913-aa84-7f2753176xlk.shtml,
Manuel G. Pascual per elpais.com/ e Aljosa Ajanovic, analista dell’European
Digital Rights Institute -EDRi)
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Source - Osservatorio Repressione
Mentre generalmente in India le popolazioni originarie (adivasi) subiscono
l’oppressione e le deportazioni governative, in Assam – pare – si vorrebbe
armarle in una prospettiva settaria (divide et impera)
di Gianni Sartori
Ancora nel 2010 la Corte suprema dell’India emetteva un ordine di espulsione nei
confronti di circa 8 milioni di persone. Mentre il governo di Narendra Modi
(Bharatiya Janata Party – Bjp) tentava di far adottare emendamenti e leggi per
consentire ai rangers (in pratica, eufemismi a parte) di aprire il fuoco contro
gli indigeni (adivasi) nelle aree forestali. Svuotando a livello legislativo il
Forest Rights Act. Mentre la creazione di un registro nazionale dei cittadini e
una legislazione discriminatoria (sempre in pratica) in campo religioso,
rischiava di trasformare gli Adivasi in “apolidi” in casa loro.
Qualche anno fa alcune Ong attive in difesa dei popoli indigeni paventavano che
dalla vicinanza politico- economica tra India e Brasile (entrambi esponenti di
spicco dei Brics) e dalla sostanziale affinità ideologica tra Bolsonaro e Modi
(in particolare sulla questione “nativi”) potessero sortire conseguenze
disastrose per i popoli indigeni. Ora, grazie a Dio, Bolsonaro non governa più e
– anche se non priva di ombre e contraddizioni – la politica di Lula in materia
di Indios è perlomeno il “meno peggio” rispetto al suo predecessore. Invece per
l’India, con Modi ancora in sella, non sembra essere cambiato niente. Anzi.
Perfino la sacrosanta difesa delle ultime tigripuò diventare il pretesto per
deportare le popolazione autoctone.
Vedi https://rivistaetnie.com/india-salvare-le-tigri-o-gli-adivasi-139370/
Ma – come per l’indipendentismo (v.
https://ogzero.org/il-diritto-dei-popoli-all-autodeterminazione-le-lotte-comuni/)
anche qui talvolta si applica la “geometria variabile.
Sembrerebbe questo il caso dell’Assam (stato nord-orientale dell’India) dove il
governo locale (e in particolare il ministro dell’interno Himanta Biswa Sarma,
del Bjp) ha ventilato la possibilità di concedere solo ai nativi il porto d’armi
(“licenze per armi da fuoco alle popolazioni indigene in aree vulnerabili”).
Ufficialmente per autodifesa, per ragioni di sicurezza
Per l’opposizione invece si tratterebbe di una misura settaria su base etnicache
porterebbe alla formazione di vere e proprie milizie settarie. Esasperando
ulteriormente le tensioni già esistenti con la popolazione musulmana. Come sta
già avvenendo nello stato confinante di Manipur dove periodicamente esplodono
conflitti armati tratra Kuki e Meitei.
Anche perché (come denunciava The Wire) Sarma non sarebbe nuovo a queste
operazioni. Già quando era un esponente dell’opposizione con il Congress) aveva
tentato di utilizzare i conflitti etnici tra autoctoni assamesie coloro che –
talvolta impropriamente – vengono definiti “migranti bengalesi” (provenienti dal
Bangladesh e in gran parte di religione islamica).
Ma pensando alla propria carriera politica, per ottenere i voti delle comunità
indigene.
Oggi evidentemente ci riprova, utilizzando la medesima retorica, da membro del
Bjp. Non tanto – si presume – per rispetto della cultura e identità tribale, ma
prosaicamente in vista delle elezioni del 2026.
Giustificando tale “concessione selettiva” in quanto “la gente si sente
indifesa, e spesso i centri di polizia più vicini sono troppo lontani”.
Non casualmente i cinque specifici distretti in cui la misura verrà applicata
sono zone a prevalenza musulmana.
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Un giovane di trent’anni è deceduto in Questura, a seguito di un intervento in
cui è stato impiegato un taser. Non si tratta di un episodio isolato né di un
mero incidente fortuito. È l’ennesima manifestazione di una prassi ormai
consolidata e diffusa: l’uso del taser come strumento “intermedio” nel
repertorio coercitivo delle forze dell’ordine.
di Associazione Yairaiha Ets
Un giovane di trent’anni è deceduto in Questura, a seguito di un intervento in
cui è stato impiegato un taser. Secondo l’esito dell’autopsia, la causa del
decesso è riconducibile a una “sommersione interna emorragica da trauma toracico
chiuso”, una massiccia emorragia compatibile con una compressione toracica
particolarmente intensa. Le autorità hanno escluso un nesso diretto tra l’uso
del taser e il decesso. Tuttavia, permangono dubbi gravi, legittimi e fondati
riguardo alle modalità dell’intervento, alle responsabilità complessive e alla
concatenazione degli eventi che hanno condotto alla tragica morte di Riccardo.
Non si tratta di un episodio isolato né di un mero incidente fortuito. È
l’ennesima manifestazione di una prassi ormai consolidata e diffusa: l’uso del
taser come strumento “intermedio” nel repertorio coercitivo delle forze
dell’ordine. Uno strumento che appare tutt’altro che neutro, specie quando
impiegato nei confronti di soggetti fragili, in condizioni di alterazione o
vulnerabilità fisica o psichica.
La morte di Riccardo non si configura solo come una tragedia individuale, ma
come uno specchio che riflette una trasformazione lenta ma inesorabile: la
repressione che soppianta la mediazione, l’abitudine all’eccezione, una gestione
dell’ordine pubblico che scivola sempre più velocemente verso la prevalenza
della forza. Non ci troviamo più davanti a un rischio teorico: lo Stato ha di
fatto rinunciato alla responsabilità di un intervento equilibrato, sostituendola
con l’automatismo della coercizione.
Questa deriva trova ulteriore sostegno nel recente decreto sicurezza, che amplia
i poteri delle forze dell’ordine e legittima un impiego più esteso del taser,
anche in contesti in cui il contatto umano, il discernimento e la competenza
dovrebbero restare imprescindibili. Non è più la forza che interviene in casi
eccezionali, ma la forza che diventa automatica.
L’ambiguità con cui oggi si invocano termini quali “sicurezza”, “legalità”,
“difesa” crea una cortina fumogena. Ma i corpi non mentono. Non mentono le
vittime di decessi avvenuti “per errore”. Non mentono i corpi di coloro che non
rappresentavano una minaccia reale. Non mentono le famiglie a cui, finora, non è
stata data una spiegazione piena e trasparente su quanto accaduto e sulle cause
che vi hanno condotto.
In uno Stato che si definisce democratico, non è sostenibile che pretenda
fiducia mentre moltiplica i propri strumenti di violenza e abdica dalla sua
prerogativa fondamentale: proteggere, non punire. La questione non riguarda
esclusivamente la liceità del taser, bensì il modo in cui è stato
progressivamente sdoganato, automatizzato e normalizzato come una scorciatoia
operativa. L’arroganza di chi si ritiene sempre nel giusto e la sistematica
rimozione delle conseguenze sono elementi che destano profonda preoccupazione.
Non è accettabile che un corpo a terra venga trattato come un mero dettaglio
operativo. In quel corpo si misura la tenuta di uno Stato di diritto. Ed è
proprio lì che, qualora non si presti la dovuta attenzione, rischiamo di perdere
silenziosamente qualcosa di molto più grande di quanto siamo disposti ad
ammettere.
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Vittoria dei lavoratori solidali con la Palestina al porto Fos-sur-mer di
Marsiglia, dove i portuali francesi della CGT si sono rifiutati di caricare 14
tonnellate di munizioni e pezzi di ricambio per fucili mitragliatori israeliani
su una nave cargo della compagnia ZIM diretta ad Haifa, Israele.
La nave è dovuta ripartire vuota di armamenti israeliani, e vuota farà tappa
sabato a Genova soltanto per un “rifornimento tecnico”. Anche nel capoluogo
ligure era stata annunciata una mobilitazione contro il genocidio e per la
Palestina dai portuali del CALP e dal sindacato di base Usb.
Alle 18 di questo venerdì la conferenza stampa dei portuali del CALP e di Usb
Porto. Posticipato invece il presidio a domani, sabato, alle 8 del mattino al
varco di Ponte Etiopia di Genova per “sorvegliare” i movimenti della nave.
L’aggiornamento di Radio Onda d’Urto con Josè Nivoi, del Collettivo Autonomo
Lavoratori Portuali di Genova e di Usb. Ascolta o scarica
> Genova: I portuali pronti a rifiutare di caricare il cargo di armi per Israele
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La tutela delle forze dell’ordine come leva per introdurre nuovi reati al fine
di conservare l’ordine sociale. Soffiare sulle paure per reprimere il dissenso
di Antonello Azzarà da DINAMOpress
Dallo scorso 11 aprile, il più grande attacco alla libertà di protesta della
storia repubblicana italiana si è trasformato in un decreto che è stato
convertito in legge. Coerentemente con il suo contenuto autoritario e
antidemocratico, pensato e disegnato per reprimere il dissenso e colpire
duramente le più disparate soggettività già socialmente vulnerabili, le sue
modalità di introduzione sono anch’esse antidemocratiche: come al solito
emergenziali, motivate da improbabili ragioni di straordinaria necessità ed
urgenza, con tanto di voto di fiducia, al riparo da quella che dovrebbe essere
la naturale dialettica democratica. D’altronde, i cosiddetti pacchetti
sicurezza, varati dai governi di ogni colore e provenienza, hanno da sempre
assunto la forma del decreto (ricordiamo i decreti “Maroni”, d.l. 23 maggio
2008, n. 92; “Minniti”, d.l. 20 febbraio 2017, n. 14; “Salvini”, d.l. 4 ottobre
2018, n.113). Non c’è dunque da meravigliarsi, ma neanche da arrendersi.
> Uno Stato che a forza di decreti si preoccupa dell’ampliamento delle tutele
> delle forze di polizia, relegando all’oblio delle sue agende politiche la
> strage che da oltre un anno si sta consumando nelle galere sempre più
> sovraffollate, è uno Stato che sta dichiaratamente affinando e ampliando un
> potere di sopraffazione sui corpi, utilizzato per incapacitare la
> vulnerabilità sociale e reprimere il dissenso.
Sotto l’apparente neutralità di approntare una tutela efficace alle forze
dell’ordine si introducono nuovi reati, ampliando le pene di quelli già
esistenti e aggiungendo senza alcun criterio di ragionevolezza delle nuove
circostanze aggravanti. Sempre nel capo terzo del decreto, dedicato alla tutela
delle forze di polizia, si prevedono i nuovi reati di rivolta penitenziaria,
così come nei luoghi di accoglienza e trattenimento per migranti. C’è da dire,
però, che la forza di polizia, nell’adempimento del suo mandato di tutela
dell’ordine pubblico, è tutto fuor che neutrale. Mantenere l’ordine, specie
nelle piazze o nelle strade dove si svolge una protesta, tanto più quando
pacifica, (spazi di libertà, questi sì, che dovrebbero essere tutelati secondo i
dettami della nostra democrazia costituzionale) significa conservare un
determinato ordine sociale e di classe, che è anche un ordine simbolico. Ed è
proprio rispetto all’accaparramento di questo capitale simbolico che si
comprende l’inquietudine scomposta del governo nel troncare l’iter legislativo
per ragioni, come ammette lo stesso Ministro dell’Interno, «di opportunità».
È un consenso di cui si nutrono i populismi di ogni sorta, in quelle che il
filosofo Luigi Ferrajoli chiama demoastenie. Si tratta di un consenso passivo e
vacillante, sorretto da una paura artificiale sul quale hanno soffiato e
continuano a soffiare i governi preoccupati dalla costante perdita di
legittimazione politica. Quest’ordine simbolico viene preservato e nutrito a
suon di decreti, nuovi reati, misure di sicurezza e più potere alla polizia che
ne è garante.
> Si finisce in una forma patologica di democrazia, in cui il popolo è inteso
> come soggetto passivo non autorizzato ad attivarsi per concorrere
> democraticamente alla politica nazionale.
La piazza e le strade, invece, diventano terreno di contesa e di comunicazione
unilaterale. Quanti feriti tra le forze di polizia, quanti facinorosi tra le
fila dei manifestanti. In questo modo, il corpo degli agenti viene
strumentalizzato, divenendo esso stesso mezzo di repressione. Non solo
attraverso le braccia armate di scudi e manganelli, ma anche attraverso i
referti medici, dal quale conseguiranno anni di galera per i manifestanti.
Questi ultimi, magari, individuati in modo approssimativo tramite le bodycam
previste dall’art. 21 del decreto, da cui vengono estratte immagini
decontestualizzate da utilizzare per risalire ai volti presenti in situazioni
concitate, come quelle che si verificano durante una carica della polizia.
Dietro la repressione del dissenso e il contenimento muscolare della marginalità
sociale, sulle strade, in carcere o nei CPR, c’è un non tanto velato desiderio
di disciplinamento e di addocilimento forzato. Manifestare oggi è quindi
necessario per poterlo fare anche domani, in ogni luogo.
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Quando in Italia accadeva quello che accade oggi per esempio in Turchia.
Arrestavano gli avvocati o li costringevano a rifugiarsi all’estero. Con l’alibi
della “lotta al terrorismo” lo stato democratico nato dalla Resistenza
antifascista massacrava il diritto di difesa identificando i legali con la
“banda armata” di cui erano accusati di far parte i loro assistiti. Gabriele
Fuga racconta la sua vicenda giudiziaria politica e umana nel libro che ha per
titolo “La cella dell’avvocato”
di Edoardo Todaro da Carmilla
“ Anni di piombo “ è questa la definizione che va per la maggiore nel definire
un periodo importantissimo nella storia del conflitto sociale e politico, quello
che si è prodotto negli anni ‘70. In questo paese, in quel periodo si è
sviluppato un movimento che non ha avuto paragoni in altri paesi occidentali.
Tanti i motivi sul perché in Italia si sia sviluppato tale percorso, certo non è
questo l’ambito. La liberazione dal nazifascismo sta subendo, da molti anni a
questa parte, un percorso di omologazione tra vinti e vincitori. Do you remember
Violante e le ragioni dei vinti? La morte non fa distinzioni, di fronte ad essa
siamo tutti uguali.
Questo in estrema sintesi, il percorso intrapreso in questi anni per arrivare ad
una riscrittura della storia, per arrivare alla famosa memoria condivisa. Tutti
uguali nella liberazione? Equiparare liberatori ed oppressori se si parla della
lotta di liberazione avvenuta nel ’45. Rimuovere e silenziare se si parla degli
anni’70; cosa sono stati gli “ anni ’70 “ in questo paese? Un conflitto sociale
politico/sindacale/sociale si è manifestato e come è stato possibile che in
una” democrazia compiuta “ si verificasse un possibile “ assalto al cielo “ che
potesse rimettere in discussione rapporti di forza consolidati a favore del
potere capitalistico, messa in discussione concretizzatisi con “ il mettere
paura “.
I protagonisti di quell’esperienza, spesso e volentieri finiti ad espiare il
proprio essere soggetti di una rottura epocale nelle patrie galere, devono
restare in silenzio, non farsi portatori del raccontare la propria esperienza ,
del proprio vissuto. Come si diceva un tempo “ a futura memoria “, a monito per
le nuove generazioni che si affacciano nell’essere protagoniste della messa in
discussione dello stato di cose presenti. Se prendi in considerazione che il tuo
impegno politico, la tua appartenenza al conflitto sociale in atto possa
esprimersi anche in forme incompatibili con l’ordine costituito, sappi che ti
teniamo sotto controllo, anzi che se pensi di farla frana, ti raggiungeremo
anche a distanza di decenni e te la faremo pagare, perché il potere non
dimentica. . Che sia capitato una volta? Ci può stare. Ma che non si ripeta
mai! Abbandono queste considerazioni, sicuramente ci sarà occasione per
tornarci, per dire alcune cose rispetto a “ La cella dell’avvocato “.
Gabriele Fuga, l’avvocato Gabriele Fuga, ci riporta ad un qualcosa di molto
importante, un qualcosa che deve essere conosciuto. Per tantissimi anni il
conflitto sociale aveva assunto tali dimensioni di scontro e di massa, che
rispondere alla repressione rientrava nei compiti di tutti nessuno escluso.
Certo c’era anche una nutrita schiera di legali che si prestavano a sostenere
coloro che venivano colpiti dai provvedimenti repressivi, ma il farvi ricorso
era, per così dire, una modalità tutta interna alle “ dinamiche di movimento “.
Ad un certo punto, la repressione ha accentuato il suo agire ed il movimento ha
attenuato la sua forza d’urto, anche su questo ritorneremo, e l’aspetto della
difesa legale ha assunto proporzioni considerate, prima, importanti ma
secondarie. Prima, se un operaio veniva licenziato, rivolgersi ad un legale era
ovvio; impugnare il licenziamento un percorso da praticare ma sapendo che il
rientro in fabbrica poteva avvenire non tanto grazie non solo a sentenze
favorevoli ma soprattutto alla solidarietà dei propri compagni che ti
riaccompagnavano in azienda portato a spalla. Quindi riprendendo il filo
lasciato qualche riga sopra, Gabriele Fuga rappresenta una figura emblematica
all’interno di un effetto a catena: avvocato/imputato; imputato/avvocato e così
all’infinito,infatti ad esempio lui sarà difensore di Spazzali e poi dovrà
trovarsi un difensore. Numerosi i nomi che hanno segnato quel periodo da
Spazzali, arrestato, ad Arnaldi, suicidatosi per evitare l’arresto dovuto al
pentito di turno, perché il numero di chi fa dichiarazioni infamanti si
accentua.. La sua vicenda riporta alla luce, appunto, la figura del pentito, in
questo caso Paghera, un detenuto comune politicizzato in carcere, addirittura
l’assistito che diviene accusatore. Avvocati soprattutto, ma non solo, che si
ritrovano attorno a una realtà fondamentali per la solidarietà che riuscì ad
esprimere concretamente: “SOCCORSO ROSSO” ed il “Comitato Internazionale per la
Difesa dei Detenuti Politici”.
L’accusa per l’avvocato Seguso/Fuga è quella usuale per coloro che svolgevano
quell’attività: partecipazione a banda armata ed associazione sovversiva, anello
di collegamento tra il difeso ed i “ complici “ fuori; accusa che farà sì che
nessuno un domani accetterà di farsi difendere da loro, questo è quel succede ai
compagni/avvocati, le idee sotto processo. Fuga che mantiene il proprio ruolo
anche nella fase detentiva con consulenze, ovviamente gratuite, in carcere
perché la sua professione deve essere un aiuto a coloro che in vari modi si
pongono contro lo stato, ma anche per le guardie che sono al servizio dello
stato. Fuga a San Vittore che diviene un inquilino a tempo indeterminato, tra
l’incriminazione per appartenere ad Azione Rivoluzionaria e poi a Prima Linea.
Carcere a confronto ieri/oggi: la descrizione delle celle d’isolamento; del
rancio; del bugliolo; del sovraffollamento sempre presente; la sveglia; la
perquisizione della cella; la corrispondenza in entrata ed uscita sottoposta a
controllo; le domandine per qualunque cosa a cui poter accedere; l’autoerotismo;
il consumo di playgil; ma sicuramente la solidarietà su tutto, quella
solidarietà elemento importante in una comunità chiusa come il carcere, ed a
quell’epoca, le discussioni politiche. Il tutto per dire che il carcere è uno
zoo umano e l’aspettativa è riposta verso la decorrenza termini.
Un viaggio attraverso i carceri italiani da Volterra, con la rivolta,a Porto
Azzurro dove si sta quasi bene, ai carceri della Toscana come Pisa molto simile
al Sud America. Fuga sottoposto ad un processo, macchina del fango, costruito
sulla credibilità di due pentiti. Su tutta questa vicenda avrà importanza
particolar il rapporto con Mario Dalmaviva, uno dei tanti imputati/condannati
della cosiddetta operazione 7 aprile, il quale metterà al servizio di Fuga le
sue vignette, che di satirico avranno ben poco, se non il mettere in discussione
il pianeta carcere. Possiamo dire che l’esperienza di Fuga, e tanti altri, ha
lasciato il segno a tal punto che sono numerosi gli avvocati che mettono le
proprie conoscenze e capacità al servizio di chi è colpito dai provvedimenti
repressivi, anche se l’auspicio, è che finalmente potremmo assistere di nuovo ad
un movimento conflittuale che sostiene i propri compagni.
Gabriele Fuga, La cella dell’avvocato, Edizioni Colibrì; pp. 316; € 17
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Ungheria, l’antifascista Maja T. inizia lo sciopero della fame. Un anno fa
l’estradizione illegale dalla Germania dell’attivista che ora chiede di tornare
nel proprio paese e seguire da lì il processo. Le accuse sono analoghe a quelle
contro Ilaria Salis. Mercoledì il tribunale magiaro ha rinviato la decisione sui
domiciliari
di Giansandro Merli da il manifesto
«Chiedo di tornare in Germania e partecipare al processo ungherese da casa». Con
queste parole l’antifa tedesca Maja T. ha iniziato ieri lo sciopero della fame.
Mercoledì il tribunale di Budapest aveva rinviato al 20 giugno la decisione sui
domiciliari: la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Nel suo appello T.
descrive condizioni detentive che hanno l’unico scopo di piegarla come persona:
isolamento continuativo, videosorveglianza costante, ispezioni corporali
giornaliere, assenza di luce solare, cella piena di cimici e scarafaggi.
Il problema principale resta l’impossibilità del giusto processo in un paese in
cui l’indipendenza della magistratura è compromessa e le autorità politiche
hanno già stabilito che gli antifascisti coinvolti nella vicenda sono tutti
colpevoli. L’attivista è in carcere a Budapest con accuse analoghe a quelle
mosse contro Ilaria Salis, uscita di prigione grazie all’immunità da
europarlamentare (ora a rischio). Per le presunte aggressioni contro militanti
neonazisti a ridosso del Giorno dell’onore 2023 T. potrebbe ricevere oltre 25
anni di carcere. Anche in assenza di prove che dimostrino la sua partecipazione
agli attacchi (dai video proiettati in aula non ne sono emerse).
Maja T. è stata estradata in Ungheria un anno fa, con un blitz notturno della
polizia di Dresda. Mesi dopo la Corte costituzionale di Karlsruhe ha giudicato
l’azione illegale. Maja è una persona non binaria, ostaggio di un regime che
calpesta sistematicamente i diritti della comunità LGBTQI+ e che, da quest’anno,
è persino arrivato a mettere al bando il Pride.
Nel processo è sostenuta dal padre, dalla sinistra europea di The Left e dai
suoi compagni antifascisti. Questi hanno manifestato dentro e fuori il tribunale
anche nell’ultimo round di udienze, tra mercoledì e oggi. Ieri si sono svolti
cortei in sei città tedesche. Dal governo di Berlino, nuovo e vecchio, non sono
mai arrivati segnali. La sentenza è attesa dopo l’estate.
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Nuova condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani per i
maltrattamenti inflitti dalla polizia nel 2001 a Napoli, nei confronti di un
praticante avvocato dopo la manifestazione
di Eleonora Martini da il manifesto
Nuova condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani per i
maltrattamenti inflitti dalla polizia nel 2001 a Napoli, nei confronti di un
praticante avvocato dopo la manifestazione contro il Global Forum, e per «le
successive indagini». La vittima dovrà ora essere risarcita dallo Stato italiano
con 30 mila euro per danni morali.
I sette giudici che hanno firmato la sentenza di Strasburgo hanno stabilito
all’unanimità la violazione dell’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o
degradanti) della Convenzione Edu nel caso di Andrea Cioffi, allora praticante
avvocato, che il 17 marzo 2001 venne prelevato dal pronto soccorso insieme ad
altri manifestanti no global feriti durante gli scontri con la polizia, e
trasportato alla stazione Raniero di Napoli. Lì subì, insieme ad altri,
percosse, violenze e umiliazioni, minacce e abusi. Trattamenti «particolarmente
odiosi», come accertato negli anni dai tribunali italiani durante i processi ai
31 agenti di polizia imputati e accusati di vari reati ma non di tortura, perché
allora questa fattispecie non era ancora stata introdotta nell’ordinamento
italiano.
E infatti la Cedu ha condannato l’Italia anche perché le misure prese dalle
autorità per assicurare alla giustizia i responsabili «non possono essere
considerate adeguate». Scrivono i giudici: «Tra le altre sentenze, 10 agenti
sono stati condannati per sequestro di persona e condannati a pene detentive
fino a 2 anni e 8 mesi, con sospensione dai pubblici uffici. 14 agenti hanno
presentato ricorso.
Nel gennaio 2013 le condanne per sequestro di persona sono state annullate dalla
Corte d’Appello di Napoli per decorso dei termini di prescrizione, così come le
sospensioni dai pubblici uffici. Nell’ottobre 2015 la Corte di Cassazione ha
confermato tale sentenza. Al termine del procedimento, tutti i reati sono stati
definitivamente prescritti, ad eccezione di tre agenti che avevano presentato
una rinuncia espressa alla prescrizione. La maggior parte dei reati è stata
definitivamente prescritta».
Afferma la Corte che casi come questi non sono compatibili con la giurisprudenza
Edu. E ricorda che già nel 2015 (sentenza Cestaro) l’Italia era stata invitata
«a introdurre meccanismi giuridici in grado di impedire ai responsabili di atti
di tortura» di sottrarsi alla giustizia.
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I portuali in Francia si rifiutano di caricare il cargo di armi per Israele:
pronti al blocco anche a Genova. Dopo il porto di Marsiglia, il cargo israeliano
prevede un primo scalo a Genova e un secondo a Salerno, prima di tornare a
Haifa, da dove è salpato il 31 maggio
Una nave cargo israeliana dovrebbe approdare oggi al porto francese di
Fos-sur-Mer, vicino a Marsiglia, per imbarcare «in segreto 14 tonnellate di
pezzi di ricambio per fucili mitragliatori» destinati all’esercito israeliano,
hanno rivelato ieri il media d’inchiesta francese Disclose e il media irlandese
The Ditch.
Il sindacato dei portuali di Fos-sur-Mer ha reagito immediatamente. In un
comunicato pubblicato ieri, la sezione Cgt dei portuali ha avvertito che «il
container non sarà caricato sulla nave», perché gli operatori non intendono
«partecipare al genocidio in corso orchestrato dal governo israeliano». Il
container con i pezzi di ricambio per l’esercito israeliano «è stato
identificato ed è stato messo da parte», si legge nel comunicato, nel quale i
portuali affermano che «il porto di Marsiglia non deve servire ad alimentare
l’esercito israeliano».
“I lavoratori portuali del Golfo di Fos e Marsiglia non parteciperanno al
genocidio in corso orchestrato dal governo israeliano”. Così i sindacalisti
francesi della Confederazione generale del lavoro (CGT) annunciano il rifiuto a
caricare il cargo di armi destinato all’esercito israeliano, come rivelato
dall’inchiesta congiunta del sito investigativo Disclose e il media irlandese
The Ditch. “Ci hanno informato che giovedì 5 giugno avrebbero caricato dal
nostro porto pezzi di ricambio per mitragliatrici che l’esercito israeliano
utilizza per proseguire il massacro della popolazione palestinese – spiega il
più rappresentativo sindacato francese – siamo a favore della pace tra i popoli
e contro tutte le guerre, dopo aver avvisato datori di lavoro e autorità
competenti, siamo riusciti a individuare questo container carico di componenti
per munizioni prodotte dall’azienda marsigliese Eurolinks. I pallet sono stati
messi da parte e i lavoratori portuali non li caricheranno sulla nave diretta a
Haifa”.
Secondo Disclose, il cargo israeliano «Contship Era» dovrebbe caricare il
materiale bellico fabbricato dalla società francese Eurolinks a destinazione
dell’azienda di armamenti Israel Military Industries, una filiale di Elbit
Systems, «una delle principali industrie israeliane del settore delle armi» che
«fornisce munizioni di piccolo e grosso calibro all’esercito israeliano», scrive
il media francese.
Dopo l’operazione di carico a Marsiglia, la nave israeliana dovrebbe poi salpare
verso sud, facendo scalo a Genova e Salerno, prima di approdare a Haifa, nel
nord d’Israele.
La spedizione di materiale militare sull’asse Marsiglia-Israele sarebbe la terza
nel suo genere dall’inizio del 2025, riporta Disclose. La prima sarebbe avvenuta
il 3 aprile scorso, la seconda il 22 maggio. Entrambe le spedizioni contenevano
decine di tonnellate ciascuna di materiale per fucili mitragliatori, tra i quali
una serie di pezzi di ricambio «compatibili con il Negev 5», un fucile
«utilizzato a Gaza dall’esercito israeliano durante il ‘massacro della farina’»,
scrive Disclose, in riferimento all’uccisione di un centinaio di civili
palestinesi durante una distribuzione di aiuti alimentari il 29 febbraio 2024.
«Di fronte al genocidio l’unica risposta possibile è la disobbedienza civile»,
ha twittato l’eurodeputata de La France Insoumise Rima Hassan, attualmente
imbarcata sulla Madleen della Freedom Flotilla diretta a Gaza. «Ovunque nel
mondo, ci si organizza per lottare contro il genocidio a Gaza», ha scritto
Manuel Bompard, deputato Lfi di Marsiglia. La deputata comunista Elsa Faucillon
si è invece chiesta come sia possibile che la Francia permetta tali consegne,
mentre «la Spagna annulla i contratti di vendita delle armi a Israele», si legge
in un suo post su X.
La rivelazione di Disclose e The Ditch è l’ultima di una serie di inchieste
pubblicate dai media francesi negli ultimi due anni sulle vendite di armi a
Israele. Nel 2023, sempre Disclose aveva rivelato come la Francia avesse
autorizzato, alla fine del 2023, la consegna di almeno 100mila pezzi di ricambio
per fucili, suscettibili di essere utilizzati a Gaza.
L’anno scorso, a fine 2024, il giornale d’inchiesta Mediapart aveva pubblicato
un rapporto del governo sulle vendite di armi francesi a Tel Aviv. Il rapporto –
che era stato tenuto segreto – rivelava che nel 2023 la Francia aveva venduto
armi a Israele per un valore complessivo di circa 30 milioni di euro. Il governo
aveva rifiutato di chiarire se tali consegne fossero avvenute prima o dopo
l’inizio dell’offensiva su Gaza. Infine, sempre Disclose aveva pubblicato nel
giugno 2024 una serie di documenti segreti, che dimostravano come il governo
francese avesse «autorizzato la consegna a Israele di equipaggiamenti
elettronici per droni» utilizzati nei bombardamenti a Gaza, materiale fabbricato
dal gigante francese dell’armamento Thales.
Ricevuta dai colleghi francesi la comunicazione del carico di armamenti dal
porto di Marsiglia-Fos, il Collettivo dei lavoratori portuali di Genova (CALP),
sostenuto dall’Usb, ha convocato un presidio ai varchi “con l’obiettivo di
impedire l’attracco della nave ZIM Contship ERA”. Come ricostruito da Disclose e
The Ditch, il cargo israeliano prevede un primo scalo a Genova e un secondo a
Salerno, prima di tornare a Haifa, da dove è salpato il 31 maggio. “Ci opponiamo
fermamente a tutte le guerre e non vogliamo essere complici del genocidio che
continua a Gaza“, scrivono nel comunicato con il quale invitano la cittadinanza
a partecipare al presidio “a fianco di chi si mobilita contro le guerre
perpetrate dai nostri governi e in solidarietà alle vittime”.
Se giovedì verrà confermato il blocco del carico annunciato dai colleghi
francesi, i portuali di Genova sospenderanno il presidio. In ogni caso
rilanciano lo sciopero generale indetto per il 20 giugno per contestare le
stesse dinamiche. “La parola d’ordine dello sciopero sarà ‘Disarmiamoli‘, ed è
stato indetto proprio contro l’economia di guerra che stiamo vivendo, che genera
impoverimento dei lavoratori”, spiega José Nivoi, del Collettivo autonomo
lavoratori portuali e USB Mare e porti, impegnati da anni nel contrasto del
transito di armi dal porto di Genova.
La manifestazione del 20 giugno a Genova partirà dal varco di San Benigno. Il
giorno dopo i portuali hanno organizzato due pullman per unirsi alla
manifestazione nazionale, a Roma, “contro l’aumento delle spese militari e la
devastazione prodotta da decenni di moderazione salariale, ora esasperata in
nome della guerra“.
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Nuovi particolari sulla morte del trentenne colpito dal taser a Pescara: era
inerme. Il padre: perché gli hanno sparato?. Tre indagati per lesioni aggravate.
Il trentenne preso a colpi di bastone in testa. La polizia lo ha trovato già
ferito. Da diversi anni era in cura al Centro di salute mentale e a quello per
le dipendenze. Salvini spietato: «Le pistole elettriche salvano vite»
di Mario di Vito da il manifesto
Quando, poco dopo le 11 del mattino di martedì, la volante della polizia con due
agenti a bordo è arrivata in Strada Piana, nel quartiere periferico di San
Donato a Pescara, Riccardo Zappone era stato appena picchiato. Perdeva sangue
dalla testa. Forse, dicono alcuni testimoni, aveva cercato di derubare un
passante. Di sicuro era stato preso a bastonate da tre persone, ora iscritte nel
registro degli indagati per lesioni personali aggravate.
È in questa situazione, comunque, che il trentenne avrebbe avuto una crisi tale
che per i due poliziotti – «esperti», sostengono dalla questura – «è stato
necessario usare il taser». Se siano state le botte o la scarica elettrica a
causare l’infarto che lo ha colto in questura poco dopo ancora non si può dire.
Potrebbe essere d’aiuto l’autopsia effettuata ieri, ma difficilmente arriverà
una risposta chiara, perché in questi casi trovare un nesso causale è quasi
impossibile. Gli ultimi precedenti di persone decedute dopo essere state colpite
con il dissuasore elettrico parlano in maniera tragicamente chiara: gli esami
medici non sono mai risolutivi. E qui, come recitano gli atti firmati dal
sostituto procuratore Gennaro Varone, è anche ritenuta «presumibile
l’intossicazione da cocaina», un’altra possibile causa dell’arresto cardiaco.
Riccardo, da diversi anni, era in cura al Centro di salute mentale e al Servizio
per le dipendenze di Chieti con una doppia diagnosi: una di problemi
psichiatrici – per i quali gli venivano somministrati degli antipsicotici a
cadenza mensile – e una di tossicodipendenza. Chi lo conosceva lo descrive come
una persona di certo problematica ma non pericolosa: era stato sottoposto già in
più occasioni a trattamento sanitario obbligatorio, altre volte era bastato un
colloquio con la sua psichiatra per convincerlo a ricoverarsi, senza che fosse
necessario l’uso della forza. Alto e molto magro, di aspetto debilitato e
oggetto poco prima di un violento pestaggio, viene quasi naturale da chiedersi
per quale motivo martedì mattina si sia reso necessario l’uso di uno storditore
per rendere Zappone inoffensivo. Lo stabiliranno le indagini affidate alla
squadra mobile, che però per ora non sfiorano gli agenti e sono concentrate
sulla fase precedente al loro intervento, tutta immortalata dalle telecamere
pubbliche presenti sulla via, grazie alle quali è stato possibile trovare due
dei tre indagati (il primo era stato identificato già martedì).
«Riccardo non aveva problemi cardiologici e poi soprattutto mi domando: che
motivo c’era di arrestarlo se le forze dell’ordine lo conoscevano bene e
sapevano chi fosse e che tipo di patologia avesse? Non era opportuno che fosse
chiamato il 118 e ordinato il ricovero in trattamento sanitario obbligatorio
come era stato fatto le altre volte? Era davvero necessario utilizzare quella
pistola elettrica?», ha detto in un’intervista al quotidiano il Centro Andrea
Varone, il padre della vittima.
La questione del taser è centrale: le controindicazioni mediche sono note,
Amnesty International ha parlato spesso di questo strumento che si è dimostrato
dannoso ovunque nel mondo sia stato sin qui utilizzato da parte delle forze
dell’ordine, la Cassazione, con una sentenza del 2019, lo ha descritto come
«arma comune da sparo sicuramente idonea a recare danno alla persona».
Il segretario di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo, pescarese, conclude
così: «La responsabilità di questa morte non ricade solo sulla destra ma è stata
bipartisan: la sperimentazione del taser è cominciata nel 2014 con il governo
Renzi e fu rilanciata nel 2018 su iniziativa di Salvini con il governo Conte 1.
Nel 2020 l’adozione della pistola elettronica è stata confermata dal governo
Conte 2 in cui c’erano Pd e Sinistra italiana con Leu. La gravità di quella
scelta sta nel fatto che la pericolosità della pistola elettronica era già nota
quando è stata adottata». Salvini replica con un’ode al taser, come se fosse uno
strumento salvavita e non un’arma letale: «Le forze dell’ordine non lo usano per
gioco, lo usano quando ce n’è bisogno: ha salvato centinaia di vite e prevenuto
migliaia di reati. Quindi o vogliamo mettere in discussione la libertà di azione
delle forze dell’ordine e sciogliamo polizia e carabinieri e viviamo
nell’anarchia. O altrimenti andiamo avanti su quello che è una maggiore
sicurezza, che è necessaria».
Il ministro degli Interni Matteo Piantedosi, intervenuto ieri mattina a Sky
Tg24, pure ha difeso la pistola elettrica («È un’alternativa a strumenti molto
più offensivi come le armi da fuoco») ma almeno, a differenza del vicepremier, è
riuscito a non dimenticarsi che in questa storia c’è una vittima: «Andranno
sviluppati tutti gli accertamenti perché è interesse anche nostro capire se ci
sia una correlazione con l’uso del taser qualche minuto prima». Alla fine, oltre
le indagini e le domande ancora prive di risposta, resta un’immagine sola:
quella di un trentenne come tanti altri. Un morto di sicurezza come troppi
altri.
> Il taser uccide. Morire a 30 anni a Pescara
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Il decreto sicurezza è legge.
di Sergio Segio da il manifesto
Il decreto Piantedosi, approvato in via definitiva al Senato, è stato definito
«fascistissimo» a rimarcarne intenti ed effetti che superano persino il codice
Rocco.
Mitridatizzati da un ventennio di enfatizzazione della “sicurezza”, sorretta
dalla retorica bipartisan di una “cultura della legalità” declinata in chiave di
ordine pubblico e di populismo penale, rischiamo infatti di non cogliere appieno
l’involuzione autoritaria imposta dall’attuale governo.
A differenza dei precedenti (Maroni, 23 febbraio 2009, n. 11; Minniti, 17
febbraio 2017 n. 13 e 20 febbraio 2017, n. 14; Salvini, 4 ottobre 2018, n. 113 e
14 giugno 2019, n. 53; Lamorgese, 21 ottobre 2020, n. 130), l’attuale decreto
sicurezza (11 aprile 2025, n. 48) si inscrive con maggiore coerenza ed evidenza
in un progetto di forzatura costituzionale e della democrazia.
L’attenzione mediatica e i rilievi critici si sono maggiormente appuntati
sull’introduzione di nuove fattispecie di reato (14) e aggravanti (9) e sugli
aumenti di pena di cui al Capo I (Disposizioni per la prevenzione e il contrasto
del terrorismo e della criminalità organizzata) e del Capo II (Disposizioni in
materia di sicurezza urbana), trascurando quanto disposto dal Capo III (Misure
in materia di tutela del personale delle forze di polizia e delle forze armate).
Queste maggiori tutele si tradurranno in pene aumentate della metà nei casi di
violenza, minacce o resistenza nei confronti dei pubblici ufficiali per arrivare
addirittura a 16 anni di carcere nel caso di lesioni.
Non meno eloquenti e preoccupanti sono le prerogative concesse: la copertura
delle spese legali nel caso (in verità assai raro) un agente venisse processato
per fatti di servizio e la facoltà di portare fuori servizio senza licenza
un’arma diversa da quella di ordinanza.
È poi significativo che siano inserite in questo Capo anche misure relative alle
carceri e ai centri di trattenimento per i migranti, la cui ratio è di punire in
misura abnorme qualsiasi protesta e diventa massima di fronte alle Disposizioni
per il potenziamento dell’attività di informazione per la sicurezza (art. 31).
Nella formulazione dell’originario disegno di legge vi era persino l’obbligo per
le pubbliche amministrazioni, e in particolare per le università, di collaborare
con i servizi segreti e di fornire loro informazioni.
Non meno allarmanti sono le misure, rimaste nel testo trasferito nell’attuale
decreto, che consentono non solo l’infiltrazione di agenti all’interno di
associazioni con finalità di terrorismo ed eversione, ma la stessa promozione e
organizzazione di tali associazioni, con la garanzia che le identità fittizie di
copertura potranno essere mantenute anche in sede processuale. Quanto sia
pericolosa e potenzialmente estensibile tale norma ce lo mostra, ad esempio, la
vicenda di Potere al popolo di Napoli – per inciso, si tratta di un partito
politico democratico e non un gruppo sovversivo – che ha recentemente denunciato
la presenza di un poliziotto infiltrato in incognito tra le proprie fila.
Alla repressione generalizzata e al “diritto penale del nemico” rivolto alle
“classi pericolose”, ovvero a ecoattivisti, dissidenti politici, occupanti di
case per bisogno, utilizzatori di cannabis per diletto o per mestiere,
lavoratori in lotta, studenti contestatori, madri in carcere, migranti, poveri e
marginali in genere, si accompagnano insomma la più classica impunità per le
illegalità in divisa e una nuova strategia della tensione, a loro volta
funzionali a un processo di fascistissimo irrigidimento liberticida.
Contro cui è però forte e crescente la reazione dal basso, come mostra la grande
manifestazione a Roma del 31 maggio e il partecipato digiuno a staffetta in
corso.
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ll Decreto Sicurezza “paura e repressione” è stato approvato in Senato in via
definitiva. 109 sono stati i voti favorevoli, 69 i contrari.
Con 109 voti favorevoli, 69 contrari e una sola astensione, è stato dato il via
libera anche dal Senato al decreto Sicurezza che, dopo l’approvazione alla
Camera dello scorso 29 maggio, diventa così legge. Sul decreto, uno dei
provvedimenti bandiera del governo Meloni, era stata apposta la scorsa settimana
la questione della fiducia, che aveva in questo modo impedito che fossero
apportate ulteriori modifiche al testo.
Diventa così effettiva l’introduzione di 14 nuovi reati, e 9 le aggravanti
aggiuntive. che spaziano dalla resistenza passiva alla ribattezzata ‘norma anti
Gandhi’, fino alla stretta sulla cannabis light, a un nuovo regime per le
detenute madri, alle cosiddette norme ‘anti No-Tav e anti No-Ponte’, alla
garanzia di impunità alle violenze e abusi da parte delle forze dell’ordine
Il decreto riproduce sostanzialmente i contenuti del disegno di legge sicurezza:
confrontando i testi dei due provvedimenti sono 12 gli articoli che hanno subito
modifiche, anche minime, rispetto al testo originario. Tra le modifiche più
consistenti rientrano le norme sulle detenute madri e quelle relative alle sim
telefoniche per cittadini extra Ue.
TERRORISMO
Si introducono nuove fattispecie di reato in materia di detenzione di materiale
contenente istruzioni per il compimento di atti di terrorismo e di divulgazione
di istruzioni sulla preparazione e l’uso di sostanze esplosive o tossiche ai
fini del compimento di delitti contro la personalità dello Stato.
ACCATTONAGGIO
Si inaspriscono le pene per chi impiega minori nell’accattonaggio (fino a 5 anni
di reclusione)
REATI VICINO A STAZIONI TRENI E METRO
Si introduce una nuova circostanza aggravante che scatta quando il reato è
commesso all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie o
delle metropolitane o all’interno dei convogli adibiti al trasporto passeggeri.
Tale circostanza si applica ai delitti non colposi contro la vita e l’incolumità
pubblica e individuale, contro la libertà personale e contro il patrimonio o che
comunque offendono il patrimonio.
IMMOBILI OCCUPATI
Viene introdotto il reato di occupazione arbitraria di immobile destinato a
domicilio altrui (o delle relative pertinenze, come garage o cantine) e una
procedura d’urgenza per il rilascio dell’immobile e la conseguente
reintegrazione nel possesso. Il reato è punito con la reclusione da 2 a 7 anni e
si prevede una causa di non punibilità in favore dell’occupante che collabori
all’accertamento dei fatti e ottemperi volontariamente all’ordine di rilascio
dell’immobile.
STRETTA SU MANIFESTAZIONI
Inasprimento delle pene per il delitto di danneggiamento in occasione di
manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico qualora il fatto sia
commesso con violenza alla persona o minaccia. È prevista la pena della
reclusione da 1 anno e 6 mesi a 5 anni e della multa fino a 15.000 euro. Si
prevede l’arresto in flagranza differita quando il fatto è commesso in occasione
di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico.
BLOCCO STRADALE E NORMA ANTI GANDHI
Diventa illecito penale – in luogo dell’illecito amministrativo – il blocco
stradale o ferroviario attuato mediante ostruzione fatta col proprio corpo. La
pena è aumentata se il fatto è commesso da più persone riunite. Potrà essere
punito con un mese di carcere e una multa fino a 300 euro. Ma se avviene nel
corso di una manifestazione, e sono più persone a bloccare la strada, allora la
pena può arrivare fino a sei anni.
DETENUTE MADRI
È una delle norme più controverse e contestate e al centro anche dei rilievi del
Colle. E’ stata modificata, allentando la ‘stretta’, rispetto al testo
originario: si rende comunque facoltativo, e non più obbligatorio, il rinvio
dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di figli di età
inferiore ad un anno e si dispone che scontino la pena, qualora non venga
disposto il rinvio, presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri.
Inoltre l’esecuzione della pena non è rinviabile ove sussista il rischio, di
eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti. Il differimento
della pena può essere revocato se la madre ha comportamenti che potrebbero
arrecare un grave pregiudizio alla crescita del minore. Se la pena non viene
differita, per le madri di figli di età compresa tra 1 e 3 anni la pena potrà
essere eseguita presso un Icam solo se le esigenze di eccezionale rilevanza lo
consentano.
CANNABIS
Viene disposto il divieto di importazione, cessione, lavorazione, distribuzione,
commercio, trasporto, invio, spedizione e consegna delle infiorescenze della
canapa (Cannabis sativa L.), anche in forma semilavorata, essiccata o triturata,
nonché di prodotti contenenti tali infiorescenze, compresi gli estratti, le
resine e gli olii da esse derivati. Si prevede che, in tali ipotesi, si
applicano le sanzioni previste per gli stupefacenti e sostanze psicotrope. Il
divieto non ricomprende la produzione agricola di semi destinati agli usi
consentiti dalla legge entro i limiti di contaminazione.
NORMA ANTI NO TAV E NO PONTE
Così ribattezzata in quanto viene introdotta un’ulteriore circostanza aggravante
se la violenza o minaccia a un pubblico ufficiale è commessa al fine di impedire
la realizzazione di un’opera pubblica o di una infrastruttura strategica.
BODY CAM PER FORZE DELL’ORDINE
Si consente alle Forze di polizia di utilizzare dispositivi di videosorveglianza
indossabili nei servizi di mantenimento dell’ordine pubblico, di controllo del
territorio, di vigilanza di siti sensibili, nonchè in ambito ferroviario e a
bordo treno.
TUTELA LEGALE FORZE ORDINE
Viene previsto il riconoscimento di un beneficio economico a fronte delle spese
legali sostenute da ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia
giudiziaria, nonché dai vigili del fuoco, indagati o imputati nei procedimenti
riguardanti fatti inerenti al servizio svolto. Il beneficio è riconosciuto a
decorrere dal 2025.
NORMA ANTI ECOVANDALI
Si prevede che se viene imbrattato un bene mobile o immobile adibito
all’esercizio di funzioni pubbliche, con la finalità di “ledere l’onore, il
prestigio o il decoro” dell’istituzione alla quale appartengono, si applica la
pena della reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi e la multa da 1.000 a
3.000 euro.
REATO DI RIVOLTA IN CARCERE E NEI CPR E RESISTENZA PASSIVA
Si introduce un’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi,
applicabile se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario o a
mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute; si prevede poi il
delitto di rivolta all’interno di un istituto penitenziario. Viene inoltre
previsto un nuovo reato finalizzato a reprimere gli episodi di proteste violente
da parte di gruppi di stranieri irregolari trattenuti nei cpr. Si introduce il
reato di resistenza passiva: si tratta delle condotte che impediscono il
compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione
dell’ordine e della sicurezza. Infine, vengono semplificate le procedure per la
realizzazione dei centri di permanenza per i rimpatri attraverso la possibilità
di derogare ad ogni disposizione di legge ad eccezione della legge penale e del
codice delle leggi antimafia e dell’Unione europea.
ARMI SENZA LICENZA
Si autorizzano gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza alcune
tipologie di armi quando non sono in servizio.
SIM TELEFONICHE
Norma controversa e oggetto dei rilievi del Colle, modificata rispetto al testo
originario: per acquistare una sim telefonica, un migrante dovrà presentare un
documento d’identità, non più il permesso di soggiorno come prevedeva il ddl.
SERVIZI SEGRETI
Dal decreto è saltato l’obbligo della pubblica amministrazione a collaborare con
i servizi segreti.
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