Source - Osservatorio Repressione

Pedagogia sicuritaria e istituzione scolastica
Lo stato della propaganda e la propaganda di stato. Isernia: un caso emblematico di Alessandro Ugo Imbriglia Lo scorso 25 marzo, il sindacato autonomo di polizia ha ricevuto, nella città di Isernia, gli studenti dei tre istituti di scuola superiore della città, per celebrare – nei modi in cui si conviene – il suo decimo congresso provinciale. Il quotidiano Primo Piano Molise ha estratto alcune fra le considerazioni più significative dei promotori e degli invitati. Commentiamone alcune. La segretaria provinciale del sindacato autonomo di polizia, Sonia Iacovone, ha affermato: «Questo incontro è stato fortemente voluto dal Sap. Abbiamo coinvolto i ragazzi per dare una prospettiva diversa a questa giornata. Vogliamo partire dalle loro curiosità, dai loro dubbi, dai loro punti di vista, per capire meglio il concetto di sicurezza, per capire come loro vedano la legalità, ma anche il ruolo delle forze dell’ordine. Insomma, vogliamo riflettere su questi valori, che sono fondamentali per la nostra società». Dall’estratto emerge un’evidente puntualizzazione, che è probabilmente la più significativa: «vogliamo riflettere su questi valori, che sono fondamentali per la nostra società». Sicurezza e legalità sono dunque annessi al rango di valore, di concetti–valore. Ciò cosa significa? Quando un significante assurge a valore esprime, su un piano semantico, il massimo grado di generalità: poste in questo ordine, legalità e sicurezza devono apparire, in seno alla propaganda, come idee “increate”. Esse sono collocate, all’interno del discorso di stato, per essere recepite come tali, dunque inamovibili, in una posizione che dovrà essere intesa e assimilata come elemento permanente rispetto alle sue modalità di applicazione e agli effetti che ad esse conseguiranno. Un concetto-valore, espresso nei termini succitati, attribuisce a sé stesso una grande forza generativa, poiché compare, anzitutto, come elemento inderivato: prima di esso non v’è nulla, nulla da cui possa dipendere o da cui possa conseguire. Per tal motivo si appone al sostantivo “valore” un attributo ovvio, ad esso implicito, qual è il termine “fondamentale”. La legalità deve essere concepita come fondamento primo, come basamento. È essa stessa a costituire, sia sul piano concettuale, sia sul piano fattuale, la fonte unica e originaria di potenziali effetti, conseguenze e derivazioni. Poste in questi termini, sembra che alla legalità e alla sicurezza non preesista una forza, una fonte che, sul piano anzitutto dell’idea, sia in grado di stabilirne e contenerne la dimensione semantica, la posizione sintattica e la funzione operativa. Ecco che allora “il ruolo delle forze di polizia” assume, nell’ordine del discorso, una configurazione autolegittimante, poiché si manifesta come immediata espressione dei concetti-valore, quali sembrano essere la legalità e la sicurezza. In quest’ottica l’eurodeputato Aldo Patriciello ha espresso le seguenti considerazioni: «Gli agenti di polizia sono il baluardo della democrazia e soprattutto sono per noi un punto di riferimento per rappresentare la presenza dello stato. Questa iniziativa mira dunque a riconoscere alle forze di polizia e al sindacato di polizia quel lavoro silenzioso, costante che fanno quotidianamente a difesa della democrazia e soprattutto a difesa dei cittadini».  Questa costruzione di significati presenta quantomeno delle aporie: in un’entità statuale, la funzione strategica delle forze polizia consiste – sia sul piano operativo, sia sul piano simbolico – nell’imposizione e nel consolidamento di un principio weberiano: l’utilizzo della forza fisica – l’utilizzo della violenza – è monopolio incondizionato dello stato. Lo stato detiene l’indiscutibile monopolio della forza fisica. Questa è la priorità strategica di un corpo di polizia, in quanto derivazione di uno o più apparati di potere. Essa è tenuta a ribadire e conservare – nella propria funzione simbolica e operativa – tale principio. L’obiettivo delle forze di polizia non consiste certamente nella “difesa della democrazia”, bensì nella tutela di un sistema di apparati – istituzionali, politici ed economici – annessi e connessi allo stato. A riguardo, ciò che è possibile osservare come “difesa dei cittadini” è solo uno dei molteplici effetti – delle funzioni derivate, secondarie – prodotti dal perseguimento dell’obiettivo strategico di cui sopra. In realtà, la “difesa della democrazia” può essere detenuta, e legittimamente ambita, dai cittadini. E sono i cittadini ricompresi in specifiche classi, quelle subalterne, a costituire un elemento nevralgico nella difesa di ciò che intendiamo con il termine democrazia. Dunque a cosa assistiamo? Il potere, che in tal caso corrisponde immediatamente allo Stato, eleva degli indicatori – dei fattori circoscrivibili e misurabili quali sono la legalità e la sicurezza – al grado di valore-concetto. È un’operazione di astrazione, con la quale si idealizza uno specifico stato delle cose e/o un obiettivo strategico. Tale operazione mira anzitutto a produrre un immaginario o a colonizzarne uno già esistente; il suo fine ultimo, invece, può essere individuato nella costruzione del consenso, o – in maniera più sottile – nella produzione delle condizioni meno favorevoli all’emersione del dissenso. La mistificazione consiste per l’appunto in una sorta di rovesciamento, che è prima sintattico e poi sociologico: in una condizione di effettiva democraticità, legalità e sicurezza sarebbero concepiti e adoperati come due semplici variabili, due categorie descrittive che misurano, in termini qualitativi e quantitativi, un oggetto dell’indagine, uno fra i numerosi oggetti empirici di cui può disporre un campo di ricerca, come la qualità e la quantità di specifiche condotte criminose, o, più precisamente, la corrispondenza fra precise condotte e le tipologie di reato codificate dal diritto. Detto ciò, l’oggetto empirico – l’adozione di una condotta legale o illegale, ad esempio – si conferma, il più delle volte, come un effetto, una conseguenza. Esso ha poco o nulla a che vedere con la valenza “pedagogica” del binomio legalità/sicurezza o con l’adesione a tali concetti-valore.  Al contrario, l’adozione di una condotta “illegale” può scaturire dalla convergenza di molteplici fattori, quindi dell’azione, più o meno congiunta, di molteplici fenomeni. Sulla base dell’impatto o dell’andamento che tali fenomeni registrano in un dato contesto sociale potrà derivare, invero, una specifica condizione di legalità/illegalità o sicurezza/insicurezza, né più né meno. Riflettiamo. In un dato luogo, a partire da specifiche condizioni socio-economiche – tasso di occupazione; livello di produttività; qualità delle condizioni contrattuali etc. – si potrebbe registrare un determinato “grado” di legalità e sicurezza, non certo il contrario. La penuria materiale, il logoramento progressivo e costante delle condizioni di vita possono spingere, o costringere, coloro che versano in tali condizioni ad adottare condotte che violino il principio di legalità. Si tratterebbe, in molti casi, di stratagemmi o espedienti per poter vivere, o sopravvivere, appena al di sopra di quella soglia che separa la dignità dall’indecenza. Al contempo, nel medesimo luogo, precise condizioni socio-politiche – corruzione della classe politica e dei colletti bianchi; scambio voto/lavoro; privilegi di ceto connessi a specifici esiti elettorali e rapporti economici etc. – potrebbero generare o esacerbare un forte rancore sociale. Tale risentimento, connaturato a una specifica condizione di esclusione sociale, potrebbe registrare, a sua volta, una significativa incidenza sull’emersione di molteplici condotte “devianti”, e dunque sul “grado” di illegalità e insicurezza che caratterizzano il contesto sociale considerato. In ultimo, specifiche scelte di economia pubblica e welfare – disinvestimento nell’edilizia popolare; espansione della sanità privata a discapito della sanità pubblica; gestione iniqua delle principali fonti di vita (risorse idriche ad esempio) – potrebbero generare o accrescere una concorrenza cinica, spietata, fra coloro che non hanno accesso a un reddito minimo, a una dimora stabile e a prestazioni sanitarie di base o specialistiche. Le penuria e la scarsità delle risorse alimenterebbe conflitti laceranti fra le classi subalterne, fra proletari e sottoproletari. Va da sé che in questa lotta “fratricida” – combattuta, attualmente, in molte periferie delle città italiane – possano emergere condotte criminose. In definitiva, tutte le variabili e le dinamiche passate in rassegna possono co-determinare specifici livelli di legalità e sicurezza. Legalità e sicurezza sono i risultati, gli effetti, di queste complesse combinazioni. Ridimensionare o escludere dal discorso fondamentali variabili di carattere economico-produttivo, sociopolitico, amministrativo-partitico e imprenditoriale, a favore di un indottrinamento alla legalità e alla sicurezza – intese come a priori, come concetti-valore che, di per sé, possono e devono essere imposti in termini pedagogici e propagandistici – non fa che certificare uno scivolamento autoritario, dalla chiara impronta mistificatoria. Lungo questo crinale si assiste dunque alla imponente e assillante generazione di un feticcio: legalità e sicurezza avrebbero, in sé, un valore intrinseco e inalienabile, in grado di garantire condotte sociali “accettabili”, ergo compatibili con quanto il diritto penale e l’esecuzione penale approvano o, per converso, deplorano. Si tratta, in tal caso, di una mistificazione ideologica, poiché il discorso rovescia, o meglio occulta, l’effettivo nesso tra cause ed effetti, elevando gli effetti – legalità e sicurezza – ad assiomi, a concetti-valore da inculcare. Tale lavorio ideologico misconosce le serie di cause e concause da cui dipendono, nei fatti, specifiche determinazioni storiche e sociali, come la forma e il grado di legalità o sicurezza in un dato luogo e in un dato momento, ad esempio. Il carattere elusivo di questa manipolazione lascia innominati una serie di significanti che uno stato realmente democratico potrebbe, e dovrebbe, elevare a concetti-valore. È il caso dell’equità, ad esempio. L’equità potrebbe essere “idealizzata” e collocata in questa posizione apicale. Un valido corollario dell’equità potrebbe essere composto dalle seguenti categorie concettuali: soddisfazione dei bisogni primari, giustizia sociale e parità dei diritti. Nel verso opposto, quando al rango di concetti-valore sono collocati la legalità e la sicurezza, giustizia sociale, redistribuzione della ricchezza alla forza-lavoro, riconoscimento dei diritti alle minoranze, accesso alle risorse vitali (acqua, cibo, casa) subiscono, il più delle volte, effetti regressivi. Retrocedendo, divengono fattori opzionali, e in quanto tali sono facilmente eliminabili, giacché l’operazione ideologica dello stato sovrastima, indefinitamente, l’incidenza positiva che i valori-concetto di legalità e sicurezza avranno sulle condotte individuali e collettive. Tale pedagogia è imposta sulla base di una subdola e malcelata consapevolezza: sono specifiche logiche di mercato, condizioni economiche, sociali e politiche che, in verità, producono, in misura differente ma combinata, determinate condotte legali o illegali. In spregio a tali evidenze, legalità e sicurezza sono altresì ricostituite come un valore-concetto dal segno esclusivamente positivo. Ad oggi è altamente improbabile che tale segno possa essere messo in discussione, a meno che non siano le classi subalterne a riqualificare la collocazione, l’incidenza e la funzione dei termini “legalità” e “sicurezza”. In conclusione, cosa suggerisce tutto ciò? La legalità e la sicurezza dei cittadini vengono prima di ogni altra cosa. È da manuale lo slogan adottato dal sindacato autonomo di polizia e dalla dirigente scolastica dell’Isis Fermi-Mattei di Isernia. È un messaggio che arriva immediatamente alla pancia, che sollecita un primitivo bisogno di autoconservazione. Nel binomio legalità/sicurezza, il primo termine è assorbito dal secondo, in una voragine di pulsione sicuritaria. Slogan di questo genere sono il peggior veleno per la democrazia, poiché parlano al nostro istinto e dunque trovano una prima, istantanea, accoglienza: tutti siamo spaventati dalla mancanza di sicurezza, e una promessa sicuritaria, istintivamente, ci rassicura. Ma in questo modo il corpo della democrazia assimila gradualmente uno spirito che gli è contrario, e questo spirito, lentamente, la corrompe, la svuota dall’interno, come il più letale dei mali. Non è vero che la legalità e la sicurezza dei cittadini vengono prima di ogni altra cosa. Non è questa la democrazia. Non è questo lo stato di diritto. Se per legalità si intende il rispetto della legge, in un’effettiva democrazia esso non è l’elemento, il valore-concetto, che precede ogni altra cosa: una legge è sempre e solo la volontà espressa dalla maggioranza; la democrazia non dovrebbe essere il regime in cui comanda la maggioranza, ma quello in cui sono tutelate le minoranze. Nel gioco delle parti, la legge è sì espressione della volontà della maggioranza, ma essa non può negare i princìpi della dignità della persona e i suoi corollari, così come fissati nell’assiologia costituzionale. Dunque non è il rispetto della legge – la legalità – a precedere ogni altra cosa, ma il rispetto della dignità dell’uomo e dei suoi diritti fissati in Costituzione. Quanto all’altro polo dello slogan – la sicurezza –, sì, certo, la sicurezza costituisce una priorità, ma occorre essere cauti: la sicurezza non può essere ridotta alla mera tutela dell’integrità fisica delle persone; quest’ultima dimensione ne costituisce certamente una misura minima, ma non esclusiva. Del resto, tale sicurezza potrebbe essere garantita anche in un regime autoritario, in un regime oppressivo. Si può essere “sicurissimi”, sotto questo punto di vista, anche in un regime di privazione assoluta della libertà. La sicurezza cui mira la nostra democrazia è invece un’altra cosa; essa è la sicurezza sociale a cui si riferisce l’articolo 3, secondo comma, della nostra Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese». E di questa sicurezza chi ne parla più? È forse il caso di sottoporre tale quesito al sindaco di Isernia, Piero Castrataro, così che possa riflettere sull’assennatezza e sulla validità delle proprie riflessioni. Secondo il primo cittadino di Isernia è stata «una scelta vincente quella di coinvolgere gli studenti dei tre istituti superiori della città» nella celebrazione del decimo congresso provinciale del sindacato autonomo di polizia.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
riflessioni
misure repressive
Poteve Opevaio. Fantozzi e l’astrazione kafkiana del padrone
Mentre non è ancora morto il Poteve Opevaio, schiere di sfruttati continuano a prendere il bus al volo di Marco Sommariva da Carmilla Per la regia di Luciano Salce, il 27 marzo 1975 usciva nei cinema Fantozzi, e il giorno del cinquantesimo anniversario – giovedì 27 marzo 2025 – tornerà nelle sale questo primo leggendario capitolo della saga del Ragionier Ugo; a festeggiare lo storico personaggio inventato da Paolo Villaggio, sarà una versione del film rimessa a nuovo dal laboratorio di restauro cinematografico L’Immagine Ritrovata, con la supervisione di Daniele Ciprì per il processo di color correction. Fantozzi nasce nelle storie che Villaggio scrive per “L’Europeo”, un settimanale d’attualità edito da Rizzoli pubblicato sino al 2013; diventerà un libro nel 1971, quando lo stesso editore del settimanale gli proporrà di raccogliere queste storie in volume. Nella premessa del libro datata luglio 1971, l’attore genovese scrive: “Con Fantozzi ho cercato di raccontare l’avventura di chi vive in quella sezione della vita attraverso la quale tutti (tranne i figli dei potentissimi) passano o sono passati: il momento in cui si è sotto padrone. Molti ne vengono fuori con onore, molti ci sono passati a vent’anni, altri a trenta, molti ci rimangono per sempre e sono la maggior parte. Fantozzi è uno di questi. Nel suo mondo il padrone non è più una persona fisica, ma un’astrazione kafkiana, è la società, il mondo. E di questa struttura lui ha paura sempre e comunque perché sa che è una struttura-società che non ha bisogno di lui e che non lo difenderà mai abbastanza. Questo per lo meno qui da noi. Ma questo rischia di diventare un discorso politico troppo serio per uno «scherzo» quale deve essere tutta questa faccenda del «libro» e mi fermo qui”. Era ed è sì un discorso politico: lo era allora, quando sul viso di Fantozzi ritrovavamo tutte le sconfitte dell’impiegato medio italiano, non una caricatura, ma una discarica pubblica dove ci si alleggeriva tutti, in cui si evacuavano le risate amare che le nostre facce da culo producevano guardando le genuflessioni del Ragionier Ugo davanti allo stesso Megadirettore Galattico che ci aspettava l’indomani in ufficio, al quale rispondevamo “faccio subito” intanto che speravamo che qualcuno gli sparasse nelle gambe; lo è al giorno d’oggi, mentre una struttura-società che non ha bisogno di noi e non ci difenderà mai abbastanza, ci sta sfruttando con quella viscida delicatezza che cinquant’anni fa ancora non esisteva, che prevede di non prenderci a manganellate perché, con gli anni, è stata capace di convincerci che dobbiamo essere noi a manganellare i nostri pari che non seguono le direttive dei potenti – non a caso, nella stessa premessa l’autore ci consiglia coi potenti “di essere vischiosi, servili e sempre d’accordo anche su posizioni «fasciste»”, un po’ come certi conduttori televisivi che da decenni non riusciamo a scollarceli di dosso, regnanti indiscussi di squallidi studi televisivi consacrati alle celebrazioni del regime. Sul manganellare i nostri pari, Villaggio aveva capito che era un processo già iniziato: “[…] la pesantissima boccia di metallo di 42 chili centrò in piena nuca il suo direttore, che aveva accostato alle labbra in quel momento un bicchiere di vino ristoratore. Fantozzi non si fermò neppure a chiedere scusa ma si diede alla macchia sulle montagne. Cominciò allora una delle più feroci cacce all’uomo degli ultimi centovent’anni. Parteciparono alla ricerca cani-poliziotto e feroci molossi napoletani, mescolati ai quali c’erano moltissimi impiegati ruffiani che si erano offerti come cani da riporto per segnalarsi presso la direzione sperando in un aumento. Dopo tre giorni e tre notti di drammatica caccia tra gli acquitrini, Fantozzi fu circondato da un gruppo di colleghi abbaianti, tenuti al guinzaglio da alcuni feroci dirigenti”. A differenza dei tanti comici che proliferano nei numerosi spettacoli d’oggi creati apposta per far ridere il pubblico e che sempre più raramente raggiungono l’obiettivo, Villaggio non ci parla di una zona dell’Italia – siciliani o calabresi “contro” milanesi, nordisti “contro” sudisti, apologie del romanesco, napoletano, toscano, eccetera – non ci parla di uomini “contro” donne e viceversa – i primi che sporcano di pipì la seduta del water, le seconde che sono intrattabili in “quei giorni” – no, Villaggio non ha alcuna intenzione di anestetizzarci con queste fesserie che fingiamo di credere esistere ancora ridendo fintamente a crepapelle perché intorno a noi altri fanno la stessa cosa, no, Villaggio ci parla dell’autobus preso al volo perché cinquant’anni fa si provava a dormire sino all’ultimo minuto dopo giornate snervanti già allora per la mancanza di senso, che mi ricordano molto da vicino la vita che fanno certe dipendenti della cooperativa che ha in appalto la pulizia degli uffici dove lavoro che, stremate dalla giornata lavorativa precedente, alle cinque del mattino prendono al volo il primo di tre autobus che, dopo un’ora e mezza di viaggio, le porterà a svuotarmi nuovamente il cestino chiedendomi scusa per il disturbo, e il tutto per un pugno di euro all’ora, lo stesso che a volte mi capita di dare in elemosina a Yassir, il ragazzo bengalese che mi riporta a posto il carrello vuoto, dopo che ho riempito l’auto coi sacchetti della spesa, situazione che a volte mi fa sentire come il Megadirettore Galattico Duca Conte Maria Rita Vittorio Balabam, il Direttore Marchese Conte Piermatteo Barambani o un altro qualsiasi feroce padrone o amministratore delegato: è un attimo saltare dall’altra parte della barricata senza neppure accorgersene. Se è vero che 1984 di Orwell fu un romanzo premonitore, vedete se vi dice qualcosa dei nostri giorni questo estratto del libro Fantozzi: “Cominciò […] una discussione tra giovani sulla contestazione studentesca e l’intervento americano in Vietnam. Fantozzi credeva di essere nel covo della reazione: ma con suo grande stupore s’accorse che più quei gran signori erano bardati con orologi Cartier e brillanti (con uno solo dei quali lui avrebbe vissuto senza patemi il resto dei suoi giorni) più erano su posizioni maoiste. La maggior parte, giudicò Fantozzi, era a sinistra del partito comunista cinese. […] L’indomani mattina lui “timbrava” alle 8: pensando a quei giovani sovversivi che si sarebbero svegliati a mezzogiorno, gli si confondevano le idee”. Questo è Fantozzi; Villaggio, invece, nella biografia in quarta di copertina della seconda edizione del libro, datata 1981, si definisce “figlio di padre ricchissimo” e per questo “a sinistra del partito comunista cinese”, non solo, sostiene che “a Roma ha fondato con un gruppo di nobili una frangia politica di estrema sinistra molto “in” che si chiama «POTEVE OPEVAIO»”. Il libro Fantozzi era anche confortante; alla rabbia di mio padre che bestemmiava nel leggere dell’ennesima apparizione mariana a una contadina quattordicenne, piuttosto che a dei bambini impegnati a sorvegliare un gregge o a una bambina belga, il concittadino e quasi coetaneo Paolo Villaggio rispondeva così: “Un giorno c’era un tale caldo che a Fantozzi alle undici del mattino, mentre era in cucina che faceva correre un po’ d’acqua per bere, comparve improvvisamente la Madonna. Era in piedi sull’acquaio e gli sorrideva, poi scomparve. “Sarà questo maledetto caldo” si disse: e decise di raggiungere la moglie in campagna. Mentre si preparava per il viaggio si domandava perché mai la Madonna per il passato si sia limitata a comparire a pastorelli semianalfabeti e in zone montuose, e mai per esempio a Von Braun, al Centro Spaziale di Houston durante una riunione della NASA. Non ricordava infatti di aver mai letto sui giornali notizie di questo tipo: “Ieri alle 16,30 la Santa Vergine è comparsa improvvisamente dietro la lavagna di un’aula gremita di studenti della scuola di ingegneria di Pisa, durante la lezione di “meccanica applicata alle macchine”. Il docente professor Mannaroni-Turri, noto ateo, è svenuto di fronte a duecento studenti”. Il libro Fantozzi è ancora confortante; alla mia rabbia condita di bestemmie che fa seguito all’ascolto di boiate pazzesche tipo quella espressa da due signore bionde col fisico scolpito che, d’estate, alla spiaggia, lamentano il “sold out” – a giugno! – nelle “location” più “in” di New York che le costringerà a trascorrere il Capodanno da un’altra parte, mentre una donna africana larga quanto le due messe assieme passa loro accanto stracarica di mercanzia che nessuno vuole, le pagine del libro mi consolano così: “A un’ora da Roma, Fantozzi andò in corridoio a fumare. C’erano due bambini molto belli biondi, figli di ricchi: tutti i figli dei ricchi sono biondi e uguali, i figli dei braccianti calabresi sono scuri, disuguali e sembrano scimmie. Erano dei bambini molto educati e non facevano rumore. Una baby-sitter americana bionda li custodiva. Uscirono dallo scompartimento le madri. Erano molto giovani, molto belle, molto ricche, molto profumate, molto eleganti e molto abbronzate: venivano da due mesi sulla neve a Gstaad in Svizzera e parlavano della gente che c’era lassù. Fantozzi le guardava con la bocca semiaperta. Le due donne cominciarono a parlare delle loro prossime vacanze al mare ed erano un po’ in pensiero perché non sapevano più dove andare: dovunque ormai andassero, dalla Corsica alle isole Vergini, trovavano della gente orribile. Fantozzi si commosse quasi per il dramma di quelle poverette. Il treno entrò alla stazione Termini. Sulla banchina c’era una tragica lunga fila di terremotati siciliani del Belice. Erano seduti sulle loro valigie di cartone […] e guardavano muti il vuoto. Una delle due signore disse: “E’ stato un anno davvero disgraziato!”. “Meno male” pensò Fantozzi “che si occupano di questi poveracci!”. “Perché?” domandò l’amica. E l’altra: “Perché non abbiamo mai avuto a Gstaad una neve così poco farinosa!” Perché mi consolano queste pagine? Perché avere testimonianza scritta che figure così mostruosamente stronze già esistevano più di mezzo secolo fa e che, quindi, certi orrori non sono solo frutto degli sfaceli della mia generazione, solleva un poco il morale: lo so, non sono messo bene. Perché la mia generazione, e pure quella dopo, di errori ne ha fatti veramente tanti, nonostante gli ammonimenti ricevuti da cinema e letteratura; avvertimenti che, ancor oggi, continuano a esser lanciati vista la produzione di Scissione, una serie televisiva statunitense del 2022 dove gli impiegati di una ditta non conoscono altro al di fuori delle attività svolte all’interno dell’azienda, sono solo schiavi asserviti al raggiungimento di uno scopo il cui significato è loro precluso. Allo sceneggiatore televisivo e produttore statunitense Dan Erickson, l’idea gli è stata ispirata da certe sue deprimenti esperienze lavorative giovanili maturate in ambito impiegatizio, un po’ come Paolo Villaggio quando, da giovane, lavorava all’Italsider di Genova come impiegato e iniziava a mettere in cantiere certe idee, ma per saperne di più su Scissione v’invito a leggere questo pezzo di Walter Catalano: Severance/Scissione: il Corporate Horror e gli incubi di Fantozzi. Conforto, consolazione, riconoscenza, ecco quello che raccolgo dal genio di Paolo Villaggio, e non sono il solo; scriveva Oreste Del Buono nell’introduzione al libro: “L’ultima apparizione di Paolo Villaggio a cui ho assistito in televisione quasi mi ha fatto piangere per la riconoscenza. La riconoscenza per chi si sobbarca il peso di tutti i diseredati dell’aspetto e del gesto, di tutti gli umiliati e offesi dalla propria bruttezza e goffaggine, di tutti i mutilati del pensiero e della prassi, dell’affabilità e della sintassi. Si era sotto le feste di Natale, magari alla viglia stessa. Avevano chiamato Paolo Villaggio in televisione per commentare insieme natività e austerità, un miscuglio di moda nel nostro disgraziato paese”. Chi aveva invitato l’attore genovese s’aspettava da lui un po’ d’umorismo, ma sbagliò i suoi conti: Villaggio si presentò trasandato, malmostoso e, parlando con piglio truce, disse “controvoglia una sgradevolezza dopo l’altra” e prese a parlar male di se stesso, perché quello aveva da dire – Paolo Villaggio non fingeva mai. A proposito di Natale, leggete quest’altro estratto del libro Fantozzi: “A casa la signora Pina gli preparò una minestra calda. Lui si sedette a tavola con uno sguardo da pazzo e diede la prima cucchiaiata. La moglie lo guardò e gli disse: “Buon Natale, amore!”. In quel momento l’albero si abbatté sulla tavola con violenza, centrò Fantozzi in piena nuca e lui tuffò la faccia nella minestra rovente. Si provocò ustioni di quarto grado. Non gli uscì un lamento: più tardi, nel buio della stanza da letto, pare che abbia pianto in silenzio con grande dignità”. Quella dignità che perdiamo quando siamo preda della sindrome da consumo; ossia, quasi sempre. Villaggio fa cenno al boom consumistico in un’intervista rilasciata alla Televisione Svizzera nel 1975: “Il piccolo Fantozzi, l’omino che per anni è vissuto nel boom consumistico, ha ricevuto dai mass-media, cioè dalla televisione, dai settimanali e da tutte le informazioni possibili, uno stimolo preciso, quasi un ordine a consumare, ad acquistare, a vivere secondo determinati schemi, e lo schema di questa filosofia era precisissimo: attento!, che se compri e ti attrezzi in determinati modi, cioè secondo la chiave consumistica, potrai essere felice, vivrai in un mondo che sarà felice e contento per mille anni. Improvvisamente, invece, un crack strano; insomma, tutto questo sistema meraviglioso, pieno di promesse, questo mondo fiabesco si è incrinato: è bastato che nel Medio Oriente una forte tensione internazionale chiudesse i rubinetti del petrolio perché tutta la grande economia mondiale entrasse in crisi”. Villaggio fa riferimento al periodo a cavallo tra il 1973 e il 1974 quando, in seguito alla crisi petrolifera, diversi governi del mondo occidentale, tra cui l’Italia, emanarono disposizioni per contenere drasticamente i consumi energetici: ricordo, per esempio, che ci si metteva d’accordo tra parenti per uscire insieme nei giorni festivi, con l’auto che poteva circolare senza prendere la multa – una domenica toccava alle macchine con targhe che terminavano col numero pari, quella dopo era il turno delle dispari. Oggi come oggi pare che il consumare, l’acquistare, il vivere secondo determinati schemi, siano azioni che non si riescano a fermare, neppure a rallentare. E se pensate che anche andare a vedere la versione di Fantozzi rimessa a nuovo faccia parte di questo circolo vizioso, quello del consumare e del vivere secondo determinati schemi, vi rispondo che andrò ugualmente a vederlo lasciandovi alla vostra erre moscia e a quella cagata pazzesca de La corazzata Potëmkin. E mentre mi si azzera la salivazione per l’emozione dovuta a questa mia intransigente presa di posizione, già sento iniziare lo scroscio dei novantadue minuti di applausi che mi renderanno immortale. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
riflessioni
misure repressive
Difendere lo Stretto costa!. Movimento No Ponte condannatə al pagamento delle spese
Lə 104 ricorrentə No Ponte non sono statə ascoltatə e addirittura condannatə a spese di giudizio spropositate (ben 348.153 euro) solo per aver esercitato il proprio diritto di accesso alla giustizia, mentre in tutto il mondo si incoraggiano le class action. Il Movimento ha deciso di ricorrere promuovendo nel frattempo un crowdfunding per sostenere le spese di Movimento No Ponte «[…] Condanna i ricorrenti indicati in epigrafe al pagamento, in favore della soc. Stretto di Messina S.p.A., delle spese del giudizio che liquida in complessivi €238.143,00 per compensi professionali, oltre oneri di legge». Con queste parole il 9 gennaio scorso il Tribunale delle imprese di Roma ha dichiarato inammissibile il ricorso dellə 104 cittadinə No Ponte gravandolə del pagamento delle spese che, con il conteggio degli oneri di legge, arrivano alla spropositata cifra di euro 348.143. Avevamo messo nel conto di potere perdere in giudizio, non certo di dover pagare una tale somma. Ma cosa chiedevano lə 104 ricorrentə? Semplicemente che un soggetto terzo, in questo caso il Tribunale di Roma, si potesse esprimere sulla correttezza delle procedure fin qui seguite dal governo e dall’azienda per realizzare il ponte sullo Stretto di Messina e di «ordinare alla società Stretto di Messina spa, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, la cessazione immediata di ogni atto o comportamento pregiudizievole dei diritti e degli interessi collettivi e diffusi e giuridicamente protetti, di ogni attività tendente all’approvazione del progetto definitivo ed esecutivo», oltre che di «dichiarare rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale» della serie di norme che hanno consentito il riavvio delle procedure per la costruzione del ponte sullo Stretto. A oggi la “pratica” ponte sullo Stretto è andata avanti solo grazie all’approvazione dei Si Ponte, ovvero il governo, la maggioranza di centrodestra del Parlamento, la Stretto di Messina, il Comitato tecnico scientifico nominato dalla Stretto di Messina e, a conclusione della procedura, sarà addirittura il Cipess presieduto dalla Meloni ad approvare il progetto definitivo. Al momento della presentazione del ricorso non era ancora stato emesso il parere della Commissione Via-Vas, risultato positivo con 62 “prescrizioni” e un parere negativo sull’impatto sulle Zps dell’area dello Stretto, commissione nella quale sono stati inseriti tecnici vicini all’area governativa. Si confidava quindi in un soggetto terzo, in questo caso il tribunale delle imprese di Roma, utilizzando lo strumento dell’azione inibitoria che, similmente alla class action, consente ai cittadini di potersi difendere davanti ai “poteri forti” rivendicando la tutela di diritti costituzionalmente protetti come in questo caso il diritto all’ambiente e alla salute. Ad avviso del Wwf la sentenza di Roma rappresenta «una pagina nera per il diritto italiano perché vengono colpiti semplici cittadini che hanno scelto di esercitare il proprio diritto di accesso alla giustizia. Mentre nel resto del mondo, sulla base di convenzioni internazionali a cui anche l’Italia aderisce, si incoraggia l’attivazione dei cittadini, singoli o organizzati in associazioni, in Italia si intende reprimere questo diritto?» Ma non è solo il Wwf a essere preoccupato per le conseguenze che questa sentenza possa avere su future azioni collettive, ma anche le associazioni consumeristiche italiane. Ben otto associazioni che tutelano i consumatori in Italia hanno richiesto, all’indomani della sentenza, un incontro con il ministro Nordio perché «Stiamo osservando un preoccupante orientamento giurisprudenziale in vari Tribunali d’Italia che di fatto tende a scoraggiare, se non proprio impedire, il ricorso alle azioni di classe da parte delle Associazioni». Le associazioni consumeristiche aggiungono inoltre che «la vicenda del Tribunale di Roma non è un caso isolato, anzi è la regola applicata dai Tribunali. In particolare, ci preme segnalare la disparità di trattamento che si crea nel calcolo delle spese legali: in caso di rigetto si applica il principio del “disputatum” e in caso di soccombenza il principio del “decisum”, violando così il principio generale di proporzionalità e adeguatezza», senza dunque tenere conto della «funzione economica-sociale delle azioni collettive, previste dall’Ordinamento europeo e nazionale in funzione di regolazione del mercato». Che fare dunque? Come testimonia la storia del Movimento No Ponte, non ci si arrende mai neanche quando ormai era tutto pronto per la messa a dimora della prima pietra del ponte nel 2006, anno in cui si tenne a Messina la più grande manifestazione No Ponte con oltre 20mila persone in piazza, che hanno sicuramente contribuito a dare la spallata decisiva per lo stop al progetto. Lə 104 ricorrenti hanno dunque deciso, tranne poche defezioni, a fare ricorso contro l’inspiegabile liquidazione delle spese (a cui non è stata data motivazione nella sentenza) e ad avviare, con l’appoggio di tutto il Movimento No Ponte, una raccolta fondi per sostenere l’onere delle spese liquidate e sostenere il nuovo giudizio, tramite la piattaforma on line “Produzioni dal basso” con il progetto di crowfunding “Difendere lo Stretto di Messina costa: sostieni il Movimento No Ponte”. Per chi volesse inoltre contribuire con bonifico IBAN: IT85G0503416504000000002792 Intestato a: ASS CULT AMB – Ragione Sociale: ASS.CULT.AMB. la città dello stretto   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
lotte sociali
appello
Processo Askatasuna: il crolla del “teorema”
Askatasuna non è un’associazione per delinquere e nessun gruppo eversivo ha operato al suo interno.  Nonostante la mobilitazione della destra, le campagne diffamatorie, gli interventi a piedi giunti dei vertici degli uffici inquirenti, la criminalizzazione di tutti coloro che hanno richiamato alla razionalità e al senso delle proporzioni, quando si è arrivati davanti a un giudice, il castello accusatorio è crollato. di Livio Pepino da il manifesto Non c’è bisogno di aspettare le motivazioni della sentenza. Basta il dispositivo. Le cose non potrebbero essere più chiare. Il teorema della procura della Repubblica di Torino e della Digos non è stato solo smentito, è stato spazzato via, sbriciolato. Askatasuna non è un’associazione per delinquere e nessun gruppo eversivo ha operato al suo interno. Di più, anche molti reati specifici sono stati esclusi e i risarcimenti milionari richiesti da presidenza del Consiglio e vari ministeri sono stati disattesi. Nonostante la mobilitazione della destra, le campagne diffamatorie, gli interventi a piedi giunti dei vertici degli uffici inquirenti, la criminalizzazione di tutti coloro che hanno richiamato alla razionalità e al senso delle proporzioni, quando si è arrivati davanti a un giudice, il castello accusatorio è crollato. La vicenda non è una piccola questione locale riguardante una ventina di «antagonisti» ma un segnale che impone da subito alcune considerazioni. Primo. Per la Digos e la procura torinese Askatasuna è un’associazione sovversiva. Per questo si è proceduto nei confronti di 86 indagati con richiesta di 16 misure cautelari e gli imputati sono stati intercettati, seguiti, controllati per una infinità di giorni e di notti. Venti anni della loro vita sono stati setacciati e scandagliati nei minimi particolare. L’ipotesi era stata ridimensionata già dal giudice per le indagini preliminari. Ma ancora tre mesi fa, in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario, la procuratrice generale di Torino ha definito la città piemontese il «centro dell’eversione» nazionale. E oggi il tribunale è stato militarizzato, come se si fosse alla soglia di una guerra civile. Ebbene il fatto che, in questo clima e dopo una così accanita ricerca di supporti all’accusa, si sia arrivati all’esclusione del reato associativo ha un valore doppio: dice non solo che non è stata raggiunta la prova del reato, ma che gli elementi acquisiti nelle indagini dimostrano esattamente il contrario, e cioè che nessuna associazione sovversiva o a delinquere è mai esistita ad Askatasuna. Nessuno, ovviamente, chiederà scusa, ma la lezione per inquirenti, media e politici alla ricerca di consenso non potrebbe essere più netta. Secondo. Non è certo la prima volta che ciò accade. Storicamente è agevole ricordare i processi contro gli anarchici dell’Ottocento: iniziati con arresti e squilli di tromba e sempre conclusi con assoluzioni generalizzate. In tempi recenti, poi, l’associazione per delinquere è stata contestata a sindacati (soprattutto nella logistica), movimenti per la casa, organizzazioni operanti per il salvataggio dei migranti e finanche a Mimmo Lucano e agli amministratori di Riace. A Torino, da vent’anni a questa parte, è all’ordine del giorno la criminalizzazione del movimento no Tav, dell’area anarchica, dei movimenti degli studenti, dei centri sociali, arrivando sino alla contestazione di ipotesi di terrorismo. E sempre le accuse di reati associativi sono state smentite dai giudici in tutti i gradi di giudizio. Ovviamente dopo anni. Sarebbe tempo che nella cultura giuridica e politica si aprisse un confronto sull’uso dei reati associativi con riferimento ai movimenti e al conflitto sociale. Nessuno lamenta – nessun movimento ha mai lamentato – che si proceda per i singoli reati intervenuti in manifestazioni e in occasioni analoghe. Quel che è democraticamente inaccettabile è altro: la configurazione dei movimenti in quanto tali come reati, com’è nella contestazione dei reati associativi. Terzo. L’esito del processo dovrà far ripensare anche a sinistra – riprendendo considerazioni fatte giorni fa su queste pagine da Giuliano Santoro – al ruolo e al senso nella scena politica e sociale del Paese delle aggregazioni politiche antagoniste e dei centri sociali, spesso liquidati con sufficienza come realtà marginali e borderline. Uno stimolo in questo senso può venire dal progetto, non a caso contestato dalla destra politica e istituzionale, di trasformazione di Askatasuna in bene comune a disposizione del territorio, condotto dal comune di Torino, da realtà associative cittadine e dagli stessi militanti del centro. È un discorso che si dovrà riprendere.   > «Askatasuna a delinquere». I nodi del maxi-processo   > Un disegno repressivo e perverso > Senza dissenso non c’è democrazia   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp    
Editoriale
Gaza: Strage dei soccorritori
Ambulanze e mezzi dei vigili del fuoco nel mirino. I corpi occultati con i bulldozer. Per i quindici membri della Mezzaluna rossa e della Protezione civile scomparsi una settimana fa a Gaza si è trattato di un’esecuzione. Tom Fletcher (Onu): «Se il diritto umanitario conta ancora, la comunità internazionale deve agire». In serata l’esercito dà il via all’operazione di terra a Rafah, per espandere la «zona cuscinetto» e quindi spostare forzatamente la popolazione di Eliana Riva da il manifesto L’esercito israeliano ha ammesso di aver aperto il fuoco contro la squadra inviata per soccorrere i feriti di Tal al-Sultan, a Rafah. Lo ha fatto nel suo stile, con una dichiarazione gelida, notificando l’errore senza mostrare alcuna ombra di rimorso. E incolpando dell’accaduto Hamas, anche se si trattava di ambulanze e di camion dei vigili del fuoco. Anche se all’interno c’erano 15 membri della Mezzaluna rossa palestinese (Prcs) e della protezione civile. Una settimana fa, di domenica, l’esercito ha bombardato il quartiere di Rafah, nel sud della Striscia, e lo ha chiuso in un recinto di carri armati e mezzi militari. Nessuno può uscire dall’assedio che continua ancora oggi. Feriti e dispersi sotto le macerie delle case colpite dalle bombe necessitavano di immediato soccorso. Decine le telefonate ricevute dalle sale operative e l’invio dei mezzi è stato comunicato all’esercito israeliano, come succede da mesi nella Striscia di Gaza. La squadra è giunta a Tal al-Sultan e ha informato la centrale di essere stata circondata dai carri armati, che hanno cominciato ad aprire il fuoco, causando feriti. Poi le comunicazioni si sono interrotte. PER CINQUE GIORNI Israele ha impedito alla Mezzaluna e alla protezione civile di accedere alla zona e verificare cosa fosse successo agli operatori e ai volontari. Gli appelli quotidiani sono stati regolarmente ignorati. Grazie alle pressioni dell’Ufficio Onu di coordinamento degli affari umanitari, in un breve sopralluogo sono state rinvenute le carcasse delle ambulanze, crivellate di colpi e occultate dal terreno. Sono riusciti a recuperare un solo corpo, quello del capo-missione Anwar Abdel Hamid al-Attar. La Prcs ha testimoniato di aver ritrovato i suoi resti «smembrati» e che le casacche di riconoscimento indossate dal personale sono state rinvenute strappate e mischiate al terriccio. «Ciò suggerisce che le forze di occupazione israeliane hanno preso di mira direttamente l’equipaggio durante la loro incursione», ha dichiarato la Mezzaluna rossa, «quindi hanno deliberatamente modificato le caratteristiche dell’area e occultato i corpi di alcuni civili usando bulldozer e macchinari pesanti». TESTIMONI hanno raccontato che la squadra di soccorso è stata giustiziata e sepolta. Servirebbe l’accesso completo all’area e un lungo lavoro di scavo per rinvenire frammenti di cadaveri da analizzare per il riconoscimento. Ma Tel Aviv continua a opporsi all’ingresso dei soccorritori. La Prcs ha invitato la comunità internazionale a fare «pressioni sulle autorità israeliane affinché rivelino la sorte delle squadre scomparse». Ma gli appelli al mondo, a Gaza nascono e muoiono. Anche quelli delle Nazioni unite. VENERDÌ IL SOTTOSEGRETARIO generale per gli affari umanitari, Tom Fletcher, ha dichiarato che «per dieci terribili giorni», gli attacchi aerei israeliani hanno fatto centinaia di vittime. «Pazienti uccisi nei loro letti d’ospedale. Spari sulle ambulanze. Operatori di primo soccorso ammazzati». Nonostante le misure richieste dalla Corte internazionale di giustizia in merito alle accuse di genocidio presentate contro Israele, «tutto questo continua senza responsabilità», ha aggiunto Fletcher. «Se i principi fondamentali del diritto umanitario contano ancora, la comunità internazionale deve agire finché può per sostenerli». Il giorno dopo l’appello, almeno 21 persone sono state uccise dall’alba al tramonto. Nonostante i bombardamenti e la distruzione, i palestinesi stanno cercando di prepararsi come possono al primo giorno di Eid al-Fitr, la festa della fine del Ramadan che comincerà questa sera. Ma ieri i droni di Tel Aviv hanno sganciato bombe su una mensa di comunità, un luogo in cui si distribuiva cibo a est di Gaza City. Almeno una persona è stata uccisa e altre sono rimaste ferite, alcune sono gravi. Nel sud di Khan Younis un altro drone ha distrutto un carretto trainato da animali, uccidendo quattro persone sul colpo e un raid aereo ha centrato le tende degli sfollati, ammazzando cinque persone, tra cui una donna e un bambino. A Gaza City un attacco a un rifugio ha causato sei vittime, di cui tre donne. ISRAELE HA DICHIARATO in serata di aver cominciato l’operazione di terra a Rafah, per espandere la «zona cuscinetto» e quindi spostare forzatamente la popolazione. Nuovi ordini di evacuazione sono stati emanati e ai palestinesi è stato ordinato di dirigersi nella zona di al-Mawasi. Intanto, Khalil al-Hayya, funzionario di Hamas, ha fatto sapere ieri sera che il gruppo ha approvato una proposta di cessate il fuoco presentata da Egitto e Qatar. L’ufficio di Netanyahu ha dichiarato di aver risposto con una controproposta dopo una consultazione interna e un coordinamento con gli Stati uniti. Il piano prevederebbe una tregua a Gaza in cambio della liberazione di cinque ostaggi. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
Dal mondo
Processo Askatasuna: cade l’associazione a delinquere. una vittoria per le lotte sociali e per chi resiste in questo paese!
Processo Askatasuna. Alle 15.15 è arrivata la sentenza di primo grado: caduta per tutti 16 gli imputati l’accusa di associazione a delinquere“ perché il fatto non sussiste”. Condanne invece per le singole condotte e ipotesi: sono 18 su 28  ed alcune molto pesanti. Il commento a caldo a Radio Onda d’Urto dell’avvocato Claudio Novaro legale degli imputati e imputate Ascolta o scarica e di Ermelinda del Movimento No TavAscolta o scarica seguiranno aggiornamenti   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Uncategorized
Centri per migranti in Albania: di male in peggio
Il fallimento dei centri costruiti in Albania per il trattenimento di richiedenti asilo le cui domande sono esaminate con procedura accelerata non potrebbe essere più clamoroso. Per riguadagnare credibilità il Governo corre ai ripari e vara un decreto legge con cui li trasforma in centri per il rimpatrio. Ma il rimedio è peggiore del male: la soluzione è in evidente contrasto con il diritto europeo e rischia nuove bocciature. di Gianfranco Schiavone da Volere la Luna Il Protocollo Italia-Albania ratificato con la legge 21 febbraio 2024 n. 14 prevede che nelle strutture in Albania «possono essere condotte esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione europea, anche a seguito di operazioni di soccorso» (art. 3 comma 2) nei cui confronti risulta possibile applicare la cosiddetta procedura accelerata di frontiera per l’esame delle domande di asilo. Per realizzare tale finalità è stata prevista, nella struttura di Gjader, una parte di notevoli dimensioni, da adibire a funzioni di hotspot (o centro di accoglienza) e una, molto più piccola, da adibire a centro per il rimpatrio (CPR) per coloro la cui domanda di asilo sia stata rigettata e in sede di ricorso, se presentato, non sia stata concessa la sospensione dell’allontanamento. Quanto accaduto negli ultimi mesi è ben noto. Non torno dunque sulle gravi problematiche di legittimità di questa procedura, ma mi limito a evidenziare che, nel recentissimo decreto legge n. 37 del 28 marzo, il Governo, pur negando, contro ogni evidenza, che il testo del Protocollo sia stato modificato in aspetti sostanziali ha cancellato l’esclusività di funzioni sopra indicata prevedendo che nel piccolo CPR interno al centro di Gjader possano essere condotte anche le persone che si trovano in Italia e che sono «destinatarie di provvedimenti di trattenimento convalidati o prorogati ai sensi dell’articolo 14 del testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998» (art. 1, comma 1, lettera a). Inoltre, si è previsto che il trasferimento effettuato dalle strutture di cui all’articolo 14, comma 1, del testo unico immigrazione (cioè i CPR ubicati in Italia) al CPR interno alla struttura di di Gjader «non fa venire meno il titolo del trattenimento adottato ai sensi del medesimo articolo 14, né produce effetti sulla procedura amministrativa cui lo straniero è sottoposto» (art. 1, comma 2, lettera b). In sintesi, secondo la nuova disciplina che passerà nei prossimi giorni all’esame del Parlamento, è possibile aprire un ordinario centro di detenzione amministrativa per eseguire coattivamente le espulsioni anche fuori dal territorio nazionale e chi vi verrà trasportato non si troverà neppure all’estero in quanto rimarrà sotto la giurisdizione italiana. L’eventuale rimpatrio verso il Paese di origine sarà infatti eventualmente attuato solo facendo rientrare la persona espulsa in Italia al termine del trattenimento in Albania . La nuova trovata del Governo italiano per salvare i centri in Albania finora falliti pone una questione giuridica e politica di enorme rilievo che può essere sintetizzata nella seguente domanda: può uno Stato membro dell’Unione Europea collocare uno straniero, di cui è stata già decisa l’espulsione coattiva da attuarsi attraverso il trattenimento amministrativo, in una struttura ubicata fuori dal proprio territorio, in un paese terzo, assicurando comunque il rispetto delle procedure e degli standard previsti dal diritto europeo sugli allontanamenti forzati? È possibile aprire una tale tipologia di centri oggi in Albania e domani magari altrove anche dall’altra parte del mondo? Come la protezione internazionale, anche la materia dei rimpatri dei cittadini stranieri che non sono in regola con le norme sul soggiorno in uno Stato membro dell’Unione è regolata, seppure in modo più scarno rispetto al diritto di asilo, dal diritto dell’Unione Europea sulla base della Direttiva 115/08/CE (oggetto, tra l’altro, di una proposta di riforma presentata pochi giorni fa dalla Commissione). In tale direttiva la nozione di “allontanamento” viene definita come «l’esecuzione dell’obbligo di rimpatrio, vale a dire il trasporto fisico fuori dallo Stato membro» (art. 3, par. 5) e per “rimpatrio” si intende «il processo di ritorno di un cittadino di un paese terzo, sia in adempimento volontario di un obbligo di rimpatrio sia forzatamente» (par. 3). Il rimpatrio normalmente si conclude nel paese di origine ma – va detto per inciso – può concludersi anche in un paese terzo che svolge la funzione di «paese di transito in conformità di accordi comunitari o bilaterali di riammissione o di altre intese» (par. 3, seconda parte). In tal caso il paese terzo si assume interamente la responsabilità della condizione giuridica della persona espulsa e il processo di rimpatrio realizzato dallo Stato membro dell’Unione si conclude con l’allontanamento della persona in tale Paese. Non è questo, ovviamente, il caso dell’accordo tra Italia e Albania, la quale ultima non si assume in alcun modo la gestione degli espulsi né dei richiedenti asilo. Il diritto dell’Unione non autorizza in alcun modo la collocazione e la gestione da parte di un Paese UE di una propria struttura di trattenimento al di fuori del territorio dell’Unione: ciò in base sia alla interpretazione letterale che a un’interpretazione sistematica e teleologica della norma. Lontano dalle esasperazioni politiche che agitano il nostro oscuro presente, il diritto UE non ha mai contemplato la possibilità che centri di trattenimento europei possano venire aperti a piacimento in giro per il mondo e tuttora prevede che il trattenimento per eseguire l’espulsione dal territorio di uno Stato membro può essere applicato solo come ultima ratio, se non «possono essere efficacemente applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive» e «soltanto per preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento» (art. 15, par. 1), inteso, come sopra indicato, come trasporto fisico fuori dal territorio UE. Il trattenimento deve essere il più breve possibile, deve essere periodicamente riesaminato per valutare in concreto se ci sono le ragioni per proseguirlo e «se non c’è alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi […], il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata» (art. 15, par. 4). Gli stranieri trattenuti devono avere la possibilità «di entrare in contatto, a tempo debito, con rappresentanti legali, familiari e autorità consolari competenti» (art. 16, par. 2) nonché con organizzazioni non governative di tutela, le quali «hanno la possibilità di accedere ai centri di permanenza temporanea» (art. 16, par. 4). L’accesso a tali diritti deve essere effettivo: non può stare solo scritto sulla carta e non essere concretamente esercitabile, come avverrebbe in caso di strutture ubicate al di fuori del territorio dello Stato membro dell’UE. Se il centro di detenzione si trova in Albania o in Zimbabwe o in Kazakistan o chissà dove, infatti, il familiare non può in concreto incontrare chi è trattenuto. La esternalizzazione al di fuori dei confini dei centri di detenzione amministrativa renderebbe difficile anche lo svolgimento ordinario delle visite ispettive svolte da parlamentari e le stesse funzioni di monitoraggio e controllo svolte dal Garante nazionale per le persone private della libertà personale non potrebbero essere svolte in modo efficace. La conclusione è evidente: in centri di detenzione ubicati al di fuori degli Stati dell’Unione non è possibile attuare il trattenimento «nel pieno rispetto dei diritti fondamentali» (considerando n. 17) e si può ben dire che le persone in essi rinchiuse sarebbero di fatto ostaggi di un potere arbitrario. A quanto sopra il Governo italiano risponde sostenendo che i CPR in Italia sono pienamente equivalenti con il CPR in Albania in quanto entrambi sottoposti alla giurisdizione italiana e che il trasporto all’estero delle persone espulse sarebbe una semplice “finzione” e conclude affermando il pieno rispetto, nei trasferimenti coattivi indicati, sia delle garanzie previste dall’articolo 13 della Costituzione sia delle previsioni del diritto europeo. È peraltro evidente, alla luce di quanto si è detto, che tali fumose tesi sono semplicemente una sorta di gioco di parole o di truffa delle etichette per coprire l’ennesimo radicale strappo che si sta consumando nel nostro ordinamento giuridico. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
migranti
NO allo sfratto di casa Galeone!
Riceviamo e volentieri pubblichiamo il comunicato di Casa Galeone, realtà delle Marche sotto sfratto IL GALEONE IN TEMPESTA Nel 2022, venuti a conoscenza delle intenzioni di sfratto della proprietà nonostante non fossimo mai stati morosi e sussistessero noti accordi con il legittimo proprietario Arnaldo Natali, spalle al muro abbiamo deciso di opporci agli sfratti in sede processuale, forti delle nostre ragioni e delle evidenze che credevamo incontestabili. Ci siamo imbarcati in un’impresa costosa, lunga e complicata su un terreno ostile che non è mai stato il nostro. In tribunale ci siamo sempre andati o perché trascinati dalle guardie o per sostenere compagni/e inguaiati/e con la legge. Mai volontariamente a cercare “giustizia”. E così doveva rimanere. Una volta saliti su questo carrozzone siamo stati travolti da schemi che ci hanno obbligato a contrarre la nostra attitudine al conflitto, sovradeterminando le nostre pratiche e sottraendo energia alle lotte e ai progetti per dedicarci alla raccolta fondi perché, a differenza della proprietà che ha a disposizione fondi illimitati piovuti dal cielo, noi possiamo contare solo sulle nostre forze e sulla solidarietà dei nostri compagni e delle nostre compagne. Il 12/02/2025 nel giudizio n.r.g. 225/2024 la Sezione specializzata agraria del tribunale di Macerata ha emesso la sentenza in merito al procedimento sulla supposta finita locazione dell’immobile abitativo decretando l’obbligo del rilascio non oltre il 31 Maggio 2025. Con la stessa ci condannano, inoltre, al pagamento delle spese legali sostenute dalla proprietà e al pagamento degli affitti non versati dal 2023 ad oggi. Tutte le nostre richieste in merito alla natura del contratto, di fatto agrario e non di civile abitazione, e soprattutto a quelle relative a un importante controcredito che vanteremmo in seguito ai numerosi e dettagliati lavori di ristrutturazione sono state rigettate malamente. Il 22/11/2024 nel giudizio 1119/2022-535/2023 r. g. vertenti, la corte d’appello d’ Ancona respinge il nostro ricorso condannandoci al rilascio della terra liberandola tempestivamente di ogni soprassuolo e ovviamente siamo stati anche condannati a rifondere spese legali e canoni. Abbiamo infine ricorso in cassazione sperando che, non essendo ancora andato in giudicato, avrebbe “puntellato” l’impianto delle nostre istanze in merito alla questione abitativa. Un disastro. Abbiamo infine offerto in extremis, per l’acquisto della casa, una cifra spropositata. Molto più alta del reale valore dell’immobile. Una cifra a cui, solo una manciata di mesi prima, la proprietà ci aveva chiesto di arrivare per la sua cessione e alla quale abbiamo ricevuto come risposta un laconico: “non esistono i presupposti per improntare una qualsivoglia trattativa”. Che tradotto probabilmente significa: “piuttosto la bruciamo”. Che vi fosse un problema ideologico di fondo lo aveva candidamente confessato il loro avvocato, tale Michelangelo Seri di Civitanova Marche, dobbiamo dire a tratti più realista del re, che probabilmente dietro mandato della Luna srl ha cercato, nelle varie udienze, di inserire la questione politica e morale nel dibattimento. In particolare, durante le mobilitazioni in solidarietà dell’anarchico Alfredo Cospito ha millantato la nostra “pericolosità sociale” perché protagonisti di un’esperienza agricola comunitaria di stampo libertario, arrivando poi a ridicolizzarsi nel tentativo di stigmatizzare come esotico e ambiguo il nostro modello di vita in comune, e definendo inoltre “fantasie agresti” le nostre pratiche contadine. Probabilmente il problema nasce quando, la non ancora erede Miriam Natali, durante una visita a Casa Galeone accompagnata dal fido Lino Sopranzi, commercialista con delega di amministratore di sostegno del vecchio Arnaldo oramai infermo, si imbatté nel nostro frigorifero a doppia anta. Sicuramente l’elettrodomestico che più di tutti gli altri manifesta il suo Antifascismo. Secondo il loro terzista pare che alla vista di tutti quegli adesivi colorati e inequivocabili, ne sia uscita particolarmente turbata... Il famoso problema ideologico di fondo. Non vogliamo negare né la profonda tristezza, né la grande rabbia per questo sopruso, né l’oggettiva difficoltà a coprire le spese legali. Sappiamo che difficilmente gli spazi di casa nostra saranno nuovamente abitati perché sull’immobile pendono una serie di vincoli oltre che una frana attiva che dovrebbero dissuadere anche il più sprovveduto acquirente, e quindi questi spazi così pieni vita, progetti, disagio, ricordi sono destinati all’abbandono, al silenzio. Sappiamo che a breve la nostra terra che abbiamo trasformato da un campo arido e avvelenato in luogo fertile e ricco di biodiversità verrà riconsegnata all’agroindustria che in una sola stagione procederà allo sterminio dei micro-ecosistemi che vi erano rinati. In questi giorni stiamo cercando disperatamente un altro posto dove continuare il progetto di casa galeone ma non è semplice. Per niente. Non è semplice immaginare un altro luogo dove ricominciare, organizzare un trasloco in odore di esodo, asportare tutti gli impianti e le migliorie approntate in questi anni, immaginare che una nuova bimba possa nascere proprio nei giorni dello sfratto e pensare di abbandonare un luogo a cui abbiamo dato così tanto e che così tanto ci ha dato. Non è semplice. Noi comunque non molliamo e i conti non si chiuderanno di certo così. Non riusciamo ad immaginare un altro modo di vivere e di lottare. Vorremmo concludere citando testualmente il presidente della commissione speciale agraria del tribunale di Macerata quando per richiamare a gran voce gli avvocati e i suoi colleghi alla lettura dell’ultima sentenza dice: ADESSO TOCCA AGLI ANARCHICI       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000 > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
lotte sociali
sgombero
centri sociali
Siria: il Rojava non riconosce il governo di Damasco
L’accordo tra governo e amministrazione autonoma è già lettera morta? di Gianni Sartori Un paio di settimane fa l’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est (Rêveberiya Xweser a Bakur û Rojhilatê Sûriyey) aveva sottoscritto un accordo con Aḥmad Ḥusayn al-Sharaʿ(già al-Jūlānī), principale esponente del nuovo governo in Siria, sostanzialmente costituito dalla coalizione islamista Hayat Tahrir al-Sham (HTS, in passato membro dello Stato islamico e di Al-Qaïda). Un impegno che prevedeva l’integrazione delle proprie istituzioni nello Stato siriano (nel quadro di un generale processo di ricomposizione e unificazione del Paese). Ma al momento le procedure sembrano essersi arenate e gli accordi potrebbero risultare lettera morta. Tanto che i curdi (15% della popolazione in Siria) vanno già esprimendo perplessità e muovendo critiche. In particolare sulla dichiarazione costituzionale che attribuisce al presidente i pieni poteri almeno per cinque anni. Ed è l’Amministrazione autonoma stessa che – il 30 marzo – ha contestato la legittimità del governo annunciato perché “assomiglia troppo al precedente (quello di Assad nda), in quanto sembra non tener conto della diversità siriana”. “Un governo – prosegue il comunicato – che non rifletta la diversità e la pluralità del paese non potrà gestire correttamente la Siria”. Anzi, amministrazioni del genere non fanno altro che “aggravare la crisi, creando nuove difficoltà invece di risolvere le cause profonde del problema”. Dato che “la ripetizione degli errori del passato non farà altro che aggravare le sofferenze del popolo siriano e non porterà mai a una soluzione politica globale” i rappresentanti dell’Amministrazione autonoma dichiarano pubblicamente di non sentirsi “tenuti all’applicazione e all’esecuzione delle decisioni emesse da questo governo”. Continuando invece a operare per la costruzione di una Siria “comune e democratica in cui tutti i cittadini godano dei medesimi diritti” e dove nessun gruppo o etnia possa “monopolizzare il potere”. Mentre invece deve essere garantita “la partecipazione di tutti al processo politico”. Messaggio chiaro che appariva come l’immediata risposta al discorso pronunciato il 29 marzo da Ahmad al-Chareh con cui ribadiva la volontà di “edificare uno Stato forte e stabile”. In realtà i vari ministeri sono in larga maggioranza in mano agli arabi sunniti (e a quanto pare molti posti chiave ai familiari di Ahmad al-Chareh). Ci sarebbe anche un ministro curdo, ma – non certo casualmente – è stato scelto al di fuori del Rojava. Nel frattempo dalla Germania arrivava un appello della Società internazionale per i diritti dell’uomo (Internationale Gesellschaft für Menschenrechte, IGFM), denso di preoccupazione per quanto potrebbe ancora accadere in Siria ai danni delle minoranze (alauiti, curdi, cristiani, drusi…). Di fronte all’aumento della violenza settaria, alla diffusione delle squadre di vigilantes, all’inesorabile islamizzazione (con l’introduzione definitiva della sharia). A scapito ovviamente dei diritti umani. In riferimento al recente massacro subito dalla comunità alauita (secondo l’IGFM le vittime sarebbero oltre duemila) e all’intensificarsi delle violenze  (arresti arbitrari, esecuzioni sommarie, sequestri…) contro le minoranze religiose o etniche. Riguardo alla progressiva islamizzazione, l’IGFM ha ricordato sia le croci distrutte sulle tombe, sia la proibizione di mangiare e fumare in pubblico imposto a tutti duranti il Ramadan, sia la severa separazione tra donne e uomini nelle scuole e nei trasporti pubblici. Per cui diventa legittimo temere che in realtà HTS aspiri alla realizzazione di uno Stato islamista con una legislazione fondata sulla sharia. Fondate preoccupazioni anche per la situazione economica con salari e pensioni non versati da mesi e il forte aumento del prezzo dei generi alimentari. Inoltre per ampi settori della popolazione l’accesso all’elettricità rimane alquanto problematico. Da parte sua Aḥmad Ḥusayn al-Sharaʿ appare infaticabile nella ricerca di sostegno a livello internazionale (e in parte sembra anche ottenerlo). Senza per questo trascurare, nel tentativo di consolidare il controllo del paese (o semplicemente per creare “diversivi, distrarre dai problemi interni) di attaccare, colpire le comunità minoritarie meno disposte all’assimilazione. Per esempio i villaggi sciiti sul confine. Sperando forse di provocare una risposta da parte di Hezbollah che fatalmente porterebbe a interventi non solo diplomatici da parte delle monarchie (sunnite) del Golfo. Altri problemi sul fronte meridionale con le infiltrazioni israeliane. Queste per ora sembrano aver conseguito un primo risultato: la divisione interna dei drusi di Sweida (tra chi auspica una “normalizzazione” dell’occupazione israeliana e coloro che invece sono disposti a dialogare con HTS). > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Dal mondo
Napoli: Intimidazioni poliziesche al corteo in solidarietà palestina
A Napoli ai margini del corteo organizzato per chiedere la fine del genocidi0 palestinese e la immediata liberazione di Ali, Anan e Mansour, due attivisti del Laboratorio Politico Iskra sono stati fermati e identificati dalla Digos. Cresce il clima di intimidazione nei confronti di chi scende in piazza al fianco della resistenza palestinese, smascherando le complicità dell’imperialismo italiano nel genocidi0 in atto, denunciando la corsa al riarmo, di cui il governo Meloni è assoluto protagonista, e l’instaurazione di uno stato di polizia funzionale allo scontro inter imperialista. E’ chiaro l’intento intimidatorio della questura partenopea, ma i compagni/e hanno ribadito la volontà di continuare a lottare con ancora maggiore convinzione, con una maggiore organizzazione nei nostri quartieri, sui posti di lavoro, nelle scuole e nelle università per porre fine allo schifo quotidiano. Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
lotte sociali