Le politiche migratorie europee. Dal 2003 i governi teorizzano il protocollo
Italia-Albania. Ora l’esecutivo europeo accelera le tappe. Da Bruxelles viene
lanciato un messaggio chiaro: il diritto alla protezione internazionale è
selettivo.
di Youssef Hassan Holgado e Marika Ikonomu da il Domani
“Una possibilità potrebbe essere quella di istituire zone protette nei paesi
terzi, dove chi arriva negli stati membri e chiede asilo potrebbe essere
trasferito per l’esame della sua richiesta”. Ventidue anni fa un documento
gettava le basi dell’attuale approccio europeo alle politiche migratorie. Un
testo che teorizzava una nuova modalità di gestione dei flussi attraverso la
costruzione di centri di transito nei paesi extra Ue. Il progetto prevedeva il
coinvolgimento di organizzazioni come Oim e Unhcr, e si proponeva di avere un
effetto deterrente alla migrazione.
L’idea è contenuta in una lettera del 10 marzo 2003 firmata dal premier
britannico laburista Tony Blair e indirizzata al presidente di turno del
Consiglio europeo, l’allora primo ministro greco Kostas Simitis. Il disegno
immaginato da Blair è oggi diventato realtà con il protocollo Italia-Albania.
Quella che la premier Giorgia Meloni definisce una soluzione innovativa non è
altro che una tendenza europea che da vent’anni si sta affermando e che, “invece
di regolare un fenomeno strettamente dipendente dall’economia, pone come
prioritaria la dimensione della sicurezza a scapito della tutela dei diritti e
delle libertà”.
È così che Chiara Favilli, docente di diritto dell’Ue all’università di Firenze
racconta il percorso intrapreso da Bruxelles. Un percorso che ha portato nel
2024 all’approvazione del Patto Ue per la migrazione e l’asilo, un pacchetto di
riforme che comprime al massimo il diritto di asilo, senza però favorire canali
di ingresso legali. Il Patto punta sull’applicazione generalizzata di procedure
accelerate, l’aumento delle espulsioni e l’uso delle zone di frontiera in un
regime detentivo per la valutazione della domanda.
“Paesi sicuri” – Il 16 aprile l’esecutivo dell’Ue ha bruciato le tappe
proponendo di anticipare alcuni elementi del Patto: le procedure accelerate per
tutte le nazionalità con tassi di accoglimento delle domande di asilo inferiori
al 20 per cento; la facoltà per gli stati membri di designare paesi sicuri. E
proprio su questo la Commissione ha tracciato la via formalizzando una lista
comune di paesi sicuri, includendo Kosovo, Bangladesh, Colombia, Egitto, India,
Marocco e Tunisia, dove sabato sono state condannate per cospirazione 40
persone, tra oppositori e attivisti. “Un elenco evidentemente orientato verso la
lista stilata dall’Italia”, nota Favilli, che definisce “grezzo” il testo
presentato, con “nozioni che non hanno alcun tipo di pregnanza giuridica”.
C’è di più, l’anticipazione dimostra che “l’attuazione del protocollo
Italia-Albania non è possibile con la legislazione vigente”. Per la docente, c’è
un’inversione di tendenza: la Commissione ha dimostrato sostegno alle politiche
dei governi, abdicando al proprio ruolo di orientamento verso obiettivi comuni.
L’approccio perseguito dalla presidente Ursula von der Leyen va in questa
direzione. In carica dal 2019, per assicurarsi un secondo mandato, ha saputo
interpretare l’onda a destra e fare della questione migratoria la sua strategia
politica accelerando, prima delle elezioni europee, la firma di accordi con
paesi terzi per esternalizzare le frontiere.
La proposta della Commissione “assomiglia più a un messaggio politico che a una
proposta normativa. Ed è uno strumento di legittimazione politica dell’intesa
con l’Albania”, dice Salvatore Fachile, avvocato e socio di Asgi. “La proposta
sminuisce il ruolo della Corte di giustizia Ue, chiamata a una decisione che in
Italia ha assunto una dimensione politico-normativa enorme”, spiega Fachile.
“Si dà un segnale sul fatto che non ci saranno margini di discussione su questi
temi”, sulla scia di quanto sta accadendo in Italia, dove alle sentenze dei
giudici che non hanno convalidato i trattenimenti in Albania il governo ha
risposto con uno scontro tra poteri. La pronuncia della Corte è attesa entro
l’estate. “Potrebbe introdurre un principio utile anche in vista delle modifiche
e, nonostante le pressioni politiche, ribadire i limiti derivanti dai diritti
fondamentali”, dice Favilli.
La svolta securitaria – Dal 2003 in poi, ci sono state diverse proposte
analoghe, scartate però per ragioni di opportunità o di convenienza, anche
economica. “L’attentato alle Torri Gemelle ha condizionato la realizzazione
delle politiche migratorie dell’Unione, che allora avevano appena preso avvio. È
stato visibile in tutte le norme europee adottate, con un’ulteriore spinta dopo
la crisi dei rifugiati tra il 2015 e il 2017”, spiega Favilli. L’anno chiave è
stato il 2016, quando la Commissione ha presentato il Nuovo quadro giuridico di
partenariato con i paesi terzi, aprendo a diverse forme di cooperazione, come
l’accordo Italia-Libia del 2017 e i partenariati strategici più recenti. Anche
l’intesa con l’Albania è una di queste e “la Commissione – sottolinea Favilli –
sta facendo tutto quello che è nel suo potere per far sì che il Protocollo si
realizzi”. La linea securitaria dell’Ue emerge anche nel linguaggio. “Dalla
prima agenda europea del 2015, comincia a cambiare”, evidenzia Fachile, “la
Commissione inizia a chiedere agli stati un atteggiamento sperimentale,
irregolare. Ogni sei mesi aveva una sfumatura più aggressiva verso l’idea che
gli stati hanno una supremazia anche sul rispetto delle norme”.
Secondo l’avvocato il diritto di asilo è stato censurato invertendo la logica
della regola e dell’eccezione. “Anche se formalmente il diritto di asilo non può
essere abrogato, perché rappresenta un pilastro della democrazia occidentale
moderna, nella pratica può essere svuotato prevedendo un numero di eccezioni
così elevato da lasciare solo l’involucro”.
L’approccio securitario di Bruxelles è dimostrato anche dal rafforzamento, anno
su anno, dell’Agenzia europea per il controllo delle frontiere: il vero muro
dell’Unione. Dal 2023 a oggi il budget a disposizione di Frontex è aumentato di
oltre cento milioni l’anno. Nel 2023 era di 829 milioni di euro, diventati poi
922 milioni nel 2024 fino a superare la quota di un miliardo (1.1) nel 2025.
Dieci anni fa era di circa 6,3 milioni di euro. Le prime tre voci del bilancio
sono quelle relative al personale, all’acquisto degli equipaggiamenti militari
per sorvegliare le frontiere terrestri e marine, e alle operazioni di rimpatrio.
Queste nel 2024 hanno costituito il 23 per cento della spesa, 146,2 milioni di
euro (67.8 milioni nel 2022). Solo lo 0,2 per cento del budget è destinato a
questioni relative ai diritti umani, nonostante le accuse di coinvolgimento
dell’agenzia nei respingimenti dei migranti.
Dalla Spagna all’Ungheria – L’Italia non è l’unica ad aver contribuito a
sgretolare il diritto all’asilo. Lo hanno fatto anche la Spagna, a Ceuta e
Melilla, l’Ungheria al confine con la Serbia, la Grecia, coi respingimenti
illegali alle frontiere. Il nostro paese è però quello che si è prestato
all’operazione più spaventosa: “L’accordo con la Libia, con cui ha delegato alle
milizie il compito di bloccare i richiedenti asilo applicando la legge libica”,
ricorda Fachile. L’accordo Roma-Tirana è un altro tassello e l’ultimo decreto
del governo, il 37/2025, che ha trasformato i centri in Albania in Cpr, “è
un’apertura di orizzonte richiesta dalla Commissione”, spiega l’avvocato, “per
giungere all’approvazione del nuovo regolamento rimpatri. Un percorso
normo-sociale: far sì che una società digerisca un istituto per facilitare la
sua approvazione normativa”. Per 25 anni l’Ue ha gestito la politica migratoria
con un approccio difensivo e repressivo, trascurando la dimensione economica.
Per Favilli, “ha mancato completamente il suo appuntamento con la storia e ha
dimenticato che l’unica deterrenza all’immigrazione irregolare è quella
regolare”.
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Source - Osservatorio Repressione
Il 20 aprile in Iran ennesima esecuzione di un prigioniero politico curdo
di Gianni Sartori
Soltanto qualche giorno fa, il 18 aprile, alcune Ong avevano diffuso la notizia
che due giorni prima il prigioniero politico curdo Hamid Hossein Nejad
Heydaranlu (40 anni, padre di tre figli), detenuto nel carcere di Urmia e già
condannato a morte, era stato messo in isolamento nel braccio della morte.
Segno che l’esecuzione ormai era imminente.
Dopo una prima condanna risalente al luglio 2024 (dalla Sezione 1 del Tribunale
rivoluzionario di Urmia, presieduta dal giudice Najafzadeh), la pena di morte
era stata riconfermata alla fine di marzo dalla Sezione 9 della Corte Suprema.
Arrestato nei pressi di Chaldoran nell’aprile 2023 (dalle guardie di frontiera
che nel 2015 avevano ucciso suo cognato, Mostafa Nouri), Hosseinnezhad veniva
condannato per “baghi” (ribellione armata contro l’Imam e l’autorità islamica).
Accusato senza prove (o con prove false, stando a quanto sostiene l l’Ong
Kurdpa) di aver fatto parte di un partito dell’opposizione.
Per quasi un anno era stato sottoposto a maltrattamenti e torture e fine
costretto a firmare una confessione prestampata. Gli erano state concesse solo
due brevi telefonate con la famiglia, mentre gli venivano negati sia un avvocato
di sua scelta che le visite dei familiari.
A causa dell’episodio in cui aveva perso la vita suo cognato (ucciso dalle
guardie di frontiera), è stato accusato di ”coinvolgimento in uno scontro
armato”. Stando a quanto ha dichiarato in tribunale, il giudice Najafzadeh lo
avrebbe condannato “in base al proprio intuito” (?!?). E questo nonostante nuovi
documenti dimostrassero la sua innocenza. Ma con il trasferimento nel braccio
della morte non era stato più possibile presentarli.
Oggi la brutale notizia: Hamid Hossein Nejad Heydaranlu, è stato ucciso in
segreto domenica 20 aprile nel carcere dove era rinchiuso. Poco prima che
venisse messo in isolamento, i familiari – allertati dall’ultima, brevissima,
sua telefonata – avevano manifestato con un sit-in. Invano.
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La battaglia di Wood Green il 23 aprile 1977 fu una delle prime volte in cui i
nazisti si trovarono a scontrarsi con gli antifascisti.
“Il Fronte Nazionale non è mai stato così gravemente scosso come nella marcia di
sabato a nord di Londra.”
Circa 3.000 antifascisti hanno affrontato circa 1.200 manifestanti del National
Front. Questa contro-manifestazione non è nata dal nulla.
In vista di ciò, gli antifa della zona si sono organizzati. Hanno distribuito
volantini, testato razzi di fumo rosso sulle paludi del Tottenham e hanno
visitato i caffè turchi e greci per ottenere supporto.
Ci sono state discussioni sulla tattica. I leader del partito laburista si sono
concentrati sul tentativo di vietare la marcia NF.
La mattina della marcia i manifestanti hanno impacchettato farina, uova marce e
pomodori da consegnare alla gente. Alcuni anti-facisti hanno cercato di sfondare
i finestrini degli autobus NF mentre trasportavano i fascisti al loro punto di
raccolta.
Centinaia di giovani neri e asiatici locali e ciprioti si sono uniti alla
protesta antinazista insieme a sindacalisti e altri attivisti. Non appena la
marcia NF si spostò su Wood Green High Road, gli antifascisti attaccarono e
divisero la marcia.
Un antifa scrisse nel suo diario: “Bombe fumogene rosse riempivano l’aria e una
battaglia era presto in corso. Non abbiamo fermato la marcia ma è stata
molestata ad ogni centimetro. “
La polizia aveva vietato la manifestazione antifascista e arruolato migliaia di
poliziotti per proteggere i nazisti. Hanno arrestato 84 persone, 74 delle quali
erano antifasciste.
La battaglia di Wood Green ha contribuito al declino della NF. È stata seguita
ad agosto dalla battaglia di Lewisham, dove gli antifascisti sono riusciti a
fermare la NF dalla marcia.
A novembre si formò la Lega antinazista e istituì filiali in tutto il paese per
organizzarsi contro i fascisti.
Guarda “SYND 23 4 77 NATIONAL FRONT DEMONSTRATION ON ST GEORGES DAY“:
da InfoAut
È iniziata il aprile a L’Aquila la sessione in Corte d’Appello del processo
all’attivista cisgiordano Anan Yaeesh, arrestato in Abruzzo con Alì Irar e
Mansour Doghmosh (e ancor oggi detenuto) per fatti accaduti a Tulkarem. Un
processo iniziato con palesi forzature ed arbitrii che conducono con ogni
evidenza a una “sentenza già scritta” Manteniamo alta l’attenzione sul processo
“Cara, sapevo che la Corte mi avrebbe attaccato fin dal primo minuto, come in
Israele, nessuna differenza. Ma io sono contento che sia successo perché vorrei
che tutti lo vedessero e imparassero come ci trattano in tutto il mondo. Ma non
temere, non siamo finiti, e verrà il giorno in cui noi saremo i giudici e avremo
il potere nelle nostre mani” (Da una lettera di Anan Yaeesh del 10 aprile)
È iniziato il 2 aprile a L’Aquila il processo in primo grado ad Anan Yaeesh, Ali
Irar e Mansour Doghmosh, per fatti che sarebbero accaduti a Tulkarem,
Cisgiordania occupata.
E’ iniziato con palesi forzature ed arbitrii che conducono con ogni evidenza a
una “sentenza già scritta”:
* sono state ammesse al dibattimento le “prove” raccolte dalle autorità
israeliane e dallo Shin bet sulla base di interrogatori svolti nei Territori
occupati, senza la presenza degli avvocati difensori e su cui grava “il
sospetto” – per usare un eufemismo – di torture;
* la lista dei testimoni della difesa è stata falcidiata (ammessi 3 testimoni
su 47 e per un unico imputato);
* il Giudice ha fatto sgomberare l’aula dalla presenza dei solidali dopo le
proteste contro il palese stravolgimento delle parole di Anan Yaeesh da parte
dell’interprete, egiziana.
* E’ stato fissato un calendario di udienze fittissimo per logorare la
solidarietà e far calare l’attenzione dei media su questo caso (16 aprile – 7
maggio – 21 maggio – 18 giugno – 25 giugno – 9 luglio).
Esigua o praticamente nulla era infatti la presenza dei giornalisti in aula
nell’udienza del 16 aprile, dove tra l’altro non compariva, negli schermi della
videoconferenza con cui era collegato Anan dal carcere, l’inquadratura sulla
difesa e sul pubblico, quasi a volergli negare un sostegno, anche solo visivo.
E così è proseguito il processo il 16 aprile. Un processo politico di cui si
dichiarava in maniera ossessiva la neutralità, evitando con pervicacia che si
parlasse del contesto violento e coloniale in cui si sarebbero svolti i fatti.
Uno scenario politico che nonostante gli sforzi per ostracizzarlo, è emerso
inevitabilmente, con la naturalezza che gli spettava già al primo testimone
palestinese dell’accusa:
* è bastato per lui fornire le proprie generalità (un palestinese di Sidone),
per scoprire che si trattava di uno dei 2 milioni di palestinesi cacciati via
dall’occupazione militare israeliana durante la prima nakba, nel ‘48.
Una farsa giudiziaria che si è disvelata per quello che è, man mano che gli
interrogatori andavano avanti, fino alle affermazioni del perito balistico,
chiamato a testimoniare dall’accusa sulla natura dell’arma visibile in una foto
dei tre imputati:
* si trattava di un’arma giocattolo, di plastica, e per giunta non funzionante
* Ma la reale natura di questo processo è emersa con forza dalla dichiarazione
spontanea di Anan (quella del 2 aprile è rimasta imprigionata in una
traduzione fedele ad Israele, piuttosto che alla sua testimonianza):
“Oggi non parlo della causa palestinese, ma parlo di altre cose, perché avete
chiesto che non dobbiamo fare entrare la politica nell’aula di tribunale. Però
io credo che siamo qua per una decisione politica e non giuridica”
[Il giudice interrompe, ripetendo ossessivamente che in aula si prendono solo
decisioni giuridiche e costringendo l’avvocato a intervenire. La difesa fa
notare che in una dichiarazione spontanea dell’imputato, non c’è la possibilità
di un confronto con la Corte. La Corte può non apprezzare quello che intende
dire l’imputato, ma lo deve lasciar parlare, poi magari potrà motivare in ordine
a quello che dice l’imputato, ma non può contestare quello che pensa l’imputato.
Il giudice interrompe ripetutamente anche la difesa, chiedendo se anch’essa la
pensi come l’imputato, e l’avvocato risponde giustamente che nel codice di
procedura penale non è ancora previsto l’esame del difensore. “Poi lo
controlliamo, ma penso di no” è la risposta con cui il giudice finalmente si
tace, prima di ridare la parola ad Anan].
“Io sono qua per un motivo politico, perché non ho commesso alcun reato contro
la legge italiana in Italia. Però rispetto la decisione di non far entrare la
politica dentro l’aula del tribunale. Perché voi usate la politica per
giudicarmi, perché se volete giudicarmi secondo la legge italiana dovete
considerare tutti i documenti e tutti gli atti della comunità internazionale che
voi riconoscete. E dovete considerare che tutti gli enti internazionali
riconoscono che nelle prigioni israeliane si pratica la tortura e le regole dei
diritti umani non vengono rispettate.
Però non avete preso in considerazione tutto questo. Avete preso invece in
considerazione la relazione politica tra il governo italiano e il governo
israeliano.
Signor giudice, voi non mi avete dato il diritto di difendermi. La stessa cosa
succede nei tribunali di Israele.
Avete preso in considerazione i testimoni dell’accusa e invece non avete preso
in considerazione la mia testimonianza.
Il procuratore ha usato dei documenti stranieri contro di me, però avete
rifiutato i documenti che ho presentato io e avete deciso di non sentire i
testimoni che ho proposto io, questo contro la legge in Italia.
E mettete fretta quando parlo io, e mettete fretta anche quando parla la mia
difesa.
Non volete darci il tempo che ci serve per parlare, come se, dopo l’udienza, io
tornassi alle isole Maldive e non in carcere.
Questo perché avete fretta di finire la causa invece di applicare la giustizia.
Sento di essere tanto oppresso, sento che sto subendo una grande ingiustizia in
questo tribunale. Come se fossi in un tribunale finto, come successo in Francia
contro gli algerini o come avviene in un tribunale militare in Israele.
Se quello che sento è giusto, significa che la mia condanna è già decisa.
Allora emettete la vostra condanna!
Non è necessario fare tutte queste udienze!
Così sconto quello che devo scontare in prigione tutto il tempo!
Se invece questo tribunale rispetta la democrazia e rispetta i vostri diritti
come umani, e se abbiamo il diritto come gli altri popoli di vivere in libertà,
allora dovete darmi i miei diritti come essere umano, perché abbiamo già subito
abbastanza oppressione dai vostri amici israeliani.
Dovete lasciarci in pace!
Viva la resistenza palestinese, fino alla libertà!”
Al termine dell’udienza del 16 aprile, la Corte si è riservata di deliberare,
nell’udienza del 7 maggio, sull’eccezione presentata dalla difesa, che ha
presentato una ricerca giudiziaria con l’obiettivo di dimostrare
l’inammissibilità dell’acquisizione dei verbali degli interrogatori dei
prigionieri palestinesi.
Il 21 maggio invece, dopo l’avvenuta traduzione delle chat ad opera di un perito
della Corte di Assise sui telefonini degli imputati, verranno ascoltati i testi
della Digos
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Per fortuna non so mai chi sono, ma per certo non godo quando gli anormali son
trattati da criminali e non ho alcuna intenzione di chiudere in un manicomio
tutti gli zingari e gli intellettuali
di Marco Sommariva*
Giorni fa mi son trovato a disquisire con un amico su chi sono, oggi, i borghesi
e a chiedermi se facessi parte di questa schiera; lo spunto per la discussione
ci era stato dato da una scritta su un muro, tanto breve quanto solleticante, un
microscopico j’accuse: “Ti sei imborghesito!”
L’indomani, lo stesso amico mi ha segnalato un articolo pubblicato diversi anni
fa su Repubblica e, così, ripartendo da questo,ho provato a mettermi nuovamente
in discussione – questa volta da solo.
A inizio pezzo leggo: “Nel significato oggi più diffuso il borghese è un membro
di un ceto medio che va dai benestanti ai ceti impiegatizi e che comprende sia
gli industriali, i grandi professionisti, i livelli superiori del pubblico
impiego (la cosiddetta alta borghesia) sia una più vasta platea di persone che,
in condizioni più modeste, sono tuttavia fornite di qualche bene, di qualche
indipendenza, di qualche responsabilità anche se limitata, e di qualche
istruzione (la piccola borghesia)”.
Non so se il mio stipendio può essere considerato un bene e non so neppure se
l’indipendenza che questo stipendio mi garantisce si possa annoverare fra quelle
ipotizzate nell’articolo di Repubblica, ma di certo ho qualche responsabilità
“anche se limitata” – un ufficio in cui coordino, così dice l’organigramma
aziendale, due colleghi – e ho una “qualche istruzione”: sono uno di quei
tantissimi periti industriali che nei primi anni Ottanta sbandierava il “pezzo
di carta” che occorreva per provare a non replicare la vita di stenti dei
genitori che, “con tanti sacrifici”, ti avevano fatto studiare.
Possibile davvero io sia un piccolo borghese?
Proseguo la lettura: “Borghesi sono […] i ceti che si affermano nell’età moderna
come i più adatti a governare secondo ragione, scalzando – anche attraverso le
rivoluzioni – il potere tradizionale dei nobili e degli ecclesiastici […]”, e
qui non c’entro nulla: “scalzare chi governa” sì, “anche attraverso le
rivoluzioni” sì, ma non di certo per governare. Dài!, questa l’ho sfangata, ma
non so se riuscirò a passare l’esame dei miei libri, delle mie letture.
Per l’egoismo con cui custodisco i miei libri, e pure i miei dischi, mi sa che
Gustave Flaubert mi definirebbe borghese: “si divertiva a fabbricare
portasalviette: ne aveva riempito la casa, li conservava con la gelosia di un
artista e l’egoismo di un borghese” – Madame Bovary.
Ma André Malraux – sapendo di tutte le mie cause (perse) combattute fianco a
fianco coi più deboli, per i più deboli – mi difenderebbe: “La borghesia starà
col più forte. La conosco” – La condizione umana.
Non essendo spilorcio e arrogante, ed essendo spesso criticato per la troppa
sincerità, credo che anche Doris Lessing prenderebbe le mie parti: “Dio sa
quanto lei li odiava, i borghesi, così attaccati ai soldi, attenti a non
sprecare un centesimo, sempre con il pensiero fisso di mettere da parte, di
risparmiare […]”; e ancora “Alice sapeva che Muriel apparteneva all’alta
borghesia ed era per questo che non la poteva soffrire. Come in tutte le
rappresentanti della sua classe, ogni sua parola, ogni gesto, era implicitamente
arrogante”; e infine “non c’è mai una volta che manifestino quello che pensano
questi maledetti piccoli borghesi” – La brava terrorista.
E se fossi, invece, un borghese perché mangio troppo? “Come dicono i sandinisti,
era da tempo che avevo perso l’abitudine borghese di fare due pasti al giorno” –
Dead end blues di Hugues Pagan.
O forse lo sono perché, quando mi sposai, pensai anch’io – lo ammetto –
d’essermi sistemato e, per un po’, rinunciai alla vita reale? “noi due abbiamo
accettato quest’enorme illusione, perché di questo si tratta: l’idea che, una
volta messa su famiglia, la gente debba rinunciare alla vita reale e
“sistemarsi”. È la grande menzogna sentimentalistica piccolo borghese […]” –
Revolutionary road di Richard Yates.
In effetti, non lo nego, sono anche uno di quelli che appena uscì dal suo
piccolo mondo che pensava fosse il mondo intero – fu quando non riuscii a
sfuggire al servizio di leva e partii per la naja –, andò in crisi: “Quando si
nasce nella piccola borghesia, si pensa che l’intero mondo sia uguale
all’ambiente in cui si vive. Non appena giunsi a vedere un altro tipo di mondo,
naturalmente il mio fu messo in crisi” – Pasolini su Pasolini di Pier Paolo
Pasolini e Jon Halliday.
Ma sempre Pasolini potrebbe riabilitarmi, vista la mia ripugnanza per il “pare
brutto” e le “buone maniere” in generale: “il mio odio per la borghesia è in
realtà una specie di ripugnanza fisica verso la volgarità piccoloborghese, la
volgarità delle “buone maniere” ipocrite, e così via. Forse soprattutto perché
trovo insopportabile la grettezza intellettuale di questa gente” – ancora
Pasolini su Pasolini.
Anche Jack London avrebbe parole buone per il sottoscritto che – me l’hanno
riconosciuto in tanti – non ha mai avuto paura della Vita: “Il realismo è
essenziale alla mia natura, e lo spirito borghese odia il realismo. La borghesia
è codarda. Ha paura della vita” – Martin Eden.
Forse la mia colpa è stata passare impiegato dopo otto anni trascorsi
orgogliosamente da operaio? Forse mi sarebbe bastato restare una tuta blu per
non rischiare d’esser confuso con qualche lacchè borghese? Ma davvero una cosa
esclude l’altra? E qui è Paco Ignacio Taibo II a venirmi in soccorso: “Il più
borghese è l’operaio che offre il culo al padrone, e addirittura lo difende come
un coglione, e dice ma no, le cose in fabbrica vanno benissimo così” – E doña
Eustolia brandì il coltello per le cipolle.
Che se poi andiamo a vedere, ce n’è un po’ per tutti, per la morale borghese
senza dubbio ma, per esempio, non è che una “certa” sinistra – quella che
lottava per il proletariato – ne esca tanto bene: “non possiamo più fare a meno
di valori positivi. Ma dove trovarli? La morale borghese ci indigna con la sua
ipocrisia e la sua mediocre crudeltà. Il cinismo politico che regna su gran
parte del movimento rivoluzionario ci ripugna. Quanto alla sinistra cosiddetta
indipendente, in realtà, affascinata dalla potenza del comunismo e invischiata
in un marxismo pudibondo di sé, ha già abbandonato la lotta. Dobbiamo allora
trovare in noi stessi, nel vivo della nostra esperienza, cioè all’interno del
pensiero in rivolta, i valori che ci necessitano. Se non li troviamo, il mondo
crollerà, e forse sarà giusto, ma prima saremo noi a crollare, e questo sarà
infame” – Ribellione e morte di Albert Camus.
Non sarà che il pensiero della borghesia s’è già diffuso al popolo? Sarebbe un
bel guaio: “Gli avari non credono nella vita dopo la morte, per loro il presente
è tutto, e questo stesso concetto diffonde una luce orribile sul mondo odierno,
dove più che mai il denaro domina le leggi, la politica e i costumi.
Istituzioni, libri, uomini e dottrina cospirano insieme a scuotere la fede in
un’altra vita, fede su cui da diciotto secoli si basa tutta la struttura
sociale. Tuttavia ci troviamo quasi al medesimo punto, poiché l’avvenire che ci
attendeva al di là del requiem è stato trasportato nel presente. Giungere al
paradiso terrestre del lusso e delle gioie vanitose, far divenire il cuore di
pietra e macerarsi il corpo nell’ansia di accumulare beni passeggeri, come una
volta si soffriva il martirio per conquistare l’eternità, ecco l’idea che oramai
si è fatta comune, l’idea fissa, in ogni luogo, persino nelle leggi, che ormai
domandano all’uomo: “Quanto paghi?” invece di chiedergli: “Cosa pensi?” Se un
simile pensiero si diffonderà dalla borghesia al popolo, chissà cosa ne sarà del
mondo” – Eugénie Grandet di Honoré de Balzac.
Anche perché il nuovo potere borghese parrebbe, davvero, essere una brutta cosa:
“L’accettazione del fascismo è stato un atroce episodio: ma l’accettazione della
civiltà borghese capitalistica è un fatto definitivo, il cui cinismo non è solo
una macchia, l’ennesima macchia nella storia della Chiesa, ma un errore storico
che la Chiesa pagherà probabilmente con il suo declino. […] il nuovo potere
borghese infatti necessita nei consumatori di uno spirito totalmente pragmatico
ed edonistico: un universo tecnicistico e puramente terreno è quello in cui può
svolgersi secondo la propria natura il ciclo della produzione e del consumo. Per
la religione e soprattutto per la Chiesa non c’è spazio” – Scritti corsari di
Pier Paolo Pasolini.
Sulla necessità del potere borghese di pragmatismo da parte dei consumatori, ha
qualcosa da dire anche Raoul Vaneigem: “Se i borghesi preferiscono l’uomo a Dio,
è perché egli produce e consuma, acquista e fornisce” – Trattato del saper
vivere.
Ma chi sono io, oggi, ancora non l’ho capito.
Visto che non mi spavento se i lacci delle mie scarpe non sono in ordine e non
sono mai sicuro d’aver ragione, non dovrei esser compreso fra la media
borghesia: “la media borghesia inglese deve masticare ogni boccone trenta volte
perché ha l’intestino così stretto che un boccone grosso quanto un pisello lo
ostruirebbe. Sono un branco di disgraziati effeminati, pieni di boria,
spaventati se i lacci delle scarpe non sono in ordine, putridi come selvaggina
andata a male, e sempre sicuri di avere ragione. È questo che mi distrugge.
Sempre lì a leccare il culo finché non gli fa male la lingua, eppure sono sempre
sicuri di avere ragione. Presuntuosi! Presuntuosi su tutto. Presuntuosi! Una
generazione di presuntuosi effeminati senza coglioni…” – L’amante di Lady
Chatterley di David Herbert Lawrence.
E dato che non ho mai pensato che oltre i miei confini il mondo sia piuttosto
ignorante, anche Robert Louis Stevenson potrebbe aiutarmi a restare fuori da
certi elenchi in cui non avrei piacere di essere incluso: “L’ignoranza di voi
borghesucci mi sorprende. Al di là dei vostri confini, ritenete che il mondo sia
piuttosto ignorante e un universo indistinto, immerso in una degradazione
generale…” – Il terrorista.
Ma non sarà che questo problema dell’essere o non essere borghesi, è una fisima
tutta mia, nostra, dell’uomo occidentale, e magari una fissazione dei giorni
nostri? No, non è così; scrive Jean-Patrick Manchette ne Il caso N’Gustro: “Lo
Zimbabwin, il loro Paese, si è liberato e un Fronte di liberazione, l’Flz, ha
preso il potere. Ma se capisco bene, c’è un’etnia che cammina sulla testa delle
altre, nell’Flz, e ancora peggio è musulmana […]. Mi spiegano: i musulmani,
laggiù, sono l’equivalente dei borghesi qui, sono grandi famiglie, stirpi, da
sempre compromesse con le spedizioni arabe che discendevano l’Africa, risalendo
il Nilo e arrivando ben oltre nell’interno, attraverso il Sudan, fino al cuore
del continente, per razziare, rapire su grande scala intere popolazioni che
rivendevano sul Mar Rosso, gli uomini per il lavoro, le donne ai bordelli, i
bambini dipende”.
Niente, addirittura potrebbe essere un problema mondiale e, forse, sempre
esistito.
Pur non risparmiando i proletari, anche Johnny Rotten riteneva essere un
problema questa borghesia capace di opprimere: “Ricordo che quand’ero piccolo e
andavo a scuola i genitori inglesi mi prendevano a mattonate. Per arrivare alla
scuola cattolica dovevo passare in una zona in prevalenza protestante. Era
bruttissimo. La facevo sempre di corsa. “Quei luridi bastardi irlandesi!”. E
cazzate del genere. Adesso se la prendono coi neri, o chi altri. Ci sarà sempre
odio negli inglesi perché sono una nazione piena d’astio. È questo il guaio dei
proletari di tutto il mondo. Cercano sempre di sfogare i loro rancori su quelli
che considerano più in basso nella scala sociale, invece di saltare alla
giugulare di quei fottuti bastardi dell’alta e media borghesia che li tengono
oppressi, tanto per cominciare” – L’autobiografia.
Persino la Chiesa pare non abbia gradito il potere della borghesia, accusandola
d’aver fatto di questo mondo un luogo maledetto d’ingiustizia e di dolore,
benché la contestazione non parrebbe mossa sulla scia di una qualche carità
cristiana: “L’abate […] trovava delle scusanti alle scelleratezze degli
scioperanti, attaccava violentemente la borghesia sulla quale rigettava ogni
responsabilità. Era la borghesia, che, spossessando la Chiesa delle sue antiche
libertà, per servirsene lei stessa, aveva fatto di questo mondo un luogo
maledetto d’ingiustizia e di dolore, era lei che prolungava i malintesi, che
spingeva ad una catastrofe spaventosa, col suo ateismo, rifiutandosi di
ritornare alla fede, alle tradizioni fraterne dei primi cristiani” – Germinal di
Emile Zola.
Leggo che la borghesia è fondamentalmente vile e ottusa e che, in ogni epoca, è
rimasta unita solo per abbattere ciò che le stava immediatamente sopra e
depredare coloro che stavano sotto: “Sono nato con dentro un odio per
l’ingiustizia… sin dall’infanzia il sangue mi ribolliva contro il cielo quando
vedevo la gente malata, e mi ribolliva contro gli uomini quando ero testimone
delle sofferenze dei poveri; pensando al tozzo di pane della povera gente, le
cose buone che mangiavo mi andavano di traverso, e un bambino storpio mi faceva
piangere. […] Anno dopo anno, questa passione per la gente più derelitta mi
ossessionò sempre di più. Si poteva riporre speranza nei re? Si poteva riporre
speranza nelle classi meglio pasciute che si rotolano nel denaro? Avevo studiato
il corso della storia… sapevo che la borghesia, il nostro monarca di oggi, è
fondamentalmente vile e ottusa… in ogni epoca, avevo visto come la borghesia si
unisse solo per abbattere ciò che le stava immediatamente sopra e depredare
coloro che stanno sotto; la sua ottusità, ne ero convinto, alla fine avrebbe
provocato la propria rovina; sapevo che ormai i suoi giorni erano contati, ma
come avrei potuto aspettare? Come potevo lasciare che i bambini poveri
tremassero sotto la pioggia? Certo, sarebbero arrivati giorni migliori, ma i
bambini sarebbero morti prima. […] con un’impazienza sicuramente non priva di
uno slancio di generosità mi arruolai tra i nemici di questa società ingiusta e
ormai condannata […]” – nuovamente da Il terrorista di Robert Louis Stevenson.
Anche il mio corregionale Edmondo De Amicis, nel romanzo Sull’oceano non ne dice
un granché bene di ‘sti borghesi: “tutta la sua persona rivelava la borghesuccia
impastata d’invidia per chi le sta sopra e di disprezzo per chi le sta sotto,
capace di commettere una vigliaccheria per entrare in relazione con una
marchesa, e di dimezzare il pane ai figliuoli per strascicare del velluto sui
marciapiedi”.
Ecco, non provando invidia per chi sta sopra né disprezzo per chi sta sotto
semplicemente perché il mondo che vedo io non è strutturato in verticale ma in
orizzontale; non avendo mai dimezzato il pane da dare a mio figlio per
qualsivoglia bene materiale a cui rinuncio tranquillamente, anche se ammetto che
i libri mi tentano sempre parecchio; non commettendo alcuna vigliaccheria per
entrare in relazione con una marchesa per lo stesso motivo di prima – nella mia
visione orizzontale del mondo, marchese, psicologhe, suore, operaie, casalinghe,
eccetera sono, giocoforza, tutte sullo stesso piano –; mi sento abbastanza
sollevato.
E mi sento abbastanza sollevato anche perché non provo alcuna gioia quando
s’arresta una puttana o se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova
campana; non godo quando gli anormali son trattati da criminali e non ho alcuna
intenzione di chiudere in un manicomio tutti gli zingari e gli intellettuali;
non so mentire con cortesia, cinismo e vigliaccheria, e non faccio
dell’ipocrisia la mia formula di poesia; non ho nulla contro chi fa l’amore più
di una volta alla settimana e neanche contro chi lo fa per più di due ore o
verso chi lo fa in maniera strana; non pesto le mani a chi arranca dentro a una
fossa e neppure son disponibile, al più ricco e ai suoi cani, a leccar le ossa.
Sì, dài!, mi sento abbastanza sollevato.
Ora che finalmente so chi sono, devo chiudere il pezzo e salutarvi perché sono
già in ritardo: di là, sul tavolo di noce del tinello, la cena è apparecchiata,
son tutti già seduti e mi aspettano per il segno della croce. Rifiutarsi mi
pareva brutto.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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In un accorato appello pubblicato su Le Monde, un gruppo di ricercatori ed ex
ambasciatori ha chiesto all’Europa di denunciare senza ambiguità l’ideologia
suprematista che guida oggi il governo dello Stato di Israele. Questo appello
segue la decisione del governo mediorentale di creare una “Autorità per
l’emigrazione”, volta a “ricollocare” diversi milioni di palestinesi da Gaza. E
poi, probabilmente, dalla Cisgiordania.
In un accorato appello pubblicato su Le Monde, un gruppo di ricercatori ed ex
ambasciatori ha chiesto all’Europa di denunciare senza ambiguità l’ideologia
suprematista che guida oggi il governo dello Stato di Israele. Questo appello
segue la decisione del governo mediorientale di creare una “Autorità per
l’emigrazione”, volta a “ricollocare” diversi milioni di palestinesi da Gaza. E
poi, probabilmente, dalla Cisgiordania.
Israele: Un governo dominato da fazioni religiose nazionaliste e suprematiste
Nessuno ha dimenticato l’orrore e la portata dei massacri commessi il 7 ottobre
2023 dal Movimento di resistenza islamico (Hamas). E nessuno può contestare il
diritto dello Stato israeliano a difendersi. Ma dopo un anno e mezzo di guerra,
la crisi militare, umanitaria e politica ha una natura diversa. E ha assunto una
dimensione senza precedenti dopo il ritorno al potere di Donald Trump a gennaio.
Dal 18 marzo Israele ha violato la tregua e non rispetta più né gli operatori
umanitari né i giornalisti. Il governo di Benjamin Netanyahu sta ancora una
volta bombardando e lasciando morire di fame due milioni di palestinesi esausti,
radunati con la forza tra le rovine per essere deportati in massa.
Dominato da fazioni religiose nazionaliste e suprematiste, il governo dello
Stato ebraico ha adottato il progetto americano di cacciare i palestinesi dalla
loro terra per creare una “riviera” israeliana. Il ministro delle Finanze e
viceministro della Difesa Bezalel Smotrich ha quindi creato un’”Autorità per
l’emigrazione” destinata a realizzare una “operazione logistica su larga scala”
volta a “ricollocare” i cittadini di Gaza e, probabilmente, anche i palestinesi
dalla Cisgiordania. In breve, Israele sta pianificando la deportazione di
diversi milioni di persone, senza alcuna reale opposizione internazionale.
Si può discutere sui termini genocidio, pulizia etnica, crimini contro l’umanità
o violazioni del diritto umanitario. Ma la realtà è questa. Sono in gioco le
vite di milioni di uomini, donne e bambini. Uno Stato membro delle Nazioni
Unite, riconosciuto come modello di democrazia, non rispetta più alcuna regola
internazionale, né alcun principio morale religioso o umano, per imporre una
soluzione radicale alla “questione palestinese”.
La necessità di riconoscere due Stati: Israele e Palestina
Non si tratta più di ebrei contro arabi, o dei difficili rapporti tra lo Stato
ebraico e i suoi vicini, o persino delle politiche del governo legale di
Israele. Ma dell’emergere di una nuova ideologia suprematista, che fa
affidamento su una forza militare senza pari, volta a imporre la propria
volontà, senza alcun rispetto per la vita o l’esistenza di altri popoli e
nazioni.
Fortunatamente, molti Stati, tra cui la maggior parte dei Paesi arabi e/o
musulmani, hanno iniziato a fornire una risposta politica ai progetti
israelo-americani. E hanno affermato il loro desiderio di riconoscere due stati:
Israele e Palestina.
Anche l’annuncio fatto mercoledì 9 aprile da Emmanuel Macron, secondo cui la
Francia potrebbe riconoscere la Palestina a giugno, al fine di avviare “una
dinamica collettiva”, è un passo nella giusta direzione. Si tratta di un
prerequisito istituzionale urgente e necessario per intraprendere la difficile
ricostruzione delle relazioni tra le nazioni e i popoli interessati. Ma questo
progetto politico sarà illusorio se non si interverrà immediatamente per salvare
i palestinesi.
L’ideologia politica mortale del governo di Benjamin Netanyahu
La tragedia di Gaza va oltre la politica statale e richiede che l’opinione
pubblica e i singoli individui prendano coscienza delle questioni in gioco. E
del pericolo rappresentato dallo smantellamento dei pochi principi e valori che
ancora costituiscono la base del consenso per la vita sociale e politica. Si può
discutere sulle modalità della creazione di due Stati, ma non sulla salvaguardia
immediata dei palestinesi se vogliamo trovare una futura, difficile ma
necessaria soluzione globale al conflitto.
Stiamo assistendo all’espressione di una nuova ideologia politica nella sua
portata e nel sostegno della nuova amministrazione americana. La sua forza
risiede anche nella copertura mediatica e nell’assenza di una vera opposizione
politica e popolare internazionale.
Il mondo di oggi ha certamente altre priorità. Ma appare abbastanza chiaro che
questa ideologia suprematista, che oggi minaccia la vita di milioni di persone
innocenti in Palestina, potrebbe, mutatis mutandis, servire da modello per altri
governi. Se accettiamo le soluzioni oggi radicali contro i palestinesi, cosa
succederà altrove? La loro tragedia è, purtroppo, il simbolo di una realtà molto
più grande.
I negoziati tra gli Stati non saranno mai sostenibili se non avranno il sostegno
dell’opinione pubblica. Fortunatamente, un gran numero di cittadini israeliani
ed ebrei della diaspora, impegnati nei valori umanistici e nel rispetto degli
altri, hanno da tempo espresso il loro rifiuto dell’ideologia politica mortale
del governo di Benjamin Netanyahu.
Oggi il silenzio diventa colpevole
Tuttavia, sia in Europa che negli Stati Uniti, la paura di essere accusati di
antisemitismo blocca i dibattiti. Individui e istituzioni si rifiutano di vedere
la portata e il pericolo dell’ideologia delle fazioni estremiste al potere a
Gerusalemme, che si nascondono dietro l’innegabile legittimità dello Stato
israeliano e l’orrore dei massacri del 7 ottobre. Oggi c’è emergenza e il
silenzio diventa colpevole. Non è più possibile dire che non lo sapevamo.
Possiamo sperare che in Francia e in Europa, istituzioni religiose,
organizzazioni, partiti, sindacati, associazioni umanitarie o filosofiche che
condividono i principi di uguaglianza e fraternità, i valori della Repubblica,
denuncino con forza e chiarezza la nuova ideologia all’opera in Israele, volta a
schiacciare la popolazione palestinese?
Quando tutto sembra andare in pezzi, dall’Ucraina agli Stati Uniti, è
fondamentale difendere questi valori universali per affermare che anche i
palestinesi hanno il diritto di avere uno Stato e di vivere.
Antoine Arjakovsky, co-direttore della ricerca, Collège des bernardins, Parigi;
Jean-Paul Chagnollaud, professore emerito, presidente dell’iReMMO (Istituto di
ricerca e studi sul Mediterraneo e il Medio Oriente); Brigitte Curmi, ex
ambasciatrice; Michel Duclos, ex ambasciatore, consigliere speciale
dell’Istituto Montaigne; Bernard Hourcade, direttore emerito della ricerca al
CNRS, iReMMO, curatore dell’articolo; Jacques Huntzinger, ex ambasciatore,
Collège des Bernardins; Agnès Levallois, vicepresidente di iReMMO; Jamal Al
Shalabi, Professore di Scienze Politiche all’Università Hashemita (Zarqa,
Giordania). Tutti i firmatari sono membri del gruppo Bernardins-iReMMO per la
pace in Medio Oriente, che riunisce esperti della regione ed ex ambasciatori.
(fonte Valori.it)
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Si formeranno in Italia i piloti della ricostituita aeronautica di guerra della
Libia. A renderlo noto l’ufficio pubblica informazione delle forze aeree
italiane.
di Antonio Mazzeo da Pagine Esteri
Il 25 marzo, il capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, generale Luca
Goretti, ed il capo della Libyan Air Force, generale Amhamed Gojel, hanno
firmato a Roma un accordo tecnico bilaterale sull’addestramento in favore dei
top gun e degli istruttori di volo libici.
L’accordo prevede la partecipazione del personale militare dello Stato
nordafricano ai corsi di addestramento presso il 70° Stormo dell’Aeronautica di
stanza a Latina e presso il 61° Stormo di Galatina (Lecce) per le fasi 2 e 3
dell’iter addestrativo. Parte della formazione teorica si svolgerà anche presso
il centro di formazione Aviation English di Loreto (Ancona), la scuola di lingue
straniere dell’Aeronautica.
L’intesa sottoscritta dai generali Goretti e Gojel disciplina i vari aspetti del
percorso addestrativo del personale libico negli specifici programmi erogati dal
207° gruppo volo del 70° Stormo e dal 214° gruppo volo del 61° Stormo.
“L’accordo assume una rilevanza significativa in quanto costituisce il primo
accordo di cooperazione bilaterale con la Forza Aerea libica nel settore
dell’addestramento al volo con durata di validità triennale”, spiega lo Stato
Maggiore dell’Aeronautica italiana. “Esso è un’ulteriore riprova del livello di
eccellenza raggiunto dalla Forza Armata nel settore addestrativo, nonché un
significativo consolidamento della cooperazione con un Paese partner
estremamente importante nell’ambito della sicurezza e della stabilità dell’area
mediterranea”. (1)
Il 70° Stormo di Latina è posto alle dipendenze del Comando Scuole
dell’Aeronautica e della 3a della Regione Aerea con sede a Bari; presso i suoi
reparti si effettuano i corsi di abilitazione e l’addestramento basico degli
allievi dell’Aeronautica e delle altre forze armate italiane e dei cadetti
militari di paesi esteri per il conseguimento del brevetto di pilota. Fino ad
oggi Latina ha rilasciato oltre 15.000 brevetti di pilotaggio, realizzando un
totale di circa 500.000 ore di volo. (2) Nello scalo del 70° Stormo gli
allievi-piloti libici saranno formati a bordo di due tipi di velivoli di
produzione del gruppo Leonardo SpA: il T-260B (aereo biposto, già classificato
come SIAI Marchetti SF-260) e il T-2600A (quadriposto, già Aermacchi SF260 EA).
(3)
Presso la base salentina di Galatina, il personale militare libico sarà
addestrato in vista della conduzione dei velivoli di quarta e quinta generazione
(in particolare i cacciabombardieri Eurofighter Typhoon e gli F-35 Lightning
II). Sotto il comando del 61° Stormo opera l’International Flight Training
School (IFTS), un centro internazionale per l’addestramento al volo avanzato,
frutto di un accordo del 2018 tra l’Aeronautica Militare e la holding
industriale-militare Leonardo S.p.A.. “Il progetto IFTS è nato con l’obiettivo
di realizzare un polo di eccellenza nella formazione dei piloti militari e
soddisfare la crescente domanda di training avanzato proveniente dagli stati
alleati e partner”, spiega lo Stato Maggiore della Difesa. “L’International
Flight Training School ha consentito di raddoppiare l’attuale offerta
addestrativa attraverso la realizzazione di un nuovo polo distribuito tra la
base dell’Aeronautica di Galatina, e quella di Decimomannu (Sardegna), dove è
nato il campus dedicato alla fase avanzata dell’addestramento al volo”.
I reparti del 61° Stormo hanno formato e brevettato più di 9.000 avieri
appartenenti a 20 paesi, alcuni del Medio oriente ed Asia (in particolare Arabia
Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Singapore). A Galatina gli allievi-piloti
di Tripoli voleranno a bordo dei caccia-addestratori T-346A (gli stessi venduti
una quindicina di anni fa da Aermacchi-Leonardo alle forze armate israeliane).
Questi aerei sono in via di sostituzione con i più sofisticati T-345, anch’essi
progettati e prodotti dall’italiana Leonardo, per “ottenere un miglioramento
della qualità addestrativa a costi inferiori, da cui il nome High Efficiency
Trainer”, come enfatizza il Comando del 61° Stormo. Nelle scorse settimane sono
giunti nella base aerea salentina i primi sei velivoli T-345 e da giugno saranno
impiegati per i corsi addestrativi. (4)
La decisione di utilizzare alcune delle maggiori basi aeree italiane per la
“formazione” del personale militare libico sarebbe stata presa in occasione
della riunione del Comitato misto di Cooperazione Libia–Italia tenutasi a
Tripoli nel giugno 2024. A quell’incontro parteciparono per la parte italiana il
generale Alessandro Grassano del III Reparto dello Stato Maggiore della Difesa e
per la parte libica il gen. Mustafa Ben Rashed.
Nonostante le sempre più numerose e documentate denunce da parte di
organizzazioni governative ed ONG internazionali sulle gravissime violazioni dei
diritti umani perpetrate dalle forze armate e di polizia libiche contro la
popolazione e i migranti, il ministero della Difesa italiano si è impegnato ad
“esaminare nuove strategie per incrementare e ottimizzare le attività di
cooperazione” con la Libia. In particolare è stato redatto un articolato Piano
di Formazione per il secondo semestre 2024 e per l’intero 2025, “comprensivo di
numerose attività sia in Italia che in Libia”. (5) Relativamente al settore
aereo, in attesa di avviare le attività addestrative per i piloti a Latina e
Galatina, l’Italia ha iniziato ad erogare a beneficio del personale libico
alcuni corsi per controllori del traffico aereo presso il reparto di
addestramento di Pratica di Mare (Roma) e quelli presso l’Accademia Aeronautica
di Pozzuoli (Napoli). (6)
Le attività di formazione, addestramento e mentoring a favore delle forze armate
e di sicurezza e delle istituzioni governative libiche, vengono svolte in
territorio italiano e libico nell’ambito della cosiddetta Missione bilaterale di
assistenza e supporto in Libia (MIASIT). Nata nel 2018 sulle ceneri della
precedente Operazione “Ippocrate”, MIASIT ha come obiettivo prioritario quello
di “incrementare le capacità complessive” dei militari fedeli al Governo di
Accordo Nazionale della Libia. Tra le attività addestrative spiccano in
particolare quelle finalizzate al “controllo e contrasto dell’immigrazione
illegale e delle minacce alla sicurezza della Libia; al ripristino
dell’efficienza di assetti terrestri, navali e aerei, comprese le relative
infrastrutture, funzionali allo sviluppo della capacità libica di controllo del
territorio; all’assistenza e supporto sanitario (anche con il trasferimento dei
pazienti Italia); allo sminamento; alla formazione da parte di forze speciali
italiane, delle omologhe unità libiche”.
Sempre secondo lo Stato Maggiore della Difesa, i corsi di formazione a le
attività addestrative vengono condotte da MIASIT “in conformità all’Accordo
tecnico di Cooperazione militare sottoscritto nel 2020”, sotto la direzione e il
coordinamento del Comando Operativo di Vertice Interforze (COVI), con quartier
generale nello scalo aeroportuale di Centocelle, Roma. (7)
Il testo di questo accordo non è pubblico. Grazie però ad alcuni organi di
stampa di Tripoli è stato possibile apprendere che esso è stato sottoscritto il
4 dicembre 2020 in occasione della visita in Italia dell’allora ministro della
Difesa del governo libico, generale Salaheddine al-Namroush (oggi vice capo di
Stato Maggiore). Al-Namroush avrebbe concordato con il ministro della Difesa
italiano Lorenzo Guerini (Pd) e con quello degli Affari Esteri Luigi Di Maio
(M5S), l’implementazione di “attività di cooperazione nei settori
dell’addestramento e dell’istruzione militare, dello scambio di competenze, del
supporto, dello sviluppo, della manutenzione e della consulenza, della
cooperazione nel campo dell’immigrazione clandestina, oltre che della sicurezza
delle frontiere terrestri e marittime, delle operazioni di munizioni e
smaltimento delle mine, della medicina militare, di soccorso in caso di disastri
naturali ed emergenze sanitarie, di scambio di informazioni ed esperienze nel
campo della ricerca scientifica e tecnica e della sicurezza militare”. (8)
Attualmente il Comando della Missione MIASIT è schierato a Tripoli, mentre a
Misurata è presente un distaccamento operativo. La consistenza massima annuale
autorizzata dal Parlamento per il contingente nazionale impiegato in Libia è di
200 militari, più un mezzo aereo. E’ pure previsto l’impiego di ulteriori
assetti aerei (anche a pilotaggio remoto) e di mezzi navali, tratti dal
dispositivo nazionale operante nel Mediterraneo. Originariamente la missione di
sostegno militare alla Libia prevedeva pure la gestione di un ospedale da campo
a Misurata, ma questo è stato “dismesso” nel corso del 2022. “Da allora, anche
nell’area di Misurata la presenza italiana ha svolto attività addestrativa,
mediante team mobili (Mobile Training Team)”, spiega lo Stato Maggiore.
Il contingente italiano è composto da unità con compiti di formazione,
consulenza, assistenza e supporto logistico, infrastrutturale e sanitario;
personale di collegamento presso dicasteri e stati maggiori libici; unità con
compiti di force protection; tecnici e specialisti contro minacce
chimiche-biologiche-radiologiche-nucleari (CBRN); team per la ricognizione e per
le attività di comando e controllo. “L’addestramento si svolge in particolare
nei settori del contrasto di ordigni esplosivi improvvisati (IED),
dell’aviolancio e della tutela e scorta; l’impegno si è esteso anche alla
collaborazione con la Guardia Costiera libica, che ha proseguito nell’azione di
contenimento dei movimenti migratori non regolamentati”. (9) Pure formazione e
addestramento, dunque, oltre al supporto logistico e di intelligence a favore
della famigerata Guardia Costiera responsabile di orribili crimini
(mitragliamenti, deportazioni, omissioni di soccorso, ecc.) nella quotidiana
guerra contro le migrazioni e i migranti in acque territoriali e internazionali.
Nel corso del 2024 sono stati non meno di una cinquantina i corsi di
addestramento svolti da team appartenenti all’Esercito, alla Marina Militare,
all’Aeronautica e all’Arma dei Carabinieri. Circa 700 i militari di tutte le
forze armate libiche “formati” da MIASIT. (10) Tra gli impegni più “onerosi”
quelli svolti per addestrare le unità di fanteria libiche e di “combattimento
nei centri abitati” con l’ausilio del personale della Scuola di Fanteria
dell’Esercito di Cesano (Roma); l’Esplorazione Tattica Terrestre, grazie ai team
della Scuola di Cavalleria di Lecce; le “lezioni” di topografia e navigazione
sul terreno, con tanto di fornitura al personale libico di “ausili tecnici e
software open source per leggere e costruire mappe topografiche da utilizzare
per il tiro di artiglieria”, da parte della Scuola di Artiglieria di
Bracciano. (11)
Presso il Distaccamento MIASIT di Misurata, il personale del 9° Reggimento
Alpini (quartier generale a L’Aquila), reparto d’élite per il “combattimento in
montagna”, ha curato i corsi di lingua italiana, Combat Intelligence e gestione
delle “operazioni speciali” (OPS – Special Operations) a favore dei componenti
della 307^ unità della Counter Terrorism Force libica. Ancora gli alpini
abruzzesi nel deserto tripolitano per svolgere i “corsi basici di fanteria” per
gli uomini della 52^ Brigata. (12)
Il Comando Genio dell’Esercito di Roma ha portato a termine 15 corsi a favore
del costituendo Centro di Eccellenza C-IED (Counter-Improvised Explosive Device)
di Tripoli; i parà della Brigata Paracadutisti “Folgore” e gli istruttori del
Centro Addestramento Paracadutismo dell’Esercito di Pisa hanno condotto invece
diversi corsi di Self Defense Close Combat e di “Metodo di Combattimento
Militare (MCM)” per il Dipartimento di Polizia Militare e gli “allievi”
dell’Accademia Militare di Tripoli. “Il Metodo di Combattimento Militare è parte
integrante dell’addestramento individuale al combattimento ed è una metodologia
tesa a fornire al soldato quelle capacità necessarie per difendersi e
fronteggiare situazioni critiche o che minacciano la sua incolumità e quella
degli altri”, spiega lo Stato Maggiore della Difesa. (13)
Per il Corpo della Polizia Militare della capitale libica, il Centro
Addestramento Paracadutismo e il 1° Reggimento Carabinieri Paracadutisti
“Tuscania” di Livorno hanno condotto i corsi di Personal Security Detail in
Hostile Enviroment che hanno come scopo “l’apprendimento delle procedure di
protezione e sicurezza di Autorità o personale VIP”. Ufficiali dei Carabinieri e
del Gruppo di Intervento Speciale (G.I.S.) dell’Arma hanno svolto invece un
Negotiation Course a favore di 13 ufficiali della Libyan Military Intelligence
di Tripoli, normalmente impiegati tra la capitale e Misurata. “Il corso ha avuto
l’obiettivo di insegnare agli allievi le tecniche basilari per la gestione delle
crisi, la capacità di approccio/ascolto e le tecniche per addivenire ad una
soluzione efficace delle controversie”, spiega la Difesa. (14)
Trentacinque i militari libici addestrati al Sea Survival dagli istruttori
aero-soccorritori del 15° Stormo dell’Aeronautica Militare, di stanza nello
scalo di Cervia-Pisignano (Ravenna). Il corso si è svolto presso la base navale
di Abu Sittah, Tripoli, dove è attivo il Centro di coordinamento di ricerca e
soccorso mobile (Mrcc) della Marina e della Guardia Costiera libica che
sorveglia l’immensa aerea SAR – in verità anti-migranti – nel Canale di Sicilia.
“Alle attività formative hanno preso parte militari appartenenti alla Lybian Air
Force e alla Lybian Navy che hanno avuto modo di apprendere le procedure e
tecniche di base per la sopravvivenza in mare a seguito di incidenti aerei e
navali, tramite l’uso di materiali e zattere di salvataggio”, riporta lo Stato
Maggiore italiano. Ospiti d’onore al corso Sea Survival il Capo del Dipartimento
Search & Rescue libico, generale Mansour Al-Taish, e il responsabile del
Dipartimento addestrativo della Marina Militare, ammiraglio Abdul Rahman
Al-Baroni. (15)
Oltre ad addestrare il personale militare libico, la Missione MIASIT ha gestito
la consegna a “titolo gratuito” di equipaggiamento e aiuti militari. Nel corso
del biennio 2023-2024, è stata formalizzata la cessione di materiale per la
ricerca e la bonifica degli ordigni esplosivi, a favore degli operatori del
Dipartimento del Genio militare di Tripoli. Tra i materiali “donati” decine di
esemplari di tute protettive, occhiali speciali per la protezione degli occhi,
kit di tiranteria, ausili per la rimozione a distanza di trappole esplosive e
ordigni inesplosi, cercamine e apparati radiografici portatili per l’ispezione
di pacchi sospetti o di munizioni inesplose di medio e piccolo calibro. Il
trasferimento di equipaggiamento militare è stato realizzato “grazie ai fondi
stanziati dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale,
nel quadro del più esteso programma di assegnazione di equipaggiamento
specialistico, in Convenzione con il Ministero della Difesa”, spiega lo Stato
Maggiore. (16)
Il 2 maggio 2024 il personale italiano ha pure consegnato materiale
elettromedicale all’Ospedale Militare di Tripoli e all’Accademia Aeronautica di
Misurata, dove è stata pure realizzata un’aula multimediale per lo svolgimento
di corsi per i piloti militari e civili. Ad agosto, farmaci e apparecchiature
elettromedicali per un valore complessivo di quasi 100.000 euro, sono stati
inviati al Misurata Medical Center e ai Poliambulatori militari locali. Alcuni
dispositivi medici cardiovascolari sono stati acquistati mediante i fondi
stanziati dal Comando Operativo di Vertice Interforze; i farmaci sono stati
messi a disposizione dalla Fondazione Banco Farmaceutico. (17)
Note
1
https://www.aeronautica.difesa.it/news/aeronautica-militare-cooperazione-internazionale-firmato-accordo-per-laddestramento-di-piloti-militari-libici-in-italia/
2
https://www.aeronautica.difesa.it/news/70-stormo-cerimonia-di-consegna-delle-aquile-di-pilota-di-aeroplano-agli-allievi-piloti-del-corso-falco-vi/
3
https://www.aviation-report.com/70-stormo-scuola-di-volo-basico-aeronautica-militare/
4
https://www.rid.it/shownews/7219/aeronautica-arrivati-i-primi-t-345-a-giugno-parte-l-addestramento
5
https://www.difesa.it/smd/news-italia/prima-riunione-del-comitato-misto-di-cooperazione-libia-italia/53472.html
6
https://www.aeronautica.difesa.it/news/aeronautica-militare-cooperazione-internazionale-firmato-accordo-per-laddestramento-di-piloti-militari-libici-in-italia/
7 https://documenti.camera.it/leg19/dossier/pdf/DI0145.pdf?_1744875457583
8
https://alwasat.ly/news/libya/303351?fbclid=IwAR0eudWADmm-zHocMTasNn5aSo13rriiDxIySXJNrVtMgUliq-fmoyqecKg
9 https://documenti.camera.it/leg19/dossier/pdf/DI0145.pdf?_1744875457583
10
https://www.difesa.it/operazionimilitari/op-intern-corso/libia-missione-bilaterale-di-supporto-e-assistenza/notizie-teatro/libia-proseguono-le-attivita-addestrative-con-gli-istruttori-del-9-reggimento-alpini-dellesercito-e-della-scuola-di-fanteria-di-cesano-di-roma/55457.html
11
https://www.difesa.it/operazionimilitari/op-intern-corso/libia-missione-bilaterale-di-supporto-e-assistenza/notizie-teatro/missione-in-libia-la-miasit-conclude-un-importante-ciclo-formativo/55736.html
12
https://www.esercito.difesa.it/comunicazione/Pagine/Libia-proseguono-le-attivita-addestrative-con-gli-istruttori-del-9-Reggimento-Alpini-dell-Esercito-240805.aspx
13
https://www.difesa.it/operazionimilitari/op-intern-corso/libia-missione-bilaterale-di-supporto-e-assistenza/notizie-teatro/libia-conclusi-corsi-metodo-di-combattimento-militare-e-personal-security-detail-in-hostile-enviroment/54544.html
14
https://www.difesa.it/operazionimilitari/op-intern-corso/libia-missione-bilaterale-di-supporto-e-assistenza/notizie-teatro/miasit-terminato-corso-negotiation-course-a-favore-libyan-military-intelligence/46617.html
15
https://www.difesa.it/operazionimilitari/op-intern-corso/libia-missione-bilaterale-di-supporto-e-assistenza/notizie-teatro/missione-in-libia-concluso-sea-survival-training/51981.html
16
https://www.difesa.it/operazionimilitari/op-intern-corso/libia-missione-bilaterale-di-supporto-e-assistenza/notizie-teatro/miasit-donato-equipaggiamento-per-lo-sminamento-al-genio-militare-libico/47432.html
17
https://www.difesa.it/operazionimilitari/op-intern-corso/libia-missione-bilaterale-di-supporto-e-assistenza/notizie-teatro/miasit-e-fondazione-banco-farmaceutico-supportano-la-sanita-libica/55795.html
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Ai capi di Stato e di governo che oggi lo celebrano vanno ricordate le sue
parole dell’ultima benedizione ’urbi et orbi’: «Nessuna pace è possibile senza
il disarmo». Per Francesco i migranti sono oggi le vittime delle nostre
’strategie’ che hanno diviso in due l’umanità: chi viaggia libero e chi è in
fuga da fame e guerre ed è alla fine ancora cacciato. Il suo amore sincero e
incondizionato verso i detenuti, i migranti, i poveri, i popoli oppressi. Di
qualunque religione o provenienza essi fossero. Per la sua parola gentile ma
ferma, che nei tempi bui dell’egoismo e del razzismo, della guerra e della
sopraffazione, è sempre stata un messaggio positivo. Di speranza. Di giustizia.
Di eguaglianza.
di Luigi Ferrajoli da il manifesto
Papa Francesco ha impersonato, in questi tempi bui e tristi, la coscienza morale
e intellettuale dell’intera umanità. Non è esistito, prima di lui, un altro Papa
che con altrettanta forza, lucidità e passione abbia riproposto il messaggio
evangelico. Denunciando tutte le grandi sfide e catastrofi dalle quali dipende
il futuro dell’umanità: le terribili e crescenti disuguaglianze globali e
sociali, l’orrore delle guerre, le aggressioni che un capitalismo selvaggio e
predatorio sta recando al nostro ambiente naturale.
Innanzitutto le disuguaglianze. Nella sua enciclica Fratelli tutti del 3 ottobre
2020, Papa Francesco ha richiamato i valori della fraternità universale, della
solidarietà e dell’uguale dignità di tutti gli esseri umani, violentemente lesi
dalla crescita esponenziale delle grandi ricchezze e delle sterminate povertà.
È nella figura dei migranti che Francesco ha identificato le vittime oggi più
emblematiche delle nostre politiche disumane, che hanno diviso in due il genere
umano: un’umanità che viaggia liberamente nel mondo, per turismo o per affari, e
un’altra umanità, dei sommersi e degli esclusi, costretti dalla fame o dalle
guerre a terribili odissee, fino a rischiare la vita per arrivare nei nostri
paesi dove sono destinati a detenzioni illegittime o a sfruttamenti razzisti
come non-persone.
È una vergogna che Papa Francesco non si è mai stancato di denunciare. La visita
a Lampedusa nel luglio 2013, con la quale egli inaugurò il suo pontificato, fu
un atto d’accusa nei confronti dei nostri governi che, come disse nella sua
omelia, trasformano «una via di speranza» in «una via di morte». E fu anche una
severa condanna della «globalizzazione dell’indifferenza, che ci ha tolto la
capacità di piangere».
In secondo luogo le guerre, con il loro «potere distruttivo incontrollabile che
colpisce», egli scrisse in Fratelli tutti, soprattutto «civili innocenti». «Ogni
guerra – aggiunse – è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa
vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male».
Ai capi di stato e di governo che celebrano oggi la sua scomparsa, vanno
ricordate le sue ultime parole, pronunciate ieri nella benedizione urbi et orbi:
«Nessuna pace è possibile senza il disarmo». È questa, infatti, la sola garanzia
della pace. Senza le armi le guerre sarebbero impossibili, cesserebbe la potenza
delle organizzazioni criminali e crollerebbe il mezzo milione di omicidi ogni
anno nel mondo.
Ricordo perciò con commozione il messaggio che Papa Francesco inviò al convegno
contro le guerre, promosso dalla nostra Costituente Terra il 23 maggio dell’anno
scorso. In esso egli affermò che il principio della pace, enunciato in tante
carte internazionali, «serve realmente nella misura in cui è effettivo e produce
cambiamenti nella realtà del mondo» quali sarebbero, appunto, la messa al bando
della produzione e del commercio di tutte le armi, lo scioglimento delle attuali
imprese produttrici di morte, in breve il disarmo globale e totale.
Esprimendo il suo apprezzamento per il “progetto di una Costituzione della
Terra”, Papa Francesco ci scrisse, sul disarmo e le garanzie dei diritti umani,
che “nessuno può sentirsi estraneo a ciò che succede nella nostra casa comune. È
qui che il diritto deve attuarsi e rendersi effettivo, differenziandosi dalle
mere dichiarazioni di principio”.
Infine la questione ecologica, alla quale è dedicata l’enciclica forse più bella
e famosa di Papa Francesco, la Laudato si’ del 24 maggio 2015. “La sfida
ambientale” è in essa concepita come un fattore di unificazione dell’umanità e
la fonte di una «nuova solidarietà», giacché «le sue radici umane ci riguardano
e ci toccano tutti».
Ma questa sfida è generata proprio dall’irresponsabile assenza di solidarietà:
«Si producono centinaia di milioni di tonnellate di rifiuti l’anno: rifiuti
domestici e commerciali, detriti di demolizioni, rifiuti clinici, elettronici o
industriali, rifiuti altamente tossici e radioattivi. La terra, nostra casa,
sembra trasformarsi sempre più in un immenso deposito di immondizia». Tutto
questo, scrive Papa Francesco, è dovuto al fatto che «l’economia assume ogni
sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza prestare attenzione a
conseguenze negative per l’essere umano». Non solo.
«L’energia nucleare, la biotecnologia, l’informatica, la conoscenza del nostro
stesso Dna e altre potenzialità che abbiamo acquisito ci offrono un tremendo
potere. Anzi, danno a coloro che detengono la conoscenza e soprattutto il potere
economico per sfruttarla un dominio impressionante sull’insieme del genere umano
e del mondo intero. Mai l’umanità ha avuto tanto potere su se stessa e niente
garantisce che lo utilizzerà bene».
Al contrario, è lecito supporre che lo utilizzerà malissimo, se non altro,
scrive ancora Francesco, per l’illusione dominante «di una crescita infinita o
illimitata», la quale «suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei
beni del pianeta, che conduce a ‘spremerlo’ fino al limite e oltre il limite».
Oggi questa voce rivoluzionaria si è spenta, generando un dolore profondo tra
credenti e non credenti e lasciando un vuoto enorme in tutto il mondo dei
difensori dei diritti umani, della pace e della natura. Ma i suoi insegnamenti
sono per tutti un’eredità preziosa, e la loro difesa e la loro attuazione sono
il miglior omaggio che potremo rendere alla sua memoria.
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La campagna contro i profughi. L’Egitto e la Tunisia “paesi sicuri” nella lista
preparata dalla commissione europea. Per giustificare la scelta si dice che i
governi hanno promesso riforme liberali. Già, intanto ammazzano le persone nel
deserto. Sicuro vuol dire che rispetta la democrazia e il diritto. È sicura la
Turchia che arresta gli oppositori? L’assurda regola del 20%
di Gianfranco Schiavone da l’Unità
Il 16 aprile 2015 la Commissione Europea ha presentato una proposta di riforma
di nuovo Regolamento (COM – 2025 – 186 finale) finalizzato a modificare alcuni
articoli del nuovo Regolamento (UE) 2024/1348 (sulle procedure per l’esame delle
domande) che andrà a sostituire la vigente Direttiva 2023/32/UE e che si
applicherà a partire dal 12.06.2026. Le proposte hanno l’obiettivo di modificare
alcuni aspetti delle procedure accelerate di frontiera e soprattutto di
anticipare l’entrata in vigore delle stesse procedure accelerate nel caso di
provenienza dei richiedenti asilo da paesi di origine ritenuti sicuri o
provenienti da paesi terzi rispetto ai quali la percentuale di decisioni di
accoglimento delle domande di asilo presentate dai cittadini di quegli stati è
pari o inferiore al 20%.
Premettendo che è censurabile la scelta della Commissione di volere modificare
un regolamento che è in vigore ma non ancora applicabile, la prima modifica che
la Commissione propone è quella di modificare l’art.61 del Regolamento procedure
allo scopo di poter automaticamente dichiarare paesi di origine sicuri tutti i
paesi candidati all’adesione all’Unione Europea, salvo che in tali paesi non ci
siano situazioni di conflitto armato o le domande di asilo dei cittadini di tali
paesi vengano accolte nell’UE con una media superiore al 20%. I candidati
attuali all’adesione sono Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia. La
Bosnia-Erzegovina, la Georgia e il Kosovo sono candidati potenziali. Anche la
Turchia rientra tra i paesi candidati anche se i negoziati sono congelati dal
2018. Apparentemente la proposta della Commissione potrebbe sembrare
ragionevole, dal momento che il primo requisito per avere lo status di candidati
è aderire ai principi dell’Unione e rispettare lo stato di diritto.
Un rapido sguardo alla lista degli aspiranti fa comprendere come si tratti
invece di una scelta del tutto impropria che confonde criteri giuridici con
criteri politici. Tra i paesi candidati figurano infatti Paesi come la Turchia
nel quale le violazioni dei diritti umani sono estese e sistematiche, come reso
evidente agli occhi del mondo anche dai tragici eventi delle ultime settimane.
Nel 2023 oltre centomila cittadini turchi hanno presentato domanda di asilo nei
paesi dell’UE, con un aumento dell’82 % rispetto all’anno precedente, divenendo
la terza nazionalità più numerosa in cerca di protezione nell’UE dopo i siriani
e gli afghani. È paradossale che l’UE condanni le violenze politiche in Turchia
e nello stesso tempo elabori proposte normative così palesemente irragionevoli.
La Commissione propone delle modifiche al testo del Regolamento procedure per
consentire agli stati la facoltà (non l’obbligo) di anticipare l’applicazione di
una nozione assai controversa già introdotta con il nuovo regolamento, ovvero la
possibilità di applicare la procedura accelerata di frontiera ai richiedenti
provenienti da un paese terzo “la cui percentuale di decisioni di riconoscimento
della protezione internazionale da parte dell’autorità accertante è, stando agli
ultimi dati medi annuali Eurostat disponibili per tutta l’Unione, pari o
inferiore al 20 %” . Poichè si trattava appunto di una misura futura la cui
applicazione sarebbe avvenuta appena a metà 2026 quasi nessuno ne ha parlato
finora. È stato introdotto nell’ordinamento giuridico una sorta di criterio
statistico di fondatezza della domanda che non appare compatibile con l’obbligo
da parte dello Stato di condurre un esame equo e completo della domanda di asilo
su base individuale.
L’incoerenza logica risulta ancor più chiara se si considera che, diversamente
da quanto un lettore assennato può pensare, la cosiddetta regola del 20% (che
non ha, nel testo di legge, neppure un nome per definirla) non si sovrappone né
sostituisce la nozione di paese di origine sicuro che continua ad essere
prevista dal nuovo Regolamento procedure. Tale normativa viene giustificata come
necessaria per limitare l’abuso della procedura di asilo da parte di persone la
cui domanda verrà quasi sicuramente rigettata. Non ci si accorge tuttavia della
irrazionalità di quanto si è proposto (e approvato); la percentuale di
accoglimento della domanda di asilo che può arrivare fino al 20% (non fino al
2%) indica un tasso affatto inconsistente rendendo confusa ed incoerente la
asserita ratio della norma. Inoltre, in modo del tutto arbitrario la percentuale
è calcolata solo sulla base delle domande accolte in sede amministrativa e non
tiene conto dei ricorsi, nonostante essi facciano pienamente parte della
procedura. Nel diritto dell’Unione con la nozione di “decisione definitiva” su
una domanda di asilo si deve infatti intendere l’esaurirsi, in senso di
accoglimento o di rigetto, di tutte le procedure. Il vero tasso di accoglimento
dovrebbe essere calcolato sulle decisioni definitive; se così fosse fatto, esso
si attesterebbe sul 30%.
Per comprendere quanto sia incredibile ciò di cui stiamo trattando faccio il
seguente esempio: se io fossi un medico e sostenessi che una malattia che ha un
tasso di mortalità del 20% o del 30% è in fondo assai poco pericolosa verrei
preso per pazzo. Se invece si sostiene che un tasso di accoglimento del 20%
delle domande di asilo è indice di una generale infondatezza l’irrazionalità di
quanto viene sostenuto passa del tutto inosservata. La realtà della vita degli
“altri” da cui dobbiamo difenderci è infatti divenuto da tempo un terreno nel
quale le nozioni giuridiche, e in generale ogni forma di logica, hanno perso il
loro significato lasciando il campo a disgustose (ma rimosse) forme di violenza
verso esseri umani.
La creazione di una lista europea di paesi di origine sicuri è nozione che non
viene affatto introdotta dalla nuova proposta di regolamento presentata dalla
Commissione ma è già presente nel Regolamento procedure. La nuova proposta si
limita a prevedere che “I paesi terzi elencati nell’allegato II sono designati
come Paesi di origine sicuri a livello dell’Unione” e li indica (si tratta di
Bangladesh, Egitto, Colombia, India, Kosovo, Marocco, Tunisia). Viene così
stravolta la procedura corretta che dovrebbe essere seguita per la designazione
di paesi terzi come sicuri; innanzitutto la normativa che la prevede deve essere
applicata (cosa che al momento non è). In seguito a ciò, sulla base della
situazione oggettiva dei diversi paesi e dei criteri che la stessa normativa
prevede per effettuare la designazione come paese di origine sicuro (in primis
il requisito della democraticità dell’ordinamento di tali paesi) la Commissione
con atti delegati potrebbe predisporre una lista di paesi di origine sicuri
indicando le ragioni e le fonti che giustificano tale delicatissima scelta.
Nelle premesse alla sua nuova proposta di Regolamento che già in anticipo
contiene i futuri paesi di origine sicuri, la Commissione omette di indicare le
sue fonti; a ognuno dei paesi indicati come di origine sicura sono dedicate più
o meno dieci righe piene di affermazioni non veritiere o contestabili.
Prendiamo ad esempio l’Egitto su cui la Commissione scrive che “ Il Paese ha
ratificato i principali strumenti internazionali sui diritti umani (…) Nella sua
strategia nazionale per i diritti umani, l’Egitto ha dichiarato l’intenzione di
riformare la legge sulla detenzione preventiva, migliorare le condizioni di
detenzione, limitare il numero di reati puniti con la pena di morte e rafforzare
la cultura dei diritti umani in tutte le istituzioni governative. È necessaria
un’attuazione efficace, ma finora sono stati compiuti progressi”. Rinvii a
generici impegni e nessun riferimento alla realtà della presenza di migliaia di
detenuti politici, alla repressione di ogni forma di dissenso, al fatto che la
“tortura e altro maltrattamento sono rimasti metodi utilizzati regolarmente
nelle carceri, nei commissariati di polizia e nelle strutture gestite
dall’agenzia per la sicurezza interna” (rapporto globale di Amnesty
International 2023).
Sulla Tunisia, ignorando la violenta involuzione autoritaria in corso negli
ultimi anni, lo stesso impedimento all’ingresso nel Paese della delegazione dei
parlamentari europei avvenuto nel 2023, il pubblico linciaggio degli stranieri,
specie se di colore, la mancata applicazione della Convenzione di Ginevra, la
deportazione degli stranieri nel deserto documentata dal rapporto “State
Trafficking” presentato il 29.01.25 al Parlamento Europeo, la Commissione scrive
che la Tunisia “ha ratificato la Convenzione contro la tortura e altre pene o
trattamenti crudeli, inumani o degradanti. In Tunisia non è in corso alcun
conflitto armato e quindi non esiste alcuna minaccia di violenza indiscriminata
in situazioni di conflitto armato internazionale o interno. In generale, non vi
sono persecuzioni nel Paese”. La nozione di paese di origine sicuro viene così
fatta a pezzi, ridicolizzata, stravolta, e viene sostituita da affermazioni
ideologiche e da parole prive di alcun contenuto. Non posso smettere di pensare
che la Commissione europea dovrebbe operare per “promuove l’interesse generale
dell’Unione” nonché vigilare “sull’applicazione del diritto dell’Unione sotto il
controllo della Corte di giustizia dell’Unione europea” (art. 17 del Trattato
sull’Unione Europea). È inquietante leggere i testi che oggi scrive perché mai,
almeno a mia memoria (che sfortunatamente non è più breve), è stato raggiunto un
livello così basso.
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Con grande gioia riceviamo e pubblichiamo questo comunicato.
Si è concluso martedì 25 marzo 2025, dopo sette anni e quattro mesi, il processo
a carico di 4 compagn*, accusat* di essersi oppost* in diversi modi all’apertura
della sede di Cagapound di Cesena avvenuta a gennaio 2018 in via Albertini 28/D
(poi chiusa e riaperta prima in via Giorgio Amendola 9 e nel maggio 2024 in
Corte Dandini 4).
Inizialmente condannate in primo grado dal Tribunale di Forlì, la sentenza di
Appello a Bologna ha invece assolto tutte e quattro le persone imputate,
annullando quindi le iniziali condanne che (lo ricordiamo) erano:
– per tre imputat* una multa di 800 euro a testa per diffamazione (nello
specifico accusat* di aver diffuso un volantino che ricordava la complicità di
chi concede i propri locali in affitto ai gruppi neofascisti, affisso per
Cesena, con indicati nomi e cognomi dei summenzionati proprietari);
– per la quarta compagna una condanna a 7 mesi di carcere per tentata violenza
privata, con l’accusa di aver tentato di convincere verbalmente i proprietari a
non affittare il loro negozio a un gruppo di fascisti dichiarati.
Oltre alle condanne gli imputati avrebbero dovuto pagare le spese processuali
anche della controparte e un risarcimento ai proprietari del locale, Daniele e
Francesco Lombardini, di circa 9000 euro, dato che questi si erano costituiti
come parte civile al processo, che verteva sulle testimonianze accusatorie di
alcuni poliziotti e degli stessi fascisti.
Il tentativo, palese, era quello di intimidire l’antifascismo militante con
titoloni sui giornali locali, processi, condanne ed estorsioni da migliaia di
euro.
Ora aspettiamo le motivazioni della sentenza, ma possiamo già dire che questo
tentativo è fallito.
In questi anni di processo sono state fatte numerose iniziative per sostenere le
nostre compagne e i nostri compagni: assemblee, presidi sotto al tribunale in
occasione delle udienze, trekking solidali ultra-partecipati (di cui l’ultimo il
16 marzo scorso), cene e concerti benefit, cortei.
E proprio uno di questi cortei vogliamo ora menzionare, nello specifico quello
che si è svolto a Cesena il 13 novembre 2021, di contrasto alle politiche
antiproletarie e filopadronali del governo Draghi e contro la narrazione dello
Stato e dei media della gestione Covid e quella dei gruppi fascisti che volevano
parlare di libertà (proprio loro!) strumentalizzando alcune delle proteste
contro il green pass.
In seguito a questo corteo, nato anche come momento benefit per le spese
processuali delle persone indagate per l’opposizione a Cagapound, altri 3
compagn* sono stati accusati di aver sottratto una telecamere ad un digos.
Nello specifico, due accusat* di rapina aggravata e resistenza a pubblico
ufficiale, e un terzo accusato di favoreggiamento. Nella recente sentenza di
Appello il compagno accusato di favoreggiamento è stato assolto, mentre per le
altre due persone è caduta la rapina aggravata ed è rimasta una condanna a poco
più di 4 mesi per resistenza a pubblico ufficiale.
Di fronte all’arroganza del potere, che con le sue leggi prova a schiacciare chi
protesta e chi lotta – ultimo esempio è il ddl sicurezza che il governo Meloni
vorrebbe approvare definitivamente nei prossimi mesi – e allo sdoganamento
odierno (anche istituzionale) delle peggiori ideologie razziste, suprematiste,
militariste e fasciste a livello mondiale, bisogna continuare a mobilitarsi.
La solidarietà ci dimostra che chi lotta non è mai sol*!
Gratitudine e amicizia va a chi in questi anni ha continuato a sostenere chi si
trovava sotto processo. I contributi solidali a sostegno delle persone assolte
in appello, tolte le spese per gli avvocati, saranno usati per chi si trova
ancora a fare i conti con la repressione che in questi tempi non risparmia di
certo i suoi colpi.
Antifasciste ed Antifascisti di Forlì e Cesena
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