Source - Osservatorio Repressione

Siria: bombardamenti turchi alla diga di Tishreen. Decine i morti e feriti
Ancora massacri turchi contro la popolazione del Nord e dell’Est della Siria. Almeno 10 morti civili nei raid turchi contro il presidio popolare sulla Diga di Tishreen, che garantisce l’acqua a milioni di persone nell’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est e rappresenta un nodo strategico nell’ambito degli scontri in corso da un mese e mezzo tra Forze siriane democratiche e il sedicente Esercito nazionale siriano. Dal 8 dicembre 2024, la Turchia ha lanciato attacchi contro la regione del Nord e dell’Est della Siria, mirando principalmente alle infrastrutture vitali. Per fermare l’occupazione turca e i suoi mercenari dall’attaccare la diga di Tishreen, dall’8 gennaio, convogli di civili si sono diretti verso la diga  per proteggerla. Tuttavia ciò non ha fermato la Turchia che ha preso di mira direttamente i civili. Finora le forze che difendono il confederalismo democratico in Siria sono riusciti a respingere tutti i tentativi turco-jihadisti di avanzare: in risposta agli attacchi turchi sui civili, stanotte – riferiscono le Sfd – è stata colpita una base dell’occupazione a Zarkan. Numerosi i miliziani rimasti uccisi, mentre la Turchia ha replicato con alcuni raid ed esplosioni a Qamishlo, di fatto la capitale del Rojava confederale. Gli ultimi aggiornati su Radio Onda d’Urto con Tiziano Saccucci dell’Ufficio di Informazione sul Kurdistan in Italia. Ascolta o scarica L’analisi su Radio Onda d’Urto di Murat Cinar, giornalista di origine turca  Ascolta o scarica   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 17, 2025 / Osservatorio Repressione
A.C.A.B.: la Val Susa secondo Netflix vs la realtà che viviamo
In A.C.A.B., la serie prodotta dalla multinazionale americana Netflix la lotta No Tav viene mostrata in modo macchiettistico e violento, in linea oltretutto con la retorica giornalistica che abbiamo visto in questi anni. La rappresentazione equilibra forzatamente le violenze, suggerendo una simmetria tra le parti, con un ferito per parte, come se il peso reale della repressione fosse bilanciato. il divario è ben più marcato e lo dimostrano le inchieste giudiziarie che ci hanno colpito in questi anni, gli anni di carcere elargiti come se fossero noccioline, i nostri feriti e il territorio militarizzato come se fossimo in guerra. di Movimento No Tav da notav.info In Val Susa abbiamo avuto modo di vedere A.C.A.B., la serie prodotta dalla multinazionale americana Netflix e uscita mercoledi 15 gennaio. Eravamo curiosi di osservare come una fiction di tale portata avrebbe trattato la nostra terra e la nostra lotta. Quello che abbiamo visto non ci ha colpiti: la Val Susa, in questo caso, è solo un pretesto narrativo per introdurre la storia dei reparti celere protagonisti. È significativo, tuttavia, che la lotta No Tav venga mostrata in modo macchiettistico e violento, in linea oltretutto con la retorica giornalistica che abbiamo visto in questi anni. La rappresentazione equilibra forzatamente le violenze, suggerendo una simmetria tra le parti, con un ferito per parte, come se il peso reale della repressione fosse bilanciato. In realtà, il divario è ben più marcato e lo dimostrano le inchieste giudiziarie che ci hanno colpito in questi anni, gli anni di carcere elargiti come se fossero noccioline, i nostri feriti e il territorio militarizzato come se fossimo in guerra. Quello che la serie mette in scena non è uno scontro realistico, ma una sorta di battaglia epica, che ricorda le lotte tra antichi romani e popolazioni barbariche, in cui solo l’inganno consente ai “barbari” di colpire un valoroso centurione. La narrazione non appare squilibrata solo nella rappresentazione della violenza, ma anche nell’attribuzione delle sue origini. Si tenta di far credere al vasto pubblico globale di Netflix che le violenze perpetrate dalle forze dell’ordine in Val Susa – e altrove – siano una reazione inevitabile, giustificata dalla tensione generata dai manifestanti. Questi vengono rappresentati attraverso la solita retorica manichea, che li divide in “pensionati buoni” e “zecche pericolose”, oppure riducendo ogni abuso a episodi isolati causati dal singolo elemento irruento: la stanca e falsa narrazione della “mela marcia” che nega, di fatto, la verità incontrovertibile per cui è il sistema ad essere violento, imponendo con la forza ciò che viene rifiutato da più di 30 anni in questa valle. E quindi nessun riferimento, ovviamente, alle ragioni della protesta, alle origini di una contrarietà ragionata e diffusa nella nostra valle, alla devastazione che quotidianamente osserviamo, ai nostri boschi distrutti, alle colate di cemento, all’inquinamento, ai rischi per la nostra salute. Poiché noi la realtà la viviamo quotidianamente sulla nostra pelle, sappiamo che quello che accade in Valsusa non è un film e infatti conosciamo il prezzo per difendere il nostro territorio dalla devastazione. Siamo di fronte ad un crimine ambientale che all’oggi non vede punire i colpevoli, anche se sappiamo bene chi sono. Cosa che invece sta accadendo è che alcuni di noi sono accusati del reato di associazione a delinquere e dai vari ministeri e da Telt ci viene richiesto un rimborso pluri-milionario per difendere quei cantieri che la nostra valle non ha mai richiesto. La realtà è qui, tra le persone che vivono queste montagne. In questo documentario di cui vi alleghiamo il link, Archiviato (regia di Carlo Amblino, con voce narrante di Elio Germano) sono elencati una piccola parte degli abusi che abbiamo subito in questi anni. La nostra Resistenza ci porterà alla vittoria e questo è quanto basta.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
January 17, 2025 / Osservatorio Repressione
Abusi in questura a Brescia: intervista all’avvocato Gilberto Pagani. “Attiviste ancora sotto shock”
Abusi in Questura a Brescia contro Extinction Rebellion: dopo le interrogazioni di Alleanza Verdi e Sinistra e Movimento 5 Stelle, il documento dei Centri anti-violenza di Brescia e le denunce di attiviste e attivisti, il ministro Piantedosi difende l’operato della Questura di Brescia sugli abusi in divisa nei confronti delle attiviste di Extinction Rebellion, Ultima Generazione e Palestina Libera di lunedì  dopo il blocco pacifico di Leonardo, azienda armiera implicata nelle guerre di mezzo mondo, a partire dal Medio Oriente. Durante il fermo, durato 7 ore, XR ha denunciato che in Questura “molte delle persone identificate come donne sono state costrette a spogliarsi e a eseguire piegamenti sulle gambe, trattamento non riservato alle persone di sesso maschile”. Per il titolare del Viminale, invece, “le perquisizioni sono state volte in piena regolarità: mi dispiace comunque se qualcuno si  sentito offeso. Ho condiviso con il capo della Polizia di Stato il pensiero che noi dobbiamo rafforzare l’indicazione agli operatori che queste pratiche, che hanno una loro sensibilità, siano caratterizzate da una proporzionalità e adeguatezza agli scenari che si presentano“. Queste ultime parole del titolare del Viminale non sfuggono all’avvocato Gilberto Pagani, uno dei legali che segue gli attivisti e le attiviste: “quelle di Piantedosi sono affermazioni che confermano quanto stiamo dicendo: il richiamo alla “proporzionalità” evidenzia che questo criterio sia sfuggito, perchè le donne fermate non erano certo delle criminali“. Rispetto alla denuncia formale da parte delle attiviste “stiamo per concluderla, ma dobbiamo ancora decidere chi di queste ragazze se la sente di esporsi, perchè sono veramente sotto shock. Faranno incontri questo fine settimana con degli psicologi, perchè sono rimaste veramente colpite. Non sono delle criminali e assimilare manifestanti pacifisti e non violenti a dei criminali significa non capire la questione e assumere un atteggiamento di “delirio repressivo””. Su Radio Onda d’Urto l’intervista integrale all’avvocato Gilberto Pagani, legale di Extinction Rebellion Italia. Ascolta o scarica Contro l’intimidazione e gli abusi in Questura a Brescia, sabato 18 gennaio, alle ore 15.30, presidio fuori dalla Questura stessa, in via Botticelli, indetto da csa Magazzino 47, Diritti per tutti, Collettivo Onda Studentesca, Cobas e Cub. SPESE LEGALI – XR ha poi lanciato un appello a sostenere le spese legali: https://sostieni.link/36163 Il comunicato di XR Italia: “È SUCCESSO DI NUOVO: COSTRETTE A SPOGLIARSI Dopo oltre 7 ore di fermo in Questura, sono state rilasciate le 23 persone di Extinction Rebellion, Palestina Libera e Ultima Generazione che erano state fermate dopo la manifestazione alla Leonardo spa di Brescia. Appendiamo con dolore che molte delle persone socialmente identificate come donne sono state costrette a spogliarsi e a eseguire piegamenti sulle gambe, trattamento non riservato invece alle persone di sesso maschile. Tutte le persone sono state denunciate arbitrariamente per reati pretestuosi e altre espulse da Brescia con dei fogli di via obbligatori. Si, la solita misura di prevenzione del codice antimafia che viene illegittimamente notificata dai Questori di tutta Italia sotto ordine diretto del Ministero dell’Interno. Si conclude cosi una giornata piena di abusi in divisa che apre una nuova ferita nella gestione del pubblico dissenso in questo paese. Abusi che raccontano, ancora una volta, che contestare le politiche genocide ed ecocide della Leonardo – la principale azienda bellica partecipata dallo stato italiano – non è assolutamente consentito. Chiederemo giustizia, anche questa volta, affinché il diritto al dissenso venga difeso, onorato e protetto. Ripetiamolo insieme: sorella, non sei sola!” > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 17, 2025 / Osservatorio Repressione
Salò (Bs): espone bandiera e striscione sulla Palestina, si ritrova polizia e carabinieri in casa per farli rimuovere
Espone una bandiera e lo striscione con scritto “Palestina Libera” dal balcone in via Vittorio Emanuele II in centro a Salo’ e si ritrova polizia e carabinieri in casa (in sua assenza ) che intimano ai suoi genitori, in quel momento ospiti nell’abitazione, di rimuoverli. E’ successo a Giulio Tonincelli fotografo e documentarista indipendente. La bandiera era esposta fin dal 2018 dopo che Giulio era stato nella Striscia di Gaza. Da quel viaggio è nato “Diario Palestinese” un reading-concerto tra musica, parole e immagini. Ora si trova in Etiopia a raccogliere testimonianze su quella che è stata la presenza coloniale italiana. Il racconto su quanto accaduto a Radio Onda d’Urto di Giulio Tonincelli documentarista e filmmaker indipendente Ascolta o scarica     > Desio: 400 euro di multa aver esposto uno striscione contro il genocidio a > Gaza > Un normale eccesso di zelo. A proposito di api, pace e libertà   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 17, 2025 / Osservatorio Repressione
In Serbia la polizia ha installato spyware nei cellulari di giornalisti e membri delle Ong
La documentata denuncia di Amnesty International nel report “Una prigione digitale” evidenzia i sistematici abusi delle forze dell’ordine di Belgrado che sorvegliano gli attivisti per reprimere il dissenso e controllare le manifestazioni della società civile. Hanno un ruolo anche aziende legate ad Israele. “Un rischio enorme per coloro che si battono per i diritti umani” di Alessandro Ferrari da Altreconomia La polizia e i servizi segreti della Serbia hanno utilizzato avanzati software di spionaggio per sorvegliare illegalmente giornalisti e attivisti della società civile e reprimere le loro attività. Lo rivela il report di Amnesty International “Una prigione digitale: sorveglianza e soppressione della società civile in Serbia” pubblicato a metà dicembre 2024. Il rapporto documenta come la polizia e l’Agenzia per le informazioni sulla sicurezza (acronimo Bia) abbiano utilizzato almeno tre diversi spyware, ovvero software che raccolgono informazioni da un dispositivo senza il consenso del proprietario, per spiare i cellulari di vari esponenti della società civile. Il report “Una prigione digitale” è basato su approfondite interviste a 13 cittadini direttamente colpiti dalla sorveglianza digitale e sui colloqui con 28 esponenti della società civile, oltre ai risultati delle ricerche forensi eseguite dal laboratorio sulla sicurezza di Amnesty International. Da tutto ciò emerge che le autorità serbe hanno fatto ricorso a tecnologie di controllo e a tattiche di repressione digitale nei confronti di alcuni attivisti, creando perciò nel Paese una sorta di sistema di sorveglianza digitale. È un caso emblematico quello del giornalista indipendente Slaviša Milanov, che nel febbraio 2024 è stato fermato dalla polizia per un controllo stradale di routine vicino alla città di Pirot e poi portato in commissariato. Dopo un breve interrogatorio, nel quale è stato privato del suo cellulare, Milanov viene rilasciato ma nota che il suo dispositivo non funziona correttamente. Pensando ad un tentativo di hackeraggio, il giornalista si rivolge al laboratorio sulla sicurezza di Amnesty International, il quale scopre che il cellulare è stato sbloccato senza il suo consenso tramite un software dell’azienda israeliana Cellebrite. La Cellebrite, una compagnia internazionale di digital intelligence, produce software per governi e aziende private che consentono di sbloccare i cellulari e di raccogliere, analizzare e gestirne i dati digitali. Uno dei prodotti più comuni di quest’azienda è il software Ufed, adoperato da molte forze di polizia per estrarre dati da dispositivi tecnologici, operazioni che però dovrebbero seguire delle precise linee guida per evitare abusi da parte delle autorità. Nel caso di Milanov, invece, la polizia serba non ha chiesto il suo consenso per estrarre dati dal cellulare, né ha fornito alcuna motivazione giuridica. Inoltre, l’analisi del laboratorio sulla sicurezza di Amnesty ha trovato nel telefono del giornalista tracce di uno spyware fino ad allora sconosciuto, ribattezzato NoviSpy, che consente dopo lo sblocco del dispositivo di ottenere dati sensibili e di attivare la fotocamera e il microfono da remoto. Un episodio simile è accaduto a un attivista della Ong Krokodil, organizzazione indipendente e apartitica della società civile, tra le poche ad aver pienamente condannato l’invasione russa dell’Ucraina, e per questo presa di mira dallo Stato serbo che ha espresso vicinanza alla Russia. Amnesty riporta che nell’ottobre 2024 l’attivista è stato convocato presso l’ufficio della Bia a Belgrado per essere interrogato a seguito di un’aggressione da parte di persone d’origine russa contro alcuni membri della Ong. Mentre l’attivista era in un ufficio del ministero dell’Interno alcuni agenti hanno esportato una serie di dati personali dal suo cellulare, rimasto fuori dalla stanza. Accortosi di un malfunzionamento del dispositivo, l’attivista lo ha fatto analizzare dal laboratorio di Amnesty che ha rinvenuto all’interno del dispositivo due spyware che erano in grado di estrapolare dati da remoto mentre il telefono veniva utilizzato. Invece nel novembre 2024 è avvenuto un altro caso in cui il cellulare di un cittadino è stato sbloccato tramite il software UFED e poi infettato con lo spyware NoviSpy. Nikola Ristic, giovane attivista tra gli organizzatori delle proteste anti governative per chiedere giustizia dopo il crollo del tetto della stazione ferroviaria di Novi Sad, è stato fermato dalla polizia a Belgrado prima di una manifestazione. Portato in un commissariato, Ristic viene privato del suo cellulare durante l’interrogatorio durato un paio d’ore. Una volta rilasciato, sospettando un tentativo di hackeraggio, Ristic si rivolge al laboratorio di Amnesty, le cui analisi forensi infatti hanno individuato che durante l’interrogatorio il dispositivo è stato prima sbloccato tramite il software UFED e poi infettato tramite NoviSpy, che permette alla polizia di manipolare il cellulare da remoto anche giorni dopo l’intrusione. Amnesty ha deciso perciò di indagare il sistema di sorveglianza digitale messo in piedi dello Stato serbo, che consiste nell’impiego di almeno tre diverse forme di spyware, tra cui il sistema Pegasus dell’azienda NSO legata al governo israeliano e già oggetto di un’approfondita inchiesta di Amnesty, e nell’utilizzo illegale delle sofisticate tecnologie di Cellebrite. Questi strumenti forniscono alle forze di polizia la capacità di raccogliere dati in modo nascosto, come nel caso degli spyware, anche tramite l’uso illegale e illegittimo dei prodotti dell’azienda Cellebrite, il cui impiego dovrebbe seguire delle normative per tutelare i cittadini. La legislazione serba prevede delle circostanze specifiche in cui le misure di sorveglianza, come l’ascolto segreto delle comunicazioni private da parte della polizia, possano essere legittimamente utilizzate. Tuttavia, Amnesty osserva che l’utilizzo di alcune tecnologie, tra cui spyware e altri strumenti digitali per raccogliere i dati personali, non è al momento pienamente regolamentato dalla legge, lasciando perciò la possibilità che avvengano abusi e illeciti da parte delle forze di sicurezza. Infatti il report sottolinea che le disposizioni che regolano l’applicazione di misure di sorveglianza spesso sono generiche e non forniscono tutele significative per i cittadini. Amnesty evidenzia che negli ultimi anni in Serbia sono avvenute varie proteste antigovernative che hanno generato una risposta sempre più dura da parte dello Stato, tra cui campagne diffamatorie contro le Ong e i media critici, vessazioni giudiziarie nei confronti di attivisti politici, sorveglianza fisica e digitale. Soprattutto è dall’estate del 2024 che le proteste delle società civile si sono intensificate, in particolare contro l’accordo stipulato dalla Serbia con l’Unione europea per l’accesso alle materie prime, legato anche all’apertura di una miniera di litio nella zona della valle di Jadar. Anche a dicembre 2024 sono avvenute importanti manifestazioni contro le autorità, a seguito del crollo in novembre del tetto della stazione ferroviaria di Novi Sad che ha causato 15 morti, per chiedere trasparenza nelle indagini che devono accertare le responsabilità della tragedia. “La nostra indagine rivela come le autorità serbe abbiano utilizzato la tecnologia di sorveglianza e le tattiche di repressione digitale come strumenti di un più ampio controllo statale contro la società civile”, ha dichiarato Dinushika Dissanayake, vicedirettrice di Amnesty International per l’Europa. “Inoltre, evidenzia come i software dell’azienda Cellebrite – ampiamente utilizzati dalla polizia e dai servizi segreti di tutto il mondo, aggiunge Dissanayake – possano rappresentare un rischio enorme per coloro che si battono per i diritti umani, l’ambiente e la libertà di parola, quando vengono utilizzati al di fuori di un rigoroso controllo legale e di supervisione”. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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January 17, 2025 / Osservatorio Repressione
L’Onu boccia il ddl sicurezza: «In Italia libertà a rischio»
Duro documento degli esperti Onu sul ddl sicurezza. Gli «special rapporteurs» esprimono al governo «forte preoccupazione» Sei Special Rapporteurs delle Nazioni Unite si sono rivolti al governo italiano per esprimere forti preoccupazioni relativamente alla possibile approvazione del Ddl sicurezza da parte del Parlamento. Nella lettera (a questo link), inviata al governo nello scorso mese di dicembre, i Relatori dell’Onu sottolineano come alcune disposizioni, se non modificate, potrebbero essere in contrasto con gli obblighi dell’Italia in materia di tutela dei diritti umani, così come stabiliti dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici. In particolare, scrivono, gli articoli 9 (diritto alla libertà e alla sicurezza e divieto di detenzioni arbitrarie), 12 (diritto alla libertà di movimento), 14 (diritto a un processo equo), 17 (diritto alla privacy), 19 (diritto alla libertà di espressione e di opinione), l’articolo 21 (libertà di riunione) e l’articolo 22 (libertà di associazione). Sulla base di questo, i sei Relatori (il Relatore speciale sui diritti alla libertà di riunione pacifica e di associazione; il Relatore speciale sulla promozione e la protezione del diritto alla libertà di opinione e di espressione e di espressione; il Relatore speciale sulla situazione dei difensori dei diritti umani; il Relatore speciale sui diritti umani dei migranti; il Relatore Speciale Relatore speciale sulle forme contemporanee di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e intolleranza correlata; il Relatore speciale sulla promozione e la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali libertà fondamentali nella lotta al terrorismo) hanno avanzato anche alcune richieste di modifica del disegno di legge. I relatori sostengono che verrebbero lesi il diritto alla libertà e il divieto di detenzioni arbitrarie, quello alla libertà di movimento e a un processo equo, il diritto alla privacy e alla libertà di espressione e di opinione, la libertà di riunione quella di associazione. « “Dopo l’OSCE e il Commissario sui Diritti Umani del Consiglio d’Europa, stavolta sono ben sei Relatori Speciali delle Nazioni Unite a dirsi preoccupati per questo disegno di legge con il quale, l’Italia, rischia di porsi fuori dal consesso internazionale in materia di tutela dei diritti umani – sostiene Patrizio Gonnella di Antigone – Dinanzi a così tante e qualificate prese di posizione Governo e Parlamento dovrebbero tornare sui propri propositi, rendendosi conto di quale vulnus giuridico e democratico stiano portando avanti. L’Italia perde credibilità e prestigio internazionale se si pone ai margini delle democrazie liberali. La democrazia è principalmente protezione delle minoranze. Non si può ad esempio punire con 8 anni di carcere il detenuto che disobbedisce passivamente. E’ incredibile». > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 17, 2025 / Osservatorio Repressione
Dopo l’annuncio della tregua a Gaza resta l’inferno
Uccisi in attesa della tregua. Raid israeliani uccidono 87 palestinesi. Il cessate il fuoco rischia di slittare a lunedì di Michele Giorgio da il manifesto I morti si accumulano a Gaza nell’attesa della tregua. I cacciabombardieri israeliani hanno ucciso almeno 87 palestinesi da quando mercoledì sera è stato annunciato in Qatar il cessate il fuoco tra Israele e Hamas che entrerà o dovrebbe entrare in vigore domenica. Almeno 40 persone sono state uccise dall’alba di ieri, tra 21 bambini e 25 donne. UN MASSACRO DI CIVILI di ogni età che pensavano di essere scampati all’offensiva militare e alla fame e che forse speravano di tornare ai loro villaggi e alle loro case, anche se a Gaza la casa pochi sono riusciti a salvarla. La Striscia è una distesa di macerie. Rimuoverle richiederà tempo e finanziamenti generosi, solo dopo potrà partire la ricostruzione. E non sarà più facile rimettere in piedi il sistema sanitario. «Occorreranno più di 3 miliardi per il prossimo anno e mezzo e circa 10 miliardi per i prossimi 5-7 anni», ha previsto il rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per i territori palestinesi Rick Peppercorn. Non è detto che i morti di ieri e mercoledì saranno le ultime vittime degli attacchi militari. Per placare i contestatori israeliani dell’accordo di tregua, il governo Netanyahu potrebbe dare via libera alle Forze armate fino all’ultimo minuto prima del cessate il fuoco. Il portavoce militare si è limitato a riferire che uno degli ultimi attacchi ha ucciso un comandante delle unità Nukhba di Hamas, coinvolto nell’attacco del 7 ottobre del 2023 e nella cattura di 250 ostaggi israeliani. MENTRE FILE di camion di aiuti umanitari erano schierate nella città di confine egiziana di El-Arish, in attesa di entrare a Gaza, ieri per diverse ore la tregua è rimasta in bilico. Si è temuto il ripetersi delle situazioni già viste e vissute in passato, con l’accordo di tregua dato per fatto dai mediatori, americani in testa, e poi saltato per le nuove condizioni poste da Israele e Hamas, nella maggior parte dei casi da Benyamin Netanyahu intenzionato a continuare l’offensiva a Gaza. Ieri sera però le cose sembravano essersi messe di nuovo nella direzione giusta. Una fonte di Hamas ha detto al sito d’informazione palestinese Shebakt Quds che sono state superate tutte le controversie. Conferme in quel senso sono venute anche dal ministro israeliano Aryeh Deri e da media locali. Il Segretario di Stato Usa Antony Blinken si è detto fiducioso che l’attuazione del cessate il fuoco a Gaza inizierà domenica. Ieri sera si attendeva l’avvio della riunione del governo Netanyahu, convocata per votare l’accordo, congelata per ore dopo le notizie di complicazioni al tavolo delle trattative a Doha. Nella capitale del Qatar sono rimasti per ore l’inviato speciale dell’Amministrazione Biden, Brett McGurk, e il rappresentante del presidente eletto Donald Trump, Steve Witkoff, assieme ai mediatori egiziani e qatarioti per risolvere l’ultima controversia riguardante l’identità di diversi prigionieri di cui Hamas chiede il rilascio. NETANYAHU ha rinviato la riunione del governo accusando il movimento islamico di aver avanzato richieste dell’ultimo minuto.  «Il governo non si riunirà finché i mediatori non notificheranno a Israele che Hamas ha accettato tutti gli elementi dell’accordo», ha tuonato il primo ministro. Netanyahu due giorni prima aveva ribadito che Israele resterà con i suoi soldati sul Corridoio Filadelfia e non rinuncerà al «diritto di veto» sull’inserimento nella lista di alcuni prigionieri palestinesi di primo piano. Pare certa l’esclusione del popolare detenuto politico Marwan Barghouti, che sconta in carcere cinque ergastoli, dall’elenco degli almeno mille prigionieri che Israele dovrà scarcerare per riavere gli ostaggi. UNA FONTE PALESTINESE  ha spiegato al manifesto che Hamas ha «soltanto» chiesto maggiori garanzie sulla «amnistia israeliana, per evitare che i suoi dirigenti e militanti, vengano di nuovo arrestati una svolta scarcerati, come avvenuto per decine di palestinesi liberati nello scambio con il soldato Gilad Shalit, nel 2011. Tra i nomi dei detenuti più importanti che saranno scarcerati ci sono Nael Barghouti, Alaa Al Bazian, Samer Mahroum, Nidal Zaloum, Ayed Khalil. Ad oggi, 48 prigionieri scarcerati per l’accordo Shalit sono tornati nelle celle israeliane. DOPO LA CONTROVERSIA dell’ultimo minuto esplosa a Doha, l’ala più estremista del governo di destra di Netanyahu ha sperato di bloccare l’accordo malgrado la maggioranza dei ministri sia a favore del cessate il fuoco e lo scambio di ostaggi. A sostegno degli oltranzisti alcune migliaia di militanti di destra e coloni hanno manifestato a Gerusalemme. Il ministro Bezalel Smotrich (Sionismo religioso) ha ribadito che resterà nell’esecutivo soltanto se l’offensiva contro Gaza riprenderà alla fine della prima fase dell’accordo. IL MINISTRO della Sicurezza, Itamar Ben-Gvir (Potere ebraico), ha convocato una conferenza stampa ieri sera per annunciare che si dimetterà dal governo se sarà dato il via libera alla tregua. Netanyahu ha avuto il sesto incontro in due giorni con Smotrich, per promettergli, secondo indiscrezioni, che la guerra non finirà prima che Hamas venga smantellata militarmente e in termini di capacità di governo. Promessa, spiegano alcuni, che contiene un nuovo obiettivo di guerra: distruggere Hamas in Cisgiordania. In ogni caso le dimissioni minacciate dai due ministri non bloccano l’approvazione dell’accordo di tregua prevista domani quando si riunirà il governo. La maggioranza però rischia di frantumarsi e Netanyahu è poco incline a formare un governo di minoranza con l’appoggio esterno dei centristi, perché finirebbe per affidare la sua sopravvivenza politica al rivale ed ex premier Yair Lapid (Yesh Atid).     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 17, 2025 / Osservatorio Repressione
Il World Report 2025 di Human Rights Watch boccia l’Italia
Nel suo rapporto annuale l’organizzazione per i diritti umani scatta una fotografia dello stato di salute del diritto internazionale e umanitario a livello globale, con la puntuale analisi della situazione di oltre 100 Paesi. Il ritratto dell’Italia è impietoso: destano preoccupazione le crescenti discriminazioni e le restrizioni dei diritti civili e sociali. Dal “Ddl sicurezza” alla violazione dei diritti delle persone in movimento di Alessio Giordano da Altreconomia “A livello globale nel 2024 abbiamo osservato due principali tendenze negative: il persistere di alcuni conflitti per i quali la risposta della comunità internazionale è stata insufficiente e la rinascita e il consolidamento di governi populisti contrari ai diritti umani, che con gradazioni diverse coinvolge vari Paesi”. Lo dice Federico Borello, vicedirettore esecutivo di Human Rights Watch, presentando il nuovo World Report 2025 pubblicato il 16 gennaio. Rientra nel secondo gruppo l’Italia, che secondo Borello “ha confermato il trend rilevato lo scorso anno”. Come già nel 2023, infatti, anche nel 2024 il nostro Paese ha registrato un incremento delle discriminazioni razziali e della violenza di genere, la restrizione dei diritti delle donne, l’aumento della retorica ostile nei confronti delle persone Lgbtqia+ e una maggiore difficoltà di accesso ai diritti per comunità rom e richiedenti protezione internazionale. Ad aprire le pagine del World Report 2025 dedicate all’Italia è proprio un’ampia panoramica sulle violazioni dei diritti delle persone migranti. In materia di ricerca e soccorso il report denuncia innanzitutto come “il governo italiano ha ostacolato le operazioni di soccorso delle organizzazioni non governative almeno 25 volte tra febbraio 2023 e settembre 2024” e ricorda che dallo scorso ottobre “le autorità hanno il potere di multare e trattenere gli aerei delle Ong”, utilizzati per monitorare dall’alto il Mediterraneo centrale e segnalare eventuali imbarcazioni in difficoltà. Sotto accusa anche la “politica dei porti lontani” italiana, che “costringe le navi di soccorso a sbarcare nei porti delle città del Centro e del Nord del Paese e le ricorrenti detenzioni amministrative in atto sulle stesse imbarcazioni”. Human Rights Watch, inoltre, condanna senza appello i respingimenti italiani e la cooperazione con Paesi che non rispettano i diritti umani. “Abbiamo assistito alla parziale débâcle dell’esternalizzazione delle frontiere -spiega Borello-, la cui legalità è stata messa in discussione dalla magistratura italiana”. Nello specifico il report dell’organizzazione ricorda come i tribunali italiani abbiano stabilito che “i capitani delle navi mercantili non devono restituire alla Libia le persone soccorse in mare a causa del rischio di gravi violazioni dei diritti umani”. Va in questa direzione la sentenza con cui lo scorso febbraio la Corte di Cassazione ha confermato la condanna del comandante del rimorchiatore Asso 28, reo di aver riconsegnato alla guardia costiera libica 101 persone nel luglio 2018. Infine, puntualizza Hrw, “il tribunale di Crotone ha stabilito che il Centro di coordinamento del soccorso marittimo (Mrcc) e la guardia costiera libica non sono attori legittimi di ricerca e soccorso”. Il focus sulla migrazione si conclude ripercorrendo gli accordi che l’Italia ha sottoscritto con i governi di Tunisia e Albania. Nel primo caso la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha descritto questa intesa, che prevede un sostegno finanziario e linee di credito per 105 milioni di euro in favore del Paese nordafricano, come “parte del piano dell’Italia per frenare la migrazione”. Nel secondo caso, invece, il rapporto ricorda che il momentaneo stop all’applicazione del protocollo d’intesa tra Italia e Albania è giunto quando “i giudici italiani hanno dichiarato illegittima la detenzione di due gruppi di uomini salvati in mare dall’Italia e inviati in Albania”. Trend negativo anche sul fronte dei diritti civili e sociali, temi sui quali secondo il vicedirettore esecutivo Borello “da molti anni i nostri politici seguono alla perfezione la strategia populista: individuare nemici sulla base di criteri etnici, religiosi o legati all’orientamento sessuale e attaccarne i diritti”. Preoccupano, in particolare, le discriminazioni nei confronti di persone nere e di etnia rom. Citando il rapporto 2024 degli esperti indipendenti sulle violazioni dei diritti umani da parte delle forze dell’ordine nei confronti di persone di origine e discendenza africana a cura delle Nazioni Unite, Hrw denuncia il racial profiling e il razzismo sistemico attuato dalle forze di polizia italiane. Matita rossa anche per il “Ddl 1660” approvato alla Camera lo scorso settembre. L’organizzazione evidenzia le criticità dell’articolo 15 del disegno di legge, che consente l’incarcerazione delle donne in stato di gravidanza e di quelle con bambini di età inferiore a un anno, e sottolinea come questa misura sia stata esplicitamente definita “anti-rom”, “dopo che il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini ha ripetutamente affermato che le donne rom che commettono reati eviterebbero il carcere rimanendo incinte”. L’analisi prosegue rivelando che in Italia la forbice sociale tra ricchi e poveri si è allargata. Human Rights Watch ricorda che, secondo i dati Istat del 2024, circa il 10% della popolazione italiana viveva in condizioni di povertà nel 2023. Anche in questo ambito poi non mancano le discriminazioni. Il World Report 2025, infatti, rileva che “la Corte di giustizia dell’Ue, a luglio, ha stabilito che il requisito di residenza di dieci anni richiesto dall’Italia ai cittadini stranieri per accedere al ‛reddito di cittadinanza’ costituiva una discriminazione illegale”. A gennaio, il governo aveva già sostituito questo strumento con un sistema di aiuti che comprende, tra le altre cose, “assegni di inclusione” e formazione professionale e che “fornisce però un’assistenza più limitata ai cittadini stranieri rispetto a quella di cui beneficiano i cittadini italiani”. Il rapporto si concentra poi sui fenomeni di violenza sessuale e di genere, che in Italia rappresentano un problema di drammatica attualità: “Le statistiche pubblicate a luglio dal governo hanno mostrato un aumento costante, dal 2021 al 2023, dei casi di violenza domestica contro le donne, di aggressione sessuale e di altri atti di violenza e molestie di genere”. Si segnala, inoltre, l’emendamento al disegno di legge 19/2024, approvato dal Parlamento lo scorso aprile, che riconosce legittimità all’ingresso delle associazioni antiabortiste nei consultori. A questo proposito è bene ricordare -come fa il report di Human Rights Watch- che in Italia “l’interruzione di gravidanza è legale entro il primo trimestre, e anche dopo in alcune circostanze, ma le persone spesso affrontano ostacoli significativi a causa dell’elevato numero di operatori obiettori di coscienza che rifiutano di praticare l’intervento”. “In tema di orientamento sessuale e identità di genere -riprende Borello- l’Italia è scivolata “dal 34esimo al 36esimo posto su 49 Paesi europei nella valutazione di Ilga Europe (International lesbian and gay association) sulle politiche e le leggi a tutela delle persone Lgbt”: sono ritenuti gravi i discorsi di odio e gli attacchi alle famiglie di genitori dello stesso sesso da parte di politici di primo piano e inadeguata la risposta dello Stato alla violenza e alla discriminazione nei confronti delle persone Lgbt. “In un sondaggio condotto dall’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali -scrive Hrw- il 60% degli intervistati in Italia ha dichiarato che negli ultimi cinque anni la violenza anti-Lgbt è aumentata, mentre il 68% ha affermato di aver subito atti di bullismo, insulti o minacce a scuola”. Il World Report, inoltre, condanna il disegno di legge che ha reso la gestazione per altri (Gpa) un reato universale. Secondo Human Rights Watch questa misura “avrà un impatto sproporzionato sul diritto delle coppie omosessuali e sterili di creare una famiglia”. A chiudere la panoramica sull’Italia è lo stato di salute dell’informazione e del diritto di protesta. Anche in questo caso le note positive sono poche: Human Rights Watch definisce “allarmanti” la mancanza di indipendenza dei media e l’uso di intimidazioni legali contro i giornalisti in Italia e, richiamando la Relazione sullo Stato di diritto a cura della Commissione europea, segnala “un aumento delle cause legali contro i giornalisti, un uso eccessivo dei decreti di emergenza da parte del governo e la restrizione dello spazio civico”. Per l’organizzazione andrebbero interpretati proprio in questo senso gli articoli del Ddl 1660 che prevedono un incremento di pena per alcuni reati commessi durante proteste e manifestazioni. “Dalla democrazia italiana ci aspetteremmo che orientasse le proprie risposte basandosi sul diritto internazionale, eliminando la retorica verso le minoranze e tutelando maggiormente i diritti di tutti”, conclude Borello, che ritiene però che questo auspicio difficilmente si realizzerà “visto che il governo attualmente in carica ha una posizione di chiusura ideologica verso tutte le tematiche da noi prese in esame”.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp    
January 16, 2025 / Osservatorio Repressione
Zone rosse: la costruzione di persone pericolose
Dai social alle ordinanze dei prefetti una serie di gruppi sociali e di persone razzializzate sono definiti “pericolosi”, dando molto più potere nelle mani delle forze dell’ordine lasciandogli piena discrezionalità di Vanessa Bilancetti da DINAMOpress Mercoledì della scorsa settimana – il giorno dopo l’uscita del video dell’inseguimento e dell’uccisione di Ramy Elgaml – abbiamo pubblicato sul canale instagram di Dinamo press il video di un fermo avvenuto nel quartiere San Lorenzo di Roma che ci era stato inviato da unƏ nostrƏ lettorƏ che era sul posto. Nella descrizione del video scrivevamo: «Quattro volanti corrono a sirene spiegate più di dieci agenti escono e afferrano un uomo lo buttano a terra violentemente, lo chiudono, si stringono intorno a lui per impedire di vedere la scena, lo ammanettano e poi lo caricano sull’auto. Una persona che faceva un video è stata identificata. E le persone accorse sono state allontanate. La dinamica non è chiara, ma era stato trovato a rubare delle cose da mangiare in un supermercato accanto a dove è stato preso in arresto. Le violenze contro le persone razzializzate e povere da parte delle forze dell’ordine nelle nostre città si moltiplicano e amplificano, il governo Meloni si compiace e lo trascrive tra i propri successi. Ma questa è veramente sicurezza?». Abbiamo avuto la conferma nei giorni seguenti che la persona era stata fermata perché trovata a rubare nel supermercato vicino al luogo del suo arresto. > Non crediamo sia utile chiederci quante volanti siano necessarie per fermare > un uomo che sottrae del cibo e che, scoperto, tenta di scappare dopo aver > avuto una colluttazione con il responsabile del negozio. Ci sembra invece più > utile inquadrare questo video nella partita aperta dal governo intorno alla > questione “sicurezza”. Data 3 gennaio, infatti, l’ordinanza del prefetto di Roma, che istituisce le nuove zone rosse nella città, tra cui la stazione Termini ed Esquilino, a seguito della direttiva inviata dal Ministro degli Interni ai prefetti poco prima di Capodanno e già attuate a Firenze, Bologna, Milano e Napoli. Nelle aree individuate in queste città «sono state controllate complessivamente 24.987 persone, con l’emissione di 228 provvedimenti di allontanamento», come leggiamo nella nota del Ministero aggiornata al 9 gennaio. In queste zone è possibile emettere ordini di allontanamento e divieti di accesso per persone considerate pericolose «perché denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti, per delitti contro la persona o contro il patrimonio commessi nelle aree interne e nelle pertinenze di infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano», come definisce la direttiva Piantedosi del 17 dicembre. L’idea è quella di «prevenire e contrastare l’insorgenza di condotte di diversa natura che – anche quando non costituiscono violazioni di legge – sono comunque di ostacolo al pieno godimento di determinate aree pubbliche, caratterizzate dal persistente afflusso di un notevole numero di persone». > Quindi con l’istituzione delle zone rosse diventa possibile allontanare tutte > le persone che possono “sembrare” pericolose. Ma sulla base di quali > percezioni i comportamenti e le persone possono essere considerate pericolose? E qui ritorniamo al nostro video di una persona che viene fermata e portata via da quattro volanti per aver rubato in un supermercato. La persona in questione è razzializzata e il fermo avviene nel quartiere limitrofo alla nuova zona rossa, stazione Termini. Il video in poche ore è virale, oggi ha superato le 210.000 visualizzazioni. Più il video gira più i commenti diventano apertamente razzisti, in supporto dell’operato delle forze dell’ordine e di offesa al nostro lavoro considerato “buonista”. La torsione avviene, in particolare, quando tre pagine instagram “notizie locali”, “Italia spaccona” e “non.fa.ridere” remixano il video con il solo titolo “quattro volanti” e riportando solo la parte introduttiva della nostra descrizione. Queste sono pagine che ripostano solo contenuti riguardanti gli spazi urbani “degradati”, persone che vivono in strada in situazioni difficili e contenuti denigratori nei confronti di persone migranti e razzializzate. > Ed ecco come il nostro stesso contenuto si trasforma in qualcos’altro. Da un > video di denuncia di un uso eccessivo della forza pubblica, a un video che > insulta la persona in stato di fermo, ed esulta del suo arresto. A questo > punto abbiamo bloccato i commenti e i remix, limitando la circolazione del > video, perché il nostro obiettivo non erano le visualizzazioni in quanto tali. Una traccia simile può essere seguita per le “borseggiatrici”, che dall’estate scorsa sono diventate virali in centinaia di video girati in tutte le città d’Italia. Fino ad approdare in un articolo del DdL Sicurezza, dove si apre «la possibilità per le donne incinte e per le madri con figli entro l’anno di età, il rinvio della pena non più obbligatorio, come stabilisce l’articolo 146 del codice penale, ma diventerà facoltativo, a discrezione del giudice», come scrive Anna Pizzo sul nostro sito. Anche qui la norma ha una chiara matrice etnica e si indirizza alle donne rom e sinti. E potremmo continuare con le polemiche montate ad arte tra giornali cartacei, programmi televisivi e social sui “maranza” del capodanno a Milano, o le baby gang (sempre di seconda generazione) nell’estate di Rimini. > La percezione, quindi, si costruisce in questo ecosistema mediale, che > amplifica e moltiplica razzismo, xenofobia, e islamofobia, per questioni di > click e accaparramento di fette di mercato. E che con l’abolizione del fact > checking di Meta potrà solo peggiorare. Gli youtuber, ripresi dalle televisioni e ormai invitati alle feste di partito, che fanno milioni di views sulla stazione Termini «violenta» e «insicura» costruiscono questa percezione sociale di pericolosità. Decreti e ordinanze iscrivono questa pericolosità a livello istituzionale, dando alle forze dell’ordine la possibilità di perseguire qualsiasi «condotta di diversa natura» e lasciando loro piena discrezionalità al di fuori di qualsiasi controllo. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
January 16, 2025 / Osservatorio Repressione
La Francia non estrada (per ora) Gino
“Gino” l’attivista antifà, ricercato da Budapest nel medesimo procedimento per il quale era stata detenuta Ilaria Salis, resta in prigione a Fresnes: non sarà consegnato finché non saranno fornite risposte dalla giustizia ungherese di Filippo Ortona da il manifesto «Esiste una presunzione di disfunzioni sistemiche» per quanto concerne «l’indipendenza del potere giudiziario» in Ungheria, hanno scritto i giudici della Corte d’appello di Parigi, in una sentenza pronunciata ieri nelcaso dell’estradizione verso l’Ungheria del militante antifascista italo-albanese Rexhino «Gino» Abazaj, ricercato da Budapest nel medesimo procedimento per il quale era stata detenuta l’attuale europarlamentare Ilaria Salis. Era la terza udienza di questo procedimento, da quando Abazaj è stato arrestato nel novembre scorso. È durata appena qualche minuto, il tempo necessario ai giudici francesi di ordinare ai propri omologhi magiari di fornire una serie di «complementi» che suonano come un’appena velata denuncia della giustizia ungherese. Nel documento della Corte francese, che il manifesto ha potuto consultare, vengono richieste all’Ungheria delle «garanzie effettive» volte a «proteggere [Abazaj] e garantirne il diritto fondamentale a non essere sottomesso alla tortura, a delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti», specificando il luogo e le «condizioni concrete di detenzione» in Ungheria. Inoltre, il tribunale francese ha ingiunto di comunicare «le misure concrete» che verranno prese per «proteggere l’integrità fisica di Abazaj», a rischio «a causa delle proprie opinioni politiche», così da «garantirne il diritto fondamentale a un giusto processo.» La decisione della Corte è stata accolta con un certo ottimismo dai legali di Abazaj, Youri Krassoulia e Laurent Pasquet-Marinacce. «È un’eccellente decisione», ha commentato Pasquet-Marinacce, per il quale «la Corte ha tenuto conto del contesto politico di questo affaire: i militanti antifascisti rischiano di essere maltrattati in Ungheria». Il fatto che i giudici francesi abbiano chiesto delle «garanzie» nel quadro di un mandato d’arresto europeo avviene «molto raramente», ha precisato l’avvocato. Per il legale, le numerose «violazioni della presunzione d’innocenza» di Abazaj, «gravi, ripetute, da parte di importanti autorità politiche ungheresi», mostrano «l’influenza da parte del potere politico su quello giudiziario in Ungheria, è chiaro che Abazaj non sarà giudicato in maniera equa qualora venisse estradato.» Una considerazione che i giudici della Corte d’appello di Parigi sembrano aver fatto propria, cosa «per noi molto incoraggiante,» ha detto Pasquet-Marinacce, prima di aggiungere che verrà depositata una richiesta di scarcerazione per Abazaj, detenuto nella prigione di Fresnes dallo scorso novembre. Tra il pubblico, oltre alla famiglia venuta apposta dall’Italia e ai militanti accorsi in solidarietà, vi erano anche due deputati de La France Insoumise, Raphaël Arnault e Thomas Portes, presenti a ogni udienza sin dall’arresto di Abazaj. «Quella organizzata da Orbán è una vera e propria caccia ai militanti antifascisti» ha detto Portes, per il quale il premier ungherese «si serve del mandato d’arresto europeo per chiedere agli altri governi di fare il lavoro sporco, cioè di recuperare militanti in altri paesi europei per farli estradare in Ungheria». Per questo gli insoumis seguono con attenzione la vicenda di Abazaj, «per verificare che la giustizia francese rispetti lo stato di diritto e non conceda l’estradizione di Gino,» ha detto il deputato Lfi. I giudici di Budapest hanno ora due settimane per rispondere alla richiesta della giustizia francese, prima della prossima udienza prevista per il 12 febbraio. Fino ad allora, Abazaj resterà in carcere.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
January 16, 2025 / Osservatorio Repressione