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La violenza è del Governo
Esponenti del governo evocano il clima di odio e di violenza, scenari di altri tempi, per criminalizzare le manifestazioni degli studenti. Ma, a ben guardare, la violenza – che non è mai accettabile in democrazia – la esercita soprattutto il Governo: contro la magistratura, contro i migranti, contro chi dissente. Il tutto condito dal vittimismo di un potere che travalica i suoi limiti e pretende di incarnare anche l’oppresso dal potere. di Alessandra Algostino da Volere la Luna Sembra di vivere in una distopia surreale, ma è la realtà. Esponenti del governo evocano il clima di odio e di violenza, scenari di altri tempi, per criminalizzare le manifestazioni degli studenti. È il diritto di protesta in sé ad essere stigmatizzato e delegittimato; si citano gli slogan come fossero prove di reato. Una democrazia – scriveva Passerin d’Entrèves – è improntata alla «tolleranza del dissenso sino all’estremo limite possibile». La violenza, certo, non è mai accettabile in una democrazia: non lo è quando proviene dai manifestanti (e qui la reazione certo non manca, tanto da far ragionare di un eccesso punitivo, con sovradeterminazione delle fattispecie, abuso di misure cautelari…); non lo è quando assume la forma di violenza verbale da parte di chi rappresenta le istituzioni o di violenza fisica ingiustificata da parte delle forze di polizia. E non lo è quando assume le vesti di una legislazione violenta, che chiude gli spazi del dissenso e punisce il disagio sociale, come emblematicamente fa il disegno di legge sicurezza in discussione. E ancora non è tollerabile la violenza di un Governo che attacca frontalmente la magistratura, o di un magnate multimiliardario con prossimi incarichi di governo in altro Stato che rincara la dose, o la violenza esercitata contro le persone che migrano trattate letteralmente come pedine da muovere sullo scacchiere politico. L’aggressione del Governo e di Musk (sic!) alla magistratura mostra con chiarezza la rottura di due argini fondamentali della democrazia costituzionale: l’equilibrio dei poteri e l’autonomia della politica dall’economia (o, meglio, il controllo che la politica dovrebbe esercitare sull’economia). Certo, non è nulla di nuovo sotto il sole, ma colpisce la protervia con la quale, in Italia, il Governo attacca la magistratura, attraverso delegittimazione, falsificazione di dati di fatto (l’incontestabilità dell’applicazione delle norme in tema di rapporti tra ordinamento italiano ed europeo) e riforme ad hoc. Il tutto condito dal vittimismo di un potere che travalica i suoi limiti e pretende di incarnare anche l’oppresso dal potere. Ad essere travolti sono l’indipendenza della magistratura, il senso proprio della sua soggezione soltanto alla legge e il Parlamento, ancora una volta piegato al compito di dare forma legislativa ai voleri del Governo. D’oltreoceano, alle pretese assolutiste del neoeletto presidente, ahimè aiutate dal venir meno di fatto dei check and balances, si aggiunge una accettata – ma inaccettabile – sovrapposizione diretta del potere economico alla politica, con il conseguente asservimento delle istituzioni pubbliche al profitto dei privati. Sono episodi e contesti diversi, ma che hanno un comune precipitato nel fotografare in modo nitido la concentrazione del potere, la deriva decisionista e autoritaria, e il suo legame con gli interessi dell’oligarchia che possiede le leve di un modello economico predatorio, imperniato sulla massimizzazione del profitto di pochi. Provvedimenti come il disegno di legge sicurezza chiudono il cerchio, blindando il modello, non a caso tenendo insieme la punizione della marginalità sociale e della divergenza politica. Sembra quasi irreale tanto è una realtà limpida sotto i nostri occhi. Tuttavia è reale. È reale come il genocidio – concretizzo il termine: la morte, la disperazione, la fame, la distruzione della possibilità di vivere – che il Governo di Israele sta compiendo in Palestina. È reale come il trattamento dei migranti come non-persone, moderni schiavi o eccedenti da confinare ed espellere. È tutto reale ma allo stesso tempo è giustificato e mistificato da menzogne, ripetute al di là di ogni evidenza, finché (è la “logica dell’insistenza” dei regimi autoritari) divengono la “verità”. Il genocidio è autodifesa, la disumanizzazione dei migranti è “difesa dei confini”, l’attacco alla separazione e all’equilibrio dei poteri è giustificato con il vittimismo. Il diritto che stabilisce limiti, costituzionale e internazionale, è trattato alla stregua di un fastidioso orpello, da ignorare o modificare, inserito nella folta schiera dei nemici. La violenza si intreccia con la menzogna, per legittimarsi e delegittimare l’altro, esercitando una ulteriore violenza. È la costruzione del nemico, da espellere, da eliminare politicamente (quando non fisicamente). È il contrario della democrazia come pluralismo, discussione e conflitto; è il contrario dell’uguaglianza, dell’eguale riconoscimento, che è fondamento della democrazia, così come del diritto internazionale dei diritti umani. Reale è un governo che pretende di esercitare un potere assoluto, delegittimando le altre istituzioni così come criminalizzando chi critica e contesta (il disegno di legge sicurezza facilmente sarà approvato e la repressione del dissenso è già in stadio avanzato); reali sono le diseguaglianze e la devastazione ambientale causate da poteri economici selvaggi; reale è il genocidio in diretta dei palestinesi. Se guardiamo al presente, con gli occhi di chi (si spera) vivrà il futuro, non vorrei che si dicesse, non avete voluto vedere. Non è la realtà che la nostra Costituzione e il diritto internazionale prescrivono, non è la realtà che vogliamo. E allora è necessario vedere la realtà e insieme tenere bene a mente, come la dialettica della storia insegna, che la trasformazione è possibile. Di scelte umane si discorre. È reale quanto vediamo, ma reali sono anche le tante piccole isole, persone, azioni, organizzazioni, movimenti che resistono, vivono e agiscono alternative. Siamo realisti, ma proprio per questo, non arresi. È l’insegnamento della nostra Costituzione, un realismo emancipante: gli ostacoli esistono, rimuoviamoli. L’orizzonte, certo, è fosco, nero, ma proprio per questo è necessario agire e resistere in direzione contraria: non c’è un’unica via e non c’è una via già scritta. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 20, 2024 / Osservatorio Repressione
Angela Davis e la repressione
La militante afroamericana individuò il ruolo delle strutture poliziesche e sicuritarie nel disciplinamento e nella gestione delle crisi capitalistiche. La sua lezione nell’Italia di oggi è ancora più attuale di Cecilia Sebastian da Jacobin Italia A ventisei anni, Angela Davis divenne una delle prigioniere politiche più famose al mondo e un’icona rivoluzionaria, la sua immagine era riconoscibile come quelle di Mao Zedong o Che Guevara. Le circostanze che portarono alla sua detenzione furono complesse e in parte artificiose. Nell’agosto del 1970, diverse armi registrate a nome di Davis erano state brandite nel tentativo di liberare tre uomini non bianchi incarcerati in un tribunale della contea di Marin, in California. Dopo che le guardie della prigione di San Quentin aprirono il fuoco, quattro persone furono uccise, tra cui un giudice distrettuale. Davis non era a conoscenza degli eventi, ma venne implicata a causa delle armi. Ancora più significativo, Davis era un membro noto del Partito Comunista degli Usa e un’attivista nera emergente: lo Stato la voleva morta o rinchiusa. Emise un mandato di arresto per accuse di cospirazione, rapimento e omicidio, che prevedevano la pena di morte, e Davis fu inserita nella lista dei più ricercati dall’Fbi. Davis sostiene che furono la campagna di pressione internazionale condotta dal Pc degli Usa e dal National United Committee to Free Angela Davis a salvarle la vita. Tra il 1970 e il 1972 trascorse diciassette mesi in prigione prima di essere rilasciata su cauzione e infine assolta da tutte le accuse. Durante questo periodo, lettere di solidarietà da posti come Cuba, Francia, Germania dell’Est e Unione Sovietica inondarono la prigione di San Jose e il tribunale dove sarebbe stata processata. Per gente da tutto il mondo, non era Angela Davis a essere processata, ma il sistema di giustizia penale statunitense: avrebbe assolto una comunista nera palesemente innocente? Ciò che rende l’esempio di Davis degno di nota è che non ha mai smesso di ripagare il debito che sente di avere nei confronti della sinistra internazionale per averle garantito la libertà e la vita. Dal movimento di boicottaggio contro l’apartheid sudafricano a Occupy Wall Street e alla ribellione dopo l’uccisione di George Floyd, nell’ultimo mezzo secolo si è presentata a quasi ogni mobilitazione di massa. In mezzo a una repressione e censura crescenti, ha espresso fermo appoggio alla lotta di liberazione palestinese. Ancora più importante, ha offerto alla sinistra una delle critiche più taglienti al profondo legame dello stato di sicurezza degli Stati uniti con lo sfruttamento e l’oppressione, individuando il nesso con gli ostacoli per l’organizzazione rivoluzionaria. La Johannesburg del Sud Angela Davis nacque nel 1944 sotto un sistema di apartheid razziale a Birmingham, Alabama. Suo padre gestiva una stazione di servizio; sua madre era attiva nel Southern Negro Youth Congress, un’organizzazione di sinistra per i diritti civili con una forte presenza comunista. A Birmingham, nota come la Johannesburg del Sud, la minaccia della violenza bianca era costante. La famiglia Davis viveva in un quartiere che era stato soprannominato Dynamite Hill a causa dei frequenti attentati ai danni dei proprietari di case neri. Vicini e amici morirono a causa di attacchi razzisti, tra di essi l’attentato del Ku Klux Klan del 1963 alla 16th Street Baptist Church, che plasmò profondamente la coscienza politica di Angela Davis. Angela frequentò scuole segregate fino all’età di quattordici anni, quando fu accettata da un programma quacchero che ammetteva studenti neri del Sud in scuole integrate del Nord. Scelse la Elisabeth Irwin High School di New York per la sua reputazione progressista. Alla Elisabeth Irwin, Davis lesse il Manifesto del Partito comunista, che la colpì «come un fulmine», come ricordò in seguito. Iniziò a considerare la liberazione dei neri come parte della lotta più ampia dei lavoratori e delle lavoratrici. Aderì ad Advance, un’organizzazione giovanile socialista fondata da diversi suoi coetanei red diaper [letteralmente pannolino rosso, l’espressione indica i figli dei militanti comunisti, Ndt]. Tra di essi c’erano Eugene Dennis Jr, figlio del leader omonimo; Bettina Aptheker, figlia dello storico Herbert Aptheker; e Mary Lou Patterson, il cui padre, l’avvocato William L. Patterson, aveva consegnato alle Nazioni unite la famosa petizione We Charge Genocide per protestare contro i linciaggi dei neri nel Sud degli Stati uniti. Il gruppo di giovani organizzò manifestazioni contro i test nucleari e fece picchetti al Woolworth’s per via dei banconi riservati ai bianchi. Si riunirono nel seminterrato dell’Apthekers tra le carte di WEB Du Bois, che Herbert Aptheker stava allora conservando. Molto più tardi, Davis sarebbe tornata alla nozione di «democrazia abolizionista» di Du Bois per elaborare il concetto di una radicale trasformazione sociale in assenza del rovesciamento dello Stato. Ma all’età di diciassette anni, la rivoluzione le appariva nitidamente ancora all’orizzonte. Il fronte estero Nel 1961, Angela Davis si iscrisse alla Brandeis University. Era una dei tre studenti neri nella sua classe. La sua attenzione fu presto attratta dal principale intellettuale di sinistra del campus, Herbert Marcuse. Marcuse era parte del gruppo di intellettuali marxisti ebrei tedeschi noti come Scuola di Francoforte. Costretti negli anni Trenta all’esilio negli Stati uniti, avevano ridefinito le categorie marxiste classiche come classe e sfruttamento per interpretare la loro esperienza storica dell’antisemitismo eliminazionista. Entro gli anni Cinquanta, avevano individuato molti degli impedimenti materiali e psichici che bloccavano la rivolta collettiva. Nella loro lettura, la violenza razzializzata funzionava come una manifestazione esteriore delle tendenze di crisi del capitalismo e una componente chiave nell’arsenale dello Stato per interrompere le lotte di liberazione dei lavoratori e delle lavoratrici. L’interpretazione del marxismo da parte della Scuola di Francoforte era una scelta naturale per Angela Davis, già attenta agli interessi condivisi, seppur spesso frustrati, del comunismo e della liberazione dei neri. A loro volta, il suo entusiasmo intellettuale e la sua notevole propensione a confrontarsi con le contraddizioni della filosofia idealista tedesca, il quadro analitico preferito dalla Scuola di Francoforte, impressionarono Marcuse, che ne divenne mentore per tutta la vita. Grazie al legame con Marcuse, Davis si trasferì a Francoforte nel 1965 per proseguire gli studi in filosofia con Theodor Adorno. Si unì rapidamente al nucleo radicale della sezione di Francoforte della German Socialist Student Union (Sds). Si trasferì in un edificio industriale fatiscente con diversi membri della Sds, tra cui il leader studentesco Hans-Jürgen Krahl. Di giorno, frequentavano le lezioni all’università con Adorno, Max Horkheimer e Jürgen Habermas. Di notte, trascrivevano e ciclostilavano opere di teoria critica fuori catalogo, producendo edizioni pirata che vendevano agli eventi Sds per finanziare le loro attività politiche. Tra il 1965 e il 1967, le attività politiche dell’Sds tedesco si concentrarono sulle lotte di liberazione anticoloniali, in particolare sul Vietnam. Gli studenti erano convinti che la decolonizzazione avrebbe rotto il continuum capitalista globale, ed erano determinati a ostacolare le operazioni neocoloniali degli Stati uniti, per le quali la Germania Ovest fungeva da avamposto militare cruciale. Chiesero lo scioglimento della Nato, costruirono forme organizzative extraparlamentari, contestarono la disinformazione dei media e si scontrarono con la polizia. La loro militanza impressionò Davis, che in seguito avrebbe ricordato la serietà con cui i suoi compagni Sds avevano cercato di sviluppare «forme di resistenza pratica» in modo da rompere l’apatia della loro stessa società e colmare le divisioni globali. L’esperienza evidenziò le possibilità di costruire coalizioni multi-classe, multirazziali e internazionali, che Angela Davis avrebbe sostenuto per il resto della sua vita. Teoria critica e pratica rivoluzionaria Nel 1967, Davis decise di tornare a casa per unirsi alla lotta per la liberazione dei neri. Marcuse si era nel frattempo trasferito alla neonata University of California, San Diego (Ucsd), così si iscrisse al suo corso di laurea in filosofia e iniziò a esplorare il ricco panorama dell’organizzazione politica radicale nella California meridionale. Nei due anni successivi, si organizzò con lo Student Nonviolent Coordinating Committee (Sncc), il Black Panther Party for Self-Defense (Bpp) e il Che-Lumumba Club, sezione afroamericana del Partito comunista degli Usa nelle quali incontrò alcuni dei suoi compagni più stretti, tra cui la coppia Franklin e Kendra Alexander e i fratelli Charlene e Deacon Mitchell. Tutto il lavoro politico di Davis si concentrò sulla violenza razzista della polizia e sulla sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Tuttavia, le organizzazioni in cui era attiva avevano opinioni diverse sul percorso strategico e sul contenuto della liberazione dei neri, e a volte litigavano. Nel 1969, Angela Davis fu assunta come professore associato di filosofia dall’Università della California, Los Angeles, dopo aver ufficialmente avanzato la candidatura presso l’Ucsd con una tesi sul problema della forza, o violenza, nella filosofia di Immanuel Kant. Il suo lavoro preliminare indicava che la nozione di libertà morale di Kant prevedeva logicamente un diritto individuale di resistenza e persino di rivoluzione, che era altrimenti negato nella sua filosofia politica proto-borghese. Fedele alla sua formazione marxista, Davis sosteneva che questa contraddizione teorica, che trovava il suo corollario contemporaneo nei dibattiti sulla legalità dell’attivismo, poteva essere risolta solo nella pratica, attraverso la totale trasformazione dello Stato costituzionale borghese. Tuttavia, prima che il semestre autunnale alla Ucla potesse iniziare, un informatore dell’Fbi rivelò pubblicamente che Angela Davis era un membro del Partito comunista, e fu licenziata dal Board of Regents dell’Università della California. Da un giorno all’altro, divenne oggetto attacchi e minacce di morte anticomunisti, razzisti, misogini e anti-intellettuali. Davis contestò con successo il suo licenziamento in tribunale, citando i suoi diritti del Primo Emendamento alla libertà di parola e di riunione e il suo diritto come professoressa alla libertà accademica. Ma aveva trovato un nemico determinato nel governatore di destra della California, Ronald Reagan, che riuscì a farla licenziare di nuovo alla fine dell’anno accademico. Nel frattempo, Davis usò la sua fama per mettere in luce il lavoro del Soledad Brothers Defense Committee, a cui si era unita nel febbraio 1970. George Jackson, Fleeta Drumgo e John Clutchette erano tre afroamericani incarcerati nella prigione di Soledad, accusati dell’omicidio di una guardia carceraria bianca. Il comitato di difesa sostenne che erano stati presi di mira per la loro agitazione politica in prigione e cercò di ottenere il sostegno pubblico. Fu attraverso il suo lavoro nel comitato di difesa che Davis strinse amicizia con il fratello minore di George Jackson, Jonathan, che alla fine avrebbe guidato il fallito tentativo di liberare altri tre uomini di colore, James McClain, William Christmas e Ruchell Magee, presso il tribunale della contea di Marin nell’agosto del 1970. I fratelli Soledad furono infine assolti nel marzo del 1972, sebbene George Jackson fosse già morto a quel punto, essendo stato ucciso nell’agosto del 1971 da una guardia carceraria durante un altro tentativo di fuga. Una lotta costante Nel novembre del 1970, Marcuse scrisse a Davis, allora incarcerata a New York, per dirle che aveva fatto un’importante scoperta filosofica mentre rileggeva i suoi scritti accademici: «La libertà non è solo l’obiettivo della liberazione, inizia con la liberazione; è lì per essere ‘praticata’. Questo, lo confesso, l’ho imparato da te!». Angela Davis si attiene ancora a questa convinzione, come è evidente nel suo mantra più noto: «La libertà è una lotta costante». La libertà, insiste, non è una proprietà fissa. Non può essere conferita a una persona, men che meno da uno Stato. Allo stesso modo, non può essere ridotta alla dimostrazione negativa che siamo liberi perché ci sono altri che non sono liberi, altri che lo Stato ha rinchiuso. Per essere degna del concetto, la libertà deve avere il suo contenuto materiale positivo, che, poiché non esiste ancora, deve prima essere promulgato. L’esperienza personale di Angela Davis dietro le sbarre è stata formativa per la sua comprensione critica non solo della negazione materiale della libertà che la prigionia costituisce, ma anche della pratica dinamica della libertà. A sua volta, il progetto abolizionista che ha iniziato a immaginare dalla prigione di San Jose ha trasformato il modo in cui la sinistra concepisce la politica contemporanea. Mentre era incarcerata nel 1971, Davis scrisse con la sua compagna comunista e amica Bettina Aptheker che il ricorso dello Stato alla repressione violenta indicava che le sue istituzioni, inclusa la prigione, erano «impermeabili a riforme significative» e «devono essere trasformate in senso rivoluzionario». Nella pagina successiva, chiedevano «l’abolizione» del sistema carcerario in quanto tale. La rivendicazione abolizionista di Davis e Aptheker si allontanava dall’attenzione ortodossa all’organizzazione intenzionale del lavoro industriale. Negli Stati Uniti, l’occupazione dei colletti blu era in declino dagli anni Cinquanta e quei lavoratori che erano stati storicamente gli ultimi a entrare nel rapporto salariale industriale (i neri e altre minoranze) furono i primi a esserne esclusi, ridotti allo status di sottoclasse definita dalle porte girevoli della precarietà salariale e da ciò che Davis allora chiamava «apparato giudiziario-penale-poliziesco». Modulando il focus sulla polizia e sugli ostacoli carcerari alla lotta di classe, Davis cercò di valorizzare quella che riteneva essere la maggiore spinta oppositiva di quei proletari che erano più vulnerabili alla ridondanza economica e alla violenza dello Stato. Mirava anche a contrastare direttamente la capacità dello Stato di continuare a costringerli alla sottomissione molto tempo dopo che l’ordine capitalista razziale aveva cessato di elargire i salari necessari per l’auto-riproduzione della classe operaia. L’abolizione era una strategia rivoluzionaria, in altre parole, in sintonia con le contraddizioni del tardo capitalismo. Ma l’abolizione, come sarebbe diventato chiaro, era anche una strategia rivoluzionaria adatta a un’epoca di riflusso della sinistra. La speranza della New Left di una rottura rivoluzionaria non si era concretizzata, non da ultimo a causa dell’enorme capacità di repressione dello Stato. Possiamo discutere le carenze e i punti ciechi della strategia della New Left, ma la sua sconfitta aveva più a che fare con programmi governativi come Cointelpro che con gli hippy e l’orizzontalismo. In seguito alla sconfitta, gli obiettivi di chiudere le prigioni, riscrivere le leggi sulle condanne, bloccare la costruzione di nuove prigioni e carceri e istituzionalizzare alternative riparatrici alla reclusione sono diventate forme diffuse e frammentarie per estendere la visione di una radicale trasformazione sociale, erodendo al contempo la capacità controrivoluzionaria dello Stato. Il significato strategico di questo lavoro diventa ancora più chiaro quando agli attivisti di Stop Cop City viene contestato il reato associativo e quando gli attivisti pro-Palestina sono sottoposti alla di polizia e vigilanti, alla censura e alla perdita del lavoro. Ora che ha ottant’anni, il continuo sostegno di Angela Davis alle proteste di massa sta iniziando ad assomigliare a quello del suo ex mentore. Negli anni Sessanta, Marcuse ottenne il titolo onorifico di nonno della Nuova Sinistra e i giovani attivisti modificarono il loro slogan in: «Non fidarti di nessuno sopra i 30, tranne che di Herbert Marcuse». Pur essendone lusingato, Marcuse insistette sul fatto che non era lui la causa delle rivolte. Ciò che aveva cercato di fare era identificare le fratture materiali e psichiche all’interno della società che erano mature per lo scontro, e poi consolidare teoricamente i gruppi che emergevano da quelle fratture in una coalizione rivoluzionaria. Angela Davis ha fatto qualcosa di simile e possiamo ancora imparare dal suo esempio. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 19, 2024 / Osservatorio Repressione
Il più grande falò di libri che la Storia abbia mai conosciuto
In Italia, nel 2022 sono stati più di cinquecento i casi di ingiuste detenzioni ed errori giudiziari, mentre dal 1991 al 2022 gli errori giudiziari hanno coinvolto ben trentamila persone. di Marco Sommariva da Carmilla Nel libro Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, romanzo di Carlo Collodi del 1881, si racconta di un ragazzo che scappa, che si lascia abbagliare dagli incanti e crede alle illusioni; pagine non accomodanti che, attraverso il protagonista, ci preparano alle miserie e alle difficoltà della vita, checché ci racconti la Disney. Quello che accade a Pinocchio e a chi l’ha messo al mondo, Geppetto, è terrificante; per esempio, entrambi finiscono in prigione seppur innocenti: prima il falegname – “il povero Geppetto era condotto senza sua colpa in prigione” – e poi il burattino: “Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla (…). Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome e i connotati dei malandrini, e finì col chiedere giustizia. Il giudice lo ascoltò con molta benignità: prese vivissima parte al racconto; s’intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello. A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da gendarmi. Allora il giudice, accennando Pinocchio ai gendarmi, disse loro: – Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione. Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i gendarmi, a scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia”. Passaggi che, a distanza di quasi un secolo e mezzo, continuano a parlare di noi, di quello che ci sta intorno: è di qualche mese fa la notizia della liberazione di un uomo della provincia di Cagliari di cinquantotto anni – trentadue passati dietro le sbarre –, condannato all’ergastolo perché accusato di triplice omicidio grazie a un testimone che mentì su istigazione di un agente. E non è un episodio: in Italia, nel 2022 sono stati più di cinquecento i casi di ingiuste detenzioni ed errori giudiziari, mentre dal 1991 al 2022 gli errori giudiziari hanno coinvolto ben trentamila persone, E chissà che mentre si sbattono in cella migliaia di innocenti, non si lascino in giro volpi, gazze ladre e uccellacci di rapina: “arrivarono a una città che aveva nome “Acchiappacitrulli”. Appena entrato in città, Pinocchio vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano dall’appetito, di pecore tosate che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta e senza bargigli, che chiedevano l’elemosina d’un chicco di granoturco, di grosse farfalle, che non potevano più volare, perché avevano venduto le loro bellissime ali colorate, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano di farsi vedere, e di fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne d’oro e d’argento, ormai perdute per sempre. In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi passavano di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra o qualche uccellaccio di rapina”. Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino non è un romanzo ubbidiente, addomesticato, quindi non è un libro noioso. Dà ottimi spunti di riflessione: “non è il vestito bello che fa il signore, ma è piuttosto il vestito pulito. Oppure Chi ruba il mantello al suo prossimo, per il solito muore senza camicia”. Offre persino uno slogan su cui, magari, si potrebbe anche iniziare a costruire la nostra ribellione quotidiana: “quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio!…” In un Paese come il nostro, pieno di centri commerciali e supermercati, i cui abitanti preferiscono di gran lunga spendere cinquanta euro in un pranzo che non cinque per un libro, dove ogni canale televisivo ha nel proprio palinsesto almeno un programma dedicato alla cucina, Collodi ci ricorda chi eravamo, da dove veniamo: “Il povero Pinocchio corse subito al focolare, dove c’era una padella che bolliva e fece l’atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse dentro, ma la pentola era dipinta sul muro. Figuratevi come restò. (…) Allora si dette a correre per la stanza e a frugare per tutte le cassette e per tutti i ripostigli in cerca di un po’ di pane, magari di un po’ di pan secco, d’un crosterello, d’un osso avanzato al cane, d’un po’ di polenta muffita, d’una lisca di pesce, d’un nocciolo di ciliegia, insomma di qualche cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio nulla. E intanto la fame cresceva, e cresceva sempre: e il povero Pinocchio non aveva altro sollievo che quello di sbadigliare: e faceva degli sbadigli così lunghi, che qualche volta la bocca gli arrivava fino agli orecchi. E dopo avere sbadigliato, sputava: e sentiva che lo stomaco gli andava via. (…) Oh! che brutta malattia che è la fame!” Fame dettata dalla miseria. Quella miseria palpabile anche ai bambini, quella che percepivi in casa quando, tra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta, si lasciava da pagare nei negozi di alimentari e si comprava a rate il giubbotto che ti avrebbe riparato dal freddo per almeno i dieci anni seguenti, sempre ammesso non ti fosse toccato quello dismesso da tuo fratello più grande. “soggiunse il burattino […] – Mi manca l’Abbecedario. – Hai ragione: ma come si fa per averlo? – È facilissimo: si va da un libraio e lo si compra. – E i quattrini?…– Io non ce l’ho. – Nemmeno io – soggiunse il buon vecchio, facendosi triste. E Pinocchio, sebbene fosse un ragazzo allegrissimo, si fece triste anche lui: perché la miseria, quando è miseria davvero, la intendono tutti: anche i ragazzi”. Quella miseria che tra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta abbiamo vissuto in tanti, era frutto di un sistema che riusciva a far lavorare sedici, diciotto ore al giorno moglie e marito – lei correndo da una conca di bucato lavato a mano al rammendo di qualsivoglia indumento o tessuto di casa; lui spaccandosi la schiena con due giornate consecutive di lavoro, solitamente la seconda in nero –, ma senza mai permettere loro d’aver in tasca un quattrino da spendere per un cinema o un giro di giostra. “Mangiafuoco chiamò in disparte Pinocchio e gli domandò: – Come si chiama tuo padre? – Geppetto. – E che mestiere fa? – Il povero. – Guadagna molto? – Guadagna tanto, quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca”. Altro romanzo italiano datato, non accomodante, imperdibile, capace di prepararci alle miserie e alle difficoltà della vita è Sull’oceano di Edmondo De Amicis: “Quando arrivai, verso sera, l’imbarco degli emigranti era già cominciato da un’ora […]. La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani per le strade di Genova, erano stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti […] passavano, portando quasi tutti una seggiola pieghevole sotto il braccio, sacche e valigie d’ogni forma alla mano o sul capo, bracciate di materasse e di coperte, e il biglietto col numero della cuccetta stretto fra le labbra. Delle povere donne che avevano un bambino da ciascuna mano, reggevano i loro grossi fagotti coi denti […] molti erano scalzi, e portavan le scarpe appese al collo. Di tratto in tratto passavano tra quella miseria signori vestiti di spolverine eleganti, preti, signore con grandi cappelli piumati, che tenevano in mano o un cagnolino, o una cappelliera, o un fascio di romanzi francesi illustrati, dell’antica edizione Lévy”. Questo romanzo, edito nel 1889, ha l’ambizione di raccontare le violenze e le ingiustizie della vita affrontando il tema dell’emigrazione dall’Italia – sì, avete letto bene, dall’Italia – un fenomeno di dimensioni tali da incidere profondamente, tra Ottocento e Novecento, sulle sorti demografiche ed economiche del nostro Paese. Ditemi voi se non riconoscete in questo passaggio ciò che quotidianamente vediamo alla televisione, mentre ci gustiamo il piatto suggerito il giorno prima dal nostro MasterChef preferito: “lo spettacolo eran le terze classi, dove la maggior parte degli emigranti, presi dal mal di mare, giacevano alla rinfusa, buttati a traverso alle panche, in atteggiamenti di malati o di morti, coi visi sudici e i capelli rabbuffati, in mezzo a un grande arruffio di coperte e di stracci. Si vedevan delle famiglie strette in gruppi compassionevoli, con quell’aria d’abbandono e di smarrimento, che è propria della famiglia senza tetto […]. Oppure: […] il peggio era sotto, nel grande dormitorio, di cui s’apriva la boccaporta vicino al cassero di poppa: affacciandovisi, si vedevano nella mezza oscurità corpi sopra corpi, come nei bastimenti che riportano in patria le salme degli emigrati chinesi; e veniva su di là, come da uno spedale sotterraneo, un concerto di lamenti, di rantoli e di tossi, da metter la tentazione di sbarcare a Marsiglia”. Sull’oceano è un libro feroce, indomabile: “Il prete lungo era un napoletano, stabilito da circa trent’anni nell’Argentina, dove ritornava dopo un breve viaggio in Italia, fatto, diceva (ma era dubbio), per vedere il Papa. […] Si capiva che doveva aver curato altrettanto la borsa propria che l’anima altrui, facendosi pagar matrimoni e sepolture a prezzi d’affezione, tant’è vero che si vantava francamente d’aver messo insieme un buon gruzzolo, e non parlava d’altro che di pesos […]”. Un libro nient’affatto consolatorio visto che ci ricorda che, quasi un secolo e mezzo prima, già esistevano esseri che s’arricchivano su miserie e disperazioni altrui: Non mi potevo levar dal cuore che ci avevano pure una gran parte di colpa, in quella miseria, la malvagità e l’egoismo umano: […] tanta caterva d’impresari e di trafficanti, che voglion far quattrini a ogni patto, non sacrificando nulla e calpestando tutto, dispregiatori feroci degli istrumenti di cui si servono, e la cui fortuna non è dovuta ad altro che a una infaticata successione di lesinerie, di durezze, di piccoli ladrocini e di piccoli inganni, di briciole di pane e di centesimi disputati da cento parti, per trent’anni continui, a chi non ha abbastanza da mangiare. E poi mi venivano in mente i mille altri, che, empitisi di cotone gli orecchi, si fregan le mani, e canticchiano; e pensavo che c’è qualche cosa di peggio che sfruttar la miseria e sprezzarla: ed è il negare che esista, mentre ci urla e ci singhiozza alla porta. Oppure: […] pensavo ai molti altri che, imbarcati per l’America da agenzie infami, erano stati sbarcati a tradimento in un porto d’Europa, dove avevan dovuto tender la mano per le vie; o avendo pagato per viaggiare in un piroscafo, erano stati cacciati in un legno a vela, e tenuti in mare sei mesi; o credendo di esser condotti al Plata, dove li aspettavano i parenti e il clima del loro paese, erano stati gittati sulla costa del Brasile, dove li avevan decimati il clima torrido e la febbre gialla. Questa era la nostra miseria. Miseria italiana: “tutta questa miseria è italiana! – pensavo ritornando a poppa. E ogni piroscafo che parte da Genova n’è pieno, e ne parton da Napoli, da Messina, da Venezia, […] ogni settimana, tutto l’anno, da decine d’anni! E ancora si potevan chiamare fortunati, per il viaggio almeno, quegli emigranti [di questo piroscafo], in confronto ai tanti altri che, negli anni andati, per mancanza di posti in stiva, erano stati accampati come bestiame sopra coperta, dove avevan vissuto per settimane inzuppati d’acqua e patito un freddo di morte; e agli altri moltissimi che avevan rischiato di crepar di fame e di sete in bastimenti sprovvisti di tutto, o di morir avvelenati dal merluzzo avariato o dall’acqua corrotta. E n’erano morti”. Dato che si parla di miseria italiana, potreste pensare che De Amicis ci stia parlando dei “soliti” meridionali. Non è così: “La maggior parte degli emigranti, come sempre, provenivano dall’Italia alta, e otto su dieci dalla campagna. […] A tutti questi italiani eran mescolati degli Svizzeri, qualche Austriaco, pochi Francesi di Provenza. Quasi tutti avevan per meta l’Argentina, un piccolo numero l’Uruguay […]”. Oppure potreste pensare quello che dicono sempre più italiani quando commentano uno sbarco di migranti sulle nostre coste, che De Amicis ci stia raccontando di bastimenti stipati unicamente da pelandroni e mezzi delinquenti. Non è così: “Certo, in quel gran numero, ci saranno stati molti che avrebbero potuto campare onestamente in patria, e che non emigravano se non per uscire da una mediocrità, di cui avevano torto di non contentarsi; ed anche molti altri che, lasciati a casa dei debiti dolosi e la reputazione perduta, non andavano in America per lavorare, ma per vedere se vi fosse miglior aria che in Italia per l’ozio e la furfanteria. Ma la maggior parte, bisognava riconoscerlo, eran gente costretta a emigrare dalla fame, dopo essersi dibattuta inutilmente, per anni, sotto l’artiglio della miseria. […] Tutti costoro non emigravano per spirito d’avventura. Per accertarsene bastava vedere quanti corpi di solida ossatura v’erano in quella folla, ai quali le privazioni avevano strappata la carne, e quanti visi fieri che dicevano d’aver lungamente combattuto e sanguinato prima di disertare il campo di battaglia”. L’autore non parla per sentito dire, racconta ciò che vede coi propri occhi quando, nel 1884, decide d’imbarcarsi sul piroscafo Nord-America – tratta Genova-Buenos Aires – apposta per vivere di persona la traversata atlantica dei nostri connazionali e poi descriverla. De Amicis non ci va molto per il sottile con le considerazioni sociali: “Una politica disposta sempre a leccar la mano al più potente, chiunque fosse; uno scetticismo tormentato dal terrore segreto del prete; una filantropia non ispirata da sentimenti generosi degli individui, ma da interessi paurosi di classe. […] Una passione furiosa in tutti d’arrivare, non alla gloria, ma alla fortuna; l’educazione della gioventù non rivolta ad altro; ciascuna famiglia mutata in una ditta senza scrupoli, che batterebbe moneta falsa per far strada ai figliuoli. […] Metà degli uomini che avevan data la vita per la redenzione dell’Italia, se fossero risuscitati, si sarebbero fatti saltare le cervella. Oppure: […] si spende tutto a mantener soldati, milioni a mucchi in cannoni e in bastimenti, […] e alla povera gente nessuno ci pensa […]”. Sono circa quarant’anni che leggo, in media, cinquanta libri l’anno, e spesso mi son domandato quanto son stato sfortunato nell’aver trovato con troppa difficoltà in questi circa duemila volumi, pagine capaci di raccontare i nostri tempi con la stessa energia di Collodi e De Amicis, con la stessa crudeltà; pagine con gli stessi lampi di verità, la stessa capacità di frugarmi dentro, farmi saltare sulla sedia, togliermi il fiato, prive di accomodamenti e passaggi costruiti a tavolino e, quindi, bugiardi e noiosi. Però poi mi sono anche chiesto se davvero queste pagine non vengono più scritte perché magari gli stessi autori si autocensurano o se, “per caso”, sono gli editori a non pubblicarle più, forse perché neanche le ricevono: potrebbe essere che siano gli agenti letterari a scartarle prima? Chissà. Nel dubbio, rivolgo un appello a coloro che sanno d’avere delle responsabilità in questo senso: smettetela, per piacere. Perché dovreste smetterla? Perché potrebbe succedere che un giorno – azzerate in qualche modo queste pagine, cancellate definitivamente dalla faccia della Terra – passi la voglia di cercarle o, in crisi d’astinenza, si scambi della scialba mercanzia per dei capolavori e, delle due, non so davvero quale sia la conseguenza peggiore. Un’ultima cosa, nel caso passasse la voglia di cercare queste pagine entusiasmanti, folgoranti, potrebbe anche passar la voglia di leggerle e poi, chissà, di leggere in generale, e questo è tremendo perché, si sa, i libri esisteranno sino a quando avremo voglia di leggerli, e allora mi domando: non sarà che è già in atto il più grande falò di libri che la Storia abbia mai conosciuto e per di più senza che nessuno abbia innescato questo gigantesco rogo con una vera fiamma? Non sarà che stanno andando in fumo anche le nostre anime? > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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November 18, 2024 / Osservatorio Repressione
La protervia del potere, il dovere di reagire
È reale l’orizzonte fosco, nero, in cui siamo immersi, ma proprio per questo è necessario agire e resistere in direzione contraria: non c’è un’unica via e non c’è una via già scritta. Le piazze lo ricordano. È l’insegnamento della nostra Costituzione, un realismo emancipante: gli ostacoli esistono, rimuoviamoli di Alessandra Algostino da il manifesto Sembra di vivere in una distopia surreale, ma reale è la criminalizzazione della protesta e reali sono i poteri che «come fortilizi contrapposti» si strappano potere; cito da Mattarella, e chioso: invero, è uno, l’esecutivo, che strappa il potere agli altri e spoglia dei diritti i cittadini. Esponenti del governo di nuovo evocano il clima di odio e di violenza, scenari di altri tempi, per criminalizzare le manifestazioni degli studenti. È il diritto di protesta in sé ad essere stigmatizzato e delegittimato, si citano gli slogan come fossero prove di reato. Una democrazia, scriveva Passerin d’Entrèves, è improntata alla «tolleranza del dissenso sino all’estremo limite possibile». La violenza, certo, non è mai accettabile in una democrazia: non lo è quando proviene dai manifestanti (ma qui certo non c’è mancanza di reazione, tanto che si ragiona di eccesso punitivo, con utilizzo improprio delle fattispecie penali, abuso di misure cautelari …); non lo è quando assume la forma di violenza verbale da parte di chi rappresenta le istituzioni o di violenza fisica ingiustificata da parte delle forze di polizia. E non lo è quando presenta le vesti di una legislazione violenta, che chiude gli spazi del dissenso e punisce il disagio sociale, come è nel disegno di legge sicurezza in discussione, ultimo tassello di un processo (multipartisan) di sterilizzazione dello spazio democratico. E, ancora, non è tollerabile la violenza di un governo che attacca frontalmente la magistratura, o la violenza esercitata contro le persone che migrano, trattate letteralmente come pedine da muovere sullo scacchiere politico. Oggi a raccontare di uno scontro violento sono anche le parole del presidente Mattarella sugli organi dello Stato che non sono «fortilizi contrapposti per strappare potere l’uno all’altro», ma «elementi della Costituzione chiamati a collaborare, ciascuno con il suo compito e rispettando quello altrui». «Fortilizi», «strappare» sono parole forti, che raccontano di una non rituale preoccupazione per la democrazia. In questione è l’equilibrio dei poteri, cardine della democrazia costituzionale, che presuppone il reciproco riconoscimento. Colpisce la protervia con la quale il governo si scaglia contro la magistratura, attraverso delegittimazione, falsificazione di dati di fatto (l’incontestabilità dell’applicazione delle norme in tema di rapporti tra ordinamento italiano ed europeo) e riforme ad hoc. Il tutto condito dal vittimismo di un potere che travalica i suoi limiti e pretende di incarnare anche l’oppresso dal potere. Ad essere travolti sono l’indipendenza della magistratura, il senso proprio della sua soggezione soltanto alla legge, e il parlamento, ancora una volta piegato al compito di dare forma legislativa ai voleri del governo. Le diverse forme di violenza hanno un comune precipitato nel fotografare in modo nitido la concentrazione del potere, la deriva decisionista e autoritaria, e – il ruolo riconosciuto a Musk è emblematico – il suo legame con gli interessi dell’oligarchia che possiede le leve di un modello economico predatorio, imperniato sulla massimizzazione del profitto di pochi. Provvedimenti come il disegno di legge sicurezza chiudono il cerchio, blindando il modello, non a caso tenendo insieme la punizione della marginalità sociale e della divergenza politica. Sembra quasi irreale, tuttavia è reale, giustificato e mistificato da menzogne, ripetute al di là di ogni evidenza, finché (è la «logica dell’insistenza» dei regimi autoritari) divengono la «verità». La violenza si intreccia con la menzogna, per legittimarsi e delegittimare l’altro, esercitando una ulteriore violenza. È la costruzione del nemico, da espellere, da eliminare. È il contrario della democrazia come pluralismo, discussione e conflitto; è il contrario dell’uguaglianza, dell’eguale riconoscimento, che è fondamento della democrazia. Se guardiamo al presente, con gli occhi di chi (si spera) vivrà il futuro, non vorrei che si dicesse, non avete voluto vedere. Come scriveva pochi giorni fa Andrea Fabozzi su il manifesto: «Meglio accorgesene». Reale è un governo che pretende di esercitare un potere assoluto, delegittimando le altre istituzioni così come criminalizzando chi critica e contesta; reali sono le diseguaglianze e la devastazione ambientale causate da poteri economici selvaggi; reale – grazie a studentesse e studenti che continuano a ricordarlo – è il genocidio in diretta dei palestinesi. È reale l’orizzonte fosco, nero, in cui siamo immersi, ma proprio per questo è necessario agire e resistere in direzione contraria: non c’è un’unica via e non c’è una via già scritta. Le piazze lo ricordano. È l’insegnamento della nostra Costituzione, un realismo emancipante: gli ostacoli esistono, rimuoviamoli. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 16, 2024 / Osservatorio Repressione
Volevo solo tornare a casa
Puntata 2 – Lavora e Crepa 2024. Estrazione-produzione-circolazione- consumo. Nell’economia interconnessa, la velocità di circolazione aggiunge valore alle merci. di Renato Turturro Sono caduto, non importa come. Avrò fatto un’azione fuori dal prevedibile, ci sarà una qualche ragione tecnica, ma io volevo solo tornare a casa. Tutto qui. Sembra stupido, vero? Viaggio per due mesi di fila da solo, mangio e dormo dove capita, mi fermo per riposare e rispettare le pause. Ogni quattro ore e mezza, non più di nove ore di guida al giorno, prorogabili a dieci.  Novanta ore di guida in due settimane. Non più di sei giorni consecutivi di lavoro, al termine dei quali è previsto un riposo settimanale. Tutto giusto, ma quando mi fermo, resto comunque lontano da quello che mi fa stare bene: la mia famiglia, il mio paese, i rumori, i suoni, i profumi di una giornata qualsiasi. Mia moglie, mio figlio. Sono in pausa dal lavoro, ma il mio posto di lavoro è la strada; quindi, è come se non smettessi mai di lavorare. Trasporto merci da stabilimento a stabilimento, di magazzino in magazzino, partecipo anche io alla catena del valore. Senza quelli come me non sarebbe possibile la produzione. Neppure le vostre vacanze lussuose, le vostre ville, le vostre azioni in borsa, i vostri giochi societari. Tanti come me, isolati in una cabina che chiamamo “casa”, compiono migliaia di chilometri ogni settimana, a volte guidando letteralmente bombe ambulanti. Il mio contratto ha una paga base che farebbe inorridire qualsiasi lavoratore europeo. Il resto mi viene dato “a parte”, per ogni giorno che passo in strada e per ogni tempistica di consegna rispettata. Per conto del mio capo, guido motrici di altre società che trasportano bilici e container di altre società ancora, con dentro merci di ulteriori altre, in una giungla di contratti dove il più forte è quello che impiega meno mezzi e uomini, meno risorse possibili, in modo da scaricare i costi sugli altri, sugli ultimi elementi della catena economica, conquistandosi il margine di profitto. È questo il gioco. Io sono una pedina di questa scacchiera apparentemente disordinata e scomposta. Vengo da quella parte di Europa ingannata da false aspettative. Un bacino di reclutamento del lavoro subalterno, sottopagato e sfruttato. Tra la decadenza di un regime e le bugie del libero mercato: un paradiso per chi vuole far soldi giocando tra le maglie della legge. Non posso parlare, sono intubato e i miei occhi sono chiusi, non c’è traccia di alcuna attività cerebrale, eppure sto pensando a come sono finito a fare questo lavoro. Avevo studiato in un istituto tecnico, mi sono diplomato, volevo mettere qualcosa da parte subito, vivere autonomamente. Poi, ho incontrato lei, l’ho conosciuta al paese durante il Dragobete, quando tutti i ragazzi rincorrono le ragazze a ridosso della primavera. Ci è voluto un po’ per riuscire a parlarci, non mi piaceva rincorrere le ragazze, sono timido. Alla fine, eccoci, ci siamo avventurati nel mondo senza troppe domande. Ho accettato questo lavoro pensando di farlo per un po’ di anni e poi smettere. Magari prendere un pezzo di terra da coltivare in pace, o forse tentato dal fare soldi, aprire una ditta tutta mia e smetterla di correre ovunque. Padrone di me stesso. Invece no. Eccomi qui. Quando stai dietro a dei ritmi imposti, smetti di pensare e agisci in automatico, sviluppando un istinto più orientato alle meccaniche del lavoro che alla tua sopravvivenza naturale. Gli stimoli sono condizionati e scanditi da bolle e tempi di consegna, chiamate e messaggi dei responsabili. Un qualsiasi evento non previsto dal foglio di marcia è un evento che ricade su di me. Penali per il mio capo che si traducono in decurtazioni e richiami per me. Mi ritengo esperto, lavoro da molti anni. Vi chiederete come ho fatto a compiere questa sciocchezza. Era forte la voglia di tornare e ho avuto la percezione che, salendo in cima al container montato sul rimorchio del camion, avrei accorciato il tempo che mi separava dal ritorno a casa. Ero stanco, avevo appena finito un viaggio e me ne hanno proposto subito un altro. Volevo dire di no, ma in fondo si trattava di rimandare di 24 ore la mia partenza per il ritorno a casa. Perché ho accettato? Non lo so, se per i soldi o per paura di dire no, non so più com’ è andata. Ora sono qui, sento che qualcuno si sta prendendo cura di me, nonostante tutto. L’infermiere e la medica parlano, non distinguo le parole che si dicono, l’O.S.S. mi lava, mi gira sul letto, evita che mi si formino piaghe. Che vita farà anche lui ogni giorno? Mi sottopongono a infiniti esami, provano, fino alla fine a scongiurare con degli interventi chirurgici l’irreversibilità della diagnosi temporanea. Un sistema che prova a ripristinare il sistema del mio organismo.  Chissà se hanno avvertito mia moglie, non posso muovermi e non so se sto pensando realmente o sto sognando. Non so se riabbraccerò i miei, se potrò dire loro le parole non dette. Ho paura, ma non posso dirlo a nessuno. Sono qui, vorrei poter cambiare tutto questo. È stato un secondo che mi ha cambiato la vita. Ho ammirato i boschi della Slovenia, le coste greche, i valichi alpini e i Pirenei, la campagna dei Paesi Bassi e le strade della Germania. Ho conosciuto gli impianti dei petrolchimici e la malinconia dei porti, la ruggine e l’umidità, sentito il fuoco dell’asfalto e gli autogrill nelle notti d’estate, la puzza del fumo, il rumore dei motori, il freddo degli inverni, la pioggia. Ho vissuto la fretta e i ritardi, affrontato i guasti, ma volevo continuare a imparare dai suoi occhi l’essenza del mondo. Invece sono qui, non so se vivo o morto. In fondo, volevo solo tornare a casa. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
November 14, 2024 / Osservatorio Repressione
Manganelli e impunità
Due docenti universitarie, qualificandosi, si interpongono, per evitare scontri, tra gli studenti che manifestano e le forze di polizia che li fronteggiano. Il risultato è che vengono anch’esse manganellate. Ma per il pubblico ministero, investito del conseguente procedimento per lesioni, non ci sono reati. Evidentemente l’opzione per l’impunità della polizia “a prescindere” è non solo di parte della politica ma anche di molti magistrati. di Livio Pepino da Volere la Luna Mentre la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza denuncia preoccupanti derive xenofobe e discriminatorie nelle forze dell’ordine del nostro Paese e il presidente della Repubblica chiama il capo della Polizia per esprimere solidarietà e indignazione per l’affronto subito, arrivano di fronte ai giudici alcuni dei pestaggi di polizia intervenuti nei mesi scorsi nei confronti di liceali, universitari e (anche) docenti . Ciò avviene – almeno a Torino – con una richiesta di totale archiviazione, secondo un copione che, per la Procura torinese, è da anni una regola. Cominciamo dai fatti. Tutto accade il 5 dicembre dell’anno scorso davanti al Campus Einaudi. L’occasione è un provocatorio tentativo di volantinaggio da parte di uno sparuto gruppo di attivisti del Fuan (pratica sempre più frequente nel Paese governato dalla destra), contestato da studenti e studentesse antifascisti, con la polizia che interviene in forze per evitare il contatto tra i due gruppi. La contrapposizione si protrae per poco più di un’ora, con grida, proteste e (saltuario) lancio di oggetti. Il tutto senza incidenti sino a quando gli esponenti neofascisti, non essendo riusciti nel loro intento, decidono i lasciare il campo. A questo punto, quando è ormai venuta meno – ammesso che fosse esistita in precedenza – ogni esigenza di tutela dell’ordine pubblico, si verificano, incomprensibilmente, tre cariche di polizia (non è chiaro se per scelta preordinata o per iniziativa autonoma degli agenti rimasti momentaneamente privi di comando ). Sta di fatto che, nelle cariche, vengono colpite con manganellate una studentessa (con conseguenti lesioni di una certa consistenza) e due docenti di Giurisprudenza (Alessandra Algostino e Alice Cauduro) che, dopo essersi qualificate, si erano interposte tra gli agenti e gli studenti per evitare incidenti e che, a loro volta, riportano lesioni al capo e alle braccia . A seguito della querela proposta dalle interessate si apre un procedimento per lesioni a carico di ignoti, nel quale l’audizione delle parti offese è delegato alle stesse forze di polizia a cui appartengono gli agenti e i funzionari il cui comportamento è oggetto di indagine (sic!). La (temporanea) conclusione del procedimento è una richiesta di archiviazione, sostenuta da 18 righe di reale motivazione (ché il resto – secondo una prassi tanto costante quanto poco commendevole – è null’altro che un lungo e acritico copia-incolla di due annotazioni di polizia). In esse – premesso che le lesioni sono state prodotte nel corso di cariche di alleggerimento spontanee intervenute dopo l’allontanamento del gruppo dei neofascisti e mentre gli operatori di polizia si stavano allontanando per salire sui mezzi – si sostiene che le cariche sono state effettuate in risposta a condotte aggressive dei manifestanti (comprese le tre querelanti) e che, conseguentemente, le azioni lesive degli agenti non sono punibili perché integranti un’ipotesi di uso legittimo delle armi che potrebbe essere degenerato, con riferimento alla sola studentessa, in un eccesso colposo del quale non è, comunque, possibile identificare l’autore. La vicenda, seppur minore rispetto ad altre verificatesi negli ultimi tempi, è paradigmatica ed espressiva di una cultura tuttora presente in ampi settori della magistratura. Bastano, per descriverla, alcune domande. È normale che tutte le indagini siano state demandate alla stessa forza di polizia a cui appartengono gli agenti e i funzionari potenzialmente inquisiti e che l’analisi delle sequenze video dei fatti (fondamentale per la ricostruzione degli stessi e per la verifica della possibilità di identificare le persone in essi coinvolti) non sia stata affidata a consulenti terzi? È normale che, data la delicatezza della vicenda (riguardante i rapporti tra autorità e cittadini), il pubblico ministero non abbia proceduto personalmente neppure all’audizione delle parti offese e ad eventuali confronti (indispensabili prima di giungere alla apodittica conclusione che anche le querelanti erano incorse in comportamenti legittimanti la reazione degli agenti)? È corretto che, nella richiesta di archiviazione, si sia data per scontata la legittimità delle cariche “di alleggerimento” senza un rigo di motivazione sull’esistenza o meno di possibili alternative (essendo pacifico in giurisprudenza che, nella gestione dell’ordine pubblico, l’uso delle armi è l’extrema ratio e deve, comunque, rispondere al principio di proporzione)? E, ancora, è corretto affermare, nella stessa richiesta, che è impossibile identificare l’autore delle manganellate senza aver fatto alcun tentativo di individuarlo (per esempio con l’esame diretto dei funzionari e degli agenti coinvolti)? Sono domande che portano lontano. L’articolo 16 del codice di procedura penale del 1930 disponeva che «non si procede senza autorizzazione del Ministro della giustizia contro gli ufficiali od agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria o contro i militari in servizio di pubblica sicurezza, per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica». Per abolire tale privilegio (rectius, garanzia di impunità) della polizia dovette intervenire la Corte costituzionale che, con sentenza 18 giugno 1963, n. 94 ne dichiarò l’illegittimità. Ma i sostenitori dell’impunità a prescindere non si persero d’animo. Si arrivò così alla legge 22 maggio 1975 n. 152 (nota come “legge Reale”) i cui articoli 27 e 28 stabilirono che «qualora il procuratore della Repubblica abbia comunque notizia di reati commessi da ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria o da militari in servizio di pubblica sicurezza per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o d’altro mezzo di coazione fisica, informa nello stesso giorno il procuratore generale presso la corte d’appello e compie nel frattempo esclusivamente gli atti urgenti, relativi alla prova di reato, dei quali non è possibile il rinvio», con connessa possibilità del procuratore generale di procedere ad avocazione delle indagini. La norma non venne riprodotta nel codice di procedura penale del 1989 ma oggi una previsione del tutto simile è stata oggetto di due emendamenti all’articolo 15 del disegno di legge n. 1660, allora in discussione alla Camera, presentati dalla Lega (primi firmatari Iezzi e Ravetto), nei quali si prevedeva che «qualora il pubblico ministero riceva notizia» di reati commessi da forze dell’ordine in servizio di pubblica sicurezza e relative all’uso improprio «delle armi o di altro mezzo di coazione fisica», deve subito informare il procuratore generale presso la Corte d’appello che, a sua volta, «informa il comando del corpo o il capo dell’ufficio da cui dipendono i soggetti» affinché ne diano notizia agli indagati e all’Avvocatura dello Stato, unica autorizzata alle indagini (sic!). L’opzione per l’impunità a prescindere degli operatori di polizia per gli atti compiuti in servizio con armi o altri mezzi di coazione fisica è, dunque, ricorrente nel nostro sistema, nonostante la chiara indicazione di contenuta nella sentenza n. 341/1994 della Corte costituzionale (dichiarativa dell’illegittimità del delitto di oltraggio per contrasto con il principio di proporzionalità della sanzione, nella parte in cui prevedeva la pena minima di sei mesi di reclusione) in cui si legge: «Questo unicum, generato dal codice penale del 1930, appare piuttosto come il prodotto della concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini tipica di quell’epoca storica e discendente dalla matrice ideologica allora dominante, concezione che è estranea alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e società non è un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest’ultima». Un’opzione ricorrente, si è detto: del legislatore, ma, come dimostra la richiesta di archiviazione in commento, anche di molti pubblici ministeri. Resta l’auspicio che i giudici siano più rispettosi dei principi costituzionali di uguaglianza e di obbligatorietà dell’azione penale e delle chiare indicazioni della Corte costituzionale (almeno di quella di 30 anni fa…).
November 12, 2024 / Osservatorio Repressione
L’ideologia della “legalità” è tanatopolitica
L’obiettivo è colpire le lotte sociali e sindacali e disciplinare categorie di persone considerate pericolose o sgradite: dai lavoratori sfruttati della logistica a chi reagisce all’emergenza abitativa di Italo Di Sabato Il disegno di legge “sicurezza” a firma dei ministri Piantedosi, Nordio e Crosetto è l’ultima tappa di un lungo percorso politico, che ha avuto inizio una ventina di anni fa con la nascita delle politiche di sicurezza urbana ma che affonda le sue radici in visioni e rappresentazioni della società elaborate in fasi storiche precedenti, e in particolare nell’Italia liberale e nel periodo fascista. Si tratta, in sintesi, di un progetto di controllo sociale che prevede l’impiego di specifici strumenti per disciplinare categorie di persone considerate pericolose o sgradite. Uno spartiacque nel rapporto tra conflitto sociale e governi di questo Paese. Un ulteriore provvedimento emergenzialistico, che altro non è se non una risposta del neoliberismo in salsa italiana, rappresentato dalle ventate di populismo che devono molto del proprio successo alla paura e alla percezione di insicurezza. Tuttavia in questo caso la strategia è più fine: non punta solamente ad un tornaconto elettorale facendo “ammalare di terrore” e pompando odio sociale, ma individua e colpisce precisi soggetti. Ovvero tutti coloro che per l’uno o per l’altro motivo rappresentano presenze disarmoniche e incompatibili con lo spazio sociale. Ma a ben vedere, dietro non vi è solo una questione estetica, moralizzante e paternalistica puntata sulla sicurezza e sul decoro. Vi è piuttosto una strategia ben precisa di attacco repressivo contro tutta una grande fascia di composizione sociale a cui non possono essere garantiti diritti, reddito e assistenza. Una volta individuate le classi laboriose a cui possono essere elargite elemosine (sia sul piano dei diritti che del reddito) senza inceppare la “legge del valore”, per tutti gli altri, la “feccia”, non c’è più posto: per questo bisogna attivare dei violenti meccanismi di espulsione e neutralizzazione. Sulla scia di questa cultura forcaiola il governo vuole mandare anche un messaggio chiaro alle forze dell’ordine, incoraggiandole ad adottare un approccio repressivo nei confronti di categorie già vulnerabili, ora anche indesiderabili. Il disegno di legge 1660, approvato il 18 settembre alla Camera dei deputati e (al momento in cui scriviamo) in discussione al Senato, pur collocandosi nel solco del panpenalismo repressivo che connota da molti anni e trasversalmente la risposta delle istituzioni alla protesta, al dissenso e al disagio, costituisce un deciso arretramento giuridico e culturale, in senso antidemocratico, nel rapporto tra le istituzioni, e i loro apparati repressivi in particolare, e i cittadini. Infatti, oltre a costituire un notevole “salto in avanti” nella stretta repressiva e nella costruzione di quello che potremmo definire un vero e proprio “diritto penale del nemico”, aspira a ridisegnare alcuni istituti mutandone profondamente la natura e ponendoli al di fuori del quadro costituzionale. È un disegno di legge caratterizzato dalla volontà evidente di reprimere qualsiasi forma di lotta e di conflitto sociale, andando a colpire i vari movimenti e le lotte sociali in maniera specifica e dettagliata. Si intendono reprimere e punire gli eco-ambientalisti, i lavoratori della logistica, gli attivisti del movimento per il diritto all’abitare, chi si oppone alle grandi opere, i detenuti che protestano nelle carceri, e gli immigrati nei centri di detenzione. Si tratta di un decreto repressivo concepito in modo organico, che costituisce quindi un salto di qualità dell’azione repressiva dello Stato. È il diritto penale come catarsi elettorale che si manifesta attraverso un continuo rilancio di inasprimenti delle pene, introduzione di nuove figure di reato, riduzione dei benefici processuali e penitenziari, promessa di un sistema repressivo più efficace, che genera politiche sicuritarie e induce nell’opinione pubblica la convinzione che lo Stato di diritto sia incompatibile con la sicurezza. Nonostante le statistiche sulla criminalità descrivano una società più sicura e una diminuzione costante del livello di criminalità, la percezione di insicurezza e paura – alimentate da politica e media – genera consenso verso chi si propone come giustiziere. Ma non è la morte della politica, bensì la proliferazione della politica populista: è una giustizia emotiva amministrata per soddisfare gli umori del popolo. Negli ultimi decenni, governi di centrodestra e di centrosinistra hanno utilizzato la sicurezza come generatore di consenso, arrendendosi all’incapacità di filtrare le pulsioni securitarie dell’elettorato. L’effetto di queste politiche, nel lungo periodo, è stato quello di far diventare concetti come “legalità”, “tolleranza zero”, “decoro” delle parole d’ordine che sono diventate le fondamenta di un vasto movimento reazionario di massa, ideologizzando che l’unico modello di sicurezza accettabile sia quello penale e repressivo. Una cultura legalitaria come affermazione dell’unica ideologia permessa, quella del mercato, dove la politica è presentata come gestione dell’esistente. Più si è fortificata l’ideologia legalitaria e più è cresciuto il rancore individuale, l’altro percepito come concorrente, che è sempre l’altro un gradino al di sotto di noi. È la sopraffazione del consenso sulla critica, in particolare la critica del potere. Imporre la legalità come valore in sé significa negare il conflitto, le lotte sociali e politiche. Qualsiasi conquista è sempre avvenuta su una rottura della legalità. Il giustizialismo crescente della politica e il trionfo del populismo penale hanno contribuito al declino ulteriore dei modelli di Stato sociale in favore del ritorno dello Stato etico e penale. L’educazione alla legalità non è stato altro che sottrazione di legittimità e propaganda di conformità. Da anni nel nostro Paese la legalità è stata trasformata nell’occasione di produrre l’accettazione acritica della legge, e l’illegittimità del dissenso e della contestazione. E infatti, gradualmente, il concetto di legalità ha finito col produrre la stigmatizzazione del “conflitto”, fino alla completa criminalizzazione. A scuola, in piazza e in ogni luogo, ci si riempie la bocca della “cultura della legalità”, al fine di formare quei famosi cittadini di domani rigorosamente apolitici e straordinariamente obbedienti. In poche parole conformi alla legge, trasformando la politica nel cimitero della giustizia sociale. L’esaltazione delle qualità salvifiche del potere giudiziario ha fatto tabula rasa di ogni critica dei poteri. È il filo nero che attraversa il ddl sicurezza: la negazione del conflitto che si situa nello spazio della guerra contro le lotte sociali, il dissenso, i poveri, i migranti, i marginali, i “dannati della terra”. L’orizzonte della trasformazione è sostituito dalla repressione; l’immaginazione e la pratica del cambiamento soffocati a colpi di reati; la democrazia diviene una mera parvenza che copre una gestione autoritaria e blinda un modello economico-sociale strutturalmente diseguale. Senza un radicale mutamento di paradigma politico che si liberi una volta per tutte dell’ideologia legalitaria, giudiziaria e penale, non si riuscirà a ricostruire nulla, anche la ripresa di eventuali temi di classe avrebbe le ali piombate. Per questo il rilancio dell’azione politica alternativa e della critica sociale non può che passare per il rifiuto totale di ogni subalternità verso concezioni penali della politica, unico modo per liberare la società dagli effetti stupefacenti dell’oppio panpenalista.   articolo pubblicato sul numero 11/2024 della rivista Left   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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November 8, 2024 / Osservatorio Repressione
C., un driver
Puntata 1 – Lavora e Crepa 2024. Estrazione-produzione-circolazione- consumo. Nell’economia interconnessa, la velocità di circolazione aggiunge valore alle merci. Ecco la prima storia, un racconto-intervista di C., un driver. Dal magazzino alla strada, fino alle porte delle nostre case. Nel suo abitacolo, in compagnia dell’intervistatore o forse solo, durante una giornata di lavoro.  di Renato Turturro e Ludovico Basili Inizia un’altra giornata. Arrivo in magazzino molto presto al mattino, alle 6.30 sono lì per la distribuzione. La mia partenza da casa è lo spartiacque tra le stagioni che si susseguono. A quest’ora, d’inverno è ancora buio e umido, in estate c’è già luce e a volte si incontra il caldo fin da subito. Si sente già il vociare degli altri driver in attesa dei loro pacchi e dei facchini addetti allo smistamento, impegnati in una costante attività fisica. Se vuoi vedere i popoli del mondo, devi visitare un magazzino della logistica. Mi accaparro uno stallo, spesso questo è motivo di scontro con i colleghi abitudinari, convinti che quel posto sia il loro diritto. La disorganizzazione aziendale si ripercuote nei rapporti tra colleghi, crea attriti. Il lavoro non crea solo alleanze. Arrivo nella mia zona di assegnazione, l’F4. La distribuzione dei pacchi avviene dal terminale della rulliera centrale, dove sono etichettati i pacchi con un codice che riguarda la zona di assegnazione. Ognuno ha la sua zona di competenza, un territorio spartito dove ogni giorno avviene la consegna delle merci. Sono pronto, come gli altri, inizio: afferro i pacchi, uno dopo l’altro e li divido, caricandoli sul furgone con un criterio che corrisponderà poi al mio percorso, cercando di sistemarli anche in modo da bilanciare il carico. La difficoltà grossa del corriere non è tanto trovare le strade, ma i pacchi nel furgone. Sono loro a scandire il tempo e a determinare la mia giornata. Se la strada non la conosci ti può aiutare il navigatore, il pacco nel furgone, invece, devi sapere esattamente dove si trova, è il segreto per non perdere tempo. C’è la necessità di avere un ordine allineato a una cronologia, in modo da fare una ricerca veloce. Ci vorranno un paio d’ore adesso. Ho finito di caricare il furgone, sono pronto. Si va per strada. Il piazzale antistante, visto dall’alto è uno schieramento di pedine pronte a muoversi verso le centinaia di strade tra campi e centri abitati. Adesso dovrò affrontare un’altra delle difficoltà che un driver incontra nella sua giornata: la ricerca di un parcheggio per potere effettuare la consegna. In una giornata un corriere non esce con meno di novanta spedizioni, di cui magari settantacinque stop, in un condominio si potrebbero avere, ad esempio, tre pacchi e quello è considerato un solo stop. Però settantacinque stop, significa fermare il furgone e scendere. Questo è il nostro lavoro. Pacchi di diverso peso e diverse dimensioni. Percorsi piani, inclinati, scale, sali e scendi, centinaia di movimenti e passi che si ripetono tutto il giorno, ogni giorno. Il giro da fare si basa molto sull’esperienza personale che si acquisisce man mano. La priorità viene data alle attività commerciali e alle aziende, le prime a dover essere rifornite, perché hanno orari di chiusura rigidi e necessitano della merce. Se le trovi chiuse diventa una perdita di tempo, perché bisogna tornare nel pomeriggio e il che comporta un ritardo sulla tabella di marcia. Siamo quelli che portano ossigeno all’incendio continuo della produzione e della vendita. Siamo i globuli rossi del sistema produttivo a bordo di furgoni con pneumatici e freni usurati. La manutenzione dei mezzi è scarsa e su questo la differenza la facciamo noi, riguarda la nostra vita. Siamo noi che dobbiamo capire se ci sono le condizioni per lavorare sicuri. Io se non ho un mezzo idoneo per poter fare il mio lavoro non esco. All’azienda do la mia disponibilità, ma se non ho un mezzo idoneo non vado a lavorare. Sono a conoscenza di molti guasti e mancati incidenti di miei colleghi. Un rischio che le aziende corrono pur di mantenere alti i margini di profitto. Se possono saltare qualche manutenzione, evitare di sostituire i mezzi, lo fanno. La distribuzione si basa sul valore della merce, non dei lavoratori che la movimentano e trasportano. Ogni giorno so che il mio orario di lavoro dipende dal compimento di tutti i servizi che mi vengono assegnati. A ognuno viene assegnato un numero di servizi che non scende sotto il numero novanta. Nella smorfia napoletana è la paura. Paura di trovare ostacoli, allontanando l’ora di fine lavoro, paura di distrarsi per la stanchezza e fare un incidente, giostrandosi dentro arterie stradali spesso occluse. A questo, si aggiungono altri servizi, tipo una decina almeno di ritiri ogni giorno. La nostra giornata termina quando finiscono i servizi assegnati. Un corriere che conosce bene la zona, un corriere veloce, che è bravo, finisce con orari decenti, quindi restare all’interno delle otto ore di lavoro. Orario che ti permette di avere una vita fuori dal lavoro. I nuovi – ci sono passato anche io come tutti – o comunque quelli che fanno il lavoro del jolly, ossia quello che va a coprire ogni mattina le esigenze dell’azienda, i buchi, dovuti alle mancanze, tipo persone in malattia o ferie, superano le otto ore. Il jolly è una figura che andrebbe retribuita in maniera diversa, maggiore, in quanto incontra difficoltà maggiori rispetto a noi, come orari di lavoro più lunghi. I più anziani ed esperti rientrano in filiale intorno alle sedici, mentre gli altri anche alle diciannove di sera. Ecco, a proposito, un ingorgo. Oltre alle consegne ordinarie, ci sono anche altri servizi particolari da effettuare, come ad esempio rifornire alcune aziende, che prima delle diciotto non ritirano la merce per delle loro necessità organizzative. Sono servizi straordinari che vengono fatti a rotazione e vengono pagati come straordinari. Io questi servizi non li faccio, perché a fine mese ti trovi in busta quattro soldi. Perché alla fine la differenza retributiva non vale l’impegno, invece di rientrare a casa alle sedici, rientri alle diciotto di sera. Abbiamo provato a parlare con l’azienda per avere magari un fisso per questi servizi, ma l’azienda non è disponibile ad ascoltarci. Vagli a raccontare che a fine mese ti aspettano rate, bollette, manutenzioni alla macchina, spese mediche e tutto ciò che sta diventando inaccessibile per la maggioranza delle persone. Mondi che partono da bisogni diversi e che si incontrano solo nel momento dello scambio: tu mi porti questa merce entro questo tempo e io di do il cambio del tuo tempo e delle tue energie quanto ti basta per campare mese dopo mese. Interessi. uno più piccolo e suddiviso, frammentato per centinaia di persone, l’altro grande, unico, fruttuoso, per pochi. Sono per strada ed è appena iniziata la settimana, dovrò lavorare fino a venerdì. Sabato l’azienda ci ha chiesto la disponibilità, è rimasta molta merce accumulata in magazzino, ma la mia non l’avranno. Io non la do più, perché non condivido come viene pagata la giornata del sabato. Sabato si rischia di uscire a lavorare per trenta/trentacinque euro, perché pagano un euro a consegna. Se si superano le cinquanta consegne aggiungono un bonus fisso. Quindi se fai cinquantacinque consegne prendi cinquantacinque euro più il bonus, e diventano centocinque. Se trovi meno di cinquanta persone in casa, fai per esempio trentacinque consegne, prendi trentacinque euro. Uscire il sabato per questa cifra? Non ci penso proprio. Preferisco stare a casa, riposare, fare altro. Intanto procedo con la prima consegna, il parcheggio stavolta è comodo. Un po’ di fortuna ogni tanto aiuta anche i driver! Durante la giornata ordinaria i riposi non esistono di fatto, una volta che sei uscito fuori, e parti in consegna devi finire. Personalmente, a differenza di molti, la pausa pranzo me la impongo, mi fermo un’ora, un’ora e mezza, in base alle esigenze e poi riprendo a lavorare. Mi prendo del tempo per riposare e recuperare le energie. Non si può guidare di continuo, l’attenzione cala. La maggior parte dei lavoratori, non fanno pausa pranzo, tendono a fare orario continuato per cercare di finire prima le consegne e terminare la vicenda. È un meccanismo che si genera, scatta la voglia di finire il prima possibile e quindi si evitano le pause. A proposito, manca ancora tanto alla pausa. Ho finito la prima consegna da dieci pacchi, ora riparto, il traffico inizia a intensificarsi. Mentre salgo sul furgone e riprendo a guidare, sarà perché ho delle spese da affrontare questa settimana, mi viene in mente di quando ho iniziato a lavorare. Ricordo che lo stipendio era poco più di milleduecento euro al mese, compreso tredicesima e quattordicesima, non c’erano ferie, non c’era niente. Eravamo schiacciati su una condizione minima. Adesso lo stipendio non scende mai sotto i millenovecento euro, escluso tredicesima e quattordicesima, e abbiamo le ferie che ci spettano. Ci sono volute tantissime lotte per portarci a questo, ci sono volute misure cautelari, denunce, rappresaglie e ricatti rigettati al mittente. Niente di tutto questo ha rotto la nostra coesione, nonostante gli attriti a volte. Il corpo unico non si è disunito. Anche se abbiamo migliorato la nostra condizione salariale rispetto agli inizi, considerato il tipo di lavoro che facciamo, lo stipendio è basso, perché comunque le aziende tendono sempre a non elargire tutto quello che la legge prevede e il costo della vita è costantemente in aumento. Se noi andassimo ad analizzare le buste paga, sicuramente verrebbero fuori delle sorprese. Le aziende tendono sempre a cercare di tagliare i costi a danno dei lavoratori. Quelli messi peggio di noi, da questo punto di vista, sono i magazzinieri. Perché spesso queste aziende che eseguono il facchinaggio nei magazzini, impiegano lavoratori stranieri, gestiti da un caporale con molti che non conoscono la lingua e le leggi sul lavoro italiane. Non conoscendo le leggi, direi che sono spesso e volentieri derubabili, non mi viene un altro termine più esatto di questo. Sono quelli, infatti, che hanno molto da rivendicare e portano avanti lotte più dure nel nostro magazzino. Devono uscire dalle condizioni in cui, in qualche modo, eravamo anche noi, anni fa. Ci sono giochi societari occulti, cooperative nate e morte dopo poco, tecniche di aggiramento del fisco, contributi non versati, false fatturazioni. Questo danneggia l’erario, ma ricade nella vita reale dei lavoratori che si trovano in questo ambiente di avvoltoi. Ho concluso la quinta consegna, il quinto stop, riprendo il giro. I miei occhi cadono subito sul cantiere della casa laterale alla via che sto imboccando, vedo i lavoratori a decine di metri in alto sulle impalcature e la mente mi porta alle tragiche notizie che sento alla radio mentre guido. La vista di quei lavoratori mi fa pensare alla sicurezza sul lavoro nei nostri magazzini. Che casino nei magazzini, i muletti che vengono utilizzati alla leggera, condotti anche da chi non ha il patentino e non ha fatto la formazione, le zone di stoccaggio materiali non mai nettamente separate dalle zone di transito dei pedoni. Quando stacchi un attimo per andare in bagno o a bere un caffè, corri il rischio di essere investito. Migliaia di movimenti, smistamenti al giorno, decine di muletti, in alcuni metri quadri, una densità notevole di elementi che si muovono, mezzi e persone. Perché non c’è tutta questa distinzione dei percorsi, come in altre aziende che noi serviamo tutti i giorni, tipo le metalmeccaniche? Io lì vedo che le zone di transito pedonale sono riservate esclusivamente ai pedoni, mentre da noi c’è questa promiscuità che è abbastanza pericolosa. Un risparmio da parte aziendale è un risparmio che genera un guadagno che si moltiplica se questo risparmio lo applichi in tutti i magazzini. Sono fermo al semaforo, incolonnato e penso che si debba fare ancora molto, soprattutto per le categorie più ricattabili. È scattato il verde, riprendo a guidare, se penso a come ci freghino continuamente, do i numeri. Viviamo in un ambiente dove la pressione del ricatto da parte del datore di lavoro è l’arma vincente per avere un capannone che possa dare un massimo profitto. Per realizzare questo, l’azienda deve avere tutto sotto controllo. Ogni volta che vengono assunte persone nuove, gli si dice espressamente a quale sindacato non iscriversi e a quali invece iscriversi. Prevenzione: evitare la sindacalizzazione conflittuale dei neoassunti, impedire la comunicazione tra questi e i più combattivi. Nel momento in cui qualcuno tenta di ribellarsi di fronte a situazioni di ingiustizia scatta la rappresaglia da parte dell’azienda. Ricordo che tempo fa, mi era stata assegnata per le consegne una zona di montagna, facevo quasi duecento km al giorno e arrivavo a millequattrocento metri di altezza, non avevo un furgone idoneo per farlo. Vedevo che c’era un furgone idoneo assegnato a un collega che e faceva però un percorso quotidiano di venti km in città, a quattro km dal deposito, tutto in pianura. Di fronte a questo, mi sono ribellato e ho chiesto l’utilizzo di quel furgone, è venuto fuori un macello. Alla fine, il furgone me l’hanno dovuto affidare, ma poi me l’hanno fatta pagare. Mi hanno assegnato a dei servizi tardivi, quelli per cui rientri tardissimo o lavori oltre le diciotto. Servizi tardivi significa tredici ore di lavoro al giorno. Ciò era per mettermi in difficoltà e darmi un segnale ben preciso. Però se non ti ribelli nulla può cambiare, tutto è in funzione di quando ti ribelli. Cercano di caricarti di lavoro all’infinito, soprattutto i primi tempi, quando sei appena assunto, per forgiarti come ti vorrebbero. Quando poi inizi a ribellarti, iniziano con le repressioni, però lì sta poi a te resistere e far capire che tu hai dei diritti e non sei obbligato a fare gli straordinari. Non ti possono obbligare tutte le sere a lavorare a oltranza! Pausa pranzo. Stacco il cervello, mangio, riposo e penso a cose belle. Mi capita di sentire il bisogno di evadere da ciò che ogni giorno vedo con i miei occhi e vivo. Anche se non potrò fare ciò che immagino, mi trasporto mentalmente altrove, mi aiuta ad evadere un momento e ricaricarmi. Fuga momentanea. Finita la pausa, si riparte, mi restano ancora molti pacchi da consegnare. Svolto l’angolo e mi viene in mente l’episodio dello scorso inverno, quando alcuni lavoratori avevano il contratto in scadenza e l’Unione Sindacale di Base, era diventato molto forte, rappresentava un terzo dei lavoratori del magazzino. Il nostro datore di lavoro, temendo di perdere il controllo della situazione, ha ben pensato di andare dai lavoratori in scadenza e proporgli il rinnovo a patto che lasciassero il nostro sindacato. Cosa che poi è stata disattesa da tutti, escluso un lavoratore. Questo lavoratore, anche amico, era venuto a raccontarmi di questa pressione da parte del datore. Conoscevo la sua condizione di ricattabilità, in casa lavora solo lui, ricordo di avergli detto «Vai a dire pure che ci schifi. Non è un problema, perché tu devi portare lo stipendio a casa». Contemporaneamente, il datore ha provato a mettere sotto pressione anche noi, lavoratori sindacalizzati, non concedendoci il premio natalizio e andando da altri lavoratori, appartenenti al nostro sindacato, a dirgli che gliel’avrebbe dato a condizione che lasciassero l’Unione Sindacale di Base. Anche in questa occasione i lavoratori non hanno ceduto al ricatto. Un chiaro tentativo di provare a smontare la forza del sindacato all’interno di questo magazzino. Queste mosse e tutti i ricatti sono condizione temporanea, sono convinto che tutto ciò ci rafforzi, anziché indebolirci. È finita anche questa giornata, mi aspetta ancora tutta la settimana. Non ricordo neanche il numero di fermate che ho fatto, di pacchi movimentati, di passi percorsi e strade incrociate. Arriva un momento della giornata in cui mi disoriento, procedo come se fossi un pilota automatico, un automa. Solo il flusso dei pensieri mi rende conscio che sono umano. Spero di conservare questa capacità nel tempo. Mi spavento quando mi accorgo di procedere meccanicamente. Il mio corpo e la mia attenzione, energia fisica ed energia del pensiero, insieme per produrre valore. Io le aziono per vivere, sopravvivere, a qualcun altro servono per accumulare ricchezza. Spengo il furgone, chiudo la portiera, mi guardo intorno, vedo persone che come stanno rientrando a casa. Mi incammino verso la porta di casa e mi fermo un secondo. Un attimo che ferma il tempo e sospende il suo flusso inesorabile che consuma e fissa fatti, in cui in me aleggia una sensazione mista a convinzione. Il punto in cui la Storia ricade su di te, singolo e apparentemente solo e ti fa sussurrare «un giorno andremo a vincere!».  
November 6, 2024 / Osservatorio Repressione
Ragionare camminando
Non ci accorgiamo più di un mucchio di cose che abbiamo sotto il naso, dalle forbici che sono dove devono essere al fatto che per strada non tutti hanno la libertà di muoversi alla stessa maniera: chissà mai se un giorno il sistema bloccherà tutto per cercare una soluzione al catcalling di Marco Sommariva da Carmilla Ho letto su L’indiscreto un articolo di Alessia Dulbecco intitolato “È difficile camminare, se sei una donna” che, davanti a un video proiettato in una classe in cui si vede una ragazza camminare, sola, in pieno giorno, per le strade di New York, la stragrande maggioranza delle persone di genere femminile sapeva già, dopo i primi fotogrammi, cosa avrebbe subito la protagonista: molestie, abusi e commenti non richiesti. È il fenomeno che oggi viene definito catcalling: molestia sessuale prevalentemente verbale che, per esperienza personale, posso assicurare esser già presente a fine anni Sessanta. Pur essendo un uomo, parlo di esperienza personale per questo motivo: non avevo ancora compiuto sei anni quando, nell’estate del 1969, ogni pomeriggio d’estate passavo con mia madre – all’epoca trentanovenne – davanti a un’officina meccanica per recarci in casa di mia zia dove le due sorelle facevano venir sera cucendo abiti; eravamo costretti a passar di lì perché non c’erano strade alternative e visto che, per via del caldo, le saracinesche di quella carpenteria metallica erano sempre alzate, al nostro passaggio gli operai interrompevano il lavoro, fischiavano all’indirizzo di mia mamma e commentavano ad alta voce le sue curve. Ricordo che mia madre allungava il passo e mi diceva di fare altrettanto, così come ricordo la paura che provavo in quel tratto di strada perché, secondo me, quegli uomini volevano far del male a mia madre e, lasciatemi dire, non ero così tanto distante dalla realtà. Scrive Atiq Rahimi in Pietra di pazienza: “Per gli uomini come lui scopare, violentare una puttana non è una grande impresa. Mettere il suo lurido affare in un buco che è già stato usato centinaia di volte prima di lui non gli procura alcun orgoglio virile. […] Lo sai bene, tu. Gli uomini come lui hanno paura delle puttane. E lo sai perché? […] perché, scopando una puttana, non dominate più il suo corpo. Siete in una dimensione di scambio. Voi le date del denaro, lei vi dà il piacere. E, posso dirtelo, spesso è lei a dominarvi. È lei a scoparvi. […] Quindi violentare una puttana non è uno stupro. Ma lo è rubare la verginità a una ragazza, violare l’onore di una donna! Ecco il vostro credo!” Ho voluto raccontare quanto ho vissuto all’età di cinque anni, perché mi pare impossibile che, davanti al video proiettato in classe, i ragazzi non siano stati pronti a rispondere come le loro compagne: davvero c’è qualcuno che non si rende conto di ciò che accade per strada? E se questo accadesse perché, in qualche modo, si è riusciti a portare le menti di alcuni di noi in un mondo ideale che distrae da quello reale? Scriveva Anatole France ne L’isola dei pinguini, nel 1908: “Le testimonianze false valgono più di quelle vere, perché vengono create espressamente per le necessità della causa, su ordinazione e su misura, e quindi risultano esatte e particolareggiate. Sono preferibili perché trasportano le menti in un mondo ideale e le distraggono dalla realtà, che, in questo mondo, purtroppo, non è mai senza ombre.” E non prenderei troppo sottogamba l’estratto sopra, visto che in 1984 George Orwell scriveva: “Tutto quel che succede, succede nella mente. Tutto ciò che succede in tutte le menti, succede davvero”. Eppure, è indubbio che, ancora oggi, una donna che cammina da sola costituisce un’anomalia del Sistema: prima che si scoprisse l’assassino della povera Sharon Verzeni – la barista di Terno d’Isola uccisa a coltellate mentre passeggiava, di notte, vicino alla propria abitazione – abbiamo letto e ascoltato numerosi commenti circa l’abitudine della giovane di uscir da casa, da sola, a tarda sera: “forse si vedeva con qualcuno?” Avremmo letto e ascoltato identici commenti fosse stato un uomo? Ho grossi dubbi. Comunque, se per le donne il pericolo di uscir da sole aumenta dopo il tramonto, non significa che prima possano muoversi a piedi serenamente: le donne sanno che, a prescindere da ciò che indossano e se è mattina o pomeriggio, il rischio di incorrere in commenti, sguardi e tentativi di approccio non richiesti è sempre presente. Prima ho parlato degli anni Sessanta perché, per esperienza, non posso andare più indietro, ma leggo che, fin dai tempi antichi, strade e piazze sono i luoghi dove gli uomini hanno intrecciato scambi commerciali, concordato alleanze e definito rapporti di potere ma che, in quegli stessi spazi, alle donne è sempre stato consentito svolgere solo mansioni quotidiane, non sostarvi liberamente: “Non si può ottenere nulla di buono, con la paura” – I falsari di André Gide. Aver timore di sostare per strada potrebbe indurre a frequentare luoghi ad hoc rischiando, però, di lasciare indietro donne o compagn* di genere appartenenti a minoranze etniche o a classi sociali disagiate. Aver timore di passeggiare per strada potrebbe indurre a svolgere nella solitudine della propria abitazione ciò che si potrebbe fare all’aperto: col comprare un tapis roulant per replicare nel proprio salotto ciò che si potrebbe fare nei viali sotto casa, si corre il rischio di ridursi a dei criceti che sgambettano nella ruota di una gabbia – credere a una libertà illusoria, insomma. Uscire per strada, camminare, è sempre stato e continua a essere un atto sovversivo. Giorni fa ho confessato all’amico Pino Cacucci che, nel 1998, decisi d’imbracciar la penna dopo aver letto un suo libro edito per la prima volta nel ‘96, Camminando: “Spostarsi è facile, spesso lo impone il lavoro, o si vola in vacanza dall’altra parte dell’emisfero per spedire cartoline, scattare diapositive, comprare ricordini per amici e parenti, e tornare indietro identici a come si è partiti. Viaggiare con occhi sgranati sulle meraviglie altrui è inutile, quando l’anima resta chiusa nella cassaforte di casa”. L’autore ha scritto che le testimonianze raccolte in questo libro, sono un piccolo contributo a non dimenticare che tutti i privilegi di questa fettina di mondo sono ottenuti in cambio di insostenibili ingiustizie imposte agli abitanti di almeno tre quarti del pianeta, che l’oblio è sempre una colpa perché la mancanza di memoria permette all’orrore di perpetuarsi e che un libro è certo poca cosa, ma può aiutare a sentirsi meno soli. E in effetti mi sentii meno solo quando mi trovai davanti questo suo passaggio: “in questo livido fine millennio […] non ci sono più guerre mosse da ideali di liberazione, ma solo da accaparramenti petroliferi, razzismi e pulizie etniche”. Mi sentii meno solo perché lo pensavo, ma non sentivo dirlo da altri, soprattutto dalla televisione: “con la Guerra del Golfo hanno definitivamente sancito il controllo ferreo sull’informazione: se non accetti la loro uniforme mimetica e i giri guidati, non ti puoi lamentare se poi ti sparano in faccia…”. In un’intervista,  Nadine Gordimer ha affermato: “È vero che siamo bombardati dalle informazioni. Le informazioni, però, non sono la conoscenza; sono una collezione superficiale di fatti. Dobbiamo, invece, rivolgerci alla letteratura, agli scrittori per avere un’interpretazione dei fatti, per capire ciò che precede e segue i fatti. Solo lo scrittore fa diventare storia una serie di eventi”. Sono d’accordo. Non a caso non faccio altro che rivolgermi alla letteratura, agli scrittori, per analizzare gli avvenimenti; a proposito di questo, il senso del viaggio di Pino Cacucci sta nel fermarsi ad ascoltare chiunque abbia una storia da raccontare sulla propria vita e le passioni che l’hanno segnata, per poterla rinarrare e sottrarla, così, alla cloaca della dimenticanza. Non permettere alle donne di camminare liberamente per strada significa pure questo, impedire l’ascolto di storie, e questo potrebbe significare perdersi anche episodi che riguardano loro molto da vicino: “Oggi molti inorridiscono per il trattamento che le milizie in Bosnia riservano alle donne catturate, dimenticando che il vero volto delle guerre d’aggressione è questo, e nulla di meno. I contras, però, non hanno mai lasciato donne incinte: la consuetudine era sgozzarle dopo averle fatte “passare” all’intera compagnia. Ma allora, il mondo sembrò non accorgersene neppure, e nessun telegiornale nostrano ha mai dimostrato orrore al riguardo”. La parola contras è un accorciamento di contrarrevolucionarios; i contras furono un gruppo armato nicaraguense, appunto, nato per combattere il governo sandinista che, nel ’79, s’insediò al potere dopo aver rovesciato la dittatura di Somoza che durava da dodici anni. Restando in quegli anni e in quella zona geografica, c’è un’altra storia raccontata da Cacucci in Camminando, che vale la pena non dimenticare: “La vigilia di Natale del 1981, nel villaggio di El Mozote irruppero le truppe scelte del Battaglione Atlacatl, corpo d’élite dell’esercito salvadoregno addestrato da istruttori statunitensi e i cui ufficiali si sono vantati di ispirarsi alle SS hitleriane. L’operazione faceva parte della strategia “togliere l’acqua intorno ai pesci”. I mille abitanti di El Mozote appoggiavano i guerriglieri e avevano offerto loro riparo e provviste. Furono sterminati tutti. Riempirono la chiesa di uomini, e la fecero saltare con la dinamite. Uccisero con un colpo alla nuca quelli che erano rimasti fuori, poi raggrupparono le donne: scelsero le giovani più belle, portandole tra i cespugli per stuprarle e poi sgozzarle. Le altre, furono falciate subito a raffiche di mitragliatrice. Alcuni militari presero dei neonati lanciandoli in aria per poi infilzarli al volo con le baionette, altri li gettarono vivi nei forni del pane ancora accesi. Il raccapricciante resoconto di tanto orrore è stato fatto da un bambino di undici anni scampato miracolosamente all’eccidio”. Anche qui si parla di donne e pure in questo caso si riserva loro un trattamento particolare, specie se giovani e belle. Ma come son cresciute tutte queste generazioni di uomini che stuprano, sgozzano, uccidono, molestano, importunano le donne e che, ancora oggi, pare siano incapaci d’immaginare cosa accadrà alla protagonista di un video ripresa mentre cammina, sola, in pieno giorno, per le strade di New York? Non so rispondere, ma credo varrebbe la pena tenere a mente un avvertimento di Voltairine de Cleyre, riportato nel libro Un’anarchica americana, sul crescere i figli maschi e le figlie femmine: “Guardate ora come crescono i vostri figli. Insegnate loro, sin dalla prima infanzia, a frenare la naturale indole ad amare, a trattenersi sempre di più! Le vostre incredibili bugie infangherebbero persino l’innocente bacio di un bambino. Alle ragazzine insegnate che non devono comportarsi come dei maschiacci: non devono camminare scalze, non devono arrampicarsi sugli alberi, non devono imparare a nuotare, non devono fare niente di ciò che desiderano se la morale lo ha bollato come «inappropriato». I ragazzini vengono invece derisi se hanno atteggiamenti effeminati, ad esempio se vogliono imparare a cucire o magari giocare con le bambole. E poi, quando saranno cresciuti, direte loro: «Ehi, agli uomini non importa della casa o dei bambini tanto quanto importa alle donne!». E perché gliene dovrebbe importare, se vi siete deliberatamente riproposti di distruggere quella loro natura? «Le donne non sanno cavarsela come gli uomini», direte loro. Ma se addestrate un qualunque animale, o persino una pianta, come addestrate le ragazze, neanche quello se la saprebbe cavare. Qualcuno mi potrebbe spiegare perché esistono sport adatti agli uomini e sport adatti alle donne? Perché un bambino non dovrebbe avere il libero uso del proprio corpo?” E nel libero uso del proprio corpo va anche compreso il passeggiare dove si vuole, quando lo si desidera e come meglio aggrada a ognuno di noi, uomo o donna che esso sia. Sempre riguardo il camminare, desidererei ricordare un passo tratto dal romanzo Sognando Maldini, di un’altra donna, Fatou Diome: “Con i piedi modellati, segnati dalla terra africana, calpesto il suolo europeo. […] Dappertutto si cammina, però mai verso lo stesso orizzonte. In Africa seguivo il solco del destino fatto d’imprevisti e di speranza infinita. In Europa cammino nel lungo tunnel dell’affermazione che conduce a obiettivi ben definiti. Qui, nessun imprevisto, ogni passo porta a un esito scontato; la speranza si misura dal grado di combattività. Ambiente in technicolor, camminiamo in altro modo, verso un destino interiorizzato che fissiamo controvoglia senza mai rendercene conto, perché ci troviamo arruolati nel branco moderno, ghermiti dal rullo compressore sociale pronto a schiacciare chiunque si azzardi a fermarsi nella corsia di emergenza”. Evidenziando la differenza tra il destino africano fatto d’imprevisti e di speranza infinita e quello occidentale che porta a un esito scontato – forse perché, “da noi”, l’imprevisto è il nemico numero uno di un sistema che non deve subire alcuna battuta d’arresto perché possa produrre capitale ventiquattrore su ventiquattro? –, la scrittrice senegalese naturalizzata francese mi ha fatto venire in mente un episodio riportato sul settimanale Internazionale dello scorso 6 settembre che, per la portata della reazione a un evento inatteso, ci dà la misura di cosa siamo diventati: i controlli di sicurezza all’aeroporto di Hokkaido, in Giappone, hanno fatto chiudere il terminal nazionale dopo che un duty free dell’aeroporto ha segnalato la scomparsa di un paio di forbici. Il controllo a tutti i passeggeri è durato due ore, durante le quali sono stati cancellati trentasei voli e più di duecento hanno subito dei ritardi. Le forbici non sono state trovate e la sicurezza ha infine permesso ai voli di riprendere. Il giorno successivo ci si è accorti che erano nel negozio dov’erano state smarrite. L’autorità aeroportuale di Hokkaido ha affermato che “lavorerà per garantire una migliore attenzione da parte dei negozi”. Non ci accorgiamo più di un mucchio di cose che abbiamo sotto il naso, dalle forbici che sono dove devono essere al fatto che per strada non tutti hanno la libertà di muoversi alla stessa maniera: chissà mai se un giorno il sistema bloccherà tutto per cercare una soluzione al catcalling. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 4, 2024 / Osservatorio Repressione
Uno sfregio alla Costituzione
Il disegno di legge “sicurezza” del governo non solo contiene, nei singoli articoli, elementi di incostituzionalità, ma distrugge la visione stessa di difesa della dignità umana espressa dalla Costituzione di Giovanni Russo Spena Due osservazioni preliminari, indispensabili per comprendere la natura della norma voluta c on determinazione dal governo. La prima nasce dalla costatazione che l’Italia è in guerra. La guerra chiama lo “stato di eccezione permanente” e la assoluta sospensione dei diritti costituzionali. La guerra è “costituente” di un sistema complesso, di un vero e proprio “salto di paradigma”, che è, insieme, strutturale, sociale, politico, geopolitico. La guerra militarizza la società, dall’economia, alla scuola, alla formazione, . Abbiamo imparato, ormai, che il capitale ha bisogno della guerra. Scrive Marx:” il capitale è, per sua natura, un sistema globale. Deve annidarsi ovunque, insediarsi ovunque, stabilire connessioni ovunque”. La seconda osservazione verte sul fenomeno in atto che alla centralizzazione dei capitali in sempre meno mani corrisponde una analoga concentrazione del potere politico. E’ una sorta di “liberismo autoritario”. La guerra non è un ciclo chiuso, marginale. Proprio per questo essa assorbe anche il concetto di “sicurezza”: essa, infatti, oggi, non significa più sistema di sicurezza sociale individuale e collettiva (pensioni, assistenza, e così via) ma subisce una torsione fortemente autoritaria e securitaria. Perfino l’OSCE ( l’organizzazione per la sicurezza in Europa, alla quale aderiscono governi di 57 paesi), analizzando l’impianto del disegno di legge italiano scrive:” la maggior parte di queste disposizioni  ha il potenziale di minare i principi fondamentali  della giustizia penale  e dello Stato di diritto”. Diventa sempre più evanescente lo Stato di diritto e sempre più pervasivo lo Stato penale, assolutista . Non è un fattore inedito. Il panpenalismo e l’ipertrofia carceraria non nascono oggi. L’attuale normativa si pone sulla scia di leggi che abbiamo sempre ritenute incostituzionali. Cito, per brevità, solo il decreto Renzi/Lupi, il decreto Minniti/Orlando, i decreti Salvini , fino alle recenti leggi Cutro e Caivano. E vogliamo ricordare l’azione, esplicitamente razzista, di sindaci contro i migranti? Vogliamo ricordare istituti incostituzionali, come il grottesco ossimoro della “flagranza differita”? La “sicurezza” , insomma, da tutela sociale è diventata ossessione autoritaria, peraltro inefficace, che genera, come coazione a ripetere, un numero sempre crescente di reati e sanzioni abnormi. Non si tratta solo di norme più repressive, ma di un impianto autoritario della governabilità medesima. Poteri politici, militari, istituzionali hanno calzato l’elmetto; e il sistema informativo  segue docilmente rinunziando ad ogni capacità critica. Si configura, infatti, un “salto di fase”: una simbiosi tra tutela della formazione sociale e mistificato immaginario della sicurezza , che genera una società  della “sorveglianza”, uno “Stato del controllo”, lo stravolgimento del rapporto tra statualità e cittadinanza. Si sta rafforzando, nel privato come nella pubblica amministrazione, una vera e propria architettura di sorveglianza capillare . Non a caso cresce una miriade di imprese specializzate nel mercato del controllo sicuritario: riconoscimento facciale, sorveglianza biometrica, ecc. Nelle forze parlamentari di opposizione vi è una rimozione pressoché totale di questi temi. Questa coltre, soprattutto a livello sindacale, si sta squarciando. Crescono le mobilitazioni.  Fortunatamente, perché questo disegno di legge alla radice nega il conflitto; chi pratica conflitto è nemico della ragion di Stato. ma riconoscere il conflitto è fondamentale, per la Costituzione, perché esso produce dignità, autodeterminazione, legittima l’esistenza degli oppressi, degli sfruttati, La storia è” storia di lotta di classi” , ha scritto Marx. E’ questa la base della dialettica sociale e delle trasformazioni  sociali.  Senza il conflitto, se il popolo è muto e inerte, muore la Costituzione..  Si è aperta la guerra ai poveri, agli oppositori, la caccia ai migranti. L’autocrazia difende un modello economico e sociale sempre più diseguale. Diseguaglianze sociali, devastazioni ambientali non esistono. Chi lotta nel loro nome è nemico della patria.  Il sistema non sopporta critiche. Chi lotta, disobbedisce, esercita diritto di resistenza, in base al secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione, viene trattato, da questa norma, come un possibile delinquente, un probabile terrorista. Cito solo tre esempi emblematici. Il primo riguarda il costituzionale “diritto all’abitare”. Esso viene assolutamente negato. Il grave e diffuso problema sociale della casa, delle abitazioni, che porta anche alle occupazioni, viene risolto inasprendo le pene per le occupazioni. E’ molto grave , perché dimostra che la normativa voluta dalle destre non presenta solo specifici profili di incostituzionalità, ma è contro la filosofia stessa della Costituzione , che la norma 1236 cancella, occulta. Una seconda norma emblematica riguarda il carcere.  L’articolo 27 della Costituzione recita: ” le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Le nuove misure introdotte, invece, ci riportano drammaticamente al carcere come luogo disumanizzante, punitivo, disperato. Si pensi alla norma che cancella il differimento obbligatorio del carcere per le donne incinte o le madri con figli sino ad un anno. Qui l’ipertrofia carceraria cancella ogni civiltà ed umanità dello Stato di diritto. Così come pensiamo alla misura che punisce chi, all’interno delle strutture carcerarie , critica un ordine, che ritiene illegittimo, opponendo una “resistenza passiva”. E’ stata definita la “norma anti Gandhi”. Anche lui, per Piantedosi, era un pericoloso delinquente.  Basti anche pensare al trattamento previsto nei confronti  delle persone migranti, a quelle trattenute nei CPR o nei CAS. Non hanno commesso reati, ma sono imprigionati in galere etniche peggiori dei carceri. Il migrante viene considerato un “nemico”, a cui togliere perfino la dignità. La misura introdotta , che vieta di vendere le SIM a chi non possiede il permesso di soggiorno, non è solo incostituzionale , ma dimostra ferocia, cattiveria, demagogia razzista. Che vergogna! Articolo pubblicato sul numero 11 della rivista Left   Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 1, 2024 / Osservatorio Repressione