Il decreto sicurezza è legge.
di Sergio Segio da il manifesto
Il decreto Piantedosi, approvato in via definitiva al Senato, è stato definito
«fascistissimo» a rimarcarne intenti ed effetti che superano persino il codice
Rocco.
Mitridatizzati da un ventennio di enfatizzazione della “sicurezza”, sorretta
dalla retorica bipartisan di una “cultura della legalità” declinata in chiave di
ordine pubblico e di populismo penale, rischiamo infatti di non cogliere appieno
l’involuzione autoritaria imposta dall’attuale governo.
A differenza dei precedenti (Maroni, 23 febbraio 2009, n. 11; Minniti, 17
febbraio 2017 n. 13 e 20 febbraio 2017, n. 14; Salvini, 4 ottobre 2018, n. 113 e
14 giugno 2019, n. 53; Lamorgese, 21 ottobre 2020, n. 130), l’attuale decreto
sicurezza (11 aprile 2025, n. 48) si inscrive con maggiore coerenza ed evidenza
in un progetto di forzatura costituzionale e della democrazia.
L’attenzione mediatica e i rilievi critici si sono maggiormente appuntati
sull’introduzione di nuove fattispecie di reato (14) e aggravanti (9) e sugli
aumenti di pena di cui al Capo I (Disposizioni per la prevenzione e il contrasto
del terrorismo e della criminalità organizzata) e del Capo II (Disposizioni in
materia di sicurezza urbana), trascurando quanto disposto dal Capo III (Misure
in materia di tutela del personale delle forze di polizia e delle forze armate).
Queste maggiori tutele si tradurranno in pene aumentate della metà nei casi di
violenza, minacce o resistenza nei confronti dei pubblici ufficiali per arrivare
addirittura a 16 anni di carcere nel caso di lesioni.
Non meno eloquenti e preoccupanti sono le prerogative concesse: la copertura
delle spese legali nel caso (in verità assai raro) un agente venisse processato
per fatti di servizio e la facoltà di portare fuori servizio senza licenza
un’arma diversa da quella di ordinanza.
È poi significativo che siano inserite in questo Capo anche misure relative alle
carceri e ai centri di trattenimento per i migranti, la cui ratio è di punire in
misura abnorme qualsiasi protesta e diventa massima di fronte alle Disposizioni
per il potenziamento dell’attività di informazione per la sicurezza (art. 31).
Nella formulazione dell’originario disegno di legge vi era persino l’obbligo per
le pubbliche amministrazioni, e in particolare per le università, di collaborare
con i servizi segreti e di fornire loro informazioni.
Non meno allarmanti sono le misure, rimaste nel testo trasferito nell’attuale
decreto, che consentono non solo l’infiltrazione di agenti all’interno di
associazioni con finalità di terrorismo ed eversione, ma la stessa promozione e
organizzazione di tali associazioni, con la garanzia che le identità fittizie di
copertura potranno essere mantenute anche in sede processuale. Quanto sia
pericolosa e potenzialmente estensibile tale norma ce lo mostra, ad esempio, la
vicenda di Potere al popolo di Napoli – per inciso, si tratta di un partito
politico democratico e non un gruppo sovversivo – che ha recentemente denunciato
la presenza di un poliziotto infiltrato in incognito tra le proprie fila.
Alla repressione generalizzata e al “diritto penale del nemico” rivolto alle
“classi pericolose”, ovvero a ecoattivisti, dissidenti politici, occupanti di
case per bisogno, utilizzatori di cannabis per diletto o per mestiere,
lavoratori in lotta, studenti contestatori, madri in carcere, migranti, poveri e
marginali in genere, si accompagnano insomma la più classica impunità per le
illegalità in divisa e una nuova strategia della tensione, a loro volta
funzionali a un processo di fascistissimo irrigidimento liberticida.
Contro cui è però forte e crescente la reazione dal basso, come mostra la grande
manifestazione a Roma del 31 maggio e il partecipato digiuno a staffetta in
corso.
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Tag - Editoriale
Un movimento che non si è fatto ingabbiare dagli schemi tossici della destra. E
che ha capito che la cura collettiva e la difesa della democrazia sono
precondizioni della politica nuova
di Giuliano Santoro da il manifesto
Il corteo contro il dl sicurezza è stato un successo che ha sventato molti
rischi. Una regola della militanza, che si impara per via empirica e ti resta
attaccata alla pelle dice che quando un compagno o una compagna finisce alla
sbarra del processo, recluso in casa o addirittura in galera, bisogna fare di
tutto per tirarlo fuori dai guai.
Questa forma di solidarietà primaria è stata per anni un motore potente di
costruzione di legami, fiducia e lealtà. Con dei rischi. Perché si sa che la
semplice «lotta alla repressione» può restare invischiata nelle trappole del
potere, nelle tossine che esso semina. In quel caso minaccia di produrre
comunità minoritarie, basate solo sulla difesa e mai sull’attacco, a volte anche
paranoiche perché afflitte dalla persecuzione.
Tutto ciò serve a dire che non è questo il caso della battaglia contro il
disegno di legge poi divenuto decreto sicurezza. Di fronte alla stretta
repressiva che introduce quattordici nuove fattispecie di reato e nove
aggravanti, che scarica centinaia di anni di carcere su chi è povero e su chi si
organizza e lotta, anche in forma nonviolenta, per non esserlo, si è dipanato in
movimento che ha saputo adottare il metodo della convergenza e che ha sempre
rilanciato in avanti, evidenziato i nessi sociali e la ricchezza delle relazioni
produttive messe sotto attacco dal governo Meloni.
Nel corso di questi mesi ci siamo interrogati molte volte sui motivi che hanno
spinto le destre a condurre questa ennesima forzatura contro lo stato di
diritto. Queste cause sono emerse di volta in volta in maniera abbastanza
nitida. C’è innanzitutto un motivo di carattere strutturale: la funzione storica
del postfascismo è quella di mettere al servizio l’autoritarismo per
assolutizzare la difesa della proprietà privata e delle mire particolari, contro
ogni interesse collettivo e contro gli stessi principi costituzionali. Questa
missione si accompagna alla campagna propagandistica sulla sicurezza in atto da
anni in questo paese, da ben prima che il circoletto di Colle Oppio si
insediasse a Palazzo Chigi. Adesso siamo di fronte al passaggio decisivo.
Sarebbe sbagliato non vederne il salto di scala e l’intensità della ferocia che
lo caratterizza, ma quanti anni sono che la goccia della paranoia securitaria e
delle minacce «percepite» scava la roccia della realtà e dei problemi concreti
delle persone?
La potente operazione ideologica costruita attorno al tema della sicurezza,
tutta volta a disintegrare legami sociali e insinuare nei nostri quartieri
dispositivi bellici (contro migranti, poveri, dissidenti, diversi), ha costruito
le condizioni per questa torsione autoritaria.
Infine, dopo le notazioni strutturali e quelle culturali, è impossibile non
notare un carico soggettivo particolare, uno specifico accanimento della destra
contro i suoi nemici nella società. Possiamo sintetizzarla così: questo decreto
sicurezza è anche una vendetta della destra estrema contro i suoi nemici di
sempre, contro quelli che in maniera imperfetta ma incessante non hanno smesso
di costruire gli anticorpi a egoismo, prevaricazioni, solitudine.
Le decine di migliaia di persone che sabato 31 maggio sono scese in piazza a
Roma, e i molti altri che da tempo in tutto il paese si mobilitano contro questo
governo sono la dimostrazione che esiste ancora un corpo sociale vivo e
reattivo, nonostante anni di crisi della politica (a tutti i livelli, nei
partiti e nei movimenti) e sfiducia verso l’azione collettiva. Della gente che
ieri abbiamo incontrato per le strade di Roma, con tutte le differenze, sappiamo
che possiamo almeno provare a fidarci. Di questo hanno paura i vecchi e nuovi
reazionari: della costruzione dal basso di forme di protezione e cura
collettiva. Perché questa è la condizione necessaria per la nascita di una nuova
politica: l’antidoto al loro veleno.
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Non resta che dissentire e mobilitarsi, contro il decreto sicurezza, contro
l’immobilità e la paura
di Alessandra Algostino da il manifesto
Approvato con la fiducia e altre forzature parlamentari, il decreto legge
«sicurezza» è un provvedimento autoritario adottato d’autorità. Radicalmente
incostituzionale, perché intacca le radici profonde della democrazia, le sue
fondamenta, la sua struttura.
Radicalmente incostituzionale per il tenore delle norme e per la cultura che
esse veicolano, come rilevato dalle molte voci critiche di giuristi e
organizzazioni internazionali e come colto da una mobilitazione diffusa e
trasversale.
Su queste pagine molto si è scritto, ma è necessario ribadirlo, perché la
necessità di opporsi è più viva che mai, nei tribunali (in primo luogo
sollevando questioni di legittimità costituzionale) come nelle piazze a partire
da oggi.
Partiamo dalla forma, che è sostanza. Adottare un decreto legge che riprende il
contenuto di un disegno di legge in discussione da mesi, in totale mancanza di
un caso straordinario di necessità e urgenza (basta leggere i considerata
tautologici dell’atto), esautora il parlamento, viola la separazione dei poteri,
e, con essa, l’essenza del costituzionalismo: la limitazione del potere. Non
basta: il governo pone la fiducia, togliendo ogni voce al parlamento anche nella
conversione in legge. Una imposizione. Per (non) tacere del contorno di
manganellate (termine crudo, ma queste sono, non cariche di alleggerimento o
scontri) che accompagnano il percorso del decreto.
La limitazione del potere è strettamente connessa alla garanzia dei diritti
(articolo 16 della Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino,
1789): difficile trovare un caso di scuola più limpido. Un provvedimento
adottato d’autorità, espressione della concentrazione di potere nell’esecutivo,
che nel suo contenuto contrasta con diritti costituzionalmente garantiti, dalla
libertà di manifestazione del pensiero al diritto all’abitazione. È un attacco
alla democrazia come pluralista, conflittuale e sociale; corrode e nega le sue
parole.
Riprendiamone due: conflitto e uguaglianza. Conflitto. Il dissenso, la protesta,
sono criminalizzati: una stigmatizzazione culturale e simbolica ma anche
concreta, con effetti punitivi nei confronti di alcuni e dissuasivi e
intimidatori nei confronti di altri. Emblematica è la punizione del blocco
stradale compiuto con il proprio corpo (da sei mesi a due anni, se commesso da
più persone; quando mai è compiuto in solitudine?): compiranno reato i
lavoratori che escono da una fabbrica, gli studenti che attraversano le vie
della città, gli eco-attivisti che protestano per l’ambiente, esercitando i
diritti di riunione, di espressione, di sciopero. Ma l’elenco è lungo,
ricordiamo ancora almeno le aggravanti correlate alle manifestazioni o a
specifiche proteste (le grandi opere); la punizione delle condotte anche di
resistenza passiva nelle carceri e nei centri per migranti (accanimento sui
margini e sperimentazione per estensioni future).
L’uguaglianza. Da un lato, sotto il profilo dell’uguaglianza formale, vi sono le
norme discriminatorie, esplicitamente (dalla previsione dell’esibizione di un
permesso di soggiorno o di documento di identità alla revoca della cittadinanza
su presupposti differenti se la persona era in precedenza straniera) e
implicitamente (la norma sulle madri detenute che allude alle «madri rom»).
Dall’altro, vi è l’abbandono dell’orizzonte dell’uguaglianza sostanziale, con la
metamorfosi da stato sociale a stato penale. È la povertà come reato, in
coerenza con il dogma neoliberista dell’imprenditore di se stesso. Espressione
ne è l’ennesimo e ridondante reato di occupazione di immobili, che risponde con
lo strumento penale al crescente disagio abitativo, in spregio del diritto
all’abitazione che la Corte costituzionale annovera fra i diritti inviolabili,
connette alla dignità umana e considera «compito della Repubblica». E poi ci
sono i privilegi dell’autorità, il corredo di benefit per le forze di polizia
(aggravanti a loro tutela, licenza d’armi, spese legali) che raccontano di uno
Stato che si riconosce nell’ordine pubblico e non nell’istruzione, nella salute,
nell’emancipazione, nella partecipazione. La sicurezza come sicurezza dei
diritti e sociale è trasfigurata nella sicurezza come ordine pubblico (ideale),
decoro (il daspo urbano), a protezione dello stato di cose: il neoliberismo
autoritario.
Il diritto penale dell’amico chiude il cerchio del diritto penale del nemico:
amico e nemico non a caso sono espressione della logica binaria ed escludente
della guerra, non del riconoscimento dell’altro e del pluralismo propri della
democrazia; si situano nell’orizzonte dell’obbedienza e non della
partecipazione. Non sono “solo” nuovi reati. E allora non resta che dissentire e
mobilitarsi, contro il decreto sicurezza, contro l’immobilità e la paura, contro
la supina accettazione dell’esistente, in cui il decreto vuole chiudere i corpi
e il pensiero.
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Fermiamo il decreto sicurezza! Mentre alla Camera si è concluso l’iter della
conversione in legge, nelle piazze si apre una settimana di mobilitazione. La
posta in gioco è chiara: siamo di fronte a un’impostazione autoritaria, che
tende a trasformare lo Stato sociale in Stato penale e a reprimere il disagio e
il dissenso, anche ricorrendo a colpi di mano e alla mortificazione del
Parlamento.
di Livio Pepino da Volere la Luna
Il 29 maggio, il decreto sicurezza (11 aprile 2025, n. 48) è stato approvato
alla Camera, primo passo per la conversione in legge, che dovrà avvenire – pena
la decadenza – entro il 10 giugno. Parallelamente in tutta Italia si susseguono
le iniziative di protesta che culmineranno nella manifestazione nazionale del 31
maggio. Il contrasto è diventato corale ed ha visto convergere in modo inedito
con movimenti e partiti di opposizione il mondo dell’Università, le Camere
penali, il Consiglio superiore della magistratura e lo stesso sindacato
democratico della polizia. Un contrasto che ha sostituito – spiace dirlo –
l’inerzia del capo dello Stato che, pur a fronte di una chiara forzatura
istituzionale e a profili di incostituzionalità evidente, ha preferito dare il
via libera al provvedimento una volta ottenute alcune modifiche minime e su
punti importanti ma non decisivi.
Una mobilitazione così corale ha molte, concorrenti ragioni.
Sul piano del metodo il decreto, come noto, è frutto di una improvvisa
iniziativa del Governo, mentre un disegno di legge dello stesso contenuto era in
avanzato stato di discussione parlamentare. L’uso abnorme della decretazione
d’urgenza – lo hanno scritto 237 professori di diritto pubblico con parole di
inusitata durezza – ha superato, nel caso, la soglia di guardia infliggendo al
Parlamento una ferita senza precedenti «dato che l’iter legislativo, ai sensi
dell’art. 72 della Costituzione era ormai prossimo alla conclusione, quando è
intervenuto il plateale colpo di mano con cui il Governo si è appropriato del
testo e di un compito, che, secondo l’art. 77 Costituzione può svolgere solo in
casi straordinari di necessità e di urgenza, al solo scopo, sembra, di umiliare
il Parlamento e i cittadini da esso rappresentati». Il motivo di questa
intollerabile forzatura delle regole costituzionali è uno solo: l’incapacità
della maggioranza di superare le divisioni interne sul modo di rispondere alle
osservazioni del capo dello Stato e la volontà di impedire al Parlamento e al
Paese di mettere a nudo l’insostenibilità del testo proposto. Difficile non
convenire con il documento dei costituzionalisti appena citato laddove denuncia
che «il disegno complessivo tradisce un’impostazione autoritaria, illiberale e
antidemocratica, non episodica od occasionale ma mirante a farsi sistema».
Altrettanto eversivo è il merito del provvedimento. Lo strumentario utilizzato è
quello dei molti “pacchetti sicurezza” che hanno segnato la vicenda del Paese
nel nuovo secolo e che sono stati consegnati ai posteri con i nomi dei ministri
degli Interni proponenti [Maroni (23 febbraio 2009, n. 11); Minniti (17 febbraio
2017 n. 13 e 20 febbraio 2017, n. 14), Salvini (4 ottobre 2018, n. 113 e 14
giugno 2019, n. 53); Lamorgese (21 ottobre 2020, n. 130)]. Ma l’effetto è,
questa volta, molto più grave e devastante: perché il decreto incide su una
situazione già pregiudicata facendo venir meno il delicato equilibrio in atto,
perché le nuove previsioni toccano un numero rilevante di settori della vita
sociale e soprattutto per il contesto in cui il provvedimento si inserisce. La
stagione è, infatti, quella – non solo italiana – della crisi strutturale della
democrazia, sempre più incapace di dare risposta alle richieste di uguaglianza,
inclusione e partecipazione dei cittadini: una crisi che l’establishment cerca
di contenere e occultare con il primato del denaro sulle regole e con il
controllo repressivo del disagio sociale e del dissenso. È in questo contesto
che si colloca il decreto sicurezza, evidente veicolo di trasformazione dello
Stato sociale in Stato penale e di sterilizzazione delle nuove “classi
pericolose”: i migranti (considerati alla stregua di nuovi barbari), i
marginali, i ribelli.
Alcune norme lo mostrano plasticamente.
La virata verso il controllo repressivo della povertà ha un manifesto:
l’articolo 10 che introduce nel codice penale l’articolo 634 bis in forza del
quale «chiunque, mediante violenza o minaccia, occupa o detiene senza titolo un
immobile destinato a domicilio altrui o sue pertinenze, ovvero impedisce il
rientro nel medesimo immobile del proprietario o di colui che lo detiene
legittimamente, è punito con la reclusione da due a sette anni». A fronte di una
situazione abitativa esplosiva (50.000 famiglie occupanti case popolari, 100mila
sentenze di sfratto con richiesta di esecuzione e 40mila sentenze di sfratto
emesse ogni anno, secondo i dati di Federcasa) la risposta istituzionale non è
un “piano casa” per sostenere chi ne è privo ma l’aumento a dismisura della pena
per chi cerca di risolvere il problema, sia pure indebitamente, con
l’occupazione di una casa o di un alloggio. Si noti, già in precedenza
l’occupazione di edifici destinati ad abitazione era prevista come reato. La
novità è un’altra: l’aumento della pena, parificata a quella prevista
dall’articolo 589, comma 2, per l’omicidio colposo «commesso con violazione
delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro». E non basta: il
reato si estende anche a chi, «fuori dei casi di concorso nel reato, si
intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile». È la criminalizzazione dei
movimenti per la casa, al fine evidente di fare terra bruciata intorno ai
poveri.
Il cuore del decreto è, peraltro, la disciplina dei conflitti sociali.
Manifestare implica, anzitutto, scendere in piazza. Ebbene, la previsione come
reato del blocco stradale «realizzato con la mera interposizione del corpo» e la
sua punizione con la reclusione da sei mesi a due anni «quando il fatto è
commesso da più persone riunite» (cioè sempre, considerato che un blocco
stradale o ferroviario fatto da una sola persona è poco più che un’ipotesi di
scuola…) incidono direttamente e immediatamente sulla possibilità di scendere in
strada. Detto in parole povere, saranno criminalizzati, in caso di
manifestazione spontanea e priva di preavviso (ovvero vietata dal questore),
anche i dimostranti pacifici che stazionano in gruppo in strada, per esempio di
fronte ai cancelli di una fabbrica o all’ingresso di una scuola. Sarà cioè
punito il semplice assembramento (consentito solo con preavviso e in assenza di
indicazioni contrarie dell’autorità di polizia). Si noti. Il delitto di blocco
stradale era stato introdotto nel nostro sistema nel 1948 (all’inizio di una
stagione di gestione dell’ordine pubblico che avrebbe condotto, negli anni
successivi, ad oltre cento morti nel corso di manifestazioni) ma, nel 1999, era
stato depenalizzato e trasformato in illecito amministrativo, senza che ciò
avesse creato problemi di sorta nel controllo del territorio. Quasi vent’anni
dopo, con il primo decreto Salvini, è iniziato un percorso a ritroso che è oggi
completato con il ritorno alla situazione originaria. E, anche qui, non c’è solo
la criminalizzazione del blocco stradale, con tutto quel che comporta. Un
ulteriore insieme di norme attribuisce alle manifestazioni di piazza in quanto
tali una connotazione negativa, prevedendo specifiche aggravanti per i reati di
danneggiamento, resistenza o violenza a pubblico ufficiale e lesioni aggravate,
se commessi nel corso delle stesse (arrivando al paradosso di prevedere, con il
gioco delle aggravanti, una pena fino a vent’anni di reclusione per la
resistenza o violenza a pubblico ufficiale commessa «al fine di impedire la
realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica»: sic!).
Queste previsioni ribaltano addirittura, in termini di maggior repressione, la
disciplina del codice Rocco, il cui articolo 62 n. 3 prevedeva (e prevede, non
essendo mai stato abrogato) come attenuante per qualunque tipo di reato «l’avere
agito per suggestione di una folla in tumulto» (pur con il limite che «non si
tratti di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall’autorità»).
Come se non bastasse, con l’attuale decreto legge trova accesso nel nostro
sistema, per la prima volta in modo esplicito, il delitto di “resistenza
passiva” espressamente indicata come possibile modalità della “rivolta in
istituto penitenziario” e in strutture destinate all’accoglienza di migranti.
Superfluo dire che la previsione del delitto di resistenza passiva con
riferimento a una categoria di soggetti (i detenuti o i migranti “irregolari”)
considerati devianti e marginali, oltre ad essere grave in sé, introduce nel
sistema un precedente dotato di evidente capacità espansiva, che potrebbe
ripetere la (triste) esperienza del Daspo, introdotto inizialmente (con
l’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401) per una categoria marginale
come quella dei tifosi violenti e diventato negli anni uno strumento ordinario
di governo del territorio.
Per assicurare che la svolta autoritaria sia effettiva occorre ridefinire i
rapporti tra autorità e cittadini, tra l’altro aumentando i poteri e le tutele
delle forze di polizia. Il decreto legge interviene, dunque, anche su questo
punto. In particolare: gli articoli 19 e 20 prevedono consistenti aumenti di
pena per i reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale e di lesioni
quando i fatti sono commessi in danno di ufficiali o agenti di pubblica
sicurezza o di polizia giudiziaria; secondo l’articolo 22 «agli ufficiali o
agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria appartenenti alle Forze di
polizia a ordinamento civile o militare, agli appartenenti alle Forze armate e
al Corpo nazionale dei vigili del fuoco, indagati o imputati per fatti inerenti
al servizio (nonché agli eredi), che intendono avvalersi di un libero
professionista di fiducia, può essere corrisposta, anche in modo frazionato, una
somma, complessivamente non superiore a euro 10.000 per ciascuna fase del
procedimento, destinata alla copertura delle spese legali, salva rivalsa se al
termine del procedimento è accertata la responsabilità dell’ufficiale o agente a
titolo di dolo»; l’articolo 28 autorizza gli appartenenti alla polizia di Stato,
all’arma dei Carabinieri, alla Guardia di finanza, al corpo degli agenti
penitenziari e alle polizie municipali, a portare, senza licenza, un’arma
diversa da quella di ordinanza quando non sono in servizio (così consentendo
l’immissione in circolazione, potenzialmente, di circa 400.000 pistole in più
delle attuali). Il disegno è univoco. Anziché investire in formazione e
dispositivi di tutela degli operatori di polizia, si aumentano le pene per i
reati commessi nei loro confronti, si incentiva l’uso delle armi da parte loro e
se ne potenzia in modo indiscriminato il ruolo (con uno sbilanciandolo sempre
più accentuato rispetto alla posizione dei cittadini). Il risultato non sarà una
crescita democratica del paese e un miglior rapporto della polizia con la
società. Ma ciò che interessa è altro: spostare l’asse istituzionale verso gli
apparati militari e le forze di polizia, cementando alleanze tradizionali della
destra con i loro settori più corporativi e reazionari.
È ancora più chiaro, a questo punto, il senso della già citata affermazione dei
237 professori di diritto costituzionale secondo cui il disegno complessivo
sottostante al decreto «tradisce un’impostazione autoritaria, illiberale e
antidemocratica, non episodica od occasionale ma mirante a farsi sistema». Per
questo l’opposizione alla conversione del decreto legge è una battaglia di
libertà.
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La paura. La pozione magica di Giorgia Meloni, che le sta permettendo di portare
l’Italia allo sfascio, a capo di un carrozzone degli orrori.
di Tiziana Barillà
Da anni, sulla mia scrivania c’è “Sindrome 1933” . Lo leggo e lo rileggo, lo
tengo sempre sott’occhio affinché mi aiuti a non scivolare nel conformismo, o
nella resa davanti all’evidenza. «Gli incubi del passato potrebbero
ragionevolmente ripresentarsi nel prossimo futuro?», si è chiesto Siegmund
Ginzberg, autore del libro, nel 2019.
Invitando alla dovuta cautela, Ginzberg mette in fila una serie di analogie tra
l’ascesa di Hitler e l’Italia di oggi: la campagna elettorale permanente, la
sistematica ricerca di un capro espiatorio, la necessità di avere sempre un
nemico, i provvedimenti sbandierati a favore del cosiddetto “popolo” o “nazione”
(preferirebbe dire Giorgia Meloni), l’odio che avvelena la scena politica, il
gigantesco indebitamento dello Stato, la gestione demagogica delle finanze
pubbliche.
Una provocazione, forse. Ma utilissima ad allenare il cervello. Il mio cervello,
che provo ad allenare faticosamente, prosegue nell’elenco: la disuguaglianza
come legge, la giustizia come miraggio, la libertà come reato. La cronaca nera
come oppiaceo che stordisce e mette paura, che consiglia: stattene a casa, fatti
fatti tuoi, non fidarti di nessuno.
E una serie di fatti.
Primo fatto. La democratura.
Pochi giorni fa Roberto Saviano è stato attaccato da Fratelli d’Italia. Il
partito di governo, quello di Giorgia Meloni sì. Lo stesso che conta decine di
inchieste e arresti per mafie tra sindaci, vicesindaci e parlamentari. Il
partito che invoca la lotta alla criminalità organizzata a parole – mentre con i
fatti fa il contrario – attacca pubblicamente uno scrittore sotto scorta da
quasi vent’anni, per essere minacciato dalla criminalità organizzata. È normale
che un partito – per di più di governo – consideri un nemico un dissidente? No,
in una democrazia. Sì, in una democratura.
Un fatto gravissimo. E la presidente Giorgia Meloni che fa? In genere tace, ma
stavolta invece rivendica. Con un secondo post – pubblicato il giorno dopo – che
la vede in bella mostra italicamente ritoccata: “filtro ducetta”. Rivendica
stando zitta, con le dichiarazioni sguaiate della sorella Arianna – “” (il vuoto
dentro le virgolette è voluto) – e con gli squadristi in tenuta giornalistica:
Libero, il Giornale, La Verità, ecc. ecc. ecc.
Come a dire: Saviano, vuoi dissentire? Stacce.
Secondo fatto. Lo Stato di Polizia.
Di lì a poche ore, la furia della ducetta si è abbattuta su via del Tritone, a
Roma, dove per due volte uno sbarramento poliziesco ha impedito – tra scudi e
manganellate – ai manifestanti di raggiungere il Parlamento per protestare
contro il DL fascista, anche detto “Decreto sicurezza”.
Il Parlamento non ha ancora dato il voto di fiducia – l’ennesimo voto di
fiducia, ché se non si minacciano tra loro non vanno da nessuna parte – che già
ce lo fanno assaggiare a legnate. Va difeso con le botte, il Decreto Sicurezza,
perché quello che garantisce non è la sicurezza nostra ma di questo governo che
mena, minaccia, imbroglia, spadroneggia nella sua più completa incompetenza e
arroganza.
Le politiche securitarie di questo governo, nei primi due anni di governo, hanno
introdotto 48 nuovi reati e diversi aumenti di pena per un totale di 417 anni di
carcere in più nel nostro ordinamento. Ora, questo decreto, aggiunge altri 14
nuovi reati e 9 aggravanti.
Nel volto pestato di Luca Blasi sono riassunte tutte le cariche contro le piazze
che invocano democrazia. Ma il dissenso è un reato e, con il nuovo DL sicurezza,
lo è anche se pacifico. Con loro o contro di loro. E anche qui Giorgia Meloni
rivendica, e lo fa ogni giorno – a ogni occasione.
Come a dire: Volete dissentire? Statece.
Roma, 26 maggio 2025. Cariche della polizia durante la manifestazione contro il
“DL Sicurezza”.
Terzo fatto. Chi mena per primo mena due volte.
Dal primo giugno Filippo Ferri sarà il nuovo questore di Monza e Brianza.
Filippo Ferri è uno dei venticinque condannati in Cassazione nel luglio del 2012
per il massacro dei manifestanti alla scuola Diaz di Genova. La “macelleria
messicana” la chiamò qualcuno. La “macelleria italiana”, sarebbe più corretto
chiamarla.
Ferri, in particolare, è stato condannato a 3 anni e otto mesi per falso
aggravato per il massacro della scuola Diaz di Genova, nel 2001: in breve «una
volta preso atto che l’esito della perquisizione si era risolto
nell’ingiustificabile massacro dei residenti nella scuola, invece di isolare ed
emarginare i violenti denunciandoli – scrive la Cassazione – avevano scelto di
persistere negli arresti creando una serie di false circostanze».
Qualcuno li ricorderà come i “De Gennaro boys”, Ferri e gli altri, tutti, uno
dopo l’altro sono stati promossi o riciclati dal Viminale.
Un mezzo busto mussoliniano o – meglio ancora – una condanna per falso sono
medaglie al valore. Il punteggio necessario per fare carriera.
Come a dire: Chi mena pe’ primo mena du vorte.
Genova, luglio 2001. La scuola Diaz, durante la tre giorni del G8.
Quarto fatto. La cronaca nera.
Tutto questo accade, ma le tv parlano del delitto di Garlasco. L’informazione
italiana – da settimane – è schiacciata su un caso di cronaca, a sua volta
schiacciato sugli “scoop” di Fabrizio Corona. Stai sorridendo, lettore? Che
grasse risate, se non ci fosse da piangere. Soprattutto per i familiari delle
vittime di Garlasco e di ogni altro caso, tritati nell’irrazionale e disgustoso
voyeurismo dell’iperbolica cronaca nera.
Ciclicamente l’informazione è in ostaggio di un delitto irrisolto. Da sfogliare
sui giornaletti specializzati d’estate, da seguire in tv al calduccio delle
proprie case in inverno.
La paura. Eccola la pozione magica di Giorgia Meloni, che le sta permettendo di
portare l’Italia allo sfascio, a capo di un carrozzone degli orrori.
È sempre più necessario parlare, scrivere, pensare, non cedere allo scetticismo,
cercare sempre la trasformazione. E chiedere aiuto.
Come a dire: Europa, se ci sei batti un colpo.
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Fin dal suo esordio il governo della destra più destra ha inanellato
provvedimenti fortemente ideologici e identitari certo coerenti con la cultura
politica di appartenenza, a volte dal sapore solo propagandistico ma che hanno
prodotto anche pesanti conseguenze
di Micaela Bongi da il manifesto
Una manganellata in testa al portavoce della rete No dl sicurezza e assessore
municipale Luca Blasi mentre cerca di mediare tra manifestanti e poliziotti è la
rappresentazione plastica, suggello e insieme sintesi della “visione” che ispira
l’attuale governo. L’iniziale ddl è stato infilato nel tritatutto insieme a mesi
e mesi di lavori parlamentari, sostituito da un decreto che sarà approvato con
la fiducia. Manganello nelle piazze, clava nei palazzi. Prevaricazione insieme
al tentativo incessante di delegittimare l’opposizione (la «sinistra che va a
trovare i mafiosi»…), repressione del dissenso e anche del banale buon senso.
Del resto a spiegare quale sia l’urgenza che ha giustificato l’adozione di un
decreto sostituendo in corsa il disegno di legge è il capogruppo di Fratelli
d’Italia alla camera, Galeazzo Bignami, quello che – va sempre ricordato – si
vestiva da nazista: il decreto serve precisamente per reprimere manifestazioni
come quella di ieri, cioè chi contesta il governo.
E serve a riempire le carceri di ecoattivisti, lavoratori in difficoltà, senza
casa, poveri e migranti, donne preferibilmente rom con i loro bambini e bambine,
perché evidentemente per la Madre d’Italia Giorgia Meloni i diritti dei più
piccoli vengono per primi ma dipende da chi sono i genitori. E siccome secondo
un modo di dire da bulli che si addice perfettamente a questo governo «chi mena
per primo mena due volte», gli stessi “criminali” che andranno a inzeppare le
carceri saranno ulteriormente puniti se oseranno protestare anche passivamente
per le insopportabili condizioni detentive.
Cattiveria al quadrato. È il mood del momento non solo da questa parte del
civile occidente e spiega le affinità elettive tra Giorgia Meloni e altri leader
mondiali. Distinguere tra la premier che gioca in casa e quella in trasferta è
un esercizio sempre più vuoto.
Forse è invece il caso di domandarsi fino a che punto, da questa parte del
civile occidente, può spingersi senza incontrare troppi ostacoli la forzatura
istituzionale e costituzionale (quella denunciata da tanti giuristi a proposito
di questo ennesimo decreto).
Fin dal suo esordio il governo della destra più destra ha inanellato
provvedimenti fortemente ideologici e identitari certo coerenti con la cultura
politica di appartenenza, a volte dal sapore solo propagandistico ma che hanno
prodotto anche pesanti conseguenze. Dal ridicolo decreto rave al decreto Caivano
che ha moltiplicato la presenza di minori in carcere, passando per i vari
decreti Cutro e Albania. Una trama che disegna un progetto di futuro mortifero,
dove mentre ci si stracciano le vesti per il crollo della natalità si mettono
nel mirino i più giovani e i potenziali nuovi cittadini.
Il ministro della giustizia Carlo Nordio sostiene che il sovraffollamento
carcerario non è provocato dalle leggi approvate dall’attuale maggioranza ma dai
giudici che mandano le persone in carcere. È un’affermazione surreale, ma Nordio
è pur sempre il ministro e va preso sul serio. Moltiplicazione dei reati,
carceri sempre più piene, sistema giudiziario sovraccaricato e nello stesso
tempo magistratura tenuta sotto scacco. È la perversa quadratura del cerchio che
va spezzata.
> Il decreto sicurezza approda alla Camera. La polizia carica la manifestazione
> a Roma
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Approda alla Camera dei Deputati, per la conversione in legge, il decreto
sicurezza. Un «diritto penale della paura», in un quadro di populismo
securitario più orientato a una fuorviante campagna comunicativa permanente che
alla promozione di una reale incolumità e sicurezza pubblica in favore
dell’intera cittadinanza
di Giuseppe Allegri da il manifesto
Il decreto legge «sicurezza» potrebbe essere convertito proprio a ridosso dei
referendum dell’8 e 9 giugno, ma naturalmente è già in vigore in quanto
«provvisorio» provvedimento governativo con forza di legge che può essere
adottato solo «in casi straordinari di necessità e urgenza». Il contenuto è
rimasto quello del disegno di legge che da oltre un anno era oggetto di
dibattito parlamentare, criticato e contestato dall’opposizione parlamentare e
da quella sociale, radunata nella rete «A pieno regime»: dall’Arci ai movimenti
studenteschi, dagli scout all’associazionismo diffuso, agli spazi sociali, ai
sindacati.
Erano i primi di aprile, a ridosso del congresso della Lega, quando il governo
ha deciso di esautorare il parlamento e adottare il decreto per accontentare il
partito di Salvini che da tempo rivendicava maggiori interventi penali e contro
l’immigrazione. Qualche acuto osservatore manifestò il dubbio che il requisito
costituzionale per adottare il decreto – quei «casi straordinari di necessità e
urgenza» – fosse da rintracciare proprio nell’urgente necessità di legittimare
il congresso leghista. Domani il disegno di legge di conversione del decreto
approderà alla Camera, dove si presume ancora un deciso, quanto inutile,
ostruzionismo delle minoranze parlamentari, sostenute dalla piazza. Anche
facendo leva sull’appello di oltre 250 docenti universitari di diritto pubblico
riguardo i «gravissimi motivi di incostituzionalità», formali e sostanziali,
presenti nel testo. Il punto critico sta proprio nell’intervento sull’allarme
sociale riguardante la condizione di insicurezza percepita e vissuta dalle
persone impaurite e impoverite, con un abuso di giustizialismo penale verso
tutte le forme di dissenso e contro la parte più marginale delle nostre
affaticate e rancorose società.
Il decreto «sicurezza» sacrifica infatti qualsiasi dialogo e mediazione per
introdurre una dozzina di nuovi reati, con l’aggravamento di fattispecie già
previste verso soggetti che rischiano di delinquere in (seguito al trovarsi in)
condizioni di vulnerabilità o fragilità sociale, colpendo l’accattonaggio dei
mendicanti, la condizione di migranti e senza fissa dimora, quindi aumentando
misure cautelari e detentive per «donne incinte o madri di prole di età
inferiore a un anno o a tre anni» che delinquono. Con l’obiettivo di intervenire
contro reati certamente odiosi come scippi e rapine, utilizzando però una sorta
di diritto penale dei marginali, alla ricerca mediatica e immediata di una pena
detentiva dal sapore di vendetta nei confronti di quella microcriminalità
diffusa, da dare in pasto all’avvelenata comunicazione social.
Il decreto prosegue inasprendo le pene anche contro chi manifesta pubblicamente
e pacificamente il proprio dissenso e contro forme di protesta non violente e
soggettivamente faticose come la resistenza passiva in un eventuale sciopero
della fame negli istituti penitenziari, o nei centri di trattenimento per
migranti. Così, «in nome della (tanto sbandierata) sicurezza si finisce per
creare maggiore marginalità e, di conseguenza, più insicurezza per la
collettività. Un esempio paradigmatico di populismo penale e di ricorso allo
strumento penale ispirato alla logica amico/nemico ed al diritto penale del
nemico», per citare le parole utilizzate da Ivan Salvadori, docente di diritto
penale presso a Verona, ospitate in un articolo pubblicato nella storica rivista
Polizia e Democrazia (n. 1/2025).
De sempre su quelle pagine si nota come la previsione di autorizzare i circa
300mila agenti di pubblica sicurezza, quando non sono in servizio, a portare
senza licenza alcune tipologie di armi, anche diverse da quelle in dotazione,
«possa incrementare l’insicurezza pubblica», visto che queste armi potrebbero
finire in mani sbagliate (per furti, incidenti domestici…), o alimentare il
rischio di una giustizia fai da te, con un uso illecito o pericoloso da parte
degli stessi agenti.
Siamo quindi dinanzi a un decreto che sembra coniugare una mentalità da
giustizieri law and order con una sorta di «diritto penale della paura», in un
quadro di populismo securitario più orientato a una fuorviante campagna
comunicativa permanente che alla promozione di una reale incolumità e sicurezza
pubblica in favore dell’intera cittadinanza. Una problematica in parte segnalata
da una persona di grande esperienza nella gestione dell’ordine pubblico, come
Franco Gabrielli, ex capo della polizia di stato, quando affermò di non
condividere molte delle scelte del ministro dell’interno Piantedosi «che hanno
un’impronta eccessivamente securitaria, come questa proliferazione dei reati e
di inasprimento delle pene, peraltro in un sistema nel quale ormai siamo al
collasso».
Si tratta di critiche provenienti da mondi e soggetti con grande esperienza e
impegno nella promozione di un autentico ordine pubblico repubblicano e
democratico, capace di bilanciare libertà e sicurezza, eppure non riescono a
trovare cittadinanza nel dibattito intorno alla conversione in legge di questo
decreto, soffocato dalla maggioranza di governo. Per questo si dovrebbe
utilizzare il poco tempo ancora a nostra disposizione per tentare l’intentato:
tornare a far dialogare la garantistica visione di una democrazia costituzionale
per la sicurezza sociale, con il protagonismo di quella porzione di società
attiva per l’estensione di diritti, libertà e doveri di solidarietà politica,
economica e sociale, che la nostra Costituzione repubblicana promuove tra i
principi fondamentali. Prima che sia troppo tardi e che il «decreto paura»
divenga legge dello stato, rendendoci tutti ancora più insicuri e incattiviti.
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Il «voto è la nostra rivolta» è lo slogan della campagna referendaria. È il voto
e il suo senso oltre. È lotta la campagna referendaria, con i suoi incontri di
approfondimento, i banchetti nelle piazze, i volantini nei mercati
di Alessandra Algostino da il manifesto
Il «voto è la nostra rivolta» è lo slogan della campagna referendaria. È il voto
e il suo senso oltre. È lotta la campagna referendaria, con i suoi incontri di
approfondimento, i banchetti nelle piazze, i volantini nei mercati, che
esprimono partecipazione, creano consapevolezza e innestano vitalità nel terreno
inaridito di una democrazia in scivolamento verso l’autocrazia. È ribellione
allo stato di cose, agitare i principi costituzionali sottesi ai quesiti:
dignità, emancipazione, partecipazione.
Oltre i voti, conta il rinvigorimento della democrazia che la campagna attiva;
conta porre sul terreno materiale del possibile parole – dignità, emancipazione,
partecipazione – che si vorrebbero relegate nel mondo delle illusioni di un
iperuranio senza speranza; conta riportare sulla scena l’esistenza del conflitto
e agire il conflitto.
Il voto in sé è strumento di democrazia, una delle forme della democrazia.
Sottolineo una, perché nell’era dell’oscuramento autoritario del dissenso – e
nei giorni della conversione del decreto legge sicurezza – è necessario ribadire
che la democrazia vive attraverso l’esercizio dei diritti, il pensiero critico e
le mobilitazioni sociali; nonché – e qui entra in gioco il lavoro – la
declinazione come sociale.
Come strumento di democrazia dovrebbe essere “spinto” dalle istituzioni e non
oggetto di inviti all’astensione e di un pesante “silenzio di Stato”.
Il referendum stimola e critica le istituzioni, in senso contro-maggioritario; è
una forma di controllo popolare (Terracini); è strumento di raccordo fra società
e circuito politico-rappresentativo: costringe i partiti «a un maggiore contatto
col popolo per problemi concreti» (Mortati). Nell’odierno interregno
contrassegnato da asfissia, esautoramento, incapacità, della rappresentanza e
dei partiti, di connettere società e istituzioni, di dare risposte a
rivendicazioni, problemi e conflitti che attraversano la società, esercita una
funzione di supplenza.
Non solo. Il referendum, se e quando nasce dal basso – altro discorso sono i
pronunciamenti plebiscitari – ha un suo valore a prescindere dal rapporto con la
rappresentanza, esprime «effettiva partecipazione» (art. 3 della Costituzione).
Lungi dalla sirena populista del «dare la voce al popolo» è concretizzazione di
sovranità popolare; è partecipazione.
La partecipazione della Costituzione è esigente, richiede persone liberate e
libere nello spazio politico, come in quelli economico e sociale: ed è il lavoro
il trait d’union tra i vari profili della democrazia. Un lavoro degno, quella
dignità che costruisce il senso del lavoro come emancipazione e segna la
distanza dal lavoro come merce; in coerenza con la Costituzione dalla parte dei
lavoratori, non dell’estrazione di profitto. È questo lavoro, strutturalmente
unito a dignità ed emancipazione, a costituire il fondamento della Repubblica.
I quattro quesiti sul lavoro, nel rivendicare la dignità, nella tutela contro i
licenziamenti come nella sicurezza sul lavoro e nel rifiuto della precarietà,
sono un atto di ribellione contro i tempi moderni della deregolamentazione, del
contratto aziendale, dei subappalti, dei diritti flessibili, della falsa libertà
delle partite Iva e della schiavitù delle piattaforme digitali.
Ancora: ragionare di lavoro dignitoso, sicuro, emancipante, ci ricorda come
intorno al lavoro vi sia un conflitto, che non coincidono gli interessi del
lavoratore e gli interessi del capitale, che esiste una lotta di classe condotta
dall’alto. E il conflitto – contro le velleità odierne di negarlo,
neutralizzarlo, sterilizzarlo – è elemento strutturale della democrazia. Anche
qui sta il senso della Repubblica fondata sul lavoro.
L’orizzonte dei diritti, della dignità, della partecipazione connette lavoro e
cittadinanza. La cittadinanza evoca liberazione ed eguaglianza; indica la
compartecipazione a una comunità di diritti e doveri. Ma la cittadinanza è anche
barriera tra un “noi” e un “loro”; è lo status giuridico che trasfigura i
diritti della persona in diritti del cittadino; spezza l’universalità dei
diritti; perimetra l’esclusione. E allora si apre il terreno di discriminazione
dell’altro, dello straniero, sino alla sua disumanizzazione,
all’esternalizzazione delle frontiere, alla delocalizzazione della tortura e ai
confini che uccidono.
Il referendum sulla cittadinanza è un piccolo passo, molto piccolo: la
cittadinanza resta concessione e non diritto, l’universalità dei diritti non
vince sulla cittadinanza; ma è un segnale controcorrente, nell’era del
nazionalismo etno-identitario e del genocidio degli “eccedenti”.
Cinque referendum che riportano sulla scena quattro parole: dignità,
emancipazione partecipazione, conflitto, parole della democrazia, parole per una
lotta quotidiana, per aprire crepe nell’esistente, per attivare anticorpi contro
l’infestazione neoliberista, verso un altro e un oltre possibile.
*************
Riflessioni critiche sul referendum, per dire 5 SI
Domenica 8 e lunedì 9 giugno si terranno 5 referendum abrogativi. Quattro
quesiti mirano ad abrogare alcune delle norme introdotte con il “Job Act” di
Renzi tra il 2014 e il 2016, mentre il quinto Si servirebbe a dimezzare il
periodo necessario all’ottenimento della cittadinanza per coloro non nati in
Italia da 10 a 5 anni.
di InfoAut
Contesto
I primi quattro quesiti sono stati promossi dalla CGIL mentre il quesito sulla
cittadinanza dai “radicali” e Rifondazione comunista, nonché da numerose
associazioni della società civile.
Il primo quesito propone di abrogare la disciplina vigente che impedisce, nelle
imprese con più di 15 dipendenti, di reintegrare lavoratori o lavoratrici
licenziati in modo illegittimo, se questi sono stati assunti a partire dal 7
marzo 2015, anche nel caso in cui il giudice dichiari ingiusta, o infondata,
l’interruzione del rapporto.
Quindi, in caso di vittoria del si, il giudice potrà reintegrare il/la
lavoratore/trice sul posto di lavoro, limitando i licenziamenti arbitrari.
Il secondo quesito propone di abrogare la disciplina vigente che impone un
limite all’indennità per i lavoratori e le lavoratrici licenziati in modo
illegittimo nelle piccole imprese (con meno di 15 dipendenti), dove in tali casi
si può ricevere un risarcimento massimo pari a sei mesi di stipendio, anche nel
caso in cui il giudice dichiari ingiusta e infondata l’interruzione del
rapporto.
Quindi, il giudice potrò decidere ammontare risarcimento.
Il terzo quesito propone di abrogare alcune delle regole vigenti sull’utilizzo
dei contratti a termine, che li rendono stipulabili fino a 12 mesi senz’alcun
obbligo di causali che giustifichino il lavoro temporaneo da parte del datore di
lavoro, nemmeno in un eventuale giudizio.
Quindi, ogni contratto a termine dovrà sin dal principio specificare una
motivazione valida e verificabile del rapporto a tempo determinato.
Il quarto quesito propone di abrogare la norma vigente che stabilisce la
responsabilità solidale (parziale) di committente, impresa appaltante e
subappaltatori negli infortuni sul lavoro. Nel caso in cui il referendum venisse
approvato, la responsabilità di tali infortuni verrebbe estesa anche al
committente, che dovrebbe quindi risarcire i danni subiti dai lavoratori anche
se derivanti da rischi specifici dell’attività produttiva delle imprese
appaltanti o dei subappaltatori.
Quindi, il committente sarà sempre corresponsabile in caso di infortuni sul
lavoro.
Il quinto quesito propone il dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza
legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta
di concessione della cittadinanza italiana. Abrogazione relativa della Legge 91
del 1992.
Riflessioni
Sulla bontà politica di questi quesiti, nonostante la loro parzialità e
remissività, crediamo ci sia poco da dire. Qualsiasi campagna che promuova
maggiori tutele, sicurezza e dignità alla condizione delle lavoratrici e dei
lavoratori, così come un qualche miglioramento per quelle milioni di persone che
vivono il razzismo strutturale ed istituzionale legato alla gerarchizzazione
della popolazione ci ha trovato, ci trova e ci troverà pronti ad aderire.
Inoltre è importante sottolinere lo sforzo di molte realtà politiche
autorganizzate per il raggiungimento del quorum per quanto riguarda il quesito
sull’ottenimento della cittadinanza.
A differenza di chi si accontenta di tornate elettorali e/o referendarie
relegando la piazza ed il conflitto a corredo novecentesco di testimonianza,
crediamo sia miope escludere alcuna freccia dal nostro arco.
Negli ultimi 15 anni, ci sono state alcune tornate referendarie che hanno
coagulato momenti di rigidità popolare che erano espressione delle lotte o per
lo meno un momento per contare contro le restrutturazioni neoliberiste volute
dai vari governi. No al nucleare, no alla svendita dell’acqua pubblica
(ugualmente avvenuta, nonostante la “vittoria”), no alle trivelle, no alla
riforma costituzionale di Renzi.
Ci siamo spesi, a volte più a volte meno in base al contesto, ma più spesso alle
forze disponibili, per contribuire al rispedire al mittente mercificazione,
sfruttamento, politiche ecocide e svolte in favore del potere esecutivo, senza
tuttavia mai crogiolarci in vittorie limpidamente effimere e reattive.
Mettersi qui a fare la lista dei disastri e degli errori strategici della CGIL
dalla crisi del 2008 ad oggi consumerebbe troppi megabyte immagazzinati in
server energivori e sarebbe un esercizio retorico che non ci appartiene.
Tuttavia, nel nostro aderire a votare 5 si, qualcosa è necessario dirla.
Abbiamo davanti, e non a fianco, un sindacato imbelle che nella sua relazione
contorta con uno schizofrenico PD scommette tutto su questa tornata
referendaria. In linea con la tradizione del cosiddetto centro-sinistra, si
scommette tutto su una partita elettorale molto difficile, esponendo il loro
fianco, ma purtroppo quello di tutti ad un rafforzamento contingente
dell’attuale esecutivo.
Un esecutivo abbastanza furbo e nemmeno troppo cripticamente antidemocratico,
che ha posto i referendum durante il secondo turno (ballottaggi) delle elezioni
comunali e regionali e che invita apertamente a non andare a votare per non
raggiungere il quorum.
Mentre Landini, Schlein e Conte fanno i finti tonti gridando allo scandalo sul
boicottaggio del governo, su queste colonne è ridondante sottolineare che a
questo ordine parlamentare della “democrazia”, nemmeno quella formale, non
importa proprio niente.
Il PD che ha emanato il “Job Act”, oggi fa campagna, solo in una sua parzialità,
per abolirlo. Cosa dovremmo dire?
Alla CGIL, forse qualche parola in più. Un breve ripassino perché la coerenza e
la lotta pagano in politica e contrariamente alla vulgata di una certa
intellighèntsia di sinistra, chi lavora, ossia tutti tranne loro, la memoria ce
l’ha.
All’epoca del misfatto, la CGIL della Camusso portò avanti una campagna ridicola
rispetto all’entità dell’ennesimo attacco alle condizioni di vita materiale di
chi lavora in questo paese. Passarono un autunno terrorizzati da tutto ciò che
gli era a “sinistra”.
Le mobilitazioni messe in campo dal sindacato furono tutte volte a depotenziare
il conflitto e la reale messa in discussione del job act, agendo apertamente
contro le lotte, che dal basso spingevano per dare battaglia, non solo nella
retorica e nei salotti televisivi. Le lotte e i cortei autorganizzati e autonomi
che dai posti di lavoro e dal mondo della formazione si muovevano, furono
oggetto degli attacchi della sinistra istituzionale e dei sindacati, spesso
propinandoci la solita vecchia solfa degli infiltrati. Da nord a sud, salvo
poche eccezioni, tutte le piazze in cui si diede del conflitto contro la riforma
del lavoro dovettero affrontare manganelli e aule giudiziarie contando solo
sulle proprie forze.
Infine, peggio del nulla la beffa. Un temibilissimo sciopero generale di 8 h
convocato il 12 dicembre del 2014 lanciato dalla CGIL quando la legge era già
passata, scoraggiò chiaramente la precedente ampia partecipazione dell’autunno
di quell’anno.
Insomma, qualcun* nel sindacato prima o poi si vorrà assumere la responsabilità
di essere stati così “responsabili” e tranquilli?
Le lotte dei migranti e dei giovani e delle giovani di seconda e terza
generazione si sono sviluppate in questi anni in autonomia e troppo spesso con
l’avversione della sinistra istituzionale e dei sindacati confederali. Oggi
agevolare l’otteniamento della cittadinanza sarebbe ossigeno prezioso per le
vite di migliaia di persone che vivono stabilmente in Italia. Va sottolineato
che si tratta di una lieve modifica a uno tra i molti requisiti, come la soglia
minima di reddito o la discrezionalità della decisione da parte delle
commissione sulla base della condotta e delle relazioni personali della persona,
di una legge fondata sul razzismo istituzionale di cui lo stato in cui viviamo è
pregno. Razzismo istituzionale che le lotte combattono quotidianamente,
opponendosi ai cpr, allo sfruttamento del lavoro immigrato e quello abitativo.
La crisi produttiva e demografica del paese verrà ancora caricata sulle spalle
di chi è costretto alla catena di questo lavoro sempre più duro e sfruttato.
Nessuna disillusione quindi, ma la tenace convizione che siano le lotte dal
basso a determinare le conquiste non il contrario.
Oggi, dopo una disastrata decade, si torna a parlare dell’infame riforma del
lavoro di Renzi.
Nel frattempo, le nostre vite sono state costellate dall’approfondimento della
crisi climatica, dall’impotenza davanti ad un genocidio, alla guerra incombente,
dallo smantellamento di qualsiasi forma di welfare e redistribuzione. Dieci anni
dopo, la torsione mortifera del capitalismo contemporaneo riesce addirittura a
rendere apparentemente meno impellente la lotta per la riappropriazione della
ricchezza, per emanciparsi dal lavoro, per renderlo giusto, dignitoso, necessità
e non costrizione.
Ogni formazione partitica e sindacale coltiva il proprio orto, dal disorientato
già citato PD ai 5S ai quali non manca il fegato di non schierarsi a favore del
referendum sulla cittadinanza. Landini e la CGIL puntavano più in alto, sperando
che tra i quesiti vi potesse essere anche quello sull’autonomia differenziata,
questione che avrebbe permesso di portare maggiormente alle urne l’astensionista
sud d’Italia. Tutti a fare calcolini mentre il mondo va a rotoli e a chiamare
ipocritamente le forze sociali alla responsabilità e alla promozione di queste
campagne.
Noi ci siamo, coerenti con quanto fatto in quell’autunno del 2014. Per queste
ragioni invitiamo tutti e tutte a dare il loro contributo per poter raggiungere
il quorum e ad andare a votare per questo referendum. Coscienti che questa è
solo una piccola parte della più generale lotta dal basso che anima
l’opposizione sociale nel nostro paese oggi.
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Durante il regime fascista, nel carcere di San Vittore Antonio Gramsci aveva
diritto a otto libri la settimana. Nei giorni scorsi il carcere di Sassari
Bancali ha vietato ad Alfredo Cospito l’acquisto di un testo sui vangeli
apocrifi, uno di fisica quantistica e due di fantascienza
di Marco Sommariva*
Su un articolo di Frank Cimini ho letto che ad Alfredo Cospito, anarchico
detenuto al 41bis, è stato vietato l’acquisto di quattro libri: un testo sui
vangeli apocrifi, uno di fisica quantistica e due di fantascienza.
Scrive Cimini: “La direzione del carcere di Sassari Bancali ne ha vietato
l’acquisto […] adducendo un parere negativo dell’autorità giudiziaria che non vi
sarebbe stato secondo i difensori, i quali hanno presentato ricorso. Sarà
celebrata un’udienza per stabilire se Cospito può avere quei libri perché
evidentemente la giustizia ha tempo da perdere”.
Spiega l’avvocato di Alfredo Cospito, Flavio Rossi Albertini: “Nell’ultimo
mese a Cospito era stato negato pure l’acquisto di un cd musicale. Era stato
negato l’accesso alla biblioteca del carcere che non aveva neppure provveduto a
ritirare tempestivamente un pacco inviatogli dalla sorella, determinandone il
rinvio al mittente”.
Cimini ci mette anche al corrente che in “relazione all’accesso alla biblioteca
la direzione della prigione spiegava che il «disguido» era stato generato da
problemi organizzativi interni e che sarebbe stato emesso apposito ordine di
servizio. Le condizioni di detenzione di Cospito ristretto al 41bis sono
peggiorate non proprio per caso dopo la condanna in primo grado per rivelazione
del segreto d’ufficio del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle
Vedove per la vicenda delle intercettazioni ambientali divulgate in Parlamento,
delle conversazioni tra Alfredo e gli altri reclusi che all’epoca facevano parte
del «gruppo di socialità»”.
In un’edizione elettronica a cura dell’International Gramsci Society, delle
Lettere dal carcere 1926-1937 di Antonio Gramsci, in una missiva inviata dal
leader comunista a Tatiana Schucht – insegnante e traduttrice russa da tutti
chiamata Tania, cognata e figura centrale nella biografia del filosofo e
politico italiano durante la sua prigionia, elemento di collegamento tra
Gramsci, il partito e la famiglia d’origine – leggo questo passaggio: “Carissima
Tania […] Ricevo durante il giorno cinque giornali quotidiani: Corriere, Stampa,
Popolo d’I., Giornale d’I., Secolo. Sono abbonato alla biblioteca, con doppio
abbonamento e ho diritto a 8 libri la settimana. Compro ancora qualche rivista e
«Il Sole», giornale economicofinanziario di Milano. Così leggo sempre. Ho letto
già i Viaggi di Nansen e altri libri di cui ti parlerò un’altra volta” – il
passaggio è testuale, ovviamente, compreso il termine “economicofinanziario”
tutto attaccato e le abbreviazioni.
Prima di trarre conclusioni sui due episodi avvenuti a circa un secolo di
distanza, per correttezza preciso che la lettera in questione si riferisce a un
momento in cui Gramsci si trovava nel carcere di San Vittore in attesa di
giudizio e non al periodo della carcerazione vera e propria, dopo la condanna
definitiva… durante quegli anni, dalla fine del 1928 alla fine del 1933, quando
per la sue condizioni di salute verrà trasferito in una clinica, sempre in
regime di detenzione, ci furono periodi in cui poteva leggere i quotidiani e
altri no… in ogni caso, però, aveva sempre la possibilità, oltre che di accedere
alla biblioteca del carcere, di ricevere dall’esterno libri e riviste, che però
prima di venirgli concesse in lettura, dovevano passare il vaglio del direttore
del carcere, che in alcuni casi glieli negava… dal febbraio 1929, infine,
ottiene la possibilità di tenere in cella il necessario per scrivere.
Terminata questa doverosa precisazione, credo sia importante ragionare un po’
sulle differenze fra il trattamento a cui è stato sottoposto sottoposto Antonio
Gramsci dall’allora dittatura fascista e quello riservato ad Alfredo Cospito
dall’attuale governo democratico.
Probabilmente ha ragione Frank Cimini quando scrive: “Alfredo Cospito sta
continuando a pagare sulla propria pelle il lunghissimo sciopero della fame per
protestare contro il 41bis non solo e non tanto per sé ma per gli altri 700
detenuti ai quali viene applicato. Le simpatie suscitate dal digiuno avevano
messo in imbarazzo il sistema che da allora si sta vendicando. Era stato
considerato una sorta di sciopero della fame «a scopo di terrorismo». La storia
dei libri negati è solo l’ultimo episodio di una lunga serie”.
Di certo, sono d’accordo con lui quando conclude che “negare la possibilità di
leggere rappresenta una tortura ulteriore” e che i libri sono pericolosi; non
sarà di sicuro un caso se, negli anni ’70, un bambino pare sia giunto a spiegare
così l’arresto del padre «terrorista»: “Aveva troppi libri in casa”.
Chiudo ricordando quanto scriveva il reazionario – pensa te! – Ray Bradbury in
uno dei suoi capolavori, il romanzo Fahrenheit 451 pubblicato nel 1953: “[…] un
libro è un fucile carico, nella casa del tuo vicino. Diamolo alle fiamme!
Rendiamo inutile l’arma. Castriamo la mente dell’uomo. Chi sa chi potrebbe
essere il bersaglio dell’uomo istruito?”.
Altro non aggiungerei.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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Invece di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, lo stato li
crea, colpendo in modo sproporzionato le categorie più vulnerabili della
società.
di Nicola Canestrini da il dubbio
Negli ultimi anni, in molti ordinamenti democratici anche europei, si è
assistito a un incremento dell’adozione di misure legislative che privilegiano
un approccio securitario e populista, attribuendo un potere crescente alle forze
dell’ordine e al contempo restringendo diritti e libertà fondamentali. In
Italia, la legislatura attuale ha consolidato questa tendenza con l’introduzione
di nuove fattispecie penali, l’inasprimento delle pene e la marginalizzazione di
specifiche categorie sociali.
Non si tratta di una legittima messa in opera di un programma politico, che ha
del resto trovato legittimazione nel risultato elettorale, ma di un attentato ai
diritti fondamentali, secondo una logica sottostante che pare essere quella
della cosiddetta “legislazione del nemico”, un approccio che non solo crea
categorie di persone percepite come pericolose, ma le trasforma in bersagli
prioritari per l’azione punitiva dello Stato.
Il concetto di “legislazione del nemico”, teorizzato da Gunther Jakobs, si basa
sull’idea che alcuni individui, a causa della loro percepita pericolosità,
perdano la loro qualifica di soggetti di diritto e vengano trattati
esclusivamente come oggetti di prevenzione o repressione. Nel caso italiano,
questa logica ha trovato un esempio paradigmatico nel cosiddetto decreto
Anti-rave (Dl 162/2022), che introduce il reato di “invasione di terreni o
edifici per raduni pericolosi”.
La norma, originariamente presentata per contrastare i rave party, definisce in
termini ampi e vaghi le situazioni che configurano il reato, rendendo possibile
la sua applicazione a manifestazioni politiche e sociali e criticata da giuristi
e organizzazioni per i diritti umani per la sua potenziale incompatibilità con
il diritto alla libertà di riunione (articolo 17 della Costituzione). Il decreto
non solo amplia il controllo dello Stato su eventi privati, ma legittima un
approccio punitivo a scapito di soluzioni preventive e dialogiche, e senza
affrontare i problemi sottesi, che vengono semplicemente rimossi (recte: risolti
tramite criminalizzazione).
La preoccupante tendenza emerge in maniera ancora più evidente in alcune norme
dell’ennesimo, recente decreto cosiddetto sicurezza, che accentuano la
criminalizzazione di determinate categorie sociali, come migranti, giovani delle
periferie e minorenni, e attivisti politici (sgraditi al potere), donne
detenute. Insomma: lo Stato, lungi dall’intervenire rimuovendo gli ostacoli di
ordine economico e sociale, che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei
cittadini e impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e
sociale del Paese (come imposto dall’articolo 3 della Costituzione), crea
ostacoli, colpendo in modo sproporzionato le categorie più vulnerabili della
società. Queste norme, più che garantire la sicurezza, alimentano un senso di
esclusione e ostilità nei confronti di chi già vive ai margini della società.
Un esempio? Si pensi alle norme sulle zone rosse, una delle ultime iniziative
d’effetto per limitare l’accesso a determinate aree urbane a individui “con
atteggiamenti” (?) pericolosi o molesti, violano palesemente il diritto alla
libertà di circolazione sancito dall’articolo 16 della Costituzione italiana.
Queste misure non sono basate su condanne penali, ma su mere segnalazioni o
peggio ipotesi predittive, lasciando ampi margini di discrezionalità alle
autorità di polizia. Il ddl 1160 – come altre norme, annunciate o varate –
prevede un significativo rafforzamento dei poteri delle forze dell’ordine, in un
contesto che già vede un crescente squilibrio tra le autorità statali e i
diritti dei cittadini.
L’incremento dei poteri discrezionali delle forze dell’ordine, già evidente
nelle misure di prevenzione come l’avviso orale o le cosiddette misure rosse,
pur ampiamente festeggiate dai politici della maggioranza, si traduce in una
crescente asimmetria tra Stato e cittadini, minando il principio di uguaglianza
davanti alla legge.
Una delle caratteristiche distintive della “legislazione del nemico” è la
criminalizzazione del dissenso politico e sociale. Il governo e la sua
maggioranza si sono distinti nel pensare a norme che colpiscono duramente
manifestazioni, proteste e occupazioni, ampliando la portata delle fattispecie
penali e aumentando le pene. Si è addirittura pensato di concepire un reato di
“rivolta negli istituti penitenziari e nei centri di detenzione per migranti”
punendo anche la resistenza passiva (!) con pene fino a 5 anni di reclusione,
tralasciando invece completamente le cause delle proteste (senza curarsi nemmeno
dei numeri drammatici di suicidi fra detenuti e personale penitenziario). Si
tratta di disposizioni solo apparentemente giustificate da ragioni di ordine
pubblico, che invece limitano de facto diritti costituzionali, ivi compreso
quello di manifestazione del pensiero, definito nel 1969 “pietra angolare del
sistema democratico” dalla Corte costituzionale, riducendo lo spazio per il
dissenso e intimidendo i cittadini che intendono esercitare i propri diritti
costituzionali.
La “legislazione del nemico” non è soltanto una minaccia per i diritti
individuali, ma pone un rischio sistemico per la democrazia. L’introduzione di
misure straordinarie, spesso giustificate da emergenze reali o percepite, mina i
principi fondamentali dello Stato di diritto, come la presunzione d’innocenza,
la separazione dei poteri e il diritto a un equo processo. Il frequente ricorso
alla decretazione d’urgenza, o lo strangolamento del dibattito pubblico e/o
parlamentare, impedisce un dibattito democratico informato e concentrano il
potere decisionale nelle mani dell’Esecutivo. Questa pratica, oltre a indebolire
il ruolo delle istituzioni rappresentative, riduce la trasparenza e la
legittimità delle decisioni legislative.
Inoltre, la creazione di nuove fattispecie penali e l’inasprimento delle pene,
senza un adeguato bilanciamento con politiche di inclusione e prevenzione,
rischiano di trasformare il sistema penale in uno strumento di controllo
sociale, piuttosto che di giustizia. Per contrastare la crescente tendenza alla
deriva autoritaria, è necessario riaffermare i principi di proporzionalità,
uguaglianza e giustizia sociale, promuovendo politiche che affrontino le cause
profonde del disagio sociale e della criminalità, piuttosto che limitarsi a
reprimerne gli effetti. Solo attraverso un rafforzamento delle garanzie
costituzionali e dei diritti fondamentali, con un ritorno a una visione
inclusiva della società, sarà possibile preservare la coesione sociale e la
dignità di ogni individuo.
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