Durante il regime fascista, nel carcere di San Vittore Antonio Gramsci aveva
diritto a otto libri la settimana. Nei giorni scorsi il carcere di Sassari
Bancali ha vietato ad Alfredo Cospito l’acquisto di un testo sui vangeli
apocrifi, uno di fisica quantistica e due di fantascienza
di Marco Sommariva*
Su un articolo di Frank Cimini ho letto che ad Alfredo Cospito, anarchico
detenuto al 41bis, è stato vietato l’acquisto di quattro libri: un testo sui
vangeli apocrifi, uno di fisica quantistica e due di fantascienza.
Scrive Cimini: “La direzione del carcere di Sassari Bancali ne ha vietato
l’acquisto […] adducendo un parere negativo dell’autorità giudiziaria che non vi
sarebbe stato secondo i difensori, i quali hanno presentato ricorso. Sarà
celebrata un’udienza per stabilire se Cospito può avere quei libri perché
evidentemente la giustizia ha tempo da perdere”.
Spiega l’avvocato di Alfredo Cospito, Flavio Rossi Albertini: “Nell’ultimo
mese a Cospito era stato negato pure l’acquisto di un cd musicale. Era stato
negato l’accesso alla biblioteca del carcere che non aveva neppure provveduto a
ritirare tempestivamente un pacco inviatogli dalla sorella, determinandone il
rinvio al mittente”.
Cimini ci mette anche al corrente che in “relazione all’accesso alla biblioteca
la direzione della prigione spiegava che il «disguido» era stato generato da
problemi organizzativi interni e che sarebbe stato emesso apposito ordine di
servizio. Le condizioni di detenzione di Cospito ristretto al 41bis sono
peggiorate non proprio per caso dopo la condanna in primo grado per rivelazione
del segreto d’ufficio del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle
Vedove per la vicenda delle intercettazioni ambientali divulgate in Parlamento,
delle conversazioni tra Alfredo e gli altri reclusi che all’epoca facevano parte
del «gruppo di socialità»”.
In un’edizione elettronica a cura dell’International Gramsci Society, delle
Lettere dal carcere 1926-1937 di Antonio Gramsci, in una missiva inviata dal
leader comunista a Tatiana Schucht – insegnante e traduttrice russa da tutti
chiamata Tania, cognata e figura centrale nella biografia del filosofo e
politico italiano durante la sua prigionia, elemento di collegamento tra
Gramsci, il partito e la famiglia d’origine – leggo questo passaggio: “Carissima
Tania […] Ricevo durante il giorno cinque giornali quotidiani: Corriere, Stampa,
Popolo d’I., Giornale d’I., Secolo. Sono abbonato alla biblioteca, con doppio
abbonamento e ho diritto a 8 libri la settimana. Compro ancora qualche rivista e
«Il Sole», giornale economicofinanziario di Milano. Così leggo sempre. Ho letto
già i Viaggi di Nansen e altri libri di cui ti parlerò un’altra volta” – il
passaggio è testuale, ovviamente, compreso il termine “economicofinanziario”
tutto attaccato e le abbreviazioni.
Prima di trarre conclusioni sui due episodi avvenuti a circa un secolo di
distanza, per correttezza preciso che la lettera in questione si riferisce a un
momento in cui Gramsci si trovava nel carcere di San Vittore in attesa di
giudizio e non al periodo della carcerazione vera e propria, dopo la condanna
definitiva… durante quegli anni, dalla fine del 1928 alla fine del 1933, quando
per la sue condizioni di salute verrà trasferito in una clinica, sempre in
regime di detenzione, ci furono periodi in cui poteva leggere i quotidiani e
altri no… in ogni caso, però, aveva sempre la possibilità, oltre che di accedere
alla biblioteca del carcere, di ricevere dall’esterno libri e riviste, che però
prima di venirgli concesse in lettura, dovevano passare il vaglio del direttore
del carcere, che in alcuni casi glieli negava… dal febbraio 1929, infine,
ottiene la possibilità di tenere in cella il necessario per scrivere.
Terminata questa doverosa precisazione, credo sia importante ragionare un po’
sulle differenze fra il trattamento a cui è stato sottoposto sottoposto Antonio
Gramsci dall’allora dittatura fascista e quello riservato ad Alfredo Cospito
dall’attuale governo democratico.
Probabilmente ha ragione Frank Cimini quando scrive: “Alfredo Cospito sta
continuando a pagare sulla propria pelle il lunghissimo sciopero della fame per
protestare contro il 41bis non solo e non tanto per sé ma per gli altri 700
detenuti ai quali viene applicato. Le simpatie suscitate dal digiuno avevano
messo in imbarazzo il sistema che da allora si sta vendicando. Era stato
considerato una sorta di sciopero della fame «a scopo di terrorismo». La storia
dei libri negati è solo l’ultimo episodio di una lunga serie”.
Di certo, sono d’accordo con lui quando conclude che “negare la possibilità di
leggere rappresenta una tortura ulteriore” e che i libri sono pericolosi; non
sarà di sicuro un caso se, negli anni ’70, un bambino pare sia giunto a spiegare
così l’arresto del padre «terrorista»: “Aveva troppi libri in casa”.
Chiudo ricordando quanto scriveva il reazionario – pensa te! – Ray Bradbury in
uno dei suoi capolavori, il romanzo Fahrenheit 451 pubblicato nel 1953: “[…] un
libro è un fucile carico, nella casa del tuo vicino. Diamolo alle fiamme!
Rendiamo inutile l’arma. Castriamo la mente dell’uomo. Chi sa chi potrebbe
essere il bersaglio dell’uomo istruito?”.
Altro non aggiungerei.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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Tag - Editoriale
Invece di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, lo stato li
crea, colpendo in modo sproporzionato le categorie più vulnerabili della
società.
di Nicola Canestrini da il dubbio
Negli ultimi anni, in molti ordinamenti democratici anche europei, si è
assistito a un incremento dell’adozione di misure legislative che privilegiano
un approccio securitario e populista, attribuendo un potere crescente alle forze
dell’ordine e al contempo restringendo diritti e libertà fondamentali. In
Italia, la legislatura attuale ha consolidato questa tendenza con l’introduzione
di nuove fattispecie penali, l’inasprimento delle pene e la marginalizzazione di
specifiche categorie sociali.
Non si tratta di una legittima messa in opera di un programma politico, che ha
del resto trovato legittimazione nel risultato elettorale, ma di un attentato ai
diritti fondamentali, secondo una logica sottostante che pare essere quella
della cosiddetta “legislazione del nemico”, un approccio che non solo crea
categorie di persone percepite come pericolose, ma le trasforma in bersagli
prioritari per l’azione punitiva dello Stato.
Il concetto di “legislazione del nemico”, teorizzato da Gunther Jakobs, si basa
sull’idea che alcuni individui, a causa della loro percepita pericolosità,
perdano la loro qualifica di soggetti di diritto e vengano trattati
esclusivamente come oggetti di prevenzione o repressione. Nel caso italiano,
questa logica ha trovato un esempio paradigmatico nel cosiddetto decreto
Anti-rave (Dl 162/2022), che introduce il reato di “invasione di terreni o
edifici per raduni pericolosi”.
La norma, originariamente presentata per contrastare i rave party, definisce in
termini ampi e vaghi le situazioni che configurano il reato, rendendo possibile
la sua applicazione a manifestazioni politiche e sociali e criticata da giuristi
e organizzazioni per i diritti umani per la sua potenziale incompatibilità con
il diritto alla libertà di riunione (articolo 17 della Costituzione). Il decreto
non solo amplia il controllo dello Stato su eventi privati, ma legittima un
approccio punitivo a scapito di soluzioni preventive e dialogiche, e senza
affrontare i problemi sottesi, che vengono semplicemente rimossi (recte: risolti
tramite criminalizzazione).
La preoccupante tendenza emerge in maniera ancora più evidente in alcune norme
dell’ennesimo, recente decreto cosiddetto sicurezza, che accentuano la
criminalizzazione di determinate categorie sociali, come migranti, giovani delle
periferie e minorenni, e attivisti politici (sgraditi al potere), donne
detenute. Insomma: lo Stato, lungi dall’intervenire rimuovendo gli ostacoli di
ordine economico e sociale, che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei
cittadini e impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e
sociale del Paese (come imposto dall’articolo 3 della Costituzione), crea
ostacoli, colpendo in modo sproporzionato le categorie più vulnerabili della
società. Queste norme, più che garantire la sicurezza, alimentano un senso di
esclusione e ostilità nei confronti di chi già vive ai margini della società.
Un esempio? Si pensi alle norme sulle zone rosse, una delle ultime iniziative
d’effetto per limitare l’accesso a determinate aree urbane a individui “con
atteggiamenti” (?) pericolosi o molesti, violano palesemente il diritto alla
libertà di circolazione sancito dall’articolo 16 della Costituzione italiana.
Queste misure non sono basate su condanne penali, ma su mere segnalazioni o
peggio ipotesi predittive, lasciando ampi margini di discrezionalità alle
autorità di polizia. Il ddl 1160 – come altre norme, annunciate o varate –
prevede un significativo rafforzamento dei poteri delle forze dell’ordine, in un
contesto che già vede un crescente squilibrio tra le autorità statali e i
diritti dei cittadini.
L’incremento dei poteri discrezionali delle forze dell’ordine, già evidente
nelle misure di prevenzione come l’avviso orale o le cosiddette misure rosse,
pur ampiamente festeggiate dai politici della maggioranza, si traduce in una
crescente asimmetria tra Stato e cittadini, minando il principio di uguaglianza
davanti alla legge.
Una delle caratteristiche distintive della “legislazione del nemico” è la
criminalizzazione del dissenso politico e sociale. Il governo e la sua
maggioranza si sono distinti nel pensare a norme che colpiscono duramente
manifestazioni, proteste e occupazioni, ampliando la portata delle fattispecie
penali e aumentando le pene. Si è addirittura pensato di concepire un reato di
“rivolta negli istituti penitenziari e nei centri di detenzione per migranti”
punendo anche la resistenza passiva (!) con pene fino a 5 anni di reclusione,
tralasciando invece completamente le cause delle proteste (senza curarsi nemmeno
dei numeri drammatici di suicidi fra detenuti e personale penitenziario). Si
tratta di disposizioni solo apparentemente giustificate da ragioni di ordine
pubblico, che invece limitano de facto diritti costituzionali, ivi compreso
quello di manifestazione del pensiero, definito nel 1969 “pietra angolare del
sistema democratico” dalla Corte costituzionale, riducendo lo spazio per il
dissenso e intimidendo i cittadini che intendono esercitare i propri diritti
costituzionali.
La “legislazione del nemico” non è soltanto una minaccia per i diritti
individuali, ma pone un rischio sistemico per la democrazia. L’introduzione di
misure straordinarie, spesso giustificate da emergenze reali o percepite, mina i
principi fondamentali dello Stato di diritto, come la presunzione d’innocenza,
la separazione dei poteri e il diritto a un equo processo. Il frequente ricorso
alla decretazione d’urgenza, o lo strangolamento del dibattito pubblico e/o
parlamentare, impedisce un dibattito democratico informato e concentrano il
potere decisionale nelle mani dell’Esecutivo. Questa pratica, oltre a indebolire
il ruolo delle istituzioni rappresentative, riduce la trasparenza e la
legittimità delle decisioni legislative.
Inoltre, la creazione di nuove fattispecie penali e l’inasprimento delle pene,
senza un adeguato bilanciamento con politiche di inclusione e prevenzione,
rischiano di trasformare il sistema penale in uno strumento di controllo
sociale, piuttosto che di giustizia. Per contrastare la crescente tendenza alla
deriva autoritaria, è necessario riaffermare i principi di proporzionalità,
uguaglianza e giustizia sociale, promuovendo politiche che affrontino le cause
profonde del disagio sociale e della criminalità, piuttosto che limitarsi a
reprimerne gli effetti. Solo attraverso un rafforzamento delle garanzie
costituzionali e dei diritti fondamentali, con un ritorno a una visione
inclusiva della società, sarà possibile preservare la coesione sociale e la
dignità di ogni individuo.
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L’attenzione dei media alle vicende giudiziarie è, insieme, crescente (fino a
trasmissioni televisive dedicate) e a corrente alterna, a seconda del clamore
dei fatti e dello status sociale di vittime e protagonisti. Così la stampa e i
mezzi di comunicazione di massa, anziché strumenti di controllo del potere,
diventano armamentario di disinformazione e propaganda volte a riprodurre paure,
pregiudizi e divisioni sociali.
di Vincenzo Scalia da Volere la Luna
La concessione, nei giorni scorsi, della misura della semi-libertà ad Alberto
Stasi, lo studente condannato per l’omicidio della sua fidanzata, Chiara Poggi,
ha fatto plaudire svariati settori dell’opinione pubblica. In nome del fatto che
probabilmente sia innocente e il caso verrà riaperto. Il fatto che un cittadino
che si proclama innocente possa avere la possibilità di far valere le sue
ragioni, costituisce, per i nostri parametri, un fatto positivo. Voltaire,
d’altronde, diceva che è meglio un colpevole fuori che un innocente dentro. La
vita, la libertà e la reputazione di un cittadino o di una cittadina,
rappresentano beni inalienabili, da non sacrificare sull’altare della giustizia
a tutti i costi. Soprattutto, la riapertura di un caso giudiziario già definito,
è indice della capacità, del sistema giudiziario-penale italiano, di elevarsi al
di sopra del giustizialismo e dell’arbitrarietà.
Dall’altro lato, la riapertura del caso relativo all’omicidio di Garlasco,
suscita alcune riflessioni, da articolare non tanto sul piano
giuridico-penalistico, quanto su quello socio-culturale, dal momento che
l’innocenza di Stasi viene proclamata all’interno di un contesto caratterizzato
da un’onda montante di populismo penale. In questi ultimi anni, in particolare,
abbiamo assistito alla progressiva costruzione della rappresentazione dei
giovani, soprattutto minorenni, come nuova classe pericolosa. Sull’onda di
questa narrazione sono stati emanati il decreto anti-rave e quello Caivano, che
ha snaturato uno dei migliori sistemi penali minorili d’Europa. Inoltre, altri
casi, come quello relativo al delitto di Avetrana, la cui sentenza, che condanna
all’ergastolo Cosima Misseri e Sabrina Serrano per l’omicidio della giovane
Sarah Scazzi, vengono trascurati. Sembrerebbe che esista uno squilibrio di
valutazione tra i diversi casi di colpevolezza e innocenza, nonché nella
costruzione di panico morale.
Si tratta di uno squilibrio che affonda le origini nelle disuguaglianze di
classe, all’interno del quale la sfera mediatica svolge un ruolo da
protagonista. All’interno del circuito dentro il quale viene costruito il panico
morale, che parte da settori del pubblico, viene intercettato e rifinito dai
media, recepito dalla sfera politica, per approdare infine allo stadio finale di
politiche repressive. L’apparato dei mezzi di comunicazione di massa, o meglio,
l’industria mediatica, riesce a ricavarsi una rendita di posizione agevolata
dall’assenza di altri filtri, come quelli che una volta svolgevano le
organizzazioni di massa, per ricavarsi un’audience che attragga investimenti
pubblicitari e garantisca profitti. Il caso giudiziario, dove sono in gioco le
variabili sopraccitate della vita, della reputazione e della libertà
individuale, viene così ridotto a un prodotto mediatico, confezionato su misura
dei pregiudizi che orientano la percezione di una parte consistente
dell’opinione pubblica italiana. Per un’analisi di questa asimmetria, che in
ultima analisi fa leva sulle differenze di classe, si può fare ricorso alla
categoria di intersezionalità, elaborata, sul solco teorico di Antonio Gramsci,
dalla pensatrice afroamericana Kimberlè Crenshaw, che sottolinea come anche le
lotte più radicali non tengono in considerazione la posizione dagli attori
occupata all’interno dei rapporti sociali.
Il caso di Alberto Stasi ha ricevuto un sostegno rilevante da una trasmissione
televisiva come Le Iene, in onda su Italia 1 Si tratta di una trasmissione ad
alto tasso di popolarità, che basa la ricerca di audience su casi che indignano
la coscienza collettiva in nome della violazione delle regole della convivenza
civile. Le truffe di maghi di provincia, i crimini di strada, sono tra i
principali contenuti della trasmissione. È famosa la vicenda di una
ex-giocatrice di pallamano di origine africana, in seguito caduta in disgrazia,
che la trasmissione scoprì a fumare crack durante la gravidanza, sollecitando un
provvedimento del tribunale dei minori che le tolse il bambino. Dall’altro lato,
Le Iene, hanno condotto campagne che si potrebbero definire in senso lato come
“garantiste”, nonché come critiche degli abusi di potere. È infatti all’interno
della stessa trasmissione che, oltre al caso di Alberto Stasi, si è lanciata la
campagna, poco fortunata, per riaprire il caso del delitto di Erba, per la quale
sono stati condannati all’ergastolo i coniugi Rosa Angela Bazzi e Olindo Romano.
Così come è stata sollevata l’attenzione dell’opinione pubblica sulla vicenda di
Chico Forti, l’imprenditore trentino condannato al carcere a vita negli USA e in
seguito trasferito in Italia. Anche la vicenda della morte di Riccardo Magherini
in seguito all’intervento dei Carabinieri, a Firenze, nel 2014, ha ricevuto
rilevanza mediatica in seguito all’interessamento de Le Iene. In una sorta di
divisione del lavoro sensazionalista, certe trasmissioni di Rai Tre si occupano
di crimini dei potenti, quelle Mediaset del penale quotidiano.
La trasmissione Mediaset ormai si colloca nella posizione di veri e propri
stakeholders del senso comune giudiziario, che orienta l’attenzione
dell’opinione pubblica su casi eclatanti. L’apparente par condicio tra errori
giudiziari e criminalità di strada, tuttavia, andrebbe valutata sotto due
aspetti. Il primo è quello dell’audience. Casi “forti”, come quelli degli errori
giudiziari o della morte di un giovane per presunti abusi delle forze
dell’ordine, sono destinati a catturare l’audience a partire dalla forma
sensazionalistica in cui vengono presentati.
Ma, in secondo luogo, bisogna valutare un altro aspetto a partire, appunto,
dall’intersezionalità. Alberto Stasi è stato dipinto da più parti come un
ragazzo modello, di buona famiglia, studente alla Bocconi di Milano. Anche Chico
Forti viene presentato come un imprenditore di successo. Si tratta, in altre
parole, di persone pienamente integrate all’interno dei modelli vincenti
proposti dal neoliberismo. Anche Riccardo Magherini era un giovane di buona
famiglia, ex-calciatore, imprenditore, padre di famiglia. Quanto a Rosa e
Olindo, bisogna fare un discorso diverso. Erano di condizione sociale modesta,
venditori ambulanti. Il marito era addirittura un immigrato pugliese. Ma si
tratta, tuttavia, di italiani, di persone che l’immaginario comune, in
particolare quello del Centro-Nord ha assorbito quantomeno dai tempi del
terrunciello proposto da Diego Abatantuono. Inoltre, la loro italianità spicca
rispetto al vedovo di una delle vittime, Aziz Marzouk, tunisino, con precedenti
per spaccio. Nonché verso la famiglia Castagna, perita nella tragedia, che aveva
accolto al proprio interno uno straniero, intaccando la purezza immaginaria
della comunità.
Come altri casi, come il delitto di Cogne, le vicende sopraccitate alzano il
livello di attenzione dell’opinione pubblica in misura direttamente
proporzionale alla paura di intaccarne le autorappresentazioni rassicuranti.
L’Italia produttiva, attaccata alla roba, che manda i figli nelle università
esclusive per manager, bramosa di legge e ordine, non può tollerare l’idea che
tra le proprie schiere si nasconda un assassino, o che i propri sforzi vengano
vanificati da un intervento energico delle forze dell’ordine. Il male sono gli
altri, quelli che stanno al di fuori dal perimetro degli inclusi. E conferisce
alla grancassa mediatica il compito di interpretare e amplificare questo
disagio. Inoltre, mettere in rilievo questi casi ed ottenerne la riapertura o il
trasferimento di Chico Forti in Italia, conferma la validità della narrazione
del populismo penale. Lo Stato deve condannare tutte le illegalità, a partire
dalle più piccole, e difendere i cittadini, purché la legalità prevalga.
Viceversa, nel caso di Avetrana, la cui sentenza ha destato e desta più di una
perplessità, basata su coerenze logiche, senza una prova empirica, che rigetta
una confessione (la sentenza è reperibile e leggibile), si pone al di fuori di
questo schema. È una vicenda che si è svolta al sud, ovvero la palla al piede
della società italiana, in nome del quale si promuove l’autonomia differenziata.
Inoltre, il contesto sottoproletario all’interno del quale si è svolta la
tragica faccenda di Sarah Scazzi, si confà alle rappresentazioni dominanti delle
famiglie meridionali come aggregati torbidi, lombrosianamente primordiali, per i
quali non vale la pena condurre inchieste o lanciare campagne di riapertura del
processo.
L’approccio intersezionale risulta utile per comprendere la montata dell’onda di
panico morale concernente la devianza minorile dell’ultimo quinquennio. La serie
televisiva Mare Fuori, che ha aperto le danze del panico morale, non a caso è
ambientata a Napoli, la città dei guappi e degli scugnizzi per l’immaginario
collettivo, quindi bacino di baby gangs e branchi imprecisati di minori che
minacciano la convivenza civile. Lo spettro della stigmatizzazione,
gradualmente, ha finito per risalire la penisola, ponendo attenzione su quelli
che il principale quotidiano italiano, da qualche tempo, definisce come maranza,
dedicando loro un’inchiesta apposita. Anche in questo caso, il pericolo, viene
rappresentato come un’anomalia che proviene dall’esterno di un tessuto
comunitario che si autorappresenta come compatto. Il soprannome di maranza, fin
dagli anni ottanta, designa i giovani delle periferie che non potevano
permettersi di vestirsi secondo la moda delle griffes, né di status symbol come
auto e moto. Il termine adesso è stato esteso ai membri delle presunte baby
gangs, tutti residenti nelle periferie o nei non luoghi delle aree metropolitane
diffuse e quasi sempre di origine migrante o rom. Gruppi sociali che spesso
patiscono la carenza di status giuridici e di risorse come una difesa adeguata,
un interprete, un mediatore culturale, finendo per essere sovra-rappresentati
all’interno del sistema penitenziario. Dove formano una delle componenti più
presenti nel tragico rosario dei suicidi all’interno delle patrie galere. Se
dovessimo spostarci poi sul fronte degli abusi, delle morti in circostanze non
del tutto chiare, ci toccherebbe imbatterci in un numero oscuro, che molto
difficilmente riusciremmo a rischiarare.
A questi casi, se volessimo declinare una legalità all’insegna del dettato
costituzionale, quindi dei diritti e delle priorità, un giornalismo che si
auto-qualifica come “d’inchiesta”, dovrebbe dare la priorità, per sfrondare,
come direbbe il poeta, gli allori di legge ed ordine, e svelare alle genti di
che lacrime e che sangue grondano. Un compito arduo, che forse non farebbe
audience. Ma la stampa, i mezzi di comunicazione di massa, dovrebbero essere
strumenti di controllo del potere, e non, come purtroppo quotidianamente
assistiamo, armamentario di disinformazione e propaganda di massa volta a
riprodurre paure, pregiudizi, divisioni sociali. Sarebbe importante di assumerne
consapevolezza al più presto.
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Si può rinunciare a un tale palcoscenico in questo nostro mondo fondato
sull’immagine? Il famoso “No, tu no!” di Jannacci è la risposta classica
dell’emarginazione a prescindere: può questa arrivare a escluderti anche da un
funerale?
di Marco Sommariva*
Faith è il titolo del terzo album del gruppo inglese The Cure; pubblicato nel
1981, è stato la colonna sonora dei miei diciott’anni insieme a Closer dei Joy
Division.
Di Faith ho il vinile acquistato all’epoca e un cd comprato qualche anno fa così
da poter ascoltare il disco anche in auto e stamattina, mentre dagli
altoparlanti della macchina mi arrivavano le note del pezzo The funeral party
che non so quante migliaia di volte mi son goduto in vita mia, son stato
folgorato dal passaggio “I heard a song and turned away”, ossia “Ho sentito una
canzone e mi sono voltato”.
Son stato folgorato perché, poco prima di far partire The funeral party,
l’autoradio era sintonizzata su una stazione che trasmetteva il brano Vengo
anch’io, no tu no di Fiorentini, Fo e Jannacci, cantata da quest’ultimo.
Vengo anch’io, no tu no è un meraviglioso pezzo di fine anni Sessanta che diede
voce agli esclusi, che parla di quella parte di umanità relegata sempre ai
margini di qualsiasi sfera – sociale, politica, famigliare, eccetera –
raccontando di un uomo che viene continuamente respinto da tutti e tutto,
perfino dal suo stesso funerale: “Si potrebbe andare tutti quanti al tuo
funerale/Vengo anch’io?/No, tu no”.
“No, tu no!” pare essere la risposta classica dell’emarginazione a prescindere.
Ecco cosa dovevo fare stamattina: voltarmi dopo aver sentito la canzone Vengo
anch’io, no tu no. Ma non voltarmi da un’altra parte – questa è materia per
pavidi, per miserabili –, bensì voltarmi indietro per guardare al passato.
E così la mente ha iniziato a guardare indietro chiedendosi se davvero può esser
successo che qualcuno è stato escluso dal proprio funerale e la risposta è stata
tanto rapida quanto semplice: sì, la persona deceduta in mare o in terre lontane
non può, di certo, ricevere un trattamento funebre in presenza. Ma si sa la
mente umana com’è fatta, un attimo prima si pone un quesito e l’attimo dopo già
si arrovella su un altro, e così la domanda seguente è stata se, più in
generale, qualcuno può essere escluso da qualsivoglia funerale ed eventualmente
come questo potrebbe avvenire – tranquilli, non finirò col parlare delle esequie
di papa Bergoglio.
Mentre cercavo le risposte alle due domande, mi son ricordato di un passaggio de
La villeggiatura di Mussolini di Silverio Corvisieri in cui si fa cenno al
prezzo che si rischia di pagare partecipando a certi funerali: “Furono in molti
a pagare a caro prezzo la partecipazione ai funerali di antifascisti. A Muggia,
nel settembre del 1937, alle esequie di un giovane che era stato ucciso dai
fascisti, ci fu una “oggettiva” manifestazione ostile al regime: la reazione
scattò con immediatezza dapprima disturbando la cerimonia funebre e poi
condannando diciotto persone, di cui undici erano donne, a cinque anni di
confino”.
Quando capì che non sarebbe vissuto a lungo, mio padre compilò per ben due volte
un corposo elenco dettagliato di nomi e cognomi – in alcuni casi geniali
soprannomi o nomignoli da morir dal ridere – di chi non voleva “vedere” al suo
funerale; personalmente, non feci nulla perché queste persone non si
presentassero: era un problema loro venire o no dopo essersi totalmente
disinteressate del decorso della malattia del mio Vecchio.
In effetti, quella del veto del morto, magari messo per iscritto come aveva
fatto mio padre, potrebbe essere una possibile soluzione per provare a far sì
che gli indesiderati restino a casa.
Un’altra cosa interessante sui funerali l’ha scritta Charles Bukowski nel libro
Il sole bacia i belli: “La maggior parte della gente è morta ancora prima di
essere seppellita, ecco perché i funerali sono così tristi”. E come dargli
torto? Non avete mai la sensazione d’essere circondati da zombi, oltretutto
privi di quella simpatia che, solitamente, queste creature possiedono nei film o
nei fumetti?
Altra possibile soluzione perché gli indesiderati non si presentino a un
funerale, sarebbe quella di non celebrarlo proprio, magari evitando anche i
manifesti funebri; so di gente che è arrivata anche a questo.
Che poi, diciamocela tutta, non partecipando a certi funerali eviteremmo di
farci del nervoso, specie quando il prete nomina il morto senza neanche
lontanamente sapere chi fosse e cos’avesse fatto in vita sua; leggete qui, cosa
scrive Miles Davis in Miles. L’autobiografia: “La morte di Jimi [Hendrix] mi
fece davvero incazzare perché era così giovane e aveva così tanto tempo davanti
a sé. Decisi di andare al funerale a Seattle, anche se avevo sempre odiato
andare ai funerali. Il funerale fu così brutto che dissi a me stesso che sarebbe
stato l’ultimo a cui andavo, e così è stato. Il prete bianco non conosceva
nemmeno il nome di Jimi e continuava a pronunciarlo male chiamandolo una volta
così, una volta cosà. Era imbarazzante. In più non sapeva nemmeno chi fosse
Jimi, niente di quello che aveva fatto”.
Ma cosa fare per evitare la presenza degli indesiderati, se uno non volesse
rinunciare al funerale? Intanto che ci penso, grazie al Cinema ho trovato la
risposta alla domanda circa il perché non si riesce a rinunciare a questo rito.
È stato Gep – o Jep?, o Jap? – Gambardella, personaggio interpretato da Toni
Servillo nel film La grande bellezza di Paolo Sorrentino, a chiarirmi le idee:
“Molti pensano che un funerale sia un evento casuale, privo di regole. Non è
così. Il funerale è l’appuntamento mondano par excellence. A un funerale, non
bisogna mai dimenticarlo, si va in scena. […] Con pazienza, si attende che i
parenti si liberino dalla calca. E, una volta accertatisi che tutta la platea si
sia seduta, solo a quel punto si possono fare le condoglianze. In questa maniera
tutti ti possono vedere. Si prendono le mani del sofferente, si avvolgono le
proprie sulle sue braccia. Si sussurra qualcosa all’orecchio, una frase sicura,
detta con autorevolezza. Per esempio: “Nei prossimi giorni, quando ci sarà il
vuoto, sappi che puoi contare sempre su di me”. Il pubblico si chiederà: “Ma che
sta dicenne Gep Gambardella?”. […] È permesso raccogliersi in un angolo da soli,
come… a meditare sul proprio dolore. A questo punto, però, è richiesta
un’ulteriore abilità. Il luogo scelto deve essere allo stesso tempo isolato, ma
ben visibile al pubblico. Inoltre, una buona recita è tale quando è scevra da
qualsiasi ridondanza. Dunque, è regola fondamentale: a un funerale non bisogna
mai piangere, perché non bisogna rubare la scena al dolore dei parenti. Questo
non è consentito… perché immorale”.
Ecco la risposta: a un funerale si va in scena, e si può rinunciare a un tale
palcoscenico in questo nostro mondo fondato sull’immagine? Difficile. Molto
difficile, quasi impossibile – tranquilli, non finirò col parlare delle esequie
di papa Bergoglio.
E visto che di scena si tratta, solo gli attori – consumati o alle prime armi
non importa – possono partecipare, ossia coloro che sono una persona dentro ma
sono capaci di manifestarne una o più fuori; insomma, non è esattamente il posto
adatto a chi, abitualmente, si presenta così com’è, genuinamente, senza calcoli.
Speriamo che questi attori da funerale abbiano ascoltato Due giornate fiorentine
di Roberto Vecchioni, specie questo passaggio: “mi son pure travestito […] Ma il
naso a palla e gli occhiali con la corda/Mi segavano in due la parte che
ricorda/E sono esperimenti questi da non più tentare/Perché andando a svestirmi
per tornar normale/Non seppi più che togliermi di vero e di finto/E confusi me
stesso con la barba al mento”.
Sia chiaro, siamo ben lontani da travestimenti tipo quello di Jack London che,
nel 1902, mentre altri autori suoi contemporanei si limitano a cantare
ciecamente le glorie dell’impero Britannico, si traveste da marinaio e
s’addentra nell’East End di Londra calandosi nella più disastrata delle realtà
sociali, dormendo nelle baracche, frequentando prostitute, poveri e ogni genere
di umanità rifiutato dalla città “alta” – esperienza che gli permetterà di
scrivere l’imperdibile Il popolo degli abissi, una specie di trattato
sociologico.
Siamo distanti anche dal travestimento dei regnanti che fingono d’essere poveri,
raccontatoci in Fontamara da Ignazio Silone: “Si torna alla vecchia legge […]
quando tra le capanne dei cafoni e la reggia non c’erano le caserme, le
sottoprefetture, le prefetture di ora, e i regnanti, una volta all’anno, si
travestivano da poveri e andavano per le fiere ad ascoltare le doglianze dei
poveri. Poi vennero le elezioni e i regnanti perdettero di vista la povera
gente” – tranquilli, non finirò col parlare delle esequie di papa Bergoglio.
Il travestimento degli attori che vanno in scena secondo Gambardella, lo
immagino come qualcosa di subdolo e schifoso, come quei porci che camminano a
fianco a noi, siedono alla scrivania accanto alla nostra, spesso abbiamo anche
in famiglia, che non si riconoscono facilmente – a volte, quando ti riesce, è
ormai troppo tardi – proprio perché travestiti da professori universitari
progressisti, figli dei fiori, manager illuminati, vecchi comunisti, cattolici
praticanti o ingenui artisti che viaggiano sognando la loro infanzia, come
scrive Henrik Stangerup nel suo romanzo L’uomo che voleva essere colpevole: “Era
arrivata una nuova generazione che affermava di essere l’unica autenticamente
rivoluzionaria: la rivoluzione non usava più le armi dei fiori gettati alla
polizia e la provocazione dei pantaloni calati, ora si parlava di bombe molotov,
di patate con le lamette, di caccia ai porci. Ma i porci erano dappertutto:
erano porci i poliziotti, i politici e gli uomini d’affari. E poi c’erano porci
che non si vedevano, che si travestivano da professori universitari
progressisti, da figli dei fiori e da ingenui artisti che viaggiavano sognando
la loro infanzia. La paranoia cominciò ad avere il sopravvento e tutti avevano
paura di tutti. La tensione quotidiana di essere sempre all’avanguardia era
diventata come una colite cronica. […] erano arrivati senza accorgersi al punto
di non poter fare a meno di gridare “fascista” anche a qualsiasi posteggiatore
per la strada. […] Non c’era più né dialogo né dibattito”.
Credo che dialogo e dibattito tendano da tempo allo zero anche a causa dei
troppi travestimenti, delle troppe falsità che, e qui bisognerebbe dirlo a chi
ne fa largo uso, si riconoscono facilmente: “È difficile sapere cosa sia la
verità, ma a volte è molto facile riconoscere una falsità” – Pensieri di un uomo
curioso di Albert Einstein.
Ma le molte falsità nascono anche dalla necessità di tanti, di fuggire da verità
incomprensibili: “La gente, che comunque ama più una falsità chiara che una
verità incomprensibile, ulula la propria gratitudine” – Barnum di Alessandro
Baricco.
Preferirei il niente a tutti questi travestimenti, queste falsità ma poi, mi
chiedo, di cosa scriverei: “Flaubert voleva scrivere un romanzo sul niente, non
c’è riuscito. Ci posso riuscire io?” – sì, è ancora lui, il Gambardella di
Sorrentino.
E allora, meglio di niente, v’invito tutti quanti al mio funerale. Venga chi
vuole: né ora né mai perderò tempo a stilare liste di buoni e cattivi, perché la
più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto
sessant’anni, è che non posso più perder tempo a far cose che non mi va di fare,
come incensare tutti i grandi miserabili trucchi – travestimenti e falsità –
che, a differenza delle spoglie umane, non si seppelliscono mai.
Tornando a bomba… cosa fare per evitare la presenza degli indesiderati, se uno
non riuscisse proprio a rinunciare alla grande messa in scena del funerale, al
sommo spettacolo? Si potrebbe non spargere troppo la voce, chiedere di fare
altrettanto a chi sicuramente parteciperà e, infine, incrociare le dita sperando
che gli indesiderati non vedano alcun manifesto funebre o, nel caso, non salti
loro in testa di farsi vedere; sarebbe un modo di fare parecchio vigliacco,
degno di un Re d’Italia, ma decisamente in linea col popolino che siamo
diventati.
Dite che col mio modo di scrivere, con questo modo di fare così… come dire?…
libero?, libertario?, mi sto scavando la fossa con le mie stesse mani? Bene!,
significa che mi sto portando avanti col lavoro.
Dite di fare attenzione perché non c’è neppure un cane nei miei paraggi, che
sono totalmente solo? Ammesso sia così, questo è normale: la libertà, spesso,
implica la solitudine, spesso gli altri non si sentono invitati alla festa della
libertà che una persona sta mettendo in atto, questo è il punto. E quindi, per
questo, si rimane soli, perché quando si è liberi spesso si fa diventare goffo
il prossimo. E il prossimo sopporta molte cose, ma non di essere goffo.
E con la speranza che il mio funerale sia bizzarro come quello raccontato da
William Faulkner in Mentre morivo – un viaggio folle della mia bara, con accanto
soltanto la mia compagna e mio figlio che tiene le redini del cavallo, su un
carretto sgangherato, tra inondazioni, fienili in fiamme e il volteggiare di
avvoltoi che accompagnano speranzosi il mezzo malconcio –, partecipato come
quello del cantautore e dissidente Vladimir Vysotsky, figura di culto
dell’Unione Sovietica, a cui parteciparono spontaneamente centinaia di migliaia
di persone – una processione dietro il feretro lunga nove chilometri! – sfidando
la dittatura comunista che non sopportava quell’artista portavoce di un popolo
insofferente alla rigidità del regime, e straziante come quello di Giuseppe
Manzini, papà della Gianna autrice di Ritratto in piedi, che farà dire a uno dei
suoi amici “è stato un funerale di una povertà e di una purezza e di un silenzio
veramente strazianti”, dicevo… con queste mie speranze, mi porgo le mie più
sentite condoglianze.
Per il finale mi faccio aiutare dal già citato Gambardella.
Tranquilli, finisce sempre così, con la morte. Prima, però, c’è stata la Vita,
nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il
chiacchiericcio e il rumore: il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura,
gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza, e poi lo squallore disgraziato e
l’Uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al
mondo – bla bla bla bla. Altrove c’è l’Altrove. Io non mi occupo dell’Altrove.
Dunque, che questo articolo abbia fine. In fondo è solo un trucco. Sì, è solo un
trucco. Un altro grande miserabile trucco.
Visto che non vi ho parlato delle esequie di papa Bergoglio?
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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Senza ripudio della guerra e rifiuto del riarmo, senza solidarietà e accoglienza
dei migranti perseguitati nei loro paesi, senza una ferma opposizione alle
limitazioni delle libertà di riunione e di manifestazione, senza una difesa
intransigente dell’assetto costituzionale non c’è 25 aprile, non c’è festa della
Liberazione. C’è, al contrario, una svolta autoritaria. Guai a dimenticarlo o
sottovalutarlo.
di Livio Pepino da Volere la Luna
Sono passati 80 anni dal 25 aprile del 1945. Da quel 25 aprile, in cui il “vento
del nord” evocato da Pietro Nenni sull’Avanti! del 27 aprile sembrava destinato
a cambiare profondamente il Paese. Quasi tutti i partigiani di allora, anche i
più giovani, se ne sono andati. Tra loro c’era Carlo Azeglio Ciampi, presidente
della Repubblica a cavallo del nuovo millennio, che, nel 2010, ci ha lasciato in
eredità un libro il cui titolo è una sorta di manifesto (doppiamente
significativo per il fatto di venire da un ex presidente della Repubblica): Non
è il Paese che sognavo.
Difficile non condividere quell’affermazione. Basta guardarci intorno: i
caratteri della crisi economica, sociale, culturale, etica che stiamo
attraversando non sono così diversi da quelli degli anni XX del secolo scorso e
al governo del Paese ci sono forze che al fascismo espressamente si richiamano e
che addirittura in alcuni casi – senza scandalo e senza reazioni – frequentano
Casa Pound e gli avanzi del peggior stragismo fascista. Non è una polemica
politica. È un fatto. Certificato dalle esplicite rivendicazioni di quelle forze
(e dalla presenza nel loro Pantheon di un fucilatore di partigiani come Giorgio
Almirante), dai loro simboli, dalla cultura che esprimono, dal linguaggio che
usano e, ancor più, dalle politiche che praticano. Politiche nelle quali il
razzismo e una forma di neocolonialismo, con la chiusura delle frontiere e la
disumanizzazione delle persone migranti, dilagano; il nazionalismo si intreccia
con l’adesione alle logiche della guerra; la scuola viene trasformata in veicolo
di omologazione e di disciplina; la repressione e la criminalizzazione del
dissenso crescono nella società, nei luoghi di lavoro, nelle Università. E ciò –
fatto che rende lo scenario ancor più preoccupante – mentre a livello
internazionale crescono nazionalismo e autoritarismo, le guerre occupano sempre
più la scena (in Palestina, in Ucraina, in Myanmar, in Kurdistan, nel Sud Sudan,
nella Repubblica democratica del Congo e via seguitando) e i morti si sommano ai
morti in un crescendo impressionante e scientificamente programmato che non
risparmia neppure – è il caso della striscia di Gaza – bambini e neonati, scuole
e ospedali.
In questo contesto la festa della Liberazione assume una centralità e
un’importanza particolari. Ma a una condizione. Che non la si riduca a stanca
commemorazione e che la si viva come un giorno, certo, di memoria e di festa, ma
soprattutto di riflessione, di mobilitazione e di impegno politico. Lo so bene:
non è per tutti così, e a fianco di chi addirittura contesta la centralità del
25 aprile nella storia nazionale o invita a usare “sobrietà” nel celebrarlo
(sic!), c’è anche chi lo considera un semplice sbiadito ricordo di quel che è
stato. È un grave sbaglio. Come ammoniva Piero Calamandrei in un discorso tenuto
al teatro lirico di Milano, il 28 febbraio 1954, «in queste celebrazioni che noi
facciamo nel decennale della Resistenza, di fatti e di figure di quel tempo, noi
ci illudiamo di essere qui, vivi, che celebriamo i morti. E non ci accorgiamo
che sono loro, i morti, che ci convocano qui, come dinanzi ad un Tribunale
invisibile, a render conto di quello che in questi 10 anni possiamo aver fatto
per non essere indegni di loro, noi vivi». E a Calamandrei faceva eco Carlo
Smuraglia, indimenticato presidente dell’Anpi, che – in un libro intervista di 7
anni fa – ammoniva: il 25 aprile o è calato nella realtà che ci circonda o
semplicemente non è.
È in questa prospettiva che voglio condividere con voi tre considerazioni a
cavallo, appunto, tra passato e presente.
1. Il 25 aprile non arrivò per caso. Fu anzitutto il frutto di una scelta, di
tante scelte individuali e di una scelta collettiva. Il 25 aprile del 1945
cominciò – si potrebbe dire – poco meno di due anni prima, l’8 settembre del
1943 quando lo Stato si disfece e tutto crollò. Allora – mentre il re, la sua
corte e il governo fuggivano precipitosamente e ingloriosamente verso il sud ‒ i
generali, i colonnelli, i comandanti di reparto si strappavano i gradi e si
mettevano in borghese. E le prefetture, gli uffici pubblici, i magazzini
militari venivano abbandonati. Le istituzioni caddero in pezzi. Ogni autorità
pubblica venne meno. L’Italia ufficiale – un’intera classe dirigente, quella che
“sta in alto” – crollò. Cominciò lì il 25 aprile. Ognuno in basso – come ha
scritto Marco Revelli – restò solo, a scegliere. Se l’esercito si sfasciava, se
generali e colonnelli mancavano alla prova, se con i reparti regolari non si
poteva concludere nulla, allora gli antifascisti scelsero di fare da sé. E fu
quella scelta che determinò un nuovo inizio. Poi ci furono le bande partigiane,
le operazioni militari, la resistenza. Ma alla base di tutto ci fu una scelta
etica, morale, politica. Sta qui il primo fondamentale insegnamento che ci viene
dal 25 aprile: senza scelte radicali non c’è possibilità di cambiamento.
L’indifferenza e il conformismo sono veicoli di conservazione, alleati del
fascismo di ieri e di oggi.
2. Il secondo punto che voglio sottolineare è il significato del riconoscimento
del 25 aprile come festa nazionale. Un fatto che sottolinea l’irrinunciabile e
permanente carattere antifascista della Repubblica. Non è inutile ricordarlo
perché c’è chi si spinge ad affermare che il passare dei decenni ha attenuato
differenze e divisioni e impone una generale e indifferenziata pacificazione. È
una posizione pericolosa, ma soprattutto, profondamente sbagliata. Non ha nessun
senso dire che da un certo momento in là deve esserci una pacificazione. E quale
pacificazione poi? C’è stato chi ha combattuto per mantenere una dittatura
nefasta e razzista e chi ha combattuto per la libertà e la democrazia. È una
differenza fondamentale che non si può accantonare. Quella lotta si è conclusa
con la vittoria di una parte, quella che amava la libertà. Scrive Carlo
Smuraglia: «Non conserviamo rancori, ma non siamo disposti a violentare la
realtà storica e a restituire spazio alle idee che abbiamo combattuto. È
un’assurdità pensare che sia venuta meno la differenza tra partigiani e fascisti
della repubblica di Salò. La storia ci dice che c’è stata la Resistenza e che
essa, alla fine, ha vinto. Punto e basta». Dimenticare la storia, cancellando,
riscrivendo e distorcendo ciò che è avvenuto è quanto di peggio può fare un
Paese che si vuole considerare civile. Ricordare è fondamentale per fondare la
convivenza su valori e non su convenienze contingenti e occasionali.
3. E arrivo così al terzo punto, che impatta prepotentemente con l’attualità:
per contrastare il vecchio e il nuovo fascismo occorre tornare al cuore della
Resistenza, dei suoi valori, dei suoi esiti. La Resistenza non fu solo una lotta
contro il fascismo. Essa fu anche un lotta per una società diversa. Leggendo le
lettere dei condannati a morte della Resistenza europea una cosa colpisce: tutti
credevano nel futuro e in un mondo migliore. I fatti poi – come ha scritto
Ciampi – hanno in gran parte deluso le aspettative, ma quell’utopia, quei sogni,
quelle speranze, quei valori sono entrati stabilmente (e definitivamente) nel
nostro sistema. La Resistenza ci lasciato un’eredità viva e attuale: la
Costituzione repubblicana. L’attuazione e la difesa della Costituzione sono,
dunque, il primo impegno che emerge dal 25 aprile (un’attuazione e una difesa
contro le ricorrenti proposte di chi quella Costituzione vuole cambiare e che
fino ad oggi abbiamo respinto: l’ultima volta con il voto nel referendum del 4
dicembre 2016). Ebbene oggi – va detto con franchezza – il pensiero dominante
(che vorrebbe diventare unico) è molto lontano dai valori del 25 aprile e della
Costituzione. Anche per questo è, di nuovo, tempo di scelte su questioni
fondamentali in cui la realtà e la Costituzione si intersecano. Ne elenco
quattro.
C’è, anzitutto, la questione della pace e della guerra. L’articolo 11 della
nostra Costituzione antifascista è netto: «L’Italia ripudia la guerra come
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione
delle controversie internazionali». Ripudiare, nella lingua italiana, è sinonimo
di rifiutare in modo incondizionato, respingere con decisione, opporsi
radicalmente. Dunque, la pace è un vincolo stringente e non una parola da
ripetere in modo retorico mentre si impugnano le armi. Ciò risulta anche dal
dibattito preparatorio in sede di assemblea costituente e si legge in decine di
lettere di condannati a morte della resistenza. Cito, per tutti, il partigiano
ucraino, Oleks Bokaniuk: «La guerra è la più grande sciagura dell’umanità.
Speriamo che dopo questa guerra venga una pace che renda possibile per molto
tempo, e forse per sempre, la felicità». Questo è il dettato della Costituzione
e il lascito di chi l’ha voluta e preparata. Un dettato e un lascito che non
ammettono le letture riduttive e i distinguo a cui assistiamo quotidianamente in
un crescendo di militarismo e bellicismo sconosciuti nella storia repubblicana.
La guerra – qualunque guerra – è fuori dalla Costituzione e a maggior ragione
dobbiamo dirlo e pretenderlo con riferimento alle guerre condotte (direttamente
o indirettamente, con appoggi politici, economici e militari) dal nostro Paese o
da esso preparate (con la costruzione e il commercio di armi che, per
definizione, servono alla guerra). Ed è fuori dalla Costituzione ogni forma di
riarmo, tesa, come oggi accade, a “svuotare i granai e riempire gli arsenali”:
per la decisiva ragione – ribadita nel suo ultimo messaggio dal Papa di cui a
breve celebreremo i funerali – che «nessuna pace è possibile senza il disarmo».
Viene, poi, la questione dei migranti. Anche qui la Costituzione non ha dubbi e
lo precisa nell’art. 10: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese
l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione
italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le
condizioni stabilite dalla legge». Eppure c’è chi, in Italia e nel mondo,
sostituisce l’accoglienza con muri e fili spinati (reali o metaforici) e
respinge i migranti persino con le armi. Questo atteggiamento è fuori dalla
Costituzione antifascista. Uso parole del partigiano Gastone Cottino, tratto da
un aureo libretto uscito postumo due anni fa con il significstivo titolo
“All’armi son fascisti!”: «Durante il fascismo storico (pensiamo alla guerra
d’Etiopia) la violenza si esercitava nei confronti dei popoli che volevamo
sottomettere; la violenza di oggi si esercita respingendo e facendo morire nel
mare centinaia di persone». E ancora: «I migranti non vengono mandati nei campi
di concentramento. Ma ci sono i centri per il rimpatrio, e sono dei lager. E
quando non abbiamo qui i lager li gestiamo per procura, nei campi libici». A
fronte di ciò ritorna la necessità della scelta. E credo di poter affermare con
tranquilla certezza che gli interpreti autentici del 25 aprile sono coloro che
lottano contro le discriminazioni, per i diritti e per l’accoglienza.
C’è, in terzo luogo, la questione delle libertà fondamentali: di pensiero, di
espressione, di manifestazione a cui sono dedicate disposizioni fondamentali
della Costituzione, a cominciare dagli articoli 17, 18 e 21. Mai come oggi,
nella storia repubblicana, quei diritti sono in pericolo, letteralmente
travolti, in ultimo, da un decreto legge che, usando strumentalmente la
categoria della necessità e dell’urgenza e richiamando in modo improprio la
sicurezza dei cittadini, aumenta a dismisura il catalogo dei reati e delle pene
nei confronti di chi dissente punendo, tra l’altro, le manifestazioni spontanee
e la resistenza passiva e aumentando le sanzioni per i reati commessi nel corso
di manifestazioni. Superfluo ricordare che le norme costituzionali ricordate
sono dettate a tutela del dissenso, posto che il pensiero dominante e le sue
esplicazioni non hanno bisogno di protezione, e che, in questo caso, il
legislatore repubblicano ha finanche superato, in chiave repressiva, il
legislatore fascista, che mai si era spinto a prevedere il delitto di resistenza
passiva e per il quale la commissione nel corso di una manifestazione era
considerata, seppur con alcuni limiti, un’attenuante ai sensi dell’articolo 62
n. 3 codice penale e non un’aggravante.
E viene infine – non certo ultima per importanza – la questione dell’assetto
della Repubblica. Il cuore della democrazia sta, da sempre, nel pluralismo,
nella partecipazione, in contrappesi diretti a evitare la concentrazione del
potere. In loro assenza la torsione autoritaria del sistema è inevitabile. Per
questo la seconda parte della Costituzione ha previsto un parlamentarismo
rigoroso, un rapporto dialettico virtuoso tra presidente della Repubblica e capo
del governo, una magistratura indipendente e soggetta soltanto alla legge,
l’obbligatorietà dell’azione penale, una corte costituzionale eletta con
modalità tali da assicurarne una effettiva autonomia e molto altro ancora.
Ebbene, questo sistema è da tempo delegittimato e sotto attacco attraverso leggi
elettorali che hanno falsato la rappresentanza (e che sono state per questo
dichiarate incostituzionali, ma solo dopo avere prodotto effetti distorsivi
devastanti), marginalizzazione del Parlamento attraverso il ricorso
indiscriminato allo strumento del decreto legge e al voto di fiducia, riduzione
di fatto dell’indipendenza della magistratura mediante intimidazioni e leggi ad
hoc. Oggi questo processo degenerativo subisce un’ulteriore accelerazione con le
riforme costituzionali in cantiere in tema di premierato elettivo,
riorganizzazione della magistratura, abolizione dell’obbligatorietà dell’azione
penale. C’è, sullo sfondo, una sorta di “democrazia del capo”, titolare di un
potere sostanzialmente illimitato. È questo – come ammonisce ancora Carlo
Smuraglia – il fascismo del nuovo millennio.
Concludo. Ci sono stati momenti e stagioni nella nostra storia in cui il
progetto costituzionale è stato in particolare pericolo: l’estate del 1960, i
tentativi golpisti del 1964, del 1970 e del 1974, le stragi di Stato, il 1994.
Oggi – come ci ha ricordato ancora Gastone Cottino – è uno di quei momenti. Guai
a sottovalutare la situazione.
È l’anticipazione, pressoché integrale, dell’intervento dell’autore nella
celebrazione della festa della Liberazione organizzata a Bardonecchia il 25
aprile 2025 dalla sezione Anpi Alta Val Susa.
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Ai capi di Stato e di governo che oggi lo celebrano vanno ricordate le sue
parole dell’ultima benedizione ’urbi et orbi’: «Nessuna pace è possibile senza
il disarmo». Per Francesco i migranti sono oggi le vittime delle nostre
’strategie’ che hanno diviso in due l’umanità: chi viaggia libero e chi è in
fuga da fame e guerre ed è alla fine ancora cacciato. Il suo amore sincero e
incondizionato verso i detenuti, i migranti, i poveri, i popoli oppressi. Di
qualunque religione o provenienza essi fossero. Per la sua parola gentile ma
ferma, che nei tempi bui dell’egoismo e del razzismo, della guerra e della
sopraffazione, è sempre stata un messaggio positivo. Di speranza. Di giustizia.
Di eguaglianza.
di Luigi Ferrajoli da il manifesto
Papa Francesco ha impersonato, in questi tempi bui e tristi, la coscienza morale
e intellettuale dell’intera umanità. Non è esistito, prima di lui, un altro Papa
che con altrettanta forza, lucidità e passione abbia riproposto il messaggio
evangelico. Denunciando tutte le grandi sfide e catastrofi dalle quali dipende
il futuro dell’umanità: le terribili e crescenti disuguaglianze globali e
sociali, l’orrore delle guerre, le aggressioni che un capitalismo selvaggio e
predatorio sta recando al nostro ambiente naturale.
Innanzitutto le disuguaglianze. Nella sua enciclica Fratelli tutti del 3 ottobre
2020, Papa Francesco ha richiamato i valori della fraternità universale, della
solidarietà e dell’uguale dignità di tutti gli esseri umani, violentemente lesi
dalla crescita esponenziale delle grandi ricchezze e delle sterminate povertà.
È nella figura dei migranti che Francesco ha identificato le vittime oggi più
emblematiche delle nostre politiche disumane, che hanno diviso in due il genere
umano: un’umanità che viaggia liberamente nel mondo, per turismo o per affari, e
un’altra umanità, dei sommersi e degli esclusi, costretti dalla fame o dalle
guerre a terribili odissee, fino a rischiare la vita per arrivare nei nostri
paesi dove sono destinati a detenzioni illegittime o a sfruttamenti razzisti
come non-persone.
È una vergogna che Papa Francesco non si è mai stancato di denunciare. La visita
a Lampedusa nel luglio 2013, con la quale egli inaugurò il suo pontificato, fu
un atto d’accusa nei confronti dei nostri governi che, come disse nella sua
omelia, trasformano «una via di speranza» in «una via di morte». E fu anche una
severa condanna della «globalizzazione dell’indifferenza, che ci ha tolto la
capacità di piangere».
In secondo luogo le guerre, con il loro «potere distruttivo incontrollabile che
colpisce», egli scrisse in Fratelli tutti, soprattutto «civili innocenti». «Ogni
guerra – aggiunse – è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa
vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male».
Ai capi di stato e di governo che celebrano oggi la sua scomparsa, vanno
ricordate le sue ultime parole, pronunciate ieri nella benedizione urbi et orbi:
«Nessuna pace è possibile senza il disarmo». È questa, infatti, la sola garanzia
della pace. Senza le armi le guerre sarebbero impossibili, cesserebbe la potenza
delle organizzazioni criminali e crollerebbe il mezzo milione di omicidi ogni
anno nel mondo.
Ricordo perciò con commozione il messaggio che Papa Francesco inviò al convegno
contro le guerre, promosso dalla nostra Costituente Terra il 23 maggio dell’anno
scorso. In esso egli affermò che il principio della pace, enunciato in tante
carte internazionali, «serve realmente nella misura in cui è effettivo e produce
cambiamenti nella realtà del mondo» quali sarebbero, appunto, la messa al bando
della produzione e del commercio di tutte le armi, lo scioglimento delle attuali
imprese produttrici di morte, in breve il disarmo globale e totale.
Esprimendo il suo apprezzamento per il “progetto di una Costituzione della
Terra”, Papa Francesco ci scrisse, sul disarmo e le garanzie dei diritti umani,
che “nessuno può sentirsi estraneo a ciò che succede nella nostra casa comune. È
qui che il diritto deve attuarsi e rendersi effettivo, differenziandosi dalle
mere dichiarazioni di principio”.
Infine la questione ecologica, alla quale è dedicata l’enciclica forse più bella
e famosa di Papa Francesco, la Laudato si’ del 24 maggio 2015. “La sfida
ambientale” è in essa concepita come un fattore di unificazione dell’umanità e
la fonte di una «nuova solidarietà», giacché «le sue radici umane ci riguardano
e ci toccano tutti».
Ma questa sfida è generata proprio dall’irresponsabile assenza di solidarietà:
«Si producono centinaia di milioni di tonnellate di rifiuti l’anno: rifiuti
domestici e commerciali, detriti di demolizioni, rifiuti clinici, elettronici o
industriali, rifiuti altamente tossici e radioattivi. La terra, nostra casa,
sembra trasformarsi sempre più in un immenso deposito di immondizia». Tutto
questo, scrive Papa Francesco, è dovuto al fatto che «l’economia assume ogni
sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza prestare attenzione a
conseguenze negative per l’essere umano». Non solo.
«L’energia nucleare, la biotecnologia, l’informatica, la conoscenza del nostro
stesso Dna e altre potenzialità che abbiamo acquisito ci offrono un tremendo
potere. Anzi, danno a coloro che detengono la conoscenza e soprattutto il potere
economico per sfruttarla un dominio impressionante sull’insieme del genere umano
e del mondo intero. Mai l’umanità ha avuto tanto potere su se stessa e niente
garantisce che lo utilizzerà bene».
Al contrario, è lecito supporre che lo utilizzerà malissimo, se non altro,
scrive ancora Francesco, per l’illusione dominante «di una crescita infinita o
illimitata», la quale «suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei
beni del pianeta, che conduce a ‘spremerlo’ fino al limite e oltre il limite».
Oggi questa voce rivoluzionaria si è spenta, generando un dolore profondo tra
credenti e non credenti e lasciando un vuoto enorme in tutto il mondo dei
difensori dei diritti umani, della pace e della natura. Ma i suoi insegnamenti
sono per tutti un’eredità preziosa, e la loro difesa e la loro attuazione sono
il miglior omaggio che potremo rendere alla sua memoria.
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Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con la firma apposta sul
decreto legge “sicurezza” legittima una pericolosa deriva autoritaria e solleva
interrogativi inquietanti sul ruolo del garante della Costituzione.
di Federico Giusti
E puntualmente quello che dovrebbe essere il sommo garante della Costituzione,
il presidente della Repubblica Mattarella, ha firmato il decreto sicurezza con
14 nuove fattispecie di reato e nove circostanze aggravanti, ora ci saranno 60
giorni di tempo per la conversione in legge pena la decadenza. E il vero
paradosso è rappresentato dalle norme di questo decreto che ad avviso di
giuristi, docenti universitari, ricercatori sociali, mira a scardinare i
principi costituzionali in materia di pena e ricorso al carcere, limita le
libertà collettive e utilizza la decretazione di urgenza impropriamente.
Di motivi, anche solo per prendere tempo e approfondire gli argomenti, ve ne
sarebbero stati a sufficienza ma a quanti pensano che la democrazia italiana
abbia al suo interno regole e meccanismi sufficientemente forti da
salvaguardarla ricordiamo che cullarsi sulle illusioni, nella storia recente e
passata, ha spianato la strada ad autentici drammi.
Dopo mesi di caos, inclusa la mancata copertura economica del pacchetto
sicurezza, senza prestare ascolto a giuristi, docenti e avvocati che avevano
ripetutamente denunciato i contenuti della proposta chiedendone la sospensione e
il ritiro, Il Governo ha accelerato i tempi sottraendone la discussione al
Senato .
Alcuni penalisti evidenziano da quasi un anno il carattere repressivo e
securitario dietro all’operato del Governo che in sostanza lascia inalterato il
testo approvato alla Camera nel settembre 2024 cambiandone solo alcuni aspetti
di secondaria rilevanza e così discutibili da essere facili oggetto di
contestazione.
Eppure proprio la Carta Costituzionale imporrebbe un ricorso assai limitato alla
decretazione d’urgenza specie quando gli effetti sulle libertà individuali e
collettive risultano particolarmente forti senza dimenticare che la stessa
nozione di sicurezza, in origine, non faceva esclusivo affidamento sul codice
penale guardando all’aspetto rieducativo della pena stessa e alla necessità di
costruire degli interventi sociali per le classi meno abbienti.
Quando uno stato di diritto si trasforma in stato penale la nozione di sicurezza
diventa solo sinonimo di percorsi repressivi e securitari
E questa premessa, per altro attuale, si rende necessaria alla luce di quanto
avvenuto nella manifestazione milanese di solidarietà alla Palestina tenutasi a
Milano il 12 Aprile scorso e oggetto di una vibrata denuncia in conferenza
stampa da parte degli organizzatori (rinviamo al sito del sindacato Cub).
A Milano c’è stato non solo un inutile e spropositato intervento delle forze
dell’ordine che hanno diviso il corteo e fermato alcuni attivisti ma allo
stesso tempo si è esplicitata la volontà di occultare le ragioni della protesta
. La gestione delle piazze da settimane sta diventando sempre più critica e con
l’arrivo delle nuove norme la situazione non potrà che peggiorare a mero e solo
discapito della democrazia e delle agibilità collettive.
Nel corso di una breve carica per dividere il corteo molti giornali hanno
mostrato immagini che ci riportano al G8 di Genova, oggi come allora al Governo
e al Viminale c’erano esponenti delle destre. La nostra impressione è che si
voglia trasformare in ordine pubblico ogni forma di dissenso e di opposizione
per scatenare la repressione di piazza da un lato e l’applicazione di norme
securitarie dall’altra.
Ma come avvenne nelle giornate genovesi all’interno delle forze dell’ordine, ad
oggi privi di codici indentificativi che permetterebbero di risalire
direttamente ai singoli agenti, erano presenti, con tanto di casco della Polizia
e manganello di ordinanza, alcuni uomini in borghese, uno dei quali con una
felpa sulla quale campeggiava la scritta in polacco “Narodowa Duma”, cioè
Orgoglio Nazionale, simbolo di gruppi di estrema destra con simpatie fasciste e
naziste.
La notizia, diffusa da giornali nazionali con ampio corredo di foto, ha
determinato l’apertura di una inchiesta da parte della Digos che avrebbe già
individuato almeno uno degli agenti immortalati. Tuttavia alcune domande restano
senza risposta:
* per quale ragioni il reparto è entrato all’interno del corteo come
denunciato dagli organizzatori?
* chi ha dato l’ordine di intervenire?
* Nessuno si era accorto delle felpe?
* E l’agente fotografato diventerà il facile capro espiatorio senza esigere
spiegazioni dai vertici locali e nazionali dell’ordine pubblico?
Un secondo agente è stato poi ripreso dalle telecamere e dai giornalisti con
indosso un’altra felpa che rinvierebbe a un gruppo ultras di estrema destra
polacco.
Perché nel corso di un corteo degli agenti in servizio indossavano felpe con
simboli di estrema destra?
Non ci interessa parlare del singolo agente, saremmo invece interessati a
conoscere perchè quella felpa sia stata ignorata per tante ore, siamo invece
interessati a denunciare un sistema fin troppo permeabile alla presenza di
ideologie con connotati nazisti o fascisti. E non si parli ancora una volta di
casualità
Nel recente passato è stata evidente la copertura politica verso l’operato
ingiustificato delle forze dell’ordine oggetto di denuncia e condanna nei
tribunali nazionali ed internazionali. sarebbe sufficiente documentarsi sul G8
di Genova per ricavare molte ed esaustive informazioni sulla sospensione, in
quei giorni, dello stato di diritto. E visto che la storia resta maestra di vita
possiamo ancora sminuire o ridicolizzare le innumerevoli denunce pubbliche di
quanti ritengono oggi la democrazia in pericolo con l’arrivo del decreto
sicurezza?
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Ho licenziato Dio gettato via un amore per costruirmi il vuoto nell’anima e nel
cuore, le parole che dico non han più forma né accento si trasformano i suoni in
un sordo lamento. Chi mi riparlerà di domani luminosi dove i muti canteranno e
taceranno i noiosi? Come potrò dire a mia madre che ho paura? (F. De André)
di Marco Sommariva*
Non posso dire sia vero che tutti coloro che iniziano a fumar le canne finiranno
certamente col bucarsi: ho amici miei coetanei che da oltre quarant’anni le
fumano e mai è venuto loro in mente di prendere in mano una siringa – c’è chi le
fuma insieme al padre ultraottantenne; chi, invece, le fuma in giardino col
figlio quasi trentenne, lo stesso che le rulla.
È vero, però, che chi si avvicina alle droghe potrebbe fare una brutta fine;
questo, già lo scriveva Jim Carroll in Jim entra nel campo di basket, pubblicato
nel 1978 ma scritto nel ’62 quando l’autore, tredicenne, annotava sul suo diario
quello che stava vivendo: “Poi ci siamo noialtri ragazzi di strada che
cominciamo a cazzeggiare da molto giovani, sui tredici, e crediamo di poter
tenere la testa sopra l’acqua e di non prendere l’abitudine. Funziona raramente.
Ne sono la riprova io. Così dopo due o tre anni di controllo, finisco
nell’ultimo atto: con la scimmia e niente altro da fare che passare tutta la
giornata a caccia di droga. In qualunque maniera, va bene tutto, ragazzi. Non ci
sono Coste Azzurre e non ci sono mamme ricche da cui correre. Sai quando ci sei
dentro definitivamente perché è la volta che svegliandoti la mattina te lo dici
chiaro e tondo, senza mezzi termini: Oggi o mi trovo la mia dose o finisco a
farmi spaccare il culo ai Tombs, non ci sono cazzi”.
Il fare marchette è una costante di chi ha intrapreso la strada della “brutta
fine”: quarant’anni fa, alcuni miei commilitoni se lo andavano a far succhiare
in stazione, a Udine, da uomini che potevano essere i loro nonni ma viaggiavano
col BMW e tenevano chiuse le maniche delle camicie con gemelli d’oro, non coi
bottoni; vent’anni fa, un’amica che s’è fatta per vent’anni di eroina, s’è
concessa per un pugno di spiccioli a non sa neanche lei quante persone pur di
tirare su la dose quotidiana, anzi, le dosi quotidiane; oggi la figlia di
un’amica dorme per terra, sui cartoni, nel Centro Storico di Genova e, oltre a
un paio di stupri subiti come “incerti del mestiere”, si fa “spaccare” per cifre
che valgono giusto il prezzo di una colazione.
Ma così è, non c’è nulla da fare; scrive in Peggio di un bastardo.
L’autobiografia, Charles Mingus: “hai voglia di farti, e stai male, e non c’è
nessuno che ti aiuta, e giri come un morto vivente senza quella roba nel braccio
che ti alleggerisce il fardello. E ogni volta è sempre più dura e non hai più la
forza di volontà e allora ti fai di nuovo. Sei incazzato con te stesso, ti odi
perché non ce la fai – vuoi farcela senza la droga ma ti fai da così tanto tempo
che hai già un piede nella tomba. Quando ti buchi dimentichi per un po’ ma il
tempo dell’oblio si accorcia sempre più e alla fine arrivi a cento milligrammi
ogni quattr’ore”.
Come per tutti i Mercati, anche quello della droga si muove, cresce e offre in
funzione del consumo, della richiesta; per questo, sono almeno vent’anni che
spacciano droga insospettabili commesse di panifici o pizzerie al taglio che,
mentre sorridono alle mamme che si portano via due pezzi di una Quattro
stagioni, riforniscono i figli di cocaina: “Ho sempre pensato che i narcotici
dovrebbero essere legalizzati per evitare tutti i problemi dello spaccio” –
questo lo scrive Miles Davis nella sua Miles. L’autobiografia.
Lo stesso libro ci ricorda come la differenza di classe – ergo, disponibilità
economica – pesi anche in questo ambiente; forse dovrei scrivere, soprattutto in
questo ambiente: “Per la maggior parte di questi quattro o cinque anni in cui
sono stato fuori dalla musica, mi sono fatto un casino di cocaina (più o meno
cinquecento dollari al giorno a un certo punto) e mi sono scopato tutte le donne
che riuscivo a portarmi a casa. Ero anche dipendente da tutta una serie di
pillole tipo il Percodan e il Seconal, e bevevo parecchio, Heineken e cognac.
Più che altro tiravo coca, ma qualche volta mi iniettavo un mix di coca ed
eroina nelle gambe. Si chiama speedball ed è stato quello che ha ammazzato John
Belushi. Non uscivo molto spesso e quando lo facevo era per andare in quei
locali di Harlem aperti fino a tarda notte dove mi drogavo e vivevo alla
giornata”.
Per chi ha praticato e ora sta pensando “Non diciamo sciocchezze, ho pippato non
so quante volte e son sempre stato benissimo”, riporto un altro estratto
dell’autobiografia di Miles Davis: “Cazzo, certe volte dopo aver sniffato e aver
mandato giù sette o otto Tuinal davo fuori di matto; pensavo di sentire delle
voci e cominciavo a guardare sotto i tappeti, nei termosifoni, sotto i divani.
Ero sicuro che ci fosse gente in casa”.
Perché è questo quello che, spesso, succede: l’uso della cocaina quasi mai è
l’ultima casella di questo tragico osceno gioco: spesso sfocia in miscele con
barbiturati – Tuinal, appunto –, alcolici o altro; sempre più spesso la si
scalda insieme a del bicarbonato di sodio per ottenere quel crack che,
letteralmente, brucia il cervello e può ridurre una persona a una semi-larva
nell’arco di un paio d’anni.
E nonostante le promesse di ogni tossico, tipo quelle riportate nel romanzo In
un milione di piccoli pezzi di James Frey – “Non credo in Dio né in alcuna forma
di Potere Superiore. Non intendo cedere la mia vita e la mia volontà a niente e
a nessuno, e tanto meno a qualcosa in cui non credo. […] Intendo vivere la mia
vita. Intendo prendere le cose come vengono e affronterò quello che mi sta
davanti nel momento in cui mi sta davanti. Quando l’alcol o la droga o tutt’e
due mi staranno davanti, prenderò la decisione di non usarli. Non intendo vivere
nel terrore dell’alcol e della droga, non intendo passare il mio tempo seduto a
parlare con gente che vive nel terrore delle sostanze. Non intendo essere
dipendente da altro che da me stesso” – dicevo… nonostante le promesse di ogni
tossico, si finisce invece per trarre conclusioni come quella scritta in La
scimmia sulla schiena di William Burroughs: “Sapevo di non voler continuare a
prendere droga. Se mi fosse stato possibile prendere una risoluzione definitiva,
avrei deciso; non più droga, mai e poi mai; ma quando si arrivava al processo
della desensibilizzazione, mi mancava la forza. Mi sentivo pervadere da una
sensazione terribile di impotenza vedendo me stesso violare tutti i programmi
che avevo studiato, come se non fossi assolutamente capace di dominare le mie
azioni”.
Credo molti di voi saranno d’accordo con me e con Chuck Palahniuk che in
Soffocare scrive: “Le droghe, la bulimia, l’alcol, il sesso sono solo strumenti
per trovare un po’ di pace. Per sfuggire a ciò che conosciamo. A quello che ci
insegnano”.
Sfuggire a quello che ci insegnano: Malcolm Braly – mentre è costretto in
galera, un posto da cui vogliono scappare anche i secondini – scrive in Ora
d’aria: “Quando la cuccetta fu sistemata […] saltò di nuovo al suo posto e
riprese il libro. Questa è la mia droga, disse, vivo le vite degli altri”.
Ecco una cosa che ci insegnano, il non leggere; così da non venire a conoscenza
delle vite degli altri, in modo che nessuno impari dagli errori altrui e possa
vivere diversamente la propria esistenza, con meno dubbi, ansie, magari fino a
godere della propria vita. Ci insegnano a non leggere, per esempio, massacrando
gli studenti con noiosissime lezioni di letteratura svolte giusto perché il
programma le prevede, alla svelta perché gli insegnanti hanno sempre più tempo
assorbito dalla burocrazia dell’Istituto, perché… ma cosa ve lo dico a fare?
Chiedete ai vostri figli, ai vostri nipoti che ancora frequentano le aule
scolastiche.
Sul rapporto tra cultura, libri e droga, cinquant’anni fa aveva detto qualcosa
senz’altro meglio di me, anche Pier Paolo Pasolini: “Se vado a Piazza Navona e
incontro un drogato che passa ciondolando con aria noiosa e vagamente sinistra,
sento in lui i caratteri dell’infelicità e del rifiuto piccolo-borghese: e
maledico la misteriosa circostanza che ha costretto, lui singolo, a fumare
dell’hascisc invece di leggere un libro”, e ancora: “La droga è sempre un
surrogato. E precisamente un surrogato della cultura. […] La droga viene a
riempire un vuoto causato appunto dal desiderio di morte e che è dunque un vuoto
di cultura”.
Leggere, conoscere, aiuta a sapere dove siamo, a essere padroni di parole e
opere, aiuta a capire come va il mondo a non esserne vittima: “Ho capito che per
essere liberi dobbiamo sapere dove siamo. Chi è smarrito, chi non ha il senso
della realtà, chi ignora come va il mondo non è libero. Non si può essere liberi
che con cognizione di causa. Essere liberi non è perdersi e lasciarsi andare
senza avere la minima idea di una direzione. È per questo, del resto, che ho
sempre provato un’istintiva diffidenza verso qualsiasi tipo di droga. Non
capisco il desiderio di alcuni di ubriacarsi, di essere sbronzi. Per essere
liberi bisogna essere padroni dei propri atti e non vittime di cause
incontrollabili. Bisogna essere realisti, radicati nella realtà, e insieme
sognatori, per non rimanere vittime involontarie del mondo reale”. – da Bisogno
di libertà di Bjorn Larsson.
Bisogna, però, fare molta attenzione a quali droghe si sta facendo riferimento;
Kurt Vonnegut, per esempio, in Un uomo senza patria ci parla di crisi di
astinenza per una sostanza che nessuno oserebbe definire stupefacente: “Vi posso
dire la verità? In fondo non siamo al telegiornale, no? E allora ecco qual è la
verità, secondo me: noi siamo tutti drogati di combustibili fossili, ma ci
rifiutiamo di ammetterlo. E come tanti tossici che stanno per entrare in crisi
di astinenza, i capi dei nostri governi stanno commettendo crimini atroci pur di
ottenere quel poco che rimane della sostanza da cui siamo dipendenti”.
Altra droga troppo spesso sottovalutata, ci viene additata nell’imperdibile
libretto – solo per le dimensioni, sia chiaro – L’anarchia spiegata a mia figlia
di Pippo Gurrieri: “La religione è una droga perché addormenta le coscienze,
alimenta gerarchie divine e terrene, mantiene gli esseri umani nella soggezione
e nella superstizione, quindi nell’ignoranza e nella subalternità”.
Anche Voltaire, in Pot-pourri, ha qualcosa da dire riguardo l’argomento:
“Vorreste che adottassi un Essere eterno, infinito e immutabile, a cui sia
piaciuto, in non so quale tempo, creare dal nulla cose che cambiano in
continuazione, e fare dei ragni per sventrare delle mosche? Vorreste che dicessi
[…] che Dio ci ha dato orecchie per avere fede, perché la fede viene per udito
dire? No, no, non crederò affatto a ciarlatani che hanno venduto a caro prezzo
le loro droghe a degli imbecilli; […] nulla esiste né può esistere, eccetto la
natura; […] in una parola, non credo che alla natura”.
Sulla droga s’è scritto un po’ di tutto. Da Burroughs, sempre ne La scimmia
sulla schiena, che sconsiglia la guida di un’auto se si è fumato marijuana –
“Una cosa ancora a proposito della marijuana. Chi si trova sotto l’influenza
dell’“erba” non è assolutamente in grado di guidare l’automobile. La marijuana
altera il senso del tempo e di conseguenza il senso dei rapporti spaziali. Una
volta, a Nuova Orleans, dovetti fermarmi al margine della strada e aspettare che
l’effetto della droga fosse passato; non riuscivo a stabilire la distanza di
alcun oggetto né a capire quale fosse il momento giusto per frenare agli
incroci” – a Bukowski che, in Storie di ordinaria follia, si pone una domanda
che potrebbe anche far sorridere: “Tutti abbiamo udito la donnetta che dice:
“oh, è terribile quel che fanno questi giovani a se stessi, secondo me la droga
è una cosa tremenda.” poi tu la guardi, la donna che parla in questo modo: è
senza occhi, senza denti, senza cervello, senz’anima, senza culo, né bocca, né
calore umano, né spirito, niente, solo un bastone, e ti chiedi come avran fatto
a ridurla in quello stato i tè con i pasticcini e la chiesa”.
Non solo s’è scritto un po’ di tutto, sulla droga s’è anche detto un po’ di
tutto. E riguardo l’uso della cocaina che, per quanto riguarda la mia esperienza
personale, quasi mai è l’ultima casella di questo tragico osceno gioco e spesso
si finisce per consumarla insieme a barbiturati, alcolici o altro, vi scrivo
cosa mi ha raccontato un famoso psichiatra che aveva seguito un fatto di cronaca
che, anni fa, fece molto scalpore, di cui se ne occupò a lungo l’informazione
mainstream.
Molto brevemente. L’episodio vede due persone organizzare un festino a base di
cocaina e alcol e convincere una terza a partecipare, la stessa che verrà
ritrovata morta il giorno dopo – “massacrata a coltellate e a colpi di martello”
–, all’interno dell’appartamento dove i tre s’erano riuniti. Lo psichiatra mi ha
raccontato che chi ha preso la vittima a martellate, ha confessato d’essersi
ritrovato a un certo punto in un cartone animato, trasformato lui stesso in un
personaggio tipo Paperino o Braccio di Ferro, e d’aver sferrato colpi contro
qualcuno che poteva essere Paperon de’ Paperoni o Bluto, d’essere finito come in
una dimensione parallela dove a ogni martellata corrispondeva un bernoccolo che
usciva dall’avversario con la stessa velocità con cui rientrava, per poi
svegliarsi la mattina dopo nella consueta dimensione, col martello insanguinato
in mano e un cadavere accanto.
Non sono mai riuscito a capire quand’è che si smette di ridere davanti ai
cartoni animati e quand’è che s’inizia a ridursi in condizioni tali da non
essere più in grado di dire alla propria madre che si ha paura, da non essere
più in grado addirittura di proferir parola, sia perché questa ha perso forma e
accento nelle nebbie della droga, sia perché sono troppe le orecchie impreparate
ad ascoltarla; soprattutto, non sono mai riuscito a capire cosa succede
esattamente fra un “quand’è” e l’altro.
Eppure, sono certo la risposta sia nel cantico di ogni drogato: dovrò ascoltarlo
meglio.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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Il decreto legge sicurezza varato nei giorni scorsi dal Governo incide
pesantemente sulle libertà, sui diritti, sulla convivenza producendo una
sterzata del sistema verso uno Stato di polizia. Ciò avviene, in particolare,
con la generalizzazione del governo repressivo della povertà, il consolidamento
della repressione sistematica del conflitto sociale e del dissenso,
l’ampliamento dei poteri e delle tutele attribuiti alla polizia e agli apparti.
di Livio Pepino da Volere la Luna
Venerdì 4 aprile il Consiglio dei ministri ha trasformato in decreto legge
(destinato come tale a entrare in vigore immediatamente dopo l’emanazione da
parte del Capo dello Stato e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) il
disegno di legge sicurezza approvato dalla Camera nel settembre scorso e fino a
ieri in discussione al Senato. Mentre scrivo, la controfirma del presidente
della Repubblica (prevista dall’art. 87 della Costituzione) non è ancora
intervenuta ma, stando alle unanime indiscrezioni, è questione di ore, essendo
stata l’operazione concordata, a seguito dell’accoglimento da parte del Governo
di alcune osservazioni presidenziali (accoglimento che ha dato luogo, peraltro,
a un semplice maquillage che incide in misura limitatissima su alcuni punti, in
particolare regolamentando in modo diverso ma non escludendo la possibilità di
incarcerazione di donne incinte o con prole inferiore all’anno e il divieto di
vendita di schede telefoniche a migranti irregolari).
Il carattere eversivo di questa operazione nel sistema di governo è
macroscopico: perché mancano i requisiti di necessità ed urgenza richiesti
dall’art. 77 della Costituzione, perché si tratta di un provvedimento sottratto
a una discussione parlamentare in stato ormai avanzato, perché incide su una
materia sensibile come la libertà personale e molto altro ancora. Ma persino più
rilevanti sono le ferite inferte al sistema delle libertà, dei diritti, della
convivenza, che producono un ulteriore passo verso uno Stato di polizia. Già lo
abbiamo denunciato su queste pagine con riferimento all’originario disegno di
legge. Ma oggi, quando il progetto si è trasformato in realtà, conviene ribadire
alcuni punti fondamentali. Non senza premettere, da un lato, che il decreto si
inserisce in un progetto complessivo di riforma autoritaria dello Stato,
comprensivo del premierato elettivo, dell’autonomia regionale differenziata e
della ridefinizione dei rapporti tra giustizia e politica, e, dall’altro, che
esso tiene insieme (e regolamenta) settori eterogenei ma concorrenti,
riassumibili nella generalizzazione del governo repressivo della povertà, nel
consolidamento della repressione sistematica del conflitto sociale e del
dissenso, nell’ampliamento dei poteri e delle tutele attribuiti alla polizia e
agli apparti.
Il primo elemento che merita sottolineare è il potenziamento del ruolo del
carcere nel governo della società. Il carcere scoppia: il 31 marzo i detenuti
hanno raggiunto il numero di 62.281 consolidando il superamento, dopo 13 anni,
della soglia delle 62.000 presenze; secondo il Garante delle persone private
della libertà personale, i suicidi di persone detenute nei primi mesi dell’anno
sono 22 (dopo aver raggiunto lo scorso anno il record di 83, secondo i dati del
ministero, verosimilmente errati per difetto almeno di 7 unità); gli atti di
autolesionismo non si contano; l’ordine nei luoghi di detenzione è assicurato
solo da una violenza diffusa e dall’uso generalizzato di psicofarmaci. La
risposta del decreto legge è la previsione di 14 nuovi reati e di altrettanti
aumenti di pena, in continuità con una scelta che ha portato, negli ultimi due
anni, all’introduzione di 48 nuovi reati. Ciò comporterà un maggior numero di
condanne e pene più elevate e, dunque, più carcere. Il fatto sollecita due
considerazioni aggiuntive. Primo: l’aumento del carcere non è la conseguenza di
una crescita dei reati ma una scelta politica, come dimostra la circostanza che
il tetto della criminalità, nel nostro paese, è stato raggiunto nel 1991, quando
i detenuti erano circa 35.000 (35.469 al 31 dicembre) e, dunque, la metà (o poco
più) di quelli odierni. Secondo: il modello di riferimento è quello degli Stati
Uniti dove il diritto penale classico (che commisura la pena in base all’entità
del reato) è stato sostituito da un diritto che punisce le persone non per
quello che hanno fatto ma per quello che sono, sino all’assurdo di punire con il
carcere a vita, in caso di recidiva, il furto di tre mazze da golf, di una pizza
o di una merendina, con la conseguenza che i condannati all’ergastolo presenti
nelle carceri statunitensi sono, oggi, oltre 200.000, pari a uno ogni 1.500
abitanti.
Un secondo elemento che caratterizza il provvedimento governativo è l’opzione,
anche qui seguendo il modello degli Stati Uniti, di “punire i poveri”. Lo
dimostra l’introduzione nel codice penale di una norma (l’articolo 634 bis) in
forza della quale «chiunque, mediante violenza o minaccia, occupa o detiene
senza titolo un immobile destinato a domicilio altrui o sue pertinenze […] è
punito con la reclusione da due a sette anni», cioè esattamente la pena prevista
per l’omicidio colposo commesso con violazione delle norme antinfortunistiche.
Già ora – superfluo dirlo – l’occupazione di edifici destinati ad abitazione è
un reato, punito con la reclusione fino a due anni e con una multa. Per questo
la norma, ancor più che un presidio a tutela della proprietà, si pone come
simbolo della risposta istituzionale all’emergenza abitativa (100mila sentenze
di sfratto esecutive, 40mila sfratti ogni anno, 50.00 case popolari occupate).
Non potrebbe esserci dimostrazione più plastica, anche in termini simbolici, del
passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale e del governo repressivo della
povertà.
Alla punizione dei poveri si affianca quella di chi dissente in modo radicale.
Manifestare (già oggi spesso ostacolato con motivazioni pretestuose da troppo
zelanti questori) diventerà sempre più un rischio. Il ripristino del reato di
blocco stradale «realizzato con la mera interposizione del corpo» e la sua
punizione con la reclusione da sei mesi a due anni «quando il fatto è commesso
da più persone riunite» (cioè sempre, considerato che un blocco stradale fatto
da una sola persona è poco più che un’ipotesi di scuola…) incidono direttamente
e immediatamente sulla possibilità di manifestare. Saranno, infatti,
criminalizzati e puniti finanche i dimostranti pacifici che stazionano in modo
continuativo e in gruppo in una strada prospiciente i cancelli di una fabbrica
(dove è in corso uno sciopero) o l’ingresso di una scuola occupata. La norma è
esemplare in sé ma anche perché rappresenta l’esito di un percorso di
anacronistica restaurazione. Il blocco stradale infatti, già previsto da un
decreto legislativo del 1948, è stato depenalizzato nel 1999. Quasi vent’anni
dopo, con il decreto legge n. 113/2018 (primo decreto Salvini), è iniziato il
percorso a ritroso: il blocco stradale è ridiventato reato ma, per mitigare
l’asprezza della disposizione, si è previsto il carattere amministrativo
dell’illecito nel caso di ostruzione stradale realizzata solo con il corpo. Con
l’attuale decreto si completa il ritorno alla penalizzazione piena, realizzando
un attacco diretto al diritto di manifestare in quanto tale.
C’è poi, nel decreto legge, un ampio gruppo di norme che, con piccole differenze
terminologiche, connotano le manifestazioni come eventi borderline, prevedendo
specifiche aggravanti per i reati di danneggiamento, resistenza o violenza a
pubblico ufficiale e lesioni se commessi nel corso delle stesse. In tutti questi
casi le pene sono sensibilmente aumentate consumando una sorta di passaggio
dalle leggi ad personam alle leggi ad movimentum. Questa previsione – merita
sottolinearlo – ribalta la stessa impostazione del codice Rocco, il cui articolo
62 n. 3 prevedeva (e prevede, non essendo mai stato abrogato) come attenuante
per qualunque tipo di reato «l’avere agito per suggestione di una folla in
tumulto», pur con il limite che «non si tratti di riunioni o assembramenti
vietati dalla legge o dall’autorità»: il legislatore repubblicano, nonostante la
Costituzione, si mostra meno rispettoso del diritto di manifestare del suo
predecessore in camicia nera. Non solo ma per la prima volta nel nostro sistema
viene esplicitamente considerata illecita la resistenza passiva. Lo prevede il
nuovo articolo 415 bis del codice penale, che introduce il delitto di rivolta in
carcere (sanzionato, per chi si limita a parteciparvi, con la reclusione da uno
a cinque anni), con la precisazione che «costituiscono atti di resistenza»
rilevanti ai fini dell’integrazione del reato «anche le condotte di resistenza
passiva che impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio
necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza». La previsione del
delitto di resistenza passiva con riferimento a una categoria di soggetti (i
detenuti) considerati devianti e marginali, oltre ad essere grave in sé (proprio
perché riferita a persone in condizioni di particolare fragilità), introduce nel
sistema un precedente dotato di evidente capacità espansiva, che potrebbe
ripetere la (triste) esperienza del Daspo, introdotto nell’ormai lontano 1989
per i tifosi violenti e diventato negli anni uno strumento ordinario di governo
del territorio. Non è una illazione: già accade nello stesso disegno di legge
che estende la disciplina e le pene previste per la rivolta, con una lieve
riduzione, ai fatti commessi in tutti i luoghi di accoglienza per migranti (e,
dunque, non solo i Cpr, ma anche, addirittura, i Cara e gli hotspot).
Parallelamente viene pesantemente limitata anche la possibilità di azione dei
movimenti attivi nei settori più sensibili del conflitto sociale. È il caso,
della norma che estende il delitto di occupazione di immobili destinati a
domicilio altrui a chi, «fuori dei casi di concorso nel reato, si intromette o
coopera nell’occupazione dell’immobile» e a quella che prevede un aggravamento
della pena per il delitto di “istigazione a disobbedire alle leggi” «se il fatto
è commesso a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute».
L’attacco ai movimenti per la casa e a quelli di sostegno alle persone detenute
non potrebbe essere più diretto ed esplicito.
In ultimo, ma – come si usa dire – non per ultimo, il decreto legge imprime una
netta curvatura autoritaria al rapporto tra polizia e cittadini, così chiudendo
il tormentato tentativo di democratizzarlo, perseguito, nel tempo, con la
previsione di non punibilità della reazione all’atto arbitrario del pubblico
ufficiale, la dichiarazione di incostituzionalità della necessaria
autorizzazione del ministro per procedere nei confronti di operatori della
polizia per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di un
altro mezzo di coazione fisica, la sindacalizzazione e smilitarizzazione del
corpo, l’abrogazione del delitto di oltraggio e via elencando. Questo percorso,
subisce, ora, una drastica inversione che ripristina una situazione simile a
quella degli anni Cinquanta (un’epoca in cui – è bene ricordarlo – le politiche
di ordine pubblico lasciarono sulle strade e nelle piazze del Paese oltre 100
morti). Ciò avviene grazie a disposizioni che prevedono tra l’altro, per gli
operatori di polizia, la già ricordata tutela privilegiata nel corso di
manifestazioni; una particolare assistenza sul piano legale consistente nella
possibilità, ignota per gli altri pubblici ufficiali, di fruire, se indagati o
imputati per fatti inerenti al servizio, dell’anticipazione da parte dello Stato
di una somma di 10.000 euro per ogni fase del giudizio per spese di difesa (con
possibilità di rivalsa nel solo caso di responsabilità a titolo di dolo
giudizialmente accertata); l’autorizzazione a portare, senza licenza, un’arma
diversa da quella di ordinanza quando non sono in servizio; una maggior libertà
di azione simboleggiata dalla possibilità, nei confronti di associazioni
terroristiche (ma con evidente potenzialità espansiva), non solo a mezzo di
“infiltrati” ma anche mediante “agenti provocatori” e dalla dotazione, per i
servizi di ordine pubblico (e non solo), di dispositivi di videosorveglianza
idonei a registrare l’attività operativa e il suo svolgimento.
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L’abuso del decreto legge, stravolgendo il sistema delle fonti, viola la
separazione dei poteri, che assicura la limitazione del potere: elemento
imprescindibile di una democrazia costituzionale
di Alessandra Algostino da il manifesto
C’era un disegno di legge in discussione in parlamento, detto «sicurezza»,
espressione del peggiore populismo penale, incostituzionale nell’anima e nelle
disposizioni; il governo, con un golpe bianco (…invero nero), lo ha trasposto in
un decreto legge.
Al contenuto eversivo si aggiunge l’eversione nei rapporti fra governo e
parlamento.
Troppo forte il termine eversione? Il passato non si ripresenta allo stesso
modo, ma la mutazione della democrazia in regime autoritario attraverso vie
legali non è un pericolo astratto; il suo progressivo svuotamento sostanziale
sotto l’involucro è un percorso in atto. Il parlamento discute, o tenta di
farlo, vista la scarsa disponibilità alla mediazione politica (nel senso di
effettivo processo di integrazione politica), ma «i tempi si sarebbero
prolungati troppo» (citazione del ministro Piantedosi).
E allora interviene il governo, «nella sua più alta ma anche più concreta
significazione di Istituto atto a risolvere nel modo più rapido, fermo e univoco
tutte le molteplici questioni che nell’azione quotidiana si presentano, non
impacciato da preventive compromissioni, non impedito da divieti insormontabili,
non soffocato da dissidi, non viziato nella origine da differenze ingenite di
tendenze e di indirizzi» (Mussolini, dibattito sulla legge Acerbo).
Iniziamo da qui: quali sono i motivi di necessità e urgenza? Leggendo la bozza
compare solo un elenco tautologico di «considerata» e «ritenuta» «straordinaria
necessità e urgenza»: mere clausole di stile, nulla di più. Come la Corte
costituzionale ha ricordato più volte (da ultimo, sentenza 146 del 2024), il
decreto legge è «uno strumento eccezionale», «la pre-esistenza di una situazione
di fatto comportante la necessità e l’urgenza… costituisce un requisito di
validità costituzionale»: in gioco sono gli «equilibri fondamentali della forma
di governo». Con quanto ne consegue sulla forma di stato. L’abuso del decreto
legge, stravolgendo il sistema delle fonti, viola la separazione dei poteri, che
assicura la limitazione del potere: elemento imprescindibile di una democrazia
costituzionale.
È l’ennesimo atto di asservimento e annichilimento del parlamento. Ennesimo, e
«pesante»: per i diritti su cui incide il provvedimento, per il suo essere
oggetto di una forte contesa politica, perché si tratta di materia in
discussione nelle aule parlamentari, per l’insussistenza palese della necessità
e urgenza (a meno che non le si voglia ridurre al meschino mercanteggiamento di
interessi tra le forze di maggioranza).
Veniamo al contenuto. Lo schiaffo al parlamento – in violazione della
Costituzione e inaccettabile in ogni caso – salvaguarda almeno dalle
innumerevoli incostituzionalità del disegno di legge? Dalla bozza che è dato
leggere, no.
I rilievi del Quirinale sono recepiti al minimo possibile. Alcune norme sono
semplicemente ammorbidite, come nel caso delle madri detenute o della richiesta
di documento per la vendita della Sim agli stranieri (non è necessario il
permesso ma c’è l’obbligo di un documento di identità). Altre sono oggetto di
interventi di plastica facciale, come nelle ipotesi della punizione degli atti
di resistenza anche passiva: si specifica che gli ordini la cui disobbedienza è
punita riguardano il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, concetti
passepartout. Sfiora il ridicolo la modifica della norma che riguarda
l’aggravante «grandi opere», dove il riferimento alle opere pubbliche o
infrastrutture strategiche è sostituito con «infrastrutture destinate
all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di
altri servizi pubblici». Di maggior rilievo, e indubbiamente positivo, lo
stralcio della collaborazione di pubbliche amministrazioni e università con i
servizi segreti, in deroga al diritto di riservatezza.
Restano, immutati, il reato di blocco stradale, la ridondante punizione
dell’occupazione di immobili, l’ampliamento del daspo urbano, etc. La cappa
illiberale e repressiva del provvedimento non muta: criminalizzazione e
repressione del dissenso, stigmatizzazione e punizione del disagio sociale e
della solidarietà, neutralizzazione del conflitto sociale. E restano il diritto
penale dell’amico, i privilegi per la polizia, con il sotteso di uno stato che
si identifica con le forze dell’ordine e l’obbedienza.
È sufficiente il restyling per tacitare – ed esautorare – l’opposizione e
giustificare il silenzio calato sulla notizia? Il presidente della Repubblica,
come garante della Costituzione, non dovrebbe domandare – cito Matteotti – «alla
maggioranza che essa ritorni all’osservanza del diritto»?
Lungo la china del male minore, si scivola nel baratro.
Ancora una volta è dalla piazza, che si vuole chiudere in una zona rossa del
dissenso e del pensiero, che può venire una risposta.
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