A Torino si gioca una partita più grande di un singolo, mostruoso teorema: a
essere sotto processo non sono solo i militanti dell’Askatasuna e No Tav ma le
lotte sociali del paese
di Fasulin* da Jacobin Italia
Il 31 marzo presso il Tribunale di Torino, verrà proclamata la sentenza di primo
grado del processo per associazione a delinquere che vede imputate ventisei
persone con la richiesta di 88 anni di carcere in totale per 72 capi di
imputazione, 66 dei quali riguardano le proteste contro il Tav in Val di Susa.
È storia consolidata che le nuove istanze politiche e le battaglie per i diritti
civili e umani vengano spesso represse dai governi, più interessati in ogni
parte del mondo al mantenimento dello status quo e dei privilegi delle élite
dominanti. Da che emisfero si guardi la storia dei popoli questo non cambia,
uomini e donne in tutto il mondo hanno dovuto lottare, talvolta fino a
sacrificare la propria vita, per imporre dei cambiamenti necessari al
raggiungimento, ad esempio, della giustizia sociale e alla tutela di minoranze,
spesso oggetto di discriminazioni. Non a caso la protesta, il suo diritto a
esprimersi e le vite di chi si impegna in tal senso, vengono spesso attaccate
dai poteri giudiziari, al fine di annichilire le spinte di cambiamento e
spaventare chi un giorno potrebbe decidere di mettersi in gioco, per sé e per
gli altri.
L’attacco che vede protagonisti il Movimento No Tav e il centro sociale torinese
Askatasuna, si gioca su un terreno pericoloso per la libertà di opinione e di
dissenso creando un precedente molto grave per le lotte che da nord a sud
animano il nostro paese, in un momento storico in cui assistiamo
progressivamente a un’accelerazione dello scenario bellico e a una significativa
riduzione della possibilità di dissentire.
Del resto, la repressione attuata dal governo ha assunto delle caratteristiche
particolari. con lo Stato, con i suoi apparati repressivi, giudiziari e
mediatici, che muove verso l’espulsione e la criminalizzazione a priori di tutto
ciò che produce conflittualità.
Il Ddl Sicurezza è la perfetta espressione di questa tendenza: di fronte a una
grave crisi sociale, si risponde su un piano squisitamente penale, mirando a
punire qualunque forma di protesta spontanea e di solidarietà attiva, come nel
caso di un semplice blocco stradale o dell’occupazione a scopo abitativo. Non è
un caso che tra le novità introdotte da questo decreto trovi spazio una
particolare attenzione agli attivisti e alle attiviste climatiche, così come a
chi si oppone alla costruzione di Grandi opere sul territorio.
In questa cornice, l’utilizzo del reato associativo rappresenta l’espressione di
un disegno repressivo perverso. Non si tratta più di perseguire alcuni illeciti
in quanto tali, che da sempre vengono commessi all’interno delle pratiche con
cui si esprime il conflitto sociale (come la resistenza a pubblico ufficiale o
il blocco stradale), ma di criminalizzare l’opposizione sociale in sé, facendo
propria un’esasperata logica persecutoria di interi movimenti sociali e
politici.
Questa pratica purtroppo non è del tutto inedita. Torino, infatti, nel corso
dell’ultimo ventennio è stata utilizzata come laboratorio di strategie
repressive oggi applicate anche nel resto del paese. Molteplici sono stati i
provvedimenti utilizzati: avvisi orali, fogli di via, sorveglianze speciali,
sanzioni pecuniarie per illeciti amministrativi e richieste di ingenti
risarcimenti per danni. Fino ad arrivare alle accuse di terrorismo applicate al
conflitto sociale, con conseguenze molto pesanti sulle vite delle persone
coinvolte.
Nel 1998 i Pubblici ministeri della Procura di Torino Laudi e Tatangelo, con il
supporto di Ros e Digos (Divisione Investigazioni Generali e Operazioni
Speciali), arrestarono gli anarchici Edo, Sole e Silvano, con un’accusa
pesantissima: associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine
democratico chiamata «Lupi Grigi». L’ipotesi era che avessero compiuto attentati
ai danni di infrastrutture come tralicci di telefonia e centraline elettriche in
Val Susa, e che ne stessero pianificando altri. La Procura di Torino è
inflessibile – il Pm Laudi dichiarò addirittura di possedere «prove granitiche»
della loro responsabilità – e la stampa locale sposò apertamente questo disegno
della Procura, con una campagna mediatica dove per la prima volta si fece uso
del termine ecoterroristi. Il 28 marzo 1998, dopo tre settimane di detenzione al
Carcere delle Vallette di Torino, Edo venne trovato morto impiccato nella sua
cella. Il 15 luglio 1998 invece fu Sole, la sua compagna, a togliersi la vita
nella comunità dove scontava la misura cautelare. Silvano venne invece
processato in primo, secondo e terzo grado assistendo alla sua (e quindi loro)
assoluzione.
Nel 2012, a seguito delle giornate del 27 maggio e 3 luglio 2011 –
rispettivamente lo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena e il giorno
dell’assedio al cantiere di Chiomonte – andò in scena il maxiprocesso, un
processo politico dove con 53 imputati fu tutto il Movimento No Tav a essere
messo sotto accusa. Quasi un centinaio di udienze a ritmo serrato, tutte tenute
nell’aula bunker del carcere Lorusso e Cotugno con testimoni reticenti da parte
dell’accusa e intimidazioni continue ai testi della difesa. Furono quasi 200 gli
anni chiesti come condanna complessiva ai No Tav e non si contano i
risarcimenti. Inutile dire che il processo si concluse dopo i tre gradi di
giudizio con alcune assoluzioni e le condanne dimezzate.
Nel 2013, la Corte d’Assise di Torino bocciò l’impianto accusatorio di
terrorismo ai danni di quattro attivisti No Tav condannati per reati minori.
Interessanti le motivazioni della sentenza: «In realtà non si ritiene che la
programmazione emersa dal tenore delle telefonate oggetto di intercettazione, il
numero di soggetti concorrenti, le armi proprie e improprie utilizzate fossero
di per sé tali da incidere, anche solo potenzialmente, sulla volontà dello Stato
di proseguire i lavori programmati», hanno spiegato i giudici.
L’assalto del 14 maggio 2013 «non era oggettivamente un contesto di particolare
allarme e neppure l’azione posta in essere rivestiva una ‘natura’ tale da essere
idonea a raggiungere la contestata finalità di terrorismo». Proseguono i
giudici: «Pur senza voler minimizzare i problemi per l’ordine pubblico causati
da queste inaccettabili manifestazioni non si può non riconoscere che in Val di
Susa non si viva affatto una situazione di allarme da parte della popolazione e
che nessuna delle manifestazioni violente sino ad ora compiute ha inciso,
neppure potenzialmente, sugli organismi statali interessati alla realizzazione
dell’opera».
Per tornare quindi alla vicenda attuale, la crociata nei confronti del Centro
sociale torinese Askatasuna e del Movimento No Tav inizia nel 2009 per mano
della solerte Digos, producendo un’indagine lunga 13 anni che diventa operativa
in procura dal 2019. La cosiddetta «Operazione Sovrano», dopo centinaia di
intercettazioni, migliaia di pagine, centinaia di agenti e decine di migliaia di
euro spesi in cimici e software, ha portato sui tavoli del tribunale una
quantità di intercettazioni inverosimile, estrapolate da ogni contesto e spesso
frutto di ricostruzioni tendenziose da parte degli agenti, con il solo intento
di rafforzare le tesi già elaborate in partenza. Perché in questa inchiesta, si
vede proprio come Digos e Procura siano partiti dal reato di associazione
sovversiva e abbiano poi fatto di tutto per sostanziarlo.
L’impianto accusatorio si regge sul calcolo statistico per cui all’interno delle
mobilitazioni degli ultimi anni ci sarebbero alcuni soggetti ricorrenti aderenti
al Centro sociale Askatasuna che orchestrano e sovradeterminano le scelte dei
comitati valsusini e delle lotte cittadine.
Il primo Giudice per le indagini preliminari e i giudici del Riesame hanno però
bocciato l’impianto accusatorio riconvertendo l’accusa in associazione semplice
perché il gruppo incriminato sarebbe stato ritenuto privo delle finalità e delle
capacità di sovvertire l’ordine costituito dello Stato, rivelando dunque la
fragilità anche ontologica di tale accusa e rimodulando il focus
sull’associazione a delinquere, più facilmente dimostrabile.
Inizia il processo e come di fatto ammettono i Pubblici ministeri Emanuela
Pedrotta ed Emilio Gatti in una nelle prime udienze, vogliono fare un
esperimento: vedere se, per la prima volta in un tribunale, si può dimostrare
che la finalità di un’associazione a delinquere può essere la ripetizione di
atti violenti di per sé. L’idea quasi lombrosiana che sottintende l’accusa è che
nel caso di Askatasuna la politica sia un mezzo come un altro per fare violenza.
È evidente come dietro questa coltre di finalità criminali evanescenti
individuate nell’indagine vi sia il tentativo di nascondere il vero senso della
militanza politica, che per una Procura non è concepibile possa risiedere
nell’anteporre il benessere collettivo ai propri interessi individuali. Ci
dev’essere insomma «qualcosa dietro»: se non sono i soldi e non è il potere,
bisogna tornare a concezioni della devianza di inizio Novecento. Ma per fare ciò
non basta il Codice penale, bisogna uscire dalle aule dei tribunali e spargere
fango a mezzo stampa.
Ma se l’obiettivo era tentare di isolare i compagni e le compagne che fanno
parte del centro sociale Askatasuna e del Movimento No Tav mostrandoli come dei
burattinai senza scrupoli, nella pratica questa è rimasta una pura fantasia
mediatica per due motivi principali: in primo luogo le lotte sociali in città e
in Valsusa coinvolgono un tessuto eterogeneo di militanti, attivisti e persone
comuni molto più esteso e non riconducibile all’area politica dell’Autonomia
vicina al Centro sociale. Il protagonismo all’interno delle mobilitazioni è
ampio, diffuso e trasversale anche in questi tempi di riflusso generale, dalle
assemblee, alle manifestazioni fino ai momenti di conflitto sociale. In secondo
luogo, è chiaro a molti che nell’ultimo decennio se una «regia» delle tensioni
di piazza c’è stata, questa è imputabile alla Questura e alla sua gestione
repressiva e violenta della protesta.
È chiaro quindi che a Torino si gioca una partita più grande: a essere sotto
processo non sono solo i militanti dell’Askatasuna e del Movimento No Tav ma le
lotte sociali del nostro paese. Il tentativo, infatti, è quello di costruire un
reato specifico contro il conflitto sociale.
La storia del Movimento No Tav ci parla però di altro: racconta di un popolo in
movimento, per la giustizia sociale e in difesa della terra e dell’ambiente. Una
lotta per un presente migliore, certo, ma soprattutto per il futuro di chi
questo pianeta lo abiterà dopo di noi.
*Fasulin è il nome di battaglia della partigiana valsusina Ernestina Cugno, così
soprannominata perché piccola e minuta. Ha dato il suo contributo attivo nella
lotta di Resistenza al nazifascismo in Valsusa. Riconosciuta e onorata con la
medaglia di combattente partigiana.
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Tag - Editoriale
La vicenda giudiziaria che vede coinvolto il centro sociale torinese Askatasuna
non è solo cittadina o nazionale, fa parte di una deriva autoritaria globale
di Alessandra Algostino da il manifesto
Il processo a Torino per associazione per delinquere contro 28 militanti del
centro sociale Askatasuna va oltre la valutazione di eventuali responsabilità
penali individuali e colpisce in sé la democrazia come conflitto, come libero
dibattito anche quando le posizioni urtano o inquietano (Cedu, 2005).
È il progetto politico, è l’autorganizzazione dal basso di attività sociali e
culturali che sono sotto processo con la stigmatizzazione e criminalizzazione
per associazione per delinquere. Agire conflitto sociale è associazione per
delinquere, rappresentare e praticare visioni politiche e culturali alternative
è associazione per delinquere, ricostruire dal basso legami sociali sul
territorio è associazione per delinquere.
Ad essere ricondotta alla «delinquenza» e al correlato richiamo alla violenza è
l’idea di alternativa radicale rappresentata dal centro sociale, ovvero quel
dissenso e pluralismo che della democrazia costituiscono l’anima. Askatasuna, e
tutti coloro che sono ad esso riconducibili o accomunati, sono stigmatizzati ed
espulsi dallo spazio democratico. È la costruzione della figura del nemico: non
a caso allo strumento penale si associa la denigrazione mediatica.
Come ha scritto nel 2015 il Tribunale permanente dei popoli a proposito del
movimento No Tav, oggetto paradigmatico del modus operandi della repressione, si
registrano: la «trasformazione delle questioni politiche inerenti le grandi
opere in problemi di ordine pubblico demandati a polizia e magistratura (anche a
mezzo di appositi provvedimenti legislativi o amministrativi di carattere
generale)»; «interventi di polizia e giudiziari assai pesanti da molti
interpretati come metodi diretti a disincentivare e/o bloccare sul nascere
opposizione e protesta»; con i mezzi di comunicazione che «si convertono in
agenti di disinformazione e spesso di contaminazione».
E siamo tutti avvisati: si parte dai margini, da coloro che sono etichettati
come «violenti», «indesiderati» ed «eccedenti» (pensiamo al decreto rave e alla
criminalizzazione del disagio sociale e dei migranti) e si restringe
progressivamente l’orizzonte della democrazia. Per tutti. Si muove dalle
condotte più urticanti e quindi si punisce la resistenza passiva (il disegno di
legge sicurezza insegna).
La sovradeterminazione delle fattispecie penali, l’abuso di misure cautelari e
di sicurezza, si accompagnano a richieste di risarcimento milionarie e assurde,
come le spese per gli agenti a presidio del cantiere Tav in Val Susa. Il diritto
civile e quello amministrativo, dalle ordinanze prefettizie che creano le zone
rosse al daspo urbano, sono impiegati e piegati al compito di imporre un ordine
pubblico che espelle e reprime la divergenza sociale e politica.
Torino come laboratorio di repressione non è un’eccezione, ma una
sperimentazione, coerente con la cappa autoritaria che sta avvolgendo le
democrazie. Anticipa il ddl sicurezza, in coerenza con i provvedimenti in
materia adottati da governi di diverso colore politico nel corso degli anni.
È il neoliberismo autoritario che non tollera l’alternativa (There Is No
Alternative), si salda con l’omogeneizzazione forzata e la repressione della
dissidenza, accompagna la «vertigine della guerra» e l’involuzione di democrazie
neutralizzate, svuotate e infine smembrate apertamente.
Askatasuna associazione per delinquere non è una vicenda solo torinese e nemmeno
nazionale: «associati per delinquere» sono gli universitari della Columbia
perquisiti e perseguiti, è il candidato alla presidenza turca Imamoglu arrestato
con l’accusa di «aver fondato un’organizzazione criminale finalizzata alla
corruzione», è il popolo palestinese oggetto di una – questa sì, criminale –
punizione collettiva.
«Associazione a resistere», come strumento di resistenza dal basso e progetti
come il patto di collaborazione con il comune di Torino nella prospettiva del
bene comune sono segnali controcorrente, che testimoniano la vitalità e la
necessaria complessità della democrazia conflittuale.
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Da secoli, la pena capitale tenta di tener testa al delitto, ma il delitto
persiste: non si realizza mai che ogni società ha i criminali che si merita
di Marco Sommariva*
Lo scorso 8 marzo, un articolo di Luca Miele pubblicato su Avvenire, raccontava
che in cinque minuti s’era “consumata l’esecuzione – e la vita – di Brad Keith
Sigmon, da ventitré anni nel braccio della morte nella Carolina del Sud. Cinque
minuti nei quali il condannato è stato prima incappucciato, poi gli è stato
posizionato un bersaglio addosso nel Broad River Correctional Institution,
Columbia”.
I giornalisti che hanno assistito all’esecuzione hanno raccontato che Sigmon
indossava una tuta nera con un piccolo bersaglio rosso sul cuore; il plotone
d’esecuzione, composto da volontari – pensa te! – del South Carolina Department
of Corrections, ha sparato attraverso fessure in un muro.
Il pezzo prosegue spiegandoci che è stato Sigmon a “scegliere” di morire con la
fucilazione e non con un’iniezione letale o sulla sedia elettrica; che
l’avvocato del condannato a morte, i familiari delle vittime e tre
rappresentanti dei media si sono sistemati dietro a un vetro “rinforzato” per
essere antiproiettile, per assistere all’esecuzione; che i tre tiratori si sono
posizionati a 4,6 metri di distanza dal “bersaglio” – “la stessa distanza che
intercorre tra il tabellone e la linea del tiro libero in un campo da basket” –,
ognuno armato di un fucile con munizioni Winchester calibro .308, proiettili che
si frantumano all’impatto con qualcosa di duro, come le ossa del torace di un
detenuto, sprigionando frammenti destinati a distruggerne il cuore, una morte
quasi istantanea scrive APNews.
Sigmon ha scelto il plotone di esecuzione per via della “inaffidabilità” del
farmaco utilizzato per l’iniezione letale e per la barbarie della sedia
elettrica, che lo avrebbe “bruciato vivo”.
In una dichiarazione finale letta dal suo avvocato, Sigmon ha inviato un
messaggio di “amore e un invito ai miei fratelli cristiani ad aiutarci a mettere
fine alla pena di morte”.
Il 25 gennaio dell’anno scorso, Kenneth Eugene Smith è stato il primo uomo a
essere ucciso tramite respirazione forzata di azoto puro. I funzionari
dell’Holman Correctional Facility di Atmore, in Alabama, dov’è stata eseguita la
condanna, hanno fatto sapere che l’uomo è stato dichiarato morto alle 20.25 ora
locale. L’esecuzione è durata circa ventidue minuti e Smith è sembrato rimanere
cosciente per diverso tempo. L’uomo aveva già subito una prima esecuzione il 17
novembre del 2022, ma era riuscito a sopravvivere all’iniezione letale perché
gli addetti all’esecuzione non erano riusciti a trovare la vena.
Leggo su Vaticannews che, prima d’indossare la maschera, “il condannato a morte
ha pronunciato queste ultime parole: ‘Stasera l’Alabama fa sì che l’umanità
faccia un passo indietro. Me ne vado con amore, pace e luce’. Dopo aver fatto il
segno del cuore con le mani verso i familiari e i testimoni, Smith ha detto:
‘Grazie per avermi supportato. Vi amo, vi amo tutti’. Lo Stato dell’Alabama ha
definito l’uso di azoto puro “il metodo meno doloroso e più umano”, e che l’uomo
avrebbe probabilmente perso i sensi nel giro di un minuto o due, per morire
subito.
Ricapitolando: Sigmon sceglie il plotone d’esecuzione per via della
inaffidabilità del farmaco utilizzato per l’iniezione letale e per la barbarie
della sedia elettrica che lo brucerebbe vivo, e prima d’andarsene ci invia un
messaggio d’amore; a Smith viene somministrato l’azoto puro perché è il metodo
meno doloroso e più umano, e anche lui prima d’andarsene parla d’amore.
Parrebbe “funzionare” tutto: possibilità di scegliere, meno sofferenza
possibile, messaggi d’amore da chi uccidiamo… perché cambiare?
D’altra parte, esiste sempre un punto di vista che giustifica le peggiori cose;
leggete cos’ha dichiarato alla Radio Televisione afgana, neppure un anno fa, il
leader supremo dei talebani Hibatullah Akhundzada: “Flagelleremo le donne, le
lapideremo a morte in pubblico”, come riporta il Guardian. Le parole del leader
arrivano quasi come una punizione destinata non soltanto alle donne, ma
all’intero Occidente: “Ci accusate di violare i diritti delle donne quando le
lapidiamo o flagelliamo pubblicamente per aver commesso adulterio, perché questo
va contro i vostri principi democratici” e prosegue, rivolto ai paesi
occidentali, “io rappresento Allah, voi rappresentate Satana”.
E chissà che, potessero comunicare prima della lapidazione, anche le donne
afghane condannate non si rivelino foriere di messaggi d’amore l’attimo prima
d’esser prese a pietrate; ne dubito, ma non si sa mai: quando occorre che tutto
appaia “funzionante”, può essere che ci arrivino anche notizie come questa.
Eppure, qualcosa che non funziona c’è; leggo su Wired che Kenneth Eugene Smith
ha dovuto inalare l’azoto puro dopo esser stato immobilizzato su una barella e
aver indossato una maschera che, coprendo bocca e naso, ha spinto a forza
l’azoto nei suoi polmoni. Nello stesso articolo, Amnesty International spiega
che l’ipossia da azoto consiste nell’inalazione di azoto “per quindici minuti
fino alla totale scomparsa di ossigeno, con compromissione letale degli organi
vitali. Si tratta di un metodo assolutamente sperimentale di esecuzione,
purtroppo approvato dalla Corte suprema dell’Alabama, ma che – per paradosso – è
vietato sugli animali. Secondo i giudici, non si tratta di una ‘punizione
crudele e insolita’, ossia di quelle vietate dall’Ottavo emendamento della
Costituzione americana”.
Un metodo di esecuzione vietato sugli animali.
Davvero non riusciamo a riservare agli esseri umani ciò che riteniamo meritino,
per esempio, felini o canidi che assistiamo con così tanta cura fra le mura
domestiche? Parrebbe davvero essere così, e anche da un bel pezzo, visto che
Victor Hugo nel suo L’ultimo giorno di un condannato a morte del 1829, ci
racconta di gente che, alla vista del condannato a morte che s’accinge alla pena
capitale, batte le mani, gli riserva una tale festa che un re, per quanto amato,
non avrebbe mai ricevuto: “[…] sono venuti ad avvertirmi che era ora. […] Mi
hanno fatto percorrere i loro corridoi, scendere le loro scale. Mi hanno spinto
tra due porticine, al pianterreno, in una sala buia, stretta, a volta, appena
rischiarata da un giorno di pioggia e nebbia. Nel mezzo stava una sedia. Mi
hanno detto di sedermi; mi sono seduto. C’era vicino alla porta e lungo i muri
qualche persona in piedi, oltre al prete e alle guardie, e c’erano anche tre
uomini. Il primo, il più alto, il più vecchio, era grasso e con la faccia rossa.
Portava una finanziera e un cappello sformato a tricorno. Era lui. Era il boia,
il servo della ghigliottina. Gli altri due erano gli aiutanti. Appena seduto,
quelli mi si sono avvicinati da dietro, come due gatti […]. Intorno parlavano
sottovoce. C’era molto rumore, fuori, come un fremito che ondeggiasse nell’aria.
Sulle prime ho pensato al fiume; poi, da qualche risata squillante, ho
riconosciuto in quel rumore la folla. […] A un tratto uno dei servi mi ha tolto
la giacca, l’altro ha preso le mie mani inerti, le ha girate dietro la schiena,
e io ho sentito i nodi d’una corda chiudersi adagio attorno ai polsi stretti
l’uno all’altro. Contemporaneamente, l’altro mi disfaceva la cravatta. La mia
camicia di batista, unico brandello di ciò che ero stato un tempo, l’ha fatto
esitare un istante; poi s’è messo a tagliare il colletto. […] uno dei due s’è
chinato e mi ha legato i piedi con una cordicella lenta, che mi lasciava far
soltanto dei brevi passi. La corda è stata unita a quella delle mani. Poi
l’omone mi ha buttato la giacca sulle spalle e annodato insieme le maniche sotto
il mento. […] I due aiutanti mi hanno preso per le ascelle. Mi sono alzato, ho
camminato. Avanzavo a passi molli e malfermi, come se in ogni gamba avessi avuto
due ginocchia. In quel momento la porta esterna s’è aperta a due battenti. […]
“Eccolo! eccolo!” ha gridato la folla. “Esce! finalmente!” E i più vicini
battevano le mani. Un re, per quanto amato, non avrebbe avuto tanta festa”.
Anche Stephen King ne Il miglio verde un romanzo di trent’anni fa, si occupa dei
condannati a morte: nel braccio della morte del carcere di Cold Mountain, “il
miglio verde” è il percorso verso la sedia elettrica, l’ultimo miglio che i
condannati a morte percorrono, caratterizzato da una pavimentazione verde,
appunto.
Di questo libro riprendo due breve frasi: “Non tutte le prove sono quelle che si
vedono e ascoltano in un’aula di giustizia” e “Ammazzarci l’un l’altro con il
gas e l’elettricità e a sangue freddo? Che follia. Che orrore”.
Peccato si pensi sempre troppo raramente che nessuno di noi dovrebbe erigersi a
giudice assoluto e decretare l’eliminazione definitiva di nessuno, neppure del
peggiore dei colpevoli, poiché nessuno di noi può attribuirsi l’assoluta
innocenza.
Peccato la pena di morte non serva a nulla: da secoli tenta di tener testa al
delitto, ma il delitto persiste.
Peccato non si realizzi mai che ogni società ha i criminali che si merita, e che
è su questa che bisognerebbe lavorare.
Peccato che coloro che fanno versare la maggior quantità di sangue sono gli
stessi che credono d’aver dalla loro parte il diritto, la logica e la storia:
non è dall’individuo ma dallo Stato che, oggi, la società deve difendersi.
Per il finale mi son fatto aiutare dal Camus di Riflessioni sulla pena di morte,
un saggio di fine anni Cinquanta, quando ancora s’aveva l’abitudine di
riflettere, appunto.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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Non ci si stupisca: 17 mesi di genocidio in diretta sono serviti a dire che si
può fare. Si può condurre una guerra contro una popolazione civile, si può
tagliare il cibo e ammazzare 50mila persone, forse 70mila. L’Ue ha coperto
l’offensiva israeliana e non ha mai avuto intenzione di svolgere un ruolo di
difesa di un popolo aggredito
di Chiara Cruciati da il manifesto
E l’inferno sia, per i dannati della terra. Per chi ieri, sfigurato dal dolore,
ha trovato lo stesso il modo di celebrare funerali sulla terra nuda e le
macerie, in preghiera davanti a sacchi bianchi con i nomi scritti con il
pennarello. Per chi l’onda d’urto delle esplosioni ha svegliato in piena notte,
per chi non è svegliato più, chi è scomparso sotto altre tonnellate di cemento.
Di tanti sono stati ritrovati solo dei pezzi.
Una cintura di fuoco ha tramortito per ore e ore una Gaza in ginocchio, senza
più parole o illusioni, da nord a sud. Nessuna comunità risparmiata, né le tende
improvvisate tra le rovine del nord né le «zone umanitarie» a sud. Senza
preavviso, dicono, come se il preavviso potesse dare scampo a una popolazione
sotto assedio totale.
ISRAELE ha mantenuto la promessa: l’offensiva sarebbe ripresa, Netanyahu lo
aveva detto quando la tregua non era ancora entrata in vigore. Rassicurava
l’ultradestra al governo e un’opinione pubblica schiacciata sulla guerra,
rassicurava se stesso.
Non ci si stupisca, dunque, perché 17 mesi di genocidio in diretta sono serviti
a questo, a dire che si può fare. Si può condurre una guerra contro una
popolazione civile, si può tagliare cibo, acqua ed elettricità, si possono
ammazzare 50mila persone, forse 70mila. Si può violare un accordo di tregua e
dire che la colpa sta altrove. Si può fare. Gaza è laboratorio del possibile.
Gaza dice che ci si può narrare come presidente talmente «pacifista» da
convincere l’alleato israeliano a una tregua quando ancora non si era nemmeno
entrati alla Casa bianca. Dopo, è un’altra storia: promesse di pulizia etnica e
carta bianca al massacro indistinto. L’amministrazione Trump ha rivendicato ieri
«l’inferno» vomitato contro una popolazione terrorizzata e garantito a Israele
sostegno «nei suoi prossimi passi».
Una posizione che non nasce dal nulla: Trump il sovranista è in grado di
invocare pulizia etnica e sterminio («A tutta la gente di Gaza: un bellissimo
futuro vi aspetta, ma non se tratterrete gli ostaggi. Se lo fate, siete MORTI»,
Truth Social, 6 marzo 2025), perché prima le democrazie cosiddette liberali
hanno permesso un genocidio.
Gaza è laboratorio del possibile e cartina di tornasole della retorica
militarista europea. Su queste pagine abbiamo criticato l’Unione per non aver
mai messo in piedi un’iniziativa negoziale che ponesse fine alla guerra in
Ucraina e ai massacri russi e per aver puntato solo sulla reazione militare. A
Gaza un ruolo negoziale l’Ue non lo ha mai vagheggiato.
AL CONTRARIO, i paesi membri hanno coperto l’offensiva israeliana, garantendo
immunità a un ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra
e contro l’umanità (Netanyahu), fornendo le armi necessarie e tagliando fondi
all’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, l’Unrwa. Così l’Europa ha fatto la
sua parte nelle stragi della popolazione civile.
Per Gaza l’Europa non ha mai avuto alcuna intenzione di svolgere un ruolo di
difesa di una popolazione aggredita (o per lo meno di peacekeeping come dice di
voler fare in Ucraina), abbandonando lo storico ruolo di ponte con il
Mediterraneo, perché ha fatto proprio quell’assunto di diseguaglianza razziale
che fino al termine delle lotte di liberazione dal colonialismo ha definito gli
equilibri globali e l’applicazione della legge internazionale.
Il diritto di autodeterminazione non è universale, ma segue – ancora – la linea
del colore. Tanto potente è ormai l’idea di una malata superiorità valoriale
traslata sul piano razziale che anche nelle piazze che difendono un’idea confusa
di Europa la Palestina non ha spazio. I palestinesi sono soli, una solitudine
mortifera mai tanto devastante dal 1948.
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Da sempre, nel nostro paese, l’impegno istituzionale contro il femminicidio
prevede risposte disorganiche e punitive, senza alcuna strategia strutturale di
lotta preventiva al modello culturale e sociale che lo alimenta. Nella stessa
logica si muove la proposta di introdurrre un reato ad hoc puntito con
l’ergastolo: proposta illusoria e ingannevole che, per ribaltare il patriarcato,
si appoggia su di esso e sul suo strumentario.
di Riccardo De Vito da Volere la Luna
Come ogni maschio, devo entrare con prudenza nel dibattito in ordine al
femminicidio. Appartengo al lato dell’umanità che, sotto il profilo statistico e
sociale, non deve temere. A essere a rischio non sono quasi mai il mio corpo e
il mio modo di essere, la mia libertà, le mie scelte di mettere in piedi o
abbandonare una relazione, un amore, una casa. Tutt’altro per quanto riguarda la
donna. Sebbene le statistiche parlino di un decremento, in Italia (come in
Europa) continuano a essere elevati i numeri di donne uccise perché donne.
L’Osservatorio Nazionale Femminicidi Lesbicidi Trans*cidi NUDM, alla data dell’8
marzo 2025, registra 8 femminicidi, 3 casi in fase di accertamento, nonché 9
tentativi. Stiamo parlando del 2025. Non ho guardato le statistiche complessive
degli omicidi nello stesso periodo, né so se siano già disponibili.
Semplicemente, non mi interessano ai fini di questo discorso. È probabile che,
nello stesso lasso temporale, il numero di uomini uccisi sia maggiore, ma non è
questo il punto. Si uccide un uomo per debiti, per faida, per guerre di
criminalità organizzata, per vendetta, per legittima difesa, per tanti altri
moventi. Mai perché maschio.
La conseguenza di queste premesse dovrebbe essere un apprezzamento per il
disegno di legge governativo finalizzato all’introduzione del delitto di
femminicidio nel codice penale: un reato autonomo che, prima ancora di
sanzionare, dovrebbe riconoscere il disvalore intrinseco dell’uccisione di donna
basata sul movente della discriminazione, dell’odio, dell’asimmetria di potere
maschio/femmina. Risponderà di femminicidio «chiunque cagiona la morte di una
donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la
persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o
delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità». Pena
prevista: ergastolo automatico, senza se e senza ma (con possibilità di evitarlo
solo in caso di riconoscimento di attenuanti, che determinano comunque pene
automatiche: ventiquattro o quindici anni). Le medesime circostanze di
commissione del fatto sono introdotte quale aggravante sostanziasa – da un terzo
alla metà – per tutti i reati di codice rosso (lesioni, maltrattamenti e altri).
Nonostante il plauso con il quale la proposta è stata accolta da ampi settori
della società e della magistratura – soprattutto quella meritevolmente impegnata
a combattere le espressioni di una giurisprudenza che troppe volte ha reiterato
cliché patriarcali – mi sento di sposare appieno il pensiero di quelle
femministe (tra le prime Ida Dominjanni e Tamar Pitch) che hanno radicalmente
contestato il disegno di legge. Una “polpetta avvelenata”, così l’ha definito
Milli Virgilio, giurista e avvocata da sempre impegnata sul terreno della difesa
delle donne colpite da violenza e discriminazione, non foss’altro perché
ritaglia in modo aribitrario, con atto di imperio allineato alle visioni delle
destre egemoni, il campo delle vittime: sarebbe tale, «in una logica
rigidiamente binaria», solo la donna biologica, con esclusione di altre
categorie discriminate, quali omosessuali e transgender
(https://studiquestionecri
minale.wordpress.com/2025/03/10/nominare-il-femminicidio-non-in-nostro-nome/).
Le ragioni del dissidio sono profonde, politiche e giuridiche allo stesso tempo.
Una premessa è indispensabile. È da anni che, in Italia, l’impegno istituzionale
per la riduzione del femminicidio si concentra su disorganiche risposte
emergenziali e punitive, anziché su strategie strutturali di lotta preventiva al
modello culturale e sociale di stampo patriarcale. Anche i fondi destinati alla
prevenzione – aumentati nel periodo compreso tra il 2013 (approvazione della
legge che ratifica la Convenzione di Instanbul) e il 2022, ma tornati a calare
in maniera brusca nel 2023 – sono stati in gran parte investiti in misure di
“risposta alla violenza già avvenuta”, rinunciando ad “agire strategicamente per
prevenirla” (Prevenzione Sottocosto, ActionAid 2023). Nessuno spazio, dunque,
per politiche educative di genere e a un’affettività consapevole, basata su
ascolto, consenso e diritto all’integrità personale. Le ricerche qualitative
sulla consapevolezza degli stereotipi di genere in ambito giovanile consegnano
risultati sconfortanti. Le parole di Ursula K. Le Guin, consegnate al celebre
Discorso per la consegna dei diplomi al Bryn Mawr (1986), suonano ancora
terribilmente attuali: «Le nostre scuole e i nostri college, istituzioni del
patriarcato, di solito ci insegnano ad ascoltare le persone che hanno il potere,
uomini o donne che parlano la lingua padre; e ci dicono quindi di non ascoltare
la lingua madre, le persone prive di potere, gli uomini poveri, le donne, i
bambini: quello non va considerato un discorso valido».
La stessa scarsità di risorse e impegno si ritrova nel campo delle azioni
positive per mettere in rete tutti i possibili operatori della prevenzione, da
quelli sanitari ai Centri Antiviolenza, questi ultimi, peraltro, gravemente
penalizzati a seconda della collocazione territoriale. Analogo discorso vale per
il tema centrale delle azioni di empowerment, a partire dalla rimozione di
quelle differenze – salariali prima di tutto – che frenano autonomia economica,
emancipazione e autodeterminazione della donna (e impediscono, ad esempio, di
avere un posto sicuro dove andare a vivere se si sceglie di denunciare il
convivente). Un dato eclatane sulla persistenza delle gabbie del patriarcato:
soltanto il 58% delle donne, in Italia, ha un conto corrente intestato
personalmente (Global Thinking Foundation, 2023), nonostante sia noto quanto
l’emancipazione e la sicurezza passino attraverso la possibilità di gestire
autonomamente il denaro. Su un piano più basso, ma da non sottovalutare, persino
i programmi (e gli strumenti) di autodifesa sono sconosciuti, pecepiti come a
rischio di illegalità penale o sminuiti da una retorica che generalizza e
distorce il concetto e la pratica della nonviolenza
A fronte di questa desolazione, la destra al governo si impossessa della lotta
contro il patriarcato e getta sul tavolo l’ennesima risposta puramente
repressiva: carcere a vita – automatico e sottratto alla valutazione del giudice
– e tanta detenzione in attesa di giudizio. Possiamo raccontarci che verrà il
tempo degli investimenti in prevenzione, ma intanto la norma assume il sapore di
un’inversione di rotta. Di autonomia e controllo sulla propria vita da parte
delle donne (come di altri soggetti discriminati) se ne riparlerà in un futuro
che è sempre di là da venire. Intanto, ci si accontenti dell’ombrello della
repressione e della deterrenza penale. Eppure, se c’è una cosa che ho imparato
in anni di lavoro nella magistratura di sorveglianza e in sezioni di carceri
dove sono detenuti uomini violenti, è che a spaventare il patriarcato non sono
le pene lunghe, neppure il disumano buttare la chiave, ma l’azione delle donne
messe in condizione di reagire, di non subire, di allontanarsi, di ribaltare con
determinazione il rapporto di potere sui loro corpi.
Non intendo mettere in discussione la necessità della prigione quale momento di
“arresto” e contenimento delle pericolosità più alte. Ma questa strada (pure con
le lacune che un serio lavoro culturare all’interno della magistratura sta
cercando di colmare) è percorribile ed è percorsa già oggi. Acuire la
reperssione penale in modo indiscriminato costituisce una prospettiva illusoria
e pericolosa.
Illusoria, perché il carcere italiano, salve poche e faticose eccellenze, non
contiene un briciolo di seria prospettiva educativa a una relazionalità
consapevole. Basti pensare che, salvo in rarissimi casi (inferiori al 10%), i
momenti trattamentali intramurari comuni tra donne e uomini, negli Istituti
misti, sono di fatto ostacolati, se non vietati, dall’istituzione. È in quelle
occasioni che si dovrebbe mettere alla prova la crescita della personalità del
condannato, ma quasi sempre l’unica relazionalità che il detenuto vive durante
la sua pena è proprio il riprodursi del rapporto asimmetrico con la vittima. La
separazione del carcere, tendenzialmente, non riesce a rieducare il colpevole,
ma spesso fa rientrare nei ranghi la vittima. Quanti “pentimenti” per la
denuncia hanno sentito i magistrati di sorveglianza! Quanti sentimenti di colpa
per la condanna, accompagnati da richieste della famosa seconda chance! Quante
domande di accessi in Istituto per prendersi cura dell’uomo che ha sbagliato,
ma, in fondo, ha dimostrato di amare! Nel carcere di oggi – carente di personale
non custodiale e, dunque, non in grado di sorreggere proposte (ri)educative
degne di questo nome – continuano a plasmarsi immaginari in cui la donna rimane,
per chi aspira a tornare in libertà, un “oggetto di fruizione”, con piena
perpetuazione della logica che è alla base della violenza. Messi da parte gli
esempi di donne che tornano sui passi sbagliati, va detto che, contro questo
modello di carcere, tante donne hanno lottato: le “donne ai cancelli”
collettivamente organizzate, le donne del “salto dei banchi” hanno condotto una
battaglia per sé e per i compagni detenuti. Se non si cambia questo modello di
pena, dove si pensa di andare con la strada della minaccia del carcere?
Ingannevole poi, l’idea che l’ergastolo, anche nelle sue modalità più drastiche,
possa agire quale efficace controspinta crimonosa. Se volessimo ragionare
soltanto dell’aspetto utilitaristico, vanno ricordati i fiumi di giuste parole
scritte sul tema. Le ultime, tra le più importanti – diffuse alle nostre
latitudini dall’impegno di un giurista militante contro l’ergasolo, Davide
Galliani –, sono quelle contenute nel libro di Ashley Nellis e Celeste Barry,
The Scope and Impact of Life and Long Term Imprisonment in the United States
(2025): il sistema giuridico penale americano ha sviluppato una dipendenza
dall’ergastolo – circa 200.000 ergastolani, una persona detenuta su sei –, ma
questa non è servita a costruire una risposta efficace alla sicurezza pubblica.
Nessuna deterrenza, tanta disumanità gratuita. La conferma empirica può venire
dal nostro sistema e da uno sguardo al trattamento guidiziario del femminicidio.
La stampa è generosa nel riportare le notizie di condanne all’ergastolo
comminate, anche in tempi celeri, per uccisione di donne. A mancare, nel nostro
Paese e nel tempo attuale, non è la severità della reazione, ma l’effettiva
possibilità di intercettare il disagio prima che esploda.
A cosa si rivela oggettivamente funzionale, dunque, l’intervento normativo che
dà il nome al crimine di uccisione di donna e lo punisce con un castigo sempre
più disumano?
Come detto, non pare possa accreditarsi – auspicando di essere smentiti –
l’efficacia deterrente. Molti uomini si uccidono dopo aver ucciso: basta questo
dato per raccontare l’irreale percorribilità delle strada della paura indotta
dalla sanzione estrema. A rimanere sul campo sono gli effetti deleteri: la
definitiva abdicazione a una giustizia trasformativa, comunitaria, sociale prima
che giuridica, riparativa e la riedizione dell’ergastolo nel suo aspetto
peggiore, in un periodo storico in cui l’impengno dei giuristi e le lotte
abolizioniste erano riusciti finalmente a eroderne le forme più drastiche.
L’ennesimo ergastolo previsto dal nostro sistema non può passare in silenzio: fa
parte della norma tanto quanto il precetto e credo si possa (si debba) dire allo
stesso tempo no al femminicidio e no all’ergastolo. Anche perché il
femminicidio, quale fenomeno emergenziale, diventa automaticamente terreno di
sperimentazione, di incubazione di pratiche poi difficili da contrastare. In
questo crescendo di risposta puntiva, favorito da culture e politiche che
esibiscono la crudeltà (America first, è il caso di dire) è lecito porsi una
domanda che mette i brividi: se l’ergastolo automatico non dovessere rivelarsi
efficace, quale sarà la prossima tappa?
Mi preme, poi, sottolineare un aspetto particolare, quello legato alla delega al
monopolio giudiziario della lotta al patriarcato. Non mi convince l’idea che,
per cambiare la cultura delle magistrate e dei magistrati italiani sui termini
reali del femminicidio, fosse necessario introdurre una norma così concepita.
Sono convinto che la cultura della magistratura si possa modificare, oltre che
attraverso un instancabile impegno nella formazione, solo ottenendo il
cambiamento della cultura diffusa del Paese, dei quadri di mentalità. In questo
senso, la norma costruisce un potente meccanismo simbolico di affidamento al
giudiziario e ci rende tutti meno responsabili. In un bel libro abolizionista e
femminista (Per tutte quante. Donne contro la prigione, 2022), Gwènola
Ricordeau, a proposito dell’efficacia satisfattoria degli strumenti giuridici,
citava Nils Christie: «il sistema penale deruba gli individui del loro
conflitto» (il passo è citato anche nella recensione di Roberto Bezzi al libro,
in Questione Giustizia, 4 febbraio 2023). È il tema del “malinteso della
vittima”, centrato da Tamar Pitch: se alla coppia oppressa/oppressore si
sostituisce la coppia vittima/colpevole, il problema del femminicidio sarà
sempre un problema individuale e non sociale, risolvibile non attraverso il
conflitto sociale e la costruzione alternativa di sistemi di relazioni, ma con
una buona dose dei tradizionali strumenti patriarcali di repressione. L’unica
“criminologia dal basso” che continuerà a generarsi è quella patibolare del
carcere a vita, del tifo per le condanne e dello scandalo per le assoluzioni,
con il conseguente aumento delle difficoltà della magistratura di crearsi una
cultura e di risposte scevre dai condizionamenti. La donna, nel frattempo,
rimane relegata allo status di vittima, tranquillizzante e perenne (nella legge
non c’è uno straccio di sostegno alle vittime).
Appoggiarsi al patriarcato per ribaltarlo, è qui la contraddizione più grave.
Ecco, tornando alla questione dei nomi e alla metafora della lingua madre, mi
sembra che in questo caso, si sia compiuto un tradimento: si è pensato di
accogliere festosamente una lingua madre, ma si è scirtta una pagina triste di
lingua padre.
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Il potere è senza remore. Non ha vergogna della sua protervia, ma la rivendica.
Chi osa evocare il diritto è dileggiato, la politica è privatizzata, i diritti
sono ignorati, neanche più distorti a coprire politiche di potenza. Nell’assenza
di ogni limite, l’unica logica è quella della forza, l’unico futuro è la guerra.
È contro questo stato di cose, non per un’Europa indefinita, che occorre
scendere in piazza.
di Alessandra Algostino da Volere la Luna
«Una pace duratura può essere costruita solo sulla forza. E la forza inizia con
il rafforzamento di noi stessi. E questo è lo scopo del piano che presenterò
agli stati membri domani: ‘Rearm Europe‘» (Ursula von der Leyen, 3 marzo 2025).
È difficile comprendere il presente, sconvolto da vortici e tornanti, guerre
imprescindibili e paci che improvvisamente ne squarciano l’ineluttabilità;
genocidio in diretta e migranti che muoiono lungo i confini, nel silenzio
indifferente e complice. È difficile capire, ma pare di scorgere una costante:
un potere senza remore, che anzi ostenta – nuda – la sua violenza. Non ha
vergogna della sua protervia, ma la rivendica. Non finge di rispettare limiti,
ma li infrange con tracotanza. È oltre l’impunità, perché è la legge, una legge
che si identifica con la mera forza. Non vuole nemmeno solo gestire le
istituzioni democratiche, ma smantellarle; grida oscenità innanzi al mondo
(Trump) o balbetta ipocrite retoriche stantie (i governanti d’Europa), e ha
perso il senso del diritto come limite, del diritto teso alla garanzia della
dignità umana, del diritto come alternativa alla guerra.
È da rimpiangere il potere che finge di rispettare i diritti e i vincoli del
diritto, che occupa le istituzioni democratiche mantenendone la maschera? Forse
almeno è un potere che può essere demistificato, al quale si può imputare la
violazione; è un potere che si nasconde perché la forza allo stato puro è ancora
percepita come un disvalore. Oggi il diritto, sfibrato da doppi standard, cessa
semplicemente di esistere, squalificato, deriso, ignorato; basti pensare alle
accuse di antisemitismo rivolte alla Corte internazionale di giustizia o agli
inviti rivolti a Netanyahu in totale spregio del mandato di arresto emesso dalla
Corte penale internazionale. È un passo oltre verso la barbarie: non solo si
valica il limite ma si nega che esista. E il limite rappresentato dal diritto
garantisce il rispetto dell’umano: dell’uguaglianza, dei diritti, della pace. I
palestinesi come animali umani, l’osceno filmato di una Gaza resort
letteralmente costruita sui resti di un popolo, il vanto per i migranti
deportati in catene: è la violenza disumana del potere.
Quale potere? È un potere economico e politico insieme: la collusione tra sfera
politica ed economica e l’influenza del potere economico su quello politico sono
storia antica, ora si ripresentano in forme che riportano indietro le lancette
della storia, al periodo medievale dell’ordinamento patrimoniale-privatistico,
come mostra plasticamente la foto dell’insediamento di Trump, circondato dai big
del capitalismo digitale. È una fusione che liquefa il costituzionalismo e il
diritto internazionale, e, dopo aver sciolto nell’acido del mantra neoliberista
la democrazia sociale, intacca la democrazia nella sua veste minima – e non
sufficiente – come liberale. La democrazia scivola nell’autocrazia, in un
interregno dove si afferma una classe «unicamente “dominante”, detentrice della
pura forza coercitiva» (Gramsci) e le qualificazioni ossimoriche della
democrazia, come “democrazia illiberale” e “democrazia plebiscitaria”, assumono
le sembianze di un nudo neoliberismo autoritario, una plutocrazia, una
tecno-oligarchia, un fascio-liberismo.
Scompare il diritto; i diritti sono ignorati, neanche più distorti a coprire
politiche di potenza; chi osa evocare il diritto è dileggiato e stigmatizzato;
la politica è privatizzata. Nell’assenza di ogni limite, di ogni considerazione
per l’umano, l’unica logica è quella della forza, l’unico futuro che viene
prospettato è la guerra. La normalizzazione del clima bellico, la dicotomia
amico-nemico, il There Is No Alternative, la deriva autoritaria, la
competitività sfrenata di un tecno-capitalismo mai sazio convergono nel
sostenere il ritorno del flagello della guerra.
E l’Europa? Le contraddizioni di un’Unione europea votata all’ordoliberismo e di
un’Europa che da secoli «non la finisce più di parlare dell’uomo pur
massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle stesse sue strade,
a tutti gli angoli del mondo» (Fanon), la rendono incapace di sfuggire
all’epidemia di cecità che la precipita nella brutalità della guerra come unico
orizzonte. Scendere in piazza, sì, ma non per una Europa, non meglio
identificata, ma che in realtà ben si riconosce nei paradigmi neoliberisti e
nella sindrome della fortezza. Scendere in piazza per ripartire dall’umano,
dall’idea di una libertà sociale che abbia al centro la persona umana, anzi, le
persone umane nella loro pluralità, nella loro effettivamente libera
emancipazione, personale e collettiva. Scendere in piazza per una politica, e un
diritto, che agisca nel segno della trasformazione dell’esistente. È la logica
del dominio e della sopraffazione che occorre rovesciare: ovvero è contro la
guerra e il capitalismo che è necessario rivoltarsi. Utopia?
«La guerra non scoppia improvvisa: la sua preparazione non è opera di un
momento» (Karl von Clausewitz, 1853). Gli atti preparatori ci sono, vediamoli:
riarmo, normalizzazione della guerra, clima bellico che neutralizza dissenso e
alternativa. Fermiamo la vertigine della guerra, non è utopia, è essere
realisti: è una azione concreta e necessaria.
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Scompare il diritto; i diritti sono ignorati, neanche più distorti a coprire
politiche di potenza; chi osa evocare il diritto è dileggiato e stigmatizzato;
la politica è privatizzata.
di Alessandra Algostino da il manifesto
È difficile comprendere il presente, sconvolto da vortici e tornanti, guerre
imprescindibili e paci che improvvisamente ne squarciano l’ineluttabilità;
genocidio in diretta e migranti che muoiono lungo i confini, nel silenzio
indifferente e complice.
È difficile capire, ma pare di scorgere una costante: un potere senza remore,
che anzi ostenta – nuda – la sua violenza. Non ha vergogna della sua protervia,
ma la rivendica. Non finge di rispettare limiti, ma li infrange con tracotanza.
È oltre l’impunità, perché è la legge, una legge che si identifica con la mera
forza.
Non vuole nemmeno solo gestire le istituzioni democratiche, ma smantellarle;
grida oscenità innanzi al mondo (Trump) o balbetta ipocrite retoriche stantie (i
governanti d’Europa), e ha perso il senso del diritto come limite, del diritto
teso alla garanzia della dignità umana, del diritto come alternativa alla
guerra.
È da rimpiangere il potere che finge di rispettare i diritti e i vincoli del
diritto, che occupa le istituzioni democratiche mantenendone la maschera? Forse
almeno è un potere che può essere demistificato, al quale si può imputare la
violazione; è un potere che si nasconde perché la forza allo stato puro è ancora
percepita come un disvalore.
Oggi il diritto, sfibrato da doppi standard, cessa semplicemente di esistere,
squalificato, deriso, ignorato; basti pensare alle accuse di antisemitismo
rivolte alla Corte internazionale di giustizia o agli inviti rivolti a Netanyahu
in totale spregio del mandato di arresto emesso dalla Corte penale
internazionale. È un passo oltre verso la barbarie: non solo si valica il limite
ma si nega che esista. E il limite rappresentato dal diritto garantisce il
rispetto dell’umano: dell’uguaglianza, dei diritti, della pace.
I palestinesi come animali umani, l’osceno filmato di una Gaza resort
letteralmente costruita sui resti di un popolo, il vanto per i migranti
deportati in catene: è la violenza disumana del potere.
Quale potere? È un potere economico e politico insieme: la collusione tra sfera
politica ed economica e l’influenza del potere economico su quello politico sono
storia antica, ora si ripresentano in forme che riportano indietro le lancette
della storia, al periodo medievale dell’ordinamento patrimoniale-privatistico,
come mostra plasticamente la foto dell’insediamento di Trump, circondato dai big
del capitalismo digitale.
È una fusione che liquefa il costituzionalismo e il diritto internazionale, e,
dopo aver sciolto nell’acido del mantra neoliberista la democrazia sociale,
intacca la democrazia nella sua veste minima – e non sufficiente – come
liberale. La democrazia scivola nell’autocrazia, in un interregno dove si
afferma una classe «unicamente “dominante”, detentrice della pura forza
coercitiva» (Gramsci) e le qualificazioni ossimoriche della democrazia, come
“democrazia illiberale” e “democrazia plebiscitaria”, assumono le sembianze di
un nudo neoliberismo autoritario, una plutocrazia, una tecno-oligarchia, un
fascio-liberismo.
Scompare il diritto; i diritti sono ignorati, neanche più distorti a coprire
politiche di potenza; chi osa evocare il diritto è dileggiato e stigmatizzato;
la politica è privatizzata. Nell’assenza di ogni limite, di ogni considerazione
per l’umano, l’unica logica è quella della forza, l’unico futuro che viene
prospettato è la guerra.
La normalizzazione del clima bellico, la dicotomia amico-nemico, il “There Is No
Alternative”, la deriva autoritaria, la competitività sfrenata di un
tecno-capitalismo mai sazio convergono nel sostenere il ritorno del flagello
della guerra.
E l’Europa? Le contraddizioni di un’Unione europea votata all’ordoliberismo e di
un’Europa che da secoli «non la finisce più di parlare dell’uomo pur
massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle stesse sue strade,
a tutti gli angoli del mondo» (Fanon), la rendono incapace di sfuggire
all’epidemia di cecità che la precipita nella brutalità della guerra come unico
orizzonte.
Scendere in piazza, sì, ma non per una Europa, non meglio identificata, ma che
in realtà ben si riconosce nei paradigmi neoliberisti e nella sindrome della
fortezza. Scendere in piazza per ripartire dall’umano, dall’idea di una libertà
sociale che abbia al centro la persona umana, anzi, le persone umane nella loro
pluralità, nella loro effettivamente libera emancipazione, personale e
collettiva. Scendere in piazza per una politica, e un diritto, che agisca nel
segno della trasformazione dell’esistente. È la logica del dominio e della
sopraffazione che occorre rovesciare: ovvero è contro la guerra e il capitalismo
che è necessario rivoltarsi. Utopia? Iniziamo a pensare possibile ciò che appare
impossibile. «Quando sentite che il cielo si sta abbassando troppo, basta
spingerlo in su e respirare» (Krenak).
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La giornata dell’orgoglio europeo lanciata dai Repubblica boys è una suggestione
ingannevole. Sostenere le politiche dell’Europa, occultandone le responsabilità
per la gestione del conflitto in Ucraina, significa, infatti, schierarsi per la
prosecuzione della guerra e per l’aumento delle spese militari. E ciò mentre la
convergente prepotenza di Putin e di Trump imporrebbe un’iniziativa per
sostituire la forza con la politica e la trattativa.
di Sergio Labate da Volere la Luna
Non è semplice quando ti sbattono in faccia la tua insignificanza, dopo millenni
in cui sei stata il centro del mondo. Un po’ di tempo per prepararci l’abbiamo
anche avuto. Ma l’Europa ha preferito non pensarci e immaginarsi ancora giovane
e attraente. Certo, aver ricevuto l’evidenza della propria decadenza dal suo
alleato storico non è forse il modo migliore per fare i conti con la verità.
Come quando a dirti che ormai non conti più nulla è una donna che ami e che
pensavi ti amasse: è più dura da accettare. Ecco, non so se all’Europa convenga
andare in piazza a mostrarsi orgogliosamente bella, mentre in realtà ha il volto
pieno di rughe di una persona invecchiata proprio male.
Penso a tutto questo mentre leggo dell’ennesimo danno dei Repubblica boys, che
proclamano la necessità di una giornata dell’orgoglio europeo, senza se e senza
ma. Che di fatto dovrebbe legittimare due cose: l’appoggio incondizionato
all’Ucraina perché prosegua la guerra e l’aumento delle spese per le armi in
deroga al Patto di stabilità. Bene, ma non benissimo.
Dal calduccio dei loro salotti ZTL so già che mi guarderebbero con sospetto:
ecco un altro estremista radicale che manca di realismo, direbbero. Mentre loro
stanno al calduccio, mio figlio abita a un passo dalla base militare di Camp
Darby, dove gli Stati Uniti tengono un numero non rassicurante di armi
convenzionali e non convenzionali, comprese delle testate nucleari. Vista con
gli occhi di mio figlio – che per fortuna non lo sa – l’idea di reagire al
cinismo disumano e vergognoso di Trump inneggiando all’Europa bellicista in
Ucraina non sembrerebbe un gesto di coraggio, ma piuttosto un atto grottesco.
Non saprei come altro definirlo. Muovere ostilità e pensare di reagire come se
fossimo ancora una potenza mondiale di fronte ad autocrati senza scrupoli che
per giunta hanno già le loro armi apparecchiate nel cuore dell’Europa. Se c’è
una cosa che non rimprovero a Trump – ed è davvero l’unica cosa – è che la sua
inumanità serve finalmente a pensare la nostra fine.
Pensare la nostra fine: le classi dirigenti europee e i Repubblica boys hanno di
meglio da fare, evidentemente. Per esempio fare di tutto per negare i propri
errori e continuare come se niente fosse. È che nei salotti delle classi
dirigenti europee Camp Darby non esiste e forse non esiste nemmeno la guerra:
che è al massimo un argomento di conversazione. Invece la guerra è merda e
sangue, anche in tempi di ipertecnologie e di droni. In tre anni i morti di
quella maledetta guerra sono centinaia di migliaia. Ecco, quando mi dicono che
non sono realista, vorrei semplicemente ricordare questo: che trasformare
l’economia dell’Europa in un’economia di guerra vuol dire in misura
proporzionale prevedere che ci saranno degli esseri umani che quelle armi che
produciamo dovranno usarle. Per me realismo significa questo: non esistono armi
senza vittime. Ma le vittime non sono quelle vergognose classi dirigenti – e
prevedo neanche i loro figli – che si riuniscono nei salotti e che di fronte
alla fine di una civiltà (perché questo stiamo vivendo) non sanno fare altro che
pensare di organizzare una grande manifestazione che li legittimi ancora a
governare come se niente fosse, senza una qualche minima forma di pentimento o
di autocritica. Trump è brutto e cattivo? Allora arrivano i buoni, che siamo noi
che siamo l’Europa, mica la Cina, mica la Russia, mica l’India ecc. Appunto: non
siamo più nulla e soprattutto non siamo i buoni, visto il disastro che abbiamo
costruito in questi decenni, affamando un intero continente in nome
dell’austerity. Che strana la doppia verità delle nostre classi dirigenti che ci
chiedono di scendere in piazza. Una doppia verità in politica estera: quella per
cui noi facciamo la guerra in Ucraina per difendere dei valori morali che sono
gli stessi che accettiamo vengano bellamente disprezzati a Gaza (e sono anche
troppo buono: perché la guerra in Ucraina la facciamo per procura. A morire ci
vanno loro. Ma siamo sicuri che nel nuovo stato di cose basterà?). Ma una doppia
verità anche all’interno dei nostri confini: perché vai un po’ a spiegarlo ai
greci che il patto di stabilità può essere derogato per le armi ma non poteva
esserlo per le loro vite (23.000 morti in Grecia per l’intervento di
quell’Europa eroica e paladina del bene, per cui noi adesso dovremmo andare in
piazza senza se e senza ma).
E dunque: “Stai diventando anti-europeista?” mi chiederebbero i miei amici
salottieri guardandomi sempre col disprezzo dovuto ai sognatori. Niente affatto:
senza Europa non c’è nulla. Questo è il realismo del tempo presente: cioè
disperazione. Contro la disperazione del tempo presente, io rivendico la
necessità del realismo del tempo futuro: che non si rassegni alla disperazione
ma cerchi di contendere l’Europa a questi amici salottieri che hanno occupato il
posto della sinistra e che non intendono mettersi da parte, ma anzi approfittano
anche di quest’occasione per legittimare la propria evidente stupidità, in
sfregio alle lezioni reiterate della storia recente. Contendere l’Europa, da
sinistra.
Troppo astratto, questo non lo pensano solo i miei amici salottieri ma anche
tanti miei lettori, ne sono certo. E allora mi spiego concretamente. Contendere
l’Europa da sinistra vuol dire rivendicare un’Europa che riconosca come priorità
tre passi.
Il primo passo è mettere distanza da quello che io definisco l’errore
imperdonabile di Macron. Perché è proprio a lui che dobbiamo l’atto simbolico
dell’aver legittimato l’idea che si possa scendere a patti con Le Pen ma si deve
ostracizzare Mélenchon. Con quel gesto, Macron ha demolito i valori fondativi
europei, quelli per cui dove c’è Europa non ci poteva essere fascismo e dove ci
sono fascismi non poteva esserci Europa. Ha aperto un varco dentro cui si stanno
infilando tutti i partiti fascisti, in tutto il continente. Un rovesciamento di
principio che non è affatto difficile prevedere a cosa porterà: la sinistra deve
essere ostracizzata perché rischia di mettere in discussione l’ordoliberismo
economico che è diventato l’alfabeto genetico di quest’Europa, mentre i nuovi
fascismi che avanzano liberamente non solo apprezzano Trump, ma soprattutto
portano con sé la nostalgia nazionalista e sovranista. E chi lo spiega ai
Repubblica boys, che manifestare per l’orgoglio di questa Europa vuol dire in
effetti stare dalla parte dei nazionalismi e dei sovranisti, tollerando i
processi che stanno portando l’Europa a dissolversi da sé così in fretta? Una
sinistra seria dovrebbe urlare dovunque quest’evidenza: che il socialismo
metterà in discussione il neoliberismo, mentre i neofascismi metteranno fine
all’Europa (a meno che – cosa non improbabile – per questa classe dirigente
dell’Europa se ne può fare a meno, ma del neoliberismo economico no).
Il secondo passo è altrettanto realista. Come ho già anticipato, immaginare che
la rinascita dell’Europa passi attraverso l’aumento delle spese per la difesa è
del tutto velleitario, per due motivi fondamentali. In primo luogo perché
l’Europa – come tale – non sarà più una superpotenza. La sua autorevolezza, se
c’è ancora, sta nella sua storia, nelle ferite, nella memoria delle guerre e del
passato coloniale, nella consapevolezza degli errori e nell’orgoglio degli
ideali democratici. Non è nell’ordine della forza che l’Europa può avere ancora
qualcosa da dire, ma nell’ordine della politica. Cioè recuperando ciò che ha
perduto da un pezzo: da quando ha barattato il primato della democrazia con il
primato dell’austerity. In secondo luogo perché i valori fondanti dell’Europa
non erano né formali né neutrali, come non lo è la nostra Costituzione. L’Europa
nasce a partire dalla convinzione che solo la giustizia sociale può garantire la
pace e scongiurare le tentazioni di nuove guerre. Un’Europa che sacrifica ancora
la giustizia sociale in nome delle armi è un’Europa che sacrifica
definitivamente se stessa, semplicemente. Intendiamoci: anche se molte persone
non saranno d’accordo con me, non ho pregiudizi contro la necessità di dotarsi
di una difesa comune. Ma la difesa comune senza tutto il resto è destinata ad
essere come la costruzione del mercato comune: un fallimento certificato persino
da coloro che l’hanno concretamente creato. Il punto vero allora non è pensare
un’Europa dei diritti contro un’Europa della difesa, ma pensare un’Europa che
liquidi definitivamente la logica immanente al patto di stabilità e riconosca
che la propria scommessa, senza la quale è inutile continuare a pensarla, è
ancora e sempre quella: che ciò che ci salverà dalla guerra non saranno le armi,
ma la giustizia sociale.
Il terzo e ultimo passo. Qual è l’atto più irresponsabile e devastante del
trumpismo? Sostituire l’ordine della politica e della diplomazia con l’ordine
della forza. È quello che sta facendo in Ucraina e anche quello che sta facendo
a Gaza. La metafora delle carte è azzeccata. Chi ha le carte decide. Chi non ha
le carte subisce. Un ritorno indietro di qualche secolo, ecco ciò che vuole
Trump. Se conta la pura forza, non c’è diplomazia né mediazione che tenga. Ecco,
ho l’impressione che l’Europa voglia essere per l’Ucraina ciò che Trump ha
scelto di essere per Putin (e per Netanyahu). Ma forse è persino peggio di così:
ho l’impressione che Trump ha scelto adesso di essere per Putin ciò che l’Europa
ha scelto ormai da tre anni di essere per l’Ucraina. E che dunque la tracotanza
di Trump sia prima di tutto la tracotanza dell’Europa: che da tre anni pensa che
l’unico modo per far cessare una guerra è essere più forti, rinunciando così
alla sua storia dolente e alle invenzioni moderne della politica e della
diplomazia. Prima di Trump, l’ha fatto l’Europa. Pretendere che invece torni a
svolgere il proprio compito di mediatrice vorrebbe dire non parteggiare per la
fine della guerra e non esprimere solidarietà al popolo ucraino? Tutt’altro. Ma
sono tre anni che lo si dice. L’Europa e i Repubblica boys devono decidere:
vogliono far finire una guerra o vogliono vincerla? Perché la storia moderna ci
insegna che per far finire una guerra bisogna saper rinunciare a vincerla,
specie quando è perduta fin dall’inizio. Insistere ancora per vincere questa
guerra – dopo quanto sta accadendo in questi giorni – non è solo grottesco, è
apocalittico. La verità è che la guerra è già finita e ci sono solo due opzioni:
o accettare che a decidere come finisca sia davvero solo la prepotenza dei più
forti – con conseguenze che non voglio nemmeno immaginare – oppure cercare di
portare una parola diversa e in questo modo difendere per quanto possibile anche
le legittime richieste dell’Ucraina.
Che strano dover rivendicare per l’Europa il dovere di far prevalere la politica
contro la forza. E per giunta essere per questo accusati di poco realismo. Ma
forse tutto si spiega. Non è il popolo ucraino che interessa alle élites europee
che ci richiamano in piazza. Interessa molto di più mantenere il proprio potere,
anche se questo porta alla fine dell’Europa. Del resto, quelle centinaia di
migliaia di morti non prendono le parole nei nostri salotti buoni da dove i
Calenda e i Renzi di turno si affannano a convocarci. Sono formiche e nel loro
piccolo non si incazzano più. Semplicemente muoiono. Mentre noi andiamo a
manifestare per continuare a condannarli a morte.
PS. Queste sono le parole di Ursula von der Leyen alla fine del summit di Londra
di domenica scorsa: «Primo: abbiamo bisogno di una pace duratura in Ucraina. Ma
una pace duratura può essere raggiunta solo con la forza. Secondo: Abbiamo
bisogno di un massiccio rafforzamento della difesa europea. La sicurezza
duratura si basa sulla forza». C’è altro da aggiungere?
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Tutti in piazza per l’Europa? Ma quale Europa? Quella che si sta riconvertendo a
un’economia di guerra?
di Guido Viale da pressenza
Tutti in piazza per l’Europa? Ma quale Europa? Quella che si sta riconvertendo a
un’economia di guerra (con tanti saluti al welfare e alla transizione ecologica)
per sostituirsi al sostegno che Nato e Stati Uniti non vogliono più dare
all’Ucraina e per accrescere così l’inimicizia verso la Russia? E intanto deve
guardarsi le spalle da Trump che, oltre ai dazi in arrivo, la lascia con in mano
la miccia accesa del sostegno militare ed economico a una guerra che gli Stati
Uniti hanno provocato, la Russia ha scatenato, l’Ucraina ha combattuto per
procura e l’Unione Europea ha armato e finanziato, dissanguandosi con sanzioni
che hanno danneggiato solo lei e hanno fatto bene solo agli Stati Uniti.
Sì, rispondono in molti, l’Europa vuole armarsi, ma vuole anche costituire al
fronte una forza di interposizione per promuovere la pace. Ma quando mai
l’interposizione viene affidata a Paesi che hanno fornito armi, finanza e
promesse di appoggio fino alla vittoria finale a una delle parti combattenti?
Non è ridicolo (se non fosse tragico) tutto ciò?
Sì, aggiungono, ma verrà fatto tutto – armi, interposizione e ricostruzione del
Paese – a spese dei fondi russi congelati nelle banche europee. Forse che la
Russia, prima di firmare una pace, non chiederà la restituzione dei fondi che le
sono stati sequestrati? Motivo sufficiente per non arrivare alla pace mai, o per
arrivarci a spese dell’Unione Europea, mentre gli Stati Uniti si saranno
abbondantemente rifatti delle spese sostenute con le terre rare rapinate
all’Ucraina.
Così adesso l’Unione Europea e i suoi dispersi Stati membri si trovano tra due
fuochi: devono continuare il “lavoro” lasciato a metà dagli Stati Uniti che se
ne stanno sfilando, facendosi trascinare da Zelensky a inseguire un’impossibile
vittoria (ribattezzata “pace giusta” e duratura), ma devono anche supplicare gli
Stati Uniti di non lasciarli soli, perché questa loro posizione, se portata
avanti, li trascina inesorabilmente verso una guerra totale, anche atomica,
proprio mentre Trump si accinge a pugnalarli alle spalle con i dazi.
Ma come è stato possibile infilarsi in un buco nero di queste dimensioni? E’
successo perché l’Europa non ha un suo esercito, rispondono ora gli “esperti”;
gli stessi che l’hanno spinta a gran voce ad abbracciare la causa della guerra,
senza promuovere né lasciare aperto alcuno spiraglio a una possibile mediazione.
E’ vissuta, dicono – e i suoi stupidi cittadini sono vissuti – nell’illusione di
una pace sicura e perpetua in un mondo che da tempo si stava riconvertendo alla
guerra.
Non è vero. Di eserciti l’Europa ne ha anche troppi e di certo i cittadini dei
suoi Stati membri non sentono il bisogno di nuove e più potenti armi. Quello che
le manca è una politica per farne a meno, per non doverle usare, per ricavarsi
uno spazio tra coloro che detestano la guerra: sicuramente la stragrande
maggioranza degli abitanti della Terra, compresa la maggioranza di quelli che in
Russia come in Ucraina (e magari tra un po’ anche da noi) vengono mandati al
fronte come forzati, dopo averli catturati per strada mentre cercano di
nascondersi o di fuggire. E compresi quelli che in tutti i Paesi dell’Unione
Europea non sono mai stati consultati in proposito.
I governi dell’Unione Europea ora si illudono di creare, con un esercito comune,
quell’unione politica che non sono riusciti a creare né con un mercato né con
una moneta comuni. Ma è un’illusione stupida e pericolosa, che nasce dalla
rinuncia o dall’incapacità di mettere al centro di uno sforzo comune l’unica
guerra che valga la pena combattere: quella contro l’imminente catastrofe
climatica e ambientale, che in realtà è una guerra che tutte le nazioni che
“contano” sulla scena internazionale dovrebbero combattere. Innanzitutto contro
se stesse, contro i propri sprechi, i consumi superflui, le produzioni dannose,
l’incuria, l’abbandono di tanti esseri viventi, umani e no. Una guerra da
combattere contro i responsabili di questa deriva drammatica: i signori del
petrolio, del gas, del carbone e del nucleare, quelli della finanza, delle armi
e della guerra, quelli del marketing e dell’informazione (sono la stessa cosa)
che illudono e falsificano la realtà.
Il mondo monocentrico, ci dicono, si sta dividendo in zone di influenza e
l’Europa – vaso di coccio tra vasi di ferro – rischia di venir schiacciata tra
due o tre grandi potenze, senza avere più alcuna influenza. Non sarà un esercito
superarmato ma raccogliticcio a restituirgliela.
Ma non è detto che il distacco di una parte crescente del mondo dal controllo
dell’Occidente – spacciato dai nostri media, e solo da loro, per “comunità
internazionale” – debba per forza portare a una o due riaggregazioni intorno al
polo costituito da Cina e Russia, o a due poli: Cina e Russia. Oggi questi poli
rappresentano, per molti governi o Paesi del mondo, un interesse potenziale o
già attuale alternativo alla soggezione all’Occidente. Ma un progetto planetario
di conversione ecologica vera, e non di facciata – che non è l’automobile
elettrica, ma significa pace, cooperazione, salvaguardia dell’ambiente, diritto
alla vita, alla salute, al reddito, alla casa, alla dignità di ciascuno –
potrebbe ricostituire non solo la perduta identità e l’unità di intenti
dell’Europa, che ora non ne ha alcuna, ma anche un fattore di aggregazione
internazionale intorno a programmi e impegni di rigenerazione della società e
dell’ambiente che si faranno sempre più urgenti mano a mano che la crisi
ambientale farà sentire a tutti, e in modo sempre più acuto, i suoi effetti.
Programmi in cui anche i migranti a cui oggi l’Europa e tutti gli Stati membri
danno la caccia, una volta liberi di circolare tra i nostri Paesi e il loro,
potrebbero trovare posto in progetti di risanamento dei loro Paesi di origine e
anche dei nostri.
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L’umiliante affronto d’essere interrotti, zittiti, può aiutarci a capire quale
ruolo abbia il silenzio nel mantenimento della distribuzione del potere
di Marco Sommariva*
Non so se anche voi avete la mia stessa sensazione: a me sembra non si stia mai
un attimo zitti. Abbiamo sempre qualcosa da dire. Persino a teatro, al cinema,
al cimitero o a tavola quando si ha la bocca piena, non c’è più un attimo di
silenzio, abbiamo sempre bisogno di parlare, raccontare.
Quando raccontiamo qualcosa, non importa cosa, raccontiamo una storia; al di là
dell’importanza dell’argomento trattato da questa storia – dalla descrizione
della malattia che ha ucciso nostra figlia a com’è fatto il proprio ombelico, da
come siamo riusciti a guadagnare un pacco di soldi in poco tempo con un banale
investimento alle conseguenze del nervoso che ci siamo fatti domenica sera
quando la nostra squadra del cuore ha perso per l’ennesima volta – dicevo, al di
là dell’importanza dell’argomento trattato da questa storia, tutte le narrazioni
hanno un comune denominatore: le abbiamo scelte fra mille altre che avremmo
potuto raccontare. Non è una conclusione così banale, credetemi.
Un esempio: “Quando parla dell’occupazione tedesca della Norvegia, dove è andato
come medico militare dopo la laurea, racconta di meravigliose discese con gli
sci al chiaro di luna nelle località di montagna. A sentirlo sembra quasi che i
tedeschi abbiano occupato la Norvegia per amore degli sport invernali” – Autunno
tedesco, Stig Dagerman.
Pensiamo davvero che non ci sia un motivo dietro la scelta di raccontare di
meravigliose discese con gli sci al chiaro di luna, anziché le tante altre cose
che sicuramente ha visto un medico militare facente parte dell’esercito
d’occupazione? Non scherziamo.
La storia che abbiamo deciso di raccontare l’abbiamo scelta perché – in quel
momento, in quel contesto, per il nostro stato d’animo, eccetera – è ritenuta
più importante delle altre.
A chi serve raccontare una storia?
A chi l’ascolta, per esempio: può incamerare esperienze altrui trovando, un
giorno, ispirazione da queste e, chissà, magari evitare possibili errori.
Ma raccontare una storia serve anche a chi la espone: così facendo si riordina
la nostra esperienza, e pure il mondo che stava intorno quando la storia è
accaduta e, forse, persino il mondo che sta attorno mentre la raccontiamo.
Spesso, quando si termina il racconto, come per magia, si ha già pronta un’idea
che porta all’azione; un’idea che, prima d’aprir bocca, neppure sospettavamo
d’essere in grado di produrre, nata proprio mentre si raccontava la storia
perché, come ci insegnavano le nostre mamme quando eravamo bambini, è quando la
lezione la esponi a voce alta che sei certo d’averla chiara in testa – finché te
la raccontavi a mente, non eri mai certo d’avere afferrato tutto.
A cosa serve raccontare una storia?
Le storie, si sa, cambiano il mondo; diversamente, perché chi sta al Potere si
sbatterebbe tanto per creare fake news che veicolino ciò che può far loro
comodo?
Le storie possono direzionare i singoli e le masse.
Le storie sono testimonianza, aiutano a non perdere il lume della ragione,
possono divertire.
Sono testimonianza: “Nel gennaio del 1974 me ne andai dal Cile. Non ci sono più
tornato. Sono stati coraggiosi i cileni della mia generazione? Sì, sono stati
coraggiosi. In Messico mi raccontarono la storia di una ragazza del MIR
[Movimento di Sinistra Rivoluzionaria] che avevano torturato infilandole topi
vivi nella vagina. La ragazza riuscì ad andare in esilio e arrivò nel Distrito
Federal. Viveva là, ma era ogni giorno più triste e un giorno morì per via di
tutta quella tristezza. […] Si può morire di tristezza? Sì, si può morire di
tristezza […]” – Puttane assassine, Roberto Bolano.
Aiutano a non perdere il lume della ragione: “Vedere il sole sorgere o
tramontare ogni giorno, così da poter raccontare a noi stessi un fatto
universale, ci manterrà per sempre assennati” – Vita senza princìpi, Henry David
Thoreau.
Possono divertire: “Capiva sicuramente che stavo mentendo, ma il trucco era
tener duro con la mia versione. Dopo un po’, anche la bugia più assurda assumeva
il colore della verità. Avrei ripetuto la stessa dinamica, ma su una scala
diversa, di lì a qualche anno, dopo la Rivoluzione iraniana. Imparammo a stare
al loro gioco, inventando le storie più assurde per giustificare l’alito che
sapeva di alcol, le tracce di rossetto sulle labbra, il nastro di un cantante
vietato in bella mostra sul cruscotto; loro, dopo aver intascato i soldi, tanti
o pochi a seconda delle circostanze, ci lasciavano andare. Poi, per settimane,
alle feste, ci divertivamo a raccontare i nostri patetici trionfi” – Le cose che
non ho detto, Azar Nafisi.
All’essere umano piace raccontare, è anche terapeutico: non siete circondati
anche voi da persone che vi chiedono come state solo perché hanno bisogno di
raccontarvi tutti i loro mali, dolori, e neanche s’accorgono che avete appena
risposto “Male. Ho un cancro al pancreas”? Non avete anche voi a che fare tutti
i giorni con chi vi racconta, con gli occhi fuori dalla testa, di tutti i
problemi che lo affliggono e, questi, altro non sono che la figlia che deve
sostenere un esame all’università, il gatto che ha vomitato e la lavastoviglie
che non pulisce più bene come una volta, mentre voi siete lì e vorreste dir loro
che i bulbi oculari possono tranquillamente rientrare nelle orbite a loro
dedicate, dato che i vostri problemi sono vostra figlia che s’è suicidata l’anno
prima lanciandosi dal quinto piano del vostro appartamento dove, da quel giorno,
non riuscite più ad abitare o che avete perso il lavoro a due anni dalla
pensione e state lavando le scale con un cappello calcato sulla fronte e i baffi
finti per non essere riconosciuto da vostro figlio che non sa nulla del vostro
licenziamento e abita proprio in uno di quei condomini dove v’inginocchiate su
ogni scalino, due volte la settimana.
Pur di raccontare di noi – spesso, del nulla di ciò che noi siamo –
interrompiamo continuamente e, se l’altro non smette, gli parliamo sopra, anche
a voce più alta se necessario.
C’è qualcosa di brutto nell’interrompere: “Eravamo ancora studenti quando io e
mia moglie visitammo Firenze per la prima volta. Proprio quando il tramonto
stava per tingere di bronzo l’Arno, trovammo un piccolo ristorante vicino alla
pensione infestata di pipistrelli dove soggiornavamo. Marsha, essendo stata
cresciuta da una nonna originaria di Viareggio, ordinò da mangiare in un
italiano del quale il nostro anziano cameriere deve aver riconosciuto le
inflessioni toscane. Si rifiutò, comunque, di scrivere alcunché sul suo taccuino
fino a che, spazientito, la interruppe con un deciso “Signorina!”, rivolgendosi
quindi verso di me con aria interrogativa. Solo dopo che ebbi annuito, annotò la
nostra ordinazione. Tempo dopo, mentre cercavo di perfezionarmi nel mestiere di
professore, lessi un articolo sulla tendenza degli insegnanti, sia uomini che
donne, a interrompere le studentesse – ma non gli studenti – mentre rispondono
alle domande. […] Viviamo in un mondo in cui le donne vengono spesso messe a
tacere, a volte anche in modo violento. Ma l’umiliante affronto di zittire le
donne con nonchalance è un’esperienza talmente radicata nella nostra
quotidianità che questi piccoli esempi di imposizione del silenzio su un altro
essere umano – la brusca interruzione del cameriere o dell’insegnante – in
realtà possono aiutare, anche meglio di casi più eclatanti, a chiarire quale
ruolo abbia il silenzio nel mantenimento dell’attuale distribuzione del potere
nella società” – Elogio del silenzio, John Biguenet.
Mi sentirei di dire che l’umiliante affronto d’essere interrotti, zittiti, è
un’esperienza talmente radicata nella nostra quotidianità che può aiutarci a
capire quale ruolo abbia il silenzio nel mantenimento della distribuzione del
potere, al di là del contesto in cui ci si trovi.
Guai a farci zittire, ma impariamo ad ascoltare senza interrompere.
Interrompere gli altri per raccontare le proprie storie, impedire all’altro di
andare avanti, ha tanti scopi, anche quello di annullare la possibilità che chi
ti sta di fronte riesca a dirti qualcosa di così tragico che non ti resterebbe
da fare altro che tacere: la gara a chi l’ha più lungo non è solo una pratica
degli adolescenti e tanto meno si ferma alle dimensioni del pene.
È talmente raro raccontare storie a qualcuno che ti ascolta e non favella che,
quando accade, si ha quasi l’impressione d’esser stati presi in giro, che
l’altro stia pensando a chissacché. E invece no, quando tu termini di parlare e
lui espone il suo pensiero logicamente collegato con quanto hai appena finito di
dire, ti commuovi, ti emozioni, credi d’essere in presenza di un alieno e ti
devi trattenere perché la tentazione è quella di abbracciarlo, baciarlo.
Abbiamo bisogno di raccontare storie anche perché, avendo bisogno di credere in
qualcosa, crediamo fortemente in ciò che esponiamo: quante volte ci siamo
trovati di fronte personaggi che raccontavano fatti stupidamente incredibili,
che non si reggevano minimamente in piedi neppure nella sequenza in cui venivano
esposti, ma che non li spostavano di un millimetro nonostante le nostre continue
osservazioni mosse con sopracciglia aggrottate o naso arricciato?
Insomma, non abbiamo solo bisogno di raccontare ma pure di crederci. E questo è
un altro motivo per cui interrompiamo: non vorremmo mai ascoltare ipotesi che
destabilizzino quanto ci siamo preparati con cura certosina, durante intere
nottate in bianco.
Raccontare è Storia e politica: “Gunnar Widforss […] non è senza una certa
costernazione che racconta delle sparizioni notturne e delle deportazioni in
Siberia. «Nemmeno i parenti sanno dove vanno a finire»” – L’arte della fuga,
Fredrik Sjöberg.
E ancora: “La Coppa del Mondo si tenne in Argentina nel ’78, […] mi racconta
come alcuni sostengano che fu usata come un paravento per sbarazzarsi di coloro
che diventarono desaparecidos. Il governo diede un enorme appoggio all’evento
sportivo, sfruttandolo astutamente per far sparire la gente mentre ben pochi
stavano prestando attenzione” – Diari della bicicletta, David Byrne.
Si raccontano i racconti degli altri: “[…] vi racconterò la storia di mio padre,
anche se posso raccontarla solo per come l’hanno raccontata a me, quindi non ci
giuro. Il fatto è che i pashtun lo avevano obbligato – non solo lui, lui e molti
altri uomini hazara della nostra provincia – ad andare in Iran e a tornare con
il camion, per prendere i prodotti da vendere nei loro negozi: coperte, stoffe o
certi sottili materassi di spugna che servivano per non so cosa. Questo perché
gli abitanti dell’Iran sono sciiti, come noi hazara, mentre i pashtun sono
sunniti – e tra fratelli di religione, si sa, ci si tratta meglio – e poi perché
loro, i pashtun, non parlano persiano mentre noi un pochetto lo capiamo. Per
obbligarlo, hanno detto a mio padre: se tu non vai in Iran a prendere quella
merce per noi, noi uccidiamo la tua famiglia, se quando arrivi manca della merce
o è rovinata, noi uccidiamo la tua famiglia, se ti fai truffare, noi uccidiamo
la tua famiglia. Insomma, qualunque cosa fosse andata male: noi uccidiamo la tua
famiglia” – Nel mare ci sono i coccodrilli, Fabio Geda.
L’essere umano è un prodotto di racconti, ed è un racconto egli stesso.
L’essere umano racconta un po’ di tutto, dalle barzellette alle imprese epiche,
dalle fandonie alle favole.
L’essere umano racconta per divertire e per commuovere, per rinfrescare la
propria e l’altrui memoria.
L’essere umano racconta anche per Resistere. Non dimentichiamolo.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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