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Mentre in tv si urla di guerra
Nugoli di bambini si muovono increduli fra le macerie del mondo. Sono bambini ai quali mancano indumenti, cibo, farmaci, giochi, scuola, serenità e molto altro ancora. Ci sono molti bambini, ma manca l’infanzia. di Marco Sommariva Quando in TV sento i giornalisti parlare di guerra, resto sempre molto impressionato dalla loro sicurezza nel riportare la propria opinione che, a volte, viene espressa pure a caldo, poco tempo dopo l’accaduto; così come mi colpisce la cultura politica, militare, storica e geografica che sta a monte delle loro esternazioni perché, vista la decisione con cui le espongono, non posso immaginarli impreparati, partecipare solo per incassare il gettone di presenza che pare oscilli fra i duecento e i tremila euro. Ritengo impossibile presenzino unicamente per denaro o per eccesso di ego. Fra questi giornalisti mi fa molto effetto anche chi, certo d’avere la verità in tasca, s’accalora, strilla, cerca d’imporre il proprio punto di vista; in questi casi, mi torna sempre alla memoria cos’ha scritto George Orwell in Omaggio alla Catalogna, una cronaca della guerra civile spagnola vissuta al fronte dall’autore, dal dicembre del 1936 al giugno del ’37: “È la stessa cosa in tutte le guerre; i soldati combattono, i giornalisti urlano […]”. La distanza in termini di chilometri, che separa i giornalisti che predicano negli studi televisivi dal fronte in cui accadono gli episodi che si ritiene di poter analizzare senza alcuna possibilità d’errore, magari mentre si sta comodamente seduti su una poltrona ergonomica avviluppati nell’abito nuovo acquistato apposta per l’occasione, mi ha sempre fatto temere che potesse pregiudicare la correttezza delle conclusioni di questi signori. In questo senso, qualche dubbio doveva averlo anche Orwell visto che, sempre in Omaggio alla Catalogna, scriveva: “Per tutta la durata dei combattimenti, non riuscii mai a fare la corretta “analisi” della situazione, che invece veniva così elegantemente descritta e interpretata da giornalisti lontani centinaia e centinaia di chilometri”. Al riguardo, sulle pagine dello stesso libro l’autore aggiungerà: “Quasi tutte le corrispondenze giornalistiche di quel periodo venivano cucinate da giornalisti lontanissimi da Barcellona, e non solo erano imprecise nei fatti, ma volutamente ingannevoli”. Mi domando perché un giornalista voglia volutamente ingannare i suoi lettori. A leggere Joseph Conrad, sarebbe lo stesso pubblico che segue il giornalista a invogliarlo in tal senso, dato che nel romanzo Il caso scrive: “Può mai essere affare di un giornalista capire qualcosa? Mi sa di no. Lo condurrebbe troppo lontano dalle realtà che sono il pane quotidiano della mente del pubblico”. Per lo scrittore polacco naturalizzato inglese, i giornalisti non forniscono una versione esatta delle questioni più semplici neanche per puro caso: “Da quando aveva lasciato il mare era rimasto stupito nello scoprire che le persone istruite non erano meglio delle altre. Nessuno mostrava un qualche giusto orgoglio per il proprio lavoro; dagli idraulici, che erano semplicemente dei ladri a, poniamo, i giornalisti (a quanto pareva li considerava una classe particolarmente intellettuale), i quali mai, neanche per puro caso, fornivano una versione esatta delle questioni più semplici” – sempre da Il caso. In One Big Union, Valerio Evangelisti scrive di giornalisti al servizio dei politicanti: “Fratelli […] hanno cercato di persuadervi che il capitalismo sia inevitabile, che la disoccupazione che flagella il paese sia una catastrofe naturale. Ebbene, vi dico che non è così. La crisi non cade dal cielo: alla base ha il vostro sfruttamento oltre il lecito e l’avidità di sfruttatori che campano del lavoro altrui. In questo stesso momento, i ristoranti di lusso di Chicago, di Saint Louis e di New York sono pieni, e voi lo sapete. Parassiti oziosi consumano bottiglie di vino francese al fresco in secchielli pieni di ghiaccio. Tagliano la faraona e il vitello arrosto. Sono gli stessi che parlano di crisi. I politicanti e i giornalisti al loro servizio invocano la solidarietà nazionale”. Fosse vero che ci sono giornalisti al servizio dei politicanti, allora forse si spiegherebbero certi contenuti che danno l’idea d’essere piuttosto fantasiosi, come se chi firmasse il pezzo fosse disposto a costruire un regno di castelli in aria pur di far passare qualsiasi menzogna, magari dietro un compenso che non dev’essere necessariamente in denaro; ancora da One Big Union di Evangelisti: “Il contenuto degli articoli era fantasioso tanto quanto lo strillo. Cospirazioni, sbarchi notturni di terroristi di professione, manipolazione di dinamite in cantine ammuffite. Bob ne sorrideva, e al tempo stesso era grato ai giornalisti. Facili da comprare, pronti a ogni menzogna, erano gli alleati più sicuri della gente come lui, fedele all’ordine costituito. Quanto più la bugia era colossale, tanto più faceva presa. Se non fosse stato un agente infiltrato fra i sovversivi, e se avesse saputo scrivere, avrebbe fatto il giornalista. Un modo come un altro di servire la patria”. Comunque, credo anch’io, come ha scritto il compianto Valerio, che non tutto è perduto, che qualcuno che si salva c’è sempre, anche se magari non avrà spazio sulle prime pagine dei giornali: “La stampa risponde a chi la possiede. Puoi trovare, occasionalmente, un giornalista onesto, che esprimerà le sue critiche in termini velati. In rubriche secondarie, ben nascoste. Quelli di prima pagina sono puttane” – sempre da One Big Union. E in effetti “qualcuno che si salva” c’è anche se, proprio per questo, per serietà professionale, finisce per non fare una bella fine; sto parlando del giornalista americano di origini ebraiche, Jeremy Loffredo, arrestato dalla polizia israeliana insieme ad altri tre giornalisti a un posto di blocco in Cisgiordania, con l’accusa di “aiuto al nemico in tempo di guerra” e di “aver fornito informazioni al nemico”; in pratica, la colpa del giornalista sarebbe quella d’aver rivelato i danni causati da alcuni attacchi missilistici iraniani, specificando dettagliatamente i siti sensibili colpiti, in particolare la base aerea di Nevatim e il quartier generale del Mossad a Tel Aviv. Detto che a non fare una bella fine non è “qualcuno” ma sono tanti – mi limito a ricordare che il numero dei giornalisti che hanno perso la vita a Gaza da ottobre 2023 a ottobre 2024, ha superato quello dei reporter uccisi in un anno in tutti i conflitti nel mondo, torno su quest’idea che i giornali devono riportare solo vittorie perché non è un’usanza solo dei giorni nostri. In un romanzo del 1955 di Graham Greene, L’americano tranquillo – ambientato durante la guerra d’Indocina combattuta tra il 1946 e il ‘54, fra l’esercito coloniale francese sostenuto dagli Stati Uniti e il movimento per l’indipendenza del Vietnam – , si racconta di un soldato statunitense che, benché molto diverso dai suoi connazionali volgari e prepotenti, è pur sempre un uomo profondamente convinto del “grande sogno americano”, preda di un idealismo da invasato che non batte ciglio neppure alla vista delle vittime degli attentati di cui egli stesso è artefice. Bene, in queste pagine troviamo un passaggio, a parer mio, illuminante: “dopo quattro giorni, con l’aiuto dei paracadutisti, il nemico era stato respinto a ottocento metri dalla città. Era stata una disfatta. A nessun giornalista era consentito l’accesso, né si potevano mandare telegrammi, perché i giornali dovevano riportare solo vittorie”. Probabilmente, il giornalista Jeremy Loffredo arrestato dalla polizia israeliana, non s’è fatto corrompere e, molto probabilmente, non era in qualche modo ricattabile: “le guerre, disse, anche quando vengono definite semplici misure amministrative, sono impopolari, bisogna convincere deputati e senatori, diplomatici e giornalisti, se non si convincono bisogna corromperli, se non è possibile corromperli bisogna ricattarli […]” – questo lo scrive Friedrich Dürrenmatt nel romanzo L’incarico, pubblicato nel 1986. L’incarico è un libro capace di trascinarci in un mondo alla mercé di occhi elettronici, onnipresenti e occulti, che osservano tutto e tutti, un po’ come l’attuale mondo che pare lo si percepisca, ormai, solo attraverso l’obiettivo glaciale di telecamere piazzate a ogni angolo di strada, droni e satelliti. Insomma, un romanzo a dir poco profetico, vista l’importanza data dall’attuale società all’immagine, una società in cui l’opinione pubblica ne esce sempre soddisfatta perché, quotidianamente, gli viene data in pasto quella realtà definita da Conrad il “pane quotidiano della mente del pubblico”; un’opinione pubblica che, spesso, neppure s’accorge che il “pane quotidiano” gli è stato servito da chi è padrone di sciami di obiettivi che volano nei nostri cieli e anche oltre, e che quindi ha avuto tempo e modo per scegliere i frame da servire su piatti d’argento, e pazienza se le mani che li reggono sono insanguinate. Per fortuna, in mancanza d’immagini determinanti ci sono ancora testimonianze che arrivano a destinazione: ricordate la lettera aperta a Joe Biden e Kamala Harris, inviata da diversi medici americani che avevano prestato servizio a Gaza, i quali testimoniavano di bambini palestinesi “assassinati da colpi precisi e non casuali” di cecchini? Era una lettera in cui si chiedeva di porre fine a quest’atrocità. Leggo su un articolo pubblicato da Il Giornale d’Italia  che, dopo la lettera dei medici americani, le informazioni erano state riferite in un articolato dossier del New York Times e che l’Hasbara, la “propaganda aggressiva israeliana”, aveva accusato il giornale di New York d’aver riferito “falsità”. Nella replica, il giornale ha affermato che numerosi professionisti indipendenti specializzati in “ferite da arma da fuoco, radiologia e trauma pediatrico”, hanno dimostrato con prove concrete la veridicità delle parole dei medici americani che avevano raccolto le testimonianze sui fatti. Qualcuno potrebbe dire che, da sempre, i bambini muoiono durante le guerre. È vero. Per esempio, su Ragazzi di zinco di Svetlana Aleksievic, un libro in cui l’autrice fa parlare alcuni dei protagonisti dell’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979-1989), leggo: “Stavamo rastrellando un kislak. Di solito spalanchi la porta con un calcio e prima di entrare nella casa butti una bomba a mano per non beccarti una raffica di mitra: perché dovresti rischiare?, con la bomba vai sul sicuro. Lancio dunque la mia bomba all’interno ed entro: per terra ci sono delle donne, due bambini e un lattante. In una specie di piccola scatola… Che gli faceva da carrozzina… Adesso, per non impazzire, mi cerco delle giustificazioni. […]”. Qualcun altro potrebbe osservare che per risolvere il problema basterebbe rifiutarsi di gettare bombe nelle case o di gettare bombe in generale; è vero, se con questo s’intende disertare perché, diversamente, non c’è molta scelta: “[13 febbraio 2003] i federali accerchiano la casa di Movsar Termulaev. Sua moglie dalla finestra vede un soldato estrarre una granata e si precipita fuori gridando: “Ci sono dei bambini in casa!”. Il soldato ripone la granata, ma i commilitoni prendono Movsar, lo picchiano e lo portano via. Quella sera lo lasciano dalle parti del villaggio Petropavlovskaja, con fratture e grondante di sangue […]” – estratto da Proibito parlare di Anna Politkovskaja. Son tante le cose che si potrebbero dire su questo terribile argomento; un’altra, è che non si possono mettere sullo stesso piano soldati che lanciano bombe nelle case altrui senza sapere chi c’è dentro, e cecchini che deliberatamente assassinano bambini con “colpi precisi e non casuali”. È vero anche questo. Se la memoria non m’inganna, il “pane quotidiano” di campagne, villaggi e città bombardati che i servizi televisivi ci servono su piatti d’argento, è frutto di un impasto in cui non manca mai un ingrediente: i nugoli di bambini che si muovono increduli fra le macerie, guardano curiosi le telecamere o camminano spaesati accanto ad adulti che migrano, solitamente donne d’ogni età e vecchi. Sono bambini ai quali mancano indumenti, cibo, farmaci, giochi, scuola, serenità e molto altro ancora; l’elenco sarebbe lunghissimo, se non fosse che Khaled Hosseini, nel suo romanzo Il cacciatore di aquiloni – una storia ambientata in mezzo ai burrascosi eventi dell’Afghanistan, compresa l’invasione sovietica del ‘79 e l’ascesa del regime integralista talebano – è stato capace di sintetizzarlo così: “ci sono molti bambini, ma manca l’infanzia”. www.marcosommariva.com     Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
January 15, 2025 / Osservatorio Repressione
La Milano di Ramy e quella delle zone rosse
Le zone rosse sono un ostacolo non solo per l’integrazione, ma anche e soprattutto per il senso comune di sicurezza. di Rajaa Ibnou da Monitor Il ministro dell’interno Piantedosi ha inviato una direttiva ai prefetti di diverse grandi città italiane per invitarli a individuare, con apposite ordinanze, aree urbane dove vietare la presenza di soggetti considerabili pericolosi o con precedenti penali. I controlli e i fermi sono a discrezione della pattuglia di turno, con un potenziamento degli strumenti per disporre l’allontanamento dalla città di soggetti privi di residenza. A Milano le zone rosse sono distribuite in tutta la città a macchia d’olio, e non includono solo zone centrali ma anche quartieri popolari come via Gola o Corvetto. Istituite a Bologna, a Firenze, il 30 dicembre nel milanese, il 31 a Napoli, l’8 gennaio a Roma, queste aree off limits per alcune persone, saranno in vigore fino al 31 marzo; dalla loro istituzione a oggi, sono state controllate quasi 25 mila persone ed emessi quasi trecento provvedimenti di allontanamento (daspo urbani) a persone che non possedevano la residenza. In realtà, era già da diverso tempo che una particolare fascia di popolazione di Milano subiva questo tipo di controlli e allontanamenti dal territorio cittadino; si tratta per lo più di maschi, giovani e/o originari di altri paesi. Per un controllo dei documenti, un cittadino straniero (con permesso di soggiorno) rischia la deportazione dentro un Cpr, l’espulsione dalla città e anche dal territorio italiano. Ramy Elgaml è figlio di Corvetto, di questa Milano cupa, di un Egitto lontano. L’uscita del lungo video che mostra i suoi ultimi istanti di vita, mentre si trovava su una moto insieme all’amico Fares, inseguiti dai carabinieri, ha restituito un’immagine di Ramy distorta e faticosa oggi da leggere per i razzisti così come per i perbenisti. Per otto chilometri i carabinieri provano a speronare i due ragazzi; la gazzella più vicina prova a fargli perdere l’equilibrio, i militari si arrabbiano quando non ce la fanno e si complimentano in radio quando alla fine succede. Ramy e Fares si schiantano su un palo in via Quaranta, tampinati dai carabinieri fino allo scontro, il petto di Ramy si schiaccia fino a ucciderlo, ed è in quel momento che il suo casco salta via; lo troveranno che era ancora allacciato. L’impatto, fatale per Ramy, porterà Fares in coma per diversi giorni. Prima ancora di chiamare i soccorsi, i carabinieri di un’altra volante arrivata sul posto pochi secondi dopo l’impatto, notano un testimone, Omar; ha visto la scena, l’ha filmata, è ancora lì sotto shock; quando vede i due uomini in divisa nera e rossa avvicinarsi a lui, Omar alza le mani e, sotto richiesta dei due agenti, cancellerà il video che è riuscito a fare. Ora gli inquirenti si stanno impegnando per il recupero del video e per comprendere le dinamiche dello schianto; vogliono capire se la moto sia scivolata da sola per l’alta velocità, se è vero che c’è stato contatto nei secondi ultimi prima dello schianto in Via Quaranta, se e altri se. Un nodo alla gola sale pensando che sarebbe bastato il recupero della targa della moto nel momento in cui si è messa in fuga, con conseguente illecito amministrativo e quindi la preservazione della vita di un giovane di diciannove anni. Ed è meglio evitare di scrollare i commenti sui social dei leoni da tastiera che, con una violenza verbale inaudita, ci tengono a precisare che Ramy sarebbe ancora vivo se fosse rimasto a casa, se si fosse fermato al segnale di stop dei carabinieri, se e altri se. Dopo una morte così tragica, sarebbe bastato il silenzio per lasciare lo spazio che meritano le famiglie in lutto, e invece si sono cercati modi per colpevolizzare la vittima – il suo contesto sociale, la sua provenienza – anche dopo le registrazioni audio dentro le gazzelle, anche dopo aver visto il video che mostra la pericolosa vicinanza della volante alla moto dei ragazzi poco prima dello schianto. Per i due ragazzi, come per la stragrande maggioranza dei giovani abitanti delle sue periferie, Milano rappresenta più sfide che opportunità. Corvetto, Barona, San Siro, ciò che rimane di Giambellino e Lorenteggio fino ad arrivare alle malservite Quarto Oggiaro o Gratosoglio, sono quartieri cosiddetti dormitorio, dove le case si presentano come blocchi di cemento in cui le famiglie si rifugiano prima del tramonto come le api nelle arnie. La sera, l’assenza di luoghi aggregativi (accessibili e gratuiti) come biblioteche, spazi sociali, palestre con prezzi accessibili o discoteche, fa calare su questi quartieri il silenzio della notte illuminata dai lampioni con luce bianca che segnano le strade e forse qualche area con panchine. Per un giovane è veramente difficile poter ampliare il proprio cerchio di amicizie, di conoscenze e opportunità. Chi ha la fortuna di avere la copertura economica di genitori e nonni, può scegliere come tradurre le proprie passioni in qualcosa di concreto: sei bravo a calcio? Iscrizione alla scuola più vicina. Ti piace cantare? Prenotazione allo studio di registrazione. Vorresti fare la veterinaria? Iscrizione al corso universitario apposito. Per molti giovani figli di genitori migranti (e non) delle periferie di Milano, la vita non è così lineare. Ci sono persone nate in Italia che, a causa di una legge sulla cittadinanza antiquata e della burocrazia macchinosa, diventano clandestine al compimento della maggiore età, costrette a interrompere gli studi e anche a non poter lavorare; c’è chi sconta le pene al carcere o al minorile, e nonostante abbia già pagato con la detenzione rischia la deportazione in un Cpr o, con il rafforzamento delle zone rosse, l’allontanamento dalla città, e quindi dalla propria abitazione, dai propri affetti, dal lavoro se c’è; c’è chi vorrebbe cambiare città ma ha carte d’identità non valide per l’espatrio, chi vorrebbe frequentare un corso di studi all’università ma non ha la cittadinanza italiana; e questo senza evidenziare la forte crisi economica che le fasce medio-povere della popolazione stanno subendo da anni, con l’aumento dei prezzi e la diminuzione degli stipendi. I quartieri popolari milanesi hanno una forte impronta giovanile e migrante che non solo non trova spazio di espressione e di crescita personale, ma subisce una criminalizzazione costante. Se non ci si può incontrare in quartiere senza rischiare un controllo collettivo dei documenti, se non si possono frequentare i locali del centro anche solo per festeggiare una giornata speciale, se non si può circolare liberamente per le vie della città rischiando di finire nella ragnatela repressiva del governo, quale dovrebbe essere il luogo di ritrovo per questi giovani? Le zone rosse sono un ostacolo non solo per l’integrazione, ma anche e soprattutto per il senso comune di sicurezza. Non è un caso che i governi italiani tutti abbiano sempre trattato il tema dell’immigrazione da questo punto di vista. Così, i decreti sicurezza diventano funzionali a escludere ogni volta di più chi già vive ai margini della società, isolando chi non rientra nei canoni imposti. Il decreto di Piantedosi, in arrivo in Senato in primavera, prevede l’impossibilità per le persone senza permesso di soggiorno di acquistare legalmente delle simcard per il telefono, aumenta le pene e aggiunge aggravanti per proteste all’interno delle carceri o dei Cpr. Non è un segreto che per poter richiedere un appuntamento in Questura per il rilascio del primo permesso di soggiorno, bisogna rilasciare anche un numero di telefono su cui poi si riceverà il messaggio con orario e giorno in cui presentarsi. E non è nemmeno più sconosciuta la condizione dei detenuti in quelli che chiamiamo lager di Stato, e cioè i Cpr. Questa è solo una piccola parte di una proposta ben più ampia, in linea con l’istituzione delle zone rosse nelle grandi metropoli italiane e con la creazione degli strumenti di deterrenza per chi qui, dallo Stato italiano, non è considerato benvenuto. E dire che basterebbe un alleggerimento della burocrazia legata ai procedimenti di regolarizzazione dei permessi di soggiorno, una modifica coerente con la realtà di oggi della legge sulla cittadinanza (ferma al 1992); si potrebbero costruire corsi di formazione extra-scolastica gratuiti, percorsi di avvicinamento al mondo del lavoro con la possibilità di scegliere opzioni differenti di percorso; basterebbe creare spazi di incontro ed evitare di mostrare la presenza dello Stato sempre e solo attraverso la presenza di molteplici apparati di controllo. Come sta succedendo ancora oggi per le vie di Corvetto, inserita all’interno di una delle zone rosse, e oppressa dalla presenza della polizia che ha sostituito quella dei carabinieri. Le zone rosse non sono da migliorare né prorogare, ma da rimuovere totalmente. Di recente ho guardato la famosa fotografia in bianco e nero del 25 aprile 1945, quella dell’ingresso dei partigiani e delle partigiane in piazza del Duomo a Milano aggrappati a un mezzo militare sequestrato ai fascisti, finalmente cacciati dalla città dopo anni di Resistenza. Chissà come sarebbe andata se avessero saputo che la città che hanno liberato con il loro sangue sarebbe stata svenduta al turismo e ai grandi eventi a discapito di chi la abita nonostante le ristrettezze economiche, relegando ai margini tutte le storie e le contraddizioni di chi non si conforma all’ordine e alla disciplina imposti dall’alto. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
January 13, 2025 / Osservatorio Repressione
Quando la forza è il rovescio del diritto
È inaccettabile, in uno Stato di diritto, che sia proprio lo Stato, di cui le forze dell’ordine sono espressione, ad assumere comportamenti improntati alla violenza, nella quale la dismisura si traduce, in sé stessi e nelle conseguenze finali che producono di Niccolò Nisivoccia da il manifesto È molto grave quello che si vede e si sente nei filmati adesso disponibili sulla morte di Ramy Elgaml, avvenuta il 24 novembre scorso a Milano dopo un inseguimento durato circa venti minuti da parte dei carabinieri. Com’è noto, Ramy era su uno scooter con un amico, i due non si erano fermati all’alt, i carabinieri inseguivano su due macchine. Si vedono appunto delle immagini di questo inseguimento per le strade della città, anche in contromano. Si sente la voce dei carabinieri dire cose come: «Chiudilo, chiudilo, chiudilo che cade; no, merda, non è caduto». Si vede (o quantomeno sembra di vedere) che alla fine lo scooter viene effettivamente tamponato da una delle due macchine; e si capisce (o quantomeno sembra di capire) che è questo tamponamento a portare lo scooter a sbattere contro il semaforo (provocando la morte di Ramy). Si sente la voce dei carabinieri dire «sono caduti», e un’altra voce rispondere «bene». Cosa ne emerge? In primo luogo l’indifferenza dei carabinieri rispetto al pericolo verso altre persone che quell’inseguimento poteva provocare (era notte, d’accordo, ma anche di notte è possibile che delle persone attraversino le strade). In secondo luogo l’intenzione deliberata di far cadere lo scooter su cui viaggiavano Ramy e il suo amico, accettando l’idea che la caduta potesse provocare la loro morte. E non sono gravissimi in quanto tali, questi dati? Non sono, quelli dei carabinieri, comportamenti contrari a qualunque elementare norma di misura, di equilibrio? Non è proprio questo – il rispetto della misura, dell’equilibrio – che dovrebbe connotare il comportamento di tutti, ivi incluse le forze dell’ordine, e ciò che tutti ci aspettiamo dagli altri con i quali entriamo in relazione, a maggior ragione quando gli altri siano le forze dell’ordine? È accettabile, in uno Stato di diritto, che sia proprio lo Stato, di cui le forze dell’ordine sono espressione, ad assumere comportamenti improntati alla violenza, nella quale la dismisura si traduce, in sé stessi e nelle conseguenze finali che producono? Si dirà (come si è già detto): il pericolo non è stato generato dai carabinieri, ma da Ramy e dal suo amico; chi non si ferma a un posto di blocco va inseguito e basta; i carabinieri hanno solo fatto il loro dovere; il rischio riguardava i carabinieri stessi per primi. Ma questo è un argomento che presuppone la commensurabilità dei comportamenti in gioco (quello di Ramy e del suo amico, da una parte, e quello dei carabinieri dall’altra), sul presupposto che si tratti di comportamenti valutabili alla luce di un medesimo parametro. E da questo punto di vista non c’è dubbio: nel momento esatto in cui non si sono fermati all’alt, Ramy e il suo amico si sono posti al di fuori della legge, legittimando una reazione dei carabinieri. Ma la situazione non poteva giustificare una reazione che contemplasse la morte, di Ramy e del suo amico o di altri, come sua possibile conseguenza. E questa è una considerazione che sarebbe sufficiente anche da sola: come potremmo ammettere che una vita valga meno del rispetto di un alt? Ramy e il suo amico potevano essere chiunque, due criminali come due ragazzini che avevano paura di dover rendere conto ai genitori di aver bevuto un po’: la reazione dei carabinieri è stata assunta, di per sé, semplicemente a fronte del mancato rispetto di quell’alt. Ma comunque non è solo questo. Il fatto, ancora più in generale, è che il comportamento di chi si pone fuori dal diritto e dalla legge, e che in questo modo se ne svincola, non può mai essere interpretato e valutato alla stessa stregua di quello dello Stato, che alle ragioni del diritto e della legge dovrebbe rimanere sempre e per definizione vincolato: e questa è un’evidenza perfino epistemologica, anche a prescindere dagli elementi del caso concreto. Negarla equivarrebbe tout court ad ammettere il rovesciamento del diritto e della legge nel loro contrario: non più strumenti di contenimento della forza, funzionali al rispetto della misura, ma strumenti di forza smisurata a loro volta, svilimento di sé stessi. È un rovesciamento al quale troppo spesso, e sempre di più, siamo costretti ad assistere, ormai quasi quotidianamente. Non si tratta, sia chiaro, di puntare il dito contro le forze dell’ordine o di mancare di gratitudine verso coloro che le rappresentano. Semmai è proprio il doveroso riconoscimento dell’alto valore dei compiti svolti dalle forze dell’ordine a richiedere che i problemi vengano affrontati, come ha scritto Roberto Cornelli in un suo importante saggio su questi temi (La forza di polizia), «con strumenti e sguardi capaci di andare oltre lo scandalo e l’indignazione, da un lato, l’imbarazzo e le difese d’ufficio, dall’altro». > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 12, 2025 / Osservatorio Repressione
Avanti con la lotta di classe!
È sempre più ampio e aspro il conflitto tra chi vende il proprio lavoro per sopravvivere e chi ne trae profitto. Sta aumentando la non-salute mentale degli sfruttati che, sempre più spesso, crollano. Meglio essere asociali che disumani. di Marco Sommariva L’anno scorso, il regista inglese Ken Loach ha rilasciato un’intervista al giornalista Stefano Galeazzi del mensile Altreconomia, che ho trovato particolarmente interessante. Diversi sono i passaggi che mi hanno indotto a ragionare nuovamente su un argomento che spesso viene ritenuto superato, la lotta di classe. Il primo è questo: “[…] al centro della nostra società c’è il conflitto tra chi vende il proprio lavoro per sopravvivere e chi ne trae profitto. Ci raccontano la grande bugia che abbiamo un interesse comune, che tutti abbiamo gli stessi problemi e naturalmente non è così. Perché l’interesse di coloro che sfruttano il lavoro, possiedono e controllano le finanze, le industrie, che fanno profitto in un sistema fondato sulla concorrenza è questo: vince chi fornisce i migliori prodotti e servizi al costo più basso sfruttando la forza lavoro. Invece l’interesse della gente comune è rappresentato dall’avere un lavoro sicuro, un reddito sicuro, una casa sicura, cibo sicuro per la propria famiglia. E questi due interessi sono apertamente in conflitto, non possono essere riconciliati, e questo è il conflitto inevitabile che abbiamo. E finché non ne prendiamo atto restano inconciliabili perché è il sistema a richiederlo”. È vero, i due interessi sono apertamente in conflitto fra loro; diversamente non si spiegherebbe quanto accaduto il mese scorso in una grande ditta ligure: una selezione di trenta giovani di età compresa tra i venti e i trent’anni non sono stati assunti con un contratto a termine della durata di un anno, perché l’azienda in questione è riuscita a sostituire con l’intelligenza artificiale quella che avrebbe dovuto essere la loro mano d’opera. Questa mossa ha permesso di ridurre ulteriormente e drasticamente i costi, reso l’azienda in questione ancor più competitiva di quello che era. Dico che i costi sono stati ridotti ulteriormente perché già la decisione di assumere per dodici mesi i trenta giovani, era stata presa per risparmiare: sarebbero stati lasciati tutti a casa appena terminata la nuova commessa acquisita. Un altro passaggio del regista che mi è rimasto impresso, è questo: “Siamo ormai in una fase in cui le conquiste come la giornata di otto ore, il posto fisso, il licenziamento per giusta causa, il salario minimo, sono sparite, finite in quella che chiamiamo la gig economy. Il datore può aprire e chiudere il lavoro come un rubinetto. Ovviamente, questo porta grande povertà. E il sistema ti dice che se sei povero è colpa tua. C’è la povertà, ma ti dicono che tutti possono lavorare, che se ti impegni abbastanza c’è un impiego per tutti. Sappiamo che è una bugia, ma loro sono costretti a insistere su questo per evitare che venga messo in discussione il sistema. E quindi è colpa tua e devi essere punito se sei povero. […] Se invece lavori, la lotta per mettere insieme abbastanza soldi per andare avanti con la gig economy e l’insicurezza del lavoro creano una pressione psicologica enorme. Non puoi mai rilassarti. Sappiamo che c’è chi fa due o tre lavori insieme, lavora giorno e notte. Quindi è una pressione psicologica enorme”. La Treccani spiega così il significato di gig economy: “Modello economico basato sul lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo, e non sulle prestazioni lavorative stabili e continuative, caratterizzate da maggiori garanzie contrattuali”. In effetti, conosco ragazzi e giovani adulti che davvero si sentono in colpa perché, con le loro varie attività che svolgono – dog-sitter, consegne a domicilio, ripetizioni online o a casa, eccetera –, non riescono a raggranellare quanto necessario come, per esempio, rendersi indipendenti dai genitori. Senso di colpa che sempre più spesso tende a ingigantirsi e a sfociare in qualcosa di grave, a volte in tragedia, specie quando inizialmente se n’è sottovalutata la portata; sto parlando di quell’enorme pressione psicologica capace di sfociare nel mare magnum dei problemi inerenti alla salute mentale a cui, guarda caso, fa riferimento sempre Ken Loach nel prosieguo dell’intervista: “Stiamo assistendo a una crisi colossale della salute mentale in Gran Bretagna, una crisi enorme. Non ne capiscono le cause perché non vogliono mettere in discussione il sistema. Dalla destra ai socialdemocratici, che sono i più pericolosi di tutti, perché dicono di rappresentare i lavoratori ma per loro conta solo il profitto. Quindi, il capitalismo deve funzionare, e funzionerà solo se otterranno profitti. Una concorrenza sfrenata significa sempre più sfruttamento. E così la salute mentale, anzi la non-salute mentale è in forte aumento. Le persone crollano, i legami e i matrimoni si rompono, perché non si può vivere sempre sotto pressione dal punto di vista economico. È molto, molto difficile. I lavoratori, se uniti, possono fermare tutto: non siamo noi a dipendere da loro. E la menzogna che accettiamo, che questo sia l’unico modo di organizzare la nostra vita, è disastrosa”. Il sistema che non si vuole mettere in discussione e il capitalismo che “deve funzionare”, basano la propria sopravvivenza su un consumismo sfrenato e dopato che aumenta la pressione psicologica di cui sopra. Un esempio di consumismo dopato? Eccovelo. Andando a parlare nelle scuole in veste di scrittore contemporaneo, con studenti e studentesse si affrontano tanti discorsi, dei più svariati; è capitato che uno di questi riguardasse le scarpe costosissime che adolescenti e non solo vogliono avere ai piedi e, mentre un ragazzino di una prima superiore denunciava molto timidamente il fatto d’esser stato messo da parte dai compagni di classe per le “scarpe da pezzente” che indossava, un altro vantava a testa alta di potersele permettere grazie al secondo lavoro svolto da suo padre, che era quello di spacciare cocaina, giuro, ha detto proprio così – una volta salutati gli studenti, gl’insegnanti presenti all’incontro mi hanno confermato quanto riferito dai due studenti, l’istituto scolastico conosceva entrambe le realtà famigliari. L’intervista di Altreconomia al regista inglese ci mette a conoscenza di una sua idea che ha a che vedere con la lotta di classe: “[…] riconoscere che questa società si basa sulla lotta di classe e organizzarsi nei sindacati, sul lavoro e difendere le scuole, i servizi e unirsi, perché finché siamo isolati all’interno di questa comunità, di quel sindacato, di quel Paese e non creiamo dei legami non succede nulla. […] la nostra forza è la solidarietà. I lavoratori, se uniti, possono fermare tutto: non siamo noi a dipendere da loro. E la menzogna che accettiamo, che questo sia l’unico modo di organizzare la nostra vita, è disastrosa”. Certo è che la prima cosa di cui si sente l’assenza è proprio l’unità fra i lavoratori, e qui preferisco non spendere parole nel raccontarvi le decine di episodi vissuti in oltre quarant’anni di lavoro, dove protagonista è la sfacciataggine con cui, per un misero aumento o avanzamento di carriera, un lavoratore frega decine di colleghi – ci tengo ad assicurarvi che, spesso, l’ignoranza del soggetto rampante c’entra poco o niente. A proposito, scriveva ne Il nostro programma Errico Malatesta: “L’ignoranza fa sì che gli uomini non conoscano le cause dei loro mali e non sappiano rimediarvi, e per distruggere l’ignoranza bisogna che gli uomini abbiano il tempo ed il modo d’istruirsi”. Sarà mica per questo, perché non si sia più in grado di risalire alle cause dei propri mali, che abbiamo ridotto molti studenti ad arrivare all’università, anche università molto selettive e considerate d’élite, senza più la capacità di leggere libri? https://www.internazionale.it/notizie/rose-horowitch/2025/01/07/lettura-libri-studenti Personalmente, rimpiango quella palpabile solidarietà che faceva da collante fra i lavoratori durante gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, così come sento la mancanza di una certa letteratura capace di raccontare lavoratori in lotta contro sfruttamento, miseria e alienazione: “Diciamo Sì alla violenza operaia. Perché siamo noi proletari del sud noi operai massa questa enorme massa di operai noi centocinquantamila operai della Fiat che abbiamo costruito lo sviluppo del capitale e di questo suo Stato. Siamo noi che abbiamo creato tutta la ricchezza che c’è e di cui non ci lasciano che le briciole. Abbiamo creato tutta questa ricchezza crepando di lavoro alla Fiat o crepando di fame nel sud. E adesso noi che siamo la grande maggioranza del proletariato non ne abbiamo più voglia di lavorare e di crepare per lo sviluppo del capitale e di questo suo Stato. Non ne possiamo più di mantenere tutti sti porci” – Vogliamo tutto di Nanni Balestrini. Sia chiaro, al sottoscritto andrebbe benissimo che la violenza operaia citata nel romanzo di Balestrini fosse espressa, oggi, con l’impeto di parole capaci di dare forza a discorsi di riscatto, concetti di rivolta, dare forma costruttiva a quel furore che, terminata la giornata lavorativa, portiamo quotidianamente fra le mura domestiche perché non abbiamo saputo o potuto smaltirlo sullo stesso posto di lavoro che, molto gentilmente, ce ne ha fatto generosamente dono. Anche perché, scusate questa mia convinzione, sono le parole esplosive a poter uccidere questo sistema, non altri generi di deflagrazioni capaci solo di produrre martiri tra i defunti e demoni fra i bombaroli. Poi ognuno intraprenda la metodologia che più gli si confà, ci mancherebbe: non ho mai ritenuto la mia lotta essere di serie A e le altre di serie B. C’è tanta letteratura che può aiutare un lavoratore, una lavoratrice a non commettere errori, a dare forza e forma a ciò che ha già in testa senza che, magari, se ne sia neppure reso conto; leggete cosa scriveva Jack London sulla lotta di classe, oltre un secolo fa, nel romanzo Il tallone di ferro: “È un vecchio trucco, come la lotta di classe, che consiste nello scegliere i propri capitani togliendoli all’esercito del nemico. Poveri lavoratori eternamente traditi! Sapessi quanti sindacalisti, in passato, sono stati comprati così! Costa meno, molto meno assoldare un generale, che non affrontarlo con il suo esercito e combatterlo”. Lo stesso libro – notare bene, edito nel 1907! – ci dice qualcosa sul sistema capitalistico: “Quando ogni paese si troverà in possesso di beni in eccedenza inconsumabili e invendibili, il sistema capitalistico crollerà sotto l’enorme peso dei profitti che ha accumulato”. Il tallone di ferro racconta una società dominata dal profitto, da un’oppressione generalizzata che non lascia scampo; un libro che influenzò non poco l’iniziale formazione socialista di Mussolini il quale, quando fu al potere, non a caso ne vietò la ristampa e la diffusione. Ancora dal romanzo di Jack London: “Mio padre fu marchiato come anarchico e nichilista […]. Venne aspramente attaccato da tutta la stampa, in lunghi e spietati articoli, per la sua anarchia e furono fatte allusioni a una sua incipiente follia. Questa tattica, ci informò Ernest, non era una novità da parte della stampa capitalistica, che inviava di solito i suoi cronisti a tutte le riunioni socialiste, con l’ordine di alterare e svisare ciò che veniva detto, per spaventare la borghesia e distoglierla da ogni idea di una possibile unione col proletariato”. La stampa che spaventa la borghesia per distoglierla da ogni idea di una possibile unione col proletariato, potrebbe essere la stessa stampa di destra nominata ancora da Ken Loach, nell’intervista citata prima: “Le persone sono state incoraggiate dalla stampa di destra a essere razziste cadendo nella trappola secondo cui il motivo per cui non hanno un buon lavoro è che ci sono gli immigrati che glielo portano via. Ma ovviamente non è affatto vero. Sono senza lavoro perché le miniere di carbone sono state chiuse, noi come società non abbiamo costruito nuove industrie dove ci sarebbe stato un buon lavoro qualificato, buoni salari, un’occupazione sicura, per produrre cose di cui la gente ha bisogno. E ci sono molte cose di cui abbiamo bisogno. C’erano buone comunità, avevano solo bisogno di lavoro. Si sarebbe potuto fare, ma è mancato l’investimento pubblico. Nella mente dei socialdemocratici e della destra, gli investimenti sono possibili solo se qualcuno può trarne profitto, non si possono fare “collettivamente”. Dall’altro lato ci sono le persone che arrivano. Gente comune, che spesso soffre per le guerre che noi, certamente in Gran Bretagna, abbiamo creato, come quella in Iraq e nell’intera area che noi chiamiamo Medio Oriente. E il modo in cui usiamo il linguaggio racconta la nostra storia coloniale: per un cittadino iracheno o palestinese è il centro, altro che Medio Oriente. Noi non accettiamo le nostre responsabilità e i governi alimentano l’ostilità contro i rifugiati generando razzismo. Questo va a favore della classe dirigente perché viene usato per dividerci. Se le persone nel nostro Paese dicono: non vogliamo i profughi, non ci piace la loro cucina, non ci piace il colore diverso della loro pelle, non ci piace il loro modo di vestire, in un certo senso ci impedisce di guardare chi veramente sta causando i nostri problemi”. E sì, anche la stampa, i media, i Social, fanno la loro parte in questa battaglia, ed è dura regger botta contro tutti i nemici esterni che remano contro la realizzazione di una lotta di classe ben strutturata, ma è dura anche per via dei nemici interni: quante volte ci siamo scoperti del tutto impreparati ad affrontare la cruda realtà perché il nostro anticapitalismo, antifascismo, antirazzismo, antisessismo s’è rivelato puramente estetico e culturale, e non politico? Al riguardo, racconta qualcosa Pier Paolo Pasolini nel libro Pasolini su Pasolini, che raccoglie le conversazioni realizzate nel 1968 fra il giornalista e storico inglese Jon Halliday e lo scrittore e regista romano: “Nell’immediato dopoguerra i braccianti erano impegnati in una massiccia lotta contro i grandi proprietari terrieri del Friuli. Per la prima volta in vita mia, mi trovai, fisicamente, del tutto impreparato, e questo perché il mio antifascismo era puramente estetico e culturale, non politico. Per la prima volta mi trovai di fronte alla lotta di classe, e non ebbi esitazioni: mi schierai subito con i braccianti. I braccianti portavano sciarpe rosse al collo, e da quel momento abbracciai il comunismo, così, emotivamente. Poi lessi Marx e alcuni dei pensatori marxisti”. A difesa della lotta di classe ho citato Ken Loach per i giorni nostri e Jack London per l’inizio del secolo scorso, ma nel mezzo non c’è stato di certo il silenzio. Nel 1946 furono molti i cronisti che accorsero in Germania per raccontare quel che restava del Reich finalmente sconfitto; dal coro di voci si distinse quella di uno scrittore svedese di ventitré anni, intellettuale anarchico e narratore dotato di una sensibilità fuori dal comune, inviato lì dal quotidiano svedese Expressen per realizzare una serie di reportage poi raccolti in un libro, Autunno tedesco. Mentre le testate di tutto il mondo offrivano il ritratto preconfezionato di un paese distrutto, Stig Dagerman si muoveva fra le macerie di Amburgo, Berlino, Colonia e Francoforte, su treni stipati di senzatetto e in cantine allagate dove vivevano masse di tedeschi affamati e disperati, cercando di capire la sofferenza dei vinti. Ne emerse un quadro molto più complesso di quello che era comodo figurarsi; leggete cosa scrisse a difesa della lotta di classe: “[…] le bombe inglesi hanno ignorato i confini di classe (anche se i quartieri delle ville, meno densamente popolati, hanno senz’altro riportato danni minori degli agglomerati di case), bisogna però aggiungere, a difesa della lotta di classe, che i conti in banca non sono stati bombardati”. Spero di non essermi perso nei mille rivoli che nascono da questo fiume in piena che è, appunto, l’argomento “lotta di classe”, e di essere riuscito a comunicare qualcosa di utile; prima di chiudere, però, desideravo ricordare una frase del filosofo belga Raoul Vaneigem, riportata nel suo Trattato del saper vivere, una lettura fondamentale per la spietata attualità della sua critica alla società dei consumi e del controllo mediatico: “Quelli che parlano di rivoluzione e di lotta di classe senza riferirsi esplicitamente alla vita quotidiana, senza comprendere ciò che c’è di sovversivo nell’amore e di positivo nel rifiuto delle costrizioni, costoro si riempiono la bocca di un cadavere”. E allora, dài!, avanti con la lotta di classe, con la rivoluzione! Iniziamo a rivoluzionare la nostra vita quotidiana, incominciamo a rifiutare certe costrizioni, tipo l’obbligo di avere scarpe costose ai piedi per essere accettati. Vi diranno che siete inadatti, asociali? Rispondete loro con le parole di Stig Dagerman: “[…] quando le forme della società si fanno dure e negano la vita, è meglio essere asociali che disumani” – La politica dell’impossibile. www.marcosommariva.com     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
January 9, 2025 / Osservatorio Repressione
Il giornalista che si accontenta si rende complice
Da un’intervista a un leader non si ricava nulla: è quasi impossibile fargli domande e, se riesci, risponde tenendo un discorso; i discorsi gli sono utili ad arrampicarsi al potere. di Marco Sommariva In un articolo di Gianni Santamaria pubblicato il 1° dicembre scorso su Avvenire, https://www.avvenire.it/agora/pagine/il-senso-di-hitler-per-la-stampa-estera leggo dell’uscita in Germania di un saggio scritto da Lutz Hachmeister – giornalista, documentarista e storico dei mass media – che indaga sui rapporti di Hitler coi giornalisti, in particolare anglofoni. Pare che i giornalisti stranieri, soprattutto statunitensi, lo cercassero perché ambivano a uno scoop; Hitler, invece, cercava loro perché utili alla sua strategia: non gli bastava riempire le piazze, aveva bisogno dei media. Ed è grazie a questo ambiguo e doppio legame fra le parti che ci sono giunte oltre cento interviste, di cui più della metà rilasciate alla stampa angloamericana – rare le interviste coi media tedeschi. Dell’interessante articolo di Gianni Santamaria mi sono rimaste impresse tre cose. La prima è che Karl von Wiegand – rappresentante del gruppo Hearst, colosso mediatico statunitense – dopo aver avuto un faccia a faccia privato di un quarto d’ora con il leader nazista, alla fine aveva concluso così coi colleghi: “Quest’uomo è un caso disperato. Diventa sempre peggio ogni volta che lo vedo. Non sono riuscito a ricavarne niente. Quando gli fai una domanda, lui tiene un discorso. Questo incontro è stato solo una perdita di tempo”. La seconda è che, nel 1936, il giornalista americano John Gunther – pur giudicando Hitler un rozzo urlatore, inferiore come oratore rispetto a Goebbels – aveva sottolineato come il leader nazionalsocialista avesse raggiunto la vetta del potere assoluto arrampicandosi ai discorsi. La terza è che fare domande a Hitler era praticamente impossibile ma che a molti giornalisti, questo, non importava: spesso si accontentavano di farlo parlare a ruota libera. Riassumendo i tre punti esposti sopra, mi è venuto in mente il tempo che stiamo vivendo: da un’intervista a un leader non si ricava nulla; è quasi impossibile fargli domande e, se riesci, risponde tenendo un discorso; i discorsi gli sono utili per raggiungere e conservare il potere. Mi domando se il giornalista che si accontenta, che si fa usare, si renda conto che, in qualche misura, si rende complice. E allora penso a chi non si accontentava, a chi non pensava neppure lontanamente a farsi usare, ad Anna Politkovskaja per esempio che, riguardo il suo lavoro di giornalista, disse: “Sono una reietta. È questo il risultato principale del mio lavoro di giornalista in Cecenia e della pubblicazione all’estero dei miei libri sulla vita in Russia e sul conflitto ceceno. A Mosca non mi invitano alle conferenze stampa né alle iniziative in cui è prevista la partecipazione di funzionari del Cremlino: gli organizzatori non vogliono essere sospettati di avere delle simpatie per me. Eppure tutti i più alti funzionari accettano d’incontrarmi quando sto scrivendo un articolo o sto conducendo un’indagine. Ma lo fanno di nascosto, in posti dove non possono essere visti, all’aria aperta, in piazza o in luoghi segreti che raggiungiamo seguendo strade diverse, quasi fossimo delle spie. Sono felici di parlare con me. Mi danno informazioni, chiedono il mio parere e mi raccontano cosa succede ai vertici. Ma sempre in segreto”. Il 7 ottobre 2006 Anna Politkovskaja, all’epoca quarantottenne, fu ritrovata nell’androne della sua casa moscovita uccisa da quattro colpi d’arma da fuoco. Pochi giorni dopo avrebbe pubblicato sul giornale Novaja Gazeta i risultati di una sconvolgente inchiesta sulle torture perpetrate in Cecenia dai russi – l’ultimo reportage di una carriera giornalistica all’insegna del coraggio e della verità. Subito, amici e persone qualunque che stimavano il suo lavoro andarono sul luogo del delitto per renderle omaggio; quel giorno, anche l’intervento della polizia fu tempestivo: le entrarono in casa e sequestrarono il computer. Tornando al fondatore del nazionalsocialismo, l’articolo di Avvenire riporta anche che le interviste pubblicate dai giornali dell’epoca venivano sempre riviste da Hitler prima di andare in stampa: conosceva bene il potere della parola. In Sulla lingua del tempo presente, scrive Gustavo Zagrebelsky: “[…] la lingua dei regimi totalitari, così come la lingua dei gruppi chiusi e settari d’ogni genere (politici e religiosi) [appartiene alla] categoria delle parole in libertà vigilata. Questi regimi si dotano, per intrinseca necessità, di «ministeri delle parole». Li denominano variamente, ministeri dell’informazione, della propaganda, della cultura popolare, e simili. Hanno in comune il compito di diffondere ideologie, non necessariamente negando frontalmente la realtà – sarebbe in tal caso troppo facile lo smascheramento – ma rivestendola di appropriate parole dette e ridette secondo il motto di Joseph Goebbels: «Ripetete una cosa qualsiasi cento, mille, un milione di volte e diventerà verità»”. Sarà forse per questo che negli Stati Uniti ci sono giornalisti che lavorano per importanti testate ed emittenti televisive che hanno avuto un passato in unità militari e di intelligence di Israele e che, a giudicare dal loro lavoro, sembrano ancora fare gli interessi del loro Paese nella guerra di informazione e propaganda? https://www.lindipendente.online/2024/11/29/le-spie-israeliane-che-lavorano-come-giornalisti-nelle-maggiori-testate-usa/ Torniamo a Goebbels e alla sua frase per cui una menzogna ripetuta in continuazione diviene verità; in un articolo pubblicato su Il Foglio Quotidiano https://www.ilfoglio.it/magazine/2024/09/23/news/la-politica-di-cani-e-gatti-dal-terzo-reich-alle-presidenziali-americane-6966637/, Siegmund Ginzberg ci fa notare qualcosa di più: “Una menzogna non vale per quanto sia vera o verosimile, vale per l’emozione che suscita. La differenza tra allora e oggi è che quella dei giorni nostri non è suffragata da un minimo di prove. Mentre i propagandisti nazisti facevano finta di documentarsi. A sostegno delle sue orrende invenzioni Streicher [leader nazista e direttore del giornale violentemente antisemita Der Stürmer] aveva messo in piedi un centro di documentazione e una biblioteca fornitissima, con tutte le prove “inconfutabili” di antiche leggende medievali e ritagli di giornali, specie cronache giudiziarie. L’ebreo violentatore, l’ebreo ladro e imbroglione, l’ebreo assatanato l’ebreo assassino, e così via. Vi lavoravano decine di “specialisti”, tanto di professoroni e grandi giornalisti”. Tenete conto che le informazioni false son costate care al nazismo stesso, a leggere quanto scrive in Terra, Terra!, Sándor Márai: “Il grande errore del nazismo è stato quello di aver sottovalutato – dando credito a informazioni false – la potenza russo-sovietica. Ma è possibile che poi sia stato fatto lo stesso errore e quella medesima potenza – sempre sulla base di informazioni false – sia stata sopravvalutata”. “La macchina del falso […] ha già azzannato il giornalismo con la moltiplicazione di fake news o con la sovrapposizione della propaganda ai fatti: nei teatri di guerra i giornalisti non riescono a entrare o vengono uccisi se vedono quello che non si deve sapere”, così scrive Annamaria Guadagni nel suo interessante articolo pubblicato sabato 28 dicembre su Il Foglio Quotidiano; e quanto riportato dalla giornalista non è certo una novità dei nostri giorni, dato che Graham Greene nel romanzo del 1955 L’americano tranquillo, ambientato durante la guerra d’Indocina che venne combattuta tra il 1946 e il 1954, scrive: “[…] dopo quattro giorni, con l’aiuto dei paracadutisti, il nemico era stato respinto a ottocento metri dalla città. Era stata una disfatta. A nessun giornalista era consentito l’accesso, né si potevano mandare telegrammi, perché i giornali dovevano riportare solo vittorie”. Riprendendo Ginzberg, una menzogna vale per l’emozione che suscita: è importante non dimenticarlo mai, sia se si ascolta un politico sia se sta parlando un collega, un parente… ricordarlo sempre. Immagino stiate pensando io stia parlando di cose che non ci riguardano granché visto che, al momento, non abbiamo a che fare con un Hitler o un Goebbels. Ma se torniamo a ragionare sull’importanza della parola, potremmo scoprire che anche il “politicamente corretto” col suo carico d’ipocrisia e perbenismo è, a dir poco, degradante, umiliante, persino pericoloso se ha la capacità, come ritengo sia, di addormentare le coscienze, la resistenza; un modo come un altro per conformare la comunicazione: di tutti, dai mezzi d’informazione al verbo della tua vicina di casa. Son d’accordo con Zagrebelsky quando, in opposizione alla semplificazione dei problemi comuni, alla rassicurazione a ogni costo, all’occultamento delle difficoltà, alle promesse dell’impossibile, invita a ritrovare “l’orgoglio di comunicare tra noi parlando diversamente, non conformisticamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente, adeguatamente ai fatti”. Credo che parlare tra noi diversamente potrebbe risultare, alla lunga, un’ottima palestra per la nostra mente, quella mente che tende a chiedere solo le realtà che la nutrono quotidianamente ma che non possono bastare, anzi, non devono bastare, perché il non domandare altro potrebbe indurre i giornalisti a impigrirsi; leggete cosa scriveva Joseph Conrad nel romanzo Il caso: “Può mai essere affare di un giornalista capire qualcosa? Mi sa di no. Lo condurrebbe troppo lontano dalle realtà che sono il pane quotidiano della mente del pubblico”. E adesso leggete cosa scriveva Aldous Huxley in La volgarità in letteratura, facendo riferimento al novantanove per cento dei lettori di giornali: “[…] l’ignoranza non costituisce un deterrente per il giornalista esperto, il quale sa per esperienza che un’ora trascorsa in una biblioteca ben fornita basterà a renderlo più edotto nella materia in questione del novantanove per cento dei suoi lettori”. Non dovremmo farci mai trovare in condizioni di tale inferiorità perché i giornalisti hanno un potere e, come tale, non va sottovalutato; scrive Jean Echenoz in Correre: “Emil [Zatopek] ha voglia di tornare in Brasile come aveva promesso, ma l’anno scorso, quando era appena tornato da lì, un […] giornalista dello Svobodné Slovo gli ha chiesto una breve intervista. […] Compagno, gli ha detto il giornalista, ai nostri lettori interesserebbero moltissimo le tue impressioni sul Brasile. Senti, ha cominciato Emil, vorrei essere estremamente chiaro. il Brasile è un posto splendido. Te lo ripeto, eh, proprio fantastico. Da ogni punto di vista. Ci tornerò con piacere. Mi sono spiegato bene? Risultato: comunicato del portavoce del ministero brasiliano degli Esteri. A Emil viene rifiutato il posto per il Brasile. Non si tratta, precisa il portavoce, di una decisione politica, ma di un caso particolare. Zatopek, infatti, al suo ritorno in Cecoslovacchia, ha rilasciato dichiarazioni irriguardose sul Brasile”. Sempre riguardo al potere dei giornalisti, scrive nel romanzo Lo straniero, Albert Camus: “[…] il giornalista si è rivolto a me sorridendo e mi ha detto che sperava che tutto sarebbe andato bene. L’ho ringraziato e lui ha aggiunto: Sa, abbiamo un po’ montato la sua faccenda. L’estate è la stagione morta per i giornali. E non c’è che la sua storia e quella del parricida che valgano qualcosa”. Siamo circondati, assediati da falsi contenuti; a fine settembre dell’anno scorso leggevo questo su L’Indipendente: “L’ennesimo caso di commistione tra pubblicità e informazione ha scatenato una nuova protesta all’interno del quotidiano La Repubblica, portando il Comitato di redazione a mobilitarsi. […] Il Comitato di redazione ha rivelato che il 25 settembre è uscito insieme al quotidiano un inserto di oltre 100 pagine con una serie di articoli apparentemente “giornalistici” ma, in realtà, pubblicati dietro compenso delle aziende. Una nuova dimostrazione di come, su molti giornali mainstream, la linea di confine tra informazione e pubblicità sia evaporata”. https://www.lindipendente.online/2024/09/26/falsi-contenuti-giornalistici-pagati-dalle-aziende-la-repubblica-di-nuovo-nella-bufera/ Ovviamente, mai fare di ogni erba un fascio: è indiscutibile ci sia ancora chi svolge seriamente questo mestiere; diversamente, non si spiegherebbero le minacce che tanti giornalisti italiani continuano a ricevere. Nell’ottobre del 2023, ancora L’Indipendente scriveva che in Italia “il numero delle minacce rivolte ai giornalisti è in crescita, mentre diminuisce progressivamente quello delle loro denunce. Lo rivela l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Ossigeno, che nei primi sei mesi del 2023 ha rilevato 83 episodi di intimidazione e minaccia a danno di 234 giornalisti. In media 1,3 vittime al giorno. Le vicende legate a intimidazioni e minacce a danno di operatori dell’informazione, nello Stivale, sono più numerose di ogni altro Paese europeo. Lo scenario appare ancora più inquietante se si considera che solo il 22% delle vittime avrebbe denunciato alle autorità le violenze e gli abusi subiti. Un dato estremamente eloquente che dimostra come in Italia molti giornalisti abbiano meno fiducia di prima nella giustizia e nella capacità riparatoria dello Stato”. https://www.lindipendente.online/2023/10/03/in-italia-aumentano-le-minacce-ai-giornalisti-ma-diminuiscono-le-denunce/ Bisognerebbe sempre fare attenzione a ciò che si scrive; conosco persone che recensiscono opere letterarie e film senza mai scrivere un rigo prima d’aver letto o guardato davvero e con attenzione l’opera, meditando giudizi come dovessero deliberare in un processo d’importanza vitale, mentre altri si armano di penna e, col pretesto della critica, liquidano opere di una vita con frasette disinvolte e, quando ti capita di leggere quel libro o vedere quel film, ti rendi conto che già la loro sinossi errata può esser stata scritta soltanto da chi l’opera se l’è fatta raccontare o ne ha letto da altri e pure distrattamente. A proposito di recensioni, mi fa piacere riportare cosa scrisse Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé quando, fra le altre cose, ricorda anche quanto è difficile giudicare: “[…] le recensioni letterarie, non sono forse una perenne dimostrazione della difficoltà di giudicare? «Questo grande libro», «questo libro privo di valore»: lo stesso libro viene definito in tutti e due i modi. La lode e il biasimo non significano niente. No, per quanto possa essere piacevole il passatempo di misurare, esso è sempre la più futile delle occupazioni e sottomettersi ai decreti dei misuratori è il più servile degli atteggiamenti. Finché scrivete ciò che desiderate scrivere, questa è la sola cosa che conta; e se questo conta per secoli interi o solo per poche ore, nessuno può dirlo”. Spiace continuare a prendere atto di come chi scrive e chi legge non si renda conto quanto la Parola possa modificare quanto avviene nel mondo; dico questo, nonostante Sándor Márai abbia scritto: “Era ora che tornassi in quelle stanze e che, come in un qualsiasi altro giorno, ci passassi qualche ora a scrivere – a scrivere un articolo o un romanzo nella falsa convinzione che tutto ciò avesse un senso, come se la Parola, bella o brutta che fosse, potesse modificare un po’ quel che avviene nel mondo”. A mio modesto parere, la parola scritta, letta, proferita, cantata, recitata, ascoltata, può modificare quello che avviene nel mondo, anzi, già lo sta facendo, e pure da parecchi anni; diversamente, non si spiegherebbe tutto il tempo che normalmente si è speso e ancora si spende per decidere qual è la narrazione migliore da scegliere fra le tante perché passi “quel” messaggio che si vuole esser certi raggiunga “quel” preciso obiettivo. Ma forse Márai non era così persuaso di questa “falsa convinzione” o, molto più probabilmente, sono io a non aver capito qualcosa della sua affermazione, visto che un centinaio di pagine dopo pare temere l’allontanamento dalla Parola, parla di uomini negli anni Cinquanta e Sessanta per i quali i libri erano diventati “un mezzo sussidiario, come le vitamine, la radio, l’automobile”, da cui pochi aspettavano una Risposta, rassegnati a un cerimoniale pagano “la civiltà della lettera era stata sostituita dalla civiltà dell’immagine (come più tardi venne saggiamente diagnosticato il fenomeno: l’immagine non dev’essere capita, ma guardata e basta, a bocca aperta, senza sforzo intellettuale)”. Vanni Codeluppi autore de La morte della cultura di massa edito da Carocci, scrive che “vivendo in simbiosi con lo smartphone, non solo non sappiamo orientarci senza Google Map, ma ci siamo abituati al flusso continuo delle informazioni […] a un tempo di sopravvivenza delle immagini di sette secondi”, come riportato ancora da Annamaria Guadagni su Il Foglio Quotidiano. In assenza di sforzo intellettuale, potremmo non accorgerci che ci stanno lavando il cervello con problemi annessi e connessi, specie in termini di libertà persa, sottratta: “La libertà non è uno stato permanente, ma una continua tensione verso qualcosa, e il lavaggio del cervello annienta proprio questo nella coscienza: chi viene «trattato» un giorno si accorge di non voler più essere libero” – sempre Sándor Márai in Terra, Terra! Comunque, temo che il lavaggio del cervello sia iniziato da tempo, e a dare forza a questo mio timore è quanto riportato nell’articolo già citato de Il Foglio: “Se guardiamo l’Italia, secondo dati appena forniti dall’Ocse, un terzo degli adulti non capisce le informazioni che legge, è in condizioni di analfabetismo culturale”. Non fatevi sciacquare il cervello dalle immagini, continuate a leggere perché, così come scrivere, “leggere è protestare contro le ingiustizie della vita. Chi cerca nella finzione ciò che non ha, dice, senza la necessità di dirlo, e senza neppure saperlo, che la vita così com’è non è sufficiente a soddisfare la nostra sete di assoluto, fondamento della condizione umana, e che dovrebbe essere migliore”. Dove per finzione s’intende anche le storie inventate – “inventiamo storie per poter vivere in qualche modo le molte vite che vorremmo avere quando invece ne abbiamo a disposizione una sola” – e la letteratura “grazie alla letteratura, alle coscienze che ha forgiato, ai desideri e agli aneliti che ha ispirato, alla disillusione del reale con cui torniamo dal viaggio in una bella fantasia, la civiltà è ora meno crudele di quando i cantastorie incominciarono a umanizzare la vita con le loro favole. Saremmo peggiori di quello che siamo senza i buoni libri che abbiamo letto, più conformisti, meno inquieti e ribelli, e lo spirito critico, motore del progresso, non credo esisterebbe”. Gli ultimi passaggi virgolettati sono estratti da Elogio della lettura e della finzione di Mario Vargas Llosa. Spero la mia Parola non sia stata troppo consona, quieta, rassegnata, arrendevole, insomma, che non v’abbia deluso. www.marcosommariva.com > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 2, 2025 / Osservatorio Repressione
La grande bonifica di Capodanno
Le piazze italiane di Capodanno non saranno popolate soltanto da musiche e danze. Due vecchie conoscenze si aggireranno tra le persone in festa: «Sicurezza» e «Decoro» di Riccardo De Vito da il manifesto Le piazze italiane di Capodanno non saranno popolate soltanto da musiche e danze. Due vecchie conoscenze si aggireranno tra le persone in festa: «Sicurezza» e «Decoro». Chiamate da una direttiva del ministro Piantedosi, destinata a tutti i prefetti, per garantire il libero e pieno godimento «di determinate aree pubbliche, caratterizzate dal persistente afflusso di un notevole numero di persone». L’idea è chiara: «Aree verdi, parchi e zone pedonali ben illuminate e curate creano un ambiente sicuro, come pure l’installazione di impianti di videosorveglianza». Necessaria «una sempre maggiore presenza delle forze dell’ordine in tutti i luoghi nevralgici e ad alta frequentazione per il benessere della popolazione». Accanto a queste misure, per le feste natalizie, si concentra l’attenzione sui dispositivi per eccellenza: i «daspo urbani», ossia l’ordine di allontanamento e il divieto di accesso. Disposizioni – prosegue la direttiva – «interessate da modifiche di segno ampliativo, contenute anche nel disegno di legge in materia di sicurezza pubblica all’esame del parlamento, che reca un’ulteriore estensione del divieto di accesso a coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva». Nella confusione del Capodanno, tra un fuoco d’artificio, un brindisi e, soprattutto, la distrazione delle persone, i prefetti sono chiamati a consolidare l’idea di sicurezza in corso di sperimentazione (a Milano dopo Firenze e Bologna): rendere invisibili, ricacciandoli in periferia, i soggetti presunti pericolosi; limitare la libertà di movimento sulla base di presupposti generici senza ricorrere al giudice; trasformare la sicurezza in pura incolumità e «ordinato vivere». Si potrebbe dire – lo si sente ripetere anche sinistra – che in fondo si va incontro ai bisogni reali delle persone, soprattutto delle più deboli. Che almeno i poveri cristi trascorrano feste tranquille. Siamo sicuri che, mettendo da parte la riserva di legge e l’intervento del giudice, a essere allontanati siano proprio i soggetti pericolosi? Chi e come li individua? Le garanzie non sono formalismi, ma risposte precise a queste domande. Stanotte, presi dall’allegria un po’ etilica della fine dell’anno, potremmo non guardare in faccia coloro che saranno allontanati, non capire chi sono e dove vengono mandati. C’è da scommettere, tuttavia, che quando nel corso dell’anno riprenderemo lucidità, potremmo vedere i loro volti: saranno i più poveri, le vittime della crescita diseguale della città; e verranno rispediti in quelle periferie da dove vengono. I centri luccicanti saranno protetti. Quanto ci metteremo a elaborare una diversa idea di sicurezza, anche dei luoghi simbolo? Senza toccare qui i temi dello spazio urbano quale teatro del conflitto sociale, questa stretta di Capodanno mette in luce l’ennesima rinuncia a un’idea sicurezza vera, “autogestita” dalle persone che riescono a mischiarsi tra loro. Vengono in mente le parole di Renato Nicolini su Massenzio, durante le proiezioni dell’Estate Romana, come il manifesto di un’idea diversa della città: «Accanto a me, a destra un gruppo di ragazzi si passavano uno spinello e, a sinistra, una di quelle tipiche famiglie romane che si pensa non esistano più, arrivata con plaid, nonni, ragazzini, pentole di pasta, sfilatini con la frittata e fiaschi di vino. I due gruppi convivevano tranquillamente, senza troppa curiosità». > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
December 31, 2024 / Osservatorio Repressione
Il Natale dei gatti neri
Ancora sopravvive una filosofia occidentale che, nonostante i fallimenti di quest’ultimi cinquanta sessant’anni, si ripropone quotidianamente a testa alta, come se niente fosse di Marco Sommariva Desideravo avvisarvi che ci stiamo avvicinando al giorno di Natale; dico questo perché, magari, vi sono sfuggite le migliaia di spot pubblicitari che invitano all’acquisto oppure non avete notato le luminarie o una certa frenesia nel comprare cibo e quant’altro nei supermercati. Lo so, sono giorni difficili, e più s’avvicina la meta più si fatica. Si fatica in generale, pure a respirare. Lo so, è difficile da sopportare, si vorrebbe scappare dalla moglie che puzza di brodo vegetale e dal cane che piscia sui fogli di giornale. Lo so, viene spesso il magone a pensare a tutte quelle persone, coi pacchi dei regali, con le facce tutte uguali, col boccone sempre in bocca come un branco di maiali. Lo so, la voglia è quella di correre e scappar via, essere ostaggi della nostra fantasia. Lo so, si ha una folle tentazione di fermarsi a una stazione, a pregare perché esploda il panettone. Lo so, tuo fratello è in ospedale sono giorni che sta male, Elio al gioco s’è sparato mi stupisco sempre più e Angelo, drogato, non mi riconosce più. Ma sfangheremo anche questo e, come gli anni precedenti, verrà il momento che ci fermeremo un secondo e rimarremo così, a pensare che il peggio è passato a un passo da qui. Da Brunori Sas a Piero Ciampi a Lucio Dalla, la musica in generale aiuta a sopportare momenti del genere, in cui ci si sente accerchiati da orde di barbari disposte a lottare sino all’ultimo sangue per accaparrarsi ciò che rende il giorno di Natale esattamente come dev’essere, e chi se ne frega se poi questo “come dev’essere” neppure ci si ricorda chi l’ha imposto: neanche più ci si pone la domanda. L’eco di quel boom consumistico esploso nel dopoguerra, pare non voler spegnersi, anzi, sembra ci abbia resi sordi a qualsiasi ammonimento. Una sordità che imbambola, rende passivi, ma che svanisce quando ci si getta nell’unica avventura rimasta, le compere nelle zone commerciali: “Le persone, di solito così silenziose e ubbidienti sui tram, così docili e passive sul lavoro, così imbambolate e informi nelle loro case, qui, nei corridoi gremiti del livello acquisti, si trasformavano in aggrovigliate, frenetiche mandrie di animali dallo sguardo selvaggio. Fare le compere nelle zone commerciali era in fondo il loro unico vero sport; sciamare tumultuosamente lungo i corridoi la loro unica avventura” – da THX 1138 di Ben Bova. Oltre la musica, anche la lettura aiuta molto in queste situazioni. Scrive Paolo Villaggio in Fantozzi: “A casa la signora Pina gli preparò una minestra calda. Lui si sedette a tavola con uno sguardo da pazzo e diede la prima cucchiaiata. La moglie lo guardò e gli disse: “Buon Natale, amore!”. In quel momento l’albero si abbatté sulla tavola con violenza, centrò Fantozzi in piena nuca e lui tuffò la faccia nella minestra rovente. Si provocò ustioni di quarto grado. Non gli uscì un lamento: più tardi, nel buio della stanza da letto, pare che abbia pianto in silenzio con grande dignità”. È lo stesso attore e scrittore genovese a far cenno al boom consumistico in un’intervista https://youtu.be/sv8oiLC4hSs?si=tgiyvY5Zco5ig-hD rilasciata alla Televisione Svizzera nel 1975: “Il piccolo Fantozzi, l’omino che per anni è vissuto nel boom consumistico, ha ricevuto dai mass-media, cioè dalla televisione, dai settimanali e da tutte le informazioni possibili, uno stimolo preciso, quasi un ordine a consumare, ad acquistare, a vivere secondo determinati schemi, e lo schema di questa filosofia era precisissimo: attento!, che se compri e ti attrezzi in determinati modi, cioè secondo la chiave consumistica, potrai essere felice, vivrai in un mondo che sarà felice e contento per mille anni. Improvvisamente, invece, un crack strano; insomma, tutto questo sistema meraviglioso, pieno di promesse, questo mondo fiabesco si è incrinato: è bastato che nel Medio Oriente una forte tensione internazionale chiudesse i rubinetti del petrolio perché tutta la grande economia mondiale entrasse in crisi”. Villaggio fa riferimento al periodo a cavallo tra il 1973 e il 1974 quando, in seguito alla crisi petrolifera, diversi governi del mondo occidentale, tra cui l’Italia, emanarono disposizioni per contenere drasticamente i consumi energetici: ricordo, per esempio, che ci si metteva d’accordo tra parenti per uscire insieme nei giorni festivi, con l’auto che poteva circolare senza prendere la multa – una domenica toccava alle macchine con targhe che terminavano col numero pari, quella dopo era il turno delle dispari. Oggi come oggi pare che il consumare, l’acquistare, il vivere secondo determinati schemi, siano azioni che non si riescano a fermare, neppure a rallentare. Di questa società dei consumi ne parlava anche Pier Paolo Pasolini nel ’74: “Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi […] ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. Non si tratta più, come all’epoca mussoliniana, di una irregimentazione superficiale, scenografica, ma di una irregimentazione reale che ha rubato e cambiato loro l’anima. Il che significa, in definitiva, che questa “civiltà dei consumi” è una civiltà dittatoriale. Insomma se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la “società dei consumi” ha bene realizzato il fascismo” – da Scritti corsari. Spesso ho sentito dire che è il desiderare indotto a fregarci; pare, però, che anche il contrario, il non dover desiderare nulla, addirittura il disprezzare la vita quotidiana del classico consumatore occidentale, non porti a risultati troppo incoraggianti: “Noi siamo la schifosa generazione postsovietica, non abbiamo nulla, né obiettivi né principi, ma un secolo di comunismo ci ha lasciato in eredità la nostalgia. L’uomo sovietico non doveva desiderare nulla. Vita personale, gioie della vita quotidiana, pubblici piaceri e divertimenti, tutto ciò che motiva la vita del consumatore occidentale suscitava scherno e disprezzo. L’uomo-gigante sovietico viveva per sacrificare la propria semplice e onesta vita: in cantiere, in un gulag, in trincea, in miniera, in una famiglia numerosa, in una schifosa palazzina chrusceviana. La vita come impresa, sacrificio. Non serve Gesù, quando lo sono già tutti quanti. È passato tempo e ora ci sono rimasti soltanto un abisso di disprezzo e cinismo, “nichilismo pragmatico” e fiacca brama di possesso” – da Esodo di Dj Stalingrad. Il consumatore occidentale… la “prosperità” occidentale… e mentre noi occidentali consumiamo in eccesso, quasi tutto il resto del mondo affonda sempre più nella rovina: “Noi non ci facciamo indurire le coronarie ingozzandoci di una quantità di grassi superconcentrati sei volte superiore al necessario. Non ipnotizziamo noi stessi convincendoci che due televisori ci renderanno due volte più felici di un solo televisore. E infine, non spendiamo un quarto del reddito lordo nazionale preparandoci alla terza guerra mondiale, o anche alla sorellina della guerra mondiale, la tremiladuecentotrentatreesima guerra locale. Gli armamenti, l’indebitamento universale e lo scarto pianificato dei prodotti superati: sono questi i tre pilastri della prosperità occidentale. Se la guerra, lo spreco e gli usurai venissero aboliti, voi crollereste. E mentre voi occidentali consumate in eccesso, il resto del mondo affonda sempre più profondamente nel disastro cronico” – da L’isola di Aldous Huxley. Scrive bene uno dei miei editori, Pippo Gurrieri, nel suo libretto – per dimensioni, non per importanza – L’anarchia spiegata a mia figlia: “I beni derivanti dal sistema consumistico sono effimeri, servono ad addormentare le coscienze, a spegnere gli impulsi della ragione. Oltre tutto non realizzano la felicità dell’uomo ma solo un surrogato di questa, molto fragile. Se grattiamo oltre la scorza del benessere troviamo i problemi di sempre: rassegnazione, noia, insoddisfazione, frustrazione. Non è un caso che nelle società cosiddette progredite il mestiere dello psicanalista vada per la maggiore”. E allora, specie per rispondere al continuo aumento delle condizioni di disagio psicologico dei più giovani – depressione, ansia e stress –, ci s’inventa il Bonus psicologo, ma non sarà semplice salvare questi ragazzi perché, come scriveva Raoul Vaneigem nel Trattato del saper vivere, “Il teen-ager porta le prime rughe del consumatore. Poche cose lo separano dal sessantenne; egli consuma sempre più rapidamente, guadagnando una vecchiaia precoce al ritmo dei suoi compromessi con l’inautentico. […] Molte cose lo separano dai bambini ai quali ancora ieri si mescolava”. In questo libro del situazionista belga, è anche possibile trovare la risposta al perché ci ostiniamo a consumare a un ritmo frenetico: “La facoltà di consumare molto e a cadenza rapida, cambiando macchina, alcool, casa, radio, donna, indica ormai sulla scala gerarchica il grado di potere al quale ciascuno può pretendere”. La frenesia del consumo è pericolosa per tanti motivi; tra questi, il mettere a repentaglio il nostro bisogno di libertà, di riflettere, leggere, dedicare tempo ai nostri cari: “[…] poter vivere con poco […] procura […] prendersi il proprio tempo. Sappiamo che il tempo oggi è per molti una merce rara, che si paga a caro prezzo. Ma perché? Perché il bisogno di comodità e comfort, per la maggior parte della gente, prevale alla grande sul bisogno di essere liberi, di riflettere, di leggere, di scrivere (nel mio caso), di dedicare tempo agli amici e perfino di giocare con i propri figli. La frenesia del consumo è un nemico pericoloso per chi vuole soddisfare il suo bisogno di libertà” – Bisogno di libertà di Bjorn Larsson. D’altra parte, cosa c’è di più rivoluzionario al giorno d’oggi del sedersi sul divano e leggere un libro mentre il resto del mondo fa a sportellate in un Outlet? Cosa c’è di più sovversivo che sottolineare una frase illuminante di un romanzo, prendere appunti su ciò che si sta leggendo, scrivere un ragionamento nato dalle parole di qualcun altro, piuttosto che far svuotarsi quelle tasche che per riempirle, sempre ammesso ci si sia riusciti, abbiamo speso centinaia di ore del nostro preziosissimo tempo? Ci sarà un motivo se ci preferiscono imbottigliati nel traffico coi bagagliai pieni di merce che non ci occorre, rispetto a saperci su un divano a leggere: “Non si può consumare molto se si resta seduti a legger libri” – da Il mondo nuovo di Aldous Huxley. Si consuma tantissimo, invece, se si frequentano i Centri commerciali: “Nella facciata del Centro [commerciale] un nuovo e gigantesco cartellone proclamava, TI VENDEREMMO TUTTO QUELLO DI CUI TU HAI BISOGNO SE NON PREFERISSIMO CHE TU ABBIA BISOGNO DI CIÒ CHE VENDIAMO” – da La caverna di José Saramago. Non si può consumare molto se si resta seduti a leggere, ma si può pensare tanto, specie se il libro che si ha in mano è il già citato Scritti corsari di Pasolini, che racconta dove porterà questa nostra rassegnazione, l’accettazione della civiltà borghese capitalistica: “L’accettazione del fascismo è stato un atroce episodio: ma l’accettazione della civiltà borghese capitalistica è un fatto definitivo, il cui cinismo non è solo una macchia, l’ennesima macchia nella storia della Chiesa, ma un errore storico che la Chiesa pagherà probabilmente con il suo declino. […] il nuovo potere borghese infatti necessita nei consumatori di uno spirito totalmente pragmatico ed edonistico: un universo tecnicistico e puramente terreno è quello in cui può svolgersi secondo la propria natura il ciclo della produzione e del consumo. Per la religione e soprattutto per la Chiesa non c’è spazio” – questa volta l’estratto è datato 1973. Ancora Vaneigem, sempre dal Trattato del saper vivere: “Se i borghesi preferiscono l’uomo a Dio, è perché egli produce e consuma, acquista e fornisce”. Non solo Pasolini e Vaneigem, anche un “insospettabile” aveva inteso che qualcosa non andava, e l’aveva capito prima di loro: proprio il giorno di Natale del 1969 – l’anno dopo le contestazioni studentesche, quando i giovani non si riconoscevano più nei valori dei padri –, durante l’ultima lezione di un ciclo di conferenze radiofoniche, Ratzinger affermava che “Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diventerà piccola e non sarà più in grado di abitare gli edifici che ha costruito in tempi di prosperità”. https://www.ilfoglio.it/chiesa/2024/07/02/news/senza-preti-ne-fedeli-la-chiesa-e-costretta-a-ripensarsi-6705483/ Allora sembrava una realtà lontana oggi, invece, il processo è sotto i nostri occhi. Nell’intervista citata prima, anche Villaggio fa cenno alla contestazione giovanile dell’epoca per poi ragionare sulla “filosofia occidentale”: “Questa società nella quale viviamo è giusta o non è giusta? Il sospetto di tutti, soprattutto dei giovani che hanno cominciato a contestare e a rimettere in discussione tutto… abbiamo forse sbagliato obiettivo? È davvero questo tipo di società consumistica, piena di frigo, di televisori a colori, di beni di consumo, di polaroid, di macchine, la felicità? No, la verità è che tutti si sono accorti che è il diavolo, che è l’opposto, questo tipo di felicità è altamente infelice, ed ecco che l’italiano medio, a mio avviso, […] si è riconosciuto nell’infelicità di Fantozzi. […] Il momento è questo, il momento è la nevrosi pura, cioè, forse la nostra cultura, la nostra filosofia, la filosofia occidentale ha mancato l’obiettivo: è il momento di tirare i remi in barca e di fare il punto. Vediamo, insomma. Forse abbiamo sbagliato. […] In questo momento tutti siamo coinvolti in questa orrenda avventura che è questo errore, a mio avviso catastrofico, che è la filosofia occidentale […]”. Una filosofia occidentale che, nonostante i fallimenti di quest’ultimi cinquanta sessant’anni, si ripropone quotidianamente a testa alta, come se niente fosse; oltretutto, essendo pregna di falsità e ipocrisia, chiedendo anche di sederci il giorno di Natale intorno a un tavolo insieme a gente che mal si è sopportata tutto l’anno, a quelle persone coi pacchi dei regali e con le facce tutte uguali, col boccone sempre in bocca come un branco di maiali. Pur ammettendo le infinite sfumature che indubbiamente esistono anche in contesti come questo, il Natale è un po’ per tutti una giornata… diciamo così… “difficile”, e lo è dalla bellezza di almeno centoventicinque anni, oltre un secolo! Non mi credete? Leggete cosa scriveva Jack London la mattina di Natale del 1898; sono estratti da una lettera destinata a Mabel Applegarth, uno dei suoi primi amori: “Del Natale più solitario che abbia mai affrontato – suppongo che non dovrei scriverti. Non c’è niente di cui parlare – se non che tutto è tranquillo. Come vorrei […] nessuno con cui parlare, nessun amico a cui far visita […]. Oggi è Natale – è in periodi come questo che il vagabondaggio della mia natura soccombe al gusto latente della vita domestica. Lontano dai tanti angoli di questo mondo rotondo! Sono sordo al richiamo di Oriente e di Occidente, di Nord e di Sud […]. Una piccola e confortevole casetta, un paio di domestici, una scelta cerchia di amici, e soprattutto, una piccola moglie ordinata e un paio di piccoli modellini di noi due – le calze appese ieri sera, un’allegra sorpresa questa mattina, il geniale scambio di auguri di natale; lo scambio degli auguri; un focolare accogliente; i bimbi assonnati che si abbracciano sul pavimento pronti per andare a letto, una sorta di sognante comunione tra il fuoco, mia moglie e me stesso; la prospettiva di un sicuro, anche se calmo e monotono, futuro; una soddisfacente conoscenza delle tante amenità della vita civilizzata che sono mie e che saranno mie; una geniale, ottimistica contemplazione. […] Rinuncerò ai miei dogmi e, d’ora in poi, adorerò il vero dio. ‘Non c’è un Dio, ma il Caso, e la Fortuna è il suo profeta!’ Chi si ferma a pensare o a generare un sistema è perduto. Come in altre credenze, la fede da sola è atona.” – da Solitudine a Natale. Concludendo, per noi propongo questo slogan: “Non intendiamo affatto consumare, e spendere, e rammollirci […]” – da La brava terrorista di Doris Lessing. Come sarebbe a dire… chi sono quei “noi” dello slogan? Siamo noi, siamo in tanti, ci nascondiamo di notte per paura degli automobilisti, dei linotipisti, siamo i gatti neri, siamo pessimisti, siamo i cattivi pensieri.   www.marcosommariva.com   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
December 23, 2024 / Osservatorio Repressione
Gli atenei laboratorio del modello autoritario
L’aggressione all’università è coerente con la verticalizzazione del sistema istituzionale, la repressione del dissenso e la demolizione dei diritti sociali. Le mobilitazioni studentesche esprimono la consapevolezza del carattere collettivo e politico della cancellazione delle risorse e delle riforme in arrivo di Alessandra Algostino da il manifesto L’università è, come la scuola, «organo costituzionale» (Calamandrei): partecipa al disegno della democrazia; attaccare l’università contribuisce alla neutralizzazione della democrazia. Attraverso l’università passa la promozione della cultura e della ricerca, garantita dalla Costituzione (articolo 9), come valore in sé e come elemento fondamentale nel percorso verso il «pieno sviluppo» e l’«effettiva partecipazione», di ciascuno e di tutti (articolo tre, comma 2). L’università, cioè, è strumento di emancipazione, personale e sociale. L’università è luogo di costruzione del sapere critico e del pluralismo che assicurano vitalità alla democrazia; è «coscienza critica del potere» (Edward Said), in quanto esercita contro-potere e concorre alla limitazione del potere connaturata alla democrazia costituzionale. La libertà della ricerca e dell’insegnamento e l’autonomia delle università (articolo 33 Costituzione) presidiano lo spazio libero del pensiero e sono pre-condizione di esistenza del carattere conflittuale della democrazia. L‘aggressione all’università è coerente con la verticalizzazione del potere, la repressione del dissenso, la demolizione dei diritti sociali. È un processo – mi limito a citare le “riforme” Ruberti (legge n. 341 del 1990) e Gelmini (n. 240 del 2010) – segnato da aziendalizzazione, nel doppio senso di una università che si struttura come un’azienda (anche nel linguaggio: i crediti) e che ha come interlocutore privilegiato le aziende (con ripercussioni sulla declinazione degli insegnamenti e dei corsi di studio), e da una burocratizzazione e valutazione che mortificano, asfissiano e appiattiscono sull’esistente la ricerca e il confronto. Lo studio è confinato da steccati disciplinari che chiudono l’orizzonte aperto del pensiero; è un “prodotto” da sfornare in quantità prestabilite e in tempi rapidi, in un contesto dove gerarchie baronali e rapporti vassallatici sono tutt’altro che scomparsi. I provvedimenti del governo Meloni accelerano la sterilizzazione del pensiero divergente che deve caratterizzare, in tutti campi, l’università e affinano il suo asservimento al servizio del potere, economico e politico. Il pesante taglio dei finanziamenti (500 milioni) in una università già sotto finanziata (in rapporto al Pil l’Italia spende per studente lo 0,96% contro l’1,55% della media dei paesi Ocse), distrugge il futuro di lavoratori e lavoratrici precari (e dell’università, data l’insostituibilità della loro presenza per la ricerca come per la didattica), impedisce la ricerca di base e libera, induce aumenti delle tasse che violano il diritto allo studio di studentesse e studenti, svuota il senso dell’autonomia come indipendenza, priva tutti del ruolo che l’università esercita nella società. Effetto collaterale, corroborato da misure in loro favore: la crescita delle università private telematiche; dopo la sanità, anche l’istruzione è terreno di conquista per il profitto privato. La riforma Bernini in discussione (Atto senato 1240) moltiplica e frammenta le forme di precariato (assistenza alla ricerca junior e senior, contratto post-doc, professore aggiunto), prevedendo per i pochi sopravvissuti ai tagli un lungo percorso senza le tutele che rendono il lavoro, e la vita, degna. L’università diviene sempre più elitaria, nell’accesso allo studio come istruzione (per tutti, la mancanza di alloggi per studenti) e nella possibilità di lavorare in università. La guerra, quindi, come orizzonte politico ed economico, oltre all’appropriazione, in stile dual use, della ricerca, favorisce la stretta autoritaria e conservatrice; l’università che non si allinea, che diserta, finisce tra i nemici, da neutralizzare. Alla neutralizzazione, oltre i profili citati (aziendalizazzione, burocratizzazione, precariato, definanziamento), concorrono espliciti interventi repressivi, come l’ingresso della polizia nelle università, la denigrazione degli studenti in mobilitazione (le acampade per la Palestina) e l’attacco a specifici insegnamenti (il corso sulle teorie queer). Ancora. Il disegno di legge prevede che i servizi segreti (Dis, Aise e Aisi) potranno stipulare, in nome della sicurezza nazionale, convenzioni con le università, anche in deroga alle norme in materia di riservatezza. Cosa resta dell’università come spazio di libertà? Le assemblee precarie nate in molte università e le mobilitazioni studentesche esprimono la consapevolezza del carattere collettivo e politico del taglio dei fondi e delle riforme in discussione e rappresentano con la loro esistenza un atto di insubordinazione rispetto all’individualismo dell’imprenditore di se stesso e alla competitività dell’accademia neoliberale. Agitiamoci tutti, a partire da chi, come scrive, ha una posizione garantita. La libertà dell’università è libertà di tutti e per tutti; è ancora una volta questione di democrazia e di possibilità di cambiare l’esistente. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
December 20, 2024 / Osservatorio Repressione
Dal Gesù di Nazareth al Gesù di Lucerna
È pericoloso credere che un’intelligenza artificiale si stia davvero occupando di noi, al di là che l’ologramma parlante sia quello di Gesù, Maometto, Bakunin o della buonanima di mia mamma di Marco Sommariva Forse qualcuno di voi ricorderà quando, nell’agosto del 2023, fu pubblicata la notizia che una nuova applicazione alimentata dall’intelligenza artificiale ChatGpt, la Text With Jesus, prometteva conversazioni illuminanti con Gesù Cristo e “una moltitudine di altre figure venerate della Bibbia”; per coloro ai quali, all’epoca, la notizia fosse sfuggita o non la ricordassero con precisione, rammento che a soli 2,99 dollari al mese, l’app offriva la possibilità di chattare anche con quasi tutti i discepoli di Gesù, oltre a figure dell’Antico Testamento come Adamo ed Eva – persino Satana era incluso nel prezzo. I giornali parlavano di un’applicazione che rispondeva alle domande con un approccio meno rigido rispetto ad alcuni precetti religiosi; per esempio, alla domanda sull’omosessualità Gesù rispondeva affermando che la Bibbia “menziona le relazioni omosessuali in pochi passaggi”, ma che “le interpretazioni di questi passaggi possono variare tra gli individui e le tradizioni religiose”. Ovviamente, Satana no, il diavolo rispondeva citando versetti biblici dove “gli atti omosessuali [sono] considerati peccaminosi”. Veniamo all’oggi. Ho letto su Il Fatto Quotidiano  che un volto di Gesù generato dall’Intelligenza Artificiale accoglie i fedeli in un confessionale della chiesa di San Pietro a Lucerna, in Svizzera. L’esperimento, perché di questo si tratta, ha suscitato un acceso dibattito sul ruolo dell’Intelligenza Artificiale in ambito religioso; il teologo Marco Schmid, ideatore di questo progetto denominato Deus in Machina, ha spiegato che si vuole “dare alle persone un’opportunità tangibile per confrontarsi con l’Intelligenza Artificiale e avviare una discussione significativa sul suo possibile utilizzo nella fede” e che “le risposte fornite finora dall’IA sono in linea con la nostra comprensione teologica”. Ovviamente, il confessionale non prevede la sola presenza di un viso di Gesù, ma un suo volto animato posizionato dietro una grata, sincronizzato con le risposte generate dall’IA, frutto di un Sistema sviluppato da informatici e teologi dell’Università di Scienze Applicate di Lucerna: dopo aver attivato il confessionale premendo un pulsante, i fedeli possono parlare al Sistema e ricevere consigli spirituali o confessare i propri peccati. Secondo i creatori, l’obiettivo non è sostituire le pratiche religiose tradizionali, ma creare un’opportunità per riflettere sull’uso della tecnologia nella fede. Intanto, il teologo Peter Kirchschläger si è detto critico: “Le macchine non possiedono la bussola morale necessaria per praticare la religione. Questo è un ambito in cui gli esseri umani sono nettamente superiori, e dovremmo occuparcene noi stessi”. Sull’IA qualcosa ha detto anche papa Francesco alla plenaria del Dicastero per la cultura e l’educazione: “Un ambito particolarmente rilevante che determina il cambiamento epocale è quello degli enormi salti che si stanno verificando nello sviluppo scientifico e nelle innovazioni tecnologiche. Non possiamo ignorare oggi l’avvento della transizione digitale e dell’intelligenza artificiale, con tutte le sue conseguenze. Questo fenomeno ci pone davanti a domande cruciali. […] Chiedo ai centri di ricerca delle nostre Università che si impegnino a studiare l’attuale rivoluzione in corso, facendo luce sui vantaggi e sui pericoli”. Come fa notare Luca Peyron in un suo articolo pubblicato dal quotidiano Avvenire, il fatto che i fedeli possano condividere le proprie preoccupazioni ricevendo risposte da un Gesù digitale, è un caso emblematico perché non è una start up ma una parrocchia cattolica a proporre un software che simula ed elabora conversazioni umane scritte o parlate, consentendo agli utenti d’interagire con i dispositivi digitali come se stessero comunicando con una persona reale, appunto. Sperando d’aver capito bene, intendo che il presbitero e saggista Peyron sia in sintonia col teologo Kirchschläger specie quando scrive che “il dialogo non è solo informativo, ma anche performativo, ossia capace di trasformare interiormente una persona sul piano spirituale” e che “affinché un dialogo sia performativo, è indispensabile la presenza di un ‘altro’ reale e distinto da sé, una condizione che una macchina non può soddisfare, anche se si accettasse l’illusione che lo faccia”. Nell’articolo pubblicato da Avvenire che invito a leggere, viene citato il sociologo statunitense Neil Postman e ricordato il suo avvertimento riguardo il fatto che “non esista tecnologia che non sia frutto di un compromesso e che non determini, nel suo uso o nella sua distribuzione, dei compromessi. […] Pensiamo al motore a scoppio e il mondo tossico che esso ha generato”. Non che io abbia intenzione d’andarmi a confessare, almeno per il momento, ma condivido il timore di Peyron quando afferma che è pericoloso credere che qualcuno si stia occupando di noi, quando in realtà rimaniamo soli e, questo lo aggiungo io, al di là che l’ologramma parlante sia quello di Gesù, Maometto, Bakunin o della buonanima di mia mamma. Così come condivido il dubbio se non ci renda meno umani delegare la ricerca interiore a una macchina, invece di promuovere in ciascuno la capacità di uscire dal proprio ego per incontrare l’altro o, per i credenti, un Altro. E visto che è stato citato Neil Postman e si sta parlando di ologrammi, val la pena ricordare cosa scrisse il saggista americano in Divertirsi da morire: “Quello che la gente guarda e ama guardare sono immagini in movimento. Milioni di immagini di breve durata e con rapidi cambi di inquadratura. È nella natura del mezzo il fatto di sopprimere il contenuto delle idee per far posto all’interesse visivo, cioè per far posto a valori spettacolari”. È questa una delle cose che più mi preoccupa oggigiorno, il “sopprimere il contenuto delle idee per far posto all’interesse visivo”; a proposito, avete mica letto l’articolo di Matteo Matzuzzi pubblicato su Il Foglio dello scorso sabato 14 dicembre?  Il giornalista ci mette al corrente che, durante la solenne riapertura della cattedrale di Notre-Dame distrutta dal rogo di cinque anni fa, migliaia di preti e decine di vescovi hanno sfilato in abiti griffati tra le navate restaurate: “[…] vestiti con paramenti nuovissimi, disegnati da stilisti di fama, dal gusto discutibile e dal colore liturgico ignoto: qualcuno ha scritto che pareva un prodotto sponsorizzato da Google Chrome (i colori sono i medesimi) altri che l’arcivescovo Laurent Ulrich sembrava la sintesi umana del cubo di Rubik”. Siamo così presi dal bisogno d’immagini, di spettacolo, che arriviamo a questo: “Il direttore del Tg La7 Enrico Mentana riferisce della tragica esplosione nel deposito Eni di Calenzano in cui cinque persone hanno perso la vita. Peccato che le immagini del servizio riguardino invece l’esplosione di una stazione di servizio avvenuta in ottobre in Cecenia! E il servizio su questa tragedia sul lavoro confezionato dal Tg4? Usa le stesse riprese. E Studio Aperto e Tg5? Parlano di Calenzano ma mostrano la Cecenia…”. Ammesso e non concesso sia stato detto, davvero esprimere il pensiero che da anni non si sta facendo nulla perché in Italia due, tre, quattro persone al giorno non muoiano più sul posto di lavoro, non era sufficiente ad attirare l’attenzione dello spettatore e si doveva supportare il tutto con immagini farlocche, tra l’altro col conseguente rischio che tutto perdesse credibilità? Davvero ci impegniamo a cercare riprese fasulle tralasciando di ricordare che sempre più spesso i morti sul lavoro sono frutto di quelle forme di risparmio attuate da chi mira a guadagnare sempre più soldi, ad accumulare capitale? E poco importa che questi “signori” siano dirigenti, azionisti o semplici capireparto: sono tutti personaggi che si sono accordati per un premio personale in denaro da riscuotere al raggiungimento di obiettivi che, la stragrande maggioranza delle volte, metterà in pericolo la vita chi neanche sa che queste gratifiche vengono regolarmente erogate ai propri superiori. Come? Risparmiando su materiali e attrezzature da utilizzare, sui Dispositivi di Protezione Individuale da indossare, sulle ore di lavoro da svolgere aumentando i ritmi e stressando così il dipendente, sia psicologicamente sia fisicamente, eccetera. Ovviamente, i numeri che ho riportato sopra non sono inventati: 1.467 persone sono morte nel 2023 sul posto di lavoro in Italia di cui 482, quasi un terzo del totale, risultano decedute nel tragitto casa-lavoro e viceversa. Leggo che con Divertirsi da morire, Neil Postman invita il lettore a prendere atto che la società contemporanea ha assunto connotati distopici. E allora – ebbene sì, lo ammetto – non ho resistito e sono andato a curiosare fra le mie letture distopiche se, “per caso”, trovavo qualcosa che avesse attinenza con la possibilità di confessarsi con un’Intelligenza Artificiale, dei robot-confessori, dei confessionali portatili, “a computer” e, non ci crederete, anche stavolta la letteratura aveva previsto tutto. È il 1960 quando nel romanzo Gli orrori di Omega, l’autore Robert Sheckley ci parla di robot-confessori che hanno l’incarico d’insegnare religione ai bambini e agli adulti, un automa che “ascolta i loro problemi ed è il loro amico costante e il loro istruttore religioso” e che, “essendo robot”, è “in grado di dare una risposta esatta a ogni domanda”. Una risposta che darà un robot-confessore sarà questa: “Per legge, il robot-confessore deve considerare solo le prove evidenti che gli vengono fornite. Nel dubbio, deve condannare. Infatti, la sola presenza di fronte a me di un individuo, fa presupporre che sia colpevole “. Semplice no? Sei anni dopo verrà pubblicata da Einaudi una raccolta di racconti di Primo Levi, intitolata Storie naturali; in uno di questi racconti si parla della vendita di un confessore portatile approvato dalla Chiesa: “Mi aveva […] telefonato verso Ferragosto, per chiedermi se mi interessava un Turboconfessore: un modello portatile, rapido, assai richiesto in America ed approvato dal cardinale Spellman […]”. Nel 1971, in THX 1138, Ben Bova ci parla di qualcosa che si discosta un po’ dall’argomento ma non tantissimo, ci racconta delle cabine di preghiera: “Vicino all’entrata della sotterranea c’era una cabina di preghiera. THX si guardò intorno, sentendosi quasi colpevole, poi vi entrò e chiuse la porta di plastica. Non si chiuse bene e la luce non si accese. Tirò più forte e alla fine la cabina si illuminò, mostrando la faccia affabile di OMM. “Il mio tempo è il vostro. Vi ascolto” – disse una voce calda. THX cercò di ricordare la preghiera giusta. Era da tanti anni che… “Bene, dite pure” – disse la voce di OMM. “Ecco, stamattina stavo per fare un errore in un trasferimento radioattivo. Non era mai successo. Non mi concentravo abbastanza. È da un po’ che…” “Sì” – disse la voce ansiosa. “Le cose si accumulano” – disse THX. – “Non capisco cosa mi succede. Sembra che le medicine non mi facciano più effetto”. “Sì” – disse la voce, consapevole. “E la mia compagna di stanza si comporta stranamente. Non posso spiegare, non so, forse sono io. Da un po’ non mi sento bene. Sono sempre nervoso, come se dovesse succedere qualcosa”. “Sì” – disse la voce paziente. “Non capisco. I sedativi… Prendo etracen ma non fa effetto. Fatico a concentrarmi. Perdonatemi, non posso…” “Voi siete un vero credente. Benedizione dello Stato. Benedizione delle masse. Voi siete una creatura divina, creata a immagine dell’uomo dalle masse e per le masse. Ringraziamo di avere un’occupazione che ci riempie. Lavorate duro; aumentate la produzione; prevenite gli incendi; e siate felice”. E infine un estratto del 1974, dal romanzo Roma senza papa di Guido Morselli, dove i personaggi hanno a che fare con un mondo in cui sono entrati in funzione i confessionali a computer: “George Wiener, elvetico di nascita e californiano di vocazione […], è il primo prete che abbia celebrato una messa alla distanza di almeno 380.000 chilometri da Roma. (Esattamente a Selenopolis, nei pressi di Thyco). È l’autore di un libro stravenduto, tradotto persino in malì, Technology of Faith, e di Gadgets and Sacramentals: dove si descriveva con quindici anni di anticipo il noto confessionale a computer, ora entrato in funzione a Los Angeles”. Sarà la mia passione per la distopia, genere che troppo spesso ha visto lungo nel futuro dell’Umanità, ma ritengo che delegare la ricerca interiore a una macchina ci renderà meno umani e credo che, riguardo a questo, il nostro livello sia già così basso da non poter permetterci d’abbassarlo ulteriormente; se proprio dobbiamo ridurre qualcosa, guardiamo al nostro ego perché, per tanto grande e potente possa diventare, non riuscirà mai a soccorrerci quando apriremo gli occhi e ci renderemo conto che nessuno si sta occupando davvero di noi, che l’ologramma parlante è un’altra trovata per isolarci dall’altro, per impedirci di dialogare, confrontarci, crescere. E quando leggo che papa Francesco ha chiesto ai centri di ricerca di alcune Università d’impegnarsi a studiare l’attuale rivoluzione in corso, facendo luce sui vantaggi e sui pericoli temo che, prima o poi, qualcuno farà presente al capo della Chiesa quanto si potrà risparmiare sostituendo dei costosissimi preti – peraltro, uomini i cui umori vanno comunque gestiti con ulteriore spesa di tempo/denaro – con un banale chatbot che si può tranquillamente affittare con un pugno di dollari al mese. Credo la teologia sia una delle tante materie per me incomprensibili, ma ho trovato conferma a una mia vecchia idea quando ho letto questo estratto dal libro Castità. La riconciliazione dei sensi, scritto dal vescovo Erik Varden: “Affermiamo ancora che Dio ‘si è fatto uomo’ […] proiettando un’immagine di ‘Dio’ che scaturisce dal nostro senso fisico di ciò che è l’uomo. Il risultato è caricaturale. Il divino è ridotto alla nostra misura. Il fatto che molti contemporanei rifiutino questo ‘Dio’ contraffatto è per molti aspetti indice del loro buon senso”. Ecco, forse è proprio il buon senso a suggerirmi il finale di questo pezzo, di certo non ho alcuna intenzione d’esser blasfemo – giuro! – ma, rispetto alle intelligenze artificiali e a tantissime intelligenti naturali, come caricature in missione per conto di Dio continuo a preferire di gran lunga John Belushi e Dan Aykroyd nel film The Blues Brothers. www.marcosommariva.com     Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
December 18, 2024 / Osservatorio Repressione
Dove punta l’attacco della destra
Il disegno di legge Piantedosi, Nordio, Crosetto, meglio noto come «sicurezza» è un campionario degli orrori securitari che maturano nella destra italiana di Andrea Fabozzi da il manifesto Obbedire, dalle strade alle scuole alle galere. Non solidarizzare, con i migranti o con chi non ha un tetto e occupa una casa vuota. Non protestare, neanche con il proprio corpo perché è considerato un’arma se lo porta in giro chi dissente. Arma terribile, non come le pistole di ogni misura che le forze di polizia potranno d’ora in avanti raddoppiare per non restare mai senza, neanche quando litigano con il marito, la moglie o il vicino. Il disegno di legge Piantedosi, Nordio, Crosetto, meglio noto come «sicurezza» è un campionario degli orrori securitari che maturano nella destra italiana. Ed è un biglietto da visita per questa maggioranza di governo che nella continua rincorsa alle posizioni più reazionarie ha finito con il portare in parlamento un provvedimento da stato di guerra. Guerra ai poveri, ai migranti, alle minoranze. Non c’era bisogno che il sottosegretario alla ferocia si dichiarasse un orgoglioso liberticida perché il disegno apparisse chiaro. Come chiaro è l’eterno tentativo di reagire ai bisogni sociali che non si riescono – non si vogliono – ascoltare, con la repressione e il codice penale. Reagendo anche alle proprie difficoltà. Da qualche tempo infatti, dai Tar ai tribunali ordinari, dalla Cassazione alla Corte costituzionale, il governo va incontro a ripetute e pesanti bocciature giudiziarie quando impone i suoi diktat. Ognuna di queste bocciature – dalla pretesa di impedire gli scioperi all’abitudine di distribuire fogli di via agli attivisti, dai respingimenti e deportazioni dei migranti alla volontà di ignorare il diritto costituzionale e il diritto europeo, si tratti di concedere asilo o di spaccare il paese tra regioni ricche e regioni povere – dovrebbe provocare imbarazzo, autocritiche, marce indietro. Invece produce altri attacchi alle giurisdizioni e il rilancio imperterrito di ogni provvedimento contrario alla legge. E tutto questo disprezzo, tutta questa arroganza costituita non preoccupa affatto le stesse persone che appena uno studente alza la voce per una contestazione si indignano e sono pronte a battersi per le libertà, dei ministri o di qualche altra autorità. Ci si chiede, anche con preoccupazione, come mai siano sempre più i giudici e le giudici a mettersi di traverso lungo il cammino del governo. Se questa non sia la coda di una lunga stagione di supplenza giudiziaria, se c’entri almeno un po’ la famosa «esondazione» delle toghe dai loro ambiti di cui parla Nordio. Ogni prudenza è legittima visti i disastrosi esiti dell’opposizione giudiziaria in passato, non solo in Italia, e conoscendo i magistrati al di là della caricatura interessata che ne fa il governo. Ma probabilmente bisogna cercare una motivazione più profonda per capire perché i diversi provvedimenti del governo, diversi anche negli ambiti, finiscano regolarmente per impattare contro il muro delle sentenze. Bisogna cercarla nella portata della sfida in atto. Il governo Meloni sta puntando al cuore dello stato di diritto, provando ad abbattere uno a uno i principi fondamentali che necessariamente trovano (ancora) una tutela nelle leggi e soprattutto nelle leggi superiori. Tanto alta è la posta in gioco. Ed è quasi tutta riassunta in un solo disegno di legge, battezzato «sicurezza» senza troppo sbagliare, se la si vuole intendere come sicurezza del governo e delle polizie, non dei cittadini. L’ampiezza della mobilitazione che abbiamo visto in campo in queste settimane e che aspettiamo oggi a Roma, la larghezza del fronte – politico e sociale, non giudiziario – che vuole fermare il disegno di legge, dice quantomeno che la minaccia è avvertita ben chiara. E che si può provare a resisterle.   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
December 14, 2024 / Osservatorio Repressione