Emergeranno forme di controllo nuove e più sofisticate, non solo perché
l’intelligenza artificiale è nata per controllare quello che pensiamo e facciamo
in modo da fare sempre più profitti, ma perché chi sta in basso trova sempre il
modo di resistere e superare in astuzia chi sta in alto.
di Raúl Zibechi da Comune-Info
La diffusione dell’intelligenza artificiale (AI) e la naturalizzazione dei suoi
risultati non vanno di pari passo con la comprensione dei suoi meccanismi, di
chi la promuove, con quali interessi e obiettivi. Se non facciamo questo
esercizio, saremo vittime passive in modi che non conosciamo.
In una recente intervista, lo storico e filosofo Yuval Harari sostiene che
l’intelligenza artificiale consente “una sorveglianza totale che pone fine a
ogni libertà”. Egli avverte che la capacità di sorveglianza supera di gran lunga
quella di qualsiasi dittatura o regime totalitario, poiché attraverso telecamere
di sorveglianza con capacità di riconoscimento facciale e telefoni cellulari, si
ha la capacità di controllare i minimi atteggiamenti di tutte le persone ovunque
arrivi Internet.
Personalmente ho verificato che mi inviano pubblicità di prodotti o marchi di
cui sto parlando con la mia famiglia e i miei amici, quasi immediatamente.
Sappiamo che l’intelligenza artificiale ci consente di ascoltare qualsiasi
conversazione, non importa quanto intima, e ogni movimento e comunicazione che
facciamo tramite i telefoni cellulari.
Harari dice che “l’intelligenza artificiale è diversa da qualsiasi tecnologia
inventata in precedenza”, perché a differenza delle tecnologie precedenti, non è
nelle mani degli esseri umani né è uno strumento che deve essere attivato dalle
persone, ma piuttosto “un agente indipendente” che ha la capacità di prendere le
proprie decisioni “da solo”. Sostiene che nei media, che “costituiscono la base
di una democrazia su larga scala”, non sono più gli editori a prendere le
decisioni editoriali, ma piuttosto “sono gli algoritmi a decidere quale dovrebbe
essere la storia consigliata”.
Penso che molti degli argomenti di Harari siano interessanti e che la sua
denuncia della massiccia manipolazione dell’informazione sia molto importante.
Facciamo un ulteriore passo avanti, per approfondire le conseguenze
dell’intelligenza artificiale: “Gli algoritmi aziendali hanno scoperto che è
necessario diffondere fake news e teorie che aumentino le dosi di odio, paura e
rabbia negli utenti, perché questo spinge le persone a impegnarsi, a trascorrere
più tempo sulle piattaforme e a inviare link in modo che anche i loro amici
possano arrabbiarsi e spaventarsi”. Conclude che si tratta di un modello di
business perché “il coinvolgimento degli utenti è alla base di tutto”, per cui
il tempo che ciascun utente trascorre sulle piattaforme porta le aziende a
guadagnare di più, poiché vendono più annunci e, soprattutto, “raccolgono dati
che poi venderanno a terzi”. Un’analisi molto interessante, che si conclude con
una frase devastante: “Le persone del settore sono intrappolate in una mentalità
da corsa agli armamenti, da concorrenza e da non lasciarsi vincere”.
Credo, tuttavia, che mancano due aspetti per completare il quadro perché, in
caso contrario, si può perdere il contesto di ciò che sta realmente accadendo:
il primo è che gli algoritmi non hanno vita propria, ma sono stati creati dal
sistema per migliorare i suoi profitti, approfondendo il controllo delle nostre
menti; il secondo è che la storia del capitalismo è proprio questa.
Harari sostiene che l’intelligenza artificiale prende le decisioni da sola:
questo è vero solo in parte se guardiamo solo alla tecnologia ma non a chi l’ha
creata e la gestisce per conoscere anche i desideri più profondi delle persone.
In secondo luogo, dobbiamo tornare alla storia del Panopticon, del Taylorismo e
del Fordismo per vedere come il controllo del capitalismo si è approfondito.
Negli eserciti emerge il panopticon. Le tende dei soldati dovevano essere
rigorosamente allineate in modo che gli ufficiali potessero rilevare il minimo
movimento. Poi si è spostato nelle carceri, negli ospedali, nei centri
educativi, nelle fabbriche; sempre per limitare l’autonomia delle persone. Le
telecamere che si moltiplicano nelle nostre città hanno lo stesso obiettivo.
Nelle fabbriche, durante il periodo produttivo, l’operaio specializzato
controllava le macchine e i loro tempi di lavoro. Verso la fine del XIX secolo
venne imposta l’“organizzazione scientifica del lavoro” ideata da Frederick
Taylor, che divideva i compiti tra chi esegue i movimenti e chi pianifica e
impartisce ordini. L’obiettivo era trasformare l’operaio in un “gorilla
ammaestrato”, sottoposto alle macchine, capace solo di compiere movimenti
precisi e cronometrati.
Con la catena di montaggio creata nelle fabbriche Ford, si chiuse un primo ciclo
di controllo operaio, poi approfondito con il “toyotismo”, quando gli operai
riuscirono a neutralizzare le precedenti modalità di sfruttamento, nel decennio
delle lotte operaie degli anni Sessanta.
Il miglioramento delle tecnologie per il controllo della vita, della natura e di
tutto ciò che è umano è il segno distintivo del capitalismo. In questo modo
aumenta i suoi profitti, sottomettendo sempre di più gli esseri umani.
Emergeranno forme di controllo nuove e più sofisticate, perché chi sta in basso
trova sempre il modo di resistere e superare in astuzia chi sta in alto.
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Tag - Editoriale
In alcune aree delle città “a vigilanza rafforzata” le forze dell’ordine possono
fermare l’accesso a soggetti ritenuti “pericolosi” anche in assenza di flagranza
di reato. Sono provvedimenti incostituzionali. E alimentano il regime della
paura
di Giovanni Russo Spena
Stiamo assistendo all’applicazione, nelle metropoli, di provvedimenti
ministeriali, prefettizi, di polizia, tesi, in nome della presunta “sicurezza
pubblica”, contro l’accesso, in alcune predeterminate zone, di soggetti ritenuti
“pericolosi”. Parlo di “zone a vigilanza rafforzata”, aree delle città in cui
alle forze di polizia e militari è permesso di allontanare coattivamente
chiunque assuma «atteggiamenti aggressivi, minacciosi o insistentemente
molesti», come recita la circolare ministeriale.
Condivido il parere di Alessandra Algostino che scrive di «ostracismo sociale e
politico dalla città neoliberista». In realtà questi provvedimenti rappresentano
il prologo e l’applicazione anticipata del disegno di legge sulla cosiddetta
“sicurezza pubblica” che è ancora in discussione al Se-nato della Repubblica. Si
tratta, quindi, di provvedimenti amministrativi che, però, incidono
profondamente sui diritti costituzionali di mobilità e di accesso in alcuni
spazi urbani, anche in assenza di flagranza di reato. Viene, infatti, con essi
esteso al diritto di accesso in alcune zone cittadine a persone che risultano
apparentemente “pericolose” o denunciate e condannate, anche con sentenza non
definitiva. Sono provvedimenti incostituzionali.
Alcuni soggetti, ritenuti arbitrariamente “pericolosi”, magari per superficiale
impressione di componenti di polizia e di forze militari, vengono ricacciati
nelle periferie, perché sia preservato il “decoro” dei centri urbani, che
diventano spazi mercantili per persone facoltose.
La marginalità sociale viene, in tali forme, sottoposta a misure di espulsione
e di emarginazione. Si ridisegnano, in prospettiva, le città, anche sul piano
urbanistico: i soggetti ritenuti dal governo “pericolosi” non devono “invadere”
i centri urbani. Viene abbattuto il diritto di accesso, viene limitata la
libertà di movimento. Senza che nessun giudice abbia potuto verificare il
provvedimento coattivo. Dove è, infatti, la verifica della sicurezza ?, dove
viene sancita la necessità dell’intervento per salvaguardare l’incolumità
individuale e collettiva del vivere civile? Siamo oltre la linea di confine tra
Stato di diritto e Stato del “controllo” e della “sorveglianza”.
Questi provvedimenti ministeriali e prefettizi, infatti, sono una estensione
abnorme dei “daspo metropolitani” e violano sia la riserva di legge che
l’intervento del giudice. Non sono affatto certo che verranno allontanati solo
soggetti “pericolosi”; chi li individua? E come? Mancano le garanzie
democratiche. Siamo certi che i migranti non verranno considerati
pregiudizialmente pericolosi? Siamo sicuri che non sarà colpito il dissenso?
Intanto il “daspo”, acronimo che corrisponde a “divieto di accesso alle
manifestazioni sportive”, vietate ai tifosi esagitati, è nato con i “pacchetti
sicurezza” di Minniti, peggiorati da Salvini, ed è stato già adottato contro chi
lotta per il diritto all’abitare, per gli attivisti ecologisti; insieme a fogli
di via (anche contro studenti) e misure che erano state finora adottate solo nei
confronti di mafiosi. Cresceranno solitudini, rancori, rivolte che nascono da
ingiustizie ed esasperazioni. I capri espiatori saranno i poveri, i “senza
dimora”, che saranno ricacciati e segregati in recinti spaziali separati.
Avevamo analizzato, già negli anni scorsi, ordinanze di sindaci, anche di
centrosinistra, che avevano disarticolato gli spazi metropolitani con criteri
razzisti. Penso ai provvedimenti con-tro l’”accattonaggio” nei salotti “buoni”
di Firenze o agli odiosi provvedimenti di sindaci leghisti nel Veneto di
apposizione di sbarre sulle panchine nei parchi per evitare che potessero
riposare migranti e “senza fissa dimora”. Oggi vi è un salto di qualità, un
mutamento di paradigma postdemocratico. Le giunte di centrosinistra dovrebbero
rifiutarsi, per coerenza, di adottare siffatti provvedimenti ministeriali, tesi
ad incutere insicurezza e paura nelle cittadinanze. Per mera propaganda. Lo
spazio urbano, invece, è sempre connesso al conflitto sociale; l’idea di
“sicurezza urbana” si collega non alla repressione sociale ma alle pratiche di
autogestione delle persone, alla capacità di mischiarsi… Va sconfitta, anche
culturalmente, la pressione del governo tesa a creare l’immaginario della
insicurezza, causata dai migranti e dai dissenzienti.
Già Stefano Rodotà scriveva della sua preoccupazione per lo stravolgimento del
rapporto tra statualità e cittadinanza. Il governo nega il conflitto come forma
espressiva democratica. Chi agisce il conflitto è nemico della “ragion di
Stato”. Ma il conflitto è fondamento della Costituzione, perché genera
partecipazione, alimenta la vivibilità sociale. Senza il conflitto, come amava
ricordare Calamandre ai suoi allievi, non vi è nemmeno Costituzione. Se il
popolo è muto e inerte anche la Costituzione diventa un inutile foglio di carta.
La “sicurezza urbana”, nella concezione del governo, diventa un percorso
graduale di disciplinamento e di militarizzazione del-la formazione sociale. Si
inserisce nel passaggio, in atto a livello globale, dal capitalismo delle
piatta-forme al fascismo delle piattaforme, di cui Muskè esponente,
capace di decostruire i meccanismi democratico/costituzionali e
costruire la pedagogia di massa fondata sulla “paura”.
Due temi giuridico/politici sono centrali: il primo è lo scivolamento verso
previsioni penali che colpiscono un target di destinatari già definiti
pregiudizialmente. Così, però, il diritto penale non si fonda più sul reato ma
sull’autore di esso; perfino sul so-spettato. Sono provvedimenti contro
destinatari predestinati. Il secondo tema che segnalo è l’estensione della non
penalità; si viene puniti anche se nessun reato è stato commesso. L’ordine, il
decoro cittadino vengono prima dei diritti costituzionali. Credo che sia
opportuno, in ogni città, in ogni quartiere che viene blindata come “zona
rossa”, organizzare il diritto collettivo di resistenza. Dovremo riprendere ad
esercitare la pratica della resistenza costituzionale.
articolo pubblicato sulla rivista Left numero di febbraio 2025
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Nella serie Acab le forze dell’ordine in assetto anti-sommossa finiscono per
essere considerate come l’unico argine a una generica «rabbia», impolitica ed
effetto di una frustrazione generalizzata
di Enrico Gargiulo da Jacobin
A quindici anni dalla pubblicazione di Acab. All cops are bastards, libro di
Carlo Bonini che racconta le vicende di alcuni membri del Reparto mobile di
Roma, e a tredici dal film che ne è stato tratto, diretto da Stefano Sollima, è
disponibile sulla piattaforma Netflix l’omonima serie tv. Un «prodotto» molto
pubblicizzato, lanciato sul mercato dell’intrattenimento come logica
continuazione del romanzo e della sua trasposizione cinematografica. La
produzione, infatti, è dello stesso Sollima e tra le cinque persone chiamate a
scrivere la sceneggiatura figura Bonini.
L’operazione sembra orientata a costruire un’egemonia non soltanto artistica ma
anche culturale. La serie, diretta da Michele Alhaique, aggiorna in senso
spazio-temporale il racconto delle vicende della celere romana, consolidando la
visione politica e morale già proposta in precedenza. Al di là di una facciata
cruda, cinica e iperrealistica, Acab condivide lo stesso carattere dell’opera di
carta e di quella cinematografica, offrendo una lettura della società
contemporanea che finisce per legittimare un certo tipo di ordine sociale.
La patologizzazione del conflitto sociale
La struttura delle serie, di tipo circolare, è significativa: le vicende della
squadra di celerini romana iniziano e finiscono in un tunnel: nel cantiere
dell’alta velocità durante le mobilitazioni No Tav in Val di Susa, nella prima
scena, e in prossimità della stazione Termini a Roma durante la notte di
Capodanno, nell’ultima. Ad accomunare l’alpha e l’omega di Acab è un senso di
oppressione e inquietudine, che fa da contesto e preludio all’inevitabile
aggressione subita dalla polizia: folle inferocite di «facinorosi» vestiti di
nero attaccano i protagonisti della serie, sfogando una rabbia incontrollabile.
Lo schema narrativo è ben noto a chi conosce il romanzo e il film. Il vero
protagonista del racconto è l’odio: un sentimento generalizzato e non meglio
definito che accompagna, o per meglio dire avvolge, l’intera vicenda, assumendo
la consistenza di una malattia capace di contagiare le diverse componenti della
società, inclusa la polizia. Le ragioni dell’odio, tuttavia, non sono
specificate. Le cause politiche ed economiche alla base dei conflitti e delle
violenze sono tenute al margine della narrazione: emergono a tratti, ma in
maniera frammentata e poco credibile. Del resto, non sono rilevanti
nell’economia del racconto: la macchina narrativa, per funzionare, non ha
bisogno di esplicitarle, dal momento che il conflitto sociale è patologizzato,
non analizzato in profondità. La società, in altre parole, è rappresentata come
intrinsecamente malata in senso morale. Di questo stato patologico bisogna
soltanto prendere atto, accettando ciò che ne consegue. Inclusa la celere, che è
parte integrante della «cura» contro il disordine.
La patologizzazione dell’odio e la rappresentazione della polizia come unico
argine al caos fanno perno innanzitutto sull’isolamento. I Reparti mobili si
trovano quasi sempre in radicale inferiorità numerica, in uno stato di totale
abbandono: sono l’ultimo – e l’unico – baluardo di uno Stato che, per il resto,
è del tutto assente. Meno nella prima scena ma in crescendo nelle successive, la
squadra al centro della serie è sola contro soggetti che la odiano. La
solitudine è percepita anche nei confronti degli altri apparati dello Stato, a
cominciare dai funzionari – esterni al Reparto mobile – che dirigono l’ordine
pubblico, per finire con i magistrati e con i politici.
L’isolamento non riguarda solo la vita professionale, ma anche quella privata.
Ricalcando un consumato cliché narrativo, i protagonisti di Acab, al pari di
quelli di molti romanzi noir, si sentono soli e incompresi dalle famiglie.
Sociopatie e traumi familiari sono la regola, non l’eccezione. Il caposquadra
Ivano Valenti, detto «Mazinga», ha un figlio che non gli rivolge la parola,
deluso dal comportamento del padre che, anni prima, ha abbandonato lui e la
madre, poi deceduta. Salvo, uno dei celerini, ha una relazione a distanza con
una donna inesistente: come si scopre, è vittima di una truffa online
finalizzata a ottenere regali e soldi. Marta, la poliziotta donna, ha una figlia
di tredici anni con un uomo che, prima della separazione, la picchiava, tanto da
arrivare ad accoltellarla, e che, ora, vorrebbe essere sempre più presente nella
vita della ragazza. Anche Michele Nobili, un poliziotto «democratico» appena
trasferitosi dal Reparto mobile di Senigallia, che dalla seconda puntata guida
la squadra romana protagonista del racconto, inizialmente appare come il
perfetto padre di famiglia, ma poi vede disfarsi il suo idillio familiare nel
momento in cui la figlia viene violentata: non riuscendo ad affrontare la
situazione, se ne va di casa.
Oltre all’isolamento lavorativo e familiare, un altro elemento centrale nello
schema narrativo è il contagio. La traiettoria di Nobili lo dimostra in maniera
cristallina. Nella prima serata passata in caserma dopo aver lasciato la
famiglia, il nuovo caposquadra incontra Salvo, il quale gli esprime il suo
dispiacere per quello che è successo a sua figlia e gli propone di uscire con il
resto della squadra. Nobili declina la proposta e gli fa vedere la foto del
violentatore, raccontandogli che lo ha seguito e l’ha visto sorridente e felice:
un figlio di papà che casca sempre in piedi. Salvo e gli altri, allora, decidono
di fare un «regalo» al loro caposquadra: al rientro dalla serata, lo svegliano e
lo invitano a seguirli in un capanno isolato. Lì si trova il ragazzo: lo hanno
rapito, legato e bendato. Nobili può scegliere se dare sfogo o no alla sua
vendetta. Lo fa, lasciandosi contagiare dal resto della squadra. Poco dopo,
ubriaco, lo ammette con Mazinga mentre stanno rientrando a casa dopo la cena di
Natale in caserma:
> «Tu avevi il comando. Sei tu che hai dato l’ordine perché c’era… c’era l’amico
> che stava a terra. Questa si chiama vendetta Mazì».
> «Bravo, così si chiama».
> «Non è fratellanza, questa. Questa… Questa è la fine di tutto. Ma tanto ormai
> mi avete contagiato, sono diventato come voi».
La de-politicizzazione
Rappresentare l’odio come una patologia che infetta la società intera e si
trasmette anche a chi deve tutelarla deresponsabilizza le azioni della polizia e
de-politicizza le ragioni del conflitto. In altre parole, sposta il discorso dal
piano politico a quello morale. Si tratta di uno schema consolidato, che segna
tanto il romanzo quanto il film ma che viene riproposto ora in una forma
aggiornata. Il libro di Bonini, infatti, esce in uno scenario italiano e
internazionale diverso da quello attuale. Nel 2009, la crisi economica era
appena esplosa e doveva ancora investire l’Italia. Una delle questioni al centro
dell’agenda politica nel momento in cui il racconto è ambientato era l’entrata
della Romania nell’Ue, che aveva scatenato un’ondata di panico morale a cui il
governo Prodi, nella breve legislatura 2006-2008, aveva risposto con un decreto
sicurezza firmato dall’allora ministro dell’interno Giuliano Amato. Le «cacce al
rumeno» erano la regola in quel periodo. A Roma, in particolare, la campagna
elettorale per le elezioni comunali, che vedeva contrapporsi Francesco Rutelli e
Gianni Alemanno, era stata condizionata in maniera decisiva dallo stupro e
dall’omicidio di Giovanna Reggiani da parte di una persona rumena che viveva in
un insediamento informale. Il successo della destra nel 2008 non è avvenuto
soltanto nella capitale: la coalizione guidata da Silvio Berlusconi ha vinto le
elezioni politiche dopo una campagna elettorale in cui l’idea di sicurezza ha
giocato un ruolo di primo piano.
Il romanzo e il film mettono al centro della scena il presunto «degrado» dovuto
alla presenza massiccia della popolazione rumena, trattandolo con toni tra
l’allarmistico e il moralistico. Inoltre, evocano il G8 in modo esplicito: buona
parte della squadra protagonista, infatti, ha partecipato alle giornate di
Genova. L’eredità di quanto accaduto durante il vertice del 2001 è talmente
pesante che il film si chiude con una sorta di momento di nemesi. La notte della
morte di Gabriele Sandri, tifoso della Lazio ucciso da un agente della polizia
stradale in un Autogrill nel 2007, la squadra protagonista del racconto si trova
isolata vicino allo stadio, in Piazzale Maresciallo Diaz – a cui è intitolata la
scuola genovese della «macelleria messicana» –, e sente sullo sfondo le urla dei
tifosi inferociti in cerca di vendetta.
Nella serie, invece, l’eredità del G8 è ormai lontana, se non del tutto assente.
Anagraficamente, soltanto alcuni dei personaggi possono aver partecipato agli
eventi di Genova. Tra questi Mazinga, unica presenza a garantire continuità con
il film. Le giornate del luglio 2001, peraltro, non sono mai richiamate in modo
esplicito. Lo scenario politico, più in generale, è cambiato. Il testa a testa
tra centro-destra e centro-sinistra che aveva segnato la seconda metà degli anni
Novanta del XX secolo e i primi anni Duemila si è risolto, di fatto, in uno
spostamento a destra dell’intero asse parlamentare. Il fascismo nella polizia
non è un più un tema oggetto di attenzione specifica. Il che non sorprende, dato
che il mondo al cui interno operano i celerini protagonisti della serie sembra
essere completamente spoliticizzato: un approccio morale e non politico al
conflitto sociale è ormai normalizzato. Inoltre, le questioni al centro
dell’agenda politica sono in parte diverse: la questione ambientale, quella
abitativa e lo sciovinismo del welfare sono sempre più in primo piano, ma come
dati di fatto, non come un aspetto della società su cui è possibile incidere.
Infine, l’ingresso delle donne nei Reparti mobili è testimoniato dalla figura,
centrale, di Marta.
Legittimare la violenza delle forze dell’ordine
In uno scenario del genere, i protagonisti di Acab riproducono una struttura
tipica del romanzo moderno: sono eroi problematici in un mondo corrotto e
degradato che cercano, in maniera confusa e disperata, un riscatto laddove un
cambiamento radicale è impossibile e, forse, neanche voluto. Se è vero che ogni
opera di finzione letteraria esprime in modo più o meno diretto un inconscio
politico, la serie estremizza una visione della società che, dietro un presunto
realismo, nasconde una difesa dell’ordine o, meglio, dei soggetti chiamati a
tutelarlo. Con tutti i loro difetti e i loro tormenti interiori, i protagonisti
di Acab incarnano, anche attraverso un senso di appartenenza al gruppo
ripetutamente ostentato nelle varie puntate, valori positivi in un contesto
politico e sociale irrimediabilmente corrotto, che non può essere cambiato.
E infatti, nonostante le parole che Salvo rivolge a Nobili durante la cena di
Natale – «com’è quel fatto, Michè? Quando tocchi il fondo puoi solo risalire. È
una stronzata, quando tocchi il fondo, là rimani» – i diversi personaggi trovano
un riscatto morale. Il punto, però, è come lo trovano, dato che la loro
redenzione è segnata da azioni all’insegna del machismo e della maniera forte.
Al riguardo, il tema del genere, inserito esplicitamente nella serie e trattato
da una prospettiva che sembra quasi volutamente antifemminista, è rivelatore di
tutte le ambiguità di Acab e, più in generale, di quanto la presenza femminile
nelle opere poliziesche sia ammessa se e in quanto le protagoniste si comportano
come, se non peggio, dei loro colleghi maschi. Marta risolve i problemi con il
suo ex quando si accorge che questi picchia anche l’attuale compagna. Decide
allora di aspettare la donna fuori dal supermercato in cui lavora e, dopo averla
fatta salire in macchina con una scusa, la forza in maniera molto dura a
raccontare i dettagli delle percosse subite. Sua figlia, seduta sul sedile
posteriore, è costretta ad ascoltare: è lei il vero oggetto della «lezione».
Nobili, dal canto suo, riceve una telefonata mentre sta per prendere servizio la
notte di capodanno. Sua figlia gli fa promettere che il suo violentatore pagherà
per quello che ha fatto. Il celerino le risponde che sì, lo farà. La sua
risposta arriva dopo che il rapimento e il pestaggio sono già avvenuti.
Le modalità con cui i protagonisti della serie agiscono, cercando di dare
sostanza ai valori che li orientano, esprimono dunque un orizzonte di senso
piuttosto problematico. La violenza, psicologica e fisica, sembra essere l’unico
strumento da opporre a un mondo degradato e corrotto. Certo, il copione prevede
alcune eccezioni. Eppure, il quadro non cambia nella sua sostanza. La violenza e
le maniere forti sono giustificate perché il mondo in cui i protagonisti della
serie vivono è profondamente malato. E perché tutto è contro la polizia.
L’irrealismo di molte delle situazioni descritte, al riguardo, è funzionale ad
alimentare angoscia e paura del caos e, quindi, a legittimare le forze
dell’ordine. A cominciare dall’isolamento dei celerini: la scena finale in cui,
dopo che si è sparsa la notizia della morte del ragazzo entrato in coma dopo la
rappresaglia a freddo della polizia successiva agli scontri con i No Tav, una
sorta di influencer incappucciato diffonde un video, presto virale, in cui
incita a pareggiare i conti, sembra uscita da un film di zombie: la squadra, più
isolata che mai, è aggredita da due lati da folle inferocite e rigorosamente
vestite di nero. Passando per la testimonianza di Nobili che, anni prima, ha
denunciato due colleghi per avere picchiato una persona in stato di fermo. Per
finire con l’ostilità della magistratura: chi ha un minimo di conoscenza della
procura di Torino e del suo comportamento rispetto alla questione Tav/Tac si può
rendere conto benissimo di quanto i personaggi descritti nella serie e i loro
modi di fare siano lontani dalla realtà.
A testimonianza di un approccio patologizzante al conflitto sociale, le parole
di Carlo Bonini sono significative. I celerini sono rappresentati
> come palombari che, indossati gli scafandri, s’immergono nel caos. […] Sono la
> faccia protetta da un casco che lo Stato offre in prima istanza al cittadino
> nel suo atto di ribellione. Spesso, la sola faccia tangibile che lo Stato
> offre di sé. […] I nostri poliziotti, le cosiddette «forze dell’ordine», sono
> pagati per reprimere gli improvvisi geyser di disordine che ogni società tenta
> faticosamente di espungere da sé […] Sono i prescelti a fronteggiare la
> minaccia del caos, perché strumento con cui lo Stato esercita il suo monopolio
> della forza. Sono la faccia con cui lo Stato presidia il confine che protegge
> l’ordine: uomini e donne a cui è pericolosamente consentito di vivere tra
> legge e disordine. Sono abituati a gestire la violenza, a fronteggiarla, a
> farne strumento di repressione. Ma tutto questo avviene all’interno di un
> confine protetto, che è quello della squadra. Un perimetro dentro al quale non
> è più la lettera della legge a indicare i comportamenti leciti, lo spazio di
> azione; ciò che conta davvero è solo il vincolo di fratellanza e il
> proteggersi l’uno con l’altro, senza lasciare che [i] sentimenti oscuri che
> provano prendano il sopravvento. I poliziotti si trovano, così, prigionieri di
> esistenze bipolari, dominate dal paradosso per cui per ristabilire l’ordine
> sono chiamati ad utilizzare strumenti e metodi che mettono continuamente alla
> prova le leggi e la morale, la loro interpretazione e il loro reciproco
> rapporto. […] Il vero problema per i palombari è tornare a casa.
Del resto, l’idea che una generica «rabbia», impolitica e effetto di una
frustrazione generalizzata, sia la cifra esplicativa degli ultimi vent’anni
della società «occidentale» è ormai proposta anche da importanti esponenti
dell’accademia internazionale.
La rappresentazione dei celerini come argine al caos è evidente in un passaggio
della seconda puntata. Pietro, dimesso dall’ospedale e costretto su una sedia a
rotelle, si rivolge così alla sua squadra durante una cena: «noi lo sapemo che
ce so du polizie, la polizia di Stato e la polizia di governo. Ma noi chi semo?
La polizia di Stato!». Acab la serie, dunque, gioca in modo ancora più
esplicito, rispetto al romanzo e al film, con le categorie della cultura e del
sapere di polizia. Nel dibattito scientifico, infatti, è richiamata di frequente
la contrapposizione tra una polizia dei cittadini, democratica, e una polizia
del sovrano, autoritaria. Con la sua uscita perentoria e sanguigna, Pietro va
oltre questa distinzione. I celerini marcano la loro distanza dalla politica ma,
allo stesso tempo, non si sentono cittadini come altri. Rivendicano piuttosto il
loro essere il baluardo di uno Stato etico, non di un ordinamento giuridico
neutrale. Due polizie, pertanto, di cui una sola autentica: quella a guardia di
un ordine morale che deve essere tutelato, a ogni costo.
*Enrico Gargiulo, sociologo all’Università di Torino, si occupa di
trasformazioni della cittadinanza, integrazione dei migranti e sapere di
polizia.
> Il realismo a senso unico di Netflix: da “Mare Fuori” ad “Acab”
> A.C.A.B.: la Val Susa secondo Netflix vs la realtà che viviamo
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Nella esibizione della disumanità il nostro governo sta copiando fedelmente il
modello trumpiano: dalle deportazioni in Albania agli attacchi alla Cpi. La sola
possibilità di salvare le nostre democrazie e con esse la pace è portare il
paradigma costituzionale all’altezza degli attuali poteri globali
di Luigi Ferrajoli da il manifesto
Un fatto è certo, al di là delle sconclusionate dichiarazioni in parlamento dei
ministri Nordio e Piantedosi sul caso Elmasry e degli insensati attacchi al
procuratore di Roma Lo Voi. Il nostro governo, con un aereo di stato, ha fatto
fuggire questo criminale anziché eseguire l’ordine di arrestarlo emesso dalla
Corte penale internazionale per 34 omicidi e 22 stupri, di cui uno su un bambino
di cinque anni.
In questo modo si è reso complice dei metodi – gli assassinii, le violenze e le
torture – con i quali Elmasry impedisce ai migranti di lasciare la Libia e di
imbarcarsi per l’Italia. Al tempo stesso l’Italia, unico paese civile, si è
allineata con Donald Trump nell’aggressione alla Corte penale internazionale.
La consonanza con Trump del nostro governo è stata totale, sia nell’esibizione
della crudeltà che nel disprezzo per il diritto.
L’esibizione compiaciuta della crudeltà è il tratto vistoso dello stile del
presidente statunitense: le decine di decreti esecutivi, molti dei quali in
contrasto con la Costituzione americana, firmati e poi sbandierati come segno
dei suoi pieni poteri davanti alle telecamere; la gogna di decine di migranti in
catene mentre vengono espulsi dal paese dove vivevano da anni perfettamente
integrati; il progetto cinico di una gigantesca pulizia etnica diretta a
evacuare più di due milioni di palestinesi dalla striscia di Gaza per far posto
a ville milionarie e a lussuosi stabilimenti balneari in quella che diverrebbe
«la Riviera del Medio Oriente».
Altrettanto ostentato è il disprezzo di Trump per il diritto, che chiaramente è
per lui inesistente: dalla stigmatizzazione sprezzante come «farsa» del processo
con cui è stato condannato per 34 capi d’imputazione poco prima del suo
insediamento, alla grazia concessa ai suoi 1.500 seguaci che quattro anni fa
dettero l’assalto a Capitol Hill; dalla cacciata dei funzionari che su
quell’assalto avevano indagato all’incredibile decreto che vieta l’ingresso
negli Stati uniti e congela i beni in essi detenuti di tutto il personale della
Corte penale internazionale, a causa delle sue imputazioni sgradite, prima tra
tutte quella contro il suo amico Netanyahu.
Ebbene, il nostro governo sta copiando fedelmente questo modello trumpiano.
L’esibizione della disumanità era stata inaugurata ben prima, con le misure
dirette ad ostacolare i salvataggi dei naufraghi in mare, condizionandoli a
insensati adempimenti burocratici, e con i tentativi, impediti dai giudici, di
deportare in Albania i migranti indebitamente sequestrati in mare.
A queste prove di crudeltà si aggiunge ora la sostanziale complicità con i
crimini di Elmasry, che sta rivelando qual è la sostanza della nostra politica
governativa in tema di migrazione.
L’argomento secondo cui Elmasry è stato espulso per la nostra sicurezza
nazionale è ridicolo. Elmasry non rappresentava nessun pericolo per l’Italia, ma
solo per gli internati nei lager libici, i quali naturalmente, per il nostro
governo, non sono persone.
> Elmasry è accusato dalla Corte penale internazionale di 34 omicidi e 22
> stupri, di cui uno su un bambino di cinque anni
Ma alla disumanità si è aggiunta, come nelle rappresentazioni messe in scena da
Trump, l’aggressione alla magistratura: dapprima ai giudici che non hanno
convalidato le illegittime deportazioni in Albania, poi al procuratore di Roma
Lo Voi per aver comunicato come era suo dovere al Tribunale dei ministri la
denuncia del governo per il favoreggiamento di Elmasry, poi alla stessa Corte
penale internazionale che si è permessa di registrare una denuncia sulla mancata
esecuzione da parte dell’Italia del suo ordine di cattura.
Questo disprezzo per il diritto e per la giurisdizione è il prodotto di una
concezione primitiva e anti-costituzionale della democrazia, che si sta
affermando e diffondendo in tutti i regimi populisti, peraltro in crescita
costante in tutto l’occidente.
La democrazia consisterebbe unicamente nel potere della maggioranza uscita
vincente dalle elezioni: un potere che si vuole accreditato come espressione
della volontà popolare e che perciò non tollera né limiti, né vincoli, né
controlli. Di qui le riforme dell’ordinamento giudiziario realizzate o tentate:
in Turchia, in Ungheria, in Israele, in Messico, in Italia.
È una concezione che, unitamente alle pratiche crudeli da essa legittimate, gode
del consenso popolare. È vero. Non è una novità. È esattamente ciò che è
successo con il fascismo e con il nazismo, i quali ottennero un consenso di
massa alle loro politiche immorali e disumane fascistizzando il senso civico e
così producendo, a livello di massa, il crollo della morale e del senso di
umanità.
Contro questa degenerazione della politica non basta richiamarsi ai sacri
principi: all’uguaglianza e alla dignità di tutti gli esseri umani, ai loro
diritti, alla separazione dei poteri, al valore della legalità eccetera. In
assenza di garanzie, questi principi sono solo parole, ignorate o peggio
sbeffeggiate dai nuovi padroni del mondo.
Ciò che occorre – la sola possibilità di salvare le nostre democrazie e con esse
la pace, la sicurezza del genere umano e la nostra stessa dignità – è
l’allargamento, a livello dei nuovi poteri selvaggi, del paradigma
costituzionale. Solo portando il costituzionalismo, le garanzie dei diritti e
dei beni vitali all’altezza degli attuali poteri globali e delle loro
aggressioni, è possibile civilizzare questi poteri e funzionalizzarli
all’attuazione di quei sacri principi, oggi ridotti a vuota retorica e
sicuramente scomparsi dall’orizzonte della politica e dell’economia.
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Se è vero che il linguaggio comune è uno dei più affidabili indizi del modo di
pensare di un popolo, non siamo messi benissimo
di Marco Sommariva*
Ieri sera, facendo zapping, in una manciata di minuti ho sentito aggettivare
“importanti” dei sottopiatti e delle valigette, delle lampade e delle sedie a
sdraio, dei vini e delle magliette indossate durante un’intera carriera
sportiva, degli avversari affrontati e delle partite programmate da un
calendario sportivo poco tenero, “importanti” sono risultati persino i passaggi
di un certo giocatore.
Pare che giornalisti, politici, conduttori di programmi in radio e in
televisione, così come i partecipanti ai talk show, non facciano più attenzione
alla scelta degli aggettivi, e non solo a questi.
Va da sé che se i media seminano, l’utenza raccoglie: nei giorni scorsi il mio
capo mi ha avvisato che, a breve, si sarebbero dovute prendere decisioni
importanti; un collega si diceva convinto che si sta vivendo un momento storico
importante, mentre un amico mi raccontava che il perito che era andato a
valutare i danni della sua casa di campagna allagata durante l’ultima alluvione,
gli aveva riferito che i danni erano senza dubbio importanti.
Sempre nei giorni scorsi, da sconosciuti ho preso nota di lesioni importanti,
nasi importanti, stipendi importanti, emozioni importanti, situazioni
importanti, perdite importanti, sacrifici importanti, ma proprio oggi ho come
avuto la sensazione che si fosse toccato il fondo: “Ho rinunciato a fare la
spesa al supermercato perché alla cassa c’era una coda importante” – frase
pronunciata da una donna a suo padre, nel passarmi accanto.
La Treccani dice che IMPORTANTE è “qualsiasi cosa che, per sé stessa o in
rapporto a un certo fine, è di grande rilievo e di grande valore, e quindi deve
essere tenuta nella dovuta considerazione. […] Quando è riferito a una persona,
l’aggettivo significa autorevole, potente o famoso. […] Può essere importante
anche qualcosa che si distingue per aspetto o stile, perché è particolarmente
elegante o molto lussuoso”. Quindi, effettivamente, può andar bene per qualsiasi
situazione, evenienza, stagione.
Nonostante quanto sopra, non ne posso più di questo aggettivo. Mi domando se
l’abuso che se ne fa dipenda dalla pigrizia – occorre così tanto sforzo per
definire i sottopiatti di valore, i vini pregiati, i passaggi precisi, le
perdite gravi e i sacrifici dolorosi? – o se dipenda dalla necessità di sentirsi
parte di un gruppo, un gruppo che non ha voglia di comunicare: se tutto è
“importante”, perde senso definire tale qualcosa che lo è davvero.
Provo a recuperare il valore di questo aggettivo. Per esempio, la guerra
sbagliatissima in Vietnam poteva insegnarci qualcosa d’importante. Cosa? Di non
farsi più venire in mente di combattere una guerra, a meno che non ne vada della
propria sopravvivenza: “la guerra del Vietnam era sbagliatissima fin
dall’inizio, ma io penso che possa insegnarci qualcosa di importante.
Probabilmente, se non fosse stato per il Vietnam, ora staremmo combattendo in
Nicaragua. Penso che il messaggio sia senz’altro passato: non farti neanche
venire in mente di combattere una guerra, a meno che non ne vada della tua
sopravvivenza”. – Non ho risposte semplici di Stanley Kubrick.
Importante è lo sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la
forma della civiltà. Per cosa? Per vivere: “appunto perché il Lager è una gran
macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in
questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per
raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci
di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo
schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi
certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore
perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi,
certamente, lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, e asciugarci
nella giacca. Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché così prescrive il
regolamento, ma per dignità e per proprietà. Dobbiamo camminare diritti, senza
strascicare gli zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per
restare vivi, per non cominciare a morire”. – Se questo è un uomo di Primo Levi.
Sono importanti l’amore e la libertà: “Le auguro ogni successo, ma più ancora le
auguro due cose che spesso ostacolano il successo esteriore e hanno tutto il
diritto di farlo perché sono più importanti: l’amore e la libertà”. – La
politica dell’impossibile di Stig Dagerman.
Il silenzio è importante: “C’è un giorno d’agosto che non dimenticherò mai.
Faceva molto freddo e stavamo sbucciando le castagne vicino al braciere mentre
il nonno leggeva il capitolo finale del Chisciotte. Alla fine chiuse quel libro
spesso e magico, con le illustrazioni di Doré. Fu la prima volta che capii
l’importanza del silenzio. Nonno Gerardo morì che ero ancora un ragazzo. Un
prete, Padre Vicente Zuloaga, basco come mia nonna, insisteva per amministrargli
i sacramenti e il nonno, dal letto, lo mandava a quel paese. Si volevano bene,
quei due uomini: per quarant’anni avevano giocato insieme a scacchi e a domino,
e si erano insultati a vicenda come solo un prete e un anarchico incallito
possono fare. Poi il nonno mi chiamò accanto a sé. “Non ti preoccupare” mi
disse. “Quando stavo in carcere ad Almerìa giurai a me stesso che sarei vissuto
non per vedere il trionfo della rivoluzione sociale, ma per leggere il
Chisciotte ai miei nipoti. Ci sono riuscito, e adesso lo devi fare anche tu”. –
Raccontare, resistere di Luis Sepulveda e Bruno Arpaia.
Importante è la sofferenza di un bambino: “non si capisce la sofferenza
dell’innocente. E in verità non c’era nulla sulla terra di più importante della
sofferenza d’un bambino e dell’orrore che tale sofferenza si porta con sé e
delle ragioni che bisogna trovarle”. – La peste di Albert Camus.
È importante il linguaggio del corpo e del comportamento: “per me è importante
il linguaggio del corpo e del comportamento perché è un linguaggio che equivale
a un altro: anzi, spesse volte, è molto più sincero”. – Scritti corsari di Pier
Paolo Pasolini.
È importante credere di poter fare qualcosa: “Che cos’è il talento? Non lo so.
Ci si nasce? Lo si scopre dopo? Il talento più importante è credere di poter
fare qualcosa”. – Live! di John Lennon.
È importante che la prosperità serva a tutti: “le nostre vecchie province son
salite a un livello di prosperità che non è forse impossibile incrementare
ancora; ma l’importante è che questa prosperità serva a tutti, e non solamente
alla banca di Erode Attico o al piccolo speculatore che incetta l’olio d’un
villaggio greco. Una legge non sarà mai abbastanza dura, se consente di ridurre
il numero di intermediari che formicolano nelle nostre città: razza oscena e
avida, che sussurra in tutte le taverne, affolla tutti i banchi di mescita,
pronta a sabotare qualsiasi politica che non le frutti un profitto immediato”.
Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar.
Sono importanti le cose di cui Dio dovrebbe occuparsi: “Se Dio esiste, spero che
abbia cose più importanti da fare che spiare se bevo alcolici o mangio carne di
maiale”. – Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini.
Ci sono parole importanti: “la parola ebraica, la parola timshel – tu puoi –
implica una scelta. Potrebbe essere la parola più importante del mondo.
Significa che la via è aperta. Rimette tutto all’uomo”. – La valle dell’Eden di
John Steinbeck.
Ci sono città più importanti di altre: “C’erano parecchi stranieri per strada,
tipi che non avevamo mai visto. Alti, con berretti in testa e occhiali da sole
dalle lenti molto scure. Erano americani. Fu solo più tardi che scoprii che la
sera in cui ero nato la CIA aveva fatto un colpo di stato nella mia patria.
L’America aveva deposto il nostro Primo ministro democraticamente eletto e
rimesso sul trono lo scià, che prima era fuggito. Da quel giorno gli americani e
lo scià avevano fatto di tutto per americanizzare la Persia. Uomini di affari e
multinazionali avevano investito nelle città più importanti […]”. – Il corvo di
Kader Abdolah.
Ci sono agenti più importanti di altri: “E poi arrivò la democrazia […] e allora
si seppe che James Thompson era stato uno dei più importanti agenti della DINA e
che usava la sua casa come luogo di interrogatori. I sovversivi passavano dai
seminterrati di James, dove lui li interrogava, gli tirava fuori tutte le
informazioni possibili, e poi li mandava in altri centri di detenzione. A casa
sua, di regola, non si ammazzava nessuno. Si interrogava soltanto, anche se
qualcuno era morto”. – Notturno cileno di Roberto Bolaño.
Ci sono libri più importanti di altri: “è ovvio che i valori delle donne molto
spesso differiscono da quelli che sono stati inventati dall’altro sesso; è
naturale che sia così. Eppure sono i valori maschili a prevalere. Parlando
grossolanamente, il calcio e lo sport sono “importanti”; il culto della moda,
acquistare vestiti sono “frivolezze”. E questi valori, inevitabilmente,
trasmigrano dalla vita alla narrativa. Ecco un libro importante, pensa il
critico, perché parla di guerra. Quest’altro invece è un libro insignificante
perché ha a che fare con i sentimenti delle donne in un salotto. Una scena che
si svolge su un campo di battaglia è più importante di una scena che si svolge
in un negozio […]”. – Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf.
Le idee sono importanti: “Le idee… le idee, ve lo confesso, mi interessano più
degli uomini, mi interessano più di ogni altra cosa. Esse vivono, combattono;
agonizzano come gli uomini. Naturalmente si può dire che noi le conosciamo solo
attraverso gli uomini, così come conosciamo il vento solo guardando le canne che
esso piega; ma tuttavia il vento è più importante delle canne”. – I falsari di
André Gide.
Le differenze di genere sono importanti: “Spesso mi sono fatta una di quelle
domande che non mi lasciano tranquilla, perché un tempo, e di frequente anche
oggi tra i popoli la donna occupa un posto molto meno importante dell’uomo.
Chiunque è in grado di dire che è una cosa ingiusta, ma a me non basta, vorrei
davvero conoscere il perché di questa grande ingiustizia! Si può ipotizzare che
l’uomo per via della sua maggiore forza fisica abbia avuto fin dall’inizio una
posizione di superiorità rispetto alla donna; l’uomo che guadagna, l’uomo che
genera i figli, l’uomo che può tutto… Già è stato piuttosto stupido da parte di
tante donne aver lasciato fino a qualche tempo fa che le cose andassero in
questo modo senza opporsi, perché per più secoli questo principio resiste, più
prenderà piede. Fortunatamente grazie all’educazione, al lavoro, al progresso,
la donna è diventata più consapevole. In tanti paesi le donne hanno raggiunto
l’uguaglianza dei diritti; molte persone, più che altro donne, ma anche uomini,
ora si rendono conto di quanto per così tanto tempo questa suddivisione fosse
sbagliata, e le donne d’oggi reclamano il diritto all’indipendenza assoluta!” –
Diario di Anne Frank.
Alcuni farmaci sono importanti: “Nelle località di confino ci si poteva ammalare
con molta facilità ma non ci si poteva curare perché mancavano gli ospedali,
mentre le infermerie erano prive di attrezzature sanitarie anche elementari e di
farmaci importanti”. – La villeggiatura di Mussolini di Silverio Corvisieri.
E ancora, è importante superare la paura: “È normale, tutti noi abbiamo paura.
L’importante non è non provarla, ma superarla”. – La donna abitata di Gioconda
Belli.
Ovviamente, non dobbiamo guardarci dall’uso sconsiderato del solo aggettivo
“importante”; altro sta avanzando: qualcuno ha notato come di fronte a un
vestito orrendo si reagisca dicendo che la persona che lo indossa ha uno stile
particolare, che di fronte a un quadro inguardabile si dica che l’autore è un
artista particolare, che dopo aver assaggiato qualcosa di disgustoso si
definisca il cucinato come un piatto con un sapore particolare.
Se è vero che il linguaggio comune è uno dei più affidabili indizi del modo di
pensare di un popolo, non siamo messi benissimo.
Cosa aspettiamo a cercare le parole giuste? Le parole sono importanti. Chi parla
male pensa male, e vive male.
A parer mio, ci si noterebbe di più stessimo zitti e in disparte, che non al
centro dell’attenzione ripetendo a pappagallo parole senza senso.
Vogliamo davvero restare un popolo a metà tra orrore e folklore?
Se davvero vogliamo continuare così, facendoci del male, allora ce lo meritiamo
Massimo Bo… Mi fermo qui perché mi avvisano che, così facendo, si rischia una
causa per diffamazione.
E se fosse qui la spiegazione di tutto? Non sarà che utilizziamo in modo
improprio e sino alla nausea quelle quattro parole anonime che ci son rimaste
perché, se no, come usciamo dal seminato scatta una denuncia?
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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Mi stupisce sempre come sfugga ai più la potenza sovversiva racchiusa nel gesto
di non consumare e che la noia non è un guaio
di Marco Sommariva*
Forse qualcuno di voi ricorderà che l’edizione 2024 del Festival della canzone
italiana, è stata vinta da Angelina Mango con il brano intitolato La noia.
Son dell’idea – non troppo arguta, lo ammetto – che quando un argomento viene
trattato dalle canzonette, così come le definiva Edoardo Bennato, è perché è
commestibile per la massa; ergo, è attuale e adatto per un pubblico numeroso, e
quando si parla di Sanremo le cifre sono a sei zeri: l’anno scorso ci son state
punte d’ascolto che hanno sfiorato i diciassette milioni di telespettatori,
quasi un italiano su tre. Quindi, definirei la noia un soggetto divenuto, ormai,
quasi una chiacchiera da bar.
A un certo punto, il testo de La noia recita così: “Quindi faccio una
festa/faccio una festa/perché è l’unico modo per fermare, per fermare, per
fermare/la noia”.
Pare davvero che l’unico modo che sembri essere in grado di stoppare la noia,
sia la festa; detto che le modalità che rendono festoso il tempo sono diverse a
seconda del soggetto – annoiato e non –, è comunque quasi sempre necessario
avere del denaro da spendere se si ha intenzione di cancellare, spazzare via la
monotonia, il tedio e quella tristezza che spesso si porta dietro. E se non si
ha del denaro per procurarsi il piacere della festa, può succedere che si prenda
con la forza, il potere, la prepotenza, la necessaria “materia prima”; per
esempio, potremmo scoprire che, per noia, degli adolescenti violentano delle
scolare. In Ragazzi di zinco di Svetlana Aleksievic, un libro dove l’autrice fa
parlare alcuni dei protagonisti dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, di un
conflitto che – nell’arco di dieci anni (1979-1989) – provocò mezzo milione di
vittime afghane e almeno quattordicimila sovietici rimpatriati chiusi in casse
di zinco, leggiamo: “Siamo rientrati da un combattimento con delle perdite:
morti e feriti gravi… e abbiamo acceso il televisore per pensare ad altro, per
sentire le ultime novità dall’Urss. In Siberia era stato costruito un nuovo
megastabilimento… La regina d’Inghilterra aveva dato un pranzo di gala in onore
di un ospite illustre… A Voronez degli adolescenti avevano violentato due
scolare: per noia… In Africa avevano ammazzato un principe… Ci siamo
all’improvviso resi conto che nessuno aveva bisogno di noi, che il paese era
affaccendato in altre cose…”.
Alcune settimane fa, nell’ufficio dove lavoro non c’era un granché da fare, a
volte capita: dopo un’oretta di silenzio in cui tutti i colleghi parevano
impegnati in chissà quale mansione al computer, due di loro – prima uno, poi
l’altro in scia al primo – confessano d’aver acquistato su internet oggetti non
propriamente inutili ma che, per loro stessa ammissione, non useranno mai: il
primo aveva acquistato attrezzi agricoli per il giardino di casa, il secondo un
accessorio per la moto. Entrambi più che cinquantenni, ammettono d’aver fatto
acquisti perché si stavano annoiando a stare davanti al pc ad aspettare mail di
lavoro che, quel giorno, non si decidevano ad arrivare. A mia precisa domanda,
tutti e due hanno sostenuto d’aver avuto un’infanzia felice e, così, penso che
questo potrebbe essere un problema, ricordando un passaggio di Todo modo di
Leonardo Sciascia, un romanzo giallo pubblicato nel 1974 che denuncia la
corruzione del potere, lo stretto legame che intercorre tra mafia e politica in
Italia: “Come è stata la sua infanzia? Felice, infelice? Spero per lei che sia
stata infelice, le infanzie felici germinano noia, tristezza, nequizia…”.
Anni fa, invece, facendo volontariato in un carcere, sono venuto a sapere da
alcuni detenuti che il denaro per procurarsi ciò che, secondo loro, poteva
combattere la noia – sesso a pagamento, droga, scarpe e abiti firmati, play
station e i-phone, rolex, collane e bracciali d’oro, alberghi di lusso, eccetera
– se lo sono procurato in modi tali da farli finire in galera. Per nulla
pentiti, sostenevano che avrebbero rifatto tutto da capo, nonostante la noia
procurata dallo stare dietro le sbarre. Di certo una noia condivisa coi
secondini, letto quanto scriveva Paul Nizan in Aden Arabia pubblicato nel 1931:
“I guardiani di prigione conoscono un tipo di noia quasi egualmente grande
quanto quella dei prigionieri, e i sottufficiali non sono molto più felici dei
loro uomini. Senonché hanno delle maschere quando si guardano negli specchi e
non riconoscono la loro brutta cera dietro la cartapesta dorata”.
Su quanto riportato sopra, mi piacerebbe conoscere l’opinione del buon George
Orwell, visto che nella sua opera prima pubblicata nel 1933 – Senza un soldo a
Parigi e a Londra –, un racconto lucido e spietato sulla condizione dei poveri e
degli emarginati che ha come sfondo le due capitali europee, scriveva: “Quando
si è prossimi alla completa miseria, si fa una scoperta di fronte alla quale
altre hanno meno importanza. Si scoprono la noia, e le meschine complicazioni e
i primi morsi della fame, ma si scopre anche la grande capacità di redenzione
della miseria: il fatto che essa annulla il futuro. Entro certi limiti è proprio
vero che meno denaro si ha, meno ci si preoccupa. Quando si hanno cento franchi,
si è soggetti ai più vili timori. Quando se ne hanno solo tre si è del tutto
indifferenti, perché tre franchi vi nutriranno fino a domani, e col pensiero non
riuscite ad andare oltre. Siete preda della noia, ma non della paura. Pensate
vagamente: “Fra un paio di giorni morirò di fame; terribile, non è vero?”. E poi
la vostra mente se ne va altrove. Una dieta a pane e margarina, entro certi
limiti, è di per se stessa un calmante”.
Quindi, potrebbe essere che si è preda della noia quando si ha poco denaro in
tasca, talmente poco da non riuscire a pensare a qualcosa che vada oltre
l’indomani.
Eppure conosco tanta gente che non fa alcuna fatica ad arrivare a fine mese,
anzi, e che si annoia tremendamente durante i suo riti consumistici, tipo
inanellare una crociera dietro l’altra a un ritmo tale da non ricordare neppure
se in Grecia ci sono mai stati e se quella volta, a Barcellona, erano poi scesi
a visitare la città; facendo la tara del tipo che avevo davanti mentre si
vantava dell’ennesima settimana trascorsa sul Mediterraneo, ho chiesto a questo
turista seriale se era mai stato con la nave in Umbria e, dopo averci pensato un
po’ su, mi ha risposto serio che gli sembrava di no, ma che avrebbe seguito il
mio consiglio visto che gli avevo parlato del porto di Perugia come qualcosa
d’imperdibile: beata ignoranza!
Secondo me, combattere l’ignoranza potrebbe essere un ottimo aiuto a combattere
la noia.
Noia che – su questo non credo ci siano grossi dubbi – a volte rovina
l’esistenza, accorcia la vita: “Quel che aveva sperato per lo Stormo, se lo
godeva adesso da sé solo. Egli imparò a volare, e non si rammaricava per il
prezzo che aveva dovuto pagare. Scoprì ch’erano la noia e la paura e la rabbia a
render così breve la vita d’un gabbiano. Ma, con l’animo sgombro da esse, lui,
per lui, visse contento, e visse molto a lungo”. Questo lo scrive Richard Bach,
nel celebre romanzo breve Il gabbiano Jonathan Livingston pubblicato nel 1970:
la storia di un gabbiano che abbandona la massa dei suoi compagni di stormo per
i quali volare non è che un semplice mezzo per procurarsi il cibo, e che impara
a eseguire il volo come atto di intelligenza, fonte di gioia.
Questa idea di abbandonare la massa non mi è mai spiaciuta.
La noia non produce solo furti e stupri, ma anche altri generi di violenze: “Un
veicolo veniva verso di noi. “La Ronda Barbuta” mormorò Farid. Era la prima
volta che vedevo i talebani dal vivo. Li avevo visti alla TV, su internet, sui
giornali. Ma adesso ero a pochi metri da loro, e sentivo uno strano sapore in
bocca. Cercai di convincermi che non fosse paura. Si stavano avvicinando. In
tutto il loro splendore. Il Toyota rosso procedeva lentamente. Nel cassone erano
accovacciati alcuni giovani dal volto duro con il kalashnikov sulle spalle.
Tutti avevano la barba e indossavano un turbante nero. […] “Vanno in giro a
controllare, nella speranza che qualcuno li provochi. Prima o poi qualcuno ci
casca. Allora i cani sono contenti, perché così finalmente interrompono la noia
della giornata e tutti acclamano: ‘Allah-u-akbar!’. E quando nessuno commette
infrazioni, ci sono comunque violenze del tutto gratuite.” […] “Si guardi i
piedi quando ci sono dei talebani”. Ecco il messaggio che in qualche modo arriva
da Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini, quando siamo avvicinati da
gente annoiata: guardarci i piedi. E non è forse quello che facciamo quando
assecondiamo, non riusciamo a reagire a chi abbiamo accanto che decide anche per
noi di fare shopping, magari all’outlet? “Non vorrai mica stare tutta la
domenica sul divano a leggere, eh?!”
Mi stupisce sempre come sfugga ai più la potenza sovversiva racchiusa nel gesto
di non uscire nei giorni festivi per consumare a comando scegliendo, invece, di
trascorrere il proprio preziosissimo tempo libero leggendo, rileggendo,
sottolineando, annotando, elucubrando e, magari, nel caso si avesse una persona
accanto in sintonia con questa filosofia, sviscerando, analizzando quanto letto.
O magari, sempre restando su quello stesso divano, facendo l’amore, del bel sano
e appagante sesso: “Quelli che parlano di rivoluzione e di lotta di classe senza
riferirsi esplicitamente alla vita quotidiana, senza comprendere ciò che c’è di
sovversivo nell’amore e di positivo nel rifiuto delle costrizioni, costoro si
riempiono la bocca di un cadavere”. L’importanza del Trattato del saper vivere
(1999) di Raoul Vaneigem – filosofo di origine belga, figura chiave del
situazionismo assieme a Debord – da cui ho estratto il passaggio precedente, sta
nella spietata attualità della sua critica alla società dei consumi e del
controllo mediatico, e qualcosa da dire sulla noia lo si trova anche in questo
libro: “Noi non vogliamo un mondo dove la garanzia di non morire di fame si
scambia contro il rischio di morire di noia”.
La noia è talmente pericolosa che la si usa come sinonimo di guai: ricordate il
“Non voglio noie nel mio locale” di Nicola Arigliano nel programma Non stop? Nel
caso non ricordaste l’ammonimento del cantante jazz, leggete cosa scriveva Jack
Kerouac nel 1951 su On the road, a proposito di noie, storie, sospetti: “Di
tanto in tanto una luce fioca lampeggiava in paese, e si trattava dello sceriffo
che faceva la sua ronda con una debole torcia elettrica e borbottava da solo
nella notte della giungla. Poi vidi la luce zigzagare verso di noi e sentii i
suoi passi giungere attutiti sul tappeto di sabbia e di vegetazione. Si fermò e
investì di luce la macchina. Io mi rizzai a sedere e lo guardai. Con voce
tremolante, quasi querula ed estremamente intenerita disse: “Dormiendo?”
indicando Dean sulla strada. Sapevo che questo voleva dire “dormire”. […]
“Bueno, bueno” disse come fra sé e si voltò pieno di riluttanza e di tristezza
per tornare alla sua ronda solitaria. Dei poliziotti così adorabili Dio mai ha
creato in America. Nessun sospetto, nessuna storia, nessuna noia: egli era il
custode del paese addormentato, punto e basta”.
Sia chiaro, anche la letteratura sa essere noiosa: “Le descrizioni dell’atto
sessuale sono noiose come le descrizioni di un paesaggio visto dall’aria – e
altrettanto piatte […]” – Che ci faccio qui? di Bruce Chatwin.
E visto che anch’io so essere noioso con certi miei articoli, vedo di chiudere
questo il più velocemente possibile; quindi, aggiungo un’ultima cosa: non
ricordo una canzone che m’abbia annoiato così tanto già al primo ascolto come La
noia di Angelina Mango.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
Il contributo di Federica Borlizzi (Università “Roma Tre”) sul potere di
ordinanza dei Prefetti e l’istituzione delle “zone rosse”.
di Federica Borlizzi da Studi sulla questione Criminale
Introduzione
Il 17 dicembre 2024, il Ministro dell’Interno Piantedosi ha emanato una
Direttiva, rubricata “iniziative di prevenzione e sicurezza urbana”, in cui si
chiede ai Prefetti di istituire delle c.d. “zone rosse” nelle città, al fine di
evitare la presenza di persone indesiderate nei luoghi pubblici.
La Direttiva evidenzia la necessità di accrescere “tanto la sicurezza reale
quanto quella percepita” contrastando l’insorgere di comportamenti che, “anche
quando non costituiscono violazioni di legge”, sono di “ostacolo al pieno
godimento [da parte della cittadinanza] di determinate aree pubbliche” (sic!).
Per raggiungere tale fine, il provvedimento ricorda l’arsenale di strumenti
messi a disposizione dei Sindaci e delle Autorità di pubblica sicurezza: a
cominciare dal c.d. Daspo urbano; passando per le ordinanze sindacali ex art. 50
TUEL fino alle ordinanze prefettizie ex art.2 del TULPS.
Proprio queste ultime sono oggetto di una specifica richiesta di applicazione da
parte del Viminale, che sollecita i Prefetti ad emanare dei provvedimenti per
disporre l’allontanamento dalle aree “sensibili” (es. infrastrutture
ferroviarie; luoghi della movida e turistici) di soggetti che possano
rappresentare un pericolo per “l’ordinato vivere civile”, sulla scia di quanto
già verificatosi – ad ottobre 2024 – nel contesto bolognese e fiorentino.
Rispondendo in maniera tempestiva a tale monito, i Prefetti di alcune metropoli
(Milano, Napoli, Roma) hanno emanato delle ordinanze che, a livello
giornalistico, sono state fatte passare come limitate alla notte di Capodanno ma
che, in realtà, hanno un’applicazione temporale molto più estesa, avendo una
efficacia trimestrale.
Il sentore, insomma, è che si stia attuando una ulteriore ed ennesima strategia
securitaria nelle nostre città, consentendo alle autorità prefettizie di
riesumare dei sempreverdi “residui assolutistici” (le ordinanze ex art. 2 TULPS)
funzionali a rendere i luoghi pubblici inaccessibili a determinate tipologie di
soggetti, selezionati sulla base di vere e proprie presunzioni di pericolosità
impregnate di razzismo e classismo.
In questa prima parte proveremo ad analizzare: (i) il potere di ordinanza
prefettizio previsto dall’art.2 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica
Sicurezza; (ii) i precedenti utilizzi di tali ordinanze da parte dei Prefetti
per limitare il diritto di riunione. In un secondo momento, verranno
approfonditi i provvedimenti adottati da parte delle autorità prefettizie per la
tutela della “sicurezza urbana”, anche in seguito alla Direttiva sulle “zone
rosse” del Ministro Piantedosi.
L’art.2 del TULPS: un pericoloso “residuo assolutistico”
La Direttiva sulle “zone rosse” del Ministro Piantedosi richiede ai Prefetti di
utilizzare un potere di ordinanza previsto in una legge di epoca fascista,
ancora in vigore nel nostro ordinamento: il Regio Decreto n.773 del 18 giugno
1931, più comunemente conosciuto come Testo Unico delle Leggi di Pubblica
Sicurezza (TULPS).
In particolare, l’art.2 del TULPS prevede che “il Prefetto, nel caso di urgenza
o per grave necessità pubblica, ha facoltà di adottare i provvedimenti
indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica”.
Si tratta di una disposizione dichiarata, più di sessant’anni fa, parzialmente
incostituzionale nella parte in cui “attribuisce ai Prefetti il potere di
emettere ordinanze senza il rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico”
(Corte costituzionale, sentenza n.26/1961). Infatti, i provvedimenti ex art.2
del TULPS sono stati considerate come “ordinanze libere”, tipiche di ordinamenti
giuridici di stampo autoritario, attribuenti un potere indeterminato ai prefetti
in grado di travolgere le garanzie sancite dalla Costituzione a tutela delle
libertà fondamentali. Dunque, l’incostituzionalità dovrebbe riguardare, prima
che i singoli atti emanati sulla base dell’art.2, il potere stesso su cui essi
si fondano, che appare declinarsi come una vera e propria potestà assoluta. Non
a caso, è stato evidenziato come questa disposizione del TULPS debba ritenersi
“un residuo assolutistico, contrario alla natura stessa dello stato di diritto
che non ammette l’esistenza di provvedimenti amministrativi non «tipici» né di
«pieni poteri» non disciplinati dalla legge” (L. Ferrajoli, 2000). Sarebbe
stato, dunque, auspicabile maggior coraggio da parte della Corte costituzionale
nell’espungere del tutto dall’ordinamento una disposizione che lascia intatto
nel nostro ordinamento un potere autocratico, figlio di epoche passate.
Infatti, nonostante la dichiarazione di parziale incostituzionalità ed il monito
della Consulta di modificare tale disposizione per renderla conforme ai canoni
del nostro sistema costituzionale, l’art.2 del TULPS è rimasto inalterato e
l’illegittimo potere di ordinanza prefettizia continua ad essere, ciclicamente,
utilizzato per comprimere i diritti fondamentali.
A nulla, peraltro, sembrano essere serviti i tentativi della giurisprudenza
amministrativa di stabilire le “condizioni d’uso” di tale potere. Quest’ultima
ha più volte evidenziato (si veda, Consiglio di Stato, sentenza n.4705/2016)
come: (i) l’utilizzo di questi strumenti extra ordinem postula la sussistenza di
un pericolo concreto che impone di provvedere in via d’urgenza per fronteggiare
situazioni di natura emergenziale ed imprevedibile; (ii) il provvedimento, oltre
a dover riflettere i canoni di proporzionalità, deve essere connotato dalla
necessaria provvisorietà e temporaneità dei suoi effetti, non essendo possibile
adottare ordinanze contingibili ed urgenti per fronteggiare situazioni
prevedibili e permanenti; (iii) il potere di ordinanza presuppone
necessariamente situazioni non tipizzate dalla legge di pericolo effettivo, la
cui sussistenza deve essere suffragata da una istruttoria adeguata e da una
congrua motivazione.
Tali limiti di utilizzo sono stati apertamente violati dalle autorità
prefettizie. Infatti, la prassi ci consegna la presenza di ordinanze emanate,
anche dietro esplicita richiesta del Governo di turno, per limitare -in maniera
illegittima- diritti costituzionalmente garantiti: dalla libertà di riunione a
quella di circolazione di determinate categorie di soggetti. Provvedimenti che,
dietro i fumosi presupposti dell’“urgenza” e della “tutela dell’ordine pubblico”
hanno, in alcuni casi, assunto un carattere “permanente”, comportando delle
arbitrarie applicazioni che hanno palesemente violato i principi costituzionali,
con conseguente lesione dei diritti fondamentali delle persone destinatarie di
tali misure.
Nel proseguo del contributo daremo atto delle conseguenze di tale potere
prefettizio. Ma risulta essenziale evidenziare sin d’ora come la presenza nel
nostro ordinamento di questi “residui assolutistici” appare inaccettabile e
pericolosissima, soprattutto in tempi di degenerazioni autoritarie e derive
illiberali.
L’art.2 del TULPS e l’istituzione di una “zona rossa” permanente in Val Susa
Un campo di applicazione privilegiato delle ordinanze prefettizie previste
dall’art.2 del TULPS è tradizionalmente[1] quello riguardante il diritto di
riunione e, più in generale, di dissenso.
Anche in questo caso, si è assistito ad interventi di soft law emanati dal
Viminale per sollecitare i Prefetti ad utilizzare tali strumenti. Celeberrima è
stata la Direttiva del Ministro Maroni del 26 gennaio 2009 che, prendendo
esempio da un provvedimento analogo di Scelba del 1950, invitava le autorità
prefettizie ad utilizzare il potere di ordinanza per sottrarre, in via
preliminare, alcune “aree sensibili” delle città alle manifestazioni di
protesta.
Nei fatti, la Direttiva richiedeva ai Prefetti di utilizzare in maniera
illegittima il potere di ordinanza attribuitogli dal controverso art.2 del
TULPS. Infatti, invitando le autorità prefettizie a stabilire dei divieti
preventivi e generali si giungeva ad una indebita compressione della libertà di
manifestare, che -in base all’art.17 della Costituzione- può essere limitata
solo nel caso in cui ricorrano, in concreto, “comprovati motivi di sicurezza o
di incolumità pubblica”.
La Direttiva Maroni ha comportato lo sdoganamento, in epoca recente,
dell’utilizzo dell’ordinanza prefettizia per limitare la libertà di manifestare.
Non a caso, la recente prassi ci consegna il diffuso utilizzo da parte dei
Prefetti di tale potere, con il chiaro intento di criminalizzare e silenziare
alcune specifiche lotte sociali.
Paradigmatico è quanto accaduto col Movimento NO TAV: tramite il potere di
ordinanza prefettizio si è assistito ad una vera e propria militarizzazione del
territorio della Val Susa, con l’istituzione di una permanente “zona rossa”.
Infatti, il Prefetto di Torino, con il fine di fronteggiare le proteste di tale
movimento, ha adottato – dal 22 giugno 2011 in poi – una serie di ordinanze
finalizzate ad assegnare alla disponibilità delle forze di polizia l’area
adiacente il cantiere dove si svolgono i relativi lavori per l’alta velocità,
interdicendo a chiunque l’accesso e lo stazionamento nonché vietando la
circolazione nelle zone limitrofe.
Il provvedimento è stato reiterato, con contenuto analogo negli anni successivi
(ad esempio nel 2015; nel 2016; nel luglio 2018 e nel settembre 2018; nel marzo
2019) e, in totale, si contano 49 ordinanze dal 2011 al 2022. Già questo
evidenzia la chiara violazione dei fumosi presupposti di attivazione del potere
di ordinanza che richiederebbero l’esistenza di casi di “urgenza o di grave
necessità pubblica”. Invece, proprio la concatenazione di tali provvedimenti da
parte della Prefettura di Torino ha prodotto chiaramente “un superamento ed una
violazione dell’orizzonte della temporaneità insito nella logica emergenziale e
sua ragione giustificativa, dando luogo ad un ossimoro: la stabilizzazione
dell’emergenza” (Algostino, 2019).
D’altronde, le diverse ordinanze pongono a fondamento del divieto di riunione e
di circolazione nella “zona rossa” della Val Susa la presenza dell’attivismo da
parte del Movimento NO TAV, dando luogo ad una presunzione di pericolosità delle
stesse per l’ordine e la sicurezza. Nell’ordinanza prefettizia del luglio 2018,
si afferma che tali limitazioni del diritto di riunione e di circolazione si
rendono necessarie per “evitare azioni di disturbo e forme di contestazione”,
evidenziando come sia possibile “prevedere” problematiche per l’ordine pubblico
in considerazione di quanto accaduto in precedenti manifestazioni, “specie
quando fortemente partecipate”.
Addirittura nell’ordinanza prefettizia del marzo 2019 si arriva a giustificarne
l’adozione, affermando come le iniziative del Movimento No Tav (quali
“apericene” o “cene”), anche se “non caratterizzate da profili critici per
l’ordine o la sicurezza pubblica, sono sempre finalizzate a determinare
pressioni sull’apparato di vigilanza dell’area di interesse strategico
nazionale, oltre che a tenere visibile la presenza concreta dell’attivismo
territoriale”. In questo caso, l’ordinanza trova la sua ragione giustificativa
non nella necessità di fronteggiare eventuali e presunti “pericoli” per la
sicurezza ma nell’affermato fine di invisibilizzare la protesta contro la TAV.
Appare evidente, dunque, come in Val Susa si stia assistendo ad un abuso, con
fini chiaramente politici, delle ordinanze prefettizie: attraverso la
realizzazione di una “zona rossa” permanente si inibisce la libertà di
circolazione e, di conseguenza, di riunione, con l’obiettivo di neutralizzare un
movimento di protesta.
Le tensioni con i principi costituzionali sono lampanti. Infatti, stabilendo
attraverso un mero atto amministrativo una indebita limitazione del diritto di
circolazione, questi provvedimenti violano la riserva di legge “rinforzata”
prevista dall’art.16 della Costituzione che espressamente richiede come tali
restrizioni possano essere stabilite solo “dalla legge, in via generale, per
motivi di sanità o di sicurezza”. Inoltre, considerando che le limitazioni della
libertà di circolazione sono esplicitamente poste per evitare le “azioni di
disturbo” del movimento NO TAV, è palese il loro essere strumentali ad impedire
la libertà di riunione, comportando un uso “per ragioni politiche” di tale
divieto esplicitamente censurato dall’art.16 della Costituzione[2] e dei divieti
preventivi e generalizzati al diritto di manifestare, in chiara violazione
dell’art.17 della Costituzione.
Insomma, parafrasando Bricola (1977), possiamo dire che attraverso l’illimitato
potere di ordinanza concesso dall’art.2 del TULPS ai Prefetti si giunge ad una
vera e propria “manipolazione amministrativa delle norme”, producendo forme di
“illegalità ufficiale” in grado di sovvertire il nostro sistema democratico.
Infatti, ciò che è precluso allo stesso legislatore, in base ai nostri principi
costituzionali, viene paradossalmente attuato dalle autorità prefettizie, spesso
dietro esplicita richiesta del potere esecutivo.
Ovviamente, una volta che si è sperimentata la possibilità di praticare,
impunemente, una limitazione prefettizia della libertà di manifestare,
l’utilizzo di tali illegittimi strumenti si è espansa anche in altri ambiti,
travolgendo ulteriori diritti fondamentali.
Quanto accaduto in materia di “sicurezza urbana” delle nostre città ne è
l’esempio lampante.
L’art.2 del TULPS, il Daspo prefettizio “in bianco” e le “zone rosse” di Salvini
Le ordinanze prefettizie previste dall’art.2 del TULPS hanno trovato, da alcuni
anni, un altro inedito campo di applicazione, ossia quello della “sicurezza
urbana”.
Questo nuovo ambito è strettamente collegato ai nuovi strumenti messi a
disposizione dal legislatore per tutelare il “decoro” delle nostre città e, in
particolare, all’introduzione nel nostro ordinamento di una misura mutuata dal
contesto calcistico: il c.d. Daspo urbano (art.9, 10, 13 e 13 bis del d.l.
n.14/2017, decreto legge sulla “sicurezza” dell’allora Ministro dell’Interno,
Minniti).
Non possiamo, in questa sede, soffermarci sulle molteplici forme[1] in cui si è
declinata questa misura di prevenzione atipica, ma risulta importante
evidenziare come si tratti di provvedimenti che comportano delle forti
limitazioni della libertà di circolazione di determinate categorie di soggetti,
selezionati non tanto sulla base della loro effettiva “pericolosità” per la
sicurezza pubblica ma sull’essere considerati elementi di disturbo per il
“decoro” delle città.
Emblematica, a riguardo, è la misura del c.d. “mini-Daspo” (ex artt.9 e 10, c.1,
del d.l. n.14/2017), con cui si consente alle forze di polizia di emettere una
sanzione amministrativa pecuniaria ed un contestuale ordine di allontanamento di
48h nei riguardi di coloro che, in determinate aree della città, compiano una
serie di comportamenti ritenuti, per l’appunto, a nocumento del “decoro urbano”,
ossia coloro che: impediscano l’accesso o la fruizione delle infrastrutture
ferroviarie o di trasporto pubblico, in violazione dei divieti di stazionamento
o di occupazione previsti (ex art.9, comma 1 del d.l. n.14/2017); (ii)
esercitino, in tali aree, attività di commercio o parcheggio abusivo; siano
colti in stato di ubriachezza; compiano atti contrari alla pubblica decenza;
esercitino attività di bagarinaggio (ex art.9, comma 2, del d.l. n.14/2017).
Inoltre, l’art.9, comma 3, del d.l. n.14/2017 consente ai regolamenti di polizia
urbana delle singole città di individuare ulteriori zone, tassativamente
indicate da tale disposizione (es. scuole; università; complessi monumentali;
presidi sanitari, aree interessate da flussi turistici), in cui estendere
l’applicazione del mini-Daspo in presenza delle suddette condotte.
Il mini-Daspo è stato definito come una misura di prevenzione “atipica” ma, in
realtà, è adottato in assenza di qualsivoglia valutazione sull’effettiva
“pericolosità”, discendendo automaticamente dalla commissione di condotte che,
al più, costituiscono meri illeciti amministrativi. Per tali provvedimenti si
giunge, dunque, a vanificare il difficile ed insoddisfacente iter di adeguamento
ai canoni costituzionali che ha riguardato le misure di prevenzione “tipiche”,
che hanno come imprescindibile presupposto applicativo una verifica della
pericolosità, in concreto, della condotta per la sicurezza pubblica. Si tratta
di un presupposto strettamente connesso alla natura e alla funzione di tali
misure: se non vi è pericolosità, non vi è nulla da prevenire e, di conseguenza,
non potrebbero trovare applicazione tali strumenti. Con l’introduzione
dell’inedita misura del mini-Daspo, invece, si legittima nel nostro ordinamento
la presenza di una prevenzione “senza pericolosità”, che dà adito ad abusi e
violazione dei diritti fondamentali dei soggetti colpiti da tali provvedimenti.
Non a caso, l’ordine di allontanamento si rivela una misura ferocemente
classista e razzista, utilizzata contro i marginali dei nostri territori: senza
dimora, mendicanti, venditori ambulanti, sex workers. Uomini e donne che – in
assenza di condotte offensive – sono destinatari di provvedimenti limitativi
della loro libertà di circolazione, finalizzati ad espellerli dai centri storici
delle nostre “città vetrina”, disegnate ad uso e consumo dei turisti e dei
cittadini “perbene” (Pitch, 2013).
Nelle nostre metropoli, abbiamo assistito al proliferare di “zone anti-degrado”,
con una rapida estensione, da parte dei diversi regolamenti di polizia urbana,
delle aree in cui poter applicare lo strumento del mini-Daspo. E, proprio
laddove i consigli comunali non hanno accolto con tempestività questa
possibilità, sono arrivati i Prefetti a imporre, d’imperio, l’utilizzo di questa
misura.
Infatti, le ordinanze prefettizie previste dall’art.2 del TULPS assumono una
estrema rilevanza proprio in materia di ordine di allontanamento per
un’illegittima prassi che si è realizzata tra il 2018 e il 2019 e che appare
precorritrice della recente Direttiva sulle “zone rosse”.
Ad inaugurare questa deriva è una figura nota, Matteo Piantedosi, che nel
dicembre 2017, in qualità di Prefetto di Bologna decide, nei fatti, di
esautorare il consiglio comunale bolognese, adottando un’ordinanza (poi
reiterata nel maggio e nel dicembre 2018) che, fondando la ragione di “urgenza”
nella necessità di tutelare alcune aree del centro storico nelle more
dell’approvazione del nuovo regolamento di polizia urbana, estende a dismisura
l’ambito di applicazione dell’ordine di allontanamento, dando vita ad un inedito
e controverso Daspo prefettizio “in bianco”.
L’ordinanza dispone un divieto di stazionamento della durata di 6 mesi nei
confronti di coloro che “impediscano l’accessibilità e la fruizione” di alcune
zone del centro storico di Bologna con “comportamenti ritenuti incompatibili con
la vocazione e la destinazione” di tali aree. Con una evidente presunzione di
pericolosità, l’ordinanza continua affermando come saranno “ritenuti
responsabili di tali comportamenti” : (i) i soggetti denunciati per reati in
materia di stupefacenti; per reati contro la persona; per il reato di
danneggiamento dei beni commessi nelle indicate “zone sensibili”; (ii) i
destinatari di contestazioni per violazione della normativa che disciplina
l’esercizio del commercio su aree pubbliche; (iii) chiunque, addirittura, sia
identificato in compagnia di uno dei soggetti destinatari delle denunce o delle
contestazionisuddette. Infine, si prevede l’ordine di allontanamento dei
trasgressori dalle aree indicate, precisando come la violazione di quanto
disposto dall’ordinanza potrà rilevare anche sotto il profilo penale (ex art.650
c.p. e 17 TULPS)
Tale provvedimento prefettizio fa scuola e, ad esso, segue una ordinanza di
identico contenuto del Prefetto di Firenze, del 9 aprile 2019.
Dunque, le ordinanze prefettizie in questione giungono ad ampliare le categorie
soggettive cui applicare il mini-Daspo, oltrepassando gli stessi limiti dettati
dalla normativa di riferimento (art.9, del d.l. n.14/2017), che, peraltro,
consente ai regolamenti di polizia urbana solo di estendere le “aree” (non le
“condotte”) in cui utilizzare l’ordine di allontanamento. Invece, con tali
provvedimenti si arriva a prevedere una presunzione di incompatibilità con la
“vocazione e la destinazione” delle aree “sensibili” di specifiche categorie di
soggetti, che dovrebbero addirittura non stazionare in tali luoghi, per non
incorrere nell’ordine di allontanamento. L’analisi dei “tipi d’autore” colpiti
da tale presunzione tacita di pericolosità per la sicurezza pubblica (rectius
“urbana”) comporta delle conseguenze ancor più paradossali: da persone con a
carico mere denunce anche molto risalenti nel tempo, passando a soggetti
destinatari di meri illeciti amministrativi fino agli stessi “accompagnatori”
dei denunciati, con il “Tätertyp che si estende alla logica amicale o parentale”
(Riva, 2019).
Uno scenario degno di una vera e propria distopia securitaria.
Dal punto di vista giuridico, appaiono eclatanti le violazioni realizzate da
tali ordinanze prefettizie: (i) nessuna reale ragione di “urgenza” è posta alla
base dell’emanazione di tali provvedimenti, violando gli stessi presupposti
giustificativi del controverso potere previsto dall’art.2 del TULPS; (ii) gli
irragionevoli “divieti di stazionamento” impongono ai destinatari un obbligo di
non fare che appare in contrasto con la riserva di legge “relativa” prevista
dall’art.23 della Costituzione; (iii) il trasgressore del divieto di
stanziamento va incontro, automaticamente, all’ordine di allontanamento, con una
ulteriore restrizione della libertà di circolazione, che viola chiaramente la
riserva di legge “rinforzata” prevista dall’art.16 della Costituzione.
Si tratta di tensioni con i principi generali del nostro ordinamento che sono
state, in parte, confermate dalla Giustizia Amministrativa, la quale ha
annullato l’ordinanza prefettizia di Firenze (sentenza n.823/2019) ritenendo non
sussistenti i requisiti di “necessità e di urgenza” ed illegittimi i divieti di
stazionamento ed i conseguenti ordini di allontanamento. In particolare, il TAR
ha censurato l’irragionevole automaticità, prevista nel provvedimento, tra la
mera denuncia per determinati reati e l’essere responsabile di “comportamenti
incompatibili con la vocazione e la destinazione” di determinate aree,
ricordando all’autorità prefettizia come non si possa incidere su libertà
costituzionalmente garantite in base a presunzioni di pericolosità.
Peccato che tale pronuncia sia rimasta isolata e che, nel frattempo, le
ordinanze dei Prefetti di Bologna e Firenze abbiano ricevuto il beneplacito
dell’allora Ministro dell’Interno, Salvini, che, nell’aprile 2019, ha emanato
una Direttiva (anche allora denominata sulle “zone rosse”) rivolta ai Prefetti,
in cui si evidenziava come, qualora i Sindaci non avessero utilizzato le
possibilità offerte dal d.l. n.14/2017 (come modificato dal d.l. n.113/2018),
ciò potesse giustificare il ricorso ai poteri di ordinanza prefettizi, in
“funzione anti-degrado e contro le illegalità”, come “già sperimentato con
successo” nel contesto bolognese e fiorentino. Nei fatti, tale Direttiva
chiedeva alle autorità prefettizie, diretta emanazione del Governo, di abusare
del potere di ordinanza per spodestare i consigli comunali, qualora questi
ultimi non avessero voluto potenziare l’utilizzo del Daspo urbano sui propri
territori. Una impostazione autoritaria e dispotica, in grado di “violare il
principio di sovranità popolare, di eludere la rappresentanza, di precludere
spazio alla discussione politica” (Algostino, 2019), scavalcando le decisioni di
quei Comuni che magari non avevano intenzione di cedere alle sirene securitarie.
Appare, dunque, evidente quanto pericoloso sia il potere di ordinanza
prefettizio dall’art.2 del TULPS che, soprattutto quando viene sollecitato nel
suo utilizzo da parte dell’Esecutivo, assume la chiara valenza di una falla
autocratica nel nostro, già precario, Stato di diritto.
Quanto accaduto con la ennesima Direttiva sulle “zone rosse” del Ministro
Piantedosi e con le conseguenti ordinanze dei Prefetti ne è un ulteriore
esempio.
Un eterno ritorno: le zone rosse di Piantedosi
Ritorniamo, dunque, alla parte iniziale di questo contributo ossia la Direttiva
sulle “zone rosse” emessa dal Ministro dell’Interno nel dicembre 2024 che, come
l’eterno ritorno dell’uguale, fa seguito a due precedenti ordinanze dei Prefetti
di Bologna e Firenze, entrambe adottate ad ottobre dello scorso anno.
Alla luce di quanto sopra evidenziato dovrebbe apparire evidente come, in
materia di “sicurezza urbana”, siamo dinanzi ad uno schema consolidato, che si
inserisce nell’ambito di una più generale strategia di governance dei territori.
In particolare, la dinamica appare la seguente: (i) alcuni Prefetti effettuano
delle “fughe in avanti” utilizzando l’illimitato potere di ordinanza previsto
dall’art.2 del TULPS per potenziare l’utilizzo del Daspo urbano nei riguardi di
una categoria sempre più ampia di soggetti e ben oltre i limiti previsti dalla
vigente normativa, il tutto senza reali motivazioni in ordine all’aumento
effettivo dei reati (i dati statistici sono banditi da tali provvedimenti) o, al
massimo, derubricando a problematiche di “degrado” fenomeni sociali e criminali
molto più complessi; (ii) il Ministro dell’Interno di turno, a quel punto,
emette una Direttiva per sollecitare le altre autorità prefettizie a seguire
l’encomiabile esempio dei propri colleghi, paventando la necessità di dover
tutelare “l’ordinato vivere civile”, messo a repentaglio da balordi e soggetti
molesti; (iii) le altre Prefetture iniziano una corsa a chi è più duro contro i
“cattivi” che minacciano la sicurezza urbana, non risparmiandosi di motivare i
propri provvedimenti in modo apertamente razzista e xenofobo.
Ad attivare, nel periodo recente, questo perverso circolo vizioso è stato,
nuovamente, il Prefetto di Bologna che, l’8 ottobre 2024, ha adottato
un’ordinanza quasi del tutto identica a quello emanata dal suo predecessore
Piantedosi. Nel caso di specie, appare significativo evidenziare come
l’ordinanza bolognese sembra trarre le sue origini da una serie di gravi omicidi
a danno di giovanissimi cittadini stranieri avvenuti sempre nei pressi della
stazione di Bologna: nel maggio 2024, un ventunenne tunisino è stato ucciso da
un presunto connazionale diciassettenne mentre tentava di rubargli una
bicicletta; nel settembre 2024, un senza dimora ivoriano di 26 anni, Mamadou
Sangare, è stato accoltellato a morte, per (anche qui, presunti) regolamenti di
conti legati a fatti di droga.
Avvenimenti che ci parlano di dinamiche sociali complesse che richiederebbero
d’interrogarsi sui drammatici costi sociali delle nefaste politiche messe in
campo, negli ultimi anni, con lo smantellamento del diritto d’asilo; la
distruzione del sistema di accoglienza e il depotenziamento del welfare, che
hanno prodotto una moltitudine di invisibili che popolano le nostre città e che,
spesso, finiscono per essere facile manodopera per il crimine organizzato.
Invece, questi avvenimenti vengono beceramente utilizzati per criminalizzare
ulteriormente proprio coloro che sono stati posti ai margini, in nome della
beneamata “percezione di insicurezza” dei cittadini “perbene”. Questo, infatti,
è proprio quello che è accaduto con l’ordinanza del Prefetto di Bologna che
parte evidenziando come nelle zone limitrofe alla stazione ferroviaria si sia
“più volte segnalata la presenza di assembramenti di persone dedite a
comportamenti illegali, quali lo spaccio di sostanze stupefacenti o tali da
destare forti turbative all’ordinario svolgimento della vita civile”; continua
sottolineando come tale situazione sia “costantemente all’attenzione dei mezzi
di informazione”, determinando “apprensione e allarme nell’opinione pubblica” e
arriva alla conclusione che si tratti di circostanze “non contrastabili con gli
strumenti ordinari di controllo del territorio”, e che sia necessario “dotare
temporaneamente le forze di polizia di strumenti di natura straordinaria che
possano offrire un indispensabile ausilio per scongiurare un danno incombente
sulla percezione di sicurezza”.
La ragione giustificativa dell’ordinanza è paradossalmente il “danno” che si sta
producendo alla “percezione di sicurezza” dei cittadini. Dunque, le soluzioni
sono quelle che possono agire sul piano di tale “percezione”, attraverso la
consueta opera di “bonifica” del territorio: il provvedimento prevede, per 6
mesi, un divieto di stazionamento e un conseguente ordine di allontanamento
dalle zone limitrofe alla stazione di Bologna di quanti “ne impediscano
l’accessibilità e la fruizioni” attraverso “comportamenti incompatibili con la
vocazione o l’ordinaria destinazione di tale aree”.
Anche in questo caso, si giunge ad una presunzione di pericolosità ritenendo,
tout court, “responsabile di tali comportamenti” chiunque, già denunciato per il
compimento di attività illegali nelle aree in questione (in particolare per i
reati in materia di stupefacenti, percosse, lesioni, rissa, danneggiamento),
assuma “atteggiamenti aggressivi, minacciosi o insistentemente molesti”. Il
livello di discrezionalità lasciato alle forze dell’ordine è massimo: un
atteggiamento “fastidioso” di un senza dimora presente in stazione potrà essere
qualificato come “molestia” e, se la persona ha una mera denuncia anche molta
datata nel tempo, si potrà giungere ad applicarli un divieto di stazionamento
della durata di 6 mesi che, se violato, comporterà l’applicazione di un ordine
di allontanamento del medesimo arco temporale, la cui trasgressione – a sua
volta – è presidiata da una specifica fattispecie penale.
Il problema è sempre il medesimo: attraverso un mero atto amministrativo
prefettizio si introducono delle restrizioni alla libertà di movimento di
specifiche categorie di soggetti, estendendo i presupposti del Daspo urbano al
di là dei limiti previsti dalla già controversa normativa e si ampliano le
maglie del controllo para-penale che colpirà, in maniera selettiva, in
particolar modo i soggetti razzializzati e marginali, rendendoli destinatari di
una vera e propria spirale di criminalizzazione secondaria.
In ogni caso, ancora una volta, l’ordinanza bolognese fa scuola e, dopo pochi
giorni (il 10 ottobre 2024), viene adottato un provvedimento del medesimo
contenuto da parte del Prefetto di Firenze che, per 6 mesi, prevede divieti di
stazionamento, in specifiche zone della città, nei riguardi di soggetti che
mettono in campo i soliti comportamenti “molesti” e che siano stati già
denunciati per determinati reati di cui, però, si amplia il catalogo,
includendovi anche il furto con strappo, la rapina, l’occupazione di immobili,
il porto d’armi. Come a dire che bisogna pur segnare un punto in più in quella
gara tra i Prefetti finalizzata ad accaparrarsi la medaglia di miglior
“governatore” della sicurezza urbana.
A distanza di pochi mesi, arriva la Direttiva del Ministro dell’Interno,
Piantedosi, datata 17 dicembre 2024, che sollecita le autorità prefettizie a
seguire le buone prassi bolognesi e fiorentine, adottando delle ordinanze
funzionali a vietare l’indebita permanenza, nelle zone sensibili, di persone
responsabili di attività illegali, disponendone l’allontanamento. Appare
interessante evidenziare come il Ministro esplicitamente faccia riferimento, in
tale provvedimento, allo strumento del Daspo urbano, precisando come il DDL
sulla “sicurezza”, attualmente in discussione in Senato, stia ampliando i
presupposti applicati di tale misura, consentendo di disporre il divieto di
accesso nei confronti di coloro che risultino denunciati, nel corso dei cinque
anni precedenti, per delitti contro la persona o il patrimonio, commessi nelle
aree interne o nelle pertinenze delle infrastrutture ferroviarie e di trasporto
pubblico.
Non può sfuggire come le ordinanze dei Prefetti di Bologna e Firenze, in materia
di Daspo urbano, abbiano anticipato le modifiche legislative che ancora devono
essere approvate dal Parlamento e che sono state apertamente censurate dal
Consiglio d’Europa, già estendendo ai “denunciati” e, addirittura, ai
“segnalati” per alcune tipologie di reati la possibilità di vedersi applicate
tali misure. Lo strumento dell’ordinanza prefettizia appare, ancora una volta,
funzionale a scavalcare gli organi democratici e ne sembra ben consapevole il
titolare del Viminale, che invita i Prefetti ad agire proprio in tal senso.
Il risultato della Direttiva Piantedosi è stato il proliferare di ordinanze
prefettizie sulle “zone rosse”, che hanno progressivamente stabilito delle vere
e proprie presunzioni di pericolosità, con chiari riferimenti xenofobi e
razzisti. Emblematica, a riguardo, è l’ordinanza del Prefetto di Milano, del 27
dicembre 2024, che trova la propria ragione giustificativa nella constatazione
di come, alcune aree della città (stazione ferroviaria; luoghi della “movida”),
siano caratterizzate dalla “presenza di soggetti molesti […] che creano degrado
e una conseguente percezione di insicurezza della cittadinanza”. Tali soggetti
sono esplicitamente individuati nelle “persone di giovane età e sovente di
provenienza extracomunitaria (c.d. seconde generazioni)” nonché in quelle “non
in regola con la normativa in materia di immigrazione”. Risulta chiara la
matrice apertamente discriminatoria di tale provvedimento, che sembra invitare
le forze dell’ordine a procedere con una pratica illegittima, già censurata
dall’ECRI (“Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza” del
Consiglio d’Europa), ossia la profilazione razziale delle persone presenti sul
territorio, da sottoporre ad un surplus di controlli e divieti.
Non a caso, i presupposti applicativi delle misure coercitive si fanno ancora
più sfumati: l’ordinanza milanese, che ha una durata di 3 mesi (fino al 30 marzo
2025), arriva a prevedere un divieto di stazionamento ed un conseguente ordine
di allontanamento, da specifiche zone della città, nei riguardi dei “soggetti
molesti” meramente “segnalati” (non più neanche “denunciati”) per determinati
reati in materia di sostanze stupefacenti e contro la persona ed il patrimonio,
precisando, ancora una volta, come la violazione delle disposizioni in essa
contenute sia in grado di configurare un illecito penale.
Nuovamente un’ordinanza prefettizia arriva a prevedere ciò che è precluso alla
stessa legislazione ordinaria: stabilire limiti stringenti alla libertà di
circolazione di determinati gruppi sociali, che appaiano selezioni attraverso
una chiara base razziale, con buona pace dei nostri principi costituzionali
divenuti un mero simulacro (artt.3 e 16 della Cost.). Il tutto viene fatto dalla
Prefettura milanese con una spregiudicatezza degna di chi sa di poter agire
impunemente. Infatti, paradossalmente, è lo stesso Prefetto – nel comunicato
stampa in cui annuncia l’adozione dell’ordinanza – ad affermare che c’è un
drastico calo della criminalità nella città milanese (rispetto all’anno
precedente: i reati di strada hanno subito un decremento del 10%; i furti con
strappo del 17%). Naturalmente, tali dati statistici non sono menzionati
nell’ordinanza prefettizia, che trova la sua illegittima ragione giustificativa
nella necessità di evitare un “danno incombente alla percezione di sicurezza”
dei cittadini, attraverso l’espulsione dal centro storico delle persone
razzializzate e marginali.
All’ordinanza prefettizia di Milano fa seguito quella di Napoli (del 31 dicembre
2024, con durata trimestrale) e, l’8 gennaio, anche quella del Prefetto di Roma,
sollecitato esplicitamente, nella Direttiva di Piantedosi, all’adozione di
provvedimenti che, in vista del Giubileo, allontanino i soggetti indesiderati
dai luoghi turistici.
Pulsioni autoritarie e derive illiberali
In conclusione, appare necessario tirare le fila dell’analisi sull’utilizzo del
pericoloso potere di ordinanza prefettizio previsto dall’art.2 del TULPS,
tratteggiando una questione più generale “di forma” e una più specifica sul
“merito” di tali provvedimenti.
Dal punto di vista formale e, potremmo dire, di gerarchia delle fonti, appare
evidente come l’art.2 del TULPS rappresenti una mina vagante del nostro sistema
giuridico, in grado di sovvertire l’assetto costituzionale attraverso la
sospensione amministrativa dei diritti fondamentali. Questa minaccia latente
diventa ancor più palese quando l’utilizzo di tale “residuo assolutistico” viene
sollecitato dal Viminale, favorendo l’accentramento dei poteri nelle mani
dell’Esecutivo ed esautorando i luoghi di decisione democratica (siano essi i
consigli comunali o il Parlamento). Una strategia autoritaria che sembra
perfettamente in linea con le politiche ed i propositi dell’attuale Governo che,
d’altronde, sollecita le autorità prefettizie ad istituire le “zone rosse” (in
cui poter applicare una versione del Daspo urbano non ancora approvata dal
potere legislativo) e commissaria interi territori dove esportare il “modello
Caivano” (si veda il recente d.l. n.208 del 31 dicembre 2024), imponendo una
gestione verticistica e militarizzata dei quartieri.
In tempi di torsioni illiberali, dunque, il Governo può fedelmente contare sul
controverso potere di ordinanza del Prefetto, da impiegare utilmente per i
propri scopi o, meglio, per realizzarli senza rispettare i limiti generali
previsti dall’ordinamento. D’altronde, lo strumento amministrativo per la sua
duttilità e per l’essere libero da impacci garantisti si rivela un ottimo
alleato dei processi di securitizzazione. Non sarà un caso, allora, che le
ordinanze prefettizie siano illegittimamente usate per silenziare chi esprime il
proprio dissenso e per criminalizzare poveri, marginali e persone razzializzate.
Le stesse categorie colpite, peraltro, da quel “diritto penale del nemico” che
si è, progressivamente, consolidato nel nostro sistema giuridico e che vede nel
DDL 1236 sulla “sicurezza” la sua massima espressione.
Dinanzi a tutto questo, la posta in gioco è evidentemente elevatissima.Infatti,
da un lato, non preoccuparsi degli effetti di questi provvedimenti sui
territori, comporta il non comprendere come tali politiche securitarie siano
funzionali ad accelerare i processi di privatizzazione dello spazio pubblico; ad
acuire le disuguaglianze presenti nel tessuto urbano; a favorire la
stigmatizzazione e l’ostracismo di determinati gruppi sociali[2]. Dall’altro,
legittimare o accettare passivamente queste pratiche di governo, in nome di un
distorto diritto alla sicurezza, significa avvalorare il dispotismo
governamentale; porsi dalla parte dell’involuzione autoritaria dello Stato;
accreditare abusi e violenze istituzionali; acconsentire alla sospensione dei
diritti e delle libertà fondamentali.
Bisogna, dunque, essere all’altezza del momento storico che stiamo vivendo,
contrapponendo alle pulsioni autoritarie e liberticide una resistenza
democratica diffusa. D’altronde, autorevole dottrina ci insegna come
“allorquando i pubblici poteri violano i diritti fondamentali e i mezzi e le
garanzie legali si rivelano inefficaci a sanzionarne l’invalidità […] allora il
«diritto» torna ad essere «fatto», rapporto di forza, e prende avvio la
rifondazione di un nuovo diritto. Ma anche quando non arriva alla rottura
dall’esterno del diritto vigente, ogni lotta in difesa dei diritti violati o
insoddisfatti è una lotta di resistenza” (Ferrajoli, 2000).
Bibliografia
Algostino Alessandra, “Sicurezza urbana, decoro delle smart city e poteri del
prefetto”, 2019, nella rivista “Costituzionalismo”, Fasc.1/2019;
Franco Bricola (a cura di), “Il carcere riformato”, Bologna, Il Mulino, 1977;
Ferrajoli Luigi, “Diritto e Ragione. Teoria del garantismo penale”, Bari,
Laterza, seconda edizione 2000.
Pitch Tamar, “Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza”, edizioni
Laterza, gennaio 2013;
Ruga Riva Carlo, “Il prefetto, il brutto e il cattivo: prove atecniche di
neo-ostracismo. Le ordinanze prefettizie sulle zone rosse e il diritto penale
Google Maps”, 13 giugno 2019, sul sito della rivista “Questione Giustizia”.
Note
[1] Si vedano, solo a titolo esemplificativo, le ordinanze del Prefetto di Roma
che furono emanate il 3 marzo ed il 22 aprile del 1977 finalizzate a vietare,
rispettivamente per 15 e 45 giorni, la possibilità di svolgere manifestazioni,
riunioni e cortei nella Capitale.
[2] L’art.16, comma 1, della Costituzione prevede che: “Ogni cittadino può
circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale,
salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di
sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni
politiche”. Come notato dalla migliore dottrina, quest’ultima disposizione
impedisce al legislatore di poter comprendere nel limite della “sicurezza” la
sfera politica, inserendo delle restrizioni della libertà di circolazioni per
fini politici (P. Barile, 1984).
[3] La disciplina del Daspo urbano, prevista dal d.l. n.14/2017 (come modificata
dai d.l. n.113/2018; n.53/2019; n.130/2020; n.123/2023), si caratterizza per una
complessa architettura. Tentandone una tassonomia, possiamo immaginare un genus
che si articola al proprio interno in diverse species: l’ordine di
allontanamento di 48h (art.9 e 10, c.1); il Daspo “semplice” da reiterazione
delle condotte (art.10, c. 2); il Daspo “da recidiva” (art. 10, c. 3); il Daspo
“antispaccio” (art.13); il Daspo “dai locali pubblici” (art.13 bis). Per
maggiori approfondimenti sia consentito rimandare a F. Borlizzi, “Daspo urbano:
uno sguardo sulle questioni giuridiche controverse e un’indagine empirica”, in
Rivista “Antigone, semestrale di critica al sistema penale e penitenziario”
n.1/2022.
[4] Gruppi sociali stigmatizzati e marginalizzati che rischieranno di essere
anche più esposti agli abusi da parte delle forze dell’ordine. Non sarà un caso
che a Milano, mentre l’autorità prefettizia adotta un’ordinanza apertamente
xenofoba che punta il dito contro i giovani razzializzati, emergano nuovi ed
inquietanti dettagli sulla morte, a fine novembre, di un ragazzo -appena
diciannovenne- di origini egiziane, Ramy Elgaml.
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Si stima che in Italia siano circa due milioni i bambini e ragazzi fino ai 17
anni colpiti da disturbi neuropsichiatrici, ma per risollevare i nostri ragazzi
abbiamo già la soluzione pronta: la guerra!
di Marco Sommariva
Spesso riteniamo i problemi d’oggi essere unicamente il prodotto dei nostri
tempi e che una volta non era così.
Per “problemi d’oggi” intendo, per esempio, l’aver ridotto i rapporti umani a
tal punto da non riuscire neppure a immaginare chi abita due piani sopra il
nostro; l’aver deciso che l’unica vera divinità per cui siamo disposti a fare
qualsiasi cosa è il dio “Denaro”; l’aver continuamente bisogno di possedere cose
e, quindi, di produrle per poi scoprire di non avere il tempo necessario per
goderne; pensare sempre e soltanto a noi stessi o, comunque, interessarsi agli
altri solo in termini competitivi o fortemente critici; non essere disposti a
cedere ai più sfortunati neppure la minima parte dei nostri averi; inventare
lavori noiosi che spengono la luce dei nostri occhi; parlare di Dio senza averlo
mai fatto nostro per davvero; correre ininterrottamente di qua e di là perché
abbiamo dimenticato che esistono altre velocità, le stesse che ci farebbero
apprezzare molto di più ciò che abbiamo e ciò che siamo; eccetera.
Io non credo che la frase “ai miei tempi”, che prima o poi a tutti scappa di
dire, significhi che, veramente, a quei tempi, le cose andassero meglio, non ci
fossero tanti problemi; non può esserlo semplicemente perché se quella stessa
frase è stata profferita da almeno quattro generazioni – la mia, quella di mio
figlio, dei miei genitori e dei miei nonni –, significa che nei primi del
Novecento le cose andavano bene così come andavano bene nei nostri anni Zero ma
che poi, purtroppo, il mondo è cambiato e i tempi si sono rovinati.
A dar forza a questa mia banale teoria che non sono i tempi a essersi rovinati
ma che eventualmente già lo erano, c’è un libro che consiglio vivamente;
s’intitola Papalagi che indica, nella lingua samoana, l’uomo bianco.
Questo libro raccoglie tutti i discorsi concepiti esclusivamente per le sue
genti polinesiane da Tuiavii, un saggio capovillaggio delle isole Samoa tedesche
– un protettorato dell’Impero tedesco durato dal 1900 al 1919, nella parte
occidentale delle isole Samoa –, quando compì un viaggio in Europa agli inizi
del secolo scorso e venne a contatto con gli usi e i costumi dell’uomo bianco –
il Papalagi, appunto.
Aveva raccolto le sue impressioni perché dovevano servirgli a mettere in guardia
il suo popolo dal fascino pericoloso dell’Occidente, e sono arrivate a noi a sua
insaputa e contro la sua volontà, perché Erich Scheurmann – conosciuto
soprattutto per aver dato alle stampe nel 1920 proprio Papalagi, in quegli anni
in Polinesia per fuggire dagli orrori della Prima guerra mondiale –, colpito
dalle parole del capovillaggio, decise di offrire “[…] i discorsi di questo
nativo al mondo dei lettori europei […] nella convinzione che anche per noi
bianchi e ‘illuminati’ [potesse] essere importante sapere con quali occhi un
uomo ancora così strettamente legato alla natura vede noi e la nostra civiltà.”
– il passaggio virgolettato è tratto dalla sua prefazione al libro.
E ora credo sia venuto il momento di andare a leggere cosa diceva di noi un
“ester(n)o”, oltre un secolo fa.
Sul sesso: “[…] le membra che si toccano per generare creature per la gioia
della grande Terra, sono peccato. Tutto quel che è carne è peccato.”
Sulle nostre case e la nostra incomunicabilità: “La maggioranza delle capanne
sono abitate da più persone di quante non ce ne siano in un solo villaggio delle
Samoa, e per questo bisogna conoscere bene il nome della famiglia che si vuole
andare a trovare, perché ognuno ha per sé una determinata parte del cassone di
pietra, sopra, sotto, o nel mezzo, a sinistra, a destra o davanti. E una
famiglia spesso non sa niente delle altre, ma proprio niente, come se non ci
fosse tra loro solo una parete di pietra, ma le isole Manono, Apolima e Savaii e
poi molti mari.”
Sul nostro attaccamento al denaro: “Tutti voi potete testimoniare che il
missionario dice: “Dio è amore”. […] Il missionario ci ha mentito, ingannato, il
Papalagi lo ha corrotto perché ci ingannasse con le parole del Grande Spirito.
Perché il metallo rotondo e la carta pesante, chiamati denaro, questi sono la
vera divinità del Bianco.”
Su come monetizziamo tutto: “Ho trovato solo una cosa per la quale non viene
richiesto denaro, della quale se ne può avere quanta se ne vuole: l’aria che si
respira. Ma devo pensare che è solo una dimenticanza, e non esito ad affermare
che se qualcuno potesse udire in Europa queste mie parole, pretenderebbe
immediatamente il metallo rotondo e la carta pesante. Perché tutti gli Europei
cercano sempre nuove scuse per chiedere denaro.”
Su come il denaro ci rovini: “Ho trovato occhi come i vostri solo tra i bambini
del Papalagi, prima che inizino a parlare, perché fino a quel momento non sanno
ancora niente del denaro.”
Sul nostro consumismo: “Più uno è un vero Europeo, più ha bisogno di cose. Per
questo le mani del Papalagi non cessano mai di fare cose. Per questo i volti dei
Bianchi sono spesso così stanchi e tristi […].”
Sulla nostra ricerca spasmodica di tempo che riteniamo non essere mai
abbastanza: “Il Papalagi ama il metallo rotondo e la carta pesante […], ma più
di tutti ama quel che non si lascia afferrare e che tuttavia esiste: il tempo.
Fa tanta scena e discorsi ridicoli, e anche se non ce ne potrà mai essere di più
di quanto non ce ne sia tra l’alba e il tramonto, per lui non è mai abbastanza.”
Su quanto poco abbiamo capito della Vita: “Solo una volta ho incontrato un uomo
che aveva molto tempo e non si lamentava mai per la sua mancanza; ma quest’uomo
era povero, sporco e abbandonato. La gente si teneva alla larga da lui e nessuno
lo rispettava. Non riuscivo a comprendere un tale comportamento: camminava senza
fretta e i suoi occhi sorridevano in modo tranquillo e amichevole.”
Sul nostro egoismo: “Il Papalagi ha un modo di pensare particolare ed
estremamente contorto. (…) Pensa sempre a una sola persona, non a tutte quante.
E questa persona è lui stesso.”
Sulla proprietà privata, il potere e la nostra (in)giustizia: “Ovunque tu vada
dai Papalagi, ovunque tu veda qualcosa nelle sue vicinanze, sia esso un frutto,
un albero, acqua, foresta, un mucchietto di terra, c’è sempre qualcuno che dice:
“Questo è mio! Guardati dal prendere quel che è mio!”. Se tu lo fai, ti urla
contro, ti chiama ladro, una parola che rappresenta una grande vergogna, e solo
perché hai osato toccare il “mio” del tuo prossimo. Accorrono gli amici e i
servitori delle supreme autorità ti mettono in catene e ti portano in prigione,
e sei disprezzato per tutta la vita.”
Sul nostro vivere frenetico: “Quando cavalco attraverso un villaggio, lo supero
velocemente, ma se vado a piedi, vedo di più e gli amici mi chiamano nelle loro
capanne. Arrivare velocemente a una meta è raramente un vero guadagno. Il
Papalagi vuol arrivare sempre in fretta. La maggior parte delle sue macchine
servono unicamente allo scopo di raggiungere velocemente un posto. Una volta
giunto alla meta, una nuova lo chiama. E così il Papalagi attraversa correndo la
sua vita, senza pace, disimpara il piacere di camminare e vagabondare, di
muoversi contento verso la meta che ci viene incontro e che non cerchiamo.”
Su come il lavoro riesca a rovinarci l’esistenza: “Ogni Papalagi ha un lavoro. È
difficile spiegare cosa sia. È un qualcosa che si dovrebbe avere una gran voglia
di fare, ma il più delle volte non se ne ha. Avere un lavoro significa: fare
sempre la stessa identica cosa.”
Su come non si salvi nessuno: “Persino quelli che hanno il compito di parlare di
Dio nelle splendide capanne erette in suo onore, non lo tengono dentro di loro e
le parole scivolano nel vuoto portate dal vento.”
Insomma, così ci vedeva nel 1920 il saggio capo Tuiavii che, pensando all’uomo
bianco, disse: “Rimani lontano da noi, con le tue voglie e i tuoi pensieri, con
l’accumulare ricchezza nelle mani e nella testa, con la frenesia di sovrastare
tuo fratello, con l’insensatezza del tuo fare, con il mulinare delle mani, con
il curioso pensare e sapere, con le follie che rendono inquieto il tuo sonno
sulla stuoia.”
Allora mi chiedo: Non è che non sono i tempi che cambiano ma, molto più
banalmente, siamo noi a viverli in maniera diversa a seconda dell’età che
abbiamo? Ossia, non è che ci godiamo la Vita sino a quando siamo nell’infanzia,
preadolescenza e adolescenza e, poi, entrando nel mondo degli adulti, scopriamo
che la Società che ci ha accolto è marcia fin nelle radici? Nel caso, non
sarebbe una conclusione troppo brillante, lo ammetto. Allora provo ad avanzare
un quesito: Non è che, non contenti di rovinarci l’esistenza dal raggiungimento
della maturità in poi, ora ci stiamo attrezzando per rovinarla all’essere umano
iniziando a colpire i ragazzi a inizio adolescenza o, addirittura, a inizio
pubertà? Nel novembre del 2023 ho letto sul Corriere della Sera che “[…] i
numeri della Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e
dell’adolescenza (Sinpia) sono spaventosi: il 59% delle persone che soffrono di
disturbi alimentari ha un’età compresa tra i 13 e i 25 anni (il 6% ha meno di 12
anni); sono in aumento i comportamenti autolesivi e suicidari (+27% rispetto al
periodo pre Covid).” E ancora: “I disturbi mentali sono in drammatico aumento
[…] tra i giovanissimi: nel mondo ne soffre tra il 10 e il 20% di bambini e
adolescenti e il 50% delle patologie psichiatriche esordisce prima dei 14 anni
di età, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità. Si stima che in Italia
siano circa due milioni i bambini e ragazzi fino ai 17 anni colpiti da disturbi
neuropsichiatrici.”
Ma state tranquilli perché per risollevare i nostri ragazzi abbiamo già la
soluzione pronta: la guerra! Diversamente, non si spiegherebbe come mai, da
tempo, si stia assistendo a un processo di militarizzazione delle scuole: sempre
più spesso, presidi e docenti preferiscono le visite alle basi NATO in Italia,
alle caserme e alle industrie belliche piuttosto che alle città d’arte e ai
musei. Crescono anche le attività didattiche affidate a generali docenti, così
come aumentano gli stage formativi su cacciabombardieri e carri armati o
l’alternanza scuola-lavoro a fianco di reparti delle forze armate o nelle
aziende produttrici di armi.
Bene, la strada per risolvere i problemi dei nostri giovani è oramai intrapresa.
E chissà che dopo gli adolescenti, non s’inizi a dare una mano (armata) anche ai
ragazzini e infine ai bambini, risolvendo i loro futuri eventuali problemi
formandoli subito militarmente, come scriveva nel 1940 Karin Boye, nel suo
romanzo distopico Kallocaina: “[…] l’assistente domestica della settimana aveva
già apparecchiato per la cena e ci aspettava con i piccoli che era andata a
prendere al piano dei bambini. Sembrava una ragazza diligente e a posto e se la
salutammo amichevolmente non era solo perché sapevamo che, come tutte le altre
assistenti domestiche, era tenuta a fornire un rapporto sulla famiglia alla fine
della settimana – in obbedienza a una riforma che, secondo l’opinione generale,
aveva nettamente migliorato l’atmosfera di molte case. L’allegria e il buonumore
si instaurarono immediatamente intorno alla nostra tavola, tanto più che Ossu,
il nostro primogenito, era con noi, essendo la sua sera di permesso di rientro a
casa dal campo d’infanzia. […] Intorno a noi vedevamo coppie dividersi non
appena la loro nidiata di bambini era pronta per il campo d’infanzia – dividersi
e risposarsi per creare nuove nidiate. Ossu, il nostro primogenito, aveva otto
anni, e già da un anno era al campo d’infanzia. Laila, la più piccola, ne aveva
quattro e le restavano ancora tre anni in casa. […] I bambini raccontarono quel
che era successo al loro piano nel corso della giornata. Avevano giocato nella
cassa dei giochi – un’enorme vasca smaltata, di più di quattro metri per lato e
uno di profondità, nella quale potevano lanciare piccole bombe-giocattolo per
incendiare i boschi e i tetti delle case in materiale infiammabile che vi
spuntavano, oppure combattere vere e proprie battaglie navali in miniatura,
riempiendo la vasca di acqua e caricando i cannoni delle minuscole navi con lo
stesso leggero esplosivo usato per le bombe; c’erano perfino le torpediniere.
Era un modo per sviluppare giocando il senso strategico dei bambini fino a
renderlo naturale, quasi istintivo, garantendo al tempo stesso un divertimento
di prim’ordine. Talvolta invidiavo ai miei bambini di crescere con giochi così
perfetti – nella mia infanzia quel leggero esplosivo non era ancora stato
inventato – e veramente non capivo come, nonostante questo, aspettassero con
trepidazione di compiere i sette anni per poter andare al campo d’infanzia, dove
le esercitazioni erano molto più simili a una vera formazione militare e dove si
restava giorno e notte.”
Fosse vero sarebbe preoccupante. In realtà, possiamo dormire sonni tranquilli: è
solo l’estratto di un vecchio romanzo e per di più del genere distopico: come ci
si può preoccupare delle visioni di una scrittrice svedese dello scorso
millennio? Quando mai profezie di romanzi distopici si sono poi avverate, dài!
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La ricchezza aumenta, ma chi ti salta fuori? Il rompicoglioni di sempre. Il
sindacalista.
di Marco Sommariva
A ottobre dell’anno scorso ho letto sul quotidiano Avvenire della protesta di
un gruppo di lavoratori di Campi Bisenzio, dipendenti di due ditte cinesi che
realizzavano borse per l’azienda tedesca Montblanc: immigrati di origine
asiatica – quasi tutti pachistani e afghani – chiedevano di poter continuare a
fare il loro mestiere in condizioni dignitose. La mobilitazione s’è spostata dai
capannoni industriali alle vie del centro di Firenze, dove ha sede la boutique
che, accanto alle storiche penne, vende borse e altri oggetti di pelletteria.
Nel frattempo, altri presidi erano stati organizzati davanti ai negozi di
Milano, in galleria Vittorio Emanuele, e a quelli di Napoli, Roma, Bologna e
Verona.
In quell’occasione, il sindacato Sudd Cobas aveva denunciato “la vergogna di
operai pagati tre euro l’ora per turni di dodici ore al giorno che producono
borse da 1.700 euro” e chiesto alla Regione Toscana di convocare al tavolo il
gruppo Richemont, proprietario del marchio Montblanc, in merito alla vicenda del
taglio e successivo azzeramento delle commesse alle ditte cinesi: scelta non
dettata da motivazioni di carattere produttivo, ma da una ritorsione rispetto
alla mobilitazione sindacale avviata nel 2023 per chiedere salari e orari equi.
Riguardo la spinosa situazione creatasi, il gruppo svizzero Richemont – uno dei
giganti del lusso mondiale specializzato in gioielli, orologi e accessori di
moda con un fatturato di oltre 20 miliardi di euro e un utile operativo di quasi
cinque miliardi nel 2024 – parrebbe aver rilasciato, all’epoca, la sola
dichiarazione che l’interruzione del rapporto con le due ditte è il risultato
del loro mancato rispetto del codice etico del Gruppo.
Il 21 gennaio scorso, il quotidiano La Nazione – titolando l’articolo Montblanc
chiede il ’daspo sindacale’ – è tornato sull’argomento per informare che, per
tutelare “la propria reputazione”, il brand del lusso ha richiesto al Tribunale
di Firenze (Sezione Civile) di emettere nei confronti del Sudd Cobas un divieto
a manifestare nel raggio di cinquecento metri dalla boutique di via Tornabuoni,
nel salotto buono di Firenze, pena sanzioni da cinquemila euro.
Da una parte, Montblanc accusa il sindacato e alcuni suoi appartenenti d’aver
“ripetutamente formulato, e continuano a formulare, accuse false e diffamatorie
nei confronti dell’azienda in merito a presunte condotte scorrette nei confronti
dei dipendenti di un ex fornitore”; dall’altra, i Sudd Cobas accusano Montblanc
d’aver “deciso di scrivere una delle pagine più indegne della storia delle
politiche antisindacali di questo paese”.
Ho provato a parlare di questa vicenda con amici e colleghi, ma nessuno era a
conoscenza dell’episodio e, per il sottoscritto, già questo è un interessante
argomento su cui riflettere.
Informati a grandi linee dell’accaduto, ho raccolto diversi commenti.
C’è chi mi ha detto che è tutto inutile, che la protesta di questi lavoratori
non servirà a nulla, ma non mi hanno convinto: ero e resto d’accordo con quanto
scritto da Stig Dagerman nel suo libro La politica dell’impossibile: “[…] è
necessario ribellarsi, attaccare questo ordine nonostante la tragica
consapevolezza […] che ogni difesa e ogni attacco non possono essere altro che
simbolici. E tuttavia devono essere tentati, se non altro per non morire di
vergogna”.
Ecco, intanto s’inizi a non morire di vergogna, prima di morir di fame.
C’è chi ha detto che i sindacalisti che si stanno esponendo rischiano grosso e
su questo, invece, son d’accordo: “Conosco l’ambiente dell’industria, perché
l’ho visto, sono entrato nelle fabbriche, nelle officine; ho visto i padroni
seduti al tavolo delle trattative o nel proprio ufficio, mi hanno indicato le
loro case, mi hanno mostrato le loro proprietà, ho visto le loro auto davanti
alla fabbrichetta, e sono entrato nei loro negozi; […] uno l’ho guardato da
vicino, vicinissimo, quando ha tentato di investirmi” – scriveva Paco Ignacio
Taibo II nella sua raccolta di racconti intitolata E doña Eustolia brandì il
coltello per le cipolle.
C’è anche chi ha detto il contrario, ossia che i sindacalisti sono quelli che
rischiano meno di tutti perché, a breve, verranno sicuramente avvicinati da
“qualcuno” e convinti a passare dall’altra parte della barricata, e questa
purtroppo non è una novità: “[…] ti buttano addosso merda a palate, e poi ti
dicono, vieni con noi, qui c’è un buon posto, farai i soldi in fretta… ma quello
che vogliono da te è che diventi obbediente come un cane, e che tutto quello che
hai imparato come sindacalista lo usi per controllare i lavoratori” – ancora
Taibo II.
C’è anche chi ha detto a chiare lettere che i sindacalisti sono solo dei
rompicoglioni, un po’ come scriveva il buon Valerio Evangelisti nel suo bel
romanzo One Big Union: “Siamo usciti dalla crisi della fine degli anni Novanta.
Stiamo entrando in un periodo di prosperità. C’è lavoro, si produce, la
ricchezza aumenta. I poveri non sono più per strada a fare lavori inutili,
disposti da sindaci e governatori troppo buoni. E chi ti salta fuori? Il
rompicoglioni di sempre. Il sindacalista, il socialista, l’anarchico”.
In One Big Union, il protagonista – un giovane meccanico americano, religioso,
affezionato alla famiglia, con pregiudizi razziali e un patriottismo che
sconfina nel nazionalismo – s’infiltra nei sindacati col fine di combattere gli
scioperi e riportare la disciplina fra i lavoratori, per conto di agenzie
investigative come la Pinkerton e la Burns (da cui nascerà l’FBI) – agenzie
pagate da industriali e grandi proprietari. Attraverso le sue vicissitudini, si
seguono i grandi scioperi dei ferrovieri di fine Ottocento sino all’epopea, nei
primi vent’anni del Novecento, dell’Industrial Workers of the World,
l’organizzazione che cercò di unificare gli operai precari e non specializzati
di tutte le etnie, usando armi inedite quali i volantini multilingue, la canzone
e il fumetto.
Ma torniamo agli operai precari di tutte le etnie dei giorni nostri.
Fra le varie reazioni, c’è stato anche chi ha sostenuto che il sindacato
continua ad avere troppo potere, e così mi è venuto in mente 1985,
l’interessante romanzo di Anthony Burgess basato sull’opera di George Orwell,
1984, da cui trae spunto per il titolo. È un libro dove, in un futuro dominato
dai sindacati e oramai completamente allo sfascio, il protagonista decide di
non sottostare alla disciplina collettiva e così, dopo aver ascoltato le ultime
parole della moglie bruciata viva in un ospedale durante uno sciopero dei
pompieri – «Non permettere che vadano impuniti» –, inizia la sua lotta
solitaria, caparbia e disperata, in nome della libertà di scelta tra il bene e
il male, tra il giusto e l’ingiusto, tra la volontà e la convenienza.
Ascolto tutti, son fatto così.
Ascolto tutti, ragiono sull’elucubrazioni altrui e poi vedo cosa m’è rimasto in
mano.
Stavolta resto con la sensazione che, tempo fa, per non danneggiare la propria
immagine, una ditta come la Montblanc non si sarebbe avventurata in una querelle
di questo genere e che se, invece, oggi succede è perché s’è pensato che, al
contrario, l’immagine non solo non verrà danneggiata ma, chissà, magari ne
trarrà addirittura qualche giovamento, un beneficio. Ma, ripeto, è solo una mia
personalissima sensazione, frutto anche dei commenti da me raccolti, poco o
nulla in sintonia coi lavoratori pachistani e afghani.
Purtroppo, è tutto qui quanto m’è rimasto in mano.
Se penso alle marce e alle battaglie ferocissime ascoltate, viste e vissute per
decenni, per la conquista di diritti sociali e civili…
Meno male che i Miei non son più qui a veder tutto ‘sto sfacelo.
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Un giorno scopriremo d’aver consegnato un potere immane a chi ha deciso di
deportare in massa i vecchi o a chi ha deciso di deportare in massa su un
pianeta-penitenziario, tutti coloro che sulla Terra disturbano l’equilibrio
della società.
di Marco Sommariva
Leggo che ieri, 20 gennaio 2025, Donald Trump ha detto e poi ripetuto che “l’età
dell’oro dell’America comincia in questo momento”; l’ha fatto all’inizio e alla
fine del discorso d’inaugurazione che voleva celebrare la rinascita di un Paese
“forte, ricco, sicuro, in crescita e in espansione territoriale, e che nessuno
potrà fermare”.
Fra le tante cose, “Trump ha anche promesso di «riprendersi il canale di Panama»
[…] di mettere fine alle politiche ecologiche del New deal verde (e alle quote
di veicoli elettrici fissate da Joe Biden) per dichiarare una «emergenza
energetica nazionale» che autorizzerà la più grande trivellazione di petrolio e
gas della storia [e che questa] ondata di «oro liquido» finanzierà a sua volta
un’espansione dell’apparato militare americano che metterà gli Stati Uniti in
condizione di «vincere come non mai»”.
Non che quanto sopra m’abbia sorpreso, sia chiaro: duranti i mesi scorsi, spesso
s’era letto delle intenzioni del tycoon, deportazione di massa compresa.
In un articolo pubblicato il novembre scorso su Avvenire avevo letto che,
durante la campagna elettorale, Donald Trump aveva promesso che la deportazione
di massa non porterà che benefici: “Ci libereremo dai criminali e i salari dei
cittadini statunitensi smetteranno di scendere” – la deportazione di massa in
questione prevedeva l’arresto, detenzione ed espulsione dagli Stati Uniti di
circa undici milioni d’immigrati.
L’articolo proseguiva facendo presente che gli esperti di immigrazione mettevano
in dubbio la riuscita di un’operazione del genere, sottolineando il fatto che
presentava ostacoli, costi ed effetti negativi enormi.
Non vorrei dilungarmi troppo su ostacoli, costi ed effetti negativi, ma ammetto
di non esser rimasto indifferente nel leggere che, logisticamente, arrestare
detenere ed espellere undici milioni circa di persone è “un’impresa ciclopica,
impossibile da realizzare nei quattro anni di mandato di Trump” – parole di
Aaron Reichlin-Melnick, direttore dell’American Immigration Council – e che, più
nello specifico, ogni anno, per deportare un milione di immigrati, servirebbero
ottantotto miliardi di dollari.
Mi ha pure impressionato leggere che “se effettivamente l’operazione riuscisse,
i ricercatori concordano che equivarrebbe a un «disastro economico» per gli
Stati Uniti. La rimozione dalla forza lavoro di così tante persone comporterebbe
infatti perdite di decine di miliardi di dollari in tasse federali e statali e
in contributi previdenziali, oltre a 256 miliardi di dollari di potere di spesa
degli immigrati stessi” oltre al fatto che “il contraccolpo dell’assenza di
manodopera sarebbe sentito con forza anche nell’ambito dell’ospitalità, delle
pulizie, della produzione manifatturiera e dei servizi agli anziani […] le
cucine dei ristoranti si svuoterebbero, e nessuno pulirebbe più le stanze degli
alberghi”.
Ma la cosa che più di tutto mi ha spaventato è stato l’utilizzo della parola
deportazione: “President-elect Donald Trump intends to launch a «light speed»
mass deportation campaign as soon as he «puts his hand on that Bible and takes
the oath of office», top aide Stephen Miller has boasted”, ossia, “Il presidente
eletto Donald Trump intende lanciare una campagna di deportazioni di massa «alla
velocità della luce» non appena «metterà mano su quella Bibbia e presterà
giuramento», si è vantato il principale aiutante Stephen Miller”.
Per la Treccani, il significato di deportazione è la “pena mediante la quale il
condannato viene privato dei diritti civili e politici, allontanato dal luogo
del commesso reato o di residenza e relegato in un territorio lontano dalla
madrepatria”, e a questo punto mi vengono in mente le parole di Albert Camus
che, nel ’58, scrisse: “Per ristabilire la giustizia necessaria, esistono altre
vie che non siano la sostituzione di un’ingiustizia con un’altra ingiustizia” –
una frase presa da un libro intitolato Ribellione e morte, che raccoglie diversi
suoi saggi politici.
Di questo volume vale la pena ricordare altre due affermazioni dello scrittore e
filosofo francese, stavolta datate 1948: “Tutti, con poche eccezioni di mala
fede, da sinistra a destra, pensano che la propria verità sia la più adatta a
rendere felici gli uomini. Tuttavia, tutte queste buone volontà congiunte
mettono capo a un mondo infernale dove gli uomini sono ancora uccisi,
minacciati, deportati, dove si prepara la guerra e dove è impossibile dire una
parola senza essere subito insultati o traditi” e “Soffochiamo tra gente che
crede di aver assolutamente ragione, ragione in nome delle macchine o delle
idee”.
Ricordo bene le deportazioni di milioni di persone in lager, gulag e strutture
similari, ma ho deciso di non avventurarmi in qualsivoglia parallelismo perché
sono certo finirei col commettere errori e sono altrettanto sicuro che, coi
tempi che corrono, a nulla servirebbe spiegare la mia buonafede.
Detto questo, torno a ragionare sulla “deportazione” chiedendo aiuto alla
letteratura. Nel 1971 viene pubblicato un romanzo di Friedrich Dürrenmatt, La
caduta; è un libro spietato in cui l’autore mette a nudo le ipocrisie e le
ambiguità delle strutture al potere, dove gli uomini più potenti di un partito
al potere di un paese imprecisato ne decidono le sorti stando comodamente seduti
intorno a un tavolo: “I tredici del segretariato politico disponevano di un
potere immane. Decidevano le sorti di quell’immenso impero, mandavano
innumerevoli persone in esilio, in carcere e alla morte, intervenivano
nell’esistenza di milioni di cittadini, facevano nascere industrie intere dal
nulla, deportavano famiglie e popoli, fondavano grandi città, reclutavano
eserciti innumerevoli, imponevano la guerra o la pace, ma poiché il loro istinto
di conservazione li costringeva a spiarsi a vicenda, le simpatie e le antipatie
che provavano l’uno per l’altro influenzavano le loro decisioni assai più che i
conflitti politici e le circostanze economiche a cui si trovavano di fronte. Il
potere e di conseguenza il terrore reciproco erano troppo grandi per poter fare
della pura politica. La ragione non riusciva a spuntarla”.
È così, non c’è dubbio, chi dispone di un potere immane può intervenire
nell’esistenza di milioni di persone, deportare popoli interi. È così, la Storia
lo insegna. Il problema è che siamo noi a non essere in grado d’imparare, e alla
fine commettiamo sempre gli stessi errori, consegniamo poteri immani nelle mani
di qualcuno.
Un giorno scopriremo d’aver consegnato un potere immane a chi ha deciso di
deportare in massa i vecchi, così come racconta l’argentino Adolfo Bioy Casares
nel suo romanzo del ’69, Diario della Guerra al Maiale, dove i giovani di Buenos
Aires decidono un bel giorno che chiunque abbia più di cinquant’anni è inutile
alla società scatenando, così, una strana e misteriosa guerra durante la quale,
per una settimana, i giovani s’impegnano a dare la caccia ai vecchi, e a
sterminarli: persino il loro erotismo verrà considerato pura perversione,
un’oscenità da eliminare. Nel Diario della Guerra del Maiale i vecchi si vedono
costretti a improvvisare una difesa disperata: imparano a muoversi per la città
in orari improbabili e a vivere nascondendosi dai giovani, compresi i loro
figli: “In questi giorni ho sentito parlare di un progetto di compensazione:
l’offerta, alla gente anziana, di terre nel Sud”, “Lo dicano chiaramente e
direttamente che vogliono deportare in massa i vecchi”.
Un giorno scopriremo d’aver consegnato un potere immane a chi ha deciso di
deportare in massa su un altro pianeta i ribelli, i criminali, i
non-conformisti, tutti coloro che sulla Terra disturbano l’equilibrio della
società, tutti quanti spediti su un pianeta-penitenziario e qui, magari,
lasciati in totale libertà, nessuna prigione, niente celle, sbarre o carcerieri,
si regolino a loro piacere, s’ammazzino pure: sarà mica per questo che, durante
il suo discorso d’insediamento, Trump ha nuovamente ricordato che gli U.S.A.
pianteranno la loro bandiera su Marte? Gli appassionati di fantascienza avranno
già capito che questa mia elucubrazione s’è ampiamente ispirata al romanzo del
1960 di Robert Sheckley, Gli orrori di Omega, dove, tra le altre cose, si
racconta di astronavi che pattugliano l’orbita del pianeta-penitenziario perché
i galeotti non abbandonino il mondo su cui son stati esiliati: sarà mica per
questo che due amici di Trump – Jeff Bezos ed Elon Musk – hanno dato vita alla
corsa allo spazio, a una sfida stellare?
Dico che Bezos e Musk sono amici di Trump perché, insieme a Mark Zuckerberg e
Tim Cook, c’erano anche loro accanto al tycoon durante l’Inauguration Day. Spero
mi perdonerete se vi confido che quest’immagine del neopresidente degli Stati
Uniti e di questi quattro signori, mi ha fatto venire in mente il discorso
d’insediamento a Cancelliere del Reich di Adolf Hitler quando, a Berlino, nel
febbraio del 1933, orbitavano intorno al fuhrer personaggi quali Josef Goebbels,
Hermann Goering, Heinrich Himmler e Rudolf Hess; chiedo sinceramente scusa per
questo mio corto circuito, ma credo sia scaturito per via del fatto che, così
come Hitler nel ‘33 preannunciava durante il discorso d’insediamento il suo
piano per riportare grande la Germania, similmente Trump ha preannunciato
durante il discorso d’insediamento il suo piano per riportare grande gli Stati
Uniti d’America; ma, molto probabilmente, la più grande responsabilità di questa
mia fantasia poco ortodossa e assai irrispettosa, lo ammetto, sarebbe da
addebitare all’aver assistito al saluto romano di Musk dal palco di Washington
dopo il discorso di Trump. Anche se, alla fin fine, “quel gesto, che alcuni
hanno scambiato per un saluto nazista, è semplicemente Elon, che è autistico,
che esprime i suoi sentimenti”, come dice il referente di Musk in Italia, Andrea
Stroppa.
E nulla cambia se, alla fine, i saluti col braccio destro alzato e il palmo
della mano rivolto verso il basso dovessero risultare due e non uno: sono certo
nulla c’entrino simpatie come quella dimostrata verso l’Alternative für
Deutschland – partito politico tedesco di estrema destra –, ma che si tratti di
sana e genuina esternazione di entusiasmo e felicità, insomma, di semplice
espressione di sentimenti.
La grandezza della Germania… quella degli Stati Uniti d’America… le deportazioni
di massa… mi viene in mente cosa scrisse Orwell: “Tutti i nazionalisti hanno la
straordinaria capacità di non cogliere la rassomiglianza tra serie simili di
fatti. […] Le azioni non sono buone o cattive di per sé ma in relazione a chi le
compie e non esiste quasi alcun genere di violenza – la tortura, l’uso di
ostaggi, il lavoro forzato, le deportazioni di massa, l’arresto indiscriminato,
la mistificazione, l’assassinio, le bombe sugli inermi – che non cambi
significato morale se commessa dalla “nostra” fazione” – frase tratta da una
raccolta di suoi saggi intitolata Nel ventre della balena.
Data la mia personalissima impressione che le nuove ideologie sembrino
assomigliarsi sempre più a quelle vecchie, chiuderei con un’altra frase di
Camus, anche questa del ‘48: “non si tratterebbe di edificare una nuova
ideologia, ma soltanto di ricercare uno stile di vita. […] per parlare con più
concretezza […] opporre, in ogni circostanza, l’esempio alla forza, la
predicazione alla dominazione, il dialogo all’insulto e il semplice onore
all’astuzia […]”.
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