Ai capi di Stato e di governo che oggi lo celebrano vanno ricordate le sue
parole dell’ultima benedizione ’urbi et orbi’: «Nessuna pace è possibile senza
il disarmo». Per Francesco i migranti sono oggi le vittime delle nostre
’strategie’ che hanno diviso in due l’umanità: chi viaggia libero e chi è in
fuga da fame e guerre ed è alla fine ancora cacciato. Il suo amore sincero e
incondizionato verso i detenuti, i migranti, i poveri, i popoli oppressi. Di
qualunque religione o provenienza essi fossero. Per la sua parola gentile ma
ferma, che nei tempi bui dell’egoismo e del razzismo, della guerra e della
sopraffazione, è sempre stata un messaggio positivo. Di speranza. Di giustizia.
Di eguaglianza.
di Luigi Ferrajoli da il manifesto
Papa Francesco ha impersonato, in questi tempi bui e tristi, la coscienza morale
e intellettuale dell’intera umanità. Non è esistito, prima di lui, un altro Papa
che con altrettanta forza, lucidità e passione abbia riproposto il messaggio
evangelico. Denunciando tutte le grandi sfide e catastrofi dalle quali dipende
il futuro dell’umanità: le terribili e crescenti disuguaglianze globali e
sociali, l’orrore delle guerre, le aggressioni che un capitalismo selvaggio e
predatorio sta recando al nostro ambiente naturale.
Innanzitutto le disuguaglianze. Nella sua enciclica Fratelli tutti del 3 ottobre
2020, Papa Francesco ha richiamato i valori della fraternità universale, della
solidarietà e dell’uguale dignità di tutti gli esseri umani, violentemente lesi
dalla crescita esponenziale delle grandi ricchezze e delle sterminate povertà.
È nella figura dei migranti che Francesco ha identificato le vittime oggi più
emblematiche delle nostre politiche disumane, che hanno diviso in due il genere
umano: un’umanità che viaggia liberamente nel mondo, per turismo o per affari, e
un’altra umanità, dei sommersi e degli esclusi, costretti dalla fame o dalle
guerre a terribili odissee, fino a rischiare la vita per arrivare nei nostri
paesi dove sono destinati a detenzioni illegittime o a sfruttamenti razzisti
come non-persone.
È una vergogna che Papa Francesco non si è mai stancato di denunciare. La visita
a Lampedusa nel luglio 2013, con la quale egli inaugurò il suo pontificato, fu
un atto d’accusa nei confronti dei nostri governi che, come disse nella sua
omelia, trasformano «una via di speranza» in «una via di morte». E fu anche una
severa condanna della «globalizzazione dell’indifferenza, che ci ha tolto la
capacità di piangere».
In secondo luogo le guerre, con il loro «potere distruttivo incontrollabile che
colpisce», egli scrisse in Fratelli tutti, soprattutto «civili innocenti». «Ogni
guerra – aggiunse – è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa
vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male».
Ai capi di stato e di governo che celebrano oggi la sua scomparsa, vanno
ricordate le sue ultime parole, pronunciate ieri nella benedizione urbi et orbi:
«Nessuna pace è possibile senza il disarmo». È questa, infatti, la sola garanzia
della pace. Senza le armi le guerre sarebbero impossibili, cesserebbe la potenza
delle organizzazioni criminali e crollerebbe il mezzo milione di omicidi ogni
anno nel mondo.
Ricordo perciò con commozione il messaggio che Papa Francesco inviò al convegno
contro le guerre, promosso dalla nostra Costituente Terra il 23 maggio dell’anno
scorso. In esso egli affermò che il principio della pace, enunciato in tante
carte internazionali, «serve realmente nella misura in cui è effettivo e produce
cambiamenti nella realtà del mondo» quali sarebbero, appunto, la messa al bando
della produzione e del commercio di tutte le armi, lo scioglimento delle attuali
imprese produttrici di morte, in breve il disarmo globale e totale.
Esprimendo il suo apprezzamento per il “progetto di una Costituzione della
Terra”, Papa Francesco ci scrisse, sul disarmo e le garanzie dei diritti umani,
che “nessuno può sentirsi estraneo a ciò che succede nella nostra casa comune. È
qui che il diritto deve attuarsi e rendersi effettivo, differenziandosi dalle
mere dichiarazioni di principio”.
Infine la questione ecologica, alla quale è dedicata l’enciclica forse più bella
e famosa di Papa Francesco, la Laudato si’ del 24 maggio 2015. “La sfida
ambientale” è in essa concepita come un fattore di unificazione dell’umanità e
la fonte di una «nuova solidarietà», giacché «le sue radici umane ci riguardano
e ci toccano tutti».
Ma questa sfida è generata proprio dall’irresponsabile assenza di solidarietà:
«Si producono centinaia di milioni di tonnellate di rifiuti l’anno: rifiuti
domestici e commerciali, detriti di demolizioni, rifiuti clinici, elettronici o
industriali, rifiuti altamente tossici e radioattivi. La terra, nostra casa,
sembra trasformarsi sempre più in un immenso deposito di immondizia». Tutto
questo, scrive Papa Francesco, è dovuto al fatto che «l’economia assume ogni
sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza prestare attenzione a
conseguenze negative per l’essere umano». Non solo.
«L’energia nucleare, la biotecnologia, l’informatica, la conoscenza del nostro
stesso Dna e altre potenzialità che abbiamo acquisito ci offrono un tremendo
potere. Anzi, danno a coloro che detengono la conoscenza e soprattutto il potere
economico per sfruttarla un dominio impressionante sull’insieme del genere umano
e del mondo intero. Mai l’umanità ha avuto tanto potere su se stessa e niente
garantisce che lo utilizzerà bene».
Al contrario, è lecito supporre che lo utilizzerà malissimo, se non altro,
scrive ancora Francesco, per l’illusione dominante «di una crescita infinita o
illimitata», la quale «suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei
beni del pianeta, che conduce a ‘spremerlo’ fino al limite e oltre il limite».
Oggi questa voce rivoluzionaria si è spenta, generando un dolore profondo tra
credenti e non credenti e lasciando un vuoto enorme in tutto il mondo dei
difensori dei diritti umani, della pace e della natura. Ma i suoi insegnamenti
sono per tutti un’eredità preziosa, e la loro difesa e la loro attuazione sono
il miglior omaggio che potremo rendere alla sua memoria.
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Tag - Editoriale
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con la firma apposta sul
decreto legge “sicurezza” legittima una pericolosa deriva autoritaria e solleva
interrogativi inquietanti sul ruolo del garante della Costituzione.
di Federico Giusti
E puntualmente quello che dovrebbe essere il sommo garante della Costituzione,
il presidente della Repubblica Mattarella, ha firmato il decreto sicurezza con
14 nuove fattispecie di reato e nove circostanze aggravanti, ora ci saranno 60
giorni di tempo per la conversione in legge pena la decadenza. E il vero
paradosso è rappresentato dalle norme di questo decreto che ad avviso di
giuristi, docenti universitari, ricercatori sociali, mira a scardinare i
principi costituzionali in materia di pena e ricorso al carcere, limita le
libertà collettive e utilizza la decretazione di urgenza impropriamente.
Di motivi, anche solo per prendere tempo e approfondire gli argomenti, ve ne
sarebbero stati a sufficienza ma a quanti pensano che la democrazia italiana
abbia al suo interno regole e meccanismi sufficientemente forti da
salvaguardarla ricordiamo che cullarsi sulle illusioni, nella storia recente e
passata, ha spianato la strada ad autentici drammi.
Dopo mesi di caos, inclusa la mancata copertura economica del pacchetto
sicurezza, senza prestare ascolto a giuristi, docenti e avvocati che avevano
ripetutamente denunciato i contenuti della proposta chiedendone la sospensione e
il ritiro, Il Governo ha accelerato i tempi sottraendone la discussione al
Senato .
Alcuni penalisti evidenziano da quasi un anno il carattere repressivo e
securitario dietro all’operato del Governo che in sostanza lascia inalterato il
testo approvato alla Camera nel settembre 2024 cambiandone solo alcuni aspetti
di secondaria rilevanza e così discutibili da essere facili oggetto di
contestazione.
Eppure proprio la Carta Costituzionale imporrebbe un ricorso assai limitato alla
decretazione d’urgenza specie quando gli effetti sulle libertà individuali e
collettive risultano particolarmente forti senza dimenticare che la stessa
nozione di sicurezza, in origine, non faceva esclusivo affidamento sul codice
penale guardando all’aspetto rieducativo della pena stessa e alla necessità di
costruire degli interventi sociali per le classi meno abbienti.
Quando uno stato di diritto si trasforma in stato penale la nozione di sicurezza
diventa solo sinonimo di percorsi repressivi e securitari
E questa premessa, per altro attuale, si rende necessaria alla luce di quanto
avvenuto nella manifestazione milanese di solidarietà alla Palestina tenutasi a
Milano il 12 Aprile scorso e oggetto di una vibrata denuncia in conferenza
stampa da parte degli organizzatori (rinviamo al sito del sindacato Cub).
A Milano c’è stato non solo un inutile e spropositato intervento delle forze
dell’ordine che hanno diviso il corteo e fermato alcuni attivisti ma allo
stesso tempo si è esplicitata la volontà di occultare le ragioni della protesta
. La gestione delle piazze da settimane sta diventando sempre più critica e con
l’arrivo delle nuove norme la situazione non potrà che peggiorare a mero e solo
discapito della democrazia e delle agibilità collettive.
Nel corso di una breve carica per dividere il corteo molti giornali hanno
mostrato immagini che ci riportano al G8 di Genova, oggi come allora al Governo
e al Viminale c’erano esponenti delle destre. La nostra impressione è che si
voglia trasformare in ordine pubblico ogni forma di dissenso e di opposizione
per scatenare la repressione di piazza da un lato e l’applicazione di norme
securitarie dall’altra.
Ma come avvenne nelle giornate genovesi all’interno delle forze dell’ordine, ad
oggi privi di codici indentificativi che permetterebbero di risalire
direttamente ai singoli agenti, erano presenti, con tanto di casco della Polizia
e manganello di ordinanza, alcuni uomini in borghese, uno dei quali con una
felpa sulla quale campeggiava la scritta in polacco “Narodowa Duma”, cioè
Orgoglio Nazionale, simbolo di gruppi di estrema destra con simpatie fasciste e
naziste.
La notizia, diffusa da giornali nazionali con ampio corredo di foto, ha
determinato l’apertura di una inchiesta da parte della Digos che avrebbe già
individuato almeno uno degli agenti immortalati. Tuttavia alcune domande restano
senza risposta:
* per quale ragioni il reparto è entrato all’interno del corteo come
denunciato dagli organizzatori?
* chi ha dato l’ordine di intervenire?
* Nessuno si era accorto delle felpe?
* E l’agente fotografato diventerà il facile capro espiatorio senza esigere
spiegazioni dai vertici locali e nazionali dell’ordine pubblico?
Un secondo agente è stato poi ripreso dalle telecamere e dai giornalisti con
indosso un’altra felpa che rinvierebbe a un gruppo ultras di estrema destra
polacco.
Perché nel corso di un corteo degli agenti in servizio indossavano felpe con
simboli di estrema destra?
Non ci interessa parlare del singolo agente, saremmo invece interessati a
conoscere perchè quella felpa sia stata ignorata per tante ore, siamo invece
interessati a denunciare un sistema fin troppo permeabile alla presenza di
ideologie con connotati nazisti o fascisti. E non si parli ancora una volta di
casualità
Nel recente passato è stata evidente la copertura politica verso l’operato
ingiustificato delle forze dell’ordine oggetto di denuncia e condanna nei
tribunali nazionali ed internazionali. sarebbe sufficiente documentarsi sul G8
di Genova per ricavare molte ed esaustive informazioni sulla sospensione, in
quei giorni, dello stato di diritto. E visto che la storia resta maestra di vita
possiamo ancora sminuire o ridicolizzare le innumerevoli denunce pubbliche di
quanti ritengono oggi la democrazia in pericolo con l’arrivo del decreto
sicurezza?
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Ho licenziato Dio gettato via un amore per costruirmi il vuoto nell’anima e nel
cuore, le parole che dico non han più forma né accento si trasformano i suoni in
un sordo lamento. Chi mi riparlerà di domani luminosi dove i muti canteranno e
taceranno i noiosi? Come potrò dire a mia madre che ho paura? (F. De André)
di Marco Sommariva*
Non posso dire sia vero che tutti coloro che iniziano a fumar le canne finiranno
certamente col bucarsi: ho amici miei coetanei che da oltre quarant’anni le
fumano e mai è venuto loro in mente di prendere in mano una siringa – c’è chi le
fuma insieme al padre ultraottantenne; chi, invece, le fuma in giardino col
figlio quasi trentenne, lo stesso che le rulla.
È vero, però, che chi si avvicina alle droghe potrebbe fare una brutta fine;
questo, già lo scriveva Jim Carroll in Jim entra nel campo di basket, pubblicato
nel 1978 ma scritto nel ’62 quando l’autore, tredicenne, annotava sul suo diario
quello che stava vivendo: “Poi ci siamo noialtri ragazzi di strada che
cominciamo a cazzeggiare da molto giovani, sui tredici, e crediamo di poter
tenere la testa sopra l’acqua e di non prendere l’abitudine. Funziona raramente.
Ne sono la riprova io. Così dopo due o tre anni di controllo, finisco
nell’ultimo atto: con la scimmia e niente altro da fare che passare tutta la
giornata a caccia di droga. In qualunque maniera, va bene tutto, ragazzi. Non ci
sono Coste Azzurre e non ci sono mamme ricche da cui correre. Sai quando ci sei
dentro definitivamente perché è la volta che svegliandoti la mattina te lo dici
chiaro e tondo, senza mezzi termini: Oggi o mi trovo la mia dose o finisco a
farmi spaccare il culo ai Tombs, non ci sono cazzi”.
Il fare marchette è una costante di chi ha intrapreso la strada della “brutta
fine”: quarant’anni fa, alcuni miei commilitoni se lo andavano a far succhiare
in stazione, a Udine, da uomini che potevano essere i loro nonni ma viaggiavano
col BMW e tenevano chiuse le maniche delle camicie con gemelli d’oro, non coi
bottoni; vent’anni fa, un’amica che s’è fatta per vent’anni di eroina, s’è
concessa per un pugno di spiccioli a non sa neanche lei quante persone pur di
tirare su la dose quotidiana, anzi, le dosi quotidiane; oggi la figlia di
un’amica dorme per terra, sui cartoni, nel Centro Storico di Genova e, oltre a
un paio di stupri subiti come “incerti del mestiere”, si fa “spaccare” per cifre
che valgono giusto il prezzo di una colazione.
Ma così è, non c’è nulla da fare; scrive in Peggio di un bastardo.
L’autobiografia, Charles Mingus: “hai voglia di farti, e stai male, e non c’è
nessuno che ti aiuta, e giri come un morto vivente senza quella roba nel braccio
che ti alleggerisce il fardello. E ogni volta è sempre più dura e non hai più la
forza di volontà e allora ti fai di nuovo. Sei incazzato con te stesso, ti odi
perché non ce la fai – vuoi farcela senza la droga ma ti fai da così tanto tempo
che hai già un piede nella tomba. Quando ti buchi dimentichi per un po’ ma il
tempo dell’oblio si accorcia sempre più e alla fine arrivi a cento milligrammi
ogni quattr’ore”.
Come per tutti i Mercati, anche quello della droga si muove, cresce e offre in
funzione del consumo, della richiesta; per questo, sono almeno vent’anni che
spacciano droga insospettabili commesse di panifici o pizzerie al taglio che,
mentre sorridono alle mamme che si portano via due pezzi di una Quattro
stagioni, riforniscono i figli di cocaina: “Ho sempre pensato che i narcotici
dovrebbero essere legalizzati per evitare tutti i problemi dello spaccio” –
questo lo scrive Miles Davis nella sua Miles. L’autobiografia.
Lo stesso libro ci ricorda come la differenza di classe – ergo, disponibilità
economica – pesi anche in questo ambiente; forse dovrei scrivere, soprattutto in
questo ambiente: “Per la maggior parte di questi quattro o cinque anni in cui
sono stato fuori dalla musica, mi sono fatto un casino di cocaina (più o meno
cinquecento dollari al giorno a un certo punto) e mi sono scopato tutte le donne
che riuscivo a portarmi a casa. Ero anche dipendente da tutta una serie di
pillole tipo il Percodan e il Seconal, e bevevo parecchio, Heineken e cognac.
Più che altro tiravo coca, ma qualche volta mi iniettavo un mix di coca ed
eroina nelle gambe. Si chiama speedball ed è stato quello che ha ammazzato John
Belushi. Non uscivo molto spesso e quando lo facevo era per andare in quei
locali di Harlem aperti fino a tarda notte dove mi drogavo e vivevo alla
giornata”.
Per chi ha praticato e ora sta pensando “Non diciamo sciocchezze, ho pippato non
so quante volte e son sempre stato benissimo”, riporto un altro estratto
dell’autobiografia di Miles Davis: “Cazzo, certe volte dopo aver sniffato e aver
mandato giù sette o otto Tuinal davo fuori di matto; pensavo di sentire delle
voci e cominciavo a guardare sotto i tappeti, nei termosifoni, sotto i divani.
Ero sicuro che ci fosse gente in casa”.
Perché è questo quello che, spesso, succede: l’uso della cocaina quasi mai è
l’ultima casella di questo tragico osceno gioco: spesso sfocia in miscele con
barbiturati – Tuinal, appunto –, alcolici o altro; sempre più spesso la si
scalda insieme a del bicarbonato di sodio per ottenere quel crack che,
letteralmente, brucia il cervello e può ridurre una persona a una semi-larva
nell’arco di un paio d’anni.
E nonostante le promesse di ogni tossico, tipo quelle riportate nel romanzo In
un milione di piccoli pezzi di James Frey – “Non credo in Dio né in alcuna forma
di Potere Superiore. Non intendo cedere la mia vita e la mia volontà a niente e
a nessuno, e tanto meno a qualcosa in cui non credo. […] Intendo vivere la mia
vita. Intendo prendere le cose come vengono e affronterò quello che mi sta
davanti nel momento in cui mi sta davanti. Quando l’alcol o la droga o tutt’e
due mi staranno davanti, prenderò la decisione di non usarli. Non intendo vivere
nel terrore dell’alcol e della droga, non intendo passare il mio tempo seduto a
parlare con gente che vive nel terrore delle sostanze. Non intendo essere
dipendente da altro che da me stesso” – dicevo… nonostante le promesse di ogni
tossico, si finisce invece per trarre conclusioni come quella scritta in La
scimmia sulla schiena di William Burroughs: “Sapevo di non voler continuare a
prendere droga. Se mi fosse stato possibile prendere una risoluzione definitiva,
avrei deciso; non più droga, mai e poi mai; ma quando si arrivava al processo
della desensibilizzazione, mi mancava la forza. Mi sentivo pervadere da una
sensazione terribile di impotenza vedendo me stesso violare tutti i programmi
che avevo studiato, come se non fossi assolutamente capace di dominare le mie
azioni”.
Credo molti di voi saranno d’accordo con me e con Chuck Palahniuk che in
Soffocare scrive: “Le droghe, la bulimia, l’alcol, il sesso sono solo strumenti
per trovare un po’ di pace. Per sfuggire a ciò che conosciamo. A quello che ci
insegnano”.
Sfuggire a quello che ci insegnano: Malcolm Braly – mentre è costretto in
galera, un posto da cui vogliono scappare anche i secondini – scrive in Ora
d’aria: “Quando la cuccetta fu sistemata […] saltò di nuovo al suo posto e
riprese il libro. Questa è la mia droga, disse, vivo le vite degli altri”.
Ecco una cosa che ci insegnano, il non leggere; così da non venire a conoscenza
delle vite degli altri, in modo che nessuno impari dagli errori altrui e possa
vivere diversamente la propria esistenza, con meno dubbi, ansie, magari fino a
godere della propria vita. Ci insegnano a non leggere, per esempio, massacrando
gli studenti con noiosissime lezioni di letteratura svolte giusto perché il
programma le prevede, alla svelta perché gli insegnanti hanno sempre più tempo
assorbito dalla burocrazia dell’Istituto, perché… ma cosa ve lo dico a fare?
Chiedete ai vostri figli, ai vostri nipoti che ancora frequentano le aule
scolastiche.
Sul rapporto tra cultura, libri e droga, cinquant’anni fa aveva detto qualcosa
senz’altro meglio di me, anche Pier Paolo Pasolini: “Se vado a Piazza Navona e
incontro un drogato che passa ciondolando con aria noiosa e vagamente sinistra,
sento in lui i caratteri dell’infelicità e del rifiuto piccolo-borghese: e
maledico la misteriosa circostanza che ha costretto, lui singolo, a fumare
dell’hascisc invece di leggere un libro”, e ancora: “La droga è sempre un
surrogato. E precisamente un surrogato della cultura. […] La droga viene a
riempire un vuoto causato appunto dal desiderio di morte e che è dunque un vuoto
di cultura”.
Leggere, conoscere, aiuta a sapere dove siamo, a essere padroni di parole e
opere, aiuta a capire come va il mondo a non esserne vittima: “Ho capito che per
essere liberi dobbiamo sapere dove siamo. Chi è smarrito, chi non ha il senso
della realtà, chi ignora come va il mondo non è libero. Non si può essere liberi
che con cognizione di causa. Essere liberi non è perdersi e lasciarsi andare
senza avere la minima idea di una direzione. È per questo, del resto, che ho
sempre provato un’istintiva diffidenza verso qualsiasi tipo di droga. Non
capisco il desiderio di alcuni di ubriacarsi, di essere sbronzi. Per essere
liberi bisogna essere padroni dei propri atti e non vittime di cause
incontrollabili. Bisogna essere realisti, radicati nella realtà, e insieme
sognatori, per non rimanere vittime involontarie del mondo reale”. – da Bisogno
di libertà di Bjorn Larsson.
Bisogna, però, fare molta attenzione a quali droghe si sta facendo riferimento;
Kurt Vonnegut, per esempio, in Un uomo senza patria ci parla di crisi di
astinenza per una sostanza che nessuno oserebbe definire stupefacente: “Vi posso
dire la verità? In fondo non siamo al telegiornale, no? E allora ecco qual è la
verità, secondo me: noi siamo tutti drogati di combustibili fossili, ma ci
rifiutiamo di ammetterlo. E come tanti tossici che stanno per entrare in crisi
di astinenza, i capi dei nostri governi stanno commettendo crimini atroci pur di
ottenere quel poco che rimane della sostanza da cui siamo dipendenti”.
Altra droga troppo spesso sottovalutata, ci viene additata nell’imperdibile
libretto – solo per le dimensioni, sia chiaro – L’anarchia spiegata a mia figlia
di Pippo Gurrieri: “La religione è una droga perché addormenta le coscienze,
alimenta gerarchie divine e terrene, mantiene gli esseri umani nella soggezione
e nella superstizione, quindi nell’ignoranza e nella subalternità”.
Anche Voltaire, in Pot-pourri, ha qualcosa da dire riguardo l’argomento:
“Vorreste che adottassi un Essere eterno, infinito e immutabile, a cui sia
piaciuto, in non so quale tempo, creare dal nulla cose che cambiano in
continuazione, e fare dei ragni per sventrare delle mosche? Vorreste che dicessi
[…] che Dio ci ha dato orecchie per avere fede, perché la fede viene per udito
dire? No, no, non crederò affatto a ciarlatani che hanno venduto a caro prezzo
le loro droghe a degli imbecilli; […] nulla esiste né può esistere, eccetto la
natura; […] in una parola, non credo che alla natura”.
Sulla droga s’è scritto un po’ di tutto. Da Burroughs, sempre ne La scimmia
sulla schiena, che sconsiglia la guida di un’auto se si è fumato marijuana –
“Una cosa ancora a proposito della marijuana. Chi si trova sotto l’influenza
dell’“erba” non è assolutamente in grado di guidare l’automobile. La marijuana
altera il senso del tempo e di conseguenza il senso dei rapporti spaziali. Una
volta, a Nuova Orleans, dovetti fermarmi al margine della strada e aspettare che
l’effetto della droga fosse passato; non riuscivo a stabilire la distanza di
alcun oggetto né a capire quale fosse il momento giusto per frenare agli
incroci” – a Bukowski che, in Storie di ordinaria follia, si pone una domanda
che potrebbe anche far sorridere: “Tutti abbiamo udito la donnetta che dice:
“oh, è terribile quel che fanno questi giovani a se stessi, secondo me la droga
è una cosa tremenda.” poi tu la guardi, la donna che parla in questo modo: è
senza occhi, senza denti, senza cervello, senz’anima, senza culo, né bocca, né
calore umano, né spirito, niente, solo un bastone, e ti chiedi come avran fatto
a ridurla in quello stato i tè con i pasticcini e la chiesa”.
Non solo s’è scritto un po’ di tutto, sulla droga s’è anche detto un po’ di
tutto. E riguardo l’uso della cocaina che, per quanto riguarda la mia esperienza
personale, quasi mai è l’ultima casella di questo tragico osceno gioco e spesso
si finisce per consumarla insieme a barbiturati, alcolici o altro, vi scrivo
cosa mi ha raccontato un famoso psichiatra che aveva seguito un fatto di cronaca
che, anni fa, fece molto scalpore, di cui se ne occupò a lungo l’informazione
mainstream.
Molto brevemente. L’episodio vede due persone organizzare un festino a base di
cocaina e alcol e convincere una terza a partecipare, la stessa che verrà
ritrovata morta il giorno dopo – “massacrata a coltellate e a colpi di martello”
–, all’interno dell’appartamento dove i tre s’erano riuniti. Lo psichiatra mi ha
raccontato che chi ha preso la vittima a martellate, ha confessato d’essersi
ritrovato a un certo punto in un cartone animato, trasformato lui stesso in un
personaggio tipo Paperino o Braccio di Ferro, e d’aver sferrato colpi contro
qualcuno che poteva essere Paperon de’ Paperoni o Bluto, d’essere finito come in
una dimensione parallela dove a ogni martellata corrispondeva un bernoccolo che
usciva dall’avversario con la stessa velocità con cui rientrava, per poi
svegliarsi la mattina dopo nella consueta dimensione, col martello insanguinato
in mano e un cadavere accanto.
Non sono mai riuscito a capire quand’è che si smette di ridere davanti ai
cartoni animati e quand’è che s’inizia a ridursi in condizioni tali da non
essere più in grado di dire alla propria madre che si ha paura, da non essere
più in grado addirittura di proferir parola, sia perché questa ha perso forma e
accento nelle nebbie della droga, sia perché sono troppe le orecchie impreparate
ad ascoltarla; soprattutto, non sono mai riuscito a capire cosa succede
esattamente fra un “quand’è” e l’altro.
Eppure, sono certo la risposta sia nel cantico di ogni drogato: dovrò ascoltarlo
meglio.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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Il decreto legge sicurezza varato nei giorni scorsi dal Governo incide
pesantemente sulle libertà, sui diritti, sulla convivenza producendo una
sterzata del sistema verso uno Stato di polizia. Ciò avviene, in particolare,
con la generalizzazione del governo repressivo della povertà, il consolidamento
della repressione sistematica del conflitto sociale e del dissenso,
l’ampliamento dei poteri e delle tutele attribuiti alla polizia e agli apparti.
di Livio Pepino da Volere la Luna
Venerdì 4 aprile il Consiglio dei ministri ha trasformato in decreto legge
(destinato come tale a entrare in vigore immediatamente dopo l’emanazione da
parte del Capo dello Stato e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) il
disegno di legge sicurezza approvato dalla Camera nel settembre scorso e fino a
ieri in discussione al Senato. Mentre scrivo, la controfirma del presidente
della Repubblica (prevista dall’art. 87 della Costituzione) non è ancora
intervenuta ma, stando alle unanime indiscrezioni, è questione di ore, essendo
stata l’operazione concordata, a seguito dell’accoglimento da parte del Governo
di alcune osservazioni presidenziali (accoglimento che ha dato luogo, peraltro,
a un semplice maquillage che incide in misura limitatissima su alcuni punti, in
particolare regolamentando in modo diverso ma non escludendo la possibilità di
incarcerazione di donne incinte o con prole inferiore all’anno e il divieto di
vendita di schede telefoniche a migranti irregolari).
Il carattere eversivo di questa operazione nel sistema di governo è
macroscopico: perché mancano i requisiti di necessità ed urgenza richiesti
dall’art. 77 della Costituzione, perché si tratta di un provvedimento sottratto
a una discussione parlamentare in stato ormai avanzato, perché incide su una
materia sensibile come la libertà personale e molto altro ancora. Ma persino più
rilevanti sono le ferite inferte al sistema delle libertà, dei diritti, della
convivenza, che producono un ulteriore passo verso uno Stato di polizia. Già lo
abbiamo denunciato su queste pagine con riferimento all’originario disegno di
legge. Ma oggi, quando il progetto si è trasformato in realtà, conviene ribadire
alcuni punti fondamentali. Non senza premettere, da un lato, che il decreto si
inserisce in un progetto complessivo di riforma autoritaria dello Stato,
comprensivo del premierato elettivo, dell’autonomia regionale differenziata e
della ridefinizione dei rapporti tra giustizia e politica, e, dall’altro, che
esso tiene insieme (e regolamenta) settori eterogenei ma concorrenti,
riassumibili nella generalizzazione del governo repressivo della povertà, nel
consolidamento della repressione sistematica del conflitto sociale e del
dissenso, nell’ampliamento dei poteri e delle tutele attribuiti alla polizia e
agli apparti.
Il primo elemento che merita sottolineare è il potenziamento del ruolo del
carcere nel governo della società. Il carcere scoppia: il 31 marzo i detenuti
hanno raggiunto il numero di 62.281 consolidando il superamento, dopo 13 anni,
della soglia delle 62.000 presenze; secondo il Garante delle persone private
della libertà personale, i suicidi di persone detenute nei primi mesi dell’anno
sono 22 (dopo aver raggiunto lo scorso anno il record di 83, secondo i dati del
ministero, verosimilmente errati per difetto almeno di 7 unità); gli atti di
autolesionismo non si contano; l’ordine nei luoghi di detenzione è assicurato
solo da una violenza diffusa e dall’uso generalizzato di psicofarmaci. La
risposta del decreto legge è la previsione di 14 nuovi reati e di altrettanti
aumenti di pena, in continuità con una scelta che ha portato, negli ultimi due
anni, all’introduzione di 48 nuovi reati. Ciò comporterà un maggior numero di
condanne e pene più elevate e, dunque, più carcere. Il fatto sollecita due
considerazioni aggiuntive. Primo: l’aumento del carcere non è la conseguenza di
una crescita dei reati ma una scelta politica, come dimostra la circostanza che
il tetto della criminalità, nel nostro paese, è stato raggiunto nel 1991, quando
i detenuti erano circa 35.000 (35.469 al 31 dicembre) e, dunque, la metà (o poco
più) di quelli odierni. Secondo: il modello di riferimento è quello degli Stati
Uniti dove il diritto penale classico (che commisura la pena in base all’entità
del reato) è stato sostituito da un diritto che punisce le persone non per
quello che hanno fatto ma per quello che sono, sino all’assurdo di punire con il
carcere a vita, in caso di recidiva, il furto di tre mazze da golf, di una pizza
o di una merendina, con la conseguenza che i condannati all’ergastolo presenti
nelle carceri statunitensi sono, oggi, oltre 200.000, pari a uno ogni 1.500
abitanti.
Un secondo elemento che caratterizza il provvedimento governativo è l’opzione,
anche qui seguendo il modello degli Stati Uniti, di “punire i poveri”. Lo
dimostra l’introduzione nel codice penale di una norma (l’articolo 634 bis) in
forza della quale «chiunque, mediante violenza o minaccia, occupa o detiene
senza titolo un immobile destinato a domicilio altrui o sue pertinenze […] è
punito con la reclusione da due a sette anni», cioè esattamente la pena prevista
per l’omicidio colposo commesso con violazione delle norme antinfortunistiche.
Già ora – superfluo dirlo – l’occupazione di edifici destinati ad abitazione è
un reato, punito con la reclusione fino a due anni e con una multa. Per questo
la norma, ancor più che un presidio a tutela della proprietà, si pone come
simbolo della risposta istituzionale all’emergenza abitativa (100mila sentenze
di sfratto esecutive, 40mila sfratti ogni anno, 50.00 case popolari occupate).
Non potrebbe esserci dimostrazione più plastica, anche in termini simbolici, del
passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale e del governo repressivo della
povertà.
Alla punizione dei poveri si affianca quella di chi dissente in modo radicale.
Manifestare (già oggi spesso ostacolato con motivazioni pretestuose da troppo
zelanti questori) diventerà sempre più un rischio. Il ripristino del reato di
blocco stradale «realizzato con la mera interposizione del corpo» e la sua
punizione con la reclusione da sei mesi a due anni «quando il fatto è commesso
da più persone riunite» (cioè sempre, considerato che un blocco stradale fatto
da una sola persona è poco più che un’ipotesi di scuola…) incidono direttamente
e immediatamente sulla possibilità di manifestare. Saranno, infatti,
criminalizzati e puniti finanche i dimostranti pacifici che stazionano in modo
continuativo e in gruppo in una strada prospiciente i cancelli di una fabbrica
(dove è in corso uno sciopero) o l’ingresso di una scuola occupata. La norma è
esemplare in sé ma anche perché rappresenta l’esito di un percorso di
anacronistica restaurazione. Il blocco stradale infatti, già previsto da un
decreto legislativo del 1948, è stato depenalizzato nel 1999. Quasi vent’anni
dopo, con il decreto legge n. 113/2018 (primo decreto Salvini), è iniziato il
percorso a ritroso: il blocco stradale è ridiventato reato ma, per mitigare
l’asprezza della disposizione, si è previsto il carattere amministrativo
dell’illecito nel caso di ostruzione stradale realizzata solo con il corpo. Con
l’attuale decreto si completa il ritorno alla penalizzazione piena, realizzando
un attacco diretto al diritto di manifestare in quanto tale.
C’è poi, nel decreto legge, un ampio gruppo di norme che, con piccole differenze
terminologiche, connotano le manifestazioni come eventi borderline, prevedendo
specifiche aggravanti per i reati di danneggiamento, resistenza o violenza a
pubblico ufficiale e lesioni se commessi nel corso delle stesse. In tutti questi
casi le pene sono sensibilmente aumentate consumando una sorta di passaggio
dalle leggi ad personam alle leggi ad movimentum. Questa previsione – merita
sottolinearlo – ribalta la stessa impostazione del codice Rocco, il cui articolo
62 n. 3 prevedeva (e prevede, non essendo mai stato abrogato) come attenuante
per qualunque tipo di reato «l’avere agito per suggestione di una folla in
tumulto», pur con il limite che «non si tratti di riunioni o assembramenti
vietati dalla legge o dall’autorità»: il legislatore repubblicano, nonostante la
Costituzione, si mostra meno rispettoso del diritto di manifestare del suo
predecessore in camicia nera. Non solo ma per la prima volta nel nostro sistema
viene esplicitamente considerata illecita la resistenza passiva. Lo prevede il
nuovo articolo 415 bis del codice penale, che introduce il delitto di rivolta in
carcere (sanzionato, per chi si limita a parteciparvi, con la reclusione da uno
a cinque anni), con la precisazione che «costituiscono atti di resistenza»
rilevanti ai fini dell’integrazione del reato «anche le condotte di resistenza
passiva che impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio
necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza». La previsione del
delitto di resistenza passiva con riferimento a una categoria di soggetti (i
detenuti) considerati devianti e marginali, oltre ad essere grave in sé (proprio
perché riferita a persone in condizioni di particolare fragilità), introduce nel
sistema un precedente dotato di evidente capacità espansiva, che potrebbe
ripetere la (triste) esperienza del Daspo, introdotto nell’ormai lontano 1989
per i tifosi violenti e diventato negli anni uno strumento ordinario di governo
del territorio. Non è una illazione: già accade nello stesso disegno di legge
che estende la disciplina e le pene previste per la rivolta, con una lieve
riduzione, ai fatti commessi in tutti i luoghi di accoglienza per migranti (e,
dunque, non solo i Cpr, ma anche, addirittura, i Cara e gli hotspot).
Parallelamente viene pesantemente limitata anche la possibilità di azione dei
movimenti attivi nei settori più sensibili del conflitto sociale. È il caso,
della norma che estende il delitto di occupazione di immobili destinati a
domicilio altrui a chi, «fuori dei casi di concorso nel reato, si intromette o
coopera nell’occupazione dell’immobile» e a quella che prevede un aggravamento
della pena per il delitto di “istigazione a disobbedire alle leggi” «se il fatto
è commesso a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute».
L’attacco ai movimenti per la casa e a quelli di sostegno alle persone detenute
non potrebbe essere più diretto ed esplicito.
In ultimo, ma – come si usa dire – non per ultimo, il decreto legge imprime una
netta curvatura autoritaria al rapporto tra polizia e cittadini, così chiudendo
il tormentato tentativo di democratizzarlo, perseguito, nel tempo, con la
previsione di non punibilità della reazione all’atto arbitrario del pubblico
ufficiale, la dichiarazione di incostituzionalità della necessaria
autorizzazione del ministro per procedere nei confronti di operatori della
polizia per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di un
altro mezzo di coazione fisica, la sindacalizzazione e smilitarizzazione del
corpo, l’abrogazione del delitto di oltraggio e via elencando. Questo percorso,
subisce, ora, una drastica inversione che ripristina una situazione simile a
quella degli anni Cinquanta (un’epoca in cui – è bene ricordarlo – le politiche
di ordine pubblico lasciarono sulle strade e nelle piazze del Paese oltre 100
morti). Ciò avviene grazie a disposizioni che prevedono tra l’altro, per gli
operatori di polizia, la già ricordata tutela privilegiata nel corso di
manifestazioni; una particolare assistenza sul piano legale consistente nella
possibilità, ignota per gli altri pubblici ufficiali, di fruire, se indagati o
imputati per fatti inerenti al servizio, dell’anticipazione da parte dello Stato
di una somma di 10.000 euro per ogni fase del giudizio per spese di difesa (con
possibilità di rivalsa nel solo caso di responsabilità a titolo di dolo
giudizialmente accertata); l’autorizzazione a portare, senza licenza, un’arma
diversa da quella di ordinanza quando non sono in servizio; una maggior libertà
di azione simboleggiata dalla possibilità, nei confronti di associazioni
terroristiche (ma con evidente potenzialità espansiva), non solo a mezzo di
“infiltrati” ma anche mediante “agenti provocatori” e dalla dotazione, per i
servizi di ordine pubblico (e non solo), di dispositivi di videosorveglianza
idonei a registrare l’attività operativa e il suo svolgimento.
> Un paese che si identifica con ordine e polizia
> Repressione senza alternativa
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L’abuso del decreto legge, stravolgendo il sistema delle fonti, viola la
separazione dei poteri, che assicura la limitazione del potere: elemento
imprescindibile di una democrazia costituzionale
di Alessandra Algostino da il manifesto
C’era un disegno di legge in discussione in parlamento, detto «sicurezza»,
espressione del peggiore populismo penale, incostituzionale nell’anima e nelle
disposizioni; il governo, con un golpe bianco (…invero nero), lo ha trasposto in
un decreto legge.
Al contenuto eversivo si aggiunge l’eversione nei rapporti fra governo e
parlamento.
Troppo forte il termine eversione? Il passato non si ripresenta allo stesso
modo, ma la mutazione della democrazia in regime autoritario attraverso vie
legali non è un pericolo astratto; il suo progressivo svuotamento sostanziale
sotto l’involucro è un percorso in atto. Il parlamento discute, o tenta di
farlo, vista la scarsa disponibilità alla mediazione politica (nel senso di
effettivo processo di integrazione politica), ma «i tempi si sarebbero
prolungati troppo» (citazione del ministro Piantedosi).
E allora interviene il governo, «nella sua più alta ma anche più concreta
significazione di Istituto atto a risolvere nel modo più rapido, fermo e univoco
tutte le molteplici questioni che nell’azione quotidiana si presentano, non
impacciato da preventive compromissioni, non impedito da divieti insormontabili,
non soffocato da dissidi, non viziato nella origine da differenze ingenite di
tendenze e di indirizzi» (Mussolini, dibattito sulla legge Acerbo).
Iniziamo da qui: quali sono i motivi di necessità e urgenza? Leggendo la bozza
compare solo un elenco tautologico di «considerata» e «ritenuta» «straordinaria
necessità e urgenza»: mere clausole di stile, nulla di più. Come la Corte
costituzionale ha ricordato più volte (da ultimo, sentenza 146 del 2024), il
decreto legge è «uno strumento eccezionale», «la pre-esistenza di una situazione
di fatto comportante la necessità e l’urgenza… costituisce un requisito di
validità costituzionale»: in gioco sono gli «equilibri fondamentali della forma
di governo». Con quanto ne consegue sulla forma di stato. L’abuso del decreto
legge, stravolgendo il sistema delle fonti, viola la separazione dei poteri, che
assicura la limitazione del potere: elemento imprescindibile di una democrazia
costituzionale.
È l’ennesimo atto di asservimento e annichilimento del parlamento. Ennesimo, e
«pesante»: per i diritti su cui incide il provvedimento, per il suo essere
oggetto di una forte contesa politica, perché si tratta di materia in
discussione nelle aule parlamentari, per l’insussistenza palese della necessità
e urgenza (a meno che non le si voglia ridurre al meschino mercanteggiamento di
interessi tra le forze di maggioranza).
Veniamo al contenuto. Lo schiaffo al parlamento – in violazione della
Costituzione e inaccettabile in ogni caso – salvaguarda almeno dalle
innumerevoli incostituzionalità del disegno di legge? Dalla bozza che è dato
leggere, no.
I rilievi del Quirinale sono recepiti al minimo possibile. Alcune norme sono
semplicemente ammorbidite, come nel caso delle madri detenute o della richiesta
di documento per la vendita della Sim agli stranieri (non è necessario il
permesso ma c’è l’obbligo di un documento di identità). Altre sono oggetto di
interventi di plastica facciale, come nelle ipotesi della punizione degli atti
di resistenza anche passiva: si specifica che gli ordini la cui disobbedienza è
punita riguardano il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, concetti
passepartout. Sfiora il ridicolo la modifica della norma che riguarda
l’aggravante «grandi opere», dove il riferimento alle opere pubbliche o
infrastrutture strategiche è sostituito con «infrastrutture destinate
all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di
altri servizi pubblici». Di maggior rilievo, e indubbiamente positivo, lo
stralcio della collaborazione di pubbliche amministrazioni e università con i
servizi segreti, in deroga al diritto di riservatezza.
Restano, immutati, il reato di blocco stradale, la ridondante punizione
dell’occupazione di immobili, l’ampliamento del daspo urbano, etc. La cappa
illiberale e repressiva del provvedimento non muta: criminalizzazione e
repressione del dissenso, stigmatizzazione e punizione del disagio sociale e
della solidarietà, neutralizzazione del conflitto sociale. E restano il diritto
penale dell’amico, i privilegi per la polizia, con il sotteso di uno stato che
si identifica con le forze dell’ordine e l’obbedienza.
È sufficiente il restyling per tacitare – ed esautorare – l’opposizione e
giustificare il silenzio calato sulla notizia? Il presidente della Repubblica,
come garante della Costituzione, non dovrebbe domandare – cito Matteotti – «alla
maggioranza che essa ritorni all’osservanza del diritto»?
Lungo la china del male minore, si scivola nel baratro.
Ancora una volta è dalla piazza, che si vuole chiudere in una zona rossa del
dissenso e del pensiero, che può venire una risposta.
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Il governo non sa offrire risposte ai gravi problemi sociali e ambientali e si
concentra dunque sulla repressione degli effetti
di Andrea Fabozzi da il manifesto
«Non funziona più così», risponde l’agente di polizia al professore arrestato
perché appoggia le proteste contro il collasso climatico, quando chiede il
rispetto delle garanzie costituzionali. Siamo nel 2030 negli Usa e in Diluvio,
romanzo di Stephen Markley, ma la scena potrebbe ripetersi in una qualsiasi
città italiana. E non tra qualche anno ma già domani, perché il governo ha
trasformato in decreto il disegno di legge «sicurezza» che limita i diritti e
aumenta le pene. Meloni stringe i bulloni della repressione, guarda caso – dalla
finzione alla realtà – anche contro gli attivisti del clima. Lo fa con un
provvedimento immediatamente in vigore che dovrebbe, per Costituzione, essere di
«straordinaria necessità e urgenza» e invece è diventato prassi per il governo.
A domanda su dove diavolo sia l’urgenza, il ministro Piantedosi ha risposto
candido: «In parlamento si è perso troppo tempo».
Un anno e mezzo di discussioni, «tempo perso» durante il quale tutti gli
emendamenti delle opposizioni sono stati respinti, quindi è falsa la spiegazione
del ministro per cui il decreto «recepisce il dibattito parlamentare». E poi
l’iter di approvazione era ormai quasi concluso, dunque le motivazioni di questa
ennesima umiliazione delle camere sono evidentemente altre. Essenzialmente due.
La prima è far digerire alla Lega qualche modifica richiesta dal Quirinale,
offrendo in cambio un’approvazione immediata. Il congresso della Lega che
comincia oggi è il vero motivo di urgenza del decreto. Salvini ha rivendicato
tutto postando immediatamente e pieno di gioia le foto di tutti i corpi di
polizia.
La legge è infatti un omaggio delle destre ai sindacati delle Forze dell’ordine,
che avranno le mani più libere e soprattutto diecimila euro di soldi pubblici
per ogni grado di giudizio per difendersi se accusati, come capita, di reati
commessi in servizio. Questo nel paese dove non ci sono i fondi per risarcire le
ingiuste detenzioni e un’elementare misura di garanzia come le body cam sulle
divise degli agenti è ridimensionata (in questo stesso decreto) a «possibilità»
e finanziata con fondi insufficienti. Ma il messaggio è chiaro: la premier
(certo non solo Salvini) sta con le divise, del resto non si era fatta scrupolo
di correggere persino il presidente della Repubblica quando aveva criticato le
botte agli studenti di Pisa. Le divise ricambiano e da un po’ di tempo i
sindacati hanno preso l’abitudine di commentare l’attualità a colpi di
comunicati stampa come un Gasparri qualunque, l’altro giorno anche per criticare
una sentenza, quella su Askatasuna.
La seconda ragione che ha spinto il governo a lasciar morire uno dei rari
disegni di legge per sostituirlo in corsa con l’ennesimo decreto è che in questo
modo ha potuto accogliere, evitando le insidie degli emendamenti, una parte
delle osservazioni del Quirinale. Il presidente della Repubblica dunque lo
firmerà – malgrado sui requisiti costituzionali i dubbi siano tanti – avendo
ottenuto lo stralcio di alcune norme di pura crudeltà o degne di Minority
report. Il bicchiere però resta mezzo vuoto.
In cambio di una legge pessima al cubo che avrebbe dovuto superare le spaccature
nella maggioranza per essere approvata definitivamente tra qualche mese, ne
abbiamo adesso una subito in vigore pessima al quadrato. Qualche giorno fa
Meloni ha detto di essere invidiosa di Trump che con i suoi ordini esecutivi può
fare deportazioni e cose del genere e così ha voluto anche lei il suo executive
order. «Ma il decreto andrà comunque per la conversione in parlamento», ha
concesso bontà sua il ministro Piantedosi. In parlamento dove i decreti vengono
abitualmente approvati con la fiducia.
Il bicchiere resta vuoto per metà, se non di più, perché piccole modifiche al
testo non bastano a renderlo potabile. A che serve dire che la mano pesante
contro chi si oppone ai cantieri, che prima valeva per tutte le grandi opere che
indicava il governo, adesso vale solo per i lavori relativi ai «trasporti,
energia, telecomunicazioni e servizi pubblici»? È lo stesso, una norma su misura
contro chi protesta per il ponte di Messina o per la Tav era prima e tale resta
adesso. Oppure a che serve precisare che l’osceno divieto di resistenza passiva,
con il quale si vogliono rendere le carceri ancora più infernali di quanto non
siano già, prima valeva contro tutti gli ordini delle guardie penitenziarie e
adesso solo contro quelli destinati al «mantenimento dell’ordine e della
sicurezza»? La definizione è così vasta da comprendere facilmente tutto quello
che accade in un universo inaccessibile come quello di un carcere. O di un Cpr,
perché la novità è estesa anche ai migranti che non possono fare altro che
resistenza passiva contro le inumane e folli detenzioni amministrative alle
quali sono condannati senza aver commesso reato. Adesso anche oltremare, grazie
guarda un po’ a un decreto legge.
Giorgia Meloni, va detto, individua i problemi. Vede bene che montano rabbia a
proteste per condizioni di vita che peggiorano, anche prima che la spesa sociale
sia ulteriormente ridotta per comprare armi. Ma il governo non sa offrire
risposte al problema e si concentra dunque sulla repressione degli effetti. Vale
lo stesso per le manifestazioni che aprono gli occhi sulla catastrofe del
riscaldamento globale. Meglio chiuderli, gli occhi, prevedendo fino a tre anni
di carcere per un imbrattamento. Fino a ieri si rischiava al massimo una multa
di 300 euro, ora «non funziona più così».
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Dunque il governo ha intenzione di emanare un decreto legge in materia di
sicurezza recependo e in qualche caso modificando le norme del disegno di legge
attualmente in discussione al senato. Sarebbe un atto manifestamente contrario
alla Costituzione.
di Gaetano Azzariti da il manifesto
Dunque il governo ha intenzione di emanare un decreto legge in materia di
sicurezza recependo e in qualche caso modificando le norme del disegno di legge
attualmente in discussione al senato. Sarebbe un atto manifestamente contrario
alla Costituzione. Il capo dello Stato potrebbe trovarsi in grande difficoltà,
dovendo valutare se ci sono le condizioni per emanare l’atto sottoposto alla sua
firma. Saremmo di fronte ad un nuovo strappo costituzionale. Si tratterebbe,
infatti, di un decreto non solo privo dei requisiti costituzionali di
straordinaria necessità ed urgenza, nonché dal contenuto disomogeneo ponendosi
dunque in violazione dei requisiti richiesti dalla giurisprudenza
costituzionale, oltre che dalla legge 400 del 1988.
Ma anche di un decreto sostitutivo di una legge in itinere, che avrebbe come
effetto immediato quello di sottrarre al titolare della funzione legislativa –
il Parlamento – il potere costituzionalmente ad esso conferito dall’articolo 70
della nostra Costituzione.
L’abuso della decretazione d’urgenza, com’è noto, è un male risalente, e ha
sollevato spesso perplessità e inviti alla cautela da parte dei presidenti della
Repubblica, ripetutamente anche da parte di Mattarella. Raramente si è giunti
però al rifiuto di emanazione: una cautela di per sé condivisibile, non dovendo
il nostro presidente della Repubblica esercitare un controllo politico, forse
neppure di semplice legittimità costituzionale (si parla infatti di «palese» o
«manifesta» incostituzionalità persino nei casi di rinvio delle leggi). Eppure,
in passato diversi presidenti (Pertini, Cossiga, Napolitano) hanno
eccezionalmente rifiutato l’emanazione. Il caso più noto è quello del 2009 che
vide Napolitano ritenere di non poter sottoscrivere il decreto-legge relativo
alla dolorosa vicenda Englaro. La motivazione di fondo fu quella che non si
poteva violare il principio della divisione dei poteri. In quel caso il governo,
con il suo decreto, voleva vanificare una decisione assunta dalla giudice di
Cassazione. Ora il governo vuole sostituirsi al parlamento.
In base a quali argomenti? L’approvazione del disegno di legge in senato era
prevista entro pochi giorni e comunque entro i primi di maggio. A causa delle
modifiche sarebbe necessario un altro passaggio alla camera, senza possibilità
di ulteriore discussione o modifica del testo. La legge era destinata dunque a
essere approvata nel giro di poche settimane. Dov’è l’urgenza che giustifica il
decreto?
A quel che è dato sapere, l’atto del governo dovrebbe essere esattamente quello
in discussione più qualche ulteriore misura e qualche modifica che potrebbe
certamente essere presentata sin d’ora come emendamenti in parlamento. Non v’è
dunque alcuna ragione per l’emanazione di un decreto legge se non,
probabilmente, le divisioni nella maggioranza. Ma è un’altra divisione, assai
più importante, quella dei poteri che imporrebbe al governo di non deliberare in
Consiglio dei ministri un tale atto. Confidiamo che i poteri dissuasivi del
Quirinale siano indirizzati in tale senso. Leggiamo però con preoccupazioni le
considerazioni incendiarie del capogruppo Crippa, che sembra volersi
contrapporre al garante senza nessuna volontà di ascolto. A breve sapremo, in
gioco c’è la Costituzione.
> Sicurezza, il governo forza la mano: un decreto al posto del disegno di legge
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Askatasuna non è un’associazione per delinquere e nessun gruppo eversivo ha
operato al suo interno. Nonostante la mobilitazione della destra, le campagne
diffamatorie, gli interventi a piedi giunti dei vertici degli uffici inquirenti,
la criminalizzazione di tutti coloro che hanno richiamato alla razionalità e al
senso delle proporzioni, quando si è arrivati davanti a un giudice, il castello
accusatorio è crollato.
di Livio Pepino da il manifesto
Non c’è bisogno di aspettare le motivazioni della sentenza. Basta il
dispositivo. Le cose non potrebbero essere più chiare. Il teorema della procura
della Repubblica di Torino e della Digos non è stato solo smentito, è stato
spazzato via, sbriciolato.
Askatasuna non è un’associazione per delinquere e nessun gruppo eversivo ha
operato al suo interno. Di più, anche molti reati specifici sono stati esclusi e
i risarcimenti milionari richiesti da presidenza del Consiglio e vari ministeri
sono stati disattesi. Nonostante la mobilitazione della destra, le campagne
diffamatorie, gli interventi a piedi giunti dei vertici degli uffici inquirenti,
la criminalizzazione di tutti coloro che hanno richiamato alla razionalità e al
senso delle proporzioni, quando si è arrivati davanti a un giudice, il castello
accusatorio è crollato.
La vicenda non è una piccola questione locale riguardante una ventina di
«antagonisti» ma un segnale che impone da subito alcune considerazioni.
Primo. Per la Digos e la procura torinese Askatasuna è un’associazione
sovversiva. Per questo si è proceduto nei confronti di 86 indagati con richiesta
di 16 misure cautelari e gli imputati sono stati intercettati, seguiti,
controllati per una infinità di giorni e di notti. Venti anni della loro vita
sono stati setacciati e scandagliati nei minimi particolare. L’ipotesi era stata
ridimensionata già dal giudice per le indagini preliminari. Ma ancora tre mesi
fa, in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario, la procuratrice generale di
Torino ha definito la città piemontese il «centro dell’eversione» nazionale. E
oggi il tribunale è stato militarizzato, come se si fosse alla soglia di una
guerra civile. Ebbene il fatto che, in questo clima e dopo una così accanita
ricerca di supporti all’accusa, si sia arrivati all’esclusione del reato
associativo ha un valore doppio: dice non solo che non è stata raggiunta la
prova del reato, ma che gli elementi acquisiti nelle indagini dimostrano
esattamente il contrario, e cioè che nessuna associazione sovversiva o a
delinquere è mai esistita ad Askatasuna. Nessuno, ovviamente, chiederà scusa, ma
la lezione per inquirenti, media e politici alla ricerca di consenso non
potrebbe essere più netta.
Secondo. Non è certo la prima volta che ciò accade. Storicamente è agevole
ricordare i processi contro gli anarchici dell’Ottocento: iniziati con arresti e
squilli di tromba e sempre conclusi con assoluzioni generalizzate. In tempi
recenti, poi, l’associazione per delinquere è stata contestata a sindacati
(soprattutto nella logistica), movimenti per la casa, organizzazioni operanti
per il salvataggio dei migranti e finanche a Mimmo Lucano e agli amministratori
di Riace. A Torino, da vent’anni a questa parte, è all’ordine del giorno la
criminalizzazione del movimento no Tav, dell’area anarchica, dei movimenti degli
studenti, dei centri sociali, arrivando sino alla contestazione di ipotesi di
terrorismo. E sempre le accuse di reati associativi sono state smentite dai
giudici in tutti i gradi di giudizio. Ovviamente dopo anni. Sarebbe tempo che
nella cultura giuridica e politica si aprisse un confronto sull’uso dei reati
associativi con riferimento ai movimenti e al conflitto sociale. Nessuno lamenta
– nessun movimento ha mai lamentato – che si proceda per i singoli reati
intervenuti in manifestazioni e in occasioni analoghe. Quel che è
democraticamente inaccettabile è altro: la configurazione dei movimenti in
quanto tali come reati, com’è nella contestazione dei reati associativi.
Terzo. L’esito del processo dovrà far ripensare anche a sinistra – riprendendo
considerazioni fatte giorni fa su queste pagine da Giuliano Santoro – al ruolo e
al senso nella scena politica e sociale del Paese delle aggregazioni politiche
antagoniste e dei centri sociali, spesso liquidati con sufficienza come realtà
marginali e borderline. Uno stimolo in questo senso può venire dal progetto, non
a caso contestato dalla destra politica e istituzionale, di trasformazione di
Askatasuna in bene comune a disposizione del territorio, condotto dal comune di
Torino, da realtà associative cittadine e dagli stessi militanti del centro. È
un discorso che si dovrà riprendere.
> «Askatasuna a delinquere». I nodi del maxi-processo
> Un disegno repressivo e perverso
> Senza dissenso non c’è democrazia
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A Torino si gioca una partita più grande di un singolo, mostruoso teorema: a
essere sotto processo non sono solo i militanti dell’Askatasuna e No Tav ma le
lotte sociali del paese
di Fasulin* da Jacobin Italia
Il 31 marzo presso il Tribunale di Torino, verrà proclamata la sentenza di primo
grado del processo per associazione a delinquere che vede imputate ventisei
persone con la richiesta di 88 anni di carcere in totale per 72 capi di
imputazione, 66 dei quali riguardano le proteste contro il Tav in Val di Susa.
È storia consolidata che le nuove istanze politiche e le battaglie per i diritti
civili e umani vengano spesso represse dai governi, più interessati in ogni
parte del mondo al mantenimento dello status quo e dei privilegi delle élite
dominanti. Da che emisfero si guardi la storia dei popoli questo non cambia,
uomini e donne in tutto il mondo hanno dovuto lottare, talvolta fino a
sacrificare la propria vita, per imporre dei cambiamenti necessari al
raggiungimento, ad esempio, della giustizia sociale e alla tutela di minoranze,
spesso oggetto di discriminazioni. Non a caso la protesta, il suo diritto a
esprimersi e le vite di chi si impegna in tal senso, vengono spesso attaccate
dai poteri giudiziari, al fine di annichilire le spinte di cambiamento e
spaventare chi un giorno potrebbe decidere di mettersi in gioco, per sé e per
gli altri.
L’attacco che vede protagonisti il Movimento No Tav e il centro sociale torinese
Askatasuna, si gioca su un terreno pericoloso per la libertà di opinione e di
dissenso creando un precedente molto grave per le lotte che da nord a sud
animano il nostro paese, in un momento storico in cui assistiamo
progressivamente a un’accelerazione dello scenario bellico e a una significativa
riduzione della possibilità di dissentire.
Del resto, la repressione attuata dal governo ha assunto delle caratteristiche
particolari. con lo Stato, con i suoi apparati repressivi, giudiziari e
mediatici, che muove verso l’espulsione e la criminalizzazione a priori di tutto
ciò che produce conflittualità.
Il Ddl Sicurezza è la perfetta espressione di questa tendenza: di fronte a una
grave crisi sociale, si risponde su un piano squisitamente penale, mirando a
punire qualunque forma di protesta spontanea e di solidarietà attiva, come nel
caso di un semplice blocco stradale o dell’occupazione a scopo abitativo. Non è
un caso che tra le novità introdotte da questo decreto trovi spazio una
particolare attenzione agli attivisti e alle attiviste climatiche, così come a
chi si oppone alla costruzione di Grandi opere sul territorio.
In questa cornice, l’utilizzo del reato associativo rappresenta l’espressione di
un disegno repressivo perverso. Non si tratta più di perseguire alcuni illeciti
in quanto tali, che da sempre vengono commessi all’interno delle pratiche con
cui si esprime il conflitto sociale (come la resistenza a pubblico ufficiale o
il blocco stradale), ma di criminalizzare l’opposizione sociale in sé, facendo
propria un’esasperata logica persecutoria di interi movimenti sociali e
politici.
Questa pratica purtroppo non è del tutto inedita. Torino, infatti, nel corso
dell’ultimo ventennio è stata utilizzata come laboratorio di strategie
repressive oggi applicate anche nel resto del paese. Molteplici sono stati i
provvedimenti utilizzati: avvisi orali, fogli di via, sorveglianze speciali,
sanzioni pecuniarie per illeciti amministrativi e richieste di ingenti
risarcimenti per danni. Fino ad arrivare alle accuse di terrorismo applicate al
conflitto sociale, con conseguenze molto pesanti sulle vite delle persone
coinvolte.
Nel 1998 i Pubblici ministeri della Procura di Torino Laudi e Tatangelo, con il
supporto di Ros e Digos (Divisione Investigazioni Generali e Operazioni
Speciali), arrestarono gli anarchici Edo, Sole e Silvano, con un’accusa
pesantissima: associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine
democratico chiamata «Lupi Grigi». L’ipotesi era che avessero compiuto attentati
ai danni di infrastrutture come tralicci di telefonia e centraline elettriche in
Val Susa, e che ne stessero pianificando altri. La Procura di Torino è
inflessibile – il Pm Laudi dichiarò addirittura di possedere «prove granitiche»
della loro responsabilità – e la stampa locale sposò apertamente questo disegno
della Procura, con una campagna mediatica dove per la prima volta si fece uso
del termine ecoterroristi. Il 28 marzo 1998, dopo tre settimane di detenzione al
Carcere delle Vallette di Torino, Edo venne trovato morto impiccato nella sua
cella. Il 15 luglio 1998 invece fu Sole, la sua compagna, a togliersi la vita
nella comunità dove scontava la misura cautelare. Silvano venne invece
processato in primo, secondo e terzo grado assistendo alla sua (e quindi loro)
assoluzione.
Nel 2012, a seguito delle giornate del 27 maggio e 3 luglio 2011 –
rispettivamente lo sgombero della Libera Repubblica della Maddalena e il giorno
dell’assedio al cantiere di Chiomonte – andò in scena il maxiprocesso, un
processo politico dove con 53 imputati fu tutto il Movimento No Tav a essere
messo sotto accusa. Quasi un centinaio di udienze a ritmo serrato, tutte tenute
nell’aula bunker del carcere Lorusso e Cotugno con testimoni reticenti da parte
dell’accusa e intimidazioni continue ai testi della difesa. Furono quasi 200 gli
anni chiesti come condanna complessiva ai No Tav e non si contano i
risarcimenti. Inutile dire che il processo si concluse dopo i tre gradi di
giudizio con alcune assoluzioni e le condanne dimezzate.
Nel 2013, la Corte d’Assise di Torino bocciò l’impianto accusatorio di
terrorismo ai danni di quattro attivisti No Tav condannati per reati minori.
Interessanti le motivazioni della sentenza: «In realtà non si ritiene che la
programmazione emersa dal tenore delle telefonate oggetto di intercettazione, il
numero di soggetti concorrenti, le armi proprie e improprie utilizzate fossero
di per sé tali da incidere, anche solo potenzialmente, sulla volontà dello Stato
di proseguire i lavori programmati», hanno spiegato i giudici.
L’assalto del 14 maggio 2013 «non era oggettivamente un contesto di particolare
allarme e neppure l’azione posta in essere rivestiva una ‘natura’ tale da essere
idonea a raggiungere la contestata finalità di terrorismo». Proseguono i
giudici: «Pur senza voler minimizzare i problemi per l’ordine pubblico causati
da queste inaccettabili manifestazioni non si può non riconoscere che in Val di
Susa non si viva affatto una situazione di allarme da parte della popolazione e
che nessuna delle manifestazioni violente sino ad ora compiute ha inciso,
neppure potenzialmente, sugli organismi statali interessati alla realizzazione
dell’opera».
Per tornare quindi alla vicenda attuale, la crociata nei confronti del Centro
sociale torinese Askatasuna e del Movimento No Tav inizia nel 2009 per mano
della solerte Digos, producendo un’indagine lunga 13 anni che diventa operativa
in procura dal 2019. La cosiddetta «Operazione Sovrano», dopo centinaia di
intercettazioni, migliaia di pagine, centinaia di agenti e decine di migliaia di
euro spesi in cimici e software, ha portato sui tavoli del tribunale una
quantità di intercettazioni inverosimile, estrapolate da ogni contesto e spesso
frutto di ricostruzioni tendenziose da parte degli agenti, con il solo intento
di rafforzare le tesi già elaborate in partenza. Perché in questa inchiesta, si
vede proprio come Digos e Procura siano partiti dal reato di associazione
sovversiva e abbiano poi fatto di tutto per sostanziarlo.
L’impianto accusatorio si regge sul calcolo statistico per cui all’interno delle
mobilitazioni degli ultimi anni ci sarebbero alcuni soggetti ricorrenti aderenti
al Centro sociale Askatasuna che orchestrano e sovradeterminano le scelte dei
comitati valsusini e delle lotte cittadine.
Il primo Giudice per le indagini preliminari e i giudici del Riesame hanno però
bocciato l’impianto accusatorio riconvertendo l’accusa in associazione semplice
perché il gruppo incriminato sarebbe stato ritenuto privo delle finalità e delle
capacità di sovvertire l’ordine costituito dello Stato, rivelando dunque la
fragilità anche ontologica di tale accusa e rimodulando il focus
sull’associazione a delinquere, più facilmente dimostrabile.
Inizia il processo e come di fatto ammettono i Pubblici ministeri Emanuela
Pedrotta ed Emilio Gatti in una nelle prime udienze, vogliono fare un
esperimento: vedere se, per la prima volta in un tribunale, si può dimostrare
che la finalità di un’associazione a delinquere può essere la ripetizione di
atti violenti di per sé. L’idea quasi lombrosiana che sottintende l’accusa è che
nel caso di Askatasuna la politica sia un mezzo come un altro per fare violenza.
È evidente come dietro questa coltre di finalità criminali evanescenti
individuate nell’indagine vi sia il tentativo di nascondere il vero senso della
militanza politica, che per una Procura non è concepibile possa risiedere
nell’anteporre il benessere collettivo ai propri interessi individuali. Ci
dev’essere insomma «qualcosa dietro»: se non sono i soldi e non è il potere,
bisogna tornare a concezioni della devianza di inizio Novecento. Ma per fare ciò
non basta il Codice penale, bisogna uscire dalle aule dei tribunali e spargere
fango a mezzo stampa.
Ma se l’obiettivo era tentare di isolare i compagni e le compagne che fanno
parte del centro sociale Askatasuna e del Movimento No Tav mostrandoli come dei
burattinai senza scrupoli, nella pratica questa è rimasta una pura fantasia
mediatica per due motivi principali: in primo luogo le lotte sociali in città e
in Valsusa coinvolgono un tessuto eterogeneo di militanti, attivisti e persone
comuni molto più esteso e non riconducibile all’area politica dell’Autonomia
vicina al Centro sociale. Il protagonismo all’interno delle mobilitazioni è
ampio, diffuso e trasversale anche in questi tempi di riflusso generale, dalle
assemblee, alle manifestazioni fino ai momenti di conflitto sociale. In secondo
luogo, è chiaro a molti che nell’ultimo decennio se una «regia» delle tensioni
di piazza c’è stata, questa è imputabile alla Questura e alla sua gestione
repressiva e violenta della protesta.
È chiaro quindi che a Torino si gioca una partita più grande: a essere sotto
processo non sono solo i militanti dell’Askatasuna e del Movimento No Tav ma le
lotte sociali del nostro paese. Il tentativo, infatti, è quello di costruire un
reato specifico contro il conflitto sociale.
La storia del Movimento No Tav ci parla però di altro: racconta di un popolo in
movimento, per la giustizia sociale e in difesa della terra e dell’ambiente. Una
lotta per un presente migliore, certo, ma soprattutto per il futuro di chi
questo pianeta lo abiterà dopo di noi.
*Fasulin è il nome di battaglia della partigiana valsusina Ernestina Cugno, così
soprannominata perché piccola e minuta. Ha dato il suo contributo attivo nella
lotta di Resistenza al nazifascismo in Valsusa. Riconosciuta e onorata con la
medaglia di combattente partigiana.
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La vicenda giudiziaria che vede coinvolto il centro sociale torinese Askatasuna
non è solo cittadina o nazionale, fa parte di una deriva autoritaria globale
di Alessandra Algostino da il manifesto
Il processo a Torino per associazione per delinquere contro 28 militanti del
centro sociale Askatasuna va oltre la valutazione di eventuali responsabilità
penali individuali e colpisce in sé la democrazia come conflitto, come libero
dibattito anche quando le posizioni urtano o inquietano (Cedu, 2005).
È il progetto politico, è l’autorganizzazione dal basso di attività sociali e
culturali che sono sotto processo con la stigmatizzazione e criminalizzazione
per associazione per delinquere. Agire conflitto sociale è associazione per
delinquere, rappresentare e praticare visioni politiche e culturali alternative
è associazione per delinquere, ricostruire dal basso legami sociali sul
territorio è associazione per delinquere.
Ad essere ricondotta alla «delinquenza» e al correlato richiamo alla violenza è
l’idea di alternativa radicale rappresentata dal centro sociale, ovvero quel
dissenso e pluralismo che della democrazia costituiscono l’anima. Askatasuna, e
tutti coloro che sono ad esso riconducibili o accomunati, sono stigmatizzati ed
espulsi dallo spazio democratico. È la costruzione della figura del nemico: non
a caso allo strumento penale si associa la denigrazione mediatica.
Come ha scritto nel 2015 il Tribunale permanente dei popoli a proposito del
movimento No Tav, oggetto paradigmatico del modus operandi della repressione, si
registrano: la «trasformazione delle questioni politiche inerenti le grandi
opere in problemi di ordine pubblico demandati a polizia e magistratura (anche a
mezzo di appositi provvedimenti legislativi o amministrativi di carattere
generale)»; «interventi di polizia e giudiziari assai pesanti da molti
interpretati come metodi diretti a disincentivare e/o bloccare sul nascere
opposizione e protesta»; con i mezzi di comunicazione che «si convertono in
agenti di disinformazione e spesso di contaminazione».
E siamo tutti avvisati: si parte dai margini, da coloro che sono etichettati
come «violenti», «indesiderati» ed «eccedenti» (pensiamo al decreto rave e alla
criminalizzazione del disagio sociale e dei migranti) e si restringe
progressivamente l’orizzonte della democrazia. Per tutti. Si muove dalle
condotte più urticanti e quindi si punisce la resistenza passiva (il disegno di
legge sicurezza insegna).
La sovradeterminazione delle fattispecie penali, l’abuso di misure cautelari e
di sicurezza, si accompagnano a richieste di risarcimento milionarie e assurde,
come le spese per gli agenti a presidio del cantiere Tav in Val Susa. Il diritto
civile e quello amministrativo, dalle ordinanze prefettizie che creano le zone
rosse al daspo urbano, sono impiegati e piegati al compito di imporre un ordine
pubblico che espelle e reprime la divergenza sociale e politica.
Torino come laboratorio di repressione non è un’eccezione, ma una
sperimentazione, coerente con la cappa autoritaria che sta avvolgendo le
democrazie. Anticipa il ddl sicurezza, in coerenza con i provvedimenti in
materia adottati da governi di diverso colore politico nel corso degli anni.
È il neoliberismo autoritario che non tollera l’alternativa (There Is No
Alternative), si salda con l’omogeneizzazione forzata e la repressione della
dissidenza, accompagna la «vertigine della guerra» e l’involuzione di democrazie
neutralizzate, svuotate e infine smembrate apertamente.
Askatasuna associazione per delinquere non è una vicenda solo torinese e nemmeno
nazionale: «associati per delinquere» sono gli universitari della Columbia
perquisiti e perseguiti, è il candidato alla presidenza turca Imamoglu arrestato
con l’accusa di «aver fondato un’organizzazione criminale finalizzata alla
corruzione», è il popolo palestinese oggetto di una – questa sì, criminale –
punizione collettiva.
«Associazione a resistere», come strumento di resistenza dal basso e progetti
come il patto di collaborazione con il comune di Torino nella prospettiva del
bene comune sono segnali controcorrente, che testimoniano la vitalità e la
necessaria complessità della democrazia conflittuale.
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