Il più grande falò di libri che la Storia abbia mai conosciutoIn Italia, nel 2022 sono stati più di cinquecento i casi di ingiuste detenzioni
ed errori giudiziari, mentre dal 1991 al 2022 gli errori giudiziari hanno
coinvolto ben trentamila persone.
di Marco Sommariva da Carmilla
Nel libro Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, romanzo di Carlo
Collodi del 1881, si racconta di un ragazzo che scappa, che si lascia abbagliare
dagli incanti e crede alle illusioni; pagine non accomodanti che, attraverso il
protagonista, ci preparano alle miserie e alle difficoltà della vita, checché ci
racconti la Disney.
Quello che accade a Pinocchio e a chi l’ha messo al mondo, Geppetto, è
terrificante; per esempio, entrambi finiscono in prigione seppur innocenti:
prima il falegname – “il povero Geppetto era condotto senza sua colpa in
prigione” – e poi il burattino: “Il giudice era uno scimmione della razza dei
Gorilla (…). Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno
l’iniqua frode, di cui era stato vittima; dette il nome, il cognome e i
connotati dei malandrini, e finì col chiedere giustizia. Il giudice lo ascoltò
con molta benignità: prese vivissima parte al racconto; s’intenerì, si commosse:
e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il
campanello. A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da
gendarmi. Allora il giudice, accennando Pinocchio ai gendarmi, disse loro: –
Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque
e mettetelo subito in prigione. Il burattino, sentendosi dare questa sentenza
fra capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i gendarmi, a
scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in
gattabuia”.
Passaggi che, a distanza di quasi un secolo e mezzo, continuano a parlare di
noi, di quello che ci sta intorno: è di qualche mese fa la notizia della
liberazione di un uomo della provincia di Cagliari di cinquantotto anni –
trentadue passati dietro le sbarre –, condannato all’ergastolo perché accusato
di triplice omicidio grazie a un testimone che mentì su istigazione di un
agente. E non è un episodio: in Italia, nel 2022 sono stati più di cinquecento i
casi di ingiuste detenzioni ed errori giudiziari, mentre dal 1991 al 2022 gli
errori giudiziari hanno coinvolto ben trentamila persone,
E chissà che mentre si sbattono in cella migliaia di innocenti, non si lascino
in giro volpi, gazze ladre e uccellacci di rapina: “arrivarono a una città che
aveva nome “Acchiappacitrulli”. Appena entrato in città, Pinocchio vide tutte le
strade popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano dall’appetito, di pecore
tosate che tremavano dal freddo, di galline rimaste senza cresta e senza
bargigli, che chiedevano l’elemosina d’un chicco di granoturco, di grosse
farfalle, che non potevano più volare, perché avevano venduto le loro bellissime
ali colorate, di pavoni tutti scodati, che si vergognavano di farsi vedere, e di
fagiani che zampettavano cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne
d’oro e d’argento, ormai perdute per sempre. In mezzo a questa folla di
accattoni e di poveri vergognosi passavano di tanto in tanto alcune carrozze
signorili con dentro o qualche volpe, o qualche gazza ladra o qualche
uccellaccio di rapina”.
Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino non è un romanzo ubbidiente,
addomesticato, quindi non è un libro noioso. Dà ottimi spunti di riflessione:
“non è il vestito bello che fa il signore, ma è piuttosto il vestito pulito.
Oppure Chi ruba il mantello al suo prossimo, per il solito muore senza
camicia”. Offre persino uno slogan su cui, magari, si potrebbe anche iniziare a
costruire la nostra ribellione quotidiana: “quando si nasce Tonni, c’è più
dignità a morir sott’acqua che sott’olio!…”
In un Paese come il nostro, pieno di centri commerciali e supermercati, i cui
abitanti preferiscono di gran lunga spendere cinquanta euro in un pranzo che non
cinque per un libro, dove ogni canale televisivo ha nel proprio palinsesto
almeno un programma dedicato alla cucina, Collodi ci ricorda chi eravamo, da
dove veniamo: “Il povero Pinocchio corse subito al focolare, dove c’era una
padella che bolliva e fece l’atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse
dentro, ma la pentola era dipinta sul muro. Figuratevi come restò. (…) Allora si
dette a correre per la stanza e a frugare per tutte le cassette e per tutti i
ripostigli in cerca di un po’ di pane, magari di un po’ di pan secco, d’un
crosterello, d’un osso avanzato al cane, d’un po’ di polenta muffita, d’una
lisca di pesce, d’un nocciolo di ciliegia, insomma di qualche cosa da masticare:
ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio nulla. E intanto la fame cresceva, e
cresceva sempre: e il povero Pinocchio non aveva altro sollievo che quello di
sbadigliare: e faceva degli sbadigli così lunghi, che qualche volta la bocca gli
arrivava fino agli orecchi. E dopo avere sbadigliato, sputava: e sentiva che lo
stomaco gli andava via. (…) Oh! che brutta malattia che è la fame!”
Fame dettata dalla miseria. Quella miseria palpabile anche ai bambini, quella
che percepivi in casa quando, tra la fine degli anni Sessanta e la metà dei
Settanta, si lasciava da pagare nei negozi di alimentari e si comprava a rate il
giubbotto che ti avrebbe riparato dal freddo per almeno i dieci anni seguenti,
sempre ammesso non ti fosse toccato quello dismesso da tuo fratello più grande.
“soggiunse il burattino […] – Mi manca l’Abbecedario.
– Hai ragione: ma come si fa per averlo?
– È facilissimo: si va da un libraio e lo si compra.
– E i quattrini?…– Io non ce l’ho.
– Nemmeno io – soggiunse il buon vecchio, facendosi triste.
E Pinocchio, sebbene fosse un ragazzo allegrissimo, si fece triste anche lui:
perché la miseria, quando è miseria davvero, la intendono tutti: anche i
ragazzi”.
Quella miseria che tra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta
abbiamo vissuto in tanti, era frutto di un sistema che riusciva a far lavorare
sedici, diciotto ore al giorno moglie e marito – lei correndo da una conca di
bucato lavato a mano al rammendo di qualsivoglia indumento o tessuto di casa;
lui spaccandosi la schiena con due giornate consecutive di lavoro, solitamente
la seconda in nero –, ma senza mai permettere loro d’aver in tasca un quattrino
da spendere per un cinema o un giro di giostra.
“Mangiafuoco chiamò in disparte Pinocchio e gli domandò:
– Come si chiama tuo padre?
– Geppetto.
– E che mestiere fa?
– Il povero.
– Guadagna molto?
– Guadagna tanto, quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca”.
Altro romanzo italiano datato, non accomodante, imperdibile, capace di
prepararci alle miserie e alle difficoltà della vita è Sull’oceano di Edmondo De
Amicis: “Quando arrivai, verso sera, l’imbarco degli emigranti era già
cominciato da un’ora […]. La maggior parte, avendo passato una o due notti
all’aria aperta, accucciati come cani per le strade di Genova, erano stanchi e
pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti
[…] passavano, portando quasi tutti una seggiola pieghevole sotto il braccio,
sacche e valigie d’ogni forma alla mano o sul capo, bracciate di materasse e di
coperte, e il biglietto col numero della cuccetta stretto fra le labbra. Delle
povere donne che avevano un bambino da ciascuna mano, reggevano i loro grossi
fagotti coi denti […] molti erano scalzi, e portavan le scarpe appese al collo.
Di tratto in tratto passavano tra quella miseria signori vestiti di spolverine
eleganti, preti, signore con grandi cappelli piumati, che tenevano in mano o un
cagnolino, o una cappelliera, o un fascio di romanzi francesi illustrati,
dell’antica edizione Lévy”.
Questo romanzo, edito nel 1889, ha l’ambizione di raccontare le violenze e le
ingiustizie della vita affrontando il tema dell’emigrazione dall’Italia – sì,
avete letto bene, dall’Italia – un fenomeno di dimensioni tali da incidere
profondamente, tra Ottocento e Novecento, sulle sorti demografiche ed economiche
del nostro Paese.
Ditemi voi se non riconoscete in questo passaggio ciò che quotidianamente
vediamo alla televisione, mentre ci gustiamo il piatto suggerito il giorno prima
dal nostro MasterChef preferito: “lo spettacolo eran le terze classi, dove la
maggior parte degli emigranti, presi dal mal di mare, giacevano alla rinfusa,
buttati a traverso alle panche, in atteggiamenti di malati o di morti, coi visi
sudici e i capelli rabbuffati, in mezzo a un grande arruffio di coperte e di
stracci. Si vedevan delle famiglie strette in gruppi compassionevoli, con
quell’aria d’abbandono e di smarrimento, che è propria della famiglia senza
tetto […]. Oppure: […] il peggio era sotto, nel grande dormitorio, di cui
s’apriva la boccaporta vicino al cassero di poppa: affacciandovisi, si vedevano
nella mezza oscurità corpi sopra corpi, come nei bastimenti che riportano in
patria le salme degli emigrati chinesi; e veniva su di là, come da uno spedale
sotterraneo, un concerto di lamenti, di rantoli e di tossi, da metter la
tentazione di sbarcare a Marsiglia”.
Sull’oceano è un libro feroce, indomabile: “Il prete lungo era un napoletano,
stabilito da circa trent’anni nell’Argentina, dove ritornava dopo un breve
viaggio in Italia, fatto, diceva (ma era dubbio), per vedere il Papa. […] Si
capiva che doveva aver curato altrettanto la borsa propria che l’anima altrui,
facendosi pagar matrimoni e sepolture a prezzi d’affezione, tant’è vero che si
vantava francamente d’aver messo insieme un buon gruzzolo, e non parlava d’altro
che di pesos […]”.
Un libro nient’affatto consolatorio visto che ci ricorda che, quasi un secolo e
mezzo prima, già esistevano esseri che s’arricchivano su miserie e disperazioni
altrui: Non mi potevo levar dal cuore che ci avevano pure una gran parte di
colpa, in quella miseria, la malvagità e l’egoismo umano: […] tanta caterva
d’impresari e di trafficanti, che voglion far quattrini a ogni patto, non
sacrificando nulla e calpestando tutto, dispregiatori feroci degli istrumenti di
cui si servono, e la cui fortuna non è dovuta ad altro che a una infaticata
successione di lesinerie, di durezze, di piccoli ladrocini e di piccoli inganni,
di briciole di pane e di centesimi disputati da cento parti, per trent’anni
continui, a chi non ha abbastanza da mangiare. E poi mi venivano in mente i
mille altri, che, empitisi di cotone gli orecchi, si fregan le mani, e
canticchiano; e pensavo che c’è qualche cosa di peggio che sfruttar la miseria e
sprezzarla: ed è il negare che esista, mentre ci urla e ci singhiozza alla
porta. Oppure: […] pensavo ai molti altri che, imbarcati per l’America da
agenzie infami, erano stati sbarcati a tradimento in un porto d’Europa, dove
avevan dovuto tender la mano per le vie; o avendo pagato per viaggiare in un
piroscafo, erano stati cacciati in un legno a vela, e tenuti in mare sei mesi; o
credendo di esser condotti al Plata, dove li aspettavano i parenti e il clima
del loro paese, erano stati gittati sulla costa del Brasile, dove li avevan
decimati il clima torrido e la febbre gialla.
Questa era la nostra miseria. Miseria italiana: “tutta questa miseria è
italiana! – pensavo ritornando a poppa. E ogni piroscafo che parte da Genova n’è
pieno, e ne parton da Napoli, da Messina, da Venezia, […] ogni settimana, tutto
l’anno, da decine d’anni! E ancora si potevan chiamare fortunati, per il viaggio
almeno, quegli emigranti [di questo piroscafo], in confronto ai tanti altri che,
negli anni andati, per mancanza di posti in stiva, erano stati accampati come
bestiame sopra coperta, dove avevan vissuto per settimane inzuppati d’acqua e
patito un freddo di morte; e agli altri moltissimi che avevan rischiato di
crepar di fame e di sete in bastimenti sprovvisti di tutto, o di morir
avvelenati dal merluzzo avariato o dall’acqua corrotta. E n’erano morti”.
Dato che si parla di miseria italiana, potreste pensare che De Amicis ci stia
parlando dei “soliti” meridionali. Non è così: “La maggior parte degli
emigranti, come sempre, provenivano dall’Italia alta, e otto su dieci dalla
campagna. […] A tutti questi italiani eran mescolati degli Svizzeri, qualche
Austriaco, pochi Francesi di Provenza. Quasi tutti avevan per meta l’Argentina,
un piccolo numero l’Uruguay […]”.
Oppure potreste pensare quello che dicono sempre più italiani quando commentano
uno sbarco di migranti sulle nostre coste, che De Amicis ci stia raccontando di
bastimenti stipati unicamente da pelandroni e mezzi delinquenti. Non è così:
“Certo, in quel gran numero, ci saranno stati molti che avrebbero potuto campare
onestamente in patria, e che non emigravano se non per uscire da una mediocrità,
di cui avevano torto di non contentarsi; ed anche molti altri che, lasciati a
casa dei debiti dolosi e la reputazione perduta, non andavano in America per
lavorare, ma per vedere se vi fosse miglior aria che in Italia per l’ozio e la
furfanteria. Ma la maggior parte, bisognava riconoscerlo, eran gente costretta a
emigrare dalla fame, dopo essersi dibattuta inutilmente, per anni, sotto
l’artiglio della miseria. […] Tutti costoro non emigravano per spirito
d’avventura. Per accertarsene bastava vedere quanti corpi di solida ossatura
v’erano in quella folla, ai quali le privazioni avevano strappata la carne, e
quanti visi fieri che dicevano d’aver lungamente combattuto e sanguinato prima
di disertare il campo di battaglia”.
L’autore non parla per sentito dire, racconta ciò che vede coi propri occhi
quando, nel 1884, decide d’imbarcarsi sul piroscafo Nord-America – tratta
Genova-Buenos Aires – apposta per vivere di persona la traversata atlantica dei
nostri connazionali e poi descriverla.
De Amicis non ci va molto per il sottile con le considerazioni sociali: “Una
politica disposta sempre a leccar la mano al più potente, chiunque fosse; uno
scetticismo tormentato dal terrore segreto del prete; una filantropia non
ispirata da sentimenti generosi degli individui, ma da interessi paurosi di
classe. […] Una passione furiosa in tutti d’arrivare, non alla gloria, ma alla
fortuna; l’educazione della gioventù non rivolta ad altro; ciascuna famiglia
mutata in una ditta senza scrupoli, che batterebbe moneta falsa per far strada
ai figliuoli. […] Metà degli uomini che avevan data la vita per la redenzione
dell’Italia, se fossero risuscitati, si sarebbero fatti saltare le cervella.
Oppure: […] si spende tutto a mantener soldati, milioni a mucchi in cannoni e in
bastimenti, […] e alla povera gente nessuno ci pensa […]”.
Sono circa quarant’anni che leggo, in media, cinquanta libri l’anno, e spesso mi
son domandato quanto son stato sfortunato nell’aver trovato con troppa
difficoltà in questi circa duemila volumi, pagine capaci di raccontare i nostri
tempi con la stessa energia di Collodi e De Amicis, con la stessa crudeltà;
pagine con gli stessi lampi di verità, la stessa capacità di frugarmi dentro,
farmi saltare sulla sedia, togliermi il fiato, prive di accomodamenti e passaggi
costruiti a tavolino e, quindi, bugiardi e noiosi. Però poi mi sono anche
chiesto se davvero queste pagine non vengono più scritte perché magari gli
stessi autori si autocensurano o se, “per caso”, sono gli editori a non
pubblicarle più, forse perché neanche le ricevono: potrebbe essere che siano gli
agenti letterari a scartarle prima? Chissà. Nel dubbio, rivolgo un appello a
coloro che sanno d’avere delle responsabilità in questo senso: smettetela, per
piacere. Perché dovreste smetterla? Perché potrebbe succedere che un giorno –
azzerate in qualche modo queste pagine, cancellate definitivamente dalla faccia
della Terra – passi la voglia di cercarle o, in crisi d’astinenza, si scambi
della scialba mercanzia per dei capolavori e, delle due, non so davvero quale
sia la conseguenza peggiore.
Un’ultima cosa, nel caso passasse la voglia di cercare queste pagine
entusiasmanti, folgoranti, potrebbe anche passar la voglia di leggerle e poi,
chissà, di leggere in generale, e questo è tremendo perché, si sa, i libri
esisteranno sino a quando avremo voglia di leggerli, e allora mi domando: non
sarà che è già in atto il più grande falò di libri che la Storia abbia mai
conosciuto e per di più senza che nessuno abbia innescato questo gigantesco rogo
con una vera fiamma? Non sarà che stanno andando in fumo anche le nostre anime?
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