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Ha troppi libri in casa: arrestiamolo!
Durante il regime fascista, nel carcere di San Vittore Antonio Gramsci aveva diritto a otto libri la settimana. Nei giorni scorsi il carcere di Sassari Bancali ha vietato ad Alfredo Cospito l’acquisto di un testo sui vangeli apocrifi, uno di fisica quantistica e due di fantascienza di Marco Sommariva* Su un articolo di Frank Cimini  ho letto che ad Alfredo Cospito, anarchico detenuto al 41bis, è stato vietato l’acquisto di quattro libri: un testo sui vangeli apocrifi, uno di fisica quantistica e due di fantascienza. Scrive Cimini: “La direzione del carcere di Sassari Bancali ne ha vietato l’acquisto […] adducendo un parere negativo dell’autorità giudiziaria che non vi sarebbe stato secondo i difensori, i quali hanno presentato ricorso. Sarà celebrata un’udienza per stabilire se Cospito può avere quei libri perché evidentemente la giustizia ha tempo da perdere”. Spiega l’avvocato di Alfredo Cospito, Flavio Rossi Albertini: “Nell’ultimo mese a Cospito era stato negato pure l’acquisto di un cd musicale. Era stato negato l’accesso alla biblioteca del carcere che non aveva neppure provveduto a ritirare tempestivamente un pacco inviatogli dalla sorella, determinandone il rinvio al mittente”. Cimini ci mette anche al corrente che in “relazione all’accesso alla biblioteca la direzione della prigione spiegava che il «disguido» era stato generato da problemi organizzativi interni e che sarebbe stato emesso apposito ordine di servizio. Le condizioni di detenzione di Cospito ristretto al 41bis sono peggiorate non proprio per caso dopo la condanna in primo grado per rivelazione del segreto d’ufficio del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove per la vicenda delle intercettazioni ambientali divulgate in Parlamento, delle conversazioni tra Alfredo e gli altri reclusi che all’epoca facevano parte del «gruppo di socialità»”. In un’edizione elettronica a cura dell’International Gramsci Society, delle Lettere dal carcere 1926-1937 di Antonio Gramsci, in una missiva inviata dal leader comunista a Tatiana Schucht – insegnante e traduttrice russa da tutti chiamata Tania, cognata e figura centrale nella biografia del filosofo e politico italiano durante la sua prigionia, elemento di collegamento tra Gramsci, il partito e la famiglia d’origine – leggo questo passaggio: “Carissima Tania […] Ricevo durante il giorno cinque giornali quotidiani: Corriere, Stampa, Popolo d’I., Giornale d’I., Secolo. Sono abbonato alla biblioteca, con doppio abbonamento e ho diritto a 8 libri la settimana. Compro ancora qualche rivista e «Il Sole», giornale economicofinanziario di Milano. Così leggo sempre. Ho letto già i Viaggi di Nansen e altri libri di cui ti parlerò un’altra volta” – il passaggio è testuale, ovviamente, compreso il termine “economicofinanziario” tutto attaccato e le abbreviazioni. Prima di trarre conclusioni sui due episodi avvenuti a circa un secolo di distanza, per correttezza preciso che la lettera in questione si riferisce a un momento in cui Gramsci si trovava nel carcere di San Vittore in attesa di giudizio e non al periodo della carcerazione vera e propria, dopo la condanna definitiva… durante quegli anni, dalla fine del 1928 alla fine del 1933, quando per la sue condizioni di salute verrà trasferito in una clinica, sempre in regime di detenzione, ci furono periodi in cui poteva leggere i quotidiani e altri no… in ogni caso, però, aveva sempre la possibilità, oltre che di accedere alla biblioteca del carcere, di ricevere dall’esterno libri e riviste, che però prima di venirgli concesse in lettura, dovevano passare il vaglio del direttore del carcere, che in alcuni casi glieli negava… dal febbraio 1929, infine, ottiene la possibilità di tenere in cella il necessario per scrivere. Terminata questa doverosa precisazione, credo sia importante ragionare un po’ sulle differenze fra il trattamento a cui è stato sottoposto sottoposto Antonio Gramsci dall’allora dittatura fascista e quello riservato ad Alfredo Cospito dall’attuale governo democratico. Probabilmente ha ragione Frank Cimini quando scrive: “Alfredo Cospito sta continuando a pagare sulla propria pelle il lunghissimo sciopero della fame per protestare contro il 41bis non solo e non tanto per sé ma per gli altri 700 detenuti ai quali viene applicato. Le simpatie suscitate dal digiuno avevano messo in imbarazzo il sistema che da allora si sta vendicando. Era stato considerato una sorta di sciopero della fame «a scopo di terrorismo». La storia dei libri negati è solo l’ultimo episodio di una lunga serie”. Di certo, sono d’accordo con lui quando conclude che “negare la possibilità di leggere rappresenta una tortura ulteriore” e che i libri sono pericolosi; non sarà di sicuro un caso se, negli anni ’70, un bambino pare sia giunto a spiegare così l’arresto del padre «terrorista»: “Aveva troppi libri in casa”. Chiudo ricordando quanto scriveva il reazionario – pensa te! – Ray Bradbury in uno dei suoi capolavori, il romanzo Fahrenheit 451 pubblicato nel 1953: “[…] un libro è un fucile carico, nella casa del tuo vicino. Diamolo alle fiamme! Rendiamo inutile l’arma. Castriamo la mente dell’uomo. Chi sa chi potrebbe essere il bersaglio dell’uomo istruito?”. Altro non aggiungerei.   *scrittore sul sito  www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
Editoriale
“Legislazione del nemico”: quando la pericolosità è percepita
Invece di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, lo stato li crea, colpendo in modo sproporzionato le categorie più vulnerabili della società. di Nicola Canestrini da il dubbio Negli ultimi anni, in molti ordinamenti democratici anche europei, si è assistito a un incremento dell’adozione di misure legislative che privilegiano un approccio securitario e populista, attribuendo un potere crescente alle forze dell’ordine e al contempo restringendo diritti e libertà fondamentali. In Italia, la legislatura attuale ha consolidato questa tendenza con l’introduzione di nuove fattispecie penali, l’inasprimento delle pene e la marginalizzazione di specifiche categorie sociali. Non si tratta di una legittima messa in opera di un programma politico, che ha del resto trovato legittimazione nel risultato elettorale, ma di un attentato ai diritti fondamentali, secondo una logica sottostante che pare essere quella della cosiddetta “legislazione del nemico”, un approccio che non solo crea categorie di persone percepite come pericolose, ma le trasforma in bersagli prioritari per l’azione punitiva dello Stato. Il concetto di “legislazione del nemico”, teorizzato da Gunther Jakobs, si basa sull’idea che alcuni individui, a causa della loro percepita pericolosità, perdano la loro qualifica di soggetti di diritto e vengano trattati esclusivamente come oggetti di prevenzione o repressione. Nel caso italiano, questa logica ha trovato un esempio paradigmatico nel cosiddetto decreto Anti-rave (Dl 162/2022), che introduce il reato di “invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi”. La norma, originariamente presentata per contrastare i rave party, definisce in termini ampi e vaghi le situazioni che configurano il reato, rendendo possibile la sua applicazione a manifestazioni politiche e sociali e criticata da giuristi e organizzazioni per i diritti umani per la sua potenziale incompatibilità con il diritto alla libertà di riunione (articolo 17 della Costituzione). Il decreto non solo amplia il controllo dello Stato su eventi privati, ma legittima un approccio punitivo a scapito di soluzioni preventive e dialogiche, e senza affrontare i problemi sottesi, che vengono semplicemente rimossi (recte: risolti tramite criminalizzazione). La preoccupante tendenza emerge in maniera ancora più evidente in alcune norme dell’ennesimo, recente decreto cosiddetto sicurezza, che accentuano la criminalizzazione di determinate categorie sociali, come migranti, giovani delle periferie e minorenni, e attivisti politici (sgraditi al potere), donne detenute. Insomma: lo Stato, lungi dall’intervenire rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini e impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (come imposto dall’articolo 3 della Costituzione), crea ostacoli, colpendo in modo sproporzionato le categorie più vulnerabili della società. Queste norme, più che garantire la sicurezza, alimentano un senso di esclusione e ostilità nei confronti di chi già vive ai margini della società. Un esempio? Si pensi alle norme sulle zone rosse, una delle ultime iniziative d’effetto per limitare l’accesso a determinate aree urbane a individui “con atteggiamenti” (?) pericolosi o molesti, violano palesemente il diritto alla libertà di circolazione sancito dall’articolo 16 della Costituzione italiana. Queste misure non sono basate su condanne penali, ma su mere segnalazioni o peggio ipotesi predittive, lasciando ampi margini di discrezionalità alle autorità di polizia. Il ddl 1160 – come altre norme, annunciate o varate – prevede un significativo rafforzamento dei poteri delle forze dell’ordine, in un contesto che già vede un crescente squilibrio tra le autorità statali e i diritti dei cittadini. L’incremento dei poteri discrezionali delle forze dell’ordine, già evidente nelle misure di prevenzione come l’avviso orale o le cosiddette misure rosse, pur ampiamente festeggiate dai politici della maggioranza, si traduce in una crescente asimmetria tra Stato e cittadini, minando il principio di uguaglianza davanti alla legge. Una delle caratteristiche distintive della “legislazione del nemico” è la criminalizzazione del dissenso politico e sociale. Il governo e la sua maggioranza si sono distinti nel pensare a norme che colpiscono duramente manifestazioni, proteste e occupazioni, ampliando la portata delle fattispecie penali e aumentando le pene. Si è addirittura pensato di concepire un reato di “rivolta negli istituti penitenziari e nei centri di detenzione per migranti” punendo anche la resistenza passiva (!) con pene fino a 5 anni di reclusione, tralasciando invece completamente le cause delle proteste (senza curarsi nemmeno dei numeri drammatici di suicidi fra detenuti e personale penitenziario). Si tratta di disposizioni solo apparentemente giustificate da ragioni di ordine pubblico, che invece limitano de facto diritti costituzionali, ivi compreso quello di manifestazione del pensiero, definito nel 1969 “pietra angolare del sistema democratico” dalla Corte costituzionale, riducendo lo spazio per il dissenso e intimidendo i cittadini che intendono esercitare i propri diritti costituzionali. La “legislazione del nemico” non è soltanto una minaccia per i diritti individuali, ma pone un rischio sistemico per la democrazia. L’introduzione di misure straordinarie, spesso giustificate da emergenze reali o percepite, mina i principi fondamentali dello Stato di diritto, come la presunzione d’innocenza, la separazione dei poteri e il diritto a un equo processo. Il frequente ricorso alla decretazione d’urgenza, o lo strangolamento del dibattito pubblico e/o parlamentare, impedisce un dibattito democratico informato e concentrano il potere decisionale nelle mani dell’Esecutivo. Questa pratica, oltre a indebolire il ruolo delle istituzioni rappresentative, riduce la trasparenza e la legittimità delle decisioni legislative. Inoltre, la creazione di nuove fattispecie penali e l’inasprimento delle pene, senza un adeguato bilanciamento con politiche di inclusione e prevenzione, rischiano di trasformare il sistema penale in uno strumento di controllo sociale, piuttosto che di giustizia. Per contrastare la crescente tendenza alla deriva autoritaria, è necessario riaffermare i principi di proporzionalità, uguaglianza e giustizia sociale, promuovendo politiche che affrontino le cause profonde del disagio sociale e della criminalità, piuttosto che limitarsi a reprimerne gli effetti. Solo attraverso un rafforzamento delle garanzie costituzionali e dei diritti fondamentali, con un ritorno a una visione inclusiva della società, sarà possibile preservare la coesione sociale e la dignità di ogni individuo. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
Editoriale
Chico, i maranza e il populismo mediatico
L’attenzione dei media alle vicende giudiziarie è, insieme, crescente (fino a trasmissioni televisive dedicate) e a corrente alterna, a seconda del clamore dei fatti e dello status sociale di vittime e protagonisti. Così la stampa e i mezzi di comunicazione di massa, anziché strumenti di controllo del potere, diventano armamentario di disinformazione e propaganda volte a riprodurre paure, pregiudizi e divisioni sociali. di Vincenzo Scalia da Volere la Luna La concessione, nei giorni scorsi, della misura della semi-libertà ad Alberto Stasi, lo studente condannato per l’omicidio della sua fidanzata, Chiara Poggi, ha fatto plaudire svariati settori dell’opinione pubblica. In nome del fatto che probabilmente sia innocente e il caso verrà riaperto. Il fatto che un cittadino che si proclama innocente possa avere la possibilità di far valere le sue ragioni, costituisce, per i nostri parametri, un fatto positivo. Voltaire, d’altronde, diceva che è meglio un colpevole fuori che un innocente dentro. La vita, la libertà e la reputazione di un cittadino o di una cittadina, rappresentano beni inalienabili, da non sacrificare sull’altare della giustizia a tutti i costi. Soprattutto, la riapertura di un caso giudiziario già definito, è indice della capacità, del sistema giudiziario-penale italiano, di elevarsi al di sopra del giustizialismo e dell’arbitrarietà. Dall’altro lato, la riapertura del caso relativo all’omicidio di Garlasco, suscita alcune riflessioni, da articolare non tanto sul piano giuridico-penalistico, quanto su quello socio-culturale, dal momento che l’innocenza di Stasi viene proclamata all’interno di un contesto caratterizzato da un’onda montante di populismo penale. In questi ultimi anni, in particolare, abbiamo assistito alla progressiva costruzione della rappresentazione dei giovani, soprattutto minorenni, come nuova classe pericolosa. Sull’onda di questa narrazione sono stati emanati il decreto anti-rave e quello Caivano, che ha snaturato uno dei migliori sistemi penali minorili d’Europa. Inoltre, altri casi, come quello relativo al delitto di Avetrana, la cui sentenza, che condanna all’ergastolo Cosima Misseri e Sabrina Serrano per l’omicidio della giovane Sarah Scazzi, vengono trascurati. Sembrerebbe che esista uno squilibrio di valutazione tra i diversi casi di colpevolezza e innocenza, nonché nella costruzione di panico morale. Si tratta di uno squilibrio che affonda le origini nelle disuguaglianze di classe, all’interno del quale la sfera mediatica svolge un ruolo da protagonista. All’interno del circuito dentro il quale viene costruito il panico morale, che parte da settori del pubblico, viene intercettato e rifinito dai media, recepito dalla sfera politica, per approdare infine allo stadio finale di politiche repressive. L’apparato dei mezzi di comunicazione di massa, o meglio, l’industria mediatica, riesce a ricavarsi una rendita di posizione agevolata dall’assenza di altri filtri, come quelli che una volta svolgevano le organizzazioni di massa, per ricavarsi un’audience che attragga investimenti pubblicitari e garantisca profitti. Il caso giudiziario, dove sono in gioco le variabili sopraccitate della vita, della reputazione e della libertà individuale, viene così ridotto a un prodotto mediatico, confezionato su misura dei pregiudizi che orientano la percezione di una parte consistente dell’opinione pubblica italiana. Per un’analisi di questa asimmetria, che in ultima analisi fa leva sulle differenze di classe, si può fare ricorso alla categoria di intersezionalità, elaborata, sul solco teorico di Antonio Gramsci, dalla pensatrice afroamericana Kimberlè Crenshaw, che sottolinea come anche le lotte più radicali non tengono in considerazione la posizione dagli attori occupata all’interno dei rapporti sociali. Il caso di Alberto Stasi ha ricevuto un sostegno rilevante da una trasmissione televisiva come Le Iene, in onda su Italia 1 Si tratta di una trasmissione ad alto tasso di popolarità, che basa la ricerca di audience su casi che indignano la coscienza collettiva in nome della violazione delle regole della convivenza civile. Le truffe di maghi di provincia, i crimini di strada, sono tra i principali contenuti della trasmissione. È famosa la vicenda di una ex-giocatrice di pallamano di origine africana, in seguito caduta in disgrazia, che la trasmissione scoprì a fumare crack durante la gravidanza, sollecitando un provvedimento del tribunale dei minori che le tolse il bambino. Dall’altro lato, Le Iene, hanno condotto campagne che si potrebbero definire in senso lato come “garantiste”, nonché come critiche degli abusi di potere. È infatti all’interno della stessa trasmissione che, oltre al caso di Alberto Stasi, si è lanciata la campagna, poco fortunata, per riaprire il caso del delitto di Erba, per la quale sono stati condannati all’ergastolo i coniugi Rosa Angela Bazzi e Olindo Romano. Così come è stata sollevata l’attenzione dell’opinione pubblica sulla vicenda di Chico Forti, l’imprenditore trentino condannato al carcere a vita negli USA e in seguito trasferito in Italia. Anche la vicenda della morte di Riccardo Magherini in seguito all’intervento dei Carabinieri, a Firenze, nel 2014, ha ricevuto rilevanza mediatica in seguito all’interessamento de Le Iene. In una sorta di divisione del lavoro sensazionalista, certe trasmissioni di Rai Tre si occupano di crimini dei potenti, quelle Mediaset del penale quotidiano. La trasmissione Mediaset ormai si colloca nella posizione di veri e propri stakeholders del senso comune giudiziario, che orienta l’attenzione dell’opinione pubblica su casi eclatanti. L’apparente par condicio tra errori giudiziari e criminalità di strada, tuttavia, andrebbe valutata sotto due aspetti. Il primo è quello dell’audience. Casi “forti”, come quelli degli errori giudiziari o della morte di un giovane per presunti abusi delle forze dell’ordine, sono destinati a catturare l’audience a partire dalla forma sensazionalistica in cui vengono presentati. Ma, in secondo luogo, bisogna valutare un altro aspetto a partire, appunto, dall’intersezionalità. Alberto Stasi è stato dipinto da più parti come un ragazzo modello, di buona famiglia, studente alla Bocconi di Milano. Anche Chico Forti viene presentato come un imprenditore di successo. Si tratta, in altre parole, di persone pienamente integrate all’interno dei modelli vincenti proposti dal neoliberismo. Anche Riccardo Magherini era un giovane di buona famiglia, ex-calciatore, imprenditore, padre di famiglia. Quanto a Rosa e Olindo, bisogna fare un discorso diverso. Erano di condizione sociale modesta, venditori ambulanti. Il marito era addirittura un immigrato pugliese. Ma si tratta, tuttavia, di italiani, di persone che l’immaginario comune, in particolare quello del Centro-Nord ha assorbito quantomeno dai tempi del terrunciello proposto da Diego Abatantuono. Inoltre, la loro italianità spicca rispetto al vedovo di una delle vittime, Aziz Marzouk, tunisino, con precedenti per spaccio. Nonché verso la famiglia Castagna, perita nella tragedia, che aveva accolto al proprio interno uno straniero, intaccando la purezza immaginaria della comunità. Come altri casi, come il delitto di Cogne, le vicende sopraccitate alzano il livello di attenzione dell’opinione pubblica in misura direttamente proporzionale alla paura di intaccarne le autorappresentazioni rassicuranti. L’Italia produttiva, attaccata alla roba, che manda i figli nelle università esclusive per manager, bramosa di legge e ordine, non può tollerare l’idea che tra le proprie schiere si nasconda un assassino, o che i propri sforzi vengano vanificati da un intervento energico delle forze dell’ordine. Il male sono gli altri, quelli che stanno al di fuori dal perimetro degli inclusi. E conferisce alla grancassa mediatica il compito di interpretare e amplificare questo disagio. Inoltre, mettere in rilievo questi casi ed ottenerne la riapertura o il trasferimento di Chico Forti in Italia, conferma la validità della narrazione del populismo penale. Lo Stato deve condannare tutte le illegalità, a partire dalle più piccole, e difendere i cittadini, purché la legalità prevalga. Viceversa, nel caso di Avetrana, la cui sentenza ha destato e desta più di una perplessità, basata su coerenze logiche, senza una prova empirica, che rigetta una confessione (la sentenza è reperibile e leggibile), si pone al di fuori di questo schema. È una vicenda che si è svolta al sud, ovvero la palla al piede della società italiana, in nome del quale si promuove l’autonomia differenziata. Inoltre, il contesto sottoproletario all’interno del quale si è svolta la tragica faccenda di Sarah Scazzi, si confà alle rappresentazioni dominanti delle famiglie meridionali come aggregati torbidi, lombrosianamente primordiali, per i quali non vale la pena condurre inchieste o lanciare campagne di riapertura del processo. L’approccio intersezionale risulta utile per comprendere la montata dell’onda di panico morale concernente la devianza minorile dell’ultimo quinquennio. La serie televisiva Mare Fuori, che ha aperto le danze del panico morale, non a caso è ambientata a Napoli, la città dei guappi e degli scugnizzi per l’immaginario collettivo, quindi bacino di baby gangs e branchi imprecisati di minori che minacciano la convivenza civile. Lo spettro della stigmatizzazione, gradualmente, ha finito per risalire la penisola, ponendo attenzione su quelli che il principale quotidiano italiano, da qualche tempo, definisce come maranza, dedicando loro un’inchiesta apposita. Anche in questo caso, il pericolo, viene rappresentato come un’anomalia che proviene dall’esterno di un tessuto comunitario che si autorappresenta come compatto. Il soprannome di maranza, fin dagli anni ottanta, designa i giovani delle periferie che non potevano permettersi di vestirsi secondo la moda delle griffes, né di status symbol come auto e moto. Il termine adesso è stato esteso ai membri delle presunte baby gangs, tutti residenti nelle periferie o nei non luoghi delle aree metropolitane diffuse e quasi sempre di origine migrante o rom. Gruppi sociali che spesso patiscono la carenza di status giuridici e di risorse come una difesa adeguata, un interprete, un mediatore culturale, finendo per essere sovra-rappresentati all’interno del sistema penitenziario. Dove formano una delle componenti più presenti nel tragico rosario dei suicidi all’interno delle patrie galere. Se dovessimo spostarci poi sul fronte degli abusi, delle morti in circostanze non del tutto chiare, ci toccherebbe imbatterci in un numero oscuro, che molto difficilmente riusciremmo a rischiarare. A questi casi, se volessimo declinare una legalità all’insegna del dettato costituzionale, quindi dei diritti e delle priorità, un giornalismo che si auto-qualifica come “d’inchiesta”, dovrebbe dare la priorità, per sfrondare, come direbbe il poeta, gli allori di legge ed ordine, e svelare alle genti di che lacrime e che sangue grondano. Un compito arduo, che forse non farebbe audience. Ma la stampa, i mezzi di comunicazione di massa, dovrebbero essere strumenti di controllo del potere, e non, come purtroppo quotidianamente assistiamo, armamentario di disinformazione e propaganda di massa volta a riprodurre paure, pregiudizi, divisioni sociali. Sarebbe importante di assumerne consapevolezza al più presto. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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Editoriale
A un funerale, ricordiamolo, si va in scena
Si può rinunciare a un tale palcoscenico in questo nostro mondo fondato sull’immagine? Il famoso “No, tu no!” di Jannacci è la risposta classica dell’emarginazione a prescindere: può questa arrivare a escluderti anche da un funerale? di Marco Sommariva* Faith è il titolo del terzo album del gruppo inglese The Cure; pubblicato nel 1981, è stato la colonna sonora dei miei diciott’anni insieme a Closer dei Joy Division. Di Faith ho il vinile acquistato all’epoca e un cd comprato qualche anno fa così da poter ascoltare il disco anche in auto e stamattina, mentre dagli altoparlanti della macchina mi arrivavano le note del pezzo The funeral party che non so quante migliaia di volte mi son goduto in vita mia, son stato folgorato dal passaggio “I heard a song and turned away”, ossia “Ho sentito una canzone e mi sono voltato”. Son stato folgorato perché, poco prima di far partire The funeral party, l’autoradio era sintonizzata su una stazione che trasmetteva il brano Vengo anch’io, no tu no di Fiorentini, Fo e Jannacci, cantata da quest’ultimo. Vengo anch’io, no tu no è un meraviglioso pezzo di fine anni Sessanta che diede voce agli esclusi, che parla di quella parte di umanità relegata sempre ai margini di qualsiasi sfera – sociale, politica, famigliare, eccetera – raccontando di un uomo che viene continuamente respinto da tutti e tutto, perfino dal suo stesso funerale: “Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale/Vengo anch’io?/No, tu no”. “No, tu no!” pare essere la risposta classica dell’emarginazione a prescindere. Ecco cosa dovevo fare stamattina: voltarmi dopo aver sentito la canzone Vengo anch’io, no tu no. Ma non voltarmi da un’altra parte – questa è materia per pavidi, per miserabili –, bensì voltarmi indietro per guardare al passato. E così la mente ha iniziato a guardare indietro chiedendosi se davvero può esser successo che qualcuno è stato escluso dal proprio funerale e la risposta è stata tanto rapida quanto semplice: sì, la persona deceduta in mare o in terre lontane non può, di certo, ricevere un trattamento funebre in presenza. Ma si sa la mente umana com’è fatta, un attimo prima si pone un quesito e l’attimo dopo già si arrovella su un altro, e così la domanda seguente è stata se, più in generale, qualcuno può essere escluso da qualsivoglia funerale ed eventualmente come questo potrebbe avvenire – tranquilli, non finirò col parlare delle esequie di papa Bergoglio. Mentre cercavo le risposte alle due domande, mi son ricordato di un passaggio de La villeggiatura di Mussolini di Silverio Corvisieri in cui si fa cenno al prezzo che si rischia di pagare partecipando a certi funerali: “Furono in molti a pagare a caro prezzo la partecipazione ai funerali di antifascisti. A Muggia, nel settembre del 1937, alle esequie di un giovane che era stato ucciso dai fascisti, ci fu una “oggettiva” manifestazione ostile al regime: la reazione scattò con immediatezza dapprima disturbando la cerimonia funebre e poi condannando diciotto persone, di cui undici erano donne, a cinque anni di confino”. Quando capì che non sarebbe vissuto a lungo, mio padre compilò per ben due volte un corposo elenco dettagliato di nomi e cognomi – in alcuni casi geniali soprannomi o nomignoli da morir dal ridere – di chi non voleva “vedere” al suo funerale; personalmente, non feci nulla perché queste persone non si presentassero: era un problema loro venire o no dopo essersi totalmente disinteressate del decorso della malattia del mio Vecchio. In effetti, quella del veto del morto, magari messo per iscritto come aveva fatto mio padre, potrebbe essere una possibile soluzione per provare a far sì che gli indesiderati restino a casa. Un’altra cosa interessante sui funerali l’ha scritta Charles Bukowski nel libro Il sole bacia i belli: “La maggior parte della gente è morta ancora prima di essere seppellita, ecco perché i funerali sono così tristi”. E come dargli torto? Non avete mai la sensazione d’essere circondati da zombi, oltretutto privi di quella simpatia che, solitamente, queste creature possiedono nei film o nei fumetti? Altra possibile soluzione perché gli indesiderati non si presentino a un funerale, sarebbe quella di non celebrarlo proprio, magari evitando anche i manifesti funebri; so di gente che è arrivata anche a questo. Che poi, diciamocela tutta, non partecipando a certi funerali eviteremmo di farci del nervoso, specie quando il prete nomina il morto senza neanche lontanamente sapere chi fosse e cos’avesse fatto in vita sua; leggete qui, cosa scrive Miles Davis in Miles. L’autobiografia: “La morte di Jimi [Hendrix] mi fece davvero incazzare perché era così giovane e aveva così tanto tempo davanti a sé. Decisi di andare al funerale a Seattle, anche se avevo sempre odiato andare ai funerali. Il funerale fu così brutto che dissi a me stesso che sarebbe stato l’ultimo a cui andavo, e così è stato. Il prete bianco non conosceva nemmeno il nome di Jimi e continuava a pronunciarlo male chiamandolo una volta così, una volta cosà. Era imbarazzante. In più non sapeva nemmeno chi fosse Jimi, niente di quello che aveva fatto”. Ma cosa fare per evitare la presenza degli indesiderati, se uno non volesse rinunciare al funerale? Intanto che ci penso, grazie al Cinema ho trovato la risposta alla domanda circa il perché non si riesce a rinunciare a questo rito. È stato Gep – o Jep?, o Jap? – Gambardella, personaggio interpretato da Toni Servillo nel film La grande bellezza di Paolo Sorrentino, a chiarirmi le idee: “Molti pensano che un funerale sia un evento casuale, privo di regole. Non è così. Il funerale è l’appuntamento mondano par excellence. A un funerale, non bisogna mai dimenticarlo, si va in scena. […] Con pazienza, si attende che i parenti si liberino dalla calca. E, una volta accertatisi che tutta la platea si sia seduta, solo a quel punto si possono fare le condoglianze. In questa maniera tutti ti possono vedere. Si prendono le mani del sofferente, si avvolgono le proprie sulle sue braccia. Si sussurra qualcosa all’orecchio, una frase sicura, detta con autorevolezza. Per esempio: “Nei prossimi giorni, quando ci sarà il vuoto, sappi che puoi contare sempre su di me”. Il pubblico si chiederà: “Ma che sta dicenne Gep Gambardella?”. […] È permesso raccogliersi in un angolo da soli, come… a meditare sul proprio dolore. A questo punto, però, è richiesta un’ulteriore abilità. Il luogo scelto deve essere allo stesso tempo isolato, ma ben visibile al pubblico. Inoltre, una buona recita è tale quando è scevra da qualsiasi ridondanza. Dunque, è regola fondamentale: a un funerale non bisogna mai piangere, perché non bisogna rubare la scena al dolore dei parenti. Questo non è consentito… perché immorale”. Ecco la risposta: a un funerale si va in scena, e si può rinunciare a un tale palcoscenico in questo nostro mondo fondato sull’immagine? Difficile. Molto difficile, quasi impossibile – tranquilli, non finirò col parlare delle esequie di papa Bergoglio. E visto che di scena si tratta, solo gli attori – consumati o alle prime armi non importa – possono partecipare, ossia coloro che sono una persona dentro ma sono capaci di manifestarne una o più fuori; insomma, non è esattamente il posto adatto a chi, abitualmente, si presenta così com’è, genuinamente, senza calcoli. Speriamo che questi attori da funerale abbiano ascoltato Due giornate fiorentine di Roberto Vecchioni, specie questo passaggio: “mi son pure travestito […] Ma il naso a palla e gli occhiali con la corda/Mi segavano in due la parte che ricorda/E sono esperimenti questi da non più tentare/Perché andando a svestirmi per tornar normale/Non seppi più che togliermi di vero e di finto/E confusi me stesso con la barba al mento”. Sia chiaro, siamo ben lontani da travestimenti tipo quello di Jack London che, nel 1902, mentre altri autori suoi contemporanei si limitano a cantare ciecamente le glorie dell’impero Britannico, si traveste da marinaio e s’addentra nell’East End di Londra calandosi nella più disastrata delle realtà sociali, dormendo nelle baracche, frequentando prostitute, poveri e ogni genere di umanità rifiutato dalla città “alta” – esperienza che gli permetterà di scrivere l’imperdibile Il popolo degli abissi, una specie di trattato sociologico. Siamo distanti anche dal travestimento dei regnanti che fingono d’essere poveri, raccontatoci in Fontamara da Ignazio Silone: “Si torna alla vecchia legge […] quando tra le capanne dei cafoni e la reggia non c’erano le caserme, le sottoprefetture, le prefetture di ora, e i regnanti, una volta all’anno, si travestivano da poveri e andavano per le fiere ad ascoltare le doglianze dei poveri. Poi vennero le elezioni e i regnanti perdettero di vista la povera gente” – tranquilli, non finirò col parlare delle esequie di papa Bergoglio. Il travestimento degli attori che vanno in scena secondo Gambardella, lo immagino come qualcosa di subdolo e schifoso, come quei porci che camminano a fianco a noi, siedono alla scrivania accanto alla nostra, spesso abbiamo anche in famiglia, che non si riconoscono facilmente – a volte, quando ti riesce, è ormai troppo tardi – proprio perché travestiti da professori universitari progressisti, figli dei fiori, manager illuminati, vecchi comunisti, cattolici praticanti o ingenui artisti che viaggiano sognando la loro infanzia, come scrive Henrik Stangerup nel suo romanzo L’uomo che voleva essere colpevole: “Era arrivata una nuova generazione che affermava di essere l’unica autenticamente rivoluzionaria: la rivoluzione non usava più le armi dei fiori gettati alla polizia e la provocazione dei pantaloni calati, ora si parlava di bombe molotov, di patate con le lamette, di caccia ai porci. Ma i porci erano dappertutto: erano porci i poliziotti, i politici e gli uomini d’affari. E poi c’erano porci che non si vedevano, che si travestivano da professori universitari progressisti, da figli dei fiori e da ingenui artisti che viaggiavano sognando la loro infanzia. La paranoia cominciò ad avere il sopravvento e tutti avevano paura di tutti. La tensione quotidiana di essere sempre all’avanguardia era diventata come una colite cronica. […] erano arrivati senza accorgersi al punto di non poter fare a meno di gridare “fascista” anche a qualsiasi posteggiatore per la strada. […] Non c’era più né dialogo né dibattito”. Credo che dialogo e dibattito tendano da tempo allo zero anche a causa dei troppi travestimenti, delle troppe falsità che, e qui bisognerebbe dirlo a chi ne fa largo uso, si riconoscono facilmente: “È difficile sapere cosa sia la verità, ma a volte è molto facile riconoscere una falsità” – Pensieri di un uomo curioso di Albert Einstein. Ma le molte falsità nascono anche dalla necessità di tanti, di fuggire da verità incomprensibili: “La gente, che comunque ama più una falsità chiara che una verità incomprensibile, ulula la propria gratitudine” – Barnum di Alessandro Baricco. Preferirei il niente a tutti questi travestimenti, queste falsità ma poi, mi chiedo, di cosa scriverei: “Flaubert voleva scrivere un romanzo sul niente, non c’è riuscito. Ci posso riuscire io?” – sì, è ancora lui, il Gambardella di Sorrentino. E allora, meglio di niente, v’invito tutti quanti al mio funerale. Venga chi vuole: né ora né mai perderò tempo a stilare liste di buoni e cattivi, perché la più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto sessant’anni, è che non posso più perder tempo a far cose che non mi va di fare, come incensare tutti i grandi miserabili trucchi – travestimenti e falsità – che, a differenza delle spoglie umane, non si seppelliscono mai. Tornando a bomba… cosa fare per evitare la presenza degli indesiderati, se uno non riuscisse proprio a rinunciare alla grande messa in scena del funerale, al sommo spettacolo? Si potrebbe non spargere troppo la voce, chiedere di fare altrettanto a chi sicuramente parteciperà e, infine, incrociare le dita sperando che gli indesiderati non vedano alcun manifesto funebre o, nel caso, non salti loro in testa di farsi vedere; sarebbe un modo di fare parecchio vigliacco, degno di un Re d’Italia, ma decisamente in linea col popolino che siamo diventati. Dite che col mio modo di scrivere, con questo modo di fare così… come dire?… libero?, libertario?, mi sto scavando la fossa con le mie stesse mani? Bene!, significa che mi sto portando avanti col lavoro. Dite di fare attenzione perché non c’è neppure un cane nei miei paraggi, che sono totalmente solo? Ammesso sia così, questo è normale: la libertà, spesso, implica la solitudine, spesso gli altri non si sentono invitati alla festa della libertà che una persona sta mettendo in atto, questo è il punto. E quindi, per questo, si rimane soli, perché quando si è liberi spesso si fa diventare goffo il prossimo. E il prossimo sopporta molte cose, ma non di essere goffo. E con la speranza che il mio funerale sia bizzarro come quello raccontato da William Faulkner in Mentre morivo – un viaggio folle della mia bara, con accanto soltanto la mia compagna e mio figlio che tiene le redini del cavallo, su un carretto sgangherato, tra inondazioni, fienili in fiamme e il volteggiare di avvoltoi che accompagnano speranzosi il mezzo malconcio –, partecipato come quello del cantautore e dissidente Vladimir Vysotsky, figura di culto dell’Unione Sovietica, a cui parteciparono spontaneamente centinaia di migliaia di persone – una processione dietro il feretro lunga nove chilometri! – sfidando la dittatura comunista che non sopportava quell’artista portavoce di un popolo insofferente alla rigidità del regime, e straziante come quello di Giuseppe Manzini, papà della Gianna autrice di Ritratto in piedi, che farà dire a uno dei suoi amici “è stato un funerale di una povertà e di una purezza e di un silenzio veramente strazianti”, dicevo… con queste mie speranze, mi porgo le mie più sentite condoglianze. Per il finale mi faccio aiutare dal già citato Gambardella. Tranquilli, finisce sempre così, con la morte. Prima, però, c’è stata la Vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore: il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura, gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza, e poi lo squallore disgraziato e l’Uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo – bla bla bla bla. Altrove c’è l’Altrove. Io non mi occupo dell’Altrove. Dunque, che questo articolo abbia fine. In fondo è solo un trucco. Sì, è solo un trucco. Un altro grande miserabile trucco. Visto che non vi ho parlato delle esequie di papa Bergoglio?   *scrittore sul sito  www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Editoriale
25 aprile 2025: la posta in gioco
Senza ripudio della guerra e rifiuto del riarmo, senza solidarietà e accoglienza dei migranti perseguitati nei loro paesi, senza una ferma opposizione alle limitazioni delle libertà di riunione e di manifestazione, senza una difesa intransigente dell’assetto costituzionale non c’è 25 aprile, non c’è festa della Liberazione. C’è, al contrario, una svolta autoritaria. Guai a dimenticarlo o sottovalutarlo. di Livio Pepino da Volere la Luna Sono passati 80 anni dal 25 aprile del 1945. Da quel 25 aprile, in cui il “vento del nord” evocato da Pietro Nenni sull’Avanti! del 27 aprile sembrava destinato a cambiare profondamente il Paese. Quasi tutti i partigiani di allora, anche i più giovani, se ne sono andati. Tra loro c’era Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica a cavallo del nuovo millennio, che, nel 2010, ci ha lasciato in eredità un libro il cui titolo è una sorta di manifesto (doppiamente significativo per il fatto di venire da un ex presidente della Repubblica): Non è il Paese che sognavo. Difficile non condividere quell’affermazione. Basta guardarci intorno: i caratteri della crisi economica, sociale, culturale, etica che stiamo attraversando non sono così diversi da quelli degli anni XX del secolo scorso e al governo del Paese ci sono forze che al fascismo espressamente si richiamano e che addirittura in alcuni casi – senza scandalo e senza reazioni – frequentano Casa Pound e gli avanzi del peggior stragismo fascista. Non è una polemica politica. È un fatto. Certificato dalle esplicite rivendicazioni di quelle forze (e dalla presenza nel loro Pantheon di un fucilatore di partigiani come Giorgio Almirante), dai loro simboli, dalla cultura che esprimono, dal linguaggio che usano e, ancor più, dalle politiche che praticano. Politiche nelle quali il razzismo e una forma di neocolonialismo, con la chiusura delle frontiere e la disumanizzazione delle persone migranti, dilagano; il nazionalismo si intreccia con l’adesione alle logiche della guerra; la scuola viene trasformata in veicolo di omologazione e di disciplina; la repressione e la criminalizzazione del dissenso crescono nella società, nei luoghi di lavoro, nelle Università. E ciò – fatto che rende lo scenario ancor più preoccupante – mentre a livello internazionale crescono nazionalismo e autoritarismo, le guerre occupano sempre più la scena (in Palestina, in Ucraina, in Myanmar, in Kurdistan, nel Sud Sudan, nella Repubblica democratica del Congo e via seguitando) e i morti si sommano ai morti in un crescendo impressionante e scientificamente programmato che non risparmia neppure – è il caso della striscia di Gaza – bambini e neonati, scuole e ospedali. In questo contesto la festa della Liberazione assume una centralità e un’importanza particolari. Ma a una condizione. Che non la si riduca a stanca commemorazione e che la si viva come un giorno, certo, di memoria e di festa, ma soprattutto di riflessione, di mobilitazione e di impegno politico. Lo so bene: non è per tutti così, e a fianco di chi addirittura contesta la centralità del 25 aprile nella storia nazionale o invita a usare “sobrietà” nel celebrarlo (sic!), c’è anche chi lo considera un semplice sbiadito ricordo di quel che è stato. È un grave sbaglio. Come ammoniva Piero Calamandrei in un discorso tenuto al teatro lirico di Milano, il 28 febbraio 1954, «in queste celebrazioni che noi facciamo nel decennale della Resistenza, di fatti e di figure di quel tempo, noi ci illudiamo di essere qui, vivi, che celebriamo i morti. E non ci accorgiamo che sono loro, i morti, che ci convocano qui, come dinanzi ad un Tribunale invisibile, a render conto di quello che in questi 10 anni possiamo aver fatto per non essere indegni di loro, noi vivi». E a Calamandrei faceva eco Carlo Smuraglia, indimenticato presidente dell’Anpi, che – in un libro intervista di 7 anni fa – ammoniva: il 25 aprile o è calato nella realtà che ci circonda o semplicemente non è. È in questa prospettiva che voglio condividere con voi tre considerazioni a cavallo, appunto, tra passato e presente. 1. Il 25 aprile non arrivò per caso. Fu anzitutto il frutto di una scelta, di tante scelte individuali e di una scelta collettiva. Il 25 aprile del 1945 cominciò – si potrebbe dire – poco meno di due anni prima, l’8 settembre del 1943 quando lo Stato si disfece e tutto crollò. Allora – mentre il re, la sua corte e il governo fuggivano precipitosamente e ingloriosamente verso il sud ‒ i generali, i colonnelli, i comandanti di reparto si strappavano i gradi e si mettevano in borghese. E le prefetture, gli uffici pubblici, i magazzini militari venivano abbandonati. Le istituzioni caddero in pezzi. Ogni autorità pubblica venne meno. L’Italia ufficiale – un’intera classe dirigente, quella che “sta in alto” – crollò. Cominciò lì il 25 aprile. Ognuno in basso – come ha scritto Marco Revelli – restò solo, a scegliere. Se l’esercito si sfasciava, se generali e colonnelli mancavano alla prova, se con i reparti regolari non si poteva concludere nulla, allora gli antifascisti scelsero di fare da sé. E fu quella scelta che determinò un nuovo inizio. Poi ci furono le bande partigiane, le operazioni militari, la resistenza. Ma alla base di tutto ci fu una scelta etica, morale, politica. Sta qui il primo fondamentale insegnamento che ci viene dal 25 aprile: senza scelte radicali non c’è possibilità di cambiamento. L’indifferenza e il conformismo sono veicoli di conservazione, alleati del fascismo di ieri e di oggi. 2. Il secondo punto che voglio sottolineare è il significato del riconoscimento del 25 aprile come festa nazionale. Un fatto che sottolinea l’irrinunciabile e permanente carattere antifascista della Repubblica. Non è inutile ricordarlo perché c’è chi si spinge ad affermare che il passare dei decenni ha attenuato differenze e divisioni e impone una generale e indifferenziata pacificazione. È una posizione pericolosa, ma soprattutto, profondamente sbagliata. Non ha nessun senso dire che da un certo momento in là deve esserci una pacificazione. E quale pacificazione poi? C’è stato chi ha combattuto per mantenere una dittatura nefasta e razzista e chi ha combattuto per la libertà e la democrazia. È una differenza fondamentale che non si può accantonare. Quella lotta si è conclusa con la vittoria di una parte, quella che amava la libertà. Scrive Carlo Smuraglia: «Non conserviamo rancori, ma non siamo disposti a violentare la realtà storica e a restituire spazio alle idee che abbiamo combattuto. È un’assurdità pensare che sia venuta meno la differenza tra partigiani e fascisti della repubblica di Salò. La storia ci dice che c’è stata la Resistenza e che essa, alla fine, ha vinto. Punto e basta». Dimenticare la storia, cancellando, riscrivendo e distorcendo ciò che è avvenuto è quanto di peggio può fare un Paese che si vuole considerare civile. Ricordare è fondamentale per fondare la convivenza su valori e non su convenienze contingenti e occasionali. 3. E arrivo così al terzo punto, che impatta prepotentemente con l’attualità: per contrastare il vecchio e il nuovo fascismo occorre tornare al cuore della Resistenza, dei suoi valori, dei suoi esiti. La Resistenza non fu solo una lotta contro il fascismo. Essa fu anche un lotta per una società diversa. Leggendo le lettere dei condannati a morte della Resistenza europea una cosa colpisce: tutti credevano nel futuro e in un mondo migliore. I fatti poi – come ha scritto Ciampi – hanno in gran parte deluso le aspettative, ma quell’utopia, quei sogni, quelle speranze, quei valori sono entrati stabilmente (e definitivamente) nel nostro sistema. La Resistenza ci lasciato un’eredità viva e attuale: la Costituzione repubblicana. L’attuazione e la difesa della Costituzione sono, dunque, il primo impegno che emerge dal 25 aprile (un’attuazione e una difesa contro le ricorrenti proposte di chi quella Costituzione vuole cambiare e che fino ad oggi abbiamo respinto: l’ultima volta con il voto nel referendum del 4 dicembre 2016). Ebbene oggi – va detto con franchezza – il pensiero dominante (che vorrebbe diventare unico) è molto lontano dai valori del 25 aprile e della Costituzione. Anche per questo è, di nuovo, tempo di scelte su questioni fondamentali in cui la realtà e la Costituzione si intersecano. Ne elenco quattro. C’è, anzitutto, la questione della pace e della guerra. L’articolo 11 della nostra Costituzione antifascista è netto: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Ripudiare, nella lingua italiana, è sinonimo di rifiutare in modo incondizionato, respingere con decisione, opporsi radicalmente. Dunque, la pace è un vincolo stringente e non una parola da ripetere in modo retorico mentre si impugnano le armi. Ciò risulta anche dal dibattito preparatorio in sede di assemblea costituente e si legge in decine di lettere di condannati a morte della resistenza. Cito, per tutti, il partigiano ucraino, Oleks Bokaniuk: «La guerra è la più grande sciagura dell’umanità. Speriamo che dopo questa guerra venga una pace che renda possibile per molto tempo, e forse per sempre, la felicità». Questo è il dettato della Costituzione e il lascito di chi l’ha voluta e preparata. Un dettato e un lascito che non ammettono le letture riduttive e i distinguo a cui assistiamo quotidianamente in un crescendo di militarismo e bellicismo sconosciuti nella storia repubblicana. La guerra – qualunque guerra – è fuori dalla Costituzione e a maggior ragione dobbiamo dirlo e pretenderlo con riferimento alle guerre condotte (direttamente o indirettamente, con appoggi politici, economici e militari) dal nostro Paese o da esso preparate (con la costruzione e il commercio di armi che, per definizione, servono alla guerra). Ed è fuori dalla Costituzione ogni forma di riarmo, tesa, come oggi accade, a “svuotare i granai e riempire gli arsenali”: per la decisiva ragione – ribadita nel suo ultimo messaggio dal Papa di cui a breve celebreremo i funerali – che «nessuna pace è possibile senza il disarmo». Viene, poi, la questione dei migranti. Anche qui la Costituzione non ha dubbi e lo precisa nell’art. 10: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge». Eppure c’è chi, in Italia e nel mondo, sostituisce l’accoglienza con muri e fili spinati (reali o metaforici) e respinge i migranti persino con le armi. Questo atteggiamento è fuori dalla Costituzione antifascista. Uso parole del partigiano Gastone Cottino, tratto da un aureo libretto uscito postumo due anni fa con il significstivo titolo “All’armi son fascisti!”: «Durante il fascismo storico (pensiamo alla guerra d’Etiopia) la violenza si esercitava nei confronti dei popoli che volevamo sottomettere; la violenza di oggi si esercita respingendo e facendo morire nel mare centinaia di persone». E ancora: «I migranti non vengono mandati nei campi di concentramento. Ma ci sono i centri per il rimpatrio, e sono dei lager. E quando non abbiamo qui i lager li gestiamo per procura, nei campi libici». A fronte di ciò ritorna la necessità della scelta. E credo di poter affermare con tranquilla certezza che gli interpreti autentici del 25 aprile sono coloro che lottano contro le discriminazioni, per i diritti e per l’accoglienza. C’è, in terzo luogo, la questione delle libertà fondamentali: di pensiero, di espressione, di manifestazione a cui sono dedicate disposizioni fondamentali della Costituzione, a cominciare dagli articoli 17, 18 e 21. Mai come oggi, nella storia repubblicana, quei diritti sono in pericolo, letteralmente travolti, in ultimo, da un decreto legge che, usando strumentalmente la categoria della necessità e dell’urgenza e richiamando in modo improprio la sicurezza dei cittadini, aumenta a dismisura il catalogo dei reati e delle pene nei confronti di chi dissente punendo, tra l’altro, le manifestazioni spontanee e la resistenza passiva e aumentando le sanzioni per i reati commessi nel corso di manifestazioni. Superfluo ricordare che le norme costituzionali ricordate sono dettate a tutela del dissenso, posto che il pensiero dominante e le sue esplicazioni non hanno bisogno di protezione, e che, in questo caso, il legislatore repubblicano ha finanche superato, in chiave repressiva, il legislatore fascista, che mai si era spinto a prevedere il delitto di resistenza passiva e per il quale la commissione nel corso di una manifestazione era considerata, seppur con alcuni limiti, un’attenuante ai sensi dell’articolo 62 n. 3 codice penale e non un’aggravante. E viene infine – non certo ultima per importanza – la questione dell’assetto della Repubblica. Il cuore della democrazia sta, da sempre, nel pluralismo, nella partecipazione, in contrappesi diretti a evitare la concentrazione del potere. In loro assenza la torsione autoritaria del sistema è inevitabile. Per questo la seconda parte della Costituzione ha previsto un parlamentarismo rigoroso, un rapporto dialettico virtuoso tra presidente della Repubblica e capo del governo, una magistratura indipendente e soggetta soltanto alla legge, l’obbligatorietà dell’azione penale, una corte costituzionale eletta con modalità tali da assicurarne una effettiva autonomia e molto altro ancora. Ebbene, questo sistema è da tempo delegittimato e sotto attacco attraverso leggi elettorali che hanno falsato la rappresentanza (e che sono state per questo dichiarate incostituzionali, ma solo dopo avere prodotto effetti distorsivi devastanti), marginalizzazione del Parlamento attraverso il ricorso indiscriminato allo strumento del decreto legge e al voto di fiducia, riduzione di fatto dell’indipendenza della magistratura mediante intimidazioni e leggi ad hoc. Oggi questo processo degenerativo subisce un’ulteriore accelerazione con le riforme costituzionali in cantiere in tema di premierato elettivo, riorganizzazione della magistratura, abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. C’è, sullo sfondo, una sorta di “democrazia del capo”, titolare di un potere sostanzialmente illimitato. È questo – come ammonisce ancora Carlo Smuraglia – il fascismo del nuovo millennio. Concludo. Ci sono stati momenti e stagioni nella nostra storia in cui il progetto costituzionale è stato in particolare pericolo: l’estate del 1960, i tentativi golpisti del 1964, del 1970 e del 1974, le stragi di Stato, il 1994. Oggi – come ci ha ricordato ancora Gastone Cottino – è uno di quei momenti. Guai a sottovalutare la situazione. È l’anticipazione, pressoché integrale, dell’intervento dell’autore nella celebrazione della festa della Liberazione organizzata a Bardonecchia il 25 aprile 2025 dalla sezione Anpi Alta Val Susa. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Editoriale
Gli insegnamenti di una voce rivoluzionaria
Ai capi di Stato e di governo che oggi lo celebrano vanno ricordate le sue parole dell’ultima benedizione ’urbi et orbi’: «Nessuna pace è possibile senza il disarmo». Per Francesco i migranti sono oggi le vittime delle nostre ’strategie’ che hanno diviso in due l’umanità: chi viaggia libero e chi è in fuga da fame e guerre ed è alla fine ancora cacciato. Il suo amore sincero e incondizionato verso i detenuti, i migranti, i poveri, i popoli oppressi. Di qualunque religione o provenienza essi fossero. Per la sua parola gentile ma ferma, che nei tempi bui dell’egoismo e del razzismo, della guerra e della sopraffazione, è sempre stata un messaggio positivo. Di speranza. Di giustizia. Di eguaglianza. di Luigi Ferrajoli da il manifesto Papa Francesco ha impersonato, in questi tempi bui e tristi, la coscienza morale e intellettuale dell’intera umanità. Non è esistito, prima di lui, un altro Papa che con altrettanta forza, lucidità e passione abbia riproposto il messaggio evangelico. Denunciando tutte le grandi sfide e catastrofi dalle quali dipende il futuro dell’umanità: le terribili e crescenti disuguaglianze globali e sociali, l’orrore delle guerre, le aggressioni che un capitalismo selvaggio e predatorio sta recando al nostro ambiente naturale. Innanzitutto le disuguaglianze. Nella sua enciclica Fratelli tutti del 3 ottobre 2020, Papa Francesco ha richiamato i valori della fraternità universale, della solidarietà e dell’uguale dignità di tutti gli esseri umani, violentemente lesi dalla crescita esponenziale delle grandi ricchezze e delle sterminate povertà. È nella figura dei migranti che Francesco ha identificato le vittime oggi più emblematiche delle nostre politiche disumane, che hanno diviso in due il genere umano: un’umanità che viaggia liberamente nel mondo, per turismo o per affari, e un’altra umanità, dei sommersi e degli esclusi, costretti dalla fame o dalle guerre a terribili odissee, fino a rischiare la vita per arrivare nei nostri paesi dove sono destinati a detenzioni illegittime o a sfruttamenti razzisti come non-persone. È una vergogna che Papa Francesco non si è mai stancato di denunciare. La visita a Lampedusa nel luglio 2013, con la quale egli inaugurò il suo pontificato, fu un atto d’accusa nei confronti dei nostri governi che, come disse nella sua omelia, trasformano «una via di speranza» in «una via di morte». E fu anche una severa condanna della «globalizzazione dell’indifferenza, che ci ha tolto la capacità di piangere». In secondo luogo le guerre, con il loro «potere distruttivo incontrollabile che colpisce», egli scrisse in Fratelli tutti, soprattutto «civili innocenti». «Ogni guerra – aggiunse – è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male». Ai capi di stato e di governo che celebrano oggi la sua scomparsa, vanno ricordate le sue ultime parole, pronunciate ieri nella benedizione urbi et orbi: «Nessuna pace è possibile senza il disarmo». È questa, infatti, la sola garanzia della pace. Senza le armi le guerre sarebbero impossibili, cesserebbe la potenza delle organizzazioni criminali e crollerebbe il mezzo milione di omicidi ogni anno nel mondo. Ricordo perciò con commozione il messaggio che Papa Francesco inviò al convegno contro le guerre, promosso dalla nostra Costituente Terra il 23 maggio dell’anno scorso. In esso egli affermò che il principio della pace, enunciato in tante carte internazionali, «serve realmente nella misura in cui è effettivo e produce cambiamenti nella realtà del mondo» quali sarebbero, appunto, la messa al bando della produzione e del commercio di tutte le armi, lo scioglimento delle attuali imprese produttrici di morte, in breve il disarmo globale e totale. Esprimendo il suo apprezzamento per il “progetto di una Costituzione della Terra”, Papa Francesco ci scrisse, sul disarmo e le garanzie dei diritti umani, che “nessuno può sentirsi estraneo a ciò che succede nella nostra casa comune. È qui che il diritto deve attuarsi e rendersi effettivo, differenziandosi dalle mere dichiarazioni di principio”. Infine la questione ecologica, alla quale è dedicata l’enciclica forse più bella e famosa di Papa Francesco, la Laudato si’ del 24 maggio 2015. “La sfida ambientale” è in essa concepita come un fattore di unificazione dell’umanità e la fonte di una «nuova solidarietà», giacché «le sue radici umane ci riguardano e ci toccano tutti». Ma questa sfida è generata proprio dall’irresponsabile assenza di solidarietà: «Si producono centinaia di milioni di tonnellate di rifiuti l’anno: rifiuti domestici e commerciali, detriti di demolizioni, rifiuti clinici, elettronici o industriali, rifiuti altamente tossici e radioattivi. La terra, nostra casa, sembra trasformarsi sempre più in un immenso deposito di immondizia». Tutto questo, scrive Papa Francesco, è dovuto al fatto che «l’economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza prestare attenzione a conseguenze negative per l’essere umano». Non solo. «L’energia nucleare, la biotecnologia, l’informatica, la conoscenza del nostro stesso Dna e altre potenzialità che abbiamo acquisito ci offrono un tremendo potere. Anzi, danno a coloro che detengono la conoscenza e soprattutto il potere economico per sfruttarla un dominio impressionante sull’insieme del genere umano e del mondo intero. Mai l’umanità ha avuto tanto potere su se stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene». Al contrario, è lecito supporre che lo utilizzerà malissimo, se non altro, scrive ancora Francesco, per l’illusione dominante «di una crescita infinita o illimitata», la quale «suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a ‘spremerlo’ fino al limite e oltre il limite». Oggi questa voce rivoluzionaria si è spenta, generando un dolore profondo tra credenti e non credenti e lasciando un vuoto enorme in tutto il mondo dei difensori dei diritti umani, della pace e della natura. Ma i suoi insegnamenti sono per tutti un’eredità preziosa, e la loro difesa e la loro attuazione sono il miglior omaggio che potremo rendere alla sua memoria. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
Editoriale
Quel decreto non si doveva firmare
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con la firma apposta sul decreto legge “sicurezza”  legittima una pericolosa deriva autoritaria e solleva interrogativi inquietanti sul ruolo del garante della Costituzione. di Federico Giusti E puntualmente quello che dovrebbe essere il sommo garante della Costituzione, il presidente della Repubblica Mattarella, ha firmato il decreto sicurezza con 14 nuove fattispecie di reato e nove circostanze aggravanti, ora ci saranno 60 giorni di tempo per la conversione in legge pena la decadenza. E il vero paradosso è rappresentato dalle norme di questo decreto che ad avviso di giuristi, docenti universitari, ricercatori sociali, mira a scardinare i principi costituzionali in materia di pena e ricorso al carcere, limita le libertà collettive e utilizza la decretazione di urgenza impropriamente. Di motivi, anche solo per prendere tempo e approfondire gli argomenti, ve ne sarebbero stati a sufficienza ma a quanti pensano che la democrazia italiana abbia al suo interno regole e meccanismi sufficientemente forti da salvaguardarla ricordiamo che cullarsi sulle illusioni, nella storia recente e passata, ha spianato la strada ad autentici drammi. Dopo mesi di caos, inclusa la mancata copertura economica del pacchetto sicurezza, senza prestare ascolto a giuristi, docenti e avvocati che avevano ripetutamente denunciato i contenuti della proposta chiedendone la sospensione e il ritiro, Il Governo ha accelerato i tempi sottraendone la discussione al Senato . Alcuni penalisti evidenziano da quasi un anno il carattere repressivo e securitario dietro all’operato del Governo che in sostanza lascia inalterato il testo approvato alla Camera nel settembre 2024 cambiandone solo alcuni aspetti di secondaria rilevanza e così discutibili da essere facili oggetto di contestazione. Eppure proprio la Carta Costituzionale imporrebbe un ricorso assai limitato alla decretazione d’urgenza specie quando gli effetti sulle libertà individuali e collettive risultano particolarmente forti senza dimenticare che la stessa nozione di sicurezza, in origine, non faceva esclusivo affidamento sul codice penale guardando all’aspetto rieducativo della pena stessa e alla necessità di costruire degli interventi sociali per le classi meno abbienti. Quando uno stato di diritto si trasforma in stato penale la nozione di sicurezza diventa solo sinonimo di percorsi repressivi e securitari E questa premessa, per altro attuale, si rende necessaria alla luce di quanto avvenuto nella manifestazione milanese di solidarietà alla Palestina tenutasi a Milano il 12 Aprile scorso e oggetto di una vibrata denuncia in conferenza stampa da parte degli organizzatori (rinviamo al sito del sindacato Cub). A Milano c’è stato non solo un inutile e spropositato intervento delle forze dell’ordine che hanno diviso il corteo e fermato alcuni attivisti ma  allo stesso tempo si è esplicitata la volontà di occultare le ragioni della protesta . La gestione delle piazze da settimane sta diventando sempre più critica e con l’arrivo delle nuove norme la situazione non potrà che peggiorare a mero e solo discapito della democrazia e delle agibilità collettive. Nel corso di una breve carica per dividere il corteo molti giornali hanno mostrato immagini che ci riportano al G8 di Genova, oggi come allora al Governo e al Viminale c’erano esponenti delle destre. La nostra impressione è che si voglia trasformare in ordine pubblico ogni forma di dissenso e di opposizione per scatenare la repressione di piazza da un lato e l’applicazione di norme securitarie dall’altra. Ma come avvenne nelle giornate genovesi all’interno delle forze dell’ordine, ad oggi privi di codici indentificativi che permetterebbero di risalire direttamente ai singoli agenti, erano presenti, con tanto di casco della Polizia e manganello di ordinanza, alcuni uomini in borghese, uno dei quali con una felpa sulla quale campeggiava la scritta in polacco “Narodowa Duma”, cioè Orgoglio Nazionale, simbolo di gruppi di estrema destra con simpatie fasciste e naziste. La notizia, diffusa da giornali nazionali con ampio corredo di foto,  ha determinato l’apertura di una inchiesta da parte della Digos che avrebbe già individuato almeno uno degli agenti immortalati. Tuttavia alcune domande restano senza risposta: *  per quale ragioni il reparto è  entrato all’interno del corteo come denunciato dagli organizzatori? * chi ha dato l’ordine di intervenire? * Nessuno si era accorto delle felpe? * E l’agente fotografato diventerà il facile capro espiatorio senza esigere spiegazioni dai vertici locali e nazionali dell’ordine pubblico? Un secondo agente è stato poi ripreso dalle telecamere e dai giornalisti con indosso un’altra felpa che rinvierebbe a un gruppo ultras di estrema destra polacco. Perché nel corso di un corteo degli agenti in servizio indossavano felpe con simboli di estrema destra? Non ci interessa parlare del singolo agente, saremmo invece interessati a conoscere perchè quella felpa sia stata ignorata per tante ore, siamo invece interessati a denunciare un sistema fin troppo permeabile alla presenza di ideologie con connotati nazisti o fascisti. E non si parli ancora una volta di casualità  Nel recente passato è stata evidente la copertura politica verso l’operato ingiustificato delle forze dell’ordine oggetto di denuncia e condanna nei tribunali nazionali ed internazionali. sarebbe sufficiente documentarsi sul G8 di Genova per ricavare molte ed esaustive informazioni sulla sospensione, in quei giorni, dello stato di diritto. E visto che la storia resta maestra di vita possiamo ancora sminuire o ridicolizzare le innumerevoli denunce pubbliche di quanti ritengono oggi la democrazia in pericolo con l’arrivo del decreto sicurezza?     Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Editoriale
Sappiamo ancora ascoltare il cantico dei drogati?
Ho licenziato Dio gettato via un amore per costruirmi il vuoto nell’anima e nel cuore, le parole che dico non han più forma né accento si trasformano i suoni in un sordo lamento. Chi mi riparlerà di domani luminosi dove i muti canteranno e taceranno i noiosi? Come potrò dire a mia madre che ho paura? (F. De André) di Marco Sommariva* Non posso dire sia vero che tutti coloro che iniziano a fumar le canne finiranno certamente col bucarsi: ho amici miei coetanei che da oltre quarant’anni le fumano e mai è venuto loro in mente di prendere in mano una siringa – c’è chi le fuma insieme al padre ultraottantenne; chi, invece, le fuma in giardino col figlio quasi trentenne, lo stesso che le rulla. È vero, però, che chi si avvicina alle droghe potrebbe fare una brutta fine; questo, già lo scriveva Jim Carroll in Jim entra nel campo di basket, pubblicato nel 1978 ma scritto nel ’62 quando l’autore, tredicenne, annotava sul suo diario quello che stava vivendo: “Poi ci siamo noialtri ragazzi di strada che cominciamo a cazzeggiare da molto giovani, sui tredici, e crediamo di poter tenere la testa sopra l’acqua e di non prendere l’abitudine. Funziona raramente. Ne sono la riprova io. Così dopo due o tre anni di controllo, finisco nell’ultimo atto: con la scimmia e niente altro da fare che passare tutta la giornata a caccia di droga. In qualunque maniera, va bene tutto, ragazzi. Non ci sono Coste Azzurre e non ci sono mamme ricche da cui correre. Sai quando ci sei dentro definitivamente perché è la volta che svegliandoti la mattina te lo dici chiaro e tondo, senza mezzi termini: Oggi o mi trovo la mia dose o finisco a farmi spaccare il culo ai Tombs, non ci sono cazzi”. Il fare marchette è una costante di chi ha intrapreso la strada della “brutta fine”: quarant’anni fa, alcuni miei commilitoni se lo andavano a far succhiare in stazione, a Udine, da uomini che potevano essere i loro nonni ma viaggiavano col BMW e tenevano chiuse le maniche delle camicie con gemelli d’oro, non coi bottoni; vent’anni fa, un’amica che s’è fatta per vent’anni di eroina, s’è concessa per un pugno di spiccioli a non sa neanche lei quante persone pur di tirare su la dose quotidiana, anzi, le dosi quotidiane; oggi la figlia di un’amica dorme per terra, sui cartoni, nel Centro Storico di Genova e, oltre a un paio di stupri subiti come “incerti del mestiere”, si fa “spaccare” per cifre che valgono giusto il prezzo di una colazione. Ma così è, non c’è nulla da fare; scrive in Peggio di un bastardo. L’autobiografia, Charles Mingus: “hai voglia di farti, e stai male, e non c’è nessuno che ti aiuta, e giri come un morto vivente senza quella roba nel braccio che ti alleggerisce il fardello. E ogni volta è sempre più dura e non hai più la forza di volontà e allora ti fai di nuovo. Sei incazzato con te stesso, ti odi perché non ce la fai – vuoi farcela senza la droga ma ti fai da così tanto tempo che hai già un piede nella tomba. Quando ti buchi dimentichi per un po’ ma il tempo dell’oblio si accorcia sempre più e alla fine arrivi a cento milligrammi ogni quattr’ore”. Come per tutti i Mercati, anche quello della droga si muove, cresce e offre in funzione del consumo, della richiesta; per questo, sono almeno vent’anni che spacciano droga insospettabili commesse di panifici o pizzerie al taglio che, mentre sorridono alle mamme che si portano via due pezzi di una Quattro stagioni, riforniscono i figli di cocaina: “Ho sempre pensato che i narcotici dovrebbero essere legalizzati per evitare tutti i problemi dello spaccio” – questo lo scrive Miles Davis nella sua Miles. L’autobiografia. Lo stesso libro ci ricorda come la differenza di classe – ergo, disponibilità economica – pesi anche in questo ambiente; forse dovrei scrivere, soprattutto in questo ambiente: “Per la maggior parte di questi quattro o cinque anni in cui sono stato fuori dalla musica, mi sono fatto un casino di cocaina (più o meno cinquecento dollari al giorno a un certo punto) e mi sono scopato tutte le donne che riuscivo a portarmi a casa. Ero anche dipendente da tutta una serie di pillole tipo il Percodan e il Seconal, e bevevo parecchio, Heineken e cognac. Più che altro tiravo coca, ma qualche volta mi iniettavo un mix di coca ed eroina nelle gambe. Si chiama speedball ed è stato quello che ha ammazzato John Belushi. Non uscivo molto spesso e quando lo facevo era per andare in quei locali di Harlem aperti fino a tarda notte dove mi drogavo e vivevo alla giornata”. Per chi ha praticato e ora sta pensando “Non diciamo sciocchezze, ho pippato non so quante volte e son sempre stato benissimo”, riporto un altro estratto dell’autobiografia di Miles Davis: “Cazzo, certe volte dopo aver sniffato e aver mandato giù sette o otto Tuinal davo fuori di matto; pensavo di sentire delle voci e cominciavo a guardare sotto i tappeti, nei termosifoni, sotto i divani. Ero sicuro che ci fosse gente in casa”. Perché è questo quello che, spesso, succede: l’uso della cocaina quasi mai è l’ultima casella di questo tragico osceno gioco: spesso sfocia in miscele con barbiturati – Tuinal, appunto –, alcolici o altro; sempre più spesso la si scalda insieme a del bicarbonato di sodio per ottenere quel crack che, letteralmente, brucia il cervello e può ridurre una persona a una semi-larva nell’arco di un paio d’anni. E nonostante le promesse di ogni tossico, tipo quelle riportate nel romanzo In un milione di piccoli pezzi di James Frey – “Non credo in Dio né in alcuna forma di Potere Superiore. Non intendo cedere la mia vita e la mia volontà a niente e a nessuno, e tanto meno a qualcosa in cui non credo. […] Intendo vivere la mia vita. Intendo prendere le cose come vengono e affronterò quello che mi sta davanti nel momento in cui mi sta davanti. Quando l’alcol o la droga o tutt’e due mi staranno davanti, prenderò la decisione di non usarli. Non intendo vivere nel terrore dell’alcol e della droga, non intendo passare il mio tempo seduto a parlare con gente che vive nel terrore delle sostanze. Non intendo essere dipendente da altro che da me stesso” – dicevo… nonostante le promesse di ogni tossico, si finisce invece per trarre conclusioni come quella scritta in La scimmia sulla schiena di William Burroughs: “Sapevo di non voler continuare a prendere droga. Se mi fosse stato possibile prendere una risoluzione definitiva, avrei deciso; non più droga, mai e poi mai; ma quando si arrivava al processo della desensibilizzazione, mi mancava la forza. Mi sentivo pervadere da una sensazione terribile di impotenza vedendo me stesso violare tutti i programmi che avevo studiato, come se non fossi assolutamente capace di dominare le mie azioni”. Credo molti di voi saranno d’accordo con me e con Chuck Palahniuk che in Soffocare scrive: “Le droghe, la bulimia, l’alcol, il sesso sono solo strumenti per trovare un po’ di pace. Per sfuggire a ciò che conosciamo. A quello che ci insegnano”. Sfuggire a quello che ci insegnano: Malcolm Braly – mentre è costretto in galera, un posto da cui vogliono scappare anche i secondini – scrive in Ora d’aria: “Quando la cuccetta fu sistemata […] saltò di nuovo al suo posto e riprese il libro. Questa è la mia droga, disse, vivo le vite degli altri”. Ecco una cosa che ci insegnano, il non leggere; così da non venire a conoscenza delle vite degli altri, in modo che nessuno impari dagli errori altrui e possa vivere diversamente la propria esistenza, con meno dubbi, ansie, magari fino a godere della propria vita. Ci insegnano a non leggere, per esempio, massacrando gli studenti con noiosissime lezioni di letteratura svolte giusto perché il programma le prevede, alla svelta perché gli insegnanti hanno sempre più tempo assorbito dalla burocrazia dell’Istituto, perché… ma cosa ve lo dico a fare? Chiedete ai vostri figli, ai vostri nipoti che ancora frequentano le aule scolastiche. Sul rapporto tra cultura, libri e droga, cinquant’anni fa aveva detto qualcosa senz’altro meglio di me, anche Pier Paolo Pasolini: “Se vado a Piazza Navona e incontro un drogato che passa ciondolando con aria noiosa e vagamente sinistra, sento in lui i caratteri dell’infelicità e del rifiuto piccolo-borghese: e maledico la misteriosa circostanza che ha costretto, lui singolo, a fumare dell’hascisc invece di leggere un libro”, e ancora: “La droga è sempre un surrogato. E precisamente un surrogato della cultura. […] La droga viene a riempire un vuoto causato appunto dal desiderio di morte e che è dunque un vuoto di cultura”. Leggere, conoscere, aiuta a sapere dove siamo, a essere padroni di parole e opere, aiuta a capire come va il mondo a non esserne vittima: “Ho capito che per essere liberi dobbiamo sapere dove siamo. Chi è smarrito, chi non ha il senso della realtà, chi ignora come va il mondo non è libero. Non si può essere liberi che con cognizione di causa. Essere liberi non è perdersi e lasciarsi andare senza avere la minima idea di una direzione. È per questo, del resto, che ho sempre provato un’istintiva diffidenza verso qualsiasi tipo di droga. Non capisco il desiderio di alcuni di ubriacarsi, di essere sbronzi. Per essere liberi bisogna essere padroni dei propri atti e non vittime di cause incontrollabili. Bisogna essere realisti, radicati nella realtà, e insieme sognatori, per non rimanere vittime involontarie del mondo reale”. – da Bisogno di libertà di Bjorn Larsson. Bisogna, però, fare molta attenzione a quali droghe si sta facendo riferimento; Kurt Vonnegut, per esempio, in Un uomo senza patria ci parla di crisi di astinenza per una sostanza che nessuno oserebbe definire stupefacente: “Vi posso dire la verità? In fondo non siamo al telegiornale, no? E allora ecco qual è la verità, secondo me: noi siamo tutti drogati di combustibili fossili, ma ci rifiutiamo di ammetterlo. E come tanti tossici che stanno per entrare in crisi di astinenza, i capi dei nostri governi stanno commettendo crimini atroci pur di ottenere quel poco che rimane della sostanza da cui siamo dipendenti”. Altra droga troppo spesso sottovalutata, ci viene additata nell’imperdibile libretto – solo per le dimensioni, sia chiaro – L’anarchia spiegata a mia figlia di Pippo Gurrieri: “La religione è una droga perché addormenta le coscienze, alimenta gerarchie divine e terrene, mantiene gli esseri umani nella soggezione e nella superstizione, quindi nell’ignoranza e nella subalternità”. Anche Voltaire, in Pot-pourri, ha qualcosa da dire riguardo l’argomento: “Vorreste che adottassi un Essere eterno, infinito e immutabile, a cui sia piaciuto, in non so quale tempo, creare dal nulla cose che cambiano in continuazione, e fare dei ragni per sventrare delle mosche? Vorreste che dicessi […] che Dio ci ha dato orecchie per avere fede, perché la fede viene per udito dire? No, no, non crederò affatto a ciarlatani che hanno venduto a caro prezzo le loro droghe a degli imbecilli; […] nulla esiste né può esistere, eccetto la natura; […] in una parola, non credo che alla natura”. Sulla droga s’è scritto un po’ di tutto. Da Burroughs, sempre ne La scimmia sulla schiena, che sconsiglia la guida di un’auto se si è fumato marijuana – “Una cosa ancora a proposito della marijuana. Chi si trova sotto l’influenza dell’“erba” non è assolutamente in grado di guidare l’automobile. La marijuana altera il senso del tempo e di conseguenza il senso dei rapporti spaziali. Una volta, a Nuova Orleans, dovetti fermarmi al margine della strada e aspettare che l’effetto della droga fosse passato; non riuscivo a stabilire la distanza di alcun oggetto né a capire quale fosse il momento giusto per frenare agli incroci” – a Bukowski che, in Storie di ordinaria follia, si pone una domanda che potrebbe anche far sorridere: “Tutti abbiamo udito la donnetta che dice: “oh, è terribile quel che fanno questi giovani a se stessi, secondo me la droga è una cosa tremenda.” poi tu la guardi, la donna che parla in questo modo: è senza occhi, senza denti, senza cervello, senz’anima, senza culo, né bocca, né calore umano, né spirito, niente, solo un bastone, e ti chiedi come avran fatto a ridurla in quello stato i tè con i pasticcini e la chiesa”. Non solo s’è scritto un po’ di tutto, sulla droga s’è anche detto un po’ di tutto. E riguardo l’uso della cocaina che, per quanto riguarda la mia esperienza personale, quasi mai è l’ultima casella di questo tragico osceno gioco e spesso si finisce per consumarla insieme a barbiturati, alcolici o altro, vi scrivo cosa mi ha raccontato un famoso psichiatra che aveva seguito un fatto di cronaca che, anni fa, fece molto scalpore, di cui se ne occupò a lungo l’informazione mainstream. Molto brevemente. L’episodio vede due persone organizzare un festino a base di cocaina e alcol e convincere una terza a partecipare, la stessa che verrà ritrovata morta il giorno dopo – “massacrata a coltellate e a colpi di martello” –, all’interno dell’appartamento dove i tre s’erano riuniti. Lo psichiatra mi ha raccontato che chi ha preso la vittima a martellate, ha confessato d’essersi ritrovato a un certo punto in un cartone animato, trasformato lui stesso in un personaggio tipo Paperino o Braccio di Ferro, e d’aver sferrato colpi contro qualcuno che poteva essere Paperon de’ Paperoni o Bluto, d’essere finito come in una dimensione parallela dove a ogni martellata corrispondeva un bernoccolo che usciva dall’avversario con la stessa velocità con cui rientrava, per poi svegliarsi la mattina dopo nella consueta dimensione, col martello insanguinato in mano e un cadavere accanto. Non sono mai riuscito a capire quand’è che si smette di ridere davanti ai cartoni animati e quand’è che s’inizia a ridursi in condizioni tali da non essere più in grado di dire alla propria madre che si ha paura, da non essere più in grado addirittura di proferir parola, sia perché questa ha perso forma e accento nelle nebbie della droga, sia perché sono troppe le orecchie impreparate ad ascoltarla; soprattutto, non sono mai riuscito a capire cosa succede esattamente fra un “quand’è” e l’altro. Eppure, sono certo la risposta sia nel cantico di ogni drogato: dovrò ascoltarlo meglio. *scrittore sul sito  www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
Editoriale
Verso uno Stato di polizia
Il decreto legge sicurezza varato nei giorni scorsi dal Governo incide pesantemente sulle libertà, sui diritti, sulla convivenza producendo una sterzata del sistema verso uno Stato di polizia. Ciò avviene, in particolare, con la generalizzazione del governo repressivo della povertà, il consolidamento della repressione sistematica del conflitto sociale e del dissenso, l’ampliamento dei poteri e delle tutele attribuiti alla polizia e agli apparti. di Livio Pepino da Volere la Luna Venerdì 4 aprile il Consiglio dei ministri ha trasformato in decreto legge (destinato come tale a entrare in vigore immediatamente dopo l’emanazione da parte del Capo dello Stato e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) il disegno di legge sicurezza approvato dalla Camera nel settembre scorso e fino a ieri in discussione al Senato. Mentre scrivo, la controfirma del presidente della Repubblica (prevista dall’art. 87 della Costituzione) non è ancora intervenuta ma, stando alle unanime indiscrezioni, è questione di ore, essendo stata l’operazione concordata, a seguito dell’accoglimento da parte del Governo di alcune osservazioni presidenziali (accoglimento che ha dato luogo, peraltro, a un semplice maquillage che incide in misura limitatissima su alcuni punti, in particolare regolamentando in modo diverso ma non escludendo la possibilità di incarcerazione di donne incinte o con prole inferiore all’anno e il divieto di vendita di schede telefoniche a migranti irregolari). Il carattere eversivo di questa operazione nel sistema di governo è macroscopico: perché mancano i requisiti di necessità ed urgenza richiesti dall’art. 77 della Costituzione, perché si tratta di un provvedimento sottratto a una discussione parlamentare in stato ormai avanzato, perché incide su una materia sensibile come la libertà personale e molto altro ancora. Ma persino più rilevanti sono le ferite inferte al sistema delle libertà, dei diritti, della convivenza, che producono un ulteriore passo verso uno Stato di polizia. Già lo abbiamo denunciato su queste pagine con riferimento all’originario disegno di legge. Ma oggi, quando il progetto si è trasformato in realtà, conviene ribadire alcuni punti fondamentali. Non senza premettere, da un lato, che il decreto si inserisce in un progetto complessivo di riforma autoritaria dello Stato, comprensivo del premierato elettivo, dell’autonomia regionale differenziata e della ridefinizione dei rapporti tra giustizia e politica, e, dall’altro, che esso tiene insieme (e regolamenta) settori eterogenei ma concorrenti, riassumibili nella generalizzazione del governo repressivo della povertà, nel consolidamento della repressione sistematica del conflitto sociale e del dissenso, nell’ampliamento dei poteri e delle tutele attribuiti alla polizia e agli apparti. Il primo elemento che merita sottolineare è il potenziamento del ruolo del carcere nel governo della società. Il carcere scoppia: il 31 marzo i detenuti hanno raggiunto il numero di 62.281 consolidando il superamento, dopo 13 anni, della soglia delle 62.000 presenze; secondo il Garante delle persone private della libertà personale, i suicidi di persone detenute nei primi mesi dell’anno sono 22 (dopo aver raggiunto lo scorso anno il record di 83, secondo i dati del ministero, verosimilmente errati per difetto almeno di 7 unità); gli atti di autolesionismo non si contano; l’ordine nei luoghi di detenzione è assicurato solo da una violenza diffusa e dall’uso generalizzato di psicofarmaci. La risposta del decreto legge è la previsione di 14 nuovi reati e di altrettanti aumenti di pena, in continuità con una scelta che ha portato, negli ultimi due anni, all’introduzione di 48 nuovi reati. Ciò comporterà un maggior numero di condanne e pene più elevate e, dunque, più carcere. Il fatto sollecita due considerazioni aggiuntive. Primo: l’aumento del carcere non è la conseguenza di una crescita dei reati ma una scelta politica, come dimostra la circostanza che il tetto della criminalità, nel nostro paese, è stato raggiunto nel 1991, quando i detenuti erano circa 35.000 (35.469 al 31 dicembre) e, dunque, la metà (o poco più) di quelli odierni. Secondo: il modello di riferimento è quello degli Stati Uniti dove il diritto penale classico (che commisura la pena in base all’entità del reato) è stato sostituito da un diritto che punisce le persone non per quello che hanno fatto ma per quello che sono, sino all’assurdo di punire con il carcere a vita, in caso di recidiva, il furto di tre mazze da golf, di una pizza o di una merendina, con la conseguenza che i condannati all’ergastolo presenti nelle carceri statunitensi sono, oggi, oltre 200.000, pari a uno ogni 1.500 abitanti. Un secondo elemento che caratterizza il provvedimento governativo è l’opzione, anche qui seguendo il modello degli Stati Uniti, di “punire i poveri”. Lo dimostra l’introduzione nel codice penale di una norma (l’articolo 634 bis) in forza della quale «chiunque, mediante violenza o minaccia, occupa o detiene senza titolo un immobile destinato a domicilio altrui o sue pertinenze […] è punito con la reclusione da due a sette anni», cioè esattamente la pena prevista per l’omicidio colposo commesso con violazione delle norme antinfortunistiche. Già ora – superfluo dirlo – l’occupazione di edifici destinati ad abitazione è un reato, punito con la reclusione fino a due anni e con una multa. Per questo la norma, ancor più che un presidio a tutela della proprietà, si pone come simbolo della risposta istituzionale all’emergenza abitativa (100mila sentenze di sfratto esecutive, 40mila sfratti ogni anno, 50.00 case popolari occupate). Non potrebbe esserci dimostrazione più plastica, anche in termini simbolici, del passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale e del governo repressivo della povertà. Alla punizione dei poveri si affianca quella di chi dissente in modo radicale. Manifestare (già oggi spesso ostacolato con motivazioni pretestuose da troppo zelanti questori) diventerà sempre più un rischio. Il ripristino del reato di blocco stradale «realizzato con la mera interposizione del corpo» e la sua punizione con la reclusione da sei mesi a due anni «quando il fatto è commesso da più persone riunite» (cioè sempre, considerato che un blocco stradale fatto da una sola persona è poco più che un’ipotesi di scuola…) incidono direttamente e immediatamente sulla possibilità di manifestare. Saranno, infatti, criminalizzati e puniti finanche i dimostranti pacifici che stazionano in modo continuativo e in gruppo in una strada prospiciente i cancelli di una fabbrica (dove è in corso uno sciopero) o l’ingresso di una scuola occupata. La norma è esemplare in sé ma anche perché rappresenta l’esito di un percorso di anacronistica restaurazione. Il blocco stradale infatti, già previsto da un decreto legislativo del 1948, è stato depenalizzato nel 1999. Quasi vent’anni dopo, con il decreto legge n. 113/2018 (primo decreto Salvini), è iniziato il percorso a ritroso: il blocco stradale è ridiventato reato ma, per mitigare l’asprezza della disposizione, si è previsto il carattere amministrativo dell’illecito nel caso di ostruzione stradale realizzata solo con il corpo. Con l’attuale decreto si completa il ritorno alla penalizzazione piena, realizzando un attacco diretto al diritto di manifestare in quanto tale. C’è poi, nel decreto legge, un ampio gruppo di norme che, con piccole differenze terminologiche, connotano le manifestazioni come eventi borderline, prevedendo specifiche aggravanti per i reati di danneggiamento, resistenza o violenza a pubblico ufficiale e lesioni se commessi nel corso delle stesse. In tutti questi casi le pene sono sensibilmente aumentate consumando una sorta di passaggio dalle leggi ad personam alle leggi ad movimentum. Questa previsione – merita sottolinearlo – ribalta la stessa impostazione del codice Rocco, il cui articolo 62 n. 3 prevedeva (e prevede, non essendo mai stato abrogato) come attenuante per qualunque tipo di reato «l’avere agito per suggestione di una folla in tumulto», pur con il limite che «non si tratti di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall’autorità»: il legislatore repubblicano, nonostante la Costituzione, si mostra meno rispettoso del diritto di manifestare del suo predecessore in camicia nera. Non solo ma per la prima volta nel nostro sistema viene esplicitamente considerata illecita la resistenza passiva. Lo prevede il nuovo articolo 415 bis del codice penale, che introduce il delitto di rivolta in carcere (sanzionato, per chi si limita a parteciparvi, con la reclusione da uno a cinque anni), con la precisazione che «costituiscono atti di resistenza» rilevanti ai fini dell’integrazione del reato «anche le condotte di resistenza passiva che impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza». La previsione del delitto di resistenza passiva con riferimento a una categoria di soggetti (i detenuti) considerati devianti e marginali, oltre ad essere grave in sé (proprio perché riferita a persone in condizioni di particolare fragilità), introduce nel sistema un precedente dotato di evidente capacità espansiva, che potrebbe ripetere la (triste) esperienza del Daspo, introdotto nell’ormai lontano 1989 per i tifosi violenti e diventato negli anni uno strumento ordinario di governo del territorio. Non è una illazione: già accade nello stesso disegno di legge che estende la disciplina e le pene previste per la rivolta, con una lieve riduzione, ai fatti commessi in tutti i luoghi di accoglienza per migranti (e, dunque, non solo i Cpr, ma anche, addirittura, i Cara e gli hotspot). Parallelamente viene pesantemente limitata anche la possibilità di azione dei movimenti attivi nei settori più sensibili del conflitto sociale. È il caso, della norma che estende il delitto di occupazione di immobili destinati a domicilio altrui a chi, «fuori dei casi di concorso nel reato, si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile» e a quella che prevede un aggravamento della pena per il delitto di “istigazione a disobbedire alle leggi” «se il fatto è commesso a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute». L’attacco ai movimenti per la casa e a quelli di sostegno alle persone detenute non potrebbe essere più diretto ed esplicito. In ultimo, ma – come si usa dire – non per ultimo, il decreto legge imprime una netta curvatura autoritaria al rapporto tra polizia e cittadini, così chiudendo il tormentato tentativo di democratizzarlo, perseguito, nel tempo, con la previsione di non punibilità della reazione all’atto arbitrario del pubblico ufficiale, la dichiarazione di incostituzionalità della necessaria autorizzazione del ministro per procedere nei confronti di operatori della polizia per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, la sindacalizzazione e smilitarizzazione del corpo, l’abrogazione del delitto di oltraggio e via elencando. Questo percorso, subisce, ora, una drastica inversione che ripristina una situazione simile a quella degli anni Cinquanta (un’epoca in cui – è bene ricordarlo – le politiche di ordine pubblico lasciarono sulle strade e nelle piazze del Paese oltre 100 morti). Ciò avviene grazie a disposizioni che prevedono tra l’altro, per gli operatori di polizia, la già ricordata tutela privilegiata nel corso di manifestazioni; una particolare assistenza sul piano legale consistente nella possibilità, ignota per gli altri pubblici ufficiali, di fruire, se indagati o imputati per fatti inerenti al servizio, dell’anticipazione da parte dello Stato di una somma di 10.000 euro per ogni fase del giudizio per spese di difesa (con possibilità di rivalsa nel solo caso di responsabilità a titolo di dolo giudizialmente accertata); l’autorizzazione a portare, senza licenza, un’arma diversa da quella di ordinanza quando non sono in servizio; una maggior libertà di azione simboleggiata dalla possibilità, nei confronti di associazioni terroristiche (ma con evidente potenzialità espansiva), non solo a mezzo di “infiltrati” ma anche mediante “agenti provocatori” e dalla dotazione, per i servizi di ordine pubblico (e non solo), di dispositivi di videosorveglianza idonei a registrare l’attività operativa e il suo svolgimento. > Un paese che si identifica con ordine e polizia > Repressione senza alternativa   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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Editoriale
Un paese che si identifica con ordine e polizia
L’abuso del decreto legge, stravolgendo il sistema delle fonti, viola la separazione dei poteri, che assicura la limitazione del potere: elemento imprescindibile di una democrazia costituzionale di Alessandra Algostino da il manifesto C’era un disegno di legge in discussione in parlamento, detto «sicurezza», espressione del peggiore populismo penale, incostituzionale nell’anima e nelle disposizioni; il governo, con un golpe bianco (…invero nero), lo ha trasposto in un decreto legge. Al contenuto eversivo si aggiunge l’eversione nei rapporti fra governo e parlamento. Troppo forte il termine eversione? Il passato non si ripresenta allo stesso modo, ma la mutazione della democrazia in regime autoritario attraverso vie legali non è un pericolo astratto; il suo progressivo svuotamento sostanziale sotto l’involucro è un percorso in atto. Il parlamento discute, o tenta di farlo, vista la scarsa disponibilità alla mediazione politica (nel senso di effettivo processo di integrazione politica), ma «i tempi si sarebbero prolungati troppo» (citazione del ministro Piantedosi). E allora interviene il governo, «nella sua più alta ma anche più concreta significazione di Istituto atto a risolvere nel modo più rapido, fermo e univoco tutte le molteplici questioni che nell’azione quotidiana si presentano, non impacciato da preventive compromissioni, non impedito da divieti insormontabili, non soffocato da dissidi, non viziato nella origine da differenze ingenite di tendenze e di indirizzi» (Mussolini, dibattito sulla legge Acerbo). Iniziamo da qui: quali sono i motivi di necessità e urgenza? Leggendo la bozza compare solo un elenco tautologico di «considerata» e «ritenuta» «straordinaria necessità e urgenza»: mere clausole di stile, nulla di più. Come la Corte costituzionale ha ricordato più volte (da ultimo, sentenza 146 del 2024), il decreto legge è «uno strumento eccezionale», «la pre-esistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l’urgenza… costituisce un requisito di validità costituzionale»: in gioco sono gli «equilibri fondamentali della forma di governo». Con quanto ne consegue sulla forma di stato. L’abuso del decreto legge, stravolgendo il sistema delle fonti, viola la separazione dei poteri, che assicura la limitazione del potere: elemento imprescindibile di una democrazia costituzionale. È l’ennesimo atto di asservimento e annichilimento del parlamento. Ennesimo, e «pesante»: per i diritti su cui incide il provvedimento, per il suo essere oggetto di una forte contesa politica, perché si tratta di materia in discussione nelle aule parlamentari, per l’insussistenza palese della necessità e urgenza (a meno che non le si voglia ridurre al meschino mercanteggiamento di interessi tra le forze di maggioranza). Veniamo al contenuto. Lo schiaffo al parlamento – in violazione della Costituzione e inaccettabile in ogni caso – salvaguarda almeno dalle innumerevoli incostituzionalità del disegno di legge? Dalla bozza che è dato leggere, no. I rilievi del Quirinale sono recepiti al minimo possibile. Alcune norme sono semplicemente ammorbidite, come nel caso delle madri detenute o della richiesta di documento per la vendita della Sim agli stranieri (non è necessario il permesso ma c’è l’obbligo di un documento di identità). Altre sono oggetto di interventi di plastica facciale, come nelle ipotesi della punizione degli atti di resistenza anche passiva: si specifica che gli ordini la cui disobbedienza è punita riguardano il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, concetti passepartout. Sfiora il ridicolo la modifica della norma che riguarda l’aggravante «grandi opere», dove il riferimento alle opere pubbliche o infrastrutture strategiche è sostituito con «infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici». Di maggior rilievo, e indubbiamente positivo, lo stralcio della collaborazione di pubbliche amministrazioni e università con i servizi segreti, in deroga al diritto di riservatezza. Restano, immutati, il reato di blocco stradale, la ridondante punizione dell’occupazione di immobili, l’ampliamento del daspo urbano, etc. La cappa illiberale e repressiva del provvedimento non muta: criminalizzazione e repressione del dissenso, stigmatizzazione e punizione del disagio sociale e della solidarietà, neutralizzazione del conflitto sociale. E restano il diritto penale dell’amico, i privilegi per la polizia, con il sotteso di uno stato che si identifica con le forze dell’ordine e l’obbedienza. È sufficiente il restyling per tacitare – ed esautorare – l’opposizione e giustificare il silenzio calato sulla notizia? Il presidente della Repubblica, come garante della Costituzione, non dovrebbe domandare – cito Matteotti – «alla maggioranza che essa ritorni all’osservanza del diritto»? Lungo la china del male minore, si scivola nel baratro. Ancora una volta è dalla piazza, che si vuole chiudere in una zona rossa del dissenso e del pensiero, che può venire una risposta. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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