“Una sentenza che minimizza l’orrore”

Osservatorio Repressione - Sunday, April 6, 2025

L’Associazione Yairaiha ETS, alla luce della recente sentenza del Tribunale di Reggio Emilia, esprime pubblicamente profonda preoccupazione per l’esclusione della configurabilità del reato di tortura nel caso del detenuto Khelifi, incappucciato e picchiato in una situazione di totale vulnerabilità. Il procedimento è stato seguito dall’Avv. Vito Daniele Cimiotta, legale di fiducia nel caso.

Segue il comunicato integrale dell’Associazione Yairaiha:

Associazione Yairaiha ETS e l’Avv. Vito Daniele Cimiotta, legale che ha seguito il procedimento presso il Tribunale di Reggio Emilia, esprime profonda preoccupazione per la sentenza del Tribunale di Reggio Emilia che ha escluso la configurabilità del reato di tortura nel caso del detenuto Khelifi, incappucciato e picchiato mentre si trovava in una posizione di totale vulnerabilità.
Secondo la sentenza, le violenze subite dal detenuto non sarebbero state sufficientemente gravi da configurare tortura, né le lesioni riscontrate avrebbero causato danni fisici o psichici tali da poter essere qualificati come “acute sofferenze” o “trauma verificabile”. Inoltre, l’incappucciamento, pur riconosciuto come pratica non autorizzata, è stato considerato un atto inserito nel contesto operativo, quindi non separato dall’attività di servizio.

A nostro avviso, questa interpretazione riduce drasticamente la gravità dell’incappucciamento, sottovalutando il suo significato profondo e simbolico. Privare una persona della vista, del respiro e della capacità di orientarsi non è una semplice irregolarità procedurale, si tratta di un atto disumanizzante, pensato per annullare psicologicamente il soggetto. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nei casi Ireland v. United Kingdom ed El-Masri v. Macedonia, ha definito il “hooding” come una pratica lesiva della dignità umana, capace di configurare tortura anche senza l’aggiunta di violenze fisiche. Gli effetti traumatici di tale pratica sono ben documentati dalla letteratura medico-forense.
Nel caso di Khelifi, le violenze non si limitano all’incappucciamento. Il detenuto è stato inizialmente fatto cadere con uno sgambetto, colpito con schiaffi e calci, e sottoposto a costrizioni fisiche, tra cui la torsione del braccio e il sollevamento di peso dopo essere stato spogliato. Successivamente, è stato trascinato nella cella di isolamento, dove è stato colpito di nuovo con pugni e calci, questa volta mentre si trovava completamente nudo dalla vita in giù. È rimasto in questa condizione per oltre un’ora, visibilmente sanguinante a seguito di atti autolesivi e senza ricevere assistenza sanitaria. Il tutto giustificato dal sospetto, mai confermato, che potesse possedere delle lamette.

Anche la valutazione sulla mancanza di un trauma psichico documentabile appare riduttiva. Il rifiuto delle visite mediche, gli atti autolesionistici e l’isolamento comportamentale non possono essere interpretati come effetti di un disagio preesistente. Al contrario, sono segni di reazioni post-traumatiche, come riconosciuto da esperti in ambito clinico e psichiatrico.
La sentenza, pur riconoscendo l’incappucciamento come una misura non autorizzata, sottovaluta gravemente l’impatto psicologico e fisico che tale atto ha avuto su Khelifi. La sentenza afferma che la difficoltà respiratoria fosse “pressoché nulla” o comunque limitata, basandosi sulla presunta capacità di Khelifi di divincolarsi. Tuttavia, questo non coglie l’essenza della sofferenza provocata dall’incappucciamento. L’incapacità di vedere, unita alla sensazione di soffocamento parziale, non solo genera un’ansia acuta e disorientante, ma costituisce una violazione diretta della dignità umana. Il disorientamento e la paura provocati dalla privazione della vista e dalla difficoltà respiratoria, anche se temporanei, hanno effetti psicologici devastanti che non possono essere minimizzati. La reazione fisica di Khelifi, nel tentativo di divincolarsi, non è la prova di una totale assenza di sofferenza, ma una risposta automatica a una condizione di vulnerabilità estrema e panico.

Riteniamo che il riconoscimento della tortura non debba essere limitato a forme estreme o spettacolari di violenza. Anche un singolo gesto, in un contesto di totale assoggettamento, può costituire tortura se lesivo della dignità e dell’integrità psicofisica di una persona. Se una condotta di questo tipo non viene definita per ciò che è, si corre il rischio di legittimare pratiche disumanizzanti sotto l’ombrello dell’“esecuzione del servizio”.
L’assenza del riconoscimento formale del reato di tortura non cancella il valore simbolico e giuridico della denuncia che ne è alla base. Continueremo a vigilare, a documentare e a sostenere ogni voce che si leva contro ogni forma di abuso, specialmente quando a subirlo è chi non può difendersi.

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