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“Senza respiro”, Presentato il XXI rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione
È stato presentato oggi a Roma il XXI Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia, intitolato “Senza respiro”. Un titolo che non è una metafora, ma una fotografia lucida di un sistema penitenziario al collasso, dove detenuti, operatori e istituzioni sono sempre più in affanno. Nel 2024 l’Osservatorio di Antigone ha visitato 95 istituti penitenziari per adulti e la maggior parte degli istituti penali per minorenni in tutta Italia, da Bolzano ad Agrigento. Il quadro emerso è drammatico: sovraffollamento record, carenza di personale, diritti compressi e una deriva punitiva che mette a rischio la tenuta costituzionale del sistema. Al 30 aprile 2025 i detenuti in Italia erano 62.445, a fronte di una capienza regolamentare di 51.280 posti. Ma considerando i posti non disponibili (oltre 4.000), il tasso reale di affollamento è del 133%, con circa 16.000 persone che non hanno un posto regolamentare. 58 carceri su 189 hanno un tasso di sovraffollamento superiore al 150%. Gli istituti più affollati al momento sono Milano San Vittore (220%), seguito da Foggia (212%) e Lucca (205%). In tutti e tre i casi ci sono più del doppio delle persone che quelle carceri potrebbero e dovrebbero contenere. Negli ultimi due anni la popolazione detenuta è cresciuta di oltre 5.000 unità, mentre la capienza effettiva è diminuita di 900 posti. Negli ultimi mesi ogni sessanta giorni sono entrate in carcere 300 persone in più. Dinanzi a quanto sta accadendo l’unica risposta dell’Esecutivo passa da un piano per l’edilizia penitenziaria che, proprio per i numeri e per la loro crescita, non può essere in alcun modo la soluzione. Considerando che mediamente un istituto in Italia ospita 300 persone, ogni due mesi dovremmo aggiungere un nuovo carcere al piano di edilizia. Questo anche a fronte di un attivismo penale del governo che ha un impatto diretto e drammatico sul carcere. Con il decreto sicurezza, approvato ad aprile 2025 e in discussione in Parlamento per la sua conversione in legge, è stato introdotto tra gli altri un nuovo reato che punisce anche le proteste pacifiche e non violente con pene più alte di quelle previste per i maltrattamenti in famiglia, escludendo le persone detenute anche dal possibile accesso alle misure alternative, come avviene per i reati di mafia e terrorismo. Se si considera che dal nel 2024 si sono contati 1.500 episodi di protesta, coinvolgendo almeno 6.000 persone detenute, se ognuna di loro fosse stata condannata in media a 4 anni di carcere, si rischierebbero 24.000 anni di carcere in più per chi sta già scontando una pena. Proteste che generalmente riguardano le persone detenute più fragili, quelle con più problematiche e che si sanno fare meno la galera: tossicodipendenti, senza dimora, stranieri senza difesa legale, persone con problemi psichiatrici. Categorie che rappresentano anche la maggior parte di chi ha pene brevi. Al momento il 51,2% dei detenuti con condanna definitiva ha meno di tre anni da scontare, soglia che consente – almeno teoricamente – l’accesso a misure alternative. Più di 1.370 persone sono in carcere per pene inferiori a un anno. Ma il sovraffollamento non colpisce solo le carceri per adulti. Per la prima volta nella storia interessa anche gli istituti penali per minorenni dove sono 611 i ragazzi detenuti (di cui 27 ragazze). Un record storico che ha caratteri preoccupanti se si pensa al fatto che alla fine del 2022 negli Ipm c’erano 381 persone. Frutto del decreto Caivano che ha fatto crescere enormemente i numeri, soprattutto dei ragazzi in custodia cautelare (il 65% dei minorenni è infatti recluso senza una condanna definitiva). Di fronte a questa situazione Antigone ha avanzato tre proposte che si possono rendere immediatamente operative: Un atto di clemenza per i detenuti con residuo pena inferiore ai 2 anni; provvedimenti collettivi di misura alternativa decisi dai Consigli di disciplina da riunirsi in forma straordinaria per discutere grazie e altri provvedimenti per detenuti che abbiano meno di un anno di pena; divieto di nuove carcerazioni, se non in casi eccezionali, se non vi è un posto regolamentare disponibile. Durante la presentazione Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, ha chiamato ad una grande alleanza costituzionale. “Di fronte a tutto questo – ha detto – dobbiamo costruire una grande alleanza di tutti coloro che intendano muoversi nel solco dell’articolo 27 della Costituzione, a partire dalle Università, dalle associazioni, dal mondo delle professioni e dai sindacati. Il carcere non va trasformato in una trincea di guerra. Chi usa toni militareschi o guerrafondai per orientare e gestire la vita carceraria commette un gravissimo atto di insubordinazione costituzionale che renderà durissima la vita degli stessi poliziotti. É necessario che a partire dal linguaggio si ridefi nisca un senso comune della pena e quanto meno non si metta mai in discussione la necessità di tutelare sempre la dignità di tutte le persone private della libertà. Le parole forti di Papa Francesco per una pena mite e mai disumana, nonché il suo discorso contro i mercanti della paura, speriamo restino un monito per tutti. Non è stato ascoltato in vita. Speriamo lo sia dopo la sua morte”. Il rapporto completo è disponibile su www.rapportoantigone.it. A questo link la cartella stampa.   Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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Bentornata Nicoletta!
Nella giornata di ieri è stata scarcerata Nicoletta Dosio, dopo più un anno di detenzione domiciliare scontato presso la propria abitazione di Bussoleno finalmente è libera! Più di un anno […] The post Bentornata Nicoletta! first appeared on notav.info.
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Il fallimento non è solo del carcere
Gli ordinamenti democratici nazionali e internazionali hanno perso la loro capacità di essere bussola del mondo di Riccardo De Vito da il manifesto Tra poco più di due mesi l’ordinamento penitenziario compirà cinquant’anni. Chiamiamo così la legge del 1975 che aveva dato vigore e prospettiva all’articolo 27, comma 3, della Costituzione, per il quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Il compleanno di mezzo secolo, però, si è macchiato di sangue e quel sangue si è tinto di strumentalizzazioni. Tutto accade in pochi giorni, tra il 9 e l’11 maggio, quando Emanuele De Maria, in espiazione della pena per l’omicidio di una donna, esce dal carcere per recarsi a svolgere attività lavorativa all’esterno. Sono due giorni di tragedia: Emanuele torna a uccidere una donna, Chamila; ferisce quasi mortalmente un collega di lavoro; infine, si toglie la vita lanciandosi dalle terrazze del Duomo di Milano. Si riaffaccia una domanda insistente: è ancora tollerabile il sacrificio di una vittima per consentire ai detenuti di riconnettersi gradualmente alla società? Fino a qualche tempo fa ci si poteva trincerare dietro la forza della del diritto: è giusto perché lo dice l’articolo 27 della Costituzione. Questa replica rischia di non funzionare più. Gli ordinamenti democratici nazionali e internazionali hanno perso la loro capacità di essere bussola del mondo. Gaza segna l’assoggettamento della logica dei diritti umani e del diritto internazionale alla ragione della forza; negli Stati uniti si fa spettacolo delle persone incatenate e si ventila di abolire l’habeas corpus per i migranti; alle nostre latitudini, si ricostruiscono neo-colonie detentive in territorio estero e si prevedono ergastoli automatici. La Costituzione ha perso il suo carattere di fondamento della Repubblica ed è diventata culturalmente rifiutabile. L’articolo 27 dice che il condannato deve essere risocializzato? Sbaglia, lo si cancelli con un tratto di penna. E, infatti, un disegno di legge costituzionale prevede che la rieducazione possa essere limitata da «altre finalità» ed «esigenze di difesa sociale» (disegno di legge del deputato Cirielli di Fratelli d’Italia). Se così stanno le cose, occorre ri-giustificare il normativo, il dover essere del mondo, a partire dalla sostanza delle cose. Il progressivo reinserimento del detenuto in società – quelle finestre nella pena detentiva che consentono di mettere i piedi fuori dalla prigione – serve perché rende il mondo più sicuro e meno violento. Se le pene fossero scontate in carcere dal primo all’ultimo giorno, si finirebbe per consegnare alla libertà esseri umani incapacitati alla costruzione della relazione più semplice, pericolose bombe a orologeria. La pena, prima o poi, finisce e i conti con il pericolo di recidiva si dovranno fare comunque. Tutte le statistiche dimostrano che quei conti è bene farli prima, in quelle famose finestre che servono anche come momenti di sperimentazione controllata. Circola nell’aria, sempre meno latente, una pulsione a fare in modo che la pena non finisca. Non servirebbe: chi uccide, quasi sempre lo fa senza aver valutato le conseguenze in modo razionale. Il caso di questi giorni ne è un esempio: il condannato sa che perderà tutto, a partire dalla libertà riconquistata, ma uccide lo stesso. Subito dopo telefona alla madre, chiede perdono e va a lanciarsi dal Duomo di Milano. L’essere umano, troppo umano, è più complesso e drammatico di ogni tecnologia normativa della dissuasione. Statistiche e ragione, tuttavia, non bastano a dare senso alla vittima, che rimane unica. Quell’unicità ha bisogno di risposte ulteriori. La prima, essenziale. L’area del controllo penale, si è allargata a dismisura: 95mila persone in misure alternative, 62.400 detenuti. Sono numeri che rendono impossibile agli operatori (educatori e assistenti sociali) concentrarsi sui casi davvero importanti, quelli che meritano di essere seguiti anche quando tutto pare filare liscio. Se l’area penale fosse meno affollata di condannati per reati senza vittima, funzionerebbe meglio. Amnistia, indulto e depenalizzazione sono le parole di un vocabolario di sicurezza. Non serve risocializzare meno, serve risocializzare meglio. Strettamente collegato a questo punto, ne viene un altro: rieducare è una parola brutta, lascia pensare a pretese egemoniche sull’animo. Sappiamo che deve essere declinata a livello laico, come risocializzazione, ma il tema non cambia: è un problema che investe tutta la società e le sue agenzie, non può essere scaricata solo sul carcere. Sulle pagine online dei quotidiani più diffusi, nei giorni successivi alla vicenda De Maria, circolavano i video degli ultimi istanti di vita della vittima e del detenuto. Accanto a essi, il video del robot umanoide di Tesla che danza a ritmo di musica, accendendosi e spegnendosi a comando. Non serve scomodare «la precessione del simulacro» per capire che qualcosa è saltato. Ri-educare, nella società come in carcere, dovrebbe significare tornare a mettere in discussione (o in crisi) le strutture psichiche dell’ordine economico e sociale, i rapporti tra desiderio e frustrazione, la confusione tra libertà e signoria. Sono questioni che vengono prima del carcere e che vanno oltre il carcere. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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Le Parole di un Detenuto
Queste parole appartengono a una lettera che ci è stata inviata poche settimane fa da una persona reclusa nel carcere di Quarto d’Asti e che ci ha chiesto di pubblicarla. Pensiamo che la possibilità di fare arrivare a tuttx le parole e i pensieri di una persona reclusa sia uno dei tanti gesti per rompere … Leggi tutto "Le Parole di un Detenuto"
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La “vendetta” contro Cospito: gli negano anche i libri
Ad Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto al 41bis, è stato vietato l’acquisto dei vangeli apocrifi e di libri di fisica e fantascienza. Per la direzione del carcere di Sassari. dov’è recluso, i libri sono pericolosi. di Frank Cimini da l’Unità Nel caso specifico parliamo di un testo sui vangeli apocrifi, uno di fisica quantistica e due di fantascienza. La direzione del carcere di Sassari Bancali ne ha vietato l’acquisto all’anarchico Alfredo Cospito adducendo un parere negativo dell’autorità giudiziaria che non vi sarebbe stato secondo i difensori, i quali hanno presentato ricorso. Sarà celebrata un’udienza per stabilire se Cospito può avere quei libri perché evidentemente la giustizia ha tempo da perdere. “Nell’ultimo mese – spiega l’avvocato Flavio Rossi Albertini – a Cospito era stato negato pure l’acquisto di un Cd musicale. Era stato negato l’accesso alla biblioteca del carcere che non aveva neppure provveduto a ritirare tempestivamente un pacco inviatogli dalla sorella, determinandone il rinvio al mittente”. In relazione all’accesso alla biblioteca la direzione della prigione spiegava che il “disguido” era stato generato da problemi organizzativi interni e che sarebbe stato emesso apposito ordine di servizio. Le condizioni di detenzione dì Cospito ristretto al 41bis sono peggiorate non proprio per caso dopo la condanna in primo grado per rivelazione del segreto d’ufficio del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro delle Vedove per la vicenda delle intercettazioni ambientali divulgate in Parlamento, delle conversazioni tra Alfredo e gli altri reclusi che all’epoca facevano parte del “gruppo di socialità”. Altre “coincidenze” che viene da pensare possano avere il loro peso in questa vicenda sono le dimissioni alla fine del dicembre scorso del direttore del Dap, Giovanni Russo, che aveva testimoniato non proprio a favore di Delmastro nel processo a suo carico, e ancora, il ritorno al comando della sezione 41bis di Bancali del graduato del gruppo operativo mobile che era stato trasferito proprio per il suo coinvolgimento nella faccenda delle intercettazioni. Alfredo Cospito sta continuando a pagare sulla propria pelle il lunghissimo sciopero della fame per protestare contro il 41bis non solo e non tanto per sé ma per gli altri 700 detenuti ai quali viene applicato. Le simpatie suscitate dal digiuno avevano messo in imbarazzo il sistema che da allora si sta vendicando. Era stato considerato una sorta di sciopero della fame “a scopo di terrorismo”. La storia dei libri negati è solo l’ultimo episodio di una lunga serie. Negare la possibilità di leggere rappresenta una tortura ulteriore. Libri pericolosi. Negli anni ‘70 un bambino spiegava l’arresto del padre “terrorista” dicendo: “Aveva troppi libri in casa”.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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Da Roma a Milano: due chiacchiere su speculazione urbana, forme di protesta e repressione
Mercoledì 16, dopo un fine settimana molto caldo in termini di uso della forza da parte della polizia, abbiamo avuto il piacere di una chiacchierata in studio con un compagno di Radio Onda Rossa. Con lui, abbiamo discusso delle trasformazioni dei quartieri di Roma, alla luce della speculazione abitativa che ha comportato il giro di […]
L'informazione di Blackout
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Decreto sicurezza, moltiplicare i ricorsi contro un legge premoderna
Ogni giorno nelle carceri italiane ci sono in media cinque episodi di protesta collettiva. Il reato di rivolta penitenziaria, introdotto dal decreto legge «sicurezza», punisce con pene elevatissime anche chi protesta con forme di resistenza passiva di Patrizio Gonnella da il manifesto Ogni giorno nelle carceri italiane ci sono in media cinque episodi di protesta collettiva. Il reato di rivolta penitenziaria, introdotto dal decreto legge «sicurezza», punisce con pene elevatissime anche chi protesta senza violenza e con forme di resistenza passiva a ordini dati per generiche ragioni di sicurezza. Il carcere è pieno di tali eventi, ogni operatore lo sa. Nel solo 2024 si sono verificati circa 1.500 episodi di protesta collettiva nonviolenta, quali la battitura delle sbarre o il rifiuto di rientrare in cella. Episodi che un bravo direttore o comandante di reparto risolveva con il dialogo, ascoltando le ragioni della protesta. La pedagogia premoderna e punitiva di chi ci governa ha deciso di criminalizzare la disobbedienza nonviolenta. Se il 2025 sarà come l’anno passato, supponendo che in media quattro detenuti partecipino a ogni episodio di disobbedienza a un ordine, arriveremo a seimila detenuti coinvolti. Il reato di rivolta penitenziaria prevede pene altissime, superiori nel massimo ai maltrattamenti in famiglia. Supponiamo che i seimila detenuti siano condannati a una media di quattro anni di carcere ciascuno. Sono dunque in arrivo circa ventiquattromila anni aggiuntivi di carcere contro persone, già detenute, alle quali sarà peraltro escluso l’accesso a misure alternative. Una ricetta perfetta per far definitivamente esplodere il nostro sistema penitenziario e seppellire in carcere migliaia di persone, selezionate ovviamente tra le più vulnerabili: minori stranieri non accompagnati, persone con problemi psichici, tossicodipendenti. A ciò vanno aggiunti gli effetti devastanti di tutti gli altri delitti presenti nel decreto. Il sistema collasserà, nei numeri e per la sua disumanità. Una delle misure del decreto legge sulle quali maggiormente si concentravano i dubbi del presidente Mattarella era, come reso noto dai media, l’abolizione dell’obbligo di differimento della pena per le donne incinte o con prole fino a un anno di età. Nella trasformazione del testo in decreto, tale abolizione non è mutata. Da oggi sarà il giudice a decidere se la donna in gravidanza o appena divenuta madre dovrà andare in carcere. Se decide di sì, la donna sarà inviata in un Icam (istituto a custodia attenuata per madri), che è comunque un carcere a tutti gli effetti. Se tuttavia la donna in custodia cautelare in Icam non si comporta a dovere, allora accadrà qualcosa senza precedenti: la donna potrà essere trasferita in un carcere ordinario senza suo figlio, per il quale verranno allertati i servizi sociali. In questo modo si istituzionalizza la sottrazione del figlio alla madre detenuta. Di fronte a tutto ciò chiediamo ai giuristi e agli operatori penitenziari e del diritto di assecondare la loro missione, di essere culturalmente e giuridicamente resistenti rispetto alle tendenze neo-autoritarie di un decreto legge che nella forma e nella sostanza fa carta straccia dello Stato di diritto. Il grosso rischio è quello della cooptazione istituzionale degli operatori sociali e del diritto, che invece devono esercitare il loro spirito critico per non essere i manovali del declino del sistema. Chiediamo ai giudici, agli avvocati, agli operatori tutti di moltiplicare le forme del dissenso chiamando la Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo a decidere se cancellare le norme presenti nel decreto legge. Chiediamo a tutti gli operatori penitenziari di usare ragionevolezza e dialogo per non trasformare le carceri in fosse comuni dove i detenuti sono seppelliti da valanghe di anni di prigione. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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“Mio figlio lotta fra la vita e la morte per una meningite contratta in carcere”
Tiziano Paloni, romano di 40 anni, ristretto nel carcere romano in attesa di giudizio, la mattina di lunedì 7 aprile è stato trasportato d’urgenza dalla casa circondariale di Trastevere prima all’ospedale Santo Spirito dove è giunto in coma per poi essere intubato ed essere trasferito all’ospedale Spallanzani dove è ancora in isolamento. La sorella: “Quanto accaduto a mio fratello dovrebbe far riflettere tutti” di Mauro Cifelli da Roma today Lotta fra la vita e la morte in un letto del reparto di terapia intensiva dell’ospedale Lazzaro Spallanzani dopo aver contratto una meningite neisseria nel carcere di Regina Coeli dove è detenuto. Tiziano Paloni, romano di 40 anni, ristretto nel carcere romano in attesa di giudizio, la mattina di lunedì 7 aprile è stato trasportato d’urgenza dalla casa circondariale di Trastevere prima all’ospedale Santo Spirito dove è giunto in coma per poi essere intubato ed essere trasferito all’ospedale Spallanzani dove è ancora in isolamento. A lanciare un grido d’aiuto la mamma di Tiziano, Anna, che si trova all’istituto delle malattie infettive romano in attesa di avere l’autorizzazione per poter vedere il figlio, attraverso un vetro. Una situazione critica quella del 40enne: “Preghiamo per un miracolo – le parole al nostro giornale della madre mentre trattiene le lacrime -. È necessario rendere pubblico quanto successo a mio figlio affinché non accada più una cosa del genere in un carcere”. Meningite in carcere Un grido d’aiuto, “di giustizia”, le parole della sorella Valentina Paloni che racconta l’accaduto: “Siamo stati contattati dalla sorella di un detenuto di Regina Coeli – spiega -. Che ci ha detto che Tiziano aveva avuto un malore mentre si trovava in carcere e che lo avevano portato in ospedale al Santo Spirito”. I familiari del 40enne provano a ottenere informazioni sino a quando riescono a scoprire – anche mediante l’intervento del loro avvocato di famiglia Fabio Harakati – che Tiziano si trovava allo Spallanzani. Preoccupata per le sorti del fratello ma anche per le conseguenza che potrebbe avere su altri detenuti: “Avendo contratto in carcere questa infezione potenzialmente letale, mio fratello sta rischiando la vita e non vorrei che ciò capiti ad altri detenuti che, seppur giudizialmente condannati o gravemente indiziati, meritano ed hanno diritto a un trattamento sanitario efficiente che non abbia nulla da invidiare rispetto a quello offerto a noi persone libere. Essere detenuti non deve comportare alcun limite, specie se si tratta del diritto alla salute”. Il caso di Tiziano Paloni Una situazione critica quella di Tiziano Paloni, in fin di vita in un letto d’ospedale: “Si dovrebbe indagare circa le condizioni igienico-sanitarie del complesso carcerario. I detenuti non possono rimanere all’ombra. Casi come quello di mio fratello dovrebbero far riflettere tutti – prosegue la sorella Valentina -. Si tratta di una patologia altamente contagiosa che certamente circola tra le mura del carcere. Vi chiedo di fare lumi sulla vicenda onde scongiurare che questo terribile evento non si ripeta”. L’avvocato della famiglia A spiegare l’acccaduto anche l’avvocato di fiducia della famiglia Paloni, Fabio Harakati: “Stiamo lavorando per fare luce sull’accaduto – le parole del legale del Foro Romano -. Da quanto abbiamo saputo avrebbe chiesto di essere portato nell’infermeria del carcere dopo aver accusato un mal di testa lancinante. Come avvocato di famiglia ho avanzato richiesta al giudice – essendo detenuto – di avere il diario clinico e la cartella clinica sia dell’infermeria di Regina Coeli che dei due ospedali dove è stato trasportato. In questo momento di grande preoccupazione per Tiziano, è molto prematuro accertare eventuali responsabilità qualora ci fossero. Il pensiero della famiglia è adesso solo per lui”. Profilassi a Regina Coeli A confermare il caso di meningite la Asl Roma 1, competente per quanto riguarda il presidio sanitario del carcere di Regina Coeli. Azienda Sanitaria che – una volta accertato il caso – ha attuato il protocollo previsto sottoponendo a profilassi detenuti, medici, infermieri, agenti penitenziari e personale della casa circondariale, che ha dato esito negativo in relazione ad altri possibili casi. Profliassi a cui sono stati sottoposti anche gli autisti delle ambulanze che hanno trasportato Tiziano Paloni prima al Santo Spirito e poi allo Spallanzani, anche loro negativi.
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La Cedu condanna l’Italia sul 41 bis
La Cedu condanna l’Italia per la detenzione in regime di 41bis di un detenuto affetto da demenza. Penalisti contro la circolare punitiva per l’Alta sicurezza e la censura ai detenuti redattori di Eleonora Martini da il manifesto Mentre arriva l’ennesima condanna all’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani, questa volta riguardo un detenuto affetto da demenza sottoposto al 41 bis, e mentre scoppia la polemica su una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che impone un giro di vite per i detenuti dell’Alta Sicurezza, Carlo Nordio annuncia l’«imminente» sblocco dell’empasse istituzionale che da quattro mesi congela al vertice della gestione penitenziaria la facente funzione Lina Di Domenico, figura particolarmente vicina ad Andrea Delmastro Delle Vedove. Rispondendo al question time in Senato, il Guardasigilli ha puntualizzato però che «spetta al ministro proporre al Consiglio dei ministri la nomina del capo del Dap, non certamente al sottosegretario». Mentre sul sovraffollamento è riuscito ad affermare che non è colpa della «bulimia legislativa» del governo «ma di chi commette reati e della magistratura che li mette in prigione». Nordio in ogni caso ha difeso la prima magistrata donna arrivata a capo del Dipartimento di Largo Daga: «Ha fatto un lavoro che dimostra una sua attenzione eccezionale», ha detto il ministro ricordando, tra le altre cose, «il gruppo di lavoro multidisciplinare» da lei creato «per la prevenzione degli eventi suicidari delle persone detenute». Che però non ha impedito il suicidio in carcere e nelle Rems già di ben 28 detenuti dall’inizio dell’anno, mentre si contano 88 decessi totali dietro le sbarre. Un numero che è «il segno più eclatante del malessere che alberga negli istituti penitenziari», segnala l’Unione delle camere penali che evidenzia come in questo contesto il Dap consideri invece prioritario emanare «una circolare-manifesto» che impartisce regole di vita più dure per i detenuti dell’Alta Sicurezza e una più «rigorosa applicazione del regime di “custodia chiusa”». Una circolare, insiste l’Ucpi, datata 27 febbraio ma «disponibile da poco tempo», e giustificata da «non meglio precisate “relazioni di servizio”, anonime “proteste” e “lamentele”» che segnalerebbero, secondo il Dap, «modalità organizzative disallineate rispetto alle circolari in vigore» e non aderenti «alle imprescindibili e primarie esigenze di sicurezza penitenziaria». Gli avvocati penalisti si scagliano anche contro la «cortina di silenzio che il Dap ha fatto scendere sulla situazione nelle carceri, al punto di vietare la pubblicazione, in alcuni istituti, di giornali animati dai detenuti o di silenziarne la voce, impedendo, in altri, che gli articoli di stampa sul carcere vengano sottoscritti con il nome e cognome degli autori». Un problema, questo, che è stato denunciato dal direttore del trimestrale Voci dentro Francesco Lo Piccolo e dal coordinamento dei giornali delle carceri che riferiscono anche l’«imposizione da parte del Dap di argomenti ammessi alla pubblicazione con la precisa esclusione di altri temi ritenuti non idonei» e «la lettura preventiva degli articoli o dell’intero giornale da parte delle direzioni». In questo quadro inquietante  cala la condanna emessa ieri dalla Cedu nei confronti dell’Italia per aver continuato a tenere recluso in regime di 41 bis un novantenne capo mafioso, Giuseppe Morabito, dal 2014 detenuto nel carcere milanese di Opera, «nonostante il suo progressivo deterioramento cognitivo» e le tante patologie di cui è affetto. Il Governo non ha convinto la Corte di Strasburgo della necessità di applicare in questo specifico caso il regime detentivo finalizzato a recidere ogni possibile contatto con gli altri membri delle organizzazioni criminali di appartenenza. I giudici infatti, puntualizza la sentenza firmata dalla presidente Ivana Jelic, non vedono «come una persona affetta da un indiscusso declino cognitivo – e addirittura diagnosticata con il morbo di Alzheimer – e incapace di comprendere la propria condotta o di seguire un’udienza giudiziaria, possa allo stesso tempo conservare una capacità sufficiente per mantenere o riprendere – in un’età così avanzata, dopo quasi vent’anni trascorsi in un regime particolarmente restrittivo – contatti significativi con un’organizzazione criminale». La Cedu ha invece rigettato il ricorso presentato dall’avvocata Giovanna Beatrice Araniti in difesa di Morabito riguardo l’incompatibilità dell’uomo con la detenzione. Ma ha comunque stabilito che la constatazione della violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani – che proibisce di sottoporre chiunque a trattamenti inumani e degradanti – «costituisce di per sé un’equa soddisfazione, sufficiente per il danno morale subito» dall’anziano detenuto. L’avvocata si augura che la sentenza di Strasburgo pesi ora sul ricorso presentato da Morabito in Cassazione per ottenere la sospensione del cosiddetto regime di “carcere duro” che subisce come fosse una pena aggiuntiva. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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San Gimignano – tortura in carcere. Una sentenza storica: la Corte d’Appello conferma le condanne per gli agenti penitenziari
Nel panorama della giustizia italiana, la vicenda del carcere di San Gimignano rappresenta uno dei casi più gravi e simbolici di violenza istituzionale. Tutto ha inizio l’11 ottobre 2018, quando un detenuto tunisino viene brutalmente picchiato da un gruppo di agenti della Polizia Penitenziaria all’interno della casa circondariale di San Gimignano, in provincia di Siena. Il pestaggio avviene durante un trasferimento di cella forzato: il detenuto viene gettato a terra, colpito con calci e pugni, e lasciato incosciente sul pavimento. Le indagini successive portano alla luce un quadro inquietante, fatto di violenze sistematiche, minacce e falsi verbali. Nel 2021 arriva una prima svolta giudiziaria: dieci agenti vengono condannati per tortura e lesioni aggravate dopo aver scelto il rito abbreviato. Le pene vanno dai 2 anni e 3 mesi ai 2 anni e 8 mesi. Nel 2023, altri cinque agenti affrontano il rito ordinario. La Corte li condanna a pene più elevate – fino a 6 anni e 6 mesi – per tortura, falso e minaccia aggravata. Un processo che fa storia: per la seconda volta in Italia, dopo il caso di Ferrara, viene riconosciuto il reato di tortura in ambito carcerario. Il 3 aprile 2025, la Corte di Appello di Firenze conferma le condanne agli agenti che avevano scelto il rito abbreviato e riduce le pene per quelli giudicati con il rito ordinario. Di seguito il comunicato integrale dell’Associazione Yairaiha Onlus, parte civile nel processo: L’Associazione Yairaiha Onlus, da cui partì la denuncia e costituita parte civile nel processo, accoglie con attenzione e determinazione la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Firenze in merito al caso di tortura avvenuto nel carcere di San Gimignano nel 2018. La conferma delle condanne ai 10 agenti della Polizia Penitenziaria che avevano scelto il rito abbreviato e le riduzioni di pena per i 5 che hanno affrontato il rito ordinario rappresentano un importante riconoscimento della gravità dei fatti accaduti. Tuttavia, non possiamo dimenticare che questa sentenza, pur storica, è solo la punta dell’iceberg di un sistema carcerario strutturalmente violento e disumano. Non si tratta di un caso isolato: già nel 2021 vi è stata la prima condanna in Italia per tortura in carcere, a dimostrazione che il nostro sistema detentivo è permeato da abusi sistematici e impunità. San Gimignano, come Ferrara e come molte altre carceri italiane, dimostra che la repressione e la violenza istituzionalizzata sono strumenti quotidiani di gestione della popolazione detenuta. Come associazione che da anni si batte per i diritti dei detenuti, denunciamo l’ipocrisia di uno Stato che proclama il rispetto dei diritti umani ma permette che le carceri si trasformino in luoghi di tortura. La tortura non è un’eccezione, ma una pratica endemica che trova terreno fertile in un sistema punitivo in cui il carcere non riabilita, ma annienta. Rinnoviamo la nostra vicinanza a tutte le vittime di abusi e ribadiamo il nostro impegno per un mondo senza carceri, in cui la giustizia non sia vendetta ma reale possibilità di trasformazione sociale. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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