Il libro “Carcere ai ribell3: il carcere come strumento di repressione del
dissenso” è appena uscito per l’Associazione Editoriale Multimage ed è stato
curato Nicoletta Salvi Ouazzene, attivista del comitato Mamme in piazza per la
libertà del dissenso di Torino. Il libro racconta diverse storie che hanno visto
come protagoniste in particolare donne, militanti e […]
Tag - carcere
E’ arrivata la sentenza che riguarda il processo, avvenuto con rito abbreviato,
nei confronti di dieci agenti della polizia penitenziaria che agirono violenza
nei confronti di un detenuto nel carcere di Reggio Emilia nell’aprile 2023. La
notizia, uscita ieri, parla di condanne dai 4 ai 2 anni di carcere ma, l’aspetto
più significativo, riguarda la […]
Il Gup riqualifica i reati e ammorbidisce le pene per i dieci agenti che avevano
picchiato un detenuto tunisino nel carcere di Reggio Emilia. Condanne dai 4 mesi
ai 2 anni di carcere. «Attonito» il legale di parte civile. Condannati per falso
altri tre poliziotti penitenziari
di Eleonora Martini da il manifesto
La testa chiusa in una federa stretta al collo, trasportato di peso nudo dalla
cintola in giù, i colpi inferti «dall’alto verso il basso», dove il detenuto già
versava dopo lo sgambetto che lo avrebbe fatto crollare. Calpestato, secondo le
immagini registrate dalle telecamere interne di videosorveglianza.
Tutto questonon fu tortura, ma «abuso di autorità in concorso». Non furono
lesioni ma percosse aggravate. Il processo in primo grado, con rito abbreviato,
ai dieci poliziotti penitenziari del carcere di Reggio Emilia che erano stati
accusati a vario titolo di tortura, lesioni e falso in relazione al pestaggio di
un detenuto tunisino avvenuto il 3 aprile 2023, si è chiuso così, ieri, con pene
molto più basse di quelle richieste dalla procura e con la riqualificazione dei
reati a loro ascritti. Dopo quasi quattro ore di camera di consiglio, la Giudice
per le udienze preliminare reggiana, Silvia Guareschi, ha riconosciuto gli
imputati rei di aver usato violenza nei confronti del detenuto ma ha negato che
fosse tortura e ha comminato loro condanne che vanno dai due anni ai quattro
mesi di reclusione, respingendo così le accuse del Pubblico ministero Maria Rita
Pantani che aveva richiesto pene fino a cinque anni e otto mesi di carcere per
un imputato in particolare, e cinque anni per altri sette agenti. Confermato,
invece, il reato di falso per i tre imputati a cui era contestato.
La vittima, un quarantenne di origine tunisina, è ancora rinchiuso nel carcere
di Reggio Emilia per scontare gli ultimi mesi di pena dei tre anni di reclusione
ai quali è stato condannato per reati legati allo spaccio. Quel giorno di quasi
due anni fa, sul detenuto che, secondo gli agenti, stava facendo resistenza al
trasferimento in isolamento si sono scagliati in tanti: secondo la ricostruzione
della procura che ha mostrati i filmati della videosorveglianza annessi agli
atti del processo, l’uomo fu incappucciato e brutalmente malmenato, anche quando
era riverso a terra. Durante il rito abbreviato voluto dagli imputati, tutti gli
agenti hanno chiesto scusa al detenuto che si è costituito parte civile. Otto di
loro hanno anche versato mille euro ciascuno come gesto riparatorio. Ma prima
del processo i poliziotti penitenziari che intervennero il 3 aprile 2023 (tra
loro un vice ispettore, tutti ancora sospesi dal servizio) riferirono che il
detenuto avesse sputato loro addosso e fosse armato di lamette da barba. Secondo
la vittima, invece, le violenze continuarono anche quando venne trasferito in
isolamento e lui dovette ferirsi con dei frammenti di un lavandino per
richiamare l’attenzione del medico. Il quale gli venne in soccorso, trovandolo
in una pozza di sangue.
La sentenza, pronunciata in un’aula riempita dai parenti, dai colleghi e dagli
amici degli imputati, è stata accolta dall’avvocato Luca Sebastiani, legale di
parte civile per il detenuto, con stupore: «Sono perplesso e attonito – ha detto
– leggeremo le motivazioni che hanno portato alla riqualificazione del reato di
tortura che è ciò che più ci interessava. Al di là della pena, che non ci
interessa in alcun modo, e del risarcimento che ci interessa in maniera
incidentale – ha sottolineato l’avvocato – L’incappucciamento e il denudamento
in quelle modalità, il pestaggio che c’è stato, come si vede dalle immagini di
videosorveglianza, erano chiare e non a caso il Gip e il Riesame avevano
confermato quella qualifica, la tortura. Ad oggi il quadro è cambiato,
valuteremo le opportune mosse una volta lette le motivazioni».
Se non altro, il dispositivo emesso ieri, in primo grado, spazzerà via una certa
vulgata cara alle destre secondo la quale la legge sulla tortura interferisce
con il lavoro (sano) delle forze dell’ordine.
L’associazione Yairaiha Onlus che da sempre si batte per il diritto dei detenuti
vede il bicchiere mezzo pieno. Ritiene che la decisione rappresenta un passo
importante nella lotta contro gli abusi e la violenza all’interno delle
strutture detentive, riaffermando il principio che nessuno, neanche in stato di
detenzione, può essere privato della propria dignità e sottoposto a trattamenti
disumani e degradanti.
Il video agli atti dell’inchiesta ha mostrato immagini inaccettabili: un uomo
incappucciato con una federa stretta al collo, denudato, sgambettato e
ripetutamente colpito con calci e pugni, anche quando era già a terra, per poi
essere nuovamente picchiato e lasciato nudo dalla cintola in giù per oltre
un’ora. Un comportamento che non solo viola i diritti fondamentali della
persona, ma getta un’ombra sulle istituzioni che dovrebbero garantire la
legalità e la sicurezza per tutti, detenuti e operatori.
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Protestano, i detenuti del carcere di Pescara, dopo il suicidio in cella di un
giovane. Una tragedia annunciata che ha fatto scattare l’ira degli altri
reclusi. Qualcuno ha appiccato il fuoco a un materasso e un detenuto è salito
sul tetto. La protesta è rientrata nel pomeriggio. Si tratta del 13esimo
detenuto suicida dall’inizio dell’anno.
Un ragazzo di ventiquattro anni si è tolto la vita nella casa circondariale San
Donato di Pescara. È il tredicesimo suicidio avvenuto nelle carceri italiane
dall’inizio del 2025: il doppio dei casi rispetto allo stesso periodo nel 2024.
Nel carcere di Pescara il sovraffollamento è del 162 per cento
Aveva 24 anni. Nella notte tra il 16 e 17 febbraio un giovane di origine
egiziana si è suicidato nel carcere di Pescara. A seguito della sua morte è
scoppiata la rabbia delle persone detenute: una persona è salita sul tetto e
alcuni materassi – che dovrebbero essere ignifughi – sono stati messi a fuoco in
segno di protesta. Ambulanze e vigili del fuoco sono arrivati sul posto. “È una
situazione invivibile. Il carcere esplode, le persone che arrivano vengono messe
a dormire su materassi per terra per mancanza di spazio. Le celle da sei persone
sono diventate da otto, quelle da quattro anche da sette”, dichiara ad
Abruzzosera Francesco Lo Piccolo, direttore della rivista Voci Di Dentro, che si
occupa di carcere e giustizia. “Il cibo è immangiabile, i prezzi sono alti, i
muri pieni di muffa. Nei giorni scorsi, a seguito delle forti piogge, i piani
bassi della casa circondariale si sono allagati, comprese le celle al piano
terra”, spiega.
Il tasso di sovraffollamento delle carceri, come denunciato dal Garante
nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, è in
continuo aumento. Il report più recente – pubblicato il 10 gennaio 2025 –
dimostra che nella casa circondariale di Pescara, a fronte di 272 posti
disponibili, il numero delle persone detenute è di 443: il 162,87 per cento in
più della capienza. In una scheda dell’associazione Antigone, in visita nel
carcere di San Donato nell’aprile scorso, viene segnalata una forte carenza del
personale penitenziario, difficoltà al comparto salute e la scarsa copertura di
attività lavorative e formative dedicate alle persone detenute. “Le attività
sono ridotte a zero, le richieste vengono sempre sospese per difficoltà. Mancano
gli agenti: ce ne sono circa 100 per una popolazione di 440 persone”, aggiunge
Lo Piccolo.
Pochi giorni fa, Irma Conti del collegio nazionale del Garante ha affermato che,
in Italia, “19mila detenuti che hanno pene residue fino a tre anni, sulla base
nella normativa potrebbero uscire dal carcere optando per misure alternative. Ma
la burocrazia e la carenza di risorse creano ostacoli”.
Il 2024 è stato l’anno record per i suicidi: nelle carceri italiane 90 persone
si sono tolte la vita, mai così tante da quando si raccolgono dati. Si tratta
quasi sempre di persone con una condanna non definitiva, ed è scesa l’età media
di chi si toglie la vita in carcere. Il 46% delle persone era in custodia
cautelare, quindi ancora in attesa di una sentenza. La fascia d’età più colpita
è tra i 26 e i 39 anni e una parte consistente – secondo Antigone, circa 40
persone – era di origine straniera. In crescita anche gli atti di autolesionismo
(+483 nel 2024).
Appena trascorso un fine settimana horribilis – con due detenuti che si sono
tolti la vita in Toscana: un giovane marocchino di 32 anni il 14 febbraio a
Prato e il giorno dopo a Sollicciano, Firenze, un uomo romeno di 39 anni – ieri
mattina è successo nella casa circondariale pescarese di San Donato dove a un
ragazzo tossicodipendente di 24 anni si è impiccato.
Il comunicato del Campetto occupato sul carcere di Teramo e sulla Garante dei
detenuti:
Nei giorni scorsi il presidente della commissione sanità e politiche sociali
della Regione Abruzzo, Paolo Gatti, e la garante dei detenuti, Monia Scalera,
sono stati in “visita” al carcere di Teramo, dove si contano 430 detenuti su 275
posti disponibili.
Visita è un termine orribile, ed è quello che viene comunemente usato, ma in
questa situazione forse è confacente, viste le dichiarazioni che costoro hanno
rilasciato: “Nel carcere teramano va tutto bene! Vi solo alcune criticità che
riguardano esclusivamente il corpo di polizia penitenziaria, ma nessun problema
con i detenuti. Non vi è sovraffollamento e non vi sono particolari problemi e
non bisogna creare allarmismo “. Hanno detto.
Queste dichiarazioni, oltre a fare ribrezzo, fanno il paio con altre
esternazioni di esponenti di governo, tipo Delmastro sui detenuti. Ma vanno
anche “inquadrate” politicamente.
Infatti la “visita” dei due esponenti regionali segue quella di altri politici
che hanno sollevato non poche problematiche sul carcere teramano. In poche
parole è una diatriba politica a cui i due hanno risposto, ma che si gioca sulla
pelle di persone recluse.
E recluse in un inferno!
Perché forse i due non sanno che le carceri sono una polveriera in cui viene
ammassata umanità. In cui anche la quotidianità peggiora sempre più e ce lo
dicono le lettere di persone recluse.
In cui il numero di suicidi è in continuo drammatico aumento (lo scorso anno è
stato il peggiore e quest’anno sta confermando la scia di morte).
In cui la deriva autoritaria e repressiva del nostro paese non fa altro che
riempire ancor di più le carceri e soffocare ogni forma di mobilitazione per
migliorare le condizioni (il decreto sicurezza in approvazione, non a caso va
colpire pesantemente anche proteste in carcere).
Nel caso specifico di Teramo, i drammi sono purtroppo tutti confermati:
sovraffollamento, tensioni interne, suicidi e morti, come la morte di Patrick lo
scorso anno, che ancora attendono verità.
Il carcere non è una struttura a sé stante.
Ma corpo del meccanismo di oppressione e riflesso della società. Non è un caso
che smarrito il collante sociale e solidaristico all’interno delle società, ciò
si ripercuote anche dentro le galere.
Al carcere di Teramo, inoltre, hanno cercato da sempre di evitare contatti
solidali. Infatti per i diversi presidi effettuati che parlassero ai detenuti (e
non di fronte al piazzale dove nessun detenuto può vederti), sono piovute
denunce e fogli di via.
Perché i “tutori dell’ordine” non vogliono il contatto solidaristico tra
“dentro” e “fuori”. Cionostante la solidarietà, sebbene troppo poca rispetto a
quella che meriterebbe la situazione, si è sempre cercato di portarla avanti.
Per concludere, tornando ai due squallidi personaggi con cui eravamo partiti…
Fa veramente impressione che un soggetto come Paolo Gatti, che ha arricchito la
sue tasche grazie ad incarichi pubblici (anche inutili, ricordiamolo presidente
della Giulianova Patrimonio, in crisi finanziaria, messo lì per marchetta
politica), parli in quel modo di persone rinchiuse.
Se avesse provato solo un centesimo di quei drammi, rispetto alla sua comoda
vita, saprebbe di cosa si sta parlando.
Ed arriviamo alla garante dei detenuti, tale Monia Scalera. L’Abruzzo ha sempre
avuto problemi con tale incarico, infatti era tra le pochissime regioni che non
aveva un garante. La nomina di tale soggetto risale a qualche mese fa ed è una
nomina prettamente politica, visto che costei è in quota Fratelli D’Italia.
Quindi le sue dichiarazioni parrebbero in linea con le nefandezze del suo
partito.
Però e c’è un però molto grande, costei in questa sede ricopre il ruolo di
Garante dei detenuti e quindi non può fare quelle dichiarazioni!
Perché non sono confacenti con il ruolo di cui è incaricata, ovvero garantire la
dignità delle persone recluse.
Costei con tali dichiarazioni, non solo ha fatto un torto ai detenuti, ma anche
al ruolo che dovrebbe ricoprire.
Quindi, ben cosci che non sia un ruolo a cambiare lo stato delle cose, ma
sapendo anche che le lotte hanno dei passaggi, chiediamo a gran voce che Monia
Scalera non sia più garante dei detenuti in Abruzzo. Che venga sostituita da
qualcun che abbia più a cuore le sorti delle persone recluse. Perché l’attuale
garante non fa gli interessi dei detenuti, ma quelli del suo partito.
A questo appello auspichiamo si uniscano più persone possibili, collettivi e
gente di buon cuore. Perché quelle dichiarazioni sono intollerabili e spetta a
noi tutte/i fare in modo che le cose cambino.
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In questa intervista dialoghiamo con Blanca Mirna Mendoza, rappresentante
dell’organizzazione femminista IMU di San Salvador. L’obiettivo è indagare
l’impatto diretto dello stato d’eccezione, della militarizzazione e
dell’incarceramento di massa sulla vita delle donne e delle comunità
marginalizzate, elementi centrali nella politica del presidente Nayib Bukele.
Dal 2019, e soprattutto dopo la rielezione dello scorso anno, […]
In politica le parole sono piume. Ma quando si tratta di galera diventano ceppi.
«Il 41bis e l’ergastolo ostativo sono imprescindibili. Sul carcere duro non si
arretra di un millimetro» annuncia la premier Meloni
di Andrea Colombo da il manifesto
In politica le parole sono piume. Ma quando si tratta di galera diventano ceppi.
«Il 41bis e l’ergastolo ostativo sono imprescindibili» salmodiava un paio di
giorni fa la premier Meloni. «Sul carcere duro non si arretra di un millimetro»,
s’infervorava il ministro-ombra della Giustizia Andrea Delmastro, quello che se
la gode quando i detenuti restano senza aria da respirare e se ne vanta pure.
Detto fatto. La commissione antimafia ha iniziato a darsi da fare per irrigidire
il carcere duro. Già così la Francia ce lo invidia e s’industria di imitarlo.
Figurarsi quando sarà durissimo: il vanto della Nazione.
La scusa, pardon l’occasione, è la maxiretata di Palermo: 181 arresti e la prova
provata che dal carcere arrivavano chiamate con i cellulari criptati. Non da
galeotti in 41bis, per la verità. Ad adoperare i telefoni entrati di
contrabbando in cella erano i dannati del girone infernale appena inferiore, il
regime d’alta sicurezza: non proprio una tortura (certificata dalla Corte
europea per i diritti dell’uomo) come il 41bis ma pur sempre roba forte. Il
salto logico per cui per una falla nell’alta sicurezza si stringono le maglie
già soffocanti del carcere duro sfugge ma tant’è. Di fronte alle parole mafia e
terrorismo nessuno si formalizzerà.
Il guaio è che c’è di mezzo la Corte costituzionale. Nel 2021 la Consulta aveva
ordinato di modificare entro un anno l’ergastolo ostativo, art. 4 bis,
considerandolo incostituzionale. Era stato necessario sfornare in tutta fretta,
nel 2022, una legge che eliminasse «il divieto di concessione dei benefici
penitenziari» ai detenuti che non collaborano con la giustizia, cioè che non
denunciano qualcuno per provare l’avvenuta redenzione. Paletti e limitazioni di
ogni tipo hanno per la verità reso la modifica imposta dalla Corte
costituzionale più formale che reale. I 738 carcerati attualmente in regime di
massima restrizione continuano in linea di massima ad avere sempre la stessa
chiave per aprire la cella. Ma alla maggioranza quello spiraglio di civiltà è
sembrato da subito una resa, un cedimento, uno spalancar le porte ai cosiddetti
boss e si sa che se uno finisce in quel regime penitenziario è boss per
definizione anche se non ha mai dato un ordine in vita sua e persino se, essendo
in attesa di giudizio, è dubbio che ne abbia anche solo ricevuti.
Ora che la retata regala un alibi il primo obiettivo sarebbe appunto rimangiarsi
quella vergogna tornando ai fasti di Guantanamo, oooppssss del 4 bis: chi non
parla non esce e poche storie. Certo ci vorrà una certa perizia per aggirare una
sentenza della Corte ma qualcosa le teste d’uovo capitanate da Chiara Colosimo,
la Sorella che presiede l’Antimafia, cercheranno di inventarsela. Senza fermarsi
a questo, ci mancherebbe. Per «attuare un taglio netto e radicale del cordone
ombelicale tra detenuti e famiglie criminali di riferimento», secondo la fiorita
prosa della presidente Colosimo, e soprattutto «per evitare pericolose derive
interpretative», cioè per evitare che la legge imposta dalla Consulta venga
applicata anche solo per caso ed eccezione, non ci sarà limite alla fantasia
perversa del legislatore.
Non che la destra al governo di fantasia ne abbia per la verità molta. Qualsiasi
sia il nodo da sciogliere la formula è sempre la stessa: più galera, a meno che
naturalmente non si tratti di torturatori libici. La differenza sta nel fatto
che su tutto il resto l’opposizione qualcosa da pigolare ce l’ha. Quando si
arriva al 41 bis e all’ergastolo ostativo invece l’accordo è generale, l’intesa
perfetta. Non è bello sapere che qualcosa che unisce la nazione in fondo c’è?
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Tra le celle dell’istituto Sant’Anna ci sono stati quattro decessi in poche
settimane. Si presume che in tutti i casi i detenuti si siano tolti la vita.
L’ultimo suicidio risale allo scorso 4 febbraio. L’uomo aveva problemi psichici
e aveva ricevuto una segnalazione per rischio suicidario lieve
di Luigi Mastrodonato da il Domani
Il 2025 delle carceri italiane si è aperto come era finito il 2024, cioè
all’insegna dei decessi. Se lo scorso anno si è chiuso con il record di suicidi,
ben 90, nell’anno nuovo ne sono stati registrati già dieci, un ritmo in linea
con quello del 2024.
Di carcere si muore, ma c’è un istituto dove nelle ultime settimane si sta
morendo più che negli altri. Tra le celle del carcere Sant’Anna di Modena nel
giro di un mese ci sono stati quattro decessi, presumibilmente tutti suicidi.
Cinque anni dopo le rivolte che portarono alla morte di nove detenuti in
circostanze mai del tutto chiarite, l’istituto emiliano torna dunque a far
parlare tragicamente di sé. E le Camere penali di Modena e Bologna hanno
annunciato uno sciopero contro le condizioni critiche di detenzione
nell’istituto.
Un nuovo decesso
L’ultimo decesso nel carcere Sant’Anna di Modena c’è stato la scorsa settimana.
Il 4 febbraio un 27enne di origine marocchina è stato trovato morto nella sua
cella per una presunta overdose di farmaci. Secondo le prime ricostruzioni
sarebbe morto nella notte, eppure la scoperta del decesso sarebbe avvenuta solo
il giorno successivo, a diverse ore di distanza.
L’uomo aveva problemi psichici e aveva ricevuto una segnalazione per rischio
suicidario lieve. Proprio pochi giorni prima del decesso aveva fatto però una
nuova visita psichiatrica e dalla cartella clinica era stato depennato il
rischio suicidario rilevato in precedenza, che significa da quel momento avrebbe
ricevuto una minore sorveglianza.
Come ha fatto sapere la legale della famiglia dell’uomo, Tea Federico, non si sa
ancora se sarà disposta l’autopsia, che sarebbe utile per comprendere meglio le
cause del decesso. Che al momento non sembra un incidente, ma un suicidio, vista
la grande quantità di farmaci che l’uomo avrebbe assunto nel giro di pochi
minuti.
Una scia di morti
La morte di inizio febbraio nel carcere Sant’Anna di Modena è l’ultima di una
scia che va avanti da poco più di un mese. Il 31 dicembre scorso nell’istituto
emiliano si è tolto la vita un 37enne di origine macedone. L’uomo sarebbe morto
inalando gas dalla bomboletta data in dotazione ai detenuti per cucinare. Il 7
gennaio nello stesso modo è morto il detenuto 49enne Andrea Paltrinieri. Il
giorno prima, il 6 gennaio, era invece morto un detenuto 27enne di origine
marocchina, che era ricoverato in ospedale da metà dicembre in gravissime
condizioni per le conseguenze di un tentativo di suicidio.
Quattro detenuti di un singolo istituto penitenziario morti in poco più di un
mese. È un dato impressionante, come impressionante è il fatto che due di questi
si siano uccisi inalando gas, così come aveva fatto un altro detenuto del
carcere di Modena nel 2023.
L’inalazione di gas è la seconda tecnica di suicidio più diffusa nelle carceri
italiane dopo l’impiccagione e la domanda che sorge spontanea è perché allora i
detenuti, compresi quelli più fragili, continuino a poter disporre di questi
strumenti di potenziale morte senza che l’amministrazione penitenziaria pensi ad
alternative, come i fornelletti elettrici.
La risposta sta nelle condizioni strutturali precarie della gran parte delle
carceri italiane. A Modena per esempio tutti quei fornelletti elettrici
farebbero saltare i vecchi generatori e invece di modernizzare il sistema si
continua a dare il gas in mano ai detenuti.
Lo sciopero delle Camere penali
Nelle scorse settimane le Camere penali di Modena e Bologna hanno condotto
visite all’istituto Sant’Anna di Modena e alla Dozza di Bologna, rilevando
condizioni di detenzione terribili, in particolare legate al sovraffollamento. A
Modena il tasso di sovraffollamento è del 151 per cento e questo si riflette
sulla salute delle persone detenute, contribuendo a spiegare la strage
dell’ultimo mese.
Proprio per protesta contro queste terribili condizioni di detenzione e per i
quattro morti di Modena, le Camere penali di Modena e Bologna hanno annunciato
che il 19 e 20 febbraio si asterranno dalle udienze in tribunale. «Quello
passato è stato un anno tragico per quanto riguarda il numero di suicidi
avvenuti in carcere: si deve prendere atto di questa situazione così allarmante
e intervenire, ognuno per la sua competenza, per fermare questa emorragia. Il
2025, purtroppo, non è iniziato diversamente», denuncia l’avvocato Luca
Sebastiani.
«Solo a Modena, nelle prime quattro settimane dell’anno, si sono registrati
quattro decessi. Abbiamo visitato l’Istituto che, come altre carceri regionali,
versa in condizioni decisamente critiche: oltre ai problemi strutturali, è
ampiamente sovraffollato e la pianta organica dell’area educativa e della
Polizia Penitenziaria è inferiore a quella regolare».
E sempre riguardo a Modena, a fine mese dovrebbero concludersi le indagini
supplementari per le presunte torture degli agenti penitenziari a danno dei
detenuti nel corso della rivolta del 2020, quando morirono in nove.
A settembre la gip aveva infatti respinto la richiesta di archiviazione della
Procura, chiedendo altri sei mesi di investigazioni. E nelle scorse settimane si
è aggiunta una nuova voce alle denunce di violenze. Un detenuto che non risulta
tra quelli sotto processo per la rivolta ha presentato infatti un esposto in cui
denuncia le lesioni che gli sarebbero state provocate dagli agenti in quelle
tragiche ore.
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400 detenuti in sciopero della fame. L’associazione Yairahia Onlus, attiva per i
diritti dei reclusi, spiega i motivi della protesta nel carcere di Palermo : “In
una situazione carceraria disastrosa che l’anno scorso ha registrato il record
di suicidi, ed in cui il sovraffollamento è una costante, appare assurdo gravare
in maniera ancora maggiore sulla vita quotidiana di chi sta dietro le sbarre”
Scoppia la protesta al Pagliarelli: 400 detenuti in sciopero della fame contro
le nuove restrizioni. I ribelli sono coloro che si trovano in regime di Alta
Sicurezza. L’associazione Yairahia Onlus, attiva per i diritti dei detenuti,
spiega i motivi della protesta: “Il 19 novembre del 2024, alle porte
dell’inverno, con provvedimento regionale si è dato avvio ad una circolare del
Dap, il dipartimento amministrazione penitenziaria, che – con il pretesto
ufficiale di prevenire il rischio di incendi nelle celle – prevede importanti
restrizioni sui beni che possono ricevere i detenuti. Le restrizioni riguardano
principalmente la ricezione di pacchi postali, che non potranno contenere più
alimenti, se non con qualche piccola eccezione, ma anche, per far solo un
esempio, coperte e maglioni in pile”.
“In una situazione carceraria disastrosa che l’anno scorso ha registrato il
record di suicidi, ed in cui il sovraffollamento è una costante, appare assurdo
gravare in maniera ancora maggiore sulla vita quotidiana dei detenuti e delle
detenute – proeguono dall’associazione Yairahia Onlus -. Questi provvedimenti
aumentano la distanza tra chi è dentro e gli affetti fuori, ma soprattutto
creano le condizioni per grandi squilibri all’interno degli istituti. Chi avrà i
soldi per acquistare i prodotti dentro il carcere, farà un tipo di vita, mentre
chi non li avrà non potrà più ricevere da fuori ciò che gli serve”. E
aggiungono: “Anche se in Sicilia gli inverni non sono particolarmente freddi non
è possibile che si possano creare situazioni in cui chi non ha parenti limitrofi
ed è un difficoltà economica potrebbe finire a non avere accesso ad una
coperta”. L’avvio della circolare ha infatti già fatto nascere diverse proteste.
Nel carcere di Cavadonna, prima, ed al Pagliarelli di Palermo in questi giorni.
Dopo alcune battiture fatte con le stoviglie sbattute sulle sbarre, oltre 400
detenuti del regime di Alta Sicurezza del carcere palermitano hanno annunciato
l’avvio dello sciopero della fame.
“Vediamo queste procedure assolutamente inutili per la sicurezza dei detenuti;
alimentano piuttosto l’insicurezza e diminuiscono la poca autonomia, stringendo
sempre più la morsa sulla vita quotidiana che in questo modo dipenderà
maggiormente dalla gestione dell’istituto penitenziario” continua Yairahia.
Anche Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo, ha espresso perplessità in
merito. Concludono da Yairahia: “Ci auspichiamo che al Pagliarelli, e ovunque,
come successo a Cavadonna, si abbia una rimodulazione delle restrizioni. Che si
agisca per la salute ed il benessere di chi è detenuto e non il contrario. Come
associazione ci faremo portavoce delle istanze in tutte le sedi opportune
affinché non si applichino misure tanto illogiche quanto dannose”
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Offrire ai detenuti la possibilità di mantenere legami affettivi è un passo
indispensabile, a patto che il recupero sociale non voglia essere solo una
promessa mancata, ma una realtà concreta.
di Luna Casarotti – associazione yairaiha ETS da Monitor
2021. Ion Nicolae, all’epoca quarantottenne, è in carcere, vivendo da tempo in
una condizione di isolamento totale e solitudine. È privo del supporto di
parenti vicini, una situazione che ha contribuito all’emissione di un
provvedimento per il suo rimpatrio in Romania. Nicolae però, dopo anni di
detenzione a Verona, aveva ottenuto la semi-libertà, intraprendendo un percorso
di reinserimento sociale. A fine dello scorso anno, al momento della scadenza
del suo contratto di lavoro, è stato prelevato dalla sua abitazione, dove viveva
insieme alla compagna e trasferito a Verona, per poi finire al carcere di
Rebibbia di Roma, in attesa di essere rimpatriato. Ha dovuto interrompere così,
bruscamente, il suo cammino di lento rientro alla vita.
La storia di Nicolae è segnata da sofferenze profonde. In un momento di estrema
disperazione, a Rebibbia, ha ingerito delle batterie, richiedendo un intervento
d’urgenza che gli ha salvato la vita. Eppure ha dimostrato grande determinazione
nel tentativo di ricostruirsi una vita migliore. Lui e la sua compagna si
trovano ora ad affrontare una nuova difficoltà: il loro matrimonio, previsto per
il 12 febbraio a Verona, rischia di non poter essere celebrato a causa del
trasferimento. Quel matrimonio rappresenta un passo importante verso la
stabilità, oltre che un progetto di vita comune. A Verona, gli avvocati
Francesco Spanò e Simone Giuseppe Bergamini hanno presentato una richiesta
urgente per sospendere e revocare il trasferimento di Ion Nicolae, cittadino
rumeno, detenuto con fine pena previsto per il 2027. Quando è è stato trasferito
al carcere di Rebibbia, la sua difesa non era stata informata. “Il trattamento
riservato a Ion Nicolae è disumano e kafkiano”, denunciano gli avvocati,
sottolineando come al loro assistito non sia stata garantita un’adeguata
informativa sui suoi diritti e sulla decisione di trasferimento, violando così
il suo diritto alla difesa.
Chi conosce Nicolae, a cominciare dai suoi avvocati, è preoccupato per le gravi
conseguenze sul benessere psicofisico dell’uomo, incluso il rischio di atti di
autolesionismo, che potrebbe comportare questa decisione. La sospensione e la
revoca del trasferimento sono stati chiesti affinché l’uomo possa scontare il
residuo della pena in Italia. “Nicolae sta per sposarsi con una cittadina
italiana e ha ricostruito la sua vita sui binari della legalità, richiedendo
misure alternative alla detenzione”, spiegano gli avvocati. “In Romania non
avrebbe la possibilità di esercitare tali facoltà”.
Il diritto al matrimonio è sancito dall’articolo 29 della Costituzione, da
trattati internazionali come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo
(articolo 8) e la Dichiarazione universale dei diritti umani. Per i detenuti il
matrimonio rappresenta un elemento essenziale per il recupero di un benessere
personale e sociale. Negare questa opportunità a Nicolae significa violare un
diritto fondamentale e interrompere un progetto di vita. Tuttavia, il caso di
Nicolae non è isolato, anzi mette in evidenza un problema più ampio legato al
diritto all’affettività per i detenuti. Nel gennaio 2024, la Corte
Costituzionale, con la sentenza numero 10/2024, ha riconosciuto il diritto dei
detenuti a vivere momenti di intimità con i propri cari, includendo i legami
affettivi e sessuali. Tuttavia questa sentenza, sebbene importante, si scontra
con una realtà carceraria che non dispone (né si predispone a farlo) delle
strutture adeguate per rendere effettivi tali diritti. La mancanza di spazi
adeguati e il sovraffollamento degli istituti compromettono la possibilità di
costruire e mantenere relazioni significative, fondamentali per l’equilibrio
psicologico e il reinserimento sociale. Tali legami, invece, sono riconosciuti
come elementi essenziali per il recupero e la riabilitazione. Nel caso di
Nicolae, se l’uomo venisse rimpatriato in Romania, le conseguenze sarebbero
molto gravi. Le condizioni delle carceri rumene sono ancora peggiori di quelle
italiane: lo spazio vitale per detenuto è spesso inferiore ai due metri
quadrati, violando standard minimi di dignità. Inoltre, sono stati ripetutamente
riconosciuti maltrattamenti e abusi fisici, tra cui la pratica brutale della
“falaka,” che consiste nel colpire violentemente la pianta dei piedi del
prigioniero. Nicolae, già emotivamente fragile a causa del suo passato e degli
episodi di autolesionismo, rischierebbe di trovarsi in una situazione ancora più
critica.
Questo trasferimento, oltre a violare i diritti processuali di un detenuto,
rappresenta un esempio emblematico delle difficoltà che il sistema penitenziario
italiano, strutturalmente violento e ingiusto, riscontra di fronte al tema del
rispetto della dignità umana. La vicenda di Nicolae richiama l’urgenza di
tradurre in pratica principi base che sono sanciti dalla legge, come garantire
ai detenuti il diritto al matrimonio e alla sfera affettiva. Investire in
strutture adeguate, come spazi per i colloqui intimi, non deve essere
considerato un privilegio, ma una componente fondamentale di un sistema
penitenziario che ponga al centro la dignità della persona. Offrire ai detenuti
la possibilità di mantenere legami affettivi è un passo indispensabile, a patto
che il recupero sociale non voglia essere solo una promessa mancata, ma una
realtà concreta.
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Salvatore Rosano, detenuto nel carcere a Vigevano per un rapina da 55 euro si è
tolto la vita.
Salvatore Rosano aveva 55 anni ed era un dipendente dell’Atm, l’azienda che
gestisce il trasporto pubblico a Milano, era detenuto per una rapina da 55 euro
che erano anche stati restituiti con, in più, il risarcimento del danno. Si era
trasferito in Lombardia dalla Calabria qualche anno fa. L’uomo si è impiccato
nella sua cella.
Il legale suo aveva presentato domanda di un provvedimento alternativo e, nel
frattempo, chiesto il rilascio con affidamento ai servizi sociali. Tuttavia, il
magistrato aveva respinto la richiesta
Si tradda del nono suicidio nelle carceri italiane dal 1° gennaio 2025, il
secondo in pochi mesi nel carcere di Vigevano dopo quello del 7 ottobre 2024.
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