Mercoledì 16, dopo un fine settimana molto caldo in termini di uso della forza
da parte della polizia, abbiamo avuto il piacere di una chiacchierata in studio
con un compagno di Radio Onda Rossa. Con lui, abbiamo discusso delle
trasformazioni dei quartieri di Roma, alla luce della speculazione abitativa che
ha comportato il giro di […]
Tag - carcere
Ogni giorno nelle carceri italiane ci sono in media cinque episodi di protesta
collettiva. Il reato di rivolta penitenziaria, introdotto dal decreto legge
«sicurezza», punisce con pene elevatissime anche chi protesta con forme di
resistenza passiva
di Patrizio Gonnella da il manifesto
Ogni giorno nelle carceri italiane ci sono in media cinque episodi di protesta
collettiva. Il reato di rivolta penitenziaria, introdotto dal decreto legge
«sicurezza», punisce con pene elevatissime anche chi protesta senza violenza e
con forme di resistenza passiva a ordini dati per generiche ragioni di
sicurezza. Il carcere è pieno di tali eventi, ogni operatore lo sa.
Nel solo 2024 si sono verificati circa 1.500 episodi di protesta collettiva
nonviolenta, quali la battitura delle sbarre o il rifiuto di rientrare in cella.
Episodi che un bravo direttore o comandante di reparto risolveva con il dialogo,
ascoltando le ragioni della protesta.
La pedagogia premoderna e punitiva di chi ci governa ha deciso di criminalizzare
la disobbedienza nonviolenta. Se il 2025 sarà come l’anno passato, supponendo
che in media quattro detenuti partecipino a ogni episodio di disobbedienza a un
ordine, arriveremo a seimila detenuti coinvolti. Il reato di rivolta
penitenziaria prevede pene altissime, superiori nel massimo ai maltrattamenti in
famiglia. Supponiamo che i seimila detenuti siano condannati a una media di
quattro anni di carcere ciascuno. Sono dunque in arrivo circa ventiquattromila
anni aggiuntivi di carcere contro persone, già detenute, alle quali sarà
peraltro escluso l’accesso a misure alternative. Una ricetta perfetta per far
definitivamente esplodere il nostro sistema penitenziario e seppellire in
carcere migliaia di persone, selezionate ovviamente tra le più vulnerabili:
minori stranieri non accompagnati, persone con problemi psichici,
tossicodipendenti.
A ciò vanno aggiunti gli effetti devastanti di tutti gli altri delitti presenti
nel decreto. Il sistema collasserà, nei numeri e per la sua disumanità.
Una delle misure del decreto legge sulle quali maggiormente si concentravano i
dubbi del presidente Mattarella era, come reso noto dai media, l’abolizione
dell’obbligo di differimento della pena per le donne incinte o con prole fino a
un anno di età. Nella trasformazione del testo in decreto, tale abolizione non è
mutata. Da oggi sarà il giudice a decidere se la donna in gravidanza o appena
divenuta madre dovrà andare in carcere. Se decide di sì, la donna sarà inviata
in un Icam (istituto a custodia attenuata per madri), che è comunque un carcere
a tutti gli effetti. Se tuttavia la donna in custodia cautelare in Icam non si
comporta a dovere, allora accadrà qualcosa senza precedenti: la donna potrà
essere trasferita in un carcere ordinario senza suo figlio, per il quale
verranno allertati i servizi sociali. In questo modo si istituzionalizza la
sottrazione del figlio alla madre detenuta.
Di fronte a tutto ciò chiediamo ai giuristi e agli operatori penitenziari e del
diritto di assecondare la loro missione, di essere culturalmente e
giuridicamente resistenti rispetto alle tendenze neo-autoritarie di un decreto
legge che nella forma e nella sostanza fa carta straccia dello Stato di diritto.
Il grosso rischio è quello della cooptazione istituzionale degli operatori
sociali e del diritto, che invece devono esercitare il loro spirito critico per
non essere i manovali del declino del sistema.
Chiediamo ai giudici, agli avvocati, agli operatori tutti di moltiplicare le
forme del dissenso chiamando la Corte costituzionale e la Corte europea dei
diritti umani di Strasburgo a decidere se cancellare le norme presenti nel
decreto legge.
Chiediamo a tutti gli operatori penitenziari di usare ragionevolezza e dialogo
per non trasformare le carceri in fosse comuni dove i detenuti sono seppelliti
da valanghe di anni di prigione.
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Tiziano Paloni, romano di 40 anni, ristretto nel carcere romano in attesa di
giudizio, la mattina di lunedì 7 aprile è stato trasportato d’urgenza dalla casa
circondariale di Trastevere prima all’ospedale Santo Spirito dove è giunto in
coma per poi essere intubato ed essere trasferito all’ospedale Spallanzani dove
è ancora in isolamento. La sorella: “Quanto accaduto a mio fratello dovrebbe far
riflettere tutti”
di Mauro Cifelli da Roma today
Lotta fra la vita e la morte in un letto del reparto di terapia intensiva
dell’ospedale Lazzaro Spallanzani dopo aver contratto una meningite neisseria
nel carcere di Regina Coeli dove è detenuto. Tiziano Paloni, romano di 40 anni,
ristretto nel carcere romano in attesa di giudizio, la mattina di lunedì 7
aprile è stato trasportato d’urgenza dalla casa circondariale di Trastevere
prima all’ospedale Santo Spirito dove è giunto in coma per poi essere intubato
ed essere trasferito all’ospedale Spallanzani dove è ancora in isolamento. A
lanciare un grido d’aiuto la mamma di Tiziano, Anna, che si trova all’istituto
delle malattie infettive romano in attesa di avere l’autorizzazione per poter
vedere il figlio, attraverso un vetro. Una situazione critica quella del 40enne:
“Preghiamo per un miracolo – le parole al nostro giornale della madre mentre
trattiene le lacrime -. È necessario rendere pubblico quanto successo a mio
figlio affinché non accada più una cosa del genere in un carcere”.
Meningite in carcere
Un grido d’aiuto, “di giustizia”, le parole della sorella Valentina Paloni che
racconta l’accaduto: “Siamo stati contattati dalla sorella di un detenuto di
Regina Coeli – spiega -. Che ci ha detto che Tiziano aveva avuto un malore
mentre si trovava in carcere e che lo avevano portato in ospedale al Santo
Spirito”. I familiari del 40enne provano a ottenere informazioni sino a quando
riescono a scoprire – anche mediante l’intervento del loro avvocato di famiglia
Fabio Harakati – che Tiziano si trovava allo Spallanzani. Preoccupata per le
sorti del fratello ma anche per le conseguenza che potrebbe avere su altri
detenuti: “Avendo contratto in carcere questa infezione potenzialmente letale,
mio fratello sta rischiando la vita e non vorrei che ciò capiti ad altri
detenuti che, seppur giudizialmente condannati o gravemente indiziati, meritano
ed hanno diritto a un trattamento sanitario efficiente che non abbia nulla da
invidiare rispetto a quello offerto a noi persone libere. Essere detenuti non
deve comportare alcun limite, specie se si tratta del diritto alla salute”.
Il caso di Tiziano Paloni
Una situazione critica quella di Tiziano Paloni, in fin di vita in un letto
d’ospedale: “Si dovrebbe indagare circa le condizioni igienico-sanitarie del
complesso carcerario. I detenuti non possono rimanere all’ombra. Casi come
quello di mio fratello dovrebbero far riflettere tutti – prosegue la sorella
Valentina -. Si tratta di una patologia altamente contagiosa che certamente
circola tra le mura del carcere. Vi chiedo di fare lumi sulla vicenda onde
scongiurare che questo terribile evento non si ripeta”.
L’avvocato della famiglia
A spiegare l’acccaduto anche l’avvocato di fiducia della famiglia Paloni, Fabio
Harakati: “Stiamo lavorando per fare luce sull’accaduto – le parole del legale
del Foro Romano -. Da quanto abbiamo saputo avrebbe chiesto di essere portato
nell’infermeria del carcere dopo aver accusato un mal di testa lancinante. Come
avvocato di famiglia ho avanzato richiesta al giudice – essendo detenuto – di
avere il diario clinico e la cartella clinica sia dell’infermeria di Regina
Coeli che dei due ospedali dove è stato trasportato. In questo momento di grande
preoccupazione per Tiziano, è molto prematuro accertare eventuali responsabilità
qualora ci fossero. Il pensiero della famiglia è adesso solo per lui”.
Profilassi a Regina Coeli
A confermare il caso di meningite la Asl Roma 1, competente per quanto riguarda
il presidio sanitario del carcere di Regina Coeli. Azienda Sanitaria che – una
volta accertato il caso – ha attuato il protocollo previsto sottoponendo a
profilassi detenuti, medici, infermieri, agenti penitenziari e personale della
casa circondariale, che ha dato esito negativo in relazione ad altri possibili
casi. Profliassi a cui sono stati sottoposti anche gli autisti delle ambulanze
che hanno trasportato Tiziano Paloni prima al Santo Spirito e poi allo
Spallanzani, anche loro negativi.
La Cedu condanna l’Italia per la detenzione in regime di 41bis di un detenuto
affetto da demenza. Penalisti contro la circolare punitiva per l’Alta sicurezza
e la censura ai detenuti redattori
di Eleonora Martini da il manifesto
Mentre arriva l’ennesima condanna all’Italia da parte della Corte europea dei
diritti umani, questa volta riguardo un detenuto affetto da demenza sottoposto
al 41 bis, e mentre scoppia la polemica su una circolare del Dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria che impone un giro di vite per i detenuti
dell’Alta Sicurezza, Carlo Nordio annuncia l’«imminente» sblocco dell’empasse
istituzionale che da quattro mesi congela al vertice della gestione
penitenziaria la facente funzione Lina Di Domenico, figura particolarmente
vicina ad Andrea Delmastro Delle Vedove. Rispondendo al question time in Senato,
il Guardasigilli ha puntualizzato però che «spetta al ministro proporre al
Consiglio dei ministri la nomina del capo del Dap, non certamente al
sottosegretario». Mentre sul sovraffollamento è riuscito ad affermare che non è
colpa della «bulimia legislativa» del governo «ma di chi commette reati e della
magistratura che li mette in prigione».
Nordio in ogni caso ha difeso la prima magistrata donna arrivata a capo del
Dipartimento di Largo Daga: «Ha fatto un lavoro che dimostra una sua attenzione
eccezionale», ha detto il ministro ricordando, tra le altre cose, «il gruppo di
lavoro multidisciplinare» da lei creato «per la prevenzione degli eventi
suicidari delle persone detenute». Che però non ha impedito il suicidio in
carcere e nelle Rems già di ben 28 detenuti dall’inizio dell’anno, mentre si
contano 88 decessi totali dietro le sbarre. Un numero che è «il segno più
eclatante del malessere che alberga negli istituti penitenziari», segnala
l’Unione delle camere penali che evidenzia come in questo contesto il Dap
consideri invece prioritario emanare «una circolare-manifesto» che impartisce
regole di vita più dure per i detenuti dell’Alta Sicurezza e una più «rigorosa
applicazione del regime di “custodia chiusa”».
Una circolare, insiste l’Ucpi, datata 27 febbraio ma «disponibile da poco
tempo», e giustificata da «non meglio precisate “relazioni di servizio”, anonime
“proteste” e “lamentele”» che segnalerebbero, secondo il Dap, «modalità
organizzative disallineate rispetto alle circolari in vigore» e non aderenti
«alle imprescindibili e primarie esigenze di sicurezza penitenziaria». Gli
avvocati penalisti si scagliano anche contro la «cortina di silenzio che il Dap
ha fatto scendere sulla situazione nelle carceri, al punto di vietare la
pubblicazione, in alcuni istituti, di giornali animati dai detenuti o di
silenziarne la voce, impedendo, in altri, che gli articoli di stampa sul carcere
vengano sottoscritti con il nome e cognome degli autori». Un problema, questo,
che è stato denunciato dal direttore del trimestrale Voci dentro Francesco Lo
Piccolo e dal coordinamento dei giornali delle carceri che riferiscono anche
l’«imposizione da parte del Dap di argomenti ammessi alla pubblicazione con la
precisa esclusione di altri temi ritenuti non idonei» e «la lettura preventiva
degli articoli o dell’intero giornale da parte delle direzioni».
In questo quadro inquietante cala la condanna emessa ieri dalla Cedu nei
confronti dell’Italia per aver continuato a tenere recluso in regime di 41 bis
un novantenne capo mafioso, Giuseppe Morabito, dal 2014 detenuto nel carcere
milanese di Opera, «nonostante il suo progressivo deterioramento cognitivo» e le
tante patologie di cui è affetto. Il Governo non ha convinto la Corte di
Strasburgo della necessità di applicare in questo specifico caso il regime
detentivo finalizzato a recidere ogni possibile contatto con gli altri membri
delle organizzazioni criminali di appartenenza. I giudici infatti, puntualizza
la sentenza firmata dalla presidente Ivana Jelic, non vedono «come una persona
affetta da un indiscusso declino cognitivo – e addirittura diagnosticata con il
morbo di Alzheimer – e incapace di comprendere la propria condotta o di seguire
un’udienza giudiziaria, possa allo stesso tempo conservare una capacità
sufficiente per mantenere o riprendere – in un’età così avanzata, dopo quasi
vent’anni trascorsi in un regime particolarmente restrittivo – contatti
significativi con un’organizzazione criminale».
La Cedu ha invece rigettato il ricorso presentato dall’avvocata Giovanna
Beatrice Araniti in difesa di Morabito riguardo l’incompatibilità dell’uomo con
la detenzione. Ma ha comunque stabilito che la constatazione della violazione
dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani – che proibisce di
sottoporre chiunque a trattamenti inumani e degradanti – «costituisce di per sé
un’equa soddisfazione, sufficiente per il danno morale subito» dall’anziano
detenuto. L’avvocata si augura che la sentenza di Strasburgo pesi ora sul
ricorso presentato da Morabito in Cassazione per ottenere la sospensione del
cosiddetto regime di “carcere duro” che subisce come fosse una pena aggiuntiva.
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Nel panorama della giustizia italiana, la vicenda del carcere di San Gimignano
rappresenta uno dei casi più gravi e simbolici di violenza istituzionale. Tutto
ha inizio l’11 ottobre 2018, quando un detenuto tunisino viene brutalmente
picchiato da un gruppo di agenti della Polizia Penitenziaria all’interno della
casa circondariale di San Gimignano, in provincia di Siena. Il pestaggio avviene
durante un trasferimento di cella forzato: il detenuto viene gettato a terra,
colpito con calci e pugni, e lasciato incosciente sul pavimento.
Le indagini successive portano alla luce un quadro inquietante, fatto di
violenze sistematiche, minacce e falsi verbali. Nel 2021 arriva una prima svolta
giudiziaria: dieci agenti vengono condannati per tortura e lesioni aggravate
dopo aver scelto il rito abbreviato. Le pene vanno dai 2 anni e 3 mesi ai 2 anni
e 8 mesi.
Nel 2023, altri cinque agenti affrontano il rito ordinario. La Corte li condanna
a pene più elevate – fino a 6 anni e 6 mesi – per tortura, falso e minaccia
aggravata. Un processo che fa storia: per la seconda volta in Italia, dopo il
caso di Ferrara, viene riconosciuto il reato di tortura in ambito carcerario.
Il 3 aprile 2025, la Corte di Appello di Firenze conferma le condanne agli
agenti che avevano scelto il rito abbreviato e riduce le pene per quelli
giudicati con il rito ordinario.
Di seguito il comunicato integrale dell’Associazione Yairaiha Onlus, parte
civile nel processo:
L’Associazione Yairaiha Onlus, da cui partì la denuncia e costituita parte
civile nel processo, accoglie con attenzione e determinazione la sentenza emessa
dalla Corte di Appello di Firenze in merito al caso di tortura avvenuto nel
carcere di San Gimignano nel 2018.
La conferma delle condanne ai 10 agenti della Polizia Penitenziaria che avevano
scelto il rito abbreviato e le riduzioni di pena per i 5 che hanno affrontato il
rito ordinario rappresentano un importante riconoscimento della gravità dei
fatti accaduti. Tuttavia, non possiamo dimenticare che questa sentenza, pur
storica, è solo la punta dell’iceberg di un sistema carcerario strutturalmente
violento e disumano.
Non si tratta di un caso isolato: già nel 2021 vi è stata la prima condanna in
Italia per tortura in carcere, a dimostrazione che il nostro sistema detentivo è
permeato da abusi sistematici e impunità. San Gimignano, come Ferrara e come
molte altre carceri italiane, dimostra che la repressione e la violenza
istituzionalizzata sono strumenti quotidiani di gestione della popolazione
detenuta.
Come associazione che da anni si batte per i diritti dei detenuti, denunciamo
l’ipocrisia di uno Stato che proclama il rispetto dei diritti umani ma permette
che le carceri si trasformino in luoghi di tortura. La tortura non è
un’eccezione, ma una pratica endemica che trova terreno fertile in un sistema
punitivo in cui il carcere non riabilita, ma annienta.
Rinnoviamo la nostra vicinanza a tutte le vittime di abusi e ribadiamo il nostro
impegno per un mondo senza carceri, in cui la giustizia non sia vendetta ma
reale possibilità di trasformazione sociale.
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L’Associazione Yairaiha ETS, alla luce della recente sentenza del Tribunale di
Reggio Emilia, esprime pubblicamente profonda preoccupazione per l’esclusione
della configurabilità del reato di tortura nel caso del detenuto Khelifi,
incappucciato e picchiato in una situazione di totale vulnerabilità. Il
procedimento è stato seguito dall’Avv. Vito Daniele Cimiotta, legale di fiducia
nel caso.
Segue il comunicato integrale dell’Associazione Yairaiha:
Associazione Yairaiha ETS e l’Avv. Vito Daniele Cimiotta, legale che ha seguito
il procedimento presso il Tribunale di Reggio Emilia, esprime profonda
preoccupazione per la sentenza del Tribunale di Reggio Emilia che ha escluso la
configurabilità del reato di tortura nel caso del detenuto Khelifi,
incappucciato e picchiato mentre si trovava in una posizione di totale
vulnerabilità.
Secondo la sentenza, le violenze subite dal detenuto non sarebbero state
sufficientemente gravi da configurare tortura, né le lesioni riscontrate
avrebbero causato danni fisici o psichici tali da poter essere qualificati come
“acute sofferenze” o “trauma verificabile”. Inoltre, l’incappucciamento, pur
riconosciuto come pratica non autorizzata, è stato considerato un atto inserito
nel contesto operativo, quindi non separato dall’attività di servizio.
A nostro avviso, questa interpretazione riduce drasticamente la gravità
dell’incappucciamento, sottovalutando il suo significato profondo e simbolico.
Privare una persona della vista, del respiro e della capacità di orientarsi non
è una semplice irregolarità procedurale, si tratta di un atto disumanizzante,
pensato per annullare psicologicamente il soggetto. La Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo, nei casi Ireland v. United Kingdom ed El-Masri v. Macedonia, ha
definito il “hooding” come una pratica lesiva della dignità umana, capace di
configurare tortura anche senza l’aggiunta di violenze fisiche. Gli effetti
traumatici di tale pratica sono ben documentati dalla letteratura
medico-forense.
Nel caso di Khelifi, le violenze non si limitano all’incappucciamento. Il
detenuto è stato inizialmente fatto cadere con uno sgambetto, colpito con
schiaffi e calci, e sottoposto a costrizioni fisiche, tra cui la torsione del
braccio e il sollevamento di peso dopo essere stato spogliato. Successivamente,
è stato trascinato nella cella di isolamento, dove è stato colpito di nuovo con
pugni e calci, questa volta mentre si trovava completamente nudo dalla vita in
giù. È rimasto in questa condizione per oltre un’ora, visibilmente sanguinante a
seguito di atti autolesivi e senza ricevere assistenza sanitaria. Il tutto
giustificato dal sospetto, mai confermato, che potesse possedere delle lamette.
Anche la valutazione sulla mancanza di un trauma psichico documentabile appare
riduttiva. Il rifiuto delle visite mediche, gli atti autolesionistici e
l’isolamento comportamentale non possono essere interpretati come effetti di un
disagio preesistente. Al contrario, sono segni di reazioni post-traumatiche,
come riconosciuto da esperti in ambito clinico e psichiatrico.
La sentenza, pur riconoscendo l’incappucciamento come una misura non
autorizzata, sottovaluta gravemente l’impatto psicologico e fisico che tale atto
ha avuto su Khelifi. La sentenza afferma che la difficoltà respiratoria fosse
“pressoché nulla” o comunque limitata, basandosi sulla presunta capacità di
Khelifi di divincolarsi. Tuttavia, questo non coglie l’essenza della sofferenza
provocata dall’incappucciamento. L’incapacità di vedere, unita alla sensazione
di soffocamento parziale, non solo genera un’ansia acuta e disorientante, ma
costituisce una violazione diretta della dignità umana. Il disorientamento e la
paura provocati dalla privazione della vista e dalla difficoltà respiratoria,
anche se temporanei, hanno effetti psicologici devastanti che non possono essere
minimizzati. La reazione fisica di Khelifi, nel tentativo di divincolarsi, non è
la prova di una totale assenza di sofferenza, ma una risposta automatica a una
condizione di vulnerabilità estrema e panico.
Riteniamo che il riconoscimento della tortura non debba essere limitato a forme
estreme o spettacolari di violenza. Anche un singolo gesto, in un contesto di
totale assoggettamento, può costituire tortura se lesivo della dignità e
dell’integrità psicofisica di una persona. Se una condotta di questo tipo non
viene definita per ciò che è, si corre il rischio di legittimare pratiche
disumanizzanti sotto l’ombrello dell’“esecuzione del servizio”.
L’assenza del riconoscimento formale del reato di tortura non cancella il valore
simbolico e giuridico della denuncia che ne è alla base. Continueremo a
vigilare, a documentare e a sostenere ogni voce che si leva contro ogni forma di
abuso, specialmente quando a subirlo è chi non può difendersi.
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AUTODIFESA ANTIPSICHIATRICA VOL. IV - PSICHIATRIA E DETENZIONE
Mezcal Squat - Parco della Certosa Irreale - Collegno (TO)
(mercoledì, 9 aprile 18:00)
AUTODIFESA ANTIPSY VOL. III - PSICOFARMACI E SCALAGGIO
In tutto l'occidente sempre più prigionieri sono psichiatrizzati, mentre sempre
più persone in carico ai sistemi di "salute mentale" sono recluse. Non si può
parlare di carcere senza parlare di psichiatria e viceversa.
La psichiatria è utilizzata dalla polizia, dalle amministrazioni e dalla stampa
per invisibilizzare la violenza dello stato che essa stessa produce. Questa
autoformazione vuole spezzare la retorica manicomiale che descrive i prigionieri
come tossici, fragili e disturbati, per rimettere al centro la tortura che la
psichiatria veicola nelle carceri e nei CPR.
h. 19 - cena bellavita
h. 21 - chiacchera e autoformazione su psichiatria e detenzione
I blocchi detentivi previsti nel nuovo piano di edilizia penitenziari. Coro di
No, il governo accelera
di Eleonora Martini da il manifesto
Il nuovo piano-sperpero di edilizia penitenziaria da 32 milioni di euro per la
realizzazione di appena 384 nuovi posti detentivi – nelle carceri sovraffollate
come ai tempi della condanna Cedu – arriva al suo primo giro di boa. E scalda
gli animi, con la protesta delle opposizioni e la difesa ad oltranza del
sottosegretario Delmastro. Mentre il Dap naviga a vista, in attesa da oltre tre
mesi di un nuovo capo la cui nomina è ostacolata ormai solo dalle imposizioni
dell’esponente biellese di Fratelli d’Italia, numero due di via Arenula, che
considera il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria feudo personale. In
questo contesto e con un sovraffollamento che conta attualmente circa 16 mila
detenuti in più rispetto ai posti regolamentari, a giorni, il 10 aprile, scade
la gara pubblica avviata dal commissario straordinario Marco Doglio e gestita
dalla centrale di committenza Invitalia per la costruzione e la messa in opera
di 16 blocchi detentivi prefabbricati realizzati in moduli di calcestruzzo da
posizionare all’interno della cinta muraria di nove carceri del Paese entro la
fine dell’anno, data di “scadenza” prevista anche del commissario straordinario
nominato nel settembre scorso dal ministro Nordio.
DOPO L’ANNUNCIO, ieri «fonti di governo» hanno riferito all’Ansa la notizia di
«sopralluoghi già effettuati negli istituti ad Opera e Voghera» per avviare il
progetto targato Nordio che, «nelle previsioni», intende realizzare
«gradualmente i primi 1.500 moduli» detentivi «con l’installazione già di 400 in
via sperimentale». Numeri di cui non si trova traccia nella relazione tecnica
firmata dall’ingegnere Enrico Fusco di Invitalia. Dalla cui lettura però «emerge
una visione della vita in carcere, di chi è detenuto e di chi ci lavora, a
cominciare dalla polizia penitenziaria, non in sintonia con la necessità di
rispettare la previsione costituzionale», come affermano i dem Bazoli,
Mirabelli, Rossomando e Verini che chiedono a Nordio di riferire in Senato.
«IN OGNI MODULO che non deve esprimere alcun pregio architettonico – scrive il
Pd nell’interrogazione – dovranno trovate ospitalità 4 detenuti per una
superficie complessiva di 30 mq ricomprendendo nella metratura anche i servizi
igienici con una superficie indicativa di 3 mq, assolutamente inadeguata per
garantire dignità della persona ed insufficiente per ospitare tutte le
necessità, comprensive degli effetti personali dei detenuti. Inoltre, nei
blocchi di detenzione le 24 persone detenute oltre al personale penitenziario
potranno disporre di soli 30 mq per la socialità, l’attività fisica, la
biblioteca e non viene fatto alcun riferimento progettuale per l’impianto
antincendio e tanto meno viene segnalato quali tipologie di detenuti dovranno
ospitare».
LA RELAZIONE TECNICO illustrativa preliminare prevede infatti la realizzazione
di 5 blocchi per 120 posti letto complessivi da collocare nei perimetri delle
carceri di Alba, Opera Milano e Biella; altrettanti a sud, negli istituti di
Frosinone, Palmi e Agrigento; sei invece i blocchi destinati a L’Aquila, Reggio
Emilia e Voghera per 144 posti in tutto. Ogni blocco è costituito da 12 moduli
smontabili «di dimensioni indicative pari a 6 metri per 5 metri». Quelli
«denominati A1» ospiteranno 4 posti letto e un bagno; stesse dimensioni per i
moduli adibiti alle sale polifunzionali, ai servizi e alla zona agenti. Ogni
blocco detentivo, munito di cortili di passeggio delimitati anche da pareti in
cemento armato, sarà recintato da una cancellata metallica zincata alta «almeno
5 metri». Ma a giudicare dall’annuncio dettato ieri all’Ansa da «fonti del
governo», il piano che andrà a gara «al ribasso» tra qualche giorno non è che
una prima sperimentazione di un nuovo tipo di detenzione.
PER IL SOTTOSEGRETARIO Delmastro, «tutto è assolutamente rispettoso della
normativa e consentirà di non avere più il sovraffollamento che c’è oggi». Ma
non convince neppure il M5s. Che protesta per la “trovata” del Guardasigilli:
«Se la sua unica azione concreta, dopo mesi di nulla, sono i “blocchi
detenzione” – attaccano i parlamentari pentastellati – è meglio che il governo
Meloni dica a tutta Italia che non sa come affrontare l’emergenza carceri». E se
alcuni sindacati di polizia penitenziaria condannano le celle-container e lo
«spreco di denaro pubblico» che preferirebbero fosse investito in nuove
assunzioni, per il portavoce dei Garanti territoriali nulla cambierà, e i
detenuti continueranno ad avere «meno metri quadrati a disposizione di quanto
prevede la normativa per la custodia di cani e animali feroci». E invece tra le
soluzioni possibili Samuele Ciambriello chiede «un provvedimento deflattivo per
le 8000 persone che devono scontare meno di un anno senza reati ostativi, o
almeno per i circa 3000 che devono scontare meno di sei mesi. Serve questo e non
altri edifici».
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SOLIDARIETÀ AI PRIGIONIERI DI QUARTO IN REGIME CHIUSO
Carcere di Asti - Quarto inferiore, 266
(domenica, 6 aprile 10:00)
Dalle 10 sotto alle mura del carcere di Quarto, in solidarietà ai prgionieri in
regime chiuso.
Diventa quindi necessario e urgente portare la nostra solidarietà ai reclusi per
sostenere percorsi di lotta comune dentro e fuori. Per rompere il muro di
isolamento e silenzio e far sentire alle persone detenute la nostra vicinanza.
Perché nonostante la retorica portata avanti anche in questa città,non esistono
carceri "umani" o riformabili e questo provvedimento che rende ancora più
afflittiva una quotidianità già difficile delle persone recluse ci mostra ancora
una volta la sua natura strutturalmente violenta.
https://lamicciaasti.noblogs.org/post/2025/03/28/solidarieta-ai-prigionieri-di-quarto-in-regime-chiuso/
SOLIDARIETÀ AI PRIGIONIERI DI QUARTO IN REGIME CHIUSO
Asti Parco della Resistenza - Parco della Resistenza Asti
(sabato, 29 marzo 10:00)
Punto info, banchetto, distro, chiacchiere
Dalle 10 al parchetto, angolo vicino alla piazza del mercato.
Per info complete:
https://lamicciaasti.noblogs.org/post/2025/03/28/solidarieta-ai-prigionieri-di-quarto-in-regime-chiuso/