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Da Roma a Milano: due chiacchiere su speculazione urbana, forme di protesta e repressione
Mercoledì 16, dopo un fine settimana molto caldo in termini di uso della forza da parte della polizia, abbiamo avuto il piacere di una chiacchierata in studio con un compagno di Radio Onda Rossa. Con lui, abbiamo discusso delle trasformazioni dei quartieri di Roma, alla luce della speculazione abitativa che ha comportato il giro di […]
L'informazione di Blackout
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Decreto sicurezza, moltiplicare i ricorsi contro un legge premoderna
Ogni giorno nelle carceri italiane ci sono in media cinque episodi di protesta collettiva. Il reato di rivolta penitenziaria, introdotto dal decreto legge «sicurezza», punisce con pene elevatissime anche chi protesta con forme di resistenza passiva di Patrizio Gonnella da il manifesto Ogni giorno nelle carceri italiane ci sono in media cinque episodi di protesta collettiva. Il reato di rivolta penitenziaria, introdotto dal decreto legge «sicurezza», punisce con pene elevatissime anche chi protesta senza violenza e con forme di resistenza passiva a ordini dati per generiche ragioni di sicurezza. Il carcere è pieno di tali eventi, ogni operatore lo sa. Nel solo 2024 si sono verificati circa 1.500 episodi di protesta collettiva nonviolenta, quali la battitura delle sbarre o il rifiuto di rientrare in cella. Episodi che un bravo direttore o comandante di reparto risolveva con il dialogo, ascoltando le ragioni della protesta. La pedagogia premoderna e punitiva di chi ci governa ha deciso di criminalizzare la disobbedienza nonviolenta. Se il 2025 sarà come l’anno passato, supponendo che in media quattro detenuti partecipino a ogni episodio di disobbedienza a un ordine, arriveremo a seimila detenuti coinvolti. Il reato di rivolta penitenziaria prevede pene altissime, superiori nel massimo ai maltrattamenti in famiglia. Supponiamo che i seimila detenuti siano condannati a una media di quattro anni di carcere ciascuno. Sono dunque in arrivo circa ventiquattromila anni aggiuntivi di carcere contro persone, già detenute, alle quali sarà peraltro escluso l’accesso a misure alternative. Una ricetta perfetta per far definitivamente esplodere il nostro sistema penitenziario e seppellire in carcere migliaia di persone, selezionate ovviamente tra le più vulnerabili: minori stranieri non accompagnati, persone con problemi psichici, tossicodipendenti. A ciò vanno aggiunti gli effetti devastanti di tutti gli altri delitti presenti nel decreto. Il sistema collasserà, nei numeri e per la sua disumanità. Una delle misure del decreto legge sulle quali maggiormente si concentravano i dubbi del presidente Mattarella era, come reso noto dai media, l’abolizione dell’obbligo di differimento della pena per le donne incinte o con prole fino a un anno di età. Nella trasformazione del testo in decreto, tale abolizione non è mutata. Da oggi sarà il giudice a decidere se la donna in gravidanza o appena divenuta madre dovrà andare in carcere. Se decide di sì, la donna sarà inviata in un Icam (istituto a custodia attenuata per madri), che è comunque un carcere a tutti gli effetti. Se tuttavia la donna in custodia cautelare in Icam non si comporta a dovere, allora accadrà qualcosa senza precedenti: la donna potrà essere trasferita in un carcere ordinario senza suo figlio, per il quale verranno allertati i servizi sociali. In questo modo si istituzionalizza la sottrazione del figlio alla madre detenuta. Di fronte a tutto ciò chiediamo ai giuristi e agli operatori penitenziari e del diritto di assecondare la loro missione, di essere culturalmente e giuridicamente resistenti rispetto alle tendenze neo-autoritarie di un decreto legge che nella forma e nella sostanza fa carta straccia dello Stato di diritto. Il grosso rischio è quello della cooptazione istituzionale degli operatori sociali e del diritto, che invece devono esercitare il loro spirito critico per non essere i manovali del declino del sistema. Chiediamo ai giudici, agli avvocati, agli operatori tutti di moltiplicare le forme del dissenso chiamando la Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo a decidere se cancellare le norme presenti nel decreto legge. Chiediamo a tutti gli operatori penitenziari di usare ragionevolezza e dialogo per non trasformare le carceri in fosse comuni dove i detenuti sono seppelliti da valanghe di anni di prigione. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
carcere
“Mio figlio lotta fra la vita e la morte per una meningite contratta in carcere”
Tiziano Paloni, romano di 40 anni, ristretto nel carcere romano in attesa di giudizio, la mattina di lunedì 7 aprile è stato trasportato d’urgenza dalla casa circondariale di Trastevere prima all’ospedale Santo Spirito dove è giunto in coma per poi essere intubato ed essere trasferito all’ospedale Spallanzani dove è ancora in isolamento. La sorella: “Quanto accaduto a mio fratello dovrebbe far riflettere tutti” di Mauro Cifelli da Roma today Lotta fra la vita e la morte in un letto del reparto di terapia intensiva dell’ospedale Lazzaro Spallanzani dopo aver contratto una meningite neisseria nel carcere di Regina Coeli dove è detenuto. Tiziano Paloni, romano di 40 anni, ristretto nel carcere romano in attesa di giudizio, la mattina di lunedì 7 aprile è stato trasportato d’urgenza dalla casa circondariale di Trastevere prima all’ospedale Santo Spirito dove è giunto in coma per poi essere intubato ed essere trasferito all’ospedale Spallanzani dove è ancora in isolamento. A lanciare un grido d’aiuto la mamma di Tiziano, Anna, che si trova all’istituto delle malattie infettive romano in attesa di avere l’autorizzazione per poter vedere il figlio, attraverso un vetro. Una situazione critica quella del 40enne: “Preghiamo per un miracolo – le parole al nostro giornale della madre mentre trattiene le lacrime -. È necessario rendere pubblico quanto successo a mio figlio affinché non accada più una cosa del genere in un carcere”. Meningite in carcere Un grido d’aiuto, “di giustizia”, le parole della sorella Valentina Paloni che racconta l’accaduto: “Siamo stati contattati dalla sorella di un detenuto di Regina Coeli – spiega -. Che ci ha detto che Tiziano aveva avuto un malore mentre si trovava in carcere e che lo avevano portato in ospedale al Santo Spirito”. I familiari del 40enne provano a ottenere informazioni sino a quando riescono a scoprire – anche mediante l’intervento del loro avvocato di famiglia Fabio Harakati – che Tiziano si trovava allo Spallanzani. Preoccupata per le sorti del fratello ma anche per le conseguenza che potrebbe avere su altri detenuti: “Avendo contratto in carcere questa infezione potenzialmente letale, mio fratello sta rischiando la vita e non vorrei che ciò capiti ad altri detenuti che, seppur giudizialmente condannati o gravemente indiziati, meritano ed hanno diritto a un trattamento sanitario efficiente che non abbia nulla da invidiare rispetto a quello offerto a noi persone libere. Essere detenuti non deve comportare alcun limite, specie se si tratta del diritto alla salute”. Il caso di Tiziano Paloni Una situazione critica quella di Tiziano Paloni, in fin di vita in un letto d’ospedale: “Si dovrebbe indagare circa le condizioni igienico-sanitarie del complesso carcerario. I detenuti non possono rimanere all’ombra. Casi come quello di mio fratello dovrebbero far riflettere tutti – prosegue la sorella Valentina -. Si tratta di una patologia altamente contagiosa che certamente circola tra le mura del carcere. Vi chiedo di fare lumi sulla vicenda onde scongiurare che questo terribile evento non si ripeta”. L’avvocato della famiglia A spiegare l’acccaduto anche l’avvocato di fiducia della famiglia Paloni, Fabio Harakati: “Stiamo lavorando per fare luce sull’accaduto – le parole del legale del Foro Romano -. Da quanto abbiamo saputo avrebbe chiesto di essere portato nell’infermeria del carcere dopo aver accusato un mal di testa lancinante. Come avvocato di famiglia ho avanzato richiesta al giudice – essendo detenuto – di avere il diario clinico e la cartella clinica sia dell’infermeria di Regina Coeli che dei due ospedali dove è stato trasportato. In questo momento di grande preoccupazione per Tiziano, è molto prematuro accertare eventuali responsabilità qualora ci fossero. Il pensiero della famiglia è adesso solo per lui”. Profilassi a Regina Coeli A confermare il caso di meningite la Asl Roma 1, competente per quanto riguarda il presidio sanitario del carcere di Regina Coeli. Azienda Sanitaria che – una volta accertato il caso – ha attuato il protocollo previsto sottoponendo a profilassi detenuti, medici, infermieri, agenti penitenziari e personale della casa circondariale, che ha dato esito negativo in relazione ad altri possibili casi. Profliassi a cui sono stati sottoposti anche gli autisti delle ambulanze che hanno trasportato Tiziano Paloni prima al Santo Spirito e poi allo Spallanzani, anche loro negativi.
carcere
La Cedu condanna l’Italia sul 41 bis
La Cedu condanna l’Italia per la detenzione in regime di 41bis di un detenuto affetto da demenza. Penalisti contro la circolare punitiva per l’Alta sicurezza e la censura ai detenuti redattori di Eleonora Martini da il manifesto Mentre arriva l’ennesima condanna all’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani, questa volta riguardo un detenuto affetto da demenza sottoposto al 41 bis, e mentre scoppia la polemica su una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che impone un giro di vite per i detenuti dell’Alta Sicurezza, Carlo Nordio annuncia l’«imminente» sblocco dell’empasse istituzionale che da quattro mesi congela al vertice della gestione penitenziaria la facente funzione Lina Di Domenico, figura particolarmente vicina ad Andrea Delmastro Delle Vedove. Rispondendo al question time in Senato, il Guardasigilli ha puntualizzato però che «spetta al ministro proporre al Consiglio dei ministri la nomina del capo del Dap, non certamente al sottosegretario». Mentre sul sovraffollamento è riuscito ad affermare che non è colpa della «bulimia legislativa» del governo «ma di chi commette reati e della magistratura che li mette in prigione». Nordio in ogni caso ha difeso la prima magistrata donna arrivata a capo del Dipartimento di Largo Daga: «Ha fatto un lavoro che dimostra una sua attenzione eccezionale», ha detto il ministro ricordando, tra le altre cose, «il gruppo di lavoro multidisciplinare» da lei creato «per la prevenzione degli eventi suicidari delle persone detenute». Che però non ha impedito il suicidio in carcere e nelle Rems già di ben 28 detenuti dall’inizio dell’anno, mentre si contano 88 decessi totali dietro le sbarre. Un numero che è «il segno più eclatante del malessere che alberga negli istituti penitenziari», segnala l’Unione delle camere penali che evidenzia come in questo contesto il Dap consideri invece prioritario emanare «una circolare-manifesto» che impartisce regole di vita più dure per i detenuti dell’Alta Sicurezza e una più «rigorosa applicazione del regime di “custodia chiusa”». Una circolare, insiste l’Ucpi, datata 27 febbraio ma «disponibile da poco tempo», e giustificata da «non meglio precisate “relazioni di servizio”, anonime “proteste” e “lamentele”» che segnalerebbero, secondo il Dap, «modalità organizzative disallineate rispetto alle circolari in vigore» e non aderenti «alle imprescindibili e primarie esigenze di sicurezza penitenziaria». Gli avvocati penalisti si scagliano anche contro la «cortina di silenzio che il Dap ha fatto scendere sulla situazione nelle carceri, al punto di vietare la pubblicazione, in alcuni istituti, di giornali animati dai detenuti o di silenziarne la voce, impedendo, in altri, che gli articoli di stampa sul carcere vengano sottoscritti con il nome e cognome degli autori». Un problema, questo, che è stato denunciato dal direttore del trimestrale Voci dentro Francesco Lo Piccolo e dal coordinamento dei giornali delle carceri che riferiscono anche l’«imposizione da parte del Dap di argomenti ammessi alla pubblicazione con la precisa esclusione di altri temi ritenuti non idonei» e «la lettura preventiva degli articoli o dell’intero giornale da parte delle direzioni». In questo quadro inquietante  cala la condanna emessa ieri dalla Cedu nei confronti dell’Italia per aver continuato a tenere recluso in regime di 41 bis un novantenne capo mafioso, Giuseppe Morabito, dal 2014 detenuto nel carcere milanese di Opera, «nonostante il suo progressivo deterioramento cognitivo» e le tante patologie di cui è affetto. Il Governo non ha convinto la Corte di Strasburgo della necessità di applicare in questo specifico caso il regime detentivo finalizzato a recidere ogni possibile contatto con gli altri membri delle organizzazioni criminali di appartenenza. I giudici infatti, puntualizza la sentenza firmata dalla presidente Ivana Jelic, non vedono «come una persona affetta da un indiscusso declino cognitivo – e addirittura diagnosticata con il morbo di Alzheimer – e incapace di comprendere la propria condotta o di seguire un’udienza giudiziaria, possa allo stesso tempo conservare una capacità sufficiente per mantenere o riprendere – in un’età così avanzata, dopo quasi vent’anni trascorsi in un regime particolarmente restrittivo – contatti significativi con un’organizzazione criminale». La Cedu ha invece rigettato il ricorso presentato dall’avvocata Giovanna Beatrice Araniti in difesa di Morabito riguardo l’incompatibilità dell’uomo con la detenzione. Ma ha comunque stabilito che la constatazione della violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani – che proibisce di sottoporre chiunque a trattamenti inumani e degradanti – «costituisce di per sé un’equa soddisfazione, sufficiente per il danno morale subito» dall’anziano detenuto. L’avvocata si augura che la sentenza di Strasburgo pesi ora sul ricorso presentato da Morabito in Cassazione per ottenere la sospensione del cosiddetto regime di “carcere duro” che subisce come fosse una pena aggiuntiva. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
41bis
carcere
San Gimignano – tortura in carcere. Una sentenza storica: la Corte d’Appello conferma le condanne per gli agenti penitenziari
Nel panorama della giustizia italiana, la vicenda del carcere di San Gimignano rappresenta uno dei casi più gravi e simbolici di violenza istituzionale. Tutto ha inizio l’11 ottobre 2018, quando un detenuto tunisino viene brutalmente picchiato da un gruppo di agenti della Polizia Penitenziaria all’interno della casa circondariale di San Gimignano, in provincia di Siena. Il pestaggio avviene durante un trasferimento di cella forzato: il detenuto viene gettato a terra, colpito con calci e pugni, e lasciato incosciente sul pavimento. Le indagini successive portano alla luce un quadro inquietante, fatto di violenze sistematiche, minacce e falsi verbali. Nel 2021 arriva una prima svolta giudiziaria: dieci agenti vengono condannati per tortura e lesioni aggravate dopo aver scelto il rito abbreviato. Le pene vanno dai 2 anni e 3 mesi ai 2 anni e 8 mesi. Nel 2023, altri cinque agenti affrontano il rito ordinario. La Corte li condanna a pene più elevate – fino a 6 anni e 6 mesi – per tortura, falso e minaccia aggravata. Un processo che fa storia: per la seconda volta in Italia, dopo il caso di Ferrara, viene riconosciuto il reato di tortura in ambito carcerario. Il 3 aprile 2025, la Corte di Appello di Firenze conferma le condanne agli agenti che avevano scelto il rito abbreviato e riduce le pene per quelli giudicati con il rito ordinario. Di seguito il comunicato integrale dell’Associazione Yairaiha Onlus, parte civile nel processo: L’Associazione Yairaiha Onlus, da cui partì la denuncia e costituita parte civile nel processo, accoglie con attenzione e determinazione la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Firenze in merito al caso di tortura avvenuto nel carcere di San Gimignano nel 2018. La conferma delle condanne ai 10 agenti della Polizia Penitenziaria che avevano scelto il rito abbreviato e le riduzioni di pena per i 5 che hanno affrontato il rito ordinario rappresentano un importante riconoscimento della gravità dei fatti accaduti. Tuttavia, non possiamo dimenticare che questa sentenza, pur storica, è solo la punta dell’iceberg di un sistema carcerario strutturalmente violento e disumano. Non si tratta di un caso isolato: già nel 2021 vi è stata la prima condanna in Italia per tortura in carcere, a dimostrazione che il nostro sistema detentivo è permeato da abusi sistematici e impunità. San Gimignano, come Ferrara e come molte altre carceri italiane, dimostra che la repressione e la violenza istituzionalizzata sono strumenti quotidiani di gestione della popolazione detenuta. Come associazione che da anni si batte per i diritti dei detenuti, denunciamo l’ipocrisia di uno Stato che proclama il rispetto dei diritti umani ma permette che le carceri si trasformino in luoghi di tortura. La tortura non è un’eccezione, ma una pratica endemica che trova terreno fertile in un sistema punitivo in cui il carcere non riabilita, ma annienta. Rinnoviamo la nostra vicinanza a tutte le vittime di abusi e ribadiamo il nostro impegno per un mondo senza carceri, in cui la giustizia non sia vendetta ma reale possibilità di trasformazione sociale. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
carcere
“Una sentenza che minimizza l’orrore”
L’Associazione Yairaiha ETS, alla luce della recente sentenza del Tribunale di Reggio Emilia, esprime pubblicamente profonda preoccupazione per l’esclusione della configurabilità del reato di tortura nel caso del detenuto Khelifi, incappucciato e picchiato in una situazione di totale vulnerabilità. Il procedimento è stato seguito dall’Avv. Vito Daniele Cimiotta, legale di fiducia nel caso. Segue il comunicato integrale dell’Associazione Yairaiha: Associazione Yairaiha ETS e l’Avv. Vito Daniele Cimiotta, legale che ha seguito il procedimento presso il Tribunale di Reggio Emilia, esprime profonda preoccupazione per la sentenza del Tribunale di Reggio Emilia che ha escluso la configurabilità del reato di tortura nel caso del detenuto Khelifi, incappucciato e picchiato mentre si trovava in una posizione di totale vulnerabilità. Secondo la sentenza, le violenze subite dal detenuto non sarebbero state sufficientemente gravi da configurare tortura, né le lesioni riscontrate avrebbero causato danni fisici o psichici tali da poter essere qualificati come “acute sofferenze” o “trauma verificabile”. Inoltre, l’incappucciamento, pur riconosciuto come pratica non autorizzata, è stato considerato un atto inserito nel contesto operativo, quindi non separato dall’attività di servizio. A nostro avviso, questa interpretazione riduce drasticamente la gravità dell’incappucciamento, sottovalutando il suo significato profondo e simbolico. Privare una persona della vista, del respiro e della capacità di orientarsi non è una semplice irregolarità procedurale, si tratta di un atto disumanizzante, pensato per annullare psicologicamente il soggetto. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nei casi Ireland v. United Kingdom ed El-Masri v. Macedonia, ha definito il “hooding” come una pratica lesiva della dignità umana, capace di configurare tortura anche senza l’aggiunta di violenze fisiche. Gli effetti traumatici di tale pratica sono ben documentati dalla letteratura medico-forense. Nel caso di Khelifi, le violenze non si limitano all’incappucciamento. Il detenuto è stato inizialmente fatto cadere con uno sgambetto, colpito con schiaffi e calci, e sottoposto a costrizioni fisiche, tra cui la torsione del braccio e il sollevamento di peso dopo essere stato spogliato. Successivamente, è stato trascinato nella cella di isolamento, dove è stato colpito di nuovo con pugni e calci, questa volta mentre si trovava completamente nudo dalla vita in giù. È rimasto in questa condizione per oltre un’ora, visibilmente sanguinante a seguito di atti autolesivi e senza ricevere assistenza sanitaria. Il tutto giustificato dal sospetto, mai confermato, che potesse possedere delle lamette. Anche la valutazione sulla mancanza di un trauma psichico documentabile appare riduttiva. Il rifiuto delle visite mediche, gli atti autolesionistici e l’isolamento comportamentale non possono essere interpretati come effetti di un disagio preesistente. Al contrario, sono segni di reazioni post-traumatiche, come riconosciuto da esperti in ambito clinico e psichiatrico. La sentenza, pur riconoscendo l’incappucciamento come una misura non autorizzata, sottovaluta gravemente l’impatto psicologico e fisico che tale atto ha avuto su Khelifi. La sentenza afferma che la difficoltà respiratoria fosse “pressoché nulla” o comunque limitata, basandosi sulla presunta capacità di Khelifi di divincolarsi. Tuttavia, questo non coglie l’essenza della sofferenza provocata dall’incappucciamento. L’incapacità di vedere, unita alla sensazione di soffocamento parziale, non solo genera un’ansia acuta e disorientante, ma costituisce una violazione diretta della dignità umana. Il disorientamento e la paura provocati dalla privazione della vista e dalla difficoltà respiratoria, anche se temporanei, hanno effetti psicologici devastanti che non possono essere minimizzati. La reazione fisica di Khelifi, nel tentativo di divincolarsi, non è la prova di una totale assenza di sofferenza, ma una risposta automatica a una condizione di vulnerabilità estrema e panico. Riteniamo che il riconoscimento della tortura non debba essere limitato a forme estreme o spettacolari di violenza. Anche un singolo gesto, in un contesto di totale assoggettamento, può costituire tortura se lesivo della dignità e dell’integrità psicofisica di una persona. Se una condotta di questo tipo non viene definita per ciò che è, si corre il rischio di legittimare pratiche disumanizzanti sotto l’ombrello dell’“esecuzione del servizio”. L’assenza del riconoscimento formale del reato di tortura non cancella il valore simbolico e giuridico della denuncia che ne è alla base. Continueremo a vigilare, a documentare e a sostenere ogni voce che si leva contro ogni forma di abuso, specialmente quando a subirlo è chi non può difendersi. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
carcere
[2025-04-09] AUTODIFESA ANTIPSICHIATRICA vol. IV - PSICHIATRIA E DETENZIONE @ Mezcal Squat
AUTODIFESA ANTIPSICHIATRICA VOL. IV - PSICHIATRIA E DETENZIONE Mezcal Squat - Parco della Certosa Irreale - Collegno (TO) (mercoledì, 9 aprile 18:00) AUTODIFESA ANTIPSY VOL. III - PSICOFARMACI E SCALAGGIO In tutto l'occidente sempre più prigionieri sono psichiatrizzati, mentre sempre più persone in carico ai sistemi di "salute mentale" sono recluse. Non si può parlare di carcere senza parlare di psichiatria e viceversa. La psichiatria è utilizzata dalla polizia, dalle amministrazioni e dalla stampa per invisibilizzare la violenza dello stato che essa stessa produce. Questa autoformazione vuole spezzare la retorica manicomiale che descrive i prigionieri come tossici, fragili e disturbati, per rimettere al centro la tortura che la psichiatria veicola nelle carceri e nei CPR. h. 19 - cena bellavita h. 21 - chiacchera e autoformazione su psichiatria e detenzione
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Celle container senza dignità
I blocchi detentivi previsti nel nuovo piano di edilizia penitenziari. Coro di No, il governo accelera di Eleonora Martini da il manifesto Il nuovo piano-sperpero di edilizia penitenziaria da 32 milioni di euro per la realizzazione di appena 384 nuovi posti detentivi – nelle carceri sovraffollate come ai tempi della condanna Cedu – arriva al suo primo giro di boa. E scalda gli animi, con la protesta delle opposizioni e la difesa ad oltranza del sottosegretario Delmastro. Mentre il Dap naviga a vista, in attesa da oltre tre mesi di un nuovo capo la cui nomina è ostacolata ormai solo dalle imposizioni dell’esponente biellese di Fratelli d’Italia, numero due di via Arenula, che considera il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria feudo personale. In questo contesto e con un sovraffollamento che conta attualmente circa 16 mila detenuti in più rispetto ai posti regolamentari, a giorni, il 10 aprile, scade la gara pubblica avviata dal commissario straordinario Marco Doglio e gestita dalla centrale di committenza Invitalia per la costruzione e la messa in opera di 16 blocchi detentivi prefabbricati realizzati in moduli di calcestruzzo da posizionare all’interno della cinta muraria di nove carceri del Paese entro la fine dell’anno, data di “scadenza” prevista anche del commissario straordinario nominato nel settembre scorso dal ministro Nordio. DOPO L’ANNUNCIO, ieri «fonti di governo» hanno riferito all’Ansa la notizia di «sopralluoghi già effettuati negli istituti ad Opera e Voghera» per avviare il progetto targato Nordio che, «nelle previsioni», intende realizzare «gradualmente i primi 1.500 moduli» detentivi «con l’installazione già di 400 in via sperimentale». Numeri di cui non si trova traccia nella relazione tecnica firmata dall’ingegnere Enrico Fusco di Invitalia. Dalla cui lettura però «emerge una visione della vita in carcere, di chi è detenuto e di chi ci lavora, a cominciare dalla polizia penitenziaria, non in sintonia con la necessità di rispettare la previsione costituzionale», come affermano i dem Bazoli, Mirabelli, Rossomando e Verini che chiedono a Nordio di riferire in Senato. «IN OGNI MODULO che non deve esprimere alcun pregio architettonico – scrive il Pd nell’interrogazione – dovranno trovate ospitalità 4 detenuti per una superficie complessiva di 30 mq ricomprendendo nella metratura anche i servizi igienici con una superficie indicativa di 3 mq, assolutamente inadeguata per garantire dignità della persona ed insufficiente per ospitare tutte le necessità, comprensive degli effetti personali dei detenuti. Inoltre, nei blocchi di detenzione le 24 persone detenute oltre al personale penitenziario potranno disporre di soli 30 mq per la socialità, l’attività fisica, la biblioteca e non viene fatto alcun riferimento progettuale per l’impianto antincendio e tanto meno viene segnalato quali tipologie di detenuti dovranno ospitare». LA RELAZIONE TECNICO illustrativa preliminare prevede infatti la realizzazione di 5 blocchi per 120 posti letto complessivi da collocare nei perimetri delle carceri di Alba, Opera Milano e Biella; altrettanti a sud, negli istituti di Frosinone, Palmi e Agrigento; sei invece i blocchi destinati a L’Aquila, Reggio Emilia e Voghera per 144 posti in tutto. Ogni blocco è costituito da 12 moduli smontabili «di dimensioni indicative pari a 6 metri per 5 metri». Quelli «denominati A1» ospiteranno 4 posti letto e un bagno; stesse dimensioni per i moduli adibiti alle sale polifunzionali, ai servizi e alla zona agenti. Ogni blocco detentivo, munito di cortili di passeggio delimitati anche da pareti in cemento armato, sarà recintato da una cancellata metallica zincata alta «almeno 5 metri». Ma a giudicare dall’annuncio dettato ieri all’Ansa da «fonti del governo», il piano che andrà a gara «al ribasso» tra qualche giorno non è che una prima sperimentazione di un nuovo tipo di detenzione. PER IL SOTTOSEGRETARIO Delmastro, «tutto è assolutamente rispettoso della normativa e consentirà di non avere più il sovraffollamento che c’è oggi». Ma non convince neppure il M5s. Che protesta per la “trovata” del Guardasigilli: «Se la sua unica azione concreta, dopo mesi di nulla, sono i “blocchi detenzione” – attaccano i parlamentari pentastellati – è meglio che il governo Meloni dica a tutta Italia che non sa come affrontare l’emergenza carceri». E se alcuni sindacati di polizia penitenziaria condannano le celle-container e lo «spreco di denaro pubblico» che preferirebbero fosse investito in nuove assunzioni, per il portavoce dei Garanti territoriali nulla cambierà, e i detenuti continueranno ad avere «meno metri quadrati a disposizione di quanto prevede la normativa per la custodia di cani e animali feroci». E invece tra le soluzioni possibili Samuele Ciambriello chiede «un provvedimento deflattivo per le 8000 persone che devono scontare meno di un anno senza reati ostativi, o almeno per i circa 3000 che devono scontare meno di sei mesi. Serve questo e non altri edifici».     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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[2025-04-06] Solidarietà ai prigionieri di Quarto in regime chiuso @ Carcere di Asti
SOLIDARIETÀ AI PRIGIONIERI DI QUARTO IN REGIME CHIUSO Carcere di Asti - Quarto inferiore, 266 (domenica, 6 aprile 10:00) Dalle 10 sotto alle mura del carcere di Quarto, in solidarietà ai prgionieri in regime chiuso. Diventa quindi necessario e urgente portare la nostra solidarietà ai reclusi per sostenere percorsi di lotta comune dentro e fuori. Per rompere il muro di isolamento e silenzio e far sentire alle persone detenute la nostra vicinanza.  Perché nonostante la retorica portata avanti anche in questa città,non esistono carceri "umani" o  riformabili e questo provvedimento che rende ancora più afflittiva una quotidianità già difficile delle persone recluse ci mostra ancora una volta la sua natura strutturalmente violenta.  https://lamicciaasti.noblogs.org/post/2025/03/28/solidarieta-ai-prigionieri-di-quarto-in-regime-chiuso/
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[2025-03-29] Solidarietà ai prigionieri di Quarto in regime chiuso @ Asti Parco della Resistenza
SOLIDARIETÀ AI PRIGIONIERI DI QUARTO IN REGIME CHIUSO Asti Parco della Resistenza - Parco della Resistenza Asti (sabato, 29 marzo 10:00) Punto info, banchetto, distro, chiacchiere Dalle 10 al parchetto, angolo vicino alla piazza del mercato. Per info complete: https://lamicciaasti.noblogs.org/post/2025/03/28/solidarieta-ai-prigionieri-di-quarto-in-regime-chiuso/
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