SOLIDARIETÀ AI PRIGIONIERI DI QUARTO IN REGIME CHIUSO
Carcere di Asti - Quarto inferiore, 266
(domenica, 6 aprile 10:00)
Dalle 10 sotto alle mura del carcere di Quarto, in solidarietà ai prgionieri in
regime chiuso.
Diventa quindi necessario e urgente portare la nostra solidarietà ai reclusi per
sostenere percorsi di lotta comune dentro e fuori. Per rompere il muro di
isolamento e silenzio e far sentire alle persone detenute la nostra vicinanza.
Perché nonostante la retorica portata avanti anche in questa città,non esistono
carceri "umani" o riformabili e questo provvedimento che rende ancora più
afflittiva una quotidianità già difficile delle persone recluse ci mostra ancora
una volta la sua natura strutturalmente violenta.
https://lamicciaasti.noblogs.org/post/2025/03/28/solidarieta-ai-prigionieri-di-quarto-in-regime-chiuso/
Tag - carcere
SOLIDARIETÀ AI PRIGIONIERI DI QUARTO IN REGIME CHIUSO
Asti Parco della Resistenza - Parco della Resistenza Asti
(sabato, 29 marzo 10:00)
Punto info, banchetto, distro, chiacchiere
Dalle 10 al parchetto, angolo vicino alla piazza del mercato.
Per info complete:
https://lamicciaasti.noblogs.org/post/2025/03/28/solidarieta-ai-prigionieri-di-quarto-in-regime-chiuso/
Abbiamo ricevuto notizie che nelle ultime settimane nel carcere di Quarto d’Asti
è stato introdotto il regime chiuso, una scelta che mira a punire e isolare
ancora di più le persone rinchiuse. La custodia chiusa riduce i tempi di
apertura delle celle prevedendo solo 4 ore di passeggio (l’aria) e al massimo
altre 4 ore … Leggi tutto "Solidarietà ai prigionieri di Quarto in regime
chiuso"
Mentre assistiamo desolati alla più clamorosa manifestazione della disperazione
nella quale è precipitata l’istituzione carceraria nel nostro Paese e della sua
incapacità di intercettare il disagio dei più deboli e dei più fragili, si
continua a perseguire l’idea del carcere come rigida risposta contenitiva per il
timore di apparire deboli.
di La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane
È necessario ricorrere con urgenza a provvedimenti di clemenza generalizzati per
abbattere il sovraffollamento e fare sì che le carceri non siano solo luoghi di
contenimento, di sofferenza e di morte, ma i luoghi in cui si costruiscono le
condizioni per nuove esistenze nel rispetto dei diritti e della dignità della
persona. Mentre il Governo, per far fronte al sovraffollamento carcerario, punta
sulla costruzione di “moduli detentivi” prefabbricati, i suicidi conoscono
ancora una spaventosa recrudescenza con l’inimmaginabile picco di tre morti in
un solo giorno.
Mentre assistiamo desolati alla più clamorosa manifestazione della disperazione
nella quale è precipitata l’istituzione carceraria nel nostro Paese e della sua
incapacità di intercettare il disagio dei più deboli e dei più fragili, si
continua a perseguire l’idea del carcere come rigida risposta contenitiva per il
timore di apparire deboli. Forte è invece uno Stato capace di modulare la sua
risposta alle effettive esigenze del recupero e del reinserimento e in grado di
adeguare il numero dei detenuti alle reali e concrete capacità di un trattamento
dignitoso, consentendo così di salvaguardare la vita dei ristretti. Debole è
quel Governo che sacrifica il più inalienabile dei diritti umani, quello di
essere trattati con dignità, solo per il timore di perdere consenso.
Privo di lungimiranza è quel Governo che, per dare risposta ad una insicurezza
alimentata dalla propaganda, introduce nuovi reati o aggrava le pene di quelli
già esistenti, indicando nella risposta repressiva carceraria l’unico orizzonte
del diritto. La formula “più carcere più sicurezza” è smentita dall’esperienza e
dalle statistiche che dimostrano che solo aprendosi alla società il carcere può
avere ancora una funzione, permettendo di abbattere la recidiva. Ma non può
essere questo carcere, nel quale il sovraffollamento impedisce ogni forma di
trattamento diretto a risocializzare il condannato. Non può essere il carcere
dei “moduli detentivi”, la cui sola definizione appare paradigmatica della
distanza da quella annunciata volontà di restituire dignità alla detenzione, a
rispondere al dettato costituzionale della rieducazione.
Non c’è bisogno, infatti, di nuovi contenitori per la disperazione futura dei
detenuti, ma di un futuro diverso per la pena. Se da un lato è necessario porre
in essere politiche efficaci e lungimiranti, investendo maggiori risorse, si
deve con realismo riconoscere che è necessario ricorrere con urgenza a
provvedimenti di clemenza generalizzati per abbattere il sovraffollamento e fare
sì che le carceri non siano solo luoghi di contenimento, di sofferenza e di
morte, ma i luoghi in cui si costruiscono le condizioni per nuove esistenze nel
rispetto dei diritti e della dignità della persona.
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Un video della Penitenziaria mostra l’interno di una “stanza di pernottamento”
per detenuti: la visita si sofferma sulle suppellettili che i reclusi potrebbero
usare come armi improprie e per far dire “guardate che esseri terribili ci
stanno dentro”. Un modo per alzare ancora di più il muro fra il mondo di fuori
e il carcere
di Errico Novi da il dubbio
La Polizia penitenziaria ha messo su un simulacro di cella a piazza del Popolo,
e l’ha resa visitabile. In un video, un sovrintendente del Corpo fa virtualmente
da Cicerone.
Al di là della luce che inonda l’ambiente dal soffitto trasparente, come una
bella macchina sportiva, al di là di quest’improbabile suggestione, ci hanno
colpito alcuni dettagli. Del tipo: guardate lo sgabbello, prima non era così,
non aveva lo schienale, adesso, come vedete, c’è, ma è un problema, perché dallo
schienale lo sgabbello può essere afferrato e scaraventato come un’arma. E uno.
Poi: vedete i letti a castello? Sono fissati a terra. Perché? Eh, se no i
detenuti possono spostarli, metterli davanti alla porta della cella e barricarsi
dentro. Ecco perché li abbiamo inchiodati.
Insomma: vi facciamo vedere una “stanza di pernottamento”, sì. Ma non perché
sappiate quanto ci si sta male dentro, non per favorire un’empatia fra il mondo
di dentro e il mondo di fuori. Ma perché sappiate che razza di mostri si
annidano dentro un carcere.
Così, tanto per fare in modo che quel muro sia ancora più invalicabile.
Davvero non comprendiamo quale sia l’intenzione di coloro che hanno un potere
sul carcere. Proprio non lo capiamo. Ma che quest’intenzione rischi di tradursi
in indifferenza alla tragedia, lo lasciano intuire i tre suicidi delle ultime
ventiquattr’ore.
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Situazione sempre più disastrosa nelle carceri, complice l’indifferenza delle
istituzioni. Tre detenuti suicidi nelle ultime 24 ore. Incendio al carcere
minorile Beccaria di Milano, scoppia la rivolta
Tre nuovi suicidi in carcere in meno di 24 ore: un 48enne ad Avellino, un 30enne
a Trieste e un 70enne a Genova Marassi.
Salgono così a 8 le persone morte nelle galere italiane in una settimana e a 24
se si guardano i numeri dall’inizio dell’anno. Un trend che supera già in
proporzione il record dello scorso anno, l’anno più nero, con 91 suicidi
accertati.
“La situazione è sempre più disastrosa – commenta Vito Totire, medico e
psichiatra, portavoce del Centro di documentazione Francesco Lorusso di Bologna
– Si assiste a una fortissima riduzione della aspettativa di vita e delle
condizioni di salute, per non parlare del benessere, delle persone recluse. Le
persone vengono abbandonate a loro stesse, alla loro solitudine e disperazione
e, a questa situazione di disperazione, non corrisponde una capacità di presa in
carico, anzi, non c’è né la volontà, né l’intenzione di gestire una presa in
carico.” Un’indifferenza istituzionale che, sommata al problema del
sovraffollamento e alle molte altre criticità ormai note, per Totire trasformano
le carceri italiane nell’espressione concreta del concetto di “istituzione
totale”.
Oltre ad approfondire le cause e le concause di una situazione che sembra
peggiorare giorno dopo giorno, Totire ha inoltre riassunto ai nostri microfoni
le osservazioni che come Centro Francesco Lorusso hanno fatto al rapporto del
secondo semestre 2024 relativo alle carceri di Bologna, tra cui compare la
Dozza, carcere che, secondo il documento “deve essere demolito e l’area deve
essere rinaturalizzata e rimboschita”.
La lunga intervista di Radio Onda d’Urto a Vito Totire, medico e psichiatra,
portavoce del Centro di documentazione Francesco Lorusso di Bologna che, da
diversi anni, si occupa di carcere e della necessità di liberarsene. Oggi più
che mai. Ascolta o scarica
Tentativo di rivolta e incendio lunedì pomeriggio al carcere minorile Beccaria
di Milano. Un gruppo di giovani detenuti ha dato fuoco a lenzuola e materassi al
secondo piano, asserragliandosi in un’ala del penitenziario di via Calchi
Taeggi. Sul posto diversi equipaggi dei vigili del fuoco e gli agenti di polizia
e carabinieri.
Dalle prime ricostruzioni, sembra che l’incendio sia stato appiccato da un
ragazzo dopo aver saputo del suo prossimo trasferimento. Al Beccaria era
presente anche don Gino Rigoldi. Alcuni giovani detenuti hanno poi iniziato a
battere con bastoni e mani sulle inferriate delle finestre, lanciando
piastrelle e urlando in direzione dei cronisti in strada.
Le fiamme sono state domate e la situazione è stata riportata alla normalità.
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L’emergenza nelle carceri italiane ha raggiunto livelli mai visti prima, con 19
suicidi in soli due mesi e mezzo, un numero che segna un record negativo
di Luigi Mollo
“Credo che ognuno di noi sorrida quando si dice che la prigione e il manicomio
hanno come obiettivi la riabilitazione dei loro ospiti, in realtà, tanto il
manicomio come il carcere servono a confinare le devianze dei poveri, a
emarginare chi è già escluso dalla società, le carceri sono contemporanei
“manicomi”, non solo in senso “figurato”, dove la malattia mentale e le sue
conseguenze sono molto più presente di quanto si pensi.” (Franco Basaglia)
Il 2025 si prepara anch’esso a diventare primato per numero di suicidi in
carcere.
Tre persone private della libertà personale in 72 ore.
Dietro ai freddi numeri ci sono vite interrotte dietro a sbarre e muri di cinta,
drammi individuali e familiari che colpiscono persone ristrette nella libertà
personale dallo Stato, in esecuzione di provvedimenti dell’autorità giudiziaria.
C’è allora una riflessione alla quale chi si occupa di giustizia penale, non può
sottrarsi.
Nel messaggio di fine anno, Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha
sottolineato come l’alto numero di suicidi in carcere “è indice di condizioni
inammissibili”, dovendo “il rispetto della dignità di ogni persona, dei suoi
diritti”, essere garantito “anche per chi si trova in carcere” ma evidentemente
ciò non è stato recepito dalla politica che tende a inasprire e a provare
piacere vedendo i detenuti “non respirare” a capo voltato per non vedere che le
carceri collassano e versano in una situazione di endemico sovraffollamento,
nonostante le condanne della Corte di Strasburgo non ha mai tentato seriamente
di arginare.
Lo Stato non ha volontà alcuna di percorrere la strada più coraggiosa tracciata
della dottrina, che sollecita da tempo un “rimpiazzo” della pena carceraria già
“sul nascere”, mediante la configurazione di sanzioni edittali non detentive
eppure basterebbe la volontà di interessarsi del carcere e che esso non sia solo
un immondezzaio sociale dove buttare dentro di tutto e di più, anche perché
questo non rieduca. Se non c’è rieducazione, il problema non si risolve ma
l’unica risposta del governo sta nell’intenzione di aumentare il numero di posti
in carcere. Anzitutto non si spiega quanto tempo servirebbe per costruire nuove
carceri. In più, come ha spiegato di recente il presidente di Antigone Patrizio
Gonnella, «se anche nei prossimi tre anni il governo riuscisse a dotare la
capienza delle carceri di 7.000 nuovi posti, come dichiarato dalla presidente
Meloni, avremo comunque, ad oggi, almeno altre 8.000 persone detenute senza un
posto regolamentare. A questo si deve aggiungere che le persone detenute sono
aumentate di oltre 2.000 unità nell’ultimo anno e di oltre 5.000 unità dal 2022.
Se il tasso di crescita fosse questo anche nei prossimi tre anni (cosa
tutt’altro che impossibile a fronte delle attuali politiche penali) è
prevedibile che i 7.000 nuovi posti andranno ad assorbire i nuovi ingressi,
lasciando dunque il sistema penitenziario in una condizione di affollamento
cronico e drammatico come quello che si registra oggi, con circa 15.000 persone
in più rispetto alla capacità del sistema stesso.
I suicidi nelle carceri, in queste condizioni, sono mattanza di Stato destinata
a proseguire.
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La consulta ritiene illegittima la norma che dimezza il diritto dei detenuti:
«Non aumenta la sicurezza». Altri due suicidi in meno di 48 ore
di Eleonora Martini da il manifesto
Non lasciarli respirare è incostituzionale. Se per il sottosegretario alla
Giustizia Andrea Delmastro togliere idealmente l’aria ai detenuti in regime di
41 bis è «un’intima gioia», come dichiarò qualche tempo fa presentando la nuova
auto blindata adibita al trasporto di questo tipo di reclusi, per la Corte
costituzionale è invece «illegittimo» concedere loro meno di quattro ore al
giorno di permanenza all’aria aperta.
La Consulta lo ha stabilito con la sentenza numero 30 depositata ieri tramite la
quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 41bis, comma
2-quater, dell’Ordinamento penitenziario. Pur senza porre «in alcun modo in
discussione l’impianto complessivo del regime speciale». Una modalità di
detenzione chiamata comunemente, non a caso, di “carcere duro”.
LA NORMA CENSURATA dai giudici costituzionali prevedeva «una durata non
superiore a due ore al giorno», limite stabilito «in seguito al dimezzamento
operato dalla legge 94 del 2009». A sollevare le questioni di legittimità
costituzionale era stato il Tribunale di Sorveglianza di Sassari al quale si era
rivolto G.B., un detenuto al 41 bis nel locale carcere di Bancali dove gli
venivano concesse soltanto due ore d’aria al giorno, mentre l’uomo chiedeva di
goderne almeno quattro, come previsto per i detenuti in regime ordinario
(articolo10 ord. pen.) e come stabilito nel trattamento di «miglior favore»
introdotto dalla riforma del 2018. Il magistrato di sorveglianza di Sassari
aveva rifiutato la richiesta e così il Tribunale si è rivolto alla Consulta.
Ora, considerando che nel «regime differenziato» del 41 bis il detenuto
trascorre le ore d’aria in «un gruppo di persone molto ristretto (non più di
quattro, e quindi anche tre o due), opportunamente selezionato
dall’amministrazione penitenziaria», la Corte ha ritenuto che il limite massimo
di due ore al giorno (a meno di «giustificati motivi» o nel caso di reclusi
sottoposti «a sorveglianza particolare») nulla ha a che fare con la finalità
rieducativa della pena, né con la necessità di impedire i contatti del carcerato
con le organizzazioni criminali di affiliazione.
UNA NORMA da censurare, dunque, perché «mentre comprime, in misura ben maggiore
del regime ordinario, la possibilità per i detenuti di fruire di luce naturale e
di aria, nulla fa guadagnare alla collettività in termini di sicurezza, alla
quale viceversa provvede, e deve provvedere, l’accurata selezione del gruppo di
socialità, unitamente all’adozione di misure che escludano la possibilità di
contatti tra diversi gruppi di socialità». Invece, si legge nella sentenza
firmata dai giudici Amoroso e Petitti, «beneficiare di aria e luce all’aperto
contribuisce a delineare una condizione di vita penitenziaria che, non solo
oggettivamente, ma anche e soprattutto nella percezione dei detenuti, possa
essere ritenuta più rispondente al senso di umanità, in conformità alle
specifiche raccomandazioni espresse sul punto dal Comitato europeo per la
prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti
(Cpt)».
> La norma censurata nulla fa guadagnare alla collettività in termini di
> sicurezza, alla quale viceversa provvede, e deve provvedere, l’accurata
> selezione del gruppo di socialità
D’ALTRONDE che le condizioni di vita nel carcere di Bancali abbiano superato i
limiti della tollerabilità, lo testimonia anche la Garante dei detenuti della
Sardegna Irene Testa che visitando ieri la Casa circondariale di Sassari ha
trovato «un ragazzo di 20 anni che non mangia dal 14 febbraio e ha perso oltre
15 kg». Non solo: «In una sezione con 16 celle sono presenti 55 detenuti, la
maggior parte stipati in quattro per cella. I soffitti sono umidi, le pareti
scrostate, le stanze in condizioni igieniche precarie, a volte senza termosifoni
o porte nei bagni. Urla continue. Detenuti psichiatrici che parlano da soli, che
gridano o che gettano acqua, cibo e detersivo nei corridoi. Tanti stranieri
hanno chiesto di poter avere vestiti e scarpe».
VA DETTO che non va meglio negli altri istituti penitenziari d’Italia. E nelle
ultime 48 ore in particolare a Montorio, Verona, dove in meno di due giorni due
detenuti si sono tolti la vita. Portando a 19 il numero dei suicidi in cella
dall’inizio dell’anno. Un tema, questo, sul quale l’opposizione ha chiesto ieri
al ministro Nordio un’informativa al Senato. Mentre la seduta straordinaria per
parlare delle carceri a 360 gradi richiesta dagli stessi partiti del centro
sinistra si terrà domani, alla Camera. Sperando che la discussione porti
consiglio.
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Dietro i numeri si celano complesse dinamiche sociali, economiche e legali che
distorcono la realtà
di Anna Toniolo da Facta news
Negli ultimi anni, il dibattito sulla criminalità e sull’immigrazione è stato
spesso alimentato da quella che sembra un’equazione fin troppo semplice: più
stranieri in carcere significa più crimini commessi dagli stranieri. Un elemento
che viene spesso interpretato come una prova generica rispetto alla natura
criminale delle persone di origine straniera, alimentando discorsi d’odio e
narrazioni razziste. E ciò che accade frequentemente nell’arena pubblica è
delineare un’associazione diretta tra immigrazione e criminalità.
In realtà, per comprendere davvero il fenomeno, è necessario andare oltre i
numeri assoluti e analizzare il contesto. Dietro i numeri si celano complesse
dinamiche sociali, economiche e legali che distorcono la realtà. Infatti,
fattori come le condizioni socio-economiche, la maggiore incidenza di misure
cautelari per chi non ha una rete familiare stabile e le differenze nei percorsi
giudiziari incidono profondamente sulla composizione della popolazione
carceraria.
Dati, numeri e percentuali
Secondo i dati del ministero della Giustizia, aggiornati al 31 gennaio 2025, su
una popolazione carceraria di 61.916 persone, i detenuti stranieri nelle carceri
italiane sono 19.622, circa il 31,6 per cento del totale. Secondo quanto
riportato nel “Dossier statistico immigrazione 2024”, redatto dal Centro studi e
ricerche IDOS, si tratta di una percentuale che negli ultimi anni è sempre in
lieve calo e «sensibilmente più bassa rispetto a 15 anni fa, quando superava il
37 per cento». Il rapporto spiega che, oltre a essere diminuita l’incidenza
degli stranieri sulla popolazione carceraria, nello stesso periodo di tempo è
calato anche il loro tasso di detenzione.
Associazione Antigone, che si occupa di garantire diritti e garanzie nel sistema
penale e penitenziario, ha riportato nel suo “Ventesimo rapporto sulle
condizioni di detenzione” che negli anni 2008-2013 gli stranieri detenuti non
sono mai scesi al di sotto delle 20 mila unità, mentre dal 2014 il numero totale
si attesta sempre sotto questa cifra.
Inoltre, nello stesso rapporto, Antigone mostra come pur crescendo la
popolazione straniera libera, è diminuito il numero di stranieri in carcere.
Alla crescita della popolazione straniera residente in Italia, infatti – che è
passata dal 6,5 per cento di tutti i residenti nel Paese nel 2009 all’8,2 per
cento nel 2014 – ha corrisposto una significativa riduzione del numero di
stranieri in carcere, con un calo del loro tasso di detenzione dallo 0,61 per
cento allo 0,35 per cento (il tasso di detenzione è calcolato dividendo il
numero totale dei detenuti stranieri per il numero totale di stranieri residenti
in Italia e moltiplicando per 100). E all’inizio del 2024, benché gli stranieri
rappresentassero il 9 per cento della popolazione residente, il loro tasso di
detenzione è rimasto allo 0,35 per cento. Guardando a questo dato negli ultimi
15 anni si può notare che è calato di 0,26 punti percentuali, nonostante
l’aumento di persone di origine straniera presenti Italia, decostruendo
l’equazione di natura razzista che associa in modo indissolubile le persone
straniere alla criminalità.
Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio nazionale sulle condizioni di
detenzione degli adulti di Antigone, ha spiegato a Facta che «posto che la
presenza in carcere sia indicativa del tasso di criminalità delle persone
straniere, quest’ultimo nel tempo è calato tanto» perché se gli stranieri in
carcere sono più o meno sempre gli stessi, il numero degli stranieri fuori dal
carcere è aumentato, e questo «significa che la proporzione è scesa». Secondo
Scandurra questo, entro certi limiti, è un fatto normale in quanto mano a mano
che i processi migratori si consolidano e quindi le persone che vivono in Italia
hanno sempre più famiglie e reti di riferimento, «tendono a comportarsi come il
resto della popolazione, quindi i tassi di delittuosità calano».
Equazioni fuorvianti e fattori di distorsione
Eppure, nonostante i dati mostrino come non esista un’emergenza criminalità
legata alle persone immigrate, ci sono ancora molti contenuti che circolano sui
social network che mettono a confronto il numero di persone di origine straniera
in carcere e la loro percentuale rispetto al totale della popolazione residente
in Italia, provando a dimostrare la loro elevata incidenza. In realtà si tratta
di un’equazione fuorviante per diversi motivi.
Secondo Marcello Maneri, professore di sociologia dei processi comunicativi
all’università degli Studi Milano-Bicocca, sentito da Facta, ci sono una serie
di fattori di distorsione che fanno in modo che gli stranieri siano molto sovra
rappresentati nella popolazione carceraria, ma questo in realtà non dice niente
rispetto a un loro eventuale comportamento criminale intrinseco.
Maneri ha raccontato a Facta, infatti, che questa narrazione circola da molto
tempo e ci sono una serie di fattori che spiegano perché, in realtà, si tratti
di un parallelismo scorretto e discriminatorio. Per misurare la criminalità «il
dato del carcere è il più sbagliato da utilizzare» ha chiarito Maneri.«Se
venissero considerati i dati sulle condanne, ad esempio, avremmo già un iter
giudiziario e l’accertamento della commissione del reato», mentre quando si
guardano ai dati delle presenze in carcere si fa riferimento anche a una serie
di persone che sono detenute in attesa di giudizio, «persone pescate dalla rete
del controllo penale di cui, però, non è comprovato alcun tipo di reato» ha
aggiunto il professore.
Infatti, nonostante il numero di detenuti in attesa di giudizio sia diminuito
negli anni, secondo i dati del ministero della Giustizia, al 28 febbraio 2025 i
detenuti che avevano ricevuto una condanna non ancora definitiva erano 5.802, di
cui 2.029 stranieri, cioè circa il 10 per cento del totale dei detenuti
stranieri (ovvero 19.622). I detenuti in attesa del primo giudizio erano,
invece, 9.395, di cui 3.469 stranieri, cioè quasi il 18 per cento del totale di
questo gruppo di persone recluse.
Inoltre, secondo Marcello Maneri, un altro dei fattori che influenza i numeri
sugli stranieri in carcere riguarda il fatto che esiste un numero non
quantificabile di stranieri che si trovano sul territorio senza una regolare
posizione amministrativa e che, di conseguenza, non risultano censiti. «Nelle
carceri sono presenti molte persone in condizioni di irregolarità» ha chiarito
Maneri, «ma le persone in condizioni di irregolarità non sono conteggiate nella
percentuale straniera della popolazione italiana». Questo, secondo il
professore, altera i numeri utilizzati per giustificare la narrazione secondo
cui gli stranieri sarebbero più criminali degli italiani, in quanto «c’è un
numeratore che considera tutte le persone in carcere, includendo anche coloro
che sono in condizione di irregolarità, e un denominatore che invece non include
le persone in queste condizioni nel totale delle persone straniere in Italia» e
questo dà inevitabilmente un rapporto sproporzionato rispetto alla realtà.
Secondo il “Ventesimo rapporto sulle condizioni di detenzione” di associazione
Antigone, si tratta di una percentuale intorno al 10 per cento rispetto al
totale delle presenze regolari.
Tipologia di reati e accesso alle misure alternative alla detenzione
Un altro elemento da tenere in considerazione, quando si guarda alle persone
straniere in carcere, è la tipologia di reato per cui si trovano detenute. «Se
si guarda i reati per cui le persone straniere sono in carcere» ha chiarito
Alessio Scandurra di associazione Antigone, «si vede che mediamente queste
persone sono in carcere per reati meno gravi e per pene più brevi».
Secondo i dati del ministero della Giustizia datati al 31 dicembre 2024,
infatti, gli stranieri rappresentano il 28,6 per cento dei detenuti detenuti per
violazione della normativa sulle droghe, il 18,7 per cento di quelle detenute
per delitti contro l’ordine pubblico, il 31,7 per delitti contro la persona e il
29,3 per delitti contro il patrimonio, cioè quei crimini che danneggiano o
violano il diritto di proprietà di una persona, sottraendo, distruggendo o
compromettendo beni materiali o economici come furto, rapina o estorsione. La
percentuale di stranieri, invece, è molto bassa quando si parla di reati più
gravi come l’associazione di stampo mafioso in cui rappresentano circa il 2,4
per cento.
Secondo Marcello Maneri, per decostruire la dicotomia secondo cui le persone
straniere sarebbero intrinsecamente più criminali, è importante considerare
anche che «gli stranieri possono essere incarcerati per reati che le persone con
cittadinanza italiana generalmente non commettono, i cosiddetti crimini legati
all’immigrazione». Al 31 dicembre 2024, infatti, più del 91 per cento dei
detenuti condannati per reati legati alla “legge stranieri” erano, appunto, di
origine straniera. Con questi reati si fa riferimento a violazioni delle
normative italiane che regolano la presenza, il soggiorno e i diritti degli
stranieri sul territorio nazionale. In particolare, fanno riferimento al “Testo
Unico sull’Immigrazione” (D.lgs. 286/1998) e ad altre leggi connesse e
includono, ad esempio, ingresso e soggiorno illegale nel Paese, favoreggiamento
all’immigrazione clandestina, falsa dichiarazione o uso di documenti falsi.
Inoltre, sempre guardando ai dati forniti dal ministero della Giustizia datati
al 31 dicembre 2024, si può notare come i detenuti stranieri siano generalmente
condannati per pene più brevi e solo una minima parte riceva condanne che vanno
oltre i 20 anni o addirittura l’ergastolo. Solo il 7,5 per cento degli
ergastolani è di origine straniera, e al contrario lo è quasi la metà dei
detenuti condannati a meno di un anno, cioè il 45,5 per cento del totale e il
42,6 per cento dei detenuti condannati a un periodo di detenzione che va da uno
a due anni.
La tipologia di reati per cui sono accusate la maggior parte delle persone
straniere e la durata delle pene a loro comminate apre un altro tema importante
che riguarda il minore accesso di questa categoria di persone alle misure
alternative al carcere. Elemento che aumenta la loro presenza in carcere
rispetto a persone con cittadinanza italiana e influenza i dati sulle presenze
in carcere. Come ha chiarito associazione Antigone nel suo “Ventesimo rapporto
sulle condizioni di detenzione”, il fatto che la percentuale di persone
straniere tra i detenuti condannati a pene brevi è un segno del loro minore
accesso alle misure alternative alla detenzione, rispetto agli italiani. Con il
termine “misure alternative o di comunità” si intendono sanzioni e misure che
permettono alla persona condannata di restare nella società, ma con alcune
limitazioni alla sua libertà come, ad esempio, l’affidamento in prova al
servizio sociale, la detenzione domiciliare e la semilibertà.
Secondo i dati più aggiornati del ministero di Giustizia, nel 2024 i soggetti in
carico agli Uffici di esecuzione penale esterna erano per il 76,9 per cento
italiani e solo per il 20,4 per cento stranieri, nonostante questi ultimi
fossero il il 45,5 per cento del totale dei detenuti condannati a meno di un
anno di carcere. Questi dati, comparati con l’incidenza dei detenuti stranieri
(31,6 per cento), sono indice di un loro minore accesso alle misure alternative
alla detenzione rispetto agli italiani.
Si tratta di un aspetto cruciale che influenza la presenza di detenuti stranieri
in carcere e che, se non preso in considerazione, può essere fuorviante nella
lettura dei numeri sulle presenze negli istituti penitenziari italiani.
Ornella Fiore, avvocata e socia dell’Associazione per gli Studi Giuridici
sull’Immigrazione (Asgi) ha spiegato a Facta che per le persone straniere «c’è
un problema enorme legato all’esistenza di posti in cui stare in misura
alternativa alla detenzione per i detenuti definitivi e per chi è in misura
cautelare». In poche parole «è chiaro che se una persona non ha una casa, questo
riduce di molto le alternative». In più, ha chiarito ancora Fiore, se una
persona non ha il permesso di soggiorno, le opzioni sono ancora meno e anche un
dormitorio diventa difficile come scelta per le misure alternative. «Ci sono
cittadini italiani che commettono reati che determinano un allarme sociale
significativo», ha continuato l’avvocata, «ma che in carcere non vanno, anche
solo perché hanno una casa» e possono, di conseguenza, scontare la pena in un
luogo diverso dal carcere.
Questo significa che a prescindere dalla gravità del reato, più si adottano
misure contenitive, più cresce la sovrarappresentazione degli stranieri, visto
che per gli italiani resta più facile accedere a percorsi alternativi alle
restrizioni del sistema penale.
Oltre a questo, secondo Marcello Maneri, un altro fattore che influenza
l’accesso alle misure alternative al carcere è la valutazione del livello di
«pericolosità sociale». Secondo il professore, in Italia si vive da circa
trent’anni in un clima di allarme sulla criminalità straniera e questo influenza
la percezione rispetto al livello di pericolosità sociale delle persone di
origine straniera, a cui viene, dunque, consentito meno l’accesso a questo tipo
di misure.
Anche l’aspetto demografico è importante
Un aspetto cruciale da considerare nei dati sulla popolazione straniera in
carcere è la questione demografica. Come ha spiegato Alessio Scandurra di
Antigone, «la popolazione detenuta in Italia è composta in larghissima
maggioranza da uomini, giovani ma non giovanissimi, provenienti soprattutto
dalle aree più povere del Paese».
La popolazione carceraria è formata principalmente da giovani uomini in
condizioni di povertà, un profilo più comune tra i migranti rispetto alla
popolazione generale. Di conseguenza, il tasso di criminalità degli stranieri
con queste caratteristiche potrebbe non essere molto diverso da quello degli
italiani con lo stesso profilo. Tuttavia, il confronto con la popolazione
italiana è distorto: mentre quest’ultima è più variegata per età e condizioni
economiche, la popolazione straniera residente in Italia è composta in gran
parte da giovani uomini, la categoria più rappresentata nelle carceri. «Stiamo
confrontando due popolazioni con profili demografici diversi», ha sottolineato
Marcello Maneri, «e quindi con una diversa probabilità di commettere reati e
finire in carcere».
La situazione dei minori stranieri
Se la sovrarappresentazione in carcere degli stranieri adulti è elevata, la
situazione è ancora più accentuata quando si parla di minori stranieri detenuti
negli Istituti penali per minorenni (IPM). Come ha riportato il “Dossier
Statistico Immigrazione” redatto dal Centro studi e ricerche IDOS, sebbene tra
tutte le persone con meno di 25 anni residenti in Italia gli stranieri
rappresentino l’8 per cento, al 15 giugno 2024 quelli in carico dei servizi di
giustizia minorile rappresentavano il 23 per cento del totale e, dei 555 ragazzi
detenuti negli IPM, quelli di origine straniera erano 266, cioè il 48 per cento.
Questo succede in particolare perché, come ha spiegato l’avvocata Ornella Fiore,
«se sei un minore straniero non accompagnato spesso non hai una famiglia o una
casa di riferimento, allora vieni messo in carcere o in comunità». Su questo
punto, però, l’avvocata ha sottolineato come il numero delle comunità
nell’ambito penale non siano molto numerose in Italia e «anche quando viene
disposta la scarcerazione, molto spesso i ragazzi si trovano a dover aspettare
settimane o addirittura mesi prima che il trasferimento sia possibile». Anche se
si ha un provvedimento in tasca che ne dispone la scarcerazione, questa non può
avvenire perché non c’è spazio nella comunità di accoglienza.
Secondo Alessio Scandurra «il paradosso del sistema della giustizia minorile
riguarda proprio il fatto che in carcere non va necessariamente chi ha commesso
il reato più grave, ma chi ha la situazione sociale di provenienza più fragile,
per cui è più difficile inserirlo nei percorsi alternativi alla detenzione».
Secondo quanto riportato in un rapporto di associazione Antigone, al 1° gennaio
2023, in Italia c’erano circa 1 milione di minori e giovani adulti stranieri
regolarmente soggiornanti (fino ai 24 anni), pari all’8 per cento della
popolazione totale in quella fascia d’età, a fronte di 12 milioni di italiani.
Tuttavia, i dati della giustizia minorile mostrano una loro
sovrarappresentazione: nel 2022, gli Uffici di servizio sociale per i minorenni
(Usmm) hanno preso in carico 21.551 giovani, di cui 4.737 stranieri, cioè il 22
per cento.
Nei carceri minorili, questa sproporzione è ancora più evidente: all’inizio del
2023, su 385 giovani detenuti, 193 erano stranieri, oltre la metà. Nel 2023, il
totale di giovani stranieri seguiti dagli Usmm è stato 1.627 (21,5 per cento
delle 7.556 prese in carico). Al 31 dicembre 2023, la percentuale di stranieri
in carico agli Usmm era del 22,4 per cento, confermando un trend costante negli
ultimi 15 anni, che diventa più marcato nelle misure detentive.
Sempre secondo Antigone, analizzando i provvedimenti di messa alla prova, una
misura aperta e di successo nel sistema minorile, nel 2023 ne sono stati
adottati 6.592, ma solo il 20 per cento ha riguardato giovani stranieri. Per le
misure cautelari meno afflittive, cioè permanenza in casa e prescrizioni, la
quota di stranieri è stata del 28,4 per cento, mentre sono stati più
frequentemente destinatari della custodia cautelare in carcere.
Nei Centri di Prima Accoglienza (CPA), strutture di primo ingresso per minori
fermati o arrestati, nel 2023 ci sono stati 852 ingressi, di cui 407 di
stranieri (47,8 per cento). Anche nelle dimissioni dai CPA emerge una differenza
significativa: gli stranieri erano il 25,6 per cento di chi è stato posto in
permanenza in casa, il 41,3 per cento di chi è stato collocato in comunità e ben
il 66,7 per cento di chi è stato inviato in carcere in custodia cautelare. In
sintesi, più la misura è restrittiva, maggiore è la percentuale di giovani
stranieri coinvolti.
Oltre i numeri: i fattori sociali che influenzano le statistiche
Oltre a dati, numeri e percentuali, comunque, alla presenza delle persone
straniere in carcere contribuiscono anche alcuni fattori sociali. Secondo
l’avvocata Ornella Fiore a livello politico in Italia si è investito
nell’irregolarità delle persone, il che significa investire sull’insicurezza di
quelle stesse persone, nel contesto in cui vivono. A livello pratico questo
significa che «se vengono messi dei limiti al riconoscimento delle protezioni
internazionali, o all’accesso alla questura per fare la richiesta d’asilo, per
esempio» molte persone non riescono ad accedere a condizioni di regolarità e
sono sicuramente più vulnerabili rispetto alla possibilità che qualcuno possa
approfittare della loro situazione e coinvolgerle in comportamenti illegali. Al
contrario «se si investisse sulla regolarità delle persone, potrebbero cambiare
molte dinamiche» ha continuato Fiore, «perché per esempio se una persona ha un
permesso di soggiorno e può lavorare, può avere un contratto d’affitto, e può
avere in modo regolare una serie di cose, allora probabilmente sarà meno esposta
a determinati comportamenti illegali».
Inoltre, quando si guarda ai numeri delle persone straniere in carcere, non si
può non considerare la dinamica della profilazione razziale, che consiste nel
prendere di mira individui o gruppi specifici di persone in base alle loro
caratteristiche e senza un motivo giustificato, come avevamo spiegato anche in
questo articolo pubblicato su Facta. In Italia, il 71 per cento della
popolazione immigrata o afrodiscendente ritiene di esserne stata vittima almeno
una volta.
Nel luglio 2023, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi)
aveva chiesto al Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione delle
discriminazioni razziali (Cerd) di raccomandare all’Italia misure efficaci
contro la profilazione razziale. Il 31 agosto, il Cerd aveva accolto questa
richiesta, invitando il governo italiano ad adottare interventi necessari per
rispettare la Convenzione contro le discriminazioni razziali.
Il 22 ottobre 2024, la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza
(Ecri) ha pubblicato il suo sesto rapporto sulle raccomandazioni all’Italia in
materia di diritti umani. Nel documento si denuncia la persistenza di violenza
sistemica e profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine, che
colpiscono soprattutto persone di etnia Rom e persone nere di origine africana.
L’Ecri ha invitato l’Italia a svolgere un’indagine indipendente per esaminare e
contrastare queste pratiche discriminatorie.
A causa della diffusione di questa pratica «le persone appartenenti a minoranze
che sono visivamente riconoscibili, sono più facilmente profilate dalle polizie»
ha commentato Marcello Maneri, aggiungendo che «i reati commessi in strada,
legati principalmente ai mercati illegali — come il traffico di sostanze
stupefacenti o la prostituzione — sono più facilmente individuabili dalle forze
dell’ordine». Di conseguenza, conclude il professore, questi reati sono oggetto
di una maggiore attività di controllo e intervento, «aumentando così la
probabilità che chi li commette venga arrestato e incarcerato».
È chiaro quindi che i dati, i numeri e le statistiche sulle persone straniere
detenute nelle carceri italiane raccontano una storia complessa, che non può
essere ridotta a equazioni semplicistiche o letture affrettate. Dietro ogni
cifra si nascondono dinamiche sociali, economiche e giuridiche che richiedono
un’analisi approfondita e contestualizzata. Ignorare questi fattori significa
rischiare di alimentare narrazioni distorte, che contribuiscono a rafforzare
stereotipi e pregiudizi. Affrontare il tema con superficialità, limitandosi a
statistiche decontestualizzate, non solo è inaccurato, ma anche irresponsabile e
discriminante.
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Le donne recluse nei penitenziari italiani sono il 5% dell’intera popolazione
carceraria con loro ci sono oltre 20 bambini detenuti, bambini piccoli che
passano tutte le loro giornate dietro a delle sbarre. Per certi versi, una
condizione di detenzione peggiore di quella degli uomini.
di Luigi Mollo
Sono circa il 5% dell’intera popolazione detenuta; ma la loro situazione è
particolare e, per certi versi, ancora peggiore di quella degli uomini.
Va detto che con loro, oggi, in Italia, ci sono oltre 20 bambini detenuti,
bambini piccoli che passano tutte le loro giornate dietro a delle sbarre, senza
la figura di un padre, che per anni vivono quasi in simbiosi costante con le
loro madri e poi, dopo, da un giorno all’altro, ne vengono totalmente privati e
non le vedranno più se non nel caos dei colloqui periodici.
Perché così dice la legge: fino a tre anni le madri possono tenere i loro figli
con sé; dopo non possono più.
La presenza femminile in carcere si traduce in qualche residuo terroristico,
qualche spacciatrice di borgata, qualche zingara borseggiatrice o ladra di
appartamenti, qualche signora che ha ucciso il marito, ultimamente anche qualche
donna di mafia e camorra, ma soprattutto qualche tossicodipendente ma pur sempre
donne che conservano una grande cura di sé, come per ribadire una normalità, per
affermare una individualità, per ricordarsi ogni giorno che ancora si esiste:
pettinature, trucco, vestiti, riviste che passate di cella in cella…
E ricette, ricette di cibi che parlano di casa, di nostalgie dell’infanzia, di
mondi lontani e diversi; e cibo condiviso, come gesto di accoglienza o di
amicizia, che, in un mondo deprivato di ogni cosa, riacquista l’antica
connotazione di condivisione e cura amorevole.
Vicino ai fornelli pulsa un mondo di rapporti, di confidenze, di ricordi, mentre
si rivivono le proprie abitudini e i piaceri della casa, si cerca di vincere la
nostalgia, si tenta di costruire insieme un pezzo di famiglia.
Perché la famiglia è ciò che più manca, quel tessuto di rapporti e di cure di
cui da sempre è stata destinata custode: i figli lontani, che non si possono
vedere e seguire; ma anche i figli che si vorrebbe avere e che forse non si farà
più in tempo.
L’essere rinchiuse in qualche modo diventa sostegno e scambio intenso,
attenzione alle piccole gentilezze, lessico comune, racconto intimo e
confidenziale, come ogni donna ha sperimentato qualche volta nel corso della
vita, quando si è trovata con altre come lei e si è lasciata andare.
Perché la donna, più dell’uomo, anche quella più dura e più provata, desidera
parlare, confrontarsi mettendosi in gioco, sempre senza negare né negarsi
emozioni e commozioni.
Le donne amano la compagnia, sono curiose delle diversità; e il carcere, col suo
mescolamento di storie di vita, di paesi d’origine e di ceti sociali diversi , è
un continuo crogiolo aperto alla confidenza e al confronto. Ma per le loro resta
un mondo a metà.
Il carcere è un mondo a parte in cui l’umanità è ferita e monca. Così perdiamo
tutti da questa lontananza, per ogni parte di sé di cui la società si amputa.
A tutte le donne… A Francesca Vianello professoressa associata di Sociologia del
diritto, della devianza e del mutamento sociale presso il Dipartimento di
Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA) dell’Università
degli Studi di Padova, insegnante di Sociologia del diritto e della devianza e
Sociologia del carcere. Direttrice del Master interateneo in Criminologia
critica e sicurezza sociale delle università di Padova e Bologna, responsabile
scientifico di progetti di ricerca europei e nazionali sul tema dell’esecuzione
penale, delle condizioni di detenzione e delle alternative al carcere e del Polo
Universitario della Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova
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