È stato presentato oggi a Roma il XXI Rapporto di Antigone sulle condizioni di
detenzione in Italia, intitolato “Senza respiro”. Un titolo che non è una
metafora, ma una fotografia lucida di un sistema penitenziario al collasso, dove
detenuti, operatori e istituzioni sono sempre più in affanno.
Nel 2024 l’Osservatorio di Antigone ha visitato 95 istituti penitenziari per
adulti e la maggior parte degli istituti penali per minorenni in tutta Italia,
da Bolzano ad Agrigento. Il quadro emerso è drammatico: sovraffollamento record,
carenza di personale, diritti compressi e una deriva punitiva che mette a
rischio la tenuta costituzionale del sistema.
Al 30 aprile 2025 i detenuti in Italia erano 62.445, a fronte di una capienza
regolamentare di 51.280 posti. Ma considerando i posti non disponibili (oltre
4.000), il tasso reale di affollamento è del 133%, con circa 16.000 persone che
non hanno un posto regolamentare. 58 carceri su 189 hanno un tasso di
sovraffollamento superiore al 150%. Gli istituti più affollati al momento sono
Milano San Vittore (220%), seguito da Foggia (212%) e Lucca (205%). In tutti e
tre i casi ci sono più del doppio delle persone che quelle carceri potrebbero e
dovrebbero contenere.
Negli ultimi due anni la popolazione detenuta è cresciuta di oltre 5.000 unità,
mentre la capienza effettiva è diminuita di 900 posti. Negli ultimi mesi ogni
sessanta giorni sono entrate in carcere 300 persone in più. Dinanzi a quanto sta
accadendo l’unica risposta dell’Esecutivo passa da un piano per l’edilizia
penitenziaria che, proprio per i numeri e per la loro crescita, non può essere
in alcun modo la soluzione. Considerando che mediamente un istituto in Italia
ospita 300 persone, ogni due mesi dovremmo aggiungere un nuovo carcere al piano
di edilizia.
Questo anche a fronte di un attivismo penale del governo che ha un impatto
diretto e drammatico sul carcere. Con il decreto sicurezza, approvato ad aprile
2025 e in discussione in Parlamento per la sua conversione in legge, è stato
introdotto tra gli altri un nuovo reato che punisce anche le proteste pacifiche
e non violente con pene più alte di quelle previste per i maltrattamenti in
famiglia, escludendo le persone detenute anche dal possibile accesso alle misure
alternative, come avviene per i reati di mafia e terrorismo. Se si considera che
dal nel 2024 si sono contati 1.500 episodi di protesta, coinvolgendo almeno
6.000 persone detenute, se ognuna di loro fosse stata condannata in media a 4
anni di carcere, si rischierebbero 24.000 anni di carcere in più per chi sta già
scontando una pena.
Proteste che generalmente riguardano le persone detenute più fragili, quelle con
più problematiche e che si sanno fare meno la galera: tossicodipendenti, senza
dimora, stranieri senza difesa legale, persone con problemi psichiatrici.
Categorie che rappresentano anche la maggior parte di chi ha pene brevi. Al
momento il 51,2% dei detenuti con condanna definitiva ha meno di tre anni da
scontare, soglia che consente – almeno teoricamente – l’accesso a misure
alternative. Più di 1.370 persone sono in carcere per pene inferiori a un anno.
Ma il sovraffollamento non colpisce solo le carceri per adulti. Per la prima
volta nella storia interessa anche gli istituti penali per minorenni dove sono
611 i ragazzi detenuti (di cui 27 ragazze). Un record storico che ha caratteri
preoccupanti se si pensa al fatto che alla fine del 2022 negli Ipm c’erano 381
persone. Frutto del decreto Caivano che ha fatto crescere enormemente i numeri,
soprattutto dei ragazzi in custodia cautelare (il 65% dei minorenni è infatti
recluso senza una condanna definitiva).
Di fronte a questa situazione Antigone ha avanzato tre proposte che si possono
rendere immediatamente operative: Un atto di clemenza per i detenuti con residuo
pena inferiore ai 2 anni; provvedimenti collettivi di misura alternativa decisi
dai Consigli di disciplina da riunirsi in forma straordinaria per discutere
grazie e altri provvedimenti per detenuti che abbiano meno di un anno di pena;
divieto di nuove carcerazioni, se non in casi eccezionali, se non vi è un posto
regolamentare disponibile.
Durante la presentazione Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, ha chiamato
ad una grande alleanza costituzionale. “Di fronte a tutto questo – ha detto –
dobbiamo costruire una grande alleanza di tutti coloro che intendano muoversi
nel solco dell’articolo 27 della Costituzione, a partire dalle Università, dalle
associazioni, dal mondo delle professioni e dai sindacati. Il carcere non va
trasformato in una trincea di guerra. Chi usa toni militareschi o guerrafondai
per orientare e gestire la vita carceraria commette un gravissimo atto di
insubordinazione costituzionale che renderà durissima la vita degli stessi
poliziotti. É necessario che a partire dal linguaggio si ridefi nisca un senso
comune della pena e quanto meno non si metta mai in discussione la necessità di
tutelare sempre la dignità di tutte le persone private della libertà. Le parole
forti di Papa Francesco per una pena mite e mai disumana, nonché il suo discorso
contro i mercanti della paura, speriamo restino un monito per tutti. Non è stato
ascoltato in vita. Speriamo lo sia dopo la sua morte”.
Il rapporto completo è disponibile su www.rapportoantigone.it.
A questo link la cartella stampa.
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Tag - carcere
Nella giornata di ieri è stata scarcerata Nicoletta Dosio, dopo più un anno di
detenzione domiciliare scontato presso la propria abitazione di Bussoleno
finalmente è libera! Più di un anno […]
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Gli ordinamenti democratici nazionali e internazionali hanno perso la loro
capacità di essere bussola del mondo
di Riccardo De Vito da il manifesto
Tra poco più di due mesi l’ordinamento penitenziario compirà cinquant’anni.
Chiamiamo così la legge del 1975 che aveva dato vigore e prospettiva
all’articolo 27, comma 3, della Costituzione, per il quale le pene devono
tendere alla rieducazione del condannato.
Il compleanno di mezzo secolo, però, si è macchiato di sangue e quel sangue si è
tinto di strumentalizzazioni. Tutto accade in pochi giorni, tra il 9 e l’11
maggio, quando Emanuele De Maria, in espiazione della pena per l’omicidio di una
donna, esce dal carcere per recarsi a svolgere attività lavorativa all’esterno.
Sono due giorni di tragedia: Emanuele torna a uccidere una donna, Chamila;
ferisce quasi mortalmente un collega di lavoro; infine, si toglie la vita
lanciandosi dalle terrazze del Duomo di Milano.
Si riaffaccia una domanda insistente: è ancora tollerabile il sacrificio di una
vittima per consentire ai detenuti di riconnettersi gradualmente alla società?
Fino a qualche tempo fa ci si poteva trincerare dietro la forza della del
diritto: è giusto perché lo dice l’articolo 27 della Costituzione. Questa
replica rischia di non funzionare più.
Gli ordinamenti democratici nazionali e internazionali hanno perso la loro
capacità di essere bussola del mondo. Gaza segna l’assoggettamento della logica
dei diritti umani e del diritto internazionale alla ragione della forza; negli
Stati uniti si fa spettacolo delle persone incatenate e si ventila di abolire
l’habeas corpus per i migranti; alle nostre latitudini, si ricostruiscono
neo-colonie detentive in territorio estero e si prevedono ergastoli automatici.
La Costituzione ha perso il suo carattere di fondamento della Repubblica ed è
diventata culturalmente rifiutabile. L’articolo 27 dice che il condannato deve
essere risocializzato? Sbaglia, lo si cancelli con un tratto di penna. E,
infatti, un disegno di legge costituzionale prevede che la rieducazione possa
essere limitata da «altre finalità» ed «esigenze di difesa sociale» (disegno di
legge del deputato Cirielli di Fratelli d’Italia).
Se così stanno le cose, occorre ri-giustificare il normativo, il dover essere
del mondo, a partire dalla sostanza delle cose. Il progressivo reinserimento del
detenuto in società – quelle finestre nella pena detentiva che consentono di
mettere i piedi fuori dalla prigione – serve perché rende il mondo più sicuro e
meno violento. Se le pene fossero scontate in carcere dal primo all’ultimo
giorno, si finirebbe per consegnare alla libertà esseri umani incapacitati alla
costruzione della relazione più semplice, pericolose bombe a orologeria. La
pena, prima o poi, finisce e i conti con il pericolo di recidiva si dovranno
fare comunque. Tutte le statistiche dimostrano che quei conti è bene farli
prima, in quelle famose finestre che servono anche come momenti di
sperimentazione controllata.
Circola nell’aria, sempre meno latente, una pulsione a fare in modo che la pena
non finisca. Non servirebbe: chi uccide, quasi sempre lo fa senza aver valutato
le conseguenze in modo razionale. Il caso di questi giorni ne è un esempio: il
condannato sa che perderà tutto, a partire dalla libertà riconquistata, ma
uccide lo stesso. Subito dopo telefona alla madre, chiede perdono e va a
lanciarsi dal Duomo di Milano. L’essere umano, troppo umano, è più complesso e
drammatico di ogni tecnologia normativa della dissuasione.
Statistiche e ragione, tuttavia, non bastano a dare senso alla vittima, che
rimane unica. Quell’unicità ha bisogno di risposte ulteriori. La prima,
essenziale. L’area del controllo penale, si è allargata a dismisura: 95mila
persone in misure alternative, 62.400 detenuti. Sono numeri che rendono
impossibile agli operatori (educatori e assistenti sociali) concentrarsi sui
casi davvero importanti, quelli che meritano di essere seguiti anche quando
tutto pare filare liscio. Se l’area penale fosse meno affollata di condannati
per reati senza vittima, funzionerebbe meglio. Amnistia, indulto e
depenalizzazione sono le parole di un vocabolario di sicurezza. Non serve
risocializzare meno, serve risocializzare meglio.
Strettamente collegato a questo punto, ne viene un altro: rieducare è una parola
brutta, lascia pensare a pretese egemoniche sull’animo. Sappiamo che deve essere
declinata a livello laico, come risocializzazione, ma il tema non cambia: è un
problema che investe tutta la società e le sue agenzie, non può essere scaricata
solo sul carcere. Sulle pagine online dei quotidiani più diffusi, nei giorni
successivi alla vicenda De Maria, circolavano i video degli ultimi istanti di
vita della vittima e del detenuto. Accanto a essi, il video del robot umanoide
di Tesla che danza a ritmo di musica, accendendosi e spegnendosi a comando. Non
serve scomodare «la precessione del simulacro» per capire che qualcosa è
saltato. Ri-educare, nella società come in carcere, dovrebbe significare tornare
a mettere in discussione (o in crisi) le strutture psichiche dell’ordine
economico e sociale, i rapporti tra desiderio e frustrazione, la confusione tra
libertà e signoria. Sono questioni che vengono prima del carcere e che vanno
oltre il carcere.
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Queste parole appartengono a una lettera che ci è stata inviata poche settimane
fa da una persona reclusa nel carcere di Quarto d’Asti e che ci ha chiesto di
pubblicarla. Pensiamo che la possibilità di fare arrivare a tuttx le parole e i
pensieri di una persona reclusa sia uno dei tanti gesti per rompere … Leggi
tutto "Le Parole di un Detenuto"
Ad Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto al 41bis, è stato vietato l’acquisto
dei vangeli apocrifi e di libri di fisica e fantascienza. Per la direzione del
carcere di Sassari. dov’è recluso, i libri sono pericolosi.
di Frank Cimini da l’Unità
Nel caso specifico parliamo di un testo sui vangeli apocrifi, uno di fisica
quantistica e due di fantascienza. La direzione del carcere di Sassari Bancali
ne ha vietato l’acquisto all’anarchico Alfredo Cospito adducendo un parere
negativo dell’autorità giudiziaria che non vi sarebbe stato secondo i difensori,
i quali hanno presentato ricorso. Sarà celebrata un’udienza per stabilire se
Cospito può avere quei libri perché evidentemente la giustizia ha tempo da
perdere.
“Nell’ultimo mese – spiega l’avvocato Flavio Rossi Albertini – a Cospito era
stato negato pure l’acquisto di un Cd musicale. Era stato negato l’accesso alla
biblioteca del carcere che non aveva neppure provveduto a ritirare
tempestivamente un pacco inviatogli dalla sorella, determinandone il rinvio al
mittente”. In relazione all’accesso alla biblioteca la direzione della prigione
spiegava che il “disguido” era stato generato da problemi organizzativi interni
e che sarebbe stato emesso apposito ordine di servizio. Le condizioni di
detenzione dì Cospito ristretto al 41bis sono peggiorate non proprio per caso
dopo la condanna in primo grado per rivelazione del segreto d’ufficio del
sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro delle Vedove per la vicenda
delle intercettazioni ambientali divulgate in Parlamento, delle conversazioni
tra Alfredo e gli altri reclusi che all’epoca facevano parte del “gruppo di
socialità”.
Altre “coincidenze” che viene da pensare possano avere il loro peso in questa
vicenda sono le dimissioni alla fine del dicembre scorso del direttore del Dap,
Giovanni Russo, che aveva testimoniato non proprio a favore di Delmastro nel
processo a suo carico, e ancora, il ritorno al comando della sezione 41bis di
Bancali del graduato del gruppo operativo mobile che era stato trasferito
proprio per il suo coinvolgimento nella faccenda delle intercettazioni.
Alfredo Cospito sta continuando a pagare sulla propria pelle il lunghissimo
sciopero della fame per protestare contro il 41bis non solo e non tanto per sé
ma per gli altri 700 detenuti ai quali viene applicato. Le simpatie suscitate
dal digiuno avevano messo in imbarazzo il sistema che da allora si sta
vendicando. Era stato considerato una sorta di sciopero della fame “a scopo di
terrorismo”. La storia dei libri negati è solo l’ultimo episodio di una lunga
serie. Negare la possibilità di leggere rappresenta una tortura ulteriore. Libri
pericolosi. Negli anni ‘70 un bambino spiegava l’arresto del padre “terrorista”
dicendo: “Aveva troppi libri in casa”.
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Mercoledì 16, dopo un fine settimana molto caldo in termini di uso della forza
da parte della polizia, abbiamo avuto il piacere di una chiacchierata in studio
con un compagno di Radio Onda Rossa. Con lui, abbiamo discusso delle
trasformazioni dei quartieri di Roma, alla luce della speculazione abitativa che
ha comportato il giro di […]
Ogni giorno nelle carceri italiane ci sono in media cinque episodi di protesta
collettiva. Il reato di rivolta penitenziaria, introdotto dal decreto legge
«sicurezza», punisce con pene elevatissime anche chi protesta con forme di
resistenza passiva
di Patrizio Gonnella da il manifesto
Ogni giorno nelle carceri italiane ci sono in media cinque episodi di protesta
collettiva. Il reato di rivolta penitenziaria, introdotto dal decreto legge
«sicurezza», punisce con pene elevatissime anche chi protesta senza violenza e
con forme di resistenza passiva a ordini dati per generiche ragioni di
sicurezza. Il carcere è pieno di tali eventi, ogni operatore lo sa.
Nel solo 2024 si sono verificati circa 1.500 episodi di protesta collettiva
nonviolenta, quali la battitura delle sbarre o il rifiuto di rientrare in cella.
Episodi che un bravo direttore o comandante di reparto risolveva con il dialogo,
ascoltando le ragioni della protesta.
La pedagogia premoderna e punitiva di chi ci governa ha deciso di criminalizzare
la disobbedienza nonviolenta. Se il 2025 sarà come l’anno passato, supponendo
che in media quattro detenuti partecipino a ogni episodio di disobbedienza a un
ordine, arriveremo a seimila detenuti coinvolti. Il reato di rivolta
penitenziaria prevede pene altissime, superiori nel massimo ai maltrattamenti in
famiglia. Supponiamo che i seimila detenuti siano condannati a una media di
quattro anni di carcere ciascuno. Sono dunque in arrivo circa ventiquattromila
anni aggiuntivi di carcere contro persone, già detenute, alle quali sarà
peraltro escluso l’accesso a misure alternative. Una ricetta perfetta per far
definitivamente esplodere il nostro sistema penitenziario e seppellire in
carcere migliaia di persone, selezionate ovviamente tra le più vulnerabili:
minori stranieri non accompagnati, persone con problemi psichici,
tossicodipendenti.
A ciò vanno aggiunti gli effetti devastanti di tutti gli altri delitti presenti
nel decreto. Il sistema collasserà, nei numeri e per la sua disumanità.
Una delle misure del decreto legge sulle quali maggiormente si concentravano i
dubbi del presidente Mattarella era, come reso noto dai media, l’abolizione
dell’obbligo di differimento della pena per le donne incinte o con prole fino a
un anno di età. Nella trasformazione del testo in decreto, tale abolizione non è
mutata. Da oggi sarà il giudice a decidere se la donna in gravidanza o appena
divenuta madre dovrà andare in carcere. Se decide di sì, la donna sarà inviata
in un Icam (istituto a custodia attenuata per madri), che è comunque un carcere
a tutti gli effetti. Se tuttavia la donna in custodia cautelare in Icam non si
comporta a dovere, allora accadrà qualcosa senza precedenti: la donna potrà
essere trasferita in un carcere ordinario senza suo figlio, per il quale
verranno allertati i servizi sociali. In questo modo si istituzionalizza la
sottrazione del figlio alla madre detenuta.
Di fronte a tutto ciò chiediamo ai giuristi e agli operatori penitenziari e del
diritto di assecondare la loro missione, di essere culturalmente e
giuridicamente resistenti rispetto alle tendenze neo-autoritarie di un decreto
legge che nella forma e nella sostanza fa carta straccia dello Stato di diritto.
Il grosso rischio è quello della cooptazione istituzionale degli operatori
sociali e del diritto, che invece devono esercitare il loro spirito critico per
non essere i manovali del declino del sistema.
Chiediamo ai giudici, agli avvocati, agli operatori tutti di moltiplicare le
forme del dissenso chiamando la Corte costituzionale e la Corte europea dei
diritti umani di Strasburgo a decidere se cancellare le norme presenti nel
decreto legge.
Chiediamo a tutti gli operatori penitenziari di usare ragionevolezza e dialogo
per non trasformare le carceri in fosse comuni dove i detenuti sono seppelliti
da valanghe di anni di prigione.
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Tiziano Paloni, romano di 40 anni, ristretto nel carcere romano in attesa di
giudizio, la mattina di lunedì 7 aprile è stato trasportato d’urgenza dalla casa
circondariale di Trastevere prima all’ospedale Santo Spirito dove è giunto in
coma per poi essere intubato ed essere trasferito all’ospedale Spallanzani dove
è ancora in isolamento. La sorella: “Quanto accaduto a mio fratello dovrebbe far
riflettere tutti”
di Mauro Cifelli da Roma today
Lotta fra la vita e la morte in un letto del reparto di terapia intensiva
dell’ospedale Lazzaro Spallanzani dopo aver contratto una meningite neisseria
nel carcere di Regina Coeli dove è detenuto. Tiziano Paloni, romano di 40 anni,
ristretto nel carcere romano in attesa di giudizio, la mattina di lunedì 7
aprile è stato trasportato d’urgenza dalla casa circondariale di Trastevere
prima all’ospedale Santo Spirito dove è giunto in coma per poi essere intubato
ed essere trasferito all’ospedale Spallanzani dove è ancora in isolamento. A
lanciare un grido d’aiuto la mamma di Tiziano, Anna, che si trova all’istituto
delle malattie infettive romano in attesa di avere l’autorizzazione per poter
vedere il figlio, attraverso un vetro. Una situazione critica quella del 40enne:
“Preghiamo per un miracolo – le parole al nostro giornale della madre mentre
trattiene le lacrime -. È necessario rendere pubblico quanto successo a mio
figlio affinché non accada più una cosa del genere in un carcere”.
Meningite in carcere
Un grido d’aiuto, “di giustizia”, le parole della sorella Valentina Paloni che
racconta l’accaduto: “Siamo stati contattati dalla sorella di un detenuto di
Regina Coeli – spiega -. Che ci ha detto che Tiziano aveva avuto un malore
mentre si trovava in carcere e che lo avevano portato in ospedale al Santo
Spirito”. I familiari del 40enne provano a ottenere informazioni sino a quando
riescono a scoprire – anche mediante l’intervento del loro avvocato di famiglia
Fabio Harakati – che Tiziano si trovava allo Spallanzani. Preoccupata per le
sorti del fratello ma anche per le conseguenza che potrebbe avere su altri
detenuti: “Avendo contratto in carcere questa infezione potenzialmente letale,
mio fratello sta rischiando la vita e non vorrei che ciò capiti ad altri
detenuti che, seppur giudizialmente condannati o gravemente indiziati, meritano
ed hanno diritto a un trattamento sanitario efficiente che non abbia nulla da
invidiare rispetto a quello offerto a noi persone libere. Essere detenuti non
deve comportare alcun limite, specie se si tratta del diritto alla salute”.
Il caso di Tiziano Paloni
Una situazione critica quella di Tiziano Paloni, in fin di vita in un letto
d’ospedale: “Si dovrebbe indagare circa le condizioni igienico-sanitarie del
complesso carcerario. I detenuti non possono rimanere all’ombra. Casi come
quello di mio fratello dovrebbero far riflettere tutti – prosegue la sorella
Valentina -. Si tratta di una patologia altamente contagiosa che certamente
circola tra le mura del carcere. Vi chiedo di fare lumi sulla vicenda onde
scongiurare che questo terribile evento non si ripeta”.
L’avvocato della famiglia
A spiegare l’acccaduto anche l’avvocato di fiducia della famiglia Paloni, Fabio
Harakati: “Stiamo lavorando per fare luce sull’accaduto – le parole del legale
del Foro Romano -. Da quanto abbiamo saputo avrebbe chiesto di essere portato
nell’infermeria del carcere dopo aver accusato un mal di testa lancinante. Come
avvocato di famiglia ho avanzato richiesta al giudice – essendo detenuto – di
avere il diario clinico e la cartella clinica sia dell’infermeria di Regina
Coeli che dei due ospedali dove è stato trasportato. In questo momento di grande
preoccupazione per Tiziano, è molto prematuro accertare eventuali responsabilità
qualora ci fossero. Il pensiero della famiglia è adesso solo per lui”.
Profilassi a Regina Coeli
A confermare il caso di meningite la Asl Roma 1, competente per quanto riguarda
il presidio sanitario del carcere di Regina Coeli. Azienda Sanitaria che – una
volta accertato il caso – ha attuato il protocollo previsto sottoponendo a
profilassi detenuti, medici, infermieri, agenti penitenziari e personale della
casa circondariale, che ha dato esito negativo in relazione ad altri possibili
casi. Profliassi a cui sono stati sottoposti anche gli autisti delle ambulanze
che hanno trasportato Tiziano Paloni prima al Santo Spirito e poi allo
Spallanzani, anche loro negativi.
La Cedu condanna l’Italia per la detenzione in regime di 41bis di un detenuto
affetto da demenza. Penalisti contro la circolare punitiva per l’Alta sicurezza
e la censura ai detenuti redattori
di Eleonora Martini da il manifesto
Mentre arriva l’ennesima condanna all’Italia da parte della Corte europea dei
diritti umani, questa volta riguardo un detenuto affetto da demenza sottoposto
al 41 bis, e mentre scoppia la polemica su una circolare del Dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria che impone un giro di vite per i detenuti
dell’Alta Sicurezza, Carlo Nordio annuncia l’«imminente» sblocco dell’empasse
istituzionale che da quattro mesi congela al vertice della gestione
penitenziaria la facente funzione Lina Di Domenico, figura particolarmente
vicina ad Andrea Delmastro Delle Vedove. Rispondendo al question time in Senato,
il Guardasigilli ha puntualizzato però che «spetta al ministro proporre al
Consiglio dei ministri la nomina del capo del Dap, non certamente al
sottosegretario». Mentre sul sovraffollamento è riuscito ad affermare che non è
colpa della «bulimia legislativa» del governo «ma di chi commette reati e della
magistratura che li mette in prigione».
Nordio in ogni caso ha difeso la prima magistrata donna arrivata a capo del
Dipartimento di Largo Daga: «Ha fatto un lavoro che dimostra una sua attenzione
eccezionale», ha detto il ministro ricordando, tra le altre cose, «il gruppo di
lavoro multidisciplinare» da lei creato «per la prevenzione degli eventi
suicidari delle persone detenute». Che però non ha impedito il suicidio in
carcere e nelle Rems già di ben 28 detenuti dall’inizio dell’anno, mentre si
contano 88 decessi totali dietro le sbarre. Un numero che è «il segno più
eclatante del malessere che alberga negli istituti penitenziari», segnala
l’Unione delle camere penali che evidenzia come in questo contesto il Dap
consideri invece prioritario emanare «una circolare-manifesto» che impartisce
regole di vita più dure per i detenuti dell’Alta Sicurezza e una più «rigorosa
applicazione del regime di “custodia chiusa”».
Una circolare, insiste l’Ucpi, datata 27 febbraio ma «disponibile da poco
tempo», e giustificata da «non meglio precisate “relazioni di servizio”, anonime
“proteste” e “lamentele”» che segnalerebbero, secondo il Dap, «modalità
organizzative disallineate rispetto alle circolari in vigore» e non aderenti
«alle imprescindibili e primarie esigenze di sicurezza penitenziaria». Gli
avvocati penalisti si scagliano anche contro la «cortina di silenzio che il Dap
ha fatto scendere sulla situazione nelle carceri, al punto di vietare la
pubblicazione, in alcuni istituti, di giornali animati dai detenuti o di
silenziarne la voce, impedendo, in altri, che gli articoli di stampa sul carcere
vengano sottoscritti con il nome e cognome degli autori». Un problema, questo,
che è stato denunciato dal direttore del trimestrale Voci dentro Francesco Lo
Piccolo e dal coordinamento dei giornali delle carceri che riferiscono anche
l’«imposizione da parte del Dap di argomenti ammessi alla pubblicazione con la
precisa esclusione di altri temi ritenuti non idonei» e «la lettura preventiva
degli articoli o dell’intero giornale da parte delle direzioni».
In questo quadro inquietante cala la condanna emessa ieri dalla Cedu nei
confronti dell’Italia per aver continuato a tenere recluso in regime di 41 bis
un novantenne capo mafioso, Giuseppe Morabito, dal 2014 detenuto nel carcere
milanese di Opera, «nonostante il suo progressivo deterioramento cognitivo» e le
tante patologie di cui è affetto. Il Governo non ha convinto la Corte di
Strasburgo della necessità di applicare in questo specifico caso il regime
detentivo finalizzato a recidere ogni possibile contatto con gli altri membri
delle organizzazioni criminali di appartenenza. I giudici infatti, puntualizza
la sentenza firmata dalla presidente Ivana Jelic, non vedono «come una persona
affetta da un indiscusso declino cognitivo – e addirittura diagnosticata con il
morbo di Alzheimer – e incapace di comprendere la propria condotta o di seguire
un’udienza giudiziaria, possa allo stesso tempo conservare una capacità
sufficiente per mantenere o riprendere – in un’età così avanzata, dopo quasi
vent’anni trascorsi in un regime particolarmente restrittivo – contatti
significativi con un’organizzazione criminale».
La Cedu ha invece rigettato il ricorso presentato dall’avvocata Giovanna
Beatrice Araniti in difesa di Morabito riguardo l’incompatibilità dell’uomo con
la detenzione. Ma ha comunque stabilito che la constatazione della violazione
dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani – che proibisce di
sottoporre chiunque a trattamenti inumani e degradanti – «costituisce di per sé
un’equa soddisfazione, sufficiente per il danno morale subito» dall’anziano
detenuto. L’avvocata si augura che la sentenza di Strasburgo pesi ora sul
ricorso presentato da Morabito in Cassazione per ottenere la sospensione del
cosiddetto regime di “carcere duro” che subisce come fosse una pena aggiuntiva.
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Nel panorama della giustizia italiana, la vicenda del carcere di San Gimignano
rappresenta uno dei casi più gravi e simbolici di violenza istituzionale. Tutto
ha inizio l’11 ottobre 2018, quando un detenuto tunisino viene brutalmente
picchiato da un gruppo di agenti della Polizia Penitenziaria all’interno della
casa circondariale di San Gimignano, in provincia di Siena. Il pestaggio avviene
durante un trasferimento di cella forzato: il detenuto viene gettato a terra,
colpito con calci e pugni, e lasciato incosciente sul pavimento.
Le indagini successive portano alla luce un quadro inquietante, fatto di
violenze sistematiche, minacce e falsi verbali. Nel 2021 arriva una prima svolta
giudiziaria: dieci agenti vengono condannati per tortura e lesioni aggravate
dopo aver scelto il rito abbreviato. Le pene vanno dai 2 anni e 3 mesi ai 2 anni
e 8 mesi.
Nel 2023, altri cinque agenti affrontano il rito ordinario. La Corte li condanna
a pene più elevate – fino a 6 anni e 6 mesi – per tortura, falso e minaccia
aggravata. Un processo che fa storia: per la seconda volta in Italia, dopo il
caso di Ferrara, viene riconosciuto il reato di tortura in ambito carcerario.
Il 3 aprile 2025, la Corte di Appello di Firenze conferma le condanne agli
agenti che avevano scelto il rito abbreviato e riduce le pene per quelli
giudicati con il rito ordinario.
Di seguito il comunicato integrale dell’Associazione Yairaiha Onlus, parte
civile nel processo:
L’Associazione Yairaiha Onlus, da cui partì la denuncia e costituita parte
civile nel processo, accoglie con attenzione e determinazione la sentenza emessa
dalla Corte di Appello di Firenze in merito al caso di tortura avvenuto nel
carcere di San Gimignano nel 2018.
La conferma delle condanne ai 10 agenti della Polizia Penitenziaria che avevano
scelto il rito abbreviato e le riduzioni di pena per i 5 che hanno affrontato il
rito ordinario rappresentano un importante riconoscimento della gravità dei
fatti accaduti. Tuttavia, non possiamo dimenticare che questa sentenza, pur
storica, è solo la punta dell’iceberg di un sistema carcerario strutturalmente
violento e disumano.
Non si tratta di un caso isolato: già nel 2021 vi è stata la prima condanna in
Italia per tortura in carcere, a dimostrazione che il nostro sistema detentivo è
permeato da abusi sistematici e impunità. San Gimignano, come Ferrara e come
molte altre carceri italiane, dimostra che la repressione e la violenza
istituzionalizzata sono strumenti quotidiani di gestione della popolazione
detenuta.
Come associazione che da anni si batte per i diritti dei detenuti, denunciamo
l’ipocrisia di uno Stato che proclama il rispetto dei diritti umani ma permette
che le carceri si trasformino in luoghi di tortura. La tortura non è
un’eccezione, ma una pratica endemica che trova terreno fertile in un sistema
punitivo in cui il carcere non riabilita, ma annienta.
Rinnoviamo la nostra vicinanza a tutte le vittime di abusi e ribadiamo il nostro
impegno per un mondo senza carceri, in cui la giustizia non sia vendetta ma
reale possibilità di trasformazione sociale.
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