
Verso uno Stato di polizia
Osservatorio Repressione - Monday, April 7, 2025Il decreto legge sicurezza varato nei giorni scorsi dal Governo incide pesantemente sulle libertà, sui diritti, sulla convivenza producendo una sterzata del sistema verso uno Stato di polizia. Ciò avviene, in particolare, con la generalizzazione del governo repressivo della povertà, il consolidamento della repressione sistematica del conflitto sociale e del dissenso, l’ampliamento dei poteri e delle tutele attribuiti alla polizia e agli apparti.
di Livio Pepino da Volere la Luna
Venerdì 4 aprile il Consiglio dei ministri ha trasformato in decreto legge (destinato come tale a entrare in vigore immediatamente dopo l’emanazione da parte del Capo dello Stato e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale) il disegno di legge sicurezza approvato dalla Camera nel settembre scorso e fino a ieri in discussione al Senato. Mentre scrivo, la controfirma del presidente della Repubblica (prevista dall’art. 87 della Costituzione) non è ancora intervenuta ma, stando alle unanime indiscrezioni, è questione di ore, essendo stata l’operazione concordata, a seguito dell’accoglimento da parte del Governo di alcune osservazioni presidenziali (accoglimento che ha dato luogo, peraltro, a un semplice maquillage che incide in misura limitatissima su alcuni punti, in particolare regolamentando in modo diverso ma non escludendo la possibilità di incarcerazione di donne incinte o con prole inferiore all’anno e il divieto di vendita di schede telefoniche a migranti irregolari).
Il carattere eversivo di questa operazione nel sistema di governo è macroscopico: perché mancano i requisiti di necessità ed urgenza richiesti dall’art. 77 della Costituzione, perché si tratta di un provvedimento sottratto a una discussione parlamentare in stato ormai avanzato, perché incide su una materia sensibile come la libertà personale e molto altro ancora. Ma persino più rilevanti sono le ferite inferte al sistema delle libertà, dei diritti, della convivenza, che producono un ulteriore passo verso uno Stato di polizia. Già lo abbiamo denunciato su queste pagine con riferimento all’originario disegno di legge. Ma oggi, quando il progetto si è trasformato in realtà, conviene ribadire alcuni punti fondamentali. Non senza premettere, da un lato, che il decreto si inserisce in un progetto complessivo di riforma autoritaria dello Stato, comprensivo del premierato elettivo, dell’autonomia regionale differenziata e della ridefinizione dei rapporti tra giustizia e politica, e, dall’altro, che esso tiene insieme (e regolamenta) settori eterogenei ma concorrenti, riassumibili nella generalizzazione del governo repressivo della povertà, nel consolidamento della repressione sistematica del conflitto sociale e del dissenso, nell’ampliamento dei poteri e delle tutele attribuiti alla polizia e agli apparti.
Il primo elemento che merita sottolineare è il potenziamento del ruolo del carcere nel governo della società. Il carcere scoppia: il 31 marzo i detenuti hanno raggiunto il numero di 62.281 consolidando il superamento, dopo 13 anni, della soglia delle 62.000 presenze; secondo il Garante delle persone private della libertà personale, i suicidi di persone detenute nei primi mesi dell’anno sono 22 (dopo aver raggiunto lo scorso anno il record di 83, secondo i dati del ministero, verosimilmente errati per difetto almeno di 7 unità); gli atti di autolesionismo non si contano; l’ordine nei luoghi di detenzione è assicurato solo da una violenza diffusa e dall’uso generalizzato di psicofarmaci. La risposta del decreto legge è la previsione di 14 nuovi reati e di altrettanti aumenti di pena, in continuità con una scelta che ha portato, negli ultimi due anni, all’introduzione di 48 nuovi reati. Ciò comporterà un maggior numero di condanne e pene più elevate e, dunque, più carcere. Il fatto sollecita due considerazioni aggiuntive. Primo: l’aumento del carcere non è la conseguenza di una crescita dei reati ma una scelta politica, come dimostra la circostanza che il tetto della criminalità, nel nostro paese, è stato raggiunto nel 1991, quando i detenuti erano circa 35.000 (35.469 al 31 dicembre) e, dunque, la metà (o poco più) di quelli odierni. Secondo: il modello di riferimento è quello degli Stati Uniti dove il diritto penale classico (che commisura la pena in base all’entità del reato) è stato sostituito da un diritto che punisce le persone non per quello che hanno fatto ma per quello che sono, sino all’assurdo di punire con il carcere a vita, in caso di recidiva, il furto di tre mazze da golf, di una pizza o di una merendina, con la conseguenza che i condannati all’ergastolo presenti nelle carceri statunitensi sono, oggi, oltre 200.000, pari a uno ogni 1.500 abitanti.
Un secondo elemento che caratterizza il provvedimento governativo è l’opzione, anche qui seguendo il modello degli Stati Uniti, di “punire i poveri”. Lo dimostra l’introduzione nel codice penale di una norma (l’articolo 634 bis) in forza della quale «chiunque, mediante violenza o minaccia, occupa o detiene senza titolo un immobile destinato a domicilio altrui o sue pertinenze […] è punito con la reclusione da due a sette anni», cioè esattamente la pena prevista per l’omicidio colposo commesso con violazione delle norme antinfortunistiche. Già ora – superfluo dirlo – l’occupazione di edifici destinati ad abitazione è un reato, punito con la reclusione fino a due anni e con una multa. Per questo la norma, ancor più che un presidio a tutela della proprietà, si pone come simbolo della risposta istituzionale all’emergenza abitativa (100mila sentenze di sfratto esecutive, 40mila sfratti ogni anno, 50.00 case popolari occupate). Non potrebbe esserci dimostrazione più plastica, anche in termini simbolici, del passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale e del governo repressivo della povertà.
Alla punizione dei poveri si affianca quella di chi dissente in modo radicale. Manifestare (già oggi spesso ostacolato con motivazioni pretestuose da troppo zelanti questori) diventerà sempre più un rischio. Il ripristino del reato di blocco stradale «realizzato con la mera interposizione del corpo» e la sua punizione con la reclusione da sei mesi a due anni «quando il fatto è commesso da più persone riunite» (cioè sempre, considerato che un blocco stradale fatto da una sola persona è poco più che un’ipotesi di scuola…) incidono direttamente e immediatamente sulla possibilità di manifestare. Saranno, infatti, criminalizzati e puniti finanche i dimostranti pacifici che stazionano in modo continuativo e in gruppo in una strada prospiciente i cancelli di una fabbrica (dove è in corso uno sciopero) o l’ingresso di una scuola occupata. La norma è esemplare in sé ma anche perché rappresenta l’esito di un percorso di anacronistica restaurazione. Il blocco stradale infatti, già previsto da un decreto legislativo del 1948, è stato depenalizzato nel 1999. Quasi vent’anni dopo, con il decreto legge n. 113/2018 (primo decreto Salvini), è iniziato il percorso a ritroso: il blocco stradale è ridiventato reato ma, per mitigare l’asprezza della disposizione, si è previsto il carattere amministrativo dell’illecito nel caso di ostruzione stradale realizzata solo con il corpo. Con l’attuale decreto si completa il ritorno alla penalizzazione piena, realizzando un attacco diretto al diritto di manifestare in quanto tale.
C’è poi, nel decreto legge, un ampio gruppo di norme che, con piccole differenze terminologiche, connotano le manifestazioni come eventi borderline, prevedendo specifiche aggravanti per i reati di danneggiamento, resistenza o violenza a pubblico ufficiale e lesioni se commessi nel corso delle stesse. In tutti questi casi le pene sono sensibilmente aumentate consumando una sorta di passaggio dalle leggi ad personam alle leggi ad movimentum. Questa previsione – merita sottolinearlo – ribalta la stessa impostazione del codice Rocco, il cui articolo 62 n. 3 prevedeva (e prevede, non essendo mai stato abrogato) come attenuante per qualunque tipo di reato «l’avere agito per suggestione di una folla in tumulto», pur con il limite che «non si tratti di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall’autorità»: il legislatore repubblicano, nonostante la Costituzione, si mostra meno rispettoso del diritto di manifestare del suo predecessore in camicia nera. Non solo ma per la prima volta nel nostro sistema viene esplicitamente considerata illecita la resistenza passiva. Lo prevede il nuovo articolo 415 bis del codice penale, che introduce il delitto di rivolta in carcere (sanzionato, per chi si limita a parteciparvi, con la reclusione da uno a cinque anni), con la precisazione che «costituiscono atti di resistenza» rilevanti ai fini dell’integrazione del reato «anche le condotte di resistenza passiva che impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza». La previsione del delitto di resistenza passiva con riferimento a una categoria di soggetti (i detenuti) considerati devianti e marginali, oltre ad essere grave in sé (proprio perché riferita a persone in condizioni di particolare fragilità), introduce nel sistema un precedente dotato di evidente capacità espansiva, che potrebbe ripetere la (triste) esperienza del Daspo, introdotto nell’ormai lontano 1989 per i tifosi violenti e diventato negli anni uno strumento ordinario di governo del territorio. Non è una illazione: già accade nello stesso disegno di legge che estende la disciplina e le pene previste per la rivolta, con una lieve riduzione, ai fatti commessi in tutti i luoghi di accoglienza per migranti (e, dunque, non solo i Cpr, ma anche, addirittura, i Cara e gli hotspot).
Parallelamente viene pesantemente limitata anche la possibilità di azione dei movimenti attivi nei settori più sensibili del conflitto sociale. È il caso, della norma che estende il delitto di occupazione di immobili destinati a domicilio altrui a chi, «fuori dei casi di concorso nel reato, si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile» e a quella che prevede un aggravamento della pena per il delitto di “istigazione a disobbedire alle leggi” «se il fatto è commesso a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute». L’attacco ai movimenti per la casa e a quelli di sostegno alle persone detenute non potrebbe essere più diretto ed esplicito.
In ultimo, ma – come si usa dire – non per ultimo, il decreto legge imprime una netta curvatura autoritaria al rapporto tra polizia e cittadini, così chiudendo il tormentato tentativo di democratizzarlo, perseguito, nel tempo, con la previsione di non punibilità della reazione all’atto arbitrario del pubblico ufficiale, la dichiarazione di incostituzionalità della necessaria autorizzazione del ministro per procedere nei confronti di operatori della polizia per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, la sindacalizzazione e smilitarizzazione del corpo, l’abrogazione del delitto di oltraggio e via elencando. Questo percorso, subisce, ora, una drastica inversione che ripristina una situazione simile a quella degli anni Cinquanta (un’epoca in cui – è bene ricordarlo – le politiche di ordine pubblico lasciarono sulle strade e nelle piazze del Paese oltre 100 morti). Ciò avviene grazie a disposizioni che prevedono tra l’altro, per gli operatori di polizia, la già ricordata tutela privilegiata nel corso di manifestazioni; una particolare assistenza sul piano legale consistente nella possibilità, ignota per gli altri pubblici ufficiali, di fruire, se indagati o imputati per fatti inerenti al servizio, dell’anticipazione da parte dello Stato di una somma di 10.000 euro per ogni fase del giudizio per spese di difesa (con possibilità di rivalsa nel solo caso di responsabilità a titolo di dolo giudizialmente accertata); l’autorizzazione a portare, senza licenza, un’arma diversa da quella di ordinanza quando non sono in servizio; una maggior libertà di azione simboleggiata dalla possibilità, nei confronti di associazioni terroristiche (ma con evidente potenzialità espansiva), non solo a mezzo di “infiltrati” ma anche mediante “agenti provocatori” e dalla dotazione, per i servizi di ordine pubblico (e non solo), di dispositivi di videosorveglianza idonei a registrare l’attività operativa e il suo svolgimento.
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