Turchia, quando il potere infierisce anche sui familiari delle vittime

Osservatorio Repressione - Thursday, April 10, 2025

Nel 2014, dopo 269 giorni di coma, moriva l’adolescente Berkin Elvan colpito alla testa da un lacrimogeno. Ora, dopo 11 anni, i suoi genitori vengono condannati al carcere per aver offeso Erdogan

di Gianni Sartori

Risale all’11 marzo 2014 l’epilogo della tragica vicenda – un autentico calvario – del quindicenne Berkin Elvan.

Quando morì dopo 269 giorni di coma e al suo funerale, nel quartiere di Okmeydani (Istanbul), parteciparono oltre diecimila persone.

Il 16 giugno 2013, ancora quattordicenne, era uscito da casa per andare a comprare il pane mentre in città migliaia di manifestanti protestavano in difesa degli alberi di Gezi Park. Nei pressi di piazza Taksim viene colpito alla testa da un lacrimogeno sparato da una camionetta della polizia e resta a terra. Nonostante fossero stati chiamati immediatamente dai presenti, i soccorsi arrivarono con colpevole ritardo.

Giunto all’ospedale in condizioni disperate, da allora non uscirà più dal coma. Immediata la dichiarazione del presidente Erdogan che di fatto rivendicava: “Sì, sono stato io a dare l’ordine alla polizia di reprimere le manifestazioni”. Un’affermazione che aggiungeva ancora dolore (e indignazione) a quello già provato dai genitori.

Iniziano le proteste e l’11 luglio 2013 centinaia di persone assediano simbolicamente la caserma dei poliziotti che quel giorno occupavano il quartiere. Ovviamente anche questa iniziativa viene repressa duramente.

Diventati, loro malgrado, il simbolo della violenza del potere in Turchia, la madre e il padre rischiano di subirne un’altra. Quella dei medici che vorrebbero dimettere il ragazzo (per togliere la vicenda dai riflettori, dato che fuori dall’ospedale stazionano in permanenza i giornalisti) proseguendo la terapia intensiva a casa.

Ma almeno questa ulteriore infamia viene impedita dalla mobilitazione dei cittadini.

Intanto il corpo Berkin si va letteralmente consumando, arrivando a pesare solo venti chili.

Continuano comunque le manifestazioni e il presidio fuori dall’ospedale. Il 5 gennaio 2014il comune di Smirne gli dedica un parco giochi.

Il 24 gennaio 2014 si arriva al processo, ma i poliziotti portati sul banco degli imputati risultano non in servizio per quel giorno (evidentemente chi di dovere – presumibilmente il ministero – aveva fornito nomi falsi al tribunale). Aggiornato al 30 gennaio 2014, il processo degenera in farsa con i nuovi poliziotti incriminati che dichiarano di non ricordarsi di nulla e comunque di non aver sparato lacrimogeni.

Con la morte di Berkin la gente torna in strada: da Istanbul a Smirne, da Eskişehir a Dersim, da Antalya a Kayseri, da Ankara a Kocaeli…

Intervistata da una televisione, la mamma accusa pubblicamente: non è stato Allah a portare via mio figlio, è stato Recep Tayyip Erdogan”.

Ma evidentemente aver privato i due genitori dell’unico figlio non bastava. Oggi arriva la notizia che entrambi sono stati condannati al carcere per “insulti al presidente Erdogan”.

Questo il cinico verdetto del processo intentato contro Gülsüm Elvan (la mamma di Berkin Elvan) e Sami Elvan (il padre).

Condannati rispettivamente a 11 mesi e venti giorni e un anno e due mesi.

Per il padre, la sua vita è “definitivamente cambiata 11 anni fa, il mio bambino mi manca ogni giorno. Non ho altri figli, lascio decidere alla vostra coscienza”.

Mentre la madre uscendo dal tribunale ha semplicemente detto che “io sono là fuori, mandate pure la vostra polizia a mettermi la manette, vi aspetto”.

Mi sono tornate in mente altre madri coraggio che ho conosciuto: Peggy O’hara, mamma del militante dell’INLA Patsy O’ Hara, morto im sciopero della fame nel 1981) e Haidi Giuliani, la mamma di Carlo (ucciso a Genova nel 2001).

Casualmente, o forse no, a chi aveva domandato a entrambe (in situazioni diverse ovviamente) se non avessero paura di continuare a lottare, denunciare, protestare…avevano dato la stessa risposta: “E di che cosa? Cos’altro potrebbero farmi ancora?”.

Appunto.

 

 

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