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Nel Regno Unito difendere la resistenza palestinese è diventato un crimine
Nel Regno Unito per via Terrorism Act, è diventato un crimine parlare favorevolmente della “resistenza palestinese”: farlo costituisce infatti la cosiddetta apologia del terrorismo. di Patrick Boylan da pressenza Oggi, in quella rinomata cittadella della libertà di espressione e della libertà di stampa che è stato il Regno Unito, se professi il tuo sostegno alla resistenza palestinese puoi essere arrestato e incarcerato, il tuo cellulare e il tuo PC possono essere confiscati e la tua casa devastata dalla polizia in assetto d’assalto; puoi addirittura perdere il tuo posto di lavoro ed essere espulso dal Paese. Non era così in passato.  Persino Karl Marx, benché strettamente sorvegliato dalla polizia, godette pienamente della libertà di espressione e di stampa mentre risiedeva a Londra dal 1849 fino alla sua morte nel 1883. Non solo poté far stampare il suo Manifesto del Partito Comunista (che invocava una rivolta armata), ma fu anche libero di distribuire il suo controverso saggio Sulla questione ebraica – un testo che, pur rispettando l’ebraismo etnico, fustiga duramente l’ebraismo economico, o “sionismo” come diremmo oggi. Bei tempi passati.  Oggi nel Regno Unito criticare il sionismo o proclamare sostegno alla rivolta armata palestinese viene accolto con una feroce repressione.  Prendiamo il caso dei giornalisti pro-pal. La lunga mano della lobby sionista e l’intimidazione dei giornalisti Cosa s’intende per “lobby sionista”? Il “sionismo”, originariamente un movimento identitario e nazionalistico che rivendicava una patria per gli ebrei, oggi si è trasformato in “imperialismo fideistico”, cioè nella difesa del “diritto divino” di Israele ad occupare non solo le terre originariamente sottratte ai palestinesi, ma anche altri territori limitrofi, che si estendono fino al fiume Giordano e addirittura all’Eufrate.  Chiunque abbia questa convinzione è un “sionista”, ebreo o non ebreo che sia.  Ad esempio, i cristiani sionisti evangelici negli Stati Uniti desiderano una “Grande Israele” come presagio del ritorno di Cristo. Pertanto, il termine “lobby sionista” indica oggi una rete di sionisti, in uno o più Paesi, che cercano di favorire l’espansione territoriale di uno Stato ebraico integralista. Un ultimo punto: l’antisionismo (la posizione etico-politica – perfettamente legittima – che condanna l’espansionismo israeliano a scapito di altri popoli) non deve essere confuso con l’antisemitismo (l’ostilità vile e razzista verso gli ebrei come gruppo etnico). Cercare di equiparare le due cose è semplicemente un tentativo disonesto di screditare le critiche all’imperialismo fideistico israeliano. Il 16 ottobre 2023, il giornalista britannico Craig Murray, attivista filo-palestinese ed ex diplomatico del Regno Unito, è stato arrestato dalla polizia antiterrorismo all’aeroporto di Glasgow, di ritorno da un incontro con lo staff di WikiLeaks in Islanda.  Gli sono stati sequestrati il PC e il cellulare e ha dovuto subire un interrogatorio di un’ora – e riguardante non solo i suoi legami con WikiLeaks. Infatti, la polizia – forse informata dalla lobby sionista del Regno Unito, che tiene d’occhio ogni spostamento di attivisti come Murray – era ben consapevole che il giornalista aveva partecipato a una manifestazione pro-palestinese mentre si trovava in Islanda e gli agenti volevano sapere cosa fosse stato detto in quell’occasione. “Non ne ho idea, non parlo islandese, ho semplicemente partecipato alla manifestazione per solidarietà”, ha risposto Murray, con grande disappunto degli agenti, che alla fine hanno dovuto rilasciarlo – senza i suoi dispositivi elettronici, però. Il 15 agosto 2024, la polizia ha arrestato il giornalista filopalestinese Richard Medhurst al suo arrivo all’aeroporto londinese di Heathrow, apparentemente a causa dei suoi servizi a favore della resistenza palestinese, considerati “apologia (sostegno) del terrorismo”.  Gettato in cella per 15 ore, Medhurst ha dovuto dormire – semisvestito – su un freddo blocco di cemento. Alla fine il giornalista è stato rilasciato, ma con l’obbligo di presentarsi a una stazione di polizia tre mesi dopo e con l’avvertimento di fare attenzione, nel frattempo, a ciò che avrebbe scritto. Due settimane dopo, il 29 agosto 2024, all’alba, la polizia in tenuta antisommossa ha fatto irruzione nella casa della giornalista e attivista filopalestinese Sarah Wilkinson, mettendo a soqquadro ogni stanza e confiscando il suo passaporto e i suoi dispositivi elettronici.  Con irriverente crudeltà, gli agenti hanno persino sparso sul pavimento e calpestato le ceneri della madre, che Sarah conservava in un’urna sigillata su una mensola.  Messa agli arresti domiciliari per sospetto sostegno al terrorismo, la 61enne non ha potuto nemmeno andare in farmacia a comprare le medicine di cui aveva bisogno. Essendole stato sottratto il suo telefono cellulare e non potendo uscire di casa, non ha potuto nemmeno chiedere ai vicini di farlo per lei. Ora rischia un massimo di 14 anni di carcere. Il suo crimine?  Gli articoli che ha scritto a favore della resistenza palestinese. “Vogliono instillare la paura”, ha detto, “per farmi smettere di denunciare il genocidio a Gaza; ma non ci riusciranno”. Poi, il 17 ottobre 2024, all’alba, la polizia antiterrorismo ha fatto irruzione nella casa del noto giornalista Asa Winstanley, vice caporedattore di Electronic Intifada. Il suo telefono cellulare, il suo PC e altri dispositivi elettronici sono stati confiscati e, durante la perquisizione, il giornalista è stato continuamente intimidito.  Anche in questo caso, il suo “reato” sarebbero i suoi scritti a favore della resistenza palestinese, scritti che qualcuno evidentemente ha denunciato alla polizia come apologia del terrorismo.  Ed è facile immaginare chi poteva essere quella persona e quale potente lobby l’avesse incoraggiata a setacciare ogni parola degli articoli di Winstanley per trovare affermazioni che potessero farlo arrestare. Questi e altri esempi di azioni repressive contro giornalisti ed attivisti filo-palestinesi nel Regno Unito sono stati denunciati in un rapporto che non lascia scampo, redatto dalle Nazioni Unite e reso pubblico una settimana fa (5/2/2025).  Il rapporto era stato inviato in via confidenziale al Primo Ministro Starmer lo scorso 4 dicembre, con la richiesta di un riscontro entro 60 giorni; trascorso tale periodo senza alcuna risposta da parte di Starmer, gli autori del rapporto – quattro Relatori Speciali delle Nazioni Unite – hanno ora scelto di rivelarne il contenuto.  “Le disposizioni del Terrorism Act 2000, del Terrorism Act 2006 e dell’Anti-Terrorism and Border Security Act 2019,” scrivono i quattro Relatori, “sembrano essere state utilizzate per indagare, detenere, raccogliere dati e perseguire attivisti politici e giornalisti, sollevando preoccupazioni per le potenziali violazioni dei loro diritti fondamentali”. La strumentalizzazione delle leggi contro il terrorismo Infatti, gli abusi sopra descritti – ed altri ancora, che il rapporto ONU elenca – sono stati resi possibili da una legge antiterrorismo draconiana che risale al 2000, il Terrorism Act. In particolare, la sezione 12 criminalizza qualsiasi tipo di sostegno fornito a un’organizzazione proibita e qualsiasi espressione pubblica di simpatia per tale organizzazione. La legge elenca, poi, le organizzazioni proibite che non possono essere aiutate e di cui non si può nemmeno parlare in modo favorevole.  La maggior parte sono veri e propri gruppi terroristici, come al-Qaida e ISIS (nei Paesi musulmani), Boko Haram (in Nigeria), al Shabaab (in Somalia) e le Tigri Tamil (in Sri Lanka). Ma nel 2019 e poi nel 2021, su pressione della potente lobby sionista nel Regno Unito, l’elenco delle organizzazioni proibite è stato ampliato per includere i due gruppi armati che si oppongono all’occupazione israeliana delle loro terre.  Uno di essi è Hezbollah, la resistenza armata creata nel 1982 per respingere l’esercito israeliano che aveva invaso e stava occupando il Libano.  L’altro è Hamas, la resistenza armata creata nel 1987 per cacciare l’esercito israeliano che occupava Gaza. Vale la pena notare che né l’uno né l’altro di questi due gruppi era attivo o esisteva prima dell’invasione e dell’occupazione israeliana delle loro terre.  Inoltre, nessuno dei due ha mai cercato di occupare e di dominare territori israeliani.  Entrambi sono semplicemente forze difensive che cercano di scacciare le truppe straniere, segnatamente l’IDF, che occupano la loro terra.  In questo senso, possono essere paragonati ai partigiani cinesi, guidati da Mao Tse-Tung, che cacciarono gli occupanti giapponesi e fondarono la Repubblica Popolare Cinese. Alla luce di tutto ciò, è palesemente pretestuoso designare Hezbollah e Hamas come organizzazioni “terroristiche”, soprattutto dal momento che la 20a Assemblea Generale delle Nazioni Unite (1965) ha legittimato “la lotta [armata] dei popoli sotto il dominio coloniale… per l’autodeterminazione e l’indipendenza”.  Naturalmente, la lotta per cacciare una forza straniera occupante non autorizza i resistenti a commettere crimini di guerra o crimini contro l’umanità; se ne commettono, devono risponderne davanti ad un tribunale.  Molte delle atrocità attribuite a Hamas il 7 ottobre 2024 (come la mai verificata “decapitazione di bambini”) si sono rivelate solo propaganda israeliana, ma altre, invece, sono documentate e andrebbero sanzionate, a partire dalla stessa presa di ostaggi, che è un crimine di guerra. Dunque, Hamas – come lo stesso Hezbollah – rimangono forze di resistenza (armata), malgrado i delitti eventualmente commessi.  Chiamarli “gruppi terroristici” facendoli inserire in qualche lista nera come la Sezione 12 del Terrorism Act britannico è solo uno stratagemma per demonizzarli e per impedire che se ne parli.  E’ una vecchia tattica: durante la Resistenza in Italia, i nazisti chiamavano i partigiani italiani “banditi”, così come, durante la Resistenza in Cina, i giapponesi chiamavano i partigiani cinesi “diavoli” – in entrambi i casi, per alienare loro il consenso e la simpatia della popolazione. “Terrorista” è il termine demonizzante usato oggi da Israele per screditare le forze che si oppongono con le armi al suo espansionismo. Conclusione Per via della Sezione 12 del Terrorism Act, nel Regno Unito è diventato un crimine parlare favorevolmente di Hezbollah o di Hamas o anche semplicemente della “resistenza palestinese”: farlo costituisce infatti la cosiddetta apologia del terrorismo. Da qui gli arresti, le perquisizioni e le intimidazioni nei confronti di quei giornalisti e attivisti britannici che hanno osato sostenere il diritto dei palestinesi a liberare la propria terra, anche tramite la lotta armata (purché venga condotta secondo il diritto bellico e le relative convenzioni internazionali). Ma la legge sul terrorismo, così come è stata scritta, è estremamente ampia e vaga – a tal punto che la polizia non potrebbe mai essere in grado di verificare tutte le possibili violazioni dell’articolo 12; per farlo, sarebbe loro necessario leggere tutti gli scritti di tutti i giornalisti e attivisti del Regno Unito e soppesare le sfumature di tutte le parole che usano: un compito immane, anche con l’aiuto dell’AI. Chiaramente, dunque, l’ondata di repressione dei giornalisti e degli attivisti filopalestinesi attualmente in corso nel Regno Unito, presuppone l’esistenza di una rete di “informatori” di base, in grado di fornire alla polizia le segnalazioni di cui ha bisogno.  Si tratta, molto probabilmente, di una rete di comuni cittadini britannici – ma con spiccate simpatie sioniste – alla quale è stato chiesto di tenere d’occhio determinati giornalisti e attivisti filopalestinesi e di fare una segnalazione quando essi dicono o scrivono qualcosa che possa passare per “apologia del terrorismo”, secondo la vaga definizione della Sezione 12.  Poi, chi ha reclutato questi informatori – si tratta molto probabilmente di sionisti altolocati o comunque influenti – può usare queste segnalazioni per indurre la polizia ad emettere mandati di perquisizione allo scopo di accertare i fatti. Questo stratagemma ha un duplice scopo: serve ad intimidire i giornalisti o gli attivisti in questione e, allo stesso tempo, consente alla polizia di accedere ai contatti privati sui loro rispettivi cellulari e a tutti i documenti riservati presenti nei loro computer e nelle loro apparecchiature elettroniche.  Così facendo, ecco che essi risultano totalmente spiati.  Non solo, ma anche il nome di ciascun loro contatto entrerà in una data base e, quindi, anche quella persona diventerà “schedata”. Si tratta solo di una pura congettura?  Forse no. Un indizio dell’esistenza di una cinica operazione di questo tipo è, come sottolinea Craig Murray, la totale assenza di interventi della polizia nei casi in cui un giornalista o una personalità di spicco esprime sostegno – come ormai fanno in tanti – all’organizzazione terroristica l’HTS (Hay’at Tahrir al-Sham) in Siria.  Infatti, l’HTS, benché ufficialmente proscritto, viene ora corteggiato dall’Occidente, con il risultato che la legge sul terrorismo sembra non esistere più nei suoi confronti. La prova è che nessuno, dal Primo Ministro in giù, è mai stato arrestato o perquisito per aver espresso simpatie per questa organizzazione terroristica. Tutto lascia pensare, quindi, che la polizia sia stata indotta a scovare e ad arrestare, ai sensi della Sezione 12, solo quegli individui che esprimono simpatie per la resistenza palestinese.  Indotta da chi? Verosimilmente dalla lobby sionista che, oltre ad avere i motivi e i mezzi, è in grado di offrire alla polizia una fitta rete di informatori. C’è una via d’uscita a tutto questo?  Sì. Gli attivisti britannici potrebbero intentare una causa chiedendo all’Alta Corte di stabilire che, sebbene Hezbollah e Hamas siano effettivamente forze di resistenza armata, non sono da considerarsi “terroristi”. Non dovrebbero quindi figurare nel Terrorism Act e non dovrebbe essere un crimine appoggiarli. Esiste un precedente per una sentenza di questo tipo: la Corte d’Appello del Regno Unito è stata recentemente in grado di bloccare il trasferimento di migranti dal Regno Unito al Ruanda, annullando l’inclusione di quel Paese, promossa dal governo, tra i luoghi “sicuri” per la deportazione.  Allo stesso modo, la Corte potrebbe ora annullare l’inclusione di Hezbollah e di Hamas nell’elenco dei gruppi terroristici di cui al Terrorism Act. Questo servirebbe a porre fine all’attuale repressione dell’attivismo filopalestinese, repressione che non fa altro che offuscare la reputazione del Regno Unito. Anzi, la fine della persecuzione di giornalisti e di attivisti filopalestinesi rafforzerebbe le libertà fondamentali di espressione e di stampa nel Regno Unito. Le isole britanniche tornerebbero a essere viste come la cittadella di queste libertà nel mondo. ————– NOTA 1: Quest’articolo è apparso, in forma ridotta, sul mensile de L’Indipendente di febbraio 2025 (1:1, pp. 44-45) con il titolo  UK: vietato difendere la resistenza palestinese. Quest’articolo è disponibile anche in: Inglese
February 19, 2025 / Osservatorio Repressione
Dopo 50 anni di ingiusta detenzione, Leonard Peltier esce dal carcere
Dopo quasi 50 anni di ingiusta detenzione, Leonard Peltier esce dal carcere. Potrà trascorrere gli ultimi anni di vita agli arresti domiciliari nella sua terra natia, il Turtle Mountain Indian Reservation (Mikinaakwajiwing), in North Dakota. Nel 1975 era stato condannato per l’omicidio di due agenti dell’FBI, al termine però di un processo farsa, come riconosciuto negli anni successivi dalle stesse persone che parteciparono a quella montatura. In quell’occasione morì un membro dell’American Indian Movement, AIM, un gruppo che combatteva la discriminazione e la brutalità della polizia contro le comunità dei nativi americani. Dopo una vasta caccia all’uomo, vennero fermati tre membri dell’AIM, Dino Butler, Bob Robideau assolti poi per legittima difesa e Leonard Peltier, che invece fu estradato dal Canada con prove artefatte per poi essere processato nel 1977, in una sequela giudiziaria segnata da manipolazioni e intimidazioni. Nonostante l’assenza di prove reali, Leonard Peltier ha passato gran parte della sua vita in carcere: entrato all’età di 30 anni, esce dalla prigione da 80enne. A gennaio 2025 infatti, pochi istanti dalla fine del proprio mandato alla Casa Bianca, l’ex presidente Joe Biden ha commutato la sua condanna dall’ergastolo ai domiciliari. L’intervista a Radio Onda d’Urto di  Andrea de Lotto, del Comitato Free Leonard Peltier. Ascolta o scarica.       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
February 19, 2025 / Osservatorio Repressione
“Umiliante e doloroso”: testimonianze dalle evacuazioni di massa in Cisgiordania
L’evacuazione forzosa di oltre 40.000 persone nella Cisgiordania settentrionale sta riproponendo scene viste a Gaza di Qassam Muaddi – Mondoweiss (traduzione dall’inglese di Luciana Galliano per Zeitun.info) da Pagine Esteri Israele ha esteso la sua offensiva nella Cisgiordania settentrionale dal campo profughi di Jenin ai campi profughi di Nur Shams a Tulkarem e di al-Far’a a Tubas. Denominato “Operazione Muro di Ferro”, secondo una dichiarazione dell’UNRWA di lunedì, l’attacco israeliano è in corso da tre settimane, ha ucciso almeno 25 palestinesi ferendone oltre 100 e costringendo 40.000 persone a lasciare le loro case. “Lo sfollamento forzato delle comunità palestinesi nella Cisgiordania settentrionale sta aumentando a un ritmo allarmante”, ha affermato l’UNRWA. “L’uso di attacchi aerei, bulldozer blindati, esplosioni controllate e armi avanzate da parte delle forze israeliane è diventato una cosa normale, una ricaduta della guerra a Gaza”. La settimana scorsa le forze israeliane hanno fatto esplodere 20 edifici residenziali nel campo profughi di Jenin, una delle più grandi demolizioni in Cisgiordania degli ultimi anni. I residenti locali e le fonti dei media hanno paragonato l’effetto della distruzione alla strategia della “cintura di fuoco” impiegata a Gaza da Israele, che prevede il bombardamento concentrato e ripetuto di piccole aree che distrugge interi isolati residenziali. L’offensiva di Israele in Cisgiordania è in corso da metà gennaio, di fatto l’invasione militare più lunga e di più ampia portata dalla Seconda Intifada. Il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha affermato che l’offensiva si estenderà al resto della Cisgiordania con le invocazioni dei politici israeliani di estrema destra di trasferire la guerra da Gaza alla Cisgiordania prima di annetterla ufficialmente. Si prevede che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump farà presto un annuncio sulla possibilità che gli Stati Uniti sostengano una simile mossa. campo profughi di Jenin – foto di Pagine Esteri “È stato umiliante e doloroso” Come conseguenza i palestinesi della Cisgiordania hanno visto le loro vite paralizzate e sconvolte dalla repressione israeliana. Le chiusure e i blocchi stradali israeliani sono diventati una pratica quotidiana, rendendo gli spostamenti tra città e paesi carichi di incertezze per centinaia di migliaia di palestinesi. Questi fatti hanno trasformato la Cisgiordania in una zona di guerra, soprattutto nei campi profughi. “Prima di essere costretti a lasciare la nostra casa con mio marito e i miei figli abbiamo trascorso due giorni senza acqua, poiché le forze di occupazione hanno tagliato l’acqua all’intero campo”, ha detto  Nehaya al-Jundi, residente del campo profughi di Nur Shams e direttrice del locale Centro di Riabilitazione per Disabili. “I soldati dell’occupazione andavano di casa in casa e costringevano la gente ad andarsene, mentre io e la mia famiglia abbiamo aspettato due giorni che arrivasse il nostro turno”, ha continuato al-Jundi. “La mia vicina, Sundos Shalabi, incinta all’ottavo mese, ha deciso con suo marito di andarsene domenica per paura di dover partorire durante l’assedio del campo”. La straziante tragedia di Sundos Shalabi ha fatto notizia all’inizio di questa settimana. “Suo marito stava guidando sulla strada verso la città di Bal’a, appena fuori dal campo profughi, quando i soldati dell’occupazione hanno aperto il fuoco contro l’auto”, ha raccontato al-Jundi. “Lui è stato ferito e ha perso il controllo, quindi l’auto si è ribaltata e Sundos e il suo bambino non ancora nato sono rimasti entrambi uccisi. Suo marito è ancora in terapia intensiva nell’ospedale di Tulkarem”. “Lunedì i soldati hanno demolito il muro esterno della mia casa, poi con gli altoparlanti hanno invitato tutti i residenti del quartiere ad andarsene”, ha continuato al-Jundi. “Ho preso un po’ di cose necessarie e qualche cambio di vestiti, poi abbiamo chiuso a chiave le porte di casa e ci siamo uniti agli altri residenti in strada, mentre i soldati dell’occupazione separavano gli uomini dalle donne”. “Ci hanno perquisito e interrogato, e ci hanno fatto andare dieci alla volta in una certa direzione”, ha ricordato. “Camminavamo per le strade piene di buche e distrutte in mezzo a pozze di acqua piovana. Alcuni inciampavano e cadevano, uomini e donne, bambini e anziani. Alcuni piangevano. È stato molto umiliante e doloroso”. campo profughi di Jenin – foto di Pagine Esteri “La cosa più importante è restare nella nostra casa” Dopo aver bloccato per dieci giorni gli ingressi del campo profughi ad al-Far’a a Tubas l’esercito israeliano ha intensificato le sue operazioni. Martedì i residenti hanno riferito che le forze israeliane stavano iniziando a demolire negozi e case all’interno del campo. “Avevamo sperato che oggi l’occupazione si sarebbe ritirata dal campo, ma siamo rimasti senza parole nel vederli demolire e in alcuni casi far esplodere i negozi nelle strade interne, senza sosta dalla mattina”, ha detto martedì a Mondoweiss Lara Suboh, una residente di al-Far’a di circa venti anni. campo profughi di Jenin – foto di Pagine Esteri “Per dieci giorni non abbiamo avuto acqua, perché la prima cosa che hanno fatto le forze di occupazione è stata di far saltare le tubature dell’acqua e noi dipendiamo dalle cisterne di riserva idrica sui nostri tetti”, ha spiegato. “Alcune persone se ne sono andate subito perché hanno familiari malati o disabili, ma altre persone sono state costrette ad andarsene ieri. I soldati dell’occupazione hanno intimato loro di andarsene entro dieci minuti”. “Nella nostra strada non l’hanno ancora fatto”, ha aggiunto. “Siamo in cinque in casa, con i miei due fratelli e entrambi i miei genitori. Stiamo sopravvivendo con il cibo che avevamo comprato prima che iniziasse l’assedio, sperando che l’offensiva finisse prima del nostro cibo e della nostra acqua. La cosa più importante per me è che restiamo nella nostra casa, anche se la distruggono e distruggono tutto il resto, possiamo ricostruirla più tardi. Ma non voglio che la mia famiglia e io veniamo sfollati”. In una dichiarazione di martedì il Comitato di Emergenza del campo profughi di al-Far’a ha detto che le forze israeliane hanno già sfollato 3.000 persone su una popolazione del campo di 9.000. A Tulkarem il Comitato di Emergenza del campo profughi di Nur Shams ha affermato che metà della popolazione del campo è stata sfollata e che le forze israeliane hanno distrutto completamente 200 case e “parzialmente” altre 120. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
February 18, 2025 / Osservatorio Repressione
Turchia: Arresti e sindaci rimossi
La repressione del governo turco mette a dura prova il tentativo di negoziato con i curdi e il Pkk. Opposizione nel mirino: l’accordo elettorale tra Dem e Chp è tacciato di «terrorismo» Intervista all’avvocato del fondatore del Pkk: «Da ogni processo di dialogo, anche se fallito, il movimento curdo è uscito rafforzato. E a livello internazionale, la causa curda ha consolidato alleanze e collaborazioni» di Alessandro Tomaselli da il manifesto Accanto ai negoziati, si intensifica la repressione. «Ma sarebbe proprio sbagliato parlare di negoziati», puntualizza subito Sedat Senoglu, portavoce del Halklarin Demokratik Kongresi (Congresso democratico dei popoli). «Per ora da parte del governo c’è soltanto qualche vaga apertura, ma non si è avviato alcun dialogo vero», afferma ricordando come nell’ultima settimana si è abbattuta sulle opposizioni turche una nuova ondata di misure discriminatorie. MARTEDÌ SCORSO, per esempio, dieci membri dello stesso Congresso – una piattaforma di elaborazione politica nata nel 2011, che riunisce esponenti della “sinistra diffusa” nel paese, dagli esponenti di partiti ai sindacati fino all’attivismo Lgbt – sono stati arrestati. Si tratta di consiglieri comunali e sindaci eletti nella tornata dell’anno scorso, grazie a una cooperazione fra le forze filocurde Dem e l’opposizione kemalista Chp che si erano accordate per un mutuo appoggio in alcuni distretti. Ora questo accordo viene definito dal pubblico ministero di Istanbul che ha avviato l’indagine come un’operazione di «terrorismo». Secondo il teorema giudiziario, si tratterebbe di una mossa messa in campo su «direttive del Pkk». «Non è certo la prima volta che subiamo pressioni, ma adesso è diverso – prosegue Senoglu – Ci sembra chiaro che gli ultimi arresti sono legati alla possibile liberazione di Öcalan e all’ipotesi di negoziati. Purtroppo, la strategia del governo non cambia: attraverso le misure discriminatorie, cercano di dividere i partiti d’opposizione e, soprattutto, vogliono colpire noi perché siamo un soggetto che tenta di portare il processo di pace oltre il perimetro della politica rappresentativa». Secondo il portavoce, infatti, la forza del Congresso sta nella sua capacità di far incontrare diverse componenti della popolazione e, dunque, di inverare «dal basso», dentro il corpo sociale, ciò che nel frattempo avviene a un livello superiore, e più celato al pubblico, con i colloqui tra il fondatore del Pkk e la delegazione del partito Dem che lo sta incontrando dal dicembre scorso nell’isola-carcere di Imrali. Il problema è che la volontà delle persone si scontra con la continua contestazione da parte governativa dei risultati democratici. A Van, nell’estremo est del paese, questa ha preso le forme di un vero e proprio assedio alla sede del consiglio comunale. DOPO CHE MARTEDÌ scorso è arrivata una sentenza di condanna per il co-sindaco eletto nelle fila Dem Abdullah Zeydan, sempre con motivazioni legate ad accuse di complicità con il «terrorismo», in città si sono scatenate proteste e cortei. Esponenti di diversi partiti si sono recati sul posto, per provare a resistere alla sostituzione coatta di rappresentanti regolarmente eletti (dalla tornata del 2024 a oggi, si contano undici sindaci destituiti in favore di funzionari governativi, pratica che soprattutto nelle zone a maggioranza curda è costantemente portata avanti da almeno una decina di anni). Ma, nella notte fra venerdì e sabato, l’amministrazione è stata rimossa con la forza e fra i manifestanti si sono verificati 127 arresti, tra cui anche il co-sindaco di Diyarbakır Dogan Hatun (poi rilasciato). «Queste repressioni stanno danneggiando il processo di pace», racconta dall’altro capo del paese, a Istanbul, il parlamentare eletto nelle fila Dem Cengiz Çiçek. Non a caso, ormai da anni, fuori dalla sede del partito campeggia uno striscione di protesta proprio contro la rimozione dei sindaci che colpisce numerose città. Nell’area di Tarlabası, dove si situa l’edificio, è come se la laccatura dei negozi del via centrale di Istiklal venisse “slavata via” per lasciare spazio a strade puntellate di edifici diroccati che digradano verso Kasımpasa, quartiere natio dell’attuale presidente, Erdogan. «In questo momento c’è effettivamente una contraddizione tra le parole di apertura che arrivano dal governo e il clima politico creato dalle misure discriminatorie che mette in pratica», prosegue Çiçek. «Fa dubitare della sua sincerità nel portare avanti i negoziati e, soprattutto, rende difficile per noi organizzare il sostegno necessario per condurre tali negoziati fra gli elettori». A MAGGIOR RAGIONE se, nel frattempo, anche il carismatico sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu del Chp, da molti visto come il prossimo sfidante di Erdogan, si trova sotto processo per corruzione e rischia oltre quattro anni di carcere. In questi giorni, si sono svolti alcuni presidi di solidarietà presso il tribunale in cui è imputato. Dunque, per il portavoce del Congresso democratico, è inevitabile che nella società turca alla speranza per i negoziati si accompagnino «ansia» e «cautela» verso il governo. «La politica del paese è improntata sulle divisioni – conclude Çiçek – Ma la nostra unica “linea rossa” è la promessa fatta ai nostri sostenitori di un futuro di libertà e di pace». Mahmut Sakar: «In attesa del messaggio di Ocalan, tra i curdi c’è una cauta speranza» In Turchia, nell’ottobre, 2024, il governo centrale ha avviato un nuovo percorso di dialogo con Abdullah Ocalan. Il primo passo è stato mosso dal principale alleato del partito al governo, Devlet Bahçeli, leader del Partito del movimento nazionalista, Mhp. L’invito di Bahçeli era rivolto allo storico leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk): gli chiedeva di fare un appello storico con l’obiettivo di sciogliere l’organizzazione che conduce la lotta armata contro lo Stato turco dal 1978. Ocalan, condannato all’ergastolo e in isolamento nel carcere speciale dell’isola di Imrali dal 1999, dall’ottobre scorso ad oggi ha incontrato una volta suo nipote, nonché parlamentare d’opposizione, Omer Ocalan, e due volte una delegazione composta da due parlamentari appartenenti al secondo partito d’opposizione, il Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (Dem). Nei tre incontri, Ocalan si è detto disponibile a lavorare per avviare un percorso di riconciliazione tra il popolo curdo e quello turco, ma anche per consolidare la pace e la democrazia in Turchia e in Medio Oriente. In questo periodo sia Ocalan che vari vertici del Pkk presenti in diverse parti del mondo hanno sottolineato come la sua libertà sia fondamentale per creare condizioni negoziali adeguate. In quest’ottica, è importante ricordare che dal 2019 a Ocalan è negato il diritto di incontrare i suoi avvocati. Mahmut Sakar è uno di loro. Il 15 febbraio ha partecipato a Vienna all’incontro internazionale People’s Platform Europe, iniziativa di tre giorni organizzata dall’Academy of Democratic Modernity con l’obiettivo di discutere , insieme a movimenti, partiti e sindacati, strategie di resistenza ai fascismi globali ispirandosi al progetto curdo del confederalismo democratico. In occasione del 26esimo anniversario della cattura di Abdullah Ocalan, abbiamo intervistato Mahmut Sakar. Quali sono le condizioni in cui questo nuovo dialogo con la Turchia si sta svolgendo? L’attuale situazione mi ricorda il complotto del 1999. Anche in quel periodo le condizioni internazionali erano in una fase di evoluzione. Anche oggi possiamo parlare di una serie di cambiamenti straordinari, soprattutto in Medio Oriente. Tuttavia, se nel 1999 Ocalan era da solo, oggi sia lui che i curdi non sono da soli. I curdi partono oggi da una serie di risultati straordinari, in una condizione decisamente diversa. L’esperienza del confederalismo democratico in Rojava e i risultati ottenuti sul campo sono una prova di questa idea. Inoltre, oggi possiamo parlare del movimento per la liberazione del popolo curdo come di una realtà più forte ed evoluta. A livello internazionale, la causa curda ha consolidato in tutto questo tempo una serie di alleanze e collaborazioni. C’è speranza tra i curdi? E che peso hanno i commissariamenti dei comuni guidati dal Dem in Turchia e gli arresti di attivisti e giornalisti? C’è una positività cauta. Il popolo curdo continua a fidarsi di Ocalan e del risultato che potrebbe ottenere, soprattutto tenendo in considerazione l’esperienza che sia lui che il movimento hanno maturato in questi anni. Tuttavia, la repressione contro gli esponenti parlamentari del partito Dem e contro i diversi strati della società civile continua. Quindi siamo cauti, ma ricordiamo che dopo ogni processo di dialogo e di pace, anche se fallito, il movimento curdo è uscito rafforzato. Per esempio, nel 2015, in uno dei periodi più difficili della storia della Turchia, il partito Hdp (il predecessore del Dem, ndr) aveva superato il grande sbarramento elettorale del 10%. Che effetto può avere sul futuro del nuovo percorso di dialogo l’eventuale pressione internazionale sul regime turco? Le forze democratiche e rivoluzionarie presenti in Turchia e in diverse parti del mondo, gli osservatori internazionali e, in particolare, i paesi europei devono sostenere il nuovo percorso per ottenere un successo. In quest’ottica va letto anche un fatto storico importante: secondo la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), Ocalan, 26 anni dopo, avrebbe diritto alla scarcerazione attraverso il meccanismo del «diritto alla speranza». È giunto il momento per la sua libertà, che lo permetterà di lavorare in modo più costruttivo per la pace. Si riferisce alla serie di decisioni che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha preso in diversi momenti negli ultimi vent’anni e che aprono le porte della scarcerazione anche a persone condannate all’ergastolo per reati gravi. Nel suo storico appello, anche il leader nazionalista turco Bahçeli, lo scorso autunno, ha aperto all’utilizzo di questo diritto da parte di Ocalan. Aspettiamo con entusiasmo le dichiarazioni di Ocalan (attese per fine mese, ndr). Siamo prudenti ma anche pieni di speranza per il futuro. (intervista a cura di Murat Cinar per il manifesto)       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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February 18, 2025 / Osservatorio Repressione
Deportazioni e pulizia etnica. Il piano di Trump per Gaza
Le parole in libertà di Trump sulla Palestina sono benzina sul fuoco che fanno esultare la destra israeliana e Netanyahu. “Mandare via due milioni di palestinesi in Egitto e Giordania, Gaza sarà una nuova Riviera. Prenderemo il controllo della Striscia, non escludo l’invio di truppe Usa”. “Via due milioni di palestinesi in Egitto e Giordania, Gaza sarà una nuova Riviera. Prenderemo il controllo della Striscia, non escludo l’invio di truppe Usa“. Le parole in libertà di Trump sulla Palestina sono benzina sul fuoco che fanno esultare solo la destra israeliana e Netanyahu, per il quale ‘il piano cambierà la storia’. Non solo: il ministro della difesa Katz ha ordinato all’esercito un piano per “lo sfollamento volontario” – si fa per dire – dei palestinesi. La mossa di Trump solleva un muro di no nel resto del mondo, innanzitutto tra gli stessi palestinesi, che rifiutano con tutte le proprie (diverse) componenti di cancellare la loro lotta in cambio di una specie di…Las Vegas nel Mediterraneo. Contrarietà anche da tutti i Paesi della regione, anche i filoUsa come i sauditi, oltre che da Onu, Cina, Russia e pure dalla timida Unione Europea. In Italia solo Salvini – che lunedì e martedì sarà a Tel Aviv – plaude a Trump, mentre negli stessi States nuove manifestazioni: a Washington in piazza contro la deportazione palestinese di massa vaticinata da Trump e contro i continui attacchi agli aiuti internazionali da parte della Casa Bianca, a partire dallo svuotamento di UsAid. Contro il tycoon previste marce in tutto il Paese, sotto gli hashtag #buildtheresistance e #50501, che sta per 50 proteste, 50 stati. Nel mirino il Progetto 2025, l’agenda presidenziale di estrema destra. Parole d’ordine delle piazze antiTrump: “rifiutare il fascismo” e “difendere la democrazia”. Torniamo in Medio Oriente e in particolare proprio a Gaza, dove hanno superato quota 47.500 i morti ufficiali di 15 mesi di genocidio, oltre a 14mila persone disperse sotto le macerie. 3 vittime anche nelle ultime ore tra Rafah e Khan Younis, colpite dai cecchini israeliani. Morti, nel nord, anche 2 soldati occupanti israeliani, con un terzo ferito: a comunicarlo Tel Aviv, che non fornisce però informazioni nè sulla data nè sulle modalità dei decessi. In Cisgiordania invece assedi continui degli occupanti a Jenin, Tulkarem, Tammoun, Tubas. Da inizio anno solo almeno 70 le vittime palestinesi in West Bank nell’assalto generalizzato da parte di esercito e coloni israeliani. Una decina delle vittime sono minorenni. Di questo si parla nell’intervista di Radio Onda d’Urto ad Alberto Negri, giornalista per anni inviato di guerra e oggi editorialista del quotidiano “Il Manifesto” Ascolta o scarica In conclusione dell’intervista, Alberto Negri invita alla visione del docu-film candidato ai Premi Oscar ‘No Other Land’ che “documenta benissimo come Israele mangia giorno dopo giorno il territorio palestinese in Cisgiordania”. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
February 6, 2025 / Osservatorio Repressione
Un software di spionaggio israeliano sorveglia giornalisti e attivisti nel mondo
Un centinaio di persone, tra giornalisti e attivisti della società civile, sarebbero stati spiati tramite lo spyware Graphite della società israeliana Paragon Solutions. Lo ha reso noto la stessa Meta, che ha riferito come l’attacco informatico sia stato perpetrato attraverso la sua app di messaggistica WhatsApp. di Michele Manfrin da L’Indipendente L’azienda statunitense ha avvisato con un messaggio coloro che sarebbero stati presi di mira dall’azione di spionaggio: tra di loro rientra anche il direttore di Fanpage, Francesco Cancellato. Meta ha fatto sapere di stare indagando sull’accaduto e di aver inviato una lettera di protesta a Paragon Solutions – tuttavia le tecnologie di sorveglianza profotte dall’azienda sono vendute e utilizzate da decine di governi. Secondo quanto riferito da Meta, l’interruzione della campagna di spionaggio è avvenuta con successo. Sarebbero circa un centinaio le persone spiate con la tecnologia spyware, tra giornalisti e attivisti della società civile. Non è dato tuttavia sapere con precisione chi sia stato spiato e dove, e neanche chi abbia ordinato tale attacco. Ciò che è certo è che lo spionaggio è durato fino a tutto il mese di dicembre. Le persone coinvolte sarebbero comunque cittadini di diversi Paesi europei. La tipologia di attacco è stata del genere “zero-click“, per cui lo spiato non deve necessariamente cliccare su un link compromesso ma basta che sia soggetto all’arrivo di un file contenente l’arma informatica. In questo specifico caso, si sarebbe trattato di un file pdf. Tra gli oltre novanta giornalisti e attivisti bersaglio dello spyware dell’azienda israeliana Paragon Solutions, c’è anche il direttore di Fanpage, Francesco Cancellato. A confermare la faccenda è lo stesso Cancellato, il quale ha dichiarato: «abbiamo iniziato le analisi tecniche sul dispositivo necessarie per valutare l’effettiva portata di questo attacco, cosa effettivamente sia stato prelevato o spiato nel telefono e per quanto tempo. Ovviamente è nostro interesse sapere anche, se sarà possibile farlo, chi abbia ordinato questa attività di spionaggio». Paragon Solutions è stata fondata nel 2019 dall’ex comandante dell’unità di intelligence d’élite 8200 dell’IDF, Ehud Schneorson, insieme a Idan Nurick, a Igor Bogudlov e a Liad Abraham. Nel cda della società figura anche l’ex primo ministro israeliano Barak Ehud. Nel dicembre scorso, l’azienda israeliana Paragon Solutions è stata acquistata per 900 milioni di dollari da AE Industrial Partners, società di private equity statunitense, un gruppo di investimento specializzato in servizi per la sicurezza nazionale, aerospaziali e industriali. Sempre nel dicembre 2024, WhatsApp ha vinto una causa contro la rivale di Paragon Solutions, ovvero NSO Group, altra azienda israeliana attiva nel settore dello spionaggio, per aver utilizzato il suo celebre software Pegasus per spiare circa 1.400 utenti, contravvenendo alle leggi federali e statali degli USA. Questi eventi sottolineano la crescente minaccia degli spyware zero-click e l’importanza di proteggere le comunicazioni digitali. La sorveglianza non autorizzata rappresenta un rischio significativo per la privacy, la sicurezza delle persone e della stessa democrazia, visto che coloro che vengono presi di mira dallo spionaggio sono giornalisti e attivisti che raccontano scomode verità rispetto al sistema di potere o che non sono gradite al governo di turno. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
February 4, 2025 / Osservatorio Repressione
Barcellona: cariche, scontri e resistenza contro lo sgombero dell’Antiga Massana
A Barcellona la politica degli sgomberi non vede battute d’arresto. Nella giornata del 28 gennaio, i locali dell’Antiga Massana, luogo simbolo della resistenza cittadina e sede del Sindicat de l’Habitatge del Raval (Sindacato della Casa), nel quartiere del Raval, sono stati sgomberati dalle forze dell’ordine senza alcun tipo d’avvertimento. Scontri, cariche e resistenza al Raval, quartiere popolare nel centro di Barcellona, investito da anni da un violento processo di gentrificazione turistica. La Guardia urbana e i Mosso de esquadra sono arrivati in massa e a sorpresa all’alba di martedì 28 gennaio per sgomberare l’Antiga Massana, uno dei più grandi spazi sociali catalani, dal 2020 “Espai sota control popular”, “spazio sotto il controllo popolare”. Si tratta di un punto di riferimento per tutto il centro della capitale catalana per quanto riguarda, in particolare, le reti di mutuo aiuto nate nel periodo pandemico e la lotta per il diritto all’abitare. Nell’ultimo periodo è diventato un luogo importante anche per l’organizzazione di iniziative culturali e di socialità. Il comune di Barcellona – guidato dal Psc – da mesi invoca lo sgombero e la necessità di rientrare in possesso dello stabile ma senza chiarire per quali finalità. Le realtà sociali che animano lo spazio hanno cercato di intavolare una trattativa per trovare un accordo con il comune e poter continuare a portare avanti le attività che si svolgono all’Antiga Massana. L’amministrazione catalana, però, non ne ha voluto sapere fino a che, a sorpresa, oggi è arrivata la polizia per lo sgombero. Da Barcellona la corrispondenza per Radio Onda d’Urto di Victor Serri, fotoreporter del quotidiano indipendente catalano La Directa. Ascolta o scarica. Nuovo collegamento com Victor Serri per un aggiornamento. Qui la sua corrispondenza, in cui ci fornisce anche un bilancio della repressione poliziesca: una cinquantina di feriti e 5 arresti confermati. Ascolta o scarica > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 30, 2025 / Osservatorio Repressione
Bulgaria: la polizia di frontiera ha lasciato morire di freddo tre adolescenti migranti
Migranti che tentavano di varcare il confine tra Turchia e Bulgaria lasciati morire di freddo dalla polizia di frontiera bulgara. da valigia blu È quanto afferma il rapporto “Frozen Lives”, un dossier pubblicato da due organizzazioni umanitarie, No Name Kitchen (NNK) e Collettivo Rotte Balcaniche (CRB), visionato dal Guardian. Il dossier contiene foto, testimonianze e geolocalizzazioni che dimostrerebbero l’incapacità delle autorità bulgare di salvare tre adolescenti egiziani che chiedevano aiuto mentre pativano il freddo nelle foreste di Burgas, nel sud-est della Bulgaria. Le autorità bulgare sono state accusate di aver ignorato le chiamate di emergenza e di aver ostacolato gli sforzi per salvare i tre ragazzi, poi morti a temperature sotto lo zero vicino al confine turco-bulgaro a fine dicembre. Il confine bulgaro con la Turchia è un punto di passaggio frequente per le persone che sperano di chiedere asilo in Europa: è un terreno proibitivo, roccioso e collinare, con temperature invernali rigide e venti pungenti. Dopo aver ricevuto una segnalazione delle richieste di aiuto dei tre adolescenti egiziani, gli attivisti delle due organizzazioni umanitarie si sono attivati in prima persona per prestare soccorso. Ma la polizia di frontiera bulgara avrebbe ostacolato i tentativi di salvataggio da parte delle organizzazioni, nonostante fosse stato mostrato un video di uno dei ragazzi nella neve. I ragazzi, poi identificati come Ahmed Samra, 16 anni, Ahmed Elawdan, 17 anni, e Seifalla Elbeltagy, 15 anni, sono stati tutti ritrovati morti; Ahmed Samra è stato trovato con “impronte di zampe di cane e impronte di stivali intorno al corpo”, il che, secondo il rapporto, “indica che la polizia di frontiera lo aveva già trovato, forse ancora vivo o morto, ma aveva scelto di lasciarlo lì al freddo”. Gli attivisti che sono tornati sul posto più tardi dicono di aver scoperto che tutte le tracce delle impronte erano state cancellate. Il dossier rivela un quadro più ampio di brutalità contro i migranti alle frontiere europee e nei confronti anche delle squadre di soccorso delle organizzazioni umanitarie. A una squadra di soccorso sono stati confiscati dalla polizia i passaporti e i telefoni e sono state prese le loro impronte digitali e le fotografie. Un’attivista è stata costretta a spogliarsi per essere perquisita nella stazione di polizia. “Sono stata separata dai miei amici maschi e spogliata di fronte a due agenti della polizia di frontiera e sono stata fatta sedere mentre frugavano nelle mie borse”, ha raccontato. “Avevo le mestruazioni e mi sono sentita profondamente a disagio e non è stato necessario farmi stare lì nuda. Mi è sembrato che ogni azione degli agenti fosse solo per intimidirci e spaventarci e farci desistere dal fare di nuovo qualcosa di simile”. Durante un altro tentativo di salvataggio, un gruppo è stato costretto a camminare per circa 10 km fino alla città più vicina, mentre era seguito dalla polizia di frontiera in auto. Negli ultimi anni, diverse organizzazioni per i diritti umani hanno lanciato l’allarme per quello che, a loro dire, è un forte aumento delle aggressioni nei confronti di coloro che mostrano solidarietà e lavorano con i richiedenti asilo e i migranti in tutta Europa. Lo scorso settembre, i riflettori sono tornati a essere puntati sulle autorità bulgare dopo che l’agenzia investigativa Balkan Insight aveva scoperto prove che suggerivano che i funzionari dell’agenzia di frontiera dell’UE Frontex venivano intimiditi per indurli a tacere sulle violazioni dei diritti di cui erano stati testimoni al confine bulgaro. Alla luce della morte degli adolescenti, NNK e CRB hanno chiesto una “indagine indipendente e formale” sulla “violenza sistemica e la negligenza delle autorità bulgare” e sul “trattamento degradante delle persone in movimento”. “È assolutamente scioccante che tre minorenni siano morti assiderati nella foresta, nonostante siano stati lanciati diversi allarmi al 112. È un enorme fallimento per tutti. Non solo per le forze di polizia bulgare, ma per l’Unione europea nel suo complesso e per tutti i suoi Stati membri”, ha dichiarato un’attivista sentita dal Guardian. Il ministero degli Interni bulgaro ha respinto le accuse e ha dichiarato che le sue forze di frontiera hanno reagito in modo tempestivo alle segnalazioni di giovani in difficoltà, inviando “immediatamente” delle pattuglie, ma che i corpi sono stati trovati in luoghi diversi da quelli inizialmente previsti. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 30, 2025 / Osservatorio Repressione
Turchia: fermato ed espulso Amedeo Ciaccheri, presidente municipio VIII di Roma
Fermato ed espulso dalla Turchia il Presidente del municipio VIII di Roma, Amedeo Ciaccheri al ritorno della settimana trascorsa nei territori dell’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est in occasione del decennale della liberazione di Kobane dall’Isis con una delegazione internazionale (nella foto di Chiara Cruciati, il Manifesto). Dopo un breve interrogatorio gli è stato consegnato un decreto di espulsione dalla Turchia a tempo illimitato. Nessuna spiegazione ufficiale, ma è chiaro l’intento intimidatorio nei confronti di chi solidarizza con la rivoluzione in corso nei territori liberati della Siria del nord-est. Racconta a Radio Onda d’Urto quanto accaduto e offre alcune valutazione lo stesso Amedeo Ciaccheri. Ascolta o scarica > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 29, 2025 / Osservatorio Repressione
Antifascismo significa Palestina libera. Un comunicato da Berlino
Alcune/i compagne/i di Berlino ci hanno inviato questo contributo sulla Palestina e l’inaccettabile posizione di alcuni “antifà” in favore di Israele (cosiddetti antideutsch). Come anarchic*, antifascist* e individualità che fanno parte di circoli autonomi a Berlino, siamo pienamente solidali con tutti i movimenti di liberazione, dalla Palestina al Congo, dal Kurdistan al Chiapas, dalla Papua Occidentale all’Isola delle Tartarughe, da Abya Yala al Sudan, dal Sahara Occidentale al Myanmar, da Haiti a Kanaky, ovunque nel mondo. Sosteniamo fermamente la vera solidarietà internazionalista, intercomunitaria, antirazzista e transfemminista queer. L’incessante oppressione dell* palestinesi (in Palestina e nella diaspora), e quest’ultima fase della Nakba e del genocidio in corso, hanno mostrato i veri volti e i veri valori di molti governi liberali e dei loro apparati statali. Lo Stato tedesco, col suo fanatico sostegno a “Israele” e a tutti i “valori occidentali” che rappresenta, è egualmente e pienamente complice del genocidio in Palestina: occupazione e sfruttamento brutali, apartheid e pulizia etnica dei popoli indigeni. L’antifascismo in chiave anticoloniale deve essere parte integrante delle lotte di liberazione di tutti i popoli. Il vero antifascismo è anticoloniale. La Germania è senza dubbio un esperto in militarismo, guerre e genocidi: quello degli Herero e dei Nama, del popolo ebraico in Europa, dell* Rom/Sinti, il supporto al genocidio del popolo armeno da parte della Turchia… La lista è infinita. In Germania, la strumentalizzazione del senso di colpa tedesco nei confronti del popolo ebraico, il mito della presunta comprensione e assunzione di responsabilità tedesca, l’autoproclamata “ragion di Stato” e la “cultura del ricordo” selettiva e estremamente curata sono addotti come giustificazione per il sostegno attivo del genocidio. I rappresentanti statali eletti in Germania leccano i piedi a Israele, fornendo una copertura diplomatica ai crimini sionisti, mentre la maggior parte dei suoi media ripete e amplifica la propaganda dello Stato israeliano. Un’ampia parte della società tedesca, dominata da tedesch* bianch*, tace di nuovo di fronte alla pulizia etnica in corso, mentre Israele commette quotidianamente atrocità inimmaginabili, aiutato dalla Germania e dalle sue forniture di armi, dal suo supporto tecnologico, per uccidere ogni forma di vita a Gaza. Molt* in Germania si rifiutano di riconoscere (o semplicemente negano) la brutale violenza del colonialismo di insediamento in Palestina, l’annessione omicida in corso della Cisgiordania, le uccisioni di massa su larga scala e il regime di apartheid in quanto tale. “È complicato”, sostengono. Ma in questi tempi in cui un genocidio si consuma quotidianamente sui nostri schermi, il silenzio è complicità. E come tale sarà ricordato. Il movimento a sostegno della Palestina in Germania subisce attacchi da ogni parte: dallo Stato, dai neonazisti, dalle istituzioni, dalla società civile tedesca, da “cittadin* preoccupat*”, da liberali e dall* cosiddett* “Anti-Deutsche” (“tedesch* anti-tedesch*”). Con il pretesto di “combattere l’antisemitismo”, molt* di coloro che chiedono la fine del genocidio e dell’occupazione vengono criminalizzat* (soprattutto le persone provenienti da regioni a maggioranza musulmana e le persone viste in questa maniera, BIPoC, come anche persone ebree antisioniste), inserit* in liste di proscrizione, i loro eventi vengono cancellati e loro stessi continuamente arrestat*, bandit*, insultat*, aggredit* e molestat*. In Germania, inoltre, ci troviamo di fronte a un problema piuttosto unico e molto tedesco: una parte significativa di tedesch* bianch*, non ebrei e sedicenti “antifascist*” sostiene di buon grado il progetto sionista. Questi ingannevoli e fastidiosi burattini dello Stato, i cosiddetti “Anti-Deutsche”, che teoricamente appartengono alla sinistra radicale, sono consapevolmente ignoranti quando si tratta di sionismo e Israele. Il loro stratagemma, sempre prevedibile e consolidato, è quello di attaccare o accusare chiunque osi schierarsi a favore della Palestina quale “antisemita”, islamista, sostenitore di Hamas, fascista e/o nazista. È chiaro che nel movimento “antifascista” in Germania c’è – per usare un eufemismo – confusione. Dobbiamo porci come sfida la messa in discussione di questa posizione, riflettendo in modo più attivo sulla composizione della sinistra autonoma e di movimento di cui facciamo parte. Spetta a tutt* noi operare un cambiamento. Dobbiamo combattere tutti i razzismi, in particolare il pericoloso e sempre più tossico razzismo anti-musulmano e l’odio anti-ebraico in questo Paese. Rifiutiamo la presunta “ragion di Stato” (“Staatsräson”) della Germania e ci rifiutiamo di riconoscere non solo “Israele” come Stato legittimo, ma anche lo Stato tedesco e tutti gli Stati. Come anarchic*, antifascist* e antiautoritar*, crediamo che tutti gli Stati e tutti i confini debbano essere aboliti. Ci opponiamo a qualsiasi tipo di struttura di potere gerarchica e autoritaria. Siamo avvers* alle ideologie o concezioni che legittimano lo Stato, al sistema dei partiti politici che mettono al potere determinate persone o entità, condizionando in senso sempre più autoritario la vita dell* altr*. Pertanto, la nostra lotta mira alla disintegrazione dei regimi fascisti, sionisti, razzisti ed etnocratici di “Israele” e di tutti gli altri Stati del mondo. Chiediamo la fine immediata dell’apartheid e dell’occupazione della Palestina. I palestinesi devono poter tornare nella loro terra natia. Ci impegniamo per la liberazione della Palestina e sosteniamo che tutti i suoi abitanti debbano vivere e prosperare in pace, dal fiume al mare. Lottiamo per la libertà di tutt*. MAI PIÙ significa MAI PIÙ PER TUTT* Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
January 27, 2025 / Osservatorio Repressione