Mentre il movimento di liberazione curdo depone le armi e si impegna per una
soluzione politica del conflitto, Ankara continua a riarmarsi
di Gianni Sartori
Ovviamente il mio auspicio è che la questione si risolva alla sudafricana (con
la liberazione dei prigionieri, la fine delle discriminazioni, la possibilità
per il movimento di liberazione di svolgere attività politica legale senza
subire la solita, sistematica repressione…) e non alla colombiana (con
ritorsioni, esecuzioni extragiudiziali nei confronti di decine di ex
combattenti. sindacalisti, indigeni, oppositori …).
Quindi, per rispetto alla lotta di autodeterminazione condotta dal popolo curdo
e agli innumerevoli caduti, non mi permetterei mai di criticare (oltretutto
comodamente da casa) la decisione del PKK di auto-scioglimento e di consegna
delle armi dopo l’appello in tal senso di Abdullah Öcalan.
Tuttavia permane una buona dose di inquietudine in quanto la nuova situazione
potrebbe fornire a Erdogan & C. la possibilità per risolvere la questione una
volta per tutte. A modo suo naturalmente.
Attaccando – direttamente o indirettamente, gli ascari non gli mancano – un
movimento curdo non proprio inerme, ma comunque disarmato.
Preoccupa in tal senso il comunicato del ministero della Difesa turco del 15
maggio. Con cui si certifica che l’esercito turco proseguirà nelle sue
operazioni contro il PKK “fino a quando la regione sarà ripulita”. In
riferimento alle aree del nord Iraq (Bashur) dove si concentra maggiormente la
guerriglia curda.
Come appunto ha poi confermato in conferenza stampa un portavoce del ministero,
le operazioni militari turche “nelle zone utilizzate dall’organizzazione
terrorista separatista PKK proseguiranno con determinazione fino quando la
regione sarà ripulita e non costituiràpiù una minaccia per il nostro paese”.
Stando alle prime indiscrezioni, i servizi segreti turchi supervisioneranno la
raccolta delle armi del PKK con la collaborazione delle forze irachene e
siriane, ma “senza la partecipazione di osservatori internazionali dell’ONU”
(come invece chiedevano i curdi).
L’esercito turco controlla decine di posizioni nel nord dell’Iraq (nel Kurdistan
autonomo) da dove per anni ha colpito sistematicamente le zone dove è presente
il PKK.
E – sempre in conferenza stampa – si è ribadito di voler continuare – nonostante
la dissoluzione del PKK – a colpire rifugi, grotte e postazioni dove si trovano
i curdi.
“Lo smantellamento del PKK deve avvenire senza alcun ritardo” ha ripetuto il
portavoce del ministero.
Paradossalmente, mentre i curdi “disarmano”, lo Stato turco pare intenzionato ad
aumentare ulteriormente le sue già ingenti spese militari.
Secondo il sito Yeni Özgür Politika la Turchia sarebbe in procinto di acquistare
dagli USA missili ed equipaggiamento per 304 milioni di dollari. Si tratta di
una sessantina di missili AIM-9X Sidewinder Block II, di missili aria-aria di
media portata AIM-120C-8 e di undici attrezzature di guida tattica .
Manca soltanto l’approvazione del Congresso statunitense, mentre esiste già
quella alla vendita da parte del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.
Per il Pentagono questi missili dovrebbero garantire maggiore difesa aerea sia
alla Turchia (fantasiosamente definita una “forza importante per la stabilità
politicaed economica in Europa”) che al personale statunitense qui presente.
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Tag - Dal mondo
Negli USA il rifiuto di collaborare con il governo nella caccia ai migranti ha
provocato l’arresto di un sindaco e di un giudice e il taglio dei fondi federali
ai comuni renitenti. Una virata autoritaria in cui nessuno può più sentirsi al
sicuro.
di Elisabetta Grande da Volere la Luna
Quanto nell’era Trump la pura forza bruta si stia dispiegando senza freni contro
chiunque si ponga come ostacolo ai piani del governo è parso drammaticamente
evidente venerdì 9 maggio, quando gli agenti dell’Immigration and Custom
Enforcement (ICE) hanno arrestato il sindaco di Newark, in New Jersey, per aver
osato protestare contro l’apertura e l’uso di un centro di detenzione privato
per migranti, illegale in base alle regole dello Stato del New Jersey e della
città. Insieme ad alcuni rappresentanti al Congresso federale e ad altri
esponenti della società civile, il sindaco Ras Baraka era davanti ai cancelli
per dimostrare la propria contrarietà all’uso da parte del governo federale
della struttura, data di recente in appalto per la gestione dei migranti a una
delle più grandi e famigerate società private del mondo della carcerazione, la
GEO – un tempo Wackenhut – Corporation. Aperta per contenere e deportare –
secondo i piani governativi – 1000 migranti alla volta, il centro è però in
contrasto tanto con una legge dello Stato del New Jersey, firmata dal
governatore Phil Murphy quattro anni fa (che proibisce l’apertura di centri
privati di detenzione per migranti) quanto con i regolamenti cittadini (che
prevedono permessi e controlli non rispettati dal centro in questione). La
controffensiva federale all’espressione pacifica del più che legittimo dissenso
da parte del sindaco è consistita nel suo arresto per violazione di domicilio
del centro privato (trespass), nel quale peraltro il sindaco non pare però
avesse messo piede. L’obiettivo di un simile uso sconsiderato della forza bruta
da parte dell’amministrazione Trump è evidente. Si tratta di reprimere con la
paura il dissenso nei confronti dell’operato del Governo, che in questo caso
riguarda l’immigrazione, ma che ovviamente potrà nel tempo riguardare qualsiasi
altro campo.
L’arresto del sindaco di Newark, fa d’altronde il paio con un altro arresto
eccellente, come il primo senza precedenti: quello della giudice di contea di
Milwakee (Wiscounsin), Hannan Dugan, colpevole di non aver permesso agli agenti
dell’ICE di arrestare un imputato chiamato a dibattimento di fronte a lei. Le
regole dell’amministrazione locale impongono, infatti, alla polizia – e per
estensione ai giudici – di collaborare con gli agenti federali nell’apprensione
del migrante solo se c’è un mandato giudiziario e non soltanto amministrativo,
come invece era avvenuto nel caso in questione. L’accusa di fronte al
giudiziario federale di ostruzione all’attività dell’ICE e di occultamento di un
individuo, nonché il plateale arresto della giudice qualche giorno dopo
l’accaduto, sono anche in questo caso gli strumenti di deterrenza usati
dall’amministrazione Trump per piegare e terrorizzare chiunque – giudici,
amministratori locali o cittadini – abbia in mente di opporsi al disegno di
deportare in massa i migranti, legalmente o illegalmente poco importa.
«Più di 77 milioni di Americani hanno dato al presidente il mandato di deportare
i criminali migranti illegali» ha detto Kush Desai, portavoce della Casa Bianca,
rivendicando il potere politico del presidente di liberarsi da qualsiasi vincolo
il sistema giuridico possa imporgli, siano esse leggi ordinarie o
costituzionali, locali, statali o federali. «Chi salva l’America, non può
violare la legge» aveva peraltro affermato Trump poco dopo la sua elezione e il
tema dell’immigrazione si presenta quale ottimo terreno per sondare la reale
possibilità di dichiararsi legibus solutus.
È in questo quadro che si inserisce il suo secondo executive order volto a
togliere i fondi federali a tutti i comuni che si dichiarino sanctuary city,
ossia che si rifiutino di collaborare con il governo federale nell’apprensione
dei migranti, emanato quattro giorni dopo che il primo era stato bloccato da un
giudice federale e quindi nuovamente bloccato dallo stesso, perché solleva il
dubbio che serva «per costringere incostituzionalmente le città e le counties (e
altre giurisdizioni analoghe) a cambiare le proprie politiche per conformarsi
alla preferenze dell’amministrazione Trump».
Si tratta di un duro scontro fra l’amministrazione federale e i limiti
provenienti dalla rule of law, che Trump ha messo pesantemente in atto anche a
livello federale. Ne sono esempi lampanti le minacce di impeachment al giudice
James E. Boasberg, che aveva osato ordinare all’amministrazione Trump di non far
partire e poi riportare indietro 200 Venezuelani inviati senza giusto processo
nel famigerato CECOT, prigione salvadoregna nota per i suoi metodi contrari ai
diritti fondamentali degli individui; o la presa in giro da parte
dell’amministrazione Trump della stessa decisione della Corte Suprema che aveva
richiesto che fosse facilitato il ritorno di uno di essi, riconosciutamente
inviatovi per errore. «Certo» – hanno detto gli avvocati dell’amministrazione
alla giudice del Maryland che chiedeva loro l’ottemperanza di quella pronuncia –
«se si presenterà al confine faciliteremo senz’altro il suo rientro!».
Senza giusto processo, nonostante un orientamento costante della Corte Suprema
federale che legge la formula del quinto emendamento della Costituzione –
secondo cui nessuno può essere privato della libertà, della proprietà e della
vita without a due process of law – come applicabile a tutti, non cittadini
compresi, sono stati deportati in tanti, perfino dei bimbi cittadini. Gli
arresti e le detenzioni in orridi centri di rimpatrio senza giustificazione e
spiegazione (se non il ricorso a un oscura legge del 1952 che consentirebbe al
Segretario di Stato di espellere chiunque venga considerato pregiudizievole per
i rapporti di politica estera del governo) dei tanti studenti che – come Ozturk
o Kahlil, in possesso di un regolare visto o addirittura di un permesso di
residenza permanente – hanno protestato pacificamente ed espresso indignazione
per la carneficina in atto a Gaza, rappresentano un altro atto di forza per
reprimere il dissenso e terrorizzare chi osi criticare od opporsi alle politiche
di un presidente che in quanto votato dal popolo ritiene per questo di non avere
limiti.
In molti si domandano ormai dove sia finito quel sistema americano che si è
sempre presentato come paladino delle libertà individuali e del free speech. Ciò
tanto più a fronte delle dichiarazioni di Stephen Miller che, al grido di un
colpo di stato dei giudici che non lascerebbero fare al presidente e alla sua
amministrazione il loro mestiere, minaccia addirittura l’eliminazione
dell’habeas corpus, la fondamentale e ancestrale garanzia che nel mondo di
common law assicura agli individui il controllo giurisdizionale sulla
legittimità della loro detenzione. Così mentre Trump inveisce su X contro chi
intende ricondurlo all’interno dei limiti della rule of law («le nostre Corti
non mi lasciano fare il lavoro per il quale sono stato eletto»), la sua
amministrazione rilancia dichiarandosi libera di deportare i migranti ovunque,
anche in Libia, senza previo avviso né esplicita approvazione di un giudice, sia
pur dell’immigrazione (parte non del giudiziario ordinario, bensì di quello
amministrativo alle dipendenze del dipartimento di giustizia), purché assicurino
di non torturali.
E mentre la deportazione all’inferno senza giusto processo pare a Trump il modo
migliore per assolvere al suo mandato presidenziale, la più antica democrazia
costituzionale del mondo si avvia a subire una virata autoritaria in cui nessuno
può più sentirsi al sicuro. «Quando viene tolto a qualcuno il fondamentalissimo
diritto della libertà, quella persona ha diritto almeno a un processo minimo;
altrimenti, tutti noi rischiamo di essere detenuti — e forse deportati — perché
qualcuno nel governo pensa che non dovremmo essere qui» scrive in proposito il
giudice Vilardo del distretto federale di New York.
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E’ morto Pepe Mujica lo storico leader dell’Uruguay. Era nato il 20 maggio 1935.
Una vita straordinaria, da tupamaro a presidente
di Checchino Antonini da Popoff
Demetrio perse la sua terra a Casupá durante la crisi degli anni Trenta. Il suo
nuovo progetto, il cemento prefabbricato, lo portò nella città coloniale di
Carmelo per costruire i capannoni necessari al nuovo progetto. Lì conobbe Lucy,
che proveniva da una famiglia piemontese dedita ai vigneti. La nuova famiglia
non ha avuto fortuna nemmeno con l’azienda familiare che ha sviluppato su un
ettaro situato sul Paso de la Arena, a Montevideo. Alla fine, Lucy e i suoi
figli, José e María, rimasero senza il padre, che morì quando i bambini avevano
rispettivamente 8 e 2 anni.
Tutti e tre vissero “in dignitosa povertà”. Giacche logore, vestiti rattoppati,
ma c’era carne da mangiare. E c’era lo zio “Angelito”, che gli fece conoscere la
passione per i libri e la politica.
José Mujica, per tutti Pepe, lo ha ricordato nel libro di María Ester Gilio
“Mujica, de tupamaro a presidente”. José “Pepe” Mujica, storico leader ricordato
per la magia delle sue parole, è morto martedì 13 maggio. La vita dell’ex leader
uruguaiano è stata un film, come ha scritto Mercedes López San Miguel
sull’argentino Pagina12.
Pepe, come lo chiamavano tutti in Uruguay, sarà ricordato per la saggezza delle
sue parole. Era nato il 20 maggio 1935. Ed è entrato nella storia: un ex
guerrigliero tumaparo che il 1° marzo 2010 è diventato presidente del suo
piccolo Paese.
All’inizio del 2025, Pepe Mujica ha detto addio alla vita pubblica e ha chiesto
di poter riposare nell’intimità della sua fattoria, già affetto da un cancro
all’esofago in fase molto avanzata. “Quello che chiedo è che mi lascino in pace.
Non chiedetemi più interviste o altro. Il mio ciclo è finito. Onestamente, sto
morendo. Il guerriero ha diritto al riposo”, ha dichiarato al settimanale
Búsqueda.
Durante il suo governo, il suo discorso davanti alle Nazioni Unite è stato
riprodotto in innumerevoli video su YouTube e la sua figura è stata catapultata
con l’avanzamento dell’agenda dei diritti, come la regolamentazione del mercato
della cannabis, la depenalizzazione dell’aborto e il matrimonio egualitario, che
ha persino generato un costante pellegrinaggio di stranieri alla sua fattoria a
Rincón del Cerro. Pepe Mujica ha donato quasi il 90% del suo stipendio da
presidente in beneficenza e ha sempre vissuto a vivere nella sua fattoria di
Rincón del Cerro, alla periferia di Montevideo, insieme a Lucía Topolansky,
allora senatrice e anch’essa ex tupamaro. Una piccola parte del mondo della
coppia, che non aveva figli, uno stile di vita semplice, l’amore per il tango e
la coltivazione di fiori e ortaggi, è stata raccontata dal regista Emir
Kusturica nel documentario “El Pepe, una vida suprema”.
Una volta che la sua compagna di sempre sarà morta, la fattoria passerà nelle
mani del MPP, il partito che hanno fondato insieme.
In una recente intervista al New York Times, l’autorevole quotidiano
statunitense lo ha descritto come un “filosofo schietto”. “La vita è bella. Con
tutte le sue vicissitudini, amo la vita. E la sto perdendo perché sono nel
momento di andarmene”, ha detto Mujica. Alla domanda su come vorrebbe essere
ricordato, è stato categorico: “Per quello che sono: un vecchio pazzo che ha la
magia della parola”.
Una vita da militante
Mujica è diventato un attivista da adolescente. “Avevo 14 anni quando ho
iniziato a far parte di un gruppo anarchico”, racconta a María Ester Gilio nel
libro Pepe Mujica, de tupamaro a presidente (Pepe Mujica, da tupamaro a
presidente). Da giovane, dopo un esordio al seguito di Enrique Erro, leader di
un settore minoritario del Partito Nazionale intorno al 1956, è stato sempre più
coinvolto nei partiti di sinistra ed è diventato marxista. Un marxismo difficile
da inquadrare nelle visioni dei socialisti e dei comunisti dell’epoca. Quella di
un curioso e avido lettore.
In questa ricerca, si unì alla lotta armata con il Movimiento de Liberación
Nacional-Tupamaros, un movimento di guerriglia urbana ispirato alla rivoluzione
cubana. Fu imprigionato per la prima volta nel 1964 per il tentato assalto a una
filiale dell’azienda Sudamtex e nel 1969 entrò in clandestinità perché la
polizia scoprì armi e munizioni che i guerriglieri gli avevano consegnato in
custodia.
Mujica partecipò alla presa della città di Pando (a Canelones, a pochi
chilometri da Montevideo) l’8 ottobre 1969, quando decine di guerriglieri
presero il controllo della stazione di polizia, della caserma dei pompieri e
altri assaltarono la centrale telefonica e le filiali bancarie. L’operazione
durò mezz’ora, tanto durò la fuga e lo scontro con la polizia, che causò la
morte di tre tupamaros, un poliziotto e un civile. Una scena in bianco e nero
che mette insieme parte della sua vita.
Un’altra volta una pattuglia gli sparò sei volte a terra. Fu arrestato più
volte. Nel 1971 fu protagonista di un altro momento da film: l’evasione
attraverso un tunnel di 111 prigionieri (106 guerriglieri) dal carcere di Punta
Carretas, una delle più grandi fughe dalla prigione della storia.
Dopo il colpo di Stato del 1973, Mujica divenne ostaggio della dittatura. Nel
libro Memorias del calabozo, Fernández Huidobro ha parlato con Mauricio Rosencof
della dolorosa esperienza che hanno vissuto insieme a Raúl Sendic, Jorge Manera,
Henry Engler, Adolfo Wasem, Jorge Zabalza e Julio Marenales, che venivano fatti
avvicendare tra le caserme. “Una notte del settembre 1973, nove militanti del
Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaros furono prelevati di sorpresa da
ognuna delle nostre celle nella prigione di Libertad….. Quel lungo viaggio di
nove ostaggi della tirannia durò esattamente undici anni, sei mesi e sette
giorni”.
“Fummo prelevati di sorpresa da ognuna delle nostre celle”, raccontano gli ex
guerriglieri Mauricio Rosencof ed Eleuterio Fernández Huidobro nell’introduzione
al libro Memorias del calabozo (Ricordi della prigione) nel carcere di Libertad.
Nella solitudine del gelido mattino presto di quell’inverno crescente, persino
il motore dei camion che ci aspettavano sembrava voler parlare a bassa voce
perché gli altri prigionieri (migliaia) non sentissero”. “Fu un trasferimento
vergognoso, un trasferimento con la consapevolezza che si stava commettendo
qualcosa di grave”, aggiungono pagine dopo.
Questo “viaggio” avrebbe occupato 11 anni della loro vita, con brevi soggiorni
in diverse caserme dell’esercito nell’interno del Paese. Mujica, insieme a
Rosencof e Huidobro, sarebbe stato assegnato alla IV Divisione dell’Esercito,
responsabile della costa orientale. Oltre ai continui trasferimenti, la
punizione imposta dalle Forze Armate era crudele: gli ostaggi erano tagliati
fuori sia gli uni dagli altri che dal mondo esterno, in modo che il loro unico
contatto con esso fosse momentaneo, o attraverso gli spioncini installati nelle
porte delle rispettive prigioni o nel giornale che i soldati usavano nel bagno,
a cui i prigionieri potevano accedere solo una volta al giorno.
Dal canto suo, il mutevole “habitat”, spiega, era privo di mobili e non superava
mai i due metri quadrati. Inoltre, i carcerieri imponevano di “stare seduti su
una piccola panca di legno, con le spalle alla porta e la faccia premuta contro
il muro” per periodi di tempo prolungati, oltre ad altri metodi di tortura e
umiliazione che caratterizzavano le dittature latinoamericane.
Mujica iniziò a parlare con le formiche e ad avere delle allucinazioni e finì
nell’Ospedale Militare all’inizio degli anni Ottanta. Uno psichiatra gli
consigliò di leggere e scrivere. A proposito di quel periodo, Pepe racconta:
“Prendevo le pillole che mi dava e le buttavo in bagno”. C’era qualcosa, però,
che questa donna mi aiutò a fare. Mi diede il permesso di leggere libri di
scienze… Mi autorizzò anche a scrivere, e l’esercizio della scrittura disciplinò
il mio cervello”, ha raccontato in Pepe Mujica, de tupamaro a presidente.
Dalla guerriglia al Frente Amplio
L’8 marzo 1985, un uomo magro fu rilasciato dal carcere. La descrizione potrebbe
valere per lui o per gli altri compagni che lasciarono il carcere senza altri
progetti che la vita di tutti i giorni. Un vecchio trattore e alcuni cani
accompagnarono le mattine di Pepe e Lucía Topolansky, la sua compagna, nella
loro fattoria di Rincón del Cerro, il luogo dove ricominciò con ciò che
conosceva: l’agricoltura. Pepe Mujica ha riacquistato la libertà con un’amnistia
nel 1985 e, con alcuni membri del MLN-T iniziò un processo di incorporazione nel
sistema politico uruguaiano. Nel 1989 gli ex guerriglieri fondarono il
Movimiento de Participación Popular (MPP) e si unirono al Frente Amplio (FA).
Nel 1994 Mujica fu eletto deputato e nel 1999 senatore; l’MPP cominciava a
mostrare una grande capacità di accumulazione che lo avrebbe portato a essere,
nelle elezioni del 2004 e in quelle successive, il settore più votato della
coalizione di sinistra. Prima di diventare presidente della Repubblica è stato
ministro dell’Allevamento e dell’Agricoltura nel primo governo del Frente Amplio
guidato da Tabaré Vázquez.
All’epoca, Mujica dichiarò al giornale di essere consapevole che “c’è una
sinistra uruguaiana con cui non ci troviamo bene”, ma che “camminiamo perché
abbiamo bisogno l’uno dell’altro”. “Siamo uniti dalla paura. La paura che vinca
la destra. E la stessa cosa deve accadere ai nostri compagni”, ha detto. Nel
2009 si è presentato come candidato unico del Frente Amplio (coalizione di una
trentina di partiti, movimenti e correnti di sinistra, socialisti, comunisti,
trotzkisti e democristiani. Nel loro programma comune si definiscono
progressisti, antimperialisti, antirazzisti e antipatriarcali), e ha vinto in
coppia con Danilo Astori e da quel momento la sua figura è diventata nota in
tutto il mondo. La notizia della sua morte è l’apertura di tutti i giornali
latino americani.
I governi del Frente Amplio, quelli dei socialisti Tabaré Vázquez (2005-2010 e
2015-2020) e Pepe Mujica (2010-2015), hanno definitivamente rotto il sistema
bipartitico, l’alternanza pluridecennale del Partido Nacional e del Partido
Colorado.
La vita austera del vecchio guerrigliero, la sua semplicità, il suo modo di
parlare semplice e diretto, la sua lotta contro la corruzione e gli sprechi, il
suo impegno sociale, la sua capacità di parlare e dialogare sia con la gente
comune che con i leader delle grandi potenze, la sua tolleranza e la costante
ricerca del consenso con chi difendeva altre posizioni ideologiche, gli valsero
il rispetto anche di molti politici e persone con posizioni diametralmente
opposte alle sue.
Critiche da sinistra
Tuttavia, scrive Roberto Montoya su El Salto Diario, un sito spagnolo, la sua
vita politica pubblica non è stata esente da aspre critiche da parte di settori
che condividevano la sua militanza nei Tupamaros e da militanti di altri gruppi
di sinistra. Molti sostenevano che Mujica si stesse facendo assorbire dal
sistema stesso contro cui aveva combattuto fin da giovane.
Nel maggio 2007 aveva rilasciato una dichiarazione in cui faceva autocritica sul
suo passato di guerrigliero: “Mi pento profondamente di aver preso le armi con
poca abilità e di non aver evitato una dittatura in Uruguay”.
L’adattamento del vecchio guerrigliero ai nuovi tempi, il suo modo peculiare di
fare politica dalla base, prima come deputato, poi come senatore e infine come
presidente, è stato spesso visto dai settori più radicali della sinistra come un
abbandono dei valori ideologici dei Tupamaros.
Le critiche ricevute da settori della sinistra, alcune delle quali molto aspre,
si sono concentrate su vari aspetti delle sue posizioni politiche: l’assenza di
progressi significativi nella redistribuzione della ricchezza durante il suo
mandato, i suoi cambiamenti di posizione nei confronti dei militari o le sue
divergenze con il movimento femminista.
Più di qualche attivista dei Tupamaros ha sostenuto che Mujica si stava facendo
assorbire proprio dal sistema contro cui aveva lottato fin da giovane.
Nel 2019, dopo essere stato eletto senatore, ha rilasciato alcune dichiarazioni
controverse e aggressive al settimanale uruguaiano Voces. Mujica ha riconosciuto
il machismo, ha denunciato la società patriarcale, ma ha sostenuto che il
femminismo non può sostituire la lotta di classe. “Vedo anche classi sociali
all’interno dello stesso movimento femminista”, ha sostenuto.
Mujica non è stato l’unico dei tanti ex leader della guerriglia divenuti
presidenti con l’avvento della democrazia nei Paesi dell’America Latina e
dell’Africa ad essere rimproverato per la sua metamorfosi dai suoi ex compagni
di militanza.
Lo ha sperimentato personalmente Nelson Mandela, leader dell’African National
Congress (ANC) e dell’organizzazione guerrigliera Umkhonti we Sizwe (MK) (Lancia
della Nazione), che dopo 27 anni di carcere è diventato presidente del
Sudafrica. Molti dei suoi ex compagni lo criticarono per aver fatto troppe
concessioni a coloro che erano stati complici dell’apartheid, dell’oppressione,
della brutale repressione e dei crimini subiti per decenni dalla maggioranza
della popolazione nera, di cui Mandela stesso faceva parte.
È successo anche con Dilma Rousseff, marxista come Mandela e Mujica, militante
della guerriglia Grupo Política Operária (Polop), anch’essa torturata e
incarcerata per due anni, che finirà per diventare presidente del Brasile. La
sinistra radicale metteva in discussione la sua politica di coesistenza al
potere con settori della destra, che erano proprio quelli che avrebbero finito
per tradirla e per organizzare un golpe morbido contro di lei per rovesciarla.
Il capitolo di verità e giustizia
Nonostante la promozione di un programma di misure sociali progressiste fin dal
primo governo del Frente Amplio, le divisioni al suo interno sono apparse presto
evidenti.
Tabaré Vázquez pose il veto su una proposta della maggioranza della coalizione,
approvata in Parlamento, per legalizzare l’interruzione di gravidanza, e pose
nuovamente il veto su una proposta legislativa del Frente Amplio per abolire la
Ley de Caducidad, che aveva lasciato impuniti i crimini commessi da militari,
polizia e civili durante la dittatura militare. Tabaré Vázquez accettò solo che
alcuni dei responsabili di questi crimini non sarebbero stati coperti da questa
amnistia.
Una delle controversie che da anni si protraggono all’interno del Frente Amplio
è la posizione da assumere nei confronti della legge sulla scadenza delle
pretese punitive dello Stato, approvata nel 1986 durante il governo di Julio
María Sanguinetti, leader del tradizionale partito conservatore Colorado, che
aveva vinto le prime elezioni dopo il ritorno alla democrazia nel 1984.
Questa legge de Caducidad concedeva l’amnistia per i reati commessi dalla
dittatura militare tra il 1973 e il 1° marzo 1985, quando Sanguinetti entrò in
carica. Mujica denunciò Sanguinetti per aver usato la controversa legge per
ostacolare le indagini sui casi di prigionieri scomparsi ma da presidente non
sarebbe mai riuscito ad abrogarla.
Come riparazione storica più che simbolica, è stato l’ex tupamaro Mujica a
chiedere pubblicamente scusa, a nome dello Stato uruguaiano, per la scomparsa di
María Claudia Iruretagoyena, nuora del poeta Juan Gelman. Lo ha fatto nel marzo
2012, in ottemperanza a una sentenza della Corte interamericana dei diritti
umani sul caso Gelman.
Il capitolo della memoria, della verità e della giustizia non è stato privo di
difficoltà durante il governo di Mujica, con gravi difficoltà nel rovesciare la
Ley de Caducidad, che dava l’impunità a militari e poliziotti accusati di
crimini contro l’umanità. E anche a causa della nomina di Guido Manini Ríos, a
capo dell’esercito e poi esponente dell’estrema destra, alleato del governo
uscente di Luis Lacalle Pou.
Mujica al governo
Mujica ha sostituito Tabaré Vázquez nel 2010 dopo il secondo trionfo elettorale
del Frente Amplio e ha dato al governo un carattere più progressista. Durante il
suo mandato, sono stati legalizzati l’aborto e il matrimonio omosessuale e
l’Uruguay è diventato il primo Paese al mondo a legalizzare la vendita e il
consumo controllati di marijuana, regolati dallo Stato.
Per quanto riguarda il matrimonio omosessuale, ha detto: “Dicono che è moderno,
ma è più vecchio di tutti noi. È una realtà oggettiva. Esiste e non legalizzarlo
significherebbe torturare inutilmente le persone”. “Lasciate che ognuno faccia
quello che vuole con il proprio culo”, ha detto in un’intervista. E sul consumo
di marijuana: “È uno strumento per combattere il traffico di droga, che è un
reato grave, e per proteggere la società”. Mujica ha fatto una precisazione: “Ma
attenzione, gli stranieri non potranno venire in Uruguay per comprare marijuana;
non ci sarà turismo della marijuana”.
Anche durante il governo di Mujica ci sono state polemiche per varie iniziative
fallite, come il progetto minerario a cielo aperto di Aratirí, la costruzione
del rigassificatore di Gas Sayago e la chiusura di Pluna, che costarono il posto
all’allora ministro dell’Economia e delle Finanze, Fernando Lorenzo, e al
presidente del Banco República, Fernando Calloia. A ciò si aggiunge il
fallimento della compagnia aerea Alas U.
Pepe e il Sudamerica
Una delle ossessioni del politico veterano era il Sudamerica. “Non vedo
l’integrazione per domani. Penso a 25, 30 anni da oggi. Dobbiamo imparare a
sopportarci a vicenda, a destra e a sinistra”, ha detto Mujica a questo
giornalista durante il suo ultimo viaggio a Buenos Aires a proposito della tanto
agognata integrazione regionale. Lui, che ha avuto un ruolo di primo piano
accanto a Lula, Chávez, Cristina Kirchner, Rafael Correa ed Evo Morales in un
momento in cui questo desiderio sembrava possibile e le condizioni di vita dei
settori più svantaggiati stavano migliorando.
Il quotidiano uruguaiano di sinistra, La Diaria, ricorda che in una delle sue
ultime interviste al giornale, Mujica ha riflettuto sul fatto che anche nel
MLN-T erano “prigionieri di un’epoca e di un tempo”. Il “problema”, sottolineava
Mujica all’epoca, era che “non si impara nulla dalla realtà se non si ha una
visione critica di essa e non la si vede più complicata”.
Nonostante sia un piccolo Paese di 3,5 milioni di abitanti senza particolare
rilevanza a livello internazionale, durante i governi del Frente Amplio, e
soprattutto durante il mandato di Mujica, l’Uruguay ha svolto un ruolo attivo
nelle nuove organizzazioni regionali dell’America Latina e dei Caraibi nei primi
decenni del XXI secolo, quando sono saliti al potere più governi progressisti
che mai nella storia della regione.
Forze progressiste con caratteristiche diverse sono salite al potere in
Argentina, Uruguay, Cile, Brasile, Paraguay, Bolivia, Ecuador, El Salvador,
Venezuela e Nicaragua, e in contrasto con le turbolenze, le divisioni interne e
le gravi deviazioni ideologiche sperimentate da molti di questi processi, il
Frente Amplio è riuscito a mantenere una relativa stabilità interna nonostante
le differenze tra i suoi gruppi costituenti.
Mujica ha attribuito queste deviazioni in altri Paesi al personalismo e
all’allontanamento di molti leader dai movimenti sociali e dalle maggioranze che
li hanno portati al potere.
Ricorda Montoya che Pepe, negli ultimi anni ha finito per essere molto critico
non solo nei confronti di Daniel Ortega, seguendo la deriva dittatoriale del
vecchio leader del FSLN, o di Nicolás Maduro, che considerava aver tradito
l’ideologia chavista; ma si è anche arrabbiato con Cristina Kirchner o Evo
Morales per non aver accettato che “il loro tempo è finito” e ai quali ha
raccomandato di farsi da parte e passare il testimone alle nuove generazioni.
Dopo la sua presidenza, Mujica è diventato una figura mondiale: è stato
mediatore nel processo di pace tra le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia
e il governo colombiano.
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Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, il Pkk, ha annunciato di avere tenuto a
inizio maggio il 12/mo congresso, che ha deciso di sciogliere la struttura
organizzativa e porre fine alla lotta armata. Il Pkk, in una dichiarazione
scritta, ha dato quindi sostanza all’appello lanciato a febbraio dal leader
Abdullah Ocalan (da 26 anni rinchiuso nell’isola carcere di Imrali) per una
soluzione politica e non militare del conflitto pluridecennale con Ankara.
“Tutte le attività sotto il nome di Pkk sono terminate”, si legge nella
dichiarazione conclusiva del congresso.
Da capire ora la risposta di Erdogan, visto che tra le condizioni del Pkk c’è la
possibilità che sia lo stesso Ocalan a condurre la nuova fase politica, fuori
quindi dal carcere, con contestuale disarmo in tre fasi, vigilato da esponenti
delle Nazioni Unite. La dichiarazione del PKK non riguarda, infatti, solo la
Turchia; sono molti altri i Paesi – Siria, Iraq e Iran in particolare – che
saranno in qualche modo coinvolti dalla svolta politica della lotta di
liberazione, curda ma non solo, così come delineata dal “nuovo paradigma”
confederale dello stesso Ocalan.
Nella mattina di lunedì 12 maggio Radio Onda d’Urto ne ha parlato con Michele
della redazione e Murat Cinar, giornalista turco che vive in Italia Ascolta o
scarica
Duran Kalkan, del comitato esecutivo del Pkk, aprendo il congresso ha infatti
affermato: “Questo congresso è diverso dagli altri. In un certo senso, può
essere paragonato al nostro primo congresso. Si tiene per concludere e collocare
storicamente, in maniera corretta, l’esperienza del Pkk. Ma questo non è il fine
ultimo; piuttosto, l’obiettivo è creare spazio per nuove iniziative e
opportunità”. Anche di questo aspetto abbiamo parlato con Jacopo Bindi,
dell’Accademia della Modernità Democratica, nell’intervista realizzata da Radio
Onda d’Urto nel pomeriggio di lunedì 12 maggio 2025. Ascolta o scarica.
Di seguito, la traduzione del comunicato dell’agenzia di stampa filo-curda, Anf,
tradotto dalla redazione di Radio Onda d’Urto. Ascolta o scarica
Tradotto da
https://anfenglishmobile.com/kurdistan/pkk-final-declaration-activities-under-the-pkk-name-have-ended-79294
Il 12° Congresso del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ha rilasciato
la seguente dichiarazione: “Il processo avviato dalla dichiarazione del leader
Abdullah Öcalan il 27 febbraio, e ulteriormente plasmato dal suo ampio lavoro e
dalle sue prospettive multidimensionali, è culminato nel 12° Congresso di
Partito, convocato con successo tra il 5 e il 7 maggio.
Nonostante gli scontri in corso, gli attacchi aerei e di terra, il continuo
assedio delle nostre regioni e l’embargo del KDP, il nostro congresso si è
svolto in condizioni di sicurezza in condizioni difficili. A causa di problemi
di sicurezza, il congresso si è svolto contemporaneamente in due luoghi diversi.
Con la partecipazione di 232 delegati in totale, il 12° Congresso del PKK ha
discusso di leadership, martiri, veterani, struttura organizzativa del PKK e
lotta armata e costruzione di una società democratica, culminando in decisioni
storiche che segnano l’inizio di una nuova era per il nostro movimento di
libertà.
Cessano tutte le attività sotto il nome del PKK
Il 12° Congresso straordinario ha valutato che la lotta del PKK ha smantellato
le politiche di negazione e annientamento imposte al nostro popolo, portando la
questione curda a un punto in cui può essere risolta attraverso la politica
democratica. Ha concluso che il PKK ha compiuto la sua missione storica. Su
questa base, il 12° Congresso ha deciso di sciogliere la struttura organizzativa
del PKK e di porre fine alla lotta armata, con il processo di attuazione che
sarà gestito e guidato dal leader Apo [Abdullah Öcalan]. Tutte le attività
condotte sotto il nome del PKK sono state quindi terminate.
Il nostro partito, il PKK, è emerso come movimento per la libertà dei curdi in
opposizione alle politiche di negazione e annientamento radicate nel Trattato di
Losanna e nella Costituzione del 1924. Influenzato dal socialismo reale al suo
inizio, ha abbracciato il principio dell’autodeterminazione nazionale e ha
portato avanti una lotta legittima e giusta attraverso la resistenza armata. Il
PKK si è formato in condizioni dominate da politiche aggressive di negazione,
annientamento, genocidio e assimilazione dei curdi.
Dal 1978, il PKK ha condotto una lotta per la libertà volta a garantire il
riconoscimento dell’esistenza curda e a stabilire la questione curda come realtà
fondamentale della Turchia. Grazie al successo di questa lotta, il nostro
movimento ha realizzato una rivoluzione di resurrezione per il nostro popolo,
diventando un simbolo di speranza e di vita dignitosa per i popoli della
regione.
Negli anni ’90, periodo di grandi conquiste per il nostro popolo, il presidente
turco Turgut Özal iniziò a cercare una soluzione politica alla questione curda.
In risposta, il Leader Apo dichiarò un cessate il fuoco il 17 marzo 1993, dando
il via a una nuova fase. Tuttavia, il collasso del socialismo reale,
l’imposizione di tattiche di tipo brigatista alla nostra strategia di guerra e
l’eliminazione di Özal e della sua squadra da parte dello Stato profondo hanno
sabotato questa iniziativa. Lo Stato intensificò le sue politiche di negazione e
annientamento, intensificando la guerra. Migliaia di villaggi sono stati
evacuati e bruciati; milioni di curdi sono stati sfollati; decine di migliaia
sono stati torturati e imprigionati; e migliaia sono stati uccisi in circostanze
sospette.
In risposta, il Movimento per la Libertà crebbe sia in termini di dimensioni che
di capacità. La guerriglia si diffuse in tutto il Kurdistan e in Turchia.
L’impatto della guerriglia portò il popolo curdo a sollevarsi in rivolte di
massa (serhildan), trasformando la guerra nell’opzione principale per entrambe
le parti. L’escalation bellica che ne derivò non poté essere invertita e gli
sforzi del leader Apo per risolvere la questione curda con mezzi democratici e
pacifici alla fine fallirono”.
Ricostruire le relazioni turco-curde è inevitabile.
Il processo è entrato in una fase diversa con la cospirazione internazionale del
15 febbraio 1999. In questo processo, uno degli obiettivi principali della
cospirazione, una guerra curdo-turca, è stato impedito grazie ai grandi
sacrifici e agli sforzi del leader Apo. Nonostante fosse stato detenuto nel
sistema di tortura e genocidio di Imralı, ha persistito nella ricerca di una
soluzione democratica e pacifica alla questione curda. Per 27 anni, il leader
Apo ha resistito al sistema di annientamento di Imralı, vanificando la
cospirazione internazionale. Nella sua lotta, ha analizzato il sistema
statalista dominato dagli uomini e guidato dal potere e ha sviluppato un
paradigma per una società democratica, ecologica e orientata alla libertà delle
donne. In questo modo, ha materializzato un sistema di libertà alternativo per
il nostro popolo, le donne e l’umanità oppressa.
Il leader Apo, riferendosi al periodo precedente al Trattato di Losanna e alla
Costituzione del 1924, in cui le relazioni curdo-turche divennero problematiche,
ha proposto un quadro per la risoluzione della questione curda basato sulla
Repubblica Democratica di Turchia e sul concetto di Nazione Democratica, fondato
sull’idea di una Patria Comune e di popoli co-fondatori. Le rivolte curde nel
corso della storia della Repubblica, la dialettica curdo-turca lunga 1000 anni e
i 52 anni di lotta per la leadership hanno dimostrato che la questione curda può
essere risolta solo sulla base di una Patria Comune e di una cittadinanza
paritaria. Gli attuali sviluppi in Medio Oriente, nell’ambito della Terza Guerra
Mondiale, rendono inoltre inevitabile la ristrutturazione delle relazioni
curdo-turche.
Il nostro popolo comprenderà lo scioglimento del PKK e la fine della lotta
armata meglio di chiunque altro e si assumerà i doveri di quest’era.
Il nostro onorato popolo, che ha aderito al percorso della leadership e del PKK
per 52 anni a caro prezzo, opponendosi a politiche di negazione, annientamento,
genocidio e assimilazione, sosterrà il processo di pace e di una società
democratica in modo più consapevole e organizzato. Crediamo fermamente che il
nostro popolo comprenderà la decisione di sciogliere il PKK e porre fine al
metodo della lotta armata meglio di chiunque altro e si assumerà le
responsabilità dell’era della lotta democratica, basata sulla costruzione di una
società democratica. È di vitale importanza che il nostro popolo, guidato da
donne e giovani, costruisca le proprie auto-organizzazioni in tutti gli ambiti
della vita, si organizzi sulla base dell’autosufficienza attraverso la propria
lingua, identità e cultura, si autodifenda di fronte agli attacchi e costruisca
una società democratica comunitaria con spirito di mobilitazione. Su questa
base, crediamo che i partiti politici curdi, le organizzazioni democratiche e i
leader d’opinione adempiranno alle loro responsabilità per promuovere la
democrazia curda e la nazione democratica dei curdi. Grazie all’eredità della
nostra storia di libertà, lotta e resistenza, e alle decisioni del XII Congresso
del PKK, il percorso politico democratico si svilupperà con maggiore forza e il
futuro dei nostri popoli progredirà basandosi su principi di libertà e
uguaglianza. I poveri e i lavoratori, tutti i gruppi religiosi, le donne e i
giovani, i lavoratori, i contadini e tutti i segmenti esclusi rivendicheranno i
propri diritti e svilupperanno una vita comune in un ambiente giusto e
democratico.
Invitiamo tutti a unirsi al processo di pace e di società democratica.
La decisione del nostro Congresso di sciogliere il PKK e porre fine al metodo
della lotta armata offre una solida base per una pace duratura e una soluzione
democratica. L’attuazione di queste decisioni richiede che il Leader Apo conduca
e guidi il processo, che il suo diritto alla politica democratica sia
riconosciuto e che vengano stabilite solide e complete garanzie legali. In
questa fase, è essenziale che la Grande Assemblea Nazionale della Turchia svolga
il suo ruolo con responsabilità storica. Allo stesso modo, invitiamo il governo,
il principale partito di opposizione, tutti i partiti politici rappresentati in
parlamento, le organizzazioni della società civile, le comunità religiose e di
fede, i media democratici, i leader d’opinione, gli intellettuali, gli
accademici, gli artisti, i sindacati, le organizzazioni femminili e giovanili e
i movimenti ecologisti ad assumersi la responsabilità e ad unirsi al processo di
pace e di una società democratica.
Il coinvolgimento delle forze socialiste di sinistra turche, delle strutture
rivoluzionarie, delle organizzazioni e degli individui nel processo di pace e di
una società democratica eleverà la lotta dei popoli, delle donne e degli
oppressi a un nuovo livello. Ciò significherà il raggiungimento degli obiettivi
dei grandi rivoluzionari le cui ultime parole furono: “Lunga vita alla
fratellanza dei popoli turco e curdo e a una Turchia pienamente indipendente!”.
Con il Socialismo della Società Democratica che rappresenta una nuova fase nel
processo di pace e di una società democratica e nella lotta per il socialismo,
il movimento democratico globale avanzerà e un mondo giusto e paritario
emergerà. Su questa base, invitiamo l’opinione pubblica democratica, in
particolare i nostri compagni che guidano la Global Freedom Initiative, ad
ampliare la solidarietà internazionale nel quadro della teoria della modern ità
democratica.
Invitiamo le potenze internazionali a riconoscere le proprie responsabilità
nelle politiche di genocidio che durano da un secolo contro il nostro popolo, a
non ostacolare una soluzione democratica e a contribuire costruttivamente al
processo.
Annunciamo il martirio di Ali Haydar Kaytan e Riza Altun
Il nostro 12° Congresso del PKK, convocato su appello della nostra leadership,
ha proclamato il martirio di Fuat-Ali Haydar Kaytan, uno dei quadri dirigenti
del nostro partito, martirizzato il 3 luglio 2018, e del compagno Riza Altun,
martirizzato il 25 settembre 2019. Su questa base, ha riconosciuto il compagno
Fuat-Ali Haydar Kaytan, uno dei quadri dirigenti fondatori del PKK, come simbolo
di “Lealtà al Leader, Verità e Vita Sacra”, e il compagno Riza Altun, uno dei
primi compagni del Leader Apo, come simbolo di “Libertà e Cameratismo”.
Dedichiamo il nostro storico XII Congresso del Partito a questi due grandi
compagni martiri che ci hanno guidato dall’inizio del nostro Movimento per la
Libertà fino a oggi con la loro lotta ininterrotta. In loro nome, rinnoviamo la
nostra promessa a tutti i martiri della lotta e affermiamo il nostro impegno a
realizzare i sogni della compagno martire di Pace e Democrazia Sırrı Süreyya
Önder.
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Persecuzione Politica e Battaglie Legali in Turchia: La Lotta Continua di Ayten
Öztürk
di Devrim Umut da Pagine Esteri
Ayten Öztürk, una giornalista e socialista di 49 anni di origine alevita, è
stata condannata a due ergastoli aggravati con l’accusa di “tentato
rovesciamento dell’ordine costituzionale” e “complicità in omicidio
premeditato”. Queste accuse derivano dalle sue convinzioni politiche e dalla
presunta affiliazione a un gruppo per i diritti umani. Il caso si basa su
dichiarazioni di testimoni segreti.
Nel 2018, Öztürk è stata arrestata all’aeroporto di Beirut e consegnata ai
servizi di sicurezza turchi. È stata torturata per sei mesi in un centro di
detenzione segreto e sottoposta a gravi abusi, riportando 898 ferite e perdendo
25 chili. Nonostante sia stata assolta nel 2023 da un’altra accusa legata al
terrorismo, il suo libro che documentava le torture subite è stato confiscato e
bandito.
Ayten Öztürk è stata nuovamente arrestata nel febbraio 2024 dopo un attacco
armato davanti al tribunale di Istanbul. Questo evento ha innescato una
repressione contro attivisti, musicisti e professionisti del diritto, tra cui la
stessa Öztürk e molti dei suoi avvocati. All’epoca si trovava agli arresti
domiciliari, in attesa della decisione sulle sue due condanne all’ergastolo. Il
suo arresto rientra in un’ondata più ampia di detenzioni rivolte a dissidenti
politici, in particolare a coloro che difendono i diritti umani e si oppongono
alle politiche del governo.
Il suo team legale ha presentato ricorso alla Corte Costituzionale turca, con
l’intenzione di portare il caso davanti alla Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo, se necessario. La sua storia è diventata un simbolo della repressione
statale sotto il governo di Erdoğan ed è stata raccontata anche nel documentario
La Rivoluzione di Ayten, prodotto da Pagine Esteri.
Ayten Öztürk Condannata a Ulteriori Anni di Carcere tra Accuse Controverse e
Allegazioni
L’udienza finale del processo in cui Ayten Öztürk era accusata di “appartenenza
a un’organizzazione armata”, in relazione al suo arresto del febbraio 2024, si è
tenuta il 16 aprile 2025. Öztürk è stata condannata ad altri 6 anni e 3 mesi di
reclusione.
Nella sua difesa, Öztürk ha dichiarato che le accuse erano basate su “false
dichiarazioni di testimoni segreti” e ha affermato: “Le mie parole per voi non
contano nulla, ma oggi sono qui a causa di quello che due calunniatori hanno
detto”.
I suoi avvocati hanno contestato l’accusa, sostenendo: “Una volta arrestata,
ogni appartenenza organizzativa viene automaticamente interrotta. Se ci fosse
stata una reale affiliazione, questa sarebbe già stata spezzata con la
detenzione e gli arresti domiciliari”. Gli avvocati hanno inoltre fatto notare
che il caso si sovrapponeva a quello precedente per cui Öztürk era già stata
condannata a due ergastoli, chiedendo quindi l’annullamento del procedimento per
duplicazione. Nonostante ciò, è stata emessa la condanna a 6 anni e 3 mesi. Alla
lettura della sentenza, Öztürk ha gridato lo slogan: “Le condanne non ci
intimidiscono!”
Post trovati sul cellulare di Öztürk citati come prove
Come prova della sua appartenenza a un’organizzazione, nel fascicolo processuale
sono stati citati post trovati sul suo telefono, tra cui:
> “Halk Okulu ha scoperto il luogo della fattoria del MIT (Agenzia Nazionale di
> Intelligence) dove Ayten Öztürk è stata torturata per sei mesi e ha subito 898
> ferite! Troveremo ogni centro di massacro e ogni camera di tortura—segreta,
> aperta, sulla terra, nell’aria, sottoterra, sopra la terra.”
Un altro post menzionato includeva:
> “Mappa con la fattoria del MIT, il Palazzo Presidenziale e la Grande Assemblea
> Nazionale Turca (TBMM).”
La sentenza ha citato l’associazione di Öztürk con account Twitter come “Halkın
Hukuk Bürosu” (Ufficio Legale del Popolo), “TAYAD,” “Halkın Gücü TV” (TV del
Potere Popolare) e “DİRENİŞLER MECLİSİ” (Assemblea delle Resistenze) come prova
della sua appartenenza all’organizzazione DHKP/C. Il documento del tribunale ha
rilevato che “i dati trovati nei materiali digitali, insieme ai contenuti
condivisi dalle strutture organizzative sui social media, supportano l’accusa
che l’imputata abbia stabilito un legame organico con l’organizzazione”.
“La giustizia è vitale quanto il pane, l’acqua e l’aria – e un giorno, tutti ne
avranno bisogno”
Nella sua difesa finale, Öztürk ha detto:
> “Vogliono punirmi perché ho parlato di ciò che ho subito in un centro di
> tortura segreto nel 2018. Queste accuse non hanno basi materiali in un simile
> contesto. Mi stanno punendo per aver denunciato e condannato la tortura
> subita. Le mie parole per voi non contano nulla, ma oggi sono qui a causa di
> quello che due calunniatori hanno detto.
> Le torture di cui si parla oggi includono manette dietro la schiena e
> perquisizioni corporali. Vediamo in TV cosa fanno ai giovani. Io ho vissuto
> tutto questo per sei mesi. Lo ripeto da sette anni. Cercano di far finta che
> non sia mai successo, rinchiudendomi tra quattro mura e condannandomi
> all’ergastolo.
> La maggior parte delle notizie presentate come prove dal mio telefono
> parlavano di me. Ovviamente mi informavo su ciò che mi riguardava. Quindi,
> leggere notizie su di me ora è un crimine? Tutti sapevano chi ero; non c’era
> nulla di segreto. Quando la polizia è venuta, avevo il mio telefono con me—non
> avevo nulla da nascondere.
> Mi hanno posto davanti a due opzioni: o l’ergastolo o il silenzio. Pagare un
> prezzo così alto, negare la tortura e vivere nel disonore sarebbe stato peggio
> per me. Se fossi rimasta in silenzio, il prezzo sarebbe stato più pesante e
> più umiliante. La giustizia è vitale quanto il pane, l’acqua e l’aria—e voglio
> ricordare a tutti che un giorno anche loro ne avranno bisogno. L’ingiustizia
> significa recidere una delle linee vitali di una persona.”
Obiezione degli avvocati sulle foto nel fascicolo: l’accesso ai dati digitali è
stato improprio
Riguardo alle foto presentate come prova di appartenenza organizzativa, i legali
di Öztürk hanno dichiarato:
> “Non abbiamo modo di verificare se le immagini siano state manipolate. Sono
> state aggiunte immagini non pertinenti al fascicolo solo per creare un
> pretesto. Non avremo nemmeno la possibilità di valutarle. Il metodo con cui
> sono stati acquisiti i dati digitali è stato illegale, così come la loro
> analisi. Il telefono conteneva 50.000 foto, ma solo venti sono state
> selezionate e usate. Quando si usa Twitter su un telefono, le immagini vengono
> memorizzate nella cache. Probabilmente è quello che è successo, e ora stanno
> cercando di costruire accuse su questo.”
Gli avvocati chiedono l’assoluzione; il giudice emette la condanna a 6 anni e 3
mesi
Gli avvocati di Öztürk hanno sostenuto che l’appartenenza a un’organizzazione è
un processo e che non esisteva alcuna prova concreta che la loro assistita fosse
membro di un’organizzazione. Hanno sottolineato che, essendo già sotto arresto
domiciliare o in carcere, ogni legame organizzativo sarebbe stato
automaticamente interrotto.
Dopo una pausa di 10 minuti, il giudice ha condannato Öztürk a 5 anni per
“appartenenza a un’organizzazione armata.” La pena è stata poi aumentata a 7
anni e 6 mesi in base all’articolo 5/1 della Legge n. 3713, quindi ridotta a 6
anni e 3 mesi secondo l’articolo 62/1 del Codice Penale Turco (TCK n. 5237).
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Cronaca di una pace simulata: impunità del 99% agli attacchi contro i difensori
ambientali in Messico. Secondo il CEMDA e Global Witness, l’impunità per i
crimini contro i difensori dell’ambiente è del 99%, una percentuale che coincide
con i 25 attacchi letali registrati nel 2024, dove solo in 4 casi c’è stato un
coinvolgimento diretto dello Stato, senza alcun arresto.
di Laura Buconi da Pagine Esteri
Il Centro messicano per il diritto ambientale (CEMDA), nel suo resoconto annuale
sulla situazione delle persone e delle comunità che difendono i diritti umani
legati all’ambiente, rivela statistiche allarmanti, con attacchi letali contro i
difensori, soprattutto contro chi appartiene a comunità indigene e ad
associazioni civili.
Il resoconto arriva pochi giorni dopo che Marco Antonio Suástegui Muñoz, leader
del CECOP, che per 22 anni ha impedito la costruzione della diga di La Parota
nello stato di Guerrero, è stato ucciso da un proiettile il 18 aprile ad
Acapulco. Come riporta Amapola, il Centro di Difesa dei Diritti Umani
Tlachinollan aveva chiesto giustizia per questo difensore dell’ambiente, che
aveva già subito l’incarcerazione politica e la scomparsa del fratello. La sua
lotta ha fermato il progetto, ma la violenza lo ha raggiunto.
Qual è la situazione dei difensori della terra in Messico? Questi sono i dati
più recenti.
Le aggressioni contro i difensori del territorio restano impunite
Itzel Arteaga, responsabile dei diritti umani del CEMDA, riferisce che nel 2024
sono stati documentati 94 eventi di aggressione (momenti in cui si verificano
gli attacchi) e 236 aggressioni specifiche. All’interno dello stesso evento
possono verificarsi più aggressioni. Nel 2024, il CEMDA ha documentato 25
aggressioni letali, tra cui omicidi ed esecuzioni extragiudiziali. Venticinque
difensori dell’ambiente sono stati uccisi: 21 con omicidi e quattro con
esecuzioni extragiudiziali. La differenza metodologica è che le esecuzioni
extragiudiziali sono commesse o ordinate da agenti statali. In altre parole, c’è
stata la partecipazione di un’autorità.
“Sebbene ci sia stata una diminuzione di eventi e aggressioni specifiche, le
aggressioni letali sono aumentate considerevolmente nel 2024”, sottolinea
Arteaga.
Gli Stati con il maggior numero di aggressioni nel 2024 sono: Oaxaca (15),
Chiapas, Michoacán e Puebla (9 ciascuno) e Veracruz (8). Questi cinque Stati
rappresentano il 53,1% dei casi documentati.
Il CEMDA ha individuato che le principali vittime nel 2024 sono state membri di
comunità indigene o agrarie (43 eventi, il 45,7% del totale). Arteaga
sottolinea: “Questa dovrebbe essere una luce rossa per lo Stato, poiché non è la
prima volta che documentiamo questo schema”. Il secondo gruppo più colpito è
quello dei membri delle organizzazioni civili (21 eventi, 22,3%).
I principali aggressori sono stati: lo Stato (partecipazione a 62 eventi,
65,9%), le aziende (25 eventi, 26,5%) e la criminalità organizzata (17 eventi,
18%). Arteaga chiarisce che spesso agiscono in tandem: un singolo evento può
coinvolgere più autori.
Rispetto al 2023, il coinvolgimento dello Stato (dal 49,5% al 65,9%) e delle
imprese (dal 15,4% al 26,5%) è aumentato significativamente, mentre quello dei
gruppi criminali è diminuito (dal 29,6% al 18%).
Laura Furones di Global Witness mette in guardia sulle allarmanti statistiche
riguardo all’’impunità: “Ciò che è comune in questi casi è che gli aggressori
non vengono mai condannati, processati o identificati. Questo non solo rivela un
fallimento del sistema di giustizia, ma incoraggia anche una maggiore violenza.
Attaccare un difensore è economico: è improbabile che l’aggressore debba
affrontare conseguenze”.
Sulle donne difensore, aggiunge: “Subiscono tutti i tipi di violenza che
subiscono i loro colleghi maschi, oltre alla violenza di genere e di leadership.
Spesso i loro stessi contesti negano loro il diritto di essere leader, vengono
messe in discussione perché “abbandonano” il lavoro domestico e la cura dei
figli. La complessità è maggiore.”
Lo sfollamento forzato aumenta del 358% in Chiapas
I dati del CEMDA coincidono con il rapporto Chiapas: nella spirale della
violenza armata e criminale del Centro per i diritti umani Fray Bartolomé de las
Casas (Frayba), che descrive “una vera e propria crisi umanitaria e il suo
impatto sulla popolazione civile”.
Carlos Ogaz, rappresentante del Frayba, spiega: “Viviamo la violenza in mezzo al
negazionismo della precedente amministrazione e alla spettacolarizzazione
mediatica dell’attuale governo. Le forze armate, le miniere, i megaprogetti, il
crimine organizzato, le sparizioni, gli sfollamenti forzati e la violenza contro
le popolazioni indigene sono tutti fattori che compongono questa crisi”.
L’ex presidente del Messico Andrés Manuel López Obrador, sottolinea Ogaz, “disse
che il Chiapas non era una priorità perché altri Stati avevano un tasso di
omicidio più alto”.
Secondo il Dipartimento di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, in Messico ci
sono 386.000 sfollati interni, il 90% dei quali proviene dal Chiapas e da
Oaxaca. Le cause includono la criminalità organizzata, i gruppi paramilitari,
gli agenti statali, i progetti di sviluppo (miniere, disboscamento illegale,
estrazione di idrocarburi, edilizia, turismo), i conflitti territoriali, i
cambiamenti climatici ed i disastri naturali.
In Chiapas, lo sfollamento forzato esiste dagli anni ’60, ma tra il 2019-2023 è
aumentato del 358%. L’età più frequente delle donne scomparse è 15 anni; il 45%
delle persone scomparse sono minorenni. Tra il 2023 e il giugno 2024, il Frayba
ha registrato 15.780 sfollati nella regione, una cifra equivalente al totale del
periodo 2010-2022.
Dora Roblero, direttrice di Frayba, denuncia: “Gli sfollati che rientrano devono
pagare multe di 100 mila pesos (equivalenti a circa 5 mila euro), imposte da
attori armati con la complicità del governo. Mentre le autorità promuovono una
falsa immagine di normalità turistica, i villaggi vivono una guerra silenziosa”.
Economia criminale
Tra dicembre 2023 e giugno 2024, il Frayba ha identificato 257 eventi violenti
in Chiapas: 138 omicidi (molti dei quali con torture, smembramenti e messaggi
del narco) e 73 scontri.
Citlaliali Hernández di Indigenous Peoples Rights International spiega: “Questa
violenza criminale proviene da gruppi paramilitari formatisi durante la
controinsurrezione zapatista. In assenza di una transizione verso la pace, sono
mutati e ora si alleano con i cartelli”.
Il resoconto del Frayba documenta anche la messa a tacere di difensori e
giornalisti: “L’apparente diminuzione delle aggressioni è dovuta più a un
aumento dell’autocensura che a reali miglioramenti”.
Santiago Aguirre del Centro di Diritti Umani Miguel Agustín Pro Juárez avverte:
“Il paramilitarismo è stato creato dallo Stato messicano. Se l’attuale governo
non agisce secondo le raccomandazioni della Corte interamericana, ne diventa
complice. In Chiapas, la violenza criminale è già indistinguibile dalla violenza
di Stato”.
Politiche di protezione pubblica
Gustavo Alanís, direttore del CEMDA, afferma: “Manca una politica pubblica
completa per proteggere i difensori dell’ambiente. Urge rafforzare i meccanismi
esistenti”.
Gli esperti concordano sul fatto che il Messico deve attuare efficacemente
l’Accordo di Escazú (sull’accesso alle informazioni, la partecipazione e la
giustizia ambientale), il cui articolo 9 protegge specificamente i difensori.
“Deve essere garantito un ambiente sicuro per il loro lavoro”, sottolinea
Alanís.
Roblero conclude con speranza: “Nonostante tutto, le comunità si stanno
organizzando. Credono ancora che sia possibile costruire una vita dignitosa e la
pace. Questo resoconto è anche un grido di resistenza.”
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In Irlanda del Nord i Kneecap, gruppo rap di Belfast, sono indagati
dall’antiterrorismo britannico per il loro sostegno alla Palestina.
Tutto è iniziato quando il trio hip-hop nordirlandese si è esibito sul palco del
Coachella, festival annuale seguitissimo negli Stati Uniti. “Israel is
committing genocide against the Palestinian people… It is being enabled by the
US… Fuck Israel/Free Palestine“, sono le tre frasi lanciate dal palco del
Coachella che hanno reso i Kneecap la band più pericolosa e ricercata di
Scotland Yard.
Da qui le reazioni di esponenti politici inglesi che ne hanno chiesto
l’esclusione dai cartelloni musicali di festival o concerti, oltre che le
indagini da parte della polizia britannica per “incitamento all’odio“.
Nel panorama musicale, a prendere le loro difese, tra gli altri, i Massive
Attack: il gruppo di Bristol ha dichiarato che “se i politici di alto livello
non riescono a trovare il tempo e le parole per condannare, per fare un esempio,
l’assassinio di 15 operatori umanitari a Gaza o la fame imposta illegalmente
alla popolazione civile e usata come arma, o ancora l’uccisione di migliaia di
bambini da parte di uno Stato che possiede le armi di precisione più avanzate al
mondo, quale peso dovremmo dare ai loro consigli sugli artisti da invitare a un
festival?”.
Le prese di posizione politiche dei Kneecap non sono nuove. Figli della storia
dei Troubles, il gruppo nordirlandese fin dagli esordi nel 2017 ha raccontato
nelle sue canzoni la cultura giovanile della classe operaia di Belfast, il
repubblicanesimo e i diritti linguistici irlandesi. Tanto da cantare in alcune
canzoni in gaelico.
L’intervista di Radio Onda d’Urto a Carlo Gianuzzi, co-curatore con Sara
Agostinelli della rubrica “Diario d’Irlanda”, in onda ogni ultimo sabato del
mese. Ascolta o Scarica
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Il piano di invasione della Striscia di Gaza annunciato da Benjamin Netanyahu
aggiunge orrore ad orrore.
di InfoAut
Non ci sono sufficienti parole per descrivere quanto disgusto provochi il piano
ideato e approvato dal Gabinetto di Guerra israeliano per l’invasione della
Striscia di Gaza. Il piano prevede l’occupazione militare del 90% della striscia
e rinchiudere l’intera popolazione nel restante 10%.
Come riporta Alessandro Ferretti: “Due milioni e duecentomila persone verranno
costrette a stare a tempo indefinito in un’area di 45 chilometri quadrati,
ovvero quasi cinquantamila persone per chilometro quadrato. Per farsi un’idea,
la “zona umanitaria” avrebbe una densità abitativa quasi sette volte più grande
di quella dell’affollatissimo comune di Milano… senza parlare del fatto che a
Milano la gente abita in condomini a più piani, mentre a Gaza Israele li ha
appositamente rasi tutti al suolo. In pratica, stiamo parlando di una densità
abitativa paragonabile a quella di Auschwitz e naturalmente, nella zona non c’è
nulla di nulla: niente acqua potabile, niente servizi igienici, niente
elettricità, niente ospedali.. il niente.”
Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno affermato che la nuova offensiva,
denominata ‘Operazione Carri di Gedeone’, “comporterà un attacco su larga scala
e lo spostamento della maggior parte della popolazione della Striscia, al fine
di proteggerla in un’area libera da Hamas. E continueranno i raid aerei,
l’eliminazione dei terroristi e lo smantellamento delle infrastrutture”.
Il piano è stato evidentemente a lungo ponderato e non è iniziato con l’annuncio
di Netanyahu, ma con lo stop agli ingressi di aiuti umanitari che dura da due
mesi con l’obiettivo di gettare la popolazione della striscia nella più totale
disperazione con i segni di una carestia che si fanno sempre più evidenti. Sì
perché, oltre all’occupazione militare, il piano prevede un rigido controllo
della distribuzione degli aiuti umanitari da parte dell’IDF. Il piano prevede la
creazione di grandi centri di distribuzione gestiti da appaltatori privati nel
sud di Gaza, dove i rappresentanti selezionati di ogni famiglia palestinese
potrebbero recarsi per ritirare pacchi alimentari. Le truppe israeliane
sorveglierebbero le basi, che probabilmente sarebbero situate in una vasta zona
larga fino a 5 km attualmente in fase di sgombero lungo il confine con l’Egitto.
Nella retorica israeliana l’obiettivo di questa manovra sarebbe quello di
impedire ad Hamas di gestire la distribuzione degli aiuti, ma in realtà quello
che vorrebbe mettere in atto Israele è un vero e proprio esperimento
biopolitico: utilizzare il ricatto della fame come strumento di disciplinamento
della popolazione al fine di rompere i legami sociali dei palestinesi di Gaza e
imporre un regime di sopravvivenza condizionata all’obbedienza all’occupazione.
Come scrivevamo qui:
> Prima del 7 ottobre, il regime israeliano in Palestina operava come una
> sofisticata macchina di comando in cui apartheid, assedio e sorveglianza
> formavano un dispositivo integrato di governo coloniale. Gaza era ridotta ad
> uno spazio di confinamento assoluto e veniva gestita come laboratorio
> necropolitico, mentre in Cisgiordania la frammentazione territoriale e il
> controllo capillare governavano l’accesso della popolazione palestinese alla
> vita e al suo inserimento all’interno delle catene produttive israeliane
> secondo una logica di disciplinamento e contenimento. Questo regime non era
> solo puro esercizio di forza, ma una forma di dominio che si presentava come
> amministrazione tecnica della normalità e di fronte alla cui inamovibilità e
> progressione la testimonianza di solidarietà alla Palestina a cui eravamo
> abituati alle nostre latitudini si dimostrava sempre più incapace di incidere.
Ora l’obiettivo di Israele è imporre un ancora più atroce dispositivo di
disciplinamento nella prospettiva, un domani, della definitiva pulizia etnica
della striscia o quanto meno della destrutturazione totale dell’identità e delle
comunità gazawi. Sulle macerie ed i cadaveri Israele vuole dimostrare di essere
in grado di riprendere il totale controllo delle vite dei palestinesi, di
decidere insindacabilmente chi vive e chi muore in base alla loro obbedienza al
regime coloniale.
Non solo: il piano altro non è che la premessa al compimento del progetto
israelo-statunitense immaginato per Gaza: senza l’imposizione di un nuovo rigido
regime di disciplinamento i sionisti non riusciranno ad imporre la
valorizzazione privata delle terre delle striscia, valorizzazione che inizia
proprio dal meccanismo di distribuzione degli aiuti umanitari voluto dal governo
israeliano.
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Scioperi della fame nelle prigioni turche, militanti palestinesi nuovamente
arrestati, repressione delle proteste studentesche negli Stati Uniti…niente di
nuovo sotto il sole
di Gianni Sartori
In Turchia, a cinque anni dalla morte in sciopero della fame di Helin Bölek, di
Ibrahim Gökçek e di altri musicisti di “Grup Yorum”,la tragedia potrebbe
ripetersi.
Da mesi dieci prigionieri rivoluzionari sono in sciopero della fame per
protestare contro l’isolamento carcerario (in particolare nelle prigioni di tipo
S, Y et R), contro i trasferimenti forzati e per ottenere condizioni di
detenzione meno disumane.
Anche se, va detto, senza aver per ora suscitato movimenti di solidarietà
particolarmente intensi e massicci. Varie iniziative, per quanto minoritarie, si
sono comunque tenute in alcune città europee. Mentre per uno di loro, Sercan
Ahmet Arslan, siamo ormai oltre il duecentesimo giorno di digiuno, solidarietà
concreta è venuta dal comunista libanese Georges Abdallah (proveniente da un
famiglia cristiano-maronita, detenuto in Francia dal 1984) che ha rifiutato di
alimentarsi mercoledì 7 maggio.
E intanto in Palestina…
Il 6 maggio sono state di nuovo arrestati numerosi palestinesi che recentemente
erano tornati in libertà. Tra loro due esponenti del Fronte Popolare di
Liberazione della Palestina, Wael Jaghoub e Thaer Hanani, originari di Nablus.
Mentre, si parva licet, negli USA…
Il 5 maggio un gruppo di studenti filo-palestinesi (“Students United for
Palestinian Equality and Return”) avevano occupato una parte del campus
dell’università di Washington. In particolare il dipartimento di ingegneria
costruito una decina di anni fa con finanziamenti della Boeing (dieci milioni di
dollari). Gli studenti chiedevano all’UW di dissociarsi dall’azienda
aerospaziale accusata di fabbricare armamenti utilizzati a Gaza.
Ma nel cuore della notte sono stati duramente costretti ad evacuare
dall’intervento della polizia in tenuta antisommossa. Una trentina di persone
venivano arrestate con l’accusa di intrusione, danneggiamento della proprietà,
disobbedienza e associazione a delinquere.
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Mentre La Corte suprema respinge ogni ricorso per la condanna dell’ex Pantera
Nera, si rinnova l’impegno internazionale per la sua scarcerazione.
manifestazioni da Città del Messico a Filadelfia, San Francisco, Parigi,
Berlino…
di Gianni Sartori
Nel 25 marzo di quest’anno la Corte suprema della Pennsylvania (la stessa
giurisdizione che l’aveva condannato a morte nel 1982) ha definitivamente
respinto ogni ricorso per la condanna di Mumia Abu Jamal (il giornalista
afro-americano in carcere dal 1981 con l’accusa di aver ucciso l’agente di
polizia Daniel Faulkner).
Così come nel settembre 2024 era stata ugualmente respinta la richiesta di
esaminare le nuove prove (emerse recentemente) della sua innocenza.
Rinchiuso per 29 anni nel corridoio della morte, per ben due volte (nel 1995 e
nel 1999) è stato sul punto di subire l’esecuzione.
Probabilmente per lui non ci sarebbe stata speranza senza le grandi
mobilitazioni internazionali a suo sostegno. Tanto che la pena nel 2011 veniva
commutata in ergastolo.
Attualmente Mumia (71 anni) è malato, indebolito. Ma tuttavia non rinuncia a
scrivere, studiare, aiutare gli altri detenuti.
In questi giorni centinaia di persone sono nuovamente scese in strada, in vari
angoli del pianeta, chiedendo la sua scarcerazione. Da San Francisco a Oakland,
da Filadelfia a Houston. Così come altre sono previste a Città del Messico e a
Berlino. Il 7 maggio a Parigi si terrà un presidio in place de la Concorde (VIII
arrondissement) nei pressi dall’ambasciata statunitense.
Una vita emblematica la sua. Venne arrestato ( e picchiato) una prima volta a
Filadelfia all’età di 14 anni per aver protestato contro il candidato George
Wallace (all’epoca un razzista dichiarato). Veniva poi schedato dal FBI per aver
richiesto che il suo liceo venisse dedicato a Malcom X. Ancora giovanissimo fu
tra i fondatori del Black Panther Party a Filadelfia occupandosi
dell’informazione (e da subito classificato come un soggetto da sorvegliare ed
eventualmente internare).
Come giornalista radiofonico aveva lavorato per NPR et WHAT, occupandosi
principalmente dell’oppressione subita dalla comunità nera.
Per sopravvivere doveva anche lavorare come tassista. Durante una corsa, ella
notte del 9 dicembre 1981, avendo udito dei colpi dei colpi e scorgendo in
strada suo fratello Billy Cool, si fermava e scendeva dall’auto. Veneto
immediatamente colpito d aut colpo di arma da fuco sparata da un agente. Rimasto
privo di conoscenza, veniva trovato riverso a terra accanto al corpo di Faulkner
che in seguito morirà per le ferite. Nonostante venisse picchiato duramente,
Mumia riuscì a sopravvivere.
Viene accusato della morte dell’agente e in seguito condannato a morte dal
giudice Sabo nonostante l’inchiesta sia stata quantomeno quanto meno
superficiale (pallottole non identificate, contraddizioni nelle perizie
balistiche, nessuna impronta riscontrata, dichiarazioni dei testimoni fatte
riscrivere più volte…). Gli viene assegnato un avvocato d’ufficio (nonostante
avesse chiesto di potersi difendere di persona) e di fatto non potrà assistere
alle udienze.
Si sostiene che il colpo fatale provenisse dalla calibro 38 di Mumia (registrata
legalmente e su cui la polizia presente sul luogo della sparatoria non aveva
verificato se fosse stata usata in quella circostanza) anche se dalle testa
dell’agente era stato estratto un proiettile proveniente da una calibro 44.
A due mesi dal fatto (e solo dopo che Mumia aveva denunciato la polizia per
brutalità), un agente aveva dichiarato che Mumia aveva confessato mentre si
trovava all’ospedale”. Invece nel rapporto di quel giorno si leggeva che “il
negro non ha fatto alcuna dichiarazione”.
Confermato anche dai medici curanti che gli erano stati vicino per tutto il
tempo.
La principale testimone d’accusa, Cynthia White (una prostituta e –
presumibilmente – un’informatrice della polizia), aveva poi dato (al processo
contro Billy Cool) una testimonianza in totale contraddizione con quella del
processo a Mumia. Ammettendo di non trovarsi sul posto quando era arrivata la
polizia, come del resto avevano già dichiarato altre persone presenti (le quali
avevano invece parlato di una o forse due persone che erano fuggite dopo gli
spari).
Nel 1999 Arnold Beverly, si era attribuito la responsabilità dell’omicidio. Ma
il procuratore di Filadelfia non aveva voluto indagare impedendogli inoltre di
venir ascoltato dal tribunale.
Al momento Mumia si trova ora nel carcere SCI-Mahanoy di Frackville. Per i
prossimi due anni, in isolamento totale e sottoposto a molteplici proibizioni e
umiliazioni: la luce della sua cella rimane sempre accesa, con una sola visita e
una telefonata di un quarto d’ora alla settimana, viene ammanettato e incatenato
ogni volta che esce dalla cella (anche per la doccia), privato di ogni oggetto
personale, dei libri, della radio e della macchina da scrivere. Già dieci anni
fa aveva rischiato di morire per uno choc diabetico che lo aveva portato al
coma. Attualmente, dopo aver perso circa 22 chili, non sarebbe in grado di
nutrirsi autonomamente.
PS, Segnalo qualche altro articolo in tema:
https://centrostudidialogo.com/2020/02/12/usa-move9-liberato-lultimo-prigioniero-politico-dei-move-9-di-gianni-sartori/
https://www.osservatoriorepressione.info/13-maggio-1985-philadelphia-stati-uniti-la-polizia-reprime-move/
https://ainfos.ca/pipermail/a-infos-it/2017-February/007464.html
https://www.labottegadelbarbieri.org/eldridge-cleaver-un-mito-del-68-da-rivedere/
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