Nel Regno Unito per via Terrorism Act, è diventato un crimine parlare
favorevolmente della “resistenza palestinese”: farlo costituisce infatti la
cosiddetta apologia del terrorismo.
di Patrick Boylan da pressenza
Oggi, in quella rinomata cittadella della libertà di espressione e della libertà
di stampa che è stato il Regno Unito, se professi il tuo sostegno alla
resistenza palestinese puoi essere arrestato e incarcerato, il tuo cellulare e
il tuo PC possono essere confiscati e la tua casa devastata dalla polizia in
assetto d’assalto; puoi addirittura perdere il tuo posto di lavoro ed essere
espulso dal Paese.
Non era così in passato. Persino Karl Marx, benché strettamente sorvegliato
dalla polizia, godette pienamente della libertà di espressione e di stampa
mentre risiedeva a Londra dal 1849 fino alla sua morte nel 1883. Non solo poté
far stampare il suo Manifesto del Partito Comunista (che invocava una rivolta
armata), ma fu anche libero di distribuire il suo controverso saggio Sulla
questione ebraica – un testo che, pur rispettando l’ebraismo etnico, fustiga
duramente l’ebraismo economico, o “sionismo” come diremmo oggi.
Bei tempi passati. Oggi nel Regno Unito criticare il sionismo o proclamare
sostegno alla rivolta armata palestinese viene accolto con una feroce
repressione. Prendiamo il caso dei giornalisti pro-pal.
La lunga mano della lobby sionista e l’intimidazione dei giornalisti
Cosa s’intende per “lobby sionista”? Il “sionismo”, originariamente un movimento
identitario e nazionalistico che rivendicava una patria per gli ebrei, oggi si è
trasformato in “imperialismo fideistico”, cioè nella difesa del “diritto divino”
di Israele ad occupare non solo le terre originariamente sottratte ai
palestinesi, ma anche altri territori limitrofi, che si estendono fino al fiume
Giordano e addirittura all’Eufrate. Chiunque abbia questa convinzione è un
“sionista”, ebreo o non ebreo che sia. Ad esempio, i cristiani sionisti
evangelici negli Stati Uniti desiderano una “Grande Israele” come presagio del
ritorno di Cristo. Pertanto, il termine “lobby sionista” indica oggi una rete di
sionisti, in uno o più Paesi, che cercano di favorire l’espansione territoriale
di uno Stato ebraico integralista. Un ultimo punto: l’antisionismo (la posizione
etico-politica – perfettamente legittima – che condanna l’espansionismo
israeliano a scapito di altri popoli) non deve essere confuso con
l’antisemitismo (l’ostilità vile e razzista verso gli ebrei come gruppo etnico).
Cercare di equiparare le due cose è semplicemente un tentativo disonesto di
screditare le critiche all’imperialismo fideistico israeliano.
Il 16 ottobre 2023, il giornalista britannico Craig Murray, attivista
filo-palestinese ed ex diplomatico del Regno Unito, è stato arrestato dalla
polizia antiterrorismo all’aeroporto di Glasgow, di ritorno da un incontro con
lo staff di WikiLeaks in Islanda. Gli sono stati sequestrati il PC e il
cellulare e ha dovuto subire un interrogatorio di un’ora – e riguardante non
solo i suoi legami con WikiLeaks. Infatti, la polizia – forse informata dalla
lobby sionista del Regno Unito, che tiene d’occhio ogni spostamento di attivisti
come Murray – era ben consapevole che il giornalista aveva partecipato a una
manifestazione pro-palestinese mentre si trovava in Islanda e gli agenti
volevano sapere cosa fosse stato detto in quell’occasione. “Non ne ho idea, non
parlo islandese, ho semplicemente partecipato alla manifestazione per
solidarietà”, ha risposto Murray, con grande disappunto degli agenti, che alla
fine hanno dovuto rilasciarlo – senza i suoi dispositivi elettronici, però.
Il 15 agosto 2024, la polizia ha arrestato il giornalista filopalestinese
Richard Medhurst al suo arrivo all’aeroporto londinese di Heathrow,
apparentemente a causa dei suoi servizi a favore della resistenza palestinese,
considerati “apologia (sostegno) del terrorismo”. Gettato in cella per 15 ore,
Medhurst ha dovuto dormire – semisvestito – su un freddo blocco di cemento. Alla
fine il giornalista è stato rilasciato, ma con l’obbligo di presentarsi a una
stazione di polizia tre mesi dopo e con l’avvertimento di fare attenzione, nel
frattempo, a ciò che avrebbe scritto.
Due settimane dopo, il 29 agosto 2024, all’alba, la polizia in tenuta
antisommossa ha fatto irruzione nella casa della giornalista e attivista
filopalestinese Sarah Wilkinson, mettendo a soqquadro ogni stanza e confiscando
il suo passaporto e i suoi dispositivi elettronici. Con irriverente crudeltà,
gli agenti hanno persino sparso sul pavimento e calpestato le ceneri della
madre, che Sarah conservava in un’urna sigillata su una mensola. Messa agli
arresti domiciliari per sospetto sostegno al terrorismo, la 61enne non ha potuto
nemmeno andare in farmacia a comprare le medicine di cui aveva bisogno.
Essendole stato sottratto il suo telefono cellulare e non potendo uscire di
casa, non ha potuto nemmeno chiedere ai vicini di farlo per lei. Ora rischia un
massimo di 14 anni di carcere. Il suo crimine? Gli articoli che ha scritto a
favore della resistenza palestinese. “Vogliono instillare la paura”, ha detto,
“per farmi smettere di denunciare il genocidio a Gaza; ma non ci riusciranno”.
Poi, il 17 ottobre 2024, all’alba, la polizia antiterrorismo ha fatto irruzione
nella casa del noto giornalista Asa Winstanley, vice caporedattore di Electronic
Intifada. Il suo telefono cellulare, il suo PC e altri dispositivi elettronici
sono stati confiscati e, durante la perquisizione, il giornalista è stato
continuamente intimidito. Anche in questo caso, il suo “reato” sarebbero i suoi
scritti a favore della resistenza palestinese, scritti che qualcuno
evidentemente ha denunciato alla polizia come apologia del terrorismo. Ed è
facile immaginare chi poteva essere quella persona e quale potente lobby
l’avesse incoraggiata a setacciare ogni parola degli articoli di Winstanley per
trovare affermazioni che potessero farlo arrestare.
Questi e altri esempi di azioni repressive contro giornalisti ed attivisti
filo-palestinesi nel Regno Unito sono stati denunciati in un rapporto che non
lascia scampo, redatto dalle Nazioni Unite e reso pubblico una settimana fa
(5/2/2025). Il rapporto era stato inviato in via confidenziale al Primo
Ministro Starmer lo scorso 4 dicembre, con la richiesta di un riscontro entro 60
giorni; trascorso tale periodo senza alcuna risposta da parte di Starmer, gli
autori del rapporto – quattro Relatori Speciali delle Nazioni Unite – hanno ora
scelto di rivelarne il contenuto. “Le disposizioni del Terrorism Act 2000, del
Terrorism Act 2006 e dell’Anti-Terrorism and Border Security Act 2019,” scrivono
i quattro Relatori, “sembrano essere state utilizzate per indagare, detenere,
raccogliere dati e perseguire attivisti politici e giornalisti, sollevando
preoccupazioni per le potenziali violazioni dei loro diritti fondamentali”.
La strumentalizzazione delle leggi contro il terrorismo
Infatti, gli abusi sopra descritti – ed altri ancora, che il rapporto ONU elenca
– sono stati resi possibili da una legge antiterrorismo draconiana che risale al
2000, il Terrorism Act. In particolare, la sezione 12 criminalizza qualsiasi
tipo di sostegno fornito a un’organizzazione proibita e qualsiasi espressione
pubblica di simpatia per tale organizzazione.
La legge elenca, poi, le organizzazioni proibite che non possono essere aiutate
e di cui non si può nemmeno parlare in modo favorevole. La maggior parte sono
veri e propri gruppi terroristici, come al-Qaida e ISIS (nei Paesi musulmani),
Boko Haram (in Nigeria), al Shabaab (in Somalia) e le Tigri Tamil (in Sri
Lanka).
Ma nel 2019 e poi nel 2021, su pressione della potente lobby sionista nel Regno
Unito, l’elenco delle organizzazioni proibite è stato ampliato per includere i
due gruppi armati che si oppongono all’occupazione israeliana delle loro terre.
Uno di essi è Hezbollah, la resistenza armata creata nel 1982 per respingere
l’esercito israeliano che aveva invaso e stava occupando il Libano. L’altro è
Hamas, la resistenza armata creata nel 1987 per cacciare l’esercito israeliano
che occupava Gaza.
Vale la pena notare che né l’uno né l’altro di questi due gruppi era attivo o
esisteva prima dell’invasione e dell’occupazione israeliana delle loro terre.
Inoltre, nessuno dei due ha mai cercato di occupare e di dominare territori
israeliani. Entrambi sono semplicemente forze difensive che cercano di
scacciare le truppe straniere, segnatamente l’IDF, che occupano la loro terra.
In questo senso, possono essere paragonati ai partigiani cinesi, guidati da Mao
Tse-Tung, che cacciarono gli occupanti giapponesi e fondarono la Repubblica
Popolare Cinese.
Alla luce di tutto ciò, è palesemente pretestuoso designare Hezbollah e Hamas
come organizzazioni “terroristiche”, soprattutto dal momento che la 20a
Assemblea Generale delle Nazioni Unite (1965) ha legittimato “la lotta [armata]
dei popoli sotto il dominio coloniale… per l’autodeterminazione e
l’indipendenza”. Naturalmente, la lotta per cacciare una forza straniera
occupante non autorizza i resistenti a commettere crimini di guerra o crimini
contro l’umanità; se ne commettono, devono risponderne davanti ad un tribunale.
Molte delle atrocità attribuite a Hamas il 7 ottobre 2024 (come la mai
verificata “decapitazione di bambini”) si sono rivelate solo propaganda
israeliana, ma altre, invece, sono documentate e andrebbero sanzionate, a
partire dalla stessa presa di ostaggi, che è un crimine di guerra.
Dunque, Hamas – come lo stesso Hezbollah – rimangono forze di resistenza
(armata), malgrado i delitti eventualmente commessi. Chiamarli “gruppi
terroristici” facendoli inserire in qualche lista nera come la Sezione 12 del
Terrorism Act britannico è solo uno stratagemma per demonizzarli e per impedire
che se ne parli. E’ una vecchia tattica: durante la Resistenza in Italia, i
nazisti chiamavano i partigiani italiani “banditi”, così come, durante la
Resistenza in Cina, i giapponesi chiamavano i partigiani cinesi “diavoli” – in
entrambi i casi, per alienare loro il consenso e la simpatia della popolazione.
“Terrorista” è il termine demonizzante usato oggi da Israele per screditare le
forze che si oppongono con le armi al suo espansionismo.
Conclusione
Per via della Sezione 12 del Terrorism Act, nel Regno Unito è diventato un
crimine parlare favorevolmente di Hezbollah o di Hamas o anche semplicemente
della “resistenza palestinese”: farlo costituisce infatti la cosiddetta apologia
del terrorismo. Da qui gli arresti, le perquisizioni e le intimidazioni nei
confronti di quei giornalisti e attivisti britannici che hanno osato sostenere
il diritto dei palestinesi a liberare la propria terra, anche tramite la lotta
armata (purché venga condotta secondo il diritto bellico e le relative
convenzioni internazionali).
Ma la legge sul terrorismo, così come è stata scritta, è estremamente ampia e
vaga – a tal punto che la polizia non potrebbe mai essere in grado di verificare
tutte le possibili violazioni dell’articolo 12; per farlo, sarebbe loro
necessario leggere tutti gli scritti di tutti i giornalisti e attivisti del
Regno Unito e soppesare le sfumature di tutte le parole che usano: un compito
immane, anche con l’aiuto dell’AI. Chiaramente, dunque, l’ondata di repressione
dei giornalisti e degli attivisti filopalestinesi attualmente in corso nel Regno
Unito, presuppone l’esistenza di una rete di “informatori” di base, in grado di
fornire alla polizia le segnalazioni di cui ha bisogno. Si tratta, molto
probabilmente, di una rete di comuni cittadini britannici – ma con spiccate
simpatie sioniste – alla quale è stato chiesto di tenere d’occhio determinati
giornalisti e attivisti filopalestinesi e di fare una segnalazione quando essi
dicono o scrivono qualcosa che possa passare per “apologia del terrorismo”,
secondo la vaga definizione della Sezione 12. Poi, chi ha reclutato questi
informatori – si tratta molto probabilmente di sionisti altolocati o comunque
influenti – può usare queste segnalazioni per indurre la polizia ad emettere
mandati di perquisizione allo scopo di accertare i fatti. Questo stratagemma ha
un duplice scopo: serve ad intimidire i giornalisti o gli attivisti in questione
e, allo stesso tempo, consente alla polizia di accedere ai contatti privati sui
loro rispettivi cellulari e a tutti i documenti riservati presenti nei loro
computer e nelle loro apparecchiature elettroniche. Così facendo, ecco che essi
risultano totalmente spiati. Non solo, ma anche il nome di ciascun loro
contatto entrerà in una data base e, quindi, anche quella persona diventerà
“schedata”.
Si tratta solo di una pura congettura? Forse no. Un indizio dell’esistenza di
una cinica operazione di questo tipo è, come sottolinea Craig Murray, la totale
assenza di interventi della polizia nei casi in cui un giornalista o una
personalità di spicco esprime sostegno – come ormai fanno in tanti –
all’organizzazione terroristica l’HTS (Hay’at Tahrir al-Sham) in Siria.
Infatti, l’HTS, benché ufficialmente proscritto, viene ora corteggiato
dall’Occidente, con il risultato che la legge sul terrorismo sembra non esistere
più nei suoi confronti. La prova è che nessuno, dal Primo Ministro in giù, è mai
stato arrestato o perquisito per aver espresso simpatie per questa
organizzazione terroristica.
Tutto lascia pensare, quindi, che la polizia sia stata indotta a scovare e ad
arrestare, ai sensi della Sezione 12, solo quegli individui che esprimono
simpatie per la resistenza palestinese. Indotta da chi? Verosimilmente dalla
lobby sionista che, oltre ad avere i motivi e i mezzi, è in grado di offrire
alla polizia una fitta rete di informatori.
C’è una via d’uscita a tutto questo? Sì. Gli attivisti britannici potrebbero
intentare una causa chiedendo all’Alta Corte di stabilire che, sebbene Hezbollah
e Hamas siano effettivamente forze di resistenza armata, non sono da
considerarsi “terroristi”. Non dovrebbero quindi figurare nel Terrorism Act e
non dovrebbe essere un crimine appoggiarli.
Esiste un precedente per una sentenza di questo tipo: la Corte d’Appello del
Regno Unito è stata recentemente in grado di bloccare il trasferimento di
migranti dal Regno Unito al Ruanda, annullando l’inclusione di quel Paese,
promossa dal governo, tra i luoghi “sicuri” per la deportazione. Allo stesso
modo, la Corte potrebbe ora annullare l’inclusione di Hezbollah e di Hamas
nell’elenco dei gruppi terroristici di cui al Terrorism Act. Questo servirebbe a
porre fine all’attuale repressione dell’attivismo filopalestinese, repressione
che non fa altro che offuscare la reputazione del Regno Unito. Anzi, la fine
della persecuzione di giornalisti e di attivisti filopalestinesi rafforzerebbe
le libertà fondamentali di espressione e di stampa nel Regno Unito. Le isole
britanniche tornerebbero a essere viste come la cittadella di queste libertà nel
mondo.
————–
NOTA 1: Quest’articolo è apparso, in forma ridotta, sul mensile de
L’Indipendente di febbraio 2025 (1:1, pp. 44-45) con il titolo UK: vietato
difendere la resistenza palestinese.
Quest’articolo è disponibile anche in: Inglese
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Dopo quasi 50 anni di ingiusta detenzione, Leonard Peltier esce dal carcere.
Potrà trascorrere gli ultimi anni di vita agli arresti domiciliari nella sua
terra natia, il Turtle Mountain Indian Reservation (Mikinaakwajiwing), in North
Dakota.
Nel 1975 era stato condannato per l’omicidio di due agenti dell’FBI, al termine
però di un processo farsa, come riconosciuto negli anni successivi dalle stesse
persone che parteciparono a quella montatura. In quell’occasione morì un membro
dell’American Indian Movement, AIM, un gruppo che combatteva la discriminazione
e la brutalità della polizia contro le comunità dei nativi americani.
Dopo una vasta caccia all’uomo, vennero fermati tre membri dell’AIM, Dino
Butler, Bob Robideau assolti poi per legittima difesa e Leonard Peltier, che
invece fu estradato dal Canada con prove artefatte per poi essere processato nel
1977, in una sequela giudiziaria segnata da manipolazioni e intimidazioni.
Nonostante l’assenza di prove reali, Leonard Peltier ha passato gran parte della
sua vita in carcere: entrato all’età di 30 anni, esce dalla prigione da 80enne.
A gennaio 2025 infatti, pochi istanti dalla fine del proprio mandato alla Casa
Bianca, l’ex presidente Joe Biden ha commutato la sua condanna dall’ergastolo ai
domiciliari.
L’intervista a Radio Onda d’Urto di Andrea de Lotto, del Comitato Free Leonard
Peltier. Ascolta o scarica.
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L’evacuazione forzosa di oltre 40.000 persone nella Cisgiordania settentrionale
sta riproponendo scene viste a Gaza
di Qassam Muaddi – Mondoweiss (traduzione dall’inglese di Luciana Galliano per
Zeitun.info) da Pagine Esteri
Israele ha esteso la sua offensiva nella Cisgiordania settentrionale dal campo
profughi di Jenin ai campi profughi di Nur Shams a Tulkarem e di al-Far’a a
Tubas. Denominato “Operazione Muro di Ferro”, secondo una dichiarazione
dell’UNRWA di lunedì, l’attacco israeliano è in corso da tre settimane, ha
ucciso almeno 25 palestinesi ferendone oltre 100 e costringendo 40.000 persone a
lasciare le loro case. “Lo sfollamento forzato delle comunità palestinesi nella
Cisgiordania settentrionale sta aumentando a un ritmo allarmante”, ha affermato
l’UNRWA. “L’uso di attacchi aerei, bulldozer blindati, esplosioni controllate e
armi avanzate da parte delle forze israeliane è diventato una cosa normale, una
ricaduta della guerra a Gaza”.
La settimana scorsa le forze israeliane hanno fatto esplodere 20 edifici
residenziali nel campo profughi di Jenin, una delle più grandi demolizioni in
Cisgiordania degli ultimi anni. I residenti locali e le fonti dei media hanno
paragonato l’effetto della distruzione alla strategia della “cintura di fuoco”
impiegata a Gaza da Israele, che prevede il bombardamento concentrato e ripetuto
di piccole aree che distrugge interi isolati residenziali. L’offensiva di
Israele in Cisgiordania è in corso da metà gennaio, di fatto l’invasione
militare più lunga e di più ampia portata dalla Seconda Intifada. Il ministro
della Difesa israeliano, Israel Katz, ha affermato che l’offensiva si estenderà
al resto della Cisgiordania con le invocazioni dei politici israeliani di
estrema destra di trasferire la guerra da Gaza alla Cisgiordania prima di
annetterla ufficialmente. Si prevede che il presidente degli Stati Uniti Donald
Trump farà presto un annuncio sulla possibilità che gli Stati Uniti sostengano
una simile mossa.
campo profughi di Jenin – foto di Pagine Esteri
“È stato umiliante e doloroso”
Come conseguenza i palestinesi della Cisgiordania hanno visto le loro vite
paralizzate e sconvolte dalla repressione israeliana. Le chiusure e i blocchi
stradali israeliani sono diventati una pratica quotidiana, rendendo gli
spostamenti tra città e paesi carichi di incertezze per centinaia di migliaia di
palestinesi. Questi fatti hanno trasformato la Cisgiordania in una zona di
guerra, soprattutto nei campi profughi. “Prima di essere costretti a lasciare la
nostra casa con mio marito e i miei figli abbiamo trascorso due giorni senza
acqua, poiché le forze di occupazione hanno tagliato l’acqua all’intero campo”,
ha detto Nehaya al-Jundi, residente del campo profughi di Nur Shams e
direttrice del locale Centro di Riabilitazione per Disabili.
“I soldati dell’occupazione andavano di casa in casa e costringevano la gente ad
andarsene, mentre io e la mia famiglia abbiamo aspettato due giorni che
arrivasse il nostro turno”, ha continuato al-Jundi. “La mia vicina, Sundos
Shalabi, incinta all’ottavo mese, ha deciso con suo marito di andarsene domenica
per paura di dover partorire durante l’assedio del campo”. La straziante
tragedia di Sundos Shalabi ha fatto notizia all’inizio di questa settimana. “Suo
marito stava guidando sulla strada verso la città di Bal’a, appena fuori dal
campo profughi, quando i soldati dell’occupazione hanno aperto il fuoco contro
l’auto”, ha raccontato al-Jundi. “Lui è stato ferito e ha perso il controllo,
quindi l’auto si è ribaltata e Sundos e il suo bambino non ancora nato sono
rimasti entrambi uccisi. Suo marito è ancora in terapia intensiva nell’ospedale
di Tulkarem”.
“Lunedì i soldati hanno demolito il muro esterno della mia casa, poi con gli
altoparlanti hanno invitato tutti i residenti del quartiere ad andarsene”, ha
continuato al-Jundi. “Ho preso un po’ di cose necessarie e qualche cambio di
vestiti, poi abbiamo chiuso a chiave le porte di casa e ci siamo uniti agli
altri residenti in strada, mentre i soldati dell’occupazione separavano gli
uomini dalle donne”. “Ci hanno perquisito e interrogato, e ci hanno fatto andare
dieci alla volta in una certa direzione”, ha ricordato. “Camminavamo per le
strade piene di buche e distrutte in mezzo a pozze di acqua piovana. Alcuni
inciampavano e cadevano, uomini e donne, bambini e anziani. Alcuni piangevano. È
stato molto umiliante e doloroso”.
campo profughi di Jenin – foto di Pagine Esteri
“La cosa più importante è restare nella nostra casa”
Dopo aver bloccato per dieci giorni gli ingressi del campo profughi ad al-Far’a
a Tubas l’esercito israeliano ha intensificato le sue operazioni. Martedì i
residenti hanno riferito che le forze israeliane stavano iniziando a demolire
negozi e case all’interno del campo.
“Avevamo sperato che oggi l’occupazione si sarebbe ritirata dal campo, ma siamo
rimasti senza parole nel vederli demolire e in alcuni casi far esplodere i
negozi nelle strade interne, senza sosta dalla mattina”, ha detto martedì a
Mondoweiss Lara Suboh, una residente di al-Far’a di circa venti anni.
campo profughi di Jenin – foto di Pagine Esteri
“Per dieci giorni non abbiamo avuto acqua, perché la prima cosa che hanno fatto
le forze di occupazione è stata di far saltare le tubature dell’acqua e noi
dipendiamo dalle cisterne di riserva idrica sui nostri tetti”, ha spiegato.
“Alcune persone se ne sono andate subito perché hanno familiari malati o
disabili, ma altre persone sono state costrette ad andarsene ieri. I soldati
dell’occupazione hanno intimato loro di andarsene entro dieci minuti”.
“Nella nostra strada non l’hanno ancora fatto”, ha aggiunto. “Siamo in cinque in
casa, con i miei due fratelli e entrambi i miei genitori. Stiamo sopravvivendo
con il cibo che avevamo comprato prima che iniziasse l’assedio, sperando che
l’offensiva finisse prima del nostro cibo e della nostra acqua. La cosa più
importante per me è che restiamo nella nostra casa, anche se la distruggono e
distruggono tutto il resto, possiamo ricostruirla più tardi. Ma non voglio che
la mia famiglia e io veniamo sfollati”. In una dichiarazione di martedì il
Comitato di Emergenza del campo profughi di al-Far’a ha detto che le forze
israeliane hanno già sfollato 3.000 persone su una popolazione del campo di
9.000. A Tulkarem il Comitato di Emergenza del campo profughi di Nur Shams ha
affermato che metà della popolazione del campo è stata sfollata e che le forze
israeliane hanno distrutto completamente 200 case e “parzialmente” altre 120.
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La repressione del governo turco mette a dura prova il tentativo di negoziato
con i curdi e il Pkk. Opposizione nel mirino: l’accordo elettorale tra Dem e Chp
è tacciato di «terrorismo» Intervista all’avvocato del fondatore del Pkk: «Da
ogni processo di dialogo, anche se fallito, il movimento curdo è uscito
rafforzato. E a livello internazionale, la causa curda ha consolidato alleanze e
collaborazioni»
di Alessandro Tomaselli da il manifesto
Accanto ai negoziati, si intensifica la repressione. «Ma sarebbe proprio
sbagliato parlare di negoziati», puntualizza subito Sedat Senoglu, portavoce del
Halklarin Demokratik Kongresi (Congresso democratico dei popoli). «Per ora da
parte del governo c’è soltanto qualche vaga apertura, ma non si è avviato alcun
dialogo vero», afferma ricordando come nell’ultima settimana si è abbattuta
sulle opposizioni turche una nuova ondata di misure discriminatorie.
MARTEDÌ SCORSO, per esempio, dieci membri dello stesso Congresso – una
piattaforma di elaborazione politica nata nel 2011, che riunisce esponenti della
“sinistra diffusa” nel paese, dagli esponenti di partiti ai sindacati fino
all’attivismo Lgbt – sono stati arrestati. Si tratta di consiglieri comunali e
sindaci eletti nella tornata dell’anno scorso, grazie a una cooperazione fra le
forze filocurde Dem e l’opposizione kemalista Chp che si erano accordate per un
mutuo appoggio in alcuni distretti.
Ora questo accordo viene definito dal pubblico ministero di Istanbul che ha
avviato l’indagine come un’operazione di «terrorismo». Secondo il teorema
giudiziario, si tratterebbe di una mossa messa in campo su «direttive del Pkk».
«Non è certo la prima volta che subiamo pressioni, ma adesso è diverso –
prosegue Senoglu – Ci sembra chiaro che gli ultimi arresti sono legati alla
possibile liberazione di Öcalan e all’ipotesi di negoziati. Purtroppo, la
strategia del governo non cambia: attraverso le misure discriminatorie, cercano
di dividere i partiti d’opposizione e, soprattutto, vogliono colpire noi perché
siamo un soggetto che tenta di portare il processo di pace oltre il perimetro
della politica rappresentativa».
Secondo il portavoce, infatti, la forza del Congresso sta nella sua capacità di
far incontrare diverse componenti della popolazione e, dunque, di inverare «dal
basso», dentro il corpo sociale, ciò che nel frattempo avviene a un livello
superiore, e più celato al pubblico, con i colloqui tra il fondatore del Pkk e
la delegazione del partito Dem che lo sta incontrando dal dicembre scorso
nell’isola-carcere di Imrali.
Il problema è che la volontà delle persone si scontra con la continua
contestazione da parte governativa dei risultati democratici. A Van,
nell’estremo est del paese, questa ha preso le forme di un vero e proprio
assedio alla sede del consiglio comunale.
DOPO CHE MARTEDÌ scorso è arrivata una sentenza di condanna per il co-sindaco
eletto nelle fila Dem Abdullah Zeydan, sempre con motivazioni legate ad accuse
di complicità con il «terrorismo», in città si sono scatenate proteste e cortei.
Esponenti di diversi partiti si sono recati sul posto, per provare a resistere
alla sostituzione coatta di rappresentanti regolarmente eletti (dalla tornata
del 2024 a oggi, si contano undici sindaci destituiti in favore di funzionari
governativi, pratica che soprattutto nelle zone a maggioranza curda è
costantemente portata avanti da almeno una decina di anni). Ma, nella notte fra
venerdì e sabato, l’amministrazione è stata rimossa con la forza e fra i
manifestanti si sono verificati 127 arresti, tra cui anche il co-sindaco di
Diyarbakır Dogan Hatun (poi rilasciato).
«Queste repressioni stanno danneggiando il processo di pace», racconta
dall’altro capo del paese, a Istanbul, il parlamentare eletto nelle fila Dem
Cengiz Çiçek. Non a caso, ormai da anni, fuori dalla sede del partito campeggia
uno striscione di protesta proprio contro la rimozione dei sindaci che colpisce
numerose città.
Nell’area di Tarlabası, dove si situa l’edificio, è come se la laccatura dei
negozi del via centrale di Istiklal venisse “slavata via” per lasciare spazio a
strade puntellate di edifici diroccati che digradano verso Kasımpasa, quartiere
natio dell’attuale presidente, Erdogan.
«In questo momento c’è effettivamente una contraddizione tra le parole di
apertura che arrivano dal governo e il clima politico creato dalle misure
discriminatorie che mette in pratica», prosegue Çiçek. «Fa dubitare della sua
sincerità nel portare avanti i negoziati e, soprattutto, rende difficile per noi
organizzare il sostegno necessario per condurre tali negoziati fra gli
elettori».
A MAGGIOR RAGIONE se, nel frattempo, anche il carismatico sindaco di Istanbul
Ekrem Imamoglu del Chp, da molti visto come il prossimo sfidante di Erdogan, si
trova sotto processo per corruzione e rischia oltre quattro anni di carcere. In
questi giorni, si sono svolti alcuni presidi di solidarietà presso il tribunale
in cui è imputato. Dunque, per il portavoce del Congresso democratico, è
inevitabile che nella società turca alla speranza per i negoziati si
accompagnino «ansia» e «cautela» verso il governo.
«La politica del paese è improntata sulle divisioni – conclude Çiçek – Ma la
nostra unica “linea rossa” è la promessa fatta ai nostri sostenitori di un
futuro di libertà e di pace».
Mahmut Sakar: «In attesa del messaggio di Ocalan, tra i curdi c’è una cauta
speranza»
In Turchia, nell’ottobre, 2024, il governo centrale ha avviato un nuovo percorso
di dialogo con Abdullah Ocalan. Il primo passo è stato mosso dal principale
alleato del partito al governo, Devlet Bahçeli, leader del Partito del movimento
nazionalista, Mhp.
L’invito di Bahçeli era rivolto allo storico leader del Partito dei Lavoratori
del Kurdistan (Pkk): gli chiedeva di fare un appello storico con l’obiettivo di
sciogliere l’organizzazione che conduce la lotta armata contro lo Stato turco
dal 1978.
Ocalan, condannato all’ergastolo e in isolamento nel carcere speciale dell’isola
di Imrali dal 1999, dall’ottobre scorso ad oggi ha incontrato una volta suo
nipote, nonché parlamentare d’opposizione, Omer Ocalan, e due volte una
delegazione composta da due parlamentari appartenenti al secondo partito
d’opposizione, il Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (Dem).
Nei tre incontri, Ocalan si è detto disponibile a lavorare per avviare un
percorso di riconciliazione tra il popolo curdo e quello turco, ma anche per
consolidare la pace e la democrazia in Turchia e in Medio Oriente.
In questo periodo sia Ocalan che vari vertici del Pkk presenti in diverse parti
del mondo hanno sottolineato come la sua libertà sia fondamentale per creare
condizioni negoziali adeguate. In quest’ottica, è importante ricordare che dal
2019 a Ocalan è negato il diritto di incontrare i suoi avvocati.
Mahmut Sakar è uno di loro. Il 15 febbraio ha partecipato a Vienna all’incontro
internazionale People’s Platform Europe, iniziativa di tre giorni organizzata
dall’Academy of Democratic Modernity con l’obiettivo di discutere , insieme a
movimenti, partiti e sindacati, strategie di resistenza ai fascismi globali
ispirandosi al progetto curdo del confederalismo democratico. In occasione del
26esimo anniversario della cattura di Abdullah Ocalan, abbiamo intervistato
Mahmut Sakar.
Quali sono le condizioni in cui questo nuovo dialogo con la Turchia si sta
svolgendo?
L’attuale situazione mi ricorda il complotto del 1999. Anche in quel periodo le
condizioni internazionali erano in una fase di evoluzione. Anche oggi possiamo
parlare di una serie di cambiamenti straordinari, soprattutto in Medio Oriente.
Tuttavia, se nel 1999 Ocalan era da solo, oggi sia lui che i curdi non sono da
soli.
I curdi partono oggi da una serie di risultati straordinari, in una condizione
decisamente diversa.
L’esperienza del confederalismo democratico in Rojava e i risultati ottenuti sul
campo sono una prova di questa idea. Inoltre, oggi possiamo parlare del
movimento per la liberazione del popolo curdo come di una realtà più forte ed
evoluta. A livello internazionale, la causa curda ha consolidato in tutto questo
tempo una serie di alleanze e collaborazioni.
C’è speranza tra i curdi? E che peso hanno i commissariamenti dei comuni guidati
dal Dem in Turchia e gli arresti di attivisti e giornalisti?
C’è una positività cauta. Il popolo curdo continua a fidarsi di Ocalan e del
risultato che potrebbe ottenere, soprattutto tenendo in considerazione
l’esperienza che sia lui che il movimento hanno maturato in questi anni.
Tuttavia, la repressione contro gli esponenti parlamentari del partito Dem e
contro i diversi strati della società civile continua. Quindi siamo cauti, ma
ricordiamo che dopo ogni processo di dialogo e di pace, anche se fallito, il
movimento curdo è uscito rafforzato. Per esempio, nel 2015, in uno dei periodi
più difficili della storia della Turchia, il partito Hdp (il predecessore del
Dem, ndr) aveva superato il grande sbarramento elettorale del 10%.
Che effetto può avere sul futuro del nuovo percorso di dialogo l’eventuale
pressione internazionale sul regime turco?
Le forze democratiche e rivoluzionarie presenti in Turchia e in diverse parti
del mondo, gli osservatori internazionali e, in particolare, i paesi europei
devono sostenere il nuovo percorso per ottenere un successo. In quest’ottica va
letto anche un fatto storico importante: secondo la decisione della Corte
europea dei diritti dell’uomo (Cedu), Ocalan, 26 anni dopo, avrebbe diritto alla
scarcerazione attraverso il meccanismo del «diritto alla speranza». È giunto il
momento per la sua libertà, che lo permetterà di lavorare in modo più
costruttivo per la pace.
Si riferisce alla serie di decisioni che la Corte europea dei diritti dell’uomo
ha preso in diversi momenti negli ultimi vent’anni e che aprono le porte della
scarcerazione anche a persone condannate all’ergastolo per reati gravi.
Nel suo storico appello, anche il leader nazionalista turco Bahçeli, lo scorso
autunno, ha aperto all’utilizzo di questo diritto da parte di Ocalan. Aspettiamo
con entusiasmo le dichiarazioni di Ocalan (attese per fine mese, ndr). Siamo
prudenti ma anche pieni di speranza per il futuro. (intervista a cura di Murat
Cinar per il manifesto)
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Le parole in libertà di Trump sulla Palestina sono benzina sul fuoco che fanno
esultare la destra israeliana e Netanyahu. “Mandare via due milioni di
palestinesi in Egitto e Giordania, Gaza sarà una nuova Riviera. Prenderemo il
controllo della Striscia, non escludo l’invio di truppe Usa”.
“Via due milioni di palestinesi in Egitto e Giordania, Gaza sarà una nuova
Riviera. Prenderemo il controllo della Striscia, non escludo l’invio di truppe
Usa“.
Le parole in libertà di Trump sulla Palestina sono benzina sul fuoco che fanno
esultare solo la destra israeliana e Netanyahu, per il quale ‘il piano cambierà
la storia’. Non solo: il ministro della difesa Katz ha ordinato all’esercito un
piano per “lo sfollamento volontario” – si fa per dire – dei palestinesi.
La mossa di Trump solleva un muro di no nel resto del mondo, innanzitutto tra
gli stessi palestinesi, che rifiutano con tutte le proprie (diverse) componenti
di cancellare la loro lotta in cambio di una specie di…Las Vegas nel
Mediterraneo.
Contrarietà anche da tutti i Paesi della regione, anche i filoUsa come i
sauditi, oltre che da Onu, Cina, Russia e pure dalla timida Unione Europea.
In Italia solo Salvini – che lunedì e martedì sarà a Tel Aviv – plaude a Trump,
mentre negli stessi States nuove manifestazioni: a Washington in piazza contro
la deportazione palestinese di massa vaticinata da Trump e contro i continui
attacchi agli aiuti internazionali da parte della Casa Bianca, a partire dallo
svuotamento di UsAid.
Contro il tycoon previste marce in tutto il Paese, sotto gli hashtag
#buildtheresistance e #50501, che sta per 50 proteste, 50 stati. Nel mirino il
Progetto 2025, l’agenda presidenziale di estrema destra. Parole d’ordine delle
piazze antiTrump: “rifiutare il fascismo” e “difendere la democrazia”.
Torniamo in Medio Oriente e in particolare proprio a Gaza, dove hanno superato
quota 47.500 i morti ufficiali di 15 mesi di genocidio, oltre a 14mila persone
disperse sotto le macerie. 3 vittime anche nelle ultime ore tra Rafah e Khan
Younis, colpite dai cecchini israeliani. Morti, nel nord, anche 2 soldati
occupanti israeliani, con un terzo ferito: a comunicarlo Tel Aviv, che non
fornisce però informazioni nè sulla data nè sulle modalità dei decessi.
In Cisgiordania invece assedi continui degli occupanti a Jenin, Tulkarem,
Tammoun, Tubas. Da inizio anno solo almeno 70 le vittime palestinesi in West
Bank nell’assalto generalizzato da parte di esercito e coloni israeliani. Una
decina delle vittime sono minorenni.
Di questo si parla nell’intervista di Radio Onda d’Urto ad Alberto Negri,
giornalista per anni inviato di guerra e oggi editorialista del quotidiano “Il
Manifesto” Ascolta o scarica
In conclusione dell’intervista, Alberto Negri invita alla visione del docu-film
candidato ai Premi Oscar ‘No Other Land’ che “documenta benissimo come Israele
mangia giorno dopo giorno il territorio palestinese in Cisgiordania”.
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Un centinaio di persone, tra giornalisti e attivisti della società civile,
sarebbero stati spiati tramite lo spyware Graphite della società israeliana
Paragon Solutions. Lo ha reso noto la stessa Meta, che ha riferito come
l’attacco informatico sia stato perpetrato attraverso la sua app di
messaggistica WhatsApp.
di Michele Manfrin da L’Indipendente
L’azienda statunitense ha avvisato con un messaggio coloro che sarebbero stati
presi di mira dall’azione di spionaggio: tra di loro rientra anche il direttore
di Fanpage, Francesco Cancellato. Meta ha fatto sapere di stare indagando
sull’accaduto e di aver inviato una lettera di protesta a Paragon Solutions –
tuttavia le tecnologie di sorveglianza profotte dall’azienda sono vendute e
utilizzate da decine di governi.
Secondo quanto riferito da Meta, l’interruzione della campagna di spionaggio è
avvenuta con successo. Sarebbero circa un centinaio le persone spiate con la
tecnologia spyware, tra giornalisti e attivisti della società civile. Non è dato
tuttavia sapere con precisione chi sia stato spiato e dove, e neanche chi abbia
ordinato tale attacco. Ciò che è certo è che lo spionaggio è durato fino a tutto
il mese di dicembre. Le persone coinvolte sarebbero comunque cittadini di
diversi Paesi europei. La tipologia di attacco è stata del genere “zero-click“,
per cui lo spiato non deve necessariamente cliccare su un link compromesso ma
basta che sia soggetto all’arrivo di un file contenente l’arma informatica. In
questo specifico caso, si sarebbe trattato di un file pdf.
Tra gli oltre novanta giornalisti e attivisti bersaglio dello spyware
dell’azienda israeliana Paragon Solutions, c’è anche il direttore di Fanpage,
Francesco Cancellato. A confermare la faccenda è lo stesso Cancellato, il quale
ha dichiarato: «abbiamo iniziato le analisi tecniche sul dispositivo necessarie
per valutare l’effettiva portata di questo attacco, cosa effettivamente sia
stato prelevato o spiato nel telefono e per quanto tempo. Ovviamente è nostro
interesse sapere anche, se sarà possibile farlo, chi abbia ordinato questa
attività di spionaggio».
Paragon Solutions è stata fondata nel 2019 dall’ex comandante dell’unità di
intelligence d’élite 8200 dell’IDF, Ehud Schneorson, insieme a Idan Nurick, a
Igor Bogudlov e a Liad Abraham. Nel cda della società figura anche l’ex primo
ministro israeliano Barak Ehud. Nel dicembre scorso, l’azienda israeliana
Paragon Solutions è stata acquistata per 900 milioni di dollari da AE Industrial
Partners, società di private equity statunitense, un gruppo di investimento
specializzato in servizi per la sicurezza nazionale, aerospaziali e industriali.
Sempre nel dicembre 2024, WhatsApp ha vinto una causa contro la rivale di
Paragon Solutions, ovvero NSO Group, altra azienda israeliana attiva nel settore
dello spionaggio, per aver utilizzato il suo celebre software Pegasus per spiare
circa 1.400 utenti, contravvenendo alle leggi federali e statali degli USA.
Questi eventi sottolineano la crescente minaccia degli spyware zero-click e
l’importanza di proteggere le comunicazioni digitali. La sorveglianza non
autorizzata rappresenta un rischio significativo per la privacy, la sicurezza
delle persone e della stessa democrazia, visto che coloro che vengono presi di
mira dallo spionaggio sono giornalisti e attivisti che raccontano scomode verità
rispetto al sistema di potere o che non sono gradite al governo di turno.
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A Barcellona la politica degli sgomberi non vede battute d’arresto. Nella
giornata del 28 gennaio, i locali dell’Antiga Massana, luogo simbolo della
resistenza cittadina e sede del Sindicat de l’Habitatge del Raval (Sindacato
della Casa), nel quartiere del Raval, sono stati sgomberati dalle forze
dell’ordine senza alcun tipo d’avvertimento.
Scontri, cariche e resistenza al Raval, quartiere popolare nel centro di
Barcellona, investito da anni da un violento processo di gentrificazione
turistica. La Guardia urbana e i Mosso de esquadra sono arrivati in massa e a
sorpresa all’alba di martedì 28 gennaio per sgomberare l’Antiga Massana, uno dei
più grandi spazi sociali catalani, dal 2020 “Espai sota control popular”,
“spazio sotto il controllo popolare”. Si tratta di un punto di riferimento per
tutto il centro della capitale catalana per quanto riguarda, in particolare, le
reti di mutuo aiuto nate nel periodo pandemico e la lotta per il diritto
all’abitare. Nell’ultimo periodo è diventato un luogo importante anche per
l’organizzazione di iniziative culturali e di socialità.
Il comune di Barcellona – guidato dal Psc – da mesi invoca lo sgombero e la
necessità di rientrare in possesso dello stabile ma senza chiarire per quali
finalità. Le realtà sociali che animano lo spazio hanno cercato di intavolare
una trattativa per trovare un accordo con il comune e poter continuare a portare
avanti le attività che si svolgono all’Antiga Massana. L’amministrazione
catalana, però, non ne ha voluto sapere fino a che, a sorpresa, oggi è arrivata
la polizia per lo sgombero.
Da Barcellona la corrispondenza per Radio Onda d’Urto di Victor Serri,
fotoreporter del quotidiano indipendente catalano La Directa. Ascolta o scarica.
Nuovo collegamento com Victor Serri per un aggiornamento. Qui la sua
corrispondenza, in cui ci fornisce anche un bilancio della repressione
poliziesca: una cinquantina di feriti e 5 arresti confermati. Ascolta o scarica
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Migranti che tentavano di varcare il confine tra Turchia e Bulgaria lasciati
morire di freddo dalla polizia di frontiera bulgara.
da valigia blu
È quanto afferma il rapporto “Frozen Lives”, un dossier pubblicato da due
organizzazioni umanitarie, No Name Kitchen (NNK) e Collettivo Rotte Balcaniche
(CRB), visionato dal Guardian.
Il dossier contiene foto, testimonianze e geolocalizzazioni che dimostrerebbero
l’incapacità delle autorità bulgare di salvare tre adolescenti egiziani che
chiedevano aiuto mentre pativano il freddo nelle foreste di Burgas, nel sud-est
della Bulgaria. Le autorità bulgare sono state accusate di aver ignorato le
chiamate di emergenza e di aver ostacolato gli sforzi per salvare i tre ragazzi,
poi morti a temperature sotto lo zero vicino al confine turco-bulgaro a fine
dicembre. Il confine bulgaro con la Turchia è un punto di passaggio frequente
per le persone che sperano di chiedere asilo in Europa: è un terreno proibitivo,
roccioso e collinare, con temperature invernali rigide e venti pungenti.
Dopo aver ricevuto una segnalazione delle richieste di aiuto dei tre adolescenti
egiziani, gli attivisti delle due organizzazioni umanitarie si sono attivati in
prima persona per prestare soccorso. Ma la polizia di frontiera bulgara avrebbe
ostacolato i tentativi di salvataggio da parte delle organizzazioni, nonostante
fosse stato mostrato un video di uno dei ragazzi nella neve.
I ragazzi, poi identificati come Ahmed Samra, 16 anni, Ahmed Elawdan, 17 anni, e
Seifalla Elbeltagy, 15 anni, sono stati tutti ritrovati morti; Ahmed Samra è
stato trovato con “impronte di zampe di cane e impronte di stivali intorno al
corpo”, il che, secondo il rapporto, “indica che la polizia di frontiera lo
aveva già trovato, forse ancora vivo o morto, ma aveva scelto di lasciarlo lì al
freddo”.
Gli attivisti che sono tornati sul posto più tardi dicono di aver scoperto che
tutte le tracce delle impronte erano state cancellate.
Il dossier rivela un quadro più ampio di brutalità contro i migranti alle
frontiere europee e nei confronti anche delle squadre di soccorso delle
organizzazioni umanitarie. A una squadra di soccorso sono stati confiscati dalla
polizia i passaporti e i telefoni e sono state prese le loro impronte digitali e
le fotografie. Un’attivista è stata costretta a spogliarsi per essere perquisita
nella stazione di polizia.
“Sono stata separata dai miei amici maschi e spogliata di fronte a due agenti
della polizia di frontiera e sono stata fatta sedere mentre frugavano nelle mie
borse”, ha raccontato. “Avevo le mestruazioni e mi sono sentita profondamente a
disagio e non è stato necessario farmi stare lì nuda. Mi è sembrato che ogni
azione degli agenti fosse solo per intimidirci e spaventarci e farci desistere
dal fare di nuovo qualcosa di simile”.
Durante un altro tentativo di salvataggio, un gruppo è stato costretto a
camminare per circa 10 km fino alla città più vicina, mentre era seguito dalla
polizia di frontiera in auto.
Negli ultimi anni, diverse organizzazioni per i diritti umani hanno lanciato
l’allarme per quello che, a loro dire, è un forte aumento delle aggressioni nei
confronti di coloro che mostrano solidarietà e lavorano con i richiedenti asilo
e i migranti in tutta Europa.
Lo scorso settembre, i riflettori sono tornati a essere puntati sulle autorità
bulgare dopo che l’agenzia investigativa Balkan Insight aveva scoperto prove che
suggerivano che i funzionari dell’agenzia di frontiera dell’UE Frontex venivano
intimiditi per indurli a tacere sulle violazioni dei diritti di cui erano stati
testimoni al confine bulgaro.
Alla luce della morte degli adolescenti, NNK e CRB hanno chiesto una “indagine
indipendente e formale” sulla “violenza sistemica e la negligenza delle autorità
bulgare” e sul “trattamento degradante delle persone in movimento”.
“È assolutamente scioccante che tre minorenni siano morti assiderati nella
foresta, nonostante siano stati lanciati diversi allarmi al 112. È un enorme
fallimento per tutti. Non solo per le forze di polizia bulgare, ma per l’Unione
europea nel suo complesso e per tutti i suoi Stati membri”, ha dichiarato
un’attivista sentita dal Guardian.
Il ministero degli Interni bulgaro ha respinto le accuse e ha dichiarato che le
sue forze di frontiera hanno reagito in modo tempestivo alle segnalazioni di
giovani in difficoltà, inviando “immediatamente” delle pattuglie, ma che i corpi
sono stati trovati in luoghi diversi da quelli inizialmente previsti.
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Fermato ed espulso dalla Turchia il Presidente del municipio VIII di Roma,
Amedeo Ciaccheri al ritorno della settimana trascorsa nei territori
dell’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est in occasione del
decennale della liberazione di Kobane dall’Isis con una delegazione
internazionale (nella foto di Chiara Cruciati, il Manifesto).
Dopo un breve interrogatorio gli è stato consegnato un decreto di espulsione
dalla Turchia a tempo illimitato.
Nessuna spiegazione ufficiale, ma è chiaro l’intento intimidatorio nei confronti
di chi solidarizza con la rivoluzione in corso nei territori liberati della
Siria del nord-est.
Racconta a Radio Onda d’Urto quanto accaduto e offre alcune valutazione lo
stesso Amedeo Ciaccheri. Ascolta o scarica
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Alcune/i compagne/i di Berlino ci hanno inviato questo contributo sulla
Palestina e l’inaccettabile posizione di alcuni “antifà” in favore di Israele
(cosiddetti antideutsch).
Come anarchic*, antifascist* e individualità che fanno parte di circoli autonomi
a Berlino, siamo pienamente solidali con tutti i movimenti di liberazione, dalla
Palestina al Congo, dal Kurdistan al Chiapas, dalla Papua Occidentale all’Isola
delle Tartarughe, da Abya Yala al Sudan, dal Sahara Occidentale al Myanmar, da
Haiti a Kanaky, ovunque nel mondo. Sosteniamo fermamente la vera solidarietà
internazionalista, intercomunitaria, antirazzista e transfemminista queer.
L’incessante oppressione dell* palestinesi (in Palestina e nella diaspora), e
quest’ultima fase della Nakba e del genocidio in corso, hanno mostrato i veri
volti e i veri valori di molti governi liberali e dei loro apparati statali. Lo
Stato tedesco, col suo fanatico sostegno a “Israele” e a tutti i “valori
occidentali” che rappresenta, è egualmente e pienamente complice del genocidio
in Palestina: occupazione e sfruttamento brutali, apartheid e pulizia etnica dei
popoli indigeni. L’antifascismo in chiave anticoloniale deve essere parte
integrante delle lotte di liberazione di tutti i popoli. Il vero antifascismo è
anticoloniale.
La Germania è senza dubbio un esperto in militarismo, guerre e genocidi: quello
degli Herero e dei Nama, del popolo ebraico in Europa, dell* Rom/Sinti, il
supporto al genocidio del popolo armeno da parte della Turchia… La lista è
infinita.
In Germania, la strumentalizzazione del senso di colpa tedesco nei confronti del
popolo ebraico, il mito della presunta comprensione e assunzione di
responsabilità tedesca, l’autoproclamata “ragion di Stato” e la “cultura del
ricordo” selettiva e estremamente curata sono addotti come giustificazione per
il sostegno attivo del genocidio.
I rappresentanti statali eletti in Germania leccano i piedi a Israele, fornendo
una copertura diplomatica ai crimini sionisti, mentre la maggior parte dei suoi
media ripete e amplifica la propaganda dello Stato israeliano.
Un’ampia parte della società tedesca, dominata da tedesch* bianch*, tace di
nuovo di fronte alla pulizia etnica in corso, mentre Israele commette
quotidianamente atrocità inimmaginabili, aiutato dalla Germania e dalle sue
forniture di armi, dal suo supporto tecnologico, per uccidere ogni forma di vita
a Gaza. Molt* in Germania si rifiutano di riconoscere (o semplicemente negano)
la brutale violenza del colonialismo di insediamento in Palestina, l’annessione
omicida in corso della Cisgiordania, le uccisioni di massa su larga scala e il
regime di apartheid in quanto tale. “È complicato”, sostengono. Ma in questi
tempi in cui un genocidio si consuma quotidianamente sui nostri schermi, il
silenzio è complicità. E come tale sarà ricordato.
Il movimento a sostegno della Palestina in Germania subisce attacchi da ogni
parte: dallo Stato, dai neonazisti, dalle istituzioni, dalla società civile
tedesca, da “cittadin* preoccupat*”, da liberali e dall* cosiddett*
“Anti-Deutsche” (“tedesch* anti-tedesch*”).
Con il pretesto di “combattere l’antisemitismo”, molt* di coloro che chiedono la
fine del genocidio e dell’occupazione vengono criminalizzat* (soprattutto le
persone provenienti da regioni a maggioranza musulmana e le persone viste in
questa maniera, BIPoC, come anche persone ebree antisioniste), inserit* in liste
di proscrizione, i loro eventi vengono cancellati e loro stessi continuamente
arrestat*, bandit*, insultat*, aggredit* e molestat*.
In Germania, inoltre, ci troviamo di fronte a un problema piuttosto unico e
molto tedesco: una parte significativa di tedesch* bianch*, non ebrei e
sedicenti “antifascist*” sostiene di buon grado il progetto sionista. Questi
ingannevoli e fastidiosi burattini dello Stato, i cosiddetti “Anti-Deutsche”,
che teoricamente appartengono alla sinistra radicale, sono consapevolmente
ignoranti quando si tratta di sionismo e Israele.
Il loro stratagemma, sempre prevedibile e consolidato, è quello di attaccare o
accusare chiunque osi schierarsi a favore della Palestina quale “antisemita”,
islamista, sostenitore di Hamas, fascista e/o nazista.
È chiaro che nel movimento “antifascista” in Germania c’è – per usare un
eufemismo – confusione. Dobbiamo porci come sfida la messa in discussione di
questa posizione, riflettendo in modo più attivo sulla composizione della
sinistra autonoma e di movimento di cui facciamo parte.
Spetta a tutt* noi operare un cambiamento.
Dobbiamo combattere tutti i razzismi, in particolare il pericoloso e sempre più
tossico razzismo anti-musulmano e l’odio anti-ebraico in questo Paese.
Rifiutiamo la presunta “ragion di Stato” (“Staatsräson”) della Germania e ci
rifiutiamo di riconoscere non solo “Israele” come Stato legittimo, ma anche lo
Stato tedesco e tutti gli Stati. Come anarchic*, antifascist* e antiautoritar*,
crediamo che tutti gli Stati e tutti i confini debbano essere aboliti. Ci
opponiamo a qualsiasi tipo di struttura di potere gerarchica e autoritaria.
Siamo avvers* alle ideologie o concezioni che legittimano lo Stato, al sistema
dei partiti politici che mettono al potere determinate persone o entità,
condizionando in senso sempre più autoritario la vita dell* altr*. Pertanto, la
nostra lotta mira alla disintegrazione dei regimi fascisti, sionisti, razzisti
ed etnocratici di “Israele” e di tutti gli altri Stati del mondo.
Chiediamo la fine immediata dell’apartheid e dell’occupazione della Palestina. I
palestinesi devono poter tornare nella loro terra natia. Ci impegniamo per la
liberazione della Palestina e sosteniamo che tutti i suoi abitanti debbano
vivere e prosperare in pace, dal fiume al mare. Lottiamo per la libertà di
tutt*.
MAI PIÙ significa MAI PIÙ PER TUTT*
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