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India: strumentalizzazioni delle popolazioni tribali da parte del bjp?
Mentre generalmente in India le popolazioni originarie (adivasi) subiscono l’oppressione e le deportazioni governative, in Assam – pare – si vorrebbe armarle in una prospettiva settaria (divide et impera) di Gianni Sartori Ancora nel 2010 la Corte suprema dell’India emetteva un ordine di espulsione nei confronti di circa 8 milioni di persone. Mentre il governo di Narendra Modi (Bharatiya Janata Party – Bjp) tentava di far adottare emendamenti e leggi per consentire ai rangers (in pratica, eufemismi a parte) di aprire il fuoco contro gli indigeni (adivasi) nelle aree forestali. Svuotando a livello legislativo il Forest Rights Act. Mentre la creazione di un registro nazionale dei cittadini e una legislazione discriminatoria (sempre in pratica) in campo religioso, rischiava di trasformare gli Adivasi in “apolidi” in casa loro. Qualche anno fa alcune Ong attive in difesa dei popoli indigeni paventavano che dalla vicinanza politico- economica tra India e Brasile (entrambi esponenti di spicco dei Brics) e dalla sostanziale affinità ideologica tra Bolsonaro e Modi (in particolare sulla questione “nativi”) potessero sortire conseguenze disastrose per i popoli indigeni. Ora, grazie a Dio, Bolsonaro non governa più e – anche se non priva di ombre e contraddizioni – la politica di Lula in materia di Indios è perlomeno il “meno peggio” rispetto al suo predecessore. Invece per l’India, con Modi ancora in sella, non sembra essere cambiato niente. Anzi. Perfino la sacrosanta difesa delle ultime tigripuò diventare il pretesto per deportare le popolazione autoctone. Vedi https://rivistaetnie.com/india-salvare-le-tigri-o-gli-adivasi-139370/ Ma – come per l’indipendentismo (v. https://ogzero.org/il-diritto-dei-popoli-all-autodeterminazione-le-lotte-comuni/) anche qui talvolta si applica la “geometria variabile. Sembrerebbe questo il caso dell’Assam (stato nord-orientale dell’India) dove il governo locale (e in particolare il ministro dell’interno Himanta Biswa Sarma, del Bjp) ha ventilato la possibilità di concedere solo ai nativi il porto d’armi (“licenze per armi da fuoco alle popolazioni indigene in aree vulnerabili”). Ufficialmente per autodifesa, per ragioni di sicurezza Per l’opposizione invece si tratterebbe di una misura settaria su base etnicache porterebbe alla formazione di vere e proprie milizie settarie. Esasperando ulteriormente le tensioni già esistenti con la popolazione musulmana. Come sta già avvenendo nello stato confinante di Manipur dove periodicamente esplodono conflitti armati tratra Kuki e Meitei. Anche perché (come denunciava The Wire) Sarma non sarebbe nuovo a queste operazioni. Già quando era un esponente dell’opposizione con il Congress) aveva tentato di utilizzare i conflitti etnici tra autoctoni assamesie coloro che – talvolta impropriamente – vengono definiti “migranti bengalesi” (provenienti dal Bangladesh e in gran parte di religione islamica). Ma pensando alla propria carriera politica, per ottenere i voti delle comunità indigene. Oggi evidentemente ci riprova, utilizzando la medesima retorica, da membro del Bjp. Non tanto – si presume – per rispetto della cultura e identità tribale, ma prosaicamente in vista delle elezioni del 2026. Giustificando tale “concessione selettiva” in quanto “la gente si sente indifesa, e spesso i centri di polizia più vicini sono troppo lontani”. Non casualmente i cinque specifici distretti in cui la misura verrà applicata sono zone a prevalenza musulmana.       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp        
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Giornata internazionalista a Valencia
L’esempio curdo preso a modello anche dal Pais Valencià e da Euskal Herria di Gianni Sartori Non è certo per caso che sul manifesto spicca con evidenza il simbolo (rosso) delle Brigate Internazionali, quelle dei volontari antifascisti che da ogni angolo d’Europa ( e non solo) accorsero in difesa della Repubblica contro il franchismo. Così come non è un caso che pur svolgendosi a Valencia, l’iniziativa sia ospitata da una realtà basca: l’ Euskal Etxea (il Centro Basco di Valencia). In sostanza, una giornata di solidarietà internazionalista con una particolare attenzione per la lotta di liberazione del popolo curdo. Tra i promotori, il Comitè valencià de Solidaritat amb el Kurdistan e il collettivo libertario Lêgerîn Azadî che con il loro intervento intendono focalizzare l’attenzione sull’esperienzadel Confederalismo democratico in Rojava e Bakur. E’ poi prevista una tavola rotonda (Tabla Redona amb els col-lectius; Valencia i els pobles en resistencia, internacionalisme d’anada i tornada)con varie associazioni internazionaliste locali (Asamblea de Solidaridad con Mexico Pais Valencià, l’associazione saharawi Zemmur, Perifories, BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni a sostegno dei palestinesi nda) Pais Valencià…) per discutere delle diverse situazioni dei “popoli in resistenza” e creare reti solidali e di mutuo soccorso internazionale. Oltre a concerti (con Tomas de Los Santos, cantautore valencià originario di Picassent e che si ispira a Victor Jara) e danze tradizionali curde e basche (balls kurds i bascos), è in cantiere la realizzazione collettiva di un grande murale ispirato a Gernika e dedicato all’odierno genocidio in atto a Gaza (“De Gernika a Gaza”). Il Comité Valencià de Solidaritat amb el Kurdistan va segnalato per l’intensa solidarietà con il popolo curdo. Con il 2025, dopo un periodo di relativa stasi, aveva ripreso le attività per denunciare come “il regime turco andava intensificando l’offensiva contro la Rivoluzione del Rojava e l’Amministrazione Autonoma del Nord e dell’Est della Siria” in quanto “riteniamo che i valori del movimento curdo siano validi e necessari anche per il Pais Valencià”. Prendendo a modello (e condividendone i principi) l’esperienza curda della “lotta contro la modernità capitalista e per la liberazione della donna”. Lo scorso 26 gennaio il Comité (sempre con Legerin Azadi) aveva organizzato una conferenza di aggiornamento sul Rojava presso il centro sociale Ca La Caixeta . Proseguendo poi in serata con una manifestazione (con lo slogan: “Seguim Defensant Kobanê”) che tentava di arrivare in Plaça dels Pinazos.       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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La prigionia dei palestinesi in Europa
Intervista ai comitati per Anan Yaesh e Georges Ibrahim Abdallah a cura della redazione di Napoli Monitor Georges Ibrahim Abdallah è un attivista libanese nato in una famiglia maronita. Nel 1979 ha fondato un movimento rivoluzionario marxista-leninista in supporto alla lotta palestinese. Arrestato in Francia nel 1984, è stato condannato all’ergastolo nel 1987 con l’accusa di complicità con gli omicidi di un addetto militare statunitense e di un diplomatico israeliano. Il 15 novembre 2024 un tribunale francese ha accettato la domanda di liberazione di Abdallah, ma la Procura nazionale anti-terrorismo ha presentato ricorso. Anan Yaeesh è invece un palestinese, militante della seconda Intifada e in seguito vittima di un agguato delle forze speciali israeliane. Ha lasciato il suo paese nel 2013 e dal 2019 è rifugiato politico in Italia. Nel gennaio del 2024 è stato arrestato in Italia e Israele ne ha chiesto l’estradizione. Il processo a suo carico è in corso e la giustizia italiana deve scegliere due opzioni: rispettare il diritto internazionale che garantisce la tutela dei rifugiati politici, oppure riconoscere le accuse fondate su indagini e interrogatori condotti da uno stato straniero. Circa un mese fa abbiamo intervistato alla Mensa Occupata di Napoli, a margine di una iniziativa sul tema della prigionia politica dei palestinesi, gli attivisti del comitato Free Anan e della sezione Paris Banlieue di Samidoun, organizzazione parte di un network internazionale a supporto dei prigionieri palestinesi nel mondo, che si batte tra le altre cose per la liberazione di Georges Ibrahim Abdallah. Proponiamo qui alcuni estratti della nostra conversazione.  *     *     * Comitato Free Anan: Se si vuole parlare di causa palestinese in Italia, oggi, la questione di Anan è la causa palestinese in Italia, oggi. Stiamo parlando di un palestinese che viene accusato di aver progettato un’operazione di Resistenza a una colonia e per questo lo stato italiano lo vuole processare. Parliamo di una persona che viene accusata di aver resistito e che oramai da oltre un anno si trova all’interno del carcere di Terni per questo. In tutta una prima fase abbiamo cercato di tenere il dibattito sul caso prettamente legale, per provare a evitare che la cosa assumesse una connotazione esclusivamente politica, nonostante in realtà sia totalmente politica, ma era una strategia processuale difensiva. Oramai questa cosa non c’è più: Anan sta parlando e bisogna leggere bene le cose che dice, le sue dichiarazioni, perché non c’è solamente un attacco all’entità sionista, c’è un attacco anche allo stato italiano, al sistema di repressione che viene applicato dallo stato italiano, ai regimi di detenzione differenziati, alle torture di alcuni regimi come il 41-bis. Anan parla di “Corte di amici” quando questa corte si relaziona con Israele. Lo stato italiano si sta comportando come se fosse parte di un conflitto in corso, come se ci fossero due alleati, Italia e Israele, nel corso di un conflitto. I materiali che sta usando la corte dell’Aquila sono in larghissima parte forniti dai servizi segreti israeliani. Sono frutto di interrogatori che sono stati estorti a diciassette palestinesi, arrestati o rapiti, due termini che possiamo utilizzare indifferentemente in queste circostanze. Stiamo parlando di prigionieri che sono stati deportati all’interno del territorio palestinese occupato, quello che chiamiamo stato di Israele, e sono stati interrogati con le modalità che le organizzazioni internazionali denunciano da decenni: violenze, torture, intimidazioni, abusi, anche sessuali. La cosa grave è che la Corte dell’Aquila ha ritenuto di poter assumere questo materiale come elemento probante all’interno di un processo: in questo modo l’Italia, sulla base di interrogatori estorti da una entità occupante a danno di uomini e donne sotto occupazione militare, ha costruito un capo di imputazione e un processo a carico di un comandante partigiano. Samidoun Paris Banlieue: In tutti questi anni di detenzione, Georges ha sempre chiesto, attraverso il suo avvocato, la liberazione. L’ultima sua richiesta è stata valutata l’ottobre scorso, il 7, quindi anche in questo caso l’aspetto politico del suo processo continua a essere chiaro, nel fatto che abbiano scelto questa data. A febbraio il tribunale di Parigi si è dichiarato favorevole per l’ennesima volta alla sua liberazione condizionata e all’estradizione in Libano, e questa volta non ci sarà bisogno del del beneplacito del ministero degli Interni, una condizione che era stata messa in passato e che aveva fatto sì che l’estradizione venisse negata. Questa volta la sua liberazione è stata condizionata al pagamento di un’indennità ai familiari delle due vittime, che è una cosa che Georges Abdallah non considera come giusta, data la natura politica del suo atto, che è un atto per la liberazione del popolo palestinese e del popolo libanese. A fine giugno arriverà la sentenza. Noi di Samidoun continueremo la campagna, che va ormai avanti in maniera strutturata da più di vent’anni anni, per cercare di arrivare alla fine, e speriamo di poter vedere Georges salire su un aereo e tornare a casa sua nella valle del Beqa’, in Libano. CFA: Sulla figura di Anan facciamo continuamente iniziative di approfondimento, ma ci sforziamo sempre di metterle nel contesto della carcerazione, perché la questione dei prigionieri palestinesi è una questione fondamentale. Subito dopo il 7 ottobre ciò che è stato detto è che tutto era stato fatto per la liberazione dei prigionieri palestinesi dalle carceri israeliane; questo è sempre avvenuto negli anni, a partire dagli Ottanta, quando si dirottavano gli aerei: non veniva richiesta con quelle azioni la liberazione dalla Palestina dal fiume al mare, veniva richiesta la liberazione dei prigionieri dalle carceri israeliane e di altri paesi. In Italia c’è grande supporto nella rete di compagni che si occupano di carcere e detenzioni, ma soprattutto nel periodo in cui c’era il rischio di estradizione di Anan abbiamo anche avuto il sostegno, per esempio, da parte di una parlamentare dei 5 Stelle, Ascari, che si è spesa per la questione. Sappiamo bene che il supporto che ci può arrivare da quest’area, anche quella dell’associazionismo, della società civile, è un supporto finalizzato a far uscire la questione dal nostro gruppo di compagni, a raggiungere un livello mediatico più ampio. Abbiamo dei contatti anche con europarlamentari che hanno espresso l’interesse a voler visitare Anan in carcere, ci auguriamo che questo possa essere un apripista per una riflessione più politica. SPB: La campagna per Georges è cominciata relativamente di recente. Una cosa che ne ha aiutato lo sviluppo è stata proprio la lunghezza della sua condanna. Parliamo di un militante politico arrestato negli anni Ottanta, in Francia, con delle accuse assurde che lo collegavano all’uccisione di due diplomatici, uno statunitense e uno sionista, due uomini che si occupavano peralto di affari militari, erano attaché militari per le loro rispettive ambasciate. Da subito era chiaro che si trattava di un processo politico, e la conferma è arrivata anche decenni dopo, quando nel 1999, a seguito di pressioni dagli Stati Uniti, il governo francese ha deciso di non liberare Georges. All’inizio degli anni Duemila è cominciata la campagna, che in una prima fase è stata portata avanti da organizzazioni come il Soccorso Rosso internazionale e altri compagni come quelli del collettivo Palestine Vaincra, che tra l’altro è stato sciolto recentemente dal governo francese dopo una battaglia legale durata un paio d’anni. Parliamo di compagni che si trovano per lo più a Tolosa, e che sono geograficamente più vicini alla prigione di Lannemezan. Col tempo la campagna è cresciuta, ha coinvolto molte organizzazioni. Ha un livello chiaramente politico, dovuto al fatto che Georges è un militante comunista, che non ha mai rinunciato alle sue convinzioni, e che anzi anche dal carcere ha sempre parlato e studiato, è intervenuto nel dibattito sui processi di lotta in Francia, per esempio sul tema dei Gilet gialli, e che ovviamente si esprime su tutto quanto succede in Palestina e Libano. E poi c’è un elemento che riunisce le forze progressiste, che è quello di lotta contro il carcere, contro la persecuzione politica. Nel 2014 anche Ahmad Sa’dat, segretario generale del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, si è espresso pubblicamente per la liberazione di Georges, ha scritto di lui come di un combattente della causa palestinese, parte del movimento dei prigionieri, la cui liberazione è un elemento fondamentale per la vita politica della Palestina. Samidoun Banlieue è un gruppo decisamente giovane, ha la capacità di attrarre soprattutto la gioventù araba di Parigi e delle banlieue circostanti. Abbiamo compagni di varie estrazioni politiche che hanno la priorità di portare la voce dei prigionieri palestinesi di tutte le fazioni; parliamo di compagni che sono in quartieri popolari come Belleville, Ménilmontant, Massy, quindi la periferia sud di Parigi, proprio per questo abbiamo scelto questo nome, perché la composizione è quella e perché il nostro sguardo non è solo sulla città di Parigi, ma su tutto quello che c’è che c’è attorno.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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28 maggio: finalmente giornata di ricordo nazionale del genocidio delle popolazioni indigene della Namibia
Su iniziativa della presidente della Namibia il 28 maggio è diventato Giornata del ricordo nazionale del genocidio di Herero e Nama  di Gianni Sartori Istituendo il 28 maggio come Giorno della memoria, per la prima volta nella sua travagliata storia la Namibia ha voluto commemorare ufficialmente il genocidio dei popoli Herero e Nama. Due popoli autoctoni annientati circa 120 anni fa dall’esercito coloniale tedesco del Secondo Reich. Tra il 1904 e il 1908 in Namibia furono realizzati vari campi di concentramento (in realtà di sterminio) dove vennero segregati decine di migliaia di indigeni namibiani. Si calcola (ma probabilmente per difetto ) che vi persero la vita almeno 65mila Herero (l’80%) e 10mila Nama (il 50%). Sistematicamente uccisi, torturati e utilizzati per esperimenti pseudoscientifici (con 40 anni di anticipo sulle analoghe pratiche, al tempo dell’Olocausto, nei confronti di ebrei, “zingari”, disabili e prigionieri sovietici, come ricordava The Namibian). Nel Paese da tempo si tenevano annualmente manifestazioni, marce e altre iniziative indette da varie organizzazioni. Ma quest’anno è intervenuta la presidente stessa Netumbo Nandi-Ndaitwah (recentemente eletta, prima donna a ricoprire tale carica in Namibia) per decretare che il 28 maggio (il giorno in cui la Germania, sotto la pressione internazionale, aveva chiuso i campi) diventava giorno festivo nazionale. Accendendo una lampada nei giardini del Parlamento della capitale Windhoek, non lontano da dove sorgeva l’Alte Feste (Vecchia Fortezza), uno dei famigerati luoghi di detenzione degli indigeni. Dopo un minuto di silenzio, osservando come ancora oggi la Namibia sia “un vasto paese, ma anche uno dei meno popolati (2,6 milioni nda)”, ha commentato: “Ma cos’altro dovevamo aspettarci visto che all’epoca abbiamo perso un così gran numero di nostri concittadini?”. Dietro la celebrazione, anni di complesse ricerche storiche e trattative (ancora in corso) con il paese responsabile dello sterminio, considerato il primo genocidio del XX secolo (e conosciuto come “il genocidio dimenticato della Germania”). Solo nel 2021 la Germania aveva riconosciuto pubblicamente le proprie responsabilità, attraverso la dichiarazione del Ministro tedesco degli affari esteri Heiko Maas “Noi oggi qualifichiamo ufficialmente questi eventi per quello che sono, un genocidio”. All’epoca potenza coloniale (dal 1884), fin dagli inizi del XX secolo la Germania aveva represso ferocemente le rivolte tribali delle popolazioni di quella che allora era denominata Africa tedesca del Sud-Ovest. Popolazioni a cui venivano sottratti terre e bestiame. Nel 1904, con la rivolta degli Herero in corso da alcuni mesi, il generale Lothar von Trotha (degno antesignano del nostro Roatta, quello della circolare 3C in Jugoslavia) decretava che “ogni Herero con o senza armi, in battaglia o no, deve essere abbattuto”. Tanto che oggi rappresentano solo il 7% della popolazione namibiana, mentre agli inizi del XX secolo costituivano il 40%. Stesso trattamento venne poi inflitto ai Nama quando si ribellarono un anno dopo. Per ulteriori informazioni vedi: https://www.labottegadelbarbieri.org/genocidio-di-herero-e-nama-i-tedeschi-chiedono-scusa/     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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La guerra è finita, andate in pace…forse
Appare alquanto altalenante la prosecuzione delle trattative di pacificazione tra organizzazioni curde (l’ex PKK in primis) e governo turco. Mentre le buone intenzioni dei curdi sono evidenti, non si può certo dire lo stesso di quelle di Ankara di Gianni Sartori Volendo citate Jorge Amado e il suo “Tereza Batista Cansada de Guerra”, si potrebbe titolare con “PKK stanco di guerra”. Non si esclude infatti che al di là della sacrosanta ricerca di una soluzione politica del conflitto, della preoccupazione per la infinita detenzione di Öcalan (e di almeno altri diecimila prigionieri politici curdi) e dell’impossibilità di uscire da una inconcludente “guerra di lunga durata” (fin troppo lunga in effetti) -alla fine abbia prevalso un senso di spossatezza, impotenza… Per cui la proposta lanciata dal leader curdo rinchiuso a Imrali potrebbe aver rappresentato una estrema, dignitosa via d’uscita. Non una sconfitta, tantomeno una resa, ma – forse – un punto di non ritorno, un cambio di prospettiva per aprire nuovi scenari e opportunità. Certo, uno scioglimento così repentino lascia un tantino perplessi. Diciamo pure che era lecito aspettarsi un percorso diverso, di estenuanti trattative e reciproche concessioni (v. la questione dei prigionieri, fondamentale in tutti i processi di pace del secolo scorso, dal Sudafrica all’Irlanda) basate sul do ut des… A questo punto possiamo dire che i curdi hanno fatto la loro parte. Tocca ora al governo turco mostrarsi all’altezza dello storico frangente, prendersi le proprie responsabilità e non sprecare l’opportunità che gli è stata offerta. Sarà comunque la Storia a stabilire se sia stata una buona idea o meno. Certo che stando così le cose a livello internazionale, forse non c’erano tante altre alternative. Da parte turca, oltre al non procrastinabile riconoscimento dei diritti politici e culturali del popolo curdo, prioritaria, essenziale rimane la scarcerazione di Öcalan La sua “libertà fisica” come chiedono molti esponenti curdi della diaspora. Tra cui Hüseyin Yılmaz, co-presidente del Centro Comunitario Democratico Kurdo (NAV) a Berlino.  “Affinché il processo di pace prosegua in maniera costruttiva – ha dichiarato – è fondamentale che Abdullah Öcalan possa guidare il processo in libertà”. Ribadendo che in quanto “fondatore dell’organizzazione, la libertà fisica di Öcalan e la sua partecipazione diretta al processo sono essenziali”. Sottolineando come dopo il suo appello il Partito dei Lavoratori del Kurdistan avesse “preso la storica decisione di autoscioglimento e di porre fine alla lotta armata”. In conclusione: “Questo non è un fatto qualsiasi. Segna l’inizio di una nuova era in una lotta di cinquanta anni”. E non si tratta ovviamente di garantire il futuro soltanto del popolo curdo. Bensì della convivenza tra tutti i popoli del Medio Oriente attraverso il dialogo e la democrazia. Certo, finora la Turchia sembra non volersi adeguare più di tanto alla nuova fase. Proseguono infatti gli attacchi contro il Kurdistan del Sud (Bashur, Nord dell’Iraq) dove si trovano alcune basi della guerriglia curda. Circa 130 bombardamenti solo nell’ultima settimana, stando ai dati forniti dall’agenzia Mezopotamya (la quale a sua volta riporta le dichiarazioni di Kamran Osman, portavoce dell’ONG Community Peacemakers (CPT). Nel suo comunicato Kamran Osman denunciava in particolare che “il 24 maggio, l’esercito turco ha bombardato 83 volte il monte Nizarke nel sotto-distretto di Şêladizê del distretto di Amêdiye di Duhok”. Bombardamenti intensi e mirati proseguiti per l’intera giornata. Inoltre nell’ultima settimana l’esercito turco avrebbe bombardato a più riprese (almeno 45) la regione di Ber Garê del sotto-distretto di Dêrelok d’Amêdiye. Sinceramente non sembra questa la forma migliore per alimentare un processo di pace. Così come i recenti arresti (effettuati il 29 maggio) di esponenti curdi a Pertek (Pêrtag) nella provincia curda di Dersim. Ma questa in fondo – lo sanno bene i curdi e non solo – è “ordinaria amministrazione”. Ancora più inquietante quanto è accaduto il 28 maggio ad Aleppo, in Siria. Quando un previsto scambio di prigionieri tra il regime di Damasco e le autorità curde è andato a vuoto in quanto le prigioniere di guerra curde YPJ (Yekîneyên Parastina Jin – Unità di Difesa delle Donne) non erano state liberate. Non solo. Sembra siano state trasferite direttamente nelle prigioni turche. Inevitabile ripensare all’analogo destino subito da Çiçek Kobane (Dozgin Temo). Ferita alle gambe e catturata in Rojava nell’ottobre 2019 dalla banda jihadista Ahrar al-Sham, veniva trasferita in Turchia per essere condannata all’ergastolo. In quanto avrebbe “distrutto l’unità e l’integrità dello Stato turco”.  (v. http://uikionlus.org/siamo-tutti-cicek-kobane/)  (v. anche https://www.panoramakurdo.it/2021/04/03/non-dimentichiamoci-di-cicek-kobane-un-appello-alla-comunita-internazionale-di-newroz-ehmed/) Stando a quanto dichiarato in alcuni video, gli islamisti avevano l’intenzione di ucciderla e soltanto le proteste internazionali ne impedivano l’esecuzione. Tuttavia questo non le aveva risparmiato di essere sottoposta a maltrattamenti (sia da parte dei miliziani jihadisti che in carcere) determinando un serio peggioramento delle sue condizioni di salute (in particolare per le ferite alle gambe).     Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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Turchia: Nuova stretta sull’opposizione. Arresti di massa e repressione a Istanbul
Le autorità turche hanno lanciato una nuova vasta operazione repressiva che ha portato all’arresto di decine di esponenti del Partito Popolare Repubblicano (CHP), principale forza politica di opposizione, e alla perquisizione di diversi municipi gestiti dallo stesso partito. L’operazione, ampiamente coperta dai media statali, giunge nel pieno di una crisi politica che si è acuita dopo l’incarcerazione, a marzo, del sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, il più accreditato sfidante del presidente Recep Tayyip Erdogan alle presidenziali del 2028. Secondo quanto riportato dall’agenzia Anadolu e dall’emittente NTV, oggi sono stati emessi mandati di cattura per 47 persone nell’ambito di quattro distinte indagini. Tra gli arrestati figurano nomi di rilievo: l’ex deputato del CHP Aykut Erdogdu, i sindaci di vari distretti di Istanbul e due sindaci di distretti nella provincia meridionale di Adana, oltre ad alti funzionari municipali e dirigenti di enti collegati al Comune di Istanbul. La polizia ha inoltre fatto irruzione negli edifici amministrativi di Avcilar, Buyukcekmece, Gaziosmanpasa, Seydan e Ceyhan. In risposta, il CHP  ha denunciato quella che definisce “una campagna di repressione orchestrata dal potere centrale”. Il caso Imamoglu: una svolta autoritaria Il nodo centrale di questa spirale repressiva rimane l’arresto di Ekrem Imamoglu, figura simbolo dell’opposizione turca e sindaco della metropoli più popolosa del Paese. Imamoglu è detenuto da marzo con accuse pesanti: corruzione e favoreggiamento di un gruppo terroristico. Accuse che il diretto interessato ha sempre respinto con fermezza, denunciando la natura politica dell’inchiesta. Il suo arresto ha provocato un’onda d’urto a livello nazionale: migliaia di persone sono scese in piazza in segno di protesta, diverse amministrazioni locali hanno denunciato pressioni giudiziarie. L’intera manovra giudiziaria si inserisce in una strategia ben precisa del governo Erdogan per disarticolare l’opposizione e indebolire il CHP, che gestisce importanti centri urbani, tra cui Istanbul e Ankara. Il blocco imposto questo mese all’account X di Imamoglu, ancora molto attivo anche dopo l’arresto, è stato letto da molti come un ulteriore tentativo di oscurare la voce di una figura politica in costante ascesa. Una popolarità in crescita Paradossalmente, l’offensiva giudiziaria contro Imamoglu e il suo partito potrebbe produrre l’effetto opposto rispetto a quello sperato da Erdogan. I sondaggi più recenti indicano un rafforzamento del sostegno popolare per il sindaco incarcerato. Il suo profilo sembra aver guadagnato ulteriore legittimità proprio in virtù della repressione, rafforzando la percezione di Imamoglu come principale alternativa a Erdogan nelle prossime presidenziali del 2028. La figura del sindaco di Istanbul si era già imposta come elemento di rottura nel panorama politico turco con la vittoria, nel 2019, delle elezioni municipali. Quella doppia vittoria (prima annullata e poi confermata al ballottaggio) aveva segnato uno dei rari rovesci per il partito del presidente, l’AKP, in una delle sue roccaforti strategiche. Con il Paese in crescente difficoltà economica e sociale, la figura di Imamoglu si carica di ulteriori significati simbolici: rappresenta la possibilità di un’alternativa, il volto della modernizzazione, un progetto riformista che fa paura all’apparato di potere. Il CHP denuncia l’utilizzo sistematico del sistema giudiziario come arma politica. Da tempo, Ankara è nel mirino di numerose Ong internazionali per la limitazione della libertà di stampa, le epurazioni nel sistema pubblico e la repressione del dissenso. Le purghe seguite al tentato colpo di stato del 2016 hanno rappresentato una cesura netta, trasformando lo stato d’emergenza in una condizione quasi permanente. Le ultime detenzioni si inseriscono in un disegno più ampio, volto a delegittimare ogni forma di opposizione organizzata, specialmente nelle aree urbane dove l’AKP  di Erdogan fatica ormai a imporsi. (da Pagine Esteri) > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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Bretagna, o cara…
Le lotte in difesa della Terra in Bretagna (Breizh) all’insegna dell’anticapitalismo e dell’antifascismo di Gianni Sartori La Bretagna (Breizh) è praticamente da sempre in prima linea non solo nelle lotte indipendentiste di sinistra (spesso a fianco di Euskal Herria e Irlanda, v. Lo storico movimento Emgann), ma anche – o soprattutto – nella difesa dell’ambiente e del paesaggio tradizionale. Dalla resistenza degli anni settanta del XX secolo per impedire la distruzione del bocage, a quella di questo secolo per bloccare la costruzione di un devastante e inutile aeroporto a Notre Dame des Landes. (V. https://csaarcadia.org/notre-dame-des-landes-una-larzac-bretone/ ). Torna, suo malgrado, alla ribalta con le recenti iniziative per impedire lo scempio annunciato del territorio nei pressi di Quimper dove il miliardario Vincent Bolloré (di estrema destra, emulo bretone di Elon Musk) vorrebbe costruire una méga usine (gigafactory) per batterie elettriche di quarta generazione (ossia batterie tout-solide, più leggere e “performanti”,basate sulla tecnologia lithium-métal polymère). Tramite la filiale “Blue Solutions” (in collaborazione con BMW), con investimenti dell’ordine di2,2 miliardi di euro e inizio dei lavori nel 2026 (da completare entro il 2030). Il 25 maggio, dopo il raduno di Guiscriff e l’allestimento di una flottiglia che il giorno prima aveva portato la protesta al largo di Fouesnant (una cinquantina di battelli, tentando di raggiungere l’île du Loc’h, proprietà del magnate), le iniziative anti-Bolloré (“Kenavo Bolloré !”) si sono concentrate a Ergué-Gabéric (Finistère) dove sorgono numerose imprese di sua proprietà. All’appello di Lever les voiles e di Soulèvements de la terre avevano risposto un migliaio di persone. Dopo un picnic solidale, una parte degli ambientalisti si erano mossi in corteo verso un’azienda del magnate. Mentre altri avevano scelto di muoversi tra la campagna e la foresta per aggirare i posti di blocco della polizia. Incontrando però i cordoni dei CRS. Un centinaio di manifestanti tentava nuovamente di aggirarli, ma venivano duramente caricati e fatti segno di intensi lanci di lacrimogeni. Scanditi gli slogan ormai abituali: “Siamo tutti antifascisti” (in lingua italiana),”Tous féministes contre le carbo-fascime“,”Bolloré, marionnettiste d’un monde fasciste”, “fachos ras le boll” e “moins de fachos, plus d’oiseaux“. Oltre tradizionali canti di lotta dei sardinières di Douarnenez (Finistère). Veniva inoltre pubblicamente denunciata la presenza nell’isola di proprietà della famiglia Bolloré di militanti neonazisti, presumibilmente assunti come guardie private. Tra cui (secondo il sito lalettre.fr.) Marc Cacqueray-Valménier, già responsabile del gruppo di estrema destra “les Zouaves” e pluri-condannato per aggressioni contro militanti di SOS Racisme. Nel frattempo si veniva a sapere che un piccolo gruppo di eco-femministe era sbarcato sull’isola del Loc’h appendendo uno striscione: “Wokes déterminées à couler Bolloré”. Per la cronaca, sul nord della Francia incombono almeno altri quattro progetti di fabbriche di batterie. Oltre a quello già inaugurato nel 2023 nel Pas-de-Calais di Automotive Cells Company (ACC). Va anche ricordato che – stando almeno alle dichiarazioni dell’anno scorso – inizialmente si parlava di una méga usine in Alsazia e di uno stabilimento minore (con solo 250 dipendenti) in Bretagna.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp      
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Per non dimenticare i morti carbonizzati di Cizre
Per quanto tardivo, l’intervento della Cedh sui massacri di Cizre di dieci anni fa, rimette – almeno simbolicamente – il governo turco sul banco degli imputati di Gianni Sartori Meglio tardi che mai. In fondo son trascorsi “solo” dieci anni, mese più o meno. Si parva licet – e scusate per l’autocitazione – ne avevo parlato in varie occasioni (v. per esempio https://csaarcadia.org/i-curdi-un-popolo-resistente/; v. anche https://www.labottegadelbarbieri.org/le-infamie-della-turchia-in-bakur-fra-il-2015-e-il-2017/ e infine https://www.panoramakurdo.it/2021/12/25/2015-2016-attacco-al-bakur-kurdistan-del-nord/). Ora (per la precisione, il 25 maggio 2015) anche la CEDH (Corte Europea dei diritti dell’uomo) ha finalmente richiesto per via ufficiale al governo turco di fornire spiegazioni sui 137 (quelli accertati) civili curdi assassinati sotto terra (scantinati, rifugi…) nell’inverno 2015-2016 a Cizre (provincia di Şırnak). All’epoca la città curda era sotto l’occupazione dell’esercito turco e vi era stato istituito il copri-fuoco. L’intervento della CEDH si basa su un dossier da cui risultano con evidenza sistematiche e gravi violazioni del diritto alla vita (garantito dall’articolo 2 della Convenzione dei diritti dell’uomo). Anche se il parallelo con quanto sta avvenendo a Gaza su scala industriale contro i palestinesi potrebbe apparire ingeneroso, va comunque sottolineato come anche Ankara “nel suo piccolo” abbia perpetrato reati ascrivibili alla pulizia etnica e al genocidio nei confronti dei curdi. Infatti tra dicembre 2025 e febbraio 2016 la città di Cizre (oltre centomila abitanti) aveva subito un coprifuoco di ben 79 giorni e un’operazione militare a base di bombardamenti aerei che avevano raso al suolo interi quartieri. Con la preventiva sospensione di elettricità, acqua e comunicazioni. Facendo precipitare la popolazione – stando alle dichiarazioni dell’Alto Commissariato ai diritti dell’uomo dell’ONU – in “condizioni apocalittiche”. Tra gli eventi più spaventosi, il ritrovamento (7 febbraio 2016) di 137 cadaveri (bambini, giornalisti esponenti della società civile…) letteralmente carbonizzati in tre diversi rifugi sotterranei dove evidentemente tentavano di sfuggire ai bombardamenti e ai rastrellamenti. Stando alle testimonianze dei sopravvissuti, i soldati turchi avrebbero utilizzato carburante per bruciare sia persone in vita che cadaveri (oltre ai bombardamenti mirati, direttamente sui civili). Altre vittime, numerose, tra i feriti lasciati senza cure. E naturalmente molti corpi di persone decedute sotto le macerie non sono mai stati ritrovati. Nel 2019 la CEDH non aveva accolto una prima denuncia (così come – ca va sans dire – la Corte costituzionale turca). Tuttavia gli avvocati dei familiari delle vittime (tra cui Ramazan Demir) non si sono arresi e l’avevano riproposta a Strasburgo. Ottenendo che la CEDH interpellasse direttamente Ankara per avere chiarimenti in merito alla responsabilità delle forze di sicurezza turche, alle misure intraprese per soccorrere i feriti (praticamente nulle nda), alla validità, imparzialità e indipendenza delle inchieste eventualmente condotte su richiesta delle famiglie (e regolarmente rifiutate nda) e alla possibilità che le operazioni di salvataggio siano stati intenzionalmente impedite. Da parte sua la Turchia accusava le vittime di appartenenza al PKK, ma senza fornire prove. Le aree dove erano avvenuti i massacri sono state in seguito completamente rase al suolo e sulle residue macerie la compagnia pubblica TOKI ha costruito nuovi immobili. Cancellando così ogni ulteriore prova.       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Dal mondo
Grecia e Turchia alleate nella repressione
L’avvocato Günay Dağ in sciopero della fame svela una cooperazione politica tra Grecia e Turchia che calpesta il diritto di asilo e rafforza la repressione tansnazionale di Devrim Umutda Pagine Esteri La repressione statale contro gli avvocati della sinistra rivoluzionaria che in Turchia lottano per la giustizia e per il popolo è da anni sistematica e implacabile. La morte di Ebru Timtik durante uno sciopero della fame a oltranza per chiedere un processo equo, il trattamento forzato quasi letale imposto ad Aytaç Ünsal e la lunga detenzione di Selçuk Kozağaçlı sono solo alcuni esempi. I procedimenti giudiziari contro i membri dell’Associazione degli Avvocati Progressisti (ÇHD) e dell’Ufficio del Popolo per il Diritto (HHB) rappresentano attacchi politicamente motivati diretti a colpire il diritto alla difesa. Oggi, questa politica repressiva ha varcato i confini della Turchia ed è arrivata fino in Europa. L’ultimo esempio di questa repressione è il caso dell’avvocato della sinistra rivoluzionaria Günay Dağ, che ha chiesto asilo politico in Grecia nel 2020 a causa delle persecuzioni subite in Turchia. Sebbene l’asilo gli sia stato ufficialmente riconosciuto nel 2022, per tre anni gli sono stati negati sia il permesso di soggiorno che il documento di viaggio. Le autorità greche hanno giustificato questo diniego illegale facendo riferimento a un divieto d’ingresso nello spazio Schengen imposto dall’Italia, un paese che Günay Dağ non ha mai visitato e con cui non ha alcuna questione legale. Le ragioni di tale divieto non sono mai state rese note, e tutti i suoi ricorsi legali sono stati respinti verbalmente, senza alcuna comunicazione scritta, bloccando così di fatto il suo diritto a ricorrere legalmente. Il 27 gennaio 2025, Günay Dağ ha iniziato una protesta davanti al Ministero greco della Migrazione e dell’Asilo. Poi, il 20 marzo, ha ricevuto notifica dell’avvio di una nuova procedura per la revoca del suo status di rifugiato, con la motivazione che rappresenterebbe una “minaccia per la sicurezza nazionale”. L’unico elemento giustificativo fornito è stato un presunto “documento segreto” datato 27 febbraio. Il contenuto del documento non è mai stato divulgato, e a Günay Dağ non è stata data alcuna possibilità di difendersi. Una procedura che normalmente richiede anni è stata completata con una rapidità straordinaria, e il 28 aprile il suo status di rifugiato è stato completamente revocato. Il 12 maggio 2025, Günay Dağ ha annunciato l’inizio di uno sciopero della fame a tempo indeterminato, dichiarando che l’intero procedimento è il risultato della diretta collaborazione politica tra il governo greco e il fascismo turco. “Vengo punito per essere un avvocato del popolo”, ha affermato, promettendo di continuare lo sciopero fino a quando le sue richieste non saranno soddisfatte. Le richieste di Günay Dağ sono: 1. L’annullamento della decisione di revocare il suo status di rifugiato; 2. Il rilascio del permesso di soggiorno e del documento di viaggio; 3. La fine della repressione contro i rifugiati politici provenienti dalla Turchia e della collaborazione dello Stato greco con il regime turco. Il caso di Günay Dağ mette in luce come le politiche europee in materia di asilo e migrazione consentano decisioni arbitrarie sotto il pretesto della “sicurezza”, sacrificando spesso i diritti umani. Lo Stato greco, invece di proteggere un avvocato noto per la sua identità rivoluzionaria, sta aprendo la strada alla sua possibile estradizione, collaborando con un regime apertamente repressivo e torturatore come quello turco. Non si tratta solo di un’ingiustizia giuridica: è un attacco politico. Oggi, mettendo il proprio corpo in gioco attraverso lo sciopero della fame, Günay Dağ torna a essere voce del diritto, della giustizia e della dignità umana. La sua lotta non è solo per i propri diritti, ma rappresenta anche una resistenza a nome di tutti gli avvocati che, in Turchia e nel mondo, si schierano al fianco degli oppressi.   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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USA: Black Lives Matter perde slancio, il trumpismo si scatena
Gli Stati Uniti commemorano questa domenica la morte dell’afroamericano George Floyd, ucciso cinque anni fa da un poliziotto bianco a Minneapolis. In un contesto in cui il movimento Black Lives Matter sta perdendo vigore e in cui Donald Trump sta cancellando tutte le riforme volte a combattere il razzismo. di Marine Turchida da mediadart.fr (traduzione di Salvatore Palidda) La morte di George Floyd durante un arresto da parte della polizia nel 2020 aveva rappresentato negli Stati Uniti un punto di svolta nella consapevolezza nazionale sulla questione razziale. Domenica 25 maggio, il Paese commemora la morte di George Floyd, afroamericano, ucciso cinque anni fa da Derek Chauvin, un poliziotto bianco, a Minneapolis (Minnesota). Chauvin è stato condannato per omicidio a oltre ventuno anni di carcere nel 2022. La cerimonia commemorativa si terrà in piazza George Floyd, nel luogo dove quest’uomo di 46 anni fu soffocato dal poliziotto, che premette a lungo il ginocchio sul suo collo durante un arresto violento. Quei nove minuti e ventinove secondi ripresi in video fecero il giro del mondo. Già venerdì pomeriggio, i familiari di George Floyd e una cinquantina di altre persone hanno osservato un minuto di silenzio nella piazza, coperta di opere d’arte di protesta – tra cui un murale viola con la scritta “Hai cambiato il mondo, George” – prima di deporre delle rose gialle. Quel delitto ha dato una nuova dimensione a Black Lives Matter (BLM), nato nel 2014 dall’assoluzione di George Zimmerman dopo la morte per colpi di arma da fuoco del giovane afroamericano Trayvon Martin, e dai decessi di Michael Brown ed Eric Garner, entrambi uccisi dalla polizia. Il movimento, che mirava a combattere razzismo, violenze della polizia e disuguaglianze sistemiche, divenne in pochi giorni, dopo la morte di Floyd, uno slogan universale: il “MeToo” dell’antirazzismo. In tre giorni, più di otto milioni di tweet con l’hashtag #BlackLivesMatter furono pubblicati. Mezzo milione di persone si radunarono in circa 550 località in tutti gli Stati Uniti. Nelle settimane seguenti, tra i 15 e i 26 milioni di persone parteciparono a manifestazioni o espressero sostegno, compresi esponenti repubblicani come Mitt Romney, candidato presidenziale nel 2012, e Nikki Haley, prima ambasciatrice di Trump all’ONU. Le parole “BlackLivesMatter” furono dipinte in enormi lettere gialle davanti alla Casa Bianca a Washington, dove Donald Trump stava terminando il suo primo mandato. La sindaca democratica, Muriel Bowser, ribattezzò il luogo “Black Lives Matter Plaza NW”. In California, a Sacramento davanti al Campidoglio, o a Oakland su tre interi isolati del centro città, le lettere “BLM” furono anch’esse dipinte. Fu probabilmente il più grande movimento sociale nella storia degli Stati Uniti. Il Washington Post ricorda che la morte di Floyd avvenne mentre gran parte del Paese era ancora in lockdown a causa della pandemia di Covid-19. I neri, gli ispanici e le popolazioni indigene erano colpiti in modo sproporzionato dal virus, e la gente, chiusa in casa, era sommersa da immagini video che mostravano Floyd ucciso in pieno giorno da un poliziotto. «C’erano tutti gli ingredienti: una violenza spettacolare, un pubblico attento e attivisti pronti a mobilitare le persone», analizza Hakeem Jefferson, professore associato di scienze politiche all’università di Stanford. Ma cinque anni dopo, mentre le violenze della polizia a livello nazionale continuano ad aumentare, il movimento sembra regredire. Come simbolo: a Washington, la piazza Black Lives Matter è scomparsa. Le grandi lettere gialle sono state coperte d’asfalto, a marzo, sotto la pressione dell’amministrazione Trump. Il contraccolpo del secondo mandato di Trump Il contesto è cambiato. Tornato alla Casa Bianca da gennaio, Donald Trump sta smantellando tutte le riforme volte a combattere il razzismo. Fin dalle prime ore del suo secondo mandato, il presidente statunitense ha lanciato una campagna di demolizione delle politiche di diversità, equità e inclusione (DEI), comprese quelle attuate in risposta alla morte di Floyd. Il suo governo ha soppresso le indagini sui diritti civili e ha frenato le iniziative di assunzione per promuovere la diversità, ricorda l’AFP. Il 21 maggio, il Dipartimento di Giustizia ha annunciato l’abbandono delle cause legali contro le polizie di Minneapolis e Louisville, accusate di violenze dopo le morti di afroamericani che avevano scosso il Paese nel 2020. E, come simbolo, gli alleati più estremisti del presidente americano hanno suggerito che conceda la grazia a Derek Chauvin. «L’attuale regressione appare rapida e brutale», scrive il New York Times: «Cinque anni fa, repubblicani e democratici sfilavano insieme per denunciare le violenze della polizia e affermare che le vite dei neri contano. Oggi, Donald Trump, un presidente che ha a lungo promosso il risentimento bianco, detta il tono del discorso razziale.» Alcuni osservatori ritengono che la rielezione di Donald Trump sia in parte una reazione all’attivismo di BLM, le cui manifestazioni erano degenerate in rivolte in alcune città. Di fatto, i conservatori americani vedono nella politica del presidente una correzione necessaria di fronte alla violenza urbana che denunciano e alle direttive che considerano paralizzanti per le forze dell’ordine. «L’amministrazione Trump è determinata a fermare la criminalità, far rispettare la legge, proteggere le comunità e sostenere le forze dell’ordine a ogni livello», ha dichiarato Harrison Fields, portavoce della Casa Bianca. Il declino di Black Lives Matter Parallelamente, la popolarità di Black Lives Matter è diminuita. Sebbene una leggera maggioranza dell’opinione pubblica continui a sostenerlo, il movimento non gode più del forte appoggio che lo ha sostenuto nel 2020, e il suo bilancio rimane ambiguo. «La gente credeva davvero che quelle manifestazioni di massa, quelle proteste multiculturali su larga scala, sarebbero state trasformative nella lotta per la giustizia razziale», spiega al Washington Post l’accademico Hakeem Jefferson. «Lo sono state, ma non nel modo che la gente si aspettava», afferma il professore di scienze politiche, raccontando che dopo il culmine delle grandi manifestazioni del 2020 – che Trump minacciava di reprimere con l’esercito – «il sostegno è crollato». Questo mese, il Pew Research Center ha rivelato che il 72% degli americani ritiene che l’aumentata attenzione alle disuguaglianze razziali dopo la morte di George Floyd non abbia migliorato la vita delle persone nere. «La rivoluzione antirazzista ha rallentato, ma non è mai stata destinata a progredire senza ostacoli», analizza sul New York Times Ibram X. Kendi, promotore del concetto di “antirazzismo”. Da quando ha fondato, nel 2020, il Centro di ricerca antirazzista presso l’Università di Boston grazie a 55 milioni di dollari in donazioni, ha visto la sua notorietà accademica diminuire. Lo stesso Hakeem Jefferson è finito in una “lista di sorveglianza” dell’estrema destra per aver insegnato e studiato come razza e identità influenzino i comportamenti e le attitudini politiche. Dopo la morte di Floyd, la Black Lives Matter Foundation Inc. ha raccolto 79,6 milioni di dollari nel 2021. L’anno successivo, l’importo è sceso a circa 8,5 milioni. Nel 2023, i ricavi sono stati circa 4,7 milioni, a fronte di spese pari a 10,8 milioni, secondo ProPublica. Sono circolate accuse di cattiva gestione, danneggiando l’immagine del movimento. Resistenza politica Nella stampa americana, storici e politologi sottolineano tuttavia che i movimenti sociali e la politica razziale negli Stati Uniti sono sempre stati ciclici, fatti di avanzamenti e reazioni ostili. Così, il trionfo dell’abolizionismo fu seguito dalla nascita del Ku Klux Klan (KKK), gruppo suprematista bianco, e dalla fine della Ricostruzione (la fase di ricostruzione giuridica, politica e sociale dopo la guerra civile). Le marce per i diritti civili si dispersero mentre il repubblicano Richard Nixon e la sua maggioranza arrivavano al potere. Ma questi progressi non sono mai stati completamente annullati. Nonostante la violenza e il terrore usati dagli Stati del Sud per reprimere la piena cittadinanza dei neri dopo la Ricostruzione, la schiavitù non fu reintrodotta. Per Steven Hahn, professore di storia all’Università di New York, l’attivismo nero è parte integrante dell’attivismo americano, anche se oggi alcuni alleati bianchi se ne sono allontanati: «Non ci sarebbe democrazia in questo Paese – o almeno non una democrazia solida – senza i neri e le loro lotte. Sono loro che si sono impegnati di più per una democrazia autentica, non fondata su eccezioni ed esclusioni», analizza sul New York Times. Un altro elemento è che il movimento di riforma della polizia avviato dopo l’omicidio di George Floyd ha lasciato un impatto duraturo: molti dipartimenti di polizia richiedono ancora l’uso delle bodycam; i mandati di perquisizione senza preavviso sono ora vietati in alcune aree; la raccolta dati sulle violenze della polizia è stata rafforzata. Infine, gli sforzi di Donald Trump per sradicare le politiche di diversità, equità e inclusione stanno cominciando a suscitare una crescente resistenza popolare, osserva il New York Times. Anche i familiari di George Floyd hanno dichiarato all’AFP di voler che la gente continui a fare pressione per le riforme, nonostante il clima politico ostile. «Non abbiamo bisogno di un decreto per dirci che le vite dei neri contano», ha affermato sua zia Angela Harrelson, con indosso una maglietta con il volto di Floyd. Ogni anno dalla morte di George Floyd si organizzano commemorazioni. Il tema di quest’anno (“Il popolo ha parlato”) è stato suggerito dal nipote di Nelson Mandela, Nkosi, in visita sul luogo. Un tema pensato per riflettere cinque anni di proteste, ha spiegato all’AFP la zia di Floyd, aggiungendo: «Anche se è stancante, continuiamo». Onorare l’eredità di Floyd è una forma di resistenza politica, ha spiegato durante l’omaggio di venerdì Jill Foster, medico a Minneapolis: «Donald Trump e il suo governo stanno cercando di riscrivere tutto e creare una nuova realtà. Dobbiamo mantenere viva la memoria e continuare a diffondere informazioni». «È meraviglioso vedere tutte queste persone venire a celebrarlo», ha detto commossa Courteney Ross, la compagna di Floyd al momento della sua morte. «Si vede un’unità rara in questo Paese oggi, e la gente celebra un uomo che, sapete, ha dato la vita per noi.» vedi anche : > USA 5 anni dopo l’omicidio di George Floyd ancora più omicidi della polizia e > sempre più neri e ispanici   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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