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Quarantacinque attivisti condannati a Hong Kong
Il 19 novembre un tribunale di Hong Kong ha condannato quarantacinque attivisti per la democrazia a pene fino a dieci anni di prigione per “sovversione”, al termine del più grande processo mai tenuto nell’ex colonia britannica per fatti legati alla sicurezza nazionale. di Serena Console da il manifesto Tutto quello che restava del fronte democratico di Hong Kong ora ha vita solo nelle aule di tribunale e nelle carceri. A più di 1400 giorni dall’arresto degli attivisti del gruppo dei “47 di Hong Kong”, ieri è arrivata la condanna per 45 di loro con pene fino a 10 anni di carcere. Tutti colpevoli di «sovversione dei poteri dello Stato». Due invece sono stati prosciolti. Con questo verdetto, si è concluso il maxi processo mai intentato finora contro l’opposizione democratica nell’ex colonia britannica in base alla legge sulla sicurezza nazionale. La stessa che la Cina ha imposto per stroncare le proteste di massa del 2019. La loro colpa è aver organizzato e preso parte alle primarie non ufficiali tenutesi nel 2020, nel tentativo di scegliere i candidati da presentare alle elezioni del Legislative Council, il parlamento locale. Quelle elezioni furono rinviate ufficialmente per la pandemia di Covid-19, per poi essere indette una volta introdotto un nuovo sistema elettorale per consegnare il governo di Hong Kong nelle sole mani dei «patrioti» e fedeli al Partito comunista cinese. La gran parte degli imputati ha già trascorso più di tre anni in prigione, precisamente da quando nel gennaio 2021 una maxi retata della polizia locale ha portato all’arresto di 53 persone tra attivisti ed ex deputati dell’opposizione, tutti accusati di cospirazione per sovversione ai sensi di una legge sulla sicurezza nazionale. Il processo è iniziato lo scorso anno e dei 47 imputati, 31 si erano dichiarati colpevoli e tra i 16 che avevano respinto le accuse, due erano stati assolti a maggio e 14, invece, erano stato giudicati colpevoli. Tra coloro che si erano dichiarati colpevoli – sperando in una riduzione della pena ed evitare l’ergastolo – figurano i nomi di spicco del professore di diritto Benny Tai e Joshua Wong, giovane promessa politica emersa durante le proteste della Rivoluzione degli Ombrelli del 2014 che bloccarono per 79 giorni le strade dell’ex colonia britannica al grido di piena democrazia ed elezioni a suffragio universale. Considerato la «mente del gruppo», Tai aveva inizialmente ricevuto una condanna a 15 anni, ridotta a 10 anni dopo che i giudici – scelti appositamente dal governo locale per i casi relativi alla legge sulla sicurezza nazionale – hanno preso in considerazione la sua dichiarazione di colpevolezza. A Wong sono stati dati 4 anni e 8 mesi. Dura condanna anche per l’australiano con doppia cittadinanza Gordon Ng, a cui è stata inflitta una pena a 7 anni e 3 mesi che ha provocato la dura protesta di Canberra. Gli altri imputati e imputate, tra cui l’ex giornalista Gwyneth Ho, l’ex parlamentare Claudia Mo e l’attivista Leung Kwok-hung (meglio noto come “Long Hair”) dovranno scontare tra i quattro e i sette anni di detenzione. Per l’accusa, l’obiettivo del fronte pro-democrazia era ottenere la maggioranza dei seggi del parlamento e porre il veto alla legge di bilancio, così da mettere in difficoltà l’esecutivo e spingere l’allora leader Carrie Lam alle dimissioni. Nel leggere la sentenza, i tre giudici hanno preso in considerazione fattori quali il grado di pianificazione, il numero di persone coinvolte e i potenziali danni generati, indipendentemente dal fatto che il piano si sarebbe realizzato. Dure le reazioni di Usa, Taiwan, Regno Unito e Onu alla condanna dei 45 attivisti. Ma Pechino difende le decisioni del tribunale locale, affermando che le condanne servono come monito per coloro che tentano di minare la sicurezza nazionale. E contesta «le interferenze di alcuni Paesi occidentali» che «calpestano seriamente lo stato di diritto». > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 20, 2024 / Osservatorio Repressione
Giulio Regeni, il video di due testimoni: «Era sfinito dalle torture, lo portavano in cella a spalla»
Nel processo in corso sull’omicidio di Giulio Regeni,  la testimonianza di due palestinesi detenuti con lui nello stesso carcere in Egitto. «Abbiamo Giulio bendato, sfinito dalle torture con le scosse elettriche. I carcerieri volevano sapere dove aveva imparato ad affrontare quel trattamento, insistevano molto su questo punto» di Eleonora Martini da il manifesto «Era bendato e sfinito dalla tortura: le guardie lo portavano a spalla, verso la sua cella». Parla attraverso una video intervista, realizzata dall’emittente qatariota Al Jazeera, il testimone oculare delle torture inflitte a Giulio Regeni dalla National Security egiziana tra il 25 gennaio e il 3 febbraio 2016, giorno in cui il suo cadavere venne ritrovato lungo l’autostrada tra il Cairo e Alessandria. Si tratta di un cittadino palestinese che era detenuto nella stessa prigione adibita a luogo di sevizie degli stranieri sospettati di minare la sicurezza nazionale egiziana. La sua è la prima testimonianza acquisita dai giudici della Prima corte d’assise di Roma nel processo in contumacia ai quattro 007 cairoti: il generale Tareq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif (il presunto aguzzino e boia del ricercatore friulano). Il 28 e il 29 gennaio 2016 l’ex detenuto palestinese incontra Regeni, senza però rivolgergli mai la parola. «L’ho visto arrivare nel corridoio, era a circa cinque metri da me. Giulio era ammanettato con le mani dietro la schiena, con gli occhi bendati e accompagnato da due guardie carcerarie. Gli interrogatori duravano ore, l’ho rivisto dopo, era sfinito dalla tortura: le guardie lo portavano a spalla, verso la sua cella. Non era nudo indossava degli abiti, dei pantaloni scuri e una maglietta bianca». Il testimone ricorda la domanda insistente dei carcerieri rivolta al prigioniero italiano: «Giulio dove hai imparato a superare le tecniche per affrontare l’interrogatorio». «Erano nervosi, usavano la scossa elettrica e lo torturavano con la corrente – continua il teste – Oltre ai carcerieri c’erano gli investigatori, ufficiali che non avevo visto prima e un colonnello, Ahmad, un dottore specializzato in psicologia. Anche il colonnello Tareq ha ripetutamente assistito agli interrogatori di Giulio». Durante le indagini, nel 2020, la procura raccolse la testimonianza di cinque persone identificate con le prime lettere dell’alfabeto greco. Il teste epsilon aveva visto Giulio mezzo nudo e sdraiato a terra, ammanettato e «tra catene di ferro», «con due ufficiali e due agenti», nella stanza 13 del primo piano della villa degli orrori utilizzata dalla National security. L’ex detenuto palestinese dunque sarebbe il secondo testimone delle torture subite da Regeni. Racconta di detenzione senza regole, in «celle molto strette, fredde, umide e maleodoranti», praticamente un «sepolcro». > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 20, 2024 / Osservatorio Repressione
Se Johan Cruijff segna per Gaza
I fatti avvenuti ad Amsterdam lo scorso 7 novembre, relativi agli scontri tra le tifoserie calcistiche dell’Ajax di Amsterdam e del Maccabi di Tel Aviv, e la messa in scena da parte dei media che non tengono conto delle dinamiche che hanno regolato il verificarsi degli eventi, e nemmeno i contesti sociali interessati. di Vincenzo Scalia da Studi sulla Questione Criminale  A volte gli schemi utilizzati per rappresentare la realtà si trasformano in pregiudizi, in quanto non tengono conto delle dinamiche che hanno regolato il verificarsi degli eventi, e nemmeno i contesti sociali interessati. Ne consegue uno scarto vistoso tra la realtà e la sua messa in scena, che scaturisce in interpretazioni distorte, che fanno leva sull’interesse ad assecondare una rappresentazione dominante. A lungo andare, questo processo di distorsione della realtà, si traduce nella produzione,  riproduzione e circolazione di pregiudizi e pratiche discriminatorie nei confronti di individui e gruppi sociali. I fatti avvenuti nella capitale dei Paesi Bassi lo scorso 7 novembre, relativi agli scontri tra le tifoserie calcistiche  dell’Ajax di Amsterdam e del Maccabi di Tel Aviv, e la loro messa in scena da parte dei media, esemplificano questa impostazione. Da un lato i fatti, documentati da foto e video, suffragate dalle testimonianze dei presenti, dei tifosi e persino dai rapporti della polizia di Amsterdam, parlano di tifosi del Maccabi Tel Aviv arrivati ad Amsterdam in assetto paramilitare, armati di oggetti contundenti, pronti allo scontro. Soprattutto, documentano bandiere palestinesi strappate, cori contro la Palestina, tra cui quello, agghiacciante, urlato allo stadio: “a Gaza non ci sono scuole perché non ci sono più bambini”, sommati ad atti di vandalismo in giro per la città. Insomma, un campionario di atti violenti e provocazioni messe in atto dai settori delle tifoserie che cercano lo scontro coi gruppi avversari. Dall’altro lato, però, i mezzi di informazione occidentali, si impegnano da giorni alacremente a ribaltare le dinamiche dei fatti, se non addirittura ad occultarle, assecondando la lettura del premier israeliano Netanyahu, che parla addirittura di una nuova notte dei cristalli. Eppure ci sono stati solo sei feriti lievi, secondo quanto riportato dalla polizia olandese, senza contare i danni arrecati dei tifosi del Maccabi, notoriamente di destra. Soprattutto, l’Ajax è una squadra che, come il Tottenham a Londra, può contare su una cospicua tifoseria ebraica. Non è perciò casuale che i gruppi di supporter organizzati delle due squadre, siano gemellati. I conti, rispetto a una presunta nuova “notte dei cristalli”, non tornano. Nessuno mette in dubbio che la violenza, prevalentemente reattiva, ci sia stata anche da parte dei tifosi dell’Ajax. Ma cosa è successo in realtà il 7 novembre? Alessandro Dal Lago (1990) ci spiegava che una partita di calcio è lungi dall’essere un fenomeno all’insegna del decoubertiniano “l’importante è partecipare”, così come viene rappresentata dalle narrazioni dominanti. Sia sugli spalti, sia sul terreno di gioco, si assiste alla produzione di un fenomeno sociale totale, ovvero un evento che elabora e mette in scena le contraddizioni e le fratture che attraversano la società. Il tifo calcistico, in altre parole, rappresenta un potente veicolo di formazione delle identità di classe, politiche, etniche, nonché della loro circolazione. Non a caso la guerra jugoslava cominciò, a metà degli anni ottanta, sugli spalti, quando i tifosi serbi cominciarono a coalizzarsi contro quelli croati, che si unirono contro i bosgnacchi, formando i primi nuclei di quegli squadroni paramilitari destinati a diventare tristemente famosi pochi anni dopo. Ad Amsterdam, lo scorso 7 novembre, abbiamo assistito a uno scenario analogo. I tifosi del Maccabi hanno infranto la barriera del gemellaggio, ovvero della solidarietà e del sostegno tra tifoserie, in nome del loro nazionalismo, per la prima volta ostentato pubblicamente fuori dai confini nazionali. Probabilmente contavano di fare leva sull’identità ebraica della tifoseria della squadra che fu di Crujiff, di Van Basten, di Davids. In realtà Amsterdam è una città multiculturale, e il caleidoscopio etnico si riflette anche nella tifoseria dei lancieri1, dove è presente anche una forte componente di origine musulmana e araba. In ogni caso, gli ultras dell’Ajax, non si caratterizzano per l’appartenenza alla destra radicale come quelli del Feyenoord di Rotterdam. L’eterogeneità culturale, la forte presenza araba e musulmana, l’approccio aggressivo e violento da parte dei tifosi del Maccabi, hanno finito per suscitare la reazione dei supporter dell’Ajax, e di parte della popolazione di Amsterdam. La questione palestinese, d’altra parte, ha conquistato da un anno e mezzo la ribalta pubblica internazionale, giungendo anche a provocare prese di posizioni nette da parte di istituzioni internazionali come l’ONU e la Corte Internazionale di Giustizia contro la politica del governo Netanyahu e gli oltre 40.000 morti provocati in un anno e mezzo di rappresaglia. Tuttavia, la crescente consapevolezza che si diffonde presso l’opinione pubblica internazionale, stride con il mantenimento degli equilibri politici esistenti, allineati sugli interessi e sulla politica estera statunitense, che si traducono in una difesa ostinata, talvolta ottusa, delle atrocità commesse dal governo israeliano, e della presunta democraticità di Israele. Viceversa, le comunità arabe e musulmane rappresentano la polarità negativa della vicenda, in quanto sarebbero popolate da feroci fondamentalisti che alimenterebbero una nuova ondata di antisemitismo. Non a caso, la destra olandese, ha subito parlato della necessità di espellere i musulmani sospettati di collateralità col fondamentalismo. Se da un lato è vero che gruppi come Hamas ed Hezbollah si caratterizzano per il loro radicalismo islamico, dall’altro lato è anche vero che dobbiamo la loro crescita alla politica israeliana, che ha decapitato le forze laiche e progressiste uccidendone o imprigionando i leaders, con l’avallo degli USA, che dagli anni 70 hanno blandito i fondamentalisti in chiave anticomunista. Inoltre, l’esistenza e la popolarità di Hamas ed Hezbollah, non giustificano il massacro sistematico di civili inermi, né le vessazioni quotidiane a loro inflitte, che vanno dalla fame alla violenza sessuale. Infine, non si può non rivolgere un pensiero all’UEFA. Da anni a Nyon, dove la federazione calcistica europea ha sede, parlano di fair play, coltivano l’immagine del calcio come veicolo di integrazione, promuovono campagne antiomofobiche, antisessiste, antirazziste, pacifiste, ma non si spostano più in là degli slogan. Nessun calciatore ha fatto coming out negli ultimi anni. L’unico che lo fece agli inizi degli anni 80, l’inglese di origine nigeriana Justin Fashanu, venne letteralmente cacciato dallo show business calcistico, fino a commettere il suicidio. Né la UEFA, né la federazione inglese, hanno mai promosso un’iniziativa che lo ricordasse. Quanto alla politica internazionale,  a Nyon, hanno sempre dimostrato di sapere bene da che parte si deve stare. Sin dagli anni novanta, quando la Jugoslavia fu esclusa dalle competizioni, sia delle rappresentative nazionali che di club. Fino ad arrivare all’oggi, con la parola “Peace” che campeggia negli stadi e negli score televisivi, mentre la Russia ha subito un trattamento analogo a quello dei club serbi 30 anni fa. Soprattutto, la UEFA ignora la Palestina, o fa finta di farlo. Ai tifosi dell’Ajax va dato il merito di avere smascherato questo teatrino ipocrita. Sulla scia di quanto insegnava Johan Crujiff, il più grande calciatore olandese di tutti i tempi e uno dei migliori di sempre a livello mondiale, che ricordava che il calcio nasce sulla strada. E prima o poi smaschera l’ipocrisia mercantilista dei fair play. Speriamo che la lezione serva. 1.  Soprannome dell’Ajax, derivante dal logo. ↩︎ Riferimenti bibliografici: A. DAL LAGO, A. (1990), Descrizione di una battaglia, Il Mulino, Bologna.       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 19, 2024 / Osservatorio Repressione
Haaretz su Gaza: «Se sembra una pulizia etnica, probabilmente lo è»
Il quotidiano israeliano Haaretz spiega come le atrocità commesse al nord di Gaza servano per installare nuove colonie. E così il francese Le Monde di Luca Pisapia da Valori.it «Se sembra una pulizia etnica, probabilmente lo è». Così titola l’editoriale del quotidiano israeliano Haaretz lo scorso 29 ottobre.  Haaretz è un quotidiano progressista, da sempre critico nei confronti dell’amministrazione di Benjamin Netanyahu, che dall’inizio dell’invasione della Palestina ha però giustificato ogni tipo di atrocità commessa dall’esercito israeliano in nome dell’unità nazionale. Ma ora, evidentemente, si è superato il limite. Oltre 44mila morti, di cui almeno i due terzi donne e bambini. Omicidi di giornalisti, volontari e membri delle organizzazioni umanitarie. Case, scuole, ospedali e infrastrutture rase al suolo. E adesso l’assedio per fame del territorio a nord di Gaza City che comprende Jabaliya, Beit Lahiya, Beit Hanoun. Con l’obiettivo di sfollare, o sterminare, i suoi 400mila abitanti per sostituirli con nuovi coloni israeliani. «Per tre settimane e mezza, le forze israeliane hanno assediato la Striscia di Gaza settentrionale. Israele ha bloccato quasi completamente l’ingresso degli aiuti umanitari, facendo così morire di fame le centinaia di migliaia di persone che vivono lì». Comincia così il durissimo editoriale di Haaretz del 29 ottobre, a segnare una svolta anche dello sguardo internazionale. Poi prosegue: «Le informazioni che emergono dall’area assediata sono solo parziali, perché fin dall’inizio della guerra, Israele ha impedito ai giornalisti di entrare a Gaza. Ma anche in base al poco che è stato rivelato al pubblico, si possono dire due cose sull’assedio. In primo luogo, la portata delle vittime civili dei bombardamenti quotidiani dell’esercito sulle città e sui campi profughi nella Striscia di Gaza settentrionale – bambini, donne, anziani e uomini innocenti di qualsiasi crimine – è enorme». Haaretz: «La macchia morale e legale di questo crimine perseguiterà ogni israeliano» «Eppure Israele si è astenuto dal dare agli sfollati qualsiasi garanzia che saranno in grado di tornare una volta finita la guerra. Considerato ciò, non c’è da stupirsi che siano sorti gravi sospetti che Israele stia effettivamente perpetrando una pulizia etnica nella parte settentrionale di Gaza e che questa operazione abbia lo scopo di svuotare definitivamente questa zona dai palestinesi». Scrive ancora Haaretz il 29 ottobre, utilizzando per la prima volta in oltre un secolo di vita il termine “pulizia etnica” per attribuirlo alle politiche dello Stato di Israele. E lo usa di nuovo, una seconda volta, nello stesso articolo. Questa volta accusando direttamente non solo il governo Netanyahu e la sua corte di estrema destra, da Itamar Ben Gvir a Bezalel Smotrich. Ma anche e soprattutto la codardia dell’opposizione di centro-sinistra e l’ignavia della società civile palestinese. «Israele sta scivolando nella pulizia etnica; i suoi soldati stanno portando avanti le politiche criminali della destra messianica e kahanista, e persino l’opposizione di centro e centro-sinistra non fa una piega. Questo consenso dietro alla pulizia etnica è vergognoso, e ogni leader che non chiede la fine dell’espulsione di fatto sta sostenendo questo crimine e ne è diventato complice». Poi conclude: «Se questo processo non si ferma immediatamente, centinaia di migliaia di persone diventeranno rifugiate, intere comunità saranno distrutte e la macchia morale e legale di questo crimine perseguiterà ogni israeliano». Per la prima volta il quotidiano attribuisce il termine «pulizia etnica» a Israele Ma il quotidiano israeliano non si ferma qui, di fronte all’intensificarsi di episodi di violenza bieca e gratuita da parte dell’esercito di Israele. Come il deliberato incendio di un camion di aiuti alimentari e umanitari appena giunto nel cortile di una scuola di Beit Hanoun, città affamata e in piena carestia. Haaretz prima titola il suo editoriale: «Israele sta scatenando un’apocalisse nel nord di Gaza» (6 novembre). E poi di nuovo «La pulizia etnica di Netanyahu a Gaza è sotto gli occhi di tutti» (10 novembre). «La popolazione israeliana deve guardare dritto in faccia ciò che il suo esercito sta facendo in suo nome nella Striscia di Gaza settentrionale», scrive infatti il quotidiano. «L’esercito israeliano sta conducendo un’operazione di pulizia etnica nella Striscia di Gaza settentrionale. I pochi palestinesi rimasti nell’area sono evacuati con la forza, case e infrastrutture sono state distrutte». E citando il suo corrispondente militare Yaniv Kubovich che dice «sembra che l’area sia stata colpita da un disastro naturale», conclude: «Quello che Kubovich ha visto, tuttavia, non è stato un disastro naturale, ma piuttosto un atto premeditato di distruzione umana». Premeditato perché è evidente che lo scopo di Israele sia quello di liberarsi dei 400mila residenti di Gaza Nord, con ogni mezzo necessario, per installare nuove colonie. The Guardian: «Non c’è alcuna intenzione di consentire ai residenti di Gaza di tornare alle loro case» Lo scrive nei due editoriali sempre Haaretz: «Ai residenti della Striscia di Gaza settentrionale è stato detto di spostarsi a sud, nello spirito del cosiddetto “Piano dei generali” proposto dal Maggiore generale Giora Eiland, sebbene ufficialmente Israele neghi di averlo implementato. Il concetto di base del piano è di evacuare i residenti, dichiarare l’area una zona militare chiusa e quindi affermare che chiunque vi rimanga sarà considerato un terrorista che può essere ucciso». E poi: «Un alto ufficiale dell’IDF, identificato dal quotidiano londinese The Guardian come il generale Itzik Cohen, comandante della 162ma Divisione, ha spiegato ai giornalisti: “Non c’è alcuna intenzione di consentire ai residenti della Striscia di Gaza settentrionale di tornare alle loro case“». Anche su Le Monde oramai campeggiano i racconti dell’orrore a Gaza Nord È evidente che si è sorpassato il limite. Tanto che il 14 novembre anche il quotidiano francese Le Monde, da mesi impegnato in esercizi di equilibrismo, non si trattiene. E a proposito di Gaza Nord scrive: «Coloro che accettano di fuggire sono tutt’altro che fuori pericolo. I palestinesi riferiscono di essere stati bombardati pochi minuti dopo aver ricevuto l’ordine di evacuare. “Non si tratta di evacuazioni umanitarie ma di deportazioni”, afferma Jan Egeland, segretario generale della ong Norwegian Refugee Council (NRC). Le persone vengono svegliate all’alba da droni dotati di altoparlanti che comunicano loro che hanno due ore per prendere ciò che possono trasportare e partire. E non hanno alcun posto dove andare». «I camion e i bulldozer israeliani distruggono gli edifici lungo le strade, ritagliando ampie arterie per i veicoli militari. Sui social circolano diversi video, girati dagli stessi soldati, che li mostrano mentre bruciano case a Jabaliya e Beit Lahiya», prosegue Le Monde. «“L’esercito ha iniziato la fase di sgombero del nord della Striscia [di Gaza] e si prepara a mantenervi una presenza prolungata”, conclude il giornalista di Haaretz. D’altra parte, in territorio israeliano, a pochi chilometri dal nord-est di Gaza, una famiglia di coloni originari di Ariel, nella Cisgiordania occupata, si è già insediata in un accampamento improvvisato ai margini di una strada a quattro corsie, con tacita approvazione della polizia. Stanno aspettando l’opportunità di stabilirsi nell’enclave palestinese». Per entrambi i quotidiani scopo dell’inaudita violenza di Israele è installare nuove colonie Questo è il punto. La distruzione economica e la pulizia etnica del popolo palestinese a Gaza hanno lo scopo di ri-colonizzare il territorio. Lo dicono i palestinesi in primis, gli attivisti delle ong, i rappresentanti delle Nazioni Unite. Lo scrivono Haaretz e Le Monde. «L’opinione israeliana rimane in larga maggioranza contraria alla ri-colonizzazione di Gaza. Ma i sostenitori del ritorno di Gush Katif, le ex colonie dell’enclave palestinese, evacuate nel 2005, beneficiano di importanti staffette ai vertici dello Stato: i ministri suprematisti Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich. E anche molti deputati del Likud, il partito del primo ministro Benjamin Netanyahu». Scrive il quotidiano francese. «Dal 7 ottobre, questi due leader estremisti e altri membri del governo hanno moltiplicato le dichiarazioni provocatorie: “Faremo ciò che è meglio per Israele: facilitare il reinsediamento di centinaia di migliaia di persone da Gaza”, ha affermato Ben Gvir all’inizio di gennaio, suggerendo una massiccia emigrazione degli abitanti di Gaza», prosegue il quotidiano francese. «“La responsabilità di queste atrocità non è solo di Israele, ma anche della comunità internazionale che le condona”, precisa Shai Parnes (portavoce dell’ong israeliana per i diritti umani B’Tselem ndr.). Approfittando del tumulto post-elezioni presidenziali americane, le truppe israeliane continuano la loro offensiva”.» Chissà, forse un giorno troveremo queste parole anche sui cosiddetti quotidiani progressisti e liberal italiani.   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
November 18, 2024 / Osservatorio Repressione
Dall’ONU nuove accuse di genocidio a Gaza
Il Comitato Speciale Onu: «Israele, provoca intenzionalmente morte, fame e lesioni gravi». Medici senza Frontiere: Israele blocca l’evacuazione in Giordania di 8 bambini ammalati. Ieri morti almeno 24 civili palestinesi di Michele Giorgio da Pagine Esteri Nel nord di Gaza non ci sono ambulanze in servizio e in ogni caso non potrebbero arrivare. Non ci sono strade percorribili, ma solo una distesa di macerie e scheletri di palazzi sventrati dalle bombe e dalle cannonate. Il dottor Hussan Abu Safiya anche ieri non ha mancato di descrivere ciò che vede e che accade intorno al suo ospedale, il Kamal Adwan, preso anch’esso preso di mira in più di una occasione e sotto intimazione di sgombero da parte dell’esercito israeliano. C’è qualcosa che più ogni altra lacera l’anima ogni giorno di Abu Safiya: «Sono le urla di disperazione e dolore delle persone intrappolate sotto le macerie delle case colpite. Noi siamo impotenti, non possiamo far nulla per salvarle. Le sentiamo, poi le voci spariscono…le case diventano tombe. Questa scena si ripete ogni giorno». Le urla di chi chiede invano aiuto sono solo un aspetto, tra i più drammatici, dell’inferno in cui il nord di Gaza è stato trasformato dall’ultimo devastante attacco israeliano cominciato sei settimane fa. Il campo profughi di Jabaliya, le città di Beit Lahiya e Beit Hanoun e i villaggi vicini, dopo l’attacco di Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre 2023, erano stati subito bersaglio di raid aerei e del fuoco dell’artiglieria. I carri armati sono entrati altre volte nel nord per quelle che Israele definisce «operazioni contro i terroristi», i combattenti di Hamas e di altre organizzazioni armate. Anche ieri il portavoce militare ha riferito dell’uccisione di «decine di terroristi» e del ritrovamento di una «grande quantità di armi». A Gaza parlano invece di 24 civili uccisi – il bilancio totale dal 7 ottobre 2023 si avvicina a 44mila – e Medici senza Frontiere denuncia che Israele, senza alcuna spiegazione, sta bloccando l’evacuazione in Giordania di 8 bambini che necessitano urgenti cure specialistiche. Negli ultimi mesi Msf ha richiesto l’evacuazione medica di 32 bambini e i loro tutori. Solo 6 di loro sono stati autorizzati a lasciare la Striscia. Secondo l’Oms, ci sono almeno 14.000 persone – malati oncologici, dializzati, bambini gravemente ammalati, feriti in gravi condizioni e altri ancora – che avrebbero bisogno urgente di raggiungere ospedali all’estero per curarsi. Invece sono negli affollati campi di tende di Mawasi, in ciò che resta delle loro abitazioni o continuano a spostarsi da un posto all’altro di Gaza alla ricerca di un rifugio. Chi dal nord scappa verso il sud ha capito che difficilmente rivedrà i luoghi dove è nato e cresciuto. Come Abu Raed, un tempo appaltatore edile e oggi sfollato da Jabaliya assieme ad altre decine di migliaia di civili. All’agenzia Reuters ha raccontato che le forze israeliane fanno saltare in aria i pochi edifici ancora in piedi. «La distruzione nell’anno prima del 5 ottobre (quando è cominciata l’offensiva israeliana in corso) era stata grande, ma ciò che è accaduto il mese scorso non può essere descritto a parole. Questa volta la maggior parte del campo è stata distrutta. Ho amici e parenti a Beit Hanoun, lì non ci sono praticamente edifici in piedi, così come a Beit Lahiya», ha detto. > Sentiamo le urla di chi è rimasto sotto le macerie. Non possiamo far nulla. > Poi le voci spariscono, le case diventano tombe. Accade ogni giorno Hussam Abu > Safiya Il rapporto di Human Rights Watch appena pubblicato è un nuovo aperto atto di accusa contro la distruzione del nord della Striscia e le continue intimazioni di evacuazione date in pratica a tutta la popolazione di Gaza, anche a sud. Due milioni di civili, cui anziani e bambini, che sono stati sfollati più volte e ora fanno i conti con una crisi umanitaria spaventosa. «Gli spostamenti forzati sono stati diffusi e le prove dimostrano che sono stati sistematici e parte di una politica statale probabilmente pianificata come permanente nelle zone cuscinetto e nei corridoi di sicurezza. L’esercito israeliano ha raso al suolo intere aree… In quelle aree, Israele ha commesso una pulizia etnica. Tali atti costituiscono crimini contro l’umanità», sostiene Adam Coogle, vicedirettore della divisione Medio Oriente e Nord Africa di Hrw. Israele nega di voler creare zone cuscinetto permanenti e il ministro degli Esteri Gideon Saar lunedì ha detto che agli sfollati sarà consentito di far ritorno nel nord alla fine della guerra. Nessun palestinese ci crede. E così anche il Comitato speciale delle Nazioni Unite sulle pratiche israeliane nei Territori occupati, che in un rapporto anticipato in parte ieri e che sarà presentato lunedì all’Onu, afferma che «la guerra di Israele a Gaza è coerente con le caratteristiche del genocidio». Nonostante i ripetuti appelli delle Nazioni Unite, gli ordini vincolanti della Corte internazionale di giustizia e le risoluzioni del Consiglio di sicurezza, afferma il Comitato speciale, «Israele provoca intenzionalmente morte, fame e lesioni gravi: usa la fame come metodo di guerra e infligge punizioni collettive alla popolazione palestinese». Il rapporto denuncia anche il ricorso da parte delle forze militari e di sicurezza di Israele all’intelligenza artificiale per colpire la popolazione di Gaza. Di fronte alle accuse che riceve da più parti e per non fornire ulteriori argomenti alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aia che lo scorso gennaio ha avviato un procedimento per «genocidio a Gaza» su richiesta del Sudafrica, il giornale Haaretz scrive che l’esercito israeliano indagherà se le sue forze hanno violato il diritto internazionale uccidendo oltre mille abitanti nella Striscia di Gaza settentrionale, sono i morti sono decine ogni giorno. L’indagine riguarderà 16 attacchi. Le bombe israeliane prendono di mira sempre più spesso anche Damasco. Un attacco aereo ha ucciso ieri almeno persone e ferito altre 20 nei quartieri di Mezzeh e Qudsaya. Israele dice di colpito uomini e strutture del Jihad islami. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 15, 2024 / Osservatorio Repressione
Violenze della polizia ad Amsterdam coperte dallo stato di emergenza
Intervista a Jazie Veldhuyzen, consigliere comunale di Amsterdam dopo le violenze di Maccabi-Ajax e l’arresto di domenica in piazza Dam: «Chi ha preso parte ai cortei non autorizzati non è antisemita ma indignato per le politiche di Israele. Tra loro anche ebrei antisionisti, come il gruppo Erev Rav» di Massimiliano Sfregola da il manifesto I disordini che hanno infiammato Amsterdam la scorsa settimana e fatto gridare al pogrom leader e media di mezzo mondo sono ancora oggetto di discussione sebbene i tifosi del Maccabi Tel Aviv se ne siano andati. Eppure, proprio nelle ultime ore, la polizia ha acquisito agli atti prove che documenterebbero diversi atti di violenza compiuti dai tifosi israeliani, immortalati con cinte, bastoni e sassi mentre aggrediscono persone in strada. Troppo tardi. Ormai la narrazione ufficiale della «caccia all’ebreo» è l’unica accettata e in Olanda inizia una settimana lunghissima di rese dei conti: la sindaca rossoverde della capitale Femke Halsema dovrà difendersi oggi, in un dibattito d’urgenza, dall’accusa dell’opposizione di destra ed estrema destra di aver favorito un «pogrom». Mercoledì è previsto un dibattito alla Tweede Kamer, la Camera dei deputati. E nella capitale rimane in vigore lo stato d’emergenza, la sindaca lo ha prolungato fino a giovedì: «Ad Amsterdam vige in questo momento, almeno fino a giovedì, un ordinamento di polizia: vietato manifestare, poteri speciali per gli agenti. Una cosa così l’abbiamo vista solo durante il Covid», ci dice Jazie Veldhuyzen, consigliere comunale di Amsterdam, capogruppo della lista di sinistra De Vonk e una delle poche voci critiche sulla vicenda. Abbiamo appreso, in streaming, del suo arresto durante la manifestazione pro Palestina di domenica, organizzata per protestare soprattutto contro lo stato d’emergenza. Cosa è successo? Sono stato minacciato di arresto che alla fine si è concluso con una «rimozione amministrativa». Ero presente come attivista e come rappresentante istituzionale: la polizia ha intimato a me e altri manifestanti di lasciare piazza Dam e quando abbiamo detto di no siamo stati circondati, prelevati, caricati su un bus e portati lontano dal centro, dove abbiamo avuto l’ordine di disperderci. In piazza, intanto, le cose sono andate male per chi indossava simboli palestinesi: le bandiere sono state strappate via, così come avevano fatto gli hooligan del Maccabi. E chi indossava kuffieh e si trovava nei pressi di piazza Dam è stato fermato e identificato. Un giornalista e un avvocato sono stati arrestati e una donna con un bambino manganellata è finita in ospedale. Una situazione distopica, se si pensa che il presidio era vocale ma pacifico. Cosa sta succedendo ad Amsterdam? La sindaca ha imposto ed esteso questo stato di emergenza che va a colpire in modo mai visto prima i diritti costituzionali, concedendo alla polizia un potere enorme: da «fermi e perquisizioni» casuali al divieto assoluto di scendere in piazza. Eppure, a monte, era noto che gli hooligan del Maccabi fossero un pericolo. Avevamo già lanciato l’allarme ma Halsema non ha voluto ascoltare. Sono arrivati, hanno attaccato persone e proprietà e, quando un tassista ha alzato la voce con alcuni, lo hanno picchiato. I tassisti sono un gruppo molto coeso ad Amsterdam, per questo la voce che hooligan inneggianti al genocidio a Gaza avevano aggredito uno di loro ha fatto salire la tensione. Diversi residenti hanno deciso di scendere in strada, sfidare i divieti e proteggere le loro strade. Qui l’antisemitismo non c’entra nulla: non si può parlare di pogrom per alcuni video isolati che circolano sul web e inneggiano all’odio antiebraico e associarli a chi protestava: quelli che hanno preso parte ai cortei e alle azioni non autorizzate non sono antisemiti ma indignati per le politiche dello Stato di Israele. E tra loro ci sono anche ebrei antisionisti, come il gruppo Erev Rav. Oggi si preannuncia un consiglio comunale di fuoco: destra e sinistra unite parleranno di pogrom e antisemitismo dilagante ad Amsterdam. Sarà uno contro 44 a sostenere una visione alternativa? La destra chiederà la rimozione della sindaca Halsema, accusata di non aver protetto a sufficienza gli hooligan del Maccabi. Io ho già presentato un’interrogazione sulla legittimità costituzionale dello stato d’emergenza e sulle violenze della polizia alla manifestazione di domenica. Saremo in cinque contro 40: il mio partito e Denk (un partito multietnico di seconde generazioni di immigrati, ndr) saremo i soli a sostenere che le violenze sono state provocate e alimentate dagli ultrà. I consiglieri di maggioranza della lista unita di sinistra (rosso verdi e laburisti) hanno troppa paura per esporsi su questo tema, anche se alcuni privatamente sono solidali.   > L’altra verità. Cori che invocano il genocidio, bandiere palestinesi > strappate, aggressioni per strada   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 12, 2024 / Osservatorio Repressione
Gli abusi degli israeliani sui bambini palestinesi: imprigionati, torturati e violentati
Un rapporto raccapricciante di “Save the Children”. 250 bambini palestinesi ancora incarcerati. I racconti dei sopravvissuti sono atroci. di Umberto De Giovannangeli da l’Unità Storie di brutale “normalità”. Immortalata in un video. Il video mostra Wadi Maswadeh nei pressi del checkpoint Abed, vicino alla Tomba dei Patriarchi a Hebron. Il bambino, 5 anni, è terrorizzato e in lacrime mentre viene caricato su una jeep da 7 soldati dello Stato ebraico. Il bambino è stato fermato per oltre un’ora, condotto a casa e trattenuto per un’altra mezz’ora insieme al padre, bendato e ammanettato dai soldati davanti al figlio. Padre e figlio sono stati poi consegnati alla polizia palestinese, che li ha interrogati e rilasciati. Il video è stato rilanciato da B’Tselem, l’organizzazione indipendente israeliana che monitora i diritti umani nei Territori palestinesi occupati.  L’episodio è del 2013, ma è tornato virale perché mostra una realtà che segna anche il presente. A darne conto è un recente report di Save the Children. “Le condizioni dei bambini palestinesi detenuti dai militari israeliani stanno peggiorando. Hanno raccontato al nostro staff di essere costretti ad affrontare fame e abusi, inclusa la violenza sessuale, e di dover sopportare condizioni terribili dallo scorso 7 ottobre, come l’aumento di malattie infettive come la scabbia”. Bambini palestinesi detenuti, tra fame e abusi Da ottobre 2023, con i nostri partner abbiamo sostenuto a Gaza circa 49 bambini ex detenuti. Le bambine e i bambini palestinesi detenuti nelle carceri israeliane hanno riferito di abusi fisici e interrogatori in cui alcuni hanno raccontato che è stato loro chiesto di spogliarsi nudi e di stare in piedi, anche a temperature estreme. Durante gli arresti dei bambini, i genitori non avevano informazioni su dove si trovassero. Una volta rilasciati, sui corpi di bambini e bambine c’erano chiari segni di violenze e di maltrattamenti, come contusioni, perdita di peso ma anche le conseguenze per aver subito uno shock del genere insieme ad uno stress traumatico. Alcuni bambini hanno riferito di essere stati aggrediti sessualmente, molestati, perquisiti e picchiati violentemente. La tortura, il trattamento crudele o disumano sui bambini è severamente proibito dal diritto internazionale. Testimonianze dei bambini palestinesi ex detenuti Con l’ulteriore limitazione dell’accesso ai legali e familiari palestinesi nelle carceri gestite da Israele, le testimonianze di bambini e adulti rilasciati dalla prigionia sono in pratica le uniche fonti disponibili sulle condizioni affrontate durante la detenzione. Firas e Qusay, sono due ragazzi diciassettenni che provengono dai Territori occupati della Cisgiordania. Sono stati detenuti in due diverse prigioni gestite da Israele prima che iniziasse la guerra a Gaza. Sono stati rilasciati alla fine del 2023 e hanno raccontato ai nostri operatori delle condizioni di detenzione. Qusay ci ha raccontato di aver visto un bambino con ferite alla testa causate da percosse così gravi da farlo svenire ogni volta che cercava di alzarsi e che alcuni bambini portati in carcere avevano appena 12 e 13 anni: “I bambini più piccoli erano molto spaventati e continuavano a piangere, volevo prendermi cura di loro, ma quando ho chiesto alla guardia carceraria di permettermi di stare con loro, sono stato picchiato violentemente”. Qusay è stato rilasciato con morsi di zecca che gli coprivano il corpo. Su questo, la Commissione palestinese per gli Affari dei detenuti e degli ex detenuti ha recentemente confermato la diffusione, tra i prigionieri, di malattie infettive della pelle come la scabbia a causa della condivisione della biancheria da letto e dalla mancanza di articoli igienici. Le condizioni dei bambini palestinesi sono peggiorate dopo il 7 ottobre ‘Dopo l’inizio della guerra, hanno preso tutto, non avevamo abbastanza coperte e ho condiviso il mio cuscino con un altro prigioniero. D’inverno aprivano le finestre per farci sentire freddo. Un bambino prigioniero ha avuto una grave eruzione cutanea, quindi abbiamo chiesto alla guardia di permettergli di sedersi al sole o di pulirsi il corpo. La guardia ha detto: ‘Richiamami quando sarà morto’ ha raccontato Qusay. Sia Firas che Qusay hanno raccontato che dopo l’inizio della guerra, il 7 ottobre, le condizioni di detenzione sono peggiorate significativamente. Non gli è stato permesso di parlare con i propri genitori o di vederli. Firas ha affermato che il numero di bambini detenuti nel luogo in cui è stato prigioniero, è aumentato notevolmente nei primi 5 giorni dopo l’inizio della guerra. ‘Gli orrori che abbiamo sopportato mi hanno fatto pensare che la vita in prigione prima della guerra fosse il paradiso’ ha detto Firas. Gli psicologi infantili hanno avvertito che i bambini rilasciati dalla detenzione hanno sempre più difficoltà a riprendersi dal trauma. Sono incapaci di far fronte allo shock vissuto in carcere e alla paura di essere nuovamente arrestati. Le loro famiglie li descrivono come “congelati”. Un’altra vittima è stata arrestata quando aveva 14 anni. La testimonianza di Fatima racconta come è stata aggredita dalle forze di sicurezza israeliane quando è stata arrestata ad un checkpoint militare mentre stava andando a scuola. ‘Hanno perquisito la mia borsa e mi hanno parlato in ebraico, una lingua che io non capisco. Mi hanno ammanettata, gettata a terra e presa a calci nella schiena.’ Bambini in trappola La Commissione Palestinese per gli Affari dei Detenuti e degli Ex Detenuti (Palestinian Commission for Detainees and Ex-Detainees Affairs), un’Organizzazione governativa di prigionieri istituita nel 1998, ha riferito che più di 650 bambini della Cisgiordania e un numero imprecisato di bambini di Gaza sono stati detenuti da ottobre: di questi, circa 250 sarebbero ancora in carcere. Il reato presunto di questi minori? Il lancio di pietre, un reato che per loro può comportare una detenzione anche di 20 anni. Israele è l’unico Paese al mondo che persegue sistematicamente i bambini nei tribunali militari. Venerdì 19 luglio, la Corte internazionale di giustizia (ICJ) ha emesso un parere consultivo dichiarando illegale la continua presenza dello Stato di Israele nei Territori Palestinesi Occupati, mettendo direttamente in discussione lo status delle politiche e delle pratiche israeliane sulla detenzione militare. Il parere della Corte non fa altro che rafforzare la necessità di porre immediatamente fine alla detenzione arbitraria e ai maltrattamenti dei bambini palestinesi nelle carceri israeliane, un dramma che da decenni mina la protezione dell’infanzia. ‘Negli ultimi anni abbiamo lavorato al fianco del nostro partner sul campo e parlato con centinaia di ex bambini detenuti, e non abbiamo mai visto tanta devastazione e disperazione. Questi bambini sono intrappolati, incapaci di muoversi o di vedere il sole, costretti in celle affollate in condizioni spaventose e antigeniche e soggetti a gravi abusi e violenze. I bambini ci hanno detto di aver subito orrori a cui un adulto non dovrebbe mai assistere, tanto meno un bambino. Gli abusi e i maltrattamenti sui bambini palestinesi devono finire. La mancanza di garanzia dei diritti dei bambini palestinesi, che dura da decenni, non può più essere ignorata. Per troppo tempo l’occupazione israeliana ha avuto un impatto gravissimo sulla vita di questi bambini’ ha dichiarato Jeremy Stoner, il Direttore regionale di Save the Children per il Medio Oriente. La Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia del 1989 afferma che l’incarcerazione di minori deve essere “una misura estrema e per un periodo di tempo il più breve possibile”. Israele ha ratificato la Convenzione nel 1991, ma ha ricevuto le critiche dell’Onu per la sua applicazione o per non averlo fatto. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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November 9, 2024 / Osservatorio Repressione
L’altra verità. Cori che invocano il genocidio, bandiere palestinesi strappate, aggressioni per strada
La città di Amsterdam vittima di violenze di una banda di hooligans israeliani facinorosi e invece sulla stampa italiana pagine e pagine di definizioni e paragoni vergognosi (notte dei cristalli, pogrom, antisemitismo). Chi sono i Maccabi Fanatics di Ester Nemo in collaborazione con Massimiliano Sfregola  da il manifesto Cinque feriti israeliani e una sessantina di arresti. È il bilancio, ancora da chiarire, degli scontri che si sono verificati ad Amsterdam tra giovedì e venerdì notte. I tifosi del Maccabi Tel Aviv sono stati aggrediti all’uscita del match perso con l’Ajax per 5-0. «Pogrom», hanno tuonato media e politici dalla capitale dello Stato ebraico, insieme ai nazionalisti dei Paesi bassi e a quelli di mezza Europa. «Espelleremo i radicali islamici», ha dichiarato Geert Wilders, leader di estrema destra del Partito per la Libertà. Il premier olandese Dick Schoof ha condannato «gli attacchi antisemiti». La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha parlato di «aggressioni inaccettabili». Sulla stessa linea d’onda Joe Biden, secondo cui si è trattato di atti che «ricordano momenti bui della storia in cui gli ebrei erano perseguitati». AL CORO GRANITICO dei sostenitori di Israele senza se e senza ma, manca però un pezzo della vicenda. Prima della brutta esplosione di violenza, infatti, gli ultrà del Maccabi avevano spadroneggiato impuniti per le strade della capitale olandese. I tanti video disponibili online mostrano un pre partita con, per così dire, poco fair play. «Tifosi» israeliani che si arrampicano sulle case strappando le bandiere della Palestina esposte alle finestre. Un tassista arabo, pare di origine marocchina, aggredito. Notizie confermato dal capo della polizia di Amsterdam Peter Holla in una conferenza stampa. E poi i cori all’ingresso dello stadio: «Israele distruggerà gli arabi» e «Non ci sono più scuole a Gaza perché non restano più bambini». L’oltraggio verso le vittime del genocidio è continuato anche durante il minuto di silenzio per le vittime dell’alluvione nella provincia di Valencia. La tifoseria israeliana lo ha interrotto rumorosamente, in dissenso con il sostegno spagnolo al popolo palestinese.A un certo punto della giornata di ieri si era diffusa la voce che ci fossero dei «dispersi» o persino degli «ostaggi». Tutto smentito. GLI SCONTRI non sembrano riducibili alle classiche dinamiche da stadio, anche perché la curva dell’Ajax ha connessioni storiche con il variegato mondo ebraico. Stando alle autorità sarebbero diversi i minorenni coinvolti e gran parte delle azioni sarebbe avvenuta nell’area di Bijlmer, zona periferica a sud-est della capitale dove ha sede la John Cruijff arena, lo stadio dell’Ajax. La costellazione di attivisti e associazioni che nei Paesi Bassi sostengono la Palestina, e si coordinano su Instagram intorno a profili come Amsterdam Encampment, avevano chiamato alla mobilitazione e alla protesta, denunciando gli atti intimidatori. La sindaca di Amsterdam Femke Halsema – del partito Sinistra verde che però non ha mai nascosto una certa ostilità nei confronti del mondo musulmano e in particolare dei manifestanti pro Palestina – aveva risposto nei giorni passati a chi chiedeva di giocare a porte chiuse che il Maccabi non era nella lista delle tifoserie «attenzionate». Durante la conferenza stampa di ieri la sindaca ha annunciato una serie draconiana di misure per il weekend, con la dichiarazione dello stato d’emergenza e il divieto di manifestazioni. Poco prima il driehoek (il comitato per l’ordine e la sicurezza in Olanda, composto da sindaco, capo della polizia e pm) si era unito d’urgenza in seguito agli scontri. Il giornalista del quotidiano Nrc Toon Beemsterboer, però, aveva ricordato che la tifoseria della squadra si era già fatta riconoscere, eccome, ad Atene per episodi simili a quelli visti a piazza Dam. Nella capitale greca un cittadino di origine arabe era stato aggredito e mandato in ospedale da una quarantina di hooligans solo perché indossava una kefiah. L’ARABISTA olandese Rena Netjes ha puntato il dito contro chi ha consentito a quei tifosi di marciare indisturbati per le vie di Amsterdam intonando in ebraico quei cori contro palestinesi e arabi. Responsabilità istituzionali rapidamente sparite dal dibattito, che ha avuto un’eco globale. SE NON È POSSIBILE escludere che in alcuni casi l’esplosione di rabbia abbia assunto sfumature antisemite, dai video che si trovano in rete è evidente che le ragioni principali riguardassero la situazione a Gaza. «Grida Palestina libera, grida Palestina libera», dice un uomo a un supporter della squadra israeliana caduto a terra. Del resto da Tel Aviv non era partita una comitiva di turisti israeliani in visita alla casa di Anne Frank, come hanno sottolineato anche Stephan van Baarle, capogruppo alla Camera olandese del partito multitenico Denk e Esther Ouwehand, leader del Partito per gli Animali – i soli parlamentari ad aver protestato per la reazione a senso unico dell’establishment dei Paesi Bassi – ma ultra nazionalisti che a dispetto delle promesse, la politica non l’hanno affatto lasciata fuori dai confini olandesi. UN PROBLEMA SERIO in una città come Amsterdam, una delle capitali europee con più alte percentuali di musulmani – che rappresentano circa il 15% della popolazione – che allo stesso tempo si porta dietro la drammatica storia di persecuzioni e deportazioni di ebrei. E un problema persino più serio se a guidare la città c’è una sindaca diventata di recente il bersaglio preferito degli attacchi di Geert Wilders, che ne ha auspicato diverse volte la rimozione, con la dichiarazione dello stato d’emergenza sembra abbia ceduto alle pressioni del capo del primo partito in Olanda, che pur non avendo formalmente incarichi, dice di aver parlato al telefono con Nethanyau e di aver garantito il massimo impegno per cacciare dal paese «i musulmani radicali». Maccabi Fanatics, una storia di ultraviolenza e odio razzista Il gruppo che comanda nella curva di Tel Aviv Nel 2020 aggredivano i manifestanti che contestavano Netanyahu di Valerio Moggia da il manifesto Il contorno di quanto avvenuto giovedì sera ad Amsterdam ha sorpreso poche delle persone che conoscono la tifoseria del Maccabi Tel Aviv. Lo stesso comportamento messo in mostra nella capitale olandese si era visto lo scorso 7 marzo ad Atene, quando il club israeliano era andato in trasferta in casa dell’Olympiakos. Nelle ore precedenti alla partita, gli ultras del Maccabi avevano aggredito in gruppo una persona di origini egiziane (o irachene, secondo altre fonti) a Piazza Syntagma. La sua unica colpa sarebbe stata quella di indossare una kefiah. IN ISRAELE i Maccabi Fanatics – questo il nome del gruppo ultras – sono conosciuti per la loro predisposizione alla violenza e l’ideologia di estrema destra, che li avvicinano alla ben più famosa Familia del Beitar Gerusalemme. In origine, la squadra di Tel Aviv era espressione, come tutti i club denominati Maccabi, del movimento sionista conservatore. Ma a partire degli anni Novanta, con la trasformazione delle società sportive da club di soci a soggetti privati, la sua identità politica si è molto diluita. Nonostante questo, il Maccabi è rimasta una delle squadre di calcio più amate in Israele (la seconda più tifata dopo il Maccabi Haifa), legata in particolar modo alla classe media di Tel Aviv. È all’interno di questa ampia comunità di sostenitori che si sono formati i Maccabi Fanatics. Politicamente di estrema destra, già nel 2014 avevano fatto discutere in patria per gli insulti razzisti contro un giocatore arabo-israeliano della loro squadra, Maharan Radi. In giro per Tel Aviv, nelle zone presidiate dai Fanatics, erano apparsi graffiti che recitavano «Non vogliamo arabi al Maccabi» e «Radi è morto». Alcuni compagni di squadra dell’allora 32enne centrocampista originario di Sulam, un villaggio arabo 16 km a nord del confine settentrionale della Cisgiordania, provarono a discutere con gli ultras per organizzare un incontro pacificatore. Radi ha raccontato che il suo capitano Sheran Yeini tornò da lui qualche giorno dopo dicendogli che non c’era niente da fare: «Semplicemente odiano gli arabi». SE GIOVEDÌ sera ad Amsterdam hanno fischiato il minuto di silenzio per le vittime dell’alluvione di Valencia (a causa del sostegno spagnolo alla Palestina), nel settembre 2015 espressero il proprio disappunto a un’iniziativa della Uefa per una donazione in favore dei rifugiati siriani. L’associazione del calcio europeo aveva deciso che i club partecipanti alla Champions League, tra cui appunto il Maccabi, avrebbero versato alle vittime della guerra un euro per ogni biglietto venduto nella loro prima partita nella competizione. I Fanatics risposero esponendo uno striscione con la scritta «Refugees Not Welcome». Per completare questo quadro tutt’altro che positivo, nell’estate del 2020 sono stati protagonisti, assieme agli ultras del Beitar, delle contromanifestazioni in favore di Netanyahu e delle aggressioni ai cortei che contestavano il governo. Si sospetta che potrebbero esserci loro, e non la Familia, dietro al rogo appiccato nel marzo 2023 al centro sportivo dell’Hapoel Tel Aviv, rivale cittadino del Maccabi con una tifoseria di estrema sinistra. Il politico israeliano Ofer Cassif, rappresentante del partito di sinistra Hadash alla Knesset, ha descritto quanto avvenuto in Olanda con queste parole: «Lo spirito del fascismo israeliano è arrivato ad Amsterdam». È una curiosa coincidenza che le violenze di giovedì siano avvenute durante una gara contro l’Ajax, generalmente considerato il club ebraico di Amsterdam. In realtà, come spiegato da David Winner nel suo Brilliant Orange, questo è più che altro un mito, dovuto soprattutto al fatto che in origine il tram che conduceva allo stadio attraversava il quartiere ebraico. Spesso insultati in quanto ebrei dalle tifoserie avversarie antisemite (quella del Feyenoord in particolare), i fan dell’Ajax abbracciarono questa identità ebraica a prescindere dalle proprie origini. QUELLI di giovedì non sono stati quindi scontri tra tifosi, dato che non risulta che i supporter dell’Ajax vi abbiano preso parte. Anzi, nei giorni precedenti gli ultras F-Side avevano detto che non avrebbero tollerato manifestazioni pro-Palestina nel loro stadio. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 9, 2024 / Osservatorio Repressione
Israele: nuove leggi permetteranno l’ergastolo per i bambini arabi
Il parlamento israeliano ha votato per la punibilità dei minori palestinesi di 12 anni e per la deportazione dei familiari di persone accusate di terrorismo  di Eliana Riva da Pagine Esteri Il parlamento israeliano ha approvato, lo scorso 6 novembre, due leggi riguardanti nuove pene e misure detentive per i cittadini accusati di “terrorismo”, destinate cioè ai palestinesi con cittadinanza israeliana. Le nuove norme permetteranno la deportazione di intere famiglie e la detenzione, anche all’ergastolo, dei bambini sotto i 12 anni di età. Le famiglie dei palestinesi d’Israele accusati di aver compiuto “atti di terrorismo” potranno infatti essere deportate al di fuori dello Stato ebraico, a Gaza o altrove. L’allontanamento forzoso potrà durare dai 7 ai 15 anni per i cittadini israeliani e dai 10 ai 20 anni per i residenti. Per applicare la nuova legge, le persone indicate dalle autorità di Tel Aviv come “agenti terroristici” non dovranno per forza di cose essere stati condannati ma basterà la formulazione dell’accusa o, addirittura, il sospetto durante la custodia sotto detenzione amministrativa. La norma consente, in questi casi, l’espulsione se si presume che un membro della famiglia sia a conoscenza o avrebbe dovuto conoscere un atto di terrorismo pianificato, lo abbia sostenuto o abbia espresso pubblicamente elogi, simpatia o incoraggiamento per l’atto. Le accuse di “terrorismo” sono rivolte agli arabi israeliani, mentre per i cittadini ebrei di Israele viene applicata la legge “standard”. Il sistema giuridico a due livelli applicato dai governi di Tel Aviv è al centro, da anni, di condanne e accuse da parte di numerose organizzazioni che si occupano di diritti umani e delle associazioni che monitorano nello specifico i diritti della comunità dei cittadini arabi di Israele. A questi ultimi è destinata anche la seconda legge approvata mercoledì 6, dedicata nello specifico ai cittadini israeliani al di sotto dei 12 anni condannati per omicidio o tentato o tentato omicidio classificati come “atto di terrore” o collegati a una “organizzazione terroristica”. I bambini palestinesi-israeliani potranno ora essere detenuti e condannati all’ergastolo, mentre i minorenni ebrei israeliani sono sottoposti alle normali accuse e procedure penali, che escludono la detenzione per i minori di 14 anni (che possono essere ospitati in strutture di recupero) ed esentano i minori di 12 anni da qualsiasi tipo di responsabilità penale. Per i 12enni palestinesi dei territori occupati, al contrario, già sottoposti alla legge militare, è consentito l’arresto. L’organizzazione indipendente per i diritti umani, il centro legale Adalah, ha dichiarato che la Knesset istituzionalizza politiche di apartheid: “Il recente passaggio di queste leggi segnala una pericolosa escalation nella repressione di Israele sui diritti palestinesi, inquadrata con il pretesto dell’antiterrorismo. Queste misure consentono allo Stato di punire collettivamente i palestinesi – sia cittadini di Israele che residenti di Gerusalemme Est occupata – autorizzando la deportazione di intere famiglie e sottoponendo minori di 12 anni a severe pene detentive. Queste leggi incarnano la punizione e la vendetta, come apertamente notato dai legislatori israeliani. Attraverso queste leggi, Israele radica ulteriormente il suo sistema giuridico a due livelli, con una serie di leggi per gli ebrei-israeliani sotto il diritto penale e un’altra, con diritti inferiori, per i palestinesi con il pretesto dell’antiterrorismo. Incorporando politiche simili all’apartheid nella legge, la Knesset ha ulteriormente istituzionalizzato l’oppressione sistemica, in violazione sia del diritto internazionale che dei diritti umani e costituzionali fondamentali.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 8, 2024 / Osservatorio Repressione
L’umanità viene cancellata a Gaza
La distruzione totale a Gaza City e in altre aree urbane del nord e del centro di Gaza è peggiore di quando si potesse immaginare di Jan Egeland – Norwegian Refugee Council (traduzione di Michele Giorgio –Pagine Esteri) La distruzione totale a cui ho assistito questa settimana a Gaza City e in altre aree urbane del nord e del centro di Gaza è peggiore di qualsiasi cosa potessi immaginare come operatore umanitario di lunga data. Quello che ho visto e sentito nel nord di Gaza è stata una popolazione spinta oltre il punto di rottura. Famiglie dilaniate, uomini e ragazzi detenuti e separati dai loro cari, e famiglie incapaci persino di seppellire i loro morti. Alcuni sono rimasti giorni senza cibo, l’acqua potabile non si trova da nessuna parte. È una scena dopo l’altra di assoluta disperazione. Questa non è in alcun modo una risposta legittima, un’operazione mirata di “autodifesa” per smantellare gruppi armati, o una guerra coerente con il diritto umanitario. Ciò che Israele sta facendo qui, con armi fornite dall’Occidente, è rendere un’area densamente popolata inabitabile per quasi due milioni di civili. Jan Egeland parla con sfollati palestinesi   Le famiglie, le vedove e i bambini con cui ho parlato stanno sopportando sofferenze quasi senza pari nella storia recente. Non c’è alcuna possibile giustificazione per la guerra e la distruzione continue. Per evitare la perdita di decine di migliaia di vite innocenti in più, abbiamo bisogno di un cessate il fuoco immediato, del rilascio degli ostaggi e di coloro che sono stati arbitrariamente detenuti e dell’inizio di un vero processo di pace. Nonostante la portata della crisi, le politiche israeliane hanno portato a livelli pietosi di aiuti che hanno raggiunto i bisognosi. Il 91 percento della popolazione di Gaza affronta un’insicurezza alimentare acuta, con il 16 percento a livelli catastrofici, probabilmente a rischio fame. I civili a Gaza non hanno un rifugio sicuro, da nessuna parte. Le famiglie palestinesi sono ancora costrette a spostarsi da un’area insicura all’altra. Sessantadue ordini di ricollocazione israeliani attivi mirano a limitare i palestinesi a solo il 20 percento di Gaza, senza alcuna garanzia di sicurezza o ritorno. Ciò costituisce un trasferimento forzato, una grave violazione del diritto internazionale. La situazione a Gaza oggi è mortale per tutti i palestinesi. È mortale per coloro che sono operatori umanitari che assistono le persone in difficoltà e per coloro che lavorano come giornalisti cercando di documentare gli orrori sul campo. Israele ha ripetutamente colpito le sedi delle Nazioni Unite e imposto una barriera dopo l’altra, sia fisica che burocratica, al lavoro di aiuto. Questa settimana ho assistito all’impatto catastrofico dei flussi di aiuti strangolati. Non c’è stata una sola settimana dall’inizio di questa guerra in cui siano stati consegnati aiuti sufficienti a Gaza. Quasi due milioni di persone sono sfollate in tutta Gaza, e lottano per procurarsi cibo e medicine di base. Con l’avvicinarsi dell’inverno, molti non hanno nemmeno una tenda o un telone per ripararsi, e la maggior parte degli aiuti rimane bloccata dai valichi di frontiera a causa dell’insicurezza, delle ostilità attive e della distruzione diffusa. Nella parte settentrionale di Gaza, le condizioni sono particolarmente disperate sotto un intenso assedio israeliano. Si stima che 100.000 persone nel governatorato di Gaza settentrionale siano completamente tagliate fuori dagli aiuti umanitari, con l’ONU che condanna “l’interferenza illecita con l’assistenza umanitaria. foto di Mustafa El Halabi/OCHA   Le forze israeliane hanno proposto di stabilire le cosiddette “bolle umanitarie”, sollevando timori tra gli operatori umanitari che queste funzionino come zone di contenimento militarizzate formate tramite spostamenti forzati, svuotando vaste aree di palestinesi. In queste zone, gli aiuti umanitari e la libertà di movimento sarebbero probabilmente controllati politicamente e militarmente, violando i principi umanitari e ignorando persino la protezione civile di base. Questo dovrebbe essere un campanello d’allarme per i leader di tutto il mondo. Quando ho visitato Gaza a febbraio, ero rimasto profondamente scosso da ciò a cui avevo assistito e dalle storie che avevo sentito. La situazione è drasticamente peggiorata da allora. Chi è al potere da tutte le parti agisce impunemente, mentre milioni di persone in tutta Gaza e nella regione pagano un prezzo terribile. Gli operatori umanitari possono parlare di ciò che stiamo vedendo, ma solo chi è al potere può porre fine a questo incubo. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 7, 2024 / Osservatorio Repressione