In un accorato appello pubblicato su Le Monde, un gruppo di ricercatori ed ex
ambasciatori ha chiesto all’Europa di denunciare senza ambiguità l’ideologia
suprematista che guida oggi il governo dello Stato di Israele. Questo appello
segue la decisione del governo mediorentale di creare una “Autorità per
l’emigrazione”, volta a “ricollocare” diversi milioni di palestinesi da Gaza. E
poi, probabilmente, dalla Cisgiordania.
In un accorato appello pubblicato su Le Monde, un gruppo di ricercatori ed ex
ambasciatori ha chiesto all’Europa di denunciare senza ambiguità l’ideologia
suprematista che guida oggi il governo dello Stato di Israele. Questo appello
segue la decisione del governo mediorientale di creare una “Autorità per
l’emigrazione”, volta a “ricollocare” diversi milioni di palestinesi da Gaza. E
poi, probabilmente, dalla Cisgiordania.
Israele: Un governo dominato da fazioni religiose nazionaliste e suprematiste
Nessuno ha dimenticato l’orrore e la portata dei massacri commessi il 7 ottobre
2023 dal Movimento di resistenza islamico (Hamas). E nessuno può contestare il
diritto dello Stato israeliano a difendersi. Ma dopo un anno e mezzo di guerra,
la crisi militare, umanitaria e politica ha una natura diversa. E ha assunto una
dimensione senza precedenti dopo il ritorno al potere di Donald Trump a gennaio.
Dal 18 marzo Israele ha violato la tregua e non rispetta più né gli operatori
umanitari né i giornalisti. Il governo di Benjamin Netanyahu sta ancora una
volta bombardando e lasciando morire di fame due milioni di palestinesi esausti,
radunati con la forza tra le rovine per essere deportati in massa.
Dominato da fazioni religiose nazionaliste e suprematiste, il governo dello
Stato ebraico ha adottato il progetto americano di cacciare i palestinesi dalla
loro terra per creare una “riviera” israeliana. Il ministro delle Finanze e
viceministro della Difesa Bezalel Smotrich ha quindi creato un’”Autorità per
l’emigrazione” destinata a realizzare una “operazione logistica su larga scala”
volta a “ricollocare” i cittadini di Gaza e, probabilmente, anche i palestinesi
dalla Cisgiordania. In breve, Israele sta pianificando la deportazione di
diversi milioni di persone, senza alcuna reale opposizione internazionale.
Si può discutere sui termini genocidio, pulizia etnica, crimini contro l’umanità
o violazioni del diritto umanitario. Ma la realtà è questa. Sono in gioco le
vite di milioni di uomini, donne e bambini. Uno Stato membro delle Nazioni
Unite, riconosciuto come modello di democrazia, non rispetta più alcuna regola
internazionale, né alcun principio morale religioso o umano, per imporre una
soluzione radicale alla “questione palestinese”.
La necessità di riconoscere due Stati: Israele e Palestina
Non si tratta più di ebrei contro arabi, o dei difficili rapporti tra lo Stato
ebraico e i suoi vicini, o persino delle politiche del governo legale di
Israele. Ma dell’emergere di una nuova ideologia suprematista, che fa
affidamento su una forza militare senza pari, volta a imporre la propria
volontà, senza alcun rispetto per la vita o l’esistenza di altri popoli e
nazioni.
Fortunatamente, molti Stati, tra cui la maggior parte dei Paesi arabi e/o
musulmani, hanno iniziato a fornire una risposta politica ai progetti
israelo-americani. E hanno affermato il loro desiderio di riconoscere due stati:
Israele e Palestina.
Anche l’annuncio fatto mercoledì 9 aprile da Emmanuel Macron, secondo cui la
Francia potrebbe riconoscere la Palestina a giugno, al fine di avviare “una
dinamica collettiva”, è un passo nella giusta direzione. Si tratta di un
prerequisito istituzionale urgente e necessario per intraprendere la difficile
ricostruzione delle relazioni tra le nazioni e i popoli interessati. Ma questo
progetto politico sarà illusorio se non si interverrà immediatamente per salvare
i palestinesi.
L’ideologia politica mortale del governo di Benjamin Netanyahu
La tragedia di Gaza va oltre la politica statale e richiede che l’opinione
pubblica e i singoli individui prendano coscienza delle questioni in gioco. E
del pericolo rappresentato dallo smantellamento dei pochi principi e valori che
ancora costituiscono la base del consenso per la vita sociale e politica. Si può
discutere sulle modalità della creazione di due Stati, ma non sulla salvaguardia
immediata dei palestinesi se vogliamo trovare una futura, difficile ma
necessaria soluzione globale al conflitto.
Stiamo assistendo all’espressione di una nuova ideologia politica nella sua
portata e nel sostegno della nuova amministrazione americana. La sua forza
risiede anche nella copertura mediatica e nell’assenza di una vera opposizione
politica e popolare internazionale.
Il mondo di oggi ha certamente altre priorità. Ma appare abbastanza chiaro che
questa ideologia suprematista, che oggi minaccia la vita di milioni di persone
innocenti in Palestina, potrebbe, mutatis mutandis, servire da modello per altri
governi. Se accettiamo le soluzioni oggi radicali contro i palestinesi, cosa
succederà altrove? La loro tragedia è, purtroppo, il simbolo di una realtà molto
più grande.
I negoziati tra gli Stati non saranno mai sostenibili se non avranno il sostegno
dell’opinione pubblica. Fortunatamente, un gran numero di cittadini israeliani
ed ebrei della diaspora, impegnati nei valori umanistici e nel rispetto degli
altri, hanno da tempo espresso il loro rifiuto dell’ideologia politica mortale
del governo di Benjamin Netanyahu.
Oggi il silenzio diventa colpevole
Tuttavia, sia in Europa che negli Stati Uniti, la paura di essere accusati di
antisemitismo blocca i dibattiti. Individui e istituzioni si rifiutano di vedere
la portata e il pericolo dell’ideologia delle fazioni estremiste al potere a
Gerusalemme, che si nascondono dietro l’innegabile legittimità dello Stato
israeliano e l’orrore dei massacri del 7 ottobre. Oggi c’è emergenza e il
silenzio diventa colpevole. Non è più possibile dire che non lo sapevamo.
Possiamo sperare che in Francia e in Europa, istituzioni religiose,
organizzazioni, partiti, sindacati, associazioni umanitarie o filosofiche che
condividono i principi di uguaglianza e fraternità, i valori della Repubblica,
denuncino con forza e chiarezza la nuova ideologia all’opera in Israele, volta a
schiacciare la popolazione palestinese?
Quando tutto sembra andare in pezzi, dall’Ucraina agli Stati Uniti, è
fondamentale difendere questi valori universali per affermare che anche i
palestinesi hanno il diritto di avere uno Stato e di vivere.
Antoine Arjakovsky, co-direttore della ricerca, Collège des bernardins, Parigi;
Jean-Paul Chagnollaud, professore emerito, presidente dell’iReMMO (Istituto di
ricerca e studi sul Mediterraneo e il Medio Oriente); Brigitte Curmi, ex
ambasciatrice; Michel Duclos, ex ambasciatore, consigliere speciale
dell’Istituto Montaigne; Bernard Hourcade, direttore emerito della ricerca al
CNRS, iReMMO, curatore dell’articolo; Jacques Huntzinger, ex ambasciatore,
Collège des Bernardins; Agnès Levallois, vicepresidente di iReMMO; Jamal Al
Shalabi, Professore di Scienze Politiche all’Università Hashemita (Zarqa,
Giordania). Tutti i firmatari sono membri del gruppo Bernardins-iReMMO per la
pace in Medio Oriente, che riunisce esperti della regione ed ex ambasciatori.
(fonte Valori.it)
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Tag - Dal mondo
Un mese fa l’esercito iracheno ha rapito e imprigionato cinque combattenti delle
forze di autodifesa ezide. Da allora non si sa più nulla di loro. L’ennesima
provocazione contro l’esperienza autonoma nata dopo il genocidio di Daesh, che
il partito curdo di Barzani e il governo di Baghdad vogliono eliminare
di Carla Gagliardini da DINAMOpress
Il 18 marzo scorso a Shengal nel distretto iracheno abitato prevalentemente
dalla popolazione ezida, è stato fermato dalle truppe irachene un veicolo su cui
viaggiavano cinque combattenti delle YBŞ, unità di resistenza ezide. Si sa che
tra di loro ci sono dei feriti ma non si conoscono maggiori dettagli. I cinque
sono stati trasferiti in prigione e da allora nessuno, né familiari né avvocati,
ha potuto incontrarli.
Le YBŞ rappresentano il corpo armato di autodifesa dell’Autonomia di Shengal,
forma di amministrazione autonoma nata nel 2018, dopo la cacciata dello Stato
Islamico dal distretto, nel 2017, e la smobilitazione dal territorio da parte
del Governo Regionale del Kurdistan (KRG), che governa la Regione del Kurdistan
Iracheno (KRI). Il KRG, che prima dell’arrivo dei jihadisti dello Stato Islamico
governava a Shengal, si era insediato nuovamente in gran parte del distretto,
proprio a seguito della loro ritirata.
> Tuttavia, era entrato rapidamente in forte collisione con il Partito dei
> Lavoratori del Kurdistan (PKK), che all’epoca era presente sul territorio,
> avendo difeso in solitaria la popolazione ezida nell’immediatezza
> dell’aggressione jihadista e coperto l’esodo per consentire a circa 300mila
> persone di mettersi in salvo.
L’Amministrazione Autonoma di Shengal si ispira ai principi del nuovo paradigma
politico che il leader curdo del PKK, Abdullah Ocalan, ha presentato al mondo
alla fine degli anni Novanta del secolo scorso come possibile soluzione dei
problemi in Medio Oriente. La visione politica di Öcalan abbraccia l’idea di una
società radicalmente democratica, con una struttura nella quale le municipalità
diventano i veri centri decisionali, il cosiddetto sistema bottom-up,
all’interno di una struttura confederale. Da qui il nome di Confederalismo
democratico.
Mentre in Rojava, nella regione del nord-est della Siria, il confederalismo
democratico vive da più di un decennio attraverso l’Amministrazione Autonoma
Democratica della Siria del Nord-Est (DAANES), a Shengal l’esperienza è
relativamente più giovane. La tragica pagina dell’aggressione al popolo ezida
dell’agosto del 2014 per mano dello Stato Islamico, che ha avuto luogo anche
grazie all’abbandono del campo da parte dei peshmerga del KRI presenti sul
territorio e dei soldati iracheni inviati da Baghdad, ha determinato la presa di
consapevolezza di quella comunità della propria vulnerabilità, avvicinandola
all’esperienza della DAANES.
> Secondo il paradigma del confederalismo democratico, un’Amministrazione
> Autonoma deve essere in grado di difendersi da attacchi esterni e per questo
> ciascuna si dota delle proprie unità di resistenza. Per l’Amministrazione
> Autonoma di Shengal si tratta delle YBŞ e delle YJS, le prime composte da
> uomini e le seconde da donne.
Tanto l’Amministrazione Autonoma di Shengal quanto le sue unità di resistenza
sono considerate di intralcio all’implementazione dell’Accordo di Shengal,
siglato nel 2020 tra il governo federale iracheno e il KRG, con la supervisione
e il beneplacito dell’UNAMI, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa della
questione irachena.
L’Accordo, accolto in modo favorevole anche a livello internazionale in quanto
considerato un passo importante verso la stabilizzazione del distretto e il
ritorno dei circa 200mila Ezidi ancora sfollati, non ha invece scaldato i cuori
di gran parte degli Ezidi, quelli dell’Amministrazione Autonoma in particolare,
perché considerato un ennesimo tentativo di sottrarre alla comunità il diritto
di decidere del proprio futuro. Infatti in nessuna parte del documento è
previsto un coinvolgimento della popolazione e le cariche politiche e
amministrative sono tutte calate dall’alto attraverso delle commissioni nominate
dal governo di Baghdad e da quello di Erbil.
L’Accordo prevede inoltre la dissoluzione delle unità di resistenza ezide e la
messa al bando dalla zona del PKK, che aveva lasciato già il distretto anni fa.
Ovviamente nessuno spazio è riconosciuto all’Amministrazione Autonoma
di Shengal.
Già nella primavera del 2022 il governo iracheno aveva tentato di piegare la
resistenza all’Accordo di Shengal da parte dell’Amministrazione Autonoma. Aveva
inviato l’artiglieria e le armi pesanti nelle sue roccaforti attaccando le YBŞ
che erano prontamente intervenute a difesa. Aveva provato a imporre con la forza
l’Accordo, senza però riuscirci e dovendo ritirarsi.
L’ostilità verso il progetto politico dell’Amministrazione Autonoma è anche
espressa dal KDP che attraverso i suoi deputati e portavoci, inclusi quelli
ezidi che fanno parte del partito, ripete che è ora di dare attuazione
all’Accordo di Shengal e di rimuovere il problema, ossia l’Amministrazione
Autonoma e le sue unità di resistenza.
> Così, secondo quanto riportato dalla testata “Kurdistan24”, dopo l’arresto dei
> cinque combattenti delle YBŞ, il 19 marzo scorso il governo iracheno ha fatto
> entrare ancora una volta nel distretto di Shengal le armi pesanti.
Le manifestazioni nel distretto non si sono fatte attendere e il TAJE, Movimento
delle donne ezide, ha organizzato senza esitazione una protesta per chiedere la
liberazione dei cinque combattenti. La mobilitazione ha indotto l’esercito
iracheno a ritirarsi ma Baghdad non ha ceduto, per ora, sul loro rilascio.
Il 20 marzo il Comando delle YBŞ ha emesso un comunicato stampa con il quale ha
denunciato l’ala militare del governo di accusare di terrorismo i cinque
arrestati, dimenticandosi del contributo delle unità di resistenza ezide alla
lotta contro lo Stato Islamico. Ha poi chiesto la liberazione dei cinque
prigionieri sottolineando di voler risolvere la questione in modo responsabile e
ragionevole per evitare il deteriorarsi della situazione.
La pressione sul governo è continuata e il 30 marzo, come riporta la testata
“ANF News”, i familiari hanno inviato una lettera alle ONG che lavorano sul
territorio, alle Nazioni Unite, all’Unione Europea e ai paesi che hanno
riconosciuto il genocidio ezida affinché intervengano sul governo iracheno in
favore della scarcerazione.
Il 2 aprile le madri dei combattenti si sono riunite in un presidio permanente
davanti alla sede dei Servizi Segreti iracheni a Shengal, dichiarando che
resteranno lì finché non verranno rilasciati.
Il 7 aprile è stata la volta delle organizzazioni della società civile che con
una dichiarazione congiunta hanno chiesto al Primo Ministro iracheno, al-Sudani,
di liberare i cinque componenti delle YBŞ e di consentire il ritorno delle
centinaia di migliaia di sfollati ezidi che ancora vivono nei campi profughi.
Attualmente dei cinque combattenti non si sa nulla, nemmeno sul loro stato di
salute, perché a nessuno è stato permesso di visitarli.
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Almeno venticinque morti nei raid israeliani contro le tende degli sfollati a
Gaza
Il 17 aprile almeno venticinque persone, tra cui molti bambini, sono morte in
una serie di bombardamenti israeliani contro le tende degli sfollati nella
Striscia di Gaza, ha annunciato la difesa civile palestinese.
“Almeno sedici persone, in maggioranza donne e bambini, sono morte quando due
missili israeliani hanno colpito le tende degli sfollati nell zona di Al Mawasi
a Khan Yunis (sud)”, ha dichiarato all’Afp il portavoce della difesa civile
Mahmoud Bassal.
Inoltre, un padre e un figlio sono morti nel bombardamento di una tenda per
sfollati vicino alla zona di Al Mawasi. Infine, un attacco a una tenda per
sfollati a Beit Lahia (nord) ha ucciso sette persone, “in maggioranza donne e
bambini”.
Le immagini riprese dagli operatori dell’Afp mostrano le tende in fiamme nella
zona di Al Mawasi.
Il 18 marzo Israele ha ripreso la sua offensiva militare nella Striscia di Gaza,
mettendo fine a una tregua che durava da due mesi.
L’obiettivo è distruggere Hamas, al potere dal 2007 nel territorio palestinese.
Di recente il governo israeliano ha ribadito che il gruppo deve disarmare e che
i suoi combattenti devono lasciare il territorio.
Il 16 aprile l’esercito israeliano ha annunciato di aver trasformato il 30 per
cento del territorio della Striscia di Gaza in una “zona di sicurezza” e di aver
condotto dal 18 marzo più di cento “eliminazioni mirate”.
Nonostante le critiche di gran parte della comunità internazionale, il 16 aprile
il ministro della difesa israeliano Israel Katz ha dichiarato che Israele
continuerà a bloccare gli aiuti umanitari.
“Gaza è ormai diventata una fossa comune per i palestinesi e per tutti quelli
che cercano di prestare soccorso”, ha denunciato il 16 aprile l’ong Medici senza
frontiere (Msf).
Almeno 1.652 palestinesi sono stati uccisi dal 18 marzo, portando il totale
dall’ottobre 2023 a 51.025.
(da Internazionale)
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Una legge francese è destinata a scatenare nuovi poteri di sorveglianza della
polizia invasiva. Alimentato da una retorica assurda, il governo sta proponendo
quella che è stata soprannominata “la peggiore legge di sorveglianza dell’UE”.
Gli esperti avvertono che non riuscirà a raggiungere i suoi obiettivi. Tuttavia,
l’ampia portata della legge significa che i poteri possono essere utilizzati
contro i migranti, i loro sostenitori e per reprimere il dissenso. Come hanno
chiarito i rapporti ufficiali, affrontare l’uso di droghe e il traffico richiede
politiche a lungo termine e a bassa tecnologia – non poteri di sorveglianza
della polizia ad alta tecnologia.
di Statewatch
Riepilogo:
* Il governo francese sta intensificando la sua guerra alla droga, combinando
retorica assurda (con fumo di una canna rispetto a sparare a un bambino in
testa) e una nuova legislazione
* Questo approccio repressivo è simile a quello favorito in molti altri paesi
del mondo, dove non è riuscito a ridurre il traffico di droga o l’uso di
droga.
* La proposta del governo francese include alcune misure di sorveglianza
particolarmente invasive, tra cui:
* backdoor di crittografia (ora cadute);
* Attivazione remota dei telefoni da parte della polizia; e
* Sorveglianza di massa del traffico Internet e delle telecomunicazioni
* L’ampia portata della legge significa che questi poteri possono essere
utilizzati anche contro i migranti irregolari, coloro che forniscono loro
aiuto o sostegno e i dissidenti politici.
* Potrebbero presto esserci misure analoghe proposte a livello europeo,
nell’ambito della nuova strategia di sicurezza interna dell’UE.
Una storia di origine sensazionalista
Nel 2014, il governo francese ha avvertito che il paese era a un “punto di
svolta” e ha chiesto che la lotta contro il traffico di droga diventi “una causa
nazionale”. L’ultimo piano del governo ha due componenti. In primo luogo,
cercare di scioccare il pubblico. In secondo luogo, approvare una nuova
legislazione sul “narcotraffico”.
Questo tentativo di scioccare le persone ha portato a un flusso di dichiarazioni
ridicole da parte dei funzionari. Se c’è una competizione tra di loro, allora
Bruno Retailleau, il ministro dell’Interno, è il chiaro vincitore. Ha avvertito
che fumare una canna è simile a “due proiettili nella testa di un bambino di
cinque anni; questo è un giovane che è stato pugnalato 50 volte con un coltello
e bruciato vivo”.
Nel corso degli anni, c’è stato un innegabile aumento della violenza. Un libro
pubblicato lo scorso anno ha esaminato il fenomeno dei giovani “diritti” –
bambini e giovani adulti che vengono coinvolti nella violenza armata. Gli autori
hanno sostenuto che i giovani tiratori erano simili ai sicarios, i famigerati
assassini messicani in Messico. Il parallelo tra la Francia e il paese più
violento del mondo per il traffico di droga si è rapidamente diffuso.
Retailleau, il ministro dell’Interno (sì, lo ha di nuovo) ha affermato che c’era
stata una “messicanizzazione” della Francia.
Il paragone è assurdo. Il Messico detiene il record di sparizioni e morti legati
alla guerra alla droga. Amnesty International, citando i dati del governo
messicano, dice che circa 30 persone scompaiono ogni giorno nel paese. Ciò
equivale a più di una persona ogni ora e un totale di quasi 11.000 persone
all’anno. In Francia, ci sono stati 110 decessi legati al traffico di droga nel
2024, secondo i dati del ministero dell’Interno.
Repressione: un disegno governativo
La Francia è solo uno dei tanti paesi che adotta un approccio sempre più
repressivo alla droga. Ann Fordham è il direttore dell’International Drug Policy
Consortium, una rete globale di oltre 190 ONG che promuove politiche sulle
droghe incentrate sulla persona e che affermano i diritti a livello nazionale,
regionale e internazionale. Ha detto a Statewatch:
“La realtà che vediamo in tutto il mondo è che le misure repressive non sono
riuscite a sopprimere il traffico di droga e hanno invece portato alla drastica
erosione dei diritti fondamentali. Questa mossa in Francia purtroppo non fa
eccezione”.
Queste soluzioni rapide ottengono i loro titoli dei sostenitori sulla stampa, ma
forniscono pochi risultati positivi a lungo termine. La Corte dei conti francese
ha recentemente avvertito che l’intero sistema di assistenza giovanile sta
urlando per la sopravvivenza. Richiede investimenti a lungo termine e
finanziari. Invece, le risorse sono dirette altrove.
Un rapporto del governo sulla limitazione del coinvolgimento dei bambini nel
traffico di droga ha proposto una serie di potenziali soluzioni al problema.
Includono proposte per un migliore follow-up dei servizi locali nell’assistenza
e un miglioramento dei servizi sociali per i giovani e le loro famiglie. Non
includono proposte per dare ai poteri di sorveglianza di livello militare della
polizia. Questo, tuttavia, è esattamente ciò che sta accadendo.
Sperimentazione tecnologica fuori controllo
I successivi governi francesi hanno introdotto nuovi poteri di sorveglianza
della polizia. All’inizio di quest’anno, l’attuale amministrazione ha deciso di
continuare con il controverso esperimento di videosorveglianza automatizzata e
algoritmica che è stata introdotta per i Giochi Olimpici. Ora durerà almeno fino
al 2027. Non c’è stata alcuna valutazione dell’impatto pubblico della sua
utilità.
In discussione ora c’è una proposta descritta come “la peggiore legge di
sorveglianza nell’UE” da Tuta, una società che produce software crittografato.
Statewatch, insieme ai diritti digitali europei e ad altre 20 organizzazioni
della società civile, ha avvertito che la proposta è arrivata con gravi rischi
per il diritto alla privacy e allo stato di diritto.
Le backdoor di crittografia
Una delle misure proposte costringerebbe le aziende a creare “backdoor” in modo
che le forze dell’ordine possano accedere alle comunicazioni crittografate.
Questo “ritira un buco nello scafo delle comunicazioni private”, ha detto
Meredith Whittaker, presidente della Signal Foundation. (Signal è un’app di
messaggistica crittografata per una comunicazione privata sicura, recentemente
resa famosa dal gabinetto di guerra del governo degli Stati Uniti.)
Come ha Statewatchchiarito la lettera firmata da Statewatch, c’è “ampio consenso
scientifico sul fatto che dare un accesso eccezionale ai dati crittografati
end-to-end crea inevitabilmente vulnerabilità che i criminali e i regimi
repressivi possono sfruttare … La sicurezza di tutti è quindi in gioco”. Questa
particolare proposta è stata rimossa dal disegno di legge a seguito dei
negoziati nel parlamento francese.
Telefoni per lo spionaggio della polizia
Una proposta che rimane nel disegno di legge consentirebbe alla polizia di
attivare da remoto il telefono cellulare di una persona o qualsiasi dispositivo
connesso nell’ambiente circostante. Questa misura era già stata proposta nel
2023 ed è stata demolita dal consiglio costituzionale a causa della sua
invasività. Ciò includeva il fatto che l’impiego non poteva essere limitato alle
persone sotto inchiesta: l’intercettazione avrebbe esteso a chiunque nelle
vicinanze, una violazione sproporzionata della privacy.
C’è stato un forte respingimento da parte della magistratura, così come dal
difensore civico francese. Essi hanno sostenuto che la proposta potrebbe essere
utilizzata per minare la riservatezza avvocato-cliente. La Corte europea dei
diritti dell’uomo ha riconosciuto che la riservatezza del cliente-avvocato è una
componente essenziale dello Stato di diritto.
SCATOLE DI COLORE NERO
Ultimo ma non meno importante è la proposta di estendere l’uso di “scatole
nere”. Una scatola nera è un dispositivo installato su una rete di
telecomunicazioni che “blocca tutti i metadati telefonici e Internet dei suoi
utenti e li filtra attraverso un algoritmo”. Sono stati introdotti per la prima
volta nel 2015 e il loro uso è limitato esclusivamente alle indagini
antiterrorismo. La tecnologia è estremamente invasiva, e anche gli autori di una
relazione che ha portato alla proposta legislativa, il senatore Jéràme Durain e
Etienne Blanc considerano il loro uso simile alla sorveglianza di massa.
Tuttavia, l’unica relazione sul loro uso è classificata e solo otto parlamentari
vi hanno avuto accesso.
Invasivo, razzista e repressivo
Non c’è stata alcuna valutazione della potenziale utilità di questi nuovi
tecno-poteri per affrontare il traffico di droga. Contrariamente a quanto dice
il governo francese, Ann Fordham sostiene:
Questa proposta di islazione delle gambe è estremamente preoccupante in quanto
mina la privacy, la sicurezza digitale e le libertà civili con il pretesto del
controllo della droga. L’espansione delle misure di sorveglianza in questo modo
problematico avrà un impatto minimo su un mercato illegale di droghe illegali
robuste e resilienti.
In effetti, gli effetti potrebbero benissimo cadere altrove: sui migranti e sul
dissenso politico. Come evidenziato da La Quadrature du Net, il campo di
applicazione della legge si estende oltre il traffico di droga.
Contro i migranti
Secondo la proposta, i nuovi poteri non potevano essere dispiegati solo in
relazione al traffico di droga. Potrebbero anche essere utilizzati per impedire
l’ingresso irregolare, il soggiorno e il transito nel territorio o attraverso il
territorio francese.
Lo Stato francese ha criminalizzato migranti e persone che forniscono assistenza
umanitaria. Nel 2018, un giovane è stato condannato per diffamazione per aver
pubblicato una foto online che mostrava la violenza della polizia contro i
migranti.
L’obiettivo razzista appena nascosto della legge è diventato chiaro durante la
prima lettura della proposta. Un parlamentare di destra ha aggiunto l’obbligo di
vietare i divieti di ingresso quasi obbligatori per i non cittadini che ricevono
condanne di cinque anni o più per il traffico di droga.
Contro il dissenso
In linea con l’obiettivo di inibire il traffico di droga, la legge prende di
mira anche la criminalità organizzata. Tuttavia, la definizione di criminalità
organizzata è già stata estesa ai gruppi di attivisti, ad esempio i Gilets
Jaunes e gli attivisti ambientali.
Effetto di spellaggio
Il Parlamento francese ha adottato il testo il 1o aprile e dovrebbe adottare la
legge dopo la discussione in una commissione ristretta con i membri del
parlamento e il senato. Possiamo solo sperare, come dice Ann Fordham, che “i
legislatori francesi respingeranno questo disegno di legge e perseguiranno
invece politiche sulle droghe basate sull’evidenza che rispettano i diritti
umani”.
Alcuni parlamentari francesi hanno già iniziato a pianificare il peggio,
presentando denunce al Consiglio costituzionale. L’organismo sarebbe quindi
obbligato a valutare la legalità di alcune delle misure più invasive.
Questa proposta legislativa potrebbe anche stabilire il tono per le modifiche
alla legge in tutta Europa, come parte di un più ampio tentativo di dotare la
polizia di nuove tecnologie. L’Europa ha rivelato all’inizio di quest’anno che
il governo francese ha guidato la campagna dei governi dell’UE per diluire le
salvaguardie intorno alla polizia e ai poteri di immigrazione nella legge
sull’intelligenza artificiale.
L’idea che la polizia debba raggiungere l’innovazione criminale è un passo
fondamentale per le forze dell’ordine. Il direttore di Europol ha recentemente
chiesto maggiori risorse per “rimanere avanti” ai gruppi criminali. Questo è uno
degli obiettivi della di rafforzare i poteri di contrabbando di Europol in
materia di immigrati. Non vi è stata alcuna valutazione formale del suo
potenziale impatto sui diritti umani e la sua portata non si limita al
contrabbando.
La nuova strategia dell’UE )di rispecchia l’iniziativa francese a livello
europeo. Propone di ridurre o rimuovere le restrizioni sulla conservazione di
massa dei dati delle telecomunicazioni e una “tabella di marcia” tecnologica
sulla crittografia. Ciò probabilmente si tradurrà in proposte per una sorta di
“backdoor”, qualunque forma si introduca.
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Conflitti inter-etnici nel Manipur: forse un esempio da manuale dell’avvenuta
transizione dalla lotta di classe e di liberazione allo scontro tra popoli
di Gianni Sartori
Popoli e Stati (o se preferite: Nazioni e Stati) non sempre (qualcuno pensa:
raramente) coincidono. Antichi popoli con una loro cultura, identità, lingua…si
trovano divisi da confini imposti. Parte al di qua, parte al di là delle
fontiere. Anche in Europa. Vedi baschi, tirolesi, catalani…E naturalmente questo
fornisce ai governi centrali l’occasione per praticare il noto divide et impera.
Stessa musica nel nord-est dell’India. Da decenni il governo del Manipur a guida
BJP (Bharatiya Janata Party – Partito del Popolo Indiano) fa ampio uso di
arresti, vigilantes (filogovernativi) e repressione del dissenso sia nei
confronti dei meitei che – soprattutto – della componente minoritaria dei
kuki-zomi-hmar.
Mentre i meitei abitano prevalentemente nella Valle di Imphal (dove si trova la
capitale dello stato), le colline settentrionali sono abitate dalla comunità
naga. Quanto ai kuki-zomi-hmar, la maggior parte risiede sulle colline
meridionali e nelle aree collinari intorno alla valle di Imphal
Tornando alle politiche repressive del governo, in passato godette di una certa
notorietà il caso del giornalista meitei Kishorechandra Wangkhem arrestato a più
riprese a partire dal 2018 per le sue critiche al BJP e al primo ministro
Narendra Modi.
Più recentemente, prendendo a pretesto l’intensificarsi degli scontri
etnico-religiosi tra la comunità dei kuki (in maggioranza cristiani) e quella
dei meitei (in maggioranza indù), il governo centrale ha stabilito di installare
una barriera- recinzione lunga oltre 1.600 chilometri al confine con Myanmar
(ufficialmente su richiesta dei meitei). Ma incontrando le proteste delle
organizzazion kuki della città di frontiera Moreh (distretto di Tengnoupal,
importante snodo per i traffici transfrontalieri e dove si erano registrati gli
scontri più violenti). Opponendosi pubblicamente con un appello diffuso il 14
aprile (e sottoscritto anche da organizzazioni mizo e naga) al progetto divisivo
in quanto costituirebbe “una minaccia per lo stile di vita e la cultura delle
comunità”. Respingendo nel contempo l’accusa del ministro dell’Interno Amit
Shah, secondo cui i kuki che attraversano la frontiera provenendo dal Myanmar
sarebbero “migranti illegali”.
Stessa situazione e stesse proteste anche nel vicino Nagaland (altro Stato della
regione nord-orientale dell’India). Ugualmente contro i progetti di
barriera-recinzione del confine e per la conservazione del regime di libero
movimento.
In quanto “ogni villaggio naga è diviso secondo i propri costumi e tradizioni.
Nonostante il confine, i Naga si considerano ancora un unico popolo. Il popolo
naga, quindi, non accetterà nulla che possa dividere la loro terra ancestrale”.
Con tutta evidenza quella adottata dal governo è una strategia con cui si vuole
disgregare sul nascere ogni possibile coalizione di opposizione unitaria tra le
popolazioni autoctone. Alimentandone le reciproche diffidenze e istigandole una
contro l’altra.
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Non si fermano gli attacchi israeliani nella Striscia di Gaza. Ieri l’esercito
ha colpito l’ospedale al-Ahli di Gaza City, l’ultimo ancora attivo nel nord
della Striscia. Nuovi ordine di evacuazione sono stati emessi e alla popolazione
è stato ordinato di dirigersi verso la zona di al-Mawasi, che è diventata un
campo-tende per sfollati in cui si vive in condizioni disumane.
di Eliana Riva da Pagine Esteri
Non si fermano gli attacchi israeliani nella Striscia di Gaza. Ieri l’esercito
ha colpito l’ospedale al-Ahli di Gaza City, l’ultimo ancora attivo nel nord
della Striscia. A medici e pazienti è stato lasciato un breve lasso di tempo per
evacuare. I feriti più gravi, che sono stati staccati da respiratori, ossigeno e
altri macchinari medici per essere trasportati all’esterno della struttura.
Almeno un paziente, un bambino di dodici anni, Yousef Abu Sakran, è morto al
freddo. Secondo la testimonianza rilasciata da un medico alla rete al-Jazeera,
sono almeno tre i palestinesi feriti che hanno perso la vita a causa
dell’evacuazione. L’ospedale è stato bombardato almeno due volte, diversi
reparti e l’ingresso sono stati distrutti, rendendo la struttura inagibile. Tel
Aviv ha dichiarato di aver attaccato un “centro di comando” di Hamas, senza
fornire prove a riguardo. L’ospedale era già stato bombardato nell’ottobre del
2023. Dall’inizio della guerra Israele ha colpito almeno 35 ospedali a Gaza.
Sempre ieri l’esercito ha colpito a Deir al-Balah un’automobile su cui
viaggiavano sei persone, sei fratelli della famiglia Abu Mahadi, tutti morti sul
colpo. Questa mattina è stato bombardato un centro umanitario delle Nazioni
Unite a Khan Younis, circondato da profughi nelle tende.
Venerdì il ministro della Difesa Israel Katz ha comunicato che l’accerchiamento
di Rafah è completo. La città che ospitava, prima della guerra, più di 200mila
abitanti, è stata svuotata con la forza, bombardata, distrutta e trasformata in
quella che l’esercito chiama “zona di sicurezza israeliana”, ossia una
gigantesca area sotto occupazione militare. Prosegue la distruzione di tutte o
quasi le strutture presenti nell’area, sistematicamente rase al suolo.
L’accerchiamento è stato possibile grazie al completamento dell’asse Morag, che
prende il nome da un’ex colonia israeliana presente nell’area prima del ritiro
del 2005. Ora Rafah è completamente separata da Khan Younis e dal resto della
Striscia. Un altro corridoio, Netzarim, divide il centro dal nord di Gaza,
mentre il corridoio Filadelfia la separa dal confine con l’Egitto. La “zona
cuscinetto”, descritta dagli ex militari israeliani nel rapporto della Ong
Breaking the silence come una “kill zone”, si allunga per più di un chilometro e
mezzo dal confine israeliano fin dentro Gaza.
Katz ha fatto anche sapere che l’esercito intensificherà i suoi attacchi. Nuovi
ordine di evacuazione sono stati emessi e alla popolazione è stato ordinato di
dirigersi verso la zona di al-Mawasi, che è diventata un campo-tende per
sfollati in cui si vive in condizioni disumane. Le agenzie internazionali hanno
denunciato la mancanza di cibo e di acqua che porta le persone a morire di una
“morte lenta”, attanagliati da malattie, infezioni dovute a carenza di igiene,
fame e bombardamenti, che proseguono anche sulle tende dei profughi. Oggi
diverse persone, tra cui bambini, sono rimasti ferite, alcune in maniera grave,
in un attacco, domenica una persona è stata uccisa. Il riferimento di Katz al
piano del presidente Trump e allo sfollamento verso altri Paesi, conferma una
strategia precisa: occupare e sfollare la maggior parte di Gaza, rendere quella
degli abitanti una non-vita e costringerli così ad emigrare, mascherando la
pulizia etnica con l’allontanamento “volontario”.
Il progetto, fortemente voluto dal premier Netanyahu, si sta realizzando dopo la
ripresa degli attacchi, quando Israele ha deciso di interrompere il cessate il
fuoco e di non proseguire la seconda fase dei negoziati, come precedentemente
sottoscritto. La sostituzione del capo di stato maggiore Herzl Halevi, indigesto
a Netanyahu, con il fidato e controllabile Eyal Zamir, insieme al piano della
“riviera di Gaza” lanciato da Trump, ha dato ad esercito e governo il via libera
per l’occupazione permanente di larghe aree del territorio. Israele e Stati
Uniti stanno lavorando per trovare Paesi disposti a ricevere i palestinesi che
verrebbero cacciati dalla Striscia. In cambio propongono vantaggi politici e
militari che alcuni governi potrebbero scegliere di cogliere.
Domenica Netanyahu ha dichiarato, parlando con i genitori di uno degli
israeliani detenuti da Hamas a Gaza, che Israele sta trattando per il rilascio
di dieci ostaggi. Hamas ha confermato oggi di aver ricevuto una proposta.
Secondo i media arabi, Hamas avrebbe accettato di rilasciare nove ostaggi in
cambio di una tregua temporanea e la liberazione di prigionieri palestinesi.
Israele avrebbe proposto un piano di partenza con la liberazione di 10 ostaggi.
Il quotidiano israeliano Haaretz ha fatto sapere che Qatar ed Egitto starebbero
lavorando insieme agli Stati Uniti per fare in modo che qualsiasi proposta di
rilascio ostaggi includa un processo per giungere a un cessate il fuoco
definitivo. Ma Israele al momento non pare interessato a un ritiro e anzi sta
lavorando alla costruzione a Gaza di infrastrutture militari per il controllo
permanente. Un’inchiesta pubblicata dalla CNN, citando fonti negoziali riporta
una brusca frenata nei colloqui. La nomina di un confidente del premier
Netanyahu, il ministro per gli affari strategici Ron Dermer, a capo della
squadra negoziale, ha portato a un cambio di priorità. «I negoziatori sembrano
essere politicizzati», ha spiegato la fonte.
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Tra timidi segnali di “soluzione politica” in Siria e scioperi della fame in
Turchia…
di Gianni Sartori
In sintesi. Cercando appunto di sintetizzare, riassumere, interpretare quanto si
dice – e non si dice – sulla questione curda in generale e sul Rojava in
particolare, andrebbero forse registrati alcuni segnali di – cauto – ottimismo.
Sembra potersi concretizzare la richiesta di cessate-il-fuoco tra esercito turco
e Forze Democratiche Siriane (una coalizione di forze curde, arabe e
siriaco-cristiane che applicano il Confederalismo democratico) intorno a Kobane
così da consentire la riparazione della diga di Tishrin costantemente bombardata
fino a qualche giorno fa da droni e da F-16.
Meglio ancora – se venisse confermato – l’allontanamento (o l’integrazione nelle
forze di sicurezza governative) dalla provincia di Afrin e forse anche dalle
aree tra Tal Abyad e Serekeniye delle milizie filo-turche responsabili di
saccheggi, stupri e uccisioni di civili. Milizie – va detto – che solo grazie
all’appoggio dell’aviazione di Ankara avevano potuto costringere le FDS a
ritirarsi verso est. Con la nuova situazione decine di migliaia di sfollati,
profughi interni (si calcola circa la metà dei 320.000 abitanti qui presenti
prima dell’invasione turca) scacciati nel 2018 potrebbero rientrare nelle loro
case. La situazione verrebbe posta sotto il controllo delle forze di sicurezza
curde (Asajish) in coordinamento con Damasco e con l’Amministarzione autonoma
del nord e dell’est della Siria.
Meno chiaro quanto è avvenuto ad Aleppo, con il ritiro dai quartieri a
maggioranza curda (Cheikh Maksoud e Ashrafiye) delle milizie curde (YPG-YPJ).
Anche qui la sicurezza verrebbe garantita dagli Asayijs, sempre coordinandosi
con Damasco.
Va poi ricordato che almeno un ministro del nuovo governo, quello
dell’Istruzione, è curdo (per quanto non del Rojava).
Vice-rettore dell’università di Damasco all’epoca di Bachar al-Assad, avrebbe in
progetto di far riconoscere anche in Siria i titoli di studio ottenuti dagli
studenti di Qamishli, Raqqa e Kobanê.
Inoltre Drusi e Alawiti sembrano sembrano interessati a sottoscrivere con
Damasco accordi simili a quelli (definiti “inclusivi”) stipulati
dall’Amministrazione autonoma.
Ma non per questo il nuovo presidente ad interim rinuncerà alle buone relazioni
con il leader dell’AKP, Recep Tayyip Erdogan Erdogan. Come confermato dalla
partecipazione di Ahmed al Sharaa (alias Mohammed al Jolani) al forum di Antalya
dell’11 aprile e precedentemente – in febbraio – dalla sua visita ad Ankara.
In realtà non si può certo escludere che la Turchia perseveri nel considerare la
nuova Siria un suo potenziale protettorato. O quantomeno un avamposto militare
(v. la base aerea T4 nella provincia di Homs).
Oltre naturalmente a pretendere l’allontanamento dal Rojava dei combattenti
curdi non originari del Nord-Est siriano.
Tante notizie, spesso di segno contrastante, anche sulla Turchia (e non solo sui
curdi del Bakur). Centellinate e selezionate dai media in base a ragioni non
sempre comprensibili.
Per cui di alcuni eventi si parla diffusamente (anche troppo) mentre su altri
scende un velo impietoso. Niente di nuovo naturalmente.
Per esempio. Qualche tempo fa Naiz, un sito basco abertzale (sinistra
indipendentista) riprendeva gli articoli di Fermin Munarriz risalenti al
novembre 2001
(https://www.naiz.eus/eu/2024/20241109/mas-de-cien-muertos-en-la-huelga-de-hambre-mas-extrema-de-europa).
Sottolineando come all’epoca Gara (quotidiano basco che aveva sostituito
l’illegalizzato Egin) fosse stato uno dei pochi “nel mondo” a parlare dello
sciopero della fame in cui – tra il 2000 e il 2003 – avevano perso la vita oltre
un centinaio di prigionieri politici turchi di sinistra (oltre ad alcuni
familiari e simpatizzanti). Solo una piccola precisazione. Non era stato proprio
l’unico. Si parva licet, in Italia ne aveva parlato varie volte Frigidaire.
Detto questo – e fatte le debite proprozioni (dal punto di vista numerico, non
qualitativo) – la cosa potrebbe ripetersi. Nella quasi totale indifferenza, da
alcuni mesi una decina di prigionieri politici della sinistra radicale turca
(una donna – Yurdagül Gümüş – e nove uomini) sono in sciopero della fame
illimitato. Una estrema protesta (ormai l’unica loro consentita) per le indegne
condizioni in cui versano i detenuti nelle carceri speciali.
In particolare contro l’isolamento nelle prigioni di tipi S, Y e R e i
trasferimenti forzati. Sempre senza che i media ne abbiano dato notizia,
iniziative di solidarietà sarebbero previste (condizionale d’obbligo, non è
facile averne conferma) in varie città europee. Dato che si tratta di persone
(con una loro storia, una famiglia…) e non di numeri riporto i loro nomi con la
data dell’inizio del loro digiuno:
Sercan Ahmet Arslan (dal18-10-2024), Serkan Onur Yılmaz (dal 9-12-2024), Mulla
Zincir (dal 12-12-2024), Bakican Işık (dal 18-12-2024), Yurdagül Gümüş (dal
30-12-2024), Mithat Öztürk (dall’11-02-2025), Hasan Ali Akgün (dal 17-2- 2025),
Ali Aracı (dal 17-2-2025), Ayberk Demirdöğen (dal 10-3-2025), Fikret Akar (dal
29-3-2025).
Prima di tornare a enumerare i cadaveri, sarebbe il caso di parlarne.
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Nel 2014, dopo 269 giorni di coma, moriva l’adolescente Berkin Elvan colpito
alla testa da un lacrimogeno. Ora, dopo 11 anni, i suoi genitori vengono
condannati al carcere per aver offeso Erdogan
di Gianni Sartori
Risale all’11 marzo 2014 l’epilogo della tragica vicenda – un autentico calvario
– del quindicenne Berkin Elvan.
Quando morì dopo 269 giorni di coma e al suo funerale, nel quartiere di
Okmeydani (Istanbul), parteciparono oltre diecimila persone.
Il 16 giugno 2013, ancora quattordicenne, era uscito da casa per andare a
comprare il pane mentre in città migliaia di manifestanti protestavano in difesa
degli alberi di Gezi Park. Nei pressi di piazza Taksim viene colpito alla testa
da un lacrimogeno sparato da una camionetta della polizia e resta a terra.
Nonostante fossero stati chiamati immediatamente dai presenti, i soccorsi
arrivarono con colpevole ritardo.
Giunto all’ospedale in condizioni disperate, da allora non uscirà più dal coma.
Immediata la dichiarazione del presidente Erdogan che di fatto rivendicava: “Sì,
sono stato io a dare l’ordine alla polizia di reprimere le manifestazioni”.
Un’affermazione che aggiungeva ancora dolore (e indignazione) a quello già
provato dai genitori.
Iniziano le proteste e l’11 luglio 2013 centinaia di persone assediano
simbolicamente la caserma dei poliziotti che quel giorno occupavano il
quartiere. Ovviamente anche questa iniziativa viene repressa duramente.
Diventati, loro malgrado, il simbolo della violenza del potere in Turchia, la
madre e il padre rischiano di subirne un’altra. Quella dei medici che vorrebbero
dimettere il ragazzo (per togliere la vicenda dai riflettori, dato che fuori
dall’ospedale stazionano in permanenza i giornalisti) proseguendo la terapia
intensiva a casa.
Ma almeno questa ulteriore infamia viene impedita dalla mobilitazione dei
cittadini.
Intanto il corpo Berkin si va letteralmente consumando, arrivando a pesare solo
venti chili.
Continuano comunque le manifestazioni e il presidio fuori dall’ospedale. Il 5
gennaio 2014il comune di Smirne gli dedica un parco giochi.
Il 24 gennaio 2014 si arriva al processo, ma i poliziotti portati sul banco
degli imputati risultano non in servizio per quel giorno (evidentemente chi di
dovere – presumibilmente il ministero – aveva fornito nomi falsi al tribunale).
Aggiornato al 30 gennaio 2014, il processo degenera in farsa con i nuovi
poliziotti incriminati che dichiarano di non ricordarsi di nulla e comunque di
non aver sparato lacrimogeni.
Con la morte di Berkin la gente torna in strada: da Istanbul a Smirne, da
Eskişehir a Dersim, da Antalya a Kayseri, da Ankara a Kocaeli…
Intervistata da una televisione, la mamma accusa pubblicamente: non è stato
Allah a portare via mio figlio, è stato Recep Tayyip Erdogan”.
Ma evidentemente aver privato i due genitori dell’unico figlio non bastava. Oggi
arriva la notizia che entrambi sono stati condannati al carcere per “insulti al
presidente Erdogan”.
Questo il cinico verdetto del processo intentato contro Gülsüm Elvan (la mamma
di Berkin Elvan) e Sami Elvan (il padre).
Condannati rispettivamente a 11 mesi e venti giorni e un anno e due mesi.
Per il padre, la sua vita è “definitivamente cambiata 11 anni fa, il mio bambino
mi manca ogni giorno. Non ho altri figli, lascio decidere alla vostra
coscienza”.
Mentre la madre uscendo dal tribunale ha semplicemente detto che “io sono là
fuori, mandate pure la vostra polizia a mettermi la manette, vi aspetto”.
Mi sono tornate in mente altre madri coraggio che ho conosciuto: Peggy O’hara,
mamma del militante dell’INLA Patsy O’ Hara, morto im sciopero della fame nel
1981) e Haidi Giuliani, la mamma di Carlo (ucciso a Genova nel 2001).
Casualmente, o forse no, a chi aveva domandato a entrambe (in situazioni diverse
ovviamente) se non avessero paura di continuare a lottare, denunciare,
protestare…avevano dato la stessa risposta: “E di che cosa? Cos’altro potrebbero
farmi ancora?”.
Appunto.
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In Cile arrestato un altro portavoce mapuche
di pressenza
Il Werken (portavoce) Alex Huenchullan è stato detenuto nella caserma della
Policía de Investigaciones de Chile (PDI) della città di Angol, nel reparto
della Brigata Speciale di Polizia Investigativa (Bipe). Questa mattina sarà
trasferito al Tribunale di Garanzia della città di Victoria, dove si terrà
l’udienza di controllo della detenzione. (al momento quindi risulta detenuto
preventivamente senza giusta causa né giusto processo e ferito, ndr).
Il Werken della Comunità Temucuicui kvla Autónoma è stato violentemente
arrestato dopo un’irruzione nel Lof (comunità) Koyam Mapu della città di
Victoria nelle prime ore della mattina di martedì 08 aprile. Per ore non si è
saputo nulla sul suo stato di salute o sul luogo in cui si trovasse. Nel corso
della mattinata e dopo gli sforzi di un avvocato, è stato possibile confermare
l’arresto e l’attuale posizione del nostro peñi (fratello), che sarà portato
questa mattina al ‘control de detención’ nella città di Victoria.
Tuttavia, i danni collaterali lasciati dalla polizia di Stato cilena contro
donne e bambini sono irreversibili, ed è per questo che non possiamo, come
popolo mapuche e anche come popolo cileno, abituarci a quella che da qualche
anno, parlando del conflitto tra lo Stato cileno e le richieste del popolo
mapuche, viene definita come “la normalizzazione della violenza”. Sembra normale
che il popolo mapuche riceva violenze, abusi, rastrellamenti e violazioni ai
diritti umani da parte degli Stati cileno e argentino proprio perché è in
conflitto permanente con questi ultimi due, e quindi, queste notizie di violenze
quotidiane vengono costantemente omesse e taciute dalla stampa e dai social.
Ricordiamo che pochi giorni fa c’è stata un terribile rastrellamento a Quinquen
(Lonquimay, Malleco, Regione dell’Araucanía), dove la PDI ha commesso violenti
atti di tortura contro il nostro popolo e violazioni dei diritti dei nostri
pichikeche (bambini e bambine). Contemporaneamente avveniva anche un brutale
raid all’interno del carcere di Temuco che si è concluso con la scomparsa di tre
PPM Prigionieri Politici Mapuche.
Senza andare oltre, ricordiamo che oggi ricorrono 5 mesi dalla “desaparición”
(scomparsa) di Julia Chuñil Catricura, ambientalista e difensore del Wallmapu
(territorio mapuche), minacciata più volte da un vicino latifondista, non si
hanno ancora notizie né della sua sorte né dei colpevoli.
Seguite la notizia direttamente dalle comunità mapuche, in spagnolo qui:
Instagram: @ppm.angol
oppure Facebook: https://www.facebook.com/radiokurruf
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In India, tra incidenti sul lavoro e defezioni dalla guerriglia maoista, alla
fine chi ci rimette sono sempre Adivasi e Dalit
di Gianni Sartori
Mentre il governo indiano esulta per i risultati ottenuti nel contrastare il
movimento naxalita (la guerriglia di ispirazione maoista sorta nel 1967,
recentemente decimata da uccisioni e defezioni), non va certo migliorando – anzi
– la condizione di dalit e adivasi. Oppressi, sfruttati, discriminati, umiliati
e offesi.
Come conferma un recente “incidente” sul lavoro di otto membri delle caste
inferiori.
La tragica morte di questi lavoratori (di età compresa tra i 22 e i 55 anni) è
avvenuta il 3 aprile nel villaggio di Kondavat, nel distretto di Khandwa (Madhya
Pradesh).
Cinque di loro erano scesi – per ripulirlo – in un profondo pozzo dove, a scopo
rituale, era prevista l’immersione dei fedeli per ammirare le immagini delle
divinità indù Isar e Gauri. Morti asfissiati a causa delle esalazioni velenose
emanate dall’acqua (dato che il pozzo era rimasto a lungo inattivo).
I primi cinque (Mohan, Anil Patel, Sharan Sukhram, Arjun, Gajanand) erano scesi
per compiere il lavoro di ripulitura rimanendo intossicati e non più in grado di
risalire. Altre tre lavoranti (Baliram, Rakesh e Ajay) erano allora
generosamente scesi nel pozzo restando a loro volta intrappolati.
Stando alle prime dichiarazioni dell’amministrazione locale, ai familiari delle
vittime dovrebbe venir corrisposto un risarcimento di 400mila rupie
(l’equivalente di circa 4200 euro). Non molto per una vita umana (anche se si
tratta di membri delle caste inferiori), ma comunque molto di più di quanto
avviene in genere.
Diverse organizzazioni sindacali hanno denunciato la scarsa mancanza di rispetto
per gli standard minimi di sicurezza. Ulteriormente ignorati nel caso di
lavoratori dalit.
Intanto – come già ricordato (ma repetita iuvant) – il movimento naxalita,
sopravvissuto per oltre mezzo secolo, appare in grave difficoltà. La resa di una
cinquantina di maoisti alle forze di sicurezza del 30 marzo nel distretto di
Bijapur suonava come una conferma dell’efficacia della nuova strategia basata
sull’istituzione di taglie cospicue e di premi per chi abbandona le armi e
diserta.
Oltre al fatto che negli ultimi tre mesi almeno 134 guerriglieri sono stati
abbattuti nel Chhattisgarh. Sicuramente eventi poco incoraggianti per gli
insorti.
Il 29 marzo altri 18 maoisti (tra cui 11 donne e il comandante Jagdish) erano
stati uccisi nei distretti di Sukma e di Bijapur (Chhattisgarh) dalla Guardia di
riserva del distretto (DRG) e dalla Forza di polizia centrale di riserva (CRPF).
E qualche giorno prima una trentina di maoisti erano stati eliminati nelle
foreste del Bijapur dalle Forze di sicurezza delle frontiere (BSF) e dalla DRG.
Dato che quella del governo è anche (o soprattutto) una guerra contro i tribali
in quanto tali, non si può certo escludere che alcuni dei presunti “combattenti
maoisti” uccisi dalle forze paramilitari governative fossero in realtà inermi
contadini poveri o adivasi (indigeni).
Ma probabilmente è soprattutto l’incremento delle defezioni il fattore che
rischia di dissanguare il movimento naxalita.
Tra le ricompense per i disertori (50mila rupie, una casa, un pezzo di terra e
la cancellazione dei reati ) e le ulteriori ricompense per le armi consegnate,
l’anno scorso nella sola regione del Bastar ben 792 maoisti (cifre ufficiali)
si sono arresi.
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