
15 giorni dopo l’assoluzione di Askatasuna: un silenzio istruttivo
Osservatorio Repressione - Wednesday, April 16, 2025Due settimane fa l’ennesimo processo per reati associativi – contro militanti del centro sociale Askatasuna – si è concluso, a Torino, con un’assoluzione piena. Dopo mesi di criminalizzazione ossessiva, la destra e i media mainstream tacciono o cercano di rimuovere il fatto. Si tratta, invece, di una vicenda illuminate sulle prospettive della repressione, sul ruolo della giurisdizione e sulle tecniche di governo delle città.
di Livio Pepino da Volere la Luna
1.
Lunedì 31 marzo il Tribunale di Torino ha definito un processo a carico, tra gli altri, di 16 militanti del Centro sociale Askatasuna e del movimento No Tav tratti a giudizio per il delitto di associazione per delinquere.
Il dibattimento si è protratto per oltre due anni ed è stato preceduto da (almeno) tre anni di indagini che hanno abbracciato più di due decenni (l’associazione è contestata a partire dal 2009 ma tra gli elementi di prova viene indicata addirittura un’intervista del 2001); nel corso delle indagini gli imputati sono stati intercettati e controllati per anni e la loro vita è stata setacciata e scandagliata nei minimi particolari; il procedimento è iniziato con una contestazione di associazione sovversiva nei confronti di 86 indagati, per 16 dei quali la Procura ha chiesto l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere; a seguito dell’intervento demolitore del giudice per le indagini preliminari, il numero degli imputati e delle imputazioni è stato drasticamente ridotto, ma 28 antagonisti sono stati comunque rinviati a giudizio per 72 fatti specifici (soprattutto di violenza e resistenza a pubblico ufficiale) e 16 altresì «per avere promosso, costituito, organizzato e partecipato, insieme ad altre persone […], ad un’associazione finalizzata alla commissione di una pluralità di delitti [principalmente violenze e resistenze a pubblico ufficiale, violenze private e danneggiamenti], avvalendosi di una struttura organizzativa (l’immobile occupato da Askatasuna, ndr) ove elaborare il programma sovversivo ed organizzare le azioni violente […], con l’aggravante della scorreria in armi per le campagne e le pubbliche vie»; all’esito del dibattimento i pubblici ministeri hanno chiesto condanne per complessivi 88 anni di carcere con riferimento a (quasi) tutti i capi di imputazione; le parti civili (presidenza del Consiglio, ministeri dell’Interno e della Difesa e società preposta alla costruzione della ferrovia ad alta capacità Torino-Lione) hanno chiesto la condanna degli imputati a un risarcimento di 6milioni e 700mila euro comprensivi, tra l’altro, del «costo dell’attività info-investigativa svolta ai fini dell’individuazione dei responsabili degli illeciti, nonché con riferimento alla spesa sostenuta a titolo di straordinari, indennità accessorie e indennità di ordine pubblico corrisposte al personale impiegato per contenere e limitare i manifestanti e i danni»; alla vigilia della camera di consiglio, in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario, la Procuratrice generale, con chiaro riferimento al processo in corso, ha definito Torino «capitale dell’eversione» mentre il rappresentante del Consiglio superiore della magistratura si è complimentato con i ministeri competenti per la richiesta risarcitoria; tutto il dibattimento e in particolare i suoi ultimi mesi sono stati scanditi da attacchi inauditi della destra e della stampa mainstream nei confronti degli imputati, del centro sociale Askatasuna e di chi semplicemente invitava alla razionalità; ancora il giorno dell’udienza conclusiva il palazzo di giustizia torinese è stato militarizzato, come se si fosse alla soglia di una guerra civile.
Non, dunque, un processo tra i tanti, ma il processo politico più rilevante degli ultimi vent’anni, nel quale la Digos e la Procura torinese hanno investito uomini, tempo, mezzi, tecnologie e hanno messo in gioco la propria credibilità. Ebbene, l’esito del dibattimento non poteva essere più netto: tutti gli imputati sono stati assolti dal delitto di associazione per delinquere perché il fatto non sussiste. Detto in altri termini, il teorema della Digos e della Procura della Repubblica di Torino è stato spazzato via, sbriciolato (tanto che anche per molti fatti specifici è intervenuta una assoluzione piena). I giudici lo hanno detto in modo univoco: Askatasuna non è un’associazione per delinquere e nessun gruppo eversivo ha operato al suo interno. Di più. A ciò si è arrivati dopo un’attività di indagine spropositata il cui esito è stato un autentico boomerang: non solo non è stata raggiunta la prova del reato, ma gli elementi acquisiti ne hanno dimostrano in positivo l’inesistenza. E – merita aggiungere – anche le richieste di risarcimenti milionari sono state totalmente disattese. Certo, ci sono state alcune condanne (a pene complessivamente modeste) per episodi di resistenza e violenza privata. Nessuno lo nega o lo contesta, ma non c’è bisogno di essere fini giuristi per cogliere che l’associazione sovversiva e l’eversione sono tutt’altra cosa.
2.
Incredibilmente – o, meglio, com’era prevedibile – il terremoto giudiziario non è stato captato dai radar dell’establishment torinese (e non solo): i principali organi di informazione hanno dato la notizia con taglio basso (e anzi sottolineando, talora in prima battuta, le condanne per i reati minori), gli opinionisti impegnati a tempo pieno nella criminalizzazione di Askatasuna si sono presi qualche settimana di vacanza, la destra ha fatto sfoggio di un curioso garantismo affermando che gli imputati, seppur assolti, restano comunque dei “delinquenti”, dalla magistratura inquirente di complemento è venuta una lettera aperta a La Stampa dell’ex procuratore generale Saluzzo in cui si sostiene, come se nulla fosse successo, che «Askatasuna, almeno nelle sue espressioni di vertice, ha organizzato, diretto, guidato stagioni lunghissime di strategie, quasi di guerriglia, e attacco all’ordine democratico».
I fatti sono, di per sé eloquenti, ma qualche, pur sintetica, osservazione può essere utile.
Primo. Non è la prima volta che i processi per reati associativi politici si concludono (dopo anni) con assoluzioni piene. È al contrario, nel nostro paese, una regola (a cui si è fatto eccezione solo negli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso) iniziata subito dopo l’unità nazionale con una serie impressionante di processi nei confronti di socialisti e, soprattutto, anarchici caratterizzati da imputazioni mirabolanti e da lunghe carcerazioni e culminati tutti in assoluzioni piene a Roma, a Firenze, a Trani, a Bologna, a Benevento… Quella storia si è arricchita, in questo primo scorcio di secolo, di un numero e di una tipologia significativi di contestazioni di reati associativi che hanno investito sindacati (soprattutto nella logistica), movimenti per la casa, organizzazioni operanti per il salvataggio dei migranti e finanche Mimmo Lucano e gli amministratori di Riace, per concludersi poi con silenziose archiviazioni o con clamorose smentite in sede dibattimentale. Ma restiamo a Torino: da vent’anni è all’ordine del giorno la criminalizzazione del movimento no Tav, dell’area anarchica, dei movimenti degli studenti, dei centri sociali, nei cui confronti si è arrivati persino a evocare i fantasmi del terrorismo; e sempre, salvo un caso riguardante tre (sic!) “anarchici insurrezionalisti”, le accuse di reati associativi sono state smentite dai giudici in tutti i gradi di giudizio. Un andamento così costante non lascia dubbi: o gli organi investigativi (dai servizi sino ai pubblici ministri, passando per la polizia giudiziaria) sono straordinariamente incapaci e inefficienti o le associazioni (più o meno) sovversive contestate non esistono e sono state evocate strumentalmente per contrastare il conflitto sociale Delle due l’una. Lo scenario più plausibile è il secondo (con le connesse preoccupazioni per il futuro che ci aspetta), ma entrambe sono assai poco tranquillizzanti sullo stato di salute della nostra democrazia.
Secondo. La vicenda del processo ad Askatasuna e le molte analoghe che l’hanno preceduta dicono qualcosa anche sull’assetto del sistema giudiziario nel nostro Paese, che Governo e maggioranza si apprestano a riscrivere. Non sono mai stato – neppur quando ne facevo parte – un sostenitore acritico della magistratura, alle cui decisioni non ho talora lesinato critiche anche aspre. Tuttora credo che le pronunce dei giudici siano dei documenti proposti alla attenzione vigile della opinione pubblica e non tavole della verità intangibili. Ma i fatti dimostrano, tanto più in questa temperie politica, che di giudici e di pubblici ministeri soggetti soltanto alla legge (come vuole l’articolo 101 della Costituzione) abbiamo assolutamente bisogno. Può accadere che i giudici sbaglino ma, se lo fanno, è meglio che ciò avvenga per inadeguatezze o errori propri e non per imposizioni altrui. E, quanto ai pubblici ministeri, inevitabilmente a metà tra poliziotti e giudici, è preferibile che non accentuino una curvatura poliziesca che già oggi li condiziona in modo significativo. Sarebbe opportuno che non lo dimenticassero politici, opinionisti e avvocati democratici.
Terzo. C’è, infine, una lezione anche per la politica e per il governo delle città. Il conflitto sociale e politico è, sempre più, l’ossessione dei benpensanti e la richiesta di repressione esemplare dei ribelli e di chiusura dei centri sociali ne è una manifestazione classica, cavalcata da una destra dimentica dei propri “scheletri nell’armadio”, anche quando – come negli ultimi anni – il conflitto è di bassa intensità, soprattutto se comparato con quello di epoche passate o di paesi vicini. È quanto sta avvenendo a Torino, dove persino il progetto della Giunta comunale, concordato con il collettivo di Askatasuna e altre realtà del territorio, finalizzato a trasformare il centro sociale in un bene comune a disposizione della cittadinanza, è oggetto di attacchi e contestazioni furibonde della destra, a cui si sono spesso associati settori della magistratura inquirente e sindacati di polizia. È un atteggiamento sbagliato e miope che disconosce il ruolo dei centri sociali come luoghi di aggregazione e di politicizzazione di schegge sociali altrimenti incontrollabili (come osservava lucidamente, già nel 1999, Rossana Rossanda) e confonde il perseguimento della legalità (che, in situazioni complesse, richiede necessariamente percorsi accidentati) con l’intolleranza. Mai come oggi vale il richiamo di un giurista attento e rigoroso come Francesco Palazzo, secondo cui «un diritto penale che vede nemici ogni dove rischia di accreditare l’immagine di una società percorsa da una generalizzata guerra civile, contribuendo così a fomentare una conflittualità, anzi uno spirito sociale d’inimicizia, che è del tutto contrario alla sua vera missione di stabilizzazione e pacificazione della società». Anche in questa prospettiva la sentenza del Tribunale di Torino merita di essere considerata e studiata.
Torino: ritorsione di Digos e Procura. Otto misure cautelari a giovani compagni e compagne
Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000
News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp