Tag - lotte sociali

NO allo sfratto di casa Galeone!
Riceviamo e volentieri pubblichiamo il comunicato di Casa Galeone, realtà delle Marche sotto sfratto IL GALEONE IN TEMPESTA Nel 2022, venuti a conoscenza delle intenzioni di sfratto della proprietà nonostante non fossimo mai stati morosi e sussistessero noti accordi con il legittimo proprietario Arnaldo Natali, spalle al muro abbiamo deciso di opporci agli sfratti in sede processuale, forti delle nostre ragioni e delle evidenze che credevamo incontestabili. Ci siamo imbarcati in un’impresa costosa, lunga e complicata su un terreno ostile che non è mai stato il nostro. In tribunale ci siamo sempre andati o perché trascinati dalle guardie o per sostenere compagni/e inguaiati/e con la legge. Mai volontariamente a cercare “giustizia”. E così doveva rimanere. Una volta saliti su questo carrozzone siamo stati travolti da schemi che ci hanno obbligato a contrarre la nostra attitudine al conflitto, sovradeterminando le nostre pratiche e sottraendo energia alle lotte e ai progetti per dedicarci alla raccolta fondi perché, a differenza della proprietà che ha a disposizione fondi illimitati piovuti dal cielo, noi possiamo contare solo sulle nostre forze e sulla solidarietà dei nostri compagni e delle nostre compagne. Il 12/02/2025 nel giudizio n.r.g. 225/2024 la Sezione specializzata agraria del tribunale di Macerata ha emesso la sentenza in merito al procedimento sulla supposta finita locazione dell’immobile abitativo decretando l’obbligo del rilascio non oltre il 31 Maggio 2025. Con la stessa ci condannano, inoltre, al pagamento delle spese legali sostenute dalla proprietà e al pagamento degli affitti non versati dal 2023 ad oggi. Tutte le nostre richieste in merito alla natura del contratto, di fatto agrario e non di civile abitazione, e soprattutto a quelle relative a un importante controcredito che vanteremmo in seguito ai numerosi e dettagliati lavori di ristrutturazione sono state rigettate malamente. Il 22/11/2024 nel giudizio 1119/2022-535/2023 r. g. vertenti, la corte d’appello d’ Ancona respinge il nostro ricorso condannandoci al rilascio della terra liberandola tempestivamente di ogni soprassuolo e ovviamente siamo stati anche condannati a rifondere spese legali e canoni. Abbiamo infine ricorso in cassazione sperando che, non essendo ancora andato in giudicato, avrebbe “puntellato” l’impianto delle nostre istanze in merito alla questione abitativa. Un disastro. Abbiamo infine offerto in extremis, per l’acquisto della casa, una cifra spropositata. Molto più alta del reale valore dell’immobile. Una cifra a cui, solo una manciata di mesi prima, la proprietà ci aveva chiesto di arrivare per la sua cessione e alla quale abbiamo ricevuto come risposta un laconico: “non esistono i presupposti per improntare una qualsivoglia trattativa”. Che tradotto probabilmente significa: “piuttosto la bruciamo”. Che vi fosse un problema ideologico di fondo lo aveva candidamente confessato il loro avvocato, tale Michelangelo Seri di Civitanova Marche, dobbiamo dire a tratti più realista del re, che probabilmente dietro mandato della Luna srl ha cercato, nelle varie udienze, di inserire la questione politica e morale nel dibattimento. In particolare, durante le mobilitazioni in solidarietà dell’anarchico Alfredo Cospito ha millantato la nostra “pericolosità sociale” perché protagonisti di un’esperienza agricola comunitaria di stampo libertario, arrivando poi a ridicolizzarsi nel tentativo di stigmatizzare come esotico e ambiguo il nostro modello di vita in comune, e definendo inoltre “fantasie agresti” le nostre pratiche contadine. Probabilmente il problema nasce quando, la non ancora erede Miriam Natali, durante una visita a Casa Galeone accompagnata dal fido Lino Sopranzi, commercialista con delega di amministratore di sostegno del vecchio Arnaldo oramai infermo, si imbatté nel nostro frigorifero a doppia anta. Sicuramente l’elettrodomestico che più di tutti gli altri manifesta il suo Antifascismo. Secondo il loro terzista pare che alla vista di tutti quegli adesivi colorati e inequivocabili, ne sia uscita particolarmente turbata... Il famoso problema ideologico di fondo. Non vogliamo negare né la profonda tristezza, né la grande rabbia per questo sopruso, né l’oggettiva difficoltà a coprire le spese legali. Sappiamo che difficilmente gli spazi di casa nostra saranno nuovamente abitati perché sull’immobile pendono una serie di vincoli oltre che una frana attiva che dovrebbero dissuadere anche il più sprovveduto acquirente, e quindi questi spazi così pieni vita, progetti, disagio, ricordi sono destinati all’abbandono, al silenzio. Sappiamo che a breve la nostra terra che abbiamo trasformato da un campo arido e avvelenato in luogo fertile e ricco di biodiversità verrà riconsegnata all’agroindustria che in una sola stagione procederà allo sterminio dei micro-ecosistemi che vi erano rinati. In questi giorni stiamo cercando disperatamente un altro posto dove continuare il progetto di casa galeone ma non è semplice. Per niente. Non è semplice immaginare un altro luogo dove ricominciare, organizzare un trasloco in odore di esodo, asportare tutti gli impianti e le migliorie approntate in questi anni, immaginare che una nuova bimba possa nascere proprio nei giorni dello sfratto e pensare di abbandonare un luogo a cui abbiamo dato così tanto e che così tanto ci ha dato. Non è semplice. Noi comunque non molliamo e i conti non si chiuderanno di certo così. Non riusciamo ad immaginare un altro modo di vivere e di lottare. Vorremmo concludere citando testualmente il presidente della commissione speciale agraria del tribunale di Macerata quando per richiamare a gran voce gli avvocati e i suoi colleghi alla lettura dell’ultima sentenza dice: ADESSO TOCCA AGLI ANARCHICI       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000 > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
lotte sociali
sgombero
centri sociali
Napoli: Intimidazioni poliziesche al corteo in solidarietà palestina
A Napoli ai margini del corteo organizzato per chiedere la fine del genocidi0 palestinese e la immediata liberazione di Ali, Anan e Mansour, due attivisti del Laboratorio Politico Iskra sono stati fermati e identificati dalla Digos. Cresce il clima di intimidazione nei confronti di chi scende in piazza al fianco della resistenza palestinese, smascherando le complicità dell’imperialismo italiano nel genocidi0 in atto, denunciando la corsa al riarmo, di cui il governo Meloni è assoluto protagonista, e l’instaurazione di uno stato di polizia funzionale allo scontro inter imperialista. E’ chiaro l’intento intimidatorio della questura partenopea, ma i compagni/e hanno ribadito la volontà di continuare a lottare con ancora maggiore convinzione, con una maggiore organizzazione nei nostri quartieri, sui posti di lavoro, nelle scuole e nelle università per porre fine allo schifo quotidiano. Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
lotte sociali
Intimidazioni poliziesche a Busto Arsizio
Volantini e locandine sequestrati, minacce e gomme dell’auto tagliate: cronaca di un fermo di Polizia a Busto Arsizio. Assemblea contro la guerra Nella notte di venerdì 28 marzo, intorno alle 01:15, tre compagni sono stati fermati nel centro di Busto Arsizio da una pattuglia della Polizia di Stato. Gli agenti sono arrivati in modo irruento, urlando dal finestrino prima ancora di scendere dall’auto e chiedere immediatamente i documenti. Uno dei fermati non aveva con sé la carta d’identità, che si trovava all’interno di un’auto parcheggiata poco distante. Dopo l’arrivo di altre due pattuglie, due dei compagni (quello senza documenti e il conducente) sono stati accompagnati all’auto, mentre il terzo è stato portato al commissariato all’insaputa degli altri, non prima di essere perquisito corporalmente. Raggiunta l’auto, i documenti sono stati consegnati, ma è seguita una perquisizione del veicolo e il sequestro di volantini e locandine inerenti al corteo contro la guerra del 5 aprile, oltre ad altro materiale informativo. Terminata la perquisizione, alla quale hanno assistito quattro agenti, i due compagni sono stati fatti salire su una delle pattuglie presenti e portati al commissariato, dove hanno raggiunto il terzo compagno già trasferito in precedenza. Sono rimasti chiusi in una celletta per oltre un’ora, prima di essere rilasciati con verbali di sequestro del materiale e una denuncia per “porto di armi od oggetti atti ad offendere” a causa di un coltellino svizzero consegnato durante la perquisizione. Ci teniamo a sottolineare come il semplice coltellino svizzero sia stato classificato nel verbale come un coltello con lama a scatto. Dopo il rilascio, intorno alle 03:30, una volta tornati all’auto, ironia della sorte, si potevano notare le due gomme posteriori completamente a terra. La mattina, il gommista al quale è stata portata l’auto ha confermato che le gomme presentavano tagli netti, compatibili anche con il taglio di un coltello con la lama piccola, simile a quella dei coltellini svizzeri multiuso. Nonostante ciò, non ci faremo intimidire. Vogliamo rendere pubblico quanto accaduto, senza vittimismo, per evitare che questi fatti restino confinati tra chi li compie e chi li subisce. Quanto accaduto è solo un tassello di un quadro più ampio, in cui le forze dell’ordine esercitano il monopolio della violenza con sempre maggiore impunità. Siamo immersi in un delirio securitario, dove ogni pretesto è buono per restringere le libertà, soffocare il dissenso e normalizzare l’abuso di potere. Il controllo capillare, la repressione crescente e questo tipo di intimidazioni non sono eccezioni, ma il sintomo evidente di un sistema che punta a limitare il più possibile ogni forma di dissenso e protesta. Anche per questo rilanciamo il corteo del 5 aprile a Busto Arsizio e invitiamo tutti e tutte a partecipare per dimostrare che, nonostante minacce e intimidazioni, continueremo a scendere in piazza e a lottare per un mondo libero da guerre, disuguaglianze sociali, sfruttamento e oppressione. Contro la guerra e ciò che la rende possibile NO REARM EUROPE – NO all’ECONOMIA di GUERRA – NO DDL1660 – NO alla NATO – PALESTINA LIBERA! Sabato 5 Aprile ore 15:00 Piazza Garibaldi CORTEO     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
lotte sociali
Milano: provvedimenti contro attivisti di Ultima Generazione per il blitz al ristorante Cracco
Blitz da Cracco di Ultima generazione, provvedimenti per 12 attivisti Il questore di Milano, Bruno Megale, ha emesso sette avvisi di avvio del Foglio di via obbligatorio dalla città di Milano, due Fogli di via obbligatori e undici Dacur (divieto di accesso nei locali pubblici) nei confronti di 12 persone, che hanno posto delle azioni di protesta nel ristorazione “Cracco”. Il 19, 23 e 26 marzo, al ristorante “Cracco”, in Galleria Vittorio Emanuele II a Milano, appartenenti al movimento ambientalista “Ultima Generazione” – spiega la Questura – dopo aver effettuato una consumazione all’interno del locale, hanno esposto uno striscione recante la scritta “Ultima Generazione – Il Giusto prezzo” per poi sedersi per terra e occupare la sala del ristorante, opponendo resistenza passiva. I provvedimenti dell’avvio del Foglio di via obbligatorio sono per quattro italiani di 71, 52, 42 e 29 anni e per tre italiane di 32, 26 e 21 anni. I due Fogli di via obbligatori, della durata di due anni, sono stati notificati a due italiane di 30 e 29 anni. Invece, i Dacur sono stati emessi nei confronti di 11 italiani.     Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
lotte sociali
«Askatasuna a delinquere». I nodi del maxi-processo
Il teorema. La tesi dei pm: nel centro sociale c’è un nucleo che ha il solo fine della violenza. La risposta delle difese: cancellate le ragioni politiche, sotto accusa è il conflitto. Alla sbarra un’intera stagione di movimenti: per Torino si inizia dal G8 dell’Onda del 2009, per la Val Susa dal 2011. La storia scritta a colpi di indagini di Giansandro Merli da il manifesto Due anni di indagini, ventotto rinvii a giudizio, settantadue capi di imputazione, migliaia di ore di intercettazioni telefoniche e ambientali, una sola tesi: dentro il centro sociale Askatasuna è stata costituita un’associazione a delinquere. «Un’associazione a delinquere, con organizzazione verticistica, capillare distribuzione dei ruoli e dei compiti tra i vari partecipanti, basi logistiche ed operative, avente come programma il compimento di azioni violente in occasioni di iniziative di protesta», scrive la procura di Torino nella memoria depositata a conclusione del processo di primo grado di cui è attesa la sentenza lunedì prossimo. Complessivamente sono stati chiesti ottantotto anni di carcere. Secondo i pm i vertici dell’organizzazione, composta da sedici degli imputati, sono Giorgio Rossetto, il leader indiscusso, e Guido Borio, l’ideologo. Si tratta di due figure storiche dell’antagonismo torinese. Insieme agli altri associati poggerebbero su diverse «basi»: i centri sociali Askatasuna e Murazzi, lo Spazio Popolare Neruda, l’info shop Senza Pazienza a Torino; il presidio dei Mulini e quello di San Didero in Val Susa, nei pressi del cantiere Tav. LE INDAGINI VERE E PROPRIE si sono svolte tra il 2019 e il 2021 ma la ricostruzione parte da molto prima. Durante la sua lunga deposizione il testimone chiave dell’accusa, un funzionario della sezione terrorismo della digos torinese, ha spiegato che nell’autunno di sei anni fa gli uffici della questura hanno notato come tra i vari scontri di piazza del biennio precedente si potessero registrare protagonisti e metodologie comuni. Usando quegli elementi come un setaccio gli inquirenti sono andati a ritroso fino a stabilire due eventi a monte dell’associazione a delinquere: per Torino il G8 dell’università di maggio 2009, con le proteste del movimento studentesco dell’Onda; per la Val Susa le mobilitazioni scoppiate nel 2011. Secondo la procura «l’elaborazione e l’attuazione del programma criminoso» si deve far risalire addirittura agli inizi del 2000, periodo in cui comincia «la diffusione del piano da parte degli ideologi» e cresce «il livello dello scontro con le forze dell’ordine». A sostegno di questo impianto è finita nel processo un’intera stagione di movimenti dentro e fuori il capoluogo torinese. Gli eventi in cui si sono verificati disordini sono stati divisi in quattro gruppi: manifestazioni in città, di varia natura; cortei del primo maggio, con le rituali tensioni intorno allo «spezzone sociale»; scontri all’università con le fazioni di estrema destra; soprattutto: marce e attacchi al cantiere Tav. Sono queste, per l’accusa, le «azioni di esecuzione del programma». Un programma che consiste nel «portare avanti la lotta violenta, mantenendo alta la tensione con le Forze dell’Ordine, che sono viste come la “prima linea” dello Stato da combattere». I MILITANTI DEL CENTRO SOCIALE non hanno mai fatto segreto, nemmeno in sede processuale, della loro concezione del conflitto che prevede anche l’uso della forza in determinate dinamiche di massa. Del resto, piaccia o meno, i disordini esplodevano secondo forme e modalità simili a quelle incriminate anche prima dell’occupazione del numero 47 di corso Regina Margherita e così continuano a ripetersi ben oltre il suo raggio d’azione geografico. I pm, però, sostengono che a Torino e in Val Susa dipendano tutti dal nucleo interno ad Askatasuna e non siano un mezzo di azione politica ma il fine stesso di attività di natura esclusivamente criminale. «La riqualificazione dell’iniziale ipotesi di associazione sovversiva in associazione a delinquere aggravata mostra il tentativo di cancellare le finalità ideali e politiche dei militanti del centro sociale, rappresentati come meri delinquenti mossi da una specie di istinto alla violenza», afferma l’avvocato Claudio Novaro, membro del collegio difensivo. Per il legale le indagini si sono basate su categorie interpretative ignare «dei codici, dei linguaggi e della sintassi politica di movimenti sociali e aree antagoniste». Così le interviste rilasciate dai «capi», le riflessioni intercettate e trascritte, i contenuti pubblicati su Facebook o sui canali indipendenti diventano formulazioni di uno specifico programma di reato. Salvo poi dover ammettere, ad esempio, che uno dei vettori di diffusione di tale piano sarebbe una trasmissione su Radio Blackout condotta da una persona nemmeno imputata. Secondo una logica analoga, quelli che normalmente si definiscono quadri di una struttura politica diventano «collaboratori in posizione dominante» dell’associazione e i militanti del centro sociale «esecutori materiali» dei crimini. A DIMOSTRARE IL SODALIZIO ci sarebbe anche l’esistenza di legal team e casse di resistenza. Ma l’analogia con organizzazioni di ben altra caratura, come quelle che garantiscono il reddito ai familiari dei membri arrestati, hanno difficoltà a reggere. Le risorse «derivanti da attività lecite» – tra queste: agnolottate, polentate, aperitivi, serate musicali, il festival Alta Felicità – sono infatti generate grazie alla partecipazione volontaria di decine e decine di persone e restano a disposizione di militanti che non sono inclusi nell’ipotesi associativa. Un funzionamento quanto meno singolare per un’associazione a delinquere. Anche perché gli inquirenti hanno potuto solo ipotizzare che quei soldi siano stati usati per l’acquisto delle strumentazioni utili a creare disordini – fuochi d’artificio, materiale esplodente, bastoni – visto che non hanno trovato prove. Tutto il progetto criminoso, dicono ancora i pm, si baserebbe sulla «sofisticata strategia» di nascondersi dietro iniziative sociali, tra le quali: contrasto alla precarietà abitativa, promozione dello sport popolare, distribuzione di cibo e tamponi durante il lockdown, corsi di italiano per stranieri, aiuto agli sfrattati. Unico scopo di queste variegate attività, cui ancora una volta partecipano molti più soggetti di quelli rinviati a giudizio, sarebbe «procurare [all’associazione, ndr] il sostegno di una parte dell’opinione pubblica» per proteggere le azioni violente. QUESTI ELEMENTI hanno spinto le difese a contestare alla base la tesi della procura: il processo non è contro uno specifico nucleo criminale ma a tutto il centro sociale Askatasuna e al movimento No Tav. A dimostrarlo anche le enormi richieste di risarcimenti avanzate dalle parti civili: una provvisionale di un milione di euro dalla Telt, società italo-francese che sta costruendo l’alta velocità, e 6,7 milioni dall’avvocatura dello Stato, a nome dei ministeri di Interno e Difesa, per la gestione dell’ordine pubblico relativa al 2020-2021. In pratica agli imputati viene chiesto il conto di tutto ciò che è avvenuto nelle piazze torinesi e sulle montagne valsusine. Nella cifra monstre rientra anche l’attività info-investigativa. «Un’assoluta novità, dato che lo stesso danno patrimoniale dovrebbe ravvisarsi in qualunque reato», ha scritto sulle pagine di questo giornale il giurista Luigi Ferrajoli. Le richieste di risarcimento sono state invece elogiate lo scorso 25 gennaio dal consigliere laico del Csm Enrico Aimi, in quota Forza Italia, nel corso della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, poco prima che la procuratrice generale Lucia Musti affermasse che gli imputati di Askatasuna hanno «assunto la regia della mobilitazione violenta in Val di Susa» e «realizzato una struttura organizzativa complessa» per cui «è necessaria e opportuna una risposta dello Stato contro chiare finalità eversive, quantomeno di piazza». Due interventi che hanno sollevato la protesta del collegio di difesa: «Parole in contrasto con il valore del dubbio e la prudenza del giudizio, che entrano nel merito di una concreta vicenda giudiziaria e quasi ne anticipano l’esito», hanno scritto i legali in una lettera. MUSTI HA POI fatto riferimento a Torino come «capitale dell’eversione». Nella stessa città per fatti di un periodo analogo, il 2015 e 2016, era stata ipotizzata l’esistenza di un’altra associazione, qualificata come «sovversiva» anche in sede processuale. Alla sbarra erano finiti 18 militanti anarchici, molti legati all’occupazione Asilo, per invii di pacchi bomba e proteste contro il Cpr di corso Brunelleschi. La sentenza di primo e quella di secondo grado, ormai passata in giudicato, hanno escluso il teorema associativo e assolto anche per i reati specifici tutti gli accusati tranne uno. Vedremo come andrà a finire questo secondo filone processuale. Dal canto loro gli imputati di Askatasuna, con una dichiarazione spontanea resa in aula, hanno affermato di non riconoscersi «minimamente nel quadro caricaturale» dipinto dagli inquirenti e rispedito al mittente «l’equiparazione a disegni delinquenziali delle esperienze politiche e dei percorsi di lotta sociale che ha il fine di alimentare la costruzione giudiziaria, sociale e mediatica di un nemico pubblico». Nella sua memoria conclusiva, invece, l’avvocato Novaro ha avvisato: «Adottando criteri interpretativi quali quello posto a fondamento del presente procedimento si finirebbe per considerare alla stregua di associazioni per delinquere tutti i centri sociali della penisola». ********************* «Torino capitale dell’eversione». La storia scritta a colpi di indagini di Mario di Vito da il manifesto Torino è la capitale dell’eversione di piazza». Lo ha detto, il 25 gennaio scorso, durante la cerimonia d’apertura dell’anno giudiziario, la procuratrice generale Lucia Musti. Ce l’aveva con «i professionisti della violenza», cioè i militanti del centro sociale Askatasuna, punta di diamante del famigerato «movimento antagonista» che porta alle proteste «soggetti di minore età» ed «entra in condivisione con gruppi sani di cittadini che intendono manifestare pacificamente il proprio pensiero». La scena, a modo suo, ricorda il famoso discorso del «dottore» interpretato da Volonté e tratteggiato da Ugo Pirro per il famoso film di Elio Petri («Il popolo è minorenne, la città è malata…»), ma il presente è diverso dal passato e là dove una volta c’erano cittadini al di sopra di ogni sospetto oggi ci sono mucchi di carte anonime. Sono le inchieste che hanno toccato, con esiti non sempre trionfali, i movimenti sociali. O, per usare le parole di Musso, «l’eversione di piazza». È IN PIAZZA, in effetti, che comincia la storia di Torino capitale italiana delle inchieste sull’eversione. È il 4 aprile del 1998, in città almeno diecimila persone manifestano «contro la repressione» e le grandi vetrate del nuovo Palagiustizia in costruzione lungo corso Vittorio Emanuele vengono prese di mira dal corteo. Volano pietre a margine di una giornata di feroci tafferugli per i quali in otto saranno denunciati e poi processati per «devastazione e saccheggio», reato riesumato dai meandri più oscuri del Codice Rocco e che, nel 2001, tornerà di moda – sempre nelle aule di giustizia – per descrivere gli scontri durante il G8 di Genova. Ma perché quel 4 aprile a Torino si manifestava «contro la repressione»? La risposta riguarda uno degli eventi più tragici della storia torinese recente: il 28 marzo del 1998, l’anarchico Edoardo Massari, Baleno, si era impiccato con le lenzuola della branda della sua cella nel carcere delle Vallette. Si trovava lì in quanto elemento centrale dell’inchiesta del pm Maurizio Laudi su una serie di attentati a sfondo «ecoterroristico». L’11 luglio si suiciderà anche un’altra indagata: Maria Soledad Rosas, Sole. Il terzo, Silvano Pellissero, affronterà il processo e ne uscirà con una lieve condanna per reati minori. Un copione che da qui in avanti verrà messo in scena tante volte nel tribunale di Torino. FANNO FEDE, in questo senso, le numerose iniziative giudiziarie contro i No Tav: da quando, nell’agosto del 2011, una cinquantina di persone blocca un treno alla stazione di Avigliana e si prende una denuncia per interruzione di pubblico servizio fino all’ultimo processo contro Askatasuna, passando per manifestazioni non autorizzate, danneggiamenti vari ai cantieri dell’alta velocità, scontri con le forze dell’ordine. I denunciati si contano nell’ordine delle centinaia, ma poi facilmente dei processi si finisce con il perdere le tracce. Da un rivolo di questa storia prenderà le sue mosse Scripta manent, la madre di tutte le indagini contro la Federazione Anarchica Informale, sigla nata nel 2003 e che per gli investigatori italiani costituisce il nucleo più significativo dell’arcipelago insurrezionalista del terzo millennio. Il procuratore Roberto Sparagna impiega cinque anni per mettere insieme il suo castello accusatorio di 230 faldoni da centinaia di pagine ciascuno. Gli «oneri per le attività info-investigative» dell’impresa, dice il ministero della Giustizia, ammontano a 1.191.000 euro spesi dalla sola digos più altri 712.000 euro per la Direzione centrale della polizia di prevenzione. Il totale fa 1.912.000 euro. Il primo blitz, a inchiesta aperta, è del 6 settembre 2016, con sette arresti e otto indagati a piede libero. I fatti contestati riguardano un certo numero di pacchi bomba recapitati tra il 2003 e il 2007 e altri episodi come il ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo nucleare Roberto Adinolfi del maggio 2012, per il quale già sono detenuti Alfredo Cospito e Nicola Gai. All’apertura del processo gli imputati saranno ventitré in totale. Quando nel 2022 la Cassazione si occupa della vicenda, tra assoluzioni e condanne leggere, l’associazione a delinquere resisterà solo per tre persone, il numero minimo per cui si può configurare questo reato: Anna Beniamino, Cospito e Gai. I primi due, ancora oggi, sono ristretti in regime di 41 bis. GLI OCCHI degli inquirenti, ad ogni modo, guardano anche al passato remoto. Un anno fa, infatti, è stato riaperto il caso della Cascina Spiotta, la sparatoria del 1975 in cui persero la vita la fondatrice delle Brigate Rosse Margherita Cagol e il carabiniere Giovanni D’Alfonso. Le nuove indagini si sono concentrate soprattutto sulle impronte digitali di Lauro Azzolini su un documento rinvenuto durante una perquisizione del 1976. Tra antiche testimonianze e saggi sugli anni della lotta armata, alla fine si è arrivati al rinvio a giudizio di Azzolini, Mario Moretti, Renato Curcio e Pierluigi Zuffada (morto nel febbraio scorso). Alla seconda udienza del processo, che va in scena ad Alessandria, Azzolini però ha spiazzato tutti dichiarando che alla Cascina Spiotta era lui il secondo uomo rimasto ignoto per mezzo secolo, scagionando Curcio e Moretti. La sentenza non arriverà prima del prossimo autunno. Sul banco degli imputati siede la storia. Perché l’importante non è appurare i fatti, ma costruire un mito: quello della capitale dell’eversione.   Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
lotte sociali
Ravenna: sequestrato materiale militare. Era diretto in Israele senza licenza
Ottocento pezzi acquistati dall’azienda Imi Systems, che rifornisce l’esercito. Il porto romagnolo teatro di proteste e di blocchi dei portuali di armi e navi israeliane di Linda Maggiori da il manifesto Nel porto di Ravenna da oltre un mese è bloccato un carico di 14 tonnellate di componenti di armi diretto a Israele. In tutto ottocento pezzi metallici classificati come materiale d’armamento e diretti all’azienda israeliana IMI Systems Ltd che rifornisce l’esercito israeliano. Il sequestro d’urgenza risale al 4 febbraio scorso, effettuato dall’Agenzia delle Dogane e convalidato dal Gip. Una notizia finora passata sotto silenzio, senza comunicati stampa, giunta alla stampa locale solo ieri, quando il Tribunale di Ravenna ha esaminato la richiesta di dissequestro avanzata dall’avvocato Luca Perego che assiste la ditta Valforge di Lecco. Tutto è iniziato a metà 2024 quando la società lecchese, specializzata in fucina e stampa di articoli metallici, ha ricevuto un ordine di oltre 250mila euro dalla IMI Systems e a sua volta ha commissionato la fabbricazione dei pezzi a due aziende di Varese. LA VALFORGE PERÒ, come contesta la procura, non ha l’autorizzazione a esportare il materiale bellico, né è iscritta nel Registro nazionale delle imprese istituito presso il ministero della difesa. È stato quindi indagato l’amministratore unico della società. La linea della difesa sostiene che l’azienda non era a conoscenza della destinazione militare, essendo questi prodotti dalla «funzione indistinguibile», usati anche nel settore civile. Eppure la natura totalmente militare della Imi Systems e la classificazione dei pezzi come componenti militari avrebbe dovuto far sorgere sospetti già al momento dell’ordine. Ma a quanto pare non ne ha destato nessuno. Così la “merce” prodotta a Varese, dopo aver passato il “test di qualità” a Lecco, è stata trasportata tramite tir al porto di Ravenna, dove l’attendeva una nave incaricata dall’azienda militare israeliana e diretta in Israele. Ma qualcosa si è inceppato. Lo spedizioniere avrebbe chiesto all’azienda di Lecco di sottoscrivere una certificazione e, secondo quanto riferisce l’avvocato nel ricorso, l’azienda si sarebbe soltanto a quel punto resa conto della destinazione militare e avrebbe annullato la spedizione, cercando di far tornare a Lecco la merce. Nel frattempo però è intervenuta l’Agenzia delle Dogane con il sequestro. I container ora si trovano al Terminal container (Tcr) e il Tribunale del Riesame si è riservato alcuni giorni per esprimersi nel merito del ricorso. Non è la prima volta che Ravenna è crocevia di traffici militari. Nel 2023 una protesta aveva atteso il passaggio della nave israeliana Zim e nel maggio 2021 i sindacati del porto di Ravenna avevano bloccato il carico di armi per Israele, proclamando sciopero. «ABBIAMO a che fare tutti i giorni con tantissimi container – spiega un portuale – Ci accorgiamo degli armamenti solo se abbiamo una soffiata o se sono ben visibili. Ma se sono pezzi smontati chiusi dentro ai container non è facile sapere di che si tratta. Non credo che questo sia l’unico né l’ultimo carico di armi di passaggio nel porto di Ravenna». Un attivista del Coordinamento lecchese Stop al Genocidio e del Bds (la campagna Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni lanciata dalla società civile palestinese nel 2005) commenta: «La notizia è un’ulteriore dimostrazione del triste ruolo di aziende della Provincia di Lecco nell’esportazione di materiale di armamento a Israele sia nel 2023 che nel 2024 come riportano le statistiche del commercio estero dell’Istat e recenti inchieste di Altreconomia. Insieme all’Assemblea permanente lecchese contro le guerre, stiamo combattendo da mesi una lotta per raccogliere dati, denunciare e fermare queste produzioni di morte. Noi monitoriamo l’export autorizzato, che è già troppo, ma se a questo si aggiunge il traffico illegale di armi verso Israele il quadro è ancora più fosco». Per il 29 marzo è indetto un presidio in piazza a Ravenna contro il transito di armi nel porto. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
lotte sociali
Il ddl sicurezza torna alla camera. “c’è più tempo per mobilitarsi”
Il ddl sicurezza senza copertura finanziaria va in terza lettura alla Camera dei deputati. La ragioneria dello Stato chiede di emendare le norme assicurate finanziariamente solo per il 2024. di Eleonora Martini da il manifesto Le Commissioni Giustizia e Affari Costituzionali del Senato hanno approvato le cinque modifiche proposte dalla Commssione Bilancio al cosiddetto DDL Sicurezza, recependo la relazione della Ragioneria Generale dello Stato. Dato il mandato ai relatori a riferire in Aula. «Oggi abbiamo la certezza che il provvedimento deve tornare in terza lettura alla Camera», conferma ai cronisti il meloniano Marco Lisei che insieme alla senatrice leghista Erika Stefani è relatore del ddl Sicurezza anche in Aula al Senato. Il problema è “tecnico”: c’è un errore di date sulle coperture finanziarie evidenziato ieri in commissione Bilancio. Perciò per il momento la politica deve attendere. I DUE AZIONISTI di governo, infatti, la pensano diversamente, in merito: la Lega farebbe volentieri a meno perfino di un veloce pit stop e manderebbe il disegno di legge dritto sulla gazzetta ufficiale, se potesse. Al contrario, Fd’I si preoccupa anche di non scivolare in uno sgarbo istituzionale con il Quirinale che finora ha usato la sua moral suasion affinché siano modificate almeno le norme più a rischio di incostituzionalità (madri detenute e divieto di vendita delle Sim per i migranti). Ma ieri, in commissione Bilancio, la Ragioneria generale dello Stato ha sottolineato uno svarione che proprio non si può trascurare: in sei articoli diversi del testo le coperture finanziarie erano state previste fino al 2024. Troppo ottimismo, da parte dei ministri Nordio, Piantedosi e Crosetto che hanno depositato il ddl alla Camera nel gennaio 2024 e speravano di concludere l’iter di approvazione entro l’anno. Così ieri, la commissione Bilancio ha dato parere positivo al testo a patto di accogliere le sei modifiche richieste dalla Ragioniera generale dello Stato Daria Perrotta sul ddl, per il riallineamento delle coperture finanziarie, relativamente agli articoli 5 (benefici per i superstiti delle vittime della criminalità organizzata), 17 (assunzioni di polizia locale in Sicilia), 21 (body cam per la polizia), 22 e 23 (tutela legale di militari, agenti e vigili del fuoco), e 36 (apprendistato in carcere). Successivamente, con una votazione, le commissioni competenti Giustizia e Affari sociali in seduta congiunta hanno recepito l’emendamento, e così in Aula al Senato arriverà il testo corretto. A questo punto probabilmente nella seconda settimana di aprile, prima di tornare alla Camera. IL CAPOGRUPPO DI FI Maurizio Gasparri parla di «ritocchi tecnici», mentre Lisei spiega che per il partito della premier ci potrebbe essere anche qualche altra modifica (anche se non è detto che potrebbero arrivare successivamente in un decreto legge, unitamente alle norme per trasformare in Cpr le strutture per il rimpatrio di migranti di Gjader in Albania): «Noi siamo aperti a un provvedimento fatto bene che non abbia problematiche successive, se sono necessarie si fanno, ma vogliamo che sia il più perfetto possibile e nel minor tempo possibile». Contingentando i tempi in aula al Senato e con le procedure della terza lettura alla Camera, «l’importante – afferma Lisei – è che vada in Gazzetta nel minor tempo possibile». VICEVERSA PER la Lega «bisogna accelerare e non frenare – incita il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni – il governo non ha assolutamente intenzione di frenare ma di accelerare, perché lo ritiene un ddl fondamentale dell’agenda politica». E per la relatrice Stefani il provvedimento è uno «strumento per rispettare la legalità, combattere il degrado e la violenza nelle stazioni, le truffe agli anziani, le occupazioni abusive, gli attacchi alle Forze dell’ordine». Le opposizioni invece esultano per lo stop al «Ddl paura» e incassano la vittoria della «determinazione del Pd e delle altre forze di opposizione che hanno messo in luce le contraddizioni e i limiti del testo», come afferma il dem Andrea Giorgis. Mentre il capogruppo di Avs Peppe De Cristofaro affonda il dito nella piaga: «Quello del governo non è stato un errore di battitura ma di arroganza. Non hanno sbagliato a scrivere l’anno. Erano certi di chiudere entro il 2024, si sono trovati davanti il muro delle opposizioni e questo errore è la conseguenza della loro arroganza». > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
lotte sociali
Ferrara: Insulti e minacce in consiglio comunale contro gli attivisti in solidarietà con la Palestina
Lunedi 24 febbraio in consiglio comunale a Ferrara si discutevano tre mozioni sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Insulti e minacce agli attivisti di Ferrara per la Palestina Il comunicato di Ferrara per la Palestina: Il 24 marzo, a Ferrara, abbiamo contestato un Consiglio Comunale in cui si discuteva l’approvazione o meno di tre mozioni sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Tralasciando quella di un’unica componente della minoranza, isolata da tutti gli altri (sia maggioranza che minoranza), che pur avendo delle criticità, era la più “accettabile” sul tema, le altre due mozioni erano vergognose. Quella condivisa dalla più ampia minoranza aveva come richiesta cardine l’avvio di generiche attività di sensibilizzazione nella città, oltre che un’equiparazione discutibile tra le vicende del 7 Ottobre e l’occupazione pluridecennale sul suolo Palestinese. La più eclatante, però, è stata sicuramente quella della maggioranza: per la sua estrema generalità (es. “Si riconosce lo stato di Palestina”, ma non è chiaro con quali confini, secondo quali presupposti, con quali tempi e con quali azioni), superficialità storica (vedasi ciò che ho scritto di sopra per la minoranza, che però è solo una piccola parte del problema), e, soprattutto, il mancato riconoscimento del genocidio in corso. Il problema principale è che questa discussione si cala in un contesto cittadino parecchio pesante, soprattutto a causa della presenza di realtà sioniste, spalleggiate o formate da membri della maggioranza; per chiarezza, riporto alcuni episodi molto gravi (alcuni con risonanza quasi nazionale) verificatisi in poco più di un anno: Valditara contatta una scuola della città, dopo che degli attivisti palestinesi sono stati invitati in delle scuole a parlare di cultura palestinese: per ripristinare “l’equilibrio formativo”, vengono invitate a intervenire, obbligatoriamente, anche organizzazioni sioniste, che sono giunte al punto di negare l’esistenza di una cultura palestinese. Il sindaco (di maggioranza) invita e stringe la mano l’ambasciatore israeliano, accogliendolo con la massima cordialità e portandolo per la città, senza alcuna fattuale reazione della minoranza comunale. Un membro della maggioranza sbeffeggia in consiglio comunale i morti palestinesi, apparentemente meno importanti perché tanto “si riproducono come nutrie”. Nessuna parola, in consiglio comunale, è stata spesa dalla maggioranza su queste faccende, pur definendo i palestinesi, nella presentazione della loro stessa mozione,”propri fratelli, tanto quanto gli israeliani”. Durante la contestazione, durata veramente pochi minuti (e visionabile sia dai canali di Ferrara per la Palestina, che da testate giornalistiche locali, e anche dall’Ansa), la seduta è stata sospesa, e il sindaco si è lanciato ad espressioni violentissime verso noi manifestanti, arrivando a definirci “filo-terroristi” e invitando le persone palestinesi presenti a tornare “a casa loro”. Si è avvicinato ai manifestanti che reggevano uno striscione, faccia a faccia, mentre le FDO cercavano di scacciarli: probabilmente, lo ha fatto per provocarli ulteriormente. Un altro dettaglio rilevante è che il sindaco non è nuovo a provocazioni inappropriate di questo tipo: diverso tempo fa, durante un presidio in piazza in cui si contestavano situazioni simili a quelli riportate di sopra, tra tutti i posti in cui poteva passare aveva scelto proprio la piazza del presidio (per poi pubblicare poco dopo, celermente, un video, con modalità simili a quello uscito in questa circostanza, in cui si dipingeva come la vittima di contestazioni insensate). Nel frattempo, nel caos della contestazione in comune, tenutasi ieri, il vicesindaco, tronfio, filmava la situazione dall’area delle sedute comunali col suo telefono (era stato affermato poco prima che vi fosse il divieto di filmare, nelle aule, col telefonino). Ovviamente, dai video pubblicati dal sindaco, sono stati accuratamente rimossi i vari insulti rivolti ai manifestanti. Così come è stato omesso il fatto che, prima dell’inizio del dibattimento, le FDO abbiano provato a impedire l’ingresso delle persone (il consiglio comunale è uno spazio pubblico), fingendo che i posti fossero esauriti (su 100 posti eravamo forse una quarantina di persone).   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp    
lotte sociali
Scuola: “sbatti il prof in prima pagina”
Libertà di dissenso di nuovo sotto attacco nel mondo della scuola. Il caso di Gaia Righetto Gaia Righetto, insegnante precaria di Treviso e attivista, è stata messa sotto attacco con una campagna diffamatoria innescata dalla pubblicazione di un articolo sul quotidiano ‘La Verità’. L’accusa rivolta a Gaia riguarda il suo impegno politico, dalle lotte per la difesa del diritto all’abitare a quelle insieme ai migranti, fino a quelle per l’autodeterminazione delle donne e della comunità LGBTQIA+. L’insegnante è ora messa sotto esame da parte dell’Ufficio Scolastico Regionale, a seguito di un esposto presentato dal deputato leghista Rossano Sasso. Un’azione che rischia di influire sul suo futuro lavorativo. Al tempo stesso, alla diffamazione della destra sta rispondendo una forte reazione di solidarietà da parte della comunità scolastica e di numerosi cittadini. È stata infatti lanciata una petizione su Change.org dal titolo “Sbatti il prof in prima pagina: Basta con questo clima intimidatorio”, che vuole non solo esprimere solidarietà all’insegnante, ma anche denunciare una tendenza sempre più diffusa a colpire le lavoratrici e i lavoratori della scuola che esprimono opinioni considerate “scomode”. Il caso, però, non è isolato. Secondo l’insegnante si inserisce in un quadro più ampio di attacchi al dissenso e alla libertà di pensiero: “Si cerca di silenziare chi dissente attraverso campagne mediatiche diffamatorie”, ha dichiarato Gaia ai nostri microfoni. L’intervista di Radio Onda d’Urto a Gaia Righetto, docente e attivista. Ascolta o scarica > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
lotte sociali
Napoli: 5 fermi durante le proteste dei “disoccupati 7 novembre” per chiedere garanzie e lavoro
Fermati e portati in Questura a Napoli 5 attivisti dei “Disoccupati 7 novembre”.  Erano impegnati nella protesta davanti alla sede dell’Assessorato ai Giovani quando è avvenuto uno sgombero. I disoccupati partenopei manifestano da tempo contro l’immobilismo istituzionale sotto le bandiere del movimento 7 novembre e del Cantiere 167 Scampia: “C’è una tavolo nazionale che coinvolge Comune, Città metropolitana. Siamo in piazza da nove anni per garantire opportunità di lavoro continuativo a chi è uscito dal mercato del lavoro. Ci sono tutte le condizioni perché ciò si realizzi, ma è difficile credere alle istituzioni che ti chiedono di aspettare qualche mese, quando siamo qui da anni” denunciano dalla piazza. Vi proponiamo il collegamento di Radio Onda d’Urto dalla protesta con Eddy, del Laboratorio politico Iskra. Ascolta o scarica   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
lotte sociali