È iniziata il aprile a L’Aquila la sessione in Corte d’Appello del processo
all’attivista cisgiordano Anan Yaeesh, arrestato in Abruzzo con Alì Irar e
Mansour Doghmosh (e ancor oggi detenuto) per fatti accaduti a Tulkarem. Un
processo iniziato con palesi forzature ed arbitrii che conducono con ogni
evidenza a una “sentenza già scritta” Manteniamo alta l’attenzione sul processo
“Cara, sapevo che la Corte mi avrebbe attaccato fin dal primo minuto, come in
Israele, nessuna differenza. Ma io sono contento che sia successo perché vorrei
che tutti lo vedessero e imparassero come ci trattano in tutto il mondo. Ma non
temere, non siamo finiti, e verrà il giorno in cui noi saremo i giudici e avremo
il potere nelle nostre mani” (Da una lettera di Anan Yaeesh del 10 aprile)
È iniziato il 2 aprile a L’Aquila il processo in primo grado ad Anan Yaeesh, Ali
Irar e Mansour Doghmosh, per fatti che sarebbero accaduti a Tulkarem,
Cisgiordania occupata.
E’ iniziato con palesi forzature ed arbitrii che conducono con ogni evidenza a
una “sentenza già scritta”:
* sono state ammesse al dibattimento le “prove” raccolte dalle autorità
israeliane e dallo Shin bet sulla base di interrogatori svolti nei Territori
occupati, senza la presenza degli avvocati difensori e su cui grava “il
sospetto” – per usare un eufemismo – di torture;
* la lista dei testimoni della difesa è stata falcidiata (ammessi 3 testimoni
su 47 e per un unico imputato);
* il Giudice ha fatto sgomberare l’aula dalla presenza dei solidali dopo le
proteste contro il palese stravolgimento delle parole di Anan Yaeesh da parte
dell’interprete, egiziana.
* E’ stato fissato un calendario di udienze fittissimo per logorare la
solidarietà e far calare l’attenzione dei media su questo caso (16 aprile – 7
maggio – 21 maggio – 18 giugno – 25 giugno – 9 luglio).
Esigua o praticamente nulla era infatti la presenza dei giornalisti in aula
nell’udienza del 16 aprile, dove tra l’altro non compariva, negli schermi della
videoconferenza con cui era collegato Anan dal carcere, l’inquadratura sulla
difesa e sul pubblico, quasi a volergli negare un sostegno, anche solo visivo.
E così è proseguito il processo il 16 aprile. Un processo politico di cui si
dichiarava in maniera ossessiva la neutralità, evitando con pervicacia che si
parlasse del contesto violento e coloniale in cui si sarebbero svolti i fatti.
Uno scenario politico che nonostante gli sforzi per ostracizzarlo, è emerso
inevitabilmente, con la naturalezza che gli spettava già al primo testimone
palestinese dell’accusa:
* è bastato per lui fornire le proprie generalità (un palestinese di Sidone),
per scoprire che si trattava di uno dei 2 milioni di palestinesi cacciati via
dall’occupazione militare israeliana durante la prima nakba, nel ‘48.
Una farsa giudiziaria che si è disvelata per quello che è, man mano che gli
interrogatori andavano avanti, fino alle affermazioni del perito balistico,
chiamato a testimoniare dall’accusa sulla natura dell’arma visibile in una foto
dei tre imputati:
* si trattava di un’arma giocattolo, di plastica, e per giunta non funzionante
* Ma la reale natura di questo processo è emersa con forza dalla dichiarazione
spontanea di Anan (quella del 2 aprile è rimasta imprigionata in una
traduzione fedele ad Israele, piuttosto che alla sua testimonianza):
“Oggi non parlo della causa palestinese, ma parlo di altre cose, perché avete
chiesto che non dobbiamo fare entrare la politica nell’aula di tribunale. Però
io credo che siamo qua per una decisione politica e non giuridica”
[Il giudice interrompe, ripetendo ossessivamente che in aula si prendono solo
decisioni giuridiche e costringendo l’avvocato a intervenire. La difesa fa
notare che in una dichiarazione spontanea dell’imputato, non c’è la possibilità
di un confronto con la Corte. La Corte può non apprezzare quello che intende
dire l’imputato, ma lo deve lasciar parlare, poi magari potrà motivare in ordine
a quello che dice l’imputato, ma non può contestare quello che pensa l’imputato.
Il giudice interrompe ripetutamente anche la difesa, chiedendo se anch’essa la
pensi come l’imputato, e l’avvocato risponde giustamente che nel codice di
procedura penale non è ancora previsto l’esame del difensore. “Poi lo
controlliamo, ma penso di no” è la risposta con cui il giudice finalmente si
tace, prima di ridare la parola ad Anan].
“Io sono qua per un motivo politico, perché non ho commesso alcun reato contro
la legge italiana in Italia. Però rispetto la decisione di non far entrare la
politica dentro l’aula del tribunale. Perché voi usate la politica per
giudicarmi, perché se volete giudicarmi secondo la legge italiana dovete
considerare tutti i documenti e tutti gli atti della comunità internazionale che
voi riconoscete. E dovete considerare che tutti gli enti internazionali
riconoscono che nelle prigioni israeliane si pratica la tortura e le regole dei
diritti umani non vengono rispettate.
Però non avete preso in considerazione tutto questo. Avete preso invece in
considerazione la relazione politica tra il governo italiano e il governo
israeliano.
Signor giudice, voi non mi avete dato il diritto di difendermi. La stessa cosa
succede nei tribunali di Israele.
Avete preso in considerazione i testimoni dell’accusa e invece non avete preso
in considerazione la mia testimonianza.
Il procuratore ha usato dei documenti stranieri contro di me, però avete
rifiutato i documenti che ho presentato io e avete deciso di non sentire i
testimoni che ho proposto io, questo contro la legge in Italia.
E mettete fretta quando parlo io, e mettete fretta anche quando parla la mia
difesa.
Non volete darci il tempo che ci serve per parlare, come se, dopo l’udienza, io
tornassi alle isole Maldive e non in carcere.
Questo perché avete fretta di finire la causa invece di applicare la giustizia.
Sento di essere tanto oppresso, sento che sto subendo una grande ingiustizia in
questo tribunale. Come se fossi in un tribunale finto, come successo in Francia
contro gli algerini o come avviene in un tribunale militare in Israele.
Se quello che sento è giusto, significa che la mia condanna è già decisa.
Allora emettete la vostra condanna!
Non è necessario fare tutte queste udienze!
Così sconto quello che devo scontare in prigione tutto il tempo!
Se invece questo tribunale rispetta la democrazia e rispetta i vostri diritti
come umani, e se abbiamo il diritto come gli altri popoli di vivere in libertà,
allora dovete darmi i miei diritti come essere umano, perché abbiamo già subito
abbastanza oppressione dai vostri amici israeliani.
Dovete lasciarci in pace!
Viva la resistenza palestinese, fino alla libertà!”
Al termine dell’udienza del 16 aprile, la Corte si è riservata di deliberare,
nell’udienza del 7 maggio, sull’eccezione presentata dalla difesa, che ha
presentato una ricerca giudiziaria con l’obiettivo di dimostrare
l’inammissibilità dell’acquisizione dei verbali degli interrogatori dei
prigionieri palestinesi.
Il 21 maggio invece, dopo l’avvenuta traduzione delle chat ad opera di un perito
della Corte di Assise sui telefonini degli imputati, verranno ascoltati i testi
della Digos
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Tag - lotte sociali
Attivista del Lambretta fermato e portato in Questura a Milano.
Presidio da giovedì sera sotto la Questura di Milano, presso l’ufficio
immigrazione in via Montebello, dove è stato portato Ayoub, attivista del csa
Lambretta a seguito di un fermo arbitrario.
“Nonostante non sia stato colto in fragranza di alcun reato rischia l’espulsione
o la reclusione in un Cpr”, scrivono attivisti e attiviste milanesi che sono
tornati questo venerdì mattina a partire dalle 7 davanti alla Questura per
chiederne la liberazione.
Oggi il processo per direttissima a carico del 20enne di origini tunisine,
iniziata in mattinata l’udienza. Il collegamento dal presidio solidale con
Nassi, del csa Lambretta di Milano. Ascolta o scarica
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Il Questore dell’Aquila aveva emanato un decreto con cui vietava l’azione di
disobbedienza civile nonviolenta annunciata dal coordinamento Per il clima Fuori
dal fossile di Sulmona. Ma gli attivisti, che da oltre 17 anni portano avanti la
lotta contro l’inutile e dannosa centrale di compressione della Snam, hanno
deciso di infrangere il divieto e di attuare ugualmente il presidio pacifico
davanti all’ingresso del cantiere Snam. Per questo la Polizia, presente in forze
sul luogo, ha preso le generalità dei manifestanti che saranno tutti denunciati.
Il Questore aveva imposto che l’iniziativa si sarebbe dovuta svolgere lontano
dall’entrata del cantiere al fine di “non intralciare il traffico dei mezzi di
cantiere” e “non arrecare disturbo ai lavoratori”. Nel decreto si specificava
che, qualora il divieto non fosse stato rispettato, i trasgressori sarebbero
incorsi in responsabilità penali in base all’art. I8 delle Leggi di Polizia del
1931 che, nel caso specifico prevedono l’arresto fino ad un anno.
“Siamo pienamente consapevoli della responsabilità che ci assumiamo – hanno
dichiarato gli attivisti No Snam – e siamo pronti a risponderne di fronte alla
legge, una legge che peraltro risale al ventennio fascista e che la Repubblica
democratica nata dalla Resistenza in 80 anni non è stata ancora capace di
abolire. Ma proprio perché crediamo nello Stato di diritto riteniamo che nessuno
può considerarsi al di sopra della legge. Neppure la Snam”. Gli attivisti hanno
sottolineato che la protesta nonviolenta attuata oggi davanti all’ingresso del
cantiere della centrale ha lo scopo di mettere in evidenza le illegalità
compiute dalla multinazionale del gas: “La Snam ha aperto il cantiere senza
effettuare le prescrizioni ante operamstabilite dal decreto di Valutazione di
Impatto Ambientale; inoltre, i lavori sono continuati nonostante che
l’autorizzazione a costruire sia scaduta. La Snam ha distrutto con le sue ruspe
un bene storico e culturale di eccezionale valore, ovvero le tracce di un
villaggio di 40 capanne risalenti all’età del bronzo, 4200 annifa. La Snam ha
abbattuto illegalmente 317 alberi di ulivo che, invece, dovevano essere
espiantati e ricollocati altrove”. “Non si può accettare – hanno aggiunto – che
la Snam possa continuare ad agire in manera illegale, senza che nessuna autorità
intervenga per far rispettare le norme vigenti in materia di appalti, di tutela
dell’ambiente e di protezione delle emergenze archeologiche”.
“Dal momento che ogni nostro esposto alla Magistratura o segnalazione agli Enti
preposti non ha finora sortito effetti – ha dichiarato Mario Pizzola,
rappresentante del comitato ambientalista – non abbiamo altra strada che quella
della disobbedienza civile nonviolenta che, in realtà, dovrebbe essere
qualificata come obbedienza civile perché finalizzata al rispetto della
legalità”. “La nostra iniziativa di oggi – ha proseguito Pizzola – alla quale
seguiranno forme di lotta ancora più decise ma sempre rigorosamente nonviolente,
ha voluto anche mettere in risalto il carattere liberticida delle norme
contenute del cosiddetto “decreto Sicurezza” varato recentemente dal governo
Meloni. Tali norme, introducendo nuovi reati e aumentando le pene per reati già
previsti dal Codice Penale, peggiorano perfino le Leggi di Polizia ereditate dal
regime fascista. E’ evidente che il loro scopo è quello di ridurre le cittadine
e i cittadini in uno stato di sudditanza e di silenzio rispetto al potere
costituito. Ma la criminalizzazione del dissenso non potrà mai sopprimere le
idee, e le idee alla fine prevarranno”.
Intanto nei confronti di un attivista di Teramo attivo nei comitati No Snam un
giudice non ha accettato l’affidamento al lavoro per una condanna diventata
definitiva che dovra’ scontare arrivata per il corteo No Snam che si era tenuto
a Sulmona qualche anno fa. Il giudice ha motivato le restrizioni per le
“frequentazioni” e “l’attivita’ politica e sociale” dell’attivista.
Ai nostri microfoni di Radio Onda d’Urto Gigi del Campetto Occupato di Teramo
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La lettera aperta riguarda un articolo apparso su La Verità che riporta
affermazioni false e lesive della dignità e dell’immagine di Extinction
Rebellion e delle persone che manifestano con XR. La richiesta di smentita,
inoltrata alla redazione de La Verità, non ha ricevuto alcuna risposta, in
violazione della deontologia professionale e di quanto previsto dalla Carta dei
diritti e dei doveri dei giornalisti.
di Extinction Rebellion
Il 10 aprile scorso, il quotidiano La Verità ha pubblicato un articolo di Fabio
Amendolara, a corredo di un’intervista a Lucio Pifferi, capo
dell’Antiterrorismo. Nell’articolo si afferma che Extinction Rebellion sia un
movimento violento, riprendendo, senza alcuna verifica fattuale, il contenuto
del recente report della Polizia di Stato. Il testo dell’articolo recita: ‘Un
particolare attivismo è stato registrato dal movimento ambientalista Extinction
Rebellion, che ha organizzato azioni eclatanti in città come Bari, Bologna,
Milano e Torino. Le violenze durante queste manifestazioni hanno portato alla
denuncia di 114 attivisti.’
Nell’articolo in questione si parla di “violenze durante” le manifestazioni di
Extinction Rebellion, un’affermazione falsa che non rispecchia le modalità e lo
spirito con cui Extinction Rebellion agisce.
Extinction Rebellion è un movimento che ha la nonviolenza come principio
fondante, che mai si è macchiato di condotte violente di qualsivoglia natura.
Essere descritti come violenti, con un’interpretazione dei fatti lontana da
quanto realmente accaduto durante le manifestazioni di Bari, Bologna, Milano e
Torino, è una violazione della deontologia professionale del giornalista; ed è
qualcosa che ci sorprende e ci addolora, poiché la violenza è quanto di più
lontano dal nostro sentire e agire, profondamente nonviolento, pacifico e
saldamente ancorato ai principi democratici e costituzionali. Riteniamo inoltre
sia profondamente lesivo della dignità e dell’immagine pubblica del movimento e
delle persone ad esso aderenti.
Extinction Rebellion ha chiesto a La Verità di rettificare pubblicamente quanto
scritto da Fabio Amendolara, in accordo con quanto previsto dalla Carta dei
diritti e dei doveri dei giornalisti, senza ricevere alcuna risposta. Come già
era successo, purtroppo, l’estate scorsa, quando il 24 luglio, sulle pagine di
Repubblica Torino, venne pubblicato un articolo, firmato dalla giornalista Marta
Borghese, che citava come “episodi di violenza” nei confronti della stampa due
azioni di Extinction Rebellion nella sede RAI di Torino. Affermazioni false,
riportate in piazza dal presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Piemonte,
Stefano Tallìa, e riprese da Repubblica senza alcuna verifica su quanto
veramente accaduto.
Con la consapevolezza che una democrazia si può dire realmente tale solo se i
cittadini sono messi nella condizione di avere opinioni informate, accedendo a
notizie complete e verificate, Extinction Rebellion si affida al senso etico
della stampa italiana per ribadire ancora una volta che la nonviolenza è la
filosofia fondante del movimento, parte essenziale del suo DNA e la sua forza
più grande. Nonostante le proteste realizzate possano essere considerate
‘eclatanti’, nessuna delle persone che scende in piazza con XR può essere
etichettata come persona violenta. L’unico obiettivo è portare l’attenzione
sull’urgenza della crisi climatica e sulle responsabilità delle élite politiche
e finanziarie per le quali il profitto e la convenienza personale valgono più
della salute e della vita delle popolazioni.
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Carcerazione domiciliare di due anni per il referente del sindacato in lotta Si
Cobas di Modena, Enrico Semprini. Tale ordine riguarderebbe una condanna
collegata alle lotte No Tav ed alla partecipazione ad alcune iniziative di
protesta davanti alle fabbriche. Enrico Semprini non ha infatti ottenuto di pene
alternative alla detenzione domiciliare a seguito delle denunce per gli scioperi
e per l’attività svolta col sindacato al fianco di operai/e.
Enrico Semprini ai microfoni di Radio Onda d’Urto Ascolta o scarica
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Due settimane fa l’ennesimo processo per reati associativi – contro militanti
del centro sociale Askatasuna – si è concluso, a Torino, con un’assoluzione
piena. Dopo mesi di criminalizzazione ossessiva, la destra e i media mainstream
tacciono o cercano di rimuovere il fatto. Si tratta, invece, di una vicenda
illuminate sulle prospettive della repressione, sul ruolo della giurisdizione e
sulle tecniche di governo delle città.
di Livio Pepino da Volere la Luna
1.
Lunedì 31 marzo il Tribunale di Torino ha definito un processo a carico, tra gli
altri, di 16 militanti del Centro sociale Askatasuna e del movimento No Tav
tratti a giudizio per il delitto di associazione per delinquere.
Il dibattimento si è protratto per oltre due anni ed è stato preceduto da
(almeno) tre anni di indagini che hanno abbracciato più di due decenni
(l’associazione è contestata a partire dal 2009 ma tra gli elementi di prova
viene indicata addirittura un’intervista del 2001); nel corso delle indagini gli
imputati sono stati intercettati e controllati per anni e la loro vita è stata
setacciata e scandagliata nei minimi particolari; il procedimento è iniziato con
una contestazione di associazione sovversiva nei confronti di 86 indagati, per
16 dei quali la Procura ha chiesto l’applicazione della misura cautelare della
custodia in carcere; a seguito dell’intervento demolitore del giudice per le
indagini preliminari, il numero degli imputati e delle imputazioni è stato
drasticamente ridotto, ma 28 antagonisti sono stati comunque rinviati a giudizio
per 72 fatti specifici (soprattutto di violenza e resistenza a pubblico
ufficiale) e 16 altresì «per avere promosso, costituito, organizzato e
partecipato, insieme ad altre persone […], ad un’associazione finalizzata alla
commissione di una pluralità di delitti [principalmente violenze e resistenze a
pubblico ufficiale, violenze private e danneggiamenti], avvalendosi di una
struttura organizzativa (l’immobile occupato da Askatasuna, ndr) ove elaborare
il programma sovversivo ed organizzare le azioni violente […], con l’aggravante
della scorreria in armi per le campagne e le pubbliche vie»; all’esito del
dibattimento i pubblici ministeri hanno chiesto condanne per complessivi 88 anni
di carcere con riferimento a (quasi) tutti i capi di imputazione; le parti
civili (presidenza del Consiglio, ministeri dell’Interno e della Difesa e
società preposta alla costruzione della ferrovia ad alta capacità Torino-Lione)
hanno chiesto la condanna degli imputati a un risarcimento di 6milioni e 700mila
euro comprensivi, tra l’altro, del «costo dell’attività info-investigativa
svolta ai fini dell’individuazione dei responsabili degli illeciti, nonché con
riferimento alla spesa sostenuta a titolo di straordinari, indennità accessorie
e indennità di ordine pubblico corrisposte al personale impiegato per contenere
e limitare i manifestanti e i danni»; alla vigilia della camera di consiglio, in
sede di inaugurazione dell’anno giudiziario, la Procuratrice generale, con
chiaro riferimento al processo in corso, ha definito Torino «capitale
dell’eversione» mentre il rappresentante del Consiglio superiore della
magistratura si è complimentato con i ministeri competenti per la richiesta
risarcitoria; tutto il dibattimento e in particolare i suoi ultimi mesi sono
stati scanditi da attacchi inauditi della destra e della stampa mainstream nei
confronti degli imputati, del centro sociale Askatasuna e di chi semplicemente
invitava alla razionalità; ancora il giorno dell’udienza conclusiva il palazzo
di giustizia torinese è stato militarizzato, come se si fosse alla soglia di una
guerra civile.
Non, dunque, un processo tra i tanti, ma il processo politico più rilevante
degli ultimi vent’anni, nel quale la Digos e la Procura torinese hanno investito
uomini, tempo, mezzi, tecnologie e hanno messo in gioco la propria credibilità.
Ebbene, l’esito del dibattimento non poteva essere più netto: tutti gli imputati
sono stati assolti dal delitto di associazione per delinquere perché il fatto
non sussiste. Detto in altri termini, il teorema della Digos e della Procura
della Repubblica di Torino è stato spazzato via, sbriciolato (tanto che anche
per molti fatti specifici è intervenuta una assoluzione piena). I giudici lo
hanno detto in modo univoco: Askatasuna non è un’associazione per delinquere e
nessun gruppo eversivo ha operato al suo interno. Di più. A ciò si è arrivati
dopo un’attività di indagine spropositata il cui esito è stato un autentico
boomerang: non solo non è stata raggiunta la prova del reato, ma gli elementi
acquisiti ne hanno dimostrano in positivo l’inesistenza. E – merita aggiungere –
anche le richieste di risarcimenti milionari sono state totalmente disattese.
Certo, ci sono state alcune condanne (a pene complessivamente modeste) per
episodi di resistenza e violenza privata. Nessuno lo nega o lo contesta, ma non
c’è bisogno di essere fini giuristi per cogliere che l’associazione sovversiva e
l’eversione sono tutt’altra cosa.
2.
Incredibilmente – o, meglio, com’era prevedibile – il terremoto giudiziario non
è stato captato dai radar dell’establishment torinese (e non solo): i principali
organi di informazione hanno dato la notizia con taglio basso (e anzi
sottolineando, talora in prima battuta, le condanne per i reati minori), gli
opinionisti impegnati a tempo pieno nella criminalizzazione di Askatasuna si
sono presi qualche settimana di vacanza, la destra ha fatto sfoggio di un
curioso garantismo affermando che gli imputati, seppur assolti, restano comunque
dei “delinquenti”, dalla magistratura inquirente di complemento è venuta una
lettera aperta a La Stampa dell’ex procuratore generale Saluzzo in cui si
sostiene, come se nulla fosse successo, che «Askatasuna, almeno nelle sue
espressioni di vertice, ha organizzato, diretto, guidato stagioni lunghissime di
strategie, quasi di guerriglia, e attacco all’ordine democratico».
I fatti sono, di per sé eloquenti, ma qualche, pur sintetica, osservazione può
essere utile.
Primo. Non è la prima volta che i processi per reati associativi politici si
concludono (dopo anni) con assoluzioni piene. È al contrario, nel nostro paese,
una regola (a cui si è fatto eccezione solo negli anni ‘70 e ‘80 del secolo
scorso) iniziata subito dopo l’unità nazionale con una serie impressionante di
processi nei confronti di socialisti e, soprattutto, anarchici caratterizzati da
imputazioni mirabolanti e da lunghe carcerazioni e culminati tutti in
assoluzioni piene a Roma, a Firenze, a Trani, a Bologna, a Benevento… Quella
storia si è arricchita, in questo primo scorcio di secolo, di un numero e di una
tipologia significativi di contestazioni di reati associativi che hanno
investito sindacati (soprattutto nella logistica), movimenti per la casa,
organizzazioni operanti per il salvataggio dei migranti e finanche Mimmo Lucano
e gli amministratori di Riace, per concludersi poi con silenziose archiviazioni
o con clamorose smentite in sede dibattimentale. Ma restiamo a Torino: da
vent’anni è all’ordine del giorno la criminalizzazione del movimento no Tav,
dell’area anarchica, dei movimenti degli studenti, dei centri sociali, nei cui
confronti si è arrivati persino a evocare i fantasmi del terrorismo; e sempre,
salvo un caso riguardante tre (sic!) “anarchici insurrezionalisti”, le accuse di
reati associativi sono state smentite dai giudici in tutti i gradi di giudizio.
Un andamento così costante non lascia dubbi: o gli organi investigativi (dai
servizi sino ai pubblici ministri, passando per la polizia giudiziaria) sono
straordinariamente incapaci e inefficienti o le associazioni (più o meno)
sovversive contestate non esistono e sono state evocate strumentalmente per
contrastare il conflitto sociale Delle due l’una. Lo scenario più plausibile è
il secondo (con le connesse preoccupazioni per il futuro che ci aspetta), ma
entrambe sono assai poco tranquillizzanti sullo stato di salute della nostra
democrazia.
Secondo. La vicenda del processo ad Askatasuna e le molte analoghe che l’hanno
preceduta dicono qualcosa anche sull’assetto del sistema giudiziario nel nostro
Paese, che Governo e maggioranza si apprestano a riscrivere. Non sono mai stato
– neppur quando ne facevo parte – un sostenitore acritico della magistratura,
alle cui decisioni non ho talora lesinato critiche anche aspre. Tuttora credo
che le pronunce dei giudici siano dei documenti proposti alla attenzione vigile
della opinione pubblica e non tavole della verità intangibili. Ma i fatti
dimostrano, tanto più in questa temperie politica, che di giudici e di pubblici
ministeri soggetti soltanto alla legge (come vuole l’articolo 101 della
Costituzione) abbiamo assolutamente bisogno. Può accadere che i giudici sbaglino
ma, se lo fanno, è meglio che ciò avvenga per inadeguatezze o errori propri e
non per imposizioni altrui. E, quanto ai pubblici ministeri, inevitabilmente a
metà tra poliziotti e giudici, è preferibile che non accentuino una curvatura
poliziesca che già oggi li condiziona in modo significativo. Sarebbe opportuno
che non lo dimenticassero politici, opinionisti e avvocati democratici.
Terzo. C’è, infine, una lezione anche per la politica e per il governo delle
città. Il conflitto sociale e politico è, sempre più, l’ossessione dei
benpensanti e la richiesta di repressione esemplare dei ribelli e di chiusura
dei centri sociali ne è una manifestazione classica, cavalcata da una destra
dimentica dei propri “scheletri nell’armadio”, anche quando – come negli ultimi
anni – il conflitto è di bassa intensità, soprattutto se comparato con quello di
epoche passate o di paesi vicini. È quanto sta avvenendo a Torino, dove persino
il progetto della Giunta comunale, concordato con il collettivo di Askatasuna e
altre realtà del territorio, finalizzato a trasformare il centro sociale in un
bene comune a disposizione della cittadinanza, è oggetto di attacchi e
contestazioni furibonde della destra, a cui si sono spesso associati settori
della magistratura inquirente e sindacati di polizia. È un atteggiamento
sbagliato e miope che disconosce il ruolo dei centri sociali come luoghi di
aggregazione e di politicizzazione di schegge sociali altrimenti incontrollabili
(come osservava lucidamente, già nel 1999, Rossana Rossanda) e confonde il
perseguimento della legalità (che, in situazioni complesse, richiede
necessariamente percorsi accidentati) con l’intolleranza. Mai come oggi vale il
richiamo di un giurista attento e rigoroso come Francesco Palazzo, secondo cui
«un diritto penale che vede nemici ogni dove rischia di accreditare l’immagine
di una società percorsa da una generalizzata guerra civile, contribuendo così a
fomentare una conflittualità, anzi uno spirito sociale d’inimicizia, che è del
tutto contrario alla sua vera missione di stabilizzazione e pacificazione della
società». Anche in questa prospettiva la sentenza del Tribunale di Torino merita
di essere considerata e studiata.
> Processo Askatasuna: il crolla del “teorema”
> Processo Askatasuna: cade l’associazione a delinquere. una vittoria per le
> lotte sociali e per chi resiste in questo paese!
> Torino: ritorsione di Digos e Procura. Otto misure cautelari a giovani
> compagni e compagne
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Un pubblico processo per fare chiarezza sull’uccisione di Carlo che mai c’è
stato, il silenzio di grandi organizzazioni e il coraggio di infierire da parte
di un capitano dei carabinieri
di Haidi Gaggio Giuliani
Ho letto su Osservatorio Repressione l’articolo del 10 aprile Turchia, quando il
potere infierisce anche sui familiari delle vittime di Gianni Sartori, che
ringrazio: si ricorda ancora di me nonostante la mia latitanza (mi ha fermato il
tumore da qualche anno). La situazione in Italia non è drammatica come in altri
Paesi, comunque non bisogna sottovalutare alcuni segnali.
Tempo fa avevo ricevuto da parte di Amnesty International l’invito a
sottoscrivere un appello per Pedro Enrique, ucciso con otto colpi di pistola
mentre dormiva nel suo letto: “I tre assassini sono stati identificati come
poliziotti, ma sono ancora liberi e in servizio”. La colpa di Pedro Enrique è
stata quella di organizzare marce pacifiche nella regione di Bahia in Brasile
per denunciare la violenza sistematica della polizia nei confronti di giovani
neri. Sua madre Ana Maria si batte da anni per chiedere giustizia per
l’assassinio di Pedro Enrique. Sostieni la lotta di Ana Maria”. Giusto, ho
pensato. Un giovane uomo come mio figlio, ho pensato. Anch’io ho chiesto per
molti anni un pubblico processo che facesse chiarezza sulla sua uccisione, che
rispondesse ai molti dubbi rimasti. Amnesty però non ha mai organizzato in
sostegno una raccolta di firme e io non ho mai capito perché.
Certo, Pedro Enrique è stato ucciso nel suo letto mentre l’immagine di Carlo è
cristallizzata nel momento in cui, con un estintore vuoto tra le mani a più di
tre metri di distanza, “assale” una povera camionetta indifesa. Riparati dentro
la camionetta ci sono tre (qualcuno ha detto quattro) carabinieri armati, ma
questo si sottace. La sua uccisione viene rapidamente archiviata quando ancora
la “grande” informazione parla di ferite pregresse per i manifestanti massacrati
alla scuola Diaz: nel 2003 infatti per la “macelleria messicana” erano ancora
indagati i manifestanti che dormivano nella palestra e non circolavano notizie a
proposito delle torture nella caserma di Bolzaneto.
L’ archiviazione ha influito pesantemente, in seguito, vanificando i nostri
tentativi di ottenere un processo, sia in Italia che presso la Corte europea.
In cambio un altro processo è in corso: il signor Claudio Cappello, presente in
piazza Alimonda quel 20 luglio con il grado di Capitano, ha querelato il padre
di Carlo per aver usato parole poco rispettose nei suoi confronti in un paio di
interviste. Non ho mai approvato il linguaggio di mio marito, certe sue
interpretazioni. Sono convinta che riportare i fatti nudi e crudi, e le immagini
(tutte), sia sufficiente: le persone che ascoltano, se sono interessate, hanno
la capacità di giudicare autonomamente. Tuttavia penso che ci vuole coraggio per
infierire su un vecchio di ottantasette anni, che certamente non è uscito
indenne neppure lui dalla tragedia che ha colpito la famiglia.
Ma il signor Cappello è un Colonnello dell’Arma, il coraggio non gli manca.
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Cariche di polizia domenica 13 aprile all’uscita della TAZ (zona temporaneamente
autonoma) “Mutazioni” presso l’area dei capannoni abbandonati dell’azienda Kemia
Tau nel Torinese, nel comune di La Cassa. All’evento hanno partecipato 500
persone.
Nel primo pomeriggio c’è stato un tentativo di sgombero da parte delle forze di
polizia in tenuta antisommossa. Bloccata la strada principale, gli agenti hanno
danneggiato i veicoli di alcuni partecipanti al rave, con pneumatici forati e
vetri infranti. Le cariche e le manganellate sferrate dalla polizia a coloro che
uscivano dalla festa hanno anche provocato numerosi feriti.
Sequestrato l’impianto audio. Uno sgombero violento che si aggiunge a quello di
poche settimane prima, il 23 di marzo, ai danni dei partecipanti di una TAZ nei
pressi di Moncalieri, sempre nel torinese.
Il decreto anti-rave è stata la prima legge liberticida messa in campo dal
governo Meloni a poche settimane dal suo insediamento, nel dicembre 2022. Nello
specifico l’articolo 5 ha introdotto nel codice penale il delitto di “invasione
di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità
pubblica”.
La proibizione dei rave quindi – e più in generale la criminalizzazione di
iniziative culturali e sociali fuori dalle logiche della fruizione della movida
e del consumo – è stata giustificata all’interno del decreto con la scusante di
garantire la salute pubblica e l’incolumità personale. Pena: reclusione da tre a
sei anni e multa da euro 1.000 a euro 10.000.
“Ci sono state cariche a freddo”, come viene raccontato nella testimonianza ai
microfoni di Radio Onda d’Urto di un/una partecipante a cui è stata modificata
la voce. Ascolta o scarica
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All’altezza di piazza Baiamonti un grosso reparto di Polizia in assetto
antisommossa è intervenuto con le violente cariche spezzando il corteo in
solidarietà con la Palestina e procedendo al fermo di 7 persone che sono state
portate in Questura.
In migliaia, almeno 50mila secondo gli organizzatori, hanno risposto alla
chiamata delle organizzazioni palestinesi italiane, scendendo in piazza a Milano
al grido di: “Fermiamo la macchina bellica! Palestina libera!”.
Il corteo, partito da piazza Duca D’Aosta, chiede la cessazione del genocidio a
Gaza e della deportazione del popolo palestinese, così come lo stop della corsa
al riarmo e della repressione, per un chiaro messaggio all’UE, e al suo piano
militare da 800 miliardi di euro, nonché al governo italiano, fresco di
approvazione del decreto sicurezza.
In piazzale Baiamonti, una zona del centro vicina a Chinatown e a poche
centinaia di metri dalla stazione ferroviaria di Porta Garibaldi, la polizia ha
caricato violentemente il corteo. Sette persone sono state fermate. La
testimonianza di Umberto, della redazione di Radio Onda d’Urto. Ascolta o
scarica
Intorno alle 19, sarebbero state rilasciate 2 delle persone fermate, per le
altre 5 il rilascio dovrebbe avvenire in serata. Da piazzale Baiamonti il corteo
ha quindi annunciato la volontà di ripartire, in direzione Arco della Pace: la
strada però è bloccata dalla Celere. La corrispondenza di Siham, della redazione
di Radio Onda d’Urto Ascolta o scarica
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La Rete Mamme da Nord a Sud lancia un appello all’adesione e alla mobilitazione
contro la nuova fabbrica di esplosivi nel Lazio e contro la militarizzazione
dell’Europa.
Le fabbriche di morte finanziate con fondi pubblici dalla Commissione europea
rischiano di diventare presto realtà: apprendiamo con sgomento che la ex Simmel
Difesa, oggi Knds (gruppo franco-tedesco, con una capacità produttiva unica nel
mercato europeo ed un fatturato superiore ai 3 miliardi di €), ha presentato un
progetto per produrre nitro gelatina e polveri di lancio per proiettili ad uso
militare nello stabilimento ex Winchester di Anagni (dove paradossalmente oggi
si provvede al disinnesco dei proiettili scaduti).
Nel SIN valle del Sacco, zona altamente inquinata dai veleni del passato, mai
bonificata e senza adeguate strutture ospedaliere pubbliche, si progetta
l’ampliamento di un impianto insalubre con l’installazione di 11 edifici per
potenziare la filiera delle armi, aumentando il rischio di incidenti rilevanti e
raddoppiando i punti emissivi.
Knds dispone a Colleferro di uno dei più importanti stabilimenti per il
caricamento, per la produzione e per i test di munizioni e bombe. Con la nuova
linea produttiva della vicina sede di Anagni la società arriverà a fabbricare
fino a 3 tonnellate di esplosivo ogni giorno, con una produzione stimata di 150
kg di nitro gelatina l’ora.
Dopo il varo dei programmi europei e la visita allo stabilimento di Colleferro
del Commissario Thierry Breton nel 2023 al gruppo è stato letteralmente chiesto
di pianificate l’incremento della sua produzione per missili e proiettili di
artiglieria con cui riempire gli arsenali.
Il progetto per la nitro gelatina ad Anagni è funzionale a questo scopo e sta
rispettando i tempi del cronoprogramma anche grazie a un finanziamento
comunitario di 41 milioni di €. Anche se varato nel 2023, il programma di
rilancio della produzione di proiettili d’artiglieria fa parte integrante del
processo più generale di riarmo promosso negli ultimi mesi dalla Commissione EU.
La corsa agli armamenti è il male del secolo e l’UE vuole rilanciare l’industria
e il commercio bellico a discapito delle spese sociali: quante strutture, beni e
servizi sanitari si possono dare ai cittadini con 41 milioni di €? “Una fregata
multiruolo europea vale lo stipendio di 10.662 medici all’anno; un caccia F-35
equivale a 3.244 posti letto di terapia intensiva; un sottomarino nucleare
Virginia costa quanto 9.180 ambulanze.”
Dopo un lungo insistente martellamento mediatico il 4 marzo 2025 la Presidente
della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato il ReArm Europe,
un investimento militare da 800 miliardi di €, indebitando i Paesi, invece di
promuovere azioni per interrompere l’invio di armi nei diversi teatri di guerra
e per contrastare le drammatiche sfide sociali e climatiche del nostro tempo.
A quali vere esigenze risponde il ReArm, se ogni grande conflitto nella storia è
stato sempre preceduto da ingenti investimenti bellici? Di continuare le stragi
a Gaza e Cisgiordania, in tutto il Medio Oriente, in Sudan, Congo, Ucraina,
Yemen e in nuovi futuri scenari?
Come mamme da nord a sud diciamo con forza che non vogliamo più fabbriche di
morte! Non ad Anagni ed a Colleferro, né altrove.
Ci opponiamo al “sistema guerra”, ad ogni riarmo, alla propaganda bellicistica,
che ha accompagnato il ReArm Europe, ed al clima di paura che si vuole
diffondere nell’opinione pubblica. I giovani di ogni nazione e bandiera sono
doni non carne da cannoni. Non vogliamo che con quella polvere da sparo siano
armati cannoni, dilaniati giovani corpi, bambini, spezzate speranze, distrutte
città, avvelenati i territori, dove mancano ospedali, bonifiche, scuole.
Denunciamo e non accettiamo le ingerenze di militari e propaganda di guerra
nelle scuole per preparare i nostri figli a diventare cinici soldati domani:
vogliamo scuole e università che insegnino pace, collaborazione e convivenza in
questo mondo devastato. Le politiche di riarmo sono un fatto nazionale: facciamo
appello ai parlamentari, alla Regione Lazio, all’Amministrazione Provinciale di
Frosinone e ai Comuni di Anagni e Colleferro per fermare il progetto.
Lanciamo un appello di adesione e di mobilitazione a tutte le organizzazioni
pacifiste: basta fabbriche di armi! Se non fermiamo questo progetto, lasceremo
spazio ad un paese sempre più militarizzato, che sperpera soldi, sacrifica ogni
forma di vita e devasta l’unico mondo che abbiamo.
NO ALLE FABBRICHE DI MORTE E AI SIGNORI DELLA GUERRA!
SI ALL’ECONOMIA E ALLA FINANZA DI PACE E AD UN PROGRAMMA CONDIVISO PER SOSTENERE
IL DISARMO
La presentazione dell’appello a Radio Onda d’Urto con Ina della Rete Mamme da
Nord a Sud Ascolta o scarica
Segnala la tua disponibilità scrivendo a: MammeNoRiarmo@gmail.com
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