Vittoria dei lavoratori solidali con la Palestina al porto Fos-sur-mer di
Marsiglia, dove i portuali francesi della CGT si sono rifiutati di caricare 14
tonnellate di munizioni e pezzi di ricambio per fucili mitragliatori israeliani
su una nave cargo della compagnia ZIM diretta ad Haifa, Israele.
La nave è dovuta ripartire vuota di armamenti israeliani, e vuota farà tappa
sabato a Genova soltanto per un “rifornimento tecnico”. Anche nel capoluogo
ligure era stata annunciata una mobilitazione contro il genocidio e per la
Palestina dai portuali del CALP e dal sindacato di base Usb.
Alle 18 di questo venerdì la conferenza stampa dei portuali del CALP e di Usb
Porto. Posticipato invece il presidio a domani, sabato, alle 8 del mattino al
varco di Ponte Etiopia di Genova per “sorvegliare” i movimenti della nave.
L’aggiornamento di Radio Onda d’Urto con Josè Nivoi, del Collettivo Autonomo
Lavoratori Portuali di Genova e di Usb. Ascolta o scarica
> Genova: I portuali pronti a rifiutare di caricare il cargo di armi per Israele
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Tag - lotte sociali
I portuali in Francia si rifiutano di caricare il cargo di armi per Israele:
pronti al blocco anche a Genova. Dopo il porto di Marsiglia, il cargo israeliano
prevede un primo scalo a Genova e un secondo a Salerno, prima di tornare a
Haifa, da dove è salpato il 31 maggio
Una nave cargo israeliana dovrebbe approdare oggi al porto francese di
Fos-sur-Mer, vicino a Marsiglia, per imbarcare «in segreto 14 tonnellate di
pezzi di ricambio per fucili mitragliatori» destinati all’esercito israeliano,
hanno rivelato ieri il media d’inchiesta francese Disclose e il media irlandese
The Ditch.
Il sindacato dei portuali di Fos-sur-Mer ha reagito immediatamente. In un
comunicato pubblicato ieri, la sezione Cgt dei portuali ha avvertito che «il
container non sarà caricato sulla nave», perché gli operatori non intendono
«partecipare al genocidio in corso orchestrato dal governo israeliano». Il
container con i pezzi di ricambio per l’esercito israeliano «è stato
identificato ed è stato messo da parte», si legge nel comunicato, nel quale i
portuali affermano che «il porto di Marsiglia non deve servire ad alimentare
l’esercito israeliano».
“I lavoratori portuali del Golfo di Fos e Marsiglia non parteciperanno al
genocidio in corso orchestrato dal governo israeliano”. Così i sindacalisti
francesi della Confederazione generale del lavoro (CGT) annunciano il rifiuto a
caricare il cargo di armi destinato all’esercito israeliano, come rivelato
dall’inchiesta congiunta del sito investigativo Disclose e il media irlandese
The Ditch. “Ci hanno informato che giovedì 5 giugno avrebbero caricato dal
nostro porto pezzi di ricambio per mitragliatrici che l’esercito israeliano
utilizza per proseguire il massacro della popolazione palestinese – spiega il
più rappresentativo sindacato francese – siamo a favore della pace tra i popoli
e contro tutte le guerre, dopo aver avvisato datori di lavoro e autorità
competenti, siamo riusciti a individuare questo container carico di componenti
per munizioni prodotte dall’azienda marsigliese Eurolinks. I pallet sono stati
messi da parte e i lavoratori portuali non li caricheranno sulla nave diretta a
Haifa”.
Secondo Disclose, il cargo israeliano «Contship Era» dovrebbe caricare il
materiale bellico fabbricato dalla società francese Eurolinks a destinazione
dell’azienda di armamenti Israel Military Industries, una filiale di Elbit
Systems, «una delle principali industrie israeliane del settore delle armi» che
«fornisce munizioni di piccolo e grosso calibro all’esercito israeliano», scrive
il media francese.
Dopo l’operazione di carico a Marsiglia, la nave israeliana dovrebbe poi salpare
verso sud, facendo scalo a Genova e Salerno, prima di approdare a Haifa, nel
nord d’Israele.
La spedizione di materiale militare sull’asse Marsiglia-Israele sarebbe la terza
nel suo genere dall’inizio del 2025, riporta Disclose. La prima sarebbe avvenuta
il 3 aprile scorso, la seconda il 22 maggio. Entrambe le spedizioni contenevano
decine di tonnellate ciascuna di materiale per fucili mitragliatori, tra i quali
una serie di pezzi di ricambio «compatibili con il Negev 5», un fucile
«utilizzato a Gaza dall’esercito israeliano durante il ‘massacro della farina’»,
scrive Disclose, in riferimento all’uccisione di un centinaio di civili
palestinesi durante una distribuzione di aiuti alimentari il 29 febbraio 2024.
«Di fronte al genocidio l’unica risposta possibile è la disobbedienza civile»,
ha twittato l’eurodeputata de La France Insoumise Rima Hassan, attualmente
imbarcata sulla Madleen della Freedom Flotilla diretta a Gaza. «Ovunque nel
mondo, ci si organizza per lottare contro il genocidio a Gaza», ha scritto
Manuel Bompard, deputato Lfi di Marsiglia. La deputata comunista Elsa Faucillon
si è invece chiesta come sia possibile che la Francia permetta tali consegne,
mentre «la Spagna annulla i contratti di vendita delle armi a Israele», si legge
in un suo post su X.
La rivelazione di Disclose e The Ditch è l’ultima di una serie di inchieste
pubblicate dai media francesi negli ultimi due anni sulle vendite di armi a
Israele. Nel 2023, sempre Disclose aveva rivelato come la Francia avesse
autorizzato, alla fine del 2023, la consegna di almeno 100mila pezzi di ricambio
per fucili, suscettibili di essere utilizzati a Gaza.
L’anno scorso, a fine 2024, il giornale d’inchiesta Mediapart aveva pubblicato
un rapporto del governo sulle vendite di armi francesi a Tel Aviv. Il rapporto –
che era stato tenuto segreto – rivelava che nel 2023 la Francia aveva venduto
armi a Israele per un valore complessivo di circa 30 milioni di euro. Il governo
aveva rifiutato di chiarire se tali consegne fossero avvenute prima o dopo
l’inizio dell’offensiva su Gaza. Infine, sempre Disclose aveva pubblicato nel
giugno 2024 una serie di documenti segreti, che dimostravano come il governo
francese avesse «autorizzato la consegna a Israele di equipaggiamenti
elettronici per droni» utilizzati nei bombardamenti a Gaza, materiale fabbricato
dal gigante francese dell’armamento Thales.
Ricevuta dai colleghi francesi la comunicazione del carico di armamenti dal
porto di Marsiglia-Fos, il Collettivo dei lavoratori portuali di Genova (CALP),
sostenuto dall’Usb, ha convocato un presidio ai varchi “con l’obiettivo di
impedire l’attracco della nave ZIM Contship ERA”. Come ricostruito da Disclose e
The Ditch, il cargo israeliano prevede un primo scalo a Genova e un secondo a
Salerno, prima di tornare a Haifa, da dove è salpato il 31 maggio. “Ci opponiamo
fermamente a tutte le guerre e non vogliamo essere complici del genocidio che
continua a Gaza“, scrivono nel comunicato con il quale invitano la cittadinanza
a partecipare al presidio “a fianco di chi si mobilita contro le guerre
perpetrate dai nostri governi e in solidarietà alle vittime”.
Se giovedì verrà confermato il blocco del carico annunciato dai colleghi
francesi, i portuali di Genova sospenderanno il presidio. In ogni caso
rilanciano lo sciopero generale indetto per il 20 giugno per contestare le
stesse dinamiche. “La parola d’ordine dello sciopero sarà ‘Disarmiamoli‘, ed è
stato indetto proprio contro l’economia di guerra che stiamo vivendo, che genera
impoverimento dei lavoratori”, spiega José Nivoi, del Collettivo autonomo
lavoratori portuali e USB Mare e porti, impegnati da anni nel contrasto del
transito di armi dal porto di Genova.
La manifestazione del 20 giugno a Genova partirà dal varco di San Benigno. Il
giorno dopo i portuali hanno organizzato due pullman per unirsi alla
manifestazione nazionale, a Roma, “contro l’aumento delle spese militari e la
devastazione prodotta da decenni di moderazione salariale, ora esasperata in
nome della guerra“.
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La libertà d’espressione ai tempi del governo Meloni. Alla Scala di Milano,
maschera urla «Palestina libera» e viene licenziata. Il fatto è avvenuto subito
prima del concerto del 4 maggio per il meeting annuale della Asian Development
Bank, la presidente Meloni era presente in sala
di Roberto Maggioni da il manifesto
La libertà d’espressione ai tempi del governo Meloni. Una giovane maschera del
Teatro alla Scala di Milano è stata licenziata per aver urlato «Palestina
libera» prima del concerto del 4 maggio scorso al quale ha partecipato anche la
presidente del consiglio Giorgia Meloni. La maschera ha urlato la sua
solidarietà al popolo palestinese all’ingresso di Meloni nel palco reale. La
notizia è stata diffusa dal sindacato di base Cub, dal Teatro per il momento non
è arrivato alcun commento, se non la conferma del licenziamento che, secondo
quanto riferito dalla Cub, porterebbe la firma del sovrintendente del teatro
Fortunato Ortombina.
Il concerto del 4 maggio era quello per il meeting annuale della Asian
Development Bank e la presidente Meloni era presente in sala. «La persona
licenziata è una giovane studentessa che fa la maschera nel teatro» racconta il
sindacalista scaligero della Cub, Roberto D’Ambrosio. «Prima del concerto ha
gridato ‘Palestina libera’, è stato un gesto per esprimere la sua solidarietà ai
palestinesi», solidarietà portata in un contesto con personalità politiche, come
la presidente del consiglio, che possono, devono, prendere posizioni sul
massacro israeliano a Gaza. «È stata subito portata fuori dalla polizia, nei
giorni successivi non l’hanno fatta lavorare e poi è arrivata la lettera di
licenziamento».
Il motivo formale del licenziamento? «Non ha rispettato la sua postazione di
lavoro e ha creato scompiglio con le forze dell’ordine». Un gesto di
disobbedienza civile, come altri ce ne sono stati anche nella storia della
Scala, represso nella maniera più dura. «È evidente – scrive il sindacato Cub in
una nota – che esprimere questa solidarietà non è un fatto isolato, infatti sono
milioni i giovani nel mondo che stanno manifestando per fermare il genocidio in
atto a Gaza. Evidentemente per la direzione la giovane ha detto qualcosa da
punire severamente. Nel provvedimento di licenziamento, firmato da Ortombina,
viene sottolineato che ha tradito la fiducia disobbedendo a ordini di servizio,
ma a noi vien da dire che lei ha dato retta alla sua coscienza».
Scrive ancora la Cub: «A Giorgia Meloni la direzione del teatro per compiacenza
offre la testa della ribelle che intendeva denunciare il silenzio complice del
suo governo verso il genocidio che si compie tutti i giorni a Gaza. In questo
teatro – conclude Cub – sembra di assistere al restringimento di tutti gli spazi
democratici in sintonia col decreto sicurezza che il governo ha appena
sfornato».
Il licenziamento è stato commentato anche dal capogruppo del Pd in consiglio
regionale, Pierfrancesco Majorino: «Provvedimento assolutamente sproporzionato
su cui fare chiarezza». Dal M5S il capogruppo in commissione cultura al Senato,
Luca Pirondini: «Alla Scala non c’è spazio per la libertà di parola. Chiediamo
immediati chiarimenti ai vertici del teatro e a tutte le istituzioni coinvolte».
Condanna anche da Rifondazione Comunista: «Questa lavoratrice merita l’encomio
di tutta la comunità per aver dato voce all’indignazione per il genocidio a Gaza
e la complicità del governo italiano – ha detto il segretario nazionale Maurizio
Acerbo e la segretaria milanese Nadia Rosa -. Chiediamo che il comune assuma una
posizione di netta condanna e di solidarietà alla lavoratrice». Nel pomeriggio
il sindaco Sala ha risposto ai giornalisti che gli chiedevano di commentare il
licenziamento: «Non ne ho parlato con il sovrintendente, non ero informato,
voglio parlare con lui e capire le ragioni. Ero presente anche io quando è
successo, ma non avevo focalizzato».
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Il poliziotto infiltrato all’interno di Potere al Popolo appartiene alla
Direzione centrale della polizia di prevenzione, la “polizia politica”. È stato
trasferito dalla Questura di Milano nel dicembre del 2024, due mesi dopo aver
iniziato le sue attività all’interno di Potere al Popolo. I documenti esclusivi
pubblicati da Fanpage
di Antonio Musella da Fanpage
Non ci sono state ancora repliche ufficiali alla denuncia di Potere al popolo,
raccolta da Fanpage.it, che ha riguardato il tentativo di infiltrare il partito
per 7 mesi con un agente di polizia. Ma dai documenti di cui siamo venuti in
possesso, emergerebbe che l’agente in questione appartiene all’antiterrorismo,
ovvero la polizia politica. Fonti qualificate hanno fatto circolare una versione
secondo la quale il poliziotto avrebbe partecipato assiduamente alle iniziative
di Potere al popolo, ma senza avere un mandato di operare come spia all’interno
della compagine politica, precisando che nessuna autorizzazione da parte
dell’autorità giudiziaria era stata emessa in tal senso.
Inoltre si aggiungeva che il presunto infiltrato avrebbe conservato sul suo
profilo social le foto in divisa, cosa smentita dalle prove raccolte da
Fanpage.it. Grazie ai nuovi documenti è stato possibile infatti ricostruire la
carriera, seppur brevissima, essendo un agente di polizia di appena 21 anni, del
presunto infiltrato nelle fila di Potere al popolo, e quello che emerge è un
contesto lavorativo dell’agente pienamente inserito nelle attività di
prevenzione legate all’antiterrorismo.
Prima alla Questura di Milano, poi all’antiterrorismo
Il poliziotto presunto infiltrato, secondo i documenti ufficiali di cui siamo
entrati in possesso, dopo aver frequentato il corso di polizia, nello specifico
il 223° corso di formazione per agenti della polizia di stato, nel dicembre del
2023 è stato assegnato alla Questura di Milano. Il giovane agente, classe 2004,
era stato assegnato alle sezioni operative interne, presso la Questura dove per
molti anni aveva lavorato suo padre, anche lui poliziotto, che sulla fine della
carriera, trasferitosi in Puglia, la regione di origine della famiglia, ha anche
ricevuto un encomio. Dalla Questura di Milano è stato poi trasferito alla
Direzione centrale polizia di prevenzione, sezione operazioni interne.
L’agente appartiene quindi all”antiterrorismo, la cosiddetta “polizia politica”
come viene definita dallo stesso Ministero dell’Interno sul proprio sito
istituzionale. Come hanno ricostruito gli attivisti di Potere al popolo,
l’agente, che ora sappiamo essere incardinato presso l’antiterrorismo della
polizia di Stato, si sarebbe infiltrato nel partito a Napoli a partire
dall’ottobre del 2024. La domanda che ci poniamo è se sia credibile che un
agente incardinato presso la direzione centrale dell’antiterrorismo possa aver
seguito per 7 mesi tutte le attività di Potere al popolo, partecipando
assiduamente ad ogni iniziativa, intervenendo al megafono durante le
manifestazioni, come vi abbiamo mostrato, senza avere un mandato preciso da
parte dei suoi superiori.
Inoltre, avrebbe contraddistinto la sua condotta a Napoli tra le fila del
partito, facendo segnare una sua costante assenza durante i fine settimana.
“Diceva che tornava a casa dai suoi” ha spiegato Giuliano Granato, portavoce
nazionale di Potere al Popolo, ma proprio questa circostanza ha fatto
insospettire gli attivisti del partito. La sua presenza a Napoli era 5 giorni su
7, come una normale attività lavorativa. Ci chiediamo in quali ore ed in quali
giorni il poliziotto avrebbe svolto la sua attività lavorativa.
Le fonti di polizia, riportate dalle agenzie di stampa, che hanno escluso che
esista una autorizzazione dell’autorità giudiziaria relativa ad una attività di
spionaggio verso Potere al popolo, dovrebbero chiarire come sia possibile che un
agente della Direzione centrale dell’antiterrorismo possa aver impiegato, per 7
mesi, una attività così assidua di frequentazione del partito, senza aver
ricevuto un ordine preciso. L’agente risulterebbe iscritto al primo anno di
Università presso la Federico II di Napoli, ma questo non giustificherebbe la
sua costante presenza a Napoli, che non potrebbe essere giustificata da permessi
studio, praticamente quotidiani, per un periodo così lungo.
Il documento ufficiale del Ministero dell’Interno
La presunta infiltrazione iniziata due mesi prima del trasferimento
Ricostruendo le date dei trasferimenti del giovane agente e l’attività
all’interno di Potere al popolo, troviamo una successione che balza agli occhi.
La sua assegnazione alla Questura di Milano come agente in prova avviene a
dicembre del 2023, l’inizio della sua attività all’interno di Potere al popolo
viene ricondotta all’ottobre del 2024, mentre il suo trasferimento alla
Direzione centrale dell’antiterrorismo è datata 11 dicembre 2024. Quindi il
poliziotto, assegnato alla Questura di Milano, avrebbe iniziato la sua attività
all’interno di Potere al popolo e poi dopo sarebbe stato trasferito
all’antiterrorismo.
Tra le tesi fatte circolare nelle stanze delle commissioni parlamentari in
questi giorni, ci sarebbe la giustificazione della “fuga d’amore”. Ovvero
l’agente si sarebbe innamorato di una ragazza che frequentava Potere al Popolo e
per questo avrebbe iniziato a frequentare il partito. Una tesi, che alla luce
della ricostruzione della carriera del giovane agente, non starebbe in piedi.
Innanzitutto perché l’agente ha sempre dichiarato agli attivisti napoletani di
Pap di essere fidanzato con una ragazza pugliese, di cui esistono i profili
social verificabili. La seconda è perché nei 7 mesi in cui è stato attivo nelle
fila del partito, non ha mostrato interesse per nessuna attivista del partito in
nessuna forma.
L’agente insieme ad altri colleghi di corso
Il governo dovrà rispondere in aula
Il governo sarà chiamato a rispondere nell’aula del parlamento di questa
vicenda. Sono state infatti annunciate diverse interrogazioni parlamentari sul
caso del poliziotto presunto infiltrato nelle file di Potere al popolo. C’è
quella presentata da Avs al Senato firmata da Peppe De Cristofaro, Ilaria Cucchi
e Tino Magni, e quella presentata alla Camera dei Deputati dal Partito
Democratico, firmata da Marco Sarracino, Chiara Gribaudo e Mauro Berruto.
L’ultima in ordine cronologico, è quella annunciata dal Movimento 5 Stelle,
sempre alla Camera, e firmata dalla deputata Gilda Sportiello. Sarà il Ministro
dell’Interno, Matteo Piantedosi, a dover rispondere in aula alle tre
interrogazioni parlamentari annunciate dalle opposizioni.
Ci sarà da chiarire però, alla luce del fatto che l’agente è in servizio presso
la Direzione centrale della polizia di prevenzione, se, come hanno sostenuto le
fonti qualificate di polizia, davvero non esista una autorizzazione
dell’autorità giudiziaria ad una attività di questo tipo. E se non esiste
l’autorizzazione di una Procura italiana, ci chiediamo come sia possibile che un
agente di polizia possa svolgere questo tipo di condotta senza aver ricevuto un
ordine preciso, che in quel caso, sarebbe però stato dato in assenza di
autorizzazione da parte dei magistrati. Insomma la vicenda resta assolutamente
oscura.
Qui puoi scaricare il “Manuale per smascherare un poliziotto infiltrato”.
Redatto originariamente damanualinfiltrados@gmail.com (qui in SPA) a seguito
delle vicende che hanno coinvolto movimenti e organizzazioni catalane negli
ultimi 2 anni. 2024, 60 p. Traduzione in italiano di Progetto Me-Ti – casa
editrice/blog
> La denuncia di Potere al Popolo: “Siamo stati infiltrati e spiati dalla
> polizia per 10 mesi”
> Poliziotti infiltrati tra attivisti e partiti: il caso italiano ed europeo
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L’università di Bologna reprime gli studenti che protestano: 10 denunce per
l’occupazione di un’aula
A sei giorni dalle elezioni al CNSU (Consiglio Nazionale degli studenti
universitari) l’Università di Bologna invia dieci denunce ad altrettanti
studenti del movimento Cambiare Rotta, rei di avere dato vita ad uno spazio
autogestito per creare un processo di agibilità politica, recuperando,
all’interno dell’Università di Bologna, un’auletta in disuso. “Occupazione per
trarne altrimenti profitto” questa sarebbe la fantasiosa accusa.
L’occupazione, spiega il collettivo, risale al 25 novembre scorso, in occasione
della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Le denunce sono
arrivate ad alcuni candidati alle elezioni studentesche proprio a una manciata
di giorni prima della chiusura della campagna elettorale: un atto «repressivo»,
denunciano gli studenti, che attaccherebbe la «democrazia» universitaria.
Poco tempo fa alcuni studenti avevano fatto pacificamente irruzione in un
convegno targato Leonardo SpA, contestando gli accordi di ricerca che chiudono
sempre un occhio e a volte anche due, giocando sull’equivoco della ricerca
“dual-use” (civile-militare), ma soprattutto la presenza asfissiante della
Leonardo, che finanzia convegni, stage, tirocini e si propone in tutta Italia
come punta di diamante di uno sviluppo industriale di morte, ma che può offrire
un futuro a molti giovani brillanti soprattutto in campo tecnologico: sistemi
d’arma, visori ottici di ultima generazione a uso militare, sistemi avanzati
interconnessi per il controllo pervasivo dei territori contro fastidiosi
sommovimenti popolari (le cosiddette “Smart-cities”), intelligenza artificiale
applicata ai droni, ecc ecc.
Qualche giorno dopo l’arrivo delle notifiche, l’11 maggio, Cambiare Rotta ha
lanciato un appello alla cittadinanza per promuovere la richiesta di ritiro
immediato delle denunce ai candidati, che nell’arco di due settimane ha
raggiunto oltre 700 firme. Tra queste, quelle di studenti, ma anche di docenti,
avvocati e lavoratori esterni all’università.
A questo link si trova l’appello degli studenti di Cambiare Rotta per il ritiro
delle denunce.
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Oltre 80 ong italiane ed europee hanno scritto una lettera al commissario
europeo per la Democrazia e lo Stato di diritto, Michael McGrath, esortando la
Commissione a chiedere l’abrogazione del decreto sicurezza
Il decreto sicurezza, che tra oggi e domani riceverà il via libera dalla Camera,
rappresenta «una seria minaccia per la democrazia», nel contesto di un
«sistematico regresso» dello Stato di diritto che «evidenzia tendenze
autoritarie». Con queste preoccupazioni oltre 80 ong italiane ed europee hanno
scritto una lettera al commissario europeo per la Democrazia e lo Stato di
diritto, Michael McGrath, esortando la Commissione a chiedere l’abrogazione
della legge promossa dal governo Meloni, verificarne la compatibilità con il
diritto Ue e se necessario aprire un procedimento di infrazione. Il decreto, si
legge nella missiva, ha già «ricevuto condanne anche dal Consiglio d’Europa,
dall’Osce-Odhir e dai relatori speciali delle Nazioni unite». L’Italia,
concludono, è stata aggiunta alla Watchlist di Civicus Monitor, che segnala i
Paesi che si trovano ad affrontare un «grave deterioramento» delle libertà
civili.
Anche il Parlamento della Catalunya ieri ha presentato una risoluzione contro il
decreto sicurezza affinché venga discussa presso la Commissione Giustizia e
Qualità democratica, dove si afferma che la legge rappresenta un «significativo
passo avanti nella repressione statale», con particolare riferimento alla
possibilità di incarcerazione delle donne incinte, l’introduzione di nuove
fattispecie di reato legate alla protesta – con aggravanti che portano le pene
fino a vent’anni di carcere – e l’inasprimento della pena per qualsiasi forma di
manifestazione, compresa la resistenza passiva. «L’approvazione di tale norma
mira a reprimere duramente le proteste e ridurre gli spazi di dissenso sociale»,
recita il testo.
La risoluzione è stata poi promossa in conferenza stampa dai rappresentanti a
Barcellona delle associazioni italiane – Altraitalia, Anpi, Inca-Cgil,
Mediterranea e Open arms – insieme ai gruppi parlamentari catalogni Comuns, Cup
e Erc. Il decreto, si legge nel comunicato stampa rilasciato dalle associazioni,
«introduce norme che colpiscono duramente la protesta pacifica, limitano i
diritti delle persone migranti e violano principi costituzionali e
internazionali in materia di diritti umani».
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Giovani, carini e appena arruolati. Praticamente infiltrati. Dopo la denuncia di
Potere al Popolo abbiamo ripercorso due celebri cicli di infiltrazioni nello
stato spagnolo e in Gran Bretagna
di Checchino Antonini da Diogene
Potere al Popolo ha denunciato il 27 maggio che per ben dieci mesi un giovane
agente di polizia, fresco di corso, ha partecipato a riunioni, manifestazioni di
piazza, assemblee nazionali, volantinaggi e alla vita quotidiana di partito a
Napoli. Perché questa operazione? si chiede Pap, e ancora: chi l’ha decisa,
pianificata, ordinata? La rivelazione arriva dopo il caso Paragon-Mediterranea
emerso quando una comunicazione ufficiale di Meta, proprietaria di Whatsapp ha
avvertito Luca Casarini, capomissione di Mediterranea, che il suo telefono era
stato violato da una operazione di “spyware” ad alto livello, attraverso l’uso
di un software definito “tra i più sofisticati al mondo”.
Era il 31 gennaio scorso e Meta consigliava di cambiare subito il cellulare e,
quasi contestualmente, testate internazionali davano notizia della violazione
dei sistemi di sicurezza di Whatsapp, che coinvolgeva 90 “target” in tutto il
mondo, in particolare attivisti della società civile e giornalisti.
Il sospetto che il governo Meloni spii partiti di opposizione, ong e giornalisti
è fortissimo (una pratica che non disdegnava nemmeno Conte e supponiamo sia
bipartisan) e non sembrano convincenti le smentite di rito di Palazzo Chigi
tanto su Paragon, sistema di fabbricazione israeliana, tanto su Pap, tanto sul
razzismo così diffuso in polizia al punto da inorridire perfino il Consiglio
d’Europa.
Ma sono legali in Italia le infiltrazioni di poliziotti in organismi che operano
alla luce del sole? In qualche modo deve essere autorizzata in un contesto di
indagini su droga, armi, terrorismo ma quest’ultimo concetto è così dilatabile
che una “funzione di monitoraggio” da parte dell’intelligence è attività nota
negli ambiti parlamentari. Vista la smentita maldestra di un’infiltrazione
altrettanto maldestra, resta la domanda: chi ha autorizzato quel poliziotto?
Forse l’AISI? Forse una polizia parallela di fascisti? Certo i precedenti non
mancano, soprattutto di quell’infiltrazione di piazza, ovvero finti manifestanti
traditi da particolari del loro outfit oppure dal bozzo del calcio della
pistola.
Una delle più celebrate infiltrazioni è quella dell’agente immortalato, in
borghese, mentre faceva oscillare un cellulare assieme a un gruppo di squadristi
che presero d’assalto la sede della Cgil nell’ottobre del 2021. Riavvolgendo il
nastro, un altro famoso è Giovanni Santone, fotografato da Tano D’Amico il 12
maggio del 1977, in tenuta settantasettina ma con la pistola d’ordinanza in
pugno. Osservatorio Repressione, in un pezzo di qualche anno fa, ricorda che gli
infiltrati a volte stanno lì per provocare, altre per uccidere, oltre che per
spiare. Certo, l’evoluzione tecnologica, con ogni probabilità ha alleggerito
l’esigenza di mimetizzarsi per captare segnali di movimento.
Tana per Nieves
Giovane e appena arruolato: la vicenda del poliziotto infiltrato ricorda da
vicino quello che sta accadendo nello Stato Spagnolo dove già sono stati
scoperti almeno tredici casi di infiltrazione di agenti da quando, nel 2022, due
media alternativi – La Directa, catalano, e El Salto – hanno avviato
un’inchiesta su questo tipo di pratiche di polizia tra gruppi anarchici,
occupazioni di case, organizzazioni ambientaliste. La numero 12 è venuta fuori
poche settimane fa, il 23 aprile: dietro la falsa identità di Nieves López
Medina si nascondeva una funzionaria di polizia che rispondeva alle iniziali di
N.M.C.F., diplomata alla 37° corso dell’Accademia di Avila e infiltrata a
Madrid, all’interno di gruppi ambientalisti come Rebelión o Extinción e Fridays
For Future per circa sei mesi.
Il profilo di Nieves coincide con quello della maggior parte dei casi scoperti
compreso quello venuto alla luce a Napoli: un’agente appena diplomata alla
Scuola Nazionale di Polizia di Avila, che viene introdotta nei movimenti sociali
poco dopo il suo giuramento.
E’ da notare che l’infiltrazione sotto finta identità di Nieves è avvenuta
quando molti di questi casi erano già venuti alla luce; infatti, uno degli
agenti scoperti da El Salto, Mavi, è stato scoperto nel marzo 2023, mentre
Nieves ha cercato di entrare in questi stessi ambienti nel dicembre dello stesso
anno.
Di Nieves sappiamo qualcosa di più di quanto si sa dell’infiltrato presunto in
Pap: è entrata per la prima volta in contatto con l’ambiente militante quando ha
compilato un modulo per partecipare a un’azione di disobbedienza civile contro
l’industria dei combustibili fossili organizzata da Rebellion o Extinction (XR).
È apparsa per la prima volta in una formazione che si è svolta il 10 dicembre
2023 per preparare questa azione. Il giorno seguente, una trentina di attivisti
sono entrati nel recinto di Arganzuela per ancorarsi agli alberi e impedirne
l’abbattimento. Sono stati tutti sgomberati con violenza e multati per
disobbedienza. Nieves ha partecipato all’azione.
Tuttavia, il suo atteggiamento ha presto generato diffidenza tra i suoi nuovi
compagni. Da quando la sua collega Mavi si è infiltrata in XR nel 2022, gli
attivisti spagnoli sanno che “nei movimenti per il clima ci sono agenti che
fanno solo disobbedienza civile, quindi abbiamo imparato a tenerli d’occhio”.
Oltre a XR, Nieves partecipava alle assemblee di Fridays For Future. Aveva
trent’anni, era arrivata in moto e diceva di essere una magazziniera in un
Carrefour. In FFF la maggior parte sono studenti, anche liceali, e nessuno gira
in moto. Inoltre non aveva profili social. Fin dall’inizio, Nieves ha mostrato
un grande interesse per la disobbedienza civile non violenta e ha chiesto con
insistenza di far parte del comitato “relazioni esterne”, cosa insolita per un
nuovo membro. Probabilmente il suo obiettivo era quello di avvicinarsi a gruppi
più radicali come Futuro Vegetal. Quando è stata multata per “disobbedienza” non
ha esitato a inviare la multa a XR affinché la aiutasse a fare ricorso e proprio
questo ha permesso al gruppo ambientalista di ottenere una fotocopia della sua
carta d’identità farlocca. Con quel documento XR ha richiesto un certificato di
nascita all’anagrafe ma non c’era non traccia di lei all’Ufficio del Registro
Civile nonostante quella carta d’identità dichiarasse che era nata a Murcia.
Tana per Nieves.
El Salto ha chiesto chiarimenti al Ministero dell’Interno ricevendo come unica
risposta un appello all’articolo 104 della Costituzione spagnola, che stabilisce
che “le Forze e i Corpi di Sicurezza dello Stato garantiscono la sicurezza e il
libero esercizio dei diritti e delle libertà di tutti i cittadini, e che
agiscono in questi termini, con una rigorosa sottomissione all’ordinamento
giuridico”. Da parte sua, la Stazione Generale di Polizia di Madrid, dove
sarebbe stata assegnata, si è rifiutata di fare qualsiasi tipo di valutazione.
Vale la pena ricordare che, in base all’attuale quadro giuridico iberico, questo
tipo di infiltrazione può essere effettuata solo su ordine del tribunale, nei
casi di terrorismo, criminalità organizzata e traffico di droga.
María, infiltrata con la sua vera madre
A Girona, in Catalogna, a un anno e mezzo dalla denuncia, il tribunale ha
rifiutato di incriminare una poliziotta infiltrata con un’ordinanza di sole
quattro pagine, in cui si conclude che l’agente non avrebbe oltrepassato i suoi
limiti. L’ordinanza di archiviazione riconosce che María Isern Torres, agente
sotto copertura, stabilì la relazione con l’attivista indipendentista Òscar
Campos per ordine dei suoi comandanti, ma non ammette che “fu iniziata e
mantenuta in condizioni di disparità” né che l’intenzione fosse quella di
“danneggiarlo psicologicamente”. La denuncia accredita, attraverso una perizia,
i “postumi psicologici sotto forma di disturbo depressivo e sintomi di stress
post-traumatico” causati da “una relazione sentimentale fallace, ingannevole e
spuria” e dall’“invasione dei diritti fondamentali”.
Durante l’infiltrazione, l’agente ha persino coinvolto la sua vera madre
nell’operazione, fornendo una copertura per la missione che era stata assegnata
alla figlia. L’attivista di Girona ha soggiornato nella casa di famiglia a
Palma, dove madre e figlia hanno mentito sull’attività lavorativa
dell’infiltrata. Da quel momento in poi, la madre stabilì una stretta relazione
telefonica con la persona spiata e il suo entourage a Girona, con cui condivise
momenti di intimità.
La relazione è avvenuta tra il 2020 e il 2023. Maria Isern Torres, in realtà è
un’agente del Cuerpo Nacional de Policía, operante sotto il falso nome di Maria
Perelló Amengual. Nel luglio 2023, Campos scoprì la vera identità e denunciò
pubblicamente la “torturadora a les ordres de l’Estat espanyol” (“torturatrice
agli ordini dello Stato spagnolo”). La Procura di Girona ha giustificato
l’operazione sostenendo che l’agente agiva nell’ambito delle sue funzioni per
prevenire azioni secessioniste, ritenendo quindi legittima la sua infiltrazione
nei movimenti sociali catalani.
L’intera vicenda è stata documentata nel reportage “Infiltrats”, prodotto da
3Cat e La Directa, che ha portato all’attenzione pubblica le modalità e le
implicazioni delle infiltrazioni della polizia spagnola nei movimenti sociali
catalani.
Queste infiltrazioni della polizia violano i diritti fondamentali e sono più
tipiche di uno Stato di polizia che dello Stato di diritto ma la sentenza del
tribunale, pur riconoscendo che la relazione sentimentale, ha facilitato
l’accesso dell’agente alla sfera privata di Òscar Campos e ad attività
riservate, afferma che non ci sono elementi nella denuncia per ritenere che non
ci sia stato consenso. Anche la denuncia per tortura contro Ramon, infiltrato
della polizia nei movimenti sociali di Valencia, è stato definitivamente
archiviata lo scorso 5 maggio.
Ora, ovviamente, di Nieves non si hanno più tracce e gli attivisti ritengono che
probabilmente è stata fatta fuori perché non è riuscita a passare inosservata.
Ci si interroga sulla relativa facilità con cui è stato possibile smascherare
l’infiltrazione: o la Brigata d’Informazione l’ha messa lì apposta per far
credere che XR fosse già in grado di individuare gli infiltrati, oppure era
semplicemente stupida. Di sicuro i movimenti denunciano la crudeltà di un metodo
che genera paranoia, sfiducia, indignazione e paura tra gli attivisti.
L’infiltrazione come forma di tortura
Pau Pérez-Sales, psichiatra e direttore del SIRA, un centro di assistenza alle
vittime di tortura e maltrattamenti, ha spiegato a El Salto che l’infiltrazione
è una tortura perché “per essere considerata tale, devono essere presenti
quattro elementi: devono esserci gravi sofferenze, deve esserci intenzionalità,
deve esserci uno scopo, come ottenere informazioni, punire, umiliare, reprimere
o discriminare e, infine, deve essere eseguita da un funzionario statale”.
L’eco di queste vicende nello stato spagnolo ha stimolato il progetto militante
di pubblicazione, lo scorso febbraio, di un “Manual para destapar a un
infiltrado”, operazione che ha infastidito sia la polizia sia i politici che la
fiancheggiano. Sabato 24 maggio il Comune di Malaga ha cercato di impedire la
presentazione del manuale comunicando agli organizzatori che era necessario
avere un permesso speciale in base alla legge sugli spettacoli pubblici, una
norma che non può essere applicata a proposte no-profit e a eventi pubblici come
la presentazione di un libro, attività peraltro garantite dall’articolo 20 della
Costituzione spagnola sulla libertà di espressione e di cultura, e dall’articolo
21 che tutela la libertà di riunione pacifica in spazi privati.
A proposito di Nieves è stato detto che almeno, a differenza di Mavi (un altro
finto ecologista, vero sbirro) non è andata a letto con nessuno. Non possono
dire altrettanto le decine di donne britanniche vittime di altrettanti agenti
infiltrati per decenni nelle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria,
ecologista del Regno Unito.
Lo scandalo Spycops
Per oltre quarant’anni, la polizia britannica ha condotto un’operazione segreta
di spionaggio su migliaia di cittadini. L’opinione pubblica non aveva alcun
sentore di questa operazione segreta e solo un ristretto numero di ufficiali di
polizia ne era a conoscenza.
La polizia ha inviato 140 agenti sotto copertura per spiare più di 1.000 gruppi
politici e compilare file riservati sulle attività politiche degli attivisti. La
storia, partita nel 1968, è venuta alla luce nell’autunno 2010 quando
cominciarono a emergere notizie su Mark Kennedy, un agente di polizia sotto
copertura, noto come Mark Stone, che si era infiltrato nei gruppi di protesta
ambientalisti provocando molti arresti. Stone viveva tra gli attivisti ed era
riuscito ad assumere un ruolo di primo piano in molte azioni, stringendo
relazioni intime a lungo termine e relazioni sessuali più brevi con molte donne.
In generale era visto come un membro fidato del movimento.
E’ attiva una campagna – Police Spies Out of Lives – a sostegno delle donne
colpite da relazioni intime con agenti di polizia sotto copertura della SDS,
Special Demonstration Squad della Metropolitan Police Special Branch e della
National Public Order Intelligence Unit (NPIOU) controllata dall’Association of
Chief Police Officers (ACPO).
Negli anni sono stati svelati sempre più dettagli, grazie soprattutto al lavoro
investigativo degli attivisti e dei giornalisti. Rivelazioni che hanno costretto
Theresa May, quando era ministro degli Interni, a commissionare un’inchiesta
pubblica guidata da un giudice in pensione, Sir John Mitting partita nell’estate
del 2020, con sei anni di ritardo. C’è da capire come gli agenti sotto copertura
abbiano ingannato le donne in relazioni intime a lungo termine, alcune durate
molti anni e “allietate” dalla nascita di figli. L’inchiesta ha recentemente
ammesso per la prima volta che il monitoraggio dei sindacalisti da parte di
agenti sotto copertura dell’SDS può essere stato utilizzato dai datori di lavoro
a fini di blacklist. Nel 2009, si legge sul Guardian, i membri di un sindacato
che erano stati presi di mira dai datori di lavoro per essere licenziati a causa
delle loro attività sindacali sono stati riconosciuti come vittime di uno
scandalo decennale di liste nere. Un’incursione nella Consulting Association,
un’organizzazione segreta che gestiva la lista nera, ha portato alla luce
migliaia di file sui lavoratori edili, utilizzati dalle principali imprese edili
per “vagliare” l’appartenenza al sindacato dei candidati al momento
dell’assunzione.
Gli agenti sotto copertura hanno adottato misure elaborate per sviluppare i loro
falsi personaggi. Rubavano l’identità di bambini morti, dopo aver setacciato
pagine di certificati di morte per trovare una corrispondenza adeguata. Le spie
ricevevano documenti ufficiali come patenti di guida e passaporti con nomi
falsi, in modo che i loro travestimenti apparissero credibili alla cerchia di
manifestanti in cui si infiltravano.
Durante le missioni, che in genere duravano quattro anni, gli agenti sotto
copertura fingevano di essere manifestanti impegnati. Ma per tutto questo tempo
hanno fornito ai loro superiori informazioni sui piani e sui movimenti dei
manifestanti. I loro rapporti includevano anche valutazioni delle figure chiave
all’interno dei gruppi.
L’elenco completo dei gruppi politici presi di mira dal 1968 non è stato
pubblicato dall’inchiesta pubblica. Tuttavia, un’analisi dei gruppi pubblicati
suggerisce che le spie della polizia hanno monitorato soprattutto gruppi di
sinistra e progressisti che sfidavano lo status quo, mentre solo tre gruppi di
estrema destra sono stati infiltrati: il British National Party, Combat 18 e la
United British Alliance. Un gruppo trotzkista in particolare – il Socialist
Workers Party (SWP) – è stato pesantemente infiltrato con più di 20 agenti,
molto più di qualsiasi altro gruppo.
Con cinismo e vigliaccheria
Dopo che l’esistenza dell’operazione segreta è stata resa nota nel 2010, le
donne si sono raggruppate e hanno intrapreso con successo un’azione legale
contro la polizia ottenendo decine di risarcimenti. Quando le donne hanno
iniziato a fornire i loro resoconti e a condividere le loro storie, è emerso
chiaramente che il comportamento degli uomini nelle relazioni, i loro retroscena
e i metodi per sparire discretamente presentavano notevoli somiglianze che
suggerivano metodi sistematici di infiltrazione e minavano il mito dell’agente
disonesto.
Raccontano i legali che è stato evidente che tutte le donne hanno subito un
notevole impatto emotivo e psicologico dalla scoperta dell’inganno e della
violazione personale. In particolare, il loro senso di sicurezza nel mondo in
cui vivevano e la capacità di fidarsi degli altri erano stati gravemente
danneggiati. Tuttavia, poiché le loro esperienze erano insolite ma simili, e
poiché provenivano tutte da ambienti politicamente impegnati, hanno rapidamente
sviluppato un approccio di sostegno reciproco e collettivo per lavorare insieme
al loro caso legale.
Ci sono ancora troppi agenti, secondo Police Spies Out of Lives, la cui identità
reale e fittizia rimane segreta.
Sono stati scoperti altri comportamenti scorretti. In casi giudiziari che
riguardavano l’incriminazione di attivisti, gli agenti sotto copertura e i loro
supervisori hanno nascosto prove vitali che avrebbero potuto portare alla loro
assoluzione. Finora si sa che almeno 50 manifestanti sono stati condannati o
perseguiti ingiustamente perché le prove relative alle attività delle spie della
polizia sono state ingiustamente insabbiate nei procedimenti giudiziari.
Solo uno degli agenti sotto copertura è diventato un informatore. Peter Francis,
che è stato inviato a spiare i manifestanti antirazzisti per quattro anni negli
anni Novanta, ha rivelato come funzionava la sua ex unità, la Squadra speciale
per le dimostrazioni.
Ha anche rivelato che la squadra aveva raccolto informazioni sui genitori di
Stephen Lawrence nel momento in cui stavano conducendo una campagna per
convincere la polizia a condurre un’indagine adeguata sull’omicidio razzista del
figlio. Lawrence, studente di origine giamaicana, fu ucciso il 22 aprile 1993 a
Eltham, nel sud-est di Londra da un branco di ragazzi bianchi mentre aspettava
l’autobus con un amico. Il rapporto Macpherson del 1999 concluse che la
Metropolitan Police era “istituzionalmente razzista”.
La polizia è stata costretta ad ammettere che i suoi agenti sotto copertura
avevano spiato almeno 18 famiglie in lutto che si battevano per ottenere
giustizia dalla polizia. Tra queste c’erano anche famiglie i cui parenti erano
stati uccisi o erano morti sotto la custodia della polizia.
L’inchiesta pubblica sull’uso di agenti sotto copertura nel Regno Unito, nota
come Spycops Inquiry o Undercover Policing Inquiry, è attualmente in corso ma
sta affrontando numerose difficoltà operative, ritardi e critiche da parte delle
vittime e dei partecipanti.
L’inchiesta, spiega Campaign Opposing Police Surveillance, è suddivisa in
“tranche” tematiche. Le udienze della Tranche 2 (1983–1992) si sono svolte tra
luglio 2024 e febbraio 2025. La Tranche 3 (1993–2007), inizialmente prevista per
aprile 2025, è stata posticipata a ottobre 2025. È probabile che anche la
Tranche 4, dedicata alla National Public Order Intelligence Unit (NPOIU),
subisca ritardi.
Più di 100 vittime e gruppi coinvolti hanno firmato una lettera aperta
rifiutandosi di fornire prove entro le scadenze imposte, considerate
irragionevoli. Il sito Freedom News riferisce che, nonostante il rinvio delle
udienze, i termini per la presentazione delle testimonianze non sono stati
estesi, suscitando accuse di trattamento iniquo. Inoltre l’inchiesta sta
procedendo in modo squilibrato, favorendo le forze dell’ordine: mancanza di
trasparenza, distruzione intenzionale di documenti da parte della polizia e
pressione esercitata per rispettare una scadenza finale arbitraria fissata per
dicembre 2026, che potrebbe compromettere la credibilità dell’intero processo
che dovrebbe essere cruciale nel dibattito sul controllo democratico delle forze
di polizia nel Regno Unito.
Solo nel luglio 2024, la Metropolitan Police ha pubblicamente condannato le
operazioni della Special Demonstration Squad (SDS), ammettendo gravi violazioni,
tra cui relazioni sessuali ingannevoli con attiviste e infiltrazioni in gruppi
per la giustizia razziale. Tre mesi più tardi, nuove prove hanno suggerito che
Bob Lambert, ex agente sotto copertura e figura chiave dell’inchiesta, avrebbe
partecipato a un incendio doloso in un negozio Debenhams nel 1987 mentre si
fingeva attivista per i diritti degli animali.
Della brutalità e della spregiudicatezza della polizia francese s’è letto molto
anche in Italia in questi anni, segno che questa ondata di malapolizia è sintomo
delle tendenze più ampie di regimi ormai post-democratici tuttavia oltralpe è
stata registrata un’infiltrazione al contrario: nel settembre 2020, la
pubblicazione del libro Flic di Valentin Gendrot ha fatto scalpore. Dopo aver
trascorso due anni sotto copertura nella polizia di Parigi, dove era stato
assunto come dipendente a contratto (tra gli “assistenti di sicurezza”, poi
ribattezzati “assistenti di polizia”), il giornalista ha descritto una
quotidianità mediocre, la miseria sociale e la mancanza di rispetto per gli
utenti.
Soprattutto, ha accusato diversi suoi colleghi, di stanza nel 19° arrondissement
di Parigi, di aver commesso atti di violenza e di averli coperti con false
denunce. Le sue rivelazioni hanno indotto la magistratura ad aprire
un’inchiesta. Ma questa è un’altra storia.
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Kafka a Macerata, la vicenda di Francesco Migliorelli. Fotografato dopo una
settimana su un letto di pronto soccorso: la polizia interviene e lo identifica.
Cose che succedono, nel Paese delle liste d’attesa infinite e del dl sicurezza
che fa entrare in azione i manganelli prima ancora di diventare legge
di Andrea Capocci da il manifesto
Si allunga la lista delle categorie sociali da tenere sott’occhio. Dopo gli
organizzatori di rave, i loggionisti della Scala e le panettiere antifasciste
anche i pazienti in lista d’attesa finiscono nel mirino delle forze dell’ordine.
Come se sopravvivere al girone infernale della sanità pubblica non fosse già
abbastanza difficile.
Difficile spiegare altrimenti quanto accaduto a Francesco Migliorelli,
pensionato ed ex-sindacalista Cgil, al pronto soccorso dell’ospedale di
Macerata. La vicenda risale al 28 aprile ma solo nei giorni scorsi è diventata
pubblica. Quando Migliorelli arriva in pronto soccorso e viene visitato, i
medici decidono per approfondire gli accertamenti. Solo che il ricovero va per
le lunghe e il paziente rimane in pronto soccorso in attesa su una barella. Al
sesto giorno, quando ormai sono i primi di maggio, Migliorelli comprensibilmente
si spazientisce. Non infierisce sugli infermieri, come capita spesso in
ospedale: espone un cartello che documenta la sua attesa e recita «mentre gli
operatori di pronto soccorso si fanno una mazza così (sic) sono al sesto giorno
di sosta perché Lei, signora A.s.t. (Azienda sanitaria territoriale, ndr) non ha
posto in reparto».
Qualcuno scatta una foto e l’immagine di Migliorelli parcheggiato in pronto
soccorso gira tra gli infermieri e finisce sui social. Tra i medici qualcuno non
gradisce e chiede spiegazioni sull’iniziativa e sull’autore dello scatto.
Migliorelli rifiuta di rispondere a domande che non riguardano la sua salute
perché in fondo è un paziente, non un delinquente. «Sì paziente, ma mica tanto»
ironizza lui adesso dal letto di ospedale dov’è tuttora ricoverato, finalmente
in reparto. E così si arriva al punto in cui i sanitari chiamano la polizia per
identificarlo, colpevole di aver esposto un cartello dopo una settimana in
pronto soccorso. «Hanno anche tentato di perquisire i miei effetti personali
senza autorizzazione» racconta lui al manifesto «ma sono riuscito a
impedirglielo». Gianmarco Mereu, referente di Rifondazione Comunista a Macerata,
lo sta aiutando a dare risonanza all’episodio inquietante e annuncia
interrogazioni in arrivo a livello locale e nazionale, oltre che manifestazioni
di solidarietà per il malcapitato.
La versione dell’ospedale conferma i fatti ma nega che mancasse posto in
ospedale. «Il periodo trascorso in Pronto Soccorso è il tempo necessario alla
stabilizzazione clinica del paziente e al suo inquadramento diagnostico, grazie
al quale lo stesso può in seguito giovarsi delle migliori cure nel reparto più
adatto alla sua patologia» fa sapere l’Ast. «Durante la degenza in Pronto
Soccorso il paziente si è fatto fotografare al volto con un cartello con frasi
palesemente diffamatorie e non veritiere nei confronti dell’Ast di Macerata e in
seguito a questo riscontro il Primario del pronto soccorso ha chiesto
l’intervento della pubblica autorità per l’identificazione formale del paziente
al fine di consentire all’Ast di tutelare la propria immagine, se ritenuto
necessario, nelle sedi più idonee».
Cose che succedono, nel Paese delle liste d’attesa infinite e del dl sicurezza
che fa entrare in azione i manganelli prima ancora di diventare legge. Ma forse
non è un caso che l’episodio sia accaduto nelle Marche governate dalla destra,
anche se il problema della Regione non è la mancanza di ospedali ma il suo
contrario. Un paradosso? Non tanto ma qualche spiegazione serve.
La sanità è stato uno dei temi su cui l’attuale presidente regionale Francesco
Acquaroli (Fdi) ha costruito la sua campagna elettorale vittoriosa del 2020,
trasformandola in un cavallo di battaglia del populismo. Proprio mentre il Covid
mostrava il fallimento di un sistema sanitario troppo sbilanciato sugli ospedali
e poco presente sul territorio, Acquaroli ha promesso un pronto soccorso a
chiunque fosse disposto a votarlo. «Secondo il dm 70 del 2015 che fissa il
rapporto tra Dipartimenti ospedalieri di Emergenza e Urgenza e popolazione,
nelle Marche dovrebbero bastarne dieci» spiega Claudio Maria Maffei,
ex-direttore sanitario in Asl e ospedali della Regione e oggi attentissimo
critico della sanità marchigiana. «La giunta però punta a arrivare fino a
quattordici, facendo ampio ricorso ai medici gettonisti per riempire i buchi di
un personale insufficiente». La loro distribuzione risponde più a logiche
clientelari che sanitarie. Uno dei nuovi pronto soccorsi nascerà a Cingoli, base
elettorale dell’attuale assessore regionale alla sanità Filippo Saltamartini,
l’ex-poliziotto che del comune del maceratese è stato sindaco per un decennio.
Un altro sarà realizzato a Pergola (PU), dove il primo cittadino dal 2009 al
2019 era l’attuale assessore regionale ai lavori pubblici Francesco Baldelli.
«La giunta ha vinto le elezioni promettendo di mantenere la rete ospedaliera
precedente al dm 70» prosegue Maffei. «Per farlo ha dovuto però svuotare la
sanità territoriale: medici di base, pediatri e infermieri in grado di garantire
cure primarie evitando il ricorso agli ospedali. Il risultato è che oggi troppe
persone si rivolgono al pronto soccorso. E una volta ricoverate diventa
difficile dimetterle, perché mancano le strutture residenziali e l’assistenza
domiciliare in grado di prenderli in carico». È un dato confermato dalla Società
scientifica di medicina interna Fadoi, secondo i cui dati due terzi dei pazienti
rimangono in ospedale oltre cinque giorni in più del previsto per mancanza di
infermieri domiciliari e di Rsa. Se troppi pazienti entrano in ospedale e troppo
pochi riescono a uscirne, l’ingolfamento dei reparti è fisiologico. Ma per la
classe politica locale il consenso è assicurato. E se qualcuno, dopo una
settimana in barella, osa protestare si può sempre inviare una pattuglia. Aver
affidato la sanità regionale a un poliziotto almeno a qualcosa è servito.
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Con 201 voti favorevoli, 117 contrari e 5 astenuti, la Camera ha dato la propria
fiducia al DL Sicurezza. Sabato 31 maggio: «Il più grande corteo di opposizione
al governo». 110 bus e 3 treni speciali
Veloce e sicuro. Pochi minuti a disposizione di ciascun gruppo per le
dichiarazioni, il voto nominale a prova di franchi tiratori e il dente è tolto:
con 201 sì, 117 voti contrari e 5 astenuti, il governo ha incassato ieri alla
Camera la fiducia sul decreto Sicurezza. Quella fiducia che, come ha rimarcato
l’ex vice ministro degli Interni Matteo Mauri intervenendo per annunciare il no
di tutti i deputati del Pd, «si mette – come le tagliole, i blocchi e tutti gli
impedimenti che avete posto alla discussione democratica – quando non ci si fida
della propria maggioranza». Le competizioni tra le destre del governo hanno in
effetti accompagnato tutto il percorso del provvedimento bandiera, prima con
continui stop and go del ddl, e poi con un’improvvisa accelerazione sul carro
della decretazione d’urgenza.
L’ITER BLINDATO del pacchetto che modifica 30 norme penali – con 14 nuovi reati,
9 aggravanti e 7 aumenti di pena – e «commina in totale 486 anni di prigione in
più». Il via libera finale della Camera, prima di passare la parola al Senato
in seconda lettura, è previsto entro la fine della settimana.
NON PAGHI della nuova fattispecie introdotta nell’articolo 10 del decreto legge
– quello che ha «equiparato l’occupazione abusiva di abitazioni all’omicidio
colposo sul lavoro» un Odg di Fratelli d’Italia impegna il governo ad ampliare
la stretta «in modo da assicurare un’applicazione generalizzata dell’istituto e
rafforzare maggiormente la tutela del patrimonio immobiliare». Un altro estende
l’aggravante prevista per chi usa violenza contro un pubblico ufficiale anche ai
conducenti di taxi e bus, e un altro ancora si occupa di sedare a colpi di
galera gli atti di violenza contro gli arbitri.
Sabato 31 maggio è stata convovata dalla rete “No al Dl sicurezza a pieno
Regime” una manifestazione nazionale con concentramento alle ore 14 a piazza
Vittorio per raggiungere in corteo Piazzale Ostiense.
Ieri, a presentare il corteo alla stampa, c’era anche Luca Blasi, assessore alla
Cultura del municipio III di Roma e portavoce della rete A Pieno Regime colpito
al volto dai manganelli della polizia antisommossa due giorni fa, mentre qualche
centinaio di attivisti cercava di raggiungere piazza Montecitorio.
I numeri, in effetti, lasciano intendere che la partecipazione sarà davvero
larga. Finora si contano 110 pullman e tre treni di manifestanti. I promotori
fanno capire di volere politicizzare il più possibile l’evento: non si tratta
solo di portare avanti la, sacrosanta, resistenza al «decreto Ungheria», ma di
dare spazio e far convergere tutte le lotte e tutti i settori sociali che dal
provvedimento si sentono minacciati. In questo modo, la manifestazione diventa
un contenitore di battaglie e rivendicazioni che si rilanciano a vicenda, un
moltiplicatore di istanze.
Lukone ripercorre gli eventi di lunedì, quelli che hanno condotto al suo
pestaggio. «Avevamo detto chiaramente e pubblicamente quello che sarebbe
successo ieri – ha raccontato – Volevamo protestare pacificamente davanti al
parlamento. È ciò che succede in tutti i paesi democratici».
Nelle parole di Blasi, il modello della disobbedienza civile si è rivelato
impraticabile per via della repressione e del rifiuto di ogni dialettica di
piazza. «Avevamo detto che sarebbe stato un corteo autoprotetto con delle figure
di riferimento che in maniera pacifica avrebbero cercato di dialogare coi
responsabili delle forze dell’ordine – prosegue – Io ero una di quelle. E
invece, quando tutto era tranquillo, mi sono trovato di fronte a un’aggressione:
alcuni agenti, senza nessun tipo di ordine, mi hanno attaccato e mi hanno
causato un trauma alla testa che mi ha compromesso parzialmente la vista. Adesso
dovrò fare delle visite oftalmiche per capire se andrà meglio». Per Blasi, la
destra ha creato ad arte un clima che alimenta la discrezionalità gli abusi di
polizia: «Il governo da anni dice che chiunque manifesta diventa un terrorista e
un criminale, anche se lo fa pacificamente sedendosi per terra, facendo scioperi
della fame oppure sperimentando forme creative di lotta. E allora è chiaro che
qualcuno poi magari dalle parole passa ai fatti». Prova ne è che l’ineffabile
sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro ieri abbia sostenuto che quelli
che «la sinistra» considera «spazi di libertà» sono «spazi di criminalità».
«Scendiamo in piazza perché il decreto Sicurezza riguarda tutti e tutte»,
racconta Roberto Gammeri, giovane neuropsichiatra e attivista di Extinction
Rebellion, una delle tantissime realtà parte di “A pieno Regime”, una rete di
associazioni e movimenti di tutta Italia che si oppongono al decreto
Sicurezza, ora in aula alla Camera per la conversione.
«Ci siamo uniti non solo contro questo specifico decreto, ma più in generale
contro la deriva autoritaria del governo e in senso in senso più ampio»,
prosegue Gammeri. Extinction Rebellion è il movimento internazionale nato nel
2019 che manifesta per la giustizia climatica a suon di parate rumorose e
colorate azioni dimostrative, come l’occupazione di una sede di Leonardo o
l’affissione di uno striscione sul Colosseo.
Finora queste azioni sono costate ai suoi membri denunce, fogli di via e fermi
in questura dove alcune ragazze hanno raccontato di essere state costrette a
spogliarsi: Extincion Rebellion ha risposto presentando ricorsi contro i fogli
di via e denunciando tre questure. Spiega Roberto: «Della crisi climatica si sa
dagli anni Settanta ma i vari governi che esistono anche per tutelare la nostra
salute hanno fallito nell’affrontarla: siamo arrivati alla rottura del contratto
sociale e avendo urgenza di parlare, perché parlare di clima significa ripensare
il nostro modello di produzione e consumo, abbiamo capito che per far fronte al
cambiamento climatico servono azioni molto più radicali rispetto ai semplici
cortei, serve la disobbedienza civile».
Come attivista di XR si dice «preoccupato per le norme che ci riguardano più da
vicino, in quanto movimento che utilizza alcune pratiche tipo i blocchi
stradali, le occupazioni, le contestazioni alle grandi opere. Ma come cittadino
mi sento di dire che il problema non è una o l’altra norma contenuta nel decreto
Sicurezza, ma la visione che c’è dietro, l’aver costruito un decreto per
rispondere a questa sorta di insicurezza nazionale generata da chi? Dalle
persone nelle carceri, dai migranti, dai pericolosi attivisti che vogliono
difendere il pianeta? Quindi è questo che preoccupa davvero, il fatto che
scendere in piazza oggi comincia a essere davvero problematico».
Lo stesso Gammeri racconta che all’interno della rete “A Pieno Regime” ci sono
una marea di associazioni e in parte presenti alla manifestazione del 26 maggio
a Roma: dai movimenti climatici a quelli per il diritto all’abitare, da chi si
occupa dei diritti delle persone nei Cpr e nelle carceri, come l’associazione
Antigone che il mese scorso ha iniziato un digiuno a staffetta per protestare
contro le norme che introducono il reato di rivolta all’interno degli istituti
penitenziari.
Ancora, i comitati locali di quartiere delle periferie che sono state oggetto
del decreto Caivano o anche la rete dei centri sociali del nord Italia.
La questione abitativa
Durante la discussione del dl alla Camera la premier Giorgia Meloni rivendicava
sui social i primi sgombri avvenuti grazie al decreto in via di attuazione: «La
questione abitativa è assolutamente emblematica», afferma la ricercatrice
Margherita Grazioli, esponente del Movimento per il diritto all’abitare.
«Dietro le affermazioni della presidente Meloni sul ripristino della legalità si
cela la criminalizzazione sia delle persone in emergenza abitativa, sia di chi
esprime solidarietà nei confronti di questi stessi soggetti. Questo è uno dei
tanti aspetti di un provvedimento complesso e composito che però riteniamo vada
contrastato esattamente perché vuole impedire non solo l’espressione democratica
del dissenso, ma la possibilità di rivendicare i diritti più basilari e minimi
che in questo paese si continua ostentatamente a negare».
L’applicazione selettiva del diritto penale
Anche i giuristi si sono opposti al decreto: «Il più grande attacco alla libertà
di protesta della storia repubblicana, parliamo di una forzatura istituzionale
gravissima, perché il dl è stato sottratto alla discussione parlamentare ed è
stato approvato nell’arco di 48 ore», afferma Federica Borlizzi, avvocata
e attivista dell’associazione Nonna Roma.
«Assistiamo a una pericolosa applicazione selettiva del diritto penale ma anche
del diritto amministrativo-punitivo», continua Borlizzi, «da un lato un diritto
penale “dell’amico”, applicato con indulgenza alle reti del potere che
garantisce fette di impunità, pensiamo a tutte quelle previsioni del decreto che
introducono una tutela rafforzata per le forze dell’ordine nella gestione delle
piazze, criminalizzando ulteriormente i manifestanti; d’altro lato, abbiamo un
diritto penale del “nemico”, in cui i nemici sono individuati chiaramente:
persone migranti, detenute, chi si trova in condizione di marginalità sociale; i
movimenti ambientalisti, per il diritto all’abitare, che sono colpiti attraverso
l’uso spropositato del diritto penale e amministrativo punitivo».
Il diritto a manifestare pacificamente viene ricordato anche dai rappresentanti
del mondo del lavoro: «A volte è necessario anche occupare la propria sede di
lavoro per farsi sentire», afferma Roberta Turi, NIdiL CGIL, rappresentante
delle lavoratrici e dei lavoratori non subordinati.
CI SONO ANCHE alcuni parlamentari. Anche loro testimoniano del clima repressivo:
«Poter arrivare sotto ai palazzi del potere è un diritto. Il decreto sicurezza
limita la libertà delle persone. Il dialogo tra le piazze che manifestano e
l’opposizione è fondamentale», aggiunge il deputato Avs Filiberto Zaratti. «Non
vogliamo sentire parlare di emergenza sicurezza – sostiene il capogruppo al
senato Peppe De Cristofaro – L’unica emergenza è quella che riguarda i diritti
sociali».
ARRIVA ANCHE l’adesione del cartello Stop Rearm Europe, che sta costruendo
l’altra grande manifestazione nazionale delle prossime settimane: quella del 21
giugno. «Saremo anche noi in piazza per chiedere la tutela di diritti civili,
libertà d’espressione e d’informazione, contro l’approvazione del dl sicurezza,
volto a criminalizzare il dissenso e il conflitto sociale e a considerare
problemi di ordine pubblico la povertà e le emergenze sociali – affermano Arci,
Sbilanciamoci, Rete Italiana Pace e Disarmo, Fondazione Perugia Assisi,
Greenpeace Italia, Attac e Transform Italia – Perché autoritarismo e
militarizzazione si alimentano a vicenda in quanto aspetti delle stesse
politiche liberticide. Il 31 maggio sarà una tappa fondamentale del percorso di
mobilitazione verso la manifestazione nazionale contro guerra, riarmo, genocidio
e autoritarismo che ha già raccolto oltre 300 adesioni di reti, gruppi,
organizzazioni politiche e sociali italiane, arrivando fino ad oltre 1500 sigle
in Europa».
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A Montecitorio è iniziato l’esame del testo, su cui il governo dovrebbe porre la
questione di fiducia. Per le strade della Capitale, il corteo contro un decreto
definito «repressivo e liberticida». Cariche della polizia sui manifestanti, che
hanno provato a raggiungere i palazzi istituzionali. Ferito Luca Blasi portavoce
della rete “No dl sicurezza – a pieno regime”
Alla Camera il governo ha subito posto la fiducia sul Dl Sicurezza. A Roma la
rete “A Pieno Regime – no Dl Sicurezza” oggi pomeriggio si è ritrovata in Piazza
Barberini per raggiungere il Parlamento, trovandosi però davanti uno sbarramento
poliziesco su via del Tritone, che ha impedito per due volte, tra scudi e
manganellate l’avanzamento.
Durante le cariche della polizia è rimasto ferito Luca Blasi, assessore al III
Municipio di Roma con delega in materia di Politiche Culturali e Diritto
all’Abitare e portavoce della rete nazionale “No Dl Sicurezza – a pieno regime”,
che ha riportato un grosso bernoccolo sulla tempia destra e una ferita
all’orecchio, causata da uno strappo subito all’orecchino. Lucone è rimasto
contuso mentre si era interposto tra manifestanti e polizia.
L’intento repressivo delle nuove disposizioni entrate in vigore il 12 aprile,
per la piazza, emerge sia nel metodo sia nel merito. A partire dalla
decretazione di urgenza «in assenza di una reale emergenza», ha denunciato
Amnesty international, usata per «aggirare il dibattito democratico del
parlamento». Una scelta che, fa notare Amnesty, è stata criticata dalla Nazioni
unite, da organizzazioni nazionali e internazionali: «Non si tratta di
sicurezza, di tratta di repressione».
Questo è il Ddl “paura” negazione del diritto al dissenso negazione della
libertà di movimento negazione alla libertà di parola “Se loro fanno il fascismo
noi facciamo la resistenza“
Da Roma su Radio Onda d’Urto Raja, della rete nazionale “A Pieno Regime – no Dl
Sicurezza”. Ascolta o scarica
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