Manifestazioni contro ddl sicurezza e zone rosse, la circolare ai prefetti:
“attente misure di ordine pubblico e mirata attività informativa per
l’acquisizione di ogni utile elemento conoscitivo ai fini preventivi e di
sicurezza”
Predisporre ‘‘attente misure di ordine e sicurezza pubblica volte a garantire il
regolare svolgimento delle manifestazioni e a scongiurare turbative, non
potendosi escludere tentativi di strumentalizzazione della tematica per
l’attuazione di iniziative estemporanee o come pretesto per episodi di
intemperanza o azioni improntate all’illegalità da parte di frange estremiste”.
E’ quanto viene richiesto in una circolare inviata dal Dipartimento di Ps a
prefetti e questori, secondo quanto apprende l’Adnkronos, in vista delle
mobilitazioni contro il ddl sicurezza e le zone rosse indette per sabato 22
febbraio in diverse città italiane.
Nella circolare si raccomanda inoltre lo sviluppo di una ”mirata attività
informativa per l’acquisizione di ogni utile elemento conoscitivo ai fini
preventivi e di sicurezza’‘ e di intensificare dei servizi di ”controllo del
territorio e prevenzione” sensibilizzando i dispositivi di vigilanza agli
”obiettivi ritenuti sensibili”. (fonte Adnkronos)
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Tag - lotte sociali
Il nostro Belpaese ha perso forse un po’ della sua umanità? Se guardiamo le
reazioni dell’opinione pubblica a certe notizie (quando le notizie vengono
diffuse), si direbbe di sì. Dopo la guerra, e la Resistenza, e la difficile
ricostruzione, la gente poteva non essere d’accordo ma rispettava la
contestazione. Oggi conosco persone di centrosinistra che, senza sapere nulla
del Centro Sociale, ripetono che “quelli di Askatasuna sono drogati e
delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire da Genova 2001: disinformare
prima in modo da avere una maggioranza consenziente e poter agire indisturbati
dopo.
di Haidi Gaggio Giuliani da Centro Studi Sereno Regis
Per venti anni ho vagato affannosamente di qua e di là in cerca di risposte al
mio dolore. Ho incontrato molte madri come me. Una moglie, due sorelle,
soprattutto madri. I figli uccisi come il mio dalla violenza di apparati
statali, direttamente o indirettamente responsabili.
Sono stata a Milano per Giovanni Ardizzone, Roberto Franceschi, Fausto Tinelli e
“Iaio” Lorenzo Iannucci, Luca Rossi, Saverio Saltarelli, Claudio Varalli,
Giannino Zibecchi. A Bologna per Francesco Lorusso (e per le vittime della
stazione). A Reggio Emilia per Ovidio Franchi, il più giovane di cinque
assassinati. E a Pisa per Franco Serantini, un “figlio di nessuno” con molti
compagni che lo ricordano sempre. A Roma per Fabrizio Ceruso, Piero Bruno, Mario
Salvi, Giorgiana Masi, Walter Rossi… Non sono tutti.
La maggior parte di loro non ha avuto una verità giudiziaria. Lo Stato non si
processa.
Volevo riuscire a fare luce sull’uccisione di Carlo per evitare questo dolore
insopportabile ad altre madri. Mai più dicevamo.
Invece due anni dopo Federico Aldrovandi a Ferrara ha incontrato i suoi
assassini in divisa mentre tornava a casa. Riccardo Rasman, a Trieste, legato
alle caviglie col fil di ferro, imbavagliato e ammanettato, è morto come George
Floyd. Davide Cesare, a Milano, è stato accoltellato da due balordi fascisti ma
la polizia ha impedito a lungo l’arrivo delle ambulanze e poi ha inseguito i
suoi amici, sfasciando teste e vetrate al Pronto Soccorso.
Stefania, che ha formato le Madri per Roma città aperta, può raccontare la sua
lotta per la verità dopo l’uccisione del figlio, Renato Biagetti. Lucia Uva, a
Varese, ha tanto combattuto nei tribunali per il fratello Giuseppe: è stata
processata lei, per diffamazione dei poliziotti, infine prosciolta. Mi devo
fermare, la lista è lunga, ma non posso non citare i genitori di Giulio: Paola e
Claudio Regeni, fermamente uniti, stanno lottando per affermare il diritto alla
vita di tutte e tutti i giovani del mondo…
Nel mio percorso faticoso ho avuto grandi maestre: Licia Pinelli, Felicia
Impastato e l’argentina Hebe de Bonafini, co-fondatrice e a lungo presidente
delle Madri di Plaza de Mayo. So che in Turchia le Madri del sabato cercano da
molto tempo di avere notizie dei loro parenti scomparsi forzatamente. Invece di
essere ascoltate, finiscono sotto processo. E madri palestinesi e israeliane si
uniscono, all’interno del movimento Combattenti per la pace.
Sono ambientalista da sempre, è stato naturale per me andare, seguendo le orme
di Carlo, a conoscere il movimento in Valle di Susa. Così ho incontrato le mamme
torinesi. Che sono un passo avanti. Mi spiego: tutte noi ci siamo mosse dopo,
per reclamare la vita dei nostri cari. Le Mamme in piazza per la libertà di
dissenso, invece, sono insieme ai ragazzi e alle ragazze, al loro fianco anche
se non sempre condividono la loro protesta. Come è raccontato in questo bel
libro, appena uscito con il titolo “Carcere ai Ribell3 – Storie di attivist3”
(Ed Multimage), le mamme di Torino sostengono il sacrosanto diritto di non
essere d’accordo con le decisioni imposte da ministri e amministratori. E di
dirlo a voce alta.
Spesso mi sono chiesta, nell’arco delle mie esperienze, che cosa è cambiato: che
differenza c’è tra la repressione agita negli anni ’60 e quella di oggi. Anche
allora polizia e carabinieri picchiavano, e ammazzavano. Ricordo – vivevo a
Milano – che nei giorni più caldi della lotta contro la guerra in Vietnam
dovevamo stare particolarmente attenti quando arrivava la famosa Celere di
Padova. Tuttavia, non tutte le volte si arrivava allo scontro.
Un esempio? Un giorno eravamo andate a sostenere lo sciopero delle commesse
della Standa, eravamo tutte donne e stavamo a braccetto a fare cordone; ai
regolari tre squilli di tromba, che precedevano la carica, abbiamo avuto paura
ma nessuna ha lasciato la stretta. La carica non è arrivata: i manganelli
penzolavano inerti nelle mani degli uomini che avrebbero dovuto aggredirci.
L’ometto con la fascia tricolore li fulminava con minacce sprezzanti ma niente
da fare, quelli non si muovevano, non se la sentivano proprio di sfondare la
fragile barriera tremante di figlie madri sorelle di fronte a loro.
Ricordo che a quel punto ci sono venute le lagrime agli occhi al pensiero di
quello che avrebbero subito quegli uomini. Uomini, appunto. Mi è capitato
raramente, anni dopo, di trovare un uomo o una donna dentro a una divisa. E ho
imparato a non amarle, le divise. Ho imparato che nascondere un essere umano
sotto una divisa equivale, nella maggior parte dei casi, a negare la sua
individualità, la sua umanità, le sue capacità di discernere e di scegliere.
Essere usi a ubbidir tacendo può risultare comodo, risparmia la fatica della
decisione; per questo, io credo, fa male all’intelligenza, e a volte può
avvelenare l’anima.
È stato un caso particolare, è vero, ma a Genova nel 2001 e in Valsusa e a
Torino e a Pisa… in tutti questi anni gli agenti non si sono mai fermati davanti
a donne e nemmeno a ragazzini di scuola media. Perché? Hanno influito, in questo
deterioramento, decenni di impunità. Non penso a una detenzione, naturalmente,
ma a intensi percorsi formativi/rieducativi. Che garanzie può dare una
poliziotta che, alla morte di un ragazzo, conclude soddisfatta “Uno a zero per
noi”?!
In generale – mi chiedo – il nostro Belpaese ha perso forse un po’ della sua
umanità? Se guardiamo le reazioni dell’opinione pubblica a certe notizie (quando
le notizie vengono diffuse), si direbbe di sì. Dopo la guerra, e la Resistenza,
e la difficile ricostruzione, la gente poteva non essere d’accordo ma rispettava
la contestazione. Oggi conosco persone di centrosinistra che, senza sapere nulla
del Centro Sociale, ripetono che “quelli di Askatasuna sono drogati e
delinquenti”. È stata la nuova strategia a partire da Genova 2001: disinformare
prima in modo da avere una maggioranza consenziente e poter agire indisturbati
dopo.
Questo libro, con le storie di Dana, di Cecca, di Emiliano Francesco Jacopo,
delle “Ragazze di Torino”, è prezioso. Prezioso per le testimonianze. Perché
spiega benissimo la sostanza risibile di molte accuse. Prezioso perché
contribuisce ad accendere una luce sulla vita in carcere, luogo solitamente e
volutamente tenuto nel buio. A questo aveva già pensato Nicoletta Dosio con il
suo Fogli dal carcere (i molti testi che si occupano di reclusione sono scritti
per lo più da professionisti per altri studiosi della materia).
Prezioso perché denuncia chiaramente la volontà di punire la o il “ribelle” –
prima ancora della condanna – con tutte le persone di famiglia che subiscono, in
un modo o nell’altro, la stessa pena. L’accanimento su chi ha meno difese
(affettive, fisiche, economiche, sociali). Ricorda ai distratti le
manifestazioni di protesta per Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, uccisi da una
legge criminale che fornisce gratuitamente forza lavoro, giovane e inesperta,
agli industriali.
Si parla anche di vergogna, in questo libro, per le manette, il braccialetto
elettronico, il cellulare che ti accompagna (certamente non per gentilezza) fino
alla porta di casa. Mi viene in mente don Gallo: Su la testa! ci spronava,
ballando sul piccolo palco di piazza Alimonda. Non sono i nostri figli che si
devono vergognare ma chi li persegue!
Un libro prezioso, dicevo: bisognerebbe poterlo diffondere nelle scuole,
suggerirne la lettura alle madri… Io sono vecchia. Nella mia vita ho visto molti
ministri, nei governi di centro destra e di centrosinistra, colpevoli di
devastazione e saccheggio. Devastazione dei territori e saccheggio del bene
comune. Ho visto magistrati strabici, capaci di usare le leggi e leggere le
carte a senso unico, ladri di vite umane. Ho visto amministratori pubblici
interessati più al tornaconto della propria cricca che alle necessità della
cittadinanza, colpevoli di furto. E ho visto giornalisti lacchè umiliare la
propria categoria distorcendo la realtà dei fatti, responsabili di falso.
Per tutti e tutte loro non esiste galera, solo il nostro disprezzo. Sono le
persone come quelle raccontate in questo libro la ventata di aria fresca che,
prima o poi, li spazzerà via.
“Carcere ai Ribell3, Storie di attivist3 – Il carcere come strumento di
repressione del dissenso” a cura di Nicoletta Salvi Ouazzene (Mamme in piazza
per la libertà del dissenso) – Ed. Multimage, € 12.00.
Acquistabile on line (https://multimage.org/libri/carcere-ai-ribell3/) e presso
alcune librerie (per la città di Torino: Libreria Belgravia, Via Vicoforte 14d).
Per restare in contatto e organizzare presentazioni: mammeinpiazza@libero.it –
https://www.facebook.com/mammeinpiazza
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Dopo la prima puntata dedicata alle zone rosse, ecco la seconda dedicata alla
libertà giornalistica e Julian Assange.
Marco Sommariva, della redazione di Osservatorio Repressione ha intervistato
Stefania Maurizi, giornalista e autrice del libro “Il potere segreto – Perché
vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks“– edito da Chiarelettere
La storia di un’incredibile congiura nel racconto della giornalista che ha
pubblicato i principali scoop dai documenti segreti di WikiLeaks e con le sue
inchieste sul caso sta contribuendo in maniera decisiva alla battaglia per
Julian Assange e i suoi giornalisti.
Un storia che nasce dal coraggio Bradley Edward Manning , ora Chelsea Elizabeth
Manning, attivista ed ex militare statunitense. Accusata di aver trafugato
decine di migliaia di documenti riservati mentre svolgeva il suo incarico di
analista di intelligence durante le operazioni militari in Iraq, e di averli
consegnati all’organizzazione WikiLeaks. Arrestata, imputata di svariati reati
contro la sicurezza nazionale e detenuta in condizioni considerate lesive dei
diritti umani. Il suo caso ha suscitato un acceso dibattito in quanto quei
dossier riguardavano l’omicidio di diversi civili iracheni disarmati da parte
dell’esercito americano.
Ascolta la puntata:
https://www.nientedimenomedia.com/post/colpevole-di-giornalismo-s-margini-02
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Il processo per associazione a delinquere nei confronti di alcuni/e militanti di
Askatasuna, del Movimento No Tav e dello Spazio Popolare Neruda sta per giungere
alla conclusione e al netto della cronaca delle singole udienze, comunque vada,
è ora di iniziare a fare un bilancio provvisorio per capire cosa sta succedendo
e dove stiamo andando.
di Associazione a Resistere
La vicenda è piuttosto indicativa di vari aspetti che riguardano non solo i
movimenti sociali, ma i mutamenti della società, della giustizia dei tribunali e
più in generale delle democrazie borghesi.
Proviamo brevemente a riassumere la vicenda (chi volesse comprenderla in modo
più esteso può leggere questo articolo): dal 2019 la DIGOS di Torino porta
avanti un’inchiesta che ha come obiettivo il movimento No Tav, Askatasuna e lo
Spazio Popolare Neruda. E’ un’inchiesta in grande stile con microspie,
telecamere e intercettazioni. Decine di migliaia di euro dei contribuenti
vengono spesi per scavare nella vita di militanti ed attivisti che si battono
contro le grandi opere inutili, la devastazione ambientale, gli sfratti e
l’impoverimento sociale. Alla conclusione delle indagini la Digos guidata da
Carlo Ambra e la Procura vorrebbero contestare il reato di Associazione
Sovversiva ad una settantina di persone tra Movimento No Tav e lotte sociali
torinesi. Peccato che il Giudice per le indagini preliminari smonta tutto, non
solo l’associazione sovversiva, ma anche altri reati pesanti che vengono
ipotizzati dalla Questura come il sequestro di persona. Nonostante l’inchiesta
si riveli un flop parte una canea mediatica di significative dimensioni, nutrita
scientemente dalle veline che la Digos fa quotidianamente trapelare. In questo
contesto la PM con l’elmetto Pedrotta, corre ai ripari e riformula le accuse:
non più associazione sovversiva contro 69 persone, ma associazione a delinquere
contro 16 militanti che, secondo la nuova tesi della procura, si sarebbero
incistati dentro il Movimento No Tav, il centro sociale Askatasuna e lo Spazio
Popolare Neruda per mettere in atto i propri “propositi violenti”. Ecco che qui
assistiamo al primo paradosso.
Il senso della militanza politica
Sì perché una volta caduta l’ipotesi di associazione sovversiva bisogna spiegare
per quali fini gli imputati si sarebbero associati: con un’accusa di questo
genere non basta evidenziare che i soggetti coinvolti hanno commesso
ripetutamente dei reati insieme (cosa che in questo caso non è a sua volta vera
se ci si attiene lo storico dei processi e delle condanne), ma bisogna
dimostrare che questi reati fanno parte di un “programma criminale” condiviso
con dei fini specifici.
L’approccio più ovvio, quello tentato in altre occasioni, è provare a tirare
fuori delle motivazioni economiche. Abbiamo osservato negli ultimi anni diversi
tentativi, di solito finiti nel nulla, in cui le procure hanno perseguito i
movimenti di lotta per la casa o i sindacati di base attaccandosi a presunti
“racket” che regolarmente si sono palesati come invenzioni giudiziarie e
giornalistiche. Ma su questo piano nell’inchiesta Sovrano non c’è ciccia che
sostanzi neanche minimamente le motivazioni economiche. Non che non ci abbiano
provato, almeno per quanto riguarda lo Spazio Popolare Neruda, ma non sarebbe
stata in piedi.
Ecco dunque che Pedrotta e Gatti, come di fatto ammettono in una nelle prime
udienze, vogliono fare un esperimento: vedere se, per la prima volta in un
tribunale, si può dimostrare che la finalità di una associazione a delinquere
può essere la ripetizione di atti violenti di per sé. L’idea quasi lombrosiana
che sottintende l’accusa è che nel caso di Askatasuna la politica è un mezzo per
fare violenza. D’altronde questo è un pregiudizio molto diffuso nei confronti
dei movimenti sociali, specialmente negli ambienti di destra e qualunquisti:
“Quelli vanno agli scioperi/alle manifestazioni solo perché vogliono fare
casino”.
Ovviamente questo tipo di retorica da bar può funzionare sui social network, ma
nel concreto presenta una serie di fallacie logiche, tanto che le motivazioni
cambiano di udienza in udienza. Si spiega che l’obiettivo di questo sodalizio
sarebbe quello di impedire la realizzazione della Torino-Lione, cioè li si
accusa in sostanza di essere No Tav. Poi si aggiunge che la vorrebbero impedire
con l’uso della forza, ma è talmente evidente la sproporzione tra i mezzi delle
forze dell’ordine e quelli dei No Tav che il livello della forza necessaria per
impedire “sul piano militare” il Tav sarebbe totalmente fuori scala per un
movimento popolare come quello valsusino. Questa concatenazione di fallacie
logiche non ha via d’uscita, tanto che il Procuratore Generale Lucia Musti nel
suo comizio all’inaugurazione dell’anno giudiziario è tornata a parlare di
“eversione” tesi già smentita, come abbiamo visto, dal giudice istruttore che
non ha confermato l’accusa di associazione sovversiva.
Il punto è che dietro questa coltre di finalità evanescenti vi è il tentativo di
nascondere il senso della militanza politica. In questa contemporaneità non è
concepibile, o almeno non dovrebbe esserlo secondo i canoni dominanti, che delle
persone antepongano l’idea di agire per il benessere collettivo ai propri
interessi individuali. Ci dev’essere qualcosa dietro: se non sono i soldi e non
è il potere, bisogna tornare a concezioni della devianza di inizio novecento. Ma
per fare ciò non basta il codice penale, bisogna uscire dalle aule di tribunale
e spargere fango.
Character assassination
Le finalità evanescenti proposte dall’accusa non sono l’unico aspetto ballerino
di questo processo, perché non si capisce bene nemmeno chi sia seduto
“effettivamente” sul banco degli imputati. O meglio, dalle carte sono 22 gli
accusati, di cui 16 per Associazione a Delinquere, ma in realtà a seconda delle
occasioni ad essere tirato in ballo è l’intero Centro Sociale Askatasuna e/o
l’intero Movimento No Tav. Spesso condotte individuali vengono attribuite
all’intero movimento e viceversa: condotte collettive vengono trattate come se
attuate da un gruppo ristretto di individui.
Nonostante la PM Pedrotta abbia spesso ripetuto che il processo non sarebbe
stato “contro Askatasuna” varie volte durante il dibattimento le sue
argomentazioni si sono riferite implicitamente all’intero centro sociale.
Ovviamente questo non stupisce: semplicemente non si può dimostrare la tesi
secondo cui un gruppetto di militanti, all’insaputa dei più, si è incistato
dentro un collettivo e ne ha preso il controllo per le proprie finalità. Accusa
particolarmente svilente non solo per chi è finito a processo, ma anche per i
compagni e le compagne che fanno parte di questi percorsi che vengono disegnati
come succubi di un complotto. Dunque si processano questi 16 per processare,
almeno davanti all’opinione pubblica, le intere collettività di riferimento.
Chiunque sia stato almeno una volta ad una marcia No Tav o ad un’iniziativa del
Neruda o conosca la realtà di Aska sa bene che non è così, ma poco importa,
perché sebbene decine di professori universitari, intellettuali, giornalisti,
politici, attivisti tutt’altro che “organici” all’autonomia torinese abbiano
testimoniato in aula che questa regia occulta non esiste, sui giornali viene
settimanalmente ripetuto lo stesso copione.
La narrazione che viene fatta sui media ci dice molto di quali siano i reali
obiettivi della controparte. Ad ogni manifestazione in città o in valle (ed in
alcuni casi anche in manifestazioni nazionali) l’ufficio stampa della Questura
rilascia veline in cui si parla di una regia di Askatasuna. Incredibilmente le
indagini sono estremamente celeri nell’attribuire la responsabilità al centro
sociale torinese il giorno stesso del corteo o il giorno dopo, anche se poi ci
vogliono mesi, se non anni per accertare le responsabilità individuali, in
inchieste e processi che non poche volte si sono conclusi con pene lievi o
assoluzioni per i/le militanti coinvolti/e. Regolarmente la realtà si dimostra
più complessa, persino alla luce delle sentenze dei tribunali in cui
regolarmente negli anni questa tesi è stata smentita. Ma non importa: “una bugia
ripetuta mille volte diventa la verità”, specie se una gran parte dei media
riprende acriticamente tutto ciò che esce dagli uffici di Via Grattoni. Senza
considerare quei “giornalisti” che proprio sulle relazioni speciali con
l’ufficio della Digos ci hanno costruito e ci costruiscono carriere.
Ma se l’obiettivo è tentare di isolare i compagni e le compagne che fanno parte
di Askatasuna mostrandoli come dei burattinai senza scrupoli, nella pratica
questa è rimasta una pura bolla mediatica per tre motivi principali: in primo
luogo le lotte sociali in città ed in valle coinvolgono un tessuto di militanti,
attivisti/e e gente comune molto più esteso e non riconducibile all’autonomia.
Il protagonismo all’interno delle mobilitazioni sociali è ampio, diffuso e
trasversale anche in questi tempi di riflusso generale, dalle assemblee, alle
manifestazioni fino ad i momenti di conflitto sociale. In secondo luogo, è
chiaro a molti e molte che nell’ultimo decennio spesso e volentieri se una regia
delle tensioni di piazza c’è stata questa è imputabile alla Questura. Una
dimostrazione su tutte è quella della gestione di piazza del primo maggio da un
po’ di tempo a questa parte, in cui la tattica della polizia è sempre la stessa:
tentare di negare ripetutamente l’agibilità della manifestazione allo spezzone
sociale che riunisce i movimenti, con la celere che si introduce nel corteo e
carica violentemente sempre negli stessi punti. Questa dinamica, sebbene sui
giornali venga raccontata attraverso le veline di polizia, è ormai ben chiara a
tutti/e coloro che partecipano alla manifestazione, tanto che personalità,
organizzazioni e persino figure istituzionali lontane dall’autonomia hanno preso
posizione su questa gestione della piazza. Ma questa pratica provocatoria non ha
avuto luogo solo in occasione del primo maggio, sono decine negli anni le
manifestazioni in cui la questura ha acuito le tensioni e cercato l’incidente di
piazza. Alcuni esempi possono essere le manifestazioni di EsseNon dove la celere
ha caricato ben dodici volte i manifestanti per impedire la partenza del corteo
oppure la manifestazione degli studenti medi contro l’alternanza scuola lavoro
dove Piazza Albarello è stata blindata e gli studenti e le studentesse sono
stati malmenati ripetutamente. Infine ad essere fallace è il tentativo di
scindere il centro sociale come luogo di socialità e sostegno alla comunità
dall’intervento che i compagni e le compagne portano avanti quotidianamente nei
settori sociali di riferimento, o il tentativo di presentare l’uno come
strumentale all’altro. Chi conosce Aska sa bene che ha portato un contributo in
molte lotte, anche politicamente e giuridicamente costose, a viso aperto non
perché fossero utili a chissà quale fine occulto, ma semplicemente perché erano
giuste e necessarie.
Dunque se non si riesce ad isolare Askatasuna dipingendola come la centrale
della violenza lo si tenta di fare attraverso la calunnia. Fin dall’inizio di
questa vicenda si sono susseguite fughe di notizia ad hoc che utilizzando
spezzoni di intercettazioni estratte dal loro contesto e sapientemente
selezionate hanno provato a spargere fango sulla coerenza dei compagni e delle
compagne coinvolte nel processo. Battute infelici e conversazioni private sono
state selezionate per presentare i/le militanti come razzisti, antisemiti,
insultanti della memoria partigiana e chi più ne ha più ne metta. Una vera e
propria campagna diffamatoria il cui scopo processuale secondo la procura era
dimostrare che le persone coinvolte utilizzavano determinate istanze politiche
per i propri fini occulti, anche se spesso leggendo i brogliacci completi delle
intercettazioni erano gli/le stessi/e militanti a schernirsi per queste battute,
ad affermare che si stava scherzando e a sottolineare il contesto ironico in cui
erano state fatte. Ma lo scopo reale della diffusione di queste intercettazioni
è delegittimare di fronte all’opinione pubblica, tentando di influenzare il
processo, le lotte e le posizioni politiche espresse da Askatasuna, dal Neruda e
dal Movimento No Tav.
Si tratta di un tipico tentativo di “character assassination” in questo caso
mosso contro delle realtà politiche e sociali invece che verso singoli
individui. La “character assassination” è una strategia mediatico-politica ormai
consolidata che consiste in un attacco intenzionale e duraturo atto a
distruggere la credibilità e la reputazione di una persona o di un gruppo
sociale. Può scaturire da invettive, false accuse, esagerazioni, mezze verità
fuorvianti o manipolazione dei fatti, per presentare un quadro falsato della
persona o del gruppo preso di mira. In quest’epoca in cui la sfera mediatica è
diventata così centrale non sono pochi i casi in cui questo tipo di strategie
hanno influenzato elezioni, processi e addirittura l’economia (è noto come
questo genere di attacchi sia spesso utilizzato da fondi speculativi che
scommettono contro un dato operatore economico e che hanno interesse nel vederlo
affondare).
Questi tentativi di distruggere la reputazione diventano particolarmente infami
quando vi è una profonda asimmetria di potere come nel caso del processo di cui
stiamo parlando. Da un lato vi sono istituzioni dello stato, i principali media,
politici di ogni risma e colore e squali in cerca di notorietà, dall’altro delle
realtà autorganizzate a cui è spesso negata ogni possibilità di replica e i cui
social media addirittura vengono chiusi un mese ogni tre per via di una presunta
“pericolosità sociale” o perché sostengono cause scomode come quella del popolo
palestinese e della rivoluzione confederale del Rojava.
Ma nonostante i quintali di letame che sono stati spalati contro Aska, il Neruda
ed il Movimento No Tav il punto è che se le accuse che vengono mosse non hanno
neanche un briciolo di aderenza con il reale le persone che conoscono l’agire
politico di queste realtà si fanno al massimo una amara risata. Non bastano le
trasmissioni della TV sovranista e gli editoriali del giornalismo compiacente a
far cambiare idea a chi conosce bene il contesto in cui si muovono questi
tentativi. Tanto che ultimamente si leggono articoli in cui le persone di
buonsenso che non si allineano alla narrazione dominante vengono indicati come
“fiancheggiatori”, come utili idioti ecc… ecc… utilizzando ancora una volta un
lessico atto a richiamare gli anni ’70 in una versione squisitamente italiana
della “Reductio ad Hitlerum”, ma di segno opposto.
Quali partite si giocano
E’ chiaro che Askatasuna, il Neruda ed il Movimento No Tav sono dei bocconi
indigesti per molti. Ma il processo in corso si inserisce in un quadro di
interessi più ampi che tangenzialmente o direttamente toccano questa vicenda.
Il nodo più ovvio di questo intreccio di interessi è quello dei vari
post-fascisti che ormai occupano poltrone ai diversi livelli istituzionali, ma
che a Torino hanno avuto vita dura, non solo per via di Askatasuna, ma per un
diffuso sentimento di rifiuto che in città permane nei loro confronti.
Personaggi della risma dell’abbaiatrice Augusta Montaruli o dell’ex-consorte
Maurizio Marrone non aspettavano altro che sedere su qualche scranno
istituzionale per levarsi il sassolone dalla scarpa. Ed infatti non sono mancate
le pressioni “poco istituzionali” ed addirittura le leggi regionali
“ad-askatasunam”.
La mentalità di questi figuri è quella di una giustizia selettiva che deve
colpire nemici e poveri, mentre deve essere indulgente verso i ricchi e potenti,
o almeno verso quelli amici. Ciò è evidente se si guarda al garantismo ostentato
in molte delle vicende che hanno coinvolto membri del governo, come ad esempio
la ministra del turismo Santanché, a fronte di un giustizialismo feroce rivolto
verso Askatasuna ed il Movimento No Tav. Ma se questo fa parte ormai della
tradizionale ipocrisia di una classe politica che è quasi sempre sovrapponibile
ad un determinato comitato d’affari, qualche timore in più dovrebbe nascere dal
fatto che un assessore regionale utilizzi la sua posizione per scrivere una
legge ad hoc contro degli avversari politici.
Su un piano più generale si possono osservare dinamiche simili a quelle di tutte
le medie e grandi città governate dal centrosinistra. Queste vengono considerate
dal governo alla stregua di ultime sacche di opposizione dentro un paese che,
complice la sfiducia totale nella politica istituzionale ed un voto che ormai è
sempre più per censo, ha svoltato a destra. In questo quadro abbiamo assistito
negli ultimi mesi allo scontro istituzionale tra le istituzioni locali ed
esponenti del governo in occasione di fatti come la marcia fascista a Bologna.
Il terreno su cui la destra locale e nazionale attacca il governo della città di
Torino è ossessivamente atto a costruire una percezione di un luogo in preda ad
una violenza politica fuori controllo. A fare da sponda a questa narrazione ci
ha pensato il Procuratore Generale Lucia Musti che come accennato sopra ha
definito Torino la “capitale dell’eversione”.
In questo solco si inserisce un partito trasversale che più che alle moine sulla
sicurezza è interessato agli affari. Un partito che vede nei movimenti sociali a
Torino ed in valle un fastidioso intralcio ai piani di messa a valore dei
territori. Molti di quelli che oggi chiedono il pugno duro contro Askatasuna
sono gli stessi che hanno partecipato alla piazza “spontanea” delle madamine nel
settembre del 2018, tra di essi vi è il Ministro della Pubblica Amministrazione
Paolo Zangrillo, ex medico personale di Silvio Berlusconi, che di recente ha
concesso una intervista al Corriere chiedendo lo sgombero di Askatasuna. Ad
affollare le fila di chi vorrebbe entrare nel partito vi sono tutta una serie di
figure in cerca d’autore, come il sempreverde Stefano Esposito che dopo una
parentesi garantista dettata dai suoi guai giudiziari è tornato a rilasciare
interviste e partecipare a talk televisivi in cerca di una nuova notorietà,
naturalmente sempre sulle spalle dei No Tav.
Tra questi naturalmente spicca il coagulo di interessi e poteri legati alla
realizzazione del Tav Torino-Lione. Anche in questo caso il processo ha avuto
uno svolgimento singolare: mentre la retorica di Telt e dei suoi addentellati
politici è che l’opera arriverà a compimento a breve, che i lavori corrono
veloci e che il Movimento No Tav è ormai sconfitto, dall’altro lato vengono
fatte richieste danni spropositate nei confronti degli attivisti e delle
attiviste e si cerca di attribuire da più parti il ritardo nel cronoprogramma
dell’opera al movimento. Delle due l’una: o i No Tav stanno realmente incidendo
sulla realizzazione della Torino-Lione oppure tutto procede liscio come l’olio.
La realtà è un’altra: come ha più volte sostenuto il movimento l’opera è dal
punto di vista ingegneristico un incubo, è estremamente dispendiosa e più che la
realizzazione dell’opera in sé tra chi la promuove ciò che interessa è il flusso
di denaro da spartirsi. Niente possono le svariate inchieste che ormai hanno
provato le infiltrazioni mafiose nei cantieri: il 10 gennaio il Consiglio di
Stato ha sospeso l’interdittiva antimafia per Co.Ge.Fa azienda coinvolta nei
lavori complementari del TAV Torino-Lione finita nel mirino dell’inchiesta
della Dda di Torino sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta. Miliardi di euro di
denaro pubblico vengono dilapidati nella voragine del TAV tra scandali
giudiziari e problemi ingegneristici, ma l’associazione a delinquere sarebbe
composta dagli attivisti e dalle attiviste che difendono il territorio da questo
mostro ecocida?
Non bisogna infatti dimenticarsi che questa inchiesta è iniziata ben prima che
il Governo Meloni salisse al potere. E’ diventata operativa a partire dal 2019,
nel periodo in cui Salvini dal Papeete fece crollare il governo Conte I proprio
con la scusa della reticenza che il Movimento 5 Stelle aveva mostrato nei
confronti dell’opera. E’ difficile non pensare che i due fatti siano in qualche
modo connessi, e cioè che dopo la caduta del governo i vari interessi coinvolti
volessero mettere al sicuro definitivamente la costruzione dell’opera
sgomberando il campo da una forza sociale come il Movimento No Tav che, dal
basso e senza mai entrare nelle istituzioni, era riuscita a mettere in
discussione questo spreco di denaro pubblico. Non va dimenticato che la prima
versione dell’inchiesta coinvolgeva un numero significativo di militanti ed
attivisti/e del movimento. Forse più che impedire il taglio di qualche metro di
concertina e le battiture ai cantieri l’obiettivo era quello di dimostrare che
un movimento popolare di massa non può contare ed incidere realmente. La storia
confermerà o smentirà questa ipotesi, ma molti elementi ad oggi lo fanno
pensare.
Infine non si può non inserire questa vicenda all’interno di un contesto
nazionale ed internazionale in cui al sommarsi di crisi ecologiche, sociali ed
economiche rispondono i tamburi di guerra. Quasi ovunque osserviamo un
restringimento degli spazi di libera espressione e della possibilità di
organizzarsi per lottare per i propri diritti. Vediamo tentativi di introdurre
leggi preventive, come il DDL Sicurezza, che più che rispondere ad un effettivo
dilagare del conflitto sociale ha obbiettivi propagandistici, ideologici e di
normalizzazione della società in vista dei tempi di guerra che ci attendono.
L’uso degli strumenti giuridici dedicati alla criminalità organizzata nei
confronti dei movimenti politici non ha riguardato solo Askatasuna, il Neruda ed
il Movimento No Tav: negli ultimi anni abbiamo visto fioccare accuse di
associazione a delinquere nei confronti dei sindacati conflittuali, della lotta
per la casa e degli attivisti climatici. Il sistema di sviluppo in cui siamo
costretti a vivere è talmente incapace di offrire la prospettiva di una vita
dignitosa per una parte significativa della società che non può fare altro che
tentare di rivolgere la rabbia altrove e agire preventivamente cercando di
impedire che ci si organizzi dal basso per costruire un mondo più giusto e più
libero.
Resistere
Questa vicenda ci mostra il pozzo nero in cui questo sistema politico-sociale ci
sta gettando. Alcuni stanno iniziando a rendersi conto che quanto sta succedendo
ai compagni ed alle compagne coinvolte non riguarda solo Askatasuna ed il
Movimento No Tav, ma ha a che fare con l’intera società. E’ uno dei molteplici
sintomi della barbarie che ci attende se non si riuscirà ad invertire il corso.
Ma quanto sta succedendo ci offre anche alcune lezioni importanti per provare a
resistere. Nonostante tutto il fango, la violenza istituzionale e la disgustosa
tela ordita intorno al processo i compagni e le compagne coinvolti/e non sono
soli/e, ma c’è un’intera comunità al loro fianco. Ciò perché sebbene con limiti,
fatiche e pesanti tentativi di silenziamento le realtà di cui fanno parte hanno
sempre rifuggito l’autoreferenzialità, hanno sempre pensato che la
trasformazione sociale è possibile solo partendo dai bisogni e dalle aspirazioni
degli oppressi, degli sfruttati per quanto questi bisogni ed aspirazioni possano
essere nascosti, mistificati, compressi dentro la desolante quotidianità del
presente.
Essere militanti in questi tempi vuol dire avere pazienza, sopportare le
frustrazioni, provare ad adottare uno sguardo lungo, ma non rinunciare
all’agire. Senza isteria, senza fughe in avanti. Bisogna rendersi conto che ciò
che ci separa dai nostri compagni di lotta è una bazzecola in confronto al
futuro che ci si prospetta davanti e che gli sterili politicismi, i
posizionamenti ideologici, le divisioni che ci vengono imposte dall’alto servono
solo il progetto della controparte. Serve discutere francamente, senza timore e
senza paranoie, ma consapevoli che il nemico è altrove.
Serve “uscire dalle nostre stanze”, dai perimetri che ci hanno imposto, ma che
spesso ci siamo imposti/e da soli/e alla ricerca della purezza ideologica, di
referenti sociali privi di contraddizioni, di situazioni che non ci mettessero
in difficoltà con la nostra coscienza. Serve contribuire alla costruzione di
identità collettive che non grondino di romanticismo per un passato ormai
andato, ma che di quel passato comprendano le intuizioni, le possibilità ancora
inesplorate per parlare a quelle persone che condividono con noi la carrozza di
coda su questo treno in corsa verso un binario morto. Serve comprendere che
intorno a noi è pieno di gente che soffre, che è incazzata, che non sopporta più
questo stato di cose, ma non capisce la lingua che parliamo, non ci vede come
un’opzione credibile, a volte non sa neanche che esistiamo se non nella versione
macchiettistica che dipingono di noi media e politica.
Serve prendersi sul serio, perché la situazione è dannatamente seria. Serve più
capacità organizzativa e meno strette organizzative, più intelligenza
collettiva, più fantasia, più studio. Dobbiamo essere in grado di muoverci in un
contesto estremamente complesso, ma con una chiarezza limpida rispetto a ciò che
pensiamo, che comunichiamo, che pratichiamo.
Essere militanti vuol dire scegliere di assumersi delle responsabilità che
nessuno ci ha imposto, ma che ci siamo addossati/e perché riteniamo che possa
esistere un futuro migliore di quello che ci è stato consegnato e con
pragmatismo, cura e coerenza proviamo a realizzarlo.
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Ai più non è chiaro che oggi stiamo assistendo, sia in Italia sia in Europa, a
una criminalizzazione del dissenso politico
di Marco Sommariva*
La curatrice del libro Carcere ai ribell3, Nicoletta Salvi Ouazzene, è
un’attivista del Comitato “Mamme in piazza per la libertà di dissenso”, nato nel
2016.
Il Comitato nasce per iniziativa delle mamme di alcuni dei ventotto giovani
attivisti e attiviste torinesi, sottoposti a misure cautelari in seguito alle
denunce per fatti legati alla lotta NoTav della vicina Valsusa, e alle lotte
studentesche e sociali praticate in città: opposizioni agli sfratti e
occupazioni di stabili per svolgere attività del protagonismo giovanile o per
l’accoglienza di famiglie senza casa.
Attraverso le vicende di figli e figlie è nata la presa di coscienza politica di
queste madri – alcune già attiviste, altre invece che non s’erano mai
interessate di politica – tutte consapevoli di vivere in una società sempre più
sbilanciata, in cui il dissenso e la protesta vengono fortemente repressi nel
tentativo di far tacere qualsiasi voce contraria, mentre nel paese continuano a
perpetrarsi forme di ingiustizia e discriminazione.
Il libro – edito recentemente da Multimage APS, un’associazione editoriale senza
fini di lucro – racconta come questo collettivo ha condiviso e vissuto, per
anni, le storie di attivisti e attiviste finiti in carcere a causa del loro
impegno per un mondo più giusto.
Sono molti gli aspetti interessanti messi in risalto da queste pagine, su cui
sarebbe meglio soffermarsi a ragionare
Purtroppo, ai più non è chiaro che oggi stiamo assistendo, sia in Italia sia in
Europa, a una criminalizzazione del dissenso politico, a un deciso giro di vite
che sta colpendo, per esempio, il movimento di solidarietà per la Palestina o le
proteste per la giustizia climatica o contro le grandi opere.
Non a caso, uno degli aspetti cruciali che emergono come elemento comune dal
rapporto che Amnesty International ha lanciato nel luglio del 2024, sullo stato
di salute del diritto di protesta in ventuno paesi europei, è l’attacco senza
precedenti al diritto di manifestare pacificamente in Europa dove, con sempre
maggior frequenza, le manifestazioni pacifiche sono state disperse attraverso un
uso eccessivo e non necessario della forza.
Ma il problema è più esteso: l’uso della forza s’accompagna a una tendenza
generalizzata all’impunità diffusa per quanto riguarda le violazioni delle forze
dell’ordine durante le proteste, spesso anche per la mancanza di meccanismi di
inchiesta indipendenti.
Uno dei tanti rischi che stiamo correndo è che questo insieme di misure e
strumenti repressivi stanno creando un progressivo “effetto intimidatorio” che
frena la partecipazione alle proteste.
Anche in Italia, che fa parte dei paesi analizzati dall’approfondita ricerca di
Amnesty International, lo stato di salute del diritto di protesta e al dissenso
versa in condizioni estremamente precarie.
Tra gli aspetti più preoccupanti di questa tendenza autoritaria, riscontriamo il
grave incremento nell’utilizzo e l’estensione dell’ambito di applicazione delle
misure amministrative di prevenzione – in particolare “DASPO urbano” e “foglio
di via” – ai danni di attiviste e attivisti pacifici e sindacalisti, ma non solo
di questi.
La gravità di queste misure cautelari si fonda sul fatto che vengano emesse
sulla base di una valutazione vaga e non ben precisata di “pericolosità
sociale”, molto spesso dedotta da segnalazioni di polizia non fondate su un
esame individuale delle circostanze specifiche né su procedimenti penali né su
condanne di alcun tipo.
Come racconta l’avvocato Novaro, uno dei legali della difesa delle vicende
riportate su queste pagine, in tutti gli episodi esaminati in questo libro la
decisione finale, sia che si tratti di provvedimenti emessi dal tribunale di
sorveglianza in sede esecutiva sia che si tratti di ordinanze cautelari, muove
al di là dei diversi criteri disposti dal legislatore che sovrintendono alle
differenti valutazioni, perché si è partiti dal presupposto che si stava
trattando di soggetti pericolosi per la sicurezza pubblica.
Per questo è stato possibile che si arrivasse alla carcerazione pur in presenza
di fatti e condanne di lieve entità.
In pratica, si è dovuto fare i conti, e ancora lo si deve fare, con una delle
principali risposte giudiziarie a fronte di fatti non gravi connessi alla
protesta sociale: la pena detentiva.
Fra le tante cose, Carcere ai ribell3 ci racconta anche qual è il sapere che
porta la polizia alle segnalazioni prima citate. È il frutto di anni di
pervasivo monitoraggio delle aree politiche più radicali e impegnate nella
protesta, un prodotto che diviene la fonte centrale, molto spesso l’unica, a cui
la magistratura guarda per calibrare le proprie decisioni: capita sempre più di
frequente che l’architrave della costruzione accusatoria sia costituito proprio
da schede compilate e annotazioni trascritte dalla polizia.
Si può immaginare quale sia l’approccio a questo genere di segnalazioni,
funzionale alle esigenze di repressione; per cui, si sprecherà l’amplificazione
a dismisura dei fatti e dell’importanza del ruolo ricoperto dai diversi
protagonisti che dovranno risultare come nemici dell’ordine costituito e
socialmente pericolosi.
Per l’ordine costituito è un lavoro importantissimo: non si tratta solo di
un’allergia alla protesta sociale, di una volontà di silenziarla e
neutralizzarla, ma di una vera e propria messa in campo di strategie di tipo
preventivo, dissuasivo che alimentino la disaffezione alle forme di lotta
collettive.
Quanto leggiamo su questo libro è, appunto, che la protesta sociale non è una
risorsa ma un pericolo per l’ordine costituito, e coloro che se ne fanno
portatori sono dei soggetti ostili, riprovevoli, da sanzionare.
I diversi provvedimenti giudiziari attuati costituiscono un tassello importante
per quel processo di costruzione sociale del nemico di cui il potere ha sempre
bisogno, fungono da rassicurazione collettiva.
Questo libro dà la parola ai protagonisti dei provvedimenti repressivi,
attraverso la raccolta di loro testimonianze capaci d’iniziare a destrutturare
la narrazione distorta ormai imperante perché, come in altri paesi europei, pure
in Italia la criminalizzazione dell’attivismo pacifico passa anche attraverso
una narrazione mediatica tossica, poi strumentalizzata per approvare leggi che
restringono in maniera progressiva il diritto di protesta.
Spesso, a essere attaccata direttamente è la disobbedienza civile, sempre più
modalità d’azione di gruppi per la giustizia ambientale.
Chiudo con due estratti dal libro Elogio della disobbedienza civile di Goffredo
Fofi, edito da Nottetempo nel 2015.
Questo il primo: “Un’ingiustizia subita o vista subire da altri è una forma di
violenza che, dice Thoreau e insiste Gandhi, non va accettata e a cui è doveroso
ribellarsi. La differenza tra Thoreau e Gandhi comincia con il discorso sui
mezzi. Thoreau non esclude affatto […] il ricorso ai mezzi violenti; Gandhi […]
si è limitato a dire che soltanto in casi davvero estremi, il ricorso alla
violenza può essere giustificato (ma entrambi hanno anche affermato che peggio
del violento è l’ignavo, il vigliacco)”.
E questo il secondo: “Quel tanto di disobbedienza civile che ancora oggi si
pratica, nonostante tutto, nel nostro paese, è visto con fastidio dall’ex
sinistra, e lo spettro dei pochi facinorosi […] serve per vituperare e reprimere
i giusti, coloro che hanno osato e ancora osano dire no a leggi inique, a
imposizioni autoritarie. Fino al paradosso di aver visto, come nel caso dei
no-Tav della Val di Susa, schierati da un lato tutti i sindaci della zona, “in
borghese” e con tanto di fascia tricolore e ovviamente disarmati, e dall’altro
poliziotti e celerini senza volto e dalle figure deformate da scudi e visiere,
armati di fucili e manganelli e grappoli di bombe lacrimogene. Dov’era lo Stato,
in quel caso? Chi era lo Stato?”
Un’ultima cosa: i proventi del libro andranno alla cassa di solidarietà delle
“Mamme in piazza per la libertà di dissenso”, per sostenere le attività a favore
delle persone private della libertà, tipo l’acquisto di libri, riviste,
abbonamenti a quotidiani, ventilatori, sostegno a detenuti/e indigenti,
eccetera.
*scrittore sul sito www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni
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L’Italia resta una dura Terra Promessa dove un’umanità umiliata, sfinita dal
lavoro, è sempre sfruttata e mal pagata
di Marco Sommariva*
Giorni fa, ho letto sul quotidiano Avvenire un interessante articolo intitolato
In Sicilia. I disperati delle arance: 30 euro al giorno per 15 ore di lavoro.
Il giornalista che firma il pezzo, Alessandro Rapisarda, ci racconta di un
terreno del comune di Paternò, nel Catanese, dov’è forte la presenza di tende e
baracche, tra la maestosità dell’Etna e gli agrumeti della Valle del Simeto.
Rapisarda è andato di persona a verificare il perché di questo accampamento e ha
scoperto d’essere arrivato a destinazione, quando ha visto su un’inferriata
“indumenti e scarpe lasciati ad asciugare”; poi, dopo aver mosso pochi passi,
“tra ruderi e spazzatura […] ecco il campo trasformato in ritrovo e rifugio di
decine di immigrati”.
Sono uomini e donne che hanno attraversato il Nord Africa e hanno poi seguito la
rotta dei Balcani per entrare in Italia: sei mesi in viaggio a piedi o con mezzi
di fortuna.
«Sono soprattutto tunisini e marocchini, dai venti ai trent’anni, vivono qui
senza luce e senz’acqua», spiegano i volontari della Caritas al giornalista.
I rifugiati raccontano a Rapisarda una realtà di sfruttamento, una feroce
competizione tra disperati: sono la forza lavoro indispensabile per la raccolta
di agrumi che verranno poi distribuiti sui mercati del Nord Italia e di buona
parte dell’Europa.
È un lavoro che li occupa anche quindici ore al giorno per raccogliere arance a
novanta centesimi a cassa, così da raggranellare a fine giornata circa trenta
euro.
Le persone incontrate dal giornalista hanno gli infradito ai piedi nonostante il
freddo e denunciano di non trovare un posto dove abitare perché, a Paternò, non
affittano agli stranieri, oltre a raccontare che si son sentiti chiedere anche
un euro l’ora, per attaccare alla presa di un bar il proprio cellulare – la cosa
più preziosa che posseggono.
In quello stesso campo, quasi un anno fa un giovane di ventiquattro anni è stato
ucciso durante una lite mentre, qualche mese dopo, una rissa ha provocato il
ferimento di un ragazzo. «Siamo tutti qui per sopravvivere. Quando hai fame e
non trovi lavoro, è facile che nascano problemi, ma desideriamo solo una vita
migliore».
Non so a voi ma, a leggere tutto questo, a me è tornato in mente Furore, il
famoso romanzo di John Steinbeck: pubblicato nel 1939 è divenuto il romanzo
simbolo della Grande Depressione americana, la grave crisi economica e
finanziaria che colpì gli Stati Uniti tra la fine degli anni Venti e l’inizio
degli anni Trenta. Il giorno in cui Franklin Delano Roosevelt si insediò alla
presidenza, il 4 marzo 1933, si trovò di fronte una crisi disastrosa. Quella
mattina le banche di Chicago e di New York, i centri gemelli del capitalismo
americano, chiusero i battenti, seguendo l’esempio dato il mese prima da tutte
le altre banche del paese – il sistema bancario era completamente crollato sotto
il peso del ritiro dei depositi da parte dei clienti presi dal panico.
I disoccupati arrivarono a essere fra i dodici e i quindici milioni, un quarto
dei lavoratori di tutti gli U.S.A.
Nella penosa marcia della famiglia Joad che si racconta in Furore, un’odissea
verso gli aranceti della California vissuta da migliaia e migliaia di americani,
è ripercorsa la storia delle grandi, disperate migrazioni – non ha importanza se
interne o esterne –, verso lo sfruttamento, la miseria, la fame: un quadro
potente e amaro di una dura Terra Promessa dove la manodopera è sempre sfruttata
e mal pagata, dove ciascuno porta con sé la propria miseria come un marchio
d’infamia.
Mi domando se i caporali che ogni mattina reclutano parte di questi disperati e
anche chi, gerarchicamente parlando, sta sopra a questi caporali, abbiano mai
letto Furore. Consiglierei loro vivamente di farlo. Ma sapendo che la pratica
assidua e quotidiana di soprusi e violenze li sfianca e a fine giornata sono
talmente stanchi da non avere neppure la forza di aprire un libro, suggerisco io
una mezza dozzina di passaggi che ho estratto apposta per loro, su cui li invito
a ragionare un poco:
“[…] la linea di demarcazione tra fame e furore è sottile come un capello”.
“[…] gli occhi dei poveri riflettono, con la tristezza della sconfitta, un
crescente furore. Nel cuore degli umili maturano i frutti del furore e
s’avvicina l’epoca della vendemmia”.
“Si diventa cattivi, a sentirsi inseguiti”.
“È la miseria che fa diventar cattivi”.
“Non sarebbe mai venuta la fine finché la paura si fosse tramutata in furore”.
“Ci son tante cose contro la legge, che però bisogna fare lo stesso”.
Ci sarebbero altri libri di Steinbeck sull’argomento, che consiglierei un po’ a
tutti di leggere: uno è il romanzo La battaglia, dove si narra la storia di uno
sciopero di braccianti, del suo fallimento e di uomini che trasformano la
propria disperazione in lotta per il riconoscimento dei propri diritti
fondamentali; l’altro è intitolato I nomadi, ed è una raccolta di articoli: nel
1936, nel pieno della Grande Depressione, il San Francisco News commissiona a
John Steinbeck una serie di articoli sulla condizione dei braccianti agricoli
immigrati in California. Sono americani del Midwest, colpiti dalla crisi e
costretti a fuggire dalle tempeste di sabbia della Dust Bowl. Steinbeck sale su
un furgone da panettiere e inizia il suo viaggio fra le vallate della
California, dove s’imbatte in un’umanità sfinita dal lavoro, umiliata, in un
popolo di senza terra, schiacciato dall’economia e dalla natura infuriata.
Incontra famiglie, un tempo orgogliose, scivolate nella povertà e in un’apatia
senza ritorno.
Per i “signori” caporali e a chi sta loro sopra, torno a permettermi di
segnalare una mezza dozzina di passaggi del primo, mentre agli indigeni e a chi
li governa segnalo un unico passaggio del secondo.
Inizio con La battaglia:
“Qualcuno ha da schiattare se si vuole che la massa esca una buona volta da
questo scannatoio”.
“Talvolta quando la gente non ne può più, è allora che si batte meglio”.
“Nulla da perdere all’infuori delle catene”.
“[…] odiamo il capitale investito che ci tiene schiavi”.
“Si è un po’ stufi di uno che ha sempre ragione”.
“[…] un uomo affamato non è tenuto alle regole”.
Termino con I nomadi:
“Se […] la nostra agricoltura richiede che sia creata e mantenuta a ogni costo
una classe di bassa manovalanza, allora si dà per scontato che l’agricoltura
californiana non sia economicamente sostenibile in un regime democratico. E se
per garantirci la sicurezza economica sono necessari la violenza e
l’annientamento dei diritti umani, le fustigazioni, gli omicidi commessi dagli
agenti, i rapimenti e il rifiuto di tenere processi davanti a una giuria, si dà
anche per scontato il rapido declino della democrazia in California”.
Basterà sostituire Italia e italiani a California e californiani per capire
come, a distanza di quasi novant’anni, non sia cambiato pressoché nulla, se non
il teatro della vicenda.
Sono secoli che la letteratura ci avvisa, allerta sulle tragedie che egoismo e
avidità possono generare, e anche se non c’è verso di vedere l’Uomo fare un
passo indietro, io continuerò a leggere comunque. Fosse anche solo per avere
materiale con cui scrivere articoli come questo.
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La fine della prigionia del leader curdo è una delle condizioni fondamentali per
l’avvio di colloqui di pace tra lo Stato turco e il Partito dei lavoratori del
Kurdistan (Pkk). A Roma l’appuntamento sarà a piazzale Ugo La Malfa alle 14.30 a
Milano in largo Cairoli alle 14,30
di Rete Kurdistan Italia
Il 15 febbraio 2025 segnerà il 26esimo anniversario della cattura di Abdullah
Öcalan, il leader storico del movimento curdo e figura centrale nella lotta per
i diritti e l’autodeterminazione del popolo curdo. Dal 1999, Öcalan è detenuto
in isolamento sull’isola-prigione di Imrali. La sua prigionia rappresenta un
simbolo della più ampia repressione contro le rivendicazioni curde, ma anche
della difficoltà della Turchia nell’affrontare una soluzione politica e pacifica
a un conflitto che perdura da decenni.
La liberazione di Abdullah Öcalan non riguarda soltanto la giustizia per un uomo
imprigionato in condizioni che violano il diritto internazionale e lo stesso
sistema giuridico turco, ma costituisce anche un passo fondamentale per la
costruzione di una pace duratura tra lo stato turco e il popolo curdo. Nel corso
degli anni, Öcalan ha più volte espresso la sua disponibilità a negoziare e a
promuovere la pace, avanzando proposte che prevedono il riconoscimento dei
diritti dei curdi all’interno di una Turchia democratica e pluralista.
In tutto il paese, le pratiche utilizzate sull’isola di Imrali sono state estese
per soffocare ogni forma di dissenso e di opposizione che veda nella soluzione
politica della questione curda una possibile svolta verso una trasformazione
democratica dell’intero Medio Oriente.
> Attraverso la prigionia di Abdullah Öcalan, lo Stato turco non solo cerca di
> isolarlo fisicamente come individuo, ma mira anche a soffocare i risultati
> democratici emersi dalle sue idee.
Il 28 dicembre scorso, una delegazione del Partito DEM, composta dai
parlamentari Sırrı Süreyya Önder e Pervin Buldan, ha incontrato Abdullah Öcalan
nell’isola-prigione di Imrali. Si trattava del primo incontro completo con
Öcalan dopo nove anni, a seguito dei negoziati del 2015 tra lo stato turco e il
Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) interrotti da Erdogan. Questo
incontro è stato preceduto da una visita familiare, avvenuta a ottobre, con il
nipote Omer Öcalan.
Pur rappresentando un segnale positivo, considerando che Öcalan era stato
sottoposto a un isolamento totale per quasi quattro anni, le condizioni della
sua detenzione rimangono inaccettabili e continuano a costituire un ostacolo a
un possibile nuovo processo di pace. Infatti, se i colloqui avviati a Imrali
dovessero portare a una nuova fase negoziale, essi non sarebbero né equi né
trasparenti se una delle parti fosse costretta a parteciparvi in condizioni di
prigionia, senza la possibilità di comunicare liberamente con il proprio
movimento politico e con il popolo curdo.
Le implicazioni di un nuovo processo di pace non si limitano ai confini turchi.
Un possibile accordo potrebbe infatti rimuovere l’ostacolo maggiore per
l’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est (Rojava) nella
partecipazione alla costruzione di una nuova Siria, dopo la fine del regime di
Assad. Le minacce, le pressioni e le operazioni militari turche, che attraverso
i suoi mercenari ha già occupato vasti territori del Rojava, minacciano di
distruggere la rivoluzione delle donne del Rojava e di sfollare i popoli che la
portano avanti.
> Il Confederalismo Democratico, proposto da Abdullah Öcalan, ha innescato un
> risveglio sociale in tutto il Kurdistan.
Per queste ragioni invitiamo tutti i partiti, organizzazioni politiche e
umanitarie, sindacati, collettivi e singoli solidali a partecipare alle
manifestazioni che si terranno a il 15 Febbraio 2025 alle 14.30 a Roma, piazzale
Ugo La Malfa alle 14.30, e Milano, a largo Cairoli.
Per adesioni: info.uikionlus@gmail.com
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Il 15 gennaio i giudici dell’udienza preliminare che avrebbe dovuto avviare il
processo a 12 militanti anarchici/e, a partire dall’inchiesta “Sibilla”, hanno
sentenziato il “non luogo a procedere”. Le imputazioni erano, in un primo tempo,
niente meno che “associazione sovversiva a finalità di terrorismo” (il
famigerato articolo 270bis), per poi ridimensionarsi a “istigazione a delinquere
aggravata dalla finalità terroristica”. Oggetto dell’indagine quanto pubblicato
sul giornale di area anarchica “Vetriolo”, a cui aveva indirizzato lettere e
interventi anche Alfredo Cospito. Tant’è che fu proprio questa imputazione,
avviata nel 2021, a motivare per prima l’imposizione del 41bis ad Alfredo
Cospito.
“Così ad un’operazione di pura repressione, addirittura della libertà di
pensiero e parola, si è poi sovrapposto lo scontro sul 41bis, animato dall’
intransigente sciopero della fame di Alfredo. Il movimento di lotta e
solidarietà (con carattere pure internazionale) ha quindi inciso sul rapporto di
forze, e sulle sue ripercussioni giudiziarie. La stagione dei processi per vari
episodi che hanno costellato questo movimento, è iniziata da poco e durerà a
lungo. Questo passaggio ci sembra decisamente una bella vittoria, soprattutto
per la determinazione dei compagni e delle compagne a trasformarlo in processo
politico, in riaffermazione delle ragioni rivoluzionarie e mettendo al centro
dell’accusa il regime di tortura a nome 41bis. Ed anche una forte risposta,
preventiva si potrebbe dire, all’incombente reato di “terrorismo di parola”
contenuto nel ddl1660. Un esempio di come si affronta la repressione! Una
vittoria con cui rilanciare la mobilitazione contro il 41bis nei prossimi mesi”
scrivono in un comunicato la Rete dei Comitati e Collettivi di Lotta e Soccorso
Rosso Internazionale nel commentare la sentenza.
Radio Onda d’Urto ha sentito Francesco compagno di Carrara coinvolto nel
processo Ascolta o scarica
Nell’ intervista Francesco ci ricorda anche l’appuntamento del 28 febbraio a
Massa: Presenza solidale con gli anarchici inquisiti nell’operazione Scripta
Scelera (Massa, 28 febbraio 2025)
Qui è possibile leggere gli interventi in tribunale, a cominciare da quello di
Alfredo Cospito che ha potuto così rompere la totale censura politica:
https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/01/18/questa-e-la-lebbra-che-chiamate-civilta-dichiarazioni-spontanee/
> Operazione “Sibilla”, ennesimo teorema accusatorio contro gli anarchici
> Per gli anarchici repressione senza sovversione
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Valditara “inasprire le pene contro le occupazioni della scuole”
di Luciana Cimino da il manifesto
Il governo sarà anche in ambascia ma procede spedito verso la trasformazione
della scuola pubblica in «ufficio repressione e reati». Il ministro
all’Istruzione (e merito) Giuseppe Valditara e il partito di cui è espressione,
la Lega, stanno conducendo una lotta a tutto tondo contro l’attivismo degli
studenti e contro il modello di istruzione democratica che la destra legge come
espressione del ‘68. L’esecutivo Meloni si è distinto fino a ora per la tendenza
a inasprire le pene di fronte ad ogni fatto di cronaca e così è stato anche
questa volta.
Valditara, dopo aver letto di un professore pugliese aggredito nei giorni scorsi
dai genitori di un alunno, ha contattato il collega alla Giustizia, Carlo
Nordio, per proporgli di estendere la misura dell’arresto in flagranza di reato
anche alle aggressioni nei confronti del personale scolastico. «Stiamo lavorando
insieme su una norma in questa direzione, il governo e il ministro sono accanto
ai docenti che devono sentire forte la presenza costante delle Istituzioni», ha
dichiarato il ministro. Agli uffici tecnici dei due ministeri spetta ora capire
come fare, dato che solo lo scorso marzo il governo aveva modificato il codice
penale proprio per tutelare maggiormente il personale scolastico, aggiungendo
come aggravante le violenza o minacce al personale della scuola, con aumento
delle pene nel caso il fatto fosse commesso da un genitore.
La motivazione come al solito è quella dell’emergenza e un provvedimento da
prendere a modello c’è già: quello sulle aggressioni al personale sanitario. A
sostegno della sua proposta il Mim affianca dati. Negli ultimi anni – fanno
sapere da Viale Trastevere – gli episodi di violenza nei confronti del personale
scolastico in Italia sono aumentati: «Durante l’anno scolastico 2022/2023 sono
stati registrati 36 episodi, saliti a 68 nel 2023/2024». Ma, come ha spiegato lo
stesso ministro in altre occasioni, le rilevazioni delle aggressioni ai danni
dei docenti partono solo dal 2022. Naturale, quindi, che i dati del presunto
aumento di atti violenti o minacciosi appaiano molto alti e giustifichino la
volontà di Valditara e Nordio di intervenire ancora su questo tema.
Quanto agli studenti, la Lega ha ingaggiato fin dall’esordio della legislatura
una battaglia contro le occupazioni e le attività di partecipazione democratica
scolastiche. Valditara in questo campo ha già fatto molto, dalla riforma del
voto in condotta alle sanzioni pecuniarie per i presunti danni derivanti dalle
autogestioni, ma forse non abbastanza per i salviniani. In particolare per il
duo composto da Rossano Sasso, capogruppo in commissione Cultura e Istruzione
alla Camera, e la parlamentare Simonetta Matone, che si attiva a ogni
occupazione con interrogazioni parlamentari e con richieste sempre più punitive.
«I collettivi di sinistra organizzano corsi di barricata», secondo i due
leghisti, e questo renderebbe necessaria una ulteriore «norma che incida sulla
responsabilità dei minorenni che occupano e danneggiano». E «come Lega» chiedono
alla maggioranza di centrodestra di «aprire una riflessione che porti in breve
tempo a un provvedimento». L’ennesimo.
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E’ uscito recentemente per l’Associazione Editoriale Multimage un libro che più
necessario e attuale non sapremmo immaginare. Si intitola Carcere ai ribell3 ed
è stato curato da Nicoletta Salvi Ouazzene in rappresentanza delle Mamme in
piazza per la libertà del dissenso di Torino.
di Daniela Bezzi da pressenza
Un libro che ho letto con un misto di emozione, smarrimento, ammirazione…
Emozione perché parecchie delle storie documentate in queste pagine le ho
raccontate un po’ anch’io, e proprio per questa testata, in alternanza con il
collega Fabrizio Maffioletti. Smarrimento perché si fa fatica a credere che
simili vicende di repressione del dissenso possano essere successe qui, a casa
nostra, nella nostra ‘democratica’ Italia, nel cuore dell’Europa.
Ammirazione per la forza, la capacità di reazione e resilienza, la mirabile
propensione a stemperare le proprie singolari sventure in un ‘noi’ che per un
attimo diventa messa in pratica di ‘nuova società’, così autenticamente
partecipata e solidale che persino quelle alte mura carcerarie diventano almeno
per brevi sprazzi permeabili al ‘fuori’, a qualche azione concreta nella giusta
direzione, dimostrativa di una qualche possibilità di miglioramento. E insomma
sì: tanta roba ci arriva dalle storie così efficacemente ricostruite da
Nicoletta Salvi in queste pagine.
Proviamo dunque a passarle in rassegna queste storie.
Storia di Dana (Lauriola) che un certo giorno, 17 settembre 2020, alla fine di
un’estate già parecchio ‘calda’ in Val Susa, viene prelevata dalla casa in cui
abita a Bussoleno per essere tradotta alla Casa Circondariale Lorusso Cotugno di
Torino comunemente nota come Vallette. A nulla sono valsi i tentativi dei suoi
Avvocati di vedere applicate misure meno restrittive: Dana è incensurata, è una
giovane donna impegnata nel sociale, con un rapporto di lavoro stabile
all’interno di una cooperativa, niente da fare. Due anni di carcere è la pena
che la Procura di Torino si è sentita in dovere di prescrivere per il reato
commesso in data 14 marzo 2012 nell’ambito di una manifestazione che il
movimento NoTav aveva inscenato al casello di Avigliana, in bassa Val Susa.
Un’azione che con lo slogan ‘Oggi Paga Monti’ si limitò a tenere aperti i
tornelli per una quindicina di minuti, mentre Dana spiegava al microfono le
ragioni della protesta e qualcuno dietro di lei (tra cui Nicoletta Dosio)
sorreggeva uno striscione.
Particolare non da poco: solo qualche mese prima, 27 giugno 2011, le ruspe
avevano sgomberato con violenza la ‘Libera Repubblica della Maddalena’, presidio
che per settimane aveva cercato di opporsi all’apertura del cantiere di
Chiomonte; e solo pochi giorni prima, 27 febbraio, l’attivista Luca Abbà era
precipitato da un traliccio della luce, nel tentativo di dare visibilità allo
scempio che si sarebbe mangiato la Val Clarea… e i giorni immediatamente
successivi erano stati un susseguirsi di scontri, lacrimogeni e violenze, con le
FFOO all’inseguimento degli attivisti fin dentro i bar, mentre Abbà era tra la
vita e la morte.
Una situazione insomma di comprensibile rabbia e ansietà collettiva, che era
sfociata in quell’azione ai caselli di Avigliana, durata in tutto una manciata
di minuti, con un mancato incasso di € 777 che il Movimento NoTav aveva poi
rimborsato in sede processuale. Ma niente da fare: due anni di carcere a Dana
Lauriola per aver reiterato dentro un microfono le ragioni del No al TAV a nome
di un’intera valle.
“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la
parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” starebbe scritto nell’Art
21 della Costituzione a tutela del Diritto al Dissenso. Così non è.
In difesa di Dana si attiveranno a un certo punto anche le donne della
Biblioteca UDI di Palermo, in particolare Ketty Giannilivigni e Daniela
Dioguardi che oltre a dare vita a dei presidi ‘a distanza’ che da Palermo fino a
Torino aggiungeranno anche le loro grida a quelle delle Mamme in Piazza, non
perderanno occasione di scrivere lettere, raccogliere firme, indirizzare
appelli, a Liliana Segre, a Sergio Mattarella, sulle colonne de Il Manifesto.
“Quando finalmente ho avuto modo di soffermarmi sul caso della Lauriola non
riuscivo a credere che le avessero dato due anni solo per aver speakerato al
megafono!” ebbe a dichiarare poi la Dioguardi, ex parlamentare (tra il 2006 e il
2008) nelle fila di RC. “E quanti ergastoli avrei dovuto avere io, tutt3 noi,
per le manifestazioni che ci siamo fatte in anni di impegno politico!”
Dana uscirà dalle Vallette il 16 marzo 2021, solo per proseguire la sua
detenzione ai domiciliari, situazione non meno (e per molti versi più) penosa
del carcere, perché non sei libera comunque, e sei da sola. “A Dana è permesso
uscire solo per recarsi al lavoro” leggiamo infatti nel libro. “Chiami i
carabinieri, li avvisi che stai uscendo di casa, poi li chiami per avvisarli che
sei arrivata a destinazione e al rientro stesso teatrino. Sabato e domenica due
ore d’aria (…) In casa non può ricevere nessuno, previo permesso del magistrato
di sorveglianza…” Una non vita che durerà fino ai primi di maggio 2022, quando
verrà dichiarata ‘rieducata’ e rimessa in libertà.
Ci siamo particolarmente soffermati sul caso di Dana perché tra tutti i casi che
Nicoletta Salvi ricostruisce con mirabile puntualità e frequente, utilissimo,
ricorso al QRCode, è quello che riuscì a catalizzare un certo seguito,
nonostante la pandemia.
Ma non meno meritevoli di attenzione sono le ‘storie di carcere’ delle pagine
successive. La storia di Fabiola Di Costanzo, implicata nello stesso caso di
blocco stradale dei tornelli di Avigliana. E le storie di Stella, Francesco,
Mattia, Stefano, Emilio, e tanti altri attivisti NoTav che si trovarono a
condividere pesanti restrizioni nello stesso periodo di Dana: sospensione dei
colloqui, scioperi della fame, difficoltà di far fronte a situazioni già molto
penalizzanti in condizioni di “normale amministrazione” figurarsi in tempi di
emergenza e pandemia!
E poi passa anche la pandemia e solo pochi giorni dopo la riconquistata libertà
di Dana, ecco il 12 maggio l’azione in grande stile della Digos che colpisce tre
studenti universitari, anche loro giovanissimi, incensurati, rei di aver
partecipato qualche mese prima alle sacrosante proteste di piazza per la morte
di Lorenzo Parrelli, martire di quell’indecenza che si chiama “alternanza
scuola-lavoro”. Si era ancora in regime di restrizioni, la polizia risponde con
pesanti cariche ad ogni tentativo di corteo e a fine giornata il bilancio è: 40
feriti, parecchie teste rotte, molti al Pronto Soccorso, una violenza inaudita
contro ragazzi inermi.
Il 14 febbraio la stessa “alternanza scuola-lavoro” registra una nuova vittima,
Giuseppe Lenoci. Di nuovo gli studenti cercano di inscenare manifestazioni di
protesta, con scontri dinnanzi alla sede della Confindustria – e dai primi di
maggio 2022 ha inizio l’allucinante calvario giudiziario per i “capri espiatori”
Emiliano e Jacopo (22 anni) e Francesco (20 anni) oltre alla compagna Sara, con
i legali che cercano invano di ridimensionare le penalità a loro carico.
Passano i mesi, si arriva al 13 novembre 2023 con una sentenza che punisce il
summenzionato gruppetto più altri a condanne variabili tra i cinque e nove mei
di reclusione, però con la condizionale e la facoltà di ‘non menzione nel
casellario giudiziario”. “La mitezza delle condanne conferma che le pesanti
restrizioni della libertà personale, comminate come misure cautelari erano state
‘incongrue e sproporzionate’” fa notare Nicoletta Salvi a pag 56 del libro. E
insomma tante ansietà, dolore, difficoltà, per i ragazzi e per le loro famiglie,
tanto tempo che avrebbe potuto essere dedicato allo studio, a qualcosa di
costruttivo, tante risorse buttate, per esempio per i braccialetti elettronici…
per nulla. Questa l’amara conclusione di Emiliano, Francesco e Jacopo nelle
testimonianze che concludono il loro capitolo.
Ed eccoci alla storia di Francesca Lucchetto. Personalità estroversa, solare,
concreta, Cecca (come tutti la chiamano) fa parte del Centro Sociale Askatasuna
ed è impegnata nel movimento NoTav, per la libertà in Kurdistan, per la fine
dell’occupazione in Palestina, per i senza casa che crescono a vista d’occhio a
Torino. Finirà dietro le sbarre il 7 febbraio 2023 e vi resterà fino al 17
settembre dello stesso anno, proseguendo poi la detenzione ai domiciliari fino
al 1 dicembre 2023. Il reato? Di nuovo un nonnulla: aver tentato (e solo
tentato, perché la polizia partì subito alla carica con gran dispiego di
violenza e manganelli) di appendere uno striscione davanti al Tribunale di
Torino, per esprimere solidarietà alla 1ma udienza (nel lontano 2013) a carico
della compagna Marta, che non solo era stata malmenata e molestata sessualmente
durante una manifestazione al Cantiere Tav di Chiomonte, ma si era beccata
appunto una denuncia. Una semplice, pacifica, inoffensiva manifestazione di
dissenso, che ci aspetteremmo di veder tutelata da uno ‘stato di diritto’. E
dieci anni dopo quei lontani fatti, febbraio 2023, la procura di Torino decide
di punire con il carcere anche Cecca.
Una reclusione che lei affronta fin da subito con gran determinazione e
concretezza, facendosi portavoce delle istanze, bisogni, desideri delle altre
recluse, con cui entra subito in sintonia, instaurando un ponte tra il ‘dentro’
e il ‘fuori’, con il puntuale, affettuoso, immancabile sostegno delle Mamme. Che
ogni giovedì hanno ricominciato ad essere lì, presenti, sotto le mura delle
Vallette: con il banchetto, il megafono per gli interventi, la musica a palla
trasmessa dagli altoparlanti, come ai tempi di Dana e di nuovo per un’intera
comunità di detenute, un terzo delle quali soffre di disturbi psichiatrici,
“curati” a suon di psicofarmaci.
La detenzione di Cecca sarà infatti scandita da una serie di suicidi:
* il 28 giugno si impicca Graziana, che aveva quasi finito di scontare la sua
pena: “la prospettiva di tornare in libertà ha scatenato in lei un malessere
che pure erano stati notati, segnalati…” ma senza alcun concreto intervento;
* solo pochi giorni dopo, 12 luglio, toccherà ad Angelo, 44 anni anche lui
impiccato;
* il 9 agosto muore la nigeriana Susan George, che era in sciopero della fame
dal 22 luglio, a quanto pare nessuno sapeva di lei;
* il giorno dopo si impicca Azzurra, ventotto anni, con già alle spalle un
tentativo di suicidio presso il carcere di Genova.
“E’ la cronaca di un inferno” scrive Nicoletta Salvi a pag 79 del libro. “Un
inferno cui si assiste impotenti ma non silenti. Raccogliamo la voce delle donne
detenute, la diffondiamo, contrastiamo gli articoli pietistici e giudicanti con
articoli scritti da noi, che raccontano la realtà per come Cecca e le altre
donne ce la fanno conoscere…” E nel suo piccolo anche questa testata farà la sua
parte, inaugurando una rubrica fissa per questi preziosi contributi di
controinformazione che ci arrivano dalle Mamme in Piazza per la Libertà di
Dissenso di Torino, che il libro non manca di riproporre a mo’ di appendice
conclusiva.
Un libro dunque che ripercorre anche la loro storia, da quando nel 2015 si
trovarono a condividere le udienze in tribunale per vicende (in tutto simili a
quelle ricostruite in queste pagine) che vedevano protagonisti i loro figli “e
ci venne spontaneo concludere che erano proprio figli nostri, che le mostruosità
di cui erano accusati erano in fondo l’espressione di un forte impegno sociale
che avevamo trasmesso noi stesse, per cui dovevamo fare qualcosa!”
Un libro che le racconta nel loro mirabile lavoro di rete, di continua tessitura
di relazioni, ciascuna con una propria distinta personalità, ma all’occorrenza
tutte compatte e unite, in straordinaria sintonia di gesti, suddivisione dei
compiti, reciproca valorizzazione, capacità di comunicazione.
Arricchiscono questa pubblicazione la bella prefazione di Debora Del Pistoia,
ricercatrice per Amnesty International, e le autorevoli conclusioni dell’Avv.
Claudio Novaro, che di tutte le vicende giudiziarie passate in rassegna è stato
il difensore. Ed entrambi i contributi ci invitano a tenere alta l’attenzione, a
non arrenderci, anzi a moltiplicare le iniziative di risposta, da parte di noi
cosiddetta ‘società civile’, che non può accontentarsi di restare alla finestra.
Perché tra DDL Sicurezza e quella mostruosità di processo definito ‘del
sovrano’, che sta per concludersi al Tribunale di Torino, il peggio deve ancora
venire.
Per saperne di più e/o organizzare presentazioni del libro:
https://www.facebook.com/mammeinpiazza oppure contattando Multimage.
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