Appello in solidarietà a Tarek Dridi, Anan, Alì e Mansour.
Mercoledì 21 si invitano tutt a partecpare al presidio in solidarietà al
tribunale a L’Aqula per il procecesso di Anan, Alì e Mansour, mentre giovedì 22
al faro del gianicolo si porterà solidarietà a Tarek chiuso tra le mura del
carcere di Regina Coeli.
Arrivato dalla Tunisia nel 2008 a 25 anni, in questo momento Tarek si trova nel
carcere di Regina Coeli, arrestato in differita per la manifestazione del 5
ottobre in solidarietà con il genocidio della popolazione palestinese nella
striscia di Gaza. Il 14 aprile è stato condannato a 4 anni e 8 mesi con rito
abbreviato. Gli si contesta il reato di resistenza, di aver lanciato bottiglie e
aver attaccato il plotone con un ombrello, tutti fatti che non vengono però
comprovati dai video.
Libertà per Tarek,Anan, Ali e Mansour
Il 5 ottobre è piovuto tantissimo. Finita la pioggia, i lacrimogeni: hanno fatto
di tutto per impedire che il sole illuminasse le bandiere della Palestina.
Hanno fatto di tutto affinché in quella giornata, a Roma, non ci fosse una
manifestazione contro il genocidio. Hanno fatto di tutto e nonostante ciò, non
ci sono riusciti. Lo Stato italiano ha scelto quel giorno da che parte stare, ma
lo ha scelto anche il giorno in cui ha deciso di arrestare Anan, Ali e Mansour,
perché facenti parte della resistenza palestinese. È chiara la scelta di campo.
In un contesto generale così radicale, fatto di migliaia di morti, altrettanti
che resistono e lo Stato italiano che attacca la solidarietà, non c’è spazio per
ambiguità. Ci possono essere differenze, diversi modi, ma è indubbia la scelta
di campo e il processo al quale appartengono. Non è filosofia quanto realtà
concreta.
La storia di Tarek racconta questa realtà qui: molto chiara, molto concreta,
molto ingiusta. Un ragazzo tunisino, arrivato in Italia nel 2008 e che il 5
ottobre, quando ha visto la polizia caricare le bandiere della Palestina, non ha
avuto dubbi su che parte prendere. Si è messo in mezzo, come poteva, come ha
creduto più opportuno. Racconta la storia di un ragazzo come tanti, uno dei
tanti dannati di questa terra, che in quanto tale, per un reato di resistenza, è
stato condannato a 4 anni e 8 con rito abbreviato (più di quanto avesse chiesto
il pm). Tarek è la storia di questo tempo, di questa democrazia coloniale,
perché non è ricco, non è bianco, non ha reti di solidarietà, e quel giorno ha
preso parte a una manifestazione per la Palestina in cui ci sono stati scontri
con le f.d.o. Quanto basta per esercitare tutta la (“legittima”) violenza di uno
Stato occidentale e colonialista.
Quello che però racconta quella giornata è anche un’altra realtà, fatta di
persone che a questo stato di cose non ci stanno. Che contro i valori razzisti e
prevaricatori di questo mondo hanno sfidato i filtri della polizia, preso le
botte, respirato l’odore acre dei lacrimogeni.
Dire che in quella piazza c’eravamo tutti e tutte non è solo uno slogan, eravamo
realmente tantissim*. Come anche tantissime sono le persone che in piazza non
sono mai riuscite ad arrivare, a causa della militarizzazione della città, ma
quel giorno c’erano ugualmente.
L’obiettivo della giornata era fare un corteo per la città, gli scontri, poi,
sono stati l’inevitabile conseguenza. I filtri della polizia all’ingresso della
piazza, la politica sorda che, per impedire la giornata, fa una levata di scudi
unitaria, l’informazione che stigmatizza le ragioni. Nulla di nuovo, l’aspetto
inedito è stata la quantità, e la determinazione, delle persone che quel giorno
sono scese in strada. Lo Stato italiano ha scelto da che parte stare, e per
difendere la propria ragione è disposto a tutto. Ad esempio approva, sotto forma
di decreto, quello che era il ddl1660, ennesimo passaggio che riduce gli spazi
di libertà.
Quel giorno la realtà è stata chiara: la libertà non si concede, si prende a
spinta.
CI VEDIAMO MERCOLEDÌ 21 MAGGIO ORE 9:30 AL TRIBUNALE A L’AQUILA PER IL PROCESSO
DI ANAN, ALÌ E MANSOUR.
CI VEDIAMO GIOVEDÌ 22 MAGGIO ORE 17:30 AL FARO DEL GIANICOLO PER ROMPERE IL
SILENZIO E PORTARE SOLIDARIETÀ A TAREK.
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Tag - lotte sociali
La polizia fa togliere la bandiera della Palestina dal balcone: “Deve passare il
Giro d’Italia” È successo a Putignano (Bari), in Puglia: a denunciarlo Sofia
Mirizzi, proprietaria della casa.
Deve passare il Giro d’Italia, vietato esporre bandiere della Palestina. Anche
se sono su un balcone di proprietà privata. Questa è la linea seguita dalla
polizia a Putignano, in Puglia
Così succede che a Putignano, comune di 25 mila abitanti in provincia di Bari
famoso per il suo carnevale, le forze dell’ordine bussino alla porta di una
residente chiedendo di rimuovere quella bandiera. Senza altre spiegazioni.
La denuncia di Sofia Mirizzi
La denuncia è arrivata dall’interessata, Sofia Mirizzi, che sui social ha
spiegato quanto avvenuto: “Oggi (ieri, 13 maggio, ndr.) la polizia è salita a
casa nostra per chiederci di rimuovere la bandiera della Palestina esposta sul
nostro balcone privato. Non stavamo disturbando nessuno. Non stavamo violando
alcuna legge. Stavamo semplicemente esercitando il nostro diritto di espressione
in uno spazio che ci appartiene. Ci è dato ad intendere – ha aggiunto – che la
bandiera doveva essere tolta perché il Giro d’Italia sarebbe passato proprio
sotto casa nostra e la bandiera sarebbe stata inquadrata dalle telecamere
nazionali”. Poi, nel suo post di denuncia, Mirizzi continua con due domande: “Da
quando esporre una bandiera che rappresenta un popolo e una causa umanitaria è
diventato motivo d’intervento delle forze dell’ordine? In quale momento il
sostegno civile e pacifico a un popolo sotto occupazione è diventato un problema
di ordine pubblico? Chiediamo chiarezza, rispetto e il riconoscimento di un
principio fondamentale in una democrazia – ha concluso –. Nessuno dovrebbe
essere intimidito per aver espresso la propria solidarietà in modo pacifico e
legittimo”.
Un episodio inquietante e di enorme gravità. Dopo Il 25 aprile ad Ascoli dove
uno striscione antifascista era stato fatto rimuovere alla fornaia che lo aveva
esposto e a Mottola (Taranto) 10 cittadini sono stati identificati per aver
intonato “Bella Ciao”, a Roma attivisti della Cgil fermati per un volantinaggio
sui referendum ora questo nuovo episodio che ci dice chiaramente che siamo
dentro uno Stato di polizia dove non sia più consentito neanche esporre una
bandiera dal balcone se questa non è gradita al governo.
Tra qualche settimana (il 26 maggio è prevista la votazione alla Camera) il
decreto sicurezza sarà convertito in legge. Iniziamo concretamente a disobbedire
esponendo le bandiere Palestinesi in ogni balcone come atto di solidarietà alla
Palestina e contro lo Stato di Polizia
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Il Gruppo Giuridico Popolare Sardo segnala violente repressioni del dissenso
popolare in merito al riarmo europeo e contro il genocidio del popolo
palestinese.
Nello specifico:
Sabato 10 maggio. A Cagliari giornata ricca di eventi, tutti contro l’open day
sanitario sulla nave da guerra Trieste e contro la guerra e il riarmo.
Al molo Ichnusa non si contano gli striscioni delle organizzazioni contrarie. Il
gazebo dove si registrano le visite pediatriche è letteralmente circondato.
Alle 10 dal presidio sotto la regione parte il simbolico corteo funebre diretto
al comune, reo di aver patrocinato l’open day sanitario, e poi al porto, nel
punto più vicino alla Trieste. Sfilano uomini in tuta bianca anti contaminazione
che portano tre piccole bare bianche, donne in lutto con in mano foto di bambini
morti in guerra, uno striscione nero: il tutto accompagnato dal sottofondo
sonoro di sirene di guerra.
Intanto un piccolo gommone viene bloccato al largo del molo Ichnusa e
l’equipaggio viene identificato. La colpa? Aver sbandierato la bandiera della
Sardegna. La tensione della giornata è palpabile.
Nelle prime ore del pomeriggio parte un altro corteo di 1500 manifestanti,
sempre contro la guerra e il riarmo. Molte le bandiere palestinesi, assieme a
moltissime bandiere di varie organizzazioni. Un cordone di poliziotti impedisce
ai manifestanti di avvicinarsi ai moli.
Seguono Momenti di tensione nel pomeriggio in piazza Matteotti, durante la
manifestazione con corteo promossa dal comitato pro Palestina, cui si sono
aggiunte diverse sigle pacifiste e antimilitariste, per protestare contro
l’esercitazione interforze Joint Stars in corso nel Golfo degli Angeli e le
iniziative benefiche ritenute ipocrite e di stampo propagandistico di guerra,
organizzate da aziende di produzione di armamenti come la RWM e LEONARDO e
aziende sostenitrici quali ( tra le altre )Conad, Barilla, Unicredit e Poste
Italiane, con il patrocinio di Regione Sardegna!
“Un centinaio di attivisti, in concomitanza con il concerto della banda militare
a bordo della nave Trieste, ha sfilato per le vie del centro, da piazza
Costituzione passando per via Manno, Largo Carlo Felice e via Roma, confluendo
poi in piazza Matteotti. Qui alcuni manifestanti hanno tentato di superare i
reparti schierati in assetto antisommossa, per arrivare al porto, ma sono stati
respinti e allontanati dagli agenti di polizia. E’ durante queste fasi
concitante che uno degli attivisti ha esploso una bomba carta e lanciato un
razzo di segnalazione”
“Guerriglia urbana in piazza Matteotti a Cagliari: nel pomeriggio si sono
registrate tensioni e scontri con la polizia durante la manifestazione di un
gruppo di pacifisti contro Joint Stars, l’esercitazione militare legata a eventi
benefici – per esempio lo screening pediatrico a bordo della nave Trieste,
ormeggiata in porto – a loro volta contestati perché ritenuti strumentali.
Nel mirino il ministero della Difesa, il Comune e la Regione che hanno concesso
il patrocinio alla raccolta benefica che ha come obiettivo l’acquisto di
strutture per il reparto di Rianimazione pediatrica del Brotzu. “Propaganda
bellica” secondo i manifestanti che oggi sono scesi in piazza ma non sono
riusciti ad arrivare alla nave in porto come avevano intenzione di fare,
bloccati dagli agenti”
Fonti:
https://www.rainews.it/tgr/sardegna/articoli/2025/05/tensione-a-corteo-pro-pal-a-cagliari-esplosa-una-bomba-carta-2f55fdb0-d3c1-45e8-acc6-cfb2890971e6.html?wt_mc=2.www.wzp.rainews
https://www.castedduonline.it/guerriglia-al-corteo-contro-joint-stars-in-piazza-matteotti-a-cagliari-scontri-petardi-e-fumogeni/?swcfpc=1&fbclid=IwY2xjawKNU19leHRuA2FlbQIxMQBicmlkETBKMVY0QU9Ub0NENW1sMGNBAR6sNuQmpEIAvMVpfMPEKcHfNGkLPYS2wj1fqRwKbTQuAvCZnrWl-H3AhhZTRw_aem_v9Ho3ZAye_9JVvFudsT9wg
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A Roma, sono stati identificati alcuni militanti della Cgil che stavano
volantinando fuori dal centro commerciale Casilino a Roma per il Si ai
referendum
Sono stati identificati dalle forze dell’ordine ieri mattina alcuni militanti
della Cgil che stavano volantinando fuori dal centro commerciale Casilino a Roma
a seguito di un diverbio. Lo denuncia Natale Di Cola, segretario generale della
Cgil Roma e Lazio, aggiungendo che il sindacato ha provveduto a segnalare
l’episodio al questore di Roma. «È un clima che non ci piace ma non ci lasciamo
né fermare, né intimidire» ha detto.
L’università di Udine poi non ha concesso l’utilizzo delle aule all’Unione degli
universitari per un incontro pubblico sui referendum con il segretario generale
della Cgil MaurizioLandini. «L’università ci ha negato l’aula perché l’evento
era ’troppo politico’. Come si può negare agli studenti di informarsi
adeguatamente?» ha scritto l’Udu in una nota, annunciando che l’iniziativa si
terrà ugualmente ma fuori dagli spazi universitari.
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Nel corso degli ultimi mesi, alcun* nomuos sono stat* raggiunt* da diversi
provvedimenti repressivi (fogli di via, daspo, avviso orale). Scriviamo queste
righe nella piena consapevolezza del momento storico in cui viviamo, in cui
sappiamo di non essere sol* contro la guerra, l’imperialismo americano, il
sionismo, e la militarizzazione dei territori. Se scriviamo queste righe è per
generare una delle reazioni a noi più cara: la solidarietà. In un contesto
europeo di riarmo rilanciamo con la necessità di costruire reti di lotte, a
partire dalle proprie comunità e dai propri territori.
di Movimento NoMuos
Mentre la guerra sul fronte esterno continua, con accelerazioni continue tra il
costosissimo piano per il riarmo europeo (costosissimo non solo a livello
economico ma anche sociale), vani cessate il fuoco davanti a un genocidio le cui
radici hanno più di 70 anni e crimini di guerra commessi ormai giornalmente sia
in Palestina che in Ucraina, anche la guerra sul fronte interno non si arresta.
Anzi, corre anch’essa velocissima, affilando le sue armi con nuove leggi e
diventando sempre più aggressiva.
Scriviamo queste righe a pochi giorni dalla firma di Mattarella sull’ex DDL
1660, diventato decreto, e approvato recentemente con un colpo di coda
dell’attuale governo; scriviamo queste righe a pochi giorni dalla notifica a
venti persone di denunce per il blocco del porto di Genova del 25 giugno 2024,
una giornata in cui per la prima volta tutti e tre i varchi del porto sono stati
bloccati contemporaneamente da una mobilitazione molto grande contro la guerra e
il genocidio; scriviamo queste righe a pochissimi giorni dall’ultima
manifestazione nazionale per la Palestina che si è svolta a Milano il 12 aprile
2025, in cui un corteo di 50 mila persone è stato brutalmente caricato e
spezzato dalla polizia e per cui, al momento, sei persone sono state denunciate.
È oramai chiaro che il fronte interno ed esterno della guerra sono intrecciati,
e in questo intreccio la nostra lotta, le nostre biografie, non sono esentate.
Prima dell’inizio del campeggio invernale (a fine dicembre 2024 e inizio gennaio
2025), ci sono giunte le notifiche di 6 fogli di via dal territorio di Niscemi,
il centro della nostra azione politica da ormai più dieci anni per via della
presenza del MUOS, una infrastruttura bellica della marina militare americana
che permette le comunicazioni globali della difesa americana, molto utilizzata
sia sul fronte palestinese che su quello ucraino ai nostri giorni. Fogli di via
che questa volta (nel corso di questi anni di lotta ne erano stati notificati
vari altri) arrivavano dopo il campeggio estivo, quando abbiamo accolto
l’appello del popolo palestinese attaccando quella base di morte con più di
cinquanta tagli rete, e arrivavano poco prima dell’inizio del campeggio
invernale, col chiaro tentativo di intimidire la partecipazione da un lato, e di
spezzare la resistenza contro il MUOS, l’occupazione militare statunitense e la
guerra imperialista dall’altro.
Il risultato di questa operazione è stato un campeggio molto ben riuscito – con
un centinaio di presenze fisse in presidio, giunte da diverse città della
Sicilia e da tantissime città d’Italia – durante il quale abbiamo mantenuto
nonostante tutto un programma e delle attività, allacciando rapporti e
ragionamenti anche con molte persone arrivate a Niscemi per la prima volta. Un
campeggio seguito in maniera molto marcata da forze armate e forze di polizia in
borghese e non, sia nelle iniziative attorno alla base, sia nelle iniziative
organizzate in paese, con un dispiegamento crescente seppure, purtroppo, non
nuovo. Questo non ci ha precluso in nessun modo di muoverci attorno alla base
militare, denunciando il furto sistematico di acqua da parte dell’esercito nei
confronti di un territorio che soffre di una carenza costante
nell’approvvigionamento idrico; che soffre dell’impatto ambientale della base
sulla riserva naturale in cui si trova come una metastasi che la appesta; della
subalternità della marina militare statunitense nei confronti dei padroncini
mafiosi della zona (quando risparmiano dalla recinzione della base i terreni dei
malavitosi) e della presunzione nei confronti della popolazione di Niscemi
(quando invece includono dentro le reti della base un pozzo d’acqua); della
centralità di quella base di morte nei sistemi di comunicazioni militari,
ribadendo che la guerra si fa da casa nostra, con tutto il portato di
distruzione che semina in vari punti del mondo, e con tutta la brutalità che
manifesta nei territori che usa per farla questa guerra. Abbiamo fatto quello
che ritenevamo giusto, ribadendo uno degli slogan che ci piace tanto urlare alle
nostre manifestazioni: “la carta è solo è carta, la carta brucerà!”.
La vendetta di stato non si è fatta attendere ed oggi torniamo a scrivere di
repressione: finito il campeggio invernale infatti sono state notificate delle
denunce per i fatti dell’agosto 2024, manifestazione non autorizzata e
danneggiamento delle reti nei confronti di una base militare che – continuano a
sostenere i signori della guerra – opera un servizio pubblico. Inoltre, ad una
compagna sono state notificate delle violazioni del foglio di via dal comune di
Niscemi, perseguitandola fino davanti casa mentre era intenta a pacciamare gli
alberi e le piante del terreno circostante l’abitazione e seguendola anche in
altre città – con una arroganza e prepotenza che non si sono permessi di avere
quando, in cento, eravamo in accampamento nel presidio accanto alla base
militare; le è stato notificato un avviso orale, un provvedimento che il
questore può emettere nei confronti di persone ritenute “socialmente
pericolose”, una possibile anticamera prima della richiesta di sorveglianza
speciale. Infine, il 3 maggio, a una compagna è stato notificato l’avvio del
procedimento amministrativo per il divieto di accesso ai luoghi dove si svolgono
manifestazioni sportive in relazione agli eventi verificatesi a Niscemi il 3
gennaio. Viene accusata di aver partecipato ad un corteo no muos a volto
coperto, con danneggiamento della rete, quando in tale data non c’è stato nessun
corteo, nessuna manifestazione sportiva, semmai una passeggiata, e non coi volti
coperti ma appositamente riconoscibili. Palesemente riconoscibile anche la
compagnx che ha partecipato alla passeggiata cantando e ballando per tutta la
durata.
Scriviamo queste righe nella piena consapevolezza del momento storico in cui
viviamo, un momento chiaramente difficile, in cui sappiamo di non essere le
uniche e gli unici in prima linea contro la guerra, l’imperialismo americano, il
sionismo, e la militarizzazione dei territori. Se lo facciamo non è per
suscitare pietà o generare un dibattito, più simile a un piagnisteo, sulla
repressione: dalle parti nostre diciamo che “cu mancia fa muddichi” (chi mangia
fa le briciole), e abbiamo già abbastanza strada fatta insieme dietro le nostre
spalle per sapere che ad ogni nostra azione corrisponde una reazione repressiva
da parte dello stato. Se scriviamo queste righe è per generare un’altra delle
reazioni, a noi più cara, ovvero la solidarietà.
Ci rivolgiamo a compagne, compagni e compagn* che abitano in Sicilia, che
abbiamo conosciuto a Niscemi nel corso degli anni e che continuiamo a incontrare
alle manifestazioni davanti alla fabbrica di morte Leonardo di Palermo, alle
assemblee regionali contro la repressione, alle manifestazioni contro il Ponte
sullo Stretto, e in molte altre occasioni: ci sono strade che si dividono, nella
consapevolezza che il terreno della solidarietà è uno di quelli dove ci si può
sempre incontrare di nuovo. Ci rivolgiamo a quelle persone che, anche solo una
volta sono arrivate a Niscemi ad un nostro campeggio, o che prendono parte ad
una lotta simile alla nostra in luoghi diversi della Sicilia o altrove: anche se
geograficamente distanti, camminiamo al fianco di quei movimenti che si
oppongono al genocidio, alla logistica di guerra, alle basi militari, alla
cementificazione e alla militarizzazione da sud a nord; siamo certe che questa
vicinanza e solidarietà non è a senso unico.
In un contesto europeo di riarmo rilanciamo con la necessità di costruire reti
di lotte, ogni realtà a partire dalle proprie comunità e dai propri territori,
attraverso una potente solidarietà diffusa che si faccia sentire nei modi e nei
tempi necessari ma con tutto il calore che genera.
Per questo saremo in piazza a Catania, il 17 maggio, alle ore 17, contro il ddl
sicurezza, e saremo anche a Messina, il 17 e il 18 maggio, alla due giorni
organizzata dal movimento no ponte contro il mito delle grandi opere e della
devastazione dei territori.
Saremo in queste piazze con la voglia di condividere percorsi di lotta comuni, e
anche per rilanciare un nuovo appuntamento a Niscemi, il 2 giugno, per una
manifestazione contro la guerra.
Contro la militarizzazione, il MUOS, l’imperialismo yankee e la guerra del
capitale. Per la liberazione della terra fino alla vittoria.
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Il tribunale di La Spezia condanna l’artista Alessandro Giannetti per una
performance antimilitarista
Il comunicato di Alessandro Giannetti
È arrivata la condanna nei miei confronti per la performance “Ogiugno Oluglio”
(no censura, no spese militari), che si è svolta al CAMeC di La Spezia durante
una mostra dedicata all’artivismo di Giacomo Verde.
Sì, proprio così. Sono stato condannato per un’azione coerente con la poetica e
il pensiero dell’artista a cui quella mostra era dedicata. Per chi non lo
sapesse, sono stato co-fondatore – insieme a Giacomo e ad altri/e – del
Collettivo Dada Boom e del Reodadaismo, un’esperienza artistico-politica che
intreccia creatività, dissenso, disobbedienza e arte pubblica, e che proprio
negli ultimi anni di vita di Giacomo ha trovato una delle sue espressioni più
radicali e lucide.
Ora la domanda è: possibile che né il CAMeC, né le “addette alla cultura”
coinvolte nell’organizzazione, non sapessero cosa significa reodadaismo?
A pensar male si direbbe l’ennesimo caso di incompetenza e dilettantismo museale
– cosa purtroppo diffusa in molte istituzioni italiane – ma questa ipotesi non
regge, soprattutto nel caso della curatrice Annamaria Monteverdi, che il
reodadaismo lo conosce.
Allora sorge un dubbio più inquietante: e se non si trattasse di ignoranza, ma
di una scelta politica? Una decisione consapevole di escludere, reprimere,
cancellare ciò che è davvero scomodo?
Perché questo è evidente: a La Spezia – città tra le più militarizzate d’Italia
– la parola “DEMILITARIZZARE” non si può scrivere, nemmeno se lo fai su un muro
di cartongesso da 15 euro e 90 centesimi, nemmeno se sei invitato a una mostra
sull’artivismo di un reodadaista, nemmeno se sei tu stesso un reodadaista.
Sembra assurdo, eppure è successo. E il fatto che sia successo dentro un museo,
luogo che dovrebbe garantire libertà espressiva, rende tutto ancora più grave.
La curatrice, nel suo comportamento, ha mostrato una contraddizione che non
possiamo ignorare: ha scelto di tradire la memoria viva di Giacomo Verde,
prestando il fianco a una cultura istituzionale sempre più autoritaria,
funzionale alla narrazione militarista dominante, e – diciamolo chiaramente –
alla deriva neofascista che avanza sotto traccia ma neanche troppo.
Questa vicenda non riguarda solo me.
È stata condannata una forma di arte che osa dire NO alla guerra, NO alla
repressione, NO alla complicità passiva.
La censura è già di per sé gravissima, ma c’è di più: nel giorno della mia
sentenza, mentre alcuni compagni e compagne del “Collettivo Mario Giannelli
contro la repressione del D.L. Sicurezza” distribuivano volantini fuori dal
tribunale in segno di solidarietà, la giudice ha deciso di verbalizzare quel
volantino e trasmetterlo alla DIGOS per avviare delle indagini.
Avete capito bene: la solidarietà è diventata oggetto di controllo e sospetto.
Un volantino. Un gesto umano e politico, trasformato in potenziale reato.
Siamo davanti a un attacco chiaro e diretto non solo alla libertà d’espressione,
ma alla possibilità stessa di costruire comunità, sostegno, dissenso condiviso.
È il volto feroce di una democrazia svuotata, che reprime ogni segnale di
disobbedienza civile, ogni voce che mette in discussione l’ordine armato delle
cose.
E ancora una volta, il reato non è l’azione, ma il pensiero che l’ha generata.
Ed è proprio per questo che non possiamo permetterci di lasciare il campo e
refluire.
Non possiamo cedere alla paura che questi atti di repressione cercano di
inoculare.
Non possiamo accettare che l’arte venga addomesticata, che le nostre parole
vengano silenziate, che la solidarietà venga criminalizzata.
La risposta deve essere collettiva, calda, disobbediente, visibile.
Dobbiamo rispondere con ancora più azione, con ancora più alleanze, con ancora
più immaginazione politica.
Solidarietà al Collettivo Mario Giannelli
Con rabbia e amore,
in lotta e in arte,
Alessandro Giannetti
> La Spezia: decreto penale per una performance antimilitarista
800 MILIARDI DI MOTIVI PER DIRE NO ALLA FORTEZZA EUROPA
A cura di Ludovico Basili, Italo Di Sabato e Giovanni Russo Spena – Osservatorio
Repressione
Left edizioni – Editorialenovanta S.r.l – Prezzo di copertina 14,80
Introduzione di Italo Di Sabato
Interventi di:
Livio Pepino, Giovanni Russo Spena, Antonio Mazzeo, Angela Cianfagna Bracone,
Andrea Ventura, Franco Russo, Saverio Ferrari, Gianfranco Schiavone, Emilio
Drudi, Dana Lauriola, Ilaria Salis, Salvatore Palidda, Victor Serri, Nicola
Carella, Comitato free Gino, Marco Sommariva, Roberta Cospito, Paola Bevere,
Patrizio Gonnella
> Da tempo i più avveduti ci avevano avvertiti che l’Utopia di Ventotene e le
> democrazie occidentali volgevano al termine. L’Europa che nasce perché non ci
> siano più guerre, trova oggi ragione per esistere nel tempo della guerra che
> non finisce mai. E dunque via al riarmo, come identità dell’Europa, con il
> ReArm Europe, con 800 miliardi per le lobbies delle armi che da sempre non
> sopportano la democrazia, il conflitto sociale, che ne è l’essenza, e i
> diritti universali.
>
> Sicurezza e paura le parole più usate, c’è bisogno di un nemico interno ed
> esterno, si innalzano muri, si erigono fortezze, non dobbiamo disturbare, non
> c’è spazio per nessuna visione di mondi futuri in giro per il mondo. E dunque
> non abbiamo forse 800 miliardi di motivi per dire no alla guerra, no alla
> fortezza Europa?
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pagamento tramite:
bonifico bancario sul conto corrente bancario intestato a Osservatorio sulla
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Violento sgombero dell’evento “Free Spring”, free party di musica ed socialità
iniziato giovedì 1 maggio sui prati di Malga Lomasone, nei pressi di Comano
Terme, provincia di Trento.
La festa sarebbe dovuta durare fino a domenica 4 maggio, ma dopo la denuncia
lanciata dal sindaco Fabio Zambotti già nella prima giornata di inizio del Free
Spring, venerdì, sono intervenuti polizia, carabinieri, vigili urbani e vigili
del fuoco per sgomberare i partecipanti in base alla norma approvata a inizio
mandato del Governo Meloni, quella anti-rave.
Tra i partecipanti alla festa a nord del Lago di Garda, oltre duecento persone,
erano presenti anche “bambini, anziani”, sottolinea l’organizzazione in un
comunicato diffuso a seguito degli scontri.
I manifestanti hanno affermato di aver prontamente comunicato alle forze di
polizia la volontà di collaborare pacificamente. “Le forze dell’ordine hanno
intimato di smontare immediatamente il tendone e l’impianto audio, altrimenti li
avrebbero presi con la forza”.
“Dopo qualche ora”, riferiscono i manifestanti, “finito di smontare il tendone,
abbiamo iniziato a smontare il palco. Con l’arrivo del buio la situazione ha
continuato a scaldarsi: è arrivata una camionetta dei vigili del fuoco.
Illuminati da quest’ultima, quaranta guardie armate sono avanzate senza
comunicare nulla, spingendoci contro le impalcature del bar, manganellando
persone disarmate e creando una situazione di panico”.
“Mentre ci picchiavano e sparavano gas lacrimogeni hanno rubato un furgone
vuoto, supponendo che ci fosse l’impianto audio all’interno. Sfruttando la
confusione hanno violentemente sequestrato tre persone. Sotto una pioggia di
lacrimogeni durata una trentina di minuti, sparando anche ad altezza uomo, hanno
cominciato ad allontanarsi seguendo il furgone rubato. Nel frattempo è stata
chiamata un’ ambulanza, a cui inizialmente hanno impedito di scendere”.
Ai microfoni di Radio Onda d’Urto la testimonianza di un partecipante che
preferisce restare anonimo. Ascolta o scarica
Il commento dell’avvocato penalista trentino Nicola Canestrini. Ascolta o
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Una controinchiesta a cura dell’Assemblea del 25 aprile di Trieste in merito ai
fatti accaduti quel giorno in città, quando un corteo antifascista diretto alla
Risiera di San Sabba per le tradizionali commemorazioni per la liberazione è
stato bloccato dalla polizia, provocando scontri e, nei giorni successivi,
reazioni spropositate sui giornali locali.
di Assemblea 25 Aprile Trieste
Il 25 aprile 2025 un corteo antifascista è stato bloccato a Trieste, rinchiuso e
caricato in Via dell’Istria, mentre andava in direzione della Risiera di San
Sabba, lager di sterminio e tradizionale luogo di commemorazione per la Festa
della Liberazione. Come già accaduto in passato, la Questura di Trieste – dopo
aver militarizzato la gestione degli ingressi in Risiera, e di conseguenza il
giorno della Liberazione tout court – decide di intervenire con manganelli e
camionette, in nome della “sicurezza”. Si è scatenato un gran baccano mediatico
a causa del fatto che, anziché assistere silenziosamente ad una violenza statale
che si è esplicata nel blocco di una manifestazione e quindi nella violazione
del diritto a manifestare, le persone in corteo si sono difese senza arretrare
di fronte all’improvvisa violenza poliziesca. Con questa controinchiesta
vorremmo affrontare alcune questioni emerse nelle ore successive, con parole
lontane dal piagnisteo generalizzato dei sindacati di polizia e dell’ANPI.
CHI GESTIVA L’ORDINE PUBBLICO A TRIESTE IL 25 APRILE? PRIMA PARTE DI UNA
CONTROINCHIESTA
25 aprile 2025, Trieste. Un corteo antifascista parte da Campo San Giacomo e
imbocca Via Dell’Istria diretto verso la Risiera. La cosa più normale del mondo
nel giorno in cui si ricorda la Liberazione. Di punto in bianco, nel giro di
pochi secondi, viene sbarrato in un punto deciso a tavolino dalla questura,
ovvero un tratto di strada senza via laterali di fuga, bloccato da un cordone di
carabinieri e polizia in antisommossa davanti (supportate da tre camionette che
con una manovra veloce chiudono completamente la strada) e da un cordone di
carabinieri alle spalle (insieme ad altre due camionette). Tra i funzionari
della questura che hanno deciso la manovra si può notare lo stesso personaggio
che qualche anno prima aveva decretato lo sgombero del porto durante le proteste
contro il green pass. Quella volta, indossando fieramente la fascia tricolore,
aveva teso il braccio “in nome della legge”, facendo saluti romani nell’ordinare
la carica. Si tratta del Primo Dirigente della Polizia di Stato, Fabio
Soldatich, già dirigente della polizia di frontiera, la stessa che effettuava
“riammissioni informali” dei richiedenti asilo (ovvero respingimenti a catena
fino in Bosnia, fuori dalla Fortezza Europa), ritenuti poi illegali e sospesi
dal Tribunale di Roma. Insomma, Soldatich: un professionista del disordine che
ama la violenza.
I fatti parlano chiaro. Di fronte all’arroganza dello stato di polizia
(puntellato recentemente dall’ex ddl 1660, ora decreto legge), al piagnisteo
falso e furbo dei suoi sindacati, alla superficialità giornalistica, che si
senta la voce di chi era in strada e ha preso le botte per la sola colpa di
manifestare il proprio antifascismo.
Moltiplichiamo la controinchiesta dal basso!
“POTEVA SCAPPARCI IL MORTO”. SECONDA PARTE DI UNA CONTROINCHIESTA
Nelle immancabili polemiche del giorno dopo, oltre alle veline della questura
che non hanno bisogno di fact-checking né di contradditoriosi, c’è stato un
profluvio di comunicati dei sindacati di polizia (forse quattro in un giorno
solo?), diventati direttamente l’unica opinione pubblica dello Stato in cui
viviamo. Commentano, sbraitano, piagnucolano continuamente su ogni cosa,
stracciandosi le vesti e inventando fatti per avere più uomini, più armamenti,
più leggi, più libertà per poter reprimere il dissenso interno e militarizzare
lo spazio pubblico. A Trieste si sono raggiunti livelli parossistici e, non a
caso, la sfilza di commenti si è chiusa in bellezza con le sparate del sig.
Tamaro, del SAP, uomo in odore di vicinanze con Salvini e grande patrocinatore
delle torsioni autoritarie a cui assistiamo. Sicurezza per lui è blindare
confini, respingere uomini, donne, bambini, avere mano libera per far chinare la
testa a tutti a colpi di manganello. Il perfetto fascista in divisa da
poliziotto.
Ebbene, è arrivato persino a dichiarare che durante il corteo antifascista del
25 aprile poteva “scapparci il morto”. Evidentemente, poliziotto nell’animo, ha
avuto un rigurgito di memoria, perché di morti a dire il vero ne sono scappati
tanti, troppi, proprio per mano delle forze dell’ordine, nella storia
repubblicana. Dalle stragi di contadini e operai in sciopero degli anni ’50,
sarebbe impossibile ricordarli tutti: ci limitiamo a citare Vakhtang, morto di
botte nel CPR di Gradisca, i tredici morti della strage delle carceri nel 2020 e
Ramy, ucciso in un inseguimento dei carabinieri.
Il morto è già scappato, i morti invadono la coscienza sporca della polizia e
delle forze di sicurezza. Questo sipario mediatico è propedeutico al rodaggio
del nuovo decreto sicurezza, gonfio di falsità ed esagerazioni. Smentiamone
alcune sul corteo del 25 aprile, senza giri di parole: è stato comunicato alla
Questura, nessun funzionario dello Stato ha dato prescrizioni, il corteo è
rimasto pacifico fino al mamento in cui è stato bloccato. Le manganellate hanno
aperto teste, rotto nasi, distorto mani, lasciato lividi neri sulle cosce e sul
costato a diverse persone. I capi di celere e carabinieri sono giunti, dopo le
manganellate, a dirci di tenere i cordoni in antisommossa a distanza (noi! A
loro!) perché “non siamo in grado di tenerli”. A un certo punto, è stato
comunicato che “in cinque minuti” avrebbero fatto passare il corteo,
comunicazione che è diventata l’ennesima provocazione, visto che i cordoni di
celerini non sono rimasti fermi – manganellando qua e là – per ancora mezz’ora.
La rabbia che si è vista nelle immagini è stata la minima reazione difensiva –
non c’erano infatti veri oggetti offensivi – di un di un gruppo di antifascistə
a cui la libertà più basilare, quella di manifestare, viene sostituita
dall’impedimento di quest’ultimo e dalle manganellate.
Di fronte all’arroganza e alle falsità delle “forze dell’ordine”, al piagnisteo
dei loro sindacati, alla superficialità giornalistica, moltiplichiamo la
controinchiesta dal basso!
“CHI LANCIA LE BOMBE CARTA NON È UN VERO ANTIFASCISTA”. TERZA PARTE DI UNA
CONTROINCHIESTA
Tra i commenti che abbiamo letto in merito al corteo antifascista del 25 aprile,
ci sono state anche le tristi dichiarazioni dell’Anpi/Vzpi, per il tramite del
presidente del comitato provinciale Fabio Vallon. Ora, è evidente che la frase
non ha senso, perché anche il presidente dell’Anpi dovrà ammettere che gappisti,
partigiani, ribelli e banditi della liberazione di bombe ne hanno lanciate
parecchie, ma bombe vere, non petardi. Passi dunque l’affermazione in senso
polemico: è facile rigettare anche questa.
Primo: un corteo, se attaccato, ha tutto il diritto di autodifendersi. È quello
che è successo il 25 aprile, quando di punto in bianco lo sbarramento di agenti
in antisommossa ha bloccato il corteo in un punto senza vie di uscita per
caricarlo. Avrà preso anche Vallon qualche manganellata nella sua vita (lo
speriamo, altrimenti significa che è stato sempre dall’altra parte della
barricata, se non lui stesso la barricata) e saprà che lì ci si difende come si
può, a bastoni, braccia nude, petardi, quel poco che si ha. Altrimenti ti aprono
la testa e finisce la festa. Altro che liberazione.
Secondo: bombe-carta non sappiamo bene cosa siano, ce lo spieghi Vallon o i
sindacati di polizia o le fonti questurine che han dato la notizia. Intendono i
botti? Sì, sono esplosi per respingere le cariche, i manganelli che infuriavano
sulle teste del corteo. Il resto è propaganda spicciola, per rovesciare la
violenza dello stato di polizia sui manifestanti e far passare la favoletta
degli “antagonisti cattivi” e della polizia che difende l’ordine democratico.
Anche l’Anpi leggerà ogni tanto i rapporti di Amnesty International, no? Mica
pretendiamo tanto.
Terzo: contribuire al clima di caccia alle streghe è una mossa quantomeno da
paraculo, se non da complice e delatore. Allora è meglio ricordare, una volta di
più il 25 aprile, tutti quei partigiani che non hanno riconsegnato le armi, che
hanno creduto nella liberazione e nella trasformazione sociale, che hanno
combattuto la continuità istituzionale tra regime fascista e repubblicano
(motivi per cui sono stati repressi dai giudici democratici). Questori,
magistrati, poliziotti, funzionari della pubblica amministrazione che prima si
sono imboscati e poi sono stati recuperati per mantenere l’ordine: gli eredi li
vediamo ovunque. Come si vede, ognuno ha la sua storia di antifascismo a cui
appellarsi: da un lato l’antifascismo militante e di un certo spirito
dell’insurrezione (sì, proprio insurrezione) partigiana, dall’altro
l’antifascismo di facciata, conformista, istituzionale, ipocrita, quello che
Pasolini (poi mistificato) definiva il fascismo degli antifascisti.
Di fronte all’arroganza dello stato di polizia, al piagnisteo di chi dovrebbe
difendere partigiani e antifascisti, ai pennivendoli che copia-incollano
propaganda poliziesca, moltiplichiamo la controinchiesta dal basso!
I FERITI. QUARTA PARTE DI UNA CONTROINCHIESTA
Fa sempre sorridere leggere i bollettini del giorno dopo quando i cortei
finiscono in scontri. Ricordiamo i celerini che si facevano refertare storte
alla caviglie perché inciampavano nei boschi della Valsusa, o quell’immancabile
numero nei titoli delle notizie, “feriti x poliziotti”. Mai una volta che si
indaghi sull’armamento con cui reprimono il dissenso nelle strade, o le cause
che portano a questi “ferimenti”. Per quanto riguarda le dotazioni, si tratta di
caschi, scudi, parastinchi, paragomiti, paraspalle, para-tutto, in materiale
tecnico e leggero sviluppato per scenari di guerra. Protetti di tutto punto e
dotati di armi (alla cintola hanno pur sempre una pistola – viva Carlo Giuliani!
– e si portano dietro gas CS nei candelotti, manette e manganelli), attaccano,
manganellano, provocano. Ogni tanto qualche colpo arriva pure a loro, sotto
tutti gli strati di protezione.
In ogni caso, capita spesso che debbano imbastire delle inchieste e inventarsi
delle lesioni personali per ingigantire le accuse, renderle più pesanti. Ce n’è
capitata una particolarmente divertente, ma tragicamente paradigmatica. Il
corteo antifascista del 25 aprile 2023 era stato bloccato e caricato prima di
poter arrivare in Risiera – prassi, dunque, che si ripete. Per quei fatti 7
antifascistə sono tuttora rinviati a giudizio per reati di manifestazione non
autorizzata, oltraggio, resistenza, getto di oggetti. Tra le carte è comparso il
referto di uno dei famosi “feriti” in questo genere di vicende. Si tratta di un
agente delle forze dell’ordine, in antisommossa, che si è presentato al pronto
soccorso di Cattinara lamentando “algie a entrambe le spalle dopo collutazione”.
Cosa mai lo avrà colpito? Letteralmente niente: da referto, “avrebbe menato
delle manganellate con il braccio destro e [occhio che qui si raggiunge il
parossismo] issato un collega da terra con il braccio sinistro; dopo tali
eventi, lamenterebbe delle algie…”. Le frasi, tratte dal referto, letteralmente
riportano che l’agente si sarebbe fatto male (il condizionale è d’obbligo di
fronte a questa fantasia) mulinando manganellate e alzando un suo collega da
terra. Sette giorni di prognosi.
Cosa avrà provocato il ferimento dei due agenti nel corso delle medesime
situazioni nel 2025? Lesioni guaribili in pochi giorni uno e in tre settimane
l’altro. Spoiler: per quest’ultimo si tratta di lesioni alla spalla, dice la
stampa. Forse anche lui ha menato troppo forte? Parebbe di sì, a giudicare dalle
ferite, lesioni, colpi in testa ricevuti dai manifestanti che, con molta più
dignità, si curano quando necessario e semplicemente sopportano, senza ricorrere
a stratagemmi vittimistici per portare a processo qualcuno.
Forse un giorno vi racconteremo anche di quel celerino che, dietro il suo scudo,
si è fatto refertare quaranta giorni di prognosi per un colpo al mignolo,
diversi giorni dopo i fatti in cui se lo è procurato.
Intanto, un appello va al personale del pronto soccorso, dove abbiamo trovato
anche medici e infermieri con senso critico e grande professionalità: diffidate
dei dolori, delle algie, degli acufeni dei celerini in servizio, servono solo a
intasare la sanità pubblica e portare a processo manifestanti!
Insomma, prima ti fanno la guerra e poi si leccano ferite inesistenti con
annunci in pompa magna sui giornali.
Di fronte all’arroganza dello stato di polizia, al piagnisteo dei sindacati di
polizia, alla superficialità giornalistica, ecco le nostre parole.
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Milano, No Expo 2015 molto più di una lotta
di Laboratorio Politico Off Topic
Numeri
In questi giorni le cronache mainstream celebrano il decennale di Expo2015,
magnificando il ruolo fondamentale avuto per il rilancio di Milano come
metropoli globale e lo sviluppo dell’attuale modello di città, ricordando al
tempo stesso il “grande pericolo” scampato il Primo Maggio 2015 quando i No Expo
“presero in ostaggio la città”.. A sostegno di queste affermazioni si elencano
dati, dal loro punto di vista emblematici, del “rinascimento meneghino”: aumento
esponenziale del turismo, incremento significativo dei prezzi per i soggiorni
alberghieri, incremento quasi del 50% del numero di bar e ristoranti, aumento
considerevole delle offerte di alloggi di lusso (che siano case in vendita o
appartamenti per affitti a breve), flussi senza precedenti di investimenti
immobiliari dall’estero.
Omettono invece di raccontare quelli che descrivono l’immagine più reale dello
stato della città:
* Expo 2015 S.p.A., a fronte dei finanziamenti pubblici ricevuti per 2.318,7
milioni di euro, ha restituito al pubblico 874 milioni generando, quindi, un
debito di 1.445 milioni di Euro (come abbiamo raccontato a suo tempo, quando
vennero pubblicati i bilanci);
* il grande evento green ha dato il via a un nuovo capitolo della
cementificazione meneghina e alla deregolamentazione dell’edilizia, con il
conseguente disastroso aumento di consumo di suolo, nella vicenda emblematica
dell’ex Area Expo che, nonostante fosse stata sottoposta a referendum civico
nel 2011 con oltre il 95% di voti favorevoli alla sua trasformazione in area
verde a Esposizione conclusa, ospiterà a breve il polo MIND;
* non meglio è andata sul fronte reddito e lavoro: la povertà ha raggiunto il
picco degli ultimi 10 anni, i redditi si sono polarizzati radicalmente,
mentre tra il 2018 e il 2023 almeno 400.000 persone hanno lasciato Milano a
fronte di 500.000 nuovi abitanti a reddito più alto, in particolare nei
quartieri periferici storicamente a reddito più basso i cui abitanti sono
dovuti emigrare verso lidi più lontani in fuga dallo scoppio del costo della
vita. Mentre sul tema eventi, grazie anche all’accordo dei Sindacati
confederali, Expo ha di fatto sdoganato l’utilizzo massiccio del volontariato
per le imprese e nel settore culturale
Sono proprio questi numeri a farci dire che, senza alcun dubbio, avevamo ragione
noi.
Avevamo ragione noi che, ancora durante la sindacatura Moratti, quando Expo2015
era solo nella fase di candidatura, sostenevamo che una città a misura di
grandi, medi, piccoli eventi (come oggi è diventata Milano) sarebbe stata una
città che si sarebbe sviluppata contro i propri abitanti, i loro bisogni
primari, che avrebbe espulso a colpi di gentrificazione le classi popolari e gli
stessi lavoratori che mandano avanti l’economia della metropoli. Avevamo ragione
noi a dire che Expo2015 sarebbe stato il propulsore della privatizzazione della
città pubblica a favore degli appetiti di immobiliaristi e fondi d’investimento,
che i Piani di Governo del Territorio favorivano senza soluzione di continuità.
Avevamo ragione noi a parlare di “debito, cemento, precarietà” come matrice per
identificare l’impatto che grandi eventi e grandi opere hanno sui territori che
li subiscono e di Expo2015 come dispositivo per avviare una nuova governance
urbana.
L’ultimo movimento unitario del Movimento
Abbiamo animato e attraversato il percorso No Expo da subito, anzi possiamo
affermare che il Comitato da cui poi è nata l’Assemblea e la Rete è stato il
contesto di formazione del nostro collettivo/laboratorio politico. Abbiamo speso
anni a costruire l’ambito collettivo dell’Attitudine No Expo, girato il Paese e
l’Europa, scritto contributi e fatto subvertising di famosi giochi (do you
remember Expopolis?), con il solo obiettivo di costruire un fronte ampio di
lotta e resistenza alle dinamiche che il grande evento voleva imporre alle
nostre vite. Abbiamo smontato cantieri nei parchi della periferia ovest, laddove
le ruspe targate Expo volevano sperperare 90 mln di fondi pubblici per l’inutile
e nemmeno troppo estetica “Via d’Acqua”, fermando lo scempio ambientale nella
cintura di parchi dell’Ovest milanese e lo spreco economico. Abbiamo provato con
uno dei primi Climate Camp in Italia a salvare i terreni agricoli di Cascina
Merlata e dell’est Milano da speculazioni immobiliari e autostrade inutili. E
tornando indietro nel tempo rifaremmo tutto e forse di più.
Rifaremmo anche la No Expo Mayday del Primo maggio 2015: una delle più
importanti manifestazioni di massa dell’ultimo decennio a Milano, criminalizzata
per qualche vetrina rotta, qualche auto bruciata e tante scritte sui muri. Ma
serviva il “nemico pubblico” e l’occasione era ghiotta per detrattori di varia
specie per infangare la legittimità di un percorso che aveva ancora tanto da
dire e fare. Se quel giorno sbagliammo fu nel non capire che c’era una rabbia
della generazione precaria che andava al di là della nostra voglia di una Mayday
che fosse un punto di partenza e non di arrivo.
Ma il movimento No Expo non è morto per la repressione, quanto per una questione
squisitamente politica che ci interroga tuttora.. A decretarne la fine, infatti,
è stata la mancanza di volontà della grossa parte non antagonista, associativa,
cooperativa, civica, che in 8 anni di lotta eravamo riusciti ad aggregare su
parole d’ordine radicali e di rottura rispetto alle logiche di Expo, di
continuare a stare fuori dal circuito cooptativo che Pisapia aveva apparecchiato
e alla cui tavola si sarebbero invece fatti servire – proprio da quei soggetti –
Beppe Sala e i soggetti privati, nativi e globali, che avrebbero divorato la
città. Ma è stata anche la nostra incapacità, della componente radicale e
anticapitalista, di mantenersi coesa e tenere aperta un’opzione politica di
rifiuto del “modello Milano”, in nome del diritto alla città, tale da
consolidare e far crescere consenso nei suoi confronti. E tutti gli espulsi
dalla metropoli post-Expo e pre-Olimpiadi sanno quanto ce ne sarebbe stato
bisogno. Di fronte a tutto questo, non possiamo che sorridere amaramente di
fronte a chi riduce tutto al fuoco di paglia esploso 10 anni fa, come uno
stereotipo e un luogo comune tutto nostro, del “movimento” milanese, fatto
proprio anche dall* compagn* più giovani che quegli anni non li hanno vissuti
spesso. Ci sembra più una scusa per giustificare uno sfaldamento che non abbiamo
saputo fermare e l’isolamento delle collettività venuto successivamente. Perché
la stagione No Expo è stata anche questo: l’ultima esperienza politica unitaria
vissuta a Milano a livello di movimento.
In ogni caso nessun rimorso
Oggi, a dieci anni di distanza, con una città sempre più cara per il costo della
vita e degli affitti, sempre più esclusiva ed escludente, con un modello di
sviluppo (immobiliare) finito sotto indagini giudiziarie e con il nuovo grande
evento inutile alle porte, le Olimpiadi 2026, le parole d’ordine e le analisi
critiche della stagione No Expo non solo sono attuali, ma trovano conferma nei
fatti. E ci fa piacere che tante persone, che dieci anni fa prendevano le
distanze dai “pericolosi antagonisti” che rovinavano l’immagine di Milano nel
mondo, persino qualche Spugnetta del giorno dopo ne siamo sicur*, si stiano
timidamente accorgendo della tossicità del “modello Milano” e della sua
insostenibilità per fasce sempre più ampie di abitanti. Nel frattempo di
“Salvare il Pianeta – Energia per la vita”, come voleva il titolo di Expo2015,
non si parla più se non nei goffi e sempre meno credibili tentativi di
greenwashing e socialwashing del Sindaco Sala; il cibo è diventato food, spesso
junk, per turisti ricchi; il consumo di suolo continua inarrestato e le
Olimpiadi 2026 hanno la stessa funzione che ebbe Expo2015: alimentare la
macchina predatoria e garantire flussi turistici e, soprattutto, di investimenti
immobiliari per un altro lustro, a spese delle città pubblica, della
sostenibilità ambientale, delle fasce lavoratrici e del precariato, ma ormai
anche di quello che si definiva orgogliosamente “ceto medio”.
Per questo oggi, Primo Maggio 2025, siamo ancora orgogliosamente No Expo e,
invitando tutta la nostra comunità politica e la città a ricordarsi degli
aspetti progressivi di quella fondamentale stagione di lotta politica, a testa
alta possiamo dire: in ogni caso nessun rimorso.
> Sui disordini di Milano
> Dopo il corteo del 1 Maggio, riflettiamo per non cadere nella dicotomia tra
> “buoni o cattivi”.
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