
Il “Decreto sicurezza” nel Paese della polizia del G8 di Genova
Osservatorio Repressione - Wednesday, April 16, 2025Sono passati dieci anni esatti dalla dura condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dell’Italia per i fatti del G8 di Genova 2001. Un Paese incapace di prevenire e punire torture e depistaggi, dotato di una polizia che si rifiutò “impunemente” di collaborare con chi indagava sui fatti della Diaz. Uno schiaffo che lascia ancora il segno e “parla” del decreto sicurezza varato dal governo a inizio aprile
di Duccio Facchini da Altreconomia
“La Corte si rammarica che la polizia italiana si sia potuta rifiutare impunemente di fornire alle autorità competenti la collaborazione necessaria all’identificazione degli agenti che potevano essere coinvolti negli atti di tortura”.
Sono passati dieci anni esatti dalla condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dell’Italia per i fatti del G8 di Genova 2001, tra le più gravi violazioni dei diritti umani nel contesto di una democrazia occidentale dal Dopoguerra (Amnesty International). Il ricorso lo si deve ad Arnaldo Cestaro, storico militante vicentino scomparso nell’estate 2024, e vittima insieme a Lorenzo Guadagnucci e tanti altri dell’assalto-macelleria compiuto dalla polizia alla scuola Diaz nel luglio di 24 anni fa.
Quella sentenza del 7 aprile 2015, come ha più volte ricordato Enrico Zucca, che fu pubblico ministero del processo per quelle torture e oggi è procuratore generale a Genova, fu scontata nella decisione ma inattesa nella durezza.
Un Paese incapace di prevenire e punire torture e depistaggi -scolpirono i giudici di Strasburgo- dotato di una polizia che si è dimostrata infedele.
Enrica Bartesaghi e Lorenzo Guadagnucci, allora membri del Comitato Verità e Giustizia per Genova, parlarono di “schiaffo alle istituzioni italiane”. Il campo larghissimo del partito della polizia, dopo anni di falsità, fece finta di niente.
Tipo Alfredo Mantovano, sottosegretario all’Interno in quella terribile estate 2001 e oggi gattopardescamente sottosegretario alla presidenza del Consiglio nonché Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica. Mantovano, caso di “magistrato in politica” gradito alla stampa governista, ebbe modo nel 2010 subito dopo la sentenza di appello sui fatti della Diaz di parlare di “fior di professionisti della sicurezza” che svolgevano il “loro ruolo con grande responsabilità e dedizione, rispetto al quale ci può essere solo gratitudine da parte delle istituzioni”. La Cassazione prima e la Cedu poi hanno chiarito chi aveva ragione e chi torto, chi andava “ringraziato” e chi proprio no.
Lo schiaffo della Corte europea lascia ancora il segno. Lo dimostra l’ultima supervisione pubblicata nel dicembre 2024 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, organo che mantiene la cosiddetta “sorveglianza sostenuta” (anche) sulla corretta esecuzione della “sentenza Cestaro”.
Il Comitato, prendendo atto delle rassicurazioni delle autorità italiane sul non aver alcuna intenzione di abrogare la disposizione sull’attuale reato autonomo di tortura nel codice penale, ha “espresso la propria profonda preoccupazione per la mancanza di progressi nell’adozione di misure volte a garantire l’identificazione degli agenti delle forze dell’ordine” così come per il mancato “invio di un messaggio chiaro ad alto livello politico sulla politica di tolleranza zero nei confronti dei maltrattamenti nelle forze dell’ordine”.
Non solo. “Ha nuovamente invitato le autorità a garantire che […] gli agenti delle forze dell’ordine accusati di reati che comportano maltrattamenti siano sospesi dal servizio durante le indagini o il processo e licenziati in caso di condanna”.
Il Governo Meloni-Mantovano ha deciso però di salutare il decimo anniversario della sentenza Cestaro e i freschi ammonimenti del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa con il “decreto sicurezza”, licenziato in Consiglio dei ministri il 4 aprile e fatto piovere in testa a un Parlamento che ha lavorato a vuoto per mesi.
Si introduce un’aggravante del delitto di violenza o minaccia e di resistenza a pubblico ufficiale “se il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza con l’aumento di pena fino alla metà e un’ulteriore circostanza aggravante in caso di atti violenti commessi al fine di impedire la realizzazione di un’infrastruttura”. In materia di tutela legale per “fatti connessi alle attività di servizio”, poi, si aumenta fino a 10mila euro l’importo massimo che può essere corrisposto per ciascuna fase del procedimento. E si introduce il nuovo reato di “rivolta all’interno di un istituto penitenziario”.
L’esecutivo rivendica di aver previsto nel decreto “la possibilità di dotare le forze di polizia di dispositivi di videosorveglianza indossabili (bodycam), idonei a registrare l’attività operativa nei servizi di mantenimento dell’ordine pubblico, di controllo del territorio, di vigilanza di siti sensibili e in ambito ferroviario e a bordo treno e quella di utilizzare dispositivi di videosorveglianza, anche indossabili, nei luoghi e negli ambienti in cui vengono trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale”.
Peccato che il Comitato dei ministri a dicembre 2024 abbia testualmente ribadito “che l’uso della sola registrazione audiovisiva non garantisce una soluzione completa o affidabile per l’identificazione degli agenti da parte di persone in situazioni come quelle dei casi in questione (Diaz e non solo, ndr)”.
È uno strumento che “dovrebbe essere integrato in un quadro più ampio per la prevenzione dei maltrattamenti, insieme a misure che garantiscano una chiara identificazione degli agenti, come sottolineato anche dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti”.
Fumo negli occhi per quei “fior di professionisti della sicurezza”.
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