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Italiani, brava gente. Che tortura
Torture made in Italy di Marco Sommariva Non so se succede anche a voi ma, mentre mi capita di dimenticare facilmente letture che non son state in grado di lasciare in me alcun segno e, al contrario, diverse le ricordo a lungo, ce ne sono alcune che diventano vere e proprie pietre miliari della mia crescita, perché capaci di modificare fortemente ciò che ero, per via dei ragionamenti che mi hanno costretto a fare, frutto dei nuovi e più ampi orizzonti che hanno saputo aprirmi; per esempio, per il dodicenne che ero, sono state pietre miliari Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach, Fantozzi di Paolo Villaggio, L’assassinio di Roger Ackroyd di Agatha Christie e Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque oppure, molti anni dopo, Non ho risposte semplici di Stanley Kubrick, L’isola dei pinguini di Anatole France, Memorie intime di Georges Simenon e Autunno tedesco di Stig Dagerman. Fra le altre mie pietre miliari, è senza dubbio compresa Sala 8 di Mauricio Rosencof. L’autore di questo libro – dirigente dell’MLN-T, Movimiento de Liberación Nacional – Tupamaros, organizzazione di guerriglia urbana d’ispirazione comunista, attiva in Uruguay tra gli anni Sessanta e i Settanta – viene fatto prigioniero nel 1972 e, a partire dal settembre 1973, è tenuto in isolamento per undici anni, ostaggio dell’allora dittatura militare; Rosencof verrà liberato solo dopo tredici anni di prigionia, nel 1985. La Sala 8 del titolo è quella dell’ospedale militare dove arrivano i prigionieri ridotti in fin di vita per essere rimessi in sesto e di nuovo rimandati nella sala delle torture, oppure alla “soluzione finale”; è un luogo senza possibilità di futuro, dove il tempo è fermo e il destino già deciso: “Gli conficcarono un manganello nel culo, fino al manico, dopo una tortura di quelle pesanti, chiedendogli: “Ti è piaciuto, negro? […] Te lo muovo?” Ma a quel punto squillò la tromba del rancio, e avevamo fame. “Andiamo” disse uno. “Lo lasciamo così?” chiese l’altro. “Tiralo fuori, ne sentirà la mancanza. Dai, presto, si fredda la polenta.” Tolsero il manganello di scatto, si creò un vuoto e insieme al bastone estrassero venti centimetri di intestino. Una fatica staccare le viscere dal manganello ma alla fine ce la fecero”. La voce narrante è quella di un desaparecido che si muove in questo spazio spettrale raccontandoci la terribile condizione delle vittime dell’ultima dittatura militare uruguagia, private della loro stessa umanità da un regime deciso ad annientare ogni loro traccia, come se non fossero mai esistite; qui lo fa sotto forma di metafora: “Conosco molte storie sulla mia vita come pane. Sono stato condiviso, tagliato, sminuzzato, mi hanno messo il nastro da pacchi sugli occhi, tre giri di nastro, mi hanno legato col fil di ferro, quieto, duro, mi hanno dovuto togliere dal bidone perché, a mollo, la mollica diventava poltiglia e si afflosciavano i giri di fil di ferro. […] Mi hanno spezzato il cantuccio con le tenaglie, mi hanno lasciato senza crosta, mi hanno ridotto in briciole. Poi le hanno spazzate e, di sicuro, le hanno buttate sulla piazza d’armi dove immagino che passerotti e piccioni abbiano fagocitato i miei resti. Quello che è rimasto è andato a finire nella Sala 8”. Quando leggo storie di torture non riesco a farle scivolare via, finisco col provare a masticarle e ingoiarle, e benché il reflusso me le riporti continuamente in gola per farmele vomitare, alla fine le ributto giù non per provare a digerirle ma perché non mi va di sbarazzare lo stomaco: è bene che qualcosa ci sia sempre ad appesantirlo; se no, temo mi sfugga la Realtà. In Notturno cileno Roberto Bolaño fa i conti con la storia del suo Cile, e lo fa scegliendo il punto di vista di un uomo equivoco, che ha badato a tenersi lontano dai rischi, che s’è piegato a compromessi e macchiato di viltà: un sacerdote che, in una notte di agonia e delirio, ripercorre la propria esistenza: “poi ammazzarono il consigliere militare di Allende e ci furono disordini, male parole, i cileni bestemmiarono, scrissero sui muri e poi quasi mezzo milione di persone sfilò in una grande marcia di appoggio ad Allende, e poi ci fu il colpo di Stato, il sollevamento, il pronunciamento militare, e bombardarono il palazzo della Moneda e quando smisero di bombardare il presidente si suicidò e tutto finì. Allora io rimasi immobile, con un dito sulla pagina che stavo leggendo, e pensai: che pace. Mi alzai e mi affacciai alla finestra: che silenzio. Il cielo era azzurro, un azzurro profondo e limpido, spruzzato qua e là di nuvole. In lontananza vidi un elicottero. Senza chiudere la finestra mi inginocchiai e pregai, per il Cile, per tutti i cileni, per i morti e per i vivi”. Il colpo di stato in Cile avviene l’11 settembre 1973, stesso mese e anno in cui inizia l’isolamento del prigioniero Rosencof. Il rovesciamento del governo democraticamente eletto e presieduto da Salvador Allende che morì durante il colpo di stato, è opera dell’esercito e della polizia nazionale; le forze armate cilene diedero vita a una giunta militare guidata da Augusto Pinochet che – instaurando un regime autoritario e dittatoriale, e rendendosi responsabile di crimini contro l’umanità – restò al potere sino al marzo del 1990. Durante il regime di Pinochet, funzionarono in tutto il Cile centinaia di centri di detenzione dove le persone arrestate venivano torturate e molte delle quali non sono state mai più viste; dal sito di Amnesty International leggo che sono state oltre 40.000 le vittime di violazioni dei diritti umani tra il 1973 e il 1990, mentre il numero ufficiale delle persone uccise o scomparse è di 3.216 e quello di chi ha subìto detenzione politica e/o tortura è di 38.254. Quasi tutte le donne che furono torturate subirono violenze sessuali, a prescindere dall’età; una donna arrestata nel 1974, racconterà d’esser stata costretta a far sesso con suo padre e suo fratello, mentre una ragazza di sedici anni dichiarerà d’esser stata bruciata con le sigarette, seviziata, tenuta legata a una barella dove alcuni cani addestrati la violentarono e le furono messi dei topi vivi “dentro”. In Puttane assassine, l’ultima raccolta di racconti allestita prima di morire nel 2003, Roberto Bolaño scrive: “Nel gennaio del 1974 me ne andai dal Cile. Non ci sono più tornato. Sono stati coraggiosi i cileni della mia generazione? Sì, sono stati coraggiosi. In Messico mi raccontarono la storia di una ragazza del MIR [Movimento di Sinistra Rivoluzionaria] che avevano torturato infilandole topi vivi nella vagina. La ragazza riuscì ad andare in esilio e arrivò nel Distrito Federal. Viveva là, ma era ogni giorno più triste e un giorno morì per via di tutta quella tristezza. […] Si può morire di tristezza? Sì, si può morire di tristezza”. Dietro queste torture c’era la DINA, ossia la polizia segreta cilena nel primo periodo della dittatura di Pinochet. Nominata la DINA, non posso fare a meno di riprendere un passaggio del sopraccitato Notturno cileno: “E poi arrivò la democrazia […] e allora si seppe che James Thompson era stato uno dei più importanti agenti della DINA e che usava la sua casa come luogo di interrogatori. I sovversivi passavano dai seminterrati di James, dove lui li interrogava, gli tirava fuori tutte le informazioni possibili, e poi li mandava in altri centri di detenzione. A casa sua, di regola, non si ammazzava nessuno. Si interrogava soltanto, anche se qualcuno era morto”. In quella casa succedeva che, ogni tanto, mentre gli inquilini guardavano la televisione coi bambini, andava via un momento la luce; dallo scantinato non arrivava alcun urlo, unico segnale delle torture che avvenivano era l’elettricità che se ne andava di colpo e poi tornava. Restando in argomento tortura, mi torna in mente la storia di Anna Politkovskaja, giornalista russa con cittadinanza statunitense, che il 7 ottobre 2006 viene ritrovata nell’androne della sua casa moscovita uccisa da quattro colpi d’arma da fuoco. Pochi giorni dopo avrebbe pubblicato sul giornale Novaja Gazeta i risultati di una sconvolgente inchiesta sulle torture perpetrate in Cecenia dai russi – l’ultimo reportage di una carriera giornalistica sempre all’insegna del coraggio e della verità. Il killer, ripreso dalle telecamere dell’edificio, le spara un colpo al petto e tre al capo. Subito, amici e colleghi che stimavano il suo lavoro si dirigono sul luogo del delitto per renderle omaggio; anche l’intervento della polizia è tempestivo: entrano in casa della giornalista e le sequestrano il computer. Dopo l’omicidio, Putin puntualizzerà che la Politkovskaja “aveva un’influenza minima sulla vita politica russa”, e che “il suo assassinio reca più danno alla Russia e alla Cecenia che qualunque dei suoi articoli”; questo potrebbe essere il motivo per cui i telegiornali governativi russi non parlarono del funerale. Verrebbe da pensare qualcosa tipo “Va be’, comunque si sta parlando di regimi – uruguagio, cileno e russo – e di un bel po’ di anni fa, di certo non accadrà nulla di simile in Italia nel 2024”. Ma non si fa in tempo a terminare un pensiero un po’ superficiale come questo – ogni tanto, giusto per sopravvivere, provo a raccontarmela – che già un amico mi spedisce sul cellulare questo link https://www.lindipendente.online/2024/09/20/roma-agente-confessa-hasib-ragazzo-disabile-e-finito-in-coma-per-sfuggire-alle-torture/ con tanto di invito a leggere l’articolo. E così vengo a conoscenza che Fabrizio Ferrari, l’agente di polizia che il 25 luglio 2022 si trovava al terzo piano di un edificio in zona Primavalle, a Roma, mentre il suo collega Andrea Pellegrini sottoponeva a tortura Hasib Omerovic – un giovane sordomuto di etnia rom senza precedenti penali –, ha patteggiato una pena a undici mesi di reclusione. Leggo che il “Ferrari ha confessato di aver assistito al momento in cui il ragazzo si è lanciato dalla finestra per sfuggire alle torture di Pellegrini, un gesto disperato che gli è costato lunghi mesi di coma in ospedale e un lungo percorso di recupero ancora in corso”. In pratica, succede che manca poco all’ora di pranzo quando quattro agenti in borghese si presentano alla porta del trentaseienne Hasib Omerovic, riferendo di dover eseguire un controllo dei documenti. Nonostante non vi sia mai stata conferma o riscontro, gli agenti decidono d’intervenire dopo che alcuni residenti hanno accusato Hasib su Facebook, di aver importunato alcune ragazze del quartiere. Secondo il racconto reso da Ferrari al Pubblico Ministero, Pellegrini avrebbe prima schiaffeggiato Omerovic, per poi minacciarlo con un coltello da cucina. L’agente avrebbe poi sfondato la porta della stanza dell’uomo, nonostante questi “si fosse prontamente attivato per consegnare le chiavi”, lo avrebbe costretto a sedersi legandogli i polsi con il filo elettrico del ventilatore e, continuando a minacciarlo con il coltello, avrebbe aggiunto “Se lo rifai, te lo ficco nel c…”, continuando nel mentre a schiaffeggiarlo. Una volta riuscito a liberarsi, Omerovic si è poi gettato dal balcone della sua stanza per sfuggire ai soprusi, finendo in coma in ospedale per diversi mesi. “Se lo rifai, te lo ficco nel c…”, avrebbe detto l’agente; proprio come succedeva in Uruguay durante la dittatura militare degli anni Settanta: “Gli conficcarono un manganello nel culo”, ricordate? Non faccio in tempo ad “archiviare” questa brutta notizia che già ne leggo una peggiore: “11 poliziotti penitenziari arrestati e altri 14 agenti sono stati sospesi per le torture sui detenuti nel carcere di Trapani. A incastrarli le telecamere installate dopo le denunce dei reclusi. Sono accusati di tortura e abuso d’autorità. Undici agenti penitenziari in servizio nel carcere “Pietro Cerulli” di Trapani sono stati arrestati e messi ai domiciliari. Altri 14 sono stati sospesi dal servizio in esecuzione all’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Trapani su richiesta del procuratore capo Gabriele Paci.” Messo al corrente di questi casi di tortura made in Italy, un collega mi confessa di non riuscire a spiegarsi come un popolo di così “brava gente”, tanto affettuoso con gli animali in generale e coi cani in particolare, possa commettere atti del genere. Mi sorprendo nell’aver la risposta pronta, e questo grazie al fatto che ho avuto la fortuna d’aver letto poco prima un interessante articolo su Il Foglio Quotidiano, intitolato “Cani e gatti nel Terzo Reich”, a firma di Siegmund Ginzberg. E così, riporto al mio collega diverse informazioni lette sul giornale, su cui ragionare, giusto per non farsi fagocitare dall’oscuro tunnel della superficialità dove, anche il sottoscritto, ogni tanto è tentato d’infilarsi. Una delle primissime leggi approvate con Hitler cancelliere fu quella contro “la crudeltà verso gli animali” in cui si proibisce la vivisezione, il procurare loro ogni forma di “tormento e maltrattamento” e il loro utilizzo in esperimenti medici. Il dottor Mengele, assolutamente ligio alle leggi, come i suoi colleghi medici ad Auschwitz, non vivisezionava animali. I suoi orribili e sadici esperimenti, senza anestesia, li conduceva su esseri che per lui erano subumani, molto meno che animali. Poi tornava a casa a coccolare il suo cane: “Coccolano i loro cani, ma erigono Dachau”, da La scimmia e l’essenza di Aldous Huxley. E ancora, Hitler ebbe e si affezionò a numerosi cani, fino all’ultimo: la femmina di pastore tedesco Blondi, che volle accanto a sé anche nel bunker di Berlino, l’avvelenò amorevolmente prima di suicidarsi. Infine, altro grande amante degli animali e orgoglioso allevatore di cani, fu Rudolf Höss, il comandante del campo di sterminio su scala industriale di Auschwitz. Se qualcuno di voi ritenesse d’aver, comunque, riscontrato una certa logica in quanto letto sinora, aggiungo un ultimo elemento: alla fine del loro arruolamento, le reclute della unità cinofili delle SS erano costrette a spezzare il collo del cane che avevano addestrato, di fronte al proprio ufficiale superiore, per dimostrare disciplina, obbedienza assoluta e necessaria spietatezza. Chiuderei con una frase del già menzionato Bolaño, che mi pare la degna conclusione a quanto riportato sinora: “Che Dio, se esiste, abbia pietà di noi. È a questo che si riduce tutto”. www.marcosommariva.com       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
November 20, 2024 / Osservatorio Repressione
La doppia morale del ministro Valditara
Il ministro Valditara fa sospendere un professore per quel che ha detto fuori dalle mura scolastiche ma rivendica il proprio diritto di manifestare davanti ad un tribunale come un “semplice cittadino” di Paolo Persichetti da Insorgenze La sanzione inflitta dall’Ufficio scolastico regionale del Lazio, diretto da Anna Paola Sabatini, una rampante democristiana prima in quota Pd poi passata a Forza Italia, contro Christian Raimo (tre mesi di sospensione dall’insegnamento con dimezzamento dello stipendio), professore di filosofia in un liceo romano, vivace animatore culturale, già assessore alla cultura del III municipio del comune di Roma, candidato per Avs alle ultime elezioni europee, per aver espresso critiche molte aspre contro la politica dell’istruzione condotta dall’attuale ministro, Giuseppe Valditara, non è solo un segnale ulteriore dell’autoritarismo di questo governo, composto da un ceto politico insofferente alle critiche e vigliaccamente vendicativo, ma la conferma della torsione disciplinare introdotta con la controriforma del voto in condotta che va di pari passo con regolamenti interni presenti in diversi istituti, ingiustificatamente repressivi, persino lesivi di alcuni diritti costituzionali degli stessi studenti. Ciò che più bisogna sottolineare in questa vicenda sono le modalità con sui è stata esercitata la rappresaglia del potere contro la parola critica. Il ministro, infatti, poteva ricorrere alla magistratura per far valere – se davvero queste erano fondate – le ragioni di un eventuale danno alla sua immagine. Quando si è espresso, infatti, Raimo non era in cattedra, non stava tenendo lezione ai suoi studenti ma parlava in uno spazio pubblico, all’interno di un dibattito sulla scuola durante la festa di Avs, lo scorso settembre. Era in qualità di cittadino e non di docente che Raimo interveniva esercitando un diritto costituzionale che forse a questo governo dispiace. Eppure la punizione comminata a Raimo non è quella di un giudice che avrebbe individuato contenuti diffamatori nelle sue dichiarazioni ma una sanzione inflitta per via gerarchica dal suo datore di lavoro, il ministero del Pubblica istruzione e – quanto mai – del (De)merito. E’ come se un chirurgo fosse stato sanzionato dal ministro della Sanità per quel che ha detto in una pubblica piazza. La classe docente non porta l’uniforme, non è armata, non esercita la forza legittima dello Stato per cui è legata dalla costituzione a stretti vincoli di fedeltà, condotta e riserbo. La classe docente non giura fedeltà ad alcun regime, è composta da liberi cittadini che all’interno della scuola devono rispettare un codice regolamentare e i doveri contrattuali e quando escono hanno la piena libertà di esprimersi e criticare nello spazio pubblico. Diritto che per altro il ministro Valditara rivendica per sé, senza riconoscerlo agli altri, quando come «semplice cittadino» – a suo dire – nonostante sia membro del governo, si è recato al presidio davanti al tribunale di Palermo per sostenere il suo segretario di partito Matteo Salvini accusato di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio al processo Open Arms. Se questa sanzione non viene ricacciata indietro non si dovrà aspettare molto perché un qualunque ufficio scolastico si sentirà libero di sindacare anche i gusti sessuali e religiosi, oltre che politici, dei docenti fuori dalla scuola, perché questi possono «ledere l’immagine dell’istituzione scolastica». Non basta dunque la semplice solidarietà, serve anche reagire e mobilitarsi dentro e fuori le scuole e bene farà Raimo a presentare ricorso in sede amministrativa, perché ha ragione da vendere. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 9, 2024 / Osservatorio Repressione
“Un giorno ci vergogneremo di questi delitti di Stato”
Intervista al giurista Luigi Ferraloli di Angela Stella da l’Unità “Uno dei fattori di distruzione dello Stato di diritto è precisamente la violazione dei diritti delle persone ed anzi la negazione dell’identità di persona dei migranti”, dice il giurista Luigi Ferrajoli a proposito delle norme del “pacchetto sicurezza”. Lo abbiamo intervistato a margine della manifestazione promossa ieri dall’Unione camere penali contro il ddl governativo. Ma Ferrajoli si scaglia anche contro il protocollo con Tirana: “La deportazione dei migranti in Albania è chiaramente un sequestro di persona, dato che quei migranti sono stati sequestrati in mare, mentre esercitavano il diritto di emigrare, e deportati contro la loro volontà in un luogo di detenzione. Ma evidentemente per i nostri governanti questi disperati non sono persone, ma cose, che possono essere impunemente prelevate, private della libertà personale e rinchiuse in un campo di concentramento. Ebbene io credo che la questione migranti sia oggi il banco di prova del tasso di civiltà di un ordinamento; e che di queste nostre politiche dovremo un giorno vergognarci”. Professore cosa pensa in linea generale di questa norma? È un “pacchetto sicurezza” demagogico e propagandistico, ancor più dei tanti altri che l’hanno preceduto. Ne è prova il fatto che l’Italia è uno dei Paesi più sicuri del mondo: sono circa 300 gli omicidi ogni anno, su una popolazione di circa 59 milioni. La principale finalità di questo disegno di legge è in realtà quella di ottenere il consenso degli elettori, con misure ingiuste e inutilmente repressive che stigmatizzano soprattutto le differenze: quella dei migranti, quella dei tossicodipendenti, quella della piccola devianza. Il suo effetto principale, purtroppo, consiste nel produrre un abbassamento del senso morale a livello di massa. Giacché sempre la disumanità, quando è ostentata a livello istituzionale, ha un effetto performativo, di contagio. Non capiremmo il fascismo e i totalitarismi se ignorassimo questo ruolo performativo del senso morale che ha l’esibizione ufficiale della disumanità da parte delle istituzioni. Ciò che tuttavia è più allarmante in questo disegno di legge è la lesione da esso provocata dei principi dello Stato di diritto. Lei nel suo intervento ha parlato innanzitutto della repressione del dissenso politico… Sì, esso viene messo in atto non solo con questo disegno cosiddetto sulla sicurezza, ma con tutti gli altri provvedimenti adottati da questo governo in materia penale. Sono duramente punite – con la previsione talora di nuovi reati, talora di pesanti aggravamenti di pena per reati già esistenti nel nostro ordinamento, talora con l’ampliamento delle misure di prevenzione – tutte le espressioni del dissenso provenienti da manifestazioni di piazza di gruppi pacifisti, o ecologisti o in difesa dei migranti e dei diritti umani: sit in, blocchi stradali puniti da sei mesi a due anni se commessi da più persone, danneggiamenti, resistenza di qualunque tipo a pubblici ufficiali. Sono norme che non limitano soltanto il diritto di riunione, ma anche la libertà di manifestazione del pensiero: giacché la riunione, lo dichiarò Filippo Turati nel marzo del 1900 nel dibattito parlamentare sui decreti liberticidi del governo Pelloux, è il solo medium di cui dispongono i comuni cittadini, i quali non scrivono libri, non parlano in televisione, non scrivono sui giornali ma possono solo esprimere il loro pensiero con le loro manifestazioni collettive di protesta. Secondo molti giuristi intervenuti insieme a lei all’evento dei penalisti questo ddl mira soprattutto a comprimere i diritti dei migranti. Che ne pensa? Uno dei fattori di distruzione dello stato di diritto è precisamente la violazione dei diritti delle persone ed anzi la negazione dell’identità di persona dei migranti. La deportazione dei migranti in Albania è chiaramente un sequestro di persona, dato che quei migranti sono stati sequestrati in mare, mentre esercitavano il diritto di emigrare, e deportati contro la loro volontà in un luogo di detenzione. Ma evidentemente per i nostri governanti questi disperati non sono persone, ma cose, che possono essere impunemente prelevate, private della libertà personale e rinchiuse in un campo di concentramento. Ebbene, io credo che la questione migranti sia oggi il banco di prova del tasso di civiltà di un ordinamento; e che di queste nostre politiche dovremo un giorno vergognarci. Non dimentichiamo che il diritto di emigrare fu teorizzato in Europa – nel 1539, da Francisco de Vitoria – quando servì a legittimare la conquista e la colonizzazione del nuovo mondo. Oggi che l’asimmetria si è ribaltata e sono i disperati della terra che fuggono dalla miseria e dal sottosviluppo generati prima dalle colonizzazioni e poi dalle nostre politiche liberiste, l’esercizio di quel diritto si è trasformato in delitto e ha fatto la sua ricomparsa, in Europa, la figura della persona illegale per la sua sola identità. A proposito di politiche migratorie, cosa pensa dello scontro tra Governo e magistratura sulla questione Albania? Il disprezzo per lo stato di diritto si rivela anche nell’aperta violazione della separazione dei poteri o, meglio, nella totale ignoranza di questo principio elementare dello Stato di diritto ostentate dal nostro governo. La nostra presidentessa del Consiglio, di fronte alla mancata convalida da parte del Tribunale di Roma del trasferimento in Albania di 16 migranti, ha espresso il suo enorme stupore per il fatto che la magistratura italiana non collabori con il governo e ha addirittura ipotizzato una possibile congiura dei magistrati contro di lei. Non solo. Senza neppure attendere la pronuncia della Corte di giustizia europea, interpellata dal Tribunale di Bologna sui cosiddetti “paesi sicuri”, il governo ha annunciato che in questa settimana riprenderà le deportazioni dei migranti in Albania. Si tratta di un attacco allo stato di diritto, di cui l’indipendenza del potere giudiziario dal potere politico è un tratto per così dire costitutivo e, insieme, di un’aperta manifestazione di disprezzo nei confronti dell’Unione europea, dato che con questa iniziativa il governo ha palesemente contestato il primato del diritto europeo sul diritto statale. Ma il rapporto tra giustizia e politica, tra potere giudiziario e potere politico, è oggi deformato dal dissesto della legalità penale. Ci spiega meglio? Si è calcolato che abbiamo, in Italia, 35mila figure di reato sparse nei provvedimenti legislativi più disparati, formulate in termini non solo vaghi e indeterminati ma addirittura incomprensibili, a causa degli innumerevoli rinvii ad articoli e commi di altre leggi e degli interminabili e intricati labirinti normativi nei quali rischia sempre di perdersi qualunque interprete. È chiaro che una legalità dissestata apre spazi di arbitrio al potere giudiziario e alimenta l’illegittima creatività della giurisdizione. Sono decenni che propongo un rafforzamento della riserva di legge tramite la sua trasformazione in una riserva di codice: tutte le norme in tema di reati, di pene e di processi nel codice penale e in quello di procedura. La politica lamenta l’arbitraria interferenza dei giudici nella sfera della politica. C’è un solo modo che ha la politica per sottomettere i giudici alle leggi: fare bene il suo mestiere, cioè produrre leggi chiare, precise e tassative, ovviamente nel rigoroso rispetto dei principi costituzionali. Eppure il ministro Nordio che si era detto da sempre a favore di depenalizzazione oggi condivide provvedimenti che aumentano i reati e le pene… Il ministro della Giustizia Nordio, gran parte degli esponenti dell’attuale maggioranza, come già Berlusconi e i suoi sostenitori, si professano garantisti. Si tratta di un garantismo della disuguaglianza e del privilegio, che pretende l’impunità per i ricchi e i potenti e promuove la disumanità nei confronti dei poveri e degli emarginati, destinati a pene draconiane, carcere duro e lesioni della loro dignità di persone: un garantismo della disuguaglianza che si è platealmente manifestato fin dalla legge di conversione n. 199 del 30.12.2022 con cui fu inaugurata la politica penale di questo governo: da un lato l’aumento da 26 a 30 anni della pena espiata dagli ergastolani prima che si possa concedere loro la liberazione condizionale e la previsione della pena da 3 a 6 anni per le occupazioni “di terreni o edifici altrui al fine di realizzare un raduno musicale”; dall’altro in un regalo ai soli condannati per peculato, concussione, corruzione e istigazione alla corruzione, consistente nella soppressione, per tutti costoro, del regime del carcere ostativo previsto dall’art. 4-bis, che era stato ad essi esteso dalla legge n. 3 del 9.1.2019. Dato questo quadro, cosa resta da fare? Non c’è costituzione, affermò l’art. 16 della Dichiarazione francese dei diritti del 1789, ove vengano a mancare la separazione dei poteri e la garanzia dei diritti. È precisamente questo che sta accadendo in Italia. Ed è contro questa mutazione dello stato di diritto in uno stato di polizia che dobbiamo lanciare il nostro allarme ed esercitare il nostro diritto-dovere di resistenza. Prima che sia troppo tardi.   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp    
November 6, 2024 / Osservatorio Repressione
La guerra su fantasmi delle Br è un avvertimento a chi lotta oggi
Rinvio a giudizio per gli ex dirigenti del movimento ormai ottantenni: Curcio, Azzolini e Moretti. Un’ulteriore criminalizzazione di quegli anni o un deterrente per il futuro? di Frank Cimini da l’Unità Come il cacio sui maccheroni. Oppure come la grappa dopo il caffè. L’uso politico della giustizia e l’infinità emergenza italiana vanno insieme ormai da quasi mezzo secolo. E scatenano aspri scontri e polemiche. Ma a volte c’è la classica eccezione che conferma la regola. Per esempio l’ultimo clamoroso caso di uso politico della giustizia ha messo tutti d’accordo. Parliamo del rinvio a giudizio degli ex dirigenti delle Brigate rosse Renato Curcio, 83 anni, Lauro Azzolini, 81 anni e Mario Moretti, 77 anni, per il concorso nell’omicidio del carabiniere Giovanni D’Alfonso alla Cascina Spiotta in occasione della liberazione di Vittorio Vallarino Gancia, l’imprenditore sequestrato a scopo di finanziamento della lotta armata quando rimase uccisa anche Mara Cagol. Stavolta la magistratura, soprattutto quella associata sempre vociante, e la politica non litigano. I politici non litigano con le toghe e neanche tra loro. A fronte di intercettazioni chiaramente farlocche senza autorizzazione del gip, con motivazione surreale del gup (“inchiesta contro ignoti”), nessuno dice nulla. Come sulla vecchia sentenza di proscioglimento revocata perché scomparsa durante un’alluvione nel 1994. Revocata senza poterne prendere visione, leggerla. A meno che non sia stata interpretata attraverso una seduta spiritica sul modello di mister Gradoli al secolo Romano Prodi. Se questi pm della procura antiterrorismo di Torino, competenti su un fatto della provincia di Alessandria avvenuto quando le Dda non esistevano, avessero buon senso e fossero in buona fede, ci sarebbe da chiedersi come abbiano fatto a laurearsi e a superare il concorso in magistratura. Ma si tratta di magistrati esperti e preparati. Il problema loro sta nel fatto che combattono contro il fantasma di un fenomeno del passato per incidere sullo scontro sociale politico di oggi, che a causa della crisi economica potrebbe aggravarsi. Non solo per criminalizzare ulteriormente gli anni 70 e tribunalizzarli in maniera definitiva, ma per lanciare moniti a chi lotta oggi contro le disuguaglianze: non ci provate perché se no sarete perseguiti e perseguitati fino alla tomba. Come gli ottantenni di oggi. Chiudiamo con le parole di Davide Steccanella, avvocato di Azzolini e storico di quel periodo: “Curcio 50 anni dopo a giudizio per aver messo in conto e voluto una sparatoria in cui gli hanno freddato la moglie. Dovevano contestargli l’uxoricidio a sto punto”.   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
November 2, 2024 / Osservatorio Repressione
Come la retorica della Repubblica marinara può supportare gli odierni progetti di guerra
Tombolo docks struttura vitale per il trasporto di armi Usa dalla Base militare di Camp Darby in territorio italiano a insaputa della cittadinanza a cura del Comitato No Camp Darby La Fonte è il MILITARY TRAFFIC MANAGEMENT COMMAND PUBLIC AFFAIRS, la notizia è stata ripresa dalla stampa locale con un articolo che parla del potenziamento dell’area dei Navicelli a fini di guerra ossia il trasporto di armi via acqua dalla base Usa di Camp Darby che è la più grande base militare logistica fuori dagli Stati Uniti. Siamo andati direttamente alle Fonti per ricordare che questo progetto è ormai realizzato nel silenzio assenso anche delle realtà contro la guerra, sembra quasi che l’ombrello Usa e Nato sotto il quale il Pci e l’allora segretario Berlinguer (in corso di beatificazione da parte di una sinistra confusa e smarrita alla ricerca di punti di riferimento) sia sostanzialmente accolto come fatto ineluttabile contro il quale ogni critica e opposizione sia del tutto vana. Leggiamo testualmente da Comando dei trasporti degli Stati Uniti Immaginate lo scenario di un canale costruito nella prima parte del XV secolo che sarebbe diventato parte di un processo di trasporto chiave. La Darsena del Tombolo è un puntino invisibile sul Navicelli, uno dei pochissimi canali navigabili in Italia. Si trova nell’Italia centrale e più precisamente nella regione Toscana, la terra del Chianti … Oggi la Darsena del Tombolo è l’unico modo in cui il Comando di Gestione del Traffico Militare può spostare grandi quantità di munizioni via mare in Italia e, in ultima analisi, ai clienti. Il molo è situato nelle immediate vicinanze dell’area di stoccaggio delle munizioni di Livorno, dove vengono mantenute le scorte di munizioni di teatro dell’U.S. Army Europe e dell’U.S. Air Force Europe a sud delle Alpi. A causa della struttura del canale, ci sono restrizioni sul tipo di piccole imbarcazioni che possono essere utilizzate. Utilizziamo piccole imbarcazioni costiere semoventi a fondo piatto o chiatte LASH, che assomigliano a una scatola di metallo galleggiante, tirata/spinta da un rimorchiatore. L’idea di un canale che collegasse Pisa e Livorno era molto logica. Pisa fu una gloriosa e potente Repubblica Marinara durante l’XI e il XII secolo. Il canale divenne una realtà nel XV secolo durante il regno di Cosimo I, un Medici, tra il 1541 e il 1575, quando le due città erano sotto la dominazione della prima Repubblica Fiorentina. Oggi questa stessa terra sostiene l’839° Battaglione Trasporti. È l’unico luogo in Italia in cui è possibile gestire quantità illimitate di esplosivo. Il carico viene trasbordato in modo efficiente dalla nave alla nave e viceversa, sotto gli occhi vigili delle motovedette dei Carabinieri. A chi chiedeva settimane or sono notizia del  trasporto di armi sul territorio pisano è stato risposto menzionando il codice penale italiano che vieta la diffusione di notizie riservate per la sicurezza nazionale e condanna con anni di carcere chi le diffonda o ne sia semplicemente a conoscenza. Nessuna richiesta di chiarimenti sul trasporto di armi Usa, o Nato, sui nostri territori, potrà essere accolta per la sicurezza nazionale nel nome della quale i cittadini devono arrendersi alla ineluttabilità della guerra Sudditi e non cittadini in un paese la cui Costituzione in teoria parla ancora di ripudio della guerra. Dopo sei anni di lavori, con la partecipazione attiva degli Enti locali, la base di Camp Darby sul territorio tra Pisa e Livorno vede completati i lavori che permetteranno il trasporto di armi via acqua e via ferrovia anche in dispregio di un ordine del giorno di venti anni fa con il quale il Consiglio Comunale di Pisa richiedeva un uso civile e non militare della macchia mediterranea tra i due comuni. E in un momento storico in cui crescono le spese militari e il ricorso alla guerra viene considerato nevralgico per gli interessi nazionali e internazionali, questa situazione suona come campanello di allarme, i  processi di militarizzazione dei territori e il loro uso a fini di guerra è ormai una realtà  e per chi vi si opporrà si spalancheranno le porte del carcere come previsto anche dal ddl 1660 in corso di discussione al Senato. Siamo ancora certi di vivere in un paese democratico? > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 2, 2024 / Osservatorio Repressione
L’occhio del padrone
Per Massimo Carlotto l’attività di dossieraggio che emerge dalle recenti inchieste è l’effetto della privatizzazione della sicurezza: serve a reprimere le lotte e alimenta la concorrenza spietata di Michele Sgobio da il manifesto   «Non è quanto sta emergendo dall’inchiesta su Equalize a far temere per la tenuta democratica del paese – mi dice Massimo Carlotto – La democrazia in questo paese è già a rischio da tempo, ci sono i postfascisti al governo (potremmo anche togliere il prefisso) ed è importante che ci siano forti movimenti sociali in grado di invertire la tendenza». Lo incontro in videoconferenza, e un po’ invidio i vecchi cronisti che le interviste le facevano in trattoria o al bar. Il suo ultimo libro, Trudy (Einaudi Stile Libero, pp. 210, euro 18), uscito ad aprile di quest’anno, sembra anticipare quanto sta venendo fuori dalle inchieste di questi giorni: una società privata, la Novo security group, lavora per conto di politici, «poteri forti e aziende private»: spia la gente ed elabora dossier, anche sui propri clienti. Ci sei arrivato con la sola fantasia? Il noir è uno strumento straordinario per raccontare la realtà perché parte sempre da dati concreti, raccolti attraverso un’indagine che si traducono in uno sguardo anche politico dell’autore su determinati ambienti. Lo scopo è raccontare le trasformazioni sociali attraverso l’evoluzione del rapporto tra crimine e società. Tra crimine e capitale. Quando mi sono accorto che la crescita straordinaria del settore privato negli ultimi vent’anni era passata inosservata, ho ritenuto importante usare la forma romanzo per portarla a conoscenza dei lettori. Che idea ti sei fatto del caso Equalize? Si tratta di un classico consorzio illegale formato da ex appartenenti alle forze dell’ordine e hacker con i contatti «giusti», anche nei servizi segreti. Rubavano dati sensibile per costruire banche dati da immettere sul mercato e/o agivano per conto di privati o società. Non è il primo scandalo del genere. Importante ricordare quello pratese che ha portato all’arresto del comandante dei carabinieri, di un imprenditore e di un investigatore privato. Anche in quel caso si scambiavano informazioni sulla concorrenza all’interno del metadistretto della moda, noto per le aggressioni sistematiche ai sindacalisti di base che organizzano i lavoratori contro lo sfruttamento delle dodici ore, sette giorni su sette. La vera domanda è quante Equalize ci sono in Italia? Non poche, a mio modesto parere. E diverse a capitale straniero. Non è una novità che la cyber security, anche a livello governativo, sia stata appaltata a ditte israeliane. Di fatto si tratta di una galassia che va dalla guardia sottopagata davanti a una gioielleria, ai mercenari pronti a combattere in Ucraina o in Africa. Vale la pena ricordare l’inchiesta milanese che ha messo in evidenza come le cosche siano entrate nel settore creando agenzie per la sicurezza dei locali e delle discoteche. Insomma non chiedono più il pizzo per la protezione, presentano direttamente la fattura a fine mese. In base a quanto sta emergendo, e al netto dei pettegolezzi e delle suggestioni, credi che la tenuta democratica del paese sia a rischio o che ci siano parecchie esagerazioni? La tenuta democratica è in pericolo da quando si è insediato questo governo. Il progetto è evidente: da un lato criminalizzare il dissenso e le lotte, inasprendo le pene e inventando nuovi reati, come con il Ddl Sicurezza. Dall’altro limitare l’agire della magistratura e delle forze dell’ordine di cui non si fidano completamente, depenalizzando i reati dei colletti bianchi. In quest’ottica le agenzie di security diventano una sorta di polizia privata, riservata e fedele (al denaro e al potere) e con capacità operative adeguate ai committenti. Tra i politici si intravedono reazioni discordanti: Matteo Renzi dà mandato ai suoi avvocati di costituirsi parte civile in tutti i procedimenti; altri, come Ignazio La Russa e Lorenzo Fontana, invece, non smettono di manifestare la propria vicinanza a Enrico Pazzali, il principale socio di Equalize. Erano tutti «spiati». Secondo te da cosa derivano questi atteggiamenti tanto diversi? Il settore della sicurezza privata è strategico per la classe dirigente perché ne tutela gli interessi senza preoccuparsi dei limiti imposti dalla legge. Equalize con tutta evidenza ha una clientela i cui interessi si intrecciano. Politica, imprenditoria, finanza fusi in cordate che hanno bisogno di informazioni per raggiungere gli obiettivi e battere gli avversari. Poi esistono altre Equalize con i loro clienti e interessi differenti. Il nodo è sempre lo stesso: i rapporti di forza. Parrebbe che settori della destra stiano spiando altri politici della stessa area. E tutti siano spiati da Equalize. Trovi che quanto sta emergendo smonti la narrazione vittimistica della maggioranza di governo su questa vicenda? La narrazione vittimistica è la stessa di sempre e la vicenda Equalize a mio avviso non la indebolisce. Si spiano a vicenda perché i poteri, le consorterie sono in perenne guerra tra di loro. E a volte anche per trovare un equilibrio, una mediazione hanno bisogno di carte di un certo tipo da giocare. Le aziende come Equalize non si pongono il problema se chi richiede i loro servigi appartenga o meno alla stessa parte politica del soggetto monitorato. Sono professionisti che rispondono unicamente al cliente. La Nsg del tuo romanzo è anche impegnata a reprimere le lotte dei lavoratori dei settori tessile e logistico. Nella realtà ci sono casi simili documentati? È documentato il ruolo della sicurezza privata nel difendere gli interessi delle aziende contro le lotte operaie, a partire dai picchetti, fino alla collaborazione stile Fiat anni Sessanta con le forze dell’ordine e lo spionaggio nei confronti dei dipendenti. Droni di un’agenzia di security filmavano le persone che partecipavano all’ultima edizione del Festival di letteratura working class di fronte ai cancelli della Gkn. E la stessa fabbrica è stata oggetto di operazioni di personale non identificato, che fortunatamente sono state neutralizzate dai lavoratori. Il mondo del lavoro, dai servizi di guardiania alla gestione dei conflitti, è una voce importante dell’utile di queste agenzie.   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 2, 2024 / Osservatorio Repressione
A Roma la fiera della guerra, i bambini giocano con le mine
Al Circo Massimo inaugurato il Villaggio Difesa: 60mila metri quadri per un appalto da 600 mila euro. Paracadutisti della Folgore illustrano le tecniche di combattimento ai ragazzi. Un festival della divisa tra nazionalismo e propaganda militarista   di Michele Gambirasi da il manifesto Liturgie militari, inno nazionale, alzabandiera e frecce tricolori. Era questo il clima in cui è stato inaugurato ieri a Roma il Villaggio Difesa, maxi allestimento di 60mila metri quadri voluto dal ministro Guido Crosetto al Circo Massimo, per celebrare il 4 novembre. Un investimento importante (bando da 600mila euro) con l’obiettivo di restituire lustro alla giornata che ricorda l’armistizio con cui si concluse la Prima guerra mondiale. Nel 2018, ancora all’opposizione, l’attuale premier la propose per superare le «troppo divisive» giornate del 25 aprile e del 2 giugno. Il 4 novembre, per legge, è tornato a essere festa nazionale con la denominazione di «Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze armate». E la si celebra in pompa magna: l’ultima volta che alle forze armate era stata riservata un’esposizione così grande era il 2008, primo ministro Berlusconi, ministro della difesa La Russa. CERIMONIA UFFICIALE, parola al Capo di Stato maggiore della Difesa, Luciano Portolano: «La sicurezza è come l’aria, ci si accorge che manca solo quando non c’è». Eppure Piero Calamandrei la disse un po’ diversamente. Portolano ha difeso gli investimenti in difesa, che il prossimo anno sfonderanno il muro dei 30 miliardi con un incremento di oltre due miliardi, mai così alto nella storia della Repubblica. Soldi che, ha sostenuto il generale, «non sono un ostacolo, non sottraggono risorse ad altri settori, ma sono fonte di progresso economico». E il ministro Crosetto: «Il villaggio serve a costruire una cultura della difesa. Le forze armate sono il nostro principale presidio di libertà e democrazia. Il presupposto della pace sono la forza e la deterrenza». UNO DEI PRINCIPALI obiettivi è avvicinare le giovani generazioni alle forze armate: per le scolaresche il villaggio non ha aperto ieri. Dal 28 al 31 ottobre, come riportato dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole, era visitabile dagli studenti degli istituti di Roma per partecipare a conferenze tenute da un gruppo interforze su «tematiche di educazione civica». Ieri però la scena era tutta monopolizzata dal «lunapark difesa». Dopo l’atterraggio di due paracadutisti al centro della stella azzurra simbolo delle forze armate, la folla ha iniziato la visita. Soprattutto famiglie con figli al seguito, molti giovani, parenti di forze dell’ordine, qualche turista che si aggirava incuriosito dal gigantismo della manifestazione. A prevalere è la dimensione rassicurante del gioco. ALLO STAND della Cubic, una compagnia che si occupa di sviluppare sistemi di addestramento militari, ci si può esercitare a sparare in uno scenario che ricorda i videogiochi di guerra. Poco più avanti gli addestratori paracadutisti della Folgore illustrano le tecniche del metodo di combattimento militare. Una specialità tutta italiana, raccontano, uno stile che però non va confuso con le arti marziali perché «ha altri scopi». Con loro, bambini e ragazzi possono provare delle combinazioni di colpi e maneggiare alcuni strumenti di addestramento. Incredibilmente riservato ai più piccoli un veloce addestramento su come bonificare una zona da mine antiuomo: una zona sabbiosa, come quelle dei parchi giochi, dove militari insegnano a utilizzare radar per individuare gli ordigni. Che sono di tanti tipi diversi: iugoslavi, sovietici, americani, ovviamente anche italiani. Ordigni che fanno saltare in aria bambini di altre parti del mondo. E poi mezzi blindati da visitare e fotografare; mancano i cingolati solo perché trasportarli sarebbe stato complicato. Accanto al Superav Iveco, mezzo anfibio in dotazione alla Marina, due ragazzi discutono se sia meglio montarci un 30 millimetri, come si fa attualmente, o un 50, «come hanno iniziato a fare gli americani». Ancora qualche simulatore: si va dall’elicottero della Guardia di Finanza, alle frecce tricolori a un mezzo della Marina da condurre nella baia di San Francisco. Agli stand espositivi non solo corpi dell’esercito ma anche industrie belliche. PRESENTE LEONARDO, con le sue articolazioni. Sotto la tenda della Larimart, una controllata, si vede il funzionamento di un sistema antidrone, che ci informano è installato in venti carceri italiane. C’è MBDA, il principale consorzio europeo costruttore di missili, che sfoggia le nuove tecnologie che presto saranno in dotazione anche all’esercito italiano. Non mancano i punti ristoro, brandizzati patriotticamente come «sosta tricolore». Alle cinque della sera la giornata si conclude con l’ammainabandiera, che ammanta nuovamente la zona di una solennità cerimoniale. Le persone abbandonano l’area, riaprirà ogni giorno fino a lunedì. L’affluenza è alta, battaglia vinta per Crosetto. I bambini possono essere indottrinati alla guerra un altro po’. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 2, 2024 / Osservatorio Repressione
Cascina Spiotta, al via il processo bis: Curcio, Moretti e Azzolini perseguitati dopo 50 anni
L’uso giudiziario della storia, per altro distorto. Il nuovo processo alle Brigate rosse. Inchiesta sulla sparatoria di cinquant’anni fa alla Cascina Spiotta. Ovviamente davanti a questi strafalcioni giuridici non si sente la voce di nemmeno uno dei tanti garantisti a targhe alterne che affollano questo paese. di Frank Cimini da l’Unità Norimberga Due. I vincitori processeranno i vinti questa volta a mezzo secolo dai fatti. Il giudice dell’udienza preliminare di Torino Ombretta Vanini ha rinviato a giudizio Renato Curcio, Mario Moretti e Lauro Azzolini per l’omicidio del carabiniere Giovanni D’Alfonso durante la sparatoria alla Cascina Spiotta il 5 giugno del 1975 in cui rimase uccisa anche Margherita Cagol. È stato prosciolto per intervenuta prescrizione Pierluigi Zuffada. Il processo inizierà il prossimo 25 febbraio davanti alla corte di assise di Alessandria. La decisione del gup Vanini era scontata dopo il rigetto due settimane fa di una serie di eccezioni di nullità proposte dalla difesa. Gli avvocati avevano segnalato una serie di irregolarità e di forzature. Ma inutilmente. Ti piazzano addosso il captatore informatico trojan, ti intercettano per mesi confrontando le tue impronte con quanto repertato 50 anni fa e quando i tuoi difensori eccepiscono l’assenza del decreto autorizzativo da parte del gip il gup rigetta l’eccezione perché al momento l’inchiesta era contro ignoti diventata contro noti solo dopo aver ascoltato le conversazioni intercettate. Insomma, ti metto addosso il mezzo più invasivo possibile e non si può dire che ti sospetto. Sei ignoto. Ovviamente l’indagine si occupa solo dell’omicidio del carabiniere e non del colpo di grazia con cui fu finita Mara Cagol mentre era per terra arresa e disarmata. Il gup ha deciso il 16 ottobre e ribadito oggi con il rinvio a giudizio che non c’erano irregolarità e violazione dei diritti. Il captatore insomma veniva usato per ragioni di assoluta urgenza. Su un fatto – badate bene – avvenuto mezzo secolo fa. In una indagine riaperta annullando una precedente sentenza di proscioglimento per Azzolini del 1987 senza leggerla perché le carte erano scomparse nel 1994 durante l’alluvione nella provincia di Alessandria. A far riaprire l’indagine era stato un esposto presentato dagli eredi del carabiniere D’Alfonso. In aula di udienza erano stati letti articoli di stampa e anche alcune frasi dei libri di Curcio e Moretti per dimostrare che erano stati dirigenti delle Brigate Rosse. Un fatto notorio già all’epoca della prima indagine poi “alluvionata”. Ma allora Curcio e Moretti non erano stati chiamati in causa. Vengono tirati in ballo adesso per spettacolarizzare e mediatizzare l’indagine e consumare una vendetta politica contro un intero periodo storico, quello degli anni 70. Ovviamente davanti a questi strafalcioni giuridici non si sente la voce di nemmeno uno dei tanti garantisti che affollano questo paese. Tutti garantisti solo per gli amici e il proprio clan. Con quello che hanno speso nell’indagine per i captatori trojan non si poteva permettere una smentita all’operato della procura di Torino un delle più forcaiole d’Italia. Tutti ad Alessandria quindi per il Norimberga Due. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 1, 2024 / Osservatorio Repressione
Una finanziaria di guerra
La finanziaria varata dal governo Meloni non destina fondi dove serve (ricerca, lavoro, welfare e sanità) ma si mostra fin troppo attenta alla spesa militare di Federico Giusti La manovra economica del Governo Meloni, il prossimo 29 Novembre ci sarà lo sciopero generale della CGIL e di buona parte del sindacalismo di base), non risponde alle necessità del paese ma forse accontenteranno il settore della difesa, le spese militari non raggiungono la spesa auspicata dalla Nato fin dal 2014 (il 2 per cento del Pil destinato al settore militare) ma restano comunque una parte rilevante degli impegni assunti. La manovra si poggia su un parametro, quello della crescita ipotetica del Pil e del tasso di disoccupazione di equilibrio, criticati per la scarsa affidabilità scientifica dall’economista Emiliano Brancaccio , dentro un quadro economico reale assai deludente e tale da smentire le previsioni già al ribasso della Banca d’Italia. Il tasso di crescita, per riferirci ai canonici riferimenti, previsto dal Governo è attorno all’1% ma i dati odierni ci parlano di un misero 0,4 % e se la Manovra prende in esame dati economici errati presto dovrà rifare i conti andando a cercare da qualche capitolo sociale le cifre mancanti. Se analizziamo invece le spese sanitarie,  andremo a spendere lo 0,4% in meno della media dell’ultimo decennio e decisamente meno di molti altri paesi Ue. 9,1 miliardi di euro nel 2025 destinati alla difesa, tagli alle risorse destinate alla salvaguardia dei territori dal rischio idrogeologico, tagli alla transizione verde ma investimenti nei settori tecnologici duali che poi finiscono a loro volta nel settore della difesa essendo indirizzati a nuovi sistemi di arma. Qualcuno obietterà che il nostro paese è ancora lontano dal raggiungere il 2 per cento del Pil per la spesa militare (ma quelle previsioni sono avvenute in tempi economici assai diversi da quelli attuali), a Manovra approvata consulteremo poi i singoli capitoli di bilancio, inclusi quelli non legati al Ministero della Difesa ma parte integrante delle uscite “belliche”, giusto  a ricordare che i capitoli di spesa sono spesso confusi ad arte. La spesa in armamenti è passata da 7,3 a 13 miliardi di euro in meno di 5 anni, in percentuale parliamo di una crescita pari al 70%, si lesinano fondi per innovazione considerando lo sviluppo tecnologico rilevante soprattutto se a fini di guerra. Una manovra che  non destina fondi dove serve (ricerca, lavoro, welfare e sanità), evitando di ripristinare aliquote fiscali progressive e una tassa sui grandi patrimoni ma si mostra, con tutti i limiti di una economia in grande crisi, fin troppo attenta alla spesa militare Una Finanziaria di guerra contro la quale urge mobilitarsi approfondimento Esplosione per le spese militari italiane: nel 2025 a 32 miliardi (di cui 13 per nuove armi) – MIL€X Osservatorio sulle spese militari italiane     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
October 31, 2024 / Osservatorio Repressione
Venti anni di politiche sicuritarie
Sei radio autogestite (Radio Eustachio, Radio Ondarossa, Radio Quar, Radio Wombat, Radio Spore, Radio Neanderthal) analizzano  una genealogia dei provvedimenti di sicurezza urbana. Partendo dal 2001, passando per il femminicidio di Giovanna Reggiani – strumentalizzato tanto dalla destra quanto dal centrosinistra in ottica sicuritaria, gli sgomberi dei campi rom, l’aumento dei poteri ai sindaci e alle polizie locali. Tutto in nome di una sicurezza urbana che concretamente significa l’allontanamento di ogni devianza dai luoghi per bene delle nostre città. Ascolta o Scarica   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
October 26, 2024 / Osservatorio Repressione