Tag - misure repressive

Il Csm dice no al decreto sicurezza: “Rischi per la democrazia”
Il Csm approva un parere critico sul decreto sicurezza, che però non è vincolante: il ricorso accentuato allo strumento penale, “declinato nelle due forme dell’inasprimento delle pene attualmente previste e dell’introduzione di nuove fattispecie di reato”, rischia di avere un impatto “sul carico di lavoro e sull’assetto organizzativo degli uffici” di Mario Di Vito da il manifesto L’impatto che avrà il decreto sicurezza sui tribunali “non è prevedibile”, ma di sicuro ci saranno ripercussioni “sul carico di lavoro e sull’assetto organizzativo degli uffici”. Lo dice il Consiglio superiore della magistratura in un parere approvato ieri dal plenum. Al di là dei numeri con cui è passato il documento (19 favorevoli, 4 contrari e un astenuto) la discussione è stata di quelle pesanti. L’opinione dell’organo di governo autonomo delle toghe, infatti, non era richiesta, né ha un valore vincolante. E però ha indubbiamente un suo ruolo nel dibattito che circonda le nuove disposizioni in materia di ordine pubblico e sicurezza, da un anno e mezzo ormai in parlamento. Dove, nonostante il testo sia sempre stato blindatissimo e nessuno sia mai riuscito a emendarlo davvero, continua a languire in attesa di approvazione. Il problema che più si evidenzia nel “parere critico” verso il decreto è il ricorso quasi indiscriminato al codice penale. Si rileva infatti che è “acclarato” il fatto che “in linea di principio” sono solo gli “interventi ispirati alla logica opposta della depenalizzazione” a “favorire una migliore efficacia dell’organizzazione”, mentre nel decreto sicurezza “è presente un ricorso accentuato allo strumento penale” in termini di inasprimento delle pene e introduzione di nuove fattispecie di reato. Il discorso è semplice: più sono i reati da perseguire e più gli organi inquirenti vedono aumentare la quantità di carte sulle loro scrivanie. Il risultato finale non è difficile da immaginare. “Senza nessuna pretesa di invadere l’ambito riservato esclusivamente al legislatore – ha detto durante il plenum la prima presidente della Cassazione Margherita Cassano – penso sia doveroso da parte del Csm, in un’ottica di leale collaborazione tra autorità dello Stato, richiamare l’attenzione in sede di conversione sulle ricadute che rischiano di avere pesanti effetti per gli uffici giudiziari”. Il problema, per Cassano, è che “se continuano a essere emanate una pluralità di leggi spesso sullo stesso ambito di materia, in un breve arco di tempo, senza risolvere preventivamente a livello legislativo il tema, non solo del coordinamento di queste disposizioni, ma su quale deve essere l’ambito effettivo dell’intervento penale, si provocano ricadute con effetti dirompenti sul sistema giudiziario”. Un concetto simile l’ha espresso anche il consigliere laico Michele Papa: “L’espansione incontrollata del diritto penale simbolico finisce per snaturare la funzione stessa della legislazione, trasformandola in un mero veicolo di comunicazione mediatica incapace di incidere realmente sui fenomeni criminali e, soprattutto, di garantire il cittadino dai rischi di arbitrari interventi punitivi”. Perplessità sono arrivate anche dalla destra togata. La consigliera di Magistratura indipendente Bernadette Nicotra ha infatti espresso forti perplessità “sul metodo” della “decretazione d’urgenza in materia penale, non solo da parte di questo governo. Mi chiedo se effettivamente ci fosse necessità e urgenza per questo intervento”. Tullio Morello di Area pure ha affondato il colpo. “Che paese stiamo diventando – ha detto -. A queste parole si può aggiungere un punto esclamativo, un punto interrogativo o i puntini di sospensione. Io penso che siamo un paese molto diviso e il paese invece ha bisogno di unirsi”. I consiglieri laici della destra hanno votato contro. Ma non in maniera compatta, perché Felice Giuffré, eletto in quota Fratelli d’Italia, si è astenuto. Per il resto, la tristemente consueta difesa del governo al Csm si è limitata a sottolineare come il documento partorito dal plenum non abbia in realtà un peso formale. “Questo parere non serve a nulla – ha detto Bertolini annunciando il suo voto contrario – potevamo spendere meglio le nostre energia”. Magari, cioè, evitando proprio l’argomento. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
misure repressive
Il parlamento italiano vota l’acquisto di nuove tecnologie militari da Israele
La Commissione Bilancio valuta favorevolmente l’acquisto di tecnologia militare israeliana. La seduta è durata 5 minuti: non viene mai citata la Israel Aerospace Industries (IAI) e la sua divisione ELTA Systems che forniscono la tecnologia militare. Ma i deputati lo sanno? di Alex Zanotelli da il manifesto Devo purtroppo constatare che in Parlamento bastano cinque minuti per votare milioni di euro da destinare a nuove tecnologie di guerra. È quanto avvenuto nella Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, dove, senza alcun vero dibattito, è stato approvato lo schema di decreto ministeriale SMD 19/2024. Si tratta della prosecuzione di un programma militare di lungo periodo per la dotazione di sofisticati sistemi «Multi-Missione Multi-Sensore» (MMMS) montati su aerei Gulfstream G550. Stiamo parlando dell’Atto del Governo n. 264 sottoposto a parere parlamentare. Il suo esame è durato dalle ore 13.40 alle 13.45 del 6 maggio. Tutto questo, ripeto, in cinque minuti. E con un silenzio assordante su un fatto gravissimo: la tecnologia alla base di questi sistemi è israeliana. Una tecnologia nata da decenni di occupazione, repressione e controllo militare su un intero popolo. Mentre a Gaza si muore, mentre l’opinione pubblica internazionale si interroga sui crimini di guerra di Netanyahu, l’Italia rafforza i suoi legami militari con l’apparato bellico israeliano. E lo fa nel modo peggiore: senza trasparenza, senza discussione, senza che i parlamentari stessi – in molti casi – siano pienamente consapevoli di ciò che stanno votando. Infatti nei resoconti parlamentari viene omessa la parola Israele. Non viene scritto che queste tecnologie vengono da Israele, dal suo complesso industriale-militare. In questo Atto di Governo n. 264 si perpetua la segretezza, e questo lo si riscontra nel linguaggio criptico degli atti parlamentari, nei tempi compressi che impediscono ogni approfondimento. Come cittadino, come credente, come testimone della sofferenza umana, non posso tacere. Questo voto frettoloso e opaco è una ferita alla democrazia. È un insulto al dolore delle vittime dei conflitti armati. È un tradimento dei valori di pace, giustizia e solidarietà che dovrebbero guidare le scelte pubbliche. È assurdo che questo accordo commerciale militare avvenga in un momento in cui si sta consumando la tragedia di Gaza. Mentre un popolo rischia di scomparire sotto le bombe, l’Italia stringe accordi con Israele per rendere ancora più terribile e devastante la guerra. Dovremmo boicottare il governo di Netanyahu e invece acquistiamo i sistemi d’arma israeliani. Chiedo ai parlamentari di risvegliarsi dal torpore. Chiedo ai cittadini di informarsi, di vigilare, di opporsi. Chiedo alla stampa di fare il suo dovere e di informare. E chiedo, infine, alla coscienza collettiva di interrogarsi: in silenzio stiamo per acquistare da Israele delle tecnologie di morte. Diciamo stop, contattiamo i parlamentari, poniamoli di fronte alle loro responsabilità! E boicottiamo l’apparato bellico di Israele. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
misure repressive
Prove fatte sparire per coprire la verità sull’omicidio di Mara Cagol
Le anomalie delle indagini sulla sparatoria alla cascina Spiotta. Dalle carte del nuovo processo sui fatti di 50 anni fa nuove circostanze sconcertanti: la pistola dell’appuntato D’Alfonso ritrovata per caso, giorni dopo, nel baule di una delle auto dei carabinieri giunte sul posto. E poi i bossoli esplosi dai militari dell’Arma: tutti spariti, tranne i 5 attribuiti al carabiniere ucciso di Paolo Persichetti da Insorgenze Dalle carte del nuovo processo sulla sparatoria alla cascina Spiotta del 5 giugno 1975, che si è aperto davanti la corte d’assise di Alessandria, emergono sempre più circostanze sconcertanti. La volta scorsa abbiamo raccontato del bossolo calibro nove in dotazione all’arma dei carabinieri ritrovato quindici giorni dopo il conflitto a fuoco «nei pressi del luogo ove giaceva il cadavere» di Mara Cagol. Bossolo mai repertato, mai sottoposto a perizia e subito scomparso dall’indagine. La pistola sottratta dalla luogo della sparatoria Oggi ci occupiamo della Beretta 34 dell’appuntato Giovanni D’Alfonso, deceduto per le ferite riportate nello scontro fuoco avuto con Mara Cagol, dopo averla sorpresa alla spalle. L’arma non fu mai correttamente repertata, venne ritrovata casualmente alcuni giorni dopo la sparatoria nel baule di una delle vetture dei carabinieri giunte sul posto. Fu tolta dalle mani di D’Alfonso, quando era ancora a terra ferito, prima che arrivassero gli esperti della scientifica per i rilievi di rito. A riferirlo è il maresciallo Domenico Palumbo, ascoltato dai pubblici ministeri il 15 febbraio 2023: «lo dopo cinque o sei giorni, lavando la macchina di servizio, nel baule ho trovato la pistola di D’Alfonso (…) Prati mi spiegava che nella confusione aveva preso la pistola e l’aveva messa nel baule della macchina di servizio, dove l’ho trovata (…) Quando ho trovato la pistola di D’Alfonso sull’auto di servizio ho protestato vivacemente con Prati, quasi volevo picchiarlo, perché avrebbe dovuto lasciare la pistola dove l’avevano trovata, o almeno dirlo che era stata messa in macchina (…) Lui, che era giovane, si mise a piangere giustificandosi che era confuso ed aveva fatto un errore. lo ricordo di aver preso la pistola e di averla consegnata, credo, al Maresciallo Barreca, o forse al Capitano Sechi …». I carabinieri del Ros che hanno condotto la nuova indagine minimizzano l’episodio, cercando attenuanti per giustificare la condotta del brigadiere Prati, uno dei quattro carabinieri che erano presenti quando Bruno Pagliano, che abitava accanto alla Spiotta, vide Mara Cagol ancora viva ma agonizzante. Per il Ros il comportamento di Prati troverebbe giustificazione nel fatto che «le tecniche di repertamento che oggi sono alla base dell’addestramento di ogni Carabiniere negli anni ’70 erano molto meno conosciute ed applicate». I bossoli scomparsi Un tentativo maldestro di giustificazione perché all’anomalia della pistola di D’Alfonso, sottratta dalla scena della sparatoria, si aggiunge la scomparsa di tutti i bossoli esplosi dai carabinieri, salvo i cinque attribuiti a D’Alfonso. Sempre il maresciallo Palumbo fornisce ulteriori dettagli sulla dinamica dell’intervento dei carabinieri e spiega che tra il suo arrivo e la liberazione di Gancia all’interno della cascina erano trascorsi almeno venti minuti: «Sono arrivato sul posto della sparatoria pochi minuti dopo. C’era per terra la mano del tenente Rocca e una macchia di sangue dell’app. D’Alfonso che era stato portato via in ambulanza da poco.(…) C’erano due porte chiuse e ne abbiamo sfondato una perché pensavamo che all’interno vi fossero ancora delle persone. In quel momento eravamo in tre: io; il carabiniere Regina e il brig. Prati. (…) Devo dire che avevamo sentito qualcuno che invocava aiuto e diceva di essere Gancia, io ho seguito la direzione da cui provenivano le invocazioni d’aiuto, ho trovato una porticina che era chiusa dall’esterno, l’ho aperta ed è uscito il Dott. Gancia che mi ha abbracciato (…) Noi in un primo tempo non pensavamo che fosse Gancia, anche perché eravamo lì da circa venti minuti e questo non si era sentito». Un vuoto di mezz’ora
 Se Prati e Regina erano giunti a sparatoria appena terminata (i due raccontano di aver scorto Barberis all’inizio della boscaglia dove aveva rincorso Azzolini), e Palumbo poco dopo, quanto tempo era trascorso dalla fine del conflitto fuoco? Mezz’ora, poco più? Che cosa è accaduto in quel lasso di tempo? Quali sono stati i movimenti dei presenti? E’ in quel frangente che si situa l’uccisione della Cagol. Oltre a presidiare il suo corpo e portare soccorso ai feriti, cos’altro hanno fatto i carabinieri presenti? Le indagini svolte fino ad ora non hanno ricostruito questi momenti. Barberis afferma di aver scaricato per intero il suo caricatore (almeno cinque dei suoi colpi sono finiti sulle macchine dei due brigatisti in fuga), tanto che dichiara di essersi spostato verso D’Alfonso per rifornirsi di proiettili. L’arma di D’Alfonso è ritrovata giorni dopo vuota ma a terra vengono recuperati cinque bossoli a lui attribuiti. Cattafi dice di aver esploso due colpi. Azzolini scrive nel memoriale di aver sentito esplodere, dopo circa cinque minuti dalla sua fuga, «uno forse due colpi secchi, poi due raffiche di mitra». Secondo il Ros «Gli spari erano ovviamente quelli dei carabinieri che, prima di fare irruzione nel cascinale, lanciavano lacrimogeni e sparavano raffiche di mitra e nulla avevano a che fare con l’esecuzione di Cagol Margherita». Secondo il maresciallo Palumbo però l’irruzione avviene molto dopo la fuga del secondo brigatista, venti minuti almeno. Al netto di queste contraddizioni, tutte da risolvere, resta che sono stati esplosi davanti e intorno alla cascina oltre venti colpi (14-16 solo dalle pistole dei carabinieri) e forse molti di più considerando il volume di fuoco delle raffiche di mitra. Non è credibile che siano stati repertati solo i cinque bossoli attribuiti a D’Alfonso. Una certa percentuale va sempre persa ma non coincide mai con la totalità dei colpi, per giunta in un’area ispezionabile. Inchiesta silenziata per tutelare la versione ufficiale sulla morte della Cagol Questo è un’altro dei quesiti fondamentali a cui il processo dovrà rispondere se vorrà essere credibile. Perché sono spariti i bossoli dei carabinieri (eccetto i cinque di D’Alfonso) e sono rimasti solo quelli dei brigatisti? Non certo per facilitare quel «patto di non belligeranza», come lo ha definito il figlio dell’appuntato deceduto, Bruno D’Alfonso, che oggi prenderà la parola al Quirinale nel corso della rituale giornata della memoria dedicata alle vittime del terrorismo e che quest’anno ha scatenato mugugni e polemiche, perché sono state messe in secondo piano le vittime della stragi fasciste e di Stato (forse l’errore è aver designato come data il 9 maggio anziché il 12 dicembre, ma sembra un po’ tardi per lamentarsene). La tesi del «patto» va ormai di moda, Bruno D’Alfonso l’ha ripresa dalla vicenda Moro per dare una risposta al mancato esito delle indagini sulla sparatoria. Ma non regge: le Br hanno da subito denunciato le modalità di uccisione della loro militante. Fino alla sua morte non avevano ancora concepito azioni mortali. Un anno dopo, l’8 giugno 1976 (inizialmente l’azione doveva coincidere con l’anniversario della sua morte) colpirono il procuratore generale di Genova Francesco Coco, che aveva fatto saltare la scarcerazione dei prigionieri della XXII ottobre concessa in cambio della liberazione del giudice Sossi, catturato dalle Br il 18 aprile del 1975. Subirono anche molti arresti: quindici giorni dopo i fatti della Spiotta furono presi Casaletti e Zuffada nella base di Baranzate di Bollate, qualche mese dopo a Milano, il 16 gennaio 1976, in una retata vennero catturati Curcio (marito della Cagol), Mantovani e altri brigatisti. Nel marzo successivo alla stazione centrale di Milano fu preso e quasi ucciso con un colpo sotto l’ascella, Giorgio Semeria. Se si è fatto di tutto per ripulire la scena da prove compromettenti e smorzare le indagini sulla sparatoria, questo è avvenuto per tutelare la versione ufficiale sulla morte della Cagol e tenere lontani occhi indiscreti sulle circostanze poco chiare: il vero arcano del nuovo processo in corso. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
misure repressive
brigate rosse
anni 70
lotta armata
anni '70
Articoli in libertà…
Riceviamo e pubblichiamo nota a firma del gruppo “p38punk” E niente… pare che i giornalisti o affini in Italia, proprio non ce la facciano a non scrivere a (s)proposito di noi. Stavolta è il turno di una testata accademica (figuriamoci fosse stata divulgativa) in cui veniamo tirati in ballo, citati direttamente. Pubblichiamo di seguito il link all’articolo e postiamo qui la risposta che abbiamo inviato. https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/sinistre-popoli-e-istituzioni-una-riconnessione-possibile/ NOSTRA RISPOSTA INVIATA ALLA REDAZIONE: Gentile redazione salve, Vi scriviamo in merito all’articolo “Sinistre, popoli e istituzioni: una riconnessione possibile” pubblicato sulla vostra rivista il 01/05/2025 che ci chiama direttamente in causa citandoci. Naturalmente abbiamo letto tutto il contributo e ci sarebbe da discutere su molti presupposti da cui parte, come ad esempio considerare di sinistra una struttura come il PD, da lungo tempo egemonizzata da quadri, dirigenti ed intermedi, formatisi nei lombi di un partito centrista e conservatore come la vecchia Democrazia Cristiana e che ha ormai in modo irreversibile marginalizzato quelle componenti afferenti alla tradizione comunista e socialista, tanto da far sembrare a confronto Craxi un massimalista ai limiti del rivoluzionario. Ma non è questa la sede opportuna e benchè come abbiamo sempre fatto ci rendiamo disponibili al confronto, preferiamo concentrarci su quella parte dell’elaborato che ci cita per nome (paragrafo 6, a cura della dottoressa Chesi). Non è la prima volta, anche in tempi recenti che siamo oggetto di sviste giornalistiche o letture superficiali della nostra attività e questa non è nemmeno la peggiore. E poi siamo sempre grati per la pubblicità, anche negativa. Tuttavia gradiamo di più quella fatta con cognizione di causa. Quindi, fermo restando che consideriamo sempre lecita la differenza di vedute, ci limiteremo a fornire alcuni chiarimenti e a sottolineare quelli che secondo noi vogliono essere degli amichevoli “errata corrige”, senza entrare nel merito del giudizio che si può avere nei nostri confronti. In gran parte si tratta di semplici errori facilmente evitabili, se invece di fermarsi al nome o al genere che facciamo (il punk filosovietico), si fosse letto anche di sfuggita qualche testo o qualche articolo tra tanti che circolano su di noi in rete. Nonostante quanto scrive la dottoressa Chesi circa i “rari files”, il materiale nostro e su di noi non è affatto raro. Anzi potremmo dire di essere alquanto inflazionati. Oltretutto visto che non abbiamo mai rifiutato il contraddittorio, facciamo presente che è sempre possibile in caso di dubbi o curiosità, contattarci direttamente per chiedere. In primo luogo portiamo all’attenzione il fattore cronologico. La nostra esperienza non nasce affatto negli anni 2000, ma molto prima. Per la precisione nel 1991. Anche il tempo dei verbi al passato per quel che ci riguarda è un errore, visto che siamo vivi e vegeti. In secondo luogo per le nostre esperienze personali, ci sentiamo di prendere le distanze dall’affermazione “il protagonismo di figure sociali distanti dalle condizioni materiali da cui quei linguaggi hanno avuto origine ” e ancora dall’accusa di “ribellismo posticcio”. Chi scrive (ma anche gli altri membri del gruppo) ha vissuto la condizione che è all’origine delle sue forme dialettiche. Ha studiato pagando di tasca sua rette e testi, finito il cursus honorum si è trovato a vivere in prima persona il dramma della precarizzazione e proletarizzazione del lavoro intellettuale e infine per giungere ad una dimensione lavorativa consona (il cui reddito è però di poco inferiore a quello di un operaio) è passato attraverso ogni tipo di lavoro, anche alienante e usurante, vivendo per lunghi anni in contesti sociali estremamente disagiati. Quindi quando scriviamo e mettiamo in musica un testo, lo facciamo esulando dal trasporto romantico degli “amici del popolo” di cui parla Lenin, ma con una piena cognizione di causa che parte dalle nostre esperienze dirette. Crediamo inoltre che si faccia un’interpretazione sbagliata e riduttiva della dimensione estetica. Per noi l’Estetica (con la E maiuscola) è il filtro interpretativo del reale da cui scaturisce la proiezione di un orizzonte culturale altro, di Demartiniana memoria. In questo senso ci va stretta anche la definizione di sottocultura. Benché Cirese abbia dimostrato che questa non ha valore necessariamente deleterio, riteniamo che sottintenda una passività che non ci appartiene. Alcune frange del moderno Hip hop possono considerarsi sottoculture, in quanto pur essendo espressione dei ceti subalterni, propugnano l’adesione al sistema valoriale degli egemoni (droga, status symbol, individualismo, denaro e potere) e aspirano alla loro integrazione anche ricorrendo a vie extra legem (mitizzazione del gangsterismo). Noi propugniamo un sistema valoriale altro, in opposizione speculare, punto per punto a quello egemone e subalterno ad esso solo fino a quando un sommovimento sociale non lo renda dominate. Di sicuro non vogliamo l’integrazione auspicata da Negri nella sua teoria “dell’impero” Quindi preferiremmo si usasse almeno rispetto a noi, il termine “controcultura” Chiariamo anche che l’uso di simbologia sovietica non vuole affatto essere un’acritica idealizzazione verso un modello di sviluppo. Così come non reputiamo la figura di Stalin esente da errori. L’ostentazione di questa simbologia è un fare i conti con il proprio passato, per trovare quella sintesi che al netto degli errori ci faccia riconoscere in una storia e una prospettiva comune. Usiamo una simbologia potente per creare un immaginario condiviso: il famoso “mito, rito e storia” che siamo certi la dottoressa Chesi conosca anche meglio di noi. Facciamo quello che a sinistra in occidente non si è mai realmente fatto, prendendo spunto dalla lezione Cinese post rivoluzione culturale, quando si fece un’analisi dell’operato di Mao, attraverso la lente delle scienze politiche, economiche e sociali per separare luci ed ombre del grande timoniere ed evitare di gettare via il bambino insieme all’acqua sporca. Gli stessi Cinesi nei loro elaborati teorici sono soliti ripetere che se i sovietici non avessero affrontato la questione di Stalin coi paraocchi dogmatici del XX congresso, probabilmente la storia dell’URSS (e del mondo) sarebbe stata diversa. Metodo che ci si passi la presunzione, si è dimostrato finora vincente al vaglio dei fatti e della storia. Qualunque sia il giudizio che ciascuno di noi ha riguardo la Repubblica Popolare Cinese. D’altronde se ammettessimo l’esistenza del non-perfettibile, dovremmo ammettere l’esistenza di Dio. E questo come materialisti storici ci creerebbe qualche problema. Il passaggio sul “merchandising legato al genocidio del popolo palestinese “ è forse l’unico che davvero ci ha irritato. Per usare una categoria Kantiana che non ci appartiene ma è certamente comprensibile ai più, viviamo l’arte nella sua forma “liberale”. Ovverosia non finalizzata al lucro. Le nostre manifestazioni a sostegno di quel popolo, anche molto recenti, son sempre state gratuite e in contesti in cui eravamo più che certi che il ricavato, sotto forma di aiuti alimentari e medici, sarebbe andato a quelle genti sofferenti. Si può discettare all’infinito sulla legittimità o meno dell’occupazione Israeliana, ma adombrare anche solo il sospetto di mercimonio su sentimenti di compassione che ogni essere umano dovrebbe naturalmente provare verso i suoi simili è davvero offensivo sia per chi lo riceve, ma anche e soprattutto per chi lo suppone. Uno scivolone etico che ci auguriamo, le redattrici dell’articolo vogliano rettificare. Almeno per quanto riguarda noi. Sulla violenza. La violenza nei nostri testi non è mai stata “cieca” ma molto ben mirata e di reazione. Facciamo nostro l’assunto di Sanguineti: “Bisogna restaurare l’odio di classe. Perché loro ci odiano, dobbiamo ricambiare. Loro fanno la lotta di classe, perché chi lavora non deve farla proprio in una fase in cui la merce dell’uomo è la più deprezzata e svenduta in assoluto? ”. Ci rendiamo conto che violenza della cultura egemone, espressione delle uniche classi autorizzate a farne uso per contratto sociale, Arrivi a noi ammorbidita attraverso le lenti dei media. Ed ecco che dalle nostre parti si propongono i funerali di stato per un Marchionne, edulcorando attraverso una narrativa di cifre e statistiche, la violenza con cui la sua prassi ha imposto infiniti drammi ai lavoratori nel nostro paese. Mentre di contro, ad esempio, ci si scandalizza per la violenza che rovesciando il paradigma, lo stato Cinese ha imposto a Jack Ma che intendeva marchionnizzare i cittadini Cinesi imponendo anche al di fuori del contesto legale una finanziarizzazione dell’economia pro domo sua. Infine riguardo al vilipendio di cadaveri non sappiamo proprio cosa dire. Non avendolo mai né proposto, né praticato. Però dobbiamo confessare che leggerlo ci ha divertito molto. HTTPS://VK.COM/P38PUNK     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
misure repressive
Pacchetti sicurezza, così per trent’anni la politica e i media hanno cavalcato l’onda populista
Dal 1991 gli omicidi e i reati violenti sono diminuiti del 75 per cento ma i Governi (di destra e sinistra) hanno moltiplicato i dispositivi repressivi trasformando il giustizialismo in consenso. di Daniele Zaccaria da il dubbio In Italia l’insicurezza cresce. Ma solo nella testa degli italiani. I numeri, invece, raccontano un’altra storia: quella di un Paese sempre più sicuro, tra i più virtuosi d’Europa per tassi di criminalità, con una percentuale di omicidi di 0,55 ogni 100.000 abitanti, decisamente inferiore alla media comunitaria che è di 0,9. Nel 2024 sono stati registrati 319 omicidi il 6% rispetto ai 340 del 2023. Questo calo si inserisce in un trend decrescente che dura da trent’anni e che segna una spettacolare riduzione del 75% dei reati violenti. Sono numeri inequivocabili, eppure la percezione di insicurezza tra i cittadini è in crescita costante. Secondo un’indagine del Censis, l’83% degli italiani considera la sicurezza una priorità generale nella vita quotidiana, mentre il 65% vorrebbe un maggiore impegno del governo nel garantire la sicurezza urbana e nel contrastare la criminalità. La discrepanza tra dati oggettivi e percezione soggettiva solleva interrogativi importanti: in che misura il sentimento insicurezza è stato alimentato dalla politica e dal sistema mediatico? Interrogativi che vengono da lontano. Dalla seconda metà degli anni 90 ai nostri giorni governi di ogni colore hanno infatti gareggiato tra loro nell’approvare “pacchetti sicurezza” di ogni genere con l’obiettivo di contrastare la criminalità, l’immigrazione, il decoro urbano e quant’altro. Il primo di questi nel giugno del 1992 quando i ministri Claudio Martelli e Vincenzo Scotti, in un’Italia scossa dalla strage di Capaci, varano uno dei provvedimenti più severi della storia repubblicana: il 41 bis, il cosiddetto carcere duro per i mafiosi, una misura estrema, definita “una forma di tortura” dalla stessa Corte europea dei diritti umani (Cedu), ma che almeno all’epoca rispondeva a un’emergenza reale e non a un richiamo immaginario. Quell’anno gli omicidi commessi in nel paese devastato dalla guerra di Cosa Nostra allo Stato e dalle faide tra i clan furono circa 1.500 (quasi duemila nel 1991). Per combattere lo spietato clan di Toto Riina in una Sicilia che somigliava sempre di più alla Colombia di Pablo Escobar il governo Amato mobilita anche l’esercito. Sette anni dopo, mentre la criminalità continua a diminuire, il governo D’Alema, in risposta a un incremento marginale dei furti e alla percezione crescente di insicurezza urbana rilevata dai sondaggi di opinione, elabora un pacchetto che verrà poi approvato sotto il governo Amato bis. Il cuore del provvedimento era l’equiparazione sul piano penale tra microcriminalità e reati gravi: pene inasprite per scippi e furti in casa, estensione della custodia cautelare, poteri repressivi rafforzati per i questori e la polizia giudiziaria. E c’è una novità simbolica: la criminalità venne intrecciata, per la prima volta, al tema dell’immigrazione. D’Alema stabilisce una sovrapposizione diretta tra cittadini stranieri e criminalità, ma parla di “intreccio” tra immigrazione e reati diffusi. La porta si è aperta per non richiudersi più. Verrà addirittura spalancata nel 2007, dopo l’omicidio di Donatella Reggiani, violentata e massacrata da un muratore rumeno alla stazione Tor di Quinto di Roma, un caso che scuote la società italiana con gran parte dei media che cavalca l’onda ansiogena, descrivendo un paese in stato d’assedio. Per reagire alle accuse di lassismo lanciate dall’opposizione di centrodestra il governo Prodi bis vara il “decreto espulsioni” per facilitare l’allontanamento dei cittadini comunitari, un provvedimento praticamente ad hoc, rivolto ai rumeni da pochi anni entrati a far parte dell’Unione europea. Con la caduta anticipata dell’esecutivo Prodi, è il terzo governo Berlusconi e il ministro dell’Interno Roberto Maroni che trasformano il decreto in una legge più ampia sulla sicurezza pubblica che accorpa mafia, immigrazione, microcriminalità e decoro urbano. La legge introduce la possibilità per i sindaci di emettere provvedimenti in materia di “sicurezza urbana (migliaia le ordinanze emesse in quel periodo) e porta i militari nelle città italiane con il programma “Strade Sicure”. Nel mirino non solo reati gravi e i crimini violenti, ma anche i comportamenti “minori”: pene più severe per chi imbratta autobus e vagoni di treni e metropolitane, multe salatissime per chi getta rifiuti per terra, sanzioni aumentate per graffitari e artisti di strada, stretta sui locali notturni, divieto di consumare panini in prossimità dei monumenti. Una sottile linea rossa unisce il pacchetto Maroni con il cosiddetto DASPO urbano introdotto nel 2017 dal ministro Antonio Minniti (governo Renzi) e mutuato dai DASPO per gli ultras delle squadre di calcio; un dispositivo amministrativo che vieta a un soggetto di accedere o stazionare in determinati luoghi pubblici, spesso in seguito a comportamenti considerati lesivi il decoro o la sicurezza pubblica. L’obiettivo è esplicito: senza tetto, prostitute, alcolisti. Nel 2018 Matteo Salvini – da ministro dell’Interno del primo governo Conte nato dall’inedita alleanza tra Lega e Movimento 5 Stelle- ha rilanciato con forza l’agenda securitaria incentrata sulla lotta all’immigrazione con la politica dei “porti chiusi”. Il primo decreto (DL 113/2018) taglia la protezione umanitaria e svuota il sistema SPRAR, riducendo l’accoglienza a un fatto residuale. Poco dopo arriva il Sicurezza Bis, con multe milionarie alle ONG che salvano vite in mare e pene più dure per chi protesta in piazza. Con il Conte bis, stavolta sostenuto dal partito democratico, al Viminale arriva Luciana Lamorgese. Vengono ridimensionate le sanzioni alle ong e ridefiniti i criteri del sistema di accoglienza, con tempi ridotti di permanenza nei centri. Nel 2022 sbarca Giorgia Meloni a Palazzo Chigi e l’agenda securitaria si infittisce. Appena insediato, il governo approva il Decreto Rave: una norma scritta in fretta, all’indomani di un party non autorizzato in provincia di Modena. Le nuove pene prevedono fino a sei anni di carcere per “raduni pericolosi”. Pochi mesi dopo, una nuova tragedia impone l’ennesimo giro di vite. A Cutro, sulle coste calabresi, un barcone si schianta: 94 i morti. Il governo risponde con un decreto che inasprisce le pene per scafisti e restringe l’accesso alla protezione umanitaria. Nell’estate 2023 esplode il caso di Caivano – un’aggressione sessuale su due adolescenti in un contesto di degrado – il governo risponde con una mossa muscolare: un nuovo decreto sicurezza che interviene ad ampio raggio, dalla dispersione scolastica ai reati minorili, fino all’uso dell’esercito in “aree a rischio”. Nel 2025 l’ultimo decreto omnibus: reati seriali, manette per chi aggredisce le forze dell’ordine, più poteri ai sindaci, riforma della polizia locale. Ma ancora una volta, al centro non ci sono i dati – che mostrano un calo costante della criminalità – bensì quel sentimento di insicurezza che da oltre trent’anni detta i tempi della politica italiana. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
misure repressive
Come allontanare la pace: Spese militari mondiali al record storico
Nel 2024 la spesa militare mondiale ha raggiunto la cifra record di 2.718 miliardi di dollari, con un aumento del 9,4% rispetto al 2023. È il decimo anno consecutivo di crescita. Sono più di cento i Paesi che hanno aumentato i propri budget militari negli ultimi due anni di Rete italiana Pace e Disarmo Il SIPRI, lo Stockholm International Peace Research Institute, ha diffuso nei giorni scorsi le nuove stime sulla spesa militare globale per il 2024. Il totale ha raggiunto i 2.718 miliardi di dollari, con un aumento del 9,4% in termini reali rispetto all’anno precedente. Siamo di fronte al maggiore aumento delle spese per eserciti ed armi su base annua almeno dalla fine della Guerra Fredda. Con un incremento di quasi il 20% in soli tre anni. La spesa militare è aumentata in tutte le regioni del mondo, con una crescita particolarmente rapida sia in Europa che in Medio Oriente. I primi cinque Paesi che spendono in campo militare – Stati Uniti, Cina, Russia, Germania e India – rappresentano il 60% del totale globale. La corsa agli armamenti accelera in Europa, Medio Oriente e Asia Contro questo percorso di militarizzazione e aumento del rischio di guerra, oltre 110 organizzazioni di 30 Paesi diversi hanno sottoscritto un appello promosso dalla campagna globale GCOMS. La richiesta ai Governi è di ridurre le spese militari e di affrontare, attraverso la cooperazione e la diplomazia, le sfide globali del nostro tempo. Le scelte politiche che privilegiano l’approccio militare ed armato stanno guadagnando terreno in particolare in Medio Oriente (+15% della spesa militare) e  in Europa (+17%). A guidare la crescita nel Vecchio Continente è l’Europa occidentale, che ha visto crescere il proprio budget militare totale del 24%. Aumentano le spese anche in Asia orientale e sudorientale, rispettivamente del 7,5% e del 7,8%. I Paesi della NATO continuano a essere leader della spesa militare a livello globale. I 32 Stati membri dell’Alleanza Atlantica rappresentano il 55% della spesa militare totale mondiale (pari a 1.506 miliardi di dollari). Da notare come i membri europei della stessa NATO abbiano speso complessivamente 454 miliardi di dollari, pari al 30% del totale dell’Alleanza. Stati Uniti, Cina, Russia e Israele guidano l’aumento della spesa militare La spesa militare degli Stati Uniti è cresciuta del 5,7%. Raggiungendo l’enorme cifra di 997 miliardi di dollari (cioè il 37% del totale globale per il 2024). La Russia (con un aumento del 38% in un solo anno, 149 miliardi di dollari totali) e Israele, (+65%) si stanno chiaramente impegnando in un’economia di guerra a sostegno di progetti politici basati sull’uso della forza militare. La Cina ha aumentato il suo budget militare per il trentatreesimo anno consecutivo. Classificandosi ancora una volta al secondo posto della classifica con 314 miliardi di dollari nell’ultimo anno. Anche l’Italia aumenta la spesa militare: +1,4% nel 2024 Secondo i dati SIPRI anche l’Italia ha visto nel 2024 crescere la propria spesa militare dell’1,4% (totale complessivo di 38 miliardi di dollari). «Anche il nostro Paese ha dunque contribuito a questo livello storico di spesa militare. Con una crescita ancora più rilevante di quanto ci si potesse aspettare – sottolinea Francesco Vignarca della Rete Pace Disarmo –. E l’incremento sarà ancora maggiore negli anni a venire. Ciò a causa di tutte le nuove proposte di riarmo. I dati SIPRI dimostrano però chiaramente che l’aumento di spesa militare era già in corso da tempo (più che raddoppiate da inizio secolo). E che quindi non c’è stata alcuna fase di svuotamento degli arsenali a cui bisogna rispondere con acquisti di armi, come invece troppi Governi falsamente rivendicano». NATO e Unione europea: spese militari ai massimi dalla Guerra Fredda L’impegno nella militarizzazione da parte delle grandi potenze, insieme all’incertezza politica internazionale, allontana le possibilità di pace in alcuni tra i principali conflitti armati. E aumenta la probabilità di optare per soluzioni militari in regioni con tensioni latenti. La richiesta della Campagna Globale sulle Spese Militari va in direzione contraria. Riduzione delle spese militari globali nonché un reale impegno per una nuova architettura di sicurezza basata sulla sicurezza comune, sul disarmo e sulla cooperazione internazionale. La spesa militare aggregata dei membri dell’Unione europea ha raggiunto nel 2024 i 370 miliardi. La seconda più alta dopo quella degli Stati Uniti, con un livello complessivo superiore a quello registrato alla fine della Guerra Fredda. La Germania, in particolare, ha visto un aumento del 28% nel 2024, diventando il Paese a più alta spesa militare dell’Europa centrale e occidentale per la prima volta dalla riunificazione. Meno risorse per sanità, clima e diritti: i rischi della militarizzazione «Tra l’esacerbazione della corsa agli armamenti globale e la difesa di un’egemonia contestata, la militarizzazione dell’Unione Europea rappresenta anche una minaccia per la pace e la sicurezza dei suoi cittadini. Il recente piano per ulteriori 800 miliardi di euro di spese militari nei prossimi quattro anni porterà, prima o poi, a una riduzione della spesa pubblica per la sanità, le pensioni, l’istruzione o la lotta contro il cambiamento climatico e le sue conseguenze», avverte Laëtitia Sedou, coordinatrice del progetto EU dell’ENAAT, la campagna europea contro il commercio di armi. Con l’aumento della spesa militare e delle iniziative di sostegno a scelte di difesa armata (e vantaggio per l’industria bellica) le risorse pubbliche che dovrebbero servire ad affrontare sfide sociali urgenti – come i cambiamenti climatici, la salute pubblica e la povertà – vengono dirottate invece verso il potenziamento delle capacità militari. Questo spostamento di fondi ed energie verso la militarizzazione rischia di esacerbare le tensioni alimentando l’instabilità e minando gli sforzi per una risoluzione pacifica dei conflitti e per relazioni internazionali cooperative.     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
misure repressive
Processo Spiotta, riappare il bossolo dei carabinieri che prova l’esecuzione di Mara Cagol
C’è un bossolo fantasma, trovato e poi inspiegabilmente scomparso, tra le carte del nuovo processo che si è aperto davanti la corte di assise di Alessandria per la sparatoria del 5 giugno 1975 alla cascina Spiotta, in località Arzello di Acqui Terme. Si tratta di «un bossolo calibro 9, fabbricazione 70, appartenente ad un proiettile in dotazione dei Carabinieri: Beretta cal. 9», che può riscrivere per intero le circostanze della uccisione di Margherita Cagol, una delle fondatrici delle Brigate rosse, avvenuta quella mattina sulla collinetta antistante la cascina. di Paolo Persichetti da Insorgenze L’improvvida sortita dei carabinieri della stazione di Aqui Terme Nella tarda mattinata del 5 giugno un conflitto a fuoco oppose i due brigatisti che trattenevano Vallarino Gancia, sequestrato il giorno precedente dalla colonna torinese delle Brigate rosse, e una pattuglia dei carabinieri giunta sul posto per ispezionare il casolare. Una decisione incauta, dettata forse da spirito di concorrenza con i carabinieri del nucleo speciale che stavano indagando sul sequestro. Piero Bosso, appartenente al nucleo speciale e originario della zona ha riferito durante le nuove indagini, in una deposizione del 24 febbraio 2022, che a seguito di un controllo catastale erano emerse discordanze anagrafiche sulla nuova acquirente della cascina Spiotta, tale Marta Caruso, identità utilizzata da Margherita Cagol per l’acquisto del rustico. Da tempo i carabinieri di Dalla Chiesa conducevano indagini sui rogiti catastali più recenti perché avevano capito che i brigatisti acquistavano o affittavano immobili con documenti falsi. La cascina era dunque sotto osservazione da un paio di settimane, il sequestro di Vallarino Gancia e l’arresto di Massimo Maraschi, uno dei componenti del gruppo di rapitori che si dichiarò subito prigioniero politico, avevano convinto gli investigatori di Dalla Chiesa già dal pomeriggio del 4 giugno che bisognasse intervenire sulla cascina. La festa dell’arma del successivo 5 mattina ritardò l’intervento, a questo punto il tenente Umberto Rocca, della tenenza di Aqui Terme, volle anticipare tutti con una improvvida iniziativa che terminò in tragedia. La nuova perlustrazione del 20 giugno Il reperto è «rinvenuto nei pressi del luogo ove giaceva il cadavere della Cagol Margherita», così recita il verbale di ritrovamento stilato il 20 giugno 1975, ovvero 15 giorni la tragica sparatoria e la liberazione di Gancia. Colpiscono le due settimane di distanza che separano la nuova ispezione giudiziale dal momento della sparatoria e delle successive indagini e rilievi condotti davanti e dentro il casolare. Quindici giorni dopo il conflitto a fuoco e la liberazione dell’ostaggio si erano tenute delle importanti elezioni regionali. Il risultato fu un clamoroso smacco per la Dc mentre forte era stata l’avanzata del Pci che si distanziò di soli 500 mila voti dal partito di governo, conquistando ben sette regioni compreso il Piemonte. Forse fu la sorpresa politica per quanto avvenuto a rallentare le indagini, o forse altro, fatto sta che solo quel successivo 20 giugno il procuratore della repubblica Lino Datovo si recò nuovamente sul posto per procedere all’esame del terreno circostante la cascina alla ricerca di eventuali reperti non ritrovati in precedenza. La decisione fa comunque riflettere perché le autopsie dei corpi di Margherita Cagol e del carabiniere Giovanni D’Alfonso, erano avvenute il 6 e l’11 giugno precedente. Già il 12 giugno i reperti balistici rinvenuti, le armi sequestrate ai due brigatisti, alcuni bossoli, proiettili e frammenti di proiettile e delle bombe Srcm lanciate, erano stati inviati al perito designato dalla procura per gli esami e le comparazioni di rito. Forse erano sorti dei dubbi e quali? I bossoli esplosi dall’appuntato D’Alfonso Almeno due carabinieri avevano testimoniato di aver sparato, ma nessun bossolo esploso dalle loro pistole era stato repertato. Il maresciallo Rosario Cattafi ha raccontato di aver tirato almeno due colpi contro la finestra dove si era affacciata Cagol, immediatamente dopo il lancio della prima Srcm, una bomba a mano di origine italiana dalle caratteristiche poco letali (concepita soprattutto per disorientare il nemico, l’effetto è quello di un grosso petardo), in direzione del tenente Umberto Rocca da parte del giovane sportosi dall’entrata della cascina, ma nessun bossolo risulta rinvenuto nella zona antistante. Dopo aver sparato Cattafi corse in aiuto di Rocca col gomito tranciato dalla esplosione dell’ordigno per trascinarlo via. L’appuntato Pietro Barberis, l’altro carabiniere rimasto di copertura sulla stradina di accesso alla cascina, affermò di aver scaricato l’intero caricatore contro la donna in due momenti diversi e successivamente contro l’uomo in fuga tra i cespugli del bosco sottostante, ma nessun bossolo è mai stato segnalato. Del terzo carabiniere, l’appuntato D’Alfonso, si erano ritrovati accanto al luogo dove era rimasto gravemente ferito cinque bossoli esplosi da un’arma in dotazione ai carabinieri. Stranamente il procuratore non aveva chiesto di effettuare comparazioni con le pistole dei militi operanti, ma soltanto con le armi attribuite ai due brigatisti. Sarà la logica a ricondurre i cinque bossoli calibro nove corto (in dotazione ai carabinieri), insieme al fatto che dalla sua arma erano stati esplosi gran parte dei colpi, ad attribuirgli quei bossoli. Parlare di una indagine lacunosa è dire poco. Il ritrovamento del bossolo che uccise Mara Cagol
 Alle 12,30 di quel 20 giugno le operazioni, ancora senza esito, vennero sospese per riprendere alle 17 con l’assistenza del capitano dei carabinieri Giampaolo Sechi, in forza al nucleo speciale di polizia giudiziaria sotto il comando del generale Dalla Chiesa e del carabiniere Renzo Colonna che disponeva di un apparecchio rivelatore di metalli. L’ispezione veniva nuovamente interrotta a causa di un violento temporale per riprendere verso le 19. E’ in quel momento che accanto al luogo dove era stato ritrovato il cadavere di Margherita Cagol viene rinvenuto il bossolo calibro 9 in dotazione ai carabinieri. Tuttavia a causa della fangosità del terreno e dello scarso rendimento dell’apparecchio rivelatore, «in siffatte condizioni», le operazioni vengono sospese alle 19,30 e rinviate alle 16,00 del 23 giugno successivo. Il proiettile rinvenuto non arriverà mai sul tavolo del perito, da quel momento scompare dalle indagini. Perché? Il tiro a segno contro Cagol e la sua esecuzione Eppure la posizione del bossolo associato ai risultati della perizia autoptica sul corpo della Cagol ci rivelano le modalità della sua morte: uccisa da un colpo tirato a breve distanza quando aveva le braccia alzate in segno di resa. Una ricostruzione che coincide con il racconto fatto nel memoriale scritto tempo dopo da Lauro Azzolini che in aula ha confermato di aver visto per l’ultima volta «Mara» ancora viva, ferita a un braccio, seduta a terra con le mani levate in aria in segno di resa. Quel bossolo scomparso e l’autopsia condotta dal professor La Cavera dicono chiaramente che Cagol subì un’esecuzione con un colpo singolo esploso a distanza molto ravvicinata sotto l’ascella sinistra con uscita su quella destra, «con andamento pressoché orizzontale lievemente dall’avanti all’indietro» e morte pressoché istantanea. Dinamica che smentisce la ricostruzione ufficiale fornita dall’appuntato Barberis che disse di aver ucciso la donna sparandole a distanza di almeno dieci-quindici metri, mentre si gettava in avanti per ripararsi dal terzo lancio di una Srcm da parte dell’altro brigatista che era accanto a Cagol. Il colpo mortale è tirato da sinistra mentre Barberis, che sostiene di essersi spostato verso la cascina per riarmare la sua pistola, a quel punto era posizionato sul lato destro della donna, più in alto. Il colpo mortale è tirato a distanza di qualche minuto dai precedenti: il primo esploso con tutta probabilità dall’appuntato D’Alfonso, il secondo dall’appuntato Barberis che centra due volte la 128 dove era salita Cagol: prima sul pneumatico e poi sullo sportello anteriore destro, all’altezza della maniglia. Il proiettile trapassa la carrozzeria e colpisce l’avambraccio destro della donna che urta il cambio ritrovato macchiato insieme al coprisedile da tracce di sangue. Cagol esce dalla macchina con le mani alzate, la sua arma, una Browing 7,65 verrà ritrovata accanto allo sportello completamente scarica. Il duello con l’appuntato D’Alfonso Cagol e D’Alfonso si affrontarono all’altezza del porticato situato sul lato destro dell’edificio dove erano diretti i brigatisti in fuga per raggiungere le macchine. L’appuntato che stava sbirciando nelle auto in sosta era rimasto leggermente ferito a una coscia da una piccola scheggia metallica proveniente dalla seconda Srcm tirata a casaccio da Azzolini. Prova a impedire la fuga dei due sorprendendo la donna alle spalle. Il suo colpo ferisce superficialmente Cagol sul dorso, senza penetrare «nella regione destra all’altezza della decima costola» (zona del rene). La donna voltandosi reagisce colpendolo una prima volta alla spalla destra. Il proiettile trapassante si fermerà nel cavo toracico. La perizia darà conferma che era stato esploso dalla Browing della Cagol. Un colpo che secondo il perito non impedisce a D’Alfonso di rispondere al fuoco. Lo scambio ravvicinato tra i due è drammatico e si conclude con un altro colpo che centra D’Alfonso alla testa, ferendolo gravemente. Morirà sei giorni dopo. La perizia stabilirà che «entrambi i colpi sonno stati esplosi da distanza ravvicinata: nell’ordine di pochi metri». Chi ha ucciso Mara Cagol? Un contadino del posto, Bruno Pagliano, che stava lavorando la terra in un terreno confinante dopo gli spari si avvicinò alla cascina. Riuscì a vedere il corpo agonizzante di Margherita Cagol prima di essere bruscamente allontanato da un carabiniere armato di mitra. Si trattava di uno dei membri della pattuglia chiamata in rinforzo da Barberis. La sua è una testimonianza importante poiché fotografa la situazione negli ultimi momenti di vita della Cagol. Sul posto c’erano cinque carabinieri della stazione di Aqui Terme: Cattafi e Barberis, D’Alfonso ferito a terra mentre Rocca era stato portato in ospedale, e i sopraggiunti Lucio Prati e Stefano Regina. Oggi nessuno di loro è più in vita. Fantasmi come il proiettile scomparso. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
misure repressive
brigate rosse
anni 70
lotta armata
anni '70
Appello contro il decreto Sicurezza
“Per una sicurezza democratica”. L’appello pubblico di 257 giuspubblicisti di tutte le Università italiane Il decreto sicurezza viola le prerogative costituzionali garantite al Parlamento e, nel merito, punta a reprimere il dissenso e comprime alcuni diritti fondamentali , tassello fondamentale in qualunque democrazia. Per questo ben 257 giuspubblicisti di tutte le Università italiane lanciano un appello pubblico in cui elencano la macroscopica incostituzionalità del decreto e invitano gli organi di garanzia a tenere alta l’attenzione. Di seguito riportiamo il testo integrale e i firmatari. È compito dei giuspubblicisti nei periodi normali della vita del paese interpretare ed insegnare la nostra Costituzione. È anche compito dei singoli giuspubblicisti assumere delle posizioni individuali all’esterno dell’Università. Ci sono momenti però nei quali accadono forzature istituzionali di particolare gravità, di fronte alle quali non è più possibile tacere ed è anzi doveroso assumere insieme delle pubbliche posizioni. È questo il caso che si è verificato nei giorni scorsi quando il disegno di legge sulla sicurezza, che stava concludendo il suo iter dopo lunghi mesi di acceso dibattito parlamentare dati i discutibilissimi contenuti, è stato trasformato dal Governo in un ennesimo decreto-legge, senza che vi fosse alcuna straordinarietà, né alcun reale presupposto di necessità e di urgenza, come la Costituzione impone. Tale decreto – ultimo anello di un’ormai lunga catena di attacchi volti a comprimere i diritti e accentrare il potere – presenta una serie di gravissimi profili di incostituzionalità, il primo dei quali consiste nel vero e proprio vulnus causato alla funzione legislativa delle Camere. È accaduto spesso in passato ed anche in tempi recenti che la dottrina si trovasse a denunciare l’uso abnorme dello strumento della decretazione d’urgenza. Presidenza della Repubblica, Corte costituzionale, Presidenti delle Camere hanno più volte preso posizione in difesa del Parlamento e delle sue prerogative gravemente calpestate nell’esercizio della potestà legislativa, rimanendo inascoltati. In quest’occasione la violazione è del tutto ingiustificata e senza precedenti, dato che l’iter legislativo, ai sensi dell’art. 72 della Costituzione era ormai prossimo alla conclusione, quando è intervenuto il plateale colpo di mano con cui il Governo si è appropriato del testo e di un compito, che, secondo l’art. 77 Costituzione può svolgere solo in casi straordinari di necessità e di urgenza, al solo scopo, sembra, di umiliare il Parlamento e i cittadini da esso rappresentati. Quanto al merito, si tratta di un disegno estremamente pericoloso di repressione di quelle forme di dissenso che è fondamentale riconoscere in una società democratica. Ed è motivo di ulteriore preoccupazione il fatto che questo disegno si realizzi attraverso un irragionevole aumento qualitativo e quantitativo delle sanzioni penali che – in quanto tali – sconsiglierebbero il ricorso alla decretazione d’urgenza, dal momento che il principio di colpevolezza richiede che chi compie un atto debba poter sapere in anticipo se esso è punibile come reato mentre, al contrario, l’immediata entrata in vigore di un decreto-legge ne impedisce la preventiva conoscibilità. Numerosi sono i principi costituzionali che appaiono compromessi. Solo a scopo esemplificativo vogliamo ricordarne alcuni: il principio di uguaglianza non consente in alcun modo di equiparare i centri di trattenimento per stranieri extracomunitari al carcere o la resistenza passiva a condotte attive di rivolta; in contrasto con l’art. 13 Cost. e la tutela della libertà personale è il c.d. daspo urbano disposto dal questore che equipara condannati e denunciati; non meno preoccupante è la previsione con cui si autorizza la polizia a portare armi, anche diverse da quelle di ordinanza e fuori dal servizio. Una serie di disposizioni del decreto-legge aggravano gli elementi di repressione penale degli illeciti addebitati alla responsabilità di singoli o di gruppi solo per il fatto che l’illecito avvenga “in occasione” di pubbliche manifestazioni, disposizione che per la sua vaghezza contrasta con il principio di tipicità delle condotte penalmente rilevanti, violando per giunta la specifica protezione costituzionale accordata alla libertà di riunione in luogo pubblico o aperto al pubblico (art. 17 Cost.) mentre altre disposizioni violano palesemente il principio di determinatezza e di tassatività tutelato dall’art. 25 Cost.: si punisce con la reclusione chi occupa o detiene senza titolo “un immobile destinato a domicilio altrui o sue pertinenze”; si rischiano pene fino a sette anni per l’occupazione di luoghi che presentano un’estensione del tutto imprecisata e rimessa a valutazioni e preferenze del tutto soggettive dell’interprete. Torsione securitaria, ordine pubblico, limitazione del dissenso, accento posto prevalentemente sull’autorità e sulla repressione piuttosto che sulla libertà e sui diritti rappresentano le costanti di questi interventi Insegniamo che la missione di chi governa dovrebbe essere quella di cercare un equilibrio nel rapporto tra individuo e autorità. Invece, il filo che lega il metodo e il merito di questo nuovo intervento normativo rende esplicito un disegno complessivo, che tradisce un’impostazione autoritaria, illiberale e antidemocratica, non episodica od occasionale ma mirante a farsi sistema, a governare con la paura invece di governare la paura. Confidiamo che tutti gli organi di garanzia costituzionale mantengano alta l’attenzione e censurino questo allontanamento dallo spirito della nostra Costituzione, che fonda la convivenza della comunità nazionale su democrazia, pluralismo, diritti di libertà ed uguaglianza di fronte alla legge, affinché nessuno debba temere lo Stato e tutti possano riconoscerne, con fiducia, il ruolo di garante della legalità e dei diritti. Firme (promotori) 1. Ugo de Siervo (Presidente emerito della Corte costituzionale) 2. Gaetano Silvestri (Presidente emerito della Corte costituzionale) 3. Gustavo Zagrebelsky (Presidente emerito della Corte costituzionale) 4. Enzo Cheli (vice-Presidente emerito della Corte costituzionale) 5. Paolo Maddalena (vice-Presidente emerito della Corte costituzionale) 6. Maria Agostina Cabiddu – Politecnico di Milano 7. Vittorio Angiolini – Università degli Studi di Milano 8. Roberto Zaccaria – Università di Firenze 9. Roberta Calvano – Unitelma Sapienza Giuspubblicisti aderenti 10. Stefano Agosta – Università di Messina 11. Alessandra Algostino – Università di Torino 12. Maria Romana Allegri – Università la Sapienza 13. Carlo Amirante – Università di Napoli Federico II 14. Felice Ancora – Università di Cagliari 15. Francesca Angelini – Università la Sapienza 16. Adriana Apostoli – Università di Brescia 17. Antonio Ignazio Arena – Università di Messina 18. Marco Armanno – Università di Palermo 19. Vincenzo Atripaldi – Università La Sapienza 20. Gaetano Azzariti – Università la Sapienza 21. Enzo Balboni – Università cattolica S.C. 22. Stefania Baroncelli – Università di Bolzano 23. Sergio Bartole – Università di Trieste 24. Rosa Basile – Università di Messina 25. Franco Bassanini – Università “La Sapienza” 26. Gianluca Bellomo – Università “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara 27. Auretta Benedetti – Università Milano Bicocca 28. Marco Benvenuti – Università la Sapienza 29. Chiara Bergonzini – Università di Macerata 30. Cristina Bertolino – Università di Torino 31. Ernesto Bettinelli – Università di Pavia 32. Paolo Bianchi – Università di Camerino 33. Giovanni Bianco – Università di Sassari 34. Roberto Bin – Università di Ferrara 35. Marco Bombardelli – Università di Trento 36. Paolo Bonetti – Università Milano Bicocca 37. Monica Bonini – Università Milano Bicocca 38. Giuditta Brunelli – Università di Ferrara 39. Eugenio Bruti Liberati – Università del Piemonte orientale 40. Camilla Buzzacchi – Università Milano Bicocca 41. Marina Calamo Specchia – Università di Bari “Aldo Moro” 42. Debora Caldirola – Università cattolica S.C. 43. Quirino Camerlengo – Università di Milano Bicocca 44. Aristide Canepa, Università di Genova 45. Antonio Cantaro – Università “Carlo Bo” di Urbino 46. T. Paola Caputi Iambrenghi – Università di Bari “Aldo Moro” 47. Francesco Cardarelli – Università di ROMA “Foro Italico” 48. Andrea Cardone – Università di Firenze 49. Paolo Caretti – Università di Firenze 50. Agatino Cariola – Università di Catania 51. Massimo Carli – Università di Firenze 52. Enrico Carloni – Università di Perugia 53. Arianna Carminati – Università di Brescia 54. Paolo Carnevale – Università Roma 3 55. Daniele Casanova – Università di Brescia 56. Carlo Casonato, Università di Trento 57. Maria Cristina Cavallaro – Università di Palermo 58. Elisa Cavasino – Università di Palermo 59. Angelo Antonio Cervati – Università la Sapienza 60. Roberto Cherchi – Università di Cagliari 61. Omar Chessa – Università di Sassari 62. Lorenzo Chieffi – Università della Campania 63. Paola Chirulli – Università la Sapienza 64. Pietro Ciarlo – Università di Cagliari 65. Alessandro Cioffi – Università del Molise 66. Ines Ciolli – Università la Sapienza 67. Stefano Civitarese Matteucci – Università “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara 68. Giovanna Colombini – Università di Pisa 69. Manuela Matilde Consito – Università di Torino 70. Gianluca Conti – Università di Pisa 71. Guido Corso – Università di Palermo 72. Matteo Cosulich – Università di Trento 73. Luigi Cozzolino – Università di Macerata 74. Enrico Cuccodoro – Università del Salento 75. Chiara Cudia – Università di Firenze 76. Francesco Dal Canto – Università di Pisa 77. Giovanni D’Alessandro – UniCusano 78. Gianfranco D’Alessio – Università Roma3 79. Giacomo D’Amico – Università di Messina 80. Antonio D’Andrea – Università di Brescia 81. Luigi D’Andrea – Università di Messina 82. Guerino D’Ignazio – Università della Calabria 83. Claudio De Fiores – Università della Campania 84. Maria Elisabetta De Franciscis – Università di Napoli 85. Gabriella De Giorgi – Università del Salento 86. Gian Candido De Martin – LUISS Guido Carli 87. Francesco Raffaello De Martino – Università del Molise 88. Giovanna De Minico – Università di Napoli Federico II 89. Andrea de Petris – Università degli studi internazionali di Roma 90. Ambrogio De Siano – Università della Campania Luigi Vanvitelli 91. Andrea Deffenu – Università di Cagliari 92. Michele Della Morte – Università del Molise 93. Gianmario Demuro – Università di Cagliari 94. Michele Di Bari – Università di Padova 95. Giovanni Di Cosimo – Università di Macerata 96. Alfonso di Giovine – Università di Torino 97. Guerino D’Ignazio – Università della Calabria 98. Carlo Di Marco Leone – Università di Teramo 99. Alessandra Di Martino – Università La Sapienza 100. Enzo Di Salvatore – Università di Teramo 101. Mario Dogliani – Università di Torino 102. Francesco Duranti – Università per stranieri di Perugia 103. Gianluca Famiglietti – Università di Pisa 104. Vera Fanti – Università “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara 105. Veronica Federico – Università di Firenze 106. Gennaro Ferraiuolo – Università di Napoli Federico II 107. Leonardo Ferrara – Università di Firenze 108. Giancarlo Ferro – Università di Catania 109. Mario Fiorillo – Università di Teramo 110. Francesco Follieri – Università LUM “Giuseppe Degennaro” 111. Giampaolo Fontana – Università Roma 3 112. Matteo Frau – Università di Brescia 113. Salvatore Mario Gaias – Università di Sassari 114. Marco Galdi – Università di Salerno 115. Silvio Gambino – Università della Calabria 116. Gianluca Gardini – Università di Ferrara 117. Paolo Giangaspero – Università di Trieste 118. Federico Girelli – UniCusano 119. Mario Gorlani – Università di Brescia 120. Stefano Grassi – Università di Firenze 121. Nicola Grasso – Università del Salento 122. Andrea Gratteri – Università di Pavia 123. Maria Cristina Grisolia – Università di Firenze 124. Tania Groppi – Università di Siena 125. Enrico Grosso – Università di Torino 126. Cosimo Pietro Guarini – Università di Bari “Aldo Moro” 127. Riccardo Guastini – Università di Genova 128. Andrea Guazzarotti – Università di Ferrara 129. Nicola Gullo – Università di Palermo 130. Antonio Gusmai – Università di Bari “Aldo Moro” 131. Danila Iacovelli – Politecnico di Milano 132. Giovanna Iacovone – Università della Basilicata 133. Maria Pia Iadicicco– Università della Campania 134. Carlo Iannello – Università della Campania 135. Luca Imarisio – Università di Torino 136. Maria Immordino – Università di Palermo 137. Marco Ladu – Università E-Campus 138. Fulco Lanchester – Università La Sapienza 139. Anna Maria Lecis Cocco Ortu – Sc. Po Bordeaux 140. Eva Lehner – Università di Siena 141. Erik Longo – Università di Firenze 142. Fabio Longo – Università di Torino 143. Donatella Loprieno – Università della Calabria 144. Laura Lorello – Università di Palermo 145. Matteo Losana – Università degli Studi di Torino 146. Federico Losurdo – Università di Urbino Carlo Bo 147. Filippo Lubrano – Università LUISS Guido Carli 148. Nadia Maccabiani – Università di Brescia 149. Paolo Maci – Università telematica PEGASO 150. Marco Magri – Università di Ferrara 151. Elena Malfatti – Università di Pisa 152. Maurizio Malo – Università di Padova 153. Susanna Mancini – Università di Bologna 154. Michela Manetti – Università di Siena 155. Francesco Manganaro – Università Mediterranea di RC 156. Vanessa Manzetti – Università di Pisa 157. Valeria Marcenò – Università di Torino 158. Barbara Marchetti – Università di Trento 159. Francesco Marone – Istituto Suor Orsola Benincasa 160. Ilenia Massa Pinto – Università di Torino 161. Anna Mastromarino – Università di Torino 162. Antonio Mastropaolo – Università della Valle d’Aosta 163. Giuditta Matucci – Università di Pavia 164. Paola Mazzina – Università Parthenope di Napoli 165. Alessandra Mazzola – Università di Brescia 166. Giacomo Menegus – Università di Macerata 167. Livia Mercati – Università di Perugia 168. Francesco Merloni – Università di Perugia 169. Giovanni Moschella – Università di Messina 170. Angela Musumeci – Università di Teramo 171. Carla Negri – Università di Palermo 172. Matteo Nicolini – Università di Verona 173. Raffaella Niro – Università di Macerata 174. Walter Nocito – Università della Calabria 175. Giorgio Orsoni – Università Ca’ Foscari Venezia 176. Fabio Pacini – Università della Tuscia 177. Francesco Palermo – Università di Verona 178. Elisabetta Palici di Suni – Università di Torino 179. Francesco Pallante – Università di Torino 180. Saulle Panizza – Università di Pisa 181. Nino Paolantonio – Università di Roma Tor Vergata 182. Stefania Parisi – Università di Napoli Federico II 183. Maurizio Pedrazza Gorlero – Università di Verona 184. Luca Raffaello Perfetti – Università telematica Pegaso 185. Sergio Perongini – Università di Salerno 186. Barbara Pezzini – Università di Bergamo 187. Valeria Piergigli – Università di Siena 188. Andrea Pierini – Università di Perugia 189. Roberto Pinardi – Università di Modena-Reggio Emilia 190. Cesare Pinelli – Università la Sapienza 191. Piero Pinna – Università di Sassari 192. Alessandra Pioggia – Università di Perugia 193. Paola Piras – Università di Cagliari 194. Giovanna Pistorio – Università di Roma3 195. Filippo Pizzolato – Università di Padova 196. Marco Podetta – Università di Brescia 197. Giovanni Poggeschi – Università del Salento 198. Fabrizio Politi – Università dell’Aquila 199. Salvatore Prisco – Università di Napoli Federico II 200. Andrea Pubusa – Università di Cagliari 201. Francesca Pubusa – Università di Cagliari 202. Giusto Puccini – Università di Firenze 203. Stefania Puddu – Università di Cagliari 204. Andrea Pugiotto – Università di Ferrara 205. Mario Alberto Quaglia – Università di Genova 206. Alberto Randazzo – Università di Messina 207. Margherita Raveraira – Università di Perugia 208. Saverio Regasto – Università di Brescia 209. Giorgio Repetto – Università di Perugia 210. Giuseppe Ugo Rescigno – Università la Sapienza 211. Giuseppe Pio Rinaldi – Università Cattolica S.C. 212. Giancarlo Rolla – Università di Genova 213. Roberto Romboli – Università di Pisa, membro CSM 214. Laura Ronchetti – Università del Molise 215. Emanuele Rossi – Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa 216. Stefano Rovelli – Università di Pisa 217. Antonio Ruggeri – Università di Messina 218. Paolo Sabbioni – Università Cattolica S.C. 219. Fabio Saitta – Università di Catanzaro 220. Marcello Salerno – Università di Bari “Aldo Moro” 221. Simone Scagliarini – Università di Modena-Reggio Emilia 222. Michelangela Scalabrino – Università cattolica del Sacro Cuore 223. Paolo Scarlatti – Università Roma Tre 224. Angelo Schillaci – Università la Sapienza 225. Gianni Serges – Università Roma 3 226. Davide Servetti – Università Piemonte orientale 227. Stefano Sicardi – Università di Torino 228. Massimo Siclari – Università Roma 3 229. Giorgio Sobrino – Università di Torino 230. Alessandro Somma – Università la Sapienza 231. Domenico Sorace – Università di Firenze 232. Giusi Sorrenti – Università di Messina 233. Federico Sorrentino – Università “La Sapienza” 234. Lorenzo Spadacini – Università di Brescia 235. Renata Spagnuolo Vigorita – Università di Napoli Federico II 236. Vittorio Teotonico – Università di Bari “Aldo Moro” 237. Luigi Testa – Università dell’Insubria 238. Marco Tiberi – Università della Campania 239. Elisa Tira – Università E-Campus 240. Marta Tomasi Università di Trento 241. Rosanna Tosi – Università di Padova 242. Roberto Toniatti – Università di Trento 243. Alessandro Torre – Università di Bari “Aldo Moro” 244. Francesca Trimarchi – Università di Milano 245. Chiara Tripodina – Università Piemonte orientale 246. Michela Troisi – Università di Napoli Federico II 247. Riccardo Ursi – Università di Palermo 248. Alessandra Valastro – Università di Perugia 249. Giuseppe Verde – Università di Palermo 250. Paolo Veronesi – Università di Ferrara 251. Giulio Enea Vigevani – Università di Milano Bicocca 252. Luigi Ventura – Università “Magna Graecia” di Catanzaro 253. Stefano Villamena – Università di Macerata 254. Massimo Villone – Università di Napoli Federico II 255. Mauro Volpi – Università di Perugia 256. Jens Woelk – Università di Trento 257. Eugenio Zaniboni – Università di Foggia     Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
misure repressive
appello
Ti sei imborghesito!
Per fortuna non so mai chi sono, ma per certo non godo quando gli anormali son trattati da criminali e non ho alcuna intenzione di chiudere in un manicomio tutti gli zingari e gli intellettuali di Marco Sommariva* Giorni fa mi son trovato a disquisire con un amico su chi sono, oggi, i borghesi e a chiedermi se facessi parte di questa schiera; lo spunto per la discussione ci era stato dato da una scritta su un muro, tanto breve quanto solleticante, un microscopico j’accuse: “Ti sei imborghesito!” L’indomani, lo stesso amico mi ha segnalato un articolo pubblicato diversi anni fa su Repubblica e, così, ripartendo da questo,ho provato a mettermi nuovamente in discussione – questa volta da solo. A inizio pezzo leggo: “Nel significato oggi più diffuso il borghese è un membro di un ceto medio che va dai benestanti ai ceti impiegatizi e che comprende sia gli industriali, i grandi professionisti, i livelli superiori del pubblico impiego (la cosiddetta alta borghesia) sia una più vasta platea di persone che, in condizioni più modeste, sono tuttavia fornite di qualche bene, di qualche indipendenza, di qualche responsabilità anche se limitata, e di qualche istruzione (la piccola borghesia)”. Non so se il mio stipendio può essere considerato un bene e non so neppure se l’indipendenza che questo stipendio mi garantisce si possa annoverare fra quelle ipotizzate nell’articolo di Repubblica, ma di certo ho qualche responsabilità “anche se limitata” – un ufficio in cui coordino, così dice l’organigramma aziendale, due colleghi – e ho una “qualche istruzione”: sono uno di quei tantissimi periti industriali che nei primi anni Ottanta sbandierava il “pezzo di carta” che occorreva per provare a non replicare la vita di stenti dei genitori che, “con tanti sacrifici”, ti avevano fatto studiare. Possibile davvero io sia un piccolo borghese? Proseguo la lettura: “Borghesi sono […] i ceti che si affermano nell’età moderna come i più adatti a governare secondo ragione, scalzando – anche attraverso le rivoluzioni – il potere tradizionale dei nobili e degli ecclesiastici […]”, e qui non c’entro nulla: “scalzare chi governa” sì, “anche attraverso le rivoluzioni” sì, ma non di certo per governare. Dài!, questa l’ho sfangata, ma non so se riuscirò a passare l’esame dei miei libri, delle mie letture. Per l’egoismo con cui custodisco i miei libri, e pure i miei dischi, mi sa che Gustave Flaubert mi definirebbe borghese: “si divertiva a fabbricare portasalviette: ne aveva riempito la casa, li conservava con la gelosia di un artista e l’egoismo di un borghese” – Madame Bovary. Ma André Malraux – sapendo di tutte le mie cause (perse) combattute fianco a fianco coi più deboli, per i più deboli – mi difenderebbe: “La borghesia starà col più forte. La conosco” – La condizione umana. Non essendo spilorcio e arrogante, ed essendo spesso criticato per la troppa sincerità, credo che anche Doris Lessing prenderebbe le mie parti: “Dio sa quanto lei li odiava, i borghesi, così attaccati ai soldi, attenti a non sprecare un centesimo, sempre con il pensiero fisso di mettere da parte, di risparmiare […]”; e ancora “Alice sapeva che Muriel apparteneva all’alta borghesia ed era per questo che non la poteva soffrire. Come in tutte le rappresentanti della sua classe, ogni sua parola, ogni gesto, era implicitamente arrogante”; e infine “non c’è mai una volta che manifestino quello che pensano questi maledetti piccoli borghesi” – La brava terrorista. E se fossi, invece, un borghese perché mangio troppo? “Come dicono i sandinisti, era da tempo che avevo perso l’abitudine borghese di fare due pasti al giorno” – Dead end blues di Hugues Pagan. O forse lo sono perché, quando mi sposai, pensai anch’io – lo ammetto – d’essermi sistemato e, per un po’, rinunciai alla vita reale? “noi due abbiamo accettato quest’enorme illusione, perché di questo si tratta: l’idea che, una volta messa su famiglia, la gente debba rinunciare alla vita reale e “sistemarsi”. È la grande menzogna sentimentalistica piccolo borghese […]” – Revolutionary road di Richard Yates. In effetti, non lo nego, sono anche uno di quelli che appena uscì dal suo piccolo mondo che pensava fosse il mondo intero – fu quando non riuscii a sfuggire al servizio di leva e partii per la naja –, andò in crisi: “Quando si nasce nella piccola borghesia, si pensa che l’intero mondo sia uguale all’ambiente in cui si vive. Non appena giunsi a vedere un altro tipo di mondo, naturalmente il mio fu messo in crisi” – Pasolini su Pasolini di Pier Paolo Pasolini e Jon Halliday. Ma sempre Pasolini potrebbe riabilitarmi, vista la mia ripugnanza per il “pare brutto” e le “buone maniere” in generale: “il mio odio per la borghesia è in realtà una specie di ripugnanza fisica verso la volgarità piccoloborghese, la volgarità delle “buone maniere” ipocrite, e così via. Forse soprattutto perché trovo insopportabile la grettezza intellettuale di questa gente” – ancora Pasolini su Pasolini. Anche Jack London avrebbe parole buone per il sottoscritto che – me l’hanno riconosciuto in tanti – non ha mai avuto paura della Vita: “Il realismo è essenziale alla mia natura, e lo spirito borghese odia il realismo. La borghesia è codarda. Ha paura della vita” – Martin Eden. Forse la mia colpa è stata passare impiegato dopo otto anni trascorsi orgogliosamente da operaio? Forse mi sarebbe bastato restare una tuta blu per non rischiare d’esser confuso con qualche lacchè borghese? Ma davvero una cosa esclude l’altra? E qui è Paco Ignacio Taibo II a venirmi in soccorso: “Il più borghese è l’operaio che offre il culo al padrone, e addirittura lo difende come un coglione, e dice ma no, le cose in fabbrica vanno benissimo così” – E doña Eustolia brandì il coltello per le cipolle. Che se poi andiamo a vedere, ce n’è un po’ per tutti, per la morale borghese senza dubbio ma, per esempio, non è che una “certa” sinistra – quella che lottava per il proletariato – ne esca tanto bene: “non possiamo più fare a meno di valori positivi. Ma dove trovarli? La morale borghese ci indigna con la sua ipocrisia e la sua mediocre crudeltà. Il cinismo politico che regna su gran parte del movimento rivoluzionario ci ripugna. Quanto alla sinistra cosiddetta indipendente, in realtà, affascinata dalla potenza del comunismo e invischiata in un marxismo pudibondo di sé, ha già abbandonato la lotta. Dobbiamo allora trovare in noi stessi, nel vivo della nostra esperienza, cioè all’interno del pensiero in rivolta, i valori che ci necessitano. Se non li troviamo, il mondo crollerà, e forse sarà giusto, ma prima saremo noi a crollare, e questo sarà infame” – Ribellione e morte di Albert Camus. Non sarà che il pensiero della borghesia s’è già diffuso al popolo? Sarebbe un bel guaio: “Gli avari non credono nella vita dopo la morte, per loro il presente è tutto, e questo stesso concetto diffonde una luce orribile sul mondo odierno, dove più che mai il denaro domina le leggi, la politica e i costumi. Istituzioni, libri, uomini e dottrina cospirano insieme a scuotere la fede in un’altra vita, fede su cui da diciotto secoli si basa tutta la struttura sociale. Tuttavia ci troviamo quasi al medesimo punto, poiché l’avvenire che ci attendeva al di là del requiem è stato trasportato nel presente. Giungere al paradiso terrestre del lusso e delle gioie vanitose, far divenire il cuore di pietra e macerarsi il corpo nell’ansia di accumulare beni passeggeri, come una volta si soffriva il martirio per conquistare l’eternità, ecco l’idea che oramai si è fatta comune, l’idea fissa, in ogni luogo, persino nelle leggi, che ormai domandano all’uomo: “Quanto paghi?” invece di chiedergli: “Cosa pensi?” Se un simile pensiero si diffonderà dalla borghesia al popolo, chissà cosa ne sarà del mondo” – Eugénie Grandet di Honoré de Balzac. Anche perché il nuovo potere borghese parrebbe, davvero, essere una brutta cosa: “L’accettazione del fascismo è stato un atroce episodio: ma l’accettazione della civiltà borghese capitalistica è un fatto definitivo, il cui cinismo non è solo una macchia, l’ennesima macchia nella storia della Chiesa, ma un errore storico che la Chiesa pagherà probabilmente con il suo declino. […] il nuovo potere borghese infatti necessita nei consumatori di uno spirito totalmente pragmatico ed edonistico: un universo tecnicistico e puramente terreno è quello in cui può svolgersi secondo la propria natura il ciclo della produzione e del consumo. Per la religione e soprattutto per la Chiesa non c’è spazio” – Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini. Sulla necessità del potere borghese di pragmatismo da parte dei consumatori, ha qualcosa da dire anche Raoul Vaneigem: “Se i borghesi preferiscono l’uomo a Dio, è perché egli produce e consuma, acquista e fornisce” – Trattato del saper vivere. Ma chi sono io, oggi, ancora non l’ho capito. Visto che non mi spavento se i lacci delle mie scarpe non sono in ordine e non sono mai sicuro d’aver ragione, non dovrei esser compreso fra la media borghesia: “la media borghesia inglese deve masticare ogni boccone trenta volte perché ha l’intestino così stretto che un boccone grosso quanto un pisello lo ostruirebbe. Sono un branco di disgraziati effeminati, pieni di boria, spaventati se i lacci delle scarpe non sono in ordine, putridi come selvaggina andata a male, e sempre sicuri di avere ragione. È questo che mi distrugge. Sempre lì a leccare il culo finché non gli fa male la lingua, eppure sono sempre sicuri di avere ragione. Presuntuosi! Presuntuosi su tutto. Presuntuosi! Una generazione di presuntuosi effeminati senza coglioni…” – L’amante di Lady Chatterley di David Herbert Lawrence. E dato che non ho mai pensato che oltre i miei confini il mondo sia piuttosto ignorante, anche Robert Louis Stevenson potrebbe aiutarmi a restare fuori da certi elenchi in cui non avrei piacere di essere incluso: “L’ignoranza di voi borghesucci mi sorprende. Al di là dei vostri confini, ritenete che il mondo sia piuttosto ignorante e un universo indistinto, immerso in una degradazione generale…” – Il terrorista. Ma non sarà che questo problema dell’essere o non essere borghesi, è una fisima tutta mia, nostra, dell’uomo occidentale, e magari una fissazione dei giorni nostri? No, non è così; scrive Jean-Patrick Manchette ne Il caso N’Gustro: “Lo Zimbabwin, il loro Paese, si è liberato e un Fronte di liberazione, l’Flz, ha preso il potere. Ma se capisco bene, c’è un’etnia che cammina sulla testa delle altre, nell’Flz, e ancora peggio è musulmana […]. Mi spiegano: i musulmani, laggiù, sono l’equivalente dei borghesi qui, sono grandi famiglie, stirpi, da sempre compromesse con le spedizioni arabe che discendevano l’Africa, risalendo il Nilo e arrivando ben oltre nell’interno, attraverso il Sudan, fino al cuore del continente, per razziare, rapire su grande scala intere popolazioni che rivendevano sul Mar Rosso, gli uomini per il lavoro, le donne ai bordelli, i bambini dipende”. Niente, addirittura potrebbe essere un problema mondiale e, forse, sempre esistito. Pur non risparmiando i proletari, anche Johnny Rotten riteneva essere un problema questa borghesia capace di opprimere: “Ricordo che quand’ero piccolo e andavo a scuola i genitori inglesi mi prendevano a mattonate. Per arrivare alla scuola cattolica dovevo passare in una zona in prevalenza protestante. Era bruttissimo. La facevo sempre di corsa. “Quei luridi bastardi irlandesi!”. E cazzate del genere. Adesso se la prendono coi neri, o chi altri. Ci sarà sempre odio negli inglesi perché sono una nazione piena d’astio. È questo il guaio dei proletari di tutto il mondo. Cercano sempre di sfogare i loro rancori su quelli che considerano più in basso nella scala sociale, invece di saltare alla giugulare di quei fottuti bastardi dell’alta e media borghesia che li tengono oppressi, tanto per cominciare” – L’autobiografia. Persino la Chiesa pare non abbia gradito il potere della borghesia, accusandola d’aver fatto di questo mondo un luogo maledetto d’ingiustizia e di dolore, benché la contestazione non parrebbe mossa sulla scia di una qualche carità cristiana: “L’abate […] trovava delle scusanti alle scelleratezze degli scioperanti, attaccava violentemente la borghesia sulla quale rigettava ogni responsabilità. Era la borghesia, che, spossessando la Chiesa delle sue antiche libertà, per servirsene lei stessa, aveva fatto di questo mondo un luogo maledetto d’ingiustizia e di dolore, era lei che prolungava i malintesi, che spingeva ad una catastrofe spaventosa, col suo ateismo, rifiutandosi di ritornare alla fede, alle tradizioni fraterne dei primi cristiani” – Germinal di Emile Zola. Leggo che la borghesia è fondamentalmente vile e ottusa e che, in ogni epoca, è rimasta unita solo per abbattere ciò che le stava immediatamente sopra e depredare coloro che stavano sotto: “Sono nato con dentro un odio per l’ingiustizia… sin dall’infanzia il sangue mi ribolliva contro il cielo quando vedevo la gente malata, e mi ribolliva contro gli uomini quando ero testimone delle sofferenze dei poveri; pensando al tozzo di pane della povera gente, le cose buone che mangiavo mi andavano di traverso, e un bambino storpio mi faceva piangere. […] Anno dopo anno, questa passione per la gente più derelitta mi ossessionò sempre di più. Si poteva riporre speranza nei re? Si poteva riporre speranza nelle classi meglio pasciute che si rotolano nel denaro? Avevo studiato il corso della storia… sapevo che la borghesia, il nostro monarca di oggi, è fondamentalmente vile e ottusa… in ogni epoca, avevo visto come la borghesia si unisse solo per abbattere ciò che le stava immediatamente sopra e depredare coloro che stanno sotto; la sua ottusità, ne ero convinto, alla fine avrebbe provocato la propria rovina; sapevo che ormai i suoi giorni erano contati, ma come avrei potuto aspettare? Come potevo lasciare che i bambini poveri tremassero sotto la pioggia? Certo, sarebbero arrivati giorni migliori, ma i bambini sarebbero morti prima. […] con un’impazienza sicuramente non priva di uno slancio di generosità mi arruolai tra i nemici di questa società ingiusta e ormai condannata […]” – nuovamente da Il terrorista di Robert Louis Stevenson. Anche il mio corregionale Edmondo De Amicis, nel romanzo Sull’oceano non ne dice un granché bene di ‘sti borghesi: “tutta la sua persona rivelava la borghesuccia impastata d’invidia per chi le sta sopra e di disprezzo per chi le sta sotto, capace di commettere una vigliaccheria per entrare in relazione con una marchesa, e di dimezzare il pane ai figliuoli per strascicare del velluto sui marciapiedi”. Ecco, non provando invidia per chi sta sopra né disprezzo per chi sta sotto semplicemente perché il mondo che vedo io non è strutturato in verticale ma in orizzontale; non avendo mai dimezzato il pane da dare a mio figlio per qualsivoglia bene materiale a cui rinuncio tranquillamente, anche se ammetto che i libri mi tentano sempre parecchio; non commettendo alcuna vigliaccheria per entrare in relazione con una marchesa per lo stesso motivo di prima – nella mia visione orizzontale del mondo, marchese, psicologhe, suore, operaie, casalinghe, eccetera sono, giocoforza, tutte sullo stesso piano –; mi sento abbastanza sollevato. E mi sento abbastanza sollevato anche perché non provo alcuna gioia quando s’arresta una puttana o se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova campana; non godo quando gli anormali son trattati da criminali e non ho alcuna intenzione di chiudere in un manicomio tutti gli zingari e gli intellettuali; non so mentire con cortesia, cinismo e vigliaccheria, e non faccio dell’ipocrisia la mia formula di poesia; non ho nulla contro chi fa l’amore più di una volta alla settimana e neanche contro chi lo fa per più di due ore o verso chi lo fa in maniera strana; non pesto le mani a chi arranca dentro a una fossa e neppure son disponibile, al più ricco e ai suoi cani, a leccar le ossa. Sì, dài!, mi sento abbastanza sollevato. Ora che finalmente so chi sono, devo chiudere il pezzo e salutarvi perché sono già in ritardo: di là, sul tavolo di noce del tinello, la cena è apparecchiata, son tutti già seduti e mi aspettano per il segno della croce. Rifiutarsi mi pareva brutto.   *scrittore sul sito  www.marcosommariva.com tutte le sue pubblicazioni     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
riflessioni
misure repressive
L’Italia addestrerà i piloti militari libici
Si formeranno in Italia i piloti della ricostituita aeronautica di guerra della Libia. A renderlo noto l’ufficio pubblica informazione delle forze aeree italiane. di Antonio Mazzeo da Pagine Esteri Il 25 marzo, il capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, generale Luca Goretti, ed il capo della Libyan Air Force, generale Amhamed Gojel, hanno firmato a Roma un accordo tecnico bilaterale sull’addestramento in favore dei top gun e degli istruttori di volo libici. L’accordo prevede la partecipazione del personale militare dello Stato nordafricano ai corsi di addestramento presso il 70° Stormo dell’Aeronautica di stanza a Latina e presso il 61° Stormo di Galatina (Lecce) per le fasi 2 e 3 dell’iter addestrativo. Parte della formazione teorica si svolgerà anche presso il centro di formazione Aviation English di Loreto (Ancona), la scuola di lingue straniere dell’Aeronautica. L’intesa sottoscritta dai generali Goretti e Gojel disciplina i vari aspetti del percorso addestrativo del personale libico negli specifici programmi erogati dal 207° gruppo volo del 70° Stormo e dal 214° gruppo volo del 61° Stormo. “L’accordo assume una rilevanza significativa in quanto costituisce il primo accordo di cooperazione bilaterale con la Forza Aerea libica nel settore dell’addestramento al volo con durata di validità triennale”, spiega lo Stato Maggiore dell’Aeronautica italiana. “Esso è un’ulteriore riprova del livello di eccellenza raggiunto dalla Forza Armata nel settore addestrativo, nonché un significativo consolidamento della cooperazione con un Paese partner estremamente importante nell’ambito della sicurezza e della stabilità dell’area mediterranea”. (1) Il 70° Stormo di Latina è posto alle dipendenze del Comando Scuole dell’Aeronautica e della 3a della Regione Aerea con sede a Bari; presso i suoi reparti si effettuano i corsi di abilitazione e l’addestramento basico degli allievi dell’Aeronautica e delle altre forze armate italiane e dei cadetti militari di paesi esteri per il conseguimento del brevetto di pilota. Fino ad oggi Latina ha rilasciato oltre 15.000 brevetti di pilotaggio, realizzando un totale di circa 500.000 ore di volo. (2) Nello scalo del 70° Stormo gli allievi-piloti libici saranno formati a bordo di due tipi di velivoli di produzione del gruppo Leonardo SpA: il T-260B (aereo biposto, già classificato come SIAI Marchetti SF-260) e il T-2600A (quadriposto, già Aermacchi SF260 EA). (3) Presso la base salentina di Galatina, il personale militare libico sarà addestrato in vista della conduzione dei velivoli di quarta e quinta generazione (in particolare i cacciabombardieri Eurofighter Typhoon e gli F-35 Lightning II). Sotto il comando del 61° Stormo opera l’International Flight Training School (IFTS), un centro internazionale per l’addestramento al volo avanzato, frutto di un accordo del 2018 tra l’Aeronautica Militare e la holding industriale-militare Leonardo S.p.A.. “Il progetto IFTS è nato con l’obiettivo di realizzare un polo di eccellenza nella formazione dei piloti militari e soddisfare la crescente domanda di training avanzato proveniente dagli stati alleati e partner”, spiega lo Stato Maggiore della Difesa. “L’International Flight Training School ha consentito di raddoppiare l’attuale offerta addestrativa attraverso la realizzazione di un nuovo polo distribuito tra la base dell’Aeronautica di Galatina, e quella di Decimomannu (Sardegna), dove è nato il campus dedicato alla fase avanzata dell’addestramento al volo”. I reparti del 61° Stormo hanno formato e brevettato più di 9.000 avieri appartenenti a 20 paesi, alcuni del Medio oriente ed Asia (in particolare Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Singapore). A Galatina gli allievi-piloti di Tripoli voleranno a bordo dei caccia-addestratori T-346A (gli stessi venduti una quindicina di anni fa da Aermacchi-Leonardo alle forze armate israeliane). Questi aerei sono in via di sostituzione con i più sofisticati T-345, anch’essi progettati e prodotti dall’italiana Leonardo, per “ottenere un miglioramento della qualità addestrativa a costi inferiori, da cui il nome High Efficiency Trainer”, come enfatizza il Comando del 61° Stormo. Nelle scorse settimane sono giunti nella base aerea salentina i primi sei velivoli T-345 e da giugno saranno impiegati per i corsi addestrativi. (4) La decisione di utilizzare alcune delle maggiori basi aeree italiane per la “formazione” del personale militare libico sarebbe stata presa in occasione della riunione del Comitato misto di Cooperazione Libia–Italia tenutasi a Tripoli nel giugno 2024. A quell’incontro parteciparono per la parte italiana il generale Alessandro Grassano del III Reparto dello Stato Maggiore della Difesa e per la parte libica il gen. Mustafa Ben Rashed. Nonostante le sempre più numerose e documentate denunce da parte di organizzazioni governative ed ONG internazionali sulle gravissime violazioni dei diritti umani perpetrate dalle forze armate e di polizia libiche contro la popolazione e i migranti, il ministero della Difesa italiano si è impegnato ad “esaminare nuove strategie per incrementare e ottimizzare le attività di cooperazione” con la Libia. In particolare è stato redatto un articolato Piano di Formazione per il secondo semestre 2024 e per l’intero 2025, “comprensivo di numerose attività sia in Italia che in Libia”. (5) Relativamente al settore aereo, in attesa di avviare le attività addestrative per i piloti a Latina e Galatina, l’Italia ha iniziato ad erogare a beneficio del personale libico alcuni corsi per controllori del traffico aereo presso il reparto di addestramento di Pratica di Mare (Roma) e quelli presso l’Accademia Aeronautica di Pozzuoli (Napoli). (6) Le attività di formazione, addestramento e mentoring a favore delle forze armate e di sicurezza e delle istituzioni governative libiche, vengono svolte in territorio italiano e libico nell’ambito della cosiddetta Missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia (MIASIT). Nata nel 2018 sulle ceneri della precedente Operazione “Ippocrate”, MIASIT ha come obiettivo prioritario quello di “incrementare le capacità complessive” dei militari fedeli al Governo di Accordo Nazionale della Libia. Tra le attività addestrative spiccano in particolare quelle finalizzate al “controllo e contrasto dell’immigrazione illegale e delle minacce alla sicurezza della Libia; al ripristino dell’efficienza di assetti terrestri, navali e aerei, comprese le relative infrastrutture, funzionali allo sviluppo della capacità libica di controllo del territorio; all’assistenza e supporto sanitario (anche con il trasferimento dei pazienti Italia); allo sminamento; alla formazione da parte di forze speciali italiane, delle omologhe unità libiche”. Sempre secondo lo Stato Maggiore della Difesa, i corsi di formazione a le attività addestrative vengono condotte da MIASIT “in conformità all’Accordo tecnico di Cooperazione militare sottoscritto nel 2020”, sotto la direzione e il coordinamento del Comando Operativo di Vertice Interforze (COVI), con quartier generale nello scalo aeroportuale di Centocelle, Roma. (7) Il testo di questo accordo non è pubblico. Grazie però ad alcuni organi di stampa di Tripoli è stato possibile apprendere che esso è stato sottoscritto il 4 dicembre 2020 in occasione della visita in Italia dell’allora ministro della Difesa del governo libico, generale Salaheddine al-Namroush (oggi vice capo di Stato Maggiore). Al-Namroush avrebbe concordato con il ministro della Difesa italiano Lorenzo Guerini (Pd) e con quello degli Affari Esteri Luigi Di Maio (M5S), l’implementazione di “attività di cooperazione nei settori dell’addestramento e dell’istruzione militare, dello scambio di competenze, del supporto, dello sviluppo, della manutenzione e della consulenza, della cooperazione nel campo dell’immigrazione clandestina, oltre che della sicurezza delle frontiere terrestri e marittime, delle operazioni di munizioni e smaltimento delle mine, della medicina militare, di soccorso in caso di disastri naturali ed emergenze sanitarie, di scambio di informazioni ed esperienze nel campo della ricerca scientifica e tecnica e della sicurezza militare”. (8) Attualmente il Comando della Missione MIASIT è schierato a Tripoli, mentre a Misurata è presente un distaccamento operativo. La consistenza massima annuale autorizzata dal Parlamento per il contingente nazionale impiegato in Libia è di 200 militari, più un mezzo aereo. E’ pure previsto l’impiego di ulteriori assetti aerei (anche a pilotaggio remoto) e di mezzi navali, tratti dal dispositivo nazionale operante nel Mediterraneo. Originariamente la missione di sostegno militare alla Libia prevedeva pure la gestione di un ospedale da campo a Misurata, ma questo è stato “dismesso” nel corso del 2022. “Da allora, anche nell’area di Misurata la presenza italiana ha svolto attività addestrativa, mediante team mobili (Mobile Training Team)”, spiega lo Stato Maggiore. Il contingente italiano è composto da unità con compiti di formazione, consulenza, assistenza e supporto logistico, infrastrutturale e sanitario; personale di collegamento presso dicasteri e stati maggiori libici; unità con compiti di force protection; tecnici e specialisti contro minacce chimiche-biologiche-radiologiche-nucleari (CBRN); team per la ricognizione e per le attività di comando e controllo. “L’addestramento si svolge in particolare nei settori del contrasto di ordigni esplosivi improvvisati (IED), dell’aviolancio e della tutela e scorta; l’impegno si è esteso anche alla collaborazione con la Guardia Costiera libica, che ha proseguito nell’azione di contenimento dei movimenti migratori non regolamentati”. (9) Pure formazione e addestramento, dunque, oltre al supporto logistico e di intelligence a favore della famigerata Guardia Costiera responsabile di orribili crimini (mitragliamenti, deportazioni, omissioni di soccorso, ecc.) nella quotidiana guerra contro le migrazioni e i migranti in acque territoriali e internazionali. Nel corso del 2024 sono stati non meno di una cinquantina i corsi di addestramento svolti da team appartenenti all’Esercito, alla Marina Militare, all’Aeronautica e all’Arma dei Carabinieri. Circa 700 i militari di tutte le forze armate libiche “formati” da MIASIT. (10) Tra gli impegni più “onerosi” quelli svolti per addestrare le unità di fanteria libiche e di “combattimento nei centri abitati” con l’ausilio del personale della Scuola di Fanteria dell’Esercito di Cesano (Roma); l’Esplorazione Tattica Terrestre, grazie ai team della Scuola di Cavalleria di Lecce; le “lezioni” di topografia e navigazione sul terreno, con tanto di fornitura al personale libico di “ausili tecnici e software open source per leggere e costruire mappe topografiche da utilizzare per il tiro di artiglieria”, da parte della Scuola di Artiglieria di Bracciano. (11) Presso il Distaccamento MIASIT di Misurata, il personale del 9° Reggimento Alpini (quartier generale a L’Aquila), reparto d’élite per il “combattimento in montagna”, ha curato i corsi di lingua italiana, Combat Intelligence e gestione delle “operazioni speciali” (OPS – Special Operations) a favore dei componenti della 307^ unità della Counter Terrorism Force libica. Ancora gli alpini abruzzesi nel deserto tripolitano per svolgere i “corsi basici di fanteria” per gli uomini della 52^ Brigata. (12) Il Comando Genio dell’Esercito di Roma ha portato a termine 15 corsi a favore del costituendo Centro di Eccellenza C-IED (Counter-Improvised Explosive Device) di Tripoli; i parà della Brigata Paracadutisti “Folgore” e gli istruttori del   Centro Addestramento Paracadutismo dell’Esercito di Pisa hanno condotto invece diversi corsi di Self Defense Close Combat e di “Metodo di Combattimento Militare (MCM)” per il Dipartimento di Polizia Militare e gli “allievi” dell’Accademia Militare di Tripoli. “Il Metodo di Combattimento Militare è parte integrante dell’addestramento individuale al combattimento ed è una metodologia tesa a fornire al soldato quelle capacità necessarie per difendersi e fronteggiare situazioni critiche o che minacciano la sua incolumità e quella degli altri”, spiega lo Stato Maggiore della Difesa. (13) Per il Corpo della Polizia Militare della capitale libica, il Centro Addestramento Paracadutismo e il 1° Reggimento Carabinieri Paracadutisti “Tuscania” di Livorno hanno condotto i corsi di Personal Security Detail in Hostile Enviroment che hanno come scopo “l’apprendimento delle procedure di protezione e sicurezza di Autorità o personale VIP”. Ufficiali dei Carabinieri e del Gruppo di Intervento Speciale (G.I.S.) dell’Arma hanno svolto invece un Negotiation Course a favore di 13 ufficiali della Libyan Military Intelligence di Tripoli, normalmente impiegati tra la capitale e Misurata. “Il corso ha avuto l’obiettivo di insegnare agli allievi le tecniche basilari per la gestione delle crisi, la capacità di approccio/ascolto e le tecniche per addivenire ad una soluzione efficace delle controversie”, spiega la Difesa. (14) Trentacinque i militari libici addestrati al Sea Survival dagli istruttori aero-soccorritori del 15° Stormo dell’Aeronautica Militare, di stanza nello scalo di Cervia-Pisignano (Ravenna). Il corso si è svolto presso la base navale di Abu Sittah, Tripoli, dove è attivo il Centro di coordinamento di ricerca e soccorso mobile (Mrcc) della Marina e della Guardia Costiera libica che sorveglia l’immensa aerea SAR – in verità anti-migranti – nel Canale di Sicilia. “Alle attività formative hanno preso parte militari appartenenti alla Lybian Air Force e alla Lybian Navy che hanno avuto modo di apprendere le procedure e tecniche di base per la sopravvivenza in mare a seguito di incidenti aerei e navali, tramite l’uso di materiali e zattere di salvataggio”, riporta lo Stato Maggiore italiano. Ospiti d’onore al corso Sea Survival il Capo del Dipartimento Search & Rescue libico, generale Mansour Al-Taish, e il responsabile del Dipartimento addestrativo della Marina Militare, ammiraglio Abdul Rahman Al-Baroni. (15) Oltre ad addestrare il personale militare libico, la Missione MIASIT ha gestito la consegna a “titolo gratuito” di equipaggiamento e aiuti militari. Nel corso del biennio 2023-2024, è stata formalizzata la cessione di materiale per la ricerca e la bonifica degli ordigni esplosivi, a favore degli operatori del Dipartimento del Genio militare di Tripoli. Tra i materiali “donati” decine di esemplari di tute protettive, occhiali speciali per la protezione degli occhi, kit di tiranteria, ausili per la rimozione a distanza di trappole esplosive e ordigni inesplosi, cercamine e apparati radiografici portatili per l’ispezione di pacchi sospetti o di munizioni inesplose di medio e piccolo calibro. Il trasferimento di equipaggiamento militare è stato realizzato “grazie ai fondi stanziati dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, nel quadro del più esteso programma di assegnazione di equipaggiamento specialistico, in Convenzione con il Ministero della Difesa”, spiega lo Stato Maggiore. (16) Il 2 maggio 2024 il personale italiano ha pure consegnato materiale elettromedicale all’Ospedale Militare di Tripoli e all’Accademia Aeronautica di Misurata, dove è stata pure realizzata un’aula multimediale per lo svolgimento di corsi per i piloti militari e civili. Ad agosto, farmaci e apparecchiature elettromedicali per un valore complessivo di quasi 100.000 euro, sono stati inviati al Misurata Medical Center e ai Poliambulatori militari locali. Alcuni dispositivi medici cardiovascolari sono stati acquistati mediante i fondi stanziati dal Comando Operativo di Vertice Interforze; i farmaci sono stati messi a disposizione dalla Fondazione Banco Farmaceutico. (17) Note 1 https://www.aeronautica.difesa.it/news/aeronautica-militare-cooperazione-internazionale-firmato-accordo-per-laddestramento-di-piloti-militari-libici-in-italia/ 2 https://www.aeronautica.difesa.it/news/70-stormo-cerimonia-di-consegna-delle-aquile-di-pilota-di-aeroplano-agli-allievi-piloti-del-corso-falco-vi/ 3 https://www.aviation-report.com/70-stormo-scuola-di-volo-basico-aeronautica-militare/ 4 https://www.rid.it/shownews/7219/aeronautica-arrivati-i-primi-t-345-a-giugno-parte-l-addestramento 5 https://www.difesa.it/smd/news-italia/prima-riunione-del-comitato-misto-di-cooperazione-libia-italia/53472.html 6 https://www.aeronautica.difesa.it/news/aeronautica-militare-cooperazione-internazionale-firmato-accordo-per-laddestramento-di-piloti-militari-libici-in-italia/ 7 https://documenti.camera.it/leg19/dossier/pdf/DI0145.pdf?_1744875457583 8 https://alwasat.ly/news/libya/303351?fbclid=IwAR0eudWADmm-zHocMTasNn5aSo13rriiDxIySXJNrVtMgUliq-fmoyqecKg 9 https://documenti.camera.it/leg19/dossier/pdf/DI0145.pdf?_1744875457583 10 https://www.difesa.it/operazionimilitari/op-intern-corso/libia-missione-bilaterale-di-supporto-e-assistenza/notizie-teatro/libia-proseguono-le-attivita-addestrative-con-gli-istruttori-del-9-reggimento-alpini-dellesercito-e-della-scuola-di-fanteria-di-cesano-di-roma/55457.html 11 https://www.difesa.it/operazionimilitari/op-intern-corso/libia-missione-bilaterale-di-supporto-e-assistenza/notizie-teatro/missione-in-libia-la-miasit-conclude-un-importante-ciclo-formativo/55736.html 12 https://www.esercito.difesa.it/comunicazione/Pagine/Libia-proseguono-le-attivita-addestrative-con-gli-istruttori-del-9-Reggimento-Alpini-dell-Esercito-240805.aspx 13 https://www.difesa.it/operazionimilitari/op-intern-corso/libia-missione-bilaterale-di-supporto-e-assistenza/notizie-teatro/libia-conclusi-corsi-metodo-di-combattimento-militare-e-personal-security-detail-in-hostile-enviroment/54544.html 14 https://www.difesa.it/operazionimilitari/op-intern-corso/libia-missione-bilaterale-di-supporto-e-assistenza/notizie-teatro/miasit-terminato-corso-negotiation-course-a-favore-libyan-military-intelligence/46617.html 15 https://www.difesa.it/operazionimilitari/op-intern-corso/libia-missione-bilaterale-di-supporto-e-assistenza/notizie-teatro/missione-in-libia-concluso-sea-survival-training/51981.html 16 https://www.difesa.it/operazionimilitari/op-intern-corso/libia-missione-bilaterale-di-supporto-e-assistenza/notizie-teatro/miasit-donato-equipaggiamento-per-lo-sminamento-al-genio-militare-libico/47432.html 17 https://www.difesa.it/operazionimilitari/op-intern-corso/libia-missione-bilaterale-di-supporto-e-assistenza/notizie-teatro/miasit-e-fondazione-banco-farmaceutico-supportano-la-sanita-libica/55795.html       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
misure repressive