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Il “decreto milleprogoghe” è legge. La polizia locale può essere dotata di pistola Taser
In piena orgia di retorica securitaria il parlamento con l’approvazione del decreto “milleproroghe” ha dato il via per la dotazione del taser alla polizia locale di tutti i comuni Italiani Nel decreto “Milleproroghe, approvato in via definitiva dalla Camera dei Deputati è previsto che tutti i Comuni – non solo i capoluoghi di provincia o quelli con più di 20mila abitanti – potranno dotare la Polizia Municipale della letale pistole elettronica “taser”. La misura sarà sperimentale fino alla fine dell’anno. L’ampliamento dell’uso del taser ha seguito una traiettoria progressiva negli ultimi anni. Introdotto nel 2018 con i decreti Sicurezza dal Governo Conte I, su proposta dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, il dispositivo era inizialmente riservato alle sole Città metropolitane e ai Comuni con più di 100mila abitanti. Successivamente, con il decreto legge PA dello scorso anno, un emendamento sostenuto da Lega e Fratelli d’Italia aveva abbassato la soglia, consentendone l’utilizzo anche nei centri con oltre 20mila abitanti. Ora, la misura viene estesa a tutti i Comuni, eliminando di fatto ogni limitazione demografica. COME FUNZIONA IL TASER. Si presenta più o meno come una pistola. Quando si preme il grilletto invece dei proiettili vengono sparati due piccoli dardi di metallo collegati entrambi a un filo. Una volta che i due punteruoli, che restano sempre collegati al filo, toccano l’obiettivo, una scossa di corrente passa da una puntale di metallo all’altro creando un’immediata paralisi dei muscoli. Non è necessario che i due dardi si infilino sotto la pelle, è sufficiente che tocchino i vestiti. Come altre armi il taser prende il nome dal suo inventore, infatti è l’acronimo di Thomas A. Swift’s electronic rifle, il fucile eletrico di Thomas A. Swift. GLI EFFETTI SUL CORPO. Nel settembre 2015 un collettivo di Youtuber ha mostrato gli effetti di questa arma. Gli Slow Mo Guys hanno registrato in slow motion il momento esatto in cui i dardi colpiscono la vittima. A fare da cavia umana per la causa è stato Dan Hafen, responsabile delle vendite di un’azienda che produce telecamere. Il video ha superato i 25 milioni di visualizzazioni. La fama val bene una scossa. In Italia i taser non si possono acquistare liberamente. Può comprarli solo chi possiede un porto d’armi ma alcune armerie vendono versioni depotenziate. Nel 2007 una commissione dell’Onu si è espressa molto duramente sull’uso di quest’arma: «Costituisce una forma di tortura, che in certi casi può condurre alla morte com’è dimostrato da numerosi studi e da episodi accaduti in seguito all’uso pratico di questi strumenti». I RISCHI SECONDO AMNESTY. ll rischio infatti è che la polizia li usi con più disinvoltura rispetto alle armi da fuoco. Sulla stessa linea anche Amnesty International, come dichiarato dal suo portavoce Riccardo Noury in un’intervista a Radio Popolare: «Ci sono tantissimi casi in cui vengono usati al termine di un inseguimento e dunque quando la persona che viene colpita è in condizioni di stress. Il problema è che non sai chi hai di fronte. Quando non sai chi hai di fronte e usi un’arma come quella rischi di fare un danno molto elevato». > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
February 20, 2025 / Osservatorio Repressione
Toghe rosse e camicie nere
Il Governo e la sua maggioranza accusano i magistrati di politicizzazione e proclamano la necessità di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri. In realtà la separazione è già in atto e, con il termine politicizzazione, si indica, a ben guardare, l’indipendenza dei magistrati, mal tollerata dal potere. Il fatto più inquietante è che i discorsi sono molto simili a quelli di cent’anni fa. Mancano solo le camicie nere. di Livio Pepino da Volere la Luna I film Luce del Ventennio e dei primi anni Cinquanta – la voce del padrone mascherata da attualità politica in onda al cinema tra uno spettacolo e l’altro – erano un gioco da bambini. Oggi i video della presidente del Consiglio, trasmessi sostanzialmente a reti unificate, inondano i nostri pasti quotidiani di fake news, evocando complotti inenarrabili, affrontati – naturalmente – con schiena dritta in virile scontro con nemici da colpire inesorabilmente. Tra i nemici prediletti ci sono da tempo, in perfetta continuità con la stagione berlusconiana, i magistrati. Lungi da me l’idea di una difesa acritica di questi ultimi, magari dettata da un’antica appartenenza alla corporazione (in verità cessata ormai da 15 anni). Al contrario sono assai critico nei confronti di molti orientamenti di una magistratura spesso forte solo con i deboli (i barbari, i marginali, i ribelli) e trovo stucchevoli, oltre che sbagliate, le affermazioni – in voga sino a qualche anno fa – tese a rivendicare una superiorità morale dei magistrati rispetto ai politici. Mi asterrei, dunque, dall’entrare in questa “singolar tenzone” se non fosse che, in essa, il conflitto tra magistratura e politica è, nonostante le apparenze, del tutto secondario. Ma quali sono, allora, le questioni sul tappeto? Conviene esaminarle a partire dalle affermazioni e dai progetti della maggioranza politica. Il fulcro di tutto è il disegno di legge costituzionale approvato dalla Camera lo sorso gennaio dedicato, a detta dei proponenti, alla separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri, cioè alla diversificazione dei percorsi professionali della magistratura giudicante e di quella requirente. Nulla da obiettare – almeno per me – su tale diversificazione, tesa ad evitare commistioni improprie e conseguenti lesioni dei diritti dell’imputato e, dunque, del tutto condivisibile e, almeno sul piano teorico, più corretta del modello organizzativo unitario. Ma – cosa non da poco – non è quello il contenuto del disegno di legge, nel quale nulla si dice sul collegamento tra giudici e pubblici ministeri. Né potrebbe essere altrimenti considerato che i due percorsi professionali sono già oggi nettamente separati, tanto che l’interscambio (possibile una sola volta nel corso della carriera, entro nove anni dalla prima assegnazione delle funzioni e con cambio di sede) è poco più di un caso di scuola che interessa, ogni anno, un’aliquota di magistrati inferiore all’uno per cento (https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/rossi-separare-le-carriere-di-giudici-e-pubblici-ministeri-o-riscrivere-i-rapporti-tra-poteri). A ben guardare, dunque, l’espressione “separazione delle carriere” si inserisce a pieno titolo nel vocabolario delle parole distorte usato dai regimi per rendere accettabile ciò che tale non è e la riforma costituzionale (che riguarda l’istituzione di due Consigli superiori, il sorteggio dei loro componenti magistrati e una inedita Corte di disciplina per i magistrati) rivela il suo ruolo di strumento per «creare un magistrato burocrate, di nuovo inserito in una gerarchia, intimorito dalla politica e dai superiori» (https://volerelaluna.it/commenti/2025/01/20/riformare-la-giustizia-o-scardinare-la-democrazia/) con una «regressione corporativa destinata a contraddire tutta la storia recente della magistratura, dalla seconda metà degli anni Sessanta sino ad oggi» (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/10/03/separazione-delle-carriere-una-vecchia-etichetta-per-una-nuova-merce/). Non è un’illazione ma un fatto, risultante dalle stesse affermazioni dei suoi sostenitori, che invocano la riforma per evitare il ripetersi di alcuni casi definiti “scandalosi”, come le mancate convalide, da parte di tribunali e corti d’appello, dei trattenimenti di richiedenti asilo nei centri di detenzione albanesi (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/11/15/migranti-paesi-sicuri-lo-scontro-e-tra-diritto-e-arbitrio/) e l’“incriminazione”, da parte del Procuratore della Repubblica di Roma, della presidente del Consiglio e di alcuni ministri per l’affare Almasri (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/02/03/il-caso-almasri-e-lidea-di-stato-della-destra/): casi che coinvolgono solo giudici, il primo, e solo pubblici ministeri, il secondo, e che non sarebbero in alcun modo toccati da una revisione dei rapporti tra le due categorie… Analoghe considerazioni si impongono per il secondo leitmotiv della destra al governo: quello secondo cui “bisogna finirla con le toghe rosse politicizzate!”. Lo slogan è stato rispolverato con riferimento alla appena ricordata incriminazione della presidente del Consiglio da parte della Procura di Roma e alla parallela vicenda della presunta divulgazione di un documento destinato a restare segreto da parte dello stesso magistrato. Ma si tratta del più clamoroso degli autogol, posto che il procuratore di Roma è esattamente l’opposto di un barricadiero magistrato di sinistra e si riconosce nella corrente più conservatrice della magistratura (quella, per intenderci, di cui ha fatto parte fino a ieri il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano) della quale è stato dirigente autorevole e nella cui lista è stato, in passato, eletto al Consiglio superiore. Dunque, se di scorrettezze si trattasse (ed è assai dubbio che sia così), esse dovrebbero essere riportate a categorie ben diverse dalla politicizzazione, come l’errore o a uno scontro tutto interno allo schieramento conservatore. Difficile, in ogni caso, non riandare con la memoria alla situazione, descritta da Piero Calamandrei, in Elogio dei giudici scritto da un avvocato (risalente al 1935), del miliardario che, per sottrarre il figlio dallo “sconcio” di un processo per omicidio colposo stradale, mette sul piatto una somma ingente e, all’obiezione del difensore che «la giustizia non è una merce in vendita», sbotta nella conclusione: «Ho capito, abbiamo avuto la sfortuna di cadere in mano di un giudice criptocomunista». In realtà – non sembri un paradosso – la magistratura italiana di questo inizio di millennio è la meno politicizzata della storia nazionale: una storia che ha visto, nell’epoca liberale indicata come modello, una totale coincidenza tra classe politica di governo e magistratura, con continui passaggi dalle aule di giustizia a quelle parlamentari, e che si è sviluppata in perfetta coerenza fino agli anni Sessanta del secolo scorso (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/10/10/giudici-fascisti-cerchiobottisti/). A volte – con maggiore o minor frequenza – la magistratura sbaglia, ma quando lo fa, non è per una vocazione antigovernativa e quella che viene, impropriamente, chiamata “politicizzazione” è, a ben guardare, il suo opposto: l’indipendenza dalla politica, che può anche portare a momenti di collisione, come è fisiologico che sia nella vigenza del potere istituzionale diviso voluto dalla Costituzione (https://volerelaluna.it/controcanto/2023/10/06/toghe-rosse-e-calzini-azzurri/). Così il quadro si ribalta e diventa chiaro che – come ha scritto recentemente Sergio Labate – «la politicizzazione non è quel che il Governo teme ma quel che vuole» per liberarsi dai lacci delle regole e del controllo di legalità: sul piano interno e su quello internazionale, come le polemiche di questi giorni con la Corte penale internazionale dimostrano. La storia si ripete. Il 10 giugno 1925, esattamente un secolo fa, il guardasigilli fascista Alfredo Rocco espose alla Camera il progetto del regime sulla giustizia affermando che «la magistratura non deve far politica di nessun genere; non vogliamo che faccia politica governativa o fascista, ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa o antifascista». Il seguito è noto. Nel dicembre dello stesso anno l’Associazione nazionale magistrati deliberò il proprio scioglimento per evitare di essere trasformata in un sindacato fascista. Quattro anni dopo, lo stesso Rocco affermò, con viva soddisfazione, che «lo spirito del Fascismo è entrato nella magistratura più rapidamente che in ogni altra categoria di funzionari e di professionisti». Nel 1939, infine, i più alti magistrati del regno – come ricorda Piero Calamandrei – si radunarono in divisa a palazzo Venezia, compiacendosi di fronte al riconoscimento del ministro di avere finanche superato «i limiti formali della norma giuridica» per «obbedire», quando si era trattato di difendere i valori della Rivoluzione, «allo spirito e alla sostanza rinnovatrice della legge», applaudendo ripetutamente le parole del duce e lasciando quindi la sala al canto di inni della Rivoluzione». Oggi manca la camicia nera, ma la sostanza non cambia. Il fascismo del nuovo millennio segue la stessa strada, talora addirittura con le stesse parole. Eppure c’è ancora qualcuno – molti – che contesta questa assimilazione e nega che sia in atto una torsione autoritaria dello Stato. Ma anche in questo la storia si ripete… > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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February 14, 2025 / Osservatorio Repressione
Le troppe amnesie su carcere e repressione
L’approccio a carcere e repressione non potrà essere mai esaustivo e corretto senza partire dalla realtà che ci trasmette da tempo un’egemonia schiacciante delle culture e pratiche sicuritarie. di Federico Giusti Possiamo discutere all’infinito sull’approccio alle tematiche repressive ma alla fine andremo a sovrapporre i nostri desiderata alla realtà con la quale bisogna invece sempre e comunque fare i conti. E la realtà ricorda che oggi alcuni concetti la fanno da padrone tanto a sinistra quanto a destra, sono ormai punti comuni delle analisi provenienti dai vari schieramenti, parliamo di certezza della pena, di sicurezza nei centri abitati, di lotta alla microcriminalità, di telecamere diffuse ad ogni angolo cittadino. E quando ci imbattiamo negli infortuni e nelle morti sul lavoro la richiesta di molti è la istituzione di un reato per omicidio sul lavoro sperando che l’ennesimo reato nel codice penale a tutela dei lavoratori possa in qualche modo restituire dignità e giustizia alle vittime del profitto. Sia ben chiaro: il nostro codice penale introduce ogni mese reati nuovi per colpire devianze e soggetti sociali, l’elenco sarebbe lungo e i nostri ascoltatori o lettori ne sono già al corrente, la speranza che infortuni e morti sul lavoro possano ridursi per la istituzione di pene severe anche contro i mancati controlli della committenza stride con la subalternità dei Rappresentanti dei lavoratori alla filiera aziendale, alle dinamiche decise dai vertici aziendali, pubblici e privati, a norme, incluso il testo unico sulla sicurezza, che non hanno attribuito potere contrattuale alle figure sindacali che si occupano di salute e prevenzione. Sta qui il problema, pensare che una legge determini lo spostamento del punto di vista generale, le legislazioni avanzate in materia di salute e sicurezza sono figlie di lunghe stagioni di lotte e di iniziative culturali e sociali ma anche di pratiche politiche e sociali avanzate. Chi oggi ragiona sull’abolizione del carcere pensando sia possibile farlo alla luce di quanto avvenuto negli anni settanta con i manicomi dovrebbe prima studiare e contestualizzare il problema e magari anche chiedersi dove siano finiti tutti gli interventi sociali di accompagnamento della Basaglia di cui si è subito perso traccia all’indomani dei processi attuativi della Legge Perchè il modo migliore per vanificare dei percorsi di riforma è quello di abbandonare al proprio destino la transizione scaricandone gli oneri sociali sulla collettività o, meglio ancora, sulle singole famiglie che poi si troveranno a fare i salti mortali per la soluzione dei problemi. Dobbiamo quindi ripartire da alcuni luoghi di comuni come la certezza della pena in un paese nel quale a pagare sono sempre i meno abbienti con le carceri ridotte a discarica sociale, con i percorsi di studio e di lavoro di fatto ridotti ai minimi termini, con le misure alternative alla pena rese impossibili dall’assenza di una rete di welfare fino alla privatizzazione della pena e del carcere sul modello Usa con le carceri affidate ai privati e a costi decisamente più bassi. Ma non possiamo eludere anche la necessità di un approccio meno caritatevole e sociologico alla questione detentiva recuperando invece una chiave di lettura politica e politicizzata, del resto il 1660 è la risposta al conflitto interno ai paesi a capitalismo avanzato che vanno imponendo economie di guerra e sacrifici economici e sociali. E in questo approccio allargato non possiamo eludere la questione dell’emergenza trasformata in strumento ordinario, pensare che i recinti urbani non siano figli di una diffusa cultura che spazia dalla sicurezza urbana alle logiche del mercato immobiliare fino ai progetti che andranno a ridefinire i confini e le dinamiche della città con una sorta di selezione preventiva della tipologia di abitante da collocare in ogni singolo quartiere. Quello che serve oggi è mettere insieme i vari approcci e trasformarli in una contro narrazione che per essere credibile dovrà affrontare, e non eludere, le contraddizioni emerse nel tempo attorno alle tematiche securitarie, il securitarismo si afferma dopo decenni di egemonia culturale e politica dei dominanti e tra i dominanti non mancano anche settori dell’attuale opposizione parlamentare a cui dobbiamo ad esempio i pacchetti sicurezza o avere minimizzato la situazione di vita nei campi in Libia per ragioni legate alla salvaguardia della sicurezza nazionale. Proviamo a uscire allora dalle nostre zone comfort siano esse ideologiche o di gruppo politico, di approccio intellettuale o di ribellismo fino a sè stesso. La questione carceraria, in un paese dove a distanza di 40 anni ci sono ancora detenuti politici, è uno spaccato della società e come tale va affrontata, farlo ora prima di trovarci davanti al modello usa, ai carceri gestiti da privati nei quali i diritti umani e civili saranno letteralmente sospesi. l’articolo è uno Stralcio dell’ intervento della Cub alla presentazione pisana del numero di Jacobin “Regime di Massima sicurezza” Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp    
February 14, 2025 / Osservatorio Repressione
“Zone rosse” e sicurezza
Perché i “recinti urbani” sulla carta sono solo un’illusione. La direttiva del ministero dell’Interno di fine 2024 inviata ai prefetti per multare e allontanare soggetti ritenuti “molesti” mette in risalto “il fastidio della complessità, del rapporto con l’altro e con entità non strettamente controllabili”. Rafforzando così un’idea asettica dei centri, condannati a essere solo luoghi di consumo e non di relazioni, anche conflittuali. Intervista a Sebastiano Citroni, professore di Sociologia all’Università degli Studi dell’Insubria di Emma Besseghini da Altreconomia Dal 30 dicembre 2024 al 31 marzo 2025 il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia ha annunciato l’introduzione delle “zone rosse”, quei luoghi della città considerati problematici per la sicurezza, da cui poter allontanare soggetti considerati “pericolosi”. La misura è scattata in seguito alla direttiva del 17 dicembre 2024 del ministero dell’Interno, con la quale è stato chiesto ai prefetti di tutta Italia di individuare zone della città ritenute problematiche in termini di sicurezza. Per prevenire e contrastare “l’insorgenza di condotte di diversa natura che -anche quando non costituiscono violazioni di legge- sono ostacolo al pieno godimento di determinate aree pubbliche”, il Viminale invita i prefetti a ricorrere al “Daspo urbano”, un provvedimento che prevede la possibilità di multare e allontanare “chiunque ponga in essere condotte che impediscono l’accessibilità e la fruizione” di infrastrutture e luoghi pubblici. Per approfondire i risvolti che l’introduzione delle “zone rosse” potrebbero avere sul tessuto urbano e sulla coesione sociale di una città come Milano abbiamo intervistato Sebastiano Citroni, professore associato di Sociologia presso l’Università degli Studi dell’Insubria. Professor Citroni, che impatto ha l’introduzione delle “zone rosse” sul tessuto urbano? Le “zone rosse” rispondono a un problema percepito da molti come reale, e in passato documentato da cronache di violenze di genere e altri gravi reati. La possibilità di queste violenze non è una novità assoluta, ma oggi si presenta in maniera specifica: c’è maggiore sensibilità generale sul tema e si ha l’impressione che si tratti di circostanze in cui si sfoga una rabbia e un risentimento più generale di chi sta ai margini. La direttiva del ministro dell’Interno produce specifiche implicazioni sul tessuto urbano, che mirano a rafforzare -piuttosto che contrastare- alcune tendenze già in corso da tempo: lo svuotamento dei centri urbani dai suoi abitanti e dalla possibilità di un loro accesso libero, legato a rituali e festeggiamenti non strettamente associati a pratiche di consumo; la gestione della sicurezza urbana in termini di decoro e ordine pubblico tramite l’illusione di “recinti urbani” relativamente sicuri perché presidiati da forze dell’ordine; e lo svuotamento dell’idea stessa di città come luogo plurale, fatto di diversi abitanti, usi dello spazio pubblico eterogenei e tra loro in tensione. È un’illusione perché spesso aggrava il problema: non sempre funziona, anche dentro i recinti infatti succede ciò che non dovrebbe accadere e, più che placarsi, la polemica politica monta ulteriormente. ⁠Perché con questo provvedimento si rischia di smantellare l’idea di spazio pubblico? L’idea di spazio pubblico sta al cuore stesso della dimensione urbana, di che cosa rende una città tale da un punto di vista sociale: non i suoi edifici, nemmeno chi vi abita o i servizi che offre, ma l’interazione che permette di praticare con gli altri. È uno scambio tipico di spazi umanamente densi, con una molteplicità di popolazioni e di usi dello spazio tra loro in tensione. Deve essere chiaro che il conflitto non è la violenza, ma il suo contrario: è un tipo di relazione; la violenza, invece, è la sua eliminazione. In questo senso, in che modo la direttiva sulle “zone rosse” è problematica? Nella direttiva del ministro ai prefetti si parla di “misure di divieto di accesso” nei confronti di persone che mostrano comportamenti non solo “aggressivi o minacciosi” ma anche “molesti”. La direttiva adotta un linguaggio vago, dove si parla anche del “pericolo” che l’altro può rappresentare. Quello che mi pare certo è che anche in questo caso si sostiene una tendenza infausta delle nostre società: evitare il fastidio della complessità, del rapporto con l’altro e con entità non strettamente controllabili. Da tempo i mezzi di comunicazione consentono -o almeno promettono- questa possibilità a molte più persone che in passato, dando l’idea di rimodulare vicinanza e lontananza a nostro piacimento. Come stanno cambiando le città? Le città continuano ad essere il laboratorio del cambiamento sociale. Anche oggi il cambiamento è più evidente nei centri urbani: la crisi abitativa in corso nelle città europee mostra la crescente esclusione sociale di intere fette del “ceto medio”, sempre più tagliato fuori dalle opportunità che la città offre. Si tende sempre più ad accettare l’aumento estremo delle disuguaglianze sociali: tra città e aree esterne, verso cui quote crescenti di popolazione sono relegate -e anche all’interno delle città stesse-, ad esempio nei valori immobiliari, nella dotazione di verde e in fenomeni che a Milano sono ormai consolidati, come la segregazione scolastica nei quartieri periferici. ⁠I dati forniti dalla prefettura di Milano riportano una diminuzione dei delitti: si passa dai 144.864 illeciti del 2023 ai 134.178 del 2024. Crede che si stia invertendo la concezione di sicurezza con quella di percezione di sicurezza? Partirei dal prendere sul serio ciò che le persone sentono, indipendentemente da quello che i dati dicono. Chi ha paura non ne esce leggendo dati e statistiche. Anzi, non accogliere questa paura e insicurezza, negandola, la fa gonfiare ancora di più, crea risentimento generalizzato, che qualcuno puntualmente cavalca. Chi ha paura ha certamente i propri motivi per averla, ci sono delle ragioni da capire. La paura è un sintomo di qualcosa a cui rimanda. Allora bisogna guardare la crescente disuguaglianza, il venire meno di un senso di appartenenza alla propria società e ai suoi destini, la comunicazione sensazionalistica e soprattutto le strumentalizzazioni politiche, con le loro soluzioni facili e i capri espiatori per le sofferenze delle persone, che creano guerre tra poveri da capitalizzare a proprio vantaggio. La sicurezza, il senso di sicurezza, si manifesta a livello individuale ma è una tipica questione collettiva: o si crea per tutti oppure sicurezza solo per alcuni (chi se lo può permettere, magari) diventa prima o poi paura. Che cosa rende una città sicura? Una città più sicura è una città più controllata dalle forze dell’ordine? Per alcuni le forze dell’ordine tranquillizzano forse, per altri -e in misura sempre più crescente se guardiamo gli ultimi episodi– sono essi stessi una minaccia. Non sto parlando solo di chi è intenzionato a commettere illeciti, ma del fatto che la loro stessa presenza ostentata può creare tensione. La presenza e l’intervento delle forze dell’ordine spesso creano un clima teso che non favorisce il senso di sicurezza generalizzato. Il ricorso a questi provvedimenti emergenziali da una parte conferma la loro necessità nella popolazione, l’esistenza di un pericolo straordinario che giustifichi un intervento straordinario; dall’altra sono disposizioni chiamate solo a spostare i problemi che affrontano, vietando l’accesso agli spazi a soggetti ritenuti minacciosi, con l’esplicito obbligo di spostarsi altrove. > Daspo prefettizio “in bianco” e “zone rosse”: prove generali di distopie > sicuritarie > Le zone rosse – (S)Margini – 01 > Zone rosse…di vergogna incostituzionale   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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February 12, 2025 / Osservatorio Repressione
Il caso Paragon, il governo e i giornalisti e gli attivisti spiati tramite Whatsapp
Paragon puntava all’America. E si è impantanata in Italia. Di tutta la vicenda, l’aspetto più inquietante è la melina istituzionale del governo Meloni su un tema cruciale. di Carola Frediani da newsletter Guerre di Rete Una exit clamorosa. Era stata definita così, a dicembre, la vendita di una giovane società israeliana del settore cyber offensivo al fondo di private equity americano AE Industrial Partners per mezzo miliardo di dollari, che potevano arrivare a 900 milioni a seconda del raggiungimento degli obiettivi di crescita e redditività. Quasi uno status da unicorno per Paragon, un’azienda fondata nel 2019 da un gruppo di ex membri della 8200, una delle tre unità del Direttorato di intelligence militare delle Forze di Difesa israeliane (IDF) responsabile della raccolta di informazioni e segnali di intelligence (SIGINT), e dello sviluppo di strumenti ad hoc. Paragon, che ora ha circa 450 dipendenti, è un’azienda che da subito puntava ad avere credenziali altissime. Tra i fondatori ha Idan Norik, che ricopre il ruolo di CEO, Lior Avraham, Liran Alkobi e Igor Bogdanov. Come presidente conta su Ehud Schneerson, che ha un passato da comandante della stessa unità di intelligence militare. E come azionista e membro del board accampa niente meno che l’ex primo ministro laburista ed ex capo di Stato Maggiore Ehud Barak. Lo spyware Graphite Il suo prodotto di punta è il software Graphite, uno spyware, di cui però è trapelato molto poco a livello tecnico. Sembra avere le caratteristiche di altri spyware, o trojan, che si sono visti in passato, assumendo il controllo del cellulare e intercettando le comunicazioni su app di comunicazione come Whatsapp, Signal, Telegram, Gmail. Questa è l’unica funzione che viene ribadita su media e in tempi diversi. Alcuni parlano di capacità di persistenza (uno spyware che resista a un reboot, riavvio del dispositivo) ma anche di un tipo di software più limitato nel suo accesso al dispositivo di altri. Ma la parte tecnica al momento è ancora troppo vaga. Il contesto del mercato degli spyware Quello su cui ci sono più informazioni è come si posiziona Paragon e il suo contesto. Il contesto è quello delle società che vendono spyware ai governi per attività investigative di tipo giudiziario o di intelligence. Un settore di business cresciuto negli ultimi anni, ma che ha sollevato molte polemiche (e commissioni d’inchiesta, come l’europea PEGA) per l’uso di questi strumenti contro giornalisti e oppositori politici. Polemiche che si sono concretizzate in attenzione mediatica e politica, inchieste giudiziarie, cause legali (Whatsapp contro NSO, ad esempio), nonché attacchi informatici e leak di informazioni. Tanto che la sua concorrente diretta, l’israeliana NSO che produce lo spyware Pegasus, era stata inserita dagli USA nella Entity List, una sorta di blacklist del dipartimento del Commercio, dall’amministrazione Biden, insieme ad altre due aziende fondate da israeliani e specializzate in spyware, Candiru e Intellexa. Paragon e il posizionamento sui clienti È chiaro dunque perché, fino a poco tempo fa, Paragon sottolineasse come fosse riuscita a entrare nell’elenco dei fornitori approvati dal governo statunitense anche per la scelta più “etica” di vendere solo a Paesi democratici, escludendo regimi o Stati accusati di violare i diritti umani. Paragon, l’azienda di spyware etici. Un’affermazione dura da digerire per qualunque attivista dei diritti digitali, ma che aveva una ratio molto chiara, a livello di business, e anche un certo posizionamento politico. Anche in Israele e nel rapporto con gli Usa. In sintesi: opposizione politica a Netanyahu, vicinanza all’amministrazione dem negli Usa. Quindi, mentre NSO, azienda determinante nella diplomazia cyber di Netanyahu, e investita dalle inchieste giornalistiche come il Pegasus Project sui presunti abusi del suo spyware Pegasus, veniva stigmatizzata dagli Usa di Biden, Paragon tesseva la sua tela commerciale e diplomatica a Washington (qui una interpretazione di destra israeliana in merito a questi posizionamenti). Questo per abbozzare il piano – molto più complesso – della politica. Su quello del business il settore delle startup cyber israeliane ha salutato con entusiasmo l’exit di Paragon, malgrado l’apparente resistenza del ministero della Difesa a concedere l’autorizzazione senza problemi e forse anche malgrado lo scontento di alcuni settori dell’intelligence. “Ad oggi – scriveva Calcalist – Paragon ha raccolto solo circa 30 milioni di dollari, quindi si tratta di un elevato ritorno sull’investimento, anche se non tutto l’accordo è stato fatto in contanti e una parte sarà in azioni della società risultante dalla fusione”. Il fondo AE prevede di fondere Paragon con un’altra società in portafoglio, RED LATTICE, che lavora nel settore della Difesa. “L’accordo – scrive Globes – consentirà a Paragon di espandere la propria presenza sul mercato in paesi come il Regno Unito e l’Irlanda, l’Australia, la Nuova Zelanda, il Canada e gli Stati Uniti”. Tutto questo per arrivare all’annuncio di Meta/Whatsapp del 31 gennaio, che arriva come una bomba per la società, fino ad oggi non interessata da inchieste o polemiche, e con un profilo riservatissimo. Whatsapp fa sapere ad alcuni media che la società ha inviato a Paragon una lettera di diffida, intimando la cessazione dell’attività di hacking di alcuni suoi utenti. Un tentativo di violazione di circa 90 utenti, in più di 24 Paesi, incluse delle persone in Europa, a cui erano stati inviati documenti elettronici malevoli [pdf diffusi in chat di gruppo, dice il Guardian ndr] che non richiedevano alcuna interazione da parte dell’utente per la compromissione, ovvero un attacco zero-click. Distribuito a dicembre. In questi 90 sono inclusi membri della società civile e giornalisti, dicono i portavoce Whatsapp ai media, anche se non è chiaro se lo siano tutti o solo una parte (non trovo comunicati ufficiali di Whatsapp e bisogna distillare le parole esatte dai diversi media). Le vittime dello spyware Alcuni però, di sicuro, stanno in Italia. Whatsapp ha infatti inviato un avviso a tutte le vittime. Tra queste c’è anche il direttore di Fanpage Francesco Cancellato, come racconta la stessa testata il 31 gennaio. A cui si aggiunge l’attivista Luca Casarini, capomissione e uno dei fondatori della ong Mediterranea; e poi l’attivista libico Husman El Gomati, critico delle politiche sui migranti fra Italia e Libia. Nei giorni eccessivi emergono altri nomi ipoteticamente colpiti dallo spyware, e legati alla stessa Mediterranea, come il suo armatore Beppe Caccia. Nel frattempo alcune testate internazionali scrivono che Paragon in Italia avrebbe due clienti, una agenzia di polizia e una di intelligence. Il balletto italiano A questo punto parte il balletto tutto italiano su cui i lettori sono sicuramente bene informati e su cui non mi dilungo. Le richieste di chiarimenti al governo, il governo che nega di c’entrare, e in una nota “esclude che [gli utenti italiani, ndr ] siano stati sottoposti a controllo da parte dell’intelligence, e quindi del Governo”. Aggiunge di aver incaricato l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale, che dipende dalla Presidenza del Consiglio, di interloquire con lo studio legale Advant, che segue WhatsApp. Da questa interlocuzione fanno sapere che le utenze italiane tra le 90 prese di mira sono 7. E spiattellano anche chi sarebbero potenzialmente gli altri clienti di Paragon in Europa, per la gioia degli altri governi (va detto che un’utenza di un certo Paese non significa necessariamente che quel Paese abbia lo spyware, una persona potrebbe essere un target di intelligence straniere. Ma in generale le probabilità sono alte, specie se le utenze sono tante): “Dalla medesima interlocuzione si ricava che le utenze fino ad ora coinvolte appartengono a numeri con prefissi telefonici riconducibili, oltre all’Italia, ai seguenti Paesi: Belgio, Grecia, Lettonia, Lituania, Austria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Svezia”. Chi ha usato Paragon, di grazia? Ma se, da comunicazione ufficiale, non sono i servizi, possono essere i servizi all’insaputa del governo? E se non sono i servizi tout court, allora non sarà l’autorità giudiziaria, una procura, visto che da anni questo genere di strumenti, simili a Graphite di Paragon, sono usati in indagini? Lo stesso governo ha di fatto alluso alle Procure. Anche se secondo il Messaggero, “nessuna delle procure distrettuali più grandi e più importanti d’Italia ha in uso il sistema di spionaggio israeliano, che permette di esfiltrare dati, ascoltare conversazioni e localizzare le persone. Graphite non è impiegato per le intercettazioni né a Roma, né a Milano, né a Napoli, né a Palermo, né a Genova”. Di certo però in passato non sono mancate inchieste delle procure e della Direzione nazionale antimafia su Ong che si occupano di salvataggio dei migranti. E più di una utenza delle sette italiane fa parte di questo mondo. Nel mentre Paragon ha fatto sapere di avere prima chiesto chiarimenti e poi di aver chiuso i contratti in Italia per violazione dei termini degli stessi, che non consentono di colpire con il software spia giornalisti o membri della società civile, scrive la stampa estera. Oggi però al Fatto fonti dell’esecutivo dicono che lo spyware sarebbe ancora in uso. Di tutta la vicenda, l’aspetto forse più inquietante è questa melina istituzionale su un tema cruciale. In cui, tra le vittime, abbiamo almeno un giornalista che ha coordinato inchieste critiche e imbarazzanti per il governo. E attivisti che, per essere intercettati in questa maniera nella cornice di un’inchiesta, dovrebbero essere accusati di reati molto pesanti. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
February 12, 2025 / Osservatorio Repressione
Stato di fermo
Un libro di stringente attualità. “Stato di fermo” di John Wainwrigth, Edizioni Paginauno di Edoardo Todaro da Carmilla In estremo ritardo nella lettura e, soprattutto, rispetto all’uscita, ma sicuramente di stringente attualità. Oggi sono molte le iniziative e le mobilitazioni, con punti di vista ed impostazioni diverse, messe in campo per contrastare la deriva autoritaria che, con il disegno di legge 1660, il governo Meloni impone rispetto al conflitto sociale, in primis le forme di lotta che si sono espresse all’interno del conflitto capitale/lavoro. A questo proposito, è bene sottolineare il rendere esplicito  l’intento di questo provvedimento dichiarato da Piantedosi, il ministro dell’interno, attaccare il sindacalismo di base (sicobas in primis) e le forme di lotta praticate in particolare nel settore della logistica. Non ci può venire non alla mente l’introduzione della cosiddetta regolamentazione del diritto di sciopero messa in campo per contrastare le lotte portate avanti dai lavoratori delle ferrovie, con l’introduzione della nota, in modo nefasto, 146/90. Dalla 146 al ddl 1660 il passo è breve: il conflitto deve essere annullato e represso. Dai lavoratori delle ferrovie a quelli della logistica. Esercitare il diritto al mettere in campo rapporti di forza a favore degli interessi di coloro che sono sottoposti allo sfruttamento, al profitto: deve essere bandito. Non è mia intenzione addentrarmi su cosa è il ddl1660 e cosa, la sua eventuale e prevedibile  approvazione possa portare. In estremissima sintesi: da una parte coloro che effettueranno un blocco stradale compiranno un reato; chi, detenuti in particolare, ricorrerà ad azioni non violente, sarà punito ecc…; dall’altra avremo privilegi ed immunità per le forze dell’ordine.  Quindi ben venga questo libro, da considerare un vero e proprio manuale di autodifesa,  che era buon uso pubblicare. Una stanza, senza “ carattere “, di supporto allo scopo per cui esiste che deve produrre un effetto claustrofobico, è il luogo dove si svolge il tutto e due uomini: uno il sospettato, criminale e noto stupratore, in attesa di interrogatorio; l’altro l’inquisitore, una relazione basata sulla dominazione e l’accettazione di essa, accusato ed accusatore uno di fronte all’altro, la sconfitta e la vittoria.  Un sospettato, che necessita di un ristabilimento della quiete mentale per salvaguardare la propria dignità che è messa in discussione,  e  che ha nel proprio curriculum la violenza e l’uccisione di tre ragazze. Un colpevole perfetto per risolvere in tempi brevi un indagine che non vede alcun senso nel protrarsi. Il colpevole perfetto che diviene il capro espiatorio. Un’indagine che è costellata di grossi sospetti ma di nessuna prova, di quelle necessarie per “convincere” una, prossima, giuria ad un verdetto di condanna, e previste dalla legge, quella legge con i suoi limiti, debolezze ed incoerenze.  Ma essendo all’interno di trame, per così dire, giudiziarie, non può mancare il cosiddetto ragionevole dubbio che invece può portare all’assoluzione e le domande su cos’è la legge, sui suoi limiti. Queste pagine si dipanano nei meandri, nelle modalità dell’interrogatorio, nelle linee di questo con l’uso accorto del livello psicologico per far capitolare, perché, lo si voglia o meno, anche l’interrogare è un’arte: “ dare un colpevole e parlerà “. Interrogare con l’abilità del saper parlare ma anche del saper ascoltare. Interrogatorio che ha insito il trucco di far ammettere al sospettato la possibilità della propria colpevolezza e cioè l’ottenere un’ammissione, nel quale è necessario essere distaccato dalla sofferenza del sospettato senza lasciarsi coinvolgere; ingarbugliare un concetto, prendere un concetto logico e farlo divenire il suo contrario; non urlare e non dare in escandescenza, provare la colpevolezza del sospettato con le sue stesse parole, ripetere la stessa domanda 10000 volte ma in 1000 modi diversi, dare al sospettato il senso di sicurezza. Compare un secondo investigatore, questo senza pietà né alcun rimorso ma solo disprezzo e fanatismo e le pressioni fisiche per ottenere la confessione voluta. Quanto descritto è dovuto ad un semplice fatto: Wainwright è stato per 20 anni agente di polizia, diciamo che possiamo considerarlo un conoscitore dei fatti descritti. Ma l’utilità del leggere “ Stato di fermo “ risiede in particolare nel fatto che la crisi organica, economica e politica, accentua sofferenze e difficoltà nel corpo sociale e produce forme, diverse tra loro, di resistenza. Proprio queste forme di resistenza sono quelle che il governo si pone di bloccare con il ddl 1660. Aspetto utile e soprattutto necessario, risiede nella solidarietà e nella capacità di resistenza  di fronte all’accentuarsi degli interventi repressivi  nei confronti di coloro che sono, e che saranno colpiti, e nel diffonderla. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
February 12, 2025 / Osservatorio Repressione
Da Malpensa a Tel Aviv: come le aziende di sicurezza informatica israeliane collaborano con le autorità italiane per accedere ai dispositivi mobili
La violenza poliziesca non è fatta di soli manganelli; si manifesta anche attraverso l’ingerenza e l’invasività nel privato. Seguire gli spostamenti, osservare e ascoltare il quotidiano fanno parte di un odioso bagaglio di strumenti che la polizia da sempre mette in campo. di Assemblea No Cpr Torino Ad oggi, però – attraverso intense partnership con paesi, come Israele, in grado di sviluppare sistemi di sorveglianza capaci di manomettere e accedere facilmente ai dispositivi mobili (smartphone, tablet e PC) – l’accesso da parte delle polizie e dei governi ad informazioni riservate, dettagliate e sensibili può rivelarsi estremamente più pervasivo di quanto si possa immaginare. Il sistema spyware PARAGON ne è un esempio. Il servizio fornito, invece, da Cellebrite è di diverso tipo ed è quello di cui vorremo parlare qui. Decidiamo di scrivere questo testo – invitando a condividerlo ampiamente – perché riteniamo indispensabile fornire informazioni minime a nostra disposizione, che possano aiutare ad autotutelarsi dalla pervasività della sorveglianza da parte delle autorità. Stante l’abbassamento dei costi di tali servizi di spionaggio e l’intensificarsi delle relazioni con le aziende del settore, tentare di rompere il velo di mistero attorno a tali strumenti ci sembra tanto doveroso, quanto necessario. Ci sembra importante, innanzitutto, precisare che le persone a cui sono stati sequestrati e manomessi i telefoni vivono e si organizzano a Torino; qui, portano avanti un percorso di lotta contro la detenzione amministrativa (CPR) e penale e hanno preso parte alla mobilitazione contro 41bis ed ergastolo ostativo. Ciò rende lo sgradevole rapporto con la polizia e le sue indagini – quelle della DIGOS in particolare – abbastanza frequente. Lo precisiamo non per attestarci un qualche palcoscenico nello spettacolo della repressione, ma perché vogliamo evitare di creare allarmismi e paranoie orwelliane sul controllo totale. Non pensiamo, infatti, sia in atto un controllo di massa. Piuttosto che chi decide di portare avanti lotte o anche solo pratiche di dissenso possa finire tra le maglie di queste forme di spionaggio e necessiti, quindi, di informazioni utili per tutelarsi. I FATTI Il 20 Marzo 2024 – a seguito del blocco di un volo di linea della Royal Air Marocc, con il quale stava per essere deportata una persona di origine marocchina dall’aeroporto di Malpensa – 3 smartphone vengono sequestrati dalla polizia di frontiera prima che il fermo di 5 persone si trasformi in arresto per 4 di queste. Quel giorno, l’arrivo al Terminal 1 dell’aeroporto di Malpensa fu scandito dalla fretta e dall’urgenza politica ed umana di tentare di impedire la deportazione. La macchina accostò – a una delle porte di ingresso dell’aerea partenze – 5 minuti esatti prima dell’orario previsto del decollo del volo per Casablanca. La valutazione del rischio, fatta da chi si trovava in quella macchina, non prevedeva: né che fosse così “semplice” e “realistico” bucare i cosiddetti sistemi di sicurezza dell’aeroporto ed arrivare alla pista di decollo, né che le polizie europee usassero i prodotti di spionaggio dei telefoni ideati in Israele da Cellebrite. Nei pochi secondi a disposizione, nell’imprevedibilità della situazione e considerando il bisogno di comunicare con solidalx, compagnx e avvocatx, venne scelto di portare 3 dei 6 telefoni presenti in macchina. Oggi sappiamo che quei 3 telefoni, poi sequestrati dalla polizia, sono stati spiati e manomessi per mano delle forze dell’ordine o suoi collaboratori, con modalità totalmente silenziate, mai ufficialmente comunicate e senza alcuna convocazione del perito informatico della difesa. È difficile valutare se in quei pochi minuti, di corsa tra un macchina e un aereo, sarebbe stato possibile – o sensato – fare una scelta differente. Eppure, con questo breve testo invitiamo tuttx a tenere sempre a mente che esiste una zona grigia, alquanto sconosciuta, di utilizzo di tecnologie della sorveglianza da parte della controparte. I TELEFONI A tal proposito, e premesso che ci sono parecchi aspetti che non siamo ancora riusciti a chiarire, condividiamo invece quello sappiamo ad ora. I telefoni al centro di questa vicenda sono degli Android abbastanza comuni, tutti e tre protetti da PIN (o sequenza), abbastanza recenti, aggiornati e con cifratura abilitata. Al dissequestro, i PIN di due dei tre telefoni sono stati trovati scritti a penna su un adesivo posizionato sul retro: non un buon inizio. Uno degli strumenti che si utilizza in questi casi per dare un’occhiata ai dispositivi si chiama MVT (Mobile Verification Toolkit, https://mvt.re), che permette – riassumendo – di effettuare un’analisi forense consensuale, alla ricerca di indicatori di compromissione già noti. In questo caso non sono state subito trovate tracce note, ma MVT evidenzia anche eventuali altre stranezze come, nel nostro caso, la presenza di due file sospetti in un posto dove non avrebbero dovuto trovarsi. Verificando la data di creazione di questi file – risultata successiva alla data del sequestro – abbiamo potuto dare per certa la compromissione del dispositivo da parte delle forze di polizia. Questo ci ha stupito perché fino a non molto tempo fa veniva ritenuto abbastanza macchinoso, e soprattutto costoso, superare determinate pratiche di sicurezza. Dopo qualche ricerca – e a partire dai nomi dei file trovati ed i loro hash (identificativi univoci) – viene trovato e studiato un report pubblicato di recente da Amnesty International in cui compare lo stesso file (definito: falcon) su alcuni dispositivi sequestrati in Serbia. Questo studio ci fornisce la possibilità di attribuire a Cellebrite – e in particolare al loro servizio UFED / Inseyets – l’operazione di manomissione dei telefoni; inizialmente sequestrati dalla Polizia di Frontiera a Malpensa, poi passati alla Procura di Busto Arsizio, poi chissà ancora dove ed infine ritornati a Torino. Molti pezzi di questa singola storia sono ancora mancanti, sconosciuti e forse secretati. Ciò che ci preme chiarire è che per certo sappiamo che le Procure e le forze dell’ordine italiane hanno a disposizione le tecnologie di manomissione dei telefoni prodotte in Israele da Cellebrite. A tal proposito lasciamo un link per chi volesse approfondire: https://discuss.grapheneos.org/d/14344-cellebrite-premium-july-2024-documentation IL MODELLO ISRAELE E LE SUE PARTNERSHIP INTERNAZIONALI Israele è da sempre un partner strategico, pressoché indispensabile, per l’Occidente, soprattutto in ambito bellico e securitario. Quello che questa storia contribuisce a delineare sono le conseguenze di un business ormai esistente da decenni, basato proprio sullo sviluppo e l’esportazione di tecnologie securitarie e repressive. Un percorso che, da una parte, vede enormi investimenti israeliani alla fase di sviluppo tecnologico e, dall’altra, ingenti finanziamenti da Europa e USA per acquisire il primato e l’esclusiva sul prodotto terminato. Attraverso la sperimentazione sulla pelle del popolo palestinese, si ottiene la “miglior versione possibile”, soprattutto economicamente competitiva sul mercato. Da qui la riproposizione nel nostro contesto del “modello Israele”, autoritario, securitario e fondato sulla cultura del nemico interno ed esterno; un modello da importare non solo ai costi di mercato – sempre più accessibili – ma soprattutto al costo di una totale sottomissione e immobilismo delle cosiddette “democrazie occidentali” di fronte a 15 mesi di genocidio. Nella speranza che ognuno possa cogliere da questa vicenda ciò che ritiene utile ai fini di incrementare il proprio livello di sicurezza, proteggersi dall’occhio dello Stato e dei suoi scagnozzi, nonché immaginare con creatività le proprie strade di lotta: vorremmo chiedere che a questa informazione sia data ampia diffusione. PALESTINA LIBERA! TUTTE LIBERE! TUTTI LIBERI! > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
February 11, 2025 / Osservatorio Repressione
Da Triaca agli ex Br al 41-bis, il lungo flirt tra Italia e tortura
Le relazioni pericolose tra il “belpaese” e gli abusi e torture. Enrico Triaca, il tipografo della colonna romana delle Br denunciò di essere stato seviziato. Stessa sorte toccò ai sequestratori di Dozier. E poi c’è il carcere duro di Frank Cimini da l’Unità L’Italia come del resto altre democrazie ha un rapporto non molto chiaro (eufemismo) con la tortura. Infatti non esiste una legge che sanzioni la tortura come reato tipico del pubblico ufficiale soprattutto per l’opposizione storica dei sindacati di polizia che vorrebbero abrogare o comunque ridimensionare quel minimo di normativa attualmente in vigore. Su questo urge una riflessione da contestualizzare proprio nel momento in cui il torturatore libico ricercato dal Tribunale penale internazionale è stato liberato e riaccompagnato a casa. L’utilizzo della tortura caratterizzò gli anni in cui c’era da reprimere la sovversione interna. Al di là delle “belle parole” nel 1982 del presidente della Repubblica Sandro Pertini: “In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi”. Questa sera nel centro sociale Bruno a Trento viene proiettato il documentario dal titolo Il tipografo sulla vicenda di Enrico Triaca, militante della colonna romana delle Brigate Rosse arrestato a maggio del 1978. Venne torturato. Un agente dei Nocs Danilo Amore testimonia l’esistenza di quelle sevizie. All’epoca il tipografo denunciò di essere stato torturato e fu condannato per calunnia. A distanza a di circa 40 anni la condanna fu annullata dal Tribunale di Perugia. Era tutto vero. Ovviamente i reati commessi ai suoi danni nel frattempo prescritti. La stessa sorte era toccata ai sequestratori del generale Dozier ma a coprire il misfatto furono le parole dell’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni che se la cavò brillantemente dicendo: “Siamo in guerra”. Le carceri speciali furono luoghi in cui si annullava l’identità politica dei reclusi applicando l’articolo 90, l’antenato del 41bis del regolamento penitenziario che attualmente riguarda oltre 700 detenuti. In stragrande maggioranza sono mafiosi e il loro numero risulta superiore a quanti vi erano sottoposti ai tempi delle stragi. Nell’elenco ci sono anche Nadia Desdemona Lioce, Marco Mezzasalma e Roberto Morandi che fecero parte delle nuove Br, organizzazione che non esiste da oltre 20 anni. Nonostante ciò le istanze per la revoca del 41 bis vengono regolarmente rigettate a causa del rischio di collegamenti con un esterno che non c’è. E poi c’è Alfredo Cospito protagonista di un lunghissimo sciopero della fame (considerato di fatto a scopo di terrorismo) per protestare contro il carcere duro a tutela degli altri 700 più che di se stesso. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
February 7, 2025 / Osservatorio Repressione
La polizia, la destra, la sinistra
Nel nostro Paese, l’organizzazione delle forze di polizia è ancora lontana da una concezione democratica. Per ragioni storiche (che affondano le radici nella continuità dello Stato repubblicano con quello fascista) e per mancanza di controlli adeguati. Ma anche per le coperture della destra e le timidezze della sinistra, incapace di prendere le distanze e di criticare atteggiamenti e operazioni pur meritevoli di censura. di Giovanni Vighetti da Volere la Luna Nell’ultima puntata dell’interessante fiction della Rai La lunga notte. La caduta del duce c’è un dialogo significativo tra il gerarca Dino Grandi, autore della mozione che al Gran consiglio del fascismo del luglio 1943 portò alla sfiducia e caduta di Mussolini e al suo arresto, e il responsabile dell’Ovra, acronimo di Opera vigilanza repressione antifascismo, cioè la polizia politica fascista. Se il fascista Grandi si rende conto dell’imminente crollo del regime il responsabile dell’Ovra ribatte: «L’aria non cambierà mai. Noi siamo lo Stato e lo saremo sempre. Anche senza Mussolini». In questo passaggio c’è ben poca fiction e molta realtà. In effetti il capo dell’Ovra Guido Leto, che diresse la feroce polizia politica durante la dittatura fascista, è uno degli infiniti esempi della mancata epurazione della presenza fascista nelle istituzioni perché, dopo un breve periodo di detenzione, fu incaricato da Umberto Federico D’Amato di riorganizzare le strutture dei Servizi segreti. Anche il curriculum di Umberto Federico d’Amato, che da dirigente dell’Ufficio politico della Questura di Roma divenne poi responsabile dell’Ufficio Affari Riservati, nido nero negli anni della strategia della tensione, è un’altra cartina tornasole del fallimento del mancato rinnovamento democratico delle forze di polizia: nell’anno 2000 la Procura Generale di Bologna lo ha indicato tra i mandanti, insieme a Licio Gelli il capo della Loggia Massonica eversiva P2, della strage della Stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Con l’errore dell’amnistia di Togliatti del 22 giugno 1946, atto con cui si rinunciò a perseguire e punire i crimini fascisti, al punto che anche un violento squadrista come Piero Brandimarte, responsabile della strage del 18-20 dicembre 1922 a Torino in cui 11 esponenti della sinistra furono assassinati e molti altri massacrati di botte, venne incredibilmente assolto … anche perché la maggioranza dei giudici, in particolare quelli della Corte di Cassazione, era rimasta legata a doppio filo nero con l’ideologia fascista e il “pugno di ferro” lo utilizzò nei confronti delle azioni dei partigiani. Con questo passato prossimo della dittatura fascista non abbiamo mai fatto fino in fondo i conti, e questa storica mancanza ha generato la nebbia che ha sempre facilitato e coperto le trame nere che, in tempi più recenti, ha spesso messo in pericolo la democrazia nel nostro Paese, a iniziare dai tentativi di colpo di Stato, tra cui il più grave quello del dicembre 1970 guidato da Junio Valerio Borghese, e dalle numerose stragi fasciste che hanno sempre visto la partecipazione dei Servizi segreti, di volta in volta “assolti” con la formula “trattasi di una minoranza di servizi deviati”. Certamente i servizi segreti deviati esistono, ma costituiscono solo la minoranza fedele alla Costituzione. Da questo preambolo, storicamente documentato, consegue che l’organizzazione delle forze di polizia è ancora lontana da una visione pienamente democratica, perché le leve di comando, con rare eccezioni, sono rimaste avvolte dal filo nero di responsabili già compromessi con il fascismo e non epurati, i quali a loro volta hanno selezionato i propri eredi per garantire la continuità della visione conservatrice e reazionaria. Non si può diversamente spiegare il radicamento all’interno delle forze di polizia e dell’esercito della P2 o dell’organizzazione paramilitare Gladio. L’impunità sempre garantita dai vertici degli apparati, anche in occasione della “macelleria messicana” del G8 a Genova nel 2001, la rinuncia a introdurre elementi di chiarezza e controllo sui comportamenti, anche individuali, dei poliziotti con il numero di codice da apporre sul casco, sono altri elementi che non aiutano ad avere fiducia in una Polizia, più impegnata a reprimere le contestazioni sociali che non la criminalità, e la cui “fotografia” nell’immaginario collettivo è sempre più quella del manganello che colpisce la testa dei manifestanti. In questo quadro si inserisce la classe politica, a trazione neofascista, di questo Governo autoritario indirettamente aiutato nella “presa del potere” da chi, in questa fase storica che richiede la massima unità anche sul terreno elettorale, continua a scegliere l’astensionismo. E il Governo Meloni, con il decreto sicurezza, sta percorrendo, a grandi passi, la strada dell’involuzione antidemocratica con l’inasprimento delle pene (dai sei mesi ai due anni) per chi manifesta con blocchi stradali o ferroviari, forme di lotta che rientrano nella legittima tradizione delle lotte operaie e sociali, che vengono quindi punite come illecito penale e non più amministrativo. Inoltre, con la proposta di una sorta di scudo penale, rafforza l’autoritarismo e le garanzie di impunità alle forze dell’ordine, a cui viene delegato il contenimento e la repressione del dissenso, sempre più criminalizzato anche dai media filogovernativi, che invece è il sale della dialettica democratica quando il Potere si rifiuta di ascoltare o accettare o mediare rispetto alle ragioni dell’opposizione sociale. Ancor più grave, in un Paese in cui i Servizi segreti sono sempre stati coinvolti nelle trame nere e nelle stragi neofasciste, l’intento di potenziarne le attività sotto copertura, consentendo agli agenti non solo di partecipare alle organizzazioni terroristiche-eversive ma anche di dirigerle e guidarle, arruolando nuovi membri, e obbligando le Università a collaborare con i Servizi in deroga alle norme sulla riservatezza, il che porterebbe a un controllo sulla libera espressione garantita dalla Costituzione. Quanto alle forze dell’opposizione, per lo più silenziose e timorose anche sull’incredibile episodio del  corteo di poliziotti carabinieri e finanzieri che il 24 novembre 2024 hanno manifestato a Torino di fronte al Comune contro ogni forma di dissenso sociale e chiedendo la chiusura del centro sociale Askatasuna, risultano sensibilmente slegate dalla realtà del Paese, e nei momenti di tensione cercano sempre di cavarsela in calcio d’angolo con la formula “esprimiamo la nostra solidarietà alle forze dell’ordine”. Frase di rito retorica e utilizzata a prescindere, senza nemmeno approfondire o conoscere i motivi delle proteste per pigrizia o mancanza di coraggio intellettuale e con molta cecità politica, perché questa linea allontana i cittadini che rivendicano la piena e attiva partecipazione sociale, mentre le forze dell’ordine storicamente sono e restano, se non si introducono elementi di controllo rispetto all’uso della forza quando questa è illegittima o sfocia nella violenza, un granitico bacino elettorale del centrodestra. Illuminante su questi continui “calci d’angolo”, fini a se stessi e alla propria pallida visibilità, è la dichiarazione riportata sul Corriere della Sera di due senatrici renziane di Italia Viva, partito che tra governo e opposizione sta un po’ di qua e un po’ di là ma mai dalla parte dei lavoratori o dei cittadini, in occasione del recente e violento intervento per l’esproprio del terreno di proprietà di valsusini No Tav alle porte di Susa (un esproprio compiuto manu militari senza aspettare quello amministrativo, e quindi senza rispettare le regole, talmente urgente che oggi il terreno è solo una discarica di jersey di cemento, griglie e filo spinato utilizzati per blindare lo sgombero). «Basta violenze in val di Susa — hanno commentato le senatrici di Italia Viva Silvia Fregolent e Raffaella Paita –. I lavori dell’Alta velocità Torino-Lione devono andare avanti, la battaglia di gruppuscoli no Tav e centri sociali è inutile e anacronistica. Le infrastrutture sono fondamentali per lo sviluppo del paese e dell’Europa, e servono anche a tutelare quell’ambiente a cui i no tav tutti dicono di tenere. Solidarietà alle forze dell’ordine, costrette ad avere a che fare con questi facinorosi». Evidentemente, come la maggioranza dei deputati che siedono in Parlamento, non sanno nemmeno che la Francia ha rinviato a dopo il 2040 ogni decisione se costruire o meno una linea ad alta velocità per collegare Torino a Lyon e che quindi il tunnel sotto il Moncenisio è fine a se stesso, e servirà solo per una risibile e demenziale linea ad alta velocità tra Susa e Saint Jean de Maurienne. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
February 7, 2025 / Osservatorio Repressione
Lo spyware usato solo dai governi. Il bluff di palazzo Chigi
C’è voluta Whatsapp per avvertire giornalisti e attivisti italiani che i loro cellulari sono spiati da un potente software. E la società israeliana che lo produce ha rotto il contratto con l’Italia perché lo ha usato contro le regole. Ma il governo non risponde e nei servizi regna il caos di Giansandro Merli da il manifesto La Paragon Solutions ha interrotto i rapporti con i suoi clienti italiani. È la società madre dello spyware Graphite usato per intercettare i cellulari di almeno 90 persone, tra cui sette utenze con il prefisso internazionale +39. Tra loro il direttore di Fanpage Francesco Cancellato, il capomissione di Mediterranea Luca Casarini, altri due attivisti della ong. Tra le identità rese pubbliche finora c’è anche quella del giornalista libico, esule in Svezia, Husam El Gomati. LA DECISIONE di «terminare il contratto con l’Italia» è stata rivelata ieri mattina da uno scoop del Guardian. Solo poche ore prima palazzo Chigi aveva fatto circolare una nota in cui negava che «l’intelligence e quindi il governo» avevano messo sotto controllo dei giornalisti. Il problema di questa versione è che Paragon presta i suoi servizi soltanto a entità statali o meglio: «A un gruppo selezionato di democrazie globali, principalmente agli Stati uniti e ai suoi alleati», ha dichiarato il presidente esecutivo della società John Fleming. E infatti il quotidiano israeliano Haaretz scrive che i clienti italiani di Paragon sono «due diversi corpi, un’agenzia di polizia e un’organizzazione di intelligence». Già alla fine della scorsa settimana, quando lo scandalo è venuto fuori, ai due acquirenti erano state chieste maggiori informazioni sull’uso dello spyware. La decisione di disconnetterli da Graphite è arrivata, secondo fonti di Haaretz, proprio dopo la nota della presidenza del Consiglio che ha anche elencato altri 13 paesi Ue coinvolti. Rivelando ulteriori clienti della società sulla base delle informazioni acquisite dall’Agenzia per la cybersicurezza nazionale, attivata su richiesta del sottosegretario di Stato Alfredo Mantovano. Il governo italiano rifiuta di fornire nuove informazioni sul caso, sostenendo che lo farà soltanto in sede Copasir mentre le opposizioni chiedono che riferisca in parlamento. Neanche Paragon ha dichiarato ufficialmente perché ha bloccato la collaborazione. La spiegazione più accreditata è che per la società il governo ha mentito. Nelle condizioni della licenza è prevista la possibilità di «terminare l’accordo con l’utente» in caso di abusi o violazioni. TRA I FONDATORI DI PARAGON ci sono l’ex premier di Tel Aviv Ehud Barak, che non ha voluto commentare la vicenda, e alti ufficiali dell’Unità 8200, componente dell’esercito dello Stato ebraico specializzata in spionaggio e cyberattacchi. Sul sito della società, una pagina senza link, la dicitura estesa è Paragon Solutions Us. Alla fine dello scorso anno è stata acquistata, ma non è chiaro se in parte o in toto, da una società di private equity statunitense. Mossa utile a garantirsi il mercato a stelle e strisce, dopo aver superato una revisione del contratto di vendita ordinata dalla Casa Bianca di Joe Biden per ragioni di sicurezza nazionale. Questione in ballo anche sul versante italiano, dove già in passato sono emersi problemi sull’appalto a società israeliane dei sistemi di controllo digitale. La vicenda di questi giorni, però, apre interrogativi di altra natura. Se fosse vero che il governo non ha dato indicazione di spiare dei giornalisti significherebbe che la decisione di intercettare Cancellato è stata presa in sede parallela, da apparati su cui l’esecutivo non ha il controllo. La nota di palazzo Chigi, poi, nulla dice sugli attivisti coinvolti. Chi ha ordinato di controllare i loro telefoni? Teoricamente non si possono escludere inchieste da parte della magistratura. Una fonte ben informata, però, chiarisce al manifesto che in questi casi le procure non appaltano lo spionaggio a società straniere. Hanno i loro strumenti. Per esempio quelli classici usati contro Mediterranea nel caso Maersk: registrazioni delle telefonate e poi sequestro dei telefoni per accedere alle chat. «USARE GRAPHITE per delle indagini sarebbe come servirsi di un bazooka per colpire un pesciolino», afferma la fonte. Il sistema utilizzato dallo spyware è estremamente complesso. Sono in corso approfondimenti tecnici di varia natura, ma è certo che il software può registrare tutte le operazioni svolte dal dispositivo infiltrato e anche accedere ai cloud di riferimento per reperire informazioni che non sono presenti fisicamente sul dispositivo. Per l’inoculazione sarebbe stata usata una chat Whatsapp a cui gli utenti, ignari, sono stati aggiunti. Attraverso l’invio di un pdf è possibile avviare il controllo senza che quello sia neanche aperto o scaricato. La tecnologia usata è in grado di nascondere tutte queste operazioni. Infatti la vicenda è venuta fuori solo perché Meta, proprietaria dell’app di messaggistica, ha contattato le persone spiate. «Probabilmente dopo lo scandalo Pegasus, spyware usato contro 1.400 utilizzatori di Whatsapp, la società ha implementato un meccanismo di controllo e verifica per evitare l’uso del suo software da parte di soggetti terzi. Soprattutto per bloccare truffe vere e proprie. In questa rete potrebbe essere finto Graphite», spiega l’informatico forense Paolo Reale. «ALCUNI STATI UE sono clienti di queste tecnologie invasive e lesive dei diritti, di cui si abusa impunemente, e non ci sono azioni da parte delle autorità per ritenere responsabili le aziende che le producono. Manca la volontà politica di intervenire da parte delle istituzioni», dice Rand Hammoud, responsabile delle campagne sulla sorveglianza di Acces Now. «Se metti la tecnologia segreta di hacking nelle mani di un governo che pensa di non essere scoperto, gli abusi non sono questione di se ma di quando. Anche in una democrazia. Finora è uscita solo la punta dell’iceberg», afferma John Scott Railton, esperto del centro di ricerca The Citizen Lab che sta conducendo un’analisi indipendente sui cellulari spiati. Spiati i cellulari di giornalisti e attivisti. C’è anche Luca Casarini Ci sono anche i cellulari di Luca Casarini e altri due attivisti di Mediterranea tra quelli colpiti da un pericoloso spyware segnalato da Meta, proprietaria di Whatsapp. In totale sarebbero una novantina le persone coinvolte, secondo quanto riferito da un funzionario della società alla Reuters. Fino a ieri erano trapelati i nomi del direttore di Fanpage Francesco Cancellato e del giornalista libico, esule in Svezia, Husam El Gomati. «Ti consigliamo di cambiare dispositivo, in quanto anche un ripristino alle impostazioni di fabbrica potrebbe non essere in grado di rimuovere lo spyware», è la comunicazione ufficiale comparsa la settimana scorsa sui display dei loro dispositivi. Il software usato si chiama Graphite, è stato creato a scopi militari dalla società Paragon, con sede in Israele. È uno strumento capace di registrare l’intera attività dei cellulari, comprese le chat criptate. «Credo che il contesto di questo spionaggio sia la Libia, il soccorso in mare, la costruzione di reti di supporto ai rifugiati che fuggono dai lager», afferma Casarini. A sostenere questa tesi le attività di El Gomati: il giornalista diffonde documenti sulla corruzione nel paese nordafricano, sui protagonisti del traffico di esseri umani e sui rapporti tra le milizie di Tripoli e Zawia e l’intelligence italiana. Attività poco gradite ai servizi di Roma, soprattutto in questi giorni di tensioni per il caso Elmasry. Cancellato, però, si occupa di altri temi. La sua testata ha realizzato lo scorso anno importanti inchieste sui rapporti tra FdI ed estremisti di destra. «Perché sono stato coinvolto?», si era chiesto il giornalista. Lunedì il sito specializzato Tech Crunch ha riportato una dichiarazione del presidente esecutivo di Paragon John Fleming: la nostra società «concede in licenza la sua tecnologia a un gruppo selezionato di democrazie globali, principalmente agli Stati Uniti e ai suoi alleati». Senza però specificare quali. Ha anche sottolineato che termini e condizioni del contratto proibiscono di spiare giornalisti e altri attori della società civile. «Il governo italiano ha autorizzato una simile operazione? I servizi segreti italiani si avvalgono del software di Paragon?», chiede Mediterranea in una nota. Domande analoghe a quelle contenute in un’interrogazione parlamentare rivolta alla premier Giorgia Meloni e firmata dai dem Federico Fornaro e Lia Quartapelle. «Siamo di fronte a una vicenda gravissima e inquietante su cui il governo deve chiarire», attaccano Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, di Avs. In serata è arrivata una prima risposta da Palazzo Chigi: escludiamo che dei giornalisti «siano stati sottoposti a controllo da parte dell’intelligence e quindi del governo». Nessun cenno, invece, agli attivisti. Le utenze italiane colpite dallo spyware sono sette in totale: all’appello ne mancano quindi altre quattro. La cifra arriva da un’interlocuzione tra l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale, attivata dall’esecutivo, e la sezione irlandese di Meta, che opera nel mercato europeo. Nel Vecchio continente risultano numeri coinvolti anche in: Belgio, Grecia, Lettonia, Lituania, Austria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Svezia. Quanto venuto fuori finora potrebbe essere solo la punta dell’iceberg. Maggiori informazioni sono attese dalle analisi che stanno conducendo su alcuni dei dispositivi gli esperti di The Citizen Lab, un centro di ricerca interdisciplinare basato nell’università di Toronto che collabora con Meta. La stessa società ha consigliato agli intercettati, «se sei un giornalista o un membro della società civile», di contattare quei ricercatori. «Ho fornito il mio telefono per condurre un’indagine civile. Ci aspettiamo che attraverso questo esame informatico sia possibile comprendere le caratteristiche dell’incursione che abbiamo subito, tracciando le attività dello spyware per capire quando ha iniziato a funzionare e su cosa si è concentrato», afferma Casarini. Per adesso si sa solo che era al lavoro già lo scorso dicembre. Nei prossimi giorni arriveranno nuovi dettagli. Intanto Casarini ha annunciato un esposto ai pm per «scoprire i mandanti». Lunedì terrà con Cancellato una conferenza al parlamento Ue: si attendono nuovi dettagli. > Un software di spionaggio israeliano sorveglia giornalisti e attivisti nel > mondo > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
February 7, 2025 / Osservatorio Repressione