Dopo Ramy: violenza, ordine pubblico, ipocrisiaIn alcune manifestazioni di protesta per la morte di Ramy Elgaml ci sono stati
scontri tra dimostranti e forze di polizia. Come, in casi analoghi, a Los
Angeles, a Lione o a Londra. Ma la maggior parte della politica ha preferito
ignorare le ragioni della protesta e invocare repressione per i manifestanti e
impunità per la polizia. Ancora una volta, meglio raccattare qualche voto in più
che affrontare i problemi…
di Livio Pepino da Volere la Luna
Il 24 novembre Ramy Elgaml, 19 anni, egiziano, da tempo residente in Italia,
muore a Milano, sbalzato dal sellino posteriore della moto guidata da un
coetaneo, nello schianto della stessa all’esito di un inseguimento per le vie
cittadine, protrattosi per otto chilometri, da parte di due auto dei
carabinieri. La dinamica dello schianto (stando ai filmati diffusi sui media e
acquisiti dalla Procura di Milano) rende verosimile lo speronamento della moto
da parte di una delle auto inseguitrici e la responsabilità (quantomeno) del
carabiniere che la guidava. Nei giorni successivi Ramy diventa un simbolo e,
prima a Milano e poi nel resto del Paese, si susseguono manifestazioni di
protesta, spontanee e auto organizzate, per quella morte assurda. In alcune di
esse – a Torino, a Bologna, a Roma – si verificano “disordini” e scontri tra i
dimostranti e le forze di polizia. Il copione è sempre lo stesso. Gli striscioni
e gli slogan gridano all’omicidio di polizia. Le forze dell’ordine cercano di
impedire l’accesso a zone centrali o l’avvicinamento a edifici pubblici
sensibili (caserme, commissariati, ambasciate…). Dal corteo partono lanci di
lattine e bottiglie. La polizia carica. Mentre il corteo si disperde, alcuni
dimostranti lanciano petardi o bombe carta rudimentali. La cosa si ripete due o
tre volte fino a che la manifestazione si scioglie lasciando sul campo segnali
stradali divelti, cassonetti rovesciati e qualche escoriazione ad agenti di
polizia e a dimostranti.
I quotidiani e i telegiornali del giorno dopo sono pieni di articoli sparati con
grande evidenza in cui si evocano scene di guerriglia e città messe a ferro e
fuoco. Parallelamente la maggior parte della politica – di destra, ma non solo –
si straccia le vesti, parla di delinquenti e teppisti che devastano le città,
stigmatizza la “inaccettabile violenza” e solidarizza con le forze di polizia
“senza se e senza ma”. Chi si stacca dal coro – soprattutto a sinistra – lo fa,
per lo più, con imbarazzo e con mille distinguo. Tutto già visto e già detto,
anche quanto alla superficialità e alla strumentalità delle analisi e delle
dichiarazioni. Consumato l’ossequio al rito della (doverosa) critica della
violenza – che si vorrebbe, peraltro, senza distinzioni: cioè da qualunque parte
esercitata – è, finalmente, tempo di riprendere a ragionare, partendo da alcuni
punti fermi.
Primo. Le manifestazioni che attraversano il mondo (contro la guerra, contro il
razzismo, contro le ingiustizie, contro l’autoritarismo, per il lavoro e via
elencando) portano con sé, talora, violenze e scontri con le forze dell’ordine.
Accade da sempre. Basta aver letto qualche classico. Uno per tutti: «“Pane!
pane! aprite! Aprite!” […] “Giudizio, figliuoli! badate bene! siete ancora a
tempo. Via, andate, tornate a casa. Pane, ne avrete; ma non è questa la maniera.
Eh!… eh! Che fate laggiù! Eh! a quella porta! Oibò oibò! Vedo, vedo: giudizio!
badate bene! è un delitto grosso. Or ora vengo io. Eh! eh! smettete con que’
ferri; giù quelle mani. Vergogna. Voi altri milanesi, che, per la bontà, siete
nominati in tutto il mondo! Sentite, sentite: siete sempre stati buoni fi… Ah
canaglia!”. Questa rapida mutazione di stile fu cagionata da una pietra che,
uscita dalle mani d’uno di que’ buoni figliuoli, venne a batter nella fronte del
capitano, sulla protuberanza sinistra della profondità metafisica. “Canaglia!
canaglia!” continuava a gridare, chiudendo presto presto la finestra, e
ritirandosi. […] Più d’uno fu conciato male; due ragazzi vi rimasero morti. Il
furore accrebbe le forze della moltitudine: la porta fu sfondata, l’inferriate,
svelte; e il torrente penetrò per tutti i varchi» (Alessandro Manzoni, I
promessi sposi, 1840-1841, cap. XII). È così da sempre: per scelte o per
dinamiche incontrollate. Non si tratta di giustificare o minimizzare, ma di
guardare in faccia la realtà per quel che è e non per quel che si vorrebbe
secondo i propri gusti e le proprie inclinazioni. Personalmente – lo dico per
inciso – non ho mai ceduto alla fascinazione della violenza: perché le dure
lezioni della storia hanno dimostrato che raramente essa è levatrice di
democrazia e di libertà e, al contrario, la sua pratica alimenta assai spesso
prevaricazioni e ulteriore violenza. Ma prendere atto della realtà non è un
lusso intellettualistico, bensì il presupposto per affrontarla in modo non
velleitario. Lo aveva capito persino il legislatore fascista che, proprio in
considerazione delle dinamiche proprie dei grandi assembramenti, aveva inserito
nel codice penale la disposizione dell’art. 62 n. 3, dedicata alla circostanza
di «aver agito per suggestione di una folla in tumulto» (fonte, in caso di
condanna, di una riduzione di pena).
Secondo. Le cose non cambiano se, dalla storia e dalla sociologia, si passa alla
geografia e alla geopolitica. Proteste e scontri sono simili, se non identici,
in ogni parte del mondo. Ad essere diverse sono, a ben guardare, solo le
reazioni che le accompagnano. Se i fatti avvengono in paesi geograficamente e
politicamente lontani (per esempio in Georgia, a Caracas o a Hong Kong), i
manifestanti sono comunque – e spesso a ragione, beninteso – considerati
avanguardie di libertà e di progresso mentre le forze dell’ordine sono descritte
come strumenti del potere dediti a una repressione brutale e ingiustificata. Se,
invece, quegli stessi fatti avvengono a casa nostra, gli scontri sono
enfatizzati come episodi di guerriglia anche in assenza di danni alle persone, i
dimostranti vengono definiti teppisti e delinquenti tout court, la polizia è
considerata sempre vittima di aggressioni ingiustificate (a prescindere dalle
modalità del suo intervento). Tutto questo in ogni caso, indipendentemente dalle
ragioni delle proteste, che restano sullo sfondo come particolare irrilevante o,
comunque, di secondaria importanza. L’irrazionalità dell’approccio ne rivela la
strumentalità e suggerisce di cambiare registro, almeno se la finalità
dell’analisi è quella di individuare politiche adeguate e non di raccattare
qualche voto in più parlando alla pancia di masse disinformate.
Terzo. Veniamo, a questo punto, ai fatti dei giorni scorsi, che, pur nel quadro
generale delle manifestazioni di piazza, hanno una loro innegabile specificità.
Lo si vede anche dall’esperienza comparata. Quel che è successo a Torino, a Roma
o a Bologna accade da trent’anni costantemente, e con ben maggiore violenza, a
Lione, a Los Angeles o a Londra all’indomani della morte o del ferimento per
mano di operatori di polizia di un nero, di un migrante o di un ragazzo delle
banlieues. Tutti scalmanati delinquenti quelli che, in situazioni del genere,
scendono nelle strade, ovunque nel mondo, con slogan di dura contestazione? E
tutti buonisti irresponsabili quelli che invitano a cogliere i segnali che
vengono dalla piazza? O c’è qualche lezione che si può trarre da queste
esperienze? Un fatto è evidente. Alla base delle tensioni che caratterizzano le
manifestazioni conseguenti a violenze istituzionali o di polizia nei confronti
di migranti e marginali ci sono sacrosante rivendicazioni di uguaglianza e di
giustizia e c’è una rabbia sociale che cova – e poi esplode – in città
trasformate in polveriere da degrado delle periferie, violenze istituzionali,
mancanza di ascolto. Senza contare che le spinte alla violenza sono acuite dal
contesto: le immagini inaudite delle guerre in corso che accompagnano, irradiate
dai telegiornali, i nostri pasti quotidiani non sono certo un incentivo alla
convivenza e alla pace sociale. È la realtà, non un sociologismo di comodo o un
giustificazionismo acritico. Ed è grottesco ridurre tutto alla regia di questo o
di quel centro sociale o sottolineare che tra i manifestanti ci sono, a fianco
di migranti e marginali, giovani di diversa estrazione sociale (quasi che ciò
escludesse personali valutazioni e rielaborazioni della propria stessa
condizione). Negare ed esorcizzare questa realtà produce solo un circolo vizioso
di ulteriore esasperazione e violenza.
Quarto. Tutto vero, dicono alcuni (i più illuminati…), ma non ci si può fermare
alle analisi e arrendersi, poi, ai fatti senza reagire. Giusto, a condizione,
però, di mettere in campo politiche razionali ed appropriate e non risposte
purchessia (o, peggio, interventi che hanno il solo effetto di inasprire e
peggiorare le cose). Che fare, dunque? Non ci sono bacchette magiche ma, senza
aspettative salvifiche (che richiederebbero cambiamenti sociali profondi che non
sono all’ordine del giorno), qualcosa di utile e produttivo si può e si deve
fare: a) anzitutto vanno evitati gli atteggiamenti isterici e strumentali che,
amplificando i fatti (anche quelli più modesti), alimentano, da un lato,
pregiudizi e insicurezza e, dall’altro, risentimento e diffidenza; b) in secondo
luogo bisogna intervenire con decisione, sanzionando tempestivamente gli abusi,
sui comportamenti razzisti, discriminatori e violenti delle forze di polizia
(che, con buona pace di chi non vuol vedere, esistono, in misura più o meno
grande:
https://volerelaluna.it/materiali/2024/10/24/rapporto-sul-razzismo-e-lintolleranza-in-italia/);
c) in terzo luogo occorrono politiche di ordine pubblico lungimiranti, con una
gestione concordata delle piazze in luogo di contrapposizioni muscolari e di
repressione esemplare (magari colpendo nel mucchio): anche perché decenni di
esperienza comparata hanno dimostrato che, con riferimento a questo tipo di
manifestazioni, la cosiddetta “tolleranza zero” ha prodotto, qualche volta, una
normalizzazione contingente ma mai risultati duraturi e si è spesso trasformata
in boomerang; d) infine ci vogliono, nelle città, politiche inclusive,
confronto, dialogo, ascolto. Certo, ciò richiede tempo: anni, e non pochi. Ma se
non si comincia mai ce ne vuole molto di più. E, poi, non partiamo da zero. Ci
sono, in giro per il mondo, e anche nel nostro Paese, esperienze virtuose da
riprendere. Ne cito una: quella di Torino degli anni ‘80 del secolo scorso,
all’insegna dello slogan “educare la città”, che ha prodotto risultati positivi
universalmente riconosciuti
(https://volerelaluna.it/controcanto/2023/09/14/per-contenere-il-disagio-educare-la-citta-unesperienza/):
in termini di sicurezza diffusa, di gestione dei conflitti e, insieme, di
riduzione della repressione (ricordo, come magistrato di sorveglianza
dell’epoca, il carcere minorile vuoto). Poi le cose sono cambiate: non nei
giovani e nella protesta, ma nella politica e nelle sue parole d’ordine… E oggi
siamo a questo punto.
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