In piena orgia di retorica securitaria il parlamento con l’approvazione del
decreto “milleproroghe” ha dato il via per la dotazione del taser alla polizia
locale di tutti i comuni Italiani
Nel decreto “Milleproroghe, approvato in via definitiva dalla Camera dei
Deputati è previsto che tutti i Comuni – non solo i capoluoghi di provincia o
quelli con più di 20mila abitanti – potranno dotare la Polizia Municipale della
letale pistole elettronica “taser”. La misura sarà sperimentale fino alla fine
dell’anno.
L’ampliamento dell’uso del taser ha seguito una traiettoria progressiva negli
ultimi anni. Introdotto nel 2018 con i decreti Sicurezza dal Governo Conte I, su
proposta dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, il dispositivo era
inizialmente riservato alle sole Città metropolitane e ai Comuni con più di
100mila abitanti. Successivamente, con il decreto legge PA dello scorso anno, un
emendamento sostenuto da Lega e Fratelli d’Italia aveva abbassato la soglia,
consentendone l’utilizzo anche nei centri con oltre 20mila abitanti. Ora, la
misura viene estesa a tutti i Comuni, eliminando di fatto ogni limitazione
demografica.
COME FUNZIONA IL TASER. Si presenta più o meno come una pistola. Quando si preme
il grilletto invece dei proiettili vengono sparati due piccoli dardi di metallo
collegati entrambi a un filo. Una volta che i due punteruoli, che restano sempre
collegati al filo, toccano l’obiettivo, una scossa di corrente passa da una
puntale di metallo all’altro creando un’immediata paralisi dei muscoli. Non è
necessario che i due dardi si infilino sotto la pelle, è sufficiente che
tocchino i vestiti. Come altre armi il taser prende il nome dal suo inventore,
infatti è l’acronimo di Thomas A. Swift’s electronic rifle, il fucile eletrico
di Thomas A. Swift.
GLI EFFETTI SUL CORPO. Nel settembre 2015 un collettivo di Youtuber ha mostrato
gli effetti di questa arma. Gli Slow Mo Guys hanno registrato in slow motion il
momento esatto in cui i dardi colpiscono la vittima. A fare da cavia umana per
la causa è stato Dan Hafen, responsabile delle vendite di un’azienda che produce
telecamere. Il video ha superato i 25 milioni di visualizzazioni. La fama val
bene una scossa.
In Italia i taser non si possono acquistare liberamente. Può comprarli solo chi
possiede un porto d’armi ma alcune armerie vendono versioni depotenziate. Nel
2007 una commissione dell’Onu si è espressa molto duramente sull’uso di
quest’arma: «Costituisce una forma di tortura, che in certi casi può condurre
alla morte com’è dimostrato da numerosi studi e da episodi accaduti in seguito
all’uso pratico di questi strumenti».
I RISCHI SECONDO AMNESTY. ll rischio infatti è che la polizia li usi con più
disinvoltura rispetto alle armi da fuoco. Sulla stessa linea anche Amnesty
International, come dichiarato dal suo portavoce Riccardo Noury in un’intervista
a Radio Popolare: «Ci sono tantissimi casi in cui vengono usati al termine di un
inseguimento e dunque quando la persona che viene colpita è in condizioni di
stress. Il problema è che non sai chi hai di fronte. Quando non sai chi hai di
fronte e usi un’arma come quella rischi di fare un danno molto elevato».
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Tag - misure repressive
Il Governo e la sua maggioranza accusano i magistrati di politicizzazione e
proclamano la necessità di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri.
In realtà la separazione è già in atto e, con il termine politicizzazione, si
indica, a ben guardare, l’indipendenza dei magistrati, mal tollerata dal potere.
Il fatto più inquietante è che i discorsi sono molto simili a quelli di
cent’anni fa. Mancano solo le camicie nere.
di Livio Pepino da Volere la Luna
I film Luce del Ventennio e dei primi anni Cinquanta – la voce del padrone
mascherata da attualità politica in onda al cinema tra uno spettacolo e l’altro
– erano un gioco da bambini. Oggi i video della presidente del Consiglio,
trasmessi sostanzialmente a reti unificate, inondano i nostri pasti quotidiani
di fake news, evocando complotti inenarrabili, affrontati – naturalmente – con
schiena dritta in virile scontro con nemici da colpire inesorabilmente. Tra i
nemici prediletti ci sono da tempo, in perfetta continuità con la stagione
berlusconiana, i magistrati.
Lungi da me l’idea di una difesa acritica di questi ultimi, magari dettata da
un’antica appartenenza alla corporazione (in verità cessata ormai da 15 anni).
Al contrario sono assai critico nei confronti di molti orientamenti di una
magistratura spesso forte solo con i deboli (i barbari, i marginali, i ribelli)
e trovo stucchevoli, oltre che sbagliate, le affermazioni – in voga sino a
qualche anno fa – tese a rivendicare una superiorità morale dei magistrati
rispetto ai politici. Mi asterrei, dunque, dall’entrare in questa “singolar
tenzone” se non fosse che, in essa, il conflitto tra magistratura e politica è,
nonostante le apparenze, del tutto secondario. Ma quali sono, allora, le
questioni sul tappeto? Conviene esaminarle a partire dalle affermazioni e dai
progetti della maggioranza politica.
Il fulcro di tutto è il disegno di legge costituzionale approvato dalla Camera
lo sorso gennaio dedicato, a detta dei proponenti, alla separazione delle
carriere di giudici e pubblici ministeri, cioè alla diversificazione dei
percorsi professionali della magistratura giudicante e di quella requirente.
Nulla da obiettare – almeno per me – su tale diversificazione, tesa ad evitare
commistioni improprie e conseguenti lesioni dei diritti dell’imputato e, dunque,
del tutto condivisibile e, almeno sul piano teorico, più corretta del modello
organizzativo unitario. Ma – cosa non da poco – non è quello il contenuto del
disegno di legge, nel quale nulla si dice sul collegamento tra giudici e
pubblici ministeri. Né potrebbe essere altrimenti considerato che i due percorsi
professionali sono già oggi nettamente separati, tanto che l’interscambio
(possibile una sola volta nel corso della carriera, entro nove anni dalla prima
assegnazione delle funzioni e con cambio di sede) è poco più di un caso di
scuola che interessa, ogni anno, un’aliquota di magistrati inferiore all’uno per
cento
(https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/rossi-separare-le-carriere-di-giudici-e-pubblici-ministeri-o-riscrivere-i-rapporti-tra-poteri).
A ben guardare, dunque, l’espressione “separazione delle carriere” si inserisce
a pieno titolo nel vocabolario delle parole distorte usato dai regimi per
rendere accettabile ciò che tale non è e la riforma costituzionale (che riguarda
l’istituzione di due Consigli superiori, il sorteggio dei loro componenti
magistrati e una inedita Corte di disciplina per i magistrati) rivela il suo
ruolo di strumento per «creare un magistrato burocrate, di nuovo inserito in una
gerarchia, intimorito dalla politica e dai superiori»
(https://volerelaluna.it/commenti/2025/01/20/riformare-la-giustizia-o-scardinare-la-democrazia/)
con una «regressione corporativa destinata a contraddire tutta la storia recente
della magistratura, dalla seconda metà degli anni Sessanta sino ad oggi»
(https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/10/03/separazione-delle-carriere-una-vecchia-etichetta-per-una-nuova-merce/).
Non è un’illazione ma un fatto, risultante dalle stesse affermazioni dei suoi
sostenitori, che invocano la riforma per evitare il ripetersi di alcuni casi
definiti “scandalosi”, come le mancate convalide, da parte di tribunali e corti
d’appello, dei trattenimenti di richiedenti asilo nei centri di detenzione
albanesi
(https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/11/15/migranti-paesi-sicuri-lo-scontro-e-tra-diritto-e-arbitrio/)
e l’“incriminazione”, da parte del Procuratore della Repubblica di Roma, della
presidente del Consiglio e di alcuni ministri per l’affare Almasri
(https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2025/02/03/il-caso-almasri-e-lidea-di-stato-della-destra/):
casi che coinvolgono solo giudici, il primo, e solo pubblici ministeri, il
secondo, e che non sarebbero in alcun modo toccati da una revisione dei rapporti
tra le due categorie…
Analoghe considerazioni si impongono per il secondo leitmotiv della destra al
governo: quello secondo cui “bisogna finirla con le toghe rosse politicizzate!”.
Lo slogan è stato rispolverato con riferimento alla appena ricordata
incriminazione della presidente del Consiglio da parte della Procura di Roma e
alla parallela vicenda della presunta divulgazione di un documento destinato a
restare segreto da parte dello stesso magistrato. Ma si tratta del più clamoroso
degli autogol, posto che il procuratore di Roma è esattamente l’opposto di un
barricadiero magistrato di sinistra e si riconosce nella corrente più
conservatrice della magistratura (quella, per intenderci, di cui ha fatto parte
fino a ieri il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano)
della quale è stato dirigente autorevole e nella cui lista è stato, in passato,
eletto al Consiglio superiore. Dunque, se di scorrettezze si trattasse (ed è
assai dubbio che sia così), esse dovrebbero essere riportate a categorie ben
diverse dalla politicizzazione, come l’errore o a uno scontro tutto interno allo
schieramento conservatore. Difficile, in ogni caso, non riandare con la memoria
alla situazione, descritta da Piero Calamandrei, in Elogio dei giudici scritto
da un avvocato (risalente al 1935), del miliardario che, per sottrarre il figlio
dallo “sconcio” di un processo per omicidio colposo stradale, mette sul piatto
una somma ingente e, all’obiezione del difensore che «la giustizia non è una
merce in vendita», sbotta nella conclusione: «Ho capito, abbiamo avuto la
sfortuna di cadere in mano di un giudice criptocomunista».
In realtà – non sembri un paradosso – la magistratura italiana di questo inizio
di millennio è la meno politicizzata della storia nazionale: una storia che ha
visto, nell’epoca liberale indicata come modello, una totale coincidenza tra
classe politica di governo e magistratura, con continui passaggi dalle aule di
giustizia a quelle parlamentari, e che si è sviluppata in perfetta coerenza fino
agli anni Sessanta del secolo scorso
(https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/10/10/giudici-fascisti-cerchiobottisti/).
A volte – con maggiore o minor frequenza – la magistratura sbaglia, ma quando lo
fa, non è per una vocazione antigovernativa e quella che viene, impropriamente,
chiamata “politicizzazione” è, a ben guardare, il suo opposto: l’indipendenza
dalla politica, che può anche portare a momenti di collisione, come è
fisiologico che sia nella vigenza del potere istituzionale diviso voluto dalla
Costituzione
(https://volerelaluna.it/controcanto/2023/10/06/toghe-rosse-e-calzini-azzurri/).
Così il quadro si ribalta e diventa chiaro che – come ha scritto recentemente
Sergio Labate – «la politicizzazione non è quel che il Governo teme ma quel che
vuole» per liberarsi dai lacci delle regole e del controllo di legalità: sul
piano interno e su quello internazionale, come le polemiche di questi giorni con
la Corte penale internazionale dimostrano.
La storia si ripete. Il 10 giugno 1925, esattamente un secolo fa, il
guardasigilli fascista Alfredo Rocco espose alla Camera il progetto del regime
sulla giustizia affermando che «la magistratura non deve far politica di nessun
genere; non vogliamo che faccia politica governativa o fascista, ma esigiamo
fermamente che non faccia politica antigovernativa o antifascista». Il seguito è
noto. Nel dicembre dello stesso anno l’Associazione nazionale magistrati
deliberò il proprio scioglimento per evitare di essere trasformata in un
sindacato fascista. Quattro anni dopo, lo stesso Rocco affermò, con viva
soddisfazione, che «lo spirito del Fascismo è entrato nella magistratura più
rapidamente che in ogni altra categoria di funzionari e di professionisti». Nel
1939, infine, i più alti magistrati del regno – come ricorda Piero Calamandrei –
si radunarono in divisa a palazzo Venezia, compiacendosi di fronte al
riconoscimento del ministro di avere finanche superato «i limiti formali della
norma giuridica» per «obbedire», quando si era trattato di difendere i valori
della Rivoluzione, «allo spirito e alla sostanza rinnovatrice della legge»,
applaudendo ripetutamente le parole del duce e lasciando quindi la sala al canto
di inni della Rivoluzione».
Oggi manca la camicia nera, ma la sostanza non cambia. Il fascismo del nuovo
millennio segue la stessa strada, talora addirittura con le stesse parole.
Eppure c’è ancora qualcuno – molti – che contesta questa assimilazione e nega
che sia in atto una torsione autoritaria dello Stato. Ma anche in questo la
storia si ripete…
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L’approccio a carcere e repressione non potrà essere mai esaustivo e corretto
senza partire dalla realtà che ci trasmette da tempo un’egemonia schiacciante
delle culture e pratiche sicuritarie.
di Federico Giusti
Possiamo discutere all’infinito sull’approccio alle tematiche repressive ma alla
fine andremo a sovrapporre i nostri desiderata alla realtà con la quale bisogna
invece sempre e comunque fare i conti.
E la realtà ricorda che oggi alcuni concetti la fanno da padrone tanto a
sinistra quanto a destra, sono ormai punti comuni delle analisi provenienti dai
vari schieramenti, parliamo di certezza della pena, di sicurezza nei centri
abitati, di lotta alla microcriminalità, di telecamere diffuse ad ogni angolo
cittadino. E quando ci imbattiamo negli infortuni e nelle morti sul lavoro la
richiesta di molti è la istituzione di un reato per omicidio sul lavoro sperando
che l’ennesimo reato nel codice penale a tutela dei lavoratori possa in qualche
modo restituire dignità e giustizia alle vittime del profitto.
Sia ben chiaro: il nostro codice penale introduce ogni mese reati nuovi per
colpire devianze e soggetti sociali, l’elenco sarebbe lungo e i nostri
ascoltatori o lettori ne sono già al corrente, la speranza che infortuni e morti
sul lavoro possano ridursi per la istituzione di pene severe anche contro i
mancati controlli della committenza stride con la subalternità dei
Rappresentanti dei lavoratori alla filiera aziendale, alle dinamiche decise dai
vertici aziendali, pubblici e privati, a norme, incluso il testo unico sulla
sicurezza, che non hanno attribuito potere contrattuale alle figure sindacali
che si occupano di salute e prevenzione.
Sta qui il problema, pensare che una legge determini lo spostamento del punto di
vista generale, le legislazioni avanzate in materia di salute e sicurezza sono
figlie di lunghe stagioni di lotte e di iniziative culturali e sociali ma anche
di pratiche politiche e sociali avanzate.
Chi oggi ragiona sull’abolizione del carcere pensando sia possibile farlo alla
luce di quanto avvenuto negli anni settanta con i manicomi dovrebbe prima
studiare e contestualizzare il problema e magari anche chiedersi dove siano
finiti tutti gli interventi sociali di accompagnamento della Basaglia di cui si
è subito perso traccia all’indomani dei processi attuativi della Legge
Perchè il modo migliore per vanificare dei percorsi di riforma è quello di
abbandonare al proprio destino la transizione scaricandone gli oneri sociali
sulla collettività o, meglio ancora, sulle singole famiglie che poi si
troveranno a fare i salti mortali per la soluzione dei problemi.
Dobbiamo quindi ripartire da alcuni luoghi di comuni come la certezza della pena
in un paese nel quale a pagare sono sempre i meno abbienti con le carceri
ridotte a discarica sociale, con i percorsi di studio e di lavoro di fatto
ridotti ai minimi termini, con le misure alternative alla pena rese impossibili
dall’assenza di una rete di welfare fino alla privatizzazione della pena e del
carcere sul modello Usa con le carceri affidate ai privati e a costi decisamente
più bassi.
Ma non possiamo eludere anche la necessità di un approccio meno caritatevole e
sociologico alla questione detentiva recuperando invece una chiave di lettura
politica e politicizzata, del resto il 1660 è la risposta al conflitto interno
ai paesi a capitalismo avanzato che vanno imponendo economie di guerra e
sacrifici economici e sociali. E in questo approccio allargato non possiamo
eludere la questione dell’emergenza trasformata in strumento ordinario, pensare
che i recinti urbani non siano figli di una diffusa cultura che spazia dalla
sicurezza urbana alle logiche del mercato immobiliare fino ai progetti che
andranno a ridefinire i confini e le dinamiche della città con una sorta di
selezione preventiva della tipologia di abitante da collocare in ogni singolo
quartiere.
Quello che serve oggi è mettere insieme i vari approcci e trasformarli in una
contro narrazione che per essere credibile dovrà affrontare, e non eludere, le
contraddizioni emerse nel tempo attorno alle tematiche securitarie, il
securitarismo si afferma dopo decenni di egemonia culturale e politica dei
dominanti e tra i dominanti non mancano anche settori dell’attuale opposizione
parlamentare a cui dobbiamo ad esempio i pacchetti sicurezza o avere minimizzato
la situazione di vita nei campi in Libia per ragioni legate alla salvaguardia
della sicurezza nazionale.
Proviamo a uscire allora dalle nostre zone comfort siano esse ideologiche o di
gruppo politico, di approccio intellettuale o di ribellismo fino a sè stesso. La
questione carceraria, in un paese dove a distanza di 40 anni ci sono ancora
detenuti politici, è uno spaccato della società e come tale va affrontata, farlo
ora prima di trovarci davanti al modello usa, ai carceri gestiti da privati nei
quali i diritti umani e civili saranno letteralmente sospesi.
l’articolo è uno Stralcio dell’ intervento della Cub alla presentazione pisana
del numero di Jacobin “Regime di Massima sicurezza”
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Perché i “recinti urbani” sulla carta sono solo un’illusione. La direttiva del
ministero dell’Interno di fine 2024 inviata ai prefetti per multare e
allontanare soggetti ritenuti “molesti” mette in risalto “il fastidio della
complessità, del rapporto con l’altro e con entità non strettamente
controllabili”. Rafforzando così un’idea asettica dei centri, condannati a
essere solo luoghi di consumo e non di relazioni, anche conflittuali. Intervista
a Sebastiano Citroni, professore di Sociologia all’Università degli Studi
dell’Insubria
di Emma Besseghini da Altreconomia
Dal 30 dicembre 2024 al 31 marzo 2025 il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia ha
annunciato l’introduzione delle “zone rosse”, quei luoghi della città
considerati problematici per la sicurezza, da cui poter allontanare soggetti
considerati “pericolosi”.
La misura è scattata in seguito alla direttiva del 17 dicembre 2024 del
ministero dell’Interno, con la quale è stato chiesto ai prefetti di tutta Italia
di individuare zone della città ritenute problematiche in termini di sicurezza.
Per prevenire e contrastare “l’insorgenza di condotte di diversa natura che
-anche quando non costituiscono violazioni di legge- sono ostacolo al pieno
godimento di determinate aree pubbliche”, il Viminale invita i prefetti a
ricorrere al “Daspo urbano”, un provvedimento che prevede la possibilità di
multare e allontanare “chiunque ponga in essere condotte che impediscono
l’accessibilità e la fruizione” di infrastrutture e luoghi pubblici.
Per approfondire i risvolti che l’introduzione delle “zone rosse” potrebbero
avere sul tessuto urbano e sulla coesione sociale di una città come Milano
abbiamo intervistato Sebastiano Citroni, professore associato di Sociologia
presso l’Università degli Studi dell’Insubria.
Professor Citroni, che impatto ha l’introduzione delle “zone rosse” sul tessuto
urbano?
Le “zone rosse” rispondono a un problema percepito da molti come reale, e in
passato documentato da cronache di violenze di genere e altri gravi reati. La
possibilità di queste violenze non è una novità assoluta, ma oggi si presenta in
maniera specifica: c’è maggiore sensibilità generale sul tema e si ha
l’impressione che si tratti di circostanze in cui si sfoga una rabbia e un
risentimento più generale di chi sta ai margini. La direttiva del ministro
dell’Interno produce specifiche implicazioni sul tessuto urbano, che mirano a
rafforzare -piuttosto che contrastare- alcune tendenze già in corso da tempo: lo
svuotamento dei centri urbani dai suoi abitanti e dalla possibilità di un loro
accesso libero, legato a rituali e festeggiamenti non strettamente associati a
pratiche di consumo; la gestione della sicurezza urbana in termini di decoro e
ordine pubblico tramite l’illusione di “recinti urbani” relativamente sicuri
perché presidiati da forze dell’ordine; e lo svuotamento dell’idea stessa di
città come luogo plurale, fatto di diversi abitanti, usi dello spazio pubblico
eterogenei e tra loro in tensione. È un’illusione perché spesso aggrava il
problema: non sempre funziona, anche dentro i recinti infatti succede ciò che
non dovrebbe accadere e, più che placarsi, la polemica politica monta
ulteriormente.
Perché con questo provvedimento si rischia di smantellare l’idea di spazio
pubblico?
L’idea di spazio pubblico sta al cuore stesso della dimensione urbana, di che
cosa rende una città tale da un punto di vista sociale: non i suoi edifici,
nemmeno chi vi abita o i servizi che offre, ma l’interazione che permette di
praticare con gli altri. È uno scambio tipico di spazi umanamente densi, con una
molteplicità di popolazioni e di usi dello spazio tra loro in tensione. Deve
essere chiaro che il conflitto non è la violenza, ma il suo contrario: è un tipo
di relazione; la violenza, invece, è la sua eliminazione.
In questo senso, in che modo la direttiva sulle “zone rosse” è problematica?
Nella direttiva del ministro ai prefetti si parla di “misure di divieto di
accesso” nei confronti di persone che mostrano comportamenti non solo
“aggressivi o minacciosi” ma anche “molesti”. La direttiva adotta un linguaggio
vago, dove si parla anche del “pericolo” che l’altro può rappresentare. Quello
che mi pare certo è che anche in questo caso si sostiene una tendenza infausta
delle nostre società: evitare il fastidio della complessità, del rapporto con
l’altro e con entità non strettamente controllabili. Da tempo i mezzi di
comunicazione consentono -o almeno promettono- questa possibilità a molte più
persone che in passato, dando l’idea di rimodulare vicinanza e lontananza a
nostro piacimento.
Come stanno cambiando le città?
Le città continuano ad essere il laboratorio del cambiamento sociale. Anche oggi
il cambiamento è più evidente nei centri urbani: la crisi abitativa in corso
nelle città europee mostra la crescente esclusione sociale di intere fette del
“ceto medio”, sempre più tagliato fuori dalle opportunità che la città offre. Si
tende sempre più ad accettare l’aumento estremo delle disuguaglianze sociali:
tra città e aree esterne, verso cui quote crescenti di popolazione sono relegate
-e anche all’interno delle città stesse-, ad esempio nei valori immobiliari,
nella dotazione di verde e in fenomeni che a Milano sono ormai consolidati, come
la segregazione scolastica nei quartieri periferici.
I dati forniti dalla prefettura di Milano riportano una diminuzione dei
delitti: si passa dai 144.864 illeciti del 2023 ai 134.178 del 2024. Crede che
si stia invertendo la concezione di sicurezza con quella di percezione di
sicurezza?
Partirei dal prendere sul serio ciò che le persone sentono, indipendentemente da
quello che i dati dicono. Chi ha paura non ne esce leggendo dati e statistiche.
Anzi, non accogliere questa paura e insicurezza, negandola, la fa gonfiare
ancora di più, crea risentimento generalizzato, che qualcuno puntualmente
cavalca. Chi ha paura ha certamente i propri motivi per averla, ci sono delle
ragioni da capire. La paura è un sintomo di qualcosa a cui rimanda. Allora
bisogna guardare la crescente disuguaglianza, il venire meno di un senso di
appartenenza alla propria società e ai suoi destini, la comunicazione
sensazionalistica e soprattutto le strumentalizzazioni politiche, con le loro
soluzioni facili e i capri espiatori per le sofferenze delle persone, che creano
guerre tra poveri da capitalizzare a proprio vantaggio. La sicurezza, il senso
di sicurezza, si manifesta a livello individuale ma è una tipica questione
collettiva: o si crea per tutti oppure sicurezza solo per alcuni (chi se lo può
permettere, magari) diventa prima o poi paura.
Che cosa rende una città sicura? Una città più sicura è una città più
controllata dalle forze dell’ordine?
Per alcuni le forze dell’ordine tranquillizzano forse, per altri -e in misura
sempre più crescente se guardiamo gli ultimi episodi– sono essi stessi una
minaccia. Non sto parlando solo di chi è intenzionato a commettere illeciti, ma
del fatto che la loro stessa presenza ostentata può creare tensione. La presenza
e l’intervento delle forze dell’ordine spesso creano un clima teso che non
favorisce il senso di sicurezza generalizzato. Il ricorso a questi provvedimenti
emergenziali da una parte conferma la loro necessità nella popolazione,
l’esistenza di un pericolo straordinario che giustifichi un intervento
straordinario; dall’altra sono disposizioni chiamate solo a spostare i problemi
che affrontano, vietando l’accesso agli spazi a soggetti ritenuti minacciosi,
con l’esplicito obbligo di spostarsi altrove.
> Daspo prefettizio “in bianco” e “zone rosse”: prove generali di distopie
> sicuritarie
> Le zone rosse – (S)Margini – 01
> Zone rosse…di vergogna incostituzionale
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Paragon puntava all’America. E si è impantanata in Italia. Di tutta la vicenda,
l’aspetto più inquietante è la melina istituzionale del governo Meloni su un
tema cruciale.
di Carola Frediani da newsletter Guerre di Rete
Una exit clamorosa. Era stata definita così, a dicembre, la vendita di una
giovane società israeliana del settore cyber offensivo al fondo di private
equity americano AE Industrial Partners per mezzo miliardo di dollari, che
potevano arrivare a 900 milioni a seconda del raggiungimento degli obiettivi di
crescita e redditività. Quasi uno status da unicorno per Paragon, un’azienda
fondata nel 2019 da un gruppo di ex membri della 8200, una delle tre unità del
Direttorato di intelligence militare delle Forze di Difesa israeliane (IDF)
responsabile della raccolta di informazioni e segnali di intelligence (SIGINT),
e dello sviluppo di strumenti ad hoc.
Paragon, che ora ha circa 450 dipendenti, è un’azienda che da subito puntava ad
avere credenziali altissime. Tra i fondatori ha Idan Norik, che ricopre il ruolo
di CEO, Lior Avraham, Liran Alkobi e Igor Bogdanov. Come presidente conta su
Ehud Schneerson, che ha un passato da comandante della stessa unità di
intelligence militare. E come azionista e membro del board accampa niente meno
che l’ex primo ministro laburista ed ex capo di Stato Maggiore Ehud Barak.
Lo spyware Graphite
Il suo prodotto di punta è il software Graphite, uno spyware, di cui però è
trapelato molto poco a livello tecnico. Sembra avere le caratteristiche di altri
spyware, o trojan, che si sono visti in passato, assumendo il controllo del
cellulare e intercettando le comunicazioni su app di comunicazione come
Whatsapp, Signal, Telegram, Gmail. Questa è l’unica funzione che viene ribadita
su media e in tempi diversi. Alcuni parlano di capacità di persistenza (uno
spyware che resista a un reboot, riavvio del dispositivo) ma anche di un tipo di
software più limitato nel suo accesso al dispositivo di altri. Ma la parte
tecnica al momento è ancora troppo vaga.
Il contesto del mercato degli spyware
Quello su cui ci sono più informazioni è come si posiziona Paragon e il suo
contesto. Il contesto è quello delle società che vendono spyware ai governi per
attività investigative di tipo giudiziario o di intelligence. Un settore di
business cresciuto negli ultimi anni, ma che ha sollevato molte polemiche (e
commissioni d’inchiesta, come l’europea PEGA) per l’uso di questi strumenti
contro giornalisti e oppositori politici. Polemiche che si sono concretizzate in
attenzione mediatica e politica, inchieste giudiziarie, cause legali (Whatsapp
contro NSO, ad esempio), nonché attacchi informatici e leak di informazioni.
Tanto che la sua concorrente diretta, l’israeliana NSO che produce lo spyware
Pegasus, era stata inserita dagli USA nella Entity List, una sorta di blacklist
del dipartimento del Commercio, dall’amministrazione Biden, insieme ad altre due
aziende fondate da israeliani e specializzate in spyware, Candiru e Intellexa.
Paragon e il posizionamento sui clienti
È chiaro dunque perché, fino a poco tempo fa, Paragon sottolineasse come fosse
riuscita a entrare nell’elenco dei fornitori approvati dal governo statunitense
anche per la scelta più “etica” di vendere solo a Paesi democratici, escludendo
regimi o Stati accusati di violare i diritti umani. Paragon, l’azienda di
spyware etici. Un’affermazione dura da digerire per qualunque attivista dei
diritti digitali, ma che aveva una ratio molto chiara, a livello di business, e
anche un certo posizionamento politico. Anche in Israele e nel rapporto con gli
Usa. In sintesi: opposizione politica a Netanyahu, vicinanza all’amministrazione
dem negli Usa. Quindi, mentre NSO, azienda determinante nella diplomazia cyber
di Netanyahu, e investita dalle inchieste giornalistiche come il Pegasus Project
sui presunti abusi del suo spyware Pegasus, veniva stigmatizzata dagli Usa di
Biden, Paragon tesseva la sua tela commerciale e diplomatica a Washington (qui
una interpretazione di destra israeliana in merito a questi posizionamenti).
Questo per abbozzare il piano – molto più complesso – della politica. Su quello
del business il settore delle startup cyber israeliane ha salutato con
entusiasmo l’exit di Paragon, malgrado l’apparente resistenza del ministero
della Difesa a concedere l’autorizzazione senza problemi e forse anche malgrado
lo scontento di alcuni settori dell’intelligence. “Ad oggi – scriveva Calcalist
– Paragon ha raccolto solo circa 30 milioni di dollari, quindi si tratta di un
elevato ritorno sull’investimento, anche se non tutto l’accordo è stato fatto in
contanti e una parte sarà in azioni della società risultante dalla fusione”.
Il fondo AE prevede di fondere Paragon con un’altra società in portafoglio, RED
LATTICE, che lavora nel settore della Difesa. “L’accordo – scrive Globes –
consentirà a Paragon di espandere la propria presenza sul mercato in paesi come
il Regno Unito e l’Irlanda, l’Australia, la Nuova Zelanda, il Canada e gli Stati
Uniti”.
Tutto questo per arrivare all’annuncio di Meta/Whatsapp del 31 gennaio, che
arriva come una bomba per la società, fino ad oggi non interessata da inchieste
o polemiche, e con un profilo riservatissimo. Whatsapp fa sapere ad alcuni media
che la società ha inviato a Paragon una lettera di diffida, intimando la
cessazione dell’attività di hacking di alcuni suoi utenti. Un tentativo di
violazione di circa 90 utenti, in più di 24 Paesi, incluse delle persone in
Europa, a cui erano stati inviati documenti elettronici malevoli [pdf diffusi in
chat di gruppo, dice il Guardian ndr] che non richiedevano alcuna interazione da
parte dell’utente per la compromissione, ovvero un attacco zero-click.
Distribuito a dicembre. In questi 90 sono inclusi membri della società civile e
giornalisti, dicono i portavoce Whatsapp ai media, anche se non è chiaro se lo
siano tutti o solo una parte (non trovo comunicati ufficiali di Whatsapp e
bisogna distillare le parole esatte dai diversi media).
Le vittime dello spyware
Alcuni però, di sicuro, stanno in Italia. Whatsapp ha infatti inviato un avviso
a tutte le vittime. Tra queste c’è anche il direttore di Fanpage Francesco
Cancellato, come racconta la stessa testata il 31 gennaio. A cui si aggiunge
l’attivista Luca Casarini, capomissione e uno dei fondatori della ong
Mediterranea; e poi l’attivista libico Husman El Gomati, critico delle politiche
sui migranti fra Italia e Libia. Nei giorni eccessivi emergono altri nomi
ipoteticamente colpiti dallo spyware, e legati alla stessa Mediterranea, come il
suo armatore Beppe Caccia. Nel frattempo alcune testate internazionali scrivono
che Paragon in Italia avrebbe due clienti, una agenzia di polizia e una di
intelligence.
Il balletto italiano
A questo punto parte il balletto tutto italiano su cui i lettori sono
sicuramente bene informati e su cui non mi dilungo. Le richieste di chiarimenti
al governo, il governo che nega di c’entrare, e in una nota “esclude che [gli
utenti italiani, ndr ] siano stati sottoposti a controllo da parte
dell’intelligence, e quindi del Governo”. Aggiunge di aver incaricato l’Agenzia
per la Cybersicurezza Nazionale, che dipende dalla Presidenza del Consiglio, di
interloquire con lo studio legale Advant, che segue WhatsApp. Da questa
interlocuzione fanno sapere che le utenze italiane tra le 90 prese di mira sono
7. E spiattellano anche chi sarebbero potenzialmente gli altri clienti di
Paragon in Europa, per la gioia degli altri governi (va detto che un’utenza di
un certo Paese non significa necessariamente che quel Paese abbia lo spyware,
una persona potrebbe essere un target di intelligence straniere. Ma in generale
le probabilità sono alte, specie se le utenze sono tante): “Dalla medesima
interlocuzione si ricava che le utenze fino ad ora coinvolte appartengono a
numeri con prefissi telefonici riconducibili, oltre all’Italia, ai seguenti
Paesi: Belgio, Grecia, Lettonia, Lituania, Austria, Cipro, Repubblica Ceca,
Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Svezia”.
Chi ha usato Paragon, di grazia?
Ma se, da comunicazione ufficiale, non sono i servizi, possono essere i servizi
all’insaputa del governo? E se non sono i servizi tout court, allora non sarà
l’autorità giudiziaria, una procura, visto che da anni questo genere di
strumenti, simili a Graphite di Paragon, sono usati in indagini? Lo stesso
governo ha di fatto alluso alle Procure. Anche se secondo il Messaggero,
“nessuna delle procure distrettuali più grandi e più importanti d’Italia ha in
uso il sistema di spionaggio israeliano, che permette di esfiltrare dati,
ascoltare conversazioni e localizzare le persone. Graphite non è impiegato per
le intercettazioni né a Roma, né a Milano, né a Napoli, né a Palermo, né a
Genova”.
Di certo però in passato non sono mancate inchieste delle procure e della
Direzione nazionale antimafia su Ong che si occupano di salvataggio dei
migranti. E più di una utenza delle sette italiane fa parte di questo mondo.
Nel mentre Paragon ha fatto sapere di avere prima chiesto chiarimenti e poi di
aver chiuso i contratti in Italia per violazione dei termini degli stessi, che
non consentono di colpire con il software spia giornalisti o membri della
società civile, scrive la stampa estera. Oggi però al Fatto fonti dell’esecutivo
dicono che lo spyware sarebbe ancora in uso.
Di tutta la vicenda, l’aspetto forse più inquietante è questa melina
istituzionale su un tema cruciale. In cui, tra le vittime, abbiamo almeno un
giornalista che ha coordinato inchieste critiche e imbarazzanti per il governo.
E attivisti che, per essere intercettati in questa maniera nella cornice di
un’inchiesta, dovrebbero essere accusati di reati molto pesanti.
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Un libro di stringente attualità. “Stato di fermo” di John Wainwrigth, Edizioni
Paginauno
di Edoardo Todaro da Carmilla
In estremo ritardo nella lettura e, soprattutto, rispetto all’uscita, ma
sicuramente di stringente attualità. Oggi sono molte le iniziative e le
mobilitazioni, con punti di vista ed impostazioni diverse, messe in campo per
contrastare la deriva autoritaria che, con il disegno di legge 1660, il governo
Meloni impone rispetto al conflitto sociale, in primis le forme di lotta che si
sono espresse all’interno del conflitto capitale/lavoro. A questo proposito, è
bene sottolineare il rendere esplicito l’intento di questo provvedimento
dichiarato da Piantedosi, il ministro dell’interno, attaccare il sindacalismo di
base (sicobas in primis) e le forme di lotta praticate in particolare nel
settore della logistica.
Non ci può venire non alla mente l’introduzione della cosiddetta
regolamentazione del diritto di sciopero messa in campo per contrastare le lotte
portate avanti dai lavoratori delle ferrovie, con l’introduzione della nota, in
modo nefasto, 146/90. Dalla 146 al ddl 1660 il passo è breve: il conflitto deve
essere annullato e represso. Dai lavoratori delle ferrovie a quelli della
logistica. Esercitare il diritto al mettere in campo rapporti di forza a favore
degli interessi di coloro che sono sottoposti allo sfruttamento, al profitto:
deve essere bandito.
Non è mia intenzione addentrarmi su cosa è il ddl1660 e cosa, la sua eventuale e
prevedibile approvazione possa portare. In estremissima sintesi: da una parte
coloro che effettueranno un blocco stradale compiranno un reato; chi, detenuti
in particolare, ricorrerà ad azioni non violente, sarà punito ecc…; dall’altra
avremo privilegi ed immunità per le forze dell’ordine. Quindi ben venga questo
libro, da considerare un vero e proprio manuale di autodifesa, che era buon uso
pubblicare. Una stanza, senza “ carattere “, di supporto allo scopo per cui
esiste che deve produrre un effetto claustrofobico, è il luogo dove si svolge il
tutto e due uomini: uno il sospettato, criminale e noto stupratore, in attesa di
interrogatorio; l’altro l’inquisitore, una relazione basata sulla dominazione e
l’accettazione di essa, accusato ed accusatore uno di fronte all’altro, la
sconfitta e la vittoria. Un sospettato, che necessita di un ristabilimento
della quiete mentale per salvaguardare la propria dignità che è messa in
discussione, e che ha nel proprio curriculum la violenza e l’uccisione di tre
ragazze.
Un colpevole perfetto per risolvere in tempi brevi un indagine che non vede
alcun senso nel protrarsi. Il colpevole perfetto che diviene il capro
espiatorio. Un’indagine che è costellata di grossi sospetti ma di nessuna prova,
di quelle necessarie per “convincere” una, prossima, giuria ad un verdetto di
condanna, e previste dalla legge, quella legge con i suoi limiti, debolezze ed
incoerenze. Ma essendo all’interno di trame, per così dire, giudiziarie, non
può mancare il cosiddetto ragionevole dubbio che invece può portare
all’assoluzione e le domande su cos’è la legge, sui suoi limiti.
Queste pagine si dipanano nei meandri, nelle modalità dell’interrogatorio, nelle
linee di questo con l’uso accorto del livello psicologico per far capitolare,
perché, lo si voglia o meno, anche l’interrogare è un’arte: “ dare un colpevole
e parlerà “. Interrogare con l’abilità del saper parlare ma anche del saper
ascoltare. Interrogatorio che ha insito il trucco di far ammettere al sospettato
la possibilità della propria colpevolezza e cioè l’ottenere un’ammissione, nel
quale è necessario essere distaccato dalla sofferenza del sospettato senza
lasciarsi coinvolgere; ingarbugliare un concetto, prendere un concetto logico e
farlo divenire il suo contrario; non urlare e non dare in escandescenza, provare
la colpevolezza del sospettato con le sue stesse parole, ripetere la stessa
domanda 10000 volte ma in 1000 modi diversi, dare al sospettato il senso di
sicurezza. Compare un secondo investigatore, questo senza pietà né alcun rimorso
ma solo disprezzo e fanatismo e le pressioni fisiche per ottenere la confessione
voluta. Quanto descritto è dovuto ad un semplice fatto: Wainwright è stato per
20 anni agente di polizia, diciamo che possiamo considerarlo un conoscitore dei
fatti descritti. Ma l’utilità del leggere “ Stato di fermo “ risiede in
particolare nel fatto che la crisi organica, economica e politica, accentua
sofferenze e difficoltà nel corpo sociale e produce forme, diverse tra loro, di
resistenza. Proprio queste forme di resistenza sono quelle che il governo si
pone di bloccare con il ddl 1660. Aspetto utile e soprattutto necessario,
risiede nella solidarietà e nella capacità di resistenza di fronte
all’accentuarsi degli interventi repressivi nei confronti di coloro che sono, e
che saranno colpiti, e nel diffonderla.
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La violenza poliziesca non è fatta di soli manganelli; si manifesta anche
attraverso l’ingerenza e l’invasività nel privato. Seguire gli spostamenti,
osservare e ascoltare il quotidiano fanno parte di un odioso bagaglio di
strumenti che la polizia da sempre mette in campo.
di Assemblea No Cpr Torino
Ad oggi, però – attraverso intense partnership con paesi, come Israele, in grado
di sviluppare sistemi di sorveglianza capaci di manomettere e accedere
facilmente ai dispositivi mobili (smartphone, tablet e PC) – l’accesso da parte
delle polizie e dei governi ad informazioni riservate, dettagliate e
sensibili può rivelarsi estremamente più pervasivo di quanto si possa
immaginare. Il sistema spyware PARAGON ne è un esempio. Il servizio fornito,
invece, da Cellebrite è di diverso tipo ed è quello di cui vorremo parlare qui.
Decidiamo di scrivere questo testo – invitando a condividerlo ampiamente –
perché riteniamo indispensabile fornire informazioni minime a nostra
disposizione, che possano aiutare ad autotutelarsi dalla pervasività della
sorveglianza da parte delle autorità.
Stante l’abbassamento dei costi di tali servizi di spionaggio e l’intensificarsi
delle relazioni con le aziende del settore, tentare di rompere il velo di
mistero attorno a tali strumenti ci sembra tanto doveroso, quanto necessario.
Ci sembra importante, innanzitutto, precisare che le persone a cui sono stati
sequestrati e manomessi i telefoni vivono e si organizzano a Torino; qui,
portano avanti un percorso di lotta contro la detenzione amministrativa (CPR) e
penale e hanno preso parte alla mobilitazione contro 41bis ed ergastolo
ostativo. Ciò rende lo sgradevole rapporto con la polizia e le sue indagini –
quelle della DIGOS in particolare – abbastanza frequente.
Lo precisiamo non per attestarci un qualche palcoscenico nello spettacolo della
repressione, ma perché vogliamo evitare di creare allarmismi e paranoie
orwelliane sul controllo totale. Non pensiamo, infatti, sia in atto un controllo
di massa. Piuttosto che chi decide di portare avanti lotte o anche solo pratiche
di dissenso possa finire tra le maglie di queste forme di spionaggio e
necessiti, quindi, di informazioni utili per tutelarsi.
I FATTI
Il 20 Marzo 2024 – a seguito del blocco di un volo di linea della Royal Air
Marocc, con il quale stava per essere deportata una persona di origine
marocchina dall’aeroporto di Malpensa – 3 smartphone vengono sequestrati dalla
polizia di frontiera prima che il fermo di 5 persone si trasformi in arresto per
4 di queste.
Quel giorno, l’arrivo al Terminal 1 dell’aeroporto di Malpensa fu scandito dalla
fretta e dall’urgenza politica ed umana di tentare di impedire la deportazione.
La macchina accostò – a una delle porte di ingresso dell’aerea partenze – 5
minuti esatti prima dell’orario previsto del decollo del volo per Casablanca. La
valutazione del rischio, fatta da chi si trovava in quella macchina, non
prevedeva: né che fosse così “semplice” e “realistico” bucare i cosiddetti
sistemi di sicurezza dell’aeroporto ed arrivare alla pista di decollo, né che le
polizie europee usassero i prodotti di spionaggio dei telefoni ideati in Israele
da Cellebrite. Nei pochi secondi a disposizione, nell’imprevedibilità della
situazione e considerando il bisogno di comunicare con solidalx, compagnx e
avvocatx, venne scelto di portare 3 dei 6 telefoni presenti in macchina. Oggi
sappiamo che quei 3 telefoni, poi sequestrati dalla polizia, sono stati spiati e
manomessi per mano delle forze dell’ordine o suoi collaboratori, con modalità
totalmente silenziate, mai ufficialmente comunicate e senza alcuna convocazione
del perito informatico della difesa.
È difficile valutare se in quei pochi minuti, di corsa tra un macchina e un
aereo, sarebbe stato possibile – o sensato – fare una scelta differente. Eppure,
con questo breve testo invitiamo tuttx a tenere sempre a mente che esiste una
zona grigia, alquanto sconosciuta, di utilizzo di tecnologie della sorveglianza
da parte della controparte.
I TELEFONI
A tal proposito, e premesso che ci sono parecchi aspetti che non siamo ancora
riusciti a chiarire, condividiamo invece quello sappiamo ad ora.
I telefoni al centro di questa vicenda sono degli Android abbastanza comuni,
tutti e tre protetti da PIN (o sequenza), abbastanza recenti, aggiornati e con
cifratura abilitata. Al dissequestro, i PIN di due dei tre telefoni sono stati
trovati scritti a penna su un adesivo posizionato sul retro: non un buon inizio.
Uno degli strumenti che si utilizza in questi casi per dare un’occhiata ai
dispositivi si chiama MVT (Mobile Verification Toolkit, https://mvt.re), che
permette – riassumendo – di effettuare un’analisi forense consensuale, alla
ricerca di indicatori di compromissione già noti. In questo caso non sono state
subito trovate tracce note, ma MVT evidenzia anche eventuali altre stranezze
come, nel nostro caso, la presenza di due file sospetti in un posto dove non
avrebbero dovuto trovarsi.
Verificando la data di creazione di questi file – risultata successiva alla data
del sequestro – abbiamo potuto dare per certa la compromissione del dispositivo
da parte delle forze di polizia. Questo ci ha stupito perché fino a non molto
tempo fa veniva ritenuto abbastanza macchinoso, e soprattutto costoso, superare
determinate pratiche di sicurezza.
Dopo qualche ricerca – e a partire dai nomi dei file trovati ed i loro hash
(identificativi univoci) – viene trovato e studiato un report pubblicato di
recente da Amnesty International in cui compare lo stesso
file (definito: falcon) su alcuni dispositivi sequestrati in Serbia.
Questo studio ci fornisce la possibilità di attribuire a Cellebrite – e in
particolare al loro servizio UFED / Inseyets – l’operazione di manomissione dei
telefoni; inizialmente sequestrati dalla Polizia di Frontiera a Malpensa, poi
passati alla Procura di Busto Arsizio, poi chissà ancora dove ed infine
ritornati a Torino.
Molti pezzi di questa singola storia sono ancora mancanti, sconosciuti e forse
secretati. Ciò che ci preme chiarire è che per certo sappiamo che le Procure e
le forze dell’ordine italiane hanno a disposizione le tecnologie di manomissione
dei telefoni prodotte in Israele da Cellebrite.
A tal proposito lasciamo un link per chi volesse approfondire:
https://discuss.grapheneos.org/d/14344-cellebrite-premium-july-2024-documentation
IL MODELLO ISRAELE E LE SUE PARTNERSHIP INTERNAZIONALI
Israele è da sempre un partner strategico, pressoché indispensabile, per
l’Occidente, soprattutto in ambito bellico e securitario. Quello che questa
storia contribuisce a delineare sono le conseguenze di un business ormai
esistente da decenni, basato proprio sullo sviluppo e l’esportazione di
tecnologie securitarie e repressive. Un percorso che, da una parte, vede enormi
investimenti israeliani alla fase di sviluppo tecnologico e, dall’altra, ingenti
finanziamenti da Europa e USA per acquisire il primato e l’esclusiva sul
prodotto terminato.
Attraverso la sperimentazione sulla pelle del popolo palestinese, si ottiene la
“miglior versione possibile”, soprattutto economicamente competitiva sul
mercato. Da qui la riproposizione nel nostro contesto del “modello Israele”,
autoritario, securitario e fondato sulla cultura del nemico interno ed
esterno; un modello da importare non solo ai costi di mercato – sempre più
accessibili – ma soprattutto al costo di una totale sottomissione e immobilismo
delle cosiddette “democrazie occidentali” di fronte a 15 mesi di genocidio.
Nella speranza che ognuno possa cogliere da questa vicenda ciò che ritiene utile
ai fini di incrementare il proprio livello di sicurezza, proteggersi dall’occhio
dello Stato e dei suoi scagnozzi, nonché immaginare con creatività le proprie
strade di lotta: vorremmo chiedere che a questa informazione sia data ampia
diffusione.
PALESTINA LIBERA!
TUTTE LIBERE! TUTTI LIBERI!
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Le relazioni pericolose tra il “belpaese” e gli abusi e torture. Enrico Triaca,
il tipografo della colonna romana delle Br denunciò di essere stato seviziato.
Stessa sorte toccò ai sequestratori di Dozier. E poi c’è il carcere duro
di Frank Cimini da l’Unità
L’Italia come del resto altre democrazie ha un rapporto non molto chiaro
(eufemismo) con la tortura. Infatti non esiste una legge che sanzioni la tortura
come reato tipico del pubblico ufficiale soprattutto per l’opposizione storica
dei sindacati di polizia che vorrebbero abrogare o comunque ridimensionare quel
minimo di normativa attualmente in vigore. Su questo urge una riflessione da
contestualizzare proprio nel momento in cui il torturatore libico ricercato dal
Tribunale penale internazionale è stato liberato e riaccompagnato a casa.
L’utilizzo della tortura caratterizzò gli anni in cui c’era da reprimere la
sovversione interna. Al di là delle “belle parole” nel 1982 del presidente della
Repubblica Sandro Pertini: “In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule
di giustizia e non negli stadi”.
Questa sera nel centro sociale Bruno a Trento viene proiettato il documentario
dal titolo Il tipografo sulla vicenda di Enrico Triaca, militante della colonna
romana delle Brigate Rosse arrestato a maggio del 1978. Venne torturato. Un
agente dei Nocs Danilo Amore testimonia l’esistenza di quelle sevizie. All’epoca
il tipografo denunciò di essere stato torturato e fu condannato per calunnia. A
distanza a di circa 40 anni la condanna fu annullata dal Tribunale di Perugia.
Era tutto vero. Ovviamente i reati commessi ai suoi danni nel frattempo
prescritti. La stessa sorte era toccata ai sequestratori del generale Dozier ma
a coprire il misfatto furono le parole dell’allora ministro dell’Interno
Virginio Rognoni che se la cavò brillantemente dicendo: “Siamo in guerra”.
Le carceri speciali furono luoghi in cui si annullava l’identità politica dei
reclusi applicando l’articolo 90, l’antenato del 41bis del regolamento
penitenziario che attualmente riguarda oltre 700 detenuti. In stragrande
maggioranza sono mafiosi e il loro numero risulta superiore a quanti vi erano
sottoposti ai tempi delle stragi. Nell’elenco ci sono anche Nadia Desdemona
Lioce, Marco Mezzasalma e Roberto Morandi che fecero parte delle nuove Br,
organizzazione che non esiste da oltre 20 anni. Nonostante ciò le istanze per la
revoca del 41 bis vengono regolarmente rigettate a causa del rischio di
collegamenti con un esterno che non c’è. E poi c’è Alfredo Cospito protagonista
di un lunghissimo sciopero della fame (considerato di fatto a scopo di
terrorismo) per protestare contro il carcere duro a tutela degli altri 700 più
che di se stesso.
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Nel nostro Paese, l’organizzazione delle forze di polizia è ancora lontana da
una concezione democratica. Per ragioni storiche (che affondano le radici nella
continuità dello Stato repubblicano con quello fascista) e per mancanza di
controlli adeguati. Ma anche per le coperture della destra e le timidezze della
sinistra, incapace di prendere le distanze e di criticare atteggiamenti e
operazioni pur meritevoli di censura.
di Giovanni Vighetti da Volere la Luna
Nell’ultima puntata dell’interessante fiction della Rai La lunga notte. La
caduta del duce c’è un dialogo significativo tra il gerarca Dino Grandi, autore
della mozione che al Gran consiglio del fascismo del luglio 1943 portò alla
sfiducia e caduta di Mussolini e al suo arresto, e il responsabile dell’Ovra,
acronimo di Opera vigilanza repressione antifascismo, cioè la polizia politica
fascista. Se il fascista Grandi si rende conto dell’imminente crollo del regime
il responsabile dell’Ovra ribatte: «L’aria non cambierà mai. Noi siamo lo Stato
e lo saremo sempre. Anche senza Mussolini».
In questo passaggio c’è ben poca fiction e molta realtà. In effetti il capo
dell’Ovra Guido Leto, che diresse la feroce polizia politica durante la
dittatura fascista, è uno degli infiniti esempi della mancata epurazione della
presenza fascista nelle istituzioni perché, dopo un breve periodo di detenzione,
fu incaricato da Umberto Federico D’Amato di riorganizzare le strutture dei
Servizi segreti. Anche il curriculum di Umberto Federico d’Amato, che da
dirigente dell’Ufficio politico della Questura di Roma divenne poi responsabile
dell’Ufficio Affari Riservati, nido nero negli anni della strategia della
tensione, è un’altra cartina tornasole del fallimento del mancato rinnovamento
democratico delle forze di polizia: nell’anno 2000 la Procura Generale di
Bologna lo ha indicato tra i mandanti, insieme a Licio Gelli il capo della
Loggia Massonica eversiva P2, della strage della Stazione di Bologna del 2
agosto 1980. Con l’errore dell’amnistia di Togliatti del 22 giugno 1946, atto
con cui si rinunciò a perseguire e punire i crimini fascisti, al punto che anche
un violento squadrista come Piero Brandimarte, responsabile della strage del
18-20 dicembre 1922 a Torino in cui 11 esponenti della sinistra furono
assassinati e molti altri massacrati di botte, venne incredibilmente assolto …
anche perché la maggioranza dei giudici, in particolare quelli della Corte di
Cassazione, era rimasta legata a doppio filo nero con l’ideologia fascista e il
“pugno di ferro” lo utilizzò nei confronti delle azioni dei partigiani. Con
questo passato prossimo della dittatura fascista non abbiamo mai fatto fino in
fondo i conti, e questa storica mancanza ha generato la nebbia che ha sempre
facilitato e coperto le trame nere che, in tempi più recenti, ha spesso messo in
pericolo la democrazia nel nostro Paese, a iniziare dai tentativi di colpo di
Stato, tra cui il più grave quello del dicembre 1970 guidato da Junio Valerio
Borghese, e dalle numerose stragi fasciste che hanno sempre visto la
partecipazione dei Servizi segreti, di volta in volta “assolti” con la formula
“trattasi di una minoranza di servizi deviati”. Certamente i servizi segreti
deviati esistono, ma costituiscono solo la minoranza fedele alla Costituzione.
Da questo preambolo, storicamente documentato, consegue che l’organizzazione
delle forze di polizia è ancora lontana da una visione pienamente democratica,
perché le leve di comando, con rare eccezioni, sono rimaste avvolte dal filo
nero di responsabili già compromessi con il fascismo e non epurati, i quali a
loro volta hanno selezionato i propri eredi per garantire la continuità della
visione conservatrice e reazionaria. Non si può diversamente spiegare il
radicamento all’interno delle forze di polizia e dell’esercito della P2 o
dell’organizzazione paramilitare Gladio. L’impunità sempre garantita dai vertici
degli apparati, anche in occasione della “macelleria messicana” del G8 a Genova
nel 2001, la rinuncia a introdurre elementi di chiarezza e controllo sui
comportamenti, anche individuali, dei poliziotti con il numero di codice da
apporre sul casco, sono altri elementi che non aiutano ad avere fiducia in una
Polizia, più impegnata a reprimere le contestazioni sociali che non la
criminalità, e la cui “fotografia” nell’immaginario collettivo è sempre più
quella del manganello che colpisce la testa dei manifestanti.
In questo quadro si inserisce la classe politica, a trazione neofascista, di
questo Governo autoritario indirettamente aiutato nella “presa del potere” da
chi, in questa fase storica che richiede la massima unità anche sul terreno
elettorale, continua a scegliere l’astensionismo. E il Governo Meloni, con il
decreto sicurezza, sta percorrendo, a grandi passi, la strada dell’involuzione
antidemocratica con l’inasprimento delle pene (dai sei mesi ai due anni) per chi
manifesta con blocchi stradali o ferroviari, forme di lotta che rientrano nella
legittima tradizione delle lotte operaie e sociali, che vengono quindi punite
come illecito penale e non più amministrativo. Inoltre, con la proposta di una
sorta di scudo penale, rafforza l’autoritarismo e le garanzie di impunità alle
forze dell’ordine, a cui viene delegato il contenimento e la repressione del
dissenso, sempre più criminalizzato anche dai media filogovernativi, che invece
è il sale della dialettica democratica quando il Potere si rifiuta di ascoltare
o accettare o mediare rispetto alle ragioni dell’opposizione sociale. Ancor più
grave, in un Paese in cui i Servizi segreti sono sempre stati coinvolti nelle
trame nere e nelle stragi neofasciste, l’intento di potenziarne le attività
sotto copertura, consentendo agli agenti non solo di partecipare alle
organizzazioni terroristiche-eversive ma anche di dirigerle e guidarle,
arruolando nuovi membri, e obbligando le Università a collaborare con i Servizi
in deroga alle norme sulla riservatezza, il che porterebbe a un controllo sulla
libera espressione garantita dalla Costituzione.
Quanto alle forze dell’opposizione, per lo più silenziose e timorose anche
sull’incredibile episodio del corteo di poliziotti carabinieri e finanzieri che
il 24 novembre 2024 hanno manifestato a Torino di fronte al Comune contro ogni
forma di dissenso sociale e chiedendo la chiusura del centro sociale Askatasuna,
risultano sensibilmente slegate dalla realtà del Paese, e nei momenti di
tensione cercano sempre di cavarsela in calcio d’angolo con la formula
“esprimiamo la nostra solidarietà alle forze dell’ordine”. Frase di rito
retorica e utilizzata a prescindere, senza nemmeno approfondire o conoscere i
motivi delle proteste per pigrizia o mancanza di coraggio intellettuale e con
molta cecità politica, perché questa linea allontana i cittadini che rivendicano
la piena e attiva partecipazione sociale, mentre le forze dell’ordine
storicamente sono e restano, se non si introducono elementi di controllo
rispetto all’uso della forza quando questa è illegittima o sfocia nella
violenza, un granitico bacino elettorale del centrodestra.
Illuminante su questi continui “calci d’angolo”, fini a se stessi e alla propria
pallida visibilità, è la dichiarazione riportata sul Corriere della Sera di due
senatrici renziane di Italia Viva, partito che tra governo e opposizione sta un
po’ di qua e un po’ di là ma mai dalla parte dei lavoratori o dei cittadini, in
occasione del recente e violento intervento per l’esproprio del terreno di
proprietà di valsusini No Tav alle porte di Susa (un esproprio compiuto manu
militari senza aspettare quello amministrativo, e quindi senza rispettare le
regole, talmente urgente che oggi il terreno è solo una discarica di jersey di
cemento, griglie e filo spinato utilizzati per blindare lo sgombero). «Basta
violenze in val di Susa — hanno commentato le senatrici di Italia Viva Silvia
Fregolent e Raffaella Paita –. I lavori dell’Alta velocità Torino-Lione devono
andare avanti, la battaglia di gruppuscoli no Tav e centri sociali è inutile e
anacronistica. Le infrastrutture sono fondamentali per lo sviluppo del paese e
dell’Europa, e servono anche a tutelare quell’ambiente a cui i no tav tutti
dicono di tenere. Solidarietà alle forze dell’ordine, costrette ad avere a che
fare con questi facinorosi». Evidentemente, come la maggioranza dei deputati che
siedono in Parlamento, non sanno nemmeno che la Francia ha rinviato a dopo il
2040 ogni decisione se costruire o meno una linea ad alta velocità per collegare
Torino a Lyon e che quindi il tunnel sotto il Moncenisio è fine a se stesso, e
servirà solo per una risibile e demenziale linea ad alta velocità tra Susa e
Saint Jean de Maurienne.
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C’è voluta Whatsapp per avvertire giornalisti e attivisti italiani che i loro
cellulari sono spiati da un potente software. E la società israeliana che lo
produce ha rotto il contratto con l’Italia perché lo ha usato contro le regole.
Ma il governo non risponde e nei servizi regna il caos
di Giansandro Merli da il manifesto
La Paragon Solutions ha interrotto i rapporti con i suoi clienti italiani. È la
società madre dello spyware Graphite usato per intercettare i cellulari di
almeno 90 persone, tra cui sette utenze con il prefisso internazionale +39. Tra
loro il direttore di Fanpage Francesco Cancellato, il capomissione di
Mediterranea Luca Casarini, altri due attivisti della ong. Tra le identità rese
pubbliche finora c’è anche quella del giornalista libico, esule in Svezia, Husam
El Gomati.
LA DECISIONE di «terminare il contratto con l’Italia» è stata rivelata ieri
mattina da uno scoop del Guardian. Solo poche ore prima palazzo Chigi aveva
fatto circolare una nota in cui negava che «l’intelligence e quindi il governo»
avevano messo sotto controllo dei giornalisti. Il problema di questa versione è
che Paragon presta i suoi servizi soltanto a entità statali o meglio: «A un
gruppo selezionato di democrazie globali, principalmente agli Stati uniti e ai
suoi alleati», ha dichiarato il presidente esecutivo della società John Fleming.
E infatti il quotidiano israeliano Haaretz scrive che i clienti italiani di
Paragon sono «due diversi corpi, un’agenzia di polizia e un’organizzazione di
intelligence».
Già alla fine della scorsa settimana, quando lo scandalo è venuto fuori, ai due
acquirenti erano state chieste maggiori informazioni sull’uso dello spyware. La
decisione di disconnetterli da Graphite è arrivata, secondo fonti di Haaretz,
proprio dopo la nota della presidenza del Consiglio che ha anche elencato altri
13 paesi Ue coinvolti. Rivelando ulteriori clienti della società sulla base
delle informazioni acquisite dall’Agenzia per la cybersicurezza nazionale,
attivata su richiesta del sottosegretario di Stato Alfredo Mantovano.
Il governo italiano rifiuta di fornire nuove informazioni sul caso, sostenendo
che lo farà soltanto in sede Copasir mentre le opposizioni chiedono che
riferisca in parlamento. Neanche Paragon ha dichiarato ufficialmente perché ha
bloccato la collaborazione. La spiegazione più accreditata è che per la società
il governo ha mentito. Nelle condizioni della licenza è prevista la possibilità
di «terminare l’accordo con l’utente» in caso di abusi o violazioni.
TRA I FONDATORI DI PARAGON ci sono l’ex premier di Tel Aviv Ehud Barak, che non
ha voluto commentare la vicenda, e alti ufficiali dell’Unità 8200, componente
dell’esercito dello Stato ebraico specializzata in spionaggio e cyberattacchi.
Sul sito della società, una pagina senza link, la dicitura estesa è Paragon
Solutions Us. Alla fine dello scorso anno è stata acquistata, ma non è chiaro se
in parte o in toto, da una società di private equity statunitense. Mossa utile a
garantirsi il mercato a stelle e strisce, dopo aver superato una revisione del
contratto di vendita ordinata dalla Casa Bianca di Joe Biden per ragioni di
sicurezza nazionale.
Questione in ballo anche sul versante italiano, dove già in passato sono emersi
problemi sull’appalto a società israeliane dei sistemi di controllo digitale. La
vicenda di questi giorni, però, apre interrogativi di altra natura. Se fosse
vero che il governo non ha dato indicazione di spiare dei giornalisti
significherebbe che la decisione di intercettare Cancellato è stata presa in
sede parallela, da apparati su cui l’esecutivo non ha il controllo. La nota di
palazzo Chigi, poi, nulla dice sugli attivisti coinvolti. Chi ha ordinato di
controllare i loro telefoni? Teoricamente non si possono escludere inchieste da
parte della magistratura. Una fonte ben informata, però, chiarisce al manifesto
che in questi casi le procure non appaltano lo spionaggio a società straniere.
Hanno i loro strumenti. Per esempio quelli classici usati contro Mediterranea
nel caso Maersk: registrazioni delle telefonate e poi sequestro dei telefoni per
accedere alle chat.
«USARE GRAPHITE per delle indagini sarebbe come servirsi di un bazooka per
colpire un pesciolino», afferma la fonte. Il sistema utilizzato dallo spyware è
estremamente complesso. Sono in corso approfondimenti tecnici di varia natura,
ma è certo che il software può registrare tutte le operazioni svolte dal
dispositivo infiltrato e anche accedere ai cloud di riferimento per reperire
informazioni che non sono presenti fisicamente sul dispositivo. Per
l’inoculazione sarebbe stata usata una chat Whatsapp a cui gli utenti, ignari,
sono stati aggiunti. Attraverso l’invio di un pdf è possibile avviare il
controllo senza che quello sia neanche aperto o scaricato. La tecnologia usata è
in grado di nascondere tutte queste operazioni.
Infatti la vicenda è venuta fuori solo perché Meta, proprietaria dell’app di
messaggistica, ha contattato le persone spiate. «Probabilmente dopo lo scandalo
Pegasus, spyware usato contro 1.400 utilizzatori di Whatsapp, la società ha
implementato un meccanismo di controllo e verifica per evitare l’uso del suo
software da parte di soggetti terzi. Soprattutto per bloccare truffe vere e
proprie. In questa rete potrebbe essere finto Graphite», spiega l’informatico
forense Paolo Reale.
«ALCUNI STATI UE sono clienti di queste tecnologie invasive e lesive dei
diritti, di cui si abusa impunemente, e non ci sono azioni da parte delle
autorità per ritenere responsabili le aziende che le producono. Manca la volontà
politica di intervenire da parte delle istituzioni», dice Rand Hammoud,
responsabile delle campagne sulla sorveglianza di Acces Now. «Se metti la
tecnologia segreta di hacking nelle mani di un governo che pensa di non essere
scoperto, gli abusi non sono questione di se ma di quando. Anche in una
democrazia. Finora è uscita solo la punta dell’iceberg», afferma John Scott
Railton, esperto del centro di ricerca The Citizen Lab che sta conducendo
un’analisi indipendente sui cellulari spiati.
Spiati i cellulari di giornalisti e attivisti. C’è anche Luca Casarini
Ci sono anche i cellulari di Luca Casarini e altri due attivisti di Mediterranea
tra quelli colpiti da un pericoloso spyware segnalato da Meta, proprietaria di
Whatsapp. In totale sarebbero una novantina le persone coinvolte, secondo quanto
riferito da un funzionario della società alla Reuters. Fino a ieri erano
trapelati i nomi del direttore di Fanpage Francesco Cancellato e del giornalista
libico, esule in Svezia, Husam El Gomati.
«Ti consigliamo di cambiare dispositivo, in quanto anche un ripristino alle
impostazioni di fabbrica potrebbe non essere in grado di rimuovere lo spyware»,
è la comunicazione ufficiale comparsa la settimana scorsa sui display dei loro
dispositivi. Il software usato si chiama Graphite, è stato creato a scopi
militari dalla società Paragon, con sede in Israele. È uno strumento capace di
registrare l’intera attività dei cellulari, comprese le chat criptate.
«Credo che il contesto di questo spionaggio sia la Libia, il soccorso in mare,
la costruzione di reti di supporto ai rifugiati che fuggono dai lager», afferma
Casarini. A sostenere questa tesi le attività di El Gomati: il giornalista
diffonde documenti sulla corruzione nel paese nordafricano, sui protagonisti del
traffico di esseri umani e sui rapporti tra le milizie di Tripoli e Zawia e
l’intelligence italiana. Attività poco gradite ai servizi di Roma, soprattutto
in questi giorni di tensioni per il caso Elmasry.
Cancellato, però, si occupa di altri temi. La sua testata ha realizzato lo
scorso anno importanti inchieste sui rapporti tra FdI ed estremisti di destra.
«Perché sono stato coinvolto?», si era chiesto il giornalista.
Lunedì il sito specializzato Tech Crunch ha riportato una dichiarazione del
presidente esecutivo di Paragon John Fleming: la nostra società «concede in
licenza la sua tecnologia a un gruppo selezionato di democrazie globali,
principalmente agli Stati Uniti e ai suoi alleati». Senza però specificare
quali. Ha anche sottolineato che termini e condizioni del contratto proibiscono
di spiare giornalisti e altri attori della società civile.
«Il governo italiano ha autorizzato una simile operazione? I servizi segreti
italiani si avvalgono del software di Paragon?», chiede Mediterranea in una
nota. Domande analoghe a quelle contenute in un’interrogazione parlamentare
rivolta alla premier Giorgia Meloni e firmata dai dem Federico Fornaro e Lia
Quartapelle. «Siamo di fronte a una vicenda gravissima e inquietante su cui il
governo deve chiarire», attaccano Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, di Avs.
In serata è arrivata una prima risposta da Palazzo Chigi: escludiamo che dei
giornalisti «siano stati sottoposti a controllo da parte dell’intelligence e
quindi del governo». Nessun cenno, invece, agli attivisti. Le utenze italiane
colpite dallo spyware sono sette in totale: all’appello ne mancano quindi altre
quattro. La cifra arriva da un’interlocuzione tra l’Agenzia per la
cybersicurezza nazionale, attivata dall’esecutivo, e la sezione irlandese di
Meta, che opera nel mercato europeo. Nel Vecchio continente risultano numeri
coinvolti anche in: Belgio, Grecia, Lettonia, Lituania, Austria, Cipro,
Repubblica Ceca, Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Svezia.
Quanto venuto fuori finora potrebbe essere solo la punta dell’iceberg.
Maggiori informazioni sono attese dalle analisi che stanno conducendo su alcuni
dei dispositivi gli esperti di The Citizen Lab, un centro di ricerca
interdisciplinare basato nell’università di Toronto che collabora con Meta. La
stessa società ha consigliato agli intercettati, «se sei un giornalista o un
membro della società civile», di contattare quei ricercatori.
«Ho fornito il mio telefono per condurre un’indagine civile. Ci aspettiamo che
attraverso questo esame informatico sia possibile comprendere le caratteristiche
dell’incursione che abbiamo subito, tracciando le attività dello spyware per
capire quando ha iniziato a funzionare e su cosa si è concentrato», afferma
Casarini. Per adesso si sa solo che era al lavoro già lo scorso dicembre. Nei
prossimi giorni arriveranno nuovi dettagli.
Intanto Casarini ha annunciato un esposto ai pm per «scoprire i mandanti».
Lunedì terrà con Cancellato una conferenza al parlamento Ue: si attendono nuovi
dettagli.
> Un software di spionaggio israeliano sorveglia giornalisti e attivisti nel
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