A marzo Trump ha chiesto a tutte le amministrazioni di far confluire i dati in
loro possesso in un unico calderone da affidare all’analisi degli specialisti
informatici di Palantir, la società di Peter Thiel, compagno di strada di Musk.
Scansione massiccia e non autorizzata dei social media. Analisi di dati
biometrici, reddituali, sanitari e di sicurezza sociale. Intercettazione delle
comunicazioni telefoniche. Geolocalizzazione tramite dispositivi mobili.
Tracciamento dei viaggi in auto tramite lettori di targhe.
a cura di Salvatore Palidda
Mentre cerca limitare i danni degli assalti di Elon Musk, il best buddy
diventato toro scatenato che gli imputa di somministrare agli americani un
bilancio da bancarotta, Donald Trump finisce sotto accusa anche per sospetti da
«grande fratello» orwelliano: l’uso dell’enorme volume di dati sui cittadini in
possesso o reperibili dal governo (fiscali, previdenziali, sanitari, scolastici,
ma anche creditizi) per costruire profili di ogni individuo. A marzo Trump ha
emesso un poco notato ordine esecutivi presidenziale: ha chiesto a tutte le
amministrazioni di far confluire i dati in loro possesso in un unico calderone
da affidare all’analisi degli specialisti informatici di Palantir, la società di
Peter Thiel, compagno di strada di Musk. Questa impresa analizza e classifica
dati segretissimi per conto del Pentagono e dei servizi di intelligence di mezzo
mondo.
La Casa Bianca non ha mai parlato di questo limitandosi a dire che l’ordine
impartito da Trump a ministeri e agenzie punta a migliorare le procedure
amministrative. Gli esperti considerano, invece, pericolosissima questa
concentrazione di informazioni: possibili abusi per creare sistemi di
sorveglianza dei cittadini in stile cinese, magari da utilizzare contro gli
avversari politici. E si rischia anche una diffusa perdita di fiducia: molti,
sospettando il peggio, potrebbero smettere di fornire i loro dati personali (o
fornirli alterati).
Che i pericoli ci siano lo sostengono anche una dozzina di dipendenti che hanno
lasciato Palantir denunciando ordini interni che espongono i risultati del loro
lavoro analitico al rischio di abusi dell’autorità politica. Rischi che hanno
già spinto le organizzazioni per i diritti civili a chiedere ai giudici di
bloccare questa «raccolta a strascico» di dati. Ora cominciano a ribellarsi
anche gruppi MAGA con un credo libertario: hanno seguito Trump condividendo la
sua lotta contro il deep state, ma ora si chiedono cosa ci sia di più deep, di
una schedatura elettronica di massa. Dopo Musk, dunque, anche Thiel lambito
dalla bufera. Fin qui ha solo seguito le direttive di Trump, dopo che è stato
proprio il Doge di Elon ad aprire la strada a Palantir. Ma ora, con Musk fuori
dal governo e il Doge in ritirata, i riflettori si accendono anche su di lui: il
vero architetto dell’adesione al trumpismo del mondo tecnologico orientato a
destra.
Gli Stati Uniti diventano uno stato di tecno-sorveglianza di massa
Scansione massiccia e non autorizzata dei social media. Analisi di dati
biometrici, reddituali, sanitari e di sicurezza sociale. Intercettazione delle
comunicazioni telefoniche. Geolocalizzazione tramite dispositivi mobili.
Tracciamento dei viaggi in auto tramite lettori di targhe.
“La sorveglianza negli Stati Uniti non è iniziata con Trump, né finirà quando
lascerà la Casa Bianca. Le fondamenta dell’attuale stato di tecno-sorveglianza
sono state gettate nel corso di decenni, con il sostegno bipartisan a politiche
che hanno normalizzato le pratiche invasive nelle forze dell’ordine,
nell’esercito e nel controllo delle frontiere” (lo dice un militante per i
diritti civili del Bahrein Esra’a Al Shafei, che da anni studia questo problema,
in una conversazione con El País).
“Questo sistema è alimentato da grandi budget assegnati alle agenzie di
intelligence e a fornitori privati, con il pretesto della sicurezza nazionale e
della prevenzione del crimine”. Aziende come Palantir, Anduril e GEO Group
stanno fornendo a Washington gli strumenti digitali per costruire questa intera
infrastruttura di sorveglianza.
Trump continua ad aggiungere strati a questo sistema. Il Dipartimento di
Sicurezza Nazionale […] ha confermato ad aprile che sta utilizzando uno
strumento chiamato Babel X per raccogliere informazioni sui social media dei
viaggiatori che potrebbero essere soggetti a una maggiore sorveglianza, secondo
quanto dichiarato dalla stessa agenzia.
L’Immigration and Customs Enforcement (ICE), da parte sua, ha ammesso di
utilizzare un altro programma, SocialNet, che aggrega dati da oltre 200 fonti,
tra cui Facebook, Twitter/X, Instagram, LinkedIn e app di incontri.
Washington riconosce ufficialmente che la semplice ricerca di “attività
antisemite” sui feed, come la protesta per il massacro di Gaza, è sufficiente
alle autorità per negare l’asilo o la cittadinanza.
I social media sono solo la superficie. Per alimentare questa macchina
automatizzata per rintracciare i sospetti, sono necessari dati di qualità sui
cittadini. Alcune di queste informazioni vengono ottenute acquistandole da
grandi broker di dati, come Thomson Reuters o Lexis Nexis, che creano profili
esaustivi di milioni di persone, utilizzando fino a 10.000 tipi di dati su ogni
individuo in base alle sue tracce online.
Si va dal nome, all’indirizzo, al livello di reddito o al luogo in cui si fa la
spesa, alle attività preferite per il tempo libero, all’età in cui gli amici si
sono sposati, alla storia sessuale e al profilo emotivo: tutte queste
informazioni sono disponibili.
Ma l’altra parte di questo vasto archivio di dati viene distillata all’interno
del governo federale stesso. Si tratta di uno dei progetti più importanti di
Trump e, finora, del suo consigliere di punta, Elon Musk: il Department of
Government Efficiency (DOGE), guidato dallo stesso Musk, che per mesi ha
raccolto da altre agenzie federali dati ufficiali sensibili su centinaia di
milioni di cittadini, dalla situazione fiscale alle cartelle cliniche. Alcuni
osservatori avvertono che questi dati potrebbero essere presi da Musk ora che ha
deciso di lasciare la Casa Bianca.
I dati raccolti dal DOGE vengono utilizzati da Palantir, che ha contratti con
l’amministrazione per oltre 2,7 miliardi di dollari, per costruire una nuova
piattaforma di deportazione per l’Immigration and Customs Enforcement,
ImmigrationOS. Secondo la sintesi del contratto, che specifica che il primo
prototipo dovrebbe essere pronto entro settembre, i dati serviranno a
“supportare un’analisi completa delle popolazioni target” e a contribuire al
sistema di tracciamento individuale.
I tentacoli dello Stato di sorveglianza tecnologica sono molto estesi. Elabora
dati, ma ha anche occhi ovunque. “L’infrastruttura comprende strumenti come i
droni di sorveglianza con riconoscimento facciale, la raccolta di dati
biometrici, i lettori di targhe, le torri di guardia dotate di telecamere ad
alta risoluzione e sensori, gli strumenti di polizia predittiva e la
localizzazione, solo per citarne alcuni”, afferma Al Shafei, fondatore di
Surveillance Watch, un archivio di fama internazionale di informazioni sulle
aziende coinvolte nel business e sugli obiettivi noti.
Negli ultimi mesi, il DHS ha acquistato diverse licenze per software utilizzati
per spiare i telefoni cellulari da Cellebrite, Paragon Solutions, Venntel e NSO
Group, gli sviluppatori del software spia Pegasus, secondo i dati raccolti da
Just Futures Law.
Questa tecnologia viene utilizzata per accedere ai dispositivi e vedere tutto
ciò che vi accade, ma esistono anche altri strumenti per tracciare la posizione
dei cellulari. Un’inchiesta della rivista Time ha mostrato che le donne che
attraversano i confini dello Stato e si avvicinano alle cliniche abortive per
interrompere le gravidanze sono state identificate in questo modo senza un
mandato.
Nessuno ignora le implicazioni della macchina che Trump sta lucidando e oliando.
Un rapporto preparato da diverse ONG per le Nazioni Unite parla di “evaporazione
dei diritti umani” in riferimento a quanto sta accadendo alle frontiere
terrestri degli Stati Uniti.
“Un rapporto più stretto tra il governo e le società di sorveglianza, unito a
un’intensificazione della sorveglianza negli Stati Uniti, rappresenta una
minaccia reale per i diritti e le libertà fondamentali”, afferma Michael De
Dora, ricercatore specializzato in politica statunitense presso l’organizzazione
per i diritti digitali Access Now.
“L’amministrazione Trump attribuisce alla sicurezza nazionale un valore
superiore a quello dei diritti umani e della privacy, o addirittura a spese di
questi. I membri della sua amministrazione non solo sorvegliano le persone, ma
hanno persino discusso la sospensione di principi democratici fondamentali, come
l’habeas corpus”.
L’Europa non è immune da quanto sta accadendo negli Stati Uniti: “Agenzie come
Frontex ed Europol stanno investendo in database biometrici, riconoscimento
facciale e strumenti di monitoraggio basati sull’intelligenza artificiale che
ricordano da vicino i sistemi già in vigore negli Stati Uniti” (cf. Aljosa
Ajanovic, analista dell’European Digital Rights Institute -EDRi).
Negli Stati Uniti, molti osservatori ritengono che sia molto difficile limitare
l’applicazione di tutti questi controlli tecnologici sugli stranieri. Nemmeno i
più convinti trumpisti, ritiene De Dora, dovrebbero sostenere il dispiegamento
dello Stato di tecno-sorveglianza. “Una volta che questo macchinario è accettato
e operativo, può essere usato contro chiunque”.
(fonti: Massimo Gaggi | 5 giugno 2025
https://www.corriere.it/opinioni/25_giugno_05/trump-e-il-fantasma-del-grande-fratello-49831f2e-b292-4913-aa84-7f2753176xlk.shtml,
Manuel G. Pascual per elpais.com/ e Aljosa Ajanovic, analista dell’European
Digital Rights Institute -EDRi)
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Tag - misure repressive
La tutela delle forze dell’ordine come leva per introdurre nuovi reati al fine
di conservare l’ordine sociale. Soffiare sulle paure per reprimere il dissenso
di Antonello Azzarà da DINAMOpress
Dallo scorso 11 aprile, il più grande attacco alla libertà di protesta della
storia repubblicana italiana si è trasformato in un decreto che è stato
convertito in legge. Coerentemente con il suo contenuto autoritario e
antidemocratico, pensato e disegnato per reprimere il dissenso e colpire
duramente le più disparate soggettività già socialmente vulnerabili, le sue
modalità di introduzione sono anch’esse antidemocratiche: come al solito
emergenziali, motivate da improbabili ragioni di straordinaria necessità ed
urgenza, con tanto di voto di fiducia, al riparo da quella che dovrebbe essere
la naturale dialettica democratica. D’altronde, i cosiddetti pacchetti
sicurezza, varati dai governi di ogni colore e provenienza, hanno da sempre
assunto la forma del decreto (ricordiamo i decreti “Maroni”, d.l. 23 maggio
2008, n. 92; “Minniti”, d.l. 20 febbraio 2017, n. 14; “Salvini”, d.l. 4 ottobre
2018, n.113). Non c’è dunque da meravigliarsi, ma neanche da arrendersi.
> Uno Stato che a forza di decreti si preoccupa dell’ampliamento delle tutele
> delle forze di polizia, relegando all’oblio delle sue agende politiche la
> strage che da oltre un anno si sta consumando nelle galere sempre più
> sovraffollate, è uno Stato che sta dichiaratamente affinando e ampliando un
> potere di sopraffazione sui corpi, utilizzato per incapacitare la
> vulnerabilità sociale e reprimere il dissenso.
Sotto l’apparente neutralità di approntare una tutela efficace alle forze
dell’ordine si introducono nuovi reati, ampliando le pene di quelli già
esistenti e aggiungendo senza alcun criterio di ragionevolezza delle nuove
circostanze aggravanti. Sempre nel capo terzo del decreto, dedicato alla tutela
delle forze di polizia, si prevedono i nuovi reati di rivolta penitenziaria,
così come nei luoghi di accoglienza e trattenimento per migranti. C’è da dire,
però, che la forza di polizia, nell’adempimento del suo mandato di tutela
dell’ordine pubblico, è tutto fuor che neutrale. Mantenere l’ordine, specie
nelle piazze o nelle strade dove si svolge una protesta, tanto più quando
pacifica, (spazi di libertà, questi sì, che dovrebbero essere tutelati secondo i
dettami della nostra democrazia costituzionale) significa conservare un
determinato ordine sociale e di classe, che è anche un ordine simbolico. Ed è
proprio rispetto all’accaparramento di questo capitale simbolico che si
comprende l’inquietudine scomposta del governo nel troncare l’iter legislativo
per ragioni, come ammette lo stesso Ministro dell’Interno, «di opportunità».
È un consenso di cui si nutrono i populismi di ogni sorta, in quelle che il
filosofo Luigi Ferrajoli chiama demoastenie. Si tratta di un consenso passivo e
vacillante, sorretto da una paura artificiale sul quale hanno soffiato e
continuano a soffiare i governi preoccupati dalla costante perdita di
legittimazione politica. Quest’ordine simbolico viene preservato e nutrito a
suon di decreti, nuovi reati, misure di sicurezza e più potere alla polizia che
ne è garante.
> Si finisce in una forma patologica di democrazia, in cui il popolo è inteso
> come soggetto passivo non autorizzato ad attivarsi per concorrere
> democraticamente alla politica nazionale.
La piazza e le strade, invece, diventano terreno di contesa e di comunicazione
unilaterale. Quanti feriti tra le forze di polizia, quanti facinorosi tra le
fila dei manifestanti. In questo modo, il corpo degli agenti viene
strumentalizzato, divenendo esso stesso mezzo di repressione. Non solo
attraverso le braccia armate di scudi e manganelli, ma anche attraverso i
referti medici, dal quale conseguiranno anni di galera per i manifestanti.
Questi ultimi, magari, individuati in modo approssimativo tramite le bodycam
previste dall’art. 21 del decreto, da cui vengono estratte immagini
decontestualizzate da utilizzare per risalire ai volti presenti in situazioni
concitate, come quelle che si verificano durante una carica della polizia.
Dietro la repressione del dissenso e il contenimento muscolare della marginalità
sociale, sulle strade, in carcere o nei CPR, c’è un non tanto velato desiderio
di disciplinamento e di addocilimento forzato. Manifestare oggi è quindi
necessario per poterlo fare anche domani, in ogni luogo.
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Quando in Italia accadeva quello che accade oggi per esempio in Turchia.
Arrestavano gli avvocati o li costringevano a rifugiarsi all’estero. Con l’alibi
della “lotta al terrorismo” lo stato democratico nato dalla Resistenza
antifascista massacrava il diritto di difesa identificando i legali con la
“banda armata” di cui erano accusati di far parte i loro assistiti. Gabriele
Fuga racconta la sua vicenda giudiziaria politica e umana nel libro che ha per
titolo “La cella dell’avvocato”
di Edoardo Todaro da Carmilla
“ Anni di piombo “ è questa la definizione che va per la maggiore nel definire
un periodo importantissimo nella storia del conflitto sociale e politico, quello
che si è prodotto negli anni ‘70. In questo paese, in quel periodo si è
sviluppato un movimento che non ha avuto paragoni in altri paesi occidentali.
Tanti i motivi sul perché in Italia si sia sviluppato tale percorso, certo non è
questo l’ambito. La liberazione dal nazifascismo sta subendo, da molti anni a
questa parte, un percorso di omologazione tra vinti e vincitori. Do you remember
Violante e le ragioni dei vinti? La morte non fa distinzioni, di fronte ad essa
siamo tutti uguali.
Questo in estrema sintesi, il percorso intrapreso in questi anni per arrivare ad
una riscrittura della storia, per arrivare alla famosa memoria condivisa. Tutti
uguali nella liberazione? Equiparare liberatori ed oppressori se si parla della
lotta di liberazione avvenuta nel ’45. Rimuovere e silenziare se si parla degli
anni’70; cosa sono stati gli “ anni ’70 “ in questo paese? Un conflitto sociale
politico/sindacale/sociale si è manifestato e come è stato possibile che in
una” democrazia compiuta “ si verificasse un possibile “ assalto al cielo “ che
potesse rimettere in discussione rapporti di forza consolidati a favore del
potere capitalistico, messa in discussione concretizzatisi con “ il mettere
paura “.
I protagonisti di quell’esperienza, spesso e volentieri finiti ad espiare il
proprio essere soggetti di una rottura epocale nelle patrie galere, devono
restare in silenzio, non farsi portatori del raccontare la propria esperienza ,
del proprio vissuto. Come si diceva un tempo “ a futura memoria “, a monito per
le nuove generazioni che si affacciano nell’essere protagoniste della messa in
discussione dello stato di cose presenti. Se prendi in considerazione che il tuo
impegno politico, la tua appartenenza al conflitto sociale in atto possa
esprimersi anche in forme incompatibili con l’ordine costituito, sappi che ti
teniamo sotto controllo, anzi che se pensi di farla frana, ti raggiungeremo
anche a distanza di decenni e te la faremo pagare, perché il potere non
dimentica. . Che sia capitato una volta? Ci può stare. Ma che non si ripeta
mai! Abbandono queste considerazioni, sicuramente ci sarà occasione per
tornarci, per dire alcune cose rispetto a “ La cella dell’avvocato “.
Gabriele Fuga, l’avvocato Gabriele Fuga, ci riporta ad un qualcosa di molto
importante, un qualcosa che deve essere conosciuto. Per tantissimi anni il
conflitto sociale aveva assunto tali dimensioni di scontro e di massa, che
rispondere alla repressione rientrava nei compiti di tutti nessuno escluso.
Certo c’era anche una nutrita schiera di legali che si prestavano a sostenere
coloro che venivano colpiti dai provvedimenti repressivi, ma il farvi ricorso
era, per così dire, una modalità tutta interna alle “ dinamiche di movimento “.
Ad un certo punto, la repressione ha accentuato il suo agire ed il movimento ha
attenuato la sua forza d’urto, anche su questo ritorneremo, e l’aspetto della
difesa legale ha assunto proporzioni considerate, prima, importanti ma
secondarie. Prima, se un operaio veniva licenziato, rivolgersi ad un legale era
ovvio; impugnare il licenziamento un percorso da praticare ma sapendo che il
rientro in fabbrica poteva avvenire non tanto grazie non solo a sentenze
favorevoli ma soprattutto alla solidarietà dei propri compagni che ti
riaccompagnavano in azienda portato a spalla. Quindi riprendendo il filo
lasciato qualche riga sopra, Gabriele Fuga rappresenta una figura emblematica
all’interno di un effetto a catena: avvocato/imputato; imputato/avvocato e così
all’infinito,infatti ad esempio lui sarà difensore di Spazzali e poi dovrà
trovarsi un difensore. Numerosi i nomi che hanno segnato quel periodo da
Spazzali, arrestato, ad Arnaldi, suicidatosi per evitare l’arresto dovuto al
pentito di turno, perché il numero di chi fa dichiarazioni infamanti si
accentua.. La sua vicenda riporta alla luce, appunto, la figura del pentito, in
questo caso Paghera, un detenuto comune politicizzato in carcere, addirittura
l’assistito che diviene accusatore. Avvocati soprattutto, ma non solo, che si
ritrovano attorno a una realtà fondamentali per la solidarietà che riuscì ad
esprimere concretamente: “SOCCORSO ROSSO” ed il “Comitato Internazionale per la
Difesa dei Detenuti Politici”.
L’accusa per l’avvocato Seguso/Fuga è quella usuale per coloro che svolgevano
quell’attività: partecipazione a banda armata ed associazione sovversiva, anello
di collegamento tra il difeso ed i “ complici “ fuori; accusa che farà sì che
nessuno un domani accetterà di farsi difendere da loro, questo è quel succede ai
compagni/avvocati, le idee sotto processo. Fuga che mantiene il proprio ruolo
anche nella fase detentiva con consulenze, ovviamente gratuite, in carcere
perché la sua professione deve essere un aiuto a coloro che in vari modi si
pongono contro lo stato, ma anche per le guardie che sono al servizio dello
stato. Fuga a San Vittore che diviene un inquilino a tempo indeterminato, tra
l’incriminazione per appartenere ad Azione Rivoluzionaria e poi a Prima Linea.
Carcere a confronto ieri/oggi: la descrizione delle celle d’isolamento; del
rancio; del bugliolo; del sovraffollamento sempre presente; la sveglia; la
perquisizione della cella; la corrispondenza in entrata ed uscita sottoposta a
controllo; le domandine per qualunque cosa a cui poter accedere; l’autoerotismo;
il consumo di playgil; ma sicuramente la solidarietà su tutto, quella
solidarietà elemento importante in una comunità chiusa come il carcere, ed a
quell’epoca, le discussioni politiche. Il tutto per dire che il carcere è uno
zoo umano e l’aspettativa è riposta verso la decorrenza termini.
Un viaggio attraverso i carceri italiani da Volterra, con la rivolta,a Porto
Azzurro dove si sta quasi bene, ai carceri della Toscana come Pisa molto simile
al Sud America. Fuga sottoposto ad un processo, macchina del fango, costruito
sulla credibilità di due pentiti. Su tutta questa vicenda avrà importanza
particolar il rapporto con Mario Dalmaviva, uno dei tanti imputati/condannati
della cosiddetta operazione 7 aprile, il quale metterà al servizio di Fuga le
sue vignette, che di satirico avranno ben poco, se non il mettere in discussione
il pianeta carcere. Possiamo dire che l’esperienza di Fuga, e tanti altri, ha
lasciato il segno a tal punto che sono numerosi gli avvocati che mettono le
proprie conoscenze e capacità al servizio di chi è colpito dai provvedimenti
repressivi, anche se l’auspicio, è che finalmente potremmo assistere di nuovo ad
un movimento conflittuale che sostiene i propri compagni.
Gabriele Fuga, La cella dell’avvocato, Edizioni Colibrì; pp. 316; € 17
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Nuova condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani per i
maltrattamenti inflitti dalla polizia nel 2001 a Napoli, nei confronti di un
praticante avvocato dopo la manifestazione
di Eleonora Martini da il manifesto
Nuova condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani per i
maltrattamenti inflitti dalla polizia nel 2001 a Napoli, nei confronti di un
praticante avvocato dopo la manifestazione contro il Global Forum, e per «le
successive indagini». La vittima dovrà ora essere risarcita dallo Stato italiano
con 30 mila euro per danni morali.
I sette giudici che hanno firmato la sentenza di Strasburgo hanno stabilito
all’unanimità la violazione dell’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o
degradanti) della Convenzione Edu nel caso di Andrea Cioffi, allora praticante
avvocato, che il 17 marzo 2001 venne prelevato dal pronto soccorso insieme ad
altri manifestanti no global feriti durante gli scontri con la polizia, e
trasportato alla stazione Raniero di Napoli. Lì subì, insieme ad altri,
percosse, violenze e umiliazioni, minacce e abusi. Trattamenti «particolarmente
odiosi», come accertato negli anni dai tribunali italiani durante i processi ai
31 agenti di polizia imputati e accusati di vari reati ma non di tortura, perché
allora questa fattispecie non era ancora stata introdotta nell’ordinamento
italiano.
E infatti la Cedu ha condannato l’Italia anche perché le misure prese dalle
autorità per assicurare alla giustizia i responsabili «non possono essere
considerate adeguate». Scrivono i giudici: «Tra le altre sentenze, 10 agenti
sono stati condannati per sequestro di persona e condannati a pene detentive
fino a 2 anni e 8 mesi, con sospensione dai pubblici uffici. 14 agenti hanno
presentato ricorso.
Nel gennaio 2013 le condanne per sequestro di persona sono state annullate dalla
Corte d’Appello di Napoli per decorso dei termini di prescrizione, così come le
sospensioni dai pubblici uffici. Nell’ottobre 2015 la Corte di Cassazione ha
confermato tale sentenza. Al termine del procedimento, tutti i reati sono stati
definitivamente prescritti, ad eccezione di tre agenti che avevano presentato
una rinuncia espressa alla prescrizione. La maggior parte dei reati è stata
definitivamente prescritta».
Afferma la Corte che casi come questi non sono compatibili con la giurisprudenza
Edu. E ricorda che già nel 2015 (sentenza Cestaro) l’Italia era stata invitata
«a introdurre meccanismi giuridici in grado di impedire ai responsabili di atti
di tortura» di sottrarsi alla giustizia.
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ll Decreto Sicurezza “paura e repressione” è stato approvato in Senato in via
definitiva. 109 sono stati i voti favorevoli, 69 i contrari.
Con 109 voti favorevoli, 69 contrari e una sola astensione, è stato dato il via
libera anche dal Senato al decreto Sicurezza che, dopo l’approvazione alla
Camera dello scorso 29 maggio, diventa così legge. Sul decreto, uno dei
provvedimenti bandiera del governo Meloni, era stata apposta la scorsa settimana
la questione della fiducia, che aveva in questo modo impedito che fossero
apportate ulteriori modifiche al testo.
Diventa così effettiva l’introduzione di 14 nuovi reati, e 9 le aggravanti
aggiuntive. che spaziano dalla resistenza passiva alla ribattezzata ‘norma anti
Gandhi’, fino alla stretta sulla cannabis light, a un nuovo regime per le
detenute madri, alle cosiddette norme ‘anti No-Tav e anti No-Ponte’, alla
garanzia di impunità alle violenze e abusi da parte delle forze dell’ordine
Il decreto riproduce sostanzialmente i contenuti del disegno di legge sicurezza:
confrontando i testi dei due provvedimenti sono 12 gli articoli che hanno subito
modifiche, anche minime, rispetto al testo originario. Tra le modifiche più
consistenti rientrano le norme sulle detenute madri e quelle relative alle sim
telefoniche per cittadini extra Ue.
TERRORISMO
Si introducono nuove fattispecie di reato in materia di detenzione di materiale
contenente istruzioni per il compimento di atti di terrorismo e di divulgazione
di istruzioni sulla preparazione e l’uso di sostanze esplosive o tossiche ai
fini del compimento di delitti contro la personalità dello Stato.
ACCATTONAGGIO
Si inaspriscono le pene per chi impiega minori nell’accattonaggio (fino a 5 anni
di reclusione)
REATI VICINO A STAZIONI TRENI E METRO
Si introduce una nuova circostanza aggravante che scatta quando il reato è
commesso all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie o
delle metropolitane o all’interno dei convogli adibiti al trasporto passeggeri.
Tale circostanza si applica ai delitti non colposi contro la vita e l’incolumità
pubblica e individuale, contro la libertà personale e contro il patrimonio o che
comunque offendono il patrimonio.
IMMOBILI OCCUPATI
Viene introdotto il reato di occupazione arbitraria di immobile destinato a
domicilio altrui (o delle relative pertinenze, come garage o cantine) e una
procedura d’urgenza per il rilascio dell’immobile e la conseguente
reintegrazione nel possesso. Il reato è punito con la reclusione da 2 a 7 anni e
si prevede una causa di non punibilità in favore dell’occupante che collabori
all’accertamento dei fatti e ottemperi volontariamente all’ordine di rilascio
dell’immobile.
STRETTA SU MANIFESTAZIONI
Inasprimento delle pene per il delitto di danneggiamento in occasione di
manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico qualora il fatto sia
commesso con violenza alla persona o minaccia. È prevista la pena della
reclusione da 1 anno e 6 mesi a 5 anni e della multa fino a 15.000 euro. Si
prevede l’arresto in flagranza differita quando il fatto è commesso in occasione
di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico.
BLOCCO STRADALE E NORMA ANTI GANDHI
Diventa illecito penale – in luogo dell’illecito amministrativo – il blocco
stradale o ferroviario attuato mediante ostruzione fatta col proprio corpo. La
pena è aumentata se il fatto è commesso da più persone riunite. Potrà essere
punito con un mese di carcere e una multa fino a 300 euro. Ma se avviene nel
corso di una manifestazione, e sono più persone a bloccare la strada, allora la
pena può arrivare fino a sei anni.
DETENUTE MADRI
È una delle norme più controverse e contestate e al centro anche dei rilievi del
Colle. E’ stata modificata, allentando la ‘stretta’, rispetto al testo
originario: si rende comunque facoltativo, e non più obbligatorio, il rinvio
dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di figli di età
inferiore ad un anno e si dispone che scontino la pena, qualora non venga
disposto il rinvio, presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri.
Inoltre l’esecuzione della pena non è rinviabile ove sussista il rischio, di
eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti. Il differimento
della pena può essere revocato se la madre ha comportamenti che potrebbero
arrecare un grave pregiudizio alla crescita del minore. Se la pena non viene
differita, per le madri di figli di età compresa tra 1 e 3 anni la pena potrà
essere eseguita presso un Icam solo se le esigenze di eccezionale rilevanza lo
consentano.
CANNABIS
Viene disposto il divieto di importazione, cessione, lavorazione, distribuzione,
commercio, trasporto, invio, spedizione e consegna delle infiorescenze della
canapa (Cannabis sativa L.), anche in forma semilavorata, essiccata o triturata,
nonché di prodotti contenenti tali infiorescenze, compresi gli estratti, le
resine e gli olii da esse derivati. Si prevede che, in tali ipotesi, si
applicano le sanzioni previste per gli stupefacenti e sostanze psicotrope. Il
divieto non ricomprende la produzione agricola di semi destinati agli usi
consentiti dalla legge entro i limiti di contaminazione.
NORMA ANTI NO TAV E NO PONTE
Così ribattezzata in quanto viene introdotta un’ulteriore circostanza aggravante
se la violenza o minaccia a un pubblico ufficiale è commessa al fine di impedire
la realizzazione di un’opera pubblica o di una infrastruttura strategica.
BODY CAM PER FORZE DELL’ORDINE
Si consente alle Forze di polizia di utilizzare dispositivi di videosorveglianza
indossabili nei servizi di mantenimento dell’ordine pubblico, di controllo del
territorio, di vigilanza di siti sensibili, nonchè in ambito ferroviario e a
bordo treno.
TUTELA LEGALE FORZE ORDINE
Viene previsto il riconoscimento di un beneficio economico a fronte delle spese
legali sostenute da ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia
giudiziaria, nonché dai vigili del fuoco, indagati o imputati nei procedimenti
riguardanti fatti inerenti al servizio svolto. Il beneficio è riconosciuto a
decorrere dal 2025.
NORMA ANTI ECOVANDALI
Si prevede che se viene imbrattato un bene mobile o immobile adibito
all’esercizio di funzioni pubbliche, con la finalità di “ledere l’onore, il
prestigio o il decoro” dell’istituzione alla quale appartengono, si applica la
pena della reclusione da sei mesi a un anno e sei mesi e la multa da 1.000 a
3.000 euro.
REATO DI RIVOLTA IN CARCERE E NEI CPR E RESISTENZA PASSIVA
Si introduce un’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi,
applicabile se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario o a
mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute; si prevede poi il
delitto di rivolta all’interno di un istituto penitenziario. Viene inoltre
previsto un nuovo reato finalizzato a reprimere gli episodi di proteste violente
da parte di gruppi di stranieri irregolari trattenuti nei cpr. Si introduce il
reato di resistenza passiva: si tratta delle condotte che impediscono il
compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione
dell’ordine e della sicurezza. Infine, vengono semplificate le procedure per la
realizzazione dei centri di permanenza per i rimpatri attraverso la possibilità
di derogare ad ogni disposizione di legge ad eccezione della legge penale e del
codice delle leggi antimafia e dell’Unione europea.
ARMI SENZA LICENZA
Si autorizzano gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza alcune
tipologie di armi quando non sono in servizio.
SIM TELEFONICHE
Norma controversa e oggetto dei rilievi del Colle, modificata rispetto al testo
originario: per acquistare una sim telefonica, un migrante dovrà presentare un
documento d’identità, non più il permesso di soggiorno come prevedeva il ddl.
SERVIZI SEGRETI
Dal decreto è saltato l’obbligo della pubblica amministrazione a collaborare con
i servizi segreti.
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Il 29 maggio 2025 la Camera dei Deputati ha approvato con 163 sì, 91 no e un
astenuto il cosiddetto “decreto sicurezza”, sul quale il governo Meloni aveva
posto la questione di fiducia. Il più grande e pericoloso attacco alla libertà
di protesta e dissenso nella storia repubblicana
di Leonardo Bianchi da Valigia Blu
Il provvedimento – che ora passerà all’esame del Senato – era stato adottato dal
Consiglio dei ministri lo scorso 4 aprile, con quello che da più parti è stato
definito un “colpo di mano”. Il decreto-legge ha infatti ripreso la maggior
parte delle misure contenute nel disegno di legge 1660, che dopo un lungo iter
parlamentare si era arenato al Senato.
Il ddl era già stato aspramente criticato dall’opposizione e dalla società
civile: l’associazione Antigone, ad esempio, l’aveva descritto come “il più
grande e pericoloso attacco alla libertà di protesta nella storia repubblicana”.
Anche il Quirinale aveva espresso diversi dubbi sulla costituzionalità di alcune
previsioni, che in parte sono stati accolti nel nuovo decreto.
Nel porre la questione di fiducia, il ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha
parlato di un “provvedimento strategico” che valorizza “il lavoro quotidiano
delle forze dell’ordine” e contiene “misure decisive per la sicurezza” – ossia
ben 14 nuovi reati e 9 aggravanti.
In questo senso, il “decreto sicurezza” è davvero l’emblema del populismo penale
che anima il governo Meloni: ogni questione politica e sociale – specialmente
quelle al centro dell’attenzione mediatica – va necessariamente risolta con la
repressione, e dunque con il carcere. Come ha sintetizzato il deputato Roberto
Giachetti di Italia Viva durante la discussione parlamentare, “volete solo
prendere la gente e buttarla in galera”.
Ma vediamo in dettaglio cosa contiene il decreto e quali sono le sue principali
criticità.
Lo scudo per le forze dell’ordine e le norme anti-rom
Il decreto si muove sostanzialmente su due binari: da un lato aumenta le tutele
per le forze dell’ordine, mentre dall’altro imprime una stretta penale su varie
fattispecie.
Per quanto riguarda le prime viene introdotto il reato di lesioni personali
gravi o gravissime a un pubblico ufficiale, per cui potrà scattare l’arresto in
flagranza. Viene inoltre previsto il riconoscimento di un beneficio economico
(fino a 10mila euro) per le spese legali sostenute da agenti indagati o imputati
per abusi commessi durante il servizio. Gli agenti di pubblica sicurezza saranno
poi “autorizzati a portare senza licenza” le armi da fuoco anche al di fuori del
servizio.
L’articolo 31 del decreto concede poi una sorta di “scudo penale” agli agenti
dei servizi segreti impiegati in attività sotto copertura: non solo potranno
partecipare ad associazioni terroristico-eversive, ma addirittura “dirigerle” e
“organizzarle” senza risponderne penalmente.
I familiari delle vittime delle stragi hanno paragonato questo salvacondotto a
una “licenza criminale”, ricordando il ruolo avuto dai servizi durante la
strategia della tensione.
Passando invece al secondo binario, quello della stretta penale, il decreto
prende di mira specifiche categorie e gruppi particolarmente invisi al governo e
alla maggioranza di destra. Diversi articoli, ad esempio, sono palesemente
indirizzati alle persone rom.
Si inaspriscono le pene per chi impiega minori nell’accattonaggio, che ora
possono arrivare fino a cinque anni di reclusione. Diventa invece facoltativo –
e non più obbligatorio – il rinvio della pena per le persone condannate che sono
incinta o che hanno bambini più piccoli di un anno. In sostanza, anche loro
potranno finire negli Istituti a custodia attenuata per le detenute madri (Icam,
che sono soltanto quattro in Italia).
Si tratta di uno dei punti più problematici e contestati del decreto: la norma è
infatti ritagliata su misura per le borseggiatrici rom, che stando a una lunga e
ossessiva campagna politico-mediatica – cavalcata in primis dalla Lega –
approfitterebbero della gravidanza per delinquere impunemente.
Il decreto introduce inoltre una nuova circostanza aggravante per i reati
commessi all’interno o nelle vicinanze delle stazioni ferroviarie o delle
metropolitane. Anche in questo caso l’obiettivo è chiaro: sfruttare il filone
social-mediatico della “caccia al borseggiatore nella metro” – un vero e proprio
format a cui ha recentemente partecipato l’eurodeputato leghista Roberto
Vannacci.
La stretta su dissenso, rivolte in carcere e occupazioni
Una parte rilevante del provvedimento è dedicata alla repressione delle
manifestazioni e, più in generale, del dissenso.
In generale vengono inasprite le pene (fino a cinque anni di carcere) per il
reato di danneggiamento se avvenuto in manifestazioni in luogo pubblico o aperto
al pubblico. In questi casi è anche previsto l’arresto in flagranza differita.
Le sanzioni sono più dure per chi protesta contro le grandi opere, in
particolare i No Tav. Il decreto introduce una circostanza aggravante nei casi
in cui la violenza, la minaccia o la resistenza a pubblico ufficiale sia
commessa per impedire la realizzazione di “infrastrutture destinate
all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di
altri servizi pubblici”.
Più di un articolo è rivolto agli attivisti climatici e alle loro tattiche di
protesta. A partire dall’imbrattamento di un bene mobile o immobile pubblico:
chi lo fa con la finalità di “ledere l’onore, il prestigio o il decoro”
dell’istituzione è punito con una pena che arriva fino a 1 anno e sei e una
multa fino a 3000 euro.
Il blocco stradale, che finora era un illecito amministrativo, diventa un reato
punito con un mese di carcere e una multa fino a 300 euro. La pena può però
arrivare fino a sei anni di reclusione se il blocco è commesso da più persone
nel corso di una manifestazione. È stato inoltre mantenuto il contestatissimo
principio della punibilità della resistenza passiva, che ha portato le
opposizioni a parlare di “norma anti-Gandhi”.
Il decreto introduce poi il reato di rivolta carceraria: sarà punito sia chi
commette atti violenti o minacce all’interno di un carcere, sia chi resiste
passivamente e si limita non eseguire gli ordini impartiti “per il mantenimento
dell’ordine e della sicurezza”. La norma si applica anche nei Centri di
permanenza per il rimpatrio (Cpr).
C’è infine un altro nuovo reato: quello di occupazione arbitraria di immobile
destinato a domicilio altrui. Le sanzioni sono particolarmente alte e vanno da
due a sette anni; come ha notato sul Corriere della Sera il giornalista Luigi
Ferrarella, si tratta della stessa pena di “chi ha la colpa di far morire un
operaio in un incidente sul lavoro”.
Già ai tempi del ddl 1660 la norma era stata ribattezza “anti-Salis”, dal nome
dell’eurodeputata di Avs che ai tempi della sua militanza politica faceva parte
del movimento per il diritto alla casa. A riprova dell’intento eminentemente
politico (e polemico) di questo reato, da qualche giorno la Lega sta pubblicando
contenuti contro Ilaria Salis fatti con l’intelligenza artificiale e sta
esultando perché sarebbe stato “abolito lo ius Salis”.
Le critiche di Onu, organismi internazionali e costituzionalisti
Il decreto sicurezza ha sollevato numerose critiche (sia di merito che di
metodo) da parte di ong, organismi internazionali e persone esperte di diritto
costituzionale.
Lo scorso aprile cinque relatori speciali delle Nazioni Unite – Gina Romero, Ben
Saul, Irene Khan, Mary Lawlor e Gehad Madi – hanno espresso “profonda
preoccupazione” nei confronti del provvedimento, definendolo “allarmante” e non
conforme agli obblighi internazionali “in materia di diritti umani, tra cui la
tutela del diritto alla libertà di movimento, alla privacy, a un giusto processo
e alla libertà, nonché la protezione contro la detenzione arbitraria”.
Per i relatori, i reati contro i blocchi stradali e la punibilità della
resistenza passiva “limitano eccessivamente la libertà di riunione pacifica e
potrebbero portare a sanzioni sproporzionate e ingiustificate”. Anche il reato
di rivolta carceraria rappresenta una “restrizione inutile e sproporzionata del
diritto alla protesta pacifica dei detenuti”, che tra l’altro rischia di
vanificare “il raggiungimento degli obiettivi legittimi di garantire la
sicurezza e i processi di reinserimento”.
Non si tratta del primo richiamo dell’Onu: nel dicembre del 2024, in una
comunicazione all’Italia sei relatori speciali si dicevano preoccupati per la
potenziale limitazione della libertà di riunione; a gennaio del 2025 altri due
relatori speciali avevano criticato il reato di occupazione arbitraria,
sostenendo che può andare a colpire le “occupazioni di necessità” dettate dalla
povertà.
Critiche simili sono arrivate anche dall’Ufficio per le istituzioni democratiche
e i diritti umani dell’OSCE, secondo il quale molte disposizioni “possono
potenzialmente minare i principi fondamentali della giustizia penale e dello
Stato di diritto”.
Il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa ha evidenziato il
rischio di un’applicazione “arbitraria e sproporzionata” di alcune previsioni
contenute nel decreto, che restringerebbero troppo il diritto di protestare
pacificamente.
In un appello sottoscritto da oltre 250 costituzionalisti compare la forte
denuncia a “una serie di gravissimi profili di incostituzionalità”, a partire
dalla scelta di adottare un decreto-legge senza che vi fossero i presupposti di
necessità e urgenza richiesti dalla Costituzione.
Per i giuristi, il “decreto sicurezza” è caratterizzato dalla “torsione
securitaria”, dalla “limitazione del dissenso” e dall’“accento posto
prevalentemente sull’autorità e sulla repressione piuttosto che sulla libertà e
sui diritti”.
L’impostazione del provvedimento, si legge nel testo, è esemplificativa di un
“disegno complessivo che tradisce un’impostazione autoritaria, illiberale e
antidemocratica, non episodica od occasionale ma mirante a farsi sistema, a
governare con la paura invece di governare la paura”.
Dal canto suo, l’unione delle camere penali italiane ha scritto in un comunicato
che l’entrata in vigore del decreto “non farà altro che aumentare la popolazione
carceraria”, con il “definitivo collasso di strutture oramai allo stremo”.
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Dieci giuristi chiedono al governo di revocare il Memorandum militare con
Israele, ritenuto incostituzionale e complice di crimini internazionali
di Linda Maggiori da Valori
Dieci giuristi italiani hanno firmato il 21 maggio 2025 una diffida formale al
governo, affinché revochi il Memorandum d’intesa in materia di cooperazione
militare e della difesa con Israele. Il Memorandum, entrato in vigore l’8 giugno
2005, si rinnova tacitamente ogni 5 anni. Ciò a meno che non sia “denunciato”
(termine tecnico che significa revocato) da una delle due parti. In questo caso,
cessa di avere efficacia al sesto mese successivo alla sua notifica.
Vent’anni di Memorandum militare Italia-Israele segnati da violenze sui civili
«Se il governo italiano non farà nulla, l’8 giugno 2025 si rinnoverà la
ventennale alleanza militare con Israele. E questo nonostante la gravissima
situazione attualmente in corso a Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est. Questo
sarebbe il quarto rinnovo», ricorda Ugo Giannangeli, uno dei giuristi che hanno
firmato la diffida. «Ogni rinnovo del Memorandum è stato segnato da una
violazione del diritto umanitario», prosegue il giurista ricordando come il
primo rinnovo sia stato preceduto dall’eccidio di 1.400 palestinesi a Gaza, con
l’azione militare denominata “Piombo fuso” (2009).
«Il secondo rinnovo è coinciso con l’azione dell’esercito israeliano “Margine
protettivo” (2014-2015). Che ha provocato 2.200 vittime palestinesi (di cui 547
bambini) e migliaia di feriti a Gaza», spiega Giannangeli. E prosegue: «Il terzo
rinnovo dopo le 86 settimane della “Grande marcia del ritorno” (2018-2020),
durante le quali ogni venerdì i civili palestinesi marciavano fino al confine.
Rivendicando il diritto al ritorno dei profughi e quindi l’applicazione della
risoluzione 194/1948. I soldati israeliani più volte aprirono il fuoco sulla
folla inerme, uccidendo 230 palestinesi e ferendone 33mila».
Ora, al quarto rinnovo, «il massacro di civili ha raggiunto dimensioni
inaccettabili, ed è sotto agli occhi del mondo, con autorevoli interventi nel
corso del 2024 della Corte internazionale di giustizia dell’Aia (Cig), dell’Onu
e della Corte penale internazionale (Cpi). Ora come giuristi, diciamo basta.
Abbiamo richiamato il dovere legale, non solo morale, del nostro governo di
rispettare i principi costituzionali e i trattati internazionali».
I dieci giuristi hanno inviato la diffida al ministero della Difesa e al
ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale (Maeci). Oltre
a Ugo Giannangeli, i firmatari sono Luigi Paccione, Michele Carducci, Veronica
Dini, Domenico Gallo, Fausto Giannelli, Fabio Marcelli, Ugo Mattei, Luca
Saltalamacchia, Gianluca Vitale.
Perché il Memorandum Italia-Israele viola la Costituzione e i diritti
internazionali
La diffida richiama la Costituzione italiana, la Convenzione europea dei diritti
umani (Cedu), i trattati dell’Unione europea, nonché la Dichiarazione universale
dei diritti dell’uomo dell’Onu. E si basa su due profili di incostituzionalità.
Il primo riguarda la segretezza con cui il Memorandum copre le attività e gli
scambi di informazioni tra Italia e Israele, mentre comporta oneri per il
bilancio dello Stato. Ai cittadini italiani non è dato conoscere «non solo le
ragioni e le finalità del suo utilizzo da parte degli Stati contraenti, ma
soprattutto la sua effettiva applicazione negli scenari reali di impiego. Per
esempio se riferiti al territorio italiano oppure a quello dello Stato
israeliano o addirittura nel “Territorio palestinese occupato”. Su cui, com’è
noto, pende una pluridecennale strutturale violazione, da parte dello Stato di
Israele, del diritto internazionale e umanitario», spiega la diffida.
Il tutto è in contraddizione con l’articolo 21 della Costituzione (diritto
all’informazione) e con la legge 185/1990 che all’art. 1 comma 6 vieta
«l’esportazione ed il transito di materiali di armamento ai Paesi in stato di
conflitto armato, la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11
della Costituzione, e verso i Paesi i cui governi sono responsabili di accertate
violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo».
Nel 2024 l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (Uama),
ufficio tecnico presso il ministero degli Affari esteri e della cooperazione
internazionale (Maesi), ha infatti sospeso le nuove autorizzazioni all’export di
armamenti verso Israele. Come può quindi essere rinnovato il Memorandum?
Segretezza, costi pubblici e mancanza di trasparenza
La seconda grave ragione di incostituzionalità, secondo la diffida, risiede
nella coincidenza del Memorandum con una «palese, deliberata, sistematica
violazione del diritto internazionale e umanitario di cui invece la Costituzione
impone il rispetto», continua la diffida. «A Gaza ci troviamo in un contesto di
distruzione, morte e costante mortificazione della dignità della persona umana,
con 60mila vittime accertate di cui 18mila bambini, nonché 115mila feriti e
oltre 60mila bambini a rischio morte per malnutrizione o malattie e 1.055
bambini in stato di detenzione o restrizione della libertà personale in
Cisgiordania. […] Inoltre, dopo le ultime dichiarazioni ufficiali dei
rappresentanti dello Stato di Israele, è evidente un progetto di annessione
territoriale tramite l’uso della forza. Quindi strumenti e conoscenze (militari,
di intelligence, di know-how, di impianti e infrastrutture) oggetto del
Memorandum saranno finalizzati a perpetuare e a incrementare atti illeciti di
aggressione».
Le condanne delle corti internazionali contro Israele nel 2024
La diffida elenca tutti gli atti formali di condanna delle violazioni commesse
da Israele. Ciò in particolare nel corso del 2024, che rappresenta un punto di
svolta: il 26 gennaio 2024 la Corte internazionale di giustizia nel procedimento
South Africa vs. Israel ha ravvisato nelle condotte dello Stato di Israele gli
estremi del crimine di genocidio. Nel maggio 2024 la Cig ha ordinato a Israele
di «interrompere immediatamente le operazioni militari potenzialmente miranti
alla distruzione del popolo palestinese».
Il 19 luglio 2024 sempre la Cig ha ribadito l’illegittimità della colonizzazione
israeliana nei territori occupati, compresa Gerusalemme Est. Chiarendo che gli
altri Stati hanno l’obbligo di non prestare aiuto o assistenza per mantenere la
situazione creata dalla presenza illegale di Israele nei Territori palestinesi
occupati. Più volte la Corte ha denunciato il regime coloniale, la violazione
persistente del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, la
segregazione razziale e l’apartheid in cui vivono sei milioni di palestinesi.
L’Assemblea generale dell’Onu con la risoluzione del 13-19 settembre 2024 ha
fatto proprio il parere della Cig, confermando definitivamente l’obbligo di
tutti gli Stati di astenersi dal fornire allo Stato di Israele qualsiasi forma
di cooperazione. E questo a partire dalla fornitura di armi. Secondo la
risoluzione delle Nazioni Unite, l’occupazione israeliana deve essere ritirata
totalmente e incondizionatamente entro il 17 settembre 2025. Fino a quel momento
non deve esservi alcun riconoscimento, assistenza o sostegno a Israele.
Infine, la diffida ricorda l’ordine di arresto emesso dalla Corte penale
internazionale il 21 novembre 2024 nei confronti del primo ministro di Israele
Benjamin Netanyahu e del ministro della Difesa Yoav Gallant, per crimini di
guerra e contro l’umanità.
Il rischio di complicità dell’Italia nei crimini contro i palestinesi
Insomma, se l’Italia non interrompe il Memorandum, «può configurarsi l’ipotesi
di concorso o comunque appoggio ai crimini internazionali di uno Stato
straniero» spiega Ugo Giannangeli. «Come riporta il parere della Corte
internazionale di giustizia del luglio 2024, l’inazione è complicità. Perché
l’adesione alla Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di
genocidio, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre
1948, impone agli Stati l’obbligo di attivarsi per prevenire e impedire il
genocidio. Definito come quegli atti mirati a distruggere, in tutto o in parte,
un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Quindi è concorso in
genocidio sia fornire armi, sia non fare nulla per prevenire e opporsi ad esso.
Il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni verso Israele sono quindi
diventati un dovere, non più solo un’opzione».
Anche Peacelink da tempo denuncia il Memorandum. Secondo Alessandro Marescotti,
infatti, «è inaccettabile un’intesa militare con un Paese che bombarda
indiscriminatamente scuole, ospedali e campi profughi. Che fa assedi umanitari e
reprime sistematicamente i diritti della popolazione civile. Chiediamo quindi a
tutti i cittadini di scrivere una lettera ai parlamentari per la revoca del
Memorandum».
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Intervista a Gian Luigi Gatta ordinario di diritto penale dell’Università di
Milano: “Per garantire la sicurezza non serve aggiungere reati e aumentare le
pene, ma intervenire con le leggi sulle condizioni che determinano la
criminalità”.
di Mario Di Vito da il manifesto
Dieci incontri in dieci atenei italiani, da nord a sud, per spiegare come si
coniugano – e quando si scontrano – i principi costituzionali e la politica
criminale. Nei giorni in cui il decreto sicurezza viene convertito in legge dal
parlamento, intervengono così nel dibattito gli iscritti all’Associazione
italiana dei professori di diritto penale (Aipdp). “È una manifestazione di
impegno civico, vogliamo cercare di stimolare qualche riflessione tra gli
studenti, nell’opinione pubblica e, possibilmente, anche tra i parlamentari”,
dice al manifesto Gian Luigi Gatta, ordinario di diritto penale all’Università
di Milano e presidente dell’Aipdp.
Professore Gatta, l’intenzione è ammirevole, però, almeno per quanto riguarda il
legislatore, non sembra ci sia tutta questa intenzione di ascoltare…
Purtroppo è vero, abbiamo visto che c’è stata una chiusura a ogni proposta di
modifica. Devo dire che mi sembra un po’ preoccupante questo voler andare avanti
sempre e comunque a colpi di maggioranza. Chi pensa e scrive le leggi dovrebbe
sapere benissimo che possono essere necessarie delle correzioni alle idee
originarie. Il dibattito in fondo serve anche e proprio a questo.
Il titolo dell’incontro che avete organizzato per domani a Napoli (ore 14,
nell’aula Pessina dell’Università Federico II) è “Populismo globale vs
garantismo penale”. Lascia intendere che non parliamo di un problema soltanto
italiano…
No, infatti interverranno anche associazioni e docenti dalla Spagna,
dall’Argentina, dal Brasile e dal Cile. Il populismo del resto è un fenomeno
globale: è molto diffusa l’idea che si possa attrarre consenso elettorale
attraverso la medicina penale, per così dire, come se fosse la cura a tutti i
mali. Noi in Italia abbiamo il decreto sicurezza, ma stiamo vedendo cosa accade
nell’Argentina di Milei, negli Stati Uniti di Trump, nell’Ungheria di Orbàn e
altrove. È una tendenza che riguarda tutto il mondo.
Come rispondere?
Il punto è che per garantire la sicurezza non serve aggiungere reati e aumentare
le pene, ma intervenire con le leggi sulle condizioni che determinano la
criminalità. Già Cesare Beccaria legava la tranquillità pubblica alle politiche
attive e all’organizzazione: diceva che servivano più agenti di polizia,
maggiore illuminazione nelle strade… Bisognerebbe intervenire sull’educazione,
sulle situazioni di disagio sociale e fare investimenti.
Chi è al governo direbbe che su questo fronte è stato già fatto il decreto
Caivano…
Che ha soltanto aumentato il ricorso alla carcerazione, soprattutto per i
minorenni, per i quali al contrario bisognerebbe il più possibile evitare di
utilizzare questo strumento. Infatti, da quel decreto, gli ingressi negli
istituti penali minorili sono raddoppiati. È stata anche aumentata la pena per
lo spaccio di lieve entità, che oggi consente la custodia cautelare in carcere.
Mi pare che da un lato ci si lamenti dell’elevato ricorso alla custodia
cautelare mentre dall’altro, innalzando le pene, la si aumenta in continuazione.
Ma è un’illusione puntare sulla pena per risolvere i problemi sociali.
Eppure siamo sempre allo stesso punto…
Nel 2014 Papa Francesco incontrò i docenti di diritto penale e parlò proprio
della falsa convinzione di convinzione che attraverso la pena si possano
risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie
ci venisse raccomandata la medesima medicina. Disse che in realtà servirebbero
politiche sociali ed economiche. Ma tutte le riforme di cui parliamo sono a
costo zero o quasi. L’unico capitolo di spesa previsto dal decreto sicurezza
riguarda le bodycam per gli agenti. Mi pare un po’ poco…
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Carabinieri in difficoltà di fronte alla versione ufficiale sulla morte della
Cagol, tanti non ricordo, dinieghi e versioni contrastanti. Le difese ribaltano
il processo per i fatti della Spiotta
di Paolo Persichetti da Insorgenze
La quarta udienza del nuovo processo davanti la corte d’assise di Alessandria
per la sparatoria nella quale morì il 5 giugno del 1975 Margherita Cagol,
fondatrice delle Brigate rosse, e rimase mortalmente ferito l’appuntato dei
carabinieri Giovanni D’Alfonso, ha messo in luce profonde contraddizioni e
smentite reciproche tra i carabinieri coinvolti.
Quattro ex membri del nucleo speciale anti-Br, istituito dal generale Dalla
Chiesa nel maggio del 1974, e due carabinieri in congedo delle sezioni
territoriali di Canelli e Acqui Terme hanno deposto dando vita a un intreccio di
versioni contrastanti, dinieghi imbarazzanti e giravolte. Si è assistito a un
vero e proprio “carabinieri contro carabinieri”, senza distinzioni di grado,
anzianità o competenze.
Il servizio del Tgr Rainews
Piemonte https://www.rainews.it/tgr/piemonte/video/2025/05/le-drammatiche-testimonianze-di-chi-cera-sfilano-in-aula–135b6a06-3f9f-439a-a1a2-f66cc3e36b8.html
Le critiche del generale Sechi
L’allora braccio destro del generale Dalla Chiesa ha apertamente criticato
l’operato della tenenza di Acqui Terme. Le sue censure si sono concentrate in
particolare sull’operato del maresciallo Rocca, il quale, secondo la versione
consolidatasi nelle carte giudiziarie, dopo aver racimolato tre uomini si
sarebbe lanciato in una azzardata perlustrazione tra ruderi e cascine della
zona.
Sortita che culminò sul cortile della cascina Spiotta, quando la pattuglia
insospettita dalla presenza di due auto e da rumori provenienti all’interno
bussò alla porta, innescando (ancora oggi le versioni su su chi abbia esploso i
primi colpi sono contrastanti) il sanguinoso conflitto a fuoco.
Sechi ha spiegato che il nucleo speciale avrebbe agito in tutt’altro modo:
accerchiando la zona, controllandola a distanza con uomini camuffati e
apparecchi fotografici per identificare gli occupanti, seguirli e catturarli
quando sarebbero usciti singolarmente. Solo in seguito, e con tutte le
precauzioni del caso, si sarebbe proceduto a un’eventuale irruzione: precauzioni
che sarebbero mancate nella “sconsiderata sortita” di Rocca.
Il generale Sechi ha negato di aver avuto informazioni, il giorno prima della
sparatoria, riguardo a irregolarità nei documenti d’identità usati per
l’acquisto della cascina Spiotta. Ha anche negato che qualcuno dei suoi uomini
si fosse recato a Canelli, luogo del rapimento di Vallarino Gancia da parte
delle Br.
Incalzato dalle difese e messo di fronte all’ispezione giudiziale del 20 giugno
(con la sua firma in calce insieme a quella del pm titolare dell’indagine) in
cui fu trovato un bossolo dell’arma dei carabinieri accanto al corpo della
Cagol, documento richiamato dal legale di Curcio, l’avvocato Vainer Burani,
Sechi ha detto di non ricordare l’episodio e di non sapere il motivo di quelle
ricerche a distanza di 15 giorni: «doveTe chiederlo al pm, non a me» – ha
replicato con fare indispettito.
“Non ricordo”, dinieghi imbarazzanti e versioni contrapposte
Un atteggiamento increscioso quella tenuto dal generale in congedo che tra “non
ricordo” e dinieghi aggressivi ha opposto una difesa a riccio. A supportare
questa posizione è intervenuta la deposizione del colonnello Seno, suo collega
nel nucleo speciale.
Sebbene abbia ammesso (smentendo quanto aveva appena detto Sechi) di essersi
portato nella caserma di Canelli nel tardo pomeriggio del 4 giugno, dopo
l’arresto di Massimo Maraschi sospettato di essere coinvolto nel rapimento, ha
ostinatamente sconfessato le affermazioni del suo sottoposto dell’epoca, il
vicebrigadiere Bosso.
Quest’ultimo, invece, ha ricostruito in modo dettagliato la sequenza logica dei
loro movimenti sul posto: l’arrivo nella caserma di Canelli per interrogare
Maraschi già all’attenzione del nucleo speciale, il sopraggiungere della notizia
che nella zona di Acqui Terme era stato rinvenuto il furgone abbandonato dai
rapitori di Gancia nel primo tratto di fuga, lo spostamento nella caserma di
Acqui dove apprese di una indagine catastale di circa 15 giorni prima che aveva
rilevato la natura fittizia dei documenti d’identità usati per l’acquisto della
Spiotta.
Si trattava di una tecnica d’indagine adottata dagli uomini di Dalla Chiesa per
smantellare la logistica brigatista.
La cerimonia che interruppe l’indagine
Bosso ha descritto con nitidezza la cartellina gialla dove erano riposti i fogli
dell’indagine. Ha poi spiegato che, ricevuta l’informazione, con un carabiniere
del posto (Lucio Prati) si recò subito a effettuare una perlustrazione a
distanza della Spiotta, osservandola da un’altra cascina a circa 200 metri, per
poi rientrare a Canelli in tarda serata, interrogare Maraschi “fino a
estenuarlo” e tornare a Torino nella notte.
Seno ha negato che tutto ciò sia avvenuto, sostenendo che Bosso si fosse confuso
con il giorno successivo. Tuttavia, di fronte alla contestazione dell’avvocato
di Moretti, Francesco Romeo, riguardo l’inutilità di un sopralluogo la sera
successiva, a sparatoria avvenuta e morti sul terreno, Seno è rimasto in
silenzio.
A questo punto è emersa un ulteriore sconcertante circostanza: secondo Bosso,
dal comando centrale di Torino sarebbe giunta l’indicazione di sospendere
l’indagine e rientrare, perché il mattino successivo era prevista una cerimonia
per la festa dell’Arma, durante la quale diversi membri del nucleo (che avevano
partecipato all’arresto di Curcio e Franceschini l’8 settembre 1974) dovevano
essere premiati.
L’attività operativa sarebbe ripresa nel pomeriggio del 5. Questa circostanza,
concordata tra il maresciallo Rocca e il colonnello Seno secondo Bosso, è stata
negata da Seno.
Il confronto negato e i punti fermi emersi dall’udienza
I pubblici ministeri, che non hanno lesinato domande per appurare i fatti, hanno
chiesto un confronto tra Seno e Bosso, ritenendo che uno dei due stesse mentendo
o non ricordando correttamente. La corte, tuttavia, ha respinto la richiesta,
ritenendola superflua. Una decisione che non aiuta la chiarezza ma sembra voler
tutelare l’apparato.
La mattina successiva è avvenuto il fatto drammatico con l’improvvida decisione
di Rocca che, all’insaputa del Nucleo, ha deciso di partire con una sua
pattuglia alla volta della Spiotta per condurre un’ispezione culminata nello
scontro a fuoco. I membri del nucleo speciale, secondo le testimonianze in aula
di Bosso e Pedini Boni, altro ex carabiniere del nucleo speciale, sarebbero
giunti sul posto solo nel primo pomeriggio, a disastro avvenuto.
Le testimonianze non hanno chiarito l’esistenza di una scala gerarchica tra
nucleo speciale e sezioni territoriali in caso di indagini per terrorismo,
lasciando irrisolto chi dovesse prendere in mano le operazioni e stabilire tempi
e modi dell’inchiesta. Il capitano Aragno (caserma di Canelli) e il
vicebrigadiere Villani (polizia giudiziaria della procura di Acqui) hanno
risposto che le indagini erano state subito prese in carico dal nucleo speciale,
alimentando un infinito “scaricabarile”.
Nonostante ciò, l’udienza ha fissato dei punti fermi importanti: si è compreso
che il vero arcano della vicenda ruota attorno alle circostanze dell’uccisione
di Margherita Cagol.
Le dichiarazioni del carabiniere Villani sulle perplessità del medico che
condusse l’autopsia riguardo alla versione ufficiale della sua morte, i dubbi e
le domande poste all’appuntato Barberis (che disse di averle sparato a distanza
mentre evitava la Srcm lanciata da Azzolini) e l’incredulità degli altri
colleghi rispetto a questo racconto, hanno ulteriormente incrinato la versione
data per vera sulla sua morte.
Chi è dalla parte della verità?
I punti oscuri, le reticenze, i silenzi, le indagini carenti (i bossoli esplosi
dai carabinieri scomparsi e le loro armi mai periziate), e il silenziamento
della vicenda, inducono a pensare che l’atteggiamento tenuto dai diversi corpi
dell’Arma sia stata la diretta conseguenza delle modalità con cui venne uccisa
la Cagol.
Con le sue dichiarazioni il brigatista Azzolini ha riempito uno dei tasselli
mancanti di quella giornata, compiendo un passo chiarificatore verso la verità.
A distanza di 50 anni i carabinieri sollevano ancora cortine fumogene, fuggendo
le loro responsabilità.
A cosa serve questo processo, a comminare i soliti ergastoli ai brigatisti,
colpevoli a priori, o a cercare la verità fino in fondo sull’accaduto?
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Intervista a Federico Giusti attivista dell’Osservatorio contro la
militarizzazione delle scuole e dell’università sulla proposta di ripristinare
la leva obbligatoria
Si torna alla leva obbligatoria?
La leva obbligatoria non esiste dal 2005 in Italia e sopravvive solo in alcuni
paesi della Ue, tutte le altre nazioni hanno scelto l’esercito professionale. La
fine dell’esercito di leva rappresentava una svolta epocale dettata dai contesti
storici e geopolitici in evoluzione e dai processi tecnologici che andavano
rivoluzionando anche il settore militare.
I Comuni stanno completando le procedure per l’ aggiornamento delle liste di
leva, i nominativi di tutti i cittadini maschi di età tra i 17 e i 45 anni come
prevede il D.lgs n. 66 del 2010 (il Codice dell’ordinamento militare). Che poi
questo aggiornamento sia funzionale a un futuro ripristino della leva lo
vedremo, noi pensiamo che l’esercito professionale resti la struttura portante
per l’intero sistema s.
Ma l’esercito professionale come nasceva?
Dalla fine dello scontro Ste ed Ovest e dal 1989, se i vari paesi europei si
sono convinti, nell’arco di pochi anni, di superare la leva la spiegazione sta
proprio nell’evoluzione dello stesso concetto di guerra per il quale servivano e
servono elites militari di professione, addestrate e formate anche sul piano
ideologico. E una volta cessata la attività militare queste elites avevano e
hanno una corsia preferenziale per accedere ai concorsi nella PA e non solo
nelle forze di polizia. La riforma dell’esercito faceva parte di un disegno
complessivo, eliminando la leva non rimuovevi il militare dalla società ma
semmai andavi a costruire le basi di un processo di lenta e inesorabile
militarizzazione .
Con la guerra in Ucraina sono cambiati alcuni scenari da qui scaturisce la
necessità di avere organici numerosi, da impiegare in guerre logoranti che si
trascinano per anni con la occupazione e il presidio di vaste distese
territoriali.
Si parla di ruolo ideologico della leva
E’ indubbio che la leva svolga anche un ruolo ideologico, di fedeltà passiva
alla idea di patria che poi rappresenta il terreno ideologico sul quale si
costruiscono teorie e pratiche militariste e guerrafondaie. In una fase storica
come la nostra non ci sono poi le contro indicazioni degli anni Settanta e
Ottanta, per capirci ragioni etiche, morali e politiche così forti da favorire
la renitenza alla leva, l’obiezione di coscienza e una crescente disaffezione
verso la nozione di patria e il ruolo delle forze armate.
Dopo il 1989, anche a destra, il fascino per la divisa allora era entrato in
crisi, non c’era più da presidiare i confini difendendoli dalla minaccia dei
paesi socialisti, iniziavano i discorsi sulla riduzione della spesa pubblica e
l’idea che il vecchio continente avesse bisogno di un esercito professionale
come gli Usa. Dubito tuttavia che si possa paragonare un militare di professione
ad uno di leva, anche sul piano delle motivazioni ideologiche alla base della
sua scelta, parliamo di scenari ben diversi che poi mutano anche a seconda dei
contesti storici. E il ruolo dell’esercito professionale, dei riservisti (di cui
parleremo dopo) resta ben diverso da quello dell’esercito di leva.
Veniamo alle proposte di legge
Oggi la Lega avanza una proposta di legge per ripristinare la leva obbligatoria
e altre forze di destra si fanno promotori di analoghe istanze in altri paesi UE
Un servizio di leva per 6 mesi, nella propria Regione di residenza impiegando
ragazzi e ragazze di età compresa tra i 18 e i 26 anni, Per gli obiettori di
coscienza ci sarà il servizio civile di durata identica occupandosi della tutela
del patrimonio culturale e naturale, di soccorso pubblico e Protezione civile.
E per chi si sottrarrà alla leva e al servizio civile ci sarà una accusa penale
ai sensi dell’articolo 14 della legge 230 del 1998 con la reclusione da sei mesi
a due anni.
Una proposta più completa della mini-naja proposta da La Russa ma tale da
provocare qualche perplessità anche a destra, almeno tra i fautori dell’esercito
professionale convinti che una leva obbligatoria rappresenti un eccessivo
incremento delle spese senza portare benefici reali ai dispositivi militari.
Tenete conto che in Germania sono i verdi a proporre un sistema analogo, i verdi
che per quanto guerrafondai non sono annoverabili nel fronte sovranista. Giusto
a ricordare che le distinzioni quando si parla di militare sono talvolta fallaci
e fuorvianti.
A detta di alcuni settori della nostra stessa società oltre a una parte della
classe politica sarebbe invece auspicabile il modello israeliano con la
militarizzazione di tutta la società e la istituzione della Riserva operativa in
cui far confluire ex militari che dopo aver trovato un diverso impiego sono
disponibili a essere richiamati, con giustificazione al lavoro, 2 o 3 mesi all’
anno per addestramento o emergenze. Questi riservisti li ritroviamo nella
occupazione di terreni e case palestinesi per favorire gli insediamenti
coloniali e per quanto impopolare sia oggi il premier israeliano nel suo stesso
paese la stragrande maggioranza della popolazione risponde con solerzia alle
chiamate del Ministero della difesa
Una ulteriore spiegazione per il ritorno in auge della leva potrebbe essere
anche motivata dal continuo e costante calo degli organici militari (dai 190
mila nel 2010 siamo passati a 154 mila nel 2024 e senza arruolamenti ulteriori
ci troveremmo da qui a 6\7 anni l’età media delle truppe attorno ai 50 anni) che
indurrebbe a mantenere da una parte l’esercito professionale ma dall’altra anche
qualche forma di leva prolungata, o di riservisti per destinare questi ultimi a
operazioni sul territorio nazionale che vanno dall’ ordine pubblico alla lotta
agli incendi, dalla protezione fino al presidio del territorio ricordando che
l’Operazione “Strade sicure”, impiega circa 7mila soldati che poi verranno a
mancare in eventuali scenari di guerra.
Quindi un uso dei militari anche ordine pubblico?
Se ne parla con sempre maggiore insistenza, senza dubbio spenderemo sempre più
soldi pubblici per il militare, se mancheranno le risorse andranno a prendere
dal welfare, poi non dimentichiamo la Bussola europea che prefigura forze di
intervento rapido a tutela degli interessi comunitari e per questo genere di
azioni servono professionisti…
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