25 aprile 2025: la posta in gioco

Osservatorio Repressione - Thursday, April 24, 2025

Senza ripudio della guerra e rifiuto del riarmo, senza solidarietà e accoglienza dei migranti perseguitati nei loro paesi, senza una ferma opposizione alle limitazioni delle libertà di riunione e di manifestazione, senza una difesa intransigente dell’assetto costituzionale non c’è 25 aprile, non c’è festa della Liberazione. C’è, al contrario, una svolta autoritaria. Guai a dimenticarlo o sottovalutarlo.

di Livio Pepino da Volere la Luna

Sono passati 80 anni dal 25 aprile del 1945. Da quel 25 aprile, in cui il “vento del nord” evocato da Pietro Nenni sull’Avanti! del 27 aprile sembrava destinato a cambiare profondamente il Paese. Quasi tutti i partigiani di allora, anche i più giovani, se ne sono andati. Tra loro c’era Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica a cavallo del nuovo millennio, che, nel 2010, ci ha lasciato in eredità un libro il cui titolo è una sorta di manifesto (doppiamente significativo per il fatto di venire da un ex presidente della Repubblica): Non è il Paese che sognavo.

Difficile non condividere quell’affermazione. Basta guardarci intorno: i caratteri della crisi economica, sociale, culturale, etica che stiamo attraversando non sono così diversi da quelli degli anni XX del secolo scorso e al governo del Paese ci sono forze che al fascismo espressamente si richiamano e che addirittura in alcuni casi – senza scandalo e senza reazioni – frequentano Casa Pound e gli avanzi del peggior stragismo fascista. Non è una polemica politica. È un fatto. Certificato dalle esplicite rivendicazioni di quelle forze (e dalla presenza nel loro Pantheon di un fucilatore di partigiani come Giorgio Almirante), dai loro simboli, dalla cultura che esprimono, dal linguaggio che usano e, ancor più, dalle politiche che praticano. Politiche nelle quali il razzismo e una forma di neocolonialismo, con la chiusura delle frontiere e la disumanizzazione delle persone migranti, dilagano; il nazionalismo si intreccia con l’adesione alle logiche della guerra; la scuola viene trasformata in veicolo di omologazione e di disciplina; la repressione e la criminalizzazione del dissenso crescono nella società, nei luoghi di lavoro, nelle Università. E ciò – fatto che rende lo scenario ancor più preoccupante – mentre a livello internazionale crescono nazionalismo e autoritarismo, le guerre occupano sempre più la scena (in Palestina, in Ucraina, in Myanmar, in Kurdistan, nel Sud Sudan, nella Repubblica democratica del Congo e via seguitando) e i morti si sommano ai morti in un crescendo impressionante e scientificamente programmato che non risparmia neppure – è il caso della striscia di Gaza – bambini e neonati, scuole e ospedali.

In questo contesto la festa della Liberazione assume una centralità e un’importanza particolari. Ma a una condizione. Che non la si riduca a stanca commemorazione e che la si viva come un giorno, certo, di memoria e di festa, ma soprattutto di riflessione, di mobilitazione e di impegno politico. Lo so bene: non è per tutti così, e a fianco di chi addirittura contesta la centralità del 25 aprile nella storia nazionale o invita a usare “sobrietà” nel celebrarlo (sic!), c’è anche chi lo considera un semplice sbiadito ricordo di quel che è stato. È un grave sbaglio. Come ammoniva Piero Calamandrei in un discorso tenuto al teatro lirico di Milano, il 28 febbraio 1954, «in queste celebrazioni che noi facciamo nel decennale della Resistenza, di fatti e di figure di quel tempo, noi ci illudiamo di essere qui, vivi, che celebriamo i morti. E non ci accorgiamo che sono loro, i morti, che ci convocano qui, come dinanzi ad un Tribunale invisibile, a render conto di quello che in questi 10 anni possiamo aver fatto per non essere indegni di loro, noi vivi». E a Calamandrei faceva eco Carlo Smuraglia, indimenticato presidente dell’Anpi, che – in un libro intervista di 7 anni fa – ammoniva: il 25 aprile o è calato nella realtà che ci circonda o semplicemente non è.

È in questa prospettiva che voglio condividere con voi tre considerazioni a cavallo, appunto, tra passato e presente.

1. Il 25 aprile non arrivò per caso. Fu anzitutto il frutto di una scelta, di tante scelte individuali e di una scelta collettiva. Il 25 aprile del 1945 cominciò – si potrebbe dire – poco meno di due anni prima, l’8 settembre del 1943 quando lo Stato si disfece e tutto crollò. Allora – mentre il re, la sua corte e il governo fuggivano precipitosamente e ingloriosamente verso il sud ‒ i generali, i colonnelli, i comandanti di reparto si strappavano i gradi e si mettevano in borghese. E le prefetture, gli uffici pubblici, i magazzini militari venivano abbandonati. Le istituzioni caddero in pezzi. Ogni autorità pubblica venne meno. L’Italia ufficiale – un’intera classe dirigente, quella che “sta in alto” – crollò. Cominciò il 25 aprile. Ognuno in basso – come ha scritto Marco Revelli – restò solo, a scegliere. Se l’esercito si sfasciava, se generali e colonnelli mancavano alla prova, se con i reparti regolari non si poteva concludere nulla, allora gli antifascisti scelsero di fare da sé. E fu quella scelta che determinò un nuovo inizio. Poi ci furono le bande partigiane, le operazioni militari, la resistenza. Ma alla base di tutto ci fu una scelta etica, morale, politica. Sta qui il primo fondamentale insegnamento che ci viene dal 25 aprile: senza scelte radicali non c’è possibilità di cambiamento. L’indifferenza e il conformismo sono veicoli di conservazione, alleati del fascismo di ieri e di oggi.

2. Il secondo punto che voglio sottolineare è il significato del riconoscimento del 25 aprile come festa nazionale. Un fatto che sottolinea l’irrinunciabile e permanente carattere antifascista della Repubblica. Non è inutile ricordarlo perché c’è chi si spinge ad affermare che il passare dei decenni ha attenuato differenze e divisioni e impone una generale e indifferenziata pacificazione. È una posizione pericolosa, ma soprattutto, profondamente sbagliata. Non ha nessun senso dire che da un certo momento in là deve esserci una pacificazione. E quale pacificazione poi? C’è stato chi ha combattuto per mantenere una dittatura nefasta e razzista e chi ha combattuto per la libertà e la democrazia. È una differenza fondamentale che non si può accantonare. Quella lotta si è conclusa con la vittoria di una parte, quella che amava la libertà. Scrive Carlo Smuraglia: «Non conserviamo rancori, ma non siamo disposti a violentare la realtà storica e a restituire spazio alle idee che abbiamo combattuto. È un’assurdità pensare che sia venuta meno la differenza tra partigiani e fascisti della repubblica di Salò. La storia ci dice che c’è stata la Resistenza e che essa, alla fine, ha vinto. Punto e basta». Dimenticare la storia, cancellando, riscrivendo e distorcendo ciò che è avvenuto è quanto di peggio può fare un Paese che si vuole considerare civile. Ricordare è fondamentale per fondare la convivenza su valori e non su convenienze contingenti e occasionali.

3. E arrivo così al terzo punto, che impatta prepotentemente con l’attualità: per contrastare il vecchio e il nuovo fascismo occorre tornare al cuore della Resistenza, dei suoi valori, dei suoi esiti. La Resistenza non fu solo una lotta contro il fascismo. Essa fu anche un lotta per una società diversa. Leggendo le lettere dei condannati a morte della Resistenza europea una cosa colpisce: tutti credevano nel futuro e in un mondo migliore. I fatti poi – come ha scritto Ciampi – hanno in gran parte deluso le aspettative, ma quell’utopia, quei sogni, quelle speranze, quei valori sono entrati stabilmente (e definitivamente) nel nostro sistema. La Resistenza ci lasciato un’eredità viva e attuale: la Costituzione repubblicana. L’attuazione e la difesa della Costituzione sono, dunque, il primo impegno che emerge dal 25 aprile (un’attuazione e una difesa contro le ricorrenti proposte di chi quella Costituzione vuole cambiare e che fino ad oggi abbiamo respinto: l’ultima volta con il voto nel referendum del 4 dicembre 2016). Ebbene oggi – va detto con franchezza – il pensiero dominante (che vorrebbe diventare unico) è molto lontano dai valori del 25 aprile e della Costituzione. Anche per questo è, di nuovo, tempo di scelte su questioni fondamentali in cui la realtà e la Costituzione si intersecano. Ne elenco quattro.

C’è, anzitutto, la questione della pace e della guerra. L’articolo 11 della nostra Costituzione antifascista è netto: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Ripudiare, nella lingua italiana, è sinonimo di rifiutare in modo incondizionato, respingere con decisione, opporsi radicalmente. Dunque, la pace è un vincolo stringente e non una parola da ripetere in modo retorico mentre si impugnano le armi. Ciò risulta anche dal dibattito preparatorio in sede di assemblea costituente e si legge in decine di lettere di condannati a morte della resistenza. Cito, per tutti, il partigiano ucraino, Oleks Bokaniuk: «La guerra è la più grande sciagura dell’umanità. Speriamo che dopo questa guerra venga una pace che renda possibile per molto tempo, e forse per sempre, la felicità». Questo è il dettato della Costituzione e il lascito di chi l’ha voluta e preparata. Un dettato e un lascito che non ammettono le letture riduttive e i distinguo a cui assistiamo quotidianamente in un crescendo di militarismo e bellicismo sconosciuti nella storia repubblicana. La guerra – qualunque guerra – è fuori dalla Costituzione e a maggior ragione dobbiamo dirlo e pretenderlo con riferimento alle guerre condotte (direttamente o indirettamente, con appoggi politici, economici e militari) dal nostro Paese o da esso preparate (con la costruzione e il commercio di armi che, per definizione, servono alla guerra). Ed è fuori dalla Costituzione ogni forma di riarmo, tesa, come oggi accade, a “svuotare i granai e riempire gli arsenali”: per la decisiva ragione – ribadita nel suo ultimo messaggio dal Papa di cui a breve celebreremo i funerali – che «nessuna pace è possibile senza il disarmo».

Viene, poi, la questione dei migranti. Anche qui la Costituzione non ha dubbi e lo precisa nell’art. 10: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge». Eppure c’è chi, in Italia e nel mondo, sostituisce l’accoglienza con muri e fili spinati (reali o metaforici) e respinge i migranti persino con le armi. Questo atteggiamento è fuori dalla Costituzione antifascista. Uso parole del partigiano Gastone Cottino, tratto da un aureo libretto uscito postumo due anni fa con il significstivo titolo “All’armi son fascisti!”: «Durante il fascismo storico (pensiamo alla guerra d’Etiopia) la violenza si esercitava nei confronti dei popoli che volevamo sottomettere; la violenza di oggi si esercita respingendo e facendo morire nel mare centinaia di persone». E ancora: «I migranti non vengono mandati nei campi di concentramento. Ma ci sono i centri per il rimpatrio, e sono dei lager. E quando non abbiamo qui i lager li gestiamo per procura, nei campi libici». A fronte di ciò ritorna la necessità della scelta. E credo di poter affermare con tranquilla certezza che gli interpreti autentici del 25 aprile sono coloro che lottano contro le discriminazioni, per i diritti e per l’accoglienza.

C’è, in terzo luogo, la questione delle libertà fondamentali: di pensiero, di espressione, di manifestazione a cui sono dedicate disposizioni fondamentali della Costituzione, a cominciare dagli articoli 17, 18 e 21. Mai come oggi, nella storia repubblicana, quei diritti sono in pericolo, letteralmente travolti, in ultimo, da un decreto legge che, usando strumentalmente la categoria della necessità e dell’urgenza e richiamando in modo improprio la sicurezza dei cittadini, aumenta a dismisura il catalogo dei reati e delle pene nei confronti di chi dissente punendo, tra l’altro, le manifestazioni spontanee e la resistenza passiva e aumentando le sanzioni per i reati commessi nel corso di manifestazioni. Superfluo ricordare che le norme costituzionali ricordate sono dettate a tutela del dissenso, posto che il pensiero dominante e le sue esplicazioni non hanno bisogno di protezione, e che, in questo caso, il legislatore repubblicano ha finanche superato, in chiave repressiva, il legislatore fascista, che mai si era spinto a prevedere il delitto di resistenza passiva e per il quale la commissione nel corso di una manifestazione era considerata, seppur con alcuni limiti, un’attenuante ai sensi dell’articolo 62 n. 3 codice penale e non un’aggravante.

E viene infine – non certo ultima per importanza – la questione dell’assetto della Repubblica. Il cuore della democrazia sta, da sempre, nel pluralismo, nella partecipazione, in contrappesi diretti a evitare la concentrazione del potere. In loro assenza la torsione autoritaria del sistema è inevitabile. Per questo la seconda parte della Costituzione ha previsto un parlamentarismo rigoroso, un rapporto dialettico virtuoso tra presidente della Repubblica e capo del governo, una magistratura indipendente e soggetta soltanto alla legge, l’obbligatorietà dell’azione penale, una corte costituzionale eletta con modalità tali da assicurarne una effettiva autonomia e molto altro ancora. Ebbene, questo sistema è da tempo delegittimato e sotto attacco attraverso leggi elettorali che hanno falsato la rappresentanza (e che sono state per questo dichiarate incostituzionali, ma solo dopo avere prodotto effetti distorsivi devastanti), marginalizzazione del Parlamento attraverso il ricorso indiscriminato allo strumento del decreto legge e al voto di fiducia, riduzione di fatto dell’indipendenza della magistratura mediante intimidazioni e leggi ad hoc. Oggi questo processo degenerativo subisce un’ulteriore accelerazione con le riforme costituzionali in cantiere in tema di premierato elettivo, riorganizzazione della magistratura, abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. C’è, sullo sfondo, una sorta di “democrazia del capo”, titolare di un potere sostanzialmente illimitato. È questo – come ammonisce ancora Carlo Smuraglia – il fascismo del nuovo millennio.

Concludo. Ci sono stati momenti e stagioni nella nostra storia in cui il progetto costituzionale è stato in particolare pericolo: l’estate del 1960, i tentativi golpisti del 1964, del 1970 e del 1974, le stragi di Stato, il 1994. Oggi – come ci ha ricordato ancora Gastone Cottino – è uno di quei momenti. Guai a sottovalutare la situazione.

È l’anticipazione, pressoché integrale, dell’intervento dell’autore nella celebrazione della festa della Liberazione organizzata a Bardonecchia il 25 aprile 2025 dalla sezione Anpi Alta Val Susa.

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