«Vivo un presente che mi toglie il respiro da mesi»: la lettera di Maja T. dal carcere ungherese

Osservatorio Repressione - Monday, April 28, 2025

Maja T, l’attivist* non binari* è accusat* dall’Ungheria di Orbán di aver partecipato a un’aggressione nei confronti di estremisti di destra. Sono le stesse accuse rivolte a Ilaria Salis e Rexinho “Gino” Abazaj: rischia 24 anni. il quotidiano il Domani ha pubblicato le sue parole in esclusiva per l’Italia

Maja T. è un* militante antifascist* tedesc* non binari*, accusat* dai giudici ungheresi di aver partecipato a un’aggressione nei confronti di estremisti di destra durante le manifestazioni del Giorno dell’onore dell’11 febbraio 2023, nella capitale ungherese. Le stesse accuse che sono state mosse a Ilaria Salis, per le quali l’Ungheria ha chiesto la revoca dell’immunità, e a Rexinho “Gino” Abazaj, per cui la Francia, dove è stato arrestato, ha negato l’estradizione. L’estradizione di Maja è stata invece concessa dalla Germania: il suo trasferimento a Budapest è stato, a febbraio 2025, condannato dalla Corte costituzionale tedesca. In carcere nell’Ungheria di Viktor Orbán che vieta anche i Pride, Maja T. è stat* portat* in aula per l’udienza preliminare in manette e tenut* al guinzaglio. Maja non ha accettato il patteggiamento e rischia 24 anni di carcere. Le prossime udienze del suo processo sono previste il 4, 6, 12, 18 e 20 giugno. 

Maja ha inviato una lettera che Domani pubblica in esclusiva per l’Italia e che è stata ripresa anche dal quotidiano francese l’Humanité e dal tedesco Frankfurter Rundschau.

Buongiorno a tutte e a tutti,

Appena sedut* alla mia scrivania, mi sono lasciat* trasportare dai pensieri di un sentimento, di una verità che, ancora oggi, senza il minimo dubbio, mi illumina in silenzio, con dolcezza, e mi ricorda che sono sempre io. Ed è proprio quell’io che, ancora oggi, può volare verso quel luogo.

Questo mi appartiene, così come mi appartiene quel desiderio a volte irresistibile di restare a letto, una certezza che ritorna con una regolarità quasi rassicurante, come quegli amici che si presentano all’improvviso, in un giorno qualsiasi, portando panini freschi, frutta e marmellate, invitandosi senza preavviso a una colazione condivisa. È del tutto possibile che i due, o anche i tre, siano collegati, che si completino a vicenda, benché io non me ne sia mai davvero preoccupat*.

Ma una cosa è certa: hanno tutti in comune il fatto di non poter essere forzati. Così come io non ho mai bisogno di aspettarli, perché la loro venuta è certa. Prima che me ne dimentichi: io volo solo nei miei sogni, lì, in quelle ore notturne sospese tra realtà e astrazione, dove i passati tessono visioni, talvolta gridate nell’aria fredda del mattino, talvolta frettolosamente rinchiuse in scatole che affondano in fondo al mare, via via che la coscienza si risveglia.

Qualche giorno fa, sono rimast* un po’ più a lungo a letto. Poi, alle 5:30 in punto, la sirena mi ha svegliato bruscamente, in attesa della voce dura di un agente che mi strappasse dal comfort ingannevole del letto e mi riportasse alla realtà. In quegli attimi ho avuto ancora un risveglio sognante, in cui rivedevo le immagini recenti in cui tornavo a volare, sopra campi brulli, foreste notturne dense e oscure, profumate, invase di cespugli, arbusti ed erbe.

Quella mattina ero colm* di fiducia in me, credendo che tutto ciò che avrei affrontato tra quelle pareti bianche fosse giusto, che avrei avuto abbastanza tempo, forza fisica e desiderio mentale per non crollare nel futuro e non correre nel presente.

Qui, tra muri, sbarre e voci che comandano, quel sentimento sfugge via, e il mio sguardo si perde nei dettagli della decadenza – nei corpi che vivono qui, nei muri che sembrano eterni – e dimentico, smarrisco, le parole un tempo gioiose, ora marcite, ascoltando il fruscio muto dell’indifferenza e dell’ignoranza che serpeggiano tra le crepe, facendomi rabbrividire.

Così scorrono i giorni, come ieri, quando mi sono svegliat* senza portare con me neanche una parola, senza neanche un frammento di sogno sulle labbra. Mi sono alzat* non più avvolt* da visioni vivide, ma da un umore simile a una sbornia costante. Le sillabe, gli incontri, i luoghi sognati si erano infranti, già sigillati dalla fantasia, la mente compressa da mal di testa e dalla quiete opprimente della mia cella.

Sol*, intrappolat* in una terra straniera

Con lucidità, ho capito che sono ancora sol*, intrappolat* in una terra straniera, che mi rinchiude in una stanza bianca, decisa a potare le ali dei miei sogni e dei miei desideri, a strapparmi da me stess*, dai miei pensieri familiari, come grigie nuvole nell’unica pioggia d’inverno. Non c’è stato nessun brindisi, nessuna festa spensierata, nessuna notte insonne.

La serata si è conclusa, come tante altre, con una meditazione silenziosa, una cena semplice, fogli e penne sparsi davanti a me, a scrivere e ricordare (a me stess*) un mondo colorato, fino a che l’agente ha spento la luce, costringendo la mia anima sveglia alla routine notturna, a vagare verso la finestra aperta, nella convinzione di essere lì più vicino a voi, per condividere un pensiero che solleva, che guarisce, non di rado due o tre.

E così, come prevedibile, anche il giorno prima era stato uno di quei giorni. Ma non solo mi aveva regalato la dolce gioia di volti familiari, bensì anche una notizia inaspettata.

Non riesco a parlare di vittoria per il momento

La mia famiglia mi ha detto che abbiamo vinto. Quella mattina, la Corte costituzionale federale ha accolto il nostro ricorso per vietare la mia estradizione in Ungheria e, contemporaneamente, ha dichiarato illegittima la condotta della giustizia tedesca. Il tribunale più alto della Germania ha deciso a nostro favore. Forse penserete che dovrei dire ho vinto – e forse è vero, perché il ricorso porta il mio nome, e la sentenza dovrebbe proteggere il mio futuro. Ma non riesco a parlare di vittoria ora. Quando i miei avvocati hanno presentato il ricorso, ero già incatenat* mani e piedi, già volat* in un presente che mi ha tolto il respiro da sette mesi, spingendomi avanti come un animale smarrito tra i canyon urbani.

In questo momento, questa vittoria sembra solo un foglio, un certificato, un attestato di partecipazione. Con timore e disagio, ho pensato al momento in cui ho faticato a leggere paragrafo dopo paragrafo, vista la prima pagina, la prima frase: «In nome del popolo». Ho sentito la forza abbandonarmi e ho messo da parte il foglio. Conosco già le parole, conosco già i fatti: li ho vissuti, li ho assorbiti con tutti i sensi, anche se avevano un gusto amaro. Non avevo altra scelta. Sono ancora qui.

Sento la stanchezza di giorni in cui la rabbia lottava con l’impotenza, e un soffio di vento le ha spazzate via entrambe, a soffiare sono stati burocrati con fantasie autoritarie, che creano e mantengono luoghi dove le persone vengono spogliate della loro dignità in modo sottile e affamante.

Mi sento impotente ma so che le persone hanno osato sognare di nuovo

Eppure sento orgoglio, come ogni giorno, per ciò che le persone hanno fatto, per come la loro vitalità mi ispira ad andare avanti. E sono orgoglios* anche di me, per aver resistito fino a oggi. So, nel profondo, che è anche la mia vittoria, la nostra vittoria. Anche se ora sento disillusione e impotenza, si aprono ferite che non possono guarire, la rabbia ribolle dentro di me, e allo stesso tempo dubito di riuscire a sollevare ancora una volta quella coperta nera di lana, so che qui le persone hanno creato qualcosa che va oltre la carta con l’aquila sopra: hanno osato sognare di volare di nuovo e guardare verso l’orizzonte, nella speranza di un giorno in cui tutti si sveglino nella libertà e nella giustizia, in un domani non accecato dall’amarezza di ieri.

Ora quelle parole sono andate, quelle che si erano raccolte nella mia mente aspettando la matita. Ho provato a metterle in ordine, ho potuto danzarci insieme una mattina, ora stanno davanti a me e a voi, sul tavolo. Perdonatele, sono frammenti, righe fugaci che formano questa lettera. Ma nella mia testa vivono ancora, e sicuramente ramificheranno, daranno frutto.

Fino ad allora, restiamo uniti, nella solidarietà e nella connessione. A presto, mi farò viv*.

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