
Chico, i maranza e il populismo mediatico
Osservatorio Repressione - Wednesday, April 30, 2025L’attenzione dei media alle vicende giudiziarie è, insieme, crescente (fino a trasmissioni televisive dedicate) e a corrente alterna, a seconda del clamore dei fatti e dello status sociale di vittime e protagonisti. Così la stampa e i mezzi di comunicazione di massa, anziché strumenti di controllo del potere, diventano armamentario di disinformazione e propaganda volte a riprodurre paure, pregiudizi e divisioni sociali.
di Vincenzo Scalia da Volere la Luna
La concessione, nei giorni scorsi, della misura della semi-libertà ad Alberto Stasi, lo studente condannato per l’omicidio della sua fidanzata, Chiara Poggi, ha fatto plaudire svariati settori dell’opinione pubblica. In nome del fatto che probabilmente sia innocente e il caso verrà riaperto. Il fatto che un cittadino che si proclama innocente possa avere la possibilità di far valere le sue ragioni, costituisce, per i nostri parametri, un fatto positivo. Voltaire, d’altronde, diceva che è meglio un colpevole fuori che un innocente dentro. La vita, la libertà e la reputazione di un cittadino o di una cittadina, rappresentano beni inalienabili, da non sacrificare sull’altare della giustizia a tutti i costi. Soprattutto, la riapertura di un caso giudiziario già definito, è indice della capacità, del sistema giudiziario-penale italiano, di elevarsi al di sopra del giustizialismo e dell’arbitrarietà.
Dall’altro lato, la riapertura del caso relativo all’omicidio di Garlasco, suscita alcune riflessioni, da articolare non tanto sul piano giuridico-penalistico, quanto su quello socio-culturale, dal momento che l’innocenza di Stasi viene proclamata all’interno di un contesto caratterizzato da un’onda montante di populismo penale. In questi ultimi anni, in particolare, abbiamo assistito alla progressiva costruzione della rappresentazione dei giovani, soprattutto minorenni, come nuova classe pericolosa. Sull’onda di questa narrazione sono stati emanati il decreto anti-rave e quello Caivano, che ha snaturato uno dei migliori sistemi penali minorili d’Europa. Inoltre, altri casi, come quello relativo al delitto di Avetrana, la cui sentenza, che condanna all’ergastolo Cosima Misseri e Sabrina Serrano per l’omicidio della giovane Sarah Scazzi, vengono trascurati. Sembrerebbe che esista uno squilibrio di valutazione tra i diversi casi di colpevolezza e innocenza, nonché nella costruzione di panico morale.
Si tratta di uno squilibrio che affonda le origini nelle disuguaglianze di classe, all’interno del quale la sfera mediatica svolge un ruolo da protagonista. All’interno del circuito dentro il quale viene costruito il panico morale, che parte da settori del pubblico, viene intercettato e rifinito dai media, recepito dalla sfera politica, per approdare infine allo stadio finale di politiche repressive. L’apparato dei mezzi di comunicazione di massa, o meglio, l’industria mediatica, riesce a ricavarsi una rendita di posizione agevolata dall’assenza di altri filtri, come quelli che una volta svolgevano le organizzazioni di massa, per ricavarsi un’audience che attragga investimenti pubblicitari e garantisca profitti. Il caso giudiziario, dove sono in gioco le variabili sopraccitate della vita, della reputazione e della libertà individuale, viene così ridotto a un prodotto mediatico, confezionato su misura dei pregiudizi che orientano la percezione di una parte consistente dell’opinione pubblica italiana. Per un’analisi di questa asimmetria, che in ultima analisi fa leva sulle differenze di classe, si può fare ricorso alla categoria di intersezionalità, elaborata, sul solco teorico di Antonio Gramsci, dalla pensatrice afroamericana Kimberlè Crenshaw, che sottolinea come anche le lotte più radicali non tengono in considerazione la posizione dagli attori occupata all’interno dei rapporti sociali.
Il caso di Alberto Stasi ha ricevuto un sostegno rilevante da una trasmissione televisiva come Le Iene, in onda su Italia 1 Si tratta di una trasmissione ad alto tasso di popolarità, che basa la ricerca di audience su casi che indignano la coscienza collettiva in nome della violazione delle regole della convivenza civile. Le truffe di maghi di provincia, i crimini di strada, sono tra i principali contenuti della trasmissione. È famosa la vicenda di una ex-giocatrice di pallamano di origine africana, in seguito caduta in disgrazia, che la trasmissione scoprì a fumare crack durante la gravidanza, sollecitando un provvedimento del tribunale dei minori che le tolse il bambino. Dall’altro lato, Le Iene, hanno condotto campagne che si potrebbero definire in senso lato come “garantiste”, nonché come critiche degli abusi di potere. È infatti all’interno della stessa trasmissione che, oltre al caso di Alberto Stasi, si è lanciata la campagna, poco fortunata, per riaprire il caso del delitto di Erba, per la quale sono stati condannati all’ergastolo i coniugi Rosa Angela Bazzi e Olindo Romano. Così come è stata sollevata l’attenzione dell’opinione pubblica sulla vicenda di Chico Forti, l’imprenditore trentino condannato al carcere a vita negli USA e in seguito trasferito in Italia. Anche la vicenda della morte di Riccardo Magherini in seguito all’intervento dei Carabinieri, a Firenze, nel 2014, ha ricevuto rilevanza mediatica in seguito all’interessamento de Le Iene. In una sorta di divisione del lavoro sensazionalista, certe trasmissioni di Rai Tre si occupano di crimini dei potenti, quelle Mediaset del penale quotidiano.
La trasmissione Mediaset ormai si colloca nella posizione di veri e propri stakeholders del senso comune giudiziario, che orienta l’attenzione dell’opinione pubblica su casi eclatanti. L’apparente par condicio tra errori giudiziari e criminalità di strada, tuttavia, andrebbe valutata sotto due aspetti. Il primo è quello dell’audience. Casi “forti”, come quelli degli errori giudiziari o della morte di un giovane per presunti abusi delle forze dell’ordine, sono destinati a catturare l’audience a partire dalla forma sensazionalistica in cui vengono presentati.
Ma, in secondo luogo, bisogna valutare un altro aspetto a partire, appunto, dall’intersezionalità. Alberto Stasi è stato dipinto da più parti come un ragazzo modello, di buona famiglia, studente alla Bocconi di Milano. Anche Chico Forti viene presentato come un imprenditore di successo. Si tratta, in altre parole, di persone pienamente integrate all’interno dei modelli vincenti proposti dal neoliberismo. Anche Riccardo Magherini era un giovane di buona famiglia, ex-calciatore, imprenditore, padre di famiglia. Quanto a Rosa e Olindo, bisogna fare un discorso diverso. Erano di condizione sociale modesta, venditori ambulanti. Il marito era addirittura un immigrato pugliese. Ma si tratta, tuttavia, di italiani, di persone che l’immaginario comune, in particolare quello del Centro-Nord ha assorbito quantomeno dai tempi del terrunciello proposto da Diego Abatantuono. Inoltre, la loro italianità spicca rispetto al vedovo di una delle vittime, Aziz Marzouk, tunisino, con precedenti per spaccio. Nonché verso la famiglia Castagna, perita nella tragedia, che aveva accolto al proprio interno uno straniero, intaccando la purezza immaginaria della comunità.
Come altri casi, come il delitto di Cogne, le vicende sopraccitate alzano il livello di attenzione dell’opinione pubblica in misura direttamente proporzionale alla paura di intaccarne le autorappresentazioni rassicuranti. L’Italia produttiva, attaccata alla roba, che manda i figli nelle università esclusive per manager, bramosa di legge e ordine, non può tollerare l’idea che tra le proprie schiere si nasconda un assassino, o che i propri sforzi vengano vanificati da un intervento energico delle forze dell’ordine. Il male sono gli altri, quelli che stanno al di fuori dal perimetro degli inclusi. E conferisce alla grancassa mediatica il compito di interpretare e amplificare questo disagio. Inoltre, mettere in rilievo questi casi ed ottenerne la riapertura o il trasferimento di Chico Forti in Italia, conferma la validità della narrazione del populismo penale. Lo Stato deve condannare tutte le illegalità, a partire dalle più piccole, e difendere i cittadini, purché la legalità prevalga.
Viceversa, nel caso di Avetrana, la cui sentenza ha destato e desta più di una perplessità, basata su coerenze logiche, senza una prova empirica, che rigetta una confessione (la sentenza è reperibile e leggibile), si pone al di fuori di questo schema. È una vicenda che si è svolta al sud, ovvero la palla al piede della società italiana, in nome del quale si promuove l’autonomia differenziata. Inoltre, il contesto sottoproletario all’interno del quale si è svolta la tragica faccenda di Sarah Scazzi, si confà alle rappresentazioni dominanti delle famiglie meridionali come aggregati torbidi, lombrosianamente primordiali, per i quali non vale la pena condurre inchieste o lanciare campagne di riapertura del processo.
L’approccio intersezionale risulta utile per comprendere la montata dell’onda di panico morale concernente la devianza minorile dell’ultimo quinquennio. La serie televisiva Mare Fuori, che ha aperto le danze del panico morale, non a caso è ambientata a Napoli, la città dei guappi e degli scugnizzi per l’immaginario collettivo, quindi bacino di baby gangs e branchi imprecisati di minori che minacciano la convivenza civile. Lo spettro della stigmatizzazione, gradualmente, ha finito per risalire la penisola, ponendo attenzione su quelli che il principale quotidiano italiano, da qualche tempo, definisce come maranza, dedicando loro un’inchiesta apposita. Anche in questo caso, il pericolo, viene rappresentato come un’anomalia che proviene dall’esterno di un tessuto comunitario che si autorappresenta come compatto. Il soprannome di maranza, fin dagli anni ottanta, designa i giovani delle periferie che non potevano permettersi di vestirsi secondo la moda delle griffes, né di status symbol come auto e moto. Il termine adesso è stato esteso ai membri delle presunte baby gangs, tutti residenti nelle periferie o nei non luoghi delle aree metropolitane diffuse e quasi sempre di origine migrante o rom. Gruppi sociali che spesso patiscono la carenza di status giuridici e di risorse come una difesa adeguata, un interprete, un mediatore culturale, finendo per essere sovra-rappresentati all’interno del sistema penitenziario. Dove formano una delle componenti più presenti nel tragico rosario dei suicidi all’interno delle patrie galere. Se dovessimo spostarci poi sul fronte degli abusi, delle morti in circostanze non del tutto chiare, ci toccherebbe imbatterci in un numero oscuro, che molto difficilmente riusciremmo a rischiarare.
A questi casi, se volessimo declinare una legalità all’insegna del dettato costituzionale, quindi dei diritti e delle priorità, un giornalismo che si auto-qualifica come “d’inchiesta”, dovrebbe dare la priorità, per sfrondare, come direbbe il poeta, gli allori di legge ed ordine, e svelare alle genti di che lacrime e che sangue grondano. Un compito arduo, che forse non farebbe audience. Ma la stampa, i mezzi di comunicazione di massa, dovrebbero essere strumenti di controllo del potere, e non, come purtroppo quotidianamente assistiamo, armamentario di disinformazione e propaganda di massa volta a riprodurre paure, pregiudizi, divisioni sociali. Sarebbe importante di assumerne consapevolezza al più presto.
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