Il «decreto paura» approda alla Camera

Osservatorio Repressione - Monday, May 26, 2025

Approda alla Camera dei Deputati, per la conversione in legge, il decreto sicurezza. Un «diritto penale della paura», in un quadro di populismo securitario più orientato a una fuorviante campagna comunicativa permanente che alla promozione di una reale incolumità e sicurezza pubblica in favore dell’intera cittadinanza

di Giuseppe Allegri da il manifesto

Il decreto legge «sicurezza» potrebbe essere convertito proprio a ridosso dei referendum dell’8 e 9 giugno, ma naturalmente è già in vigore in quanto «provvisorio» provvedimento governativo con forza di legge che può essere adottato solo «in casi straordinari di necessità e urgenza». Il contenuto è rimasto quello del disegno di legge che da oltre un anno era oggetto di dibattito parlamentare, criticato e contestato dall’opposizione parlamentare e da quella sociale, radunata nella rete «A pieno regime»: dall’Arci ai movimenti studenteschi, dagli scout all’associazionismo diffuso, agli spazi sociali, ai sindacati.

Erano i primi di aprile, a ridosso del congresso della Lega, quando il governo ha deciso di esautorare il parlamento e adottare il decreto per accontentare il partito di Salvini che da tempo rivendicava maggiori interventi penali e contro l’immigrazione. Qualche acuto osservatore manifestò il dubbio che il requisito costituzionale per adottare il decreto – quei «casi straordinari di necessità e urgenza» – fosse da rintracciare proprio nell’urgente necessità di legittimare il congresso leghista. Domani il disegno di legge di conversione del decreto approderà alla Camera, dove si presume ancora un deciso, quanto inutile, ostruzionismo delle minoranze parlamentari, sostenute dalla piazza. Anche facendo leva sull’appello di oltre 250 docenti universitari di diritto pubblico riguardo i «gravissimi motivi di incostituzionalità», formali e sostanziali, presenti nel testo. Il punto critico sta proprio nell’intervento sull’allarme sociale riguardante la condizione di insicurezza percepita e vissuta dalle persone impaurite e impoverite, con un abuso di giustizialismo penale verso tutte le forme di dissenso e contro la parte più marginale delle nostre affaticate e rancorose società.

Il decreto «sicurezza» sacrifica infatti qualsiasi dialogo e mediazione per introdurre una dozzina di nuovi reati, con l’aggravamento di fattispecie già previste verso soggetti che rischiano di delinquere in (seguito al trovarsi in) condizioni di vulnerabilità o fragilità sociale, colpendo l’accattonaggio dei mendicanti, la condizione di migranti e senza fissa dimora, quindi aumentando misure cautelari e detentive per «donne incinte o madri di prole di età inferiore a un anno o a tre anni» che delinquono. Con l’obiettivo di intervenire contro reati certamente odiosi come scippi e rapine, utilizzando però una sorta di diritto penale dei marginali, alla ricerca mediatica e immediata di una pena detentiva dal sapore di vendetta nei confronti di quella microcriminalità diffusa, da dare in pasto all’avvelenata comunicazione social.

Il decreto prosegue inasprendo le pene anche contro chi manifesta pubblicamente e pacificamente il proprio dissenso e contro forme di protesta non violente e soggettivamente faticose come la resistenza passiva in un eventuale sciopero della fame negli istituti penitenziari, o nei centri di trattenimento per migranti. Così, «in nome della (tanto sbandierata) sicurezza si finisce per creare maggiore marginalità e, di conseguenza, più insicurezza per la collettività. Un esempio paradigmatico di populismo penale e di ricorso allo strumento penale ispirato alla logica amico/nemico ed al diritto penale del nemico», per citare le parole utilizzate da Ivan Salvadori, docente di diritto penale presso a Verona, ospitate in un articolo pubblicato nella storica rivista Polizia e Democrazia (n. 1/2025).

De sempre su quelle pagine si nota come la previsione di autorizzare i circa 300mila agenti di pubblica sicurezza, quando non sono in servizio, a portare senza licenza alcune tipologie di armi, anche diverse da quelle in dotazione, «possa incrementare l’insicurezza pubblica», visto che queste armi potrebbero finire in mani sbagliate (per furti, incidenti domestici…), o alimentare il rischio di una giustizia fai da te, con un uso illecito o pericoloso da parte degli stessi agenti.

Siamo quindi dinanzi a un decreto che sembra coniugare una mentalità da giustizieri law and order con una sorta di «diritto penale della paura», in un quadro di populismo securitario più orientato a una fuorviante campagna comunicativa permanente che alla promozione di una reale incolumità e sicurezza pubblica in favore dell’intera cittadinanza. Una problematica in parte segnalata da una persona di grande esperienza nella gestione dell’ordine pubblico, come Franco Gabrielli, ex capo della polizia di stato, quando affermò di non condividere molte delle scelte del ministro dell’interno Piantedosi «che hanno un’impronta eccessivamente securitaria, come questa proliferazione dei reati e di inasprimento delle pene, peraltro in un sistema nel quale ormai siamo al collasso».

Si tratta di critiche provenienti da mondi e soggetti con grande esperienza e impegno nella promozione di un autentico ordine pubblico repubblicano e democratico, capace di bilanciare libertà e sicurezza, eppure non riescono a trovare cittadinanza nel dibattito intorno alla conversione in legge di questo decreto, soffocato dalla maggioranza di governo. Per questo si dovrebbe utilizzare il poco tempo ancora a nostra disposizione per tentare l’intentato: tornare a far dialogare la garantistica visione di una democrazia costituzionale per la sicurezza sociale, con il protagonismo di quella porzione di società attiva per l’estensione di diritti, libertà e doveri di solidarietà politica, economica e sociale, che la nostra Costituzione repubblicana promuove tra i principi fondamentali. Prima che sia troppo tardi e che il «decreto paura» divenga legge dello stato, rendendoci tutti ancora più insicuri e incattiviti.

 

 

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