
No al decreto sicurezza! Tutte e tutti in piazza
Osservatorio Repressione - Friday, May 30, 2025Fermiamo il decreto sicurezza! Mentre alla Camera si è concluso l’iter della conversione in legge, nelle piazze si apre una settimana di mobilitazione. La posta in gioco è chiara: siamo di fronte a un’impostazione autoritaria, che tende a trasformare lo Stato sociale in Stato penale e a reprimere il disagio e il dissenso, anche ricorrendo a colpi di mano e alla mortificazione del Parlamento.
di Livio Pepino da Volere la Luna
Il 29 maggio, il decreto sicurezza (11 aprile 2025, n. 48) è stato approvato alla Camera, primo passo per la conversione in legge, che dovrà avvenire – pena la decadenza – entro il 10 giugno. Parallelamente in tutta Italia si susseguono le iniziative di protesta che culmineranno nella manifestazione nazionale del 31 maggio. Il contrasto è diventato corale ed ha visto convergere in modo inedito con movimenti e partiti di opposizione il mondo dell’Università, le Camere penali, il Consiglio superiore della magistratura e lo stesso sindacato democratico della polizia. Un contrasto che ha sostituito – spiace dirlo – l’inerzia del capo dello Stato che, pur a fronte di una chiara forzatura istituzionale e a profili di incostituzionalità evidente, ha preferito dare il via libera al provvedimento una volta ottenute alcune modifiche minime e su punti importanti ma non decisivi.
Una mobilitazione così corale ha molte, concorrenti ragioni.
Sul piano del metodo il decreto, come noto, è frutto di una improvvisa iniziativa del Governo, mentre un disegno di legge dello stesso contenuto era in avanzato stato di discussione parlamentare. L’uso abnorme della decretazione d’urgenza – lo hanno scritto 237 professori di diritto pubblico con parole di inusitata durezza – ha superato, nel caso, la soglia di guardia infliggendo al Parlamento una ferita senza precedenti «dato che l’iter legislativo, ai sensi dell’art. 72 della Costituzione era ormai prossimo alla conclusione, quando è intervenuto il plateale colpo di mano con cui il Governo si è appropriato del testo e di un compito, che, secondo l’art. 77 Costituzione può svolgere solo in casi straordinari di necessità e di urgenza, al solo scopo, sembra, di umiliare il Parlamento e i cittadini da esso rappresentati». Il motivo di questa intollerabile forzatura delle regole costituzionali è uno solo: l’incapacità della maggioranza di superare le divisioni interne sul modo di rispondere alle osservazioni del capo dello Stato e la volontà di impedire al Parlamento e al Paese di mettere a nudo l’insostenibilità del testo proposto. Difficile non convenire con il documento dei costituzionalisti appena citato laddove denuncia che «il disegno complessivo tradisce un’impostazione autoritaria, illiberale e antidemocratica, non episodica od occasionale ma mirante a farsi sistema».
Altrettanto eversivo è il merito del provvedimento. Lo strumentario utilizzato è quello dei molti “pacchetti sicurezza” che hanno segnato la vicenda del Paese nel nuovo secolo e che sono stati consegnati ai posteri con i nomi dei ministri degli Interni proponenti [Maroni (23 febbraio 2009, n. 11); Minniti (17 febbraio 2017 n. 13 e 20 febbraio 2017, n. 14), Salvini (4 ottobre 2018, n. 113 e 14 giugno 2019, n. 53); Lamorgese (21 ottobre 2020, n. 130)]. Ma l’effetto è, questa volta, molto più grave e devastante: perché il decreto incide su una situazione già pregiudicata facendo venir meno il delicato equilibrio in atto, perché le nuove previsioni toccano un numero rilevante di settori della vita sociale e soprattutto per il contesto in cui il provvedimento si inserisce. La stagione è, infatti, quella – non solo italiana – della crisi strutturale della democrazia, sempre più incapace di dare risposta alle richieste di uguaglianza, inclusione e partecipazione dei cittadini: una crisi che l’establishment cerca di contenere e occultare con il primato del denaro sulle regole e con il controllo repressivo del disagio sociale e del dissenso. È in questo contesto che si colloca il decreto sicurezza, evidente veicolo di trasformazione dello Stato sociale in Stato penale e di sterilizzazione delle nuove “classi pericolose”: i migranti (considerati alla stregua di nuovi barbari), i marginali, i ribelli.
Alcune norme lo mostrano plasticamente.
La virata verso il controllo repressivo della povertà ha un manifesto: l’articolo 10 che introduce nel codice penale l’articolo 634 bis in forza del quale «chiunque, mediante violenza o minaccia, occupa o detiene senza titolo un immobile destinato a domicilio altrui o sue pertinenze, ovvero impedisce il rientro nel medesimo immobile del proprietario o di colui che lo detiene legittimamente, è punito con la reclusione da due a sette anni». A fronte di una situazione abitativa esplosiva (50.000 famiglie occupanti case popolari, 100mila sentenze di sfratto con richiesta di esecuzione e 40mila sentenze di sfratto emesse ogni anno, secondo i dati di Federcasa) la risposta istituzionale non è un “piano casa” per sostenere chi ne è privo ma l’aumento a dismisura della pena per chi cerca di risolvere il problema, sia pure indebitamente, con l’occupazione di una casa o di un alloggio. Si noti, già in precedenza l’occupazione di edifici destinati ad abitazione era prevista come reato. La novità è un’altra: l’aumento della pena, parificata a quella prevista dall’articolo 589, comma 2, per l’omicidio colposo «commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro». E non basta: il reato si estende anche a chi, «fuori dei casi di concorso nel reato, si intromette o coopera nell’occupazione dell’immobile». È la criminalizzazione dei movimenti per la casa, al fine evidente di fare terra bruciata intorno ai poveri.
Il cuore del decreto è, peraltro, la disciplina dei conflitti sociali. Manifestare implica, anzitutto, scendere in piazza. Ebbene, la previsione come reato del blocco stradale «realizzato con la mera interposizione del corpo» e la sua punizione con la reclusione da sei mesi a due anni «quando il fatto è commesso da più persone riunite» (cioè sempre, considerato che un blocco stradale o ferroviario fatto da una sola persona è poco più che un’ipotesi di scuola…) incidono direttamente e immediatamente sulla possibilità di scendere in strada. Detto in parole povere, saranno criminalizzati, in caso di manifestazione spontanea e priva di preavviso (ovvero vietata dal questore), anche i dimostranti pacifici che stazionano in gruppo in strada, per esempio di fronte ai cancelli di una fabbrica o all’ingresso di una scuola. Sarà cioè punito il semplice assembramento (consentito solo con preavviso e in assenza di indicazioni contrarie dell’autorità di polizia). Si noti. Il delitto di blocco stradale era stato introdotto nel nostro sistema nel 1948 (all’inizio di una stagione di gestione dell’ordine pubblico che avrebbe condotto, negli anni successivi, ad oltre cento morti nel corso di manifestazioni) ma, nel 1999, era stato depenalizzato e trasformato in illecito amministrativo, senza che ciò avesse creato problemi di sorta nel controllo del territorio. Quasi vent’anni dopo, con il primo decreto Salvini, è iniziato un percorso a ritroso che è oggi completato con il ritorno alla situazione originaria. E, anche qui, non c’è solo la criminalizzazione del blocco stradale, con tutto quel che comporta. Un ulteriore insieme di norme attribuisce alle manifestazioni di piazza in quanto tali una connotazione negativa, prevedendo specifiche aggravanti per i reati di danneggiamento, resistenza o violenza a pubblico ufficiale e lesioni aggravate, se commessi nel corso delle stesse (arrivando al paradosso di prevedere, con il gioco delle aggravanti, una pena fino a vent’anni di reclusione per la resistenza o violenza a pubblico ufficiale commessa «al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica»: sic!). Queste previsioni ribaltano addirittura, in termini di maggior repressione, la disciplina del codice Rocco, il cui articolo 62 n. 3 prevedeva (e prevede, non essendo mai stato abrogato) come attenuante per qualunque tipo di reato «l’avere agito per suggestione di una folla in tumulto» (pur con il limite che «non si tratti di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall’autorità»).
Come se non bastasse, con l’attuale decreto legge trova accesso nel nostro sistema, per la prima volta in modo esplicito, il delitto di “resistenza passiva” espressamente indicata come possibile modalità della “rivolta in istituto penitenziario” e in strutture destinate all’accoglienza di migranti. Superfluo dire che la previsione del delitto di resistenza passiva con riferimento a una categoria di soggetti (i detenuti o i migranti “irregolari”) considerati devianti e marginali, oltre ad essere grave in sé, introduce nel sistema un precedente dotato di evidente capacità espansiva, che potrebbe ripetere la (triste) esperienza del Daspo, introdotto inizialmente (con l’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401) per una categoria marginale come quella dei tifosi violenti e diventato negli anni uno strumento ordinario di governo del territorio.
Per assicurare che la svolta autoritaria sia effettiva occorre ridefinire i rapporti tra autorità e cittadini, tra l’altro aumentando i poteri e le tutele delle forze di polizia. Il decreto legge interviene, dunque, anche su questo punto. In particolare: gli articoli 19 e 20 prevedono consistenti aumenti di pena per i reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale e di lesioni quando i fatti sono commessi in danno di ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria; secondo l’articolo 22 «agli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria appartenenti alle Forze di polizia a ordinamento civile o militare, agli appartenenti alle Forze armate e al Corpo nazionale dei vigili del fuoco, indagati o imputati per fatti inerenti al servizio (nonché agli eredi), che intendono avvalersi di un libero professionista di fiducia, può essere corrisposta, anche in modo frazionato, una somma, complessivamente non superiore a euro 10.000 per ciascuna fase del procedimento, destinata alla copertura delle spese legali, salva rivalsa se al termine del procedimento è accertata la responsabilità dell’ufficiale o agente a titolo di dolo»; l’articolo 28 autorizza gli appartenenti alla polizia di Stato, all’arma dei Carabinieri, alla Guardia di finanza, al corpo degli agenti penitenziari e alle polizie municipali, a portare, senza licenza, un’arma diversa da quella di ordinanza quando non sono in servizio (così consentendo l’immissione in circolazione, potenzialmente, di circa 400.000 pistole in più delle attuali). Il disegno è univoco. Anziché investire in formazione e dispositivi di tutela degli operatori di polizia, si aumentano le pene per i reati commessi nei loro confronti, si incentiva l’uso delle armi da parte loro e se ne potenzia in modo indiscriminato il ruolo (con uno sbilanciandolo sempre più accentuato rispetto alla posizione dei cittadini). Il risultato non sarà una crescita democratica del paese e un miglior rapporto della polizia con la società. Ma ciò che interessa è altro: spostare l’asse istituzionale verso gli apparati militari e le forze di polizia, cementando alleanze tradizionali della destra con i loro settori più corporativi e reazionari.
È ancora più chiaro, a questo punto, il senso della già citata affermazione dei 237 professori di diritto costituzionale secondo cui il disegno complessivo sottostante al decreto «tradisce un’impostazione autoritaria, illiberale e antidemocratica, non episodica od occasionale ma mirante a farsi sistema». Per questo l’opposizione alla conversione del decreto legge è una battaglia di libertà.
Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000
News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp