
La morte di Riccardo non è una tragedia individuale
Osservatorio Repressione - Friday, June 6, 2025Un giovane di trent’anni è deceduto in Questura, a seguito di un intervento in cui è stato impiegato un taser. Non si tratta di un episodio isolato né di un mero incidente fortuito. È l’ennesima manifestazione di una prassi ormai consolidata e diffusa: l’uso del taser come strumento “intermedio” nel repertorio coercitivo delle forze dell’ordine.
di Associazione Yairaiha Ets
Un giovane di trent’anni è deceduto in Questura, a seguito di un intervento in cui è stato impiegato un taser. Secondo l’esito dell’autopsia, la causa del decesso è riconducibile a una “sommersione interna emorragica da trauma toracico chiuso”, una massiccia emorragia compatibile con una compressione toracica particolarmente intensa. Le autorità hanno escluso un nesso diretto tra l’uso del taser e il decesso. Tuttavia, permangono dubbi gravi, legittimi e fondati riguardo alle modalità dell’intervento, alle responsabilità complessive e alla concatenazione degli eventi che hanno condotto alla tragica morte di Riccardo.
Non si tratta di un episodio isolato né di un mero incidente fortuito. È l’ennesima manifestazione di una prassi ormai consolidata e diffusa: l’uso del taser come strumento “intermedio” nel repertorio coercitivo delle forze dell’ordine. Uno strumento che appare tutt’altro che neutro, specie quando impiegato nei confronti di soggetti fragili, in condizioni di alterazione o vulnerabilità fisica o psichica.
La morte di Riccardo non si configura solo come una tragedia individuale, ma come uno specchio che riflette una trasformazione lenta ma inesorabile: la repressione che soppianta la mediazione, l’abitudine all’eccezione, una gestione dell’ordine pubblico che scivola sempre più velocemente verso la prevalenza della forza. Non ci troviamo più davanti a un rischio teorico: lo Stato ha di fatto rinunciato alla responsabilità di un intervento equilibrato, sostituendola con l’automatismo della coercizione.
Questa deriva trova ulteriore sostegno nel recente decreto sicurezza, che amplia i poteri delle forze dell’ordine e legittima un impiego più esteso del taser, anche in contesti in cui il contatto umano, il discernimento e la competenza dovrebbero restare imprescindibili. Non è più la forza che interviene in casi eccezionali, ma la forza che diventa automatica.
L’ambiguità con cui oggi si invocano termini quali “sicurezza”, “legalità”, “difesa” crea una cortina fumogena. Ma i corpi non mentono. Non mentono le vittime di decessi avvenuti “per errore”. Non mentono i corpi di coloro che non rappresentavano una minaccia reale. Non mentono le famiglie a cui, finora, non è stata data una spiegazione piena e trasparente su quanto accaduto e sulle cause che vi hanno condotto.
In uno Stato che si definisce democratico, non è sostenibile che pretenda fiducia mentre moltiplica i propri strumenti di violenza e abdica dalla sua prerogativa fondamentale: proteggere, non punire. La questione non riguarda esclusivamente la liceità del taser, bensì il modo in cui è stato progressivamente sdoganato, automatizzato e normalizzato come una scorciatoia operativa. L’arroganza di chi si ritiene sempre nel giusto e la sistematica rimozione delle conseguenze sono elementi che destano profonda preoccupazione.
Non è accettabile che un corpo a terra venga trattato come un mero dettaglio operativo. In quel corpo si misura la tenuta di uno Stato di diritto. Ed è proprio lì che, qualora non si presti la dovuta attenzione, rischiamo di perdere silenziosamente qualcosa di molto più grande di quanto siamo disposti ad ammettere.
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