Luigi Manconi: “Osservo il rischio di una palese violazione del principio di
eguaglianza, a causa dell’introduzione, solo per i pubblici agenti, di un regime
processuale speciale”.
di Valentina Stella da il dubbio
Luigi Manconi, docente di Sociologia dei Fenomeni Politici, Presidente di “A
Buon Diritto Onlus”, è stato presidente della Commissione per la tutela dei
diritti umani del Senato. Nel suo libro più recente – “La scomparsa dei colori”,
edito da Garzanti – racconta la progressiva perdita della vista e la cecità. Ma
oggi con lui vogliamo parlare di uso e abuso della forza da parte di chi
dovrebbe garantire la nostra sicurezza, a prescindere dalla nostra innocenza o
colpevolezza, nelle regole di uno Stato di Diritto.
In queste settimane si è discusso di scudo penale per le forze di polizia nei
seguenti termini: nel caso in cui le azioni del poliziotto e del carabiniere
avvengano nell’ambito del perimetro delle cause di giustificazione disciplinate
dal codice penale di rito, il vaglio del magistrato abbia una procedibilità
diversa rispetto all’iscrizione immediata nel registro degli indagati. Solo se
ci sono elementi per cui il poliziotto o il carabiniere violano la legge o il
perimetro delle cause di giustificazione, deve essere iscritto nel registro
degli indagati, ma non prima. Cosa ne pensa?
Osservo una palese violazione del principio di eguaglianza, a causa
dell’introduzione, solo per questi pubblici agenti, di un regime processuale
speciale, non previsto per alcun altro corpo o organo dello Stato nemmeno per
gli appartenenti ai Servizi Segreti che pure godono di particolari tutele.
Inoltre, verrebbe incrinato il principio costituzionale di obbligatorietà
dell’azione penale, che riserva al pubblico ministero il potere (e il dovere) di
condurre le indagini, disponendo della polizia giudiziaria. Infine, affidare una
fase di verifica della fondatezza della notizia di reato alla stessa
amministrazione da cui dipende l’indagato significherebbe il venire meno della
terzietà necessaria all’accertamento delle responsabilità penali. Oltretutto, se
il fine della norma si identifica nella necessità di evitare le iscrizioni nel
registro degli indagati nei casi di “atti dovuti”, è evidente come una simile
previsione rischi di prestarsi a veri e propri abusi. Se davvero si volesse
affidare la prima fase delle indagini (come una sorta di pre-istruttoria) al
ministero dell’Interno, sottraendola almeno in parte al pubblico ministero, per
poi investire il procuratore generale solo nel caso emergessero responsabilità,
si porrebbe un ulteriore, elevatissimo, rischio di incostituzionalità.
I fatti del G8 di Genova hanno segnato uno spartiacque nella storia della
polizia o hanno semplicemente fatto emergere quanto già si sapeva?
È sembrato che potesse costituire uno spartiacque, ma così non è stato. Ricordo
che solo diciassette anni dopo, il capo della polizia Franco Gabrielli riconobbe
che si era trattato di una gestione “catastrofica” dell’ordine pubblico. Ma,
pare che quella lezione non abbia sollecitato alcuna riforma: della mentalità
collettiva, dell’istituzione-polizia, né delle sue regole di ingaggio né,
infine, dei suoi processi di formazione e istruzione anche tecnica.
Lei da decenni con l’Associazione che presiede ha seguito molti casi di persone
abusate dalle forze di polizie. Quali sono stati quelli che l’hanno più colpita?
Tutti. Ma se proprio devo indicarne uno in particolare, penso alla morte di
Giuseppe Uva, fermato illegalmente e trattenuto in una caserma dei carabinieri
di Varese, e qui sottoposto a violenze. Dopo tre gradi di giudizio, risoltisi
negativamente, e in una Varese generalmente sorda alla tutela delle garanzie per
i più deboli, nel 2021, infine, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha
riconosciuto ammissibile il ricorso. E ciò grazie alla tenacia della sorella
Lucia Uva e dell’avvocato Fabio Ambrosetti. Voglio ancora sperare.
Secondo lei questi episodi ma anche quelli più recenti sono solo frutto di
azioni delle cosiddette mele marce o c’è un serio problema culturale all’interno
delle forze dell’ordine?
Quella delle mele marce è una immagine, prima che falsa, insensata logicamente,
dal momento che, notoriamente, le mele marce sono destinate inevitabilmente a
infettare quelle considerate sane. Di più, le attività illegali della piccola
minoranza che si macchia di crimini è troppo spesso sostenuta dalla solidarietà
corporativa, si dovrebbe dire “omertà”, di molti colleghi e, spesso, di
ufficiali di grado più alto. La vicenda di Stefano Cucchi è esemplare di tutto
ciò. In termini generali si può dire che, poco, pochissimo si fa per far
crescere la coscienza democratica degli appartenenti alle forze di polizia.
Oltre che la preparazione tecnica capace di ridurre al minimo il ricorso alla
violenza nell’attività di repressione, quando necessaria
Se c’è questo problema, secondo lei polizia e carabinieri ne sono consapevoli e
stanno facendo qualcosa per cambiare oppure no?
Sono molto pessimista. Nel corso degli ultimi venti anni ho seguito decine di
vicende di abusi, illegalità e violenze da parte di appartenenti alla polizia di
stato, all’arma dei carabinieri e alla polizia penitenziaria. Sempre, sia
chiaro, a opera di minoranze di quei corpi ma sempre con scarsissima capacità di
autocritica e di autoriforma. Ho incontrato una decina di massimi responsabili
di quei corpi, disposti a chiedere scusa e a promettere giustizia, ma sempre e
sole dopo: dopo, cioè, che la magistratura aveva rivelato se non già sanzionato
i reati. Non un capo della Polizia o un comandante generale dell’Arma dei
Carabinieri e non un ministro dell’Interno che, al momento di assumere il
comando, abbia mai annunciato un serio programma di riforma interne e lo abbia
intrapreso.
Di abuso della forza si parla anche rispetto alle carceri. Eppure il ddl
sicurezza vuole punire persino la resistenza passiva. Qual è il suo pensiero su
questo?
Se non sbaglio, sono almeno duecento i poliziotti indagati per lesioni gravi o
torture e alcune decine i procedimenti giudiziari in corso. Ancora una volta una
piccola minoranza rispetto ai 31 mila appartenenti alla Polizia penitenziaria.
Ma ciò che è grave è che tali fatti sembrano riprodursi all’infinito, e che,
come dicevo, non si registra mai una reazione delle mele sane rispetto a quelle
marce. Ed è rarissimo che le denunce partano dall’interno: da un poliziotto, da
un cappellano, da un comandante e nemmeno da un direttore. Un quadro davvero
desolante.
Lei aveva elaborato un disegno di legge sul reato di tortura. Poi abbandonò
l’Aula nel momento del voto perché quel testo era stato completamente svuotato.
Che bilancio fa della efficacia di quel reato in questi anni e come andrebbe
migliorato?
Quel disegno di legge non era stato, come dice lei, completamente svuotato, ma
certamente limitato in misura rilevante. Non partecipai al voto finale, ma
spiegai che, se fosse mancato un solo voto all’approvazione, mi sarei recato in
Senato anche in ginocchio. Quella normativa, anche se molto carente, ha avuto un
ruolo assai importante.
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Tag - malapolizia
La morte di Ramy, sul telefono di un teste rimosso un video dai Carabinieri. Ora
è irrecuperabile. In base alla perizia consegnata al pm, la registrazione
sarebbe stata di un minuto e dieci secondi ma è rimasto solo il frame iniziale
di Milano in Movimento
Il video-prova degli ultimi istanti di vita di Ramy c’era, ma è stato
cancellato. Così come il testimone Omar – minacciato di denuncia dai carabinieri
– aveva detto sin da subito.
Secondo Piantedosi, fermarsi all’alt è il primo modo per evitare il pericolo.
Gli ha fatto eco Silvia Sardone, Riccardo De Corato, tanti altri e non poteva
mancare Salvini, secondo cui “di fronte a un posto di blocco forzato, i
carabinieri hanno fatto il loro dovere in una situazione ad alto rischio. C’è
un’indagine, spero ci sarà anche giustizia”.
Una giustizia differente da quella richiesta dalla famiglia, che nonostante la
posizione di estrema ricattabilità e precarietà di vita, ha deciso di esporsi
per invitare alla calma chi legittimamente ha scelto di scendere in piazza con
rabbia.
Eppure non è successo subito; a nessun media mainstream conviene ricordare che
la richiesta di verità per Ramy è iniziata in maniera pacifica. I suoi amici e
amiche avevano organizzato un sit-in in via Ripamonti, sedendosi a terra con dei
cartelli in mano. Un suv li ha investiti, mandando all’ospedale quattro persone,
di cui una bambina di 12 anni. Ai media mainstream e alla politica conviene la
criminalizzazione del maranza, la colpevolizzazione dei giovani e delle
periferie, e l’esaltazione del potere. I loro occhi si sono rivolti verso
Corvetto solo dopo giorni di rabbia espressa nelle sue vie, quella rabbia di chi
ha perso un amico, di chi ha provato a far sentire le proprie urla ma che
continua a rimanere inascoltato/a.
Chi guarda l’operato delle Forze dell’Ordine in Italia, sa che Ramy Elgaml è
l’ennesima vittima di Stato e che qualcuno lavorerà per far si che ci
dimenticheremo del suo nome e della nostra richiesta di verità e giustizia.
Dopotutto Ramy non è il primo, purtroppo. Pensandoci rapidamente, la prima
storia che ci viene in mente sono quella di Stefano Cucchi, di cui il totale
insabbiamento dell’omicidio avvenuto nella caserma Casilina di Roma nel 2009
crollò solo nel 2015 dopo una durissima battaglia di famiglia e solidali con la
riapertura dell’inchiesta che ha visto la condanna per omicidio di due
carabinieri.
C’è poi il tentativo immediato di addebitare la morte di Federico Aldrovandi a
un malore e non al pestaggio di 4 poliziotti per strada a Ferrara; per Carlo
Giuliani ci fu un immediato tentativo, quasi automatico, di depistaggio con la
celebre frase gridata dal vicequestore Adriano Lauro: “Bastardo! Lo hai ucciso
tu, lo hai ucciso! Bastardo! Tu l’hai ucciso, col tuo sasso, pezzo di merda! Col
tuo sasso l’hai ucciso! Prendetelo!”, contro un manifestante.
E poi a Bolzaneto, dove le ferite dei manifestanti pestati dalle Forze
dell’Ordine vengono definite come pregresse e non frutto delle sevizie inflitte
all’interno della caserma dove venivano ammassati i fermati del G8 nel 2001. Per
non parlare della scuola Diaz dove la mattanza fu giustificata in una vergognosa
e indimenticabile conferenza stampa in Questura il giorno dopo esibendo su un
tavolo le molotov trovate a chilometri di distanza e portate appositamente nella
scuola e gli strumenti di un cantiere di ristrutturazione presente nell’edificio
e mostrati come arsenale del Blocco Nero di cui la Diaz sarebbe stato un
fantomatico quartier generale.
All’Ospedale San Paolo di Milano la mattanza successiva all’omicidio di Davide
“Dax” Cesare messa in atto dalle Forze dell’Ordine la notte del 16 marzo 2003
nei confronti dei solidali accorsi all’ospedale per conoscere le condizioni dei
feriti, venne invece fin da subito attribuita dall’allora Questore Boncoraglio
al tentativo di furto della salma (!) da parte dei suoi amici.
L’elenco di morti e depistaggi per mano delle Forze dell’Ordine in Italia
purtroppo potrebbe andare ancora avanti, ma ci teniamo a tornare sull’ultimo
caso avvenuto nelle periferie della nostra città.
Ci teniamo a evidenziare che l’inizio dell’inseguimento di Ramy e Fares da parte
di (in totale) tre pattuglie dei carabinieri non inizia perché forzano un posto
di blocco, ma perché agli occhi degli agenti i due ragazzi di origini magrebine
in Tmax risultano sospetti. Si potrebbe dire che per i carabinieri, Ramy e Fares
si trovavano nel posto sbagliato (la milano-da-bere di corso Como) al momento
sbagliato (nella notte tra sabato e domenica). La chiamiamo – senza giri di
parole – proliferazione razziale e marginalizzazione del “diverso”, una
consuetudine sbirresca oggi legittimata dall’istituzione della zona rossa a
Milano (link articolo).
Non è chiaro realmente quanto sia durato l’inseguimento, Fares a un certo punto
perde il casco che rimane però ben saldo sulla testa di Ramy, fino allo
schianto; il suo casco salterà via con ancora il cinturino allacciato
nell’istante esatto in cui il suo torace rimane schiacciato tra un palo e la
volante della gazzella dei carabinieri.
Le fasi finali dell’inseguimento dei carabinieri e dell’incidente in cui è morto
Ramy sono state riprese con il cellulare da un testimone: Omar quella notte si
trovava in via Quaranta perché si era fermato a mangiare dal paninaro dopo aver
staccato da lavoro. Ha sentito le sirene delle gazzelle dei carabinieri in
lontananza mentre si trovava proprio all’angolo della via, ha tirato fuori il
cellulare e ha iniziato a filmare.
La fotocamera del telefono del testimone risulta in funzione dalle ore 4.03.22
fino alle 4.04.31. Omar sta ancora filmando mentre arretra, ai giornalisti
dichiarerà senza dubbi di aver visto la gazzella toccare il Tmax di Fares,
causandone la perdita di equilibrio. La telecamera di una volante che
raggiungerà il luogo pochi secondi dopo, filma due militari di un’altra volate
avvicinarsi a Omar che alza subito le mani. Parlano con lui, gli dicono di
cancellare il video, lui lo fa.
Dopo diversi tentativi della magistratura di provare a recuperare una prova di
estrema importanza come questo video, la conclusione della consulenza firmata
oggi dal tecnico informatico Marco Tinti incaricato dai pm Marco Cirigliano e
Giancarla Serafini di confermare o meno l’esistenza delle immagini in questione,
dichiara che il video è irrecuperabile. Sempre secondo la consulenza, alle ore
4.49, dallo stesso dispositivo che ha registrato gli ultimi istanti di Ramy,
risultano delle ricerche online sull’argomento ‘come recuperare i file
cancellati dal cestino’.
Ci sentiamo di ringraziare Omar perché ha scelto di non voltarsi dall’altra
parte, mettendoci la faccia nonostante la sua evidente posizione di precarietà
in questo paese saturo di leggi e regole discriminatorie che tendono a
colpevolizzare le vittime, le persone sopravvissute e chi si espone.
Il video cancellato di Omar, comunque, rimane l’ennesima prova del senso di
impunità che sentono addosso le Forze dell’Ordine di fronte a chi non ha gli
strumenti per difendersi.
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
La fine dello Stato di diritto, agenti al di sopra della legge
di Fabio Anselmo – avvocato da Il Domani
Scudo penale agli agenti che possa difenderli dalle indagini anche per omicidio?
La propaganda non ha più limiti, se mai ne avesse davvero avuti negli ultimi
decenni. Il processo penale è oramai quotidiano terreno di scontro politico e,
quel che è peggio, di sconclusionati provvedimenti legislativi che intervengono
su giudici, pm e cittadini di singole vicende giudiziarie.
È la promozione a sistema delle leggi cosiddette ad personam, ispirate da questo
o quel fatto di cronaca nera che può essere utile alla propaganda politica o da
questo o quel procedimento giudiziario che, sempre rigorosamente sullo stesso
piano, può viceversa essere imbarazzante o, peggio, nocivo, danneggiando
l’immagine patinata e “rassicurante” a tutti costi inseguita dal governo.
“Scudo penale” cosa significa?
Letteralmente lo scudo è uno strumento di difesa. “Da chi?”, viene spontaneo
chiedersi. La risposta è altrettanto ovvia: dallo Stato di cui fa parte, come
potere funzionale giudiziario, il pm. Quindi si ritiene non solo logico, ma
addirittura necessario, che gli organi di polizia del nostro Paese, nel cui nome
e per il quale operano, si debbano, a prescindere, difendere da quello stesso
Stato, che sarebbe, pertanto, loro ingiustamente nemico. Si tratta di una vera e
propria legge-caos che trasformerà il nostro paese in un vero e proprio Far West
ove vige sempre e incontrastabile la legge del più forte.
In uno Stato democratico le forze dell’ordine hanno il monopolio dell’uso della
forza.
Sempre in quello Stato democratico esse ne devono avere la responsabilità. Mi
pare ovvio. A meno che non si decida che il loro agire deve essere sempre
ritenuto legittimo, a prescindere. A meno che non si voglia una vera e propria
immunità per la quale si dovrebbe presumere in modo assoluto la giustezza del
loro operato, qualsiasi cosa accada o sia accaduta. Un vero e proprio status
sociale di privilegio sui cittadini per i quali le forze dell’ordine dovrebbero
operare, che le posiziona al di sopra della legge che esse stesse dovrebbero
esser chiamate ad applicare. Un sistema di assetti di potere nel quale i
magistrati che esercitano la funzione giudiziaria sono soggetti alla legge
mentre gli agenti no.
Il caos, appunto. La fine dello Stato democratico. La responsabilità degli
agenti, cosi come delineata dalla Costituzione e applicata dalla magistratura,
non piace a questo governo. Deve esser compressa e limitata il più possibile.
L’esigenza apertamente dichiarata, come si legge sulle agenzie di stampa, è
quella di “difendere gli agenti” dalle indagini che la magistratura inquirente
ritiene di dover avviare in caso di sospetti abusi che potrebbero esser stati
commessi nell’esercizio delle loro funzioni, anche nelle ipotesi di omicidio.
Non devono essere indagati quando i fatti sono da chiarire, no. Per loro
l’iscrizione come atto dovuto deve sparire.
Ci deve pensare il ministro dell’Interno a stabilire quando si può fare
l’iscrizione, secondo proprio giudizio. E poi, qualora il ministro lo consenta,
la “patata bollente” deve passare di mano ai magistrati ritenuti più
“accomodanti”: niente pm, ma le corti d’appello. Chi parla in questo modo, da
quel che leggo, non conosce lo stato di diritto. Il ministro dell’Interno
sarebbe chiamato a svolgere una funzione giudiziaria, sia pure in tema di
accertamento della sufficienza di elementi per iscrivere l’agente “sospettato”
di abusi nel registro degli indagati. È organo politico dell’esecutivo ma non fa
nulla.
La separazione dei poteri e delle funzioni e l’indipendenza di quelli giudiziari
sono un inutile orpello della nostra invadente Costituzione. Ci penseranno i
nuovi prossimi giudici che a breve verranno nominati a risolvere il problema.
Sulla morte di Ramy Elgaml il ministro dell’Interno “in pectore” Salvini si è
già espresso anticipando tutti: ha proclamato la assoluta correttezza
dell’operato dei carabinieri coinvolti nella vicenda, quindi male farebbe a
procedere con indagati già iscritti la procura di Milano, qualora fosse già
operativo “lo scudo”. La grande dignità e profonda civiltà espresse dal padre di
quel povero ragazzo hanno messo in difficoltà il sottosegretario Delmastro, che
è stato costretto ad affermare pubblicamente che deve essere compito della
magistratura fare chiarezza sui fatti, smentendo il suo collega di governo
Salvini.
Ci siamo già da tempo abituati a sentire i politici parlare a vanvera in tema di
Giustizia.
Difficile sarà abituarsi a sentirli esprimersi allo stesso modo nella primissima
fase delle indagini preliminari in fatti simili a quello che ha visto morire
oggi Ramy, Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi ieri.
Per quanto riguarda Stefano, in realtà, ci fu chi nell’immediatezza della morte
si espresse in modo netto e perentorio sulla vicenda: l’allora ministro della
Difesa Ignazio La Russa giurò sulla correttezza dell’operato dei carabinieri che
arrestarono Stefano Cucchi.
Seguirono 6 anni di indagini e processi sbagliati contro gli agenti della
Penitenziaria. Poi sappiamo come è andata. Al di là di queste amare
considerazioni, quel di cui non ci si rende conto (o si fa finta) è che
l’iscrizione dell’agente sospettato nel registro degli indagati è un atto di
garanzia di difesa e non di accusa! Dunque, qual è il reale scopo dello Scudo?
Immunità. Fine del fondamentale criterio giuridico espresso dal concetto di
responsabilità. La legge non è uguale per tutti.
Questo è certo.
Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
sostenerci donando il tuo 5×1000
News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Perché l’Italia razzista di giornalacci e politica non chiede scusa e ha messo
alla gogna gli amici di Ramy. Di fronte al video che inchioda i carabinieri alle
loro responsabilità giornalacci e giornaloni nostrani non hanno fatto una piega.
Il complesso di superiorità bianco impedisce di fare mea culpa, dopo mesi di
latrati contro l’islamizzazione.
di Luca Casarini da l’Unità
Alla fine non chiedono mai scusa. Non stiamo parlando dei carabinieri, visto che
il caso è quello dell’omicidio, per dolo eventuale, volontario, o non
intenzionale, o per eccesso di zelo, fate voi, di Ramy Elgaml, 19 anni, di
Corvetto, Milano, morto in una notte come tante a causa di un inseguimento folle
e di uno speronamento da parte di una gazzella dei CC.
A non chiedere scusa sono i giornalacci e giornaloni, che dopo i moti di
protesta dei giovani di Corvetto, che chiedevano “verità e giustizia”, hanno
subito bollato come “strumentalizzazione violenta” quella presa di parola
collettiva. Eh sì, perché come prima cosa, in un paese civile veramente, ci
sarebbe adesso da scrivere titoli a nove colonne con la parola “SCUSATE”.
Avevano ragione loro, che hanno rovesciato i cassonetti in mezzo alle strade del
quartiere dove sono nati e cresciuti, figli di genitori migranti che dopo
vent’anni sono più italiani di Briatore, che la residenza ce l’ha a Montecarlo.
Giornalacci e giornaloni, su questo, si esercitano in “convergenze parallele”. I
giornalacci non chiederanno scusa ai giovani di Corvetto, perché della
razzializzazione fanno il loro credo, non più nascosto né dissimulato: sono
proprio convinti che noi “bianchi”, diciamo da Berghem de Hura a poco sotto
Viterbo, dobbiamo difendere la nostra “superiorità”, culturale, morale,
religiosa, dall’invasione islamica dei migranti: chissenefrega se il padre e la
madre di Ramy sono qui da vent’anni, lavorano, pagano le tasse, e cercano di
tirar su famiglia. Restano e resteranno sempre “stranieri”. E non stranieri come
Musk, sudafricano bianco che ci insegna a vivere. Perché nel nostro mondo, chi è
ricco o straricco, non è mai straniero. Stranieri perché neri o scuri di pelle,
perché venuti dal sud, poveri, ad abitare le “nostre città”.
I giornaloni invece, sono più politically correct, o “fact cecking” come dicono
i “progressisti”. Ma non chiederanno mai scusa ai ragazzi di Corvetto, perché
alla fine “la via della violenza è sempre sbagliata”. Questo accade perché la
razzializzazione è un fenomeno sistemico, e non è questione di razzisti o no, di
buoni o cattivi. È dentro di noi, incistata nel nostro sistema sociale, e sbuca
da tutte le parti. Se un gruppo di maschi cretini e ubriachi, molesta
sessualmente a Capodanno delle ragazze bianche, non si insiste sul fatto che si
tratta di maschi, ma di immigrati, e per giunta dal colore scuro della pelle.
Mandano a fanculo la polizia e gli italiani con un video di trenta secondi, ma
siccome non sono trapper da milioni di follower e di euro, non si invitano a
Sanremo, ma si spiccano i mandati di cattura. E sono islamici. La “guerra di
civiltà” è servita.
Questa narrazione continua, martellante, è un fenomeno globale: con la bufala
degli abitanti di Springfield di origine haitiana che si mangiano i cani e i
gatti dei vicini bianchi, si sono vinte delle elezioni negli Usa. E i giovani
carabinieri, che decidono di lanciarsi all’inseguimento di uno scooter che fugge
appena vede la gazzella – e non c’era stato nessuno Alt come racconta l’amico di
Ramy che lo guidava – non li leggono i giornalacci e i giornaloni? Probabile più
i giornalacci, ma non sono anch’essi cresciuti ed addestrati, formati, educati
dentro questo sistema razzializzato? Se uno scooter con due giovani a bordo,
arrivando dalla piazza di Corvetto, corre via veloce quando li vede, di sicuro
saranno “maranza”, immigrati di seconda o terza generazione, e di sicuro vanno
fermati ad ogni costo, perché pericolosi. Adesso che la verità, grazie al casino
che hanno fatto i ragazzi di Corvetto, è saltata fuori, il sistema razzializzato
alza l’asticella: se si fermavano non succedeva niente. Un’altra bugia, per
sostituire quella della tragica fatalità ora inservibile.
Se sei un figlio di migranti, non è vero che non ti succede niente. O meglio,
può darsi che te la sfanghi, ma è molto probabile che sarai preso a schiaffi,
che passerai la notte in una cella, e forse anche peggio. Perché non ti sei
fermato viene chiesto al ragazzo sopravvissuto: “non avevo la patente, ho avuto
paura”. Alla fine, dal punto di vista “tecnico”, abbiamo un ragazzo morto di 19
anni e uno di 22 quasi morto e che sarà condannato al carcere ( con una pena
pesante, magari per compensare qualche danno di immagine ai carabinieri), per
una infrazione amministrativa. Come è formalmente un reato minore non fermarsi
all’Alt, che peraltro non c’è nemmeno stato. Guidando un mezzo super
riconoscibile e con una targa.
Senza nessuna segnalazione di pericolo ricevuta, anche se hanno tentato di
montare la storia della collanina rubata, poi risultata di proprietà del
conducente con tanto di scontrino. I carabinieri sono centomila in Italia, e
certo non sono mica tutti così. Ma in questo paese il problema esiste, e non è
dei carabinieri. È nostro, di tutti noi, della piega sempre peggiore che sta
prendendo la faccenda, ad ogni livello, a cominciare dall’alto delle cariche
dello stato, passando per i media, per finire all’ultima ruota del carro, come
quei carabinieri appunto. Quelli che dopo aver capito che danno irreparabile
avevano fatto, sono andati a minacciare Omar, il testimone, e gli hanno fatto
cancellare il video dove si vedeva lo speronamento dell’auto che ha schiacciato
lo scooter contro il palo del semaforo. E qui, oltre alla razzializzazione che è
una delle cause sistemiche di queste ed altre tragedie, siano esse in mezzo alle
nostre città o nelle periferie urbane, in mezzo al Mediterraneo o in un lager
libico, c’è una combinazione fatale: la costruzione dell’immaginario della
“guerra civile”.
Razzializzazione e creazione della guerra civile, insieme, creano un mix letale.
Se la costruzione del “nemico esterno”, i migranti, ha una sua funzione di
“distrazione di massa” dai problemi veri – tutti quelli di cui non ha parlato la
nostra premier influencer durante lo show di inizio anno, per capirci –
l’immaginario della guerra interna, civile, è il veicolo per passare dallo stato
di diritto allo stato di polizia. Il nuovo decreto sicurezza, ddl 1660, è un
buon esempio di questo superamento definitivo delle costituzioni repubblicane
novecentesche, troppo ancorate alla cultura dei diritti collettivi e uguali per
tutti. L’assunzione del “populismo penale”, con l’aumento dei reati, delle pene,
del carcere, ne costituisce un tratto fondamentale. Per questo non passerà
nessuna amnistia, come chiesto da papa Francesco per il Giubileo, nemmeno a
fronte del mattatoio umano che sono diventate le patrie galere.
Descrivere le nostre città come luoghi della guerra civile, serve al potere
costituito per legittimare lo stato di polizia, e tentare di governare la sempre
più ampia massa di poveri, assoluti o relativi, che le abitano. La guerra
infatti, sospende la costituzione: prevede leggi speciali, poteri speciali, e
ogni circostanza, anche due ragazzi in scooter che non si fermano, diventa una
circostanza speciale. La destra al potere sta soffiando sul fuoco della guerra
civile anche in questo caso: il “diritto allo speronamento” potrebbe diventare
presto il diritto a sparare.
> Ramy, o la fine degli equivoci
> La morte di Ramy Elgaml e quel festival della menzogna che ricorda tanto
> Genova 2001
Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
sostenerci donando il tuo 5×1000
News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Commenti sprezzanti verso la vita degli altri, verbali distorti, testimonianze
inquinate. Dal video dell’inseguimento a Milano nella notte tra il 23 e il 24
novembre 2024 emergono scenari inquietanti. In attesa che la Procura faccia
chiarezza, ci sono però delle domande alle quali il vertice dei carabinieri e il
ministro dell’Interno dovrebbero già rispondere. Per non recitare la stessa
ignominiosa parte di 24 anni fa
di Lorenzo Guadagnucci da Altreconomia
“Chiudilo, chiudilo, chiudilo che cade. No, merda, non è caduto”. Possiamo
partire da qui, da questa frase detta da un carabiniere durante l’assurdo
inseguimento nelle vie di Milano, per qualche breve considerazione su quanto
avvenuto nella notte tra il 23 e il 24 novembre 2024.
Il fatto è noto: uno scooter, con due giovani a bordo, non si ferma all’alt dei
carabinieri per un controllo e due volanti si mettono all’inseguimento; è una
corsa a tutta velocità nella notte, pericolosissima soprattutto per gli
occupanti dello scooter e per eventuali passanti; dura ben otto chilometri, a un
certo punto anche lungo una strada imboccata contromano.
Fino all’epilogo: lo scooter che svolta a sinistra, l’auto dei carabinieri così
vicina che forse lo sperona, lo schianto dei due mezzi contro un palo del
semaforo e la morte immediata del passeggero dello scooter, Ramy Elgaml, mentre
il conducente, ferito gravemente, riuscirà a cavarsela dopo aver trascorso un
periodo in ospedale in stato di coma.
C’è un’indagine in corso con sei carabinieri e il conducente dello scooter
indagati per vari reati (omicidio stradale, falso, depistaggio, favoreggiamento
personale a vario titolo per i carabinieri; omicidio stradale, resistenza a
pubblico ufficiale per il giovane) e toccherà ai periti chiarire alcuni fatti:
per esempio, se la gazzella dei carabinieri abbia speronato la moto nella curva
fatale, o se in precedenza vi siano stati altri contatti fra i due mezzi e di
che tipo (fortuiti o volontari?). E se davvero al testimone sfiorato dallo
schianto, che aveva ripreso la scena col suo telefonino, sia stato
immediatamente imposto, come ha dichiarato, di cancellare il video.
Qualcosa intanto però possiamo dire, a cominciare dalle frasi registrate quella
notte. Oltre al “chiudilo che cade” e al “no, merda, non è caduto”, ci sono
anche un “vaffanculo, non è caduto” e un “bene” alla fine della storia, quando
arriva la notizia che i due ragazzi “sono caduti” (ma, va detto, senza nulla
specificare sulle conseguenze per i due giovani).
Sono frasi che vengono giustificate con l’adrenalina e la concitazione del
momento, ma che fanno pensare a scenari inquietanti, vista anche la dinamica del
fatto: un inseguimento assurdo, rischiosissimo, a prima vista sproporzionato.
Sono frasi che fanno venire in mente un’altra nota registrazione, di 24 anni fa:
il dialogo tra un’agente della questura e una volante di polizia il 21 luglio
2001, durante il G8 di Genova. A un certo punto si parla di quel che sta
avvenendo in piazza, delle “zecche” -cioè i manifestanti- che stanno impegnando
le forze dell’ordine, e l’operatrice, commentando i fatti, se ne esce con un
eloquente “intanto, uno a zero per noi, yeah”, riferito all’uccisione in piazza
Alimonda di Carlo Giuliani, colpito il giorno prima alla tempia da una
pallottola sparata da un carabiniere e subito dopo calpestato dal “Defender”
dell’Arma. “Che simpatica”, replica il poliziotto all’altro capo del telefono.
In attesa che la Procura chiarisca i fatti e chieda, se necessario, di
processare i responsabili di eventuali abusi e reati, ci sono delle domande alle
quali il vertice dei carabinieri e il ministro dell’Interno dovrebbero
rispondere.
Hanno chiesto conto di quelle frasi? Si sono domandati, come noi, se per caso i
carabinieri quella notte abbiano perso il senso della misura? Si sono chiesti se
sia ben chiaro, a chi lavora nelle forze dell’ordine, che le vite degli altri,
qualunque sia il loro profilo, -“sono dei delinquenti, dei rapinatori, se la
sono cercata”, è stato detto a posteriori dei due ragazzi sullo scooter, quasi a
giustificare l’esito letale- sono vite da tutelare, non da mettere a rischio?
Hanno compreso quanto sia grave la denuncia del testimone sulla cancellazione
del video dal telefonino? Sono domande che hanno una cornice: si ricordano,
carabinieri e ministro, come andò al G8 di Genova? Sicuramente sì, ma, per
sicurezza, possiamo rammentarglielo noi.
A Genova non ci furono solo violenze ingiustificate, torture di massa e un
omicidio, fu anche una fiera del falso negli atti pubblici: falso il verbale
dell’arresto di massa alla scuola Diaz, falsi innumerevoli verbali di singoli
arresti eseguiti per strada, falsi i verbali del carcere delle torture a
Bolzaneto.
Fu il festival della menzogna, della tortura e del disprezzo per i diritti e
anche per la dignità dei cittadini. Fu il punto più basso per la credibilità
delle nostre forze dell’ordine e non si è più risaliti, per la precisa ragione
che i vertici delle nostre polizie fecero muro, non chiesero scusa, non
indagarono le ragioni profonde di condotte così gravi. E non fecero
autocritica.
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
«Vaffanculo non è caduto», «Chiudilo chiudilo che cade, nooooo merda non è
caduto», «Ha perso il casco». Sono le frasi choc dell’inseguimento di una
gazzella dei carabinieri a uno scooter in fuga per le vie di Milano. A bordo c’è
Ramy Elgaml, 19 anni, e il suo amico Fares Bouzidi, 22 anni, alla guida. È la
sera del 24 novembre 2024 e le immagini vengono dall’auto delle forze
dell’ordine.
Le ha pubblicate ieri per la prima volta corredate di audio il Tg3. La folle
corsa, di oltre 8 km, si conclude con il motorino che finisce a terra incalzato
dalla volante: Ramy morirà di lì a poco, incendiando la rabbia del quartiere
Corvetto perché, gridavano i manifestanti, «l’hanno investito, l’hanno
ammazzato». Nel registro degli indagati, per diverse ipotesi, ci sono al momento
Bouzidi e tre carabinieri.
Ilaria Salis deputata europea con un post su X dichiara:” à ! Il video
dell’inseguimento in cui Ramy ha perso la vita è terribile e lascia addosso una
rabbia profonda. Le parole dei Carabinieri, e ancor più il loro comportamento,
sono inaccettabili in un paese civile. Come lo è il fatto che i video registrati
da un testimone siano stati fatti cancellare, eliminando così possibili prove.
Molte cose che sono state dette dopo l’incidente – senza sapere di cosa si
stesse parlando o addirittura in malafede – sono vergognose e contribuiscono a
un clima di ingiustizia e mistificazione. Se oggi il caso non può più essere
insabbiato, come è già accaduto altre volte in situazioni simili, lo dobbiamo
anche alle proteste del quartiere Corvetto, grazie a cui l’opinione pubblica ha
iniziato a interessarsi della vicenda. Lo dobbiamo alla comunità di amici e
solidali che reclamano verità e giustizia per Ramy e Fares. Ma queste proteste
raccontano qualcosa che va oltre Corvetto: ci parlano del razzismo sistemico e
del classismo che permeano la nostra società e che si manifestano nella mancanza
di opportunità per chi vive nelle periferie e, spesso, negli abusi di potere. È
la gioventù proletaria e meticcia di questi quartieri popolari che ha alzato la
voce, rifiutando di essere trattata come una cittadinanza di serie B.”
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Il calciatore Stephane Omeonga è stato picchiato dalla polizia italiana prima di
un volo da Roma a Tel Aviv. Il 28enne ex Genoa ha raccontato l’accaduto sui
propri canali social
Il calciatore belga Stephane Omeonga ha raccontato su Instagram di essere stato
aggredito e picchiato dalla polizia italiana prima di un volo fra Roma e Tel
Aviv, in Israele. Omeonga ha 28 anni, in passato ha giocato per diverse squadre
italiane come Genoa e Pescara, e oggi gioca nella Serie A israeliana per il Bnei
Sakhnin.
Il centrocampista ex Avellino, Genoa e Pescara, tra le altre, ha scritto nel
post su Instagram che dopo essere salito a bordo è stato avvertito da uno
steward di un problema con i documenti. Per questa ragione non solo gli è stato
chiesto di abbandonare l’aereo, ma le forze dell’ordine l’hanno costretto con la
forza a scendere dal velivolo per poi ammanettarlo. “Sono un calciatore, un
cittadino belga” ha esclamato il giovane, ma i poliziotti non hanno dato retta
alle sue parole procedendo immediatamente ad arrestarlo con manovre violente.
“Lontano dalla vista di testimoni, la polizia mi ha gettato bruscamente a terra,
mi ha picchiato, uno di loro mi ha premuto il ginocchio contro la testa. Poi
sono stato portato in una vettura della polizia, e ammanettato come un
criminale. Quando è arrivata l’ambulanza ero sotto shock e non sono riuscito a
rispondere alle domande dei paramedici” ha scritto il 28enne. Che ha poi
proseguito: “Dalla radio dell’auto della polizia ho sentito dire che andava
tutto bene e che avevo rifiutato le cure mediche. Ma ciò è falso, ho chiesto
loro di portarmi con loro in ambulanza. Ma sono stato poi messo in una stanza
grigia senza né cibo né acqua – ha aggiunto – e sono stato messo in uno stato di
totale umiliazione per diverse ore. Dopo il mio rilascio ho saputo che un agente
di polizia aveva presentato una denuncia contro di me per le lesioni causate
durante l’arresto, ma io ero ammanettato. Finora non ho ricevuto nessuna
giustificazione per il mio arresto – ha concluso – Come essere umano e come
padre non tollero nessuna forma di discriminazione. Dobbiamo rimanere uniti e
alzare la voce per educare coloro che ci circondano”.
Nel post su Instagram in cui Omeonga racconta l’accaduto c’è anche un video in
cui si vedono due poliziotti che lo aggrediscono mentre si trova sul volo: uno
dei due lo prende per la gola mentre l’altro lo spinge fuori dall’aereo. Le
forze dell’ordine italiane sono note per la profilazione razziale che compiono
durante le proprie operazioni, come segnalato anche qualche mese fa dal
Consiglio d’Europa. Al momento la polizia non ha commentato in alcun modo la
vicenda.
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
“Trenitalia invita il personale a non rilasciare dichiarazioni” sull’omicidio di
Moussa Diarra. La denuncia del comitato verità e giustizia
Il Comitato verità e giustizia per Moussa Diarra di Verona ha mostrato, durante
una conferenza stampa che si è svolta davanti alla Stazione di Verona Porta
Nuova venerdì 27 dicembre 2024, una mail inviata il 14 novembre da Trenitalia,
presumibilmente al personale.
Una copia cartacea della mail, nella quale mittente e destinatari sono stati
cancellati, è stata recapitata di recente al Laboratorio Autogestito Paratod@s.
Nel testo presentato alla stampa da attiviste e attivisti si legge che “dagli
organi di sicurezza interni viene ribadito di non rilasciare dichiarazioni o
fornire informazioni o nominativi” in merito ai “fatti avvenuti domenica 20
ottobre 2024, che hanno visto l’uccisione di una persona presso l’atrio della
stazione di Verona”. Quella persona era Moussa Diarra.
Gli interventi che si sono alternati durante la conferenza stampa hanno spiegato
che la lettera confermerebbe alcuni dei timori del Comitato, ossia che da più
parti si starebbe lavorando per ostacolare l’accertamento della verità dei fatti
e per proteggere l’autore dell’omicidio, un agente di polizia. “Grave –
denunciano dal Comitato – è il clima omertoso che con questo tipo di messaggi si
può diffondere tra i quasi trentamila dipendenti della principale azienda
italiana dei trasporti su rotaia”.
Da settimane le avvocate della famiglia Diarra, Paola Malavolta e Francesca
Campostrini, avevano fatto una richiesta formale a Trenitalia per poter
contattare il personale presente in stazione la mattina dell’omicidio. L’azienda
non ha mai risposto alla richiesta. Secondo il Comitato verità e giustizia
“questo tipo di comportamenti sono contrari al codice etico dell’azienda, che
parla di ‘integrità ed onestà’”.
Con la conferenza stampa di stamattina, il Comitato ha voluto invitare l’azienda
a “collaborare alla ricerca della verità e a instaurare un clima in cui i
lavoratori possano, con onestà e coscienza, sentirsi liberi di raccontare quello
che è successo”.
Al termine della conferenza stampa, sono state nuovamente affisse le locandine
per la ricerca di testimoni sulle porte della stazione di Verona Porta Nuova.
Gli audio registrati da Radio Onda d’Urto alla conferenza stampa:
Giorgio, del Laboratorio Autogestito Paratod@s e del Comitato verità e giustizia
per Moussa. Ascolta o scarica
Gbati, del Comitato verità e giustizia per Moussa. Ascolta o scarica
Giorgio, del Laboratorio Autogestito Paratod@s e del Comitato verità e giustizia
per Moussa. Ascolta o scarica
Djemagan Diarra, il fratello di Moussa, tradotto da un amico. Ascolta o scarica
> Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
> sostenerci donando il tuo 5×1000
>
> News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
Secondo la Commissione contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio
d’Europa, in Italia le forze dell’ordine sono solite ricorrere alla profilazione
razziale, cioè alla selezione sistematica di controlli e fermi di polizia in
base all’origine etnica
di Luigi Mastrodonato da Internazionale
C’è una domanda che una persona bianca dovrebbe porsi, in Italia, quando ascolta
una persona non bianca che denuncia le modalità con cui è stata sottoposta a un
controllo della polizia. A me è mai successo qualcosa di simile, in questi
termini? La risposta, tendenzialmente, sarà no.
La profilazione razziale è un problema di lunga data per l’Italia. Un fenomeno
sommerso, poco o mal indagato, ma su cui negli ultimi anni ha cominciato ad
aprirsi un dibattito. La Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza
definisce la profilazione razziale come “l’uso da parte delle forze dell’ordine,
quando procedono a operazioni di controllo, sorveglianza o indagine, di motivi
quali la razza, il colore della pelle, la lingua, la religione, la nazionalità o
l’origine nazionale o etnica, senza alcuna giustificazione oggettiva e
ragionevole”.
In paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito o la Francia le persone non
bianche sono fermate molto più di quelle bianche. Questi fermi possono essere
brutali e in certi casi hanno fatto delle vittime, come nel caso di George Floyd
a Minneapolis e Nahel Merzouk a Nanterre. Le istituzioni stanno provando a fare
qualcosa per affrontare il problema. Nel Regno Unito, per esempio, è attiva una
banca dati governativa in cui sono riportati i dati dei fermi di polizia delle
persone non bianche. In California è stata creata una commissione indipendente.
In Francia il consiglio di stato ha riconosciuto almeno a parole l’esistenza di
un problema di profilazione razziale nelle forze dell’ordine.
In Italia manca una qualunque forma di riconoscimento istituzionale del
fenomeno. Negli ultimi anni hanno avuto una certa eco storie di cronaca: il
fermo di polizia piuttosto brutale subìto dall’ex calciatore del Milan Tiémoué
Bakayoko, poi giustificato con il fatto che assomigliava a un ladro: il
controllo violento di un gruppo di ragazzi e ragazze afrodiscendenti fuori a un
McDonald’sa Milano, fatto senza alcun motivo preciso; il sequestro della caserma
levante di Piacenza; e l’inchiesta sulla questura di Verona, in cui si
verificavano violenze e abusi che colpivano quasi esclusivamente persone
straniere. La profilazione razziale ha riguardato anche i negozi etnici o
gestiti da stranieri. In questo caso si parla di “vigilanza etnica”.
Nel 2023 l’agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali ha pubblicato
il rapporto Essere neri nell’UE. Nel capitolo dedicato ai fermi di polizia in
Italia il 40 per cento degli intervistati ritiene che il suo ultimo fermo sia
stato dettato da un pregiudizio razziale. Nel settembre 2024 il gruppo di
esperti indipendenti delle Nazioni Unite ha lanciato un monito sul tema della
profilazione razziale nel paese, sottolineando che le politiche repressive
contro le droghe colpiscono in modo sproporzionato minoranze e altri gruppi
vulnerabili. Sempre l’Onu qualche mese prima aveva denunciato il numero
sproporzionato di africani e di persone di discendenza africana incarcerati in
Italia.
Infine, lo scorso ottobre la Commissione europea contro il razzismo e
l’intolleranza ha pubblicato un rapporto sull’Italia in cui è usata 17 volte
l’espressione “profilazione razziale” e si sottolinea che le autorità ignorano
il problema. La reazione politica contro il rapporto è stata molto dura e dal
presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, agli esponenti del governo
Meloni, fino ai sindacati di polizia, si è alzato un coro unanime di solidarietà
alle forze dell’ordine. Una mobilitazione collettiva che nel negare l’esistenza
del problema lo ha confermato, dando ragione alle conclusioni della Commissione.
In assenza di commissioni, raccolte dati e studi nazionali sul tema della
profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine, non restano che le
storie.
Julia, 29 anni
Ho origini tanzaniane e già quand’ero più piccola le forze dell’ordine mi
fermavano in strada mentre camminavo e mi chiedevano il permesso di soggiorno,
nonostante io abbia la cittadinanza italiana. Nell’ultimo anno questa cosa è
aumentata, sono stata fermata sei-sette volte in Emilia-Romagna, dove vivo.
Una sera ero in auto e una volante mi ha raggiunto e fatto accostare. La
macchina era in leasing e hanno cominciato a chiedermi una valanga di documenti
che io non ero nemmeno tenuta ad avere e mostrare, come ho scoperto dopo.
Comunque, in quel momento non avevo tutto quello che chiedevano e così si sono
rifiutati di ridarmi indietro i miei documenti d’identità, dicendo cose come
“adesso diventi clandestina”, il tutto con un atteggiamento estremamente
aggressivo. Siamo stati lì circa due ore, fino a quando i miei familiari sono
arrivati con tutti i documenti dell’auto e mi hanno lasciato andare. È stata
un’esperienza molto traumatica. Io ho la cittadinanza italiana ma questo mi ha
fatto pensare a cosa può succedere a una persona che non ha i miei stessi
privilegi.
Sono stata fermata altre volte in auto, da sola o con amici di origine
straniera. Le persone bianche che mi cirdoncano dicono che a loro non succedono
queste cose, mi hanno fatto capire che tutto ciò non è normale. Il risultato è
che io oggi cerco di guidare il meno possibile per non avere problemi.
Samuel, 31 anni
Ero in un supermercato in provincia di Modena quando io e il mio compagno siamo
stati accusati di furto, un’accusa poi archiviata. Gli agenti ci hanno fermato e
a me, tamil-srilankese con cittadinanza tedesca, hanno chiesto il permesso di
soggiorno. Al mio compagno, italiano, la carta d’identità.
Mentre ci scortavano nel magazzino del supermercato, le differenze nel modo in
cui eravamo trattati erano evidenti. Mentre lui camminava accanto a uno degli
ufficiali senza essere toccato, io ero tenuto per un braccio con una forza non
necessaria. Il mio fidanzato è stato trattato con dignità, mentre io come un
sospettato solo per il mio aspetto.
Una volta arrivati alla stazione di polizia, uno degli agenti ha continuato a
parlarmi in modo autorevole e irrispettoso, nonostante sapesse che non parlavo
italiano. Poi siamo stati messi in celle di detenzione separate per qualche ora
e lì sono stato sottoposto a ulteriori umiliazioni. Sono stato malmenato,
trascinato per un braccio, spogliato con la forza e umiliato con una
perquisizione rettale. Il mio compagno non ha ricevuto lo stesso trattamento
degradante.
L’impatto psicologico di questa esperienza è stato profondo e duraturo.
L’aggressione fisica e il peso emotivo di essere stato trattato come un
criminale solo a causa della mia etnia mi hanno lasciato delle cicatrici
profonde. Il disprezzo nei miei confronti mentre ero in custodia ha rafforzato
l’idea che la mia umanità fosse secondaria rispetto ai pregiudizi degli agenti.
Shahzeb, 27 anni
Ero sceso sotto casa per buttare la spazzatura quando è arrivata una volante dei
carabinieri. Uno mi ha intimato di fermarmi e di dargli un documento, un altro
invece ha detto qualcosa tipo: “È solo un pakistano”, come se stessero cercando
qualcun altro. Il primo carabiniere ha insistito, voleva i miei documenti
altrimenti mi avrebbe portato in caserma. Gli ho spiegato che abitavo lì e che
stavo solo buttando la spazzatura, non mi ero portato il portafoglio. La cosa è
andata avanti per una decina di minuti, poi si è risolta. Da quella volta mi
porto dietro il portafoglio qualunque cosa faccia.
Non è stata l’unica volta in cui mi sono sentito trattato in modo diverso per
via delle mie origini. Un giorno, all’alba, sono stato fermato a Padova mentre
andavo al lavoro in monopattino. Non hanno creduto che andassi al lavoro,
contestando tra le altre cose che non avevo con me uno zaino o una borsa. Mi
hanno ordinato di mettere le mani sulla volante dando loro le spalle e hanno
cominciato una lunga perquisizione. È stata un’esperienza che mi ha disturbato,
la sensazione di avere delle mani addosso, anche nelle parti intime. Un’altra
volta mi ricordo che ero alla stazione di Padova, sulla banchina c’erano decine
di persone e due agenti che facevano avanti e indietro. Poi sono venuti a
chiedere i documenti a me, l’unica persona non bianca del gruppo.
Dopo queste e altre esperienze ora sto molto attento. Quando vado in monopattino
o in bici, vedendo le forze dell’ordine in lontananza cambio strada per non
avere problemi. I miei amici mi prendono in giro, di recente ero con loro quando
la polizia mi ha fermato e sono andato nel panico. Non so mai cosa aspettarmi,
potrebbe succedere qualsiasi cosa e soprattutto ora che ho fatto la domanda di
cittadinanza italiana vorrei poter stare tranquillo.
Karima, 32 anni
Io ho la cittadinanza italiana, la carnagione chiara e non porto il velo, quindi
sono meno presa di mira rispetto ad altre persone di origine tunisina.
Nonostante questo a Milano, dove vivo, mi sono sentita più volte discriminata
dalle forze dell’ordine, che forse hanno un occhio allenato per queste cose.
Mi capita soprattutto d’estate, quando sono più visibili i tatuaggi con le
scritte in arabo, la collana al collo con il mio nome scritto in arabo o la
carnagione è più scura per l’abbronzatura. La profilazione razziale però la
percepisco soprattutto in aeroporto. Nel 90 per cento dei casi, dopo aver
presentato passaporto e carta d’imbarco, sono selezionata per i classici
controlli random e quindi a un certo punto ho cominciato a farmi delle domande.
Quando devo viaggiare vado in stazione o in aeroporto sempre parecchio in
anticipo perché so che inevitabilmente qualche controllo in più me lo faranno e
si andrà per le lunghe.
In generale evito di uscire di casa senza documenti, così da prevenire ogni
problema. La profilazione razziale ha avuto un’influenza anche sul mio lavoro di
giornalista. A volte ho paura a partecipare a certe manifestazioni o situazioni
simili perché già i giornalisti sono presi di mira, i giornalisti razzializzati
lo sono ancora di più. È una questione sicuramente psicologica, che nasce però
da un vissuto che crea disagio.
Anna Brambilla, avvocata dell’Associazione per gli studi giuridici
sull’immigrazione (Asgi)
Ho lavorato a Ventimiglia con alcuni colleghi e in stazione abbiamo potuto
osservare in modo sistematico i controlli mirati da parte della polizia italiana
nei confronti di persone con tratti tali da farli individuare come stranieri. La
linea del colore si mischia a quella del genere: a essere fermati erano e sono
quasi esclusivamente uomini neri, percepiti come migranti irregolari da
sottoporre a controlli, che pur essendo di polizia si traducono di fatto in
controlli di frontiera.
In altri contesti le cose cambiano. Nelle stazioni del foggiano e del barese per
esempio gli uomini neri non sono fermati: è noto che lavorano nella zona. A
essere fermati sono piuttosto chi si pensa che provenga da Pakistan,
Afghanistan, Turchia o Iraq, presupponendo che possa essere arrivato
irregolarmente via mare, attraverso la rotta adriatica.
Nelle aree vicine alle stazioni o nei quartieri in cui c’è un’alta percentuale
di abitanti con background migratorio, spesso alla linea del colore e del genere
si associa anche la linea dell’età. Il fermo riguarda soprattutto i ragazzi non
bianchi. Anche le attività commerciali sono spesso sottoposte a maggiori
controlli da parte della polizia municipale o finiscono nel mirino di ordinanze
sindacali che impongono orari di chiusura diversi da quelli previsti in altre
zone, per ragioni pretestuose e discriminatorie.
Il senso di mortificazione e la violenza percepiti da coloro che subiscono
questi controlli emerge solo in occasione di eventi specifici: fermi
particolarmente violenti, contestazioni di resistenza a pubblico ufficiale o,
nei casi più drammatici, morti.
> Dure accuse del Consiglio d’Europa e Onu: Razzismo nella polizia
La polizia è un colpo di Stato permanente
(Foucault[2] https://www.youtube.com/watch?v=FzIIgODvzHw&t=7s)
Note per la sociologia storica delle polizie[1]
di Salvatore Palidda
Parto dalla lettura del prezioso libro di Giovanna Tosatti. Lei è sicuramente la
storica che conosce come nessun altro i meandri degli archivi riguardanti la
storia della polizia e del ministero dell’interno. Dal 1978 al dicembre 2004
archivista presso l’Archivio centrale dello Stato a Roma e dal 1990 al 1994
coordinatrice della segreteria del Sovrintendente e ha sempre lavorato nel campo
della storia dell’amministrazione pubblica collaborando spesso con Guido Melis,
il più noto esperto in questo campo[3]. Il suo nuovo libro (Storia della
polizia. L’ordine pubblico in Italia dal 1861 a oggi, Il Mulino, 2024), merita
di essere studiato con attenzione da chi fa ricerca in questo campo perché
fornisce una immensa quantità di dettagliati riscontri sui diversi aspetti di
questa storia dall’unità d’Italia al 2024. Si potrebbe considerare un insieme di
schede di lettura di questi archivi e va letto innanzitutto come tale.
La prima considerazione che può fare chi segue una prospettiva critica di
decostruzione della storiografia agiografica ufficiale è che quest’opera
conferma in maniera indiscutibile che tutta la storia italiana della sicurezza e
delle polizie è particolarmente segnata dalla perpetua riproduzione di
illegalismi di ogni sorta e persino di gravissimi crimini anche dopo la fine del
regime fascista sino a oggi (cfr.infra).
Nonostante da Napoli a Roma, Firenze, Genova, Torino, Milano, Bologna e tanti
comuni medi e anche piccoli, l’Italia si era liberata da nazisti e fascisti
prima dell’arrivo delle truppe anglo-statunitensi e nonostante lo straordinario
impegno dei Costituenti comunisti, socialisti e sinceri democratici, il paese
passò di fatto sotto l’egemonia statunitense che diventò anche dominio economico
e politico. La Chiesa, il padronato e la mafia mobilitano tutte le loro forze a
sostegno di questa egemonia che trionfò con la DC alle elezioni del fatidico 18
aprile 1948.
Fra i tre sconfitti della 2a g.m. (con Germania e Giappone), l’Italia diventò il
paese che nel campo occidentale (secondo la spartizione delle aree di dominio
stabilita a Yalta) sarà il più assoggettato all’egemonia statunitense. La
sinistra cercò di mostrare il suo completo allineamento al campo avverso a
quello dell’URSS e il ministro della Giustizia Togliatti varò l’amnistia che nel
titolo del suo libro Franzinelli definisce “Colpo di spugna sui crimini
fascisti”[4].
Tosatti, come Melis e qualche altro autore, ricorda la gravissima reintegrazione
dei fascisti nei più alti e meno alti livelli della polizia, così come nella
magistratura, nelle forze armate e altri apparati dello Stato; e l’espulsione
degli antifascisti che dal ’43 avevano occupato posti di prefetti, questori e
dirigenti di polizia. E ricorda come i funzionari statunitensi dapprima
auspicassero una modernizzazione delle polizie (e la smilitarizzazione) ma poi
di fatto imposero il reintegro dei fascisti e non smisero mai di manipolarle
sino a imbastire complotti e trame nere per sbarrare la strada a qualsivoglia
rischio di arrivo dei comunisti al potere. Un rischio, peraltro -documenta
Tosatti come altri-, che non fu mai effettivamente reale visto che, sin dalla
svolta di Salerno di Togliatti, il PCI aveva sposato una “via italiana al
socialismo” che si situava nella piena subordinazione al campo dominato dagli
USA ed escludeva ogni sorta di ricorso alla forza e a rotture istituzionali. E
su questi fatti e momenti si è tentati di tornare a chiedersi come mai la
sinistra e i pochi democratici (anche nei ranghi della DC) non abbiamo mai
ravvisato un palese tradimento della Costituzione e dello Stato nei
comportamenti assolutamente illeciti che si sono ripetuti dal ’43 sino ai giorni
nostri. Ma la risposta è semplice: tutti sapevano che l’Italia non avrebbe mai
potuto conquistare la sovranità nazionale.
La pratica abituale degli illegalismi e crimini da parte di tanti alti dirigenti
delle polizie è in parte in continuità col passato dall’unità d’Italia al
fascismo (e il libro di Tosatti lo dimostra ampiamente); ma si rinnova e arriva
a produrre stragi e tentativi di colpi di stato (di fatto come reiterazione
dell’assoluto divieto di concessione di potere alla sinistra). La cerchia di
potere che manovra queste pratiche di illegalismi è composita, va da poteri
economici e militari USA a dirigenti del Viminale, funzionari dei servizi
segreti, altri funzionari dell’amm.ne pubblica, personalità politiche, prelati
di alto rango, uomini d’affari e giornalisti. E’ implicito che lo scopo di
questa strategia e delle sue conseguenti tattiche (magari non sempre coerenti) è
quello di imporre ai lavoratori e alla popolazione italiana in generale la
condizione di assoggettamento economico, sociale, culturale e politico, quindi
il supersfruttamento in tutti i settori, compresa la Fiat che è aiutata nello
spionaggio illegale dei dipendenti sindacalisti, mentre le mafie cooperano al
controllo sociale nel Mezzogiorno.
Come racconta Tosatti nella sua intervista su quest’opera[5], la polizia del
Ventennio fascista, guidata da Arturo Bocchini (capo della Polizia dal mese di
settembre 1926 alla sua morte, a novembre 1940) lascia in eredità strumenti,
tipici di un regime autoritario, che rimasero nel modus operandi della Polizia
anche dopo la fine del regime sino a oggi (fra altro si pensi ai residui del
codice Rocco e ai decreti dei questori). Di fatto la DC cercò di fare della
polizia il principale supporto al suo potere (di partito-stato, essendo l’Italia
un paese senza sovranità). Centinaia furono i lavoratori e comuni civili vittime
del fuoco della polizia.
Delle polizie appendici delle forze armate
Qui sembra utile una digressione[6], cioè provare a incrociare i risultati della
ricerca di Tosatti con quelli delle ricerche svolte prima sulla storia militare
italiana[7] e poi anche con altre recenti ricerche sulle polizie in Italia e
qualche confronto con alcune europee e quelle degli Stati Uniti[8]. Sin
dall’unità d’Italia le forze armate si sono rilevate incapaci di garantire la
sovranità nazionale (perdendo tutte le guerre in maniera miserabile e con
ignominia del comando che però godette sempre dell’impunità e persino di encomi
mentre faceva sparare ai soldati “al primo cenno di diserzione” -anche solo
voltandosi all’indietro); ciò sia perché i vertici erano spesso corrotti e
capaci solo di brutalità e genocidio coloniale, nonché di sparare sulla
popolazione in occasione delle rivolte popolari. Si pensi soprattutto al periodo
Crispi, all’eccidio di Bava Beccaris a Milano nel 1898 e altre siffatte
performances, poi alla tremenda tragedia di Caporetto e le stragi coloniali
durante il fascismo con la condanna del tribunale internazionale di Badoglio,
Graziani e altri (circa 1200) per crimini di guerra (il bilancio di morti,
arrotondato per difetto, è di 300.000 etiopi, 100.000 libici, 100.000 greci e
250.000 jugoslavi)[9].
In un tale quadro storico le forze di polizia italiane, di fatto, possono essere
considerate come appendici delle forze armate che considerano nemica la società
soprattutto quella che si ribella. Sono sempre corpi militari (tranne le polizie
municipali che però dagli anni ’70 diventano armate e imitano sempre più le
polizie nazionali).
Dal 1948 la DC si configura come partito-stato che cerca di conquistarsi
l’autonomia di gestione del paese, cioè un pezzo di sovranità che condivide con
la Chiesa, il padronato e i gruppi finanziari. Con Scelba la DC si dota di una
polizia agguerrita e feroce contro le rivolte operaie e popolari seguendo di
fatto la prassi militare che considera la società sua nemica. Quindi delle
polizie che restano sostanzialmente nella continuità del fascismo, sono a
disposizione di due padroni (gli USA e la DC) ma anche del padronato e della
Chiesa (peraltro resta invalsa la prassi di considerare la valutazione del prete
locale come discriminante per la “buona condotta” dei cittadini sia per il
servizio militare, per l’accesso alla pubblica amministrazione, per ottenere il
passaporto ecc.). Come suggeriscono i personaggi dei servizi segreti
statunitensi, la persecuzione dei militanti e dei partiti della sinistra è
prioritaria, malgrado questi hanno dato ampie dimostrazioni della loro totale
adesione a una opposizione pacifica e ad ambizioni democratiche (già evidenti
con Togliatti e ancora di più dopo sino alla scelta di stare nella NATO e
all’auspicio del compromesso storico di Berlinguer).
Se si confronta il caso italiano con quello tedesco appare evidente che il
reintegro dei nazisti negli apparati dello Stato in Germania, forse ancora
peggio di quanto avviene in Italia, è comunque l’ipoteca sicura della
sottomissione al campo occidentale[10]. Gli USA riescono quindi ad imporre la
loro totale egemonia politica in questo campo (Adenauer in Germania e le
correnti di destra nella DC in Italia ne sono garanti e beneficiano di ampi
sostegni). I progressisti e democratici tedeschi e italiani si limitano a
cercare quindi margini di autonomizzazione fra ostpolitik, rapporti con il mondo
arabo e il sogno dell’Europa del manifesto di Ventotene. La Francia (che
beneficia del magistrale gioco di De Gaulle di passare per alleato e non nemico
nella 2a guerra mondiale) punta invece a difendere la sua effettiva sovranità
che si nutre di un colonialismo efferato e di una politica economica e sociale
che la stessa sinistra difende come intoccabile quasi sino agli anni del secondo
Mitterrand et soprattutto di Macron (che scatena la sua controrivoluzione del
capitalismo assoluto liberista). La polizia e la gendarmeria francesi sono
sempre fermamente a difesa del potere politico e dell’ordine economico e sociale
capitalista, ma non adottano pratiche militari. Sino al periodo Sarkozy e poi
Macron, pur non esitando a essere brutali con i manifestanti, sembrano
rispettare le mobilitazioni sindacali e nella stessa polizia il sindacato di
sinistra è forte (mentre quello neofascista diventa maggioritario col favore dei
ministri dell’interno degli anni 2000-2024). L’involuzione reazionaria della
polizia francese supera quella che si conosce in Italia e in Germania. Quanto al
caso inglese, si registra una corruzione e una degenerazione rilevanti[11] ma
non una deriva autoritaria simile a quella francese e italiana, ma dato il
contesto globale è probabile che la tendenza militarista possa attecchire.
Quanto alle polizie negli Stati Uniti si potrebbe dire che per un verso sono
quelle che nei fatti in parte sono diventate le polizie italiane quando prevale
la loro legittimazione innanzitutto da parte dei dominanti locali in cambio
della loro complicità con gli illegalismi e crimini di questi ultimi. Ma in
generale va ricordato che dappertutto tende a prevalere la tolleranza zero, il
razzismo e il sessismo che accomuna polizie e cittadini dominanti e il continuum
della guerra sicuritaria a livello locale con quella in vari continenti e su
scala globale[12].
La mancata Seconda Resistenza
E’ una constatazione che potrà sembrare sin troppo banale, ma non è mai stata
espressa né fatta oggetto di riflessione. Si dà infatti per scontato che non ci
fu perché tutti gli attori politici che avevano militato nella prima furono del
tutto fagocitati nella congiuntura del dopo ’43, fra costrizioni e
condizionamenti da parte dei vincitori della guerra e da parte degli attori
forti a livello economico, culturale e politico (Chiesa, padronato, mafia oltre
alla tragica situazione economica della popolazione). In realtà per “seconda
Resistenza” non si tratta affatto di intendere la ripresa delle armi per
conquistare e imporre la dittatura del proletariato, ma di difendere il rispetto
degli obiettivi della prima resistenza: la defascistizzazione dello Stato,
l’applicazione coerente della Carta costituzionale scritta dai TUTTI i
Resistenti e quindi la sua traduzione in programmi economici, sociali, culturali
e politici conseguenti. No! Tutto questo non ci fu. Gli artefici della
liberazione dal fascismo e dal nazismo si fecero relegare sulla difensiva ma
neanche della Carta costituzionale che avevano scritto, ma addirittura nel dover
fornire sempre prove della loro sottomissione all’alleato dominante e ai suoi
sodali (Usa+Chiesa+padronato e mafie). Si impose così non solo il reintegro dei
fascisti in tutto l’apparato dello Stato e la non abrogazione di leggi fasciste,
ma anche la perpetuazione di pratiche del regime totalitario, delle sue
brutalità nonché dei residui della “lunga durata del feudalesimo” in Italia –
tesi di Maurice Aymard (1978)- (lo jus primae noctis in alcune zone rurali, la
vendita dei bambini nelle zolfatare e altrove, il super-sfruttamento sia nelle
campagne che nelle fabbriche e nel terziario). E ovviamente le polizie sono ben
lungi dal proteggere i lavoratori e la popolazione e invece sono sempre solerti
a difendere gli interessi dell’alleato dominante, della Chiesa e dei dominanti
nazionali e locali.
Dalla fine della guerra sino agli anni ’70 le polizie uccidono decine di
manifestanti e a questi assassinii si aggiungono quelli della mafia che funge da
braccio armato per il lavoro sporco sia del potere politico nazionale e locale,
sia del padronato con la benedizione della Chiesa (dopo è la stagione delle
stragi di Stato da p.za Fontana alla strage della stazione di Bologna per opera
di servizi segreti statunitensi e italiani, loggia P2 e manovalanza fascista).
La Dc per oltre 40 anni è riuscita a coltivare abbastanza consensi grazie agli
attori dominanti prima citati e le dirette e indirette clientele articolate, in
un paese che spesso è immerso nella miseria.
La vanificazione di ogni riforma
Una caratteristica del potere democristiano è non solo di non far applicare le
poche riforme economiche e sociali e civili, ma di sminuirle, svuotarle, o
deformarle. Fra altri, questo è stato il caso della famosa riforma della polizia
e del governo della sicurezza[13], riforma peraltro assai tardiva e già d’emblée
menomata e poi deformata: non c’è alcuna razionalizzazione delle forze, della
loro organizzazione, del loro impiego, né quindi eliminazione di sprechi e
sovrapposizioni; non c’è smilitarizzazione dei Carabinieri e della Guardia di
Finanza che restano corpi militari e ogni polizia dipende dal suo ministero[14].
Tutto ciò, immancabilmente, favorisce la deriva e la degenerazione che si sono
imposte in particolare dal ’90 in poi e soprattutto negli anni 2000:
rimilitarizzazione, ruolo dominante dei Carabinieri, corsa delle polizie locali
nell’imitazione di quelle nazionali, dilagare della corruzione e dei crimini di
ogni sorta da parte di dirigenti e operatori delle polizie. Si impongono
soprattutto non solo il privilegio dell’autonomia delle polizie in cambio della
loro fedeltà al potere politico, ma anche il loro diritto a una discrezionalità
che scivola facilmente nel libro arbitrio sempre protetto dall’impunità loro
garantita. Di fatto le polizie italiane restano sempre non ancorate allo stato
di diritto, ma a una legittimazione che discende direttamente sia dal governo
sia dai dominanti locali e dai loro seguaci. La protezione degli illegalismi di
questi attori locali è diventata la fonte di legittimazione che vale tanto
quanto e a volta di più di quella garantita dal potere politico nazionale. E
gran parte dei dirigenti e operatori delle polizie sono coinvolti nella pratica
degli illegalismi e crimini dei dominanti nazionali e locali (spesso in combutta
con mafie e sempre a danno della res publica). L’esempio più flagrante è
nell’enorme quantità delle economie sommerse: oltre il 35% del PIL (vedi stime
Eurispes[15]), ossia circa OTTO milioni di lavoratori che oscillano dal
semi-precariato al lavoro nero sino alle neo-schiavitù. Ma l’impegno delle
polizie nel contrasto di queste economie sommerse (che arrecano anche un ingente
danno allo Stato in quanto evasione fiscale) è risibile o nullo (qualche
migliaio di operatori) mentre si spreca personale e mezzi per inutili e molto
discutibili pattugliamenti sicuritari dei centri urbani e nella repressione
feroce delle lotte operaie e popolari per rivendicazioni sacrosante. I
finanziamenti alle polizie come alle forse armate e agli armamenti e dispositivi
militari o di controllo del territorio (vedi videosorveglianza intelligente
aumentata) non mancano mai. Invece le agenzie di prevenzione e controllo
(ispettorati del lavoro e ispettorati ASL, INAIL ecc.) sono ridotte al lumicino
(per esempio 1 solo ispettore tecnico a Firenze e provincia).
E non è casuale che dopo le brutalità e torture al G8 di Genova nel 2001 si sono
succeduti decine di morti ammazzati da polizie o lasciati morire nelle carceri
oltre a brutalità e torture che non a caso si ripetono di pari passo con quelle
agite da giovinastri o caporali ecc. Sulle brutalità, torture e assassinii delle
polizie oltre ai rari testi citati da dopo il G8 di Genova, va dato merito a
Michele Di Giorgio il dettagliato ricordo di quanto accadde negli anni del
dopoguerra e del libro alquanto dimenticato di Lelio Basso[16].
La rimilitarizzazione delle polizie a cominciare dalla scelta del governo
D’Alema di erigere l’Arma dei carabinieri a 4a forza armata e dopo nel
reclutamento riservato solo a militari che hanno partecipato alle missioni
all’estero si è di fatto imposta (ne parlano ora Tosatti e anche Di Giorgio).
Proprio tutti questi fatti che mostrano una eterogenesi del mito delle polizie
di uno stato di diritto democratico e giustificano la rivendicazione di
de-finanziamento radicale delle polizie e persino della loro abolizione a favore
di un forte aumento di personale e mezzi effettivamente efficaci per i servizi
sociali, la sanità pubblica, le agenzie di prevenzione e controllo, programmi di
risanamento ecologico, la pubblica istruzione (dove le polizie non devono mai
mettere piede) e anche per unità speciali di polizie -maxi circa 3mila
operatori, destinate unicamente al contrasto delle mafie e della grande
criminalità, in particolare di quella finanziaria a danno dello Stato).
Si tratta si una utopia di cui oggi, nel contesto del fascismo “democratico”
dilagante, sembra inutile parlarne. Invece essa merita attenzione proprio perché
è l’univa prospettiva coerente contro il non-futuro che oggi si profila per
tutto il mondo e per ogni società locale.
Principali riferimenti su affari militari, forze armate e sulle polizie in
Italia
Documentario Fascist Legacy. L’eredità scomoda:
https://www.youtube.com/watch?v=QBZT-9f-bIk&t=102s;
Rochat e Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano dal 1861 al 1943,
Einaudi, 1978
Del Negro, P., Esercito, Stato, società. Saggi di storia militare; Bologna,
Cappelli, 1979
Canosa, R., La polizia in Italia dal 1945 a oggi, il Mulino, 1976
Corso, G., L’ordine pubblico, il Mulino, Bologna, 1978.
D’Orsi, A., Il potere repressivo. La polizia, Feltrinelli, 1972
Davis, J., Legge e ordine. Autorità e conflitti nell’Italia dell’800, Franco
Angeli, 1989
Della Porta & Reiter, Polizia e protesta, L’ordine pubblico dalla Liberazione ai
‘noglobal’, il Mulino, 2003
Di Giorgio, M., Il braccio armato del potere, 2024: Nottetempo
Di Giorgio, M., Per una polizia nuova: Il movimento per la riforma della
pubblica sicurezza (1969-1981), Viella, 2019
Di Giorgio, M., Per una polizia nuova. Il movimento per la riforma della
pubblica sicurezza (1969-1981), Viella, 2019
Di Giorgio, M., Polizia, società e politica nell’Italia repubblicana. Gli
editoriali di Franco Fedeli (1973-1997), Unicopli, 2023
Palidda, S., 20 ans après les brutalités policières du G8 de Genes. Forces de
police italiennes entre sécuritarisme et insécurités ignorées. Parigi:
l’Harmattan, 2021.
Palidda, S., Polizia postmoderna, Feltrinelli, 2000;
Palidda, S., Polizie sicurezza e insicurezze, Meltemi, 2021
Palidda, S., Razzismo democratico, Agenzia X, 2009
Preve, M., Il partito della polizia. Chiarelettere, 2014
Tosatti, G., Storia della polizia, il Mulino, 2024
Rassegne letteratura sulle polizie
Fabini, Gargiulo, Tuzza, Polizia. Un vocabolario dell’ordine, Mondadori, 2023
Campesi, G. Che cos’è la polizia, Derive&Approdi, 2024
[1] L’accezione di sociologia storica qui evocata si rifà a Paul Veyne, vedi in
particolare la sua introduzione a Le pain et le cirque, Seuil, 1976, p.11 e
anche all’accezione di fatto politico totale come aggiornamento di quella di
fatto sociale totale suggerita da Marcel Mauss (cfr. Sociologia e
Antisociologia. La sperimentazione continua della vita associata degli esseri
umani, 2016, p.21).
[2] Secondo alcuni con questa frase di Foucault riprende a modo suo il titolo
del libro di Mitterrand Le Coup d’État permanent, pubblicato da Plon nel 1964
per denunciare il presidenzialismo di de Gaulle (un titolo che a sua volta si
rifà a La rivoluzione permanente di Trotsky. Foucault mostra così che la
discrezionalità della polizia diventa facilmente libero arbitrio di fatto quasi
sempre legittimato dalla magistratura e garantiti di impunità. Questa frase è
stata recentemente usata a proposito del presidenzialismo di Macron.
[3] Oltre a volume citato nel testo, fra le sue numerosissime pubblicazioni
figurano L’amico americano. Politiche e strutture per la propaganda in Italia
nella prima metà del Novecento, Roma, Biblink, 2000 (con F. Anania), Storia del
Ministero dell’interno. Dall’Unità alla regionalizzazione, Bologna, Il Mulino,
2009, La modernizzazione dell’amministrazione italiana (1980-2000), Roma,
Aracne, 2012; Il potere opaco. I gabinetti ministeriali nella storia d’Italia,
Il Mulino, 2020 (curatrice con Guido Melis) e Le parole del potere. Il lessico
delle istituzioni in Italia, Il Mulino, 2021 (curatrice con Guido Melis).
[4] M. Franzinelli, L’Amnistia Togliatti. 1946. Colpo di spugna sui crimini
fascisti, Feltrinelli, 2016
[5]
https://www.letture.org/storia-della-polizia-l-ordine-pubblico-in-italia-dal-1861-a-oggi-giovanna-tosatti
[6] Questa “digressione” come dopo la questione della “Resistenza mancata” nasce
appunto dalla riflessione dopo la lettura del libro di Giovanna Tosatti con cui
ho anche potuto avere degli scambi assai utili via mail (la ringrazio). Lo
stesso posso dire di quelli con Michele Di Giorgio (che ringrazio).
[7] Oltre alle celebri ed eccellenti opere sulla storia militare di Rochat e
Massobrio (1978) e del Negro (1979), faccio riferimento alla ricerca sul
pensiero militare e gli affari militari italiani dal Rinascimento in poi e
soprattutto dopo l’unità d’Italia e quindi sull’incidenza di questi aspetti
nella formazione e sullo sviluppo dello Stato in Italia. Che è un paese per cui
non si può considerare il Risorgimento l’equivalente della Rivoluzione francese;
in Italia non si forgia una “nazione” e l’unità d’Italia dà luogo a uno stato
che nasce con una sovranità alquanto debole che non è certo rafforzata da Crispi
e neanche con le sue pretese da Mussolini. Dopo il fascismo la sovranità
nazionale italiana è di fatto lottizzata fra il dominio USA, quello del
partito-stato la DC che rappresenta (con acrobatiche mediazioni spesso di
effimera efficacia) il padronato, i gruppi finanziari, la Chiesa e in parte
anche la mafia, mentre la componente sociale della DC è quella con cui il PCI
spera di poter approdare al governo. Mi rifaccio qui alla mia ricerca del 1984
per conto della Fondation pour les Etudes de Défense Nationale, a un’altra per
il Groupe Sociologie de la Défense de l’EHESS di Parigi (1981-1988), e a quella
per il mio dottorato dell’EHESS terminato a fine 1989; in sintesi qui cfr.
https://www.academia.edu/33997534/Lanamorphose_de_lEtat_de_droit_pdf; vedi anche
“L’évolution de lapolitique de défense italienne”, in Défense Nationale,
1985, 41, Ottobre, 39-56; 1985
(https://www.defnat.com/e-RDN/vue-article.php?carticle=5514&cidrevue=458 );
“L’evoluzione della politica di difesa in Italia”, Il Ponte, 1985, XLI, 3,
87-109.
[8] Polizia postmoderna, Feltrinelli, 2000; Polizie sicurezza e insicurezze,
Meltemi, 2021 e in versione francese un po’ diversa 20 ans après les
brutalités policières du G8 de Genes. Forces de police italiennes entre
sécuritarisme et insécurités ignorées. Parigi: l’Harmattan, 2021. In questi
tre libri (oltre che in diversi articoli in italiano in francese, in inglese e
in spagnolo) sono affrontati diversi aspetti sulla storia delle polizie italiane
e poi la loro evoluzione dagli anni ’90 sino all’inizio del 2021. Fra i
principali libro sulle polizie italiane pubblicati dal 2000 in poi si veda
innanzitutto D. Della Porta & H. Reiter, Polizia e protesta, L’ordine pubblico
dalla Liberazione ai ‘noglobal’, il Mulino, 2003 e i più recenti di Di Giorgio
(cfr. alla fine lista delle principali pubblicazioni)
[9] Vedi il celebre ottimo documentario Fascist Legacy. L’eredità scomoda:
https://www.youtube.com/watch?v=QBZT-9f-bIk&t=102s (in più parti) coni famosi
storici Michael Palumbo, Angelo Del Boca, Giorgio Rochat, Claudio Pavone, David
Ellwood e jugoslavo Ivan Kovacic (una parte del documentario mostra il massacro
nei 200 campi di sterminio italiano in Jugoslavia). Da notare che gli inglesi
portarono via da Roma una grande quantità di documenti fra i quali quelli che
mostra il documentario della BBC dopo che gli archivi inglesi furono aperti. Gli
angloamericani hanno tenuto segreti questi documenti perché in quanto tali sono
una pesantissima denuncia del loro occultamento dei crimini di guerra commessi
dagli italiani durante la Seconda Guerra Mondiale e in particolare della
condanna conseguente di Badoglio e degli altri che invece USA e UK
legittimarono. La RAI acquistò una copia del programma, che però non fu MAI
mostrato al pubblico. La7 ne trasmise stralci nel 2004. Il documentario mostra
anche pezzi di video d’epoca di tali orribili crimini sia nella guerra di
conquista coloniale in Etiopia sia dell’occupazione nazifascista della
Jugoslavia tra il 1941 e il 1943, i crimini fascisti in Libia.
[10] Il cancelliere Konrad Adenauer, ostile alla denazificazione, nel 1949
considerò una delle sue priorità farla terminare e garantì l’amnistia a molti
implicati nell’ Olocausto. Nominò capo del suo staff Hans Globke, un ufficiale
nazista che aveva difeso le leggi razziste di Norimberga e fece pressione per il
rilascio dei criminali di guerra. Al 31 gennaio 1951 oltre 792.176 persone
furono amnistiate, e fra loro oltre 3.000 funzionari della delle SS e del
Partito nazista che avevano partecipato alla detenzione delle vittime nelle
carceri e nei lager; 20.000 altri nazisti incriminati per “crimini contro la
vita” (presumibilmente omicidi), 30.000 per aver causato ferite corporali e
5.200 che commisero “crimini e misfatti d’ufficio”. Nel 1958 solo una piccola
parte degli imputati di Norimberga erano ancora in prigione.
[11]
https://www.opendemocracy.net/en/abolition-metropolitan-police-sisters-uncut-david-carrick-wayne-couzens-mark-duggan-child-q/
ivi “The Metropolitan Police is institutionally racist, homophobic and sexist,
according to the landmark Casey Report published this morning (363 page report,
commissioned by the Met after one of its officers abducted an murderer Sarah
Everard in March 2021. Vedi anche
https://lordslibrary.parliament.uk/crime-and-misconduct-within-the-metropolitan-police/
(“Crime and misconduct within the Metropolitan Police”, 25 November, 2022)
[12] Cfr. Razzismo democratico e Conflict, Security and the Reshaping of
Society: The Civilisation di War
[13] Argomento ampiamente trattato da Michele Di Giorgio, Per una polizia nuova:
Il movimento per la riforma della pubblica sicurezza (1969-1981), Viella, 2019 e
ancora nel suo più recente del 2024 (cfr. infra)
[14] Aspetti descritti in dettaglio nei libri citati alla nota 8 e nei libri di
Di Giorgio, cit.
[15] Nel suo rapporto L’Italia in nero l’Eurispes ha valutato l’economia
sommersa a 540 miliardi di euro (35% del Pil ufficiale): circa 280 miliardi di
lavoro sommerso (evasione fiscale e contributiva), circa 160 di nero nelle
imprese, circa 100 di economia informale. Nello stesso anno il Pil criminale
avrebbe superato i 200 miliardi di euro.
https://www.economy2050.it/stime-economia-sommersa-italia/
[16] Cfr, M. Di Giorgio, Il braccio armato del potere, 2024: Nottetempo, pp. 195
e segg. e L. Basso, La tortura oggi in Italia, 1953: Edizioni e/o (vedi anche
https://www.leliobasso.it/documento.aspx?id=80b1f4d8aa8a31d4c6099d465dd6fe68
Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi
sostenerci donando il tuo 5×1000
News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp