Un giovane di trent’anni è deceduto in Questura, a seguito di un intervento in
cui è stato impiegato un taser. Non si tratta di un episodio isolato né di un
mero incidente fortuito. È l’ennesima manifestazione di una prassi ormai
consolidata e diffusa: l’uso del taser come strumento “intermedio” nel
repertorio coercitivo delle forze dell’ordine.
di Associazione Yairaiha Ets
Un giovane di trent’anni è deceduto in Questura, a seguito di un intervento in
cui è stato impiegato un taser. Secondo l’esito dell’autopsia, la causa del
decesso è riconducibile a una “sommersione interna emorragica da trauma toracico
chiuso”, una massiccia emorragia compatibile con una compressione toracica
particolarmente intensa. Le autorità hanno escluso un nesso diretto tra l’uso
del taser e il decesso. Tuttavia, permangono dubbi gravi, legittimi e fondati
riguardo alle modalità dell’intervento, alle responsabilità complessive e alla
concatenazione degli eventi che hanno condotto alla tragica morte di Riccardo.
Non si tratta di un episodio isolato né di un mero incidente fortuito. È
l’ennesima manifestazione di una prassi ormai consolidata e diffusa: l’uso del
taser come strumento “intermedio” nel repertorio coercitivo delle forze
dell’ordine. Uno strumento che appare tutt’altro che neutro, specie quando
impiegato nei confronti di soggetti fragili, in condizioni di alterazione o
vulnerabilità fisica o psichica.
La morte di Riccardo non si configura solo come una tragedia individuale, ma
come uno specchio che riflette una trasformazione lenta ma inesorabile: la
repressione che soppianta la mediazione, l’abitudine all’eccezione, una gestione
dell’ordine pubblico che scivola sempre più velocemente verso la prevalenza
della forza. Non ci troviamo più davanti a un rischio teorico: lo Stato ha di
fatto rinunciato alla responsabilità di un intervento equilibrato, sostituendola
con l’automatismo della coercizione.
Questa deriva trova ulteriore sostegno nel recente decreto sicurezza, che amplia
i poteri delle forze dell’ordine e legittima un impiego più esteso del taser,
anche in contesti in cui il contatto umano, il discernimento e la competenza
dovrebbero restare imprescindibili. Non è più la forza che interviene in casi
eccezionali, ma la forza che diventa automatica.
L’ambiguità con cui oggi si invocano termini quali “sicurezza”, “legalità”,
“difesa” crea una cortina fumogena. Ma i corpi non mentono. Non mentono le
vittime di decessi avvenuti “per errore”. Non mentono i corpi di coloro che non
rappresentavano una minaccia reale. Non mentono le famiglie a cui, finora, non è
stata data una spiegazione piena e trasparente su quanto accaduto e sulle cause
che vi hanno condotto.
In uno Stato che si definisce democratico, non è sostenibile che pretenda
fiducia mentre moltiplica i propri strumenti di violenza e abdica dalla sua
prerogativa fondamentale: proteggere, non punire. La questione non riguarda
esclusivamente la liceità del taser, bensì il modo in cui è stato
progressivamente sdoganato, automatizzato e normalizzato come una scorciatoia
operativa. L’arroganza di chi si ritiene sempre nel giusto e la sistematica
rimozione delle conseguenze sono elementi che destano profonda preoccupazione.
Non è accettabile che un corpo a terra venga trattato come un mero dettaglio
operativo. In quel corpo si misura la tenuta di uno Stato di diritto. Ed è
proprio lì che, qualora non si presti la dovuta attenzione, rischiamo di perdere
silenziosamente qualcosa di molto più grande di quanto siamo disposti ad
ammettere.
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Tag - malapolizia
Nuovi particolari sulla morte del trentenne colpito dal taser a Pescara: era
inerme. Il padre: perché gli hanno sparato?. Tre indagati per lesioni aggravate.
Il trentenne preso a colpi di bastone in testa. La polizia lo ha trovato già
ferito. Da diversi anni era in cura al Centro di salute mentale e a quello per
le dipendenze. Salvini spietato: «Le pistole elettriche salvano vite»
di Mario di Vito da il manifesto
Quando, poco dopo le 11 del mattino di martedì, la volante della polizia con due
agenti a bordo è arrivata in Strada Piana, nel quartiere periferico di San
Donato a Pescara, Riccardo Zappone era stato appena picchiato. Perdeva sangue
dalla testa. Forse, dicono alcuni testimoni, aveva cercato di derubare un
passante. Di sicuro era stato preso a bastonate da tre persone, ora iscritte nel
registro degli indagati per lesioni personali aggravate.
È in questa situazione, comunque, che il trentenne avrebbe avuto una crisi tale
che per i due poliziotti – «esperti», sostengono dalla questura – «è stato
necessario usare il taser». Se siano state le botte o la scarica elettrica a
causare l’infarto che lo ha colto in questura poco dopo ancora non si può dire.
Potrebbe essere d’aiuto l’autopsia effettuata ieri, ma difficilmente arriverà
una risposta chiara, perché in questi casi trovare un nesso causale è quasi
impossibile. Gli ultimi precedenti di persone decedute dopo essere state colpite
con il dissuasore elettrico parlano in maniera tragicamente chiara: gli esami
medici non sono mai risolutivi. E qui, come recitano gli atti firmati dal
sostituto procuratore Gennaro Varone, è anche ritenuta «presumibile
l’intossicazione da cocaina», un’altra possibile causa dell’arresto cardiaco.
Riccardo, da diversi anni, era in cura al Centro di salute mentale e al Servizio
per le dipendenze di Chieti con una doppia diagnosi: una di problemi
psichiatrici – per i quali gli venivano somministrati degli antipsicotici a
cadenza mensile – e una di tossicodipendenza. Chi lo conosceva lo descrive come
una persona di certo problematica ma non pericolosa: era stato sottoposto già in
più occasioni a trattamento sanitario obbligatorio, altre volte era bastato un
colloquio con la sua psichiatra per convincerlo a ricoverarsi, senza che fosse
necessario l’uso della forza. Alto e molto magro, di aspetto debilitato e
oggetto poco prima di un violento pestaggio, viene quasi naturale da chiedersi
per quale motivo martedì mattina si sia reso necessario l’uso di uno storditore
per rendere Zappone inoffensivo. Lo stabiliranno le indagini affidate alla
squadra mobile, che però per ora non sfiorano gli agenti e sono concentrate
sulla fase precedente al loro intervento, tutta immortalata dalle telecamere
pubbliche presenti sulla via, grazie alle quali è stato possibile trovare due
dei tre indagati (il primo era stato identificato già martedì).
«Riccardo non aveva problemi cardiologici e poi soprattutto mi domando: che
motivo c’era di arrestarlo se le forze dell’ordine lo conoscevano bene e
sapevano chi fosse e che tipo di patologia avesse? Non era opportuno che fosse
chiamato il 118 e ordinato il ricovero in trattamento sanitario obbligatorio
come era stato fatto le altre volte? Era davvero necessario utilizzare quella
pistola elettrica?», ha detto in un’intervista al quotidiano il Centro Andrea
Varone, il padre della vittima.
La questione del taser è centrale: le controindicazioni mediche sono note,
Amnesty International ha parlato spesso di questo strumento che si è dimostrato
dannoso ovunque nel mondo sia stato sin qui utilizzato da parte delle forze
dell’ordine, la Cassazione, con una sentenza del 2019, lo ha descritto come
«arma comune da sparo sicuramente idonea a recare danno alla persona».
Il segretario di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo, pescarese, conclude
così: «La responsabilità di questa morte non ricade solo sulla destra ma è stata
bipartisan: la sperimentazione del taser è cominciata nel 2014 con il governo
Renzi e fu rilanciata nel 2018 su iniziativa di Salvini con il governo Conte 1.
Nel 2020 l’adozione della pistola elettronica è stata confermata dal governo
Conte 2 in cui c’erano Pd e Sinistra italiana con Leu. La gravità di quella
scelta sta nel fatto che la pericolosità della pistola elettronica era già nota
quando è stata adottata». Salvini replica con un’ode al taser, come se fosse uno
strumento salvavita e non un’arma letale: «Le forze dell’ordine non lo usano per
gioco, lo usano quando ce n’è bisogno: ha salvato centinaia di vite e prevenuto
migliaia di reati. Quindi o vogliamo mettere in discussione la libertà di azione
delle forze dell’ordine e sciogliamo polizia e carabinieri e viviamo
nell’anarchia. O altrimenti andiamo avanti su quello che è una maggiore
sicurezza, che è necessaria».
Il ministro degli Interni Matteo Piantedosi, intervenuto ieri mattina a Sky
Tg24, pure ha difeso la pistola elettrica («È un’alternativa a strumenti molto
più offensivi come le armi da fuoco») ma almeno, a differenza del vicepremier, è
riuscito a non dimenticarsi che in questa storia c’è una vittima: «Andranno
sviluppati tutti gli accertamenti perché è interesse anche nostro capire se ci
sia una correlazione con l’uso del taser qualche minuto prima». Alla fine, oltre
le indagini e le domande ancora prive di risposta, resta un’immagine sola:
quella di un trentenne come tanti altri. Un morto di sicurezza come troppi
altri.
> Il taser uccide. Morire a 30 anni a Pescara
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Ennesima vittima degli abusi di polizia. Ieri 3 giugno, a Pescara, un 30enne
coinvolto poco prima in una lite stradale e morto a causa dell’uso del taser da
parte gli agenti di polizia
di Mario Di Vito da il manifesto
Una rissa in strada a Pescara ieri mattina, l’arrivo della polizia, un colpo di
taser. Poi l’arresto, il trasferimento in questura, il malore in sala d’attesa,
l’arrivo del 118 e la corsa in ospedale. Dove però i medici non hanno potuto
fare altro che constatare il decesso. Questa è la prima ricostruzione delle
ultime ore di Riccardo Zappone, trent’anni, originario di San Giovanni Teatino,
paese a pochi chilometri a ovest di Pescara.
IL COMUNICATO con cui la procura di Pescara ha diffuso nel pomeriggio la notizia
parla dell’arresto di Zappone, «apparentemente coinvolto poco prima in un
alterco da strada», per resistenza a pubblico ufficiale «che è stato necessario
vincere con l’uso del taser».
Ed è proprio su questo uso «necessario» che si concentreranno le indagini
delegate alla squadra mobile. Nel mentre, dalla questura, sia pure
informalmente, vengono soffiate altre possibili cause, perché «non è emersa una
correlazione accertata tra l’uso del taser e l’arresto cardiaco». Quindi, dicono
i poliziotti, bisogna valutare attentamente la dinamica della rissa, perché pare
che Zappone avesse avuto la peggio. Poi bisogna capire se il trentenne fosse
sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. E c’è un dettaglio biografico che
viene sottolineato: parliamo di un tossicodipendente con precedenti.
Quindi se da una parte si suggerisce che il cuore di Zappone potrebbe essersi
fermato per motivi non legati alla scarica elettrica subita, dall’altra siamo
indubbiamente davanti all’identikit della tipica vittima di malapolizia: un
marginale per il quale non è necessario usare tante accortezze.
I PRECEDENTI, almeno in fatto di taser, parlano chiaro. Poco meno di due anni
fa, nell’agosto del 2023, proprio a San Giovanni Teatino è morto Simone Di
Gregorio, 35enne in cura presso un centro psichiatrico di Pescara. Nel suo caso
lo storditore venne usato dai carabinieri perché l’uomo «stava dando in
escandescenze» e, completamente nudo, correva verso i binari della ferrovia. La
procura di Chieti aprì un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo, ma
l’autopsia escluse che la morte fosse arrivata a causa della scossa elettrica.
Un anno dopo, nel luglio 2024, in Alto Adige, il taser è stato usato contro
Carlo Lattanzio, un operaio 42enne di Barletta salito a Vipiteno per lavorare in
un’azienda edile. Era stato lui a chiamare i carabinieri, che lo avrebbero
trovato in stato confusionale, forse ubriaco. E lui prima avrebbe provato ad
aggredirli e poi si sarebbe lanciato da una finestra. Sopravvissuto alla caduta,
avrebbe tentato di nuovo di aggredire i militari che a quel punto lo hanno
colpito col taser. L’indagine condotta dalla procura di Bolzano non ha portato a
nulla, perché l’autopsia non ha rilevato una correlazione diretta tra il decesso
e l’intervento dei carabinieri. Il problema degli accertamenti medici per queste
vicende appare evidente: da un punto di vista strettamente legale, stabilire un
nesso causale tra taser e arresto cardiaco è pressoché impossibile nel momento
in cui esistono altri elementi che potrebbero causare una morte improvvisa.
Restano le parole con cui, nella sentenza numero 5.830 del 2019 la Cassazione ha
descritto il taser: «Arma comune da sparo sicuramente idonea a recare danno alla
persona». Chi produce e commercia questi strumenti, da parte sua, insiste molto
sul fatto che parliamo di «dispositivi non letali». Almeno in teoria perché, in
più rapporti, Amnesty International ha spiegato che, per quanto riguarda l’uso
di pistole elettriche, «il rischio zero non esiste» e che «gli studi medici a
disposizione sono concordi nel ritenere che l’uso dei taser abbia avuto
conseguenze mortali su soggetti con disturbi cardiaci o le cui funzioni, nel
momento in cui erano stati colpiti, erano compromesse da alcool o droga o,
ancora, che erano sotto sforzo, ad esempio al termine di una colluttazione o di
una corsa».
SIA NEL CASO di Zappone, sia nei precedenti di Di Gregorio e Lattanzio, in ogni
caso, parliamo dell’uso di un’arma comune da sparo contro persone evidentemente
disarmate.
Ai microfoni di Radio Onda d’Urto il commento di Susanna Marietti,
dell’Associazione Antigone. Ascolta o scarica.
Maurizio Acerbo, pescarese e segretario nazionale di Rifondazione comunista a
così commentato: “Abbiamo sempre contestato la decisione politica di dotare le
forze dell’ordine di taser. Se verrà confermato che la causa della morte del
trentenne a Pescara è stata causata dall’uso del taser non sarà il primo caso.
La responsabilità di questa morte non ricade solo sulla destra ma è stata
bipartisan. La sperimentazione del taser è cominciata nel 2014 con il governo
Renzi e fu rilanciata nel 2018 su iniziativa di Salvini con il governo Conte 1.
Nel 2020 l’adozione della pistola elettronica è stata confermata dal governo
Conte 2 in cui c’erano PD e Sinistra Italiana con LeU. La gravità di quella
scelta sta nel fatto che la pericolosità della pistola elettronica era già nota
quando è stata adottata. Ricordo che vari organismi internazionali
intergovernativi e non governativi avevano stigmatizzato l’uso del Taser in
quanto potenzialmente mortale e mai realmente sostitutivo delle armi da fuoco.
Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura aveva già affermato che
l’introduzione dei Taser apriva la porta a risposte sproporzionate. La Reuters
aveva già documentato che dal 2001 erano almeno 1.042 i casi di persone colpite
a morte con un taser dalla polizia. La stessa azienda produttrice, la Taser
International Incoporated, aveva già dovuto riconoscere un fattore di rischio
mortale che si aggira intorno allo 0,25%. Una persona su 400, tra quelle colpite
da Taser, rischia cioè il decesso. Denunciammo inascoltati essendo fuori dal
parlamento e delle TV che sarebbe stato più utile investire risorse in
formazione delle forze di polizia o in strumenti logistici (autovetture,
vestiario e altre strumentazioni utili al contrasto della criminalità). Da anni
assistiamo a una deriva sicuritaria di imitazione delle modalità di gestione
dell’ordine pubblico tipiche degli Stati Uniti e che si accompagnano a un
modello sociale neoliberista. Segnaliamo che l’Europa dello stato sociale ha
indici di sicurezza infinitamente superiori agli USA che collezionano non
invidiabili record di omicidi, nonostante un altissimo numero di persone
detenute e metodi polizieschi raccapriccianti. Anche per le politiche della
sicurezza – come per l’economia e il lavoro – va ripresa la via maestra della
Costituzione. Il taser va vietato“.
Nel decreto “Milleproroghe“, approvato in via definitiva dalla Camera dei
Deputati, nel febbraio 2025, è previsto che tutti i Comuni – non solo i
capoluoghi di provincia o quelli con più di 20mila abitanti – potranno dotare la
Polizia Municipale della letale pistole elettronica “taser”.
> I taser in dotazione alla polizia non sono affatto sicuri
> Attenti al Taser: per l’Onu è uno strumento di tortura
> Il Taser è buono solo per chi lo vende
> Taser ai poliziotti. Uno strumento di tortura gira per le città
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A Verona, nove poliziotti delle volanti accusati di torture e lesioni in
questura. Il governo inventa una polemica per una vecchia raccomandazione sulla
profilazione razziale durante fermi e perquisizioni.
Ematomi al volto e ferite al labbro. Ma anche calci, sberle e spintoni nella
sala Aquario, nella sala redazione atti e nel corridoio. Queste azioni violente
sarebbero avvenute in questura a Verona nell’agosto e nel novembre del 2022 nei
confronti di due fermati: Mattia Tacchi, già da tempo noto alle forze
dell’ordine e con problemi di tossicodipendenza, e il marocchino Amiri Tororo.
Gli autori di queste aggressioni, secondo la procura che ha chiuso qualche
settimana fa le indagini sulle violenze in questura, sarebbero nove poliziotti
della squadra volanti, indagati per lesioni o tortura. Alcuni di loro sono
accusati, assieme ad altri sette, anche di peculato, dell’omissione di denuncia
di reato o di identificazione di alcuni loro conoscenti e della falsificazione
di alcuni verbali. Tutti e 16 gli indagati dovranno presentarsi all’udienza
preliminare, fissata davanti alla giudice Arianna Busato il prossimo 22
settembre.
Gli episodi di violenza
Per quel che riguarda l’aggressione nei confronti di Mattia Tacchi, due colleghi
avrebbero agito in concorso con l’ex poliziotto Alessandro Migliore, tuttora a
processo assieme all’ex collega Loris Colpini. Secondo l’accusa, Mattia Tacchi
sarebbe stato trascinato fuori dalla sala Acquario e sarebbe stato colpito più
volte. Dieci minuti dopo Alessandro Migliore avrebbe tirato a Tacchi uno
schiaffo facendogli perdere i sensi per alcuni minuti. Un altro episodio di
violenza, stando all’accusa, si sarebbe verificato nei confronti del marocchino
Amiri Tororo che sarebbe stato colpito con calci, sberle e spintoni. Gli sarebbe
poi stato spruzzato lo spray al peperoncino, «facendogli urtare violentemente il
capo contro una panca in cemento», si legge nel capo d’imputazione. Gli indagati
lo avrebbero poi «trattenuto all’interno della stanza fermati circa un’ora e
trenta senza decontaminarlo . riporta l’accusa –, sebbene egli avesse più volte
rappresentato come l’irritante gli provocasse dolore». Dopo l’aggressione Amiri
Tororo si sarebbe ritrovato con diverse lesioni sul corpo e l’ematoma a un
occhio.
Cacciaviti e cutter
Tra gli episodi contestati ci sarebbe stata da parte di alcuni degli indagati
anche l’interruzione di una perquisizione domiciliare per la ricerca di armi da
sparo nell’abitazione di un loro conoscente. Nella sua auto sarebbero però stati
trovati una decina di cacciaviti e un cutter che l’uomo avrebbe usato per
bloccare e minacciare l’ex fidanzata. In quella circostanza i poliziotti che
erano intervenuti avrebbero dovuto denunciare l’uomo. In un’altra occasione
invece uno degli indagati si sarebbe intascato 40 euro e due pacchetti di
sigarette, contenenti nel borsello di una donna che era stata portata in
questura per un controllo.
L’inchiesta
Le indagini sono state svolte dalla squadra mobile tra il 2022 e il 2025 e
coordinate dai sostituti procuratori Carlo Boranga e Chiara Bisso. Su 28
indagati sono stati chiesti 16 rinvii a giudizio, 2 giudizi immediati (Migliore
e Colpini), 2 patteggiamenti e 8 archiviazioni. A far partire l’inchiesta sono
state le denunce di alcune persone fermate che avevano raccontato di essere
state maltrattate. A quel punto erano scattate le intercettazioni delle
conversazioni tra gli indagati. Alcuni episodi di violenza sono stati poi
immortalati da una telecamera presente nella sala Acquario dove venivano portati
i fermati. (di Beatrice Branca da il Corriere del Veneto)
«Avevamo raccomandato al governo italiano di realizzare uno studio indipendente
sulla profilazione razziale [da parte delle forze dell’ordine, ndr] per valutare
il fenomeno». È bastata questa frase pronunciata ieri da Bertil Cottier,
presidente della Commissione europea contro razzismo e intolleranza (Ecri) del
Consiglio d’Europa (Coe), per scatenare un circo politico. Al centro la
maggioranza, con Giorgia Meloni in testa, a difendere a spada tratta una polizia
che nessuno aveva attaccato.
Le parole del giurista svizzero sono il dito, la luna è la nuova aggressione
alle istituzioni internazionali. La linea è la stessa della recente lettera
contro la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che ricade sempre sotto il
Consiglio d’Europa, per limitarne l’indipendenza in materia di diritti dei
migranti.
Cottier, infatti, era semplicemente intervenuto nella conferenza stampa di
presentazione del report annuale Ecri, che per il 2024 affronta quattro fenomeni
«strutturali»: selezione delle persone fermate e perquisite in base a origini
nazionali o etniche; segregazione scolastica dei bambini rom; discriminazioni
contro le persone trans e intersessuali. Nel rapporto presentato ieri non ci
sono numeri, né riferimenti ai singoli Stati nazionali.
Perciò un giornalista dell’Ansa ha chiesto a Cottier se aveva raccomandazioni
specifiche per qualche paese, in particolare l’Italia. Il presidente ha
rimandato allo studio pubblicato lo scorso ottobre e ribadito quanto l’Ecri
aveva consigliato in quell’occasione: uno studio indipendente sul fenomeno della
profilazione razziale. La notizia in pratica non esisteva, non c’era nulla di
nuovo. Ma a prescindere da qualsiasi dato di realtà, la maggioranza è partita
all’attacco seguendo l’ordine di scuderia: tutti insieme contro Ecri e Coe.
«Osservazioni astruse e false», ha detto il vicepremier Antonio Tajani (Fi), che
evidentemente il report non lo ha nemmeno visto. Per il presidente di Noi
moderati Maurizio Lupi: «La Commissione europea contro razzismo e intolleranza
del Consiglio d’Europa prende un’altra cantonata dopo quella dell’ottobre 2024,
quando con una relazione fotocopia accusò di razzismo le nostre forze
dell’ordine». La cantonata è solo sua, lo studio è lo stesso.
La vera posta in gioco emerge invece dalle dichiarazioni di Meloni e della Lega.
«L’Italia fu, nel 1949, tra i dieci Stati fondatori del Coe, nato nel dopoguerra
per difendere la democrazia, i diritti umani e lo Stato di diritto. Eppure oggi
quello spirito originario sembra smarrito, sostituito da dichiarazioni sempre
più faziose e lontane dalla realtà», dice la premier. È la stessa tesi sostenuta
nella lettera contro la Cedu promossa da Italia e Danimarca e firmata da altri
sette Paesi Ue. In sostanza diceva che i diritti costituzionalizzati dopo il
secondo conflitto mondiale e le istituzioni di garanzia create per garantirli
sono ormai superati. Almeno per gli stranieri (si comincia sempre da là). E
infatti la Lega va dritta al punto: «Consiglio d’Europa? Altro ente inutile, da
sciogliere. Giù le mani dalle nostre forze di Polizia!», scrive su X.
Il Coe fu istituito per promuovere democrazia e diritti umani, con lo scopo di
evitare che gli orrori del nazifascismo e della guerra mondiale potessero
ripetersi. Ne fanno parte 46 paesi, di cui i 27 Ue, e non va confusa con le
istituzioni dell’Unione europea. Nel 2022 è stato abbandonato dalla Russia,
esclusa. Forse a Meloni o ai suoi alleati leghisti piacerebbe seguire le orme di
Putin. Più probabilmente dovranno accontentarsi di colpire il Coe dall’interno.
A questo serviva la bordata contro la Cedu. Un attacco inedito a cui sabato
aveva replicato Alain Berset, presidente del Consiglio d’Europa. «La Cedu è il
braccio giuridico del Coe – ha dichiarato Berset – Il rispetto dell’indipendenza
e dell’imparzialità della Corte è il nostro fondamento».
In tale contesto colpisce la mossa di ieri del Quirinale, che ha convocato il
capo della polizia Vittorio Pisani per rinnovare «stima e fiducia». A ottobre il
presidente della Repubblica Sergio Mattarella si era detto «stupito» dal
rapporto dell’Ecri, stavolta stupito è chi confida nel Colle per frenare la
deriva sovranista di Meloni: l’incontro che si terrà questa mattina non serve a
coprire le forze dell’ordine, serve a coprire il governo. (di Giansandro Merli
da il manifesto)
> Verona: cinque poliziotti arrestati per tortura
> Torture nella questura di Verona: Un modus operandi consolidato
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> Violenza e tortura in divisa, un dibattito necessario
> Dure accuse del Consiglio d’Europa e Onu: Razzismo nella polizia
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Filippo Ferri, condannato per i fatti del G8 di Genova 2001, è stato di recente
indicato dal governo come questore a Monza. Le reazioni, salvo alcune deboli
iniziative, sono quasi assenti. La dimostrazione è che in Italia abbiamo
permesso che l’onda lunga degli abusi, delle violenze, dei falsi e delle
menzogne si estendesse nel tempo e coprisse di un manto oscuro il volto delle
forze dell’ordine
di Lorenzo Guadagnucci da Altreconomia
“Per quanto riguarda le misure disciplinari, la Corte ha dichiarato più volte
che, quando degli agenti dello Stato sono imputati per reati che implicano dei
maltrattamenti, è importante che siano sospesi dalle loro funzioni durante
l’istruzione o il processo e che, in caso di condanna, ne siano rimossi”: così
la Corte europea per i diritti umani nella famosa sentenza Cestaro (2015) sul
caso Diaz.
Il passo viene in mente di fronte alle polemiche nate dalla fresca nomina di
Filippo Ferri a questore di Monza. Ferri nel processo Diaz fu condannato a tre
anni e otto mesi, con annessa -automatica- sospensione dai pubblici uffici per
cinque anni, ma né lui né altri sono stati mai sospesi durante i processi, tanto
meno “rimossi” dopo la condanna definitiva (2012).
Di più: nessuno -salvo forse uno, multato per 47 euro- è stato nemmeno
sottoposto a procedimenti disciplinari. E dire che la “perquisizione” alla Diaz
fu qualificata dalla Corte europea come un caso di tortura e che la condotta dei
vertici di polizia e dello Stato fu fortemente stigmatizzato dai giudici di
Strasburgo, specie per la constatazione che la polizia “ostacolò impunemente”
l’azione della magistratura.
Che dire, dunque, del “caso Ferri”? Una cosa semplice: che il governo italiano,
con qualche ragione a dire il vero, ritiene che il caso Genova G8 sia chiuso e
archiviato, ormai dimenticato dall’opinione pubblica, per cui nulla osta alla
nomina a questore di un funzionario con un passato così problematico.
E non si sbaglia, il governo, se guardiamo all’assenza quasi totale di reazioni,
se non fosse per un appello di gruppi e associazioni della Brianza e qualche
debole iniziativa parlamentare (la senatrice Ilaria Cucchi e forse qualche
altro); tacciono i commentatori, tacciono i giornalisti “esperti” di forze
dell’ordine, tacciono i leader politici e sindacali. Del resto Ferri non è il
primo fra i condannati nel processo Diaz a rientrare nei ranghi, e con ruoli di
rilievo, a pena scontata.
La verità è che in Italia abbiamo rimosso Genova G8, abbiamo permesso che l’onda
lunga degli abusi, delle violenze, dei falsi e delle menzogne si estendesse nel
tempo e coprisse di un manto oscuro il volto delle forze dell’ordine, minando
alla radice la loro credibilità democratica. Non vi è stata al tempo alcuna
autocritica in seno alle polizie, né furono presi i provvedimenti necessari:
sospensioni, licenziamenti, riforme. Genova G8, in questo modo, non è stata una
caduta improvvisa e circoscritta della legalità costituzionale, né una pagina
nera ormai chiusa e superata. Genova G8, piuttosto, è un biglietto da visita che
le forze dell’ordine italiane continuano a presentare a chi governa e a tutti i
cittadini.
> Poliziotto condannato per la Diaz diventa questore di Monza
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Scoperto a Napoli un presunto agente sotto copertura all’interno delle strutture
di Potere al Popolo. In rete le foto del giuramento in polizia e delle feste con
i colleghi in divisa. “Non siamo la gioventù meloniana, non abbiamo nulla da
nascondere”.
di Antonio Musella da Fanpage
Una denuncia clamorosa quella che Potere al Popolo, il partito di estrema
sinistra che da molti anni partecipa alle elezioni politiche ed amministrative,
ha affidato a Fanpage.it. Come spiega il portavoce nazionale, Giuliano Granato,
per 10 mesi il partito sarebbe stato infiltrato e spiato dalla polizia.
L’agente sotto copertura sarebbe un giovane di 21 anni, uscito dalla scuola di
polizia nel 2023. Si sarebbe presentato agli attivisti di PaP a Napoli come
studente fuori sede. Assiduo frequentatore di tutte le iniziative di Potere al
Popolo, ha partecipato anche a diversi incontri nazionali del partito. A far
saltare la copertura però sarebbero stati proprio gli atti ufficiali del suo
ingresso in polizia. Da una semplice ricerca infatti, è stato possibile trovare
non solo il risultato del concorso in polizia che ha vinto, ma anche le foto del
giuramento in polizia e, attraverso una serie di contatti social, a fot0 di
gruppo in divisa con altri colleghi. Ad insospettire i militanti di Potere al
Popolo, uno strano incontro a cui sarebbe stato visto per caso in un ristorante
lo scorso 1°Maggio. Una volta scoperto, il presunto agente sotto copertura non
avrebbe battuto ciglio, allontanandosi ed augurando “Buona giornata” agli
attivisti di Pap.
Il presunto agente di polizia infiltrato in Potere al popolo
“L’infiltrazione iniziata 10 mesi fa”
A raccontare la vicenda a Fanpage.it è il portavoce nazionale di Potere al
Popolo, Giuliano Granato, che ha raccontato tutte le fasi dell’infiltrazione del
presunto agente di polizia, fino alla sua definitiva scoperta da parte del
partito. “Tutto è iniziato circa 10 mesi fa – spiega – questo ragazzo di appena
21 anni si è presentato a noi come uno studente fuori sede, proveniente dalla
Puglia. In questi mesi ha partecipato in maniera assidua a qualsiasi iniziativa,
dal blocco degli sfratti, alle lotte studentesche, partecipando anche ai momenti
nazionali di Potere al Popolo. Non mancava mai“.
Una circostanza però aveva insospettato gli attivisti napoletani di Potere al
Popolo. “Era estremamente presente quando c’erano iniziative politiche, ma non
ha mai legati personalmente con nessuno. Mai una serata insieme, una birra, una
cena, molto strano per uno studente universitario fuori sede” spiega Granato. E
così per puro caso, alcuni attivisti sono riusciti a risalire alla vera
identità, in un modo la cui semplicità sembra disarmante. “I suoi social erano
quasi vuoti – spiega Granato – anche questo abbastanza strano per un 21enne. Ma
quando abbiamo digitato il suo nome e cognome e la sua data di nascita su Google
si è aperto un mondo“.
La prima cosa che è stata trovata è la sua assunzione in Polizia, al termine del
corso, con tanto di nominativo, data di nascita e punteggio. E’ stato a quel
punto facile risalire alle origini. Si tratterebbe di un agente figlio di
poliziotto, con altri parenti in Polizia, entrato in servizio nel 2023. La sua
presa di incarico sarebbe avvenuta due mesi dopo, a quanto riportato dai
documenti del Ministero dell’Interno. Per fugare dubbi su possibili omonimie si
è risalito, attraverso alcuni sui contatti social, ad altri amici, anche loro
poliziotti. E da lì si sono ritrovate le foto del giuramento in Polizia, ma
anche foto di feste ed incontri con altri colleghi. Tutti in divisa.
A guardare i riscontri raccolti da Potere al Popolo la vicenda è davvero
impressionante. Da un lato perché lo stesso agente in divisa, si nota poi in
alcuni reel pubblicati dagli attivisti universitari di Potere al Popolo, con il
megafono in mano e la bandiera del partito, dall’altro proprio per la
superficialità dell’operazione. Il nome del presunto agente sarebbe infatti lo
stesso, mentre la biografia raccontata, figlio di persone povere e studente a
Bari per un anno, sarebbe del tutto inventata.
Mentre alcuni attivisti avevano avvisato i dirigenti del partito
dell’incredibile scoperta, lo scorso 1°Maggio un episodio avrebbe fatto saltare
del tutto la copertura del presunto agente infiltrato. “Dopo il corteo del
1°maggio, la persona è stata vista per puro caso da un nostro attivista, entrare
in un ristorante e fermarsi a parlare per circa 15 minuti con delle persone
vestite in giacca e cravatta ad un tavolo. Per noi quello è stato un momento di
possibile scambio di informazioni” spiega Granato. Saltata la copertura si è poi
passati alla fase di “confronto”, che è avvenuta in un luogo pubblico,
all’aperto, in presenza di molti testimoni, nei pressi della zona universitaria
nel centro di Napoli. “Quando gli abbiamo detto che non era più gradito, e che
non doveva chiedere perché altrimenti avrebbe offeso la nostra e la sua
intelligenza, non ha nemmeno provato a chiedere spiegazioni, non ha fornito
scuse o finto di non capire. Semplicemente ci ha augurato buona giornata ed è
andato via” sottolinea il portavoce di Potere al popolo. Successivamente, alcune
ore dopo, il presunto agente infiltrato ha telefonato ad un altro attivista,
anche egli studente universitario, chiedendo spiegazioni. Nella telefonata, che
è stata registrata e di cui siamo in possesso, il presunto infiltrato chiede se
ha fatto qualcosa che ha determinato il suo allontanamento. “Ma siamo noi a
doverti spiegare oppure ci mandi tu la foto del giuramento?” gli ha risposto il
suo interlocutore. Dopo lunghissimi secondi di silenzio, ed un sollecito a
rispondere nel merito, il presunto infiltrato ha attaccato la telefonata.
Il presunto agente infiltrato durante una manifestazione di Potere al popolo
“Niente da nascondere, non siamo la gioventù meloniana”
“Noi siamo un partito che si presenta alle elezioni da molti anni, partecipiamo
a tutte le tornate elettorali, non abbiamo nulla da nascondere, non siamo la
gioventù meloniana, chiunque può venire e vedere cosa facciamo, la nostra è
un’attività alla luce del Sole” spiega Granato. Effettivamente la circostanza
non è assimilabile ad una attività di polizia che può essere inserita
nell’ambito dei controlli di prevenzione, ad esempio quelli anti terrorismo.
Potere del popolo è un partito politico, che non solo partecipa alle elezioni
per il parlamento, ma anche a quasi tutte le elezioni amministrative sui
territori. “Sono anni che non accadeva un tentativo di spionaggio e
infiltrazione ai danni di una organizzazione che si presenta alle elezioni”
sottolinea il portavoce di Pap. L’inquietante vicenda si inserisce nel solco di
una serie di episodi di spionaggio che si susseguono nel nostro paese, come il
caso “Paragon“, l’utilizzo dello spyware militare che ha coinvolto due
giornalisti di Fanpage.it, il direttore Francesco Cancellato ed il capo della
cronaca di Napoli, Ciro Pellegrino, e i fondatori di Mediterranea Saving Humans,
Luca Casarini e Beppe Caccia, e con loro Don Mattia Ferrari e il portavoce di
Refugees in Libya, David Yambio. “Quello che è successo a noi si inserisce nello
stesso solco – spiega Granato – il Ministero dell’Interno deve spiegare questa
vicenda. Questo è il segnale che lo Stato sta usando strumenti repressivi perché
non tollera il dissenso, è un attentato alla democrazia che riguarda tutti e
tutte. Il governo Meloni non procede solo a botte di propaganda, contro il
dissenso, ma usa gli strumenti repressivi degli apparati di sicurezza“. Il
susseguirsi di queste vicende è decisamente inquietante, per questo Potere al
popolo fa un appello alla società civile: “Ci rivolgiamo ai sinceri democratici,
alla società civile, innanzitutto a fare attenzione, e poi a denunciare quanto
accade. La democrazia non esiste se lo Stato ti entra in casa, ti spia, ti
infiltra, questa non è democrazia, sono passaggi da autocrazia e da vera e
propria dittatura“.
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Recensione di «Police abolition. Corso di base sull’abolizione della Polizia», a
cura di Italo Di Sabato, coordinatore dell’Osservatorio Repressione, per Momo
edizioni
di Vincenzo Scalia da il manifesto
La recente pubblicazione Police Abolition. Corso di base sull’abolizione della
polizia (Momo, pp. 96, euro 13), curata da Italo Di Sabato e Turi Palidda nella
sua edizione italiana, con le illustrazioni di Noah Jodice, rappresenta uno
strumento utile a riflettere sulla genealogia delle forze dell’ordine, fino a
considerare la possibilità di abolirle.
L’eterogenesi dei fini costituisce una caratteristica fondante delle interazioni
sociali. I conflitti, le trasformazioni, le variabili impreviste, sortiscono a
volte l’effetto di deviare verso esiti opposti specifici costrutti sociali,
pensati per adempiere ad altre finalità. Il caso della polizia rientra
pienamente all’interno di questa dinamica. Istituita per la prima volta a Londra
nel 1829, sotto il governo Tory di Robert Peel (da cui il soprannome di bobbies
che tuttora contraddistingue i poliziotti inglesi), la polizia metropolitana
londinese, il cui modello venne in breve esteso a tutto il paese, rispondeva a
scopi specifici. Lo scopo principale era quello di sanare la frattura tra gli
strati subalterni della società inglese e lo Stato, che, dopo il massacro di
Peterloo del 1829, si era ampliata a dismisura. Inoltre, attraverso un corpo
statuale centralizzato, si voleva porre fine alla discrezionalità e all’abuso
delle polizie private.
IL MODELLO INGLESE, diffusosi rapidamente in tutta Europa e nel mondo, non tardò
ad evolversi nella direzione opposta. Il consolidarsi della polizia come
istituzione dotata di un proprio spazio, indipendente da ragioni specifiche, si
sovrappone all’acuirsi dei conflitti sociali, all’interno dei quali le forze
dell’ordine si collocano all’interno della prospettiva del mantenimento e della
riproduzione degli equilibri di potere esistenti. La polizia finisce quindi per
allontanarsi dalla funzione per la quale era stata pensata, diventando
refrattaria ai cambiamenti radicali. A meno che, come avvenne per esempio in
Italia negli anni Settanta, non viene essa stessa attraversata da conflittualità
profonde.
Gli ultimi anni ci consegnano un’istituzione poliziesca identificata e
identificatasi come avversaria diretta di migranti, minoranze etniche, lgbtqia+,
no global (si pensi a Genova 2001 e al caso di Carlo Giuliani), nonché allergica
all’eccentricità degli stili di vita. Nel caso italiano, le tragedie Aldrovandi
e Magherini, ne sono un’esemplificazione. Oltreoceano, sulla scia del tragico
caso di George Floyd, nasce il movimento «Defund Police», che si prefigge di
abolire la polizia e di dirottare le risorse destinate a mantenerla in direzione
di politiche sociali inclusive.
UN PROGETTO AMBIZIOSO, provocatorio, che, nel contesto USA, si prefigge di
invertire la tendenza già indicata da Loic Wacquant, ovvero del passaggio dallo
stato sociale a quello penale. Che fa dell’origine relativamente recente delle
forze di polizia il suo punto di forza. Un percorso da incoraggiare, anche
nell’Italia del Ddl 1660. Ma che pone un interrogativo: sono mature le
condizioni per una società senza polizia?
Prima della sua istituzione, avevamo le milizie private dei signori e delle
corporazioni. Per esempio, in Sicilia, la mafia è nata in questo contesto. Dopo
la polizia, cosa ci sarebbe? Pensiamo a un contesto dove la sorveglianza
elettronica prende sempre più piede, e il taglio dei fondi prelude, come nel
caso inglese, a una polizia predittiva, che sorveglia e reprime sempre le stesse
classi pericolose. Senza tralasciare ronde e vigilanze private. Volendo
rispondere alla domanda, perciò, potremmo dire: la polizia si può abolire. Ma se
si abolisce l’ordine sociale e politico che la sostiene.
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Filippo Ferri dal primo giugno sarà in nuovo questore di Monza. Condannato con
sentenza definitiva della Cassazione a 3 anni e 8 mesi per falso sulla mattanza
di Genova e le torture alla scuola Diaz
di Mario Di Vito da il manifesto
Ventiquattro anni dopo la mattanza del G8 di Genova, tutto è cancellato. Non è
successo niente o, se proprio dev’essere successo qualcosa, ormai tutto è caduto
nel dimenticatoio. E così accade che un funzionario di polizia condannato in via
definitiva per i fatti della scuola Diaz diventa questore. Èil caso di Filippo
Ferri, che il prossimo primo giugno prenderà servizio a Monza, dopo aver passato
gli ultimi anni alla polizia ferroviaria di Milano. In precedenza era stato
consulente per la sicurezza del Milan nel periodo in cui non poteva indossare la
divisa per effetto della sentenza di Cassazione che il 5 luglio del 2012 lo
aveva condannato a tre anni e otto mesi per falso aggravato, con pena accessoria
di interdizione dai pubblici uffici per cinque anni.
La notte del 21 luglio del 2021, nel complesso del liceo Pertini di Genova, ex
scuola Diaz, adibito a centro stampa del Genova Social Forum, i reparti mobili
della polizia e i battaglioni dei carabinieri fecero irruzione. La violenzò
dilago è gli arrestati alla fine furono 93, 61 dei quali risultarono feriti. Di
questi tre finirono in prognosi riservata e uno in coma. Il percorso giudiziario
per i poliziotti e i carabinieri fu parecchio travagliato, soprattutto perché
risultò sostanzialmente impossibile per gli inquirenti definire nello specifico
le varie responsabilità in quella che un vicequestore arrivò a definire come
«macelleria messicana».
È dall’ultima sentenza di merito, quella della Corte d’appello di Genova del 18
maggio del 2010 che possiamo ricostruire quanto fatto da Ferri alla Diaz.
Per i giudici l’allora capo della squadra mobile di La Spezia, salito a Genova
proprio per gestire l’ordine pubblico durante il G8, «è coinvolto nei fatti dal
principio» perché, quella sera, era tra i «pattuglioni» che in teoria avrebbero
dovuto trovare e arrestare i black bloc, la frangia di manifestanti ritenuta
responsabile dei tafferugli di quelle giornate. Ferri arrivò alla Diaz
«addirittura in tempo epr vedere il cancello prima che venisse chiuso dagli
occupanti» nell’estremo tentativo di non far entrare polizia e carabinieri. È
lui poi che in un secondo momento, insieme ad altri due colleghi, si incaricò di
redigere il verbale degli arresti.
Scrivono infatti i giudici di Genova che «è al dottor Ferri che vanno
sostanzialmente riferiti il momento decisionale e l’elaborazione
tecnico-giuridica relativi alla scelta di contestare agli occupanti il reato di
associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio», oltre
che ovviamente la decisione di procedere agli arresti sulla base delle
perquisizioni effettuate.
È la storia delle presunte due bottiglie molotov, in realtà sequestrate nel
pomeriggio, e degli attrezzi da lavoro provenienti da un cantiere vicino: le
cosiddette prove della presenza di «violenti» nella Diaz. Per convincere un
altro funzionario di polizia perplesso dall’evidente forzatura, inoltre, Ferri
ha pure sostenuto che in seguito «l’autorità giudiziaria sarebbe stata libera di
qualificare diversamente i fatti». A questo scopo venne persino convocato
l’addetto stampa. «Tale fatto – si legge ancora nella sentenza – lungi dal
provare la buona fede degli imputati conferma la finalità mediatica
dell’operazione». È soprattutto per questi motivi che Ferri è stato condannato,
insieme ad altri suoi colleghi. La salvezza dall’altro capo d’imputazione,
l’arresto illegale, arrivò solo per avvenuta prescrizione.
> Mentre i processi per le violenze e le torture stanno andando verso la
> prescrizione …. continuano le promozioni..
> Processo Diaz, confermate le condanne per i poliziotti
> Tornano in servizio i poliziotti condannati per la “macelleria messicana” del
> G8 di Genova 2001
> G8Genova: 16 poliziotti dovranno ripagare il risarcimento a Mark Covell,
> massacrato di botte alla Diaz
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Nelle prime ore del 21 maggio, nel quartiere Corvetto a Milano, c’è stato un
incidente mortale in moto. A perdere la vita è stato Mohamed Mahmoud, un ragazzo
21enne di origine libica. Secondo le prime ricostruzioni l’incidente è avvenuto
durante un inseguimento di polizia.
Un tragico incidente ha scosso Milano questa mattina, quando un giovane di 21
anni, originario della Libia, ha perso la vita dopo un tentativo di fuga da una
pattuglia della polizia. L’episodio, avvenuto intorno alle 3:15 in viale Ortles,
ha portato a una serie di eventi drammatici che hanno coinvolto non solo il
giovane, ma anche i suoi familiari e amici.
Secondo le prime ricostruzioni l’incidente sarebbe avvenuto durante un
inseguimento di polizia. Il ragazzo, che pare guidasse senza patente, avrebbe
cambiato direzione una volta incrociata la volante delle forze dell’ordine. Ne
sarebbe nato un inseguimento, concluso con l’incidente mortale per il ragazzo.
Nonostante l’intervento tempestivo del 118, che ha trasportato il giovane alla
Clinica Humanitas di Rozzano in codice rosso, il ragazzo è deceduto poco dopo il
suo arrivo.
La storia appare pressoché identica a quella di Ramy Elgaml, il 19enne di
origine egiziana deceduto a fine ottobre. Anche lui era morto a causa di un
incidente durante un inseguimento delle forze dell’ordine, in quel caso i
Carabinieri. Anche lui era morto al Corvetto. Anche lui era un giovane ragazzo
di origine straniera. Per quel caso alcuni Carabinieri risultano indagati e
secondo una delle perizie la moto sarebbe stata speronata dall’auto dei
militari.
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22 carabinieri sono stati condannati per le violenze compiute in caserma ad
Aulla, in provincia di Massa-Carrara
22 carabinieri sono stati condannati in primo grado per le violenze commesse
contro diverse persone nella caserma di Aulla, in provincia di Massa-Carrara, in
Toscana. I carabinieri sono accusati a vario titolo di lesioni, violenza
sessuale, abuso d’ufficio, falso in atto pubblico, porto abusivo d’armi e
rifiuto di denuncia: la pena più grave, di 9 anni e 8 mesi, è stata inflitta al
maresciallo Alessandro Fiorentino.
L’indagine era cominciata nel 2017, dopo una denuncia contro la caserma
presentata un anno prima da un cittadino italiano. In seguito era emerso un
centinaio di episodi di violenze o abusi, commessi nei confronti di cittadini
sia italiani che stranieri. Una persona marocchina aveva denunciato i
carabinieri per violenza sessuale dopo aver subito una perquisizione nella
caserma. Altre persone straniere avevano denunciato di aver subito violenze e
umiliazioni dopo essere andate in caserma solo per ottenere il rinnovo dei
documenti.
I magistrati avevano raccolto anche diverse intercettazioni telefoniche che
confermavano l’esistenza delle violenze denunciate. In una di queste
intercettazioni, uno dei carabinieri raccomandava a un collega di non parlare a
nessuno di quello che accadeva in caserma: «Da questa caserma non deve uscire
niente, dobbiamo essere come la mafia», diceva.
> Pestaggi in caserma: arrestati 4 carabinieri
> «Minchia, le botte che hanno preso quei due neri» Le intercettazioni dei
> carabinieri arrestati in Lunigiana
> Pestaggi in caserma a Aulla, carabiniere in tv: «Io sono fascista»
> Quando il Pd solidarizzava con i carabinieri torturatori
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