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Deriva militarista nelle scuole: spari della polizia locale in una materna a Palermo
Vigili simulano arresto a scuola materna con spari a salve e cane aizzato: bimbi in lacrime a Palermo. L’Osservatorio contro la militarizzazione delle sxuole denuncia ennesima deriva militarista nei luoghi della formazione Un agente di polizia locale che estrae l’arma di ordinanza, urla e poi spara a salve e infine aizza il cane dell’unita cinofila contro un finto ladro per arrestarlo, la sequenza era una messa in scena per mostrare nelle scuole di Palermo le attività svolte dal Corpo ma è avvenuta alla presenza di bimbi della materna, cioè tra i 3 e i 5 anni, tra cui alcuni che non hanno capito e sono scoppiati in lacrime. Il caso ha sollevato inevitabili polemiche fino alle scuse della scuola e alla decisione di non portare più simili rappresentazioni davanti ai bimbi più piccoli. L’episodio ha visto come scenario l’Istituto comprensivo statale Rita Borsellino di Palermo davanti ai bambini piccoli che frequentano siano le classi della scuola dell’Infanzia sia della Primaria. Tra i primi in particolare alcuni non hanno capito cosa stava accadendo e si sono spaventatati scoppiando in lacrime, nonostante le rassicurazioni delle maestre che spiegavano che era tutto finto. Il fatto, immortalato anche in un video, ha sollevato le proteste di alcuni genitori che hanno segnalato l’accaduto anche alla consigliera comunale Mariangela Di Gangi che si è rivolta al comandante della polizia municipale e all’assessore. Si è scoperto così che la scena rientrava in più ampio progetto sull’educazione e la sicurezza stradale che la scuola aveva concordato con la polizia locale. L’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università condanna fermamente l’episodio accaduto presso l’IC Borsellino di Palermo. Gli spari, come prevedibile, hanno spaventato non poco i/le piccoli/e alunni/e della scuola dell’infanzia e della primaria coinvolti dalla Dirigente scolastica e dai loro docenti in un progetto sull’educazione e la sicurezza stradale; la polizia municipale ha «simulato l’arresto di una persona con l’ausilio di un cane e delle armi in dotazione». Ma perché per parlare di sicurezza stradale occorre simulare una scena del crimine, l’arresto di un uomo con tanto di cane e pistole in pugno? Evidentemente, non avendo competenze pedagogiche, le forze dell’Ordine si affidano alla spettacolarizzazione e alla fascinazione che la repressione, la cattura e l’arresto vittorioso hanno come ricaduta sui/sulle piccoli/e, procedendo così alla “militarizzazione” delle loro coscienze. L’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università ritiene si tratti di pratiche educative inaccettabili, considerando pure che all’età di cinque anni l’apprendimento avviene non solo per via sensoriale, come nella primissima infanzia, ma anche per via imitativa, e quindi un contatto con il mondo degli adulti in un contesto militarizzato con le pratiche, gli strumenti e i linguaggi militari che veicolano i disvalori della guerra, della “violenza efficace”, della sopraffazione e della cieca obbedienza potrebbe generare un deleterio desiderio di imitazione. L’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università denuncia proprio questa deriva sistematica, in cui la scuola sembra smarrire il proprio compito pedagogico ed educativo principale, cioè quello di dare agli/alle studenti/sse gli strumenti per analizzare ed interpretare in modo critico la realtà, saper riconoscere le proprie attitudini e aspirazioni, aiutandoli/e a fare scelte formative più consapevoli. È in questi passaggi che la scuola può assolvere al compito di costruire la pace, la convivenza rispettosa degli altri e la solidarietà tra i popoli, non portando e usando le armi all’interno delle istituzioni della formazione. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 15, 2024 / Osservatorio Repressione
Quante persone muoiono in custodia o durante operazioni di polizia in Europa?
Violenza delle forze dell’ordine. Tra il 2020 e il 2022, 13 paesi dell’Unione europea hanno registrato almeno 487 decessi di persone, avvenuti in custodia o a seguito di operazioni delle forze dell’ordine. La Francia ha i numeri più alti in termini assoluti, seguono Irlanda, Spagna e Germania. L’Italia non ha fornito i dati. La maggior parte dei paesi Ue non rispetta i criteri dell’Onu per indagare sui decessi in custodia. Ter García, Adrián Maqueda, Carmen Torrecillas – CIVIO (Madrid) -Traduzione di Marianna Leporini “Ho urlato ‘Mio figlio è malato, ha bisogno di aiuto’. Non mi hanno ascoltato, sono venuti a ucciderlo”, racconta Momtaz Al Madani. Il 30 maggio 2018, il figlio ventisettenne di Momtaz, Yazan Al Madani, in preda a un episodio psicotico, si è messo a urlare sul balcone della sua casa a Rotterdam, con un coltello in mano. Il padre ha chiamato la polizia e poco dopo sono arrivati alcuni agenti armati di pistole, scudi, taser e cani. Per cominciare i poliziotti hanno fatto attaccare Yazan dai cani, poi lo hanno colpito con due scariche elettriche, e infine gli hanno sparato. Yazan è morto poco dopo. L’anno successivo, la Procura olandese ha deciso di non accusare gli agenti coinvolti, sostenendo che avevano agito per legittima difesa. Dal 2022 la Corte europea dei diritti dell’uomo indaga sulla morte di Yazan Al Madani. Tra il 2020 e il 2022, si sono verificati quasi 500 decessi in custodia o a seguito di interventi delle forze dell’ordine nei 13 paesi dell’Ue che hanno pubblicato o fornito i dati. La Francia ha i numeri più alti in termini assoluti: tra il 2020 e il 2022 ha registrato 107 decessi avvenuti in custodia o a seguito di operazioni di polizia. Seguono Irlanda, Spagna e Germania, rispettivamente con 71, 66 e 60 morti. Tuttavia, se si prendono in considerazione i decessi in base alla popolazione (morti pro capite), è l’Irlanda ad avere il tasso più alto: 1,34 decessi ogni 100mila abitanti durante il periodo indicato, rispetto allo 0,14 della Spagna o allo 0,06 del Portogallo. Il numero effettivo di decessi in realtà è più elevato i dati forniti da alcuni paesi sono incompleti. “Quando si fanno paragoni con altre giurisdizioni, è importante tenere presente la definizione e la classificazione di questi eventi spiacevoli, che variano significativamente da un paese all’altro”, dice il Garda Síochána Ombudsman  (il Difensore civico) incaricato  della polizia nazionale in Irlanda Nel 1991 l’Onu ha raccomandato agli stati di pubblicare i dati sui decessi correlati agli interventi della polizia. Il Portogallo ha iniziato a pubblicare tali informazioni nel 1997, la Danimarca nel 2012 e la Francia solo nel 2018. I Paesi Bassi riportano solo i casi indagati dalla Procura, l’Irlanda solo quelli su cui ha investigato l’Ombudsman, mentre l’Agenzia di medicina forense della Svezia riporta le morti attribuite a qualsiasi attività di polizia, e la sue forze dell’ordine segnalano quelle dovute a sparatorie della polizia. Infine, gli agenti della polizia slovena rendono pubblico il numero di decessi causati da azioni di polizia. Gli altri paesi dell’Ue non forniscono regolarmente tali informazioni. Nel 2023, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha richiesto a tutti i paesi i dati sui decessi in custodia, cioè quelli verificatisi durante l’arresto, la custodia preventiva, e il carcere. A seguito di ciò, il Consiglio d’Europa ha confermato la mancanza di dati e sottolineato che non esistono una definizione e una metodologia comuni tra i vari paesi dell’Unione europea su cosa si intenda per “morti in custodia” e su come debbano essere indagate. “In Francia è ancora una sorta di tabù parlare della violenza della polizia, perché non appena accusi la polizia, allora sei contro la polizia”, afferma Ivan du Roy, giornalista a Basta!, un giornale di informazione indipendente, nonché  il primo ad aver raccolto informazioni sistematiche sui decessi avvenuti in custodia e a seguito di operazioni di polizia. Il database di Basta risale al 2014 e copre il periodo dal 1977 al 2022, l’Ispettorato generale della polizia ha iniziato a pubblicare informazioni solo nel 2018. Controle Alt Delete, un’organizzazione dei Paesi Bassi che si occupa di indagare i casi di morti avvenuti in custodia o a causa di interventi della polizia dal 2016: “L’iniziativa è nata dopo esserci resi conto che, nel 2015, la Procura e la polizia non avevano pubblicato i dati inerenti”, dichiara Jair Schalkwijk, avvocato e cofondatore dell’organizzazione. Schalkwijk sottolinea che, in precedenza, la Procura pubblicava solo i rapporti sull’uso delle armi da parte degli agenti di polizia e il numero di decessi conseguenti. “Abbiamo costretto il governo a riportare tutti i casi di decessi collegati alla polizia”, aggiunge. In Germania e Svezia, invece, il governo continua a raccogliere solo i dati sulle morti  provocate da sparatorie di polizia. Le principali vittime: migranti e persone con disturbi mentali Dei 13 paesi che hanno riportato i dati sui decessi tra il 2020 e il 2022, l’Ungheria ha fornito informazioni sulla nazionalità dei deceduti in tutti i casi, mentre Austria, Repubblica Ceca, Germania e Spagna solo per alcuni. Complessivamente, questi paesi hanno fornito dati sulla nazionalità per 55 dei 487 decessi segnalati in quei tre anni, e metà di queste persone erano straniere. Mathieu Rigouste, sociologo francese ed esperto delle questioni legate a polizia e sicurezza, collega questa concentrazione di morti tra le popolazioni migranti alla storia coloniale di paesi come Regno Unito, Spagna e Francia: “I crimini della polizia si concentrano sui proletari non bianchi”, afferma Rigouste. Adama Traoré, nato in Francia da genitori maliani, rappresenta un caso emblematico: nel 2016 è stato arrestato a Beaumont-sur-Oise, vicino Parigi, ed è morto durante la custodia della polizia. “Traoré era un proletario nero che viveva in un quartiere periferico, e che è stato perseguito, catturato e strangolato dalla polizia. È stato trattato come un criminale prima dalla polizia e poi dai media e dai politici”, spiega Rigouste.Il caso di Traoré, per Rigouste, “è esemplare, perché possiamo ritrovare la maggior parte dei dispositivi che vengono usati nella catena punitiva” in Francia, aggiunge. Anche la malattia mentale svolge un ruolo importante. La maggior parte delle amministrazioni pubbliche a cui ci siamo rivolti non ha fornito informazioni specifiche su questo aspetto. Solo Danimarca, Spagna, Francia e Germania hanno confermato che il deceduto aveva problemi di salute mentale o era in “stato di agitazione” in 43 casi. I rapporti olandesi più recenti non includono dati su eventuali problemi di salute mentale dei deceduti. Tuttavia, un rapporto precedente commissionato dal governo olandese sulle morti avvenute tra il 2016 e il 2020, prende in considerazione questo aspetto e riporta informazioni su 40 delle 50 persone decedute in quel periodo, e tra queste, 28 erano affette da malattie mentali. I dati raccolti da Controle Alt Delete sono ancora più sconvolgenti. Dal 2015, l’organizzazione ha monitorato 105 morti, e circa il 70 per cento dei deceduti soffriva di una qualche forma di malattia mentale. Uno di questi casi è quello di Yazan Al Madani, morto nei Paesi Bassi nel 2018 e citato sopra.  Al Madani era arrivato in Olanda un anno prima dalla Siria come rifugiato: il suo arrivo nel paese è stato difficile. Per i primi otto mesi non ha avuto accesso a cure psichiatriche, successivamente l’amministrazione olandese ha respinto la sua richiesta per i medicinali di cui aveva bisogno per l’alloggio e il ricongiungimento con la moglie, anche lei siriana. “L’hanno lasciato per strada senza niente: niente soldi, niente moglie, niente casa, niente cure mediche… niente”, racconta il padre, anche lui arrivato nei Paesi Bassi come rifugiato. “L’hanno ucciso mille volte prima di ucciderlo davvero”. Nel settembre del 2024, il Comitato dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità ha segnalato ai Paesi Bassi e al Belgio il numero elevato di persone con disabilità decedute mentre erano sotto la responsabilità delle forze dell’ordine. Il comitato ha quindi raccomandato a entrambi i paesi di migliorare la formazione dei loro agenti di polizia. La principale causa di morte: le ferite da arma da fuoco Le ferite da arma da fuoco inferte dagli agenti sono la principale causa delle morti avvenute in custodia o durante interventi di polizia. Nei paesi che hanno fornito informazioni sulle cause di queste morti, tra il 2020 e il 2022, più di un terzo dei decessi era dovuto a ferite da arma da fuoco. Sono decedute almeno 98 persone. 41 in Francia e 27 in Germania. Secondo Basta!, in Francia, il numero di morti causate da sparatorie di polizia, ha iniziato ad aumentare nel 2017. In quell’anno, una riforma della legge sulla pubblica sicurezza, ha allentato le restrizioni sull’uso di armi da fuoco da parte degli agenti di polizia. I decessi per sparatorie di polizia non sono gli unici. Le forze dell’ordine a volte uccidono usando armi apparentemente non letali, come i taser, che in alcuni casi vengono impiegati seguendo protocolli che contraddicono le raccomandazioni del produttore, ad esempio quando sono utilizzati contro persone in stato di agitazione. Tra il 2020 e il 2022, abbiamo identificato almeno otto casi di decessi dovuti all’uso di taser, quattro in Germania, tre nei Paesi Bassi e uno in Francia, e in cinque di questi casi il deceduto era malato di mente o agitato. Inoltre, nello stesso periodo, è avvenuto almeno un altro decesso a causa della violenza della polizia. La Polizia regionale catalana, i Mossos d’Esquadra, ha ucciso Antonio, residente a Badalona, con sei colpi di taser. Il dipartimento degli interni catalano ha riferito che in questa operazione di polizia è stata utilizzata un’arma, ma non ha specificato che si trattava di una pistola taser, il che significa che potrebbero esserci altri casi simili che non sono stati registrati ufficialmente. Nella nostra indagine, la seconda causa di morte più ricorrente è quella di morte “naturale”, con 55 decessi registrati tra il 2020 e il 2022. Si tratta di un termine generico utilizzato soprattutto dalla Spagna, che ha riportato 27 casi di morti naturali, spesso senza ulteriori informazioni sul contesto in cui si sono verificate. Nel 2018, anche la morte di Stephan Lache, avvenuta in Spagna durante la custodia, è stata classificata come “naturale” dal ministero dell’interno. Gli agenti della polizia nazionale spagnola avevano arrestato Lache alle quattro del mattino e lo avevano portato in una stazione di polizia di Madrid. Nel rapporto della polizia si legge che Lache aveva un atteggiamento aggressivo e si era auto lesionato, per cui la polizia aveva chiamato il servizio di emergenza medica. Le immagini registrate dalle telecamere della stazione di polizia mostrano come tre operatori sanitari e due agenti di polizia lo afferrino per fargli un’iniezione. Il giorno dopo, gli agenti di polizia lo hanno trovato morto in cella. Arrestato per stato di ebbrezza, è morto in carcere In molti altri decessi classificati come morti “naturali”, il deceduto mostrava uno stato di intossicazione da droga e alcol.  In Irlanda, essere ubriachi in uno luogo pubblico è reato. I dati dell’Ombudsman irlandese sui decessi in custodia o provocati dalla polizia non specificano se i deceduti fossero ubriachi. Tuttavia, nel 2022 l’Ombudsman irlandese ha formulato una serie di raccomandazioni, non vincolanti, volte a prevenire i decessi in custodia. In Finlandia, anche il ministero dell’interno non ha fornito dati annuali, ha confermato a Civio che 16 dei decessi verificatisi tra il 2013 e il 2023 sono stati causati da intossicazione da droga e alcol. “Il consumo di droga e alcol è stato almeno uno dei fattori che ha contribuito ai decessi in più della metà dei casi”, scrive il dipartimento di polizia del ministero dell’interno finlandese, aggiungendo che la polizia tende a portare le persone ubriache alla stazione di polizia, “anche quando sono calme e non recano alcun disturbo all’ordine pubblico o alla sicurezza”. Il ministero, che sta cercando di incoraggiare gli agenti di polizia ad abbandonare questa prassi, afferma: “Al posto dei servizi di polizia, avrebbero bisogno di un monitoraggio sanitario”. La polizia finlandese ha messo in atto alcune misure per prevenire tali morti, come una maggiore formazione per gli agenti, l’installazione di ulteriori telecamere di sorveglianza e l’uso della tecnologia per monitorare le funzioni vitali dei detenuti. Tra il 2020 e il 2022, abbiamo individuato almeno 43 casi di suicidio avvenuti sotto la custodia della polizia. La maggior parte di questi si è verificata in Spagna, Francia e Danimarca, ma in altri paesi, sebbene il numero di persone e decessi correlati alla polizia sia inferiore, la maggior parte delle morti in custodia è rappresentata dai suicidi. La Lettonia ha riportato cinque decessi in custodia avvenuti tra il 2020 e il 2022, e altri due nel 2023, tutti per impiccagione. L’Ungheria ha segnalato sei decessi, quattro dei quali per impiccagione. In Germania, nessuno stato ha riportato casi di suicidio. Solo uno di essi, la Baviera, sottolinea che tali morti non vengono incluse nei rapporti se non sono state precedute da misure coercitive adottate dagli agenti. Dati ancora insufficienti Nonostante l’Onu abbia raccomandato ai paesi di rendere pubblico il processo di indagine sui decessi correlati alle forze di sicurezza, nella maggior parte dei casi le informazioni relative a queste indagini non sono sufficienti. L’Austria afferma che si è limitata alle autopsie. “In tutti i casi, è stato effettuato un esame medico e un successivo rapporto è stato inviato al pubblico ministero. Poiché in nessuno dei casi sono stati riscontrati segni di colpevolezza da parte di terzi, il pubblico ministero non ha avviato alcuna misura investigativa”, dichiara il ministero degli interni austriaco. Il rapporto annuale della Procura olandese sui decessi attribuiti alle operazioni di polizia comprende solo i casi su cui è stata svolta un’indagine. Tuttavia, Controle Alt Delete attesta che ogni anno c’è sempre qualche caso che non ottiene giustizia. Dal 2010, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato i paesi dell’Ue 236 volte per non aver indagato su possibili casi di tortura o maltrattamento e altre 157 volte per non aver indagato su decessi, correlati alla polizia o ad altri contesti. La Romania, che si è rifiutata di fornire dati sulle morti connesse con la polizia, ha 79 condanne per non aver indagato su possibili casi di maltrattamento e tortura e altre 60 per decessi, compresi quelli di cinque persone uccise durante una manifestazione antigovernativa. La Bulgaria e l’Italia, che anch’esse si sono rifiutate di fornire dati per la nostra indagine, hanno rispettivamente 57 e 33 condanne per violazioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Nella maggior parte dei casi, le amministrazioni pubbliche non hanno nemmeno fornito dati sulle conseguenze penali o lavorative per gli agenti di polizia coinvolti nei decessi. Hanno riportato tali dati per 97 dei 487 casi registrati tra il 2020 e il 2022. Di questi, l’unico caso in cui l’amministrazione ha confermato l’incarcerazione degli agenti responsabili è avvenuto nel Paese Basco, in Spagna. In 84 casi indagati, i poliziotti coinvolti non hanno subito alcuna conseguenza. In tre casi le indagini sono ancora in corso. I dati pubblicati dalla Procura olandese non includono informazioni sulle conclusioni delle indagini, ma Controle Alt Delete ha richiesto dettagli su ciascun caso. “Sappiamo che dal 2016 a oggi, nel 6% dei casi, gli agenti coinvolti sono stati perseguiti, principalmente a seguito di decessi avvenuti durante incidenti stradali”, sostiene Schalkwijk. In uno di questi casi, gli agenti sono stati puniti rispettivamente con 200 e 240 ore di servizi sociali, mentre in un altro caso l’agente è stato assolto.   Francesca Barca (Voxeurop) e Maria Delaney (Noteworthy) hanno contribuito a questo articolo.  La metodologia usata per questa inchiesta si può leggere in fondo alla versione inglese di questo articolo. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
November 2, 2024 / Osservatorio Repressione
All’Expo di Milano a lezione di manganello dalla polizia
Il 29 ottobre una classe di un liceo di Genova è stata all’Expo Training 2024 di Milano per completare il PCTO (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento). Negli stand delle forze dell’ordine si parla di uso «gratificante» del taser, si fanno battute sessiste e si insegna a manganellare. Allibito dalla scena, qualcuno ha iniziato a filmare, chiedendosi se non si trattasse di istigazione alla violenza di Valerio Cuccaroni da il Domani Educazione al manganello. È quella proposta a una classe di un liceo di Genova, martedì 29 ottobre, all’Expo Training 2024 di Milano. La manifestazione, intitolata “Il polo economico delle competenze nelle transizioni”, è un importante evento che offre alle scuole e alle imprese la possibilità di incontrarsi e di monitorare l’andamento delle professionalità più richieste, soprattutto in relazione alle prospettive occupazionali. Gli studenti genovesi vi si sono recati, accompagnati da una loro docente, per completare il PCTO (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento). Davanti a loro hanno trovato un dispiegamento di stand delle forze dell’ordine. Una delle studentesse ha ascoltato promuovere l’uso «gratificante» del taser e pronunciare battute sessiste, da parte dei militari, sull’impiego delle manette. Allibito dalla scena che si è trovata davanti, qualcuno ha iniziato a filmare. Nel video si scorge un agente di polizia che insegna a uno studente come si usa il manganello. Prima fa sistemare un altro ragazzo dietro uno scudo di gommapiuma, poi porge il manganello allo studente. A fianco del ragazzo con lo scudo, si vede una persona tutta vestita di rosso, compreso il casco che porta in testa. Uno studente commenta: «Lo fa apposta per imitare i comunisti»; una studentessa gli fa eco, sussurrando, forse scherzosamente: «Comunisti merda»; un altro sta al gioco ed esclama: «Rosso!»; una voce femminile differente interviene: «Guarda che sono i comunisti, è allenamento»; lo studente reagisce: «Sì, è allenamento alla violenza, però»; un’altra incalza: «Contro i comunisti»; il ragazzo conferma: «Sì»; a quel punto, uno stupito domanda: «Oh, ma gli hanno dato un manganello?» e l’altro risponde: «Sì, è un manganello». Insomma, i liceali genovesi hanno osservato dei loro coetanei e ragazzi più piccoli a cui le forze dell’ordine insegnavano a manganellare e fra loro si sono chiesti se quella non fosse istigazione alla violenza. All’interno della fiera, nello stand della polizia penitenziaria, c’era anche una cella. Una specie di Alcatrazland. La mamma di una studentessa ha scritto al preside del liceo di Genova che si è detto disponibile ad approfondire. Lo scopo dell’uscita didattica era accumulare ore di PCTO per alcuni allievi che ne erano sprovvisti e le spese per l’attività sono state ricavate dai fondi Pnrr. Venuta a conoscenza dell’accaduto, la segretaria generale FLC CGIL di Genova, Elena Bruzzese, ha così commentato l’accaduto: «Il ricorso alla violenza promosso attraverso la militarizzazione della scuola e delle attività didattiche connesse è quanto di più lontano sia previsto dai piani dell’offerta formativa e dalle finalità stesse dell’educazione alla pace e alla convivenza democratica. Quanto ci hanno riportato alcuni genitori circa l’accaduto all’Expo Training 2024 di Milano, se confermato, è molto grave. I percorsi nati dall’esperienza scuola/lavoro, come tutte le esperienze didattico educative all’interno della scuola pubblica, devono educare alla pace, ancor più oggi in un contesto globale di guerre e tensioni internazionali». La presenza delle forze dell’ordine a Expo Training è prevista da anni e le scuole hanno assistito a scene del genere anche in passato: qualche studente ha anche provato ”l’emozione” di entrare nella cella riprodotta in loco. L’episodio è stato segnalato all’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e dell’università, che mercoledì 30 ottobre ha promosso un convegno online, in collaborazione con l’associazione “Per una scuola della Repubblica”, sul “4 novembre. Fuori la guerra dalla storia e dalla scuola”, con il presidente di Pax Christi Don Giovanni Ricchiuti, i professori universitari Laura Marchetti (antropologa e pedagogista) e Charlie Barnao (sociologo), tra gli altri. Presente al convegno anche il docente antimilitarista e giornalista Antonio Mazzeo, che insieme alla segretaria nazionale della FLC CGIL, Gianna Fracassi, interverrà a un’iniziativa formativa sull’argomento, il 5 dicembre, a Torino e in Valle d’Aosta.   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 1, 2024 / Osservatorio Repressione
Caso Hasib, il Viminale citato responsabile civile
Il Viminale di Matteo Piantedosi responsabile civile nel caso riguardante il cittadino bosniaco di 38 anni con disabilità, che due anni fa precipitò dalla finestra in circostanze poche chiare a Primavalle (Roma) durante un’attività di polizia. A processo tre agenti di polizia per tortura e falso di Eleonora Martini da il manifesto Se la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (Ecri) del Consiglio d’Europa ravvede in Italia problemi di «profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine, in particolare verso la comunità Rom e le persone di origine africana» e di «potenziale razzismo istituzionale», per la premier Giorgia Meloni e per il ministro Matteo Piantedosi si tratta solo di «inaccettabili insulti». Eppure ieri il ministero dell’Interno è stato indicato dal Gup di Roma come responsabile civile nel processo a carico dei tre poliziotti accusati a vario titolo di tortura e falso ai danni di Hasib Omerovic, il 37enne rom disabile – sordo dalla nascita – volato giù dalla finestra della sua camera da letto il 25 luglio 2022 durante un’ispezione non autorizzata delle forze dell’ordine appartenenti al commissariato di Primavalle. Il Viminale risponderà dunque dei danni procurati all’uomo, che per mesi rimase in coma e a tutt’oggi risente fortemente nel corpo e nella psiche di quell’evento, e alla sua famiglia. Accusato di tortura, l’agente Andrea Pellegrini, all’epoca assistente capo del commissariato Primavalle. I suoi colleghi che devono rispondere di falso, Alessandro Sicuranza e Maria Rosa Natale, hanno richiesto invece il rito abbreviato che permette lo sconto di un terzo della pena. A settembre un quarto indagato, Fabrizio Ferrari, che ha collaborato alle indagini, ha patteggiato una pena a 11 mesi e 16 giorni. Tra le parti civili, oltre ai genitori, la sorella Sonita, disabile e unica testimone oculare dell’accaduto, e il fratello piccolo, anche l’Associazione 21 luglio che dal primo momento ha sostenuto la famiglia spronandola a trovare il coraggio di denunciare. «Siamo soddisfatti», ha commentato il legale di parte civile, l’avvocato Arturo Salerni. Secondo l’accusa Pellegrini, dopo essere entrato nell’abitazione di via Girolamo Aleandro con i suoi colleghi, «con il compimento di plurime e gravi condotte di violenza e minaccia, cagionava all’allora 36enne un verificabile trauma psichico, in virtù del quale lo stesso precipitava nel vuoto dopo aver scavalcato il davanzale della finestra della stanza da letto nel tentativo di darsi alla fuga per sottrarsi alle condotte violente e minacciose in atto nei suoi confronti». Per i pm, dopo aver sfondato a calci la porta della camera da letto dove Hasib si era rifugiato, l’agente avrebbe colpito il giovane e lo avrebbe minacciato con un coltello da cucina. Ma Pellegrini nega di aver agito con violenza sostenendo di avere «una serie di foto che mi scagionano totalmente», scattate con il telefono «a distanza di pochi minuti l’una dall’altra». «Ho la foto di Omerovic un minuto prima che si lanci: non ha un graffio, non è spaventato, non è una persona torturata». La prossima udienza del processo si terrà il 21 febbraio 2025.     > Hasib, ragazzo disabile, è finito in coma per sfuggire alle torture   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
October 26, 2024 / Osservatorio Repressione
Dure accuse del Consiglio d’Europa e Onu: Razzismo nella polizia
Un report  sull’Italia dell’Ecri (l’organo anti-razzismo e intolleranza del Consiglio d’Europa) parla di profilazione su base etnica e cita i linguaggi d’odio sdoganati dalla destra. Anche un recente dossier dell’Onu giunge alle stesse conclusioni Secondo la Commissione contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa, in Italia le forze dell’ordine sono solite ricorrere alla profilazione razziale, cioè alla selezione sistematica di controlli e fermi di polizia in base all’origine etnica. L’organizzazione internazionale composta da esperti indipendenti nominati dai governi dei quarantasei paesi membri ha diffuso un rapporto che si basa su «analisi documentali, un sopralluogo nel paese e un dialogo confidenziale con le autorità nazionali»: vi si sostiene che polizia e carabinieri italiani non paiono essere neppure «consapevoli» dell’entità del problema. Le 48 pagine poggiano su «molte testimonianze» confermate anche dai documenti delle organizzazioni della società civile e di altri organismi di monitoraggio internazionali specializzati. Il racial profiling, sottolinea l’Ecri, «ha effetti notevolmente negativi», perché genera un senso di «umiliazione ed ingiustizia» per i gruppi coinvolti, provocando «stigmatizzazione e alienazione». La commissione suggerisce che le autorità sottopongano le pratiche di fermo e di controllo e perquisizione della polizia a un giudizio indipendente: «L’esame dovrebbe essere condotto con la partecipazione attiva delle organizzazioni della società civile e dei rappresentanti dei gruppi potenzialmente esposti alle pratiche di profilazione razziale». Poi insiste sulla necessità che gli uomini in divisa siano formati all’uopo. I funzionari delle forze dell’ordine dovrebbero conoscere «le pratiche che possono potenzialmente condurre alla profilazione razziale, con effetti nocivi sulla fiducia dei cittadini nella polizia, nonché per identificare modelli indicativi di razzismo istituzionale all’interno delle forze dell’ordine, in particolare nei confronti dei rom e delle persone non bianche o di origine africana». Nel dossier  si traccia un nesso col contesto politico-culturale più generale del paese: «Il discorso pubblico è diventato sempre più xenofobo – si legge nel documento – E il discorso politico ha assunto toni altamente divisivi e antagonistici prendendo di mira in particolare rifugiati, richiedenti asilo e migranti, così come cittadini italiani con contesto migratorio, rom e persone Lgbti. L’incitamento all’odio, anche da parte di politici di alto livello, spesso rimane incontrastato». Vi si cita, senza nominarlo direttamente, anche il caso del neo-eletto in Europa Roberto Vannacci: «Esempi recenti di dichiarazioni razziste e fobiche nei confronti delle persone Lgbti nella vita pubblica includono le osservazioni fatte in un libro pubblicato nel 2023 da un generale delle forze armate italiane». E ancora: «Nel loro percorso verso l’integrazione e l’inclusione, i migranti hanno sperimentato problemi concreti a causa della narrazione, sostanzialmente negativa, caldeggiata dalla classe politica. Anche le eccessive critiche rivolte a singoli giudici che si occupano di casi di migrazione mettono a rischio la loro indipendenza». Ma va anche detto che l’Ecri ha inviato il report alle autorità italiane, raccogliendone le osservazioni, che riporta in calce al testo. E che nelle sei pagine inviate da Roma sono commentate varie parti del rapporto, compreso il paragrafo sulla profilazione razziale. Nei commenti ci si limita a far sapere che «l’osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (che dipende dal Viminale) ha introdotto dal 2014 un focus specifico», nell’ambito delle attività di formazione, sui rischi connessi alla «profilazione discriminatoria». Lorenzo Trucco dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, che è tra i referenti del dossier e che segnala che si tratta di «una cosa molto seria» che «mette in rilievo delle inefficienze, delle arretratezze e arriva tramite un percorso molto dettagliato». Del resto appena venti giorni fa anche le Nazioni unite, in un documento del gruppo per il superamento del razzismo nel sistema poliziesco e giudiziario, sono arrivate a conclusioni simili circa la situazione del paese, il comportamento delle forze dell’ordine e le deportazioni in Albania. Il rapporto non parla solo della questione del razzismo presente all’interno delle forze dell’ordine – tema particolarmente caldo anche alla luce dell’uccisione di Moussa Diarra, avvenuta lo scorso lunedì per mano di un agente di polizia – ma analizza in dettaglio nelle sue 48 pagine numerosi altri aspetti. Attraverso testimonianze raccolte e dati presenti in vari rapporti nazionali e internazionali, l’ECRI analizza il ruolo delle equality bodies nell’accesso e nella garanzia della parità di diritti, la diffusione dei cosiddetti discorsi e le violenze motivate dall’odio, i processi di “integrazione” delle persone migranti e rom nella società e, infine, il razzismo istituzionale, che si manifesta, non solo ma anche nella pratica di quella è definita a livello internazionale “profilazione etnica” da parte delle forze dell’ordine. La violenza delle forze dell’ordine denunciata nel rapporto e di cui ampiamente si sta parlando – anche a seguito del poco interessante walzer di dichiarazioni degli esponenti del governo – rappresenta la punta dell’iceberg. Il rapporto svela, infatti, come il razzismo (e l’omolesbobitransfobia) istituzionale presente in Italia contribuisca a un problema sistemico ancora irrisolto. Il carattere strutturale e sistemico del razzismo si manifestano tanto nella propaganda politica e istituzionale, quanto nelle leggi, nell’operato delle amministrazioni pubbliche, nelle narrazioni mediatiche e nella costante difficoltà nel coordinare a livello nazionale le azioni di prevenzione e di contrasto al razzismo. Purtroppo, questo problema ha radici profonde, che risalgono indietro nel tempo ben oltre i cinque anni coperti da questo sesto rapporto dell’ECRI, si inseriscono in una lunga storia, ben documentata da un’ampia bibliografia di riferimento. Anche il Rapporto dello International Independent Expert Mechanism to Advance Racial Justice and Equality in Law Enforcement – gruppo delle Nazioni unite per il superamento del razzismo nel sistema poliziesco e giudiziario – condanna fortemente il comportamento dell’Italia. Nel maggio 2024 il gruppo di esperti Onu ha visitato il nostro paese, le sue prigioni e i suoi Cpr, ha parlato con parlamentari, operatori istituzionali e associazioni: queste visite sono finalizzate a fare il punto sulle pratiche discriminatorie e razziste nel campo del law enforcement, con attenzione alla popolazione afrodiscendente, e soprattutto alla valutazione delle politiche italiane mirate a contrastare queste pratiche, nonché alla loro rispondenza agli standard internazionali. Prima di arrivare a una analisi delle pratiche discriminatorie e razziste riguardante le polizie, i tribunali e le carceri, il rapporto delinea un contesto generale di «razzismo sistematico e discriminazione razziale in diversi ambiti della società» e di «pratiche discriminatorie all’interno delle istituzioni pubbliche», con un’enfasi contro le comunità afrodiscendenti. Che si tratti di hate speech (anche da parte di esponenti politici), di leggi restrittive (come quelle sull’immigrazione) che creano vulnerabilità e espongono alla violazione dei diritti umani fondamentali, di barriere nell’accesso al welfare o di sovra-detenzione degli stranieri, ci sono tre elementi trasversali su cui si basa la bocciatura dell’Italia. Nel campo del law enforcement, il Rapporto sottolinea un retaggio culturale che «continua a influenzare le pratiche di polizia, contribuendo a una sistematica profilazione etnica e a pratiche discriminatorie», contro cui la formazione degli agenti si dimostra, nel merito, assente. Questo incide pesantemente sulla sovra rappresentazione degli stranieri, in particolare afrodiscendenti, tra i fermatə, i perquisitə, i denunciatə, gli arrestatə e gli incarceratə. La profilazione etnica da parte delle polizie viene denunciata dal Rapporto come “praticata in modo sistematico”, con la conseguenza anche di costruire un rapporto di sfiducia con le istituzioni e le polizie stesse. All’Italia manca, secondo l’Onu, un chiaro quadro normativo sui limiti nell’uso della violenza, e manca anche – unico paese dell’Unione europea – un ente non giudiziario, interno alle polizie, che rilevi le pratiche razziste e discriminatorie. Sotto osservazione anche gli hot spot per i migranti, i respingimenti dei minori stranieri, e le attività di profiling e repressione correlate alle politiche delle droghe: un tema, questo, ripreso più volte dalle agenzie delle Nazioni unite, su cui il Rapporto – anche grazie ai rapporti-ombra di Forum Droghe, Harm Reduction International, Società della Ragione e altri – insiste, denunciando le condotte delle polizie italiane ai danni degli stranieri. Non mancano infine due pressanti inviti: contro la deportazione in Albania e contro l’intento di abolire o mitigare il reato di tortura. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
October 24, 2024 / Osservatorio Repressione
Verona: morire, a colpi di pistola, davanti a una stazione dei treni
Moussa Diarra, cittadino maliano ventiseienne, è stato freddato all’alba di domenica 20 ottobre da un colpo di pistola al petto sparato da un agente della polizia ferroviaria di Verità e Giustizia per Moussa Diarra «Un altro uomo nero è morto per mano di un poliziotto. Si chiama Diarra Moussa, e ha diritto a un’indagine seria, trasparente e indipendente», si chiude così il volantino appoggiato a terra, tra i fiori, le candele e le fotografie, la sera del 21 ottobre nel momento del ricordo del giovane 26enne ucciso da un colpo di pistola sparato da un poliziotto della Polfer davanti alla stazione di Verona Porta Nuova. Le ricostruzioni che fin da subito hanno iniziato a circolare, anche a seguito di una nota congiunta della Procura e della Questura di Verona, stridono con le tante testimonianze di chi a vario titolo era entrato in contatto con il ragazzo. Un uomo pericoloso che si aggirava per alcune zone della città brandendo un coltello, quasi a giustificare che allora sì, si può anche uccidere una persona in evidente situazione di difficoltà, che sta male. Ma chi lo conosceva non può credere a questa versione dei fatti. Per chi decide di intraprendere un percorso migratorio i rischi e i pericoli non finiscono una volta approdati sul nostro territorio. I “respingimenti” non avvengono solo sui confini di mare o di terra, ma continuano inesorabilmente nell’iter per ottenere un permesso di soggiorno, per avere un posto dove dormire, per trovare un lavoro dignitoso o per essere presi in cura dal sistema sanitario. La qualità della vita delle persone migranti e l’accesso ai diritti fondamentali dipende il più delle volte dalla Questura: non brilla di certo per empatia e tutele quella di Verona, il cui operato è stato spesso denunciato dalle organizzazioni della società civile, che in un recente dossier pubblicato a fine giugno dall’Osservatorio Migranti Verona[1], sottolinea dopo un minuzioso lavoro di monitoraggio i modi di selezione e differenziazione per accedervi, le prassi illegittime, gli spazi inadeguati e la scarsità di informazioni anche nei confronti dei legali. Addirittura, nel 2023 alcune testimonianze di violenze subite in Questura emergono da un’inchiesta della magistratura. Gli abusi compiuti dagli agenti su persone fermate fanno scoppiare il caso: venticinque tra poliziotti e poliziotte vengono accusati, con diverse responsabilità, di reati di tortura, lesioni, falso in atto pubblico, abuso di autorità, omissione di atti d’ufficio e abuso di ufficio. La vita delle persone migranti è costretta ad un’attesa continua, interminabile, e a volte per molte, insostenibile. Moussa viveva un momento di depressione, si era rivolto al Cesaim (Centro Salute per Immigrati). «La costruzione della figura del “mostro” affidata a cronisti di comodo, non rende giustizia a quanto noi sappiamo di Moussa, che in questi anni aveva trovato riparo alla casa occupata del Ghibellin Fuggiasco» – scrivono le attiviste del Paratod@s – «unico luogo che a Verona ha assunto l’impossibile responsabilità di essere luogo per i senza luogo, per tutte quelle persone che, a causa del razzismo strutturale, anche in presenza di regolari contratti di lavoro, subiscono discriminazioni abitative». Nelle stesse ore in cui Moussa è stato ucciso questo spazio sociale, assieme ad una vasta rete di altre organizzazioni e singoli[2], aveva iniziato i lavori di autorecupero e pulizia di un complesso in Via Villa 12 a Quinzano. Abbandonato da 20 anni, era un istituto per ragazzi orfani di proprietà dell’Iciss (Istituti Civici di Servizio Sociale). Proprio qui si stava svolgendo “Recuperiamo spazi di libertà, fermiamo il DDL Sicurezza”, una 2 giorni di discussione e incontri sul tema dell’emergenza abitativa dopo che l’esperienza del Ghibellin Fuggiasco, in cui anche Moussa aveva trovato rifugio, non aveva più le condizioni di sicurezza necessarie per rimanere aperta. «In questi anni di pressioni e lotte, il comune non ha mai trovato una soluzione per le quasi cinquanta persone alloggiate al Ghibellin», continua il Paratod@s. Il fratello di Moussa, Djemagan Diarra, che è arrivato da Torino, per il riconoscimento del corpo e la nomina di un avvocato, ripete una cosa chiara. Vuole vedere le immagini delle telecamere. «Mio fratello non beveva e non si drogava. Non era un delinquente. Non voglio che sia ricordato così. Stava male. Gli avevano fatto di tutto in Libia. Non è giusto». Ieri sera (lunedì 21 ottobre, ndr) al presidio per ricordarlo in tante e tanti hanno preso la parola[3]. «E’ sempre stato un bravo ragazzo, un ragazzo pulito», hanno spiegato dal megafono gli amici che abitavano con lui al Ghibellin Fuggiasco. Intanto per sabato 26 ottobre la comunità maliana ha promosso una manifestazione cittadina. Sono molti i lati oscuri di questa terribile vicenda e solo un’indagine indipendente potrà chiarire. Di chiaro c’è soltanto che Moussa non l’ha ucciso la morte ma un colpo di pistola sparato da un agente di polizia. [1] «Limite invalicabile» mette sotto accusa la Questura di Verona. Un dossier dell’Osservatorio Migranti Verona [2] Paratodos, Circolo Pink, Mediterranea, Osservatorio migranti, CESAIM, Osservatorio comunità diritti sociali, ADL Cobas, Sesamo ODV, NUDM, Partito della Rifondazione Comunista, Rete Radie Resch [3] Verona: centinaia di persone davanti alla stazione di Porta Nuova “Per non dimenticare Moussa”, le testimonianze raccolte da Radio Onda D’Urto da: meltingpot.org Speciale Moussa Diarra, “per non dimenticarlo”. Sabato 26 ottobre manifestazione per chiedere verità e giustizia Radio Onda d’Urto ha realizzato uno speciale su Moussa Diarra, cittadino maliano ventiseienne ucciso dalla polizia ferroviaria domenica 20 ottobre a Verona. Il materiale utilizzato per lo speciale, è stato registrato lunedì 21 ottobre, durante il momento spontaneo di commemorazione che si è svolto nel luogo dove Moussa è stato ucciso, il piazzale della stazione Porta Nuova di Verona. Oltre 300 persone sono passate dalla stazione tra le ore 18 e le 20, per lasciare un saluto, un messaggio, un fiore o un lumino. Numerosi anche gli interventi al megafono, che vi proponiamo in parte all’interno dello speciale. La prima parte dello speciale Moussa Diarra, per non dimenticarlo (25 minuti). Ascolta o scarica La seconda parte dello speciale Moussa Diarra, per non dimenticarlo (30 minuti). Ascolta o scarica Compagni e compagne del Paratod@s e le realtà associative solidali, invitano a partecipare mercoledì 23, a partire dalle ore 18, all’assemblea aperta che si terrà presso il Laboratorio Autogestito Paratod@s, in Viale Venezia 51 a Verona, per discutere i prossimi passi necessari per garantire verità e giustizia per Moussa Diarra, e per proseguire nel percorso collettivo di ri-animazione sociale e solidale dell’area verde ICISS a Quinzano. E’ stata inoltre fissata una manifestazione per chiedere “Verità e giustizia per Moussa”, si svolgerà sabato 26 ottobre con concentramento alle ore 14 in piazza Bra, a Verona. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
October 24, 2024 / Osservatorio Repressione
Hasib, ragazzo disabile, è finito in coma per sfuggire alle torture
La confessione di un agente di Polizia sul tragico episodio nel quartiere Primavalle a Roma nel luglio 2022 in cui Hasib, giovane disabile, è precipitato dalla finestra della sua casa durante una perquisizione di Valeria Casolaro da L’Indipendente Ha patteggiato una pena a 11 mesi di reclusione Fabrizio Ferrari, l’agente di polizia che il 25 luglio 2022 si trovava al terzo piano di un edificio in zona Primavalle, a Roma, mentre il suo collega Andrea Pellegrini sottoponeva a tortura Hasib Omerovic, giovane sordomuto. Ferrari ha confessato di aver assistito al momento in cui il ragazzo si è lanciato dalla finestra per sfuggire alle torture di Pellegrini, un gesto disperato che gli è costato lunghi mesi di coma in ospedale e un lungo percorso di recupero ancora in corso. Anche se erano presenti altri tre agenti, Ferrari è l’unico che ha deciso di collaborare con le autorità e la sua confessione ha confermato quanto i parenti di Hasib hanno denunciato dal primo giorno: il ragazzo è stato sottoposto a violenza durante una perquisizione in casa sua, e l’atto di lanciarsi nel vuoto è da imputare direttamente al disperato tentativo di sfuggire alla violenza poliziesca. Ferrari, pur non prendendo parte alle violenze, non fece nulla per impedirle. Poi, probabilmente, il rimorso lo ha spinto a collaborare accettando in rito abbreviato dove è stato condannato per aver partecipato, insieme agli altri due agenti, a redigere un verbale falso per nascondere le sevizie inflitte ad Hasib. Gli altri due agenti saranno ora sottoposti a processo ordinario, con l’agente Andrea Pellegrini che dovrà rispondere anche dell’accusa di tortura. Manca poco all’ora di pranzo quando quattro agenti in borghese si presentano alla porta di Hasib Omerovic, 36enne sordomuto di etnia rom senza precedenti penali, riferendo di dover eseguire un controllo dei documenti. Alcuni residenti hanno infatti accusato (senza che vi sia mai stata conferma o riscontro) su Facebook Omerovic di aver importunato alcune ragazze del quartiere. Gli agenti decidono comunque di intervenire: secondo il racconto reso da Ferrari ai pm, Pellegrini avrebbe prima schiaffeggiato Omerovic, per poi minacciarlo con un coltello da cucina. L’agente avrebbe poi sfondato la porta della stanza dell’uomo, nonostante questi «si fosse prontamente attivato per consegnare le chiavi», lo avrebbe costretto a sedersi legandogli i polsi con il filo elettrico del ventilatore e, continuando a minacciarlo con il coltello, avrebbe aggiunto «Se lo rifai, te lo ficco nel c…», continuando nel mentre a schiaffeggiarlo. Una volta riuscito a liberarsi, Omerovic si è poi gettato dal balcone della sua stanza per sfuggire ai soprusi, finendo in coma in ospedale per diversi mesi. I sopralluoghi successivi hanno poi rinvenuto, all’interno dell’appartamento, il bastone di una scopa rotto, la porta della camera di Hasib sfondata, un termosifone quasi divelto dal muro e sangue sulle lenzuola. Una volta rientrato in caserma, Pellegrini si sarebbe rivolto ad un collega domandandogli «Che te frega se muore?». Il racconto di Ferrari coincide con quello della sorella di Omerovic, presente in casa per l’intera durata dell’aggressione. Per Pellegrini e gli altri due agenti presenti sulla scena, Alessandro Sicuranza e Maria Rosa Natale, è previsto ora un processo ordinario, la cui udienza preliminare è prevista per il prossimo 25 ottobre.   > Disabile precipita dalla finestra, “buttato giù durante una perquisizione di > polizia” > Per la procura gli “Agenti sono entrati a casa di Hasib senza mandato” > Caso Hasib: otto poliziotti al vaglio della procura > Caso Hasib, “decapitato” il Commissariato di Primavalle > Su Hasib, “volato” giù dalla finestra, il silenzio puzza di omertà > Spariti i vestiti di Hasib. E Lamorgese latita > Caso Hasib, i pm accusano i poliziotti: “Preso per i piedi e buttato giù dalla > finestra”. > Caso Hasib: «Agenti in servizio. Il pm indaga per tortura» > Caso Hasib: arrestato poliziotto con l’accusa di tortura > Il caso Hasib Omerovic e la polizia “parallela”   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp L'articolo Hasib, ragazzo disabile, è finito in coma per sfuggire alle torture sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
September 20, 2024 / Osservatorio Repressione
Dieci anni senza Davide Bifolco, ucciso da un carabiniere
Sono passati dieci anni da quando, la notte tra il 4 e il 5 settembre 2014, il sedicenne Davide Bifolco veniva ucciso da un carabiniere in servizio, al termine di un inseguimento cominciato per un grossolano scambio di persona. di Riccardo Rosa da Monitor A bordo del motorino su cui Davide viaggiava con due amici, […] L'articolo Dieci anni senza Davide Bifolco, ucciso da un carabiniere sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
September 4, 2024 / Osservatorio Repressione
A cosa serve la polizia?
Perché la polizia è così violenta nell’approccio con le classi subalterne? Perché è addestrata a considerarle il nemico.  La polizia è addestrata a sentirsi assediata dai cittadini, soprattutto dai più poveri e marginali, e questo è funzionale al mantenimento delle disuguaglianze. di Michael Friedrich da The nation magazine traduzione a cura di Popoff In un […] L'articolo A cosa serve la polizia? sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
August 19, 2024 / Osservatorio Repressione
Prove tecniche di Stato di Polizia
Qualche giorno fa la sede del Corriere Fiorentino e l’abitazione del suo giornalista Simone Innocenti sono stati oggetto di perquisizione per un articolo su una vicenda amara e scabrosa. Si tratta del suicidio avvenuto lo scorso marzo della carabiniera Beatrice Belcuore, a causa – aveva denunciato la famiglia – delle vessazioni subite nella Scuola per […] L'articolo Prove tecniche di Stato di Polizia sembra essere il primo su Osservatorio Repressione.
August 7, 2024 / Osservatorio Repressione