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La morte di Riccardo non è una tragedia individuale
Un giovane di trent’anni è deceduto in Questura, a seguito di un intervento in cui è stato impiegato un taser. Non si tratta di un episodio isolato né di un mero incidente fortuito. È l’ennesima manifestazione di una prassi ormai consolidata e diffusa: l’uso del taser come strumento “intermedio” nel repertorio coercitivo delle forze dell’ordine. di Associazione Yairaiha Ets Un giovane di trent’anni è deceduto in Questura, a seguito di un intervento in cui è stato impiegato un taser. Secondo l’esito dell’autopsia, la causa del decesso è riconducibile a una “sommersione interna emorragica da trauma toracico chiuso”, una massiccia emorragia compatibile con una compressione toracica particolarmente intensa. Le autorità hanno escluso un nesso diretto tra l’uso del taser e il decesso. Tuttavia, permangono dubbi gravi, legittimi e fondati riguardo alle modalità dell’intervento, alle responsabilità complessive e alla concatenazione degli eventi che hanno condotto alla tragica morte di Riccardo. Non si tratta di un episodio isolato né di un mero incidente fortuito. È l’ennesima manifestazione di una prassi ormai consolidata e diffusa: l’uso del taser come strumento “intermedio” nel repertorio coercitivo delle forze dell’ordine. Uno strumento che appare tutt’altro che neutro, specie quando impiegato nei confronti di soggetti fragili, in condizioni di alterazione o vulnerabilità fisica o psichica. La morte di Riccardo non si configura solo come una tragedia individuale, ma come uno specchio che riflette una trasformazione lenta ma inesorabile: la repressione che soppianta la mediazione, l’abitudine all’eccezione, una gestione dell’ordine pubblico che scivola sempre più velocemente verso la prevalenza della forza. Non ci troviamo più davanti a un rischio teorico: lo Stato ha di fatto rinunciato alla responsabilità di un intervento equilibrato, sostituendola con l’automatismo della coercizione. Questa deriva trova ulteriore sostegno nel recente decreto sicurezza, che amplia i poteri delle forze dell’ordine e legittima un impiego più esteso del taser, anche in contesti in cui il contatto umano, il discernimento e la competenza dovrebbero restare imprescindibili. Non è più la forza che interviene in casi eccezionali, ma la forza che diventa automatica. L’ambiguità con cui oggi si invocano termini quali “sicurezza”, “legalità”, “difesa” crea una cortina fumogena. Ma i corpi non mentono. Non mentono le vittime di decessi avvenuti “per errore”. Non mentono i corpi di coloro che non rappresentavano una minaccia reale. Non mentono le famiglie a cui, finora, non è stata data una spiegazione piena e trasparente su quanto accaduto e sulle cause che vi hanno condotto. In uno Stato che si definisce democratico, non è sostenibile che pretenda fiducia mentre moltiplica i propri strumenti di violenza e abdica dalla sua prerogativa fondamentale: proteggere, non punire. La questione non riguarda esclusivamente la liceità del taser, bensì il modo in cui è stato progressivamente sdoganato, automatizzato e normalizzato come una scorciatoia operativa. L’arroganza di chi si ritiene sempre nel giusto e la sistematica rimozione delle conseguenze sono elementi che destano profonda preoccupazione. Non è accettabile che un corpo a terra venga trattato come un mero dettaglio operativo. In quel corpo si misura la tenuta di uno Stato di diritto. Ed è proprio lì che, qualora non si presti la dovuta attenzione, rischiamo di perdere silenziosamente qualcosa di molto più grande di quanto siamo disposti ad ammettere.       > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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Riccardo era stato picchiato: «A cosa serviva il taser?»
Nuovi particolari sulla morte del trentenne colpito dal taser a Pescara: era inerme. Il padre: perché gli hanno sparato?. Tre indagati per lesioni aggravate. Il trentenne preso a colpi di bastone in testa. La polizia lo ha trovato già ferito. Da diversi anni era in cura al Centro di salute mentale e a quello per le dipendenze. Salvini spietato: «Le pistole elettriche salvano vite» di Mario di Vito da il manifesto Quando, poco dopo le 11 del mattino di martedì, la volante della polizia con due agenti a bordo è arrivata in Strada Piana, nel quartiere periferico di San Donato a Pescara, Riccardo Zappone era stato appena picchiato. Perdeva sangue dalla testa. Forse, dicono alcuni testimoni, aveva cercato di derubare un passante. Di sicuro era stato preso a bastonate da tre persone, ora iscritte nel registro degli indagati per lesioni personali aggravate. È in questa situazione, comunque, che il trentenne avrebbe avuto una crisi tale che per i due poliziotti – «esperti», sostengono dalla questura – «è stato necessario usare il taser». Se siano state le botte o la scarica elettrica a causare l’infarto che lo ha colto in questura poco dopo ancora non si può dire. Potrebbe essere d’aiuto l’autopsia effettuata ieri, ma difficilmente arriverà una risposta chiara, perché in questi casi trovare un nesso causale è quasi impossibile. Gli ultimi precedenti di persone decedute dopo essere state colpite con il dissuasore elettrico parlano in maniera tragicamente chiara: gli esami medici non sono mai risolutivi. E qui, come recitano gli atti firmati dal sostituto procuratore Gennaro Varone, è anche ritenuta «presumibile l’intossicazione da cocaina», un’altra possibile causa dell’arresto cardiaco. Riccardo, da diversi anni, era in cura al Centro di salute mentale e al Servizio per le dipendenze di Chieti con una doppia diagnosi: una di problemi psichiatrici – per i quali gli venivano somministrati degli antipsicotici a cadenza mensile – e una di tossicodipendenza. Chi lo conosceva lo descrive come una persona di certo problematica ma non pericolosa: era stato sottoposto già in più occasioni a trattamento sanitario obbligatorio, altre volte era bastato un colloquio con la sua psichiatra per convincerlo a ricoverarsi, senza che fosse necessario l’uso della forza. Alto e molto magro, di aspetto debilitato e oggetto poco prima di un violento pestaggio, viene quasi naturale da chiedersi per quale motivo martedì mattina si sia reso necessario l’uso di uno storditore per rendere Zappone inoffensivo. Lo stabiliranno le indagini affidate alla squadra mobile, che però per ora non sfiorano gli agenti e sono concentrate sulla fase precedente al loro intervento, tutta immortalata dalle telecamere pubbliche presenti sulla via, grazie alle quali è stato possibile trovare due dei tre indagati (il primo era stato identificato già martedì). «Riccardo non aveva problemi cardiologici e poi soprattutto mi domando: che motivo c’era di arrestarlo se le forze dell’ordine lo conoscevano bene e sapevano chi fosse e che tipo di patologia avesse? Non era opportuno che fosse chiamato il 118 e ordinato il ricovero in trattamento sanitario obbligatorio come era stato fatto le altre volte? Era davvero necessario utilizzare quella pistola elettrica?», ha detto in un’intervista al quotidiano il Centro Andrea Varone, il padre della vittima. La questione del taser è centrale: le controindicazioni mediche sono note, Amnesty International ha parlato spesso di questo strumento che si è dimostrato dannoso ovunque nel mondo sia stato sin qui utilizzato da parte delle forze dell’ordine, la Cassazione, con una sentenza del 2019, lo ha descritto come «arma comune da sparo sicuramente idonea a recare danno alla persona». Il segretario di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo, pescarese, conclude così: «La responsabilità di questa morte non ricade solo sulla destra ma è stata bipartisan: la sperimentazione del taser è cominciata nel 2014 con il governo Renzi e fu rilanciata nel 2018 su iniziativa di Salvini con il governo Conte 1. Nel 2020 l’adozione della pistola elettronica è stata confermata dal governo Conte 2 in cui c’erano Pd e Sinistra italiana con Leu. La gravità di quella scelta sta nel fatto che la pericolosità della pistola elettronica era già nota quando è stata adottata». Salvini replica con un’ode al taser, come se fosse uno strumento salvavita e non un’arma letale: «Le forze dell’ordine non lo usano per gioco, lo usano quando ce n’è bisogno: ha salvato centinaia di vite e prevenuto migliaia di reati. Quindi o vogliamo mettere in discussione la libertà di azione delle forze dell’ordine e sciogliamo polizia e carabinieri e viviamo nell’anarchia. O altrimenti andiamo avanti su quello che è una maggiore sicurezza, che è necessaria». Il ministro degli Interni Matteo Piantedosi, intervenuto ieri mattina a Sky Tg24, pure ha difeso la pistola elettrica («È un’alternativa a strumenti molto più offensivi come le armi da fuoco») ma almeno, a differenza del vicepremier, è riuscito a non dimenticarsi che in questa storia c’è una vittima: «Andranno sviluppati tutti gli accertamenti perché è interesse anche nostro capire se ci sia una correlazione con l’uso del taser qualche minuto prima». Alla fine, oltre le indagini e le domande ancora prive di risposta, resta un’immagine sola: quella di un trentenne come tanti altri. Un morto di sicurezza come troppi altri. > Il taser uccide. Morire a 30 anni a Pescara     > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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Il taser uccide. Morire a 30 anni a Pescara
Ennesima vittima degli abusi di polizia. Ieri 3 giugno, a Pescara, un 30enne coinvolto poco prima in una lite stradale e morto a causa dell’uso del taser da parte gli agenti di polizia di Mario Di Vito da il manifesto Una rissa in strada a Pescara ieri mattina, l’arrivo della polizia, un colpo di taser. Poi l’arresto, il trasferimento in questura, il malore in sala d’attesa, l’arrivo del 118 e la corsa in ospedale. Dove però i medici non hanno potuto fare altro che constatare il decesso. Questa è la prima ricostruzione delle ultime ore di Riccardo Zappone, trent’anni, originario di San Giovanni Teatino, paese a pochi chilometri a ovest di Pescara. IL COMUNICATO con cui la procura di Pescara ha diffuso nel pomeriggio la notizia parla dell’arresto di Zappone, «apparentemente coinvolto poco prima in un alterco da strada», per resistenza a pubblico ufficiale «che è stato necessario vincere con l’uso del taser». Ed è proprio su questo uso «necessario» che si concentreranno le indagini delegate alla squadra mobile. Nel mentre, dalla questura, sia pure informalmente, vengono soffiate altre possibili cause, perché «non è emersa una correlazione accertata tra l’uso del taser e l’arresto cardiaco». Quindi, dicono i poliziotti, bisogna valutare attentamente la dinamica della rissa, perché pare che Zappone avesse avuto la peggio. Poi bisogna capire se il trentenne fosse sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. E c’è un dettaglio biografico che viene sottolineato: parliamo di un tossicodipendente con precedenti. Quindi se da una parte si suggerisce che il cuore di Zappone potrebbe essersi fermato per motivi non legati alla scarica elettrica subita, dall’altra siamo indubbiamente davanti all’identikit della tipica vittima di malapolizia: un marginale per il quale non è necessario usare tante accortezze. I PRECEDENTI, almeno in fatto di taser, parlano chiaro. Poco meno di due anni fa, nell’agosto del 2023, proprio a San Giovanni Teatino è morto Simone Di Gregorio, 35enne in cura presso un centro psichiatrico di Pescara. Nel suo caso lo storditore venne usato dai carabinieri perché l’uomo «stava dando in escandescenze» e, completamente nudo, correva verso i binari della ferrovia. La procura di Chieti aprì un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo, ma l’autopsia escluse che la morte fosse arrivata a causa della scossa elettrica. Un anno dopo, nel luglio 2024, in Alto Adige, il taser è stato usato contro Carlo Lattanzio, un operaio 42enne di Barletta salito a Vipiteno per lavorare in un’azienda edile. Era stato lui a chiamare i carabinieri, che lo avrebbero trovato in stato confusionale, forse ubriaco. E lui prima avrebbe provato ad aggredirli e poi si sarebbe lanciato da una finestra. Sopravvissuto alla caduta, avrebbe tentato di nuovo di aggredire i militari che a quel punto lo hanno colpito col taser. L’indagine condotta dalla procura di Bolzano non ha portato a nulla, perché l’autopsia non ha rilevato una correlazione diretta tra il decesso e l’intervento dei carabinieri. Il problema degli accertamenti medici per queste vicende appare evidente: da un punto di vista strettamente legale, stabilire un nesso causale tra taser e arresto cardiaco è pressoché impossibile nel momento in cui esistono altri elementi che potrebbero causare una morte improvvisa. Restano le parole con cui, nella sentenza numero 5.830 del 2019 la Cassazione ha descritto il taser: «Arma comune da sparo sicuramente idonea a recare danno alla persona». Chi produce e commercia questi strumenti, da parte sua, insiste molto sul fatto che parliamo di «dispositivi non letali». Almeno in teoria perché, in più rapporti, Amnesty International ha spiegato che, per quanto riguarda l’uso di pistole elettriche, «il rischio zero non esiste» e che «gli studi medici a disposizione sono concordi nel ritenere che l’uso dei taser abbia avuto conseguenze mortali su soggetti con disturbi cardiaci o le cui funzioni, nel momento in cui erano stati colpiti, erano compromesse da alcool o droga o, ancora, che erano sotto sforzo, ad esempio al termine di una colluttazione o di una corsa». SIA NEL CASO di Zappone, sia nei precedenti di Di Gregorio e Lattanzio, in ogni caso, parliamo dell’uso di un’arma comune da sparo contro persone evidentemente disarmate. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto il commento di Susanna Marietti, dell’Associazione Antigone. Ascolta o scarica. Maurizio Acerbo, pescarese e segretario nazionale di Rifondazione comunista a così commentato: “Abbiamo sempre contestato la decisione politica di dotare le forze dell’ordine di taser. Se verrà confermato che la causa della morte del trentenne a Pescara è stata causata dall’uso del taser non sarà il primo caso. La responsabilità di questa morte non ricade solo sulla destra ma è stata bipartisan. La sperimentazione del taser è cominciata nel 2014 con il governo Renzi e fu rilanciata nel 2018 su iniziativa di Salvini con il governo Conte 1. Nel 2020 l’adozione della pistola elettronica è stata confermata dal governo Conte 2 in cui c’erano PD e Sinistra Italiana con LeU. La gravità di quella scelta sta nel fatto che la pericolosità della pistola elettronica era già nota quando è stata adottata. Ricordo che vari organismi internazionali intergovernativi e non governativi avevano stigmatizzato l’uso del Taser in quanto potenzialmente mortale e mai realmente sostitutivo delle armi da fuoco. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura aveva già affermato che l’introduzione dei Taser apriva la porta a risposte sproporzionate. La Reuters aveva già documentato che dal 2001 erano almeno 1.042 i casi di persone colpite a morte con un taser dalla polizia. La stessa azienda produttrice, la Taser International Incoporated, aveva già dovuto riconoscere un fattore di rischio mortale che si aggira intorno allo 0,25%. Una persona su 400, tra quelle colpite da Taser, rischia cioè il decesso. Denunciammo inascoltati essendo fuori dal parlamento e delle TV che sarebbe stato più utile investire risorse in formazione delle forze di polizia o in strumenti logistici (autovetture, vestiario e altre strumentazioni utili al contrasto della criminalità). Da anni assistiamo a una deriva sicuritaria di imitazione delle modalità di gestione dell’ordine pubblico tipiche degli Stati Uniti e che si accompagnano a un modello sociale neoliberista. Segnaliamo che l’Europa dello stato sociale ha indici di sicurezza infinitamente superiori agli USA che collezionano non invidiabili record di omicidi, nonostante un altissimo numero di persone detenute e metodi polizieschi raccapriccianti. Anche per le politiche della sicurezza – come per l’economia e il lavoro – va ripresa la via maestra della Costituzione. Il taser va vietato“. Nel decreto “Milleproroghe“, approvato in via definitiva dalla Camera dei Deputati, nel febbraio 2025,  è previsto che tutti i Comuni – non solo i capoluoghi di provincia o quelli con più di 20mila abitanti – potranno dotare la Polizia Municipale della letale pistole elettronica “taser”. > I taser in dotazione alla polizia non sono affatto sicuri > Attenti al Taser: per l’Onu è uno strumento di tortura > Il Taser è buono solo per chi lo vende > Taser ai poliziotti. Uno strumento di tortura gira per le città > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. 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Cercasi “mele sane”: a Verona, nove poliziotti delle volanti accusati di torture. E Meloni attacca il Consiglio d’Europa
A Verona, nove poliziotti delle volanti accusati di torture e lesioni in questura. Il governo inventa una polemica per una vecchia raccomandazione sulla profilazione razziale durante fermi e perquisizioni.  Ematomi al volto e ferite al labbro. Ma anche calci, sberle e spintoni nella sala Aquario, nella sala redazione atti e nel corridoio. Queste azioni violente sarebbero avvenute in questura a Verona nell’agosto e nel novembre del 2022 nei confronti di due fermati: Mattia Tacchi, già da tempo noto alle forze dell’ordine e con problemi di tossicodipendenza, e il marocchino Amiri Tororo. Gli autori di queste aggressioni, secondo la procura che ha chiuso qualche settimana fa le indagini sulle violenze in questura, sarebbero nove poliziotti della squadra volanti, indagati per lesioni o tortura. Alcuni di loro sono accusati, assieme ad altri sette, anche di peculato, dell’omissione di denuncia di reato o di identificazione di alcuni loro conoscenti e della falsificazione di alcuni verbali. Tutti e 16 gli indagati dovranno presentarsi all’udienza preliminare, fissata davanti alla giudice Arianna Busato il prossimo 22 settembre. Gli episodi di violenza Per quel che riguarda l’aggressione nei confronti di Mattia Tacchi, due colleghi avrebbero agito in concorso con l’ex poliziotto Alessandro Migliore, tuttora a processo assieme all’ex collega Loris Colpini. Secondo l’accusa, Mattia Tacchi sarebbe stato trascinato fuori dalla sala Acquario e sarebbe stato colpito più volte. Dieci minuti dopo Alessandro Migliore avrebbe tirato a Tacchi uno schiaffo facendogli perdere i sensi per alcuni minuti. Un altro episodio di violenza, stando all’accusa, si sarebbe verificato nei confronti del marocchino Amiri Tororo che sarebbe stato colpito con calci, sberle e spintoni. Gli sarebbe poi stato spruzzato lo spray al peperoncino, «facendogli urtare violentemente il capo contro una panca in cemento», si legge nel capo d’imputazione. Gli indagati lo avrebbero poi «trattenuto all’interno della stanza fermati circa un’ora e trenta senza decontaminarlo . riporta l’accusa –, sebbene egli avesse più volte rappresentato come l’irritante gli provocasse dolore». Dopo l’aggressione Amiri Tororo si sarebbe ritrovato con diverse lesioni sul corpo e l’ematoma a un occhio.  Cacciaviti e cutter Tra gli episodi contestati ci sarebbe stata da parte di alcuni degli indagati anche l’interruzione di una perquisizione domiciliare per la ricerca di armi da sparo nell’abitazione di un loro conoscente. Nella sua auto sarebbero però stati trovati una decina di cacciaviti e un cutter che l’uomo avrebbe usato per bloccare e minacciare l’ex fidanzata. In quella circostanza i poliziotti che erano intervenuti avrebbero dovuto denunciare l’uomo. In un’altra occasione invece uno degli indagati si sarebbe intascato 40 euro e due pacchetti di sigarette, contenenti nel borsello di una donna che era stata portata in questura per un controllo. L’inchiesta Le indagini sono state svolte dalla squadra mobile tra il 2022 e il 2025 e coordinate dai sostituti procuratori Carlo Boranga e Chiara Bisso. Su 28 indagati sono stati chiesti 16 rinvii a giudizio, 2 giudizi immediati (Migliore e Colpini), 2 patteggiamenti e 8 archiviazioni. A far partire l’inchiesta sono state le denunce di alcune persone fermate che avevano raccontato di essere state maltrattate. A quel punto erano scattate le intercettazioni delle conversazioni tra gli indagati. Alcuni episodi di violenza sono stati poi immortalati da una telecamera presente nella sala Acquario dove venivano portati i fermati. (di Beatrice Branca da il Corriere del Veneto) «Avevamo raccomandato al governo italiano di realizzare uno studio indipendente sulla profilazione razziale [da parte delle forze dell’ordine, ndr] per valutare il fenomeno». È bastata questa frase pronunciata ieri da Bertil Cottier, presidente della Commissione europea contro razzismo e intolleranza (Ecri) del Consiglio d’Europa (Coe), per scatenare un circo politico. Al centro la maggioranza, con Giorgia Meloni in testa, a difendere a spada tratta una polizia che nessuno aveva attaccato. Le parole del giurista svizzero sono il dito, la luna è la nuova aggressione alle istituzioni internazionali. La linea è la stessa della recente lettera contro la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che ricade sempre sotto il Consiglio d’Europa, per limitarne l’indipendenza in materia di diritti dei migranti. Cottier, infatti, era semplicemente intervenuto nella conferenza stampa di presentazione del report annuale Ecri, che per il 2024 affronta quattro fenomeni «strutturali»: selezione delle persone fermate e perquisite in base a origini nazionali o etniche; segregazione scolastica dei bambini rom; discriminazioni contro le persone trans e intersessuali. Nel rapporto presentato ieri non ci sono numeri, né riferimenti ai singoli Stati nazionali. Perciò un giornalista dell’Ansa ha chiesto a Cottier se aveva raccomandazioni specifiche per qualche paese, in particolare l’Italia. Il presidente ha rimandato allo studio pubblicato lo scorso ottobre e ribadito quanto l’Ecri aveva consigliato in quell’occasione: uno studio indipendente sul fenomeno della profilazione razziale. La notizia in pratica non esisteva, non c’era nulla di nuovo. Ma a prescindere da qualsiasi dato di realtà, la maggioranza è partita all’attacco seguendo l’ordine di scuderia: tutti insieme contro Ecri e Coe. «Osservazioni astruse e false», ha detto il vicepremier Antonio Tajani (Fi), che evidentemente il report non lo ha nemmeno visto. Per il presidente di Noi moderati Maurizio Lupi: «La Commissione europea contro razzismo e intolleranza del Consiglio d’Europa prende un’altra cantonata dopo quella dell’ottobre 2024, quando con una relazione fotocopia accusò di razzismo le nostre forze dell’ordine». La cantonata è solo sua, lo studio è lo stesso. La vera posta in gioco emerge invece dalle dichiarazioni di Meloni e della Lega. «L’Italia fu, nel 1949, tra i dieci Stati fondatori del Coe, nato nel dopoguerra per difendere la democrazia, i diritti umani e lo Stato di diritto. Eppure oggi quello spirito originario sembra smarrito, sostituito da dichiarazioni sempre più faziose e lontane dalla realtà», dice la premier. È la stessa tesi sostenuta nella lettera contro la Cedu promossa da Italia e Danimarca e firmata da altri sette Paesi Ue. In sostanza diceva che i diritti costituzionalizzati dopo il secondo conflitto mondiale e le istituzioni di garanzia create per garantirli sono ormai superati. Almeno per gli stranieri (si comincia sempre da là). E infatti la Lega va dritta al punto: «Consiglio d’Europa? Altro ente inutile, da sciogliere. Giù le mani dalle nostre forze di Polizia!», scrive su X. Il Coe fu istituito per promuovere democrazia e diritti umani, con lo scopo di evitare che gli orrori del nazifascismo e della guerra mondiale potessero ripetersi. Ne fanno parte 46 paesi, di cui i 27 Ue, e non va confusa con le istituzioni dell’Unione europea. Nel 2022 è stato abbandonato dalla Russia, esclusa. Forse a Meloni o ai suoi alleati leghisti piacerebbe seguire le orme di Putin. Più probabilmente dovranno accontentarsi di colpire il Coe dall’interno. A questo serviva la bordata contro la Cedu. Un attacco inedito a cui sabato aveva replicato Alain Berset, presidente del Consiglio d’Europa. «La Cedu è il braccio giuridico del Coe – ha dichiarato Berset – Il rispetto dell’indipendenza e dell’imparzialità della Corte è il nostro fondamento». In tale contesto colpisce la mossa di ieri del Quirinale, che ha convocato il capo della polizia Vittorio Pisani per rinnovare «stima e fiducia». A ottobre il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si era detto «stupito» dal rapporto dell’Ecri, stavolta stupito è chi confida nel Colle per frenare la deriva sovranista di Meloni: l’incontro che si terrà questa mattina non serve a coprire le forze dell’ordine, serve a coprire il governo. (di Giansandro Merli da il manifesto)   > Verona: cinque poliziotti arrestati per tortura > Torture nella questura di Verona: Un modus operandi consolidato > Tutto nuovo alla Questura di Verona? > Violenza e tortura in divisa, un dibattito necessario > Dure accuse del Consiglio d’Europa e Onu: Razzismo nella polizia > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp    
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Che cosa ci dice la scandalosa nomina a questore di Monza di un condannato per la Diaz
Filippo Ferri, condannato per i fatti del G8 di Genova 2001, è stato di recente indicato dal governo come questore a Monza. Le reazioni, salvo alcune deboli iniziative, sono quasi assenti. La dimostrazione è che in Italia abbiamo permesso che l’onda lunga degli abusi, delle violenze, dei falsi e delle menzogne si estendesse nel tempo e coprisse di un manto oscuro il volto delle forze dell’ordine di Lorenzo Guadagnucci da Altreconomia “Per quanto riguarda le misure disciplinari, la Corte ha dichiarato più volte che, quando degli agenti dello Stato sono imputati per reati che implicano dei maltrattamenti, è importante che siano sospesi dalle loro funzioni durante l’istruzione o il processo e che, in caso di condanna, ne siano rimossi”: così la Corte europea per i diritti umani nella famosa sentenza Cestaro (2015) sul caso Diaz. Il passo viene in mente di fronte alle polemiche nate dalla fresca nomina di Filippo Ferri a questore di Monza. Ferri nel processo Diaz fu condannato a tre anni e otto mesi, con annessa -automatica- sospensione dai pubblici uffici per cinque anni, ma né lui né altri sono stati mai sospesi durante i processi, tanto meno “rimossi” dopo la condanna definitiva (2012). Di più: nessuno -salvo forse uno, multato per 47 euro- è stato nemmeno sottoposto a procedimenti disciplinari. E dire che la “perquisizione” alla Diaz fu qualificata dalla Corte europea come un caso di tortura e che la condotta dei vertici di polizia e dello Stato fu fortemente stigmatizzato dai giudici di Strasburgo, specie per la constatazione che la polizia “ostacolò impunemente” l’azione della magistratura. Che dire, dunque, del “caso Ferri”? Una cosa semplice: che il governo italiano, con qualche ragione a dire il vero, ritiene che il caso Genova G8 sia chiuso e archiviato, ormai dimenticato dall’opinione pubblica, per cui nulla osta alla nomina a questore di un funzionario con un passato così problematico. E non si sbaglia, il governo, se guardiamo all’assenza quasi totale di reazioni, se non fosse per un appello di gruppi e associazioni della Brianza e qualche debole iniziativa parlamentare (la senatrice Ilaria Cucchi e forse qualche altro); tacciono i commentatori, tacciono i giornalisti “esperti” di forze dell’ordine, tacciono i leader politici e sindacali. Del resto Ferri non è il primo fra i condannati nel processo Diaz a rientrare nei ranghi, e con ruoli di rilievo, a pena scontata. La verità è che in Italia abbiamo rimosso Genova G8, abbiamo permesso che l’onda lunga degli abusi, delle violenze, dei falsi e delle menzogne si estendesse nel tempo e coprisse di un manto oscuro il volto delle forze dell’ordine, minando alla radice la loro credibilità democratica. Non vi è stata al tempo alcuna autocritica in seno alle polizie, né furono presi i provvedimenti necessari: sospensioni, licenziamenti, riforme. Genova G8, in questo modo, non è stata una caduta improvvisa e circoscritta della legalità costituzionale, né una pagina nera ormai chiusa e superata. Genova G8, piuttosto, è un biglietto da visita che le forze dell’ordine italiane continuano a presentare a chi governa e a tutti i cittadini. > Poliziotto condannato per la Diaz diventa questore di Monza > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
riflessioni
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La denuncia di Potere al Popolo: “Siamo stati infiltrati e spiati dalla polizia per 10 mesi”
Scoperto a Napoli un presunto agente sotto copertura all’interno delle strutture di Potere al Popolo. In rete le foto del giuramento in polizia e delle feste con i colleghi in divisa. “Non siamo la gioventù meloniana, non abbiamo nulla da nascondere”. di Antonio Musella da Fanpage Una denuncia clamorosa quella che Potere al Popolo, il partito di estrema sinistra che da molti anni partecipa alle elezioni politiche ed amministrative, ha affidato a Fanpage.it. Come spiega il portavoce nazionale, Giuliano Granato, per 10 mesi il partito sarebbe stato infiltrato e spiato dalla polizia. L’agente sotto copertura sarebbe un giovane di 21 anni, uscito dalla scuola di polizia nel 2023. Si sarebbe presentato agli attivisti di PaP a Napoli come studente fuori sede. Assiduo frequentatore di tutte le iniziative di Potere al Popolo, ha partecipato anche a diversi incontri nazionali del partito. A far saltare la copertura però sarebbero stati proprio gli atti ufficiali del suo ingresso in polizia. Da una semplice ricerca infatti, è stato possibile trovare non solo il risultato del concorso in polizia che ha vinto, ma anche le foto del giuramento in polizia e, attraverso una serie di contatti social, a fot0 di gruppo in divisa con altri colleghi. Ad insospettire i militanti di Potere al Popolo, uno strano incontro a cui sarebbe stato visto per caso in un ristorante lo scorso 1°Maggio. Una volta scoperto, il presunto agente sotto copertura non avrebbe battuto ciglio, allontanandosi ed augurando “Buona giornata” agli attivisti di Pap. Il presunto agente di polizia infiltrato in Potere al popolo “L’infiltrazione iniziata 10 mesi fa” A raccontare la vicenda a Fanpage.it è il portavoce nazionale di Potere al Popolo, Giuliano Granato, che ha raccontato tutte le fasi dell’infiltrazione del presunto agente di polizia, fino alla sua definitiva scoperta da parte del partito. “Tutto è iniziato circa 10 mesi fa – spiega – questo ragazzo di appena 21 anni si è presentato a noi come uno studente fuori sede, proveniente dalla Puglia. In questi mesi ha partecipato in maniera assidua a qualsiasi iniziativa, dal blocco degli sfratti, alle lotte studentesche, partecipando anche ai momenti nazionali di Potere al Popolo. Non mancava mai“. Una circostanza però aveva insospettato gli attivisti napoletani di Potere al Popolo. “Era estremamente presente quando c’erano iniziative politiche, ma non ha mai legati personalmente con nessuno. Mai una serata insieme, una birra, una cena, molto strano per uno studente universitario fuori sede” spiega Granato. E così per puro caso, alcuni attivisti sono riusciti a risalire alla vera identità, in un modo la cui semplicità sembra disarmante. “I suoi social erano quasi vuoti – spiega Granato – anche questo abbastanza strano per un 21enne. Ma quando abbiamo digitato il suo nome e cognome e la sua data di nascita su Google si è aperto un mondo“. La prima cosa che è stata trovata è la sua assunzione in Polizia, al termine del corso, con tanto di nominativo, data di nascita e punteggio. E’ stato a quel punto facile risalire alle origini. Si tratterebbe di un agente figlio di poliziotto, con altri parenti in Polizia, entrato in servizio nel 2023. La sua presa di incarico sarebbe avvenuta due mesi dopo, a quanto riportato dai documenti del Ministero dell’Interno. Per fugare dubbi su possibili omonimie si è risalito, attraverso alcuni sui contatti social, ad altri amici, anche loro poliziotti. E da lì si sono ritrovate le foto del giuramento in Polizia, ma anche foto di feste ed incontri con altri colleghi. Tutti in divisa. A guardare i riscontri raccolti da Potere al Popolo la vicenda è davvero impressionante. Da un lato perché lo stesso agente in divisa, si nota poi in alcuni reel pubblicati dagli attivisti universitari di Potere al Popolo, con il megafono in mano e la bandiera del partito, dall’altro proprio per la superficialità dell’operazione. Il nome del presunto agente sarebbe infatti lo stesso, mentre la biografia raccontata, figlio di persone povere e studente a Bari per un anno, sarebbe del tutto inventata. Mentre alcuni attivisti avevano avvisato i dirigenti del partito dell’incredibile scoperta, lo scorso 1°Maggio un episodio avrebbe fatto saltare del tutto la copertura del presunto agente infiltrato. “Dopo il corteo del 1°maggio, la persona è stata vista per puro caso da un nostro attivista, entrare in un ristorante e fermarsi a parlare per circa 15 minuti con delle persone vestite in giacca e cravatta ad un tavolo. Per noi quello è stato un momento di possibile scambio di informazioni” spiega Granato. Saltata la copertura si è poi passati alla fase di “confronto”, che è avvenuta in un luogo pubblico, all’aperto, in presenza di molti testimoni, nei pressi della zona universitaria nel centro di Napoli. “Quando gli abbiamo detto che non era più gradito, e che non doveva chiedere perché altrimenti avrebbe offeso la nostra e la sua intelligenza, non ha nemmeno provato a chiedere spiegazioni, non ha fornito scuse o finto di non capire. Semplicemente ci ha augurato buona giornata ed è andato via” sottolinea il portavoce di Potere al popolo. Successivamente, alcune ore dopo, il presunto agente infiltrato ha telefonato ad un altro attivista, anche egli studente universitario, chiedendo spiegazioni. Nella telefonata, che è stata registrata e di cui siamo in possesso, il presunto infiltrato chiede se ha fatto qualcosa che ha determinato il suo allontanamento. “Ma siamo noi a doverti spiegare oppure ci mandi tu la foto del giuramento?” gli ha risposto il suo interlocutore. Dopo lunghissimi secondi di silenzio, ed un sollecito a rispondere nel merito, il presunto infiltrato ha attaccato la telefonata. Il presunto agente infiltrato durante una manifestazione di Potere al popolo “Niente da nascondere, non siamo la gioventù meloniana” “Noi siamo un partito che si presenta alle elezioni da molti anni, partecipiamo a tutte le tornate elettorali, non abbiamo nulla da nascondere, non siamo la gioventù meloniana, chiunque può venire e vedere cosa facciamo, la nostra è un’attività alla luce del Sole” spiega Granato. Effettivamente la circostanza non è assimilabile ad una attività di polizia che può essere inserita nell’ambito dei controlli di prevenzione, ad esempio quelli anti terrorismo. Potere del popolo è un partito politico, che non solo partecipa alle elezioni per il parlamento, ma anche a quasi tutte le elezioni amministrative sui territori. “Sono anni che non accadeva un tentativo di spionaggio e infiltrazione ai danni di una organizzazione che si presenta alle elezioni” sottolinea il portavoce di Pap. L’inquietante vicenda si inserisce nel solco di una serie di episodi di spionaggio che si susseguono nel nostro paese, come il caso “Paragon“, l’utilizzo dello spyware militare che ha coinvolto due giornalisti di Fanpage.it, il direttore Francesco Cancellato ed il capo della cronaca di Napoli, Ciro Pellegrino, e i fondatori di Mediterranea Saving Humans, Luca Casarini e Beppe Caccia, e con loro Don Mattia Ferrari e il portavoce di Refugees in Libya, David Yambio. “Quello che è successo a noi si inserisce nello stesso solco – spiega Granato – il Ministero dell’Interno deve spiegare questa vicenda. Questo è il segnale che lo Stato sta usando strumenti repressivi perché non tollera il dissenso, è un attentato alla democrazia che riguarda tutti e tutte. Il governo Meloni non procede solo a botte di propaganda, contro il dissenso, ma usa gli strumenti repressivi degli apparati di sicurezza“. Il susseguirsi di queste vicende è decisamente inquietante, per questo Potere al popolo fa un appello alla società civile: “Ci rivolgiamo ai sinceri democratici, alla società civile, innanzitutto a fare attenzione, e poi a denunciare quanto accade. La democrazia non esiste se lo Stato ti entra in casa, ti spia, ti infiltra, questa non è democrazia, sono passaggi da autocrazia e da vera e propria dittatura“.   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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Forze dell’ordine, strumenti e pratiche per riflettere
Recensione di «Police abolition. Corso di base sull’abolizione della Polizia», a cura di Italo Di Sabato, coordinatore dell’Osservatorio Repressione, per Momo edizioni di Vincenzo Scalia da il manifesto La recente pubblicazione Police Abolition. Corso di base sull’abolizione della polizia (Momo, pp. 96, euro 13), curata da Italo Di Sabato e Turi Palidda nella sua edizione italiana, con le illustrazioni di Noah Jodice, rappresenta uno strumento utile a riflettere sulla genealogia delle forze dell’ordine, fino a considerare la possibilità di abolirle. L’eterogenesi dei fini costituisce una caratteristica fondante delle interazioni sociali. I conflitti, le trasformazioni, le variabili impreviste, sortiscono a volte l’effetto di deviare verso esiti opposti specifici costrutti sociali, pensati per adempiere ad altre finalità. Il caso della polizia rientra pienamente all’interno di questa dinamica. Istituita per la prima volta a Londra nel 1829, sotto il governo Tory di Robert Peel (da cui il soprannome di bobbies che tuttora contraddistingue i poliziotti inglesi), la polizia metropolitana londinese, il cui modello venne in breve esteso a tutto il paese, rispondeva a scopi specifici. Lo scopo principale era quello di sanare la frattura tra gli strati subalterni della società inglese e lo Stato, che, dopo il massacro di Peterloo del 1829, si era ampliata a dismisura. Inoltre, attraverso un corpo statuale centralizzato, si voleva porre fine alla discrezionalità e all’abuso delle polizie private. IL MODELLO INGLESE, diffusosi rapidamente in tutta Europa e nel mondo, non tardò ad evolversi nella direzione opposta. Il consolidarsi della polizia come istituzione dotata di un proprio spazio, indipendente da ragioni specifiche, si sovrappone all’acuirsi dei conflitti sociali, all’interno dei quali le forze dell’ordine si collocano all’interno della prospettiva del mantenimento e della riproduzione degli equilibri di potere esistenti. La polizia finisce quindi per allontanarsi dalla funzione per la quale era stata pensata, diventando refrattaria ai cambiamenti radicali. A meno che, come avvenne per esempio in Italia negli anni Settanta, non viene essa stessa attraversata da conflittualità profonde. Gli ultimi anni ci consegnano un’istituzione poliziesca identificata e identificatasi come avversaria diretta di migranti, minoranze etniche, lgbtqia+, no global (si pensi a Genova 2001 e al caso di Carlo Giuliani), nonché allergica all’eccentricità degli stili di vita. Nel caso italiano, le tragedie Aldrovandi e Magherini, ne sono un’esemplificazione. Oltreoceano, sulla scia del tragico caso di George Floyd, nasce il movimento «Defund Police», che si prefigge di abolire la polizia e di dirottare le risorse destinate a mantenerla in direzione di politiche sociali inclusive. UN PROGETTO AMBIZIOSO, provocatorio, che, nel contesto USA, si prefigge di invertire la tendenza già indicata da Loic Wacquant, ovvero del passaggio dallo stato sociale a quello penale. Che fa dell’origine relativamente recente delle forze di polizia il suo punto di forza. Un percorso da incoraggiare, anche nell’Italia del Ddl 1660. Ma che pone un interrogativo: sono mature le condizioni per una società senza polizia? Prima della sua istituzione, avevamo le milizie private dei signori e delle corporazioni. Per esempio, in Sicilia, la mafia è nata in questo contesto. Dopo la polizia, cosa ci sarebbe? Pensiamo a un contesto dove la sorveglianza elettronica prende sempre più piede, e il taglio dei fondi prelude, come nel caso inglese, a una polizia predittiva, che sorveglia e reprime sempre le stesse classi pericolose. Senza tralasciare ronde e vigilanze private. Volendo rispondere alla domanda, perciò, potremmo dire: la polizia si può abolire. Ma se si abolisce l’ordine sociale e politico che la sostiene. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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Poliziotto condannato per la Diaz diventa questore di Monza
Filippo Ferri dal primo giugno sarà in nuovo questore di Monza. Condannato con sentenza definitiva della Cassazione a 3 anni e 8 mesi per falso sulla mattanza di Genova e le torture alla scuola Diaz di Mario Di Vito da il manifesto Ventiquattro anni dopo la mattanza del G8 di Genova, tutto è cancellato. Non è successo niente o, se proprio dev’essere successo qualcosa, ormai tutto è caduto nel dimenticatoio. E così accade che un funzionario di polizia condannato in via definitiva per i fatti della scuola Diaz diventa questore. Èil caso di Filippo Ferri, che il prossimo primo giugno prenderà servizio a Monza, dopo aver passato gli ultimi anni alla polizia ferroviaria di Milano. In precedenza era stato consulente per la sicurezza del Milan nel periodo in cui non poteva indossare la divisa per effetto della sentenza di Cassazione che il 5 luglio del 2012 lo aveva condannato a tre anni e otto mesi per falso aggravato, con pena accessoria di interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. La notte del 21 luglio del 2021, nel complesso del liceo Pertini di Genova, ex scuola Diaz, adibito a centro stampa del Genova Social Forum, i reparti mobili della polizia e i battaglioni dei carabinieri fecero irruzione. La violenzò dilago è gli arrestati alla fine furono 93, 61 dei quali risultarono feriti. Di questi tre finirono in prognosi riservata e uno in coma. Il percorso giudiziario per i poliziotti e i carabinieri fu parecchio travagliato, soprattutto perché risultò sostanzialmente impossibile per gli inquirenti definire nello specifico le varie responsabilità in quella che un vicequestore arrivò a definire come «macelleria messicana». È dall’ultima sentenza di merito, quella della Corte d’appello di Genova del 18 maggio del 2010 che possiamo ricostruire quanto fatto da Ferri alla Diaz. Per i giudici l’allora capo della squadra mobile di La Spezia, salito a Genova proprio per gestire l’ordine pubblico durante il G8, «è coinvolto nei fatti dal principio» perché, quella sera, era tra i «pattuglioni» che in teoria avrebbero dovuto trovare e arrestare i black bloc, la frangia di manifestanti ritenuta responsabile dei tafferugli di quelle giornate. Ferri arrivò alla Diaz «addirittura in tempo epr vedere il cancello prima che venisse chiuso dagli occupanti» nell’estremo tentativo di non far entrare polizia e carabinieri. È lui poi che in un secondo momento, insieme ad altri due colleghi, si incaricò di redigere il verbale degli arresti. Scrivono infatti i giudici di Genova che «è al dottor Ferri che vanno sostanzialmente riferiti il momento decisionale e l’elaborazione tecnico-giuridica relativi alla scelta di contestare agli occupanti il reato di associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio», oltre che ovviamente la decisione di procedere agli arresti sulla base delle perquisizioni effettuate. È la storia delle presunte due bottiglie molotov, in realtà sequestrate nel pomeriggio, e degli attrezzi da lavoro provenienti da un cantiere vicino: le cosiddette prove della presenza di «violenti» nella Diaz. Per convincere un altro funzionario di polizia perplesso dall’evidente forzatura, inoltre, Ferri ha pure sostenuto che in seguito «l’autorità giudiziaria sarebbe stata libera di qualificare diversamente i fatti». A questo scopo venne persino convocato l’addetto stampa. «Tale fatto – si legge ancora nella sentenza – lungi dal provare la buona fede degli imputati conferma la finalità mediatica dell’operazione». È soprattutto per questi motivi che Ferri è stato condannato, insieme ad altri suoi colleghi. La salvezza dall’altro capo d’imputazione, l’arresto illegale, arrivò solo per avvenuta prescrizione. > Mentre i processi per le violenze e le torture stanno andando verso la > prescrizione …. continuano le promozioni.. > Processo Diaz, confermate le condanne per i poliziotti > Tornano in servizio i poliziotti condannati per la “macelleria messicana” del > G8 di Genova 2001   > G8Genova: 16 poliziotti dovranno ripagare il risarcimento a Mark Covell, > massacrato di botte alla Diaz     Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
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Milano, Corvetto: inseguimento di polizia, muore ragazzo di 21 anni
Nelle prime ore del 21 maggio, nel quartiere Corvetto a Milano, c’è stato un incidente mortale in moto. A perdere la vita è stato Mohamed Mahmoud, un ragazzo 21enne di origine libica. Secondo le prime ricostruzioni l’incidente è avvenuto durante un inseguimento di polizia. Un tragico incidente ha scosso Milano questa mattina, quando un giovane di 21 anni, originario della Libia, ha perso la vita dopo un tentativo di fuga da una pattuglia della polizia. L’episodio, avvenuto intorno alle 3:15 in viale Ortles, ha portato a una serie di eventi drammatici che hanno coinvolto non solo il giovane, ma anche i suoi familiari e amici. Secondo le prime ricostruzioni l’incidente sarebbe avvenuto durante un inseguimento di polizia. Il ragazzo, che pare guidasse senza patente, avrebbe cambiato direzione una volta incrociata la volante delle forze dell’ordine. Ne sarebbe nato un inseguimento, concluso con l’incidente mortale per il ragazzo. Nonostante l’intervento tempestivo del 118, che ha trasportato il giovane alla Clinica Humanitas di Rozzano in codice rosso, il ragazzo è deceduto poco dopo il suo arrivo. La storia appare pressoché identica a quella di Ramy Elgaml, il 19enne di origine egiziana deceduto a fine ottobre. Anche lui era morto a causa di un incidente durante un inseguimento delle forze dell’ordine, in quel caso i Carabinieri. Anche lui era morto al Corvetto. Anche lui era un giovane ragazzo di origine straniera. Per quel caso alcuni Carabinieri risultano indagati e secondo una delle perizie la moto sarebbe stata speronata dall’auto dei militari. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp    
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Pestaggi in caserma a Aulla: condannati 22 carabinieri
22 carabinieri sono stati condannati per le violenze compiute in caserma ad Aulla, in provincia di Massa-Carrara 22 carabinieri sono stati condannati in primo grado per le violenze commesse contro diverse persone nella caserma di Aulla, in provincia di Massa-Carrara, in Toscana. I carabinieri sono accusati a vario titolo di lesioni, violenza sessuale, abuso d’ufficio, falso in atto pubblico, porto abusivo d’armi e rifiuto di denuncia: la pena più grave, di 9 anni e 8 mesi, è stata inflitta al maresciallo Alessandro Fiorentino. L’indagine era cominciata nel 2017, dopo una denuncia contro la caserma presentata un anno prima da un cittadino italiano. In seguito era emerso un centinaio di episodi di violenze o abusi, commessi nei confronti di cittadini sia italiani che stranieri. Una persona marocchina aveva denunciato i carabinieri per violenza sessuale dopo aver subito una perquisizione nella caserma. Altre persone straniere avevano denunciato di aver subito violenze e umiliazioni dopo essere andate in caserma solo per ottenere il rinnovo dei documenti. I magistrati avevano raccolto anche diverse intercettazioni telefoniche che confermavano l’esistenza delle violenze denunciate. In una di queste intercettazioni, uno dei carabinieri raccomandava a un collega di non parlare a nessuno di quello che accadeva in caserma: «Da questa caserma non deve uscire niente, dobbiamo essere come la mafia», diceva.   > Pestaggi in caserma: arrestati 4 carabinieri > «Minchia, le botte che hanno preso quei due neri» Le intercettazioni dei > carabinieri arrestati in Lunigiana > Pestaggi in caserma a Aulla, carabiniere in tv: «Io sono fascista» > Quando il Pd solidarizzava con i carabinieri torturatori   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
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