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Si scrive scudo penale, ma si legge immunità
La fine dello Stato di diritto, agenti al di sopra della legge di Fabio Anselmo – avvocato da Il Domani Scudo penale agli agenti che possa difenderli dalle indagini anche per omicidio? La propaganda non ha più limiti, se mai ne avesse davvero avuti negli ultimi decenni. Il processo penale è oramai quotidiano terreno di scontro politico e, quel che è peggio, di sconclusionati provvedimenti legislativi che intervengono su giudici, pm e cittadini di singole vicende giudiziarie. È la promozione a sistema delle leggi cosiddette ad personam, ispirate da questo o quel fatto di cronaca nera che può essere utile alla propaganda politica o da questo o quel procedimento giudiziario che, sempre rigorosamente sullo stesso piano, può viceversa essere imbarazzante o, peggio, nocivo, danneggiando l’immagine patinata e “rassicurante” a tutti costi inseguita dal governo. “Scudo penale” cosa significa? Letteralmente lo scudo è uno strumento di difesa. “Da chi?”, viene spontaneo chiedersi. La risposta è altrettanto ovvia: dallo Stato di cui fa parte, come potere funzionale giudiziario, il pm. Quindi si ritiene non solo logico, ma addirittura necessario, che gli organi di polizia del nostro Paese, nel cui nome e per il quale operano, si debbano, a prescindere, difendere da quello stesso Stato, che sarebbe, pertanto, loro ingiustamente nemico. Si tratta di una vera e propria legge-caos che trasformerà il nostro paese in un vero e proprio Far West ove vige sempre e incontrastabile la legge del più forte. In uno Stato democratico le forze dell’ordine hanno il monopolio dell’uso della forza. Sempre in quello Stato democratico esse ne devono avere la responsabilità. Mi pare ovvio. A meno che non si decida che il loro agire deve essere sempre ritenuto legittimo, a prescindere. A meno che non si voglia una vera e propria immunità per la quale si dovrebbe presumere in modo assoluto la giustezza del loro operato, qualsiasi cosa accada o sia accaduta. Un vero e proprio status sociale di privilegio sui cittadini per i quali le forze dell’ordine dovrebbero operare, che le posiziona al di sopra della legge che esse stesse dovrebbero esser chiamate ad applicare. Un sistema di assetti di potere nel quale i magistrati che esercitano la funzione giudiziaria sono soggetti alla legge mentre gli agenti no. Il caos, appunto. La fine dello Stato democratico. La responsabilità degli agenti, cosi come delineata dalla Costituzione e applicata dalla magistratura, non piace a questo governo. Deve esser compressa e limitata il più possibile. L’esigenza apertamente dichiarata, come si legge sulle agenzie di stampa, è quella di “difendere gli agenti” dalle indagini che la magistratura inquirente ritiene di dover avviare in caso di sospetti abusi che potrebbero esser stati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, anche nelle ipotesi di omicidio. Non devono essere indagati quando i fatti sono da chiarire, no. Per loro l’iscrizione come atto dovuto deve sparire. Ci deve pensare il ministro dell’Interno a stabilire quando si può fare l’iscrizione, secondo proprio giudizio. E poi, qualora il ministro lo consenta, la “patata bollente” deve passare di mano ai magistrati ritenuti più “accomodanti”: niente pm, ma le corti d’appello. Chi parla in questo modo, da quel che leggo, non conosce lo stato di diritto. Il ministro dell’Interno sarebbe chiamato a svolgere una funzione giudiziaria, sia pure in tema di accertamento della sufficienza di elementi per iscrivere l’agente “sospettato” di abusi nel registro degli indagati. È organo politico dell’esecutivo ma non fa nulla. La separazione dei poteri e delle funzioni e l’indipendenza di quelli giudiziari sono un inutile orpello della nostra invadente Costituzione. Ci penseranno i nuovi prossimi giudici che a breve verranno nominati a risolvere il problema. Sulla morte di Ramy Elgaml il ministro dell’Interno “in pectore” Salvini si è già espresso anticipando tutti: ha proclamato la assoluta correttezza dell’operato dei carabinieri coinvolti nella vicenda, quindi male farebbe a procedere con indagati già iscritti la procura di Milano, qualora fosse già operativo “lo scudo”. La grande dignità e profonda civiltà espresse dal padre di quel povero ragazzo hanno messo in difficoltà il sottosegretario Delmastro, che è stato costretto ad affermare pubblicamente che deve essere compito della magistratura fare chiarezza sui fatti, smentendo il suo collega di governo Salvini. Ci siamo già da tempo abituati a sentire i politici parlare a vanvera in tema di Giustizia. Difficile sarà abituarsi a sentirli esprimersi allo stesso modo nella primissima fase delle indagini preliminari in fatti simili a quello che ha visto morire oggi Ramy, Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi ieri. Per quanto riguarda Stefano, in realtà, ci fu chi nell’immediatezza della morte si espresse in modo netto e perentorio sulla vicenda: l’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa giurò sulla correttezza dell’operato dei carabinieri che arrestarono Stefano Cucchi. Seguirono 6 anni di indagini e processi sbagliati contro gli agenti della Penitenziaria. Poi sappiamo come è andata. Al di là di queste amare considerazioni, quel di cui non ci si rende conto (o si fa finta) è che l’iscrizione dell’agente sospettato nel registro degli indagati è un atto di garanzia di difesa e non di accusa! Dunque, qual è il reale scopo dello Scudo? Immunità. Fine del fondamentale criterio giuridico espresso dal concetto di responsabilità. La legge non è uguale per tutti. Questo è certo.   Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp    
January 15, 2025 / Osservatorio Repressione
Il giornalismo che giustifica le violenze e torture di polizia e alimenta il razzismo
Perché l’Italia razzista di giornalacci e politica non chiede scusa e ha messo alla gogna gli amici di Ramy. Di fronte al video che inchioda i carabinieri alle loro responsabilità giornalacci e giornaloni nostrani non hanno fatto una piega. Il complesso di superiorità bianco impedisce di fare mea culpa, dopo mesi di latrati contro l’islamizzazione. di Luca Casarini da l’Unità Alla fine non chiedono mai scusa. Non stiamo parlando dei carabinieri, visto che il caso è quello dell’omicidio, per dolo eventuale, volontario, o non intenzionale, o per eccesso di zelo, fate voi, di Ramy Elgaml, 19 anni, di Corvetto, Milano, morto in una notte come tante a causa di un inseguimento folle e di uno speronamento da parte di una gazzella dei CC. A non chiedere scusa sono i giornalacci e giornaloni, che dopo i moti di protesta dei giovani di Corvetto, che chiedevano “verità e giustizia”, hanno subito bollato come “strumentalizzazione violenta” quella presa di parola collettiva. Eh sì, perché come prima cosa, in un paese civile veramente, ci sarebbe adesso da scrivere titoli a nove colonne con la parola “SCUSATE”. Avevano ragione loro, che hanno rovesciato i cassonetti in mezzo alle strade del quartiere dove sono nati e cresciuti, figli di genitori migranti che dopo vent’anni sono più italiani di Briatore, che la residenza ce l’ha a Montecarlo. Giornalacci e giornaloni, su questo, si esercitano in “convergenze parallele”. I giornalacci non chiederanno scusa ai giovani di Corvetto, perché della razzializzazione fanno il loro credo, non più nascosto né dissimulato: sono proprio convinti che noi “bianchi”, diciamo da Berghem de Hura a poco sotto Viterbo, dobbiamo difendere la nostra “superiorità”, culturale, morale, religiosa, dall’invasione islamica dei migranti: chissenefrega se il padre e la madre di Ramy sono qui da vent’anni, lavorano, pagano le tasse, e cercano di tirar su famiglia. Restano e resteranno sempre “stranieri”. E non stranieri come Musk, sudafricano bianco che ci insegna a vivere. Perché nel nostro mondo, chi è ricco o straricco, non è mai straniero. Stranieri perché neri o scuri di pelle, perché venuti dal sud, poveri, ad abitare le “nostre città”. I giornaloni invece, sono più politically correct, o “fact cecking” come dicono i “progressisti”. Ma non chiederanno mai scusa ai ragazzi di Corvetto, perché alla fine “la via della violenza è sempre sbagliata”. Questo accade perché la razzializzazione è un fenomeno sistemico, e non è questione di razzisti o no, di buoni o cattivi. È dentro di noi, incistata nel nostro sistema sociale, e sbuca da tutte le parti. Se un gruppo di maschi cretini e ubriachi, molesta sessualmente a Capodanno delle ragazze bianche, non si insiste sul fatto che si tratta di maschi, ma di immigrati, e per giunta dal colore scuro della pelle. Mandano a fanculo la polizia e gli italiani con un video di trenta secondi, ma siccome non sono trapper da milioni di follower e di euro, non si invitano a Sanremo, ma si spiccano i mandati di cattura. E sono islamici. La “guerra di civiltà” è servita. Questa narrazione continua, martellante, è un fenomeno globale: con la bufala degli abitanti di Springfield di origine haitiana che si mangiano i cani e i gatti dei vicini bianchi, si sono vinte delle elezioni negli Usa. E i giovani carabinieri, che decidono di lanciarsi all’inseguimento di uno scooter che fugge appena vede la gazzella – e non c’era stato nessuno Alt come racconta l’amico di Ramy che lo guidava – non li leggono i giornalacci e i giornaloni? Probabile più i giornalacci, ma non sono anch’essi cresciuti ed addestrati, formati, educati dentro questo sistema razzializzato? Se uno scooter con due giovani a bordo, arrivando dalla piazza di Corvetto, corre via veloce quando li vede, di sicuro saranno “maranza”, immigrati di seconda o terza generazione, e di sicuro vanno fermati ad ogni costo, perché pericolosi. Adesso che la verità, grazie al casino che hanno fatto i ragazzi di Corvetto, è saltata fuori, il sistema razzializzato alza l’asticella: se si fermavano non succedeva niente. Un’altra bugia, per sostituire quella della tragica fatalità ora inservibile. Se sei un figlio di migranti, non è vero che non ti succede niente. O meglio, può darsi che te la sfanghi, ma è molto probabile che sarai preso a schiaffi, che passerai la notte in una cella, e forse anche peggio. Perché non ti sei fermato viene chiesto al ragazzo sopravvissuto: “non avevo la patente, ho avuto paura”. Alla fine, dal punto di vista “tecnico”, abbiamo un ragazzo morto di 19 anni e uno di 22 quasi morto e che sarà condannato al carcere ( con una pena pesante, magari per compensare qualche danno di immagine ai carabinieri), per una infrazione amministrativa. Come è formalmente un reato minore non fermarsi all’Alt, che peraltro non c’è nemmeno stato. Guidando un mezzo super riconoscibile e con una targa. Senza nessuna segnalazione di pericolo ricevuta, anche se hanno tentato di montare la storia della collanina rubata, poi risultata di proprietà del conducente con tanto di scontrino. I carabinieri sono centomila in Italia, e certo non sono mica tutti così. Ma in questo paese il problema esiste, e non è dei carabinieri. È nostro, di tutti noi, della piega sempre peggiore che sta prendendo la faccenda, ad ogni livello, a cominciare dall’alto delle cariche dello stato, passando per i media, per finire all’ultima ruota del carro, come quei carabinieri appunto. Quelli che dopo aver capito che danno irreparabile avevano fatto, sono andati a minacciare Omar, il testimone, e gli hanno fatto cancellare il video dove si vedeva lo speronamento dell’auto che ha schiacciato lo scooter contro il palo del semaforo. E qui, oltre alla razzializzazione che è una delle cause sistemiche di queste ed altre tragedie, siano esse in mezzo alle nostre città o nelle periferie urbane, in mezzo al Mediterraneo o in un lager libico, c’è una combinazione fatale: la costruzione dell’immaginario della “guerra civile”. Razzializzazione e creazione della guerra civile, insieme, creano un mix letale. Se la costruzione del “nemico esterno”, i migranti, ha una sua funzione di “distrazione di massa” dai problemi veri – tutti quelli di cui non ha parlato la nostra premier influencer durante lo show di inizio anno, per capirci – l’immaginario della guerra interna, civile, è il veicolo per passare dallo stato di diritto allo stato di polizia. Il nuovo decreto sicurezza, ddl 1660, è un buon esempio di questo superamento definitivo delle costituzioni repubblicane novecentesche, troppo ancorate alla cultura dei diritti collettivi e uguali per tutti. L’assunzione del “populismo penale”, con l’aumento dei reati, delle pene, del carcere, ne costituisce un tratto fondamentale. Per questo non passerà nessuna amnistia, come chiesto da papa Francesco per il Giubileo, nemmeno a fronte del mattatoio umano che sono diventate le patrie galere. Descrivere le nostre città come luoghi della guerra civile, serve al potere costituito per legittimare lo stato di polizia, e tentare di governare la sempre più ampia massa di poveri, assoluti o relativi, che le abitano. La guerra infatti, sospende la costituzione: prevede leggi speciali, poteri speciali, e ogni circostanza, anche due ragazzi in scooter che non si fermano, diventa una circostanza speciale. La destra al potere sta soffiando sul fuoco della guerra civile anche in questo caso: il “diritto allo speronamento” potrebbe diventare presto il diritto a sparare. > Ramy, o la fine degli equivoci   > La morte di Ramy Elgaml e quel festival della menzogna che ricorda tanto > Genova 2001     Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 14, 2025 / Osservatorio Repressione
La morte di Ramy Elgaml e quel festival della menzogna che ricorda tanto Genova 2001
Commenti sprezzanti verso la vita degli altri, verbali distorti, testimonianze inquinate. Dal video dell’inseguimento a Milano nella notte tra il 23 e il 24 novembre 2024 emergono scenari inquietanti. In attesa che la Procura faccia chiarezza, ci sono però delle domande alle quali il vertice dei carabinieri e il ministro dell’Interno dovrebbero già rispondere. Per non recitare la stessa ignominiosa parte di 24 anni fa di Lorenzo Guadagnucci da Altreconomia “Chiudilo, chiudilo, chiudilo che cade. No, merda, non è caduto”. Possiamo partire da qui, da questa frase detta da un carabiniere durante l’assurdo inseguimento nelle vie di Milano, per qualche breve considerazione su quanto avvenuto nella notte tra il 23 e il 24 novembre 2024. Il fatto è noto: uno scooter, con due giovani a bordo, non si ferma all’alt dei carabinieri per un controllo e due volanti si mettono all’inseguimento; è una corsa a tutta velocità nella notte, pericolosissima soprattutto per gli occupanti dello scooter e per eventuali passanti; dura ben otto chilometri, a un certo punto anche lungo una strada imboccata contromano. Fino all’epilogo: lo scooter che svolta a sinistra, l’auto dei carabinieri così vicina che forse lo sperona, lo schianto dei due mezzi contro un palo del semaforo e la morte immediata del passeggero dello scooter, Ramy Elgaml, mentre il conducente, ferito gravemente, riuscirà a cavarsela dopo aver trascorso un periodo in ospedale in stato di coma. C’è un’indagine in corso con sei carabinieri e il conducente dello scooter indagati per vari reati (omicidio stradale, falso, depistaggio, favoreggiamento personale a vario titolo per i carabinieri; omicidio stradale, resistenza a pubblico ufficiale per il giovane) e toccherà ai periti chiarire alcuni fatti: per esempio, se la gazzella dei carabinieri abbia speronato la moto nella curva fatale, o se in precedenza vi siano stati altri contatti fra i due mezzi e di che tipo (fortuiti o volontari?). E se davvero al testimone sfiorato dallo schianto, che aveva ripreso la scena col suo telefonino, sia stato immediatamente imposto, come ha dichiarato, di cancellare il video. Qualcosa intanto però possiamo dire, a cominciare dalle frasi registrate quella notte. Oltre al “chiudilo che cade” e al “no, merda, non è caduto”, ci sono anche un “vaffanculo, non è caduto” e un “bene” alla fine della storia, quando arriva la notizia che i due ragazzi “sono caduti” (ma, va detto, senza nulla specificare sulle conseguenze per i due giovani). Sono frasi che vengono giustificate con l’adrenalina e la concitazione del momento, ma che fanno pensare a scenari inquietanti, vista anche la dinamica del fatto: un inseguimento assurdo, rischiosissimo, a prima vista sproporzionato. Sono frasi che fanno venire in mente un’altra nota registrazione, di 24 anni fa: il dialogo tra un’agente della questura e una volante di polizia il 21 luglio 2001, durante il G8 di Genova. A un certo punto si parla di quel che sta avvenendo in piazza, delle “zecche” -cioè i manifestanti- che stanno impegnando le forze dell’ordine, e l’operatrice, commentando i fatti, se ne esce con un eloquente “intanto, uno a zero per noi, yeah”, riferito all’uccisione in piazza Alimonda di Carlo Giuliani, colpito il giorno prima alla tempia da una pallottola sparata da un carabiniere e subito dopo calpestato dal “Defender” dell’Arma. “Che simpatica”, replica il poliziotto all’altro capo del telefono.  In attesa che la Procura chiarisca i fatti e chieda, se necessario, di processare i responsabili di eventuali abusi e reati, ci sono delle domande alle quali il vertice dei carabinieri e il ministro dell’Interno dovrebbero rispondere. Hanno chiesto conto di quelle frasi? Si sono domandati, come noi, se per caso i carabinieri quella notte abbiano perso il senso della misura? Si sono chiesti se sia ben chiaro, a chi lavora nelle forze dell’ordine, che le vite degli altri, qualunque sia il loro profilo, -“sono dei delinquenti, dei rapinatori, se la sono cercata”, è stato detto a posteriori dei due ragazzi sullo scooter, quasi a giustificare l’esito letale- sono vite da tutelare, non da mettere a rischio? Hanno compreso quanto sia grave la denuncia del testimone sulla cancellazione del video dal telefonino? Sono domande che hanno una cornice: si ricordano, carabinieri e ministro, come andò al G8 di Genova? Sicuramente sì, ma, per sicurezza, possiamo rammentarglielo noi. A Genova non ci furono solo violenze ingiustificate, torture di massa e un omicidio, fu anche una fiera del falso negli atti pubblici: falso il verbale dell’arresto di massa alla scuola Diaz, falsi innumerevoli verbali di singoli arresti eseguiti per strada, falsi i verbali del carcere delle torture a Bolzaneto. Fu il festival della menzogna, della tortura e del disprezzo per i diritti e anche per la dignità dei cittadini. Fu il punto più basso per la credibilità delle nostre forze dell’ordine e non si è più risaliti, per la precisa ragione che i vertici delle nostre polizie fecero muro, non chiesero scusa, non indagarono le ragioni profonde di condotte così gravi. E non fecero autocritica.  > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
January 9, 2025 / Osservatorio Repressione
Milano: nuovo video inedito sulla morte di Ramy
«Vaffanculo non è caduto», «Chiudilo chiudilo che cade, nooooo merda non è caduto», «Ha perso il casco». Sono le frasi choc dell’inseguimento di una gazzella dei carabinieri a uno scooter in fuga per le vie di Milano. A bordo c’è Ramy Elgaml, 19 anni, e il suo amico Fares Bouzidi, 22 anni, alla guida. È la sera del 24 novembre 2024 e le immagini vengono dall’auto delle forze dell’ordine. Le ha pubblicate ieri per la prima volta corredate di audio il Tg3. La folle corsa, di oltre 8 km, si conclude con il motorino che finisce a terra incalzato dalla volante: Ramy morirà di lì a poco, incendiando la rabbia del quartiere Corvetto perché, gridavano i manifestanti, «l’hanno investito, l’hanno ammazzato». Nel registro degli indagati, per diverse ipotesi, ci sono al momento Bouzidi e tre carabinieri. Ilaria Salis deputata europea con un post su X dichiara:” à ! Il video dell’inseguimento in cui Ramy ha perso la vita è terribile e lascia addosso una rabbia profonda. Le parole dei Carabinieri, e ancor più il loro comportamento, sono inaccettabili in un paese civile. Come lo è il fatto che i video registrati da un testimone siano stati fatti cancellare, eliminando così possibili prove. Molte cose che sono state dette dopo l’incidente – senza sapere di cosa si stesse parlando o addirittura in malafede – sono vergognose e contribuiscono a un clima di ingiustizia e mistificazione. Se oggi il caso non può più essere insabbiato, come è già accaduto altre volte in situazioni simili, lo dobbiamo anche alle proteste del quartiere Corvetto, grazie a cui l’opinione pubblica ha iniziato a interessarsi della vicenda. Lo dobbiamo alla comunità di amici e solidali che reclamano verità e giustizia per Ramy e Fares. Ma queste proteste raccontano qualcosa che va oltre Corvetto: ci parlano del razzismo sistemico e del classismo che permeano la nostra società e che si manifestano nella mancanza di opportunità per chi vive nelle periferie e, spesso, negli abusi di potere. È la gioventù proletaria e meticcia di questi quartieri popolari che ha alzato la voce, rifiutando di essere trattata come una cittadinanza di serie B.” > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp  
January 8, 2025 / Osservatorio Repressione
Il calciatore Stephane Omeonga picchiato e umiliato dalla polizia
Il calciatore Stephane Omeonga è stato picchiato dalla polizia italiana prima di un volo da Roma a Tel Aviv. Il 28enne ex Genoa ha raccontato l’accaduto sui propri canali social Il calciatore belga Stephane Omeonga ha raccontato su Instagram di essere stato aggredito e picchiato dalla polizia italiana prima di un volo fra Roma e Tel Aviv, in Israele. Omeonga ha 28 anni, in passato ha giocato per diverse squadre italiane come Genoa e Pescara, e oggi gioca nella Serie A israeliana per il Bnei Sakhnin. Il centrocampista ex Avellino, Genoa e Pescara, tra le altre, ha scritto nel post su Instagram che dopo essere salito a bordo è stato avvertito da uno steward di un problema con i documenti. Per questa ragione non solo gli è stato chiesto di abbandonare l’aereo, ma le forze dell’ordine l’hanno costretto con la forza a scendere dal velivolo per poi ammanettarlo. “Sono un calciatore, un cittadino belga” ha esclamato il giovane, ma i poliziotti non hanno dato retta alle sue parole procedendo immediatamente ad arrestarlo con manovre violente. “Lontano dalla vista di testimoni, la polizia mi ha gettato bruscamente a terra, mi ha picchiato, uno di loro mi ha premuto il ginocchio contro la testa. Poi sono stato portato in una vettura della polizia, e ammanettato come un criminale. Quando è arrivata l’ambulanza ero sotto shock e non sono riuscito a rispondere alle domande dei paramedici” ha scritto il 28enne. Che ha poi proseguito: “Dalla radio dell’auto della polizia ho sentito dire che andava tutto bene e che avevo rifiutato le cure mediche. Ma ciò è falso, ho chiesto loro di portarmi con loro in ambulanza. Ma sono stato poi messo in una stanza grigia senza né cibo né acqua – ha aggiunto – e sono stato messo in uno stato di totale umiliazione per diverse ore. Dopo il mio rilascio ho saputo che un agente di polizia aveva presentato una denuncia contro di me per le lesioni causate durante l’arresto, ma io ero ammanettato. Finora non ho ricevuto nessuna giustificazione per il mio arresto – ha concluso – Come essere umano e come padre non tollero nessuna forma di discriminazione. Dobbiamo rimanere uniti e alzare la voce per educare coloro che ci circondano”. Nel post su Instagram in cui Omeonga racconta l’accaduto c’è anche un video in cui si vedono due poliziotti che lo aggrediscono mentre si trova sul volo: uno dei due lo prende per la gola mentre l’altro lo spinge fuori dall’aereo. Le forze dell’ordine italiane sono note per la profilazione razziale che compiono durante le proprie operazioni, come segnalato anche qualche mese fa dal Consiglio d’Europa. Al momento la polizia non ha commentato in alcun modo la vicenda. > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
January 1, 2025 / Osservatorio Repressione
Verona: Omicidio Moussa Diarra, trenitalia invita all’omertà
“Trenitalia invita il personale a non rilasciare dichiarazioni” sull’omicidio di Moussa Diarra. La denuncia del comitato verità e giustizia Il Comitato verità e giustizia per Moussa Diarra di Verona ha mostrato, durante una conferenza stampa che si è svolta davanti alla Stazione di Verona Porta Nuova venerdì 27 dicembre 2024, una mail inviata il 14 novembre da Trenitalia, presumibilmente al personale. Una copia cartacea della mail, nella quale mittente e destinatari sono stati cancellati, è stata recapitata di recente al Laboratorio Autogestito Paratod@s. Nel testo presentato alla stampa da attiviste e attivisti si legge che “dagli organi di sicurezza interni viene ribadito di non rilasciare dichiarazioni o fornire informazioni o nominativi” in merito ai “fatti avvenuti domenica 20 ottobre 2024, che hanno visto l’uccisione di una persona presso l’atrio della stazione di Verona”. Quella persona era Moussa Diarra. Gli interventi che si sono alternati durante la conferenza stampa hanno spiegato che la lettera confermerebbe alcuni dei timori del Comitato, ossia che da più parti si starebbe lavorando per ostacolare l’accertamento della verità dei fatti e per proteggere l’autore dell’omicidio, un agente di polizia. “Grave –  denunciano dal Comitato – è il clima omertoso che con questo tipo di messaggi si può diffondere tra i quasi trentamila dipendenti della principale azienda italiana dei trasporti su rotaia”. Da settimane le avvocate della famiglia Diarra, Paola Malavolta e Francesca Campostrini, avevano fatto una richiesta formale a Trenitalia per poter contattare il personale presente in stazione la mattina dell’omicidio. L’azienda non ha mai risposto alla richiesta. Secondo il Comitato verità e giustizia “questo tipo di comportamenti sono contrari al codice etico dell’azienda, che parla di ‘integrità ed onestà’”. Con la conferenza stampa di stamattina, il Comitato ha voluto invitare l’azienda a “collaborare alla ricerca della verità e a instaurare un clima in cui i lavoratori possano, con onestà e coscienza, sentirsi liberi di raccontare quello che è successo”. Al termine della conferenza stampa, sono state nuovamente affisse le locandine per la ricerca di testimoni sulle porte della stazione di Verona Porta Nuova. Gli audio registrati da Radio Onda d’Urto alla conferenza stampa: Giorgio, del Laboratorio Autogestito Paratod@s e del Comitato verità e giustizia per Moussa. Ascolta o scarica Gbati, del Comitato verità e giustizia per Moussa. Ascolta o scarica Giorgio, del Laboratorio Autogestito Paratod@s e del Comitato verità e giustizia per Moussa. Ascolta o scarica Djemagan Diarra, il fratello di Moussa, tradotto da un amico. Ascolta o scarica > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
December 27, 2024 / Osservatorio Repressione
Che significa essere discriminati dalle forze dell’ordine in Italia
Secondo la Commissione contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa, in Italia le forze dell’ordine sono solite ricorrere alla profilazione razziale, cioè alla selezione sistematica di controlli e fermi di polizia in base all’origine etnica di Luigi Mastrodonato da Internazionale C’è una domanda che una persona bianca dovrebbe porsi, in Italia, quando ascolta una persona non bianca che denuncia le modalità con cui è stata sottoposta a un controllo della polizia. A me è mai successo qualcosa di simile, in questi termini? La risposta, tendenzialmente, sarà no. La profilazione razziale è un problema di lunga data per l’Italia. Un fenomeno sommerso, poco o mal indagato, ma su cui negli ultimi anni ha cominciato ad aprirsi un dibattito. La Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza definisce la profilazione razziale come “l’uso da parte delle forze dell’ordine, quando procedono a operazioni di controllo, sorveglianza o indagine, di motivi quali la razza, il colore della pelle, la lingua, la religione, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, senza alcuna giustificazione oggettiva e ragionevole”. In paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito o la Francia le persone non bianche sono fermate molto più di quelle bianche. Questi fermi possono essere brutali e in certi casi hanno fatto delle vittime, come nel caso di George Floyd a Minneapolis e Nahel Merzouk a Nanterre. Le istituzioni stanno provando a fare qualcosa per affrontare il problema. Nel Regno Unito, per esempio, è attiva una banca dati governativa in cui sono riportati i dati dei fermi di polizia delle persone non bianche. In California è stata creata una commissione indipendente. In Francia il consiglio di stato ha riconosciuto almeno a parole l’esistenza di un problema di profilazione razziale nelle forze dell’ordine. In Italia manca una qualunque forma di riconoscimento istituzionale del fenomeno. Negli ultimi anni hanno avuto una certa eco storie di cronaca: il fermo di polizia piuttosto brutale subìto dall’ex calciatore del Milan Tiémoué Bakayoko, poi giustificato con il fatto che assomigliava a un ladro: il controllo violento di un gruppo di ragazzi e ragazze afrodiscendenti fuori a un McDonald’sa Milano, fatto senza alcun motivo preciso; il sequestro della caserma levante di Piacenza; e l’inchiesta sulla questura di Verona, in cui si verificavano violenze e abusi che colpivano quasi esclusivamente persone straniere. La profilazione razziale ha riguardato anche i negozi etnici o gestiti da stranieri. In questo caso si parla di “vigilanza etnica”. Nel 2023 l’agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali ha pubblicato il rapporto Essere neri nell’UE. Nel capitolo dedicato ai fermi di polizia in Italia il 40 per cento degli intervistati ritiene che il suo ultimo fermo sia stato dettato da un pregiudizio razziale. Nel settembre 2024 il gruppo di esperti indipendenti delle Nazioni Unite ha lanciato un monito sul tema della profilazione razziale nel paese, sottolineando che le politiche repressive contro le droghe colpiscono in modo sproporzionato minoranze e altri gruppi vulnerabili. Sempre l’Onu qualche mese prima aveva denunciato il numero sproporzionato di africani e di persone di discendenza africana incarcerati in Italia. Infine, lo scorso ottobre la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza ha pubblicato un rapporto sull’Italia in cui è usata 17 volte l’espressione “profilazione razziale” e si sottolinea che le autorità ignorano il problema. La reazione politica contro il rapporto è stata molto dura e dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, agli esponenti del governo Meloni, fino ai sindacati di polizia, si è alzato un coro unanime di solidarietà alle forze dell’ordine. Una mobilitazione collettiva che nel negare l’esistenza del problema lo ha confermato, dando ragione alle conclusioni della Commissione. In assenza di commissioni, raccolte dati e studi nazionali sul tema della profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine, non restano che le storie. Julia, 29 anni Ho origini tanzaniane e già quand’ero più piccola le forze dell’ordine mi fermavano in strada mentre camminavo e mi chiedevano il permesso di soggiorno, nonostante io abbia la cittadinanza italiana. Nell’ultimo anno questa cosa è aumentata, sono stata fermata sei-sette volte in Emilia-Romagna, dove vivo. Una sera ero in auto e una volante mi ha raggiunto e fatto accostare. La macchina era in leasing e hanno cominciato a chiedermi una valanga di documenti che io non ero nemmeno tenuta ad avere e mostrare, come ho scoperto dopo. Comunque, in quel momento non avevo tutto quello che chiedevano e così si sono rifiutati di ridarmi indietro i miei documenti d’identità, dicendo cose come “adesso diventi clandestina”, il tutto con un atteggiamento estremamente aggressivo. Siamo stati lì circa due ore, fino a quando i miei familiari sono arrivati con tutti i documenti dell’auto e mi hanno lasciato andare. È stata un’esperienza molto traumatica. Io ho la cittadinanza italiana ma questo mi ha fatto pensare a cosa può succedere a una persona che non ha i miei stessi privilegi. Sono stata fermata altre volte in auto, da sola o con amici di origine straniera. Le persone bianche che mi cirdoncano dicono che a loro non succedono queste cose, mi hanno fatto capire che tutto ciò non è normale. Il risultato è che io oggi cerco di guidare il meno possibile per non avere problemi. Samuel, 31 anni Ero in un supermercato in provincia di Modena quando io e il mio compagno siamo stati accusati di furto, un’accusa poi archiviata. Gli agenti ci hanno fermato e a me, tamil-srilankese con cittadinanza tedesca, hanno chiesto il permesso di soggiorno. Al mio compagno, italiano, la carta d’identità. Mentre ci scortavano nel magazzino del supermercato, le differenze nel modo in cui eravamo trattati erano evidenti. Mentre lui camminava accanto a uno degli ufficiali senza essere toccato, io ero tenuto per un braccio con una forza non necessaria. Il mio fidanzato è stato trattato con dignità, mentre io come un sospettato solo per il mio aspetto. Una volta arrivati alla stazione di polizia, uno degli agenti ha continuato a parlarmi in modo autorevole e irrispettoso, nonostante sapesse che non parlavo italiano. Poi siamo stati messi in celle di detenzione separate per qualche ora e lì sono stato sottoposto a ulteriori umiliazioni. Sono stato malmenato, trascinato per un braccio, spogliato con la forza e umiliato con una perquisizione rettale. Il mio compagno non ha ricevuto lo stesso trattamento degradante. L’impatto psicologico di questa esperienza è stato profondo e duraturo. L’aggressione fisica e il peso emotivo di essere stato trattato come un criminale solo a causa della mia etnia mi hanno lasciato delle cicatrici profonde. Il disprezzo nei miei confronti mentre ero in custodia ha rafforzato l’idea che la mia umanità fosse secondaria rispetto ai pregiudizi degli agenti. Shahzeb, 27 anni Ero sceso sotto casa per buttare la spazzatura quando è arrivata una volante dei carabinieri. Uno mi ha intimato di fermarmi e di dargli un documento, un altro invece ha detto qualcosa tipo: “È solo un pakistano”, come se stessero cercando qualcun altro. Il primo carabiniere ha insistito, voleva i miei documenti altrimenti mi avrebbe portato in caserma. Gli ho spiegato che abitavo lì e che stavo solo buttando la spazzatura, non mi ero portato il portafoglio. La cosa è andata avanti per una decina di minuti, poi si è risolta. Da quella volta mi porto dietro il portafoglio qualunque cosa faccia. Non è stata l’unica volta in cui mi sono sentito trattato in modo diverso per via delle mie origini. Un giorno, all’alba, sono stato fermato a Padova mentre andavo al lavoro in monopattino. Non hanno creduto che andassi al lavoro, contestando tra le altre cose che non avevo con me uno zaino o una borsa. Mi hanno ordinato di mettere le mani sulla volante dando loro le spalle e hanno cominciato una lunga perquisizione. È stata un’esperienza che mi ha disturbato, la sensazione di avere delle mani addosso, anche nelle parti intime. Un’altra volta mi ricordo che ero alla stazione di Padova, sulla banchina c’erano decine di persone e due agenti che facevano avanti e indietro. Poi sono venuti a chiedere i documenti a me, l’unica persona non bianca del gruppo. Dopo queste e altre esperienze ora sto molto attento. Quando vado in monopattino o in bici, vedendo le forze dell’ordine in lontananza cambio strada per non avere problemi. I miei amici mi prendono in giro, di recente ero con loro quando la polizia mi ha fermato e sono andato nel panico. Non so mai cosa aspettarmi, potrebbe succedere qualsiasi cosa e soprattutto ora che ho fatto la domanda di cittadinanza italiana vorrei poter stare tranquillo. Karima, 32 anni Io ho la cittadinanza italiana, la carnagione chiara e non porto il velo, quindi sono meno presa di mira rispetto ad altre persone di origine tunisina. Nonostante questo a Milano, dove vivo, mi sono sentita più volte discriminata dalle forze dell’ordine, che forse hanno un occhio allenato per queste cose. Mi capita soprattutto d’estate, quando sono più visibili i tatuaggi con le scritte in arabo, la collana al collo con il mio nome scritto in arabo o la carnagione è più scura per l’abbronzatura. La profilazione razziale però la percepisco soprattutto in aeroporto. Nel 90 per cento dei casi, dopo aver presentato passaporto e carta d’imbarco, sono selezionata per i classici controlli random e quindi a un certo punto ho cominciato a farmi delle domande. Quando devo viaggiare vado in stazione o in aeroporto sempre parecchio in anticipo perché so che inevitabilmente qualche controllo in più me lo faranno e si andrà per le lunghe. In generale evito di uscire di casa senza documenti, così da prevenire ogni problema. La profilazione razziale ha avuto un’influenza anche sul mio lavoro di giornalista. A volte ho paura a partecipare a certe manifestazioni o situazioni simili perché già i giornalisti sono presi di mira, i giornalisti razzializzati lo sono ancora di più. È una questione sicuramente psicologica, che nasce però da un vissuto che crea disagio. Anna Brambilla, avvocata dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) Ho lavorato a Ventimiglia con alcuni colleghi e in stazione abbiamo potuto osservare in modo sistematico i controlli mirati da parte della polizia italiana nei confronti di persone con tratti tali da farli individuare come stranieri. La linea del colore si mischia a quella del genere: a essere fermati erano e sono quasi esclusivamente uomini neri, percepiti come migranti irregolari da sottoporre a controlli, che pur essendo di polizia si traducono di fatto in controlli di frontiera. In altri contesti le cose cambiano. Nelle stazioni del foggiano e del barese per esempio gli uomini neri non sono fermati: è noto che lavorano nella zona. A essere fermati sono piuttosto chi si pensa che provenga da Pakistan, Afghanistan, Turchia o Iraq, presupponendo che possa essere arrivato irregolarmente via mare, attraverso la rotta adriatica. Nelle aree vicine alle stazioni o nei quartieri in cui c’è un’alta percentuale di abitanti con background migratorio, spesso alla linea del colore e del genere si associa anche la linea dell’età. Il fermo riguarda soprattutto i ragazzi non bianchi. Anche le attività commerciali sono spesso sottoposte a maggiori controlli da parte della polizia municipale o finiscono nel mirino di ordinanze sindacali che impongono orari di chiusura diversi da quelli previsti in altre zone, per ragioni pretestuose e discriminatorie. Il senso di mortificazione e la violenza percepiti da coloro che subiscono questi controlli emerge solo in occasione di eventi specifici: fermi particolarmente violenti, contestazioni di resistenza a pubblico ufficiale o, nei casi più drammatici, morti.   > Dure accuse del Consiglio d’Europa e Onu: Razzismo nella polizia  
December 18, 2024 / Osservatorio Repressione
Note per la sociologia storica delle polizie
La polizia è un colpo di Stato permanente (Foucault[2] https://www.youtube.com/watch?v=FzIIgODvzHw&t=7s)   Note per la sociologia storica delle polizie[1] di Salvatore Palidda Parto dalla lettura del prezioso libro di Giovanna Tosatti. Lei è sicuramente la storica che conosce come nessun altro i meandri degli archivi riguardanti la storia della polizia e del ministero dell’interno. Dal 1978 al dicembre 2004 archivista presso l’Archivio centrale dello Stato a Roma e dal 1990 al 1994 coordinatrice della segreteria del Sovrintendente e ha sempre lavorato nel campo della storia dell’amministrazione pubblica collaborando spesso con Guido Melis, il più noto esperto in questo campo[3]. Il suo nuovo libro (Storia della polizia. L’ordine pubblico in Italia dal 1861 a oggi, Il Mulino, 2024), merita di essere studiato con attenzione da chi fa ricerca in questo campo perché fornisce una immensa quantità di dettagliati riscontri sui diversi aspetti di questa storia dall’unità d’Italia al 2024. Si potrebbe considerare un insieme di schede di lettura di questi archivi e va letto innanzitutto come tale. La prima considerazione che può fare chi segue una prospettiva critica di decostruzione della storiografia agiografica ufficiale è che quest’opera conferma in maniera indiscutibile che tutta la storia italiana della sicurezza e delle polizie è particolarmente segnata dalla perpetua riproduzione di illegalismi di ogni sorta e persino di gravissimi crimini anche dopo la fine del regime fascista sino a oggi (cfr.infra). Nonostante da Napoli a Roma, Firenze, Genova, Torino, Milano, Bologna e tanti comuni medi e anche piccoli, l’Italia si era liberata da nazisti e fascisti prima dell’arrivo delle truppe anglo-statunitensi e nonostante lo straordinario impegno dei Costituenti comunisti, socialisti e sinceri democratici, il paese passò di fatto sotto l’egemonia statunitense che diventò anche dominio economico e politico. La Chiesa, il padronato e la mafia mobilitano tutte le loro forze a sostegno di questa egemonia che trionfò con la DC alle elezioni del fatidico 18 aprile 1948. Fra i tre sconfitti della 2a g.m. (con Germania e Giappone), l’Italia diventò il paese che nel campo occidentale (secondo la spartizione delle aree di dominio stabilita a Yalta) sarà il più assoggettato all’egemonia statunitense. La sinistra cercò di mostrare il suo completo allineamento al campo avverso a quello dell’URSS e il ministro della Giustizia Togliatti varò l’amnistia che nel titolo del suo libro Franzinelli definisce “Colpo di spugna sui crimini fascisti”[4]. Tosatti, come Melis e qualche altro autore, ricorda la gravissima reintegrazione dei fascisti nei più alti e meno alti livelli della polizia, così come nella magistratura, nelle forze armate e altri apparati dello Stato; e l’espulsione degli antifascisti che dal ’43 avevano occupato posti di prefetti, questori e dirigenti di polizia. E ricorda come i funzionari statunitensi dapprima auspicassero una modernizzazione delle polizie (e la smilitarizzazione) ma poi di fatto imposero il reintegro dei fascisti e non smisero mai di manipolarle sino a imbastire complotti e trame nere per sbarrare la strada a qualsivoglia rischio di arrivo dei comunisti al potere. Un rischio, peraltro -documenta Tosatti come altri-, che non fu mai effettivamente reale visto che, sin dalla svolta di Salerno di Togliatti, il PCI aveva sposato una “via italiana al socialismo” che si situava nella piena subordinazione al campo dominato dagli USA ed escludeva ogni sorta di ricorso alla forza e a rotture istituzionali. E su questi fatti e momenti si è tentati di tornare a chiedersi come mai la sinistra e i pochi democratici (anche nei ranghi della DC) non abbiamo mai ravvisato un palese tradimento della Costituzione e dello Stato nei comportamenti assolutamente illeciti che si sono ripetuti dal ’43 sino ai giorni nostri. Ma la risposta è semplice: tutti sapevano che l’Italia non avrebbe mai potuto conquistare la sovranità nazionale. La pratica abituale degli illegalismi e crimini da parte di tanti alti dirigenti delle polizie è in parte in continuità col passato dall’unità d’Italia al fascismo (e il libro di Tosatti lo dimostra ampiamente); ma si rinnova e arriva a produrre stragi e tentativi di colpi di stato (di fatto come reiterazione dell’assoluto divieto di concessione di potere alla sinistra). La cerchia di potere che manovra queste pratiche di illegalismi è composita, va da poteri economici e militari USA a dirigenti del Viminale, funzionari dei servizi segreti, altri funzionari dell’amm.ne pubblica, personalità politiche, prelati di alto rango, uomini d’affari e giornalisti. E’ implicito che lo scopo di questa strategia e delle sue conseguenti tattiche (magari non sempre coerenti) è quello di imporre ai lavoratori e alla popolazione italiana in generale la condizione di assoggettamento economico, sociale, culturale e politico, quindi il supersfruttamento in tutti i settori, compresa la Fiat che è aiutata nello spionaggio illegale dei dipendenti sindacalisti, mentre le mafie cooperano al controllo sociale nel Mezzogiorno. Come racconta Tosatti nella sua intervista su quest’opera[5], la polizia del Ventennio fascista, guidata da Arturo Bocchini (capo della Polizia dal mese di settembre 1926 alla sua morte, a novembre 1940) lascia in eredità strumenti, tipici di un regime autoritario, che rimasero nel modus operandi della Polizia anche dopo la fine del regime sino a oggi (fra altro si pensi ai residui del codice Rocco e ai decreti dei questori). Di fatto la DC cercò di fare della polizia il principale supporto al suo potere (di partito-stato, essendo l’Italia un paese senza sovranità). Centinaia furono i lavoratori e comuni civili vittime del fuoco della polizia.  Delle polizie appendici delle forze armate Qui sembra utile una digressione[6], cioè provare a incrociare i risultati della ricerca di Tosatti con quelli delle ricerche svolte prima sulla storia militare italiana[7] e poi anche con altre recenti ricerche sulle polizie in Italia e qualche confronto con alcune europee e quelle degli Stati Uniti[8]. Sin dall’unità d’Italia le forze armate si sono rilevate incapaci di garantire la sovranità nazionale (perdendo tutte le guerre in maniera miserabile e con ignominia del comando che però godette sempre dell’impunità e persino di encomi mentre faceva sparare ai soldati “al primo cenno di diserzione” -anche solo voltandosi all’indietro); ciò sia perché i vertici erano spesso corrotti e capaci solo di brutalità e genocidio coloniale, nonché di sparare sulla popolazione in occasione delle rivolte popolari. Si pensi soprattutto al periodo Crispi, all’eccidio di Bava Beccaris a Milano nel 1898 e altre siffatte performances, poi alla tremenda tragedia di Caporetto e le stragi coloniali durante il fascismo con la condanna del tribunale internazionale di Badoglio, Graziani e altri (circa 1200) per crimini di guerra (il bilancio di morti, arrotondato per difetto, è di 300.000 etiopi, 100.000 libici, 100.000 greci e 250.000 jugoslavi)[9]. In un tale quadro storico le forze di polizia italiane, di fatto, possono essere considerate come appendici delle forze armate che considerano nemica la società soprattutto quella che si ribella. Sono sempre corpi militari (tranne le polizie municipali che però dagli anni ’70 diventano armate e imitano sempre più le polizie nazionali). Dal 1948 la DC si configura come partito-stato che cerca di conquistarsi l’autonomia di gestione del paese, cioè un pezzo di sovranità che condivide con la Chiesa, il padronato e i gruppi finanziari. Con Scelba la DC si dota di una polizia agguerrita e feroce contro le rivolte operaie e popolari seguendo di fatto la prassi militare che considera la società sua nemica. Quindi delle polizie che restano sostanzialmente nella continuità del fascismo, sono a disposizione di due padroni (gli USA e la DC) ma anche del padronato e della Chiesa (peraltro resta invalsa la prassi di considerare la valutazione del prete locale come discriminante per la “buona condotta” dei cittadini sia per il servizio militare, per l’accesso alla pubblica amministrazione, per ottenere il passaporto ecc.). Come suggeriscono i personaggi dei servizi segreti statunitensi, la persecuzione dei militanti e dei partiti della sinistra è prioritaria, malgrado questi hanno dato ampie dimostrazioni della loro totale adesione a una opposizione pacifica e ad ambizioni democratiche (già evidenti con Togliatti e ancora di più dopo sino alla scelta di stare nella NATO e all’auspicio del compromesso storico di Berlinguer). Se si confronta il caso italiano con quello tedesco appare evidente che il reintegro dei nazisti negli apparati dello Stato in Germania, forse ancora peggio di quanto avviene in Italia, è comunque l’ipoteca sicura della sottomissione al campo occidentale[10]. Gli USA riescono quindi ad imporre la loro totale egemonia politica in questo campo (Adenauer in Germania e le correnti di destra nella DC in Italia ne sono garanti e beneficiano di ampi sostegni). I progressisti e democratici tedeschi e italiani si limitano a cercare quindi margini di autonomizzazione fra ostpolitik, rapporti con il mondo arabo e il sogno dell’Europa del manifesto di Ventotene. La Francia (che beneficia del magistrale gioco di De Gaulle di passare per alleato e non nemico nella 2a guerra mondiale) punta invece a difendere la sua effettiva sovranità che si nutre di un colonialismo efferato e di una politica economica e sociale che la stessa sinistra difende come intoccabile quasi sino agli anni del secondo Mitterrand et soprattutto di Macron (che scatena la sua controrivoluzione del capitalismo assoluto liberista). La polizia e la gendarmeria francesi sono sempre fermamente a difesa del potere politico e dell’ordine economico e sociale capitalista, ma non adottano pratiche militari. Sino al periodo Sarkozy e poi Macron, pur non esitando a essere brutali con i manifestanti, sembrano rispettare le mobilitazioni sindacali e nella stessa polizia il sindacato di sinistra è forte (mentre quello neofascista diventa maggioritario col favore dei ministri dell’interno degli anni 2000-2024). L’involuzione reazionaria della polizia francese supera quella che si conosce in Italia e in Germania. Quanto al caso inglese, si registra una corruzione e una degenerazione rilevanti[11] ma non una deriva autoritaria simile a quella francese e italiana, ma dato il contesto globale è probabile che la tendenza militarista possa attecchire. Quanto alle polizie negli Stati Uniti si potrebbe dire che per un verso sono quelle che nei fatti in parte sono diventate le polizie italiane quando prevale la loro legittimazione innanzitutto da parte dei dominanti locali in cambio della loro complicità con gli illegalismi e crimini di questi ultimi. Ma in generale va ricordato che dappertutto tende a prevalere la tolleranza zero, il razzismo e il sessismo che accomuna polizie e cittadini dominanti e il continuum della guerra sicuritaria a livello locale con quella in vari continenti e su scala globale[12]. La mancata Seconda Resistenza E’ una constatazione che potrà sembrare sin troppo banale, ma non è mai stata espressa né fatta oggetto di riflessione. Si dà infatti per scontato che non ci fu perché tutti gli attori politici che avevano militato nella prima furono del tutto fagocitati nella congiuntura del dopo ’43, fra costrizioni e condizionamenti da parte dei vincitori della guerra e da parte degli attori forti a livello economico, culturale e politico (Chiesa, padronato, mafia oltre alla tragica situazione economica della popolazione). In realtà per “seconda Resistenza” non si tratta affatto di intendere la ripresa delle armi per conquistare e imporre la dittatura del proletariato, ma di difendere il rispetto degli obiettivi della prima resistenza: la defascistizzazione dello Stato, l’applicazione coerente della Carta costituzionale scritta dai TUTTI i Resistenti e quindi la sua traduzione in programmi economici, sociali, culturali e politici conseguenti. No! Tutto questo non ci fu. Gli artefici della liberazione dal fascismo e dal nazismo si fecero relegare sulla difensiva ma neanche della Carta costituzionale che avevano scritto, ma addirittura nel dover fornire sempre prove della loro sottomissione all’alleato dominante e ai suoi sodali (Usa+Chiesa+padronato e mafie). Si impose così non solo il reintegro dei fascisti in tutto l’apparato dello Stato e la non abrogazione di leggi fasciste, ma anche la perpetuazione di pratiche del regime totalitario, delle sue brutalità nonché dei residui della “lunga durata del feudalesimo” in Italia – tesi di Maurice Aymard (1978)- (lo jus primae noctis in alcune zone rurali, la vendita dei bambini nelle zolfatare e altrove, il super-sfruttamento sia nelle campagne che nelle fabbriche e nel terziario). E ovviamente le polizie sono ben lungi dal proteggere i lavoratori e la popolazione e invece sono sempre solerti a difendere gli interessi dell’alleato dominante, della Chiesa e dei dominanti nazionali e locali. Dalla fine della guerra sino agli anni ’70 le polizie uccidono decine di manifestanti e a questi assassinii si aggiungono quelli della mafia che funge da braccio armato per il lavoro sporco sia del potere politico nazionale e locale, sia del padronato con la benedizione della Chiesa (dopo è la stagione delle stragi di Stato da p.za Fontana alla strage della stazione di Bologna per opera di servizi segreti statunitensi e italiani, loggia P2 e manovalanza fascista). La Dc per oltre 40 anni è riuscita a coltivare abbastanza consensi grazie agli attori dominanti prima citati e le dirette e indirette clientele articolate, in un paese che spesso è immerso nella miseria. La vanificazione di ogni riforma Una caratteristica del potere democristiano è non solo di non far applicare le poche riforme economiche e sociali e civili, ma di sminuirle, svuotarle, o deformarle. Fra altri, questo è stato il caso della famosa riforma della polizia e del governo della sicurezza[13], riforma peraltro assai tardiva e già d’emblée menomata e poi deformata: non c’è alcuna razionalizzazione delle forze, della loro organizzazione, del loro impiego, né quindi eliminazione di sprechi e sovrapposizioni; non c’è smilitarizzazione dei Carabinieri e della Guardia di Finanza che restano corpi militari e ogni polizia dipende dal suo ministero[14]. Tutto ciò, immancabilmente, favorisce la deriva e la degenerazione che si sono imposte in particolare dal ’90 in poi e soprattutto negli anni 2000: rimilitarizzazione, ruolo dominante dei Carabinieri, corsa delle polizie locali nell’imitazione di quelle nazionali, dilagare della corruzione e dei crimini di ogni sorta da parte di dirigenti e operatori delle polizie. Si impongono soprattutto non solo il privilegio dell’autonomia delle polizie in cambio della loro fedeltà al potere politico, ma anche il loro diritto a una discrezionalità che scivola facilmente nel libro arbitrio sempre protetto dall’impunità loro garantita. Di fatto le polizie italiane restano sempre non ancorate allo stato di diritto, ma a una legittimazione che discende direttamente sia dal governo sia dai dominanti locali e dai loro seguaci. La protezione degli illegalismi di questi attori locali è diventata la fonte di legittimazione che vale tanto quanto e a volta di più di quella garantita dal potere politico nazionale. E gran parte dei dirigenti e operatori delle polizie sono coinvolti nella pratica degli illegalismi e crimini dei dominanti nazionali e locali (spesso in combutta con mafie e sempre a danno della res publica). L’esempio più flagrante è nell’enorme quantità delle economie sommerse: oltre il 35% del PIL (vedi stime Eurispes[15]), ossia circa OTTO milioni di lavoratori che oscillano dal semi-precariato al lavoro nero sino alle neo-schiavitù. Ma l’impegno delle polizie nel contrasto di queste economie sommerse (che arrecano anche un ingente danno allo Stato in quanto evasione fiscale) è risibile o nullo (qualche migliaio di operatori) mentre si spreca personale e mezzi per inutili e molto discutibili pattugliamenti sicuritari dei centri urbani e nella repressione feroce delle lotte operaie e popolari per rivendicazioni sacrosante. I finanziamenti alle polizie come alle forse armate e agli armamenti e dispositivi militari o di controllo del territorio (vedi videosorveglianza intelligente aumentata) non mancano mai. Invece le agenzie di prevenzione e controllo (ispettorati del lavoro e ispettorati ASL, INAIL ecc.) sono ridotte al lumicino (per esempio 1 solo ispettore tecnico a Firenze e provincia). E non è casuale che dopo le brutalità e torture al G8 di Genova nel 2001 si sono succeduti decine di morti ammazzati da polizie o lasciati morire nelle carceri oltre a brutalità e torture che non a caso si ripetono di pari passo con quelle agite da giovinastri o caporali ecc. Sulle brutalità, torture e assassinii delle polizie oltre ai rari testi citati da dopo il G8 di Genova, va dato merito a Michele Di Giorgio il dettagliato ricordo di quanto accadde negli anni del dopoguerra e del libro alquanto dimenticato di Lelio Basso[16]. La rimilitarizzazione delle polizie a cominciare dalla scelta del governo D’Alema di erigere l’Arma dei carabinieri a 4a forza armata e dopo nel reclutamento riservato solo a militari che hanno partecipato alle missioni all’estero si è di fatto imposta (ne parlano ora Tosatti e anche Di Giorgio).  Proprio tutti questi fatti che mostrano una eterogenesi del mito delle polizie di uno stato di diritto democratico e giustificano la rivendicazione di de-finanziamento radicale delle polizie e persino della loro abolizione a favore di un forte aumento di personale e mezzi effettivamente efficaci per i servizi sociali, la sanità pubblica, le agenzie di prevenzione e controllo, programmi di risanamento ecologico, la pubblica istruzione (dove le polizie non devono mai mettere piede) e anche per unità speciali di polizie -maxi circa 3mila operatori, destinate unicamente al contrasto delle mafie e della grande criminalità, in particolare di quella finanziaria a danno dello Stato). Si tratta si una utopia di cui oggi, nel contesto del fascismo “democratico” dilagante, sembra inutile parlarne. Invece essa merita attenzione proprio perché è l’univa prospettiva coerente contro il non-futuro che oggi si profila per tutto il mondo e per ogni società locale.   Principali riferimenti su affari militari, forze armate e sulle polizie in Italia Documentario Fascist Legacy. L’eredità scomoda: https://www.youtube.com/watch?v=QBZT-9f-bIk&t=102s; Rochat e Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano dal 1861 al 1943, Einaudi, 1978 Del Negro, P., Esercito, Stato, società. Saggi di storia militare; Bologna, Cappelli, 1979 Canosa, R., La polizia in Italia dal 1945 a oggi, il Mulino, 1976 Corso, G., L’ordine pubblico, il Mulino, Bologna, 1978. D’Orsi, A., Il potere repressivo. La polizia, Feltrinelli, 1972 Davis, J., Legge e ordine. Autorità e conflitti nell’Italia dell’800, Franco Angeli, 1989 Della Porta & Reiter, Polizia e protesta, L’ordine pubblico dalla Liberazione ai ‘noglobal’, il Mulino, 2003 Di Giorgio, M., Il braccio armato del potere, 2024: Nottetempo Di Giorgio, M., Per una polizia nuova: Il movimento per la riforma della pubblica sicurezza (1969-1981), Viella, 2019 Di Giorgio, M., Per una polizia nuova. Il movimento per la riforma della pubblica sicurezza (1969-1981), Viella, 2019 Di Giorgio, M., Polizia, società e politica nell’Italia repubblicana. Gli editoriali di Franco Fedeli (1973-1997), Unicopli, 2023 Palidda, S., 20 ans après les brutalités policières du G8 de Genes. Forces de police italiennes entre sécuritarisme et insécurités ignorées. Parigi: l’Harmattan, 2021. Palidda, S., Polizia postmoderna, Feltrinelli, 2000; Palidda, S., Polizie sicurezza e insicurezze, Meltemi, 2021 Palidda, S., Razzismo democratico, Agenzia X, 2009 Preve, M., Il partito della polizia. Chiarelettere, 2014 Tosatti, G., Storia della polizia, il Mulino, 2024 Rassegne letteratura sulle polizie Fabini, Gargiulo, Tuzza, Polizia. Un vocabolario dell’ordine, Mondadori, 2023 Campesi, G. Che cos’è la polizia, Derive&Approdi, 2024 [1] L’accezione di sociologia storica qui evocata si rifà a Paul Veyne, vedi in particolare la sua introduzione a Le pain et le cirque, Seuil, 1976, p.11 e anche all’accezione di fatto politico totale come aggiornamento di quella di fatto sociale totale suggerita da Marcel Mauss (cfr. Sociologia e Antisociologia. La sperimentazione continua della vita associata degli esseri umani, 2016, p.21). [2] Secondo alcuni con questa frase di Foucault riprende a modo suo il titolo del libro di Mitterrand Le Coup d’État permanent, pubblicato da Plon nel 1964 per denunciare il presidenzialismo di de Gaulle (un titolo che a sua volta si rifà a La rivoluzione permanente di Trotsky. Foucault mostra così che la discrezionalità della polizia diventa facilmente libero arbitrio di fatto quasi sempre legittimato dalla magistratura e garantiti di impunità. Questa frase è stata recentemente usata a proposito del presidenzialismo di Macron. [3] Oltre a volume citato nel testo, fra le sue numerosissime pubblicazioni figurano L’amico americano. Politiche e strutture per la propaganda in Italia nella prima metà del Novecento, Roma, Biblink, 2000 (con F. Anania), Storia del Ministero dell’interno. Dall’Unità alla regionalizzazione, Bologna, Il Mulino, 2009, La modernizzazione dell’amministrazione italiana (1980-2000), Roma, Aracne, 2012; Il potere opaco. I gabinetti ministeriali nella storia d’Italia, Il Mulino, 2020 (curatrice con Guido Melis) e Le parole del potere. Il lessico delle istituzioni in Italia, Il Mulino, 2021 (curatrice con Guido Melis). [4] M. Franzinelli, L’Amnistia Togliatti. 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Feltrinelli, 2016 [5] https://www.letture.org/storia-della-polizia-l-ordine-pubblico-in-italia-dal-1861-a-oggi-giovanna-tosatti [6] Questa “digressione” come dopo la questione della “Resistenza mancata” nasce appunto dalla riflessione dopo la lettura del libro di Giovanna Tosatti con cui ho anche potuto avere degli scambi assai utili via mail (la ringrazio). Lo stesso posso dire di quelli con Michele Di Giorgio (che ringrazio). [7] Oltre alle celebri ed eccellenti opere sulla storia militare di Rochat e Massobrio (1978) e del Negro (1979), faccio riferimento alla ricerca sul pensiero militare e gli affari militari italiani dal Rinascimento in poi e soprattutto dopo l’unità d’Italia e quindi sull’incidenza di questi aspetti nella formazione e sullo sviluppo dello Stato in Italia. Che è un paese per cui non si può considerare il Risorgimento l’equivalente della Rivoluzione francese; in Italia non si forgia una “nazione” e l’unità d’Italia dà luogo a uno stato che nasce con una sovranità alquanto debole che non è certo rafforzata da Crispi e neanche con le sue pretese da Mussolini. Dopo il fascismo la sovranità nazionale italiana è di fatto lottizzata fra il dominio USA, quello del partito-stato la DC che rappresenta (con acrobatiche mediazioni spesso di effimera efficacia) il padronato, i gruppi finanziari, la Chiesa e in parte anche la mafia, mentre la componente sociale della DC è quella con cui il PCI spera di poter approdare al governo. Mi rifaccio qui alla mia ricerca del 1984 per conto della Fondation pour les Etudes de Défense Nationale, a un’altra per il Groupe Sociologie de la Défense de l’EHESS di Parigi (1981-1988), e a quella per il mio dottorato dell’EHESS terminato a fine 1989; in sintesi qui cfr. https://www.academia.edu/33997534/Lanamorphose_de_lEtat_de_droit_pdf; vedi anche “L’évolution de lapolitique de défense italienne”, in Défense Nationale, 1985, 41, Ottobre, 39-56; 1985 (https://www.defnat.com/e-RDN/vue-article.php?carticle=5514&cidrevue=458 ); “L’evoluzione della politica di difesa in Italia”, Il Ponte, 1985, XLI, 3, 87-109. [8] Polizia postmoderna, Feltrinelli, 2000; Polizie sicurezza e insicurezze, Meltemi, 2021 e in versione francese un po’ diversa 20 ans après les brutalités policières du G8 de Genes. Forces de police italiennes entre sécuritarisme et insécurités ignorées. Parigi: l’Harmattan, 2021. In questi tre libri (oltre che in diversi articoli in italiano in francese, in inglese e in spagnolo) sono affrontati diversi aspetti sulla storia delle polizie italiane e poi la loro evoluzione dagli anni ’90 sino all’inizio del 2021. Fra i principali libro sulle polizie italiane pubblicati dal 2000 in poi si veda innanzitutto D. Della Porta & H. Reiter, Polizia e protesta, L’ordine pubblico dalla Liberazione ai ‘noglobal’, il Mulino, 2003 e i più recenti di Di Giorgio (cfr. alla fine lista delle principali pubblicazioni) [9] Vedi il celebre ottimo documentario Fascist Legacy. L’eredità scomoda: https://www.youtube.com/watch?v=QBZT-9f-bIk&t=102s (in più parti) coni famosi storici Michael Palumbo, Angelo Del Boca, Giorgio Rochat, Claudio Pavone, David Ellwood e jugoslavo Ivan Kovacic (una parte del documentario mostra il massacro nei 200 campi di sterminio italiano in Jugoslavia). Da notare che gli inglesi portarono via da Roma una grande quantità di documenti fra i quali quelli che mostra il documentario della BBC dopo che gli archivi inglesi furono aperti. Gli angloamericani hanno tenuto segreti questi documenti perché in quanto tali sono una pesantissima denuncia del loro occultamento dei crimini di guerra commessi dagli italiani durante la Seconda Guerra Mondiale e in particolare della condanna conseguente di Badoglio e degli altri che invece USA e UK legittimarono. La RAI acquistò una copia del programma, che però non fu MAI mostrato al pubblico. La7 ne trasmise stralci nel 2004. Il documentario mostra anche pezzi di video d’epoca di tali orribili crimini sia nella guerra di conquista coloniale in Etiopia sia dell’occupazione nazifascista della Jugoslavia tra il 1941 e il 1943, i crimini fascisti in Libia. [10] Il cancelliere Konrad Adenauer, ostile alla denazificazione, nel 1949 considerò una delle sue priorità farla terminare e garantì l’amnistia a molti implicati nell’ Olocausto. Nominò capo del suo staff Hans Globke, un ufficiale nazista che aveva difeso le leggi razziste di Norimberga e fece pressione per il rilascio dei criminali di guerra. Al 31 gennaio 1951 oltre 792.176 persone furono amnistiate, e fra loro oltre 3.000 funzionari della delle SS e del Partito nazista che avevano partecipato alla detenzione delle vittime nelle carceri e nei lager; 20.000 altri nazisti incriminati per “crimini contro la vita” (presumibilmente omicidi), 30.000 per aver causato ferite corporali e 5.200 che commisero “crimini e misfatti d’ufficio”. Nel 1958 solo una piccola parte degli imputati di Norimberga erano ancora in prigione. [11] https://www.opendemocracy.net/en/abolition-metropolitan-police-sisters-uncut-david-carrick-wayne-couzens-mark-duggan-child-q/ ivi “The Metropolitan Police is institutionally racist, homophobic and sexist, according to the landmark Casey Report published this morning (363 page report, commissioned by the Met after one of its officers abducted an murderer Sarah Everard in March 2021. Vedi anche https://lordslibrary.parliament.uk/crime-and-misconduct-within-the-metropolitan-police/ (“Crime and misconduct within the Metropolitan Police”, 25 November, 2022) [12] Cfr. Razzismo democratico e Conflict, Security and the Reshaping of Society: The Civilisation di War [13] Argomento ampiamente trattato da Michele Di Giorgio, Per una polizia nuova: Il movimento per la riforma della pubblica sicurezza (1969-1981), Viella, 2019 e ancora nel suo più recente del 2024 (cfr. infra) [14] Aspetti descritti in dettaglio nei libri citati alla nota 8 e nei libri di Di Giorgio, cit. [15] Nel suo rapporto L’Italia in nero l’Eurispes ha valutato l’economia sommersa a 540 miliardi di euro (35% del Pil ufficiale): circa 280 miliardi di lavoro sommerso (evasione fiscale e contributiva), circa 160 di nero nelle imprese, circa 100 di economia informale. Nello stesso anno il Pil criminale avrebbe superato i 200 miliardi di euro. https://www.economy2050.it/stime-economia-sommersa-italia/ [16] Cfr, M. Di Giorgio, Il braccio armato del potere, 2024: Nottetempo, pp. 195 e segg. e L. Basso, La tortura oggi in Italia, 1953: Edizioni e/o (vedi anche https://www.leliobasso.it/documento.aspx?id=80b1f4d8aa8a31d4c6099d465dd6fe68     Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
December 6, 2024 / Osservatorio Repressione
Milano: Ramy Elgaml 19 anni morto dopo un inseguimento dei carabinieri
Nella notte tra sabato e domenica, lo scooter con a bordo due giovani si è schiantato contro un muretto in via Quaranta, zona viale Ripamonti, dopo un inseguimento dei carabinieri  durato diversi chilometri, pare per un mancato fermo. Così è morto Ramy Elgaml, ragazzo di origini egiziane di 19 anni, mentre un amico, alla guida, è rimasto ferito e ora è piantonato in ospedale. Secondo gli abitanti del quartiere non è stato un incidente stradale, ma uno speronamento. Accertamenti in corso sul possibile impatto tra l’auto dei carabinieri e lo scooter con a bordo i due giovani che, nella notte tra sabato e domenica, si è schiantato contro un muretto in via Quaranta, zona viale Ripamonti, dopo un inseguimento durato diversi chilometri, pare per un mancato fermo. Così è morto Ramy Elgaml, ragazzo di origini egiziane di 19 anni, mentre un amico, alla guida, è rimasto ferito e ora è piantonato in ospedale. La mossa della Procura segue le denunce di amici e famigliari, che dietro lo striscione “Verità per Ramy” si sono ritrovati a centinaia già domenica nel luogo dell’incidente. Nella notte tra domenica e lunedì una cinquantina di giovani è scesa in strada, questa volta nel quartiere di Corvetto, dove sono stati appiccati incendi, lanciati petardi e fuochi d’artificio. Nella notte tra lunedì e martedì ancora tafferugli. Secondo le ricostruzioni della questura, dalle 19 di lunedì 26 novembre un gruppo, inizialmente formato da venti persone si è radunato per le strada del quartiere, seguito a distanza dagli agenti di polizia. Il nucleo originario dopo qualche momento si è ampliato, arrivando a circa settanta persone, che si sono concentrate in via dei Cinquecento, all’angolo con via dei Panigarola, dove sono stati affissi degli striscioni. I 70 si sono poi spostato in via Omero dove hanno accesso fuochi d’artificio e lanciato petardi, uno dei quali ha colpito l’auto blindata del commissariato Mecenate. Un filobus è stato assaltato e i manifestanti hanno scritto con una bomboletta di vernice azzurra: «Ramy vive». Ci sono state anche diverse cariche della polizia, arrivata con i reparti in antisommossa, con manganelli e lacrimogeni, in viale Omero. Arrestato un 21enne, accusato di resistenza e lancio di oggetti. Chi ha preso parte agli scontri pensa che non si sia trattato di un incidente, ma che il TMax dei due ragazzi «sia stato investito dai carabinieri». La corrispondenza su Radio Onda d’Urto Alfredo, compagno e storico residente nel quartiere Corvetto di Milano. Ascolta o scarica e le riflessioni di Stefano Nutini, della Rete per il diritto all’abitare e di Rifondazione comunista Zona 4 di Milano sull’abbandono delle politiche abitative e sociali in questi quartieri popolari Ascolta o scarica   > Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi > sostenerci donando il tuo 5×1000  > > News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 26, 2024 / Osservatorio Repressione
Tante le domande senza risposta sull’omicidio di Moussa Diarra
La difesa dei familiari di Moussa Diarra non ha potuto visionare i video delle telecamere della stazione di Verona, dove il giovane maliano è stato ucciso il 20 ottobre, e ci sono molte incongruenze nelle dichiarazioni ufficiali. Tante le domande senza risposta. Unanime la richiesta di chiarezza e giustizia. Conferenza stampa al Senato per chiedere un processo trasparente Venerdì mattina in Senato c’è stata una conferenza stampa convocata dalla senatrice di Alleanza Verdi e Sinistra Ilaria Cucchi per annunciare un’interrogazione parlamentare che solleciti un’indagine rigorosa e imparziale sull’omicidio di Moussa Diarra, un giovane maliano di 26 anni ucciso il 20 ottobre da un poliziotto con un colpo di pistola davanti alla stazione Porta Nuova di Verona. Un’interrogazione simile è stata presentata anche da Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera. Il modo in cui sono state gestite finora le indagini ha sollevato diverse perplessità tra i movimenti e le associazioni cittadine che seguono il caso e che si stanno riunendo formalmente in un comitato. Ci sono state alcune incongruenze nella comunicazione della procura, cioè chi indaga, e della questura, cioè l’ufficio del poliziotto su cui si sta indagando. Le avvocate del fratello di Moussa, Djemagan Diarra, non riescono ad avere accesso ad alcune informazioni importanti, come i video delle telecamere: erano stati messi subito al centro dell’indagine perché, secondo procura e questura, avrebbero ripreso il momento dello sparo dando forza alla versione della legittima difesa del poliziotto. Di recente però il procuratore di Verona Raffaele Tito ha detto che la telecamera nel punto dove Diarra è stato colpito non funzionava. Durante la conferenza stampa le avvocate della famiglia Diarra hanno inoltre citato due testimoni che potrebbero aggiungere nuovi elementi alla ricostruzione dei fatti, che secondo loro non corrisponderebbe a quella diffusa finora. Per capire bene cosa sta succedendo bisogna tornare ai giorni della morte di Moussa Diarra. La dinamica esatta del momento dello sparo è ancora da chiarire. Quello che si sa è che Diarra è morto per un colpo di pistola al torace sui tre sparati dall’agente ferroviario, il quale è indagato per eccesso colposo di legittima difesa. Secondo la ricostruzione di questura e procura di Verona, l’agente avrebbe sparato perché Diarra lo avrebbe aggredito con un coltello. Il 20 ottobre, dunque il giorno stesso della morte di Diarra, la procura e la questura avevano diffuso un comunicato stampa congiunto in cui si parlava dell’esistenza di numerosi video registrati dalle telecamere della zona. Pertanto procura e questura scrivevano che l’indagine avrebbe potuto avvalersi «di riscontri oggettivi che saranno fondamentali per una ricostruzione completa ed imparziale di quanto accaduto». Nelle prime righe dello stesso comunicato veniva descritta una dinamica dei fatti che avalla subito la tesi della legittima difesa. Il giorno dopo, 21 ottobre, la procura di Verona ha diffuso un altro comunicato in cui spiega di ritenere che «l’episodio si inserisca certamente in un contesto di legittima difesa», pur specificando che il poliziotto è indagato per eccesso colposo di legittima difesa, cioè quando si compie un reato sproporzionato alle violenze subite, ma senza l’intenzione piena di causare una certa conseguenza (in questo caso, la morte di Moussa Diarra). Il 31 ottobre un’emittente tv locale aveva diffuso la notizia secondo cui i video delle telecamere – in teoria inaccessibili, perché sotto segreto istruttorio – avevano ripreso Moussa Diarra intento ad aggredire il poliziotto con un coltello a distanza ravvicinata: secondo questa versione il poliziotto sarebbe stato dunque obbligato a sparare per legittima difesa. Nel servizio tv i video però non venivano mostrati. Nonostante cio, questa versione era stata ripresa velocemente da altre testate nazionali, contribuendo a diffondere l’idea che fosse quella corretta. Era stata anche rilanciata su X dal ministro delle Infrastrutture e leader della Lega Matteo Salvini, che aveva scritto: «Onore al poliziotto». Finora nessuno, nemmeno le avvocate di parte e i loro periti, oltre all’autorità giudiziaria ha avuto accesso a quei video. E questo nonostante alcuni giornali ne abbiano riferito i contenuti come se fossero stati visti, per una presunta fuga di notizie. Le avvocate di Djemagan Diarra, Paola Malavolta e Francesca Campostrini, hanno chiesto da subito di poter vedere questi video. La richiesta è stata fatta anche dal Comitato Verità e Giustizia per Moussa, un gruppo che si è costituito spontaneamente dopo l’uccisione del 26enne, durante una conferenza stampa alla stazione Porta Nuova di Verona. Anche Djemagan Diarra aveva chiesto di vedere i video senza successo: «Io penso che non me li abbiano mostrati perché sono nero. Non credo avrebbero detto lo stesso a un bianco», ha detto in Senato. Il 14 novembre il procuratore di Verona Tito ha detto che la telecamera centrale della stazione di Verona, la più vicina al punto in cui è stato ucciso Moussa Diarra, non funzionava. In più, ha aggiunto che ci sarebbe un altro filmato registrato da una telecamera più lontana, ma di scarsa qualità, che quindi è stato inviato alla scientifica per cercare di migliorare la definizione delle immagini. «Nessuno ci aveva mai detto che quelle telecamere erano spente», hanno commentato le avvocate. Durante la conferenza stampa è stata anche fatta notare la stranezza di un malfunzionamento della telecamera centrale della principale stazione della città, sottoposta a norme antiterrorismo. Le dichiarazioni di Tito hanno spinto circa cento persone a firmare e inviare una segnalazione anche al Consiglio superiore della magistratura (l’organo di autogoverno della magistratura) per chiedere «garanzie procedurali necessarie» in questa indagine. Anche il Comitato Verità e Giustizia per Moussa ha ribadito i propri dubbi sulla trasparenza di un’indagine «condotta da una polizia che sta indagando su se stessa», e in un comunicato del 19 novembre ha esplicitato il sospetto di un «tentativo di insabbiamento». Al Senato lunedì mattina l’avvocata Malavolta ha detto che subito lei e Campostrini hanno provato a raccogliere invano alcune informazioni essenziali per ricostruire cosa è successo la mattina del 20 ottobre. «Abbiamo presentato un’istanza al pubblico ministero prima ancora che fosse dato l’incarico al perito balistico, ma ci è stata rigettata. Abbiamo anche chiesto di visionare il vestiario e i filmati, e di avere gli atti dell’indagine in corso». Malavolta e Campostrini hanno anche contattato le diverse società attive nella stazione per avere un elenco dei dipendenti in servizio quella mattina, così da poter chiedere loro se hanno visto qualcosa. Nessuno, a parte la società ferroviaria Italo, ha fornito i nominativi. Le avvocate hanno inoltre chiesto alla polizia locale di Verona i nomi degli agenti in servizio quel giorno, perché da quanto ricostruito Moussa Diarra avrebbe incontrato alcuni di loro nella vicina via Palladio prima di morire. In quel momento, ha spiegato Malavolta, Diarra «aveva già rotto molte cose» perché stava male. Per questa ragione le due legali hanno chiesto alla prefettura di Verona l’elenco delle chiamate al numero di emergenza 112 di quel giorno, per capire se qualcuno avesse provato a contattare un’ambulanza per Diarra. Finora non sono stati dati né i nomi dei poliziotti in servizio né il registro delle chiamate al 112. La polizia avrebbe risposto che l’elenco dei nomi è sotto segreto istruttorio perché c’è un’indagine in corso. Si sa però che alle 7 del mattino del 20 ottobre c’erano delle persone nella stazione di Verona e anche nella piazza fuori, dove è morto Moussa Diarra. Le avvocate hanno fatto un appello affinché chi c’era le contatti e racconti ciò che ha visto. «Abbiamo due testimoni, che abbiamo sentito ieri», ha detto Malavolta, che con Campostrini ha chiesto al pubblico ministero di promuovere un incidente probatorio per anticipare la testimonianza di una di queste persone. L’incidente probatorio è il procedimento con cui si anticipa e si acquisisce la formazione di una prova nel corso delle indagini preliminari: serve cioè a “cristallizzare”, come si dice in termini legali, eventuali prove che potrebbero essere utilizzate nel corso di un processo, e che rischiano di andare perse prima della fase di dibattimento (in questo caso per via delle condizioni di vulnerabilità del testimone). Anche Moussa Diarra si trovava in condizioni di vulnerabilità. Viveva in un contesto di marginalità in cui molte persone migranti si trovano a vivere in Italia. Pochi mesi fa suo padre era morto in Mali: secondo alcuni suoi amici per settimane non era riuscito ad alzarsi dal letto e aveva perso l’appuntamento per il rinnovo del permesso di soggiorno. Al Senato Youssef Moukrim, un portavoce del Comitato Verità e Giustizia, ha parlato delle sofferenze e del disagio psichico di Moussa Diarra. Come le avvocate, Moukrim si è soffermato sulle ore prima della sua morte, quando attorno alle 5 del mattino Diarra ha danneggiato le vetrine della tabaccheria e della biglietteria della stazione. Ha chiesto Moukrim: «Perché nelle due ore in cui Moussa vagava in stato confusionale non è stata chiamata un’ambulanza?». Moukrim che ripercorre quanto scritto da Mackda Ghebremariam Tesfaù, su quanti siano i colpi ad aver ucciso il giovane maliano fino a quel giorno: il governo italiano con gli accordi con la Libia, il Decreto sicurezza Salvini che gli ha cancellato l’umanitaria, il Comune di Verona che non ha dato risposta, l’agente della PolFer, la stampa che lo ha descritto come un mostro e la frase di Matteo Salvini. Infine, le avvocate hanno detto che le perizie hanno confermato che due su tre colpi sparati dal poliziotto erano «ad altezza uomo». Un colpo è stato sparato in aria. Un altro, in teoria di avvertimento, ha sfiorato Moussa Diarra e ha colpito una vetrata alle sue spalle a 1,52 metri metri d’altezza. Un altro lo ha colpito al cuore. L’interrogazione parlamentare di Ilaria Cucchi, presentata insieme a Peppe De Cristofaro e Tino Magni di Alleanza Verdi e Sinistra, chiede chiarimenti sulle indagini al ministro della Giustizia Carlo Nordio e al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Ha detto Cucchi: «Una ricostruzione completa e imparziale è quello che ci aspettiamo». E, proprio mentre la conferenza stampa sta per concludersi, arriva il colpo di scena finale: Giorgio Brasola del Paratodos, il laboratorio sociale che ha occupato la casa dove il ragazzo viveva, mostra un giubbotto come quello indossato da Moussa il giorno della sua morte. «Potete vedere qua due fori. Uno all’altezza del cappuccio, quel metro e 52 del colpo che poi va a ficcarsi sulla pensilina, l’altro qua, all’altezza del cuore. Lo sparo che ha ucciso Moussa». A oggi di quei tre spari chi è in sala Caduti di Nassirya sa ben poco, ma nessuna delle persone seduta al tavolo di palazzo Madama finirà di chiedere chiarezza. «Vogliamo che si faccia luce non solo su quel che è accaduto, ma su quel che non sta accadendo» (fonte il post e Nigriza) Stefano Bertoldi di Radio Onda d’Urto ha realizzato interviste a Ilaria Cucchi senatrice di Alleanza Verdi Sinistra, Youssef Moukrim del Comitato per Moussa e Alberto Modenese del Laboratorio Paratod@s di Verona. Ascolta o scarica. Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000  News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp
November 22, 2024 / Osservatorio Repressione