Nel tardo pomeriggio di giovedì 27 marzo, nel quartiere San Lorenzo a Roma, è
avvenuto un fatto gravissimo, ripreso dalla telecamera della giornalista del
Domani Isabella De Silvestro. Una persona migrante senza fissa dimora,
visibilmente provata, è stata scaraventata violentemente a terra da alcuni
carabinieri intervenuti per arrestarlo perché in possesso di sostanze
stupefacenti. Dalle riprese è possibile vedere che l’uomo, una volta
immobilizzato a terra tra due macchine e con i corpi degli agenti che gravano su
di lui, viene ripetutamente colpito con pugni. Alla giornalista, subito dopo, è
stato detto che era passibile di denuncia per violazione della privacy e
favoreggiamento. Ci troviamo di fronte all’ennesima vicenda di abuso da parte
delle forze di polizia e di un uso illegittimo della forza esercitata a danno di
persone già prive di tutele e garanzie.
di Isabella de Silvestro da Il Domani
Sono le 18.30 di giovedì 27 marzo e sto camminando in piazzale Tiburtino, a
Roma. Il sole non è ancora tramontato. Sento delle grida provenire dal
sottopassaggio di via Santa Bibiana, adiacente al piazzale: «Prendetelo,
fermatelo». Mi giro e vedo un ragazzo che corre, inseguito da tre uomini: due
carabinieri in divisa e un altro uomo, che in seguito capirò essere un
carabiniere in borghese.
Il ragazzo inseguito, L. B., non ha più fiato per continuare a correre,
rallenta, è disarmato, è scalzo, si ferma. Uno dei carabinieri lo raggiunge e lo
spinge con violenza, scaraventandolo fra due macchine parcheggiate. «Bravo» si
complimenta il collega gridando. «Vaffanculo, vaffanculo» urlano invece contro
il ragazzo disteso sull’asfalto. Si gettano su di lui e sul suo corpo inerme e
iniziano a colpirlo con calci e pugni. Il motivo dell’inseguimento e del fermo
ha a che fare con la droga, ma questo lo scoprirò solo il giorno dopo.
Attraverso di corsa la strada che ci separa gridando di smetterla, cercando di
attirare l’attenzione dei passanti. Smettono di picchiarlo quando vedono che ho
tirato fuori il cellulare per riprenderli. Hanno il fiatone, sono agitati, lo
tengono bloccato a terra, schiacciato dal peso dei loro corpi. Lo ammanettano.
Lui non oppone resistenza, fa fatica a respirare, è in stato confusionale,
gettato fra le due auto, con il viso sul cemento. Emette dei rantoli.
Mentre lo ammanettano, i carabinieri mi chiedono insistentemente di «favorire un
documento». Rispondo che non ho alcun problema a presentare un documento ma
chiedo loro di accertarsi se il ragazzo sta bene. «Sta benissimo» risponde uno
di loro. «Non sta bene, non mi sembra una persona che sta bene, chiamate
un’ambulanza», insisto. Chiedo direttamente a lui come si sente ma non è in
grado di rispondermi. È ancora disteso a terra, cerca di riprende fiato, sembra
sotto shock. Invece dell’ambulanza i carabinieri chiamano un’altra volante, che
impiega sette minuti ad arrivare. In quei sette minuti L.B. riesce faticosamente
a mettersi a sedere. Gli chiedo se parla italiano e mi risponde di sì.
«Come stai?».
«Male».
«Cosa posso fare?».
«Ti prego, aiutami».
Domando alle persone che nel frattempo si sono radunate intorno alla scena se
qualcuno ha dell’acqua. Gli porgo una bottiglietta ma è ammanettato e
indolenzito, fatica a tenerla fra le mani, gli si rovescia addosso. Uno dei
carabinieri prende il mio documento. «Non diffonda il video o la denunciamo. Sta
intralciando un’operazione di polizia e può essere accusata di favoreggiamento».
Quando arriva la volante riprendo con il cellulare il momento il cui L.B. viene
condotto verso l’auto dei carabinieri. Fatica a camminare dritto, ha la schiena
inarcata e il passo è claudicante. Il carabiniere che lo sta portando verso
l’auto mi dice che non posso inquadrarlo. Rispondo che non lo sto inquadrando,
mi interessa riprendere le condizioni del ragazzo che hanno arrestato. Una
collega del carabiniere arrivata con la volante mi chiede nuovamente il
documento e mi ripete che verrò denunciata se dovessi divulgare il video. Dico
che sono giornalista e che non c’è alcun bisogno di intimidirmi, le chiedo di
spiegarmi per cosa verrò denunciata: «Per violazione della privacy», risponde.
Caricano L.B. nell’auto, che si siede con grande fatica per il dolore provocato
dalle percosse. L’auto dei carabinieri parte a grande velocità e sirene spiegate
e non so se lo stiano portando in ospedale o in caserma. Rimango ancora per
circa mezz’ora sul posto dell’aggressione e mi confronto con altri testimoni
della scena. Una persona, che ha preferito rimanere anonima temendo
ripercussioni da parte delle forze dell’ordine, mi dice che ha filmato la spinta
e i pugni. Gli assicuro che non verrà coinvolto se non lo desidera e dopo un po’
di titubanza mi inoltra il video.
Il mattino dopo mi reco al Tribunale penale di Roma, in piazzale Clodio, dove
avvengono le convalide degli arresti per direttissima, ovvero i procedimenti
penali che si verificano quando una persona viene arrestata in flagranza di
reato. Mi accompagna Gianluca Dicandia, avvocato che presta servizio a
CivicoZero, una cooperativa sociale che si occupa di minori stranieri non
accompagnati, poco lontana dal luogo dell’aggressione. Dicandia non ha assistito
alla scena ma è stato allertato da una collega che invece si trovava sul posto e
lo ha chiamato per fornire aiuto.
Io e l’avvocato Dicandia ci troviamo quindi in tribunale alle 9. Dopo circa
un’ora di attesa vediamo avvicinarsi L.B., accompagnato dai poliziotti verso la
sala dove si terrà l’udienza. Ha uno sguardo terrorizzato, il viso esausto. Mi
avvicino a lui e gli chiedo se si ricorda di me: annuisce. Gli spiego che ho i
video dell’abuso e che ci impegneremo per aiutarlo.
Non mi è permesso entrare nell’aula dove si svolgerà il procedimento e allora
rimango fuori, in attesa che esca insieme all’avvocata d’ufficio che gli è stata
assegnata, con la quale in seguito parlo e a cui consegno i video perché li
possa depositare. In aula c’è uno dei carabinieri coinvolti nel pestaggio, lo
riconosco, lui riconosce me: non ne è felice.
Apprendo che L.B. è un migrante senza fissa dimora: dorme per strada. È stato
visto, secondo la versione dei carabinieri, al mercato Esquilino accompagnato da
un cane mentre consegnava una dose di crack a un uomo italiano. Dalla bocca
avrebbe sputato otto involucri di crack. Preso in flagranza di reato avrebbe
consegnato il cane a un signore e avrebbe iniziato a correre per scappare dalle
forze dell’ordine.
Al momento dell’aggressione a cui ho assistito correva scalzo. Ai piedi portava
dei calzini con la scritta “Italia”, accompagnata dalla nostra bandiera.
Il Comando Provinciale dei Carabinieri di Roma, interpellato sulla vicenda, fa
sapere che in merito alle informazioni ed ai video forniti, sono stati attivati
approfondimenti il cui esito verrà riferito alla Procura della Repubblica di
Roma, già informata.
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Tag - malapolizia
Coraggiosi e significativi gli articoli di Stefano Iannaccone e Nello Trocchia
per Domani (10 marzo 2025) che riportiamo qui sotto. Coraggiosi perché, data la
congiuntura di sfacciata persecuzione di chiunque critichi i personaggi del
potere e data la quasi unanime genuflessione della maggioranza dei giornalisti e
media, è lodevole che si svelino fatti assai incresciosi sul conto del capo
della polizia. Fra l’altro va ricordato che la sua stessa nomina è stata
alquanto strana: perché la troppo breve durata dell’incarico di Lamberto
Giannini a capo della polizia (solo dal 4 marzo 2021 all’11 maggio 2023) fu
perché inviso ai capi del governo delle destre della sig.ra Meloni? Oppure
perché sospetto del depistaggio e (di aver fatto perdere già oltre 3 milioni
allo Stato? (indennizzo per ingiusta detenzione a Hassan l’arrestato innocente
per l’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin); oppure perché il nuovo capo,
Vittorio Pisani è nelle grazie di questi capi del governo? Ma ecco che ora si
svela l’increscioso conflitto d’interessi di questi.
In realtà questo conflitto d’interessi non stupisce se si ricorda la sequela di
casi di corruzione oltre che altri reati commessi da diversi dirigenti delle
polizie, sequela emersa in particolare negli ultimi vent’anni (fra i quali
l’ex-vice capo della polizia Izzo costretto alle dimissioni, nonché l’ex
questore di Genova Fiorolli nonché capo della scuola di formazione per l’ordine
pubblico, noto anche per il suo passato di torturatore -vedi il libro di Marco
Preve, Il partito della polizia e Polizie sicurezza e insicurezze).
Allora c’è da chiedersi se il prefetto Vittorio Pisani corrisponda appunto al
profilo appropriato per una polizia in cui tanti dirigenti condividono
comportamenti “nobili” e, va da sé, conflitti d’interesse.
Ecco i due articoli di Iannaccone e Trocchi
(il primo pubblicato anche qui
https://infosannio.com/2025/03/10/il-vitalizio-del-capo-della-polizia-per-un-infortunio-di-30-anni-fa/):
Un percorso costellato di successi, quello di Vittorio Pisani, capo della
polizia. La nomina alla guida del corpo, nel 2023, è arrivata al culmine di una
carriera ricca di arresti eccellenti. Ma oggi su Pisani si addensano dei dubbi
su possibili conflitti di interessi rispetto alla sua posizione.
Secondo quanto può raccontare Domani, infatti, Pisani ha chiesto (e ottenuto)
per sé il riconoscimento dello speciale status di «vittima del dovere». Lo ha
fatto a distanza di oltre 25 anni dall’incidente avvenuto e appena pochi giorni
prima della promozione alla guida del corpo.
La storia inizia nel 1996, quando Pisani dava la caccia a padrini e boss, e
arriva ai giorni nostri con un beneficio che potrà garantire a Pisani un assegno
vitalizio e un altro assegno una tantum. Tutto ruota attorno a una caduta che
gli ha provocato la rottura del polso destro.
Da qui la richiesta di una «speciale elargizione», più precisamente il
riconoscimento di vittima del dovere, pratica che ha investito il ministero
dell’Interno e coinvolto il personale della polizia di Stato mentre proprio il
soggetto richiedente, proprio Pisani, è alla guida del corpo. Un caso che genera
imbarazzo nell’amministrazione. E rischia di incidere su un passato
caratterizzato da operazioni brillanti e cattura di latitanti.
Il dolore e l’istanza
Ma facciamo un passo indietro. Pisani diventa capo della pubblica sicurezza l’11
maggio 2023. Solo pochi giorni prima, quando era ancora vicedirettore dell’Aisi,
presenta un’istanza sull’infortunio alla mano e al braccio, per via del «vivo
dolore che si risveglia», come si legge nelle carte che Domani ha consultato.
Documenti con cui chiede il riconoscimento dei benefici di vittima del dovere.
Un particolare status, riconosciuto a persone uccise o ferite durante le
operazioni di polizia, che permette di avere una serie di esenzioni e alcuni
tipi di risarcimento.
La pratica è stata avviata da Pisani il 20 aprile 2023 ed è terminata con il via
libera della commissione nel giugno 2024, con il poliziotto da ormai un anno al
vertice del Corpo. La richiesta risale a fatti del 1996. Proprio quell’anno,
precisamente il 16 maggio, il poliziotto era capo della sezione omicidi della
squadra mobile di Napoli: nel corso di un’operazione scivola e si fa male.
«Durante una perquisizione a Napoli, eseguita presso il domicilio di un capo
clan della camorra, cadeva nell’introdursi da una finestra, riportando
l’infermità di cui al giudizio diagnostico», si legge nella documentazione
allegata all’istanza presentata. Un’ infermità, quella di Pisani, già
riconosciuta dal Viminale come causa di servizio molti anni fa: il
superpoliziotto ottenne una integrazione allo stipendio di qualche centinaia di
euro.
La visita a domicilio
Quando Pisani sta per diventare capo della polizia, avanza la richiesta per
ottenere un altro e più consistente beneficio: un vitalizio e un nuovo
indennizzo una tantum. Per portare avanti la pratica è necessaria però una nuova
visita, che generalmente viene fatta nelle sedi opportune con la commissione al
completo, composta da vari medici di corpi. Nel caso di Pisani, però, la visita
viene fatta a domicilio.
A spiegare l’eccezione, si legge negli atti letti da Domani, ci sono «gli
irrevocabili e seriali impegni collegati con l’attuale funzione istituzionale
ricoperta dal signor prefetto», perciò «la commissione scrivente (quella vittime
del dovere della polizia di stato, del dipartimento militare di medicina legale)
sottoponeva a visita domiciliare l’istante per mezzo di uno dei suoi
componenti».
Da Pisani si è così presentato il medico capo della polizia di stato, Valerio
Bruni. Il 4 ottobre 2023 Bruni ha prodotto la relazione sullo stato di salute
del capo della polizia: «Alla palpazione del capitello radiale e della rima
articolare radio-carpica si risveglia vivo dolore» prima di aggiungere «si
riscontra plus perimetrico di 1 centimetro dell’articolazione del polso e
minusperimetrico di 1 centimetro della circonferenza delle eminenze Tenar e
Ipotenar».
Vengono allegati alla scheda i referti (per visite al polso e al gomito) del
policlinico Gemelli e dell’Umberto I di Roma. La documentazione porta al
giudizio diagnostico conclusivo dove si segnala la frattura «mal consolidata».
La commissione non si esprime all’unanimità, ma a maggioranza. E uno dei
componenti si è opposto: a suo avviso l’invalidità non può superare il 20 per
cento. Gli altri membri scelgono diversamente: il giudizio medico legale
stabilisce un danno biologico, pari al 12 per cento, un danno morale dell’8 per
cento e alla fine, considerando il tutto, si arriva al 25 per cento attraverso
il riconoscimento di invalidità permanente. Un numero importante.
La soglia per l’assegno
Il 25 per cento finale è la soglia cruciale prevista dalla legge in
materia. Alle vittime del dovere o soggetti equiparati, con un’invalidità non
inferiore al 25 per cento, «oltre alla speciale elargizione, spetta uno speciale
assegno vitalizio, non reversibile, di 1033 euro mensili e l’assegno vitalizio
non reversibile, corrisposto a partire dal 26 agosto 2004, pari a 258,23 euro al
mese». La cifra è stata successivamente sottoposta ad adeguamento come previsto
dalla legge.
Tra il 20 e il 25 intercorre la differenza sostanziale per l’attribuzione
dell’assegno mensile, che secondo i ricalcoli si aggira sui 2.200 euro, e
dell’elargizione una tantum che inizialmente era di 2mila euro, anche questo
aggiornata, per ogni punto percentuale di invalidità, da destinare al poliziotto
interessato, insieme ad altre misure speciali, per esempio l’esenzione Irpef al
momento della pensione.
Nel caso di Pisani dunque l’una tantum varierebbe in una forchetta di circa
50mila euro fino a potenziali 75mila, in caso fosse destinatario delle
rivalutazioni. Soldi che, tuttavia, non si sa se sono stati già incassati. La
pratica è conclusa ma, a quanto risulta, potrebbe non essere stata liquidata.
Domani ha chiesto al capo della polizia lo stato dell’iter, insieme a una serie
di chiarimenti sulla vicenda. Pisani ha preferito non rispondere. Resta agli
atti del ministero dell’Interno che la domanda è stata presentata e validata con
il giudizio della commissione.
La carriera di Pisani è quella di un super poliziotto che ha messo a segno
arresti eccellenti, da capo della mobile, come quelli dei boss del clan dei
Casalesi, Antonio Iovine, nel 2010, e Michele Zagaria, nel 2011. Sono anni di
successi, ma anche di difficoltà.
La risalita
Tra il 2011 e il 2013 Pisani è stato infatti indagato per favoreggiamento
nell’ambito di una inchiesta per riciclaggio a carico di alcuni imprenditori
napoletani. Alla fine è uscito assolto da qualsiasi accusa. Ma in quella fase
delicata Pisani ha avuto vicino magistrati, poliziotti e politici, tra questi un
sostenitore di eccellenza: Alfredo Mantovano, all’epoca sottosegretario al
ministero dell’Interno, nel quarto governo Berlusconi.
E come se non bastasse :
I conflitti di interessi del capo della polizia: un vitalizio anche alla moglie
Nel 2010 Vittorio Pisani ha firmato una relazione di servizio sul suocero
poliziotto, morto d’infarto quattro anni dopo il pensionamento. Un rapporto che
certificava condizioni particolari di lavoro. Grazie alle quali gli eredi hanno
avuto indennizzi. Come rivelato da Domani, il numero uno della polizia ha
avviato una pratica simile per sé stesso
Silenzi imbarazzati su vitalizi e conflitti d’interessi del capo della polizia
(di Stefano Iannaccone e Nello Trocchia per Domani, 11 marzo 2025)
Se il silenzio della maggioranza era prevedibile, sorprende l’immobilismo delle
opposizioni. Ad annunciare la presentazione di un’interrogazione parlamentare
sui vitalizi dati a Pisani e alla moglie è solo Alleanza verdi-sinistra. Nessun
commento né dal governo né dal Pd
I palazzi della politica restano in silenzio di fronte al caso del capo della
polizia, Vittorio Pisani, e ai vitalizi ottenuti in famiglia grazie al
riconoscimento dello status di «vittima del dovere». Tutto legittimo, certo. Ma
la questione è di opportunità e di possibili conflitti di interessi con
l’incarico ricoperto. Nella maggioranza l’auspicio è che la cosa passi sotto
silenzio.
La nomina del prefetto è stata fortemente voluta dal sottosegretario alla
presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, da sempre estimatore di Pisani, e
dal vicepremier leghista, Matteo Salvini, con l’assenso obbligato del ministro
dell’Interno, Matteo Piantedosi. La linea è quella di tenere “bassa” la vicenda.
Ma, se il silenzio della maggioranza era prevedibile, sorprende l’immobilismo
delle opposizioni. Ad annunciare a Domani la presentazione di un’interrogazione
è solo Angelo Bonelli di Alleanza verdi-sinistra. Nei prossimi giorni il
deputato di Avs, Devis Dori, depositerà alla Camera l’atto per chiedere alla
ministra del Lavoro, Marina Elvira Calderone, e al titolare del Viminale
Piantedosi «di fare chiarezza sulla vicenda».
Bocche cucite nel Pd: il partito non assumerà iniziative e, al momento, neanche
i singoli parlamentari hanno annunciato atti ispettivi. E il Movimento 5 stelle
di Giuseppe Conte? Frenati gli ardori degli esordi in parlamento, nessuno
proferisce parola su una questione che riguarda i vitalizi (seppure non di
politici).
Del resto nel 2019, quando la stella di Pisani è tornata a brillare con la
nomina a vicedirettore dell’Aisi, a palazzo Chigi c’era Conte alla guida della
coalizione Lega-M5s. La nomina arrivò grazie alla spinta di Salvini che lo aveva
apprezzato da responsabile dell’immigrazione al ministero.
Tra i deputati del M5s c’è l’ex procuratore nazionale antimafia, Federico
Cafiero De Raho, che non ha voluto commentare l’inchiesta, ma conosce benissimo
Pisani. Nel 2011 entrarono insieme nel covo di Michele Zagaria, il boss del clan
dei Casalesi, per catturarlo. Tra i due, comunque, non c’è mai stato particolare
feeling.
Il caso crea imbarazzi. Come raccontato da Domani, Pisani ha ottenuto per sé la
possibilità di avere un assegno mensile, di almeno 2mila euro, più l’elargizione
di un indennizzo una tantum a seguito di un’istanza presentata nell’aprile 2023
per diventare beneficiario delle misure destinate alle «vittime del dovere».
La domanda è stata depositata quando Pisani era vicedirettore dell’Aisi, i
servizi segreti interni, e poche settimane prima di diventare capo della
polizia. L’incidente che ha innescato la richiesta risaliva al 1996, quando il
poliziotto riportò un infortunio al polso. Un acciacco fisico riconosciuto
dipendente da causa di servizio con contestuale concessione di un precedente
«equo indennizzo».
Già in precedenza, però, Pisani aveva maneggiato in famiglia una richiesta per
ottenere lo status di «vittima del dovere». La battaglia era iniziata in favore
del suocero, Vincenzo Pirone, ex ispettore della squadra mobile di Napoli.
Pisani, nonostante il legame di parentela, aveva firmato nel 2010 un rapporto
sulla vicenda. In quel documento ricordava l’impegno di Pirone in «particolari
condizioni ambientali», uno dei fattori dirimenti nella richiesta della
famiglia.
Dopo una serie di bocciature delle istanze del Viminale, nel 2020 c’è stato il
pronunciamento di un giudice del lavoro che ha accolto il ricorso. Il rapporto
di Pisani è stato citato nelle motivazioni del verdetto, che ha aperto le porte
al vitalizio agli eredi di Pirone, tra cui Giulia Pirone moglie dell’attuale
capo della polizia. L’attesa è per la risposta del governo all’interrogazione.
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L’ex capo della Digos di Torino Carlo Ambra che ha condotto le indagini contro
il centro sociale Askatasuna e il movimento No Tav sarebbe coinvolto nel caso
del torturatore libico Almasri.
da InfoAut
Secondo quanto riporta Il Post:
“Almasri era stato dapprima fermato per un rapido controllo d’ordinanza mentre
era in macchina nel centro di Torino insieme ad altri tre amici (due libici e
uno statunitense), la mattina del 18 gennaio; poi, dopo ulteriori accertamenti,
era stato raggiunto nell’hotel dove alloggiava, in Piazza Massaua, alle 3 e
mezza del mattino seguente, e da lì portato negli uffici della DIGOS della
Questura di Torino.
Dopo le procedure burocratiche di rito, era stato trasferito nel carcere Lorusso
e Cutugno, dove era rimasto fino al pomeriggio del 21 gennaio, quando era stato
rimpatriato insieme agli altri suoi amici, con un aereo in dotazione ai servizi
segreti italiani con un volo da Torino a Tripoli.”
A far emergere la vicenda sarebbero state due improvvise promozioni: quella di
Carlo Ambra e di Stefano Carvelli, un dirigente della Polizia di Stato che
lavorava allo SCIP (Servizio per la cooperazione internazionale della Polizia).
Ambra è stato promosso all’Ufficio centrale ispettivo a Roma, un importante
organo di controllo e coordinamento delle indagini a livello nazionale
incardinato nel dipartimento di Pubblica sicurezza del ministero dell’Interno,
tre giorni dopo i fatti che riguardano Almasri. Dopo sette anni in forze alla
Questura di Torino l’ex capo della Digos ha assunto una nuova qualifica:
consigliere ministeriale aggiunto, che nella gerarchia della Polizia è un grado
più giù di questore, e dunque piuttosto in alto.
Carlo Ambra e Stefano Carvelli sono collegati proprio dal caso Almasri. Lo SCIP,
di cui Carvelli faceva parte prima della promozione, è infatti “la struttura che
ha curato la gestione delle comunicazioni tra la Corte penale internazionale, la
questura e la DIGOS di Torino. Era stato proprio lo SCIP, il 19 gennaio, a
segnalare alla DIGOS che, in seguito a «intese telefoniche» con la Corte, «la
persona in oggetto [cioè Almasri, ndr] risulta ricercata in campo
internazionale». E per questo lo SCIP sollecitava formalmente la questura a
«valutare la sussistenza delle condizioni e l’opportunità di procedere»
all’arresto immediato Almasri. Dopo questa comunicazione la DIGOS aveva deciso
di andare all’hotel di Almasri e arrestarlo.”
“Carvelli nello SCIP ricopre un ruolo importante: è l’ufficiale di collegamento
con il ministero degli Esteri. Fonti del ministero stesso confermano che
Carvelli è a capo di una struttura molto importante, che gestisce le
comunicazioni e la condivisione di informazioni per casi come quello di Almasri
che riguardano la Corte penale internazionale. La Corte, che ha sede nei Paesi
Bassi, comunica in via preliminare con il governo italiano attraverso
l’ambasciata italiana all’Aja, che fa capo appunto al ministro degli Esteri, ed
è da lì che poi le richieste vengono inoltrate a Roma. L’ufficio di collegamento
dello SCIP al ministero degli Esteri è una delle strutture che si sono attivate
in quei giorni.”
Anche Carvelli è finito a ricoprire un ruolo particolarmente significativo dopo
la promozione: andrà a lavorare alla Direzione centrale della Polizia criminale,
uno degli organismi più prestigiosi e delicati nelle attività di indagine e di
prevenzione della criminalità, oltre che nella cooperazione con le polizie
internazionali.
Il timing di queste promozioni ha suscitato sospetti perché sono avvenute
entrambe a pochi giorni dal rilascio del generale libico, responsabile tra
l’altro di crimini di guerra. È evidente che l’arresto di Almasri ed il processo
di fronte alla corte dell’Aja avrebbe potuto gettare imbarazzo sul governo di
Giorgia Meloni e anche sui governi precedenti, quindi se alcuni solerti uomini
delle forze dell’ordine avessero “chiuso un occhio” sulla fuga del torturatore
probabilmente verrebbero premiati ed allontanati dal loro precedente ruolo come
già successo spesso nel nostro paese. Sarà questo il caso?
Carlo Ambra nella sua lunga permanenza alla Questura torinese si è prodigato in
una campagna di persecuzione nei confronti dei movimenti sociali. Campagna che è
culminata con due inchieste per reati associativi: la prima, l’operazione
Scintilla, che portò allo sgombero dell’Asilo Occupato e che si è conclusa con
la caduta anche in appello del reato associativo e la seconda contro il
movimento No Tav, l’Askatasuna e lo Spazio Popolare Neruda che lunedì 31 marzo
andrà a sentenza. Sono state già lungamente sottolineate le anomalie che hanno
caratterizzato l’inchiesta contro i No Tav, l’Askatasuna e lo Spazio Popolare
Neruda, le strane fughe di notizie che hanno accompagnato lo svolgimento del
processo e la particolare convergenza d’interessi tra Procura, Questura, Telt e
destra nazionale e locale.
Ambra ha utilizzato ogni mezzo a sua disposizione per tentare di tacitare il
dissenso sociale in città con arresti, sequestri, sgomberi e perquisizioni. La
sua parentesi come capo della Digos di Torino è stata caratterizzata da una
strategia poliziesca e mediatica volta a screditare i movimenti sociali sempre
in stretta sinergia con la destra torinese. Se la vicenda che lo vede coinvolto
nel caso Almasri si rivelasse vera emergerebbero ulteriori dubbi sul suo operato
alla Questura di Torino e sulle inchieste anomale che ha guidato in questi anni.
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Gabriele Carchidi, direttore del portale di informazione “Iacchitè” è stato
fermato brutalmente da una pattuglia della polizia mentre camminava per strada.
“Ho sentito che uno di loro cercava di salirmi con le ginocchia sulla schiena,
lì ho avuto davvero paura”
di Alessia Candido da La Repubblica
Picchiato, strattonato, schiacciato sull’asfalto. Un giornalista, Gabriele
Carchidi, è stato fermato e brutalmente costretto a terra dalla polizia a
Cosenza. “Uno di loro aveva il ginocchio vicino alla mia schiena, in quel
momento mi sono venute in mente le immagini di George Floyd e di altri morti
durante fermi di polizia e ho avuto davvero paura”. Un video, che qualcuno ha
girato da un palazzo che si affaccia sulla strada, documenta l’intera
aggressione. Di una violenza insensata.
La richiesta di documenti
Cosenza, sabato pomeriggio. Gabriele Carchidi, giornalista e direttore di
Iacchitè – portale di informazione locale che definire caustico è un eufemismo –
sta camminando per via degli Stadi. È il percorso che fa ogni giorno per
raggiungere la redazione. Sono più di un paio di chilometri e generalmente li
usa per fare un minimo di attività fisica. L’abbigliamento lo testimonia: tuta
nera e scarpe da corsa. Improvvisamente, mentre cammina sul marciapiede, una
pattuglia accosta e lo ferma. “Documenti”.
Volto conosciuto
Lui chiede il motivo del controllo, gli agenti, racconta, si fanno più
aggressivi, si limitano a ripetere la richiesta. Per certi versi è surreale.
Carchidi a Cosenza è una faccia nota, è stata la voce storica dello stadio, è il
direttore di un portale che spesso “punge” e per questo passa guai. Querele
incluse, che obbligano il direttore a presentarsi regolarmente in questura per
l’identificazione.
La polizia di Cosenza
Alcuni degli ultimi “colpi” riguardano proprio la polizia di Cosenza: cocaina
che sparisce dopo i sequestri, come il denaro confiscato ai parcheggiatori
abusivi, furti negli uffici. E poi storie di talpe, ricatti, due bossoli e un
messaggio di minacce lasciato su un’auto della Digos, le voci su una faida tutta
interna.
“Ho avuto paura”
“Io ho cercato di oltrepassare l’agente e andare via. La sua collega stava già
chiamando i rinforzi, un’altra pattuglia è arrivata a sirene spiegate. Tutti
hanno iniziato a strattonarmi e a cercare di buttarmi a terra”. Il video è
eloquente. Si vedono tre agenti che gli stanno addosso, lo spintonano, lo tirano
giù. La violenza è tale che nella concitazione perde una scarpa, qualcuno lo
aggancia per la felpa che viene tirata su fino a scoprirgli tutta la schiena.
Carchidi finisce a terra, un agente gli schiaccia le gambe con un ginocchio, un
altro tenta di fare la stessa cosa sulla schiena. “È stato il momento in cui ho
avuto davvero paura, troppa gente – lo sappiamo – è morta così. Fortunatamente
con un colpo di reni e sono riuscito a girarmi”, spiega ancora
acciaccato.Ammanettato e trascinato sulla pantera dei poliziotti, è stato
portato in Questura.
“Tu sei un diffamatore”
“Mi sembrava tutto surreale. C’erano queste due volanti che attraversavano la
città a tutta velocità e a sirene spiegate”. E arrivato a destinazione, uno
degli agenti si sarebbe fatto scappare: “Tu sei un diffamatore”. Segno che
sapevano già di chi si trattasse.
La denuncia per resistenza a pubblico ufficiale
Nonostante questo, non solo è stato identificato, ma anche fotosegnalato e
obbligato a lasciare le impronte. Lo hanno rilasciato dopo oltre un’ora, dopo
averlo per giunta denunciato per resistenza a pubblico ufficiale. “Non posso non
pensare che non sia un modo per tentare di intimidirci o farcela pagare, ma non
ci riusciranno. Il video dimostra chiaramente quello che è successo. E presto
presenterò denuncia”.
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Negli anni settanta alcuni agenti si sono battuti per un’istituzione in cui non
ci fosse spazio per la violenza. Ma ogni tentativo è stato soffocato.
di Luigi Mastrodonato da Internazionale
Quando nel 2015 Orlando Botti si è messo in viaggio per Ferrara erano passati
dieci anni esatti dalla morte di Federico Aldrovandi. Botti, che vive a Imperia
e oggi ha 77 anni, voleva essere presente nella città emiliana per il decimo
anniversario di quel 17 settembre 2005, giorno in cui Aldrovandi, che aveva 18
anni, era stato brutalmente ucciso da alcuni agenti di polizia durante un
controllo in strada. Botti aveva preso a cuore la storia fin da subito,
instaurando un rapporto di amicizia con i genitori di Aldrovandi.
Botti ha lavorato nella polizia dal 1966 al 1996, arrivando a ricoprire la
posizione di ispettore capo. Negli anni settanta aveva cominciato a incontrarsi
di nascosto con alcuni colleghi, tra cui degli ex partigiani, per immaginare una
polizia diversa: sindacalizzata, smilitarizzata e democratica, in cui non ci
fosse spazio per i metodi brutali e violenti. Le loro battaglie nel corso degli
anni sono andate perse, ma Botti e pochi altri hanno continuato a denunciare i
malfunzionamenti del sistema. Prima da poliziotti, poi da pensionati.
“Quando è stato ucciso Aldrovandi molti agenti e funzionari di polizia hanno
sostenuto i colleghi indagati e poi condannati. Ci sono stati anche presidi in
loro solidarietà”, racconta al telefono Botti. “Lo stesso succede ogni volta che
emergono nuove storie di abusi compiuti da chi indossa la divisa, è una difesa
di tipo corporativo. È la dimostrazione che le battaglie del nostro movimento
sono andate perse”.
Il movimento dei carbonari
All’inizio degli anni settanta la fiducia degli italiani nelle forze di polizia
era ai minimi storici. Dopo la caduta del fascismo c’era stata una parziale
epurazione dei vertici dell’istituzione, ma quasi subito le persone rimosse
erano tornate al loro posto. La polizia era caratterizzata da autoritarismo e
violenza. Nel 1950 alcuni agenti avevano sparato contro un gruppo di operai in
sciopero alle Fonderie riunite di Modena, uccidendone sei. Dieci anni dopo, nel
luglio 1960, era successo di nuovo a Reggio Emilia, con cinque morti. Con le
proteste studentesche e operaie della fine degli anni sessanta la repressione
della polizia si fece ancora più pesante. L’Italia, tra l’altro, era l’unica
democrazia occidentale ad avere forze di sicurezza – cioè polizia, carabinieri e
guardia di finanza – interamente militari.
Negli anni settanta però cambiò qualcosa. Alcuni agenti, che si autodefinivano
“carbonari”, cominciarono a riunirsi clandestinamente per discutere del futuro
della polizia. Volevano cambiare la loro condizione precaria fatta, tra le altre
cose, di stipendi bassi, straordinari non pagati e obbligo di celibato fino a
una certa età. Chiedevano la smilitarizzazione della polizia, in modo che la
gestione della pubblica sicurezza passasse sotto l’ordinamento civile. E
chiedevano un processo di democratizzazione per superare la violenza e
l’autoritarismo che caratterizzavano la polizia.
“Eravamo illegali, ci incontravamo in fondo al molo di Imperia per controllare
se arrivava qualcuno”, ricorda Botti. “Quando abbiamo cominciato avevamo ben
impressi nella mente gli operai uccisi a Reggio Emilia e le altre vicende
simili. Osservavamo questi fatti e volevamo fare in modo che non succedessero
più. Volevamo democratizzare la polizia per evitare violenze sugli arrestati e
mettere la parola fine alla forza bruta con cui si garantiva l’ordine pubblico”.
Inizialmente questi agenti carbonari formavano gruppi piccoli. Poi si
trasformarono in un movimento vero e proprio, che venne allo scoperto. Decisivo
fu il giornale Ordine pubblico, diretto dal fotografo, giornalista ed ex
partigiano Franco Fedeli. “La rivista cominciò a parlare dei problemi della
polizia in modo radicale e fortemente critico, al di fuori dei canoni
istituzionali”, spiega Michele Di Giorgio, ricercatore all’università di Bari e
autore del saggio Il braccio armato del potere (Nottetempo 2024). “Ordine
pubblico diventò un centro di coordinamento per l’attività dei poliziotti
carbonari, aiutandoli a organizzare le riunioni, favorendo la mobilità delle
persone e delle idee, e facilitando il dialogo con la politica”.
Furono soprattutto il Partito comunista italiano (Pci) e quello socialista ad
ascoltare i poliziotti carbonari. Nelle elezioni regionali del giugno 1975 il
Pci fu il partito più votato in una caserma del reparto celere di Milano, e lo
stesso successe in altri seggi in cui votavano solo agenti di polizia.
Repressione e riforma
I carbonari sognavano una rivoluzione democratica della polizia. Ma la loro
battaglia fu piena di ostacoli. Se da una parte ottennero il sostegno pubblico
di persone come il giurista Stefano Rodotà, dall’altra dovettero far fronte
all’ostracismo di altri, tra cui il giornalista Indro Montanelli. Furono
ostacolati anche dal governo e dai vertici della polizia stessa. “Una serie di
provvedimenti punitivi colpirono i poliziotti democratici, sia nella fase
clandestina sia in quella pubblica. All’interno della polizia si scatenò la
caccia a chi sosteneva la causa riformista”, ricorda Di Giorgio.
Mario Bruno Piras ha 75 anni e ha lavorato nella polizia fino al 2002. Negli
anni settanta fu un carbonaro a Nuoro, in Sardegna, e per questo rischiò più
volte di perdere il lavoro. Fu denunciato al tribunale militare, fu trasferito
due volte e sottoposto a una perizia psichiatrica, da cui ne uscì senza
conseguenze solo perché anche il medico militare che lo visitò era un carbonaro.
“Eravamo convinti di poter avere una polizia democratica al servizio dei
cittadini ed eravamo disposti a tutto per raggiungere questo obiettivo”, ricorda
oggi Piras. “Rischiavamo perizie psichiatriche, trasferimenti e altre misure
punitive, ma ogni manifestazione, ogni incontro, ci incoraggiava a non
fermarci”.
Anche Franco Fedeli subì questi attacchi e anche lui non si fece intimidire. Nel
1976 su pressione del governo fu licenziato dall’editore di Ordine pubblico.
Questo rischiò di segnare la fine del movimento, ma nel giro di qualche
settimana Fedeli fondò un’altra rivista, Nuova polizia e riforma dello stato,
attraverso cui continuò la battaglia riformista.
Nell’aprile 1981, dopo più di dieci anni di lotte, con cortei, scioperi e
occupazioni, fu approvata la legge di riforma. La polizia passò sotto
l’ordinamento civile, e sulla carta doveva essere più vicina ai cittadini.
La nuova legge insisteva sul rispetto della costituzione e dei princìpi
democratici. Fu infine consentita la creazione di sindacati di polizia – così
nacque il Sindacato italiano unitario lavoratori polizia (Siulp) – e furono
ammesse le donne. Doveva essere la vittoria dei carbonari, ma ci volle poco
tempo per capire che non era così. Alla guida del Siulp cominciarono ad
alternarsi dirigenti che non avevano avuto un ruolo nel movimento dei carbonari
e nacquero altri sindacati dichiaratamente ostili al movimento, come il Sap.
Nel 1982 furono rivelate le torture subite dagli indagati per il sequestro
Dozier, il generale statunitense rapito dalle Brigate rosse, e commesse da
agenti di polizia. Nonostante la riforma, i problemi della polizia erano ancora
lì, uguali a prima. Anche le intimidazioni, le punizioni e l’emarginazione
subite dai poliziotti che denunciarono le torture, cioè Riccardo Ambrosini,
Gianni Trifirò e Augusto Fabbri, apparvero come un tradimento degli ideali della
riforma.
“Dopo l’approvazione della riforma della polizia c’è stato un disinteresse
totale sulla sua applicazione”, sottolinea Di Giorgio. “Quella legge doveva
essere l’inizio di un percorso di riforma generale, ma di fatto resta una
riforma disattesa. Il grosso dei problemi è rimasto e in assenza di una spinta
sindacale e dell’apporto del movimento dei carbonari è venuta meno tutta la
parte ideale”.
C’è una data che secondo gli ex carbonari segna la morte definitiva della
riforma della polizia, o quanto meno dei suoi ideali. Il G8 di Genova del 2001 e
quello che il vicequestore Michelangelo Fournier definì una “macelleria
messicana”: la scuola Diaz, le torture alla caserma di Bolzaneto, l’omicidio di
Carlo Giuliani, i depistaggi e le assoluzioni di vertici e sindacati che ne
seguirono.
Quando nella notte del 21 luglio 2001 dalla scuola Diaz di Genova partirono le
ambulanze con decine di manifestanti e giornalisti feriti, Roberto Sgalla, il
portavoce della polizia che poi ha fatto carriera fino a dirigere la scuola
superiore di polizia, si presentò davanti all’edificio e disse che le ferite dei
ragazzi e delle ragazze risalivano agli scontri dei giorni precedenti, e che
nella scuola c’erano i black bloc. Una versione poi smentita dalle testimonianze
e dalle prove. “Che a dire questo fosse il portavoce della polizia non c’era
forse da stupirsi, peccato che quelle parole furono pronunciate da quello che
fino a poco tempo prima era stato il segretario generale del Siulp, il sindacato
nato dal nostro movimento”, sottolinea Botti. “Il G8 ha limitato e offeso tutti
i nostri sforzi di fare pulizia”.
Negli anni successivi alla riforma qualcuno cercò di tenere vivi gli ideali
riformatori degli anni settanta. Sicuramente Franco Fedeli, che continuò la sua
attività giornalistica. Ma anche alcuni ex poliziotti. Tra loro Mario Bruno
Piras, che continuò a subire ripercussioni per posizioni ritenute scomode. Nel
2000 fu fermato per traffico di droga, ma poi è stato rilasciato. “Per il mio
tentativo di cambiare le forze dell’ordine, per le mie lotte sempre più
solitarie condotte anche dopo la riforma del 1981, ho vissuto sulla mia pelle il
modus operandi che ho sempre denunciato”, ricorda. “Io ho creduto in una polizia
democratica, ma durante il fermo che ho subìto, e ancor di più dopo il G8, ho
capito che la battaglia era persa”.
Dopo il G8 di Genova nuove storie di violenze hanno coinvolto la polizia e le
altre forze dell’ordine. Dall’uccisione di Federico Aldrovandi a Ferrara, nel
2005, a quella di Stefano Cucchi a Roma, nel 2009; passando per vicende più
recenti come le violenze nella caserma Levante di Piacenza e nella questura di
Verona, o le morti di Ramy Elgaml a Milano e di Moussa Diarra a Verona.
Di abusi e violenze si è parlato in modo sempre più frequente anche per le
carceri, come nel caso di Santa Maria Capua Vetere nel 2020. Vicende che ogni
volta hanno messo in moto una serie di depistaggi e assoluzioni da parte dei
sindacati e dei vertici istituzionali. Mentre le persone condannate o indagate
hanno poi fatto carriera o sono rimaste ai propri posti, come è successo per
Genova.
La riforma del 1981 e le idee alla sua base non sono state tradite solo in
questo modo. A partire dagli anni duemila il reclutamento degli agenti di
polizia è stato fatto sempre meno attraverso i concorsi e sempre più con
l’assunzione di ex militari. Con la cosiddetta riforma Madia del 2015 è stato
poi rimilitarizzato il corpo forestale, che fino a quel momento era civile. “Il
primo pilastro della riforma era la smilitarizzazione, così da toglierci dal
giogo del codice penale militare. Eppure negli ultimi anni c’è stato un processo
di rimilitarizzazione strisciante”, denuncia Botti. “Oggi per un controllo in
strada ci si imbatte in agenti che fino a qualche anno prima erano in missione
in Afghanistan. Persone che hanno una mentalità militare, addestrati per
affrontare nemici, non cittadini”.
Cosa rimane della lotta
Nel 1995 Franco Fedeli aveva deciso di lasciare il giornale Nuova polizia a
causa di dissidi con l’editore. In un momento in cui gli ideali degli anni
settanta erano già quasi del tutto svaniti, la scelta di Fedeli suonava come
un’ulteriore rottura. Nonostante l’età e due anni prima della sua morte, Fedeli
decise però di fondare un’altra rivista, Polizia e democrazia. Oggi questa
rivista esiste ancora, esce ogni due mesi e cerca di tenere vivo il dibattito su
temi come la smilitarizzazione e la democratizzazione delle forze di polizia.
“Siamo rimasti gli ultimi a cercare di portare avanti quella memoria, grazie
anche ad articoli sull’epoca dei carbonari e le istanze riformiste in polizia”,
racconta Michele Turazza, coordinatore della redazione. “Cerchiamo di parlare
dei temi relativi alla sicurezza con un occhio critico, coinvolgendo nella
scrittura anche docenti universitari e ricercatori, com’era nello spirito di
Fedeli”. L’ultima grande battaglia portata avanti dalla rivista è stata contro
la rimilitarizzazione del corpo forestale. “Invece di vedere smilitarizzata
anche la guardia di finanza, che era una delle battaglie degli anni settanta,
abbiamo assistito alla rimilitarizzazione del corpo forestale, voluta dal
governo di Matteo Renzi”, dice Turazza.
Negli ultimi anni su Polizia e democrazia hanno trovato spazio questioni come i
rischi dell’uso del taser (arma in grado di paralizzare una persona con forti
scariche elettriche) l’importanza dei codici identificativi per gli agenti, il
problema degli abusi di potere in carcere e i vari decreti sicurezza. La
diffusione di Polizia e democrazia oggi però è molto più limitata di un tempo. E
anche il pubblico è cambiato. Gli abbonati sono soprattutto avvocati,
accademici, semplici cittadini, mentre la circolazione negli ambienti di polizia
si è ridotta drasticamente. Un segno di come queste battaglie non facciano più
presa tra gli agenti.
Tra chi cerca di tenere vivi gli ideali del movimento dei carbonari c’è anche la
sezione Maurizio Giglio dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi),
nata nel 2023 e composta solo da agenti di polizia.
“Il termine poliziotto antifascista per noi non è un ossimoro ed è importante
rivendicarlo”, spiega il presidente, Vittorio Berti. “L’eredità antifascista la
ritroviamo nella costituzione e dal nostro punto di vista concetti come
democrazia, asilo, accoglienza e libertà di dissenso devono mantenere un ruolo
centrale nel paese”. Oggi la sezione, che ha preso posizione a favore dei codici
identificativi per gli agenti, conta una settantina di iscritti, molti
provenienti da esperienze nel sindacato di sinistra Silp-Cgil. Negli ultimi anni
sono nate altre esperienze democratiche. Dal 2005 l’associazione Polis aperta,
animata da un gruppo di persone lgbt+ che lavorano nelle forze di polizia e in
quelle armate, organizza corsi di formazione, incontri e convegni per promuovere
una cultura inclusiva all’interno di queste istituzioni. Nel 2010 il
dipartimento della pubblica sicurezza ha istituito l’Osservatorio per la
sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), un gruppo interforze per
prevenire, contrastare e offrire supporto alle persone vittime di crimini
d’odio. Oggi questa realtà esiste ancora, ma è sempre meno attiva.
“Non esiste più niente di portata paragonabile alle istanze e agli ideali degli
anni settanta. È rimasta solo qualche iniziativa isolata intorno ai sindacati
più progressisti”, sottolinea lo studioso Di Giorgio. “C’è una certa paura a
esporsi e anche per chi fa ricerca è difficile riuscire ad aprire un dialogo con
le forze di polizia perché i protocolli e i meccanismi di controllo sul
personale sono molto rigidi. Manca soprattutto il clima sociale e politico che
c’era all’epoca. Se oggi il centrosinistra ragiona sulle politiche di sicurezza
come le destre o in modo poco diverso, su quale partito, sindacato o
associazione potrebbero contare le persone appartenenti alle forze dell’ordine
nel momento in cui dovessero decidere di esporsi?”.
Il 26 febbraio 2025 il Siulp, il sindacato nato nel 1981 dalle lotte dei
poliziotti democratici carbonari, ha organizzato un convegno a Torino. Sul
volantino dell’evento si attaccavano il politicamente corretto, gli immigrati e
l’Europa che ha accusato le forze dell’ordine italiane di profilazione razziale.
Tra i relatori c’erano l’eurodeputato della Lega Roberto Vannacci e Marco Rizzo,
coordinatore nazionale di Democrazia sovrana popolare. “Ecco che fine hanno
fatto le nostre lotte”, dice l’ex carbonaro Orlando Botti. “Il nostro tentativo
di fare una rivoluzione culturale è stato sconfitto. E se questo è il presente,
il futuro della polizia non potrà che essere peggiore”
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Annullata la sentenza di assoluzione. Nuovo processo a carico per l’ex
comandante dei Carabinieri Franco Mottola, la moglie Anna e il figlio Marco
accusati dell’omicidio di Serena Mollicone e occultamento di cadavere.
«La corte annulla la sentenza e rinvia a un nuovo processo d’Appello». A
distanza di 24 anni non è ancora arrivato il momento di scrivere la parola fine
sulla morte di Serena Mollicone. I giudici della prima corte penale della
Cassazione accolgono il ricorso della procura generale e tengono in piedi
l’ipotesi che ad uccidere Serena Mollicone, la 18enne di Arce, l’1 giugno del
2001, siano stati il maresciallo della caserma dei carabinieri, Franco Mottola,
la moglie Anna Maria e il figlio Marco, accusati in concorso di omicidio
volontario e occultamento di cadavere.
Le motivazioni del processo e il pg – “Nessuna prova contro i Mottola. Se ci
sono lo dirà la Cassazione”. Era questo in sintesi il ragionamento dei giudici
della Corte d’assise d’appello di Roma che avevano assolto gli imputati per la
morte di Serena Mollicone. E ora il pg della Suprema corte ha chiesto
“l’annullamento della sentenza di assoluzione e un nuovo processo di appello per
il delitto di Arce” a carico dell’ex comandante della caserma di Arce, Franco
Mottola, la moglie Anna Maria e il figlio Marco accusati dell’omicidio della
ragazza avvenuto nel giugno del 2001 nel centro del Frusinate. Nel corso del suo
intervento il rappresentante dell’accusa ha affermato di “condividere e
sostenere il ricorso della procura generale di Roma” contro una sentenza che
presenta “plurime violazioni di leggi”. Motivazioni di 59 pagine in cui i
magistrati scrivevano: “Il convincimento dei giudici non può e non deve fondarsi
sui sondaggi o sugli umori popolari e non può escludersi che le prove, invece,
ci siano, e che questo Collegio non abbia saputo valorizzarle e questo lo dirà,
eventualmente, la Suprema Corte”.
Il pg parla di “macro vizio” della sentenza per mancanza di motivazioni: è “una
sentenza totalmente carente” che ha “atteggiamento pilatesco”. Il pg afferma che
quanto cristallizzato dalla Corte d’Assise di appello della Capitale “omette di
motivare sulla presenza di Mollicone quella mattina nella caserma di Arce. Non
sono stati valutati in maniera unitaria una pluralità di indizi“.
“Il mio pensiero va a mia sorella che non rivedrò più nella mia vita così come
mio padre. Noi confidiamo nella giustizia che attendiamo da 24 anni. Da oggi
abbiamo speranza” ha poi dichiarato Consuelo sorella di Serena Mollicone dopo
la decisione della Suprema corte.
> Delitto di Arce: Serena Mollicone potrebbe essere stata uccisa nella caserma
> dei carabinieri
> La perizia del Ris conferma: “Serena Mollicone uccisa nella caserma dei
> carabinieri”
> Omicidio di Serena Mollicone, indagati l’ex comandante dei Carabinieri di
> Arce, suo figlio e la moglie
> Omicidio Serena Mollicone a processo tre carabinieri
> La perizia del Ris conferma: “Serena Mollicone uccisa nella caserma dei
> carabinieri”
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La storia di Igor Squeo, milanese di 33 anni morto nel 2022 dopo l’intervento
della polizia e del personale di pronto soccorso all’interno del suo
appartamento a Milano. I pm avevano chiesto di chiudere il caso ma il gip ha
disposto nuove indagini sul decesso. Le analogie con la vicenda americana. Sotto
accusa la manovra degli agenti per immobilizzarlo
di Damiano Aliprandi da il dubbio
Una notte che avrebbe dovuto concludersi con un intervento di soccorso si è
trasformata in una tragedia irrisolta. Igor Squeo, 33 anni, milanese, è morto
dopo essere stato immobilizzato dalla polizia in circostanze ancora avvolte nel
mistero. La sua vicenda, oggi al centro di un’interrogazione parlamentare del
deputato Marco Grimaldi ( Avs), riaccende i riflettori su pratiche di fermo che
ricordano da vicino la morte di George Floyd a Minneapolis nel 2020. Un
parallelo agghiacciante, tra compressioni toraciche, omissioni istituzionali e
una madre in cerca di giustizia.
Tutto inizia alle ore 1: 00 del 12 giugno 2022, a Milano, quando il coinquilino
di Squeo, allarmato dal suo stato di agitazione, chiama la polizia. Gli agenti,
giunti sul posto, dichiarano di averlo ammanettato e messo in posizione laterale
di sicurezza, una procedura standard per prevenire rischi di asfissia. Ma la
versione degli operatori sanitari, intervenuti successivamente, è diametralmente
opposta: Squeo era prono a terra, con il torace compresso da un agente.
Nonostante una crisi respiratoria già in atto, gli viene somministrato il
Propofol, un potente sedativo utilizzato in anestesia generale. Due minuti dopo,
il primo arresto cardiaco. Alle 6: 45, Igor muore. A chiamare Franca Pisano,
madre di Squeo, furono i sanitari del policlinico di Via Francesco Sforza,
dicendole che il figlio era morto a causa di un arresto cardiaco: «L’ho visto
sdraiato su quel letto, pieno di lividi e ferite, il corpo fasciato. Nessuno che
mi spiegasse, ‘ overdose da cocaina’, dissero, per loro finiva lì».
Il pubblico ministero aveva inizialmente chiesto l’archiviazione, attribuendo il
decesso alla cocaina assunta da Squeo almeno cinque ore prima. Ma il gip ha
respinto la richiesta, ordinando nuove indagini. Ma si può liquidare il tutto
con la droga? Luigi Manconi, presidente dell’associazione A Buon Diritto, da
anni in prima linea contro gli abusi delle forze dell’ordine, tuona: «La
combinazione della cosiddetta manovra Floyd, quindi della compressione del
torace, e la somministrazione di un anestetico prima del quale non è chiaro se
l’uomo fosse stato monitorato avendo già crisi respiratorie in atto, sono
elementi critici che devono essere approfonditi per restituire la verità su
quella notte e su questa morte!».
A scuotere il caso in parlamento, come detto, arriva l’interrogazione presentata
da Grimaldi, che punta il dito sulle linee guida disattese. Nel 2014, una
circolare dei Carabinieri ( n. 1168/ 4831- 1993) vietava esplicitamente le
immobilizzazioni a terra in posizione prona, definendole un rischio di “asfissia
posturale”.
Ma nel 2016, quel documento fu sostituito da una nuova circolare ( n. 1168/ 483-
1- 1993), che eliminò molte delle garanzie precedenti. Il deputato chiede di
ripristinare quelle norme. L’interrogazione, rivolta al ministero della difesa,
chiede «se non si ritenga opportuno ripristinare quanto previsto dalla circolare
n. 1168/ 483- 1- 1993, vietando espressamente negli interventi operativi la
cosiddetta manovra Floyd o, comunque, qualsiasi forma di compressione toracica».
Il paragone di questa vicenda con quella di George Floyd è inevitabile. La
condanna dell’agente Derek Chauvin aveva dimostrato che fu la pressione sul
collo, non la droga nel sangue, a uccidere Floyd. Eppure, in Italia come negli
USA, pare che queste tecniche siano permesse.
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Sgalla braccio destro di De Gennaro, la notte della Diaz fu il primo a uscire da
questo luogo insanguinato per leggere in diretta TV un comunicato pre-stampato
per giustificare la “macelleria messicana”, mentre mezzo mondo aspettava di
conoscere le ragioni della mattanza. Ora è il nuovo direttore del Centro studi
Americani di cui è presidente De Gennaro
di Salvatore Palidda
Roberto Sgalla nuovo direttore del Centro studi Americani di cui è presidente
Gianni De Gennaro. È andato in pensione col titolo di Prefetto (che il capo De
Gennaro non ha mancato di far elargire a tutti i suoi fedeli) e ora è anche
docente presso la Sapienza Università di Roma e presso l’Università Cattolica
del Sacro Cuore di Milano!
(https://web.uniroma1.it/trasparenza/sites/default/files/cv/Sgalla_cv_%20SDS_0.pdf).
È amico di Roberto Cornelli (di cui ha presentato l’ultimo libro) e si
sponsorizzano a vicenda; probabilmente Cornelli aspira a diventare
l’intellettuale “organico” del Viminale (come lo sono stati Barbagli e Asher
Colombo -entrambi nel consiglio scientifico della Fondazione ICSA -creata da
Minniti e Cossiga- e di cui fanno parte anche il celebre generale Ganzer e altri
illustri militari e funzionari dei servizi segreti distintisi per la loro opera
squisitamente reazionaria).
Ricordiamo che Sgalla è stato il braccio destro di De Gennaro (da questi
nominato “Responsabile dell’Ufficio Relazioni esterne della Polizia di Stato”.
Fu proprio Roberto Sgalla a gestire la manovra medìatica post irruzione alla
Diaz a Genova, mandato direttamente dall’ex capo De Gennaro per gestire una
situazione che si poteva prevedere piuttosto burrascosa. Fu lui il primo a
rilasciare dichiarazioni, mentre mezzo mondo aspettava di conoscere le ragioni
della mattanza e leggere in diretta TV un comunicato pre-stampato -questo sì
pregresso- in cui si diceva che l’efficace brillante operazione della polizia
aveva arrestato decine e decine di blackbloc, armati e che avevano tracce di
ferite pregresse e aveva sequestrato armi proprie e improprie”
(vedi https://processig8.net/Diaz.html e immagini dei feriti che uscivano dalla
Diaz: https://www.youtube.com/watch?v=3vdxTJKg65M )
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Il saggio storico-sociologico di Michele Di Giorgio -ricercatore all’Università
di Bari- è tra le pochissime opere che provano a gettare uno sguardo critico
sulle polizie e sul loro divenire. Ne esce un quadro poco rassicurante. Tra
abusi e violenze istituzionali, pochi momenti di rottura e robuste linee di
continuità, appoggio pressoché incondizionato nei partiti, in Parlamento e da
parte dei governi di ogni colore.
Intervista di Lorenzo Guadagnucci da Altreconomia
Che cosa sappiamo davvero delle polizie? Della formazione che ricevono gli
agenti, delle scelte compiute via via dai dirigenti, di come reagiscono quando
abusi e illegalità vengono alla luce? Che cosa sappiamo dei rapporti fra i
vertici delle polizie e il potere politico? Poco, pochissimo.
Non c’è trasparenza, non c’è abitudine al dialogo con la società civile, quasi
non esiste un giornalismo d’inchiesta specializzato, mancano le ricerche in
ambito accademico.
Le polizie non vogliono farsi studiare e analizzare e pochi le disturbano, molti
invece -in politica e nei mezzi di informazione- le blandiscono. Fece epoca nel
2000 -alla vigilia del catastrofico G8 di Genova- il libro di Salvatore Palidda
“Polizia postmoderna” (Feltrinelli), che metteva a fuoco la nuova configurazione
del controllo e della repressione in una società in profonda trasformazione.
Poche altre pubblicazioni importanti sono seguite. “Il braccio armato del
potere” (Nottetempo, 2024) di Michele Di Giorgio -ricercatore all’Università di
Bari- è fra i pochi saggi storico-sociologici che provano a gettare uno sguardo
critico sulle polizie e sul loro divenire. Ne esce un quadro poco rassicurante.
Le polizie italiane da sempre rifuggono la verifica e la critica dall’esterno,
da sempre non sentono di dovere spiegazioni pubbliche nei frequenti casi di
errori e mancanze, da sempre godono di un appoggio pressoché incondizionato nei
partiti, in Parlamento e da parte dei governi di ogni colore. Di pari passo è
stata svuotata dei suoi contenuti salienti anche la riforma che nel 1981
smilitarizzò la polizia di Stato e fece pensare -o almeno sperare- all’avvio di
una nuova stagione democratica per l’insieme delle forze dell’ordine.
Leggere “Il braccio armato del potere” è un’immersione in una storia
-dall’Italia liberale in poi- che abbonda di abusi e violenze istituzionali, con
pochi momenti di rottura e robuste linee di continuità attraverso le diverse
fasi storico-politiche.
Michele Di Giorgio, perché in Italia si studiano così poco le forze di polizia?
In Italia si è creato un vero filone di studi sulle polizie soltanto negli
ultimi 25 anni, ma i risultati di questo lavoro sono rimasti spesso e volentieri
concentrati all’interno dell’accademia. Raramente si è riusciti a creare un
dibattito pubblico più ampio, aperto e nello stesso tempo critico rispetto alle
istituzioni. In ogni caso, nonostante la presenza di un discreto gruppo di
studiosi di storia, sociologia e criminologia, il lavoro di ricerca viene spesso
complicato dalla scarsità delle fonti. Alcuni archivi sono poco accessibili e
talvolta la documentazione è molto lacunosa.
Per questo tipo di ricerche è necessario che le istituzioni siano disposte a
collaborare, a lasciarsi studiare, e questo in Italia non è automatico, né
scontato. Spesso le polizie si aspettano che sia fatta una ricerca finalizzata
alla divulgazione celebrativa ma uno studioso serio non può aderire a questa
logica. La disponibilità a “farsi studiare” dagli storici è maggiore per i
periodi più remoti, soprattutto per il periodo dell’Italia liberale, ma quando
si tocca il nodo del fascismo, o ci si avvicina all’attualità, le porte si
chiudono. In passato ho avuto accesso all’archivio storico della polizia di
Stato, ho incontrato per diversi anni una buona disponibilità a collaborare,
soprattutto grazie alla volontà del funzionario che lo dirigeva e alla
disponibilità del personale. Poi, per volontà superiori, dovute suppongo allo
scarso interesse dell’istituzione per gli studi storici, l’ufficio è stato
fortemente ridimensionato e gran parte dell’archivio non è più accessibile o,
nei casi più fortunati, è stato versato altrove. E stiamo parlando della
polizia. Con i carabinieri e con la finanza niente del genere è possibile,
spesso mancano i materiali anche nell’Archivio centrale dello Stato.
All’estero è diverso?
Sì, in generale in altri Paesi l’accesso alla documentazione è più semplice.
Negli anni Sessanta e Settanta gli studi sulle polizie erano questione
soprattutto britannica. Con il tempo anche nel resto d’Europa si è creato un
certo interesse per l’argomento, specialmente in Francia. Attualmente ci sono
nuove generazioni di ricercatori anche in Spagna, Portogallo e Grecia,
l’attenzione per questo filone sta crescendo in tutta l’Europa meridionale.
Anche oltreoceano, in molti Paesi dell’America latina, è attiva una folta
schiera di studiose e studiosi delle polizie.
Il titolo del libro dà una definizione classica delle polizie come braccio
armato del potere ma in un sistema democratico non dovrebbe essere così. Il
titolo intende dire che la transizione non è compiuta?
MDG Diciamo che il titolo ha anche una ragione editoriale: vuole attirare il
lettore. Però coglie un elemento di verità, tanto che ho trovato
quest’espressione non solo negli scritti più critici nei confronti
dell’istituzione-polizia, ma anche nei lavori di Franco Fedeli, il giornalista
che è stato fra i protagonisti della stagione della riforma democratica della
polizia di Stato. Almeno fino alla riforma del 1981 quella definizione è ancora
calzante, pur nella complessità della vicenda delle istituzioni di polizia. Poi
le cose cominciano a cambiare, come cambia anche l’intera società italiana.
Che tipo di cambiamento è stato?
Il principale riguarda il tramonto dei partiti. Fino a tutti gli anni Ottanta il
ministero dell’Interno è stato retto dalla Democrazia cristiana, che dunque
nell’ottica delle polizie rappresentava il potere. Poi molto è cambiato, nuovi
partiti sono nati e la politica ha perso un po’ di peso nella gestione degli
apparati. C’è chi dice che le polizie di oggi siano al servizio del potere
neoliberista ma io credo che su questo punto sia difficile fare affermazioni
troppo nette. Dovremmo prima vedere le carte e fare i dovuti approfondimenti.
A leggere il libro colpisce la linea di continuità nell’uso sproporzionato della
violenza: dall’età liberale ai primi decenni del dopoguerra, passando per il
fascismo. È una storia con centinaia di operai, contadini, manifestanti uccisi.
Una storia di torture e abusi. Emerge anche un classismo impressionante.
MDG È così e forse, nel definire la linea di continuità, dovremmo risalire
ancora più indietro nel tempo. È vero, violenza e classismo sono preminenti. È
anche inquietante, nell’uso classista delle polizie, notare lo sfruttamento cui
erano sottoposti gli agenti, che vivevano in condizioni veramente difficili, mal
pagati, male alloggiati, privati di libertà e diritti riconosciuti agli altri
cittadini.
Nel libro scrive che a guerra appena finita gli Alleati suggeriscono di
riformare drasticamente le polizie fasciste, in senso più democratico.
Leggere quei suggerimenti fa impressione perché sono in parte validi anche per
l’oggi: si parla di unificare i corpi di polizia, di disarmare gli agenti
durante le manifestazioni, di formazione ai valori della democrazia, di qualità
della vita nelle caserme. Evidentemente gli Alleati facevano riferimento alle
polizie civili dei Paesi più democratici, in primo luogo l’Inghilterra, e la
polizia dell’Italia fascista era ovviamente lontanissima da quel modello. Ma i
suggerimenti non furono raccolti e forse inglesi e statunitensi non hanno
insistito nemmeno troppo, visto il nuovo clima della Guerra fredda. Fatto sta
che negli apparati il cambio di regime incide poco: dirigenti, questori, figure
di primo piano restano in servizio, anche se erano state convintamente
fasciste.
Dall’esterno si nota una continuità nelle tecniche di abuso e tortura, almeno
per quelle di cui si è avuto conoscenza. In tempi recenti i fatti del carcere di
Santa Maria Capua Vetere (Caserta, 2020) hanno replicato quelli di Genova
Bolzaneto (2001). Esiste una “linea di trasmissione” nel tempo?
Parlando della polizia, e non della penitenziaria, ho trovato traccia di certe
tecniche di “interrogatorio” già nell’età liberale, prima del fascismo e credo
che questi fenomeni vadano osservati con uno sguardo di lungo periodo. Nel
passato recente è ipotizzabile un “perfezionamento” di certe tecniche, forse
anche influenzato dai contatti con servizi segreti e polizie straniere, specie
durante la guerra fredda. Tuttavia, non abbiamo documenti, carte che
costituiscano una prova, ma la connessione dovrà essere approfondita.
Nel libro cita un opuscolo di Lelio Basso, “La tortura oggi in Italia”,
pubblicato nel 1953.
Lelio Basso è tra i primi a portare il tema della tortura nel dibattito
pubblico, anticipando questioni che riemergeranno con più forza nei decenni
successivi. Ci sono tecniche che si ripetono, come la cosiddetta cassetta, o il
waterboarding (annegamento simulato), e la stessa morte in questura a Palermo di
Salvatore Marino nel 1985 corrisponde a certe tipologie di violenza denunciate
da Basso trent’anni prima.
Detto delle linee di continuità, ci sono stati momenti di rottura?
C’è una fase importante di modernizzazione introdotta da Angelo Vicari, che
diventa capo della polizia nel 1960 e che negli anni del centro-sinistra si
impegna per migliorare le condizioni di vita degli agenti. C’è un processo di
generale aggiornamento, una trasformazione anche tecnologica, probabilmente
riflesso del boom economico. Inoltre si inizia a parlare di formazione, di
“polizia al servizio del cittadino”, ma molti problemi e questioni rimarranno
senza soluzione.
Nel 1981 poi arriverà la legge di riforma che smilitarizza la polizia di Stato:
era una buona legge?
La legge era frutto di un compromesso, con probabilità al ribasso. Per
ottenerla, c’era stata una grande mobilitazione all’interno degli apparati e
l’approvazione fu comunque un fatto importante. La smilitarizzazione e il
riconoscimento di molti diritti cambiarono in meglio la vita degli agenti, ma la
legge aveva molti punti critici e peraltro fu attuata con estrema lentezza o non
in tutte le sue parti. In generale può essere vista come una riforma monca per
il solo fatto che riguardava esclusivamente la polizia di Stato, escludendo
carabinieri e guardia di finanza. Ancora una volta l’idea di un corpo di polizia
unificato o di una razionalizzazione del sistema venne accantonata. Aspetti
importanti, come il coordinamento delle sale operative e l’idea di avere un
poliziotto più vicino alla gente, sono rimasti in sostanza sulla carta. La
stessa smilitarizzazione è stata più formale che sostanziale: già alla fine
degli anni Novanta, e poi con più nettezza negli anni Duemila, si è tornati a
preferire nell’arruolamento persone con una formazione e un passato militare.
Che bilancio si può fare della sindacalizzazione?
La nascita del Sindacato italiano unitario dei lavoratori della polizia (Siulp),
con la riforma del 1981, è stata un momento molto importante, perché il
sindacato scaturiva da un movimento democratico nato spontaneamente all’interno
della polizia. Questo nacque però con un vizio d’origine, perché la legge vieta
collegamenti diretti con le confederazioni sindacali generali. Quindi da un lato
ci fu un avvicinamento fra i poliziotti e il mondo del lavoro, ma dall’altro si
impose un sindacalismo separato, limitato nelle sue funzioni. Il Siulp, poi,
avrebbe dovuto essere una sorta di guardiano, il garante dell’effettiva
attuazione della riforma, ma non è mai riuscito a svolgere questo compito
fondamentale. In parallelo è iniziata quasi subito la moltiplicazione delle
sigle sindacali e il Siulp, pur restando maggioritario, negli anni ha perso
pezzi importanti. Il sindacalismo di polizia attuale non ha più molti legami con
quello delle origini, di certo non è più l’erede del movimento democratico che
portò alla riforma del 1981.
Che cosa rappresenta il G8 di Genova nella storia delle polizie?
Se devo dare un parere da studioso, dico che i fatti del G8 non hanno
rappresentato un ritorno al passato ma sono stati un fenomeno inedito. Quando si
guarda a quegli eventi si deve pensare innanzitutto a una sorta di vuoto di
potere che c’è stato nella gestione delle polizie, con i governi, anche di
centro-sinistra, che l’avevano delegata a funzionari di cui si fidavano
ciecamente. Le conseguenze si sono viste in piazza nell’estate del 2001, quando
un governo di destra appena insediato fa sapere o almeno lascia intendere
d’essere disposto a concedere libertà e protezione agli operatori di polizia.
Quello che è accaduto, con le violenze in piazza, alla Diaz, a Bolzaneto, fa
pensare che gli agenti si sentissero protetti. La sensazione è che determinate
decisioni e linee di condotta siano maturate all’interno dei vertici delle
polizie.
In questo senso vedo poche connessioni rispetto al passato, se non per gli
abusi, che replicano modalità già documentate in precedenza. Credo che per
capire a fondo i fatti del G8 di Genova dovremmo studiare bene gli anni Novanta,
la trasformazione delle polizie, della gestione della sicurezza, e più nello
specifico le vicende dei reparti mobili e il loro utilizzo negli stadi, dove per
molti anni hanno sperimentato una dinamica di scontro fisico e di
contrapposizione molto dura.
Si può dire che la polizia dopo il G8 di Genova ha voltato pagina?
Non direi. Nel 2017 c’è stata una sorta di mea culpa rapidissimo e plateale del
capo della polizia Franco Gabrielli, con un’intervista a la Repubblica. Disse
con molta onestà che il G8 di Genova era stato una catastrofe, ma tutto si
risolse con questa operazione di facciata, fatta tra l’altro con grande ritardo,
senza prendere provvedimenti, senza avviare alcun percorso interno agli apparati
per comprendere gli errori e rimarginare le ferite. Determinati episodi, penso
ai fatti di Genova ma anche a ciò che avvenne a Napoli qualche mese prima,
insieme con i casi Aldrovandi, Cucchi e altri, avrebbero dovuto innescare un
processo di ripensamento profondo delle istituzioni e del loro ruolo.
Qual è a suo avviso lo stato di salute delle polizie italiane?
Da ricercatore e studioso di storia sono portato e abituato a guardare al
passato. Quello che posso dire, riguardo a certi provvedimenti recenti, come la
promessa di tutela e difesa a oltranza degli agenti, è che mi pare che ci sia
l’intenzione di strizzare l’occhio alla parte peggiore del sindacalismo di
polizia. Lo Stato sembra dire all’agente: io ti proteggerò sempre, qualunque
cosa tu faccia. Fatico a vedere prospettive positive in un quadro del genere,
anche perché manca un tessuto sociale e politico in grado di aprire un dibattito
sul ruolo delle polizie nella società. Mancano i luoghi di discussione e mancano
gli interlocutori. All’interno dei partiti e in Parlamento non ci sono figure
che abbiano sviluppato -come avveniva invece nella prima Repubblica- competenze
specifiche su questi temi. Eppure, davanti alle trasformazioni rapidissime che
avvengono nella società, servirebbe un dibattito all’altezza dei tempi. Il
rischio è che le forze di polizia finiscano per essere strumento di controllo e
d’intervento nelle emergenze sociali, senza che siano prospettate delle strade
alternative. Ma nessuno, anche fra le forze politiche di centrosinistra, sembra
oggi avere un’idea politica sulle polizie, sul loro ruolo e sulla loro funzione
in una democrazia.
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Luigi Manconi: “Osservo il rischio di una palese violazione del principio di
eguaglianza, a causa dell’introduzione, solo per i pubblici agenti, di un regime
processuale speciale”.
di Valentina Stella da il dubbio
Luigi Manconi, docente di Sociologia dei Fenomeni Politici, Presidente di “A
Buon Diritto Onlus”, è stato presidente della Commissione per la tutela dei
diritti umani del Senato. Nel suo libro più recente – “La scomparsa dei colori”,
edito da Garzanti – racconta la progressiva perdita della vista e la cecità. Ma
oggi con lui vogliamo parlare di uso e abuso della forza da parte di chi
dovrebbe garantire la nostra sicurezza, a prescindere dalla nostra innocenza o
colpevolezza, nelle regole di uno Stato di Diritto.
In queste settimane si è discusso di scudo penale per le forze di polizia nei
seguenti termini: nel caso in cui le azioni del poliziotto e del carabiniere
avvengano nell’ambito del perimetro delle cause di giustificazione disciplinate
dal codice penale di rito, il vaglio del magistrato abbia una procedibilità
diversa rispetto all’iscrizione immediata nel registro degli indagati. Solo se
ci sono elementi per cui il poliziotto o il carabiniere violano la legge o il
perimetro delle cause di giustificazione, deve essere iscritto nel registro
degli indagati, ma non prima. Cosa ne pensa?
Osservo una palese violazione del principio di eguaglianza, a causa
dell’introduzione, solo per questi pubblici agenti, di un regime processuale
speciale, non previsto per alcun altro corpo o organo dello Stato nemmeno per
gli appartenenti ai Servizi Segreti che pure godono di particolari tutele.
Inoltre, verrebbe incrinato il principio costituzionale di obbligatorietà
dell’azione penale, che riserva al pubblico ministero il potere (e il dovere) di
condurre le indagini, disponendo della polizia giudiziaria. Infine, affidare una
fase di verifica della fondatezza della notizia di reato alla stessa
amministrazione da cui dipende l’indagato significherebbe il venire meno della
terzietà necessaria all’accertamento delle responsabilità penali. Oltretutto, se
il fine della norma si identifica nella necessità di evitare le iscrizioni nel
registro degli indagati nei casi di “atti dovuti”, è evidente come una simile
previsione rischi di prestarsi a veri e propri abusi. Se davvero si volesse
affidare la prima fase delle indagini (come una sorta di pre-istruttoria) al
ministero dell’Interno, sottraendola almeno in parte al pubblico ministero, per
poi investire il procuratore generale solo nel caso emergessero responsabilità,
si porrebbe un ulteriore, elevatissimo, rischio di incostituzionalità.
I fatti del G8 di Genova hanno segnato uno spartiacque nella storia della
polizia o hanno semplicemente fatto emergere quanto già si sapeva?
È sembrato che potesse costituire uno spartiacque, ma così non è stato. Ricordo
che solo diciassette anni dopo, il capo della polizia Franco Gabrielli riconobbe
che si era trattato di una gestione “catastrofica” dell’ordine pubblico. Ma,
pare che quella lezione non abbia sollecitato alcuna riforma: della mentalità
collettiva, dell’istituzione-polizia, né delle sue regole di ingaggio né,
infine, dei suoi processi di formazione e istruzione anche tecnica.
Lei da decenni con l’Associazione che presiede ha seguito molti casi di persone
abusate dalle forze di polizie. Quali sono stati quelli che l’hanno più colpita?
Tutti. Ma se proprio devo indicarne uno in particolare, penso alla morte di
Giuseppe Uva, fermato illegalmente e trattenuto in una caserma dei carabinieri
di Varese, e qui sottoposto a violenze. Dopo tre gradi di giudizio, risoltisi
negativamente, e in una Varese generalmente sorda alla tutela delle garanzie per
i più deboli, nel 2021, infine, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha
riconosciuto ammissibile il ricorso. E ciò grazie alla tenacia della sorella
Lucia Uva e dell’avvocato Fabio Ambrosetti. Voglio ancora sperare.
Secondo lei questi episodi ma anche quelli più recenti sono solo frutto di
azioni delle cosiddette mele marce o c’è un serio problema culturale all’interno
delle forze dell’ordine?
Quella delle mele marce è una immagine, prima che falsa, insensata logicamente,
dal momento che, notoriamente, le mele marce sono destinate inevitabilmente a
infettare quelle considerate sane. Di più, le attività illegali della piccola
minoranza che si macchia di crimini è troppo spesso sostenuta dalla solidarietà
corporativa, si dovrebbe dire “omertà”, di molti colleghi e, spesso, di
ufficiali di grado più alto. La vicenda di Stefano Cucchi è esemplare di tutto
ciò. In termini generali si può dire che, poco, pochissimo si fa per far
crescere la coscienza democratica degli appartenenti alle forze di polizia.
Oltre che la preparazione tecnica capace di ridurre al minimo il ricorso alla
violenza nell’attività di repressione, quando necessaria
Se c’è questo problema, secondo lei polizia e carabinieri ne sono consapevoli e
stanno facendo qualcosa per cambiare oppure no?
Sono molto pessimista. Nel corso degli ultimi venti anni ho seguito decine di
vicende di abusi, illegalità e violenze da parte di appartenenti alla polizia di
stato, all’arma dei carabinieri e alla polizia penitenziaria. Sempre, sia
chiaro, a opera di minoranze di quei corpi ma sempre con scarsissima capacità di
autocritica e di autoriforma. Ho incontrato una decina di massimi responsabili
di quei corpi, disposti a chiedere scusa e a promettere giustizia, ma sempre e
sole dopo: dopo, cioè, che la magistratura aveva rivelato se non già sanzionato
i reati. Non un capo della Polizia o un comandante generale dell’Arma dei
Carabinieri e non un ministro dell’Interno che, al momento di assumere il
comando, abbia mai annunciato un serio programma di riforma interne e lo abbia
intrapreso.
Di abuso della forza si parla anche rispetto alle carceri. Eppure il ddl
sicurezza vuole punire persino la resistenza passiva. Qual è il suo pensiero su
questo?
Se non sbaglio, sono almeno duecento i poliziotti indagati per lesioni gravi o
torture e alcune decine i procedimenti giudiziari in corso. Ancora una volta una
piccola minoranza rispetto ai 31 mila appartenenti alla Polizia penitenziaria.
Ma ciò che è grave è che tali fatti sembrano riprodursi all’infinito, e che,
come dicevo, non si registra mai una reazione delle mele sane rispetto a quelle
marce. Ed è rarissimo che le denunce partano dall’interno: da un poliziotto, da
un cappellano, da un comandante e nemmeno da un direttore. Un quadro davvero
desolante.
Lei aveva elaborato un disegno di legge sul reato di tortura. Poi abbandonò
l’Aula nel momento del voto perché quel testo era stato completamente svuotato.
Che bilancio fa della efficacia di quel reato in questi anni e come andrebbe
migliorato?
Quel disegno di legge non era stato, come dice lei, completamente svuotato, ma
certamente limitato in misura rilevante. Non partecipai al voto finale, ma
spiegai che, se fosse mancato un solo voto all’approvazione, mi sarei recato in
Senato anche in ginocchio. Quella normativa, anche se molto carente, ha avuto un
ruolo assai importante.
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