La Palestina, le radici coloniali del diritto internazionale (e il ruolo delle università)

il Rovescio - Saturday, June 14, 2025

I due testi che seguono – il primo è un’ampia disamina di come il diritto internazionale serva da giustificazione al colonialismo in Palestina (e non solo); il secondo è una sorta di compendio sul ruolo delle università nei regimi coloniali – mettono in luce degli elementi chiave per la solidarietà internazionalista con la resistenza palestinese, ma vanno anche al di là. Tutte le astrazioni del tecno-capitalismo e delle sue nuvole (cloud) si fondano sull’esproprio delle terre e sulla guerra alle pratiche di sussistenza dei loro abitanti. La violenza dell’«accumulazione originaria del capitale» non è un evento, bensì una struttura, che oggi punta a colonizzare altri Pianeti e le facoltà stesse della specie. Non è certo un caso né che le principali democrazie liberali siano fondate sul genocidio o sulla pulizia etnica dei popoli nativi, né che le università in cui si sono formulati i valori e le norme giuridiche dell’Occidente siano state fisicamente erette sull’esproprio e sulla violenza ai danni dei terreni e dei corpi delle popolazioni indigene.

La Palestina e la logica coloniale del diritto internazionale

di Mjriam Abu Samra e Sara Troian

da: https://comune-info.net/la-palestina-e-la-logica-coloniale-del-diritto/?

Il concetto di eccezionalismo è frequentemente evocato per spiegare “la questione palestinese” all’interno del sistema internazionale. La Palestina viene così rappresentata come un’anomalia: un progetto coloniale di insediamento anacronistico che perpetua apartheid, occupazione militare e genocidio in un mondo che si vorrebbe post-coloniale. In questo contesto, la violenza, le pratiche illegali e l’impunità di Israele sono considerate come deviazioni rispetto a un sistema internazionale che, altrimenti, si fonderebbe su valori condivisi, istituzioni imparziali e un quadro normativo universale.

Tuttavia, questa narrazione è pericolosamente ingannevole in quanto oscura l’innata presenza del colonialismo nell’ordine mondiale contemporaneo. Lungi dall’essere un’eccezione, la Palestina rivela invece le fondamenta coloniali delle relazioni internazionali. Dunque, la perpetrazione del colonialismo da parte di Israele non rappresenta un’anomalia in un mondo giusto ed equo, ma è, al contrario, la manifestazione più evidente di un ordine globale concepito e strutturato per sostenere, proteggere e legittimare dinamiche di potere (neo)coloniali.

L’architettura coloniale del diritto internazionale

Il diritto internazionale emerse per legittimare la schiavitù di milioni di africani, la conquista coloniale del cosiddetto “Nuovo Mondo” e la sottomissione dei popoli indigeni a livello economico, culturale e politico. Per oltre 500 anni, ha modellato la traiettoria della storia europea, contrassegnata da pratiche di sfruttamento ed esproprio, fungendo da arbitro tra le ambizioni spesso conflittuali dei diversi imperi e conferendo legittimità all’espansione territoriale. Le opere di Francisco De Vitoria e Hugo Grotius, considerati i padri del diritto internazionale, ne sono un esempio paradigmatico. La loro concezione di “legge naturale” ha definito uno standard di civilizzazione basato su canoni culturali e politici europei, utilizzati come metro di misura per giustificare la conquista territoriale e l’oppressione dei popoli non europei. Secondo questo standard, i cosiddetti “civilizzati” avevano il diritto di conquistare, mentre i “non civilizzati” erano imputati alla schiavitù, sfruttamento, sottomissione e sterminio. In questa matrice, ogni forma di resistenza dei “non civilizzati” veniva trattata come barbarie o terrorismo. Lo standard di civilizzazione si riduceva, di fatto, al potere istituzionalizzato di colonizzare.

Nel corso del tempo, il diritto internazionale si è progressivamente trasformato, adattandosi alle mutate forme di dominio coloniale. L’ordine globale emerso dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale, sebbene ancora saldamente controllato dalle superpotenze e dai loro interessi strategici, veniva presentato come un sistema equo e universale, mascherato da una legalità apparentemente neutrale e garantito da istituzioni formalmente imparziali, con l’ONU nel ruolo di custode principale.

L’inclusione del sistema dei Territori sotto mandato nella Carta delle Nazioni Unite, insieme alle epistemologie eurocentriche che hanno guidato la codificazione dei trattati internazionali, come la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani o la Convenzione sul Genocidio, tra gli altri, testimonia questa continuità. Il vecchio standard di civilizzazione è stato riformulato e riproposto attraverso nuove dicotomie apparentemente più accettabili, come democrazia/non democrazia, sviluppato/sottosviluppato, liberale/non liberale. Gli ideali europei di democrazia, sviluppo e liberalismo economico si sono così convertiti in nuovi dispositivi di legittimazione del controllo e dello sfruttamento di altre regioni e popoli. In questo quadro, il sistema di veto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite rappresenta l’ammissione più evidente dell’impegno, mai realmente superato, a favore dell’egemonia delle superpotenze del sistema post-bellico.

L’onda di decolonizzazione degli anni Cinquanta e Settanta ha portato solo una liberazione nominale: le ex colonie sono rimaste intrappolate in nuove forme di dominio, non meno pervasive di quelle precedenti. L’indipendenza politica ha infatti occultato la persistente subordinazione economica, esercitata attraverso istituzioni finanziarie, trattati commerciali asimmetrici e l’estrazione sistematica di ricchezze da parte di multinazionali, supportata dai programmi di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. L’ex presidente del Ghana e teorico politico Kwame Nkrumah ha denunciato questo periodo come la transizione dal colonialismo classico al neo-colonialismo. Questa condizione di dipendenza economica è stata legittimata da narrazioni ideologiche che hanno presentato lo sviluppo capitalistico come equivalente agli standard universali dei diritti umani, nascondendo la natura profondamente estrattiva e iniqua di tali processi.

In sostanza, il diritto internazionale e le sue istituzioni hanno sancito una liberazione simbolica, ma non una reale emancipazione materiale dal colonialismo.

Le condizioni storiche e materiali dell’oppressione

Il diritto umanitario internazionale, in particolare le Convenzioni di Ginevra del 1949 e i loro Protocolli Aggiuntivi del 1977, incarnano una contraddizione strutturale. Il tentativo di regolamentare la lotta anticoloniale all’interno degli stessi quadri giuridici creati per disciplinare i conflitti tra Stati sovrani finisce per riprodurre – e spesso aggravare – lo squilibrio di potere intrinseco ai rapporti coloniali, anziché correggerne le disuguaglianze.

Sebbene queste norme si presentino come universalistiche nella loro applicazione, esse impongono una simmetria giuridica formale tra colonizzatori e colonizzati, tra potenze occupanti e coloro che resistono alla loro dominazione. In tal modo, ignorano le profonde asimmetrie strutturali e le dinamiche di potere che definiscono le relazioni coloniali. Trattando la resistenza dei popoli colonizzati secondo le stesse restrizioni legali imposte agli eserciti statali, questi strumenti giuridici oscurano le condizioni storiche e materiali dell’oppressione da cui origina tale resistenza.

Inoltre, queste norme spesso operano come strumenti di delegittimazione e criminalizzazione della resistenza anticoloniale, rafforzando la supremazia strutturale del colonizzatore. Il principio di distinzione – concepito per proteggere i civili – non considera come i regimi coloniali confondano deliberatamente obiettivi militari e civili, né affronta la violenza sistemica insita nell’occupazione stessa. Analogamente, il divieto di determinati metodi di combattimento limita in modo sproporzionato le possibilità di autodifesa dei popoli colonizzati, mentre lascia intatte le superiori capacità belliche dell’oppressore.

Questo impianto normativo, pertanto, non agisce come arbitro imparziale della giustizia, ma come uno strumento di consolidazione delle stesse gerarchie di potere che pretende di regolare. Regolando la violenza secondo un principio di falsa equivalenza tra chi domina e chi resiste, il diritto umanitario consente alle potenze coloniali di dipingere i popoli oppressi come soggetti incapaci di aderire ai princìpi giuridici fondamentali. Così facendo, rende di fatto inammissibili le guerre di liberazione anticoloniali nei parametri del diritto internazionale.

La guerra del diritto internazionale contro la Palestina

La questione palestinese rappresenta l’essenza egemonica del diritto internazionale. L’ideologia del colonialismo di insediamento sionista è emersa e continua a operare all’interno del contesto politico ed economico della storia imperiale europea, radicandosi nel sistema internazionale stesso.

La Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha diviso la Palestina, legittimato la confisca delle terre e integrato il colonialismo di insediamento nel diritto internazionale. Nonostante fosse giuridicamente viziata, poiché eccedeva l’autorità dell’Assemblea Generale dell’ONU e non era vincolante, la risoluzione è divenuta la colonna portante della legittimazione indiscutibile di Israele e dell’eredità coloniale del sistema internazionale. La storia moderna della Palestina riflette dunque questa dialettica tra sistemi di dominazione legalizzati a livello internazionale e la resistenza al quadro coloniale che li sorregge.

Il quadro di Oslo ha mantenuto questa dicotomia, rafforzando ulteriormente il colonialismo di insediamento sionista dietro la facciata di “negoziati di pace”. Si tratta di una manovra politica concepita per cristallizzare il colonialismo di insediamento e neutralizzare la resistenza palestinese, promuovendo l’ambiziosa, seppur paradossale, aspirazione di ottenere la legittimazione del sionismo attraverso l’accettazione da parte dei colonizzati palestinesi stessi. Con questa strategia e attraverso la narrativa dell’“approccio pragmatico”, la comunità internazionale presenta il colonialismo di insediamento come una “soluzione giusta ed equa”, annientando i diritti e le aspirazioni di liberazione, giustizia e ritorno della popolazione indigena. In tale contesto, il controllo e l’oppressione coloniale vengono ulteriormente radicati attraverso una dipendenza economica e politica neoliberista che normalizza la violenza e la dominazione sotto le spoglie di costruzione statale. Si formalizza così la relazione coloniale, istituzionalizzando una classe collusa di colonizzati – l’Autorità Palestinese (AP) – investita del ruolo di intermediaria custode del potere coloniale. Questo rafforza, infine, l’architettura della violenza coloniale di Israele. La continua campagna di espulsioni di massa e distruzione nel nord della Cisgiordania – la più estesa e feroce dal 1967 – condotta congiuntamente con l’AP rappresenta una testimonianza lampante di questa realtà persistente.

Non è un caso che “la campagna per il riconoscimento dello stato di Palestina” venga rilanciata ogni volta che il potere coloniale è sfidato nella sua essenza e la mobilitazione decoloniale risorge, facendo risaltare i limiti strutturali e le incoerenze del sistema internazionale. Questa campagna è la continuazione genealogica della partizione della Palestina. Il momento attuale ne è testimonianza: con un genocidio in diretta streaming, l’unica risposta che emerge a livello internazionale è, paradossalmente, il riferimento a “soluzioni legittime” e a “quadri giuridici” che non mettono in discussione i fondamenti coloniali della depredazione palestinese, ma li accettano come un fatto compiuto. Questa traiettoria strategica si maschera da tentativo di implementare meccanismi di responsabilità e giustizia tramite l’intervento delle istituzioni internazionali, che, lungi dall’essere “super partes”, sono vettori di egemonia coloniale.

Emblematiche in questo contesto sono le ordinanze di arresto emesse dalla Corte Penale Internazionale per Netanyahu e Gallant – che inizialmente furono richieste anche per Ismail Haniyeh, Yahya Sinwar, e Mohammad Deif, se non fossero stati uccisi dalla stessa autorità coloniale contro cui stavano lottando, prima che gli ordini di arresto fossero ratificati. Mentre il mondo ha acclamato questa decisione che, pur mancando di esecuzione, è stata definita storica, essa ha svolto un ruolo strumentale nel livellare e normalizzare le relazioni di potere asimmetriche tra colonizzati e colonizzatori, mettendo i leader della resistenza anticoloniale sullo stesso piano delle autorità statuali che ordinano e implementano massacri coloniali per sradicare ed eliminare un intero popolo. Questo approccio “bipartisan” e l’insistenza sull’“obiettività” si configurano come la regola che sottomette ogni tentativo di denunciare e invertire le relazioni di potere sbilanciate.

Le fondamenta coloniali del diritto internazionale hanno neutralizzato la relazione colonizzato-colonizzatore, occultandola in retoriche e pratiche di bothsidesism (finta equidistanza) che favoriscono sempre il più potente colonizzatore, che non solo tiene il coltello dalla parte del manico, ma detiene anche il controllo sulla narrativa.

Smantellare la casa del padrone

La colonizzazione della Palestina non è un’anomalia in questo ordine globale, ma rappresenta la sua accusa più evidente. Essa mette in luce l’ipocrisia di un sistema internazionale che, pur condannando retoricamente il colonialismo, lo istituzionalizza e lo legittima nella pratica. I quadri giuridici internazionali e i modelli di governance, progettati dai e per i poteri coloniali, hanno sempre dato priorità alla conservazione delle gerarchie di potere, celandole sotto la facciata di legalità e giustizia. Tali strutture riaffermano il colonialismo di insediamento come un presupposto legittimo delle relazioni internazionali.

Dal 7 ottobre 2023, la presunta universalità del sistema internazionale è stata messa in discussione, rivelandone le contraddizioni intrinseche. Il discorso evolutivo e i meccanismi del diritto internazionale hanno esposto i loro limiti e la continua alleanza con il dominio coloniale e i suoi corollari: il privilegio razziale, le disuguaglianze sistemiche e l’accumulo di capitale. Questo momento richiede una rivalutazione critica dei quadri concettuali e pratici che sostengono la giustizia e la liberazione. L’affermazione di Audre Lorde che “gli strumenti del padrone non smantellano mai la casa del padrone. Possono permetterci temporaneamente di batterlo al suo stesso gioco, ma non ci permetteranno mai di portare un vero cambiamento” sottolinea la necessità di ripensare questi paradigmi. Il cammino da percorrere richiede una profonda trasformazione strutturale, che affronti e smantelli i sistemi di diritto internazionale e governance che perpetuano l’oppressione. Al loro posto, devono essere sviluppati paradigmi alternativi, fondati sull’uguaglianza autentica, sulla lotta comune e sulla giustizia decoloniale. La lotta palestinese per la liberazione incarna questa sfida più ampia, forzando un confronto con le radici coloniali dell’ordine globale e immaginando un mondo in cui la giustizia non resti mera retorica, ma diventi realtà per tutti.

«Iniziare dalla terra su cui sono state erette»

Gli istituti di istruzione superiore hanno effettivamente svolto un ruolo fondamentale nello spossessamento delle terre indigene e nell’espansione degli insediamenti coloniali, in particolare nelle società a dominazione inglese istituite sotto l’egida dell’Impero britannico. Dagli Stati Uniti al Canada, dall’Australia e la Nuova Zelanda al Sudafrica, le università degli Stati coloniali anglosassoni sono nate dall’appropriazione di territori indigeni non ceduti. Con la benedizione dell’Impero britannico, oltre sei milioni di ettari di terre indigene in tre diversi continenti sono stati trasferiti alle università coloniali. Gli Stati coloniali usavano questi terreni per costruire o finanziare istituzioni divenute in seguito note come land-grant university (università concessionarie di terre) e ribattezzate land-grab university (università accaparratrici di terre) dai popoli indigeni.

Negli Stati Uniti, il provvedimento “Morrill Land-Grant College Act” del 1862 facilitò l’esproprio violento delle terre indigene a beneficio delle università e dei college. Gli Stati dell’est, del sud e alcuni del Midwest si finanziarono vendendo terre concesse loro dal governo; gli Stati dell’ovest, nel frattempo, costituivano università direttamente sulle terre di varie tribù acquisite mediante accordi estorti con la violenza e talvolta conquistati con veri e propri massacri. 245 tribù indigene persero oltre 4 milioni di ettari di terra, destinati all’espansione delle università statunitensi, per un valore di quasi 500 milioni di dollari. Lo sfruttamento degli africani ridotti in schiavitù nelle Americhe consentì un ulteriore accumulo di ricchezze da parte delle università, spesso costruite con il sudore degli schiavi o finanziate dalla loro tratta.

Anche le università canadesi furono costruite in seguito all’appropriazione di terre indigene. Dall’Ontario alla Columbia Britannica, passando per la provincia del Manitoba, la Corona britannica e successivamente i governi provinciali canadesi destinarono 200 mila ettari di terre sottratte agli indigeni alla fondazione delle principali università del paese. In Nuova Zelanda, la confisca delle terre maori e la loro concessione da parte del governo costituiscono la base per l’edificazione di quasi tutte le università statali, mentre la terre aborigene d’Australia furono direttamente espropriate per costruire le università coloniali.

In Sudafrica, le leggi sulla terra del 1913 e del 1936 sancirono l’alienazione dei terreni e la cacciata dei sudafricani neri che li abitavano. Questi atti sono all’origine di università storicamente bianche in posizioni strategiche. Queste, a loro volta, promossero l’insediamento di bianchi facilitando la segregazione dell’istruzione superiore, con la creazione di istituzioni riservate alla popolazione nera. Nell’ottica della repressione delle mobilitazioni per la liberazione dei neri, lo Stato sudafricano istituì università rivolte ai neri concependole come strutture di controllo amministrativo e come strumento all’interno del sistema del bantustan. La segregazione universitaria, dalle infrastrutture dei campus ai programmi accademici, fu concepita come dispositivo funzionale all’apartheid. […] le università sudafricane vennero deliberatamente «impiantate “nel territorio” come infrastrutture fisiche concrete e inamovibili»: la loro collocazione e il loro posizionamento rendono una loro trasformazione nell’èra post-apartheid impresa oltremodo ardua.

In quei paesi coloniali, il progetto di esproprio delle terre indigene e l’insediamento dei coloni alimentano l’espansione dell’istruzione superiore. Fondate su terreni confiscati ai popoli indigeni, le università, a loro volta, si sono fatte roccaforte degli insediamenti nelle terre delle comunità indigene che lo Stato mirava a contenere ed eliminare. Per fare i conti con le proprie responsabilità nel progetto coloniale, sostengono studiosi e attivisti indigeni, le università devono iniziare dalla terra su cui sono state erette, analizzando i modi in cui esse stesse fungono da infrastrutture di spossessamento e oppressione violenta.

Edificati su terreni sottratti ai palestinesi indigeni e progettati come veicoli dell’espansione degli insediamenti ebraici, gli stessi atenei israeliani si inseriscono nel solco della tradizione delle «università accaparratrici di terre». Al pari di altre istituzioni di insediamento, le università sono pensate per sostenere l’infrastruttura coloniale dello Stato israeliano. Ciò che le distingue, tuttavia, è il ruolo – a cui a tutt’oggi non si sottraggono – di esplicito sostegno a un regime che la comunità internazionale definisce di apartheid. Queste università, infatti, non solo continuano a partecipare attivamente alla violenza di Stato contro i palestinesi, ma contribuiscono, con le proprie risorse e ricerche, a preservare, difendere e giustificare l’oppressione.

(da Maya Wind. Torri d’avorio e d’acciaio. Come le università israeliane sostengono l’apartheid del popolo palestinese, Alegre, Roma, 2024)