Riceviamo e diffondiamo questa salutare riflessione proveniente dalla provincia
forlivese, ma che affronta dinamiche di segno generale su “un mondo in cui il
social sta soppiantando il sociale” e dove la legge reprime le espressioni di
quel disagio che essa stessa contribuisce a creare. Quasi scontata, ma
giustamente denunciata nell’articolo, la complicità del giornalismo padronale. A
quest’ultimo proposito, l’autore ci segnala un link da un giornalaccio locale,
riportato in fondo all’articolo.
Anche su https://piccolifuochivagabondi.noblogs.org/i-maranza-e-la-legge/
I MARANZA E LA LEGGE
Pubblichiamo un contributo individuale che parte da un recente fatto di cronaca
che ha coinvolto alcuni giovani forlivesi indicati dalla polizia e dai giornali
locali come appartenenti ad una “baby gang”. A prescindere dal fatto che questo
termine serve oggi a designare uno tra i tanti nemici interni con cui lo Stato
legittima i suoi dispositivi di repressione, lo scritto parte dalle premesse
che, se non può essere giusta la prevaricazione come metodo contro chi viene
percepito più debole, la violenza agita da parte di chi sente più forte, forse
perché nasconde un profondo senso di fragilità, non può essere considerata
criticamente senza considerare il contesto sociale in cui le dinamiche
interpersonali e di potere sono inserite. C’è il rancore prodotto dallo stigma
che accompagna chi, come i giovani immigrati o le seconde o terze generazioni,
non vengono riconosciute come titolari dei diritti di cittadinanza, sfruttate
quando lavorano, criminalizzate quando non lo fanno, sotto stretta profilazione
quotidiana da parte delle forze di polizia. C’è la fine delle cosiddette “grandi
ideologie” del ‘900 che hanno ceduto il passo ai valori che la società
capitalista insegna, introiettati oggi per mezzo della scuola-azienda-caserma il
cui unico compito è quello di mettere in competizione gli individui per ottenere
una posizione. Ma c’è anche un altro tipo di scolastica, quella tipica dei
social network, che partendo dalla medesima logica competitiva insegna che chi
ottiene like e follower vale anche nella vita reale, chi non ottiene attenzione
– questo genere di merce che si cerca di acquisire – è destinato ad un’essenza
insignificante, da “perdente”.
La gestione pandemica del 2020-2022, con il suo corollario di privazioni,
divieti ed estraniazione sociale, ha certamente aggravato il senso di
alienazione e mancanza di rapporti reali di questa generazione che si trova a
crescere in questo determinato momento storico e che – ovviamente in parte,
perché è sempre stupido generalizzare – crede che solo dalla sopraffazione
altrui (che sia economica o fisica) possa arrivare il successo, il riscatto,
l’attenzione prima social e poi magari sociale. In un mondo, quello occidentale,
in cui il social sta soppiantando il sociale. Oggi accusata di essere la nuova
“classe delinquente”, durante un’ipotetica guerra – che appare sempre meno
ipotetica e sempre più probabile, oltre che sempre più digitalizzata e
interconnessa – la generazione social che ha imparato la lezione della
competizione e della sopraffazione potrebbe imparare anche quella
dell’obbedienza. L’ordine pubblico ne gioirebbe e lo Stato avrebbe la sua carne
da cannone.
Da questo racconto, possiamo dedurre che la rabbia a volte è maldiretta. Come
ribadito in questo scritto, quando succede che i rapporti di forza, solitamente
sbilanciati dalla parte dello Stato, vacillano “è solo perché chi è oppressx si
ribella e mette in discussione, in maniera conflittuale non democratica, le
regole vigenti”. E queste regole, detto per inciso, riguardano anche i rapporti
di potere.
Ma è proprio dal conflitto che può nascere la possibilità di una società se non
democratica – che oramai questo è un termine che il potere ha fatto pienamente
suo, e che significa molte cose diverse – di sicuro più libera.
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Forse non dalla parte dei maranza, di certo non dalla parte della legge!
Sull’arresto dei regaz della “baby gang” a Forlì (22/03/25)
Giornali online e cartacei in questi giorni sono strapieni della notizia degli
arresti fatti a Forlì dai solerti uomini della Squadra Mobile della Questura di
Forlì-Cesena: 15 idenificati, tutti tra i 17 e i 20 anni, dieci mandati
d’arresto, nove eseguiti con altrettante persone in carcere e una ancora
latitante, e speriamo per per molto tempo.
Ovviamente non mancano le dichiarazioni dei vari politici
fascio-nazional-popolari che affollano il palazzo comunale di Forlì (mentre i
sinistrosi tacciono, perchè non possono difendere dei criminali, ci
mancherebbe!) che chiedono pene dure, più controlli, più multe, più arresti, più
videocamere, più soldi per i sicari in divisa… quello che chiedono sempre
insomma.
Soltanto per il gusto e la voglia di non lasciare il monopolio della narrazione
di questa vicenda della “baby gang sgominata” a fascisti, sbirri e opinionisti
radical chic, mi pare onesto prendersi due minuti per dire qualcosa di ostinato
e contrario.
Parto da un presupposto che so non essere più tanto di moda: la legge e i codici
morali di una società sono il prodotto di un rapporto di forza. Lo Stato fa le
leggi per proteggere il potere che amministra e i padroni che lo necessitano; se
cambiano delle leggi in senso più “libero” succede solo perché chi è oppressx si
ribella e mette in discussione, in maniera conflittuale non democratica, le
regole vigenti. In mancanza di conflitto sociale, cioè di una coscienza (anche
armata) da parte di chi è sfruttatx di chi sono i suoi nemicx, gli
amministratori del potere fanno tutto ciò che possono per stringere il cappio al
collo della società: lavorate, producete, pagate le tasse, ubriacatevi una o due
volte a settimana e consumate. Non rompete le scatole, che noi facciamo girare i
soldi grossi. Questa è l’etica dello Stato, qualunque Stato: certo è che quello
italiano è un po’ più fascista di altri in Europa, anche perché i padroni hanno
avuto tanta paura negli anni ’60 e ’70 dove si stava per fare la rivoluzione…
Perché dico questo? Perché se si crede alla favoletta della democrazia nella
quale abbiamo tuttx le stesse opportunità, siamo tuttx cittadinx ugualx e con
pari diritti e doveri, allora questa “baby gang” pare proprio un frutto marcio
del bell’albero della borghesissima e depressissima città di Forlì (che poi,
frutto marcio, suvvia, restituiamo un po’ di dignità alla realtà: furti di
biciclette, un paio di rapine di cellulari, spaccate in dei tabacchi, risse tra
regaz…cose che si sono SEMPRE viste in tutte le città).
Ma visto che non ci credo alle favole della propaganda (ma a quelle degli gnomi,
delle fate, dei draghi che bruciano i castelli dei Re sì!) mi dico che è la
logica conseguenza di un sistema che ci alleva fin dalla culla col solo
imperativo di fare soldi, consumare, arrivare in alto mangiando in testa a
tuttx. Competizione, arrivismo, successo, apparenza.
E quanto in alto possono arrivare dei ragazzi tunisini, senza famiglia, senza
casa, che hanno attraversato un mare che è una tomba (il 16 marzo hanno
ripescato 43 corpi al largo di Lampedusa: provenivano dalla Tunisia) per
arrivare in una terraferma che è una galera a cielo aperto?
Non voglio vittimizzare nessunx, solo mettere nero su bianco che no, non abbiamo
le stesse possibilità, non abbiamo gli stessi privilegi, non abbiamo le stesse
alternative tra le quali scegliere.
Certo, comunque avevano alternative al furto, alla rapina? Sì, ce l’avevano.
Ingrassare le fila dex disoccupatx che elemosinano un posto di sfruttamento
pagato una miseria per poi andare ad affittare un buco di cantina in nero pagato
una follia e magari, in sei o sette anni, avere un permesso di soggiorno.
O un’altra alternativa è fare la fila alla Caritas e beccarsi due pasti caldi al
giorno, e magari potersi fermare a dormire per due settimane di fila (di più non
ti tengono e ti fanno la perquisa quando entri) ma alle 8:00 di mattina devi
sloggiare perché alla Caritas ci vai solo per dormire. Bello! A chi non farebbe
gola una vita così?!
La legge, e gli sbirri col gel che hanno posato per le foto della stampa, sono
lì apposta per far sì che chi non ha nulla resti senza nulla o con quel minimo
indispensabile per renderlo eternamente ricattabile: se sgarri perderai anche
quei due spicci a fine mese.
E tutto questo solo per quanto riguarda i “beni materiali”, ma la vita non
dovrebbe essere fatta solo di oggetti comperati o oggetti venduti, ma di tanto
altro, tanto di radicalmente altro: condivisione, tempo libero da obblighi e
lavoro, scoperta, viaggi, sesso, gioco, creatività, divertimento, affetti,
crescita spirituale…ma a chi gliene frega nulla di sta roba ormai?!
E quindi che non ci si scandalizzi se poi coi “proventi delle azioni criminose”
i regaz compravano occhiali e scarpe firmate, cos’altro avrebbero dovuto fare?!
Mandarli ad organizzazioni di resistenza in Palestina o nel Sahara? Sarebbe
stato un sogno, ma i sogni non fanno rima con capitalismo.
Se hai 18 o 20 anni nel 2025 significa che sei statx allevatx con la sola ottica
martellante e pervasiva del consumo e del “non me ne frega un cazzo di
politica”, e le anime belle (come il sottoscritto) che si augurano che maturi la
“coscienza di sfrutatti” in tuttx quex ragazzx per strada notte e giorno, che
giustamente odiano le guardie, si mettano l’anima in pace: non c’è rivoluzione
(per lo più! eccezioni ci sono sempre) nella rabbia delle strade, solo un cieco
senso di fine, di catastrofe, di immediata riscossa e immediata caduta.
O così è quello che dicono lx regaz che incontro sui bus o in stazione…
E invece perché non ci si stupisce o non ci si arrabbia se quegli occhiali
firmati o quelle scarpe di plastica da divo della TV te le compri con l’onesto
guadagno del sudore della fronte?! (beh, qualcunx in effetti sì che si
arrabbia!).
L’essenziale è che stai buono e partecipi alla catena della produzione e del
consumo (legale o illegale è una falsa opposizione).
Il furto è una logica conseguenza della proprietà privata: come diceva qualcuno
“finché esisterà il denaro non ce ne sarà mai abbastanza per tuttx”.
Se una cosa la voglio dire riguardo all’operato criminoso della baby gang è solo
relativa ai bersagli delle loro azioni: perché rapinare un ragazzino al centro
commerciale invece di un riccone con la Tesla? Perché picchiarsi tra bande
rivali invece di menare i fascisti e i razzisti che speculano sulle tragedie
della gente migrante, che rinchiude fratelli e sorelle in galere e CPR? Perché
un furto in un minimarket di gente che a sua volta subisce il razzismo,
piuttosto che una banca? (Certo, la banca è molto più difficile da fare!).
In definitiva, perché non indirizzare con un minimo di etica, etica data
dall’evidenza di come va il mondo, un’azione di riappropriazione e di
sopravvivenza, invece di prendersela col primo capitato?! Forse è chiedere
troppo, ma nessuna pretesa, sarebbe un auspicio che tutte le volte che ho
l’occasione, alla fermata del bus o su un muretto con una birra, cerco di buttar
là a chi ha voglia di far due chiacchiere e mi chiede una sigaretta.
Non difendo un tamarro che ti punta un coltellino per farti il portafoglio
mentre stai tornando a casa la sera, lo contestualizzo: se non esistesse la
miseria non avrebbe semplicemente bisogno di rubare.
Subire violenza, verbale e/o fisica è un trauma che moltx abbiamo sperimentato,
perciò capisco chi ha paura della “brutta gente di strada”, ma non posso fare a
meno di ragionare in altri termini: quanto danno fanno alle nostre vite (di
gente non ricca) banche, assicurazioni, eserciti, poliziotti, secondini, padroni
di casa, psichiatri, professori tiranni, burocrati, politici, industriali,
fascisti, giornalisti infami, tecno-scienziati che manipolano piante, clima ed
animali?
Quante persone sono morte ammazzate dagli sbirri (o torturate, picchiate,
vessate nelle questure/caserme) e quante dalle “baby gang”!?
O sono davvero dieci pischelli (giustamente) arrabbiati e senza direzione che ci
opprimono? Spazzando via i primi risolveremo la situazione di disparità sociale
ai secondi e a noi stessx.
L’unica maniera per eliminare la logica della sopraffazione e della violenza è
distruggere la società che ce le impone!
Contro il DDL1660 e contro i suoi falsi critici, ovvero la stessa sinistra che
ha inasprito i pacchetti sicurezza precedenti (Minniti) e le ordinanze
antidegrado, a Forlì come in tutta Italia.
Contro ogni confine, contro ogni tribunale, contro ogni galera!
La proprietà è il furto!
https://www.forlitoday.it/cronaca/baby-gang-aggressioni-rapine-10-arresti.html
Source - il Rovescio
cronache dallo stato di emergenza
C’è un linguaggio nato dal vecchio mondo, indispensabile a capirlo per chi
voglia cercare di disfarsene, e non c’è (ancora) una lingua della vita liberata,
finché questa rimane tutta da inventare. Al di là dell’occasione che l’ha
generato, ci sembra questo il suggerimento più prezioso di questo nuovo
capitolo, scritto tra i baluginii del crepuscolo e i primi bagliori dell’aurora,
di un dibattito su “radici, vento e (possibili) zavorre”, partito da un articolo
sul numero 15 (giugno 2024) della rivista anarchica “i giorni e le notti” e
ospitato anche sulle pagine di questo sito. Mentre ne attendiamo possibili (e
probabili…) sviluppi, auguriamo ai nostri lettori e lettrici una buona lettura
di questa nuova puntata, certi che li emozionerà come ha emozionato noi.
Qui il pdf: a mezzo il cielo def
A mezzo il cielo
Ci sono amicizie che nascono sulla terraferma e altre che si annodano nella
complicità irripetibile del naufragio, e di quella cosa di schiuma e di flutti
hanno ancora il sale; nelle vele di alcune soffia il vento che porta ad approdi
sicuri (non è detto che siano i migliori), in altre quello per continuare la
navigazione fino a quando gli arrivi abbiano magari il tocco rude della verità
(categoria un po’ scomoda di questi tempi), piuttosto che quello appiccicoso e
dolciastro della consolazione. Con Peppe ci siamo conosciuti nel “diluvio
universale covid”, con la sola bussola dei principî confermati e accordati al
corpo teso alla vita. Le amicizie così, legami che nascono fuoritempo, non si
misurano in anni e anche la scoperta delle affinità e disaffinità si fonda su un
movimento particolare, in cui stima e sfida non si escludono nel gioco delle
reciproche intelligenze.
Il primo incontro è avvenuto su terra apparentemente ferma, addirittura tra le
nostre montagne, in occasione della due-giorni su Sud, civiltà contadina,
apocalisse culturale e cosmovisioni, rivoluzione. Quell’incontro nasceva dalla
necessità improcrastinabile, cioè storicamente urgente, di fare un bilancio del
biennio covid e, insieme, nominare dei varchi possibili per il futuro che,
giustamente, immaginavamo altrettanto totalitario e guerresco. Dopo il naufragio
imposto, ci prefiggevamo una deriva controllata: andare per mari inesplorati con
alcuni punti fermi: la tensione anarchica e la sua storia, ad esempio.
A partire dalle esperienze che ci hanno visti individualmente e collettivamente
malconci, cosa salvare e cosa lasciare affondare del nostro strumentario
teorico/pratico? E, in quanto diversi dentro un sociale che diventa macchina di
annientamento delle diversità, quali i nodi da lavorare, da sciogliere, da
tagliare? Quali le piste da percorrere, quali le risorse a cui attingere? Se
abbiamo voluto Peppe in quella due giorni con noi è stato per porci insieme la
domanda se a Sud si trovino ancora dei segni di qualcosa di diverso, uno scarto,
rispetto all’apocalisse totale e marciante che si fa vanto di chiamarsi
Occidente. Qualcosa di particolare sì, la civiltà contadina e le sue memorie non
disperse per esempio, ma che riportato alla luce può avere un effetto
liberatorio (potenzialmente) per tutti/e. Non un altrove e neanche un patrimonio
ripristinabile a volontà, ma uno strumento di scavo della storia collettiva per
capire da dove veniamo, come siamo stati educati a vedere come siamo. Eppure per
scavare – o dissodare, o dinamitare – ci si dà da fare con i materiali a
disposizione; poiché questa ricerca si muove su terreni teorici, gli strumenti
teorici sono quelli su cui interrogarsi, che è giusto mettere in discussione.
Siamo d’accordo: nessuna tecnica è neutra, così come non lo sono gli strumenti,
nessuna eredità che non sia scelta (almeno in questo campo). È proprio su questo
punto che si colloca la critica di Peppe: visto che certi mezzi possono
fagocitare gli obiettivi per cui si utilizzano, bisogna fare attenzione ai primi
come ai secondi.
Quesiti enormi, che richiedono ben più di due giorni intensi, che continuano a
presentarsi e a incalzarci al ritmo delle tragedie e della nostra inadeguatezza
di fronte ad esse. Proprio per questo, che Peppe ci rintuzzi su queste cose, ci
fa piacere; che si coltivi uno scambio che, tra gli odori di fine del mondo, ci
inviti a non volare alla “bassezza dei tempi” non ci sembra sia una pratica
scollegata rispetto agli altri doveri della vita e della lotta.
Accogliamo quindi, e pure con un inchino, la critica all’uso accademico di Marx,
al trascorrere dei concetti in parole d’ordine e al loro impastoiarsi nel
blablabla che nelle università bisogna biascicare per inserirsi in questa o
quella cordata, e farci carriera; e poi, una volta accreditati come bravi
“marxisti” (o, quanto a ciò, come bravi “foucaultiani”, “postcoloniali”,
“transfemministi” ecc.), starsene comodi col culo sullo scranno e senza trovar
niente da ridire quando il governo mette tutta la popolazione ai domiciliari.
Vorremmo poi rassicurare Peppe: nessuno di noi accende candeline sotto
l’immagine di san Karl. Ma stiamo divagando, il punto è questo: c’è ancora
un’utilità nei concetti marxiani? Le categorie di “proletario”, “feticismo”,
“accumulazione primitiva” hanno ancora un’utilità o sono irrimediabilmente
ferrivecchi?
Questa prima domanda s’intreccia a una seconda questione, più ampia e cruciale:
nella galleria degli orrori che è la storia dell’umanità per come noi la
conosciamo, il capitalismo ha una sua originalità, porta un aggravamento
specifico, oppure è solo una delle molte forme possibili di dominio? Che, per
l’appunto, è la questione che Peppe pone nel suo scritto e che, di fatto, tutto
l’anarchismo pone non solo ai marxisti (poverelli…) ma a chiunque trovi che lo
stato del mondo è insopportabile.
Non siamo affatto sicuri della risposta; sempre ammesso che una risposta ci sia
e che non sia questione, soprattutto, di sensibilità. Qui proviamo ad
argomentare a partire da un sospetto, dall’impressione persistente che,
nell’infinita sequenza di modi sempre nuovi per opprimere gli umani, gli ultimi
secoli abbiano una loro tragica specificità. Non parliamo solo del capitalismo
in quanto sistema economico, ma più in generale della modernità, ovvero del
mondo umano che ha preso forma nel convergere di colonialismo, capitalismo,
formazione degli stati-nazione, industrialismo, sequestro accademico-statale
della conoscenza e della cura. Insomma, la merda in cui nuotiamo. Non che
l’impero romano, quello cinese o quello azteco ci facciano simpatia; così come
non ce ne fanno le forme antiche e, per così dire, “pre-statali” di sfruttamento
dell’uno sull’altro. Detto ciò, però, tocca fare i conti col fatto che il
susseguirsi, senza quasi por tempo in mezzo, di colonialismo, totalitarismo,
sradicamento di ogni forma di vita altra, tratta atlantica, genocidi, campi di
sterminio, controllo integrale delle popolazioni, disastro ambientale e attacco
sistematico al vivente (v. la storia del nucleare), uniti a forme
straordinariamente efficaci di indottrinamento e cecità indotta, è un fenomeno
tutto moderno. O se non altro, è moderna la dimensione industriale della
distruzione; ma sospettiamo che, a monte, ci sia un baco specifico: l’idea tutta
moderna di essere il solo sistema di vita possibile e degno, la squalificazione
di principio, e quindi la distruzione, di ogni forma altra di organizzazione.
Mentre altre forme di dominio, forse per mancanza di mezzi tecnici adeguati,
lasciavano spazi liberi, la modernità coincide con l’esproprio, il sequestro e
la messa a servizio di tutto: dell’ontologia con la partizione natura/cultura (e
tutte le altre ontologie possibili sono solo storielle), della verità con la
scienza (e ogni altra forma di conoscenza è superstizione), delle forme
affettive con la distruzione delle regolazioni locali, del bene con il suo
appiattimento nel progresso, della socialità con l’urbanistica di controllo, gli
schermi, gli intruppamenti per classe d’età, delle forme affettive con la
famiglia mononucleare e così via, all’infinito.
Lo stesso infinito che il capitalismo assume come punto di fuga del plusvalore.
Nel disastro globale che la modernità riversa sul mondo, la piega economicista –
e quindi la rilevanza teorica del capitalismo – è un pezzo fondamentale perché
si salda, molto presto, con il mito fondante della modernità: quello del
progresso. Per questo ci pare che lo strumentario marxiano resti utile per
analizzare uno snodo fondamentale del tempo in cui viviamo. (Poi, certo, nessuno
che occupi la posizione di sfruttato vuole sentirsi chiamare “proletario”, ma a
quel che ci consta neanche chi occupa la posizione di sfruttatore vuole sentirsi
chiamare “borghese”). Così come ci sembra utile la descrizione marxiana
dell’accumulazione primitiva come esproprio dei commons, che si può estendere da
momento iniziale a condizione di possibilità del plusvalore; e quella del
feticismo della merce come vera e propria cattura stregonesca dell’anima delle
vittime, lungamente esplorata dalla critica radicale anni Settanta. Semmai, ma
questo è stata più opera degli scolastici della religione marxista che di Marx
stesso, la visione escatologica del processo storico (una dinamica rigidamente
di fase: comunismo primitivo antichità schiavistica feudalesimo
capitalismo socialismo comunismo) ha creato diversi mostriciattoli
giustamente citati da Peppe, ad esempio l’industrialismo e, come sottolineato
dall’erratico Benjamin, la fiducia degli sfruttati nella corrente della Storia.
E avremmo molto da ridire sul tatticismo etico, sulla prima Internazionale,
sulla tecnolatria e su alcune ambiguità come il general intellect e
l’atteggiamento verso lo Stato. In generale, quindi, l’uso che ci capita di fare
dell’opera di Marx è lo stesso che ne fece Cafiero (o che ne fecero Benjamin,
Anders, Cesarano, Coppo, Vaneigem, Camatte e altre decine di pensatori critici
più o meno radicali): quella di un pensiero da discernere. E questo può
significare, di volta in volta, litigarci, romperlo, prenderne un pezzo,
stipulare un armistizio. La stessa cosa faremmo/facciamo col pensiero di
Stirner, Bakunin, Malatesta, Goldman, Bonanno ecc. Un uso insomma non religioso:
proprio perché la religiosità non è una caratteristica della cosa venerata ma
del rapporto che si instaura con essa. E sì, è ironico, che proprio il pensiero
di chi ha criticato il feticismo sia stato feticizzato, ma la cosa non ci
riguarda personalmente (dice invece qualcosa dell’ambivalenza dell’umano coi
simboli che produce). Invece, sulla specificità dello sguardo anarchico rispetto
a quello marxista, pensiamo di convenire con Peppe, sta nella precedenza del
momento militare rispetto a quello economico: prima l’esercito espropriatore
delle autonomie, poi la fabbrica espropriatrice di vita. Eppure, sia lo sguardo
anarchico che quello marxista classicamente intesi hanno bisogno di altri
strumenti per sondare il lato cultuale dell’ordine costituito, il sequestro e
l’organizzazione dei desideri, la colonizzazione della corporeità e
dell’immaginario.
Una nota sentimentale. La posizione di Peppe porta un timbro un poco
malinconico, che si potrebbe tradurre pressappoco così: “il dominio c’è sempre
stato, anche fra i cacciatori-raccoglitori, e ha sempre fatto schifo; inutile
perder tempo con quello capitalista, che è solo l’ultimo rampollo”. Ora, qui
davvero parliamo di strutture di sentimento, quelle che muovono nel più profondo
e sulle quali forse c’è poco da discutere. Ma è possibile che questa visione
sconsolata sia, anch’essa, effetto di stregoneria; che, cioè, sia indotta dallo
studio della storia scritta dai vincitori, quella secondo cui bisogna per forza
scegliere fra libertà e ricchezza, fra autonomia e sicurezza, fra controllo e
barbarie. Ma se non fosse così? Sulla base di un insieme cospicuo di dati
archeologici, L’alba di tutto di Graeber e Wengrow delinea una preistoria molto
diversa da quella descritta nei manuali scolastici: un tempo, innanzitutto, di
sperimentazioni sociali; dove l’organizzazione complessa (“cittadina”) era
compatibile con l’autonomia e l’autogestione; dove i modi di vita non si
disponevano secondo una progressione univoca (cacciatori-raccoglitori, poi
pastori e agricoltori, infine industriali), ma c’era un andare e venire fra
forme di organizzazione; dove si poteva vivere di caccia e raccolta in estate,
ma si stava tutti insieme in villaggio in inverno; e dove non si riscontra alcun
determinismo socio-economico (la struttura sociale dei cacciatori-raccoglitori
non è necessariamente egualitaria, quella degli agricoltori non è
necessariamente gerarchica e così via). Se così fosse, allora anche la domanda
terribile, antropologica, sull’origine del dominio prenderebbe un’altra
inflessione: c’è dominio non perché gli umani sono intrinsecamente bacati,
geneticamente propensi al peggio o cattivi per natura, ma perché alcuni gruppi
decidono di agire il dominio, mentre altri fanno di tutto per evitare che si
produca. Allo stesso modo – e come notano anche gli autori – se fosse così, la
specificità del dominio moderno non risiederebbe tanto nella sua presa e nella
sua estensione materiale, quanto nella sua capacità di annichilire
l’immaginazione, di rendere impensabile il divenire politico collettivo.
Finiamo come abbiamo cominciato, con alcune considerazione alla (sulla) deriva.
Un’impressione s’insinua: che il porsi tutte queste domande sul linguaggio
analitico, sulla definizione, sulle lenti per guardare fuori ci inscriva, in
qualche modo, ancora nella storia d’Occidente, della sua mania nominatrice come
riflesso di una volontà ordinante che ci faccia sentire puri e puliti con una
semplice operazione del pensiero.
Certo, che ci piaccia o no, siamo occidentali, almeno fino a quando non avremo
realizzato, insieme ad altri barbari, il destino d’Occidente1… di tramontare.
Tutto il linguaggio dell’analisi del vecchio mondo fa parte del tramonto, le sue
parole sono le pompe funebri che, traendo da vivere dalle cose morte, ne
rimangono in qualche modo incaricate. Allora continueremo a usare questo
linguaggio come qualcosa a cui non affezionarsi, perché è lì lì per cadere oltre
le colonne d’Ercole del pensiero. Poi c’è il linguaggio delle cose vive, delle
esperienze vere – quelle che rovesciano il tavolo delle passività e delle
inimmaginabilità. Di fronte a questo linguaggio siamo come di fronte all’aurora.
Se c’è infatti una differenza sensibile tra crepuscolo e aurora è questa: mentre
durante il primo le cose si fanno definite, scolpite dalla vividezza della loro
ombra, durante la seconda è tutto ancora molto indefinito, crogiolo di vita in
potenza, tremore promettente.
Di fronte all’aurora siamo tutti infanti, di fronte al crepuscolo ci sentiamo
saggi perché pensiamo di sapere tutto della giornata trascorsa. La capacità che
ci è richiesta è allora non quella di creare da subito un linguaggio delle cose
nuove (momento ingovernabile che spetta al gioco degli umani con le loro
sorgenti), ma di allenare gli occhi a distinguere albe e crepuscoli.
Tutta la conoscenza acquisita prima di toccare quel punto – a mezzo il cielo –
sembra rivolgersi allora verso l’infanzia, la casa, la prima terra, verso il
mistero delle radici, che di giorno in giorno acquista eloquenza. Verso un
dialogo sempre più stretto tra l’antico bambino e i morti – i ministri velati,
onnipresenti della memoria. Capii bene come ascoltando i suoi nonni paterni –
sbanditi e deposti dai conquistatori – il meticcio Garcilaso sapesse, una volta
per tutte, che di se stesso avrebbe detto soltanto El Inca, sebbene fosse
cristiano, cattolico ardente e figlio di un illustre Spagnolo. Comprese
improvvisamente quei lamenti mille volte ascoltati, quei vecchi disperatamente
nostalgici dei loro morti imperatori, terribili e soavi come il sole. Può non
essere meno drammatico l’incontro con un ritratto di famiglia, l’uomo o la donna
di cui mille volte udimmo parlare, il nonno che ha il nostro volto ma che –
soltanto oggi è chiaro – ha veduto gli imperatori: porta nelle pupille fredde e
tenere quello che noi cerchiamo dalla nascita, dentro e fuori. Qualcosa di molto
simile alla terra, che (come un Indio si espresse) ci fu tolta sotto colore di
aprirci il cielo.
(Cristina Campo, In medio coeli)
ConFra
1Ci riferiamo qui all’Occidente come concetto che si staglia sul panorama
storico umano dopo avere eliminato le proprie specificità interne, e gli
ostacoli ad un progetto di civilizzazione totalitario, non a tutte le spinte che
qui hanno tentato di resistere a quel progetto.
Riceviamo e diffondiamo:
Sabato 29 marzo, alle ore 11
ci sarà un nuovo presidio contro il genocidio del popolo palestinese.
Il ritrovo è all’angolo fra via cassa di risparmio e via museo (di fronte a
museo di Oetzi)
GAZA È ANCHE QUI – IL GENOCIDIO È ORA!
I palestinesi “sono feccia, subumani, nessuno al mondo li vuole. I bambini e le
donne vanno separati, e gli adulti eliminati.”
Nissim Vaturi, vicepresidente del Parlamento israeliano
Dopo 17 mesi di genocidio e una fragile tregua, durante la quale Israele ha
continuato ad uccidere impedendo l’entrata di aiuti umanitari e tagliando
l’elettricità, Netanyahu ha dato seguito alle minacce e ordinato di riprendere i
bombardamenti a tappeto sulla Striscia. Il 18 marzo, alle 2 di notte i caccia di
Tel Aviv sono partiti e hanno colpito la popolazione nel sonno causando 500
morti in un solo giorno, fra essi almeno 150 bambini. Insieme alle bombe
l’esercito israeliano ha dato nuovi ordini di evacuazione a centinaia di
migliaia di persone che ormai da un anno vagano disperati in una terra ormai
invivibile, senza ospedali e ridotti allo stremo da fame, malattie,
rastrellamenti militari e bombe.
La rottura della tregua è stata preceduta da una serie di notizie false,
inventate ad arte dalla propaganda israeliana e puntualmente riprese da tutti i
principali media occidentali come quella che riferiva di un nuovo progetto di
invasione di Israele da parte dei commando di Hamas. Sempre nei giorni scorsi
gli Stati Uniti hanno bombardato a più riprese lo Yemen, massacrando decine di
persone mentre invece Israele continua a colpire in Siria e Libano.
Non si contano ormai le inchieste e i rapporti delle organizzazioni
internazionali che dimostrano come quello in corso a Gaza sia uno sterminio con
un chiaro intento genocida. Un recente rapporto Onu intitolato Più di quanto un
essere umano possa sopportare ha documentato le sistematiche violenze sessuali,
riproduttive e di genere finalizzate a eliminare fisicamente i palestinesi.
Nessuna forma di violenza è risparmiata ad un popolo martirizzato da Israele con
la decisiva complicità dell’Occidente, Stati Uniti e Unione Europea in testa,
fra cui l’Italia.
Gaza è la cartina di tornasole della retorica militarista della borghesia
europea, ostile a ogni possibile accordo che metta fine alla guerra per procura
condotta in Ucraina tanto da rilanciare come unica opzione, una corsa al riarmo
che fa unicamente la fortuna dei colossi delle armi come Leonardo, Rheinmetall e
Iveco Defence Vehicles. Il partito unico della guerra e degli affari,
trasversale a partiti e gruppi di potere, sta spingendo sulla necessità di
avviare piani straordinari di riarmo. Gli intellettuali e giornalisti organici
al potere danno man forte e chiamano le piazze a sostegno di un’Unione Europea
che parla solo di riarmarsi mentre non hanno il coraggio di dire una parola
netta sullo sterminio del popolo palestinese o sui criminali bombardamenti
americani in Yemen.
Dopo 17 mesi di orrore indicibile come quello di Gaza il messaggio che le élite
israeliane, americane ed europee stanno mandando a tutto il mondo è chiaro: un
genocidio in diretta televisiva, con un adeguato apparato propagandistico in
grado di falsificare la realtà, le responsabilità e il significato delle parole
si può fare. Si può condurre una guerra contro una popolazione civile, tagliare
cibo, acqua ed elettricità, si possono ammazzare 50mila persone, forse 70mila
(la rivista di medicina “The Lancet” parla di oltre 186.000 morti per cause
dirette e indirette). Si può violare impunemente un accordo di tregua e dire che
la colpa sta altrove. Si possono stuprare i prigionieri politici, si possono
torturare in maniera sistematica i prigionieri in veri e propri lager. Si può
fare. Gaza è laboratorio del possibile e la dimostrazione che anche la
democrazia, con le dovute manipolazioni, può essere ridotta a essere una mera
procedura decisionale e quindi compatibile con lo sterminio di un popolo, con
l’apartheid, con i peggiori orrori che credevamo fossero un’esclusiva del
fascismo novecentesco.
Il caso del Genocidio del popolo palestinese dimostra come nel 2025, in una
società iperconnessa in cui gli algoritmi determinano orientamenti, informazioni
e interessi, sia possibile fare digerire ogni forma di orrore alla popolazione,
ridotta in buona parte all’apatia digitale e sempre più incapace di provare
sentimenti di umanità, ancor prima di avere una coscienza politica.
Non possiamo permetterci la rassegnazione: denunciamo le gravi responsabilità
del Governo italiano e di multinazionali come Leonardo e Iveco nel Genocidio.
Fermiamo la corsa al riarmo. Facciamo battere il nostro cuore con gli oppressi
di Gaza, con tutti gli oppressi che lottano e resistono alla barbarie del
terrorismo di Stato israeliano, del colonialismo e dell’imperialismo. La loro
lotta è la nostra lotta. Siamo tutti palestinesi.
IL SILENZIO È COMPLICITA’ – FERMIAMO IL GENOCIDIO DEL POPOLO PALESTINESE
Assemblea solidale con il popolo palestinese –Bolzano
freepalestinebz@inventati.org – Telegram “Free Palestine BZ”
Riceviamo e diffondiamo, rilanciando anche noi la mobilitazione per Anan, Alì e
Mansour per questo mercoledì 2 aprile:
LIBERTA’ PER ANAN ALI’ MANSOUR
LIBERTA’ PER I PRIGIONIERI E LE PRIGIONIERE RIVOLUZIONARI!
Il 2 aprile 2025 alle ore nove e trenta al tribunale dell’Aquila si terrà la
prima udienza del processo ad Anan, Alì, Mansour.
Anan Yaeesh ha 37 anni, è palestinese, nato e cresciuto a Tulkarem nella
Cisgiordania occupata. Negli anni della Seconda Intifada Anan era un adolescente
attivo nella lotte. In seguito ha dovuto scontare quattro anni di prigione come
detenuto politico e ha subito un agguato delle forze speciali israeliane nel
2006, durante il quale ha riportato gravi ferite.
Anan lascia la Palestina nel 2013, diretto verso l’Europa. Si reca inizialmente
in Norvegia dove viene sottoposto a degli interventi chirurgici per rimuovere i
proiettili rimasti nel suo corpo per anni.
Nel 2017 raggiunge l’Italia, dove si stabilisce, e dove nel 2019 ottiene un
titolo di soggiorno. Nel 2023 si reca in Giordania, dove viene sequestrato dai
servizi di sicurezza giordani probabilmente per consegnarlo ad Israele. Dopo
oltre sei mesi di detenzione, a seguito della diffusione della notizia del suo
arresto e al pericolo che venga consegnato alle autorità israeliane, i servizi
di sicurezza giordani lo rilasciano per evitare reazioni da parte dell’opinione
pubblica.
Il 24 gennaio 2024 le autorità israeliane hanno trasmesso al ministero della
giustizia italiano una richiesta di arresto provvisorio del cittadino
palestinese Anan Yaeesh, a fini di estradizione, per i reati di partecipazione
ad organizzazione terroristica e atti di terrorismo.
Il ministero della giustizia ha chiesto l’applicazione della misura cautelare
alla corte di appello dell’Aquila, città in cui Anan vive e dove gode di un
permesso di soggiorno per protezione speciale dal 2022.
Il 26 gennaio 2024 Anan è stato arrestato in seguito a questa richiesta.
La Corte d’Appello de L’Aquila ha respinto, nel marzo 2024, la richiesta di
estradizione, in quanto ha riconosciuto sia concreto il rischio di tortura nelle
carceri israeliane, sia che Anan in quanto palestinese sarebbe stato processato
da un tribunale militare.
Nonostante ciò la magistratura, decaduti i motivi per la sua carcerazione, ha
avviato un’indagine per “associazione con finalità di terrorismo internazionale”
(art. 270-bis c.p.).
Il 13 marzo 2024, la procura della Repubblica de L’Aquila, Direzione
Distrettuale Antimafia e Antiterrorismo, emette un mandato di cattura per Anan e
altri due suoi amici palestinesi: Alì Irar e Mansour Doghmosh. Secondo l’accusa
avrebbero costituito una struttura operativa chiamata “Gruppo di risposta rapida
– Brigate Tulkarem”, filiazione delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, che ha tra
i suoi obiettivi atti di violenza contro lo Stato di Israele. Le Brigate Al
Aqsa, che fanno riferimento ad Al Fatah, su richiesta di Israele sono state
inserite dall’Unione Europea nella lista nera delle organizzazioni
terroristiche.
Secondo la tesi dell’accusa, i fermati avrebbero compiuto opera di propaganda e
proselitismo, con l’obiettivo di pianificare attentati contro siti civili e
militari sul territorio italiano.
L’accusa ha dovuto inserire i due amici di Anan, Alì e Mansour, per poter
giustificare l’articolo 270 bis che richiede la presenza di almeno tre persone
per la formulazione del reato associativo. Oltre a questa manipolazione ha anche
definito complotto terroristico
internazionale quello che le convenzioni internazionali definiscono «resistenza
legittima contro un occupante», cioè la lotta dei palestinesi contro
l’occupazione sionista.
L’ufficio dello State Attorney di Israele ha dato atto dell’impegno mostrato
dalle autorità italiane e della collaborazione prontamente prestata, dichiarando
di voler «ringraziare le autorità italiane per il loro impegno e assistenza in
questo caso» e ribadendo la disponibilità israeliana «ad una continuata
collaborazione tra i due Paesi».
Se l’estradizione di un cittadino palestinese verso Israele, che è un paese in
guerra, è attualmente impossibile, allora la magistratura opta per tenerlo in
galera in Italia avanzando altre accuse contro di lui.
Questa operazione giudiziaria appare una prova di servilismo chiesta all’alleato
italiano ed un precedente che potrebbe rivelarsi pericoloso per altri esuli.
Ad agosto del 2024 sia la Cassazione che il Tribunale del Riesame scarcerano Alì
e Mansour per «mancanza di gravi e circostanziate prove», mentre la procura
decide che Anan rimanga nella sezione di alta sicurezza del carcere di Terni.
Il 26 febbraio 2025 il tribunale de L’Aquila decide comunque il rinvio a giudizi
con le accuse di proselitismo e finanziamento del terrorismo per tutti e tre i
palestinesi.
Contro l’estradizione si sono svolte manifestazioni e presidi in tutta Italia: a
Sassari, Milano, Brescia, Ancona, Modena, Bergamo, Genova, Napoli, L’Aquila,
Palermo, Torino, Roma. Vari presìdi hanno portato la voce dei solidali davanti
alle mura del carcere di Terni dove sono rinchiusi anche diversi compagni
rivoluzionari, tra i quali il nostro Juan. Lo stesso tribunale dell’Aquila è
stato presidiato durante le udienze che dovevano decidere la richiesta di
estradizione e il rinvio a giudizio per gli imputati. A queste udienze Anan non
ha mai potuto partecipare di persona perché gli è stata imposta la
videoconferenza, che è ormai una prassi sempre più estesa che limita fortemente
le possibilità di difesa e la possibilità per gli imputati di vedere facce
amiche in tribunale.
Durante queste udienze Anan ha rilasciato una dichiarazione spontanea della
quale riportiamo di seguito alcuni stralci: «Nella prima udienza estradizionale
di febbraio 2024, ho chiesto alla Corte di Appello e al Procuratore Generale di
non consegnare i contenuti dei miei telefoni cellulari agli israeliani, in
quanto contenevano informazioni riservate che detenevo in qualità di resistente
palestinese, di comandante partigiano. Mi è stato risposto che ciò non sarebbe
accaduto, poiché erano consapevoli che eravamo in guerra e che l’Italia è
neutrale. Tuttavia, sono rimasto sorpreso nel sapere che ad aprile scorso tutte
le informazioni contenute nei miei cellulari sono state passate agli israeliani.
In questo modo, avete violato ogni principio di sicurezza e lo stesso diritto
internazionale, diventando di fatto partecipi degli israeliani in questa guerra,
aiutandoli nella repressione delle legittime aspirazioni di un popolo oppresso…»
«Pertanto, signor Presidente, considero il mio arresto e il mio processo qui
illegittimi, poiché l’arresto stesso, sin dal primo momento, è stato compiuto in
contrasto con il diritto internazionale umanitario, con lo statuto delle Nazioni
Unite, con la Convenzione di Ginevra e con i due protocolli aggiuntivi, e tutto
ciò che ne è derivato è anch’esso illegale; ciò che si fonda sull’illegittimità,
infatti, è anch’esso illegittimo. …
Se riconoscete la legittimità dello Stato di Palestina, allora la richiesta di
estradizione avanzata nel gennaio dello scorso anno nei miei confronti avrebbe
dovuto essere presentata attraverso il governo del mio Paese. Se, invece,
considerate la Palestina come un territorio illegalmente occupato da una potenza
coloniale, allora la resistenza è un diritto legittimo e non dovreste arrestarmi
qui per tale motivo…»
«Se in ballo vi fosse stato un altro paese occupante, la Russia ad esempio,
avreste riconosciuto la legittimità della resistenza palestinese. Non mi state
processando in base al diritto internazionale, ma in base ai vostri rapporti
diplomatici, solo perché Israele è considerato un alleato del governo italiano,
un partner commerciale, e ritenete legittime tutte le azioni che esso porta
avanti. Tanto vale allora cambiare il nome delle corti internazionali e
umanitarie in “Corti degli amici”. Volete che mi difenda dalle accuse a mio
carico, ma mi vergogno di cercare l’assoluzione da accuse che per me
rappresentano un motivo di onore. Non voglio difendermi dall’accusa di avere dei
diritti e di averli rivendicati, o di aver tentato di liberare la mia gente e il
mio Paese dall’oppressione coloniale. Giuro che non intendo essere assolto dalla
legittima resistenza contro l’occupazione sionista. La resistenza palestinese è
uno dei fenomeni più nobili conosciuti dalla storia»
La vicenda repressiva di Anan è significativa, al di là del dramma personale, in
quanto rende evidente come lo Stato italiano agisca per conto dell’entità
sionista contro la resistenza palestinese e lo fa mentre sono in corso la
pulizia etnica ed il genocidio del popolo palestinese, crimini esplicitamente
rivendicati dalle massime autorità israeliane. Per dirlo con le parole di
Netanyahu: «Non mi interessano gli obiettivi, distruggete le case, bombardate
tutto a Gaza».
Chiariamo che la compromissione dello Stato italiano in questi crimini contro
l’umanità non si limita al chiudere gli occhi o ad un generico supporto. La
realtà è che i sistemi Italiano ed Israeliano sono sempre più integrati in
molteplici settori, tra cui quello della ricerca scientifica, dell’industria
militare, dei servizi segreti e delle tecnologie di controllo (basti citare il
recente scandalo spyware Paragon). Le istituzioni italiane si adoperano per dare
spazio ad Israele nella cultura di massa inserendolo all’interno di grandi
manifestazioni sportive quali il giro d’Italia od organizzando incontri tra le
rispettive nazionali mentre è in corso un massacro. Il governo italiano ha
supportato supinamente Israele anche quando questo si è trovato in forte
contrasto con la principali organizzazioni che rappresentano il diritto
internazionale e che ha provato a demolire (ONU, Unrwa e Corte Internazionale di
Giustizia).
Quanto elenco non solo ci fa ritenere che il genocidio non sarebbe possibile
senza il supporto di Stati come l’Italia, ma inoltre ci porta a considerare
Israele il braccio armato della macchina del colonialismo occidentale, che
agendo su mandato di quest’ultimo, attua un processo di destabilizzazione
dell’intera Asia occidentale, al fine di sottometterla e controllarne le risorse
per garantire gli interessi dei capitalisti Statunitensi e Europei.
In conseguenza di queste considerazioni riteniamo che il principale modo con cui
possiamo opporci al genocidio dei palestinesi è quello di combattere contro il
nostro governo, i nostri padroni e tutti gli apparati (repressivi, industriali,
mediatici) che sostengono i conflitti in Asia occidentale affinché cessino la
loro azione di collaborazionisti e protettori di Israele.
Tra questi vi sono appunto gli apparati repressivi dello Stato italiano:
magistratura,forze di polizia, servizi di sicurezza, amministrazione carceraria
che sono stati schierati a difesa dei genocidi, divenendo complici della
macchina dello sterminio. Fanno questo perseguitando gli esuli come nel caso di
Anan, lo fanno reprimendo i movimenti di lotta scesi al fianco del popolo
palestinese, lo fanno ribaltando la realtà quando equiparano l’antisionismo
all’antisemitismo, facendo sì che chi si oppone all’apartheid, alla deportazioni
alle stragi, nel mondo alla rovescia in cui viviamo rischi di essere
stigmatizzato e perseguito per razzismo o antisemitismo.
Bisogna ricordare che la città de L’Aquila, in cui si svolge il processo, ospita
un carcere con le sezioni 41 bis. In queste sezioni tramite le pratiche
dell’isolamento e della deprivazione sensoriale si attua una vera e propria
tortura ai reclusi che mira al loro annientamento fisico psichico e politico.
Nella sezione femminile del 41 bis de L’Aquila è prigioniera dal 2007 la
compagna dei Nuclei Comunisti Combattenti Nadia Lioce. Per la chiusura del 41
bis il compagno Anarchico Alfredo Cospito ha sostenuto uno sciopero della fame
durato 182 giorni. Alle sezioni 41 bis è associata la presenza della Direzione
Distrettuale Antimafia ed Antiterrorismo de L’Aquila, ed è questa che ha
imbastito il processo contro i tre palestinesi mettendo in pratica le montature
che le sono congeniali, inventandosi associazioni che non esistono e arrestando
persone utilizzando false accuse.
Il processo ad Anan si svolge in questa valle chiusa da vette innevate, ma se
allarghiamo lo sguardo sulla cartina geografica ci accorgiamo di essere nel
mezzo del mediterraneo, un mediterraneo dove vogliamo la felicità, la libertà,
la pace e la fratellanza tra tutti i popoli che lo abitano. Invece i fronti di
guerra si allargano sempre più, e se molte persone si disinteressano alla guerra
questo non fa sì che la guerra non si interessi a noi. La guerra non risparmia
nessuno e, con le dovute proporzioni, tocca anche i proletari in Europa sui
quali i governanti scaricano il costo delle loro nefaste avventure. Il fronte
interno si manifesta tramite l’aumento della povertà conseguente alla crisi
industriale e all’aumento dei costi dell’energia, si manifesta tramite la
militarizzazione della società che i burocrati dell’UE vogliono imporre con il
piano Rearm Europe, si manifesta con l’aumento di repressione e controllo
attraverso il ddl ex 1660, con il quale si attaccano i poveri ei dissidenti.
La guerra è sempre, innanzitutto, la guerra degli oppressori contro gli
oppressi, la proposta allucinante di spianare Gaza e di valorizzare il suo
territorio tramite una speculazione edilizia è paradigmatica del mondo in cui
viviamo. Un mondo in cui i proletari che risultano eccedenti rispetto ai
progetti del capitale internazionale, possano essere tranquillamente deportati e
sterminati, come testimoniano la distruzione della Ex Jugoslavia, dell’Iraq, del
Afganistan, della Libia, della Siria, dell’Ucraina, e infine della Palestina che
le élite occidentali vorrebbero condannare alla soluzione finale. Solo la
resistenza degli sfruttati e la solidarietà internazionale può opporsi a questa
strage continua, è la variante umana che può ribaltare il corso della storia.
Liberazione immediata per Anan Yaeesh!
Facciamo sentire ad Anan, Alì, Mansour la voce solidale di chi si oppone al
genocidio del loro popolo.
2 aprile presidio, l’Aquila ore 9:30
tribunale de L’Aquila via XX settembre 68
ANAN YAEESH LIBERO! LA RESISTENZA NON SI ARRESTA! LA RESISTENZA NON SI PROCESSA!
COMPLICI E SOLIDALI
riferimenti e fonti:
https://www.instagram.com/free_anan/
https://www.facebook.com/people/Free-Anan/61556541179498/
https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/04/09/anan-yaeesh-lavvocato-alla-camera-caso-politico-non-e-stato-considerato-il-diritto-internazionale-umanitario/7506144/
Dichiarazioni di Annan ultima udienza l’aquila
https://www.ondarossa.info/focus/anan-ali-mansour-compagni-palestinesi
https://ilmanifesto.it/israele-vuole-anan-yaeesh-litalia-intanto-lo-fa-arrestare
(17/2/2024 un anno fa)
https://contropiano.org/news/politica-news/2024/02/14/no-allestradizione-di-anan-yaeesh-0169353
videoconferenza
https://ilrovescio.info/2025/03/22/trento-stecco-condannato-a-3-anni-e-6-mesi/
https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Sindispr&leg=19&id=144932423)
https://pungolorosso.com/2025/03/21/i-proclami-ferocemente-sterministi-di-israele-nel-silenzio-generale-dei-suoi-complici-o-mandanti/
Riceviamo e diffondiamo:
PERQUISIZIONI A PISA E A CARRARA
Qui il testo in pdf: Perquisizioni Pisa Carrara
All’alba di mercoledì 26 marzo 2025 hanno avuto luogo, nelle città di Pisa e
Carrara, due perquisizioni domiciliari per gli articoli 110, 56, 424 del cod.
pen., aggravati dall’articolo 270 bis 1, in merito all’avvenuta collocazione di
un ordigno incendiario presso il tribunale di Pisa rinvenuto dalle forze di
difesa dello Stato italiano nel febbraio del 2023. Fatto quest’ultimo che si
inseriva nella vasta mobilitazione in solidarietà con Alfredo Cospito contro il
41 bis e l’ergastolo ostativo.
L’indagine, condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia e Antiterrorismo di
Firenze, vuole, come d’altronde tutte le indagini contro il movimento anarchico,
minacciare i rivoluzionari e lo spirito d’iniziativa che li contrassegna.
La lotta continua.
Gli indagati
Riceviamo e diffondiamo:
Il prigioniero anarchico Juan Sorroche si trova nella sezione di alta
sorveglianza del carcere di Terni dal 2019 e nell’autunno 2023 ha lanciato un
appello a inviare scritti di versi e immagini per creare un dialogo con le
persone recluse, per non smettere di lottare, di sognare, di immaginare e
realizzare infiniti mondi nuovi!
Un pomeriggio in strada con la poesia dal basso – per presentare il progetto
Haiku Senza Haiku-Versi scatenati: creare in modo non meccanicistico le
condizioni adatte per un incontro di poesia povera, perché “la poesia non è un
lusso”, uno stare assieme per creare ponti non alienati con l’altro, fare due
chiacchiere, mangiare e bere, sorridendo o piangendo per conoscersi e
riconoscersi nella diversità.
Sabato 5 aprile 2025, Trieste, Campo San Giacomo dalle 16
Da ieri, mercoledì 26 marzo, il nostro caro amico e compagno Massimo si trova
nel carcere di Spini di Gardolo (Tn), nel regime detto di “semilibertà”, per un
cumulo di condanne definitive di 2 anni e 7 mesi (la principale condanna, di
poco superiore ai 2 anni, è relativa agli scontri avvenuti a Rovereto in
occasione della venuta di Salvini: uno degli episodi per cui si trova in carcere
anche Giulio). Essendo stata accolta la sua richiesta di poter scontare la pena
in semilibertà, nel giro di un paio di settimane potrà uscire per lavorare: cosa
che attenua, ma non estingue, la rabbia di saperlo rinchiuso.
Sappiamo che sta bene, in compagnia di un borsone di libri, di un lettore MP3
caricato a metal e della sua serena risolutezza. In attesa di riabbracciarlo,
gli mandiamo tutta la nostra solidarietà e affetto.
Per scrivergli:
Massimo Passamani
C.C. Spini di Gardolo
Via Cesare Battisti 13
38100 Trento
Segnaliamo l’uscita del racconto di Giulio Berdusco, Storia di un gabbiano e del
drone che smise di volare, delle nuove edizioni Fuochi s’inverno.
Per richieste di copie (3 euro a copia, 2 euro dalle 3 copie in su), scrivere a:
fuochidinverno@autistici.org
Qui potete ascoltare la lettura del
racconto: https://radioblackout.org/podcast/storia-di-un-gabbiano/
(Da ottobre 2024 Giulio Berdusco si trova detenuto nel carcere delle Vallette di
Torino. Dovrà scontare 4 anni e 3 mesi per un cumulo di condanne relative alla
giornata di lotta al Brennero del 2016 e agli scontri con la polizia avvenuti
qualche anno più tardi, a Rovereto, durante la contestazione a Salvini in tour
elettorale.)
Prefazione
Chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà
Stig Dagerman
Secondo l’interpretazione arendtiana, “azione” e “discorso” sono ciò che
cominciano, a fondamento di ciò che dà inizio al nuovo. Sono dunque atto di
affermazione della libertà, la quale, di conseguenza, evoca automaticamente la
possibilità del rischio. Per questo entrambe queste qualità che fanno di un
individuo un essere-nel-mondo richiedono coraggio, una virtù che «è praticamente
già presente in ogni volontà di agire e parlare, di inserirsi nel mondo e di
iniziare una propria storia». Azione e discorso – ma per essere più precisi
potremmo dire pensiero e azione – vivono dunque l’una dell’altro, si richiamano.
In alternativa si apre il sipario a quella spettacolarizzazione del pronunciato
che trasforma la parola in semplice strumento, uccidendo la cosa viva che le dà
significato; che la rende, appunto, ciò che può contenere il potenziale di
essere inter-azione. Un’attitudine, questa, che non solo va svanendo
implicitamente nell’èra della Tecnica, ma anche esplicitamente nell’atmosfera
repressiva che ci circonda.
Ecco perché le edizioni Fuochi d’inverno nascono già all’angolo. Vedono la luce
di già (e per nulla metaforicamente) dal buco di una serratura, la quale però
shakespearianamente («potrei essere rinchiuso nel guscio di una noce e tuttavia
ritenermi re di uno spazio infinito») ancora si apre sull’esistente.
Probabilmente ciò è dovuto anche al fatto che chi sta dietro alla cura e alla
pubblicazione di questo libretto, come di quelli che verranno, non è solito
scrivere di cose inventate. Per una serie di circostanze, e soprattutto per una
serie di scelte, ciò in cui le nostre vite si sono imbattute – lo dico per me
stesso, sapendo quasi per certo di poterlo dire anche per l’autore –, è stato un
accumularsi di esigenze diverse da quelle di cui possono essere espressione i
romanzi. Esigenze che hanno fatto (o hanno provato a fare) del connubio
pensiero-azione una questione imprescindibile. Dettate forse da qualcosa di
simile a quella che un pensatore di qualche decennio fa chiamava “filosofia
d’occasione”. Ma non è affatto detto che l’urgenza di esistere che sta dietro
anche a queste parole non possa trovare la sua espressione in forme diverse.
Il libretto che avete tra le mani, il primo racconto che viene dato alle stampe
dalle edizioni, è una storia semplice. Tanto semplice da riuscire a cogliere la
complessità del mondo: la Tecnica e la sua efficacia, l’industrialismo e il suo
progredire sopra corpi e menti, la politica e il suo privilegio, la natura e la
sua inarrestabile espressione di resistenza.
Non di meno, l’inizio di questo piccolo progetto è anche il frutto dell’esigenza
di colmare una distanza obbligata. Una distanza imposta a quella che, per chi
scrive, è qualche cosa di più di un’amicizia, un’affinità particolare di quelle
che forse, per l’appunto, si trovano solo nei romanzi.
Perché forse è vero che solo attraverso il cominciamento dell’azione anche la
vita inizia ad assumere le caratteristiche del romanzo. Che inizia ad uscire
dall’ordinario della logica dell’efficacia e della produzione, per diventare
qualcosa da scrivere, da inventare, da vivere fino all’ultima goccia.
Ottobre 2024
RB
Segnaliamo il libretto Tra la vita e la morte, prima uscita delle edizioni i
giorni e le notti.
Per richieste (3 euro a copia, 2 euro dalle 3 copie in su), scrivere a:
navedeifolli@gmail.com
NOTA INTRODUTTIVA
Le pagine che avete tra le mani non hanno certo la pretesa di avere una qualche
funzione rivelatrice. Le idee che gli danno forma sono ispirate da riflessioni
ben più ampie e sviluppate fino al dettaglio. Qui, in una forma forse singolare
e probabilmente addirittura poco adatta a ciò che rappresenta l’urgenza del
presente, possono apparire quasi vivisezionate. Mi perdoneranno perciò gli
autori (per lo più defunti) delle opere fondamentali che hanno dato le note a
questo confuso e apparentemente irrazionale tentativo di racchiudere in qualche
riga pensieri che avrebbero la necessità di prendersi ben più ampio spazio. Ma
al di là di questo mi sembra utile sottolineare il fatto che quello che qui
vuole arrivare alla luce è non tanto una critica strutturata del sistema
tecnico, nel quale siamo ormai imprigionate e imprigionati in maniera quasi
totale, quanto piuttosto una ricerca necessaria di che cosa ci rende essere
umani e perché. Questo per un motivo semplice: le caratteristiche fondamentali
che ci rendono umani e quelle che costituiscono le basi del sistema sono del
tutto incompatibili. Andare alla ricerca dello sviluppo delle nostre
possibilità, caratteristiche in via di estinzione in favore di un nuovo concetto
di esistenza sponsorizzata come aumentata, significa di conseguenza considerare
seriamente le vie della rivolta. Non si faccia l’errore di credere che una
critica radicale all’incarcerazione tecnologica che avanza si nutra di un
conservatorismo bigotto, del tipo “tutte le rivoluzioni della scienza sono state
viste dai loro contemporanei con diffidenza, come un attacco alle proprie
certezze”. La paura del cambiamento qui non c’entra nulla, anzi, al contrario, è
la certezza di un vecchio che ritorna ad animare la necessità di combattere il
Mondo Nuovo. Il fatto che la realtà possa essere “aumentata” solamente al prezzo
della diminuzione della vita. E che il procedere tecnico dell’organizzazione
sociale non è affatto composto di scelte individuali (se per esempio decido di
non possedere uno smartphone non significa affatto che io possa ritenermi
estraneo alle sue influenze sociali) ma si impone a tutti i viventi, se pur in
maniera differente in base alla classe, al genere, alla specie… Oltre,
indubbiamente, ad una sorveglianza sempre più pervasiva, è di queste imposizioni
tacite che oggi vive una parte significativa del potere; di quelli che Ivan
Illich aveva puntualmente definito «monopòli radicali», o che Günther Anders
descriveva come «obblighi e divieti segreti».
È ovvio che certe “utopie” transumaniste, come quella di raggiungere
l’immortalità (la cui via più probabile ad oggi sembra essere, in parole povere,
quella del backup di ciò che viene definito coscienza di sé su un disco rigido)
siano per ora fuori portata. Ma è l’immaginario che vi sta dietro che deve
essere preso sul serio, perché l’idea di una razza superiore, prodotto anche di
un darwinismo sociale che sta alla base storica dell’eugenetica, è del tutto
viva e dominante. L’idea stessa che motiva i dominatori a costituire niente meno
che una nuova religione, animata dalla prospettiva di un’interazione
uomo-macchina sempre più consolidata, deve essere riportata nella realtà dalle
espressioni di un ateismo di nuovo tipo. Oggi, mentre il pianeta che abitiamo
viene quotidianamente violentato e milioni di proletari muoiono sotto le bombe
della civiltà non solo per motivazioni politiche, ma anche di territorio e di
conquista di quelle materie che sono necessarie al complesso
scientifico-militare-industriale, la upper class tecnocratica «spende milioni di
dollari in biotecnologie anti-invecchiamento e in medicina rigenerativa con
l’idea di vivere fino a 120 anni».
Per questo forse le carte che abbiamo da giocare non sono rimaste molte, ma tra
queste, ancora per qualche mano, resta l’asso che può lasciare attònito il
banco: le profonde ragioni di vita per cui non abbiamo alcuna intenzione di
farci strappare le qualità che ci rendono esseri umani unici, ognuno e ognuna di
noi. La nostra naturale capacità di essere imprevedibili, di sorprenderci e di
sorprendere, di prendere in mano la vita e di scagliarla con tutta la forza che
abbiamo in corpo contro chi la vuole rendere una sua proprietà. L’inafferrabile
«possibilità che ci rende più liberi degli dèi» dalla quale, come recita un
folgorante libretto anonimo di qualche anno fa, possono nascere le ragioni «per
andare armati all’assalto di un ordine che ci soffoca».
Dicembre 2024
Rupert
Riceviamo e diffondiamo:
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Editoriale
Europa anno zero
Mentre, nello Studio Ovale della Casa Bianca, urla in faccia a Zelensky: «Vai in
giro e costringi i coscritti in prima linea perché hai problemi di uomini», JD
Vance non fa altro che svelare al mondo intero ciò che per tre anni è stato
nascosto dalla propaganda di guerra atlantica, e che viene adesso rinfacciato –
strumentalmente e non certo per motivazioni etiche – dal nuovo corso USA, di
fronte ad una guerra evidentemente persa e ormai sfacciatamente scaricata sulla
popolazione europea. Un’Europa la cui classe dirigente – riaffermando la difesa
fino all’ultimo ucraino con la retorica della “pace giusta” – annuncia con
patriottismo democratico scellerati piani di riarmo e deterrenza nucleare.
La guerra è l’orizzonte storico terribile del nostro tempo.
In Svezia e Norvegia vengono distribuiti opuscoli e si allargano i cimiteri per
predisporre la popolazione all’eventualità di una guerra con la Russia; Von der
Leyen dichiara di volere «la pace attraverso la forza»; Macron propone di
estendere la force de frappe francese all’Europa; in Lombardia si dispone
l’ampliamento delle scorte di iodio nell’eventualità di attacco nucleare; la
NATO promuove la mobilitazione della società civile dei paesi alleati
nell’Indopacifico per preparare un conflitto con la Cina; l’esercito italiano si
prepara ad arruolare quarantamila soldati in più.
In un quadro di interdipendenza tecnologica e finanziaria fra Cina e Stati
Uniti, con l’elezione di Trump viene alla luce lo scontro in atto da anni tra la
fazione globalista e quella sovranista delle classi dirigenti occidentali. Per
sommi capi, la prima è decisa a uno scontro diretto e a qualsiasi costo con la
Russia, la seconda favorevole a un’intesa col Cremlino per puntare, nel giro di
alcuni anni, direttamente contro la Cina, ma entrambe convergono su un punto
preciso: il riarmo europeo (peraltro deciso e annunciato molto tempo prima del
ritorno di re Donald). Un gioco di specchi e provocazioni che, mentre potrebbe
sfociare da un giorno all’altro nell’annientamento nucleare dell’umanità intera,
trasformerà l’Europa, se non in un cumulo di macerie radioattive, in una
fortezza blindata e militarizzata, dominata da un’economia di guerra che
assorbirà tutte le risorse e le energie sociali.
La guerra del nostro secolo è ibrida, totale, asimmetrica, civile. Il suo campo
di battaglia è ovunque.
La guerra del XXI secolo è una guerra senza limiti, che assume forme varie e
pervasive. Si snoda tra i flussi energetici, prende la forma di attentati e
sabotaggi di Stato, incorpora pienamente il denaro, i mezzi di informazione e i
social network. La centralità assunta dalla tecnologia e dallo sviluppo
scientifico si riverbera in ogni ambito del conflitto guerreggiato, attraverso
droni, applicazioni che coinvolgono la popolazione nei servizi di intelligence
(ad esempio per segnalare le posizioni delle unità nemiche), così come con la
rivoluzione dell’intelligenza artificiale nelle dottrine militari, che ha un
peso e delle conseguenze paragonabili all’invenzione del nucleare. Se l’IA e le
tecnologie digitali sono fondamentali per fare la guerra, la ricerca del primato
su questi dispositivi alimenta la competizione su scala internazionale per il
saccheggio di materie prime e la vampirizzazione energetica. Le ipotesi di
“deterrenza batteriologica” e la valenza apertamente militare dei bio-laboratori
fanno coincidere guerra guerreggiata e guerra al vivente.
Non per questo vengono meno forme “tradizionali” e sanguinose, riemergenti nei
fronti di una guerra mondiale che per ora sarà anche «a pezzi», ma che si
delinea sempre più chiaramente come prodotto della crisi dell’egemonia globale
statunitense e contesa con i suoi sfidanti, in particolare la Cina. Sul fronte
ucraino, la leva di massa e la guerra di posizione ci ricordano quanto avveniva
durante la Prima Guerra Mondiale. Sul fronte mediorientale, dove per gli USA
mantenere saldo il colonialismo d’insediamento israeliano – sorto come avamposto
degli interessi occidentali – significa cercare di preservare il proprio
predominio sulla regione, il genocidio sionista a Gaza e in Cisgiordania riporta
all’attualità quanto avvenne durante la Seconda Guerra Mondiale. In nessun caso
si tratta però di un ritorno del Novecento, bensì del reciproco alimentarsi di
progresso tecnico e mobilitazione generale nella guerra totale del XXI secolo.
Il potenziamento della tecnica è oggi l’orizzonte centrale per le forze che si
contendono il dominio del mondo.
Con un rovesciamento tra il concetto di mezzo e quello di fine, la tecnica
guidata dalla scienza moderna si afferma secondo una propria logica. Il ruolo
del sistema satellitare Starlink di Elon Musk – impostosi con la guerra in
Ucraina – dà la misura di un protagonismo inedito delle multinazionali
dell’high-tech, ma, come in altre fasi della rivoluzione industriale, non viene
meno il ruolo dello Stato, che anzi assume una rinnovata centralità. Non è un
caso che il Progetto Stargate della nuova amministrazione USA – 500 miliardi per
lo sviluppo dell’IA – sia stato paragonato al Progetto Manhattan, quello che
portò ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki.
La natura automatizzata del genocidio a Gaza appare come la sperimentazione sui
“selvaggi delle colonie” di quello che rischia di accadere ai civilizzati
stessi, allo stesso modo in cui il genocidio degli Herero in Namibia da parte
del colonialismo tedesco (e l’insieme dei genocidi commessi dalle altre potenze
coloniali) precedette e preparò l’attività dei campi di sterminio durante il
nazismo. E mentre diventa sempre più chiaro come nell’organizzazione del
mondo-guerra vi sia un’umanità eccedente di cui si può fare a meno e che va
gestita o eliminata, si sta sdoganando l’idea che si possa fare a meno
dell’umanità in quanto tale (come sostenuto apertamente da alcune correnti
tecnocratiche tutt’altro che lontane dalle stanze dei bottoni).
La guerra è prima di tutto un fatto di politica interna – e il più atroce di
tutti.
Così metteva in guardia Simone Weil, ventiquattrenne, nelle sue Riflessioni
sulla guerra (1933), rispetto all’errore di considerare la guerra come un fatto
di politica estera. Se i fatti drammatici a cui assistiamo ogni giorno in
diretta streaming rischiano di apparirci distanti, la guerra è più vicina di
quanto inconsciamente ci auguriamo.
A pochi passi da noi stanno infatti le sue molteplici basi materiali – dai
centri decisionali alle fabbriche d’armi e munizioni, passando per snodi
logistici che sono parti integranti della logistica militare e un sistema
universitario che fa da laboratorio all’industria bellica –, sempre più nutrite
da imponenti piani di riarmo. E nel mondo datificato e digitalizzato i confini
fra civile e militare sono continuamente superati in entrambi i sensi: una app
che oggi viene usata per profilarci come consumatori, pazienti sanitari o
“cittadini digitali”, può servire, altrove come qui, per mettere al bando,
arruolare, o eliminare una parte di umanità considerata nemica o inutile, mentre
i dati che produciamo tutti i giorni sono direttamente al servizio della
sorveglianza e degli eserciti.
Se è vero che la guerra parte da qui, è altrettanto vero che la guerra torna
indietro. Ritorna come necessità di “pacificare” le retrovie, militarizzandole:
la sperimentazione delle “Zone Rosse” dopo Capodanno, il tentativo di varare un
codice da legge marziale col Pacchetto Sicurezza (firmato anche dal ministro
della Difesa), l’estensione del “modello Caivano” ad altre periferie. Sul piano
interno, sono numerose le conseguenze a cascata del conflitto tra gli Stati
fatte pagare alle classi dominate – aumento delle bollette, precarizzazione
ulteriore del lavoro, fine di quel che rimane del cosiddetto “Stato sociale” –
giustificate dalle necessità del riarmo e della difesa nazionale e Europea, con
l’utilizzo costante dell’emergenzialità e la militarizzazione delle emergenze. È
ciò che abbiamo ampiamente vissuto durante il “periodo pandemico”, in cui la
guerra al virus ha predisposto il terreno per la guerra attuale con la
sperimentazione su larga scala di una mobilitazione generale.
La guerra totale è contemporaneamente guerra civile globale.
Le condizioni di questa guerra civile sono ampiamente in essere anche alle
nostre latitudini, come più d’uno ha affermato già nel secolo scorso. Il venir
meno di collanti ideologici, la conflittualità intestina allo Stato e pure alle
classi frantumate, sono sintomi che la barbarie non è qualcosa di lontano, ma si
dispiega anche all’interno delle mura erette dalla “civiltà” e dal “progresso”.
Basti pensare a quanto accade nelle periferie come riflesso della “guerra tra
poveri” – italiani contro stranieri, disoccupati contro lavoratori “del nero”,
piccoli esercenti autorizzati contro abusivi, regolari contro clandestini,
abitanti delle case popolari contro occupanti, cittadini contro rom, antagonisti
contro “maranza”… Se poi ci spostiamo nel Regno Unito, vediamo tornare né più né
meno che i pogrom (con migranti e islamici al posto degli ebrei e dei rom). Se
le insurrezioni e le rivoluzioni moderne sono sempre delle guerre civili, i due
termini non coincidono. Oggi siamo precisamente in presenza di una guerra civile
ubiqua e orizzontale in assenza di guerra sociale.
Capita però che talvolta il conflitto si esprima verticalmente, come nelle
sommosse di George Floyd e poi, con una composizione socialmente diversa, e per
certi aspetti opposta, nell’assalto a Capitol Hill (USA, 2020 e 2021: prima
proletari di tutti i colori contro padroni e istituzioni, e in particolare
contro la polizia; poi una miscellanea di classi, ma tendenzialmente plebee e
bianche, contro l’elezione di Biden); negli scontri dei popoli nativi contro il
marco temporal dell’agroindustria (Brasile, 2023); nelle sommosse delle
banlieues francesi (dal 2005 alle più recenti “rivolte di Nahel”) e, alle nostre
latitudini, nelle accese manifestazioni antipoliziesche dopo l’assassinio di
Ramy Elgaml a Milano da parte dei carabinieri.
I fenomeni di disintegrazione sociale rappresentano in ogni caso una minaccia
per l’ordine costituito, a cui lo Stato risponde in maniera autoritaria, in modo
del tutto trasversale alle tassonomie di governo formali (democrazia vs.
autocrazia), senza mediazioni se non quelle offerte dal progresso tecnico. Basti
pensare alla digitalizzazione e biometrizzazione delle identità legali, tramite
cui l’identità civile diventa indistinguibile da un dispositivo di sorveglianza
automatizzato. Oggi il “cittadino” che si rivolta o non obbedisce è sempre più
meccanicamente “messo al bando”.
Prendere atto della tendenza alla guerra non significa accettarne
l’inevitabilità.
Nonostante la religione dell’ineluttabilità sia il motore del nostro tempo,
alcuni segnali sembrano incrinarla. In Ucraina, dopo la sbornia nazionalista, il
sostegno alla guerra ha lasciato il posto a forme di renitenza, diserzione e
non-collaborazione di massa che pesano non poco sulle sorti di quel conflitto e
lasciano intravedere un possibile crollo del fronte occidentale. Nel frattempo,
il genocidio a Gaza ha alimentato un movimento globale vasto e articolato che,
grazie ad alcune testarde minoranze, ha riscoperto forme d’azione diretta e ha
portato l’intifada nei campus statunitensi, facendosi carico di dire il
non-detto, cioè il fondamento bellico e genocida del capitalismo occidentale.
L’estensione della guerra a tutti gli ambiti della società moltiplica le
opportunità di ammutinamento e sabotaggio, offrendo alla variabile umana inedite
occasioni di inceppare la macchina mortifera.
La propaganda di guerra – paradossalmente – ha avuto invece presa su alcune
minoranze della minoranza antagonista, arrivate a esprimere sostegno a una
sedicente, e inesistente, resistenza ucraina, e a esitare, nel contempo, a
sostenere la resistenza palestinese, con la totale incapacità di distinguere tra
un’ondata nazionalista fomentata e armata dalla NATO (e con autentici nazisti in
prima fila, tra Parlamento, squadroni della morte, esercito, polizia, Guardia
Nazionale) e una resistenza anticoloniale contro un colonialismo d’insediamento
ancora in corso. Se i socialisti parlamentari di un tempo votarono i crediti di
guerra, i loro ridicoli e corrotti eredi “progressisti”, dopo un secolo di
collaborazionismo di classe, sostengono il piano di riarmo “ReArm Europe” e
indicono piazze guerrafondaie “per la libertà”, volte unicamente a sostenere la
prosecuzione del massacro in corso in Ucraina.
A centodieci anni dall’entrata in guerra dell’Italia nel Primo Massacro Mondiale
e a ottant’anni dalla fine del Secondo sul suolo europeo, sono la storia
dell’antimilitarismo rivoluzionario e ancor più quella di chi lo ha abbandonato
abbracciando la causa della “guerra giusta” di turno a illuminare tragicamente
la strada da percorrere. L’unico modo di sottrarsi a guerre fratricide è
assumere la logica del disfattismo e le sue implicazioni, ovvero adoperarsi per
la rovina della parte capitalista che ti vuole arruolare e intruppare, e l’unico
modo per sottrarre il disfattismo dall’arruolamento da parte del campo
capitalista avverso è la logica dell’internazionalismo: quella con la quale ogni
sfruttato vede il proprio nemico nel padronato di casa propria, solidarizzando
con i propri fratelli e sorelle dall’altro lato del fronte.
¯¯¯
Con questo sguardo sul mondo nasce disfare, bollettino periodico in parte
dedicato ad affrontare nodi cruciali per interpretare il fosco orizzonte in cui
agiamo, in parte a dare diffusione di testi contro la guerra totale, per lo più
inediti in lingua italiana, provenienti dai vari fronti e retrovie del mondo e
anche dal passato.
Il bollettino uscirà in quattro numeri annuali, un ritmo oltremodo lento per
tenere il passo vertiginoso dell’attualità, ma che ci sembra – oltre che
compatibile con le nostre energie – adatto al cristallizzarsi di un pensiero che
provi ad avventurarsi oltre la superficie. Ci affidiamo a uno strumento
cartaceo, senza escludere che possa essere affiancato da altri mezzi, convinti
che nella dimensione digitale tutto sfreccia e poco o nulla si posa, rumore di
fondo che non ha più importanza di qualsiasi altro rumore.
Di fronte all’accelerazione di eventi di portata storica che stiamo vivendo, ci
sembra utile dotarci di una pubblicazione che possa fornire uno spazio di
discussione e in cui possano dialogare fra loro esperienze di lotta e analisi,
anche geograficamente lontane e magari divergenti tra di loro, con il desiderio
che questo possa stimolare pensiero e azione. Per questo invitiamo chi ci legge
a contribuire con testi, grafiche, segnalazioni, critiche, diffusione. Nella
speranza che l’accelerazione di questi tempi bui non ci trovi del tutto
impreparati.