Riceviamo e diffondiamo questa nuova versione aggiornata dell’opuscolo da
battaglia che segue la vicenda processuale di Anan, Alì e Mansour:
opuscolo anan 1 copia 2_senza foto
Source - il Rovescio
cronache dallo stato di emergenza
Riceviamo e diffondiamo con gioia la notizia della revoca dei domiciliari a
Luigi e Veronica, arrestati per l’operazione “Delivery”:
REVOCATI GLI ARRESTI DOMICILIARI RESTRITTIVI NEI CONFRONTI DI LUIGI E VERONICA
PER L’OPERAZIONE “DELIVERY”
Il Tribunale del riesame di Firenze ha stabilito la revoca della custodia
cautelare agli arresti domiciliari (con divieto di comunicazioni e di visite)
disposta dal Giudice per le Indagini Preliminari nei confronti di Luigi e
Veronica, arrestati l’11 settembre per l’operazione “Delivery” che li vede
indagati per “atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi” e altri
reati connessi. Nel corso della prima settimana di ottobre hanno ricevuto la
notifica della revoca degli arresti domiciliari restrittivi. Le motivazioni del
tribunale non sono ancora state depositate. Ricordiamo brevemente che per questo
procedimento sono avvenute due operazioni tra il 26 marzo (quattro perquisizioni
domiciliari nei comuni di Carrara, Faenza, Pisa e Sarzana) e l’11 settembre
(arresti e sei perquisizioni domiciliari nei comuni di Carrara, Montignoso, Pisa
e Sarzana). La richiesta avanzata dalla Direzione Distrettuale Antimafia e
Antiterrorismo di Firenze era della reclusione in carcere.
Il procedimento riguarda il posizionamento di un ordigno presso un ingresso
secondario del tribunale di Pisa il 21 febbraio 2023, nell’ambito della
mobilitazione in solidarietà con Alfredo Cospito, all’epoca a oltre 120 giorni
di sciopero della fame a oltranza contro il regime detentivo del 41 bis e
l’ergastolo ostativo. Con la mobilitazione degli anni 2022-’23 abbiamo impedito
una condanna all’ergastolo ostativo per Alfredo Cospito – all’epoca pressoché
certa con l’esito del processo “Scripta Manent” in Corte di Cassazione – e messo
un bastone tra le ruote alla repressione anti-anarchica (e non solo), oggi
continuiamo la lotta contro il 41 bis impiegato come carcere di guerra contro
Alfredo e tre militanti delle BR-PCC.
SOLIDARIETÀ CON TUTTI I PRIGIONIERI RIVOLUZIONARI NEL MONDO
Riceviamo e diffondiamo:
Qui in formato volantino: DUE PAROLE SULLA SERATA DI LOTTA DEL 2 OTTOBRE A LECCO
DUE PAROLE SULLA SERATA DI LOTTA DEL 2 OTTOBRE A LECCO
Bloccare la produzione bellica è urgente e possibile!
Il corteo spontaneo di giovedì 2 ottobre ha dimostrato che la lotta al fianco
della resistenza palestinese può trasformarsi in una critica radicale del nostro
sistema economico di guerra e sfruttamento.
Infatti, dopo un primo ritrovo in Largo Montenero con l’obiettivo di bloccare la
normalità della vita lecchese, oltre mille persone hanno scelto di dirigersi
verso la Fiocchi Munizioni e i rioni di Belledo e Germanedo, veri avamposti
locali di guerra con la presenza di aziende quali Invernizzi Presse, Simecon,
3M, LDM Transport, Defremm.
La scelta di bloccare stazioni ferroviarie e strade avrebbe portato con sé una
volontà di denuncia, di lotta anche simbolica, bloccare tutto anche per far
riflettere tutte e tutti sulla necessità di interrompere la propria quotidianità
e “normalità”.
La scelta di muoversi compatti verso i poli della guerra, invece, è quel passo
in più, che esce dal simbolico per diventare obiettivo di lotta, che trasforma
una testimonianza in un attacco a chi le guerre le produce. Una giornata che ci
mostra la strada da percorrere se veramente vogliamo dire no alle guerre e ai
genocidi dei padroni.
A ridosso del cancello di ingresso della Fiocchi, protetto da una camionetta e
da agenti in tenuta antisommossa, ci si è fermati per un lungo presidio in
prossimità del cambio turno serale. Questo ha provocato l’annullamento da parte
dell’azienda del turno notturno. I e le dipendenti, intimoriti dalla presenza di
centinaia di persone, hanno posticipato l’uscita. Chi sceglie di contribuire
alla produzione di morte e di guerra deve riconoscere le proprie colpe e le
proprie responsabilità: noi saremo lì ogni volta che potremo a ricordarglielo.
Questo è il segno evidente che le proteste, se mantengono uno sguardo di lotta,
sono in grado di sortire effetti concreti, reali.
Il corteo, verso le 21:00, ha poi deciso di proseguire in direzione ospedale
dove si è ricongiunto al personale sanitario impegnato nel flash mob “Luci per
la Palestina”.
Quello che è accaduto ieri è stato un profondo movimento politico collettivo. Il
simbolo potente della direzione che deve prendere la lotta.
Dobbiamo continuare a fare fronte compatto.
Un fronte che condanna le oppressioni, le guerre e i genocidi e che, al
contrario, supporta la cura e la resistenza.
Perché non c’è pace sotto occupazione.
Non c’è pace senza autodeterminazione.
Non c’è pace senza libertà.
La resistenza palestinese infatti non punta solo alla sopravvivenza, combatte
per smantellare un sistema che opprime. Lo stesso sistema che, seppur in forme
diverse, si ripropone a livello mondiale.
Per questo ci riguarda.
Per questo chi lotta per la Palestina lo sta facendo pensando alla liberazione
di tutte e tutti.
La protesta perciò è una faccia dell’umanità.
Un’umanità che non accetta di essere complice.
Che non si piega.
Che non arretra.
Che non scende a compromessi con chi arma e finanzia il genocidio.
Che non si lascia intimidire.
Serve perciò una mobilitazione continua, un’attivazione perenne popolare dal
basso, che inizi a incrinare le strutture stesse del potere. E che lo faccia,
innanzitutto, partendo da qui.
Dobbiamo tenere al centro la Palestina, ma anche la nostra complicità, perché le
radici del genocidio affondano qui: nella nostra storia coloniale e nella nostra
economia.
L’Italia arma, finanzia e copre i crimini israeliani.
Da Lecco sono partiti quei proiettili che ritroviamo nei corpi dei palestinesi
in Cisgiordania.
Da Lecco sono partiti quei macchinari che producono proiettili per l’esercito
israeliano.
A sconcertarci, non può essere solo la violenza di Israele, ma anche la violenza
razzista, fascista, coloniale e suprematista che attraversa tutto l’”Occidente”
IL SIONISMO SI FERMA CON IL BOICOTTAGGIO.
IL GENOCIDIO SI FERMA CON LA RESISTENZA.
LA MACCHINA BELLICA SI FERMA CON LA RIVOLTA.
La città si è riunita in un unico boato di rabbia e in un grande abbraccio
collettivo d’amore.
Una piccola intifada è esplosa nel cuore della città: un grido di resistenza.
Lecco sa da che parte stare.
Palestina libera.
Dal fiume fino al mare.
Assemblea permanente contro le guerre (Lecco)
Coordinamento Stop Genocidio (Lecco)
Carcere e Palestina sono da sempre strettamente intrecciati. Il popolo
palestinese vive rinchiuso in una “prigione a cielo aperto” in Cisgiordania e in
un “carcere di massima sicurezza” a Gaza. Dal 1948 a oggi, lo Stato israeliano
ha incarcerato qualcosa come 800 mila palestinesi (tra cui molti ragazzi e
addirittura bambini). La liberazione dei prigionieri è un obiettivo costante
della resistenza palestinese (e infatti esso è stato alla base dell’azione del 7
ottobre ed è ancora centrale per raggiungere il cessate il fuoco). Il movimento
internazionale contro il genocidio, che attraversa e taglia in due la società, è
entrato nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro, nei quartieri,
persino negli stadi. Certo non poteva né può lasciare indifferenti i
prigionieri, vista anche l’ampia presenza nelle carceri di arabi e musulmani.
Chiunque abbia organizzato presìdi sotto le carceri in questi due anni sa per
esperienza che “Palestina libera!” è l’urlo che più abbatte simbolicamente le
mura e le sbarre.
Questo movimento “dentro-fuori” non solo si gioca sul piano internazionale (per
quanto più o meno acuta ne sia la consapevolezza), ma rende potenzialmente
reciproca e non univoca la direzione della solidarietà. Si può pensare in tal
senso all’intreccio che si è creato tra la protesta di Teuta Hoxha nel carcere
britannico di Peterborough (dove la militante di Palestine Action ha raggiunto i
suoi obiettivi dopo 28 giorni di sciopero della fame) e quella che hanno fatto
in suo sostegno negli Stati Uniti i prigionieri Casey Goonan (accusato di aver
incendiato delle auto della polizia durante gli accampamenti per Gaza nelle
università) e Malik Muhammad (un compagno palestinese incarcerato per una serie
di azioni avvenute durante la Floyd Rebellion).
Anche dalle carceri italiane arriva qualche segnale.
La scelta del nostro amico e compagno Massimo, in “semi-libertà” nel carcere di
Trento, di scioperare per Gaza il 30 maggio scorso
(https://ilrovescio.info/2025/05/26/preferisco-di-no/), poi il 20 giugno, il 22
settembre e il 3 ottobre, non è un caso isolato. Abbiamo appreso che un gruppo –
non sappiamo quanto numeroso – di detenuti in “semi-libertà” (art. 21) del
carcere bolognese della Dozza ha scioperato il 3 ottobre. Questo il loro
comunicato:
«Preso atto di quello che sta succedendo a Gaza, noi dipendenti della F.I.D.
abbiamo deciso di scioperare il 3/10/25.
Per noi reclusi andare a lavorare è un movimento di libertà dal contesto
carcerario in cui viviamo.
Nonostante ciò, rinunciamo a un giorno di libertà e di stipendio.
Questa decisione è stata presa per manifestare tutta la nostra indignazione per
il genocidio tutt’ora in atto e per manifestare il nostro supporto alle persone
della Flotilla arrestate con l’unica colpa di essere ambasciatori di umanità».
Ci sembra allora urgente porre e porci alcune questioni.
Come stare in carcere è un dibattito da cominciare quando si è liberi. Arresti
come quelli avvenuti il 22 settembre e il 3-4 ottobre potrebbero diventare più
frequenti (e duraturi) se i blocchi e gli scontri dovessero continuare. Nello
specifico, più gli arrestati hanno da dire e da fare per la liberazione della
Palestina, simbolo oggi di una rivolta globale, più la lotta a fianco della
resistenza palestinese può coinvolgere le carceri. Più ci si mette d’accordo
prima, più l’iniziativa può risultare comune, tempestiva e basata sull’adeguato
sostegno esterno.
Viviamo in tempi di guerra. L’esempio degli arresti di massa in Gran Bretagna
dopo la messa al bando di Palestine Action suggerisce due cose: che il carcere
può tornare ad essere un’esperienza collettiva; e che lottare al suo interno è
parte di una lotta di liberazione sociale.
Questo rende necessario un coordinamento nella traduzione e circolazione dei
materiali e allo stesso tempo un impegno per allargare la portata del dibattito
e le possibili iniziative di lotta. Nel senso che compagne e compagni sparsi
nelle carceri di diversi paesi possono sostenersi a vicenda (come e più di
quanto è successo finora), ma anche intraprendere delle proteste comuni maturate
da un confronto comune. E questo non solo per migliorare le condizioni detentive
di qualcuno o di tutte e tutti, o per sostenere questa o quella scarcerazione là
dove ci sono le condizioni per una pressione efficace in tal senso; ma anche per
partecipare da dentro agli scioperi, alle campagne o ai movimenti che si
sviluppano all’esterno.
La battaglia per la liberazione del prigioniero palestinese Anan Yaeesh è in tal
senso, oltre che doverosa, un’occasione per legare carcere e Palestina, per
unire i quartieri, le strade e i porti alle celle dove sono rinchiusi i nostri
compagni e le nostre compagne.
Soprattutto ora, visto che Anan, nel frattempo trasferito nel carcere di Melfi,
il 4 ottobre è entrato in sciopero della fame.
Non sapremmo trovare parole migliori di quelle scritte da Casey Goonan:
«Come prigionieri incarcerati per la nostra partecipazione al movimento di
liberazione palestinese in Occidente, abbiamo la responsabilità reciproca, oltre
i confini, di vivere la nostra vita in prigione con la stessa fermezza del
movimento dei prigionieri palestinesi tenuti prigionieri nelle prigioni
“israeliane”.
Gli stati da cui siamo stati catturati sono i facilitatori del genocidio
accelerato dei palestinesi da parte dell’entità sionista, così come dei genocidi
in corso dei neri e degli indigeni, le cui terre continuano a occupare.
Mentre la sinistra occidentale continua a passare da una crisi all’altra,
evitando le proprie responsabilità nei confronti della Palestina, noi siamo
tutto ciò che abbiamo».
https://www.lindipendente.online/2025/10/07/lucraina-avrebbe-colpito-impianti-di-armi-e-petrolio-in-russia-mosca-avvisa-leuropa/
Riceviamo e diffondiamo:
Uno spazio per l’immaginazione
Dopo settimane di blocchi e cortei spontanei e massivi in città e presidi
permanenti nei paesi, mobilitazioni nei posti di lavoro, scuole, università,
periferie, lo sciopero generale di venerdì 3 ottobre ha segnato un’esplosione
individuale e collettiva di rabbia e di gioia, in rottura con l’esaurimento
morale dell’occidente.
Mentre governo e industrie italiane, come la Leonardo, si svelano sfacciatamente
complici di un genocidio le cui immagini rivoltanti vengono mostrate da due anni
in diretta; mentre cade definitivamente la maschera del Diritto – come ben
dimostra il processo contro Anan, Alì e Mansour – vuoto formalismo strumentale
alla difesa del potere, i cui metodi come sempre si alternano all’uso della mera
forza contro ciò che è considerato d’intralcio; mentre Von der Leyen, Bezos e
Elkann recitano con gran sorrisi la farsa dell’innovazione tecnologica al
servizio dell’umanità quando è evidentemente infrastruttura per riarmo,
sorveglianza, sterminio;
Uno spazio per l’immaginazione.
Dopo settimane di blocchi e cortei spontanei e massivi in città e presidi
permanenti nei paesi, mobilitazioni nei posti di lavoro, scuole, università,
periferie, lo sciopero generale di venerdì 3 ottobre ha segnato un’esplosione
individuale e collettiva di rabbia e di gioia, in rottura con l’esaurimento
morale dell’occidente.
Mentre governo e industrie italiane, come la Leonardo, si svelano sfacciatamente
complici di un genocidio le cui immagini rivoltanti vengono mostrate da due anni
in diretta; mentre cade definitivamente la maschera del Diritto – come ben
dimostra il processo contro Anan, Alì e Mansour – vuoto formalismo strumentale
alla difesa del potere, i cui metodi come sempre si alternano all’uso della mera
forza contro ciò che è considerato d’intralcio; mentre Von der Leyen, Bezos e
Elkann recitano con gran sorrisi la farsa dell’innovazione tecnologica al
servizio dell’umanità quando è evidentemente infrastruttura per riarmo,
sorveglianza, sterminio;
in tanti, tantissimi, distolgono gli occhi dagli schermi per incontrarne altri
in strada, interrompendo la propria “normalità”, rompendo con disinvoltura gli
argini di leggi repressive che fino a qualche mese fa sembravano paralizzanti,
bloccando una strada, una fabbrica, una scuola, stazioni dei treni, porti,
aeroporti, supermercati, scioperando dentro alle prigioni. Sguardi che si
ritrovano complici nel riconoscere visceralmente ciò che è giusto e ciò che
invece non è accettabile e nel realizzare improvvisamente che agire, in prima
persona, conta. E’ un umano sentimento di intollerabilità a rompere il cinico
nichilismo del tecnocapitalismo con la sua corsa verso la morte o la semi-vita
per cavie e prigionieri all’aperto, di cui simbolo è la polizia penitenziaria in
assetto antisommossa per le strade di Roma, sabato.
In queste settimane si è aperto uno spazio per l’immaginazione. Se il recupero e
i paletti da parte di partiti e sigle, con le proprie indicazioni di metodo, le
proprie parole d’ordine, i propri tentativi “costituenti”, è dietro l’angolo,
così come la possibilità che lo slancio di questi giorni venga smorzato dalle
fila sinistre e politiche e ricondotto a mediazioni o infami “piani di pace” che
vogliono disarmare la resistenza, mentre sul fronte orientale in Ucraina le
macchine del terrore minacciano la distruzione totale, riuscire a coltivare
nella durata questo sentimento, continuando a immaginare e sperimentare, ciascun
a suo modo, forme di azione diretta – sentite e non rappresentate, legami più
che composizioni, autonomie non contro-istituzioni – difendendo un senso morale
di rifiuto dell’orrore, è ciò a cui la resistenza palestinese è riuscita a
chiamarci.
Se le piazze contro il Green Pass erano mosse da un umano sentimento di rifiuto
ad essere ridotti a cavie, se i disertori russi e ucraini e i loro complici
rifiutano di essere ridotti a carne da macello per le guerre dei padroni, oggi
chi blocca le strade qui lo fa perchè rifiuta di essere complice della macchina
del genocidio, per cui governo e industrie italiane ci vorrebbero mobilitare
apaticamente.
Non è il tempo di grandi parole. Se la speranza è che questo sentimento si
espanda e si diffonda anche al di là di Gaza, contro il tecnocapitalismo e la
sua guerra generale alla vita, che anche la giornata del 4 ottobre a Roma non
sia che un tassello di ciò che verrà.
Contro l’ineluttabilità.
Solidarietà a tuttx x fermatx, feritx, arrestatx, e a chi lotta per non perdere
un occhio colpito da un lacrimogeno delle guardie a Bologna.
in tanti, tantissimi, distolgono gli occhi dagli schermi per incontrarne altri
in strada, interrompendo la propria “normalità”, rompendo con disinvoltura gli
argini di leggi repressive che fino a qualche mese fa sembravano paralizzanti,
bloccando una strada, una fabbrica, una scuola, stazioni dei treni, porti,
aeroporti, supermercati, scioperando dentro alle prigioni. Sguardi che si
ritrovano complici nel riconoscere visceralmente ciò che è giusto e ciò che
invece non è accettabile e nel realizzare improvvisamente che agire, in prima
persona, conta. E’ un umano sentimento di intollerabilità a rompere il cinico
nichilismo del tecnocapitalismo con la sua corsa verso la morte o la semi-vita
per cavie e prigionieri all’aperto, di cui simbolo è la polizia penitenziaria in
assetto antisommossa per le strade di Roma, sabato.
In queste settimane si è aperto uno spazio per l’immaginazione. Se il recupero e
i paletti da parte di partiti e sigle, con le proprie indicazioni di metodo, le
proprie parole d’ordine, i propri tentativi “costituenti”, è dietro l’angolo,
così come la possibilità che lo slancio di questi giorni venga smorzato dalle
fila sinistre e politiche e ricondotto a mediazioni o infami “piani di pace” che
vogliono disarmare la resistenza, mentre sul fronte orientale in Ucraina le
macchine del terrore minacciano la distruzione totale, riuscire a coltivare
nella durata questo sentimento, continuando a immaginare e sperimentare, ciascun
a suo modo, forme di azione diretta – sentite e non rappresentate, legami più
che composizioni, autonomie non contro-istituzioni – difendendo un senso morale
di rifiuto dell’orrore, è ciò a cui la resistenza palestinese è riuscita a
chiamarci.
Se le piazze contro il Green Pass erano mosse da un umano sentimento di rifiuto
ad essere ridotti a cavie, se i disertori russi e ucraini e i loro complici
rifiutano di essere ridotti a carne da macello per le guerre dei padroni, oggi
chi blocca le strade qui lo fa perchè rifiuta di essere complice della macchina
del genocidio, per cui governo e industrie italiane ci vorrebbero mobilitare
apaticamente.
Non è il tempo di grandi parole. Se la speranza è che questo sentimento si
espanda e si diffonda anche al di là di Gaza, contro il tecnocapitalismo e la
sua guerra generale alla vita, che anche la giornata del 4 ottobre a Roma non
sia che un tassello di ciò che verrà.
Contro l’ineluttabilità.
Solidarietà a tuttx x fermatx, feritx, arrestatx, e a chi lotta per non perdere
un occhio colpito da un lacrimogeno delle guardie a Bologna.
Riceviamo e diffondiamo:
cineforum. tech
Traduciamo dal sito statunitense it.crimethinc.com questo interessante rapporto
sulla sollevazione in Indonesia e sul ruolo che vi ha giocato il movimento
anarchico.
VOCI DALLA RIVOLTA IN INDONESIA
AFFAN KURNIAWAN CONTINUA A VIVERE NELLE STRADE
Un’ondata di proteste è esplosa in tutta l’Indonesia alla fine di agosto 2025.
In questo rapporto, presentiamo un’intervista con uno scrittore anarchico
indonesiano incarcerato, insieme a varie dichiarazioni di gruppi anarchici che
sono giunte alle testate di lingua inglese dall’inizio della rivolta.
Dopo settimane di proteste in tutta l’Indonesia in risposta alle misure di
austerità, la settimana del 25 agosto i dimostranti si sono radunati in massa
per accusare l’élite politica indonesiana di disprezzo verso la gente e
corruzione.
Il governo indonesiano eroga ai rappresentanti parlamentari uno stipendio
mensile di 100 milioni di rupie (circa 6.081 dollari), ovvero circa 30 volte lo
stipendio minimo di Giacarta, dove si registrano gli stipendi più alti del
Paese. La rabbia è esplosa quando sono circolate voci secondo cui i
rappresentanti ricevevano 50 milioni di rupie in più al mese come indennità di
alloggio. La notizia è stata diffusa in un periodo di forte inflazione, una
nuova tornata di misure di austerità e un peggioramento della povertà.
Sindacati, anarchici, studenti, esponenti della sinistra, giovani e altri
manifestanti hanno riempito le strade la settimana del 25 agosto. Hanno subìto
una dura repressione da parte della polizia al servizio dell’attuale presidente,
Prabowo Subianto, che in precedenza ha ricoperto la carica di ministro della
Difesa. Il 28 agosto, un’auto blindata della Brigata Mobile della Polizia
Nazionale ha investito e ucciso Affan Kurniawan, un fattorino di 21 anni che si
stava recando a consegnare del cibo.
In risposta all’omicidio di Affan, fattorini, anarchici e giovani di diverse
etnie si sono ribellati. I dimostranti hanno saccheggiato diverse stazioni di
polizia, bruciato e saccheggiato le case dei politici e dato alle fiamme edifici
governativi.
Questa situazione ha costretto il primo ministro a saltare il vertice della
Shanghai Cooperation Organization (SCO) cinese. Il governo ha suggerito di
tagliare alcuni dei benefici concessi ai politici e alcune delle misure di
austerità che hanno scatenato la rivolta. Tuttavia, il presidente Prabowo
Subianto ha raddoppiato la repressione e ha chiamato l’esercito, causando almeno
sei morti, tra cui uno studente picchiato a morte dalla polizia a Yogyakarta,
Giava, e un conducente di risciò morto per esposizione a gas lacrimogeni a Solo,
Giava. Il bilancio completo delle vittime rimane sconosciuto.
Governata dal colonialismo olandese fino al 1949, l’Indonesia rimane
profondamente polarizzata, con enormi disparità di risorse e potere; negli anni
‘60, le violenze contro membri e presunti simpatizzanti del Partito Comunista
Indonesiano (PKI) costarono almeno centinaia di migliaia di vite. Il movimento
anarchico contemporaneo emerse alla fine degli anni ‘80, grazie anche
all’impegno delle band punk. La polizia istituì una divisione “anti-anarchia”
nel 2011 e, in molteplici episodi, coloro che erano percepiti come anarco-punk
furono rapiti e incarcerati in campi di rieducazione approvati dallo Stato.
Ciononostante, il movimento anarchico ha continuato a crescere malgrado le
avversità.
Con una repressione statale senza precedenti in atto in tutto il pianeta, le
coraggiose azioni dei ribelli in Indonesia sono di profonda ispirazione per
coloro che rifiutano l’ordine mondiale capitalista. I manifestanti in Indonesia
hanno segnalato diverse forme di repressione delle comunicazioni digitali, che
probabilmente si intensificheranno se il conflitto continuerà a intensificarsi.
Ci auguriamo che questo rapporto preliminare possa attirare l’attenzione sulla
situazione, incoraggiando le persone in tutto il mondo a informarsi di più e ad
agire in modo solidale.
Affan Kurniawan non sarà dimenticato, né i suoi assassini perdonati. Solidarietà
con i coraggiosi che lo stanno facendo nelle strade.
Anarchici solidali con la rivolta indonesiana
UNA CONVERSAZIONE CON IL PRIGIONIERO ANARCHICO E SCRITTORE BIMA
Bima è uno scrittore, traduttore e ricercatore indipendente anarchico
indonesiano, in carcere dal 2021. È ancora attivo dietro le sbarre come membro
di una federazione anarchica. È anche il fondatore della casa editrice
autoprodotta Pustaka Catut e autore del libro Anarchy in Alifuru: The History of
Stateless Societies in the Maluku Islands, pubblicato da Minor Compositions.
Puoi sostenere Bima tramite Patreon e scoprire di più su una campagna FireFund
precedentemente attiva a loro favore.
Abbiamo condotto questa intervista con Bima nei primi giorni di settembre 2025.
Come vorresti presentarti?
Sono uno scrittore, un prigioniero e un membro di una federazione anarchica che
ha scelto di rimanere anonimo per motivi di sicurezza in questo momento
spaventoso.
Puoi fornire qualche informazione di contesto sulla rivolta attuale?
Questa ondata di ribellione, iniziata a fine agosto 2025, è stata causata
dall’accumulo di rabbia per varie questioni politiche ed economiche. Non c’era
un problema unico. Ma tutto è degenerato a causa dei massicci aumenti delle
imposte sulle case in tutta la regione, dovuti al deficit di bilancio del
governo.
Allo stesso tempo, i parlamentari hanno ricevuto un aumento di stipendio
decuplicato. La situazione è stata aggravata dalle dichiarazioni spesso faziose
dei funzionari. Ad esempio, il Reggente di Pati (il politico responsabile della
supervisione del governo locale, delle politiche e dei servizi pubblici nella
Reggenza di Pati, Giava Centrale, Indonesia) ha dichiarato: “Le tasse non
saranno ridotte, nemmeno se si terrà una manifestazione di massa di 50.000
persone”.
Pati è stata la prima città a esplodere, con un’affluenza di circa 100.000
persone il 10 agosto 2025. Le proteste contro l’aumento delle tasse si sono
estese a Bone (nella provincia di Sulawesi Meridionale), poi ad altre città.
Durante una manifestazione del 28 agosto a Giacarta, un fattorino di un’app di
consegna di cibo online è stato ucciso dopo essere stato investito da un veicolo
della polizia durante le proteste. Il giorno seguente, le manifestazioni si sono
estese a molte città e continuano ancora oggi, mentre vi scrivo.
Finora, almeno sei civili sono stati uccisi direttamente a causa della
repressione della polizia, diverse abitazioni di funzionari sono state
saccheggiate e una mezza dozzina di uffici della Camera dei Rappresentanti sono
stati parzialmente o interamente incendiati. Eravamo convinti che questa
ribellione si sarebbe placata, ma non è stato così.
Quali tipi di gruppi sono stati coinvolti nella rivolta? E in che misura sono
uniti?
Sono numerose le organizzazioni, le reti e i gruppi che formulano richieste. Si
potrebbe persino dire che ogni città ha le sue esigenze specifiche.
In generale, le richieste “rivoluzionarie” sono due: la prima, proveniente dal
Partito Socialista Indonesiano, Perserikatan Sosialis (PS), e l’altra, una rete
informale e decentralizzata che ha emanato la Dichiarazione della Rivoluzione
Federalista Indonesiana 2025, che chiede lo scioglimento dello Stato unitario e
del sistema della DPR (Camera dei Rappresentanti indonesiana) e la sua
sostituzione con un Confederalismo Democratico composto da migliaia di consigli
popolari per l’attuazione della democrazia diretta. Ahmad Sahroni, membro della
Camera dei Rappresentanti (DPR) del Partito Democratico Nazionale (NasDem), ha
definito queste richieste “stupide”. Ciò ha portato all’attacco e al saccheggio
della sua casa a Giacarta Nord il 30 agosto.
Gli anarchici insurrezionalisti, gli individualisti e i post-sinistra si
concentrano su attacchi e scontri di piazza, invocando la distruzione dello
Stato e del capitalismo, ma senza preoccuparsi di una piattaforma o di un
programma di rivendicazioni che si limitino a chiedere la riforma di ciò che già
esiste.
In genere non esiste un fronte unito, ma evitiamo un eccessivo settarismo
ideologico.
Purtroppo, ci sono anche liberali progressisti con richieste più riformiste,
come la richiesta 17+8 (uno slogan attivista “pro-democrazia” che chiede che le
richieste riformiste siano soddisfatte entro il 5 settembre 2025). Questo gruppo
è fortemente influenzato dagli influencer liberali online che esortano a porre
fine alle proteste. Questi influencer si sono spinti fino a sostenere che i
manifestanti saranno ritenuti responsabili se l’esercito dichiarasse la legge
marziale a causa della resistenza dimostrata nelle strade (tipico gaslighting
centrista di recupero e demonizzazione della resistenza e delle organizzazioni
rivoluzionarie). Fortunatamente, tutti gli elementi di sinistra e anarchici
concordano sul fatto che le proteste dovrebbero intensificarsi. Non sappiamo
ancora cosa accadrà, poiché questa guerra dei discorsi è ancora in corso.
Onestamente, ci sono troppi gruppi coinvolti nella rivolta per offrire una
risposta semplice. L’intero movimento di sinistra e anarchico di varie
organizzazioni è sceso in piazza, ma non c’è stato un fronte unito. In ogni
città, elementi progressisti della società, che si trattasse di studenti
universitari, sindacati o persino studenti, hanno consolidato le loro azioni.
Alcune azioni sono state spontanee e sono emerse come iniziative comunitarie non
coordinate, come gli attacchi a posti e stazioni di polizia, in cui diversi di
essi sono stati bruciati.
In che modo gli anarchici contribuiscono alla rivolta?
Sono un pessimista rivoluzionario, influenzato dal discorso
dell’anarco-nichilismo. Ma continuo a sostenere la rivoluzione sociale perché
non esiste uno spazio sociale vuoto. L’Indonesia è l’arcipelago più
multiculturale del mondo, con migliaia di etnie e lingue. In alcune regioni sta
emergendo un discorso separatista. Alcuni nobili di antiche monarchie spingono
per il revivalismo. Ci sono anche fondamentalisti islamici autoritari e
jihadisti che vogliono un califfato nel Paese. Quindi penso che sia impossibile
per i rivoluzionari non offrire il loro programma come alternativa a tutte
queste pessime possibilità. L’ondata di ribellione è un sintomo dell’imminente
grande divisione, e gli anarchici devono assumere un ruolo. Altrimenti, le
scelte sono pessime. Molto pessime.
Cosa pensi che succederà con questa rivolta? E cosa vedi per il futuro del
movimento anarchico in Indonesia?
Sono pessimista al riguardo. Ci siamo affermati in diverse città, ma nel
complesso siamo relativamente deboli, anche se fondamentalmente siamo piuttosto
militanti.
Siamo influenzati dall’approccio uruguaiano dell’Espesifismo, che prevede
un’organizzazione a due livelli. Ciò significa che oltre ad aderire a
organizzazioni politiche, aderiamo anche a movimenti di base come sindacati,
organizzazioni studentesche, organizzazioni indigene e così via.
Utilizziamo ancora la definizione classica di rivoluzione, ma per realizzarla è
necessaria una solida base organizzativa popolare. Nonostante ciò, le recenti
rivolte si sono ripetute come un ciclo dal 2019. Questo ci entusiasma perché
significa che dobbiamo impegnarci per tenere il passo con le rivolte popolari e
la volontà delle masse. Ma dobbiamo crescere e aumentare la nostra militanza per
rimanere al passo con il ritmo della rabbia popolare.
Non credo che ci saranno riforme a meno che non ci sia un violento rovesciamento
del potere e il potere in carica non prometta riforme. L’attuale classe
dirigente ha formato una coalizione gonfia che abbraccia tutta la sua precedente
opposizione e “dà loro una fetta della torta”. Finora, siamo gli unici membri
della rete antiautoritaria informale e decentralizzata a chiedere la rimozione
del presidente e del vicepresidente. Il problema è che non c’è stata alcuna
richiesta per la loro rimozione. Quindi, la riforma richiederà ancora tempo e
una rivoluzione anarchica è impossibile a causa delle debolezze organizzative e
dell’assenza di sindacati progressisti in grado di condurre uno sciopero
nazionale.
Tuttavia, la richiesta spontanea del popolo di sciogliere il parlamento
attraverso l’hashtag #bubarkanDPR [“sciogliere il DPR”], il coinvolgimento di
una massa più eterogenea di persone nelle proteste (l’Indonesia è nota per aver
romanticizzato l’avanguardismo studentesco nel 1965 e nel 1998) e l’uso della
violenza, rappresentano un progresso che sarebbe stato inimmaginabile un
decennio fa. Gli anarchici hanno svolto un ruolo cruciale in questo. Tuttavia,
personalmente non credo che il movimento anarchico porterà a una rivoluzione
anarchica, anche se ne esistesse l’opportunità. Ma potrebbe esercitare un’enorme
influenza libertaria attraverso un fronte unito che operi all’interno di gruppi
consolidati. Ad esempio, la proposta di un confederalismo democratico
rivoluzionario, che è in realtà in linea con le proposte anarchiche classiche,
verrebbe probabilmente accettata dall’intero spettro dei movimenti di
liberazione nazionale di sinistra e separatisti esistenti in alcune regioni.
Forse.
Anche le proteste del 2020 contro la Legge Omnibus sono state significative, ma
la rivolta di quest’anno è la più sanguinosa, la più devastante e la più
coinvolgente (abbiamo assistito a un notevole grado di radicalizzazione tra
elementi della società). Non ha ancora superato l’escalation vista durante la
caduta del regime militarista di Suharto nel 1998. Tuttavia, sono fiducioso che
ciò possa accadere presto.
Purtroppo, da ieri vi avverto che quando arriverà il momento atteso, non saremo
pronti per la rivoluzione, anche se risponderemo principalmente partecipando a
battaglie di strada.
ALTRE VOCI DALL’INDONESIA
Oltre all’intervista con Bima, il 2 settembre abbiamo ricevuto il seguente
resoconto da Reza Rizkia a Giacarta:
L’ondata di manifestazioni iniziate il 25 agosto 2025 in tutta l’Indonesia
continua a dispiegarsi, lasciando dietro di sé una scia di tragedia e disordini.
Quella che è iniziata come una protesta contro la proposta di un sussidio
mensile di 50 milioni di rupie per l’alloggio dei parlamentari si è trasformata
in un movimento nazionale con richieste più ampie: la valutazione delle
prestazioni parlamentari, la riforma della polizia e la fine dell’uso eccessivo
della forza da parte delle forze di sicurezza.
Il 28 agosto, le tensioni sono aumentate dopo che un tassista motociclista,
Affan Kurniawan, è stato investito e ucciso da un veicolo tattico della Brigata
Mobile (Brimob) a Bendungan Hilir, Giacarta. Le immagini dell’incidente si sono
diffuse rapidamente sui social media, scatenando proteste di solidarietà da
parte di studenti e comunità di autisti delle piattaforme. La tragedia ha
segnato un punto di svolta, amplificando la portata delle manifestazioni sia
nella capitale che in tutto il Paese.
La violenza si è presto estesa ad altre grandi città. A Makassar, i manifestanti
hanno dato fuoco al palazzo del parlamento regionale (DPRD), uccidendo tre
membri dello staff rimasti intrappolati all’interno. A Solo, un conducente di
risciò di nome Sumari è morto negli scontri, mentre a Yogyakarta, lo studente
Rheza Sendy Pratama è stato ucciso durante una manifestazione davanti al
quartier generale della polizia regionale. Un’altra vittima, Rusmadiansyah, un
conducente di risciò, è stato picchiato a morte dalla folla dopo essere stato
accusato di essere un agente dei servizi segreti. Alcuni rapporti indicano anche
altre vittime, tra cui uno studente di una scuola professionale a Pati. In
totale, almeno sette-otto persone hanno perso la vita durante i disordini fino
alla fine di agosto.
Il governo ha risposto con le condoglianze. Il presidente Prabowo Subianto ha
ordinato un’indagine aperta, mentre il capo della polizia nazionale e il capo
della polizia di Giacarta hanno rilasciato pubbliche scuse per le vittime. Sette
agenti della Brimob collegati alla morte di Affan Kurniawan sono stati arrestati
e devono affrontare procedimenti legali. Tuttavia, la rabbia pubblica non
accenna a placarsi.
Al 2 settembre, le manifestazioni sono ancora in corso in diverse regioni con
intensità sostenuta. Migliaia di manifestanti sono stati arrestati nell’ultima
settimana, raggiungendo il picco il 29 agosto, quando oltre 1.300 persone sono
state arrestate in un solo giorno. Allo stesso tempo, l’Alleanza dei Giornalisti
Indipendenti (AJI) ha segnalato casi di violenza e ingerenze ai danni dei
giornalisti che seguivano le proteste.
Le manifestazioni di fine agosto segnano una delle più grandi ondate di protesta
degli ultimi anni in Indonesia. Con il bilancio delle vittime in aumento, gli
arresti di massa e i danni diffusi alle proprietà, l’opinione pubblica ora si
chiede se il governo e il parlamento risponderanno alle richieste dei cittadini
con riforme concrete, o se rischieranno di aggravare ulteriormente la crisi.
Quando la rivolta iniziò a fare notizia a livello internazionale, anarchici
anonimi scrissero diverse dichiarazioni descrivendo la situazione dal loro punto
di vista, usando lo pseudonimo di “Arcipelago di Fuoco”. Volevamo includere
anche le loro voci.
25 agosto 2025
“Giacarta non appartiene più alle élite corrotte. Migliaia di persone
provenienti da ogni angolo del Paese hanno preso d’assalto la capitale. Questa
non è solo una protesta, è un’esplosione collettiva di rabbia contro l’aumento
delle tasse sulla casa, la corruzione senza fine e i cani poliziotto militari
dello Stato.
Dall’alba a mezzanotte, le strade si trasformano in un campo di battaglia di
sfida. Urla, fuoco e pietre diventano il linguaggio della furia della gente.
“Questo non è uno spettacolo di marionette delle élite; è rabbia pura,
incontrollata, senza guida e impossibile da controllare”.
29 AGOSTO 2025
“I giovani arrabbiati si stanno ribellando, spinti dall’aumento delle tasse e da
un esercito repressivo. Non c’è organizzazione; l’insurrezione è guidata da
giovani anarchici, nichilisti e incontrollabili. Molti giovani anarchici delle
associazioni studentesche delle scuole superiori vengono arrestati. Gli studenti
delle scuole superiori sono l’energia. Circa 400 di loro sono stati arrestati il
25 agosto, secondo quanto riportato. La maggior parte delle azioni è coordinata
in diretta sui social media.
Di solito, qualche sindacato liberale o partito di opposizione controlla le
narrazioni, ma non questa volta. Persino i media mainstream riconoscono che i
social media sono la fonte della documentazione. I politici non possono più
controllare le narrazioni. È tradizione da decenni che i corpi studenteschi
esecutivi siano normalmente gli istigatori di questo tipo di manifestazioni, ma
ogni anno questi mediatori vengono smascherati. Dagli studenti stessi. Ecco
perché ONG, sindacati, “anarchici civili” e associazioni studentesche di
sinistra e di destra odiano la fazione anti-organizzativa.
“Che vadano tutti a quel paese. Noi stimoliamo i giovani ad agire da soli.
“Gli individui non sono più spaventati dal dovere ideologico, dalle norme e da
tutti quei valori esterni.
“Ieri sera (28 agosto 2025), la polizia ha ucciso una persona. Sono scoppiate
rivolte in tutto il paese contro l’aumento delle tasse. In diverse città, la
rivolta è stata spontanea e auto-organizzata. L’immagine pubblica della polizia
continua a sgretolarsi, mentre la gente sostiene i rivoltosi. Alcune cellule
hanno coordinato altre azioni e i proclami nichilisti-insurrezionalisti stanno
dominando la narrazione.
“Account anonimi sui social media con migliaia di follower invocano
un’insurrezione antipolitica. Ogni giorno, fanno proclami e forniscono
spiegazioni convincenti.
“I sindacalisti hanno annunciato che sarebbero scesi in piazza e che ‘non ci
sarebbero state rivolte’, ma i giovani e i rivoltosi li hanno subito presi in
giro sui social media. Lasciamo fare ai giovani. Possiamo solo stimolarli a
essere più incontrollabili. Di notte, internet è andato a rotoli. Mentre gli
“anarchici civili” chiedono consigli popolari, noi chiediamo di mandare tutto
all’aria. Forniamo solo coordinamento di rete e dati tecnici per l’azione di
strada. Non organizziamo mai veramente le persone.
“A partire da venerdì 29 agosto, gli anarchici controllano sostanzialmente la
narrazione. La gente sta rispondendo a livello nazionale all’appello per
attaccare le stazioni di polizia e la polizia stessa. I mass media hanno perso
il controllo dell’informazione e delle notizie.
“La nostra rete continua a invocare vendetta dopo l’omicidio della polizia di
ieri sera, e la situazione si fa sempre più critica. Le cellule sono nelle
strade.
“Si può vedere la rivolta su vari organi di informazione, anche se i video
migliori si trovano solo sui social media”.
Arcipelago di Fuoco
“Questo va oltre le nostre previsioni. Di solito, durante una manifestazione, i
manifestanti si limitavano a lanciare pietre o a bruciare uno pneumatico davanti
all’ufficio. Non hanno mai fatto irruzione nell’edificio per dargli fuoco”.
Anarchici anonimi in Indonesia
Se è di un’evidenza abbacinante la natura suprematista e colonialista del “piano
Trump” per Gaza, forse l’aggettivo più corretto per definire il discorso con cui
il presidente degli Stati Uniti lo ha annunciato è «ubuesco». Soltanto la penna
di un Alfred Jarry, infatti, avrebbe potuto descrivere un potere a tal punto
mostruoso nei mezzi e grottesco nelle pretese. Alcune frasi di Ubu Roi – l’opera
teatrale che l’autore francese scrisse nel 1896 – si sarebbero incastonate alla
perfezione nella conferenza di Trump. L’immobiliarista statunitense, con a
fianco il suo amico genocida, ha promesso una vita piena di prosperità a una
popolazione che vive in un carcere di massima sicurezza, in mezzo a una distesa
di rovine, tra la fame e le bombe. Non diversamente da Ubu Re, che annunciava
tronfio : «Va bene, acconsento a espormi per voi. […] Grazie a me, avrete di che
cenare. […] Sono dispostissimo a diventare un sant’uomo, voglio essere vescovo e
vedere il mio nome sul calendario».
Se la patafisica fondata da Jarry era «la scienza delle soluzioni immaginarie»,
noi viviamo nell’epoca in cui la tecnoscienza, togliendo ogni misura storica ai
problemi, può offrire delle soluzioni eterne. Proprio così. In poche ore (72,
per la precisione) ci si può avviare, se tutti fanno quello che dice Padre Ubu,
verso una «pace eterna» in grado di risolvere per sempre un conflitto che va
avanti da «due-tremila anni». Millennio più, millennio meno. Per vendere una
soluzione eterna, il problema deve ben essere millenario. Circoscriverlo
storicamente al progetto sionista, alla Dichiarazione Balfour, alla nascita
dello Stato israeliano o alla «linea verde» oltrepassata da Israele nel 1967,
non permetterebbe alla tecnoscienza delle soluzioni immaginarie di girare a
pieno regime. Un immobiliarista che agisce per conto di Dio, un Padrone delle
Finanze attorniato da transumanisti che vogliono colonizzare Marte, non è tenuto
nemmeno a precisare tra chi e chi sarebbe in corso questo conflitto da
«due-tremila anni». Ubu Re (quello di Jarry): «Dovete convincervi che se siete
ancora vivi […], lo dovete alla virtù magnanima del Padrone delle Finanze, che
si è affannato, sfacchinato e sgolato a recitare paternostri per la vostra
salvezza […]. Abbiamo persino spinto oltre la nostra dedizione, perché non
abbiamo esitato a salire su una roccia altissima affinché le nostre preghiere
avessero meno strada da fare per giungere sino al cielo».
Come noto, non ci sono Soluzioni senza un Piano. «Gaza sarà riqualificata a
beneficio della popolazione». Ci penserà il Consiglio di Amministrazione.
«Questo organismo [il Board of Peace] si baserà sui migliori standard
internazionali per creare una governance moderna ed efficiente al servizio della
popolazione di Gaza e che favorisca l’attrazione di investimenti». Il Piano
«sarà elaborato convocando un gruppo di esperti che hanno contribuito alla
nascita di alcune delle fiorenti e miracolose città moderne del Medio Oriente».
Se la pace è «eterna», le città non possono essere niente meno che «miracolose».
Altro che quartieri pieni di strade e vicoli o villaggi circondati dagli
uliveti. «Sarà istituita una zona economica speciale con tariffe di accesso
preferenziali da negoziare con i paesi partecipanti». «La Nuova Gaza sarà
pienamente impegnata a costruire un’economia prospera».
Ubu Re (quello di Jarry): «Vi conduco verso una felicità che adesso non sareste
nemmeno in grado di sognare. Solo io lo so». Io e altre «brave persone» –
Erdogan, Tony Blair, il monarca dell’Arabia Saudita – le cui soluzioni non sono
state meno eterne per i curdi, gl’iracheni e gli yemeniti. (Ed è certo solo un
caso che Tony Blair sia anche consulente di British Petroleum, la multinazionale
inglese intenzionata a sfruttare i giacimenti di gas al largo di Gaza.)
Maurice Genevoix, nel suo Un Jour (1976), aveva già aggiornato il ritratto dei
tiranni ubueschi nell’èra della tecnocrazia: «saltimbanchi, persone designate
per la loro pura omni-incompetenza, buoni a nulla con poteri mostruosi». Per
concludere: «È il mondo alla rovescia, c’è da disperarsi». I buoni a nulla hanno
oggi poteri ancora più mostruosi. Il potere di far sorgere «città miracolose» su
decine di migliaia di cadaveri e sull’immane devastazione prodotti dal primo
genocidio automatizzato della storia. Sicuri che i sopravvissuti – quelli che
l’unità 8200 dell’esercito israeliano non ha trasformato in «spazzatura»
algoritmica – sapranno cogliere «l’opportunità di costruire una Gaza migliore»,
grazie a un «comitato palestinese tecnocratico e politico». Un massacro
tecnologicamente organizzato non può che avere una soluzione «tecnocratica».
Messianico il primo, eterna la seconda. È un Piano mostruoso. Infatti anche le
tecnocrazie russa e cinese sono d’accordo.
Circondati da specialisti omni-incompetenti di tutto ciò che è umano, di ciò che
richiede soluzioni storiche e sociali commisurate a problemi storici e sociali,
gli Ubu Re osano annunciare – Himalaya di infamia e di stupidità – che tra gli
sterminatori e gli sfuggiti allo sterminio ci sarà una «convivenza pacifica», e
che la vita futura di questi ultimi sarà «prospera» per gentile concessione dei
suoi colonizzatori e di chi li ha sostenuti, finanziati e armati.
Mentre i commentatori stipendiati e i saltimbanchi politici scommettono sulla
ubuizzazione dei nostri cervelli («È fattibile il piano Trump?», chiede
l’elegante presentatrice all’immancabile esperto), c’è un unico argine agli
ubueschi deliri di un potere insaziabile: la rivolta degli oppressi. La cui
sacrosanta violenza potrà mantenere la misura della libertà solo conservando
intatto il disgusto verso i mezzi mostruosi e disumani dei propri oppressori.
Segnaliamo questo articolo che contiene un’utile sintesi sull’impiego
dell’Intelligenza Artificiale nel genocidio in corso a Gaza, e sull’impatto che
il primo sterminio algoritmico della storia sta avendo e avrà sui complessi
scientifico-militar-industriali in guerra fra loro (e tutti insieme in guerra
contro il vivente). Illusorio e fuorviante auspicare che tale sviluppo possa
essere normato. Solo i palestinizzabili del mondo intero possono sabotare i
mezzi della disumanità, grazie alla consapevolezza che la propria incarcerazione
tecnologica può trasformarsi in annientamento automatizzato: il quadrante dei
comandi è lo stesso.
https://codice-rosso.net/laboratorio-gaza-intelligenza-artificiale-principale-arma-di-distruzione-di-massa-esercito-israeliano/
https://www.matricedigitale.it/2025/09/29/microsoft-blocca-lunit-8200-il-caso-azure-tra-etica-sorveglianza-dei-palestinesi-e-geopolitica/
https://www.lindipendente.online/2025/09/29/regno-unito-esplode-la-protesta-contro-lintroduzione-dellidentita-digitale/