Source - il Rovescio

cronache dallo stato di emergenza

Michele Angiolillo. Anarchico, internazionalista, giustiziere
Qui il pdf: Angiolillo Michele Angiolillo. Anarchico, internazionalista, giustiziere L’8 agosto 1896, nella stazione termale basca di Santa Águeda, il primo ministro spagnolo Antonio Cánovas del Castillo viene ucciso con un colpo di pistola. A sparare è Michele Angiolillo, un anarchico foggiano di venticinque anni. Durante la sua arringa difensiva, il giovane anarchico dichiarerà di aver ucciso Cánovas in quanto personificazione di «ciò che hanno di più ripugnante la ferocia religiosa, la crudeltà militare, l’implacabilità della magistratura, la tirannia del potere e la cupidigia delle classi possidenti. Io ne ho sbarazzato la Spagna, l’Europa, il mondo intero. Ecco perché io non sono un assassino, ma un giustiziere!». Il suo riferimento al «mondo intero» non è un’iperbole retorica. Negli stessi anni in cui il primo ministro spagnolo dispiega una feroce repressione interna, culminata nella proclamazione della legge marziale a Barcellona e nelle torture inflitte a centinaia di prigionieri nell’infame fortezza di Montjuïc, i suoi governatori coloniali e i suoi generali rispondono con la strage e con i campi di concentramento (i primi della storia) all’insurrezione cubana e alla sollevazione nelle Filippine. Non a caso il libro che Angiolillo porta con sé, quando parte da Londra con il proposito di giustiziare Cánovas, è Les Inquisiteurs d’Espagne, de Cuba e des Filippines, scritto dall’anarchico creolo cubano Fernando Tarrida del Mármol, anch’egli detenuto a Montjuïc. Nella sua arringa Angiolillo parla esplicitamente, oltre che di Montjuïc, della violenza coloniale a Cuba e nelle Filippine. Sotto il tallone di Crispi Michele Angiolillo era nato a Foggia il 5 giugno 1871 (subito dopo la sanguinosa repressione della Comune di Parigi). Durante gli anni di studio presso un istituto tecnico, diventa un militante repubblicano radicale. Esce dall’esperienza della coscrizione militare con convinzioni anarchiche. In occasione delle elezioni del 1895, pubblica un manifesto contro le «leggi scellerate» promulgate dal primo ministro Crispi. Il Cánovas italiano, subito dopo avare represso nel sangue il moto dei Fasci siciliani e l’insurrezione scoppiata in Lunigiana in solidarietà con i contadini della Sicilia, si prepara all’aggressione imperialista in Abissinia – conclusasi con la disastrosa sconfitta di Adua –, di cui la legislazione d’emergenza è il riflesso sul fronte interno. Per il suo manifesto Angiolillo viene arrestato con l’accusa di «incitazione all’odio di classe». Rilasciato in attesa del processo, il giovane compagno spedisce una lettera al ministro della Giustizia in cui attacca il pubblico ministero, cosa che gli procura una condanna a diciotto mesi di carcere e tre anni di confino. A quel punto Angiolillo parte sotto falso nome e raggiunge Barcellona passando per Marsiglia. Nel capoluogo catalano impara il mestiere di tipografo e partecipa attivamente alle attività del movimento anarchico, all’epoca vero e proprio crocevia cosmopolita. Collabora, tra le altre cose, a «La Ciencia Social» insieme a Tarrida e Ramón Sempau (lo scrittore e poeta bohémien, nonché simpatizzante anarchico, che cercherà di giustiziare il luogotenente Portas, responsabile delle torture a Montjuïc). Dopo l’attentato al Corpus Domini – di cui diremo in seguito –, Angiolillo scampa alla retata organizzata da Cánovas contro centinaia di sovversivi – tra cui Cayetano Oller, compagno dell’anarchico foggiano – e ripara a Marsiglia. Qui viene arrestato per dei documenti falsi e, dopo un mese di carcere, viene espulso in Belgio. Quando la campagna internazionale lanciata da Tarrida contro Cánovas è al suo apice, Angiolillo si trasferisce a Londra, dove ritrova Oller – sottoposto a terribili torture a Montjuïc, rilasciato per mancanza di prove ed espulso dal suo stesso Paese –, e dove partecipa all’imponente manifestazione organizzata dal Commitee on Spanish Atrocities, comitato promosso anche da Tarrida, il quale nell’occasione parla per la delegazione dei rivoluzionari cubani. Durante la manifestazione prende la parola anche l’anarchico francese Charles Malato, che nel suo intervento invoca vendetta per le vittime di Cánovas, tra cui cita lo scrittore filippino José Rizal, assassinato nella colonia spagnola; ma soprattutto salgono sul palco alcuni dei torturati di Montjuïc, i quali mostrano in pubblico i loro corpi mutilati. Qualche tempo dopo, l’anarchico foggiano incontra personalmente Francisco Gana, che portava i segni indelebili delle sevizie subite dagli aguzzini spagnoli. Così descrive la scena, nella sua autobiografia (Nella tormenta), l’anarchico tedesco Rudolf Rocker: Quella notte, quando Gana mostrò le sue membra mutilate e le cicatrici che le torture avevano lasciato su tutto il suo corpo, capimmo che leggere di tali questioni è una cosa, ma sentirne parlare dalle labbra di chi le ha subite è un’altra. […] Eravamo tutti seduti immobili, pietrificati, e trascorsero diversi minuti prima che fossimo in grado di proferire qualche parola di indignazione. Solo Angiolillo rimase in silenzio e, poco dopo, si alzò pronunciando un laconico saluto per poi lasciare l’abitazione. […] Questa fu l’ultima volta che lo vidi. L’ultima volta che lo vide il mondo, fu il 20 agosto 1986, il giorno in cui il giovane anarchico fu garrotato. Non prima di aver urlato al mondo «Germinal!». Dalle segrete di Montjuïc Il 7 giugno 1896, a Barcellona, una bomba esplode durante la processione del Corpus Domini, causando tre morti sul colpo e decine di feriti (nove dei quali moriranno in seguito). Benché non si possa escludere che sia stata un’azione indiscriminata – alla Oberdan, per intenderci – contro l’odiatissima Chiesa spagnola, alleata della monarchia, stampella dei latifondisti e architrave dell’amministrazione coloniale, i sospetti di una provocazione poliziesca perdurano tutt’oggi. Come che sia, Cánovas decreta la legge marziale a Barcellona e fa arrestare più di trecento persone. Meno noto è che la fortezza di Montjuïc diventa – a dispetto dei nuovi inquisitori – un luogo di incontro tra anarchici di vari Paesi, rivoluzionari cubani e deportati filippini. Un esempio emblematico di tale crogiuolo è la condivisione della stessa cella da parte di Ramón Sempau – incarcerato per aver cercato di giustiziare il torturatore Portas – e di Isabelo de los Reyes, già autore del pionieristico El Folk-lore Filipino. Tornato poi a Manila, Isabelo, che aveva conosciuto anche Malatesta, vi porta le prime pubblicazioni anarchiche apparse nelle Filippine, e metterà in campo quello che dice di aver imparato dagli anarchici nell’organizzazione degli scioperi e nella creazione delle prime Unioni Operaie. Quanto a Sempau – esempio di intreccio tra mondo artistico radicale, ideali libertari e propaganda del fatto – sfuggirà alla corte marziale e alla condanna a morte grazie alla campagna internazionale sugli orrori di Montjuïc. Tornanti La condanna a morte di Francisco Ferrer nel 1909, così come il movimento internazionale per impedirla, prolunga questa storia. Non solo perché l’esecuzione avvenne, il 13 ottobre, proprio nella fortezza di Montjuïc. Ma soprattutto perché l’accusa contro Ferrer era quella di aver fomentano la «Settimana tragica», la rivolta proletaria e anarchica per impedire l’invio di coscritti chiamati a sedare l’insurrezione in Marocco. In molte città europee le manifestazioni per Ferrer daranno vita a scontri con la polizia. A Torino, dopo la proclamazione dello sciopero generale, le dimostrazioni assumeranno un carattere quasi insurrezionale nei quartieri di Barriera di Milano e di Borgo San Paolo. Per via del ruolo giocato dai repubblicani e dai democratici nella campagna per Ferrer, quest’ultimo è ricordato come un martire del libero pensiero, come un precursore dell’educazione laica contro l’oscurantismo religioso. Ferrer fu anche questo, certo, ma fu soprattutto un combattente sociale, redattore tra l’altro de «La Huelga general», i cui proclami erano inequivocabili: Viva la Revolución, Viva la dinamita!. In un’epoca in cui soffiano di nuovo i venti di guerra e sull’altra sponda del Mediterraneo il suprematismo occidentale sta consumando un genocidio; in un presente nel quale si moltiplicano attraverso i continenti le odierne «leggi scellerate» contro il dissenso interno, ricordare il gesto di Angiolillo e il suo «Germinal!» significa riattualizzare quell’internazionalismo che è parte integrante della nostra storia. Non siamo piume al vento. (Gli elementi storici alla base di questo testo sono tratti soprattutto dal prezioso Anarchismo e immaginario coloniale, scritto da Benedict Anderson nel 2005 e pubblicato quest’anno da elèuthera)
Approfondimenti
Stato di emergenza
Quelli che benpensano, ovvero della difesa del clan
Riceviamo e diffondiamo: Qui il pdf: Quelli che benpensano(1) QUELLI CHE BENPENSANO. OVVERO DELLA DIFESA DEL CLAN Questo non breve testo nasce come replica a “Da pari a pari. Contro l’autoritarismo identitario”, diffuso nel luglio scorso. Come per i suoi autori, anche per chi scrive sarebbe stato più semplice e conveniente ignorare quest’ennesima uscita e tirare avanti, come in altre occasioni, e ultimamente di occasioni ce ne sarebbero state diverse. Tuttavia, per ragioni che si tenterà di chiarire più sotto, questa volta si è ritenuto valesse la pena buttare giù qualcosa, ritenendo che invece altri scritti dal tenore simile usciti di recente non meritassero risposte più o meno articolate. Ahinoi, e ahivoi, tante cose vengono purtroppo dette e scritte, alcune sapientemente non in testi diffusi ai quattro venti, concetti chiari come il sole vengono infatti esplicitamente definiti in conversazioni fra anarchici (anche senza “un bicchiere di vino davanti”), durante assemblee di compagni e compagne o più o meno allargate. Per fortuna di tutti/e, almeno non si va più in tv in diretta nazionale a raccontare la propria visione del mondo, più o meno brillante che sia. Le righe che seguono non conterranno citazioni di maître à penser dell’anarchismo, di figure cardini della filosofia occidentale o di compagni/e prigionieri/e, ma quasi unicamente ciò che scaturisce dai ragionamenti di chi lo ha scritto. Proprio per questo, potrà essere sicuramente opinabile, lacunoso, criticabile da diversi punti di vista. L’intento, infatti, non è “vincere il confronto”, non convincere né persuadere, non c’è dietro il fine di prendere le difese di alcun singolo/a o di qualsivoglia comunità, tanto meno sfoggiando la lista dei classici letti durante una vita, le proprie nozioni in fatto di storia dell’arte o la propria padronanza della lingua italiana per mezzo di scioglilingua, eccetera. Non contiene riflessioni originali e, inoltre, analisi e disamine più adeguate, complete ed organiche sui temi di seguito toccati sono già state svolte, più volte, in altri scritti usciti negli ultimi anni. Postmodernismo? Tuttavia, neanche “Da pari a pari” contiene a ben vedere nessuna riflessione particolarmente originale, ma si limita a girare attorno ai soliti, triti e ben noti ragionamenti già in passato esposti, presentandone più che altro un collage, anche se, va detto, relativamente più elegante e argomentato del solito. Differenza di rilievo è la sostituzione del perno attorno al quale ruota quasi tutta l’esposizione. Infatti, al vecchio nemico interno al “movimento” anarchico, il (trans)femminismo, è adesso sostituita la nuova, terribile, letale minaccia, ovvero la filosofia postmodernista di importazione yankee. Le argomentazioni cambiano in parte di conseguenza, ma il ragionamento a queste sotteso è più o meno lo stesso. Il filo conduttore è appunto una lunga dimostrazione della semi-nuova tesi sull’origine di quasi tutti i mali odierni del “movimento”: l’ideologia postmodernista importata dagli Stati Uniti, il virus scappato – non accidentalmente – “dalle università statunitensi e altri laboratori del potere è penetrato piano piano nell’anarchismo”. Quindi, le cause delle presenti condizioni (qualsiasi lettura se ne voglia dare), non andrebbero ricercate in tutto ciò che potrebbe venire in mente a una più o meno superficiale o approfondita disamina dell’attualità e degli ultimi decenni del “movimento” anarchico informale nostrano e non solo. No, è colpa del postmodernismo (un capro espiatorio un po’ fuori tempo massimo, a dir la verità). Il sabotatore interno, un po’ come alcuni dicevano appunto del femminismo negli anni ‘70 e fino all’altroieri. Infatti, l’altro grande nemico da cui guardarsi con attenzione, l’altro vettore del morbo americano, anche se un po’ più in sordina, sarebbe infatti il femminismo intersezionale. I detective del postmodernismo scandagliano testi e comunicati alla ricerca di parole chiave indicanti la chiara matrice del postmodernismo che li permea in modo latente – che tuttavia non può sfuggire al loro sguardo attento – la foga e l’urgenza di scovare i nipotini di Lyotard e Derrida è grande, vedendosi da ogni parte assediati da essi. Da ridere per non piangere, ma tant’è, questi sono i nostri veri problemi, ci informano. Non ci si assume l’impresa di tentare di argomentare contro questa tesi, tanto quanto risulta assai difficile, di solito, argomentare contro le teorie note come “teorie del complotto”. A parte gli scherzi quindi, andando con ordine e un po’ più sul pratico, il problema del come affrontare fatti di violenza sessuale, i “fatti delicati” come vengono chiamati nel testo (o “fatti di letto fra due persone”, come li ha definiti un osservatore, bisogna ammettere, particolarmente sagace) e le dinamiche di potere a essi legate – non sganciate o separate da questi, ma legate e inseparabili – è in realtà ancora ben lungi dall’essere pienamente assunto anche nel “movimento”, sia a livello di entità e portata della questione che a livello di metodo (o metodi) per non parlare poi del da farsi. Ma il problema, anzi i problemi, sono ancora più a monte. Sono, ad esempio, nella pretesa di arrivare ad un incontrovertibile “fondatezza” di ciò di cui di volta in volta si discute, a una dimostrazione, che non può avvenire – ci insegna il metodo scientifico – se non in presenza di prove. Da qui, il primo dei cortocircuiti logici che attraversano “Da pari a pari”, per i quali le stesse accuse che gli autori muovono altrove potrebbero essere facilmente rivolte contro la posizione da loro assunta. In questo caso, si ripudia un atteggiamento inquisitorio verso chi viene riconosciuto come aggressore, non si vogliono i tribunali – e ci mancherebbe! – però si vogliono le prove dalle aggredite. Un modo di procedere, azzardo, di matrice che si potrebbe definire persino scientista. Perché si vogliono prove? Forse perché si aspira in segreto al ruolo di giudici in un immaginario grand jury anarchico che deciderebbe su queste e altre questioni in maniera “imparziale”? Si spera di no. Perché dietro la pretesa di ottenere delle prove si cela la preoccupazione per la tenuta del gruppo, il timore di rotture irrecuperabili in seno alla famiglia, il terrore di doversi guardare, tutti/e, allo specchio, vedendo così chiaro quello che non si sarebbe mai immaginato dover vedere? Neanche questo… Perché si è tutto sommato intimamente convinti di essere circondati da donne e compagne che si alzano la mattina inventando storie di violenza da loro subita perché non sanno come passare il tempo oppure col fine di calunniare il primo che passa per chissà quale motivo? Non si vorrebbe credere nemmeno a questo, ma sembrerebbe proprio trattarsi di ciò leggendo alcuni passi come “ascoltare una campana soltanto, acriticamente e per partito preso, non può che dare ad alcune persone il privilegio (questo sì reale) di mentire, poiché le sgrava dall’onere di fare affermazioni credibili”, oppure “a meno che non si sostenga che gli appartenenti a categorie oppresse non possano nutrire secondi fini, e raccontare e finanche raccontarsi frottole – un rischio particolarmente alto in quest’epoca di soggettivismo quasi psichedelico”. Non occorre essere dotati di particolari strumenti d’analisi per rendersi conto che tutta la società intorno a noi – non quella “postmodernista”, l’altra – ci dà sufficienti evidenze che queste sono argomentazioni insulse e portarle come pretesti per non credere a chi ha subito violenza è veramente agghiacciante. Concedendomi una scivolata di cattivo gusto, in casi di aggressioni contro i compagni/e o verso migranti o altri marginali, andiamo forse a chiedere la versione dei fatti a fascisti, razzisti o sbirri? Insomma, il “movimento” anarchico sarebbe pieno di bugiarde e millantatrici e gli/le appartenenti alle “categorie” (che brutta parola) oppresse si sarebbero organizzati per raccontare frottole non solo a loro stessi, ma bensì a tutti/e quanti/e, per farsi passare per “vittime” e ottenere attenzioni conseguenti. Insomma, si propone un approccio scettico, diffidente, per niente incline alla fiducia verso queste “categorie”, che anzi andrebbero prese molto con le molle per non correre il rischio di farsi abbindolare. Chi scrive pensa che l’ascoltare più “campane” sia un approccio di buonsenso e valido come metodo di base, alla condizione però che si sia molto ben in grado di discernere ciò che viene sostenuto dalle diverse parti, altrimenti si corre fortemente il rischio di lasciarsi convincere di qualsiasi cosa, di qualsiasi versione dei fatti, di qualsiasi punto di vista, in base ad esempio all’abilità narrativa di chi lo sostiene, alla sua notorietà (conquistata sul campo, s’intende), o magari alla sua autorevolezza e influenza (anche queste, ovviamente, conquistate sul campo). Si rischia insomma di diventare delle banderuole, senza un proprio ordine di pensiero, soggetti a cambiare idea se il primo che passa riesce a farcela cambiare. E questo è ciò che capita, troppo spesso. Come si può fare a raggiungere un certo grado di discernimento riguardo a temi e questioni di cui, dal momento che nessuno/a nasce imparato/a, si ignora molto o quasi tutto, tanto a livello teorico che pratico? Senza alcun intento rivelatore, ritengo che un buon inizio sia rendersene conto, realizzare che – per quanto ci possa sembrare assolutamente sconvolgente, inimmaginabile, inaudito – ci mancano dei passaggi d’analisi, la visione d’insieme è lacunosa e parziale, non si è in possesso di un bagaglio teorico-pratico adeguato ad affrontarle, certe questioni. Il secondo, l’autocritica rispetto a questo, anche se di questi tempi, si sa, non va più tanto di moda. Infine, cercare di fare quel che c’è da fare per rimediare. Da dove la necessità di un atteggiamento autocritico, anche quando si pensa di saper già tutto quel che c’è da sapere mentre tutto il resto è obiettivamente irrilevante? Non capire, o peggio, reputare non “gravi” livelli di oppressione che non si riescono a mettere a fuoco – a volte semplicemente perché non vissuti – ergersi a “giudici” nel senso di stabilire ordini di priorità, gravità, importanza, denota l’esercizio di una presunta superiorità morale sulla pelle di altre persone la cui sola idea ripugna. Se non si riesce a farsi una ragione di questo o si preferisce semplicemente scegliere di non farlo – che è esattamente ciò che avviene – secondo il mio modesto parere non si potrà che reiterare e ricadere all’infinito e in ogni occasione nelle solite zavorre mentali e nei soliti atteggiamenti di strenua difesa di una baracca che fa acqua da tutte le parti. Rincuora la dichiarazione degli autori del testo “Da pari a pari” sulla necessità di mettersi in ascolto di chi ha subito o subisce violenza, ma ahinoi e ahiloro, al di là delle astratte dichiarazioni d’intenti, quello che quasi sempre succede nella realtà – la realtà che abbiamo sotto gli occhi, non le tante realtà potenziali spogliate del principio di verità – è piuttosto il contrario. La tendenza è quella a sminuire, ridimensionare e minimizzare ciò che sostiene la persona che ha subito violenza, ci si precipita piuttosto e più volentieri a sentire cosa ha da dire l’aggressore in sua difesa e giustificazione. Spesso si ha quasi l’impressione che, in un totale quanto assurdo ribaltamento dei fatti e della logica la “vittima” diventi l’aggressore e non piuttosto l’aggredita. Proprio perché si vogliono prove, dati di fatto. Proprio perché non ci può essere certezza su fatti a cui “nessuno ha assistito” – “se la verità fattuale non esiste o comunque non è rinvenibile” scrivono i 5 indiani – di chi ci si può fidare? Bel problema. Certamente non di compagne infettate dal virus postmodernista e loro solidali, sembrano avvertire. Più significativamente, “alla veridicità del fatto si sostituisce l’appartenenza a un determinato soggetto” sostengono ancora. Su questo, a dire il vero, hanno ragione. Però qui si manifesta anche il secondo dei cortocircuiti logici, per cui la critica che essi muovono è esattamente applicabile allo stesso atteggiamento opposto e speculare da loro assunto e rivendicato. Se si guarda a quel che succede veramente nella realtà, la veridicità è attribuita sempre e solo solo in un senso, a quello dell’oppressore. Se si è capito bene dalla loro esposizione, tra l’altro, questo modo di procedere è decisamente postmodernista… A leggere “Da pari a pari”, sembrerebbe a dire il vero che i suoi estensori, a livello puramente teorico, riconoscano e facciano propria la necessità (qualora esistano delle evidenze, naturalmente) di intervenire in certi frangenti in modo drastico. Il problema di questo approccio tutto teorico è che nella pratica non si presenta mai il caso in cui è necessario intervenire, mai. C’è sempre qualcosa che induce a pensare che, in fondo, non si sta parlando proprio di quello, c’è sempre qualcosa che non torna nella storia raccontata dalla persona aggredita, aleggia sempre l’ombra della femmina mentitrice. Le evidenze, di conseguenza, non bastano mai. Il bignamino è stato mandato a memoria, ma nella pratica non si sa che farsene. Ognuno/a esiste soprattutto su ciò che fa, non tanto su ciò che dice. Altrimenti si è in presenza, in parole povere, di paraculismo. Per i più colti/e, profonda disonestà politica e intellettuale. Si viene, ancora, quasi sollevati dalla discreta lista di “Ovviamente siamo consapevoli che…”, “Ci sembra legittimo, ad esempio, che…”, “sarebbe atroce, ad esempio, pretendere…”, “Senza disconoscere che…”, tuttavia, alla fine, si torna sempre al punto di partenza. Il problema (terzo corto circuito logico), indiani, è che succede che chi aggredisce, violenta, stupra, pensa e sostiene di non aver fatto alcunché di sbagliato, di fuori dal normale, perché non se ne rende nemmeno conto. Lo sostiene perché crede che “alcuni episodi” possono succedere in certi frangenti – svariati stati mentali e condizioni eccezionali vengono usati come alibi, troppo lungo qui elencarli tutti – e che in definitiva, proprio per questo non siano poi così gravi, questi episodi. Lo pensa e lo sostiene, spesso, anche dopo che gli è stato spiegato. Se se ne fosse reso conto prima, talvolta anche se non sempre, non avrebbe fatto ciò che ha fatto. Se se ne rendesse conto dopo, inizierebbe un’opera di profonda messa in discussione, si assumerebbe un problema. Il che, da ogni individuo che pretende di ragionare in senso politico, è il minimo che ci si debba aspettare. Certamente, come voi stessi dite bene, presupponendo che costui “non possa nutrire secondi fini e raccontare e finanche raccontarsi frottole”, il che è relativamente probabile “in quest’epoca di soggettivismo quasi psichedelico”. Banalità di base (I) Ogni lotta è – potenzialmente – soggetta in tutto o in parte a recupero da parte del sistema di dominio, con le buone o con le cattive. Femminismo, ecologismo, antispecismo, antimilitarismo, lotte territoriali di ogni sorta, le lotte contro il carcere e i Cpr. Tutto è in potenza fagocitabile, digeribile e pacificabile dallo Stato, dai suoi apparati e dalla miriade di soggetti conniventi, dato l’arsenale recuperatorio oggi a disposizione. Dirimenti sono i metodi e, di conseguenza, le pratiche coerentemente adottate. Prendere, consapevolmente e strumentalmente, a obiettivo delle proprie critiche solo una parte di un vasto insieme di metodi e pratiche di opposizione generalizzandola al tutto, per poter agevolmente tentare di screditare l’intero insieme, è miserevole. A simbolo dell’antimilitarismo non prendiamo la marcia per la pace di Assisi, a esempio delle lotte contro i Cpr non ci viene in mente LasciateCIEntrare, a esempio del “movimento” anarchico italiano non prendiamo la corrente della federazione anarchica italiana. Similmente a quanto talvolta accade in maniera interessata riguardo la storia dell’anarchismo, anche la storia di lotta di alcune correnti (trans)femministe, per fare un esempio, è soggetta a frequenti amnesie, mi riferisco alla sua storia di lotta armata, ecologista, anticarceraria, anticapitalista. Se questa storia non si conosce, è sempre valido il caro vecchio invito ad andare a leggersi qualcosa. Se invece si conosce ma si fa finta di non conoscerla, perché sennò crolla tutto il palco di una critica superficiale quanto strumentale, è un altro discorso. Personalmente sono favorevole a un inquadramento quanto più preciso e puntale quando si parla di storia dei “movimenti” e di tradizioni di lotta, quando si corre il rischio di fare, come si suol dire, di tutta l’erba un fascio. Esso è preliminarmente utile e doveroso al fine di chiarire a priori di cosa si sta parlando, altrimenti un confronto serio può diventare molto complicato e quel che resta non portare effettivamente da nessuna parte. Ma se alcuni argomenti vengono usati per denigrare, in modo intellettualmente quanto meno ipocrita e talvolta anche vile e volgare, tutte/i coloro che fanno proprie certe analisi e pratiche, questo è sinceramente irricevibile. Un repertorio costituito da lamentele del tenore di “non si può più tenere le gambe larghe sull’autobus”, “non posso più grattarmi i coglioni in pubblico perché mi diranno che non posso”, “se mi tolgo la maglietta sono un molesto” ne è solo un piccolo esempio. Io credo che grattarsi o meno i coglioni in pubblico sia una questione di eleganza e buone maniere che ovviamente non sono obbligatorie, ci mancherebbe altro. Ma se uno/a ne fa un argomento di discussione politica – ritenendolo addirittura pertinente e indicatore di una tendenza sociale – per attaccare tutto un insieme (e cioè il vero obiettivo della sua critica), è un poveraccio, sia a livello politico, che umano. Giustamente, un conto sono le chiacchiere da osteria, un conto i contesti di discussione e confronto politico. Sarebbe quindi opportuno tenerli ben separati, c’è già abbondanza di indegni figuri di ogni genere che infestano la nostra quotidianità ripetendo concetti molto simili per mezzo di ogni tipo mass media. Per chiudere queste abbastanza banali riflessioni, sento di fare un’ultima considerazione. Anche da qui infatti ci si domanda con sconcerto da quando in qua gli anarchici/e non si organizzano più sulla base di affinità teoriche e pratiche che scaturiscono da analisi e letture dell’esistente condivise, dalla convergenza su metodi e prospettive di intervento su di esso, ma invece pensano e costruiscono, per fare degli esempi, fiere dell’editoria, momenti di discussione, iniziative di qualsiasi genere come fossero convegni di partito, plenarie sindacali o conclavi? Da quando in qua gli anarchici/e si fanno remore ad escludere chicchessia col quale ritengano non possibile organizzarsi o condividere percorsi di qualsiasi tipo? Da quando in qua, aver ben chiaro chi non si vuol avere intorno e definirlo in modo netto, è diventato autoritario? Se le cose in realtà sono sempre andate diversamente e non ce ne si è resi conto, ci si è persi evidentemente qualche pezzo e ne prendiamo atto. Incazzarsi come vipere, sentirsi offesi e minacciati dalla constatazione di non essere graditi/e – la stessa reazione si manifesta spesso anche nei confronti del separatismo – non è da libertari, ma da quadri di partito, che come tali ragionano. Qui risiedono, latenti o palesi, dinamiche e aspirazioni di potere, indirizzo, controllo.. Considerare propri nemici tutti/e coloro che non sposano la linea e che portano avanti analisi e lotte in modo indipendente, è modo d’azione da Partito, quello dell’unità che vorrebbe agire come una pialla su tutto ciò che percepisce come al di fuori e altro da essa. Quello che ammette gregarismo e delega, non autonomia di pensiero e azione. Quale classe, quale lotta Proseguendo nella lettura di “Da pari a pari” si trova l’esposizione – di una superficialità che ha del grottesco (veramente in buona fede?) – di una tesi secondo cui i diversi livelli di articolazione e stratificazione su cui si regge il sistema di dominio, basati su genere, appartenenza etnica, luogo d’origine (per citarne alcuni, mi si perdoni la superficialità), non sarebbero degni di alcuna seria considerazione, ma anzi sostanzialmente irrilevanti, un’invenzione di accademici (americani e francesi, s’intende) iper-sensibili, perché in realtà l’unico, tangibile e concreto piano di dominio è quello dello sfruttamento economico. Uso l’espressione “sfruttamento economico” e non “classe sfruttata” per motivi che proverò a chiarire più avanti. Ammettere che l’unica (e prima?) forma di oppressione sia quella dello sfruttamento (economico) dell’uomo sull’uomo e che poi, a cascata, sarebbero da questa scaturite tutte le altre forme di oppressione differenziali su determinate “categorie” – e non invece e piuttosto l’inverso – suona come una cantonata, discutibile anche e soprattutto da un punto di vista storico. Prendendo ad arbitrario riferimento l’emergere e il successivo sviluppo del sistema politico-economico capitalista, l’oppressione delle diverse componenti sociali, l’assoggettamento e la devastazione di popolazioni e territori – sulle basi di quella divisione mondiale del lavoro e dell’estrazione di risorse che tuttora perdura – sono stati assunti a sistema proprio perché era da essi possibile estrarre infinitamente maggiori margini di profitto e di accumulazione, per chi deteneva il monopolio della proprietà e quindi della violenza. Gli albori e l’affermazione dell’economia e della società capitalistiche ce ne forniscono l’esempio più recente, andandosi a strutturare a partire dai secoli XVI e XVII intorno a tre direttrici, fondamenta principali della cosiddetta “accumulazione originaria”: esproprio delle terre e delle risorse comunitarie delle comunità rurali europee possibile grazie alla cacciata, al tentativo di eliminazione – diretta o indiretta – e infine all’inurbamento delle popolazioni che da essi traevano il loro sostentamento e il loro modo di vita; massacro di migliaia di donne ai fini della cancellazione di saperi e pratiche tradizionali da loro custodite nella cornice di quelle stesse comunità rurali (nota come “caccia alle streghe”) a tutto vantaggio del metodo scientifico e della nuova medicina “professionale” allora emergenti al servizio del capitalismo nascente; colonizzazione e sterminio della popolazioni native delle Americhe e successiva tratta degli schiavi dai territori dell’Africa occidentale verso le colonie europee nel continente americano. Sfruttamento della natura, dominio patriarcale, schiavitù coloniale. Oppressione e assoggettamento di ben definiti ambiti, umani quanto inorganici. Lo sfruttamento non ha mai messo tutti gli sfruttati/e sulla stessa barca, il capitale non ha mai sfruttato indifferentemente, né ai suoi albori, né mai. I 5 indiani sostengono che “un capitalismo senza razzismo, sessismo e persino senza generi e differenze “razziali”, potrebbe, almeno in astratto, esistere”. Forse nelle loro astrazioni sì, nella realtà storica degli ultimi 5 secoli fino all’oggi, no. Questo Marx non l’aveva intravisto e alcuni/e dei suoi seguaci non lo intravedono ancora. Senza capitale e senza classi, senza padroni e sfruttati/e, si aprirebbe un’era di libertà per tutti/e? Da quel che è dato sapere, il sistematico sfruttamento economico e l’emergere di “classi” identificabili come tali è stato anticipato di millenni da molteplici forme di oppressione – mai identiche fra loro ed emerse in luoghi ed epoche diverse nel corso della storia – quasi mai stabili nel tempo e nello spazio. L’assunto poco sopra esposto, appare quindi nella forma di un dogma. Non è questa la sede in cui addentrarsi in un lungo approfondimento di questi temi, chi vorrà potrà certamente trovare altrove trattazioni assai migliori di quella abbozzata qui. Addirittura, bello o brutto che sia, anche in lavori provenienti dall’accademia, da studies che ben pochi/e metterebbero in questione per il fatto che questi, a differenza di altri, convincono e sono comodi per tutti/e. A questo punto merita inoltre, a mio modo di vedere, interrogarsi sul concetto di “classe sfruttata”. A quale – si presume omogenea? – sfruttata ci si riferisce esattamente? Una classe è tale solo se ha coscienza di sé, solo se fatta di individui che hanno coscienza di appartenere a un dato insieme (sfruttati/e ma anche sfruttatori/ici, s’intende). Altrimenti, nel caso degli “sfruttati/e” si è solamente, tristemente, di fronte a complici del proprio sfruttamento. Non basta essere accomunati/e dal fatto di vendere il proprio tempo, il proprio corpo, la propria dignità, la propria intera vita per un salario per potersi considerare tutti/e parte di una classe sfruttata. Sulle basi di una lettura meramente materialistica dei rapporti economici si può assumere che sia così, in presenza di questi sommari criteri la “classe sfruttata” appare definibile, uniforme, omogenea; su di un piano etico-politico, no. Bisogna avere chiaro, aver coscienza, dei propri nemici di classe e della propria posizione, in opposizione, a questi. Quando e fino a che punto siamo in presenza di sfruttati/e (coscienti) o invece di complici del proprio sfruttamento? Nel caso della classe padronale, non si nutrono dubbi sul fatto che i suoi/e componenti, ad ogni livello, siano molto ben consci/e del loro collocamento nella scala della gerarchia sociale ed economica e di quali siano i propri nemici/che, i tempi che corrono sono qui a dimostrarlo. Quella di complici, più o meno convinti/e e assuefatti/e, del proprio sfruttamento sembra invece essere – alle nostre latitudini – proprio l’odierna condizione di una larga parte delle masse sempre più brutalmente sfruttate e asservite.. Purtroppo – e per ragioni che ancora una volta non è qui il caso di indagare – ci si trova, e non da adesso, di fronte all’adesione a norme, valori, desideri e stili della classe padronale, di quella borghesia in via di rapido immiserimento alla quale, purtuttavia, si guarda ancora e sempre con immutato desiderio di rivalsa e imitazione. Una “classe sfruttata” sempre più attivamente artefice della riproduzione sociale che la stritola ogni giorno di più. Non sempre e non dappertutto, certamente. Senza pretese di sapere cose che non so, l’invito ai 5 indiani è di abbandonare per un momento le grandi praterie del pensiero e spostarsi per un po’ di mesi in qualche contesto di fabbrica (ma probabilmente quasi ogni altro comparto lavorativo servirebbe allo scopo) per farsi un’idea di che aria tira ai nostri giorni nelle file della cosiddetta “classe sfruttata” – soprattutto ma non unicamente autoctona – capirne le dinamiche, i valori di riferimento, le tensioni, il quadro esistenziale di riferimento. Risulta per me preoccupante leggere che gli operai vanno sempre sostenuti nelle loro vertenze, persino quando “dicono cazzate” (anche se non si “sacralizzano le mani callose”). Qui non si capisce bene se la tensione è quella all’immolazione sacrificale per la suddetta “classe” in vista della rivoluzione proletaria, a un paternalismo dai connotati infantilizzanti, a una saccenza da supposta avanguardia operaia, o cos’altro. Dall’abolizione del lavoro salariato al sostegno a tutte le vertenze operaie, anche delle “cazzate”. Forse che il nostro intervento in situazioni di conflittualità dovrebbe avere maggiore costanza, dedizione, incisività, senza troppa puzza sotto al naso? Forse. La domanda che pongo, prima di tutto a me stesso, è se valga ad oggi veramente la pena investire impegno ed energie in progettualità dirette a (del tutto potenziali) orizzonti di lotta a cui siamo, spesso anche se forse non sempre, estranei. È forse più sensato e urgente dirigere la nostra determinazione, volontà e azione verso tutt’altri obiettivi, come in molti/e peraltro fanno? Secondo me sì. Assumendomi il rischio di apparire oltremodo retorico, credo che, da anarchici/e, non dovremmo allontanare, quantomeno dalle nostre elaborazioni teoriche e pratiche, e con tutto ciò che questo implica, l’orizzonte dell’insurrezione ingovernabile e dis-ordinata – non dis-organizzata – nella prospettiva della rivoluzione sociale, non con alle spalle una “classe sfruttata” da guidare alla meta (come avanguardia?) ma con affianco quella parte di umanità oppressa che non è ammiratrice in segreto di questo mondo, che non cerca una rivoluzione delle condizioni date, ma il loro sovvertimento, la loro eliminazione, che anela alla distruzione di questo mondo e dei suoi simboli. Che magari prova in tutti i modi a non farsi sfruttare, per la quale la linea di demarcazione tra legale ed extralegale è molto relativa, per cui non esiste scalata sociale e che, cosa forse più importante, ha poco o nulla da guadagnare dalla propria condizione di sottomissione. A quale umanità potenzialmente pericolosa per il dominio e i suoi progetti guardare? Secondo me, proprio a quella parte di umanità con cui abbiamo, mi sembra, meno a che fare, quella con cui non sappiamo in realtà granché parlare, a cui non sappiamo bene cosa dire. Quella parte di umanità ai margini, reietta, espulsa, rinchiusa nei ghetti a cielo aperto o scaricata nelle carceri e nei Cpr, quelle vere “eccedenze”, quegli “effetti collaterali” non graditi e non facilmente gestibili coi mezzi della servitù salariata, coi nuovi balocchi elettronici ogni sei mesi, il suv a rate, i pacchetti vacanze dall’altra parte del mondo una volta all’anno. I “dannati/e della terra”, citati en passant in “Da pari a pari”, non sono preoccupati degli studies venuti dall’America, non lavorano alla Stellantis o nelle ferrovie, di norma non frequentano le nostre assemblee. Piaccia o non piaccia, non condividono la stessa “classe” dello sfruttato/a italiano/a o europeo/a e con questi/e quasi mai si organizzano. I “dannati/e” sono quelli che affollano le galere amministrative e penali, i distretti del caporalato agricolo, le periferie delle metropoli, i cui corpi giacciono a migliaia sul fondo del Mediterraneo e a cavallo dei valichi di frontiera. Si potrebbe obiettare, e a ragion veduta, che le osservazioni fatte sopra a proposito della condizione di una ipotetica “classe sfruttata” siano valide anche quando riferite alle frange sottoproletarie delle campagne e delle città. Certamente, difficilmente sarebbe la maggioranza di questi/e a desiderare la sovversione del sistema di dominio esistente, a condividerne le ragioni e i presupposti, a far proprio un orizzonte senza autorità né sfruttamento. Se non altro perché almeno una fetta di torta, almeno una, la vogliono in molti/e. Una significativa differenza, secondo me, sta però nel fatto che a queste persone il dominio invece non riserva nemmeno il fantasma di uno stato sociale moribondo da tempo a cui aggrapparsi (come per la popolazione autoctona) al fine di giustificare la propria ragion d’essere, non si preoccupa della loro “integrazione” sociale (o almeno non più), ad essi è consentito lavorare da schiavi/e alla riproduzione del profitto e dell’ordine sociale dato, finire in gabbia oppure morire in mezzo al mare, in un cantiere, in mezzo ai campi, o durante un controllo di polizia. Come fare ad almeno provare a testare la possibilità di affinità concrete con gli ultimi e le ultime nella gerarchia economica e sociale è e rimane un enorme e serio problema alla cui soluzione qui non si è in grado di tracciare vie certe, ma di cui forse varrebbe la pena occuparsi. Banalità di base (II) Se sui muri delle università occupate invece di appelli alla distruzione di questo mondo si trovano cartelli con codici di condotta, o se, purtroppo, per molti/e l’orizzonte di sovvertimento della realtà data consiste principalmente in un’ossessione per il linguaggio e le desinenze (che talvolta, peraltro, assumono solo un carattere di posa e ben poco altro) o ancora, se l’organizzazione di qualsivoglia attività deve avvenire via chat oppure non essere, anche questi sono fatti che riguardano tutti/e, non solo alcuni/e. Sentirsi minacciati/a da questo non ha alcun senso, manifestazioni paranoiche a parte. Dovrebbe semmai impensierire il fatto che oltre a queste espressioni, spesso non si ravvisa molto altro degno di nota. Il problema della/e identità, in sé e per sé, è un falso problema e in senso assoluto significa poco. Ciò che è dirimente è se questa stessa identità si dà una coscienza, una prospettiva di lotta non gestibile contro l’esistente oppure no, nel qual caso corre il rischio di diventare solo una delle tante forme di alternativismo. Il punto centrale è che cosa essa fa o non fa di sé stessa. Se essa si dà metodi e mezzi di attacco non recuperabili alle condizioni dell’oppressore o se invece finisce per essere stampella e sostegno a queste stesse condizioni. Le lotte indipendentiste che sono lotte anticoloniali o le “battaglie” per insegnare i dialetti nelle scuole pubbliche. La morsa repressiva che non fa che stringersi da ormai diversi anni a questa parte, con i suoi strascichi di frammentazione, annichilimento di intere realtà, isolamento, scoramento e angoscia, ha sicuramente la sua parte di responsabilità e questi sono, d’altronde, tra gli obiettivi che da sempre la controparte persegue. Ma a mio modo di vedere è sicuramente anche un problema di mancata trasmissione di teorie, metodi, saperi e conoscenze, che non crescono sugli alberi ma dovrebbero continuare a essere passate da una generazione all’altra. Se ora siamo di fronte a quella che a me sembra una sorta “cesura” in via di ampliamento tra “generazioni”, questo è anche da imputare a una certa incapacità – acuita secondo me in particolar modo dal modo di vita digitale in cui tutti/e siamo invischiati/e – di portare avanti nel tempo, di dare continuità, a questa trasmissione di un patrimonio assai ricco e dalla lunga storia, quanto mai necessario e attuale. Sul perché ciò avvenga, ognuno/a avrà la sua idea, posto che essa sia condivisa. Tuttavia l’urgenza di trovare soluzioni e vie d’uscita a questo stato di cose è forse la prima e fondamentale contromisura alle mosse del nemico, affinché non ci si riduca col tempo a essere in grado di mettere in campo solamente forme di opposizione sì certamente necessarie, ma anche altrettanto simboliche, spettacolari, prevedibili, facilmente spendibili. Anche alla luce dei semplici ragionamenti fatti fin qui è urgente, a mio modo di vedere, la necessità di darsi, il prima possibile, all’attacco distruttivo contro l’infrastruttura che rende possibili e operanti le gabbie tecnologiche e digitali che mantengono ed espandono il dominio, le vere responsabili, le prime determinanti, dell’annichilimento delle individualità, di quelle potenzialmente ribelli in primis, ma anche di tutte le altre. L’infrastruttura materiale che rende possibile guerre di accaparramento e sterminio altrove, la prospettiva della guerra planetaria in fase di concretizzazione, alienazione pacificata e complicità nei progetti di sottomissione in questa parte di mondo. Non potrà mai esistere un mondo senza autorità, né insurrezioni che tentino di aprire la via verso la sua realizzazione, in un mondo di relazioni tecnologicamente mediate da macchine “intelligenti”, per un’umanità diminuita e ridotta a complice della sua disperazione ed eliminazione, con chatGPT come sua migliore amica. Un’umanità con la quale, se l’alienazione tecnologicamente mediata continuerà a marciare alla velocità alla quale assistiamo, non sarà solo difficile avere a che fare, quanto piuttosto impossibile. È la guerra sociale quella in cui dovremmo continuare a mettere la nostra energia e il nostro impegno. Non ci servono soldati politici o figuranti economici interessati a trarre il massimo valore dal loro lavoro o a migliorane le condizioni, non mandrie di gregari convinti dalle nostre ragioni. Non mandrie, ma gruppi di affini. Per “sabotare la guerra” ci sono un sacco di cose che si possono fare, ci si occupi di quelle. Un anarchico
Approfondimenti
Motivazioni
Qui il pdf: Motivazioni Motivazioni La storia di Rumkowski è la storia incresciosa e inquietante dei Kapos e dei funzionari dei Lager; dei gerarchetti che servono un regime alle cui colpe sono volutamente ciechi; dei subordinati che firmano tutto, perché una firma costa poco; di chi scuote il capo ma acconsente; di chi dice «se non lo facessi io, lo farebbe un altro peggiore di me» Primo Levi, I sommersi e i salvati «Il progetto è già attivo e attualmente in corso. Non ci si può ritirare a meno di fornire delle motivazioni». È in questo modo che l’Università di Trento e nello specifico il DISI (Dipartimento di Ingegneria e Scienze dell’Informazione), attraverso le dichiarazioni del senato accademico, si giustifica di fronte al fatto di non voler recidere alcun contratto con IBM Israel, colosso tecnologico fondamentale allo Stato di Israele nell’identificazione e la classificazione (con finalità di genocidio) dei palestinesi. Ora, non sono certo nuove le collaborazioni dell’Università di Trento con l’industria e la ricerca belliche, ed in particolare con lo Stato di Israele, le sue università e le sue aziende. Ma che, con un genocidio in corso, tali personaggi non riescano proprio a trovare delle motivazioni per smettere di esserne complici, ci sembra superi ogni misura umana. O meglio, ci sembra esattamente conseguente alla “banalità del male” che pervade ormai ogni ambito del complesso scientifico-militare-industriale e dei suoi collaboratori. È però una seconda affermazione del senato ad essere forse ancora più emblematica, la “seconda ragione” per cui non è da discutere la collaborazione in corso, e che non si vergogna a definire “ragione di volontà”. «Sono presenti diversi accordi con enti provenienti da Stati che partecipano a guerre o violazioni dei diritti umani e bloccarli bloccherebbe gran parte della ricerca universitaria», ci spiegano. Sorprendendoci per l’insolita chiarezza (ma che mondo è quello che vanifica persino il bisogno di lavarsi le mani sporche di sangue?) cogliamo l’occasione per provare a tornare su alcuni ragionamenti. Potrebbe sbalordire il fatto che IBM, per mezzo delle schede perforate del suo fondatore Herman Hollerith, fu l’azienda fondamentale al Reich nazista per il censimento degli ebrei e dunque al funzionamento dei campi di concentramento e di sterminio. Ma se si prova a prendere in mano alcuni dei documenti che certificano la nascita e la storia dello Stato d’Israele fin dall’immediato dopoguerra, risulta invece tutto mostruosamente ordinario. I colpi di Stato appoggiati da Israele, al fianco degli Stati Uniti, in mezzo mondo; la fornitura di armamenti a dittature dichiaratamente naziste (come l’Argentina di Juan Perón, che tra le altre cose torturò e uccise molti ebrei), ma anche al Cile di Pinochet, al Sudafrica dell’Apartheid, al Guatemala di Ríos Montt*; l’esportazione delle tecnologie di sorveglianza testate sui palestinesi. Questa è stata “l’accumulazione originaria” di Israele. Il ruolo della Ricerca allora, come ci suggerisce il senato accademico, non è quello di chiedersi quale fine possa avere un determinato studio o una determinata collaborazione, bensì quello di mantenere un Sistema. Non importa se a pagare il prezzo di una «firma che costa poco» siano donne, bambini, uomini, popolazioni, interi territori. Ciò che non si deve interrompere per nessun motivo è l’avanzare imperterrito della macchina del progresso tecno-scientifico. Perché hanno ragione: bloccare certi accordi significa bloccare gran parte della ricerca universitaria. Allora forse bisognerebbe chiedersi in che tipo di mondo stiamo vivendo. Riconoscere che se alla “Libertà di Ricerca” qui è legata la possibilità di vivere o di morire altrove, il Sistema stesso che ne garantisce l’esistenza è il cancro che ha costretto da tempo «la coscienza al bando», contribuendo con la sua logica dell’efficacia alla “cosificazione” dell’essere umano. Per provare ad interrompere questa marcia verso l’abisso bisogna allora anzitutto mollare la presa («Ero troppo occupato ad affrontare il problema tecnico dei miei forni per accorgermi di tutti quei cadaveri» dichiarò un “lavoratore” nazista durante il processo di Auschwitz). Comprendere che la guerra ha le sue retrovie e le sue zone grigie, con la primaria funzione di essere vergognose fabbriche dell’obbedienza. La conoscenza tecno-scientifica è un muro che divide il mondo poiché «qualunque potere si sostiene con strumenti che hanno in ogni situazione una portata determinata» (Simone Weil), laddove il ruolo dello Stato diviene fondamentale all’organizzazione e al mantenimento dell’apparato, anche attraverso la pacificazione sociale e gli attacchi repressivi. Dunque agli Eichmann del nuovo millennio, a questa obbedienza cadaverica (Kadavergehorsam la definì lo stesso Eichmann al processo di Gerusalemme), possiamo solo dire che la loro mancanza di motivazioni per smettere di sostenere un genocidio è il motivo stesso per cui sono i nostri nemici. Agli incerti che ancora non riescono a sentire il ticchettìo e vedono “nel migliore dei mondi possibili”, rappresentato oggi dall’“unica democrazia del Medio-Oriente”, un inevitabile male minore, possiamo consigliare di guardare altrove. Un altrove che esiste nella forza straordinariamente umana della resistenza. Nell’attacco alla mostruosa sicurezza che alimenta la catastrofe del presente. Nella possibilità di guardare oltre i muri di cinta di una Società disumana. Nella volontà di scavalcarli, quei muri, per provare a mettere qualcosa di stra-ordinario «nel più ordinario dei giorni», quello nel quale «i subordinati firmano tutto perché una firma costa poco». Ecco dove noi preferiamo cercare le nostre motivazioni. * Per approfondire si può leggere Laboratorio Palestina, di Antony Loewenstein (Tratto dal foglio anarchico “Foravia”, numero 10, luglio 2025″)
Rompere le righe
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Luci da dietro la scena (XXIX) – Prigione a cielo aperto, carcere di massima sicurezza e “genocidio incrementale”
Qui il pdf: Luci da dietro la scena (XXIX) Luci da dietro la scena (XXIX) – Prigione a cielo aperto, carcere di massima sicurezza e “genocidio incrementale” Le due versioni del mega-carcere Le odierne prigioni assomigliano al Panopticon originariamente concepito da Jeremy Bentham, il primo filosofo moderno a giustificare la logica della reclusione all’interno di un nuovo sistema penale coercitivo. Il Panopticon, un carcere tristemente celebre all’inizio del XIX secolo, era progettato in modo da consentire alle guardie di osservare i prigionieri ma non viceversa. L’edificio era circolare, con le celle dei carcerati disposte lungo il perimetro esterno, mentre al centro del cerchio si trovava una grande torre di osservazione. In qualsiasi momento le guardie potevano guardare giù nella cella di ciascun detenuto – e quindi sorvegliarne il comportamento potenzialmente riottoso –, laddove delle tende accuratamente disposte impedivano ai carcerati di scorgere le guardie, così che non sapessero se e quando venivano monitorati. La convinzione di Bentham era che lo “sguardo” del Panopticon avrebbe costretto i prigionieri a comportarsi in modo virtuoso. Trovandosi come sotto l’occhio veggente di Dio, essi avrebbero dunque provato vergogna per i loro comportamenti malvagi. Sostituiamo alla condotta morale il collaborare con l’occupante, cambiamo la struttura circolare del Panopticon con una serie di criteri geometrici di imprigionamento, ed ecco che la decisione israeliana del 1967 appare proprio quella di isolare in un moderno Panopticon i palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. […] Nel 1967 la rotta ufficiale tracciata da Israele, tra impossibili ambizioni nazionalistiche e colonialiste, trasformò un milione e mezzo di individui in detenuti di un mega-carcere. Non si trattava però di una prigione riservata a pochi detenuti incarcerati a torto o a ragione: essa fu imposta a un società nella sua interezza. Era, ed è tutt’ora, un sistema crudele creato per la più vile delle ragioni, ma non solo. Nell’edificarla, alcuni architetti cercarono davvero di ispirarsi a un modello il più umano possibile, probabilmente perché consapevoli che si trattava di una pena collettiva inflitta per un crimine mai commesso. Altri, invece, non si curarono nemmeno di concepire una versione più blanda e umana. Giacché erano presenti queste due linee di pensiero, il governo offrì alla popolazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza ambedue le versioni del mega-carcere. Una era una prigione a cielo aperto stile Panopticon, l’altra un carcere di massima sicurezza. E se non avesse accettato la prima versione, le sarebbe stata riservata la seconda. […] La verità è che la prigione a cielo aperto era già abbastanza dura e disumana da scatenare la resistenza della popolazione lì rinchiusa, per cui la variante di massima sicurezza veniva inflitta come rappresaglia a tale resistenza. […] I metodi e i dettagli della rappresaglia si fondavano sulle misure militari contro-insurrezionali adottate dai britannici contro i palestinesi durante la rivolta araba degli anni Trenta; a quanto pare, i nuovi governanti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza erano rimasti fortemente impressionati da questa metodologia spietata. Sotto i britannici, questo modello di disumanità era rimasto in vigore per tre anni; per i palestinesi dura da oltre cinquant’anni [il testo è del 2017]. Il partito laburista e la sinistra sionista La responsabilità di aver ingannato il mondo durante quel decennio [1967-1977] ricade unicamente sul Partito Laburista (e, al suo interno, anche sul defunto Shimon Peres che, dopo la sua morte avvenuta nel 2016, è stato acclamato come un campione di pace). […] Nel 1969 il movimento laburista, che ancora si chiamava Mapai, attraversò una fase di ristrutturazione da cui uscì con un nuovo nome: divenne il Ma’arach (‘Alleanza’). Si trattava infatti di una coalizione formata dal Mapai, il Rafi (un gruppo parlamentare guidato da David Ben-Gurion) e l’Ahdut HaAvoda, il partito di Ygal Alon. L’ultimo gruppo a aderirvi fu quello della sinistra sionista, il Mapam. L’“Alleanza” rimase intatta fino alla sua sconfitta alle elezioni del 1977 contro il Likud, lo schieramento di Menachem Benin [poi di Sharon e di Netanyahu]. […] già nel 1967, al fine di mantenere un controllo strategico sui Territori Occupati, il governo unificato aveva concordato di stabilire coloni e soldati in alcune aree della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. A complicare il piano furono però due circostanze: una delle quali [l’altra è la resistenza palestinese] fu l’emergere del movimento messianico Gush Emunim, che inviò i propri seguaci a colonizzare quelli che consideravano antichi siti biblici, molto spesso proprio in mezzo alla popolazione palestinese della Cisgiordania. Il governo voleva invece insediare gli ebrei in aree meno densamente abitate dai palestinesi. Tra i responsabili politici era presente un numero davvero significativo di reduci del 1948, i quali credevano di aver riscattato per sempre l’antica Terra d’Israele nel 1967. In qualità di ministri del governo, essi chiusero un occhio quando, la notte del 12 aprile 1968, il primo gruppo di coloni ebrei si trasferì a Hahil, Hebron e in Cisgiordania. Il gruppo si installò al Park Hotel, proprio nel cuore della città, e poche settimane dopo il governo autorizzò la creazione della città ebraica di Qiryat Arba, che dominava su Hebron. La comunità internazionale rimase indifferente mentre, a quanto pare, in quel particolare frangente storico gli Stati Uniti decisero di inaugurare una nuova e potenziata fase del proprio rapporto con Israele: vollero infatti dotare lo Stato ebraico delle armi più avanzate e all’avanguardia in loro possesso (alla fine del 1968, furono consegnati a Israele cinquanta caccia Phantom). Il sostegno ai primi coloni da parte del governo laburista, rimasto al potere fino al 1977, passò del tutto inosservato sotto gli occhi di un mondo che, cinquant’anni dopo, avrebbe considerato gli insediamenti ebraici il primo ostacolo alla pace. Il sindacato La prigione aperta sembrava funzionare. Da quel momento in poi non ci fu più bisogno del coinvolgimento diretto del Comitato dei Direttori generali o del Ministero della Difesa. L’esercito attuava il suo dominio su ogni aspetto della vita, ma fin dall’inizio fu assistito da altri enti israeliani. Uno di questi era il sindacato generale, l’Histadrut. Questa organizzazione pre-statale era già stata molto efficiente nell’estromettere i palestinesi dal mercato del lavoro mandatario, e ciò a dispetto del fatto che veniva vista dal mondo occidentale – compreso il movimento sindacale britannico – come un esempio di organizzazione socialista votata al benessere dei lavoratori. Nel 1967, a partire dalla seconda settima di giugno [cioè dopo la Guerra dei Sei giorni e l’inizio dell’occupazione del restante 22% della Palestina storica], l’Histadrut fu incorporato nel meccanismo di occupazione. Il governo gli concesse il monopolio del commercio e dell’industria: e sul campo non agì come un sindacato, ma come un mastodontico complesso industriale. Il movimento “messianico” dei coloni Il movimento era già attivo nel 1968, ben prima di essere formalmente istituzionalizzato nel 1974 da Kook, il quale gli diede anche il nome di Gush Emunim (‘Il blocco dei fedeli’). […] Il primo atto ufficiale del movimento (da distinguere rispetto alle azioni intraprese dai coloni già presenti a Hebron e Gush Etzion) ebbe luogo alla fine del 1974. Fu il tentativo di insediarsi nella zona di Nablus, nella vecchia stazione ferroviaria ottomana di Sebastia, allo scopo di creare due stanziamenti ancora oggi presenti: Alon Moreh e Qadum. Anche se inizialmente essi vennero sfrattati, alla fine il governo laburista concesse loro il permesso di restare, tramite un accordo che suggellava l’integrazione degli sforzi compiuti dal governo con quelli dei coloni. Fu così che nel 1974 il movimento dei coloni divenne una lobby ideologica che influenzava le politiche governative riguardanti la colonizzazione e che godeva di una presenza sempre maggiore nella Knesset [il parlamento israeliano] e nella sfera pubblica in generale. Ma se per un verso i coloni erano dei manipolatori, per l’altro loro stessi venivano manipolati. Erano infatti usati come arma, e molto spesso come scusa, per giustificare la confisca di terre, e lo Stato ricorreva a loro come strumento demografico per effettuare una pulizia etnica con mezzi alternativi. Il movimento era un comodo canale per implementare quegli aspetti della politica di colonizzazione ai quali il governo laburista non voleva essere direttamente associato; specialmente le politiche che contraddicevano apertamente il diritto e le convenzioni internazionali. Anziché sullo Stato, infatti, la responsabilità veniva fatta ricadere su presunti gruppi di parte. Perciò, dopo che la mega-prigione, a prescindere dalla sua versione, fu delineata geograficamente e attivamente mediante il saccheggio delle terre, venne ulteriormente ristretta e modellata in forza della mappa delle colonie ebraiche. La vita in prossimità delle due comunità, quella dei palestinesi occupati e dei coloni, non faceva altro che accentuare l’immagine di un carcere. Ogni colonia, e ogni blocco di colonie, era circondato da una recinzione elettrica e da un muro che chiudevano i coloni al loro interno, ma che combinate tra loro rinchiudevano i palestinesi in decine di mini-prigioni dentro l’enorme complesso della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Il Likud, o dell’indistinzione tra colono e soldato Il maggiore cambiamento rispetto al decennio precedente [1967-1977] fu la licenza di agire liberamente che il governo del Likud concesse ai coloni religiosi più ideologizzati. Dover integrare l’attività più violenta dei coloni all’interno della struttura generale di controllo non era un aspetto che tutti, nella burocrazia dell’occupazione, accolsero con favore. Tuttavia, i facinorosi e i vigilantes presenti tra i coloni, i quali spesso eseguivano azioni punitive come sradicare alberi, bruciare campi o, in generale, molestare i palestinesi, venivano tollerate perché la loro attività accresceva ulteriormente il controllo e la presenza di Israele, specialmente lungo i confini tra le enclavi palestinesi “pure” e le nuove “aree interdette” a chiunque non fosse ebreo. Nel 1982, Yitzhak Mordechai, il comandante della regione centrale, decise di impiegare nella zona di Hebron una compagnia di riserva composta da coloni in qualità di “unità di difesa regionale”. Anche altrove fu adottato questo sistema, in cui i coloni venivano usati come soldati nei pressi dei propri insediamenti, molto spesso con l’autorizzazione a intimidire e compiere ancora più abusi sulla popolazione locale. Un piano per Gaza del 1967 Complessivamente, secondo fonti dell’ONU, in quei primi giorni [di giugno del 1967] Israele espulse in totale quasi 180.000 palestinesi. Nel riassumere questo periodo di pulizia etnica della Palestina, vorrei tornare ad alcuni dei piani che non furono adottati, o quantomeno a uno che, purtroppo, in futuro potrebbe ancora avere una certa rilevanza, qualora Israele avesse mai il potere, la volontà o la necessità di allontanare in massa la popolazione occupata al fine di soddisfare le sue esigenze strategiche fondamentali. Parliamo dell’idea di trasferire la gente della Striscia di Gaza, o quantomeno gli esuli che lì vivono, in Cisgiordania. Ciò fu discusso seriamente, per la prima volta, nel luglio 1967 da uno dei più rispettati e alti ufficiali dell’esercito, Mordechai Gur, il quale fu invitato dal governo [ripetiamo: laburista] a presentare il suo piano. Egli propose di inglobare i profughi di Gaza a quelli in Cisgiordania: Dobbiamo creare le condizioni che inducano le persone ad andare via. Dobbiamo fare pressione su di loro, ma in modo da indurle a non resistere, bensì a partire. Dovrebbe essere incoraggiati a farlo sia i profughi [del 1948] sia i residenti in pianta stabile, così che questi sentano che non ci sono speranze nella Striscia [di Gaza] dal punto di vista agricolo […]. Inoltre, quando l’UNRWA completerà un nuovo censimento, sarà chiaro che essa non disporrà di razioni di cibo sufficienti per tutti i rifugiati […] questo potrebbe avere gravi implicazioni per la sicurezza […] dovremmo bloccare ogni sviluppo laggiù [in modo da incoraggiare il trasferimento]. La prova generale Nel 2004 l’esercito israeliano cominciò a costruire una città araba fittizia nel deserto del Negev. Questa aveva le dimensioni di una città vera e propria, con strade (tutte dotate di un nome), moschee, edifici pubblici e automobili. Costruita al costo di 45 milioni di dollari, nell’inverno del 2006 la città fantasma era diventata una replica di Gaza, così che l’esercito israeliano, vista la battuta d’arresto subita a nord nel conflitto con Hezbollah, si potesse preparare a combattare a sud una “guerra migliore” con Hamas. Dopo aver visitato il sito all’indomani della guerra in Libano, il capo di stato maggiore israeliano, Dan Halutz, annunciò alla stampa che i soldati si stavano «preparando per lo scenario che si aprirà nel popolato quartiere di Gaza City». Una settimana prima di bombardare Gaza, Ehud Barak [l’allora presidente di Israele] assistette a una prova generale della guerra via terra. Le troupe televisive straniere lo filmarono mentre osservava le truppe di terra conquistare la città fittizia, prendendo d’assalto le case vuote e uccidendo senza indugio tutti i “terroristi” che vi si nascondevano. […] Era questa la nuova versione del carcere di massima sicurezza che attendeva i palestinesi nella Striscia di Gaza, giacché il governo israeliano e i responsabili della sua politica di sicurezza si erano resi conto che il modello della prigione aperta, in cui la popolazione della Striscia avrebbe dovuta essere rinchiusa sotto un governo collaborativo dell’A[utorità]P[alestinese] [il famoso “Stato palestinese” sul cui riconoscimento i governi europei fanno finta di litigare] era stato mandato a monte dalla popolazione stessa. Tuttavia, neppure la ritorsione per mezzo dell’assedio e del blocco di Gaza riuscì a farla arrendere al modello voluto dagli israeliani. […] È così che è avvenuto il fiasco generale israeliano del 2005, trasformatosi poi in quello che altrove ho definito “genocidio incrementale della Palestina”. Gli israeliani avevano chiamato la prima operazione condotta contro Gaza “Prima pioggia”; più che un rovescio di acqua benedetta, fu una pioggia di fuoco dal cielo. (brani tratti da Ilan Pappé, La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, Fazi, Roma, 2022 [ed. originale 2017] )
Materiali
A proposito del carcere di Varese
Riceviamo da un nostro corrispondente questo testo, proveniente dal carcere di Varese. Al di là del merito delle critiche mosse all’amministrazione carceraria, ci sembra il caso di divulgare questo spaccato della vita all’interno di questo e molte altre carceri, dando voce a chi spesso ne viene privato insieme alla sua libertà. Di seguito quanto ricevuto:   «Ho ricevuto e riscritto col computer questa lettera da un […] ospite della casa circondariale di Varese, via Felicita Morandi. Non essendoci in quella struttura il “ garante dei detenuti “invio a voi lo scritto. La firma è probabilmente falsa (per motivi intuibili) ma il resto è vero , come potrete verificare, per esempio, intervistando parenti all’uscita dei colloqui (attualmente mercoledì e sabato, all’ incirca fra le ore 10.30 e le 14,30).»   A proposito del carcere di Varese 1. La direttrice non incontra i detenuti e non consente “percorsi di inserimento” 2. Terapie psichiatriche a volontà : per abuso di medicinali , recentemente , sono morti tre ragazzi. Nel carcere c’è una percentuale altissima di stranieri e quasi tutti si sottopongono a terapie che poi spacciano fra loro e agli italiani in cambio di tabacco e di spesa 3. Reparto infettivi: non esiste, come non esiste spazio riservato ai tossici 4. Autolesionismo: molti ingoiano lamette o batteria: invece di essere richiamati, invece, ottengono, per essere calmati, tabacco o sigarette 5. Spaccio : rispetto all’ esterno i prezzi sono maggiorati almeno del 150 %. Per arrivare all’assurdo che due mazzi di carte ( che da action trovi a meno di due euro, e che i parenti non possono fare entrare “ perché il gioco d’azzardo è proibito “) allo spaccio costano 14 euro 6. Graduatoria lavoranti; non viene premiato chi lavora meglio, ma chi si arruffiana le guardie 7. Cortile: l’area esterna in cui potersi sfogare è di 10 metri per 10 ! 8. Giochi: esiste solo un ping pong e due biliardini rotti 9. Campo di pallavolo : i palloni da pallavolo sono bucati: il pavimento è dissestato e pieni di buche, per questo motivo sono all’ordine del giorno contusioni e fratture a caviglie, braccia e polsi (l’ultimo, ieri, 8 luglio: frattura a un piede di un marocchino) 10. Accesso al lavoro interno: Spesso si fa lavorare, come premio, chi ha compiuto atti di autolesionismo e gente in terapia. 11. Valutazione del lavoro. il lavoro non è valutato da psicologi o esperti ma in base alle simpatie della direttrice 12. Rancio : Tutte cose congelate: per ogni detenuto sono a disposizione solo 50 grammi di carne rossa ogni 15 giorni. Tutte le sere o minestra o pasta al pomodoro 13. Celle: si sta in tre in quindici metri quadrati. In realtà calpestabili sono solo cinque metri quadrati , considerando che ci sono 3 letti, 4 armadietti, 1 tavolo, 3 sgabelli, lavandino e wc In pratica uno può andare avanti e indietro sono se gli altri due stanno sdraiati a letto 14. Ore di aria limitate : si sta in cella dalle ore 17 fino alle ore 8,30 del giorno dopo: ci sono solo due ore d’aria al mattino e 2 al pomeriggio . 15. Rifornimenti dall’esterno : sono molto limitati . Vengono bloccati molte cose portate dai familiari perché si vuole che la spesa venga fatta solo al costoso spaccio interno . Ringrazio per l’attenzione 9 luglio 2025 Mario Rossi
Carcere
inutile Memoir, lontano dalle polemiche
Riceviamo e diffondiamo: inutile Memoir, lontano dalle polemiche all those beautiful boys/ kings and queens/ and criminal queers/ all those beautiful boys/ tattoos of ships and tattoos of tears If you saw the younger you, what would you say to ‘em? A chi ha occhi per guardarsi intorno sarà evidente, ancora una volta, la marginalità del dibattito in auge nell’ambiente anarchico, resa più grave, stavolta, dall’urgenza della contemporaneità: l’unica cosa che conta è Gaza, temo, e la noiosa ironia così come la rivoltante acrimonia che animano le parti in causa si capiscono meglio in quanto frutto di una frustrazione alimentata innanzitutto proprio dalla marginalità. Ma dato che anch’io all’ultimo atto di un genocidio secolare oppongo evidentemente ben poco oltre alla frustrazione, dato che gli ambienti li capisco sempre meno, e dato che il dibattito in questione per più motivi (ora non interessa quali) mi riguarda, partecipo individualmente alla gara di osservarsi l’ombelico e parto dal mio, facendo aneddotica, e condividendo stadi successivi di rielaborazione di un’esperienza personale maturata in germania una ventina di anni fa. Mi si perdoni quindi la narrazione interna, la favoletta senza morale, lo stile eccentrico e l’argomento collaterale. All’epoca la queerness invadeva le strade della città che percepiva ancora se stessa, nonostante i fasti del ventennio precedente fossero già tramontati, come una delle capitali della conflittualità europea, in virtù appunto di una storia di riappropriazione degli spazi che era proprio ciò che mi aveva portato lì (Meinzer strasse, Kubat dreieck, i wagenplaetze…) con un habitus turistico che è adesso molto facile criticare, e che non costituisce però il tema centrale del racconto. La Humboldt Universitaet offriva da qualche anno un corso di laurea in gender studies, nelle Hausproject si leggevano Solanas, Preciado e Butler, il femminismo della terza ondata imponeva un’agenda trans, lesbica e separatista a tutti gli ambiti che si professassero Autonomen, portando inevitabilmente al confronto su questi temi anche i vari settori punk e insurrezionali, per non parlare di Antifa e Antideutsch. Le etichette, mi sembrava, funzionavano bene in germania, mentre si adattavano molto peggio alle persone che frequentavo in italia, dove era più diffusa la capacità, e la possibilità, di muoversi da un ambiente all’altro senza per forza professarsene adepti. Comunque le queer demo portavano in piazza a Berlino migliaia di persone che si identificavano nell’opposizione alla normatività capitalista e neoliberista, nel rifiuto dell’esistente e in un’utopia rivoluzionaria ancorché confusa e confusionaria (jedenfalls); e io ho partecipato, per poco meno di un anno, con un certo entusiasmo al movimento berlinese per quello che era, per ciò che vi trovavo, sforzandomi di prescindere da ciò che mi sarei aspettato di trovarvi. Durante una delle suddette affollate manifestazioni, l’amica ben inserita che mi faceva da Pigmalione mi spiegò: “vedi come sono tranquilli gli sbirri? sono felici che tutte le occupanti di case, le anarchiche che facevano gli scontri, le violente rivoluzionarie siano sparite dalla piazza, e che la piazza sia ormai piena di queers. Quello che non capiscono è che questi queers sono esattamente le stesse occupanti, anarchiche e rivoluzionarie di prima”; il che non era vero, ma esprimeva un’ambizione. L’affermazione peraltro strideva con la violenta repressione nelle strade ad opera della polizia, che osservavo quasi quotidianamente, in coincidenza con l’esplosione della Gentrifizierung in Friedrichshain e una serie impressionante di sgomberi di spazi definibili a vario titolo “liberi”. Purtroppo il criminal queering espresso nelle strade di Berlino nel 2006 e cantato da Anohny nell’esergo non aveva di per sé molto a che fare con l’autodifesa di un corteo, o di uno spazio occupato, o con i mezzi che attuano le rivoluzioni, cosa in parte confermata dal fatto che la mia amica avrebbe poi fatto carriera accademica, con belle pubblicazioni presso Seuil e il romantico rimpianto di non essere riuscita ad abbattere il capitalismo. Ora immagino che questo possa sdegnare molte di voi: io invece non me ne stupisco, non ci vedo un tradimento, e per questo ritengo di non avervi fatto la morale; anzi, se state ancora leggendo, se mi concederete il margine d’errore che io ho lasciato alla mia sodale berlinese, vorrei calare queste riflessioni e questa attitudine nel momento presente (se non vorrete farlo, beh siete delle persone orribili! perché discutere allora). È chiaro come il sole che nemmeno il “movimento anarchico” (?) è mai stato esente da dinamiche autoritarie, prevaricazioni, violenze di ogni tipo e quindi sì, ci sono, vorrei dire ci sono ancora, omofobia, transfobia, machismo tra le altre cose brutte; è anche chiaro che, a distanza di un decennio almeno dall’arrivo di istanze fortemente critiche e accusatorie rivolte all’interno del movimento stesso riguardo questi temi, le reazioni sono state spesso assenti o inadeguate, quando non del tutto scomposte e ostili, e che questo rende difficile o impossibile ad alcun* anche solo frequentare certi ambienti. Urge quindi una presa in carico del problema, che ad ogni modo non si risolverà facilmente e certo non nello spazio di una generazione. Dovrebbe essere però altrettanto chiaro che l’agire di molta di questa parte critica e accusatoria si è finora rivolto all’interno del movimento con una ferocia e una volontà di nuocere, nelle parole e nei fatti, che la stessa parte non riesce fuor di retorica a indirizzare all’esterno (siamo ancora in attesa di “bruciare tutto” dopo l’ennesimo stupro: e invece parrebbe che si voglia dar fuoco a un’occupazione “sessista” prima, più volentieri e piuttosto che a una questura), e che le modalità adottate in troppi frangenti hanno portato all’inazione o ancor peggio al sabotaggio di iniziative urgenti, in una logica del divide et impera in cui chi imperat, indovina un po’, è il nemico. Ed ecco che infine si pone la questione dirimente, con la quale alla buona ora chiudo queste deboli pagine: siamo, sono, siete, sei ancora in grado di riconoscere il nemico? Al di là delle astrazioni concettuali e, ovviamente, del gioco delle parti e delle egemonie; altrimenti, non resta che augurarsi anche qui una gazificazione diffusa come cura dell’intellettualismo e bagno di realtà storicizzata. We are smarter than they think we are They take us all for idiots, but that’s their problem When we behave like idiots, it becomes our problem Con affetto, amarezza e ancora auspici. V
Stato di emergenza
Sulla sentenza per il corteo dell’11 febbraio 2023 a Milano. Raccolta di scritti solidali
Riceviamo e diffondiamo questo opuscolo, che raccoglie gli scritti in solidarietà a imputati e imputate per il corteo dell’11 febbraio 2023 a Milano in solidarietà ad Alfredo Cospito e contro 41-bis ed ergastolo ostativo. Il primo grado di questo processo si è concluso con pesanti condanne contro 10 compagni e compagne, a cui mandiamo tutta la nostra solidarietà. Qui l’opuscolo: prova opuscolo 2
Stato di emergenza
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Trento: fissata al 28 gennaio 2026 l’udienza preliminare per l’Operazione “Diana”
In questi giorni, a diverse compagne e compagni imputati è stata notificata l’udienza preliminare del processo per l’Operazione “Diana”, che coinvolge in tutto 12 persone. L’udienza è fissata presso il tribunale di Trento alle ore 9. Seguiranno aggiornamenti. Per saperne di più: https://ilrovescio.info/2023/08/04/ennesima-inchiesta-per-270-bis-in-trentino-richieste-e-non-concesse-12-misure-cautelari/ https://ilrovescio.info/2023/09/17/trento-rigettate-ancora-le-misure-richieste-per-linchiesta-diana/ https://ilrovescio.info/2025/06/28/sulloperazione-diana-contro-lanarchismo-in-trentino-cose-utili-da-sapere/
Stato di emergenza
Dichiarazione del Congresso ebraico antisionistico
Mentre anche in Israele si svolgono le prime manifestazioni esplicitamente contro il genocidio del popolo palestinese (Standing Together), e i riservisti israeliani che non rispondono alla chiamata per andare ad uccidere i gazawi stanno diventando decine di migliaia, arriva questa importante dichiarazione da parte del Congresso ebraico antisionista, riunitosi a Vienna dal 13 al 15 giugno scorsi. La forza di questa dichiarazione non sta per noi nei riferimenti al Diritto internazionale e negli appelli all’ONU e agli Stati, ma nell’individuare le cause del genocidio in corso nel progetto coloniale sionista in quanto tale; nello schierarsi in modo netto con la resistenza palestinese («Affermiamo il diritto delle persone che vivono sotto occupazione a difendersi con ogni mezzo») e con il movimento BDS; nel rivendicare per la Palestina la prospettiva della decolonizzazione e della «de-sionizzazione»; nel ribadire a chiare lettere che l’«affermazione secondo cui gli ebrei sostengono intrinsecamente il sionismo e l’abominevole Stato sionista è autentico antisemitismo». DICHIARAZIONE DEL CONGRESSO EBRAICO ANTISIONISTICO Oltre 1.000 ebrei e non ebrei antisionisti si sono riuniti a Vienna per tre giorni di conferenze e workshop nell’ambito del Congresso sull’antisionismo ebraico. Sebbene si sia trattato del primo evento del suo genere in Europa, sono già in corso i preparativi per un secondo congresso nel 2026. Noi, relatori e organizzatori del congresso, pubblichiamo questo appello pubblico, che riflette le posizioni comuni raggiunte nel corso dei tre giorni di deliberazioni. Come ebrei antisionisti e alleati, ci schieriamo al fianco di tutti i palestinesi – in Palestina e in esilio – contro il sionismo e i suoi crimini, tra cui genocidio, apartheid, pulizia etnica e occupazione. Affermiamo il diritto delle persone che vivono sotto occupazione a difendersi con ogni mezzo, come riconosciuto da molteplici disposizioni delle Nazioni Unite. È fondamentale che gli ebrei di coscienza, ovunque nel mondo, si uniscano per opporsi al sionismo in comune e in solidarietà con il movimento globale per la liberazione della Palestina. Ci impegniamo a espandere il nostro movimento oltre le sue radici europee per includere le voci antisioniste di tutto il mondo, incluso il Sud del mondo. Condanniamo senza riserve tutti i crimini di guerra commessi da Israele dal 7 ottobre 2023, tra cui la pulizia etnica, l’apartheid militarizzato, l’urbicidio, lo scolasticidio, il medicidio, la carestia di massa come mezzo per sfollare forzatamente oltre due milioni di abitanti di Gaza e un genocidio in corso che coinvolge centinaia di migliaia di persone, uno dei peggiori crimini di guerra del nostro tempo. Questi atti sono già stati riconosciuti come tali dalla CPI e dalla Corte Internazionale di Giustizia, sebbene lo Stato di Israele abbia respinto categoricamente le richieste di entrambe le corti. Ha inoltre respinto numerose richieste sia dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che del Consiglio di Sicurezza. Di conseguenza, circa due milioni di civili sono attualmente confinati in una piccola area della Striscia di Gaza senza accesso a cibo, acqua, medicine, riparo o assistenza medica. Questi nuovi crimini sono solo gli ultimi di una storia infinita di reati simili che risale al 1948. Nonostante le ripetute violazioni delle risoluzioni dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e gli estesi rapporti dei Relatori Speciali delle Nazioni Unite, non sono mai state imposte sanzioni a Israele. Nessuno di questi crimini di guerra e crimini contro l’umanità avrebbe potuto essere compiuto o sostenuto senza il sostegno attivo ed entusiastico delle potenze occidentali – attraverso aiuti militari, supporto finanziario e copertura politica e diplomatica – guidate da Stati Uniti, Unione Europea, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Sostenendo e armando uno Stato criminale che commette genocidio, questi governi hanno la responsabilità legale e morale ai sensi della Convenzione sul Genocidio del 1948. Invitiamo tutti gli Stati e le società a rispettare i propri obblighi ai sensi della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio e ad adottare tutte le misure necessarie per porre fine al genocidio in corso a Gaza. Le sanzioni devono includere anche la sospensione di Israele dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, come accadde al Sudafrica nel 1974 per le sue politiche di apartheid. I crimini di Israele sono chiaramente ancora più orribili. Sebbene l’ONU abbia schierato truppe internazionali per decenni per separare le parti in conflitto tra Israele ed Egitto e Israele e Libano, non ha mai istituito una forza di protezione per proteggere la vita dei palestinesi dall’oppressione sistematica e dal terrore perpetrati dallo Stato israeliano. Siamo d’accordo che sia giunto il momento di adottare una simile misura umanitaria. Senza di essa, Israele continuerà a commettere omicidi di massa contro i palestinesi. Chiediamo inoltre che l’Unione Europea segua le proprie leggi e rispetti l’articolo 2 dell’accordo di associazione UE-Israele , che le impone di cessare i rapporti commerciali con Israele e di porre fine al suo status di associazione nei programmi finanziati dall’UE. Invitiamo tutte le società, le associazioni e le organizzazioni internazionali a espellere Israele dalle proprie fila finché non rispetterà tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite e dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, non porrà fine al genocidio in corso a Gaza e non ritirerà le sue forze armate da tutti i territori conquistati con la forza nel 1948 e nel 1967, nonché da tutti i territori siriani e libanesi occupati dal 1967. Israele deve ritirare immediatamente e completamente le sue forze armate dalla Striscia di Gaza, revocare il blocco in vigore dal 2006 e garantire a tutte le organizzazioni umanitarie accesso illimitato per operare liberamente. Invitiamo tutti gli stati, le istituzioni e le organizzazioni della società civile a implementare e sostenere le richieste del Comitato Nazionale Palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS). Ciò include la cessazione di tutti i legami finanziari, accademici, militari, culturali e diplomatici con lo stato genocida fino a quando non soddisferà le condizioni di cui sopra e garantirà il diritto dei rifugiati palestinesi a tornare alle loro case e proprietà, in conformità con la Risoluzione ONU 194. Invitiamo inoltre le Nazioni Unite a imporre sanzioni immediate e globali in risposta agli attacchi immotivati e illegali di Israele contro Teheran e altre città iraniane, nonché alle sue uccisioni di massa di civili. Queste sanzioni devono essere estese anche ai governi occidentali che incoraggiano e favoriscono i crimini internazionali in corso di Israele attraverso il sostegno militare e politico. Le armi nucleari illegali di Israele devono essere smantellate attraverso un processo trasparente supervisionato dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. Rifiutiamo categoricamente l’affermazione che Israele agisca per conto degli ebrei o che le sue attività criminali siano sostenute da tutti gli ebrei. Invitiamo gli ebrei di tutto il mondo a opporsi allo Stato sionista, a negarne la legittimità e a chiedere la cessazione immediata delle sue azioni criminali e riprovevoli. Ciò include il sostegno alla campagna BDS e la recisione dei legami culturali, politici e istituzionali con Israele finché non soddisferà le condizioni di cui sopra. Israele e il sionismo agiscono illegalmente e immoralmente, pur insistendo di farlo per conto degli ebrei, mettendo così in pericolo tutti gli ebrei ovunque. Questa affermazione secondo cui gli ebrei sostengono intrinsecamente il sionismo e l’abominevole Stato sionista è autentico antisemitismo.  Rendiamo omaggio a tutti gli oppositori israeliani del sionismo e invitiamo gli ebrei israeliani a riconsiderare la loro lealtà a un regime che ha negato i diritti dei palestinesi per oltre otto decenni. Onorando l’eredità storica degli ebrei e i principi dell’ebraismo stesso, invitiamo tutti gli ebrei di coscienza ovunque a schierarsi fianco a fianco con i palestinesi contro l’ideologia razzista del sionismo e la sua intrinseca supremazia. Invece, ovunque ci troviamo, lavoreremo con il movimento globale per la decolonizzazione e la liberazione della Palestina. Restiamo uniti e facciamo tutto ciò che è in nostro potere per creare un futuro di uguaglianza, giustizia e dignità per tutto il popolo palestinese, una terra dove la vita condivisa e il rispetto reciproco possano rifiorire. Decolonizzazione e de-sionizzazione. Libertà per la Palestina e il suo popolo.  Firmato, (le Firme sono leggibili nel Link) Bitte teilen:  https://www.juedisch-antizionistisch.at/deklaration
Stato di emergenza
Guerra grande, strozzature e specchi di faglia
Qui il pdf: guerra grande, strozzature e specchi di faglia GUERRA GRANDE, STROZZATURE E SPECCHI DI FAGLIA Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso e non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia. Sun Tzu, L’arte della guerra «Questo è il momento della pace attraverso la forza. È il momento di una difesa comune. Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi sarà necessario più coraggio. E altre scelte difficili ci attendono. Il tempo delle illusioni è finito.» Così dichiarava, il 4 marzo scorso, la presidente della Commissione UE Ursola Von der Leyern presentando un piano di 5 punti per il riarmo degli Stati appartenenti all’Unione Europea, mobilitando quasi 800 miliardi di euro per le spese per la difesa. L’annuncio precede e si aggiunge al maxi fondo tedesco da 500 miliardi di euro che il Bundestag, il parlamento tedesco, ha approvato il 18 marzo con i voti della SPD, della CDU-CSU e dei Verdi, unitamente alle modifiche costituzionali per investire nel riarmo e per superare lo “scoglio” del limite del debito e della spesa statale. L’accordo multimilionario per finanziare la difesa tedesca dà a sua volta impulso al piano di riarmo europeo. Quest’ultimo è strutturato ed articolato su 5 punti strategici. Il primo punto del piano “ReArm Europe” prevede l’attivazione della clausola di salvaguardia nazionale del patto di stabilità (ovvero il regolamento che disciplina i bilanci degli Stati UE). Questa misura permetterà agli Stati membri di aumentare la spesa per il riarmo anche oltre il limite del 3% del deficit senza incorrere nella procedura di infrazione europea. In pratica i governi potranno investire di più in armamenti senza temere sanzioni dell’UE (cioè fare ciò che tutti i governi e politici sia di destra che di sinistra dicevano che era impossibile per le spese sociali e sanitarie). Il secondo punto prevede un nuovo strumento finanziario da 150 miliardi di euro per investimenti militari “condivisi”. La particolarità è che questi investimenti militari saranno per equipaggiamenti standardizzati fra eserciti di Stati diversi, così da assicurare che i sistemi militari possano operare assieme in caso di guerra. Per istituire questo meccanismo la Commissione UE utilizzerà l’articolo 122 del trattato dell’Unione, che consente di costruire strumenti finanziari di emergenza senza l’approvazione del parlamento degli Stati europei. Il terzo punto introduce la possibilità di utilizzare i fondi destinati alla pacificazione sociale (i cosiddetti “fondi di coesione” presenti in ogni “piano di resilienza” introdotto negli anni passati ed emanazione diretta del manifesto della borghesia e degli Stati europei, ovvero il documento Next generation UE) per progetti di riarmo di guerra. Il quarto punto del piano prevede il coinvolgimento della Banca Europea per gli Investimenti nel finanziamento a lungo termine per investimenti di natura militare, mentre il quinto e ultimo punto ordina la mobilitazione generale del cosiddetto capitale privato, ovvero il furto di classe dei piccoli risparmi delle classi sociali non privilegiate del vecchio continente per finanziare la guerra dei padroni e degli Stati, drenando soldi dai piccoli conti bancari per trasformarli in capitali di rischio in investimenti militari e nella re-industrializzazione del vecchio continente. Il provvedimento proposto da Mario Draghi ed Enrico Letta dopo il successo ottenuto negli anni passati a danno delle classi sfruttate per finanziare le grandi opere nello Stato italiano (anche in questo caso, come per il “fronte interno” degli Stati articolato nelle misure repressive, la classe dominante e lo Stato italiano fanno scuola in Unione Europea). L’ideologia nazionalista fa da involucro e da parte in causa nel muovere la guerra globale, sia nelle sue varianti dichiaratamente reazionarie (ad esempio tutti i partiti di estrema destra chiedono maggiori attenzioni ai vari riarmi nazionali) sia nelle varianti progressiste e sinistrorse (evidenti sono, ad esempio, le dichiarazioni in Francia di alcuni esponenti del Nouveau Front Populaire sull’urgenza di ri-creare un’ideologia patriottica e nazionalista di sinistra). In questo clima di union sacrée e di mobilitazione delle coscienze e dei corpi, disertare (per quanto ci riguarda) dal fronte occidentale diviene un’urgenza sempre più impellente. Come fare? Cerchiamo innanzitutto di fotografare le dinamiche e di fissare alcune coordinate della “Guerra Grande” in corsa sempre più veloce sul piano inclinato che ci sta portando verso l’abisso, partendo dal fronte orientale europeo e tenendo ben saldi nelle mani il sestante del disfattismo rivoluzionario e dell’internazionalismo antiautoritario. La vittoria della porzione della classe dominante statunitense che sostiene l’amministrazione Trump ha impresso una accelerazione crescente al rafforzamento dell’interventismo dello Stato a stelle e strisce nell’area del continente americano, africano, mediorientale e soprattutto indo-pacifico, mentre con l’avvio dei colloqui e degli “incontri di pace” fra classe dominante russa e nord-americana si evidenzia la crescente contrapposizione con le borghesie del vecchio continente (degno di nota che uno di questi “incontri di pace” si è tenuto nella città di Monaco, già teatro della tristemente nota conferenza di pace del 1938) nell’onda di una sorta di Yalta 2.0 che ricorda bene le dichiarazioni del primo segretario generale dell’Alleanza Atlantica, ovvero che la Nato serve a: “tenere dentro gli americani, fuori i russi e sotto i tedeschi”. Ciò ci porta a ricordare l’obiettivo del più grosso atto di guerra realizzato in questi ultimi anni in Europa a danno dei padroni di casa nostra, ovvero il sabotaggio del gasdotto Nord Stream. Negli ultimi mesi il territorio della regione di Kursk, così come le aree di confine tra la regione ucraina di Sumy e quella russa di Belgorod, sono state completamente riconquistate dalle forze militari russe e nord-coreane. Per quanto riguarda i territori ucraini la regione di Donetsk è sotto controllo russo per più del 73%, quella di Kherson per il 59%, e assistiamo al totale controllo russo sulla regione di Lugansk. Attualmente più del 21% del territorio dello Stato ucraino è sotto controllo delle forze armate di Mosca. Ovviamente i successi degli ultimi mesi dell’esercito russo sul fronte orientale hanno un impatto ben pesante sui negoziati, visto che la borghesia russa sta vincendo la guerra, e la preoccupazione attuale dei nostri padroni è quella di interrompere velocemente questo conflitto prima che l’esercito ucraino crolli e quello russo dilaghi. Il rischio che i dominatori di entrambi i fronti temono maggiormente è la presenza di un convitato di pietra al tavolo dei possibili negoziati di pace, ovvero il ruolo che la nostra classe sociale sta giocando da entrambi i lati del fronte con il rischio sempre più visibile di un aumento esponenziale delle diserzioni dal militarismo sia russo che ucraino-NATO, fino ad arrivare – come dichiarato nell’ultimo mese da alcuni analisti geopolitici dei padronati occidentali – alla possibilità di ammutinamento delle truppe ucraine contro il governo di Kiev. Come abbiamo sempre sostenuto, la guerra in Ucraina è anche guerra per il controllo delle importanti risorse di terre rare indispensabili all’economia di guerra e alla trasformazione della società e del modo di produzione capitalista verso la fase digitale. Mentre l’eventuale e sempre più traballante proseguimento degli aiuti militari statunitensi dipende dall’accordo che pone in mano al capitalismo a stelle e strisce le risorse minerarie e le infrastrutture ucraine che, secondo alcune fonti di Kiev dei mesi scorsi, sarebbero già state assegnate all’Empire 2.0 britannico in base ad un accordo siglato durante la visita del primo ministro Starmer a Kiev. Già alla conferenza di Monaco si parlò della proposta della delegazione del Congresso degli Stati Uniti di un contratto che avrebbe concesso agli USA i diritti sul 50% delle future riserve minerarie ucraine. I disaccordi e i tira e molla con Trump sulle terre rare negli ultimi mesi si sono verificati a causa del ruolo attivo in questa questione dei ceti padronali britannici che, in base ad un preaccordo che fu firmato da Zelensky e Starmer, lo Stato ucraino si sarebbe impegnato a trasferire tutti i porti, le centrali nucleari e i sistemi di produzione e trasferimento del gas e giacimenti di titanio sotto il controllo di Londra. Il giacimento di litio di Shevchenko (Donetsk), riconquistato dall’esercito russo lo scorso gennaio, contiene circa 13,8 milioni di tonnellate di minerali di litio. Il giacimento è il più grande non solo dell’Ucraina, ma di tutta l’Europa. Già nel 2021, la società mineraria del Commonwealth European Lithium aveva annunciato di essere in procinto di mettere in sicurezza il sito. La perdita di questo giacimento è un duro colpo per i fabbisogni di litio per le classi dominanti UE che si sarebbero comunque dovuti rivolgere alla borghesia britannica. Ma anche il cosiddetto agribusiness (cioè lo sfruttamento intensivo delle terre e degli animali di allevamento con l’espulsione delle comunità locali) è una della parti in causa nella corsa dei padronati contrapposti per il controllo delle ricche risorse dell’antica Sarmatia. Ad esempio già nel 2013 la società agricola ucraina “Ksg Agro” firmò un accordo con lo “Xinjiang Production and Construction Corps” dello Stato cinese per la concessione in affitto di terreni agricoli nella regione orientale di Dnipropetrovsk. L’accordo prevedeva una iniziale locazione di 100mila ettari, con la possibilità di espandersi fino a 3 milioni di ettari nel tempo, equivalente circa al 5% del territorio ucraino, e avente come obiettivo principale la coltivazione agricola e l’allevamento dei suini destinati al mercato cinese. Progetto ad oggi fallito non solo a causa di eventi bellici ma anche per via di resistenze e di piccolo lotte delle comunità locali. Secondo il rapporto del 2023 dell’“Oakland Institute”, oltre 9 milioni di ettari di terreni agricoli ucraini sono dominati dalla grossa borghesia locale e da grandi aziende agro-industriali statunitensi, europee e arabe-saudite (come la “NHC Capital” degli Usa, la francese “Agrogénération” e le tedesche “KWS” e “Bayer”). Terra di confine fin dai tempi del Kanato dell’Orda d’Oro e del gran ducato di Lituania, tutti gli sfruttatori e gli oppressori di ogni età hanno sempre cercato di controllare la porzione del basso piano sarmatico accarezzata dal Mar Nero. Lo stesso toponimo “ucraina” significa “presso il bordo” limitante, cioè il bordo fra blocchi di Stati e capitalismi contrapposti e di un piccolo bacino semi chiuso e poco profondo: il Mar Nero. Il nome di quest’ultimo non è però legato al colore delle sue acque, ma “Kara” (“Nero”) è il modo con cui i turchi definivano questo specchio d’acqua secondo un’antica associazione dei punti cardinali a colori specifici. Ma la cupezza legata all’angusto pelago è più antica. Nel settimo secolo a.C. i primi colonizzatori delle sue coste (gli Ioni) lo definivano “Pontos Axeinos” (“Mare inospitale”). Le parole non sono mai neutre ma lavorano per gli interessi delle varie classi sfruttatrici, così come possono lavorare anche per noi sfruttati chiamando con il loro nome le cose, indicando i responsabili dell’oppressione, e dipingendo una cosmovisione altra della vita. Come fa presagire il suo nome, questo mare non è mai stato controllato da nessuno. Nell’attuale frangente storico, sulle coste e nelle acque del Ponto Eusino si incontrano e si scontrano quattro blocchi di Stati e di capitalismi principali: quello russo, quello statunitense, quello “europeo” e quello neo-ottomano. Un mare chiuso caratterizzato da un unico accesso: quello del Bosforo-Dardanelli controllato dallo Stato turco. Le classi dominanti russe hanno sempre considerato strategico questo mare, in quanto unico accesso ai mari caldi e alle loro rotte logistiche. Per il neo-ottomanesimo dello Stato turco, distanziare dall’Anatolia gli Stati rivali è un fattore cruciale, mentre continua l’espansionismo degli interessi del capitale turco verso Europa, Africa, Medio Oriente e Asia Centrale. La nuova dottrina militare della “Mavi Vatan” (Patria blu) rispecchia pienamente questi obiettivi. Fra Stati e potenze in guerra fra loro, la diplomazia turca si adopera per aprirsi margini di influenza lungo le direttrici precedentemente dette. Ad esempio, condanna Mosca per l’invasione dell’Ucraina, ma non cessa di fare affari con il Cremlino. Permette alle flotte della marina militare russa di entrare ed uscire dal Bosforo, ma costringe gli sfruttatori russi ad accettare che sia essa a dirigere la “Black Sea Grain Initiative”, mediata per l’appunto da Ankara per permettere alla fertile Ucraina di esportare derrate alimentari, aumentando ovviamente le tariffe per il transito dei mercantili nel mar di Marmara. Ingenti risultano i tentativi su questo mare ad opera dei padronati di casa nostra di rompere l’anossia data dallo strangolamento delle classi dominanti rivali statunitensi e russe sull’Europa, in quella che è evidentemente sempre di più una riaffermazione dell’accordo di Yalta, ad esempio con lo sfruttamento dei fondali di questo pelago. L’UE vuole realizzare un cavo internet sottomarino lungo 1100 km per collegare gli Stati membri con la Georgia con un investimento da circa 45 milioni di euro. Il progetto mira a ridurre “la dipendenza della regione dalla connettività in fibra ottica terrestre che transita attraverso la Russia”, ha affermato la Commissione europea, come riportato dal “Financial Times”. Attualmente circa il 99% del traffico internet intercontinentale viene trasmesso tramite oltre 400 cavi sottomarini che si estendono per 1,4 milioni di km. La gerarchia ed il controllo delle rotte marittime, dei porti, dei trasporti e della logistica orienta la circolazione di merci e di capitali. Esprime da sempre la potenza degli Stati, fin da quando nacquero, e lo sviluppo del capitale. Mare, capitalismo e guerra muovono e ridefiniscono i rapporti di forza fra Stati e classi dominanti, nei due passati macelli mondiali così come ora. La Guerra Grande in corso si combatte strategicamente sulle onde. Sopra e sotto di esse, tra controllo dei fondali, della terra, dello spazio orbitale e cibernetico fino al dominio delle tecnologie per il controllo dello spazio infinitamente piccolo (genetico e nanotecnologico) contratto in un’unica dimensione. Per la nostra classe sociale, cercare di bloccare la logistica che permette alla megamacchina della morte di funzionare è un’urgenza vitale e necessaria per poter disertare dalla loro guerra. Proverò ora ad introdurre due attrezzi concettuali per l’analisi dei movimenti- posizionamenti del nostro nemico di classe e, soprattutto, per poter cogliere noi la «fecondità dell’imprevisto» (Proudhon) e provare a dargli forma nei territori dove si presenta e si presenterà sempre di più: ovvero il concetto delle “strozzature marittime” e delle possibilità insurrezionali e rivoluzionarie che si aprono per noi negli “specchi di faglia”, ovvero in quei territori dove vanno a collidere interessi di Stati e blocchi contrapposti. Quando parliamo di controllo del mare e di controllo degli spazi (sia fisici che virtuali come quello digitale), per i nostri nemici di classe stiamo parlando di controllo della terraferma circostante questi spazi, e di dominio sulla logistica che rende possibile lo sfruttamento e il loro mondo (dalle rotte commerciali alla infrastruttura materiale come i cavi internet sottomarini, che rendono possibile la trasformazione della società e del modo di produzione capitalistico verso la fase digitale). Per controllare questi spazi e i territori, Stati e classe padronali devono controllare gli stretti di mare detti anche, a livello mondiale, “strozzature”. Snodi naturali e/o artificiali (come Panama e Suez) delle arterie degli Stati e dei meccanismi materiali di valorizzazione e di riproduzione del capitale per i quali transita la quasi totalità delle merci e dei cavi internet su scala mondiale. Malacca, Taiwan, Panama, Gibilterra, Otranto, il canale di Sicilia, Suez, Dardanelli, Bab al-Mandab, Hormuz, Bering, il canale fra Islanda e Groenlandia, l’Egeo, lo Jutland ecc. Se consideriamo i vari fronti aperti a livello mondiale dalla Guerra Grande ci accorgiamo che gli scontri e le guerre in corso dei nostri padroni ruotano attorno al dominio di queste strozzature perché per Stati e capitalismi, sin dalla loro nascita, il mare è viatico inaggirabile nella rincorsa alla volontà di potenza loro e delle classi sfruttatrici. Chi domina questi spazi e quindi in pratica queste strozzature domina il mondo. Attorno a questi si scontrano e/o sormontano le varie “faglie” di blocchi di Stati e di capitalismi in contrapposizione tra loro. Tendenzialmente in alcuni dei territori limitanti una linea di faglia si aprono più facilmente contraddizioni a livello sociale ed economico. Territori e società direttamente contesi o semplicemente considerati punti deboli dal blocco opposto per via delle loro caratteristiche storico-sociali ed economico-culturali. Ad esempio, per i nostri padroni i territori e le società dell’Europa orientale e del Sud Europa sono più sensibili potenzialmente per via delle contraddizioni che si potrebbero spalancare a insurrezioni o autogestioni generalizzate e alla possibile conseguente catarsi rivoluzionaria. Esempi a livello storico dove possiamo utilizzare questi due attrezzi di orientamento e di navigazione per le possibilità insurrezionali sono tutte le grandi rivoluzioni libertarie della storia del XX secolo (Manciuria, Ucraina, Kronstadt, Catalunya). Se consideriamo le considerazioni e le progettualità già elaborate decenni fa nell’area dell’anarchismo di azione per quanto riguarda le possibilità e le occasioni rivoluzionarie nelle società del Sud Europa e nel bacino del Mediterraneo, ritengo che ora, fra le contraddizioni che si spalancano in alcuni territori con la Guerra Grande in corso e la ristrutturazione sociale del capitalismo, le analisi e le considerazioni che facemmo decenni fa sono quanto più attuali e preziose e hanno confermato tutta la loro validità e potenzialità soprattutto per quanto riguarda le aree rurali, ad esempio del Sud Europa. Aree rurali dove poter coordinare informalmente sul territorio specifico in questione situazioni di lotta, di autonomia materiale e di cultura di resistenza; in sostanza porre in rete e creare momenti e situazioni di autonomia materiale, di cosmovisione altra e di lotta e lavoro insurrezionale tracciando un orizzonte politico libertario e anarchico. In sostanza delle CLR (Collettività Locali di Resistenza) dove provare sin da ora a vivere materialmente e umanamente su dei territori la vita per cui ci battiamo in lotta contro la devastazione portata dagli Stati e dal capitale. Rilanciare e nello stesso tempo “uscire” in questa maniera dal mero intervento di agitazione sia teorica che pratica per entrare in un’ottica di possibilità rivoluzionaria e insurrezionale. Possibilità, purtroppo, ben consce e presenti nelle analisi degli Stati dell’UE e dei nostri nemici di classe, dal momento che già nel 2017 in un documento preparato per la Commissione europea, e già citato negli anni passati nei vari articoli della rubrica “Apocalisse o insurrezione”[metterei link], veniva evidenziato come nelle aree rurali dell’est e del sud Europa, già feconde per noi di contraddizioni intrinseche, la situazione a livello sociale era potenzialmente esplosiva. Saper cogliere e rendere feconde le contraddizioni che si stanno aprendo e che si possono spalancare nel momento in cui i nostri padroni e gli Stati dell’UE si trovano in difficoltà e si indeboliscono nel confronto con i loro avversari in questa Guerra Grande. Per noi il tutto sta nel cogliere le possibilità che si aprono su certi territori nel momento in cui sappiamo interpretare lo spazio-tempo in profondità e in ampiezza, declinando in pratica la nostra bussola dei princìpi facendo tesoro dell’esperienza storica delle lotte della nostra classe sociale, fissando una rotta di massima e elaborandola in un lavoro rivoluzionario affinché le correnti del divenire convulso e frenetico di questo periodo storico non ci portino alla deriva. Cosa ancora più facile dal momento che buona parte della classe dominante, soprattutto occidentale, sta scivolando a livello di analisi strategica nella demenza post-storica e dei problemi minuti incasellati in un’illusione dell’eterno presente. Proviamo a vedere le contraddizioni politico-sociali ed economiche che si sono aperte nell’ultimo periodo in due aree geografiche che si trovano sullo specchio di faglia dell’Europa orientale: in Romania e in Moldavia. Che i territori appartenenti allo Stato rumeno e moldavo siano contesi fra due blocchi capitalistici contrapposti, non è una novità per nessuno. Gli avvenimenti istituzionali dell’ultimo anno in Romania (come ad esempio il colpo di stato filo-UE del dicembre 2024), sono esemplificativi di questa situazione. Non è questa la sede per entrare nel merito di queste dinamiche. È interessante, invece, per quanto riguarda l’angolazione della nostra classe, sottolineare le contraddizioni sociali che possono emergere. Ad esempio, gli scioperi continui degli insegnanti per l’aumento dei salari, o le forti proteste dei trasportatori e dei piccoli agricoltori in Romania. Bucarest ormai da più di un anno è una città in ebollizione. «Raderei al suolo il nostro parlamento. Nessuno fa niente per migliorare la situazione economica del paese. I salari non crescono ma i prezzi dei beni di prima necessità continuano ad aumentare. Non ne possiamo più», commenta un tassista di Bucarest. Similare la situazione in Moldavia, area incistata tra Ucraina e Romania e punto di frizione diretta tra le ambizioni di allargamento degli Stati e dei capitalismi UE e le frazioni delle classi dominanti locali che spingono per rafforzare i legami con Mosca. Negli ultimi anni, nelle strade di Chisinau, si sono svolte proteste ed accese mobilitazioni contro il carovita. Nella nostra prospettiva di classe, antiautoritaria e di disfattismo rivoluzionario, è fondamentale comprendere quali sono le difficoltà e le problematiche che sta passando il nemico di casa nostra nella crescente contrapposizione fra Stati e borghesie europee con la classe dominante statunitense. “Con simili amici, chi ha bisogno di nemici?”. Dal 24 febbraio del ’22 la frase celebre di Charlotte Bronte può precisamente sintetizzare la situazione del padronato e degli Stati dell’UE verso la borghesia a stelle e strisce. A partire dal sabotaggio del gasdotto Nord Stream ai danni del padronato tedesco avvenuto agli inizi della guerra, fino alla guerra commerciale dei dazi e agli avvenimenti dell’ultimo anno sulla questione dell’approvvigionamento energetico. Lo stop al transito del gas russo verso l’Europa attraverso i gasdotti ucraini alla fine del ’24 determinò difficoltà e rialzo dei costi in gran parte del continente con previsioni di incrementi considerevoli delle bollette. Lo Stato slovacco, membro della NATO e dell’UE, è stato quello che ha risentito di più della decisione assunta da Kiev con il pieno supporto degli USA e, paradossalmente ma non troppo vista la posizione di sconfitti delle classi sociali del vecchio continente, dell’Unione Europea. Washington ha tutto l’interesse ad imporre il suo costoso GNL (sostenuto in maniera perentoria da Obama, da Biden e ora da Trump). L’attacco strategico contro i gasdotti Nord Stream non è stato certamente l’ultima battaglia della guerra per il mercato energetico europeo. L’11 gennaio del 2025 un attacco (fallito) è stato portato da 9 droni ucraini alla stazione di compressione “Russkaya” del gasdotto “Turkstream”, che attraversa i fondali del Mar Nero e raggiunge la Turchia europea, ed è l’ultimo gasdotto ancora funzionante che trasporta il gas russo negli Stati europei come Serbia e Ungheria. Le fazioni della classe dominante nordamericana, che trova nel governo repubblicano al potere il rappresentante e il propinatore dei propri interessi, accelera le pressioni per rinforzare la “Yalta 2.0” contro i padroni del vecchio continente, attraverso anche una sorta di pagamento delle “indennità di guerra”, e cioè attraverso l’imposizione che gli Stati dell’Ue comprino più prodotti “per la difesa” made in USA, se vogliono evitare la guerra – ancora “non combattuta” sul piano militare – dei dazi commerciali. Trump ha previsto di ridurre in 4 anni di 300 miliardi su 900 il bilancio annuale del Pentagono: il militarismo europeo dovrà indebitarsi per assorbire le acquisizioni di armamenti cui rinunceranno gli americani. L’industria statunitense è ben determinata ad occupare il mercato europeo della “difesa” in cui le importazioni dagli USA sono cresciute di oltre il 30% dal 2022. Tracciando una panoramica complessiva, al conflitto in nuce (per il momento limitato al livello commerciale e politico) fra la borghesia USA e quelle del vecchio continente, si aggiungono i crescenti compromessi tra Stato statunitense e russo anche in campo economico ed energetico. L’avvio della guerra mondiale dei dazi si caratterizza, oltre che per l’inasprimento degli accordi di Yalta, anche per il rinvigorimento della dottrina Monroe, prendendo di mira direttamente i due stati limitrofi agli States (Canada e Messico), minacciati di essere colpiti nelle loro esportazioni verso Washington. Per il Canada, i dazi rappresentano anche il tassello di una fase espansionistica che culmina con la minaccia dell’annessione agli Stati Uniti. I continui ripensamenti e poi l’abbassamento dei toni stanno caratterizzando l’atteggiamento delle classi sfruttatrici nord-americane verso il vero nemico: il padronato mandarino. La classe dirigente cinese ha ottenuto dagli USA una retromarcia dietro l’altra sui dazi, come dimostrato dall’ultimo accordo raggiunto nel mese di maggio con la sospensione temporanea e parziale degli enormi dazi che i due Stati si erano imposti a vicenda. In base alle condizioni concordate, infatti, gli USA abbasseranno dal 145 al 30% i dazi sulle merci cinesi, mentre lo Stato cinese, che aveva imposto dazi speculari, li abbasserà dal 125 al 10%. Per il padronato statunitense è l’ennesima resa unilaterale, che mostra l’improvvisazione della strategia dello stato nordamericano, che quando impone i dazi dice che serviranno per la reindustrializzazione e quando li toglie dice che serviranno per favorire il commercio. Negli ultimi mesi, alle atrocità inenarrabili che caratterizzano il proseguimento del primo genocidio automatizzato della storia, si aggiungono i conflitti nelle regioni che insistono attorno allo stretto di Hormuz, come la micro-guerra combattuta fra Stato pachistano e indiano, e la guerra dei 12 giorni di Israele e USA contro l’Iran. Utilizzando l’attrezzo analitico-concettuale delle “strozzature”, per quanto riguarda ad esempio il conflitto fra Pakistan e India, evidenziamo che stagliato sullo sfondo c’è il problema del riequilibrio delle relazioni commerciali tra Stato indiano e statunitense. La tendenza al riposizionamento della borghesia indiana nei confronti degli USA è stata dirompente per gli equilibri del sub-continente. Mentre lo Stato pachistano ha la necessità di un ampio confine diretto con il territorio cinese (fondamentale per uno sbocco diretto sull’Oceano Indiano al fine di superare un eventuale blocco navale dello stretto di Malacca), così la borghesia indiana cerca a tutti i costi di interrompere questo canale di traffico commerciale. Attorno alle strozzature contese fra blocchi di Stati e di capitalismi rivali di Hormuz e di Malacca si stanno spalancando contraddizioni sociali e di classe significative. Basti pensare anche solamente alle enormi mobilitazioni e scioperi in aumento negli ultimi anni ad esempio nel territorio indiano, a partire dalle grosse ondate di scioperi iniziate alla fine del 2020 contro l’introduzione di nuove leggi agrarie, e dove la congiuntura fra la crisi climatica e idrica, il revanscismo dell’ideologia nazionalista indiana e il conseguente riposizionamento delle classi sfruttatrici indù sul piano internazionale della Guerra Grande, nonché la liberalizzazione del mercato del carbone assieme all’eliminazione della legge che vincolava l’uso delle terre al consenso obbligatorio delle popolazioni locali, stanno realizzando sconquassi strutturali rilevanti e un forte inasprimento della lotta di classe. Ma torniamo alla situazione che più riguarda da vicino il territorio che abitiamo e che attraversiamo con un focus sulla situazione groenlandese e delle rotte che attraversano il Mar Artico. La Groenlandia è la nuova isola del tesoro dove le borghesie cinesi, statunitensi, russe ed europee si sfidano fra i ghiacci. Frontiera strategica sulle rotte artiche e ricchissima di terre rare, gas e petrolio, ci sono diversi motivi che hanno scatenato negli ultimi anni un’attenzione crescente attorno a questa isola, e quasi tutti i motivi hanno a che fare con un fattore: il cambiamento climatico. Il riscaldamento globale sta provocando lo scioglimento dei ghiacciai in tutto l’Artico, modificandone i contorni, aprendo nuove possibili rotte commerciali e militari, scoperchiando ricchezze nascoste e giacimenti di “terre rare”. La Groenlandia per la sua posizione geografica è considerata strategica dal militarismo statunitense. L’isola è circondata dagli stretti che introducono ai passaggi a nord-ovest e a nord-est dell’Oceano Artico e, con le rotte nel prossimo futuro sempre più navigabili, gli USA non vogliono che le altre potenze rivali ne approfittino. Lo scioglimento dei ghiacci, inoltre, consentirà sempre di più lo sfruttamento delle risorse minerali presenti nell’isola, ricca di minerali e di metalli rari. Una ricerca del 2023 ha confermato la presenza di 25 dei 34 minerali considerati “materie prime critiche” dalla Commissione europea, tra cui grafite e litio. Ma all’interno del meccanismo delle varie economie di guerra, dove la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari ha un ruolo cruciale nel contribuire allo scontro fra capitalismi rivali (come sta avvenendo in Africa nella corsa all’accaparramento e alla predazione dei terreni necessari per la “sovranità alimentare” delle varie potenze in guerra sullo scacchiere mondiale), così i fondali groenlandesi sono necessari per la pesca, visto che diversi stock ittici si spostano sempre più a nord, rinvigorendo le potenzialità del mercato della pesca di Nuuk. La competizione accesa per il controllo dell’isola più grande del mondo, dei suoi stretti e dei suoi mari (lo stesso Macron è volato a Nuuk il 15 giugno scorso per “difendere l’integrità territoriale” di questo territorio colonizzato dalla Danimarca) accende le contraddizioni sociali sull’isola: aumentano le proteste delle comunità Inuit in conseguenza dell’accaparramento dei territori e delle acque limitrofe all’isola, mentre il tasso di disoccupazione e le carenze sanitarie stanno iniziando a creare segnali di insofferenza nel paese. La regione artica sta emergendo come nuova frontiera della competizione strategica e commerciale. Si stima che l’Artico contenga circa il 13% delle riserve mondiali di petrolio, il 30% di quelle di gas e grandi quantità di risorse ittiche e minerali rari. Stato cinese e Stato russo stanno ampliando le loro operazioni nell’Artico, coinvolgendo le isole Svalbard e l’Islanda. Il controllo del cyber-spazio e dei fondali oceanici è una base fondante per la guerra e per la trasformazione della società e del modo di produzione capitalista verso la fase digitale. Tutti questi punti sono ben visibili per quanto riguarda lo spazio artico dove, data la crescente attività del capitalismo russo e cinese inerente alla logistica digitale attraverso i cavi sottomarini, la NATO sta avviando nuovi progetti che «puntano a rendere internet meno vulnerabile ai sabotaggi, reindirizzando il flusso di dati verso lo spazio in caso di danneggiamento delle dorsali sottomarine». La stessa attività estrattiva in acque profonde potrebbe iniziare già quest’anno. Agli inizi di aprile del 2024, i membri dell’Autorità Internazionale dei Fondali marini (ISA) ha revisionato le norme che regolano lo sfruttamento dei fondali. La nuova corsa all’oro degli abissi è iniziata l’anno scorso con una legge dello Stato norvegese che permette l’estrazione mineraria su scala commerciale. L’impatto (anche) ambientale di queste decisioni comporterà la distruzione di interi habitat, oltre al fatto che il 90% del calore in eccesso dovuto al riscaldamento globale viene assorbito dagli oceani, devastando così l’equilibrio che sorregge la vita in questo pianeta. Sostanzialmente, la guerra al vivente procede e si ramifica in ogni sua forma. La guerra è sempre più palesemente il cuore di questo mondo senza cuore. Mentre i nostri padroni proseguono ad attrezzarsi alla guerra mondiale, la domanda (banale) che poniamo è questa: chi pagherà il riarmo degli Stati e delle borghesie nostrane? Già nei mesi scorsi, in un articolo che non lascia adito ad alcun fraintendimento dal titolo: Europe must trim its Welfare State to build a warfare state, il “Financial Times” sostiene che l’Europa deve ridurre le spese per il welfare per assicurarsi la capacità di sostenere un consistente riarmo. L’accordo per aumentare la spesa militare degli Stati aderenti alla NATO al 5% del PIL deciso al vertice dell’Aia va pienamente in questa direzione, assieme all’estrazione e al furto dei piccoli risparmi privati, già presente nei punti che articolano il riarmo europeo. Ribadendo ulteriormente e con forza che fino a quando esisteranno Stati e capitalismi saranno illogiche le speranze di pace duratura poiché la negazione della guerra implica in primo luogo quella dello Stato e del capitale, dinnanzi a questo mondo di conflitti e di miserie generalizzate che corre verso l’oblio e la propria autodistruzione, la resistenza palestinese (vera e propria forza tellurica che ha ridonato speranza alle classi sfruttate di tutto il mondo), la rivolta di Los Angeles e l’accentuarsi delle insurrezioni, delle mobilitazioni sociali, delle lotte e dei gesti di insubordinazione quotidiana in tutto il mondo sono come lampi premonitori che squarciano l’Ancien régime, segnali che un nuovo assalto proletario ai bastioni dell’alienazione e dello sfruttamento può essere alle porte. Non c’è notte tanto lunga da non permettere al sole di risorgere. «Secondo noi le rivalità e gli odi nazionali sono tra i mezzi che le classi dominanti hanno a loro disposizione per perpetuare la schiavitù dei lavoratori. E in quanto al diritto delle piccole nazionalità di conservare, se lo desiderano, la loro lingua e i loro costumi, ciò è semplicemente questione di libertà, che avrà la sua vera finale soluzione solo quando, distrutti gli Stati, ogni gruppo di uomini, o meglio ogni individuo, avrà diritto di unirsi con ogni altro gruppo o separarsi a piacere.» (Errico Malatesta).
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