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Source - il Rovescio
cronache dallo stato di emergenza
A volte è più che necessario – è vitale – alzare un po’ gli occhi dall’agenda
militante e chiedersi per quale vita ci battiamo, per quali ragioni di fondo, e
con quali mezzi – materiali e ideali – pensiamo di raggiungerla. Per questo
riproponiamo questa vecchia conferenza del nostro amico Massimo, che tocca,
riaggiornandoli alla società tecnologica di massa, alcuni dei nodi fondamentali
dell’anarchismo rivoluzionario. Qual è l’etica su cui si fonda l’anarchismo?
Essa è solo individuale oppure vive anche in una trama di costumi collettivi?
Che forma vi assume il valore dell’uguaglianza? Quale violenza è rivoluzionaria,
e come si giustifica? Quanto può essere rivoluzionaria la non-violenza, e quanto
è fondata la sua pretesa di superiorità morale? Un testo che risponde ad alcune
di queste domande aprendo o lasciandone aperte molte altre, ultima ma
nient’affatto per importanza quella sul “che fare?”. Il cui peso, in questi
ultimi vent’anni, è soltanto cresciuto insieme alla dismisura tecnologica,
giunta oggi a produrre il primo genocidio automatizzato della storia.
L’autorganizzazione come etica, come modo di vivere
Individuo e società, violenza e non-violenza
IL TEMA DI STASERA è l’autorganizzazione come etica, come modo di vivere. Vorrei
cominciare con un passo tratto da Le città invisibili di Calvino:
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già
qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo vivendo insieme. Due
modi ci sono per non soffrirne. II primo riesce facile a molti: accettare
l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. II secondo è
rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper
riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e
dargli spazio.
Ecco, per me questo qualcosa che non è inferno, questo qualcosa da far durare e
a cui dare spazio è un’etica, l’etica della reciprocità. A chi è talmente parte
dell’inferno contemporaneo da non vederlo più non ho nulla da dire. C’è forse
bisogno di dimostrare che quello che chiamano vivere civile è un quotidiano
omicidio di massa, una quotidiana carneficina di dignità, uno spaventoso
accumularsi di protesi tecnologiche che ci rendono ogni giorno più massificati e
allo stesso tempo più isolati?
Più che un ennesimo inventario degli orrori, ciò che serve è cogliere l’essenza
di questo inferno al fine di scorgere, appunto, ciò che non è inferno. E
l’essenza è la divisione in dirigenti ed esecutori, una divisione che la
produzione massificata – dal cibo alle telenovela, dall’energia ai massacri in
mondovisione – ha portato a livelli giganteschi. Nel corso di tutte le società
basate sul dominio – cioè sull’assoggettamento delle popolazioni ad opera di
qualche minoranza – è successo che un elemento di questo dominio abbia preso il
sopravvento su tutti gli altri. È quanto è accaduto con il capitalismo, un
sistema sociale in cui il motivo economico tende a soppiantare tutti gli altri.
Se le conseguenze del capitalismo sono state l’industrializzazione e il
concentramento urbano, è importante coglierne le cause specifiche:
– l’accelerazione enorme del cambiamento tecnico, legata allo sviluppo della
scienza;
– la nascita e il consolidamento dello Stato moderno, centralizzato e
burocratico, base e modello dell’impresa capitalista nascente;
– la creazione della nazione come spazio mercantile e giuridico unificato;
– la nascita di un nuovo tipo umano, in senso antropologico, caratterizzato
dalla mentalità del calcolo e del guadagno, il cui tempo è quello scandito e
misurabile.
La divisione in dirigenti ed esecutori si rafforza con la specializzazione dei
ruoli, la quale tende a soppiantare il comando autoritario con il potere
apparentemente impersonale dell’esperto.
OGGI, ASSISTIAMO ANCORA una volta a uno di questi processi che porta un elemento
del sistema a dominare tutti gli altri. Si tratta del movimento sempre più
autonomo della tecnoscienza, dei suoi apparati, dei suoi linguaggi. Questo
processo, che dalla seconda guerra mondiale ad oggi ha creato una Megamacchina
in cui si sono fusi la ricerca scientifica e l’industria, il sistema militare,
quello politico e mediatico, tende a ridurre ed eliminare il ruolo dell’uomo
nella produzione. L’uomo è da sempre l’elemento più difficile da dominare, ecco
perché il potere ne ha fatto qualcosa – per dirla con Gilnter Anders – di
antiquato. Arginare la resistenza degli sfruttati è stata la preoccupazione
costante che ha unito, in particolare negli ultimi decenni, le esigenze del
profitto e quelle del controllo sociale. Interrogarsi in senso astratto sulla
“tecnica” senza riferirsi alla storia e ai conflitti sociali che hanno fatto del
capitalismo sempre più una società tecnologica è un nonsenso buono per i
sociologi. Allo stesso modo, inorridire di fronte all’inferno delle guerre
telematizzate e degli esperimenti nucleari – oppure, andando indietro, dei campi
di concentramento e di sterminio – senza guardare nel ventre mostruoso da cui
sono nati e nascono ancora è un modo per illudere se stessi.
IL CONTRARIO DELLA DIVISIONE in dirigenti ed esecutori è l’autonomia individuale
e collettiva. E se autonomia significa capacità di dare a se stessi le proprie
regole, un’attività autonoma è un’attività di cui gli individui controllano gli
strumenti e le finalità. Quando gli strumenti agiscono da soli, quando la
specializzazione dei ruoli liquida la comprensione complessiva dei nostri atti e
quindi la coscienza delle loro conseguenze, dov’è l’autonomia? Quando si può
lavorare alla catena di montaggio di una fabbrica di armi con la spensieratezza
di una musica in filodiffusione, dov’è la coscienza? Come collegare i nostri
gesti ai corpi dilaniati da qualche bombardamento con cui la televisione condirà
la nostra cena? Perché porsi il problema, dal momento che, lavoratori salariati,
appariamo socialmente onesti? Fra gli integrati, chi vedrà l’inferno nel nerbo
stesso di ciò che ci tiene insieme?
PENSO CHE L’ETICA DELLA RECIPROCITÀ sia la base che può chiarire il concetto di
autorganizzazione e gettare allo stesso tempo un po’ di luce sul problema della
violenza e della non-violenza.
Autorganizzarsi significa organizzarsi da sé e anche organizzare se stessi – le
due cose vanno assieme ma non coincidono. Per organizzare la propria attività
bisogna organizzare il proprio sapere, il proprio linguaggio, le proprie
capacità manuali e così via. E viceversa, per sviluppare se stessi (per
organizzare le proprie attitudini in modo spontaneo e affinato) occorre poter
agire autonomamente.
Ora, quando parliamo di auto-organizzazione, chi è l’autós, il “se stesso” di
cui si parla, il soggetto che si organizza, appunto, “da sé”? Per non cadere in
visioni astratte e gerarchiche bisognerà rispondere: l’individuo. Anche le
società più totalitarie, infatti, organizzano “se stesse” e si organizzano “da
sé”, in quanto le cause della loro continua auto-istituzione sono immanenti, non
provengono da nessun al di là. Solo che al loro interno una minoranza comanda e
la massa ubbidisce, allo stesso tempo attiva e passiva, complice e vittima.
Prima ho detto: l’individuo, ma avrei potuto dire: gli individui. Per l’uomo che
nasce, il dato del mondo che lo accoglie è la pluralità degli uomini, tutti
diversi e tutti unici, come si rivela anche solo allo sguardo. Se, come diceva
Hannah Arendt, l’azione è la risposta tipicamente umana al fatto di essere nati,
l’introduzione della novità e della discontinuità in un ordine già-fatto, la
reciprocità è la condizione che assume fino in fondo la pluralità degli uomini,
per cui dire “individuo” significa sempre dire “individui”. L’etica della
reciprocità afferma: come tu a me, così io a te. Facendo dell’uguaglianza il
luogo in cui si esprimono le differenze, essa coniuga l’universalismo con
l’affermazione dell’unicità dell’individuo. L’unica cosa che ci rende davvero
uguali, l’unico dato davvero comune, universale, è il fatto che siamo tutti
diversi. A questo proposito, è comico e tragico insieme vedere come i sociologi
di sinistra siano incapaci di andare oltre le risposte impacciate e false nei
loro colloqui con i nuovi teorici del razzismo, i quali, abbandonati i rozzi
appelli alla biologia (la pelle, il sangue, eccetera), parlano di diversità
culturale e accusano l’universalismo di distruggere le differenze reali
(etniche, storiche, eccetera). Non riferendosi all’unica universalità concreta –
l’individuo – questi sociologi non sanno attaccare la menzogna di fondo del
nuovo razzismo: le differenze di cui esso parla sono sempre collettive, e cioè
sono identità monolitiche per gli individui presenti all’interno di una stessa
“cultura”, di una stessa “nazione” e così via. Ma questo sarebbe un discorso
lungo; ho voluto solo accennarvi.
L’ETICA DELLA RECIPROCITÀ è un’etica per cui “giusto” non è fare questo o
quello; “giusto” non è il costume di una comunità piuttosto che quello di
un’altra: giusto è ciò che permette alle diverse concezioni individuali di ciò
che è giusto e sbagliato di esprimersi. Relativismo assoluto che accetta
qualsiasi cosa e il suo contrario? Nient’affatto. Si tratta di un metodo che
nega ogni sopraffazione e ogni dominio, dell’intolleranza assoluta verso ogni
regola imposta dall’esterno.
Il dominio si caratterizza soprattutto per l’usurpazione di facoltà collettive
da parte di una minoranza. Benché la violenza ne sia il fondamento (nessun
potere gerarchico si regge senza il gendarme), violenza e dominio non sono
sinonimi. Vi sono metodi di dominio in cui la violenza in senso stretto
(inflizione, reale o minacciata, di sofferenza fisica) non è presente, perché la
loro natura è più subdola (pensiamo, ad esempio, alla pubblicità); così come
esiste una violenza che non è finalizzata al dominio, bensì alla liberazione dal
dominio. Ma su questo ritornerò. In generale, penso si possa definire violenza
in senso più profondo la negazione sistematica della reciprocità, cioè
l’imposizione unilaterale delle condizioni. Tutto ciò che accetto di compiere
spinto dalla necessità (politica e non “naturale”) di sopravvivere, non lo
accetto forse sotto minaccia? Non è uno stato di necessità che mi fa subire
“accordi” che non ho mai sottoscritto né condiviso e che chiamano “leggi”? Non è
per questo che svolgo un’attività lavorativa di cui non capisco il senso, di cui
non controllo le conseguenze e i cui effetti mi possono anche sembrare
socialmente nefasti? Se non mi ribello ogni volta che ne ho l’occasione, non è
forse per paura? Quello che passa per lo più per non-violenza è questa paura di
fronte alla violenza, è il fatto di rimanere alla finestra mentre l’inferno
continua. In tal senso, il 99% dei nostri contemporanei è composto da
“non-violenti”. Vi sembra una provocazione?
Se la reciprocità è il metodo per una comune libertà individuale, allora
l’autorganizzazione ne è la forma sociale. Autorganizzazione come etica sociale,
allora, come modo di vivere, le cui condizioni sono il dialogo reale, la libera
assemblea, il rifiuto di ogni rappresentanza irresponsabile. E non è forse
irresponsabile votare qualcuno ogni cinque anni senza poter incidere su quello
che ha fatto prima de! nostro voto né su quello che farà dopo? E pensare che
chiamano ciò “elezione”, cioè scelta in senso forte! Un modo autonomo di
organizzarsi presuppone non già il rifiuto di ogni forma di suddivisione dei
compiti, ma il rifiuto della loro specializzazione gerarchica e incontrollabile
– oggi potremmo aggiungere, pensando alle conseguenze della tecnologia sulla
natura e sulla specie umana: irreversibile. In una tale autonomia mi sembra
coincidere l’autentica paideia, come dicevano i Greci, cioè l’autoeducazione
degli individui. Se teniamo presente la definizione di azione come discontinuità
di un ordine già-fatto, pensiamo a come si svolgono le nostre giornate, fra
continui obblighi impersonali eppure terribilmente concreti, e chiediamoci:
quand’è che agiamo? Quand’è che le nostre parole e i nostri gesti modificano,
nel senso dell’autonomia, il mondo in cui viviamo? II mondo lo trasformiamo
eccome, e sempre più in modo globale, solo che siamo prigionieri dei nostri
cambiamenti. Ascoltiamo Anders:
Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo
cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è
anche d’interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento.
Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si
cambi in un mondo senza di noi.
INDIVIDUO E SOCIETÀ, VIOLENZA E NON-VIOLENZA. Una società libera è una società
di cui gli individui autocreano continuamente gli accordi, i saperi, i
linguaggi. Una società che ha liquidato ogni violenza strutturate è una società
basata sulla reciprocità. Il contrario di reciprocità è unilateralità, cioè
sfruttamento degli uni da parte degli altri. Fin in epoca moderna, il concetto
di “società” sottolineava l’aspetto volontario e non-violento, cioè reciproco,
degli accordi fra individui. Diversamente, infatti, si sarebbe sudditi, non
soci. Voglio soffermarmi ancora sulla nozione di etica, prima di affrontare il
tema della violenza e della nonviolenza.
CI SONO DUE SIGNIFICATI che, fin dall’antichità, coabitano nel concetto di
etica. L’etica è qualcosa di profondamente individuale – Eraclito diceva «etica
è a ciascuno il suo demone», e il demone è il proprio modo di essere, sia nelle
sue determinazioni coscienti sia nei suoi aspetti più oscuri ed enigmatici.
Questo demone non è un giudice che detta le sue leggi, come sostiene una ben
nota tradizione filosofica, ma una voce che ora parla per allusioni, ora urla
con la forza dell’evidenza. I suoi sono geroglifici dell’anima, e l’anima,
diceva ancora Eraclito l’oscuro, non ha confini. L’etica non è un’insieme di
norme, dunque, ma una continua esplorazione. Ma l’etica – l’ethos – è anche
qualcosa di collettivo, attinente ai costumi, ai saperi, al modo di abitare –
insomma, è quello che si definisce per lo più “morale”, per quanto i due termini
siano il secondo la trascrizione in latino del primo (mores e ethos sono,
infatti, sinonimi).
Perché queste precisazioni? Non per uno di quei vani esercizi di etimologia con
cui si sostiene tutto e il suo contrario, ma per chiarire che quando parlo di
un’etica della reciprocità parlo di qualcosa di profondamente personale e
insieme di un luogo collettivo, quello dell’autorganizzazione delle lotte e
della vita. E chi dice lotta e vita, dice rapporti, saperi, linguaggi, tecniche.
Quest’etica deve essere “globale” perché le conseguenze dei nostri gesti lo
sono, nel tempo come nello spazio. Essa afferma, come Ugo da San Vittore faceva
nel XIII secolo:
L’uomo che trova dolce il luogo natale è ancora un tenero principiante; quello
per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già più forte; ma perfetto è quello
per cui l’intero mondo è un paese straniero.
Questo è il solo modo che trovo di essere solidale con chi è clandestino e con
tutti gli umiliati della Terra. Nel mondo della reciprocità non esistono
stranieri perché non ci sono cittadini. Il luogo dell’ethos va pensato in senso
non territoriale. L’etica della reciprocità emerge là dove il dialogo forgia le
sue armi e sovverte l’ordine delle cose; ancora una volta,
nell’autorganizzazione. Ma di questo – dell’autorganizzazione come metodo di
lotta e come pratica sociale – parleremo durante le prossime serate.
L’autonomia reale è un modo dì vivere il rapporto fra ciò che è pre-individuale
e ciò che è individuale. Pre-individuale è tutto quello che è comune e generico,
come le facoltà biologiche della specie umana, la lingua e i rapporti sociali
che troviamo quando nasciamo. Individuale è ciò che strappiamo con la nostra
azione. Noi diventiamo individui attraverso il nostro modo di entrare in
rapporto con la natura e con la storia.
Autonoma è una società in cui tale rapporto non è fissato in nessuna istituzione
esterna – come lo Stato o l’impresa capitalista – all’azione reciproca degli
individui; in cui la discussione, l’amore, il gioco, il conflitto e la
riproduzione delle condizioni materiali sono attività fra loro armoniche; in cui
non esistono un’economia, una politica, un’arte o una scienza come sfere
separate della vita.
ANCORA DUE PAROLE SU individuo e società. Si sa che secondo le varie teorie del
contratto sociale gli individui avrebbero rinunciato, a un certo punto della
storia, alle loro libertà naturali in cambio della protezione fornita dalla
società politica, cioè dallo Stato. Vi siete mai chiesti con che lingua comune
hanno potuto mai stipulare un simile contratto dal momento che essi vivevano
fuori della società? Il libero accordo non è l’inizio, bensì il risultato mai
raggiunto di una lunga esperienza sociale. Reciprocità significa: la mia libertà
esiste solo grazie alla libertà degli altri.
Penso che una vita piena sia una vita che sa mescolare con arte il piacere della
solitudine e il piacere dell’incontro. La società massificata distrugge
entrambi. Qualcuno ha parlato opportunamente, rispetto alla vita contemporanea,
di eremiti di massa. Siamo continuamente socializzati in un sistema-mondo dalla
pubblicità e dalle mille protesi tecnologiche e allo stesso tempo siamo separati
dai nostri simili. Gli spazi privati e quelli pubblici sono sempre più
indifferenziati e sempre più anonimi. Dopo la natura selvaggia, è scomparsa ogni
agorà e ogni libera assemblea. Credo che una nuova solitudine e una nuova
socialità nasceranno insieme, oppure ogni individualità diventerà antiquata.
E VENIAMO ORA ALL’ULTIMA QUESTIONE: violenza e non-violenza. Quelle che seguono
sono solo alcune banalità di base per cominciare a discutere davvero. Mezzi e
fini: questa è, si dice, la politica. L’esperienza tragica almeno dell’ultimo
secolo ci insegna che non ci può essere separazione fra mezzi e fini, che i
mezzi contengono già i propri fini. All’autonomia si giunge solo con
l’autonomia. All’autorganizzazione della vita si arriva solo autorganizzando le
lotte. Occorre ancora dimostrarlo? Non lo hanno già fatto la dittatura
stalinista e la lunga storia del parlamentarismo? Tagliamo corto: chiunque parli
di società non-violenta senza riferirsi esplicitamente alla demolizione dello
Stato e del capitalismo ha non uno, ma tanti cadaveri in bocca. Uno Stato
non-violento è una contraddizioni in termini. Il Diritto lo sa, e infatti parla
di monopolio legittimo della violenza. Legittimo? E chi lo dice? Lo Stato. II
non-violento ci crede. Nel migliore dei casi ha preso per buona l’immagine che
questa società dà di se stessa, quella di un pacifico mercato interrotto,
ahinoi, da qualche violenza. Se l’etica non ha nulla a che vedere con il diritto
– ché ubbidendo alle leggi si diventa oggi più che mai dei complici
nell’omicidio di massa –, la non-violenza non ha nulla a che vedere con il
codice penale. «Il nonviolento è tale solo quando rischia più del violento»,
scrive un compagno – Vincenzo Guagliardo – incarcerato da quasi vent’anni per
aver partecipato alla lotta armata. Da anni impegnato a trovare dei modi di
lotta per ridurre il più possibile la violenza nel mondo e per abolire ogni
logica sacrificale, ha scritto dopo Genova che serve a poco sfidare le zone
rosse se non si disertano le zone grigie. La zona grigia, nel linguaggio di
Primo Levi, è quella della collaborazione fra alcuni internati nei Lager e i
loro carnefici e, più in generale, fra un popolo e i suoi oppressori. Non è
ancora oggi la nostra collaborazione la zona grigia che fa continuare l’inferno?
E allora si può essere non-violenti senza rifiutarsi di collaborare con lo
Stato? Si può essere non-violenti e appoggiare chi bombarda intere popolazioni,
affama e desertifica paesi interi, oppure rinchiude chi non ha i documenti in
regola? Si può essere non-violenti ed accettare il carcere?
Il fine della non-violenza non può essere che una società senza Stato e senza
dominio. Utopia? Certo, e bisogna scegliere fra etica e realismo politico.
Penso che tutto quello che tende concretamente verso una tale società sia
liberazione in atto. Si potrà forse realizzarla, una simile società, senza
scontrarsi con la polizia? Così scriveva Aldo Capitini, uno dei maggiori teorici
della non-violenza in Italia:
La nonviolenza non è appoggio all’ingiustizia… Bisogna aver chiaro che la
nonviolenza non colloca dalla parte dei conservatori e dei carabinieri, ma
proprio dalla parte dei propagatori di una società migliore, portando qui il suo
metodo e la sua realtà… La nonviolenza è il punto della tensione più profonda
del sovvertimento di una società inadeguata.
Capitini, ma potremmo citare lo stesso Ghandi, propugnava il sabotaggio delle
strutture oppressive come metodo di lotta non-violenta? Che dicono i
“nonviolenti” che urlano al terrorismo, cioè alla violenza cieca e
indiscriminata, quando qualcuno sabota una centrale nucleare o un laboratorio di
biotecnologie? Simili azioni producono o distruggono la violenza? Non-violenza è
qui un altro nome per ignavia e viltà.
IL PUNTO È CHE TUTTI I DIFENSORI DELL’ORDINE definiscono non-violenza il
rispetto della legalità e del dialogo democratico. Quasi tutti quelli che si
chiamano nonviolenti accettano questa mistificazione. Eppure le maggiori
violenze commesse dallo Stato sono perfettamente legali, cioè giuridicamente
giustificate, per il semplice fatto che è la forza (non solo in senso militare,
ma economico, mediatico, sociale) a fondare il Diritto. Il “dialogo
democratico”, poi, è il contrario esatto di un dialogo reale: per dialogare
veramente, lo abbiamo visto, bisogna essere in una condizione di reciprocità. Se
qualcuno ha il potere di imporre unilateralmente le domande, le risposte gli
saranno sempre funzionali. In quel caso si può dire che le domande si rispondono
da sole. Un generale americano e un ragazzo afghano possono dialogare nella
misura esatta in cui Agnelli e i suoi operai in sciopero sono uguali di fronte
alla legge.
“Violento”, “terrorista” è oggi chiunque rifiuti il dialogo con le istituzioni,
chiunque distrugga anche solo le macchine per far parlare gli uomini. Chi
comanda, definisce il senso delle parole. Chi definisce il senso delle parole,
comanda.
Perché per i dirigenti è così importante imporre il loro senso alle parole?
Perché sanno che una ribellione contro la legge è una possibilità che esiste
concretamente nel mondo; perché sanno che dove gli umiliati, i dominati, gli
sfruttati dialogano realmente non c’è spazio per il dialogo fittizio della
democrazia. Per questo i libertari fanno paura, perché l’autorganizzazione di
cui parlano esiste già.
Mi pongo e vi pongo un ultimo interrogativo: è sufficiente limitarsi a
distruggere le strutture oppressive quando la polizia spara e tortura, quando
gli stermini continuano in ogni parte del pianeta?
E su questo lascio ancora la parola a Günter Anders, che così scriveva nel 1987,
a ottantacinque anni, dopo aver vissuto il nazismo, Hiroshima, il Vietnam e
Chernobyl.
Dal momento che non ci è concesso di restare indifferenti di fronte alla nostra
fine e a quella dei nostri figli – una tale indifferenza sarebbe omicida – non
dobbiamo neanche rifiutare la lotta contro gli aggressori con l’argomentazione
secondo cui il comandamento `Non uccidere” non ammette alcuna eccezione. Esso
l’ammette. Anzi l’esige. E ciò nel caso in cui attraverso l’atto-eccezione
vengano salvati più uomini di quanti ne muoiano a causa sua. Dobbiamo cioè
accettare la guerra a cui siamo costretti. E questo – noi non saremmo certamente
i primi, ma saremmo certamente gli ultimi! – con la stessa disperata risolutezza
con cui mezzo secolo fa migliaia di uomini e donne nei Paesi europei oppressi da
Hitler hanno (o avrebbero) dovuto accettare la lotta contro la politica di
sterminio del nazionalsocialismo.
Ancora oggi, perfino fuori della Francia, la parola résistance non ha perduto il
suo bel suono. Dovremmo forse vergognarci di fronte alla generazione d’allora?
Allora, infatti, furono solo i più ignobili ad avere il «coraggio della viltà»:
ossia il coraggio a non opporre nessuna resistenza, vantandosi persino, come
fanno oggi certi oppositori al nucleare, di limitarsi alla ‘resistenza
nonviolenta’ per motivi giuridici, morali o religiosi. A causa di una tale
autolimitazione perirono allora un gran numero di persone. Oggi si tratta di un
numero incomparabilmente più grande di allora. Perché il pericolo di oggi non
solo è più grande di allora, ma è – il comparativo non basta più – totale. E
potrebbe essere definitivo.
Per questa ragione noi contemporanei possiamo permetterci ancor meno di
accontentarci di ‘happenings’, o addirittura vantarci di un tale accontentarsi.
Piuttosto, adesso dobbiamo invece cercare di combattere gli odierni nemici e
aggressori con la medesima mancanza di riguardi con cui quarantacinque anni fa i
partigiani cercarono di combattere, di indebolire o di uccidere gli occupanti e
oppressori nazionalsocialisti dei loro Paesi. E pertanto anche noi dobbiamo
sentirci in dovere di diventare dei partigiani.
Rovereto, 28 novembre 2002
Massimo Passamani
[Conferenza nell’ambito dell’iniziativa UN’UTOPIA AGITA IL MONDO. Cinque
incontri sull’autorganizzazione. Rovereto, 28 novembre – 19 dicembre, sala di
Palazzo Balista, corso Rosmini 13
Giovedì 28 novembre 2002, ore 20:30]
Riceviamo e diffondiamo:
PRESIDIO SOTTO LE MURA DEL CPR DI CORSO BRUNELLESCHI
SABATO 26 APRILE ORE 14:30
appuntamento in Corso Brunelleschi angolo Via Monginevro
La violenza dello Stato e delle sue leggi razziste e repressive, fatte
di detenzione, deportazioni e plotoni di sbirri, trova nelle lotte delle
persone recluse nei CPR una quotidiana resistenza. Scioperi della fame,
evasioni e rivolte sono la quotidianità da Trapani a Gradisca. Il
coraggio dei reclusi ha la forza di chiudere intere aree di questi lager
di Stato, talvolta determinandone la chiusura come accaduto a Torino
solo 2 anni fa.
Nuove prigioni e nuovi strumenti repressivi provano a soffocare ogni
possibilità di contrapporsi ad un futuro fatto di razzismo e guerre.
Costruire legami di solidarietà reale con chi è recluso e decide di
resistere e lottare ma anche sostenere, alimentare e prendere esempio da
quel coraggio e quella rabbia è il primo passo per non lasciarsi
travolgere da un orizzonte mortifero.
Per la libertà
Contro la violenza dello Stato
I CPR si chiudono col fuoco
Riceviamo e diffondiamo
Qui dettagli e programmi delle
iniziative: https://gancio.cisti.org/event/due-giorni-di-fuoco
Riceviamo e diffondiamo questa utile panoramica delle riconversioni belliche, in
Italia e non solo:
Anche su https://piccolifuochivagabondi.noblogs.org/riconversioni-belliche/
AL MERCATO DELLE RICONVERSIONI BELLICHE
Nella chiave della competizione inter-imperialistica per il dominio dei mercati
e la spartizione delle risorse, in un quadro che vede mutare gli assetti
geopolitici globali, si afferma la corsa al riarmo europeo. Mentre si cerca di
abituare l’opinione pubblica al fatto compiuto, e cioè che in guerra ci siamo
già anche se i missili ancora non esplodono sulle nostre case; mentre gli Stati
europei – dai Paesi scandinavi alla Francia – forniscono ai loro cittadini
dépliant con le informazioni su cosa fare in caso di conflitto o guerra
nucleare; e mentre alcune nazioni stanno pensando di accrescere il numero dei
loro riservisti e di ricorrere nuovamente alla leva militare… si sta affermando
l’idea che anche le aziende in crisi debbano essere riconvertite alla produzione
bellica.
Tra le prime, Volkswagen ha mostrato crescente interessamento. Pur riconoscendo
che una completa conversione alla produzione bellica richiederà anni, l’azienda
tedesca vuol tornare a fornire motori e trasmissioni per veicoli militari
collaborando con la conterranea Rheinmetall, come aveva già fatto durante la
seconda guerra mondiale quando collaborò coi nazisti.
Aziende come Rheinmetall, leader in Europa nella produzione di munizioni e
armamenti terrestri tra cui i carri armati Panther, e KNDS Group, joint venture
franco-tedesca specializzata in veicoli corazzati ed esplosivi con un fatturato
di 3 miliardi di euro, stanno già riconvertendo impianti civili, non solo
automobilistici, in linee di produzione bellica.
Il CEO di Rheinmetall, Armin Papperger, ha indicato che lo stabilimento di
Osnabrück di Volkswagen sarebbe “molto adatto” per la produzione di veicoli
blindati Lynx, a condizione di ricevere ordini per almeno 1.000 unità. Proprio
Rheinmetall ha realizzato una joint venture con l’italiana Leonardo per fornire
280 nuovi carri armati Panther e oltre mille veicoli blindati Lynx all’Esercito
italiano, una commessa da 23,2 miliardi di euro. Metà della produzione sarà
fatta da Leonardo in Italia. Parteciperà a questo progetto, con un contratto di
fornitura per circa il 15% del valore, anche Iveco Defence Vehicles (IDV)
controllata da Exor, la finanziaria olandese della famiglia Agnelli.
Leonardo e Rheinmetall vorrebbero partecipare al progetto per il futuro carro
armato pesante europeo, detto Mbt o Mgcs, un progetto lanciato da Francia e
Germania, che si scontra però con gli interessi anche della franco-tedesca KNDS,
holding che unisce la francese Nexter e la tedesca Krauss-Maffei Wegmann.
Un’altra società tedesca, la Helsoldt, che si occupa di elettronica per la
difesa, di cui è azionista Leonardo con il 22,8%, ha comprato una fabbrica di
elettrodomestici Bosch con 400 lavoratori annessi per riconvertirla.
La franco-tedesca KNDS, che produce il carro armato Leopard e il veicolo da
combattimento Puma, ha recentemente acquisito un’ex fabbrica ferroviaria a
Görlitz, in Germania, per espandere la sua capacità produttiva.
Anche l’ex insediamento Winchester di Anagni (Frosinone), nella Valle del Sacco
in Ciociaria, verrà riconvertita da KNDS Ammo Italy (ex Simmel Difesa) in una
fabbrica per produrre nitro-gelatina e polveri di lancio per proiettili. 11
nuovi capannoni su un’area di circa 2500 metri quadri per potenziare la filiera
delle armi1. Il paradosso sta che fino ad ora nell’ex stabilimento laziale di
Anagni si provvedeva al disinnesco dei proiettili scaduti. Tra Anagni e la
vicina Colleferro – dove KNDS possiede già uno dei più importanti stabilimenti
per il caricamento, per la produzione e per i test di munizioni e bombe –
arriverà a fabbricare fino a 3 tonnellate di esplosivo ogni giorno. Nel 2023 vi
era stata la visita del commissario europeo al mercato interno, Thierry Breton,
allo stabilimento dei Colleferro, che aveva espressamente richiesto di
incrementare la produzione per missili e proiettili con cui riempire gli
arsenali europei. La riconversione dello stabilimento di Anagni, che dovrebbe
iniziare la produzione a partire dalla primavera 2026, si inserisce pienamente
nel quadro del piano “ReArm EU” ma ha anche ricevuto un finanziamento europeo di
41 milioni di euro dopo l’approvazione dell’ASAP (Act Support Ammunition
Production)2. L’ASAP è la legge europea, varata nel maggio 2023 e confermata a
marzo 2024 con l’impegno di 500 milioni di euro del bilancio UE, per potenziare
la produzione di esplosivi, polvere da sparo e munizioni dopo l’invasione russa
dell’Ucraina. L’ASAP ha calcolato che entro la fine del 2025 saranno 2 milioni i
proiettili che dovranno essere prodotti all’anno dalle industrie europee. 4,300
tonnellate l’anno gli esplosivi.
Attraverso l’ASAP la Commissione Europea ha selezionato una trentina di progetti
per sostenere l’industria bellica europea della produzione di polveri e
munizioni. In un primo tempo il maxiappalto riguardava solo le imprese europee,
ma a causa del mancato raggiungimento del numero previsto di munizioni da parte
dell’industria europea, ora i fondi UE possono essere usati per comprare
munizioni anche da Paesi terzi, con gli Stati Uniti ovviamente a farla da
padrone (con la seconda elezione di Trump, gli Stati Uniti non solo pretendono
che la UE acquisti il loro gas GNL ma anche le loro armi).
I 31 progetti industriali finanziati dall’UE coinvolgono Grecia, Francia,
Polonia, Norvegia, Italia, Germania, Finlandia, Slovacchia, Lettonia, Romania,
Repubblica Ceca, Spagna e Slovacchia. Oltre la KNDS Ammo Italy, tra questi 31
progetti finanziati dall’UE vi è anche quello presentato dalla bolognese
Baschieri&Pellagri, del gruppo della Fiocchi Munizioni Spa di Lecco. Il progetto
della Baschieri&Pellagri è stato finanziato con 3,7 milioni di euro e consiste
nella produzione di polvere da sparo per i proiettili.
Ritornando all’industria dell’automotive, non possiamo non citare il caso
dell’italo-olandese Stellantis (ex Fca-Fiat) del presidente John Elkann, della
famiglia Agnelli, che vive una crisi acuta, con un forte calo della produzione
automobilistica nazionale, e che potrebbe essere interessata da un piano di
riconversione sostenuto dai ministeri della Difesa e dell’Economia. Annunciato
dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, un piano per
rilanciare la filiera dell’auto prevede un finanziamento di 2,5 miliardi di euro
con fondi pubblici entro il 2027, con l’obiettivo di diversificare la produzione
coinvolgendo il settore auto nel cosiddetto “dual use”, ovvero l’utilizzo delle
stesse infrastrutture per scopi civili e militari.
Per Stellantis si parla di un ruolo di consulenza ingegneristica, ma forse anche
della riconversione di uno o più stabilimenti per la produzione di mezzi
militari o componentistica. Fra le ipotesi alla studio, per intercettare la
pioggia di miliardi del riarmo UE, c’è la riconversione dello stabilimento di
Termini Imerese (Palermo).
Per facilitare l’intesa il governo Meloni vuole superare il cosiddetto piano
green deal lanciato nel 2019 dalla Commissione europea, almeno per quanto
riguarda il settore auto. Le regole europee oggi impongono la riduzione della
produzione delle auto a combustione per ridurre le emissioni di gas serra e
contenere il riscaldamento globale entro +1,5°C rispetto ai livelli
preindustriali. Il che significa riconvertire il settore auto nell’elettrico,
settore nel quale l’Italia (ma anche la stessa Europa) è piuttosto indietro
rispetto a Paesi come la Cina. Anche i dazi minacciati da Trump sui prodotti
importati dai Paesi europei hanno giocato un ruolo sulla decisione di sospendere
le regole europee per il green deal, dato che tra i settori colpiti da questa
nuova guerra commerciale c’è senz’altro il mercato dell’automotive. Ma la vera
ragione della sospensione del green deal è un’altra. Come ha ricordato molto
chiaramente l’ex ministro dell’ambiente e della transizione ecologica nel
governo Draghi, Roberto Cingolani, oggi amministratore delegato della più grande
società bellica italiana, la Leonardo, società che stima ordini per 118 miliardi
fino al 2029 con l’obiettivo di raggiungere ricavi superiori a 26 miliardi entro
la fine del decennio, “il Green Deal era importante in tempi di pace, ora ci
sono altre priorità”.
Ricordiamo, sempre della famiglia Agnelli, anche il ruolo di Iveco Defense. Già
pienamente operativa nel settore militare, lo è ancora di più dopo un accordo
con Leonardo siglato a novembre 2024.
Non sarebbe certo la prima volta che l’industria civile si presta alle esigenze
militari. A Bolzano nel 1939 l’allora stabilimento Fiat si convertì alla
produzione di autocarri militari. E non è l’unico caso. A ottant’anni dalla fine
della Seconda guerra mondiale, i nomi che ritornano sono sempre quelli: Famiglia
Agnelli, Volkswagen, Krupp.
Le riconversioni verranno giustificate – è la facile previsione – con il
pretesto di impedire la chiusura di stabilimenti e la perdita di posti di
lavoro. É la giustificazione che è stata usata, per esempio, a castelfranco
Veneto (Treviso) per la riconversione in industria bellica della Faber, che ha
cominciato a produrre bossoli e ogive, mentre prima produceva bombole d’ossigeno
e a gas.
A questo punto con buona probabilità anche i sindacati confederali
collaboreranno alla militarizzazione del lavoro, cosa che stanno già facendo nel
caso proprio della Faber, con la Fim Cisl di Treviso che ha sostenuto
apertamente il progetto di riconversione bellica, fino al punto di proporre la
riconversione ad uso militare anche delle vicine industrie della Berco, azienda
del gruppo tedesco dell’acciaio Thyssenkrupp (quest’ultimo attivo anche nel
settore bellico), che produce cingolati per trattori e che vuole ridimensionare,
con procedure di licenziamento aperte, le sedi produttive italiane di
Castelfranco Veneto, Copparo e Bologna. Secondo i giornali locali veneti gli
operai di Castelfranco Veneto, in cassa integrazione da molti mesi, sarebbero
persino favorevoli, pur di non perdere il posto di lavoro e mettere un pezzo di
pane a tavola. Dai cingolati per i trattori a quelli per i carri armati è un
attimo. Tra l’altro gli stabilimenti veneti sia della Berco che della Faber
nascono dallo scorporo dell’azienda bellica Simmel Difesa e le macchine per
produrre armamenti pare si trovino ancora all’interno degli stabilimenti.
Condotte come quelle della Cisl trevigiana non sono casi isolati. Già nel 2021 i
responsabili locali della Fiom-Cgil palermitana dichiararono che la costruzione
di navi da guerra, motovedette e portaerei nei Cantieri Navali di Fincantieri a
Palermo “avrebbe portato ulteriore lavoro, stabilità lavorativa e benefici
economici per tutta la città”. Sindacalisti per la guerra.
PiccoliFuochiVagabondi
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1 www.peacelink.it/disarmo/a/50660.html
2
https://defence-industry-space.ec.europa.eu/eu-defence-industry/asap-boosting-defence-production_en
https://www.lindipendente.online/2025/04/21/la-casa-bianca-pubblica-versione-sullorigine-del-covid-e-le-politiche-pandemiche/
Riceviamo e diffondiamo:
Riceviamo e diffondiamo
Cosa c’entra l’incidente ferroviario di Tempe (Larissa, Tessaglia, 28 febbraio
2023), un’orribile strage di Stato cui è seguita un’intensa mobilitazione da
parte della popolazione greca, e la gestione autoritaria, militarista e
criminale del Covid-19? Ce lo spiegano due antropologi greci, opportunamente
introdotti dalla nostra amica antropologa Stefania Consigliere.
Da
https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/30104-eri-samikou-e-lazaros-tentomas-antigone-in-grecia-dalla-pandemia-di-covid-19-sino-a-tempe-la-verita-sepolta-dal-silenzio-di-stato.html
ANTIGONE IN GRECIA: DALLA PANDEMIA DI COVID-19 SINO A TEMPE, LA VERITÀ SEPOLTA
DAL SILENZIO DI STATO
ERI SAMIKOU E LÁZAROS TENTOMAS
Gli anni post-pandemici hanno reso evidente la disturbante continuità nelle
strategie politiche: dalla comunicazione propagandistica alle priorità
economiche, dalla militarizzazione di ogni piega della vita all’uso sfacciato
della necropolitica, dalla criminalizzazione del dissenso alla manomissione del
bene pubblico. A livello alto, una linea ininterrotta collega Covid-19, Ucraina
e Gaza; a livello medio, essa unisce le politiche vaccinali del blocco
atlantico, la corsa al riarmo dell’UE e la soppressione delle ricerche
accademiche su disuguaglianza, razzismo e violenza strutturale; ma anche a
livello spicciolo, su quella stessa linea inciampiamo ogni volta che sentiamo
erosi i margini della vita quotidiana, dei legami di affetto e di senso,
dell’autonomia individuale e collettiva. È qui che dobbiamo allenarci per
tornare a sentire che niente può giustificare l’abbandono del minimo sindacale
che ci rende umani: la cura dei nuovi nati, la cura delle ecologie collettive,
il saluto ai morti. In questo articolo, apparso sui siti greci Kosmodromio e
Edromos, due antropolog* dell’università di Atene mettono a confronto le
politiche pubbliche e sanitarie in risposta a un tragico incidente ferroviario
con quelle che, pochissimi anni prima, hanno deciso della vita dell’intera
nazione (Stefania Consigliere)
Il 28 febbraio 2023 la Grecia ha vissuto uno dei disastri ferroviari più gravi
della sua storia, quando un treno passeggeri si è scontrato frontalmente con un
treno merci vicino a Tempe, nella Grecia centrale. La collisione si è verificata
poco prima di mezzanotte, sulla tratta Atene-Salonicco e ha causato un grave
deragliamento e un enorme incendio che ha avvolto diverse carrozze, portando
alla morte orribile di decine di passeggeri.
Le carrozze anteriori sulle quali viaggiavano soprattutto giovani, compresi
studenti universitari di ritorno dalle vacanze, hanno subito l’impatto più
violento. Ufficialmente, almeno 57 persone sono state registrate come decedute,
ma numerosi indizi lasciano supporre che il numero delle vittime sia maggiore.
Le indagini hanno rivelato che non si tratta solo del risultato di un errore
umano, ma di un crimine di Stato, poiché il Governo e le autorità competenti
erano consapevoli delle importanti carenze in materia di sicurezza all’interno
del sistema ferroviario greco. Le strutture della rete erano obsolete, e i
controlli automatizzati inadeguati, nonostante le ripetute segnalazioni da parte
dei ferrovieri. Dopo la tragedia, ci sono state accuse di insabbiamento, poiché
dai rapporti è emerso come il sito dell’incidente sia stato rapidamente sepolto
dai detriti (probabilmente in presenza di alcuni resti umani ancora sul posto)
nel tentativo di eliminare le prove. I sopravvissuti e i familiari delle vittime
hanno accusato le autorità di un’assenza di trasparenza nelle procedure di
identificazione dei cadaveri, lasciando molte questioni irrisolte.
Nel gennaio 2025, in una dichiarazione ai media, l’avvocato di Maria Karystianou
– la presidente dell’Associazione delle Famiglie delle Vittime e dei
Sopravvissuti nell’incidente di Tempe, che perse sua figlia nella catastrofe –
ha denunciato la mancanza di risposte, da sei mesi, in merito alla «illegittima
mancanza di alcuni rapporti medico-legali, al rifiuto di prelevare campioni
biologici inclusi i test tossicologici, e alla redazione di rapporti
medico-legali quasi identici tra loro che individuano un’unica causa di morte».
Nel dicembre 2024, il giudice istruttore aveva già respinto la richiesta di
Panagiotis Aslanidis, il padre di una vittima, che chiedeva l’esumazione del
corpo di suo figlio per un’analisi del DNA e la conduzione di esami biochimici a
conferma della sua identità.
I corpi delle vittime rimangono al centro delle domande di verità e giustizia.
Tuttavia, una rete governativa, mediatica e medico-legale sembra agire
orchestrando sistematicamente l’occultamento delle prove.
In un’intervista recente a Libération, Maria Karystianou ha espresso la profonda
sfiducia nel sistema giudiziario greco da parte delle famiglie delle vittime:
«Non abbiamo più fiducia nella giustizia del nostro Paese». Maria Karystianou ha
denunciato la mancanza di trasparenza e l’omissione di prove cruciali, come
registrazioni audio e documenti digitali, che avrebbero dovuto essere inclusi
nel fascicolo giudiziario. Due anni dopo il disastro, non è stata fornita alcuna
risposta alle famiglie in cerca di verità.
Con i sopravvissuti gravemente feriti e le vittime ancora non identificate –
come Erietta Molcho, che risulta ufficialmente scomparsa senza che nessun corpo
sia stato ritrovato – la tragedia di Tempe rivela la portata dell’occultamento
della verità. Questa situazione illustra le connessioni tra la gestione politica
delle crisi e il paternalismo medico-legale: ciò che è stato ereditato dalla
narrazione pandemica elaborata durante l’epidemia da Covid-19, la quale ha
imposto una verità unica con il pretesto della “protezione” e del “bene comune”.
Rievocando quanto accaduto in quel periodo Martha, una donna che ha perso sua
madre durante la pandemia, racconta: «Era un caso grave. Non sarebbe comunque
sopravvissuta a causa di un ictus. Ma hanno scritto “Covid-19” – prima “ictus”,
poi “Covid-19” – sul certificato di morte. Quindi è stato applicato il
protocollo Covid-19. Le pompe funebri mi hanno spiegato che ciò implicava una
sacca mortuaria, un doppio involucro, del cellophane e una tuta speciale per
coloro che maneggiavano il corpo, con un costo aggiuntivo di 400 euro. Il
cimitero, anziché una concessione triennale, ne ha richiesta una settennale.
Queste spese erano supplementari. In totale, ho pagato 400 euro in più e quattro
anni aggiuntivi di concessione per la tomba. Non ho mai visto mia madre. Da
quando l’hanno portata in ospedale, non l’ho mai più vista. Non ci hanno neanche
concesso il tempo di un breve elogio funebre. Una sepoltura veloce, questo è
tutto. Non sono ancora riuscita a elaborare il lutto».
Anche Aphrodite, un’infermiera di terapia intensiva durante la pandemia di
Covid-19, ha raccontato: «Con la mia esperienza professionale, ho capito
velocemente che cosa stava accadendo. Ciò che chiamavano “pandemia” non riusciva
a convincermi. Stavano classificando come morti per Covid pazienti con gravi
patologie preesistenti. Per esempio, pazienti con tumori in fase terminale nei
reparti di terapia intensiva Covid, sono stati dichiarati morti di Covid-19. Non
era vero. Ho le competenze per capire di che cosa morivano realmente questi
pazienti. Molti sono morti a causa di infezioni ospedaliere che provocavano
un’insufficienza multiorgano, ma venivano sistematicamente registrati come
decessi per Covid-19».
L’ombra della gestione dei morti durante la pandemia di Covid 19 aleggia ancora
sulla tragedia di Tempe. Durante la crisi di Covid-19, qualsiasi contestazione
dei protocolli medici e delle restrizioni sanitarie veniva sistematicamente
etichettata come “complottista”. La stessa dinamica sembra essere oggi applicata
a Tempe: le bare sigillate, l’impossibilità di condurre autopsie e le procedure
di identificazione dei cadaveri basate esclusivamente sul DNA, impediscono
qualsiasi contestazione ufficiale sulle cause dei decessi.
Questa continuità solleva numerosi interrogativi. Nel nostro libro Did We Take
Our Lives Back? An Anthropological Study of the (Post)Pandemic Discourse in
Greece (Alistou Mnimis Editions, 2023), abbiamo analizzato come la gestione dei
decessi legati al Covid-19 abbia instaurato una logica autoritaria di
classificazione delle morti. Fino alla fine del 2023, il protocollo funebre in
Grecia vietava l’apertura delle bare, impedendo così le autopsie e qualsiasi
indagine sulle cause dei decessi.
Pochi giorni dopo il disastro di Tempe, il Ministero della Salute greco ha
applicato la stessa logica ai corpi delle vittime, imponendo bare sigillate e
un’identificazione da condursi esclusivamente tramite il test del DNA; ha
giustificato questa decisione con la volontà di proteggere le famiglie da
ulteriori forme di sofferenza. Questa misura ha impedito qualsiasi riesame
indipendente sulle cause delle morti.
In Antigone, Sofocle illustra l’importanza della sepoltura come diritto
inalienabile, un atto di rispetto verso i morti e una sfida all’arbitrarietà del
potere. Dalla pandemia sino al disastro di Tempe, il modello rimane lo stesso:
uno Stato che impone bare sigillate, impedisce qualsiasi indagine indipendente e
mette a tacere le famiglie in cerca di verità. Ma, come Antigone, esse rifiutano
di restare in silenzio. La loro lotta per la verità è un atto di resistenza
contro l’oblio e la manipolazione della storia. La dignità dei morti non può
essere cancellata per decreto, né la giustizia sepolta sotto le menzogne di
Stato.
Questo articolo mira a mettere in luce l’intreccio tra narrazioni ufficiali e
realtà nascoste. Rifiutando di accettare le narrazioni imposte, esigendo
indagini trasparenti e chiedendo giustizia, la memoria delle vittime viene
onorata. È nostro dovere rifiutare l’oblio e interrogare incessantemente ciò che
ci viene presentato come una verità assoluta.
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ERI SAMIKOU: ANTROPOLOGA SOCIALE, UNIVERSITÀ PANTEION, ATENE.
LÁZAROS TENTOMAS: ANTROPOLOGO SOCIALE, DIPARTIMENTO DI POLITICA SOCIALE,
UNIVERSITÀ PANTEION, ATENE.
Riprendiamo da “pungolo
rosso”(https://pungolorosso.com/2025/03/29/il-clown-e-il-circo-a-bihr-j-m-heinrich-r-pfefferkorn-y-thanassekos/)
e rilanciamo questo interessante dibattito, che fa il punto sulle ragioni della
guerra in Ucraina tra NATO e Federazione Russa. Ci pare che le argomentazioni
degli autori de “Il clown e il circo” e della redazione del Pungolo si integrino
più di quanto si contraddicono: da una parte dei sani giudizi di fatto sulle
preponderanti responsabilità occidentali nel provocare la guerra (giudizi di
fatto tanto più necessari di fronte a una propaganda che ha compiuto e compie
salti mortali per nasconderle); dall’altro la verità di fondo che ogni Stato
combatte le guerre per i propri interessi di potenza. Di fronte alle attuali
“manovre di pace”, condividiamo in particolare l’idea del Pungolo che “la
possibilità di contrastare la tendenza alla guerra con ‘la mobilitazione delle
masse in tutta Europa’ deve saper denunciare per tempo le stesse soluzioni
diplomatiche, per quanto ‘ragionevoli’ possano apparire, come altrettanti passi
verso un nuovo conflitto mondiale.”
Qui il seguito del dibattito:
https://pungolorosso.com/2025/04/06/la-replica-di-a-bihr-j-m-heinrich-r-pfefferkorn-e-y-thanassekos-italiano-francais/
[Qui in apertura l’introduzione della redazione di “Pungolo rosso”]
A dispetto del titolo, ironico e scanzonato, l’articolo di Alain Bihr, J.M.
Heinrich, R. Pfefferkorn e Y. Thanassekos tratta di una questione molto
importante: la guerra NATO/Russia in Ucraina e la sua possibile sospensione.
Diciamo “sospensione”, non “pace”, perché quest’ultima, intesa come un’organica
conclusione del conflitto, ci sembra largamente irrealistica, se non
impossibile. Quello che si va prospettando è dunque un congelamento delle
attività belliche, che asseconda gli interessi immediati sia della Russia che,
sul versante opposto, degli USA, capofila dello schieramento occidentale.
Il testo collettivo che pubblichiamo ha il pregio di sottolineare alcuni punti
importanti, tanto “ragionevoli” quanto mistificati e sommersi dalla martellante
propaganda di guerra USA/NATO/UE e dalla russofobia isterica di cui è intrisa:
primo fra questi, quello che qualifica la guerra tuttora in corso come un
conflitto fra Russia e Nato, e non fra Russia e Ucraina. A seguire, gli autori
richiamano alcune delle principali contraddizioni della propaganda occidentale:
tale è, ad esempio, la tesi circa la pretesa intenzione di Mosca di invadere i
paesi confinanti e addirittura l’Europa occidentale, nonostante, dopo tre anni
di guerra, essa sia riuscita a conquistare, con notevoli sforzi, appena un
quinto del territorio ucraino. E che dire dello stridente contrasto fra gli
strepiti odierni sulla mancanza di sufficienti mezzi militari per contrastare la
Russia e la ribadita volontà di sostenere lo sforzo bellico di Kiev affinché
riconquisti i territori perduti? Per non parlare, poi, della fulminea decisione
di finanziare a debito un gigantesco piano di riarmo, infrangendo il dogma
ostile alla spesa in deficit quando essa riguardi salari, pensioni e servizi
sociali.
Il lettore troverà dunque in questo breve scritto un utile antidoto alle
menzogne sparse a piene mani dai “nostri” governi negli ultimi tre anni. Allo
stesso tempo, l’articolo dà un’interpretazione discutibile su molti
punti-cardine, che non condividiamo. Ad esempio, nel negare, giustamente, che il
conflitto sia limitato all’Ucraina, ma coinvolge invece “l’Occidente globale”,
gli autori liquidano il “presunto desiderio [russo] di perpetuare o ricostituire
la sua area di influenza nell’Europa centrale e orientale – e anche oltre”.
Questa contrapposizione rimane all’interno delle giustificazioni “formali” della
guerra, senza coglierne le radici strutturali, che risiedono nella lotta per la
difesa dei reciproci interessi di sfruttamento e supremazia sullo scacchiere
internazionale. Certo, in questa lotta, Mosca è partita da una situazione di
svantaggio, ereditata dallo sfacelo dell’URSS e dalla conseguente espansione
della NATO, ma ciò non significa affatto che la sua azione avesse e abbia
motivazioni di altro tipo che la difesa della propria sfera di influenza. Anzi,
quella ucraina era/è per Mosca una linea rossa non oltrepassabile proprio perché
chiama in causa un’area vitale per i propri interessi.
Analogamente, non condividiamo la lettura dei propositi riarmisti dell’UE e dei
suoi singoli Stati come una sorta di allucinazione collettiva, il cui rischio
consisterebbe nel “dar vita ad una profezia che si autoavvera”. Per quanto le
cancellerie del vecchio continente versino in stato confusionale a seguito
dell’inversione di rotta della nuova amministrazione USA, va detto che gli
stanziamenti per la “difesa”, l’eliminazione del vincolo sul debito da parte
della Germania, la decisione di alzare da subito la percentuale del PIL dedicata
alle spese militari, la rapida virata verso l’economia di guerra e la conclamata
volontà di utilizzare il riarmo come antidoto alla stagnazione e alla crisi
economica, non rispondono alla falsa percezione di dover fronteggiare senza
l’aiuto di Washington “il grande lupo cattivo russo”. Rispondono invece alla
consapevolezza, che si va facendo strada, che, indipendentemente dalla struttura
delle alleanze future, ogni Stato, per mantenere il suo posto al sole fra le
canaglie del sistema imperialista, deve armarsi, armarsi, armarsi. E,
nell’immediato, cercare, con le unghie e coi denti, di esigere la parte “che ci
spetta” del bottino ucraino, che rischia di sparire per intero nelle fauci di
USA e Russia.
Se, come ipotizzano gli autori, la possibilità di Mosca di vincere la pace, dopo
aver vinto la guerra, passa per la convocazione di una conferenza di pace nel
quadro dell’OSCE – ad oggi solo una vaga ipotesi – la possibilità di contrastare
la tendenza alla guerra con “la mobilitazione delle masse in tutta Europa” deve
saper denunciare per tempo le stesse soluzioni diplomatiche, per quanto
“ragionevoli” possano apparire, come altrettanti passi verso un nuovo conflitto
mondiale. Trasformare le condizioni verso la guerra imperialista in condizioni
per la rivoluzione proletaria è l’unica strada per sfuggire davvero
all’alternativa “pensioni o munizioni”, un’alternativa che, negli ultimi tempi,
ha davvero fatto passi da gigante. (Red.)
IL CLOWN E IL CIRCO
“Se eleggi un clown, aspettati un circo”
La guerra in Ucraina sta per finire come è iniziata: come un faccia a faccia tra
Stati Uniti e Russia. Con una differenza : che, avendo lo scontro tra i due
stati portato alla guerra, si è passati ora alla collaborazione in vista della
pace. Il che, tra l’altro, dà ragione a posteriori a tutti coloro, noi compresi,
che, contro l’interpretazione dominante di questo conflitto, hanno sostenuto la
tesi che si trattasse effettivamente, per l’essenziale, di un conflitto tra
l’Occidente globale (sotto la guida statunitense e la bandiera della NATO) e la
Russia, per interposta Ucraina, e non di un conflitto tra questi ultimi due
paesi generato dal presunto desiderio della Russia di perpetuare o ricostituire
la sua zona di influenza nell’Europa orientale e centrale – o anche oltre.
Cerchiamo qui di fare un bilancio di questi tre anni di guerra e dell’inversione
di tendenza appena avvenuta, dei guadagni e delle perdite registrate dai vari
protagonisti e di discernere, di conseguenza, le possibilità che si aprono a
ciascuno di loro.
Ubu alla Casa Bianca
La guerra in Ucraina è nata dalla volontà della NATO, contrariamente agli
impegni verbali assunti dopo il crollo del Muro di Berlino, di espandersi
nell’Europa centrale e orientale. Perseguita nonostante le sempre più forti
proteste russe durante le prime due ondate del 1999 e del 2004, questa
espansione ha raggiunto un punto critico nel 2008, quando si è trattato di
integrare l’Ucraina e la Georgia nell’Alleanza Atlantica, cosa che avrebbe
portato quest’ultima a diretto contatto con la Russia, offrendole per una
invasione l’immensa breccia costituita dalla pianura ucraina al di là del
Dniepr e minacciando la strategica base navale di Sebastopoli. Una linea rossa
per Mosca, che dichiarò allora che sarebbe entrata in guerra se fosse stata
oltrepassata. Gli occidentali non ne ha tenuto conto. Nel 2014, durante
Euromaidan, hanno contribuito ad insediare a Kiev un governo filo-occidentale e
anti-russo : cosa che ha aggravato le tensioni con le popolazioni russofone e
russofile degli oblast’ orientali e di Odessa, portando alla guerra civile. Allo
stesso tempo, gli occidentali hanno rigiutato sprezzantemente le proposte russe
di concludere un accordo nel quadro della Conferenza sulla sicurezza e la
cooperazione in Europa (CSCE) finalizzato alla neutralizzazione
(“finlandizzazione”) dell’Ucraina. Tutto questo, dopo che gli Stati Uniti si
erano ritirati nel 2001 dal Trattato ABM (Anti-Balistic Missile) firmato nel
1972, e nel 2018 dal Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces) firmato
nel 1988. La strada verso la guerra era ormai aperta.
Per tre anni, l’Occidente ha condotto questa guerra contro la Russia, con
l’intermediazione dell’Ucraina, con l’obiettivo di imporre con la forza ciò che
la Russia aveva ripetutamente dichiarato di non voler accettare. Gli errori di
valutazione iniziali durante l’operazione militare russa, la mobilitazione
nazionale e lo slancio nazionalista della società ucraina hanno creato
l’illusione che la partita potesse essere vinta e che, con il massiccio sostegno
dell’Occidente, l’Ucraina potesse cacciare l’aggressore dai suoi confini. Questa
illusione è stata rapidamente dissipata quando la controffensiva ucraina del
giugno-agosto 2023, con il massiccio sostegno militare e logistico
dell’Occidente, è fallita miseramente. Da allora, la situazione in Ucraina ha
continuato a deteriorarsi, sia in termini di operazioni militari che di coesione
della società ucraina stessa, a dispetto delle decine di miliardi di dollari in
aiuti di ogni tipo (armi, munizioni, addestramento delle truppe, assistenza
tecnica, intelligence, prestiti, incoraggiamento, ecc.) che l’Occidente ha
fornito, per non parlare delle sanzioni commerciali e finanziarie inflitte
all’aggressore russo. Qualsiasi osservatore lucido dello sviluppo della
situazione negli ultimi mesi ha chiaro che essa non può portare che ad una
sconfitta militare ucraina nel più o meno breve termine.
Per evitare un simile esito la nuova amministrazione Trump ha deciso di porre
fine a questa guerra concludendo, se non la pace, almeno un accordo con il
nemico russo, trasformato di colpo in un avversario con cui è possibile un
accordo. La ragione di fondo di questa inversione di rotta degli Stati Uniti è
che l’amministrazione Trump, ancor più delle precedenti, ha come priorità delle
priorità quella di affrontare la sfida costituita, ai suoi occhi, dall’ascesa
della Cina, che minaccia il suo dominio globale. In questo contesto, la vicenda
ucraina diventa secondaria, se non addirittura trascurabile, e deve essere
liquidata nel modo più rapido ed economico possibile. In questo caso, per gli
Stati Uniti si tratta di una riedizione di quanto fatto negli ultimi decenni
ogni volta che sono stati tenuti in scacco, come in Vietnam nel 1973, in Iraq
nel 2011, ad Haiti nel 1995 e in Afghanistan nel 2021: ritirarsi e lasciare che
il caos creato dal loro intervento sia gestito dai loro alleati locali e dai
precedenti nemici: in breve, lavarsene le mani.
L’unica differenza è lo stile con cui lo scenario si ripete questa volta. Con
l’Ubu (ri)eletto lo scorso novembre, la silenziosa vergogna di un Obama o la
contrizione da coccodrillo di un Biden hanno lasciato il posto a una vistosa
negazione delle schiaccianti responsabilità americane nella vicenda, con gli
Stati Uniti che hanno assunto la vantaggiosa posizione della colomba per far
dimenticare il loro ruolo di falco. Il palese fallimento militare ucraino viene
imputato a Kiev, che non ha voluto mobilitare la gioventù del Paese per mandarla
a farsi sventrare sul campo di battaglia, e ai suoi alleati europei, che non
hanno messo mano abbastanza alle loro tasche né per sostenere lo sforzo bellico
ucraino, né per garantire la propria difesa. Per non parlare del fatto che, in
linea con il suo tropismo e il suo credo super attivistici, Trump intende
recuperare la sua quota di sfruttamento del sottosuolo ucraino ricco di terre
rare.
Panico a Londra, Parigi, Berlino, Varsavia…
… e in altre capitali europee. Perché, non avendo capito nulla di quello che è
successo, stanno inventando un futuro immaginario in cui credono di dover
affrontare, ormai da solie, private dell’aiuto dello zio Sam, il lupo cattivo
russo. E, poiché ritengono di non avere i mezzi per farlo militarmente, l’unica
opzione che prendono in considerazione o almeno favoriscono, stanno lanciando
folli programmi di riarmo, buttando centinaia di miliardi di euro che solo il
giorno prima affermavano di non avere se si trattava di aumentare gli stipendi,
rafforzare i servizi pubblici e le strutture comunitarie, soddisfare i bisogni
sociali più elementari, ecc. Tutto ciò fa presagire un nuovo ciclo di austerità
crescente per le loro popolazioni, che non offrirà loro altra prospettiva se non
quella di stringere la cinghia ancora un po’ per gli anni a venire, prima di
“morire per la libertà”, creando fin da ora un’atmosfera da « vigilia di
guerra ».
Tuttavia, la natura immaginaria di questo scenario futuro è tradita dalla natura
incoerente dei loro propositi. Sono le stesse persone che ora dicono che i russi
sono alle nostre porte e che non abbiamo i mezzi per impedirgli di entrare con
la forza, e che appena il giorno prima, se non in contemporanea, sostengono che
è necessario e giusto aiutare gli ucraini, anche inviando loro delle truppe,
perché è possibile sconfiggere il nemico sulle rive del Dniepr o nel Donbass. E
allora la Russia cos’è ? Orco insaziabile e assetato di sangue, o colosso dai
piedi d’argilla?
Questo scenario è ancora immaginario perché non tiene conto della realtà
dei rapporti di forza così come si presenta sul campo. Dopo tre anni di guerra,
le truppe russe sono faticosamente e cautamente riuscite a conquistare appena un
quinto del territorio ucraino. Una domanda degna di un problema di quinta
elementare: di questo passo, quanto ci metteranno i cosacchi ad abbeverare i
loro cavalli nei sobborghi di Brest e Lisbona?
Immaginario, infine, perché, come prima del 2022, gli Europei non ascoltano, o
non danno credito alle parole dei russi. I russi hanno ripetuto a gran voce che
non avrebbero accettato le forze della NATO alle loro porte in Ucraina e che, se
avessero persistito nella loro intenzione di farlo, sarebbero entrati in guerra.
E così è stato. Quando, al contrario, li abbiamo sentiti dichiarare di avere
altre pretese, se non sui loro immediati vicini ? per forza di cose sull’Europa
occidentale? Doppiezza da parte loro? Allora perché accusarli contemporaneamente
di cinismo?
Il pericolo, tuttavia, è che questo scenario, per quanto immaginario, possa dar
luogo a una profezia che si autoavvera. Infatti, rilanciando la corsa agli
armamenti in Europa, si crea proprio una situazione favorevole alla guerra.
Contrariamente al vecchio adagio romano, quando si prepara la guerra, si ottiene
… la guerra! Non lo ha forse dimostrato ancora una volta l’estensione, negli
anni ’90, dell’alleanza militare all’Europa centrale e orientale, che avrebbe
dovuto garantire la pace?
Intrappolate dalle loro posizioni “campiste” sui conflitti inter-imperialisti e
internazionali, la maggior parte delle organizzazioni della sinistra e
dell’estrema sinistra sta adottando questo scenario, arrivando a tacciare di
filo-russismo o addirittura di filo putinismo qualsiasi presa di distanza
critica. Dopo essersi già arruolati nella crociata antirussa sotto la bandiera a
stelle e strisce e aver fallito nella loro missione di mobilitare le classi
lavoratrici contro la guerra, si preparano a fare lo stesso cadendo nella rete
dell’Union sacrée. Permettendo così all’estrema destra, d’un colpo solo, di
monopolizzare il discorso contro la guerra, e offrendole un’altra opportunità di
essere in consonanza con le preoccupazioni popolari e di aumentare il
proprio pubblico e, cosa altrettanto disastrosa, permettendo al blocco
politico-mediatico al potere di identificare come di estrema destra qualsiasi
critica alle proprie posizioni.
Peggio ancora, queste organizzazioni si impediscono di denunciare e lottare con
le classi lavoratrici, non solo contro le molte forme di sfruttamento aggravato
(in termini di salari e tasse, attraverso la crescita della disoccupazione e il
deterioramento dei servizi pubblici, ecc.) per le quali queste minacce e
necessità immaginarie serviranno come legittimazione “incontrovertibile”, ma
anche di lottare contro il keynesismo militare, cioè un modo per rilanciare
l’economia [attraverso la spesa bellica], e quindi di aumentare ulteriormente i
profitti, senza aumentare la domanda di beni di consumo, a favore della sola
domanda di beni distruttivi, finanziata da tasse e debito. Va da sé che di
questo tipo di stimolo beneficeranno soprattutto gli Stati Uniti, il maggior
esportatore mondiale di attrezzature e tecnologie militari, anche se alcuni
Paesi europei possono sperare di approfittarne per aumentare la propria
produzione e le proprie esportazioni (nell’ordine: Francia, Germania, Italia,
Regno Unito e Spagna).
Blues in Kiev
Ma le persone più da compatire sono ovviamente gli ucraini, gli unici che hanno
dovuto entrare nella tana del leone. Sono quelli che hanno pagato il prezzo più
alto, in termini di sfollamento ed esilio di massa della popolazione, di morti e
distruzioni militari e civili, per il cinico gioco dell’Occidente, che ha fatto
precipitare un conflitto che si è svolto sul loro territorio e in cui hanno
occupato gli avamposti, presumibilmente per forzare la mano ai russi e
indebolirli definitivamente. Senza dubbio hanno creduto, e credono tuttora, che
questo fosse l’unico modo per difendere la loro sovranità e integrità
territoriale, anche se era possibile un’altra strada, quella di un compromesso
con la Russia, che avrebbe permesso loro di salvare l’essenziale sotto entrambi
i punti di vista. Una strada che l’Occidente ha vietato loro di percorrere, sia
prima che subito dopo il lancio dell’offensiva russa del 24 febbraio 2022:
mentre alla fine di marzo era in vista un accordo russo-ucraino, è stato
l’Occidente a decidere che gli ucraini dovevano abbandonarlo.
E sono ancora questi ultimi che si preparano a pagare il prezzo più alto quando
arriverà il momento, che non tarderà ad arrivare, di una pace forzata. D’ora in
poi, la pace sarà firmata alle condizioni che i russi, vincitori sul campo,
accetteranno o imporranno. Dopodiché, gli ucraini dovranno ancora pagare
l’enorme debito di guerra accumulato e ricostruire il loro Paese, in parte
devastato dalla guerra, con una popolazione che si è ridotta notevolmente (da 45
milioni nel 2013 a 33 milioni nel 2023). Rimuginando, nel frattempo,
sull’amarezza della sconfitta e del tradimento, sulle cui ragioni avranno tutto
il tempo di riflettere, ricordando il famoso monito: “Dio, proteggimi dai miei
amici, che ai miei nemici ci penso io”.
Il sangue freddo a Mosca
La sobrietà delle ultime dichiarazioni di Mosca contrasta con i deliri
megalomani di Washington, con la febbre angosciosa delle capitali europee e con
l’ostinazione di Zelensky nel suo errore iniziale. Eppure la Russia avrebbe
tutte le ragioni per pavoneggiarsi. Lungi dal crollare sotto l’impatto delle
sanzioni commerciali e finanziarie attuate dagli occidentali, come questi ultimi
avevano annunciato urbi et orbi, essendo riuscita a rimettersi in piedi dopo un
inizio militare fallimentare e avendo dimostrato la solidità delle sue alleanze,
in particolare con la Cina e l’Iran, al momento la Russia sembra essere la
grande vincitrice di questo conflitto, a un passo dall’aver raggiunto gli
obiettivi che si era prefissata.
Senza dubbio sa anche che non basta vincere la guerra, deve vincere anche la
pace. E per farlo, dovrà pagare il prezzo della sua vittoria. Tra questi, il
fatto che l’odiata NATO, pur non riuscendo a stabilirsi in Ucraina, è ora
presente lungo i 1.340 chilometri del confine comune con la Finlandia. A ciò si
aggiungono i massicci programmi di riarmo che gli alleati europei della NATO (o
ciò che ne rimane) stanno pianificando di intraprendere. Per non parlare
dell’odio duraturo che avrà suscitato nella maggior parte della popolazione
ucraina e in coloro che hanno sposato la sua causa.
Se evitare l’instaurarsi di una nuova guerra fredda è nei piani russi, non c’è
altra soluzione che proporre, come hanno continuato a fare dall’inizio della
guerra in Ucraina, la convocazione di una conferenza di pace nel quadro
dell’OSCE. Questo metterà a tacere ogni speculazione sulle loro mire
espansioniste, mire di cui si faticherebbe a trovare tracce nella storia recente
delle relazioni internazionali (quando mai la Russia ha intrapreso operazioni
simili alla doppia invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan ?). Potranno sostenere
di fronte ai nemici occidentali che non si sceglie il proprio nemico, ma è
sempre con lui che si deve firmare la pace.
E noi ?
Di fronte alle politiche di riarmo a tutto vapore, a fronte del clima di guerra
e di « vigilia di guerra » che coltivano i governi bellicisti europei con
l’appoggio della grande maggioranza dei media, la sinistra, e in particolare la
sinistra radicale, deve superare gli errori di ieri e dell’altro ieri. Si deve
chiamare alla mobilitazione delle masse dappertutto in Europa per bloccare una
politica che fa già dire a qualcuno che si deve scegliere fra «pensioni o
munizioni » (w) e pavimenta la via di una possibile discesa negli abissi.
Alain Bihr, Jean-Marie Heinrich
Roland Pfefferkorn, Yannis Thanassekos
(1) https://fr.statista.com/statistiques/688554/population-totale-ukaine/
(2) Dominique Seux, « Pensions ou munitions ? », Les Echos, 5 mars 2025.