Source - il Rovescio

cronache dallo stato di emergenza

Operazione “Delivery”: revocati gli arresti domiciliari a Luigi e Veronica
Riceviamo e diffondiamo con gioia la notizia della revoca dei domiciliari a Luigi e Veronica, arrestati per l’operazione “Delivery”: REVOCATI GLI ARRESTI DOMICILIARI RESTRITTIVI NEI CONFRONTI DI LUIGI E VERONICA PER L’OPERAZIONE “DELIVERY” Il Tribunale del riesame di Firenze ha stabilito la revoca della custodia cautelare agli arresti domiciliari (con divieto di comunicazioni e di visite) disposta dal Giudice per le Indagini Preliminari nei confronti di Luigi e Veronica, arrestati l’11 settembre per l’operazione “Delivery” che li vede indagati per “atto di terrorismo con ordigni micidiali o esplosivi” e altri reati connessi. Nel corso della prima settimana di ottobre hanno ricevuto la notifica della revoca degli arresti domiciliari restrittivi. Le motivazioni del tribunale non sono ancora state depositate. Ricordiamo brevemente che per questo procedimento sono avvenute due operazioni tra il 26 marzo (quattro perquisizioni domiciliari nei comuni di Carrara, Faenza, Pisa e Sarzana) e l’11 settembre (arresti e sei perquisizioni domiciliari nei comuni di Carrara, Montignoso, Pisa e Sarzana). La richiesta avanzata dalla Direzione Distrettuale Antimafia e Antiterrorismo di Firenze era della reclusione in carcere. Il procedimento riguarda il posizionamento di un ordigno presso un ingresso secondario del tribunale di Pisa il 21 febbraio 2023, nell’ambito della mobilitazione in solidarietà con Alfredo Cospito, all’epoca a oltre 120 giorni di sciopero della fame a oltranza contro il regime detentivo del 41 bis e l’ergastolo ostativo. Con la mobilitazione degli anni 2022-’23 abbiamo impedito una condanna all’ergastolo ostativo per Alfredo Cospito – all’epoca pressoché certa con l’esito del processo “Scripta Manent” in Corte di Cassazione – e messo un bastone tra le ruote alla repressione anti-anarchica (e non solo), oggi continuiamo la lotta contro il 41 bis impiegato come carcere di guerra contro Alfredo e tre militanti delle BR-PCC. SOLIDARIETÀ CON TUTTI I PRIGIONIERI RIVOLUZIONARI NEL MONDO
Stato di emergenza
Sulla manifestazione dello scorso 2 ottobre a Lecco. Bloccare la produzione bellica è possibile!
Riceviamo e diffondiamo: Qui in formato volantino: DUE PAROLE SULLA SERATA DI LOTTA DEL 2 OTTOBRE A LECCO DUE PAROLE SULLA SERATA DI LOTTA DEL 2 OTTOBRE A LECCO Bloccare la produzione bellica è urgente e possibile! Il corteo spontaneo di giovedì 2 ottobre ha dimostrato che la lotta al fianco della resistenza palestinese può trasformarsi in una critica radicale del nostro sistema economico di guerra e sfruttamento. Infatti, dopo un primo ritrovo in Largo Montenero con l’obiettivo di bloccare la normalità della vita lecchese, oltre mille persone hanno scelto di dirigersi verso la Fiocchi Munizioni e i rioni di Belledo e Germanedo, veri avamposti locali di guerra con la presenza di aziende quali Invernizzi Presse, Simecon, 3M, LDM Transport, Defremm. La scelta di bloccare stazioni ferroviarie e strade avrebbe portato con sé una volontà di denuncia, di lotta anche simbolica, bloccare tutto anche per far riflettere tutte e tutti sulla necessità di interrompere la propria quotidianità e “normalità”. La scelta di muoversi compatti verso i poli della guerra, invece, è quel passo in più, che esce dal simbolico per diventare obiettivo di lotta, che trasforma una testimonianza in un attacco a chi le guerre le produce. Una giornata che ci mostra la strada da percorrere se veramente vogliamo dire no alle guerre e ai genocidi dei padroni. A ridosso del cancello di ingresso della Fiocchi, protetto da una camionetta e da agenti in tenuta antisommossa, ci si è fermati per un lungo presidio in prossimità del cambio turno serale. Questo ha provocato l’annullamento da parte dell’azienda del turno notturno. I e le dipendenti, intimoriti dalla presenza di centinaia di persone, hanno posticipato l’uscita. Chi sceglie di contribuire alla produzione di morte e di guerra deve riconoscere le proprie colpe e le proprie responsabilità: noi saremo lì ogni volta che potremo a ricordarglielo. Questo è il segno evidente che le proteste, se mantengono uno sguardo di lotta, sono in grado di sortire effetti concreti, reali. Il corteo, verso le 21:00, ha poi deciso di proseguire in direzione ospedale dove si è ricongiunto al personale sanitario impegnato nel flash mob “Luci per la Palestina”. Quello che è accaduto ieri è stato un profondo movimento politico collettivo. Il simbolo potente della direzione che deve prendere la lotta. Dobbiamo continuare a fare fronte compatto. Un fronte che condanna le oppressioni, le guerre e i genocidi e che, al contrario, supporta la cura e la resistenza. Perché non c’è pace sotto occupazione. Non c’è pace senza autodeterminazione. Non c’è pace senza libertà. La resistenza palestinese infatti non punta solo alla sopravvivenza, combatte per smantellare un sistema che opprime. Lo stesso sistema che, seppur in forme diverse, si ripropone a livello mondiale. Per questo ci riguarda. Per questo chi lotta per la Palestina lo sta facendo pensando alla liberazione di tutte e tutti. La protesta perciò è una faccia dell’umanità. Un’umanità che non accetta di essere complice. Che non si piega. Che non arretra. Che non scende a compromessi con chi arma e finanzia il genocidio. Che non si lascia intimidire. Serve perciò una mobilitazione continua, un’attivazione perenne popolare dal basso, che inizi a incrinare le strutture stesse del potere. E che lo faccia, innanzitutto, partendo da qui. Dobbiamo tenere al centro la Palestina, ma anche la nostra complicità, perché le radici del genocidio affondano qui: nella nostra storia coloniale e nella nostra economia. L’Italia arma, finanzia e copre i crimini israeliani. Da Lecco sono partiti quei proiettili che ritroviamo nei corpi dei palestinesi in Cisgiordania. Da Lecco sono partiti quei macchinari che producono proiettili per l’esercito israeliano. A sconcertarci, non può essere solo la violenza di Israele, ma anche la violenza razzista, fascista, coloniale e suprematista che attraversa tutto l’”Occidente” IL SIONISMO SI FERMA CON IL BOICOTTAGGIO. IL GENOCIDIO SI FERMA CON LA RESISTENZA. LA MACCHINA BELLICA SI FERMA CON LA RIVOLTA. La città si è riunita in un unico boato di rabbia e in un grande abbraccio collettivo d’amore. Una piccola intifada è esplosa nel cuore della città: un grido di resistenza. Lecco sa da che parte stare. Palestina libera. Dal fiume fino al mare. Assemblea permanente contro le guerre (Lecco) Coordinamento Stop Genocidio (Lecco)
Rompere le righe
Stato di emergenza
Palestina e carcere
Carcere e Palestina sono da sempre strettamente intrecciati. Il popolo palestinese vive rinchiuso in una “prigione a cielo aperto” in Cisgiordania e in un “carcere di massima sicurezza” a Gaza. Dal 1948 a oggi, lo Stato israeliano ha incarcerato qualcosa come 800 mila palestinesi (tra cui molti ragazzi e addirittura bambini). La liberazione dei prigionieri è un obiettivo costante della resistenza palestinese (e infatti esso è stato alla base dell’azione del 7 ottobre ed è ancora centrale per raggiungere il cessate il fuoco). Il movimento internazionale contro il genocidio, che attraversa e taglia in due la società, è entrato nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro, nei quartieri, persino negli stadi. Certo non poteva né può lasciare indifferenti i prigionieri, vista anche l’ampia presenza nelle carceri di arabi e musulmani. Chiunque abbia organizzato presìdi sotto le carceri in questi due anni sa per esperienza che “Palestina libera!” è l’urlo che più abbatte simbolicamente le mura e le sbarre. Questo movimento “dentro-fuori” non solo si gioca sul piano internazionale (per quanto più o meno acuta ne sia la consapevolezza), ma rende potenzialmente reciproca e non univoca la direzione della solidarietà. Si può pensare in tal senso all’intreccio che si è creato tra la protesta di Teuta Hoxha nel carcere britannico di Peterborough (dove la militante di Palestine Action ha raggiunto i suoi obiettivi dopo 28 giorni di sciopero della fame) e quella che hanno fatto in suo sostegno negli Stati Uniti i prigionieri Casey Goonan (accusato di aver incendiato delle auto della polizia durante gli accampamenti per Gaza nelle università) e Malik Muhammad (un compagno palestinese incarcerato per una serie di azioni avvenute durante la Floyd Rebellion). Anche dalle carceri italiane arriva qualche segnale. La scelta del nostro amico e compagno Massimo, in “semi-libertà” nel carcere di Trento, di scioperare per Gaza il 30 maggio scorso (https://ilrovescio.info/2025/05/26/preferisco-di-no/), poi il 20 giugno, il 22 settembre e il 3 ottobre, non è un caso isolato. Abbiamo appreso che un gruppo – non sappiamo quanto numeroso – di detenuti in “semi-libertà” (art. 21) del carcere bolognese della Dozza ha scioperato il 3 ottobre. Questo il loro comunicato: «Preso atto di quello che sta succedendo a Gaza, noi dipendenti della F.I.D. abbiamo deciso di scioperare il 3/10/25. Per noi reclusi andare a lavorare è un movimento di libertà dal contesto carcerario in cui viviamo. Nonostante ciò, rinunciamo a un giorno di libertà e di stipendio. Questa decisione è stata presa per manifestare tutta la nostra indignazione per il genocidio tutt’ora in atto e per manifestare il nostro supporto alle persone della Flotilla arrestate con l’unica colpa di essere ambasciatori di umanità». Ci sembra allora urgente porre e porci alcune questioni. Come stare in carcere è un dibattito da cominciare quando si è liberi. Arresti come quelli avvenuti il 22 settembre e il 3-4 ottobre potrebbero diventare più frequenti (e duraturi) se i blocchi e gli scontri dovessero continuare. Nello specifico, più gli arrestati hanno da dire e da fare per la liberazione della Palestina, simbolo oggi di una rivolta globale, più la lotta a fianco della resistenza palestinese può coinvolgere le carceri. Più ci si mette d’accordo prima, più l’iniziativa può risultare comune, tempestiva e basata sull’adeguato sostegno esterno. Viviamo in tempi di guerra. L’esempio degli arresti di massa in Gran Bretagna dopo la messa al bando di Palestine Action suggerisce due cose: che il carcere può tornare ad essere un’esperienza collettiva; e che lottare al suo interno è parte di una lotta di liberazione sociale. Questo rende necessario un coordinamento nella traduzione e circolazione dei materiali e allo stesso tempo un impegno per allargare la portata del dibattito e le possibili iniziative di lotta. Nel senso che compagne e compagni sparsi nelle carceri di diversi paesi possono sostenersi a vicenda (come e più di quanto è successo finora), ma anche intraprendere delle proteste comuni maturate da un confronto comune. E questo non solo per migliorare le condizioni detentive di qualcuno o di tutte e tutti, o per sostenere questa o quella scarcerazione là dove ci sono le condizioni per una pressione efficace in tal senso; ma anche per partecipare da dentro agli scioperi, alle campagne o ai movimenti che si sviluppano all’esterno. La battaglia per la liberazione del prigioniero palestinese Anan Yaeesh è in tal senso, oltre che doverosa, un’occasione per legare carcere e Palestina, per unire i quartieri, le strade e i porti alle celle dove sono rinchiusi i nostri compagni e le nostre compagne. Soprattutto ora, visto che Anan, nel frattempo trasferito nel carcere di Melfi, il 4 ottobre è entrato in sciopero della fame. Non sapremmo trovare parole migliori di quelle scritte da Casey Goonan: «Come prigionieri incarcerati per la nostra partecipazione al movimento di liberazione palestinese in Occidente, abbiamo la responsabilità reciproca, oltre i confini, di vivere la nostra vita in prigione con la stessa fermezza del movimento dei prigionieri palestinesi tenuti prigionieri nelle prigioni “israeliane”. Gli stati da cui siamo stati catturati sono i facilitatori del genocidio accelerato dei palestinesi da parte dell’entità sionista, così come dei genocidi in corso dei neri e degli indigeni, le cui terre continuano a occupare. Mentre la sinistra occidentale continua a passare da una crisi all’altra, evitando le proprie responsabilità nei confronti della Palestina, noi siamo tutto ciò che abbiamo».
Carcere
Uno spazio per l’immaginazione
Riceviamo e diffondiamo: Uno spazio per l’immaginazione Dopo settimane di blocchi e cortei spontanei e massivi in città e presidi permanenti nei paesi, mobilitazioni nei posti di lavoro, scuole, università, periferie, lo sciopero generale di venerdì 3 ottobre ha segnato un’esplosione individuale e collettiva di rabbia e di gioia, in rottura con l’esaurimento morale dell’occidente. Mentre governo e industrie italiane, come la Leonardo, si svelano sfacciatamente complici di un genocidio le cui immagini rivoltanti vengono mostrate da due anni in diretta; mentre cade definitivamente la maschera del Diritto – come ben dimostra il processo contro Anan, Alì e Mansour – vuoto formalismo strumentale alla difesa del potere, i cui metodi come sempre si alternano all’uso della mera forza contro ciò che è considerato d’intralcio; mentre Von der Leyen, Bezos e Elkann recitano con gran sorrisi la farsa dell’innovazione tecnologica al servizio dell’umanità quando è evidentemente infrastruttura per riarmo, sorveglianza, sterminio; Uno spazio per l’immaginazione. Dopo settimane di blocchi e cortei spontanei e massivi in città e presidi permanenti nei paesi, mobilitazioni nei posti di lavoro, scuole, università, periferie, lo sciopero generale di venerdì 3 ottobre ha segnato un’esplosione individuale e collettiva di rabbia e di gioia, in rottura con l’esaurimento morale dell’occidente. Mentre governo e industrie italiane, come la Leonardo, si svelano sfacciatamente complici di un genocidio le cui immagini rivoltanti vengono mostrate da due anni in diretta; mentre cade definitivamente la maschera del Diritto – come ben dimostra il processo contro Anan, Alì e Mansour – vuoto formalismo strumentale alla difesa del potere, i cui metodi come sempre si alternano all’uso della mera forza contro ciò che è considerato d’intralcio; mentre Von der Leyen, Bezos e Elkann recitano con gran sorrisi la farsa dell’innovazione tecnologica al servizio dell’umanità quando è evidentemente infrastruttura per riarmo, sorveglianza, sterminio; in tanti, tantissimi, distolgono gli occhi dagli schermi per incontrarne altri in strada, interrompendo la propria “normalità”, rompendo con disinvoltura gli argini di leggi repressive che fino a qualche mese fa sembravano paralizzanti, bloccando una strada, una fabbrica, una scuola, stazioni dei treni, porti, aeroporti, supermercati, scioperando dentro alle prigioni. Sguardi che si ritrovano complici nel riconoscere visceralmente ciò che è giusto e ciò che invece non è accettabile e nel realizzare improvvisamente che agire, in prima persona, conta. E’ un umano sentimento di intollerabilità a rompere il cinico nichilismo del tecnocapitalismo con la sua corsa verso la morte o la semi-vita per cavie e prigionieri all’aperto, di cui simbolo è la polizia penitenziaria in assetto antisommossa per le strade di Roma, sabato. In queste settimane si è aperto uno spazio per l’immaginazione. Se il recupero e i paletti da parte di partiti e sigle, con le proprie indicazioni di metodo, le proprie parole d’ordine, i propri tentativi “costituenti”, è dietro l’angolo, così come la possibilità che lo slancio di questi giorni venga smorzato dalle fila sinistre e politiche e ricondotto a mediazioni o infami “piani di pace” che vogliono disarmare la resistenza, mentre sul fronte orientale in Ucraina le macchine del terrore minacciano la distruzione totale, riuscire a coltivare nella durata questo sentimento, continuando a immaginare e sperimentare, ciascun a suo modo, forme di azione diretta – sentite e non rappresentate, legami più che composizioni, autonomie non contro-istituzioni – difendendo un senso morale di rifiuto dell’orrore, è ciò a cui la resistenza palestinese è riuscita a chiamarci. Se le piazze contro il Green Pass erano mosse da un umano sentimento di rifiuto ad essere ridotti a cavie, se i disertori russi e ucraini e i loro complici rifiutano di essere ridotti a carne da macello per le guerre dei padroni, oggi chi blocca le strade qui lo fa perchè rifiuta di essere complice della macchina del genocidio, per cui governo e industrie italiane ci vorrebbero mobilitare apaticamente. Non è il tempo di grandi parole. Se la speranza è che questo sentimento si espanda e si diffonda anche al di là di Gaza, contro il tecnocapitalismo e la sua guerra generale alla vita, che anche la giornata del 4 ottobre a Roma non sia che un tassello di ciò che verrà. Contro l’ineluttabilità. Solidarietà a tuttx x fermatx, feritx, arrestatx, e a chi lotta per non perdere un occhio colpito da un lacrimogeno delle guardie a Bologna. in tanti, tantissimi, distolgono gli occhi dagli schermi per incontrarne altri in strada, interrompendo la propria “normalità”, rompendo con disinvoltura gli argini di leggi repressive che fino a qualche mese fa sembravano paralizzanti, bloccando una strada, una fabbrica, una scuola, stazioni dei treni, porti, aeroporti, supermercati, scioperando dentro alle prigioni. Sguardi che si ritrovano complici nel riconoscere visceralmente ciò che è giusto e ciò che invece non è accettabile e nel realizzare improvvisamente che agire, in prima persona, conta. E’ un umano sentimento di intollerabilità a rompere il cinico nichilismo del tecnocapitalismo con la sua corsa verso la morte o la semi-vita per cavie e prigionieri all’aperto, di cui simbolo è la polizia penitenziaria in assetto antisommossa per le strade di Roma, sabato. In queste settimane si è aperto uno spazio per l’immaginazione. Se il recupero e i paletti da parte di partiti e sigle, con le proprie indicazioni di metodo, le proprie parole d’ordine, i propri tentativi “costituenti”, è dietro l’angolo, così come la possibilità che lo slancio di questi giorni venga smorzato dalle fila sinistre e politiche e ricondotto a mediazioni o infami “piani di pace” che vogliono disarmare la resistenza, mentre sul fronte orientale in Ucraina le macchine del terrore minacciano la distruzione totale, riuscire a coltivare nella durata questo sentimento, continuando a immaginare e sperimentare, ciascun a suo modo, forme di azione diretta – sentite e non rappresentate, legami più che composizioni, autonomie non contro-istituzioni – difendendo un senso morale di rifiuto dell’orrore, è ciò a cui la resistenza palestinese è riuscita a chiamarci. Se le piazze contro il Green Pass erano mosse da un umano sentimento di rifiuto ad essere ridotti a cavie, se i disertori russi e ucraini e i loro complici rifiutano di essere ridotti a carne da macello per le guerre dei padroni, oggi chi blocca le strade qui lo fa perchè rifiuta di essere complice della macchina del genocidio, per cui governo e industrie italiane ci vorrebbero mobilitare apaticamente. Non è il tempo di grandi parole. Se la speranza è che questo sentimento si espanda e si diffonda anche al di là di Gaza, contro il tecnocapitalismo e la sua guerra generale alla vita, che anche la giornata del 4 ottobre a Roma non sia che un tassello di ciò che verrà. Contro l’ineluttabilità. Solidarietà a tuttx x fermatx, feritx, arrestatx, e a chi lotta per non perdere un occhio colpito da un lacrimogeno delle guardie a Bologna.
Stato di emergenza
Voci dalla rivolta in Indonesia
Traduciamo dal sito statunitense it.crimethinc.com questo interessante rapporto sulla sollevazione in Indonesia e sul ruolo che vi ha giocato il movimento anarchico. VOCI DALLA RIVOLTA IN INDONESIA AFFAN KURNIAWAN CONTINUA A VIVERE NELLE STRADE Un’ondata di proteste è esplosa in tutta l’Indonesia alla fine di agosto 2025. In questo rapporto, presentiamo un’intervista con uno scrittore anarchico indonesiano incarcerato, insieme a varie dichiarazioni di gruppi anarchici che sono giunte alle testate di lingua inglese dall’inizio della rivolta. Dopo settimane di proteste in tutta l’Indonesia in risposta alle misure di austerità, la settimana del 25 agosto i dimostranti si sono radunati in massa per accusare l’élite politica indonesiana di disprezzo verso la gente e corruzione. Il governo indonesiano eroga ai rappresentanti parlamentari uno stipendio mensile di 100 milioni di rupie (circa 6.081 dollari), ovvero circa 30 volte lo stipendio minimo di Giacarta, dove si registrano gli stipendi più alti del Paese. La rabbia è esplosa quando sono circolate voci secondo cui i rappresentanti ricevevano 50 milioni di rupie in più al mese come indennità di alloggio. La notizia è stata diffusa in un periodo di forte inflazione, una nuova tornata di misure di austerità e un peggioramento della povertà. Sindacati, anarchici, studenti, esponenti della sinistra, giovani e altri manifestanti hanno riempito le strade la settimana del 25 agosto. Hanno subìto una dura repressione da parte della polizia al servizio dell’attuale presidente, Prabowo Subianto, che in precedenza ha ricoperto la carica di ministro della Difesa. Il 28 agosto, un’auto blindata della Brigata Mobile della Polizia Nazionale ha investito e ucciso Affan Kurniawan, un fattorino di 21 anni che si stava recando a consegnare del cibo. In risposta all’omicidio di Affan, fattorini, anarchici e giovani di diverse etnie si sono ribellati. I dimostranti hanno saccheggiato diverse stazioni di polizia, bruciato e saccheggiato le case dei politici e dato alle fiamme edifici governativi. Questa situazione ha costretto il primo ministro a saltare il vertice della Shanghai Cooperation Organization (SCO) cinese. Il governo ha suggerito di tagliare alcuni dei benefici concessi ai politici e alcune delle misure di austerità che hanno scatenato la rivolta. Tuttavia, il presidente Prabowo Subianto ha raddoppiato la repressione e ha chiamato l’esercito, causando almeno sei morti, tra cui uno studente picchiato a morte dalla polizia a Yogyakarta, Giava, e un conducente di risciò morto per esposizione a gas lacrimogeni a Solo, Giava. Il bilancio completo delle vittime rimane sconosciuto. Governata dal colonialismo olandese fino al 1949, l’Indonesia rimane profondamente polarizzata, con enormi disparità di risorse e potere; negli anni ‘60, le violenze contro membri e presunti simpatizzanti del Partito Comunista Indonesiano (PKI) costarono almeno centinaia di migliaia di vite. Il movimento anarchico contemporaneo emerse alla fine degli anni ‘80, grazie anche all’impegno delle band punk. La polizia istituì una divisione “anti-anarchia” nel 2011 e, in molteplici episodi, coloro che erano percepiti come anarco-punk furono rapiti e incarcerati in campi di rieducazione approvati dallo Stato. Ciononostante, il movimento anarchico ha continuato a crescere malgrado le avversità. Con una repressione statale senza precedenti in atto in tutto il pianeta, le coraggiose azioni dei ribelli in Indonesia sono di profonda ispirazione per coloro che rifiutano l’ordine mondiale capitalista. I manifestanti in Indonesia hanno segnalato diverse forme di repressione delle comunicazioni digitali, che probabilmente si intensificheranno se il conflitto continuerà a intensificarsi. Ci auguriamo che questo rapporto preliminare possa attirare l’attenzione sulla situazione, incoraggiando le persone in tutto il mondo a informarsi di più e ad agire in modo solidale. Affan Kurniawan non sarà dimenticato, né i suoi assassini perdonati. Solidarietà con i coraggiosi che lo stanno facendo nelle strade. Anarchici solidali con la rivolta indonesiana UNA CONVERSAZIONE CON IL PRIGIONIERO ANARCHICO E SCRITTORE BIMA Bima è uno scrittore, traduttore e ricercatore indipendente anarchico indonesiano, in carcere dal 2021. È ancora attivo dietro le sbarre come membro di una federazione anarchica. È anche il fondatore della casa editrice autoprodotta Pustaka Catut e autore del libro Anarchy in Alifuru: The History of Stateless Societies in the Maluku Islands, pubblicato da Minor Compositions. Puoi sostenere Bima tramite Patreon e scoprire di più su una campagna FireFund precedentemente attiva a loro favore. Abbiamo condotto questa intervista con Bima nei primi giorni di settembre 2025. Come vorresti presentarti? Sono uno scrittore, un prigioniero e un membro di una federazione anarchica che ha scelto di rimanere anonimo per motivi di sicurezza in questo momento spaventoso. Puoi fornire qualche informazione di contesto sulla rivolta attuale? Questa ondata di ribellione, iniziata a fine agosto 2025, è stata causata dall’accumulo di rabbia per varie questioni politiche ed economiche. Non c’era un problema unico. Ma tutto è degenerato a causa dei massicci aumenti delle imposte sulle case in tutta la regione, dovuti al deficit di bilancio del governo. Allo stesso tempo, i parlamentari hanno ricevuto un aumento di stipendio decuplicato. La situazione è stata aggravata dalle dichiarazioni spesso faziose dei funzionari. Ad esempio, il Reggente di Pati (il politico responsabile della supervisione del governo locale, delle politiche e dei servizi pubblici nella Reggenza di Pati, Giava Centrale, Indonesia) ha dichiarato: “Le tasse non saranno ridotte, nemmeno se si terrà una manifestazione di massa di 50.000 persone”. Pati è stata la prima città a esplodere, con un’affluenza di circa 100.000 persone il 10 agosto 2025. Le proteste contro l’aumento delle tasse si sono estese a Bone (nella provincia di Sulawesi Meridionale), poi ad altre città. Durante una manifestazione del 28 agosto a Giacarta, un fattorino di un’app di consegna di cibo online è stato ucciso dopo essere stato investito da un veicolo della polizia durante le proteste. Il giorno seguente, le manifestazioni si sono estese a molte città e continuano ancora oggi, mentre vi scrivo. Finora, almeno sei civili sono stati uccisi direttamente a causa della repressione della polizia, diverse abitazioni di funzionari sono state saccheggiate e una mezza dozzina di uffici della Camera dei Rappresentanti sono stati parzialmente o interamente incendiati. Eravamo convinti che questa ribellione si sarebbe placata, ma non è stato così. Quali tipi di gruppi sono stati coinvolti nella rivolta? E in che misura sono uniti? Sono numerose le organizzazioni, le reti e i gruppi che formulano richieste. Si potrebbe persino dire che ogni città ha le sue esigenze specifiche. In generale, le richieste “rivoluzionarie” sono due: la prima, proveniente dal Partito Socialista Indonesiano, Perserikatan Sosialis (PS), e l’altra, una rete informale e decentralizzata che ha emanato la Dichiarazione della Rivoluzione Federalista Indonesiana 2025, che chiede lo scioglimento dello Stato unitario e del sistema della DPR (Camera dei Rappresentanti indonesiana) e la sua sostituzione con un Confederalismo Democratico composto da migliaia di consigli popolari per l’attuazione della democrazia diretta. Ahmad Sahroni, membro della Camera dei Rappresentanti (DPR) del Partito Democratico Nazionale (NasDem), ha definito queste richieste “stupide”. Ciò ha portato all’attacco e al saccheggio della sua casa a Giacarta Nord il 30 agosto. Gli anarchici insurrezionalisti, gli individualisti e i post-sinistra si concentrano su attacchi e scontri di piazza, invocando la distruzione dello Stato e del capitalismo, ma senza preoccuparsi di una piattaforma o di un programma di rivendicazioni che si limitino a chiedere la riforma di ciò che già esiste. In genere non esiste un fronte unito, ma evitiamo un eccessivo settarismo ideologico. Purtroppo, ci sono anche liberali progressisti con richieste più riformiste, come la richiesta 17+8 (uno slogan attivista “pro-democrazia” che chiede che le richieste riformiste siano soddisfatte entro il 5 settembre 2025). Questo gruppo è fortemente influenzato dagli influencer liberali online che esortano a porre fine alle proteste. Questi influencer si sono spinti fino a sostenere che i manifestanti saranno ritenuti responsabili se l’esercito dichiarasse la legge marziale a causa della resistenza dimostrata nelle strade (tipico gaslighting centrista di recupero e demonizzazione della resistenza e delle organizzazioni rivoluzionarie). Fortunatamente, tutti gli elementi di sinistra e anarchici concordano sul fatto che le proteste dovrebbero intensificarsi. Non sappiamo ancora cosa accadrà, poiché questa guerra dei discorsi è ancora in corso. Onestamente, ci sono troppi gruppi coinvolti nella rivolta per offrire una risposta semplice. L’intero movimento di sinistra e anarchico di varie organizzazioni è sceso in piazza, ma non c’è stato un fronte unito. In ogni città, elementi progressisti della società, che si trattasse di studenti universitari, sindacati o persino studenti, hanno consolidato le loro azioni. Alcune azioni sono state spontanee e sono emerse come iniziative comunitarie non coordinate, come gli attacchi a posti e stazioni di polizia, in cui diversi di essi sono stati bruciati. In che modo gli anarchici contribuiscono alla rivolta? Sono un pessimista rivoluzionario, influenzato dal discorso dell’anarco-nichilismo. Ma continuo a sostenere la rivoluzione sociale perché non esiste uno spazio sociale vuoto. L’Indonesia è l’arcipelago più multiculturale del mondo, con migliaia di etnie e lingue. In alcune regioni sta emergendo un discorso separatista. Alcuni nobili di antiche monarchie spingono per il revivalismo. Ci sono anche fondamentalisti islamici autoritari e jihadisti che vogliono un califfato nel Paese. Quindi penso che sia impossibile per i rivoluzionari non offrire il loro programma come alternativa a tutte queste pessime possibilità. L’ondata di ribellione è un sintomo dell’imminente grande divisione, e gli anarchici devono assumere un ruolo. Altrimenti, le scelte sono pessime. Molto pessime. Cosa pensi che succederà con questa rivolta? E cosa vedi per il futuro del movimento anarchico in Indonesia? Sono pessimista al riguardo. Ci siamo affermati in diverse città, ma nel complesso siamo relativamente deboli, anche se fondamentalmente siamo piuttosto militanti. Siamo influenzati dall’approccio uruguaiano dell’Espesifismo, che prevede un’organizzazione a due livelli. Ciò significa che oltre ad aderire a organizzazioni politiche, aderiamo anche a movimenti di base come sindacati, organizzazioni studentesche, organizzazioni indigene e così via. Utilizziamo ancora la definizione classica di rivoluzione, ma per realizzarla è necessaria una solida base organizzativa popolare. Nonostante ciò, le recenti rivolte si sono ripetute come un ciclo dal 2019. Questo ci entusiasma perché significa che dobbiamo impegnarci per tenere il passo con le rivolte popolari e la volontà delle masse. Ma dobbiamo crescere e aumentare la nostra militanza per rimanere al passo con il ritmo della rabbia popolare. Non credo che ci saranno riforme a meno che non ci sia un violento rovesciamento del potere e il potere in carica non prometta riforme. L’attuale classe dirigente ha formato una coalizione gonfia che abbraccia tutta la sua precedente opposizione e “dà loro una fetta della torta”. Finora, siamo gli unici membri della rete antiautoritaria informale e decentralizzata a chiedere la rimozione del presidente e del vicepresidente. Il problema è che non c’è stata alcuna richiesta per la loro rimozione. Quindi, la riforma richiederà ancora tempo e una rivoluzione anarchica è impossibile a causa delle debolezze organizzative e dell’assenza di sindacati progressisti in grado di condurre uno sciopero nazionale. Tuttavia, la richiesta spontanea del popolo di sciogliere il parlamento attraverso l’hashtag #bubarkanDPR [“sciogliere il DPR”], il coinvolgimento di una massa più eterogenea di persone nelle proteste (l’Indonesia è nota per aver romanticizzato l’avanguardismo studentesco nel 1965 e nel 1998) e l’uso della violenza, rappresentano un progresso che sarebbe stato inimmaginabile un decennio fa. Gli anarchici hanno svolto un ruolo cruciale in questo. Tuttavia, personalmente non credo che il movimento anarchico porterà a una rivoluzione anarchica, anche se ne esistesse l’opportunità. Ma potrebbe esercitare un’enorme influenza libertaria attraverso un fronte unito che operi all’interno di gruppi consolidati. Ad esempio, la proposta di un confederalismo democratico rivoluzionario, che è in realtà in linea con le proposte anarchiche classiche, verrebbe probabilmente accettata dall’intero spettro dei movimenti di liberazione nazionale di sinistra e separatisti esistenti in alcune regioni. Forse. Anche le proteste del 2020 contro la Legge Omnibus sono state significative, ma la rivolta di quest’anno è la più sanguinosa, la più devastante e la più coinvolgente (abbiamo assistito a un notevole grado di radicalizzazione tra elementi della società). Non ha ancora superato l’escalation vista durante la caduta del regime militarista di Suharto nel 1998. Tuttavia, sono fiducioso che ciò possa accadere presto. Purtroppo, da ieri vi avverto che quando arriverà il momento atteso, non saremo pronti per la rivoluzione, anche se risponderemo principalmente partecipando a battaglie di strada. ALTRE VOCI DALL’INDONESIA Oltre all’intervista con Bima, il 2 settembre abbiamo ricevuto il seguente resoconto da Reza Rizkia a Giacarta: L’ondata di manifestazioni iniziate il 25 agosto 2025 in tutta l’Indonesia continua a dispiegarsi, lasciando dietro di sé una scia di tragedia e disordini. Quella che è iniziata come una protesta contro la proposta di un sussidio mensile di 50 milioni di rupie per l’alloggio dei parlamentari si è trasformata in un movimento nazionale con richieste più ampie: la valutazione delle prestazioni parlamentari, la riforma della polizia e la fine dell’uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza. Il 28 agosto, le tensioni sono aumentate dopo che un tassista motociclista, Affan Kurniawan, è stato investito e ucciso da un veicolo tattico della Brigata Mobile (Brimob) a Bendungan Hilir, Giacarta. Le immagini dell’incidente si sono diffuse rapidamente sui social media, scatenando proteste di solidarietà da parte di studenti e comunità di autisti delle piattaforme. La tragedia ha segnato un punto di svolta, amplificando la portata delle manifestazioni sia nella capitale che in tutto il Paese. La violenza si è presto estesa ad altre grandi città. A Makassar, i manifestanti hanno dato fuoco al palazzo del parlamento regionale (DPRD), uccidendo tre membri dello staff rimasti intrappolati all’interno. A Solo, un conducente di risciò di nome Sumari è morto negli scontri, mentre a Yogyakarta, lo studente Rheza Sendy Pratama è stato ucciso durante una manifestazione davanti al quartier generale della polizia regionale. Un’altra vittima, Rusmadiansyah, un conducente di risciò, è stato picchiato a morte dalla folla dopo essere stato accusato di essere un agente dei servizi segreti. Alcuni rapporti indicano anche altre vittime, tra cui uno studente di una scuola professionale a Pati. In totale, almeno sette-otto persone hanno perso la vita durante i disordini fino alla fine di agosto. Il governo ha risposto con le condoglianze. Il presidente Prabowo Subianto ha ordinato un’indagine aperta, mentre il capo della polizia nazionale e il capo della polizia di Giacarta hanno rilasciato pubbliche scuse per le vittime. Sette agenti della Brimob collegati alla morte di Affan Kurniawan sono stati arrestati e devono affrontare procedimenti legali. Tuttavia, la rabbia pubblica non accenna a placarsi. Al 2 settembre, le manifestazioni sono ancora in corso in diverse regioni con intensità sostenuta. Migliaia di manifestanti sono stati arrestati nell’ultima settimana, raggiungendo il picco il 29 agosto, quando oltre 1.300 persone sono state arrestate in un solo giorno. Allo stesso tempo, l’Alleanza dei Giornalisti Indipendenti (AJI) ha segnalato casi di violenza e ingerenze ai danni dei giornalisti che seguivano le proteste. Le manifestazioni di fine agosto segnano una delle più grandi ondate di protesta degli ultimi anni in Indonesia. Con il bilancio delle vittime in aumento, gli arresti di massa e i danni diffusi alle proprietà, l’opinione pubblica ora si chiede se il governo e il parlamento risponderanno alle richieste dei cittadini con riforme concrete, o se rischieranno di aggravare ulteriormente la crisi. Quando la rivolta iniziò a fare notizia a livello internazionale, anarchici anonimi scrissero diverse dichiarazioni descrivendo la situazione dal loro punto di vista, usando lo pseudonimo di “Arcipelago di Fuoco”. Volevamo includere anche le loro voci. 25 agosto 2025 “Giacarta non appartiene più alle élite corrotte. Migliaia di persone provenienti da ogni angolo del Paese hanno preso d’assalto la capitale. Questa non è solo una protesta, è un’esplosione collettiva di rabbia contro l’aumento delle tasse sulla casa, la corruzione senza fine e i cani poliziotto militari dello Stato. Dall’alba a mezzanotte, le strade si trasformano in un campo di battaglia di sfida. Urla, fuoco e pietre diventano il linguaggio della furia della gente. “Questo non è uno spettacolo di marionette delle élite; è rabbia pura, incontrollata, senza guida e impossibile da controllare”. 29 AGOSTO 2025 “I giovani arrabbiati si stanno ribellando, spinti dall’aumento delle tasse e da un esercito repressivo. Non c’è organizzazione; l’insurrezione è guidata da giovani anarchici, nichilisti e incontrollabili. Molti giovani anarchici delle associazioni studentesche delle scuole superiori vengono arrestati. Gli studenti delle scuole superiori sono l’energia. Circa 400 di loro sono stati arrestati il 25 agosto, secondo quanto riportato. La maggior parte delle azioni è coordinata in diretta sui social media. Di solito, qualche sindacato liberale o partito di opposizione controlla le narrazioni, ma non questa volta. Persino i media mainstream riconoscono che i social media sono la fonte della documentazione. I politici non possono più controllare le narrazioni. È tradizione da decenni che i corpi studenteschi esecutivi siano normalmente gli istigatori di questo tipo di manifestazioni, ma ogni anno questi mediatori vengono smascherati. Dagli studenti stessi. Ecco perché ONG, sindacati, “anarchici civili” e associazioni studentesche di sinistra e di destra odiano la fazione anti-organizzativa. “Che vadano tutti a quel paese. Noi stimoliamo i giovani ad agire da soli. “Gli individui non sono più spaventati dal dovere ideologico, dalle norme e da tutti quei valori esterni. “Ieri sera (28 agosto 2025), la polizia ha ucciso una persona. Sono scoppiate rivolte in tutto il paese contro l’aumento delle tasse. In diverse città, la rivolta è stata spontanea e auto-organizzata. L’immagine pubblica della polizia continua a sgretolarsi, mentre la gente sostiene i rivoltosi. Alcune cellule hanno coordinato altre azioni e i proclami nichilisti-insurrezionalisti stanno dominando la narrazione. “Account anonimi sui social media con migliaia di follower invocano un’insurrezione antipolitica. Ogni giorno, fanno proclami e forniscono spiegazioni convincenti. “I sindacalisti hanno annunciato che sarebbero scesi in piazza e che ‘non ci sarebbero state rivolte’, ma i giovani e i rivoltosi li hanno subito presi in giro sui social media. Lasciamo fare ai giovani. Possiamo solo stimolarli a essere più incontrollabili. Di notte, internet è andato a rotoli. Mentre gli “anarchici civili” chiedono consigli popolari, noi chiediamo di mandare tutto all’aria. Forniamo solo coordinamento di rete e dati tecnici per l’azione di strada. Non organizziamo mai veramente le persone. “A partire da venerdì 29 agosto, gli anarchici controllano sostanzialmente la narrazione. La gente sta rispondendo a livello nazionale all’appello per attaccare le stazioni di polizia e la polizia stessa. I mass media hanno perso il controllo dell’informazione e delle notizie. “La nostra rete continua a invocare vendetta dopo l’omicidio della polizia di ieri sera, e la situazione si fa sempre più critica. Le cellule sono nelle strade. “Si può vedere la rivolta su vari organi di informazione, anche se i video migliori si trovano solo sui social media”. Arcipelago di Fuoco “Questo va oltre le nostre previsioni. Di solito, durante una manifestazione, i manifestanti si limitavano a lanciare pietre o a bruciare uno pneumatico davanti all’ufficio. Non hanno mai fatto irruzione nell’edificio per dargli fuoco”. Anarchici anonimi in Indonesia
Approfondimenti
Ubu Re nell’èra della tecnocrazia
Se è di un’evidenza abbacinante la natura suprematista e colonialista del “piano Trump” per Gaza, forse l’aggettivo più corretto per definire il discorso con cui il presidente degli Stati Uniti lo ha annunciato è «ubuesco». Soltanto la penna di un Alfred Jarry, infatti, avrebbe potuto descrivere un potere a tal punto mostruoso nei mezzi e grottesco nelle pretese. Alcune frasi di Ubu Roi – l’opera teatrale che l’autore francese scrisse nel 1896 – si sarebbero incastonate alla perfezione nella conferenza di Trump. L’immobiliarista statunitense, con a fianco il suo amico genocida, ha promesso una vita piena di prosperità a una popolazione che vive in un carcere di massima sicurezza, in mezzo a una distesa di rovine, tra la fame e le bombe. Non diversamente da Ubu Re, che annunciava tronfio : «Va bene, acconsento a espormi per voi. […] Grazie a me, avrete di che cenare. […] Sono dispostissimo a diventare un sant’uomo, voglio essere vescovo e vedere il mio nome sul calendario». Se la patafisica fondata da Jarry era «la scienza delle soluzioni immaginarie», noi viviamo nell’epoca in cui la tecnoscienza, togliendo ogni misura storica ai problemi, può offrire delle soluzioni eterne. Proprio così. In poche ore (72, per la precisione) ci si può avviare, se tutti fanno quello che dice Padre Ubu, verso una «pace eterna» in grado di risolvere per sempre un conflitto che va avanti da «due-tremila anni». Millennio più, millennio meno. Per vendere una soluzione eterna, il problema deve ben essere millenario. Circoscriverlo storicamente al progetto sionista, alla Dichiarazione Balfour, alla nascita dello Stato israeliano o alla «linea verde» oltrepassata da Israele nel 1967, non permetterebbe alla tecnoscienza delle soluzioni immaginarie di girare a pieno regime. Un immobiliarista che agisce per conto di Dio, un Padrone delle Finanze attorniato da transumanisti che vogliono colonizzare Marte, non è tenuto nemmeno a precisare tra chi e chi sarebbe in corso questo conflitto da «due-tremila anni». Ubu Re (quello di Jarry): «Dovete convincervi che se siete ancora vivi […], lo dovete alla virtù magnanima del Padrone delle Finanze, che si è affannato, sfacchinato e sgolato a recitare paternostri per la vostra salvezza […]. Abbiamo persino spinto oltre la nostra dedizione, perché non abbiamo esitato a salire su una roccia altissima affinché le nostre preghiere avessero meno strada da fare per giungere sino al cielo». Come noto, non ci sono Soluzioni senza un Piano. «Gaza sarà riqualificata a beneficio della popolazione». Ci penserà il Consiglio di Amministrazione. «Questo organismo [il Board of Peace] si baserà sui migliori standard internazionali per creare una governance moderna ed efficiente al servizio della popolazione di Gaza e che favorisca l’attrazione di investimenti». Il Piano «sarà elaborato convocando un gruppo di esperti che hanno contribuito alla nascita di alcune delle fiorenti e miracolose città moderne del Medio Oriente». Se la pace è «eterna», le città non possono essere niente meno che «miracolose». Altro che quartieri pieni di strade e vicoli o villaggi circondati dagli uliveti. «Sarà istituita una zona economica speciale con tariffe di accesso preferenziali da negoziare con i paesi partecipanti». «La Nuova Gaza sarà pienamente impegnata a costruire un’economia prospera». Ubu Re (quello di Jarry): «Vi conduco verso una felicità che adesso non sareste nemmeno in grado di sognare. Solo io lo so». Io e altre «brave persone» – Erdogan, Tony Blair, il monarca dell’Arabia Saudita – le cui soluzioni non sono state meno eterne per i curdi, gl’iracheni e gli yemeniti. (Ed è certo solo un caso che Tony Blair sia anche consulente di British Petroleum, la multinazionale inglese intenzionata a sfruttare i giacimenti di gas al largo di Gaza.) Maurice Genevoix, nel suo Un Jour (1976), aveva già aggiornato il ritratto dei tiranni ubueschi nell’èra della tecnocrazia: «saltimbanchi, persone designate per la loro pura omni-incompetenza, buoni a nulla con poteri mostruosi». Per concludere: «È il mondo alla rovescia, c’è da disperarsi». I buoni a nulla hanno oggi poteri ancora più mostruosi. Il potere di far sorgere «città miracolose» su decine di migliaia di cadaveri e sull’immane devastazione prodotti dal primo genocidio automatizzato della storia. Sicuri che i sopravvissuti – quelli che l’unità 8200 dell’esercito israeliano non ha trasformato in «spazzatura» algoritmica – sapranno cogliere «l’opportunità di costruire una Gaza migliore», grazie a un «comitato palestinese tecnocratico e politico». Un massacro tecnologicamente organizzato non può che avere una soluzione «tecnocratica». Messianico il primo, eterna la seconda. È un Piano mostruoso. Infatti anche le tecnocrazie russa e cinese sono d’accordo. Circondati da specialisti omni-incompetenti di tutto ciò che è umano, di ciò che richiede soluzioni storiche e sociali commisurate a problemi storici e sociali, gli Ubu Re osano annunciare – Himalaya di infamia e di stupidità – che tra gli sterminatori e gli sfuggiti allo sterminio ci sarà una «convivenza pacifica», e che la vita futura di questi ultimi sarà «prospera» per gentile concessione dei suoi colonizzatori e di chi li ha sostenuti, finanziati e armati. Mentre i commentatori stipendiati e i saltimbanchi politici scommettono sulla ubuizzazione dei nostri cervelli («È fattibile il piano Trump?», chiede l’elegante presentatrice all’immancabile esperto), c’è un unico argine agli ubueschi deliri di un potere insaziabile: la rivolta degli oppressi. La cui sacrosanta violenza potrà mantenere la misura della libertà solo conservando intatto il disgusto verso i mezzi mostruosi e disumani dei propri oppressori.
In primo piano
Il fanale oscuro
L’architettura digitale del genocidio e i palestinesi come “spazzatura” algoritmica: Gaza nella guerra globale
Segnaliamo questo articolo che contiene un’utile sintesi sull’impiego dell’Intelligenza Artificiale nel genocidio in corso a Gaza, e sull’impatto che il primo sterminio algoritmico della storia sta avendo e avrà sui complessi scientifico-militar-industriali in guerra fra loro (e tutti insieme in guerra contro il vivente). Illusorio e fuorviante auspicare che tale sviluppo possa essere normato. Solo i palestinizzabili del mondo intero possono sabotare i mezzi della disumanità, grazie alla consapevolezza che la propria incarcerazione tecnologica può trasformarsi in annientamento automatizzato: il quadrante dei comandi è lo stesso. https://codice-rosso.net/laboratorio-gaza-intelligenza-artificiale-principale-arma-di-distruzione-di-massa-esercito-israeliano/
Contributi