Qui il pdf: Angiolillo
Michele Angiolillo. Anarchico, internazionalista, giustiziere
L’8 agosto 1896, nella stazione termale basca di Santa Águeda, il primo ministro
spagnolo Antonio Cánovas del Castillo viene ucciso con un colpo di pistola. A
sparare è Michele Angiolillo, un anarchico foggiano di venticinque anni. Durante
la sua arringa difensiva, il giovane anarchico dichiarerà di aver ucciso Cánovas
in quanto personificazione di «ciò che hanno di più ripugnante la ferocia
religiosa, la crudeltà militare, l’implacabilità della magistratura, la tirannia
del potere e la cupidigia delle classi possidenti. Io ne ho sbarazzato la
Spagna, l’Europa, il mondo intero. Ecco perché io non sono un assassino, ma un
giustiziere!». Il suo riferimento al «mondo intero» non è un’iperbole retorica.
Negli stessi anni in cui il primo ministro spagnolo dispiega una feroce
repressione interna, culminata nella proclamazione della legge marziale a
Barcellona e nelle torture inflitte a centinaia di prigionieri nell’infame
fortezza di Montjuïc, i suoi governatori coloniali e i suoi generali rispondono
con la strage e con i campi di concentramento (i primi della storia)
all’insurrezione cubana e alla sollevazione nelle Filippine. Non a caso il libro
che Angiolillo porta con sé, quando parte da Londra con il proposito di
giustiziare Cánovas, è Les Inquisiteurs d’Espagne, de Cuba e des Filippines,
scritto dall’anarchico creolo cubano Fernando Tarrida del Mármol, anch’egli
detenuto a Montjuïc. Nella sua arringa Angiolillo parla esplicitamente, oltre
che di Montjuïc, della violenza coloniale a Cuba e nelle Filippine.
Sotto il tallone di Crispi
Michele Angiolillo era nato a Foggia il 5 giugno 1871 (subito dopo la sanguinosa
repressione della Comune di Parigi). Durante gli anni di studio presso un
istituto tecnico, diventa un militante repubblicano radicale. Esce
dall’esperienza della coscrizione militare con convinzioni anarchiche. In
occasione delle elezioni del 1895, pubblica un manifesto contro le «leggi
scellerate» promulgate dal primo ministro Crispi. Il Cánovas italiano, subito
dopo avare represso nel sangue il moto dei Fasci siciliani e l’insurrezione
scoppiata in Lunigiana in solidarietà con i contadini della Sicilia, si prepara
all’aggressione imperialista in Abissinia – conclusasi con la disastrosa
sconfitta di Adua –, di cui la legislazione d’emergenza è il riflesso sul fronte
interno. Per il suo manifesto Angiolillo viene arrestato con l’accusa di
«incitazione all’odio di classe». Rilasciato in attesa del processo, il giovane
compagno spedisce una lettera al ministro della Giustizia in cui attacca il
pubblico ministero, cosa che gli procura una condanna a diciotto mesi di carcere
e tre anni di confino. A quel punto Angiolillo parte sotto falso nome e
raggiunge Barcellona passando per Marsiglia. Nel capoluogo catalano impara il
mestiere di tipografo e partecipa attivamente alle attività del movimento
anarchico, all’epoca vero e proprio crocevia cosmopolita. Collabora, tra le
altre cose, a «La Ciencia Social» insieme a Tarrida e Ramón Sempau (lo scrittore
e poeta bohémien, nonché simpatizzante anarchico, che cercherà di giustiziare il
luogotenente Portas, responsabile delle torture a Montjuïc). Dopo l’attentato al
Corpus Domini – di cui diremo in seguito –, Angiolillo scampa alla retata
organizzata da Cánovas contro centinaia di sovversivi – tra cui Cayetano Oller,
compagno dell’anarchico foggiano – e ripara a Marsiglia. Qui viene arrestato per
dei documenti falsi e, dopo un mese di carcere, viene espulso in Belgio. Quando
la campagna internazionale lanciata da Tarrida contro Cánovas è al suo apice,
Angiolillo si trasferisce a Londra, dove ritrova Oller – sottoposto a terribili
torture a Montjuïc, rilasciato per mancanza di prove ed espulso dal suo stesso
Paese –, e dove partecipa all’imponente manifestazione organizzata dal Commitee
on Spanish Atrocities, comitato promosso anche da Tarrida, il quale
nell’occasione parla per la delegazione dei rivoluzionari cubani. Durante la
manifestazione prende la parola anche l’anarchico francese Charles Malato, che
nel suo intervento invoca vendetta per le vittime di Cánovas, tra cui cita lo
scrittore filippino José Rizal, assassinato nella colonia spagnola; ma
soprattutto salgono sul palco alcuni dei torturati di Montjuïc, i quali mostrano
in pubblico i loro corpi mutilati. Qualche tempo dopo, l’anarchico foggiano
incontra personalmente Francisco Gana, che portava i segni indelebili delle
sevizie subite dagli aguzzini spagnoli. Così descrive la scena, nella sua
autobiografia (Nella tormenta), l’anarchico tedesco Rudolf Rocker:
Quella notte, quando Gana mostrò le sue membra mutilate e le cicatrici che le
torture avevano lasciato su tutto il suo corpo, capimmo che leggere di tali
questioni è una cosa, ma sentirne parlare dalle labbra di chi le ha subite è
un’altra. […] Eravamo tutti seduti immobili, pietrificati, e trascorsero diversi
minuti prima che fossimo in grado di proferire qualche parola di indignazione.
Solo Angiolillo rimase in silenzio e, poco dopo, si alzò pronunciando un
laconico saluto per poi lasciare l’abitazione. […] Questa fu l’ultima volta che
lo vidi.
L’ultima volta che lo vide il mondo, fu il 20 agosto 1986, il giorno in cui il
giovane anarchico fu garrotato. Non prima di aver urlato al mondo «Germinal!».
Dalle segrete di Montjuïc
Il 7 giugno 1896, a Barcellona, una bomba esplode durante la processione del
Corpus Domini, causando tre morti sul colpo e decine di feriti (nove dei quali
moriranno in seguito). Benché non si possa escludere che sia stata un’azione
indiscriminata – alla Oberdan, per intenderci – contro l’odiatissima Chiesa
spagnola, alleata della monarchia, stampella dei latifondisti e architrave
dell’amministrazione coloniale, i sospetti di una provocazione poliziesca
perdurano tutt’oggi. Come che sia, Cánovas decreta la legge marziale a
Barcellona e fa arrestare più di trecento persone. Meno noto è che la fortezza
di Montjuïc diventa – a dispetto dei nuovi inquisitori – un luogo di incontro
tra anarchici di vari Paesi, rivoluzionari cubani e deportati filippini. Un
esempio emblematico di tale crogiuolo è la condivisione della stessa cella da
parte di Ramón Sempau – incarcerato per aver cercato di giustiziare il
torturatore Portas – e di Isabelo de los Reyes, già autore del pionieristico El
Folk-lore Filipino. Tornato poi a Manila, Isabelo, che aveva conosciuto anche
Malatesta, vi porta le prime pubblicazioni anarchiche apparse nelle Filippine, e
metterà in campo quello che dice di aver imparato dagli anarchici
nell’organizzazione degli scioperi e nella creazione delle prime Unioni Operaie.
Quanto a Sempau – esempio di intreccio tra mondo artistico radicale, ideali
libertari e propaganda del fatto – sfuggirà alla corte marziale e alla condanna
a morte grazie alla campagna internazionale sugli orrori di Montjuïc.
Tornanti
La condanna a morte di Francisco Ferrer nel 1909, così come il movimento
internazionale per impedirla, prolunga questa storia. Non solo perché
l’esecuzione avvenne, il 13 ottobre, proprio nella fortezza di Montjuïc. Ma
soprattutto perché l’accusa contro Ferrer era quella di aver fomentano la
«Settimana tragica», la rivolta proletaria e anarchica per impedire l’invio di
coscritti chiamati a sedare l’insurrezione in Marocco. In molte città europee le
manifestazioni per Ferrer daranno vita a scontri con la polizia. A Torino, dopo
la proclamazione dello sciopero generale, le dimostrazioni assumeranno un
carattere quasi insurrezionale nei quartieri di Barriera di Milano e di Borgo
San Paolo.
Per via del ruolo giocato dai repubblicani e dai democratici nella campagna per
Ferrer, quest’ultimo è ricordato come un martire del libero pensiero, come un
precursore dell’educazione laica contro l’oscurantismo religioso. Ferrer fu
anche questo, certo, ma fu soprattutto un combattente sociale, redattore tra
l’altro de «La Huelga general», i cui proclami erano inequivocabili: Viva la
Revolución, Viva la dinamita!.
In un’epoca in cui soffiano di nuovo i venti di guerra e sull’altra sponda del
Mediterraneo il suprematismo occidentale sta consumando un genocidio; in un
presente nel quale si moltiplicano attraverso i continenti le odierne «leggi
scellerate» contro il dissenso interno, ricordare il gesto di Angiolillo e il
suo «Germinal!» significa riattualizzare quell’internazionalismo che è parte
integrante della nostra storia. Non siamo piume al vento.
(Gli elementi storici alla base di questo testo sono tratti soprattutto dal
prezioso Anarchismo e immaginario coloniale, scritto da Benedict Anderson nel
2005 e pubblicato quest’anno da elèuthera)
Source - il Rovescio
cronache dallo stato di emergenza
Riceviamo e diffondiamo:
Qui il pdf: Quelli che benpensano(1)
QUELLI CHE BENPENSANO.
OVVERO DELLA DIFESA DEL CLAN
Questo non breve testo nasce come replica a “Da pari a pari. Contro
l’autoritarismo identitario”, diffuso nel luglio scorso.
Come per i suoi autori, anche per chi scrive sarebbe stato più semplice e
conveniente ignorare quest’ennesima uscita e tirare avanti, come in altre
occasioni, e ultimamente di occasioni ce ne sarebbero state diverse. Tuttavia,
per ragioni che si tenterà di chiarire più sotto, questa volta si è ritenuto
valesse la pena buttare giù qualcosa, ritenendo che invece altri scritti dal
tenore simile usciti di recente non meritassero risposte più o meno articolate.
Ahinoi, e ahivoi, tante cose vengono purtroppo dette e scritte, alcune
sapientemente non in testi diffusi ai quattro venti, concetti chiari come il
sole vengono infatti esplicitamente definiti in conversazioni fra anarchici
(anche senza “un bicchiere di vino davanti”), durante assemblee di compagni e
compagne o più o meno allargate. Per fortuna di tutti/e, almeno non si va più in
tv in diretta nazionale a raccontare la propria visione del mondo, più o meno
brillante che sia.
Le righe che seguono non conterranno citazioni di maître à penser
dell’anarchismo, di figure cardini della filosofia occidentale o di compagni/e
prigionieri/e, ma quasi unicamente ciò che scaturisce dai ragionamenti di chi lo
ha scritto. Proprio per questo, potrà essere sicuramente opinabile, lacunoso,
criticabile da diversi punti di vista.
L’intento, infatti, non è “vincere il confronto”, non convincere né persuadere,
non c’è dietro il fine di prendere le difese di alcun singolo/a o di
qualsivoglia comunità, tanto meno sfoggiando la lista dei classici letti durante
una vita, le proprie nozioni in fatto di storia dell’arte o la propria
padronanza della lingua italiana per mezzo di scioglilingua, eccetera.
Non contiene riflessioni originali e, inoltre, analisi e disamine più adeguate,
complete ed organiche sui temi di seguito toccati sono già state svolte, più
volte, in altri scritti usciti negli ultimi anni.
Postmodernismo?
Tuttavia, neanche “Da pari a pari” contiene a ben vedere nessuna riflessione
particolarmente originale, ma si limita a girare attorno ai soliti, triti e ben
noti ragionamenti già in passato esposti, presentandone più che altro un
collage, anche se, va detto, relativamente più elegante e argomentato del
solito.
Differenza di rilievo è la sostituzione del perno attorno al quale ruota quasi
tutta l’esposizione. Infatti, al vecchio nemico interno al “movimento”
anarchico, il (trans)femminismo, è adesso sostituita la nuova, terribile, letale
minaccia, ovvero la filosofia postmodernista di importazione yankee. Le
argomentazioni cambiano in parte di conseguenza, ma il ragionamento a queste
sotteso è più o meno lo stesso.
Il filo conduttore è appunto una lunga dimostrazione della semi-nuova tesi
sull’origine di quasi tutti i mali odierni del “movimento”: l’ideologia
postmodernista importata dagli Stati Uniti, il virus scappato – non
accidentalmente – “dalle università statunitensi e altri laboratori del potere è
penetrato piano piano nell’anarchismo”. Quindi, le cause delle presenti
condizioni (qualsiasi lettura se ne voglia dare), non andrebbero ricercate in
tutto ciò che potrebbe venire in mente a una più o meno superficiale o
approfondita disamina dell’attualità e degli ultimi decenni del “movimento”
anarchico informale nostrano e non solo. No, è colpa del postmodernismo (un
capro espiatorio un po’ fuori tempo massimo, a dir la verità).
Il sabotatore interno, un po’ come alcuni dicevano appunto del femminismo negli
anni ‘70 e fino all’altroieri. Infatti, l’altro grande nemico da cui guardarsi
con attenzione, l’altro vettore del morbo americano, anche se un po’ più in
sordina, sarebbe infatti il femminismo intersezionale.
I detective del postmodernismo scandagliano testi e comunicati alla ricerca di
parole chiave indicanti la chiara matrice del postmodernismo che li permea in
modo latente – che tuttavia non può sfuggire al loro sguardo attento – la foga e
l’urgenza di scovare i nipotini di Lyotard e Derrida è grande, vedendosi da ogni
parte assediati da essi.
Da ridere per non piangere, ma tant’è, questi sono i nostri veri problemi, ci
informano.
Non ci si assume l’impresa di tentare di argomentare contro questa tesi, tanto
quanto risulta assai difficile, di solito, argomentare contro le teorie note
come “teorie del complotto”.
A parte gli scherzi quindi, andando con ordine e un po’ più sul pratico, il
problema del come affrontare fatti di violenza sessuale, i “fatti delicati” come
vengono chiamati nel testo (o “fatti di letto fra due persone”, come li ha
definiti un osservatore, bisogna ammettere, particolarmente sagace) e le
dinamiche di potere a essi legate – non sganciate o separate da questi, ma
legate e inseparabili – è in realtà ancora ben lungi dall’essere pienamente
assunto anche nel “movimento”, sia a livello di entità e portata della questione
che a livello di metodo (o metodi) per non parlare poi del da farsi. Ma il
problema, anzi i problemi, sono ancora più a monte.
Sono, ad esempio, nella pretesa di arrivare ad un incontrovertibile “fondatezza”
di ciò di cui di volta in volta si discute, a una dimostrazione, che non può
avvenire – ci insegna il metodo scientifico – se non in presenza di prove.
Da qui, il primo dei cortocircuiti logici che attraversano “Da pari a pari”, per
i quali le stesse accuse che gli autori muovono altrove potrebbero essere
facilmente rivolte contro la posizione da loro assunta. In questo caso, si
ripudia un atteggiamento inquisitorio verso chi viene riconosciuto come
aggressore, non si vogliono i tribunali – e ci mancherebbe! – però si vogliono
le prove dalle aggredite. Un modo di procedere, azzardo, di matrice che si
potrebbe definire persino scientista.
Perché si vogliono prove? Forse perché si aspira in segreto al ruolo di giudici
in un immaginario grand jury anarchico che deciderebbe su queste e altre
questioni in maniera “imparziale”? Si spera di no. Perché dietro la pretesa di
ottenere delle prove si cela la preoccupazione per la tenuta del gruppo, il
timore di rotture irrecuperabili in seno alla famiglia, il terrore di doversi
guardare, tutti/e, allo specchio, vedendo così chiaro quello che non si sarebbe
mai immaginato dover vedere? Neanche questo… Perché si è tutto sommato
intimamente convinti di essere circondati da donne e compagne che si alzano la
mattina inventando storie di violenza da loro subita perché non sanno come
passare il tempo oppure col fine di calunniare il primo che passa per chissà
quale motivo?
Non si vorrebbe credere nemmeno a questo, ma sembrerebbe proprio trattarsi di
ciò leggendo alcuni passi come “ascoltare una campana soltanto, acriticamente e
per partito preso, non può che dare ad alcune persone il privilegio (questo sì
reale) di mentire, poiché le sgrava dall’onere di fare affermazioni credibili”,
oppure “a meno che non si sostenga che gli appartenenti a categorie oppresse non
possano nutrire secondi fini, e raccontare e finanche raccontarsi frottole – un
rischio particolarmente alto in quest’epoca di soggettivismo quasi
psichedelico”.
Non occorre essere dotati di particolari strumenti d’analisi per rendersi conto
che tutta la società intorno a noi – non quella “postmodernista”, l’altra – ci
dà sufficienti evidenze che queste sono argomentazioni insulse e portarle come
pretesti per non credere a chi ha subito violenza è veramente agghiacciante.
Concedendomi una scivolata di cattivo gusto, in casi di aggressioni contro i
compagni/e o verso migranti o altri marginali, andiamo forse a chiedere la
versione dei fatti a fascisti, razzisti o sbirri?
Insomma, il “movimento” anarchico sarebbe pieno di bugiarde e millantatrici e
gli/le appartenenti alle “categorie” (che brutta parola) oppresse si sarebbero
organizzati per raccontare frottole non solo a loro stessi, ma bensì a tutti/e
quanti/e, per farsi passare per “vittime” e ottenere attenzioni conseguenti.
Insomma, si propone un approccio scettico, diffidente, per niente incline alla
fiducia verso queste “categorie”, che anzi andrebbero prese molto con le molle
per non correre il rischio di farsi abbindolare.
Chi scrive pensa che l’ascoltare più “campane” sia un approccio di buonsenso e
valido come metodo di base, alla condizione però che si sia molto ben in grado
di discernere ciò che viene sostenuto dalle diverse parti, altrimenti si corre
fortemente il rischio di lasciarsi convincere di qualsiasi cosa, di qualsiasi
versione dei fatti, di qualsiasi punto di vista, in base ad esempio all’abilità
narrativa di chi lo sostiene, alla sua notorietà (conquistata sul campo,
s’intende), o magari alla sua autorevolezza e influenza (anche queste,
ovviamente, conquistate sul campo). Si rischia insomma di diventare delle
banderuole, senza un proprio ordine di pensiero, soggetti a cambiare idea se il
primo che passa riesce a farcela cambiare. E questo è ciò che capita, troppo
spesso.
Come si può fare a raggiungere un certo grado di discernimento riguardo a temi e
questioni di cui, dal momento che nessuno/a nasce imparato/a, si ignora molto o
quasi tutto, tanto a livello teorico che pratico?
Senza alcun intento rivelatore, ritengo che un buon inizio sia rendersene conto,
realizzare che – per quanto ci possa sembrare assolutamente sconvolgente,
inimmaginabile, inaudito – ci mancano dei passaggi d’analisi, la visione
d’insieme è lacunosa e parziale, non si è in possesso di un bagaglio
teorico-pratico adeguato ad affrontarle, certe questioni. Il secondo,
l’autocritica rispetto a questo, anche se di questi tempi, si sa, non va più
tanto di moda. Infine, cercare di fare quel che c’è da fare per rimediare.
Da dove la necessità di un atteggiamento autocritico, anche quando si pensa di
saper già tutto quel che c’è da sapere mentre tutto il resto è obiettivamente
irrilevante?
Non capire, o peggio, reputare non “gravi” livelli di oppressione che non si
riescono a mettere a fuoco – a volte semplicemente perché non vissuti – ergersi
a “giudici” nel senso di stabilire ordini di priorità, gravità, importanza,
denota l’esercizio di una presunta superiorità morale sulla pelle di altre
persone la cui sola idea ripugna.
Se non si riesce a farsi una ragione di questo o si preferisce semplicemente
scegliere di non farlo – che è esattamente ciò che avviene – secondo il mio
modesto parere non si potrà che reiterare e ricadere all’infinito e in ogni
occasione nelle solite zavorre mentali e nei soliti atteggiamenti di strenua
difesa di una baracca che fa acqua da tutte le parti.
Rincuora la dichiarazione degli autori del testo “Da pari a pari” sulla
necessità di mettersi in ascolto di chi ha subito o subisce violenza, ma ahinoi
e ahiloro, al di là delle astratte dichiarazioni d’intenti, quello che quasi
sempre succede nella realtà – la realtà che abbiamo sotto gli occhi, non le
tante realtà potenziali spogliate del principio di verità – è piuttosto il
contrario. La tendenza è quella a sminuire, ridimensionare e minimizzare ciò che
sostiene la persona che ha subito violenza, ci si precipita piuttosto e più
volentieri a sentire cosa ha da dire l’aggressore in sua difesa e
giustificazione. Spesso si ha quasi l’impressione che, in un totale quanto
assurdo ribaltamento dei fatti e della logica la “vittima” diventi l’aggressore
e non piuttosto l’aggredita.
Proprio perché si vogliono prove, dati di fatto. Proprio perché non ci può
essere certezza su fatti a cui “nessuno ha assistito” – “se la verità fattuale
non esiste o comunque non è rinvenibile” scrivono i 5 indiani – di chi ci si può
fidare? Bel problema. Certamente non di compagne infettate dal virus
postmodernista e loro solidali, sembrano avvertire.
Più significativamente, “alla veridicità del fatto si sostituisce l’appartenenza
a un determinato soggetto” sostengono ancora. Su questo, a dire il vero, hanno
ragione. Però qui si manifesta anche il secondo dei cortocircuiti logici, per
cui la critica che essi muovono è esattamente applicabile allo stesso
atteggiamento opposto e speculare da loro assunto e rivendicato. Se si guarda a
quel che succede veramente nella realtà, la veridicità è attribuita sempre e
solo solo in un senso, a quello dell’oppressore. Se si è capito bene dalla loro
esposizione, tra l’altro, questo modo di procedere è decisamente postmodernista…
A leggere “Da pari a pari”, sembrerebbe a dire il vero che i suoi estensori, a
livello puramente teorico, riconoscano e facciano propria la necessità (qualora
esistano delle evidenze, naturalmente) di intervenire in certi frangenti in modo
drastico. Il problema di questo approccio tutto teorico è che nella pratica non
si presenta mai il caso in cui è necessario intervenire, mai. C’è sempre
qualcosa che induce a pensare che, in fondo, non si sta parlando proprio di
quello, c’è sempre qualcosa che non torna nella storia raccontata dalla persona
aggredita, aleggia sempre l’ombra della femmina mentitrice. Le evidenze, di
conseguenza, non bastano mai. Il bignamino è stato mandato a memoria, ma nella
pratica non si sa che farsene.
Ognuno/a esiste soprattutto su ciò che fa, non tanto su ciò che dice.
Altrimenti si è in presenza, in parole povere, di paraculismo. Per i più
colti/e, profonda disonestà politica e intellettuale.
Si viene, ancora, quasi sollevati dalla discreta lista di “Ovviamente siamo
consapevoli che…”, “Ci sembra legittimo, ad esempio, che…”, “sarebbe atroce, ad
esempio, pretendere…”, “Senza disconoscere che…”, tuttavia, alla fine, si torna
sempre al punto di partenza.
Il problema (terzo corto circuito logico), indiani, è che succede che chi
aggredisce, violenta, stupra, pensa e sostiene di non aver fatto alcunché di
sbagliato, di fuori dal normale, perché non se ne rende nemmeno conto. Lo
sostiene perché crede che “alcuni episodi” possono succedere in certi frangenti
– svariati stati mentali e condizioni eccezionali vengono usati come alibi,
troppo lungo qui elencarli tutti – e che in definitiva, proprio per questo non
siano poi così gravi, questi episodi.
Lo pensa e lo sostiene, spesso, anche dopo che gli è stato spiegato. Se se ne
fosse reso conto prima, talvolta anche se non sempre, non avrebbe fatto ciò che
ha fatto. Se se ne rendesse conto dopo, inizierebbe un’opera di profonda messa
in discussione, si assumerebbe un problema. Il che, da ogni individuo che
pretende di ragionare in senso politico, è il minimo che ci si debba aspettare.
Certamente, come voi stessi dite bene, presupponendo che costui “non possa
nutrire secondi fini e raccontare e finanche raccontarsi frottole”, il che è
relativamente probabile “in quest’epoca di soggettivismo quasi psichedelico”.
Banalità di base (I)
Ogni lotta è – potenzialmente – soggetta in tutto o in parte a recupero da parte
del sistema di dominio, con le buone o con le cattive. Femminismo, ecologismo,
antispecismo, antimilitarismo, lotte territoriali di ogni sorta, le lotte contro
il carcere e i Cpr. Tutto è in potenza fagocitabile, digeribile e pacificabile
dallo Stato, dai suoi apparati e dalla miriade di soggetti conniventi, dato
l’arsenale recuperatorio oggi a disposizione.
Dirimenti sono i metodi e, di conseguenza, le pratiche coerentemente adottate.
Prendere, consapevolmente e strumentalmente, a obiettivo delle proprie critiche
solo una parte di un vasto insieme di metodi e pratiche di opposizione
generalizzandola al tutto, per poter agevolmente tentare di screditare l’intero
insieme, è miserevole.
A simbolo dell’antimilitarismo non prendiamo la marcia per la pace di Assisi, a
esempio delle lotte contro i Cpr non ci viene in mente LasciateCIEntrare, a
esempio del “movimento” anarchico italiano non prendiamo la corrente della
federazione anarchica italiana.
Similmente a quanto talvolta accade in maniera interessata riguardo la storia
dell’anarchismo, anche la storia di lotta di alcune correnti (trans)femministe,
per fare un esempio, è soggetta a frequenti amnesie, mi riferisco alla sua
storia di lotta armata, ecologista, anticarceraria, anticapitalista. Se questa
storia non si conosce, è sempre valido il caro vecchio invito ad andare a
leggersi qualcosa. Se invece si conosce ma si fa finta di non conoscerla, perché
sennò crolla tutto il palco di una critica superficiale quanto strumentale, è un
altro discorso.
Personalmente sono favorevole a un inquadramento quanto più preciso e puntale
quando si parla di storia dei “movimenti” e di tradizioni di lotta, quando si
corre il rischio di fare, come si suol dire, di tutta l’erba un fascio. Esso è
preliminarmente utile e doveroso al fine di chiarire a priori di cosa si sta
parlando, altrimenti un confronto serio può diventare molto complicato e quel
che resta non portare effettivamente da nessuna parte.
Ma se alcuni argomenti vengono usati per denigrare, in modo intellettualmente
quanto meno ipocrita e talvolta anche vile e volgare, tutte/i coloro che fanno
proprie certe analisi e pratiche, questo è sinceramente irricevibile. Un
repertorio costituito da lamentele del tenore di “non si può più tenere le gambe
larghe sull’autobus”, “non posso più grattarmi i coglioni in pubblico perché mi
diranno che non posso”, “se mi tolgo la maglietta sono un molesto” ne è solo un
piccolo esempio. Io credo che grattarsi o meno i coglioni in pubblico sia una
questione di eleganza e buone maniere che ovviamente non sono obbligatorie, ci
mancherebbe altro. Ma se uno/a ne fa un argomento di discussione politica –
ritenendolo addirittura pertinente e indicatore di una tendenza sociale – per
attaccare tutto un insieme (e cioè il vero obiettivo della sua critica), è un
poveraccio, sia a livello politico, che umano.
Giustamente, un conto sono le chiacchiere da osteria, un conto i contesti di
discussione e confronto politico. Sarebbe quindi opportuno tenerli ben separati,
c’è già abbondanza di indegni figuri di ogni genere che infestano la nostra
quotidianità ripetendo concetti molto simili per mezzo di ogni tipo mass media.
Per chiudere queste abbastanza banali riflessioni, sento di fare un’ultima
considerazione.
Anche da qui infatti ci si domanda con sconcerto da quando in qua gli
anarchici/e non si organizzano più sulla base di affinità teoriche e pratiche
che scaturiscono da analisi e letture dell’esistente condivise, dalla
convergenza su metodi e prospettive di intervento su di esso, ma invece pensano
e costruiscono, per fare degli esempi, fiere dell’editoria, momenti di
discussione, iniziative di qualsiasi genere come fossero convegni di partito,
plenarie sindacali o conclavi?
Da quando in qua gli anarchici/e si fanno remore ad escludere chicchessia col
quale ritengano non possibile organizzarsi o condividere percorsi di qualsiasi
tipo?
Da quando in qua, aver ben chiaro chi non si vuol avere intorno e definirlo in
modo netto, è diventato autoritario?
Se le cose in realtà sono sempre andate diversamente e non ce ne si è resi
conto, ci si è persi evidentemente qualche pezzo e ne prendiamo atto.
Incazzarsi come vipere, sentirsi offesi e minacciati dalla constatazione di non
essere graditi/e – la stessa reazione si manifesta spesso anche nei confronti
del separatismo – non è da libertari, ma da quadri di partito, che come tali
ragionano. Qui risiedono, latenti o palesi, dinamiche e aspirazioni di potere,
indirizzo, controllo..
Considerare propri nemici tutti/e coloro che non sposano la linea e che portano
avanti analisi e lotte in modo indipendente, è modo d’azione da Partito, quello
dell’unità che vorrebbe agire come una pialla su tutto ciò che percepisce come
al di fuori e altro da essa. Quello che ammette gregarismo e delega, non
autonomia di pensiero e azione.
Quale classe, quale lotta
Proseguendo nella lettura di “Da pari a pari” si trova l’esposizione – di una
superficialità che ha del grottesco (veramente in buona fede?) – di una tesi
secondo cui i diversi livelli di articolazione e stratificazione su cui si regge
il sistema di dominio, basati su genere, appartenenza etnica, luogo d’origine
(per citarne alcuni, mi si perdoni la superficialità), non sarebbero degni di
alcuna seria considerazione, ma anzi sostanzialmente irrilevanti, un’invenzione
di accademici (americani e francesi, s’intende) iper-sensibili, perché in realtà
l’unico, tangibile e concreto piano di dominio è quello dello sfruttamento
economico. Uso l’espressione “sfruttamento economico” e non “classe sfruttata”
per motivi che proverò a chiarire più avanti.
Ammettere che l’unica (e prima?) forma di oppressione sia quella dello
sfruttamento (economico) dell’uomo sull’uomo e che poi, a cascata, sarebbero da
questa scaturite tutte le altre forme di oppressione differenziali su
determinate “categorie” – e non invece e piuttosto l’inverso – suona come una
cantonata, discutibile anche e soprattutto da un punto di vista storico.
Prendendo ad arbitrario riferimento l’emergere e il successivo sviluppo del
sistema politico-economico capitalista, l’oppressione delle diverse componenti
sociali, l’assoggettamento e la devastazione di popolazioni e territori – sulle
basi di quella divisione mondiale del lavoro e dell’estrazione di risorse che
tuttora perdura – sono stati assunti a sistema proprio perché era da essi
possibile estrarre infinitamente maggiori margini di profitto e di
accumulazione, per chi deteneva il monopolio della proprietà e quindi della
violenza.
Gli albori e l’affermazione dell’economia e della società capitalistiche ce ne
forniscono l’esempio più recente, andandosi a strutturare a partire dai secoli
XVI e XVII intorno a tre direttrici, fondamenta principali della cosiddetta
“accumulazione originaria”: esproprio delle terre e delle risorse comunitarie
delle comunità rurali europee possibile grazie alla cacciata, al tentativo di
eliminazione – diretta o indiretta – e infine all’inurbamento delle popolazioni
che da essi traevano il loro sostentamento e il loro modo di vita; massacro di
migliaia di donne ai fini della cancellazione di saperi e pratiche tradizionali
da loro custodite nella cornice di quelle stesse comunità rurali (nota come
“caccia alle streghe”) a tutto vantaggio del metodo scientifico e della nuova
medicina “professionale” allora emergenti al servizio del capitalismo nascente;
colonizzazione e sterminio della popolazioni native delle Americhe e successiva
tratta degli schiavi dai territori dell’Africa occidentale verso le colonie
europee nel continente americano.
Sfruttamento della natura, dominio patriarcale, schiavitù coloniale. Oppressione
e assoggettamento di ben definiti ambiti, umani quanto inorganici.
Lo sfruttamento non ha mai messo tutti gli sfruttati/e sulla stessa barca, il
capitale non ha mai sfruttato indifferentemente, né ai suoi albori, né mai.
I 5 indiani sostengono che “un capitalismo senza razzismo, sessismo e persino
senza generi e differenze “razziali”, potrebbe, almeno in astratto, esistere”.
Forse nelle loro astrazioni sì, nella realtà storica degli ultimi 5 secoli fino
all’oggi, no. Questo Marx non l’aveva intravisto e alcuni/e dei suoi seguaci non
lo intravedono ancora.
Senza capitale e senza classi, senza padroni e sfruttati/e, si aprirebbe un’era
di libertà per tutti/e?
Da quel che è dato sapere, il sistematico sfruttamento economico e l’emergere di
“classi” identificabili come tali è stato anticipato di millenni da molteplici
forme di oppressione – mai identiche fra loro ed emerse in luoghi ed epoche
diverse nel corso della storia – quasi mai stabili nel tempo e nello spazio.
L’assunto poco sopra esposto, appare quindi nella forma di un dogma.
Non è questa la sede in cui addentrarsi in un lungo approfondimento di questi
temi, chi vorrà potrà certamente trovare altrove trattazioni assai migliori di
quella abbozzata qui. Addirittura, bello o brutto che sia, anche in lavori
provenienti dall’accademia, da studies che ben pochi/e metterebbero in questione
per il fatto che questi, a differenza di altri, convincono e sono comodi per
tutti/e.
A questo punto merita inoltre, a mio modo di vedere, interrogarsi sul concetto
di “classe sfruttata”. A quale – si presume omogenea? – sfruttata ci si
riferisce esattamente?
Una classe è tale solo se ha coscienza di sé, solo se fatta di individui che
hanno coscienza di appartenere a un dato insieme (sfruttati/e ma anche
sfruttatori/ici, s’intende). Altrimenti, nel caso degli “sfruttati/e” si è
solamente, tristemente, di fronte a complici del proprio sfruttamento. Non basta
essere accomunati/e dal fatto di vendere il proprio tempo, il proprio corpo, la
propria dignità, la propria intera vita per un salario per potersi considerare
tutti/e parte di una classe sfruttata.
Sulle basi di una lettura meramente materialistica dei rapporti economici si può
assumere che sia così, in presenza di questi sommari criteri la “classe
sfruttata” appare definibile, uniforme, omogenea; su di un piano etico-politico,
no.
Bisogna avere chiaro, aver coscienza, dei propri nemici di classe e della
propria posizione, in opposizione, a questi.
Quando e fino a che punto siamo in presenza di sfruttati/e (coscienti) o invece
di complici del proprio sfruttamento?
Nel caso della classe padronale, non si nutrono dubbi sul fatto che i suoi/e
componenti, ad ogni livello, siano molto ben consci/e del loro collocamento
nella scala della gerarchia sociale ed economica e di quali siano i propri
nemici/che, i tempi che corrono sono qui a dimostrarlo.
Quella di complici, più o meno convinti/e e assuefatti/e, del proprio
sfruttamento sembra invece essere – alle nostre latitudini – proprio l’odierna
condizione di una larga parte delle masse sempre più brutalmente sfruttate e
asservite.. Purtroppo – e per ragioni che ancora una volta non è qui il caso di
indagare – ci si trova, e non da adesso, di fronte all’adesione a norme, valori,
desideri e stili della classe padronale, di quella borghesia in via di rapido
immiserimento alla quale, purtuttavia, si guarda ancora e sempre con immutato
desiderio di rivalsa e imitazione. Una “classe sfruttata” sempre più attivamente
artefice della riproduzione sociale che la stritola ogni giorno di più.
Non sempre e non dappertutto, certamente.
Senza pretese di sapere cose che non so, l’invito ai 5 indiani è di abbandonare
per un momento le grandi praterie del pensiero e spostarsi per un po’ di mesi in
qualche contesto di fabbrica (ma probabilmente quasi ogni altro comparto
lavorativo servirebbe allo scopo) per farsi un’idea di che aria tira ai nostri
giorni nelle file della cosiddetta “classe sfruttata” – soprattutto ma non
unicamente autoctona – capirne le dinamiche, i valori di riferimento, le
tensioni, il quadro esistenziale di riferimento.
Risulta per me preoccupante leggere che gli operai vanno sempre sostenuti nelle
loro vertenze, persino quando “dicono cazzate” (anche se non si “sacralizzano le
mani callose”). Qui non si capisce bene se la tensione è quella all’immolazione
sacrificale per la suddetta “classe” in vista della rivoluzione proletaria, a un
paternalismo dai connotati infantilizzanti, a una saccenza da supposta
avanguardia operaia, o cos’altro. Dall’abolizione del lavoro salariato al
sostegno a tutte le vertenze operaie, anche delle “cazzate”.
Forse che il nostro intervento in situazioni di conflittualità dovrebbe avere
maggiore costanza, dedizione, incisività, senza troppa puzza sotto al naso?
Forse.
La domanda che pongo, prima di tutto a me stesso, è se valga ad oggi veramente
la pena investire impegno ed energie in progettualità dirette a (del tutto
potenziali) orizzonti di lotta a cui siamo, spesso anche se forse non sempre,
estranei. È forse più sensato e urgente dirigere la nostra determinazione,
volontà e azione verso tutt’altri obiettivi, come in molti/e peraltro fanno?
Secondo me sì.
Assumendomi il rischio di apparire oltremodo retorico, credo che, da
anarchici/e, non dovremmo allontanare, quantomeno dalle nostre elaborazioni
teoriche e pratiche, e con tutto ciò che questo implica, l’orizzonte
dell’insurrezione ingovernabile e dis-ordinata – non dis-organizzata – nella
prospettiva della rivoluzione sociale, non con alle spalle una “classe
sfruttata” da guidare alla meta (come avanguardia?) ma con affianco quella parte
di umanità oppressa che non è ammiratrice in segreto di questo mondo, che non
cerca una rivoluzione delle condizioni date, ma il loro sovvertimento, la loro
eliminazione, che anela alla distruzione di questo mondo e dei suoi simboli. Che
magari prova in tutti i modi a non farsi sfruttare, per la quale la linea di
demarcazione tra legale ed extralegale è molto relativa, per cui non esiste
scalata sociale e che, cosa forse più importante, ha poco o nulla da guadagnare
dalla propria condizione di sottomissione.
A quale umanità potenzialmente pericolosa per il dominio e i suoi progetti
guardare?
Secondo me, proprio a quella parte di umanità con cui abbiamo, mi sembra, meno a
che fare, quella con cui non sappiamo in realtà granché parlare, a cui non
sappiamo bene cosa dire. Quella parte di umanità ai margini, reietta, espulsa,
rinchiusa nei ghetti a cielo aperto o scaricata nelle carceri e nei Cpr, quelle
vere “eccedenze”, quegli “effetti collaterali” non graditi e non facilmente
gestibili coi mezzi della servitù salariata, coi nuovi balocchi elettronici ogni
sei mesi, il suv a rate, i pacchetti vacanze dall’altra parte del mondo una
volta all’anno.
I “dannati/e della terra”, citati en passant in “Da pari a pari”, non sono
preoccupati degli studies venuti dall’America, non lavorano alla Stellantis o
nelle ferrovie, di norma non frequentano le nostre assemblee. Piaccia o non
piaccia, non condividono la stessa “classe” dello sfruttato/a italiano/a o
europeo/a e con questi/e quasi mai si organizzano. I “dannati/e” sono quelli che
affollano le galere amministrative e penali, i distretti del caporalato
agricolo, le periferie delle metropoli, i cui corpi giacciono a migliaia sul
fondo del Mediterraneo e a cavallo dei valichi di frontiera.
Si potrebbe obiettare, e a ragion veduta, che le osservazioni fatte sopra a
proposito della condizione di una ipotetica “classe sfruttata” siano valide
anche quando riferite alle frange sottoproletarie delle campagne e delle città.
Certamente, difficilmente sarebbe la maggioranza di questi/e a desiderare la
sovversione del sistema di dominio esistente, a condividerne le ragioni e i
presupposti, a far proprio un orizzonte senza autorità né sfruttamento. Se non
altro perché almeno una fetta di torta, almeno una, la vogliono in molti/e.
Una significativa differenza, secondo me, sta però nel fatto che a queste
persone il dominio invece non riserva nemmeno il fantasma di uno stato sociale
moribondo da tempo a cui aggrapparsi (come per la popolazione autoctona) al fine
di giustificare la propria ragion d’essere, non si preoccupa della loro
“integrazione” sociale (o almeno non più), ad essi è consentito lavorare da
schiavi/e alla riproduzione del profitto e dell’ordine sociale dato, finire in
gabbia oppure morire in mezzo al mare, in un cantiere, in mezzo ai campi, o
durante un controllo di polizia.
Come fare ad almeno provare a testare la possibilità di affinità concrete con
gli ultimi e le ultime nella gerarchia economica e sociale è e rimane un enorme
e serio problema alla cui soluzione qui non si è in grado di tracciare vie
certe, ma di cui forse varrebbe la pena occuparsi.
Banalità di base (II)
Se sui muri delle università occupate invece di appelli alla distruzione di
questo mondo si trovano cartelli con codici di condotta, o se, purtroppo, per
molti/e l’orizzonte di sovvertimento della realtà data consiste principalmente
in un’ossessione per il linguaggio e le desinenze (che talvolta, peraltro,
assumono solo un carattere di posa e ben poco altro) o ancora, se
l’organizzazione di qualsivoglia attività deve avvenire via chat oppure non
essere, anche questi sono fatti che riguardano tutti/e, non solo alcuni/e.
Sentirsi minacciati/a da questo non ha alcun senso, manifestazioni paranoiche a
parte. Dovrebbe semmai impensierire il fatto che oltre a queste espressioni,
spesso non si ravvisa molto altro degno di nota.
Il problema della/e identità, in sé e per sé, è un falso problema e in senso
assoluto significa poco. Ciò che è dirimente è se questa stessa identità si dà
una coscienza, una prospettiva di lotta non gestibile contro l’esistente oppure
no, nel qual caso corre il rischio di diventare solo una delle tante forme di
alternativismo. Il punto centrale è che cosa essa fa o non fa di sé stessa. Se
essa si dà metodi e mezzi di attacco non recuperabili alle condizioni
dell’oppressore o se invece finisce per essere stampella e sostegno a queste
stesse condizioni. Le lotte indipendentiste che sono lotte anticoloniali o le
“battaglie” per insegnare i dialetti nelle scuole pubbliche.
La morsa repressiva che non fa che stringersi da ormai diversi anni a questa
parte, con i suoi strascichi di frammentazione, annichilimento di intere realtà,
isolamento, scoramento e angoscia, ha sicuramente la sua parte di responsabilità
e questi sono, d’altronde, tra gli obiettivi che da sempre la controparte
persegue. Ma a mio modo di vedere è sicuramente anche un problema di mancata
trasmissione di teorie, metodi, saperi e conoscenze, che non crescono sugli
alberi ma dovrebbero continuare a essere passate da una generazione all’altra.
Se ora siamo di fronte a quella che a me sembra una sorta “cesura” in via di
ampliamento tra “generazioni”, questo è anche da imputare a una certa incapacità
– acuita secondo me in particolar modo dal modo di vita digitale in cui tutti/e
siamo invischiati/e – di portare avanti nel tempo, di dare continuità, a questa
trasmissione di un patrimonio assai ricco e dalla lunga storia, quanto mai
necessario e attuale. Sul perché ciò avvenga, ognuno/a avrà la sua idea, posto
che essa sia condivisa.
Tuttavia l’urgenza di trovare soluzioni e vie d’uscita a questo stato di cose è
forse la prima e fondamentale contromisura alle mosse del nemico, affinché non
ci si riduca col tempo a essere in grado di mettere in campo solamente forme di
opposizione sì certamente necessarie, ma anche altrettanto simboliche,
spettacolari, prevedibili, facilmente spendibili.
Anche alla luce dei semplici ragionamenti fatti fin qui è urgente, a mio modo di
vedere, la necessità di darsi, il prima possibile, all’attacco distruttivo
contro l’infrastruttura che rende possibili e operanti le gabbie tecnologiche e
digitali che mantengono ed espandono il dominio, le vere responsabili, le prime
determinanti, dell’annichilimento delle individualità, di quelle potenzialmente
ribelli in primis, ma anche di tutte le altre. L’infrastruttura materiale che
rende possibile guerre di accaparramento e sterminio altrove, la prospettiva
della guerra planetaria in fase di concretizzazione, alienazione pacificata e
complicità nei progetti di sottomissione in questa parte di mondo.
Non potrà mai esistere un mondo senza autorità, né insurrezioni che tentino di
aprire la via verso la sua realizzazione, in un mondo di relazioni
tecnologicamente mediate da macchine “intelligenti”, per un’umanità diminuita e
ridotta a complice della sua disperazione ed eliminazione, con chatGPT come sua
migliore amica. Un’umanità con la quale, se l’alienazione tecnologicamente
mediata continuerà a marciare alla velocità alla quale assistiamo, non sarà solo
difficile avere a che fare, quanto piuttosto impossibile.
È la guerra sociale quella in cui dovremmo continuare a mettere la nostra
energia e il nostro impegno. Non ci servono soldati politici o figuranti
economici interessati a trarre il massimo valore dal loro lavoro o a migliorane
le condizioni, non mandrie di gregari convinti dalle nostre ragioni.
Non mandrie, ma gruppi di affini.
Per “sabotare la guerra” ci sono un sacco di cose che si possono fare, ci si
occupi di quelle.
Un anarchico
Qui il pdf: Motivazioni
Motivazioni
La storia di Rumkowski è la storia incresciosa e inquietante
dei Kapos e dei funzionari dei Lager; dei gerarchetti che
servono un regime alle cui colpe sono volutamente ciechi;
dei subordinati che firmano tutto, perché una firma costa poco;
di chi scuote il capo ma acconsente; di chi dice
«se non lo facessi io, lo farebbe un altro peggiore di me»
Primo Levi, I sommersi e i salvati
«Il progetto è già attivo e attualmente in corso. Non ci si può ritirare a meno
di fornire delle motivazioni». È in questo modo che l’Università di Trento e
nello specifico il DISI (Dipartimento di Ingegneria e Scienze
dell’Informazione), attraverso le dichiarazioni del senato accademico, si
giustifica di fronte al fatto di non voler recidere alcun contratto con IBM
Israel, colosso tecnologico fondamentale allo Stato di Israele
nell’identificazione e la classificazione (con finalità di genocidio) dei
palestinesi.
Ora, non sono certo nuove le collaborazioni dell’Università di Trento con
l’industria e la ricerca belliche, ed in particolare con lo Stato di Israele, le
sue università e le sue aziende. Ma che, con un genocidio in corso, tali
personaggi non riescano proprio a trovare delle motivazioni per smettere di
esserne complici, ci sembra superi ogni misura umana. O meglio, ci sembra
esattamente conseguente alla “banalità del male” che pervade ormai ogni ambito
del complesso scientifico-militare-industriale e dei suoi collaboratori. È però
una seconda affermazione del senato ad essere forse ancora più emblematica, la
“seconda ragione” per cui non è da discutere la collaborazione in corso, e che
non si vergogna a definire “ragione di volontà”. «Sono presenti diversi accordi
con enti provenienti da Stati che partecipano a guerre o violazioni dei diritti
umani e bloccarli bloccherebbe gran parte della ricerca universitaria», ci
spiegano. Sorprendendoci per l’insolita chiarezza (ma che mondo è quello che
vanifica persino il bisogno di lavarsi le mani sporche di sangue?) cogliamo
l’occasione per provare a tornare su alcuni ragionamenti.
Potrebbe sbalordire il fatto che IBM, per mezzo delle schede perforate del suo
fondatore Herman Hollerith, fu l’azienda fondamentale al Reich nazista per il
censimento degli ebrei e dunque al funzionamento dei campi di concentramento e
di sterminio. Ma se si prova a prendere in mano alcuni dei documenti che
certificano la nascita e la storia dello Stato d’Israele fin dall’immediato
dopoguerra, risulta invece tutto mostruosamente ordinario. I colpi di Stato
appoggiati da Israele, al fianco degli Stati Uniti, in mezzo mondo; la fornitura
di armamenti a dittature dichiaratamente naziste (come l’Argentina di Juan
Perón, che tra le altre cose torturò e uccise molti ebrei), ma anche al Cile di
Pinochet, al Sudafrica dell’Apartheid, al Guatemala di Ríos Montt*;
l’esportazione delle tecnologie di sorveglianza testate sui palestinesi. Questa
è stata “l’accumulazione originaria” di Israele.
Il ruolo della Ricerca allora, come ci suggerisce il senato accademico, non è
quello di chiedersi quale fine possa avere un determinato studio o una
determinata collaborazione, bensì quello di mantenere un Sistema. Non importa se
a pagare il prezzo di una «firma che costa poco» siano donne, bambini, uomini,
popolazioni, interi territori. Ciò che non si deve interrompere per nessun
motivo è l’avanzare imperterrito della macchina del progresso tecno-scientifico.
Perché hanno ragione: bloccare certi accordi significa bloccare gran parte della
ricerca universitaria.
Allora forse bisognerebbe chiedersi in che tipo di mondo stiamo vivendo.
Riconoscere che se alla “Libertà di Ricerca” qui è legata la possibilità di
vivere o di morire altrove, il Sistema stesso che ne garantisce l’esistenza è il
cancro che ha costretto da tempo «la coscienza al bando», contribuendo con la
sua logica dell’efficacia alla “cosificazione” dell’essere umano.
Per provare ad interrompere questa marcia verso l’abisso bisogna allora
anzitutto mollare la presa («Ero troppo occupato ad affrontare il problema
tecnico dei miei forni per accorgermi di tutti quei cadaveri» dichiarò un
“lavoratore” nazista durante il processo di Auschwitz). Comprendere che la
guerra ha le sue retrovie e le sue zone grigie, con la primaria funzione di
essere vergognose fabbriche dell’obbedienza. La conoscenza tecno-scientifica è
un muro che divide il mondo poiché «qualunque potere si sostiene con strumenti
che hanno in ogni situazione una portata determinata» (Simone Weil), laddove il
ruolo dello Stato diviene fondamentale all’organizzazione e al mantenimento
dell’apparato, anche attraverso la pacificazione sociale e gli attacchi
repressivi.
Dunque agli Eichmann del nuovo millennio, a questa obbedienza cadaverica
(Kadavergehorsam la definì lo stesso Eichmann al processo di Gerusalemme),
possiamo solo dire che la loro mancanza di motivazioni per smettere di sostenere
un genocidio è il motivo stesso per cui sono i nostri nemici.
Agli incerti che ancora non riescono a sentire il ticchettìo e vedono “nel
migliore dei mondi possibili”, rappresentato oggi dall’“unica democrazia del
Medio-Oriente”, un inevitabile male minore, possiamo consigliare di guardare
altrove.
Un altrove che esiste nella forza straordinariamente umana della resistenza.
Nell’attacco alla mostruosa sicurezza che alimenta la catastrofe del presente.
Nella possibilità di guardare oltre i muri di cinta di una Società disumana.
Nella volontà di scavalcarli, quei muri, per provare a mettere qualcosa di
stra-ordinario «nel più ordinario dei giorni», quello nel quale «i subordinati
firmano tutto perché una firma costa poco».
Ecco dove noi preferiamo cercare le nostre motivazioni.
* Per approfondire si può leggere Laboratorio Palestina, di Antony Loewenstein
(Tratto dal foglio anarchico “Foravia”, numero 10, luglio 2025″)
Qui il pdf: Luci da dietro la scena (XXIX)
Luci da dietro la scena (XXIX) – Prigione a cielo aperto, carcere di massima
sicurezza e “genocidio incrementale”
Le due versioni del mega-carcere
Le odierne prigioni assomigliano al Panopticon originariamente concepito da
Jeremy Bentham, il primo filosofo moderno a giustificare la logica della
reclusione all’interno di un nuovo sistema penale coercitivo. Il Panopticon, un
carcere tristemente celebre all’inizio del XIX secolo, era progettato in modo da
consentire alle guardie di osservare i prigionieri ma non viceversa. L’edificio
era circolare, con le celle dei carcerati disposte lungo il perimetro esterno,
mentre al centro del cerchio si trovava una grande torre di osservazione. In
qualsiasi momento le guardie potevano guardare giù nella cella di ciascun
detenuto – e quindi sorvegliarne il comportamento potenzialmente riottoso –,
laddove delle tende accuratamente disposte impedivano ai carcerati di scorgere
le guardie, così che non sapessero se e quando venivano monitorati. La
convinzione di Bentham era che lo “sguardo” del Panopticon avrebbe costretto i
prigionieri a comportarsi in modo virtuoso. Trovandosi come sotto l’occhio
veggente di Dio, essi avrebbero dunque provato vergogna per i loro comportamenti
malvagi.
Sostituiamo alla condotta morale il collaborare con l’occupante, cambiamo la
struttura circolare del Panopticon con una serie di criteri geometrici di
imprigionamento, ed ecco che la decisione israeliana del 1967 appare proprio
quella di isolare in un moderno Panopticon i palestinesi in Cisgiordania e nella
Striscia di Gaza. […]
Nel 1967 la rotta ufficiale tracciata da Israele, tra impossibili ambizioni
nazionalistiche e colonialiste, trasformò un milione e mezzo di individui in
detenuti di un mega-carcere. Non si trattava però di una prigione riservata a
pochi detenuti incarcerati a torto o a ragione: essa fu imposta a un società
nella sua interezza. Era, ed è tutt’ora, un sistema crudele creato per la più
vile delle ragioni, ma non solo. Nell’edificarla, alcuni architetti cercarono
davvero di ispirarsi a un modello il più umano possibile, probabilmente perché
consapevoli che si trattava di una pena collettiva inflitta per un crimine mai
commesso. Altri, invece, non si curarono nemmeno di concepire una versione più
blanda e umana. Giacché erano presenti queste due linee di pensiero, il governo
offrì alla popolazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza ambedue le
versioni del mega-carcere. Una era una prigione a cielo aperto stile Panopticon,
l’altra un carcere di massima sicurezza. E se non avesse accettato la prima
versione, le sarebbe stata riservata la seconda. […] La verità è che la prigione
a cielo aperto era già abbastanza dura e disumana da scatenare la resistenza
della popolazione lì rinchiusa, per cui la variante di massima sicurezza veniva
inflitta come rappresaglia a tale resistenza.
[…]
I metodi e i dettagli della rappresaglia si fondavano sulle misure militari
contro-insurrezionali adottate dai britannici contro i palestinesi durante la
rivolta araba degli anni Trenta; a quanto pare, i nuovi governanti della
Cisgiordania e della Striscia di Gaza erano rimasti fortemente impressionati da
questa metodologia spietata. Sotto i britannici, questo modello di disumanità
era rimasto in vigore per tre anni; per i palestinesi dura da oltre
cinquant’anni [il testo è del 2017].
Il partito laburista e la sinistra sionista
La responsabilità di aver ingannato il mondo durante quel decennio [1967-1977]
ricade unicamente sul Partito Laburista (e, al suo interno, anche sul defunto
Shimon Peres che, dopo la sua morte avvenuta nel 2016, è stato acclamato come un
campione di pace). […]
Nel 1969 il movimento laburista, che ancora si chiamava Mapai, attraversò una
fase di ristrutturazione da cui uscì con un nuovo nome: divenne il Ma’arach
(‘Alleanza’). Si trattava infatti di una coalizione formata dal Mapai, il Rafi
(un gruppo parlamentare guidato da David Ben-Gurion) e l’Ahdut HaAvoda, il
partito di Ygal Alon. L’ultimo gruppo a aderirvi fu quello della sinistra
sionista, il Mapam. L’“Alleanza” rimase intatta fino alla sua sconfitta alle
elezioni del 1977 contro il Likud, lo schieramento di Menachem Benin [poi di
Sharon e di Netanyahu].
[…] già nel 1967, al fine di mantenere un controllo strategico sui Territori
Occupati, il governo unificato aveva concordato di stabilire coloni e soldati in
alcune aree della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. A complicare il piano
furono però due circostanze: una delle quali [l’altra è la resistenza
palestinese] fu l’emergere del movimento messianico Gush Emunim, che inviò i
propri seguaci a colonizzare quelli che consideravano antichi siti biblici,
molto spesso proprio in mezzo alla popolazione palestinese della Cisgiordania.
Il governo voleva invece insediare gli ebrei in aree meno densamente abitate dai
palestinesi.
Tra i responsabili politici era presente un numero davvero significativo di
reduci del 1948, i quali credevano di aver riscattato per sempre l’antica Terra
d’Israele nel 1967. In qualità di ministri del governo, essi chiusero un occhio
quando, la notte del 12 aprile 1968, il primo gruppo di coloni ebrei si trasferì
a Hahil, Hebron e in Cisgiordania. Il gruppo si installò al Park Hotel, proprio
nel cuore della città, e poche settimane dopo il governo autorizzò la creazione
della città ebraica di Qiryat Arba, che dominava su Hebron. La comunità
internazionale rimase indifferente mentre, a quanto pare, in quel particolare
frangente storico gli Stati Uniti decisero di inaugurare una nuova e potenziata
fase del proprio rapporto con Israele: vollero infatti dotare lo Stato ebraico
delle armi più avanzate e all’avanguardia in loro possesso (alla fine del 1968,
furono consegnati a Israele cinquanta caccia Phantom).
Il sostegno ai primi coloni da parte del governo laburista, rimasto al potere
fino al 1977, passò del tutto inosservato sotto gli occhi di un mondo che,
cinquant’anni dopo, avrebbe considerato gli insediamenti ebraici il primo
ostacolo alla pace.
Il sindacato
La prigione aperta sembrava funzionare. Da quel momento in poi non ci fu più
bisogno del coinvolgimento diretto del Comitato dei Direttori generali o del
Ministero della Difesa. L’esercito attuava il suo dominio su ogni aspetto della
vita, ma fin dall’inizio fu assistito da altri enti israeliani. Uno di questi
era il sindacato generale, l’Histadrut. Questa organizzazione pre-statale era
già stata molto efficiente nell’estromettere i palestinesi dal mercato del
lavoro mandatario, e ciò a dispetto del fatto che veniva vista dal mondo
occidentale – compreso il movimento sindacale britannico – come un esempio di
organizzazione socialista votata al benessere dei lavoratori. Nel 1967, a
partire dalla seconda settima di giugno [cioè dopo la Guerra dei Sei giorni e
l’inizio dell’occupazione del restante 22% della Palestina storica], l’Histadrut
fu incorporato nel meccanismo di occupazione. Il governo gli concesse il
monopolio del commercio e dell’industria: e sul campo non agì come un sindacato,
ma come un mastodontico complesso industriale.
Il movimento “messianico” dei coloni
Il movimento era già attivo nel 1968, ben prima di essere formalmente
istituzionalizzato nel 1974 da Kook, il quale gli diede anche il nome di Gush
Emunim (‘Il blocco dei fedeli’). […]
Il primo atto ufficiale del movimento (da distinguere rispetto alle azioni
intraprese dai coloni già presenti a Hebron e Gush Etzion) ebbe luogo alla fine
del 1974. Fu il tentativo di insediarsi nella zona di Nablus, nella vecchia
stazione ferroviaria ottomana di Sebastia, allo scopo di creare due stanziamenti
ancora oggi presenti: Alon Moreh e Qadum. Anche se inizialmente essi vennero
sfrattati, alla fine il governo laburista concesse loro il permesso di restare,
tramite un accordo che suggellava l’integrazione degli sforzi compiuti dal
governo con quelli dei coloni.
Fu così che nel 1974 il movimento dei coloni divenne una lobby ideologica che
influenzava le politiche governative riguardanti la colonizzazione e che godeva
di una presenza sempre maggiore nella Knesset [il parlamento israeliano] e nella
sfera pubblica in generale. Ma se per un verso i coloni erano dei manipolatori,
per l’altro loro stessi venivano manipolati. Erano infatti usati come arma, e
molto spesso come scusa, per giustificare la confisca di terre, e lo Stato
ricorreva a loro come strumento demografico per effettuare una pulizia etnica
con mezzi alternativi.
Il movimento era un comodo canale per implementare quegli aspetti della politica
di colonizzazione ai quali il governo laburista non voleva essere direttamente
associato; specialmente le politiche che contraddicevano apertamente il diritto
e le convenzioni internazionali. Anziché sullo Stato, infatti, la responsabilità
veniva fatta ricadere su presunti gruppi di parte. Perciò, dopo che la
mega-prigione, a prescindere dalla sua versione, fu delineata geograficamente e
attivamente mediante il saccheggio delle terre, venne ulteriormente ristretta e
modellata in forza della mappa delle colonie ebraiche. La vita in prossimità
delle due comunità, quella dei palestinesi occupati e dei coloni, non faceva
altro che accentuare l’immagine di un carcere. Ogni colonia, e ogni blocco di
colonie, era circondato da una recinzione elettrica e da un muro che chiudevano
i coloni al loro interno, ma che combinate tra loro rinchiudevano i palestinesi
in decine di mini-prigioni dentro l’enorme complesso della Cisgiordania e della
Striscia di Gaza.
Il Likud, o dell’indistinzione tra colono e soldato
Il maggiore cambiamento rispetto al decennio precedente [1967-1977] fu la
licenza di agire liberamente che il governo del Likud concesse ai coloni
religiosi più ideologizzati. Dover integrare l’attività più violenta dei coloni
all’interno della struttura generale di controllo non era un aspetto che tutti,
nella burocrazia dell’occupazione, accolsero con favore. Tuttavia, i facinorosi
e i vigilantes presenti tra i coloni, i quali spesso eseguivano azioni punitive
come sradicare alberi, bruciare campi o, in generale, molestare i palestinesi,
venivano tollerate perché la loro attività accresceva ulteriormente il controllo
e la presenza di Israele, specialmente lungo i confini tra le enclavi
palestinesi “pure” e le nuove “aree interdette” a chiunque non fosse ebreo.
Nel 1982, Yitzhak Mordechai, il comandante della regione centrale, decise di
impiegare nella zona di Hebron una compagnia di riserva composta da coloni in
qualità di “unità di difesa regionale”. Anche altrove fu adottato questo
sistema, in cui i coloni venivano usati come soldati nei pressi dei propri
insediamenti, molto spesso con l’autorizzazione a intimidire e compiere ancora
più abusi sulla popolazione locale.
Un piano per Gaza del 1967
Complessivamente, secondo fonti dell’ONU, in quei primi giorni [di giugno del
1967] Israele espulse in totale quasi 180.000 palestinesi. Nel riassumere questo
periodo di pulizia etnica della Palestina, vorrei tornare ad alcuni dei piani
che non furono adottati, o quantomeno a uno che, purtroppo, in futuro potrebbe
ancora avere una certa rilevanza, qualora Israele avesse mai il potere, la
volontà o la necessità di allontanare in massa la popolazione occupata al fine
di soddisfare le sue esigenze strategiche fondamentali. Parliamo dell’idea di
trasferire la gente della Striscia di Gaza, o quantomeno gli esuli che lì
vivono, in Cisgiordania.
Ciò fu discusso seriamente, per la prima volta, nel luglio 1967 da uno dei più
rispettati e alti ufficiali dell’esercito, Mordechai Gur, il quale fu invitato
dal governo [ripetiamo: laburista] a presentare il suo piano. Egli propose di
inglobare i profughi di Gaza a quelli in Cisgiordania:
Dobbiamo creare le condizioni che inducano le persone ad andare via. Dobbiamo
fare pressione su di loro, ma in modo da indurle a non resistere, bensì a
partire. Dovrebbe essere incoraggiati a farlo sia i profughi [del 1948] sia i
residenti in pianta stabile, così che questi sentano che non ci sono speranze
nella Striscia [di Gaza] dal punto di vista agricolo […]. Inoltre, quando
l’UNRWA completerà un nuovo censimento, sarà chiaro che essa non disporrà di
razioni di cibo sufficienti per tutti i rifugiati […] questo potrebbe avere
gravi implicazioni per la sicurezza […] dovremmo bloccare ogni sviluppo laggiù
[in modo da incoraggiare il trasferimento].
La prova generale
Nel 2004 l’esercito israeliano cominciò a costruire una città araba fittizia nel
deserto del Negev. Questa aveva le dimensioni di una città vera e propria, con
strade (tutte dotate di un nome), moschee, edifici pubblici e automobili.
Costruita al costo di 45 milioni di dollari, nell’inverno del 2006 la città
fantasma era diventata una replica di Gaza, così che l’esercito israeliano,
vista la battuta d’arresto subita a nord nel conflitto con Hezbollah, si potesse
preparare a combattare a sud una “guerra migliore” con Hamas.
Dopo aver visitato il sito all’indomani della guerra in Libano, il capo di stato
maggiore israeliano, Dan Halutz, annunciò alla stampa che i soldati si stavano
«preparando per lo scenario che si aprirà nel popolato quartiere di Gaza City».
Una settimana prima di bombardare Gaza, Ehud Barak [l’allora presidente di
Israele] assistette a una prova generale della guerra via terra. Le troupe
televisive straniere lo filmarono mentre osservava le truppe di terra
conquistare la città fittizia, prendendo d’assalto le case vuote e uccidendo
senza indugio tutti i “terroristi” che vi si nascondevano.
[…]
Era questa la nuova versione del carcere di massima sicurezza che attendeva i
palestinesi nella Striscia di Gaza, giacché il governo israeliano e i
responsabili della sua politica di sicurezza si erano resi conto che il modello
della prigione aperta, in cui la popolazione della Striscia avrebbe dovuta
essere rinchiusa sotto un governo collaborativo dell’A[utorità]P[alestinese] [il
famoso “Stato palestinese” sul cui riconoscimento i governi europei fanno finta
di litigare] era stato mandato a monte dalla popolazione stessa. Tuttavia,
neppure la ritorsione per mezzo dell’assedio e del blocco di Gaza riuscì a farla
arrendere al modello voluto dagli israeliani.
[…]
È così che è avvenuto il fiasco generale israeliano del 2005, trasformatosi poi
in quello che altrove ho definito “genocidio incrementale della Palestina”. Gli
israeliani avevano chiamato la prima operazione condotta contro Gaza “Prima
pioggia”; più che un rovescio di acqua benedetta, fu una pioggia di fuoco dal
cielo.
(brani tratti da Ilan Pappé, La prigione più grande del mondo. Storia dei
territori occupati, Fazi, Roma, 2022 [ed. originale 2017] )
Riceviamo da un nostro corrispondente questo testo, proveniente dal carcere di
Varese. Al di là del merito delle critiche mosse all’amministrazione carceraria,
ci sembra il caso di divulgare questo spaccato della vita all’interno di questo
e molte altre carceri, dando voce a chi spesso ne viene privato insieme alla sua
libertà. Di seguito quanto ricevuto:
«Ho ricevuto e riscritto col computer questa lettera da un […] ospite della casa
circondariale di Varese, via Felicita Morandi. Non essendoci in quella struttura
il “ garante dei detenuti “invio a voi lo scritto. La firma è probabilmente
falsa (per motivi intuibili) ma il resto è vero , come potrete verificare, per
esempio, intervistando parenti all’uscita dei colloqui (attualmente mercoledì e
sabato, all’ incirca fra le ore 10.30 e le 14,30).»
A proposito del carcere di Varese
1. La direttrice non incontra i detenuti e non consente “percorsi di
inserimento”
2. Terapie psichiatriche a volontà : per abuso di medicinali , recentemente ,
sono morti tre ragazzi. Nel carcere c’è una percentuale altissima di
stranieri e quasi tutti si sottopongono a terapie che poi spacciano fra
loro e agli italiani in cambio di tabacco e di spesa
3. Reparto infettivi: non esiste, come non esiste spazio riservato ai tossici
4. Autolesionismo: molti ingoiano lamette o batteria: invece di essere
richiamati, invece, ottengono, per essere calmati, tabacco o sigarette
5. Spaccio : rispetto all’ esterno i prezzi sono maggiorati almeno del 150 %.
Per arrivare all’assurdo che due mazzi di carte ( che da action trovi a
meno di due euro, e che i parenti non possono fare entrare “ perché il
gioco d’azzardo è proibito “) allo spaccio costano 14 euro
6. Graduatoria lavoranti; non viene premiato chi lavora meglio, ma chi si
arruffiana le guardie
7. Cortile: l’area esterna in cui potersi sfogare è di 10 metri per 10 !
8. Giochi: esiste solo un ping pong e due biliardini rotti
9. Campo di pallavolo : i palloni da pallavolo sono bucati: il pavimento è
dissestato e pieni di buche, per questo motivo sono all’ordine del giorno
contusioni e fratture a caviglie, braccia e polsi (l’ultimo, ieri, 8
luglio: frattura a un piede di un marocchino)
10. Accesso al lavoro interno: Spesso si fa lavorare, come premio, chi ha
compiuto atti di autolesionismo e gente in terapia.
11. Valutazione del lavoro. il lavoro non è valutato da psicologi o esperti ma
in base alle simpatie della direttrice
12. Rancio : Tutte cose congelate: per ogni detenuto sono a disposizione solo
50 grammi di carne rossa ogni 15 giorni. Tutte le sere o minestra o pasta
al pomodoro
13. Celle: si sta in tre in quindici metri quadrati. In realtà calpestabili
sono solo cinque metri quadrati , considerando che ci sono 3 letti, 4
armadietti, 1 tavolo, 3 sgabelli, lavandino e wc In pratica uno può andare
avanti e indietro sono se gli altri due stanno sdraiati a letto
14. Ore di aria limitate : si sta in cella dalle ore 17 fino alle ore 8,30 del
giorno dopo: ci sono solo due ore d’aria al mattino e 2 al pomeriggio .
15. Rifornimenti dall’esterno : sono molto limitati . Vengono bloccati molte
cose portate dai familiari perché si vuole che la spesa venga fatta solo al
costoso spaccio interno .
Ringrazio per l’attenzione 9 luglio 2025 Mario Rossi
Riceviamo e diffondiamo:
inutile Memoir, lontano dalle polemiche
all those beautiful boys/ kings and queens/ and criminal queers/ all those
beautiful boys/ tattoos of ships and tattoos of tears
If you saw the younger you, what would you say to ‘em?
A chi ha occhi per guardarsi intorno sarà evidente, ancora una volta, la
marginalità del dibattito in auge nell’ambiente anarchico, resa più grave,
stavolta, dall’urgenza della contemporaneità: l’unica cosa che conta è Gaza,
temo, e la noiosa ironia così come la rivoltante acrimonia che animano le parti
in causa si capiscono meglio in quanto frutto di una frustrazione alimentata
innanzitutto proprio dalla marginalità. Ma dato che anch’io all’ultimo atto di
un genocidio secolare oppongo evidentemente ben poco oltre alla frustrazione,
dato che gli ambienti li capisco sempre meno, e dato che il dibattito in
questione per più motivi (ora non interessa quali) mi riguarda, partecipo
individualmente alla gara di osservarsi l’ombelico e parto dal mio, facendo
aneddotica, e condividendo stadi successivi di rielaborazione di un’esperienza
personale maturata in germania una ventina di anni fa. Mi si perdoni quindi la
narrazione interna, la favoletta senza morale, lo stile eccentrico e l’argomento
collaterale.
All’epoca la queerness invadeva le strade della città che percepiva ancora se
stessa, nonostante i fasti del ventennio precedente fossero già tramontati, come
una delle capitali della conflittualità europea, in virtù appunto di una storia
di riappropriazione degli spazi che era proprio ciò che mi aveva portato lì
(Meinzer strasse, Kubat dreieck, i wagenplaetze…) con un habitus turistico che è
adesso molto facile criticare, e che non costituisce però il tema centrale del
racconto. La Humboldt Universitaet offriva da qualche anno un corso di laurea in
gender studies, nelle Hausproject si leggevano Solanas, Preciado e Butler, il
femminismo della terza ondata imponeva un’agenda trans, lesbica e separatista a
tutti gli ambiti che si professassero Autonomen, portando inevitabilmente al
confronto su questi temi anche i vari settori punk e insurrezionali, per non
parlare di Antifa e Antideutsch. Le etichette, mi sembrava, funzionavano bene in
germania, mentre si adattavano molto peggio alle persone che frequentavo in
italia, dove era più diffusa la capacità, e la possibilità, di muoversi da un
ambiente all’altro senza per forza professarsene adepti. Comunque le queer demo
portavano in piazza a Berlino migliaia di persone che si identificavano
nell’opposizione alla normatività capitalista e neoliberista, nel rifiuto
dell’esistente e in un’utopia rivoluzionaria ancorché confusa e confusionaria
(jedenfalls); e io ho partecipato, per poco meno di un anno, con un certo
entusiasmo al movimento berlinese per quello che era, per ciò che vi trovavo,
sforzandomi di prescindere da ciò che mi sarei aspettato di trovarvi. Durante
una delle suddette affollate manifestazioni, l’amica ben inserita che mi faceva
da Pigmalione mi spiegò: “vedi come sono tranquilli gli sbirri? sono felici che
tutte le occupanti di case, le anarchiche che facevano gli scontri, le violente
rivoluzionarie siano sparite dalla piazza, e che la piazza sia ormai piena di
queers. Quello che non capiscono è che questi queers sono esattamente le stesse
occupanti, anarchiche e rivoluzionarie di prima”; il che non era vero, ma
esprimeva un’ambizione. L’affermazione peraltro strideva con la violenta
repressione nelle strade ad opera della polizia, che osservavo quasi
quotidianamente, in coincidenza con l’esplosione della Gentrifizierung in
Friedrichshain e una serie impressionante di sgomberi di spazi definibili a
vario titolo “liberi”. Purtroppo il criminal queering espresso nelle strade di
Berlino nel 2006 e cantato da Anohny nell’esergo non aveva di per sé molto a che
fare con l’autodifesa di un corteo, o di uno spazio occupato, o con i mezzi che
attuano le rivoluzioni, cosa in parte confermata dal fatto che la mia amica
avrebbe poi fatto carriera accademica, con belle pubblicazioni presso Seuil e il
romantico rimpianto di non essere riuscita ad abbattere il capitalismo. Ora
immagino che questo possa sdegnare molte di voi: io invece non me ne stupisco,
non ci vedo un tradimento, e per questo ritengo di non avervi fatto la morale;
anzi, se state ancora leggendo, se mi concederete il margine d’errore che io ho
lasciato alla mia sodale berlinese, vorrei calare queste riflessioni e questa
attitudine nel momento presente (se non vorrete farlo, beh siete delle persone
orribili! perché discutere allora).
È chiaro come il sole che nemmeno il “movimento anarchico” (?) è mai stato
esente da dinamiche autoritarie, prevaricazioni, violenze di ogni tipo e quindi
sì, ci sono, vorrei dire ci sono ancora, omofobia, transfobia, machismo tra le
altre cose brutte; è anche chiaro che, a distanza di un decennio almeno
dall’arrivo di istanze fortemente critiche e accusatorie rivolte all’interno del
movimento stesso riguardo questi temi, le reazioni sono state spesso assenti o
inadeguate, quando non del tutto scomposte e ostili, e che questo rende
difficile o impossibile ad alcun* anche solo frequentare certi ambienti. Urge
quindi una presa in carico del problema, che ad ogni modo non si risolverà
facilmente e certo non nello spazio di una generazione.
Dovrebbe essere però altrettanto chiaro che l’agire di molta di questa parte
critica e accusatoria si è finora rivolto all’interno del movimento con una
ferocia e una volontà di nuocere, nelle parole e nei fatti, che la stessa parte
non riesce fuor di retorica a indirizzare all’esterno (siamo ancora in attesa di
“bruciare tutto” dopo l’ennesimo stupro: e invece parrebbe che si voglia dar
fuoco a un’occupazione “sessista” prima, più volentieri e piuttosto che a una
questura), e che le modalità adottate in troppi frangenti hanno portato
all’inazione o ancor peggio al sabotaggio di iniziative urgenti, in una logica
del divide et impera in cui chi imperat, indovina un po’, è il nemico.
Ed ecco che infine si pone la questione dirimente, con la quale alla buona ora
chiudo queste deboli pagine: siamo, sono, siete, sei ancora in grado di
riconoscere il nemico? Al di là delle astrazioni concettuali e, ovviamente, del
gioco delle parti e delle egemonie; altrimenti, non resta che augurarsi anche
qui una gazificazione diffusa come cura dell’intellettualismo e bagno di realtà
storicizzata.
We are smarter than they think we are
They take us all for idiots, but that’s their problem
When we behave like idiots, it becomes our problem
Con affetto, amarezza e ancora auspici.
V
Riceviamo e diffondiamo questo opuscolo, che raccoglie gli scritti in
solidarietà a imputati e imputate per il corteo dell’11 febbraio 2023 a Milano
in solidarietà ad Alfredo Cospito e contro 41-bis ed ergastolo ostativo. Il
primo grado di questo processo si è concluso con pesanti condanne contro 10
compagni e compagne, a cui mandiamo tutta la nostra solidarietà.
Qui l’opuscolo: prova opuscolo 2
In questi giorni, a diverse compagne e compagni imputati è stata notificata
l’udienza preliminare del processo per l’Operazione “Diana”, che coinvolge in
tutto 12 persone. L’udienza è fissata presso il tribunale di Trento alle ore 9.
Seguiranno aggiornamenti.
Per saperne di più:
https://ilrovescio.info/2023/08/04/ennesima-inchiesta-per-270-bis-in-trentino-richieste-e-non-concesse-12-misure-cautelari/
https://ilrovescio.info/2023/09/17/trento-rigettate-ancora-le-misure-richieste-per-linchiesta-diana/
https://ilrovescio.info/2025/06/28/sulloperazione-diana-contro-lanarchismo-in-trentino-cose-utili-da-sapere/
Mentre anche in Israele si svolgono le prime manifestazioni esplicitamente
contro il genocidio del popolo palestinese (Standing Together), e i riservisti
israeliani che non rispondono alla chiamata per andare ad uccidere i gazawi
stanno diventando decine di migliaia, arriva questa importante dichiarazione da
parte del Congresso ebraico antisionista, riunitosi a Vienna dal 13 al 15 giugno
scorsi. La forza di questa dichiarazione non sta per noi nei riferimenti al
Diritto internazionale e negli appelli all’ONU e agli Stati, ma nell’individuare
le cause del genocidio in corso nel progetto coloniale sionista in quanto tale;
nello schierarsi in modo netto con la resistenza palestinese («Affermiamo il
diritto delle persone che vivono sotto occupazione a difendersi con ogni mezzo»)
e con il movimento BDS; nel rivendicare per la Palestina la prospettiva della
decolonizzazione e della «de-sionizzazione»; nel ribadire a chiare lettere che
l’«affermazione secondo cui gli ebrei sostengono intrinsecamente il sionismo e
l’abominevole Stato sionista è autentico antisemitismo».
DICHIARAZIONE DEL CONGRESSO EBRAICO ANTISIONISTICO
Oltre 1.000 ebrei e non ebrei antisionisti si sono riuniti a Vienna per tre
giorni di conferenze e workshop nell’ambito del Congresso sull’antisionismo
ebraico. Sebbene si sia trattato del primo evento del suo genere in Europa, sono
già in corso i preparativi per un secondo congresso nel 2026.
Noi, relatori e organizzatori del congresso, pubblichiamo questo appello
pubblico, che riflette le posizioni comuni raggiunte nel corso dei tre giorni di
deliberazioni.
Come ebrei antisionisti e alleati, ci schieriamo al fianco di tutti i
palestinesi – in Palestina e in esilio – contro il sionismo e i suoi crimini,
tra cui genocidio, apartheid, pulizia etnica e occupazione. Affermiamo il
diritto delle persone che vivono sotto occupazione a difendersi con ogni mezzo,
come riconosciuto da molteplici disposizioni delle Nazioni Unite. È fondamentale
che gli ebrei di coscienza, ovunque nel mondo, si uniscano per opporsi al
sionismo in comune e in solidarietà con il movimento globale per la liberazione
della Palestina. Ci impegniamo a espandere il nostro movimento oltre le sue
radici europee per includere le voci antisioniste di tutto il mondo, incluso il
Sud del mondo.
Condanniamo senza riserve tutti i crimini di guerra commessi da Israele dal 7
ottobre 2023, tra cui la pulizia etnica, l’apartheid militarizzato, l’urbicidio,
lo scolasticidio, il medicidio, la carestia di massa come mezzo per sfollare
forzatamente oltre due milioni di abitanti di Gaza e un genocidio in corso che
coinvolge centinaia di migliaia di persone, uno dei peggiori crimini di guerra
del nostro tempo. Questi atti sono già stati riconosciuti come tali dalla CPI e
dalla Corte Internazionale di Giustizia, sebbene lo Stato di Israele abbia
respinto categoricamente le richieste di entrambe le corti. Ha inoltre respinto
numerose richieste sia dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che del
Consiglio di Sicurezza. Di conseguenza, circa due milioni di civili sono
attualmente confinati in una piccola area della Striscia di Gaza senza accesso a
cibo, acqua, medicine, riparo o assistenza medica. Questi nuovi crimini sono
solo gli ultimi di una storia infinita di reati simili che risale al
1948. Nonostante le ripetute violazioni delle risoluzioni dell’Assemblea
Generale e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e gli estesi rapporti
dei Relatori Speciali delle Nazioni Unite, non sono mai state imposte sanzioni a
Israele.
Nessuno di questi crimini di guerra e crimini contro l’umanità avrebbe potuto
essere compiuto o sostenuto senza il sostegno attivo ed entusiastico delle
potenze occidentali – attraverso aiuti militari, supporto finanziario e
copertura politica e diplomatica – guidate da Stati Uniti, Unione Europea, Regno
Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Sostenendo e armando uno Stato
criminale che commette genocidio, questi governi hanno la responsabilità legale
e morale ai sensi della Convenzione sul Genocidio del 1948. Invitiamo tutti gli
Stati e le società a rispettare i propri obblighi ai sensi della Convenzione per
la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio e ad adottare tutte le
misure necessarie per porre fine al genocidio in corso a Gaza.
Le sanzioni devono includere anche la sospensione di Israele dall’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, come accadde al Sudafrica nel 1974 per le sue
politiche di apartheid. I crimini di Israele sono chiaramente ancora più
orribili. Sebbene l’ONU abbia schierato truppe internazionali per decenni per
separare le parti in conflitto tra Israele ed Egitto e Israele e Libano, non ha
mai istituito una forza di protezione per proteggere la vita dei palestinesi
dall’oppressione sistematica e dal terrore perpetrati dallo Stato israeliano.
Siamo d’accordo che sia giunto il momento di adottare una simile misura
umanitaria. Senza di essa, Israele continuerà a commettere omicidi di massa
contro i palestinesi.
Chiediamo inoltre che l’Unione Europea segua le proprie leggi e
rispetti l’articolo 2 dell’accordo di associazione UE-Israele , che le impone di
cessare i rapporti commerciali con Israele e di porre fine al suo status di
associazione nei programmi finanziati dall’UE.
Invitiamo tutte le società, le associazioni e le organizzazioni internazionali a
espellere Israele dalle proprie fila finché non rispetterà tutte le risoluzioni
delle Nazioni Unite e dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, non porrà
fine al genocidio in corso a Gaza e non ritirerà le sue forze armate da tutti i
territori conquistati con la forza nel 1948 e nel 1967, nonché da tutti i
territori siriani e libanesi occupati dal 1967. Israele deve ritirare
immediatamente e completamente le sue forze armate dalla Striscia di Gaza,
revocare il blocco in vigore dal 2006 e garantire a tutte le organizzazioni
umanitarie accesso illimitato per operare liberamente.
Invitiamo tutti gli stati, le istituzioni e le organizzazioni della società
civile a implementare e sostenere le richieste del Comitato Nazionale
Palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS). Ciò
include la cessazione di tutti i legami finanziari, accademici, militari,
culturali e diplomatici con lo stato genocida fino a quando non soddisferà le
condizioni di cui sopra e garantirà il diritto dei rifugiati palestinesi a
tornare alle loro case e proprietà, in conformità con la Risoluzione ONU 194.
Invitiamo inoltre le Nazioni Unite a imporre sanzioni immediate e globali in
risposta agli attacchi immotivati e illegali di Israele contro Teheran e altre
città iraniane, nonché alle sue uccisioni di massa di civili. Queste sanzioni
devono essere estese anche ai governi occidentali che incoraggiano e favoriscono
i crimini internazionali in corso di Israele attraverso il sostegno militare e
politico. Le armi nucleari illegali di Israele devono essere smantellate
attraverso un processo trasparente supervisionato dall’Agenzia Internazionale
per l’Energia Atomica.
Rifiutiamo categoricamente l’affermazione che Israele agisca per conto degli
ebrei o che le sue attività criminali siano sostenute da tutti gli ebrei.
Invitiamo gli ebrei di tutto il mondo a opporsi allo Stato sionista, a negarne
la legittimità e a chiedere la cessazione immediata delle sue azioni criminali e
riprovevoli. Ciò include il sostegno alla campagna BDS e la recisione dei legami
culturali, politici e istituzionali con Israele finché non soddisferà le
condizioni di cui sopra. Israele e il sionismo agiscono illegalmente e
immoralmente, pur insistendo di farlo per conto degli ebrei, mettendo così in
pericolo tutti gli ebrei ovunque. Questa affermazione secondo cui gli ebrei
sostengono intrinsecamente il sionismo e l’abominevole Stato sionista è
autentico antisemitismo.
Rendiamo omaggio a tutti gli oppositori israeliani del sionismo e invitiamo gli
ebrei israeliani a riconsiderare la loro lealtà a un regime che ha negato i
diritti dei palestinesi per oltre otto decenni. Onorando l’eredità storica degli
ebrei e i principi dell’ebraismo stesso, invitiamo tutti gli ebrei di coscienza
ovunque a schierarsi fianco a fianco con i palestinesi contro l’ideologia
razzista del sionismo e la sua intrinseca supremazia. Invece, ovunque ci
troviamo, lavoreremo con il movimento globale per la decolonizzazione e la
liberazione della Palestina. Restiamo uniti e facciamo tutto ciò che è in nostro
potere per creare un futuro di uguaglianza, giustizia e dignità per tutto il
popolo palestinese, una terra dove la vita condivisa e il rispetto reciproco
possano rifiorire. Decolonizzazione e de-sionizzazione.
Libertà per la Palestina e il suo popolo.
Firmato,
(le Firme sono leggibili nel Link)
Bitte teilen:
https://www.juedisch-antizionistisch.at/deklaration
Qui il pdf: guerra grande, strozzature e specchi di faglia
GUERRA GRANDE, STROZZATURE E SPECCHI DI FAGLIA
Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso
e non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non
conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia.
Sun Tzu, L’arte della guerra
«Questo è il momento della pace attraverso la forza. È il momento di una difesa
comune. Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi sarà necessario più
coraggio. E altre scelte difficili ci attendono. Il tempo delle illusioni è
finito.» Così dichiarava, il 4 marzo scorso, la presidente della Commissione UE
Ursola Von der Leyern presentando un piano di 5 punti per il riarmo degli Stati
appartenenti all’Unione Europea, mobilitando quasi 800 miliardi di euro per le
spese per la difesa. L’annuncio precede e si aggiunge al maxi fondo tedesco da
500 miliardi di euro che il Bundestag, il parlamento tedesco, ha approvato il 18
marzo con i voti della SPD, della CDU-CSU e dei Verdi, unitamente alle modifiche
costituzionali per investire nel riarmo e per superare lo “scoglio” del limite
del debito e della spesa statale. L’accordo multimilionario per finanziare la
difesa tedesca dà a sua volta impulso al piano di riarmo europeo. Quest’ultimo è
strutturato ed articolato su 5 punti strategici. Il primo punto del piano “ReArm
Europe” prevede l’attivazione della clausola di salvaguardia nazionale del patto
di stabilità (ovvero il regolamento che disciplina i bilanci degli Stati UE).
Questa misura permetterà agli Stati membri di aumentare la spesa per il riarmo
anche oltre il limite del 3% del deficit senza incorrere nella procedura di
infrazione europea. In pratica i governi potranno investire di più in armamenti
senza temere sanzioni dell’UE (cioè fare ciò che tutti i governi e politici sia
di destra che di sinistra dicevano che era impossibile per le spese sociali e
sanitarie). Il secondo punto prevede un nuovo strumento finanziario da 150
miliardi di euro per investimenti militari “condivisi”. La particolarità è che
questi investimenti militari saranno per equipaggiamenti standardizzati fra
eserciti di Stati diversi, così da assicurare che i sistemi militari possano
operare assieme in caso di guerra. Per istituire questo meccanismo la
Commissione UE utilizzerà l’articolo 122 del trattato dell’Unione, che consente
di costruire strumenti finanziari di emergenza senza l’approvazione del
parlamento degli Stati europei. Il terzo punto introduce la possibilità di
utilizzare i fondi destinati alla pacificazione sociale (i cosiddetti “fondi di
coesione” presenti in ogni “piano di resilienza” introdotto negli anni passati
ed emanazione diretta del manifesto della borghesia e degli Stati europei,
ovvero il documento Next generation UE) per progetti di riarmo di guerra. Il
quarto punto del piano prevede il coinvolgimento della Banca Europea per gli
Investimenti nel finanziamento a lungo termine per investimenti di natura
militare, mentre il quinto e ultimo punto ordina la mobilitazione generale del
cosiddetto capitale privato, ovvero il furto di classe dei piccoli risparmi
delle classi sociali non privilegiate del vecchio continente per finanziare la
guerra dei padroni e degli Stati, drenando soldi dai piccoli conti bancari per
trasformarli in capitali di rischio in investimenti militari e nella
re-industrializzazione del vecchio continente. Il provvedimento proposto da
Mario Draghi ed Enrico Letta dopo il successo ottenuto negli anni passati a
danno delle classi sfruttate per finanziare le grandi opere nello Stato italiano
(anche in questo caso, come per il “fronte interno” degli Stati articolato nelle
misure repressive, la classe dominante e lo Stato italiano fanno scuola in
Unione Europea). L’ideologia nazionalista fa da involucro e da parte in causa
nel muovere la guerra globale, sia nelle sue varianti dichiaratamente
reazionarie (ad esempio tutti i partiti di estrema destra chiedono maggiori
attenzioni ai vari riarmi nazionali) sia nelle varianti progressiste e
sinistrorse (evidenti sono, ad esempio, le dichiarazioni in Francia di alcuni
esponenti del Nouveau Front Populaire sull’urgenza di ri-creare un’ideologia
patriottica e nazionalista di sinistra). In questo clima di union sacrée e di
mobilitazione delle coscienze e dei corpi, disertare (per quanto ci riguarda)
dal fronte occidentale diviene un’urgenza sempre più impellente. Come fare?
Cerchiamo innanzitutto di fotografare le dinamiche e di fissare alcune
coordinate della “Guerra Grande” in corsa sempre più veloce sul piano inclinato
che ci sta portando verso l’abisso, partendo dal fronte orientale europeo e
tenendo ben saldi nelle mani il sestante del disfattismo rivoluzionario e
dell’internazionalismo antiautoritario. La vittoria della porzione della classe
dominante statunitense che sostiene l’amministrazione Trump ha impresso una
accelerazione crescente al rafforzamento dell’interventismo dello Stato a stelle
e strisce nell’area del continente americano, africano, mediorientale e
soprattutto indo-pacifico, mentre con l’avvio dei colloqui e degli “incontri di
pace” fra classe dominante russa e nord-americana si evidenzia la crescente
contrapposizione con le borghesie del vecchio continente (degno di nota che uno
di questi “incontri di pace” si è tenuto nella città di Monaco, già teatro della
tristemente nota conferenza di pace del 1938) nell’onda di una sorta di Yalta
2.0 che ricorda bene le dichiarazioni del primo segretario generale
dell’Alleanza Atlantica, ovvero che la Nato serve a: “tenere dentro gli
americani, fuori i russi e sotto i tedeschi”. Ciò ci porta a ricordare
l’obiettivo del più grosso atto di guerra realizzato in questi ultimi anni in
Europa a danno dei padroni di casa nostra, ovvero il sabotaggio del gasdotto
Nord Stream. Negli ultimi mesi il territorio della regione di Kursk, così come
le aree di confine tra la regione ucraina di Sumy e quella russa di Belgorod,
sono state completamente riconquistate dalle forze militari russe e
nord-coreane. Per quanto riguarda i territori ucraini la regione di Donetsk è
sotto controllo russo per più del 73%, quella di Kherson per il 59%, e
assistiamo al totale controllo russo sulla regione di Lugansk. Attualmente più
del 21% del territorio dello Stato ucraino è sotto controllo delle forze armate
di Mosca. Ovviamente i successi degli ultimi mesi dell’esercito russo sul fronte
orientale hanno un impatto ben pesante sui negoziati, visto che la borghesia
russa sta vincendo la guerra, e la preoccupazione attuale dei nostri padroni è
quella di interrompere velocemente questo conflitto prima che l’esercito ucraino
crolli e quello russo dilaghi. Il rischio che i dominatori di entrambi i fronti
temono maggiormente è la presenza di un convitato di pietra al tavolo dei
possibili negoziati di pace, ovvero il ruolo che la nostra classe sociale sta
giocando da entrambi i lati del fronte con il rischio sempre più visibile di un
aumento esponenziale delle diserzioni dal militarismo sia russo che
ucraino-NATO, fino ad arrivare – come dichiarato nell’ultimo mese da alcuni
analisti geopolitici dei padronati occidentali – alla possibilità di
ammutinamento delle truppe ucraine contro il governo di Kiev. Come abbiamo
sempre sostenuto, la guerra in Ucraina è anche guerra per il controllo delle
importanti risorse di terre rare indispensabili all’economia di guerra e alla
trasformazione della società e del modo di produzione capitalista verso la fase
digitale. Mentre l’eventuale e sempre più traballante proseguimento degli aiuti
militari statunitensi dipende dall’accordo che pone in mano al capitalismo a
stelle e strisce le risorse minerarie e le infrastrutture ucraine che, secondo
alcune fonti di Kiev dei mesi scorsi, sarebbero già state assegnate all’Empire
2.0 britannico in base ad un accordo siglato durante la visita del primo
ministro Starmer a Kiev. Già alla conferenza di Monaco si parlò della proposta
della delegazione del Congresso degli Stati Uniti di un contratto che avrebbe
concesso agli USA i diritti sul 50% delle future riserve minerarie ucraine. I
disaccordi e i tira e molla con Trump sulle terre rare negli ultimi mesi si sono
verificati a causa del ruolo attivo in questa questione dei ceti padronali
britannici che, in base ad un preaccordo che fu firmato da Zelensky e Starmer,
lo Stato ucraino si sarebbe impegnato a trasferire tutti i porti, le centrali
nucleari e i sistemi di produzione e trasferimento del gas e giacimenti di
titanio sotto il controllo di Londra. Il giacimento di litio di Shevchenko
(Donetsk), riconquistato dall’esercito russo lo scorso gennaio, contiene circa
13,8 milioni di tonnellate di minerali di litio. Il giacimento è il più grande
non solo dell’Ucraina, ma di tutta l’Europa. Già nel 2021, la società mineraria
del Commonwealth European Lithium aveva annunciato di essere in procinto di
mettere in sicurezza il sito. La perdita di questo giacimento è un duro colpo
per i fabbisogni di litio per le classi dominanti UE che si sarebbero comunque
dovuti rivolgere alla borghesia britannica. Ma anche il cosiddetto agribusiness
(cioè lo sfruttamento intensivo delle terre e degli animali di allevamento con
l’espulsione delle comunità locali) è una della parti in causa nella corsa dei
padronati contrapposti per il controllo delle ricche risorse dell’antica
Sarmatia. Ad esempio già nel 2013 la società agricola ucraina “Ksg Agro” firmò
un accordo con lo “Xinjiang Production and Construction Corps” dello Stato
cinese per la concessione in affitto di terreni agricoli nella regione orientale
di Dnipropetrovsk. L’accordo prevedeva una iniziale locazione di 100mila ettari,
con la possibilità di espandersi fino a 3 milioni di ettari nel tempo,
equivalente circa al 5% del territorio ucraino, e avente come obiettivo
principale la coltivazione agricola e l’allevamento dei suini destinati al
mercato cinese. Progetto ad oggi fallito non solo a causa di eventi bellici ma
anche per via di resistenze e di piccolo lotte delle comunità locali. Secondo il
rapporto del 2023 dell’“Oakland Institute”, oltre 9 milioni di ettari di terreni
agricoli ucraini sono dominati dalla grossa borghesia locale e da grandi aziende
agro-industriali statunitensi, europee e arabe-saudite (come la “NHC Capital”
degli Usa, la francese “Agrogénération” e le tedesche “KWS” e “Bayer”). Terra di
confine fin dai tempi del Kanato dell’Orda d’Oro e del gran ducato di Lituania,
tutti gli sfruttatori e gli oppressori di ogni età hanno sempre cercato di
controllare la porzione del basso piano sarmatico accarezzata dal Mar Nero. Lo
stesso toponimo “ucraina” significa “presso il bordo” limitante, cioè il bordo
fra blocchi di Stati e capitalismi contrapposti e di un piccolo bacino semi
chiuso e poco profondo: il Mar Nero. Il nome di quest’ultimo non è però legato
al colore delle sue acque, ma “Kara” (“Nero”) è il modo con cui i turchi
definivano questo specchio d’acqua secondo un’antica associazione dei punti
cardinali a colori specifici. Ma la cupezza legata all’angusto pelago è più
antica. Nel settimo secolo a.C. i primi colonizzatori delle sue coste (gli Ioni)
lo definivano “Pontos Axeinos” (“Mare inospitale”). Le parole non sono mai
neutre ma lavorano per gli interessi delle varie classi sfruttatrici, così come
possono lavorare anche per noi sfruttati chiamando con il loro nome le cose,
indicando i responsabili dell’oppressione, e dipingendo una cosmovisione altra
della vita. Come fa presagire il suo nome, questo mare non è mai stato
controllato da nessuno.
Nell’attuale frangente storico, sulle coste e nelle acque del Ponto Eusino si
incontrano e si scontrano quattro blocchi di Stati e di capitalismi principali:
quello russo, quello statunitense, quello “europeo” e quello neo-ottomano. Un
mare chiuso caratterizzato da un unico accesso: quello del Bosforo-Dardanelli
controllato dallo Stato turco.
Le classi dominanti russe hanno sempre considerato strategico questo mare, in
quanto unico accesso ai mari caldi e alle loro rotte logistiche.
Per il neo-ottomanesimo dello Stato turco, distanziare dall’Anatolia gli Stati
rivali è un fattore cruciale, mentre continua l’espansionismo degli interessi
del capitale turco verso Europa, Africa, Medio Oriente e Asia Centrale.
La nuova dottrina militare della “Mavi Vatan” (Patria blu) rispecchia pienamente
questi obiettivi.
Fra Stati e potenze in guerra fra loro, la diplomazia turca si adopera per
aprirsi margini di influenza lungo le direttrici precedentemente dette. Ad
esempio, condanna Mosca per l’invasione dell’Ucraina, ma non cessa di fare
affari con il Cremlino. Permette alle flotte della marina militare russa di
entrare ed uscire dal Bosforo, ma costringe gli sfruttatori russi ad accettare
che sia essa a dirigere la “Black Sea Grain Initiative”, mediata per l’appunto
da Ankara per permettere alla fertile Ucraina di esportare derrate alimentari,
aumentando ovviamente le tariffe per il transito dei mercantili nel mar di
Marmara. Ingenti risultano i tentativi su questo mare ad opera dei padronati di
casa nostra di rompere l’anossia data dallo strangolamento delle classi
dominanti rivali statunitensi e russe sull’Europa, in quella che è evidentemente
sempre di più una riaffermazione dell’accordo di Yalta, ad esempio con lo
sfruttamento dei fondali di questo pelago.
L’UE vuole realizzare un cavo internet sottomarino lungo 1100 km per collegare
gli Stati membri con la Georgia con un investimento da circa 45 milioni di euro.
Il progetto mira a ridurre “la dipendenza della regione dalla connettività in
fibra ottica terrestre che transita attraverso la Russia”, ha affermato la
Commissione europea, come riportato dal “Financial Times”. Attualmente circa il
99% del traffico internet intercontinentale viene trasmesso tramite oltre 400
cavi sottomarini che si estendono per 1,4 milioni di km. La gerarchia ed il
controllo delle rotte marittime, dei porti, dei trasporti e della logistica
orienta la circolazione di merci e di capitali. Esprime da sempre la potenza
degli Stati, fin da quando nacquero, e lo sviluppo del capitale. Mare,
capitalismo e guerra muovono e ridefiniscono i rapporti di forza fra Stati e
classi dominanti, nei due passati macelli mondiali così come ora. La Guerra
Grande in corso si combatte strategicamente sulle onde. Sopra e sotto di esse,
tra controllo dei fondali, della terra, dello spazio orbitale e cibernetico fino
al dominio delle tecnologie per il controllo dello spazio infinitamente piccolo
(genetico e nanotecnologico) contratto in un’unica dimensione. Per la nostra
classe sociale, cercare di bloccare la logistica che permette alla megamacchina
della morte di funzionare è un’urgenza vitale e necessaria per poter disertare
dalla loro guerra. Proverò ora ad introdurre due attrezzi concettuali per
l’analisi dei movimenti- posizionamenti del nostro nemico di classe e,
soprattutto, per poter cogliere noi la «fecondità dell’imprevisto» (Proudhon) e
provare a dargli forma nei territori dove si presenta e si presenterà sempre di
più: ovvero il concetto delle “strozzature marittime” e delle possibilità
insurrezionali e rivoluzionarie che si aprono per noi negli “specchi di faglia”,
ovvero in quei territori dove vanno a collidere interessi di Stati e blocchi
contrapposti. Quando parliamo di controllo del mare e di controllo degli spazi
(sia fisici che virtuali come quello digitale), per i nostri nemici di classe
stiamo parlando di controllo della terraferma circostante questi spazi, e di
dominio sulla logistica che rende possibile lo sfruttamento e il loro mondo
(dalle rotte commerciali alla infrastruttura materiale come i cavi internet
sottomarini, che rendono possibile la trasformazione della società e del modo di
produzione capitalistico verso la fase digitale). Per controllare questi spazi e
i territori, Stati e classe padronali devono controllare gli stretti di mare
detti anche, a livello mondiale, “strozzature”. Snodi naturali e/o artificiali
(come Panama e Suez) delle arterie degli Stati e dei meccanismi materiali di
valorizzazione e di riproduzione del capitale per i quali transita la quasi
totalità delle merci e dei cavi internet su scala mondiale. Malacca, Taiwan,
Panama, Gibilterra, Otranto, il canale di Sicilia, Suez, Dardanelli, Bab
al-Mandab, Hormuz, Bering, il canale fra Islanda e Groenlandia, l’Egeo, lo
Jutland ecc. Se consideriamo i vari fronti aperti a livello mondiale dalla
Guerra Grande ci accorgiamo che gli scontri e le guerre in corso dei nostri
padroni ruotano attorno al dominio di queste strozzature perché per Stati e
capitalismi, sin dalla loro nascita, il mare è viatico inaggirabile nella
rincorsa alla volontà di potenza loro e delle classi sfruttatrici. Chi domina
questi spazi e quindi in pratica queste strozzature domina il mondo. Attorno a
questi si scontrano e/o sormontano le varie “faglie” di blocchi di Stati e di
capitalismi in contrapposizione tra loro. Tendenzialmente in alcuni dei
territori limitanti una linea di faglia si aprono più facilmente contraddizioni
a livello sociale ed economico. Territori e società direttamente contesi o
semplicemente considerati punti deboli dal blocco opposto per via delle loro
caratteristiche storico-sociali ed economico-culturali. Ad esempio, per i nostri
padroni i territori e le società dell’Europa orientale e del Sud Europa sono più
sensibili potenzialmente per via delle contraddizioni che si potrebbero
spalancare a insurrezioni o autogestioni generalizzate e alla possibile
conseguente catarsi rivoluzionaria. Esempi a livello storico dove possiamo
utilizzare questi due attrezzi di orientamento e di navigazione per le
possibilità insurrezionali sono tutte le grandi rivoluzioni libertarie della
storia del XX secolo (Manciuria, Ucraina, Kronstadt, Catalunya).
Se consideriamo le considerazioni e le progettualità già elaborate decenni fa
nell’area dell’anarchismo di azione per quanto riguarda le possibilità e le
occasioni rivoluzionarie nelle società del Sud Europa e nel bacino del
Mediterraneo, ritengo che ora, fra le contraddizioni che si spalancano in alcuni
territori con la Guerra Grande in corso e la ristrutturazione sociale del
capitalismo, le analisi e le considerazioni che facemmo decenni fa sono quanto
più attuali e preziose e hanno confermato tutta la loro validità e potenzialità
soprattutto per quanto riguarda le aree rurali, ad esempio del Sud Europa. Aree
rurali dove poter coordinare informalmente sul territorio specifico in questione
situazioni di lotta, di autonomia materiale e di cultura di resistenza; in
sostanza porre in rete e creare momenti e situazioni di autonomia materiale, di
cosmovisione altra e di lotta e lavoro insurrezionale tracciando un orizzonte
politico libertario e anarchico. In sostanza delle CLR (Collettività Locali di
Resistenza) dove provare sin da ora a vivere materialmente e umanamente su dei
territori la vita per cui ci battiamo in lotta contro la devastazione portata
dagli Stati e dal capitale. Rilanciare e nello stesso tempo “uscire” in questa
maniera dal mero intervento di agitazione sia teorica che pratica per entrare in
un’ottica di possibilità rivoluzionaria e insurrezionale. Possibilità,
purtroppo, ben consce e presenti nelle analisi degli Stati dell’UE e dei nostri
nemici di classe, dal momento che già nel 2017 in un documento preparato per la
Commissione europea, e già citato negli anni passati nei vari articoli della
rubrica “Apocalisse o insurrezione”[metterei link], veniva evidenziato come
nelle aree rurali dell’est e del sud Europa, già feconde per noi di
contraddizioni intrinseche, la situazione a livello sociale era potenzialmente
esplosiva. Saper cogliere e rendere feconde le contraddizioni che si stanno
aprendo e che si possono spalancare nel momento in cui i nostri padroni e gli
Stati dell’UE si trovano in difficoltà e si indeboliscono nel confronto con i
loro avversari in questa Guerra Grande. Per noi il tutto sta nel cogliere le
possibilità che si aprono su certi territori nel momento in cui sappiamo
interpretare lo spazio-tempo in profondità e in ampiezza, declinando in pratica
la nostra bussola dei princìpi facendo tesoro dell’esperienza storica delle
lotte della nostra classe sociale, fissando una rotta di massima e elaborandola
in un lavoro rivoluzionario affinché le correnti del divenire convulso e
frenetico di questo periodo storico non ci portino alla deriva. Cosa ancora più
facile dal momento che buona parte della classe dominante, soprattutto
occidentale, sta scivolando a livello di analisi strategica nella demenza
post-storica e dei problemi minuti incasellati in un’illusione dell’eterno
presente. Proviamo a vedere le contraddizioni politico-sociali ed economiche che
si sono aperte nell’ultimo periodo in due aree geografiche che si trovano sullo
specchio di faglia dell’Europa orientale: in Romania e in Moldavia.
Che i territori appartenenti allo Stato rumeno e moldavo siano contesi fra due
blocchi capitalistici contrapposti, non è una novità per nessuno. Gli
avvenimenti istituzionali dell’ultimo anno in Romania (come ad esempio il colpo
di stato filo-UE del dicembre 2024), sono esemplificativi di questa situazione.
Non è questa la sede per entrare nel merito di queste dinamiche. È interessante,
invece, per quanto riguarda l’angolazione della nostra classe, sottolineare le
contraddizioni sociali che possono emergere. Ad esempio, gli scioperi continui
degli insegnanti per l’aumento dei salari, o le forti proteste dei trasportatori
e dei piccoli agricoltori in Romania. Bucarest ormai da più di un anno è una
città in ebollizione. «Raderei al suolo il nostro parlamento. Nessuno fa niente
per migliorare la situazione economica del paese. I salari non crescono ma i
prezzi dei beni di prima necessità continuano ad aumentare. Non ne possiamo
più», commenta un tassista di Bucarest.
Similare la situazione in Moldavia, area incistata tra Ucraina e Romania e punto
di frizione diretta tra le ambizioni di allargamento degli Stati e dei
capitalismi UE e le frazioni delle classi dominanti locali che spingono per
rafforzare i legami con Mosca. Negli ultimi anni, nelle strade di Chisinau, si
sono svolte proteste ed accese mobilitazioni contro il carovita. Nella nostra
prospettiva di classe, antiautoritaria e di disfattismo rivoluzionario, è
fondamentale comprendere quali sono le difficoltà e le problematiche che sta
passando il nemico di casa nostra nella crescente contrapposizione fra Stati e
borghesie europee con la classe dominante statunitense.
“Con simili amici, chi ha bisogno di nemici?”. Dal 24 febbraio del ’22 la frase
celebre di Charlotte Bronte può precisamente sintetizzare la situazione del
padronato e degli Stati dell’UE verso la borghesia a stelle e strisce. A partire
dal sabotaggio del gasdotto Nord Stream ai danni del padronato tedesco avvenuto
agli inizi della guerra, fino alla guerra commerciale dei dazi e agli
avvenimenti dell’ultimo anno sulla questione dell’approvvigionamento energetico.
Lo stop al transito del gas russo verso l’Europa attraverso i gasdotti ucraini
alla fine del ’24 determinò difficoltà e rialzo dei costi in gran parte del
continente con previsioni di incrementi considerevoli delle bollette. Lo Stato
slovacco, membro della NATO e dell’UE, è stato quello che ha risentito di più
della decisione assunta da Kiev con il pieno supporto degli USA e,
paradossalmente ma non troppo vista la posizione di sconfitti delle classi
sociali del vecchio continente, dell’Unione Europea.
Washington ha tutto l’interesse ad imporre il suo costoso GNL (sostenuto in
maniera perentoria da Obama, da Biden e ora da Trump).
L’attacco strategico contro i gasdotti Nord Stream non è stato certamente
l’ultima battaglia della guerra per il mercato energetico europeo. L’11 gennaio
del 2025 un attacco (fallito) è stato portato da 9 droni ucraini alla stazione
di compressione “Russkaya” del gasdotto “Turkstream”, che attraversa i fondali
del Mar Nero e raggiunge la Turchia europea, ed è l’ultimo gasdotto ancora
funzionante che trasporta il gas russo negli Stati europei come Serbia e
Ungheria.
Le fazioni della classe dominante nordamericana, che trova nel governo
repubblicano al potere il rappresentante e il propinatore dei propri interessi,
accelera le pressioni per rinforzare la “Yalta 2.0” contro i padroni del vecchio
continente, attraverso anche una sorta di pagamento delle “indennità di guerra”,
e cioè attraverso l’imposizione che gli Stati dell’Ue comprino più prodotti “per
la difesa” made in USA, se vogliono evitare la guerra – ancora “non combattuta”
sul piano militare – dei dazi commerciali. Trump ha previsto di ridurre in 4
anni di 300 miliardi su 900 il bilancio annuale del Pentagono: il militarismo
europeo dovrà indebitarsi per assorbire le acquisizioni di armamenti cui
rinunceranno gli americani. L’industria statunitense è ben determinata ad
occupare il mercato europeo della “difesa” in cui le importazioni dagli USA sono
cresciute di oltre il 30% dal 2022. Tracciando una panoramica complessiva, al
conflitto in nuce (per il momento limitato al livello commerciale e politico)
fra la borghesia USA e quelle del vecchio continente, si aggiungono i crescenti
compromessi tra Stato statunitense e russo anche in campo economico ed
energetico.
L’avvio della guerra mondiale dei dazi si caratterizza, oltre che per
l’inasprimento degli accordi di Yalta, anche per il rinvigorimento della
dottrina Monroe, prendendo di mira direttamente i due stati limitrofi agli
States (Canada e Messico), minacciati di essere colpiti nelle loro esportazioni
verso Washington. Per il Canada, i dazi rappresentano anche il tassello di una
fase espansionistica che culmina con la minaccia dell’annessione agli Stati
Uniti.
I continui ripensamenti e poi l’abbassamento dei toni stanno caratterizzando
l’atteggiamento delle classi sfruttatrici nord-americane verso il vero nemico:
il padronato mandarino.
La classe dirigente cinese ha ottenuto dagli USA una retromarcia dietro l’altra
sui dazi, come dimostrato dall’ultimo accordo raggiunto nel mese di maggio con
la sospensione temporanea e parziale degli enormi dazi che i due Stati si erano
imposti a vicenda. In base alle condizioni concordate, infatti, gli USA
abbasseranno dal 145 al 30% i dazi sulle merci cinesi, mentre lo Stato cinese,
che aveva imposto dazi speculari, li abbasserà dal 125 al 10%. Per il padronato
statunitense è l’ennesima resa unilaterale, che mostra l’improvvisazione della
strategia dello stato nordamericano, che quando impone i dazi dice che
serviranno per la reindustrializzazione e quando li toglie dice che serviranno
per favorire il commercio. Negli ultimi mesi, alle atrocità inenarrabili che
caratterizzano il proseguimento del primo genocidio automatizzato della storia,
si aggiungono i conflitti nelle regioni che insistono attorno allo stretto di
Hormuz, come la micro-guerra combattuta fra Stato pachistano e indiano, e la
guerra dei 12 giorni di Israele e USA contro l’Iran.
Utilizzando l’attrezzo analitico-concettuale delle “strozzature”, per quanto
riguarda ad esempio il conflitto fra Pakistan e India, evidenziamo che stagliato
sullo sfondo c’è il problema del riequilibrio delle relazioni commerciali tra
Stato indiano e statunitense.
La tendenza al riposizionamento della borghesia indiana nei confronti degli USA
è stata dirompente per gli equilibri del sub-continente. Mentre lo Stato
pachistano ha la necessità di un ampio confine diretto con il territorio cinese
(fondamentale per uno sbocco diretto sull’Oceano Indiano al fine di superare un
eventuale blocco navale dello stretto di Malacca), così la borghesia indiana
cerca a tutti i costi di interrompere questo canale di traffico commerciale.
Attorno alle strozzature contese fra blocchi di Stati e di capitalismi rivali di
Hormuz e di Malacca si stanno spalancando contraddizioni sociali e di classe
significative. Basti pensare anche solamente alle enormi mobilitazioni e
scioperi in aumento negli ultimi anni ad esempio nel territorio indiano, a
partire dalle grosse ondate di scioperi iniziate alla fine del 2020 contro
l’introduzione di nuove leggi agrarie, e dove la congiuntura fra la crisi
climatica e idrica, il revanscismo dell’ideologia nazionalista indiana e il
conseguente riposizionamento delle classi sfruttatrici indù sul piano
internazionale della Guerra Grande, nonché la liberalizzazione del mercato del
carbone assieme all’eliminazione della legge che vincolava l’uso delle terre al
consenso obbligatorio delle popolazioni locali, stanno realizzando sconquassi
strutturali rilevanti e un forte inasprimento della lotta di classe.
Ma torniamo alla situazione che più riguarda da vicino il territorio che
abitiamo e che attraversiamo con un focus sulla situazione groenlandese e delle
rotte che attraversano il Mar Artico.
La Groenlandia è la nuova isola del tesoro dove le borghesie cinesi,
statunitensi, russe ed europee si sfidano fra i ghiacci.
Frontiera strategica sulle rotte artiche e ricchissima di terre rare, gas e
petrolio, ci sono diversi motivi che hanno scatenato negli ultimi anni
un’attenzione crescente attorno a questa isola, e quasi tutti i motivi hanno a
che fare con un fattore: il cambiamento climatico.
Il riscaldamento globale sta provocando lo scioglimento dei ghiacciai in tutto
l’Artico, modificandone i contorni, aprendo nuove possibili rotte commerciali e
militari, scoperchiando ricchezze nascoste e giacimenti di “terre rare”.
La Groenlandia per la sua posizione geografica è considerata strategica dal
militarismo statunitense.
L’isola è circondata dagli stretti che introducono ai passaggi a nord-ovest e a
nord-est dell’Oceano Artico e, con le rotte nel prossimo futuro sempre più
navigabili, gli USA non vogliono che le altre potenze rivali ne approfittino.
Lo scioglimento dei ghiacci, inoltre, consentirà sempre di più lo sfruttamento
delle risorse minerali presenti nell’isola, ricca di minerali e di metalli rari.
Una ricerca del 2023 ha confermato la presenza di 25 dei 34 minerali considerati
“materie prime critiche” dalla Commissione europea, tra cui grafite e litio.
Ma all’interno del meccanismo delle varie economie di guerra, dove la sicurezza
degli approvvigionamenti alimentari ha un ruolo cruciale nel contribuire allo
scontro fra capitalismi rivali (come sta avvenendo in Africa nella corsa
all’accaparramento e alla predazione dei terreni necessari per la “sovranità
alimentare” delle varie potenze in guerra sullo scacchiere mondiale), così i
fondali groenlandesi sono necessari per la pesca, visto che diversi stock ittici
si spostano sempre più a nord, rinvigorendo le potenzialità del mercato della
pesca di Nuuk.
La competizione accesa per il controllo dell’isola più grande del mondo, dei
suoi stretti e dei suoi mari (lo stesso Macron è volato a Nuuk il 15 giugno
scorso per “difendere l’integrità territoriale” di questo territorio colonizzato
dalla Danimarca) accende le contraddizioni sociali sull’isola: aumentano le
proteste delle comunità Inuit in conseguenza dell’accaparramento dei territori e
delle acque limitrofe all’isola, mentre il tasso di disoccupazione e le carenze
sanitarie stanno iniziando a creare segnali di insofferenza nel paese.
La regione artica sta emergendo come nuova frontiera della competizione
strategica e commerciale. Si stima che l’Artico contenga circa il 13% delle
riserve mondiali di petrolio, il 30% di quelle di gas e grandi quantità di
risorse ittiche e minerali rari.
Stato cinese e Stato russo stanno ampliando le loro operazioni nell’Artico,
coinvolgendo le isole Svalbard e l’Islanda. Il controllo del cyber-spazio e dei
fondali oceanici è una base fondante per la guerra e per la trasformazione della
società e del modo di produzione capitalista verso la fase digitale. Tutti
questi punti sono ben visibili per quanto riguarda lo spazio artico dove, data
la crescente attività del capitalismo russo e cinese inerente alla logistica
digitale attraverso i cavi sottomarini, la NATO sta avviando nuovi progetti che
«puntano a rendere internet meno vulnerabile ai sabotaggi, reindirizzando il
flusso di dati verso lo spazio in caso di danneggiamento delle dorsali
sottomarine».
La stessa attività estrattiva in acque profonde potrebbe iniziare già
quest’anno. Agli inizi di aprile del 2024, i membri dell’Autorità Internazionale
dei Fondali marini (ISA) ha revisionato le norme che regolano lo sfruttamento
dei fondali. La nuova corsa all’oro degli abissi è iniziata l’anno scorso con
una legge dello Stato norvegese che permette l’estrazione mineraria su scala
commerciale. L’impatto (anche) ambientale di queste decisioni comporterà la
distruzione di interi habitat, oltre al fatto che il 90% del calore in eccesso
dovuto al riscaldamento globale viene assorbito dagli oceani, devastando così
l’equilibrio che sorregge la vita in questo pianeta. Sostanzialmente, la guerra
al vivente procede e si ramifica in ogni sua forma. La guerra è sempre più
palesemente il cuore di questo mondo senza cuore. Mentre i nostri padroni
proseguono ad attrezzarsi alla guerra mondiale, la domanda (banale) che poniamo
è questa: chi pagherà il riarmo degli Stati e delle borghesie nostrane?
Già nei mesi scorsi, in un articolo che non lascia adito ad alcun
fraintendimento dal titolo: Europe must trim its Welfare State to build a
warfare state, il “Financial Times” sostiene che l’Europa deve ridurre le spese
per il welfare per assicurarsi la capacità di sostenere un consistente riarmo.
L’accordo per aumentare la spesa militare degli Stati aderenti alla NATO al 5%
del PIL deciso al vertice dell’Aia va pienamente in questa direzione, assieme
all’estrazione e al furto dei piccoli risparmi privati, già presente nei punti
che articolano il riarmo europeo.
Ribadendo ulteriormente e con forza che fino a quando esisteranno Stati e
capitalismi saranno illogiche le speranze di pace duratura poiché la negazione
della guerra implica in primo luogo quella dello Stato e del capitale, dinnanzi
a questo mondo di conflitti e di miserie generalizzate che corre verso l’oblio e
la propria autodistruzione, la resistenza palestinese (vera e propria forza
tellurica che ha ridonato speranza alle classi sfruttate di tutto il mondo), la
rivolta di Los Angeles e l’accentuarsi delle insurrezioni, delle mobilitazioni
sociali, delle lotte e dei gesti di insubordinazione quotidiana in tutto il
mondo sono come lampi premonitori che squarciano l’Ancien régime, segnali che un
nuovo assalto proletario ai bastioni dell’alienazione e dello sfruttamento può
essere alle porte.
Non c’è notte tanto lunga da non permettere al sole di risorgere.
«Secondo noi le rivalità e gli odi nazionali sono tra i mezzi che le classi
dominanti hanno a loro disposizione per perpetuare la schiavitù dei lavoratori.
E in quanto al diritto delle piccole nazionalità di conservare, se lo
desiderano, la loro lingua e i loro costumi, ciò è semplicemente questione di
libertà, che avrà la sua vera finale soluzione solo quando, distrutti gli Stati,
ogni gruppo di uomini, o meglio ogni individuo, avrà diritto di unirsi con ogni
altro gruppo o separarsi a piacere.» (Errico Malatesta).
https://pungolorosso.com/2025/07/28/un-appello-dai-lavoratori-di-gaza-ai-lavoratori-e-ai-sindacati-di-tutto-il-mondo/
https://www.repubblica.it/tecnologia/2025/07/24/news/google_non_e_piu_un_motore_di_ricerca-424751088/?utm_source=firefox-newtab-it-it