Source - il Rovescio

cronache dallo stato di emergenza

Imminente sciopero della fame di massa nelle carceri del Regno Unito
Da: https://calla.substack.com/p/imminent-mass-hunger-strike-across Sugli scioperi della fame precedenti, si veda qui: https://ilrovescio.info/2025/08/31/dagli-usa-al-regno-unito-da-carcere-a-carcere-comunicato-di-casy-goonan-in-sciopero-della-fame/ Imminente sciopero della fame di massa nelle carceri del Regno Unito Decine di prigionieri politici nel cosiddetto Regno Unito, che hanno sopportato mesi di abusi mirati dietro le sbarre a causa del loro sostegno alla liberazione della Palestina, annunciano la loro intenzione di avviare uno sciopero della fame. Audrey Corno, rappresentante dei Prigionieri per la Palestina (che ho intervistato il mese scorso), afferma che si tratterebbe del più grande sciopero della fame coordinato dei prigionieri nel Regno Unito dai tempi dello sciopero della fame dell’Esercito Repubblicano Irlandese/Esercito di Liberazione Nazionale Irlandese nell’Irlanda del Nord occupata nel 1981, quando dieci prigionieri di guerra furono martirizzati. Il 20 ottobre, Audrey e Francesca Nadin, entrambe in carcere per azioni dirette contro le aziende di armi sioniste, hanno consegnato una lettera al Ministro degli Interni del Regno Unito “a nome delle 33 persone ingiustamente incarcerate a seguito di azioni intraprese per fermare il genocidio in Palestina”. Hanno cinque richieste: la fine di ogni censura sulla loro posta e sulle loro comunicazioni; il rilascio immediato e incondizionato su cauzione; il diritto a un giusto processo; la rimozione di Pal Action dalla lista dei “terroristi” proibiti; e la chiusura di tutte le strutture di Elbit Systems nel Regno Unito. I prigionieri, tra cui figurano membri del Filton 24 e del Brize Norton 5 , sono detenuti senza accusa in diverse carceri del Regno Unito ai sensi del “Terrorism Act”, in alcuni casi per oltre un anno. Finora, i ricorsi per il rilascio su cauzione dei prigionieri non hanno avuto successo. Gli scioperi della fame collettivi su larga scala hanno il potere di avanzare richieste coraggiose e di vasta portata che vanno oltre il miglioramento delle condizioni immediate dei prigionieri. I Prigionieri per la Palestina ne sono chiaramente consapevoli, come dimostra il modo strategico in cui hanno integrato richieste più immediate relative ai loro casi legali e alle condizioni carcerarie in attacchi più ampi alla Elbit Systems. Ad esempio, sostengono che il loro diritto a un giusto processo dovrebbe includere la trasparenza riguardo a tutti gli incontri che hanno avuto luogo tra funzionari britannici, israeliani ed Elbit, nonché “a chiunque altro sia coinvolto nel coordinamento della caccia alle streghe in corso contro attiviste e attivisti”. In questo modo, lo sciopero della fame è una continuazione delle azioni dirette che presumibilmente hanno intrapreso contro lo stesso obiettivo nemico fuori dalle mura del carcere: stanno solo lottando su un terreno nuovo. Lo sciopero della fame segna una significativa escalation nella resistenza in risposta alla discriminazione e ai maltrattamenti estesi che i prigionieri della Pal Action hanno subito dietro le sbarre: privazione di adeguati servizi religiosi e del Corano, impedimento ai contatti e alle visite con i familiari, isolamento in strutture rurali, aggressioni violente e confisca della posta e dei beni, nonché al fallimento dei loro ripetuti tentativi di appellarsi all’amministrazione penitenziaria del Regno Unito e alle autorità governative. Si basa anche sulla scia di uno sciopero della fame di 28 giorni intrapreso con successo da Teuta “T” Hoxha , una delle 24 di Filton, all’inizio di quest’anno, quando ha esercitato una forte pressione internazionale contro la prigione di Peterborough affinché le venissero ripristinati il lavoro di posta, le attività ricreative e biblioteca. Sebbene il suo lavoro in prigione non sia stato alla fine ripristinato, Hoxha ha ottenuto il riconoscimento di tutte le altre sue richieste ed è riuscita a denunciare l’esistenza di un’Unità Congiunta per l’Estremismo (JEU) appositamente incaricata di individuare, isolare e punire i prigionieri per la Palestina. Oltre a questi successi, lo sciopero di T. Hoxha ha avuto effetti di vasta portata sul movimento internazionale di solidarietà con la Palestina, attirando un’attenzione senza precedenti sulla draconiana repressione subita dagli attivisti di tutto il mondo che hanno scelto di agire direttamente contro la partecipazione dei loro Paesi al genocidio palestinese. Nei cosiddetti Stati Uniti, i prigionieri politici Casey Goonan e Malik Muhammad hanno aderito a scioperi della fame di solidarietà con Hoxha, dopo aver subito simili attacchi e abusi politici. (E vale la pena notare che la prigioniera politicizzata Shine White è attualmente in sciopero della fame nella Carolina del Nord per ragioni simili.) La pressione e la solidarietà internazionale suscitate dallo sciopero della fame di T. Hoxha, così come il suo successo nell’ottenere le sue richieste, hanno sensibilizzato i suoi coimputati e i prigionieri politici, compresi quelli incarcerati per motivi non apertamente politici. La sua azione ha dimostrato loro che quando si lotta, si vince. Gli attivisti hanno lasciato intendere che questo imminente sciopero della fame avrebbe un più ampio sostegno da parte della popolazione carceraria in generale. “I prigionieri sono fermamente convinti di poter contare su un enorme sostegno, sia qui che a livello internazionale, e che la gente si unirà per agire in loro nome. Questo è il risultato diretto non solo delle terribili azioni del governo nei confronti dei prigionieri, ma anche della loro partecipazione attiva al genocidio a Gaza”, ha affermato il Dott. Asim Qureshi , Direttore di Ricerca presso CAGE International , partner negoziale per gli scioperanti della fame insieme a Prisoners for Palestine. “Questo sciopero della fame, se andrà avanti, sarà il primo del suo genere in almeno due decenni. Porta in primo piano la violenza del sistema carcerario nel Regno Unito, una violenza che spesso associamo a luoghi lontani. Da Guantanamo a Gaza, l’infrastruttura delle leggi autoritarie sul terrorismo costruita per imprigionare, mettere a tacere e reprimere le azioni per la Palestina e le voci che contestano guerre e genocidio deve essere smantellata”, ha aggiunto Qureshi. “I prigionieri sono il cuore pulsante del nostro movimento per la giustizia. Dobbiamo onorare i loro sacrifici e opporci alle ingiustizie che subiscono”. Audrey ha sottolineato nella nostra precedente intervista che sarebbe fondamentale dare il tempo necessario ai sostenitori esterni per prepararsi allo sciopero e massimizzarne l’impatto e la portata. L’annuncio di uno sciopero della fame collettivo con settimane di anticipo solleva la questione se questa volta parteciperanno più prigionieri internazionali e quanto crescerà. I membri del movimento dei prigionieri politici dovrebbero allertare il maggior numero possibile di compagni all’interno, in modo che sappiano che questo atto di resistenza collettiva è in atto e possano scegliere di mostrare la loro solidarietà con parole o azioni, se lo desiderano. Prisoners for Palestine e CAGE International hanno dato al governo del Regno Unito tempo fino al 24 ottobre per rispondere alle loro richieste. Lo sciopero inizierà il 2 novembre, una data di risonanza storica che segna l’anniversario della Dichiarazione Balfour del 1917, quando il Regno Unito concesse il suo sostegno ufficiale al colonialismo sionista in Palestina. Gli attivisti del movimento dei prigionieri politici di tutto il mondo dovrebbero prendere atto del modo in cui i prigionieri e i loro sostenitori si sono rifiutati di fare marcia indietro anche di fronte a un’enorme repressione, insistendo nel politicizzare ogni aspetto dello sciopero. SUI PRIGIONIERI COME SOGGETTI POLITICI Gli scioperi della fame hanno avuto un ruolo centrale nel movimento dei prigionieri palestinesi, nel movimento di liberazione nazionale irlandese, nella Frazione dell’Armata Rossa nella Germania Ovest, in Sudafrica , in India e altrove. Nel corso dell’occupazione sionista, i prigionieri palestinesi hanno intrapreso scioperi della fame di massa, spesso a migliaia alla volta, uniti da diverse fazioni politiche. Negli anni ’70 e ’80, diversi prigionieri palestinesi sono morti a causa dell’alimentazione forzata, una pratica ripristinata dall’occupazione sionista nel 2012. Questi scioperi hanno plasmato il movimento più ampio: la Rete di Solidarietà con i Prigionieri Palestinesi Samidoun, nata dallo sciopero della fame dei prigionieri del FPLP di settembre/ottobre 2011 per liberare Ahmad Sa’adat, segretario generale del partito, dall’isolamento. “Da Ansar [Palestina] ad Attica [New York] a Lannemezan [la prigione francese dove fu detenuto Georges Abdallah], la prigione non è solo uno spazio fisico di reclusione, ma un luogo di lotta degli oppressi che si confrontano con l’oppressore”, ha scritto Sa’adat . Allo stesso modo, nel 2013, i detenuti statunitensi in isolamento a lungo termine presso la prigione statale di Pelican Bay hanno organizzato uno sciopero di massa, che ha portato 29.000 prigionieri californiani a protestare, rifiutando lavoro e lezioni, e 100 detenuti in due prigioni a rifiutare il cibo finché non avessero ottenuto riforme. Nel campo di detenzione militare statunitense di Guantanamo Bay (in territorio cubano illegalmente occupato), centinaia di prigionieri hanno iniziato lo sciopero della fame e sono stati alimentati forzatamente con violenza dal 2002, con la censura militare che ha represso le notizie. Mansoor Adayfi , uno yemenita detenuto a tempo indeterminato senza accusa, ha iniziato lo sciopero della fame ed è stato alimentato forzatamente per due anni. Ora libero, collabora con CAGE International e sostiene l’imminente sciopero dei prigionieri politici nel Regno Unito, con cui parlerà in una chiamata il 25 ottobre . Lo sciopero della fame non è una tattica da prendere alla leggera. È una scelta di resistenza fatta in condizioni di prigionia, quando il corpo è l’unica arma rimasta, poiché lo Stato ha eliminato ogni altro mezzo di resistenza. Non stiamo parlando delle acrobazie performative di digiuni da uno a tre giorni intrapresi da non prigionieri, etichettati in modo ridicolo come “scioperi della fame” per Gaza. Questi sono inefficaci perché vengono condotti al di fuori del contesto della prigionia e quindi non hanno alcuna influenza; sono anche offensivi, in quanto ridicolizzano gli scioperi della fame, cooptando e annacquando quella che in realtà è una tattica disponibile solo come ultima risorsa per i prigionieri in condizioni di estrema costrizione, che a volte muoiono di una morte lenta e straziante nel corso dei loro scioperi. (Per quelli di noi che sono all’esterno, con più mezzi a disposizione per resistere, il nostro dovere non è indebolire passivamente i nostri corpi, ma rafforzarci per passare all’offensiva.) Scrivendo del rivoluzionario palestinese martirizzato Walid Daqqa e della sua lunga storia di prigionia nelle prigioni sioniste, Kaleem Hawa ha osservato come lo sciopero della fame, quando praticato in cattività, provochi un’inversione dei rapporti di potere: > “Lo [sciopero della fame] capovolge il copione abituale, della docilità come > condanna, della fame come giuria. [È] uno schiocco degli strumenti dei coloni, > un promemoria che la dignità persiste nel soggetto colonizzato, una > riconfigurazione dell’ordine coloniale sia all’interno della prigione che al > di fuori di essa… chi fa lo sciopero della fame non fugge dalla vita, ma va > verso la libertà; il suo atto ricongiunge il corpo in stasi e l’autoisolamento > verso un tutto politicamente impegnato… che insiste sul diritto di narrare la > propria prigionia”. Purtroppo, alcuni attivisti esterni hanno scelto di condannare l’atto di resistenza di T. Hoxha, definendo l’impulso a intraprendere uno sciopero della fame come suicida e quindi intrinsecamente immorale. Si sono chiesti perché avesse scelto di rischiare la vita per richieste apparentemente insignificanti come il ripristino di un posto di lavoro nella biblioteca del carcere. Non poteva semplicemente lasciar perdere? Eppure, come ha sottolineato la stessa Hoxha in un messaggio registrato a Casey Goonan: “Sappiamo entrambi che non si tratta di un posto di lavoro in biblioteca, ma del principio che lo sostiene”. L’insistenza di Hoxha sul fatto che non sia il contenuto della richiesta in sé a essere importante, ma il principio che la sostiene, è condivisa da migliaia di altri scioperanti della fame nel corso della storia, che hanno preferito rischiare e in molti casi sacrificare la propria vita piuttosto che accettare le condizioni disumanizzanti della vita in carcere. Dopo che Casey iniziò il suo sciopero della fame in solidarietà con T. Hoxha, circa due settimane dopo aver iniziato il suo, alcuni attivisti esterni negli Stati Uniti condannarono analogamente la loro azione come una forma di autolesionismo, arrivando persino a equipararla a un’overdose di droghe. Questo “autolesionismo” fu definito sia in termini fisici che legali, sebbene non politici. Poiché Casey era diabetico, si sosteneva, e la loro condanna non era ancora stata emessa, uno sciopero della fame solidale non solo avrebbe comportato gravi conseguenze per la salute, ma avrebbe anche potuto compromettere la loro causa legale. Questi attivisti esterni sostennero inoltre che non c’era nulla che i sostenitori statunitensi potessero fare per aiutare T. Hoxha, poiché era incarcerata in un altro Paese, insistendo così sul fatto che l’atto di solidarietà di Casey fosse non solo sconsiderato, ma anche inutile. I compagni che sostenevano lo sciopero della fame di Casey e sostenevano attivamente la militanza delle loro azioni furono pubblicamente calunniati e persino incolpati della dura condanna a 19 anni di carcere inflitta dallo Stato poche settimane dopo la fine dello sciopero. Tali episodi di attacco e denuncia di atti di coraggio, solidarietà e resistenza basata su principi in nome della “preoccupazione” e della “sicurezza” non sono isolati. Ironicamente, mentre queste voci affermano che sono coloro che sostengono la resistenza basata su principi a rappresentare una minaccia e un pericolo per i prigionieri, è proprio l’insistenza nel condannare e scoraggiare la resistenza alla repressione statale a rappresentare la tendenza più pericolosa di tutte. Come ha osservato Shaka Shakur, un prigioniero politico di New Afrikan, in una recente intervista : > “È una tendenza per noi [della sinistra statunitense] cercare di lottare entro > i limiti stabiliti dall’oppressore. Non puoi dire di essere anti-stato, o > anti-governativo, anti-capitalista, anti-imperialista, e che tutta la tua > organizzazione e il tuo concetto di resistenza rientrano nella legalità, nei > confini, nei limiti della tua opposizione, permettendo così alla controparte > di dettare quali siano le tue strategie e tattiche. Questo riconosce una certa > legittimità allo stesso sistema che dici di voler distruggere, abbattere o > cambiare. Quindi sei già condannato”. Nella stessa intervista, Shakur estende la sua critica al pacifismo che, a suo avviso, ostacola il progresso della sinistra statunitense in generale, alla cultura del sostegno ai prigionieri e all’organizzazione carceraria in particolare: > “Sai, penso che sia un errore tattico, un errore strategico, che quando si > parla di sostenere i prigionieri, i prigionieri politici in > particolare – beh, un movimento che dice di sostenere i prigionieri politici o > i prigionieri di guerra e che si limita a brontolare ma si rifiuta di mordere, > è un movimento farsa. È un movimento farsa. Se lo Stato sa che può entrare qui > e uccidermi, orchestrare il mio omicidio, senza alcun tipo di ripercussione > reale, o alcun effetto a catena, allora questo la dice lunga sulla serietà del > movimento che ci sostiene. E questa è una tragedia. E purtroppo, troppi di noi > ci sono caduti”. Shakur osserva inoltre come il concetto di solidarietà con i detenuti sia stato annacquato, limitandosi a fornire loro un mero supporto materiale o tecnico – ad esempio tramite l’invio di denaro o lettere – ma non politico, una critica che abbiamo sollevato anche altrove . Il risultato è che quando i prigionieri vengono presi di mira con repressione o addirittura omicidio per le loro opinioni e azioni politiche, non vi è alcuna conseguenza equivalente sul sistema carcerario da parte di sostenitori esterni. Shakur prosegue: > Quindi, quando si parla di mutuo soccorso e sostegno, dove si colloca questo > concetto rispetto ad altre cose, come altri livelli di resistenza, lotta e > azione diretta? Sapete, perché tutti i nostri anziani devono aspettare di > avere 70, 80 anni e di essere sul letto di morte per essere liberati, per > essere rilasciati? Sapete cosa intendo? E quindi, quando parliamo del concetto > di abolizione nel suo complesso, cosa significa veramente? Come possiamo > renderlo manifesto? Quali sono le fasi di sviluppo in termini di acutizzazione > di queste contraddizioni e di intensificazione della lotta e della resistenza > per realizzare effettivamente l’abolizione? Stiamo cercando di sostenere la > nostra gente, i nostri compagni in prigione, per farli stare bene, o stiamo > cercando di rendere questi figli di puttana ingovernabili? Ovvero, stiamo > cercando di mandare soldi o stiamo cercando di liberare alcune persone?”. Di fronte alla brutale repressione statale, non possiamo permetterci di lasciare che concetti di “sicurezza” o di “consulenza legale” prendano il sopravvento sulla nostra strategia politica e sulla nostra lotta collettiva. Se tutti noi diamo priorità alla nostra sicurezza individuale rispetto alla liberazione collettiva, la nostra lotta non progredirà mai. I prigionieri politici vengono incarcerati per atti politici di resistenza allo Stato, quindi la loro lotta per la libertà deve essere condotta anche su un terreno e in termini politici. La storia degli scioperi della fame dei prigionieri dimostra che si tratta in realtà dell’opposto di un impulso suicida. Si tratta piuttosto della riaffermazione della vita e dell’umanità di un prigioniero nelle condizioni più disumanizzanti immaginabili, dell’insistenza sulla propria soggettività rivoluzionaria quando lo Stato lo ha ridotto a un oggetto passivo. Per noi che siamo fuori, è nostro dovere sostenere questa narrazione e i rischi che i nostri compagni scelgono di correre, nonostante le nostre preoccupazioni personali per la loro sicurezza e il loro benessere. Il silenzio è fatale. Anche se lo sciopero di T. Hoxha e Casey ha attirato l’attenzione, molte importanti organizzazioni di solidarietà con la Palestina non hanno fatto nulla, o si sono addirittura rifiutate, di rinnovare le loro semplici richieste di chiamare e inviare email al carcere per chiedere che T. Hoxha ricevesse le cure mediche urgenti di cui aveva bisogno. A meno che il governo imperialista e genocida del Regno Unito non riacquisti improvvisamente una coscienza e non accolga le cinque semplici richieste dell’imminente e questa volta molto più ampio sciopero della fame, è nostro dovere offrire il nostro sostegno incondizionato a coloro che, all’interno, intraprendono questi atti di coraggio. Circondate le segrete dove sono tenuti prigionieri. Facciamo in modo che la loro resistenza e i loro sacrifici risuonino così forte e così ampiamente da far crollare le mura della prigione. Per concludere con le parole di uno dei 10 repubblicani irlandesi martirizzati nello sciopero della fame del 1981, Patsy O’Hara dell’Esercito di Liberazione Nazionale Irlandese: “Quando non ci saremo più, cosa direte di aver fatto? Direte di essere stati con noi nella nostra lotta o di esservi conformati allo stesso sistema che ci ha condotti alla morte?”. -------------------------------------------------------------------------------- Per aggiornamenti, seguite: * Prigionieri per la Palestina ( Instagram , Twitter , Youtube , sito web ). * Appunti di prigione di T. * Il sotto-stack di Zahra * Sottopila Filton 24 * CAGE International
Carcere
Stato di emergenza
Napoli e non solo: l’escalation repressiva delle Questure agli ordini di Meloni & co.
https://pungolorosso.com/2025/10/27/sullescalation-repressiva-di-queste-ore-il-governo-meloni-ordina-le-questure-eseguono-tir/ Qui un’altra cronaca, con un video: https://www.lindipendente.online/2025/10/27/napoli-arrestati-per-aver-protestato-contro-la-multinazionale-del-farmaco-israeliana-teva/ Qui altre cronache di questi giorni: https://www.lindipendente.online/2025/10/24/bologna-intera-palazzina-sfrattata-con-la-violenza-per-far-posto-ai-turisti/ https://www.lindipendente.online/2025/10/26/milano-foglio-di-via-al-presidente-dei-palestinesi-in-italia-per-istigazione-alla-violenza/
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Cesena, 14nov Ciclo y proceso
Venerdì 14 Novembre 2025 allo Spazio Libertario Sole e Baleno, Via Sobborgo Valzania 27, Cesena Ore 19:30 – Cena Vegan Ore 21:00 – CICLO Y PROCESO, prospettiva e progetto del movimento anarchico in Cile. Ne parleremo con un compagno cileno. https://spazio-solebaleno.noblogs.org
Iniziative
Sul rinvio a giudizio per la manifestazione contro il 41-bis del 28 gennaio 2023 a Roma
Riceviamo e diffondiamo: Continuiamo la lotta contro il 41 bis, carcere di guerra contro i rivoluzionari A proposito del rinvio a giudizio nel procedimento per la manifestazione del 28 gennaio 2023 a Roma in solidarietà con Alfredo Cospito Dopo una serie di rinvii a partire dal luglio dello scorso anno, il 23 ottobre si è svolta l’udienza preliminare del procedimento per la manifestazione tenutasi a Roma il 28 gennaio 2023 in solidarietà con Alfredo Cospito, all’epoca a 101 giorni di sciopero della fame contro il regime detentivo del 41 bis e l’ergastolo ostativo. Al termine dell’udienza è stato stabilito il rinvio a giudizio di 13 compagni e compagne per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e porto di armi o di oggetti atti a offendere, con numerose circostanze aggravanti. Questo processo, fortemente desiderato dal “Gruppo antiterrorismo” della procura di Roma (mobilitatosi sebbene i capi d’accusa non presentino alcuna aggravante della “finalità di terrorismo”), avrà quindi luogo a partire da giovedì 8 gennaio 2026 alle ore 09:00 presso il Tribunale ordinario di piazzale Clodio. Nel pomeriggio di quel sabato 28 gennaio 2023 veniva convocata una manifestazione in piazza Trilussa, che le forze di polizia decisero di circondare e provocare. Tuttavia, in serata i piani della questura non andarono come previsto, con una parte dei manifestanti rimasta fuori dall’accerchiamento e le forze di polizia finite a loro volta nella morsa che volevano provocare. Ne sfociarono dei tafferugli e un corteo per le vie di Trastevere che si mosse per alcune ore e si concluse con 42 manifestanti fermati (condotti in questura, denunciati e rilasciati entro la mattina seguente). Da quel numeroso gruppo di fermati, la DIGOS e la procura con un lavoro di “scrematura” hanno successivamente selezionato 10 compagni e compagne, cui ne hanno aggiunti altri tre che non erano tra i fermati di quella sera. “La pericolosità del 41 bis non si può ridurre a un gerarca da operetta che imbastisce una patetica trappola a un’opposizione altrettanto da operetta […]. La sua reale pericolosità è qualcosa di ben più oscuro, in potenza una formidabile scorciatoia repressiva in caso di conflittualità sociale. Quale modo migliore per silenziare i movimenti e le opposizioni radicali di un regime emergenziale già attivo e testato […]. Se la guerra imperialista dell’Occidente tracimerà per reazione dai confini dell’Ucraina irrompendo nelle nostre case, se i conflitti sociali supereranno il limite sostenibile di un meccanismo traballante, o anche solo se la transizione morbida e graduale in regime non sarà praticabile, il 41 bis grazie proprio alla sua patina di legalità sarà lo strumento repressivo ideale per un’anestetizzazione sociale forzata, una sorta di olio di ricino per rimettere in riga i recalcitranti”. Queste sono alcune parole pronunciate da Alfredo Cospito il 15 gennaio scorso, in videoconferenza dal carcere di Bancali, durante l’udienza preliminare del procedimento cosiddetto “Sibilla” a Perugia (in cui tra l’altro sono stati inquisiti anche quattro compagni e compagne anarchici oggi imputati nel processo per i fatti di Trastevere). L’ultima circostanza in cui il compagno ha potuto esprimersi, strappandosi il bavaglio della censura e dell’isolamento imposti tramite il 41 bis che proprio in quell’inchiesta, in mezzo a una coltre di farneticazioni inquisitoriali terminate con una sentenza di non luogo a procedere, ha trovato uno dei suoi principali fondamenti giudiziari e repressivi. Non abbiamo quindi dimenticato che il 41 bis contro Alfredo e i tre militanti comunisti reclusi in quel regime da vent’anni funge da monito, da formidabile scorciatoia repressiva contro i rivoluzionari e più in generale contro tutte le espressioni di conflittualità sociale cresciute in questi anni dove continuano a soffiare forti venti di guerra. Con quella mobilitazione siamo riusciti a impedire una condanna all’ergastolo ostativo per Alfredo e a porre un serio bastone tra le ruote alla macchina della repressione anti-anarchica e non solo. Enormi contraddizioni si sono aperte negli organismi statali e oggi le forze repressive provano a farci pagare lo scotto subìto avviando nuove operazioni di polizia e processi. Si vedano a titolo di esempio la recente operazione “Delivery” e il processo “City” in corso a Torino, dove assieme all’accusa di devastazione fanno da corollario quei reati “di piazza” che troviamo in processi come quello che sta prendendo il via a Roma. Ricordiamo bene la rabbia di quei giorni e difendiamo l’intero bagaglio di esperienze, azioni e manifestazioni realizzate durante la mobilitazione degli anni 2022-’23 a sostegno dello sciopero della fame di Alfredo Cospito e degli altri rivoluzionari prigionieri. Ottobre 2025 Alcuni imputati e imputate Qui in pdf: continuiamo la lotta contro il 41 bis carcere di guerra contro i rivoluzionari imp
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Contro ARGOTEC
Riceviamo e diffondiamo: Lo spazio ultraterrestre è fondamentale nella guerra tra le forze che si contendono il controllo del mondo. Lo spazio ha un ruolo centrale nella carneficina in corso in Ucraina, nello sterminio a Gaza e in Cisgiordania, nella guerra contro le persone migranti, nella sorveglianza delle città. ARGOTEC partecipa a questa guerra. ARGOTEC è una piccola azienda “eccellenza” torinese fondata nel 2008 dall’ex parà della folgore David Avino, un’eccellenza che guadagna grazie alla morte, come tutte le aziende che sulla guerra si arricchiscono. ARGOTEC produce microsatelliti e sistemi d’Intelligenza Artificiale per programmi Nasa ed europei, per esempio la costellazione di satelliti “IRIDE” dello stato italiano finanziata con i fondi del PNNR, voluta prima dal governo Draghi e poi da quello Meloni. “IRIDE” serve ad avere dati sempre più precisi per la sorveglianza della terra e si avvale proprio dei microsatelliti ARGOTEC. ARGOTEC vende i suoi prodotti ai padroni delle fabbriche, ai grossi industriali nelle campagne, alle polizie che deportano le persone migranti, alla protezione civile per il governo delle “emergenze”, agli eserciti. ARGOTEC ha contratti di collaborazione con il Ministero della Difesa, per esempio con il progetto “SeQBO” del 2018 per sviluppare un “computer sicuro basato sulla comunicazione quantistica” in supporto a missioni militari. ARGOTEC ha sede in Barriera di Milano, ma nell’ottobre 2024 ha inaugurato grazie a fondi pubblici la sua sede produttiva nelle ex Cartiere Burgo, in via burgo 8, a San Mauro Torinese, nell’area industriale Pescarito. Questo posto si chiama “SpacePark”, un gigantesco snodo per “l’innovazione” aerospaziale dove vengono ospitate anche diverse startup, occupa migliaia di mq ed è alimentato da 400 km di cavi. ARGOTEC negli ultimi due anni ha raddoppiato i profitti con la benedizione del “centrodestra”, il presidente della regione Cirio e del “centrosinistra”, i sindaci di Torino e San Mauro torinese Lousso e Guazzora, tutti presenti a tagliare il nastro dello Space Park. nessuna pace per questa fabbrica di morte che si espande nella nostra città per questo abbiamo deciso di scrivere sui muri “ARGOTEC – MERDA NEI TUOI INGRANAGGI“ buttando un bel po’ di merda, la stessa che si produce lì dentro incatenando i cancelli della sede dirigenziale dell’azienda, in via Cervino 52, a Torino che tutti sappiano dove trovarvi con Gaza con i disertori con le persone migranti nel cuore siamo e saremo sabbia nei vostri ingranaggi di morte azione diretta contro la guerra.
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Stato di emergenza
Azioni
Trieste, 30 ottobre: Presidio solidale con Anan, Alì e Mansour
Riceviamo e diffondiamo: SOLIDARIETÀ PER ANAN YAEESH Anan Yaeesh è un palestinese combattente della Seconda Intifada, prigioniero dal gennaio 2024 dello Stato italiano. Si trova sotto processo per terrorismo internazionale insieme ad Alì Irar e Mansour Doghmosh. Il procedimento è promosso dalla DNAA, Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, un organismo repressivo-carcerario messo in piedi all’inizio degli anni 90 e continuamente perfezionato negli anni seguenti, che funziona non per particolari capacità istruttorie, ma attraverso la figura del “collaboratore di giustizia”. Nel caso di Anan (che, dopo aver trascorso un anno e mezzo nella sezione ad alta sorveglianza del carcere di Terni, è stato trasferito a centinaia di km, a Melfi -PZ-), pretenderebbe da parte sua un pentimento e un’abiura della sua identità di partigiano. Nel contesto di guerra, lo Stato ha la necessità di un consenso totale della società, colpendo le componenti che non si piegano attraverso vari strumenti repressivi, uno dei quali è l’Antimafia. Ora che la mobilitazione per la Resistenza palestinese è diventata un fenomeno di massa le udienze contro Anan, Alì e Mansour sono state rallentate per tentare di smorzare la potenza della nostra protesta. MANTENIAMO VIVA LA NOSTRA SOLIDARIETÀ VERSO ANAN! FACCIAMO SENTIRE IL PESO DELLA NOSTRA PROTESTA, MANIFESTANDO DAVANTI AL TRIBUNALE DI TRIESTE, SEDE DELLA DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA, IL 30 OTTOBRE 2025 DALLE ORE 10! ASSEMBLEA NO LEONARDO
Iniziative
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Guerra di classe
Riprendiamo da https://coordinamenta.noblogs.org/ Guerra di classe di Elisabetta Teghil Questa mattina all’alba in provincia di Verona due anziani fratelli ed una altrettanto anziana sorella, agricoltori, hanno fatto saltare in aria con il gas di una bombola il casolare dove abitavano mentre era in corso una irruzione di svariate forze di polizia in relazione ad una procedura di sfratto esecutivo. Tre carabinieri sono morti, uno dei fratelli e la sorella sono in gravi condizioni. Dino, Franco e Maria Luisa Ramponi, proprietari di un’azienda agricola storica di Castel d’Azzano, erano sul lastrico, su di loro pendeva uno sfratto esecutivo per un’ipoteca sulla proprietà. Strozzinaggio legale. Avevano già minacciato di far saltare tutto l’anno scorso ma la soluzione è stata piombare in forze nel casolare alle tre di notte. I vicini: “Erano disperati, vivevano come in una grotta” Erano oberati dai debiti e vivevano senza luce e gas. Questo avvenimento me ne ha fatto venire in mente un altro successo qui a Roma anni fa in un quartiere popolare della periferia est. Una vecchietta di 82 anni, sfrattata dal suo appartamento lo aveva fatto saltare in aria e per nulla pentita aveva ribadito «Il Signore non vi farà godere la casa, siete dei ladri» Se scorrete la cronaca, di queste storie ne troverete tante negli anni. Il dolore, la fatica di una vita che non vale la pena di essere vissuta si può trasformare in rassegnazione, disperazione oppure rabbia e rancore. Ci sono quelli che si rassegnano e vengono ignorati, nessuno si occuperà di loro, nessuno si accorgerà di quello che è accaduto, saranno solo loro a pagarne il pesante prezzo. Ci sono quelli che si disperano, si suicidano, il loro dolore diventa violenza verso se stessi, autolesionismo e allora strappano qualche “poveretto” qualche lacrimuccia di circostanza che dura il tempo del trafiletto sul giornale come per quell’uomo che mercoledì scorso 8 ottobre a Sesto San Giovanni, hinterland nord di Milano, periferia storica, si è buttato dal sesto piano durante lo sfratto esecutivo dall’appartamento in cui viveva. Ma non sia mai che il dolore, la disperazione e l’impotenza si trasformino in reazione contro lo stato presente delle cose, contro chi è la causa del massacro delle vite e chi questo massacro lo difende, lo tutela e lo supporta, allora per chi tira le fila di questa società è violenza delinquenziale e senza appello. Invece è solo guerra di classe consapevole o inconsapevole ma guerra di classe.
Stato di emergenza
Sulle solite vecchie – amate – questioni. A proposito di comunismo e individualismo
Riceviamo e diffondiamo: Qui il pdf: Sulle solite vecchie – amate – questioni(1) Sulle solite vecchie – amate – questioni. A proposito di comunismo e individualismo (con disimpegno a vista sul nichilismo) Ci sono questioni su cui si arrovella l’anarchismo che ciclicamente tendono a tornare. La più classica di queste è l’eterno dibattito su comunismo e individualismo. Quando parlo di comunismo e individualismo intendo naturalmente il comunismo anarchico e l’individualismo anarchico. Non aggiungerò sempre l’aggettivo «anarchico», anzi non lo farò quasi mai per risparmiare parole e agevolare la lettura. Lo si dia quindi per scontato (oltretutto mi sembra un buon metodo per impedire la perdita, l’alienazione e l’esproprio di queste belle parole). Ed è una fortuna che lo si faccia perché i risultati che raggiunge il dibattito non andrebbero mai postulati come acquisiti, ma ogni generazione e ogni singolo compagno dovrebbe ogni volta riconquistarli nella propria formazione. L’occasione per tornare a parlarne me la forniscono alcune critiche che sono giunte a un paio di articoli pubblicati nel numero 7 del giornale anarchico “Vetriolo”, l’ottavo (perché siamo partiti dal numero 0) e ultimo numero che abbiamo pubblicato. Bene che si sia pubblicato anche questo ultimo numero nell’estate del 2022, numero successivo all’operazione repressiva che ci ha coinvolto nel novembre del 2021, perché lungi dal risultare un disperato modo per dire «non ci farà chiudere la repressione» (per poi chiudere, giusto per dispetto, dopo un solo altro numero), è invece riuscito a essere un momento di ricapitolazione e rilancio del lavoro teorico svolto in diversi anni di pubblicazioni, a tal punto che a oggi continuiamo a ricevere osservazioni e critiche proprio su articoli di quest’ultima edizione del giornale. In sintesi negli ultimi mesi sono stati divulgati i seguenti contributi: * Un testo di Juan Sorroche, scritto dalla sezione AS2 del carcere di Terni dove si trova recluso, in polemica con l’articolo L’anarchismo rivoluzionario contro la desistenza, pubblicato sul numero 7 del giornale anarchico “Vetriolo”: Individualismo anarchico conto comunismo anarchico? Oppure comunismo anarchico con individualismo anarchico? pubblicato sul numero 15 della rivista anarchica «i giorni e le notti» nel giugno del 2024 (datato marzo 2024). * Due nuovi testi, sempre di Juan dal titolo rispettivamente Il mutuo accordo dell’anarchismo rivoluzionario non-sistemico e Una cattiva interpretazione del concetto dell’individualismo anarchico, entrambi datati 30/01/2025 e pubblicati qualche settimana dopo. Come il precedente (al quale, facciamo ammenda, non avevamo ancora risposto), anche per quanto riguarda i nuovi contributi trattasi di documenti critici nei confronti dell’articolo L’anarchismo rivoluzionario contro la desistenza. Possono essere letti a questo link: https://ilrovescio.info/2025/03/05/il-mutuo-accordo-dellanarchismo-rivoluzionario-non-sistemico-di-juan-sorroche/ * Nel frattempo sempre in quelle settimane usciva un contributo anonimo dal titolo Alcune considerazioni critiche su “La fase nichilista”. Evidentemente una critica al nostro scritto La fase nichilista pubblicato sul numero 7 del giornale anarchico “Vetriolo”. Il contributo veniva originariamente inviato in occasione del dibattito previsto a Foligno all’interno del laboratorio teorico previsto nel programma delle ormai tradizionali iniziative della “Befana”. Purtroppo però in quella occasione non abbiamo letto l’email in tempo e non abbiamo potuto discuterne; questa quindi sarà la prima risposta pubblica al compagno. Successivamente pubblicato anche dai siti internet del movimento anarchico è leggibile per esempio a questo link: https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/02/06/alcune-considerazioni-critiche-su-la-fase-nichilista/ * Infine, il sito in lingua tedesca https://panopticon.noblogs.org/ ha recentemente pubblicato la traduzione proprio de La fase nichilista, introdotta da una breve ma densa nota critica. In italiano è leggibile a questo link: https://lanemesi.noblogs.org/post/2025/07/25/breve-introduzione-critica-alla-traduzione-e-pubblicazione-in-lingua-tedesca-dellarticolo-la-fase-nichilista-contenuto-nel-numero-7-del-giornale-anarchico-vetriolo/, all’interno del quale si possono trovare i collegamenti con l’originale in lingua tedesca e altre traduzioni (i compagni di panopticon hanno tradotto anche il documento critico anonimo divulgato a gennaio in italiano). Ricordo che il numero 7 di “Vetriolo” e diverse delle precedenti uscite sono ancora disponibili e possono essere richieste a questo indirizzo: vetriolo@autistici.org. Più che una risposta lineare – botte e risposte – ai compagni che hanno fatto lo sforzo di aprire un dialogo e un polemica sulle nostre ipotesi teoriche, quello che segue spera di risultare come un documento autonomo, disponibile per tutti quelli che lo reputano utile, di verifica e di aggiornamento delle analisi all’interno del quale provare a replicare anche alle osservazioni che ci sono state mosse. Scrive Juan Sorroche di avere utilizzato «lo scritto di “Vetriolo” come stampella e per così sviluppare le mie idee con più linearità d’analisi e di critica, più complessive»; dato che è un metodo che condivido – perché a mio avviso ci permette di crescere ed esplorare più dimensioni, nonché di scrivere qualcosa di più interessante di una semplice discussione lineare (che può sempre svolgersi in forma privata) – io farò esattamente la stessa cosa. Infine mi sembra giusto informare che io sono l’autore de La fase nichilista, ma non sono l’autore de L’anarchismo rivoluzionario contro la desistenza. Naturalmente mi assumo la responsabilità e la piena condivisione di fondo di tutto il materiale pubblicato negli anni su “Vetriolo”, non posso però entrare, rispetto agli articoli che non ho scritto, su un dibattito troppo tecnico e bibliografico (per esempio, Juan rimprovera all’autore di non aver davvero letto l’opera di Armand; su questo ovviamente non rispondo). Breve storia di una critica al Vetriolo Un ripasso della storia teorica di “Vetriolo” forse si impone perché almeno un paio dei cinque contributi critici che abbiamo ricevuto dimostrano di trascurare o di non conoscere il percorso nel quale sono maturate certe affermazioni, finendo per equivocarle. Nei primi numeri “Vetriolo” ci si è concentrati in particolare su un dibattito che all’epoca tormentava molto l’anarchismo (in particolare quello di lingua italiana), ovvero l’intervento degli anarchici all’interno delle lotte sociali. Il dibattito vedeva contrapposte due fazioni: i cosiddetti anarchici sociali e i cosiddetti anarchici anti-sociali. Già attivo da diverso tempo, all’epoca il dibattito stava assumendo forme nevrotiche. Il numero 0 di “Vetriolo” usciva nell’inverno 2017. Su questo scontro tutto interno all’anarchismo, abbiamo sostenuto quella che potremmo definire una sorta di rivoluzione copernicana: la questione non è dichiararsi astrattamente «sociali» o «antisociali», bensì classisti. Gli anarchici dovrebbero dunque essere scettici verso quelle lotte sociali di tipo interclassista, le lotte popolari, le lotte ambientaliste, i movimenti di liberazione nazionale, i movimenti di liberazione delle cosiddette categorie oppresse (scettici non significa per forza non farne parte); ma non dovrebbero essere estranei alla lotta di classe, anzi dovrebbero intervenirvi, soprattutto non dovrebbero essere alieni a una lettura di classe della realtà (la quale piuttosto illumina di una diversa e più nitida colorazione, anche le lotte sociali generiche). Viceversa per degli anarchici definirsi antisociali non ha alcun senso, perché tutta la critica anarchica, l’essenza stessa della tensione anarchica ha a che fare con una frattura originaria che è intimamente e inestricabilmente sociale. Pertanto alla dicotomia tra «sociale» e «antisociale» proponevamo di sostituire, non tanto la fine delle dicotomie, bensì una diversa e radicale dicotomia: quella tra frontismo e internazionalismo. Laddove l’espressione «frontismo» indica la strategia messa in atto a partire dagli anni Trenta dello scorso secolo di costituire, dinnanzi all’avanzare del pericolo fascista e nazista, ampi fronti popolari, ovvero alleanze fra partiti, sindacati e altri grandi organizzatori collettivi appartenenti a classi sociali diverse. Con la strategia del frontismo, quindi, si postula che il fascismo è il male assoluto e che contro questa maledizione la lotta di classe va messa in secondo piano. A teorizzare e mettere in pratica il frontismo sono stati innanzitutto partiti marxisti di varie colorazioni, stalinisti e socialdemocratici in origine, seguiti nel dopoguerra dal frontismo straccione del maoismo e del guevarismo che recuperava le lotte di liberazione nazionale originariamente espressione delle borghesie dei Paesi oppressi (giusto per ricordare all’ignorante di turno che i primi ad abbandonare la lotta di classe a favore delle alleanze politiche siano stati i marxisti e che talune categorie postcoloniali sono molto più staliniste-maoiste che libertarie). Col concetto di internazionalismo si intendono invece niente di più – giacché l’originalità non dovrebbe essere un vezzo – che quei principi espressi dall’internazionale anarchica nel terzo punto della risoluzione del congresso di Saint Imier del 1872: «respingendo ogni compromesso al fine di attuare la rivoluzione sociale, i proletari d’ogni paese devono stabilire, al di fuori di ogni politica borghese, la solidarietà nell’azione rivoluzionaria». Rifiuto dei compromessi politici, nessuna alleanza con la borghesia del proprio Paese, ma solidarietà nell’azione rivoluzionaria fra i proletari di ogni Paese. L’invettiva dei compagni di panopticon – «La società di classe definisce una società antagonista inconciliabile, una condizione economicamente imposta che non rappresenta un’identità; il populismo, invece, unisce (suggerisce questa unificazione/associazione) e esiste solo come fantastica IDENTITÀ interclassista» – è corretta ma francamente è inviata all’indirizzo sbagliato. La vicenda teorica di “Vetriolo” è sin dal concepimento inserita all’interno di questo orizzonte. Semmai i compagni di panopticon temo che siano vittime di una particolare paranoia delle parole, una paranoia che troviamo talvolta in alcune sette – questa volta sì marxiste – ultraminoritarie. Non bisogna avere paura di bestemmiare la buon anima di Bordiga perché si è usata la parola «popolo» o «populista», bisognerà pur vederne il contesto. E lo vedremo meglio più avanti, il contesto. D’altro canto sono gli stessi Bakunin e compagni che usano l’espressione «Paese» nel passaggio citato, così come Bakunin parla di popolo in numerosissimi passaggi (spesso persino in contrapposizione con la classe germanicamente intesa da Marx come la superiore classe fabbrichista socialdemocratica). E d’altronde noi siamo internazionalisti, non siamo mica cosmopoliti, postidentitari, a-nazionali o uccelli migratori (semmai anche questa è una deriva di una certa estrema sinistra del capitale, dove il cosmopolitismo poi diventa sempre l’americanizzazione del cosmo). Dunque popoli, nazioni e Paesi esistono – il mondo è bello perché è vario, diceva mia nonna – semplicemente noi non siamo per i fronti popolari e nazionali (interclassisti) ma per la solidarietà nell’azione rivoluzionaria tra i proletari dei vari popoli, nazioni e Paesi del mondo. Nel frattempo la storia di “Vetriolo”, fortunatamente, è proseguita uscendo da questo dibattito tutto interno all’anarchismo, assumendone i risultati come premessa, per affrontare questioni teoriche, analitiche e pratiche più interessanti. Vado molto velocemente su alcune di queste, non perché non siano importanti, ma perché ci portano fuori dal presente dibattito. Per esempio sul lato teorico, per quattro numeri (dal numero 0 al numero 3) si è provata a sviluppare una teoria anarchica dello Stato, laddove lo Stato veniva visto non solo come un semplice sistema d’allarme marxiano a difesa della villa dei padroni, ma come un organismo vivente, il quale emergendo dalla sua funzione di classe prendeva una propria vita ideologica, simbolica, una propria personalità. Lo Stato non è il potere in generale, ma potere politico organizzato (la nostra lotta è quindi una lotta storica, contro un nemico reale e personale, non una lotta esistenziale contro un metafisico e pertanto imbattibile dominio). Sempre negli stessi primi quattro numeri un compagno ha abbozzato una controstoria della sinistra e delle sue infamità controrivoluzionarie, riletta polemicamente all’interno delle categorie andavamo proponendo. E ancora, abbiamo avuto una serie di scambi felicemente polemici con un compagno che scriveva articoli su un altro giornale anarchico, “i giorni e le notti”, intorno alla categoria del fascio-leghismo (noi eravamo contrari all’uso di questa categoria, scettici verso la denuncia di una fascistizzazione della società, in generale nemici di ogni fronte antifascista; ma sto andando davvero troppo veloce, fu un dibattito lungo e arricchente). Per tre numeri (dal 2 al 4, 2018-2020) abbiamo sviluppato una serrata, complicata e coinvolgente discussione epistolare con Alfredo Cospito dal carcere di Ferrara. Partendo dall’assunto internazionalista, avevamo cominciato a elaborare in diversi articoli la necessità del passaggio dall’internazionalismo all’internazionale; quindi della costruzione di una organizzazione specifica mondiale insurrezionale degli oppressi. Dopo alcuni anni e pagine di discussioni abbiamo coinvolto anche Alfredo, ponendogli la fatidica domanda: Quale internazionale? La proposta teorica e pratica di Alfredo è nota – una internazionale informale, che dialoghi attraverso l’azione, nemica del capitalismo certo, ma soprattutto della scienza, nichilista e al contempo capace di risvegliare il mito dell’anarchia vendicatrice – così come sono noti gli esiti editoriali (ne uscì un libricino delle Edizioni Monte Bove, corredato da una ricca appendice contenente tra l’altro la cronologia di tutte le azioni della Federazione Anarchica Informale avvenute in Italia) e soprattutto sono noti gli esiti giudiziari, nonché la determinazione da parte dello Stato nel trasferire in 41 bis il compagno proprio per provare a tappargli la bocca. Ma un giornale come “Vetriolo” era ancora molto altro; abbiamo ricevuto contributi poetici e artistici, abbiamo pubblicato una serie di articoli solo apparentemente indipendenti (contro l’ossessione della coerenza, in difesa del concetto di insurrezionalismo, sulla natura della mafia non come segno di arretratezza ma come avvenire del capitalismo, sulla repressione) in realtà espressione di uno stesso progetto editorialmente orientato, così come abbiamo pubblicato negli anni delle analisi sulla situazione del momento ispirate da quelle stesse categorie, ancora nell’ultimo numero abbiamo sostenuto una chiara presa di posizione disfattista e internazionalista sulla guerra mondiale regionalizzata che si combatte in Ucraina. L’anarchismo rivoluzionario nella fase nichilista Il filone principale di queste ultime analisi, che solo impropriamente e molto riduttivamente possiamo definire di attualità politica, è quello che ci porta ai due scritti contro i quali hanno polemizzato i nostri ultimi interlocutori. In occasione della prima elezione di Trump abbiamo abbozzato un’ipotesi di massima, ancora oggi a mio avviso piuttosto buona per descrivere il presente: siamo di fronte a una fase che definiamo «crisi della globalizzazione», la cosiddetta ondata reazionaria che tanto spaventa i benpensanti di sinistra (Trump, Putin, Orban, i dazi, l’irrigidimento dei mercati, il razzismo e la chiusura delle frontiere) è espressione fenomenica di questa crisi; questa crisi è resa possibile dalle nuove tecnologie, le quali rendono relativamente più agile la produzione nelle economie sviluppate invertendo la dinamica creatasi durante la lunga stagione delle delocalizzazioni (nel frattempo anche i Paesi un tempo poveri sono diventati a capitalismo maturo, gli operai asiatici hanno cominciato a pretendere stipendi un po’ più decenti, ecc.); una parte del capitalismo occidentale dunque ha optato per il ritorno a casa propria degli investimenti, dandosi degli involucri politici (come il trumpismo) che facessero delle politiche (i dazi, per fare un esempio di recentissima attualità) atte allo scopo, mentre la vecchia élite politica liberale è inorridita e ha chiamato alla resistenza. Quello che ci premeva all’epoca e che mi preme tutt’ora ribadire è che in questo scontro tra la fazione sovranista e la fazione liberista della borghesia gli sfruttati non hanno amici. Prima ancora della guerra guerreggiata, noi già proponevamo il disfattismo rivoluzionario nella guerra mondiale ideologica tra sovranisti e liberisti. Prevedevamo che purtroppo gli sfruttati sarebbero rimasti estremamente confusi e che per molto tempo il clima generale sarebbe stato molto sfavorevole ai rivoluzionari. E che gli stessi militanti antagonisti si sarebbero lasciati incantare dalle sirene delle varie fazioni, come purtroppo è successo e sta ancora succedendo. (Cfr. Nazionalismoduepuntozero. Dodici ipotesi su robotica, crisi della globalizzazione e «ritorno» dello Stato-nazione, in “Vetriolo” n. 3, inverno 2019; d’ora in avanti verrà nominato con l’espressone le «dodici ipotesi»). Il concetto di fase nichilista e il concetto di anarchismo rivoluzionario nascono qui. La fase nichilista è la condizione in cui si trova la lotta di classe in questo momento. La lotta di classe non sparisce, ma viene rimossa, essa è inconsapevole, non cosciente, spesso derisa e maledetta, rinnegata dai suoi stessi attori. Ma non per questo scompare. La lotta di classe, per fare un parallelismo con la psicanalisi, viene rimossa, ma questo rimosso ritorna come una rimozione traumatica, continua a perturbare il sonno della pace sociale. Torna come sintomo, come nevrosi, come irrazionalismo di massa. La sua espressione principale per anni è stata nella forma sintomatica della resistenza di massa contro lo sviluppo scientifico. L’anarchismo rivoluzionario è per certi aspetti un altro lato del problema, per altri aspetti è la soluzione (si spera) del problema. Si tratta di un approccio all’anarchismo all’interno del quale non si rifiuta aprioristicamente un atteggiamento strategico alle questioni sociali. Un anarchismo quindi capace di manovra, di progetto e di tattiche mutevoli atte alla realizzazione del proprio progetto. Questo avviene, come ha spiegato con una felice sintesi l’autore dell’omonimo articolo, attraverso il passaggio, nel nostro modo di agire, dall’azione per l’azione all’azione nella strategia. L’anarchismo rivoluzionario è quindi sia uno strumento all’interno della fase nichilista, che soffia sul fuoco della negazione, sia il suo superamento, perché all’interno della rivolta irrazionale interviene strumentalmente con un progetto razionale. Quindi non solo i due articoli andrebbero letti come complemento della storia teorica di “Vetriolo”, ma andrebbero anche letti in maniera complementare essi stessi. Non voglio risultare pedante e rimproverare ai critici di «non aver studiato» – anzi li ringrazio per aver letto e commentato qualcosa di quello che abbiamo scritto. Semplicemente se non si tiene a mente questo percorso – nello specifico, che la fase nichilista era una delle «dodici ipotesi» del 2019 – possono generarsi fraintendimenti. Per esempio, nel testo anonimo Alcune considerazioni critiche su “La fase nichilista” si afferma: «va detto che Vetriolo non dice nulla di nuovo, anzi arriva in ritardo rispetto a certe riflessioni teoriche prodotto a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta nell’ambito della critica radicale». Sinceramente la critica non mi tange. In primo luogo perché, come dicevo, non ho il vezzo dell’originalità. Non mi interessa dire delle cose originali, ma mi interessa cercare di comprendere le cose come stanno. In secondo luogo, perché essere paragonato alla critica radicale mi sembra un generoso complimento. Nondimeno in questa affermazione c’è un equivoco innanzitutto storico. Oggi abbiamo a che fare con delle differenze fondamentali in ordine di dimensione e di collocazione politica del fenomeno. Di dimensioni, perché il nuovo proletariato eccedente conta i suoi membri nell’ordine di centinaia di milioni, forse di miliardi di esseri umani: quello che succede a Gaza è (almeno sul piano quantitativo) molto di più di una rivolta del ghetto e della sua feroce repressione poliziesca. Di collocazione politica, perché per quanto lo si possa negare con le parole è evidente che quel tipo di rivolte di cui parla l’anonimo interlocutore avevano in qualche modo qualcosa da dire a un certo mondo di sinistra: un riot di neri, la rivolta di Stonewall ci parla di qualcosa che il mondo della sinistra radicale è in fondo disponibile ad ascoltare (fino al punto di trasformarsi in sinistra delle minoranze); lo stesso ascolto quella sinistra non lo sa dare alla proteste no vax e antiscientiste. I malumori irrazionali della working class bianca, etero, ecc., (che in Occidente va a comporre la massa umana largamente maggioritaria dentro l’irrazionale dispiegarsi della lotta di classe sotto le vesti delle pulsioni nichiliste) sono anzi disprezzati da certi critici-radicali-universitari, e vengono regalati al consenso della destra. Vi è poi una differenza economica e sociale impressionante rispetto alla seconda metà del Novecento: all’epoca l’economia era in espansione e le rivolte irrazionali, come ha efficacemente sintetizzato Bonanno, erano rivolte degli esclusi, espulsi dal circuito del benessere; oggi, viceversa, l’economia è in contrazione e gli esclusi stanno diventando la maggioranza, con la proletarizzazione delle cosiddette classi medie. La fase nichilista di cui parliamo noi avviene in un contesto storico nel quale il dibattito pubblico è scisso fra la corrente sovranista e quella liberista del capitale, e oltretutto dove la scienza ha fatto passi giganteschi in termini di espulsione di forza lavoro, di controllo, di rimbecillimento. Il nostro anonimo interlocutore continua a ripetere che in quel che accade non c’è nessuna svolta, «ma è frutto di quella ristrutturazione permanente […] iniziata negli anni Settanta»; mi sembra una puntualizzazione sterile, perché di ogni fenomeno storico è dimostrabile la provenienza da un altro fenomeno storico del passato (peraltro contiene almeno un equivoco, dato che il compagno parla di «delocalizzazioni» mentre la fase nichilista di cui parliamo noi inizia appunto con la crisi della globalizzazione). Eppure negli anni Settanta – per favore compagni non prendiamoci per i fondelli – per quanto vi raccontavate di essere brutti, sporchi e cattivi, vi era comunque una geografia politica dentro la quale il partito comunista era meno peggio della democrazia cristiana e la democrazia cristiana era meno peggio dei neofascisti. Nella fase nichilista, viceversa, non esistono più i partiti riformisti di classe. Oggi viviamo in un contesto storico nel quale, per fare un esempio perturbante, sulla guerra in Ucraina ci ritroviamo più vicini al programma di Alternative für Deutschland che a quello dei socialdemocratici. O per fare un esempio ancora più sconvolgente, oggi siamo nell’epoca nella quale il più grande sciopero degli ultimi anni nell’industria dell’automobile nordamericana – uno sciopero a oltranza, a scacchiera, distribuito sul territorio colpendo stabilimenti che producono componenti fondamentali, riscoprendo dunque il vecchio sciopero fordista ma in una dinamica di distribuzione e parcellizzazione della produzione – viene diretto e guidato alla vittoria contro i capitalisti da un gruppo di operai che, pochi mesi dopo, durante la campagna elettorale, darà vita a un comitato dal nome eloquente di «Workers for Trump». Questa è la fase nichilista. Il nichilismo è un metodo, non è una cosa (e il populismo è suo papà) Ma c’è un’altra differenza tra la proposta di “Vetriolo” e quella di precedenti teorici delle rivolte irrazionali: per decenni vari, differenti e per alcuni versi opposti contesti teorici quali la critica radicale, il complesso teorico Focault-Agamben, il postmodernismo, buona parte dell’insurrezionalismo in qualche modo li ritroviamo accumunati dal fatto di aver trascurato il momento del rovesciamento; concentrandosi sulla dissezione critica, sull’archeologia del dominio, sulla decostruzione, sull’azione da fare nel presente (il motto del «qui e ora»). Giustamente sfiancati da decenni di messa salmodiata sulle note di una versione banalizzata della dialettica hegelo-marxista, ci hanno precipitati più o meno consapevolmente in una sorta di criticismo infinito. Ovvero in una serie di filosofie sul metodo e mai sulla sostanza: il metodo della decostruzione, quello dell’archeologia del dominio, quello insurrezionale. Se prendiamo il famigerato motto focaultiano per cui «Là dove c’è potere c’è resistenza e […] tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere. [… I rapporti di potere] non possono esistere che in funzione di una molteplicità di punti di resistenza, i quali svolgono, nelle relazioni di potere, il ruolo di avversario, di bersaglio, d’appoggio, di sporgenza per una presa» (Cfr. Archeologia del sapere), ci rendiamo conto che in questa filosofia la rivoluzione è impossibile: potere e resistenza sono due schemi trascendentali di quella sorta di gigantesco Io kantiano che è diventata per queste teorie la coscienza collettiva, quindi non ci sarà mai la «vittoria» della resistenza e la distruzione del potere, in questa proposta filosofica e politica essi sono co-necessari. Eppure, anche se prendiamo il primo numero di una rivista che ha profondamente influenzato la nostra storia come «Anarchismo» vi possiamo leggere un articolo di Alfredo Bonanno, si potrebbe dire di presentazione e di programma, nel quale fra le altre cose si afferma: «L’uso della ragione, donde è possibile parlare di materialismo, può essere fatto in senso dogmatico (assolutista) e in senso critico (non dialettico). In quest’ultimo senso, che è poi quello che ci interessa, possiamo dirci razionalisti, non dialettici, critici, pluralisti, volontaristi; in quest’ultimo senso la volontà (irrazionale) coglie il momento positivo della ragione (razionale) e determina la forma storica (materiale), senza esservi costretta da un modello prefissato (dialettico)» (Cfr. A.M. Bonanno, Crisi economica e possibilità rivoluzionarie, in «Anarchismo» n. 1, 1975, p. 4). Se all’epoca queste affermazioni hanno aiutato il movimento anarchico a evadere dal conformismo di una cattiva dialettica, oggi dobbiamo fare lo sforzo di evadere paradossalmente dal conformismo neo-kantiano nel quale siamo arretrati. I discorsi della nostra area sono troppo spesso panegirici sui presupposti trascendentali dei modi di intervenire sulle cose, senza mai parlare della Cosa stessa. Mi spiego con degli esempi concreti: l’ipotesi organizzativa tracciata negli anni da «Anarchismo» (nuclei di base, gruppi d’affinità, organizzazione informale) virtualmente può essere utile per la lotta a Comiso degli anni Ottanta, come può essere utile per una campagna per convincere la NATO a intervenire direttamente in Ucraina, o viceversa per una campagna per sostenere il disfattismo rivoluzionario in Ucraina. Da solo quel pacchetto non ha contenuti, ci parla solo di metodologia (si può ovviamente muovere le stesse obiezioni all’organizzazione proposta da Cospito in Quale internazionale?). Questo accade perché quella proposta è una proposta trascendentale di metodo (può essere applicata a diverse situazioni). Al contrario proporre un discorso nel quale si affermi che – per esempio – quando c’è una guerra fra Paesi capitalisti bisogna disertare il fronte, lottare contro ogni Stato a partire dal proprio, per trasformare la sconfitta del proprio Stato in una chance rivoluzionaria e poi, dentro questa rivoluzione, lottare per il comunismo in economia e l’anarchia politica, si propone un discorso nel quale si intravedono percorsi per rovesciare la realtà (il metodo non scompare, ma è utilizzato per trasformare le cose; non è un metodo della ragion pura, ma è sporcato di realtà). Su questa questione mi ritrovo d’accordo col nostro critico e mi dispiace se non mi sono spiegato bene. Se la domanda fondamentale che ci pone è: «Ma le rivolte e la fase nichilista di cui Vetriolo parla, questa “passione degli sfruttati” è semplicemente una reazione di massa alla svolta tecnototalitaria o una negazione radicale di un’organizzazione sociale di cui lo sviluppo scientifico, per quanto pervasivo nelle sue applicazioni, rimane un mezzo e non un fine in sé, volta alla messa a valore, e dunque al controllo e alla prevedibilità, di ogni aspetto della vita dei proletari?» Pure io «opterei per la seconda ipotesi», a patto che non scambiamo il nostro desiderio con la realtà, ovvero cercando un modo per fare sì che «il momento della rivolta senza senso diventa [diventi, purtroppo il congiuntivo è d’obbligo!] il momento della disarticolazione di questa organizzazione nei suoi spazi, tempi, mezzi riti e miti». Perché questo nostro intervento possa almeno un minimo contribuire in tale direzione, bisogna però passare dal discorso sul metodo all’utilizzo del metodo per cambiare la sostanza. D’altro canto, ha ragione il nostro critico, anche la scienza è un metodo del capitale e non certo una potenza ontologica come nell’ultimo Heidegger (e sembra, anche nell’ultimo Bonanno di «Negazine»). Questo stesso discorso va applicato, più in grande, alla categoria di nichilismo e alla fase nichilista che viviamo in questa stagione storica. Il nichilismo non è una Cosa, ma è un metodo. Il più importante esempio di movimento nichilista – quello dal quale, per forza di importanza e suggestione storica, tutti gli altri bene o male prendono ispirazione – lo troviamo nell’impero zarista nella seconda metà dell’Ottocento. Voglio tornarci ancora una volta su questa storia, perché mi aiuta a rispondere alle critiche di panopticon sull’utilizzo del termine «populismo» per il quale ci siamo presi un rimprovero nella loro introduzione critica. Il movimento di cui sto trattando attraversa almeno tre generazioni. La prima generazione era composta da giovani delle classi colte ed europeizzate i quali, col motto di «andare al popolo» (i populisti, appunto) si riversarono nei villaggi desolati per spiegare ai servi come sarebbe stato meglio vivere senza padroni, senza Zar, proprietari essi stessi dei mezzi di produzione, decidendo le questioni fondamentali in assemblee democratiche territoriali. Il risultato di questo tentativo utopico fu che una buona parte di quei giovani idealisti finirono ammazzati dagli stessi contadini, linciati in dei pogrom istigati dal clero, additati come agenti del demonio. Per reazione di fronte a questa catastrofe nacque il nichilismo. Ora non bisognava più parlare al popolo, ma esprimere la propria rabbia nichilista con bombe e attentati. Il più famoso di questi fu l’uccisione dello Zar Alessandro II, avvenuta il 13 marzo 1881 a San Pietroburgo. Paradossalmente, proprio coloro che meno erano interessati a parlare al popolo ottennero il massimo del consenso popolare. Quella generazione venne perlopiù distrutta dalla repressione, ma generò come seguito politico la nascita del socialismo rivoluzionario. I socialisti rivoluzionari russi (la terza generazione) furono un partito terrorista di massa (oggi mi verrebbe di paragonarlo mutatis mutandi ad Hamas), socialista, non marxista, a base contadina; più che una sintesi, una vera e propria sommatoria di populismo più nichilismo. Il loro consenso fu talmente vasto che furono loro a prendere per qualche mese il potere, dopo la rivoluzione del marzo 1917 (cosiddetta rivoluzione di febbraio). Il loro metodo rimase l’azione diretta rivoluzionaria e le esecuzioni politiche anche dopo la rivoluzione; nel loro seno matura l’attentatrice che, ancora nell’agosto del 1918, cercò di assassinare Lenin accusato di aver tradito la rivoluzione democratica socialista con mezzi autoritari. Ai compagni di panopticon io vorrei dire questo. Noi potremmo passare il nostro tempo a scrivere delle riviste anarco-bordighiste, con delle categorie classiste e internazionaliste perfettamente coerenti. Sicuramente ci troveremmo d’accordo su tutto e potremmo anche farle insieme queste pubblicazioni. Sono sicuro che ci divertiremmo un casino, potrebbe essere un’alternativa più salutare dell’LSD. Ma questo non ci aiuterebbe a spostare di un millimetro la realtà. Quando dico che bisogna prestare attenzione ai movimenti populisti, se mi si consente un parallelismo storico tanto forzato quanto grandioso, io intendo che dovremmo spingere l’attuale populismo verso i suoi fallimenti, per aiutare la nascita di un nuovo movimento nichilista, prodromo del socialismo rivoluzionario del ventunesimo secolo. Sempre mia nonna diceva che il pane si fa con la farina che si ha, se vogliamo rivoluzionare la realtà dobbiamo partire, appunto, dalla realtà. In questo momento il populismo/nichilismo è l’espressione irrazionale e non cosciente (ovvero, incosciente!) della lotta di classe. L’unico modo in cui essa si esprime a livello di massa in Occidente. Volando un po’ più bassi, panopticon trascura la situazione particolare italiana nell’anno 2022, quando uscì quell’articolo. Avevamo all’epoca il governo di Mario Draghi, ovvero il grande esperimento controrivoluzionario (riuscito, purtroppo) del Governo di Unità Nazionale. Bisogna capire che il governo di Unità Nazionale è stato molto di più di un semplice governo di grossa coalizione alla tedesca. Non era solo l’unità dei partiti politici in parlamento, ma vedeva al suo interno esponenti di Confindustria e dei sindacati, ambasciatori, economisti, scienziati e persino generali dell’esercito, aveva il consenso dell’UE, della NATO, del Vaticano. Con le forze esterne al parlamento che davano esse stesse un contributo all’Unità Nazionale sospendendo gli scioperi (nel caso dei sindacati), sospendendo le manifestazioni di piazza per evitare il contagio del virus (nel caso delle aree antagoniste). Si tratta del governo che ha gestito l’uscita dall’emergenza pandemica manganellando gli operai, decuplicando gli infortuni sul lavoro, togliendo il blocco ai licenziamenti che era stato introdotto nelle leggi emergenziali precedenti, traghettando l’Italia nella guerra in Ucraina e mettendo Alfredo Cospito in 41 bis. Il governo di Unità Nazionale di Mario Draghi è qualcosa che merita di essere studiato meglio, dedicandogli una ricerca apposita. Credo che questa formula politica potrebbe venire replicata nei regimi democratici in crisi: in effetti dalla Germania all’Inghilterra alla Francia sempre più la borghesia cerca di risolvere la propria incapacità di governare con esperimenti di fronti parlamentari allargati; anche se il governo di Unità Nazionale rappresenta un passo ulteriore rispetto a queste formule, è unità sociale e non solo parlamentare, presto il modello italiano potrebbe ispirare questi Paesi e la Germania ho la sensazione sia la candidata numero 1 su questa strada. Nel 2022 il fronte popolare esisteva già, esso era il governo del Paese. Non era solo popolare, era un fronte popolare e delle élite, clericale e scientifico, industriale e sindacale, civile e militare. Pertanto stare col «populismo» per noi significava non certo costituire un fronte nazionalpopolare, che esisteva già e stava al governo, ma cercare qualche compagno di viaggio tra quei pochi raminghi fuori da quel maledetto fronte. Questa era quel poco di farina di cui disponevamo per il nostro pane. Il comunismo non è la socializzazione delle mutande e dei calzini, ma “a ognuno secondo la sua taglia” Tornando alla nichilismo per antonomasia, quello russo. I socialisti rivoluzionari russi in fondo, a dispetto del nome e a dispetto delle pratiche (a proposito del luogo comune insurrezionalista per cui le pratiche da sole bastano a distinguere il grano dal loglio – purtroppo non è così), furono dei riformisti. Lo furono in principio e lo furono anche alla fine. Anzi, peggio, alla fine furono dei traditori: preso il potere proseguirono la guerra al fianco delle potenze dell’Intesa, sfiancando il Paese, spingendolo a una nuova rivoluzione. Che significa tutto questo? Significa che il metodo nichilista da solo non basta. Bisogna capire quale è il nostro fine. Così siamo giunti finalmente alla questione del comunismo. Per proseguire la trattazione mi faccio ora aiutare dalle critiche che abbiamo ricevuto da Juan Sorroche nei tre suoi preziosi articoli. Nel primo di questi Juan scrive che «nell’individualismo anarchico economico» avviene che «sia il prodotto che gli strumenti di lavoro rimangono all’individuo, e solo lui decide se metterli in comune con quanti si associano all’interno di gruppi di affinità», pertanto «è il produttore che gestisce tutto, senza nessun intermediario», a differenza che nel comunismo: «l’individualismo anarchico è contrario al comunismo, e vi scorge un pericolo autoritario». Bisogna dire, a onor del vero, che il comunismo anarchico è sempre stato fondato sul concetto di volontarietà. Da parte anarchica è sempre parlato, sin dalla Prima Internazionale, di associazione volontaria dei produttori. E ancora oggi, dopo secoli, la versione italiana dell’inno L’Internazionale (che genericamente viene considerata una canzone dei partiti politici comunista e socialista) per la verità nella seconda parte recita «fratelli tutti, e se vogliamo, nella famiglia del lavor». Dunque la volontarietà è alla base di ogni autentico comunismo, quando questa è stata superata con le collettivizzazioni forzate (come in Unione Sovietica), ogni residuo barlume di economia comunista si è spento e sono state riprodotte le dinamiche del capitalismo: salario, governo della forza lavoro, turni di lavoro, espropriazione di plusvalore, ecc. Ma non voglio aggirare la critica di Juan con una puntualizzazione formale (per quanto, su questo argomento, la forma è quanto mai sostanza!). Veniamo all’essenza della questione. Cosa significa comunismo? Quella comunista è l’economia dove le persone producono secondo le loro possibilità e ricevono secondo i loro bisogni. Ancora una volta dobbiamo distinguere il mezzo dal fine: persino la proprietà collettiva è un mezzo in questa definizione, il fine è che ognuno riceva secondo i propri bisogni. Anche comunisti autoritari come Marx ed Engels affermano nel Manifesto che è una calunnia quella secondo la quale i comunisti vorrebbero l’abolizione della proprietà privata; in verità, essi vogliono semplicemente l’abolizione dei rapporti di proprietà privata capitalistici. Detto in parole semplici, il comunismo non è una comune hippy dove tutto è di tutti, pure le mutande e i calzini (probabilmente sporchi, perché nessuno ha voglia di lavorare). Il comunismo non è che una compagna viene a casa mia, mi prende in prestito un libro che mi aveva regalato nonna e poi lo spedisce a un carcerato (che poi avevi detto che me ne avresti rubato un altro, sto ancora aspettando). Comunismo è che la tipografia e la fabbrica di biancheria producono quello che serve e le persone se lo prendono in base ai loro gusti, bisogni… e misure. E ovviamente non esisteranno le galere. Naturalmente, affinché tutti abbiano il libro che vogliono, le mutande che gli stanno bene e i calzini che non puzzano occorre che ciascuno, secondo le proprie possibilità, lavori in tipografia, distribuisca le mutande o lavi i calzini. L’economia comunista è la più naturale, essa già avviene da sempre nella riproduzione della specie: un neonato ha solo bisogni e riceve unicamente, e così via nelle generazioni successive, la «restituzione» non avviene nemmeno nello stesso spazio-tempo. Ma l’economia comunista è anche la più umana, il più alto gradino etico raggiunto dalla cultura economica del genere umano (una nota per panopticon, nel mio articolo con «cultura» intendevo tutto ciò che non è natura, quindi la polemica era coi primitivismi, perché a mio avviso serviranno ancora le lavatrici e le tipografie per soddisfare i nostri bisogni, per rimanere nell’esempio di cui sopra; forse c’è un errore nella traduzione perché su questo avete completamente frainteso). Ora paragoniamo questo modo veramente umano di vivere insieme con la proposta di economia individualista anarchica suggerita da Juan sulle tracce di E. Armand. Per farlo utilizzerò una di quelle odiose categorie di cui si riempiono la bocca gli attivisti oggigiorno, a loro volta imboccati dall’immondizia culturale delle università nordamericane; la categoria di «abilismo». Peraltro una categoria utilizzata per giustificare, negli scorsi anni, le leggi liberticide ai tempi del Covid-19. Perché avere paura della morte è cosa sana, smettere di vivere per paura di morire è patologico, ma pretendere che tutti smettano di vivere per la propria paura di morire, questo è odioso. Davvero una gestione stalinista, verrebbe da dire una collettivizzazione forzata dei problemi di salute di alcuni a danno della libertà di tutti. A dimostrazione di quanto dicevo all’inizio, ovvero che le narrazioni sulle nuove oppressioni di tipo non classista derivano molto di più dall’antico tradimento stalinista-maoista della lotta di classe piuttosto che da posizioni libertarie (con il correlato linguistico di decolonizzazione, fronti di liberazione… nazionale/animale/sessuale/ecc.). Ma lasciamo perdere tutto questo e prendiamo per buona la categoria di abilismo, così ci facciamo capire anche dai giovani attivisti di oggigiorno. In una economia comunista, dove tutti ricevono secondo i loro bisogni, anche chi non ha (per età, per attitudine, per disabilità) la possibilità di produrre il necessario per vivere, riceve comunque quanto gli abbisogna. In senso stretto, non esisterà più nemmeno la disabilità, perché ciascuno è in grado di dare qualcosa alla collettività e non necessariamente su un terreno materiale (può raccontare storie, donarci un sorriso, dare consigli, può dare un contributo culturale, ecc.). Ecco perché è solo la questione di classe a illuminare di più chiara colorazione e quindi a risolvere anche le altre oppressioni: in questo caso, semplicemente, la linea di faglia dicotomica intorno alla disabilità scompare, perché nel comunismo tutti sono abili a dare quello che possono dare e ciascuno riceve in base al bisogno, non in base alla propria abilità (lo stesso ragionamento si applichi alle altre oppressioni). Prendiamo ora la proposta economica individualista anarchica. Dove ognuno produce per sé e si associa alla bisogna. Un disabile, un bambino, un anziano in questa economia semplicemente muore. Oppure deve ridursi alla carità, deve sperare nel dono degli individui che egoisticamente godono nel donare. Non si può avere il diritto di stare antipatici a tutti, di non avere amici. O forse, per evitare questa catastrofe umanitaria, si andranno necessariamente a riprodurre delle istituzioni: per esempio un questua di compagni che chiedono benefit per i problemi sociali, che si fanno essi stessi agenti di welfare, riproducendo lo Stato e il fisco. Naturalmente si lavorerà tutti molto di più, perché lavorare in maniera associata notoriamente riduce le tempistiche del lavoro. E ancora – giacché nessuno è in grado di produrre tutto – dopo il lavoro si dovrà andare al mercato a scambiare i prodotti, a litigare sul loro valore, insomma si ritornerebbe schiavi della tirannia della domanda e dell’offerta. Io credo che questa proposta sia una bestialità; di più io credo che questa sia già la barbarie in cui viviamo oggi. L’individualismo economico c’è già, si chiama capitalismo. Peraltro anche questo capitalismo utopico, nel quale non ci sono lavoratori dipendenti, durerebbe cinque minuti, perché chi non riesce a sopravvivere ben presto dovrà vendersi a chi gli offre qualcosa. Allora aveva proprio ragione Malatesta: l’unico modo per avere l’individualismo, un individualismo autenticamente anarchico, dove ogni individuo ha i mezzi disponibili in un’epoca storica per realizzarsi, è soltanto all’interno di un’economia comunista. Ovvero ha ragione Juan: sì occorre il comunismo con l’individualismo, ma bisogna specificare la dinamica di questa comunione: è la premessa realizzazione dei bisogni di tutti che permette il conseguente libero sviluppo individuale. Cioè, detto in parole semplici, non è necessaria la socializzazione di tutta la vita produttiva, questa stessa pratica di per sé è ancora solo un mezzo; quello che è necessario è che ognuno abbia quanto gli abbisogna; per raggiungere questo fine altamente etico a mio avviso si possono anche cercare una pluralità di percorsi: aziende familiari e cooperative, comuni e socializzazioni, mi vanno benissimo anche i mezzi di produzione individuale che piacciono più a Juan. Non mi fossilizzerei dogmaticamente su questi che sono solo strumenti. Beninteso, però, che il fine deve essere la soddisfazione dei bisogni di ciascuno, se alcuni di questi strumenti si dimostreranno un intralcio alla realizzazione del fine i rivoluzionari devono avere la prepotenza necessaria a spazzarli via. La tortura continua (con un escursus di filosofia medievale) Per riuscire a scacciare anche l’ultimo lettore rimasto, adesso mi metto pure ad aprire un parentesi niente meno che di filosofia medievale. La questione d’altronde è interessantissima: la teoria delle essenze. Da un po’ di tempo nei circoli politicamente corretti va di moda dire di qualcuno che è un «essenzialista» un po’ come nel medioevo si dava dell’epicureo, un sinonimo di stronzo. Dobbiamo questa degradazione dell’essenza al motto esistenzialista di Sarte: l’esistenza precede l’essenza. Ma allora, dobbiamo preoccuparci se ci danno degli «essenzialisti»? Dipende. Da cosa dipenda ci può aiutare a capirlo, appunto, la filosofia medievale. Nel violento scontro tra tomisti e francescani verso la fine del XIII secolo – segnatamente nelle figure di Egidio Romano ed Enrico di Gand – i temi di essenza e sostanza sono stati abbondantemente agitati, armati come una clava tra le due fazioni. La posizione dei neoplatonici, dei francescani, degli agostiniani, insomma di Enrico di Gand è che tra essenza e sostanza, c’è una distinzione/identità intenzionale. Significa che Dio pensa eternamente le essenze e che con la sua volontà, intenzionalmente, le fa esistere, cioè dona ad alcune di esse, per un certo tempo, l’essere, le riempie di sostanza. Il rimando è ovviamente a Platone, le essenze sono le Idee (con l’aggiunta che queste sono pensate eternamente da Dio) e il creato sono le essenze dotate, intenzionalmente, di sostanza. La risposta dei tomisti, invece, per intervento di Egidio Romano, è che tra essenza e sostanza c’è un’identità reale. Significa che esse non sono pensate eternamente da Dio, ma radicalmente create dal nulla (accusando gli essenzialisti platonici di negare il creazionismo); e che quando sono infine create, le cose sono immediatamente composte di essenza ed esistenza. Essenza e sostanza sono sinonimi. Qui il rimando è a un Aristotele riformato. Perché tutta questa rottura di coglioni? Perché, lo devo confessare, non ce la faccio più a vivere nell’ombra, devo fare coming out… ebbene si, io sono un essenzialista. E pazienza se verrò crocifisso in sala mensa come Fantozzi, pestato dagli assistenti professori precari e preso a cancelletti in faccia dagli attivisti della cancel culture. Il problema è che questi professorini mistificano le cose per mettere nello stesso calderone tutti coloro che non la pensano come loro (Riduci la realtà alla lotta di classe? Sei tacciato di essenzialismo di classe. Vuoi difendere la natura? Sei accusato di bioessenzialismo, ecc., ecc). Allora spieghiamoci bene. Io non sono un essenzialista platonico o agostiniano e meno che mai francescano. Sono un essenzialista nel senso materialista del termine: per me l’essenza delle cose non è una misteriosa loro recondita verità, ma è la loro sostanza. D’altronde questa critica delle essenze e delle sostanze di cui tanto vanto si fa il pensiero debole contemporaneo, proviene da un percorso più antico – più che compatibile, direi proprio essenziale – del pensiero dominante. Nel suo Dialogo sopra i massimi sistemi Galileo Galilei conduce un attacco spietato contro le sostanze naturali. Sostiene il grande scienziato che «o noi vogliamo specolando tentar di penetrar l’essenza vera e intrinseca delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d’alcune loro affezioni». Ma la conoscenza dell’essenza delle sostanze naturali viene dichiarata impossibile tanto «nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti», mentre, al contrario, se noi «vorremmo fermarci nell’apprensione di alcune affezioni, non mi par che sia da desperar di poter conseguirle anco ne i corpi lontanissimi da noi, non meno che nei prossimi». Non dobbiamo quindi cercare l’essenza della natura, ma accontentarci di studiarne «il luogo, il moto, la figura, la grandezza». (Cfr. Opere, vol. V, p. 187). Insomma per la scienza moderna bisogna rinunciare a conoscere le essenze, accontentandoci di conoscere criteri superficiali di tipo quantitativo intorno alle cose. Si tratta di una posizione profondamente anti-materialista, io definisco quello della scienza moderna un «anti-materialismo scientifico»; non a caso l’apice della scienza moderna è il nucleare, vero e proprio orrore contro la materia fino ai suoi elementi più sacri e inviolabili (l’atomo di Democrito). Quindi la critica della conoscibilità qualitativa delle sostanze è un pensiero fondativo della scienza moderna. Un certo anti-essenzialismo dei movimenti contemporanei è ben compatibile con questo pensiero dominante. Con Juan io credo che ci sia un fraintendimento di questo tipo. Juan sembra essere tutt’altro che un essenzialista (potrei sbagliarmi, ma il suo anarchismo non sistemico come lo definisce lascia apparentemente questa sensazione di alterità rispetto a ciò che è metafisico, sostanziale, sistematico, essenziale). Sembra dirci talvolta – mi perdoni la banalizzazione – che ci sono dei gran bravi compagni individualisti e ci sono dei riformisti anche tra i comunisti anarchici. Ma questa cosa noi non l’abbiamo mai messa in discussione! Noi diciamo che una certa posizione teorica (indifferenza verso l’analisi della realtà, disprezzo della lotta di classe, orrore verso ogni forma di pensiero strategico, individualismo intellettuale e bibliotecario, regressione del proprio intervento a problemi esclusivamente interni del movimento) conduca essenzialmente al riformismo e alla desistenza. Non si tratta di seguire un criterio di «maggioranza» come scrive Juan (peraltro oggi la maggioranza dei compagni è tutt’altro che anarco-comunista-insurrezionalista, magari!), ma di sostenere, dal nostro punto di vista, che ovviamente è del tutto discutibile, la natura riformista di certe posizioni. Che esse sono sostanzialmente riformiste – al di là dei casi particolari, al di là del criterio quantitativo; non conta se esse siano maggioritarie o meno, la critica è più profonda, è riformista il nocciolo essenziale di quelle posizioni. Torniamo quindi ad Armand. Il problema qui non è che Armand abbia detto sia delle cose fighe sia delle cose riformiste. La questione è che l’autore dell’articolo L’anarchismo rivoluzionario contro la desistenza sostiene che l’approdo riformista sia in qualche modo essenziale, conseguente alle premesse teoriche del suo pensiero, sia la sostanza del pensiero di Armand. Scrive Juan: «E. Armand lo scrive molto chiaro: non esclude, come vediamo nella frase sopra, né il rivoluzionario né “l’attentato” e “l’attentatore individuale”, né “l’espediente ‘illegalista’” né qualsiasi mezzo-metodo, anche violento, come insurrezioni e rivoluzioni, che sia consono alla prospettiva dell’individualismo anarchico. Certo, sì!, include anche il pacifismo, “la resistenza passiva” come “tattiche rivoluzionarie”. E anche crede nelle rivoluzioni pacifiche; io penso che le preferisce, con l’astensionismo. Con l’educazionismo, che ogni individualità prenda coscienza libera e autonoma e che sarà così consapevole per affrontare una rivoluzione di braccia incrociate generale e lo Stato e qualsiasi autoritarismo di fronte a ciò sarà più incapace di affrontare. Ma attenzione! Perché include tutte queste cose nell’insieme della prospettiva dell’individualismo anarchico. Certo ha la sua preferenza, come le abbiamo tutti». In realtà stiamo dicendo quasi la stessa cosa. Quello che si sostiene in più nell’articolo di “Vetriolo” è che le posizioni pacifiste, educazioniste, ecc., sono essenziali, sono la sostanza più intima di un certo modo di intendere l’individualismo. Ma forse è proprio l’espressione «individualismo» a portarci fuori strada. A noi l’individualismo piace. Poiché in fondo il vero individualismo lo si può raggiungere solo in un’economia dove ciascuno ha secondo i propri bisogni, oltretutto da sempre l’azione diretta individuale e la propaganda col fatto sono pratiche dei comunisti anarchici. Insomma come diceva Malatesta, tutti gli anarchici sono comunisti e individualisti. Il nostro vero obbiettivo polemico era (e rimane) contro l’educazionismo dei nostri giorni, contro chi si dice troppo individualista per parlare di rivoluzione (finendo dialetticamente per ritrovarsi riformista). Stirner padre del sindacalismo Scrive ancora Juan, nel suo contributo più recente, parlando di desistenza e resa interclassista: «Questo è successo e succede solo esclusivamente allo sviluppo dell’individualismo anarchico?». Non è forse vero che larga parte della desistenza «non arrivi soprattutto dal comunismo-anarchico rivoluzionario?», «Oppure dall’anarchismo-sindacalismo, anch’esso in gran parte comunista rivoluzionario?». Il nocciolo della questione l’ho affrontato nel precedente paragrafo: noi non diciamo che tutti i comunisti siano rivoluzionari e tutti gli individualisti riformisti, noi diciamo che essenzialmente riformiste sono le traiettorie fondamentali di certe posizioni. Qui voglio soffermarmi su quello che apparentemente sembrerà un dettaglio. L’anarco-sindacalismo, secondo Juan, sarebbe in gran parte comunista. Sembrerà un dettaglio, ma credo che affrontando questo argomento potremmo sciorinare meglio la questione dell’individualismo, dell’egoismo stirneriano, e del comunismo malatestiano cosiddetto volontaristico. Infatti io ritengo che il sindacalismo rivoluzionario in generale (non solo anarchico, penso per esempio a Sorel) sia una derivazione diretta del pensiero di Max Stirner e abbia poco a che fare col comunismo. Che cos’è infatti un sindacato se non una stirneriana unione degli egoisti? I lavoratori nel sindacato si associano in quanto individui, chiedono al sindacato dei miglioramenti economici specifici, rinnegano la tessera quando questa diventa deteriore per i propri interessi. Precisamente la fluidità organizzativa stirneriana. Il sindacato è necessariamente portato all’accomodamento, al compromesso col padrone, perché il sindacato deve poter offrire all’individuo egoista che vi aderisce un beneficio tangibile. Certo se Juan ha in mente la CNT, legittimamente visto l’importanza della vicenda storica, la cosa può portarci fuori strada. La complessa organizzazione CNT-FAI, infatti, proprio in virtù del successo che ha avuto, è stata qualcosa di più di una semplice organizzazione anarco-sindacalista. Essa è stata nei momenti migliori il soggetto collettivo dell’insurrezione, nel linguaggio marxista rivoluzionario potremmo dire che è stata «il partito della rivoluzione», quindi è diventata un soggetto politico che ha aderito al fronte popolare contro il pericolo fascista, quindi ha ceduto al frontismo e all’interclassismo, tradendo infine la rivoluzione e gli stessi principi anarchici (accettando per esempio dei ministeri). Se noi però ci spostiamo in Italia vediamo come per esempio l’Unione Sindacale Italiana sin dal nome proprio di «Unione» richiami la proposta organizzativa stirneriana. Non è solo una suggestione: individualisti erano la gran parte della prima generazione di anarco-sindacalisti italiani come Alceste de Ambris, Filippo Corridoni, Michele Bianchi, Tullio Masotti, tutti espulsi a causa delle loro sciagurate posizioni interventiste durante la prima guerra mondiale (alcuni di loro diventeranno fascisti, de Ambris è noto per il contributo costituzionale dato all’avventura dannunziana a Fiume). Solo con la generazione di Borghi e Meschi l’USI riconquisterà una posizione coerentemente internazionalista e sarà la protagonista principale in termini di conflittualità durante il biennio rosso. Ora se noi andiamo a leggere il capitolo che Stirner dedica alla questione operaia nella sua opera L’Unico e la sua proprietà possiamo scorgere degli automatismi che, sebbene ante litteram, hanno tutti i caratteri del sindacalismo rivoluzionario. Secondo Stirner se gli operai avessero una autentica consapevolezza dei loro bisogni egoistici distruggerebbero lo sfruttamento e non ci sarebbero più padroni. Questo non solo confuta la calunnia marxista di Stirner quale pensatore borghese, ma allo stesso tempo ci mostra quanto Stirner sia il padre di un certo modo di intendere il sindacalismo: l’idea che la consapevolezza egoistica immediata sia da sola causa sufficiente per l’emancipazione. Nel sindacalismo rivoluzionario questa idea porta al corollario che l’organizzazione immediata fondata sui bisogni egoistici (organizzazione minima, con meno struttura possibile), in una parola, il sindacato anarchico, da sola sia sufficiente per scatenare la rivoluzione. Malatesta, com’è noto, dubitava di questo pregiudizio. L’organizzazione sindacale egoistica avrebbe portato non alla rivoluzione, ma all’accomodamento su linee di classe basate sulla categoria, sul territorio, sul singolo stabilimento e la singola azienda. Notoriamente per Malatesta il sindacato era necessario, ma non sufficiente. All’organizzazione sindacale (che asseconda il bisogno egoista, individualista, del lavoratore) occorre affiancare l’organizzazione insurrezionalista dei comunisti anarchici (il cosiddetto dualismo organizzativo): quest’ultima non si basa sui bisogni egoistici, ma sugli ideali, sulla volontà dei suoi partecipanti. Cioè sul fatto che i compagni che ne fanno parte sono animati da una tensione che trascende il loro egoismo, una tensione che li porta al sacrificio, a sopportare la fame, il carcere, la morte. Insomma c’è l’organizzazione della necessità (sindacato) e c’è l’organizzazione della volontà (Malatesta la chiamava, pensate un po’, partito). Notoriamente, uno stirneriano ortodosso ribatterà a questi argomenti che anche queste passioni sono passioni egoistiche; chiunque fa qualcosa, anche chi si sacrifica, ci insegna Stirner, in realtà lo fa per sé. Se questo in astratto è vero, affermarlo però è anche inutile. Anche il carabiniere, il prete o il maniaco sessuale di via Togliatti che si apre l’accappatoio e fa vedere i gioielli di famiglia ai passanti sono egoisti in senso stirneriano. Tutti lo siamo. La scoperta di questa verità non ci fa fare un passo in avanti verso una società finalmente libera, in cui non ci sono più né preti né carabinieri, e dove anche il maniaco di via Togliatti riceve finalmente secondo i propri bisogni. Quindi il comunismo anarchico malatestiano, tutt’altro che marxista, è davvero un movimento idealista nel senso migliore del termine. Esso in qualche modo mobilita i compagni che lo animano verso una passione che trascende la condizione materiale egoistica personale. In questo senso è insurrezionalista, perché è orientato al rovesciamento. In questo senso specifico è volontarista, organizza gli individui non per condizione ma per convinzione. Ed è il solo che per principio non può essere corrotto da derive riformiste (in quanto classista per definizione). Juan scrive per esempio che «il concetto dell’anarchismo d’azione ha in sé gli antidoti al riformismo». Secondo me qui il compagno, nonostante affermi ripetutamente il contrario, rischia di nuovo di anteporre il metodo al fine. Azione per fare cosa? Per fare l’individualismo economico o per fare il comunismo economico? Per vincere una vertenza sindacale o per rovesciare il potere del padrone? Per convincere la NATO a tirare le bombe atomiche su Mosca o per distruggere la NATO? Insomma l’azione è comunista o individualista, internazionalista o interventista? Se Juan accetta un consiglio per l’elaborazione teorico-pratica che sta sviluppando, a mio avviso dovrebbe riempire di contenuti teleologici (quale è il nostro fine) questa sua proposta. Non basta più definirci in base a quello che facciamo, la storia ha ricominciato a correre troppo veloce, occorre definirci in base al mondo che vogliamo. Per me l’anarchismo rivoluzionario dovrebbe essere classista, internazionalista e insurrezionalista; cioè orientato a un ideale, a una lettura del presente e a un metodo. Nessuna di queste cose, presa da sola, è sufficiente. emmeffe
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