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LA GUERRA È IN CASA NOSTRA
Riceviamo e diffondiamo: UNA STRATEGIA DI LUNGO PERIODO PER LA MILITARIZZAZIONE ECONOMICA Da pochi giorni il Ministero della Difesa ha pubblicato il Documento Programmatico Pluriennale della Difesa 2025-2027. Si tratta in soldoni dell’aspetto programmatico del comparto bellico italiano. La propaganda del Ministero definisce la Difesa come “volano per innovazione e sviluppo”. Dietro il linguaggio tecnico, si nasconde un piano di espansione strutturale dell’apparato militare: il Ministero si presenta come “motore industriale” del Paese, giustificando l’aumento delle spese con ricadute su occupazione e tecnologia. L’Italia ha aderito alla nuova linea NATO, che prevede di raggiungere per tutti gli Stati membri il 5% delle spese militari così spartito: 3,5% del PIL in spese militari propriamente dette e all’1,5% per la sicurezza o le infrastrutture (vedasi Ponte sullo Stretto, che collegherebbe il confine sud della NATO – la Sicilia, il Muos etc – con il continente). Un livello di spesa potenzialmente superiore a quello del periodo della Guerra Fredda. La Legge di Bilancio 2025-2027 prevede 35,094 miliardi di euro in 15 anni per: * 22,5 miliardi dal Fondo investimenti della Difesa; * 12,6 miliardi dal Ministero delle Imprese (MIMIT). Gli investimenti coprono ogni settore: * Terrestre: nuovi mezzi corazzati, artiglieria, droni armati. * Aereo: caccia di sesta generazione, sistemi missilistici, capacità “Extended Strike”. * Navale: navi d’attacco, sommergibili, droni subacquei. * Cyber e spazio: intelligence digitale, satelliti militari, “Space Domain Awareness”. Di più. L’Italia con la Legge di Bilancio 2025 stanzia 50milioni per la ristrutturazione di tre stabilimenti militari situati a Baiano di Spoleto, Fontana Liri e Capua, gestiti direttamente dall’Agenzia Industrie Difesa. L’obiettivo è aumentare la produzione di componenti critici come la nitroglicerina e la nitrocellulosa, necessari per munizioni di medio calibro, riducendo così la dipendenza dalle forniture estere e rafforzando l’autonomia produttiva nazionale. Ancora più forte appare la saldatura tra Università e Guerra con il Piano Nazionale della Ricerca Militare – PNRM. La guerra futura, che intreccia militare, civile ed economia, è in realtà la guerra odierna. L’Italia è attualmente impegnata in 43 missioni militari (nel solo anno 2025), con più di 12mila soldati utilizzati. La guerra odierna è anche – e forse soprattutto – guerra interna. Come diceva Simone Weil: “Il grande errore in cui cadono quasi tutte le analisi riguardanti la guerra […] è di considerare la guerra come un episodio di politica estera, mentre è prima di tutto un fatto di politica interna, e il più atroce di tutti.” Una parte cruciale del DPP è dedicata alla cosiddetta “funzione sicurezza del territorio”, che affida ai Carabinieri un ruolo centrale nel processo di militarizzazione interna. Soldi per nuove assunzioni, soldi per ammodernamento delle caserme, soldi per nuove armi. Tra le misure previste: * Acquisizione di elicotteri, droni e veicoli tattici con uso duale (militare e civile). * Sistemi di sorveglianza digitale e cyber-investigazione (deep web, criptovalute, digital forensics). * Estensione dell’uso del taser e di armi “non letali” a livelli ordinativi sempre più bassi. * Ruolo crescente nello “Stability Policing”: attività di controllo sociale e gestione di crisi anche in territorio nazionale. Questo spostamento funzionale rafforza il ruolo dei Carabinieri come parte integrante della difesa militare, abbattendo ulteriormente il confine tra sicurezza civile e logica bellica. La militarizzazione non si limita più al piano geopolitico, ma penetra nelle città, nei sistemi informativi e nella gestione dell’ordine pubblico, preparando la società a un modello di sicurezza permanente in tempi di guerra totale. https://controguerra.noblogs.org/post/2025/11/12/la-guerra-e-in-casa-nostra/
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Rompere le righe
Gaza è Rio de Janeiro. Gaza è il mondo intero
  Riceviamo e diffondiamo: Gaza è Rio de Janeiro. Gaza è il mondo intero. 30 Ottobre 2025 Di Raúl Zibechi (traduzione Nodo Solidale) Non ci sono parole sufficienti per descrivere l’orrore che ci provoca il massacro di oltre 130 giovani neri, poveri, uccisi dalla polizia di Rio de Janeiro, con la scusa di combattere il narcotraffico. Si è trattato di un’operazione di guerra urbana in cui il governo dello Stato ha mobilitato 2.500 poliziotti in assetto da guerra, oltre a blindati ed elicotteri per attaccare i complessi delle favelas Penha e Alemao nella zona nord della città, un’area con un’alta concentrazione di popolazione povera. Si tratta di due complessi di favelas che superano i 150.000 abitanti, con un’enorme densità di popolazione. Il governo di Rio ha dichiarato che ci sono stati 60 morti, ma la popolazione delle favelas ha portato nelle piazze più di 50 corpi che non figuravano nel conteggio ufficiale, lasciando il dubbio su quanti siano stati uccisi. Finora il numero supera i 120. Le reazioni non si sono fatte attendere, dalle organizzazioni per i diritti umani alle Nazioni Unite, che si sono dette “inorridite” dal massacro. Al di là dei dati, ci sono fatti rilevanti. Il genocidio palestinese a Gaza è lo specchio in cui devono guardarsi i popoli e le persone oppresse del mondo. Per chi sta in alto, si apre un periodo di caccia indiscriminata alla popolazione “in esubero”, perché hanno la garanzia dell’impunità. Ora più che mai, Gaza siamo tutti noi. Può essere Quito, San Salvador, Rosario o Tegucigalpa; il Cauca colombiano o Wall Mapu; la montagna di Guerrero o le comunità del Chiapas. Ora siamo tutti nel mirino di un capitalismo che uccide per accumulare sempre più rapidamente. Dicono narcotrafficanti con la stessa indifferenza con cui dicono palestinesi, mapuche o maya. Sono solo scuse. Argomenti per le classi medie urbane. Ma la storia recente ci mostra che quello che stanno facendo è creare laboratori per il genocidio. Nel tranquillo Ecuador, quando i popoli indigeni li hanno sconfitti nella rivolta del 2019, hanno reagito liberando i più feroci criminali nelle carceri trasformate in luoghi di sterminio, dove i media mostravano i detenuti che giocavano a calcio con la testa di un decapitato. Nel Cauca, l’estrazione mineraria a cielo aperto e la coltivazione di droga hanno esacerbato la violenza paramilitare contro le comunità Nasa e Misak che resistono e non si arrendono, rendendo la regione la più violenta di un paese già di suo violento. Nel territorio mapuche, sia in Cile che in Argentina, i poteri forti hanno deciso che coloro che non si arrendono devono essere definiti “terroristi”, con il risultato che oggi ci sono più prigionieri mapuche che sotto le dittature di Pinochet e Videla. In Messico, tutto è chiaro, così chiaro che i media e i governi non vogliono farcelo vedere, mascherando la violenza con discorsi che ne sottolineano solo la complicità. La violenza sistematica in Guerrero e in Chiapas dovrebbe essere motivo di scandalo. A Rio de Janeiro, un sociologo dice spesso che il narco non è uno Stato parallelo, ma lo Stato realmente esistente. Compresi tutti i governatori degli ultimi decenni, con il loro entourage di imprenditori mafiosi, deputati e consiglieri comunali che costituiscono un potere ereditato dagli squadroni della morte della dittatura militare. Gaza ci pone in un altro luogo, di fronte ad altre sfide. La prima è comprendere che la morte è la ragion d’essere del sistema capitalista. La seconda è capire che questo sistema è composto dalla destra e dalla sinistra, dai conservatori e dai progressisti. La terza è che dobbiamo organizzarci per proteggerci da soli, perché nessuno lo farà per noi. Il mondo che abbiamo conosciuto sta crollando. Piangiamo quei giovani uccisi a Rio, quei corpi distesi sull’asfalto. Trasformiamo le nostre lacrime in fiumi di indignazione e in torrenti di ribellione. https://nodosolidale.noblogs.org/2025/10/30/gaza-e-rio-de-janeiro-gaza-e-il-mondo-intero/
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Dalla Cisgiordania
Riceviamo e diffondiamo un contributo prezioso come pochi: la traduzione della testimonianza di un palestinese che vive in Cisgiordania. Se non contiene particolari elementi di novità per chi già conosce la situazione, non fa poca differenza la precisione con cui viene descritta l’architettura incrementale dell’occupazione e dell’apartheid e la sobrietà con cui emergono l’incrollabile sumud degli oppressi palestinesi e l’incoercibile solidarietà al loro interno. Nell’augurare loro buona lettura, siamo certi che lo sguardo di molti nostri lettori e lettrici su quella terra non sarà più esattamente lo stesso. O almeno, è quello che è capitato a noi leggendo. Qui in pdf: TestimonianzaCisgiordania Riportiamo, con un po’ di ritardo dovuto ai tempi di traduzione, una breve testimonianza e descrizione di quello che sta/stava succedendo in Cisgiordania, all’ 8 ottobre 2025 (ad oggi la situazione potrebbe essere peggiorata e i numeri presenti nel testo potrebbero risultare inesatti). Questo contributo è l’esperienza diretta di un palestinese che vive quei territori e l’occupazione sionista sulla sua pelle da tutta la vita, vedendone l’evoluzione e i cambiamenti. Se a Gaza la mira delle potenze sioniste è di eliminare Gaza, la sua popolazione e la sua memoria, poco più a nord in Cisgiordania l’occupazione israeliana avanza inesorabile, con la presa di sempre più terre da parte dei coloni israeliani e con la riduzione sempre maggiore degli spazi di agibilità e mobilità palestinesi. Non sentiamo la necessità di aggiungere un commento al testo, se non ribadire la nostra totale solidarietà al popolo palestinese che lotta per la sua liberazione e l’intento di dare spazio alle voci palestinesi che arrivano direttamente da quei territori e che molto spesso non giungono fino a noi. ________________________________________________________________________________ La superiorità “razziale” ebraico-israeliana e la persecuzione dei palestinesi in Cisgiordania durante la guerra di genocidio e la pulizia etnica Dalle colline di Ramallah, la sera potevamo vedere le luci di Yafa, se il tempo era sereno potevamo vedere il mare. Abbiamo sempre detto che un giorno saremmo riusciti a raggiungere il mare. Ma ad oggi, dopo due anni di guerra genocida, non possiamo più stare sulle colline. I Coloni e i gruppi estremisti come i “giovani delle colline” e “la terra promessa”, a volte indossando magliette con la scritta “la mia terra è ovunque posso occupare”, impediscono a chiunque di raggiungere le colline, usando le armi che gli sono state distribuite dal Ministro della Sicurezza Nazionale, Ben-Gvir. La possibilità di vedere il mare ci è stata negata. Negli ultimi due anni, Ben-Gvir ha distribuito 40 mila armi ai coloni che vivono sulle colline della Cisgiordania. Ha distribuito centinaia di veicoli a quattro ruote motrici per facilitare il loro accesso ai terreni montuosi, che sono stati confiscati dello Stato sionista, e ha finanziato l’installazione di pannelli solari per ogni loro nuovo insediamento. I coloni occupano la terra, le fonti d’acqua e i pozzi artesiani. Hanno rubato il bestiame e i trattori agricoli delle comunità beduine, distruggendo le loro case, espellendoli dalle loro terre e fondando insediamenti al loro posto. I villaggi palestinesi sono stati attaccati da coloni sotto la protezione dell’esercito dell’occupazione israeliano. Case, auto e campi sono stati bruciati e alberi sono stati sradicati, come è successo a Turmus Ayya, al-Mughayyir, Khirbo Abu Falah, Huwara e Qaryut e a Kafar Malik, a 15 km da Ramallah, dove si trova il pozzo principale che fornisce il 40% dell’acqua necessaria alla città di Ramallah e al-Bireh. Lì, i coloni hanno sequestrato la fonte d’acqua e l’hanno trasformata in una piscina e in un luogo dove lavare il loro bestiame. Questi avvenimenti sono stati ripetuti in altri villaggi e province, in contemporanea alla pulizia etnica e alle scene di genocidio e uccisioni trasmesse in diretta al mondo intero. Il campo profughi1 di Jenin, nella Cisgiordania settentrionale, sta venendo silenziosamente sgomberato: oltre 100 famiglie hanno perso le loro case; le infrastrutture fognarie, elettriche e idriche sono state distrutte così che tante persone hanno perso i loro mezzi di sussistenza di base. La situazione non è diversa nei campi profughi di Nur Shams e di Tulkarem, nella provincia di Tulkarem. I campi profughi sono stati divisi, le strade sono state distrutte e, nel nord, stiamo assistendo a un’ondata di sfollamenti dai tre campi verso i centri delle due città. Con il sostegno legale e politico del governo dell’occupazione sionista, le norme che regolano l’uso di armi da fuoco sono state modificate e ulteriore protezione è garantita ai coloni che commettono omicidi contro i palestinesi. Ciò consente l’uso letale di proiettili (n.d.t. ossia non più di gomma) contro i palestinesi, anche senza “giustificazione”. Ciò fornisce un chiaro riflesso nella profondità del disprezzo dello Stato Occupante per le vite dei palestinesi e costituisce un elemento fondamentale della struttura che consente a Israele di continuare a esercitare il suo controllo violento su milioni di palestinesi. Oltre 14 milioni di persone vivono nelle terre tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, circa la metà delle quali sono israeliane e l’altra metà palestinesi. La percezione prevalente – nella sfera pubblica e giudiziaria, politica, mediatica e dei giornali – è che queste terre siano divise dalla Linea Verde: la prima metà si trova all’interno dei confini sovrani di Israele, è democratica e stabile e ospita circa nove milioni di persone “tutti cittadini israeliani”; la seconda metà si trova nei territori occupati da Israele nel 1967, il cui status definitivo dovrebbe essere determinato in futuri negoziati tra le due parti. Circa cinque milioni di palestinesi vivono in queste aree sotto occupazione militare temporanea. Tuttavia, questa definizione è diventata sempre più irrilevante nel corso degli anni. Ignora il fatto che questa situazione persiste da oltre settant’anni, ossia praticamente dalla fondazione dello Stato di Israele, ma non tiene conto delle centinaia di migliaia di coloni ebrei residenti in Cisgiordania, il cui numero è aumentato drasticamente in questi due anni trascorsi dall’inizio della guerra di sterminio. Ma, cosa ancora più importante, questa distinzione ignora la realtà di un unico principio del governo applicato in tutto il territorio che si estende tra il fiume Giordano e il Mediterraneo: il rafforzamento e la perpetuazione della supremazia di un gruppo di persone – gli ebrei israeliani – su un altro – i palestinesi. Tutto ciò porta alla conclusione che non si tratta di due sistemi paralleli che operano casualmente secondo lo stesso principio, ma un sistema unico che governa l’intero territorio, controllando tutte le persone che vi risiedono e operando secondo il principio del governo israiliano. Dall’inizio di questa guerra sono state registrate 1.048 uccisioni in Cisgiordania, di cui 260 bambini. Il sionismo non si è accontentato di questo. Il controllo coloniale basato sull’isolamento e la sottomissione, ha trasformato il territorio palestinese in un arcipelago di isole separate, come se fossero “cantoni” chiusi, separati da cancelli di ferro, soggetti all’autorità assoluta dell’occupante. Migliaia di palestinesi sono stati e sono costretti ogni giorno a percorrere strade alternative, spesso sterrate, casuali e rischiose che a volte non esistono neanche. Queste chiusure delle strade ostacolano l’attività economica e l’accesso ai servizi sanitari e educativi, aumentano l’isolamento delle aree rurali e trasformano il semplice spostamento in un viaggio di sofferenza sistematica. Alla luce di questa realtà, le porte di ferro installate dallo stato Israeliano lungo le strade palestinesi, sono un chiaro simbolo di punizione collettiva e parte di una politica più ampia, il cui obiettivo è: frammentare il tessuto sociale palestinese, spezzarne l’autodeterminazione e radicare la realtà dell’apartheid sul territorio. Secondo un rapporto pubblicato dalla Commissione per la Resistenza contro il muro dell’apartheid, nel settembre 2025, il numero totale di posti di blocco militari e cancelli di ferro installati dall’esercito di occupazione in Cisgiordania ha raggiunto quota 910, di cui installati 83 dall’inizio del 2025. Mentre 247 cancelli di ferro sono stati installati dopo il 7 ottobre 2023. D’altra parte, in un rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori Palestinesi Occupati del 20 marzo 2025, intitolato “Ultimo Aggiornamento Umanitario n. 274” | riguardo alla Cisgiordania dichiara: “Attualmente, ci sono 849 ostacoli che controllano, limitano e monitorano il movimento dei palestinesi in modo permanente e intermittente in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est e l’area di Al Khalil (Hebron) controllata da Israele”. Un’indagine rapida condotta dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari a gennaio e febbraio 2025 ha rilevato che nei tre mesi precedenti erano sono stati messi 36 nuovi ostacoli al movimento, la maggior parte dei quali installati in seguito all’annuncio di un cessate il fuoco a Gaza a metà gennaio 2025, ostacolando ulteriormente l’accesso dei palestinesi ai servizi essenziali e ai luoghi di lavoro. Sono state documentate ulteriori chiusure, che si ritiene siano state messe nel 2024. Vale la pena notare che fino ad oggi sono stati installati in totale 29 nuovi varchi stradali in tutta la Cisgiordania. Sono stati costruiti sia nuovi varchi di chiusura a sé stanti che varchi aggiuntivi nei posti di blocco già esistenti, portando il numero totale di varchi stradali aperti o chiusi in Cisgiordania a 288, costituendo un terzo degli ostacoli al movimento. Di questi, circa il 60% (172 su 288) viene chiuso frequentemente. Oltre all’aumento del numero di ostacoli installati, l’aumento del controllo sulla circolazione ha portato interruzioni della circolazione per lunghi periodi, chiusure delle strade principali che collegano i centri abitati in Cisgiordania e un aumento del numero di varchi chiusi frequentemente. In totale, gli ostacoli includono 94 checkpoint con militari 24 ore su 24, 7 giorni su 7; 153 posti di blocco (con militari non sempre presenti) di cui 45 sono spesso chiusi, 205 cancelli stradali di cui 127 spesso chiusi, 101 posti di blocco costruiti con muri di terra e fossati, 180 fatti con cumuli di sacchi terra e 116 ostacoli di altro tipo posti lungo la strada2. Questi dati non includono i check-point lungo la Linea Verde e altre modalità di restrizione, come la chiusura del campo profughi di Jenin agli abitanti che vi facevano ritorno dopo lavoro e le segnalazioni di alcune aree come zone militari chiuse – che non sono sempre caratterizzate da barriere fisiche. Settantasette prigionieri palestinesi sono martiri a causa delle torture nelle carceri israeliane in Cisgiordania, mentre sono stati registrati circa 20.000 arresti dall’inizio della guerra di sterminio due anni fa. I prigionieri sono stati privati del sonno e torturati nelle loro celle. Sono state negate loro le visite. I pasti sono stati limitati a un singolo pasto al giorno a malapena sufficiente per sopravvivere. Sono stati privati delle loro coperte e dei loro vestiti in inverno. Malattie della pelle si sono diffuse tra i prigionieri a causa del divieto di lavarsi e di pulire la loro cella. È stato inoltre negato loro qualsiasi tipo di assistenza medica durante la prigionia. Lo Stato sionista però non si è fermato a queste vessazioni. Considerando che la maggior parte dei terreni agricoli si trova nell’Area C, ai palestinesi è stato vietato raccogliere i frutti dei loro alberi e qualsiasi tipo di prodotto delle loro terre. È stato negato l’accesso all’acqua. I campi coltivati sono stati bruciati e, in alcuni casi, i coloni hanno liberato le loro pecore e mucche per distruggere i raccolti. Le serre che un tempo si estendevano nelle pianure di Tubas, Salfit e nella valle settentrionale del Giordano sono state demolite. Gli agricoltori sono stati fucilati, arrestati e maltrattati. E nonostante ciò Israele non si è accontentato, difatti ha anche impedito alla cassa del Tesoro dell’Autorità Nazionale Palestinese di pagare i dipendenti pubblici, che non ricevono i loro stipendi da almeno nove mesi. Alla luce di tutto ciò, i palestinesi non hanno smesso di riunirsi in gran numero per andare nei loro campi per proteggersi a vicenda. I giovani dei villaggi vicini spesso partecipano alla difesa del villaggio preso di mira dai coloni dopo aver sentito la chiamata dagli altoparlanti della moschea. I palestinesi si spostano tra villaggi, campi e città in gruppi per proteggersi a vicenda dagli attacchi dei coloni. Hanno inventato vari meccanismi di comunicazione, inclusi i gruppi Telegram che fornivano notizie di strada in tempo reale. La partecipazione ai gruppi Telegram è diventata, tuttavia, motivo di percosse e accuse se viene scoperto dell’esercito. Tutta la comunità si mobilita per trovare cibo, alloggio e vestiti. Nessuno proveniente dai campi demoliti nella Cisgiordania settentrionale rimane senza un pezzo di pane o senza un riparo. Nonostante le ripetute incursioni dell’esercito, i palestinesi non hanno smesso di mandare i figli a scuola ogni giorno, né hanno impedito loro di svolgere le loro attività quotidiane. Un esempio: il villaggio beduino di Al-Araqib è stato demolito 200 volte e 200 volte ricostruito. Dei palestinesi rapiti dall’esercito che vengono rilasciati lontano dai loro villaggi per essere torturati, nessuno si trova a dormire senza un riparo, per il senso di comunità e solidarietà tra la gente palestinese. I giovani nei villaggi, nelle città e nei campi profughi non hanno altro che pietre per affrontare la repressione dell’occupazione in Cisgiordania, che viene perpetrata con una forza letale. Nessun scontro con l’occupazione avviene senza caduti e feriti. Il nostro obiettivo ora è rimanere nella nostra terra, nonostante la corruzione politica delle autorità al potere in Cisgiordania, che a volte partecipa alla repressione delle proteste, perchè nonostante il loro controllo sulle risorse governative, la loro preoccupazione principale è diventata la salvaguardia dei loro interessi materiali, che sono legati all’esistenza dell’occupazione sionista stessa. 1N.d.T: I dispositivi che regolano la libertà di movimento dei/delle palestinesi in Cisgiordania hanno varie forme. Quando si parla di ostacoli, oltre ad immaginarsi veri e propri checkpoint, bisogna immaginarsi anche sacchi di terra, barriere in cemento, dossi (anche chiodati) posti lungo le strade percorribili con i mezzi, che inevitabilmente rallentano o impediscono gli spostamenti. Per chiusura totale o parziale, inoltre si intende, che è impossibile attraversare il posto di blocco e che a destinazione non si arriva. 2 Quando si parla di campi profughi, non bisogna immaginarsi una distesa di tende, ma agglomerati di case e palazzine, strade e vicoli – dei veri e propri villaggi che vengono comunque nominati come campi profughi perché creati e costruiti laddove si stabilirono i palestinesi dislocati dalle loro case a cui gli è stato impedito di ritornare durante e dopo la Nakba.
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L’architettura digitale del genocidio e i palestinesi come “spazzatura” algoritmica: Gaza nella guerra globale
Segnaliamo questo articolo che contiene un’utile sintesi sull’impiego dell’Intelligenza Artificiale nel genocidio in corso a Gaza, e sull’impatto che il primo sterminio algoritmico della storia sta avendo e avrà sui complessi scientifico-militar-industriali in guerra fra loro (e tutti insieme in guerra contro il vivente). Illusorio e fuorviante auspicare che tale sviluppo possa essere normato. Solo i palestinizzabili del mondo intero possono sabotare i mezzi della disumanità, grazie alla consapevolezza che la propria incarcerazione tecnologica può trasformarsi in annientamento automatizzato: il quadrante dei comandi è lo stesso. https://codice-rosso.net/laboratorio-gaza-intelligenza-artificiale-principale-arma-di-distruzione-di-massa-esercito-israeliano/
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Il genocidio riorganizzatore. Israele, il Guatemala e l’internazionalismo autoritario
Riceviamo e diffondiamo: Qui il pdf: Genocidio riorganizzatore Il genocidio riorganizzatore e la lunga storia dell’internazionalismo autoritario Lo sterminio delle popolazioni maya in Guatemala negli anni Settanta e Ottanta dimostra come l’internazionalismo autoritario come complicità genocida in chiave di riorganizzazione territoriale e integrazione di complessi scientifici-militari-industriail non sia affatto una novità, ma abbia una lunga ed atroce storia. Sotto le dittature di Lucas Garcia (1978-82) e Ríos Montt (1982-83), lo Stato guatemalteco, con il supporto tecnico-militare di Israele, Stati Uniti e Taiwan, perpetrò un atroce genocidio contro le popolazioni originarie, in particolare i Maya Ixil, con l’uso sistematico di napalm, tortura e sparizioni. Durante la sanguinosa guerra civile, l’esercito, in risposta al noto concetto maoista secondo cui “la guerriglia, sostenuta dal popolo, si muove al suo interno come un pesce nell’acqua”, mise in pratica la strategia del “togliere l’acqua al pesce”, ovvero distruggere individui e comunità per annientare il sostegno popolare alla resistenza e spopolare vaste aree di terra da depredare. È così che lo Stato razzista pianificò eseguì e giustificò uno dei genocidi più crudeli e impuniti dell’America Latina, provocando 200mila morti, di cui 130mila nel corso della sola operazione “terra bruciata”, un milione e mezzo di sfollati, 150mila rifugiati in Messico, 50mila desaparecidos. I maya come palestinesi ante litteram, potremmo senz’altro dire. Forse la cifra più significativa della contemporaneità è il fatto che la categoria di nemico interno si sia estesa a situazioni di bassa conflittualità reale, per assumere alle nostre latitudini un carattere sostanzialmente preventivo contro quella “acqua” che non è rappresentata tanto (lo è ancora a Gaza e altrove) da una tenace resistenza popolare, quanto da quella parte di popolazione che è “eccedente”, “sovrannumeraria”, rispetto alle logiche della produzione, del consumo, della valorizzazione finanziaria e dunque, per la sua semplice esistenza, d’intralcio all’ordine del tecno-capitalismo. Un’umanità inutile per il capitale, o forse utile semplicemente per sperimentare sulla sua pelle svariate innovazioni tecnologiche per poi essere eliminata in caso di problemi, magari con gli stessi strumenti di sterminio automatizzati per il cui affinamento è stata cavia. Così si può comprendere l’estensione indeterminata del concetto di terrorismo, in quanto arma del Terrore degli Stati. Un’arma materiale e culturale applicata per difendere gli interessi di apparati scientifici-militari-industriali integrati, come dimostra in maniera emblematica il processo contro la resistenza palestinese, contro Anan, Alì, Mansour, portato avanti dalla DNAA a l’Aquila su mandato di Israele. Per questo è utile la lettura di una parte del seguente testo, che descrive il coinvolgimento di Israele nella politica della “terra bruciata” in Guatemala, sostenendo che le pratiche di tortura e genocidio attualmente osservate in Palestina sono parte integrante della guerra tecno-capitalista. Israele e la terra bruciata in Guatemala A proposito dell’attuale campagna genocida condotta dal complesso militare-industrialei israeliano a Gaza, che secondo le parole della relatrice delle Nazioni Unite Francesca Albanese è destinata a diventare il “più grande atto di pulizia etnica nella storia di questa terra tormentata” (Democracy Now, 2023), dall’America Latina è doveroso denunciare la razionalità storica del “genocidio riorganizzatore”ii (Feierstein, 2007) perpetrato dallo Stato sionista di Israele. Una razionalità che ha segnato momenti atroci della storia recente della nostra regione e in cui il complesso militare-industriale israeliano ha avuto un peso significativo, come nel caso dell’esportazione di armi ai governi militari del Cile (Pérez, Triana, 2023). In questo testo approfondiremo i profondi legami di Israele con il genocidio più atroce della storia recente del subcontinente: la politica della terra bruciata in Guatemala, evento in cui settori dell’estrema destra di quel paese hanno utilizzato espressioni come la “palestinizzazione dei ribelli indigeni Maya” (Black, 2007; Schivone, 2017). La lunga guerra civile guatemalteca scatenata da una serie di colpi di Stato militari di destra sostenuti dalla Central Intelligence Agency (CIA) ha vissuto i suoi anni più crudeli alla fine degli anni ’70 e nella prima metà degli anni ’80. I livelli di crudeltà umana portarono persino alla congestione del governo statunitense, che portò l’amministrazione Carter a cessare formalmente gli aiuti militari al Guatemala nel 1977 (Carmon, 2012). Questo lavarsi le mani da parte degli Stati Uniti non limitò in realtà il sostegno militare alle dittature guatemalteche. I funzionari statunitensi che sostenevano le dottrine “anticomuniste” e le campagne dittatoriali della strategia continentale di “sicurezza nazionale” erano contrari alla cessazione degli aiuti militari al Guatemala e cercarono di colmare questo vuoto “incoraggiando le attività israeliane come mezzo per integrare l’assistenza statunitense ai governi amici in materia di sicurezza” (Taubman, 1983). Sfruttando le buone relazioni diplomatiche esistenti tra Guatemala e Israele, derivanti dal fatto che “il Paese centroamericano è stato il secondo al mondo, dopo gli Stati Uniti, a riconoscere l’esistenza di uno Stato ebraico nel territorio di quella che all’epoca era conosciuta come Palestina, il 14 maggio 1948” (Wallace, 2017), si favorì un coinvolgimento militare israeliano in America Centrale, proprio a partire dal 1977, anno in cui “i presidenti Laugerud García del Guatemala ed Ephraim Katzir di Israele hanno firmato un accordo di supporto militare” (Movimento BDS, 2020). Il supporto militare israeliano allo Stato dittatoriale guatemalteco comportò “principalmente la vendita di armi, l’addestramento militare e la consulenza nelle operazioni di intelligence” (Taubman, 1983), per cui vennero forniti all’esercito guatemalteco i famosi fucili automatici UZI, “11 aerei IAI Arawa, 10 blindati RBY-MK, 15mila fucili Galil, centinaia di mortai da 81 mm, bazooka, lanciagranate, tre guardacoste Dabur, un sistema di trasmissioni tattiche, un circuito radar e 120 tonnellate di munizioni” (Movimento BDS, 2020); venne costruita una fabbrica di armi nella provincia di Alta Verapaz da parte dell’azienda israeliana Eagle Military Gear Overseas (EMGO); si implementò l’addestramento operativo, sia in Israele che in Guatemala, con la fondazione della Scuola di Trasmissioni ed Elettronica dell’Esercito “progettata e finanziata da Israele in Guatemala e inaugurata da Benedicto Lucas García, per addestrare i militari guatemaltechi all’uso delle cosiddette tecnologie di controinsurrezione” (Ibid, 2020). Israele giustificò la propria presenza in Guatemala con la scusa dell’anticomunismo e dell’espansione del proprio mercato di armi (Carmon, 2012). Tra le aziende militari israeliane legate al terrorismo di Stato in Guatemala, possiamo citare la società di sicurezza Sistemas Internacionales de Seguridad y Defensa (ISDS), che ha venduto al governo del Paese centroamericano corsi di “terrorismo selettivo” (Cortés-Gálan et al., 2019). Cortés Galán, Mantovani e Santa Cruz sottolineano che: “(…) l’ISDS si è specializzata negli interrogatori e nella sorveglianza dei prigionieri in America Latina. Nel contesto delle dittature in cui ha operato l’ISDS, l’azienda israeliana è collegata alle pratiche diffuse di tortura e detenzione illegale. (…) Secondo Carl Fehlandt, ex trafficante d’armi dell’ISDS in Guatemala tra il 1982 e il 1986, ‘il governo israeliano controlla l’ISDS e chi comanda è il Ministro della Difesa’.” (Cortés- Galán et al., 2019). L’addestramento israeliano era così approfondito che nel 1982 il militare golpista Efraín Ríos Montt dichiarò in un’intervista alla ABC News che “i soldati israeliani sono il modello dei nostri soldati”, sottolineando che il loro successo militare era dovuto al fatto che “i nostri soldati sono stati addestrati dagli israeliani” (Carmon, 2012). Esistono persino prove che i consulenti militari israeliani abbiano influenzato il colpo di Stato militare che portò Ríos Montt alla presidenza nel 1982 (Movimento BDS, 2020). In questo contesto, nel 1974 è stato creato il corpo d’élite antisovversivo Kaibil, caratterizzato da crudeltà e perdita di ogni umanità, che descrive i propri membri come “macchine per uccidere”. Queste forze, secondo il documento “Memoria del silenzio” (elaborato dalla Commissione per il chiarimento storico guatemalteca), hanno commesso il 93% dei crimini durante gli ultimi 20 anni di guerra (Hernández, 2023) e oggi, secondo le rivelazioni di Guacamaya Leaks, addestrano gruppi di sicari della criminalità organizzata in Messico (Camacho, 2022; Pachico, 2012). Il ruolo storico dell’amministrazione di Ríos Montt passerà alla storia per aver perpetrato un genocidio e crimini contro l’umanità con la sua politica della “terra bruciata” attuata attraverso i piani “Operazione Sofia”, “Victoria 82” e “Fucili e fagioli”. Tramite queste strategie, la popolazione maya del Paese iniziò ad essere classificata come “nemico interno sospetto”iii dello Stato dittatoriale. Queste strategie venivano apertamente descritte con l’espressione “palestinizzazione della popolazione maya ribelle” (Black, 2007; Schivone, 2017). L’attuazione di tali piani “ha provocato morti, violenze, sfollamenti, persecuzioni, bombardamenti e sottomissione distruzione del gruppo etnico Maya Ixil”iv (Azevedo, 2016). In modo sistematico, sono stati commessi massacri nei villaggi delle popolazioni indigene, giustificati con la logica controinsurrezionale del “togliere l’acqua al pesce”v, durante i quali sono state trovate prove del sostegno israeliano, come nel caso del massacro di Dos Erres nel Petén, in cui durante un’esumazione ordinata dal tribunale, gli investigatori che lavoravano per la Commissione per la Verità del 1999 hanno citato quanto segue nella loro relazione forense: “Tutte le prove balistiche recuperate corrispondevano a frammenti di proiettili di armi da fuoco e capsule di fucili Galil, fabbricati in Israele” (Movimento BDS, 2020). Secondo le stime del rapporto della Commissione per il Chiarimento Storico del Guatemala (CEH), questa politica ha causato la morte di 200.000 esseri umani, di cui circa l’83% erano Maya, motivo per cui è stata classificata come genocidio. Al contempo, i sopravvissuti sono fuggiti in Messico o sono stati trasferiti in villaggi strategici chiamati “villaggi modello”, dove sono stati indottrinati con un’ideologia anticomunista e predicazioni evangelichevi. Alcuni territori svuotati dalla terra bruciata sono diventati zone di concessioni petrolifere, dove i militari esercitano un grande potere decisionale. Aviva Chomsky sottolinea che la distribuzione delle terre tra generali e compagnie petrolifere è talmente rilevante che un distretto dell’Alta Verapaz, destinato all’estrazione di petrolio, è persino denominato “l’area dei generali” (Chosmky, 2021), il che permette di inferire un legame tra anticomunismo, razzismo e l’attuazione di un modello capitalista militarista alimentato dal terrore, dal genocidio riorganizzatore. Oggi, le relazioni diplomatiche del Guatemala con lo Stato di Israele sono molto solide, con la firma dell’accordo di libero scambio tra i due paesi nel 2022 e il trasferimento dell’ambasciata guatemalteca a Gerusalemme nel 2018 (due giorni dopo gli Stati Uniti). La promozione del mercato degli armamenti israeliano continua a destare preoccupazione con la firma di questi accordi di libero mercato, così come la sua presenza simbolica nella “guerra culturale” che si sta combattendo contro le cosmovisioni Maya in questo paese. […] Alberto Hidalgo [2023] iSistema o insieme di organizzazioni, imprese ed enti correlati che attuano produzione, sviluppo e gestione in ambito militare, il che include la fabbricazione di armi, attrezzature militari, tecniche di guerra, nonché la ricerca e lo sviluppo nel campo della difesa e della sicurezza nazionale. iiFeierstein utilizza il concetto di genocidio riorganizzatore poiché sostiene che esso non ha solo lo scopo di distruggere i corpi di una comunità definita come “l’altro – il nemico”, ma cerca anche di distruggere le relazioni sociali e spaziali per imporre un nuovo ordine o modello di territorialità secondo gli obiettivi del perpetratore, in questo caso l’occupazione illegale del territorio palestinese. iiiAlfred Kaltschmitt, ex funzionario pubblico durante l’amministrazione Montt, in un’intervista per il film “El buen cristiano” sottolinea che “le cellule (guerrigliere) composte da famiglie trasformavano giovani e bambini in combattenti, quindi non si faceva distinzione tra combattenti e non combattenti”, un concetto che ha scatenato l’uccisione indiscriminata. (Acevedo, 2016) ivTestimonianza del procuratore per i diritti umani del Ministero pubblico del Guatemala Orlando López durante il processo per genocidio contro il generale Ríos Montt. (Acevedo, 2016) vMetafora utilizzata dalla controinsurrezione per alludere al fatto che consideravano i guerriglieri come pesci e le popolazioni indigene come l’acqua in cui si rifugiavano. vi La Prensa Comunitaria Km 169 sottolinea che in questi villaggi costruiti dall’esercito «ad ogni angolo c’era un palo con altoparlanti attraverso i quali, 24 ore su 24, si ascoltavano prediche e inni evangelici cristiani“, perché i villaggi erano stati costruiti con denaro dello Stato e delle chiese evangeliche statunitensi, con le quali l’allora dittatore Efraín Ríos Montt intratteneva stretti rapporti” (2019).
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Il Metodo Gaza, appunto
Riprendiamo da Invicta Palestina, https://www.invictapalestina.org/archives/58157 Gaza Inc: dove il genocidio è testato in battaglia e pronto per il mercato GAZA È DIVENTATA LA VETRINA DI TEL AVIV PER LO STERMINIO PRIVATIZZATO, DOVE AZIENDE TECNOLOGICHE, MERCENARI E FORNITORI DI AIUTI UMANITARI COLLABORANO IN UN MODELLO SCALABILE DI GENOCIDIO INDUSTRIALE VENDUTO AGLI ALLEATI IN TUTTO IL MONDO. Fonte: English version Di Aymun Moosavi – 12 settembre 2025 Lo Stato di Occupazione Israeliano ha trasformato la sua guerra contro i palestinesi in un’Industria di Uccisioni privatizzata. Gaza è il luogo in cui aziende tecnologiche, mercenari e giganti della consulenza orchestrano sorveglianza, sfollamenti e Uccisioni di Massa a scopo di lucro. Oltre a essere una Guerra Coloniale, è anche un prototipo per l’esportazione globale di Sterminio su scala industriale, riconfezionato come innovazione in materia di sicurezza. Basato sui dati e incentrato sul profitto, questo modello, testato oggi sui palestinesi, sarà implementato altrove domani. Un numero crescente di aziende private opera ora come la mano invisibile del Genocidio. I loro servizi spaziano dall’identificazione di obiettivi per attacchi aerei all’ingegneria della Carestia e alla facilitazione degli sfollamenti di massa. Gaza è il luogo dove il genocidio incontra il capitalismo Dall’inizio degli anni 2000, le compagnie militari private si sono profondamente insinuate nell’economia bellica. Aziende come Blackwater (ora Academi) e Dyncorp International hanno segnato un cambiamento fondamentale, assumendo ruoli tradizionalmente ricoperti dalle forze armate nazionali. Inizialmente concentrate sulla sicurezza e sulla logistica in Iraq e Afghanistan, queste aziende hanno ampliato le loro operazioni, fornendo supporto operativo e agendo come attori chiave nelle zone di guerra di tutto il mondo, comprese alcune parti dell’Africa, dello Yemen e di Haiti. L’ironia è evidente: gli Emirati Arabi Uniti sono diventati un nuovo polo per queste compagnie militari private, che trovano rifugio nello Stato del Golfo, dove i mercenari ricevono privilegi speciali dalle autorità locali. Le aziende private si sono evolute da appaltatori distanti ad agenti di guerra attivi, operando impunemente. Questo ha gettato le basi per il modello attuale, in cui il personale non militare influenza i risultati politici senza limiti o regolamentazioni. Un ulteriore livello di supporto proviene dalle organizzazioni non profit private. Un recente rapporto rivela come organizzazioni statunitensi come gli Amici Americani della Giudea e della Samaria e gli Amici di Israele sfruttino il loro status di esenzione fiscale 501(c)(3) per convogliare donazioni direttamente alle operazioni militari e agli insediamenti israeliani. Questi gruppi forniscono attrezzature come droni termici, caschi, giubbotti antiproiettile e corredi di pronto soccorso a unità come la 646a Brigata Paracadutisti, anche all’interno di Gaza. Oltre alla logistica, sostengono Progetti di Insediamento, fanno pressioni per l’annessione della Cisgiordania Occupata, gestiscono campagne educative per promuovere la sovranità israeliana e supportano gli sforzi militari in Libano contro Hezbollah. L’emergere dell’Intelligenza Artificiale ha ampliato la gamma di attori di guerra accettabili, aprendo nuove e redditizie opportunità nella sorveglianza e nella raccolta di informazioni. Israele ha abbracciato questo modello, ma lo ha applicato con agghiacciante precisione. La sua Unità d’élite 8200, il cervello digitale dello Stato di Occupazione, ha fuso la sorveglianza militare con la tecnologia aziendale per creare il primo Genocidio al mondo assistito dall’Intelligenza Artificiale. Strumenti come Lavanda e Vangelo ora analizzano le comunicazioni palestinesi, utilizzando il riconoscimento dialettale e i metadati per generare automaticamente Liste di Uccisioni. Questi strumenti, focalizzati principalmente sui dialetti arabi, sono stati progettati per monitorare i palestinesi e altre popolazioni di lingua araba. Aziende come Palantir, Google, Meta e Microsoft Azure avrebbero facilitato questi progetti, contribuendo allo sviluppo di Lavanda e di altri sistemi di sorveglianza. Gli Stati del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, investono in aziende tecnologiche di sorveglianza globale che alimentano la Macchina del Genocidio. Con i sistemi di Intelligenza Artificiale che decidono chi vive e chi muore, il confine tra comando militare e algoritmo aziendale è praticamente svanito. L’infrastruttura stessa dell’Occupazione israeliana, dalla sorveglianza all’assassinio, è stata esternalizzata, semplificata e venduta. Dalle armi testate in battaglia all’Apartheid algoritmico L’economia israeliana si basa sul capitalismo militarizzato. I suoi 14,8 miliardi di dollari (12,6 miliardi di euro) di vendite di armi solo quest’anno sono sostenuti da una strategia commerciale tanto cinica quanto efficace: “Testati in Battaglia” sui palestinesi. Un esempio lampante è l’armamento di Smartshooter, un’azienda israeliana, fornito dall’esercito britannico da giugno 2023 in un accordo da 4,6 milioni di sterline (5,3 milioni di euro). La tecnologia di Smartshooter è stata utilizzata dall’unità d’élite Maglan e dalla Brigata Golani dell’Esercito di Occupazione durante l’assalto a Gaza. Il giornalista Antony Loewenstein, citato da Declassified UK, ha dichiarato: “Smartshooter è solo una delle tante aziende israeliane che testano le proprie attrezzature sui palestinesi occupati. È un’attività altamente redditizia e il Massacro a Gaza non ne rallenta il commercio. Anzi, sta aumentando a causa dell’attrazione di molte nazioni verso il modello israeliano di sottomissione e controllo”. Oggi, il settore delle armi e quello della tecnologia israeliani sono indistinguibili. Programmi di sorveglianza, Liste di Uccisioni basate sull’Intelligenza Artificiale e sistemi di puntamento automatizzati sono confezionati insieme a fucili e droni. La guerra è diventata un laboratorio per l’innovazione tecnologica, trasformando Gaza in un laboratorio dove si perfeziona il Genocidio privatizzato. Questa fusione ha permesso a Tel Aviv di industrializzare la sua Occupazione, creando un sistema modulare di sottomissione esportabile a livello globale. Quella che è iniziata come la militarizzazione della tecnologia si è trasformata in qualcosa di molto più pericoloso: la tecnologizzazione del Genocidio. Modello israeliano di genocidio Il Modello Israeliano di Genocidio ha acquirenti internazionali. Un recente titolo di Haaretz, “Perché il futuro della difesa israeliana risiede in India”, ha evidenziato i reciproci vantaggi del partenariato di difesa tra Israele e India. Per Tel Aviv, riduce la dipendenza dall’Occidente, mentre l’India acquisisce una certa influenza strategica nell’Asia Occidentale. Tra il 2001 e il 2021, l’India ha importato tecnologia di difesa israeliana per un valore di 4,2 miliardi di dollari (3,6 miliardi di euro), inclusi droni avanzati e componenti militari. Più di recente, l’Europa è diventata il principale acquirente di armi di Israele, arrivando a rappresentare fino al 54% delle esportazioni totali nel 2024. Sulla scia della Brexit e dell’imprevedibilità dell’amministrazione del Presidente statunitense Donald Trump, la Gran Bretagna, in particolare, ha rafforzato il coordinamento della difesa con Israele nel tentativo di riposizionarsi come attore chiave e rilevante in un ordine multipolare. Secondo alcune fonti, Londra starebbe preparando un accordo da 2,7 miliardi di dollari (2,3 miliardi di euro) con Elbit Systems, il più grande produttore di armi israeliano, per addestrare 60.000 soldati britannici all’anno. Questo rapporto si è approfondito all’inizio di quest’anno, quando è emerso che un’accademia militare britannica stava addestrando soldati dell’Esercito di Occupazione, molti dei quali sono stati implicati in Crimini di Guerra durante i conflitti di Gaza e del Libano. La stessa Elbit fornisce l’85% dei droni dell’Esercito di Occupazione ed è stata ripetutamente presa di mira dalla Palestine Action, un’organizzazione non governativa, per il suo ruolo diretto nei Crimini di Guerra. Londra non solo ha protetto l’azienda, ma ha anche intensificato le operazioni congiunte. La Gran Bretagna produce anche il 15% di tutti i componenti dei caccia F-35. Questi aerei sono stati utilizzati senza sosta nel Genocidio di Gaza, eppure la loro produzione continua, confermata dai tribunali britannici nonostante le proteste. Lungi dall’essere neutrale, la Gran Bretagna è parte integrante dell’Infrastruttura Genocida di Tel Aviv. L’industria delle armi è ormai diventata un affare globale, che intreccia difesa, tecnologia e oppressione sistemica. Il Modello Israeliano di Genocidio, che trae profitto direttamente da questa intersezione, si è diffuso oltre i suoi confini, con alleati internazionali complici del suo successo. Aiuti militari, riprogettazione di Gaza Gli appaltatori privati sono ormai integrati in ogni livello della Macchina Bellica israeliana, inclusa la sua cinica manipolazione degli aiuti umanitari. La Fondazione Umanitaria per Gaza, presumibilmente istituita per facilitare gli aiuti, è stata smascherata per collusione con le Forze di Occupazione, archiviazione di informazioni e dispiegamento di società di sicurezza private con zero credenziali umanitarie. Il ruolo delle aziende private si estende ben oltre la sorveglianza a distanza, infiltrandosi nei meccanismi degli aiuti umanitari. La Fondazione Umanitaria per Gaza è stata ripetutamente criticata per aver violato i principi fondamentali della distribuzione degli aiuti, come l’imparzialità e l’indipendenza. È stata colta a sparare sulla folla, a raccogliere informazioni e a collaborare con le autorità israeliane, esternalizzando al contempo società di sicurezza private come Safe Reach Solutions e UG Solutions, due società di sicurezza private guidate da personale privo di competenze umanitarie. Recentemente, è stato scoperto che UG Solutions aveva reclutato membri di una famigerata banda di motociclisti anti-islamici dagli Stati Uniti. In totale, 2.465 palestinesi sono stati uccisi e oltre 17.948 feriti mentre attendevano gli aiuti umanitari a Gaza, secondo il Ministero della Sanità di Gaza. Il problema chiave risiede nel fatto che le aziende private non sono vincolate dagli stessi parametri etici delle organizzazioni umanitarie tradizionali. Questa mancanza di regolamentazione consente loro di funzionare come estensioni dell’Occupazione, promuovendo gli obiettivi di Israele sotto la maschera di aiuti con scarsa o nessuna responsabilità. Gli aiuti privatizzati non sono quindi un dettaglio secondario, ma una componente centrale del Modello di Genocidio Israeliano, che trasforma gli aiuti umanitari in un ulteriore Strumento di Occupazione. Terra bruciata Il piano “Riviera di Gaza” del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e la visione di espulsione di massa del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu si basano entrambi su una completa rivisitazione di Gaza. Il piano postbellico di Trump richiede una popolazione disposta a trasformarsi in sudditi di un polo economico, mentre Netanyahu immagina una terra ripulita dai palestinesi, su cui poter costruire nuovi insediamenti illegali. A differenza del modello imperiale, il Modello del Genocidio Israeliano richiede la purificazione di una popolazione, poiché è più facile, e più efficiente, eliminarla che renderla servile. Questo rende la privatizzazione di una Gaza postbellica non solo un’opzione, ma una necessità. Secondo il Financial Times, il Gruppo di Consulenza di Boston, la società di consulenza statunitense in parte responsabile della creazione della Fondazione Umanitaria per Gaza, sarebbe stato incaricato di stimare il costo del trasferimento di Gaza nell’ambito di un più ampio piano di ricostruzione postbellica. I rapporti evidenziano anche una maggiore dipendenza dai mercenari statunitensi per gestire il contesto postbellico e controllare il traffico di armi, dimostrando come sia il modello imperiale che il Modello Genocida Israeliano dipendano l’uno dall’altro per sostenersi. Gli aiuti umanitari sono stati determinanti nella realizzazione di questa visione. I quattro siti di “distribuzione degli aiuti”, descritti dai funzionari delle Nazioni Unite come “trappole mortali”, sono diventati zone militarizzate, costringendo i palestinesi a rifugiarsi in enclave ancora più piccole nel Sud di Gaza, contribuendo direttamente all’obiettivo di sfollamento di Israele. Questo non è il futuro della guerra. È il presente. E viene costruito, testato e venduto a Gaza. Aymun Moosavi è un’analista politica con un dottorato in Studi sui Conflitti Internazionali conseguito al King’s College di Londra. Il suo lavoro si concentra sulla Resistenza e la Liberazione nella Regione dell’Asia Occidentale. Traduzione a cura di: Beniamino Rocchetto
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La Palestina, le radici coloniali del diritto internazionale (e il ruolo delle università)
I due testi che seguono – il primo è un’ampia disamina di come il diritto internazionale serva da giustificazione al colonialismo in Palestina (e non solo); il secondo è una sorta di compendio sul ruolo delle università nei regimi coloniali – mettono in luce degli elementi chiave per la solidarietà internazionalista con la resistenza palestinese, ma vanno anche al di là. Tutte le astrazioni del tecno-capitalismo e delle sue nuvole (cloud) si fondano sull’esproprio delle terre e sulla guerra alle pratiche di sussistenza dei loro abitanti. La violenza dell’«accumulazione originaria del capitale» non è un evento, bensì una struttura, che oggi punta a colonizzare altri Pianeti e le facoltà stesse della specie. Non è certo un caso né che le principali democrazie liberali siano fondate sul genocidio o sulla pulizia etnica dei popoli nativi, né che le università in cui si sono formulati i valori e le norme giuridiche dell’Occidente siano state fisicamente erette sull’esproprio e sulla violenza ai danni dei terreni e dei corpi delle popolazioni indigene. LA PALESTINA E LA LOGICA COLONIALE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE DI MJRIAM ABU SAMRA E SARA TROIAN da: https://comune-info.net/la-palestina-e-la-logica-coloniale-del-diritto/? Il concetto di eccezionalismo è frequentemente evocato per spiegare “la questione palestinese” all’interno del sistema internazionale. La Palestina viene così rappresentata come un’anomalia: un progetto coloniale di insediamento anacronistico che perpetua apartheid, occupazione militare e genocidio in un mondo che si vorrebbe post-coloniale. In questo contesto, la violenza, le pratiche illegali e l’impunità di Israele sono considerate come deviazioni rispetto a un sistema internazionale che, altrimenti, si fonderebbe su valori condivisi, istituzioni imparziali e un quadro normativo universale. Tuttavia, questa narrazione è pericolosamente ingannevole in quanto oscura l’innata presenza del colonialismo nell’ordine mondiale contemporaneo. Lungi dall’essere un’eccezione, la Palestina rivela invece le fondamenta coloniali delle relazioni internazionali. Dunque, la perpetrazione del colonialismo da parte di Israele non rappresenta un’anomalia in un mondo giusto ed equo, ma è, al contrario, la manifestazione più evidente di un ordine globale concepito e strutturato per sostenere, proteggere e legittimare dinamiche di potere (neo)coloniali. L’architettura coloniale del diritto internazionale Il diritto internazionale emerse per legittimare la schiavitù di milioni di africani, la conquista coloniale del cosiddetto “Nuovo Mondo” e la sottomissione dei popoli indigeni a livello economico, culturale e politico. Per oltre 500 anni, ha modellato la traiettoria della storia europea, contrassegnata da pratiche di sfruttamento ed esproprio, fungendo da arbitro tra le ambizioni spesso conflittuali dei diversi imperi e conferendo legittimità all’espansione territoriale. Le opere di Francisco De Vitoria e Hugo Grotius, considerati i padri del diritto internazionale, ne sono un esempio paradigmatico. La loro concezione di “legge naturale” ha definito uno standard di civilizzazione basato su canoni culturali e politici europei, utilizzati come metro di misura per giustificare la conquista territoriale e l’oppressione dei popoli non europei. Secondo questo standard, i cosiddetti “civilizzati” avevano il diritto di conquistare, mentre i “non civilizzati” erano imputati alla schiavitù, sfruttamento, sottomissione e sterminio. In questa matrice, ogni forma di resistenza dei “non civilizzati” veniva trattata come barbarie o terrorismo. Lo standard di civilizzazione si riduceva, di fatto, al potere istituzionalizzato di colonizzare. Nel corso del tempo, il diritto internazionale si è progressivamente trasformato, adattandosi alle mutate forme di dominio coloniale. L’ordine globale emerso dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale, sebbene ancora saldamente controllato dalle superpotenze e dai loro interessi strategici, veniva presentato come un sistema equo e universale, mascherato da una legalità apparentemente neutrale e garantito da istituzioni formalmente imparziali, con l’ONU nel ruolo di custode principale. L’inclusione del sistema dei Territori sotto mandato nella Carta delle Nazioni Unite, insieme alle epistemologie eurocentriche che hanno guidato la codificazione dei trattati internazionali, come la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani o la Convenzione sul Genocidio, tra gli altri, testimonia questa continuità. Il vecchio standard di civilizzazione è stato riformulato e riproposto attraverso nuove dicotomie apparentemente più accettabili, come democrazia/non democrazia, sviluppato/sottosviluppato, liberale/non liberale. Gli ideali europei di democrazia, sviluppo e liberalismo economico si sono così convertiti in nuovi dispositivi di legittimazione del controllo e dello sfruttamento di altre regioni e popoli. In questo quadro, il sistema di veto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite rappresenta l’ammissione più evidente dell’impegno, mai realmente superato, a favore dell’egemonia delle superpotenze del sistema post-bellico. L’onda di decolonizzazione degli anni Cinquanta e Settanta ha portato solo una liberazione nominale: le ex colonie sono rimaste intrappolate in nuove forme di dominio, non meno pervasive di quelle precedenti. L’indipendenza politica ha infatti occultato la persistente subordinazione economica, esercitata attraverso istituzioni finanziarie, trattati commerciali asimmetrici e l’estrazione sistematica di ricchezze da parte di multinazionali, supportata dai programmi di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. L’ex presidente del Ghana e teorico politico Kwame Nkrumah ha denunciato questo periodo come la transizione dal colonialismo classico al neo-colonialismo. Questa condizione di dipendenza economica è stata legittimata da narrazioni ideologiche che hanno presentato lo sviluppo capitalistico come equivalente agli standard universali dei diritti umani, nascondendo la natura profondamente estrattiva e iniqua di tali processi. In sostanza, il diritto internazionale e le sue istituzioni hanno sancito una liberazione simbolica, ma non una reale emancipazione materiale dal colonialismo. Le condizioni storiche e materiali dell’oppressione Il diritto umanitario internazionale, in particolare le Convenzioni di Ginevra del 1949 e i loro Protocolli Aggiuntivi del 1977, incarnano una contraddizione strutturale. Il tentativo di regolamentare la lotta anticoloniale all’interno degli stessi quadri giuridici creati per disciplinare i conflitti tra Stati sovrani finisce per riprodurre – e spesso aggravare – lo squilibrio di potere intrinseco ai rapporti coloniali, anziché correggerne le disuguaglianze. Sebbene queste norme si presentino come universalistiche nella loro applicazione, esse impongono una simmetria giuridica formale tra colonizzatori e colonizzati, tra potenze occupanti e coloro che resistono alla loro dominazione. In tal modo, ignorano le profonde asimmetrie strutturali e le dinamiche di potere che definiscono le relazioni coloniali. Trattando la resistenza dei popoli colonizzati secondo le stesse restrizioni legali imposte agli eserciti statali, questi strumenti giuridici oscurano le condizioni storiche e materiali dell’oppressione da cui origina tale resistenza. Inoltre, queste norme spesso operano come strumenti di delegittimazione e criminalizzazione della resistenza anticoloniale, rafforzando la supremazia strutturale del colonizzatore. Il principio di distinzione – concepito per proteggere i civili – non considera come i regimi coloniali confondano deliberatamente obiettivi militari e civili, né affronta la violenza sistemica insita nell’occupazione stessa. Analogamente, il divieto di determinati metodi di combattimento limita in modo sproporzionato le possibilità di autodifesa dei popoli colonizzati, mentre lascia intatte le superiori capacità belliche dell’oppressore. Questo impianto normativo, pertanto, non agisce come arbitro imparziale della giustizia, ma come uno strumento di consolidazione delle stesse gerarchie di potere che pretende di regolare. Regolando la violenza secondo un principio di falsa equivalenza tra chi domina e chi resiste, il diritto umanitario consente alle potenze coloniali di dipingere i popoli oppressi come soggetti incapaci di aderire ai princìpi giuridici fondamentali. Così facendo, rende di fatto inammissibili le guerre di liberazione anticoloniali nei parametri del diritto internazionale. La guerra del diritto internazionale contro la Palestina La questione palestinese rappresenta l’essenza egemonica del diritto internazionale. L’ideologia del colonialismo di insediamento sionista è emersa e continua a operare all’interno del contesto politico ed economico della storia imperiale europea, radicandosi nel sistema internazionale stesso. La Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha diviso la Palestina, legittimato la confisca delle terre e integrato il colonialismo di insediamento nel diritto internazionale. Nonostante fosse giuridicamente viziata, poiché eccedeva l’autorità dell’Assemblea Generale dell’ONU e non era vincolante, la risoluzione è divenuta la colonna portante della legittimazione indiscutibile di Israele e dell’eredità coloniale del sistema internazionale. La storia moderna della Palestina riflette dunque questa dialettica tra sistemi di dominazione legalizzati a livello internazionale e la resistenza al quadro coloniale che li sorregge. Il quadro di Oslo ha mantenuto questa dicotomia, rafforzando ulteriormente il colonialismo di insediamento sionista dietro la facciata di “negoziati di pace”. Si tratta di una manovra politica concepita per cristallizzare il colonialismo di insediamento e neutralizzare la resistenza palestinese, promuovendo l’ambiziosa, seppur paradossale, aspirazione di ottenere la legittimazione del sionismo attraverso l’accettazione da parte dei colonizzati palestinesi stessi. Con questa strategia e attraverso la narrativa dell’“approccio pragmatico”, la comunità internazionale presenta il colonialismo di insediamento come una “soluzione giusta ed equa”, annientando i diritti e le aspirazioni di liberazione, giustizia e ritorno della popolazione indigena. In tale contesto, il controllo e l’oppressione coloniale vengono ulteriormente radicati attraverso una dipendenza economica e politica neoliberista che normalizza la violenza e la dominazione sotto le spoglie di costruzione statale. Si formalizza così la relazione coloniale, istituzionalizzando una classe collusa di colonizzati – l’Autorità Palestinese (AP) – investita del ruolo di intermediaria custode del potere coloniale. Questo rafforza, infine, l’architettura della violenza coloniale di Israele. La continua campagna di espulsioni di massa e distruzione nel nord della Cisgiordania – la più estesa e feroce dal 1967 – condotta congiuntamente con l’AP rappresenta una testimonianza lampante di questa realtà persistente. Non è un caso che “la campagna per il riconoscimento dello stato di Palestina” venga rilanciata ogni volta che il potere coloniale è sfidato nella sua essenza e la mobilitazione decoloniale risorge, facendo risaltare i limiti strutturali e le incoerenze del sistema internazionale. Questa campagna è la continuazione genealogica della partizione della Palestina. Il momento attuale ne è testimonianza: con un genocidio in diretta streaming, l’unica risposta che emerge a livello internazionale è, paradossalmente, il riferimento a “soluzioni legittime” e a “quadri giuridici” che non mettono in discussione i fondamenti coloniali della depredazione palestinese, ma li accettano come un fatto compiuto. Questa traiettoria strategica si maschera da tentativo di implementare meccanismi di responsabilità e giustizia tramite l’intervento delle istituzioni internazionali, che, lungi dall’essere “super partes”, sono vettori di egemonia coloniale. Emblematiche in questo contesto sono le ordinanze di arresto emesse dalla Corte Penale Internazionale per Netanyahu e Gallant – che inizialmente furono richieste anche per Ismail Haniyeh, Yahya Sinwar, e Mohammad Deif, se non fossero stati uccisi dalla stessa autorità coloniale contro cui stavano lottando, prima che gli ordini di arresto fossero ratificati. Mentre il mondo ha acclamato questa decisione che, pur mancando di esecuzione, è stata definita storica, essa ha svolto un ruolo strumentale nel livellare e normalizzare le relazioni di potere asimmetriche tra colonizzati e colonizzatori, mettendo i leader della resistenza anticoloniale sullo stesso piano delle autorità statuali che ordinano e implementano massacri coloniali per sradicare ed eliminare un intero popolo. Questo approccio “bipartisan” e l’insistenza sull’“obiettività” si configurano come la regola che sottomette ogni tentativo di denunciare e invertire le relazioni di potere sbilanciate. Le fondamenta coloniali del diritto internazionale hanno neutralizzato la relazione colonizzato-colonizzatore, occultandola in retoriche e pratiche di bothsidesism (finta equidistanza) che favoriscono sempre il più potente colonizzatore, che non solo tiene il coltello dalla parte del manico, ma detiene anche il controllo sulla narrativa. Smantellare la casa del padrone La colonizzazione della Palestina non è un’anomalia in questo ordine globale, ma rappresenta la sua accusa più evidente. Essa mette in luce l’ipocrisia di un sistema internazionale che, pur condannando retoricamente il colonialismo, lo istituzionalizza e lo legittima nella pratica. I quadri giuridici internazionali e i modelli di governance, progettati dai e per i poteri coloniali, hanno sempre dato priorità alla conservazione delle gerarchie di potere, celandole sotto la facciata di legalità e giustizia. Tali strutture riaffermano il colonialismo di insediamento come un presupposto legittimo delle relazioni internazionali. Dal 7 ottobre 2023, la presunta universalità del sistema internazionale è stata messa in discussione, rivelandone le contraddizioni intrinseche. Il discorso evolutivo e i meccanismi del diritto internazionale hanno esposto i loro limiti e la continua alleanza con il dominio coloniale e i suoi corollari: il privilegio razziale, le disuguaglianze sistemiche e l’accumulo di capitale. Questo momento richiede una rivalutazione critica dei quadri concettuali e pratici che sostengono la giustizia e la liberazione. L’affermazione di Audre Lorde che “gli strumenti del padrone non smantellano mai la casa del padrone. Possono permetterci temporaneamente di batterlo al suo stesso gioco, ma non ci permetteranno mai di portare un vero cambiamento” sottolinea la necessità di ripensare questi paradigmi. Il cammino da percorrere richiede una profonda trasformazione strutturale, che affronti e smantelli i sistemi di diritto internazionale e governance che perpetuano l’oppressione. Al loro posto, devono essere sviluppati paradigmi alternativi, fondati sull’uguaglianza autentica, sulla lotta comune e sulla giustizia decoloniale. La lotta palestinese per la liberazione incarna questa sfida più ampia, forzando un confronto con le radici coloniali dell’ordine globale e immaginando un mondo in cui la giustizia non resti mera retorica, ma diventi realtà per tutti. «Iniziare dalla terra su cui sono state erette» Gli istituti di istruzione superiore hanno effettivamente svolto un ruolo fondamentale nello spossessamento delle terre indigene e nell’espansione degli insediamenti coloniali, in particolare nelle società a dominazione inglese istituite sotto l’egida dell’Impero britannico. Dagli Stati Uniti al Canada, dall’Australia e la Nuova Zelanda al Sudafrica, le università degli Stati coloniali anglosassoni sono nate dall’appropriazione di territori indigeni non ceduti. Con la benedizione dell’Impero britannico, oltre sei milioni di ettari di terre indigene in tre diversi continenti sono stati trasferiti alle università coloniali. Gli Stati coloniali usavano questi terreni per costruire o finanziare istituzioni divenute in seguito note come land-grant university (università concessionarie di terre) e ribattezzate land-grab university (università accaparratrici di terre) dai popoli indigeni. Negli Stati Uniti, il provvedimento “Morrill Land-Grant College Act” del 1862 facilitò l’esproprio violento delle terre indigene a beneficio delle università e dei college. Gli Stati dell’est, del sud e alcuni del Midwest si finanziarono vendendo terre concesse loro dal governo; gli Stati dell’ovest, nel frattempo, costituivano università direttamente sulle terre di varie tribù acquisite mediante accordi estorti con la violenza e talvolta conquistati con veri e propri massacri. 245 tribù indigene persero oltre 4 milioni di ettari di terra, destinati all’espansione delle università statunitensi, per un valore di quasi 500 milioni di dollari. Lo sfruttamento degli africani ridotti in schiavitù nelle Americhe consentì un ulteriore accumulo di ricchezze da parte delle università, spesso costruite con il sudore degli schiavi o finanziate dalla loro tratta. Anche le università canadesi furono costruite in seguito all’appropriazione di terre indigene. Dall’Ontario alla Columbia Britannica, passando per la provincia del Manitoba, la Corona britannica e successivamente i governi provinciali canadesi destinarono 200 mila ettari di terre sottratte agli indigeni alla fondazione delle principali università del paese. In Nuova Zelanda, la confisca delle terre maori e la loro concessione da parte del governo costituiscono la base per l’edificazione di quasi tutte le università statali, mentre la terre aborigene d’Australia furono direttamente espropriate per costruire le università coloniali. In Sudafrica, le leggi sulla terra del 1913 e del 1936 sancirono l’alienazione dei terreni e la cacciata dei sudafricani neri che li abitavano. Questi atti sono all’origine di università storicamente bianche in posizioni strategiche. Queste, a loro volta, promossero l’insediamento di bianchi facilitando la segregazione dell’istruzione superiore, con la creazione di istituzioni riservate alla popolazione nera. Nell’ottica della repressione delle mobilitazioni per la liberazione dei neri, lo Stato sudafricano istituì università rivolte ai neri concependole come strutture di controllo amministrativo e come strumento all’interno del sistema del bantustan. La segregazione universitaria, dalle infrastrutture dei campus ai programmi accademici, fu concepita come dispositivo funzionale all’apartheid. […] le università sudafricane vennero deliberatamente «impiantate “nel territorio” come infrastrutture fisiche concrete e inamovibili»: la loro collocazione e il loro posizionamento rendono una loro trasformazione nell’èra post-apartheid impresa oltremodo ardua. In quei paesi coloniali, il progetto di esproprio delle terre indigene e l’insediamento dei coloni alimentano l’espansione dell’istruzione superiore. Fondate su terreni confiscati ai popoli indigeni, le università, a loro volta, si sono fatte roccaforte degli insediamenti nelle terre delle comunità indigene che lo Stato mirava a contenere ed eliminare. Per fare i conti con le proprie responsabilità nel progetto coloniale, sostengono studiosi e attivisti indigeni, le università devono iniziare dalla terra su cui sono state erette, analizzando i modi in cui esse stesse fungono da infrastrutture di spossessamento e oppressione violenta. Edificati su terreni sottratti ai palestinesi indigeni e progettati come veicoli dell’espansione degli insediamenti ebraici, gli stessi atenei israeliani si inseriscono nel solco della tradizione delle «università accaparratrici di terre». Al pari di altre istituzioni di insediamento, le università sono pensate per sostenere l’infrastruttura coloniale dello Stato israeliano. Ciò che le distingue, tuttavia, è il ruolo – a cui a tutt’oggi non si sottraggono – di esplicito sostegno a un regime che la comunità internazionale definisce di apartheid. Queste università, infatti, non solo continuano a partecipare attivamente alla violenza di Stato contro i palestinesi, ma contribuiscono, con le proprie risorse e ricerche, a preservare, difendere e giustificare l’oppressione. (da Maya Wind. Torri d’avorio e d’acciaio. Come le università israeliane sostengono l’apartheid del popolo palestinese, Alegre, Roma, 2024)
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Antigone in Grecia. Dalla pandemia di Covid-19 fino a Tempe
Cosa c’entra l’incidente ferroviario di Tempe (Larissa, Tessaglia, 28 febbraio 2023), un’orribile strage di Stato cui è seguita un’intensa mobilitazione da parte della popolazione greca, e la gestione autoritaria, militarista e criminale del Covid-19? Ce lo spiegano due antropologi greci, opportunamente introdotti dalla nostra amica antropologa Stefania Consigliere. Da https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/30104-eri-samikou-e-lazaros-tentomas-antigone-in-grecia-dalla-pandemia-di-covid-19-sino-a-tempe-la-verita-sepolta-dal-silenzio-di-stato.html ANTIGONE IN GRECIA: DALLA PANDEMIA DI COVID-19 SINO A TEMPE, LA VERITÀ SEPOLTA DAL SILENZIO DI STATO ERI SAMIKOU E LÁZAROS TENTOMAS Gli anni post-pandemici hanno reso evidente la disturbante continuità nelle strategie politiche: dalla comunicazione propagandistica alle priorità economiche, dalla militarizzazione di ogni piega della vita all’uso sfacciato della necropolitica, dalla criminalizzazione del dissenso alla manomissione del bene pubblico. A livello alto, una linea ininterrotta collega Covid-19, Ucraina e Gaza; a livello medio, essa unisce le politiche vaccinali del blocco atlantico, la corsa al riarmo dell’UE e la soppressione delle ricerche accademiche su disuguaglianza, razzismo e violenza strutturale; ma anche a livello spicciolo, su quella stessa linea inciampiamo ogni volta che sentiamo erosi i margini della vita quotidiana, dei legami di affetto e di senso, dell’autonomia individuale e collettiva. È qui che dobbiamo allenarci per tornare a sentire che niente può giustificare l’abbandono del minimo sindacale che ci rende umani: la cura dei nuovi nati, la cura delle ecologie collettive, il saluto ai morti. In questo articolo, apparso sui siti greci Kosmodromio e Edromos, due antropolog* dell’università di Atene mettono a confronto le politiche pubbliche e sanitarie in risposta a un tragico incidente ferroviario con quelle che, pochissimi anni prima, hanno deciso della vita dell’intera nazione (Stefania Consigliere) Il 28 febbraio 2023 la Grecia ha vissuto uno dei disastri ferroviari più gravi della sua storia, quando un treno passeggeri si è scontrato frontalmente con un treno merci vicino a Tempe, nella Grecia centrale. La collisione si è verificata poco prima di mezzanotte, sulla tratta Atene-Salonicco e ha causato un grave deragliamento e un enorme incendio che ha avvolto diverse carrozze, portando alla morte orribile di decine di passeggeri. Le carrozze anteriori sulle quali viaggiavano soprattutto giovani, compresi studenti universitari di ritorno dalle vacanze, hanno subito l’impatto più violento. Ufficialmente, almeno 57 persone sono state registrate come decedute, ma numerosi indizi lasciano supporre che il numero delle vittime sia maggiore. Le indagini hanno rivelato che non si tratta solo del risultato di un errore umano, ma di un crimine di Stato, poiché il Governo e le autorità competenti erano consapevoli delle importanti carenze in materia di sicurezza all’interno del sistema ferroviario greco. Le strutture della rete erano obsolete, e i controlli automatizzati inadeguati, nonostante le ripetute segnalazioni da parte dei ferrovieri. Dopo la tragedia, ci sono state accuse di insabbiamento, poiché dai rapporti è emerso come il sito dell’incidente sia stato rapidamente sepolto dai detriti (probabilmente in presenza di alcuni resti umani ancora sul posto) nel tentativo di eliminare le prove. I sopravvissuti e i familiari delle vittime hanno accusato le autorità di un’assenza di trasparenza nelle procedure di identificazione dei cadaveri, lasciando molte questioni irrisolte. Nel gennaio 2025, in una dichiarazione ai media, l’avvocato di Maria Karystianou – la presidente dell’Associazione delle Famiglie delle Vittime e dei Sopravvissuti nell’incidente di Tempe, che perse sua figlia nella catastrofe – ha denunciato la mancanza di risposte, da sei mesi, in merito alla «illegittima mancanza di alcuni rapporti medico-legali, al rifiuto di prelevare campioni biologici inclusi i test tossicologici, e alla redazione di rapporti medico-legali quasi identici tra loro che individuano un’unica causa di morte». Nel dicembre 2024, il giudice istruttore aveva già respinto la richiesta di Panagiotis Aslanidis, il padre di una vittima, che chiedeva l’esumazione del corpo di suo figlio per un’analisi del DNA e la conduzione di esami biochimici a conferma della sua identità. I corpi delle vittime rimangono al centro delle domande di verità e giustizia. Tuttavia, una rete governativa, mediatica e medico-legale sembra agire orchestrando sistematicamente l’occultamento delle prove. In un’intervista recente a Libération, Maria Karystianou ha espresso la profonda sfiducia nel sistema giudiziario greco da parte delle famiglie delle vittime: «Non abbiamo più fiducia nella giustizia del nostro Paese». Maria Karystianou ha denunciato la mancanza di trasparenza e l’omissione di prove cruciali, come registrazioni audio e documenti digitali, che avrebbero dovuto essere inclusi nel fascicolo giudiziario. Due anni dopo il disastro, non è stata fornita alcuna risposta alle famiglie in cerca di verità. Con i sopravvissuti gravemente feriti e le vittime ancora non identificate – come Erietta Molcho, che risulta ufficialmente scomparsa senza che nessun corpo sia stato ritrovato – la tragedia di Tempe rivela la portata dell’occultamento della verità. Questa situazione illustra le connessioni tra la gestione politica delle crisi e il paternalismo medico-legale: ciò che è stato ereditato dalla narrazione pandemica elaborata durante l’epidemia da Covid-19, la quale ha imposto una verità unica con il pretesto della “protezione” e del “bene comune”. Rievocando quanto accaduto in quel periodo Martha, una donna che ha perso sua madre durante la pandemia, racconta: «Era un caso grave. Non sarebbe comunque sopravvissuta a causa di un ictus. Ma hanno scritto “Covid-19” – prima “ictus”, poi “Covid-19” – sul certificato di morte. Quindi è stato applicato il protocollo Covid-19. Le pompe funebri mi hanno spiegato che ciò implicava una sacca mortuaria, un doppio involucro, del cellophane e una tuta speciale per coloro che maneggiavano il corpo, con un costo aggiuntivo di 400 euro. Il cimitero, anziché una concessione triennale, ne ha richiesta una settennale. Queste spese erano supplementari. In totale, ho pagato 400 euro in più e quattro anni aggiuntivi di concessione per la tomba. Non ho mai visto mia madre. Da quando l’hanno portata in ospedale, non l’ho mai più vista. Non ci hanno neanche concesso il tempo di un breve elogio funebre. Una sepoltura veloce, questo è tutto. Non sono ancora riuscita a elaborare il lutto». Anche Aphrodite, un’infermiera di terapia intensiva durante la pandemia di Covid-19, ha raccontato: «Con la mia esperienza professionale, ho capito velocemente che cosa stava accadendo. Ciò che chiamavano “pandemia” non riusciva a convincermi. Stavano classificando come morti per Covid pazienti con gravi patologie preesistenti. Per esempio, pazienti con tumori in fase terminale nei reparti di terapia intensiva Covid, sono stati dichiarati morti di Covid-19. Non era vero. Ho le competenze per capire di che cosa morivano realmente questi pazienti. Molti sono morti a causa di infezioni ospedaliere che provocavano un’insufficienza multiorgano, ma venivano sistematicamente registrati come decessi per Covid-19». L’ombra della gestione dei morti durante la pandemia di Covid 19 aleggia ancora sulla tragedia di Tempe. Durante la crisi di Covid-19, qualsiasi contestazione dei protocolli medici e delle restrizioni sanitarie veniva sistematicamente etichettata come “complottista”. La stessa dinamica sembra essere oggi applicata a Tempe: le bare sigillate, l’impossibilità di condurre autopsie e le procedure di identificazione dei cadaveri basate esclusivamente sul DNA, impediscono qualsiasi contestazione ufficiale sulle cause dei decessi. Questa continuità solleva numerosi interrogativi. Nel nostro libro Did We Take Our Lives Back? An Anthropological Study of the (Post)Pandemic Discourse in Greece (Alistou Mnimis Editions, 2023), abbiamo analizzato come la gestione dei decessi legati al Covid-19 abbia instaurato una logica autoritaria di classificazione delle morti. Fino alla fine del 2023, il protocollo funebre in Grecia vietava l’apertura delle bare, impedendo così le autopsie e qualsiasi indagine sulle cause dei decessi. Pochi giorni dopo il disastro di Tempe, il Ministero della Salute greco ha applicato la stessa logica ai corpi delle vittime, imponendo bare sigillate e un’identificazione da condursi esclusivamente tramite il test del DNA; ha giustificato questa decisione con la volontà di proteggere le famiglie da ulteriori forme di sofferenza. Questa misura ha impedito qualsiasi riesame indipendente sulle cause delle morti. In Antigone, Sofocle illustra l’importanza della sepoltura come diritto inalienabile, un atto di rispetto verso i morti e una sfida all’arbitrarietà del potere. Dalla pandemia sino al disastro di Tempe, il modello rimane lo stesso: uno Stato che impone bare sigillate, impedisce qualsiasi indagine indipendente e mette a tacere le famiglie in cerca di verità. Ma, come Antigone, esse rifiutano di restare in silenzio. La loro lotta per la verità è un atto di resistenza contro l’oblio e la manipolazione della storia. La dignità dei morti non può essere cancellata per decreto, né la giustizia sepolta sotto le menzogne di Stato. Questo articolo mira a mettere in luce l’intreccio tra narrazioni ufficiali e realtà nascoste. Rifiutando di accettare le narrazioni imposte, esigendo indagini trasparenti e chiedendo giustizia, la memoria delle vittime viene onorata. È nostro dovere rifiutare l’oblio e interrogare incessantemente ciò che ci viene presentato come una verità assoluta. -------------------------------------------------------------------------------- ERI SAMIKOU: ANTROPOLOGA SOCIALE, UNIVERSITÀ PANTEION, ATENE. LÁZAROS TENTOMAS: ANTROPOLOGO SOCIALE, DIPARTIMENTO DI POLITICA SOCIALE, UNIVERSITÀ PANTEION, ATENE.
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Il clown e il circo
Riprendiamo da “pungolo rosso”(https://pungolorosso.com/2025/03/29/il-clown-e-il-circo-a-bihr-j-m-heinrich-r-pfefferkorn-y-thanassekos/) e rilanciamo questo interessante dibattito, che fa il punto sulle ragioni della guerra in Ucraina tra NATO e Federazione Russa. Ci pare che le argomentazioni degli autori de “Il clown e il circo” e della redazione del Pungolo si integrino più di quanto si contraddicono: da una parte dei sani giudizi di fatto sulle preponderanti responsabilità occidentali nel provocare la guerra (giudizi di fatto tanto più necessari di fronte a una propaganda che ha compiuto e compie salti mortali per nasconderle); dall’altro la verità di fondo che ogni Stato combatte le guerre per i propri interessi di potenza. Di fronte alle attuali “manovre di pace”, condividiamo in particolare l’idea del Pungolo che “la possibilità di contrastare la tendenza alla guerra con ‘la mobilitazione delle masse in tutta Europa’ deve saper denunciare per tempo le stesse soluzioni diplomatiche, per quanto ‘ragionevoli’ possano apparire, come altrettanti passi verso un nuovo conflitto mondiale.” Qui il seguito del dibattito: https://pungolorosso.com/2025/04/06/la-replica-di-a-bihr-j-m-heinrich-r-pfefferkorn-e-y-thanassekos-italiano-francais/ [Qui in apertura l’introduzione della redazione di “Pungolo rosso”] A dispetto del titolo, ironico e scanzonato, l’articolo di Alain Bihr, J.M. Heinrich, R. Pfefferkorn e Y. Thanassekos tratta di una questione molto importante: la guerra NATO/Russia in Ucraina e la sua possibile sospensione. Diciamo “sospensione”, non “pace”, perché quest’ultima, intesa come un’organica conclusione del conflitto, ci sembra largamente irrealistica, se non impossibile. Quello che si va prospettando è dunque un congelamento delle attività belliche, che asseconda gli interessi immediati sia della Russia che, sul versante opposto, degli USA, capofila dello schieramento occidentale. Il testo collettivo che pubblichiamo ha il pregio di sottolineare alcuni punti importanti, tanto “ragionevoli” quanto mistificati e sommersi dalla martellante propaganda di guerra USA/NATO/UE e dalla russofobia isterica di cui è intrisa: primo fra questi, quello che qualifica la guerra tuttora in corso come un conflitto fra Russia e Nato, e non fra Russia e Ucraina. A seguire, gli autori richiamano alcune delle principali contraddizioni della propaganda occidentale: tale è, ad esempio, la tesi circa la pretesa intenzione di Mosca di invadere i paesi confinanti e addirittura l’Europa occidentale, nonostante, dopo tre anni di guerra, essa sia riuscita a conquistare, con notevoli sforzi, appena un quinto del territorio ucraino. E che dire dello stridente contrasto fra gli strepiti odierni sulla mancanza di sufficienti mezzi militari per contrastare la Russia e la ribadita volontà di sostenere lo sforzo bellico di Kiev affinché riconquisti i territori perduti? Per non parlare, poi, della fulminea decisione di finanziare a debito un gigantesco piano di riarmo, infrangendo il dogma ostile alla spesa in deficit quando essa riguardi salari, pensioni e servizi sociali. Il lettore troverà dunque in questo breve scritto un utile antidoto alle menzogne sparse a piene mani dai “nostri” governi negli ultimi tre anni. Allo stesso tempo, l’articolo dà un’interpretazione discutibile su molti punti-cardine, che non condividiamo. Ad esempio, nel negare, giustamente, che il conflitto sia limitato all’Ucraina, ma coinvolge invece “l’Occidente globale”, gli autori liquidano il “presunto desiderio [russo] di perpetuare o ricostituire la sua area di influenza nell’Europa centrale e orientale – e anche oltre”. Questa contrapposizione rimane all’interno delle giustificazioni “formali” della guerra, senza coglierne le radici strutturali, che risiedono nella lotta per la difesa dei reciproci interessi di sfruttamento e supremazia sullo scacchiere internazionale. Certo, in questa lotta, Mosca è partita da una situazione di svantaggio, ereditata dallo sfacelo dell’URSS e dalla conseguente espansione della NATO, ma ciò non significa affatto che la sua azione avesse e abbia motivazioni di altro tipo che la difesa della propria sfera di influenza. Anzi, quella ucraina era/è per Mosca una linea rossa non oltrepassabile proprio perché chiama in causa un’area vitale per i propri interessi. Analogamente, non condividiamo la lettura dei propositi riarmisti dell’UE e dei suoi singoli Stati come una sorta di allucinazione collettiva, il cui rischio consisterebbe nel “dar vita ad una profezia che si autoavvera”. Per quanto le cancellerie del vecchio continente versino in stato confusionale a seguito dell’inversione di rotta della nuova amministrazione USA, va detto che gli stanziamenti per la “difesa”, l’eliminazione del vincolo sul debito da parte della Germania, la decisione di alzare da subito la percentuale del PIL dedicata alle spese militari, la rapida virata verso l’economia di guerra e la conclamata volontà di utilizzare il riarmo come antidoto alla stagnazione e alla crisi economica, non rispondono alla falsa percezione di dover fronteggiare senza l’aiuto di Washington “il grande lupo cattivo russo”. Rispondono invece alla consapevolezza, che si va facendo strada, che, indipendentemente dalla struttura delle alleanze future, ogni Stato, per mantenere il suo posto al sole fra le canaglie del sistema imperialista, deve armarsi, armarsi, armarsi. E, nell’immediato, cercare, con le unghie e coi denti, di esigere la parte “che ci spetta” del bottino ucraino, che rischia di sparire per intero  nelle fauci di USA e Russia. Se, come ipotizzano gli autori, la possibilità di Mosca di vincere la pace, dopo aver vinto la guerra, passa per la convocazione di una conferenza di pace nel quadro dell’OSCE – ad oggi solo una vaga ipotesi – la possibilità di contrastare la tendenza alla guerra con “la mobilitazione delle masse in tutta Europa” deve saper denunciare per tempo le stesse soluzioni diplomatiche, per quanto “ragionevoli” possano apparire, come altrettanti passi verso un nuovo conflitto mondiale. Trasformare le condizioni verso la guerra imperialista in condizioni per la rivoluzione proletaria è l’unica strada per sfuggire davvero all’alternativa “pensioni o munizioni”, un’alternativa che, negli ultimi tempi, ha davvero fatto passi da gigante. (Red.) IL CLOWN E IL CIRCO “Se eleggi un clown, aspettati un circo” La guerra in Ucraina sta per finire come è iniziata: come un faccia a faccia tra Stati Uniti e Russia. Con una differenza : che, avendo lo scontro tra i due stati portato alla guerra, si è passati ora alla collaborazione in vista della pace. Il che, tra l’altro, dà ragione a posteriori a tutti coloro, noi compresi, che, contro l’interpretazione dominante di questo conflitto, hanno sostenuto la tesi che si trattasse effettivamente, per l’essenziale, di un conflitto tra l’Occidente globale (sotto la guida statunitense e la bandiera della NATO) e la Russia, per interposta Ucraina, e non di un conflitto tra questi ultimi due paesi generato dal presunto desiderio della Russia di perpetuare o ricostituire la sua zona di influenza nell’Europa orientale e centrale – o anche oltre. Cerchiamo qui di fare un bilancio di questi tre anni di guerra e dell’inversione di tendenza appena avvenuta, dei guadagni e delle perdite registrate dai vari protagonisti e di discernere, di conseguenza, le possibilità che si aprono a ciascuno di loro. Ubu alla Casa Bianca La guerra in Ucraina è nata dalla volontà della NATO, contrariamente agli impegni verbali assunti dopo il crollo del Muro di Berlino, di espandersi nell’Europa centrale e orientale. Perseguita nonostante le sempre più forti proteste russe durante le prime due ondate del 1999 e del 2004, questa espansione ha raggiunto un punto critico nel 2008, quando si è trattato di integrare l’Ucraina e la Georgia nell’Alleanza Atlantica, cosa che avrebbe portato quest’ultima a diretto contatto con la Russia, offrendole per una invasione l’immensa breccia  costituita dalla pianura ucraina al di là del Dniepr e minacciando la strategica base navale di Sebastopoli. Una linea rossa per Mosca, che dichiarò allora che sarebbe entrata in guerra se fosse stata oltrepassata. Gli occidentali non ne ha tenuto conto. Nel 2014, durante Euromaidan, hanno contribuito ad insediare a Kiev un governo filo-occidentale e anti-russo : cosa che ha aggravato le tensioni con le popolazioni russofone e russofile degli oblast’ orientali e di Odessa, portando alla guerra civile. Allo stesso tempo, gli occidentali hanno rigiutato sprezzantemente le proposte russe di concludere un accordo nel quadro della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE) finalizzato alla neutralizzazione (“finlandizzazione”) dell’Ucraina. Tutto questo, dopo che gli Stati Uniti si erano ritirati nel 2001 dal Trattato ABM (Anti-Balistic Missile) firmato nel 1972, e nel 2018 dal Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces) firmato nel 1988. La strada verso la guerra era ormai aperta. Per tre anni, l’Occidente ha condotto questa guerra contro la Russia, con l’intermediazione dell’Ucraina, con l’obiettivo di imporre con la forza ciò che la Russia aveva ripetutamente dichiarato di non voler accettare. Gli errori di valutazione iniziali durante l’operazione militare russa, la mobilitazione nazionale e lo slancio nazionalista della società ucraina hanno creato l’illusione che la partita potesse essere vinta e che, con il massiccio sostegno dell’Occidente, l’Ucraina potesse cacciare l’aggressore dai suoi confini. Questa illusione è stata rapidamente dissipata quando la controffensiva ucraina del giugno-agosto 2023, con il massiccio sostegno militare e logistico dell’Occidente, è fallita miseramente. Da allora, la situazione in Ucraina ha continuato a deteriorarsi, sia in termini di operazioni militari che di coesione della società ucraina stessa, a dispetto delle decine di miliardi di dollari in aiuti di ogni tipo (armi, munizioni, addestramento delle truppe, assistenza tecnica, intelligence, prestiti, incoraggiamento, ecc.) che l’Occidente ha fornito, per non parlare delle sanzioni commerciali e finanziarie inflitte all’aggressore russo. Qualsiasi osservatore lucido dello sviluppo della situazione negli ultimi mesi ha chiaro che essa non può portare che ad una sconfitta militare ucraina nel più o meno breve termine. Per evitare un simile esito la nuova amministrazione Trump ha deciso di porre fine a questa guerra concludendo, se non la pace, almeno un accordo con il nemico russo, trasformato di colpo in un avversario con cui è possibile un accordo. La ragione di fondo di questa inversione di rotta degli Stati Uniti è che l’amministrazione Trump, ancor più delle precedenti, ha come priorità delle priorità quella di affrontare la sfida costituita, ai suoi occhi, dall’ascesa della Cina, che minaccia il suo dominio globale. In questo contesto, la vicenda ucraina diventa secondaria, se non addirittura trascurabile, e deve essere liquidata nel modo più rapido ed economico possibile. In questo caso, per gli Stati Uniti si tratta di una riedizione di quanto fatto negli ultimi decenni ogni volta che sono stati tenuti in scacco, come in Vietnam nel 1973, in Iraq nel 2011, ad Haiti nel 1995 e in Afghanistan nel 2021: ritirarsi e lasciare che il caos creato dal loro intervento sia gestito dai loro alleati locali e dai precedenti nemici: in breve, lavarsene le mani. L’unica differenza è lo stile con cui lo scenario si ripete questa volta. Con l’Ubu (ri)eletto lo scorso novembre, la silenziosa vergogna di un Obama o la contrizione da coccodrillo di un Biden hanno lasciato il posto a una vistosa negazione delle schiaccianti responsabilità americane nella vicenda, con gli Stati Uniti che hanno assunto la vantaggiosa posizione della colomba per far dimenticare il loro ruolo di falco. Il palese fallimento militare ucraino viene imputato a Kiev, che non ha voluto mobilitare la gioventù del Paese per mandarla a farsi sventrare sul campo di battaglia, e ai suoi alleati europei, che non hanno messo mano abbastanza alle loro tasche né per sostenere lo sforzo bellico ucraino, né per garantire la propria difesa. Per non parlare del fatto che, in linea con il suo tropismo e il suo credo super attivistici, Trump intende recuperare la sua quota di sfruttamento del sottosuolo ucraino ricco di terre rare. Panico a Londra, Parigi, Berlino, Varsavia… … e in altre capitali europee. Perché, non avendo capito nulla di quello che è successo, stanno inventando un futuro immaginario in cui credono di dover affrontare, ormai da solie, private dell’aiuto dello zio Sam, il lupo cattivo russo. E, poiché ritengono di non avere i mezzi per farlo militarmente, l’unica opzione che prendono in considerazione o almeno favoriscono, stanno lanciando folli programmi di riarmo, buttando centinaia di miliardi di euro che solo il giorno prima affermavano di non avere se si trattava di aumentare gli stipendi, rafforzare i servizi pubblici e le strutture comunitarie, soddisfare i bisogni sociali più elementari, ecc. Tutto ciò fa presagire un nuovo ciclo di austerità crescente per le loro popolazioni, che non offrirà loro altra prospettiva se non quella di stringere la cinghia ancora un po’ per gli anni a venire, prima di “morire per la libertà”, creando fin da ora un’atmosfera da « vigilia di guerra ». Tuttavia, la natura immaginaria di questo scenario futuro è tradita dalla natura incoerente dei loro propositi. Sono le stesse persone che ora dicono che i russi sono alle nostre porte e che non abbiamo i mezzi per impedirgli di entrare con la forza, e che appena il giorno prima, se non in contemporanea, sostengono che è necessario e giusto aiutare gli ucraini, anche inviando loro delle truppe, perché è possibile sconfiggere il nemico sulle rive del Dniepr o nel Donbass. E allora la Russia cos’è ? Orco insaziabile e assetato di sangue, o colosso dai piedi d’argilla? Questo scenario è ancora immaginario perché non tiene conto della realtà dei rapporti di forza così come si presenta sul campo. Dopo tre anni di guerra, le truppe russe sono faticosamente e cautamente riuscite a conquistare appena un quinto del territorio ucraino. Una domanda degna di un problema di quinta elementare: di questo passo, quanto ci metteranno i cosacchi ad abbeverare i loro cavalli nei sobborghi di Brest e Lisbona? Immaginario, infine, perché, come prima del 2022, gli Europei non ascoltano, o non danno credito alle parole dei russi. I russi hanno ripetuto a gran voce che non avrebbero accettato le forze della NATO alle loro porte in Ucraina e che, se avessero persistito nella loro intenzione di farlo, sarebbero entrati in guerra. E così è stato. Quando, al contrario, li abbiamo sentiti dichiarare di avere altre pretese, se non sui loro immediati vicini ? per forza di cose sull’Europa occidentale? Doppiezza da parte loro? Allora perché accusarli contemporaneamente di cinismo? Il pericolo, tuttavia, è che questo scenario, per quanto immaginario, possa dar luogo a una profezia che si autoavvera. Infatti, rilanciando la corsa agli armamenti in Europa, si crea proprio una situazione favorevole alla guerra. Contrariamente al vecchio adagio romano, quando si prepara la guerra, si ottiene … la guerra! Non lo ha forse dimostrato ancora una volta l’estensione, negli anni ’90, dell’alleanza militare all’Europa centrale e orientale, che avrebbe dovuto garantire la pace? Intrappolate dalle loro posizioni “campiste” sui conflitti inter-imperialisti e internazionali, la maggior parte delle organizzazioni della sinistra e dell’estrema sinistra sta adottando questo scenario, arrivando a tacciare di filo-russismo o addirittura di filo putinismo qualsiasi presa di distanza critica. Dopo essersi già arruolati nella crociata antirussa sotto la bandiera a stelle e strisce e aver fallito nella loro missione di mobilitare le classi lavoratrici contro la guerra, si preparano a fare lo stesso cadendo nella rete dell’Union sacrée. Permettendo così all’estrema destra, d’un colpo solo, di monopolizzare il discorso contro la guerra, e offrendole un’altra opportunità di essere in consonanza con le preoccupazioni popolari e di aumentare il proprio pubblico e, cosa altrettanto disastrosa, permettendo al blocco politico-mediatico al potere di identificare come di estrema destra qualsiasi critica alle proprie posizioni. Peggio ancora, queste organizzazioni si impediscono di denunciare e lottare con le classi lavoratrici, non solo contro le molte forme di sfruttamento aggravato (in termini di salari e tasse, attraverso la crescita della disoccupazione e il deterioramento dei servizi pubblici, ecc.) per le quali queste minacce e necessità immaginarie serviranno come legittimazione “incontrovertibile”, ma anche di lottare contro il keynesismo militare, cioè un modo per rilanciare l’economia [attraverso la spesa bellica], e quindi di aumentare ulteriormente i profitti, senza aumentare la domanda di beni di consumo, a favore della sola domanda di beni distruttivi, finanziata da tasse e debito. Va da sé che di questo tipo di stimolo beneficeranno soprattutto gli Stati Uniti, il maggior esportatore mondiale di attrezzature e tecnologie militari, anche se alcuni Paesi europei possono sperare di approfittarne per aumentare la propria produzione e le proprie esportazioni (nell’ordine: Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Spagna). Blues in Kiev Ma le persone più da compatire sono ovviamente gli ucraini, gli unici che hanno dovuto entrare nella tana del leone. Sono quelli che hanno pagato il prezzo più alto, in termini di sfollamento ed esilio di massa della popolazione, di morti e distruzioni militari e civili, per il cinico gioco dell’Occidente, che ha fatto precipitare un conflitto che si è svolto sul loro territorio e in cui hanno occupato gli avamposti, presumibilmente per forzare la mano ai russi e indebolirli definitivamente. Senza dubbio hanno creduto, e credono tuttora, che questo fosse l’unico modo per difendere la loro sovranità e integrità territoriale, anche se era possibile un’altra strada, quella di un compromesso con la Russia, che avrebbe permesso loro di salvare l’essenziale sotto entrambi i punti di vista. Una strada che l’Occidente ha vietato loro di percorrere, sia prima che subito dopo il lancio dell’offensiva russa del 24 febbraio 2022: mentre alla fine di marzo era in vista un accordo russo-ucraino, è stato l’Occidente a decidere che gli ucraini dovevano abbandonarlo. E sono ancora questi ultimi che si preparano a pagare il prezzo più alto quando arriverà il momento, che non tarderà ad arrivare, di una pace forzata. D’ora in poi, la pace sarà firmata alle condizioni che i russi, vincitori sul campo, accetteranno o imporranno. Dopodiché, gli ucraini dovranno ancora pagare l’enorme debito di guerra accumulato e ricostruire il loro Paese, in parte devastato dalla guerra, con una popolazione che si è ridotta notevolmente (da 45 milioni nel 2013 a 33 milioni nel 2023). Rimuginando, nel frattempo, sull’amarezza della sconfitta e del tradimento, sulle cui ragioni avranno tutto il tempo di riflettere, ricordando il famoso monito: “Dio, proteggimi dai miei amici, che ai miei nemici ci penso io”. Il sangue freddo a Mosca La sobrietà delle ultime dichiarazioni di Mosca contrasta con i deliri megalomani di Washington, con la febbre angosciosa delle capitali europee e con l’ostinazione di Zelensky nel suo errore iniziale. Eppure la Russia avrebbe tutte le ragioni per pavoneggiarsi. Lungi dal crollare sotto l’impatto delle sanzioni commerciali e finanziarie attuate dagli occidentali, come questi ultimi avevano annunciato urbi et orbi, essendo riuscita a rimettersi in piedi dopo un inizio militare fallimentare e avendo dimostrato la solidità delle sue alleanze, in particolare con la Cina e l’Iran, al momento la Russia sembra essere la grande vincitrice di questo conflitto, a un passo dall’aver raggiunto gli obiettivi che si era prefissata. Senza dubbio sa anche che non basta vincere la guerra, deve vincere anche la pace. E per farlo, dovrà pagare il prezzo della sua vittoria. Tra questi, il fatto che l’odiata NATO, pur non riuscendo a stabilirsi in Ucraina, è ora presente lungo i 1.340 chilometri del confine comune con la Finlandia. A ciò si aggiungono i massicci programmi di riarmo che gli alleati europei della NATO (o ciò che ne rimane) stanno pianificando di intraprendere. Per non parlare dell’odio duraturo che avrà suscitato nella maggior parte della popolazione ucraina e in coloro che hanno sposato la sua causa. Se evitare l’instaurarsi di una nuova guerra fredda è nei piani russi, non c’è altra soluzione che proporre, come hanno continuato a fare dall’inizio della guerra in Ucraina, la convocazione di una conferenza di pace nel quadro dell’OSCE. Questo metterà a tacere ogni speculazione sulle loro mire espansioniste, mire di cui si faticherebbe a trovare tracce nella storia recente delle relazioni internazionali (quando mai la Russia ha intrapreso operazioni simili alla doppia invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan ?). Potranno sostenere di fronte ai nemici occidentali che non si sceglie il proprio nemico, ma è sempre con lui che si deve firmare la pace. E noi ? Di fronte alle politiche di riarmo a tutto vapore, a fronte del clima di guerra e di « vigilia di guerra » che coltivano i governi bellicisti europei con l’appoggio della grande maggioranza dei media, la sinistra, e in particolare la sinistra radicale, deve superare gli errori di ieri e dell’altro ieri. Si deve chiamare alla mobilitazione delle masse dappertutto in Europa per bloccare una politica che fa già dire a qualcuno che si deve scegliere fra «pensioni o munizioni » (w) e pavimenta la via di una possibile discesa negli abissi. Alain Bihr, Jean-Marie Heinrich Roland Pfefferkorn, Yannis Thanassekos (1) https://fr.statista.com/statistiques/688554/population-totale-ukaine/  (2) Dominique Seux, « Pensions ou munitions ? », Les Echos, 5 mars 2025.
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