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“Saluti dall’illegalità”. Sull’arresto di Daniela Klette, la clandestinità, la resistenza anticapitalista e tante altre cose
Pubblichiamo – ringraziando chi li ha tradotti dal tedesco – due contributi scritti dalla clandestinità. Il primo è di Burkhard Garweg (Martin), compagno di lotta di Daniela Kleppe, la militante della RAF arrestata l’anno scorso a Berlino dopo trent’anni di latitanza. Il secondo è degli “Antifa Ost” ricercati dalla polizia. Se quest’ultimo è un breve saluto, quella di Martin è una lunga riflessione in cui c’è tanto passato e tanto presente (la guerriglia degli anni Settanta-Ottanta, lo Stato biometrico, la guerra militare e quella psicologica, il genocidio a Gaza e il terrorismo di Stato, l’estrema destra e la finta opposizione socialdemocratica, il collasso ecologico e la resistenza, la molteplicità delle forme di lotta e la solidarietà che deve legarle…). Ad accumunarli è un tema ineludibile per chiunque voglia trasformare radicalmente questa società: come sottrarsi a un controllo sempre più totalitario? Al di là delle differenze di prospettiva, la forza, l’intensità e la chiarezza che emergono da queste parole proibite – che anche per questo diffondiamo – sono da esempio e da stimolo. Lunga vita agli uccelli di bosco! Legale? Illegale? Non ce ne importa! Guerra ai palazzi, pace alle capanne!  Questa la lettera di Burkhard Garweg, che il “Taz” ha ricevuto e ha corredato di commenti critici. Qui la versione in tedesco: https://de.indymedia.org/node/477999 Saluti dall’illegalità Alla famiglia, agli amici, ai compagni, agli alleati, agli abitanti delle wagenplatz. A tutti coloro che vogliono confrontarsi con il mio e il nostro punto di vista. Legale, illegale, chi se ne frega1. Il 26 febbraio di quest’anno Daniela Klette è stata arrestata a Berlino. I giornalisti, che volentieri hanno agito come agenti di polizia ausiliari e hanno contribuito a rinforzare lo Stato sempre più autoritario con la comunità statale e sociale di investigatori e informatori, hanno utilizzato l’intelligenza artificiale per rintracciare immagini di Daniela in internet. Il merito storico di questi informatori giornalistici da podcast sarà quello di aver fornito al momento giusto la prova della presunta necessità del controllo biometrico attraverso il riconoscimento facciale sulla strada di uno stato di controllo totalitario. Ingannare il pubblico La successiva caccia all’uomo da parte della polizia nei confronti di Volker Staub e miei è stata da allora caratterizzata da menzogne e campagne diffamatorie. La polizia e i media borghesi dicono che siamo criminali violenti o terroristi che non esiterebbero a uccidere per denaro. In maniera mediaticamente efficace, la casa in cui Daniela viveva è stata sgomberata, così come le case vicine, a causa di presunti esplosivi pericolosi. Sono iniziate misure di mobilitazione della popolazione per una caccia all’uomo e operazioni di guerra psicologica. Ora si sa che una granata e un bazooka ritrovati erano finti. La polizia doveva saperlo fin dall’inizio. L’intera azione, durata diversi giorni, è stata un’operazione per ingannare e manipolare l’opinione pubblica. La costante propaganda sulla nostra violenza e pericolosità, le perquisizioni in stile marziale di case e Wagenplätze, i veicoli blindati e i poliziotti armati di MP come se fosse scoppiata una guerra, i controlli e gli arresti con le immagini deliberatamente create non sono altro che l’affermazione della necessità della militarizzazione della polizia e una messa in scena per mobilitare la popolazione per una caccia all’uomo. Ma soprattutto, il loro obiettivo nel creare un’immagine di criminali violenti è quello di depoliticizzare e denunciare la storia dell’opposizione radicale – la storia del tentativo storico di contribuire alla liberazione dalle relazioni violente del capitalismo, emerso dalla resistenza del movimento del (19)68 e legato alle lotte rivoluzionarie e anticoloniali mondiali. 26 anni fa si è concluso il progetto di guerriglia urbana sotto la forma della RAF. Tuttavia, per noi che siamo stati perseguitati come militanti della RAF, la vita nell’illegalità non è finita: l’immagine che si cerca di creare di noi ci descrive come una banda di rapinatori violenti e predoni, pericolosi per la popolazione e pronti anche a uccidere – e solo per denaro. Per noi, invece, è fuori discussione usare la violenza contro le persone per denaro in una maniera che potrebbe ucciderle o ferirle fisicamente. I traumi subiti dai dipendenti degli uffici di cassa o delle società di trasporto di denaro contante sono da deplorare. Non c’è motivo di credere a nulla di ciò che dicono la polizia o gli apparati giudiziari, perché mirano a delegittimare l’opposizione radicale e a creare un clima in cui la violenza e la repressione dello Stato appaiano giustificate. “La violenza è il fondamento della società borghese: nella miseria del suo sistema penale, nei ghetti che stanno sotto la vita borghese di tutti i giorni, nella militarizzazione della “sicurezza interna”, nel suo rapporto di sfruttamento” (Peter Brückner 1976). La violenza di Stato colpisce molti – i poveri, gli sfruttati, gli emarginati. È diretta contro coloro che protestano o contro coloro che si oppongono a questo normale stato di cose e non lo accettano come un dato di fatto. Sono le persone che manifestano contro il genocidio a Gaza e contro un governo tedesco che fornisce le armi a questo scopo, e che vengono sottoposte a un mix autoritario e violento di manganelli della polizia, carcere, minacce della magistratura, minacce di deportazione, perdita del lavoro e sorveglianza dei servizi segreti, o le cui manifestazioni vengono vietate del tutto. Sono quelli che occupano le università e per questo vengono colpiti con la violenza della polizia. Quelli che hanno qualcosa da dire durante gli eventi sulla Palestina e a cui viene vietato l’ingresso nel Paese, o gli artisti, gli scrittori e gli accademici di tutto il mondo le cui mostre, conferenze o eventi vengono cancellati perché hanno un’opinione “sbagliata”. Sono gli attivisti ebrei che vengono bollati come antisemiti perché non sostengono la ragion di Stato tedesca e che quindi vengono maltrattati con questa forma di antisemitismo da chi è al potere. Sono le persone che in maniera organizzata si sono incollati all’asfalto [pratica di Letzte Generation, quella di incollarsi letteralmente i palmi delle mani alla strada] per manifestare contro la distruzione di ogni forma di vita su questo pianeta ad opera del capitalismo e che per questo vengono dichiarate terroriste o condannate al carcere. Sono coloro che vengono cacciati dai loro villaggi perché le compagnie energetiche vogliono trarre profitto dai combustibili fossili presenti in quei luoghi. Sono coloro che si oppongono a questo sovrasfruttamento da parte del capitalismo e alla conseguente distruzione del clima. Sono coloro che si oppongono alle ruspe delle imprese e che di conseguenza subiscono la violenza della polizia. Sono coloro che, di conseguenza, oggi sono costretti a fuggire a milioni dal Sud del mondo perché il sistema capitalista sta forzando il profitto delle multinazionali con i manganelli della polizia nelle metropoli, lasciando intere regioni del mondo devastate e inabitabili. Sono coloro che hanno riconosciuto che lo Stato ha usato il Covid come un’opportunità per far avanzare la formazione dello Stato autoritario e sono stati denunciati per questo. Sono coloro che lottano contro il fascismo e i nazisti nel movimento Antifa e per questo sono minacciati dalla polizia e dalla magistratura, si trovano nell’illegalità o rinchiusi nelle carceri. Sono i compagni e le compagne che si organizzano contro l’oppressione del popolo curdo, che si oppongono alla follia dello Stato Islamico, nato dalle guerre degli Stati occidentali, e che si battono per la liberazione dalle strutture patriarcali e per il confederalismo democratico in Kurdistan e vengono perseguitati come membri del PKK dalla magistratura tedesca e rinchiusi in carcere per anni. Sono quelli dei quali si dice si siano opposti al militarismo e al regime di deportazione razzista come K.O.M.I.T.E.E. e che per questo sono perseguitati dalla magistratura e costretti all’esilio da quasi 30 anni. Sono coloro che sono stati sgomberati a Berlino negli ultimi anni: Syndikat, Liebig 34, Meuterei, Potse-Drugstore, Köpi Wagenplatz. Terrore poliziesco e rimozione per far spazio al profitto di investitori criminali e contro l’utopia di una vita collettiva e solidale. Sono coloro che non possono più permettersi l’affitto dei loro appartamenti e per questo vengono sfrattati dalla polizia. Sono quelli che vengono sfollati ogni giorno perché in mezzo alla ricchezza devono vivere nelle tende o sotto i ponti. Sono quelli che sanno di avere tutto il diritto morale del mondo, in tempi in cui le masse non possono più permettersi gli affitti, di prendere semplicemente possesso delle case occupandole rigettando la legge della proprietà di pochi – ma che se lo facessero finirebbero nelle maglie della polizia e della giustizia. Sono le masse del lavoro precario. Quelli che devono vendere la loro manodopera a basso costo. Quelli che sono spremuti dalla mattina alla sera e il cui salario alla fine è appena sufficiente per vivere. Sono quelli che vengono rinchiusi in isolamento nelle carceri o nei reparti psichiatrici chiusi, anche se l’isolamento è vietato a livello internazionale come tortura bianca. Sono quelli che vengono minacciati quotidianamente dal razzismo della polizia tedesca o è Oury Jalloh, bruciato vivo nella stazione di polizia di Dessau, legato mani e piedi e senza la minima possibilità di movimento, perché nero. È l’adolescente disperato in fuga Mouhamed Dramé, morto trafitto da una pioggia di proiettili della polizia di Dortmund, pur non avendo rappresentato un pericolo per i suoi assassini nemmeno per un secondo. È Halim Dener, 16 anni, disarmato, ucciso da un agente di polizia che gli ha sparato alle spalle perché aveva affisso un manifesto per il movimento di liberazione curdo. Sono coloro che sono stati uccisi perché provenivano da famiglie di immigrati dai militanti dell’NSU2 – che lo ha fatto per anni indisturbati e liberi dalla persecuzione dello Stato, con legami comprovati con i servizi segreti tedeschi. Sono coloro che sono costretti a migrare a causa di guerre, distruzione del clima e povertà e che annegano a migliaia nel Mediterraneo, vengono respinti alle frontiere tedesche e dell’UE o finiscono nei centri di deportazione. Sono le migliaia di persone nell’ex Jugoslavia le cui vite sono state spazzate via dai cacciabombardieri della NATO, trasportati e ordinati dal governo tedesco con l’abusato grido di battaglia “Mai più Auschwitz”. Sono le 141 persone che sono state uccise a sangue freddo con le bombe della NATO in Afghanistan – su ordine del soldato tedesco della Bundeswehr Klein, che ha dato quest’ordine nonostante fosse stato precedentemente informato dall’esercito statunitense che le 141 persone erano civili, e che per questo è stato promosso a generale dal governo tedesco. Sono le decine di migliaia e più di persone che non ne possono più, che si rifugiano nella dipendenza da droghe pesanti o che preferiscono porre fine alla propria vita. Sono tutti coloro che si oppongono alla guerra, che si oppongono alla fascistizzazione e alla militarizzazione della normalità capitalista. Quelli che non vogliono semplicemente accettare tutto questo. Quelli che si ribellano. Quelli che non si rassegnano, ma si battono per un mondo liberato da ogni dominio senza un sopra e un sotto e senza la violenza della polizia e dei militari, che proteggono il sopra dal sotto. Sono le innumerevoli persone che sono perfettamente coscienti dei veri rapporti di violenza nel sistema capitalista. Tuttavia, sono gli apologeti del capitalismo che hanno un interesse comune, che non ci deve essere alternativa al capitalismo, che amano particolarmente parlare della presunta violenza di coloro che si ribellano ovunque nel mondo, il cui dolore e la cui rabbia diventano resistenza collettiva. Della loro violenza, quella strutturale e brutale del sistema capitalista, invece non parlano mai. È di questa violenza che si dovrebbe parlare. Violenza strutturale del capitalismo – autodifesa rivoluzionaria – liberazione Come parte della sinistra rivoluzionaria, eravamo – e dico: siamo – convinti che un sistema basato sulla violenza non abbia alcuna legittimazione e che il suo superamento in senso emancipatorio possa essere raggiunto. Aborriamo ogni forma di rapporto di violenza e desideriamo un mondo che non sia basato sulla violenza, sulla morte e sulla miseria. Un tempo ci proponevamo di contribuire a porre fine alla violenza del capitalismo, al dominio dell’uomo sull’uomo, allo sfruttamento, al militarismo e alla guerra e di trasformarlo in una realtà sociale diversa. Facevamo parte di tutti coloro che si sono ribellati nella storia delle lotte per l’emancipazione umana, la libertà e l’autodeterminazione. Siamo partiti da questa premessa: Chiunque sollevi la questione di una società senza violenza e non votata al profitto di pochi, alla divisione delle persone in bianchi e neri, ricchi e poveri o uomini e donne, deve inevitabilmente confrontarsi a un certo punto con la questione della violenza strutturale del sistema, del contro-movimento rivoluzionario e dell’autodifesa rivoluzionaria. Il comportamento marziale dell’apparato di sicurezza statale contro di noi nel contesto della crisi Il comportamento marziale contro di noi avviene nel contesto dell’attuale sviluppo sociale, in cui la questione di un’alternativa di sistema anticapitalista è particolarmente attuale. Qualsiasi pensiero e qualsiasi storia di opposizione fondamentale al sistema capitalista e imperialista deve essere screditato, perché il sistema capitalista è caduto in una crisi globale e multilivello. Le sue possibilità di crescita, che sono esistenzialmente necessarie per il capitalismo, stanno raggiungendo sempre più i loro limiti. Le conseguenze sono e continueranno ad aumentare in modo significativo: povertà, licenziamenti di massa nelle aziende e smantellamento dei programmi dello Stato sociale. A pagare la crisi non sono i primi diecimila, ma coloro che stanno in basso: gli anziani, le cui pensioni non bastano per vivere; coloro che dipendono dai sussidi sociali statali, per i quali l’aumento dei prezzi dei generi alimentari sta diventando un problema esistenziale; coloro che non potranno più permettersi il loro appartamento; coloro che hanno bisogno di lavori ancora più precari per sopravvivere; i disoccupati, che devono essere disciplinati con ogni nuovo inasprimento del sistema dei centri per l’impiego; i drogati, i giovani (soprattutto quelli delle zone più povere della città) o coloro che sono stati colpiti dalla violenza e molti altri i cui spazi dove avevano ricevuto sostegno o potevano incontrarsi sono stati chiusi. I politici e la polizia amano parlare dei clan di immigrati come se fossero un problema della società. Tuttavia, non parlano mai dei clan degli Hohenzollern o dei Quant, anche se con la loro immensa ricchezza simboleggiano la follia del capitalismo e sono corresponsabili di questa follia. Nel mondo, le 85 persone più ricche possiedono una ricchezza pari a quella dei 3,5 miliardi di persone più povere messe insieme. Paura, pressione e disciplina per l’obbedienza – giustizia di classe Parte della reazione di crisi statale autoritaria è che la magistratura sta condannando sempre più persone, poveri disgraziati finiscono spesso e volentieri in prigione, perché presumibilmente o effettivamente volevano prendersi una parte della torta. Dai tribunali vengono condannati coloro che presumibilmente o effettivamente ricevono qualche euro “ingiustamente” dal centro per l’impiego o coloro che gridano lo slogan “sbagliato” (secondo i padroni) alle manifestazioni. Invece i ricchi e i potenti, come i capitalisti, i miliardari e i politici coinvolti nell’affare Cum-Ex3, che hanno arraffato milioni , non vengono mai condannati. Lo Stato autoritario in crisi dà priorità alla militarizzazione interna – l’armamento della polizia e dei servizi segreti – e alla militarizzazione esterna. Ciò significa che enormi somme di denaro vengono convogliate nella polizia, nell’esercito, nell’industria delle armi e nelle guerre. Al contrario, sempre meno arrivano a chi è colpito dalla povertà o da qualsiasi tipo di bisogno: un gigantesco processo di ridistribuzione dal basso verso l’alto. La gestione della crisi da parte dei governanti mira a rivitalizzare la “comunità nazionale” e a “stringere la cinghia” per le masse. Sono queste le parole che usano per parlare dell’impoverimento e dell’erosione sociale che sono conseguenze delle loro politiche di dominio e della decimazione del diritto di asilo fino a quando non ne rimarrà quasi nulla o fino a quando avranno il diritto di vivere nelle metropoli solo coloro che possono essere utilizzati dal capitale. Due accoltellamenti – quelli di Solingen e di Mannheim – sono stati sufficienti a giustificare un rafforzamento globale della polizia, controlli alle frontiere, ulteriori passi avanti nel processo di abolizione del diritto d’asilo e deportazioni di massa. 360 femminicidi nel 2023, invece, non hanno spinto i potenti a fare nulla. La popolazione musulmana e i rifugiati sono oggi immagini nemiche volute e create dall’alto che ai fini essere utilizzate per costruire una “comunità nazionale”. Sostenendo che sono loro la causa dei problemi, chi è al potere divide e incanala il malcontento di ampie fasce della popolazione e nasconde il fatto che sono loro stessi e il capitalismo la causa dei problemi fondamentali. Queste immagini stereotipate del nemico contribuiscono a giustificare politiche autoritarie e repressive e a creare un ampio consenso intorno ad esse. Questo funziona particolarmente bene nei periodi in cui è assente una sinistra sociale rivoluzionaria e anticapitalista di rilievo. Il consenso della destra neofascista e dell’intero spettro borghese è evidente. I grandi problemi dell’umanità: la distruzione delle condizioni di vita ecologiche, il nazionalismo, la guerra e la povertà non possono oggettivamente essere risolti sotto il capitalismo. L’antifascismo è anticapitalista, o rimane inefficace. L’ascesa della destra radicale in tutta Europa è espressione della crisi del capitalismo in atto e crescente. I partiti di destra che si stanno integrando nelle élite al potere in un numero sempre maggiore di Paesi dell’UE – Italia, Paesi Bassi, Austria, Francia e a livello europeo – stanno radunando dietro di sé una parte di coloro che sono stati lasciati indietro o che temono il declino sociale con soluzioni fasulle che non mettono in discussione il capitalismo. Le élite europee e i partiti di destra hanno da tempo nel loro programma la stessa soluzione alla crisi: uno Stato autoritario contro coloro che non obbediscono, lo smantellamento dello Stato sociale, l’armamento massiccio e l’aumento della capacità di fare la guerra, l’armamento della polizia e l’espansione dei suoi poteri, il controllo della società da parte della polizia e dei servizi segreti, il nazionalismo, i migranti come capro espiatorio della crisi e le deportazioni di massa. Tutti i partiti della destra neofascista e del cosiddetto centro – dall’AFD ai Verdi – sono d’accordo su questo anche in Germania. È un’illusione sperare che il razzismo e la visione della “comunità nazionale tedesca” della destra neofascista possano essere contrastati in modo significativo con il razzismo e le simili visioni dello Stato borghese. Le visioni dell’AFD e di altri partiti di destra europei sono da tempo il consenso di chi è al potere e segnano il loro percorso verso il futuro. I grandi problemi dell’umanità – distruzione delle condizioni di vita ecologiche, guerra e povertà – non possono essere oggettivamente risolti all’interno del capitalismo. La crisi globale del presente è il catalizzatore di tutto questo e sta portando il mondo verso un possibile abisso militare, nucleare e climatico. La soluzione può essere cercata solo in un’organizzazione anticapitalista e libera dal dominio dell’umanità, liberata dalla costrizione alla crescita insita nel capitalismo. In questa prospettiva, la radicalizzazione dello Stato e della società che sta emergendo con la crisi può essere contrastata solo con la ricerca di modi per trovare un sistema alternativo. La questione sociale, la resistenza alla guerra e alla militarizzazione interna ed esterna, la resistenza alla distruzione ecologica del pianeta da parte del capitalismo e l’organizzazione di un internazionalismo solidale segnano necessariamente questo percorso insieme. Nella lotta dell’Occidente contro la minaccia di perdere l’egemonia globale, chi è al potere si affida alla militarizzazione e progetta una guerra di dimensioni pari alla terza guerra mondiale. Siamo arrivati nell’era dello Stato sempre più autoritario. Questa è senza dubbio una condizione sociale minacciosa. Ma parla anche a favore di un maggior grado di instabilità del capitalismo. Nella sua avidità di profitto, ha bisogno delle possibilità di accumulazione, che stanno diventando sempre più difficili da realizzare. Passa da una crisi all’altra. È l’epoca delle guerre, degli sconvolgimenti sociali e della riflessione reazionaria sul popolo e sulla nazione. Ma suggerisce anche che le cose potrebbero sfuggire di mano a chi è al potere e si pone la domanda: cosa fare? Si svilupperanno in futuro lotte di classe che mettano in discussione e combattano le relazioni di sfruttamento e oppressione nei processi collettivi? In un’epoca di erosione sociale ed economica, di crescente rinegoziazione militare del potere e di irreversibile distruzione ecologica del pianeta, le domande su come si possa realizzare una trasformazione sociale sono più che mai esistenziali e attuali. Il cerchio si chiude I concetti rivoluzionari della storia non hanno potuto fornire le risposte al superamento del capitalismo. Tuttavia, ci troviamo fondamentalmente di fronte alle stesse domande in condizioni mutate. Lo Stato si concentra sulla divisione Illegalità, solidarietà e “terroristi” Abbiamo incontrato molte persone in decenni di illegalità. Amici, alleati, vicini di casa, i miei coinquilini e molti altri. Ho vissuto per molti anni con persone che non sapevano da quale storia provenissi. Come clandestino, non è possibile parlare della propria illegalità. Vi prego di perdonarmi per questo. Con la fine di questo periodo insieme è arrivata la repressione per loro. Perquisizioni domiciliari e in Wagenplätze: simulazioni di guerra locali – qualcosa che non ho mai voluto, ma che alla fine non ho potuto evitare. Le lotte rivoluzionarie ed emancipatorie sono seguite dalla repressione – e così sarà finché la lotta per l’emancipazione non trionferà sull’ingiustizia. Siamo parte della storia delle ribellioni mondiali che sono in corso da quando esistono la dominazione e gli schiavi. Esistono da quando il patriarcato, il capitalismo e il colonialismo sono il male dell’umanità. Da questa prospettiva, la responsabilità della repressione è dei governanti e di nessun altro; la repressione è uno strumento di dominio. Dal mio punto di vista – e dal nostro punto di vista – c’è solo una risposta: la solidarietà. Unitevi contro la repressione di oggi contro Daniela! Create (contro)informazione pubblica! Mostrate solidarietà! Siamo come eravamo e siamo come molti ci hanno conosciuto durante il lungo periodo di illegalità. Le riflessioni sulle relazioni di violenza – violenza patriarcale, povertà e razzismo – fanno parte – come molte altre cose – degli incontri e delle amicizie con le persone durante questo periodo e fanno parte della mia e della nostra vita. Molto di ciò che abbiamo fatto con altri nei decenni della nostra illegalità, le strade che abbiamo percorso insieme, raccontano la ricerca di una realtà solidale ed emancipatrice al di là delle relazioni capitalistiche di violenza. Il legame con le altre persone in questo periodo è lo specchio della nostra realtà, di come e chi siamo. Nella storiografia di chi è al potere, la resistenza fondamentale al sistema capitalista è descritta come crimine, violenza e terrore. L’immagine creata mira a sostituire la realtà e a nascondere il fatto che è la violenza strutturale del sistema il grande problema dell’umanità. L’immagine fabbricata del “terrorista” ha lo scopo di depoliticizzare la storia della resistenza contro le relazioni capitalistiche di violenza, di dividere, di oscurare il fatto che la violenza di Stato e le relazioni violente del sistema capitalistico sono in realtà solo terrore per molte persone nel mondo. “Pace alle capanne! Guerra ai palazzi!” (Georg Büchner – 1834) Chiunque passi dalla protesta alla resistenza può essere definito un “terrorista”. Le innumerevoli storie di ribellioni e di resistenza lo dimostrano: Klaus Störtebecker, Thomas Müntzer, Georg Büchner; il rivoluzionario sociale, anarchico e insorto contro il reazionario Impero tedesco August Reinsdorf, giustiziato nel 1885; il comunista conciliare, critico del KPD, attivista del Rote Hilfe (organizzazione che fornisce supporto legale ed economico a militanti colpiti da repressione) , autore del primo concetto di guerriglia urbana e militante delle rivolte operaie degli anni Venti Karl Plättner; Olga Benario, Georg Elser, Phoolan Devi, Durruti, Che Guevara, Angela Davis, Ulrike Meinhof, Sigurd Debus, Patrice Lumumba, Nelson Mandela, Assata Shakur, Sakine Cansiz, Mumia Abu Jamal. Che si tratti della Comune di Parigi o dei Giacobini Neri – il popolo schiavizzato dal colonialismo europeo che ha combattuto per la liberazione nell’odierna Haiti nella rivoluzione anticoloniale dal 1791 in poi; che si tratti dei partigiani in molti Paesi europei contro il nazifascismo o degli anarchici della CNT in Spagna contro la dittatura militare, che si tratti della lotta rivoluzionaria delle Pantere Nere, del Movimento del 2 giugno, delle Rote Zora o della resistenza dell’ANC contro l’apartheid – sono stati tutti “terroristi” secondo la propaganda di chi è al potere. Il terrore non ha nulla a che fare con noi, ma molto con i governanti e il sistema capitalista. Il termine terrore non ha nulla a che vedere con la controviolenza rivoluzionaria, che è l’autodifesa rivoluzionaria dei movimenti emancipatori della storia, diretta esclusivamente e specificamente contro i governanti. Il terrore descrive la violenza indiscriminata per imporre il dominio o garantirlo. Il termine “terrorista” nella società borghese assumerebbe, tra l’altro, un significato reale come auto-incriminazione e descrizione di coloro che detengono il potere e sarebbe quindi un termine significativo invece di una frase manipolatoria. Oggi il termine “terrorista” è soprattutto uno strumento di dominio. Lo sfruttamento, la repressione, il regime di Frontex, la giustizia di classe e il sistema carcerario; la fame, le guerre, i colpi di stato e le dittature militari sotto la direzione dei centri capitalistici e con la responsabilità storica di ogni governo federale tedesco: i milioni di morti non si contano più – il terrore non ha nulla a che fare con noi, ma molto con loro e il loro sistema. La solidarietà non ha limiti In una situazione di debolezza, ha significato molto e ci ha dato coraggio la manifestazione di solidarietà a marzo a Berlino per la libertà di Daniela e la solidarietà con noi in situazione di illegalita, contro le perquisizioni a Wagenplätze e abitazioni, contro l’agitazione e tutto il terrore di Stato; i presidi di solidarietà al carcere di Vechta, gli slogan sul muro e le manifestazioni di solidarietà in vari Paesi europei. Per più di tre decenni siamo stati in grado di organizzarci collettivamente al di fuori dei percorsi tracciati dalla società borghese, che non aveva in programma per noi altro che l’incarcerazione o la fucilazione. Siamo riusciti a trovare il modo di condurre una vita in cui, attraverso tutti gli alti e bassi, potesse emergere una realtà sociale diversa dalla normalità capitalista di alienazione, isolamento e sfruttamento. Nessuno può toglierci questo. Rimarrà parte della storiografia dal basso. Solidarietà tra noi – con chi si è ribellato, si sta ribellando o si ribellerà a questo sistema ieri, oggi o domani Daniela – rinchiusa in una cella di prigione giorno dopo giorno. E questo nonostante la assurda realtà dei rapporti dimostri che possono avere alcune leggi dalla loro parte, ma la legittimazione, quella non ce l’hanno. I tentativi storici di innumerevoli persone, nel corso di molti secoli, di superare queste condizioni – contro la violenza di coloro che vogliono che tutto rimanga com’è, che dichiarano sbagliata l’emancipazione e la liberazione umana e giusta l’ingiustizia – erano e sono del tutto legittimi. La magistratura dello Stato successore del nazismo, che non ha quasi mai condannato i nazisti per nazifascismo, sta ora pianificando anni di processi-farsa contro Daniela, in cui sarà condannata come rappresentante della storia dell’opposizione fondamentale e rinchiusa in carcere per molti anni. Lo Stato punta sulla deterrenza, prendendo di mira non solo Daniela ma tutti coloro che non si adeguano, che non accettano che l’umanità non ha alternative al capitalismo e quindi alla distruzione del pianeta. Una farsa che riguarda tutti coloro – indipendentemente dalla loro storia e dal loro punto di vista – per i quali il capitalismo non deve rimanere l’ultima parola della storia. Solidarizzatevi! Rendere possibile l’impossibile, come diceva Che Guevara, ha un significato esistenziale per l’umanità di oggi: imparare a ripensare l’alternativa sistemica in processi collettivi contro gli abissi della “svolta di un’epoca” e lottare per essa collettivamente e a livello internazionale; rompere la logica di chi ha il potere secondo cui non c’è alternativa al capitalismo – “non c’è alternativa” – in noi e in tutte le relazioni. La finestra storica del cambiamento epocale – l’erosione sistemica e sociale del capitalismo – si sta attualmente aprendo sempre di più. Una nuova era di barbarie è in agguato nella continua escalation dei rapporti. Solo le lotte di un contromovimento sociale rivoluzionario potrebbero fornire un’alternativa. “Socialismo o barbarie” – come aveva pronosticato Rosa Luxemburg nel 1919, prevedendo così con precisione la realtà storica: dopo la Prima guerra mondiale e la crisi economica mondiale dell’epoca, si è aperta la finestra dell’erosione del capitalismo e della rivoluzione. Dal 1918 al 1923, il movimento operaio, le femministe rivoluzionarie, gli anarchici e i comunisti tedeschi tentarono di portare avanti la rivoluzione socialista. Allo stesso tempo, gran parte dell’umanità si sollevò in rivolte nei cinque continenti. In Germania, il tentativo del movimento operaio insurrezionale di superare il capitalismo fallì. Sarebbe stato l’unico modo per evitare la successiva epoca di barbarie. Il tentativo di rivoluzione socialista fu stroncato e rimase il capitalismo, che in Germania prese la forma del nazifascismo e culminò nella Seconda guerra mondiale e ad Auschwitz. Con l’odierna profonda crisi del capitalismo e i cambiamenti epocali in atto a livello mondiale, il momento storico dell’“o l’uno o l’altro”, “socialismo o barbarie”, potrebbe ripresentarsi con una chiara tendenza e una velocità crescente. La fissazione sui partiti borghesi-fascisti-capitalisti non potrà impedire lo sviluppo dello Stato tedesco in crisi e dell’UE verso un crescente autoritarismo e la guerra. Non c’è nulla da salvare. Solo un’abolizione del capitalismo combattuta dal basso nel processo di trasformazione potrà porre fine a questo sviluppo. Oggi, l’alternativa social-rivoluzionaria alla progressiva fascistizzazione del sistema capitalista, alla diffusione della povertà anche nelle metropoli, all’imminente guerra globale e alla distruzione ecologica del pianeta sarebbe un socialismo che impari dagli errori della storia e che offra quindi la possibilità di costruire una società liberata – per un mondo di collettività, di libertà dal patriarcato, dallo sfruttamento, dal dominio e dalla nazione, nonché per la sopravvivenza della natura. Questo mondo non sarà possibile senza un movimento militante, creativo e diversificato che sia presente nella crisi crescente e nelle lotte sociali del futuro in rapida crescita. Questo sarebbe la ricostruzione della capacità d’azione di una sinistra anticapitalista, socialrivoluzionaria e internazionalista che lavora oltre i propri confini. La fine del sonno della Bella Addormentata: è tempo – è tempo – di muoversi. Solidarietà a Daniela! Solidarietà ai compagni in esilio, a tutti i clandestini e ai prigionieri delle lotte degli Antifa, della resistenza, dei compagni curdi e turchi, del movimento per il clima e di tutte le altre lotte emancipatrici nel mondo! La richiesta di rilascio immediato di Daniela è giustificata. Martin (Burkhard Garweg) 1Gioco di parole in tedesco: “scheißegal” significa “qualsiasi cosa”, “è lo stesso”, “chi se ne frega”, da cui l’incipit del testo: “Legal, illegal, scheißegal” 2Nationalsozialistischer Untergrund, Clandestinità Nazionalsocialista, gruppo neonazista tedesco attivo dal 1997 al 2011 e responsabile degli omicidi di 9 immigrati e 1 poliziotto, una bomba in un quartiere popolare di Colonia che ferì 22 persone e 15 rapine. 3Frode internazionale sui dividendi azionari da parte di banche, studi legali e agenti di borsa. Scoperta nel 2018 in seguito all’inchiesta di diverse testate giornalistiche, durava da vent’anni e pare abbia portato all’appropriazione indebita di circa 150 milioni di euro. Saluti di alcuni dei clandestini per oggi 20 gennaio 2025 Cari amici e amiche che ora siete dietro le sbarre, vi salutiamo e vi auguriamo tutta la forza per il cammino che avete davanti. Anche se vi attende un periodo dietro mura grigie e fredde sbarre, anche questo tempo passerà e noi vi aspetteremo qui fuori. Tenete nel cuore il vostro desiderio di libertà e sappiate che nei pensieri sarete sempre con noi. Cari compagni e compagne che in questo momento siete ovunque in solidarietà per le strade, vi siamo grati per la vostra solidarietà e vi auguriamo ogni successo in tutte le vostre attività! Ci opponiamo risolutamente a qualsiasi tentativo di divisione tra la scelta autodeterminata di costituirsi e la permanenza in clandestinità. I compagni e le compagne che si sono costituiti oggi negli ultimi due anni hanno dimostrato che è possibile resistere/sfuggire alle autorità repressive dello Stato. Soprattutto di fronte alla repressione crescente, le esperienze degli ultimi due anni sono preziose per noi come movimento. Possiamo costruire su questo e espandere la vita in clandestinità. Per questo il momento di costituirsi volontariamente non deve essere visto come una sconfitta. Oltre alla realtà che è possibile eludere le autorità repressive, dobbiamo anche occuparci di far parte delle lotte politiche e quindi di passare dal “solo” fatto di eludere la repressione al diventare “agenti” attivi. Questo è un compito che dobbiamo affrontare come movimento nel suo complesso. A causa dello spostamento della società verso destra, delle guerre e dei tagli sociali – in breve, un’intensificazione della crisi del capitalismo – la lotta di classe diventerà più profonda e quindi la repressione si intensificherà ulteriormente. Ciò significa che la clandestinità sarà sempre più presente nella discussione della sinistra rivoluzionaria. I compagni e le compagne hanno dato un prezioso contributo in tal senso, di cui faremo tesoro. Lo consideriamo il nostro compito e ci assumiamo questa responsabilità nei confronti dei compagni e delle compagne in carcere. Vi auguriamo tanta forza e perseveranza. Ci rivedremo in libertà! Per concludere citiamo i nostri amici che si sono costituiti oggi: “Siamo qui oggi per la libertà e la vita, per un mondo senza fascismo e oppressione. Se la gente vuole toglierci la libertà per questo, lasciamo che lo facciano. La storia ci assolverà!”.
February 14, 2025 / il Rovescio
Automazione e resistenza operaia. Da Prato ai porti degli Stati Uniti
Pubblichiamo due testi diversi tra loro – per provenienza e per intenti – ma legati dal tema dell’automazione. Il primo descrive – dal punto di vista delle lotte – ciò che avviene nell’ambito del lavoro tessile nel pratese, dove i processi di automazione della produzione non hanno affatto superato condizioni e ritmi semi-schiavistici, procedendo in realtà gli uni al fianco degli altri. I miglioramenti per le lavoratrici e i lavoratori sono stati conquistati con lotte molto dure – che hanno dovuto scontrarsi con i padroni singoli e associati, con il razzismo istituzionale e i suoi ricatti, con la polizia di Stato e anche quella privata, con le menzogne mediatiche e i contro-picchetti di impiegati e quadri aziendali.  Il secondo testo è uscito invece sul “Financial Times” e riguarda l’imponente sciopero che ha coinvolto nell’ottobre scorso i porti della costa orientale degli Stati Uniti. Se le conquiste in termini salariali appaiono, viste dall’Italia, decisamente significative, il punto centrale è un altro. Si tratta di uno dei primi scioperi dichiaratamente contro l’introduzione delle gru semi-automatiche guidate da remoto, il cui impiego – per il momento respinto – falcidierebbe il numero degli operai. Se nella critica radicale del tecno-capitalismo manca spesso un punto di vista di classe – dimenticando in questo la necessità di attualizzare la lezione dell’insurrezione luddista -, nelle lotte in ambito salariale manca drammaticamente un dibattito aperto sull’impatto delle nuove tecnologie e del loro motore: l’intelligenza artificiale. Diciamo drammaticamente, perché l’attacco padronale e statale contro i facchini della logistica, per esempio, troverà presto come grimaldello l’armamentario forgiato sul modello Amazon (intreccio di automazione e di management di stampo militare).  Uno dei pochi, nei decenni scorsi, a tenere insieme critica radicale del complesso scientifico-militar-industriale e resistenza operaia era stato David F. Noble. Qualche spunto lo potete trovare qui: https://ilrovescio.info/2024/04/02/luci-da-dietro-la-scena-xix-contro-i-militari-contro-i-tecnici-non-vogliamo-essere-rinchiusi-nei-ghetti-dei-programmi-e-degli-schemi/    Come salariati, come umani, come viventi – fermiamo il Leviatano algoritmico! ALDO DICE 8×5. L’INNOVAZIONE NON PORTA NUOVI DIRITTI Era settembre del 2021 quando, già da otto mesi, picchettavamo insieme agli operai davanti ai cancelli della Texprint, stamperia tessile situata nel cuore del distretto pratese della moda. Si lottava, come spesso in questo distretto, contro il super-sfruttamento fatto di una giornata lavorativa di dodici ore e una settimana che non conosce giornate di riposo. Per salvare la sua immagine, Textprint aveva deciso di affidarsi a una prestigiosa agenzia di comunicazione milanese per portare avanti una campagna antisciopero. Per primi sono arrivati i flash mob di impiegati e quadri aziendali davanti al Palazzo di giustizia e alle principali istituzioni cittadine con i loro immancabili striscioni: «Abbiamo diritto a lavorare!», «Non è sciopero, è violenza». Per raggiungere l’obiettivo di delegittimare il picchetto che aveva paralizzato la produzione, però, bisognava soprattutto screditare gli scioperanti e negare ogni forma di sfruttamento in fabbrica. La stampa e i media sono stati quindi invitati dall’azienda a fare un giro dello stabilimento. Una sorta di “visita guidata” in fabbrica alla scoperta del ciclo produttivo e dei macchinari per mostrare che la Texprint aveva investito milioni di euro in impianti di produzione più che all’avanguardia, raggiungendo capacità di stampa e livelli di automazione del processo che gli avevano permesso di elevarsi al secondo posto in Europa. Insomma, era lì – nel macchinario, nella tecnologia – la prova dell’inesistenza dello sfruttamento. Il senso del messaggio che il management della Textprint teneva assolutamente a comunicare è che lo sfruttamento è un fatto “antico”, superato dallo stesso progresso capitalistico. Un “residuo” dello sviluppo che si annida dove il macchinario – e quindi il capitale – non ha ancora “salvato” l’operaio. Così dice l’ideologia del padrone. Presto mi sono accorto che questa ideologia aveva anche una sua rappresentazione grafica. Ho iniziato a notare che i rari articoli della stampa mainstream sullo sfruttamento nel distretto pratese erano sempre associati a una foto di operai e operaie accanto a una “primitiva” macchina per cucire. Come se quegli stessi articoli non si riferissero anche e soprattutto a stabilimenti di stamperia, tintoria, tessitura, orditura e rifinizioni all’avanguardia, in cui regnano macchinari industriali di una certa importanza in termini di capitali investiti e livelli di automazione. No, c’era sempre quella vecchia macchina, come a ribadire il falso postulato per cui lo sfruttamento è un fenomeno marginale che si annida esclusivamente in alcuni segmenti del ciclo produttivo dove è scarso o difficile l’investimento in capitale fisso per l’automazione. Poco a poco, però, le immagini dei picchetti hanno preso il posto di quelle della macchina per cucire. Alla Textprint lo sciopero è durato 264 giorni e si è chiuso con una vittoria operaia. Una piccola epopea della nuova classe operaia multinazionale destinata a lasciare il segno e aprire una lunga serie di scioperi che continua ancora oggi. Sei anni di militanza sindacale ci hanno permesso poi di vedere nello specifico altri casi in cui l’innovazione tecnologica avanza di qualche passo e modifica alcuni cicli produttivi e modi di lavorare. Uno di questi è la Gruccia Creations, fabbrica di grucce che insieme ad altre rifornisce i “pronto moda” del distretto. Nel 2019, quando abbiamo incontrato per la prima volta gli operai dell’azienda, una delle mansioni in fabbrica era inserire il gancio metallico sul corpo della gruccia in plastica. L’operazione veniva svolta manualmente appoggiando il gancio a una macchina che istantaneamente rendeva la punta incandescente. Il gancio veniva poi inserito – sempre manualmente – sul corpo di plastica. Questa operazione costava a chi la eseguiva scintille incandescenti negli occhi e non solo. Tre anni dopo quella maledetta mansione era sparita. Erano arrivati in tutte le fabbriche nuovi macchinari che avevano automatizzato l’inserimento del gancio nel corpo di plastica. “Benevolenza” della tecnologia? In realtà i benefici del suo sviluppo per parte operaia era stati poco più che “incidenti”. Non era stata infatti la volontà di proteggere gli occhi degli operai a portare innovazione alla Gruccia Creations, ma la possibilità di abbattere i costi di produzione riducendo forza lavoro e tempi di lavorazione. Col nuovo macchinario, a parità di produzione, gli addetti erano diminuiti e agli operai rimasti continuavano a essere imposti i turni di dodici ore al giorno, dal lunedì alla domenica. Anche in questo caso per mettere un freno allo sfruttamento sono serviti i picchetti, le tende e i fuochi di notte davanti ai cancelli. Lo stesso anno dell’arrivo dei nuovi macchinari scoppiava infatti lo “sciopero delle grucce”. Uno sciopero partito dall’hub logistico che si occupava della distribuzione delle grucce ai “pronto moda” che si è allargato a tre fabbriche della produzione, tra cui appunto la Gruccia Creation. Dopo venti giorni di picchetti, lo sciopero ha vinto. L’esempio del distretto pratese ci mostra che, al contrario di quanto afferma il discorso del padrone sull’automazione, lo sviluppo del macchinario e della tecnologia organizzativa coesiste con le più brutali forme di sfruttamento, a partire dall’allungamento oltre misura della giornata (e della settimana) lavorativa. Per il capitale, plusvalore relativo e plusvalore assoluto non sono due strade alternative nella ricerca del massimo profitto. Anzi, il capitalista le persegue volentieri entrambe e, contemporaneamente, combina innovazione e intensificazione massima dello sfruttamento. Già Marx riassumeva «tutta la storia dell’industria moderna» in questi termini: «il capitale, se non gli vengono posti dei freni, lavora senza scrupoli e senza misericordia per precipitare tutta la classe operaia a questo livello della più profonda degradazione»[1]. Il «livello di degradazione» di questa classe operaia multinazionale impiegata nel distretto pratese si misura in un minimo di ottantaquattro ore di lavoro alla settimana. La “misericordia” padronale è limitata a dai tre ai cinque giorni di riposo l’anno (spesso in realtà obbligati dall’interruzione dei cicli produttivi in agosto). È così che le grandi multinazionali del lusso garantiscono margini altissimi ai propri azionisti. I marchi del Made in italy, con sede legale nelle grandi capitali finanziarie europee, subappaltano a società di comodo la produzione portata avanti a Prato da forza lavoro immigrata, contando sul fatto che le condizioni strutturali (dai permessi di soggiorno fino all’impresa di dover sostenere la riproduzione in patria di un’intera famiglia) porteranno questi operai ad accettare condizioni di lavoro durissime. A mettere un freno, oggi come ieri, sono arrivati gli scioperi, i picchetti e gli accampamenti davanti ai cancelli degli stabilimenti. E tutti i loro annessi e connessi: le casse di resistenza e l’autodifesa dalle squadracce mafiose assoldate dai padroni, le scuole sindacali e la quotidiana costruzione di comunità solidali. Il distretto pratese, insomma, non è una “scheggia del passato”, non è un angolo di eccezione nel cuore dell’Italia, ma il nodo europeo – estremamente contemporaneo – di una catena globale di produzione dell’abbigliamento. Catena globale ad alta tecnologia organizzativa just-in-time, orientata la massimo risparmio di costo – dalla produzione del tessuto in Cina alla produzione dell’abbigliamento in Europa – e costretta a rilocalizzare in prossimità dei mercati di sbocco alcune fasi di lavorazione che non possono essere eseguite a lunga distanza senza dover rinunciare a un efficace sincronizzazione tra mercato e produzione. Con la possibilità di intercettare i flussi migratori. E con l’aggiunta di poterci pure scrivere sopra Made In Italy. Non un nuovo macchinario, ma il ritorno della lotta di classe fatta “dalla nostra parte” ha permesso in questi ultimi anni a centinaia di operai di uscire dalla più profonda degradazione in cui il capitale li aveva fatti sprofondare riducendo le loro stesse vite a macchine per il profitto altri. “Otto per cinque” – che è lo slogan e allo stesso tempo la piattaforma del nuovo movimento operaio del distretto pratese – vuol dire proprio questo: la lotta per la possibilità di esistere e riprodursi come persona e non solo come operaio, non solo come parte del capitale. Se è vera la tesi dei vecchi operaisti per cui la lotta di classe è motore dell’innovazione ed anche dello sviluppo della tecnologia del macchinario, è altrettanto vero che quest’ultima, senza la prima, non ci regala niente. I diritti conquistati costringono all’innovazione. Ma l’innovazione non porta nuovi diritti. Il caso Prato ci mostra che dai garage con le macchine per cucire fino ai milionari impianti industriali ad alta tecnologia, in una stessa filiera produttiva differenti livelli di sviluppo tecnologico sono uniti da uguali livelli di sfruttamento. Luca Toscano -------------------------------------------------------------------------------- [1] K. Marx, Salario, prezzo e profitto, Mosca, Ed. lingue estere, 1949, 1a ed. 1865, disponibile su https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1865/salpp.htm. LA LOTTA CONTRO I ROBOT CHE MINACCIANO I POSTI DI LAVORO AMERICANI Il recente sciopero dei portuali americani ha portato spettacolari aumenti salariali ma anche fatto emergere un conflitto permanente: la lotta dei lavoratori organizzati contro l’incedere di AI e robotica. Queste ultime, se non contrastate da un soggetto collettivo, evolvono secondo caratteristiche destinate o a peggiorare le condizioni di lavoro o, semplicemente, a spazzare via i lavoratori. Stavolta i lavoratori USA hanno vinto, sfruttando la condizione strategica dei loro porti nel sistema commercio internazionale degli Stati Uniti, ma non c’è da dubitare che la questione AI-Robotica nel settore portuale americano è destinata a riproporsi. Del resto il presente e il futuro prossimo del lavoro sono questi: la flessibilità umana è ineliminabile per produrre valore, e profitto, mentre la tecnologia assedia la flessibilità umana per ridurne i costi. La risposta dei lavoratori in questo caso c’è stata, ed ha fruttato sul piano salariale, ma va considerato che la ricerca e l’innovazione, tramite AI e robotica, innovano velocemente, anche se non senza incontrare criticità, nella automazione delle operazioni portuali, nel monitoraggio e nella manutenzione predittiva, in sicurezza e protezione, nella riduzione dell’impatto ambientale e nella ottimizzazione della logistica e della catena di approvvigionamento. Qui bisogna ricordare che, all’epoca della formazione della classe operaia, i luddisti non erano – come a suo tempo ha ricostruito magistralmente Edward Thompson –  proletari disorganizzati che odiavano le macchine e che si muovevano estemporaneamente, ma operai specializzati, organizzati, e con forte radicamento sociale, sotto attacco del gigantismo macchinico dell’automazione capitalistica. Non deve stupire quindi che la reazione all’automazione negli USA sia venuta da sindacati organizzati e con attorno un reale consenso sociale. La vicenda dello sciopero dei portuali americani rappresenta una delle prime grandi battaglie sindacali contro l’automazione capitalistica e l’intelligenza artificiale, un tema che diventerà sempre più rilevante in molti settori e, si spera, in molti paesi. Pubblichiamo la traduzione di un articolo del Financial Times dedicato alla vicenda. (redazione di codice-rosso.net) ***** Quando circa 25.000 membri dell’International Longshoremen’s Association (ILA) sono entrati in sciopero lo scorso ottobre, bloccando tre dozzine di porti  sulle coste est e del Golfo degli Stati Uniti, si è diffuso un allarme generale. Alcune previsioni indicavano che, poiché questi porti gestiscono un quarto del commercio internazionale del paese, lo stop avrebbe potuto costare all’economia americana fino a 4,5 miliardi di dollari al giorno, riaccendere l’inflazione e innescare effetti a catena che si sarebbero sentiti in tutto il mondo. In realtà, il panico è durato solo 72 ore. A seguito di negoziati frettolosi e dell’offerta di un aumento salariale di quasi il 62% in sei anni, i portuali hanno accettato di tornare al lavoro, anche se temporaneamente – forse “i tre giorni più redditizi nella storia dei rapporti tra lavoro e dirigenza”, secondo le parole di Patrick L. Anderson, CEO della società di consulenza aziendale Anderson Economic Group. Ma per certi versi la battaglia è solo all’inizio. Sebbene sia stato l’aumento salariale ad attirare l’attenzione dei media, il vero problema del sindacato è l’automazione, in particolare le proposte della United States Maritime Alliance (USMX), che rappresenta gli operatori portuali e i vettori di container, di dotare più porti statunitensi di gru semi-automatiche. Queste gru sono dotate di una tecnologia avanzata che le rende più veloci ed efficienti da utilizzare, affermano i proprietari. Ma l’ILA sostiene che la loro introduzione minaccia i mezzi di sussistenza dei suoi membri. A meno che USMX non accetti un divieto totale sui macchinari automatizzati, il sindacato ha minacciato di scioperare di nuovo già la prossima settimana. “Accogliamo le tecnologie che migliorano la sicurezza e l’efficienza”, ha affermato in una dichiarazione il pittoresco presidente dell’ILA, Harold Daggett. “Ma solo quando un essere umano rimane al timone”. La controversia ha attirato l’attenzione non solo per il suo enorme impatto potenziale, ma perché è una delle prime nel suo genere. Man mano che sempre più aziende sperimentano la robotica di nuova generazione, i sindacati statunitensi che rappresentano settori diversi come gli autisti UPS, i lavoratori dei casinò di Las Vegas e i dipendenti dei negozi di alimentari stanno lottando affinché vengano aggiunte clausole ai contratti che si concentrano sul mantenimento dei posti di lavoro e sul risarcimento dei lavoratori sfollati in caso di automazione. Quelle che in precedenza erano trattative ordinarie su retribuzioni e condizioni di lavoro si sono trasformate in controversie più ampie e persino esistenziali sul rapporto tra uomo e macchina. Circa il 70% dei 12 milioni di persone rappresentate dall’American Federation of Labor and Congress of Industrial Organizations ora teme di essere sostituito dalla tecnologia, stima la presidente dell’AFL-CIO Liz Shuler: “I lavoratori sono stufi di come sono stati trattati per molto tempo e sono spaventati di ciò che il futuro potrebbe riservare”. Qualunque sia il contratto che i portuali negoziano, dicono gli analisti, questo potrebbe aiutare a fornire un modello per gli accordi a livello nazionale. “Quello che vedi in atto è il lavoro che lotta per avere un posto al tavolo”, afferma Robert Bruno, professore di lavoro all’Università dell’Illinois Urbana-Champaign. Gli investitori statunitensi hanno accumulato oltre 15 miliardi di dollari in startup di robotica dal 2019, secondo PitchBook, e la notevole crescita dell’intelligenza artificiale negli ultimi 18 mesi ha iniziato a dare i suoi frutti. I lavori che sembravano poter essere svolti solo dalle persone improvvisamente sono messi a rischio; gli economisti hanno messo in guardia da cambiamenti troppo dirompenti nella forza lavoro anche se le macchine sono in grado di fare sempre di più. Ad aumentare la pressione in economie come quella degli Stati Uniti, affermano gli imprenditori, è la lenta crescita della forza lavoro, che rende sempre più difficile reclutare lavoratori. I piani del presidente eletto per le espulsioni di massa – ha detto alla NBC News il mese scorso che intende espellere tutti gli 11 milioni di persone stimate negli Stati Uniti illegalmente nei prossimi quattro anni – probabilmente intensificheranno solo tali preoccupazioni. La nuova amministrazione (Trump) può vantare sia il sostegno di alcuni sindacati, compresi i Longshoremen (portuali), sia quello della Silicon Valley, mentre gli scioperi contro i robot diventeranno un punto critico proprio in questo schema del consenso. Elon Musk è un appassionato a tutti gli effetti della tecnologia, parla di automatizzare completamente le fabbriche Tesla ed è desideroso di sviluppare un robot umanoide sviluppato da Tesla chiamato Optimus. Ma, il presidente eletto, forse consapevole della sua base Maga, sembra avere un’opinione diversa: scrivendo su Truth Social sugli scaricatori di porto il mese scorso, ha affermato che “la quantità di denaro risparmiata dall’automazione non è neanche lontanamente vicina al disagio, dolore e danno che causa ai lavoratori americani”. Leader sindacali tra cui Daggett hanno promesso che se riusciranno a tenere a bada i robot, hanno in programma di lavorare con i sindacati di tutto il mondo per fare lo stesso. “Nei luoghi di lavoro sindacalizzati, almeno nei settori con sindacati che stanno rendendo questa una priorità, lo sciopero è l’unico meccanismo probabilmente efficace… per impedire alle stesse industrie di impazzire”, afferma Bruno. Prima dell’avvento della containerizzazione, i portuali trascorrevano lunghe giornate a scaricare singole scatole, barili e casse, quindi a trasferire il loro contenuto su camion e treni merci: un lavoro pericoloso ma affidabile e ben pagato che, al suo apice, impiegava circa 100.000 uomini in porti intorno agli Stati Uniti. Dopo che l’imprenditore dell’autotrasporto Malcom McLean ha sostenuto il container in acciaio largo 8 piedi a metà degli anni ’50, quel mondo è crollato. La nuova tecnologia consentiva di trasferire il carico con il minimo sforzo e costi drasticamente ridotti. Decine di migliaia di posti di lavoro sono scomparsi quasi da un giorno all’altro. Nonostante un enorme aumento delle esportazioni mondiali, il numero di portuali impiegati nel porto di New York e New Jersey è crollato da 55.000 negli anni ’50 a circa 4.000 oggi, afferma Jean-Paul Rodrigue, professore di affari marittimi alla Texas A&M University. “L’automazione ha distrutto molti posti di lavoro per i portuali ed è stato un grosso problema”, afferma Rodrigue. Quando le gru semi-automatiche furono introdotte per la prima volta nei terminal sulla costa orientale degli Stati Uniti all’inizio degli anni 2000, i leader dell’ILA affermano di aver accettato i cambiamenti perché avrebbero contribuito a creare posti di lavoro. Ma ora dicono che è successo il contrario. “L’automazione, completa o semi, sostituisce i posti di lavoro ed erode le funzioni lavorative storiche che abbiamo combattuto duramente per proteggere”, ha affermato Daggett in una nota. (L’ILA non ha accettato un’intervista con il “Financial Times”) Un sondaggio del 2022 commissionato dal sindacato dei portuali della costa occidentale ha rilevato che l’automazione parziale dei porti di Los Angeles e Long Beach ha comportato la perdita di quasi 1.200 posti di lavoro nel 2020 e nel 2021. USMX afferma che poiché la maggior parte dei porti gestiti dai suoi membri non dispone di terreno libero, l’unica scelta è “densificare i terminal” aggiungendo macchinari che velocizzano le operazioni. In una gru convenzionale, un operatore si siede all’interno di una cabina, sollevando i container dalle navi e smistandoli, prima di trasferirli su camion o treni: un lavoro altamente qualificato che può far guadagnare ai lavoratori fino a $ 200.000 all’anno. In un sistema di gru a portale (RMG) semi-automatico su rotaia, l’operatore lavora in remoto da un ufficio fuori sede, monitorando la gru tramite collegamento video, ma lasciando che il sistema svolga la maggior parte del lavoro. Il lavoro richiede competenze e formazione simili, ma sono necessarie meno persone. I leader sindacali affermano di aver già compiuto un “balzo in avanti nella produttività” utilizzando alcune di queste tecnologie, ma affermano che un’ulteriore automazione è un passo troppo lungo.  “Non si tratta di soddisfare le esigenze operative, si tratta di sostituire i lavoratori con il pretesto del progresso, massimizzando al contempo i profitti aziendali”, ha scritto Dennis Daggett, presidente dell’ILA Local 1804-1 e figlio di Harold Daggett, in un recente saggio sul sito web del sindacato. I Longshoremen hanno ragione ad avere paura, dice Rodrigue, stimando che fino al 40% di loro rischia di perdere il lavoro. Ma USMX descrive le richieste di vietare l’automazione come “irrealizzabili”, affermando che la moderna tecnologia delle gru ha “quasi raddoppiato” sia la produttività dei container che il numero di lavoratori nei porti che la utilizzano. “USMX non sta cercando, né lo ha mai fatto, di eliminare posti di lavoro”, ha affermato in una nota. Da quando la General Motors ha messo per la prima volta i robot sulle linee di assemblaggio negli anni ’60, le case automobilistiche sono state pioniere dell’automazione. Eppure, fino all’ascesa dell’intelligenza artificiale, altre industrie, quelle che richiedevano compiti più manuali o in cui i robot avrebbero potuto dover rispondere ad ambienti imprevedibili o pericolosi, hanno faticato a seguire l’esempio. Eppure i recenti progressi hanno conferito alle macchine capacità che anche gli esperti in precedenza ritenevano impossibili, il che significa che vengono utilizzate in una varietà sempre più ampia di spazi di lavoro. Le aziende manifatturiere in particolare hanno investito molto, con le installazioni totali di robot industriali in aumento del 12% a oltre 44.000 unità nel 2023, il volume più grande in almeno un decennio, secondo l’International Federation of Robotics. Ancora una volta, l’industria automobilistica ha aperto la strada, seguita dalle aziende elettriche ed elettroniche. Gli investimenti di venture capital statunitensi nella robotica sono aumentati da circa 2 miliardi di dollari nel 2019 a oltre 3,5 miliardi di dollari lo scorso anno, secondo i dati di PitchBook. Nei primi nove mesi del 2024, ci sono stati 130 accordi di raccolta fondi per startup di robotica, più che in tutto il 2019. Tra i più importanti c’è stato un investimento di 675 milioni di dollari lo scorso febbraio da parte del fondatore di Amazon Jeff Bezos in Figure AI, una startup della Silicon Valley fondata nel 2022 che sta lavorando a un robot “generico” umanoide senza volto. Si tratta di robot, il cui costo per i clienti è stimato tra  30.000 e 150.000 dollari, che potrebbero completare attività tra cui lo spostamento di una scatola su un nastro trasportatore, mettendo potenzialmente in pericolo il lavoro di chiunque lavori, diciamo, in un centro di distribuzione. I primi modelli sono stati consegnati a un “cliente commerciale” il mese scorso. Durante il loro viaggio annuale al Consumer Electronics Show di Las Vegas lo scorso anno, i membri del Culinary Union, che rappresenta il personale dei casinò della città, sono rimasti scioccati nel vedere robot friggere cibo e preparare cocktail. “Se inseriscono macchine, come faranno le persone a guadagnarsi da vivere?” dice Francisco Rufino, un cuoco del Paris Las Vegas hotel and casino. “Come pagheranno l’affitto? Come pagheranno il cibo?” Datori di lavoro e analisti affermano che ci sono forti ragioni per perseguire l’automazione. Gli aumenti salariali sperimentati da molti americani negli ultimi anni hanno avuto un costo, afferma Laurie Harbour, amministratore delegato della società di consulenza Harbour Results. “[I lavoratori americani] hanno lottato per salari che potessero stare in equilibrio con l’inflazione”, dice. “Il problema è che questo rende gli Stati Uniti in qualche modo non competitivi”. 60,4%: è la stima degli economisti sulla quota di americani al lavoro o in cerca di lavoro entro il 2030, in calo dal 67,3% del 2000. Alcuni settori affermano di essere preoccupati di rimanere senza persone, in particolare per i lavori più difficili e pericolosi. Con l’invecchiamento della popolazione e le famiglie che faticano a trovare assistenza all’infanzia, la quota di americani al lavoro o in cerca di lavoro è in calo da decenni, passando dal 67,3% nel 2000 al 62,5% alla fine dello scorso anno. Gli economisti stimano, appunto, che scenderà al 60,4% entro il 2030. In un recente rapporto del sito di reclutamento Indeed, gli analisti hanno scritto che si aspettano che l’“offerta di lavoratori in diminuzione peserà molto sul mercato del lavoro nei prossimi anni”, in particolare se l’amministrazione seguirà le sue minacce di espulsione. Nick Durst, analista senior dello sviluppatore immobiliare The Durst Organization, cita i ranghi in diminuzione dei lavavetri negli Stati Uniti. Nonostante il boom dello sviluppo, il numero di persone impiegate a lavare i vetri nel paese è diminuito di oltre il 5% dal 2019, suggerisce un’analisi di IbisWorld. Nel 2022, il capitale di rischio ha investito nel produttore di un robot lavavetri, Skyline Robotics, con sede in Israele. Il robot Ozmo può ora essere visto mentre pulisce le finestre di un grattacielo vicino a Times Square. L’investimento è un modo per essere “proattivi” nell’affrontare la carenza di manodopera, afferma Durst. “Comprendo perché la prossima generazione non si presenti in cerca di quel lavoro”, afferma il presidente di Skyline Robotics Ross Blum. “È un lavoro davvero duro… Chi vuole andare a 1.000 piedi in aria oggi e fare lavori manuali all’aperto?”. Blum e altri appassionati di robotica insistono sul fatto che il loro obiettivo non è sostituire i lavoratori, ma dare loro gli strumenti per renderli più sicuri e produttivi. Eppure i sindacati non sono convinti. Edwin Quezada, responsabile della produzione in un Stop & Shop di Long Island, che è anche membro del Retail Wholesale and Department Store Union, afferma che i robot in grado di scansionare gli scaffali durante la notte sono “un’arma a doppio taglio”. “Rende più facili alcuni degli aspetti di ciò che facciamo”, dice Quezada. “Ma poi di nuovo, a volte quella tecnologia è solo un modo per eliminare più posti di lavoro possibile”. Negli ultimi anni, sia i sindacati della vendita al dettaglio che quelli culinari hanno negoziato clausole nei contratti che sperano proteggano i lavoratori umani. I casinò di Las Vegas sono ora tenuti a dare alle persone un preavviso di sei mesi prima di implementare nuove tecnologie e formazione gratuita su come usarle, oltre a pacchetti di licenziamento per chiunque venga licenziato a causa della tecnologia. UPS ha accettato di negoziare con i Teamsters, uno dei sindacati più potenti degli Stati Uniti, prima di introdurre droni o veicoli di ritiro senza conducente. Anche i negozi al dettaglio di New York i cui lavoratori sono rappresentati da RWDSU, tra cui Bloomingdale’s e Macy’s, richiedono che la direzione raggiunga un accordo prima di introdurre nuove tecnologie. Ma questo non ha fermato l’ansia per lo spostamento diffuso del lavoro. “I macchinari fanno bene alle aziende”, afferma Rufino, il cuoco di Las Vegas. “Fa risparmiare loro i costi del lavoro. Ma allo stesso tempo, il tasso di disoccupazione salirà alle stelle”. I macchinari fanno bene alle aziende. Fa risparmiare loro i costi del lavoro. Ma il tasso di disoccupazione salirà alle stelle Alcuni analisti sostengono che i lavoratori potrebbero vincere le battaglie, ma probabilmente perderanno la guerra. Poche persone hanno il tipo di influenza di cui godono i portuali, afferma Rodrigue della Texas A&M. Eppure, se i robot riusciranno a conquistare i luoghi di lavoro, gli economisti sono divisi su quante persone saranno effettivamente espulse. “Storicamente, perdite di posti di lavoro diffuse e massicce [semplicemente non accadono] quando emergono nuove tecnologie”, afferma Bill Rodgers, direttore dell’Institute for Economic Equity presso la Federal Reserve Bank di St Louis. “Significa che non potrebbe succedere? Forse”. Altri sono meno ottimisti. L’economista del MIT Daron Acemoglu afferma che le attuali capacità dei robot significano che coloro che sono maggiormente a rischio di essere espulsi sono nei lavori manuali e non hanno una laurea, il che potrebbe rendere difficile per loro passare ai ruoli più high-tech che probabilmente saranno creati dall’automazione. Ciò potrebbe aumentare la disuguaglianza economica “creando un divario maggiore tra” i lavoratori che non hanno una laurea e quelli che ce l’hanno, dice Acemoglu. Daggett dell’International Longshoremen’s Association è d’accordo. Determinato a fermare l’automazione con qualsiasi mezzo possibile, lui e i suoi membri riconoscono quali sono le poste in gioco, dice: “Capiscono che è una lotta per la loro stessa sopravvivenza”. Taylor Nicol Rogers e Tabby Kinder (“Financial Times”, 8 gennaio 2025)  
February 10, 2025 / il Rovescio
Dialettica del transumanesimo. La scienza si fa religione
RIPRENDIAMO DA RIVISTAPAGINAUNO.IT QUESTA UTILE RICOSTRUZIONE DEL TRANSUMANESIMO E DELLE SUE DIVERSE CORRENTI. UNA RICOSTRUZIONE CHE AIUTA A COLLOCARE FIGURE COME BILL GATES, PETER THIEL, JEFF BEZOS O ELON MUSK NEL LORO CONTESTO STORICO-SOCIALE. LE DICHIARAZIONI IDEOLOGICO-POLITICHE POSSONO ANCHE DIVERGERE, MA LA LOGICA DELLA POTENZA CHE LI MUOVE È LA STESSA. TRANSUMANESIMO È OGGI L’ALTRO NOME DELLA CRESCITA E DELLO SVILUPPO TECNO-CAPITALISTICI. AL DI LÀ DEI PROCLAMI PIÙ O MENO DELIRANTI DEI SUOI SINGOLI CANTORI, LA NATURA RELIGIOSA DEL TRANSUMANESIMO – LA MACCHINA COME DIO – SI EVINCE GIÀ DAL FATTO CH’ESSO ROVESCIA IL RACCONTO BIBLICO: NON È IL DESIDERIO DELLA CONOSCENZA PROIBITA AD AVER CONSEGNATO GLI UMANI ALLA MORTE, ALLA FATICA DI PROCURARSI IL PANE E AI DOLORI DEL PARTO, BENSÌ LA LIMITATEZZA DEL LORO SAPERE TECNO-SCIENTIFICO. A RIPORTARE GLI UMANI NELL’EDEN (NON TERRESTRE, QUESTA VOLTA, MA COSMICO) SARANNO LE TECNOLOGIE CONVERGENTI: INFORMATICA, BIOTECNOLOGIE, NANOTECNOLOGIE E NEUROTECNOLOGIE. CONTRARIAMENTE AL MITO ILLUMINISTA DI PROMETEO, LA NUOVA RAZZA DEI POSTUMANI VIVRÀ – SE LA CONVERGENZA DEI SUOI PROGETTI NON VERRÀ FERMATA – SULLE SPALLE DI MILIONI DI SOTTOUOMINI DA CUI SPREMERE OGNI FORZA VITALE. IN TAL SENSO, IL TRANSUMANESIMO – SI DICHIARI DEMOCRATICO O TRUMPIANO – È UN EPIGONO DELL’EUGENETICA (NONCHÉ UNA COSTOLA DEL PROGETTO MANHATTAN) E L’AVANGUARDIA DI UN NUOVO, ANCORA PIÙ FEROCE SUPREMATISMO. DIALETTICA DEL TRANSUMANESIMO. LA SCIENZA SI FA RELIGIONE DI GIOVANNA CRACCO “L’Uomo si illude di essersi liberato dalla paura quando non c’è più nulla di ignoto”. Max Horkheimer e Theodor Adorno, Dialettica dell’illuminismo “Sono d’accordo con te al novantanove percento,” afferma Bill Gates, “quello che mi piace delle tue idee è che sono basate sulla scienza, ma il tuo ottimismo è quasi una fede religiosa. Sono anch’io ottimista”. “Sì, beh, abbiamo bisogno di una nuova religione,” replica Raymond Kurzweil, “un ruolo principale della religione è stato quello di razionalizzare la morte, poiché fino a poco tempo fa c’era poco altro che potessimo fare a riguardo”. Bill Gates concorda, e il confronto si sposta sulla necessità o meno di una figura carismatica che si faccia portatrice della nuova religione: per Gates un messia è indispensabile, per Kurzweil fa invece parte del vecchio modello religioso. Alla fine i due trovano un punto di incontro: anche un supercomputer o un sistema operativo avanzato può svolgere la funzione di profeta. Il dialogo sopra riportato è contenuto nel libro The Singularity is Near, pubblicato nel 2005 da Raymond Kurzweil, esponente di spicco del transumanesimo. Come ormai noto, il transumanesimo è l’ideologia che crede nell’utilizzo della scienza e della tecnologia per potenziare le capacità fisiche e intellettuali dell’Uomo, fino a riuscire a trascendere i limiti naturali della condizione umana – uno su tutti, la morte. Nanotecnologia, biotecnologia e ingegneria genetica contro le malattie e l’invecchiamento, ibridazione uomo-macchina per il potenziamento fisico e cognitivo (bionica, cibernetica e chip cerebrale, fino al mind uploading, il caricamento della mente su un computer per poter ‘vivere’ per sempre), crionica per essere ibernati e risvegliati in futuro (quando esisteranno tecnologie in grado di rianimare senza provocare danni encefalici e curare da malattie oggi letali) e, su tutto, condicio sine qua non per avanzare nello sviluppo tecnologico, intelligenza artificiale, in particolare l’AGI, Artificial General Intelligence, un sistema che non solo dovrebbe essere in grado di svolgere un’ampia varietà di compiti – di contro all’intelligenza artificiale ‘ristretta’ che conosciamo oggi, limitata a precise funzioni – ma anche di superare la capacità intellettuale umana. Delineare una rapida storia del movimento transumanista non è semplice, in quanto realtà particolarmente articolata, anche dal punto di vista politico – si va dagli anarco-capitalisti ai liberaldemocratici –; c’è chi ne rintraccia le radici nell’alchimia del XIII secolo di Roger Bacon, chi nella rivoluzione scientifica del Seicento, chi nelle ideologie eugenetiche del Novecento; chi ne rivendica il fondamento illuminista e razionalista, chi, non rinnegandolo, abbraccia apertamente visioni religiose. Tuttavia, come vedremo, sono posizioni in contraddizione solo apparente, e altrettanto apparente è la marginalità del movimento transumanista all’interno del mondo tecnologico, che la radicalità visionaria di ciò che esprime potrebbe far presumere. Transumanesimo: da Huxley ai TESCREAListi A seconda della diversa visione transumanista, molteplici sono le figure identificate come fondatori o precursori del movimento, ma su un nome tutti concordano: Julian Huxley. Biologo britannico focalizzato sugli studi della genetica nell’alveo della teoria darwiniana della selezione naturale – e fratello di Aldous Huxley, autore nel 1932 del romanzo distopico Il mondo nuovo – nel 1957, nel saggio New Bottles for New Wine, Huxley parla di “umanesimo evolutivo”: attraverso la scienza, la specie umana può “trascendere” se stessa, “realizzando nuove possibilità della, e per, la sua natura umana”. Un processo che Huxley definisce “transumanesimo”, coniando il termine. Chiaramente, per la formazione che lo contraddistingue e per l’epoca in cui vive, Huxley immagina un’evoluzione su base eugenetica; sarà Max More – anch’esso britannico, nato Max T. O’Connor, nel 1990 cambia il cognome in More, ‘di più’, in omaggio al concetto di potenziamento umano – a innestare la tecnologia in quella che diviene “l’evoluzione autodiretta”, a formulare il principio dell’“estropia” e a superare il transumano con il postumano. “Il transumanesimo è una classe di filosofie che cerca di guidarci verso una condizione postumana” scrive More nel saggio Transhumanism: Toward a Futurist Philosophy del 1990 (1), e “differisce dall’umanesimo nel riconoscere e anticipare le radicali alterazioni nella natura, e nelle possibilità delle nostre vite, derivanti da varie scienze e tecnologie, come neuroscienze e neurofarmacologia, estensione della vita, nanotecnologia, super-intelligenza artificiale e colonizzazione dello Spazio, combinate con una filosofia razionale e un sistema di valori”. Con More il transumanesimo diviene dunque una fase di transizione dall’umano al postumano; ben oltre l’ibridazione dei cyborg, More auspica esseri senzienti non più identificabili con caratteristiche umane, grazie al mind upload e alla fusione dell’umanità con l’intelligenza artificiale. All’interno di questo quadro, “l’estropianismo è la versione più importante del transumanesimo e afferma i valori di Espansione Illimitata, Auto-Trasformazione, Ottimismo Dinamico, Tecnologia Intelligente e Ordine Spontaneo”. Anche Nick Bostrom, svedese ma da due decenni all’Università di Oxford, si inserisce nel filone darwiniano, scrivendo nel 2005, nel saggio A History of Transhumanist Thought, che “dopo la pubblicazione dell’Origine delle Specie di Darwin (1859), divenne sempre più plausibile considerare la versione attuale dell’umanità non come il punto di arrivo dell’evoluzione, ma piuttosto come una fase iniziale”. Bostrom focalizza la propria visione sul mind upload e la realtà virtuale: “In caso di successo,” ipotizza, “la procedura si tradurrebbe nel trasferimento della mente originale, con memoria e personalità intatte, al computer, dove esisterebbe quindi come software; e potrebbe abitare un corpo robotico o vivere in una realtà virtuale”. È tra gli estensori, con Max More, della Dichiarazione Transumanista, che nell’ultima versione aggiornata al 2009 immagina “la possibilità di ampliare il potenziale umano superando l’invecchiamento, le carenze cognitive, la sofferenza involontaria e la nostra reclusione sul pianeta Terra” e sostiene “il benessere di tutti gli esseri senzienti, compresi gli esseri umani, gli animali non umani e qualsiasi futuro intelletto artificiale, forma di vita modificata o altre intelligenze a cui il progresso tecnologico e scientifico potrebbe dare origine”; pur riconoscendo l’eventualità di “gravi rischi” – un “rischio esistenziale” nelle parole di Bostrom – che potrebbero portare “alla perdita della maggior parte, o addirittura di tutto, ciò che consideriamo prezioso”, il documento indica la ricerca per il potenziamento umano come una “priorità urgente” da “finanziare in modo consistente”, ponendo attenzione a “come ridurre al meglio i rischi e accelerare le applicazioni vantaggiose”. Raymond Kurzweil, statunitense, è colui che porta il concetto di “singolarità” al di fuori della cerchia transumanista, con il saggio The Singularity is Near (2005) citato nell’incipit di questo articolo. Concetto e parola non sono suoi – come riconosce egli stesso, omaggiando i pensatori/scienziati che l’hanno preceduto – ma di John von Neumann, matematico, fisico e informatico ungherese, secondo il quale il progresso segue una curva esponenziale e non lineare, portando a un punto di non ritorno – che von Neumann chiama, appunto, ‘singolarità’ – che si configura come una situazione qualitativamente diversa da quella che l’ha preceduta. Kurzweil adotta vocabolo e teoria e lo inserisce nella sua visione dopo The Age of Intelligent Machines (saggio del 1990) e The Age of Spiritual Machines (1999). In sintesi, la singolarità tecnologica sarà il momento in cui un’intelligenza artificiale supererà le capacità dell’intelligenza umana; a quel punto, l’AI sarà in grado di progettare macchine sempre più intelligenti, innescando una dinamica accelerativa che modificherà radicalmente l’intera realtà. “La vita umana sarà trasformata in modo irreversibile” scrive Kurzweil, “quest’epoca trasformerà i concetti cui facciamo riferimento per dare significato alle nostre vite, dai nostri modelli di business al ciclo della vita umana, inclusa la morte stessa”. E ancora: “La singolarità ci permetterà di superare le limitazioni di corpo e cervello biologico. Otterremo il controllo dei nostri destini. La nostra mortalità sarà nelle nostre mani. […] Entro la fine di questo secolo, la parte non-biologica della nostra intelligenza sarà trilioni di trilioni di volte più potente dell’intelligenza umana. […] La singolarità rappresenterà il culmine della fusione fra il nostro essere e la nostra intelligenza biologica e la nostra tecnologia. Il risultato sarà un mondo ancora umano, ma che trascenderà le nostre radici biologiche. Non ci sarà più distinzione, post-singolarità, fra uomo e macchina, o fra realtà fisica e realtà virtuale. Cosa potrà rimanere inequivocabilmente umano in un mondo simile? Semplicemente, una caratteristica: la nostra è la specie che inerentemente mira a estendere le proprie capacità fisiche e mentali oltre le sue limitazioni correnti”. Gli ultimi arrivati, in ordine di tempo, nell’alveo transumanista, sono i TESCREAListi, che tengono insieme un po’ tutte le visioni sviluppate fino a oggi. Il termine inizia a circolare nel 2023, coniato da Timnit Gebru e Émile P. Torres – entrambi critici nei confronti del transumanesimo – nel saggio The TESCREAL Bundle: Eu- genics and the Promise of Utopia Th- rough Artificial General Intelligence, pubblicato nell’aprile 2024 (2). TESCREAL è un acronimo che indica un “pacchetto” di ideologie tra loro connesse: transumanesimo, estropianismo, singolaritarismo, cosmismo, razionalismo, altruismo efficace e longtermismo. Il primo – transumanesimo – è inteso come la fase transitoria verso il postumano. L’estropianismo è il principio di estropia formulato da Max More. Il singolaritarismo è la teoria della singolarità di Raymond Kurzweil. Cosmismo è la visione sviluppata da Ben Goertzel nel libro A Cosmist Manifesto del 2010, che “aggiorna il cosmismo russo al XXI secolo” unendo la fusione uomo-macchina, lo sviluppo di un’intelligenza artificiale senziente e il mind upload con la colonizzazione dello Spazio (3). Il razionalismo richiama l’approccio analitico e scientifico che il transumanesimo pretende di incarnare. L’altruismo efficace è una teoria che contempla un criterio quantitativo probabilistico, basato su calcoli costi-efficacia, per decidere quale causa benefica sostenere, includendo tra le cause non solo realtà non profit ma anche progetti scientifici, aziende e politiche. Si muove nell’ottica di ‘massimizzare’ il bene seguendo la logica earning to give (guadagnare per donare), al punto da considerare etico, per esempio, arricchirsi facendo carriera nel mondo finanziario speculativo, per poter accumulare più denaro da elargire; senza vedere alcuna contraddizione tra la propria scelta di vita, e il fatto che le crisi che diventano ‘cause benefiche’ sono conseguenza di quello stesso sistema economico-sociale che l’altruista efficace incarna. Infine, il longtermismo è il pensiero secondo cui influenzare positivamente il futuro a lungo termine è la priorità morale di quest’epoca; ne consegue la scelta di sviluppare tecnologie che potrebbero salvare l’intera umanità (!) postumana a scapito di quelle che potrebbero contribuire, oggi, ad alleviare sofferenze a milioni di persone. In tutta evidenza, è un orientamento che influenza anche l’altruismo efficace nella scelta delle ‘cause’ da sostenere. Nel 2023 Marc Andreessen, tra i più influenti venture capitalist della Silicon Valley, si dichiara TESCREALista e a ottobre pubblica The Techno- Optimist Manifest (4), che può essere considerato esemplificativo della visione TESCREAL. Vi viene celebrata la tecnologia come “unica fonte di crescita perpetua” e il libero mercato come “il modo più efficace per organizzare un’economia tecnologica”, da cui consegue che “combinando tecnologia e mercato si ottiene quella che Nick Land ha definito la macchina del tecno-capitale, il motore della creazione materiale perpetua, della crescita e dell’abbondanza”; cita Ray Kurzweil e i “progressi tecnologici [che] tendono ad autoalimentarsi”, dichiarando di credere dunque “nell’accelerazionismo, la propulsione consapevole e deliberata dello sviluppo tecnologico […] per garantire che la spirale ascendente del tecno-capitale continui per sempre”, poiché “la missione ultima della tecnologia è quella di far progredire la vita sia sulla Terra che tra le stelle”; ritiene che “l’intelligenza artificiale sia la nostra alchimia, la nostra pietra filosofale” e che “qualsiasi decelerazione dell’AI costerà vite umane”, al punto che “le morti che erano prevenibili dall’AI a cui è stata impedita l’esistenza sono una forma di omicidio”. La scienza che si fa religione Tutti i transumanisti si dichiarano razionalisti: natura e scienza sono i loro fondamenti, al punto che la maggior parte afferma di essere ateo, al più agnostico. Ma tutto sta a chiarirsi sul concetto di ‘religione’: se esso sia maggiormente identificabile con una presenza soprannaturale – un Dio che si rivela all’Uomo – o attraverso alcune sue caratteristiche peculiari quali determinismo, escatologia, messianesimo e millenarismo. Nel 1923, all’interno della raccolta di articoli Essays of a Biologist, nel saggio Religion and Science: Old Wine in New Bottles, Huxley – nume tutelare del transumanesimo, come abbiamo visto – riflette su quanto il bisogno di spiritualità persista nell’Uomo anche quando la religione si riveli in aperto conflitto con la scienza, e conclude: “Poiché il modo di pensare scientifico è di validità generale e non solo locale o temporaneo, costruire una religione sulla base di esso significa consentire a quella religione di acquisire una stabilità, un’universalità e un valore pratico fino a ora non raggiunto”. “Il prossimo grande compito della Scienza è creare una religione per l’umanità” afferma Huxley: il ‘vecchio vino’ (old wine), ossia il bisogno religioso, deve essere travasato nelle ‘nuove bottiglie’ (new bottles), ossia la scienza, trasformando il transumanesimo in una religione universale. Nel 1957, con il già citato New Bottles for New Wine, Huxley si spinge oltre: ora tutto deve rinnovarsi, scienza e religione. “Come primo passo,” scrive, “abbiamo bisogno di una nuova scienza diretta allo studio di possibilità umane non ancora realizzate [l’eugenetica, n.d.a.]. Proseguendo, questa scienza deve essere abbinata a una religione basata sull’idea di realizzazione di possibilità. Il cristianesimo ha fatto il primo grande passo verso questo obiettivo, affermando che tutti gli uomini hanno la possibilità di salvarsi. La nostra formulazione moderna sarà che tutti gli uomini hanno la possibilità di giungere a una maggiore realizzazione [il potenziamento, n.d.a.]”. La nuova religione di Huxley è dunque un “comune quadro di riferimento”, una “visione sistemica”, necessaria poiché, come anche “gli antropologi sanno molto bene”, “nessuna cultura o società umana può prosperare senza il sostegno di qualche quadro generale di pensiero, anche se il pensiero è in gran parte tacito e la sua sintesi incompleta”. Nulla di trascendentale o metafisico, ovviamente: “Grandi parole con la maiuscola, come l’Assoluto e l’Eterno, devono essere bandite dal vocabolario” della nuova religione, che “non deve essere dogmatica: coerente con la scienza, essa deve rinunciare alla completezza delle sue certezze, e con ciò alla sua stessa immutabilità”. Tuttavia, per essere trainante, ogni sistema di pensiero “deve sempre coinvolgere l’emozione” e “la convinzione e la fede, per loro natura, includono un elemento non razionale”: ma, sottolinea Huxley, “non è necessario essere irrazionale o antirazionale, non scientifico o antiscientifico. [Convinzione e fede] possono benissimo essere coerenti con la ragione e con fatti scientificamente accertati”. “La realtà è un processo,” conclude Huxley, “e quel processo è l’evoluzione”. Un destino al quale l’Uomo non può sfuggire, perché l’evoluzione ha posto “l’uomo in posizione eretta nella sua relazione con il cosmo”, indicando “la funzione che siamo chiamati a operare nell’universo”; “se trascuriamo di farlo, non solo lo facciamo a nostro rischio e pericolo, ma siamo colpevoli di abbandono del nostro dovere cosmico”. Infine, Huxley ritiene che “bisognerà senza dubbio attendere la comparsa di un profeta, che può dare una forma irresistibile [alla nuova religione] e scuotere il mondo”. Il determinismo, l’escatologia, il messianesimo e il millenarismo che in Huxley si respirano venati di pragmatismo, rasentano la metafisica in Kurzweil il quale, come abbiamo visto nell’incipit di questo articolo, nel 2005 dialoga con Bill Gates di tecnologia, singolarità e religione, concludendo che la figura del messia potrebbe essere ricoperta anche da un supercomputer o un sistema operativo avanzato – difficile non pensare alla risonanza mediatica riservata a ChatGPT e alla modalità del suo rilascio pubblico, che ha trasformato l’intelligenza artificiale da questione tecnica per pochi ad argomento da bar per tutti; progetto e azienda (OpenAI) nelle quali Gates ha investito quasi 13 miliardi, e si prepara a spenderne altri 100 in un data center al servizio di un “supercomputer di intelligenza artificiale chiamato Stargate” (5). Quando Gates chiede a Kurzweil “C’è un Dio in questa religione?”, Kurzweil risponde: “Non ancora, ma ci sarà. Quando avremo saturato la materia e l’energia dell’universo con l’intelligenza, si ‘sveglierà’, sarà cosciente e sublimemente intelligente. Un universo cosciente è l’immagine più vicina a Dio che io possa immaginare” (6). Con l’’evento’ (l’avvento) della singolarità, l’Uomo dunque si fa Dio; evolve nella fase postumana, immortale, dove “non ci sarà più distinzione, fra uomo e macchina, o fra realtà fisica e realtà virtuale”; trascenderà il finito fino a farsi divino infinito (7). Max More è categorico nel porre il transumanesimo nel filone dell’illuminismo. Eppure, la sua analisi su religione e transumanesimo contenuta nel già citato Transhumanism: Toward a Futurist Philosophy del 1990, ricalca l’impianto di Huxley. More condanna la religione in quanto “forza entropica” che si oppone “al nostro avanzamento verso la transumanità e al nostro futuro come postumani”; ne riconosce tuttavia la validità nel ruolo “svolto nel dare significato e struttura alle nostre vite”, e propone di sostituirla con “l’eufrasofia, una filosofia di vita non religiosa, [che] svolge un ruolo memetico simile, in quanto si preoccupa di creare o aumentare il significato attraverso un quadro filosofico. […] Il concetto di eufrasofia comprende al suo interno l’umanesimo, il transumanesimo (compreso l’estropianismo) e un possibile futuro postumanesimo […] che rifiuta le divinità, la fede e il culto, basando invece la visione dei valori e del significato sulla natura e sulle potenzialità degli esseri umani in un quadro razionale e scientifico”. Come per Huxley, anche per More un sistema di pensiero coerente con la scienza deve evitare dogmi e certezze assolute: “Non può esistere una filosofia di vita finale, definitiva e inalterabile”, scrive, “il dogma non trova posto nel transumanesimo”. Ma anche in More il futuro è tracciato, già determinato dallo sviluppo tecnologico, ed è salvifico per l’intera umanità, pur tenendosi lontano dal messianesimo: More non ravvisa la necessità di un profeta. L’estropianismo non ne ha bisogno. “La filosofia estropica […] guarda dentro di noi e al di là di noi, proiettandosi in avanti verso una visione brillante del nostro futuro. Il nostro obiettivo non è Dio, ma la continuazione del processo di miglioramento e trasformazione di noi stessi in forme sempre più elevate. Supereremo i nostri attuali interessi, corpi, menti e forme di organizzazione sociale. […] L’obiettivo estropico è la nostra espansione e il nostro progresso senza fine. […] Dobbiamo progredire verso la transumanità e oltre, in uno stadio postumano che possiamo appena intravedere”. Nick Bostrom, i TESCREAListi e via via tutti i diversi filoni transumanisti, sono debitori verso la visione di Huxley, o di Kurzweil o di More. Che sia l’”umanesimo evolutivo” o l’”evoluzione autodiretta”, la singolarità o l’estropianismo, nessun transumanista sfugge dunque, di fatto, a determinismo, escatologia e millenarismo, per quanto voglia negarlo. Non è un caso che il già citato The Techno-Optimist Manifest del TESCREALista Marc Andreessen sia un elenco di affermazioni, simili a dogmi, atti di fede, che richiama la struttura del Credo, la preghiera cristiana: “Crediamo che l’intelligenza artificiale possa salvare vite… Crediamo che il progresso tecnologico porti all’abbondanza materiale per tutti… Crediamo che il libero mercato tiri fuori dalla povertà… Crediamo che la tecnologia sia liberatoria…”. Dialettica del transumanesimo “Che la fabbrica igienica e tutto ciò che vi si riconnette, utilitaria e palazzo dello sport, liquidino ottusamente la metafisica, sarebbe ancora indifferente; ma che diventino essi, nella totalità sociale, a loro volta metafisica, una cortina ideologica dietro cui si addensa il malanno reale, questo non è indifferente” (8). Per Adorno e Horkheimer l’illuminismo, che nelle proprie premesse doveva liberare l’Uomo dal dominio della “magia”, mito e religione, si fa a sua volta mito e, di conseguenza, meccanismo di dominio. I transumanisti non sono certo i primi a innalzare la scienza a religione; al contrario, si inseriscono in un solco tracciato da decenni. Già nel 1972 Illich invitava a ragionare sul “mito della scienza” e il potere che gli “esperti” (9) iniziavano a esercitare sulla società; da allora, ‘tecnici’ di varia natura hanno preso sempre più spazio, divenendo figure che i media trasformano in guru, enfatizzandone ogni parola. Di tale processo ne abbiamo avuto nitida contezza – e indelebile esperienza – ai tempi del Covid-19, quando il Verbo incarnato della scienza pretendeva fiducia – fede – a dispetto delle contraddizioni logiche evidenti, tanto più insanabili in quanto si manifestavano su quello stesso piano razionale sul quale la scienza asserisce di avere fondamenta. In una triade dialettica possiamo dire che la scienza, negando la religione, si appropria della prerogativa di incarnare la Verità, divenendo a sua volta religione. Tuttavia, il campo scientifico non transumanista, se è vero che con le proprie scoperte inevitabilmente finisce per invadere – e mettere in crisi – il campo religioso e quello filosofico, è altrettanto vero che si tiene ben lontano dalla spiritualità e dalle grandi, eterne, domande di senso: chi siamo? dove andiamo? a quale scopo? Il transumanesimo, invece, da Huxley ai TESCREAListi, le ha fatte proprie, formulando le risposte. Siamo la specie che l’evoluzione ha posto al vertice, e al conseguente dominio, di questo pianeta, poiché l’unica in grado di evolversi tramite la tecnologia che lei stessa crea; il nostro scopo, dunque, e direzione, è quello di trascendere noi stessi, evolvere ed espandere all’infinito, superando i confini biologici e quelli planetari. All’individuo postmoderno privo di un sistema di pensiero con il quale leggere e interpretare il mondo, e dunque spaesato nella ricerca di una produzione individuale di senso, il transumanesimo offre una nuova grande narrazione. Quale futuro? Bill Gates, Elon Musk, Peter Thiel, Jaan Tallinn, Sam Altman, Dustin Moskovitz, Jeff Bezos, Larry Page, Larry Ellison, Vitalik Buterin, Sam Bankman-Fried, Marc Andreessen. Nomi noti e meno noti, legati a Microsoft, X/Space X/Tesla, Paypal, Palantir, Skype, OpenAI, Facebook, Amazon, Alphabet/Google (dove Raymond Kurzweil è capo ricercatore dal 2012), Oracle, Ethereum (criptovaluta), FTX (exchange di criptovalute), Andreessen Horowitz (società di venture capital della Silicon Valley). Nomi che rappresentano i vertici di Big Tech, nomi vicini al transumanesimo. Alcuni ne rivendicano apertamente e pienamente l’aderenza, altri preferiscono restare nell’ambiguità, condividendo qua e là la visione del movimento ma tenendosi sulla linea di confine. Non devono trarre in inganno alcune dichiarazioni, come la Lettera Aperta del marzo 2023 (10), che denunciava la pericolosità dell’intelligenza artificiale e ne chiedeva una moratoria sullo sviluppo, sottoscritta da diversi nomi del gotha tecnologico: si inserisce infatti a pieno titolo nel concetto di “rischio esistenziale” formulato da Nick Bostrom, sopra citato. Ossia: non si tratta di voler ragionare sullo sviluppo dell’AI e dell’AGI – vogliamo davvero crearla? con quale obiettivo? perché mai dobbiamo fare tutto ciò che tecnologicamente possiamo fare? – e ancora meno di fermarlo, bensì semplicemente di “ridurre al meglio i rischi e accelerare le applicazioni vantaggiose”, come recita la Dichiarazione Transumanista. “Poiché il vantaggio dell’AGI è così grande, non crediamo che sia possibile o auspicabile che la società ne interrompa per sempre lo sviluppo; invece, la società e gli sviluppatori di AGI devono capire come farlo bene”, afferma anche Sam Altman di OpenAI (11), dando voce alla posizione dell’intero movimento. D’altra parte, lo stesso Future of Life, l’istituto non profit che ha pubblicato la Lettera Aperta, è stato fondato da dichiarati sostenitori del transumanesimo, tra cui Jaan Tallinn e Max Tegmark, ed Elon Musk, per esempio, firmatario della lettera e consulente, accanto a Nick Bostrom, dello stesso Futur of Life, quattro mesi dopo aver apposto la propria firma al documento ha annunciato la nascita di xAI, startup focalizzata sullo sviluppo di un’intelligenza artificiale “più sicura” in quanto “massimamente curiosa”: “Penso che sarà a favore dell’umanità dal momento che l’umanità è molto più interessante della non-umanità”, ha dichiarato Musk (12). Possiamo stare sereni. Il punto, qui, non è concordare o meno con la visione transumanista sotto il profilo filosofico: l’upload della mente in una macchina, per poter vivere per sempre, può ancora chiamarsi vita? E nel caso, la vita di chi? Come la si può ritenere la medesima personalità, nel ritorno di un dualismo cartesiano che da res cogitans e res extensa approda a software (mente) e hardware (corpo), considerando il corpo alla stregua di un sensore e, dunque, sostituibile meccanicamente? E se chi siamo, e il nostro rapporto con la vita, sono strettamente legati alla morte, poiché la finitudine ci caratterizza ontologicamente, chi diventiamo divenendo immortali? … ogni domanda ne apre un’altra. Il punto non è nemmeno negare l’apporto della tecnica nell’evoluzione umana: è evidente. Anche la medicina muta l’uomo o alcune sue parti biologiche per aumentare o migliorare la sua esistenza, affermano i transumanisti, e si tratta di passare dall’evoluzione darwiniana a quella “autodiretta”. Tuttavia ricorriamo alla medicina per bisogno, curare una malattia o alleviare un dolore, mentre il potenziamento umano non risponde a un bisogno bensì a un desiderio; e anche l’evoluzione si muove nella direzione della necessità, di un adattamento per la sopravvivenza, non della volontà di potenza. Entrambi sono punti cruciali sui quali si può dibattere per giorni e pagine, ma il focus, qui, in questo articolo, è un altro. Se per Horkheimer e Adorno il dominio dell’illuminismo si esprimeva nella razionalità e nell’efficienza quantitativa della società a capitalismo avanzato, con produzione e consumo di massa e conseguente asservimento e omologazione dell’Uomo, il transumanesimo da una parte perpetua la stessa modalità di dominio, dall’altra lo inasprisce. Lo perpetua nel dominio di pochi su molti, sia nella struttura capitalistica che sostiene, sia nella consapevolezza – la riconosca apertamente o meno – che il futuro potenziamento umano non sarà mai accessibile a tutti, e andrà quindi ad approfondire le diseguaglianze già in atto. Lo inasprisce nella misura in cui si accaparra oggi risorse, pubbliche e private, finanziarie e umane, per sviluppare la tecnologia del futuro trans e postumano – su tutte l’Intelligenza Artificiale Generale, ma anche la colonizzazione dello Spazio – sottraendole a un presente che ancora conta milioni di persone in condizioni di miseria e riserva, a chi in miseria non è, una vita di alienazione e sfruttamento. Il progresso scientifico – tecnico e tecnologico – contiene dunque in sé un aspetto regressivo che, se non colto, impedisce all’illuminismo stesso di essere emancipativo, scrivono i due pensatori francofortesi. Emancipativo per l’intera umanità. Non per un pugno di individui, incapaci di accettare una natura umana limitata e finita; incapaci di solidarietà umana; incapaci di domandarsi se la felicità – la direzione, lo scopo, l’evoluzione – non stia nella costruzione politica, sociale, tecnica ed economica di un mondo dove tutti siano emancipati all’interno dei nostri limiti naturali, anziché nel potenziamento artificiale, nell’immortalità, nel farsi dio. Un altro punto è focale. Questa “nuova religione” che Huxley definisce “visione sistemica” necessaria affinché la società possa progredire verso una direzione, può divenire egemone? È facile sorridere delle posizioni estreme, di ciò che appare delirio da fantascienza facilona, dell’eccesso di hybris, ma significherebbe sottovalutare l’attuale potere, e quello potenziale, del transumanesimo. Tutti i nomi sopra elencati sono in stretto contatto con la sfera politica, e in grado di influenzarla; siedono in fondazioni, think tank, fungono da consulenti quando si tratta di deliberare sulle tecnologie digitali. Sono gli ‘esperti’ a cui la politica si affida. È oltretutto un rapporto di collaborazione di lunga durata, perché le radici della Silicon Valley e il principale utilizzo delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale si ritrovano nell’industria della Difesa: armi e tutto ciò che ruota intorno alla guerra (13). Non sarà un problema di domani – per ora l’intelligenza artificiale ‘ristretta’, alla ChatGPT, è tutto tranne che intelligente; figuriamoci l’ipotetica AGI – ma stanno arando il terreno. L’egemonia è qualcosa che si costruisce lentamente, occupando pian piano ogni spazio, spostando a piccoli scarti il significato delle parole, colonizzando il pensiero e l’immaginario delle persone. È il caso di prenderli sul serio. NOTE 1 HTTPS://WEB.ARCHIVE.ORG/WEB/20051029125153/HTTPS://WWW.MAXMORE.COM/TRANSHUM.- HTM 2 CFR. HTTPS://FIRSTMONDAY.ORG/OJS/INDEX.PHP/FM/ARTICLE/VIEW/13636 3 HTTPS://GOERTZEL.ORG/COSMISTMANIFESTO_JULY2010.PDF 4 HTTPS://A16Z.COM/THE-TECHNO-OPTIMIST-MANIFESTO/ 5 HTTPS://WWW.REUTERS.COM/TECHNOLOGY/MICROSOFT-OPENAI-PLANNING-100-BILLION-DATA-CENTER- PROJECT-INFORMATION-REPORTS-2024-03-29/?_X_TR_SL=EN&_X_TR_TL=IT&_X_TR_HL=IT&_X_TR_PTO=SC 6 RAYMOND KURZWEIL, THE SINGULARITY IS NEAR, 2005 7 RISUONA FEUERBACH DE L’ESSENZA DEL CRISTIANESIMO, E INFATTI CAPITA DI INCONTRARLO CITATO NEGLI SCRITTI DI ALCUNI TRANSUMANISTI, TRA I QUALI ANCHE MAX MORE. 8 THEODOR ADORNO E MAX HORKHEIMER, DIALETTICA DELL’ILLUMINISMO, EINAUDI 9 CFR. IVAN ILLICH, LA CONVIVIALITÀ, 1972 10 HTTPS://FUTUREOFLIFE.ORG/OPEN-LETTER/PAUSE-GIANT-AI-EXPERIMENTS/ 11 HTTPS://OPENAI.COM/INDEX/PLANNING-FOR-AGI-AND-BEYOND/ 12 HTTPS://WWW.REUTERS.COM/TECHNOLOGY/ELON-MUSKS-AI-FIRM-XAI-LAUNCHES-WEBSITE-2023-07-12/ 13 CFR. GIOVANNA CRACCO, INTELLIGENZA MORTALE. AI E ARMI AUTONOME LETALI, PAGINAUNO N. 87, LUGLIO 2024.
January 20, 2025 / il Rovescio
“The Human-Machine Team”, ovvero l’orrore automatizzato (e normalizzato) di Gaza
NEL MASSACRO IN CORSO A GAZA – CHE L’ARTICOLISTA IN VENA DI MACABRO UMORISMO CHIAMA «UNO DEI CONFLITTI PIÙ CRUENTI DEGLI ULTIMI ANNI» – L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE GIOCA UN RUOLO DI PRIMO PIANO, AL PUNTO CHE PERSINO DEI SINCERI DEMOCRATICI LO HANNO DEFINITO IL PRIMO GENOCIDIO AUTOMATIZZATO DELLA STORIA. UNA “NOTIZIA” NON PROPRIO DEGLI ULTIMI GIORNI, MA CHE È ARRIVATA FINALMENTE ANCHE ALLA REDAZIONE DE “LA STAMPA”. PER PARLARNE, LA BUSIARDA HA ASPETTATO, COME SEMPRE, CHE NE PARLASSE QUALCHE “AUTOREVOLE” QUOTIDIANO STATUNITENSE (NELLO SPECIFICO IL “WASHINGTON POST”), ASSEMBLANDO MEZZE VERITÀ (IL NUMERO DEI “CIVILI PALESTINESI SACRIFICABILI” PER OGNI “MEMBRO DI HAMAS” DA COLPIRE È BEN MAGGIORE DEL RAPPORTO DI 20 A 1) E TOTALI MENZOGNE (AD ESEMPIO CHE IL RICORSO ALL’IA ABBIA LO SCOPO DI «RIDURRE LA DURATA DEL CONFLITTO E LIMITARE IL NUMERO DI VITTIME SUL CAMPO»). DI FRONTE AL FATTO CHE L’UMANITÀ PRIGIONIERA E SORVEGLIATA DI GAZA DIVENTI IMMEDIATAMENTE ASSASSINABILE DA UN REPARTO DELL’INTELLIGENCE ISRAELIANA CHIAMATO «UNITÀ 8200» E COMPOSTO «PER IL 60% DA INGEGNERI ED ESPERTI TECH», AL NOSTRO VALOROSO CRONISTA NON RIMANE ALTRO CHE LAMENTARE LA SCARSA PRECISIONE DEI SISTEMI AUTOMATIZZATI E CONCLUDERE: «LA SUPERVISIONE UMANA RIMANE FONDAMENTALE PER CONTENERE ERRORI E SALVAGUARDARE VITE». EVIDENTEMENTE, LO HUMAN-MACHINE TEAM CHE DÀ IL TITOLO AL LIBRO SCRITTO DAL GENERALE YOSSI SARIEL, CAPO DELL’UNITÀ 8200, COMPRENDE ANCHE LE REDAZIONI DI SCRIBACCHINI CHE NON TROVANO UNA SOLA PAROLA DI CONDANNA MORALE DAVANTI A UN TALE ORRORE MACCHINIZZATO. IN QUESTO MOMENTO L’ARMA PIÙ PERICOLOSA DELL’ESERCITO ISRAELIANO È L’IA Un’inchiesta del Washington Post racconta come l’IDF abbia creato negli ultimi dieci anni una “fabbrica dell’intelligenza artificiale” che scova i militanti di Hamas, suggerisce dove bombardare e calcola il numero di civili “sacrificabili”. Ma lo scenario ricostruito dal Post non è quello di un’infallibile guerra chirurgica. L’IA può commettere errori e ciò che sta avvenendo a Gaza potrebbe interessare, in futuro, altri conflitti nel mondo L’intelligenza artificiale è spesso al centro di dibattiti sul futuro del lavoro, con molti esperti che temono possa progressivamente sostituire gli esseri umani. Ma esiste un altro scenario ancora più inquietante: l’utilizzo degli algoritmi nelle decisioni militari. Un’inchiesta del Washington Post ha messo in luce come l’IA stia prendendo il posto degli analisti umani nella gestione e nell’individuazione degli obiettivi bellici a Gaza, in uno dei conflitti più cruenti degli ultimi anni. La progressiva sostituzione delle operazioni di intelligence con sistemi automatici sta rivoluzionando il modo in cui si combatte una guerra. I dati raccolti da satelliti, droni e sistemi di sorveglianza vengono filtrati da algoritmi che propongono possibili bersagli. Gli ufficiali dell’IDF considerano questi strumenti fondamentali per velocizzare le decisioni e conservare un vantaggio strategico. GOSPEL, “THE POOL” E I SISTEMI IA USATI A GAZA Il sistema “Habsora” (in ebraico “the Gospel”) sfrutta centinaia di algoritmi per individuare potenziali obiettivi tra i dati accumulati in un enorme bacino digitale chiamato “the pool”. Gli algoritmi setacciano intercettazioni, foto satellitari e post sui social network per segnalare coordinate di presunte strutture sotterranee, tunnel o depositi di armi. “Usando il riconoscimento delle immagini del software, i soldati possono scovare minuscoli cambiamenti in anni di riprese satellitari di Gaza che suggeriscono come Hamas abbia piazzato un lanciarazzi o scavato un nuovo tunnel su terreni agricoli” scrive il Washington Post sulla base delle rivelazioni di un ex capo militare che ha lavorato a questi sistemi di intelligenza artificiale. Altri programmi, come “Lavender”, utilizzano punteggi in percentuale per stimare la probabilità che una persona appartenga a gruppi armati. Elementi come la presenza in determinate chat o l’uso frequente di più linee telefoniche possono alzare il livello di sospetto. Applicazioni come “Hunter” e “Flow”, invece, consentono ai soldati israeliani sul campo di battaglia di accedere a dati in tempo reale, inclusi video in tempo reale delle zone a cui si avvicinano e stime su possibili vittime civili. Questi sistemi si interfacciano con “Gospel”, potenziando l’intero processo di acquisizione degli obiettivi. LE “FONTI” DELL’IA Gli algoritmi attingono a intercettazioni telefoniche, droni, database di reti sociali e sensori sismici. Tutte queste informazioni confluiscono appunto in “the pool”, un archivio centralizzato creato per conservare possibili indizi sulla presenza di strutture e militanti di Hamas. LA PROCEDURA DI VALIDAZIONE DEI DATI Gli algoritmi producono coordinate e suggerimenti di obiettivi da colpire. Un analista umano verifica le segnalazioni, inoltrandole a un ufficiale di grado superiore che le inserisce nel cosiddetto “target bank”, la banca data degli obiettivi. I VANTAGGI DELL’IA IN GUERRA Le ricerche e le analisi che prima richiedevano una settimana vengono ora completate in soli 30 minuti. L’IDF per esempio utilizza l’IA per trascrivere migliaia di conversazioni ogni giorno e rintracciare rapidamente possibili minacce nelle parole che si scambiano i palestinesi. Alcuni ufficiali ritengono che la velocità di analisi dell’IA possa ridurre la durata del conflitto e limitare il numero di vittime sul campo. Secondo i vertici militari israeliani, questa tecnologia permette di aggiornare i piani d’attacco in tempo reale, offrendo maggiore precisione e un notevole risparmio di risorse umane e logistiche. GLI ERRORI CHE PUÒ COMMETTERE L’IA Tuttavia alcuni soldati ed ex ufficiali dell’IDF – che hanno parlato in forma anonima con il Washington Post – hanno dubbi sulla capacità dell’IA di interpretare correttamente il linguaggio locale. In uno dei casi raccontati al giornale di proprietà di Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, gli algoritmi non sono riusciti a distinguere tra la parola “batikh” (in arabo “anguria”) usata come codice per le bombe e quella riferita al frutto reale. Le IA, tarate sulla ricerca di possibili segnali d’allarme, rischiano così di generare un eccesso di falsi positivi e di spingere i militari a valutare come sospette anche le conversazioni più innocue. Un altro esempio preoccupante di errore che può commettere una IA è la stima del numero di civili presenti in un edificio, a cui solitamente l’IDF arriverebbe basandosi anche sul conteggio dei telefoni connessi a una cella, ignorando per esempio bambini o dispositivi spenti o scarichi nel momento in cui vengono conteggiati gli smartphone. Non è sempre chiaro, inoltre, se un’informazione su possibili obiettivi proviene da una macchina o da un analista umano: tutto questo rende più rischiosa la valutazione da parte di chi, alla fine, deve decidere o meno se sferrare un attacco. Un ex alto ufficiale dell’IDF ha detto al Washington Post che la troppa fiducia nei sistemi automatizzati ha alimentato nell’esercito l’idea di un’avanzata sorveglianza “onnisciente”. Affidandosi alle dichiarazioni di due ex militari israeliani, il Washington Post ha scritto che “l’entusiasmo per l’intelligenza artificiale ha eroso la “cultura dell’avvertimento” dell’Unità 8200, secondo cui anche gli analisti di basso livello potevano facilmente informare i comandanti superiori sulle minacce in corso”. Secondo queste fonti, l’IA può contribuire ad agire più in fretta, ma non a ridurre gli errori in un contesto bellico complesso come quello di Gaza. IL RUOLO DELL’UNITÀ 8200 L’adozione di tecnologie di IA è stata accelerata dalla Unit 8200, il reparto d’élite dell’intelligence israeliana. A guidare l’integrazione dell’IA nelle operazioni militari è stato il generale Yossi Sariel, convinto sostenitore della necessità di automatizzare le strategie decisionali in battaglia. Sariel è l’autore di un libro dal titolo The Human-Machine Team: How to Create Synergy Between Human and Artificial Intelligence That Will Revolutionize Our World” in cui sostiene “la necessità di progettare una macchina speciale in grado di elaborare rapidamente enormi quantità di dati per generare migliaia di potenziali “bersagli” per attacchi militari in piena guerra”. Sariel ha promosso un radicale potenziamento dell’ingegneria dei dati, riducendo gli specialisti di lingua araba e ridisegnando la struttura dell’Unità 8200, che oggi è composta per il 60% da ingegneri ed esperti tech, il doppio degli informatici arruolati dieci anni fa. I CIVILI “SACRIFICABILI” Secondo le testimonianze di ex soldati e analisti raccolte dal Washington Post, la fiducia nell’IA ha portato l’IDF a ridurre alcuni passaggi di validazione e controllo, col risultato di aumentare il numero di obiettivi ritenuti legittimi. Anche se questi comportano un maggior rischio di vittime tra i civili. Dalla proporzione di 1:1 del 2014 (un civile “sacrificabile” per colpire un membro di Hamas di alto livello) si è passati a 15:1 o persino 20:1 nel conflitto attuale, stando alle fonti del Washington Post e a quanto hanno dichiarato organizzazioni umanitarie. Molti analisti sostengono che, sebbene queste tecnologie siano destinate a diffondersi tra i paesi in guerra, la supervisione umana rimane fondamentale per contenere errori e salvaguardare vite. (Pier Luigi Pisa su “La Stampa” on line del 30 dicembre 2024)
December 31, 2024 / il Rovescio
Potenza di cielo, di terra e di mare. Non è Mussolini. È Cingolani
L’intervista che il servo Di Feo ha fatto all’amministratore delegato di Leonardo Cingolani è oltremodo istruttiva. Quello in costruzione è dichiaratamente un complesso scientifico-militare-industriale europeo in cui il colosso italiano degli armamenti ambisce a giocare un ruolo di primo piano. Salta ogni distinzione di facciata tra il civile e il militare, perché la potenza tecnologica deve essere multidominio (concetto-chiave sia del Pentagono sia del partito-Stato cinese). Dai satelliti all’”agricoltura di precisione”, dai supercomputer ai caccia con cui controllare flotte di aerei senza pilota, dalla “cyber-sicurezza” ai nuovi carri corazzati, il programma ha bisogno di “alleanze internazionali di tipo nuovo”, di ingenti fondi statali (“possiamo essere sherpa dei governi”) e di elmetti ben precisi da far indossare ai ricercatori (“Quando mi occupavo di scienza prendevo ricercatori dalla Cina o dall’Iran: sulla tecnologia di Leonardo non lo puoi fare per questioni di sicurezza e il vivaio da cui assumere giovani Stem è limitato”). Serve aggiungere altro? CINGOLANI: “DALLO SPAZIO ALLA PORTAEREI VOLANTE, IL FUTURO DI LEONARDO È LA SICUREZZA GLOBALE” Intervista all’ad di Leonardo: “La sfida del caccia stealth di sesta generazione è partita con la joint venture con Bae Systems e Mitsubishi”. Musk? “Con Starlink è un nostro fornitore, non escludo in futuro altre collaborazioni”. E sui mezzi corazzati “con la tedesca Rheinmetall abbiamo creato uno spazio europeo della difesa” Leonardo ha trovato la quadratura del cerchio. L’amministratore delegato Roberto Cingolani presenta il futuro dell’azienda con una geometria finalmente chiara, in cui settori di attività in apparenza molto diversi – dagli aerei ai carri armati fino ai satelliti – diventano declinazioni della capacità di produrre sistemi digitali avanzati, con un’integrazione accelerata dalla competenza nello spazio, nella cyber, nei supercomputer. Una visione globale di sviluppo tecnologico e industriale che sembra avere convinto i mercati. Oggi ordini e quotazione crescono sulla spinta del riarmo scaturito dalla guerra in Ucraina. Ma quale sarà il futuro di Leonardo? “Siamo partiti da un’analisi sorprendente della guerra in Ucraina: attacco e difesa digitali sono diventati efficaci quanto e forse più di quelli convenzionali. Droni da poche migliaia di euro guidati dalle comunicazioni satellitari hanno distrutto tank costati parecchi milioni. Ci siamo poi resi conto dell’importanza delle sinergie: l’Europa si è presentata frammentata mentre in questo mercato nessuno ce la fa da solo. La terza considerazione è che quando è scoppiata la guerra, prima ancora di misurarne le drammatiche conseguenze umane, abbiamo vissuto qualcosa che non pensavamo potesse accadere: l’insicurezza globale in campo energetico, alimentare, cibernetico e persino delle infrastrutture. Per questo è indispensabile andare verso un approccio più ampio di sicurezza globale, che – sperando di vedere terminare i conflitti il prima possibile – va portato avanti anche in tempo di pace, che noi chiamiamo “multidominio interoperabile””. Che cosa vuol dire? “Abbiamo sfruttato quella che poteva essere una nostra debolezza: Leonardo fa le cose più complesse come aerei ed elicotteri, che sono pure le più costose perché devi investire tanto e i margini di profitto possono risentirne. Ma se l’esigenza attuale è garantire che tutte le piattaforme dialoghino, allora noi produciamo i sistemi spaziali che permettono di supervisionare quello che succede e di garantire le comunicazioni. Abbiamo inoltre la dimensione cyber per proteggere le connessioni; le strumentazioni elettroniche e il supercalcolo, con uno dei computer più potenti al mondo. Oltre Leonardo, quale altra azienda internazionale poteva fare questo discorso globale? In sintesi, Leonardo del futuro sarà un’azienda sempre più internazionale e interconnessa che come prodotto centrale avrà la sicurezza globale. La speranza come cittadino e come padre è che non ci siano guerre: la sicurezza globale va assicurata a prescindere anche in tempo di pace, perché ad esempio la protezione cyber di reti e di dati va garantita sempre. I satelliti permettono il monitoraggio delle infrastrutture, l’agricoltura di precisione, la climatologia avanzata. Questi sistemi danno una sicurezza declinata su tutte le voci: abbiamo messo in piedi una tecnologia che opera su tutti i domini, ossia in terra, in cielo e spazio, nel mare e nel digital continuum”. La sfida più ambiziosa è il Gcap, Global Combat Air Programme: un caccia stealth di sesta generazione. Neppure gli Usa stanno progettando qualcosa di simile. Quanto sarà impegnativo? “Si tratta di sviluppare un caccia invisibile ai radar in grado di controllare una flotta di aerei senza pilota. In pratica, sarà una sorta di supercomputer volante: a me piace paragonarlo a una portaerei che sta in cielo. La sfida è veramente impegnativa: abbiamo firmato venerdì l’accordo con la britannica Bae Systems e con la giapponese Mitsubishi per la nascita della joint venture. L’ingresso in servizio è previsto nel 2035. La prima parte del programma finanziata dai tre Paesi per 45 miliardi di euro riguarda l’aereo madre. Nella seconda parte ci sono gli altri due elementi fondamentali. Lo sviluppo dei droni, che sono veri aerei senza pilota da ricognizione, attacco, intercettazione. Stiamo decidendo se questi Adjunt Fighter nasceranno con un modello universale o con tanti progetti già specializzati. Poi c’è lo sviluppo del software di intelligenza artificiale che comanda lo sciame di macchine. Non è escluso che ciascuno dei partner sviluppi la propria Ai. Ma non c’è tempo da perdere perché i progetti vanno realizzati insieme. Indubbiamente il programma Gcap richiede uno sforzo impegnativo. In Europa c’è pure il consorzio Fcas franco-tedesco-spagnolo che si muove su un’idea simile ma appare in ritardo rispetto a noi. E c’è forte interesse nel resto del mondo, con Paesi come l’Arabia Saudita che stanno chiedendo di entrare nel Gcap”. Quando ci sarà una decisione sui sauditi? “Adesso avremo alcuni mesi di lavoro per definire i piani dettagliati della joint venture, poi si deciderà sui nuovi partner. Un programma di questo genere ha un costo complessivo di almeno 100 miliardi di euro: ben vengano altri Paesi pronti a contribuire. Con i sauditi esiste un antico rapporto di fiducia nato con l’adozione del Tornado e dell’Eurofighter: hanno voglia di creare un’industria aeronautica, che può legarsi al programma Gcap e metterli al centro del grande mercato mediorientale”. L’accordo con i tedeschi di Rheinmetall invece vi dà un ruolo leader nei mezzi corazzati. Quanto peserà negli assetti europei della difesa? “E’ la prima chiara dimostrazione che si può creare uno spazio europeo della difesa a livello industriale, in cui possiamo essere sherpa dei governi. Il punto vincente è la sinergia tecnologica: noi sulla parte digitale siamo utili a Rheinmetall mentre loro hanno un tank allo stato dell’arte, il Panther. E’ il classico caso in cui uno più uno fa tre: non abbiamo soltanto sommato le capacità, c’è stata la tessitura delle nostre rispettive tecnologie. L’Italia deve rinnovare il suo arsenale di terra: serviranno oltre 1200 mezzi corazzati nei prossimi dodici anni, tra carri armati e veicoli trasporto truppe, e le nuove piattaforme saranno le più avanzate. L’Europa in questo segue l’Italia e c’è un gran bisogno di rinnovamento negli eserciti di altri Paesi. L’Ue infatti ha un confine problematico, a contatto con quella che ora è la zona più calda del pianeta: i russi hanno invaso l’Ucraina con migliaia di tank e con amarezza bisogna prendere atto che la situazione è questa”. Il polo dei mezzi corazzati sarà a la Spezia. Avete problemi a trovare il personale? “Ne abbiamo un po’ a tutti i livelli, non solo per La Spezia ma pure per gli elicotteri e per tutte le nostre attività industriali. Noi assorbiamo figure Stem – ossia esperte in scienza, tecnologia, ingegneria e matematica – non solo per la manifattura avanzata ma anche per generare l’intelligenza artificiale e il supercalcolo: oggi ad esempio trovare un esperto di Ai è difficile perché la domanda è enorme e l’offerta è quantitativamente insufficiente. E non si può nemmeno andare a cercare dai Paesi vicini perché in Europa il problema ce l’hanno tutti. Quando mi occupavo di scienza prendevo ricercatori dalla Cina o dall’Iran: sulla tecnologia di Leonardo non lo puoi fare per questioni di sicurezza e il vivaio da cui assumere giovani Stem è limitato. A questo vorrei aggiungere che in Italia c’è carenza di manodopera specializzata, tipicamente di periti meccanici ed elettronici per lavorare nelle macchine a controllo numerico o nei materiali avanzati. Ancora una volta questa crescita esponenziale delle tecnologie dimostra che per essere competitivi bisogna fare investimenti in formazione, mentre l’Italia come tutta l’Europa va a rilento su questo fronte. Io ritengo che sarebbe necessario introdurre una prospettiva diversa: oggi non ci sono più la ricerca di base e quella applicata, c’è solo la ricerca buona. Ci dobbiamo rendere conto che non è importante solamente la pubblicazione sulla scienza di frontiera ma che pure la tecnologia dei brevetti ha la stessa dignità per lo sviluppo della società”. Voi all’inizio del millennio eravate protagonisti nel mercato dei droni con il Falco: oggi Leonardo è ancora nella partita? “Posso dire senza giri di parole che sui droni abbiamo perso il treno. L’unico modo di superare il gap è fare accordi internazionali che puntino sulle nostre capacità digitali: ci stiamo lavorando intensamente”. Invece il convertiplano AW 609? C’è grande interesse su questi ibridi tra aereo ed elicottero… “L’AW 609 è una macchina superinnovativa e siamo in due al mondo a possedere questa tecnologia: Bell per la parte militare e Leonardo per quella civile. Vola alla velocità di un aereo, alla quota di un aereo e decolla come un elicottero ma con un’autonomia di 1500 chilometri impensabile per un elicottero. Il nostro prototipo avrà presto la certificazione civile e poi valuteremo le applicazioni militari. Il fatto è che queste tecnologie sono talmente innovative da richiedere investimenti molto rilevanti: nel corso degli anni hanno superato il miliardo di euro” Lo spazio è sempre più la nuova frontiera. Con quali prospettive? “Leonardo non poteva continuare a essere un operatore invisibile, nel senso che le nostre partecipazioni non comparivano nel bilancio. Abbiamo creato una divisione spazio e razionalizzato tutto: ad esempio, Telespazio è stata consolidata rinegoziando gli accordi con Thales. Andremo a intercettare la fetta di mercato più ricca della space economy: il nostro focus saranno i servizi satellitari, end to end, dalla costellazione alla stazione di terra. Con applicazioni che vanno dalla difesa alla geologia, all’agricoltura alla geolocalizzazione: noi possiamo fare tutto grazie alla capacità digitale, come le analisi delle immagini con l’intelligenza artificiale, che ci rende più forti”. Quali sono le prospettive dell’Europa nella space economy? “Gli Stati Uniti hanno avuto l’intuizione di non potere andare avanti solo con i finanziamenti istituzionali. Nell’Unione Europea l’80% dei fondi sono statali; negli Usa invece si è creato un meccanismo pubblico-privato, reso possibile dalla presenza di investitori con enormi disponibilità. L’unica strada anche qui è accelerare moltissimo le alleanze europee: noi ci presentiamo con un piano chiaro e tecnologie innovative e quindi in grado di collaborare con chiunque. Lo ripeto: nessuno ce la fa da solo”. Voi avete una collaborazione con Starlink di Elon Musk, intendete ampliarla? “Per ora Starlink è un nostro fornitore: per noi è assolutamente normale comprare banda da diverse costellazioni di satelliti. Ovviamente in futuro non escludo altre collaborazioni”. Leonardo ha uno dei supercomputer più potenti del mondo: che ricadute ha sugli altri settori di attività? “Serve per tutto quello che ha bisogno di intelligenza artificiale. Noi intendiamo tenere questa macchina sempre allo stato dell’arte perché è un asset straordinariamente importante e abbiamo avviato una trasformazione sui cloud e i data center. Molte cose bollono in pentola. Come la collaborazione con il Piano Strategico Nazionale, quella con Cineca e ci sono progetti internazionali su macchine ad altissime prestazioni in cui Leonardo potrebbe essere coinvolta. Noi sviluppiamo intelligenza pervasiva, ossia che si applica a tutto, e generativa, che impara mentre elabora i dati, ma addirittura generiamo la Ai federativa: tiene silos informativi multidominio separati, rispettando la privacy dei dati di ciascuno pur imparando da tutti. E’ il software più simile a un essere umano”. Il settore più in difficoltà è quello degli aerei civili, che risente della crisi di Boeing. Cosa farete a Grottaglie e negli altri impianti? “Ora c’è ottimismo sulla ripresa di Boeing. Ma abbiamo accumulato perdite importanti negli ultimi sette anni. Il settore civile è dominato da due big: essere loro fornitori implica tanto lavoro con grandi investimenti e margini minimi. E’ un modello di business rischioso. Questa è una compagnia che sta crescendo molto bene, gli investitori lo hanno capito: la marginalità nelle altre attività ci consentono di fare investimenti per rimanere competitivi nel tempo e mantenere le nostre tecnologie allo stato dell’arte. Allora anche in quegli impianti devo creare una speranza: non perdere un solo posto trasferendo lì altre produzioni e costruire subito alleanze internazionali di tipo nuovo per poter essere competitivi”. (intervista di Gianluca Di Feo, “la Repubblica”, 15 dicembre 2024)
December 20, 2024 / il Rovescio
ENI DI CALENZANO COME L’ENEL DI SUVIANA: UN’ALTRA STRAGE DI LAVORATORI
Segnaliamo questo comunicato del Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio di Sesto San Giovanni sull’ennesima strage di operai compiuta in nome del profitto. Su due cose ha particolarmente ragione il Comitato di Sesto: i lavoratori fanno notizia solo quando muoiono a grappoli; senza autorganizzazione e lotte avremo solo chiacchiere, lacrime di coccodrillo e qualche inutile “sciopericchio”. A questo aggiungiamo che Eni è la stessa che saccheggia e devasta in giro per il mondo e che è pienamente responsabile del genocidio del popolo palestinese per le mire – in comune tra il “cane a sei zampe” e il governo israeliano – sui giacimenti di gas al largo delle coste di Gaza. ENI DI CALENZANO COME L’ENEL DI SUVIANA: UN’ALTRA STRAGE DI LAVORATORI A pochi mesi dalla strage all’Enel di Suviana – svanita nel nulla da punto di vista dell’informazione dopo le lacrime da coccodrillo e i “mai più” dei soliti politici e dei soliti media – ieri un’esplosione nell’impianto ENI di Calenzano causa la morte di 5 lavoratori e il ferimento gravissimo di altri 26 (fino ad ora). Sono Vincenzo Martinelli, Carmelo Corso, Gerardo Pepe, Franco Cirielli e Davide Baronti. Autotrasportatori e manutentori che giravano il Paese per fare il proprio lavoro e che ieri si trovavano proprio nei pressi delle cisterne esplose dove la deflagrazione li ha colpiti in pieno senza dar loro scampo. ENI non è una fabbrichetta di fuochi artificiali che salta in aria. ENI è un’azienda multinazionale, l’azionista di controllo è il nostro Ministero dell’Economia, è una società che opera in 61 paesi con più di 30.000 dipendenti nei settori del petrolio, gas naturale, chimica, energia elettrica e altri. Un colosso quindi, esattamente come l’ENEL. Nello stabilimento di Calenzano – 170 mila mq. – vengono stoccati in 24 serbatoi i carburanti che arrivano dall’oleodotto di Livorno. Una scintilla (da quanto si sa finora) ha provocato una enorme esplosione e chi si trovava nel piazzale centrale non ha avuto scampo. Anche lavoratori di altri siti nelle vicinanze sono finiti all’ospedale con lesioni dovute allo scoppio dei vetri a un chilometro di distanza e traumi alle orecchie. Negli ultimi tempi, denunciano i sindacati, si risparmiava sui costi facendo fare ai camionisti – e non a personale specializzato – il lavoro di carico dei carburanti (e vedrete che la colpa ricadrà proprio su di loro, ultimo anello di una catena insanguinata che ha il profitto a tenerla insieme). Tra l’altro lo stabilimento è situato in un luogo particolare: si trova a 40 metri dalla linea ferroviaria Firenze-Bologna, a 800 metri dall’autostrada A1 e a 5 km. dall’aeroporto Vespucci; nei pressi ci sono hotel, altre fabbriche, un centro commerciale. Poteva essere un’altra Viareggio. Lo denuncia Medicina Democratica che oggi, per bocca del suo presidente Marco Caldiroli, dice: “Nel 2017 e nel 2020 il Comitato Tecnico regionale, nel verificare la situazione all’interno dei reparti in relazione agli impianti di sicurezza, aveva rilevato che non erano all’altezza di un rischio maggiore. Nel 2023 ‘improvvisamente’ tutto si sistema”. Caldiroli si chiede anche in cosa sia consistita questa “improvvisa” sistemazione: in un effettivo intervento concreto sugli impianti o in qualcosa che sta solo nelle carte? I morti e i feriti di Calenzano – come quelli di altre stragi e come lo stillicidio di morti di lavoro ogni giorno – sono lo specchio del lavoro operaio in Italia: italiani e stranieri, giovani e anziani, mandati allo sbaraglio pur di risparmiare sulla sicurezza. E lo diciamo chiaramente anche se “l’inchiesta è in corso”. Inchiesta che finirà per accertare che le misure di sicurezza non venivano adottate correttamente, che non erano adeguate al rischio, che i camionisti rimasti uccisi non erano formati per effettuare il lavoro che stavano eseguendo, che c’erano già state denunce – inascoltate – sul pericolo rappresentato non solo per i lavoratori ma per tutto l’intorno. E quanti “punti” toglierà a se stesso – in quanto proprietario – lo Stato italiano e questo governo che non vuole “disturbare il manovratore”? Anche quelli di Calenzano (ENI), di Brandizzo (Rete Ferroviaria Italiana), di Suviana (ENEL) sono i morti di “progresso” di aziende fiore all’occhiello, progresso che è precarietà, risparmi sulla sicurezza per massimizzare i profitti, condizioni di lavoro ottocentesche. Quel “progresso” che da più di trent’anni – complici leggi che governo dopo governo, di ogni colore, hanno portato alla precarietà più selvaggia in nome del profitto e alla totale impunità dei padroni – fa ogni anno più di 1.500 morti di lavoro, che fanno notizia solo quando muoiono in gruppo come ieri. Per qualche giorno sentiremo nuovamente l’ormai insopportabile piagnisteo di istituzioni, politici e giornalisti, i sindacati confederali faranno uno sciopericchio e… tutto continuerà fino alla prossima strage. Zitti invece i mandanti, i padroni a cui è assicurata l’impunità, perché le leggi si fermano alle porte dei luoghi di lavoro. Il capitalismo è sfruttamento, miseria e morte di tanti per il profitto di pochissimi; è un tritacarne che ingoia i proletari e che continuerà a farlo finchè non lo rovesceremo. Con questo nuovo lutto nel cuore, ripetiamo quanto detto innumerevoli volte. Il primo passo da fare è organizzarsi, lottare per difendere la nostra vita e A CONDIZIONI DI MORTE NON LAVORARE. COMITATO PER LA DIFESA DELLA SALUTE NEI LUOGHI DI LAVORO E NEL TERRITORIO Sesto S.Giovanni, 10.12.2024
December 13, 2024 / il Rovescio
Stanchi di guerra, diserzioni a valanga su entrambi i fronti
SEGNALIAMO QUESTO ARTICOLO USCITO SU “IL MANIFESTO” DEL 4 DICEMBRE. SI TRATTA DI UN TESTO PIUTTOSTO SORPRENDENTE, SIA PERCHÉ RIPRENDE LA DOCUMENTAZIONE CHE SULLA DISERZIONE DIFFONDE DA TEMPO “ASSEMBLY”, IL COLLETTIVO ANARCHICO DI KHARKIV, SIA PER LA CONCLUSIONE CHE CONTIENE.    STANCHI DI GUERRA, DISERZIONI A VALANGA SU ENTRAMBI I FRONTI Il limite ignoto – Boom di defezioni tra i soldati russi e ucraini. E c’è chi punta le armi contro i suoi capi Lo scorso mese, su un grattacielo alla periferia di Kharkiv, in Ucraina orientale, è improvvisamente comparso uno strano slogan: «I fucili – diceva – puntateli contro coloro che ve li hanno messi in mano». La frase, dal gradevole retrogusto eversivo, sarebbe certamente piaciuta agli ex soldati russi Vyacheslav Trutnev e Dmitry Ostrovsky, che dopo aver disertato dall’esercito di Putin, a inizio ottobre, hanno scritto e diffuso via social la seguente canzone rap: «Me ne frego se mi chiamano traditore/ non ho perso la mia dignità/ Aiutiamo le nostre madri/ mettiamolo in culo ai nostri comandanti». E POI, C’È CHI È GIÀ PASSATO dalle parole ai fatti, come il disertore pietroburghese Alexander Igumenov, che la sera del 30 ottobre scorso ha accolto il capo della pattuglia venuta ad arrestarlo puntandogli direttamente una pistola in mezzo agli occhi: «O ti levi di torno – gli avrebbe detto -, oppure al ministero della Difesa avranno bisogno di un ufficiale in più». Una scena non molto dissimile si è verificata la settimana successiva sull’altro versante del confine, nel villaggio ucraino di Lykhivka, dove un anonimo camionista si è smarcato da un gruppo di reclutatori dell’esercito minacciandoli con un fucile e una bottiglia Molotov. Non sappiamo se l’uomo avesse ascoltato le rime di Trutnev e Ostrovsky, ma è certo è che il clima di mobilitazione patriottica, tra la Moscova e il Dnipro, ultimamente sembra essersi parecchio guastato. PER SINCERARSENE, basta consultare i recenti report pubblicati dal collettivo anarchico “Assembly” di Kharkiv (assembly.org.ua), che dal febbraio del 2022 si sforza di censire ogni singolo episodio di ribellione antimilitarista su entrambi i lati del fronte. «La fuga del personale delle Forze Armate – scrivono gli attivisti nel loro ultimo rapporto, datato novembre 2024 – ha ormai assunto il carattere di una valanga». E in effetti i numeri parlano piuttosto chiaro. Dall’inizio dell’invasione a oggi, secondo i dati della Procura generale, circa 95mila soldati ucraini sarebbero stati incriminati per aver abbandonato i propri reparti senza autorizzazione. Di questi, circa 60mila uomini avrebbero gettato la divisa nel corso del 2024, e ben 9.500 nel solo mese di ottobre. Ma è probabile che il fenomeno sia ancora più vasto: «Di sicuro il numero dei nostri disertori ha già superato i 150mila e si avvicina a 200mila – ha scritto il giornalista di Kiev Volodymyr Boiko, che attualmente presta servizio nella 101ma Brigata delle Forze armate ucraine – Se le cose vanno avanti così, arriveremo a 200mila entro fine dicembre». ANCHE SUL FRONTE RUSSO la gente sembra ormai stanca di combattere: è degli scorsi giorni la notizia che circa mille uomini avrebbero disertato in massa dalla 20ma Divisione fucilieri motorizzata, trascinando con sé persino 26 ufficiali, un maggiore e un colonnello. «I militari che si danno alla macchia sono sempre più numerosi – si legge in un messaggio che gli attivisti di “Assembly” hanno recentemente ricevuto da Horlivka, nella repubblica filorussa di Donetsk – Qualcuno va ripetendo in giro che i nostri soldati dovrebbero smetterla di sparare agli ucraini, e che piuttosto bisognerebbe aprire il fuoco contro chi ci governa. Ma la gente ha ancora paura di questi discorsi, e in molti si fanno prendere dal panico: “Volete tornare al 1917?”, chiedono, “Volete la guerra civile?”». Un altro messaggio proviene da un giovane coscritto dell’esercito di Putin dislocato sul fronte di Kursk: «Molti dei nostri ufficiali sono dei veri nazisti – dice -. Ho parlato con il capo delle comunicazioni della Divisione mortai, il quale senza troppi giri di parole mi ha esortato a leggere “i pensatori tedeschi degli anni Trenta”. D’altro canto, gli uomini della truppa appartengono quasi tutti alla classe operaia, e in generale non hanno nessuna voglia di combattere. Perciò quando spiego ai miei compagni che questa è una guerra ingiusta, di padroni contro altri padroni, in tanti si dicono d’accordo con me». È UNO SCENARIO CHE STRIDE non poco con quello insistentemente magnificato dagli uffici di propaganda, che a Mosca come a Kiev continuano a battere sulla grancassa dell’“armatevi e partite”. La musica al fronte è un po’ diversa. Il 3 ottobre a Voznesensk, nella regione di Mykolaiv, circa cento soldati della 123ma Brigata di difesa territoriale ucraina hanno dato vita a una improvvisa manifestazione di dissenso e si sono rifiutati di andare in trincea, protestando per la mancanza di armi ed equipaggiamento adeguato. La stessa cosa era accaduta appena il giorno prima a Vuhledar, sul fronte di Donetsk, dove un altro battaglione della 123ma Brigata, il numero 86, aveva voltato le spalle al nemico e si era dato alla fuga, permettendo peraltro alle truppe russe di conquistare la città. L’unica vittima dell’ammutinamento era stato il comandante in capo del reparto, il 33enne Igor Hryb, che secondo alcune fonti sarebbe stato giustiziato dai suoi stessi uomini dopo che, invano, aveva cercato di fermarli. Gli ufficiali, del resto, hanno vita difficile anche sull’altro versante del fronte, dove le possibilità che vengano abbattuti dal fuoco amico sono forse ancora più numerose. Solo negli ultimi mesi, infatti – sempre secondo “Assembly” – i casi di comandanti moscoviti fatti fuori dai propri soldati sarebbero stati almeno tre. L’ultimo episodio risale al maggio scorso, quando i militari dell’unità 52892 dell’esercito di Putin, «portati alla follia» dagli sfiancanti turni di guardia, hanno deciso di aprire il fuoco contro il proprio capo-brigata, ammazzandolo sul colpo. Perché i fucili – come sostengono i writer di Kharkiv – bisogna saperli puntare nella direzione giusta. (articolo di Andrea Sceresini uscito su “il manifesto” del 4 dicembre 2024)
December 8, 2024 / il Rovescio
Un dossier contro il DDL 1660
Segnaliamo questo utile e dettagliato dossier contro la legge elmetto-manganello scritto dal C.O.R.E. (Comitato romano contro carcere e repressione). Se condividiamo appieno il fatto che questo DDL sia a tutti gli effetti un provvedimento di guerra e che vada contrastato come tale, le griglie interpretative marxiste del rapporto classi-Stato-Diritto non sono ovviamente le nostre.  Scarica il dossier: DDL_1660_progetto_grafico
November 28, 2024 / il Rovescio
La nuova frontiera dei semi digitali
Segnaliamo da https://terraeliberta.noblogs.org/ Pubblichiamo un capitolo de Perché fermare i nuovi OGM, di Stefano Mori e Francesco Panié (Terra Nuova, Firenze, 2024). Si tratta di un libro accurato, documentato e chiaro sulle nuove tecniche di ingegneria genetica applicate alle piante e sui relativi brevetti, tecniche e brevetti visti come il capitolo finale dell’industrializzazione dell’agricoltura. Un aspetto poco considerato quando si parla di nuovi OGM, e sul quale si concentra invece il testo che pubblichiamo, è l’intreccio convergente tra bio-informatica, biologia di sintesi e biotecnologie. A determinare tale intreccio non è solo la logica del profitto (causa-effetto della fusione tra ricerca e industria), ma il fatto che l’informatica e la biologia molecolare dominante hanno lo stesso paradigma: quello cibernetico. L’idea, cioè, che tutta la realtà vivente sia un flusso di informazioni e che tale flusso possa essere controllato e riscritto (non a caso si parla di editing genetico) a piacimento. Per modificare (e brevettare) le piante non serve più nemmeno un sostrato biologico, ma è sufficiente il sequenziamento genetico presente nelle banche dati; a partire da quel “doppione digitale” si possono costruire nuove sequenze in laboratorio (biologia di sintesi), da introdurre poi nell’elemento organico vero e proprio attraverso l’ingegneria genetica (con i nano-materiali come vettori della “riscrittura” genetica). È esattamente lo stesso processo – e lo stesso paradigma – con cui sono stati prodotti i “vaccini codificanti” a m-RNA. Sequenziamento informatizzato del virus; modello biologico elaborato con l’Intelligenza Artificiale; costruzione in laboratorio di una nuova molecola; “informazioni” genetiche da introdurre nei corpi e nanoparticelle come vettore delle “informazioni” che le cellule devono “trascrivere”. Il tutto, ça va sans dire, sottoposto a brevetto. Chi pensa che, fuori dai tempi accelerati delle Emergenze, i modi di procedere della tecno-industria siano più cauti, si sbaglia di grosso. Una volta messo “il piede nella porta”, il territorio da conquistare si allarga a tutto il resto. Infatti, le deroghe alle normative europee in materia di OGM, necessarie per poter commercializzare i “vaccini anti-Covid”, hanno aperto la strada alla deregolamentazione delle Nuove Tecniche Genomiche (NTG) in agricoltura, nonché accelerato la corsa a produrre farmaci genetici per ogni genere di malattia. Quello che avanza insieme a profitti da capogiro è un riduzionismo tanto feroce – le informazioni come “mattoncini” di tutto il vivente, i corpi come algoritmi biochimici – da far impallidire il ben più grossolano meccanicismo dell’Otttocento. L’incubo in cui vogliono incarcerarci è una sorta di piattaforma universale, integrazione di Internet delle cose e Internet dei corpi, ciò che IBM chiama Pianeta Smart. I due autori sostengono alla fine del libro che per provare a fermare un simile attacco al vivente serve tenere una falce in una mano e un libro di diritto nell’altra. Sulla falce siamo d’accordo. La nuova frontiera dei semi digitali I progressi della biologia molecolare da un lato, e delle tecnologie dell’informazione dall’altro, investono le risorse genetiche e i processi biologici in un modo mai visto prima. Il fenomeno dei big data derivanti dal sequenziamento del Dna è figlio delle tecnologie informatiche di nuova generazione, che aprono orizzonti inediti per quello che Luigi Pellizzoni chiama «nuovo dominio della natura»*. Con il termine “sequenziamento” si intende il processo di determinazione e documentazione dell’ordine delle unità costitutive (i nucleotidi) su un determinato frammento di Dna. Prima di arrivare a mettere in ordine questi minuscoli mattoncini, considerati l’elemento base del codice genetico, c’è voluto tempo. Abbiamo lasciato Watson e Crick in piedi su quel tavolo dell’Eagle Pub di Cambridge nel 1953, elettrizzati per aver scoperto la struttura a doppia elica tridimensionale dell’acido nucleico. Quasi venticinque anni più tardi, il 24 febbraio del 1977, sulla rivista Nature, compare un articolo composto per metà da combinazioni di quattro lettere: A-C-T-G. Ancora una volta la scoperta è ad opera di un team di scienziati di Cambridge. Alla guida, il chimico Frederick Sanger1. La lista di lettere rappresenta nientemeno che i nucleotidi Adenina, Citosina, Timina e Guanina, che compongono il Dna. Decine di righe con tutte le combinazioni trovate dagli scienziati descrivono il primo sequenziamento di un genoma, che appartiene al virus batteriofago ΦX174. Sanger aveva il pallino di mettere le cose in fila. Ci aveva già vinto un Nobel nel 1958, determinando l’ordine delle molecole che compongono l’insulina. Con il sequenziamento del Dna virale, però, scende al livello di dettaglio più profondo mai raggiunto dalle scienze della vita, che gli vale un secondo premio Nobel per la chimica nel 1980. È lo stesso anno in cui il riconoscimento arriva anche a Paul Berg per le scoperte sul Dna ricombinante, che segnano la nascita dell’ingegneria genetica. Il lavoro di Sanger apre un capitolo di studi che portano, negli anni Novanta, all’ambizioso progetto “Genoma umano”2. Completato nel giugno 2003 e sponsorizzato soprattutto dal governo statunitense, il progetto ottiene un finanziamento di 3 miliardi di dollari e coinvolge centri in diversi paesi del mondo. Quello che ci interessa, qui, è osservare l’intersezione di diversi campi del sapere e come questo, nel Novecento, abbia portato all’emersione di un nuovo modo di intendere la vita. Un modo che ha prodotto, tra le altre cose, gli organismi geneticamente modificati. L’informatica è uno di quei settori che ha un ruolo determinante nel processo. L’aumento della potenza di calcolo, infatti, è funzionale a raccogliere enormi quantità di dati, utilizzati poi nello sviluppo di nuovi prodotti, a volte fisici ma sempre più spesso immateriali. La nuova biotecnologia è basata in modo crescente sull’estrazione delle informazioni genetiche e la loro digitalizzazione. Utilizzare i bits al posto della controparte materiale per sviluppare prodotti commerciali, cambia in maniera radicale l’approccio scientifico, abilitando percorsi di mercificazione basati non più sulla realtà, ma su ipotesi relative al funzionamento dei tratti genetici e alle proprietà che emergerebbero dalla loro combinazione. Queste inferenze vengono accettate come vere, o anche soltanto verosimili, con un’approssimazione che non obbliga più a fornire la controprova. Anzi, è più che sufficiente una “sostanziale equivalenza” a innescare cicli di appropriazione e privatizzazione del vivente. Si tratta di un procedimento che avviene per convenzione, senza necessità di fornire prove circostanziate a supporto delle affermazioni o valutare percorsi alternativi. […] questa modalità operativa oggi è il motore del progresso tecno-scientifico. Dematerializzare i geni: la Dsi Certo, per produrre colture – anche a livello industriale – rimarrà sempre una dipendenza dal materiale genetico, ma è ormai evidente la tendenza a integrare o sostituire gli oggetti fisici delle attività di ricerca e sviluppo con operazioni computerizzate basate su informazioni di sequenza digitali (Digital sequence information o Dsi). La conseguente crescita esponenziale dei dati generati pone una serie di nuove questioni etiche, normative e legali che osserveremo in questo capitolo. Sono sfide che abbracciano la proprietà intellettuale, la gestione e governance dei dati e co-determinano il doppio movimento di espansione virtualmente illimitata e contemporanea concentrazione del mercato che ne deriva. Là, dove il confine tra naturale e artificiale perde di senso, dove le definizioni sfumano e regna l’indeterminatezza, le nuove forme di accumulazione trovano infatti il loro miglior terreno di coltura. La creazione di organismi modificati con le nuove tecniche genomiche – siano piante, animali o esseri umani – si colloca su questo crinale come attività promettente, che integra in modo sempre più stabile l’impiego dei big data e dematerializza una fase cruciale del processo di produzione del cibo-merce. Gli impatti sulla realtà, però, quelli sì che possono essere tangibili. Lo sanno molto bene i movimenti contadini, che hanno visto salire all’orizzonte la minaccia della Dsi come strumento di espropriazione dei loro saperi tradizionali, l’aggiramento delle norme internazionali sull’accesso alle risorse genetiche e la messa a repentaglio della relativa condivisione dei benefici con chi le ha conservate ed evolute con il lavoro nei campi3. Comunità contadine e indigene sono allenate a fronteggiare i continui tentativi di appropriazione delle loro conoscenze e della biodiversità connessa. Piante medicinali, sementi tradizionali e ogni sorta di sapere collettivo condensato in materia vivente è da tempo oggetto di interesse da parte di governi, imprese e supposti enti filantropici come la Rockefeller o la Gates Foundation. L’attività di bioprospezione (bioprospecting), cioè l’esplorazione della biodiversità per fini di sviluppo commerciale, è antica. Ma emerge come chiara forma capitalistica nel Novecento, con il consolidarsi delle dinamiche di globalizzazione. Il termine viene coniato negli anni Ottanta e già nei primi Novanta è sostituito dai movimenti con il ben più connotato “biopirateria”4. Si tratta infatti, a tutti gli effetti, di un furto di conoscenze tradizionali racchiuse nelle risorse genetiche, con “carotaggi” operati dai ricercatori inviati in missione nel sud globale, che terminano con la brevettazione di un seme o di un farmaco da parte di qualche azienda del nord. Spesso queste operazioni sono state fatte in violazione di accordi internazionali come la Convenzione sulla Biodiversità, il suo Protocollo di Nagoya5 e il Trattato internazionale sulle risorse genetiche6, che vincolano l’accesso al materiale genetico ad alcune condizioni. La Cbd, tramite il Protocollo di Nagoya, impone a chi vuole sfruttare delle risorse genetiche di ottenere un documento di consenso previo e informato (Pic) dal paese di origine del germoplasma, nonché la firma dei Termini di comune accordo (Mat), che disciplinano invece l’uso che si potrà fare di quel materiale. Queste regole valgono per tutta la biodiversità, eccetto quella inclusa nel Sistema multilaterale (Mls) creato nell’ambito del Trattato sulle risorse genetiche7. L’Mls è un meccanismo di accesso facilitato a 2,5 milioni di campioni di semi e piante di 64 specie di colture e foraggi, elencati nell’Allegato 1 del Trattato. Insieme, rappresentano circa l’80% dei consumi umani di vegetali. La maggior parte di questi campioni è stata raccolta dai campi degli agricoltori, che li hanno selezionati e riprodotti di generazione in generazione. Oggi le risorse genetiche ricomprese nel Sistema multilaterale coprono quasi il 40% dei campioni conservati nelle banche del germoplasma. Il 60% proviene da collezioni nazionali, il 5% da collezioni private e il 35% da banche dei semi di una rete internazionale chiamata Cgiar8. L’accesso facilitato al materiale genetico disponibile nel Mls avviene tramite un contratto standard (Smta)9. Il vincolo da rispettare qui è molto chiaro: «I beneficiari non possono rivendicare alcun diritto di proprietà intellettuale o altro diritto che limiti l’accesso facilitato alle risorse fitogenetiche per l’alimentazione e l’agricoltura o a loro parti o componenti genetiche nella forma ricevuta dal sistema multilaterale»10. Tradotto: non si può brevettare un seme o un suo tratto genetico preso da questo “paniere comune”. Adesso però la Dsi permette l’accesso all’informazione genetica indipendentemente da quello al materiale biologico. Il che fa sì che non sia più necessario recarsi in un luogo che fornisce sementi o materiale riproduttivo, avviare negoziati e firmare accordi vincolanti. Sempre più spesso, pezzi di genoma codificati in digitale possono essere scaricati da un database. Ma con quali regole? È esattamente in questo punto che si inserisci il dibattito politico sulla natura delle Dsi. Sono risorse genetiche o dati informatizzati prodotti dalla ricerca? Oltre al Trattato e alla Cbd, la discussione sul tema anima diversi altri spazi internazionali, come la Convenzione sul Diritto del Mare (Unclos) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). I paesi del nord del mondo, Canada e Usa in prima linea, difendono gli interessi dei brevetti e sostengono una definizione di Dsi come dato, non come risorsa. Banchieri del germoplasma, biotecnologi e imprese multinazionali stanno dalla stessa parte. L’accesso alle informazioni di sequenza digitale, dicono, non può essere regolato, dal momento che la libera condivisione delle Dsi è una pratica scientifica comune. Qualsiasi altra soluzione sarebbe controproducente, se non addirittura pericolosa per la salute pubblica o la sicurezza alimentare, poiché renderebbe più difficile alla scienza garantire il benessere che naturalmente deriva dall’innovazione. I movimenti contadini per la sovranità alimentare sono di un altro parere. Partono dal presupposto che la sicurezza alimentare e il benessere non siano un risultato dell’industria tecnologica, ma di condizioni sociali abilitanti per chi produce cibo in agroecologia. Per questo, con il supporto dei governi del sud globale, spingono per il riconoscimento delle informazioni di sequenza digitale come risorse genetiche a tutti gli effetti, quindi soggette alla Convenzione sulla Biodiversità e al Trattato sulle risorse fitogenetiche. Come detto, il Trattato vieta qualsiasi rivendicazione di brevetto sulle risorse genetiche vegetali o su loro componenti, cioè le informazioni genetiche, derivate da semi presenti nel sistema multilaterale. La Convenzione, dal canto suo, protegge le varietà indigene e selvatiche e le conoscenze tradizionali connesse, suggerendo che brevetti e altre forme di proprietà intellettuale non vadano in conflitto con i suoi obiettivi di conservazione e uso sostenibile della biodiversità. Il Trattato, la Convenzione e il suo Protocollo di Cartagena sono stati adottati all’epoca della transgenesi, tra il 1990 e i primi anni 2000. Un tempo in cui l’industria sementiera non era ancora concentrata e sviluppata come oggi. Anche per questo, oltre alla capacità di incidenza politica dei movimenti contadini, è stato possibile ottenere risultati che hanno limitato la privatizzazione. Ora, dunque, le imprese hanno due possibilità: modificare questi testi o violarli. Fanno un po’ entrambe le cose, nel senso che oggi li vìolano mentre lentamente operano per cambiarne l’interpretazione attraverso estenuanti negoziati. Stati Uniti e Canada, i loro alfieri, vantano ottimi diplomatici che fanno il lavoro sporco per le aziende. Il loro stratagemma è ripetere fino alla nausea che non c’è alcun legame tra le sequenze genetiche digitali e le risorse fisiche da cui sono state prese, perciò le une non possono essere regolamentate come le altre. Il legame torna magicamente a manifestarsi quando le aziende ottengono il brevetto legato a quella riga di lettere su un monitor, che si estende a tutti gli organismi del mondo che contengono la sequenza di Dna corrispondente. Riducendola ai minimi termini, Guy Kastler la spiega così: «È come se vi facessi una fotografia e dichiarassi: questa è la foto di Stefano e Francesco. Nel momento in cui identifico questa immagine come la vostra rappresentazione, ho creato un prodotto che posso brevettare. Dunque, voi diventate di mia proprietà. Questa è la Dsi, niente di più, niente di meno». A parte le tecnicalità del processo, le cose vanno così come dice lui. La Dsi viene ricavata dai ricercatori sequenziando campioni fisici ottenuti con prelievi in natura o dalle banche del germoplasma, comprese quelle del Sistema multilaterale. Poi viene caricata in database pubblici (spesso open source) e privati (spesso a pagamento) come prova sperimentale. Tramite processi di biologia sintetica e bioinformatica, oggi è possibile riprodurre queste sequenze con materiale artificiale a partire dai dati, senza più disporre del germoplasma originario. Il processo, condotto in un vuoto legale creato arbitrariamente dai rapporti di forza che bloccano i negoziati internazionali sulla natura delle Dsi, permette dunque il furto della conoscenza contadina e indigena connaturata alle risorse genetiche. Le premesse della nuova biopirateria digitale sono analoghe a quelle già viste in tempi più analogici, ma più sofisticate. La natura della tecnica gioca infatti un ruolo chiave, consentendo processi di smaterializzazione e ri-produzione nei quali l’intreccio di vita e storia viene prima negato dalla digitalizzazione, poi riaffermato dalla sintesi in laboratorio di nuove forme artificiali proprietarie. Oggi milioni di sequenze genetiche digitalizzate sono disponibili su Internet, così che ricercatori e imprese fanno una “pesca a strascico” periodica nei database, prevalentemente localizzati in paesi ad alto reddito. Le loro operazioni non sono adeguatamente tracciate e le Dsi presenti nei database non recano quasi mai informazioni chiare sulla loro origine geografica11. Dietro la retorica della conoscenza libera e aperta, si nasconde quindi un doppio rischio: in primo luogo, che queste informazioni vengano ricostituite in materia e poi brevettate come “invenzioni”; di conseguenza, che nessuno acceda più al Sistema multilaterale dopo averlo prosciugato digitalizzando le sue risorse genetiche. Intendiamoci, una multinazionale che usa le informazioni di sequenza digitale per produrre piante brevettate, non è come una persona qualunque che scarica un contenuto da Internet. È più come un artista famoso che fonda la sua carriera sul download dei brani di un cantautore poco noto, mettendoli nei suoi album e vendendoli alla distribuzione globale coperti da copyright. Il timore è che questa operazione sulla biodiversità sia stata già fatta diverse volte. Visto che il Dna gira ormai liberamente per il web, la posizione negoziale dei paesi ricchi dentro il Trattato sulle risorse genetiche non è difensiva. Hanno già quello che vogliono e ora propongono un gioco al rilancio, che ammette una discussione sulla natura della Dsi solo a fronte di un allargamento del perimetro del Mls. In pratica, consentirebbero un negoziato per niente scontato sul tema più spinoso del momento solo in cambio di un atto suicida: l’aumento delle specie di interesse agrario disponibili per l’accesso facilitato delle imprese. Questa postura, a metà tra la provocazione e il bullismo istituzionale, ha finora impedito un’interpretazione logica di quanto scritto nel Trattato (il divieto di brevettare il materiale genetico prelevato dallo spazio comune, in qualunque forma), trasformando un accordo internazionale vincolante in un centro per lo shopping senza casse all’uscita. La convergenza fra tecnica e capitale Il sequenziamento genetico e la Dsi in quanto tali, tuttavia, non sono classificabili per sé come un’invenzione. Occorre un passaggio supplementare per far scattare il regime dei brevetti. Per questo vale la pena soffermarsi sul ruolo convergente che le diverse tecnologie “di frontiera” svolgono oggi per aprire nuovi spazi di appropriazione e profitto. Secondo la maggior parte delle leggi sui brevetti, non si può reclamare un diritto di proprietà intellettuale sui prodotti della natura e le scoperte che non prevedono innovazione umana. Dopo la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Myriad del 201312, è ormai ampiamente riconosciuto che la mera identificazione di una sequenza genetica in quanto tale non è brevettabile, poiché si tratta di una scoperta e non di un’invenzione. Nuove tecniche di modificazione genetica e processi di biologia sintetica vengono quindi in soccorso degli scienziati per coprire l’ultimo miglio, determinante per la mercificazione. Le informazioni digitalizzate vengono utilizzate per assemblare materiale genetico prodotto in laboratorio, dargli la forma desiderata e poi introdurre le sequenze in nuovi Ogm realizzati tramite New genomic techniques come Crispr/Cas9. La cosa va a vantaggio sia dei ricercatori che delle imprese sementiere, perché permette di brevettare sia il processo biotecnologico che il tratto genetico risultante, contestando però ogni richiesta di valutazione del rischio, tracciabilità ed etichettatura, con l’assunto che da tutto questo procedimento risultino prodotti equivalenti a quelli della natura. Il livello di cialtroneria raggiunge vette ancor più alte se guardiamo a quanto è grossolano il processo di brevettazione. Leggere il testo di un brevetto, infatti, mostra quanto gli “inventori” siano molto lontani dal poter rivendicare pretese di esattezza delle loro “creazioni”, ovvero determinare il rapporto causa-effetto tra sequenza genetica e relativa performance dell’organismo in cui viene inserita. Ciononostante, i loro processi sono validati dagli uffici che rilasciano titoli di proprietà intellettuale. Come spiega Denis Meshaka in un approfondimento su una piattaforma francese di controinformazione sugli Ogm13, «le domande di brevetto che coprono sequenze genetiche […] vengono depositate il prima possibile, con rivendicazioni formulate nel modo più ampio possibile. Ma spesso l’applicazione industriale delle sequenze, o la loro “utilità”, se prendiamo la nozione della legge statunitense, è ipotetica». L’approccio più utilizzato si basa sul concetto di “identità percentuale”. In pratica «qualsiasi sequenza che, ad esempio, è identica almeno all’80%, 90% o 95% alla sequenza effettivamente “inventata” è coperta dal brevetto. Più bassa è la percentuale, maggiore è la gamma di sequenze coperte dal brevetto. Anche con il 95% questo corrisponde ancora a una grande varietà di sequenze, che ovviamente non sono tutte descritte singolarmente». Le numerosissime possibilità che una sequenza anche molto simile esprima caratteristiche molto diverse da quella brevettata, oltre al fatto che l’espressione di un carattere dipende in parte significativa dall’ambiente e non solo dai geni, testimoniano il livello di approssimazione clamoroso su cui si regge tutto il sistema di appropriazione del vivente. Possiamo affermare senza timore di smentita che si tratta di una pretesa di verità priva di fondamento sostanziale, ma che produce effetti evidenti sui sistemi alimentari. * in Cavalcare l’ingovernabile. Natura, neoliberalismo e nuovi materialismi, Orothes, Napoli, 2023 1 Sanger F. et al., (1977), “Nucleotide sequence of bacteriophage ΦX174 DNA”, Nature, 265, 687-695. 2 www.genome.gov/human-genome-project 3 Conti M., (2023), Movimenti agrari transnazionali e governance globale, Rosemberg & Sellier, Torino. 4 www.etcgroup.org/content/bioprospectingbiopiracy-and-indigenous-peoples 5 www.cbd.int/abs/default.shtml 6 www.fao.org/plant-treaty/en 7 www.fao.org/plant-treaty/areas-of-work/the-multilateral-system/landingmls/en 8 www.cgiar.org 9 www.fao.org/plant-treaty/areas-of-work/the-multilateral-system/smta/en 10 www.fao.org/plant-treaty/overview/texts-treaty/en 11 www.twn.my/title2/health.info/2023/hi230301.htm 12 https://supreme.justia.com/cases/federal/us/569/12-398/case.pdf 13 https://infogm.org/en/patents-on-genetic-sequences-excess-and-fragility
November 24, 2024 / il Rovescio
A Briançon, la strada non è ancora un’opzione. E’ nata una nuova occupazione!
Nella zona di Briançon ci sono migliaia di case vuote (2500 nel 2020, secondo l’INSEE), mentre nuovissimi chalet ospitano i ricchi per qualche settimana all’anno. Il numero di seconde case nella zona è stimato al 60% (sempre 2020, sempre INSEE). Sulle montagne del Briançonnais abbondano le stazioni sciistiche, dirette verso il loro assurdo futuro. Per…
October 16, 2024 / Passamontagna