Riceviamo e diffondiamo:
UNA STRATEGIA DI LUNGO PERIODO PER LA MILITARIZZAZIONE ECONOMICA
Da pochi giorni il Ministero della Difesa ha pubblicato il Documento
Programmatico Pluriennale della Difesa 2025-2027. Si tratta in soldoni
dell’aspetto programmatico del comparto bellico italiano. La propaganda del
Ministero definisce la Difesa come “volano per innovazione e sviluppo”.
Dietro il linguaggio tecnico, si nasconde un piano di espansione strutturale
dell’apparato militare: il Ministero si presenta come “motore industriale” del
Paese, giustificando l’aumento delle spese con ricadute su occupazione e
tecnologia.
L’Italia ha aderito alla nuova linea NATO, che prevede di raggiungere per tutti
gli Stati membri il 5% delle spese militari così spartito: 3,5% del PIL in spese
militari propriamente dette e all’1,5% per la sicurezza o le infrastrutture
(vedasi Ponte sullo Stretto, che collegherebbe il confine sud della NATO – la
Sicilia, il Muos etc – con il continente).
Un livello di spesa potenzialmente superiore a quello del periodo della Guerra
Fredda.
La Legge di Bilancio 2025-2027 prevede 35,094 miliardi di euro in 15 anni per:
* 22,5 miliardi dal Fondo investimenti della Difesa;
* 12,6 miliardi dal Ministero delle Imprese (MIMIT).
Gli investimenti coprono ogni settore:
* Terrestre: nuovi mezzi corazzati, artiglieria, droni armati.
* Aereo: caccia di sesta generazione, sistemi missilistici, capacità “Extended
Strike”.
* Navale: navi d’attacco, sommergibili, droni subacquei.
* Cyber e spazio: intelligence digitale, satelliti militari, “Space Domain
Awareness”.
Di più. L’Italia con la Legge di Bilancio 2025 stanzia 50milioni per la
ristrutturazione di tre stabilimenti militari situati a Baiano di Spoleto,
Fontana Liri e Capua, gestiti direttamente dall’Agenzia Industrie Difesa.
L’obiettivo è aumentare la produzione di componenti critici come la
nitroglicerina e la nitrocellulosa, necessari per munizioni di medio calibro,
riducendo così la dipendenza dalle forniture estere e rafforzando l’autonomia
produttiva nazionale.
Ancora più forte appare la saldatura tra Università e Guerra con il Piano
Nazionale della Ricerca Militare – PNRM.
La guerra futura, che intreccia militare, civile ed economia, è in realtà la
guerra odierna. L’Italia è attualmente impegnata in 43 missioni militari (nel
solo anno 2025), con più di 12mila soldati utilizzati. La guerra odierna è anche
– e forse soprattutto – guerra interna. Come diceva Simone Weil: “Il grande
errore in cui cadono quasi tutte le analisi riguardanti la guerra […] è di
considerare la guerra come un episodio di politica estera, mentre è prima di
tutto un fatto di politica interna, e il più atroce di tutti.”
Una parte cruciale del DPP è dedicata alla cosiddetta “funzione sicurezza del
territorio”, che affida ai Carabinieri un ruolo centrale nel processo di
militarizzazione interna. Soldi per nuove assunzioni, soldi per ammodernamento
delle caserme, soldi per nuove armi.
Tra le misure previste:
* Acquisizione di elicotteri, droni e veicoli tattici con uso duale (militare e
civile).
* Sistemi di sorveglianza digitale e cyber-investigazione (deep web,
criptovalute, digital forensics).
* Estensione dell’uso del taser e di armi “non letali” a livelli ordinativi
sempre più bassi.
* Ruolo crescente nello “Stability Policing”: attività di controllo sociale e
gestione di crisi anche in territorio nazionale.
Questo spostamento funzionale rafforza il ruolo dei Carabinieri come parte
integrante della difesa militare, abbattendo ulteriormente il confine tra
sicurezza civile e logica bellica.
La militarizzazione non si limita più al piano geopolitico, ma penetra nelle
città, nei sistemi informativi e nella gestione dell’ordine pubblico, preparando
la società a un modello di sicurezza permanente in tempi di guerra totale.
https://controguerra.noblogs.org/post/2025/11/12/la-guerra-e-in-casa-nostra/
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Riceviamo e diffondiamo:
Gaza è Rio de Janeiro. Gaza è il mondo intero.
30 Ottobre 2025
Di Raúl Zibechi (traduzione Nodo Solidale)
Non ci sono parole sufficienti per descrivere l’orrore che ci provoca il
massacro di oltre 130 giovani neri, poveri, uccisi dalla polizia di Rio de
Janeiro, con la scusa di combattere il narcotraffico.
Si è trattato di un’operazione di guerra urbana in cui il governo dello Stato ha
mobilitato 2.500 poliziotti in assetto da guerra, oltre a blindati ed elicotteri
per attaccare i complessi delle favelas Penha e Alemao nella zona nord della
città, un’area con un’alta concentrazione di popolazione povera. Si tratta di
due complessi di favelas che superano i 150.000 abitanti, con un’enorme densità
di popolazione.
Il governo di Rio ha dichiarato che ci sono stati 60 morti, ma la popolazione
delle favelas ha portato nelle piazze più di 50 corpi che non figuravano nel
conteggio ufficiale, lasciando il dubbio su quanti siano stati uccisi. Finora il
numero supera i 120.
Le reazioni non si sono fatte attendere, dalle organizzazioni per i diritti
umani alle Nazioni Unite, che si sono dette “inorridite” dal massacro. Al di là
dei dati, ci sono fatti rilevanti.
Il genocidio palestinese a Gaza è lo specchio in cui devono guardarsi i popoli e
le persone oppresse del mondo. Per chi sta in alto, si apre un periodo di caccia
indiscriminata alla popolazione “in esubero”, perché hanno la garanzia
dell’impunità. Ora più che mai, Gaza siamo tutti noi. Può essere Quito, San
Salvador, Rosario o Tegucigalpa; il Cauca colombiano o Wall Mapu; la montagna di
Guerrero o le comunità del Chiapas. Ora siamo tutti nel mirino di un capitalismo
che uccide per accumulare sempre più rapidamente.
Dicono narcotrafficanti con la stessa indifferenza con cui dicono palestinesi,
mapuche o maya. Sono solo scuse. Argomenti per le classi medie urbane. Ma la
storia recente ci mostra che quello che stanno facendo è creare laboratori per
il genocidio.
Nel tranquillo Ecuador, quando i popoli indigeni li hanno sconfitti nella
rivolta del 2019, hanno reagito liberando i più feroci criminali nelle carceri
trasformate in luoghi di sterminio, dove i media mostravano i detenuti che
giocavano a calcio con la testa di un decapitato.
Nel Cauca, l’estrazione mineraria a cielo aperto e la coltivazione di droga
hanno esacerbato la violenza paramilitare contro le comunità Nasa e Misak che
resistono e non si arrendono, rendendo la regione la più violenta di un paese
già di suo violento.
Nel territorio mapuche, sia in Cile che in Argentina, i poteri forti hanno
deciso che coloro che non si arrendono devono essere definiti “terroristi”, con
il risultato che oggi ci sono più prigionieri mapuche che sotto le dittature di
Pinochet e Videla.
In Messico, tutto è chiaro, così chiaro che i media e i governi non vogliono
farcelo vedere, mascherando la violenza con discorsi che ne sottolineano solo la
complicità. La violenza sistematica in Guerrero e in Chiapas dovrebbe essere
motivo di scandalo.
A Rio de Janeiro, un sociologo dice spesso che il narco non è uno Stato
parallelo, ma lo Stato realmente esistente. Compresi tutti i governatori degli
ultimi decenni, con il loro entourage di imprenditori mafiosi, deputati e
consiglieri comunali che costituiscono un potere ereditato dagli squadroni della
morte della dittatura militare.
Gaza ci pone in un altro luogo, di fronte ad altre sfide. La prima è comprendere
che la morte è la ragion d’essere del sistema capitalista. La seconda è capire
che questo sistema è composto dalla destra e dalla sinistra, dai conservatori e
dai progressisti. La terza è che dobbiamo organizzarci per proteggerci da soli,
perché nessuno lo farà per noi.
Il mondo che abbiamo conosciuto sta crollando. Piangiamo quei giovani uccisi a
Rio, quei corpi distesi sull’asfalto.
Trasformiamo le nostre lacrime in fiumi di indignazione e in torrenti di
ribellione.
https://nodosolidale.noblogs.org/2025/10/30/gaza-e-rio-de-janeiro-gaza-e-il-mondo-intero/
Riceviamo e diffondiamo un contributo prezioso come pochi: la traduzione della
testimonianza di un palestinese che vive in Cisgiordania. Se non contiene
particolari elementi di novità per chi già conosce la situazione, non fa poca
differenza la precisione con cui viene descritta l’architettura incrementale
dell’occupazione e dell’apartheid e la sobrietà con cui emergono l’incrollabile
sumud degli oppressi palestinesi e l’incoercibile solidarietà al loro interno.
Nell’augurare loro buona lettura, siamo certi che lo sguardo di molti nostri
lettori e lettrici su quella terra non sarà più esattamente lo stesso. O almeno,
è quello che è capitato a noi leggendo.
Qui in pdf: TestimonianzaCisgiordania
Riportiamo, con un po’ di ritardo dovuto ai tempi di traduzione, una breve
testimonianza e descrizione di quello che sta/stava succedendo in Cisgiordania,
all’ 8 ottobre 2025 (ad oggi la situazione potrebbe essere peggiorata e i numeri
presenti nel testo potrebbero risultare inesatti). Questo contributo è
l’esperienza diretta di un palestinese che vive quei territori e l’occupazione
sionista sulla sua pelle da tutta la vita, vedendone l’evoluzione e i
cambiamenti. Se a Gaza la mira delle potenze sioniste è di eliminare Gaza, la
sua popolazione e la sua memoria, poco più a nord in Cisgiordania l’occupazione
israeliana avanza inesorabile, con la presa di sempre più terre da parte dei
coloni israeliani e con la riduzione sempre maggiore degli spazi di agibilità e
mobilità palestinesi.
Non sentiamo la necessità di aggiungere un commento al testo, se non ribadire la
nostra totale solidarietà al popolo palestinese che lotta per la sua liberazione
e l’intento di dare spazio alle voci palestinesi che arrivano direttamente da
quei territori e che molto spesso non giungono fino a noi.
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La superiorità “razziale” ebraico-israeliana e la persecuzione dei palestinesi
in Cisgiordania durante la guerra di genocidio e la pulizia etnica
Dalle colline di Ramallah, la sera potevamo vedere le luci di Yafa, se il tempo
era sereno potevamo vedere il mare. Abbiamo sempre detto che un giorno saremmo
riusciti a raggiungere il mare. Ma ad oggi, dopo due anni di guerra genocida,
non possiamo più stare sulle colline.
I Coloni e i gruppi estremisti come i “giovani delle colline” e “la terra
promessa”, a volte indossando magliette con la scritta “la mia terra è ovunque
posso occupare”, impediscono a chiunque di raggiungere le colline, usando le
armi che gli sono state distribuite dal Ministro della Sicurezza Nazionale,
Ben-Gvir.
La possibilità di vedere il mare ci è stata negata.
Negli ultimi due anni, Ben-Gvir ha distribuito 40 mila armi ai coloni che vivono
sulle colline della Cisgiordania. Ha distribuito centinaia di veicoli a quattro
ruote motrici per facilitare il loro accesso ai terreni montuosi, che sono stati
confiscati dello Stato sionista, e ha finanziato l’installazione di pannelli
solari per ogni loro nuovo insediamento.
I coloni occupano la terra, le fonti d’acqua e i pozzi artesiani. Hanno rubato
il bestiame e i trattori agricoli delle comunità beduine, distruggendo le loro
case, espellendoli dalle loro terre e fondando insediamenti al loro posto.
I villaggi palestinesi sono stati attaccati da coloni sotto la protezione
dell’esercito dell’occupazione israeliano. Case, auto e campi sono stati
bruciati e alberi sono stati sradicati, come è successo a Turmus Ayya,
al-Mughayyir, Khirbo Abu Falah, Huwara e Qaryut e a Kafar Malik, a 15 km da
Ramallah, dove si trova il pozzo principale che fornisce il 40% dell’acqua
necessaria alla città di Ramallah e al-Bireh. Lì, i coloni hanno sequestrato la
fonte d’acqua e l’hanno trasformata in una piscina e in un luogo dove lavare il
loro bestiame. Questi avvenimenti sono stati ripetuti in altri villaggi e
province, in contemporanea alla pulizia etnica e alle scene di genocidio e
uccisioni trasmesse in diretta al mondo intero.
Il campo profughi1 di Jenin, nella Cisgiordania settentrionale, sta venendo
silenziosamente sgomberato: oltre 100 famiglie hanno perso le loro case; le
infrastrutture fognarie, elettriche e idriche sono state distrutte così che
tante persone hanno perso i loro mezzi di sussistenza di base. La situazione non
è diversa nei campi profughi di Nur Shams e di Tulkarem, nella provincia di
Tulkarem. I campi profughi sono stati divisi, le strade sono state distrutte e,
nel nord, stiamo assistendo a un’ondata di sfollamenti dai tre campi verso i
centri delle due città.
Con il sostegno legale e politico del governo dell’occupazione sionista, le
norme che regolano l’uso di armi da fuoco sono state modificate e ulteriore
protezione è garantita ai coloni che commettono omicidi contro i palestinesi.
Ciò consente l’uso letale di proiettili (n.d.t. ossia non più di gomma) contro i
palestinesi, anche senza “giustificazione”. Ciò fornisce un chiaro riflesso
nella profondità del disprezzo dello Stato Occupante per le vite dei palestinesi
e costituisce un elemento fondamentale della struttura che consente a Israele di
continuare a esercitare il suo controllo violento su milioni di palestinesi.
Oltre 14 milioni di persone vivono nelle terre tra il fiume Giordano e il Mar
Mediterraneo, circa la metà delle quali sono israeliane e l’altra metà
palestinesi. La percezione prevalente – nella sfera pubblica e giudiziaria,
politica, mediatica e dei giornali – è che queste terre siano divise dalla Linea
Verde: la prima metà si trova all’interno dei confini sovrani di Israele, è
democratica e stabile e ospita circa nove milioni di persone “tutti cittadini
israeliani”; la seconda metà si trova nei territori occupati da Israele nel
1967, il cui status definitivo dovrebbe essere determinato in futuri negoziati
tra le due parti.
Circa cinque milioni di palestinesi vivono in queste aree sotto occupazione
militare temporanea.
Tuttavia, questa definizione è diventata sempre più irrilevante nel corso degli
anni. Ignora il fatto che questa situazione persiste da oltre settant’anni,
ossia praticamente dalla fondazione dello Stato di Israele, ma non tiene conto
delle centinaia di migliaia di coloni ebrei residenti in Cisgiordania, il cui
numero è aumentato drasticamente in questi due anni trascorsi dall’inizio della
guerra di sterminio. Ma, cosa ancora più importante, questa distinzione ignora
la realtà di un unico principio del governo applicato in tutto il territorio che
si estende tra il fiume Giordano e il Mediterraneo: il rafforzamento e la
perpetuazione della supremazia di un gruppo di persone – gli ebrei israeliani –
su un altro – i palestinesi. Tutto ciò porta alla conclusione che non si tratta
di due sistemi paralleli che operano casualmente secondo lo stesso principio, ma
un sistema unico che governa l’intero territorio, controllando tutte le persone
che vi risiedono e operando secondo il principio del governo israiliano.
Dall’inizio di questa guerra sono state registrate 1.048 uccisioni in
Cisgiordania, di cui 260 bambini.
Il sionismo non si è accontentato di questo. Il controllo coloniale basato
sull’isolamento e la sottomissione, ha trasformato il territorio palestinese in
un arcipelago di isole separate, come se fossero “cantoni” chiusi, separati da
cancelli di ferro, soggetti all’autorità assoluta dell’occupante. Migliaia di
palestinesi sono stati e sono costretti ogni giorno a percorrere strade
alternative, spesso sterrate, casuali e rischiose che a volte non esistono
neanche. Queste chiusure delle strade ostacolano l’attività economica e
l’accesso ai servizi sanitari e educativi, aumentano l’isolamento delle aree
rurali e trasformano il semplice spostamento in un viaggio di sofferenza
sistematica.
Alla luce di questa realtà, le porte di ferro installate dallo stato Israeliano
lungo le strade palestinesi, sono un chiaro simbolo di punizione collettiva e
parte di una politica più ampia, il cui obiettivo è: frammentare il tessuto
sociale palestinese, spezzarne l’autodeterminazione e radicare la realtà
dell’apartheid sul territorio.
Secondo un rapporto pubblicato dalla Commissione per la Resistenza contro il
muro dell’apartheid, nel settembre 2025, il numero totale di posti di blocco
militari e cancelli di ferro installati dall’esercito di occupazione in
Cisgiordania ha raggiunto quota 910, di cui installati 83 dall’inizio del 2025.
Mentre 247 cancelli di ferro sono stati installati dopo il 7 ottobre 2023.
D’altra parte, in un rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il
Coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori Palestinesi Occupati del 20
marzo 2025, intitolato “Ultimo Aggiornamento Umanitario n. 274” | riguardo alla
Cisgiordania dichiara: “Attualmente, ci sono 849 ostacoli che controllano,
limitano e monitorano il movimento dei palestinesi in modo permanente e
intermittente in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est e l’area di Al Khalil
(Hebron) controllata da Israele”.
Un’indagine rapida condotta dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il
Coordinamento degli Affari Umanitari a gennaio e febbraio 2025 ha rilevato che
nei tre mesi precedenti erano sono stati messi 36 nuovi ostacoli al movimento,
la maggior parte dei quali installati in seguito all’annuncio di un cessate il
fuoco a Gaza a metà gennaio 2025, ostacolando ulteriormente l’accesso dei
palestinesi ai servizi essenziali e ai luoghi di lavoro. Sono state documentate
ulteriori chiusure, che si ritiene siano state messe nel 2024.
Vale la pena notare che fino ad oggi sono stati installati in totale 29 nuovi
varchi stradali in tutta la Cisgiordania. Sono stati costruiti sia nuovi varchi
di chiusura a sé stanti che varchi aggiuntivi nei posti di blocco già esistenti,
portando il numero totale di varchi stradali aperti o chiusi in Cisgiordania a
288, costituendo un terzo degli ostacoli al movimento. Di questi, circa il 60%
(172 su 288) viene chiuso frequentemente.
Oltre all’aumento del numero di ostacoli installati, l’aumento del controllo
sulla circolazione ha portato interruzioni della circolazione per lunghi
periodi, chiusure delle strade principali che collegano i centri abitati in
Cisgiordania e un aumento del numero di varchi chiusi frequentemente. In totale,
gli ostacoli includono 94 checkpoint con militari 24 ore su 24, 7 giorni su 7;
153 posti di blocco (con militari non sempre presenti) di cui 45 sono spesso
chiusi, 205 cancelli stradali di cui 127 spesso chiusi, 101 posti di blocco
costruiti con muri di terra e fossati, 180 fatti con cumuli di sacchi terra e
116 ostacoli di altro tipo posti lungo la strada2. Questi dati non includono i
check-point lungo la Linea Verde e altre modalità di restrizione, come la
chiusura del campo profughi di Jenin agli abitanti che vi facevano ritorno dopo
lavoro e le segnalazioni di alcune aree come zone militari chiuse – che non sono
sempre caratterizzate da barriere fisiche.
Settantasette prigionieri palestinesi sono martiri a causa delle torture nelle
carceri israeliane in Cisgiordania, mentre sono stati registrati circa 20.000
arresti dall’inizio della guerra di sterminio due anni fa. I prigionieri sono
stati privati del sonno e torturati nelle loro celle. Sono state negate loro le
visite. I pasti sono stati limitati a un singolo pasto al giorno a malapena
sufficiente per sopravvivere. Sono stati privati delle loro coperte e dei loro
vestiti in inverno. Malattie della pelle si sono diffuse tra i prigionieri a
causa del divieto di lavarsi e di pulire la loro cella. È stato inoltre negato
loro qualsiasi tipo di assistenza medica durante la prigionia.
Lo Stato sionista però non si è fermato a queste vessazioni. Considerando che la
maggior parte dei terreni agricoli si trova nell’Area C, ai palestinesi è stato
vietato raccogliere i frutti dei loro alberi e qualsiasi tipo di prodotto delle
loro terre. È stato negato l’accesso all’acqua.
I campi coltivati sono stati bruciati e, in alcuni casi, i coloni hanno liberato
le loro pecore e mucche per distruggere i raccolti. Le serre che un tempo si
estendevano nelle pianure di Tubas, Salfit e nella valle settentrionale del
Giordano sono state demolite. Gli agricoltori sono stati fucilati, arrestati e
maltrattati.
E nonostante ciò Israele non si è accontentato, difatti ha anche impedito alla
cassa del Tesoro dell’Autorità Nazionale Palestinese di pagare i dipendenti
pubblici, che non ricevono i loro stipendi da almeno nove mesi.
Alla luce di tutto ciò, i palestinesi non hanno smesso di riunirsi in gran
numero per andare nei loro campi per proteggersi a vicenda. I giovani dei
villaggi vicini spesso partecipano alla difesa del villaggio preso di mira dai
coloni dopo aver sentito la chiamata dagli altoparlanti della moschea. I
palestinesi si spostano tra villaggi, campi e città in gruppi per proteggersi a
vicenda dagli attacchi dei coloni. Hanno inventato vari meccanismi di
comunicazione, inclusi i gruppi Telegram che fornivano notizie di strada in
tempo reale.
La partecipazione ai gruppi Telegram è diventata, tuttavia, motivo di percosse e
accuse se viene scoperto dell’esercito.
Tutta la comunità si mobilita per trovare cibo, alloggio e vestiti. Nessuno
proveniente dai campi demoliti nella Cisgiordania settentrionale rimane senza un
pezzo di pane o senza un riparo. Nonostante le ripetute incursioni
dell’esercito, i palestinesi non hanno smesso di mandare i figli a scuola ogni
giorno, né hanno impedito loro di svolgere le loro attività quotidiane. Un
esempio: il villaggio beduino di Al-Araqib è stato demolito 200 volte e 200
volte ricostruito.
Dei palestinesi rapiti dall’esercito che vengono rilasciati lontano dai loro
villaggi per essere torturati, nessuno si trova a dormire senza un riparo, per
il senso di comunità e solidarietà tra la gente palestinese.
I giovani nei villaggi, nelle città e nei campi profughi non hanno altro che
pietre per affrontare la repressione dell’occupazione in Cisgiordania, che viene
perpetrata con una forza letale. Nessun scontro con l’occupazione avviene senza
caduti e feriti. Il nostro obiettivo ora è rimanere nella nostra terra,
nonostante la corruzione politica delle autorità al potere in Cisgiordania, che
a volte partecipa alla repressione delle proteste, perchè nonostante il loro
controllo sulle risorse governative, la loro preoccupazione principale è
diventata la salvaguardia dei loro interessi materiali, che sono legati
all’esistenza dell’occupazione sionista stessa.
1N.d.T: I dispositivi che regolano la libertà di movimento dei/delle palestinesi
in Cisgiordania hanno varie forme. Quando si parla di ostacoli, oltre ad
immaginarsi veri e propri checkpoint, bisogna immaginarsi anche sacchi di terra,
barriere in cemento, dossi (anche chiodati) posti lungo le strade percorribili
con i mezzi, che inevitabilmente rallentano o impediscono gli spostamenti. Per
chiusura totale o parziale, inoltre si intende, che è impossibile attraversare
il posto di blocco e che a destinazione non si arriva.
2 Quando si parla di campi profughi, non bisogna immaginarsi una distesa di
tende, ma agglomerati di case e palazzine, strade e vicoli – dei veri e propri
villaggi che vengono comunque nominati come campi profughi perché creati e
costruiti laddove si stabilirono i palestinesi dislocati dalle loro case a cui
gli è stato impedito di ritornare durante e dopo la Nakba.
Segnaliamo questo articolo che contiene un’utile sintesi sull’impiego
dell’Intelligenza Artificiale nel genocidio in corso a Gaza, e sull’impatto che
il primo sterminio algoritmico della storia sta avendo e avrà sui complessi
scientifico-militar-industriali in guerra fra loro (e tutti insieme in guerra
contro il vivente). Illusorio e fuorviante auspicare che tale sviluppo possa
essere normato. Solo i palestinizzabili del mondo intero possono sabotare i
mezzi della disumanità, grazie alla consapevolezza che la propria incarcerazione
tecnologica può trasformarsi in annientamento automatizzato: il quadrante dei
comandi è lo stesso.
https://codice-rosso.net/laboratorio-gaza-intelligenza-artificiale-principale-arma-di-distruzione-di-massa-esercito-israeliano/
Riceviamo e diffondiamo:
Qui il pdf: Genocidio riorganizzatore
Il genocidio riorganizzatore e la lunga storia dell’internazionalismo
autoritario
Lo sterminio delle popolazioni maya in Guatemala negli anni Settanta e Ottanta
dimostra come l’internazionalismo autoritario come complicità genocida in chiave
di riorganizzazione territoriale e integrazione di complessi
scientifici-militari-industriail non sia affatto una novità, ma abbia una lunga
ed atroce storia. Sotto le dittature di Lucas Garcia (1978-82) e Ríos Montt
(1982-83), lo Stato guatemalteco, con il supporto tecnico-militare di Israele,
Stati Uniti e Taiwan, perpetrò un atroce genocidio contro le popolazioni
originarie, in particolare i Maya Ixil, con l’uso sistematico di napalm, tortura
e sparizioni. Durante la sanguinosa guerra civile, l’esercito, in risposta al
noto concetto maoista secondo cui “la guerriglia, sostenuta dal popolo, si muove
al suo interno come un pesce nell’acqua”, mise in pratica la strategia del
“togliere l’acqua al pesce”, ovvero distruggere individui e comunità per
annientare il sostegno popolare alla resistenza e spopolare vaste aree di terra
da depredare. È così che lo Stato razzista pianificò eseguì e giustificò uno dei
genocidi più crudeli e impuniti dell’America Latina, provocando 200mila morti,
di cui 130mila nel corso della sola operazione “terra bruciata”, un milione e
mezzo di sfollati, 150mila rifugiati in Messico, 50mila desaparecidos. I maya
come palestinesi ante litteram, potremmo senz’altro dire.
Forse la cifra più significativa della contemporaneità è il fatto che la
categoria di nemico interno si sia estesa a situazioni di bassa conflittualità
reale, per assumere alle nostre latitudini un carattere sostanzialmente
preventivo contro quella “acqua” che non è rappresentata tanto (lo è ancora a
Gaza e altrove) da una tenace resistenza popolare, quanto da quella parte di
popolazione che è “eccedente”, “sovrannumeraria”, rispetto alle logiche della
produzione, del consumo, della valorizzazione finanziaria e dunque, per la sua
semplice esistenza, d’intralcio all’ordine del tecno-capitalismo. Un’umanità
inutile per il capitale, o forse utile semplicemente per sperimentare sulla sua
pelle svariate innovazioni tecnologiche per poi essere eliminata in caso di
problemi, magari con gli stessi strumenti di sterminio automatizzati per il cui
affinamento è stata cavia. Così si può comprendere l’estensione indeterminata
del concetto di terrorismo, in quanto arma del Terrore degli Stati. Un’arma
materiale e culturale applicata per difendere gli interessi di apparati
scientifici-militari-industriali integrati, come dimostra in maniera emblematica
il processo contro la resistenza palestinese, contro Anan, Alì, Mansour, portato
avanti dalla DNAA a l’Aquila su mandato di Israele.
Per questo è utile la lettura di una parte del seguente testo, che descrive il
coinvolgimento di Israele nella politica della “terra bruciata” in Guatemala,
sostenendo che le pratiche di tortura e genocidio attualmente osservate in
Palestina sono parte integrante della guerra tecno-capitalista.
Israele e la terra bruciata in Guatemala
A proposito dell’attuale campagna genocida condotta dal complesso
militare-industrialei israeliano a Gaza, che secondo le parole della relatrice
delle Nazioni Unite Francesca Albanese è destinata a diventare il “più grande
atto di pulizia etnica nella storia di questa terra tormentata” (Democracy Now,
2023), dall’America Latina è doveroso denunciare la razionalità storica del
“genocidio riorganizzatore”ii (Feierstein, 2007) perpetrato dallo Stato sionista
di Israele. Una razionalità che ha segnato momenti atroci della storia recente
della nostra regione e in cui il complesso militare-industriale israeliano ha
avuto un peso significativo, come nel caso dell’esportazione di armi ai governi
militari del Cile (Pérez, Triana, 2023). In questo testo approfondiremo i
profondi legami di Israele con il genocidio più atroce della storia recente del
subcontinente: la politica della terra bruciata in Guatemala, evento in cui
settori dell’estrema destra di quel paese hanno utilizzato espressioni come la
“palestinizzazione dei ribelli indigeni Maya” (Black, 2007; Schivone, 2017).
La lunga guerra civile guatemalteca scatenata da una serie di colpi di Stato
militari di destra sostenuti dalla Central Intelligence Agency (CIA) ha vissuto
i suoi anni più crudeli alla fine degli anni ’70 e nella prima metà degli anni
’80. I livelli di crudeltà umana portarono persino alla congestione del governo
statunitense, che portò l’amministrazione Carter a cessare formalmente gli aiuti
militari al Guatemala nel 1977 (Carmon, 2012). Questo lavarsi le mani da parte
degli Stati Uniti non limitò in realtà il sostegno militare alle dittature
guatemalteche. I funzionari statunitensi che sostenevano le dottrine
“anticomuniste” e le campagne dittatoriali della strategia continentale di
“sicurezza nazionale” erano contrari alla cessazione degli aiuti militari al
Guatemala e cercarono di colmare questo vuoto “incoraggiando le attività
israeliane come mezzo per integrare l’assistenza statunitense ai governi amici
in materia di sicurezza” (Taubman, 1983). Sfruttando le buone relazioni
diplomatiche esistenti tra Guatemala e Israele, derivanti dal fatto che “il
Paese centroamericano è stato il secondo al mondo, dopo gli Stati Uniti, a
riconoscere l’esistenza di uno Stato ebraico nel territorio di quella che
all’epoca era conosciuta come Palestina, il 14 maggio 1948” (Wallace, 2017), si
favorì un coinvolgimento militare israeliano in America Centrale, proprio a
partire dal 1977, anno in cui “i presidenti Laugerud García del Guatemala ed
Ephraim Katzir di Israele hanno firmato un accordo di supporto militare”
(Movimento BDS, 2020).
Il supporto militare israeliano allo Stato dittatoriale guatemalteco comportò
“principalmente la vendita di armi, l’addestramento militare e la consulenza
nelle operazioni di intelligence” (Taubman, 1983), per cui vennero forniti
all’esercito guatemalteco i famosi fucili automatici UZI, “11 aerei IAI Arawa,
10 blindati RBY-MK, 15mila fucili Galil, centinaia di mortai da 81 mm, bazooka,
lanciagranate, tre guardacoste Dabur, un sistema di trasmissioni tattiche, un
circuito radar e 120 tonnellate di munizioni” (Movimento BDS, 2020); venne
costruita una fabbrica di armi nella provincia di Alta Verapaz da parte
dell’azienda israeliana Eagle Military Gear Overseas (EMGO); si implementò
l’addestramento operativo, sia in Israele che in Guatemala, con la fondazione
della Scuola di Trasmissioni ed Elettronica dell’Esercito “progettata e
finanziata da Israele in Guatemala e inaugurata da Benedicto Lucas García, per
addestrare i militari guatemaltechi all’uso delle cosiddette tecnologie di
controinsurrezione” (Ibid, 2020).
Israele giustificò la propria presenza in Guatemala con la scusa
dell’anticomunismo e dell’espansione del proprio mercato di armi (Carmon, 2012).
Tra le aziende militari israeliane legate al terrorismo di Stato in Guatemala,
possiamo citare la società di sicurezza Sistemas Internacionales de Seguridad y
Defensa (ISDS), che ha venduto al governo del Paese centroamericano corsi di
“terrorismo selettivo” (Cortés-Gálan et al., 2019). Cortés Galán, Mantovani e
Santa Cruz sottolineano che:
“(…) l’ISDS si è specializzata negli interrogatori e nella sorveglianza dei
prigionieri in America Latina. Nel contesto delle dittature in cui ha operato
l’ISDS, l’azienda israeliana è collegata alle pratiche diffuse di tortura e
detenzione illegale. (…) Secondo Carl Fehlandt, ex trafficante d’armi dell’ISDS
in Guatemala tra il 1982 e il 1986, ‘il governo israeliano controlla l’ISDS e
chi comanda è il Ministro della Difesa’.” (Cortés- Galán et al., 2019).
L’addestramento israeliano era così approfondito che nel 1982 il militare
golpista Efraín Ríos Montt dichiarò in un’intervista alla ABC News che “i
soldati israeliani sono il modello dei nostri soldati”, sottolineando che il
loro successo militare era dovuto al fatto che “i nostri soldati sono stati
addestrati dagli israeliani” (Carmon, 2012). Esistono persino prove che i
consulenti militari israeliani abbiano influenzato il colpo di Stato militare
che portò Ríos Montt alla presidenza nel 1982 (Movimento BDS, 2020).
In questo contesto, nel 1974 è stato creato il corpo d’élite antisovversivo
Kaibil, caratterizzato da crudeltà e perdita di ogni umanità, che descrive i
propri membri come “macchine per uccidere”. Queste forze, secondo il documento
“Memoria del silenzio” (elaborato dalla Commissione per il chiarimento storico
guatemalteca), hanno commesso il 93% dei crimini durante gli ultimi 20 anni di
guerra (Hernández, 2023) e oggi, secondo le rivelazioni di Guacamaya Leaks,
addestrano gruppi di sicari della criminalità organizzata in Messico (Camacho,
2022; Pachico, 2012).
Il ruolo storico dell’amministrazione di Ríos Montt passerà alla storia per aver
perpetrato un genocidio e crimini contro l’umanità con la sua politica della
“terra bruciata” attuata attraverso i piani “Operazione Sofia”, “Victoria 82” e
“Fucili e fagioli”. Tramite queste strategie, la popolazione maya del Paese
iniziò ad essere classificata come “nemico interno sospetto”iii dello Stato
dittatoriale. Queste strategie venivano apertamente descritte con l’espressione
“palestinizzazione della popolazione maya ribelle” (Black, 2007; Schivone,
2017).
L’attuazione di tali piani “ha provocato morti, violenze, sfollamenti,
persecuzioni, bombardamenti e sottomissione distruzione del gruppo etnico Maya
Ixil”iv (Azevedo, 2016). In modo sistematico, sono stati commessi massacri nei
villaggi delle popolazioni indigene, giustificati con la logica
controinsurrezionale del “togliere l’acqua al pesce”v, durante i quali sono
state trovate prove del sostegno israeliano, come nel caso del massacro di Dos
Erres nel Petén, in cui durante un’esumazione ordinata dal tribunale, gli
investigatori che lavoravano per la Commissione per la Verità del 1999 hanno
citato quanto segue nella loro relazione forense: “Tutte le prove balistiche
recuperate corrispondevano a frammenti di proiettili di armi da fuoco e capsule
di fucili Galil, fabbricati in Israele” (Movimento BDS, 2020).
Secondo le stime del rapporto della Commissione per il Chiarimento Storico del
Guatemala (CEH), questa politica ha causato la morte di 200.000 esseri umani, di
cui circa l’83% erano Maya, motivo per cui è stata classificata come genocidio.
Al contempo, i sopravvissuti sono fuggiti in Messico o sono stati trasferiti in
villaggi strategici chiamati “villaggi modello”, dove sono stati indottrinati
con un’ideologia anticomunista e predicazioni evangelichevi. Alcuni territori
svuotati dalla terra bruciata sono diventati zone di concessioni petrolifere,
dove i militari esercitano un grande potere decisionale. Aviva Chomsky
sottolinea che la distribuzione delle terre tra generali e compagnie petrolifere
è talmente rilevante che un distretto dell’Alta Verapaz, destinato
all’estrazione di petrolio, è persino denominato “l’area dei generali” (Chosmky,
2021), il che permette di inferire un legame tra anticomunismo, razzismo e
l’attuazione di un modello capitalista militarista alimentato dal terrore, dal
genocidio riorganizzatore.
Oggi, le relazioni diplomatiche del Guatemala con lo Stato di Israele sono molto
solide, con la firma dell’accordo di libero scambio tra i due paesi nel 2022 e
il trasferimento dell’ambasciata guatemalteca a Gerusalemme nel 2018 (due giorni
dopo gli Stati Uniti). La promozione del mercato degli armamenti israeliano
continua a destare preoccupazione con la firma di questi accordi di libero
mercato, così come la sua presenza simbolica nella “guerra culturale” che si sta
combattendo contro le cosmovisioni Maya in questo paese. […]
Alberto Hidalgo
[2023]
iSistema o insieme di organizzazioni, imprese ed enti correlati che attuano
produzione, sviluppo e gestione in ambito militare, il che include la
fabbricazione di armi, attrezzature militari, tecniche di guerra, nonché la
ricerca e lo sviluppo nel campo della difesa e della sicurezza nazionale.
iiFeierstein utilizza il concetto di genocidio riorganizzatore poiché sostiene
che esso non ha solo lo scopo di distruggere i corpi di una comunità definita
come “l’altro – il nemico”, ma cerca anche di distruggere le relazioni sociali e
spaziali per imporre un nuovo ordine o modello di territorialità secondo gli
obiettivi del perpetratore, in questo caso l’occupazione illegale del territorio
palestinese.
iiiAlfred Kaltschmitt, ex funzionario pubblico durante l’amministrazione Montt,
in un’intervista per il film “El buen cristiano” sottolinea che “le cellule
(guerrigliere) composte da famiglie trasformavano giovani e bambini in
combattenti, quindi non si faceva distinzione tra combattenti e non
combattenti”, un concetto che ha scatenato l’uccisione indiscriminata. (Acevedo,
2016)
ivTestimonianza del procuratore per i diritti umani del Ministero pubblico del
Guatemala Orlando López durante il processo per genocidio contro il generale
Ríos Montt. (Acevedo, 2016)
vMetafora utilizzata dalla controinsurrezione per alludere al fatto che
consideravano i guerriglieri come pesci e le popolazioni indigene come l’acqua
in cui si rifugiavano.
vi La Prensa Comunitaria Km 169 sottolinea che in questi villaggi costruiti
dall’esercito «ad ogni angolo c’era un palo con altoparlanti attraverso i quali,
24 ore su 24, si ascoltavano prediche e inni evangelici cristiani“, perché i
villaggi erano stati costruiti con denaro dello Stato e delle chiese evangeliche
statunitensi, con le quali l’allora dittatore Efraín Ríos Montt intratteneva
stretti rapporti” (2019).
Riprendiamo da Invicta
Palestina, https://www.invictapalestina.org/archives/58157
Gaza Inc: dove il genocidio è testato in battaglia e pronto per il mercato
GAZA È DIVENTATA LA VETRINA DI TEL AVIV PER LO STERMINIO PRIVATIZZATO, DOVE
AZIENDE TECNOLOGICHE, MERCENARI E FORNITORI DI AIUTI UMANITARI COLLABORANO IN UN
MODELLO SCALABILE DI GENOCIDIO INDUSTRIALE VENDUTO AGLI ALLEATI IN TUTTO IL
MONDO.
Fonte: English version
Di Aymun Moosavi – 12 settembre 2025
Lo Stato di Occupazione Israeliano ha trasformato la sua guerra contro i
palestinesi in un’Industria di Uccisioni privatizzata. Gaza è il luogo in cui
aziende tecnologiche, mercenari e giganti della consulenza orchestrano
sorveglianza, sfollamenti e Uccisioni di Massa a scopo di lucro. Oltre a essere
una Guerra Coloniale, è anche un prototipo per l’esportazione globale di
Sterminio su scala industriale, riconfezionato come innovazione in materia di
sicurezza. Basato sui dati e incentrato sul profitto, questo modello, testato
oggi sui palestinesi, sarà implementato altrove domani. Un numero crescente di
aziende private opera ora come la mano invisibile del Genocidio. I loro servizi
spaziano dall’identificazione di obiettivi per attacchi aerei all’ingegneria
della Carestia e alla facilitazione degli sfollamenti di massa.
Gaza è il luogo dove il genocidio incontra il capitalismo
Dall’inizio degli anni 2000, le compagnie militari private si sono profondamente
insinuate nell’economia bellica. Aziende come Blackwater (ora Academi) e Dyncorp
International hanno segnato un cambiamento fondamentale, assumendo ruoli
tradizionalmente ricoperti dalle forze armate nazionali.
Inizialmente concentrate sulla sicurezza e sulla logistica in Iraq e
Afghanistan, queste aziende hanno ampliato le loro operazioni, fornendo supporto
operativo e agendo come attori chiave nelle zone di guerra di tutto il mondo,
comprese alcune parti dell’Africa, dello Yemen e di Haiti. L’ironia è evidente:
gli Emirati Arabi Uniti sono diventati un nuovo polo per queste compagnie
militari private, che trovano rifugio nello Stato del Golfo, dove i mercenari
ricevono privilegi speciali dalle autorità locali.
Le aziende private si sono evolute da appaltatori distanti ad agenti di guerra
attivi, operando impunemente. Questo ha gettato le basi per il modello attuale,
in cui il personale non militare influenza i risultati politici senza limiti o
regolamentazioni. Un ulteriore livello di supporto proviene dalle organizzazioni
non profit private. Un recente rapporto rivela come organizzazioni statunitensi
come gli Amici Americani della Giudea e della Samaria e gli Amici di Israele
sfruttino il loro status di esenzione fiscale 501(c)(3) per convogliare
donazioni direttamente alle operazioni militari e agli insediamenti israeliani.
Questi gruppi forniscono attrezzature come droni termici, caschi, giubbotti
antiproiettile e corredi di pronto soccorso a unità come la 646a Brigata
Paracadutisti, anche all’interno di Gaza. Oltre alla logistica, sostengono
Progetti di Insediamento, fanno pressioni per l’annessione della Cisgiordania
Occupata, gestiscono campagne educative per promuovere la sovranità israeliana e
supportano gli sforzi militari in Libano contro Hezbollah.
L’emergere dell’Intelligenza Artificiale ha ampliato la gamma di attori di
guerra accettabili, aprendo nuove e redditizie opportunità nella sorveglianza e
nella raccolta di informazioni. Israele ha abbracciato questo modello, ma lo ha
applicato con agghiacciante precisione. La sua Unità d’élite 8200, il cervello
digitale dello Stato di Occupazione, ha fuso la sorveglianza militare con la
tecnologia aziendale per creare il primo Genocidio al mondo assistito
dall’Intelligenza Artificiale. Strumenti come Lavanda e Vangelo ora analizzano
le comunicazioni palestinesi, utilizzando il riconoscimento dialettale e i
metadati per generare automaticamente Liste di Uccisioni.
Questi strumenti, focalizzati principalmente sui dialetti arabi, sono stati
progettati per monitorare i palestinesi e altre popolazioni di lingua araba.
Aziende come Palantir, Google, Meta e Microsoft Azure avrebbero facilitato
questi progetti, contribuendo allo sviluppo di Lavanda e di altri sistemi di
sorveglianza. Gli Stati del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, investono in
aziende tecnologiche di sorveglianza globale che alimentano la Macchina del
Genocidio.
Con i sistemi di Intelligenza Artificiale che decidono chi vive e chi muore, il
confine tra comando militare e algoritmo aziendale è praticamente svanito.
L’infrastruttura stessa dell’Occupazione israeliana, dalla sorveglianza
all’assassinio, è stata esternalizzata, semplificata e venduta.
Dalle armi testate in battaglia all’Apartheid algoritmico
L’economia israeliana si basa sul capitalismo militarizzato. I suoi 14,8
miliardi di dollari (12,6 miliardi di euro) di vendite di armi solo quest’anno
sono sostenuti da una strategia commerciale tanto cinica quanto efficace:
“Testati in Battaglia” sui palestinesi. Un esempio lampante è l’armamento di
Smartshooter, un’azienda israeliana, fornito dall’esercito britannico da giugno
2023 in un accordo da 4,6 milioni di sterline (5,3 milioni di euro). La
tecnologia di Smartshooter è stata utilizzata dall’unità d’élite Maglan e dalla
Brigata Golani dell’Esercito di Occupazione durante l’assalto a Gaza.
Il giornalista Antony Loewenstein, citato da Declassified UK, ha dichiarato:
“Smartshooter è solo una delle tante aziende israeliane che testano le proprie
attrezzature sui palestinesi occupati. È un’attività altamente redditizia e il
Massacro a Gaza non ne rallenta il commercio. Anzi, sta aumentando a causa
dell’attrazione di molte nazioni verso il modello israeliano di sottomissione e
controllo”.
Oggi, il settore delle armi e quello della tecnologia israeliani sono
indistinguibili. Programmi di sorveglianza, Liste di Uccisioni basate
sull’Intelligenza Artificiale e sistemi di puntamento automatizzati sono
confezionati insieme a fucili e droni. La guerra è diventata un laboratorio per
l’innovazione tecnologica, trasformando Gaza in un laboratorio dove si
perfeziona il Genocidio privatizzato. Questa fusione ha permesso a Tel Aviv di
industrializzare la sua Occupazione, creando un sistema modulare di
sottomissione esportabile a livello globale. Quella che è iniziata come la
militarizzazione della tecnologia si è trasformata in qualcosa di molto più
pericoloso: la tecnologizzazione del Genocidio.
Modello israeliano di genocidio
Il Modello Israeliano di Genocidio ha acquirenti internazionali. Un recente
titolo di Haaretz, “Perché il futuro della difesa israeliana risiede in India”,
ha evidenziato i reciproci vantaggi del partenariato di difesa tra Israele e
India. Per Tel Aviv, riduce la dipendenza dall’Occidente, mentre l’India
acquisisce una certa influenza strategica nell’Asia Occidentale. Tra il 2001 e
il 2021, l’India ha importato tecnologia di difesa israeliana per un valore di
4,2 miliardi di dollari (3,6 miliardi di euro), inclusi droni avanzati e
componenti militari.
Più di recente, l’Europa è diventata il principale acquirente di armi di
Israele, arrivando a rappresentare fino al 54% delle esportazioni totali nel
2024. Sulla scia della Brexit e dell’imprevedibilità dell’amministrazione del
Presidente statunitense Donald Trump, la Gran Bretagna, in particolare, ha
rafforzato il coordinamento della difesa con Israele nel tentativo di
riposizionarsi come attore chiave e rilevante in un ordine multipolare. Secondo
alcune fonti, Londra starebbe preparando un accordo da 2,7 miliardi di dollari
(2,3 miliardi di euro) con Elbit Systems, il più grande produttore di armi
israeliano, per addestrare 60.000 soldati britannici all’anno.
Questo rapporto si è approfondito all’inizio di quest’anno, quando è emerso che
un’accademia militare britannica stava addestrando soldati dell’Esercito di
Occupazione, molti dei quali sono stati implicati in Crimini di Guerra durante i
conflitti di Gaza e del Libano. La stessa Elbit fornisce l’85% dei droni
dell’Esercito di Occupazione ed è stata ripetutamente presa di mira dalla
Palestine Action, un’organizzazione non governativa, per il suo ruolo diretto
nei Crimini di Guerra. Londra non solo ha protetto l’azienda, ma ha anche
intensificato le operazioni congiunte.
La Gran Bretagna produce anche il 15% di tutti i componenti dei caccia F-35.
Questi aerei sono stati utilizzati senza sosta nel Genocidio di Gaza, eppure la
loro produzione continua, confermata dai tribunali britannici nonostante le
proteste. Lungi dall’essere neutrale, la Gran Bretagna è parte integrante
dell’Infrastruttura Genocida di Tel Aviv. L’industria delle armi è ormai
diventata un affare globale, che intreccia difesa, tecnologia e oppressione
sistemica. Il Modello Israeliano di Genocidio, che trae profitto direttamente da
questa intersezione, si è diffuso oltre i suoi confini, con alleati
internazionali complici del suo successo.
Aiuti militari, riprogettazione di Gaza
Gli appaltatori privati sono ormai integrati in ogni livello della Macchina
Bellica israeliana, inclusa la sua cinica manipolazione degli aiuti umanitari.
La Fondazione Umanitaria per Gaza, presumibilmente istituita per facilitare gli
aiuti, è stata smascherata per collusione con le Forze di Occupazione,
archiviazione di informazioni e dispiegamento di società di sicurezza private
con zero credenziali umanitarie. Il ruolo delle aziende private si estende ben
oltre la sorveglianza a distanza, infiltrandosi nei meccanismi degli aiuti
umanitari. La Fondazione Umanitaria per Gaza è stata ripetutamente criticata per
aver violato i principi fondamentali della distribuzione degli aiuti, come
l’imparzialità e l’indipendenza. È stata colta a sparare sulla folla, a
raccogliere informazioni e a collaborare con le autorità israeliane,
esternalizzando al contempo società di sicurezza private come Safe Reach
Solutions e UG Solutions, due società di sicurezza private guidate da personale
privo di competenze umanitarie. Recentemente, è stato scoperto che UG Solutions
aveva reclutato membri di una famigerata banda di motociclisti anti-islamici
dagli Stati Uniti. In totale, 2.465 palestinesi sono stati uccisi e oltre 17.948
feriti mentre attendevano gli aiuti umanitari a Gaza, secondo il Ministero della
Sanità di Gaza.
Il problema chiave risiede nel fatto che le aziende private non sono vincolate
dagli stessi parametri etici delle organizzazioni umanitarie tradizionali.
Questa mancanza di regolamentazione consente loro di funzionare come estensioni
dell’Occupazione, promuovendo gli obiettivi di Israele sotto la maschera di
aiuti con scarsa o nessuna responsabilità. Gli aiuti privatizzati non sono
quindi un dettaglio secondario, ma una componente centrale del Modello di
Genocidio Israeliano, che trasforma gli aiuti umanitari in un ulteriore
Strumento di Occupazione.
Terra bruciata
Il piano “Riviera di Gaza” del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e la
visione di espulsione di massa del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu
si basano entrambi su una completa rivisitazione di Gaza. Il piano postbellico
di Trump richiede una popolazione disposta a trasformarsi in sudditi di un polo
economico, mentre Netanyahu immagina una terra ripulita dai palestinesi, su cui
poter costruire nuovi insediamenti illegali. A differenza del modello imperiale,
il Modello del Genocidio Israeliano richiede la purificazione di una
popolazione, poiché è più facile, e più efficiente, eliminarla che renderla
servile. Questo rende la privatizzazione di una Gaza postbellica non solo
un’opzione, ma una necessità.
Secondo il Financial Times, il Gruppo di Consulenza di Boston, la società di
consulenza statunitense in parte responsabile della creazione della Fondazione
Umanitaria per Gaza, sarebbe stato incaricato di stimare il costo del
trasferimento di Gaza nell’ambito di un più ampio piano di ricostruzione
postbellica. I rapporti evidenziano anche una maggiore dipendenza dai mercenari
statunitensi per gestire il contesto postbellico e controllare il traffico di
armi, dimostrando come sia il modello imperiale che il Modello Genocida
Israeliano dipendano l’uno dall’altro per sostenersi.
Gli aiuti umanitari sono stati determinanti nella realizzazione di questa
visione. I quattro siti di “distribuzione degli aiuti”, descritti dai funzionari
delle Nazioni Unite come “trappole mortali”, sono diventati zone militarizzate,
costringendo i palestinesi a rifugiarsi in enclave ancora più piccole nel Sud di
Gaza, contribuendo direttamente all’obiettivo di sfollamento di Israele. Questo
non è il futuro della guerra. È il presente. E viene costruito, testato e
venduto a Gaza.
Aymun Moosavi è un’analista politica con un dottorato in Studi sui Conflitti
Internazionali conseguito al King’s College di Londra. Il suo lavoro si
concentra sulla Resistenza e la Liberazione nella Regione dell’Asia Occidentale.
Traduzione a cura di: Beniamino Rocchetto
Riceviamo da No Trace Project e segnaliamo:
https://www.notrace.how/blog/challenges/sfide.html
I due testi che seguono – il primo è un’ampia disamina di come il diritto
internazionale serva da giustificazione al colonialismo in Palestina (e non
solo); il secondo è una sorta di compendio sul ruolo delle università nei regimi
coloniali – mettono in luce degli elementi chiave per la solidarietà
internazionalista con la resistenza palestinese, ma vanno anche al di là. Tutte
le astrazioni del tecno-capitalismo e delle sue nuvole (cloud) si fondano
sull’esproprio delle terre e sulla guerra alle pratiche di sussistenza dei loro
abitanti. La violenza dell’«accumulazione originaria del capitale» non è un
evento, bensì una struttura, che oggi punta a colonizzare altri Pianeti e le
facoltà stesse della specie. Non è certo un caso né che le principali democrazie
liberali siano fondate sul genocidio o sulla pulizia etnica dei popoli nativi,
né che le università in cui si sono formulati i valori e le norme giuridiche
dell’Occidente siano state fisicamente erette sull’esproprio e sulla violenza ai
danni dei terreni e dei corpi delle popolazioni indigene.
LA PALESTINA E LA LOGICA COLONIALE DEL DIRITTO INTERNAZIONALE
DI MJRIAM ABU SAMRA E SARA TROIAN
da: https://comune-info.net/la-palestina-e-la-logica-coloniale-del-diritto/?
Il concetto di eccezionalismo è frequentemente evocato per spiegare “la
questione palestinese” all’interno del sistema internazionale. La Palestina
viene così rappresentata come un’anomalia: un progetto coloniale di insediamento
anacronistico che perpetua apartheid, occupazione militare e genocidio in un
mondo che si vorrebbe post-coloniale. In questo contesto, la violenza, le
pratiche illegali e l’impunità di Israele sono considerate come deviazioni
rispetto a un sistema internazionale che, altrimenti, si fonderebbe su valori
condivisi, istituzioni imparziali e un quadro normativo universale.
Tuttavia, questa narrazione è pericolosamente ingannevole in quanto oscura
l’innata presenza del colonialismo nell’ordine mondiale contemporaneo. Lungi
dall’essere un’eccezione, la Palestina rivela invece le fondamenta coloniali
delle relazioni internazionali. Dunque, la perpetrazione del colonialismo da
parte di Israele non rappresenta un’anomalia in un mondo giusto ed equo, ma è,
al contrario, la manifestazione più evidente di un ordine globale concepito e
strutturato per sostenere, proteggere e legittimare dinamiche di potere
(neo)coloniali.
L’architettura coloniale del diritto internazionale
Il diritto internazionale emerse per legittimare la schiavitù di milioni di
africani, la conquista coloniale del cosiddetto “Nuovo Mondo” e la sottomissione
dei popoli indigeni a livello economico, culturale e politico. Per oltre 500
anni, ha modellato la traiettoria della storia europea, contrassegnata da
pratiche di sfruttamento ed esproprio, fungendo da arbitro tra le ambizioni
spesso conflittuali dei diversi imperi e conferendo legittimità all’espansione
territoriale. Le opere di Francisco De Vitoria e Hugo Grotius, considerati i
padri del diritto internazionale, ne sono un esempio paradigmatico. La loro
concezione di “legge naturale” ha definito uno standard di civilizzazione basato
su canoni culturali e politici europei, utilizzati come metro di misura per
giustificare la conquista territoriale e l’oppressione dei popoli non europei.
Secondo questo standard, i cosiddetti “civilizzati” avevano il diritto di
conquistare, mentre i “non civilizzati” erano imputati alla schiavitù,
sfruttamento, sottomissione e sterminio. In questa matrice, ogni forma di
resistenza dei “non civilizzati” veniva trattata come barbarie o terrorismo. Lo
standard di civilizzazione si riduceva, di fatto, al potere istituzionalizzato
di colonizzare.
Nel corso del tempo, il diritto internazionale si è progressivamente
trasformato, adattandosi alle mutate forme di dominio coloniale. L’ordine
globale emerso dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale, sebbene ancora
saldamente controllato dalle superpotenze e dai loro interessi strategici,
veniva presentato come un sistema equo e universale, mascherato da una legalità
apparentemente neutrale e garantito da istituzioni formalmente imparziali, con
l’ONU nel ruolo di custode principale.
L’inclusione del sistema dei Territori sotto mandato nella Carta delle Nazioni
Unite, insieme alle epistemologie eurocentriche che hanno guidato la
codificazione dei trattati internazionali, come la Dichiarazione Universale dei
Diritti Umani o la Convenzione sul Genocidio, tra gli altri, testimonia questa
continuità. Il vecchio standard di civilizzazione è stato riformulato e
riproposto attraverso nuove dicotomie apparentemente più accettabili, come
democrazia/non democrazia, sviluppato/sottosviluppato, liberale/non liberale.
Gli ideali europei di democrazia, sviluppo e liberalismo economico si sono così
convertiti in nuovi dispositivi di legittimazione del controllo e dello
sfruttamento di altre regioni e popoli. In questo quadro, il sistema di veto del
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite rappresenta l’ammissione più evidente
dell’impegno, mai realmente superato, a favore dell’egemonia delle superpotenze
del sistema post-bellico.
L’onda di decolonizzazione degli anni Cinquanta e Settanta ha portato solo una
liberazione nominale: le ex colonie sono rimaste intrappolate in nuove forme di
dominio, non meno pervasive di quelle precedenti. L’indipendenza politica ha
infatti occultato la persistente subordinazione economica, esercitata attraverso
istituzioni finanziarie, trattati commerciali asimmetrici e l’estrazione
sistematica di ricchezze da parte di multinazionali, supportata dai programmi di
aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale e della Banca
Mondiale. L’ex presidente del Ghana e teorico politico Kwame Nkrumah ha
denunciato questo periodo come la transizione dal colonialismo classico al
neo-colonialismo. Questa condizione di dipendenza economica è stata legittimata
da narrazioni ideologiche che hanno presentato lo sviluppo capitalistico come
equivalente agli standard universali dei diritti umani, nascondendo la natura
profondamente estrattiva e iniqua di tali processi.
In sostanza, il diritto internazionale e le sue istituzioni hanno sancito una
liberazione simbolica, ma non una reale emancipazione materiale dal
colonialismo.
Le condizioni storiche e materiali dell’oppressione
Il diritto umanitario internazionale, in particolare le Convenzioni di Ginevra
del 1949 e i loro Protocolli Aggiuntivi del 1977, incarnano una contraddizione
strutturale. Il tentativo di regolamentare la lotta anticoloniale all’interno
degli stessi quadri giuridici creati per disciplinare i conflitti tra Stati
sovrani finisce per riprodurre – e spesso aggravare – lo squilibrio di potere
intrinseco ai rapporti coloniali, anziché correggerne le disuguaglianze.
Sebbene queste norme si presentino come universalistiche nella loro
applicazione, esse impongono una simmetria giuridica formale tra colonizzatori e
colonizzati, tra potenze occupanti e coloro che resistono alla loro dominazione.
In tal modo, ignorano le profonde asimmetrie strutturali e le dinamiche di
potere che definiscono le relazioni coloniali. Trattando la resistenza dei
popoli colonizzati secondo le stesse restrizioni legali imposte agli eserciti
statali, questi strumenti giuridici oscurano le condizioni storiche e materiali
dell’oppressione da cui origina tale resistenza.
Inoltre, queste norme spesso operano come strumenti di delegittimazione e
criminalizzazione della resistenza anticoloniale, rafforzando la supremazia
strutturale del colonizzatore. Il principio di distinzione – concepito per
proteggere i civili – non considera come i regimi coloniali confondano
deliberatamente obiettivi militari e civili, né affronta la violenza sistemica
insita nell’occupazione stessa. Analogamente, il divieto di determinati metodi
di combattimento limita in modo sproporzionato le possibilità di autodifesa dei
popoli colonizzati, mentre lascia intatte le superiori capacità belliche
dell’oppressore.
Questo impianto normativo, pertanto, non agisce come arbitro imparziale della
giustizia, ma come uno strumento di consolidazione delle stesse gerarchie di
potere che pretende di regolare. Regolando la violenza secondo un principio di
falsa equivalenza tra chi domina e chi resiste, il diritto umanitario consente
alle potenze coloniali di dipingere i popoli oppressi come soggetti incapaci di
aderire ai princìpi giuridici fondamentali. Così facendo, rende di fatto
inammissibili le guerre di liberazione anticoloniali nei parametri del diritto
internazionale.
La guerra del diritto internazionale contro la Palestina
La questione palestinese rappresenta l’essenza egemonica del diritto
internazionale. L’ideologia del colonialismo di insediamento sionista è emersa e
continua a operare all’interno del contesto politico ed economico della storia
imperiale europea, radicandosi nel sistema internazionale stesso.
La Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha diviso la
Palestina, legittimato la confisca delle terre e integrato il colonialismo di
insediamento nel diritto internazionale. Nonostante fosse giuridicamente
viziata, poiché eccedeva l’autorità dell’Assemblea Generale dell’ONU e non era
vincolante, la risoluzione è divenuta la colonna portante della legittimazione
indiscutibile di Israele e dell’eredità coloniale del sistema internazionale. La
storia moderna della Palestina riflette dunque questa dialettica tra sistemi di
dominazione legalizzati a livello internazionale e la resistenza al quadro
coloniale che li sorregge.
Il quadro di Oslo ha mantenuto questa dicotomia, rafforzando ulteriormente il
colonialismo di insediamento sionista dietro la facciata di “negoziati di
pace”. Si tratta di una manovra politica concepita per cristallizzare il
colonialismo di insediamento e neutralizzare la resistenza palestinese,
promuovendo l’ambiziosa, seppur paradossale, aspirazione di ottenere la
legittimazione del sionismo attraverso l’accettazione da parte dei colonizzati
palestinesi stessi. Con questa strategia e attraverso la narrativa
dell’“approccio pragmatico”, la comunità internazionale presenta il colonialismo
di insediamento come una “soluzione giusta ed equa”, annientando i diritti e le
aspirazioni di liberazione, giustizia e ritorno della popolazione indigena. In
tale contesto, il controllo e l’oppressione coloniale vengono ulteriormente
radicati attraverso una dipendenza economica e politica neoliberista che
normalizza la violenza e la dominazione sotto le spoglie di costruzione statale.
Si formalizza così la relazione coloniale, istituzionalizzando una classe
collusa di colonizzati – l’Autorità Palestinese (AP) – investita del ruolo di
intermediaria custode del potere coloniale. Questo rafforza, infine,
l’architettura della violenza coloniale di Israele. La continua campagna di
espulsioni di massa e distruzione nel nord della Cisgiordania – la più estesa e
feroce dal 1967 – condotta congiuntamente con l’AP rappresenta una testimonianza
lampante di questa realtà persistente.
Non è un caso che “la campagna per il riconoscimento dello stato di Palestina”
venga rilanciata ogni volta che il potere coloniale è sfidato nella sua essenza
e la mobilitazione decoloniale risorge, facendo risaltare i limiti strutturali e
le incoerenze del sistema internazionale. Questa campagna è la continuazione
genealogica della partizione della Palestina. Il momento attuale ne è
testimonianza: con un genocidio in diretta streaming, l’unica risposta che
emerge a livello internazionale è, paradossalmente, il riferimento a “soluzioni
legittime” e a “quadri giuridici” che non mettono in discussione i fondamenti
coloniali della depredazione palestinese, ma li accettano come un fatto
compiuto. Questa traiettoria strategica si maschera da tentativo di implementare
meccanismi di responsabilità e giustizia tramite l’intervento delle istituzioni
internazionali, che, lungi dall’essere “super partes”, sono vettori di egemonia
coloniale.
Emblematiche in questo contesto sono le ordinanze di arresto emesse dalla Corte
Penale Internazionale per Netanyahu e Gallant – che inizialmente furono
richieste anche per Ismail Haniyeh, Yahya Sinwar, e Mohammad Deif, se non
fossero stati uccisi dalla stessa autorità coloniale contro cui stavano
lottando, prima che gli ordini di arresto fossero ratificati. Mentre il mondo ha
acclamato questa decisione che, pur mancando di esecuzione, è stata definita
storica, essa ha svolto un ruolo strumentale nel livellare e normalizzare le
relazioni di potere asimmetriche tra colonizzati e colonizzatori, mettendo i
leader della resistenza anticoloniale sullo stesso piano delle autorità statuali
che ordinano e implementano massacri coloniali per sradicare ed eliminare un
intero popolo. Questo approccio “bipartisan” e l’insistenza sull’“obiettività”
si configurano come la regola che sottomette ogni tentativo di denunciare e
invertire le relazioni di potere sbilanciate.
Le fondamenta coloniali del diritto internazionale hanno neutralizzato la
relazione colonizzato-colonizzatore, occultandola in retoriche e pratiche
di bothsidesism (finta equidistanza) che favoriscono sempre il più potente
colonizzatore, che non solo tiene il coltello dalla parte del manico, ma detiene
anche il controllo sulla narrativa.
Smantellare la casa del padrone
La colonizzazione della Palestina non è un’anomalia in questo ordine globale, ma
rappresenta la sua accusa più evidente. Essa mette in luce l’ipocrisia di un
sistema internazionale che, pur condannando retoricamente il colonialismo, lo
istituzionalizza e lo legittima nella pratica. I quadri giuridici internazionali
e i modelli di governance, progettati dai e per i poteri coloniali, hanno sempre
dato priorità alla conservazione delle gerarchie di potere, celandole sotto la
facciata di legalità e giustizia. Tali strutture riaffermano il colonialismo di
insediamento come un presupposto legittimo delle relazioni internazionali.
Dal 7 ottobre 2023, la presunta universalità del sistema internazionale è stata
messa in discussione, rivelandone le contraddizioni intrinseche. Il discorso
evolutivo e i meccanismi del diritto internazionale hanno esposto i loro limiti
e la continua alleanza con il dominio coloniale e i suoi corollari: il
privilegio razziale, le disuguaglianze sistemiche e l’accumulo di capitale.
Questo momento richiede una rivalutazione critica dei quadri concettuali e
pratici che sostengono la giustizia e la liberazione. L’affermazione di Audre
Lorde che “gli strumenti del padrone non smantellano mai la casa del padrone.
Possono permetterci temporaneamente di batterlo al suo stesso gioco, ma non ci
permetteranno mai di portare un vero cambiamento” sottolinea la necessità di
ripensare questi paradigmi. Il cammino da percorrere richiede una profonda
trasformazione strutturale, che affronti e smantelli i sistemi di diritto
internazionale e governance che perpetuano l’oppressione. Al loro posto, devono
essere sviluppati paradigmi alternativi, fondati sull’uguaglianza autentica,
sulla lotta comune e sulla giustizia decoloniale. La lotta palestinese per la
liberazione incarna questa sfida più ampia, forzando un confronto con le radici
coloniali dell’ordine globale e immaginando un mondo in cui la giustizia non
resti mera retorica, ma diventi realtà per tutti.
«Iniziare dalla terra su cui sono state erette»
Gli istituti di istruzione superiore hanno effettivamente svolto un ruolo
fondamentale nello spossessamento delle terre indigene e nell’espansione degli
insediamenti coloniali, in particolare nelle società a dominazione inglese
istituite sotto l’egida dell’Impero britannico. Dagli Stati Uniti al Canada,
dall’Australia e la Nuova Zelanda al Sudafrica, le università degli Stati
coloniali anglosassoni sono nate dall’appropriazione di territori indigeni non
ceduti. Con la benedizione dell’Impero britannico, oltre sei milioni di ettari
di terre indigene in tre diversi continenti sono stati trasferiti alle
università coloniali. Gli Stati coloniali usavano questi terreni per costruire o
finanziare istituzioni divenute in seguito note come land-grant university
(università concessionarie di terre) e ribattezzate land-grab university
(università accaparratrici di terre) dai popoli indigeni.
Negli Stati Uniti, il provvedimento “Morrill Land-Grant College Act” del 1862
facilitò l’esproprio violento delle terre indigene a beneficio delle università
e dei college. Gli Stati dell’est, del sud e alcuni del Midwest si finanziarono
vendendo terre concesse loro dal governo; gli Stati dell’ovest, nel frattempo,
costituivano università direttamente sulle terre di varie tribù acquisite
mediante accordi estorti con la violenza e talvolta conquistati con veri e
propri massacri. 245 tribù indigene persero oltre 4 milioni di ettari di terra,
destinati all’espansione delle università statunitensi, per un valore di quasi
500 milioni di dollari. Lo sfruttamento degli africani ridotti in schiavitù
nelle Americhe consentì un ulteriore accumulo di ricchezze da parte delle
università, spesso costruite con il sudore degli schiavi o finanziate dalla loro
tratta.
Anche le università canadesi furono costruite in seguito all’appropriazione di
terre indigene. Dall’Ontario alla Columbia Britannica, passando per la provincia
del Manitoba, la Corona britannica e successivamente i governi provinciali
canadesi destinarono 200 mila ettari di terre sottratte agli indigeni alla
fondazione delle principali università del paese. In Nuova Zelanda, la confisca
delle terre maori e la loro concessione da parte del governo costituiscono la
base per l’edificazione di quasi tutte le università statali, mentre la terre
aborigene d’Australia furono direttamente espropriate per costruire le
università coloniali.
In Sudafrica, le leggi sulla terra del 1913 e del 1936 sancirono l’alienazione
dei terreni e la cacciata dei sudafricani neri che li abitavano. Questi atti
sono all’origine di università storicamente bianche in posizioni strategiche.
Queste, a loro volta, promossero l’insediamento di bianchi facilitando la
segregazione dell’istruzione superiore, con la creazione di istituzioni
riservate alla popolazione nera. Nell’ottica della repressione delle
mobilitazioni per la liberazione dei neri, lo Stato sudafricano istituì
università rivolte ai neri concependole come strutture di controllo
amministrativo e come strumento all’interno del sistema del bantustan. La
segregazione universitaria, dalle infrastrutture dei campus ai programmi
accademici, fu concepita come dispositivo funzionale all’apartheid. […] le
università sudafricane vennero deliberatamente «impiantate “nel territorio” come
infrastrutture fisiche concrete e inamovibili»: la loro collocazione e il loro
posizionamento rendono una loro trasformazione nell’èra post-apartheid impresa
oltremodo ardua.
In quei paesi coloniali, il progetto di esproprio delle terre indigene e
l’insediamento dei coloni alimentano l’espansione dell’istruzione superiore.
Fondate su terreni confiscati ai popoli indigeni, le università, a loro volta,
si sono fatte roccaforte degli insediamenti nelle terre delle comunità indigene
che lo Stato mirava a contenere ed eliminare. Per fare i conti con le proprie
responsabilità nel progetto coloniale, sostengono studiosi e attivisti indigeni,
le università devono iniziare dalla terra su cui sono state erette, analizzando
i modi in cui esse stesse fungono da infrastrutture di spossessamento e
oppressione violenta.
Edificati su terreni sottratti ai palestinesi indigeni e progettati come veicoli
dell’espansione degli insediamenti ebraici, gli stessi atenei israeliani si
inseriscono nel solco della tradizione delle «università accaparratrici di
terre». Al pari di altre istituzioni di insediamento, le università sono pensate
per sostenere l’infrastruttura coloniale dello Stato israeliano. Ciò che le
distingue, tuttavia, è il ruolo – a cui a tutt’oggi non si sottraggono – di
esplicito sostegno a un regime che la comunità internazionale definisce di
apartheid. Queste università, infatti, non solo continuano a partecipare
attivamente alla violenza di Stato contro i palestinesi, ma contribuiscono, con
le proprie risorse e ricerche, a preservare, difendere e giustificare
l’oppressione.
(da Maya Wind. Torri d’avorio e d’acciaio. Come le università israeliane
sostengono l’apartheid del popolo palestinese, Alegre, Roma, 2024)
Cosa c’entra l’incidente ferroviario di Tempe (Larissa, Tessaglia, 28 febbraio
2023), un’orribile strage di Stato cui è seguita un’intensa mobilitazione da
parte della popolazione greca, e la gestione autoritaria, militarista e
criminale del Covid-19? Ce lo spiegano due antropologi greci, opportunamente
introdotti dalla nostra amica antropologa Stefania Consigliere.
Da
https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/30104-eri-samikou-e-lazaros-tentomas-antigone-in-grecia-dalla-pandemia-di-covid-19-sino-a-tempe-la-verita-sepolta-dal-silenzio-di-stato.html
ANTIGONE IN GRECIA: DALLA PANDEMIA DI COVID-19 SINO A TEMPE, LA VERITÀ SEPOLTA
DAL SILENZIO DI STATO
ERI SAMIKOU E LÁZAROS TENTOMAS
Gli anni post-pandemici hanno reso evidente la disturbante continuità nelle
strategie politiche: dalla comunicazione propagandistica alle priorità
economiche, dalla militarizzazione di ogni piega della vita all’uso sfacciato
della necropolitica, dalla criminalizzazione del dissenso alla manomissione del
bene pubblico. A livello alto, una linea ininterrotta collega Covid-19, Ucraina
e Gaza; a livello medio, essa unisce le politiche vaccinali del blocco
atlantico, la corsa al riarmo dell’UE e la soppressione delle ricerche
accademiche su disuguaglianza, razzismo e violenza strutturale; ma anche a
livello spicciolo, su quella stessa linea inciampiamo ogni volta che sentiamo
erosi i margini della vita quotidiana, dei legami di affetto e di senso,
dell’autonomia individuale e collettiva. È qui che dobbiamo allenarci per
tornare a sentire che niente può giustificare l’abbandono del minimo sindacale
che ci rende umani: la cura dei nuovi nati, la cura delle ecologie collettive,
il saluto ai morti. In questo articolo, apparso sui siti greci Kosmodromio e
Edromos, due antropolog* dell’università di Atene mettono a confronto le
politiche pubbliche e sanitarie in risposta a un tragico incidente ferroviario
con quelle che, pochissimi anni prima, hanno deciso della vita dell’intera
nazione (Stefania Consigliere)
Il 28 febbraio 2023 la Grecia ha vissuto uno dei disastri ferroviari più gravi
della sua storia, quando un treno passeggeri si è scontrato frontalmente con un
treno merci vicino a Tempe, nella Grecia centrale. La collisione si è verificata
poco prima di mezzanotte, sulla tratta Atene-Salonicco e ha causato un grave
deragliamento e un enorme incendio che ha avvolto diverse carrozze, portando
alla morte orribile di decine di passeggeri.
Le carrozze anteriori sulle quali viaggiavano soprattutto giovani, compresi
studenti universitari di ritorno dalle vacanze, hanno subito l’impatto più
violento. Ufficialmente, almeno 57 persone sono state registrate come decedute,
ma numerosi indizi lasciano supporre che il numero delle vittime sia maggiore.
Le indagini hanno rivelato che non si tratta solo del risultato di un errore
umano, ma di un crimine di Stato, poiché il Governo e le autorità competenti
erano consapevoli delle importanti carenze in materia di sicurezza all’interno
del sistema ferroviario greco. Le strutture della rete erano obsolete, e i
controlli automatizzati inadeguati, nonostante le ripetute segnalazioni da parte
dei ferrovieri. Dopo la tragedia, ci sono state accuse di insabbiamento, poiché
dai rapporti è emerso come il sito dell’incidente sia stato rapidamente sepolto
dai detriti (probabilmente in presenza di alcuni resti umani ancora sul posto)
nel tentativo di eliminare le prove. I sopravvissuti e i familiari delle vittime
hanno accusato le autorità di un’assenza di trasparenza nelle procedure di
identificazione dei cadaveri, lasciando molte questioni irrisolte.
Nel gennaio 2025, in una dichiarazione ai media, l’avvocato di Maria Karystianou
– la presidente dell’Associazione delle Famiglie delle Vittime e dei
Sopravvissuti nell’incidente di Tempe, che perse sua figlia nella catastrofe –
ha denunciato la mancanza di risposte, da sei mesi, in merito alla «illegittima
mancanza di alcuni rapporti medico-legali, al rifiuto di prelevare campioni
biologici inclusi i test tossicologici, e alla redazione di rapporti
medico-legali quasi identici tra loro che individuano un’unica causa di morte».
Nel dicembre 2024, il giudice istruttore aveva già respinto la richiesta di
Panagiotis Aslanidis, il padre di una vittima, che chiedeva l’esumazione del
corpo di suo figlio per un’analisi del DNA e la conduzione di esami biochimici a
conferma della sua identità.
I corpi delle vittime rimangono al centro delle domande di verità e giustizia.
Tuttavia, una rete governativa, mediatica e medico-legale sembra agire
orchestrando sistematicamente l’occultamento delle prove.
In un’intervista recente a Libération, Maria Karystianou ha espresso la profonda
sfiducia nel sistema giudiziario greco da parte delle famiglie delle vittime:
«Non abbiamo più fiducia nella giustizia del nostro Paese». Maria Karystianou ha
denunciato la mancanza di trasparenza e l’omissione di prove cruciali, come
registrazioni audio e documenti digitali, che avrebbero dovuto essere inclusi
nel fascicolo giudiziario. Due anni dopo il disastro, non è stata fornita alcuna
risposta alle famiglie in cerca di verità.
Con i sopravvissuti gravemente feriti e le vittime ancora non identificate –
come Erietta Molcho, che risulta ufficialmente scomparsa senza che nessun corpo
sia stato ritrovato – la tragedia di Tempe rivela la portata dell’occultamento
della verità. Questa situazione illustra le connessioni tra la gestione politica
delle crisi e il paternalismo medico-legale: ciò che è stato ereditato dalla
narrazione pandemica elaborata durante l’epidemia da Covid-19, la quale ha
imposto una verità unica con il pretesto della “protezione” e del “bene comune”.
Rievocando quanto accaduto in quel periodo Martha, una donna che ha perso sua
madre durante la pandemia, racconta: «Era un caso grave. Non sarebbe comunque
sopravvissuta a causa di un ictus. Ma hanno scritto “Covid-19” – prima “ictus”,
poi “Covid-19” – sul certificato di morte. Quindi è stato applicato il
protocollo Covid-19. Le pompe funebri mi hanno spiegato che ciò implicava una
sacca mortuaria, un doppio involucro, del cellophane e una tuta speciale per
coloro che maneggiavano il corpo, con un costo aggiuntivo di 400 euro. Il
cimitero, anziché una concessione triennale, ne ha richiesta una settennale.
Queste spese erano supplementari. In totale, ho pagato 400 euro in più e quattro
anni aggiuntivi di concessione per la tomba. Non ho mai visto mia madre. Da
quando l’hanno portata in ospedale, non l’ho mai più vista. Non ci hanno neanche
concesso il tempo di un breve elogio funebre. Una sepoltura veloce, questo è
tutto. Non sono ancora riuscita a elaborare il lutto».
Anche Aphrodite, un’infermiera di terapia intensiva durante la pandemia di
Covid-19, ha raccontato: «Con la mia esperienza professionale, ho capito
velocemente che cosa stava accadendo. Ciò che chiamavano “pandemia” non riusciva
a convincermi. Stavano classificando come morti per Covid pazienti con gravi
patologie preesistenti. Per esempio, pazienti con tumori in fase terminale nei
reparti di terapia intensiva Covid, sono stati dichiarati morti di Covid-19. Non
era vero. Ho le competenze per capire di che cosa morivano realmente questi
pazienti. Molti sono morti a causa di infezioni ospedaliere che provocavano
un’insufficienza multiorgano, ma venivano sistematicamente registrati come
decessi per Covid-19».
L’ombra della gestione dei morti durante la pandemia di Covid 19 aleggia ancora
sulla tragedia di Tempe. Durante la crisi di Covid-19, qualsiasi contestazione
dei protocolli medici e delle restrizioni sanitarie veniva sistematicamente
etichettata come “complottista”. La stessa dinamica sembra essere oggi applicata
a Tempe: le bare sigillate, l’impossibilità di condurre autopsie e le procedure
di identificazione dei cadaveri basate esclusivamente sul DNA, impediscono
qualsiasi contestazione ufficiale sulle cause dei decessi.
Questa continuità solleva numerosi interrogativi. Nel nostro libro Did We Take
Our Lives Back? An Anthropological Study of the (Post)Pandemic Discourse in
Greece (Alistou Mnimis Editions, 2023), abbiamo analizzato come la gestione dei
decessi legati al Covid-19 abbia instaurato una logica autoritaria di
classificazione delle morti. Fino alla fine del 2023, il protocollo funebre in
Grecia vietava l’apertura delle bare, impedendo così le autopsie e qualsiasi
indagine sulle cause dei decessi.
Pochi giorni dopo il disastro di Tempe, il Ministero della Salute greco ha
applicato la stessa logica ai corpi delle vittime, imponendo bare sigillate e
un’identificazione da condursi esclusivamente tramite il test del DNA; ha
giustificato questa decisione con la volontà di proteggere le famiglie da
ulteriori forme di sofferenza. Questa misura ha impedito qualsiasi riesame
indipendente sulle cause delle morti.
In Antigone, Sofocle illustra l’importanza della sepoltura come diritto
inalienabile, un atto di rispetto verso i morti e una sfida all’arbitrarietà del
potere. Dalla pandemia sino al disastro di Tempe, il modello rimane lo stesso:
uno Stato che impone bare sigillate, impedisce qualsiasi indagine indipendente e
mette a tacere le famiglie in cerca di verità. Ma, come Antigone, esse rifiutano
di restare in silenzio. La loro lotta per la verità è un atto di resistenza
contro l’oblio e la manipolazione della storia. La dignità dei morti non può
essere cancellata per decreto, né la giustizia sepolta sotto le menzogne di
Stato.
Questo articolo mira a mettere in luce l’intreccio tra narrazioni ufficiali e
realtà nascoste. Rifiutando di accettare le narrazioni imposte, esigendo
indagini trasparenti e chiedendo giustizia, la memoria delle vittime viene
onorata. È nostro dovere rifiutare l’oblio e interrogare incessantemente ciò che
ci viene presentato come una verità assoluta.
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ERI SAMIKOU: ANTROPOLOGA SOCIALE, UNIVERSITÀ PANTEION, ATENE.
LÁZAROS TENTOMAS: ANTROPOLOGO SOCIALE, DIPARTIMENTO DI POLITICA SOCIALE,
UNIVERSITÀ PANTEION, ATENE.
Riprendiamo da “pungolo
rosso”(https://pungolorosso.com/2025/03/29/il-clown-e-il-circo-a-bihr-j-m-heinrich-r-pfefferkorn-y-thanassekos/)
e rilanciamo questo interessante dibattito, che fa il punto sulle ragioni della
guerra in Ucraina tra NATO e Federazione Russa. Ci pare che le argomentazioni
degli autori de “Il clown e il circo” e della redazione del Pungolo si integrino
più di quanto si contraddicono: da una parte dei sani giudizi di fatto sulle
preponderanti responsabilità occidentali nel provocare la guerra (giudizi di
fatto tanto più necessari di fronte a una propaganda che ha compiuto e compie
salti mortali per nasconderle); dall’altro la verità di fondo che ogni Stato
combatte le guerre per i propri interessi di potenza. Di fronte alle attuali
“manovre di pace”, condividiamo in particolare l’idea del Pungolo che “la
possibilità di contrastare la tendenza alla guerra con ‘la mobilitazione delle
masse in tutta Europa’ deve saper denunciare per tempo le stesse soluzioni
diplomatiche, per quanto ‘ragionevoli’ possano apparire, come altrettanti passi
verso un nuovo conflitto mondiale.”
Qui il seguito del dibattito:
https://pungolorosso.com/2025/04/06/la-replica-di-a-bihr-j-m-heinrich-r-pfefferkorn-e-y-thanassekos-italiano-francais/
[Qui in apertura l’introduzione della redazione di “Pungolo rosso”]
A dispetto del titolo, ironico e scanzonato, l’articolo di Alain Bihr, J.M.
Heinrich, R. Pfefferkorn e Y. Thanassekos tratta di una questione molto
importante: la guerra NATO/Russia in Ucraina e la sua possibile sospensione.
Diciamo “sospensione”, non “pace”, perché quest’ultima, intesa come un’organica
conclusione del conflitto, ci sembra largamente irrealistica, se non
impossibile. Quello che si va prospettando è dunque un congelamento delle
attività belliche, che asseconda gli interessi immediati sia della Russia che,
sul versante opposto, degli USA, capofila dello schieramento occidentale.
Il testo collettivo che pubblichiamo ha il pregio di sottolineare alcuni punti
importanti, tanto “ragionevoli” quanto mistificati e sommersi dalla martellante
propaganda di guerra USA/NATO/UE e dalla russofobia isterica di cui è intrisa:
primo fra questi, quello che qualifica la guerra tuttora in corso come un
conflitto fra Russia e Nato, e non fra Russia e Ucraina. A seguire, gli autori
richiamano alcune delle principali contraddizioni della propaganda occidentale:
tale è, ad esempio, la tesi circa la pretesa intenzione di Mosca di invadere i
paesi confinanti e addirittura l’Europa occidentale, nonostante, dopo tre anni
di guerra, essa sia riuscita a conquistare, con notevoli sforzi, appena un
quinto del territorio ucraino. E che dire dello stridente contrasto fra gli
strepiti odierni sulla mancanza di sufficienti mezzi militari per contrastare la
Russia e la ribadita volontà di sostenere lo sforzo bellico di Kiev affinché
riconquisti i territori perduti? Per non parlare, poi, della fulminea decisione
di finanziare a debito un gigantesco piano di riarmo, infrangendo il dogma
ostile alla spesa in deficit quando essa riguardi salari, pensioni e servizi
sociali.
Il lettore troverà dunque in questo breve scritto un utile antidoto alle
menzogne sparse a piene mani dai “nostri” governi negli ultimi tre anni. Allo
stesso tempo, l’articolo dà un’interpretazione discutibile su molti
punti-cardine, che non condividiamo. Ad esempio, nel negare, giustamente, che il
conflitto sia limitato all’Ucraina, ma coinvolge invece “l’Occidente globale”,
gli autori liquidano il “presunto desiderio [russo] di perpetuare o ricostituire
la sua area di influenza nell’Europa centrale e orientale – e anche oltre”.
Questa contrapposizione rimane all’interno delle giustificazioni “formali” della
guerra, senza coglierne le radici strutturali, che risiedono nella lotta per la
difesa dei reciproci interessi di sfruttamento e supremazia sullo scacchiere
internazionale. Certo, in questa lotta, Mosca è partita da una situazione di
svantaggio, ereditata dallo sfacelo dell’URSS e dalla conseguente espansione
della NATO, ma ciò non significa affatto che la sua azione avesse e abbia
motivazioni di altro tipo che la difesa della propria sfera di influenza. Anzi,
quella ucraina era/è per Mosca una linea rossa non oltrepassabile proprio perché
chiama in causa un’area vitale per i propri interessi.
Analogamente, non condividiamo la lettura dei propositi riarmisti dell’UE e dei
suoi singoli Stati come una sorta di allucinazione collettiva, il cui rischio
consisterebbe nel “dar vita ad una profezia che si autoavvera”. Per quanto le
cancellerie del vecchio continente versino in stato confusionale a seguito
dell’inversione di rotta della nuova amministrazione USA, va detto che gli
stanziamenti per la “difesa”, l’eliminazione del vincolo sul debito da parte
della Germania, la decisione di alzare da subito la percentuale del PIL dedicata
alle spese militari, la rapida virata verso l’economia di guerra e la conclamata
volontà di utilizzare il riarmo come antidoto alla stagnazione e alla crisi
economica, non rispondono alla falsa percezione di dover fronteggiare senza
l’aiuto di Washington “il grande lupo cattivo russo”. Rispondono invece alla
consapevolezza, che si va facendo strada, che, indipendentemente dalla struttura
delle alleanze future, ogni Stato, per mantenere il suo posto al sole fra le
canaglie del sistema imperialista, deve armarsi, armarsi, armarsi. E,
nell’immediato, cercare, con le unghie e coi denti, di esigere la parte “che ci
spetta” del bottino ucraino, che rischia di sparire per intero nelle fauci di
USA e Russia.
Se, come ipotizzano gli autori, la possibilità di Mosca di vincere la pace, dopo
aver vinto la guerra, passa per la convocazione di una conferenza di pace nel
quadro dell’OSCE – ad oggi solo una vaga ipotesi – la possibilità di contrastare
la tendenza alla guerra con “la mobilitazione delle masse in tutta Europa” deve
saper denunciare per tempo le stesse soluzioni diplomatiche, per quanto
“ragionevoli” possano apparire, come altrettanti passi verso un nuovo conflitto
mondiale. Trasformare le condizioni verso la guerra imperialista in condizioni
per la rivoluzione proletaria è l’unica strada per sfuggire davvero
all’alternativa “pensioni o munizioni”, un’alternativa che, negli ultimi tempi,
ha davvero fatto passi da gigante. (Red.)
IL CLOWN E IL CIRCO
“Se eleggi un clown, aspettati un circo”
La guerra in Ucraina sta per finire come è iniziata: come un faccia a faccia tra
Stati Uniti e Russia. Con una differenza : che, avendo lo scontro tra i due
stati portato alla guerra, si è passati ora alla collaborazione in vista della
pace. Il che, tra l’altro, dà ragione a posteriori a tutti coloro, noi compresi,
che, contro l’interpretazione dominante di questo conflitto, hanno sostenuto la
tesi che si trattasse effettivamente, per l’essenziale, di un conflitto tra
l’Occidente globale (sotto la guida statunitense e la bandiera della NATO) e la
Russia, per interposta Ucraina, e non di un conflitto tra questi ultimi due
paesi generato dal presunto desiderio della Russia di perpetuare o ricostituire
la sua zona di influenza nell’Europa orientale e centrale – o anche oltre.
Cerchiamo qui di fare un bilancio di questi tre anni di guerra e dell’inversione
di tendenza appena avvenuta, dei guadagni e delle perdite registrate dai vari
protagonisti e di discernere, di conseguenza, le possibilità che si aprono a
ciascuno di loro.
Ubu alla Casa Bianca
La guerra in Ucraina è nata dalla volontà della NATO, contrariamente agli
impegni verbali assunti dopo il crollo del Muro di Berlino, di espandersi
nell’Europa centrale e orientale. Perseguita nonostante le sempre più forti
proteste russe durante le prime due ondate del 1999 e del 2004, questa
espansione ha raggiunto un punto critico nel 2008, quando si è trattato di
integrare l’Ucraina e la Georgia nell’Alleanza Atlantica, cosa che avrebbe
portato quest’ultima a diretto contatto con la Russia, offrendole per una
invasione l’immensa breccia costituita dalla pianura ucraina al di là del
Dniepr e minacciando la strategica base navale di Sebastopoli. Una linea rossa
per Mosca, che dichiarò allora che sarebbe entrata in guerra se fosse stata
oltrepassata. Gli occidentali non ne ha tenuto conto. Nel 2014, durante
Euromaidan, hanno contribuito ad insediare a Kiev un governo filo-occidentale e
anti-russo : cosa che ha aggravato le tensioni con le popolazioni russofone e
russofile degli oblast’ orientali e di Odessa, portando alla guerra civile. Allo
stesso tempo, gli occidentali hanno rigiutato sprezzantemente le proposte russe
di concludere un accordo nel quadro della Conferenza sulla sicurezza e la
cooperazione in Europa (CSCE) finalizzato alla neutralizzazione
(“finlandizzazione”) dell’Ucraina. Tutto questo, dopo che gli Stati Uniti si
erano ritirati nel 2001 dal Trattato ABM (Anti-Balistic Missile) firmato nel
1972, e nel 2018 dal Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces) firmato
nel 1988. La strada verso la guerra era ormai aperta.
Per tre anni, l’Occidente ha condotto questa guerra contro la Russia, con
l’intermediazione dell’Ucraina, con l’obiettivo di imporre con la forza ciò che
la Russia aveva ripetutamente dichiarato di non voler accettare. Gli errori di
valutazione iniziali durante l’operazione militare russa, la mobilitazione
nazionale e lo slancio nazionalista della società ucraina hanno creato
l’illusione che la partita potesse essere vinta e che, con il massiccio sostegno
dell’Occidente, l’Ucraina potesse cacciare l’aggressore dai suoi confini. Questa
illusione è stata rapidamente dissipata quando la controffensiva ucraina del
giugno-agosto 2023, con il massiccio sostegno militare e logistico
dell’Occidente, è fallita miseramente. Da allora, la situazione in Ucraina ha
continuato a deteriorarsi, sia in termini di operazioni militari che di coesione
della società ucraina stessa, a dispetto delle decine di miliardi di dollari in
aiuti di ogni tipo (armi, munizioni, addestramento delle truppe, assistenza
tecnica, intelligence, prestiti, incoraggiamento, ecc.) che l’Occidente ha
fornito, per non parlare delle sanzioni commerciali e finanziarie inflitte
all’aggressore russo. Qualsiasi osservatore lucido dello sviluppo della
situazione negli ultimi mesi ha chiaro che essa non può portare che ad una
sconfitta militare ucraina nel più o meno breve termine.
Per evitare un simile esito la nuova amministrazione Trump ha deciso di porre
fine a questa guerra concludendo, se non la pace, almeno un accordo con il
nemico russo, trasformato di colpo in un avversario con cui è possibile un
accordo. La ragione di fondo di questa inversione di rotta degli Stati Uniti è
che l’amministrazione Trump, ancor più delle precedenti, ha come priorità delle
priorità quella di affrontare la sfida costituita, ai suoi occhi, dall’ascesa
della Cina, che minaccia il suo dominio globale. In questo contesto, la vicenda
ucraina diventa secondaria, se non addirittura trascurabile, e deve essere
liquidata nel modo più rapido ed economico possibile. In questo caso, per gli
Stati Uniti si tratta di una riedizione di quanto fatto negli ultimi decenni
ogni volta che sono stati tenuti in scacco, come in Vietnam nel 1973, in Iraq
nel 2011, ad Haiti nel 1995 e in Afghanistan nel 2021: ritirarsi e lasciare che
il caos creato dal loro intervento sia gestito dai loro alleati locali e dai
precedenti nemici: in breve, lavarsene le mani.
L’unica differenza è lo stile con cui lo scenario si ripete questa volta. Con
l’Ubu (ri)eletto lo scorso novembre, la silenziosa vergogna di un Obama o la
contrizione da coccodrillo di un Biden hanno lasciato il posto a una vistosa
negazione delle schiaccianti responsabilità americane nella vicenda, con gli
Stati Uniti che hanno assunto la vantaggiosa posizione della colomba per far
dimenticare il loro ruolo di falco. Il palese fallimento militare ucraino viene
imputato a Kiev, che non ha voluto mobilitare la gioventù del Paese per mandarla
a farsi sventrare sul campo di battaglia, e ai suoi alleati europei, che non
hanno messo mano abbastanza alle loro tasche né per sostenere lo sforzo bellico
ucraino, né per garantire la propria difesa. Per non parlare del fatto che, in
linea con il suo tropismo e il suo credo super attivistici, Trump intende
recuperare la sua quota di sfruttamento del sottosuolo ucraino ricco di terre
rare.
Panico a Londra, Parigi, Berlino, Varsavia…
… e in altre capitali europee. Perché, non avendo capito nulla di quello che è
successo, stanno inventando un futuro immaginario in cui credono di dover
affrontare, ormai da solie, private dell’aiuto dello zio Sam, il lupo cattivo
russo. E, poiché ritengono di non avere i mezzi per farlo militarmente, l’unica
opzione che prendono in considerazione o almeno favoriscono, stanno lanciando
folli programmi di riarmo, buttando centinaia di miliardi di euro che solo il
giorno prima affermavano di non avere se si trattava di aumentare gli stipendi,
rafforzare i servizi pubblici e le strutture comunitarie, soddisfare i bisogni
sociali più elementari, ecc. Tutto ciò fa presagire un nuovo ciclo di austerità
crescente per le loro popolazioni, che non offrirà loro altra prospettiva se non
quella di stringere la cinghia ancora un po’ per gli anni a venire, prima di
“morire per la libertà”, creando fin da ora un’atmosfera da « vigilia di
guerra ».
Tuttavia, la natura immaginaria di questo scenario futuro è tradita dalla natura
incoerente dei loro propositi. Sono le stesse persone che ora dicono che i russi
sono alle nostre porte e che non abbiamo i mezzi per impedirgli di entrare con
la forza, e che appena il giorno prima, se non in contemporanea, sostengono che
è necessario e giusto aiutare gli ucraini, anche inviando loro delle truppe,
perché è possibile sconfiggere il nemico sulle rive del Dniepr o nel Donbass. E
allora la Russia cos’è ? Orco insaziabile e assetato di sangue, o colosso dai
piedi d’argilla?
Questo scenario è ancora immaginario perché non tiene conto della realtà
dei rapporti di forza così come si presenta sul campo. Dopo tre anni di guerra,
le truppe russe sono faticosamente e cautamente riuscite a conquistare appena un
quinto del territorio ucraino. Una domanda degna di un problema di quinta
elementare: di questo passo, quanto ci metteranno i cosacchi ad abbeverare i
loro cavalli nei sobborghi di Brest e Lisbona?
Immaginario, infine, perché, come prima del 2022, gli Europei non ascoltano, o
non danno credito alle parole dei russi. I russi hanno ripetuto a gran voce che
non avrebbero accettato le forze della NATO alle loro porte in Ucraina e che, se
avessero persistito nella loro intenzione di farlo, sarebbero entrati in guerra.
E così è stato. Quando, al contrario, li abbiamo sentiti dichiarare di avere
altre pretese, se non sui loro immediati vicini ? per forza di cose sull’Europa
occidentale? Doppiezza da parte loro? Allora perché accusarli contemporaneamente
di cinismo?
Il pericolo, tuttavia, è che questo scenario, per quanto immaginario, possa dar
luogo a una profezia che si autoavvera. Infatti, rilanciando la corsa agli
armamenti in Europa, si crea proprio una situazione favorevole alla guerra.
Contrariamente al vecchio adagio romano, quando si prepara la guerra, si ottiene
… la guerra! Non lo ha forse dimostrato ancora una volta l’estensione, negli
anni ’90, dell’alleanza militare all’Europa centrale e orientale, che avrebbe
dovuto garantire la pace?
Intrappolate dalle loro posizioni “campiste” sui conflitti inter-imperialisti e
internazionali, la maggior parte delle organizzazioni della sinistra e
dell’estrema sinistra sta adottando questo scenario, arrivando a tacciare di
filo-russismo o addirittura di filo putinismo qualsiasi presa di distanza
critica. Dopo essersi già arruolati nella crociata antirussa sotto la bandiera a
stelle e strisce e aver fallito nella loro missione di mobilitare le classi
lavoratrici contro la guerra, si preparano a fare lo stesso cadendo nella rete
dell’Union sacrée. Permettendo così all’estrema destra, d’un colpo solo, di
monopolizzare il discorso contro la guerra, e offrendole un’altra opportunità di
essere in consonanza con le preoccupazioni popolari e di aumentare il
proprio pubblico e, cosa altrettanto disastrosa, permettendo al blocco
politico-mediatico al potere di identificare come di estrema destra qualsiasi
critica alle proprie posizioni.
Peggio ancora, queste organizzazioni si impediscono di denunciare e lottare con
le classi lavoratrici, non solo contro le molte forme di sfruttamento aggravato
(in termini di salari e tasse, attraverso la crescita della disoccupazione e il
deterioramento dei servizi pubblici, ecc.) per le quali queste minacce e
necessità immaginarie serviranno come legittimazione “incontrovertibile”, ma
anche di lottare contro il keynesismo militare, cioè un modo per rilanciare
l’economia [attraverso la spesa bellica], e quindi di aumentare ulteriormente i
profitti, senza aumentare la domanda di beni di consumo, a favore della sola
domanda di beni distruttivi, finanziata da tasse e debito. Va da sé che di
questo tipo di stimolo beneficeranno soprattutto gli Stati Uniti, il maggior
esportatore mondiale di attrezzature e tecnologie militari, anche se alcuni
Paesi europei possono sperare di approfittarne per aumentare la propria
produzione e le proprie esportazioni (nell’ordine: Francia, Germania, Italia,
Regno Unito e Spagna).
Blues in Kiev
Ma le persone più da compatire sono ovviamente gli ucraini, gli unici che hanno
dovuto entrare nella tana del leone. Sono quelli che hanno pagato il prezzo più
alto, in termini di sfollamento ed esilio di massa della popolazione, di morti e
distruzioni militari e civili, per il cinico gioco dell’Occidente, che ha fatto
precipitare un conflitto che si è svolto sul loro territorio e in cui hanno
occupato gli avamposti, presumibilmente per forzare la mano ai russi e
indebolirli definitivamente. Senza dubbio hanno creduto, e credono tuttora, che
questo fosse l’unico modo per difendere la loro sovranità e integrità
territoriale, anche se era possibile un’altra strada, quella di un compromesso
con la Russia, che avrebbe permesso loro di salvare l’essenziale sotto entrambi
i punti di vista. Una strada che l’Occidente ha vietato loro di percorrere, sia
prima che subito dopo il lancio dell’offensiva russa del 24 febbraio 2022:
mentre alla fine di marzo era in vista un accordo russo-ucraino, è stato
l’Occidente a decidere che gli ucraini dovevano abbandonarlo.
E sono ancora questi ultimi che si preparano a pagare il prezzo più alto quando
arriverà il momento, che non tarderà ad arrivare, di una pace forzata. D’ora in
poi, la pace sarà firmata alle condizioni che i russi, vincitori sul campo,
accetteranno o imporranno. Dopodiché, gli ucraini dovranno ancora pagare
l’enorme debito di guerra accumulato e ricostruire il loro Paese, in parte
devastato dalla guerra, con una popolazione che si è ridotta notevolmente (da 45
milioni nel 2013 a 33 milioni nel 2023). Rimuginando, nel frattempo,
sull’amarezza della sconfitta e del tradimento, sulle cui ragioni avranno tutto
il tempo di riflettere, ricordando il famoso monito: “Dio, proteggimi dai miei
amici, che ai miei nemici ci penso io”.
Il sangue freddo a Mosca
La sobrietà delle ultime dichiarazioni di Mosca contrasta con i deliri
megalomani di Washington, con la febbre angosciosa delle capitali europee e con
l’ostinazione di Zelensky nel suo errore iniziale. Eppure la Russia avrebbe
tutte le ragioni per pavoneggiarsi. Lungi dal crollare sotto l’impatto delle
sanzioni commerciali e finanziarie attuate dagli occidentali, come questi ultimi
avevano annunciato urbi et orbi, essendo riuscita a rimettersi in piedi dopo un
inizio militare fallimentare e avendo dimostrato la solidità delle sue alleanze,
in particolare con la Cina e l’Iran, al momento la Russia sembra essere la
grande vincitrice di questo conflitto, a un passo dall’aver raggiunto gli
obiettivi che si era prefissata.
Senza dubbio sa anche che non basta vincere la guerra, deve vincere anche la
pace. E per farlo, dovrà pagare il prezzo della sua vittoria. Tra questi, il
fatto che l’odiata NATO, pur non riuscendo a stabilirsi in Ucraina, è ora
presente lungo i 1.340 chilometri del confine comune con la Finlandia. A ciò si
aggiungono i massicci programmi di riarmo che gli alleati europei della NATO (o
ciò che ne rimane) stanno pianificando di intraprendere. Per non parlare
dell’odio duraturo che avrà suscitato nella maggior parte della popolazione
ucraina e in coloro che hanno sposato la sua causa.
Se evitare l’instaurarsi di una nuova guerra fredda è nei piani russi, non c’è
altra soluzione che proporre, come hanno continuato a fare dall’inizio della
guerra in Ucraina, la convocazione di una conferenza di pace nel quadro
dell’OSCE. Questo metterà a tacere ogni speculazione sulle loro mire
espansioniste, mire di cui si faticherebbe a trovare tracce nella storia recente
delle relazioni internazionali (quando mai la Russia ha intrapreso operazioni
simili alla doppia invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan ?). Potranno sostenere
di fronte ai nemici occidentali che non si sceglie il proprio nemico, ma è
sempre con lui che si deve firmare la pace.
E noi ?
Di fronte alle politiche di riarmo a tutto vapore, a fronte del clima di guerra
e di « vigilia di guerra » che coltivano i governi bellicisti europei con
l’appoggio della grande maggioranza dei media, la sinistra, e in particolare la
sinistra radicale, deve superare gli errori di ieri e dell’altro ieri. Si deve
chiamare alla mobilitazione delle masse dappertutto in Europa per bloccare una
politica che fa già dire a qualcuno che si deve scegliere fra «pensioni o
munizioni » (w) e pavimenta la via di una possibile discesa negli abissi.
Alain Bihr, Jean-Marie Heinrich
Roland Pfefferkorn, Yannis Thanassekos
(1) https://fr.statista.com/statistiques/688554/population-totale-ukaine/
(2) Dominique Seux, « Pensions ou munitions ? », Les Echos, 5 mars 2025.