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“The Human-Machine Team”, ovvero l’orrore automatizzato (e normalizzato) di Gaza
NEL MASSACRO IN CORSO A GAZA – CHE L’ARTICOLISTA IN VENA DI MACABRO UMORISMO CHIAMA «UNO DEI CONFLITTI PIÙ CRUENTI DEGLI ULTIMI ANNI» – L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE GIOCA UN RUOLO DI PRIMO PIANO, AL PUNTO CHE PERSINO DEI SINCERI DEMOCRATICI LO HANNO DEFINITO IL PRIMO GENOCIDIO AUTOMATIZZATO DELLA STORIA. UNA “NOTIZIA” NON PROPRIO DEGLI ULTIMI GIORNI, MA CHE È ARRIVATA FINALMENTE ANCHE ALLA REDAZIONE DE “LA STAMPA”. PER PARLARNE, LA BUSIARDA HA ASPETTATO, COME SEMPRE, CHE NE PARLASSE QUALCHE “AUTOREVOLE” QUOTIDIANO STATUNITENSE (NELLO SPECIFICO IL “WASHINGTON POST”), ASSEMBLANDO MEZZE VERITÀ (IL NUMERO DEI “CIVILI PALESTINESI SACRIFICABILI” PER OGNI “MEMBRO DI HAMAS” DA COLPIRE È BEN MAGGIORE DEL RAPPORTO DI 20 A 1) E TOTALI MENZOGNE (AD ESEMPIO CHE IL RICORSO ALL’IA ABBIA LO SCOPO DI «RIDURRE LA DURATA DEL CONFLITTO E LIMITARE IL NUMERO DI VITTIME SUL CAMPO»). DI FRONTE AL FATTO CHE L’UMANITÀ PRIGIONIERA E SORVEGLIATA DI GAZA DIVENTI IMMEDIATAMENTE ASSASSINABILE DA UN REPARTO DELL’INTELLIGENCE ISRAELIANA CHIAMATO «UNITÀ 8200» E COMPOSTO «PER IL 60% DA INGEGNERI ED ESPERTI TECH», AL NOSTRO VALOROSO CRONISTA NON RIMANE ALTRO CHE LAMENTARE LA SCARSA PRECISIONE DEI SISTEMI AUTOMATIZZATI E CONCLUDERE: «LA SUPERVISIONE UMANA RIMANE FONDAMENTALE PER CONTENERE ERRORI E SALVAGUARDARE VITE». EVIDENTEMENTE, LO HUMAN-MACHINE TEAM CHE DÀ IL TITOLO AL LIBRO SCRITTO DAL GENERALE YOSSI SARIEL, CAPO DELL’UNITÀ 8200, COMPRENDE ANCHE LE REDAZIONI DI SCRIBACCHINI CHE NON TROVANO UNA SOLA PAROLA DI CONDANNA MORALE DAVANTI A UN TALE ORRORE MACCHINIZZATO. IN QUESTO MOMENTO L’ARMA PIÙ PERICOLOSA DELL’ESERCITO ISRAELIANO È L’IA Un’inchiesta del Washington Post racconta come l’IDF abbia creato negli ultimi dieci anni una “fabbrica dell’intelligenza artificiale” che scova i militanti di Hamas, suggerisce dove bombardare e calcola il numero di civili “sacrificabili”. Ma lo scenario ricostruito dal Post non è quello di un’infallibile guerra chirurgica. L’IA può commettere errori e ciò che sta avvenendo a Gaza potrebbe interessare, in futuro, altri conflitti nel mondo L’intelligenza artificiale è spesso al centro di dibattiti sul futuro del lavoro, con molti esperti che temono possa progressivamente sostituire gli esseri umani. Ma esiste un altro scenario ancora più inquietante: l’utilizzo degli algoritmi nelle decisioni militari. Un’inchiesta del Washington Post ha messo in luce come l’IA stia prendendo il posto degli analisti umani nella gestione e nell’individuazione degli obiettivi bellici a Gaza, in uno dei conflitti più cruenti degli ultimi anni. La progressiva sostituzione delle operazioni di intelligence con sistemi automatici sta rivoluzionando il modo in cui si combatte una guerra. I dati raccolti da satelliti, droni e sistemi di sorveglianza vengono filtrati da algoritmi che propongono possibili bersagli. Gli ufficiali dell’IDF considerano questi strumenti fondamentali per velocizzare le decisioni e conservare un vantaggio strategico. GOSPEL, “THE POOL” E I SISTEMI IA USATI A GAZA Il sistema “Habsora” (in ebraico “the Gospel”) sfrutta centinaia di algoritmi per individuare potenziali obiettivi tra i dati accumulati in un enorme bacino digitale chiamato “the pool”. Gli algoritmi setacciano intercettazioni, foto satellitari e post sui social network per segnalare coordinate di presunte strutture sotterranee, tunnel o depositi di armi. “Usando il riconoscimento delle immagini del software, i soldati possono scovare minuscoli cambiamenti in anni di riprese satellitari di Gaza che suggeriscono come Hamas abbia piazzato un lanciarazzi o scavato un nuovo tunnel su terreni agricoli” scrive il Washington Post sulla base delle rivelazioni di un ex capo militare che ha lavorato a questi sistemi di intelligenza artificiale. Altri programmi, come “Lavender”, utilizzano punteggi in percentuale per stimare la probabilità che una persona appartenga a gruppi armati. Elementi come la presenza in determinate chat o l’uso frequente di più linee telefoniche possono alzare il livello di sospetto. Applicazioni come “Hunter” e “Flow”, invece, consentono ai soldati israeliani sul campo di battaglia di accedere a dati in tempo reale, inclusi video in tempo reale delle zone a cui si avvicinano e stime su possibili vittime civili. Questi sistemi si interfacciano con “Gospel”, potenziando l’intero processo di acquisizione degli obiettivi. LE “FONTI” DELL’IA Gli algoritmi attingono a intercettazioni telefoniche, droni, database di reti sociali e sensori sismici. Tutte queste informazioni confluiscono appunto in “the pool”, un archivio centralizzato creato per conservare possibili indizi sulla presenza di strutture e militanti di Hamas. LA PROCEDURA DI VALIDAZIONE DEI DATI Gli algoritmi producono coordinate e suggerimenti di obiettivi da colpire. Un analista umano verifica le segnalazioni, inoltrandole a un ufficiale di grado superiore che le inserisce nel cosiddetto “target bank”, la banca data degli obiettivi. I VANTAGGI DELL’IA IN GUERRA Le ricerche e le analisi che prima richiedevano una settimana vengono ora completate in soli 30 minuti. L’IDF per esempio utilizza l’IA per trascrivere migliaia di conversazioni ogni giorno e rintracciare rapidamente possibili minacce nelle parole che si scambiano i palestinesi. Alcuni ufficiali ritengono che la velocità di analisi dell’IA possa ridurre la durata del conflitto e limitare il numero di vittime sul campo. Secondo i vertici militari israeliani, questa tecnologia permette di aggiornare i piani d’attacco in tempo reale, offrendo maggiore precisione e un notevole risparmio di risorse umane e logistiche. GLI ERRORI CHE PUÒ COMMETTERE L’IA Tuttavia alcuni soldati ed ex ufficiali dell’IDF – che hanno parlato in forma anonima con il Washington Post – hanno dubbi sulla capacità dell’IA di interpretare correttamente il linguaggio locale. In uno dei casi raccontati al giornale di proprietà di Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, gli algoritmi non sono riusciti a distinguere tra la parola “batikh” (in arabo “anguria”) usata come codice per le bombe e quella riferita al frutto reale. Le IA, tarate sulla ricerca di possibili segnali d’allarme, rischiano così di generare un eccesso di falsi positivi e di spingere i militari a valutare come sospette anche le conversazioni più innocue. Un altro esempio preoccupante di errore che può commettere una IA è la stima del numero di civili presenti in un edificio, a cui solitamente l’IDF arriverebbe basandosi anche sul conteggio dei telefoni connessi a una cella, ignorando per esempio bambini o dispositivi spenti o scarichi nel momento in cui vengono conteggiati gli smartphone. Non è sempre chiaro, inoltre, se un’informazione su possibili obiettivi proviene da una macchina o da un analista umano: tutto questo rende più rischiosa la valutazione da parte di chi, alla fine, deve decidere o meno se sferrare un attacco. Un ex alto ufficiale dell’IDF ha detto al Washington Post che la troppa fiducia nei sistemi automatizzati ha alimentato nell’esercito l’idea di un’avanzata sorveglianza “onnisciente”. Affidandosi alle dichiarazioni di due ex militari israeliani, il Washington Post ha scritto che “l’entusiasmo per l’intelligenza artificiale ha eroso la “cultura dell’avvertimento” dell’Unità 8200, secondo cui anche gli analisti di basso livello potevano facilmente informare i comandanti superiori sulle minacce in corso”. Secondo queste fonti, l’IA può contribuire ad agire più in fretta, ma non a ridurre gli errori in un contesto bellico complesso come quello di Gaza. IL RUOLO DELL’UNITÀ 8200 L’adozione di tecnologie di IA è stata accelerata dalla Unit 8200, il reparto d’élite dell’intelligence israeliana. A guidare l’integrazione dell’IA nelle operazioni militari è stato il generale Yossi Sariel, convinto sostenitore della necessità di automatizzare le strategie decisionali in battaglia. Sariel è l’autore di un libro dal titolo The Human-Machine Team: How to Create Synergy Between Human and Artificial Intelligence That Will Revolutionize Our World” in cui sostiene “la necessità di progettare una macchina speciale in grado di elaborare rapidamente enormi quantità di dati per generare migliaia di potenziali “bersagli” per attacchi militari in piena guerra”. Sariel ha promosso un radicale potenziamento dell’ingegneria dei dati, riducendo gli specialisti di lingua araba e ridisegnando la struttura dell’Unità 8200, che oggi è composta per il 60% da ingegneri ed esperti tech, il doppio degli informatici arruolati dieci anni fa. I CIVILI “SACRIFICABILI” Secondo le testimonianze di ex soldati e analisti raccolte dal Washington Post, la fiducia nell’IA ha portato l’IDF a ridurre alcuni passaggi di validazione e controllo, col risultato di aumentare il numero di obiettivi ritenuti legittimi. Anche se questi comportano un maggior rischio di vittime tra i civili. Dalla proporzione di 1:1 del 2014 (un civile “sacrificabile” per colpire un membro di Hamas di alto livello) si è passati a 15:1 o persino 20:1 nel conflitto attuale, stando alle fonti del Washington Post e a quanto hanno dichiarato organizzazioni umanitarie. Molti analisti sostengono che, sebbene queste tecnologie siano destinate a diffondersi tra i paesi in guerra, la supervisione umana rimane fondamentale per contenere errori e salvaguardare vite. (Pier Luigi Pisa su “La Stampa” on line del 30 dicembre 2024)
December 31, 2024 / il Rovescio
Potenza di cielo, di terra e di mare. Non è Mussolini. È Cingolani
L’intervista che il servo Di Feo ha fatto all’amministratore delegato di Leonardo Cingolani è oltremodo istruttiva. Quello in costruzione è dichiaratamente un complesso scientifico-militare-industriale europeo in cui il colosso italiano degli armamenti ambisce a giocare un ruolo di primo piano. Salta ogni distinzione di facciata tra il civile e il militare, perché la potenza tecnologica deve essere multidominio (concetto-chiave sia del Pentagono sia del partito-Stato cinese). Dai satelliti all’”agricoltura di precisione”, dai supercomputer ai caccia con cui controllare flotte di aerei senza pilota, dalla “cyber-sicurezza” ai nuovi carri corazzati, il programma ha bisogno di “alleanze internazionali di tipo nuovo”, di ingenti fondi statali (“possiamo essere sherpa dei governi”) e di elmetti ben precisi da far indossare ai ricercatori (“Quando mi occupavo di scienza prendevo ricercatori dalla Cina o dall’Iran: sulla tecnologia di Leonardo non lo puoi fare per questioni di sicurezza e il vivaio da cui assumere giovani Stem è limitato”). Serve aggiungere altro? CINGOLANI: “DALLO SPAZIO ALLA PORTAEREI VOLANTE, IL FUTURO DI LEONARDO È LA SICUREZZA GLOBALE” Intervista all’ad di Leonardo: “La sfida del caccia stealth di sesta generazione è partita con la joint venture con Bae Systems e Mitsubishi”. Musk? “Con Starlink è un nostro fornitore, non escludo in futuro altre collaborazioni”. E sui mezzi corazzati “con la tedesca Rheinmetall abbiamo creato uno spazio europeo della difesa” Leonardo ha trovato la quadratura del cerchio. L’amministratore delegato Roberto Cingolani presenta il futuro dell’azienda con una geometria finalmente chiara, in cui settori di attività in apparenza molto diversi – dagli aerei ai carri armati fino ai satelliti – diventano declinazioni della capacità di produrre sistemi digitali avanzati, con un’integrazione accelerata dalla competenza nello spazio, nella cyber, nei supercomputer. Una visione globale di sviluppo tecnologico e industriale che sembra avere convinto i mercati. Oggi ordini e quotazione crescono sulla spinta del riarmo scaturito dalla guerra in Ucraina. Ma quale sarà il futuro di Leonardo? “Siamo partiti da un’analisi sorprendente della guerra in Ucraina: attacco e difesa digitali sono diventati efficaci quanto e forse più di quelli convenzionali. Droni da poche migliaia di euro guidati dalle comunicazioni satellitari hanno distrutto tank costati parecchi milioni. Ci siamo poi resi conto dell’importanza delle sinergie: l’Europa si è presentata frammentata mentre in questo mercato nessuno ce la fa da solo. La terza considerazione è che quando è scoppiata la guerra, prima ancora di misurarne le drammatiche conseguenze umane, abbiamo vissuto qualcosa che non pensavamo potesse accadere: l’insicurezza globale in campo energetico, alimentare, cibernetico e persino delle infrastrutture. Per questo è indispensabile andare verso un approccio più ampio di sicurezza globale, che – sperando di vedere terminare i conflitti il prima possibile – va portato avanti anche in tempo di pace, che noi chiamiamo “multidominio interoperabile””. Che cosa vuol dire? “Abbiamo sfruttato quella che poteva essere una nostra debolezza: Leonardo fa le cose più complesse come aerei ed elicotteri, che sono pure le più costose perché devi investire tanto e i margini di profitto possono risentirne. Ma se l’esigenza attuale è garantire che tutte le piattaforme dialoghino, allora noi produciamo i sistemi spaziali che permettono di supervisionare quello che succede e di garantire le comunicazioni. Abbiamo inoltre la dimensione cyber per proteggere le connessioni; le strumentazioni elettroniche e il supercalcolo, con uno dei computer più potenti al mondo. Oltre Leonardo, quale altra azienda internazionale poteva fare questo discorso globale? In sintesi, Leonardo del futuro sarà un’azienda sempre più internazionale e interconnessa che come prodotto centrale avrà la sicurezza globale. La speranza come cittadino e come padre è che non ci siano guerre: la sicurezza globale va assicurata a prescindere anche in tempo di pace, perché ad esempio la protezione cyber di reti e di dati va garantita sempre. I satelliti permettono il monitoraggio delle infrastrutture, l’agricoltura di precisione, la climatologia avanzata. Questi sistemi danno una sicurezza declinata su tutte le voci: abbiamo messo in piedi una tecnologia che opera su tutti i domini, ossia in terra, in cielo e spazio, nel mare e nel digital continuum”. La sfida più ambiziosa è il Gcap, Global Combat Air Programme: un caccia stealth di sesta generazione. Neppure gli Usa stanno progettando qualcosa di simile. Quanto sarà impegnativo? “Si tratta di sviluppare un caccia invisibile ai radar in grado di controllare una flotta di aerei senza pilota. In pratica, sarà una sorta di supercomputer volante: a me piace paragonarlo a una portaerei che sta in cielo. La sfida è veramente impegnativa: abbiamo firmato venerdì l’accordo con la britannica Bae Systems e con la giapponese Mitsubishi per la nascita della joint venture. L’ingresso in servizio è previsto nel 2035. La prima parte del programma finanziata dai tre Paesi per 45 miliardi di euro riguarda l’aereo madre. Nella seconda parte ci sono gli altri due elementi fondamentali. Lo sviluppo dei droni, che sono veri aerei senza pilota da ricognizione, attacco, intercettazione. Stiamo decidendo se questi Adjunt Fighter nasceranno con un modello universale o con tanti progetti già specializzati. Poi c’è lo sviluppo del software di intelligenza artificiale che comanda lo sciame di macchine. Non è escluso che ciascuno dei partner sviluppi la propria Ai. Ma non c’è tempo da perdere perché i progetti vanno realizzati insieme. Indubbiamente il programma Gcap richiede uno sforzo impegnativo. In Europa c’è pure il consorzio Fcas franco-tedesco-spagnolo che si muove su un’idea simile ma appare in ritardo rispetto a noi. E c’è forte interesse nel resto del mondo, con Paesi come l’Arabia Saudita che stanno chiedendo di entrare nel Gcap”. Quando ci sarà una decisione sui sauditi? “Adesso avremo alcuni mesi di lavoro per definire i piani dettagliati della joint venture, poi si deciderà sui nuovi partner. Un programma di questo genere ha un costo complessivo di almeno 100 miliardi di euro: ben vengano altri Paesi pronti a contribuire. Con i sauditi esiste un antico rapporto di fiducia nato con l’adozione del Tornado e dell’Eurofighter: hanno voglia di creare un’industria aeronautica, che può legarsi al programma Gcap e metterli al centro del grande mercato mediorientale”. L’accordo con i tedeschi di Rheinmetall invece vi dà un ruolo leader nei mezzi corazzati. Quanto peserà negli assetti europei della difesa? “E’ la prima chiara dimostrazione che si può creare uno spazio europeo della difesa a livello industriale, in cui possiamo essere sherpa dei governi. Il punto vincente è la sinergia tecnologica: noi sulla parte digitale siamo utili a Rheinmetall mentre loro hanno un tank allo stato dell’arte, il Panther. E’ il classico caso in cui uno più uno fa tre: non abbiamo soltanto sommato le capacità, c’è stata la tessitura delle nostre rispettive tecnologie. L’Italia deve rinnovare il suo arsenale di terra: serviranno oltre 1200 mezzi corazzati nei prossimi dodici anni, tra carri armati e veicoli trasporto truppe, e le nuove piattaforme saranno le più avanzate. L’Europa in questo segue l’Italia e c’è un gran bisogno di rinnovamento negli eserciti di altri Paesi. L’Ue infatti ha un confine problematico, a contatto con quella che ora è la zona più calda del pianeta: i russi hanno invaso l’Ucraina con migliaia di tank e con amarezza bisogna prendere atto che la situazione è questa”. Il polo dei mezzi corazzati sarà a la Spezia. Avete problemi a trovare il personale? “Ne abbiamo un po’ a tutti i livelli, non solo per La Spezia ma pure per gli elicotteri e per tutte le nostre attività industriali. Noi assorbiamo figure Stem – ossia esperte in scienza, tecnologia, ingegneria e matematica – non solo per la manifattura avanzata ma anche per generare l’intelligenza artificiale e il supercalcolo: oggi ad esempio trovare un esperto di Ai è difficile perché la domanda è enorme e l’offerta è quantitativamente insufficiente. E non si può nemmeno andare a cercare dai Paesi vicini perché in Europa il problema ce l’hanno tutti. Quando mi occupavo di scienza prendevo ricercatori dalla Cina o dall’Iran: sulla tecnologia di Leonardo non lo puoi fare per questioni di sicurezza e il vivaio da cui assumere giovani Stem è limitato. A questo vorrei aggiungere che in Italia c’è carenza di manodopera specializzata, tipicamente di periti meccanici ed elettronici per lavorare nelle macchine a controllo numerico o nei materiali avanzati. Ancora una volta questa crescita esponenziale delle tecnologie dimostra che per essere competitivi bisogna fare investimenti in formazione, mentre l’Italia come tutta l’Europa va a rilento su questo fronte. Io ritengo che sarebbe necessario introdurre una prospettiva diversa: oggi non ci sono più la ricerca di base e quella applicata, c’è solo la ricerca buona. Ci dobbiamo rendere conto che non è importante solamente la pubblicazione sulla scienza di frontiera ma che pure la tecnologia dei brevetti ha la stessa dignità per lo sviluppo della società”. Voi all’inizio del millennio eravate protagonisti nel mercato dei droni con il Falco: oggi Leonardo è ancora nella partita? “Posso dire senza giri di parole che sui droni abbiamo perso il treno. L’unico modo di superare il gap è fare accordi internazionali che puntino sulle nostre capacità digitali: ci stiamo lavorando intensamente”. Invece il convertiplano AW 609? C’è grande interesse su questi ibridi tra aereo ed elicottero… “L’AW 609 è una macchina superinnovativa e siamo in due al mondo a possedere questa tecnologia: Bell per la parte militare e Leonardo per quella civile. Vola alla velocità di un aereo, alla quota di un aereo e decolla come un elicottero ma con un’autonomia di 1500 chilometri impensabile per un elicottero. Il nostro prototipo avrà presto la certificazione civile e poi valuteremo le applicazioni militari. Il fatto è che queste tecnologie sono talmente innovative da richiedere investimenti molto rilevanti: nel corso degli anni hanno superato il miliardo di euro” Lo spazio è sempre più la nuova frontiera. Con quali prospettive? “Leonardo non poteva continuare a essere un operatore invisibile, nel senso che le nostre partecipazioni non comparivano nel bilancio. Abbiamo creato una divisione spazio e razionalizzato tutto: ad esempio, Telespazio è stata consolidata rinegoziando gli accordi con Thales. Andremo a intercettare la fetta di mercato più ricca della space economy: il nostro focus saranno i servizi satellitari, end to end, dalla costellazione alla stazione di terra. Con applicazioni che vanno dalla difesa alla geologia, all’agricoltura alla geolocalizzazione: noi possiamo fare tutto grazie alla capacità digitale, come le analisi delle immagini con l’intelligenza artificiale, che ci rende più forti”. Quali sono le prospettive dell’Europa nella space economy? “Gli Stati Uniti hanno avuto l’intuizione di non potere andare avanti solo con i finanziamenti istituzionali. Nell’Unione Europea l’80% dei fondi sono statali; negli Usa invece si è creato un meccanismo pubblico-privato, reso possibile dalla presenza di investitori con enormi disponibilità. L’unica strada anche qui è accelerare moltissimo le alleanze europee: noi ci presentiamo con un piano chiaro e tecnologie innovative e quindi in grado di collaborare con chiunque. Lo ripeto: nessuno ce la fa da solo”. Voi avete una collaborazione con Starlink di Elon Musk, intendete ampliarla? “Per ora Starlink è un nostro fornitore: per noi è assolutamente normale comprare banda da diverse costellazioni di satelliti. Ovviamente in futuro non escludo altre collaborazioni”. Leonardo ha uno dei supercomputer più potenti del mondo: che ricadute ha sugli altri settori di attività? “Serve per tutto quello che ha bisogno di intelligenza artificiale. Noi intendiamo tenere questa macchina sempre allo stato dell’arte perché è un asset straordinariamente importante e abbiamo avviato una trasformazione sui cloud e i data center. Molte cose bollono in pentola. Come la collaborazione con il Piano Strategico Nazionale, quella con Cineca e ci sono progetti internazionali su macchine ad altissime prestazioni in cui Leonardo potrebbe essere coinvolta. Noi sviluppiamo intelligenza pervasiva, ossia che si applica a tutto, e generativa, che impara mentre elabora i dati, ma addirittura generiamo la Ai federativa: tiene silos informativi multidominio separati, rispettando la privacy dei dati di ciascuno pur imparando da tutti. E’ il software più simile a un essere umano”. Il settore più in difficoltà è quello degli aerei civili, che risente della crisi di Boeing. Cosa farete a Grottaglie e negli altri impianti? “Ora c’è ottimismo sulla ripresa di Boeing. Ma abbiamo accumulato perdite importanti negli ultimi sette anni. Il settore civile è dominato da due big: essere loro fornitori implica tanto lavoro con grandi investimenti e margini minimi. E’ un modello di business rischioso. Questa è una compagnia che sta crescendo molto bene, gli investitori lo hanno capito: la marginalità nelle altre attività ci consentono di fare investimenti per rimanere competitivi nel tempo e mantenere le nostre tecnologie allo stato dell’arte. Allora anche in quegli impianti devo creare una speranza: non perdere un solo posto trasferendo lì altre produzioni e costruire subito alleanze internazionali di tipo nuovo per poter essere competitivi”. (intervista di Gianluca Di Feo, “la Repubblica”, 15 dicembre 2024)
December 20, 2024 / il Rovescio
ENI DI CALENZANO COME L’ENEL DI SUVIANA: UN’ALTRA STRAGE DI LAVORATORI
Segnaliamo questo comunicato del Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio di Sesto San Giovanni sull’ennesima strage di operai compiuta in nome del profitto. Su due cose ha particolarmente ragione il Comitato di Sesto: i lavoratori fanno notizia solo quando muoiono a grappoli; senza autorganizzazione e lotte avremo solo chiacchiere, lacrime di coccodrillo e qualche inutile “sciopericchio”. A questo aggiungiamo che Eni è la stessa che saccheggia e devasta in giro per il mondo e che è pienamente responsabile del genocidio del popolo palestinese per le mire – in comune tra il “cane a sei zampe” e il governo israeliano – sui giacimenti di gas al largo delle coste di Gaza. ENI DI CALENZANO COME L’ENEL DI SUVIANA: UN’ALTRA STRAGE DI LAVORATORI A pochi mesi dalla strage all’Enel di Suviana – svanita nel nulla da punto di vista dell’informazione dopo le lacrime da coccodrillo e i “mai più” dei soliti politici e dei soliti media – ieri un’esplosione nell’impianto ENI di Calenzano causa la morte di 5 lavoratori e il ferimento gravissimo di altri 26 (fino ad ora). Sono Vincenzo Martinelli, Carmelo Corso, Gerardo Pepe, Franco Cirielli e Davide Baronti. Autotrasportatori e manutentori che giravano il Paese per fare il proprio lavoro e che ieri si trovavano proprio nei pressi delle cisterne esplose dove la deflagrazione li ha colpiti in pieno senza dar loro scampo. ENI non è una fabbrichetta di fuochi artificiali che salta in aria. ENI è un’azienda multinazionale, l’azionista di controllo è il nostro Ministero dell’Economia, è una società che opera in 61 paesi con più di 30.000 dipendenti nei settori del petrolio, gas naturale, chimica, energia elettrica e altri. Un colosso quindi, esattamente come l’ENEL. Nello stabilimento di Calenzano – 170 mila mq. – vengono stoccati in 24 serbatoi i carburanti che arrivano dall’oleodotto di Livorno. Una scintilla (da quanto si sa finora) ha provocato una enorme esplosione e chi si trovava nel piazzale centrale non ha avuto scampo. Anche lavoratori di altri siti nelle vicinanze sono finiti all’ospedale con lesioni dovute allo scoppio dei vetri a un chilometro di distanza e traumi alle orecchie. Negli ultimi tempi, denunciano i sindacati, si risparmiava sui costi facendo fare ai camionisti – e non a personale specializzato – il lavoro di carico dei carburanti (e vedrete che la colpa ricadrà proprio su di loro, ultimo anello di una catena insanguinata che ha il profitto a tenerla insieme). Tra l’altro lo stabilimento è situato in un luogo particolare: si trova a 40 metri dalla linea ferroviaria Firenze-Bologna, a 800 metri dall’autostrada A1 e a 5 km. dall’aeroporto Vespucci; nei pressi ci sono hotel, altre fabbriche, un centro commerciale. Poteva essere un’altra Viareggio. Lo denuncia Medicina Democratica che oggi, per bocca del suo presidente Marco Caldiroli, dice: “Nel 2017 e nel 2020 il Comitato Tecnico regionale, nel verificare la situazione all’interno dei reparti in relazione agli impianti di sicurezza, aveva rilevato che non erano all’altezza di un rischio maggiore. Nel 2023 ‘improvvisamente’ tutto si sistema”. Caldiroli si chiede anche in cosa sia consistita questa “improvvisa” sistemazione: in un effettivo intervento concreto sugli impianti o in qualcosa che sta solo nelle carte? I morti e i feriti di Calenzano – come quelli di altre stragi e come lo stillicidio di morti di lavoro ogni giorno – sono lo specchio del lavoro operaio in Italia: italiani e stranieri, giovani e anziani, mandati allo sbaraglio pur di risparmiare sulla sicurezza. E lo diciamo chiaramente anche se “l’inchiesta è in corso”. Inchiesta che finirà per accertare che le misure di sicurezza non venivano adottate correttamente, che non erano adeguate al rischio, che i camionisti rimasti uccisi non erano formati per effettuare il lavoro che stavano eseguendo, che c’erano già state denunce – inascoltate – sul pericolo rappresentato non solo per i lavoratori ma per tutto l’intorno. E quanti “punti” toglierà a se stesso – in quanto proprietario – lo Stato italiano e questo governo che non vuole “disturbare il manovratore”? Anche quelli di Calenzano (ENI), di Brandizzo (Rete Ferroviaria Italiana), di Suviana (ENEL) sono i morti di “progresso” di aziende fiore all’occhiello, progresso che è precarietà, risparmi sulla sicurezza per massimizzare i profitti, condizioni di lavoro ottocentesche. Quel “progresso” che da più di trent’anni – complici leggi che governo dopo governo, di ogni colore, hanno portato alla precarietà più selvaggia in nome del profitto e alla totale impunità dei padroni – fa ogni anno più di 1.500 morti di lavoro, che fanno notizia solo quando muoiono in gruppo come ieri. Per qualche giorno sentiremo nuovamente l’ormai insopportabile piagnisteo di istituzioni, politici e giornalisti, i sindacati confederali faranno uno sciopericchio e… tutto continuerà fino alla prossima strage. Zitti invece i mandanti, i padroni a cui è assicurata l’impunità, perché le leggi si fermano alle porte dei luoghi di lavoro. Il capitalismo è sfruttamento, miseria e morte di tanti per il profitto di pochissimi; è un tritacarne che ingoia i proletari e che continuerà a farlo finchè non lo rovesceremo. Con questo nuovo lutto nel cuore, ripetiamo quanto detto innumerevoli volte. Il primo passo da fare è organizzarsi, lottare per difendere la nostra vita e A CONDIZIONI DI MORTE NON LAVORARE. COMITATO PER LA DIFESA DELLA SALUTE NEI LUOGHI DI LAVORO E NEL TERRITORIO Sesto S.Giovanni, 10.12.2024
December 13, 2024 / il Rovescio
Stanchi di guerra, diserzioni a valanga su entrambi i fronti
SEGNALIAMO QUESTO ARTICOLO USCITO SU “IL MANIFESTO” DEL 4 DICEMBRE. SI TRATTA DI UN TESTO PIUTTOSTO SORPRENDENTE, SIA PERCHÉ RIPRENDE LA DOCUMENTAZIONE CHE SULLA DISERZIONE DIFFONDE DA TEMPO “ASSEMBLY”, IL COLLETTIVO ANARCHICO DI KHARKIV, SIA PER LA CONCLUSIONE CHE CONTIENE.    STANCHI DI GUERRA, DISERZIONI A VALANGA SU ENTRAMBI I FRONTI Il limite ignoto – Boom di defezioni tra i soldati russi e ucraini. E c’è chi punta le armi contro i suoi capi Lo scorso mese, su un grattacielo alla periferia di Kharkiv, in Ucraina orientale, è improvvisamente comparso uno strano slogan: «I fucili – diceva – puntateli contro coloro che ve li hanno messi in mano». La frase, dal gradevole retrogusto eversivo, sarebbe certamente piaciuta agli ex soldati russi Vyacheslav Trutnev e Dmitry Ostrovsky, che dopo aver disertato dall’esercito di Putin, a inizio ottobre, hanno scritto e diffuso via social la seguente canzone rap: «Me ne frego se mi chiamano traditore/ non ho perso la mia dignità/ Aiutiamo le nostre madri/ mettiamolo in culo ai nostri comandanti». E POI, C’È CHI È GIÀ PASSATO dalle parole ai fatti, come il disertore pietroburghese Alexander Igumenov, che la sera del 30 ottobre scorso ha accolto il capo della pattuglia venuta ad arrestarlo puntandogli direttamente una pistola in mezzo agli occhi: «O ti levi di torno – gli avrebbe detto -, oppure al ministero della Difesa avranno bisogno di un ufficiale in più». Una scena non molto dissimile si è verificata la settimana successiva sull’altro versante del confine, nel villaggio ucraino di Lykhivka, dove un anonimo camionista si è smarcato da un gruppo di reclutatori dell’esercito minacciandoli con un fucile e una bottiglia Molotov. Non sappiamo se l’uomo avesse ascoltato le rime di Trutnev e Ostrovsky, ma è certo è che il clima di mobilitazione patriottica, tra la Moscova e il Dnipro, ultimamente sembra essersi parecchio guastato. PER SINCERARSENE, basta consultare i recenti report pubblicati dal collettivo anarchico “Assembly” di Kharkiv (assembly.org.ua), che dal febbraio del 2022 si sforza di censire ogni singolo episodio di ribellione antimilitarista su entrambi i lati del fronte. «La fuga del personale delle Forze Armate – scrivono gli attivisti nel loro ultimo rapporto, datato novembre 2024 – ha ormai assunto il carattere di una valanga». E in effetti i numeri parlano piuttosto chiaro. Dall’inizio dell’invasione a oggi, secondo i dati della Procura generale, circa 95mila soldati ucraini sarebbero stati incriminati per aver abbandonato i propri reparti senza autorizzazione. Di questi, circa 60mila uomini avrebbero gettato la divisa nel corso del 2024, e ben 9.500 nel solo mese di ottobre. Ma è probabile che il fenomeno sia ancora più vasto: «Di sicuro il numero dei nostri disertori ha già superato i 150mila e si avvicina a 200mila – ha scritto il giornalista di Kiev Volodymyr Boiko, che attualmente presta servizio nella 101ma Brigata delle Forze armate ucraine – Se le cose vanno avanti così, arriveremo a 200mila entro fine dicembre». ANCHE SUL FRONTE RUSSO la gente sembra ormai stanca di combattere: è degli scorsi giorni la notizia che circa mille uomini avrebbero disertato in massa dalla 20ma Divisione fucilieri motorizzata, trascinando con sé persino 26 ufficiali, un maggiore e un colonnello. «I militari che si danno alla macchia sono sempre più numerosi – si legge in un messaggio che gli attivisti di “Assembly” hanno recentemente ricevuto da Horlivka, nella repubblica filorussa di Donetsk – Qualcuno va ripetendo in giro che i nostri soldati dovrebbero smetterla di sparare agli ucraini, e che piuttosto bisognerebbe aprire il fuoco contro chi ci governa. Ma la gente ha ancora paura di questi discorsi, e in molti si fanno prendere dal panico: “Volete tornare al 1917?”, chiedono, “Volete la guerra civile?”». Un altro messaggio proviene da un giovane coscritto dell’esercito di Putin dislocato sul fronte di Kursk: «Molti dei nostri ufficiali sono dei veri nazisti – dice -. Ho parlato con il capo delle comunicazioni della Divisione mortai, il quale senza troppi giri di parole mi ha esortato a leggere “i pensatori tedeschi degli anni Trenta”. D’altro canto, gli uomini della truppa appartengono quasi tutti alla classe operaia, e in generale non hanno nessuna voglia di combattere. Perciò quando spiego ai miei compagni che questa è una guerra ingiusta, di padroni contro altri padroni, in tanti si dicono d’accordo con me». È UNO SCENARIO CHE STRIDE non poco con quello insistentemente magnificato dagli uffici di propaganda, che a Mosca come a Kiev continuano a battere sulla grancassa dell’“armatevi e partite”. La musica al fronte è un po’ diversa. Il 3 ottobre a Voznesensk, nella regione di Mykolaiv, circa cento soldati della 123ma Brigata di difesa territoriale ucraina hanno dato vita a una improvvisa manifestazione di dissenso e si sono rifiutati di andare in trincea, protestando per la mancanza di armi ed equipaggiamento adeguato. La stessa cosa era accaduta appena il giorno prima a Vuhledar, sul fronte di Donetsk, dove un altro battaglione della 123ma Brigata, il numero 86, aveva voltato le spalle al nemico e si era dato alla fuga, permettendo peraltro alle truppe russe di conquistare la città. L’unica vittima dell’ammutinamento era stato il comandante in capo del reparto, il 33enne Igor Hryb, che secondo alcune fonti sarebbe stato giustiziato dai suoi stessi uomini dopo che, invano, aveva cercato di fermarli. Gli ufficiali, del resto, hanno vita difficile anche sull’altro versante del fronte, dove le possibilità che vengano abbattuti dal fuoco amico sono forse ancora più numerose. Solo negli ultimi mesi, infatti – sempre secondo “Assembly” – i casi di comandanti moscoviti fatti fuori dai propri soldati sarebbero stati almeno tre. L’ultimo episodio risale al maggio scorso, quando i militari dell’unità 52892 dell’esercito di Putin, «portati alla follia» dagli sfiancanti turni di guardia, hanno deciso di aprire il fuoco contro il proprio capo-brigata, ammazzandolo sul colpo. Perché i fucili – come sostengono i writer di Kharkiv – bisogna saperli puntare nella direzione giusta. (articolo di Andrea Sceresini uscito su “il manifesto” del 4 dicembre 2024)
December 8, 2024 / il Rovescio
Un dossier contro il DDL 1660
Segnaliamo questo utile e dettagliato dossier contro la legge elmetto-manganello scritto dal C.O.R.E. (Comitato romano contro carcere e repressione). Se condividiamo appieno il fatto che questo DDL sia a tutti gli effetti un provvedimento di guerra e che vada contrastato come tale, le griglie interpretative marxiste del rapporto classi-Stato-Diritto non sono ovviamente le nostre.  Scarica il dossier: DDL_1660_progetto_grafico
November 28, 2024 / il Rovescio
La nuova frontiera dei semi digitali
Segnaliamo da https://terraeliberta.noblogs.org/ Pubblichiamo un capitolo de Perché fermare i nuovi OGM, di Stefano Mori e Francesco Panié (Terra Nuova, Firenze, 2024). Si tratta di un libro accurato, documentato e chiaro sulle nuove tecniche di ingegneria genetica applicate alle piante e sui relativi brevetti, tecniche e brevetti visti come il capitolo finale dell’industrializzazione dell’agricoltura. Un aspetto poco considerato quando si parla di nuovi OGM, e sul quale si concentra invece il testo che pubblichiamo, è l’intreccio convergente tra bio-informatica, biologia di sintesi e biotecnologie. A determinare tale intreccio non è solo la logica del profitto (causa-effetto della fusione tra ricerca e industria), ma il fatto che l’informatica e la biologia molecolare dominante hanno lo stesso paradigma: quello cibernetico. L’idea, cioè, che tutta la realtà vivente sia un flusso di informazioni e che tale flusso possa essere controllato e riscritto (non a caso si parla di editing genetico) a piacimento. Per modificare (e brevettare) le piante non serve più nemmeno un sostrato biologico, ma è sufficiente il sequenziamento genetico presente nelle banche dati; a partire da quel “doppione digitale” si possono costruire nuove sequenze in laboratorio (biologia di sintesi), da introdurre poi nell’elemento organico vero e proprio attraverso l’ingegneria genetica (con i nano-materiali come vettori della “riscrittura” genetica). È esattamente lo stesso processo – e lo stesso paradigma – con cui sono stati prodotti i “vaccini codificanti” a m-RNA. Sequenziamento informatizzato del virus; modello biologico elaborato con l’Intelligenza Artificiale; costruzione in laboratorio di una nuova molecola; “informazioni” genetiche da introdurre nei corpi e nanoparticelle come vettore delle “informazioni” che le cellule devono “trascrivere”. Il tutto, ça va sans dire, sottoposto a brevetto. Chi pensa che, fuori dai tempi accelerati delle Emergenze, i modi di procedere della tecno-industria siano più cauti, si sbaglia di grosso. Una volta messo “il piede nella porta”, il territorio da conquistare si allarga a tutto il resto. Infatti, le deroghe alle normative europee in materia di OGM, necessarie per poter commercializzare i “vaccini anti-Covid”, hanno aperto la strada alla deregolamentazione delle Nuove Tecniche Genomiche (NTG) in agricoltura, nonché accelerato la corsa a produrre farmaci genetici per ogni genere di malattia. Quello che avanza insieme a profitti da capogiro è un riduzionismo tanto feroce – le informazioni come “mattoncini” di tutto il vivente, i corpi come algoritmi biochimici – da far impallidire il ben più grossolano meccanicismo dell’Otttocento. L’incubo in cui vogliono incarcerarci è una sorta di piattaforma universale, integrazione di Internet delle cose e Internet dei corpi, ciò che IBM chiama Pianeta Smart. I due autori sostengono alla fine del libro che per provare a fermare un simile attacco al vivente serve tenere una falce in una mano e un libro di diritto nell’altra. Sulla falce siamo d’accordo. La nuova frontiera dei semi digitali I progressi della biologia molecolare da un lato, e delle tecnologie dell’informazione dall’altro, investono le risorse genetiche e i processi biologici in un modo mai visto prima. Il fenomeno dei big data derivanti dal sequenziamento del Dna è figlio delle tecnologie informatiche di nuova generazione, che aprono orizzonti inediti per quello che Luigi Pellizzoni chiama «nuovo dominio della natura»*. Con il termine “sequenziamento” si intende il processo di determinazione e documentazione dell’ordine delle unità costitutive (i nucleotidi) su un determinato frammento di Dna. Prima di arrivare a mettere in ordine questi minuscoli mattoncini, considerati l’elemento base del codice genetico, c’è voluto tempo. Abbiamo lasciato Watson e Crick in piedi su quel tavolo dell’Eagle Pub di Cambridge nel 1953, elettrizzati per aver scoperto la struttura a doppia elica tridimensionale dell’acido nucleico. Quasi venticinque anni più tardi, il 24 febbraio del 1977, sulla rivista Nature, compare un articolo composto per metà da combinazioni di quattro lettere: A-C-T-G. Ancora una volta la scoperta è ad opera di un team di scienziati di Cambridge. Alla guida, il chimico Frederick Sanger1. La lista di lettere rappresenta nientemeno che i nucleotidi Adenina, Citosina, Timina e Guanina, che compongono il Dna. Decine di righe con tutte le combinazioni trovate dagli scienziati descrivono il primo sequenziamento di un genoma, che appartiene al virus batteriofago ΦX174. Sanger aveva il pallino di mettere le cose in fila. Ci aveva già vinto un Nobel nel 1958, determinando l’ordine delle molecole che compongono l’insulina. Con il sequenziamento del Dna virale, però, scende al livello di dettaglio più profondo mai raggiunto dalle scienze della vita, che gli vale un secondo premio Nobel per la chimica nel 1980. È lo stesso anno in cui il riconoscimento arriva anche a Paul Berg per le scoperte sul Dna ricombinante, che segnano la nascita dell’ingegneria genetica. Il lavoro di Sanger apre un capitolo di studi che portano, negli anni Novanta, all’ambizioso progetto “Genoma umano”2. Completato nel giugno 2003 e sponsorizzato soprattutto dal governo statunitense, il progetto ottiene un finanziamento di 3 miliardi di dollari e coinvolge centri in diversi paesi del mondo. Quello che ci interessa, qui, è osservare l’intersezione di diversi campi del sapere e come questo, nel Novecento, abbia portato all’emersione di un nuovo modo di intendere la vita. Un modo che ha prodotto, tra le altre cose, gli organismi geneticamente modificati. L’informatica è uno di quei settori che ha un ruolo determinante nel processo. L’aumento della potenza di calcolo, infatti, è funzionale a raccogliere enormi quantità di dati, utilizzati poi nello sviluppo di nuovi prodotti, a volte fisici ma sempre più spesso immateriali. La nuova biotecnologia è basata in modo crescente sull’estrazione delle informazioni genetiche e la loro digitalizzazione. Utilizzare i bits al posto della controparte materiale per sviluppare prodotti commerciali, cambia in maniera radicale l’approccio scientifico, abilitando percorsi di mercificazione basati non più sulla realtà, ma su ipotesi relative al funzionamento dei tratti genetici e alle proprietà che emergerebbero dalla loro combinazione. Queste inferenze vengono accettate come vere, o anche soltanto verosimili, con un’approssimazione che non obbliga più a fornire la controprova. Anzi, è più che sufficiente una “sostanziale equivalenza” a innescare cicli di appropriazione e privatizzazione del vivente. Si tratta di un procedimento che avviene per convenzione, senza necessità di fornire prove circostanziate a supporto delle affermazioni o valutare percorsi alternativi. […] questa modalità operativa oggi è il motore del progresso tecno-scientifico. Dematerializzare i geni: la Dsi Certo, per produrre colture – anche a livello industriale – rimarrà sempre una dipendenza dal materiale genetico, ma è ormai evidente la tendenza a integrare o sostituire gli oggetti fisici delle attività di ricerca e sviluppo con operazioni computerizzate basate su informazioni di sequenza digitali (Digital sequence information o Dsi). La conseguente crescita esponenziale dei dati generati pone una serie di nuove questioni etiche, normative e legali che osserveremo in questo capitolo. Sono sfide che abbracciano la proprietà intellettuale, la gestione e governance dei dati e co-determinano il doppio movimento di espansione virtualmente illimitata e contemporanea concentrazione del mercato che ne deriva. Là, dove il confine tra naturale e artificiale perde di senso, dove le definizioni sfumano e regna l’indeterminatezza, le nuove forme di accumulazione trovano infatti il loro miglior terreno di coltura. La creazione di organismi modificati con le nuove tecniche genomiche – siano piante, animali o esseri umani – si colloca su questo crinale come attività promettente, che integra in modo sempre più stabile l’impiego dei big data e dematerializza una fase cruciale del processo di produzione del cibo-merce. Gli impatti sulla realtà, però, quelli sì che possono essere tangibili. Lo sanno molto bene i movimenti contadini, che hanno visto salire all’orizzonte la minaccia della Dsi come strumento di espropriazione dei loro saperi tradizionali, l’aggiramento delle norme internazionali sull’accesso alle risorse genetiche e la messa a repentaglio della relativa condivisione dei benefici con chi le ha conservate ed evolute con il lavoro nei campi3. Comunità contadine e indigene sono allenate a fronteggiare i continui tentativi di appropriazione delle loro conoscenze e della biodiversità connessa. Piante medicinali, sementi tradizionali e ogni sorta di sapere collettivo condensato in materia vivente è da tempo oggetto di interesse da parte di governi, imprese e supposti enti filantropici come la Rockefeller o la Gates Foundation. L’attività di bioprospezione (bioprospecting), cioè l’esplorazione della biodiversità per fini di sviluppo commerciale, è antica. Ma emerge come chiara forma capitalistica nel Novecento, con il consolidarsi delle dinamiche di globalizzazione. Il termine viene coniato negli anni Ottanta e già nei primi Novanta è sostituito dai movimenti con il ben più connotato “biopirateria”4. Si tratta infatti, a tutti gli effetti, di un furto di conoscenze tradizionali racchiuse nelle risorse genetiche, con “carotaggi” operati dai ricercatori inviati in missione nel sud globale, che terminano con la brevettazione di un seme o di un farmaco da parte di qualche azienda del nord. Spesso queste operazioni sono state fatte in violazione di accordi internazionali come la Convenzione sulla Biodiversità, il suo Protocollo di Nagoya5 e il Trattato internazionale sulle risorse genetiche6, che vincolano l’accesso al materiale genetico ad alcune condizioni. La Cbd, tramite il Protocollo di Nagoya, impone a chi vuole sfruttare delle risorse genetiche di ottenere un documento di consenso previo e informato (Pic) dal paese di origine del germoplasma, nonché la firma dei Termini di comune accordo (Mat), che disciplinano invece l’uso che si potrà fare di quel materiale. Queste regole valgono per tutta la biodiversità, eccetto quella inclusa nel Sistema multilaterale (Mls) creato nell’ambito del Trattato sulle risorse genetiche7. L’Mls è un meccanismo di accesso facilitato a 2,5 milioni di campioni di semi e piante di 64 specie di colture e foraggi, elencati nell’Allegato 1 del Trattato. Insieme, rappresentano circa l’80% dei consumi umani di vegetali. La maggior parte di questi campioni è stata raccolta dai campi degli agricoltori, che li hanno selezionati e riprodotti di generazione in generazione. Oggi le risorse genetiche ricomprese nel Sistema multilaterale coprono quasi il 40% dei campioni conservati nelle banche del germoplasma. Il 60% proviene da collezioni nazionali, il 5% da collezioni private e il 35% da banche dei semi di una rete internazionale chiamata Cgiar8. L’accesso facilitato al materiale genetico disponibile nel Mls avviene tramite un contratto standard (Smta)9. Il vincolo da rispettare qui è molto chiaro: «I beneficiari non possono rivendicare alcun diritto di proprietà intellettuale o altro diritto che limiti l’accesso facilitato alle risorse fitogenetiche per l’alimentazione e l’agricoltura o a loro parti o componenti genetiche nella forma ricevuta dal sistema multilaterale»10. Tradotto: non si può brevettare un seme o un suo tratto genetico preso da questo “paniere comune”. Adesso però la Dsi permette l’accesso all’informazione genetica indipendentemente da quello al materiale biologico. Il che fa sì che non sia più necessario recarsi in un luogo che fornisce sementi o materiale riproduttivo, avviare negoziati e firmare accordi vincolanti. Sempre più spesso, pezzi di genoma codificati in digitale possono essere scaricati da un database. Ma con quali regole? È esattamente in questo punto che si inserisci il dibattito politico sulla natura delle Dsi. Sono risorse genetiche o dati informatizzati prodotti dalla ricerca? Oltre al Trattato e alla Cbd, la discussione sul tema anima diversi altri spazi internazionali, come la Convenzione sul Diritto del Mare (Unclos) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). I paesi del nord del mondo, Canada e Usa in prima linea, difendono gli interessi dei brevetti e sostengono una definizione di Dsi come dato, non come risorsa. Banchieri del germoplasma, biotecnologi e imprese multinazionali stanno dalla stessa parte. L’accesso alle informazioni di sequenza digitale, dicono, non può essere regolato, dal momento che la libera condivisione delle Dsi è una pratica scientifica comune. Qualsiasi altra soluzione sarebbe controproducente, se non addirittura pericolosa per la salute pubblica o la sicurezza alimentare, poiché renderebbe più difficile alla scienza garantire il benessere che naturalmente deriva dall’innovazione. I movimenti contadini per la sovranità alimentare sono di un altro parere. Partono dal presupposto che la sicurezza alimentare e il benessere non siano un risultato dell’industria tecnologica, ma di condizioni sociali abilitanti per chi produce cibo in agroecologia. Per questo, con il supporto dei governi del sud globale, spingono per il riconoscimento delle informazioni di sequenza digitale come risorse genetiche a tutti gli effetti, quindi soggette alla Convenzione sulla Biodiversità e al Trattato sulle risorse fitogenetiche. Come detto, il Trattato vieta qualsiasi rivendicazione di brevetto sulle risorse genetiche vegetali o su loro componenti, cioè le informazioni genetiche, derivate da semi presenti nel sistema multilaterale. La Convenzione, dal canto suo, protegge le varietà indigene e selvatiche e le conoscenze tradizionali connesse, suggerendo che brevetti e altre forme di proprietà intellettuale non vadano in conflitto con i suoi obiettivi di conservazione e uso sostenibile della biodiversità. Il Trattato, la Convenzione e il suo Protocollo di Cartagena sono stati adottati all’epoca della transgenesi, tra il 1990 e i primi anni 2000. Un tempo in cui l’industria sementiera non era ancora concentrata e sviluppata come oggi. Anche per questo, oltre alla capacità di incidenza politica dei movimenti contadini, è stato possibile ottenere risultati che hanno limitato la privatizzazione. Ora, dunque, le imprese hanno due possibilità: modificare questi testi o violarli. Fanno un po’ entrambe le cose, nel senso che oggi li vìolano mentre lentamente operano per cambiarne l’interpretazione attraverso estenuanti negoziati. Stati Uniti e Canada, i loro alfieri, vantano ottimi diplomatici che fanno il lavoro sporco per le aziende. Il loro stratagemma è ripetere fino alla nausea che non c’è alcun legame tra le sequenze genetiche digitali e le risorse fisiche da cui sono state prese, perciò le une non possono essere regolamentate come le altre. Il legame torna magicamente a manifestarsi quando le aziende ottengono il brevetto legato a quella riga di lettere su un monitor, che si estende a tutti gli organismi del mondo che contengono la sequenza di Dna corrispondente. Riducendola ai minimi termini, Guy Kastler la spiega così: «È come se vi facessi una fotografia e dichiarassi: questa è la foto di Stefano e Francesco. Nel momento in cui identifico questa immagine come la vostra rappresentazione, ho creato un prodotto che posso brevettare. Dunque, voi diventate di mia proprietà. Questa è la Dsi, niente di più, niente di meno». A parte le tecnicalità del processo, le cose vanno così come dice lui. La Dsi viene ricavata dai ricercatori sequenziando campioni fisici ottenuti con prelievi in natura o dalle banche del germoplasma, comprese quelle del Sistema multilaterale. Poi viene caricata in database pubblici (spesso open source) e privati (spesso a pagamento) come prova sperimentale. Tramite processi di biologia sintetica e bioinformatica, oggi è possibile riprodurre queste sequenze con materiale artificiale a partire dai dati, senza più disporre del germoplasma originario. Il processo, condotto in un vuoto legale creato arbitrariamente dai rapporti di forza che bloccano i negoziati internazionali sulla natura delle Dsi, permette dunque il furto della conoscenza contadina e indigena connaturata alle risorse genetiche. Le premesse della nuova biopirateria digitale sono analoghe a quelle già viste in tempi più analogici, ma più sofisticate. La natura della tecnica gioca infatti un ruolo chiave, consentendo processi di smaterializzazione e ri-produzione nei quali l’intreccio di vita e storia viene prima negato dalla digitalizzazione, poi riaffermato dalla sintesi in laboratorio di nuove forme artificiali proprietarie. Oggi milioni di sequenze genetiche digitalizzate sono disponibili su Internet, così che ricercatori e imprese fanno una “pesca a strascico” periodica nei database, prevalentemente localizzati in paesi ad alto reddito. Le loro operazioni non sono adeguatamente tracciate e le Dsi presenti nei database non recano quasi mai informazioni chiare sulla loro origine geografica11. Dietro la retorica della conoscenza libera e aperta, si nasconde quindi un doppio rischio: in primo luogo, che queste informazioni vengano ricostituite in materia e poi brevettate come “invenzioni”; di conseguenza, che nessuno acceda più al Sistema multilaterale dopo averlo prosciugato digitalizzando le sue risorse genetiche. Intendiamoci, una multinazionale che usa le informazioni di sequenza digitale per produrre piante brevettate, non è come una persona qualunque che scarica un contenuto da Internet. È più come un artista famoso che fonda la sua carriera sul download dei brani di un cantautore poco noto, mettendoli nei suoi album e vendendoli alla distribuzione globale coperti da copyright. Il timore è che questa operazione sulla biodiversità sia stata già fatta diverse volte. Visto che il Dna gira ormai liberamente per il web, la posizione negoziale dei paesi ricchi dentro il Trattato sulle risorse genetiche non è difensiva. Hanno già quello che vogliono e ora propongono un gioco al rilancio, che ammette una discussione sulla natura della Dsi solo a fronte di un allargamento del perimetro del Mls. In pratica, consentirebbero un negoziato per niente scontato sul tema più spinoso del momento solo in cambio di un atto suicida: l’aumento delle specie di interesse agrario disponibili per l’accesso facilitato delle imprese. Questa postura, a metà tra la provocazione e il bullismo istituzionale, ha finora impedito un’interpretazione logica di quanto scritto nel Trattato (il divieto di brevettare il materiale genetico prelevato dallo spazio comune, in qualunque forma), trasformando un accordo internazionale vincolante in un centro per lo shopping senza casse all’uscita. La convergenza fra tecnica e capitale Il sequenziamento genetico e la Dsi in quanto tali, tuttavia, non sono classificabili per sé come un’invenzione. Occorre un passaggio supplementare per far scattare il regime dei brevetti. Per questo vale la pena soffermarsi sul ruolo convergente che le diverse tecnologie “di frontiera” svolgono oggi per aprire nuovi spazi di appropriazione e profitto. Secondo la maggior parte delle leggi sui brevetti, non si può reclamare un diritto di proprietà intellettuale sui prodotti della natura e le scoperte che non prevedono innovazione umana. Dopo la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Myriad del 201312, è ormai ampiamente riconosciuto che la mera identificazione di una sequenza genetica in quanto tale non è brevettabile, poiché si tratta di una scoperta e non di un’invenzione. Nuove tecniche di modificazione genetica e processi di biologia sintetica vengono quindi in soccorso degli scienziati per coprire l’ultimo miglio, determinante per la mercificazione. Le informazioni digitalizzate vengono utilizzate per assemblare materiale genetico prodotto in laboratorio, dargli la forma desiderata e poi introdurre le sequenze in nuovi Ogm realizzati tramite New genomic techniques come Crispr/Cas9. La cosa va a vantaggio sia dei ricercatori che delle imprese sementiere, perché permette di brevettare sia il processo biotecnologico che il tratto genetico risultante, contestando però ogni richiesta di valutazione del rischio, tracciabilità ed etichettatura, con l’assunto che da tutto questo procedimento risultino prodotti equivalenti a quelli della natura. Il livello di cialtroneria raggiunge vette ancor più alte se guardiamo a quanto è grossolano il processo di brevettazione. Leggere il testo di un brevetto, infatti, mostra quanto gli “inventori” siano molto lontani dal poter rivendicare pretese di esattezza delle loro “creazioni”, ovvero determinare il rapporto causa-effetto tra sequenza genetica e relativa performance dell’organismo in cui viene inserita. Ciononostante, i loro processi sono validati dagli uffici che rilasciano titoli di proprietà intellettuale. Come spiega Denis Meshaka in un approfondimento su una piattaforma francese di controinformazione sugli Ogm13, «le domande di brevetto che coprono sequenze genetiche […] vengono depositate il prima possibile, con rivendicazioni formulate nel modo più ampio possibile. Ma spesso l’applicazione industriale delle sequenze, o la loro “utilità”, se prendiamo la nozione della legge statunitense, è ipotetica». L’approccio più utilizzato si basa sul concetto di “identità percentuale”. In pratica «qualsiasi sequenza che, ad esempio, è identica almeno all’80%, 90% o 95% alla sequenza effettivamente “inventata” è coperta dal brevetto. Più bassa è la percentuale, maggiore è la gamma di sequenze coperte dal brevetto. Anche con il 95% questo corrisponde ancora a una grande varietà di sequenze, che ovviamente non sono tutte descritte singolarmente». Le numerosissime possibilità che una sequenza anche molto simile esprima caratteristiche molto diverse da quella brevettata, oltre al fatto che l’espressione di un carattere dipende in parte significativa dall’ambiente e non solo dai geni, testimoniano il livello di approssimazione clamoroso su cui si regge tutto il sistema di appropriazione del vivente. Possiamo affermare senza timore di smentita che si tratta di una pretesa di verità priva di fondamento sostanziale, ma che produce effetti evidenti sui sistemi alimentari. * in Cavalcare l’ingovernabile. Natura, neoliberalismo e nuovi materialismi, Orothes, Napoli, 2023 1 Sanger F. et al., (1977), “Nucleotide sequence of bacteriophage ΦX174 DNA”, Nature, 265, 687-695. 2 www.genome.gov/human-genome-project 3 Conti M., (2023), Movimenti agrari transnazionali e governance globale, Rosemberg & Sellier, Torino. 4 www.etcgroup.org/content/bioprospectingbiopiracy-and-indigenous-peoples 5 www.cbd.int/abs/default.shtml 6 www.fao.org/plant-treaty/en 7 www.fao.org/plant-treaty/areas-of-work/the-multilateral-system/landingmls/en 8 www.cgiar.org 9 www.fao.org/plant-treaty/areas-of-work/the-multilateral-system/smta/en 10 www.fao.org/plant-treaty/overview/texts-treaty/en 11 www.twn.my/title2/health.info/2023/hi230301.htm 12 https://supreme.justia.com/cases/federal/us/569/12-398/case.pdf 13 https://infogm.org/en/patents-on-genetic-sequences-excess-and-fragility
November 24, 2024 / il Rovescio
A Briançon, la strada non è ancora un’opzione. E’ nata una nuova occupazione!
Nella zona di Briançon ci sono migliaia di case vuote (2500 nel 2020, secondo l’INSEE), mentre nuovissimi chalet ospitano i ricchi per qualche settimana all’anno. Il numero di seconde case nella zona è stimato al 60% (sempre 2020, sempre INSEE). Sulle montagne del Briançonnais abbondano le stazioni sciistiche, dirette verso il loro assurdo futuro. Per…
October 16, 2024 / Passamontagna
GPI e UDAP sulla manifestazione del 5 ottobre a Roma
Riceviamo e diffondiamo questo comunicato dei Giovani Palestinesi d’Italia e dell’Unione Democratica Arabo Palestinese sulla piazza di Roma del 5 ottobre. A fronte di prese di distanza, pelosi distinguo o paranoie autoallucinatorie che anche questa volta non sono mancati (anche se molto meno di altre volte), ecco delle parole chiare e coraggiose. A conferma che a certi luoghi dell’oppressione (e della resistenza) corrispondono certi luoghi dell’animo. Comunicato sulla piazza nazionale del 5 ottobre a Roma Qualcuno aveva detto che l’Italia non era pronta a manifestare a un anno dal 7 ottobre. Invece, più di 15mila persone, da Roma e da tutta Italia, hanno paralizzato la capitale per la Palestina. Mentre il 5 ottobre in tutto l’Occidente il movimento in solidarietà al popolo palestinese scendeva in piazza, l’Italia è stato l’unico paese a non permettere che ciò accadesse. Centinaia di manifestazioni si sono tenute a sostegno e in favore della libertà per i popoli colpiti dalla morsa violenta del sionismo. Da Londra, New York, Toronto, Parigi, Barcellona, Madrid, Berlino, Amsterdam, Bruxelles e tante altre. L’Italia infatti è stato l’unico paese in Europa a vietare la manifestazione ad un anno dall’inizio del genocidio. Le istituzioni italiane hanno provato con ogni mezzo a impedire la riuscita di questa piazza. Fin dal divieto alla manifestazione è stato chiaro quale fosse l’intento del Governo, del quale la Questura di Roma si è fatta portavoce. L’intenzione era quella di spegnere una mobilitazione che si sta dimostrando capace di poter disturbare gli interessi delle classi dirigenti, pienamente allineate e complici del sionismo. Nell’ultimo anno, infatti, ciò che, come realtà palestinesi, abbiamo portato avanti, insieme al movimento di solidarietà, non è mai stata solo una vaga richiesta di “stop al genocidio”. Le nostre rivendicazioni puntano alla radice della questione: il problema non è riducibile a Netanyahu, è il sistema di occupazione coloniale ad essere sotto accusa, e per fermare questo sistema bisogna inceppare la macchina bellica, dalla progettazione delle armi alla loro commercializzazione. È per questo che sabato siamo scesi in piazza per la Palestina e per il Libano, ma anche contro il DDL 1660, vile strumento repressivo che mira a criminalizzare il dissenso e la lotta, ben oltre la causa palestinese. Precisamente perchè questo orizzonte di lotta è stato accolto e alimentato da migliaia di compagnə in tutta Italia le istituzioni lo vogliono spezzare, con ogni tipo mezzo: il più grande rischio per il Governo è scontrarsi con un fronte unito, che mira a obiettivi chiari. La questura di Roma ha provato con tutte le sue forze a imporre il divieto. Un dispiegamento di forze di polizia senza precedenti ha bloccato ai caselli autostradali, alle stazioni dei treni e dei pullman, migliaia di persone che arrivavano da fuori Roma. Decine di compagnə hanno ricevuto fogli di via, altrə sono statə trattenutə in stato di fermo fino a sera. La giornata è stata segnata da perquisizioni arbitrarie e minacce. Nonostante ciò, e nonostante il clima di terrore creato ad arte dai media, fin dal mattino era chiaro che la repressione preventiva non ci avrebbe contenutə. Eravamo troppə, troppo determinatə ad essere in quella piazza e l’avremmo raggiunta a costo di bloccare Roma. Sappiamo bene che comunque, senza questo “Stato d’assedio”, saremmo stati ancora di più. Secondo alcuni la “concessione” di Piramide è stata un’apertura “democratica”.  A questi rispondiamo che il presidio non ci è stato concesso per bontà, ma l’abbiamo ottenuto con una prova di forza e di fermezza. Migliaia di persone decise e compatte hanno conquistato una piazza che però è rimasta blindata da ogni lato per ore. Le forze dell’ordine erano già schierate, dotate dei cosiddetti ‘mezzi speciali’, pronte a reprimere con ogni mezzo la manifestazione. Di fronte a questo scenario, tra chi si è trovato chiuso in una gabbia c’è chi ha reagito di conseguenza. Rifiutiamo categoricamente la lettura di chi imputa la violenza a “infiltrati”: la violenza è quella che rinchiude più quindicimila persone in uno spazio confinato, che applica arresti preventivi e che, infine, usa idranti e lacrimogeni sulla folla. Rigettiamo categoricamente ogni tentativo di dividere il movimento di solidarietà, così come il movimento palestinese, tra “buoni” e “cattivi”. La violenza è quella del sistema coloniale che tiene sotto scacco il mondo arabo, che ha ucciso più di 50.000 persone nell’ultimo anno. Una violenza che distrugge, che annienta. Il Governo Meloni, il suo alleato sionista e una stampa italiana sempre più appiattita sulla propaganda di guerra, sono gli unici colpevoli. Chiunque tenti di sviare il problema, e di distoglierci dalla realtà e dai nostri obiettivi, fa un servizio ai nostri nemici e mina l’unità del movimento, che solo mettendo insieme diverse idee e diverse pratiche potrà dare una risposta efficace contro la guerra e, soprattutto, contro la repressione che si approssima con il nuovo disegno di legge. Allo stolto che indica il dito noi rispondiamo guardando la luna: il sistema di occupazione coloniale contro il quale ci stiamo battendo qui in Italia da ben prima del 7 ottobre 2023. La notte tra il 4 e il 5 ottobre è stata una notte infernale per il Libano e la Palestina: intensi bombardamenti hanno colpito Beirut, Baalbek e il sud del Libano, provocando morti, feriti e un alto numero di sfollati, il tutto avvenendo nel silenzio dei media e con la complicità dei nostri governi. Attualmente, in Libano si registrano circa 1,4 milioni di sfollati. Nel frattempo, il 3 ottobre, il campo profughi di Tulkarem in Palestina è stato oggetto di bombardamenti. A Gaza invece inizia l’ennesima invasione via terra dal nord della Striscia, con ordini di evacuazione e bombardamenti sul campo profughi di Jabalia. Stiamo assistendo di nuovo alle immagini di persone in fuga senza una meta. La giornata di sabato è stata una vittoria dalla quale dobbiamo imparare. Il Governo voleva creare un precedente di repressione politica, e noi abbiamo creato il nostro precedente di unità politica contro la guerra imperialista e contro il Governo: continueremo a lottare contro – e nonostante – ogni forma di repressione, fino alla cessazione della complicità italiana nel genocidio e fino alla liberazione dal sionismo. Dalla parte della Resistenza, sempre. Giovani Palestinesi d’Italia – GPI Unione Democratica Arabo Palestinese – UDAP
October 8, 2024 / il Rovescio
Un racconto dai margini: di fascismo e antifascismo in Bulgaria
Riceviamo e diffondiamo: Un racconto dai margini: di fascismo e antifascismo in Bulgaria I fatti di Budapest dell’anno scorso e la conseguente pesante repressione che ha colpito le e gli antifascisti in Ungheria e fuori, hanno aperto una finestra sull’antifascismo un po’ più a est dei nostri abituali orizzonti. Vogliamo quindi provare a condividere quello che succede a Sofia, in Bulgaria; dove la situazione è per molti versi simile a quella ungherese, e al contempo strettamente legata a dinamiche europee. Il cane da guardia della frontiera orientale Anche in Bulgaria l’estrema destra è più in forze che mai. Per partire da un episodio recente, nel marzo di quest’anno, il politico Angel Dzhambaski (del partito europeo dei conservatori e riformisti, di cui fa parte anche Fratelli d’Italia), ha inaugurato la campagna per le elezioni europee facendo circolare il video di una rissa tra ragazzini presentata come “immigrati clandestini che picchiano giovani bulgari” (1). Altri video fuori contesto e notizie manipolate (senza nessuna conferma del fatto che si trattasse di tensioni razziali) hanno fatto partire una feroce propaganda anti-immigrazione che è riuscita a dominare il discorso politico per mesi. Diverse manifestazioni razziste sono state organizzate nel centro di Sofia e in un quartiere periferico dove si trova un centro d’accoglienza. I cortei erano a nome di organizzazioni giovanili, ma abbiamo visto sfilare i neonazi e gli ultrà delle curve in testa, mentre gli interventi al microfono erano di politici locali e figure note. In un caso, l’organizzatore era l’ex candidato sindaco del maggior partito politico bulgaro. Contemporaneamente abbiamo dovuto far fronte ad un’ondata di aggressioni razziste quotidiane, spesso per mano di giovanissimi, contro chiunque fosse più scuro della media e parlasse altre lingue. Il controllo dell’immigrazione è stato l’argomento condiviso da ogni partito e intorno al quale si sono svolte sia le elezioni europee, sia quelle per il parlamento bulgaro, tenutesi a luglio e che si ripeteranno il 27 e 28 ottobre (le settime in soli 3 anni). Tutto ciò avviene nonostante il paese accolga un numero bassissimo di immigrati, che perlopiù si ritrovano sulla rotta balcanica per entrare nell'”Europa quella vera”, o che vengono deportati in Bulgaria da altri paesi europei per gli accordi di Dublino. In tante e tanti restano intrappolati qui con scarsissime possibilità di regolarizzazione e finiscono per lavorare ipersfruttati e segregati. La maggior parte però viene fermata al confine stesso, visto che la Bulgaria ha fedelmente adottato il ruolo del cane da guardia della frontiera orientale conferitole dall’EU. La brutalità poliziesca, ereditata dalla tradizione “comunista”, gode di totale impunità quando si esercita sulla pelle dello “straniero”. Le istituzioni locali ed europee (impersonate da polizia di frontiera e Frontex) sono responsabili dei respingimenti di massa alle frontiere, delle persone lasciate morire nelle foreste ai confini con la Serbia e la Turchia, delle torture nei centri di accoglienza e in quelli di detenzione. Delle deportazioni costanti e spesso illegittime, soprattutto di rifugiati politici curdi ricercati dalla polizia di Erdogan. Basta guardare ai termini imposti dall’EU per il recentissimo ingresso nell’area Schengen: ora i turisti hanno un ingresso facilitato negli aeroporti, mentre le frontiere terrestri non solo rimangono, ma sono state ulteriormente rinforzate con un aumento delle unità di Frontex. Stiamo assistendo al copia-incolla in stile balcanico di uno schema già rodato in occidente: la creazione dell’immagine dell’immigrato come nemico e come minaccia (per la sicurezza, ma anche per l’identità stessa dell’europeo bianco), prima ancora che l’immigrazione diventi un fattore sociale. Da un lato, la gestione dell’immigrazione è il pretesto costante per togliere fondi al welfare e destinarli alla militarizzazione delle frontiere. Dall’altro, ogni tentativo di costruire solidarietà e lotte comuni viene ostacolata sul nascere per non doverlo combattere in seguito. Nazi-onalismo post-comunista Pur predicando “l’ospitalità come valore tradizionale”, la società bulgara odierna è in realtà fortemente xenofoba e razzista. La formazione dello Stato nazionale e l’ideologia nazionalista dell’inizio del XX secolo hanno trovato la loro continuazione nel nazionalismo di tipo sovietico, promosso alla fine degli anni ’70 e negli anni ’80, per arrivare al discorso ultranazionalista esploso dopo il 1989, quando il nazismo è stato riabilitato nei paesi post-comunisti. Dato che la Bulgaria è stata globalizzata solo a livello finanziario, mentre socialmente è piuttosto omogenea, monolingue e monoculturale (grazie all’assimilazione forzata della minoranza turca e alla segregazione di quella rom), la minaccia dello “straniero” è solo virtuale, eppure necessaria per adattarsi alle linee guida europee e creare la sensazione di emergenza utile a mantenere il controllo. Uno degli esempi più brutalmente folkloristici sono i “cacciatori di immigrati” (2), un gruppo autorganizzato e armato attivo dal 2016, il cui capo è diventato una celebrità pattugliando per anni il confine con la Turchia in coordinamento con la polizia di frontiera (anche se non ufficialmente) e postando le foto delle sue prede sui social. Eppure il popolo bulgaro sa cosa significa emigrare: sono più di due milioni le e i Bulgari che vivono all’estero, emigrati soprattutto dagli anni ’90 in poi, a fronte di una popolazione di poco più di sei milioni di persone. Quasi tutte le famiglie contano membri lontani e difficili storie di diaspora, che non impediscono comunque alla propaganda anti-immigrati di negare ogni possibile immedesimazione differenziando nettamente i nostri dai loro. Niente di nuovo. L’antifascismo e la politica Anche i movimenti antifascisti hanno avuto una storia diversa da quella dell’altra parte della cortina di ferro. Dopo il fervore dei primi due decenni del ventesimo secolo, quando i circoli anarchici e comunisti prendevano attivamente parte alla vita politica, arrivò un’ondata di repressione fascista che si concluse con l’adesione del paese all’Asse. Nel 1944 l’Armata Rossa invase la Bulgaria, liberandola dal governo fascista e imponendo un regime di stampo bolscevico che si impadronì del termine antifascismo, mandando nelle galere e nei gulag chiunque non seguisse la linea del partito. Ogni tipo di mobilitazione cittadina e di resistenza, alternativa a quella imposta dal regime, venne criminalizzata e la tradizione è stata parzialmente risuscitata solo dopo il 1990. Per il resto, la politicizzazione forzata, imposta dall’alto e subordinata totalmente alla propaganda sovietica, ha creato in gran parte della popolazione quella sensazione di ripudio della politica percepibile fino ad oggi. In questo contesto, l’antifascismo non solo non è una posizione condivisa, ma viene spesso paragonato al fascismo (nell’ottica dei due estremi che si equiparano). L’esperienza dei sindacati fuori dalle strutture statali è piuttosto limitata e le ONG e le associazioni dell  cosiddetta società civile liberale non vengono dal basso. Nella maggior parte dei casi dipendono da finanziamenti pubblici (perlopiù europei) ed alcune sono delle vere e proprie lobby come “America for Bulgaria”.  A livello di partiti, i confini tra destra e sinistra si stanno sciogliendo ancor di più che nella politica europea. Il partito socialista rappresenta oggi la sinistra dei valori tradizionali (patriarcali, etnonazionalisti e religiosi), mentre il cosiddetto centrodestra vi oppone un finto progressismo liberale ed europeista. Nell’ultima composizione del parlamento erano presenti anche due partiti di estrema destra, entrambi filorussi e nazionalisti allo stesso tempo (3). Uno gioca la carta della nostalgia del regime “comunista” e del legame storico tra la Bulgaria e la Russia (la figura della Russia come il grande fratello che libera il paese dai suoi oppressori, esistente dall’epoca della liberazione dall’Impero Ottomano). L’altro cerca una legittimazione attraverso l’eroicizzazione del popolo bulgaro, usando l’immaginario medievale mentre funziona come una classica struttura mafiosa immischiata nel traffico di armi. Per quanto riguarda i neonazi veri e propri – con alcune particolarità dovute alla posizione geopolitica e la storia recente – in generale i neonazisti bulgari hanno adottato il nuovo volto dell’estremismo di destra di tutto il mondo: quello dei movimenti identitari, della supremazia bianca, dell’etno-nazionalismo. Anche qui il fascismo di strada risponde a quello istituzionale che lo ispira e lo avalla, indipendentemente dal governo al potere.  Il gender distruggerà la Bulgaria I neonazi si dedicano attivamente anche alla propaganda e alle azioni omofobe e transfobiche. Le aggressioni alle persone queer sono frequenti, gli spazi sicuri sono pochi e alle volte devono essere fisicamente difesi. Gli attacchi agli eventi e agli spazi lgbtq+ sono promossi da personalità note (4), mentre il Sofia Pride viene attaccato da contro-manifestazioni dei difensori della famiglia tradizionale accompagnati dai preti. Si organizzano imboscate a piccoli gruppi di persone spesso giovanissime e provocazioni aperte a eventi e cortei femministi. E come accade sull’immigrazione, la linea dell’omo-transfobia è dettata dai governi di ogni colore. L’ultimo governo durato appena qualche mese è riuscito ad approvare, ad agosto, la cosiddetta legge anti-lgbt (5). Un decreto che vieta qualsiasi “propaganda gender” nelle scuole, così come l’accesso alle procedure e alle cure mediche relative alla riassegnazione del genere. Proposto dall’estrema destra ma approvato con una larga maggioranza, con plauso dei partiti europeisti e nonostante le grandi proteste di piazza, che perlomeno sono sintomo di un movimento queer vivo e in crescita. I neonazi tra le palestre e le scuole Ricapitolando: in nome dell’anticomunismo, del patriottismo e della conservazione dei valori patriarcali tradizionali, le organizzazioni neonaziste e neofasciste a lungo tollerate dallo stato ora fioriscono. Ci sono quelle attive dagli anni ’90, i cui capi sono noti per la gestione delle folle negli stadi, per lo spaccio di droga e per fare il “lavoro sporco” per chiunque sia al potere (ad esempio, quando c’è un’ondata di proteste e malcontento e la gente si raduna nelle strade, loro sono i “provocatori” che scatenano la violenza). E ci sono le nuove organizzazioni giovanili, in cui sia i partiti come VMRO (di cui fa parte il sopracitato Dzhambaski) che le organizzazioni extra-istituzionali come la BNS – Unione Nazionale Bulgara – investono molto. Questi cercano al contempo un cambio generazionale e nuovi modi di coprire i loro traffici mafiosi: aprono palestre per sport da combattimento e arti marziali, registrano ONG, spendono in comunicazione (adesivi e poster ovunque, video, social media, conferenze nelle scuole).  Così facendo raccolgono con successo la rabbia dei giovanissimi, offrendo un’identità e un senso di appartenenza con l’appeal dell’estetica squadrista. Del resto, non c’è da stupirsi: dopo il lockdown del periodo covid, la guerra in Ucraina e l’inflazione brutale, la vita quotidiana è diventata sempre più costosa e il paese sempre più deserto. Chi rimane si concentra nelle poche grandi città, il livello dei servizi per l’istruzione e del sistema sanitario si abbassa e la fiducia, non solo nelle istituzioni ma anche negli altri e nella comunità, è al minimo. Da qui all’Europa si guarda come una promessa fallita, che ha portato il paese a diventare bacino di manodopera a basso costo, discarica di rifiuti occidentali e muro di cinta anti-immigrati. Da un lato, questo vissuto dona alla società una dose di cinismo e di realismo che toglie di mezzo una buona parte di fastidiosi sinceri democratici. Dall’altro però, l’amarezza e la mancanza di speranze ci toglie anche tante compagn, e nutre invece le schiere dei neonazisti. E noi? Al corteo antirazzista (6) organizzato ad aprile in risposta alla propaganda anti-immigrazione, nonostante l’invito aperto e la sensazione condivisa di urgenza, la società civile si è tenuta alla larga, per non rischiare di essere associata agli e alle antifasciste e temendo provocazioni dei neonazi. Così come tutti i cortei pro-Palestina sono stati fortemente ostacolati o limitati, nel tentativo di silenziare la comunità palestinese e impedire la formazione di legami con altre lotte.   Da 13 anni ogni febbraio scendiamo comunque in strada con un corteo antifascista (7), in risposta alla marcia neonazista organizzata nello stesso periodo. Come a Budapest, anche a Sofia i neonazisti e i neofascisti di tutta Europa si riuniscono per un appuntamento annuale, in commemorazione della morte del generale fascista ed ex-ministro della guerra Hristo Lukov (8). Dopo anni di proteste e di azioni dirette, la “Lukovmarsh” ora è formalmente vietata dal comune di Sofia. Di conseguenza i gruppi di neonazisti internazionali sono meno interessati a venire, ma ciò non impedisce ai neonazi bulgari di riunirsi e marciare comunque scortati dalla polizia, con cui si confondono.  In un paese piccolo a volte le dinamiche di repressione e le gerarchie di potere sono più facili da individuare. A noi è sempre più chiaro che i neonazi che dominano i nostri quartieri non sono più pericolosi dei politici liberali che si alternano a fagocitare fondi europei per incentivare mega progetti di devastazione dell’ambiente e alimentare l’industria delle armi, al servizio tanto dell’UE e della NATO quanto di Putin ed Erdogan (come dimostra ad esempio la costruzione del gasdotto TurkStream) (9). Perciò lottare contro ogni forma di fascismo, qui come ovunque, non significa soltanto contrastare la glorificazione neonazista nel giorno della loro nostalgica fiaccolata. Significa anche sostenere quotidianamente chi lotta alle frontiere e nelle prigioni, per la libertà di movimento e contro le deportazioni. Per questo dall’inizio dell’estate abbiamo partecipato a vari presidi in solidarietà ad Abdulrahman Al-Khalidi, prigioniero politico in sciopero della fame, detenuto nel CPR di Sofia e minacciato di estradizione in Arabia Saudita (10), e in solidarietà alle e ai detenuti immigrati in lotta nei centri di deportazione. Vogliamo praticare un antifascismo antirazzista e antisessista quotidiano, fatto di mutuo supporto e di relazioni. Costruire, sviluppare e difendere i nostri spazi liberi e indipendenti. Stare al fianco della comunità palestinese e di quella curda in resistenza. Provare ad ampliare sempre di più le nostre reti, nei Balcani e altrove.  Buttare uno sguardo più a est può servire a constatare gli effetti delle brutali politiche di repressione e controllo del movimento delle persone, di devastazione dell’ambiente e di miseria sociale in gran parte dettate dall’UE e da secoli di colonialismo economico, lontano dagli occhi e dal cuore dell’occidente. Fuori i nazisti dalle nostre strade! Note 1-Antifa Bulgaria: “Мигрантска криза” или евроизбори? “Мигрантска криза” или ротация? – https://www.facebook.com/share/p/TcCwwvjoLwP88pi8/ 2- Vigilante Keeps Hunting Migrants In Bulgaria And The Authorities Seem To Be Turning A Blind Eye – https://www.rferl.org/a/bulgaria-migrant-hunter-impunity/31601663.html 3-I partiti di estrema destra in parlamento sono “Vyzrazhdane”= rinascita e “Velichie”= grandezza 4- Bulgarian Presidential Candidate Accused of Attack on LGBT CentreBulgarian Presidential Candidate Accused of Attack on LGBT Centre- https://balkaninsight.com/2021/11/01/bulgarian-presidential-candidate-accused-of-attack-on-lgbt-centre/ 5- Bulgaria: approvata la legge anti-LGBT/ “Vietata la propaganda sull’identità gender nelle scuole- https://www.ilsussidiario.net/news/bulgaria-approvata-la-legge-anti-lgbt-vietata-la-propaganda-sullidentita-gender-nelle-scuole/2742598/ 6- Migrant Solidarity Bulgaria – https://www.facebook.com/MigrantSolidarityBulgaria/posts/pfbid02qnX36aAGZPBoy7AWT6uSUDDHE1dPL8kL2o4BdekJKQ2cyUTJ4Z4Km6FQR5N8BmTNl 7-Antifa Bulgaria: No Nazis on our streets 2024 – https://www.facebook.com/AntifaBulgaria/posts/pfbid0m7X5vTioUbC9ySpdZKtragHbaiX27doh1Yvn5Phm3LbxJ8CtE1nB77FYwzXvTqSTl 8- Il generale Hristo Lukov fu tra i personaggi più vicini alla Germania nazista e tra i più ferventi promotori dell’antisemitismo e delle deportazioni nei campi di sterminio. Venne ucciso nel ’43 dalla militante comunista ed ebrea Violeta Yakova. 9- Leaked documents reveal Kremlin control over Turkish Stream pipeline construction through Bulgaria – https://www.euractiv.com/section/politics/news/leaked-documents-reveal-kremlin-control-over-turkish-stream-pipeline-construction-through-bulgaria/ 10- Migrant Solidarity Bulgaria https://fb.watch/uOXkBY_eBY/ / Bulgaria, violazioni dei diritti umani sui rifugiati – https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bulgaria/Bulgaria-violazioni-dei-diritti-umani-sui-rifugiati-232654
October 4, 2024 / il Rovescio
Cile: Omicidio fascista durante la commemorazione della dittatura
Riceviamo e diffondiamo questo articolo tratto dal sito: ” La Zarzamora.cl”   IL COMPAGNO ANTIAUTORITARIO ALONSO VERDEJO (26 ANNI) È STATO UCCISO E DUE PERSONE SONO STATE FERITE DOMENICA DA UN AGGRESSORE CHE È USCITO DAL PICCHETTO DELLA POLIZIA. Questa domenica, durante il pellegrinaggio al Cimitero Generale di Santiago, un uomo, poi identificato come Patricio Salerick Villafaña Juica, è stato visto uscire da un picchetto della polizia gridando che si trattava di una “contro-marcia”, e ha accoltellato tre persone alla schiena. Una di queste era il compagno vegano antiautoritario Alonso Verdejo, 26 anni, che è rimasto in gravi condizioni con ferite all’addome e alla schiena, morendo poche ore dopo all’ospedale di San José. Gli attacchi di gruppi fascisti o di individui protetti dalle forze repressive sono sempre più frequenti. La legittimazione del discorso fascista nei media, la complicità politica e repressiva generano protezione per la loro azione. La verità è che sporadicamente uccidono i compagni e il nostro coordinamento e la radicalizzazione dell’autodifesa sono sempre più urgenti. Le registrazioni video riescono a catturare il modo in cui Alonso Verdejo viene vigliaccamente accoltellato dal fascista, che era vestito di piombo e impugnava un coltello che nascondeva con qualcosa di scuro (sembra essere una giacca o una borsa). I racconti dei presenti affermano che quest’uomo, con l’evidente decisione di andare ad attaccare le persone in manifestazione, è rimasto all’interno di un picchetto di polizia gridando che si trattava di una “contro marcia”. Alla fine ha ferito due persone e ha ucciso Alonso. Gli omicidi durante le commemorazioni dell’11 settembre 1973, data dell’ascesa della dittatura in Cile, che prima venivano perpetrati dalla polizia, come nel caso della compagna Claudia López, oggi vengono compiuti da fascisti che si rifugiano tra i poliziotti e le loro auto. A quanto pare è più facile per loro usare altri utili idioti per questi attacchi (di solito tifosi fanatici, servili e sconsiderati), invece di continuare a mettere in difficoltà un’istituzione che è risorta dalle ceneri, grazie a una grande strategia di manipolazione mediatica. Ma chi sono? Li pagano? Sono o erano poliziotti? Sono domande che sorgono in questo scenario. Tuttavia, il fatto è che ci troviamo di fronte a civili fascisti, che in gruppo o protetti da poliziotti, attaccano vigliaccamente i compagni che assistono e partecipano ai cortei. Questo fatto non è più isolato. Nel luglio 2018, tre donne sono state accoltellate durante la marcia per l’aborto libero. Nel 2022, Francisa Sandoval, comunicatrice del canale 3 di La Victoria, è stata uccisa davanti a Meiggs Street, nella Estación Central, da Marcelo Naranjo, che ha sparato in piena vista della polizia. In quello stesso luogo erano già stati attaccati degli studenti in protesta. I sicari sono una realtà, gli omicidi di Macarena Valdés e Bau lo hanno dimostrato. L’estrema destra e il nazismo cileno hanno degli scagnozzi, il proprietario terriero manda il capomastro e quest’ultimo manda l’affittuario a fare il lavoro sporco, quest’ultimo va in galera dopo un buon accordo con il proprietario terriero. Ma sono una realtà anche i poveri fascisti che, persi nei loro discorsi nazionalisti e religiosi, possono imbracciare un’arma per attaccare, spinti dalle dichiarazioni che vedono quotidianamente in TV e in tutti i canali di comunicazione del potere. L’assassinio di Alonso e la repressione del potere hanno segnato il pellegrinaggio di questo 2024, ma settembre deve ancora arrivare, e le uscite territoriali lasceranno il vero resoconto di fronte a questi vili attacchi alla memoria degli assassinati e alla vita di Alonso.
September 29, 2024 / il Rovescio