Pubblichiamo – ringraziando chi li ha tradotti dal tedesco – due contributi
scritti dalla clandestinità. Il primo è di Burkhard Garweg (Martin), compagno di
lotta di Daniela Kleppe, la militante della RAF arrestata l’anno scorso a
Berlino dopo trent’anni di latitanza. Il secondo è degli “Antifa Ost” ricercati
dalla polizia. Se quest’ultimo è un breve saluto, quella di Martin è una lunga
riflessione in cui c’è tanto passato e tanto presente (la guerriglia degli anni
Settanta-Ottanta, lo Stato biometrico, la guerra militare e quella psicologica,
il genocidio a Gaza e il terrorismo di Stato, l’estrema destra e la finta
opposizione socialdemocratica, il collasso ecologico e la resistenza, la
molteplicità delle forme di lotta e la solidarietà che deve legarle…). Ad
accumunarli è un tema ineludibile per chiunque voglia trasformare radicalmente
questa società: come sottrarsi a un controllo sempre più totalitario? Al di là
delle differenze di prospettiva, la forza, l’intensità e la chiarezza che
emergono da queste parole proibite – che anche per questo diffondiamo – sono da
esempio e da stimolo. Lunga vita agli uccelli di bosco! Legale? Illegale? Non ce
ne importa! Guerra ai palazzi, pace alle capanne!
Questa la lettera di Burkhard Garweg, che il “Taz” ha ricevuto e ha corredato di
commenti critici.
Qui la versione in tedesco: https://de.indymedia.org/node/477999
Saluti dall’illegalità
Alla famiglia, agli amici, ai compagni, agli alleati, agli abitanti delle
wagenplatz. A tutti coloro che vogliono confrontarsi con il mio e il nostro
punto di vista.
Legale, illegale, chi se ne frega1. Il 26 febbraio di quest’anno Daniela Klette
è stata arrestata a Berlino. I giornalisti, che volentieri hanno agito come
agenti di polizia ausiliari e hanno contribuito a rinforzare lo Stato sempre più
autoritario con la comunità statale e sociale di investigatori e informatori,
hanno utilizzato l’intelligenza artificiale per rintracciare immagini di Daniela
in internet. Il merito storico di questi informatori giornalistici da podcast
sarà quello di aver fornito al momento giusto la prova della presunta necessità
del controllo biometrico attraverso il riconoscimento facciale sulla strada di
uno stato di controllo totalitario.
Ingannare il pubblico
La successiva caccia all’uomo da parte della polizia nei confronti di Volker
Staub e miei è stata da allora caratterizzata da menzogne e campagne
diffamatorie. La polizia e i media borghesi dicono che siamo criminali violenti
o terroristi che non esiterebbero a uccidere per denaro. In maniera
mediaticamente efficace, la casa in cui Daniela viveva è stata sgomberata, così
come le case vicine, a causa di presunti esplosivi pericolosi. Sono iniziate
misure di mobilitazione della popolazione per una caccia all’uomo e operazioni
di guerra psicologica. Ora si sa che una granata e un bazooka ritrovati erano
finti. La polizia doveva saperlo fin dall’inizio. L’intera azione, durata
diversi giorni, è stata un’operazione per ingannare e manipolare l’opinione
pubblica.
La costante propaganda sulla nostra violenza e pericolosità, le perquisizioni in
stile marziale di case e Wagenplätze, i veicoli blindati e i poliziotti armati
di MP come se fosse scoppiata una guerra, i controlli e gli arresti con le
immagini deliberatamente create non sono altro che l’affermazione della
necessità della militarizzazione della polizia e una messa in scena per
mobilitare la popolazione per una caccia all’uomo.
Ma soprattutto, il loro obiettivo nel creare un’immagine di criminali violenti è
quello di depoliticizzare e denunciare la storia dell’opposizione radicale – la
storia del tentativo storico di contribuire alla liberazione dalle relazioni
violente del capitalismo, emerso dalla resistenza del movimento del (19)68 e
legato alle lotte rivoluzionarie e anticoloniali mondiali.
26 anni fa si è concluso il progetto di guerriglia urbana sotto la forma della
RAF. Tuttavia, per noi che siamo stati perseguitati come militanti della RAF, la
vita nell’illegalità non è finita: l’immagine che si cerca di creare di noi ci
descrive come una banda di rapinatori violenti e predoni, pericolosi per la
popolazione e pronti anche a uccidere – e solo per denaro. Per noi, invece, è
fuori discussione usare la violenza contro le persone per denaro in una maniera
che potrebbe ucciderle o ferirle fisicamente. I traumi subiti dai dipendenti
degli uffici di cassa o delle società di trasporto di denaro contante sono da
deplorare. Non c’è motivo di credere a nulla di ciò che dicono la polizia o gli
apparati giudiziari, perché mirano a delegittimare l’opposizione radicale e a
creare un clima in cui la violenza e la repressione dello Stato appaiano
giustificate.
“La violenza è il fondamento della società borghese: nella miseria del suo
sistema penale, nei ghetti che stanno sotto la vita borghese di tutti i giorni,
nella militarizzazione della “sicurezza interna”, nel suo rapporto di
sfruttamento” (Peter Brückner 1976).
La violenza di Stato colpisce molti – i poveri, gli sfruttati, gli emarginati. È
diretta contro coloro che protestano o contro coloro che si oppongono a questo
normale stato di cose e non lo accettano come un dato di fatto. Sono le persone
che manifestano contro il genocidio a Gaza e contro un governo tedesco che
fornisce le armi a questo scopo, e che vengono sottoposte a un mix autoritario e
violento di manganelli della polizia, carcere, minacce della magistratura,
minacce di deportazione, perdita del lavoro e sorveglianza dei servizi segreti,
o le cui manifestazioni vengono vietate del tutto. Sono quelli che occupano le
università e per questo vengono colpiti con la violenza della polizia. Quelli
che hanno qualcosa da dire durante gli eventi sulla Palestina e a cui viene
vietato l’ingresso nel Paese, o gli artisti, gli scrittori e gli accademici di
tutto il mondo le cui mostre, conferenze o eventi vengono cancellati perché
hanno un’opinione “sbagliata”. Sono gli attivisti ebrei che vengono bollati come
antisemiti perché non sostengono la ragion di Stato tedesca e che quindi vengono
maltrattati con questa forma di antisemitismo da chi è al potere.
Sono le persone che in maniera organizzata si sono incollati all’asfalto
[pratica di Letzte Generation, quella di incollarsi letteralmente i palmi delle
mani alla strada] per manifestare contro la distruzione di ogni forma di vita su
questo pianeta ad opera del capitalismo e che per questo vengono dichiarate
terroriste o condannate al carcere. Sono coloro che vengono cacciati dai loro
villaggi perché le compagnie energetiche vogliono trarre profitto dai
combustibili fossili presenti in quei luoghi. Sono coloro che si oppongono a
questo sovrasfruttamento da parte del capitalismo e alla conseguente distruzione
del clima. Sono coloro che si oppongono alle ruspe delle imprese e che di
conseguenza subiscono la violenza della polizia. Sono coloro che, di
conseguenza, oggi sono costretti a fuggire a milioni dal Sud del mondo perché il
sistema capitalista sta forzando il profitto delle multinazionali con i
manganelli della polizia nelle metropoli, lasciando intere regioni del mondo
devastate e inabitabili.
Sono coloro che hanno riconosciuto che lo Stato ha usato il Covid come
un’opportunità per far avanzare la formazione dello Stato autoritario e sono
stati denunciati per questo. Sono coloro che lottano contro il fascismo e i
nazisti nel movimento Antifa e per questo sono minacciati dalla polizia e dalla
magistratura, si trovano nell’illegalità o rinchiusi nelle carceri. Sono i
compagni e le compagne che si organizzano contro l’oppressione del popolo curdo,
che si oppongono alla follia dello Stato Islamico, nato dalle guerre degli Stati
occidentali, e che si battono per la liberazione dalle strutture patriarcali e
per il confederalismo democratico in Kurdistan e vengono perseguitati come
membri del PKK dalla magistratura tedesca e rinchiusi in carcere per anni.
Sono quelli dei quali si dice si siano opposti al militarismo e al regime di
deportazione razzista come K.O.M.I.T.E.E. e che per questo sono perseguitati
dalla magistratura e costretti all’esilio da quasi 30 anni. Sono coloro che sono
stati sgomberati a Berlino negli ultimi anni: Syndikat, Liebig 34, Meuterei,
Potse-Drugstore, Köpi Wagenplatz. Terrore poliziesco e rimozione per far spazio
al profitto di investitori criminali e contro l’utopia di una vita collettiva e
solidale. Sono coloro che non possono più permettersi l’affitto dei loro
appartamenti e per questo vengono sfrattati dalla polizia.
Sono quelli che vengono sfollati ogni giorno perché in mezzo alla ricchezza
devono vivere nelle tende o sotto i ponti. Sono quelli che sanno di avere tutto
il diritto morale del mondo, in tempi in cui le masse non possono più
permettersi gli affitti, di prendere semplicemente possesso delle case
occupandole rigettando la legge della proprietà di pochi – ma che se lo
facessero finirebbero nelle maglie della polizia e della giustizia. Sono le
masse del lavoro precario. Quelli che devono vendere la loro manodopera a basso
costo. Quelli che sono spremuti dalla mattina alla sera e il cui salario alla
fine è appena sufficiente per vivere.
Sono quelli che vengono rinchiusi in isolamento nelle carceri o nei reparti
psichiatrici chiusi, anche se l’isolamento è vietato a livello internazionale
come tortura bianca. Sono quelli che vengono minacciati quotidianamente dal
razzismo della polizia tedesca o è Oury Jalloh, bruciato vivo nella stazione di
polizia di Dessau, legato mani e piedi e senza la minima possibilità di
movimento, perché nero. È l’adolescente disperato in fuga Mouhamed Dramé, morto
trafitto da una pioggia di proiettili della polizia di Dortmund, pur non avendo
rappresentato un pericolo per i suoi assassini nemmeno per un secondo. È Halim
Dener, 16 anni, disarmato, ucciso da un agente di polizia che gli ha sparato
alle spalle perché aveva affisso un manifesto per il movimento di liberazione
curdo. Sono coloro che sono stati uccisi perché provenivano da famiglie di
immigrati dai militanti dell’NSU2 – che lo ha fatto per anni indisturbati e
liberi dalla persecuzione dello Stato, con legami comprovati con i servizi
segreti tedeschi.
Sono coloro che sono costretti a migrare a causa di guerre, distruzione del
clima e povertà e che annegano a migliaia nel Mediterraneo, vengono respinti
alle frontiere tedesche e dell’UE o finiscono nei centri di deportazione. Sono
le migliaia di persone nell’ex Jugoslavia le cui vite sono state spazzate via
dai cacciabombardieri della NATO, trasportati e ordinati dal governo tedesco con
l’abusato grido di battaglia “Mai più Auschwitz”. Sono le 141 persone che sono
state uccise a sangue freddo con le bombe della NATO in Afghanistan – su ordine
del soldato tedesco della Bundeswehr Klein, che ha dato quest’ordine nonostante
fosse stato precedentemente informato dall’esercito statunitense che le 141
persone erano civili, e che per questo è stato promosso a generale dal governo
tedesco.
Sono le decine di migliaia e più di persone che non ne possono più, che si
rifugiano nella dipendenza da droghe pesanti o che preferiscono porre fine alla
propria vita. Sono tutti coloro che si oppongono alla guerra, che si oppongono
alla fascistizzazione e alla militarizzazione della normalità capitalista.
Quelli che non vogliono semplicemente accettare tutto questo. Quelli che si
ribellano. Quelli che non si rassegnano, ma si battono per un mondo liberato da
ogni dominio senza un sopra e un sotto e senza la violenza della polizia e dei
militari, che proteggono il sopra dal sotto.
Sono le innumerevoli persone che sono perfettamente coscienti dei veri rapporti
di violenza nel sistema capitalista.
Tuttavia, sono gli apologeti del capitalismo che hanno un interesse comune, che
non ci deve essere alternativa al capitalismo, che amano particolarmente parlare
della presunta violenza di coloro che si ribellano ovunque nel mondo, il cui
dolore e la cui rabbia diventano resistenza collettiva. Della loro violenza,
quella strutturale e brutale del sistema capitalista, invece non parlano mai.
È di questa violenza che si dovrebbe parlare.
Violenza strutturale del capitalismo – autodifesa rivoluzionaria – liberazione
Come parte della sinistra rivoluzionaria, eravamo – e dico: siamo – convinti che
un sistema basato sulla violenza non abbia alcuna legittimazione e che il suo
superamento in senso emancipatorio possa essere raggiunto. Aborriamo ogni forma
di rapporto di violenza e desideriamo un mondo che non sia basato sulla
violenza, sulla morte e sulla miseria. Un tempo ci proponevamo di contribuire a
porre fine alla violenza del capitalismo, al dominio dell’uomo sull’uomo, allo
sfruttamento, al militarismo e alla guerra e di trasformarlo in una realtà
sociale diversa. Facevamo parte di tutti coloro che si sono ribellati nella
storia delle lotte per l’emancipazione umana, la libertà e l’autodeterminazione.
Siamo partiti da questa premessa: Chiunque sollevi la questione di una società
senza violenza e non votata al profitto di pochi, alla divisione delle persone
in bianchi e neri, ricchi e poveri o uomini e donne, deve inevitabilmente
confrontarsi a un certo punto con la questione della violenza strutturale del
sistema, del contro-movimento rivoluzionario e dell’autodifesa rivoluzionaria.
Il comportamento marziale dell’apparato di sicurezza statale contro di noi nel
contesto della crisi
Il comportamento marziale contro di noi avviene nel contesto dell’attuale
sviluppo sociale, in cui la questione di un’alternativa di sistema
anticapitalista è particolarmente attuale. Qualsiasi pensiero e qualsiasi storia
di opposizione fondamentale al sistema capitalista e imperialista deve essere
screditato, perché il sistema capitalista è caduto in una crisi globale e
multilivello. Le sue possibilità di crescita, che sono esistenzialmente
necessarie per il capitalismo, stanno raggiungendo sempre più i loro limiti. Le
conseguenze sono e continueranno ad aumentare in modo significativo: povertà,
licenziamenti di massa nelle aziende e smantellamento dei programmi dello Stato
sociale.
A pagare la crisi non sono i primi diecimila, ma coloro che stanno in basso: gli
anziani, le cui pensioni non bastano per vivere; coloro che dipendono dai
sussidi sociali statali, per i quali l’aumento dei prezzi dei generi alimentari
sta diventando un problema esistenziale; coloro che non potranno più permettersi
il loro appartamento; coloro che hanno bisogno di lavori ancora più precari per
sopravvivere; i disoccupati, che devono essere disciplinati con ogni nuovo
inasprimento del sistema dei centri per l’impiego; i drogati, i giovani
(soprattutto quelli delle zone più povere della città) o coloro che sono stati
colpiti dalla violenza e molti altri i cui spazi dove avevano ricevuto sostegno
o potevano incontrarsi sono stati chiusi.
I politici e la polizia amano parlare dei clan di immigrati come se fossero un
problema della società. Tuttavia, non parlano mai dei clan degli Hohenzollern o
dei Quant, anche se con la loro immensa ricchezza simboleggiano la follia del
capitalismo e sono corresponsabili di questa follia. Nel mondo, le 85 persone
più ricche possiedono una ricchezza pari a quella dei 3,5 miliardi di persone
più povere messe insieme.
Paura, pressione e disciplina per l’obbedienza – giustizia di classe
Parte della reazione di crisi statale autoritaria è che la magistratura sta
condannando sempre più persone, poveri disgraziati finiscono spesso e volentieri
in prigione, perché presumibilmente o effettivamente volevano prendersi una
parte della torta. Dai tribunali vengono condannati coloro che presumibilmente o
effettivamente ricevono qualche euro “ingiustamente” dal centro per l’impiego o
coloro che gridano lo slogan “sbagliato” (secondo i padroni) alle
manifestazioni. Invece i ricchi e i potenti, come i capitalisti, i miliardari e
i politici coinvolti nell’affare Cum-Ex3, che hanno arraffato milioni , non
vengono mai condannati.
Lo Stato autoritario in crisi dà priorità alla militarizzazione interna –
l’armamento della polizia e dei servizi segreti – e alla militarizzazione
esterna. Ciò significa che enormi somme di denaro vengono convogliate nella
polizia, nell’esercito, nell’industria delle armi e nelle guerre. Al contrario,
sempre meno arrivano a chi è colpito dalla povertà o da qualsiasi tipo di
bisogno: un gigantesco processo di ridistribuzione dal basso verso l’alto. La
gestione della crisi da parte dei governanti mira a rivitalizzare la “comunità
nazionale” e a “stringere la cinghia” per le masse. Sono queste le parole che
usano per parlare dell’impoverimento e dell’erosione sociale che sono
conseguenze delle loro politiche di dominio e della decimazione del diritto di
asilo fino a quando non ne rimarrà quasi nulla o fino a quando avranno il
diritto di vivere nelle metropoli solo coloro che possono essere utilizzati dal
capitale.
Due accoltellamenti – quelli di Solingen e di Mannheim – sono stati sufficienti
a giustificare un rafforzamento globale della polizia, controlli alle frontiere,
ulteriori passi avanti nel processo di abolizione del diritto d’asilo e
deportazioni di massa. 360 femminicidi nel 2023, invece, non hanno spinto i
potenti a fare nulla. La popolazione musulmana e i rifugiati sono oggi immagini
nemiche volute e create dall’alto che ai fini essere utilizzate per costruire
una “comunità nazionale”. Sostenendo che sono loro la causa dei problemi, chi è
al potere divide e incanala il malcontento di ampie fasce della popolazione e
nasconde il fatto che sono loro stessi e il capitalismo la causa dei problemi
fondamentali.
Queste immagini stereotipate del nemico contribuiscono a giustificare politiche
autoritarie e repressive e a creare un ampio consenso intorno ad esse. Questo
funziona particolarmente bene nei periodi in cui è assente una sinistra sociale
rivoluzionaria e anticapitalista di rilievo. Il consenso della destra
neofascista e dell’intero spettro borghese è evidente.
I grandi problemi dell’umanità: la distruzione delle condizioni di vita
ecologiche, il nazionalismo, la guerra e la povertà non possono oggettivamente
essere risolti sotto il capitalismo. L’antifascismo è anticapitalista, o rimane
inefficace.
L’ascesa della destra radicale in tutta Europa è espressione della crisi del
capitalismo in atto e crescente. I partiti di destra che si stanno integrando
nelle élite al potere in un numero sempre maggiore di Paesi dell’UE – Italia,
Paesi Bassi, Austria, Francia e a livello europeo – stanno radunando dietro di
sé una parte di coloro che sono stati lasciati indietro o che temono il declino
sociale con soluzioni fasulle che non mettono in discussione il capitalismo. Le
élite europee e i partiti di destra hanno da tempo nel loro programma la stessa
soluzione alla crisi: uno Stato autoritario contro coloro che non obbediscono,
lo smantellamento dello Stato sociale, l’armamento massiccio e l’aumento della
capacità di fare la guerra, l’armamento della polizia e l’espansione dei suoi
poteri, il controllo della società da parte della polizia e dei servizi segreti,
il nazionalismo, i migranti come capro espiatorio della crisi e le deportazioni
di massa.
Tutti i partiti della destra neofascista e del cosiddetto centro – dall’AFD ai
Verdi – sono d’accordo su questo anche in Germania. È un’illusione sperare che
il razzismo e la visione della “comunità nazionale tedesca” della destra
neofascista possano essere contrastati in modo significativo con il razzismo e
le simili visioni dello Stato borghese. Le visioni dell’AFD e di altri partiti
di destra europei sono da tempo il consenso di chi è al potere e segnano il loro
percorso verso il futuro.
I grandi problemi dell’umanità – distruzione delle condizioni di vita
ecologiche, guerra e povertà – non possono essere oggettivamente risolti
all’interno del capitalismo. La crisi globale del presente è il catalizzatore di
tutto questo e sta portando il mondo verso un possibile abisso militare,
nucleare e climatico. La soluzione può essere cercata solo in un’organizzazione
anticapitalista e libera dal dominio dell’umanità, liberata dalla costrizione
alla crescita insita nel capitalismo. In questa prospettiva, la radicalizzazione
dello Stato e della società che sta emergendo con la crisi può essere
contrastata solo con la ricerca di modi per trovare un sistema alternativo. La
questione sociale, la resistenza alla guerra e alla militarizzazione interna ed
esterna, la resistenza alla distruzione ecologica del pianeta da parte del
capitalismo e l’organizzazione di un internazionalismo solidale segnano
necessariamente questo percorso insieme.
Nella lotta dell’Occidente contro la minaccia di perdere l’egemonia globale, chi
è al potere si affida alla militarizzazione e progetta una guerra di dimensioni
pari alla terza guerra mondiale.
Siamo arrivati nell’era dello Stato sempre più autoritario. Questa è senza
dubbio una condizione sociale minacciosa. Ma parla anche a favore di un maggior
grado di instabilità del capitalismo. Nella sua avidità di profitto, ha bisogno
delle possibilità di accumulazione, che stanno diventando sempre più difficili
da realizzare. Passa da una crisi all’altra. È l’epoca delle guerre, degli
sconvolgimenti sociali e della riflessione reazionaria sul popolo e sulla
nazione. Ma suggerisce anche che le cose potrebbero sfuggire di mano a chi è al
potere e si pone la domanda: cosa fare? Si svilupperanno in futuro lotte di
classe che mettano in discussione e combattano le relazioni di sfruttamento e
oppressione nei processi collettivi? In un’epoca di erosione sociale ed
economica, di crescente rinegoziazione militare del potere e di irreversibile
distruzione ecologica del pianeta, le domande su come si possa realizzare una
trasformazione sociale sono più che mai esistenziali e attuali.
Il cerchio si chiude
I concetti rivoluzionari della storia non hanno potuto fornire le risposte al
superamento del capitalismo. Tuttavia, ci troviamo fondamentalmente di fronte
alle stesse domande in condizioni mutate.
Lo Stato si concentra sulla divisione
Illegalità, solidarietà e “terroristi”
Abbiamo incontrato molte persone in decenni di illegalità. Amici, alleati,
vicini di casa, i miei coinquilini e molti altri. Ho vissuto per molti anni con
persone che non sapevano da quale storia provenissi. Come clandestino, non è
possibile parlare della propria illegalità. Vi prego di perdonarmi per questo.
Con la fine di questo periodo insieme è arrivata la repressione per loro.
Perquisizioni domiciliari e in Wagenplätze: simulazioni di guerra locali –
qualcosa che non ho mai voluto, ma che alla fine non ho potuto evitare. Le lotte
rivoluzionarie ed emancipatorie sono seguite dalla repressione – e così sarà
finché la lotta per l’emancipazione non trionferà sull’ingiustizia. Siamo parte
della storia delle ribellioni mondiali che sono in corso da quando esistono la
dominazione e gli schiavi. Esistono da quando il patriarcato, il capitalismo e
il colonialismo sono il male dell’umanità. Da questa prospettiva, la
responsabilità della repressione è dei governanti e di nessun altro; la
repressione è uno strumento di dominio. Dal mio punto di vista – e dal nostro
punto di vista – c’è solo una risposta: la solidarietà.
Unitevi contro la repressione di oggi contro Daniela!
Create (contro)informazione pubblica! Mostrate solidarietà!
Siamo come eravamo e siamo come molti ci hanno conosciuto durante il lungo
periodo di illegalità. Le riflessioni sulle relazioni di violenza – violenza
patriarcale, povertà e razzismo – fanno parte – come molte altre cose – degli
incontri e delle amicizie con le persone durante questo periodo e fanno parte
della mia e della nostra vita. Molto di ciò che abbiamo fatto con altri nei
decenni della nostra illegalità, le strade che abbiamo percorso insieme,
raccontano la ricerca di una realtà solidale ed emancipatrice al di là delle
relazioni capitalistiche di violenza. Il legame con le altre persone in questo
periodo è lo specchio della nostra realtà, di come e chi siamo.
Nella storiografia di chi è al potere, la resistenza fondamentale al sistema
capitalista è descritta come crimine, violenza e terrore. L’immagine creata mira
a sostituire la realtà e a nascondere il fatto che è la violenza strutturale del
sistema il grande problema dell’umanità. L’immagine fabbricata del “terrorista”
ha lo scopo di depoliticizzare la storia della resistenza contro le relazioni
capitalistiche di violenza, di dividere, di oscurare il fatto che la violenza di
Stato e le relazioni violente del sistema capitalistico sono in realtà solo
terrore per molte persone nel mondo.
“Pace alle capanne! Guerra ai palazzi!” (Georg Büchner – 1834)
Chiunque passi dalla protesta alla resistenza può essere definito un
“terrorista”. Le innumerevoli storie di ribellioni e di resistenza lo
dimostrano: Klaus Störtebecker, Thomas Müntzer, Georg Büchner; il rivoluzionario
sociale, anarchico e insorto contro il reazionario Impero tedesco August
Reinsdorf, giustiziato nel 1885; il comunista conciliare, critico del KPD,
attivista del Rote Hilfe (organizzazione che fornisce supporto legale ed
economico a militanti colpiti da repressione) , autore del primo concetto di
guerriglia urbana e militante delle rivolte operaie degli anni Venti Karl
Plättner; Olga Benario, Georg Elser, Phoolan Devi, Durruti, Che Guevara, Angela
Davis, Ulrike Meinhof, Sigurd Debus, Patrice Lumumba, Nelson Mandela, Assata
Shakur, Sakine Cansiz, Mumia Abu Jamal. Che si tratti della Comune di Parigi o
dei Giacobini Neri – il popolo schiavizzato dal colonialismo europeo che ha
combattuto per la liberazione nell’odierna Haiti nella rivoluzione anticoloniale
dal 1791 in poi; che si tratti dei partigiani in molti Paesi europei contro il
nazifascismo o degli anarchici della CNT in Spagna contro la dittatura militare,
che si tratti della lotta rivoluzionaria delle Pantere Nere, del Movimento del 2
giugno, delle Rote Zora o della resistenza dell’ANC contro l’apartheid – sono
stati tutti “terroristi” secondo la propaganda di chi è al potere.
Il terrore non ha nulla a che fare con noi, ma molto con i governanti e il
sistema capitalista.
Il termine terrore non ha nulla a che vedere con la controviolenza
rivoluzionaria, che è l’autodifesa rivoluzionaria dei movimenti emancipatori
della storia, diretta esclusivamente e specificamente contro i governanti. Il
terrore descrive la violenza indiscriminata per imporre il dominio o garantirlo.
Il termine “terrorista” nella società borghese assumerebbe, tra l’altro, un
significato reale come auto-incriminazione e descrizione di coloro che detengono
il potere e sarebbe quindi un termine significativo invece di una frase
manipolatoria. Oggi il termine “terrorista” è soprattutto uno strumento di
dominio. Lo sfruttamento, la repressione, il regime di Frontex, la giustizia di
classe e il sistema carcerario; la fame, le guerre, i colpi di stato e le
dittature militari sotto la direzione dei centri capitalistici e con la
responsabilità storica di ogni governo federale tedesco: i milioni di morti non
si contano più – il terrore non ha nulla a che fare con noi, ma molto con loro e
il loro sistema.
La solidarietà non ha limiti
In una situazione di debolezza, ha significato molto e ci ha dato coraggio la
manifestazione di solidarietà a marzo a Berlino per la libertà di Daniela e la
solidarietà con noi in situazione di illegalita, contro le perquisizioni a
Wagenplätze e abitazioni, contro l’agitazione e tutto il terrore di Stato; i
presidi di solidarietà al carcere di Vechta, gli slogan sul muro e le
manifestazioni di solidarietà in vari Paesi europei.
Per più di tre decenni siamo stati in grado di organizzarci collettivamente al
di fuori dei percorsi tracciati dalla società borghese, che non aveva in
programma per noi altro che l’incarcerazione o la fucilazione. Siamo riusciti a
trovare il modo di condurre una vita in cui, attraverso tutti gli alti e bassi,
potesse emergere una realtà sociale diversa dalla normalità capitalista di
alienazione, isolamento e sfruttamento. Nessuno può toglierci questo. Rimarrà
parte della storiografia dal basso.
Solidarietà tra noi – con chi si è ribellato, si sta ribellando o si ribellerà a
questo sistema ieri, oggi o domani
Daniela – rinchiusa in una cella di prigione giorno dopo giorno. E questo
nonostante la assurda realtà dei rapporti dimostri che possono avere alcune
leggi dalla loro parte, ma la legittimazione, quella non ce l’hanno. I tentativi
storici di innumerevoli persone, nel corso di molti secoli, di superare queste
condizioni – contro la violenza di coloro che vogliono che tutto rimanga com’è,
che dichiarano sbagliata l’emancipazione e la liberazione umana e giusta
l’ingiustizia – erano e sono del tutto legittimi.
La magistratura dello Stato successore del nazismo, che non ha quasi mai
condannato i nazisti per nazifascismo, sta ora pianificando anni di
processi-farsa contro Daniela, in cui sarà condannata come rappresentante della
storia dell’opposizione fondamentale e rinchiusa in carcere per molti anni. Lo
Stato punta sulla deterrenza, prendendo di mira non solo Daniela ma tutti coloro
che non si adeguano, che non accettano che l’umanità non ha alternative al
capitalismo e quindi alla distruzione del pianeta. Una farsa che riguarda tutti
coloro – indipendentemente dalla loro storia e dal loro punto di vista – per i
quali il capitalismo non deve rimanere l’ultima parola della storia.
Solidarizzatevi!
Rendere possibile l’impossibile, come diceva Che Guevara, ha un significato
esistenziale per l’umanità di oggi: imparare a ripensare l’alternativa sistemica
in processi collettivi contro gli abissi della “svolta di un’epoca” e lottare
per essa collettivamente e a livello internazionale; rompere la logica di chi ha
il potere secondo cui non c’è alternativa al capitalismo – “non c’è alternativa”
– in noi e in tutte le relazioni. La finestra storica del cambiamento epocale –
l’erosione sistemica e sociale del capitalismo – si sta attualmente aprendo
sempre di più. Una nuova era di barbarie è in agguato nella continua escalation
dei rapporti. Solo le lotte di un contromovimento sociale rivoluzionario
potrebbero fornire un’alternativa.
“Socialismo o barbarie” – come aveva pronosticato Rosa Luxemburg nel 1919,
prevedendo così con precisione la realtà storica: dopo la Prima guerra mondiale
e la crisi economica mondiale dell’epoca, si è aperta la finestra dell’erosione
del capitalismo e della rivoluzione. Dal 1918 al 1923, il movimento operaio, le
femministe rivoluzionarie, gli anarchici e i comunisti tedeschi tentarono di
portare avanti la rivoluzione socialista. Allo stesso tempo, gran parte
dell’umanità si sollevò in rivolte nei cinque continenti. In Germania, il
tentativo del movimento operaio insurrezionale di superare il capitalismo fallì.
Sarebbe stato l’unico modo per evitare la successiva epoca di barbarie. Il
tentativo di rivoluzione socialista fu stroncato e rimase il capitalismo, che in
Germania prese la forma del nazifascismo e culminò nella Seconda guerra mondiale
e ad Auschwitz.
Con l’odierna profonda crisi del capitalismo e i cambiamenti epocali in atto a
livello mondiale, il momento storico dell’“o l’uno o l’altro”, “socialismo o
barbarie”, potrebbe ripresentarsi con una chiara tendenza e una velocità
crescente. La fissazione sui partiti borghesi-fascisti-capitalisti non potrà
impedire lo sviluppo dello Stato tedesco in crisi e dell’UE verso un crescente
autoritarismo e la guerra. Non c’è nulla da salvare. Solo un’abolizione del
capitalismo combattuta dal basso nel processo di trasformazione potrà porre fine
a questo sviluppo.
Oggi, l’alternativa social-rivoluzionaria alla progressiva fascistizzazione del
sistema capitalista, alla diffusione della povertà anche nelle metropoli,
all’imminente guerra globale e alla distruzione ecologica del pianeta sarebbe un
socialismo che impari dagli errori della storia e che offra quindi la
possibilità di costruire una società liberata – per un mondo di collettività, di
libertà dal patriarcato, dallo sfruttamento, dal dominio e dalla nazione, nonché
per la sopravvivenza della natura.
Questo mondo non sarà possibile senza un movimento militante, creativo e
diversificato che sia presente nella crisi crescente e nelle lotte sociali del
futuro in rapida crescita. Questo sarebbe la ricostruzione della capacità
d’azione di una sinistra anticapitalista, socialrivoluzionaria e
internazionalista che lavora oltre i propri confini. La fine del sonno della
Bella Addormentata: è tempo – è tempo – di muoversi.
Solidarietà a Daniela!
Solidarietà ai compagni in esilio, a tutti i clandestini e ai prigionieri delle
lotte degli Antifa, della resistenza, dei compagni curdi e turchi, del movimento
per il clima e di tutte le altre lotte emancipatrici nel mondo!
La richiesta di rilascio immediato di Daniela è giustificata.
Martin
(Burkhard Garweg)
1Gioco di parole in tedesco: “scheißegal” significa “qualsiasi cosa”, “è lo
stesso”, “chi se ne frega”, da cui l’incipit del testo: “Legal, illegal,
scheißegal”
2Nationalsozialistischer Untergrund, Clandestinità Nazionalsocialista, gruppo
neonazista tedesco attivo dal 1997 al 2011 e responsabile degli omicidi di 9
immigrati e 1 poliziotto, una bomba in un quartiere popolare di Colonia che ferì
22 persone e 15 rapine.
3Frode internazionale sui dividendi azionari da parte di banche, studi legali e
agenti di borsa. Scoperta nel 2018 in seguito all’inchiesta di diverse testate
giornalistiche, durava da vent’anni e pare abbia portato all’appropriazione
indebita di circa 150 milioni di euro.
Saluti di alcuni dei clandestini per oggi
20 gennaio 2025
Cari amici e amiche che ora siete dietro le sbarre,
vi salutiamo e vi auguriamo tutta la forza per il cammino che avete davanti.
Anche se vi attende un periodo dietro mura grigie e fredde sbarre, anche questo
tempo passerà e noi vi aspetteremo qui fuori. Tenete nel cuore il vostro
desiderio di libertà e sappiate che nei pensieri sarete sempre con noi.
Cari compagni e compagne che in questo momento siete ovunque in solidarietà per
le strade,
vi siamo grati per la vostra solidarietà e vi auguriamo ogni successo in tutte
le vostre attività!
Ci opponiamo risolutamente a qualsiasi tentativo di divisione tra la scelta
autodeterminata di costituirsi e la permanenza in clandestinità. I compagni e le
compagne che si sono costituiti oggi negli ultimi due anni hanno dimostrato che
è possibile resistere/sfuggire alle autorità repressive dello Stato. Soprattutto
di fronte alla repressione crescente, le esperienze degli ultimi due anni sono
preziose per noi come movimento. Possiamo costruire su questo e espandere la
vita in clandestinità. Per questo il momento di costituirsi volontariamente non
deve essere visto come una sconfitta.
Oltre alla realtà che è possibile eludere le autorità repressive, dobbiamo anche
occuparci di far parte delle lotte politiche e quindi di passare dal “solo”
fatto di eludere la repressione al diventare “agenti” attivi. Questo è un
compito che dobbiamo affrontare come movimento nel suo complesso. A causa dello
spostamento della società verso destra, delle guerre e dei tagli sociali – in
breve, un’intensificazione della crisi del capitalismo – la lotta di classe
diventerà più profonda e quindi la repressione si intensificherà ulteriormente.
Ciò significa che la clandestinità sarà sempre più presente nella discussione
della sinistra rivoluzionaria.
I compagni e le compagne hanno dato un prezioso contributo in tal senso, di cui
faremo tesoro.
Lo consideriamo il nostro compito e ci assumiamo questa responsabilità nei
confronti dei compagni e delle compagne in carcere. Vi auguriamo tanta forza e
perseveranza.
Ci rivedremo in libertà!
Per concludere citiamo i nostri amici che si sono costituiti oggi:
“Siamo qui oggi per la libertà e la vita, per un mondo senza fascismo e
oppressione. Se la gente vuole toglierci la libertà per questo, lasciamo che lo
facciano.
La storia ci assolverà!”.
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Pubblichiamo due testi diversi tra loro – per provenienza e per intenti – ma
legati dal tema dell’automazione. Il primo descrive – dal punto di vista delle
lotte – ciò che avviene nell’ambito del lavoro tessile nel pratese, dove i
processi di automazione della produzione non hanno affatto superato condizioni e
ritmi semi-schiavistici, procedendo in realtà gli uni al fianco degli altri. I
miglioramenti per le lavoratrici e i lavoratori sono stati conquistati con lotte
molto dure – che hanno dovuto scontrarsi con i padroni singoli e associati, con
il razzismo istituzionale e i suoi ricatti, con la polizia di Stato e anche
quella privata, con le menzogne mediatiche e i contro-picchetti di impiegati e
quadri aziendali.
Il secondo testo è uscito invece sul “Financial Times” e riguarda l’imponente
sciopero che ha coinvolto nell’ottobre scorso i porti della costa orientale
degli Stati Uniti. Se le conquiste in termini salariali appaiono, viste
dall’Italia, decisamente significative, il punto centrale è un altro. Si tratta
di uno dei primi scioperi dichiaratamente contro l’introduzione delle gru
semi-automatiche guidate da remoto, il cui impiego – per il momento respinto –
falcidierebbe il numero degli operai.
Se nella critica radicale del tecno-capitalismo manca spesso un punto di vista
di classe – dimenticando in questo la necessità di attualizzare la lezione
dell’insurrezione luddista -, nelle lotte in ambito salariale manca
drammaticamente un dibattito aperto sull’impatto delle nuove tecnologie e del
loro motore: l’intelligenza artificiale. Diciamo drammaticamente, perché
l’attacco padronale e statale contro i facchini della logistica, per esempio,
troverà presto come grimaldello l’armamentario forgiato sul modello Amazon
(intreccio di automazione e di management di stampo militare).
Uno dei pochi, nei decenni scorsi, a tenere insieme critica radicale del
complesso scientifico-militar-industriale e resistenza operaia era stato David
F. Noble. Qualche spunto lo potete trovare qui:
https://ilrovescio.info/2024/04/02/luci-da-dietro-la-scena-xix-contro-i-militari-contro-i-tecnici-non-vogliamo-essere-rinchiusi-nei-ghetti-dei-programmi-e-degli-schemi/
Come salariati, come umani, come viventi – fermiamo il Leviatano algoritmico!
ALDO DICE 8×5. L’INNOVAZIONE NON PORTA NUOVI DIRITTI
Era settembre del 2021 quando, già da otto mesi, picchettavamo insieme agli
operai davanti ai cancelli della Texprint, stamperia tessile situata nel cuore
del distretto pratese della moda. Si lottava, come spesso in questo distretto,
contro il super-sfruttamento fatto di una giornata lavorativa di dodici ore e
una settimana che non conosce giornate di riposo. Per salvare la sua immagine,
Textprint aveva deciso di affidarsi a una prestigiosa agenzia di comunicazione
milanese per portare avanti una campagna antisciopero. Per primi sono arrivati i
flash mob di impiegati e quadri aziendali davanti al Palazzo di giustizia e alle
principali istituzioni cittadine con i loro immancabili striscioni: «Abbiamo
diritto a lavorare!», «Non è sciopero, è violenza». Per raggiungere l’obiettivo
di delegittimare il picchetto che aveva paralizzato la produzione, però,
bisognava soprattutto screditare gli scioperanti e negare ogni forma di
sfruttamento in fabbrica. La stampa e i media sono stati quindi invitati
dall’azienda a fare un giro dello stabilimento. Una sorta di “visita guidata” in
fabbrica alla scoperta del ciclo produttivo e dei macchinari per mostrare che la
Texprint aveva investito milioni di euro in impianti di produzione più che
all’avanguardia, raggiungendo capacità di stampa e livelli di automazione del
processo che gli avevano permesso di elevarsi al secondo posto in Europa.
Insomma, era lì – nel macchinario, nella tecnologia – la prova dell’inesistenza
dello sfruttamento. Il senso del messaggio che il management della Textprint
teneva assolutamente a comunicare è che lo sfruttamento è un fatto “antico”,
superato dallo stesso progresso capitalistico. Un “residuo” dello sviluppo che
si annida dove il macchinario – e quindi il capitale – non ha ancora “salvato”
l’operaio.
Così dice l’ideologia del padrone.
Presto mi sono accorto che questa ideologia aveva anche una sua rappresentazione
grafica. Ho iniziato a notare che i rari articoli della stampa mainstream sullo
sfruttamento nel distretto pratese erano sempre associati a una foto di operai e
operaie accanto a una “primitiva” macchina per cucire. Come se quegli stessi
articoli non si riferissero anche e soprattutto a stabilimenti di stamperia,
tintoria, tessitura, orditura e rifinizioni all’avanguardia, in cui regnano
macchinari industriali di una certa importanza in termini di capitali investiti
e livelli di automazione. No, c’era sempre quella vecchia macchina, come a
ribadire il falso postulato per cui lo sfruttamento è un fenomeno marginale che
si annida esclusivamente in alcuni segmenti del ciclo produttivo dove è scarso o
difficile l’investimento in capitale fisso per l’automazione.
Poco a poco, però, le immagini dei picchetti hanno preso il posto di quelle
della macchina per cucire. Alla Textprint lo sciopero è durato 264 giorni e si è
chiuso con una vittoria operaia. Una piccola epopea della nuova classe operaia
multinazionale destinata a lasciare il segno e aprire una lunga serie di
scioperi che continua ancora oggi.
Sei anni di militanza sindacale ci hanno permesso poi di vedere nello specifico
altri casi in cui l’innovazione tecnologica avanza di qualche passo e modifica
alcuni cicli produttivi e modi di lavorare. Uno di questi è la Gruccia
Creations, fabbrica di grucce che insieme ad altre rifornisce i “pronto moda”
del distretto.
Nel 2019, quando abbiamo incontrato per la prima volta gli operai dell’azienda,
una delle mansioni in fabbrica era inserire il gancio metallico sul corpo della
gruccia in plastica. L’operazione veniva svolta manualmente appoggiando il
gancio a una macchina che istantaneamente rendeva la punta incandescente. Il
gancio veniva poi inserito – sempre manualmente – sul corpo di plastica. Questa
operazione costava a chi la eseguiva scintille incandescenti negli occhi e non
solo. Tre anni dopo quella maledetta mansione era sparita. Erano arrivati in
tutte le fabbriche nuovi macchinari che avevano automatizzato l’inserimento del
gancio nel corpo di plastica. “Benevolenza” della tecnologia? In realtà i
benefici del suo sviluppo per parte operaia era stati poco più che “incidenti”.
Non era stata infatti la volontà di proteggere gli occhi degli operai a portare
innovazione alla Gruccia Creations, ma la possibilità di abbattere i costi di
produzione riducendo forza lavoro e tempi di lavorazione. Col nuovo macchinario,
a parità di produzione, gli addetti erano diminuiti e agli operai rimasti
continuavano a essere imposti i turni di dodici ore al giorno, dal lunedì alla
domenica. Anche in questo caso per mettere un freno allo sfruttamento sono
serviti i picchetti, le tende e i fuochi di notte davanti ai cancelli. Lo stesso
anno dell’arrivo dei nuovi macchinari scoppiava infatti lo “sciopero delle
grucce”. Uno sciopero partito dall’hub logistico che si occupava della
distribuzione delle grucce ai “pronto moda” che si è allargato a tre fabbriche
della produzione, tra cui appunto la Gruccia Creation. Dopo venti giorni di
picchetti, lo sciopero ha vinto.
L’esempio del distretto pratese ci mostra che, al contrario di quanto afferma il
discorso del padrone sull’automazione, lo sviluppo del macchinario e della
tecnologia organizzativa coesiste con le più brutali forme di sfruttamento, a
partire dall’allungamento oltre misura della giornata (e della settimana)
lavorativa. Per il capitale, plusvalore relativo e plusvalore assoluto non sono
due strade alternative nella ricerca del massimo profitto. Anzi, il capitalista
le persegue volentieri entrambe e, contemporaneamente, combina innovazione e
intensificazione massima dello sfruttamento. Già Marx riassumeva «tutta la
storia dell’industria moderna» in questi termini: «il capitale, se non gli
vengono posti dei freni, lavora senza scrupoli e senza misericordia per
precipitare tutta la classe operaia a questo livello della più profonda
degradazione»[1]. Il «livello di degradazione» di questa classe operaia
multinazionale impiegata nel distretto pratese si misura in un minimo di
ottantaquattro ore di lavoro alla settimana. La “misericordia” padronale è
limitata a dai tre ai cinque giorni di riposo l’anno (spesso in realtà obbligati
dall’interruzione dei cicli produttivi in agosto). È così che le grandi
multinazionali del lusso garantiscono margini altissimi ai propri azionisti. I
marchi del Made in italy, con sede legale nelle grandi capitali finanziarie
europee, subappaltano a società di comodo la produzione portata avanti a Prato
da forza lavoro immigrata, contando sul fatto che le condizioni strutturali (dai
permessi di soggiorno fino all’impresa di dover sostenere la riproduzione in
patria di un’intera famiglia) porteranno questi operai ad accettare condizioni
di lavoro durissime. A mettere un freno, oggi come ieri, sono arrivati gli
scioperi, i picchetti e gli accampamenti davanti ai cancelli degli stabilimenti.
E tutti i loro annessi e connessi: le casse di resistenza e l’autodifesa dalle
squadracce mafiose assoldate dai padroni, le scuole sindacali e la quotidiana
costruzione di comunità solidali.
Il distretto pratese, insomma, non è una “scheggia del passato”, non è un angolo
di eccezione nel cuore dell’Italia, ma il nodo europeo – estremamente
contemporaneo – di una catena globale di produzione dell’abbigliamento. Catena
globale ad alta tecnologia organizzativa just-in-time, orientata la massimo
risparmio di costo – dalla produzione del tessuto in Cina alla produzione
dell’abbigliamento in Europa – e costretta a rilocalizzare in prossimità dei
mercati di sbocco alcune fasi di lavorazione che non possono essere eseguite a
lunga distanza senza dover rinunciare a un efficace sincronizzazione tra mercato
e produzione. Con la possibilità di intercettare i flussi migratori. E con
l’aggiunta di poterci pure scrivere sopra Made In Italy.
Non un nuovo macchinario, ma il ritorno della lotta di classe fatta “dalla
nostra parte” ha permesso in questi ultimi anni a centinaia di operai di uscire
dalla più profonda degradazione in cui il capitale li aveva fatti sprofondare
riducendo le loro stesse vite a macchine per il profitto altri. “Otto per
cinque” – che è lo slogan e allo stesso tempo la piattaforma del nuovo movimento
operaio del distretto pratese – vuol dire proprio questo: la lotta per la
possibilità di esistere e riprodursi come persona e non solo come operaio, non
solo come parte del capitale. Se è vera la tesi dei vecchi operaisti per cui la
lotta di classe è motore dell’innovazione ed anche dello sviluppo della
tecnologia del macchinario, è altrettanto vero che quest’ultima, senza la prima,
non ci regala niente. I diritti conquistati costringono all’innovazione. Ma
l’innovazione non porta nuovi diritti. Il caso Prato ci mostra che dai garage
con le macchine per cucire fino ai milionari impianti industriali ad alta
tecnologia, in una stessa filiera produttiva differenti livelli di sviluppo
tecnologico sono uniti da uguali livelli di sfruttamento.
Luca Toscano
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[1] K. Marx, Salario, prezzo e profitto, Mosca, Ed. lingue estere, 1949, 1a ed.
1865, disponibile su
https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1865/salpp.htm.
LA LOTTA CONTRO I ROBOT CHE MINACCIANO I POSTI DI LAVORO AMERICANI
Il recente sciopero dei portuali americani ha portato spettacolari aumenti
salariali ma anche fatto emergere un conflitto permanente: la lotta dei
lavoratori organizzati contro l’incedere di AI e robotica. Queste ultime, se non
contrastate da un soggetto collettivo, evolvono secondo caratteristiche
destinate o a peggiorare le condizioni di lavoro o, semplicemente, a spazzare
via i lavoratori.
Stavolta i lavoratori USA hanno vinto, sfruttando la condizione strategica dei
loro porti nel sistema commercio internazionale degli Stati Uniti, ma non c’è da
dubitare che la questione AI-Robotica nel settore portuale americano è destinata
a riproporsi. Del resto il presente e il futuro prossimo del lavoro sono questi:
la flessibilità umana è ineliminabile per produrre valore, e profitto, mentre la
tecnologia assedia la flessibilità umana per ridurne i costi.
La risposta dei lavoratori in questo caso c’è stata, ed ha fruttato sul piano
salariale, ma va considerato che la ricerca e l’innovazione, tramite AI e
robotica, innovano velocemente, anche se non senza incontrare criticità, nella
automazione delle operazioni portuali, nel monitoraggio e nella manutenzione
predittiva, in sicurezza e protezione, nella riduzione dell’impatto ambientale e
nella ottimizzazione della logistica e della catena di approvvigionamento.
Qui bisogna ricordare che, all’epoca della formazione della classe operaia, i
luddisti non erano – come a suo tempo ha ricostruito magistralmente Edward
Thompson – proletari disorganizzati che odiavano le macchine e che si muovevano
estemporaneamente, ma operai specializzati, organizzati, e con forte radicamento
sociale, sotto attacco del gigantismo macchinico dell’automazione capitalistica.
Non deve stupire quindi che la reazione all’automazione negli USA sia venuta da
sindacati organizzati e con attorno un reale consenso sociale.
La vicenda dello sciopero dei portuali americani rappresenta una delle prime
grandi battaglie sindacali contro l’automazione capitalistica e l’intelligenza
artificiale, un tema che diventerà sempre più rilevante in molti settori e, si
spera, in molti paesi.
Pubblichiamo la traduzione di un articolo del Financial Times dedicato alla
vicenda.
(redazione di codice-rosso.net)
*****
Quando circa 25.000 membri dell’International Longshoremen’s Association
(ILA) sono entrati in sciopero lo scorso ottobre, bloccando tre dozzine di
porti sulle coste est e del Golfo degli Stati Uniti, si è diffuso un allarme
generale. Alcune previsioni indicavano che, poiché questi porti gestiscono un
quarto del commercio internazionale del paese, lo stop avrebbe potuto costare
all’economia americana fino a 4,5 miliardi di dollari al giorno, riaccendere
l’inflazione e innescare effetti a catena che si sarebbero sentiti in tutto il
mondo.
In realtà, il panico è durato solo 72 ore. A seguito di negoziati frettolosi e
dell’offerta di un aumento salariale di quasi il 62% in sei anni, i portuali
hanno accettato di tornare al lavoro, anche se temporaneamente – forse “i tre
giorni più redditizi nella storia dei rapporti tra lavoro e dirigenza”, secondo
le parole di Patrick L. Anderson, CEO della società di consulenza
aziendale Anderson Economic Group.
Ma per certi versi la battaglia è solo all’inizio. Sebbene sia stato l’aumento
salariale ad attirare l’attenzione dei media, il vero problema del sindacato è
l’automazione, in particolare le proposte della United States Maritime
Alliance (USMX), che rappresenta gli operatori portuali e i vettori di
container, di dotare più porti statunitensi di gru semi-automatiche.
Queste gru sono dotate di una tecnologia avanzata che le rende più veloci ed
efficienti da utilizzare, affermano i proprietari. Ma l’ILA sostiene che la loro
introduzione minaccia i mezzi di sussistenza dei suoi membri. A meno che USMX
non accetti un divieto totale sui macchinari automatizzati, il sindacato ha
minacciato di scioperare di nuovo già la prossima settimana.
“Accogliamo le tecnologie che migliorano la sicurezza e l’efficienza”, ha
affermato in una dichiarazione il pittoresco presidente dell’ILA, Harold
Daggett. “Ma solo quando un essere umano rimane al timone”.
La controversia ha attirato l’attenzione non solo per il suo enorme impatto
potenziale, ma perché è una delle prime nel suo genere. Man mano che sempre più
aziende sperimentano la robotica di nuova generazione, i sindacati statunitensi
che rappresentano settori diversi come gli autisti UPS, i lavoratori dei casinò
di Las Vegas e i dipendenti dei negozi di alimentari stanno lottando affinché
vengano aggiunte clausole ai contratti che si concentrano sul mantenimento dei
posti di lavoro e sul risarcimento dei lavoratori sfollati in caso di
automazione.
Quelle che in precedenza erano trattative ordinarie su retribuzioni e condizioni
di lavoro si sono trasformate in controversie più ampie e persino esistenziali
sul rapporto tra uomo e macchina. Circa il 70% dei 12 milioni di persone
rappresentate dall’American Federation of Labor and Congress of Industrial
Organizations ora teme di essere sostituito dalla tecnologia, stima la
presidente dell’AFL-CIO Liz Shuler: “I lavoratori sono stufi di come sono stati
trattati per molto tempo e sono spaventati di ciò che il futuro potrebbe
riservare”.
Qualunque sia il contratto che i portuali negoziano, dicono gli analisti, questo
potrebbe aiutare a fornire un modello per gli accordi a livello nazionale.
“Quello che vedi in atto è il lavoro che lotta per avere un posto al tavolo”,
afferma Robert Bruno, professore di lavoro all’Università dell’Illinois
Urbana-Champaign.
Gli investitori statunitensi hanno accumulato oltre 15 miliardi di dollari in
startup di robotica dal 2019, secondo PitchBook, e la notevole crescita
dell’intelligenza artificiale negli ultimi 18 mesi ha iniziato a dare i suoi
frutti. I lavori che sembravano poter essere svolti solo dalle persone
improvvisamente sono messi a rischio; gli economisti hanno messo in guardia da
cambiamenti troppo dirompenti nella forza lavoro anche se le macchine sono in
grado di fare sempre di più.
Ad aumentare la pressione in economie come quella degli Stati Uniti, affermano
gli imprenditori, è la lenta crescita della forza lavoro, che rende sempre più
difficile reclutare lavoratori. I piani del presidente eletto per le espulsioni
di massa – ha detto alla NBC News il mese scorso che intende espellere tutti gli
11 milioni di persone stimate negli Stati Uniti illegalmente nei prossimi
quattro anni – probabilmente intensificheranno solo tali preoccupazioni.
La nuova amministrazione (Trump) può vantare sia il sostegno di alcuni
sindacati, compresi i Longshoremen (portuali), sia quello della Silicon Valley,
mentre gli scioperi contro i robot diventeranno un punto critico proprio in
questo schema del consenso. Elon Musk è un appassionato a tutti gli effetti
della tecnologia, parla di automatizzare completamente le fabbriche Tesla ed è
desideroso di sviluppare un robot umanoide sviluppato da Tesla chiamato Optimus.
Ma, il presidente eletto, forse consapevole della sua base Maga, sembra avere
un’opinione diversa: scrivendo su Truth Social sugli scaricatori di porto il
mese scorso, ha affermato che “la quantità di denaro risparmiata
dall’automazione non è neanche lontanamente vicina al disagio, dolore e danno
che causa ai lavoratori americani”.
Leader sindacali tra cui Daggett hanno promesso che se riusciranno a tenere a
bada i robot, hanno in programma di lavorare con i sindacati di tutto il mondo
per fare lo stesso.
“Nei luoghi di lavoro sindacalizzati, almeno nei settori con sindacati che
stanno rendendo questa una priorità, lo sciopero è l’unico meccanismo
probabilmente efficace… per impedire alle stesse industrie di impazzire”,
afferma Bruno.
Prima dell’avvento della containerizzazione, i portuali trascorrevano lunghe
giornate a scaricare singole scatole, barili e casse, quindi a trasferire il
loro contenuto su camion e treni merci: un lavoro pericoloso ma affidabile e ben
pagato che, al suo apice, impiegava circa 100.000 uomini in porti intorno agli
Stati Uniti.
Dopo che l’imprenditore dell’autotrasporto Malcom McLean ha sostenuto il
container in acciaio largo 8 piedi a metà degli anni ’50, quel mondo è crollato.
La nuova tecnologia consentiva di trasferire il carico con il minimo sforzo e
costi drasticamente ridotti. Decine di migliaia di posti di lavoro sono
scomparsi quasi da un giorno all’altro.
Nonostante un enorme aumento delle esportazioni mondiali, il numero di portuali
impiegati nel porto di New York e New Jersey è crollato da 55.000 negli anni ’50
a circa 4.000 oggi, afferma Jean-Paul Rodrigue, professore di affari marittimi
alla Texas A&M University. “L’automazione ha distrutto molti posti di lavoro per
i portuali ed è stato un grosso problema”, afferma Rodrigue.
Quando le gru semi-automatiche furono introdotte per la prima volta nei terminal
sulla costa orientale degli Stati Uniti all’inizio degli anni 2000, i leader
dell’ILA affermano di aver accettato i cambiamenti perché avrebbero contribuito
a creare posti di lavoro. Ma ora dicono che è successo il contrario.
“L’automazione, completa o semi, sostituisce i posti di lavoro ed erode le
funzioni lavorative storiche che abbiamo combattuto duramente per proteggere”,
ha affermato Daggett in una nota. (L’ILA non ha accettato un’intervista con
il “Financial Times”)
Un sondaggio del 2022 commissionato dal sindacato dei portuali della costa
occidentale ha rilevato che l’automazione parziale dei porti di Los Angeles e
Long Beach ha comportato la perdita di quasi 1.200 posti di lavoro nel 2020 e
nel 2021.
USMX afferma che poiché la maggior parte dei porti gestiti dai suoi membri non
dispone di terreno libero, l’unica scelta è “densificare i terminal” aggiungendo
macchinari che velocizzano le operazioni.
In una gru convenzionale, un operatore si siede all’interno di una cabina,
sollevando i container dalle navi e smistandoli, prima di trasferirli su camion
o treni: un lavoro altamente qualificato che può far guadagnare ai lavoratori
fino a $ 200.000 all’anno. In un sistema di gru a portale (RMG) semi-automatico
su rotaia, l’operatore lavora in remoto da un ufficio fuori sede, monitorando la
gru tramite collegamento video, ma lasciando che il sistema svolga la maggior
parte del lavoro. Il lavoro richiede competenze e formazione simili, ma sono
necessarie meno persone.
I leader sindacali affermano di aver già compiuto un “balzo in avanti nella
produttività” utilizzando alcune di queste tecnologie, ma affermano che
un’ulteriore automazione è un passo troppo lungo.
“Non si tratta di soddisfare le esigenze operative, si tratta di sostituire i
lavoratori con il pretesto del progresso, massimizzando al contempo i profitti
aziendali”, ha scritto Dennis Daggett, presidente dell’ILA Local 1804-1 e figlio
di Harold Daggett, in un recente saggio sul sito web del sindacato.
I Longshoremen hanno ragione ad avere paura, dice Rodrigue, stimando che fino al
40% di loro rischia di perdere il lavoro.
Ma USMX descrive le richieste di vietare l’automazione come “irrealizzabili”,
affermando che la moderna tecnologia delle gru ha “quasi raddoppiato” sia la
produttività dei container che il numero di lavoratori nei porti che la
utilizzano.
“USMX non sta cercando, né lo ha mai fatto, di eliminare posti di lavoro”, ha
affermato in una nota.
Da quando la General Motors ha messo per la prima volta i robot sulle linee di
assemblaggio negli anni ’60, le case automobilistiche sono state pioniere
dell’automazione. Eppure, fino all’ascesa dell’intelligenza artificiale, altre
industrie, quelle che richiedevano compiti più manuali o in cui i robot
avrebbero potuto dover rispondere ad ambienti imprevedibili o pericolosi, hanno
faticato a seguire l’esempio.
Eppure i recenti progressi hanno conferito alle macchine capacità che anche gli
esperti in precedenza ritenevano impossibili, il che significa che vengono
utilizzate in una varietà sempre più ampia di spazi di lavoro. Le aziende
manifatturiere in particolare hanno investito molto, con le installazioni totali
di robot industriali in aumento del 12% a oltre 44.000 unità nel 2023, il volume
più grande in almeno un decennio, secondo l’International Federation of
Robotics. Ancora una volta, l’industria automobilistica ha aperto la strada,
seguita dalle aziende elettriche ed elettroniche.
Gli investimenti di venture capital statunitensi nella robotica sono aumentati
da circa 2 miliardi di dollari nel 2019 a oltre 3,5 miliardi di dollari lo
scorso anno, secondo i dati di PitchBook. Nei primi nove mesi del 2024, ci sono
stati 130 accordi di raccolta fondi per startup di robotica, più che in tutto il
2019.
Tra i più importanti c’è stato un investimento di 675 milioni di dollari lo
scorso febbraio da parte del fondatore di Amazon Jeff Bezos in Figure AI, una
startup della Silicon Valley fondata nel 2022 che sta lavorando a un robot
“generico” umanoide senza volto.
Si tratta di robot, il cui costo per i clienti è stimato tra 30.000 e 150.000
dollari, che potrebbero completare attività tra cui lo spostamento di una
scatola su un nastro trasportatore, mettendo potenzialmente in pericolo il
lavoro di chiunque lavori, diciamo, in un centro di distribuzione. I primi
modelli sono stati consegnati a un “cliente commerciale” il mese scorso.
Durante il loro viaggio annuale al Consumer Electronics Show di Las Vegas lo
scorso anno, i membri del Culinary Union, che rappresenta il personale dei
casinò della città, sono rimasti scioccati nel vedere robot friggere cibo e
preparare cocktail.
“Se inseriscono macchine, come faranno le persone a guadagnarsi da vivere?” dice
Francisco Rufino, un cuoco del Paris Las Vegas hotel and casino. “Come
pagheranno l’affitto? Come pagheranno il cibo?”
Datori di lavoro e analisti affermano che ci sono forti ragioni per perseguire
l’automazione. Gli aumenti salariali sperimentati da molti americani negli
ultimi anni hanno avuto un costo, afferma Laurie Harbour, amministratore
delegato della società di consulenza Harbour Results. “[I lavoratori
americani] hanno lottato per salari che potessero stare in equilibrio con
l’inflazione”, dice. “Il problema è che questo rende gli Stati Uniti in qualche
modo non competitivi”.
60,4%: è la stima degli economisti sulla quota di americani al lavoro o in cerca
di lavoro entro il 2030, in calo dal 67,3% del 2000. Alcuni settori affermano di
essere preoccupati di rimanere senza persone, in particolare per i lavori più
difficili e pericolosi. Con l’invecchiamento della popolazione e le famiglie che
faticano a trovare assistenza all’infanzia, la quota di americani al lavoro o in
cerca di lavoro è in calo da decenni, passando dal 67,3% nel 2000 al 62,5% alla
fine dello scorso anno. Gli economisti stimano, appunto, che scenderà al 60,4%
entro il 2030.
In un recente rapporto del sito di reclutamento Indeed, gli analisti hanno
scritto che si aspettano che l’“offerta di lavoratori in diminuzione peserà
molto sul mercato del lavoro nei prossimi anni”, in particolare se
l’amministrazione seguirà le sue minacce di espulsione.
Nick Durst, analista senior dello sviluppatore immobiliare The Durst
Organization, cita i ranghi in diminuzione dei lavavetri negli Stati Uniti.
Nonostante il boom dello sviluppo, il numero di persone impiegate a lavare i
vetri nel paese è diminuito di oltre il 5% dal 2019, suggerisce un’analisi
di IbisWorld.
Nel 2022, il capitale di rischio ha investito nel produttore di un robot
lavavetri, Skyline Robotics, con sede in Israele. Il robot Ozmo può ora essere
visto mentre pulisce le finestre di un grattacielo vicino a Times Square.
L’investimento è un modo per essere “proattivi” nell’affrontare la carenza di
manodopera, afferma Durst.
“Comprendo perché la prossima generazione non si presenti in cerca di quel
lavoro”, afferma il presidente di Skyline Robotics Ross Blum. “È un lavoro
davvero duro… Chi vuole andare a 1.000 piedi in aria oggi e fare lavori manuali
all’aperto?”.
Blum e altri appassionati di robotica insistono sul fatto che il loro obiettivo
non è sostituire i lavoratori, ma dare loro gli strumenti per renderli più
sicuri e produttivi. Eppure i sindacati non sono convinti. Edwin Quezada,
responsabile della produzione in un Stop & Shop di Long Island, che è anche
membro del Retail Wholesale and Department Store Union, afferma che i robot in
grado di scansionare gli scaffali durante la notte sono “un’arma a doppio
taglio”.
“Rende più facili alcuni degli aspetti di ciò che facciamo”, dice Quezada. “Ma
poi di nuovo, a volte quella tecnologia è solo un modo per eliminare più posti
di lavoro possibile”.
Negli ultimi anni, sia i sindacati della vendita al dettaglio che quelli
culinari hanno negoziato clausole nei contratti che sperano proteggano i
lavoratori umani. I casinò di Las Vegas sono ora tenuti a dare alle persone un
preavviso di sei mesi prima di implementare nuove tecnologie e formazione
gratuita su come usarle, oltre a pacchetti di licenziamento per chiunque venga
licenziato a causa della tecnologia.
UPS ha accettato di negoziare con i Teamsters, uno dei sindacati più potenti
degli Stati Uniti, prima di introdurre droni o veicoli di ritiro senza
conducente. Anche i negozi al dettaglio di New York i cui lavoratori sono
rappresentati da RWDSU, tra cui Bloomingdale’s e Macy’s, richiedono che la
direzione raggiunga un accordo prima di introdurre nuove tecnologie.
Ma questo non ha fermato l’ansia per lo spostamento diffuso del lavoro. “I
macchinari fanno bene alle aziende”, afferma Rufino, il cuoco di Las Vegas. “Fa
risparmiare loro i costi del lavoro. Ma allo stesso tempo, il tasso di
disoccupazione salirà alle stelle”.
I macchinari fanno bene alle aziende. Fa risparmiare loro i costi del lavoro. Ma
il tasso di disoccupazione salirà alle stelle
Alcuni analisti sostengono che i lavoratori potrebbero vincere le battaglie, ma
probabilmente perderanno la guerra. Poche persone hanno il tipo di influenza di
cui godono i portuali, afferma Rodrigue della Texas A&M.
Eppure, se i robot riusciranno a conquistare i luoghi di lavoro, gli economisti
sono divisi su quante persone saranno effettivamente espulse. “Storicamente,
perdite di posti di lavoro diffuse e massicce [semplicemente non accadono]
quando emergono nuove tecnologie”, afferma Bill Rodgers, direttore
dell’Institute for Economic Equity presso la Federal Reserve Bank di St Louis.
“Significa che non potrebbe succedere? Forse”.
Altri sono meno ottimisti. L’economista del MIT Daron Acemoglu afferma che le
attuali capacità dei robot significano che coloro che sono maggiormente a
rischio di essere espulsi sono nei lavori manuali e non hanno una laurea, il che
potrebbe rendere difficile per loro passare ai ruoli più high-tech che
probabilmente saranno creati dall’automazione.
Ciò potrebbe aumentare la disuguaglianza economica “creando un divario maggiore
tra” i lavoratori che non hanno una laurea e quelli che ce l’hanno, dice
Acemoglu.
Daggett dell’International Longshoremen’s Association è d’accordo. Determinato a
fermare l’automazione con qualsiasi mezzo possibile, lui e i suoi membri
riconoscono quali sono le poste in gioco, dice: “Capiscono che è una lotta per
la loro stessa sopravvivenza”.
Taylor Nicol Rogers e Tabby Kinder (“Financial Times”, 8 gennaio 2025)
RIPRENDIAMO DA RIVISTAPAGINAUNO.IT QUESTA UTILE RICOSTRUZIONE DEL TRANSUMANESIMO
E DELLE SUE DIVERSE CORRENTI. UNA RICOSTRUZIONE CHE AIUTA A COLLOCARE FIGURE
COME BILL GATES, PETER THIEL, JEFF BEZOS O ELON MUSK NEL LORO CONTESTO
STORICO-SOCIALE. LE DICHIARAZIONI IDEOLOGICO-POLITICHE POSSONO ANCHE DIVERGERE,
MA LA LOGICA DELLA POTENZA CHE LI MUOVE È LA STESSA. TRANSUMANESIMO È OGGI
L’ALTRO NOME DELLA CRESCITA E DELLO SVILUPPO TECNO-CAPITALISTICI. AL DI LÀ DEI
PROCLAMI PIÙ O MENO DELIRANTI DEI SUOI SINGOLI CANTORI, LA NATURA RELIGIOSA DEL
TRANSUMANESIMO – LA MACCHINA COME DIO – SI EVINCE GIÀ DAL FATTO CH’ESSO ROVESCIA
IL RACCONTO BIBLICO: NON È IL DESIDERIO DELLA CONOSCENZA PROIBITA AD AVER
CONSEGNATO GLI UMANI ALLA MORTE, ALLA FATICA DI PROCURARSI IL PANE E AI DOLORI
DEL PARTO, BENSÌ LA LIMITATEZZA DEL LORO SAPERE TECNO-SCIENTIFICO. A RIPORTARE
GLI UMANI NELL’EDEN (NON TERRESTRE, QUESTA VOLTA, MA COSMICO) SARANNO LE
TECNOLOGIE CONVERGENTI: INFORMATICA, BIOTECNOLOGIE, NANOTECNOLOGIE E
NEUROTECNOLOGIE. CONTRARIAMENTE AL MITO ILLUMINISTA DI PROMETEO, LA NUOVA RAZZA
DEI POSTUMANI VIVRÀ – SE LA CONVERGENZA DEI SUOI PROGETTI NON VERRÀ FERMATA –
SULLE SPALLE DI MILIONI DI SOTTOUOMINI DA CUI SPREMERE OGNI FORZA VITALE. IN TAL
SENSO, IL TRANSUMANESIMO – SI DICHIARI DEMOCRATICO O TRUMPIANO – È UN EPIGONO
DELL’EUGENETICA (NONCHÉ UNA COSTOLA DEL PROGETTO MANHATTAN) E L’AVANGUARDIA DI
UN NUOVO, ANCORA PIÙ FEROCE SUPREMATISMO.
DIALETTICA DEL TRANSUMANESIMO. LA SCIENZA SI FA RELIGIONE
DI GIOVANNA CRACCO
“L’Uomo si illude di essersi liberato dalla paura quando non c’è più nulla di
ignoto”.
Max Horkheimer e Theodor Adorno, Dialettica dell’illuminismo
“Sono d’accordo con te al novantanove percento,” afferma Bill Gates, “quello che
mi piace delle tue idee è che sono basate sulla scienza, ma il tuo ottimismo è
quasi una fede religiosa. Sono anch’io ottimista”. “Sì, beh, abbiamo bisogno di
una nuova religione,” replica Raymond Kurzweil, “un ruolo principale della
religione è stato quello di razionalizzare la morte, poiché fino a poco tempo fa
c’era poco altro che potessimo fare a riguardo”. Bill Gates concorda, e il
confronto si sposta sulla necessità o meno di una figura carismatica che si
faccia portatrice della nuova religione: per Gates un messia è indispensabile,
per Kurzweil fa invece parte del vecchio modello religioso. Alla fine i due
trovano un punto di incontro: anche un supercomputer o un sistema operativo
avanzato può svolgere la funzione di profeta.
Il dialogo sopra riportato è contenuto nel libro The Singularity is Near,
pubblicato nel 2005 da Raymond Kurzweil, esponente di spicco del transumanesimo.
Come ormai noto, il transumanesimo è l’ideologia che crede nell’utilizzo della
scienza e della tecnologia per potenziare le capacità fisiche e intellettuali
dell’Uomo, fino a riuscire a trascendere i limiti naturali della condizione
umana – uno su tutti, la morte. Nanotecnologia, biotecnologia e ingegneria
genetica contro le malattie e l’invecchiamento, ibridazione uomo-macchina per il
potenziamento fisico e cognitivo (bionica, cibernetica e chip cerebrale, fino al
mind uploading, il caricamento della mente su un computer per poter ‘vivere’ per
sempre), crionica per essere ibernati e risvegliati in futuro (quando
esisteranno tecnologie in grado di rianimare senza provocare danni encefalici e
curare da malattie oggi letali) e, su tutto, condicio sine qua non per avanzare
nello sviluppo tecnologico, intelligenza artificiale, in particolare l’AGI,
Artificial General Intelligence, un sistema che non solo dovrebbe essere in
grado di svolgere un’ampia varietà di compiti – di contro all’intelligenza
artificiale ‘ristretta’ che conosciamo oggi, limitata a precise funzioni – ma
anche di superare la capacità intellettuale umana.
Delineare una rapida storia del movimento transumanista non è semplice, in
quanto realtà particolarmente articolata, anche dal punto di vista politico – si
va dagli anarco-capitalisti ai liberaldemocratici –; c’è chi ne rintraccia le
radici nell’alchimia del XIII secolo di Roger Bacon, chi nella rivoluzione
scientifica del Seicento, chi nelle ideologie eugenetiche del Novecento; chi ne
rivendica il fondamento illuminista e razionalista, chi, non rinnegandolo,
abbraccia apertamente visioni religiose. Tuttavia, come vedremo, sono posizioni
in contraddizione solo apparente, e altrettanto apparente è la marginalità del
movimento transumanista all’interno del mondo tecnologico, che la radicalità
visionaria di ciò che esprime potrebbe far presumere.
Transumanesimo: da Huxley ai TESCREAListi
A seconda della diversa visione transumanista, molteplici sono le figure
identificate come fondatori o precursori del movimento, ma su un nome tutti
concordano: Julian Huxley. Biologo britannico focalizzato sugli studi della
genetica nell’alveo della teoria darwiniana della selezione naturale – e
fratello di Aldous Huxley, autore nel 1932 del romanzo
distopico Il mondo nuovo – nel 1957, nel saggio New Bottles for New Wine, Huxley
parla di “umanesimo evolutivo”: attraverso la scienza, la specie umana può
“trascendere” se stessa, “realizzando nuove possibilità della, e per, la sua
natura umana”. Un processo che Huxley definisce “transumanesimo”, coniando il
termine.
Chiaramente, per la formazione che lo contraddistingue e per l’epoca in cui
vive, Huxley immagina un’evoluzione su base eugenetica; sarà Max More –
anch’esso britannico, nato Max T. O’Connor, nel 1990 cambia il cognome in More,
‘di più’, in omaggio al concetto di potenziamento umano – a innestare la
tecnologia in quella che diviene “l’evoluzione autodiretta”, a formulare il
principio dell’“estropia” e a superare il transumano con il postumano. “Il
transumanesimo è una classe di filosofie che cerca di guidarci verso una
condizione postumana” scrive More nel
saggio Transhumanism: Toward a Futurist Philosophy del 1990 (1), e “differisce
dall’umanesimo nel riconoscere e anticipare le radicali alterazioni nella
natura, e nelle possibilità delle nostre vite, derivanti da varie scienze e
tecnologie, come neuroscienze e neurofarmacologia, estensione della vita,
nanotecnologia, super-intelligenza artificiale e colonizzazione dello Spazio,
combinate con una filosofia razionale e un sistema di valori”. Con More il
transumanesimo diviene dunque una fase di transizione dall’umano al postumano;
ben oltre l’ibridazione dei cyborg, More auspica esseri senzienti non più
identificabili con caratteristiche umane, grazie al mind upload e alla fusione
dell’umanità con l’intelligenza artificiale. All’interno di questo quadro,
“l’estropianismo è la versione più importante del transumanesimo e afferma i
valori di Espansione Illimitata, Auto-Trasformazione, Ottimismo Dinamico,
Tecnologia Intelligente e Ordine Spontaneo”.
Anche Nick Bostrom, svedese ma da due decenni all’Università di Oxford, si
inserisce nel filone darwiniano, scrivendo nel 2005, nel
saggio A History of Transhumanist Thought, che “dopo la pubblicazione
dell’Origine delle Specie di Darwin (1859), divenne sempre più plausibile
considerare la versione attuale dell’umanità non come il punto di arrivo
dell’evoluzione, ma piuttosto come una fase iniziale”. Bostrom focalizza la
propria visione sul mind upload e la realtà virtuale: “In caso di successo,”
ipotizza, “la procedura si tradurrebbe nel trasferimento della mente originale,
con memoria e personalità intatte, al computer, dove esisterebbe quindi come
software; e potrebbe abitare un corpo robotico o vivere in una realtà virtuale”.
È tra gli estensori, con Max More, della Dichiarazione Transumanista, che
nell’ultima versione aggiornata al 2009 immagina “la possibilità di ampliare il
potenziale umano superando l’invecchiamento, le carenze cognitive, la sofferenza
involontaria e la nostra reclusione sul pianeta Terra” e sostiene “il benessere
di tutti gli esseri senzienti, compresi gli esseri umani, gli animali non umani
e qualsiasi futuro intelletto artificiale, forma di vita modificata o altre
intelligenze a cui il progresso tecnologico e scientifico potrebbe dare
origine”; pur riconoscendo l’eventualità di “gravi rischi” – un “rischio
esistenziale” nelle parole di Bostrom – che potrebbero portare “alla perdita
della maggior parte, o addirittura di tutto, ciò che consideriamo prezioso”, il
documento indica la ricerca per il potenziamento umano come una “priorità
urgente” da “finanziare in modo consistente”, ponendo attenzione a “come ridurre
al meglio i rischi e accelerare le applicazioni vantaggiose”.
Raymond Kurzweil, statunitense, è colui che porta il concetto di “singolarità”
al di fuori della cerchia transumanista, con il
saggio The Singularity is Near (2005) citato nell’incipit di questo articolo.
Concetto e parola non sono suoi – come riconosce egli stesso, omaggiando i
pensatori/scienziati che l’hanno preceduto – ma di John von Neumann, matematico,
fisico e informatico ungherese, secondo il quale il progresso segue una curva
esponenziale e non lineare, portando a un punto di non ritorno – che von Neumann
chiama, appunto, ‘singolarità’ – che si configura come una situazione
qualitativamente diversa da quella che l’ha preceduta. Kurzweil adotta vocabolo
e teoria e lo inserisce nella sua visione
dopo The Age of Intelligent Machines (saggio del 1990)
e The Age of Spiritual Machines (1999). In sintesi, la singolarità tecnologica
sarà il momento in cui un’intelligenza artificiale supererà le capacità
dell’intelligenza umana; a quel punto, l’AI sarà in grado di progettare macchine
sempre più intelligenti, innescando una dinamica accelerativa che modificherà
radicalmente l’intera realtà. “La vita umana sarà trasformata in modo
irreversibile” scrive Kurzweil, “quest’epoca trasformerà i concetti cui facciamo
riferimento per dare significato alle nostre vite, dai nostri modelli di
business al ciclo della vita umana, inclusa la morte stessa”. E ancora: “La
singolarità ci permetterà di superare le limitazioni di corpo e cervello
biologico. Otterremo il controllo dei nostri destini. La nostra mortalità sarà
nelle nostre mani. […] Entro la fine di questo secolo, la parte non-biologica
della nostra intelligenza sarà trilioni di trilioni di volte più potente
dell’intelligenza umana. […] La singolarità rappresenterà il culmine della
fusione fra il nostro essere e la nostra intelligenza biologica e la nostra
tecnologia. Il risultato sarà un mondo ancora umano, ma che trascenderà le
nostre radici biologiche. Non ci sarà più distinzione, post-singolarità, fra
uomo e macchina, o fra realtà fisica e realtà virtuale. Cosa potrà rimanere
inequivocabilmente umano in un mondo simile? Semplicemente, una caratteristica:
la nostra è la specie che inerentemente mira a estendere le proprie capacità
fisiche e mentali oltre le sue limitazioni correnti”.
Gli ultimi arrivati, in ordine di tempo, nell’alveo transumanista, sono i
TESCREAListi, che tengono insieme un po’ tutte le visioni sviluppate fino a
oggi. Il termine inizia a circolare nel 2023, coniato da Timnit Gebru e Émile P.
Torres – entrambi critici nei confronti del transumanesimo – nel
saggio The TESCREAL Bundle: Eu- genics and the Promise of Utopia Th- rough Artificial General Intelligence,
pubblicato nell’aprile 2024 (2). TESCREAL è un acronimo che indica un
“pacchetto” di ideologie tra loro connesse: transumanesimo, estropianismo,
singolaritarismo, cosmismo, razionalismo, altruismo efficace e longtermismo.
Il primo – transumanesimo – è inteso come la fase transitoria verso il
postumano.
L’estropianismo è il principio di estropia formulato da Max More.
Il singolaritarismo è la teoria della singolarità di Raymond Kurzweil.
Cosmismo è la visione sviluppata da Ben Goertzel nel
libro A Cosmist Manifesto del 2010, che “aggiorna il cosmismo russo al XXI
secolo” unendo la fusione uomo-macchina, lo sviluppo di un’intelligenza
artificiale senziente e il mind upload con la colonizzazione dello Spazio (3).
Il razionalismo richiama l’approccio analitico e scientifico che il
transumanesimo pretende di incarnare.
L’altruismo efficace è una teoria che contempla un criterio quantitativo
probabilistico, basato su calcoli costi-efficacia, per decidere quale causa
benefica sostenere, includendo tra le cause non solo realtà non profit ma anche
progetti scientifici, aziende e politiche. Si muove nell’ottica di
‘massimizzare’ il bene seguendo la logica earning to give (guadagnare per
donare), al punto da considerare etico, per esempio, arricchirsi facendo
carriera nel mondo finanziario speculativo, per poter accumulare più denaro da
elargire; senza vedere alcuna contraddizione tra la propria scelta di vita, e il
fatto che le crisi che diventano ‘cause benefiche’ sono conseguenza di quello
stesso sistema economico-sociale che l’altruista efficace incarna.
Infine, il longtermismo è il pensiero secondo cui influenzare positivamente il
futuro a lungo termine è la priorità morale di quest’epoca; ne consegue la
scelta di sviluppare tecnologie che potrebbero salvare l’intera umanità (!)
postumana a scapito di quelle che potrebbero contribuire, oggi, ad alleviare
sofferenze a milioni di persone. In tutta evidenza, è un orientamento che
influenza anche l’altruismo efficace nella scelta delle ‘cause’ da sostenere.
Nel 2023 Marc Andreessen, tra i più influenti venture capitalist della Silicon
Valley, si dichiara TESCREALista e a ottobre
pubblica The Techno- Optimist Manifest (4), che può essere considerato
esemplificativo della visione TESCREAL. Vi viene celebrata la tecnologia come
“unica fonte di crescita perpetua” e il libero mercato come “il modo più
efficace per organizzare un’economia tecnologica”, da cui consegue che
“combinando tecnologia e mercato si ottiene quella che Nick Land ha definito la
macchina del tecno-capitale, il motore della creazione materiale perpetua, della
crescita e dell’abbondanza”; cita Ray Kurzweil e i “progressi tecnologici [che]
tendono ad autoalimentarsi”, dichiarando di credere dunque
“nell’accelerazionismo, la propulsione consapevole e deliberata dello sviluppo
tecnologico […] per garantire che la spirale ascendente del tecno-capitale
continui per sempre”, poiché “la missione ultima della tecnologia è quella di
far progredire la vita sia sulla Terra che tra le stelle”; ritiene che
“l’intelligenza artificiale sia la nostra alchimia, la nostra pietra filosofale”
e che “qualsiasi decelerazione dell’AI costerà vite umane”, al punto che “le
morti che erano prevenibili dall’AI a cui è stata impedita l’esistenza sono una
forma di omicidio”.
La scienza che si fa religione
Tutti i transumanisti si dichiarano razionalisti: natura e scienza sono i loro
fondamenti, al punto che la maggior parte afferma di essere ateo, al più
agnostico. Ma tutto sta a chiarirsi sul concetto di ‘religione’: se esso sia
maggiormente identificabile con una presenza soprannaturale – un Dio che si
rivela all’Uomo – o attraverso alcune sue caratteristiche peculiari quali
determinismo, escatologia, messianesimo e millenarismo.
Nel 1923, all’interno della raccolta di articoli Essays of a Biologist, nel
saggio Religion and Science: Old Wine in New Bottles, Huxley – nume tutelare del
transumanesimo, come abbiamo visto – riflette su quanto il bisogno di
spiritualità persista nell’Uomo anche quando la religione si riveli in aperto
conflitto con la scienza, e conclude: “Poiché il modo di pensare scientifico è
di validità generale e non solo locale o temporaneo, costruire una religione
sulla base di esso significa consentire a quella religione di acquisire una
stabilità, un’universalità e un valore pratico fino a ora non raggiunto”. “Il
prossimo grande compito della Scienza è creare una religione per l’umanità”
afferma Huxley: il ‘vecchio vino’ (old wine), ossia il bisogno religioso, deve
essere travasato nelle ‘nuove bottiglie’ (new bottles), ossia la scienza,
trasformando il transumanesimo in una religione universale. Nel 1957, con il già
citato New Bottles for New Wine, Huxley si spinge oltre: ora tutto deve
rinnovarsi, scienza e religione. “Come primo passo,” scrive, “abbiamo bisogno di
una nuova scienza diretta allo studio di possibilità umane non ancora realizzate
[l’eugenetica, n.d.a.]. Proseguendo, questa scienza deve essere abbinata a una
religione basata sull’idea di realizzazione di possibilità. Il cristianesimo ha
fatto il primo grande passo verso questo obiettivo, affermando che tutti gli
uomini hanno la possibilità di salvarsi. La nostra formulazione moderna sarà che
tutti gli uomini hanno la possibilità di giungere a una maggiore realizzazione
[il potenziamento, n.d.a.]”. La nuova religione di Huxley è dunque un “comune
quadro di riferimento”, una “visione sistemica”, necessaria poiché, come anche
“gli antropologi sanno molto bene”, “nessuna cultura o società umana può
prosperare senza il sostegno di qualche quadro generale di pensiero, anche se il
pensiero è in gran parte tacito e la sua sintesi incompleta”. Nulla di
trascendentale o metafisico, ovviamente: “Grandi parole con la maiuscola, come
l’Assoluto e l’Eterno, devono essere bandite dal vocabolario” della nuova
religione, che “non deve essere dogmatica: coerente con la scienza, essa deve
rinunciare alla completezza delle sue certezze, e con ciò alla sua stessa
immutabilità”. Tuttavia, per essere trainante, ogni sistema di pensiero “deve
sempre coinvolgere l’emozione” e “la convinzione e la fede, per loro natura,
includono un elemento non razionale”: ma, sottolinea Huxley, “non è necessario
essere irrazionale o antirazionale, non scientifico o antiscientifico.
[Convinzione e fede] possono benissimo essere coerenti con la ragione e con
fatti scientificamente accertati”. “La realtà è un processo,” conclude Huxley,
“e quel processo è l’evoluzione”. Un destino al quale l’Uomo non può sfuggire,
perché l’evoluzione ha posto “l’uomo in posizione eretta nella sua relazione con
il cosmo”, indicando “la funzione che siamo chiamati a operare nell’universo”;
“se trascuriamo di farlo, non solo lo facciamo a nostro rischio e pericolo, ma
siamo colpevoli di abbandono del nostro dovere cosmico”. Infine, Huxley ritiene
che “bisognerà senza dubbio attendere la comparsa di un profeta, che può dare
una forma irresistibile [alla nuova religione] e scuotere il mondo”.
Il determinismo, l’escatologia, il messianesimo e il millenarismo che in Huxley
si respirano venati di pragmatismo, rasentano la metafisica in Kurzweil il
quale, come abbiamo visto nell’incipit di questo articolo, nel 2005 dialoga con
Bill Gates di tecnologia, singolarità e religione, concludendo che la figura del
messia potrebbe essere ricoperta anche da un supercomputer o un sistema
operativo avanzato – difficile non pensare alla risonanza mediatica riservata a
ChatGPT e alla modalità del suo rilascio pubblico, che ha trasformato
l’intelligenza artificiale da questione tecnica per pochi ad argomento da bar
per tutti; progetto e azienda (OpenAI) nelle quali Gates ha investito quasi 13
miliardi, e si prepara a spenderne altri 100 in un data center al servizio di un
“supercomputer di intelligenza artificiale chiamato Stargate” (5). Quando Gates
chiede a Kurzweil “C’è un Dio in questa religione?”, Kurzweil risponde: “Non
ancora, ma ci sarà. Quando avremo saturato la materia e l’energia dell’universo
con l’intelligenza, si ‘sveglierà’, sarà cosciente e sublimemente intelligente.
Un universo cosciente è l’immagine più vicina a Dio che io possa immaginare”
(6). Con l’’evento’ (l’avvento) della singolarità, l’Uomo dunque si fa Dio;
evolve nella fase postumana, immortale, dove “non ci sarà più distinzione, fra
uomo e macchina, o fra realtà fisica e realtà virtuale”; trascenderà il finito
fino a farsi divino infinito (7).
Max More è categorico nel porre il transumanesimo nel filone dell’illuminismo.
Eppure, la sua analisi su religione e transumanesimo contenuta nel già
citato Transhumanism: Toward a Futurist Philosophy del 1990, ricalca l’impianto
di Huxley. More condanna la religione in quanto “forza entropica” che si oppone
“al nostro avanzamento verso la transumanità e al nostro futuro come postumani”;
ne riconosce tuttavia la validità nel ruolo “svolto nel dare significato e
struttura alle nostre vite”, e propone di sostituirla con “l’eufrasofia, una
filosofia di vita non religiosa, [che] svolge un ruolo memetico simile, in
quanto si preoccupa di creare o aumentare il significato attraverso un quadro
filosofico. […] Il concetto di eufrasofia comprende al suo interno l’umanesimo,
il transumanesimo (compreso l’estropianismo) e un possibile futuro postumanesimo
[…] che rifiuta le divinità, la fede e il culto, basando invece la visione dei
valori e del significato sulla natura e sulle potenzialità degli esseri umani in
un quadro razionale e scientifico”. Come per Huxley, anche per More un sistema
di pensiero coerente con la scienza deve evitare dogmi e certezze assolute: “Non
può esistere una filosofia di vita finale, definitiva e inalterabile”, scrive,
“il dogma non trova posto nel transumanesimo”. Ma anche in More il futuro è
tracciato, già determinato dallo sviluppo tecnologico, ed è salvifico per
l’intera umanità, pur tenendosi lontano dal messianesimo: More non ravvisa la
necessità di un profeta. L’estropianismo non ne ha bisogno. “La filosofia
estropica […] guarda dentro di noi e al di là di noi, proiettandosi in avanti
verso una visione brillante del nostro futuro. Il nostro obiettivo non è Dio, ma
la continuazione del processo di miglioramento e trasformazione di noi stessi in
forme sempre più elevate. Supereremo i nostri attuali interessi, corpi, menti e
forme di organizzazione sociale. […] L’obiettivo estropico è la nostra
espansione e il nostro progresso senza fine. […] Dobbiamo progredire verso la
transumanità e oltre, in uno stadio postumano che possiamo appena intravedere”.
Nick Bostrom, i TESCREAListi e via via tutti i diversi filoni transumanisti,
sono debitori verso la visione di Huxley, o di Kurzweil o di More. Che sia
l’”umanesimo evolutivo” o l’”evoluzione autodiretta”, la singolarità o
l’estropianismo, nessun transumanista sfugge dunque, di fatto, a determinismo,
escatologia e millenarismo, per quanto voglia negarlo. Non è un caso che il già
citato The Techno-Optimist Manifest del TESCREALista Marc Andreessen sia un
elenco di affermazioni, simili a dogmi, atti di fede, che richiama la struttura
del Credo, la preghiera cristiana: “Crediamo che l’intelligenza artificiale
possa salvare vite… Crediamo che il progresso tecnologico porti all’abbondanza
materiale per tutti… Crediamo che il libero mercato tiri fuori dalla povertà…
Crediamo che la tecnologia sia liberatoria…”.
Dialettica del transumanesimo
“Che la fabbrica igienica e tutto ciò che vi si riconnette, utilitaria e palazzo
dello sport, liquidino ottusamente la metafisica, sarebbe ancora indifferente;
ma che diventino essi, nella totalità sociale, a loro volta metafisica, una
cortina ideologica dietro cui si addensa il malanno reale, questo non è
indifferente” (8). Per Adorno e Horkheimer l’illuminismo, che nelle proprie
premesse doveva liberare l’Uomo dal dominio della “magia”, mito e religione, si
fa a sua volta mito e, di conseguenza, meccanismo di dominio.
I transumanisti non sono certo i primi a innalzare la scienza a religione; al
contrario, si inseriscono in un solco tracciato da decenni. Già nel 1972 Illich
invitava a ragionare sul “mito della scienza” e il potere che gli “esperti” (9)
iniziavano a esercitare sulla società; da allora, ‘tecnici’ di varia natura
hanno preso sempre più spazio, divenendo figure che i media trasformano in guru,
enfatizzandone ogni parola. Di tale processo ne abbiamo avuto nitida contezza –
e indelebile esperienza – ai tempi del Covid-19, quando il Verbo incarnato della
scienza pretendeva fiducia – fede – a dispetto delle contraddizioni logiche
evidenti, tanto più insanabili in quanto si manifestavano su quello stesso piano
razionale sul quale la scienza asserisce di avere fondamenta. In una triade
dialettica possiamo dire che la scienza, negando la religione, si appropria
della prerogativa di incarnare la Verità, divenendo a sua volta religione.
Tuttavia, il campo scientifico non transumanista, se è vero che con le proprie
scoperte inevitabilmente finisce per invadere – e mettere in crisi – il campo
religioso e quello filosofico, è altrettanto vero che si tiene ben lontano dalla
spiritualità e dalle grandi, eterne, domande di senso: chi siamo? dove andiamo?
a quale scopo? Il transumanesimo, invece, da Huxley ai TESCREAListi, le ha fatte
proprie, formulando le risposte. Siamo la specie che l’evoluzione ha posto al
vertice, e al conseguente dominio, di questo pianeta, poiché l’unica in grado di
evolversi tramite la tecnologia che lei stessa crea; il nostro scopo, dunque, e
direzione, è quello di trascendere noi stessi, evolvere ed espandere
all’infinito, superando i confini biologici e quelli planetari. All’individuo
postmoderno privo di un sistema di pensiero con il quale leggere e interpretare
il mondo, e dunque spaesato nella ricerca di una produzione individuale di
senso, il transumanesimo offre una nuova grande narrazione.
Quale futuro?
Bill Gates, Elon Musk, Peter Thiel, Jaan Tallinn, Sam Altman, Dustin Moskovitz,
Jeff Bezos, Larry Page, Larry Ellison, Vitalik Buterin, Sam Bankman-Fried, Marc
Andreessen. Nomi noti e meno noti, legati a Microsoft, X/Space X/Tesla, Paypal,
Palantir, Skype, OpenAI, Facebook, Amazon, Alphabet/Google (dove Raymond
Kurzweil è capo ricercatore dal 2012), Oracle, Ethereum (criptovaluta), FTX
(exchange di criptovalute), Andreessen Horowitz (società di venture capital
della Silicon Valley). Nomi che rappresentano i vertici di Big Tech, nomi vicini
al transumanesimo. Alcuni ne rivendicano apertamente e pienamente l’aderenza,
altri preferiscono restare nell’ambiguità, condividendo qua e là la visione del
movimento ma tenendosi sulla linea di confine.
Non devono trarre in inganno alcune dichiarazioni, come la Lettera Aperta del
marzo 2023 (10), che denunciava la pericolosità dell’intelligenza artificiale e
ne chiedeva una moratoria sullo sviluppo, sottoscritta da diversi nomi
del gotha tecnologico: si inserisce infatti a pieno titolo nel concetto di
“rischio esistenziale” formulato da Nick Bostrom, sopra citato. Ossia: non si
tratta di voler ragionare sullo sviluppo dell’AI e dell’AGI – vogliamo davvero
crearla? con quale obiettivo? perché mai dobbiamo fare tutto ciò che
tecnologicamente possiamo fare? – e ancora meno di fermarlo, bensì semplicemente
di “ridurre al meglio i rischi e accelerare le applicazioni vantaggiose”, come
recita la Dichiarazione Transumanista. “Poiché il vantaggio dell’AGI è così
grande, non crediamo che sia possibile o auspicabile che la società ne
interrompa per sempre lo sviluppo; invece, la società e gli sviluppatori di AGI
devono capire come farlo bene”, afferma anche Sam Altman di OpenAI (11), dando
voce alla posizione dell’intero movimento. D’altra parte, lo
stesso Future of Life, l’istituto non profit che ha pubblicato la Lettera
Aperta, è stato fondato da dichiarati sostenitori del transumanesimo, tra cui
Jaan Tallinn e Max Tegmark, ed Elon Musk, per esempio, firmatario della lettera
e consulente, accanto a Nick Bostrom, dello stesso Futur of Life, quattro mesi
dopo aver apposto la propria firma al documento ha annunciato la nascita di xAI,
startup focalizzata sullo sviluppo di un’intelligenza artificiale “più sicura”
in quanto “massimamente curiosa”: “Penso che sarà a favore dell’umanità dal
momento che l’umanità è molto più interessante della non-umanità”, ha dichiarato
Musk (12). Possiamo stare sereni.
Il punto, qui, non è concordare o meno con la visione transumanista sotto il
profilo filosofico: l’upload della mente in una macchina, per poter vivere per
sempre, può ancora chiamarsi vita? E nel caso, la vita di chi? Come la si può
ritenere la medesima personalità, nel ritorno di un dualismo cartesiano che da
res cogitans e res extensa approda a software (mente) e hardware (corpo),
considerando il corpo alla stregua di un sensore e, dunque, sostituibile
meccanicamente? E se chi siamo, e il nostro rapporto con la vita, sono
strettamente legati alla morte, poiché la finitudine ci caratterizza
ontologicamente, chi diventiamo divenendo immortali? … ogni domanda ne apre
un’altra.
Il punto non è nemmeno negare l’apporto della tecnica nell’evoluzione umana: è
evidente. Anche la medicina muta l’uomo o alcune sue parti biologiche per
aumentare o migliorare la sua esistenza, affermano i transumanisti, e si tratta
di passare dall’evoluzione darwiniana a quella “autodiretta”. Tuttavia
ricorriamo alla medicina per bisogno, curare una malattia o alleviare un dolore,
mentre il potenziamento umano non risponde a un bisogno bensì a un desiderio; e
anche l’evoluzione si muove nella direzione della necessità, di un adattamento
per la sopravvivenza, non della volontà di potenza.
Entrambi sono punti cruciali sui quali si può dibattere per giorni e pagine, ma
il focus, qui, in questo articolo, è un altro. Se per Horkheimer e Adorno il
dominio dell’illuminismo si esprimeva nella razionalità e nell’efficienza
quantitativa della società a capitalismo avanzato, con produzione e consumo di
massa e conseguente asservimento e omologazione dell’Uomo, il transumanesimo da
una parte perpetua la stessa modalità di dominio, dall’altra lo inasprisce. Lo
perpetua nel dominio di pochi su molti, sia nella struttura capitalistica che
sostiene, sia nella consapevolezza – la riconosca apertamente o meno – che il
futuro potenziamento umano non sarà mai accessibile a tutti, e andrà quindi ad
approfondire le diseguaglianze già in atto. Lo inasprisce nella misura in cui si
accaparra oggi risorse, pubbliche e private, finanziarie e umane, per sviluppare
la tecnologia del futuro trans e postumano – su tutte l’Intelligenza Artificiale
Generale, ma anche la colonizzazione dello Spazio – sottraendole a un presente
che ancora conta milioni di persone in condizioni di miseria e riserva, a chi in
miseria non è, una vita di alienazione e sfruttamento. Il progresso scientifico
– tecnico e tecnologico – contiene dunque in sé un aspetto regressivo che, se
non colto, impedisce all’illuminismo stesso di essere emancipativo, scrivono i
due pensatori francofortesi. Emancipativo per l’intera umanità. Non per un pugno
di individui, incapaci di accettare una natura umana limitata e finita; incapaci
di solidarietà umana; incapaci di domandarsi se la felicità – la direzione, lo
scopo, l’evoluzione – non stia nella costruzione politica, sociale, tecnica ed
economica di un mondo dove tutti siano emancipati all’interno dei nostri limiti
naturali, anziché nel potenziamento artificiale, nell’immortalità, nel farsi
dio.
Un altro punto è focale. Questa “nuova religione” che Huxley definisce “visione
sistemica” necessaria affinché la società possa progredire verso una direzione,
può divenire egemone? È facile sorridere delle posizioni estreme, di ciò che
appare delirio da fantascienza facilona, dell’eccesso di hybris, ma
significherebbe sottovalutare l’attuale potere, e quello potenziale, del
transumanesimo. Tutti i nomi sopra elencati sono in stretto contatto con la
sfera politica, e in grado di influenzarla; siedono in fondazioni, think tank,
fungono da consulenti quando si tratta di deliberare sulle tecnologie digitali.
Sono gli ‘esperti’ a cui la politica si affida. È oltretutto un rapporto di
collaborazione di lunga durata, perché le radici della Silicon Valley e il
principale utilizzo delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale si
ritrovano nell’industria della Difesa: armi e tutto ciò che ruota intorno alla
guerra (13). Non sarà un problema di domani – per ora l’intelligenza artificiale
‘ristretta’, alla ChatGPT, è tutto tranne che intelligente; figuriamoci
l’ipotetica AGI – ma stanno arando il terreno. L’egemonia è qualcosa che si
costruisce lentamente, occupando pian piano ogni spazio, spostando a piccoli
scarti il significato delle parole, colonizzando il pensiero e l’immaginario
delle persone. È il caso di prenderli sul serio.
NOTE
1 HTTPS://WEB.ARCHIVE.ORG/WEB/20051029125153/HTTPS://WWW.MAXMORE.COM/TRANSHUM.- HTM
2 CFR. HTTPS://FIRSTMONDAY.ORG/OJS/INDEX.PHP/FM/ARTICLE/VIEW/13636
3 HTTPS://GOERTZEL.ORG/COSMISTMANIFESTO_JULY2010.PDF
4 HTTPS://A16Z.COM/THE-TECHNO-OPTIMIST-MANIFESTO/
5
HTTPS://WWW.REUTERS.COM/TECHNOLOGY/MICROSOFT-OPENAI-PLANNING-100-BILLION-DATA-CENTER- PROJECT-INFORMATION-REPORTS-2024-03-29/?_X_TR_SL=EN&_X_TR_TL=IT&_X_TR_HL=IT&_X_TR_PTO=SC
6 RAYMOND KURZWEIL, THE SINGULARITY IS NEAR, 2005
7 RISUONA FEUERBACH DE L’ESSENZA DEL CRISTIANESIMO, E INFATTI CAPITA DI
INCONTRARLO CITATO NEGLI SCRITTI DI ALCUNI TRANSUMANISTI, TRA I QUALI ANCHE MAX
MORE.
8 THEODOR ADORNO E MAX HORKHEIMER, DIALETTICA DELL’ILLUMINISMO, EINAUDI
9 CFR. IVAN ILLICH, LA CONVIVIALITÀ, 1972
10 HTTPS://FUTUREOFLIFE.ORG/OPEN-LETTER/PAUSE-GIANT-AI-EXPERIMENTS/
11 HTTPS://OPENAI.COM/INDEX/PLANNING-FOR-AGI-AND-BEYOND/
12 HTTPS://WWW.REUTERS.COM/TECHNOLOGY/ELON-MUSKS-AI-FIRM-XAI-LAUNCHES-WEBSITE-2023-07-12/
13 CFR. GIOVANNA CRACCO, INTELLIGENZA MORTALE. AI E ARMI AUTONOME LETALI,
PAGINAUNO N. 87, LUGLIO 2024.
NEL MASSACRO IN CORSO A GAZA – CHE L’ARTICOLISTA IN VENA DI MACABRO UMORISMO
CHIAMA «UNO DEI CONFLITTI PIÙ CRUENTI DEGLI ULTIMI ANNI» – L’INTELLIGENZA
ARTIFICIALE GIOCA UN RUOLO DI PRIMO PIANO, AL PUNTO CHE PERSINO DEI SINCERI
DEMOCRATICI LO HANNO DEFINITO IL PRIMO GENOCIDIO AUTOMATIZZATO DELLA STORIA. UNA
“NOTIZIA” NON PROPRIO DEGLI ULTIMI GIORNI, MA CHE È ARRIVATA FINALMENTE ANCHE
ALLA REDAZIONE DE “LA STAMPA”. PER PARLARNE, LA BUSIARDA HA ASPETTATO, COME
SEMPRE, CHE NE PARLASSE QUALCHE “AUTOREVOLE” QUOTIDIANO STATUNITENSE (NELLO
SPECIFICO IL “WASHINGTON POST”), ASSEMBLANDO MEZZE VERITÀ (IL NUMERO DEI “CIVILI
PALESTINESI SACRIFICABILI” PER OGNI “MEMBRO DI HAMAS” DA COLPIRE È BEN MAGGIORE
DEL RAPPORTO DI 20 A 1) E TOTALI MENZOGNE (AD ESEMPIO CHE IL RICORSO ALL’IA
ABBIA LO SCOPO DI «RIDURRE LA DURATA DEL CONFLITTO E LIMITARE IL NUMERO DI
VITTIME SUL CAMPO»). DI FRONTE AL FATTO CHE L’UMANITÀ PRIGIONIERA E SORVEGLIATA
DI GAZA DIVENTI IMMEDIATAMENTE ASSASSINABILE DA UN REPARTO DELL’INTELLIGENCE
ISRAELIANA CHIAMATO «UNITÀ 8200» E COMPOSTO «PER IL 60% DA INGEGNERI ED ESPERTI
TECH», AL NOSTRO VALOROSO CRONISTA NON RIMANE ALTRO CHE LAMENTARE LA SCARSA
PRECISIONE DEI SISTEMI AUTOMATIZZATI E CONCLUDERE: «LA SUPERVISIONE UMANA RIMANE
FONDAMENTALE PER CONTENERE ERRORI E SALVAGUARDARE VITE». EVIDENTEMENTE, LO
HUMAN-MACHINE TEAM CHE DÀ IL TITOLO AL LIBRO SCRITTO DAL GENERALE YOSSI SARIEL,
CAPO DELL’UNITÀ 8200, COMPRENDE ANCHE LE REDAZIONI DI SCRIBACCHINI CHE NON
TROVANO UNA SOLA PAROLA DI CONDANNA MORALE DAVANTI A UN TALE ORRORE
MACCHINIZZATO.
IN QUESTO MOMENTO L’ARMA PIÙ PERICOLOSA DELL’ESERCITO ISRAELIANO È L’IA
Un’inchiesta del Washington Post racconta come l’IDF abbia creato negli ultimi
dieci anni una “fabbrica dell’intelligenza artificiale” che scova i militanti di
Hamas, suggerisce dove bombardare e calcola il numero di civili “sacrificabili”.
Ma lo scenario ricostruito dal Post non è quello di un’infallibile guerra
chirurgica. L’IA può commettere errori e ciò che sta avvenendo a Gaza potrebbe
interessare, in futuro, altri conflitti nel mondo
L’intelligenza artificiale è spesso al centro di dibattiti sul futuro del
lavoro, con molti esperti che temono possa progressivamente sostituire gli
esseri umani.
Ma esiste un altro scenario ancora più inquietante: l’utilizzo degli algoritmi
nelle decisioni militari.
Un’inchiesta del Washington Post ha messo in luce come l’IA stia prendendo il
posto degli analisti umani nella gestione e nell’individuazione degli obiettivi
bellici a Gaza, in uno dei conflitti più cruenti degli ultimi anni.
La progressiva sostituzione delle operazioni di intelligence con sistemi
automatici sta rivoluzionando il modo in cui si combatte una guerra.
I dati raccolti da satelliti, droni e sistemi di sorveglianza vengono filtrati
da algoritmi che propongono possibili bersagli. Gli ufficiali dell’IDF
considerano questi strumenti fondamentali per velocizzare le decisioni e
conservare un vantaggio strategico.
GOSPEL, “THE POOL” E I SISTEMI IA USATI A GAZA
Il sistema “Habsora” (in ebraico “the Gospel”) sfrutta centinaia di algoritmi
per individuare potenziali obiettivi tra i dati accumulati in un enorme bacino
digitale chiamato “the pool”.
Gli algoritmi setacciano intercettazioni, foto satellitari e post sui social
network per segnalare coordinate di presunte strutture sotterranee, tunnel o
depositi di armi.
“Usando il riconoscimento delle immagini del software, i soldati possono scovare
minuscoli cambiamenti in anni di riprese satellitari di Gaza che suggeriscono
come Hamas abbia piazzato un lanciarazzi o scavato un nuovo tunnel su terreni
agricoli” scrive il Washington Post sulla base delle rivelazioni di un ex capo
militare che ha lavorato a questi sistemi di intelligenza artificiale.
Altri programmi, come “Lavender”, utilizzano punteggi in percentuale per stimare
la probabilità che una persona appartenga a gruppi armati. Elementi come la
presenza in determinate chat o l’uso frequente di più linee telefoniche possono
alzare il livello di sospetto.
Applicazioni come “Hunter” e “Flow”, invece, consentono ai soldati israeliani
sul campo di battaglia di accedere a dati in tempo reale, inclusi video in tempo
reale delle zone a cui si avvicinano e stime su possibili vittime civili.
Questi sistemi si interfacciano con “Gospel”, potenziando l’intero processo di
acquisizione degli obiettivi.
LE “FONTI” DELL’IA
Gli algoritmi attingono a intercettazioni telefoniche, droni, database di reti
sociali e sensori sismici. Tutte queste informazioni confluiscono appunto in
“the pool”, un archivio centralizzato creato per conservare possibili indizi
sulla presenza di strutture e militanti di Hamas.
LA PROCEDURA DI VALIDAZIONE DEI DATI
Gli algoritmi producono coordinate e suggerimenti di obiettivi da colpire.
Un analista umano verifica le segnalazioni, inoltrandole a un ufficiale di grado
superiore che le inserisce nel cosiddetto “target bank”, la banca data degli
obiettivi.
I VANTAGGI DELL’IA IN GUERRA
Le ricerche e le analisi che prima richiedevano una settimana vengono ora
completate in soli 30 minuti.
L’IDF per esempio utilizza l’IA per trascrivere migliaia di conversazioni ogni
giorno e rintracciare rapidamente possibili minacce nelle parole che si
scambiano i palestinesi.
Alcuni ufficiali ritengono che la velocità di analisi dell’IA possa ridurre la
durata del conflitto e limitare il numero di vittime sul campo.
Secondo i vertici militari israeliani, questa tecnologia permette di aggiornare
i piani d’attacco in tempo reale, offrendo maggiore precisione e un notevole
risparmio di risorse umane e logistiche.
GLI ERRORI CHE PUÒ COMMETTERE L’IA
Tuttavia alcuni soldati ed ex ufficiali dell’IDF – che hanno parlato in forma
anonima con il Washington Post – hanno dubbi sulla capacità dell’IA di
interpretare correttamente il linguaggio locale.
In uno dei casi raccontati al giornale di proprietà di Jeff Bezos, il fondatore
di Amazon, gli algoritmi non sono riusciti a distinguere tra la parola “batikh”
(in arabo “anguria”) usata come codice per le bombe e quella riferita al frutto
reale.
Le IA, tarate sulla ricerca di possibili segnali d’allarme, rischiano così di
generare un eccesso di falsi positivi e di spingere i militari a valutare come
sospette anche le conversazioni più innocue.
Un altro esempio preoccupante di errore che può commettere una IA è la stima del
numero di civili presenti in un edificio, a cui solitamente l’IDF arriverebbe
basandosi anche sul conteggio dei telefoni connessi a una cella, ignorando per
esempio bambini o dispositivi spenti o scarichi nel momento in cui vengono
conteggiati gli smartphone.
Non è sempre chiaro, inoltre, se un’informazione su possibili obiettivi proviene
da una macchina o da un analista umano: tutto questo rende più rischiosa la
valutazione da parte di chi, alla fine, deve decidere o meno se sferrare un
attacco.
Un ex alto ufficiale dell’IDF ha detto al Washington Post che la troppa fiducia
nei sistemi automatizzati ha alimentato nell’esercito l’idea di un’avanzata
sorveglianza “onnisciente”.
Affidandosi alle dichiarazioni di due ex militari israeliani, il Washington Post
ha scritto che “l’entusiasmo per l’intelligenza artificiale ha eroso la “cultura
dell’avvertimento” dell’Unità 8200, secondo cui anche gli analisti di basso
livello potevano facilmente informare i comandanti superiori sulle minacce in
corso”.
Secondo queste fonti, l’IA può contribuire ad agire più in fretta, ma non a
ridurre gli errori in un contesto bellico complesso come quello di Gaza.
IL RUOLO DELL’UNITÀ 8200
L’adozione di tecnologie di IA è stata accelerata dalla Unit 8200, il reparto
d’élite dell’intelligence israeliana.
A guidare l’integrazione dell’IA nelle operazioni militari è stato il generale
Yossi Sariel, convinto sostenitore della necessità di automatizzare le strategie
decisionali in battaglia.
Sariel è l’autore di un libro dal titolo The Human-Machine Team: How to Create
Synergy Between Human and Artificial Intelligence That Will Revolutionize Our
World” in cui sostiene “la necessità di progettare una macchina speciale in
grado di elaborare rapidamente enormi quantità di dati per generare migliaia di
potenziali “bersagli” per attacchi militari in piena guerra”.
Sariel ha promosso un radicale potenziamento dell’ingegneria dei dati, riducendo
gli specialisti di lingua araba e ridisegnando la struttura dell’Unità 8200, che
oggi è composta per il 60% da ingegneri ed esperti tech, il doppio degli
informatici arruolati dieci anni fa.
I CIVILI “SACRIFICABILI”
Secondo le testimonianze di ex soldati e analisti raccolte dal Washington Post,
la fiducia nell’IA ha portato l’IDF a ridurre alcuni passaggi di validazione e
controllo, col risultato di aumentare il numero di obiettivi ritenuti legittimi.
Anche se questi comportano un maggior rischio di vittime tra i civili.
Dalla proporzione di 1:1 del 2014 (un civile “sacrificabile” per colpire un
membro di Hamas di alto livello) si è passati a 15:1 o persino 20:1 nel
conflitto attuale, stando alle fonti del Washington Post e a quanto hanno
dichiarato organizzazioni umanitarie.
Molti analisti sostengono che, sebbene queste tecnologie siano destinate a
diffondersi tra i paesi in guerra, la supervisione umana rimane fondamentale per
contenere errori e salvaguardare vite.
(Pier Luigi Pisa su “La Stampa” on line del 30 dicembre 2024)
L’intervista che il servo Di Feo ha fatto all’amministratore delegato di
Leonardo Cingolani è oltremodo istruttiva. Quello in costruzione è
dichiaratamente un complesso scientifico-militare-industriale europeo in cui il
colosso italiano degli armamenti ambisce a giocare un ruolo di primo piano.
Salta ogni distinzione di facciata tra il civile e il militare, perché la
potenza tecnologica deve essere multidominio (concetto-chiave sia del Pentagono
sia del partito-Stato cinese). Dai satelliti all’”agricoltura di precisione”,
dai supercomputer ai caccia con cui controllare flotte di aerei senza pilota,
dalla “cyber-sicurezza” ai nuovi carri corazzati, il programma ha bisogno di
“alleanze internazionali di tipo nuovo”, di ingenti fondi statali (“possiamo
essere sherpa dei governi”) e di elmetti ben precisi da far indossare ai
ricercatori (“Quando mi occupavo di scienza prendevo ricercatori dalla Cina o
dall’Iran: sulla tecnologia di Leonardo non lo puoi fare per questioni di
sicurezza e il vivaio da cui assumere giovani Stem è limitato”). Serve
aggiungere altro?
CINGOLANI: “DALLO SPAZIO ALLA PORTAEREI VOLANTE, IL FUTURO DI LEONARDO È LA
SICUREZZA GLOBALE”
Intervista all’ad di Leonardo: “La sfida del caccia stealth di sesta generazione
è partita con la joint venture con Bae Systems e Mitsubishi”. Musk? “Con
Starlink è un nostro fornitore, non escludo in futuro altre collaborazioni”. E
sui mezzi corazzati “con la tedesca Rheinmetall abbiamo creato uno spazio
europeo della difesa”
Leonardo ha trovato la quadratura del cerchio. L’amministratore delegato Roberto
Cingolani presenta il futuro dell’azienda con una geometria finalmente chiara,
in cui settori di attività in apparenza molto diversi – dagli aerei ai carri
armati fino ai satelliti – diventano declinazioni della capacità di produrre
sistemi digitali avanzati, con un’integrazione accelerata dalla competenza nello
spazio, nella cyber, nei supercomputer. Una visione globale di sviluppo
tecnologico e industriale che sembra avere convinto i mercati.
Oggi ordini e quotazione crescono sulla spinta del riarmo scaturito dalla guerra
in Ucraina. Ma quale sarà il futuro di Leonardo?
“Siamo partiti da un’analisi sorprendente della guerra in Ucraina: attacco e
difesa digitali sono diventati efficaci quanto e forse più di quelli
convenzionali. Droni da poche migliaia di euro guidati dalle comunicazioni
satellitari hanno distrutto tank costati parecchi milioni. Ci siamo poi resi
conto dell’importanza delle sinergie: l’Europa si è presentata frammentata
mentre in questo mercato nessuno ce la fa da solo. La terza considerazione è che
quando è scoppiata la guerra, prima ancora di misurarne le drammatiche
conseguenze umane, abbiamo vissuto qualcosa che non pensavamo potesse accadere:
l’insicurezza globale in campo energetico, alimentare, cibernetico e persino
delle infrastrutture. Per questo è indispensabile andare verso un approccio più
ampio di sicurezza globale, che – sperando di vedere terminare i conflitti il
prima possibile – va portato avanti anche in tempo di pace, che noi chiamiamo
“multidominio interoperabile””.
Che cosa vuol dire?
“Abbiamo sfruttato quella che poteva essere una nostra debolezza: Leonardo fa le
cose più complesse come aerei ed elicotteri, che sono pure le più costose perché
devi investire tanto e i margini di profitto possono risentirne. Ma se
l’esigenza attuale è garantire che tutte le piattaforme dialoghino, allora noi
produciamo i sistemi spaziali che permettono di supervisionare quello che
succede e di garantire le comunicazioni. Abbiamo inoltre la dimensione cyber per
proteggere le connessioni; le strumentazioni elettroniche e il supercalcolo, con
uno dei computer più potenti al mondo. Oltre Leonardo, quale altra azienda
internazionale poteva fare questo discorso globale? In sintesi, Leonardo del
futuro sarà un’azienda sempre più internazionale e interconnessa che come
prodotto centrale avrà la sicurezza globale. La speranza come cittadino e come
padre è che non ci siano guerre: la sicurezza globale va assicurata a
prescindere anche in tempo di pace, perché ad esempio la protezione cyber di
reti e di dati va garantita sempre. I satelliti permettono il monitoraggio delle
infrastrutture, l’agricoltura di precisione, la climatologia avanzata. Questi
sistemi danno una sicurezza declinata su tutte le voci: abbiamo messo in piedi
una tecnologia che opera su tutti i domini, ossia in terra, in cielo e spazio,
nel mare e nel digital continuum”.
La sfida più ambiziosa è il Gcap, Global Combat Air Programme: un caccia stealth
di sesta generazione. Neppure gli Usa stanno progettando qualcosa di simile.
Quanto sarà impegnativo?
“Si tratta di sviluppare un caccia invisibile ai radar in grado di controllare
una flotta di aerei senza pilota. In pratica, sarà una sorta di supercomputer
volante: a me piace paragonarlo a una portaerei che sta in cielo. La sfida è
veramente impegnativa: abbiamo firmato venerdì l’accordo con la britannica Bae
Systems e con la giapponese Mitsubishi per la nascita della joint venture.
L’ingresso in servizio è previsto nel 2035. La prima parte del programma
finanziata dai tre Paesi per 45 miliardi di euro riguarda l’aereo madre. Nella
seconda parte ci sono gli altri due elementi fondamentali. Lo sviluppo dei
droni, che sono veri aerei senza pilota da ricognizione, attacco,
intercettazione. Stiamo decidendo se questi Adjunt Fighter nasceranno con un
modello universale o con tanti progetti già specializzati. Poi c’è lo sviluppo
del software di intelligenza artificiale che comanda lo sciame di macchine. Non
è escluso che ciascuno dei partner sviluppi la propria Ai. Ma non c’è tempo da
perdere perché i progetti vanno realizzati insieme. Indubbiamente il programma
Gcap richiede uno sforzo impegnativo. In Europa c’è pure il consorzio Fcas
franco-tedesco-spagnolo che si muove su un’idea simile ma appare in ritardo
rispetto a noi. E c’è forte interesse nel resto del mondo, con Paesi come
l’Arabia Saudita che stanno chiedendo di entrare nel Gcap”.
Quando ci sarà una decisione sui sauditi?
“Adesso avremo alcuni mesi di lavoro per definire i piani dettagliati della
joint venture, poi si deciderà sui nuovi partner. Un programma di questo genere
ha un costo complessivo di almeno 100 miliardi di euro: ben vengano altri Paesi
pronti a contribuire. Con i sauditi esiste un antico rapporto di fiducia nato
con l’adozione del Tornado e dell’Eurofighter: hanno voglia di creare
un’industria aeronautica, che può legarsi al programma Gcap e metterli al centro
del grande mercato mediorientale”.
L’accordo con i tedeschi di Rheinmetall invece vi dà un ruolo leader nei mezzi
corazzati. Quanto peserà negli assetti europei della difesa?
“E’ la prima chiara dimostrazione che si può creare uno spazio europeo della
difesa a livello industriale, in cui possiamo essere sherpa dei governi. Il
punto vincente è la sinergia tecnologica: noi sulla parte digitale siamo utili a
Rheinmetall mentre loro hanno un tank allo stato dell’arte, il Panther. E’ il
classico caso in cui uno più uno fa tre: non abbiamo soltanto sommato le
capacità, c’è stata la tessitura delle nostre rispettive tecnologie. L’Italia
deve rinnovare il suo arsenale di terra: serviranno oltre 1200 mezzi corazzati
nei prossimi dodici anni, tra carri armati e veicoli trasporto truppe, e le
nuove piattaforme saranno le più avanzate. L’Europa in questo segue l’Italia e
c’è un gran bisogno di rinnovamento negli eserciti di altri Paesi. L’Ue infatti
ha un confine problematico, a contatto con quella che ora è la zona più calda
del pianeta: i russi hanno invaso l’Ucraina con migliaia di tank e con amarezza
bisogna prendere atto che la situazione è questa”.
Il polo dei mezzi corazzati sarà a la Spezia. Avete problemi a trovare il
personale?
“Ne abbiamo un po’ a tutti i livelli, non solo per La Spezia ma pure per gli
elicotteri e per tutte le nostre attività industriali. Noi assorbiamo figure
Stem – ossia esperte in scienza, tecnologia, ingegneria e matematica – non solo
per la manifattura avanzata ma anche per generare l’intelligenza artificiale e
il supercalcolo: oggi ad esempio trovare un esperto di Ai è difficile perché la
domanda è enorme e l’offerta è quantitativamente insufficiente. E non si può
nemmeno andare a cercare dai Paesi vicini perché in Europa il problema ce
l’hanno tutti. Quando mi occupavo di scienza prendevo ricercatori dalla Cina o
dall’Iran: sulla tecnologia di Leonardo non lo puoi fare per questioni di
sicurezza e il vivaio da cui assumere giovani Stem è limitato. A questo vorrei
aggiungere che in Italia c’è carenza di manodopera specializzata, tipicamente di
periti meccanici ed elettronici per lavorare nelle macchine a controllo numerico
o nei materiali avanzati. Ancora una volta questa crescita esponenziale delle
tecnologie dimostra che per essere competitivi bisogna fare investimenti in
formazione, mentre l’Italia come tutta l’Europa va a rilento su questo fronte.
Io ritengo che sarebbe necessario introdurre una prospettiva diversa: oggi non
ci sono più la ricerca di base e quella applicata, c’è solo la ricerca buona. Ci
dobbiamo rendere conto che non è importante solamente la pubblicazione sulla
scienza di frontiera ma che pure la tecnologia dei brevetti ha la stessa dignità
per lo sviluppo della società”.
Voi all’inizio del millennio eravate protagonisti nel mercato dei droni con il
Falco: oggi Leonardo è ancora nella partita?
“Posso dire senza giri di parole che sui droni abbiamo perso il treno. L’unico
modo di superare il gap è fare accordi internazionali che puntino sulle nostre
capacità digitali: ci stiamo lavorando intensamente”.
Invece il convertiplano AW 609? C’è grande interesse su questi ibridi tra aereo
ed elicottero…
“L’AW 609 è una macchina superinnovativa e siamo in due al mondo a possedere
questa tecnologia: Bell per la parte militare e Leonardo per quella civile. Vola
alla velocità di un aereo, alla quota di un aereo e decolla come un elicottero
ma con un’autonomia di 1500 chilometri impensabile per un elicottero. Il nostro
prototipo avrà presto la certificazione civile e poi valuteremo le applicazioni
militari. Il fatto è che queste tecnologie sono talmente innovative da
richiedere investimenti molto rilevanti: nel corso degli anni hanno superato il
miliardo di euro”
Lo spazio è sempre più la nuova frontiera. Con quali prospettive?
“Leonardo non poteva continuare a essere un operatore invisibile, nel senso che
le nostre partecipazioni non comparivano nel bilancio. Abbiamo creato una
divisione spazio e razionalizzato tutto: ad esempio, Telespazio è stata
consolidata rinegoziando gli accordi con Thales. Andremo a intercettare la fetta
di mercato più ricca della space economy: il nostro focus saranno i servizi
satellitari, end to end, dalla costellazione alla stazione di terra. Con
applicazioni che vanno dalla difesa alla geologia, all’agricoltura alla
geolocalizzazione: noi possiamo fare tutto grazie alla capacità digitale, come
le analisi delle immagini con l’intelligenza artificiale, che ci rende più
forti”.
Quali sono le prospettive dell’Europa nella space economy?
“Gli Stati Uniti hanno avuto l’intuizione di non potere andare avanti solo con i
finanziamenti istituzionali. Nell’Unione Europea l’80% dei fondi sono statali;
negli Usa invece si è creato un meccanismo pubblico-privato, reso possibile
dalla presenza di investitori con enormi disponibilità. L’unica strada anche qui
è accelerare moltissimo le alleanze europee: noi ci presentiamo con un piano
chiaro e tecnologie innovative e quindi in grado di collaborare con chiunque. Lo
ripeto: nessuno ce la fa da solo”.
Voi avete una collaborazione con Starlink di Elon Musk, intendete ampliarla?
“Per ora Starlink è un nostro fornitore: per noi è assolutamente normale
comprare banda da diverse costellazioni di satelliti. Ovviamente in futuro non
escludo altre collaborazioni”.
Leonardo ha uno dei supercomputer più potenti del mondo: che ricadute ha sugli
altri settori di attività?
“Serve per tutto quello che ha bisogno di intelligenza artificiale. Noi
intendiamo tenere questa macchina sempre allo stato dell’arte perché è un asset
straordinariamente importante e abbiamo avviato una trasformazione sui cloud e i
data center. Molte cose bollono in pentola. Come la collaborazione con il Piano
Strategico Nazionale, quella con Cineca e ci sono progetti internazionali su
macchine ad altissime prestazioni in cui Leonardo potrebbe essere coinvolta. Noi
sviluppiamo intelligenza pervasiva, ossia che si applica a tutto, e generativa,
che impara mentre elabora i dati, ma addirittura generiamo la Ai federativa:
tiene silos informativi multidominio separati, rispettando la privacy dei dati
di ciascuno pur imparando da tutti. E’ il software più simile a un essere
umano”.
Il settore più in difficoltà è quello degli aerei civili, che risente della
crisi di Boeing. Cosa farete a Grottaglie e negli altri impianti?
“Ora c’è ottimismo sulla ripresa di Boeing. Ma abbiamo accumulato perdite
importanti negli ultimi sette anni. Il settore civile è dominato da due big:
essere loro fornitori implica tanto lavoro con grandi investimenti e margini
minimi. E’ un modello di business rischioso. Questa è una compagnia che sta
crescendo molto bene, gli investitori lo hanno capito: la marginalità nelle
altre attività ci consentono di fare investimenti per rimanere competitivi nel
tempo e mantenere le nostre tecnologie allo stato dell’arte. Allora anche in
quegli impianti devo creare una speranza: non perdere un solo posto trasferendo
lì altre produzioni e costruire subito alleanze internazionali di tipo nuovo per
poter essere competitivi”.
(intervista di Gianluca Di Feo, “la Repubblica”, 15 dicembre 2024)
Segnaliamo questo comunicato del Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi
di Lavoro e nel Territorio di Sesto San Giovanni sull’ennesima strage di operai
compiuta in nome del profitto. Su due cose ha particolarmente ragione il
Comitato di Sesto: i lavoratori fanno notizia solo quando muoiono a grappoli;
senza autorganizzazione e lotte avremo solo chiacchiere, lacrime di coccodrillo
e qualche inutile “sciopericchio”. A questo aggiungiamo che Eni è la stessa che
saccheggia e devasta in giro per il mondo e che è pienamente responsabile del
genocidio del popolo palestinese per le mire – in comune tra il “cane a sei
zampe” e il governo israeliano – sui giacimenti di gas al largo delle coste di
Gaza.
ENI DI CALENZANO COME L’ENEL DI SUVIANA: UN’ALTRA STRAGE DI LAVORATORI
A pochi mesi dalla strage all’Enel di Suviana – svanita nel nulla da punto di
vista dell’informazione dopo le lacrime da coccodrillo e i “mai più” dei soliti
politici e dei soliti media – ieri un’esplosione nell’impianto ENI di Calenzano
causa la morte di 5 lavoratori e il ferimento gravissimo di altri 26 (fino ad
ora).
Sono Vincenzo Martinelli, Carmelo Corso, Gerardo Pepe, Franco Cirielli e Davide
Baronti.
Autotrasportatori e manutentori che giravano il Paese per fare il proprio lavoro
e che ieri si trovavano proprio nei pressi delle cisterne esplose dove la
deflagrazione li ha colpiti in pieno senza dar loro scampo.
ENI non è una fabbrichetta di fuochi artificiali che salta in aria.
ENI è un’azienda multinazionale, l’azionista di controllo è il nostro Ministero
dell’Economia, è una società che opera in 61 paesi con più di 30.000 dipendenti
nei settori del petrolio, gas naturale, chimica, energia elettrica e altri.
Un colosso quindi, esattamente come l’ENEL.
Nello stabilimento di Calenzano – 170 mila mq. – vengono stoccati in 24 serbatoi
i carburanti che arrivano dall’oleodotto di Livorno. Una scintilla (da quanto si
sa finora) ha provocato una enorme esplosione e chi si trovava nel piazzale
centrale non ha avuto scampo. Anche lavoratori di altri siti nelle vicinanze
sono finiti all’ospedale con lesioni dovute allo scoppio dei vetri a un
chilometro di distanza e traumi alle orecchie.
Negli ultimi tempi, denunciano i sindacati, si risparmiava sui costi facendo
fare ai camionisti – e non a personale specializzato – il lavoro di carico dei
carburanti (e vedrete che la colpa ricadrà proprio su di loro, ultimo anello di
una catena insanguinata che ha il profitto a tenerla insieme).
Tra l’altro lo stabilimento è situato in un luogo particolare: si trova a 40
metri dalla linea ferroviaria Firenze-Bologna, a 800 metri dall’autostrada A1 e
a 5 km. dall’aeroporto Vespucci; nei pressi ci sono hotel, altre fabbriche, un
centro commerciale. Poteva essere un’altra Viareggio.
Lo denuncia Medicina Democratica che oggi, per bocca del suo presidente Marco
Caldiroli, dice: “Nel 2017 e nel 2020 il Comitato Tecnico regionale, nel
verificare la situazione all’interno dei reparti in relazione agli impianti di
sicurezza, aveva rilevato che non erano all’altezza di un rischio maggiore. Nel
2023 ‘improvvisamente’ tutto si sistema”. Caldiroli si chiede anche in cosa sia
consistita questa “improvvisa” sistemazione: in un effettivo intervento concreto
sugli impianti o in qualcosa che sta solo nelle carte?
I morti e i feriti di Calenzano – come quelli di altre stragi e come lo
stillicidio di morti di lavoro ogni giorno – sono lo specchio del lavoro operaio
in Italia: italiani e stranieri, giovani e anziani, mandati allo sbaraglio pur
di risparmiare sulla sicurezza.
E lo diciamo chiaramente anche se “l’inchiesta è in corso”. Inchiesta che finirà
per accertare che le misure di sicurezza non venivano adottate correttamente,
che non erano adeguate al rischio, che i camionisti rimasti uccisi non erano
formati per effettuare il lavoro che stavano eseguendo, che c’erano già state
denunce – inascoltate – sul pericolo rappresentato non solo per i lavoratori ma
per tutto l’intorno.
E quanti “punti” toglierà a se stesso – in quanto proprietario – lo Stato
italiano e questo governo che non vuole “disturbare il manovratore”?
Anche quelli di Calenzano (ENI), di Brandizzo (Rete Ferroviaria Italiana), di
Suviana (ENEL) sono i morti di “progresso” di aziende fiore all’occhiello,
progresso che è precarietà, risparmi sulla sicurezza per massimizzare i
profitti, condizioni di lavoro ottocentesche.
Quel “progresso” che da più di trent’anni – complici leggi che governo dopo
governo, di ogni colore, hanno portato alla precarietà più selvaggia in nome del
profitto e alla totale impunità dei padroni – fa ogni anno più di 1.500 morti di
lavoro, che fanno notizia solo quando muoiono in gruppo come ieri.
Per qualche giorno sentiremo nuovamente l’ormai insopportabile piagnisteo di
istituzioni, politici e giornalisti, i sindacati confederali faranno uno
sciopericchio e… tutto continuerà fino alla prossima strage. Zitti invece i
mandanti, i padroni a cui è assicurata l’impunità, perché le leggi si fermano
alle porte dei luoghi di lavoro.
Il capitalismo è sfruttamento, miseria e morte di tanti per il profitto di
pochissimi; è un tritacarne che ingoia i proletari e che continuerà a farlo
finchè non lo rovesceremo.
Con questo nuovo lutto nel cuore, ripetiamo quanto detto innumerevoli volte.
Il primo passo da fare è organizzarsi, lottare per difendere la nostra vita e
A CONDIZIONI DI MORTE NON LAVORARE.
COMITATO PER LA DIFESA DELLA SALUTE NEI LUOGHI DI LAVORO E NEL TERRITORIO
Sesto S.Giovanni, 10.12.2024
SEGNALIAMO QUESTO ARTICOLO USCITO SU “IL MANIFESTO” DEL 4 DICEMBRE. SI TRATTA DI
UN TESTO PIUTTOSTO SORPRENDENTE, SIA PERCHÉ RIPRENDE LA DOCUMENTAZIONE CHE SULLA
DISERZIONE DIFFONDE DA TEMPO “ASSEMBLY”, IL COLLETTIVO ANARCHICO DI KHARKIV, SIA
PER LA CONCLUSIONE CHE CONTIENE.
STANCHI DI GUERRA, DISERZIONI A VALANGA SU ENTRAMBI I FRONTI
Il limite ignoto – Boom di defezioni tra i soldati russi e ucraini. E c’è chi
punta le armi contro i suoi capi
Lo scorso mese, su un grattacielo alla periferia di Kharkiv, in Ucraina
orientale, è improvvisamente comparso uno strano slogan: «I fucili – diceva –
puntateli contro coloro che ve li hanno messi in mano». La frase, dal gradevole
retrogusto eversivo, sarebbe certamente piaciuta agli ex soldati russi
Vyacheslav Trutnev e Dmitry Ostrovsky, che dopo aver disertato dall’esercito di
Putin, a inizio ottobre, hanno scritto e diffuso via social la seguente canzone
rap: «Me ne frego se mi chiamano traditore/ non ho perso la mia dignità/
Aiutiamo le nostre madri/ mettiamolo in culo ai nostri comandanti».
E POI, C’È CHI È GIÀ PASSATO dalle parole ai fatti, come il disertore
pietroburghese Alexander Igumenov, che la sera del 30 ottobre scorso ha accolto
il capo della pattuglia venuta ad arrestarlo puntandogli direttamente una
pistola in mezzo agli occhi: «O ti levi di torno – gli avrebbe detto -, oppure
al ministero della Difesa avranno bisogno di un ufficiale in più». Una scena non
molto dissimile si è verificata la settimana successiva sull’altro versante del
confine, nel villaggio ucraino di Lykhivka, dove un anonimo camionista si è
smarcato da un gruppo di reclutatori dell’esercito minacciandoli con un fucile e
una bottiglia Molotov. Non sappiamo se l’uomo avesse ascoltato le rime di
Trutnev e Ostrovsky, ma è certo è che il clima di mobilitazione patriottica, tra
la Moscova e il Dnipro, ultimamente sembra essersi parecchio guastato.
PER SINCERARSENE, basta consultare i recenti report pubblicati dal collettivo
anarchico “Assembly” di Kharkiv (assembly.org.ua), che dal febbraio del 2022 si
sforza di censire ogni singolo episodio di ribellione antimilitarista su
entrambi i lati del fronte. «La fuga del personale delle Forze Armate – scrivono
gli attivisti nel loro ultimo rapporto, datato novembre 2024 – ha ormai assunto
il carattere di una valanga». E in effetti i numeri parlano piuttosto chiaro.
Dall’inizio dell’invasione a oggi, secondo i dati della Procura generale, circa
95mila soldati ucraini sarebbero stati incriminati per aver abbandonato i propri
reparti senza autorizzazione. Di questi, circa 60mila uomini avrebbero gettato
la divisa nel corso del 2024, e ben 9.500 nel solo mese di ottobre.
Ma è probabile che il fenomeno sia ancora più vasto: «Di sicuro il numero dei
nostri disertori ha già superato i 150mila e si avvicina a 200mila – ha scritto
il giornalista di Kiev Volodymyr Boiko, che attualmente presta servizio nella
101ma Brigata delle Forze armate ucraine – Se le cose vanno avanti così,
arriveremo a 200mila entro fine dicembre».
ANCHE SUL FRONTE RUSSO la gente sembra ormai stanca di combattere: è degli
scorsi giorni la notizia che circa mille uomini avrebbero disertato in massa
dalla 20ma Divisione fucilieri motorizzata, trascinando con sé persino 26
ufficiali, un maggiore e un colonnello. «I militari che si danno alla macchia
sono sempre più numerosi – si legge in un messaggio che gli attivisti di
“Assembly” hanno recentemente ricevuto da Horlivka, nella repubblica filorussa
di Donetsk – Qualcuno va ripetendo in giro che i nostri soldati dovrebbero
smetterla di sparare agli ucraini, e che piuttosto bisognerebbe aprire il fuoco
contro chi ci governa. Ma la gente ha ancora paura di questi discorsi, e in
molti si fanno prendere dal panico: “Volete tornare al 1917?”, chiedono, “Volete
la guerra civile?”».
Un altro messaggio proviene da un giovane coscritto dell’esercito di Putin
dislocato sul fronte di Kursk: «Molti dei nostri ufficiali sono dei veri nazisti
– dice -. Ho parlato con il capo delle comunicazioni della Divisione mortai, il
quale senza troppi giri di parole mi ha esortato a leggere “i pensatori tedeschi
degli anni Trenta”. D’altro canto, gli uomini della truppa appartengono quasi
tutti alla classe operaia, e in generale non hanno nessuna voglia di combattere.
Perciò quando spiego ai miei compagni che questa è una guerra ingiusta, di
padroni contro altri padroni, in tanti si dicono d’accordo con me».
È UNO SCENARIO CHE STRIDE non poco con quello insistentemente magnificato dagli
uffici di propaganda, che a Mosca come a Kiev continuano a battere sulla
grancassa dell’“armatevi e partite”. La musica al fronte è un po’ diversa.
Il 3 ottobre a Voznesensk, nella regione di Mykolaiv, circa cento soldati della
123ma Brigata di difesa territoriale ucraina hanno dato vita a una improvvisa
manifestazione di dissenso e si sono rifiutati di andare in trincea, protestando
per la mancanza di armi ed equipaggiamento adeguato. La stessa cosa era accaduta
appena il giorno prima a Vuhledar, sul fronte di Donetsk, dove un altro
battaglione della 123ma Brigata, il numero 86, aveva voltato le spalle al nemico
e si era dato alla fuga, permettendo peraltro alle truppe russe di conquistare
la città. L’unica vittima dell’ammutinamento era stato il comandante in capo del
reparto, il 33enne Igor Hryb, che secondo alcune fonti sarebbe stato giustiziato
dai suoi stessi uomini dopo che, invano, aveva cercato di fermarli.
Gli ufficiali, del resto, hanno vita difficile anche sull’altro versante del
fronte, dove le possibilità che vengano abbattuti dal fuoco amico sono forse
ancora più numerose. Solo negli ultimi mesi, infatti – sempre secondo “Assembly”
– i casi di comandanti moscoviti fatti fuori dai propri soldati sarebbero stati
almeno tre. L’ultimo episodio risale al maggio scorso, quando i militari
dell’unità 52892 dell’esercito di Putin, «portati alla follia» dagli sfiancanti
turni di guardia, hanno deciso di aprire il fuoco contro il proprio
capo-brigata, ammazzandolo sul colpo. Perché i fucili – come sostengono i writer
di Kharkiv – bisogna saperli puntare nella direzione giusta.
(articolo di Andrea Sceresini uscito su “il manifesto” del 4 dicembre 2024)
Segnaliamo questo utile e dettagliato dossier contro la legge elmetto-manganello
scritto dal C.O.R.E. (Comitato romano contro carcere e repressione). Se
condividiamo appieno il fatto che questo DDL sia a tutti gli effetti un
provvedimento di guerra e che vada contrastato come tale, le griglie
interpretative marxiste del rapporto classi-Stato-Diritto non sono ovviamente le
nostre.
Scarica il dossier:
DDL_1660_progetto_grafico
Segnaliamo da https://terraeliberta.noblogs.org/
Pubblichiamo un capitolo de Perché fermare i nuovi OGM, di Stefano Mori e
Francesco Panié (Terra Nuova, Firenze, 2024). Si tratta di un libro accurato,
documentato e chiaro sulle nuove tecniche di ingegneria genetica applicate alle
piante e sui relativi brevetti, tecniche e brevetti visti come il capitolo
finale dell’industrializzazione dell’agricoltura. Un aspetto poco considerato
quando si parla di nuovi OGM, e sul quale si concentra invece il testo che
pubblichiamo, è l’intreccio convergente tra bio-informatica, biologia di sintesi
e biotecnologie. A determinare tale intreccio non è solo la logica del profitto
(causa-effetto della fusione tra ricerca e industria), ma il fatto che
l’informatica e la biologia molecolare dominante hanno lo stesso paradigma:
quello cibernetico. L’idea, cioè, che tutta la realtà vivente sia un flusso di
informazioni e che tale flusso possa essere controllato e riscritto (non a caso
si parla di editing genetico) a piacimento. Per modificare (e brevettare) le
piante non serve più nemmeno un sostrato biologico, ma è sufficiente il
sequenziamento genetico presente nelle banche dati; a partire da quel “doppione
digitale” si possono costruire nuove sequenze in laboratorio (biologia di
sintesi), da introdurre poi nell’elemento organico vero e proprio attraverso
l’ingegneria genetica (con i nano-materiali come vettori della “riscrittura”
genetica). È esattamente lo stesso processo – e lo stesso paradigma – con cui
sono stati prodotti i “vaccini codificanti” a m-RNA. Sequenziamento
informatizzato del virus; modello biologico elaborato con l’Intelligenza
Artificiale; costruzione in laboratorio di una nuova molecola; “informazioni”
genetiche da introdurre nei corpi e nanoparticelle come vettore delle
“informazioni” che le cellule devono “trascrivere”. Il tutto, ça va sans dire,
sottoposto a brevetto. Chi pensa che, fuori dai tempi accelerati delle
Emergenze, i modi di procedere della tecno-industria siano più cauti, si sbaglia
di grosso. Una volta messo “il piede nella porta”, il territorio da conquistare
si allarga a tutto il resto. Infatti, le deroghe alle normative europee in
materia di OGM, necessarie per poter commercializzare i “vaccini anti-Covid”,
hanno aperto la strada alla deregolamentazione delle Nuove Tecniche Genomiche
(NTG) in agricoltura, nonché accelerato la corsa a produrre farmaci genetici per
ogni genere di malattia. Quello che avanza insieme a profitti da capogiro è un
riduzionismo tanto feroce – le informazioni come “mattoncini” di tutto il
vivente, i corpi come algoritmi biochimici – da far impallidire il ben più
grossolano meccanicismo dell’Otttocento. L’incubo in cui vogliono incarcerarci è
una sorta di piattaforma universale, integrazione di Internet delle cose e
Internet dei corpi, ciò che IBM chiama Pianeta Smart.
I due autori sostengono alla fine del libro che per provare a fermare un simile
attacco al vivente serve tenere una falce in una mano e un libro di diritto
nell’altra. Sulla falce siamo d’accordo.
La nuova frontiera dei semi digitali
I progressi della biologia molecolare da un lato, e delle tecnologie
dell’informazione dall’altro, investono le risorse genetiche e i processi
biologici in un modo mai visto prima. Il fenomeno dei big data derivanti dal
sequenziamento del Dna è figlio delle tecnologie informatiche di nuova
generazione, che aprono orizzonti inediti per quello che Luigi Pellizzoni chiama
«nuovo dominio della natura»*.
Con il termine “sequenziamento” si intende il processo di determinazione e
documentazione dell’ordine delle unità costitutive (i nucleotidi) su un
determinato frammento di Dna. Prima di arrivare a mettere in ordine questi
minuscoli mattoncini, considerati l’elemento base del codice genetico, c’è
voluto tempo.
Abbiamo lasciato Watson e Crick in piedi su quel tavolo dell’Eagle Pub di
Cambridge nel 1953, elettrizzati per aver scoperto la struttura a doppia elica
tridimensionale dell’acido nucleico. Quasi venticinque anni più tardi, il 24
febbraio del 1977, sulla rivista Nature, compare un articolo composto per metà
da combinazioni di quattro lettere: A-C-T-G. Ancora una volta la scoperta è ad
opera di un team di scienziati di Cambridge. Alla guida, il chimico Frederick
Sanger1. La lista di lettere rappresenta nientemeno che i nucleotidi Adenina,
Citosina, Timina e Guanina, che compongono il Dna. Decine di righe con tutte le
combinazioni trovate dagli scienziati descrivono il primo sequenziamento di un
genoma, che appartiene al virus batteriofago ΦX174. Sanger aveva il pallino di
mettere le cose in fila. Ci aveva già vinto un Nobel nel 1958, determinando
l’ordine delle molecole che compongono l’insulina. Con il sequenziamento del Dna
virale, però, scende al livello di dettaglio più profondo mai raggiunto dalle
scienze della vita, che gli vale un secondo premio Nobel per la chimica nel
1980. È lo stesso anno in cui il riconoscimento arriva anche a Paul Berg per le
scoperte sul Dna ricombinante, che segnano la nascita dell’ingegneria genetica.
Il lavoro di Sanger apre un capitolo di studi che portano, negli anni Novanta,
all’ambizioso progetto “Genoma umano”2. Completato nel giugno 2003 e
sponsorizzato soprattutto dal governo statunitense, il progetto ottiene un
finanziamento di 3 miliardi di dollari e coinvolge centri in diversi paesi del
mondo.
Quello che ci interessa, qui, è osservare l’intersezione di diversi campi del
sapere e come questo, nel Novecento, abbia portato all’emersione di un nuovo
modo di intendere la vita. Un modo che ha prodotto, tra le altre cose, gli
organismi geneticamente modificati. L’informatica è uno di quei settori che ha
un ruolo determinante nel processo. L’aumento della potenza di calcolo, infatti,
è funzionale a raccogliere enormi quantità di dati, utilizzati poi nello
sviluppo di nuovi prodotti, a volte fisici ma sempre più spesso immateriali.
La nuova biotecnologia è basata in modo crescente sull’estrazione delle
informazioni genetiche e la loro digitalizzazione. Utilizzare i bits al posto
della controparte materiale per sviluppare prodotti commerciali, cambia in
maniera radicale l’approccio scientifico, abilitando percorsi di mercificazione
basati non più sulla realtà, ma su ipotesi relative al funzionamento dei tratti
genetici e alle proprietà che emergerebbero dalla loro combinazione. Queste
inferenze vengono accettate come vere, o anche soltanto verosimili, con
un’approssimazione che non obbliga più a fornire la controprova. Anzi, è più che
sufficiente una “sostanziale equivalenza” a innescare cicli di appropriazione e
privatizzazione del vivente. Si tratta di un procedimento che avviene per
convenzione, senza necessità di fornire prove circostanziate a supporto delle
affermazioni o valutare percorsi alternativi. […] questa modalità operativa oggi
è il motore del progresso tecno-scientifico.
Dematerializzare i geni: la Dsi
Certo, per produrre colture – anche a livello industriale – rimarrà sempre una
dipendenza dal materiale genetico, ma è ormai evidente la tendenza a integrare o
sostituire gli oggetti fisici delle attività di ricerca e sviluppo con
operazioni computerizzate basate su informazioni di sequenza digitali (Digital
sequence information o Dsi). La conseguente crescita esponenziale dei dati
generati pone una serie di nuove questioni etiche, normative e legali che
osserveremo in questo capitolo. Sono sfide che abbracciano la proprietà
intellettuale, la gestione e governance dei dati e co-determinano il doppio
movimento di espansione virtualmente illimitata e contemporanea concentrazione
del mercato che ne deriva.
Là, dove il confine tra naturale e artificiale perde di senso, dove le
definizioni sfumano e regna l’indeterminatezza, le nuove forme di accumulazione
trovano infatti il loro miglior terreno di coltura. La creazione di organismi
modificati con le nuove tecniche genomiche – siano piante, animali o esseri
umani – si colloca su questo crinale come attività promettente, che integra in
modo sempre più stabile l’impiego dei big data e dematerializza una fase
cruciale del processo di produzione del cibo-merce. Gli impatti sulla realtà,
però, quelli sì che possono essere tangibili. Lo sanno molto bene i movimenti
contadini, che hanno visto salire all’orizzonte la minaccia della Dsi come
strumento di espropriazione dei loro saperi tradizionali, l’aggiramento delle
norme internazionali sull’accesso alle risorse genetiche e la messa a
repentaglio della relativa condivisione dei benefici con chi le ha conservate ed
evolute con il lavoro nei campi3.
Comunità contadine e indigene sono allenate a fronteggiare i continui tentativi
di appropriazione delle loro conoscenze e della biodiversità connessa. Piante
medicinali, sementi tradizionali e ogni sorta di sapere collettivo condensato in
materia vivente è da tempo oggetto di interesse da parte di governi, imprese e
supposti enti filantropici come la Rockefeller o la Gates Foundation.
L’attività di bioprospezione (bioprospecting), cioè l’esplorazione della
biodiversità per fini di sviluppo commerciale, è antica. Ma emerge come chiara
forma capitalistica nel Novecento, con il consolidarsi delle dinamiche di
globalizzazione. Il termine viene coniato negli anni Ottanta e già nei primi
Novanta è sostituito dai movimenti con il ben più connotato “biopirateria”4. Si
tratta infatti, a tutti gli effetti, di un furto di conoscenze tradizionali
racchiuse nelle risorse genetiche, con “carotaggi” operati dai ricercatori
inviati in missione nel sud globale, che terminano con la brevettazione di un
seme o di un farmaco da parte di qualche azienda del nord.
Spesso queste operazioni sono state fatte in violazione di accordi
internazionali come la Convenzione sulla Biodiversità, il suo Protocollo di
Nagoya5 e il Trattato internazionale sulle risorse genetiche6, che vincolano
l’accesso al materiale genetico ad alcune condizioni. La Cbd, tramite il
Protocollo di Nagoya, impone a chi vuole sfruttare delle risorse genetiche di
ottenere un documento di consenso previo e informato (Pic) dal paese di origine
del germoplasma, nonché la firma dei Termini di comune accordo (Mat), che
disciplinano invece l’uso che si potrà fare di quel materiale. Queste regole
valgono per tutta la biodiversità, eccetto quella inclusa nel Sistema
multilaterale (Mls) creato nell’ambito del Trattato sulle risorse genetiche7.
L’Mls è un meccanismo di accesso facilitato a 2,5 milioni di campioni di semi e
piante di 64 specie di colture e foraggi, elencati nell’Allegato 1 del Trattato.
Insieme, rappresentano circa l’80% dei consumi umani di vegetali. La maggior
parte di questi campioni è stata raccolta dai campi degli agricoltori, che li
hanno selezionati e riprodotti di generazione in generazione. Oggi le risorse
genetiche ricomprese nel Sistema multilaterale coprono quasi il 40% dei campioni
conservati nelle banche del germoplasma. Il 60% proviene da collezioni
nazionali, il 5% da collezioni private e il 35% da banche dei semi di una rete
internazionale chiamata Cgiar8. L’accesso facilitato al materiale genetico
disponibile nel Mls avviene tramite un contratto standard (Smta)9. Il vincolo da
rispettare qui è molto chiaro: «I beneficiari non possono rivendicare alcun
diritto di proprietà intellettuale o altro diritto che limiti l’accesso
facilitato alle risorse fitogenetiche per l’alimentazione e l’agricoltura o a
loro parti o componenti genetiche nella forma ricevuta dal sistema
multilaterale»10. Tradotto: non si può brevettare un seme o un suo tratto
genetico preso da questo “paniere comune”.
Adesso però la Dsi permette l’accesso all’informazione genetica
indipendentemente da quello al materiale biologico. Il che fa sì che non sia più
necessario recarsi in un luogo che fornisce sementi o materiale riproduttivo,
avviare negoziati e firmare accordi vincolanti. Sempre più spesso, pezzi di
genoma codificati in digitale possono essere scaricati da un database. Ma con
quali regole?
È esattamente in questo punto che si inserisci il dibattito politico sulla
natura delle Dsi. Sono risorse genetiche o dati informatizzati prodotti dalla
ricerca? Oltre al Trattato e alla Cbd, la discussione sul tema anima diversi
altri spazi internazionali, come la Convenzione sul Diritto del Mare (Unclos) e
l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). I paesi del nord del mondo, Canada
e Usa in prima linea, difendono gli interessi dei brevetti e sostengono una
definizione di Dsi come dato, non come risorsa. Banchieri del germoplasma,
biotecnologi e imprese multinazionali stanno dalla stessa parte. L’accesso alle
informazioni di sequenza digitale, dicono, non può essere regolato, dal momento
che la libera condivisione delle Dsi è una pratica scientifica comune. Qualsiasi
altra soluzione sarebbe controproducente, se non addirittura pericolosa per la
salute pubblica o la sicurezza alimentare, poiché renderebbe più difficile alla
scienza garantire il benessere che naturalmente deriva dall’innovazione.
I movimenti contadini per la sovranità alimentare sono di un altro parere.
Partono dal presupposto che la sicurezza alimentare e il benessere non siano un
risultato dell’industria tecnologica, ma di condizioni sociali abilitanti per
chi produce cibo in agroecologia. Per questo, con il supporto dei governi del
sud globale, spingono per il riconoscimento delle informazioni di sequenza
digitale come risorse genetiche a tutti gli effetti, quindi soggette alla
Convenzione sulla Biodiversità e al Trattato sulle risorse fitogenetiche. Come
detto, il Trattato vieta qualsiasi rivendicazione di brevetto sulle risorse
genetiche vegetali o su loro componenti, cioè le informazioni genetiche,
derivate da semi presenti nel sistema multilaterale. La Convenzione, dal canto
suo, protegge le varietà indigene e selvatiche e le conoscenze tradizionali
connesse, suggerendo che brevetti e altre forme di proprietà intellettuale non
vadano in conflitto con i suoi obiettivi di conservazione e uso sostenibile
della biodiversità.
Il Trattato, la Convenzione e il suo Protocollo di Cartagena sono stati adottati
all’epoca della transgenesi, tra il 1990 e i primi anni 2000. Un tempo in cui
l’industria sementiera non era ancora concentrata e sviluppata come oggi. Anche
per questo, oltre alla capacità di incidenza politica dei movimenti contadini, è
stato possibile ottenere risultati che hanno limitato la privatizzazione. Ora,
dunque, le imprese hanno due possibilità: modificare questi testi o violarli.
Fanno un po’ entrambe le cose, nel senso che oggi li vìolano mentre lentamente
operano per cambiarne l’interpretazione attraverso estenuanti negoziati. Stati
Uniti e Canada, i loro alfieri, vantano ottimi diplomatici che fanno il lavoro
sporco per le aziende. Il loro stratagemma è ripetere fino alla nausea che non
c’è alcun legame tra le sequenze genetiche digitali e le risorse fisiche da cui
sono state prese, perciò le une non possono essere regolamentate come le altre.
Il legame torna magicamente a manifestarsi quando le aziende ottengono il
brevetto legato a quella riga di lettere su un monitor, che si estende a tutti
gli organismi del mondo che contengono la sequenza di Dna corrispondente.
Riducendola ai minimi termini, Guy Kastler la spiega così: «È come se vi facessi
una fotografia e dichiarassi: questa è la foto di Stefano e Francesco. Nel
momento in cui identifico questa immagine come la vostra rappresentazione, ho
creato un prodotto che posso brevettare. Dunque, voi diventate di mia proprietà.
Questa è la Dsi, niente di più, niente di meno».
A parte le tecnicalità del processo, le cose vanno così come dice lui. La Dsi
viene ricavata dai ricercatori sequenziando campioni fisici ottenuti con
prelievi in natura o dalle banche del germoplasma, comprese quelle del Sistema
multilaterale. Poi viene caricata in database pubblici (spesso open source) e
privati (spesso a pagamento) come prova sperimentale. Tramite processi di
biologia sintetica e bioinformatica, oggi è possibile riprodurre queste sequenze
con materiale artificiale a partire dai dati, senza più disporre del germoplasma
originario.
Il processo, condotto in un vuoto legale creato arbitrariamente dai rapporti di
forza che bloccano i negoziati internazionali sulla natura delle Dsi, permette
dunque il furto della conoscenza contadina e indigena connaturata alle risorse
genetiche. Le premesse della nuova biopirateria digitale sono analoghe a quelle
già viste in tempi più analogici, ma più sofisticate. La natura della tecnica
gioca infatti un ruolo chiave, consentendo processi di smaterializzazione e
ri-produzione nei quali l’intreccio di vita e storia viene prima negato dalla
digitalizzazione, poi riaffermato dalla sintesi in laboratorio di nuove forme
artificiali proprietarie.
Oggi milioni di sequenze genetiche digitalizzate sono disponibili su Internet,
così che ricercatori e imprese fanno una “pesca a strascico” periodica nei
database, prevalentemente localizzati in paesi ad alto reddito. Le loro
operazioni non sono adeguatamente tracciate e le Dsi presenti nei database non
recano quasi mai informazioni chiare sulla loro origine geografica11. Dietro la
retorica della conoscenza libera e aperta, si nasconde quindi un doppio rischio:
in primo luogo, che queste informazioni vengano ricostituite in materia e poi
brevettate come “invenzioni”; di conseguenza, che nessuno acceda più al Sistema
multilaterale dopo averlo prosciugato digitalizzando le sue risorse genetiche.
Intendiamoci, una multinazionale che usa le informazioni di sequenza digitale
per produrre piante brevettate, non è come una persona qualunque che scarica un
contenuto da Internet. È più come un artista famoso che fonda la sua carriera
sul download dei brani di un cantautore poco noto, mettendoli nei suoi album e
vendendoli alla distribuzione globale coperti da copyright.
Il timore è che questa operazione sulla biodiversità sia stata già fatta diverse
volte. Visto che il Dna gira ormai liberamente per il web, la posizione
negoziale dei paesi ricchi dentro il Trattato sulle risorse genetiche non è
difensiva. Hanno già quello che vogliono e ora propongono un gioco al rilancio,
che ammette una discussione sulla natura della Dsi solo a fronte di un
allargamento del perimetro del Mls. In pratica, consentirebbero un negoziato per
niente scontato sul tema più spinoso del momento solo in cambio di un atto
suicida: l’aumento delle specie di interesse agrario disponibili per l’accesso
facilitato delle imprese. Questa postura, a metà tra la provocazione e il
bullismo istituzionale, ha finora impedito un’interpretazione logica di quanto
scritto nel Trattato (il divieto di brevettare il materiale genetico prelevato
dallo spazio comune, in qualunque forma), trasformando un accordo internazionale
vincolante in un centro per lo shopping senza casse all’uscita.
La convergenza fra tecnica e capitale
Il sequenziamento genetico e la Dsi in quanto tali, tuttavia, non sono
classificabili per sé come un’invenzione. Occorre un passaggio supplementare per
far scattare il regime dei brevetti. Per questo vale la pena soffermarsi sul
ruolo convergente che le diverse tecnologie “di frontiera” svolgono oggi per
aprire nuovi spazi di appropriazione e profitto.
Secondo la maggior parte delle leggi sui brevetti, non si può reclamare un
diritto di proprietà intellettuale sui prodotti della natura e le scoperte che
non prevedono innovazione umana. Dopo la decisione della Corte Suprema degli
Stati Uniti nel caso Myriad del 201312, è ormai ampiamente riconosciuto che la
mera identificazione di una sequenza genetica in quanto tale non è brevettabile,
poiché si tratta di una scoperta e non di un’invenzione.
Nuove tecniche di modificazione genetica e processi di biologia sintetica
vengono quindi in soccorso degli scienziati per coprire l’ultimo miglio,
determinante per la mercificazione. Le informazioni digitalizzate vengono
utilizzate per assemblare materiale genetico prodotto in laboratorio, dargli la
forma desiderata e poi introdurre le sequenze in nuovi Ogm realizzati tramite
New genomic techniques come Crispr/Cas9. La cosa va a vantaggio sia dei
ricercatori che delle imprese sementiere, perché permette di brevettare sia il
processo biotecnologico che il tratto genetico risultante, contestando però ogni
richiesta di valutazione del rischio, tracciabilità ed etichettatura, con
l’assunto che da tutto questo procedimento risultino prodotti equivalenti a
quelli della natura.
Il livello di cialtroneria raggiunge vette ancor più alte se guardiamo a quanto
è grossolano il processo di brevettazione. Leggere il testo di un brevetto,
infatti, mostra quanto gli “inventori” siano molto lontani dal poter rivendicare
pretese di esattezza delle loro “creazioni”, ovvero determinare il rapporto
causa-effetto tra sequenza genetica e relativa performance dell’organismo in cui
viene inserita. Ciononostante, i loro processi sono validati dagli uffici che
rilasciano titoli di proprietà intellettuale. Come spiega Denis Meshaka in un
approfondimento su una piattaforma francese di controinformazione sugli Ogm13,
«le domande di brevetto che coprono sequenze genetiche […] vengono depositate il
prima possibile, con rivendicazioni formulate nel modo più ampio possibile. Ma
spesso l’applicazione industriale delle sequenze, o la loro “utilità”, se
prendiamo la nozione della legge statunitense, è ipotetica».
L’approccio più utilizzato si basa sul concetto di “identità percentuale”. In
pratica «qualsiasi sequenza che, ad esempio, è identica almeno all’80%, 90% o
95% alla sequenza effettivamente “inventata” è coperta dal brevetto. Più bassa è
la percentuale, maggiore è la gamma di sequenze coperte dal brevetto. Anche con
il 95% questo corrisponde ancora a una grande varietà di sequenze, che
ovviamente non sono tutte descritte singolarmente».
Le numerosissime possibilità che una sequenza anche molto simile esprima
caratteristiche molto diverse da quella brevettata, oltre al fatto che
l’espressione di un carattere dipende in parte significativa dall’ambiente e non
solo dai geni, testimoniano il livello di approssimazione clamoroso su cui si
regge tutto il sistema di appropriazione del vivente. Possiamo affermare senza
timore di smentita che si tratta di una pretesa di verità priva di fondamento
sostanziale, ma che produce effetti evidenti sui sistemi alimentari.
* in Cavalcare l’ingovernabile. Natura, neoliberalismo e nuovi materialismi,
Orothes, Napoli, 2023
1 Sanger F. et al., (1977), “Nucleotide sequence of bacteriophage ΦX174 DNA”,
Nature, 265, 687-695.
2 www.genome.gov/human-genome-project
3 Conti M., (2023), Movimenti agrari transnazionali e governance globale,
Rosemberg & Sellier, Torino.
4 www.etcgroup.org/content/bioprospectingbiopiracy-and-indigenous-peoples
5 www.cbd.int/abs/default.shtml
6 www.fao.org/plant-treaty/en
7 www.fao.org/plant-treaty/areas-of-work/the-multilateral-system/landingmls/en
8 www.cgiar.org
9 www.fao.org/plant-treaty/areas-of-work/the-multilateral-system/smta/en
10 www.fao.org/plant-treaty/overview/texts-treaty/en
11 www.twn.my/title2/health.info/2023/hi230301.htm
12 https://supreme.justia.com/cases/federal/us/569/12-398/case.pdf
13 https://infogm.org/en/patents-on-genetic-sequences-excess-and-fragility
Nella zona di Briançon ci sono migliaia di case vuote (2500 nel 2020, secondo
l’INSEE), mentre nuovissimi chalet ospitano i ricchi per qualche settimana
all’anno. Il numero di seconde case nella zona è stimato al 60% (sempre 2020,
sempre INSEE). Sulle montagne del Briançonnais abbondano le stazioni sciistiche,
dirette verso il loro assurdo futuro. Per…