Chi boicotta le armi verso Israele?

The Weapon Watch | 6a puntata: Intermediari e clienti per i droni killer israeliani - Tuesday, July 1, 2025

Nel mese di giugno di un anno fa il Governo vallone e quello federale belga hanno vietato alla Challenge Airlines BE di continuare il trasferimento di armi, materiale bellico e detonatori allo Stato israeliano attraverso il suo hub di Liegi-Bierset. Controllata dalla compagnia cargo internazionale Challenge Group, presente con linee aeree e divisioni nella logistica, gestione e servizi aeroportuali in Belgio, Israele e Malta, gli aerei della Challenge Airlines BE facevano spola dagli Stati Uniti a Israele usando l’aeroporto commerciale di Liegi-Bierset come scalo intermedio.

Società civile, opinione pubblica, sindacati

Da tempo molte organizzazioni non governative belghe si erano scagliate contro le autorità del proprio paese affinché fosse rispettato il Trattato sul commercio delle armi del 2013 firmato e ratificato anche dal loro paese. Trattato internazionale che vieta formalmente l’autorizzazione di trasferimenti di armi verso paesi che le stiano utilizzando, come nel caso di Israele, per «commettere genocidi, crimini contro l’umanità o attacchi contro civili».

La pressione della società civile e dell’opinione pubblica, insieme alla decisione di alcuni sindacati del trasporto aereo di non far caricare più dai loro iscritti materiale militare destinato allo Stato israeliano, ha spinto il Governo federale belga ad agire per vietare tutti i trasferimenti di armi a Israele. Inoltre, il Governo vallone ha adottato un decreto che applica il divieto di trasportare armi verso Israele anche alle merci, provenienti da altri paesi, in transito senza trasbordo nel proprio territorio.

È quanto previsto anche in Italia dalla Legge 185/90, la quale regola il controllo non solo dell’esportazione e importazione di materiali d’armamento, ma anche del loro transito sul territorio. Norma di legge solitamente disattesa e inapplicata dalle autorità italiane, tutte le volte che dai nostri porti transitano navi cargo e porta–container trasportando armamenti verso paesi in guerra e/o che non rispettano i diritti umani fondamentali.

La maggior parte dei materiali di armamento destinati a Israele (compreso il munizionamento e i pezzi di ricambio) provengono dagli Stati Uniti (circa due terzi). In termini militari, quindi, il collegamento con gli Stati Uniti, per via aerea e marittima è parte della catena logistica vitale per le azioni di guerra dell’Israel Defense Forces.

Il resto delle forniture di armamenti e di munizionamento (l’altro terzo) proviene prevalentemente dalla Germania, ma anche (seppure in piccola parte) da Italia e Gran Bretagna, da India e Australia.

Altri aeroporti civili europei sono, pertanto, utilizzati come scali intermedi per gli aerei militari americani e di compagnie cargo, o come origine di spedizioni di armamenti dagli stessi paesi europei. Se si vuole, quindi, attuare un efficace embargo di armi verso Israele – per mettere fine allo sterminio del popolo palestinese – bisogna intervenire anche sul “transito senza trasbordo” dagli aeroporti ma, soprattutto, dai porti europei e mediterranei.

E, in assenza di scelte e di azioni coraggiose da parte dei Governi, è essenziale l’azione diretta della società civile, specie se a promuoverla sono i sindacati dei lavoratori. Come l’azione di boicottaggio attuata nel porto di Tangeri Med, lo scorso mese di aprile, nei confronti della nave Nexoe della compagnia danese Maersk. La nave, in viaggio da alcune settimane, proveniva dal porto di Houston in Texas e trasportava componenti e pezzi di ricambio destinati ai caccia–bombardieri F–35 utilizzati dall’aviazione israeliana contro la popolazione civile a Gaza.

La nave aveva già incontrato diverse proteste durante gli attracchi nei porti lungo la costa atlantica americana e, in prossimità del nostro continente, non avendo avuto l’autorizzazione ad attraccare nei porti atlantici della Spagna, aveva proseguito verso gli scali del Marocco.

In questo paese a lanciare la mobilitazione è stato il sindacato dei portuali, affiliato alla principale confederazione sindacale marocchina, la UMT, chiedendo alle autorità di impedire alla nave di attraccare a Casablanca o a Tangeri Med e affermando in un comunicato che «chiunque faciliti il passaggio di questa nave è un complice diretto della guerra genocida contro il popolo palestinese».

Il boicottaggio della Maersk

Raccogliendo l’appello del sindacato, migliaia di persone si sono mobilitate per le strade di Rabat, Tangeri e Casablanca, con l’obiettivo di impedire l’attracco della Nexoe Maersk. All’arrivo della nave a Tangeri Med, il porto è stato raggiunto da oltre 1.500 persone e il 90% dei lavoratori portuali scesi in sciopero per due giorni ha impedito di avviare le gru e di fornire i servizi essenziali alla nave.

Le proteste contro la nave danese fanno parte della campagna Mask off Maersk e del più ampio movimento di boicottaggio contro l’invio di armamenti a Israele, tra cui i componenti per i caccia–bombardieri F-35. Diversi rapporti provano infatti come le forze armate israeliane abbiano usato gli F-35 per attaccare Gaza. Tra gli episodi più noti c’è quello del luglio 2024, quando un F-35 è stato utilizzato per bombardare la “zona sicura” di Al-Mawasi, a Khan Younis, uccidendo 90 palestinesi.

Per tale motivo, oltre 230 organizzazioni, tra cui Amnesty International, hanno chiesto, con una lettera congiunta ai Governi coinvolti nel programma del caccia–bombardiere prodotto dall’americana Lockeed Martin, tra cui l’Italia, di interrompere immediatamente il trasferimento di armi a Israele, incluso tutto ciò che concerne gli F-35.

Il Trattato internazionale sul commercio di armi – ATT, prevede l’interruzione del commercio diretto e indiretto di attrezzature e di tecnologie militari, comprese parti e componenti, «qualora vi sia il rischio concreto che tali attrezzature e tecnologie possano essere utilizzate per commettere o facilitare una grave violazione del diritto umanitario internazionale o del diritto internazionale dei diritti umani».

L’azione nei confronti di Maersk, il secondo gruppo armatoriale al mondo, è diventata un caso politico e mediatico quando, all’ultima assemblea generale dei soci nel marzo 2025, i vertici aziendali hanno dovuto difendersi e far votare contro la duplice richiesta – presentata da alcuni azionisti – di mettere al bando il trasporto di armi in Israele e di fare chiarezza sul proprio operato in ordine al rispetto dei diritti umani.

Gli episodi di protesta e di boicottaggio che hanno coinvolto la Maersk sono, cronologicamente, solo gli ultimi che hanno visto protagonisti i lavoratori portuali e i loro sindacati in azioni dirette contro il trasferimento di armi in Israele (e verso altri paesi in guerra). Sulla base del lavoro di ricerca e di monitoraggio sviluppato dall’Osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei – The Weapon Watch, con sede a Genova, possiamo elencare gli episodi più importanti (sovente del tutto spontanei) registrati negli ultimi 5 anni.

La mobilitazione dei sindacati

Il primo si verifica nel maggio 2021 nei porti di Genova, Livorno e Napoli dove i lavoratori portuali aderenti al sindacato USB, allertati da una segnalazione di The Weapon Watch sul trasporto di missili e di esplosivi destinati a Israele, effettuato da una nave della compagnia SIM, si sono mobilitati dichiarando sciopero, allo scopo di ostacolare/impedire le operazioni di scarico e carico.

Il secondo, nel giugno 2021, nel porto di Ravenna. I sindacati dei portuali, organizzati nelle federazioni dei trasporti di CGIL-CISL-UIL, proclamano lo sciopero generale per il giorno nel quale sarebbe dovuta salpare la nave Asiatic Liberty carica di armamenti diretta dal porto romagnolo a quello di Ashdod, in Israele. La determinazione dei portuali ravennati, con questa azione di boicottaggio, ottiene che l’armatore rinunci al carico e al trasferimento di armi a Israele.

Ma è, soprattutto, dopo l’appello dei sindacati palestinesi del 16 ottobre 2023 e della mobilitazione internazionale Ceasefire In Gaza Now!, che si moltiplicano nel mondo le azioni dirette dei lavoratori per fermare le forniture militari a Israele o, quantomeno, per intralciare la catena logistica che alimenta le guerre e, in questo caso specifico, lo sterminio di civili palestinesi a Gaza.

Il primo sindacato a raccogliere l’appello è quello dei lavoratori portuali del Pireo (Enedep) in Grecia, che si mobilita per l’arrivo della nave porta-container Marla Bull, diretta al porto di Haifa. La nave, battente bandiera delle Isole Marshall, deve imbarcare un container contenente 21 tonnellate di munizioni, proveniente dalla Macedonia del Nord e destinato a Israele. I portuali, a cui si sono uniti anche i lavoratori del settore navalmeccanico e gli studenti, bloccano il container e costringono la nave a partire senza il “carico di morte”.

Pochi giorni dopo nel Kent in Gran Bretagna, una filiale del gruppo israeliano Elbit System, la Instro Precision Ltd che produce sensori elettro-ottici per droni, è bloccata per diverse ore da un gruppo di attivisti, insegnanti e lavoratori appartenenti ai sindacati Unite, Neu, Ucu, Bma e Bfawu.

Negli USA il 3 novembre 2023 nel porto californiano di Oakland, alcune centinaia di attivisti pro-Palestina e portuali bloccano la partenza della nave Cape Orlando per il porto di Tacoma (nella costa nord-occidentale degli USA), dove avrebbe dovuto caricare armamenti destinati Israele, provenienti dalla grande base militare di Lewis-McChord. La stessa nave è bloccata nuovamente anche nel porto di Tacoma, in questo caso dalle piroghe dei nativi del popolo Salish che abitano nella regione.

In Belgio, nello stesso mese di novembre, la confederazione sindacale cristiana (ACV) e la sua federazione dei trasporti (ACV-Transcom), insieme alle federazioni dei trasporti e dei tecnici e quadri (BTB e BBTK) della confederazione sindacale socialista, decidono che i propri iscritti incroceranno le braccia di fronte all’invio di armi e di munizioni destinate a Israele, a partire da quelle prodotte in Germania e caricate nei porti fiamminghi.

In Spagna, una simile decisione è presa dal sindacato dei lavoratori portuali di Barcellona. Nel frattempo, in Australia le azioni degli attivisti e dei sindacalisti portuali di Melbourne e Sydney iniziano a bloccare i tir e le navi della compagnia marittima israeliana ZIM. Con questa azione diretta si accendono i riflettori sull’invio di armi australiane a Israele fino a quel momento occultato.

Azioni di solidarietà con i lavoratori palestinesi finalizzate a fermare il trasferimento di armi a Israele arrivano, inoltre, dal sindacato francese CGT, così come dal coordinamento dei sindacati greci PAME e dal sindacato turco dei trasporti Nakliyat Is affiliato alla confederazione sindacale DISK.

E in Italia?

In Italia il sindacato USB mobilita i suoi iscritti in solidarietà con il popolo palestinese, promuovendo il 10 novembre 2023, una giornata nazionale di lotta, alla quale aderiscono altri sindacati di base e gruppi di attivisti e di associazioni pacifiste, con i blocchi dei varchi portuali a Genova e a Salerno. Nel capoluogo ligure, oltre i presidi e i picchetti a San Benigno e a Ponte Etiopia, un corteo di manifestanti raggiunge la sede della compagnia marittima israeliana SIM dove si inscena un sit-in di protesta.

Lo stesso giorno, centinaia di sindacalisti nel Regno Unito, con lo slogan “Lavoratori per una Palestina libera”, bloccano l’ingresso alla fabbrica BAE Systems di Rochester, che fornisce componenti per gli F-35 utilizzati nei bombardamenti di Gaza.

Nel dicembre 2023 è la volta di Ravenna, dove centinaia di persone partecipano all’iniziativa contro il traffico di armi davanti all’Autorità portuale, denunciando il passaggio di una nave della ZIM dallo scalo romagnolo trasportando materiali d’armamento verso Israele.

Che il porto di Ravenna fosse diventato uno scalo opaco per il trasferimento di armi trova conferma nei mesi scorsi, quando il Gip del tribunale romagnolo convalida il sequestro d’urgenza effettuato dall’Agenzia delle Dogane a inizio febbraio 2025 di un carico di 14 tonnellate di componenti di armi diretto a Israele. In tutto ottocento pezzi metallici classificati come materiale d’armamento, prodotti dalla ditta Valforge di Lecco e diretti all’azienda Israel Military Industries Ltd (IMI), principale produttore israeliano di armi. La ditta lecchese, specializzata in fucina e stampa di articoli metallici, pur non avendo l’autorizzazione a esportare il materiale bellico, né l’iscrizione nel Registro nazionale delle imprese istituito presso il ministero della Difesa, rientrava da tempo nella catena di fornitura della IMI.

Dal febbraio del 2024, anche in India, il sindacato dei lavoratori dei trasporti marittimi che organizza migliaia di lavoratori portuali decide di rifiutarsi di caricare o di scaricare carichi di armi provenienti e/o destinati a Israele.

Nel maggio 2024 a Venezia centinaia di attivisti protestano contro la nave Bokrum, battente bandiera delle Barbados, contenente armamenti e diretta verso Israele, senza che le autorità italiane abbiano esercitato effettivi controlli dei carichi e garantito il rispetto delle leggi vigenti e dei trattati internazionali che regolano il trasferimento di armi.

Non si ferma la solidarietà internazionale

Affinché il diritto internazionale e le decisioni ONU siano rispettati dai singoli Stati, parte, nell’estate dell’anno scorso, la campagna internazionale #blocktheboat promossa da Amnesty e da un’ampia coalizione di organizzazioni per i diritti umani.

A fine agosto la nave MV Kathrin, di proprietà tedesca e battente bandiera portoghese, parte dal Vietnam con un carico di 8 container di esplosivi Hexogen/RDX (componente chiave per la costruzione di missili) con destinazione Israele e altri 60 container di esplosivi TNT con altre destinazioni.

La Namibia rifiuta l’attracco della nave nei suoi porti e la costringe a vagare in acque internazionali, fino ad arrivare nel Mediterraneo. Qui la nave si dirige verso il porto di Capodistria in Slovenia per scaricare parte del carico destinato a Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. La Slovenia gli nega l’attracco, dopo una mobilitazione dell’opinione pubblica.

In Italia l’appello del CALP di Genova è raccolto dalla USB e da altri sindacati di base che, prontamente, si mobilitano per impedire l’attracco della nave nei porti adriatici e far rispettare l’ordinanza che vieta la circolazione nei porti del Golfo di Trieste di materiale bellico.

La MV Kathrin è costretta a cambiar rotta e a dirigersi verso Malta, dove non riuscirà ad attraccare. Da quel momento sparisce dai radar. Ricompare a fine ottobre ad Alessandria d’Egitto, dove attracca in zona militare. Lì scarica tutto il suo carico. Formalmente non si sa nulla degli esplosivi diretti a Israele. Sappiamo solo che lo stesso giorno, dal porto egiziano è partita un’altra nave diretta al porto israeliano di Ashdod. È curiosa, anche in questo caso, la complicità con il governo israeliano dei governi arabi che controllano le 14 fazioni con cui si dividono i palestinesi.

Viceversa, non si ferma la solidarietà internazionale. E, nel mese di gennaio di quest’anno, anche il sindacato svedese dei portuali notifica all’associazione imprenditoriale Swedish Ports il blocco di tutti gli scambi commerciali militari con Israele durante la guerra in corso a Gaza. La decisione di imporre il blocco è stata presa dai lavoratori iscritti al sindacato dei portuali con una votazione prima di Natale.

In conseguenza del blocco, Erik Helgeson, da 20 anni lavoratore portuale a Göteborg, vicepresidente nazionale e portavoce del sindacato, è stato licenziato a febbraio per ragioni di “sicurezza nazionale” dalla sua azienda DFDS, la società danese di spedizioni e logistica internazionale proprietaria della maggior parte del terminal ro-ro di Göteborg.

Questo caso dimostra che l’azione diretta dei sindacati dei lavoratori e degli attivisti, al fine di fermare qualsiasi trasferimento di armamenti verso Israele, ha una straordinaria valenza etica e di testimonianza. Ma al contempo sappiamo che l’embargo militare verso Israele è anche e, soprattutto, un obbligo giuridico-legale, che ricade innanzitutto sulle spalle degli Stati, di organizzazioni regionali come l’UE, l’OIC (Organisation of Islamic Cooperation) ecc., delle aziende e delle istituzioni accademiche. Se non attuano le misure necessarie per l’embargo militare, oltre a essere responsabili di violazione del diritto internazionale, saranno corresponsabili per il loro apporto ai crimini commessi da Israele.

Post-fazione

Avevo appena finito di scrivere e di inviare questo articolo alla redazione di SettimanaNews, che arriva la notizia dell’azione di boicottaggio deciso dal sindacato dei portuali di Marsiglia-Fos, aderente alla CGT francese. Giovedì 5 giugno il cargo israeliano «Contship Era» della compagnia ZIM avrebbe dovuto caricare nel porto di Fos sur Mer, 14 tonnellate di pezzi di ricambio per fucili mitragliatori e munizioni fabbricate dall’azienda francese Eurolinks e destinate all’azienda di armamenti Israel Military Industries, controllata da Elbit Systems, la principale industria israeliana per fatturato militare (27^ al mondo nel 2023). L’azione diretta dei lavoratori portuali marsigliesi, che prontamente si erano coordinati con gli amici portuali di Genova, ha avuto successo e il “carico di morte” non è stato imbarcato.

Ripartita da Marsiglia, in ritardo sui tempi di navigazione previsti, la nave della ZIM destinata al porto israeliano di Haifa, ha in programma due scali tecnici nei porti di Genova e Salerno. Sin dal 5 giugno, coordinandosi con i portuali francesi, i sindacati portuali di USB e SI-Cobas hanno chiamato lavoratori e cittadinanza a presidiare i moli di questi due porti italiani, nei giorni di arrivo della nave (il 7 giugno a Genova e il giorno dopo a Salerno). Il fine di questa mobilitazione, pienamente riuscita, era assicurare che i container bloccati a Marsiglia non fossero imbarcati a Genova e che la nave non trasportasse alcun materiale di armamento per l’esercito israeliano.

I portuali francesi della Cgt di Marsiglia hanno scritto un nuovo capitolo nell’atlante europeo delle resistenze contro il commercio di armamenti. L’azione dei lavoratori francesi non è stata improvvisata. A Marsiglia come a Genova, ad Anversa come nel Pireo, a Barcellona come a Tangeri i portuali sono diventati, come ha scritto Giulio Cavalli sul quotidiano Domani, i custodi materiali delle norme nazionali e internazionali che i governi disattendono. In Italia la legge 185/90 vieta esplicitamente l’esportazione e il transito di armi verso Paesi coinvolti in conflitti armati o responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, eppure i flussi di armamenti non si sono mai fermati. E nel vuoto di legalità si inserisce l’azione dei portuali. È una catena di controllo dal basso che parte dalle banchine e costringe il potere politico a inseguire.

Una lotta dal respiro europeo e mediterraneo, frutto di un’intelligence operaia. Una rete d’informazione e attivismo che collega i portuali con media investigativi e ong, tra cui noi di The Weapon Watch. Una rete che rappresenta oggi una delle più avanzate forme di controllo democratico dal basso sui traffici bellici.

Gianni Alioti

Redazione

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