> StakkaStakka 5 marzo 2025 – tracciamento tramite pubblicità
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DALLE PICCOLE FABBRICHE NELLE PREALPI LOMBARDE ALLE FORZE ARMATE DI ISRAELE
ATTRAVERSO IL PORTO DI RAVENNA –
Il 4 febbraio 2025 la Guardia di Finanza ha bloccato nel porto di Ravenna un
carico di pezzi forgiati diretti a IMI Systems Ltd, la compagnia israeliana
famosa per le armi leggere (la mitraglietta UZI, il fucile d’assalto Galil), dal
2018 assorbita da Elbit Systems, il principale contractor della difesa di
Israele.
L’episodio è divenuto pubblico solo ora grazie ai cronisti locali e al
giornalismo investigativo di Linda Maggiori, che ne ha scritto su il manifesto.
Venerdì 28 marzo la rete ravennate delle associazioni per la pace ne ha tratto
un comunicato in cui ha ricordato che, circa un anno fa, l’Autorità portuale di
Ravenna aveva messo per iscritto di non aver «alcuna informazione in merito a
trasporti di armamento bellico in violazione delle leggi dello Stato», invitando
chi ne avesse a informare la Procura della Repubblica.
Presidio in piazza del Popolo, a Ravenna, il 29 marzo 2025, per protestare
contro il transito di armi in porto.
In effetti il caso è venuto alla luce perché, lungo la catena logistica e
documentale, qualcuno ha rispettato le regole che qualcun altro cercava di
aggirare, e ha denunciato il tentativo. Troppo grave era stata l’infrazione di
leggi e trattati, in una tentata esportazione verso un paese dove si commettono
terribili violazioni dei diritti umani e crimini di guerra, cercando
fraudolentemente di nascondere la vera natura delle merci esportate.
L’azienda esportatrice è Valforge Srl di Cortenova, in provincia di Lecco,
specializzata in forgiatura e trattamento dei metalli, ma non iscritta al
Registro nazionale delle imprese e quindi neppure in grado di chiedere
l’autorizzazione a esportare materiale militare, come vuole la legge 185/1990.
Eppure Valforge ha ottenuto una commessa da una delle aziende militari
israeliane più note al mondo, e possiamo esser certi che abbia dovuto rispettare
un capitolato tecnico preciso e conforme all’utilizzazione finale dei pezzi
fabbricati. Ora l’azienda ne chiede il dissequestro, e sapremo se il tribunale
di Ravenna le permetterà di tornare in possesso del materiale, con il rischio
che possa provare a esportarlo per altra via, in un altro porto italiano o
attraverso un altro paese.
La laboriosa Valsassina, dove ha sede la Valforge, è terra di grande attivismo
metallurgico e di grande e diffusa intraprendenza imprenditoriale. Se la
Valforge vi opera dal 2006 (dal 2005 con altra denominazione, poi cessata), il
suo proprietario Pierantonio Baruffaldi è attivo dal 2001 come titolare di
un’altra azienda (Otomin Srl a Primaluna, minuterie metalliche), e dal 2016
coordina le sue attività mediante una piccola holding (B.Mecc Srl con sede a
Introbio). La stampa ha riportato che le lavorazioni sono state effettivamente
svolte da due aziende in provincia di Varese, e in effetti il Baruffaldi è stato
per quattro anni anche amministratore delegato della Coinval Srl di Sumirago
(VA), azienda cessata nel 2022 ma che ha operato in un’area con storica
vocazione metalmeccanica, posta com’è a metà strada tra Varese e Gallarate.
Tanto che all’ex indirizzo della Coinval oggi opera un laboratorio industriale
che realizza test e controllo qualità per produzioni metalliche e in particolari
in acciaio (non coinvolto nell’inchiesta).
Dobbiamo però concentrare l’attenzione sul territorio in cui opera Valforge. In
questo quadrante dell’Alto Lario, tra le province di Lecco e Sondrio, si è
creato un ambiente piccolo-industriale ma attento alla digital innovation, erede
dei ferascìncinquecenteschi ma proiettato sui mercati internazionali, da cui
sono nate vere dinastie industriali. Quella della famiglia Galperti, gli antichi
“Carlini” della Valsassina, si è ramificata nel tempo in tante branche, alcune
divenute di dimensioni notevoli. A Nuova Olonio, dove il fiume Adda si getta nel
Lago di Como, ha messo il suo quartier generale l’ingegner Nicola Galperti a cui
fa capo un gruppo da 230 milioni di fatturato (2023), capofila la Ring Mill Spa.
Questa società opera tra l’altro anche nel settore militare e nel 2022 ha
ottenuto autorizzazione a esportare in Germania e anche verso Israele pezzi
forgiati per cannoni, precisamente “sbozzati per canna, blocco otturatore e
culatta da 155 mm cal. 52”. Quelli destinati a Israele sono montati sugli obici
semoventi gommati ATMOS 2000, considerati come i più competitivi concorrenti dei
noti cannoni francesi CAESAR, e fabbricati da Soltam Systems, azienda del gruppo
Elbit Systems, lo stesso a cui appartiene la citata IMI Systems.
L’obice semovente ATMOS 2000 155mm/52 può essere montato su veicolo 6×6 o 8×8.
Nella sua pagina web, Elbit lo presenta come battle-proven. Fonte: pagina web di
Elbit Systems
Così, a pochi chilometri di distanza tra loro, vediamo due imprenditori entrambi
operanti nello stesso specifico settore della forgiatura, sebbene su livelli
diversi, vendere allo stesso cliente (Elbit Systems) semilavorati da assemblare
in sistemi d’arma. Il primo, Pierantonio Baruffaldi, cade dalle nuvole quando
gli sequestrano 13 tonnellate di materiale destinato – illegalmente – alla più
importante industria militare di Israele. Il secondo, l’ing. Galperti presidente
e CEO della Ring Mill, ha venduto – con la documentazione corretta ma con
autorizzazioni che non dovevano essere concesse perché destinate a paesi in
guerra – componenti di qualità per i sistemi d’artiglieria all’avanguardia sia a
Rheinmetall (che li ha spediti in fretta in Ucraina), sia a Elbit che ne ha
dotato le forze armate israeliane per fare il tiro a segno sulla popolazione di
Gaza.
Lavorazione a caldo nello stabilimento Ring Mill di Dubino (SO).
Vengono in mente le parole di un altro Galperti, Roberto Galperti, anche lui
industriale valsassinese delle lavorazioni metallurgiche a caldo, che in una
vecchia intervista del 2013 proclamava di non investire più in Italia, dove si
sentiva sconfitto da una “burocrazia cavillosa”: qui «qualsiasi cosa faccia,
l’imprenditore è sospettato di non voler rispettare le leggi e quindi è
potenzialmente considerato un criminale».
Autorità e governo italiani farebbero meglio a seguire l’esempio del presidente
brasiliano Lula da Silva. Nell’aprile 2024 il suo Ministero della difesa, da
sempre geloso della propria autonomia in tema di procurement, ha firmato con
Elbit un contratto di acquisto per 36 obici ATMOS 2000 completi. In ottobre Lula
– che ha mantenuto pubblicamente una posizione molto netta circa le
responsabilità israeliane nella cosiddetta “guerra di Gaza” – ha sospeso
l’affare, nonostante le rimostranze del ministro della difesa, José Múcio, suo
alleato di governo ma leader di un partito di destra. Nel febbraio 2025 la
stampa brasiliana ha pubblicato la notizia che Lula approverà il contratto solo
dopo un accordo di pace tra Israele e Hamas, e che lo stesso destino seguiranno
tutti gli accordi in essere o in trattativa per acquisto di armi da aziende
israeliane.
Riceviamo e diffondiamo:
Per richiesta di copie: disfare@autistici.org
Scarica il pdf dell’anteprima: disfare_1_anteprima
Editoriale
Europa anno zero
Mentre, nello Studio Ovale della Casa Bianca, urla in faccia a Zelensky: «Vai in
giro e costringi i coscritti in prima linea perché hai problemi di uomini», JD
Vance non fa altro che svelare al mondo intero ciò che per tre anni è stato
nascosto dalla propaganda di guerra atlantica, e che viene adesso rinfacciato –
strumentalmente e non certo per motivazioni etiche – dal nuovo corso USA, di
fronte ad una guerra evidentemente persa e ormai sfacciatamente scaricata sulla
popolazione europea. Un’Europa la cui classe dirigente – riaffermando la difesa
fino all’ultimo ucraino con la retorica della “pace giusta” – annuncia con
patriottismo democratico scellerati piani di riarmo e deterrenza nucleare.
La guerra è l’orizzonte storico terribile del nostro tempo.
In Svezia e Norvegia vengono distribuiti opuscoli e si allargano i cimiteri per
predisporre la popolazione all’eventualità di una guerra con la Russia; Von der
Leyen dichiara di volere «la pace attraverso la forza»; Macron propone di
estendere la force de frappe francese all’Europa; in Lombardia si dispone
l’ampliamento delle scorte di iodio nell’eventualità di attacco nucleare; la
NATO promuove la mobilitazione della società civile dei paesi alleati
nell’Indopacifico per preparare un conflitto con la Cina; l’esercito italiano si
prepara ad arruolare quarantamila soldati in più.
In un quadro di interdipendenza tecnologica e finanziaria fra Cina e Stati
Uniti, con l’elezione di Trump viene alla luce lo scontro in atto da anni tra la
fazione globalista e quella sovranista delle classi dirigenti occidentali. Per
sommi capi, la prima è decisa a uno scontro diretto e a qualsiasi costo con la
Russia, la seconda favorevole a un’intesa col Cremlino per puntare, nel giro di
alcuni anni, direttamente contro la Cina, ma entrambe convergono su un punto
preciso: il riarmo europeo (peraltro deciso e annunciato molto tempo prima del
ritorno di re Donald). Un gioco di specchi e provocazioni che, mentre potrebbe
sfociare da un giorno all’altro nell’annientamento nucleare dell’umanità intera,
trasformerà l’Europa, se non in un cumulo di macerie radioattive, in una
fortezza blindata e militarizzata, dominata da un’economia di guerra che
assorbirà tutte le risorse e le energie sociali.
La guerra del nostro secolo è ibrida, totale, asimmetrica, civile. Il suo campo
di battaglia è ovunque.
La guerra del XXI secolo è una guerra senza limiti, che assume forme varie e
pervasive. Si snoda tra i flussi energetici, prende la forma di attentati e
sabotaggi di Stato, incorpora pienamente il denaro, i mezzi di informazione e i
social network. La centralità assunta dalla tecnologia e dallo sviluppo
scientifico si riverbera in ogni ambito del conflitto guerreggiato, attraverso
droni, applicazioni che coinvolgono la popolazione nei servizi di intelligence
(ad esempio per segnalare le posizioni delle unità nemiche), così come con la
rivoluzione dell’intelligenza artificiale nelle dottrine militari, che ha un
peso e delle conseguenze paragonabili all’invenzione del nucleare. Se l’IA e le
tecnologie digitali sono fondamentali per fare la guerra, la ricerca del primato
su questi dispositivi alimenta la competizione su scala internazionale per il
saccheggio di materie prime e la vampirizzazione energetica. Le ipotesi di
“deterrenza batteriologica” e la valenza apertamente militare dei bio-laboratori
fanno coincidere guerra guerreggiata e guerra al vivente.
Non per questo vengono meno forme “tradizionali” e sanguinose, riemergenti nei
fronti di una guerra mondiale che per ora sarà anche «a pezzi», ma che si
delinea sempre più chiaramente come prodotto della crisi dell’egemonia globale
statunitense e contesa con i suoi sfidanti, in particolare la Cina. Sul fronte
ucraino, la leva di massa e la guerra di posizione ci ricordano quanto avveniva
durante la Prima Guerra Mondiale. Sul fronte mediorientale, dove per gli USA
mantenere saldo il colonialismo d’insediamento israeliano – sorto come avamposto
degli interessi occidentali – significa cercare di preservare il proprio
predominio sulla regione, il genocidio sionista a Gaza e in Cisgiordania riporta
all’attualità quanto avvenne durante la Seconda Guerra Mondiale. In nessun caso
si tratta però di un ritorno del Novecento, bensì del reciproco alimentarsi di
progresso tecnico e mobilitazione generale nella guerra totale del XXI secolo.
Il potenziamento della tecnica è oggi l’orizzonte centrale per le forze che si
contendono il dominio del mondo.
Con un rovesciamento tra il concetto di mezzo e quello di fine, la tecnica
guidata dalla scienza moderna si afferma secondo una propria logica. Il ruolo
del sistema satellitare Starlink di Elon Musk – impostosi con la guerra in
Ucraina – dà la misura di un protagonismo inedito delle multinazionali
dell’high-tech, ma, come in altre fasi della rivoluzione industriale, non viene
meno il ruolo dello Stato, che anzi assume una rinnovata centralità. Non è un
caso che il Progetto Stargate della nuova amministrazione USA – 500 miliardi per
lo sviluppo dell’IA – sia stato paragonato al Progetto Manhattan, quello che
portò ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki.
La natura automatizzata del genocidio a Gaza appare come la sperimentazione sui
“selvaggi delle colonie” di quello che rischia di accadere ai civilizzati
stessi, allo stesso modo in cui il genocidio degli Herero in Namibia da parte
del colonialismo tedesco (e l’insieme dei genocidi commessi dalle altre potenze
coloniali) precedette e preparò l’attività dei campi di sterminio durante il
nazismo. E mentre diventa sempre più chiaro come nell’organizzazione del
mondo-guerra vi sia un’umanità eccedente di cui si può fare a meno e che va
gestita o eliminata, si sta sdoganando l’idea che si possa fare a meno
dell’umanità in quanto tale (come sostenuto apertamente da alcune correnti
tecnocratiche tutt’altro che lontane dalle stanze dei bottoni).
La guerra è prima di tutto un fatto di politica interna – e il più atroce di
tutti.
Così metteva in guardia Simone Weil, ventiquattrenne, nelle sue Riflessioni
sulla guerra (1933), rispetto all’errore di considerare la guerra come un fatto
di politica estera. Se i fatti drammatici a cui assistiamo ogni giorno in
diretta streaming rischiano di apparirci distanti, la guerra è più vicina di
quanto inconsciamente ci auguriamo.
A pochi passi da noi stanno infatti le sue molteplici basi materiali – dai
centri decisionali alle fabbriche d’armi e munizioni, passando per snodi
logistici che sono parti integranti della logistica militare e un sistema
universitario che fa da laboratorio all’industria bellica –, sempre più nutrite
da imponenti piani di riarmo. E nel mondo datificato e digitalizzato i confini
fra civile e militare sono continuamente superati in entrambi i sensi: una app
che oggi viene usata per profilarci come consumatori, pazienti sanitari o
“cittadini digitali”, può servire, altrove come qui, per mettere al bando,
arruolare, o eliminare una parte di umanità considerata nemica o inutile, mentre
i dati che produciamo tutti i giorni sono direttamente al servizio della
sorveglianza e degli eserciti.
Se è vero che la guerra parte da qui, è altrettanto vero che la guerra torna
indietro. Ritorna come necessità di “pacificare” le retrovie, militarizzandole:
la sperimentazione delle “Zone Rosse” dopo Capodanno, il tentativo di varare un
codice da legge marziale col Pacchetto Sicurezza (firmato anche dal ministro
della Difesa), l’estensione del “modello Caivano” ad altre periferie. Sul piano
interno, sono numerose le conseguenze a cascata del conflitto tra gli Stati
fatte pagare alle classi dominate – aumento delle bollette, precarizzazione
ulteriore del lavoro, fine di quel che rimane del cosiddetto “Stato sociale” –
giustificate dalle necessità del riarmo e della difesa nazionale e Europea, con
l’utilizzo costante dell’emergenzialità e la militarizzazione delle emergenze. È
ciò che abbiamo ampiamente vissuto durante il “periodo pandemico”, in cui la
guerra al virus ha predisposto il terreno per la guerra attuale con la
sperimentazione su larga scala di una mobilitazione generale.
La guerra totale è contemporaneamente guerra civile globale.
Le condizioni di questa guerra civile sono ampiamente in essere anche alle
nostre latitudini, come più d’uno ha affermato già nel secolo scorso. Il venir
meno di collanti ideologici, la conflittualità intestina allo Stato e pure alle
classi frantumate, sono sintomi che la barbarie non è qualcosa di lontano, ma si
dispiega anche all’interno delle mura erette dalla “civiltà” e dal “progresso”.
Basti pensare a quanto accade nelle periferie come riflesso della “guerra tra
poveri” – italiani contro stranieri, disoccupati contro lavoratori “del nero”,
piccoli esercenti autorizzati contro abusivi, regolari contro clandestini,
abitanti delle case popolari contro occupanti, cittadini contro rom, antagonisti
contro “maranza”… Se poi ci spostiamo nel Regno Unito, vediamo tornare né più né
meno che i pogrom (con migranti e islamici al posto degli ebrei e dei rom). Se
le insurrezioni e le rivoluzioni moderne sono sempre delle guerre civili, i due
termini non coincidono. Oggi siamo precisamente in presenza di una guerra civile
ubiqua e orizzontale in assenza di guerra sociale.
Capita però che talvolta il conflitto si esprima verticalmente, come nelle
sommosse di George Floyd e poi, con una composizione socialmente diversa, e per
certi aspetti opposta, nell’assalto a Capitol Hill (USA, 2020 e 2021: prima
proletari di tutti i colori contro padroni e istituzioni, e in particolare
contro la polizia; poi una miscellanea di classi, ma tendenzialmente plebee e
bianche, contro l’elezione di Biden); negli scontri dei popoli nativi contro il
marco temporal dell’agroindustria (Brasile, 2023); nelle sommosse delle
banlieues francesi (dal 2005 alle più recenti “rivolte di Nahel”) e, alle nostre
latitudini, nelle accese manifestazioni antipoliziesche dopo l’assassinio di
Ramy Elgaml a Milano da parte dei carabinieri.
I fenomeni di disintegrazione sociale rappresentano in ogni caso una minaccia
per l’ordine costituito, a cui lo Stato risponde in maniera autoritaria, in modo
del tutto trasversale alle tassonomie di governo formali (democrazia vs.
autocrazia), senza mediazioni se non quelle offerte dal progresso tecnico. Basti
pensare alla digitalizzazione e biometrizzazione delle identità legali, tramite
cui l’identità civile diventa indistinguibile da un dispositivo di sorveglianza
automatizzato. Oggi il “cittadino” che si rivolta o non obbedisce è sempre più
meccanicamente “messo al bando”.
Prendere atto della tendenza alla guerra non significa accettarne
l’inevitabilità.
Nonostante la religione dell’ineluttabilità sia il motore del nostro tempo,
alcuni segnali sembrano incrinarla. In Ucraina, dopo la sbornia nazionalista, il
sostegno alla guerra ha lasciato il posto a forme di renitenza, diserzione e
non-collaborazione di massa che pesano non poco sulle sorti di quel conflitto e
lasciano intravedere un possibile crollo del fronte occidentale. Nel frattempo,
il genocidio a Gaza ha alimentato un movimento globale vasto e articolato che,
grazie ad alcune testarde minoranze, ha riscoperto forme d’azione diretta e ha
portato l’intifada nei campus statunitensi, facendosi carico di dire il
non-detto, cioè il fondamento bellico e genocida del capitalismo occidentale.
L’estensione della guerra a tutti gli ambiti della società moltiplica le
opportunità di ammutinamento e sabotaggio, offrendo alla variabile umana inedite
occasioni di inceppare la macchina mortifera.
La propaganda di guerra – paradossalmente – ha avuto invece presa su alcune
minoranze della minoranza antagonista, arrivate a esprimere sostegno a una
sedicente, e inesistente, resistenza ucraina, e a esitare, nel contempo, a
sostenere la resistenza palestinese, con la totale incapacità di distinguere tra
un’ondata nazionalista fomentata e armata dalla NATO (e con autentici nazisti in
prima fila, tra Parlamento, squadroni della morte, esercito, polizia, Guardia
Nazionale) e una resistenza anticoloniale contro un colonialismo d’insediamento
ancora in corso. Se i socialisti parlamentari di un tempo votarono i crediti di
guerra, i loro ridicoli e corrotti eredi “progressisti”, dopo un secolo di
collaborazionismo di classe, sostengono il piano di riarmo “ReArm Europe” e
indicono piazze guerrafondaie “per la libertà”, volte unicamente a sostenere la
prosecuzione del massacro in corso in Ucraina.
A centodieci anni dall’entrata in guerra dell’Italia nel Primo Massacro Mondiale
e a ottant’anni dalla fine del Secondo sul suolo europeo, sono la storia
dell’antimilitarismo rivoluzionario e ancor più quella di chi lo ha abbandonato
abbracciando la causa della “guerra giusta” di turno a illuminare tragicamente
la strada da percorrere. L’unico modo di sottrarsi a guerre fratricide è
assumere la logica del disfattismo e le sue implicazioni, ovvero adoperarsi per
la rovina della parte capitalista che ti vuole arruolare e intruppare, e l’unico
modo per sottrarre il disfattismo dall’arruolamento da parte del campo
capitalista avverso è la logica dell’internazionalismo: quella con la quale ogni
sfruttato vede il proprio nemico nel padronato di casa propria, solidarizzando
con i propri fratelli e sorelle dall’altro lato del fronte.
¯¯¯
Con questo sguardo sul mondo nasce disfare, bollettino periodico in parte
dedicato ad affrontare nodi cruciali per interpretare il fosco orizzonte in cui
agiamo, in parte a dare diffusione di testi contro la guerra totale, per lo più
inediti in lingua italiana, provenienti dai vari fronti e retrovie del mondo e
anche dal passato.
Il bollettino uscirà in quattro numeri annuali, un ritmo oltremodo lento per
tenere il passo vertiginoso dell’attualità, ma che ci sembra – oltre che
compatibile con le nostre energie – adatto al cristallizzarsi di un pensiero che
provi ad avventurarsi oltre la superficie. Ci affidiamo a uno strumento
cartaceo, senza escludere che possa essere affiancato da altri mezzi, convinti
che nella dimensione digitale tutto sfreccia e poco o nulla si posa, rumore di
fondo che non ha più importanza di qualsiasi altro rumore.
Di fronte all’accelerazione di eventi di portata storica che stiamo vivendo, ci
sembra utile dotarci di una pubblicazione che possa fornire uno spazio di
discussione e in cui possano dialogare fra loro esperienze di lotta e analisi,
anche geograficamente lontane e magari divergenti tra di loro, con il desiderio
che questo possa stimolare pensiero e azione. Per questo invitiamo chi ci legge
a contribuire con testi, grafiche, segnalazioni, critiche, diffusione. Nella
speranza che l’accelerazione di questi tempi bui non ci trovi del tutto
impreparati.
Riceviamo e pubblichiamo questo comunicato del Collettivo Sumud di Venezia.
Tutta la nostra solidarietà alla compagna e al compagno portati in Questura e
colpiti dal foglio di via. Non è pedanteria ribadire che per noi non esistono
“Stati legittimi”. Quello israeliano ha la stessa legittimazione che si sono
auto-assegnati tutti gli Stati (pensiamo agli USA, fondati su un genocidio). La
differenza – per cui noi siamo sfruttati mentre i palestinesi vengono sterminati
– è che, espressione e gendarme di un colonialismo d’insediamento incompiuto
(l’incompiutezza si chiama resistenza palestinese), Israele rinnova ogni giorno
quella violenza fondativa che gli Stati rimuovono nel processo di
normalizzazione e che riaffiora quando si organizzano per la guerra.
Con la Palestina nel cuore, Padova un po’ meno
Il 18 marzo, i Giovani Palestinesi di Padova hanno lanciato una giornata di
lotta in città, contro le collaborazioni universitarie intrattenute con
“Israele”, contro Maersk, azienda con sede all’interporto di Padova attivamente
coinvolta nel trasporto di armi verso il sopracitato Stato illegittimo e contro
la ripresa evidente del genocidio con gli attacchi sulla striscia di Gaza della
notte precedente.
A giornata conclusa, una compagna e un compagno del nostro collettivo che hanno
partecipato alla manifestazione sono stati “colpiti” da un foglio di via dalla
città, rispettivamente di due e tre anni, dopo essere stati portati in questura
con altri 3 manifestanti, dopo essere stati seguìti da una decina di volanti per
quasi un’ora. Ci teniamo a partire da quanto successo, non tanto per parlare
delle misure repressive in sé, che ci interessano poco nei loro tentativi
strumentali e materiali, ma come pretesto per dire due cose che ci stanno a
cuore.
Prima di tutto, ci rivendichiamo totalmente il senso della giornata: un presidio
statico di denuncia e contro-informazione si è trasformato in un tentativo di
occupazione dell’università complice del genocidio, per poi prendersi le strade
con un corteo spontaneo e partecipato; questo, secondo noi, è segno di una
variabile umana che, prendendo esempio dal popolo palestinese, si mette ancora
in gioco ed è ancora pronta a lottare provando a superare divieti e cordoni di
polizia. Perché se il genocidio continua e le collaborazioni sono ancora attive,
noi non possiamo fermarci. La giornata del 18 a Padova fa sperare che la lotta a
fianco del popolo palestinese continui, tutto il resto passa in secondo piano, a
nostro avviso. Siamo felici di poter condividere piazze, percorsi, lotte con i
Giovani Palestinesi, che da più di un anno riescono a dare indicazioni precise
su come e dove agire in quanto solidali con il popolo palestinese.
In secondo luogo, spendiamo alcune parole circa le “conseguenze legali” che
hanno colpito i compagni: le rivendichiamo assieme al senso della giornata e
delle azioni che sono state portate avanti. La repressione non è solo fogli di
via, indagini, denunce, persone portate in questura e così via; la repressione
è, secondo noi, un insieme di pratiche molto più ampio, che non viene portato
avanti solo da polizia, ma è un modo di fare che si insinua ovunque e al quale
ci si deve opporre con tutte le proprie forze per poter continuare la lotta. Non
vogliamo fare la parte delle vittime che vengono colpite dalla “repressione”
senza motivo; siamo due militanti presi in quanto “appartenenti” ad un’area
politica che cerca nella coerenza una pratica di lotta, e gli atti repressivi
che si presentano e tornano non vogliono che far pagare questo (o provarci).
Concludiamo ringraziando con il cuore in mano tutte le persone che sono state
fuori dalla Questura di Padova ad aspettare il rilascio dei cinque fermati per
due-tre ore. Essere in quel luogo infame e sentire fuori i cori e il rumore dei
solidali, è un’emozione difficilmente traducibile a parole. Un’emozione che chi
ha compagne e compagni che fanno della solidarietà una pratica reale e concreta
può provare, e che dà una forza incredibile, per la quale ringraziamo di
condividere le lotte con persone così. Uscire e trovare volti conosciuti e no,
fa dimenticare tutto il resto, e fa capire la potenza della solidarietà. Per
questo ringraziamo sinceramente chiunque era lì fuori.
NESSUN IMPIANTO, NESSUN RIMORSO: ALCUNE CONSIDERAZIONI E UN RACCONTO A PIÙ VOCI
DELLA MOBILITAZIONE DELLO SCORSO FEBBRAIO
Lo scorso 9 febbraio una quindicina di escursioni hanno punteggiato la dorsale
appenninica e l’arco alpino al grido La montagna non si arrende. Dopo
l’esperienza di Reimagine winter (marzo ’23) e Ribelliamoci AlPeggio (ottobre
’23) decine di associazioni, spazi sociali, comitati di abitanti, climattiviste
si convocano in risposta alla chiamata dell’Associazione Proletari
Escursionisti.
Un primo dato interessante sta proprio qui: realtà diverse, associative e
militanti, singoli oppositori o gruppi organizzati riflettono le proprie voci di
dissenso a progetti che disegnano una prospettiva di turismo sempre più
aggressiva basata sulla depredazione dei territori. Troviamo che questa
saldatura descriva due importanti momenti. Tanto per cominciare, sappiamo che in
questa fase le lotte locali fanno paura al potere e sono tra le poche efficaci.
Basti qui ricordare la pesantissima repressione NoTav, le manganellate al parco
Don Bosco di Bologna, le forze dell’ordine sempre più spesso mandate a
monitorare gruppi e iniziative di protesta locale o ancora le lotte contro il
furto d’acqua e le dighe d’Oltralpe. Unire queste lotte a partire dall’urgenza
dello sperpero olimpico e metterle in connessione tra loro non farà che
rafforzarle e migliorarne l’efficacia, rendendo una volta ancora più esplicito
il trait d’union che le accomuna: la necessità di sviluppare comunità disposte a
interagire con i territori e a ragionare di come starci dentro e non sopra,
insieme alll’improrogabilità di opporsi a prospettive che minacciano e
calpestano luoghi ogni anno più fragili. Visioni superate, fuori tempo massimo,
che strizzano ancora dopo aver spremuto. Idee sepolte, energivore, idrovore e
che possono essere tranquillamente descritte come negazioniste del cambiamento
climatico.
In questo solco la proposta di una giornata di mobilitazione sincrona che
riconosce nei Giochi olimpici invernali 2026 l’elemento apicale di una lunga
sequenza di iniziative nocive e imposte, che drenano risorse pubbliche e minano
la vita non solo umana nei territori coinvolti, può fungere da apripista a una
galassia di resistenze contro cave e miniere, grandi opere stradali
sovradimensionate, impianti eolici industriali, estrazione di fonti fossili,
nuovi impianti di risalita. Un cartello capace di interrogare e interrogarsi su
possibili forme di mutuo appoggio, produzione di spazi di confronto e
formazione, impellenza di far emergere le lotte con lo scopo di portare a casa
piccoli e grandi risultati utili a infondere fiducia nel binomio stop nocività /
riprogettazione dal basso. Tutto nasce dall’appello: «Le terre alte bruciano.
Non è una metafora. Lo zero termico a 4200 metri in pieno autunno, i ghiacciai
si sfaldano, il permafrost si scioglie, le alluvioni devastanti sono la realtà
quotidiana delle nostre montagne. Una realtà che stride con l’ostinazione di
chi, dalle Alpi agli Appennini, continua a proporre un modello di sviluppo
anacronistico e predatorio, basato su pratiche estrattive e grandi-eventi come i
giochi olimpici invernali.
La monocoltura turistica sottrae risorse economiche pubbliche a beneficio di
pochi, a scapito di modelli plurali e alternativi di contrasto allo spopolamento
delle terre interne e di convivenza armonica in territori montani fragili e
unici».
I NUMERI, LE OPERE (E I GIORNI) DI UNA CRISI
Il versante sud delle alpi paga per primo il costo della crisi climatica: 260
impianti sciistici dismessi, oltre 170 in funzione “a intermittenza”, i bacini
per l’innevamento artificiale crescono del 10% toccando la cifra record di 158
secondo il Rapporto Neve Diversa di Legambiente. Sempre in tema di dati, le
prime analisi della Rete Open Olympics illustrano l’economia della promessa
olimpica a partire dagli open data pubblicati sul sito di SiMiCo, l’SpA a
controllo pubblico e principale stazione appaltante delle infrastrutture del
ticket Milano-Cortina 2026. Dati che raccontano il modello spompo di una nazione
al collasso che dopo essere implosa nell’industria e nella sua capacità di
produzione non sa far altro che iniettare liquidità per generare reddito
sottraendo spazi di cittadinanza. E così si ruba acqua a comunità che
necessitano di autobotti per bagnare gli orti, si progettano impianti che
abbattono boschi, si trasformano rifugi alpinistici in resort di lusso. La
logica della turistificazione genera souvenir finto-artigianali, attrae gruppi
di investimento, cancella servizi essenziali per le comunità. Il risultato di
questo “favore al turismo” costi quel che costi altro non è che l’annientamento
di economie locali, la crescita dei prezzi e l’impossibilità di vivere e
sviluppare relazioni dove si è nati e cresciuti, quando anche vi ci si volesse
rimanere.
L’esplosione e l’atomizzazione del tessuto sociale.
Scritte contro l’eccessiva invadenza del turismo all’Alpe di Siusi
A un anno dallo start nella gestione del cantiere olimpico 2026, la metà delle
opere risulta ancora in progettazione o in gara, le attese di una VAS nazionale
sono state tradite e sulla Lombardia insiste il carico più alto (50% ca. di 3,38
miliardi) sia per numero di opere che per costo. La conclusione di diverse opere
di “legacy”, che per il 70% sono stradali e per il 30% ferroviarie) è già in
agenda per il 2028, 2030, 2032. Il binomio fretta/ritardo, distrattamente
salutato come pura imperizia, costituisce una leva fondamentale della logica
commissariale e della sua capacità di accelerare i processi di trasformazione
territoriale bypassando i processi democratici di ascolto, interlocuzione,
cessione di potere all’agognata sovranità popolare. A questo scenario si
aggiungono i costi per la realizzazione dei Giochi veri e propri, in carico alla
Fondazione Milano Cortina 2026 per 1,6 miliardi di euro.
Il 70% delle opere collaterali alle Olimpiadi – in una nazione in cui crollano
ponti, si sfaldano guardrail e lo stato di edifici pubblici a cominciare dalle
scuole è pessimo, in cui le case non a norma, abusive, e a forte rischio in caso
di evento sismico o meteorologico è disarmante, in cui la manutenzione è
inesistente e la priorità è spostare masse di turisti nel grand tour
dell’invasione – sono strade. La politica pretende di ridurre gli intasamenti
stradali aumentando il numero delle carreggiate – come nel caso del Passante di
Bologna – e delle carrozzabili – come per la tangenziale di Bormio – senza
ammettere che così facendo fa aumentare il volume del traffico e torna al “via”,
a dover ampliare e costruire ancora e ancora.
Opere per giustificare opere: infrastrutture per raggiungere borghi e città
tronfi di mattone e bonus edilizi, centri urbani tirati a lucido e gentrificati,
in preda alla smania di decoro e respingenti. Un Paese ricco di infrastrutture
turistiche mal progettate che chiamano ciclabili. Opere inutili rispetto
all’idea originaria – agevolare la mobilità interna -, che quando non
contribuiscono a causare disastri, come in Emilia, sottraggono spazio ai
marciapiedi e pedoni.
L’ottica turistica nasconde nocività sotto al tappeto e inventa peculiarità e
tradizioni, economie e bella vita, in una valanga schizofrenica che si
ingigantisce e travolge tutto quel che incontra. Impianti anacronistici e funi
ricollocate nella tradizionale destinazione d’uso, come nel caso dell’ovovia di
Trieste, «una vetrina commerciale per le sue [di Leitner, ndr] cabinovie urbane,
dato che il cambiamento climatico preclude altri impianti in quota». Meleti
pervasivi che occupano il territorio in maniera tossica, fatta di fitofarmaci e
pesticidi, mentre si invita la gente a voltarsi dall’altra parte per ammirare
funivie che trasporteranno la frutta da stoccare. È questo il progetto Melinda
che, vestiti i panni di novella Grimm, racconta una Biancaneve al contrario
fatta di una funivia, riduzione del traffico di camion, buone mele “green” e
biodiversità. Come se non fosse una presa per i fondelli parlare di biodiversità
mentre si impone una monocoltura (o bi-coltura, se includiamo i vigneti) nociva.
Come se la costruzione e il mantenimento di un impianto non fossero energivori,
non impattassero sul territorio non inquinassero; come se, tolte poche centinaia
di metri al trasporto su gomma – l’”ultimo miglio” – i camion non continuassero
a portar merce dai produttori alla stazione di partenza della funivia, e dalla
cella ipogea della cava di stoccaggio ai centri di distribuzione.
In Trentino, la regione “illuminata” in cui l’invasione di animali umani inizia
a produrre più noie che reddito, la Provincia preferisce millantare invasioni di
una fauna anch’essa re-introdotta a uso turistico, salvo non garantirle il
minimo spazio vitale e negarle corridoi di dispersione per poterla poi additare
a emergenza criminale e pretendere di abbatterla.
La negazione della vita per l’aleatorietà del fatturato perché, grattata la
vernice, la menzogna si svela per quello che è: altro che interesse per
l’ambiente, rispetto per le comunità, scelte lungimiranti per la collettività.
INTERESSE PRIVATO E PITTATE DI VERNICE, STOP
Per i Giochi è previsto l’arrivo di 1,8 milioni di presenze, che a mezzo stampa
si usa arrotondare a 2 milioni, ma che in realtà è un modo curioso di parlare di
500.000 persone, per intenderci un settantesimo del giubileo capitolino.
Il Rapporto di sostenibilità, impatto e legacy è una lettura di sicuro svago per
gli amanti della chiarezza circa gli obiettivi dell’impresa: rafforzare la
posizione sia di Milano, come città met dinamica e votata ad ospitare eventi
internazionali, che di Cortina, quale località nel cuore delle Dolomiti e della
regione alpina, attrazione turistica e polo leader a livello mondiale per sport
invernali. Se solo escludiamo i nomi di località e discipline che riportano la
parola alpina o alpino questa è l’unica volta in cui le Alpi sono citate in 164
pagine di documento. A titolo di paragone il lemma Milano (sede di gara della
maggior parte delle discipline) restituisce oltre 250 risultati.
Narrazioni dunque, cumuli di narrazioni che mirano a intruppare e a spostare
l’attenzione dal cuore del problema: il modello di business distruttivo.
Ecco perché è importantissimo questo inizio di “camminata larga”, ecco perché ci
auguriamo che la contestazione fuori e oltre, al tema stretto “Milano-Cortina”,
si allarghi. Partire dalle singole opere, dagli impianti, dai progetti – che
siano in alto come in basso, in città come in piccoli borghi semi-disabitati –;
partire dai sommovimenti e dalle lotte, metterle in “rete”. Perché le narrazioni
attorno all’Olimpiade o a qualsiasi altro soggetto speculativo si adattano di
volta in volta succhiando respiro, ma sono accomunate dalla stessa logica,
perfettamente sovrapponibile a quella che anima l’assalto a tutto lo stivale:
soldi, sfruttamento, impoverimento sociale.
Leggere la dinamica aiuta a allargare lo sguardo, apre riflessioni di respiro, e
sposta il piano. In questa logica non ha senso controbattere alla produzione
immaginifica del monolite olimpico fatto di mille piedi, stare sul pezzo delle
Olimpiadi come evento anacronistico, immaginare un unico motore no-olimpico.
Come bene ha scritto Alberto di Monte, il nostro compagno Abo, su Umanità Nova:
«L’importante non è vincere, oggi è importante non partecipare». Ne siamo
convinti, le montagne meritano una nuova diserzione, le olimpiadi meritano
diserzione, questo mondo merita diserzione.
Disertare le loro battaglie e le loro costruzioni del nemico, spostare l’asse
verso il conflitto giusto: non contro le narrazioni sognanti e distorcenti che
produce il capitale, ma contro esso stesso.
BORMIO – FAKE SNOW, REAL PROFIT!
La comitiva in arrivo in pullman da Milano è accolta a Bormio dalla prima neve
di stagione, che da qualche giorno scende copiosa in alta valle. Le
centocinquanta persone partecipanti inscenano
un’escursione-manifestazione-perlustrazione fino all’imbocco della Valdidentro
prima di ripiegare nel centro storico per un pomeriggio di presidi itineranti.
Sì perché la contestazione olimpica non è ben accetta dall’amministrazione
locale né dalla questura di Sondrio e diverse iniziative sono state precettate
nel tentativo di scorare i dimostranti e di tenere a distanza le sensibilità più
curiose. L’epilogo di fronte all’ecomostro delle tribune al piede delle piste,
lungo la via che dovrebbe intercettare il traffico della nuova tangenzialina, è
la fotografia plastica dei “Giochi della sostenibilità”.
Lo ski stadium di Bormio durante il presidio
Per raggiungere Bormio abbiamo risalito la Valle Camonica e scavallato il passo
dell’Aprica. Lungo il tragitto, sopra le nostre teste nubi dense contrastano con
un paesaggio brullo, fatto per l’ennesimo inverno consecutivo di scarsissime
precipitazioni, sia piovose che nevose.
Attraversando la valle scorgiamo Montecampione, località sciistica fallita, e
per fortuna: per tutta la bassa valle non s’intravede nemmeno una spruzzata di
bianco. È febbraio ma sembra autunno.
Più a Nord la situazione non è migliore, qualche incrostazione dalla Presolana,
dal Pizzo Badile camuno e dalla Concarena in su, macchia appena monti di oltre
2000m di quota.
All’Aprica, poco meno di 1200 mslm, scorgiamo i primi spazzaneve, i primi
fiocchi. Siamo quasi stupiti, siamo in cinque ed è la prima neve dell’anno che
vediamo. La località è triste: poca gente per la via centrale, ancor meno sulle
piste, lingue bianche e artificiali a dividere masse verdi d’abete. Forse anche
la gente si sta stancando di sport invernali senza inverno.
Il passo dell’Aprica la mattina del 9 febbraio
Scendiamo in Valtellina: a Tirano monti e fondovalle sono asciutti quanto quelli
camuni. Man mano che ci inerpichiamo verso Bormio riprendono i fiocchi, “sta a
vedere che portiamo il dono più prezioso al nemico”. Arriviamo a Bormio in
leggero anticipo, la Piana dell’Alute è magnifica, ampia, di un verde che
comincia a imbiancare.
I bormini le sono molto legati, la amano per la sua storia, per il suo valore
paesaggistico, per quello che è. Andrebbe vista, visitata, protetta; la nuova
amministrazione invece la vorrebbe devastare per farci passare la
“tangenzialina”. Altro che tangere, sventrare una piana stupenda per proiettare
il vomito-massa nel cuore di Bormio. Chissà se reggerà a queste sollecitazioni.
Chissà se questo piccolo microcosmo resisterà all’infarto.
Cercando un parcheggio attraversiamo piazza Kuerc dove ancora non c’è nessuno.
Lasciamo l’auto, calziamo gli scarponi e torniamo in centro. Bormio fa la stessa
impressione dell’Aprica: pochi turisti, poco movimento in pista e fuori, i
vecchi fasti delle località sciistiche sono passati, resistono giusto i
comprensori-mastodonte come il Tonale, luogo di un’altra camminata di questo 9
febbraio.
In piazza ci dirigiamo verso un bar per un caffè, due ragazze ci fermano e
chiedono se sia qui il ritrovo. «Sì, e manca poco. Speriamo che il meteo non
rovini la giornata».
Al bar veniamo accolti bene, le ragazze che lo gestiscono ci chiedono se siamo
qui per via della manifestazione, sono curiose. Fuori le stesse scene, qualche
passante ci saluta e chiede, così come gli agricoltori che hanno approntato un
mercatino sotto la copertura della piazza.
La storiella dei valligiani chiusi, dei montanari ostili ai movimenti e felici
di vedere “soldi per lo sviluppo” si scioglie come i fiocchi che cadono sul
selciato di questa piazza.
Il pullman da Milano è in ritardo, cogliamo l’occasione per salutare qualche
conoscenza e per conoscere persone nuove che nel frattempo si stanno radunando.
Il pericolo è scongiurato, gente ce n’è.
A un certo punto avvertiamo una presenza chiassosa, svolto l’angolo e intravedo
uno striscione che recita «Milano-Cortina 2026. Dalle Montagne alle città.
Olimpiadi insostenibili».
È arrivato il pullman, e bene: la questura ha vietato di tutto un po’, cortei
compresi, ma la cosa non preoccupa né impensierisce troppo.
Ci muoviamo quasi subito dietro lo striscione, ci sono anche alcune bandiere e
intoniamo cori. I milanesi hanno studiato un canzoniere simpatico, provocatorio,
scherzoso.
Il corteo si fa, e attraversa tutto il paese. Qualche curioso si sporge dalle
finestre, qualcun’altra chiede. Un signore è incuriosito dalla bandiera
palestinese che sventola. «Cosa c’entra con questa iniziativa?», chiede. «Le
lotte si tengono assieme, così si dà senso alle cose, alle sorellanza».
Capisce. Annuisce. Se ne va sorridendo.
Attraversiamo il fondovalle costeggiando il canale termale e poi pieghiamo a
destra, inerpicandoci nei boschi, la neve attacca e meglio così, sotto di lei
insidiose lastre di ghiaccio fanno pattinare e battere le natiche a terra a più
di uno di noi. Ma fa presa anche negli animi, i cani ci zampettano felici,
qualcuno ci si tuffa, si comincia una divertita battaglia a palle di neve. Nel
frattempo tre digos stanchi, compito ingrato, ci seguono a sempre maggior
distanza.
Disinteressati.
I locali hanno preparato alcuni interventi che danno il senso della giornata: la
tangenziale, il progetto spalti della pista Stelvio che è già costato decine di
milioni di euro e che altrettanti ne mangerà, la gentrificazione, la difficoltà
del vivere ai margini dell’impero.
C’è di tutto, ce n’è per tutti; quello che una volta tanto manca è la
frustrazione, il senso di impotenza, e forse questa è la cosa più importante.
Il senso della giornata, il motivo dell’umore positivo è dato alla perfezione da
uno degli interventi del pomeriggio, di nuovo in Piazza del Kuerc, nel primo dei
presidi mobili a cui i divieti questurini di corteo ci hanno obbligato. Tessere,
unirsi, combattere. Essere consci che non è una battaglia per vincere, che le
olimpiadi si faranno, ma che su qualche opera si può vincere e se su quelle
vittorie si costruisce consapevolezza si segna un punto importante, si aggrega,
si rilancia.
Ci sarebbe di che confrontarsi, ce ne sarà occasione: i problemi bresciani
risuonano in quelli valtellinesi, che fanno eco a quelli milanesi, del tutto
simili a quelli appenninici, «che al mercato mio padre comprò»; se saremo bravi
sarà semplice intersecare le lotte, riportarle a quello che sono: un’unica
grande battaglia contro un unico nemico arrogante.
Durante il rientro attraversiamo boschi di abeti e larici, vallette, passiamo
dietro ai bagni di Bormio (ora irrimediabilmente chic), ci immergiamo in questa
testimonianza silente delle peculiarità di un territorio maestoso e delicato.
Lungo il cammino e prima della foto di rito da un belvedere, a fine camminata, è
previsto un altro breve intervento che – appunto perché la lotta è una – include
anche il racconto di quello che è successo al lago Bianco, dove si è pensato di
posare tubi al fine di sfruttare il bacino per l’innevamento artificiale. In
pieno Parco Nazionale dello Stelvio, prosciugando una torbiera e la sua
complessità ecologica, a dimostrazione che è tutto sott’attacco, anche le aree
più fragili e che pensavamo tutelate.
La camminata è stata intensa, avvolta dall’odore e da quel senso di ovattamento
sempre più raro che regala la neve, che aiuta a riflettere, che fa meglio
percepire le sinapsi. Torniamo in piazza, mangiamo qualcosa e ci prepariamo per
l’ultima parte della giornata, fatta di presidi dinamici che descrivano il senso
dell’iniziativa e i cantieri “insostenibili”, con ultima tappa sotto le colate
di cemento della già citata pista Stelvio.
Si uniscono a noi comitati locali, due arzilli avanti con gli anni volantinano e
raccolgono firme per i trasporti gestiti da regione Lombardia, contro il suo
assessore, contro Trenord. Altro piccolo legame tra le due valli unite nello
scempio: in quella camuna si va sviluppando il primo progetto italiano di treno
a idrogeno su una linea capace di offrire soltanto disservizio, da anni.
A causa di un piccolo acciacco e della conseguente sofferenza di uno di noi ce
ne andiamo poco prima della fine e dei saluti, non partecipando all’ultimo dei
presìdi, del resto “si parte e si torna insieme”. Ce ne andiamo però
soddisfatti, pieni del senso di una giornata proficua, necessaria.
Le connessioni ci sono tutte, le volontà anche. Non resta che cospirare.
CALDAROLA – ANCHE IN APPENNINO: LA MONTAGNA NON SI ARRENDE
(A DUE PASSI DAI SIBILLINI)
Ci ritroviamo a camminare nell’Appennino maceratese a distanza di diversi mesi
dall’escursione che ci portò a osservare dall’alto l’area interessata dal
progetto monster degli impianti di Sassotetto e a diversi anni dalla fantastica
Festa di Alpinismo Molotov del 2018. In questa fascia di montagna, a rispondere
all’appello per la giornata di mobilitazione sono state due associazioni locali:
C.A.S.A. Cosa Accade se Abitiamo e L’Occhio Nascosto dei Sibillini, ma la
partecipazione come vedremo è stata poi molto più ampia, sia da parte di singoli
che di realtà del territorio. Ma partiamo dalle basi, sottolineando un aspetto
che non smetteremo di evidenziare: le dinamiche predatorie e speculative che
interessano quest’area sono le stesse che ritroviamo in tutte le terre alte (e
non solo in quelle), con l’aggravante che vanno a insistere su un territorio che
ancora mostra tutte le ferite del sisma 2016/2017. Ferite visibili, fatte di
case e paesi ancora – quando va bene – in fase di ricostruzione e di un tessuto
sociale sempre più in difficoltà. Quando, nei primi mesi del post-terremoto,
parlavamo di un territorio che rischiava di essere ancor più sotto attacco
perché reso più debole dalle scosse e dalla mala gestione dell’emergenza (prima)
e della ricostruzione (poi), facevamo una previsione fin troppo semplice.
Per questo mobilitarsi in queste aree ha a avrà per lungo tempo una doppia
valenza, una “di base” e una specifica sulle varie tematiche che si intendono
affrontare. Questa volta gli interventi che hanno unito i nostri passi si sono
concentrati su tre temi di base: i progetti turistici sui Sibillini, il Gasdotto
SNAM che attraversa queste zone, il parco eolico che dovrebbe sorgere proprio
dove stiamo camminando. Quest’ultimo tema è quello su cui ci si è soffermati
maggiormente, anche ma non solo per il luogo scelto per l’escursione di questa
giornata.
Riprendiamo dall’appello: “(…) a ridosso del Parco Nazionale dei Monti
Sibillini, tra i comuni di Caldarola, Camerino e Serrapetrona, in provincia di
Macerata, dovrebbe sorgere un parco eolico con aerogeneratori alti 200 m. A
conferma di come l’energia rinnovabile, di cui ovviamente condividiamo la
necessità alla base, non sia buona “di per sé” ma vada comunque sempre inserita
in un contesto di rapporti sociali, politici ed economici e valutata
considerando anche l’impatto sull’ambiente, sulle comunità e sull’intero
territorio. Non è illogico riconoscere che dietro la famigerata transizione
ecologica si nascondano altri interessi (il parco eolico in questione è stato
richiesto appunto da una multinazionale norvegese con sede anche in Italia) che
non hanno nessuna ricaduta positiva sulle comunità – defraudate di qualunque
potere decisionale – perpetuando in chiave “green” lo stesso sistema economico
che ci ha portato fino a questo punto.”
Riportiamo queste considerazioni perché sono tornate più volte nel corso degli
interventi e perché se sostituiamo il parco eolico con gli impianti di risalita
o con il gasdotto il risultato finale non cambia: nessuna ricaduta positiva sui
territori ed estrattivismo da parte del capitale. Su queste basi ci ritroviamo
lungo il sentiero che da poco più avanti l’abitato di Castiglione si muove verso
i Prati delle Raie e Croce di Valcimarra. Ci muoviamo intorno ai mille metri di
quota e una fitta nebbia ci accompagna fin dalla partenza, siamo 100? 120? 90? È
persino difficile contarsi e nel lungo serpentone si riconoscono le sagome solo
dei dieci avanti e dietro ciascuno di noi. Una composizione variegata e di tutte
le età, compagne e compagni che si incontrano sia in piazza che lungo i sentieri
di montagna ma anche appassionati di escursionismo e persone del luogo sensibili
agli argomenti trattati. Chi conosce questi posti racconta di come normalmente
il panorama da quassù sia fantastico, da un lato le vette dei Sibillini che a
tratti spuntano dietro ogni curva, dall’altro la vallata e Camerino in
lontananza. Oggi la nebbia rende tutto surreale e qualcuno aggiunge che “oggi
non avremmo visto neanche le pale se le avessero già piazzate”.
Durante le prime due soste sul gasdotto e – soprattutto – sul parco eolico sono
tante le domande e le considerazioni che si accavallano e chi ne sa di più prova
a rispondere, non tanto sui tecnicismi quanto sull’assurdità del progetto in sé.
Qualcuno ricorda che solo nelle Marche sono più di cento le pale eoliche – alte
250 metri – che dovrebbero essere installate lungo i crinali appenninici, tanto
che sempre oggi sul Monte Strega è in corso un’altra escursione sempre sullo
stesso tema.
Continuiamo a salire e si iniziano a vedere i primi scampoli di cielo blu,
giusto in tempo per la foto di rito con uno striscione realizzato con su scritto
a caratteri cubitali “La montagna non si arrende”. Dopo poche centinaia di metri
accompagnati dal sole l’itinerario ci porta a ripiombare nella nebbia per
l’ultima “pausa narrata” sui progetti da decine di milioni di euro che andranno
a impattare sui Sibillini con la scusa della “transizione turistica”, che
ovviamente non viene chiamata così, ma sembra troppo affine alla transizione
ecologica per non fare un accostamento.
Scendendo ci siamo chiesti cosa avesse significato questa giornata e l’opinione
di tutti è che, nonostante il meteo e un territorio che negli ultimi anni ne ha
passate di tutti i colori, c’è ancora una spinta a mobilitarsi su questi temi.
Spinta che ci auguriamo sia solo il primo passo di una rincorsa verso i prossimi
appuntamenti, perché l’escursione di oggi ci ha dimostrato che nonostante tutto
gli spazi di possibilità ci sono. Sempre.
PONTE DI LEGNO – RI-PENSARE LE TERRE ALTE PER LA LORO SALVAGUARDIA
La camminata a Ponte di Legno – pensata e condotta da APE Brescia, MTO2694,
Unione Sportiva Stella Rossa, Collettivo 5.37 e L’Oco! Orco che orto – ha visto
la partecipazione di un centinaio di persone, nonostante una fitta nevicata
lungo il sentiero e pioggia battente all’imbocco della Val Sozzine, luogo di
ritrovo della manifestazione, ma non è stata che l’apice di un percorso
preparatorio di respiro.
Va infatti fatta una doverosa premessa: in Valle Camonica sono state organizzate
tre serate preparatorie alla camminata del 9 febbraio, con l’intento di
coinvolgere una popolazione che sobbolle disorientata, di mettere a fuoco le
tante questioni camune sul tavolo – Terme di Ponte di Legno, depredamento del
bacino del Lago Bianco per realizzare un nuovo impianto di innevamento
artificiale, ampliamento del comprensorio del Monte Tonale, Montecampione, terra
di progetti di turistificazione varia – tra i quali spicca Imago nei parchi
Nazionali delle Incisioni Rupestri. – e di tentativi di costruire relazioni
stabili tra cittadini sparsi, associazioni, comitati e collettivi locali che si
stanno opponendo o che ragionano criticamente su singoli progetti, per
rinforzare la protesta.
Tre serate molto partecipate e vivaci, organizzate da realtà strutturate che
sono state in grado di aprirsi e accogliere la partecipazione non scontata di
tanti singoli sparsi, sensibili ai temi ambientali e sociali del territorio. Tre
assemblee grazie alle quali si è generato un passaparola propedeutico a
allargare lo sguardo e le presenze del 9 febbraio.
Nel suo complesso, la mobilitazione è infatti stata molto più larga rispetto a
quella che ha frequentato il serpentone colorato del 9; sintomo di una tematica
sentita e della capacità di intercettare molte istanze e soprattutto molti volti
nuovi rispetto a quelli a cui ci la militanza camuna è abituata.
Il percorso scelto si è snodato lungo la ciclabile che da Ponte di Legno sale
verso il Passo del Tonale, una camminata adatta a tutti, con punti panoramici
dai quali osservare direttamente i luoghi delle criticità trattate e
sufficientemente visibile perché i turisti in risalita verso le piste del Tonale
se ne accorgessero. Ad accogliere i partecipanti giunti in auto e con un
pullman, una micro delegazione delle forze dell’ordine che, una volta
rassicurate rispetto all’idea pacifica della mobilitazione e della mancanza di
volontà di bloccare le piste – voce preoccupata e forse messa in circolo con una
certa malizia – si è allontanata salutando. Di altro tenore l’interesse della
stampa locale, presente con rappresentanti di tutte le emittenti, che si è
presentata per produrre servizi e articoli una volta tanto piuttosto potabili.
Il meteo non è stato clemente, ma un percorso ben studiato ha consentito a chi
non fosse attrezzato o si trovasse in difficoltà a camminare sotto la neve di
seguire gli interventi muovendosi da una sosta all’altra, lungo la strada. Gli
interventi hanno rivendicato maggiore vivibilità, sia economica e sociale che
ecologica e ambientale. Hanno messo in luce la scarsità di prospettive e di
servizi per i camuni: spopolamento, mancanza di servizi, redditi inferiori
rispetto a quelli di pianura, impossibilità di non avere un’auto a causa
dell’inefficienza della mobilità pubblica, aggravata dal progetto di Trenord di
realizzare una linea sperimentale a idrogeno e ribadito contrarietà al continuo
sperpero di risorse per ampliare i demani sciabili.
La Valle Camonica infatti, anche se non sarà direttamente impattata dalle
Olimpiadi, fa parte di quei territori che continuano a drenare fondi collettivi
per cercare di rilanciare il turismo con nuovi comprensori, cannoni e
sbancamenti, senza pensare minimamente di diversificare le proposte o gettando
lo sguardo a un turismo più responsabile e meno impattante.
Immaginando le tappe di avvicinamento e la giornata di mobilitazione, si è
scelto un percorso indagante, morbido e inclusivo ben riassunto da questa
dichiarazione del comitato MTO2694: «Progetti come quello sul Monte Tonale
Occidentale, poco chiaro e ancora fumoso, che in alcune ipotesi prevede lo
sbancamento della cima e il disboscamento della Valle del Lares, sono un attacco
all’ambiente e alla biodiversità». Un progetto «anacronistico, fuori tempo
massimo». […] «Le critiche sono tante e addirittura alcune sono condivise da
Regione Lombardia. La stessa Regione Lombardia che ha parzialmente finanziato
questi impianti. Le criticità sono davanti agli occhi di tutti». Siamo contrari
agli ampliamenti dei demani sciabili con nuovi impianti perché ci sembra una
forzatura, non solo nei confronti dell’ambiente ma anche del clima che cambia.
Noi non siamo contro lo sci, siamo contro le forzature».
Per concludere, questa scelta, premiata da una folta partecipazione complessiva,
ha dimostrato che stimolando un dibattito serio ci sono forze per continuare a
sviluppare percorsi di critica, e si riesce anche a attrarre nuove presenze,
fino all’8 febbraio per nulla scontate.
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FONTI ISTITUZIONALI
Cruscotto con lo stato di avanzamento delle opere in carico a Simico
Dossier di candidatura
Rapporto di Sostenibilità, Impatto e Legacy 2023
Proposta Programma per la Realizzazione dei Giochi Olimpici
FONTI OPEN
Primo report OpenOlympics
Secondo report OpenOlympics
Rapporto Neve diversa 2024
FONTI COMPAGNE
LA MONTAGNA NON SI ARRENDE (UTILI IN CALCE ALLA PAGINA “MATERIALI AUDIO” E “COSE
INTERESSANTI”)
Tracce (immagini satellitari impianti sciistici in lombardia dal 2016, Off Topic
Lab)
Umanità nova (articolo di Alberto “Abo” di Monte)
Video integrale convegno Off Topic
Video Duccio Facchini – Altreconomia
L'articolo La montagna non si arrende ai giochi d’azzardo sembra essere il primo
su Alpinismo Molotov.
I lavoratori dell’aeroporto civile di Montichiari-Brescia proseguono nella loro
obiezione nonviolenta ai traffici di armamenti.
Anche in questa occasione, l’aereo in questione ha caricato casse (probabilmente
di missili) giunte nottetempo su camion scortati, e sempre di notte – in
coincidenza con la chiusura al traffico civile, e con manodopera nominativamente
scelta e incentivata – caricati sull’aereo, che ha comunque sostato per circa
ventiquattro ore in aeroporto prima di ripartire.
Tutto di questo aereo ci conferma che opera lungo una supply chain militare.
Si tratta di un vecchio Boeing 737-300, in circolazione da quasi 27 anni, oggi
gestito dalla compagnia ucraina Constanta Airlines, ma in precedenza appartenuto
a una lunga fila di compagnie, passando da quella di stato romena Tarom
attraverso la Wells Fargo Bank (una delle big four americane) che l’affittò dal
2004 al 2022 a diversi operatori cinesi (Deer Jet, poi Beijing Capital; Yangtze
River Express, poi Suparna Airlines, alias Jinpeng), per finire nelle mani di
una compagnia cargo georgiana (Gryphon Air Cargo) e infine – dal giugno 2024 –
alla compagnia ucraina Constanta Airlines.
L’arrivo del vecchio Boeing, terzo velivolo operato dalla Constanta, ha seguito
di poco la nomina alla supervisione operativa della compagnia dell’ex generale
dell’esercito USA David L. Grange, entrato come azionista di minoranza insieme a
un uomo d’affari inglese e a un imprenditore svedese. Insieme hanno poco più del
20% della Constanta Airlines.
Grange ha fondato l’organizzazione benefica Osprey Global Solutions Ucraina «per
la formazione gratuita dei militari ucraini in materia di sminamento,
neutralizzazione di ordigni esplosivi e fornitura di assistenza medica
d’emergenza secondo gli standard NATO», come recita il sito web della compagnia.
La Constanta era stata acquisita nel 2018 da Roman Mileshko, ex pilota militare
delle forze aeronavali ucraine con specializzazione conseguita alla Naval
Postgraduate School di Monterey, California, e una decina di anni di missioni in
Afghanistan, Ciad, RD del Congo, Somalia e Sudan, al quale è rimasta la
maggioranza azionaria. Mileshko l’aveva acquisita in seguito alla bancarotta
della precedente proprietà – una holding di Dubai – e dopo una lunga causa
legale davanti a un tribunale londinese.
La notizia dell’ingresso nella compagnia dell’ex. gen. Grandge è data con
risalto sul sito web della Constanta AIrlines.
Sullo sfondo, l’immagine dei due Antonov impiegati dalla Constanta, pruima
dell’acquisizione del Boeing 727-300.
Riutilizzando il vecchio numero di coda UR-UAA (già di un Antonov An-12, poi
finito alla Africa West Cargo e irreparabilmente danneggiato), apparentemente il
Boeing 737 di Constanta Airlines è entrare in attività proprio con questo volo
registrato a Brescia-Montichiari, dove è giunto il 5 marzo 2025 dall’aeroporto
slovacco di Piešťany, sua base operativa principale, con un volo della durata di
un’ora, per ripartire il giorno successivo alle 9:07 per Ørland, base militare
in Norvegia, dove è atterrato alle 13:25.
La durata del volo Montichiari-Ørland (4 ore e 18 minuti) può apparire eccessiva
rispetto alla distanza in linea d’aria (circa 2.000 km) e alla velocità di
crociera del 737 (oltre 900 km/h), ma l’aereo ha seguito un’ampia rotta sulla
Francia piuttosto che transitare verso nord, sopra Svizzera e Germania.
Da Ørland – base fondamentale per la Royal Norwegian Air Force e la NATO –
l’aereo ha poi fatto ritorno a Piešťany, dove è atterrato alle 19:21 del 6
marzo.
Dall’Italia potrebbe anche aver trasportato parti di ricambio per gli F-35 e gli
elicotteri AW101, fabbricati da Leonardo; o anche materiale per lo svolgimento
delle manovre alleate “Joint Viking 25”, le esercitazioni congiunte che sono
attualmente in corso (dal 3 al 14 marzo 2025, 10.000 soldati di nove diversi
paesi). Nella baia di Trondheim, non lontano da Ørland, si trovano infatti
giganteschi depositi dei Marines americani, uno dei contingenti prepositioned
per le spedizioni militari degli Stati Uniti negli ambienti freddi.
Preparativi dei marines in Norvegia per ‘Joint Viking 25’
Il volo del Boeing ucraino dimostra – se non bastavano altre evidenze – che
attrezzature e personale civile ucraino stanno già operando entro la cornice
NATO, con mezzi e collegamenti personali ad alto livello con le strutture
militari USA. Va da sé che, in questo quadro, l’Italia sta fornendo le basi
territoriali necessarie alle operazione degli alleati vecchi e nuovi: un
coinvolgimento nella “guerra a oltranza” che si fa sempre più profondo e
irreversibile.
GRAZIE A UN ALLEATO, COME NEL CASO DEL NORD STREAM DI CUI NON CI RICORDIAMO
BENE…
A dieci giorni dall’attentato alla petroliera «Seajewel» tutti gli interrogativi
più importanti rimangono sul tavolo senza risposta, anzi altri se ne sono
aggiunti.
In ogni caso nessun nuovo elemento si è aggiunto che possa smentire quanto
abbiamo già affermato: si tratta di un atto di guerra compiuto sul territorio
del nostro paese, il primo che si possa mettere in collegamento diretto con la
partecipazione dell’Italia alla guerra tra Russia e Ucraina.
I silenzi della stampa – Come sappiamo per lunga esperienza storica, anche nel
nostro paese la stampa ‘istituzionale’ che informa l’opinione pubblica fornisce
informazioni anche in forma di silenzi. I silenzi sulla vicenda «Seajewel» ci
sembrano significativi.
Come abbiamo già riferito, le esplosioni che hanno danneggiato la petroliera si
sono registrate nella notte tra venerdì 14 e sabato 15 febbraio. La Repubblica
ha seguito il caso solo nella sua edizione genovese, su quella nazionale si è
limitata a una ‘breve’ (a p. 23 il 20 febbraio). Il Fatto Quotidiano non ha
pubblicato nulla sull’edizione cartacea. Il Giornale ha mantenuto il silenzio
sino al 21.2, quando è uscito con un’“inchiesta” a p. 4. Il manifesto nulla.
Il quotidiano che più ha seguito la notizia è stato il genovese Secolo XIX,
forse perché da qualche mese è di proprietà del mega gruppo armatoriale MSC. Ha
cominciato a occuparsene, però, non prima di martedì 18 (‘lavorato’ il 17), e
per tre giorni consecutivi ha impaginato con lancio e foto in prima pagina e
articoli alle pagine 2 e 3 (18, 20 e 21.2). Solo La Stampa, molto seguita nel
Ponente ligure, ha seguito il Secolo, uscendo con informati articoli nella
sezione ‘Primo piano’ per tre giorni consecutivi (18, 19 e 20.2).
Il giornalismo embedded – A parte dobbiamo considerare il Corriere della Sera,
che prima ha tardato a intervenire sul caso fino a giovedì 20 febbraio, poi ha
fatto scendere in campo una firma di peso come Guido Olimpio che ha messo sul
tavolo un altro tipo di notizie, quelle che non hanno fonte. Con il titolo «La
guerra segreta sui mari – La petroliera in Liguria e i precedenti», l’attentato
di Savona è presentato come uno dei “diversi strani episodi” accaduti negli
ultimi mesi. “Forse sono incidenti, forse si è trattato dell’errore di marinai
distratti, forse è stato altro”. La «Seajewel» “potrebbe essere rimasta vittima
di un attacco con cariche esplosive che hanno provocato danni minori ma che, al
tempo stesso, costituirebbe un segnale inquietante”. Va dunque inserita tra le
navi che hanno subito incidenti sospetti negli ultimi due mesi: il cargo russo
«Ursa Major», affondato il 23 dicembre 2024 mentre era in viaggio tra Spagna e
Algeria (3 esplosioni a bordo); la nave spia russa «Kildin» abbandonata al largo
di Tartus, in Siria, il 23 gennaio 2025 (esplosione e fuoco a bordo); la
portarinfuse cinese «An Yang2» incagliata l’8 febbraio di fronte a Sakhalin, a
nord del Giappone; e la cisterna «Koala» con bandiera di Antigua e Barbuda, che
il 9 febbraio ha subito tre esplosioni al largo del porto russo di Ust-Luga, Mar
di Finlandia.
Vengono nominate anche altre navi e altri incidenti minori, in un quadro globale
che infittendo le informazioni minori diventa confuso e indefinito.
L’infografica pubblicata dal Corriere della Sera del 20 febbraio 2025 accompagna
l’articolo “Savona, si indaga per terrorismo. La scia delle esplosioni sulle
navi russe”, firmato da Guido Olimpio e Andrea Pasqualetto.
La rivendicazione – C’è chi ha sottolineato che l’attentato di Savona non è
stato rivendicato. Tuttavia, riprendendo le fonti locali savonesi in anticipo su
tutti i giornali italiani, un quotidiano online di Kiev ha pubblicato (17.2) un
articolo bene informato in cui si dà per scontato che la «Seajewel» appartenga
alla ‘flotta fantasma’ che commercia il petrolio russo in violazione delle
sanzioni internazionali. Nel dicembre 2024 la stessa Ukrainska Pravda aveva
diffuso su YouTube un interessante servizio ‘investigativo’: servendosi degli
strumenti del tracking navale e di teleobiettivi, nel porto rumeno di Costanza
sono state filmate alcune petroliere dedite – si afferma nel servizio – al
traffico ‘triangolare’ di petrolio russo tra Novorossiysk, i porti turchi e
appunto Costanza. Tra esse, ben riconoscibile, la «Seajewel».
Cos’è una ‘flotta ombra’ – Secondo Lloyd’s List, una nave cisterna appartiene a
una ‘flotta ombra’ se ha almeno 15 anni di età, se è di proprietà anonima e/o ha
una struttura societaria progettata per nascondere la proprietà effettiva, se è
impiegata esclusivamente nei traffici petroliferi sanzionati e se è impegnata in
una o più delle pratiche di navigazione ingannevoli secondo le linee guida del
Dipartimento di Stato USA pubblicate nel maggio 2020. Le liste escludono le
petroliere riconducibili a entità marittime controllate dai governi, come la
russa Sovcomflot o l’iraniana National Iranian Tanker Co, e quelle già
sanzionate.
Allo stato attuale, ad aver individuato le navi che contrabbandano petrolio
russo sono l’Unione Europea (16 pacchetti di sanzioni contro la Russia, che tra
l’altro colpiscono 152 navi); il Regno Unito dal luglio 2024 ha blacklisted
oltre 100 navi, in gran parte petroliere; gli Stati Uniti hanno sanzionato
dall’agosto 2023 oltre duecento navi, di cui 155 cisterne nel solo gennaio 2025.
La «Seajewel» non è tra le navi sottoposte a sanzioni internazionali.
L’ultimo viaggio – La «Seajewel», che naviga sotto bandiera di Malta, appartiene
ed è gestita dalla società armatrice greca Thenamaris, un colosso dello shipping
internazionale che gestisce 93 navi tra cisterne, rinfuse e gasiere. Negli
ultimi due mesi ha toccato nell’ordine i porti di Salonicco, Ceyhan (Turchia),
Istanbul, Costanza (Romania), Fos-Marsiglia e Arzew, in Algeria, prima di
raggiungere Vado. Se ha ‘triangolato’ petrolio russo può averlo caricato in
Turchia e/o in Romania, entrambi paesi NATO che però – secondo gli ucraini –
sono piattaforme di smistamento di greggio sanzionato.
La supply chain – Al momento dell’attentato, la nave stava sbarcando greggio
alle boe Sarpom di Vado Ligure, greggio destinato a raggiungere via oleodotto la
raffineria Sarpom/IP-API di San Martino di Trecate (Novara), il primo operatore
privato in Italia nel settore della distribuzione dei carburanti, che negli anni
ha inglobato le reti già dei marchi Total, ERG, IP, Esso ed API. Si è minacciata
quindi la sicurezza degli approvvigionamenti di una delle principali arterie
energetiche del nostro paese, vitale per l’economia nazionale.
Novità inquietanti – In queste ultime ore si stanno aggiungendo – sempre per
merito soprattutto del Secolo XIX – altri particolari.
1. il 17 gennaio scorso anche la nave gemella «Seacharm», sempre appartenente a
Thenamaris, ha subito un attentato al largo del porto turco di Ceyhan;
2. l’esplosivo utilizzato a Savona è dello stesso tipo di quello utilizzato in
altri attentati compiuti recentemente nel Mediterraneo;
3. la seconda bomba sistemata sullo scafo della «Seajewel» è scoppiata circa 20
minuti dopo la prima, e sul fondo marino, non si sa se per malfunzionamento o
per calcolo.
La minaccia ambientale sottostimata – Se le paratie della nave non avessero
tenuto, o se la seconda bomba avesse allargato la falla della prima, si sarebbe
profilata una catastrofe dalle proporzioni simili a quella del disastro della
petroliera «Haven» affondata al largo di Arenzano nel 1991, quando vennero
riversate in mare 144.000 tonnellate di petrolio. La bonifica del fondale non è
mai stata fatta, e oggi vi stazionano 50.000 tonnellate di catrame. I depositi e
il relitto sono da allora una fonte di inquinamento continuo, e secondo gli
esperti per mancanza di sedimentazione non ci sono prospettive di una
decomposizione batterica del letto di catrame.
Cosa (non) ricordiamo del caso Nord Stream – Era il 26 settembre del 2022
quando quattro bombe hanno distrutto i gasdotti Nord Stream 1 e 2. Ad appena due
anni e mezzo di distanza, sembra che a ricordare uno dei più clamorosi attentati
alle infrastrutture mai registrati sia rimasto solo Seymour ‘Sy’ Hersh,
l’ottantasettenne giornalista investigativo premio Pulitzer nel 1970 per aver
rivelato strage di Mỹ Lai, durante la guerra in Vietnam.
Non si ricordano più le 150.000 tonnellate di metano rilasciate nell’atmosfera.
Non si ricorda che la Russia ha chiesto sul caso un’indagine internazionale al
Consiglio di sicurezza dell’ONU, richiesta respinta. Né si ricorda che i governi
di Germania, Svezia e Danimarca promisero un’inchiesta approfondita, mai
avvenuta. Circa un anno fa Danimarca e Svezia hanno chiuso le indagini e inviato
i risultati alla Germania, che finora ha emesso un solo mandato di arresto per
un ucraino senza nome.
Eppure il sabotaggio era stato minacciato pubblicamente dal presidente Biden
ricevendo il cancelliere Scholz a Washington, nel febbraio 2022. E secondo fonti
riservate raccolte da Hersh, è stato un segnale da remoto a innescare
l’esplosione degli oleodotti, minati mesi prima da due sommozzatori della US
Navy. Da buon americano, in un recente articolo Hersh non ha nascosto la sua
ammirazione per questi sub, “superbamente addestrati per svolgere il loro
lavoro” a circa 80 metri di profondità nel Mar Baltico: “un gruppo altamente
qualificato di sommozzatori addestrato dalla Marina, la cui capacità di
rimuovere i detriti dai porti e le ostruzioni marine è stata ritenuta essenziale
per decenni dai comandi della Marina around the world”.
(disegno di ottoeffe)
LA «SEVERINE» A BARI CARICA BLINDATI DELL’ESERCITO. IPOTESI SULLA DESTINAZIONE
Lavoratori e militanti per la pace ci hanno segnalano l’ennesima presenza della
nave ro-ro «Severine» (n° IMO 9539078) nel porto di Bari.
È la stessa nave più volte notata negli scorsi mesi anche a Monfalcone, e di cui
Weapon Watch si è già occupata in un precedente articolo. Come hanno ripetuto
più volte i lavoratori e le organizzazioni sindacali di Monfalcone, infatti, il
porto non è abilitato ai movimenti di armi e munizioni, neppure quelli al
servizio delle Forze armate italiane, di cui invece è un hub molto frequentato.
Nello scorso settembre, il Centro Balducci di Trieste e la Tavola della Pace del
Friuli-Venezia Giulia hanno protestato pubblicamente contro questi movimenti.
A Bari la nave «Severine» ha caricato una decina di mezzi militari pesanti,
probabilmente i blindati “Freccia” dell’Esercito. Non sappiamo dove diretti.
La «Severine» a Bari, 6 febbraio 2025.
Particolare dei mezzi caricati in stiva.
Da diverse fonti giornalistiche, sappiamo che «Severine» e la gemella «Capucine»
(IMO 9539066) hanno sostituito il ro-ro «Excellent» della Visentini Giovanni
Trasporti Fluviomarittimi nelle spedizioni marittime per conto del Ministero
della Difesa italiano, tramite una gara vinta dal colosso danese DSV,
affidatario abituale di questi servizi. Anche di DSV ci siamo occupati
recentemente, considerando che con l’acquisto dell’ex DB Schenker, filiale delle
ferrovie tedesche e grande trasportatore di armamenti in tutt’Europa, e dopo le
acquisizioni negli anni di specialisti come Panalpina, Agility e ABX-Saima
Avandero, DSV ha conquistato una posizione di primissimo piano nella logistica
europea per la difesa.
«Severine» e «Capucine» hanno la stessa bandiera (Malta), lo stesso manager
(Anglo-Eastern UK Ltd, con sede a Glasgow, Scozia) e lo stesso armatore, Cadena
Ro-Ro, che fa capo a CLdN RoRo, compagnia che ha sede in Lussemburgo meglio nota
sotto l’insegna Cobelfret-Compagnie Belge D’Affrêtements. Sono entrambe navi
abbastanza recenti, di quella tipologia che serve agli eserciti per muovere in
una stessa spedizione grandi quantità di materiali.
Prima del contratto militare la era impiegata nel Mare del Nord, area geografica
completamente abbandonata da due anni a favore di quella del Mediterraneo.
Sappiamo per esperienza che «Severine», come tutte le navi “militarizzate”,
profitta delle norme internazionali che consentono di spegnere il transponder
AIS in caso di «rischio di compromissione della sicurezza della nave» (IMO
guidelines, Resolution A.917(22)), anche se le rotte frequentate dalla nave non
ci sembrano affatto rischiose.
Negli ultimi tre mesi, «Severine» ha toccato in più occasioni Monfalcone.
Di norma riduce le fermate nei porti al tempo strettamente necessario alle
operazioni in banchina. Nel periodo, le soste lunghe sono state due, 9 giorni a
Crotone, 4 a Bari. Di quest’ultima sappiamo che la nave ha atteso il carico,
ovvero i mezzi gommati militari entrati uno a uno in porto. Il giorno 10
febbraio la nave si è mossa da Bari ufficialmente diretta a Ortona.
Gli scali della “Severine» tra dicembre e febbraio 2025.
Significativamente, la nave non ha dato segnale AIS in occasione di probabili
consegne di armamenti nel viaggio A/R da Monfalcone tra 6 e 14 dicembre 2024;
poi da Monfalcone ad Alexandroupoli tra 2 e 8 gennaio 2025, e da Alexandroupoli
a Crotone tra 8 e 11 gennaio. Infine ci sono 11 giorni tra la toccata di Savona
(25 gennaio) e l’arrivo a Bari (6 febbraio).
Deduciamo che un viaggio tra Monfalcone e Alexandroupoli si compie mediamente in
4-6 giorni, quindi quello compiuto nella prima metà di dicembre può
plausibilmente essere Monfalcone-Alexandroupoli-Monfalcone (in otto giorni).
Com’è noto, il porto greco di Alexandroupoli è il terminale marittimo usato
dagli Stati Uniti per il materiale da spedire via terra (ferro/gomma) in
Ucraina.
Non va dimenticata l’assiduità della nave nel porto
Per il 9 febbraio c’è una chiama imprescindibile.
Non solo le Olimpiadi di cui abbiamo scritto un anno fa, ciò che accade nelle
terre interne, lungo i rilievi di tutta la penisola, non può lasciare
indifferenti.
Mentre la terra brucia per via della crisi climatica in cui siamo immersi,
annusatone il sangue, i predoni dell’estrattivismo che fa rima con accanimento
apparecchiano un banchetto di corvi sulla pretesa carogna di intere comunità,
decisi a spremere dal turismo tutto quel che possono.
Disboscano foreste giunte al limite di sopportazione e colpite da bostrico e
dissesti assortiti, percorrono la strada della cementificazione esasperata per
nuove strutture, infrastrutture e palazzetti dal gusto distopico. Attraggono
mosche sullo zucchero di non-altrove utili a mettere in scena experience
fotocopia, fatte degli stessi panorami fitti di vetro e cemento, degli stessi
sapori, odori, colori e ritmi: recluse a sciare in cattedrali post-atomiche, a
passeggio per i “corsi” di ex villaggi di pastori e stalle, ingozzandosi degli
stessi cibi di lusso.
Venghino siori venghino, il ceto medio si indebiti per una settimana bianca
all-inclusive, terme-spa-motoslitta e pesce di mare. Per un giro a Cortina a
respirare la stessa aria di Milano e replicarne le stesse pose fatte di vasche
dello shopping e apericena.
Sono gli ultimi colpi di maglio di un capitalismo – col capitale degli altri
però (cioè soldi nostri) – che non si arrende e non sa immaginare altro che
portare allo sfinimento un modello-cadavere fatto di nuovi piloni e cannoni via
via più performanti (si legga: idrovori).
Beautiful che incontra il sogno di soldi facili e il fatalismo della corsa
all’oro nel Klondike, l’eterno presente capitalista la cui mentalità viene
diffusa a pioggia da soap opere eterne, con Ridge in decadenza che giunto
all’ottantesima stagione – i primi impianti coincidono grossomodo con l’Italia
repubblicana – è costretto a recitare aggrappato al deambulatore e col catetere
infilato.
Un modello da gusto del macabro che attrezza pacchetti divertimento per
qualsiasi gusto purché non siano rispettosi di luoghi che muoiono, purché non
spingano a calarvisi incuriositi, ma a colonizzare; tantopiù che all’occorrenza
si può sempre far sbriluccicare gli specchietti condendoli con la retorica del
“recupero” della montagna abbandonata, dal recover washing si potrebbe dire.
Champagne e motori; sfarzo sguaiato e arroganza, il requiem specchiato nella
nostra decadenza fatto di topi festanti mentre la nave affonda, mentre non
soltanto questi abbagli di uno sviluppo che non c’è se non nei conti in banca di
chi lo sfrutta andrebbero spazzati via, ma con loro tutta un’infrastrutturazione
nociva, le narrazioni sull’aria sana, i miti romantici dell’alpe e del quanto si
stia bene in montagna.
Tutto ciò non è emendabile, non perfettibile, non c’è compensazione o
posti-lavoro che tenga. È da abbattere in toto, fino a festeggiarne il cadavere.
Solo allora sarà possibile provare a immaginare qualcosa che possa avere senso.
Il quadro che abbiamo tracciato è piuttosto apocalittico, e tutt’attorno ai
monti non è meglio. L’intero pianeta umano sta subendo scosse telluriche forti,
capaci di disarticolare e annichilire il pensiero dei più positivi.
È frustrante trovarsi immersi in questo clima, sa dell’amara perdita di ogni
speranza e voglia di rimettersi in gioco.
Del resto i primi a rendersi conto che la pacchia del turismo invernale è finita
sono proprio i costruttori di impianti di risalita, che infatti cercano
grottescamente di rifilare le loro cabinovie alle città, spacciandole per mezzi
di trasporto urbani sostenibili ed eco-friendly.
È successo a Kotor in Montenegro, sta succedendo a Trieste, prossimamente
succederà a Genova. A Trieste la mobilitazione spontanea di cittadini e comitati
di quartiere è per ora riuscita a fermare un progetto ad alto impatto
ambientale, che prevede la distruzione di un bosco protetto per permettere la
costruzione di una cabinovia al servizio delle navi da crociera e del loro
indotto. Diciamo “per ora” perché dopo due anni di mobilitazioni e di azioni
legali è finalmente saltato il finanziamento PNRR; ma l’ineffabile ministro
Salvini ha promesso un finanziamento ad hoc, con fondi ministeriali, perché lo
Stato e la ditta appaltatrice, la Leitner, non possono permettersi di essere
messi in scacco da un’accozzaglia di pezzenti.
Proprio per questo è ancora più importante esserci a ogni latitudine, tener duro
e non abbandonarsi al fato.
Siamo in ottima compagnia, la rete che sta stringendo le maglie è larga e
importante, dobbiamo darle continuità e forza ben oltre alle Olimpiadi, perché
ne va anche delle nostre vite, della differenza che corre tra arrancarvici e
viverle.
Abbiamo deciso di aderire all’appello La montagna non si arrende e abbiamo
deciso di mettere a nudo le difficoltà che attraversano noi e l’intero
paesaggio.
Ci sono iniziative di tutti i tipi, sono ben accette anche piccole testimonianze
pressoché individuali, contribuiamo a propagare l’onda, partecipate, inventatevi
qualcosa e stringete rapporti.
Dal canto nostro, noi abbiamo deciso di non concentrarci su una manifestazione
singola, ma di contaminarci e contaminare, spalmandoci e stando nella galassia
di iniziative che si vanno a creare.
Restituiremo le esperienze dei nostri corpi. A dopo il 9, ancora e ancora.
L'articolo Al 9 febbraio: la montagna non si arrende, e nemmeno noi sembra
essere il primo su Alpinismo Molotov.