QUEL CHE NON SAPREMO PIÙ SE MODIFICHERANNO LA LEGGE 185/90
Nella primavera del 2024 abbiamo pubblicato “a puntate” una serie di spunti informativi tratti dalla Relazione 2024, presentata al Parlamento nel marzo di quell’anno. Qui riproponiamo la breve introduzione ai cinque articoli pubblicati, con i relativi rimandi per poterli leggere.
Il governo Meloni si prepara a snaturare la Legge 185 del 1990, quella che
impone il controllo delle attività di trasferimento degli armamenti concernenti
l’Italia. La 185 prevede, tra l’altro, la pubblicazione di una Relazione annuale
al Parlamento. Quella uscita pochi giorni fa potrebbe dunque essere l’ultima
Relazione contenente tutti gli elementi che – ancorché pubblicati in una forma
di proposito difficile da leggere – hanno sino a oggi permesso di dar conto
all’opinione pubblica dei trasferimenti di armi che riguardano il nostro paese.
La trasparenza del commercio internazionale ha sempre incontrato l’aperta
contrarietà dei fabbricanti/esportatori di armi, grandi e piccoli.
Preferirebbero condurre nella segretezza affari che condizionano pesantemente la
politica estera di ogni paese, il sostegno alle guerre in corso e ai dittatori
più impresentabili, la violazione dei trattati di regolazione e non
proliferazione, la protezione umanitaria delle popolazioni civili coinvolte.
Curti Costruzioni Meccaniche Spa (1a parte)
agenzia industrie difesa
Curti Costruzioni Meccaniche Spa (2a parte)
Una specialità lecchese: macchine per armi
Importare da Israele, esportare armi ad Israele
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Lo scenario aperto dall’attacco di Israele all’Iran è dei più temibili, e la
posizione dell’Italia tra gli alleati di Israele è tra le più esposte.
Il parlamento non ha raccolto le proteste e le sollecitazioni della società
civile contro il tacito rinnovo per altri cinque anni del memorandum militare
segreto tra Italia e Israele, quindi tacitamente rinnovatosi lo scorso 8 giugno.
Da parte sua, il ministro della Difesa Guido Crosetto durante il question time
alla Camera dello scorso 21 maggio, ha affermato che il governo non sottopone le
importazioni militari da Israele a «una valutazione di merito sulla provenienza
dei materiali ma [al]la valutazione sul loro utilizzo finale e sull’impatto
potenziale sulla difesa e sicurezza dell’Italia». Ha ammesso così che queste
importazioni sono essenziali per la nostra difesa, sempre più dipendente
dell’industria militare di Tel Aviv.
I dati Istat confermano la crescente dipendenza dalle importazioni di un alleato
militare che negli ultimi venti mesi ha aperto sette fronti di guerra (Gaza,
Cisgiordania, Iran, Libano, Siria, Iraq, Yemen) e che un anno fa ha sparato
sulle postazioni italiane Unifil in Libano.
Nel 2022 l’Italia ha importato armi e munizioni militari (codice 9301) per 24
milioni di euro, nel 2023 per 16,5 milioni, nel 2024 diventati 32 milioni (+95%
in un anno). Nei soli primi due mesi del 2025 ha importato per 21,9 milioni: se
le consegne manterranno questo ritmo, alla fine dell’anno l’Italia potrebbe aver
importato armi da Israele per oltre 130 milioni di euro.
Anche in un altro settore, quello dell’industria aerospaziale (codice CL303), la
bilancia commerciale è sempre più favorevole a Israele, in attivo negli ultimi
tre anni, anche se nel primo trimestre 2025 l’export italiano è tornato a
crescere. Preoccupante che aziende italiane nel 2024 abbiano fornito a Israele
quantità consistenti di esplosivi (codice SH2 36).
L’inchiesta del sito francese «Disclose» pubblicata nel marzo 2025 ha rivelato
una fornitura a Israele di accessori per mitragliatrici leggere che non può
essere considerata “solamente difensiva”, come affermato dal governo francese.
Contro la spediizione del carica da Marsiglia-Fos si sono mobilitati i portuali
francesi e italiani.
Si sta formando una rete spontanea per fermare il traffico di armi verso
Israele. Da Anversa si segnala la spedizione di due container di cuscinetti a
rulli conici, da parte della società Timken France, filiale francese della
multinazionale USA leader del settore. Destinataria l’industria israeliana Ashot
Ashkelon, del gruppo IMI Israel Military Industries, specializzata in veicoli da
guerra terrestri.
Le navi coinvolte nel trasporto sono la «MSC Laura» e la «ZIM Vietnam».
La prima è arrivata ad Anversa l’1 giugno, ed è ripartita il 6 giugno con il suo
carico. È attesa in queste ore a Port Said, ultima tappa prima di toccare un
porto israeliano.
L’altro container non è stato caricato sulla «ZIM Vietnam» perché bloccata dalle
autorità fiamminghe, su sollecitazione della ong belga Vredesactie che ha potuto
vedere i documenti di trasporto e denunciare il transito di armamenti. Secondo
lo spedizioniere, le merci dovrebbero comunque partire per Israele il 17 giugno,
imbarcate probabilmente sulla «MSC Mombasa» in arrivo da Amburgo e diretta ad
Ashdod.
La collaborazione tra MSC e ZIM è il frutto secondario della riorganizzazione
dello shipping globale conseguente alla fine della decennale alleanza “2M” tra
MSC e Maesrk, annunciata nel 2023 e formalmente cessata nel gennaio 2025. È
stata firmata nel settembre 2024 e durerà tre anni, e include ovviamente gli
accordi di vessel sharing e slot charter.
L’azienda Ashtot Ashkelon è la stessa al centro dell’inchiesta della procura di
Ravenna, quale destinataria di 14 tonnellate di forgiati fabbricati in Italia ma
presentati in dogana quali pezzi metallici, senza autorizzazione all’export,
anche se Ashtot Ashkelon è certamente un’industria militare tra i più importanti
fornitori di armamenti dell’esercito di Tel Aviv.
Riceviamo e diffondiamo:
Negli scorsi giorni abbiamo avuto notizia di tre “decreti penali di condanna”
per la partecipazione al bel presidio dell’8 febbraio 2025 a Forlì contro l’ex
ddl 1660, detto “sicurezza”, poi trasformato dal governo in Decreto Legge ed
approvato definitivamente lo scorso 4 giugno.
Il presidio in pieno centro città, con la presa bene di circa settanta persone
si è trasformato in un corteo spontaneo; poca cosa di fronte all’ampiezza dello
sfacelo che ci troviamo di fronte ma di certo qualcosa di bello e inaspettato
per la sonnolenta Forlì, che ha interrotto la noia e la quiete borghese della
città. Crediamo sia questo che deve aver infastidito i tutori dell’ordine, che
infatti hanno provveduto a recapitare i decreti di condanna a tre compagn*.
I rapporti della digos indicano le tre persone, tra la settantina di presenti,
come promotrici di una manifestazione che non ha rispettato il preavviso alla
questura, obbligo peraltro introdotto dall’ordinamento fascista. Gli é
addebitato l’aver preso pubblicamente parola e/o avere esposto uno striscione
contro il decreto sicurezza, che in quel momento era in discussione in
parlamento per la successiva autorizzazione.
Queste misure repressive, che si vanno ad aggiungere alle tante e simili piovute
contro chi da nord a sud ha partecipato alle proteste contro il decreto
liberticida del governo, giungono in coincidenza della sua conversione in legge
che rappresenta un atto di guerra al dissenso interno e alla marginalità sociale
in un’epoca di guerra globale. E suonano come tentativi di scoraggiare le
resistenze dal basso.
Siamo nemiche e nemici di quest’ordine sociale della guerra e della morte, e
veniamo trattat* di conseguenza.
Di fronte a compagn* seppellit* da decenni di galera, ribelli pestat* nelle
questure, internat* in inferni amministrativi come i CPR o i “centri d’igiene
mentale”, tre decreti penali sono quasi un nonnulla, ma vogliamo con queste
poche note esprimere solidarietà alle tre persone coinvolte, ribadendo che è
fondamentale, anche di fronte all’approvazione del “decreto sicurezza” e a
questi tentativi continui di zittire il dissenso, continuare a mobilitarci
contro la repressione e mettere in pratica la libertà.
Nemic* dell’autorità
FACCIAMO LUCE SUI TRAFFICI DI ARMI ED ESPLOSIVI TRA ITALIA E ISRAELE
Mentre il governo si sta orientando al tacito rinnovo per altri cinque anni
dell’accordo militare segreto tra Italia e Israele, a che punto è l’interscambio
di armamenti tra i due paesi?
Come riporta l’ultima Relazione sulle operazioni autorizzate dalla Legge
185/1990, per decisione del governo nel 2024 le aziende italiane non hanno
ricevuto autorizzazioni ad esportare in Israele, paese in guerra – tra l’altro
– con gli stessi territori occupati nel 1967 (nel 2004 l’Alta corte di
giustizia di Tel Aviv l’ha definita «occupazione belligerante»). Negli anni
precedenti le esportazioni militari italiane verso Israele avevano mostrato una
tendenza declinante: nel 2023 le autorizzazioni erano state di 9,9 milioni di
euro, rispetto ai 21,4 milioni di euro registrati nel 2020.
La decisione del governo non ha però bloccato le consegne relative alle commesse
autorizzate in precedenza. Infatti proprio nel 2024 il Ministero delle Finanze
ha registrato esportazioni di armi ad Israele per 35,2 milioni di euro (importi
segnalati di transazioni definitive). Se dunque la posizione ufficiale del
nostro paese sul conflitto di Gaza è cauta, di fatto le armi prodotte in Italia
hanno contribuito e stanno contribuendo al massacro della popolazione civile
palestinese. È noto il caso dei cannoni super rapidi OTO Melara 76/62 fabbricati
a La Spezia dal gruppo Leonardo e impiegati sin dall’ottobre 2023 per bombardare
dal mare la popolazione di Gaza (vedi il nostro articolo del gennaio 2024).
Secondo l’Atlante di Weapon Watch, sono una sessantina le aziende che negli
ultimi anni hanno venduto armi a Israele. Le principali sono direttamente o
indirettamente sotto controllo governativo: Leonardo, Elettronica, Consorzio
Iveco-Oto Melara. Quasi tutte partecipano ai maggiori programmi di cooperazione
militare, in particolare per gli addestratori M-346 Alenia-Leonardo, i caccia
F16 (Fighting Falcon) e JSF (F-35). Alcune forniscono munizioni e attrezzature
per fabbricare munizioni, di cui Israele è grande acquirente globale e
fortissimo consumatore.
I dati che Istat raggruppa sotto il codice merceologico 93 – che mescola armi
leggere militari e civili, parti e ricambi e anche bombe pesanti e granate –
indicano che nonostante il blocco governativo nel 2024 l’export verso Israele è
stato quasi del tutto (89%) da armi militari. Le province più implicate sono
Lecco (probabilmente da Fiocchi Munizioni) e Brescia (il “distretto Beretta”
delle armi leggere).
Il dato più preoccupante, però, è la crescente dipendenza dalle forniture
militari israeliane, che contrariamente alle esportazioni stanno crescendo
fortemente. Il ministro Crosetto il 21 maggio scorso in Parlamento ha spiegato
che la Legge 185 «non prevede una valutazione di merito sulla provenienza dei
materiali ma la valutazione sul loro utilizzo finale e sull’impatto potenziale
sulla difesa e sicurezza dell’Italia». Quindi armi e attrezzature militari
israeliane sono indispensabili per la difesa italiana, al punto che è passato in
secondo piano il contributo economico sempre più forte che il nostro paese dà
all’apparato militare-industriale di Tel Aviv, apparato che si ramifica e
pervade gran parte dell’economia israeliana, oltre che i vertici militari e lo
stesso governo.
Dal 2021 le importazioni militari dell’Italia da Israele hanno superato le
esportazioni. Nel 2024, ben il 21% (in valore) delle importazioni militari
complessive autorizzate ha riguardato Israele, con 42 autorizzazioni, al secondo
posto appena dopo gli Stati Uniti (24%). Per quel che riguarda le operazioni
effettivamente svolte, tra le aziende importatrici troviamo in prima fila
Leonardo e le sue controllate Elettronica e Telespazio, due colossi globali del
munizionamento come KNDS-Simmel Difesa e RWM Italia (che probabilmente ha
ordinato in Israele 608 tonnellate di esplosivo CXM-7), Gelco (800 kit completi
per missile anticarro Pike) e anche dell’operatore logistico SLS che opera per
conto delle forze armate italiane e di gruppi come Leonardo, Fincantieri,
Thales.
La sempre più profonda interconnessione tra la difesa italiana e il complesso
militare-industriale israeliano è del resto un modello seguito da molti paesi
europei. Sono di ieri i dati diffusi dal Ministero della difesa di Tel Aviv – e
ripresi dal New York Times – che ha sottolineato il raggiungimento nel 2024 di
un record storico di vendite negli armamenti: 14,7 miliardi di dollari, di cui
circa la metà costituito da missili, razzi e sistemi di difesa aerea. Il 54%
delle armi prodotte da Israele è acquistato dai paesi europei.
Dal sito dell’azienda israeliana Ashtot Ashkelon Industries, destinataria del
materiale militare sequestrato nel porto di Ravenna
Il recente caso venuto alla luce nel porto di Ravenna (ne abbiamo parlato in un
articolo del marzo scorso) dimostra che la domanda dell’industria militare
israeliana, affamata di componenti per il proprio export, è molto forte e cerca
ogni via, anche illegale, per aggirare divieti e restrizioni. Quelli sequestrati
a Ravenna sono componenti per cannoni presentati in dogana da un “prestanome”
delle vere aziende produttrici come “lavori di ferro o acciai fucinati”.
Riceviamo e diffondiamo
Riceviamo e diffondiamo:
È uscito l’opuscolo “Europa, Guerra e Nocività. L’approvigionamento di gas, tra
politiche energetico-economiche, estrattivismo, danni ecologici e legami con la
guerra. Il contesto in cui s’inserisce il rigassificatore di Ravenna”.
Scarica in formato pdf:
Europa-Guerra-e-Nocivita_LETTURA
Europa_Guerra_Nocivita_STAMPA
> StakkaStakka 5 marzo 2025 – tracciamento tramite pubblicità
DALLE PICCOLE FABBRICHE NELLE PREALPI LOMBARDE ALLE FORZE ARMATE DI ISRAELE
ATTRAVERSO IL PORTO DI RAVENNA –
Il 4 febbraio 2025 la Guardia di Finanza ha bloccato nel porto di Ravenna un
carico di pezzi forgiati diretti a IMI Systems Ltd, la compagnia israeliana
famosa per le armi leggere (la mitraglietta UZI, il fucile d’assalto Galil), dal
2018 assorbita da Elbit Systems, il principale contractor della difesa di
Israele.
L’episodio è divenuto pubblico solo ora grazie ai cronisti locali e al
giornalismo investigativo di Linda Maggiori, che ne ha scritto su il manifesto.
Venerdì 28 marzo la rete ravennate delle associazioni per la pace ne ha tratto
un comunicato in cui ha ricordato che, circa un anno fa, l’Autorità portuale di
Ravenna aveva messo per iscritto di non aver «alcuna informazione in merito a
trasporti di armamento bellico in violazione delle leggi dello Stato», invitando
chi ne avesse a informare la Procura della Repubblica.
Presidio in piazza del Popolo, a Ravenna, il 29 marzo 2025, per protestare
contro il transito di armi in porto.
In effetti il caso è venuto alla luce perché, lungo la catena logistica e
documentale, qualcuno ha rispettato le regole che qualcun altro cercava di
aggirare, e ha denunciato il tentativo. Troppo grave era stata l’infrazione di
leggi e trattati, in una tentata esportazione verso un paese dove si commettono
terribili violazioni dei diritti umani e crimini di guerra, cercando
fraudolentemente di nascondere la vera natura delle merci esportate.
L’azienda esportatrice è Valforge Srl di Cortenova, in provincia di Lecco,
specializzata in forgiatura e trattamento dei metalli, ma non iscritta al
Registro nazionale delle imprese e quindi neppure in grado di chiedere
l’autorizzazione a esportare materiale militare, come vuole la legge 185/1990.
Eppure Valforge ha ottenuto una commessa da una delle aziende militari
israeliane più note al mondo, e possiamo esser certi che abbia dovuto rispettare
un capitolato tecnico preciso e conforme all’utilizzazione finale dei pezzi
fabbricati. Ora l’azienda ne chiede il dissequestro, e sapremo se il tribunale
di Ravenna le permetterà di tornare in possesso del materiale, con il rischio
che possa provare a esportarlo per altra via, in un altro porto italiano o
attraverso un altro paese.
La laboriosa Valsassina, dove ha sede la Valforge, è terra di grande attivismo
metallurgico e di grande e diffusa intraprendenza imprenditoriale. Se la
Valforge vi opera dal 2006 (dal 2005 con altra denominazione, poi cessata), il
suo proprietario Pierantonio Baruffaldi è attivo dal 2001 come titolare di
un’altra azienda (Otomin Srl a Primaluna, minuterie metalliche), e dal 2016
coordina le sue attività mediante una piccola holding (B.Mecc Srl con sede a
Introbio). La stampa ha riportato che le lavorazioni sono state effettivamente
svolte da due aziende in provincia di Varese, e in effetti il Baruffaldi è stato
per quattro anni anche amministratore delegato della Coinval Srl di Sumirago
(VA), azienda cessata nel 2022 ma che ha operato in un’area con storica
vocazione metalmeccanica, posta com’è a metà strada tra Varese e Gallarate.
Tanto che all’ex indirizzo della Coinval oggi opera un laboratorio industriale
che realizza test e controllo qualità per produzioni metalliche e in particolari
in acciaio (non coinvolto nell’inchiesta).
Dobbiamo però concentrare l’attenzione sul territorio in cui opera Valforge. In
questo quadrante dell’Alto Lario, tra le province di Lecco e Sondrio, si è
creato un ambiente piccolo-industriale ma attento alla digital innovation, erede
dei ferascìncinquecenteschi ma proiettato sui mercati internazionali, da cui
sono nate vere dinastie industriali. Quella della famiglia Galperti, gli antichi
“Carlini” della Valsassina, si è ramificata nel tempo in tante branche, alcune
divenute di dimensioni notevoli. A Nuova Olonio, dove il fiume Adda si getta nel
Lago di Como, ha messo il suo quartier generale l’ingegner Nicola Galperti a cui
fa capo un gruppo da 230 milioni di fatturato (2023), capofila la Ring Mill Spa.
Questa società opera tra l’altro anche nel settore militare e nel 2022 ha
ottenuto autorizzazione a esportare in Germania e anche verso Israele pezzi
forgiati per cannoni, precisamente “sbozzati per canna, blocco otturatore e
culatta da 155 mm cal. 52”. Quelli destinati a Israele sono montati sugli obici
semoventi gommati ATMOS 2000, considerati come i più competitivi concorrenti dei
noti cannoni francesi CAESAR, e fabbricati da Soltam Systems, azienda del gruppo
Elbit Systems, lo stesso a cui appartiene la citata IMI Systems.
L’obice semovente ATMOS 2000 155mm/52 può essere montato su veicolo 6×6 o 8×8.
Nella sua pagina web, Elbit lo presenta come battle-proven. Fonte: pagina web di
Elbit Systems
Così, a pochi chilometri di distanza tra loro, vediamo due imprenditori entrambi
operanti nello stesso specifico settore della forgiatura, sebbene su livelli
diversi, vendere allo stesso cliente (Elbit Systems) semilavorati da assemblare
in sistemi d’arma. Il primo, Pierantonio Baruffaldi, cade dalle nuvole quando
gli sequestrano 13 tonnellate di materiale destinato – illegalmente – alla più
importante industria militare di Israele. Il secondo, l’ing. Galperti presidente
e CEO della Ring Mill, ha venduto – con la documentazione corretta ma con
autorizzazioni che non dovevano essere concesse perché destinate a paesi in
guerra – componenti di qualità per i sistemi d’artiglieria all’avanguardia sia a
Rheinmetall (che li ha spediti in fretta in Ucraina), sia a Elbit che ne ha
dotato le forze armate israeliane per fare il tiro a segno sulla popolazione di
Gaza.
Lavorazione a caldo nello stabilimento Ring Mill di Dubino (SO).
Vengono in mente le parole di un altro Galperti, Roberto Galperti, anche lui
industriale valsassinese delle lavorazioni metallurgiche a caldo, che in una
vecchia intervista del 2013 proclamava di non investire più in Italia, dove si
sentiva sconfitto da una “burocrazia cavillosa”: qui «qualsiasi cosa faccia,
l’imprenditore è sospettato di non voler rispettare le leggi e quindi è
potenzialmente considerato un criminale».
Autorità e governo italiani farebbero meglio a seguire l’esempio del presidente
brasiliano Lula da Silva. Nell’aprile 2024 il suo Ministero della difesa, da
sempre geloso della propria autonomia in tema di procurement, ha firmato con
Elbit un contratto di acquisto per 36 obici ATMOS 2000 completi. In ottobre Lula
– che ha mantenuto pubblicamente una posizione molto netta circa le
responsabilità israeliane nella cosiddetta “guerra di Gaza” – ha sospeso
l’affare, nonostante le rimostranze del ministro della difesa, José Múcio, suo
alleato di governo ma leader di un partito di destra. Nel febbraio 2025 la
stampa brasiliana ha pubblicato la notizia che Lula approverà il contratto solo
dopo un accordo di pace tra Israele e Hamas, e che lo stesso destino seguiranno
tutti gli accordi in essere o in trattativa per acquisto di armi da aziende
israeliane.
Riceviamo e diffondiamo:
Per richiesta di copie: disfare@autistici.org
Scarica il pdf dell’anteprima: disfare_1_anteprima
Editoriale
Europa anno zero
Mentre, nello Studio Ovale della Casa Bianca, urla in faccia a Zelensky: «Vai in
giro e costringi i coscritti in prima linea perché hai problemi di uomini», JD
Vance non fa altro che svelare al mondo intero ciò che per tre anni è stato
nascosto dalla propaganda di guerra atlantica, e che viene adesso rinfacciato –
strumentalmente e non certo per motivazioni etiche – dal nuovo corso USA, di
fronte ad una guerra evidentemente persa e ormai sfacciatamente scaricata sulla
popolazione europea. Un’Europa la cui classe dirigente – riaffermando la difesa
fino all’ultimo ucraino con la retorica della “pace giusta” – annuncia con
patriottismo democratico scellerati piani di riarmo e deterrenza nucleare.
La guerra è l’orizzonte storico terribile del nostro tempo.
In Svezia e Norvegia vengono distribuiti opuscoli e si allargano i cimiteri per
predisporre la popolazione all’eventualità di una guerra con la Russia; Von der
Leyen dichiara di volere «la pace attraverso la forza»; Macron propone di
estendere la force de frappe francese all’Europa; in Lombardia si dispone
l’ampliamento delle scorte di iodio nell’eventualità di attacco nucleare; la
NATO promuove la mobilitazione della società civile dei paesi alleati
nell’Indopacifico per preparare un conflitto con la Cina; l’esercito italiano si
prepara ad arruolare quarantamila soldati in più.
In un quadro di interdipendenza tecnologica e finanziaria fra Cina e Stati
Uniti, con l’elezione di Trump viene alla luce lo scontro in atto da anni tra la
fazione globalista e quella sovranista delle classi dirigenti occidentali. Per
sommi capi, la prima è decisa a uno scontro diretto e a qualsiasi costo con la
Russia, la seconda favorevole a un’intesa col Cremlino per puntare, nel giro di
alcuni anni, direttamente contro la Cina, ma entrambe convergono su un punto
preciso: il riarmo europeo (peraltro deciso e annunciato molto tempo prima del
ritorno di re Donald). Un gioco di specchi e provocazioni che, mentre potrebbe
sfociare da un giorno all’altro nell’annientamento nucleare dell’umanità intera,
trasformerà l’Europa, se non in un cumulo di macerie radioattive, in una
fortezza blindata e militarizzata, dominata da un’economia di guerra che
assorbirà tutte le risorse e le energie sociali.
La guerra del nostro secolo è ibrida, totale, asimmetrica, civile. Il suo campo
di battaglia è ovunque.
La guerra del XXI secolo è una guerra senza limiti, che assume forme varie e
pervasive. Si snoda tra i flussi energetici, prende la forma di attentati e
sabotaggi di Stato, incorpora pienamente il denaro, i mezzi di informazione e i
social network. La centralità assunta dalla tecnologia e dallo sviluppo
scientifico si riverbera in ogni ambito del conflitto guerreggiato, attraverso
droni, applicazioni che coinvolgono la popolazione nei servizi di intelligence
(ad esempio per segnalare le posizioni delle unità nemiche), così come con la
rivoluzione dell’intelligenza artificiale nelle dottrine militari, che ha un
peso e delle conseguenze paragonabili all’invenzione del nucleare. Se l’IA e le
tecnologie digitali sono fondamentali per fare la guerra, la ricerca del primato
su questi dispositivi alimenta la competizione su scala internazionale per il
saccheggio di materie prime e la vampirizzazione energetica. Le ipotesi di
“deterrenza batteriologica” e la valenza apertamente militare dei bio-laboratori
fanno coincidere guerra guerreggiata e guerra al vivente.
Non per questo vengono meno forme “tradizionali” e sanguinose, riemergenti nei
fronti di una guerra mondiale che per ora sarà anche «a pezzi», ma che si
delinea sempre più chiaramente come prodotto della crisi dell’egemonia globale
statunitense e contesa con i suoi sfidanti, in particolare la Cina. Sul fronte
ucraino, la leva di massa e la guerra di posizione ci ricordano quanto avveniva
durante la Prima Guerra Mondiale. Sul fronte mediorientale, dove per gli USA
mantenere saldo il colonialismo d’insediamento israeliano – sorto come avamposto
degli interessi occidentali – significa cercare di preservare il proprio
predominio sulla regione, il genocidio sionista a Gaza e in Cisgiordania riporta
all’attualità quanto avvenne durante la Seconda Guerra Mondiale. In nessun caso
si tratta però di un ritorno del Novecento, bensì del reciproco alimentarsi di
progresso tecnico e mobilitazione generale nella guerra totale del XXI secolo.
Il potenziamento della tecnica è oggi l’orizzonte centrale per le forze che si
contendono il dominio del mondo.
Con un rovesciamento tra il concetto di mezzo e quello di fine, la tecnica
guidata dalla scienza moderna si afferma secondo una propria logica. Il ruolo
del sistema satellitare Starlink di Elon Musk – impostosi con la guerra in
Ucraina – dà la misura di un protagonismo inedito delle multinazionali
dell’high-tech, ma, come in altre fasi della rivoluzione industriale, non viene
meno il ruolo dello Stato, che anzi assume una rinnovata centralità. Non è un
caso che il Progetto Stargate della nuova amministrazione USA – 500 miliardi per
lo sviluppo dell’IA – sia stato paragonato al Progetto Manhattan, quello che
portò ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki.
La natura automatizzata del genocidio a Gaza appare come la sperimentazione sui
“selvaggi delle colonie” di quello che rischia di accadere ai civilizzati
stessi, allo stesso modo in cui il genocidio degli Herero in Namibia da parte
del colonialismo tedesco (e l’insieme dei genocidi commessi dalle altre potenze
coloniali) precedette e preparò l’attività dei campi di sterminio durante il
nazismo. E mentre diventa sempre più chiaro come nell’organizzazione del
mondo-guerra vi sia un’umanità eccedente di cui si può fare a meno e che va
gestita o eliminata, si sta sdoganando l’idea che si possa fare a meno
dell’umanità in quanto tale (come sostenuto apertamente da alcune correnti
tecnocratiche tutt’altro che lontane dalle stanze dei bottoni).
La guerra è prima di tutto un fatto di politica interna – e il più atroce di
tutti.
Così metteva in guardia Simone Weil, ventiquattrenne, nelle sue Riflessioni
sulla guerra (1933), rispetto all’errore di considerare la guerra come un fatto
di politica estera. Se i fatti drammatici a cui assistiamo ogni giorno in
diretta streaming rischiano di apparirci distanti, la guerra è più vicina di
quanto inconsciamente ci auguriamo.
A pochi passi da noi stanno infatti le sue molteplici basi materiali – dai
centri decisionali alle fabbriche d’armi e munizioni, passando per snodi
logistici che sono parti integranti della logistica militare e un sistema
universitario che fa da laboratorio all’industria bellica –, sempre più nutrite
da imponenti piani di riarmo. E nel mondo datificato e digitalizzato i confini
fra civile e militare sono continuamente superati in entrambi i sensi: una app
che oggi viene usata per profilarci come consumatori, pazienti sanitari o
“cittadini digitali”, può servire, altrove come qui, per mettere al bando,
arruolare, o eliminare una parte di umanità considerata nemica o inutile, mentre
i dati che produciamo tutti i giorni sono direttamente al servizio della
sorveglianza e degli eserciti.
Se è vero che la guerra parte da qui, è altrettanto vero che la guerra torna
indietro. Ritorna come necessità di “pacificare” le retrovie, militarizzandole:
la sperimentazione delle “Zone Rosse” dopo Capodanno, il tentativo di varare un
codice da legge marziale col Pacchetto Sicurezza (firmato anche dal ministro
della Difesa), l’estensione del “modello Caivano” ad altre periferie. Sul piano
interno, sono numerose le conseguenze a cascata del conflitto tra gli Stati
fatte pagare alle classi dominate – aumento delle bollette, precarizzazione
ulteriore del lavoro, fine di quel che rimane del cosiddetto “Stato sociale” –
giustificate dalle necessità del riarmo e della difesa nazionale e Europea, con
l’utilizzo costante dell’emergenzialità e la militarizzazione delle emergenze. È
ciò che abbiamo ampiamente vissuto durante il “periodo pandemico”, in cui la
guerra al virus ha predisposto il terreno per la guerra attuale con la
sperimentazione su larga scala di una mobilitazione generale.
La guerra totale è contemporaneamente guerra civile globale.
Le condizioni di questa guerra civile sono ampiamente in essere anche alle
nostre latitudini, come più d’uno ha affermato già nel secolo scorso. Il venir
meno di collanti ideologici, la conflittualità intestina allo Stato e pure alle
classi frantumate, sono sintomi che la barbarie non è qualcosa di lontano, ma si
dispiega anche all’interno delle mura erette dalla “civiltà” e dal “progresso”.
Basti pensare a quanto accade nelle periferie come riflesso della “guerra tra
poveri” – italiani contro stranieri, disoccupati contro lavoratori “del nero”,
piccoli esercenti autorizzati contro abusivi, regolari contro clandestini,
abitanti delle case popolari contro occupanti, cittadini contro rom, antagonisti
contro “maranza”… Se poi ci spostiamo nel Regno Unito, vediamo tornare né più né
meno che i pogrom (con migranti e islamici al posto degli ebrei e dei rom). Se
le insurrezioni e le rivoluzioni moderne sono sempre delle guerre civili, i due
termini non coincidono. Oggi siamo precisamente in presenza di una guerra civile
ubiqua e orizzontale in assenza di guerra sociale.
Capita però che talvolta il conflitto si esprima verticalmente, come nelle
sommosse di George Floyd e poi, con una composizione socialmente diversa, e per
certi aspetti opposta, nell’assalto a Capitol Hill (USA, 2020 e 2021: prima
proletari di tutti i colori contro padroni e istituzioni, e in particolare
contro la polizia; poi una miscellanea di classi, ma tendenzialmente plebee e
bianche, contro l’elezione di Biden); negli scontri dei popoli nativi contro il
marco temporal dell’agroindustria (Brasile, 2023); nelle sommosse delle
banlieues francesi (dal 2005 alle più recenti “rivolte di Nahel”) e, alle nostre
latitudini, nelle accese manifestazioni antipoliziesche dopo l’assassinio di
Ramy Elgaml a Milano da parte dei carabinieri.
I fenomeni di disintegrazione sociale rappresentano in ogni caso una minaccia
per l’ordine costituito, a cui lo Stato risponde in maniera autoritaria, in modo
del tutto trasversale alle tassonomie di governo formali (democrazia vs.
autocrazia), senza mediazioni se non quelle offerte dal progresso tecnico. Basti
pensare alla digitalizzazione e biometrizzazione delle identità legali, tramite
cui l’identità civile diventa indistinguibile da un dispositivo di sorveglianza
automatizzato. Oggi il “cittadino” che si rivolta o non obbedisce è sempre più
meccanicamente “messo al bando”.
Prendere atto della tendenza alla guerra non significa accettarne
l’inevitabilità.
Nonostante la religione dell’ineluttabilità sia il motore del nostro tempo,
alcuni segnali sembrano incrinarla. In Ucraina, dopo la sbornia nazionalista, il
sostegno alla guerra ha lasciato il posto a forme di renitenza, diserzione e
non-collaborazione di massa che pesano non poco sulle sorti di quel conflitto e
lasciano intravedere un possibile crollo del fronte occidentale. Nel frattempo,
il genocidio a Gaza ha alimentato un movimento globale vasto e articolato che,
grazie ad alcune testarde minoranze, ha riscoperto forme d’azione diretta e ha
portato l’intifada nei campus statunitensi, facendosi carico di dire il
non-detto, cioè il fondamento bellico e genocida del capitalismo occidentale.
L’estensione della guerra a tutti gli ambiti della società moltiplica le
opportunità di ammutinamento e sabotaggio, offrendo alla variabile umana inedite
occasioni di inceppare la macchina mortifera.
La propaganda di guerra – paradossalmente – ha avuto invece presa su alcune
minoranze della minoranza antagonista, arrivate a esprimere sostegno a una
sedicente, e inesistente, resistenza ucraina, e a esitare, nel contempo, a
sostenere la resistenza palestinese, con la totale incapacità di distinguere tra
un’ondata nazionalista fomentata e armata dalla NATO (e con autentici nazisti in
prima fila, tra Parlamento, squadroni della morte, esercito, polizia, Guardia
Nazionale) e una resistenza anticoloniale contro un colonialismo d’insediamento
ancora in corso. Se i socialisti parlamentari di un tempo votarono i crediti di
guerra, i loro ridicoli e corrotti eredi “progressisti”, dopo un secolo di
collaborazionismo di classe, sostengono il piano di riarmo “ReArm Europe” e
indicono piazze guerrafondaie “per la libertà”, volte unicamente a sostenere la
prosecuzione del massacro in corso in Ucraina.
A centodieci anni dall’entrata in guerra dell’Italia nel Primo Massacro Mondiale
e a ottant’anni dalla fine del Secondo sul suolo europeo, sono la storia
dell’antimilitarismo rivoluzionario e ancor più quella di chi lo ha abbandonato
abbracciando la causa della “guerra giusta” di turno a illuminare tragicamente
la strada da percorrere. L’unico modo di sottrarsi a guerre fratricide è
assumere la logica del disfattismo e le sue implicazioni, ovvero adoperarsi per
la rovina della parte capitalista che ti vuole arruolare e intruppare, e l’unico
modo per sottrarre il disfattismo dall’arruolamento da parte del campo
capitalista avverso è la logica dell’internazionalismo: quella con la quale ogni
sfruttato vede il proprio nemico nel padronato di casa propria, solidarizzando
con i propri fratelli e sorelle dall’altro lato del fronte.
¯¯¯
Con questo sguardo sul mondo nasce disfare, bollettino periodico in parte
dedicato ad affrontare nodi cruciali per interpretare il fosco orizzonte in cui
agiamo, in parte a dare diffusione di testi contro la guerra totale, per lo più
inediti in lingua italiana, provenienti dai vari fronti e retrovie del mondo e
anche dal passato.
Il bollettino uscirà in quattro numeri annuali, un ritmo oltremodo lento per
tenere il passo vertiginoso dell’attualità, ma che ci sembra – oltre che
compatibile con le nostre energie – adatto al cristallizzarsi di un pensiero che
provi ad avventurarsi oltre la superficie. Ci affidiamo a uno strumento
cartaceo, senza escludere che possa essere affiancato da altri mezzi, convinti
che nella dimensione digitale tutto sfreccia e poco o nulla si posa, rumore di
fondo che non ha più importanza di qualsiasi altro rumore.
Di fronte all’accelerazione di eventi di portata storica che stiamo vivendo, ci
sembra utile dotarci di una pubblicazione che possa fornire uno spazio di
discussione e in cui possano dialogare fra loro esperienze di lotta e analisi,
anche geograficamente lontane e magari divergenti tra di loro, con il desiderio
che questo possa stimolare pensiero e azione. Per questo invitiamo chi ci legge
a contribuire con testi, grafiche, segnalazioni, critiche, diffusione. Nella
speranza che l’accelerazione di questi tempi bui non ci trovi del tutto
impreparati.
Riceviamo e pubblichiamo questo comunicato del Collettivo Sumud di Venezia.
Tutta la nostra solidarietà alla compagna e al compagno portati in Questura e
colpiti dal foglio di via. Non è pedanteria ribadire che per noi non esistono
“Stati legittimi”. Quello israeliano ha la stessa legittimazione che si sono
auto-assegnati tutti gli Stati (pensiamo agli USA, fondati su un genocidio). La
differenza – per cui noi siamo sfruttati mentre i palestinesi vengono sterminati
– è che, espressione e gendarme di un colonialismo d’insediamento incompiuto
(l’incompiutezza si chiama resistenza palestinese), Israele rinnova ogni giorno
quella violenza fondativa che gli Stati rimuovono nel processo di
normalizzazione e che riaffiora quando si organizzano per la guerra.
Con la Palestina nel cuore, Padova un po’ meno
Il 18 marzo, i Giovani Palestinesi di Padova hanno lanciato una giornata di
lotta in città, contro le collaborazioni universitarie intrattenute con
“Israele”, contro Maersk, azienda con sede all’interporto di Padova attivamente
coinvolta nel trasporto di armi verso il sopracitato Stato illegittimo e contro
la ripresa evidente del genocidio con gli attacchi sulla striscia di Gaza della
notte precedente.
A giornata conclusa, una compagna e un compagno del nostro collettivo che hanno
partecipato alla manifestazione sono stati “colpiti” da un foglio di via dalla
città, rispettivamente di due e tre anni, dopo essere stati portati in questura
con altri 3 manifestanti, dopo essere stati seguìti da una decina di volanti per
quasi un’ora. Ci teniamo a partire da quanto successo, non tanto per parlare
delle misure repressive in sé, che ci interessano poco nei loro tentativi
strumentali e materiali, ma come pretesto per dire due cose che ci stanno a
cuore.
Prima di tutto, ci rivendichiamo totalmente il senso della giornata: un presidio
statico di denuncia e contro-informazione si è trasformato in un tentativo di
occupazione dell’università complice del genocidio, per poi prendersi le strade
con un corteo spontaneo e partecipato; questo, secondo noi, è segno di una
variabile umana che, prendendo esempio dal popolo palestinese, si mette ancora
in gioco ed è ancora pronta a lottare provando a superare divieti e cordoni di
polizia. Perché se il genocidio continua e le collaborazioni sono ancora attive,
noi non possiamo fermarci. La giornata del 18 a Padova fa sperare che la lotta a
fianco del popolo palestinese continui, tutto il resto passa in secondo piano, a
nostro avviso. Siamo felici di poter condividere piazze, percorsi, lotte con i
Giovani Palestinesi, che da più di un anno riescono a dare indicazioni precise
su come e dove agire in quanto solidali con il popolo palestinese.
In secondo luogo, spendiamo alcune parole circa le “conseguenze legali” che
hanno colpito i compagni: le rivendichiamo assieme al senso della giornata e
delle azioni che sono state portate avanti. La repressione non è solo fogli di
via, indagini, denunce, persone portate in questura e così via; la repressione
è, secondo noi, un insieme di pratiche molto più ampio, che non viene portato
avanti solo da polizia, ma è un modo di fare che si insinua ovunque e al quale
ci si deve opporre con tutte le proprie forze per poter continuare la lotta. Non
vogliamo fare la parte delle vittime che vengono colpite dalla “repressione”
senza motivo; siamo due militanti presi in quanto “appartenenti” ad un’area
politica che cerca nella coerenza una pratica di lotta, e gli atti repressivi
che si presentano e tornano non vogliono che far pagare questo (o provarci).
Concludiamo ringraziando con il cuore in mano tutte le persone che sono state
fuori dalla Questura di Padova ad aspettare il rilascio dei cinque fermati per
due-tre ore. Essere in quel luogo infame e sentire fuori i cori e il rumore dei
solidali, è un’emozione difficilmente traducibile a parole. Un’emozione che chi
ha compagne e compagni che fanno della solidarietà una pratica reale e concreta
può provare, e che dà una forza incredibile, per la quale ringraziamo di
condividere le lotte con persone così. Uscire e trovare volti conosciuti e no,
fa dimenticare tutto il resto, e fa capire la potenza della solidarietà. Per
questo ringraziamo sinceramente chiunque era lì fuori.