Questa volta la «Bahri Jeddah», arrivata a Genova il 7 luglio, non trasportava
solo armi per l’Arabia Saudita e gli emiri del Golfo.
Prima di ripartire per la tappa egiziana di Alessandria, sulle banchine genovesi
ha depositato anche una strana attrezzatura, nuova di fabbrica e imbarcata nel
terminal di Dundalk, porto di Baltimora, Maryland.
Si tratta di un tunner, un aircraft cargo loading-unloading system, una grande
macchina mobile per il carico-scarico di merci da aeromobili.
L’attrezzatura appartiene all’US Air Force, è destinata alla base aerea di
Aviano ed è stata fabbricata da DRS Sustainment Systems Inc., società che in via
diretta e indiretta è controllata da Leonardo Spa. Attrezzature di questo genere
non sono utilizzate dalle forze armate italiane, che non dispongono di
giganteschi cargo militari come il C-5 ‘Galaxy’ (120 tonnellate di carico) e il
C-17 ‘Globemaster III’ (76 tonnellate di carico). Questa la ragione dell’invio
in Italia del macchinario, attraverso una nave commerciale degli “alleati”
sauditi.
A sx: il tunner di DRS SSI nelle operazioni di carico e scarico di un C-17
‘Globemaster III’.
Qui sopra: una pagina del sito web di Leonardo DRS in cui si illustra la
versatilità del tunner a 5 assi, peso a vuoto 68 tonnellate.
È dunque assai probabile che la base americana di Aviano – che ospita anche
ordigni nucleari – si stia preparando a ricevere nelle prossime settimane
numerosi voli dei grandi cargo USAF, carichi di armi e munizioni da smistare sui
teatri di guerra europei e mediorientali. A questo ruolo di “portaerei” il
nostro paese è da decenni disponibile, anche se – a leggere il recente libro del
generale Fabio Mini, La Nato in guerra. Dal patto di difesa alla frenesia
bellica’ – l’alleanza atlantica non ha affatto nel proprio statuto quello di
compiere missioni “di pace” armate, né di combattere “guerre preventive”, né
tantomeno di organizzare aggressioni di altri paesi, sullo stile del recente
“bombardamento chirurgico” dell’Iran.
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Non ci sarà solo il ponte sullo Stretto, anche la nuova diga foranea del porto
di Genova contribuirà – nei desiderata del Governo – a coprire le spese militari
che l’Italia s’è impegnata in sede Nato a portare al 5% del Pil, una quota delle
quali (1,5%) potrà essere rappresentata da infrastrutture a valenza anche
militare.
Una vocazione cui, come anticipato da «Il Fatto», si stava lavorando da mesi
anche per la diga genovese, mega-opera da 1,3 miliardi di euro (già lievitati a
1,6 coi lavori nemmeno arrivati al 10%) pensata per ampliare la capacità
mercantile del porto.
Ieri l’ufficializzazione: «La nuova diga è infrastruttura dual use. Progettata
per scopi mercantili, in caso di crisi (bellica, nda) sarà utile perché consente
lo sbarco di portaerei leggere, navi Nato e strumenti e truppe» ha affermato
Carlo De Simone, subcommissario all’opera (il ‘titolare’ è Marco Bucci
presidente della Regione Liguria), durante una trasmissione tv.
Poco importa che le più grandi portaerei Nato abbiano dimensioni largamente
inferiori a quelle delle portacontainer abituali ospiti delle banchine genovesi
e che quindi potrebbero comodamente approdare sotto la Lanterna senza spendere
miliardi di euro per la diga. Né che a La Spezia, a 50 miglia nautiche, abbia
sede una delle maggiori basi della Marina militare: “La military mobility è un
programma dell’Unione europea per facilitare gli spostamenti rapidi di truppe e
contingenti all’interno dell’Europa” ha puntualizzato De Simone: “La diga può
contribuire al tetto di spesa del 5% perché è un investimento infrastrutturale
con funzionalità duale”.
Sicuramente l’obiettivo primario della militarizzazione, ma non forse l’unico.
Come accennato, l’opera, finanziata con 800 milioni di euro del fondo
complementare al Pnrr, ha problemi di copertura. Solo grazie a un’iniezione di
142 milioni dal recente Decreto economia Bucci ha potuto coprire parte degli
extracosti già emersi e bandire pochi giorni fa la seconda fase dell’appalto (la
prima se l’è aggiudicata una cordata guidata da Webuild), oggetto, nella prima
parte, di indagine della Procura europea e caratterizzato da dosi minime di
trasparenza.
Basti pensare che quest’ultima gara sulla Fase B è pubblicata senza elaborati
progettuali né capitolato. E che da anni Bucci e Autorità portuale negano il
rilascio dei documenti relativi al contenzioso con Webuild (già valso
all’appaltatore 300 milioni) e persino l’esistenza dei test condotti sul
consolidamento dei fondali, ritenuto fin dai primordi il punto debole del
progetto.
Naturale quindi che il dual use, potenziale viatico di nuovi esborsi e opacità,
abbia scatenato la polemica politica. “Ora Genova rischia di diventare un
obiettivo sensibile dal punto di vista militare. L’opera di per sé ha enormi
criticità, mai correttamente gestite. Se ora sarà anche ‘tinta’ di verde
militare, oltre al danno si aggiungerà la beffa. Il governo ha il dovere di
chiarire questo disegno surreale” hanno dichiarato il deputato M5S Roberto
Traversi con il senatore M5S Luca Pirondini, annunciando un’interrogazione
parlamentare.
La tecnica berlusconiana di sdoganare ogni violazione alle regole scritte e non
scritte riguardanti la vita pubblica e i comportamenti dei rappresentanti eletti
ha trovato due recenti e macroscopiche applicazioni da parte del governo Meloni,
perfettamente adatte a questo clima politico in cui la “sicurezza” è
parola-chiave che apre ogni porta, e soprattutto ogni scrigno di denaro pubblico
disponibile.
Lo scorso 9 aprile il governo ha deliberato che il ponte sullo Stretto è
un’opera «fondamentale in caso di scenari di guerra» e «strategica per la difesa
europea e della Nato». Così un’opera faraonica e più dannosa che inutile, ma che
il governo Meloni-Salvini aveva già deciso di varare, non verrà più sottoposta
alle verifiche preventive di legge vista la sua urgenza e necessità. Innanzi
tutto potrà procedere spedita senza le “valutazioni di impatto ambientale” con
cui cavillosi esperti ritardano l’efficace azione governativa, anche se qui per
la verità si andrà a costruire in una zona sismica dove – a credere a Wikipedia
– si è registrata la più grave catastrofe naturale europea in tempi storici, il
terremoto-maremoto di Messina del 1908, con vittime stimate tra 75.000-82.000 a
140.000. E l’opera faraonica potrà anche bypassare le severe norme antimafia
che, in un territorio tra Sicilia e Calabria, potrebbero in effetti selezionare
e ridurre l’accesso agli appalti pubblici a molte imprese locali, con grave
danno delle (il)lecite aspettative di crescita economica.
L’articolo di Andrea Moizo è stato pubblicato da «Il Fatto Quotidiano» dell’8
luglio 2025.
Ieri (8 luglio 2025) c’è stato l’annuncio che anche la diga foranea del porto di
Genova va considerata dual use, cioè ad uso civile e ad uso militare. Lo ha
affermato il sub-commissario Carlo De Simone (cioè commissario nominato dal
commissario Marco Bucci, perché Genova ha fatto scuola negli appalti pubblici
“commissariati” stile nuovo ponte Morandi), che ha spiegato: «perché consente lo
sbarco di portaerei leggere, navi Nato e strumenti e truppe. È il tema della
mobilitary use». Così abbiamo imparato questa nuovissima crasi tra military e
mobility dal sub-commissario Carlo De Simone, che prima di mestiere faceva il
broker assicurativo e ora l’esperto di alto profilo economico-finanziario (come
dice nel suo blog https://carlodesimone.it/chi-sono/).
Ci sono effettive ragioni militari per considerare “strategiche” queste due
opere faraoniche?
A che cosa serva davvero la nuova diga foranea di Genova, con i suoi problemi
tecnici e progettuali, si è ripetutamente dedicato il blog del Comitato per il
dibattito pubblico di Riccardo Degl’Innocenti, a cui rimandiamo
(https://www.facebook.com/riccardodeglinnocentigenova). Per quel che riguarda in
particolare la utilità militare della nuova diga, notiamo che il porto di Genova
non è inserito nel programma “Basi Blu” del Ministero della Difesa, con
stanziamento iniziale di 2,5 miliardi di euro per ammodernare agli standard Nato
i porti di Taranto, La Spezia, Augusta e Brindisi. La Spezia si trova a
un’ottantina di chilometri da Genova, circa 40 miglia nautiche che una portaerei
può coprire in meno di due ore, quindi risulta perlomeno ridondante attrezzare
due porti così vicini per accogliere navi da guerra che possono essere
facilmente rifornite per via aerea o al largo, o in altre basi navali operative
in Italia già ampiamente utilizzate durante le esercitazioni navali Nato.
Il ponte sullo Stretto è stato giustificato con la necessità di collegare al
continente le basi siciliane della Nato (a noi non risulta che ce ne siano) e
degli Stati Uniti (quelle ci sono, eccome!), che però sono basi marittime e
aeree, e possono benissimo fare a meno in futuro di collegamenti terrestri, così
come già oggi non utilizzano il ferry tra Messina e Villa San Giovanni.
Accenniamo appena al costo “stimato” delle opere citate, ma c’è comunque da far
tremare le vene ai polsi. Il ponte sullo Stretto costa oggi 13,5 miliardi di
euro, la diga di Genova 1,6 miliardi di euro. Se si applicasse la proporzione di
“lievitazione” dei costi sulla base dell’esperienza amarissima della più celebre
opera faraonica, la TAV Torino-Lione, passata da 2,9 miliardi a 14,7 oggi (ma
chissà domani…), cioè se si moltiplicassero provvisoriamente i costi per cinque,
prima di essere terminati il ponte costerà 67,5 miliardi e la diga 8 miliardi di
euro.
I tempi invece sono importanti. Per le esigenze della difesa e della sicurezza
nazionale, sarebbe necessario avere le opere faraoniche disponibili al più
presto, perché Putin si sta facendo sempre più minaccioso. E invece la durata
dei lavori prevista è il 2032 per il ponte, anche se a tutt’oggi neppure il
progetto risulta completato; e per la diga si comincia a parlare del 2028 o
2029.
Ma c’è da crederci? Per la TAV i lavori cominciarono nel 2002, e forse l’opera
entrerà in funzione a fine 2033, 31 anni dopo, in uno scenario economico e
logistico che già oggi è completamente diverso da quello immaginato dal
progetto. Vedremo cosa ne sarà negli anni del ponte e della diga.
Le inchieste di «Altreconomia» e le segnalazioni dei lavoratori confermano
quello che Weapon Watch ha più volte pubblicato e sostenuto anche in incontri
pubblici: nel porto di Ravenna la violazione di leggi e trattati riguardanti il
commercio di armamenti è provata da molti episodi, a partire dal primo
registrato nel maggio 2021 – uno ‘sciopero sulla merce’ dichiarato da
Cgil-Cisl-Uil durante uno dei tanti bombardamenti su Gaza – che ha avuto il
merito di scoperchiare l’ipocrisia nel porto romagnolo.
Una ulteriore svolta verso la trasparenza si deve alla magistratura ravennate,
con l’inchiesta ancora in corso riguardante la ditta lecchese Valforge.
Così si sono esauditi gli auspici invocati nel febbraio 2024 dall’allora
presidente dell’autorità portuale Daniele Rossi in una sua lettera pubblica,
quando WW promosse insieme a Pax Christi e a numerose associazioni ravennati un
incontro pubblico sul tema. Rossi sostanzialmente disse: non ho notizia di
passaggi di armi in porto, se avete informazioni di violazioni di legge
denunciatele alla magistratura. Ebbene, oggi la denuncia c’è stata, ed è
arrivata non da esaltati pacifisti filo-palestinesi, bensì dal rappresentante di
un primario operatore logistico, cioè dall’interno del mondo dei trasporti
internazionali. Riguarda una filiera di pezzi forgiati per cannoni che ha
origine tra Varese e Lecco e destinazione una filiale di una delle maggiori
industrie militari di Israele, fornitura avvenuta aggirando il divieto
governativo di esportare armamenti verso Israele e del tutto priva di
autorizzazioni, anzi presentando in dogana il materiale come se fosse ad uso
civile.
Ora stanno prendendo forza le voci dei lavoratori e le loro denunce. I portuali
a Ravenna stanno vedendo passare i container di munizioni destinate alle IDF.
Caricano queste merci di morte sulle portacontainer dirette a Haifa e Ashdod,
quasi sempre navi della compagnia israeliana ZIM. Prima caricavano per lo più
ortofrutta e merci varie, ora sempre più dispositivi militari e munizioni la cui
probabilità di essere impiegate sulla popolazione civile inerme, in flagranti
crimini di guerra – come dovranno prima o poi verificare i tribunali
internazionali –, è altissima.
Ultima denuncia in ordine di tempo risale al 30 giugno scorso, quando alcuni
container con l’etichetta “esplosivi” classe 1.4 (cioè munizioni) sono stati
caricati a bordo della «ZIM New Zealand», partita con destinazione Haifa, dove è
regolarmente arrivata il 4 luglio.
Recentemente il presidente della Regione Emilia-Romagna ha dichiarato di voler
interrompere le relazioni con Israele. Ricordiamo al presidente De Pascale che
il principale operatore terminalistico del porto di Ravenna – unico scalo
internazionale della regione – è SAPIR-Porto Intermodale di Ravenna Spa, che
controlla direttamente anche Terminal Nord Spa e TCR (Terminal Container
Ravenna) Spa.
L’azionariato di SAPIR è così composto:
* 29,45% a Ravenna Holding Spa (77% del Comune di Ravenna, 7% Provincia di
Ravenna, il resto ai Comuni di Cervia, Faenza e Russi);
* 13,59 a Fin.Coport Srl (100% della Compagnia Portuale Srl, )
* 11,58% Camera di Commercio di Ferrara
* 10,46% Regione Emilia-Romagna
* tutti gli altri soci, a partire da La Petrolifera Italo Rumena Spa (8,70%,
nelle mani della famiglia Ottolenghi), hanno quote inferiori.
Teoricamente Comune, Regione e Compagnia portuale possono governare tutto il
porto di Ravenna con la maggioranza assoluta. Ci si aspetterebbe che queste
entità istituzionali concorressero almeno a vigilare – se non a controllare –
affinché non si possano svolgere i traffici illeciti che stanno rendendo il
porto di Ravenna indiretto complice di ciò che accade in Cisgiordania e a Gaza.
Quanto al rispetto della Costituzione, il presidente De Pascale ha correttamente
citato l’art. 117, che dà potere alle Regioni di intrattenere le proprie
relazioni internazionali. Ma bisognerebbe anche richiamarsi all’art. 11, quello
del rifiuto esplicito della guerra come soluzione delle divergenze
internazionali: un articolo che è violato clamorosamente dai governi italiani da
oltre trent’anni.
Nei primi giorni di giugno Farzåd è venuto a farci visita al centro di
aggregazione Approdo di Garbatella, a Roma, dove ha preso vita un laboratorio
radiofonico rivolto a ragazze e ragazzi delle scuole medie. Da poche ore sui
titoli dei quotidiani campeggiava la notizia del cessate il fuoco in Iran e
della fine della “guerra dei dodici giorni”. Prima che Farzåd facesse ingresso
nella nostra redazione, ho raccontato ai ragazzi quel poco che sapevo di lui. Ha
circa quaranta anni, è nato in Iran, è laureato in letteratura francese, faceva
il libraio, vive in Italia da una decina d’anni, è stato il protagonista di un
audio documentario trasmesso da Rai Radio3 e realizzato dall’amico e collega
Ciro Colonna in cui si dava molto spazio al lavoro di Farzåd qui a Roma: il
corriere in bicicletta.
Per una ventina di minuti, i ragazzi lo hanno tempestato di domande. Farzåd ha
risposto generosamente a ogni questione, seppure la vicenda lo facesse sempre
più sudare (i ragazzi mi avevano costretta a spegnere il ventilatore, per
evitare che il brusio disturbasse la registrazione). Le loro curiosità mi hanno
stupita. Nel corso della chiacchierata abbiamo scoperto che Farzåd legge romanzi
russi, che il suo calciatore preferito è Maradona, che tra montagna e mare
sceglie montagna, che per fare le consegne utilizza una bicicletta a pedalata
assistita, che il suo nome di battesimo (che non corrisponde a quello
d’invenzione che stiamo utilizzando in questo articolo) deriva da un libro epico
della tradizione iraniana, che è andato via dall’Iran per cercare una vita
diversa, che ascolta Mina, De Andrè e la musica tradizionale iraniana, che la
cosa che più lo ha colpito di Roma nei primi giorni dopo il suo arrivo erano i
palazzi e i monumenti, e che, sì, anche se ci lavora, crede che boicottare G.
sia una buona idea.
Come nelle migliori interviste, è stato dopo, a microfono spento (e ventilatore
riattivato), che Farzåd ha raccontato di questi giorni di guerra. Le notizie
arrivavano frammentate, confuse. La comunicazione con la famiglia e gli amici si
arrestava per interminabili ore. Lui nella calura di Roma smetteva di fare ogni
cosa, il cervello si arrovellava nel tentativo di capire, tuttavia districarsi
tra le tante informazioni, a volte discordanti, era impossibile. «Poi c’è stata
la tregua e finalmente ho potuto riprendere a parlare con amici e parenti. Dopo
gli attacchi degli hacker dello stato di Israele sulle infrastrutture digitali
della tv statale dell’Iran, il governo ha deciso di disconnettere Internet sulle
reti cellulari e non riuscivo a parlare con nessuno».
Nei giorni successivi alcuni amici di Farzåd riescono a connettersi, lo
aggiornano sui bombardamenti in tempo reale, lo mettono in contatto con i
genitori, portano informazioni sulla guerra e sulle condizioni di salute dei
parenti anche ad altri amici residenti all’estero. Farzåd, dal suo appartamento
rovente a San Lorenzo, attende notizie giorno e notte.
«L’ultima notte prima del cessate il fuoco è stata dura. In quelle ore c’è stato
il più pesante attacco delle forze armate di Israele sulle città iraniane. Gli
amici a Teheran riportavano le notizie dei bombardamenti e della difesa aerea da
parte delle forze iraniane in diretta sulla nostra chat. Mi hanno raccontato di
gente traumatizzata dagli attacchi, a molti ancora sembra di sentire i boati
dopo quella notte».
Dopo due giorni dalla tregua la connessione è stata riallacciata parzialmente.
Farzåd passa ore intere a parlare e scrivere con gli amici in Iran, «i cittadini
parlano di guerra ovunque, tutto il tempo; dicono che non è ancora finita,
aspettano un’imminente minaccia; sono tutti d’accordo sull’idea che ci sarà un
nuovo attacco da parte di Israele, ma ovviamente non sanno quando avverrà».
Li chiamano i figli della rivoluzione, i figli della guerra. Sono le persone
come Farzåd, nate a ridosso della rivoluzione del 1979 che ha rovesciato la
monarchia. Sono gli stessi che sono scesi in piazza nel 2009, cantando a gran
voce siamo la generazione della guerra e combattiamo fino alla fine contro lo
Stato. «Storicamente accade che dopo un tentativo di rovesciamento di un regime,
sia che si tratti di un colpo di stato sia che si tratti di un intervento
militare di un altro paese, quando non si raggiunge il risultato desiderato, il
sistema diventa ancora più aggressivo nei confronti di chi lo critica. Per ora
hanno arrestato più di settecento persone e ne hanno impiccate altre sei per
spionaggio. Un esempio recente di una situazione simile lo abbiamo visto in
Turchia, dopo il colpo di stato fallito nel 2016, che ha portato all’arresto di
tanti e alla persecuzione di vari gruppi della società turca».
I genitori di Farzåd, entrambi militanti comunisti, hanno avuto un ruolo attivo
nella rivoluzione del 1979, prima che si affermasse la componente islamista. Per
questo motivo non hanno più potuto esercitare la loro professione (erano due
insegnanti), per questa ragione la loro vita ha subito una brusca virata
insperata. Racconto a Farzåd di avere parlato con altre persone di origine
iraniana qui a Roma, alcuni si sono detti felici dell’attacco. «Nessuno dei miei
amici ha gioito degli attacchi sulle città e sulle infrastrutture civili del
paese. Anche i dissidenti in Iran non sono felici. Certo, sono felici i
dissidenti monarchici che vivono nella calma e nella tranquillità delle società
occidentali. Loro sì che sono contenti, credevano e speravano che con questi
attacchi finisse la teocrazia. Chiaramente questa loro speranza non coincide con
la realtà dei fatti. Questa gente vive in una bolla, in un’altra realtà. Chi si
trova in Iran è abbastanza intelligente da vedere quello che è successo. Queste
persone hanno visto già questo spettacolo in Iraq, in Libia e in Siria. Il
governo genocida di Israele non può essere il salvatore del popolo iraniano.
Questo fatto è chiaro ai cittadini iraniani all’interno del paese, ma non ai
monarchici all’estero. Il cancelliere tedesco che afferma che “Israel is doing
our dirty job” probabilmente dovrebbe pensare alle conseguenze di questo dirty
job per l’Europa». Farzåd fa l’esempio della Siria e dell’Iraq e di quello che è
accaduto dopo la guerra civile causata dall’intervento militare occidentale.
Trenta anni fa, esattamente il 3 luglio 1995, Alexander Langer si impiccava a un
albero di albicocco, alle porte di Firenze. Langer amava spesso ripetere che
tutto il suo lavoro, da politico, da scrittore, da sociologo, da attivista,
aveva un obiettivo: “provare a fare pace tra gli uomini e pace con il creato”.
Nello sforzo di tendere verso questa meta, promuoveva trasformazioni ecologiche
e trasformazioni sociali con radici ben solide nella non violenza e nel rifiuto
verso ogni divisione etnica. Ho pensato a lui dopo avere incontrato Farzåd.
Perché la sua storia è impastata di distorsioni, è una biografia che fa i conti
spietati con un sistema in cui crisi ambientale e guerre si intrecciano
indissolubilmente. E poi perché la vicenda di Farzåd costituisce un prezioso
tassello di un mosaico della Storia, di quelli che Langer avrebbe saputo
mirabilmente raccontare e appuntare sulla sua immancabile agendina.
Salutiamo Farzåd, lo lasciamo alle sue consegne in bicicletta tra le bollenti
strade di Roma e alle sue conversazioni con gli amici in Iran. E nella mente
rileggo i biglietti lasciati da Langer quel 3 luglio 1995. L’ ultimo è
un’esortazione: “Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”. (marzia
coronati)
Comunicato-Palestina-RSU-Leonardo-siti-Varese
Nel mese di giugno di un anno fa il Governo vallone e quello federale belga
hanno vietato alla Challenge Airlines BE di continuare il trasferimento di armi,
materiale bellico e detonatori allo Stato israeliano attraverso il suo hub di
Liegi-Bierset. Controllata dalla compagnia cargo internazionale Challenge Group,
presente con linee aeree e divisioni nella logistica, gestione e servizi
aeroportuali in Belgio, Israele e Malta, gli aerei della Challenge Airlines BE
facevano spola dagli Stati Uniti a Israele usando l’aeroporto commerciale di
Liegi-Bierset come scalo intermedio.
Società civile, opinione pubblica, sindacati
Da tempo molte organizzazioni non governative belghe si erano scagliate contro
le autorità del proprio paese affinché fosse rispettato il Trattato sul
commercio delle armi del 2013 firmato e ratificato anche dal loro paese.
Trattato internazionale che vieta formalmente l’autorizzazione di trasferimenti
di armi verso paesi che le stiano utilizzando, come nel caso di Israele, per
«commettere genocidi, crimini contro l’umanità o attacchi contro civili».
La pressione della società civile e dell’opinione pubblica, insieme alla
decisione di alcuni sindacati del trasporto aereo di non far caricare più dai
loro iscritti materiale militare destinato allo Stato israeliano, ha spinto il
Governo federale belga ad agire per vietare tutti i trasferimenti di armi a
Israele. Inoltre, il Governo vallone ha adottato un decreto che applica il
divieto di trasportare armi verso Israele anche alle merci, provenienti da altri
paesi, in transito senza trasbordo nel proprio territorio.
È quanto previsto anche in Italia dalla Legge 185/90, la quale regola il
controllo non solo dell’esportazione e importazione di materiali d’armamento, ma
anche del loro transito sul territorio. Norma di legge solitamente disattesa e
inapplicata dalle autorità italiane, tutte le volte che dai nostri porti
transitano navi cargo e porta–container trasportando armamenti verso paesi in
guerra e/o che non rispettano i diritti umani fondamentali.
La maggior parte dei materiali di armamento destinati a Israele (compreso il
munizionamento e i pezzi di ricambio) provengono dagli Stati Uniti (circa due
terzi). In termini militari, quindi, il collegamento con gli Stati Uniti, per
via aerea e marittima è parte della catena logistica vitale per le azioni di
guerra dell’Israel Defense Forces.
Il resto delle forniture di armamenti e di munizionamento (l’altro terzo)
proviene prevalentemente dalla Germania, ma anche (seppure in piccola parte) da
Italia e Gran Bretagna, da India e Australia.
Altri aeroporti civili europei sono, pertanto, utilizzati come scali intermedi
per gli aerei militari americani e di compagnie cargo, o come origine di
spedizioni di armamenti dagli stessi paesi europei. Se si vuole, quindi, attuare
un efficace embargo di armi verso Israele – per mettere fine allo sterminio del
popolo palestinese – bisogna intervenire anche sul “transito senza trasbordo”
dagli aeroporti ma, soprattutto, dai porti europei e mediterranei.
E, in assenza di scelte e di azioni coraggiose da parte dei Governi, è
essenziale l’azione diretta della società civile, specie se a promuoverla sono i
sindacati dei lavoratori. Come l’azione di boicottaggio attuata nel porto di
Tangeri Med, lo scorso mese di aprile, nei confronti della nave Nexoe della
compagnia danese Maersk. La nave, in viaggio da alcune settimane, proveniva dal
porto di Houston in Texas e trasportava componenti e pezzi di ricambio destinati
ai caccia–bombardieri F–35 utilizzati dall’aviazione israeliana contro la
popolazione civile a Gaza.
La nave aveva già incontrato diverse proteste durante gli attracchi nei porti
lungo la costa atlantica americana e, in prossimità del nostro continente, non
avendo avuto l’autorizzazione ad attraccare nei porti atlantici della Spagna,
aveva proseguito verso gli scali del Marocco.
In questo paese a lanciare la mobilitazione è stato il sindacato dei portuali,
affiliato alla principale confederazione sindacale marocchina, la UMT, chiedendo
alle autorità di impedire alla nave di attraccare a Casablanca o a Tangeri Med e
affermando in un comunicato che «chiunque faciliti il passaggio di questa nave è
un complice diretto della guerra genocida contro il popolo palestinese».
Il boicottaggio della Maersk
Raccogliendo l’appello del sindacato, migliaia di persone si sono mobilitate per
le strade di Rabat, Tangeri e Casablanca, con l’obiettivo di impedire l’attracco
della Nexoe Maersk. All’arrivo della nave a Tangeri Med, il porto è stato
raggiunto da oltre 1.500 persone e il 90% dei lavoratori portuali scesi in
sciopero per due giorni ha impedito di avviare le gru e di fornire i servizi
essenziali alla nave.
Le proteste contro la nave danese fanno parte della campagna Mask off Maersk e
del più ampio movimento di boicottaggio contro l’invio di armamenti a Israele,
tra cui i componenti per i caccia–bombardieri F-35. Diversi rapporti provano
infatti come le forze armate israeliane abbiano usato gli F-35 per attaccare
Gaza. Tra gli episodi più noti c’è quello del luglio 2024, quando un F-35 è
stato utilizzato per bombardare la “zona sicura” di Al-Mawasi, a Khan Younis,
uccidendo 90 palestinesi.
Per tale motivo, oltre 230 organizzazioni, tra cui Amnesty International, hanno
chiesto, con una lettera congiunta ai Governi coinvolti nel programma del
caccia–bombardiere prodotto dall’americana Lockeed Martin, tra cui l’Italia, di
interrompere immediatamente il trasferimento di armi a Israele, incluso tutto
ciò che concerne gli F-35.
Il Trattato internazionale sul commercio di armi – ATT, prevede l’interruzione
del commercio diretto e indiretto di attrezzature e di tecnologie militari,
comprese parti e componenti, «qualora vi sia il rischio concreto che tali
attrezzature e tecnologie possano essere utilizzate per commettere o facilitare
una grave violazione del diritto umanitario internazionale o del diritto
internazionale dei diritti umani».
L’azione nei confronti di Maersk, il secondo gruppo armatoriale al mondo, è
diventata un caso politico e mediatico quando, all’ultima assemblea generale dei
soci nel marzo 2025, i vertici aziendali hanno dovuto difendersi e far votare
contro la duplice richiesta – presentata da alcuni azionisti – di mettere al
bando il trasporto di armi in Israele e di fare chiarezza sul proprio operato in
ordine al rispetto dei diritti umani.
Gli episodi di protesta e di boicottaggio che hanno coinvolto la Maersk sono,
cronologicamente, solo gli ultimi che hanno visto protagonisti i lavoratori
portuali e i loro sindacati in azioni dirette contro il trasferimento di armi in
Israele (e verso altri paesi in guerra). Sulla base del lavoro di ricerca e di
monitoraggio sviluppato dall’Osservatorio sulle armi nei porti europei e
mediterranei – The Weapon Watch, con sede a Genova, possiamo elencare gli
episodi più importanti (sovente del tutto spontanei) registrati negli ultimi 5
anni.
La mobilitazione dei sindacati
Il primo si verifica nel maggio 2021 nei porti di Genova, Livorno e Napoli dove
i lavoratori portuali aderenti al sindacato USB, allertati da una segnalazione
di The Weapon Watch sul trasporto di missili e di esplosivi destinati a Israele,
effettuato da una nave della compagnia SIM, si sono mobilitati dichiarando
sciopero, allo scopo di ostacolare/impedire le operazioni di scarico e carico.
Il secondo, nel giugno 2021, nel porto di Ravenna. I sindacati dei portuali,
organizzati nelle federazioni dei trasporti di CGIL-CISL-UIL, proclamano lo
sciopero generale per il giorno nel quale sarebbe dovuta salpare la nave Asiatic
Liberty carica di armamenti diretta dal porto romagnolo a quello di Ashdod, in
Israele. La determinazione dei portuali ravennati, con questa azione di
boicottaggio, ottiene che l’armatore rinunci al carico e al trasferimento di
armi a Israele.
Ma è, soprattutto, dopo l’appello dei sindacati palestinesi del 16 ottobre 2023
e della mobilitazione internazionale Ceasefire In Gaza Now!, che si moltiplicano
nel mondo le azioni dirette dei lavoratori per fermare le forniture militari a
Israele o, quantomeno, per intralciare la catena logistica che alimenta le
guerre e, in questo caso specifico, lo sterminio di civili palestinesi a Gaza.
Il primo sindacato a raccogliere l’appello è quello dei lavoratori portuali del
Pireo (Enedep) in Grecia, che si mobilita per l’arrivo della nave
porta-container Marla Bull, diretta al porto di Haifa. La nave, battente
bandiera delle Isole Marshall, deve imbarcare un container contenente 21
tonnellate di munizioni, proveniente dalla Macedonia del Nord e destinato a
Israele. I portuali, a cui si sono uniti anche i lavoratori del settore
navalmeccanico e gli studenti, bloccano il container e costringono la nave a
partire senza il “carico di morte”.
Pochi giorni dopo nel Kent in Gran Bretagna, una filiale del gruppo israeliano
Elbit System, la Instro Precision Ltd che produce sensori elettro-ottici per
droni, è bloccata per diverse ore da un gruppo di attivisti, insegnanti e
lavoratori appartenenti ai sindacati Unite, Neu, Ucu, Bma e Bfawu.
Negli USA il 3 novembre 2023 nel porto californiano di Oakland, alcune centinaia
di attivisti pro-Palestina e portuali bloccano la partenza della nave Cape
Orlando per il porto di Tacoma (nella costa nord-occidentale degli USA), dove
avrebbe dovuto caricare armamenti destinati Israele, provenienti dalla grande
base militare di Lewis-McChord. La stessa nave è bloccata nuovamente anche nel
porto di Tacoma, in questo caso dalle piroghe dei nativi del popolo Salish che
abitano nella regione.
In Belgio, nello stesso mese di novembre, la confederazione sindacale cristiana
(ACV) e la sua federazione dei trasporti (ACV-Transcom), insieme alle
federazioni dei trasporti e dei tecnici e quadri (BTB e BBTK) della
confederazione sindacale socialista, decidono che i propri iscritti incroceranno
le braccia di fronte all’invio di armi e di munizioni destinate a Israele, a
partire da quelle prodotte in Germania e caricate nei porti fiamminghi.
In Spagna, una simile decisione è presa dal sindacato dei lavoratori portuali di
Barcellona. Nel frattempo, in Australia le azioni degli attivisti e dei
sindacalisti portuali di Melbourne e Sydney iniziano a bloccare i tir e le navi
della compagnia marittima israeliana ZIM. Con questa azione diretta si accendono
i riflettori sull’invio di armi australiane a Israele fino a quel momento
occultato.
Azioni di solidarietà con i lavoratori palestinesi finalizzate a fermare il
trasferimento di armi a Israele arrivano, inoltre, dal sindacato francese CGT,
così come dal coordinamento dei sindacati greci PAME e dal sindacato turco dei
trasporti Nakliyat Is affiliato alla confederazione sindacale DISK.
E in Italia?
In Italia il sindacato USB mobilita i suoi iscritti in solidarietà con il popolo
palestinese, promuovendo il 10 novembre 2023, una giornata nazionale di lotta,
alla quale aderiscono altri sindacati di base e gruppi di attivisti e di
associazioni pacifiste, con i blocchi dei varchi portuali a Genova e a Salerno.
Nel capoluogo ligure, oltre i presidi e i picchetti a San Benigno e a Ponte
Etiopia, un corteo di manifestanti raggiunge la sede della compagnia marittima
israeliana SIM dove si inscena un sit-in di protesta.
Lo stesso giorno, centinaia di sindacalisti nel Regno Unito, con lo slogan
“Lavoratori per una Palestina libera”, bloccano l’ingresso alla fabbrica BAE
Systems di Rochester, che fornisce componenti per gli F-35 utilizzati nei
bombardamenti di Gaza.
Nel dicembre 2023 è la volta di Ravenna, dove centinaia di persone partecipano
all’iniziativa contro il traffico di armi davanti all’Autorità portuale,
denunciando il passaggio di una nave della ZIM dallo scalo romagnolo
trasportando materiali d’armamento verso Israele.
Che il porto di Ravenna fosse diventato uno scalo opaco per il trasferimento di
armi trova conferma nei mesi scorsi, quando il Gip del tribunale romagnolo
convalida il sequestro d’urgenza effettuato dall’Agenzia delle Dogane a inizio
febbraio 2025 di un carico di 14 tonnellate di componenti di armi diretto a
Israele. In tutto ottocento pezzi metallici classificati come materiale
d’armamento, prodotti dalla ditta Valforge di Lecco e diretti all’azienda Israel
Military Industries Ltd (IMI), principale produttore israeliano di armi. La
ditta lecchese, specializzata in fucina e stampa di articoli metallici, pur non
avendo l’autorizzazione a esportare il materiale bellico, né l’iscrizione nel
Registro nazionale delle imprese istituito presso il ministero della Difesa,
rientrava da tempo nella catena di fornitura della IMI.
Dal febbraio del 2024, anche in India, il sindacato dei lavoratori dei trasporti
marittimi che organizza migliaia di lavoratori portuali decide di rifiutarsi di
caricare o di scaricare carichi di armi provenienti e/o destinati a Israele.
Nel maggio 2024 a Venezia centinaia di attivisti protestano contro la nave
Bokrum, battente bandiera delle Barbados, contenente armamenti e diretta verso
Israele, senza che le autorità italiane abbiano esercitato effettivi controlli
dei carichi e garantito il rispetto delle leggi vigenti e dei trattati
internazionali che regolano il trasferimento di armi.
Non si ferma la solidarietà internazionale
Affinché il diritto internazionale e le decisioni ONU siano rispettati dai
singoli Stati, parte, nell’estate dell’anno scorso, la campagna internazionale
#blocktheboat promossa da Amnesty e da un’ampia coalizione di organizzazioni per
i diritti umani.
A fine agosto la nave MV Kathrin, di proprietà tedesca e battente bandiera
portoghese, parte dal Vietnam con un carico di 8 container di esplosivi
Hexogen/RDX (componente chiave per la costruzione di missili) con destinazione
Israele e altri 60 container di esplosivi TNT con altre destinazioni.
La Namibia rifiuta l’attracco della nave nei suoi porti e la costringe a vagare
in acque internazionali, fino ad arrivare nel Mediterraneo. Qui la nave si
dirige verso il porto di Capodistria in Slovenia per scaricare parte del carico
destinato a Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. La Slovenia gli nega
l’attracco, dopo una mobilitazione dell’opinione pubblica.
In Italia l’appello del CALP di Genova è raccolto dalla USB e da altri sindacati
di base che, prontamente, si mobilitano per impedire l’attracco della nave nei
porti adriatici e far rispettare l’ordinanza che vieta la circolazione nei porti
del Golfo di Trieste di materiale bellico.
La MV Kathrin è costretta a cambiar rotta e a dirigersi verso Malta, dove non
riuscirà ad attraccare. Da quel momento sparisce dai radar. Ricompare a fine
ottobre ad Alessandria d’Egitto, dove attracca in zona militare. Lì scarica
tutto il suo carico. Formalmente non si sa nulla degli esplosivi diretti a
Israele. Sappiamo solo che lo stesso giorno, dal porto egiziano è partita
un’altra nave diretta al porto israeliano di Ashdod. È curiosa, anche in questo
caso, la complicità con il governo israeliano dei governi arabi che controllano
le 14 fazioni con cui si dividono i palestinesi.
Viceversa, non si ferma la solidarietà internazionale. E, nel mese di gennaio di
quest’anno, anche il sindacato svedese dei portuali notifica all’associazione
imprenditoriale Swedish Ports il blocco di tutti gli scambi commerciali militari
con Israele durante la guerra in corso a Gaza. La decisione di imporre il blocco
è stata presa dai lavoratori iscritti al sindacato dei portuali con una
votazione prima di Natale.
In conseguenza del blocco, Erik Helgeson, da 20 anni lavoratore portuale a
Göteborg, vicepresidente nazionale e portavoce del sindacato, è stato licenziato
a febbraio per ragioni di “sicurezza nazionale” dalla sua azienda DFDS, la
società danese di spedizioni e logistica internazionale proprietaria della
maggior parte del terminal ro-ro di Göteborg.
Questo caso dimostra che l’azione diretta dei sindacati dei lavoratori e degli
attivisti, al fine di fermare qualsiasi trasferimento di armamenti verso
Israele, ha una straordinaria valenza etica e di testimonianza. Ma al contempo
sappiamo che l’embargo militare verso Israele è anche e, soprattutto, un obbligo
giuridico-legale, che ricade innanzitutto sulle spalle degli Stati, di
organizzazioni regionali come l’UE, l’OIC (Organisation of Islamic Cooperation)
ecc., delle aziende e delle istituzioni accademiche. Se non attuano le misure
necessarie per l’embargo militare, oltre a essere responsabili di violazione del
diritto internazionale, saranno corresponsabili per il loro apporto ai crimini
commessi da Israele.
Post-fazione
Avevo appena finito di scrivere e di inviare questo articolo alla redazione di
SettimanaNews, che arriva la notizia dell’azione di boicottaggio deciso dal
sindacato dei portuali di Marsiglia-Fos, aderente alla CGT francese. Giovedì 5
giugno il cargo israeliano «Contship Era» della compagnia ZIM avrebbe dovuto
caricare nel porto di Fos sur Mer, 14 tonnellate di pezzi di ricambio per fucili
mitragliatori e munizioni fabbricate dall’azienda francese Eurolinks e destinate
all’azienda di armamenti Israel Military Industries, controllata da Elbit
Systems, la principale industria israeliana per fatturato militare (27^ al mondo
nel 2023). L’azione diretta dei lavoratori portuali marsigliesi, che prontamente
si erano coordinati con gli amici portuali di Genova, ha avuto successo e il
“carico di morte” non è stato imbarcato.
Ripartita da Marsiglia, in ritardo sui tempi di navigazione previsti, la nave
della ZIM destinata al porto israeliano di Haifa, ha in programma due scali
tecnici nei porti di Genova e Salerno. Sin dal 5 giugno, coordinandosi con i
portuali francesi, i sindacati portuali di USB e SI-Cobas hanno chiamato
lavoratori e cittadinanza a presidiare i moli di questi due porti italiani, nei
giorni di arrivo della nave (il 7 giugno a Genova e il giorno dopo a Salerno).
Il fine di questa mobilitazione, pienamente riuscita, era assicurare che i
container bloccati a Marsiglia non fossero imbarcati a Genova e che la nave non
trasportasse alcun materiale di armamento per l’esercito israeliano.
I portuali francesi della Cgt di Marsiglia hanno scritto un nuovo capitolo
nell’atlante europeo delle resistenze contro il commercio di armamenti. L’azione
dei lavoratori francesi non è stata improvvisata. A Marsiglia come a Genova, ad
Anversa come nel Pireo, a Barcellona come a Tangeri i portuali sono diventati,
come ha scritto Giulio Cavalli sul quotidiano Domani, i custodi materiali delle
norme nazionali e internazionali che i governi disattendono. In Italia la legge
185/90 vieta esplicitamente l’esportazione e il transito di armi verso Paesi
coinvolti in conflitti armati o responsabili di gravi violazioni dei diritti
umani, eppure i flussi di armamenti non si sono mai fermati. E nel vuoto di
legalità si inserisce l’azione dei portuali. È una catena di controllo dal basso
che parte dalle banchine e costringe il potere politico a inseguire.
Una lotta dal respiro europeo e mediterraneo, frutto di un’intelligence operaia.
Una rete d’informazione e attivismo che collega i portuali con media
investigativi e ong, tra cui noi di The Weapon Watch. Una rete che rappresenta
oggi una delle più avanzate forme di controllo democratico dal basso sui
traffici bellici.
Gianni Alioti
Redazione
Redazione
QUEL CHE NON SAPREMO PIÙ SE MODIFICHERANNO LA LEGGE 185/90
Nella primavera del 2024 abbiamo pubblicato “a puntate” una serie di spunti informativi tratti dalla Relazione 2024, presentata al Parlamento nel marzo di quell’anno. Qui riproponiamo la breve introduzione ai cinque articoli pubblicati, con i relativi rimandi per poterli leggere.
Il governo Meloni si prepara a snaturare la Legge 185 del 1990, quella che
impone il controllo delle attività di trasferimento degli armamenti concernenti
l’Italia. La 185 prevede, tra l’altro, la pubblicazione di una Relazione annuale
al Parlamento. Quella uscita pochi giorni fa potrebbe dunque essere l’ultima
Relazione contenente tutti gli elementi che – ancorché pubblicati in una forma
di proposito difficile da leggere – hanno sino a oggi permesso di dar conto
all’opinione pubblica dei trasferimenti di armi che riguardano il nostro paese.
La trasparenza del commercio internazionale ha sempre incontrato l’aperta
contrarietà dei fabbricanti/esportatori di armi, grandi e piccoli.
Preferirebbero condurre nella segretezza affari che condizionano pesantemente la
politica estera di ogni paese, il sostegno alle guerre in corso e ai dittatori
più impresentabili, la violazione dei trattati di regolazione e non
proliferazione, la protezione umanitaria delle popolazioni civili coinvolte.
Curti Costruzioni Meccaniche Spa (1a parte)
agenzia industrie difesa
Curti Costruzioni Meccaniche Spa (2a parte)
Una specialità lecchese: macchine per armi
Importare da Israele, esportare armi ad Israele
Lo scenario aperto dall’attacco di Israele all’Iran è dei più temibili, e la
posizione dell’Italia tra gli alleati di Israele è tra le più esposte.
Il parlamento non ha raccolto le proteste e le sollecitazioni della società
civile contro il tacito rinnovo per altri cinque anni del memorandum militare
segreto tra Italia e Israele, quindi tacitamente rinnovatosi lo scorso 8 giugno.
Da parte sua, il ministro della Difesa Guido Crosetto durante il question time
alla Camera dello scorso 21 maggio, ha affermato che il governo non sottopone le
importazioni militari da Israele a «una valutazione di merito sulla provenienza
dei materiali ma [al]la valutazione sul loro utilizzo finale e sull’impatto
potenziale sulla difesa e sicurezza dell’Italia». Ha ammesso così che queste
importazioni sono essenziali per la nostra difesa, sempre più dipendente
dell’industria militare di Tel Aviv.
I dati Istat confermano la crescente dipendenza dalle importazioni di un alleato
militare che negli ultimi venti mesi ha aperto sette fronti di guerra (Gaza,
Cisgiordania, Iran, Libano, Siria, Iraq, Yemen) e che un anno fa ha sparato
sulle postazioni italiane Unifil in Libano.
Nel 2022 l’Italia ha importato armi e munizioni militari (codice 9301) per 24
milioni di euro, nel 2023 per 16,5 milioni, nel 2024 diventati 32 milioni (+95%
in un anno). Nei soli primi due mesi del 2025 ha importato per 21,9 milioni: se
le consegne manterranno questo ritmo, alla fine dell’anno l’Italia potrebbe aver
importato armi da Israele per oltre 130 milioni di euro.
Anche in un altro settore, quello dell’industria aerospaziale (codice CL303), la
bilancia commerciale è sempre più favorevole a Israele, in attivo negli ultimi
tre anni, anche se nel primo trimestre 2025 l’export italiano è tornato a
crescere. Preoccupante che aziende italiane nel 2024 abbiano fornito a Israele
quantità consistenti di esplosivi (codice SH2 36).
L’inchiesta del sito francese «Disclose» pubblicata nel marzo 2025 ha rivelato
una fornitura a Israele di accessori per mitragliatrici leggere che non può
essere considerata “solamente difensiva”, come affermato dal governo francese.
Contro la spediizione del carica da Marsiglia-Fos si sono mobilitati i portuali
francesi e italiani.
Si sta formando una rete spontanea per fermare il traffico di armi verso
Israele. Da Anversa si segnala la spedizione di due container di cuscinetti a
rulli conici, da parte della società Timken France, filiale francese della
multinazionale USA leader del settore. Destinataria l’industria israeliana Ashot
Ashkelon, del gruppo IMI Israel Military Industries, specializzata in veicoli da
guerra terrestri.
Le navi coinvolte nel trasporto sono la «MSC Laura» e la «ZIM Vietnam».
La prima è arrivata ad Anversa l’1 giugno, ed è ripartita il 6 giugno con il suo
carico. È attesa in queste ore a Port Said, ultima tappa prima di toccare un
porto israeliano.
L’altro container non è stato caricato sulla «ZIM Vietnam» perché bloccata dalle
autorità fiamminghe, su sollecitazione della ong belga Vredesactie che ha potuto
vedere i documenti di trasporto e denunciare il transito di armamenti. Secondo
lo spedizioniere, le merci dovrebbero comunque partire per Israele il 17 giugno,
imbarcate probabilmente sulla «MSC Mombasa» in arrivo da Amburgo e diretta ad
Ashdod.
La collaborazione tra MSC e ZIM è il frutto secondario della riorganizzazione
dello shipping globale conseguente alla fine della decennale alleanza “2M” tra
MSC e Maesrk, annunciata nel 2023 e formalmente cessata nel gennaio 2025. È
stata firmata nel settembre 2024 e durerà tre anni, e include ovviamente gli
accordi di vessel sharing e slot charter.
L’azienda Ashtot Ashkelon è la stessa al centro dell’inchiesta della procura di
Ravenna, quale destinataria di 14 tonnellate di forgiati fabbricati in Italia ma
presentati in dogana quali pezzi metallici, senza autorizzazione all’export,
anche se Ashtot Ashkelon è certamente un’industria militare tra i più importanti
fornitori di armamenti dell’esercito di Tel Aviv.
Riceviamo e diffondiamo:
Negli scorsi giorni abbiamo avuto notizia di tre “decreti penali di condanna”
per la partecipazione al bel presidio dell’8 febbraio 2025 a Forlì contro l’ex
ddl 1660, detto “sicurezza”, poi trasformato dal governo in Decreto Legge ed
approvato definitivamente lo scorso 4 giugno.
Il presidio in pieno centro città, con la presa bene di circa settanta persone
si è trasformato in un corteo spontaneo; poca cosa di fronte all’ampiezza dello
sfacelo che ci troviamo di fronte ma di certo qualcosa di bello e inaspettato
per la sonnolenta Forlì, che ha interrotto la noia e la quiete borghese della
città. Crediamo sia questo che deve aver infastidito i tutori dell’ordine, che
infatti hanno provveduto a recapitare i decreti di condanna a tre compagn*.
I rapporti della digos indicano le tre persone, tra la settantina di presenti,
come promotrici di una manifestazione che non ha rispettato il preavviso alla
questura, obbligo peraltro introdotto dall’ordinamento fascista. Gli é
addebitato l’aver preso pubblicamente parola e/o avere esposto uno striscione
contro il decreto sicurezza, che in quel momento era in discussione in
parlamento per la successiva autorizzazione.
Queste misure repressive, che si vanno ad aggiungere alle tante e simili piovute
contro chi da nord a sud ha partecipato alle proteste contro il decreto
liberticida del governo, giungono in coincidenza della sua conversione in legge
che rappresenta un atto di guerra al dissenso interno e alla marginalità sociale
in un’epoca di guerra globale. E suonano come tentativi di scoraggiare le
resistenze dal basso.
Siamo nemiche e nemici di quest’ordine sociale della guerra e della morte, e
veniamo trattat* di conseguenza.
Di fronte a compagn* seppellit* da decenni di galera, ribelli pestat* nelle
questure, internat* in inferni amministrativi come i CPR o i “centri d’igiene
mentale”, tre decreti penali sono quasi un nonnulla, ma vogliamo con queste
poche note esprimere solidarietà alle tre persone coinvolte, ribadendo che è
fondamentale, anche di fronte all’approvazione del “decreto sicurezza” e a
questi tentativi continui di zittire il dissenso, continuare a mobilitarci
contro la repressione e mettere in pratica la libertà.
Nemic* dell’autorità