L’osservatorio the Weapon Watch ha raccolto, in questi ultimi giorni, una serie
di notizie e informazioni che testimoniano l’ingresso di forza nella vita
quotidiana degli italiani della guerra, dei suoi strumenti e delle sue priorità.
1° EPISODIO
A Genova Pontedecimo, durante la giornata del 19 novembre 2025, quattro
autoarticolati che trasportavano ciascuno un cannone FH-70 155/39 sono rimasti
imbottigliati nel traffico della Val Polcevera, reso caotico dal presidio a
oltranza dei lavoratori dell’ex Ilva. I camion provenivano dal porto di Genova,
scortati dai carabinieri.
Uno degli autoarticolati bloccati in via Natale Gallino a Pontedecimo, la sera
del 19 novembre 2025.
Ben visibile l’insegna “Noltrans” su un secondo autoarticolato a Pontedecimo, in
coincidenza con il presidio dei lavoratori dell’ex Ilva.
Altri autoarticolati sono stati visti nella stessa giornata e in quella
successiva lungo l’autostrada A10 Genova-Ventimiglia, sempre trasportando
cannoni FH-70, forse diretti ai porti di Savona o di Vado Ligure.
L’autoarticolato fotografato sull’autostrada A10 fa parte della flotta della
ditta Franzoni Sergio Autotrasporti di Bedizzole (BS).
Sul pianale, ben visibile, un cannone FH-70.
È probabile che il movimento di questi pezzi d’artiglieria avvistati lungo le
strade liguri sia legato al programma di aggiornamento di mezzavita per conto
dell’Esercito dei cannoni FH-70 155/39. L’upgrade riguarda 90 pezzi sui 164
acquistati dall’Esercito, con un contratto che ha come capocommessa Leonardo e
principale esecutrice la ARIS Applicazioni Rielaborazioni Impianti Speciali Srl
con sede a Lombardore, provincia di Torino. Di qui l’afflusso dei pezzi via mare
verso lo stabilimento di ARIS, azienda che già da qualche anno ha sviluppato per
l’FH-70 – che può effettuare brevi spostamenti in autonomia – una nuova APU
(Auxiliary Power Unit) diesel, in sostituzione del vecchio motore a benzina VW
‘Maggiolino’.
Il cannone/obice FH-70 155/39 è un’arma pesante (tra 8 e 10 tonnellate)
semovente o a traino meccanico, progettata negli anni Settanta in collaborazione
anglo-italo-tedesca e prodotto dalla ex Vickers (poi BAE Systems), da
Rheinmetall e da OTO-Melara (poi Leonardo), oltre che in licenza dalla Japan
Steel Works. Può sparare proiettili calibro 155 di tutti i tipi, fumogeni,
illuminanti, incendiari, di tipo HERA (high-explosive rocket-assisted) e Vulcano
(con gittata fino a 55 km). È in servizio in una dozzina di eserciti, e ha una
consolidata esperienza sui campi di battaglia, dalla guerra civile in Libano
all’attuale in Ucraina, dove dall’Italia sono stati inviati almeno dieci pezzi
con i primi pacchetti di aiuti, nella primavera 2022. L’aggiornamento in corso
riguarda anche la sostituzione dei congegni di puntamento ottici, contenenti
trizio, con il sistema digitale LINAPS (Laser Inertial Navigation Artillery
Pointing System) di Leonardo UK.
ARIS Applicazioni Rielaborazioni Impianti Speciali Srl è azienda fondata nel
1946, da sempre impegnata nella manutenzione, riparazione e aggiornamento dei
mezzi militari, prima a S. Maurizio Canavese, poi dal 1969 a Lombardore, dove
dispone di stabilimento con 30.000 m² di aree coperte, tra zone produttive,
magazzini, uffici e aree di prova, oltre a un circuito esterno per la
sperimentazione ricavato dall’ex storico poligono militare di Ciriè, oggi
Riserva Naturale della Vauda. Sebbene abbia registrato bilanci in decremento
negli ultimi anni (24 M € nel 2022, 19 nel 2023, 14 nel 2024), ha mantenuto
stabile la forza lavoro (60-65 dipendenti). ARIS è controllata dalla famiglia
Bellezza Quater attraverso alcune società semplici, mentre Silvia e Paolo
Bellezza Quater sono direttamente coinvolti nello spin-off Nimbus Srl, società
entrata nel settore dei droni già nel 2006 soprattutto con applicazioni
industriali e risultati rimasti sinora modesti.
Una colonna di autoarticolati trasporta obici e carri armati per conto
dell’Esercito italiano. Dalla Fotogallery online della ditta Franzoni Sergio
Autotrasporti.
Un obice PzH 2000 su un autoarticolato della ditta Franzoni Sergio Autrasporti.
Dalla Fotogallery online della stessa Franzoni Sergio Autotrasporti Srl.
Almeno due aziende di autotrasporto si sono notate sinora nella movimentazione
in corso dei cannoni FH-70 per conto dell’Esercito italiano. Noltrans Srl è una
piccola azienda con sede a Battipaglia (SA) con una quindicina di dipendenti
fissi, il cui fatturato si è gonfiato a partire dal 2022 quando è riuscita a
inserirsi come “azienda ausiliaria” del colosso logistico danese DSV che
fornisce in esclusiva le spedizioni merci via gomma per il Ministero della
difesa. Più strutturata è la Franzoni Sergio Autotrasporti Srl di Bedizzole
(BS), 32 dipendenti fissi e un fatturato superiore agli 11 milioni di euro
(2024), con una flotta mono-brand Mercedes integralmente idonea al trasporto ADR
(cioè di merci pericolose via strada). La famiglia Franzoni opera nel settore
dal 1946 e si è specializzata nei trasporti militari dagli anni Settanta. La
società si è fatta notare recentemente (gennaio 2025) per essersi aggiudicata un
appalto del Ministero della difesa per un importo complessivo di 2 milioni di €
per 24 mesi (oltre a 500.000 € per ulteriori 6 mesi di proroga) per servizi di
trasporto/spedizione in ambito nazionale e internazionale di esplosivi e
munizioni classe 1 e materiali soggetti a normativa ADR.
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(disegno di diego miedo)
Ho ascoltato il dibattito televisivo di martedì 18 novembre tra i due candidati
delle principali coalizioni nelle ormai imminenti elezioni regionali della
Campania e vorrei soffermarmi su un passaggio cruciale del confronto
Fico-Cirielli. Alla domanda della conduttrice sull’emergenza sociale in
Campania, i candidati non hanno di fatto dato risposta. Le loro attenzioni si
sono focalizzate su singoli settori, oggi e da molto tempo in stato di
sofferenza nella regione (trasporti, sanità, lavoro), ma né Fico né Cirielli
hanno accennato a una visione d’insieme.
È utile anzitutto riepilogare i termini della questione sociale oggi in
Campania, offrendo alcuni dati essenziali per cogliere l’entità del fenomeno.
Secondo dati diffusi da Openpolis nel 2023, quasi la metà della popolazione è a
rischio di povertà o esclusione sociale. Si tratta di un dato allarmante, il
peggiore tra quelli regionali nel nostro paese, insieme alla Sicilia. Se si
guarda ai dati Eurostat del 2024 su povertà ed esclusione sociale, la Campania
si conferma, insieme alla Calabria, tra le aree più in difficoltà in Europa. La
regione è stata poi eccezionalmente colpita dalla bolla turistica degli ultimi
anni, con effetti diretti sul costo delle abitazioni. Secondo recenti
rilevazioni dell’Ance, l’associazione nazionale dei costruttori edili, la città
di Napoli è tra quelle in Italia con prezzi immobiliari (per l’acquisto e per
l’affitto) meno accessibili in rapporto al reddito disponibile delle famiglie.
Supera perfino Milano, nota per il boom immobiliare di tipo speculativo al
centro delle cronache nazionali negli ultimi mesi. La crisi abitativa è
particolarmente allarmante a Napoli, dove secondo dati del Comune il 44,09%
della popolazione residente è in affitto, un dato due volte maggiore della media
nazionale in Italia, che è del 19,99%.
Inoltre la Campania negli anni scorsi, a cominciare dalla prima metà degli anni
2010, è stata sottoposta a forti tagli imposti dalle politiche di austerità
intraprese dai governi nazionali e implementate a livello territoriale dalle
giunte regionali, in particolare negli anni della presidenza Caldoro e del primo
mandato di De Luca, ma proseguite fino a oggi. Le politiche di austerità a
livello regionale sono state accompagnate dai tagli strutturali ai finanziamenti
comunali e da draconiani piani di rientro del debito, come il cosiddetto Patto
per Napoli. I flussi di finanziamento per gli enti locali del meridione saranno
nel prossimo futuro sempre più a rischio per il processo di autonomia
differenziata che il governo in carica sta continuando a portare avanti, a
dispetto delle (parziali) bocciature della Corte Costituzionale. Negli anni
scorsi, le misure di cosiddetta austerità in Campania hanno riguardato i settori
della sanità (chiusura di ospedali e presidi sanitari periferici), dei trasporti
(tagli al trasporto pubblico locale, fino alla soppressione di linee
fondamentali nei collegamenti extraurbani, in particolar modo nelle aree
periferiche e interne del territorio regionale). Inoltre la Campania ha record
negativi nella disponibilità di servizi primari come gli asili nido: secondo
dati Istat del 2021 solo sette bambini su cento hanno accesso all’asilo nido,
mentre in Toscana salgono a trentacinque. I costi delle politiche di austerità
si sono trasferiti sui conti familiari, che devono attingere a risorse proprie
già scarse per far fronte a servizi che in altre regioni sono forniti dalle
amministrazioni pubbliche.
La disattenzione alla crisi sociale da parte delle principali coalizioni che
concorrono per la guida della Regione Campania è tanto più sorprendente se si
guarda a ciò che accade in queste settimane nelle elezioni locali in altri
paesi. Negli Stati Uniti, il tema del rincaro nel costo della vita è diventato
centrale nelle elezioni delle grandi città: ha consentito a un candidato
indipendente come Zohran Mamdani di prevalere su un candidato potente,
espressione dell’establishment tradizionale, come Mario Cuomo, grazie a una
campagna che ha acceso gli entusiasmi della nuova generazione di attivisti
emersa in questi anni intorno alle lotte per la casa e per i diritti delle
minoranze. Il consenso ottenuto da Mamdani e l’ondata di partecipazione civica
che la sua candidatura ha generato nasce dalla determinazione con cui Mamdani ha
messo il contrasto a quella che negli Stati Uniti si chiama “crisi
di affordability” al centro della propria agenda politica. La crisi
di affordability indica l’aumento del divario tra prezzi dei beni di consumo
primario e retribuzioni delle famiglie: ciò rende sempre più difficile a
porzioni crescenti non solo delle classi con redditi più bassi ma anche del ceto
medio di accedere a beni e servizi primari, come le abitazioni, l’alimentazione,
i trasporti, le cure sanitarie a pagamento. Non solo negli Stati Uniti, ma anche
in Europa e con particolar vigore nelle regioni dell’Europa meridionale, come
evidenziano i dati sopra citati, l’aumento incontrollato dei prezzi di beni e
servizi primari generato dalla crisi energetica e dall’inflazione sostenuta
degli anni scorsi ha assottigliato, fino ad azzerarlo, il “reddito residuale” a
disposizione delle famiglie, vale a dire la quota di reddito che le persone
riescono a mettere da parte dopo aver compiuto le spese minime richieste per il
proprio sostentamento (affitto, consumi energetici, alimentazione, mobilità,
cure mediche).
La lontananza, emotiva e propositiva, dimostrata dai candidati delle principali
coalizioni partitiche in Campania dai bisogni concreti di sempre più larghe
fasce della popolazione oggi esposte al rischio di esclusione sociale e povertà
con ogni probabilità troverà riscontro in percentuali record di astensione dal
voto. Non ci sarà da sorprendersi se la percentuale di votanti sarà notevolmente
più bassa del già esiguo 55% dell’elettorato che si recò alle urne nel 2020. La
disaffezione dalla politica istituzionale è inevitabile se i grandi partiti si
dimostrano indifferenti ai bisogni concreti della popolazione. Eppure, le
amministrazioni regionali, che oggi hanno ampi poteri in settori cruciali della
riproduzione sociale, come le politiche abitative, per i trasporti e per la
sanità pubblica, potrebbero fare molto almeno per alleviare la sofferenza
sociale nei nostri territori. (ugo rossi)
Riceviamo e diffondiamo:
Riceviamo e diffondiamo questi testi sulle denunce arrivate per i fatti dello
scorso 28 aprile a Lecco.
Qui il pdf: comunicato denunce.docx
In merito ai fatti dello scorso 28 aprile a Lecco
In questo fine ottobre a Lecco sono giunti gli atti di conclusione delle
indagini preliminari nei confronti di 17 persone a seguito dei fatti del 28
aprile 2025, giorno in cui si è deciso collettivamente e individualmente di
opporsi alla calata dei fascisti in città.
I reati contestati sono: manifestazione non autorizzata, radunata sediziosa,
interruzione di pubblico servizio, travisamento, oltraggio a pubblico ufficiale
e resistenza.
Tra le persone inquisite in molti partecipano all’assemblea permanente contro le
guerre, per questo ribadiamo ulteriormente ciò che abbiamo scritto e diffuso
come assemblea a seguito di quella giornata di lotta. (allegato qua sotto).
Leggere le prime carte relative all’inchiesta è qualcosa di formativo: leggere
di “progetto criminoso”, “aggressione alle forze dell’ordine”, “irruzione nel
municipio”, relativamente a quella giornata non può che far sorridere. Quel
giorno centinaia di persone hanno cercato di impedire un raduno fascista, e
quelli che ora fanno le vittime sono invece quelli che ne hanno garantito la
presenza. Quel giorno è la celere che ha aggredito, è il municipio che si è
meritato una contestazione, è la polizia che ha consentito quel raduno! Per il
resto sono carte da tribunale, e la carta è solo carta…
Non saranno certo denunce e intimidazioni poliziesche a fermare le lotte,
semplicemente non ne possono avere la forza necessaria, tanto più in questo
periodo storico in cui, davanti a genocidi, massacri e guerre sempre più feroci,
scegliere da che parte stare è qualcosa di improrogabile e fondamentale.
Di fronte ad un attacco repressivo non possiamo che ribadire la nostra presenza
nelle strade quel giorno, e porteremo il nostro punto di vista riguardo a quella
giornata anche nel tribunale di Lecco.
Un coro cantato quel giorno ci illustra la strada da seguire: l’antifascismo è
nostro e non lo deleghiamo!
Per questo saremo sempre in strada quando verrà dato spazio ai fascisti.
Per questo continueremo a lottare contro ogni guerra dei padroni, contro ogni
guerra imperialista, contro ogni collaborazione militare e politica nel
genocidio in Palestina.
01/11/2025 Assemblea permanente contro le guerre (Lecco)
Contro il fascismo di ieri e di oggi
A Lecco il 28 aprile un manipolo di fascisti ha indetto un presidio per
ricordare gli infami repubblichini fucilati nel 1945 allo stadio cittadino.
Vogliamo innanzitutto ricostruire i fatti avvenuti in quei giorni di 80 anni fa,
per far comprendere a chi vuole rimuovere quelle vicende, le motivazioni della
contestazione.
Erano i giorni della Liberazione. Gli eserciti occupanti si stavano disgregando,
affrontati da un numero sempre maggiore di partigiani. I nazifascisti in
rastrellamento vengono impegnati dalla brigata Garibaldi e tra il 25 e il 26
aprile 1945 cadono nelle mani dei partigiani. Vi è ancora qualche resistenza,
alcuni cecchini sparano dai tetti delle case.
A Lecco le brigate fasciste Leonessa e Perugia, provenienti da Brescia, che si
erano avviate sulla strada per Como, tornano sui propri passi e occupano
un’abitazione in via Como all’angolo con via Previati, decidendo di affrontare
la formazione SAP Poletti di Lecco e la Brigata Rosselli che, guidata da Piero
Losi, è nel frattempo entrata in città.
Il 26-27 aprile si scatena la battaglia di Pescarenico e i fascisti assediati si
difendono senza incertezze finché ad un tratto da una finestra viene sventolata
una bandiera bianca. Quando quattro partigiani escono allo scoperto per
parlamentare, nella convinzione che quelli stiano per arrendersi, vengono
falciati al suolo dalle mitraglie dei repubblichini.
A terra si raccolgono i corpi dei compagni Giovanni Giudici detto Farfallino,
Antonio Polvara, Silvano Rigamonti, Ettore Riva, due dei quali rimasti uccisi,
gli altri feriti.
Così la battaglia riprende con una vasta concentrazione di partigiani fino a
quando, la sera del 28, è annunciata la cattura dei giovani fascisti, arresisi
anche perché ormai privi di munizioni. I fascisti vengono arrestati, condotti
alle scuole in via Ghislanzoni e processati: sedici fra essi, considerati
responsabili del vile attacco, vengono condannati a morte e fucilati nello
stadio Rigamonti Ceppi.
In nome di quei partigiani uccisi si è deciso di contestare la manifestazione
fascista, con la volontà di impedire il raduno.
Alle 19 era prevista una chiamata pubblica indetta da alcune individualità a
poche centinaia di metri dallo stadio. Nel frattempo anche l’ANPI cittadina ha
indetto un presidio per le ore 18.30 a pochi metri dal precedente: il presidente
locale dell’ANPI è intervenuto affermando che bisognava stare fermi in quel
luogo e non accettare le (sic) “provocazioni” di chi voleva muoversi per andare
a contestare i fascisti. Alle ore 19.00 il comizio è stato interrotto invitando
tutti a muoversi in direzione dello stadio. Almeno la metà dei presenti ha
deciso di partire in corteo, fregandosene delle manfrine dei politicanti.
Subito la celere si è frapposta per evitare che le oltre 300 persone potessero
raggiungere lo stadio. Con la polizia in assetto antisommossa schierata, si è
deciso di raggiungere altri punti della città vicini allo stadio. Un rumoroso
corteo “spontaneo”, espressione di diverse idee, percorsi politici e
sensibilità, ma anche di semplici cittadini ha attraversato le strade di Lecco
cercando di arrivare al raduno fascista, intasando il traffico cittadino,
volantinando, urlando cori, facendo veloci cambi di percorso quando la celere
chiudeva una strada per percorrerne un’altra. Un corteo senza alcuna regia
preconfezionata, ma felicemente autogestito con rapide decisioni e repentine
scelte conseguenziali.
Ci si è provato in molti modi, senza purtroppo riuscirci ad impedire fisicamente
la commemorazione di quei fascisti che avevano trucidato vigliaccamente i
partigiani! Sarà per la prossima! Resta il fatto che i fascisti sono rimasti
accerchiati, con blindati che giravano per la città posizionandosi di volta in
volta in un punto diverso per difenderli.
Certo, la celere si sarà sicuramente divertita nel tirare manganellate alla
cieca appena gli antifascisti arrivavano a contatto diretto con loro; per le
autorità ormai è normale lasciare qualche livido a chi osa lottare contro le
ingiustizie imposte dal potere.
Il corteo ha deciso di finire il suo percorso in stazione, dove è situato anche
il Comune di Lecco. Il portone spalancato del Municipio ha accolto i
manifestanti che, a quel punto, hanno pensato di far sentire la propria voce,
contro la celebrazione fascista, urlando cori dal cortile interno del Palazzo,
mentre era in corso un consiglio comunale. Da qui è partito l’intervento
violento della celere, volto a chiudere l’accesso al municipio. Alcuni compagni
e compagne hanno retto la prima carica, permettendo così l’uscita dal Comune a
chi era entrato nel cortile. In seguito, dopo altre manganellate a casaccio a
cui qualcuno dei presenti ha giustamente reagito, il corteo si è concluso
proprio nella piazza da cui era partito.
Questo è il racconto reale degli avvenimenti del 28 aprile, ogni altra
ricostruzione è falsata da media e politicanti locali non presenti alla
manifestazione, o in malafede.
Questa serata ha dimostrato, ancora una volta, che lottare è possibile, basta
mettersi in gioco. Di sicuro assistiamo ad un aumento della violenza della
polizia, ma ciò deve portare tutti a scendere in piazza sempre più determinati,
decidendo anche di darsi maggiori strumenti di autodifesa.
Della serata del 28 è evidente il fatto che nessuno si è tirato indietro, tutti
hanno risposto alle cariche compattandosi senza scappare: si è rimasti uniti
nella voglia di combattere il fascismo e i suoi “nipotini”.
Nella situazione di guerra (questione innanzitutto interna prima che estera) in
cui viviamo, la militarizzazione della società non farà altro che aumentare: sta
ai sinceri ribelli e rivoluzionari trovare gli strumenti adatti a combatterla.
Dunque davanti al genocidio automatizzato dei palestinesi, alle guerre tra Stati
che usano la popolazione come carne da cannone, ad un mar Mediterraneo diventato
un cimitero e all’autoritarismo sempre più becero che stiamo vivendo, continuare
la lotta, antifascista, antimilitarista e antisionista, ci sembra l’unica via
percorribile per restare umani.
E per quanto riguarda i fascisti lecchesi, un solo pensiero: “¡No pasarán!”
Contro ogni autoritarismo, morte al fascio di ieri e di oggi!
3 0 aprile 2025 Assemblea permanente contro le guerre di Lecco
Alla luce delle manifestazioni di protesta contro l’invio di armi a Israele si
ritiene matura la proposta di creare nelle città sede di porti commerciali degli
osservatori indipendenti sulla movimentazione degli armamenti nei porti, perché
essa suscita preoccupazione politica, turbamento morale e insicurezza materiale
nei lavoratori e nei cittadini.
La movimentazione degli armamenti, disciplinata dalla legge 185/1990, è soggetta
all’autorizzazione e al controllo dello Stato, ma le istituzioni che esercitano
questi poteri latitano in trasparenza opponendo cortine burocratiche alle
istanze di accesso ai dati che dovrebbero essere pubblici.
Pertanto, che si sia di fronte a una qualche palese violazione della legge così
come a una qualche insufficiente informazione sulla natura delle merci in
transito nel porto, i lavoratori e i cittadini chiedono di non essere costretti
a iniziative di astensione sindacale dal lavoro o di manifestazione pubblica per
opporsi all’illegalità di certe movimentazioni e per dovere sostenere da sé i
diritti di informazione, tutela, sicurezza, obiezione di coscienza.
Nel caso particolare del trasporto di esplosivi e munizioni, i lavoratori del
porto e i cittadini che abitano in prossimità degli scali chiedono trasparenza
che la movimentazione avvenga in assoluta e verificata conformità agli speciali
regolamenti in materia.Oltre alle barriere burocratiche che ostacolano la
trasparenza e oltre alla complessità intrinseca del sistema commerciale, sono
state verificate pratiche elusive o ingannevoli da parte di vettori,
spedizionieri e imprese portuali, circa la natura militare delle merci
movimentate nei porti.
Di fronte a questi comportamenti, i lavoratori chiedono di potere conoscere
tempestivamente e ufficialmente l’eventuale natura militare della merce, la sua
origine e destinazione geografica, per avere certezza che non si infranga la
legge e che se ne interpreti autenticamente il valore costituzionale («I
portuali non lavorano per la guerra»).
A queste esigenze di puntuale informazione sindacale e pubblica, si accompagna
l’istanza di conoscere, attraverso dati statistici, l’incidenza della
movimentazione di queste merci nell’economia e nell’occupazione del porto e
della città.
Non è una domanda fine a sé, perché la stessa legge 185/1990 prescrive che il
Governo predisponga misure idonee ad assecondare la graduale differenziazione
produttiva e la conversione a fini civili delle industrie nel settore della
difesa (art.1 comma 3). Tale previsione, disattesa sinora da tutti i governi
avvicendatisi, nel caso specifico dei porti è priva di qualsiasi fonte
statistica utile a affrontare la questione.
Le conseguenze di questa lacuna si riverberano nell’assenza nei bilanci sociali
dei porti nazionali di una rendicontazione dedicata alla sostenibilità etica,
intesa come policy e atti regolatori con l’obiettivo di promuovere e attuare
l’attività portuale a esclusivo servizio di commerci di pace e di sviluppo del
benessere e della libertà dei popoli.
La necessità del confronto tra autorità, lavoratori e cittadini pone la
questione di disporre di un Osservatorio permanente, ossia di un “luogo” e di un
“tempo” in cui tale confronto possa avvenire con la necessaria franchezza e
trasparenza sulla base di dati e informazioni certe e qualificate.
Viste anche le recenti prese di posizione e deliberazioni di Sindaci e Consigli
comunali sui traffici d’armi nei rispettivi porti, la sede ospitante
dell’Osservatorio dovrebbe essere a nostro avviso nei Comuni sede di porti, per
la loro autorità elettiva sulla città da cui il porto dipende e a cui il porto
restituisce lavoro, ricchezza, identità e reputazione con i relativi costi
sociali e ambientali.
Il confronto può avvenire solo nella trasparenza dei processi decisionali e
delle informazioni che ne sono il presupposto. Informazioni che non sono in
alcun modo segrete, e semmai sottoposte all’obbligo della riservatezza
statistica. Di alcune informazioni, invece, è la stessa Legge 185 che impone la
pubblicità: il soggetto autorizzato, la natura e il valore degli armamenti, il
destinatario finale, i valori doganali dichiarati, l’appartenenza o meno a un
progetto di produzione internazionale, ecc.
L’osservatorio dovrà dotarsi della capacità di un triplice ordine di
obiettivi:1. un report periodico che dia conto dei traffici di armamenti
(origine/destinazione/merce) e della loro incidenza quantitativa e qualitativa
sul bilancio complessivo del porto;2. un servizio informativo, “a sportello”,
tempestivo e verificato con tutti gli attori coinvolti, su domanda dei
lavoratori e delle loro organizzazioni di rappresentanza, oltre che dei
cittadini, su arrivi e partenze di navi con carichi di armamenti eventualmente
sospetti;3. promuovere la qualificazione del porto sotto il profilo della
“sostenibilità etica”, improntata a capitali e organizzazioni di impresa non
compromessi in attività militari aggressive e in violazione dei diritti umani, e
a produzioni e commerci di pace.
Le fonti locali operanti dell’Osservatorio dovranno essere gli attori
istituzionali, sociali e civili che agiscono attivamente o passivamente nella
circostanza del traffico di materiali di armamento nel porto: Prefettura,
Capitaneria di porto-Guardia costiera, Autorità di Sistema Portuale, Agenzia
delle Dogane, Vettori e spedizionieri, Agenti marittimi, Imprese portuali,
Organizzazioni sindacali dei lavoratori, Municipi di circoscrizioni urbane
prospicienti il porto, Comitati civici e Associazioni pertinenti.
Una terza intervista di Effimera sulla situazione genovese e sugli scioperi dei
portuali a sostegno alla Sumud Flotilla. Parla Riccardo Degl’Innocenti,
genovese, esperto di porti, attivista di The Weapon Watch, Osservatorio sulle
armi nei porti europei (www.weaponwatch.net), da sempre al fianco del CALP di
Genova.
L’intervista è a cura di Lidia Demontis e Roberto Faure.
1. La vostra mobilitazione è stata un successo, anche mediatico. Come pensate di
allargare la protesta? Esiste un collegamento con gli altri porti italiani?
Le cronache mediatiche, il tam tam sui social, la presenza nei cortei, le
testimonianze all’Assemblea pubblica di Genova del 26 e 27 settembre scorsi,
hanno mostrato che esiste nei principali porti italiani una rete di collettivi
autonomi e di rappresentanze, sia del sindacalismo di base che di quello
“istituzionale”, attiva con lo scopo precipuo di impedire il transito
internazionale illegale ai sensi della legge 185/1990 di carichi di armi. Le
parole d’ordine, più che ideologiche contro il carattere imperialistico delle
guerre, diretto o indiretto, e l’organicità del sistema economico capitalistico
con gli apparati militare-industriali, ricalcano la disobbedienza civile,
l’obiezione di coscienza, la conservazione di sentimenti umani, l’irriducibilità
a essere produttori di strumenti di morte e complici di crimini contro
l’umanità. Sono improntate a modelli di tradizione non violenta e di resistenza
passiva, ma rilanciano forme di “azione diretta” collettiva proprie
dell’operaismo, senza forme esplicite di violenza, semmai figurate in modi che
trasmettano la determinazione dei manifestanti a sostenere fino alla fine,
“senza paura”, gli obiettivi della lotta intesa e vissuta come causa giusta e
sacrosanta. Una convinzione sincera, che si trasmette empaticamente e appare
tradursi favorevolmente in consenso e allargamento della partecipazione.
2. Per sanzionare Israele è possibile ipotizzare un più ampio blocco o almeno
parziale boicottaggio delle merci provenienti da o dirette verso Israele? Magari
coinvolgendo il trasporto aereo?
Si è lungi dal boicottare l’economia e la forza bellica di Israele solo con
l’azione dal basso dei portuali, ma c’è la consapevolezza che i porti sono gli
snodi principali dei suoi commerci. Ciò permette anche a singole iniziative
locali di incidere sulle catene di rifornimento di Israele, in maniera
significativa, perché i portuali – diversamente dal militante pacifista che
manifesta simbolicamente fuori dei cancelli della fabbrica o del porto –
intervengono concretamente a bloccare o quantomeno a rallentare i flussi di
merce, nuocendo altresì alla efficienza di maglie più estese della rete
logistica coinvolta (provocando ritardi alle navi e alle altre merci trasportate
o l’indisponibilità delle banchine ecc). Anche se il porto coincide con un solo
tratto delle Supply Chain globali, esso resta il nodo più critico per i volumi
che vi transitano (incomparabili per maggiore grandezza rispetto agli
aeroporti), per la “rottura di carico” ossia il passaggio fisico dei container
dal vettore terrestre a quello marino, con il relativo e cruciale avvicendamento
tra le relative figure professionali e “politiche” che operano nelle rispettive
movimentazioni. Il mondo della logistica in generale è particolarmente sensibile
alle variazioni di programmazione dei flussi e quindi incline a evitare ogni
imprevisto, e ciò talora finisce, se non per agevolare la contestazione dei
portuali, almeno per contenerne i danni organizzativi e economici. Ovviamente,
l’iniziativa dei portuali può essere spontanea e improvvisata solo all’inizio,
poi necessita di una sufficiente forza collettiva e consenso sociale, e
soprattutto di una “copertura” sindacale per potersi muovere, anche se solo
sulla linea di confine degli strumenti di lotta consentiti dalle leggi e dai
contratti di lavoro. Non dimentichiamo i decreti Salvini e la natura giuridica
di porti, aeroporti e stazioni oggetto, di speciali norme a protezione della
loro sicurezza, economica e sociale in realtà, più che strategica “di Stato”.
Lo sciopero generale del 22 settembre 2025, a Genova.
3. Si coglie nell’aria una convinta richiesta popolare di lotta unitaria per far
cessare il fuoco (e la strage) a Gaza, superando le differenze e puntando a
rompere il fronte di chi vuole la guerra. Che cosa pensate si possa fare?
La richiesta autentica e estesamente popolare ha rimescolato le carte anche tra
i partiti e i sindacati. Il fatto che a Genova l’azione sia partita da un
collettivo operaio autonomo (CALP) e successivamente dal collegato sindacato di
base (USB) ha un po’ spiazzato le OO.SS. “istituzionali”, a cominciare dalla
CGIL. Più nei tempi, perché nel merito i contenuti delle rispettive iniziative e
parole d’ordine in questa circostanza e forse per la prima volta convergono e
paiono sostanzialmente coincidere. La primazia va al CALP se non altro perché
il movimento contro le armi nei porti ha avuto la riedizione contemporanea (dopo
le esperienze degli anni 70 riferite soprattutto a Vietnam e Cile) grazie alle
azioni del CALP dal 2019 contro le navi “della morte”, le saudite Bahri dirette
verso i teatri di guerra del Medio-Oriente e in specie dello Yemen. Già allora
ci fu una partecipazione “popolare” larga, di componenti molto diverse
dell’attivismo politico e civile, dalla estrema sinistra al mondo cattolico.
Anche allora la CGIL arrivò un po’ dopo, ma fu comunque decisiva per il successo
grazie alla sua forza di rappresentanza. Così come lo fu la “benedizione” di
Papa Francesco che riconobbe pubblicamente nei lavoratori portuali il tratto
della parresìa, nel praticare la lotta in prima persona e nella fermezza dei
valori con cui la sostenevano mettendo a rischio la propria libertà, e ne fece
il confronto con l’ “ipocrisia armamentista” delle istituzioni politiche e del
mondo economico, pacifisti solo a parole.
Il precipitare della crisi di Gaza con il genocidio in corso ha riacceso la
brace che covava e di tanto in tanto aveva fiammeggiato in questi anni con le
iniziative del CALP. Questi, nel frattempo, è confluito sindacalmente in USB
abbandonando la CGIL, a causa tra l’altro della tiepida posizione di
quest’ultima sui decreti Salvini. La decisione con l’associazione genovese Music
for Peace di contribuire e partecipare con un proprio leader, Jose Nivoi, alla
spedizione della Flotilla, è sì apparsa meramente umanitaria, ma anche di
altissimo valore politico per il coraggio e la chiarezza del messaggio
trasmesso. Essa ha acceso un incendio indistinguibile di emozioni e di coscienze
che è andato oltre le etichette, per lo più ignote alla maggioranza dei 40mila
manifestanti del grande corteo che ha salutato la partenza della Flotilla.
Salvo l’etichetta del CALP, i cui membri, grazie ai loro comportamenti di lotta
a viso aperto in porto, hanno reincarnato il mito che si era un po’ spento dei
camalli duri, franchi e liberi. Grazie anche al loro costante presidio e azione
antifascista militante, nella città medaglia d’oro della resistenza come i loro
nonni e del 30 giugno 1960 come i loro padri. E grazie, in queste ultime
settimane, alla antiretorica asciutta e decisa di uno dei loro leader, Riccardo
Rudino, colui che ha invitato i portuali di tutta Europa a “bloccare tutto” se
la Flotilla sarà colpita. Con la avvedutezza, però, di una puntuale
declinazione: distinguere come e dove colpire gli interessi militari e economici
israeliani, oggi parimenti criminali, perché invece i commerci pacifici sono la
vita dei porti e il pane dei suoi lavoratori.
4. In particolare con quali soggetti politici e con quali comunità possiamo
sperare di costruire una rete capace di far sentire a Israele la nostra
indignazione?
I portuali per continuare a reggere il peso e i rischi del loro impegno hanno
bisogno non solo della vitale partecipazione popolare, ma anche dell’alleanza
con i lavoratori delle altre categorie che operano nella filiera del trasporto
marittimo e più in generale nell’ambito del cosiddetto “cluster portuale”.
Abbiamo documentato spesso come Associazione The WEAPON Watch la molteplicità di
interessi economici e di lavoratori che concorrono al viaggio internazionale
delle merci militari e al loro transito nei porti. Per fare un esempio, il porto
di Genova movimenta annualmente circa 30-35mila teu (unità di misura dei
container) nei confronti dei porti israeliani di Ashdod e Haifa. A trasportarli
sono principalmente le navi della compagnia di navigazione Borchard Lines,
rappresentata dall’agenzia Cosulich, ZIM e MSC. Esse fanno un centinaio di scali
all’anno a Genova, operate dal terminal Spinelli-Hapag Lloyd e dal terminal MSC.
I lavoratori dei tre terminal, insieme ai soci della CULMV, movimentano
nell’anno circa 600mila teu in totale, per cui il traffico con Israele
corrisponde al 5% del loro operato e all’1,5 dell’operato in teu dell’intero
porto. Insomma, una frazione marginale ma comunque significativa della domanda
di occupazione dello scalo genovese. Perché poi ci sono a contribuire alle
operazioni della nave e delle merci gli ormeggiatori, i rimorchiatori, gli
spedizionieri e gli impiegati pubblici dell’autorità portuale, delle dogane, e
tante altre categorie minori, pubbliche e private, con i rispettivi lavoratori.
È evidente che occorre che anche da parte di costoro debba nascere una
solidarietà sindacale e un attivismo sociale per affiancare i portuali e dare
maggiore estensione e equilibrio di forze all’impegno sindacale, e possibilità
di durata e di successo al movimento. L’obiettivo di un porto sostenibile da un
punto di vista etico potrebbe essere l’obiettivo comune su cui costruire
l’alleanza definendo i criteri di accessibilità e di trasparenza del transito
delle merci militari nel porto, liberando perciò i lavoratori dalla necessità di
dovere essere loro stessi a salvaguardare la loro coscienza, oltre alla loro
salute e incolumità nel caso di materiali bellici esplosivi come spesso accade.
5. E di Flotilla che dici?
Che sono preoccupatissimo, che tuttavia a mio modesto avviso occorre andare fino
in fondo. L’arcivescovo di Genova Tasca ha dichiarato pochi giorni fa,
distinguendosi dal Presidente Mattarella e dal suo stesso cardinale Zuppi
favorevoli alla mediazione: «Andiamo avanti. Perché è importante dare un segno.
In un momento così grave, in cui vediamo che stanno compiendo il male del mondo
su gente inerme, su donne e bambini, la simbologia è importante. E noi dobbiamo
dare dei segnali. La missione della Flotilla ha proprio il merito di aver reso
evidente la follia di quello che sta accadendo a Gaza». In questa missione c’è
tanto di Genova e dei suoi portuali di questi anni. Vento in poppa, compagni.
QUANDO BOICOTTAGGIO E DISINVESTIMENTO LASCIANO IL SEGNO
La decisione del fondo sovrano norvegese NBIM di disinvestire da Caterpillar
Inc. e da cinque banche israeliane ha una portata storica.
Il Fondo governativo della Norvegia è il più grande fondo d’investimento al
mondo, gestisce circa 2.000 miliardi di dollari. Il suo comitato etico ha
valutato come «rischio inaccettabile che [Caterpillar e le banche israeliane,
NdR] contribuiscano a gravi violazioni dei diritti degli individui in situazioni
di guerra e conflitto».
La decisione, che accomuna Caterpillar e le banche israeliane che finanziano gli
insediamenti illegali in Cisgiordania, indica per la prima volta la
corresponsabilità di un’azienda simbolo dell’industria americana con i crimini
che si stanno commettendo in Palestina.
Caterpillar Inc. è una mega azienda globale, oggi al 65° posto della classifica
di Fortune 500, con 113.000 dipendenti e 64,8 miliardi di dollari di fatturato.
È una public company inserita nel prestigioso Indice Dow Jones alla Borsa di New
York, i cui principali azionisti sono grandi fondi d’investimento come Vanguard,
State Streets e BlackRock, ma anche Melinda & Bill Gates ecc.
L’impiego militare dei grandi bulldozers americani iniziò con la Prima guerra
mondiale, per il traino dei pezzi d’artiglieria mediante trattori cingolati. Il
modello pesante D9, introdotto da Caterpillar nel 1954, ha fatto le sue prove
nella guerra del Vietnam ed è stato poi adottato dall’esercito israeliano nella
guerra di Suez (1956). Dagli anni Ottanta le IDF utilizzano sulla linea del
fronte i Caterpillar D9, modificati mediante un kit di blindatura e armamento
progettato dal Centro di recupero e manutenzione dell’esercito e da IAI Israeli
Aerospace Industries, installato sulle macchine con la collaborazione di ITE, la
società importatrice in esclusiva di Caterpillar in Israele appartenente al
gruppo Zoko.
Come abbiamo scritto in un precedente articolo, una filiale americana di
Leonardo (DRS Sustainment Systems) sta fornendo i triler a due assi che
trasportano i carri armati e i bulldozer utilizzati a Gaza dai militari
israeliani.
Caterpillar non può ignorare l’utilizzazione che ne fa l’esercito israeliano per
demolire illegalmente abitazioni e coltivazioni palestinesi, distruggere strade
e infrastrutture urbane. Nel 1989, questi reati vennero pubblicamente denunciati
da alcune ong, le stesse che nel 2001 spedirono oltre 50.000 lettere di protesta
a Caterpillar. Nel 2004 l’Alto commissario ai Diritti umani dell’ONU inviò una
lettera ufficiale alla società, anche in seguito alla vasta risonanza della
morte della ventitreenne attivista americana Rachel Corrie, schiacciata da un
bulldozer Caterpillar mentre tentava di impedire la demolizione di un’abitazione
palestinese. Quel tragico episodio ebbe anche conseguenze legali, poiché dopo
aver inutilmente intentato una causa in Israele contro l’esercito israeliano –
subito archiviata per «grave responsabilità» della stessa vittima – la famiglia
Corrie ne sollevò un’altra negli Stati Uniti contro il governo americano,
accusato di aver favorito crimini di guerra e la violazione dei diritti umani,
dal momento che i macchinari di Caterpillar erano e sono tuttora forniti a
Israele mediante il programma Foreign Military Sales, sovvenzionato con i soldi
dei contribuenti americani. Da decenni Caterpillar è inserita negli elenchi
delle aziende che traggono profitti dall’occupazione illegale israeliana dei
Territori palestinesi, stilati dalla Coalition of Women for Peace (vedi Who
Profits?) e dall’American Friends Service Committee.
Nel novembre 2024 la stessa amministrazione Biden in scadenza aveva deciso una
temporanea sospensione della consegna di 134 Caterpillar D9 ordinati “con
urgenza” da Israele nel 2023, compresi pezzi di ricambio, manutenzione e
addestramento. Una misura che per quanto assai timida è stata immediatamente
abolita dal presidente Trump appena insediatosi, nel gennaio 2025.
I CAT D9 sono stati consegnati nel porto di Haifa in 9 luglio scorso, con
un’operazione di logistica marittima curata dal Ministero della difesa
israeliano e dalla rappresentanza israeliana per il procurement militare di
stanza a Washington, che includeva anche la consegna di alcuni mezzi militari
leggeri. Il Ministero stesso ha diffuso le immagini dello scaricamento a Haifa,
e i media israeliani hanno ampiamente ripreso l’evento come prova della
ristabilita alleanza di ferro con gli Stati Uniti sotto la presidenza Trump.
A sx: operazioni di sbarco dei Caterpillar D9 dalla nave «SLNC Severn» nel porto
di Haifa, il 9 luglio 2025.
Sopra: la sistemazione dei bulldozer di Caterpillar nella stiva della
portarinfuse «SLNC Severn» [fonte: Ministero della difesa di Israele, ripreso
dal «Jerusalem Post» del 9.7.2025
L’intento propagandistico è stato però temperato da una serie di “oscuramenti”:
le immagini riprendono i mezzi sbarcati ma i militari hanno offuscato il nome
della nave e della compagnia marittima dipinto sulle fiancate, nonché le insegne
commerciali sulle motrici degli autoarticolati che hanno preso in carico i
Caterpillar sulla banchina portuale.
L’osservatorio Weapon Watch è riuscito a ricostruire gran parte della catena
logistica che ha rifornito a Israele i Caterpillar D9, macchinari dual use
intensamente utilizzati dai militari per compiere una vasta e documentatissima
serie di crimini di guerra.
Per il trasporto dagli Stati Uniti, solitamente i grandi bulldozer D9 viaggiano
in parte o del tutto disassemblati, in ogni caso privi degli accessori pesanti
(pale, bracci oleopneumatici, cabine ecc.), e anche nel caso in esame la
consegna è stata effettuata senza accessori, dalla nave al mezzo gommato
mediante gru portuale. Invece la nave utilizzata per l’operazione era di
tipologia inusuale, una portarinfuse con bandiera USA, nome «SLNC Severn», un
tipo di nave solitamente impiegato per trasportare le cosiddette “rinfuse
secche” (come minerali, carbone, cereali, cemento, ecc.). Nelle quattro stive
coperte della «Severn» – al riparo da sguardi indiscreti – sono state ospitate
dozzine di D9. Ciascuna macchina è stata caricata e scaricata mediante le grandi
gru a portale.
La «SLNC Severn» è una delle sette navi della compagnia Schuyler Line Navigation
Company, con sede a Annapolis, Maryland, tutte battenti bandiera americana per
poter operare sotto l’ombrello del Jones Act, la legge fondamentale per la
supremazia marittima degli Stati Uniti.
Da fine maggio la «Severn» è noleggiata per trasportare i D9, il 2 giugno viene
fotografata mentre carica una ventina di bulldozer al terminal Holt Logistics di
Gloucester City, New Jersey, che si trova nel grande comprensorio portuale di
Filadelfia, Pennsylvania. A fine giugno ha intrapreso il viaggio senza scali
intermedi per arrivare ad Ashdod il 7 luglio e il 9 a Haifa.
La «SLNC Severn» al terminal Holt Logistics di Gloucester City, NJ; fotografata
il 2 giugno 2025.
Nell’ovale rosso, una ventina di Caterpillar D9 sulla banchina pronti
all’imbarco. Fonte: Marine Traffic.
È pressochè certo che la «Severn» sia tuttora al servizio della logistica
militare USA a sostegno di Israele, con rotte pendolari tra costa orientale
statunitense e Israele. Secondo «The Ditch», il 7 agosto la nave ha caricato nel
porto di Paulsboro (sempre nell’area di Filadelfia, dove si trova un altro
terminal di Holt) 374 tonnellate di bombe, del tipo da 2000 libbre, anch’esse
bloccate in precedenza dall’amministrazione Biden. Da notare che la «Severn» ha
recentemente fatto scalo a Souda Bay, Creta, una delle maggiori basi aeronavali
americane nel Mediterraneo, dove in passato è stata vista movimentare merci con
le gru di bordo.
La compagnia di navigazione Schuyler è stata acquisita nell’agosto 2024 da JP
Morgan Chase, una delle quattro più importanti banche americane, con l’intento
dichiarato di rafforzare i programmi marittimi governativi e «restore America’s
maritime dominance», secondo le parole del presidente Trump. Nell’ultimo anno
alla flotta di Schuyler si sono aggiunte anche una petroliera da 50.000
tonnellate e una nave per carichi fuori norma, rafforzando ulteriormente la già
notevole presenza di JP Morgan nel settore marittimo.
L’attesa per un aumento dei noli e dei programmi governativi sostenuti dal clima
bellico è infatti molto diffusa tra gli operatori. Non a caso la propaganda
militare israeliana ha enfatizzato la portata dell’operazione logistica in corso
dal 7 ottobre 2023 come la più grande nella storia di Israele, con 100.000
tonnellate di materiale militare movimentato attraverso 870 voli e 144 trasporti
marittimi.
La “complicità logistica” di molti governi ed operatori è decisiva per compiere
i crimini contro l’umanità e le violazioni degli accordi internazionali in
vigore. Per riportare nella legalità gli operatori e spingere i governi verso
una ricostruzione dell’ordine internazionale basato sulla diplomazia e il
disarmo, le vie principali e più incisive si dimostrano il boicottaggio delle
catene logistiche militarizzate e nel disinvestimento finanziario da chi produce
strumenti di guerra e distruzione.
Due porti italiani sono stati nelle ultime settimane al centro dell’attenzione
di Weapon Watch: i porti di Genova e di Ravenna.
A Genova lo sciopero proclamato per non caricare un cannone navale OTO
Melara-Leonardo su una “nave della morte” saudita ha di fatto avuto successo,
anzi ha fatto capire che sul traffico di armi la concorrenza infra-sindacale si
può stemperare. È anche questo un segno dei tempi sempre più foschi, e della
generale percezione che se ne ha a Genova. Ulteriore prova è lo straordinario
successo della raccolta degli aiuti affidati alla Global Flottilla Sumud, a cui
hanno espresso vicinanza anche la sindaca Silvia Salis e l’arcivescovo mons.
Tasca. A questo diverso clima sembra riferirsi la magistratura genovese, che ha
aperto un fascicolo per accertare la legalità dei transiti di armi sulle navi
saudite: intervento che Weapon Watch aveva richiesto già cinque anni fa, e che
oggi rischia di essere inadeguato rispetto alla dimensione dei movimenti di armi
in porto in violazione alla legge 185.
A Genova, nell’aprile 2022.
A Ravenna sono venuti alla luce alcuni casi di palese violazione di leggi e
trattati internazionali, in gran parte relativi ad armi e affari in complicità
con l’apparato industrial-militare di Israele. Abbiamo riferito, in un recente
articolo intitolato “Ravenna crocevia dei traffici di armi per Israele?”, delle
indagini condotte dalla magistratura ravennate, ma con l’ultimo articolo di
Linda Maggiori, pubblicato da il manifesto il 2 settembre scorso, [lo trovate
anche nella nostra rassegna stampa] il punto interrogativo va tolto. Ravenna è
senza dubbio un porto vitale nella possente corrente di forniture militari che
si convoglia nell’Adriatico da tutti i paesi dell’Europa centro-orientale e si
dirige verso Israele. E con Ravenna lo sono anche Trieste, Capodistria e
Venezia-Marghera: è qui che si forma la supply chain diretta a Haifa e Ashdod,
una rotta percorsa con regolarità da almeno due navi che hanno attirato
l’attenzione degli attivisti locali, «ZIM New Zealand» e «Contship Era».
I casi emersi a Genova e Ravenna rivelano una grave asimmetria tra ciò che
vedono e denunciano i lavoratori dei porti e degli aeroporti italiani – cioè la
vistosissima crescita del traffico di armi, e la grave carenza dei controlli
preventivi – e il ruolo inerte delle autorità, a partire da quelle di sistema
portuale, di fronte a quelle denunce. Mentre il quadro internazionale sta
assumendo tinte drammatiche, non possono più valere gli escamotages, il rimpallo
sulle competenze che porta al mutismo informativo, ultima spiaggia di chi non
vuole assumersi le proprie responsabilità. Nel caso citato oggi su il manifesto,
l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli locale ha avanzato ragioni di
“riservatezza” per non rivelare la destinazione finale di ciò che non poteva
essere autorizzato al transito ma che è comunque transitato dal porto di
Ravenna: una spedizione di armi autorizzata dalla Repubblica ceca verso un paese
extra-UE (Israele), per giunta coinvolto nel peggior massacro di popolazioni
civili a cui l’umanità assiste via social, doveva essere fermata in ottemperanza
alle stesse disposizioni governative in vigore dal 7 ottobre 2023.
Nella loro lucidità, i portuali genovesi hanno avanzato una proposta intesa a
non far peggiorare il clima nel primo porto italiano, e a ristabilire un nesso
tra il funzionamento del porto stesso come piattaforma del commercio
internazionale e la cornice “aperta” entro cui Genova vuole svolgere questo
ruolo, di pace, fratellanza e solidarietà, e non di guerra, deportazione e
affamamento.
Per rendere almeno accettabile il livello delle informazioni che devono essere
garantite ai lavoratori nel caso del commercio degli armamenti, è indispensabile
la trasparenza sulla natura delle merci e la loro destinazione finale, come del
resto è scritto nella lettera stessa della Legge 185 del 1990. Destinatario di
queste informazioni, che sono certamente nella disponibilità di tutte le
autorità coinvolte in un trasferimento internazionale di armi (AdSP, Guardia
Costiera, Prefetture), potrebbe essere un “osservatorio permanente” a cui far
partecipare i delegati delle autorità insieme a quelli dei lavoratori, da
riunirsi periodicamente e in via preventiva, cioè in vista di un arrivo di navi
con carichi militari e soprattutto di munizioni ed esplosivi.
Crediamo che una ragionevole circolazione di informazioni, anche su un tema così
delicato, possa contribuire a ridurre la tensione sulle banchine, e nello stesso
tempo a togliere ad autorità e governi l’illusione che bastino opacità e
segretezza per evitare di rispondere di una complicità di fatto, quale oggi si
sta prefigurando, tra gli autori di un genocidio e chi ha fornito loro i mezzi
per compierlo.
Intorno a ReArm Europe e all’euforia dei mercati finanziari, impegnati a
investire una montagna di soldi nei titoli di borsa delle principali industrie
militari europee, è molto forte il rischio di un “abbaglio” sulle aspettative in
termini di ricadute occupazionali.
Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso è arrivato a
prospettare per le aziende della filiera dell’automotive incentivi per
riconvertirsi verso il settore aerospaziale e della difesa, mentre il suo
Governo – con la Legge di Bilancio 2025 – trasferiva 4,9 miliardi di euro dal
fondo per la transizione ecologica e sociale dell’automotive all’aumento delle
spese militari.
SPETTRO DELLA GUERRA
Non è semplice per qualsiasi governo far digerire l’aumento delle spese militari
a un’opinione pubblica cosciente dei corrispettivi tagli a sanità, istruzione,
welfare. Evocare lo spettro della guerra con la Russia, evidentemente non basta.
In questo caso è meglio giocarsi la carta delle ricadute industriali e
occupazionali. Non è la prima volta che succede.
Ricordate, ad esempio, i diecimila nuovi posti di lavoro “messi sul piatto” nel
2006 dal Capo di stato maggiore dell’Aeronautica Militare, Leonardo Tricarico e
dal sottosegretario alla Difesa, Lorenzo Forcieri (governo Prodi) se avessimo
acquistato i caccia-bombardieri F-35 della Lockeed Martin? A distanza di 20 anni
possiamo verificare quanto fosse una fakenews, per condizionare il dibattito
pubblico.
L’articolo di Gianni Alioti uscito su «il manifesto» il 31.5.2013.
Ma penso sia sbagliato liquidare con una semplice battuta i risvolti che
l’economia di guerra ha sul sistema industriale europeo e sul lavoro. Meglio
procedere secondo un rigore logico. È vero, come sostengono alcuni, che la corsa
agli armamenti può salvare l’economia europea? E rilanciare l’occupazione
industriale?
ANALISI DELLA REALTÀ
A queste domande cercherò di rispondere non in base alle mie convinzioni etiche
e politiche, ma attraverso l’analisi della realtà e dei dati (a consuntivo)
inerenti sia all’andamento delle spese militari, sia alla dimensione
dell’industria aerospaziale e della difesa in Europa.
I dati ufficiali del Consiglio Europeo1 ci dicono che dal 2014 al 2024 nei paesi
UE le spese militari sono più che raddoppiate a prezzi costanti (+121%). Sono
passate da 147 a 326 miliardi di euro.
All’interno delle spese militari, quelle specifiche per armamenti e
ricerca-sviluppo sono addirittura quadruplicate (+325%). Se consideriamo non i
Paesi UE, ma i Paesi europei della NATO le spese militari nel 2024 sono state di
più: 440 invece di 326 miliardi di euro. La crescita negli ultimi dieci anni
registra una tendenza simile.
TENDENZE DEL SETTORE
Secondo il rapporto pubblicato a novembre 2024 da ASD, European Aerospace,
Security and Defence Industries che riguarda i 27 Paesi UE + Norvegia, Regno
Unito e Turchia, a fine 2023 gli occupati totali diretti nell’industria
aerospaziale e della difesa in Europa risultano, un milione e 27 mila, di cui
518 mila relativi al militare (vedi il Grafico 1).
Il fatturato complessivo nel 2023 è stato di 290,4 miliardi di euro, di cui il
55 per cento nel militare. Partire dai dati forniti da ASD ha il vantaggio
dell’attendibilità e della continuità nel tempo, consentendo analisi e
valutazioni di natura strutturale sulle tendenze del settore.
Possiamo, infatti, analizzare cosa è successo in termini di fatturato e
occupazione nello stesso arco di tempo di dieci anni (2014-2023) nel quale le
spese militari sono cresciute del 90 per cento.
CRESCITA DEL 65 PER CENTO
I ricavi nel militare nell’intera industria del settore in Europa sono cresciuti
del 65 per cento, mentre l’occupazione è aumentata del 26 per cento da 407 mila
e 800 a 518 mila addetti.
La stessa dinamica occupazionale trova riscontro da una mia elaborazione sui
bilanci aziendali di 10 tra le principali big dell’industria aerospaziale e
della difesa europea2 per fatturato militare. Dal 2015 al 2024 il numero dei
loro occupati (nel civile e militare) è cresciuto in media del 23% (vedi il
Grafico 2).
Sulla base dei trend occupazionali registrati a consuntivo negli ultimi dieci
anni, possiamo azzardare alcune stime sull’incremento dei posti di lavoro
diretti e indiretti nell’industria della difesa in Europa nel prossimo periodo
2025-2035, prendendo a riferimento le previsioni di aumento delle spese militari
decise in ambito NATO.
Nel vertice di giugno all’Aia è stato deciso che i Paesi europei dell’Alleanza
Atlantica debbano arrivare, entro il 2035, a spendere un più 1,5 per cento in un
ambito ancora vago di “sicurezza allargata” e a raggiungere entro il 2035 una
spesa specifica in campo militare almeno del 3,5 per cento del loro PIL.
Le spese militari complessive passerebbero, quindi, da 440 a 969 miliardi di
euro l’anno. Un incremento pari al 120 per cento, una percentuale simile a
quella registrata nel periodo 2014-2024.
Pertanto, in base a quanto già successo negli ultimi dieci anni, possiamo
ipotizzare realisticamente un aumento dei posti di lavoro in campo militare
nell’industria aerospaziale e della difesa in Europa intorno al 25-30 per cento.
VALORE ASSOLUTO
In valore assoluto significa la creazione di 150-180 mila nuovi posti di lavoro
diretti. Calcolando l’impatto del settore nell’intera catena dei sub-fornitori
fino a quelli di terzo livello (circa 2 mila piccole-medie imprese secondo
l’ASD), possiamo stimare altri 120-170 mila nuovi posti di lavoro indiretti.
In tutto, quindi, un aumento previsto dell’occupazione da 270 a 350 mila unità.
Fatte le debite proporzioni, in Italia non si andrebbe oltre i 25-30 mila
occupati in più. Briciole in rapporto, ad esempio, ai posti di lavoro a rischio
nell’automotive.
Anche un recente rapporto di Ernst & Young (EY), uno dei principali network
mondiali di servizi professionali di consulenza, ha analizzato il potenziale
impatto economico dell’aumento della spesa militare europea, concentrandosi sul
settore manifatturiero dell’UE e sulla creazione di posti di lavoro.
SCENARI DIVERSI
Lo studio ha esplorato diversi scenari in cui i membri europei della NATO
aumentano la spesa per la difesa, in particolare per gli equipaggiamenti
militari (mediamente il 33 per cento delle spese militari nel 2024 rispetto al
14 per cento nel 2014), per rafforzare le proprie capacità difensive e ridurre
la dipendenza dagli Stati Uniti.
EY, nel suo rapporto, stima che se i membri europei della NATO aumentassero la
spesa annuale per gli equipaggiamenti militari di 65 miliardi di euro (passando
da 72 a 137 miliardi di euro), il conseguente aumento degli ordinativi per
l’industria della difesa europea, compresa la relativa catena di
approvvigionamento, ammonterebbe a 35,7 miliardi di euro e, secondo EY,
creerebbe forse 500 mila posti di lavoro in più.
Meno di un terzo dei 35,7 miliardi di euro aggiuntivi rientrerebbe
nell’industria militare europea in senso stretto; il resto ricadrebbe nella
catena di approvvigionamento. Ciò si traduce, comunque, nella creazione di circa
150 mila posti di lavoro diretti e aggiuntivi nell’industria militare europea.
Questa cifra coincide con quella contenuta anche in un nuovo rapporto di Bruegel
e Kiel Institute, due think tank (il primo europeo, il secondo tedesco)
specializzati in studi economici. Non solo, coincide anche con le mie previsioni
di 150-180 mila occupati diretti in più.
OCCUPATI INDIRETTI
Lo scarto tra le mie previsioni e quelle del rapporto di Ernst & Young riguarda
l’incremento di occupati indiretti nella catena dei sub-fornitori: 350 mila
contro 120-170 mila.
Il modello utilizzato da EY per calcolare l’aumento dei posti di lavoro in
relazione all’aumento delle spese per equipaggiamenti militari, è bottom-up.3
Al contrario, io ho utilizzato il coefficiente di moltiplicazione (1,02)
impiegato da ASD nel suo rapporto del 2022
https://www.asd-europe.org/news-media/publications/asd-reports-publications/economic-impact-report-2022/
tra occupati diretti e quelli indiretti occupati nell’intera catena dei
sub-fornitori fino a quelli di terzo livello.
MONTE SALARI DEI DIPENDENTI
Nel mio computo è esclusa la cosiddetta “occupazione indotta” dal riutilizzo
come spesa del monte salari dei dipendenti.
In ogni caso, anche se prendiamo per buona la previsione di EY dei 500 mila
posti di lavoro creati, è bene sapere che equivarrebbero a solo l’1,5 per cento
sul totale dei 33 milioni e centomila addetti nell’industria manifatturiera
europea (fonte Eurostat).
Pertanto, qualsiasi serio ragionamento sulle ricadute industriali e
occupazionali della corsa al riarmo non può prescindere dall’effettiva
dimensione economica e sociale del settore della difesa.
In Europa i ricavi nel militare dell’industria aerospaziale e difesa nel 2023
sono di 158,8 miliardi di euro. Solo lo 0,70 per cento del PIL dei 30 Paesi
europei considerati. Includendo anche i circa 80 miliardi di euro di impatto
economico indiretto il fatturato complessivo dell’industria militare non supera
l’1,1 pro cento del PIL, con un milione e 46 mila addetti tra diretti e
indiretti.
Una percentuale lontanissima dall’automotive, 3,7 per cento del PIL e 6 milioni
e 600 mila occupati solo nel manifatturiero. L’idea, quindi, che il gigantesco
piano di riarmo europeo rappresenti un’opportunità di crescita occupazionale e
di riconversione di un settore in crisi come l’automotive è smentita da questi
dati.
SPESA FOLLE
A fronte di una folle spesa di 800 miliardi aggiuntivi in 4 anni, in Italia
30-35 miliardi in più all’anno, l’impatto sul lavoro è alquanto modesto. In
alcuni casi concreti e circoscritti potrà rallentare la deindustrializzazione,
ma non la invertirà.
Senza contare che le spese militari sono soldi pubblici sottratti a sanità,
educazione, ricerca universitaria, transizione energetica e digitale, ambiente e
welfare. Tutti ambiti in cui, a parità di spesa, si creerebbero dal 40 al 120
per cento in più di posti di lavoro.
Per non parlare di un altro studio americano che dimostra l’impatto
occupazionale di un miliardo di dollari investito nel campo delle
telecomunicazioni (banda larga), nel settore della sanità (tecnologia
informatica), nel settore elettrico (smart grid). Si creerebbero rispettivamente
49 mila, 21 mila, 24 mila nuovi posti di lavoro. Da 3 a 7 volte in più rispetto
agli stessi soldi spesi in campo militare.
CONCLUSIONI
L’analisi dei dati dimostra ampiamente che raddoppiare o triplicare la spesa
militare in Europa, oltre a non cambiare gli equilibri strategici e funzionare
come deterrenza, non rappresenta un’inversione di tendenza alla crisi
industriale europea e ai processi di deindustrializzazione che coinvolgono
numerosi settori e territori.
Tale dinamica non alimenta né una forte espansione produttiva, tantomeno
dell’occupazione. Consente, viceversa, una forte crescita sia dei dividendi per
gli azionisti, sia degli ordinativi, dei ricavi e degli utili delle imprese
militari. E, soprattutto, della loro dimensione finanziaria attraverso
l’impennata delle loro quotazioni in Borsa.
Impennata quotazioni in borsa industrie belliche
Due esempi paradigmatici. A inizio gennaio del 2022, prima della invasione russa
in Ucraina, il valore di un’azione dell’italiana Leonardo era di 7,5 euro, al 5
agosto 2025 ha raggiunto 47,9 euro. Un incremento record del 538 per cento.
Nello stesso periodo il valore azionario della tedesca Rheinmetall è passato da
90 euro a 1.763 euro. Un incremento iperbolico del 1.859 per cento.
Tutto ciò grazie alle ingenti risorse dei singoli Stati destinate alle spese
militari e in nuovi armamenti e ai mercati finanziari controllati dai fondi
istituzionali come BlackRock, Vanguard, Capital Group, State Street Global,
Goldman Sachs, Fidelity Investments, Wellington Management, Invesco ecc. che al
contempo sono tra i principali azionisti di azionisti sia delle 5 big al mondo
per fatturato militare (Lockheed Martin, RTX, Northrop Grumman, Boeing e General
Dynamics), sia della tedesca Rheinmetall, delle britanniche BAE Systems e
Rolls-Royce, dell’italiana Leonardo, della trans-europea Airbus, della ucraina
JSC e di altre aziende europee che operano in campo militare.
Come ha scritto Maurizio Boni: “La retorica della “guerra di produzione”
utilizzata da Rutte […] trasforma la NATO da alleanza militare in cartello
industriale, dove la sicurezza diventa un pretesto per trasferimenti massicci di
denaro pubblico verso il settore privato della difesa”[7]
1 I dati sono quelli ufficiali del Consiglio Europeo
https://www.consilium.europa.eu/en/policies/defence-numbers/
2 Airbus, BAE Systems, Dassault, Hensoldt, Leonardo, Rheinmetall, Rolls
Royce, Saab, Safran, Thales.
3 Cioè dal “basso” verso l’“alto”, partendo dai dettagli per costruire una
visione d’insieme.
Segnaliamo:
https://pungolorosso.com/2025/08/17/liberta-per-marwan-barghouti-e-tutti-i-prigionieri-palestinesi/