(disegno di ottoeffe)
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LA «SEVERINE» A BARI CARICA BLINDATI DELL’ESERCITO. IPOTESI SULLA DESTINAZIONE
Lavoratori e militanti per la pace ci hanno segnalano l’ennesima presenza della
nave ro-ro «Severine» (n° IMO 9539078) nel porto di Bari.
È la stessa nave più volte notata negli scorsi mesi anche a Monfalcone, e di cui
Weapon Watch si è già occupata in un precedente articolo. Come hanno ripetuto
più volte i lavoratori e le organizzazioni sindacali di Monfalcone, infatti, il
porto non è abilitato ai movimenti di armi e munizioni, neppure quelli al
servizio delle Forze armate italiane, di cui invece è un hub molto frequentato.
Nello scorso settembre, il Centro Balducci di Trieste e la Tavola della Pace del
Friuli-Venezia Giulia hanno protestato pubblicamente contro questi movimenti.
A Bari la nave «Severine» ha caricato una decina di mezzi militari pesanti,
probabilmente i blindati “Freccia” dell’Esercito. Non sappiamo dove diretti.
La «Severine» a Bari, 6 febbraio 2025.
Particolare dei mezzi caricati in stiva.
Da diverse fonti giornalistiche, sappiamo che «Severine» e la gemella «Capucine»
(IMO 9539066) hanno sostituito il ro-ro «Excellent» della Visentini Giovanni
Trasporti Fluviomarittimi nelle spedizioni marittime per conto del Ministero
della Difesa italiano, tramite una gara vinta dal colosso danese DSV,
affidatario abituale di questi servizi. Anche di DSV ci siamo occupati
recentemente, considerando che con l’acquisto dell’ex DB Schenker, filiale delle
ferrovie tedesche e grande trasportatore di armamenti in tutt’Europa, e dopo le
acquisizioni negli anni di specialisti come Panalpina, Agility e ABX-Saima
Avandero, DSV ha conquistato una posizione di primissimo piano nella logistica
europea per la difesa.
«Severine» e «Capucine» hanno la stessa bandiera (Malta), lo stesso manager
(Anglo-Eastern UK Ltd, con sede a Glasgow, Scozia) e lo stesso armatore, Cadena
Ro-Ro, che fa capo a CLdN RoRo, compagnia che ha sede in Lussemburgo meglio nota
sotto l’insegna Cobelfret-Compagnie Belge D’Affrêtements. Sono entrambe navi
abbastanza recenti, di quella tipologia che serve agli eserciti per muovere in
una stessa spedizione grandi quantità di materiali.
Prima del contratto militare la era impiegata nel Mare del Nord, area geografica
completamente abbandonata da due anni a favore di quella del Mediterraneo.
Sappiamo per esperienza che «Severine», come tutte le navi “militarizzate”,
profitta delle norme internazionali che consentono di spegnere il transponder
AIS in caso di «rischio di compromissione della sicurezza della nave» (IMO
guidelines, Resolution A.917(22)), anche se le rotte frequentate dalla nave non
ci sembrano affatto rischiose.
Negli ultimi tre mesi, «Severine» ha toccato in più occasioni Monfalcone.
Di norma riduce le fermate nei porti al tempo strettamente necessario alle
operazioni in banchina. Nel periodo, le soste lunghe sono state due, 9 giorni a
Crotone, 4 a Bari. Di quest’ultima sappiamo che la nave ha atteso il carico,
ovvero i mezzi gommati militari entrati uno a uno in porto. Il giorno 10
febbraio la nave si è mossa da Bari ufficialmente diretta a Ortona.
Gli scali della “Severine» tra dicembre e febbraio 2025.
Significativamente, la nave non ha dato segnale AIS in occasione di probabili
consegne di armamenti nel viaggio A/R da Monfalcone tra 6 e 14 dicembre 2024;
poi da Monfalcone ad Alexandroupoli tra 2 e 8 gennaio 2025, e da Alexandroupoli
a Crotone tra 8 e 11 gennaio. Infine ci sono 11 giorni tra la toccata di Savona
(25 gennaio) e l’arrivo a Bari (6 febbraio).
Deduciamo che un viaggio tra Monfalcone e Alexandroupoli si compie mediamente in
4-6 giorni, quindi quello compiuto nella prima metà di dicembre può
plausibilmente essere Monfalcone-Alexandroupoli-Monfalcone (in otto giorni).
Com’è noto, il porto greco di Alexandroupoli è il terminale marittimo usato
dagli Stati Uniti per il materiale da spedire via terra (ferro/gomma) in
Ucraina.
Non va dimenticata l’assiduità della nave nel porto
Per il 9 febbraio c’è una chiama imprescindibile.
Non solo le Olimpiadi di cui abbiamo scritto un anno fa, ciò che accade nelle
terre interne, lungo i rilievi di tutta la penisola, non può lasciare
indifferenti.
Mentre la terra brucia per via della crisi climatica in cui siamo immersi,
annusatone il sangue, i predoni dell’estrattivismo che fa rima con accanimento
apparecchiano un banchetto di corvi sulla pretesa carogna di intere comunità,
decisi a spremere dal turismo tutto quel che possono.
Disboscano foreste giunte al limite di sopportazione e colpite da bostrico e
dissesti assortiti, percorrono la strada della cementificazione esasperata per
nuove strutture, infrastrutture e palazzetti dal gusto distopico. Attraggono
mosche sullo zucchero di non-altrove utili a mettere in scena experience
fotocopia, fatte degli stessi panorami fitti di vetro e cemento, degli stessi
sapori, odori, colori e ritmi: recluse a sciare in cattedrali post-atomiche, a
passeggio per i “corsi” di ex villaggi di pastori e stalle, ingozzandosi degli
stessi cibi di lusso.
Venghino siori venghino, il ceto medio si indebiti per una settimana bianca
all-inclusive, terme-spa-motoslitta e pesce di mare. Per un giro a Cortina a
respirare la stessa aria di Milano e replicarne le stesse pose fatte di vasche
dello shopping e apericena.
Sono gli ultimi colpi di maglio di un capitalismo – col capitale degli altri
però (cioè soldi nostri) – che non si arrende e non sa immaginare altro che
portare allo sfinimento un modello-cadavere fatto di nuovi piloni e cannoni via
via più performanti (si legga: idrovori).
Beautiful che incontra il sogno di soldi facili e il fatalismo della corsa
all’oro nel Klondike, l’eterno presente capitalista la cui mentalità viene
diffusa a pioggia da soap opere eterne, con Ridge in decadenza che giunto
all’ottantesima stagione – i primi impianti coincidono grossomodo con l’Italia
repubblicana – è costretto a recitare aggrappato al deambulatore e col catetere
infilato.
Un modello da gusto del macabro che attrezza pacchetti divertimento per
qualsiasi gusto purché non siano rispettosi di luoghi che muoiono, purché non
spingano a calarvisi incuriositi, ma a colonizzare; tantopiù che all’occorrenza
si può sempre far sbriluccicare gli specchietti condendoli con la retorica del
“recupero” della montagna abbandonata, dal recover washing si potrebbe dire.
Champagne e motori; sfarzo sguaiato e arroganza, il requiem specchiato nella
nostra decadenza fatto di topi festanti mentre la nave affonda, mentre non
soltanto questi abbagli di uno sviluppo che non c’è se non nei conti in banca di
chi lo sfrutta andrebbero spazzati via, ma con loro tutta un’infrastrutturazione
nociva, le narrazioni sull’aria sana, i miti romantici dell’alpe e del quanto si
stia bene in montagna.
Tutto ciò non è emendabile, non perfettibile, non c’è compensazione o
posti-lavoro che tenga. È da abbattere in toto, fino a festeggiarne il cadavere.
Solo allora sarà possibile provare a immaginare qualcosa che possa avere senso.
Il quadro che abbiamo tracciato è piuttosto apocalittico, e tutt’attorno ai
monti non è meglio. L’intero pianeta umano sta subendo scosse telluriche forti,
capaci di disarticolare e annichilire il pensiero dei più positivi.
È frustrante trovarsi immersi in questo clima, sa dell’amara perdita di ogni
speranza e voglia di rimettersi in gioco.
Del resto i primi a rendersi conto che la pacchia del turismo invernale è finita
sono proprio i costruttori di impianti di risalita, che infatti cercano
grottescamente di rifilare le loro cabinovie alle città, spacciandole per mezzi
di trasporto urbani sostenibili ed eco-friendly.
È successo a Kotor in Montenegro, sta succedendo a Trieste, prossimamente
succederà a Genova. A Trieste la mobilitazione spontanea di cittadini e comitati
di quartiere è per ora riuscita a fermare un progetto ad alto impatto
ambientale, che prevede la distruzione di un bosco protetto per permettere la
costruzione di una cabinovia al servizio delle navi da crociera e del loro
indotto. Diciamo “per ora” perché dopo due anni di mobilitazioni e di azioni
legali è finalmente saltato il finanziamento PNRR; ma l’ineffabile ministro
Salvini ha promesso un finanziamento ad hoc, con fondi ministeriali, perché lo
Stato e la ditta appaltatrice, la Leitner, non possono permettersi di essere
messi in scacco da un’accozzaglia di pezzenti.
Proprio per questo è ancora più importante esserci a ogni latitudine, tener duro
e non abbandonarsi al fato.
Siamo in ottima compagnia, la rete che sta stringendo le maglie è larga e
importante, dobbiamo darle continuità e forza ben oltre alle Olimpiadi, perché
ne va anche delle nostre vite, della differenza che corre tra arrancarvici e
viverle.
Abbiamo deciso di aderire all’appello La montagna non si arrende e abbiamo
deciso di mettere a nudo le difficoltà che attraversano noi e l’intero
paesaggio.
Ci sono iniziative di tutti i tipi, sono ben accette anche piccole testimonianze
pressoché individuali, contribuiamo a propagare l’onda, partecipate, inventatevi
qualcosa e stringete rapporti.
Dal canto nostro, noi abbiamo deciso di non concentrarci su una manifestazione
singola, ma di contaminarci e contaminare, spalmandoci e stando nella galassia
di iniziative che si vanno a creare.
Restituiremo le esperienze dei nostri corpi. A dopo il 9, ancora e ancora.
L'articolo Al 9 febbraio: la montagna non si arrende, e nemmeno noi sembra
essere il primo su Alpinismo Molotov.
COSA LEGA LA “GUERRA MONDIALE A PEZZI” ALLE LOTTE CONTRO I MALFATTORI DELLA
LOGISTICA
Questa volta la notizia riguarda FedEx, ma si tratta della 33a indagine di
questo tipo in cinque anni avviata dalla Procura di Milano, sempre per frodi
fiscali e previdenziali e falsi documenti che riguardano la somministrazione di
manodopera. I giudici di Milano applicano uno schema fisso: rilevate le frodi ai
danni del fisco, le valutano e sequestrano un pari importo all’azienda, che poi
lo riconosce in via definitiva per saldare la propria posizione, fatte salve le
responsabilità penali dei manager. Nella loro rete è finito il “fior fiore”
della logistica italiana, che in realtà si configura come un sistema per
truffare i lavoratori, in buona parte precari e immigrati. Detto in altro modo,
gli uffici legali e di consulenza dei grandi gruppi globali continuano a
elaborare nuove versioni del caporalato e del lavoro schiavistico, la più
recente – anche dopo i sequestri e la composizione giudiziale – quella di
costringere i lavoratori alla rinuncia del Tfr in cambio dell’assunzione
prevista dagli accordi.
C’è una impressionante coincidenza tra i grandi gruppi indagati e poi
“ravvedutisi” e gli operatori mondiali della logistica militare, quelli che
portano le armi e i proiettili nelle guerre in corso e che organizzano le guerre
future.
Il sequestro che pochi giorni fa ha colpito FedEx (46 milioni di euro) fa
seguito a quelli subiti dalle filiali italiane di GXO (83,9 milioni, luglio
2024), UPS (86 milioni, dicembre 2023), Dhl (23 milioni, febbraio 2023; 20
milioni, giugno 2021, poi versati 35 in via definitiva), Geodis (37 milioni,
dicembre 2022, finita poi in amministrazione giudiziaria), DB Schenker (nel 2022
commissariata per “infiltrazioni mafiose”, poi condannata a versare 10 milioni
al fisco e assumere 200 lavoratori). Sono tutti giganteschi gruppi americani ed
europei che vantano una grande esperienza nella cosiddetta defence logistics,
primari fornitori di servizi ai rispettivi apparati militari e ministeri della
difesa e operatori sul mercato globale.
Tutti conoscono la vocazione militare di FedEx. Fred Smith, il suo fondatore, è
stato pilota nei Marines in Vietnam. Un gran numero di ex militari lavora in
FedEx a tutti i livelli, reclutati con programmi specifici, siano ufficiali
piloti dell’Airforce o mogli di militari in servizio. Già sei mesi prima della
fine della ferma, il personale militare può frequentare corsi di formazione per
l’ingresso in azienda. FedEx invia pacchi dono personali in tutte le basi USA
sparse sul globo. È intrisa di cultura militare: i dipendenti che compiono
prestazioni esemplari al di là delle normali responsabilità lavorative ricevono
il premio “Bravo Zulu” (BZ), espressione con cui nella Marina militare si indica
il “lavoro ben fatto”.
Non c’è da stupirsi se FedEx è uno dei principali fornitori del Pentagono. Un
solo appalto, quello per la consegna di pacchetti espresso interni e
internazionali, valeva nel 2017 2,35 miliardi di dollari per cinque anni,
replicato nel dicembre 2022 con un appalto quadriennale da 2,24 miliardi di
dollari, da spartire insieme a Polar Air Cargo e UPS ma prolungabile fino al
2030. Fedex partecipa al programma CRAF (Civil Reserve Air Fleet), che consente
al Dipartimento della Difesa la requisizione (a prezzi di mercato) dei cargo
wide-body e a Fedex di partecipare alle gare di appalto per i servizi charter
della difesa.
Un fotogramma di Cast Away, film di R. Zemeckis (2000). Nel cerchio blu il
fondatore di FedEx, Fred Smith, nel ruolo di se stesso che dà il bentornato al
protagonista Chuck, interpretato da Tom Hanks (nell’ovale giallo).
Gli appalti della difesa, a partire da quelli negli Stati Uniti, sono
ambitissimi da tutti i grandi operatori della logistica e dei trasporti. Sono
ben remunerati, regolari, migliorano l’immagine commerciale. Tutti i gruppi
internazionali inquisiti a Milano servono gli apparati militari USA ed europei.
Ad esempio DB Schenker, filiale delle ferrovie tedesche, trasportava armamenti
in tutt’Europa prima di essere venduta a DSV, azienda danese che negli anni ha
inglobato specialisti come Panalpina, Agility e Saima Avandero, e che da tempo
garantisce praticamente in monopolio servizi a terra e in mare per le forze
armate italiane.
Notiamo che sinora le inchieste della magistratura italiana non hanno riguardato
i maggiori operatori della logistica globale, le gigantesche compagnie
armatoriali e marittime. I giudici sono partiti dalle cooperative fittizie che
gravitano attorno ai grandi centri logistici del nostro paese, e sono risaliti
lungo la catena di fornitura del lavoro. È tecnicamente difficile andare oltre e
coinvolgere la logistica marittima, che opera sfruttando ampiamente i porti
franchi doganali, i paradisi fiscali, le bandiere ombra, i registri navali di
comodo, e in strutture portuali che sono spesso controllate dalle stesse
mega-compagnie armatoriali. Eppure i padroni del traffico mondiale dei container
come MSC, Maersk, CMA-CGM, Hapag-Lloyd e i loro alleati d’Oriente stanno
costruendo le loro reti a terra, integrando filiere e modalità inseguendo la
catena da valore: l’integrazione di fatto c’è, ma è difficile dimostrare la
co-responsabilità.
Bisogna tener conto, poi, che chi opera stabilmente con gli apparati militari
deve di solito fornire garanzie onerose: utilizzare la bandiera nazionale,
rispettare gli standard di sicurezza più esigenti, applicare i contratti di
lavoro nazionali e garantire la cittadinanza del personale imbarcato. Per questa
ragione, l’armatore danese Maersk mantiene sotto bandiera americana più di
quaranta navi (portacontenitori, ro-ro, petroliere, general cargo), così come la
tedesca Hapag-Lloyd (sette navi). La partecipazione ai programmi del Military
Sealift Command americano permette – analogamente al cargo aereo – di
partecipare in posizione preferenziale ai bandi per i contratti charter.
Pur rappresentando una frazione tutto sommato ridotta del commercio mondiale, la
logistica per la difesa sta sempre più modellando il mondo dei trasporti e le
relative relazioni di lavoro. Tempo fa l’amministrazione militare italiana fu
costretta a vietare al proprio personale di pubblicare i propri profili
LinkedIn, per cercare di arginare l’emorragia di ufficiali verso impieghi in
Amazon e nei magazzini logistici. Il settore si sta trasformando e adottando le
prassi autoritarie – ipocritamente chiamate “efficienza” – che puntano sulla
divisione dei lavoratori (da una parte caste privilegiate e tutelate, dall’altra
paria senza diritti, con salari infimi e nessuna prevenzione degli infortuni),
mentre pratica ampiamente le frodi fiscali e previdenziali e lascia mano libera
ai grandi monopoli multimodali, too big to convict.
In fondo è a questo che servono le guerre.
Riceviamo e diffondiamo
(disegno di ottoeffe)
.
I tuoi occhi sono pieni di sale
Di quel sale mattutino che tu prendi in riva al mare
Di quel sale che a pensarci ti viene voglia di guardare.
(rino gaetano, i tuoi occhi sono pieni di sale)
.
Ho visto negli ultimi giorni due versioni ben riuscite di altrettante commedie
di Eduardo De Filippo. La prima è stata Natale in casa Cupiello, messa in scena
da Salemme e la seconda Gennareniello, con regia di Lino Musella. Non scontata
ma prevedibile la buona riuscita dei due lavori, considerando che Musella aveva
affrontato l’esame più difficile portando in giro per anni un importante
spettacolo sull’Eduardo pubblico e privato, e che Salemme è uno degli ultimi
rimasti tra quegli attori che sono stati stabilmente nella compagnia De Filippo
per un po’ di anni (non ricordo chi scrisse che se tutti gli attori napoletani
che sostengono di aver recitato con Eduardo dicessero il vero, avremmo a Napoli
più grandi interpreti che panettieri o salumieri).
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/01/salemme-VEED.mp4
(credits in nota1)
Un elemento centrale di Gennareniello sono gli occhi. Quelli del protagonista si
illuminano davanti alla bellezza della giovane vicina e rivivono una passione
senile e commovente grazie alla scenata di gelosia della moglie; poi ci sono
quelli di Tommasino, che porta due fondi di bottiglia al posto degli occhiali e
che vede pochissimo; e quelli di Uocchie c’arraggiunate, canzone napoletana per
la quale Eduardo aveva una predilezione, come spiega anche Peppe Barra, che in
una sua versione ricorda come “il direttore” se la facesse spesso cantare da
Concetta Barra, sua madre, che stimava molto, e che era anche una bravissima
cantante. Nelle attrici ancora di più che negli attori, si dice che Eduardo
avesse la capacità di vedere il talento al primo sguardo.
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/01/angelaluce_defilippo.mp4
(credits in nota2)
Qualche settimana fa sono stato a una presentazione di La scomparsa dei
colori, libro in cui Luigi Manconi racconta le più interessanti sfaccettature e
implicazioni della sua progressiva perdita della vista. Con Manconi, che non ha
perso con gli anni la sua capacità di raccontare storie, c’era il solito
Maurizio De Giovanni, che ha sfoggiato l’altrettanto solita sfilza di banalità,
arrivando persino a dire – con una boria da pretino dell’Ottocento – che in
fondo chi subisce una tragedia di questo genere è fortunato, perché può
sfruttare al meglio sensi come l’olfatto e l’udito. Mentre Manconi lo smentiva
con eleganza, a me veniva in mente questo:
https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/01/troisi.mp4
(credits in nota3)
Gli occhi più belli che ho visto, seppure in foto, nella mia vita, sono quelli
di mio nonno paterno, morto tre anni prima che io nascessi. Erano blu scuro –
come i miei, ma più belli – profondi, autorevoli. Pare che il nonno fosse un
uomo molto carismatico, gentile ma risoluto. Non era esattamente di sinistra,
anzi piuttosto di destra (piuttosto fascista, se proprio vogliamo dirla tutta),
ma tant’è.
Anche l’altro mio nonno, il papà di mia madre, aveva occhi molto belli. Era un
artista, ma viveva come un artigiano, o meglio come un operaio. Cesellava
metalli preziosi: di lui restano alcune opere in giro per case e in qualche
museo della città (la maggior parte sono invece riconducibili, purtroppo, agli
importanti gioiellieri a cui vendeva), l’arte che ha trasmesso alle sue
studentesse, l’odore di pece bruciata, e la polvere d’oro sul suo banco di
lavoro in un legno scuro, pieno di scritte fatte coi ferri, dai nipoti.
You sign your own name / Firmi con il tuo nome
and I sign mine. / e io firmo con il mio.
They’re both the same but we still get separate rooms. / Sono uguali ma viviamo
ancora in stanze separate. […]
It all looks fine to the naked eye / Sembra vada tutto bene a occhio nudo
but it don’t really happen that way at all. / ma non è affatto così che va.
(the who, naked eyes)
Ieri è stato il decimo anniversario della morte di Pino Daniele. Le
commemorazioni sono state abbastanza banali, non hanno reso quasi nulla
dell’importanza di questo autore nella produzione poetica della città,
l’incredibile forza narrativa dei suoi testi, soprattutto negli anni Ottanta, la
sua genialità musicale e la capacità di inventare non uno, ma mille generi
contaminando tutto quello con cui si era nutrito nel corso della sua
formazione artistica autodidatta.
Nel suo editoriale di fine anno il direttore di Repubblica Napoli ha parlato di
Pino Daniele e di Antonio Conte mettendoli in relazione rispetto alle sfide che
attenderebbero la città nel nuovo anno. Personalmente non ci ho capito molto. Mi
sono ricordato invece che a inizio anni Novanta Pino Daniele aveva scritto una
bella canzone per la sua nuova compagna, che sarebbe divenuta poi la sua seconda
moglie.
Occhi blu
che si fermano sul mondo e guardano giù,
dove il mare è più profondo,
dove è nascosta la felicità.
Facciamoci del male
della serie senza pietà.
Occhi blu
diritto in fondo a questa strada ci sei tu.
Troppo seria questa giornata
per dire che tra noi non finirà.
Anche se ti comporti bene
vedrai qualcuno ti giudicherà
[…]
Ti prego non mi mollare
Io sto buono sulo cu’ te.
Occhi blu
che ti guardano le spalle,
non ti senti più
un uomo solo e senza palle.
Noi che sciupiamo questa verità
in un mondo di bugie ‘e ‘sta sfaccimma ‘e società.
(a cura di riccardo rosa)
(disegno di martina di gennaro)
GENNAIO
LA CONVERGENZA IMPOSSIBILE. PANDEMIA, CLASSE OPERAIA E MOVIMENTI ECOLOGISTI
Siamo a Trieste, e mio zio, come altre migliaia di persone della sua
generazione, è sceso in piazza con il movimento No Green Pass, e ha
solidarizzato con chi, come mia zia, è stata discriminata e, nel mezzo di una
pandemia mondiale, sospesa dal proprio posto di lavoro. L’affiliazione a mondi
culturali antitetici è mitigata da una comune origine di classe e
dall’appartenenza alla stessa coorte anagrafica. Per queste e altre ragioni mio
zio non può credere che mia zia possa essere una negazionista climatica. Per
questo, o forse per affetto, o forse perché sono trent’anni che ogni Natale
prova a portare il discorso a tavola, dopo almeno un paio di tartine ma prima di
aver cominciato con i piatti forti. O forse per paternalismo. (leggi l’articolo)
FEBBRAIO
C’È DA SPOSTARE UNA MACCHIA. L’ULTIMO BOSCO SECOLARE DEL SALENTO SFRATTATO DAI
CIRCUITI PORSCHE
“Le automobili che vediamo su strada al novanta per cento sono passate
a Nardò”, afferma un pilota tester del Nardò Technical Center durante
l’inchiesta di Report. NTC è un complesso di piste di collaudo di proprietà del
gruppo Porsche, con un’area di settecento ettari, un circuito ad anello lungo
quasi tredici km, venti piste e impianti prova, per il quale passano le auto di
tutte le marche e di tutte le gamme, non solo le Porsche (il grigio dell’asfalto
del circuito ha ispirato la Ferrari grigio Nardò). All’interno dell’anello
resiste (inaccessibile alla collettività) il bosco d’Arneo, ultimo pezzo di un
bosco mediterraneo secolare, sito di interesse comunitario che rientra nella
riserva naturale Palude del Conte e Duna costiera, con specie protette e habitat
prioritari della rete Natura 2000, tutelati anche dalla Direttiva Habitat
dell’Unione Europea per la salvaguardia della biodiversità. (leggi l’articolo)
MARZO
“LA CORDA SI È TIRATA TROPPO ASSAI”. LO SCIOPERO DEI CORRIERI GLS DI NAPOLI E
PROVINCIA
“Te l’ho detto, stamattina non usciamo… finché non ci riconoscono i nostri
diritti, di qua non ci muoviamo!”. Il ragazzo con la tuta azzurra urla nello
smartphone per vincere il frastuono delle auto che gli passano accanto, ma anche
sopra la testa, sul cavalcavia che sormonta via Ferrante Imparato, all’altezza
dei cancelli della Gls di Poggioreale. Un collega gli passa accanto, il ragazzo
lo inquadra col telefono e gli fa cenno di salutare. Poi le voci si smorzano,
nel piazzale dello stabilimento sono ricominciati i cori: “Puos’ ‘e sord, puos’
‘e sord, puos’ ‘e sord…”; “Stamattina non si entra, stamattina non si entra…”.
(leggi l’articolo)
APRILE
DISTRUGGERE GLI SPAZI PUBBLICI. BOLOGNA DA CITTÀ PROGRESSISTA A CITTÀ
NEOLIBERISTA
Tutto è accelerato in questo periodo a Bologna. La presentazione di nuovi
progetti urbanistici sì è fatta frenetica, i cantieri avanzano (e qualche volta,
inaspettatamente, arretrano). E anche l’attacco verso chi si oppone alle
politiche urbanistiche del Comune ha cambiato segno: in un paio di occasioni è
intervenuta la polizia a farsene carico, con i manganelli. Per cercare di capire
facciamo un passo indietro, e iniziamo con una fotografia… (leggi l’articolo)
MAGGIO
LA FINE DEL PROCESSO ALLE ONG. DIECI ANNI DI CALUNNIE CONTRO LA SOLIDARIETÀ IN
MARE
Il 19 aprile si è concluso il più grande processo contro la solidarietà in mare,
con le Ong impegnate in operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo
centrale sul banco degli imputati. Ventuno membri degli equipaggi di Jugend
Rettet, Save the Children e Medici Senza Frontiere sono stati prosciolti dal
giudice dell’udienza preliminare di Trapani, perché “il fatto non sussiste“.
Questa vittoria arriva dopo sette anni di calvario, costato milioni di euro di
soldi pubblici, oltre quaranta comparizioni in aula e il deterioramento
dell’imbarcazione Iuventa, sequestrata e lasciata in stato di abbandono nel
porto di Trapani dal 2017. (leggi l’articolo)
GIUGNO
NEL PIATTO DEI GRANDI DEL MONDO. APPUNTI DAL G7 IN PUGLIA
Quando vedi asfaltare le strade stanno arrivando le votazioni. Se vivi al sud lo
sai, lo capisci più o meno quando impari come frenare sullo sterrato con la bici
senza rotelle. Eppure, quest’anno l’assioma scricchiola: vedo strade
scarificate, rulli e bitume ma le urne hanno appena chiuso. Prima che
il fatalismo meridionale vacilli sotto la parvenza che qualcosa sta cambiando,
il rumore di un elicottero in lontananza mi conforta: è il G7, il vertice
annuale dei capi di stato e di governo. Quest’anno tocca
all’Italia presiederlo, Giorgia Meloni ha scelto di accogliere i ministri delle
principali democrazie industrializzate del mondo dal 13 al 15 giugno in un
resort di lusso in provincia di Brindisi, a Savelletri di Fasano. (leggi
l’articolo)
LUGLIO
L’ARTE DELLO SGOMBERO. CONSIGLI PER LIBERARE LE PROPRIETÀ DAI LORO ABITANTI
Negli ultimi anni ho lavorato con proprietari immobiliari, ho respirato l’aria
stantia degli uffici comunali e ho visitato le bigie stanze dei commissariati di
quartiere. I giorni che mi restano sono pochi, ma non mi dilungherò in metafore
sul tramonto, o inverno della vita. Amai poco le metafore, così come detestai le
frasi convenzionali dei mediocri lavoranti che accompagnavano le mie giornate:
ufficiali giudiziari, piccoli proprietari di palazzine maltenute, poliziotti in
borghese, agenti immobiliari. Ti lascio queste mie note dove raccolgo un
compendio di quel che ho imparato sull’arte dello sgombero.
AGOSTO
IL CROLLO DI SCAMPIA E LA CITTÀ DEGLI EVENTI SACRIFICALI
Capita ciclicamente in questa città che tutta la violenza, la povertà, il
malgoverno, tutto l’odio e la diffidenza tra le classi, l’incuria amministrativa
e l’ipocrisia istituzionale, tutte queste cose improvvisamente collassino,
letteralmente sprofondino in un punto preciso, microscopico, delimitato e si
portino via con sé una o più vittime sacrificali. La sensazione è che questo
accada sempre più spesso, che gli intervalli tra un sacrificio e l’altro siano
sempre più brevi, e la conta dei sacrificati ogni giorno più lunga. In realtà,
con il passare del tempo la memoria pubblica scolora e dall’elenco decadono i
nomi più antichi; al loro posto, in testa, si aggiungono quelli dei nuovi
sacrificati. (leggi l’articolo)
SETTEMBRE
DOVE SCORRE LA SENNA. QUARANT’ANNI DELLA LIBRERIA ITALIANA TOUR DE BABEL A
PARIGI
“Nella primavera del 1981, dopo un paio di visite a tre compagni del Veneto che
da qualche tempo sono a Parigi, decido di rimanere anche io per qualche mese. Il
10 maggio Mitterrand viene eletto presidente e, subito dopo, le elezioni danno
alla sinistra la maggioranza assoluta. La situazione dei rifugiati italiani (che
pure all’epoca erano pochissimi a Parigi: la maggior parte di quelli che
scappavano dall’Italia era sparpagliata per il mondo) cambia. Da paese a
rischio, a tappa europea prima di partire verso un altro continente,
la Francia si trasforma in terra accogliente. Io stesso pensavo di restarci solo
per qualche mese, per poi andare in Messico”. (leggi l’articolo)
OTTOBRE
SFRUTTAMENTO E ANGHERIE NEL LAVORO SOCIALE. UN’INTERVISTA CORALE SUL CASO DI
ALMATERRA A TORINO
“Almaterra è un’associazione che si descrive come “associazione di donne e per
donne”, che vuole tutelare le donne e le soggettività vittime di violenza di
genere e di qualsiasi forma di discriminazione, che sia di razza o a livello
lavorativo. Ci sono diversi sportelli: uno per il supporto psicologico, uno
legale, lo sportello per il lavoro, il laboratorio di italiano, e altri ancora.
Per ogni servizio c’è una persona di riferimento. Io ho lavorato per Almaterra
circa un anno e tre mesi, nella prima accoglienza. Era, in pratica, il primo
ufficio dal quale si passa appena si entra nell’associazione, in cui confluivano
tutte le persone che attraversavano lo spazio. Le mie mansioni erano attività di
segreteria: curare i social, rispondere alle mail e al telefono
dell’associazione, gestire gli appuntamenti di tutti i vari servizi”. (leggi
l’articolo)
NOVEMBRE
SPIAGGE PRIVATIZZATE E MARE NEGATO. IL GOVERNO PROROGA ANCORA LE CONCESSIONI
BALNEARI
“Almaterra è un’associazione che si descrive come “associazione di donne e per
donne”, che vuole tutelare le donne e le soggettività vittime di violenza di
genere e di qualsiasi forma di discriminazione, che sia di razza o a livello
lavorativo. Ci sono diversi sportelli: uno per il supporto psicologico, uno
legale, lo sportello per il lavoro, il laboratorio di italiano, e altri ancora.
Per ogni servizio c’è una persona di riferimento. Io ho lavorato per Almaterra
circa un anno e tre mesi, nella prima accoglienza. Era, in pratica, il primo
ufficio dal quale si passa appena si entra nell’associazione, in cui confluivano
tutte le persone che attraversavano lo spazio. Le mie mansioni erano attività di
segreteria: curare i social, rispondere alle mail e al telefono
dell’associazione, gestire gli appuntamenti di tutti i vari servizi”. (leggi
l’articolo)
DICEMBRE
“GIORNALISTA, PENSAVI CHE FACEVAMO IL FUOCO?”. A MILANO, CANDELE NELLA NEBBIA
PER RAMY
A Milano nei giorni scorsi ci si svegliava nella nebbia e fino a metà mattina si
faticava a vedere poco più in là di qualche decina di metri. All’imbrunire, i
contorni dei palazzi si confondevano di nuovo, le auto sparivano e si
distinguevano solo le insegne al neon e le luci dei semafori. A Corvetto, nella
periferia sud-orientale, la nebbia era più fitta che altrove per la vicinanza
alle aree agricole attraversate da rogge e canali intorno all’Abbazia di
Chiaravalle. Un paesaggio rurale difficile da immaginare attraversando le vie
della parte più storica e densa di Corvetto. Da piazzale Gabrio Rosa, il punto
di congiunzione tra gli isolati costruiti nella seconda metà degli anni Venti
dall’Istituto autonomo case popolari per ospitare “i poveri e i poverissimi”
della città e le espansioni successive, si può scorgere il Parco Agricolo Sud,
ma la nebbia di sabato sera aveva fatto svanire l’orizzonte. (leggi l’articolo)
Riceviamo e diffondiamo:
DISERTARE LA LINEA DEL FRONTE
Sguardi e testimonianze sulla mobilitazione totale nella “guerra giusta”
infinita
In epoca capitalista, il fronte di uno Stato in guerra non è solo la trincea o
l’industria militare, ma il dispiegarsi di una mobilitazione totale della
popolazione da mutare in “massa disciplinata”, disponibile a funzionare secondo
gli scopi bellici. Nel trionfo contemporaneo della “guerra giusta” – dalle
«operazioni di polizia internazionale» del 1990-91, alle «operazione militare
speciale» della Russia, «resistenza del “mondo libero”» in Ucraina, «autodifesa»
di Israele – coloro che disertano ci forniscono una bussola etica e materiale
per opporci al mondo-guerra. C’è ancora un’umanità che si sottrae, anche dentro
al complesso scientifico-militare-industriale più sofisticato. Quest’incontro è
per informarsi, per supportare i disertori e per confrontarci sulle forme che la
mobilitazione totale può assumere, a partire dalla rilevanza della profilazione
digitale nel definire i confini della cittadinanza contro gli indisciplinati,
come i registri elettronici “Gosuslugi” in Russia e “Oberih” in Ucraina
dimostrano e come l’epoca pandemica ci ha mostrato anche qui.
INTERVERRANNO:
• un disertore di Kharkov parte del gruppo anarchico Assembly, legato alle reti
di mutuo appoggio dei disertori sul fronte russo/ucraino
• una refusenik di Gerusalemme parte di Mesarvot, rete di supporto agli
obiettori di coscienza in Israele (in chiamata)
• le compagne di Torino diserta, redattrici dell’archivio
campiselvaggi.noblogs.org, sulla centralità del progresso tecnico nella
mobilitazione alla guerra
A seguire PRANZO BENEFIT per Torino diserta!
SABATO 14 DICEMBRE 2024, ALLE ORE 10:00
Associazione “La Credenza”, via Walter Fontan 31, Bussoleno
Nella prima parte di questa disamina abbiamo affrontato due differenti approcci:
quello che pretende che il potere garantisca la fruizione in sicurezza
dell’adrenalina facile e quello colpevolizzante verso l’escursionista per
scaricare su di lui le responsabilità di politica e marketing, cioè di chi l’ha
invogliato a andare in montagna promettendo adrenalina facile e sicura.
In questo secondo pezzo vorremmo dar conto della visione Molotov, che è
radicalmente opposta a entrambi agli approcci precedenti, perché li considera
facce della stessa medaglia: l’estrattivismo turistico che va contestato in
maniera radicale. La voce molotova promuove la conoscenza e il rispetto del
territorio, la consapevolezza dei propri limiti e la responsabilità
nell’assunzione del rischio. Per farlo, a seguito di una prima analisi,
utilizzeremo un esempio assurto alle cronache quest’estate.
PARTE TERZA
– LA VERSIONE MOLOTOV –
Le vere lacune, quello che manca in toto nel dibattito, sono conoscenza e
consapevolezza di quel che si sta andando a fare. È più che evidente. E infatti
si commentano drammi senza capacità di analizzarli, additando.
Se ipotizzassimo una libertà di scelta consapevole e informata non sarebbe
necessario garantire qualcuno, ma semplicemente assumere responsabilità senza
pretesa di voler distribuire colpe. Come in ogni cosa della vita se ci si infila
nei casini ci si arrangia, se non si è sicuri si evita.
Detto in pratica, secondo noi la responsabilizzazione avrebbe senso se servisse
a smontare l’idea che tanto, dovesse andar male qualcosa, qualcuno dall’alto dei
cieli aiuterà se non si è capaci, se non si è ragionevolmente al sicuro.
Semplicemente deve essere reso chiaro come dato ambientale che non ci si può
fidare al 100% di nessun cavo, che non ci si può fidare di nessun sentiero,
mappa, tacca, cartello, app, di niente e nessuno.
Ci si può fidare di quello che si sa valutare, si impara a farlo non fidandosi,
e non si è comunque del tutto immuni dal rischio. Riassumendo va sviluppata
competenza a saggiare il territorio, a calarcisi dentro e non a starci sopra: la
mappa non è il territorio.
La consapevolezza di una scelta, in questo caso estrema: Hansjörg Auer in
solitaria e slegato sulla Via attraverso il pesce alla Punta Rocca in Marmolada.
C’è caso e caso: c’è chi assume la propria responsabilità conscio di quel che
affronta e c’è chi non ha il senso dello stare in montagna tenendo conto degli
altri.
Tornare ‘slegati’ da un sentiero impervio e selvaggio, anche attrezzato, oppure
scegliere di salire ‘slegati’ un itinerario alpinistico, osare quindi, è una
cosa. E fa parte del gioco, pericoloso certo ma consapevole. Altra cosa è
mettersi in mostra in una situazione turistica, non sapere cosa si rischia e si
fa rischiare a chi è intorno.
Per un sacco di ragioni. La prima che ci viene in mente è che se il terreno è
isolato o poco frequentato si rischierà in proprio. I pericoli oggettivi sono
comunque dietro l’angolo, ma non più che in ogni cosa della vita.
Conoscere bene una zona e i propri limiti aiuta a saper valutare con sufficiente
precisione e a ‘mettersi in sicurezza’. La stessa persona, con la stessa
esperienza, saprà cambiare approccio di salita o discesa in relazione a un
contesto diverso, da parco divertimenti. Ecco perché se si è su un tratto
attrezzato zeppo di gente non è buona prassi passare slegati. Perché si fa
rischiare, oltre a rischiare in proprio. L‘appiattimento di sfumatura che porta
con sé l’iper-frequentazione non dà ragione di queste dinamiche spicce,
figuriamoci di altre, ben più delicate.
OUTRO
– UN ESEMPIO –
Prendiamo un esempio di cronaca e una ferrata che risponde al criterio dello
snaturamento storico in ottica turistica: la Bepi Zac alle cime di Costabella.
Una ferrata storica importante, in una regione a vocazione turistico-alpina
talmente forte che va tenuta in piedi a qualsiasi costo. Ricordiamo qui che i
grimaldelli che tengono in vita con accanimento questo come altri percorsi, sono
l’inserimento delle infrastrutture della grande guerra tra i beni culturali
protetti dal codice Urbani e la “sicurezza”.
L’invasività dei lavori di consolidamento e “messa in sicurezza” della Ferrata
Bepi Zac alle creste di Costabella.
Il fatto è il seguente:
alcune famigliole portano i bambini slegati sulla ferrata Bepi Zac che percorre
sfasciumi in quota e sale fino attorno ai 2700mslm. Le foto sono state scattate
nel secondo tratto, in zona Costabella.
Di pericoli oggettivi ce ne sono, caduta massi ad esempio, ma non è nemmeno
questo il punto, è proprio che ci sono passaggi esposti (come nella quasi
totalità dei casi quando c’è un cavo) e portarsi un pargolo in braccio perché
incapace a percorrerla (e forse spaventato) non pare il caso, tout court.
A cadere su un terreno del genere ci si può far male-male; se si cade con un
bimbo in braccio ci si è comportati idioti.
Premesso questo, e che portare figli piccoli senza attrezzatura è promuovere
l’incultura e non la cultura della fruizione della montagna, il dibattito a cui
normalmente si assiste in questi casi è fuorviante, e suona più o meno sempre
allo stesso modo: «criminali», oppure «se i tizi fossero dei super esperti della
zona che avessero valutato quello che stavano facendo e non dei turisti
sprovveduti?»
Per quanto ci riguarda restano vittime del marketing. Possono essere tra i più
esperti dell’Universo, sono però in un ambiente altamente frequentato, in cui il
pericolo oggettivo è in primis l’affollamento (le scariche di sassi che ne
possono derivare, attese lunghe e estenuanti fissi a un cavo, cadute altrui…).
Altrettanto oggettivo è il fatto che un figlio piccolo non può essere esperto,
che il genitore sta decidendo per lui (al punto che in alcuni scatti il genitore
se lo carica in collo).
Se ti cade un etto di sasso sul braccio che fai?
È la visione indotta del marketing, in cui l’escursionista-consumatore viene
preso in trappola, è la modalità di vendita della fruizione a proiettare
l’immagine per cui basta spendere, comprare l’attrezzatura cara, per essere
sicuri e al sicuro.
Aggiungiamo poi che se il terreno di gioco è quello alpinistico, in cui il
potere d’acquisto applicato alla retorica e al terreno acrobatico, al linguaggio
spesse volte ricalcato da quello bellico – militarista –, essere indotti
nell’abbaglio del superuomo che fa tutto da solo è un passo brevissimo.
Comportamenti del genere su terreni a zero possibilità di sperimentazione, che
obbligano a seguire un tracciato più pedissequamente che una via alpinistica o
un sentiero, sono stupidi e non del tutto consapevoli.
È una protesi del gioco che l’imprenditoria e la politica stanno costruendo
sulla pelle delle valli e delle cime.
In conclusione non caschiamo nel gioco: sono le scelte di indirizzo a generare i
mostri cui la politica che le ha prodotte non vuole rispondere in maniera
proficua.
La responsabilità è politica, la colpa è del modello economico che ha intenzione
di sfruttare ancor di più la montagna in ogni modo, oltre qualunque limite di
ragionevolezza.
In altre parole: se si precludono i corridoi faunistici agli orsi che si è
‘preteso’ di importare sul territorio anche per aumentare l’afflusso turistico,
salvo poi lamentarsi del loro sovrannumero e proporre come unica soluzione
l’abbattimento, si sta giocando con la pelle degli animali non umani.
Se si rendono instagrammabili i sentieri, con panchine giganti e ammiccamenti
acchiappa click, perché si vuol far crescere il turismo in maniera esponenziale
e incontrollata ma poi li si chiude quando qualcuno si fa male, si sta giocando
con la pelle degli animali umani.
Se si trova normale spendere valanghe di soldi per alimentare i comprensori
sciistici (o per realizzare skidome al chiuso in assenza di neve), per
alimentare la speculazione edilizia, per realizzare Olimpiadi che lasceranno
scheletri e macerie; se si pretende eliminare il rischio nelle attività ludiche
criminalizzando per decreto o divieto ma si dà per assodata l’alta probabilità
di farsi male in quell’obbligo alienante che è il mondo del lavoro si sta
giocando con la pelle della società.
Così facendo le amministrazioni e governi dimostrano di prendere scelte
politiche di indirizzo che non manifestano rispetto alcuno verso i luoghi, verso
le differenti specie animali che abitano quei luoghi, nessun rispetto anche
verso le persone che abitano la montagna o che vengono da fuori, invogliate ad
andare a ‘fare il ponte tibetano’ con la stessa spensieratezza con cui
andrebbero nell’ennesimo inutile nuovissimo iper mega centro commerciale.
In questi precisi ambiti queste scelte vanno censurate e attaccate.
Servono cultura e capacità interpretative, sensibilizzazione, non overdose di
emozioni indotte, normate da chi al primo guaio provocato si lava le mani e
risponde con l’unico strumento che padroneggia: la repressione.
L'articolo Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione
(seconda puntata) sembra essere il primo su Alpinismo Molotov.
INTRO
– INQUADRAMENTO-
La storia dell’alpinismo, in genere, è una storia coloniale ed elitaria: il
ricco, il nobile (“il” perché questa storia porta con sé anche un approccio
maschilista) arriva ai monti inizialmente per ragioni cartografiche ed
esplorative, in seguito per ragioni di conquista e blasone.
In questa narrazione l’abitante, ‘il montanaro’, è un esserino grezzo e
impaurito, che non sa godere delle bellezze della montagna, che non fa
passeggiate o arrampicate per “vivere le cime” – con tutto il fascino di
verticalità, desolazione e pericolosità – ma che tutt’al più “serve” perché
conosce i luoghi circostanti a quelli che abita e può indicarli, e perché da
bravo spallone può farsi portatore di strumenti e vettovaglie.
Il monte come luogo piacevole e d’incanto, salubre, unito alla massificazione
turistica cominciata tra gli anni ’60 e ‘70, porta allo sviluppo di un nuovo
terreno di gioco, anche se non particolarmente originale, basti pensare alle
similitudini con l’impiego di corde fisse. Se prima la ferrata era turistica e
poi fu utilizzata per scopi militari, ora finte élite di eroi bardati assaltano
il percorso ‘di massa’, un combinato da logica turistica: colonizzazione dello
spazio e appiattimento dell’immaginario.
Addentrarsi in questo ambiente è provare a sviscerare un tema tecnico e ispido,
sul quale scegliamo di non intervenire, però qualche considerazione e
riflessione generale crediamo vada fatta.
La successione di cenge attrezzate per mettere in sicurezza l’itinerario.
Bocchette centrali di Brenta.
Ci sono varie tipologie di ferrata: talune, storiche, nascono con l’idea di
mettere in sicurezza percorsi già frequentati, altre, specie quelle dolomitiche
o di bassa quota non sono realizzate per portare in un dato luogo ma
esplicitamente per cercare la difficoltà.
Fino ad una certa fase, forse, lo sviluppo di alcune ferrate assurde ha avuto a
che fare con echi di arrampicata in artificiale, con diversi mezzi ma la
medesima propensione a non porsi problema di manomissione del contesto.
Un esempio di itinerario con logiche di artificiale, scale come staffe: ferrata
Castiglioni alla Cima d’Agola.
Possiamo distinguere grossomodo tre tipi di ferrate e conseguenti tipi di
fruizione.
1. Opera militare mantenuta o ristrutturata a scopo turistico. Quasi assente in
alpi occidentali;
2. attrezzatura fissa di un itinerario che semplifica una via alpinistica,
rendendola accessibile a escursionisti ‘esperti’, e che di solito serve ad
arrivare in cima o a traversare. È il caso della ferrata Bolver-Lugli a Cima
Vezzana nelle Pale di San Martino o della Arosio al Corno di Grevo, nel
gruppo dell’Adamello;
3. ferrata estrema, acrobatica, mozzafiato-adrenalina, tipicamente fine a sé
stessa, in ottica di lunapark, di solito ridondante di infrastruttura:
scalette, ponti, ecc., più orientata a palestrati che ad
alpinisti/escursionisti. Non infrequente in alpi occidentali anche francesi,
la ferrata Du Diable risponde sicuramente al caso lunapark.
A sinistra la ferrata du Diable in tutta la sua insensatezza.
A destra la ferrata Arosio al Corno di Grevo, già via alpinistica di cresta –
per anni è stata accompagnata da polemiche. Più volte ne sono stati sabotati i
fittoni e un tempo erano visibili scritte come «no ferrata» e «CAI Cedegolo
incivile».
Che ad esempio nei tardi anni ’30, in Dolomiti di Brenta, si sia pensato di
attrezzare un percorso sfruttando le sequenze di cenge lì esistenti e ne siano
così nate le Bocchette Centrali, può essere una cosa ragionevole.
Il problema tuttavia, più che l’attrezzatura dei percorsi in sé, è la fruizione
che se ne fa, la turistificazione intensiva dovuta al boom e al conseguente
aumento del potere d’acquisto del ceto medio.
Da qui nascono i ‘ferrata adventure park’ o percorsi come quello delle Aquile in
Paganella o Intersport nel Donnerkogele. Tra questi ultimi e gli itinerari
classici, storici, dovrebbe esserci una gran differenza.
Sopra la ferrata delle Aquile in Paganella.
Sotto la ferrata Intersport al Donnerkogel.
PARTE PRIMA
– L’APPROCCIO SCERIFFO –
Negli ultimi anni ci pare che le modalità di fruizione abbiano appiattito le
sfumature costruttive in virtù di un’unica fruizione possibile.
Così già da tempo (immagine del 2016): botta – risposta su un noto blog dedicato
a tema
modo di stare sulla ferrata, la terminologia che ne descrive le difficoltà, gli
entusiastici report fotografici che ne seguono, descrivono atteggiamenti
assimilabili al tipo 3.
Ci si concentra sull’adrenalina e non si riflette di sicurezza o rispetto
dell’ambiente. Non si dice mai ad esempio, ed è disonesto, che una caduta su
ferrata è potenzialmente molto più pericolosa di una in arrampicata. Senza tutto
un sistema di dissipazione in ordine, senza competenze specifiche (spesso
risolte con ‘compra l’attrezzatura’) si arriva a fattori di caduta nettamente
più alti, con sollecitazioni che, per come sono progettati, moschettoni e corde
non possono reggere. E se resistessero, non lo farebbe il corpo umano. La strada
che si sta percorrendo – stiamo ragionando per ipotesi – è quella del «vorrei ma
non posso, però c‘è la ferrata». È così che questi percorsi si sono guadagnati e
si stanno guadagnando una larga ‘fetta di mercato’.
buona parte delle criticità che stanno alla base sono la turistificazione e lo
sfruttamento, il rilassamento delle sinapsi preposte all’accortezza, in favore
della deresponsabilizzazione collettiva: ci si diverte, si provano ‘brividi’, si
racconta l’atto eroico con la go-pro. E nel frattempo si intasa, si erode, si
sovra-alimenta la bulimia del profitto. E così ferrate che potevano
tranquillamente rientrare nella categoria 1, quella di opera militare manutenuta
come il Sentiero dei Fiori in Adamello, grazie al battage pubblicitario
schizzano dritte nella 3: adrenalina.
Passerelle si materializzano al ritmo dei ponti tibetani, lavori degni di grandi
opere, appalti con imprese e eccesso di infrastruttura. Nomi evocativi, da
marketing, come nel caso dell’Epic trail.
L’epica dell’Odissea, de Il mucchio selvaggio, messe a disposizione per pochi
spicci a chi passa le settimane sfruttato sul luogo di lavoro, con giubilo dei
geometri che progettano siffatti percorsi.
Tram a Milano pubblicizzano il sentiero dei fiori.
Se questa è la logica, ci sentiamo di affermare che, indipendentemente da quel
che si pensi della loro bontà, una volta che una ferrata esiste chi va in
montagna tende a pensare che sia in ordine. Che sia sufficiente fissare il
moschettone a un cavo che terrà, i cui chiodi non salteranno via come bottoni, e
seguirlo camminando. Su questo aspetto risulta impossibile colpevolizzare
l’escursionista, e infatti si gioca alla deresponsabilizzazione, al ‘ludico
gestito dalla legge’. Soprattutto se gli escursionisti vengono attratti e
invogliati a percorrere quella ferrata dagli opuscoli delle Pro Loco.
In alcune zone – Dolomiti – su tutte si esaspera il ruolo parco-giochi dei
sentieri attrezzati, frequentati da individui accessoriati e pensati
esplicitamente per cercare la difficoltà, in altre la loro dimensione tecnica
conta molto meno, sono stati conservati come retaggi militari o sono nati
soprattutto per poter dire «li abbiamo anche qui», anche se non sono nemmeno
lontanamente paragonabili ai primi e salvo poche eccezioni hanno molto meno
senso.
Se si costruiscono parchi giochi, si promuove una certa idea per cui si paga il
biglietto – leggi “compra l’attrezzatura giusta e magari figa per agganciarti
alle pareti e il più è fatto” – ed è ragionevole che il consumatore pretenda che
lo spettacolo fili liscio: che la messa in scena sia sicura e l’attrezzatura che
userà sarà in buono stato, funzionante e certificata.
PARTE SECONDA
– L’APPROCCIO BIMBOMINKIA –
Nei cantieri sono di solito posti cartelli in cui si elencano i vari strumenti
di protezione e si invita i lavoratori a usarli. Della pericolosità del lavoro
in sé niente, non si sa, non si dice.
Aspetti diversi, certo, il cui trait d’union è che si può, si DEVE visto che si
fa poco per evitarlo, morire di lavoro. Attraverso il marketing si raccontano
domatori di montagne su ferrata salvo poi drammatizzare i sentieri per tenere
alla larga rogne legali come capitato, ad esempio a San Felice in Circeo.
Ordinanza di chiusura sentieri del comune di San Felice in Circeo. Stando al
sito del parco del Circeo, nel momento in cui scriviamo il sentiero 750 risulta
tuttora interdetto (clicca qui per leggere l’ordinanza completa).
Manovre per le quali non è difficile immaginare la funzione di anticamera per
stabilire parcelle di soccorso, nella cornice di un attacco al tempo libero,
alla preservazione della ‘carne-lavoro’.
Il tema delle garanzie e dei diritti – compreso quello alla sicurezza – vengono
insomma innestati su aspetti della vita in cui non entrerebbero – o non
dovrebbero entrare – per nulla, come gli ambienti naturali.
La frequentazione di ambienti ‘selvaggi’ con tale mentalità, avviene dando per
scontato che ‘qualcuno’ si occupi di ‘far funzionare’ tutto, che sia un preciso
diritto del fruitore, che se qualcosa non funziona ci deve per forza essere
qualcuno che ne ha colpa.
In questo contesto a poco vale, è anzi fuorviante, l’idea lanciata dal CAI sulle
pagine de Lo Scarpone di approdare a una non meglio codificata
‘autoresponsabilità sui sentieri’. Proposta che suona stonata quanto la
colpevolizzazione dell’atteggiamento individuale di fronte a altri due
macro-temi: la crisi climatica e la gestione pandemica appena trascorsa.
A una lettura di superficie del dispositivo che dovrebbe responsabilizzare si
potrebbe rispondere con qualcosa come: «Alla buon’ora. Bene.»
Rileggendo tuttavia l’articolo de Lo Scarpone, le certezze vanno sgretolandosi.
Anzitutto si scrive solo di sentieri e escursionisti, e non si fa cenno a tutte
quelle situazioni e manovre dove responsabilità ‘altre, dall’alto e collettive’
potrebbero esserci: come è attrezzata una via alpinistica, quanto sono
manutenute una ferrata o una falesia, ecc. Perché in fin dei conti una via di
roccia, misto o ghiaccio, e a maggior ragione una ferrata, altro non sono che
sentieri tecnicamente più difficili.
In secondo luogo si legge: «i volontari che si occupano della manutenzione della
rete sentieristica non possono essere responsabili di chi s’incammina lungo i
sentieri con troppa leggerezza». Questa frase suona un po’ come uno scarico di
responsabilità post tragedia in Marmolada.
O post alluvione: non si muove un dito per piani di assesto idrogeologico, per
uno studio approfondito e conseguente messa in sicurezza del territorio, in
generale si continua ovunque nell’opera di cementificazione.
Si irride il rischio, si perseguono disboscamenti e depauperamenti dei
territori, e si realizzano grandi opere. Ma se succede qualcosa, se questo
qualcosa si ripete con sempre maggior frequenza, tocca che si renda d’obbligo
l’assicurazione, che l’individuo paghi.
Vecchio gioco applicato all’alpe: quando mai non si è sovraccaricato il singolo
di comportamenti non corretti per la morale corrente?
Tipica mossa del cavallo criminalizzare l’individuo, utile a tutelare
l’amministrazione pubblica di turno e il profitto dell’indotto.
Molti sentieri sono manutenuti dai comuni, enti, o associazioni da questi
riconosciute. Con l’iper-turistificazione in atto nelle terre alte ci si
auto-sgrava da quel che si produce: intasamento e scarsa conoscenza.
In rete e sui blog si leggono sempre più richieste del tenore: «la (tal ferrata)
è percorribile d’inverno?», «è aperta anche se ha fatto molta neve? Fa freddo,
se c’è ghiaccio ci si può andare?». Come se un percorso fosse equiparabile,
assimilabile, a un impianto di risalita col relativo gestore a attivarne e
regolarne la corrente, il flusso.
L’idea di indagare Comuni e centri meteo a seguito della tragedia in Marmolada
era pessima, le ipotesi di reato sono state archiviate, pare però che il CAI
voglia espungere dal discorso quell’ipotesi per sovraccaricare il singolo di un
altrettanto presunto e assurdo comportamento scorretto.
Teniamo inoltre presente che a decidere non sarà uno specialista di monti, ma un
giudice che non potrà applicare attenuanti, che anzi sarà messo in condizione di
aggravare la posizione individuale sulla scorta di una valutazione di tipo
morale.
Una proposta che non impedirà comunque chiusure arbitrarie di percorsi in nome
del securitarismo, della ‘sterilizzazione del pericolo’. Un’idea che rafforzerà
la caccia alle streghe, i discorsi allucinati sulle responsabilità del capo-gita
o cordata, individuato come ‘il più capace’ e dunque responsabile in toto della
salute di interi gruppi, amicali e/o parentali. Il meccanismo piuttosto
ricorrente, insomma, per cui si nasconde sotto al tappeto la responsabilità
collettiva e si individua un capro espiatorio. E dal momento in cui tutto è
acquistabile, non è difficile immaginare qualcosa di simile a vecchie proposte
come il patentino di montagna o l’obbligo assicurativo per le calamità naturali
o per sciare in pista. «Per sgravarsi dalla responsabilità su sentiero va pagata
la guida», che è un po’ quello che già succede con l’obbligo di Artva, pala e
sonda: «non conta dove vai o cosa fai, ma cosa possiedi. Compra l’attrezzatura,
anche quella inutile o che non sai usare, e godrai di un trattamento
‘riservato’».
Il fatto che nell’articolo si dica che molti dei lavori di manutenzione sono
fatti da volontari fa puzzare la situazione, perché se dall’altra parte c’è il
dito puntato sulla responsabilità individuale si corre il rischio di
allontanarli, in fin dei conti sono individui pure loro.
Fin qui ci siamo concentrati su due diversi approcci: quello dell’escursionista
che pretende che il potere gli garantisca la fruizione in totale sicurezza dal
momento che ha speso e acquistato materiale – confondendolo con l’esperienza – e
quello del potere che dopo aver creato quest’illusione scarica in toto le
responsabilità sull’individuo. Non sono due modi separati, stanno assieme e
descrivono una sorta di double bind, di «grazie alla nostra ferrata puoi salire
in sicurezza ma se il cavo si rompe e cadi è colpa tua».
Per non restare intrappolati in questa costrizione bisogna allora ribaltare la
prospettiva. Lo faremo nella prossima puntata, dando conto della nostra idea di
come frequentare la montagna, rispettandola e rispettandosi.
L'articolo Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione
sembra essere il primo su Alpinismo Molotov.