QUANDO BOICOTTAGGIO E DISINVESTIMENTO LASCIANO IL SEGNO
La decisione del fondo sovrano norvegese NBIM di disinvestire da Caterpillar
Inc. e da cinque banche israeliane ha una portata storica.
Il Fondo governativo della Norvegia è il più grande fondo d’investimento al
mondo, gestisce circa 2.000 miliardi di dollari. Il suo comitato etico ha
valutato come «rischio inaccettabile che [Caterpillar e le banche israeliane,
NdR] contribuiscano a gravi violazioni dei diritti degli individui in situazioni
di guerra e conflitto».
La decisione, che accomuna Caterpillar e le banche israeliane che finanziano gli
insediamenti illegali in Cisgiordania, indica per la prima volta la
corresponsabilità di un’azienda simbolo dell’industria americana con i crimini
che si stanno commettendo in Palestina.
Caterpillar Inc. è una mega azienda globale, oggi al 65° posto della classifica
di Fortune 500, con 113.000 dipendenti e 64,8 miliardi di dollari di fatturato.
È una public company inserita nel prestigioso Indice Dow Jones alla Borsa di New
York, i cui principali azionisti sono grandi fondi d’investimento come Vanguard,
State Streets e BlackRock, ma anche Melinda & Bill Gates ecc.
L’impiego militare dei grandi bulldozers americani iniziò con la Prima guerra
mondiale, per il traino dei pezzi d’artiglieria mediante trattori cingolati. Il
modello pesante D9, introdotto da Caterpillar nel 1954, ha fatto le sue prove
nella guerra del Vietnam ed è stato poi adottato dall’esercito israeliano nella
guerra di Suez (1956). Dagli anni Ottanta le IDF utilizzano sulla linea del
fronte i Caterpillar D9, modificati mediante un kit di blindatura e armamento
progettato dal Centro di recupero e manutenzione dell’esercito e da IAI Israeli
Aerospace Industries, installato sulle macchine con la collaborazione di ITE, la
società importatrice in esclusiva di Caterpillar in Israele appartenente al
gruppo Zoko.
Come abbiamo scritto in un precedente articolo, una filiale americana di
Leonardo (DRS Sustainment Systems) sta fornendo i triler a due assi che
trasportano i carri armati e i bulldozer utilizzati a Gaza dai militari
israeliani.
Caterpillar non può ignorare l’utilizzazione che ne fa l’esercito israeliano per
demolire illegalmente abitazioni e coltivazioni palestinesi, distruggere strade
e infrastrutture urbane. Nel 1989, questi reati vennero pubblicamente denunciati
da alcune ong, le stesse che nel 2001 spedirono oltre 50.000 lettere di protesta
a Caterpillar. Nel 2004 l’Alto commissario ai Diritti umani dell’ONU inviò una
lettera ufficiale alla società, anche in seguito alla vasta risonanza della
morte della ventitreenne attivista americana Rachel Corrie, schiacciata da un
bulldozer Caterpillar mentre tentava di impedire la demolizione di un’abitazione
palestinese. Quel tragico episodio ebbe anche conseguenze legali, poiché dopo
aver inutilmente intentato una causa in Israele contro l’esercito israeliano –
subito archiviata per «grave responsabilità» della stessa vittima – la famiglia
Corrie ne sollevò un’altra negli Stati Uniti contro il governo americano,
accusato di aver favorito crimini di guerra e la violazione dei diritti umani,
dal momento che i macchinari di Caterpillar erano e sono tuttora forniti a
Israele mediante il programma Foreign Military Sales, sovvenzionato con i soldi
dei contribuenti americani. Da decenni Caterpillar è inserita negli elenchi
delle aziende che traggono profitti dall’occupazione illegale israeliana dei
Territori palestinesi, stilati dalla Coalition of Women for Peace (vedi Who
Profits?) e dall’American Friends Service Committee.
Nel novembre 2024 la stessa amministrazione Biden in scadenza aveva deciso una
temporanea sospensione della consegna di 134 Caterpillar D9 ordinati “con
urgenza” da Israele nel 2023, compresi pezzi di ricambio, manutenzione e
addestramento. Una misura che per quanto assai timida è stata immediatamente
abolita dal presidente Trump appena insediatosi, nel gennaio 2025.
I CAT D9 sono stati consegnati nel porto di Haifa in 9 luglio scorso, con
un’operazione di logistica marittima curata dal Ministero della difesa
israeliano e dalla rappresentanza israeliana per il procurement militare di
stanza a Washington, che includeva anche la consegna di alcuni mezzi militari
leggeri. Il Ministero stesso ha diffuso le immagini dello scaricamento a Haifa,
e i media israeliani hanno ampiamente ripreso l’evento come prova della
ristabilita alleanza di ferro con gli Stati Uniti sotto la presidenza Trump.
A sx: operazioni di sbarco dei Caterpillar D9 dalla nave «SLNC Severn» nel porto
di Haifa, il 9 luglio 2025.
Sopra: la sistemazione dei bulldozer di Caterpillar nella stiva della
portarinfuse «SLNC Severn» [fonte: Ministero della difesa di Israele, ripreso
dal «Jerusalem Post» del 9.7.2025
L’intento propagandistico è stato però temperato da una serie di “oscuramenti”:
le immagini riprendono i mezzi sbarcati ma i militari hanno offuscato il nome
della nave e della compagnia marittima dipinto sulle fiancate, nonché le insegne
commerciali sulle motrici degli autoarticolati che hanno preso in carico i
Caterpillar sulla banchina portuale.
L’osservatorio Weapon Watch è riuscito a ricostruire gran parte della catena
logistica che ha rifornito a Israele i Caterpillar D9, macchinari dual use
intensamente utilizzati dai militari per compiere una vasta e documentatissima
serie di crimini di guerra.
Per il trasporto dagli Stati Uniti, solitamente i grandi bulldozer D9 viaggiano
in parte o del tutto disassemblati, in ogni caso privi degli accessori pesanti
(pale, bracci oleopneumatici, cabine ecc.), e anche nel caso in esame la
consegna è stata effettuata senza accessori, dalla nave al mezzo gommato
mediante gru portuale. Invece la nave utilizzata per l’operazione era di
tipologia inusuale, una portarinfuse con bandiera USA, nome «SLNC Severn», un
tipo di nave solitamente impiegato per trasportare le cosiddette “rinfuse
secche” (come minerali, carbone, cereali, cemento, ecc.). Nelle quattro stive
coperte della «Severn» – al riparo da sguardi indiscreti – sono state ospitate
dozzine di D9. Ciascuna macchina è stata caricata e scaricata mediante le grandi
gru a portale.
La «SLNC Severn» è una delle sette navi della compagnia Schuyler Line Navigation
Company, con sede a Annapolis, Maryland, tutte battenti bandiera americana per
poter operare sotto l’ombrello del Jones Act, la legge fondamentale per la
supremazia marittima degli Stati Uniti.
Da fine maggio la «Severn» è noleggiata per trasportare i D9, il 2 giugno viene
fotografata mentre carica una ventina di bulldozer al terminal Holt Logistics di
Gloucester City, New Jersey, che si trova nel grande comprensorio portuale di
Filadelfia, Pennsylvania. A fine giugno ha intrapreso il viaggio senza scali
intermedi per arrivare ad Ashdod il 7 luglio e il 9 a Haifa.
La «SLNC Severn» al terminal Holt Logistics di Gloucester City, NJ; fotografata
il 2 giugno 2025.
Nell’ovale rosso, una ventina di Caterpillar D9 sulla banchina pronti
all’imbarco. Fonte: Marine Traffic.
È pressochè certo che la «Severn» sia tuttora al servizio della logistica
militare USA a sostegno di Israele, con rotte pendolari tra costa orientale
statunitense e Israele. Secondo «The Ditch», il 7 agosto la nave ha caricato nel
porto di Paulsboro (sempre nell’area di Filadelfia, dove si trova un altro
terminal di Holt) 374 tonnellate di bombe, del tipo da 2000 libbre, anch’esse
bloccate in precedenza dall’amministrazione Biden. Da notare che la «Severn» ha
recentemente fatto scalo a Souda Bay, Creta, una delle maggiori basi aeronavali
americane nel Mediterraneo, dove in passato è stata vista movimentare merci con
le gru di bordo.
La compagnia di navigazione Schuyler è stata acquisita nell’agosto 2024 da JP
Morgan Chase, una delle quattro più importanti banche americane, con l’intento
dichiarato di rafforzare i programmi marittimi governativi e «restore America’s
maritime dominance», secondo le parole del presidente Trump. Nell’ultimo anno
alla flotta di Schuyler si sono aggiunte anche una petroliera da 50.000
tonnellate e una nave per carichi fuori norma, rafforzando ulteriormente la già
notevole presenza di JP Morgan nel settore marittimo.
L’attesa per un aumento dei noli e dei programmi governativi sostenuti dal clima
bellico è infatti molto diffusa tra gli operatori. Non a caso la propaganda
militare israeliana ha enfatizzato la portata dell’operazione logistica in corso
dal 7 ottobre 2023 come la più grande nella storia di Israele, con 100.000
tonnellate di materiale militare movimentato attraverso 870 voli e 144 trasporti
marittimi.
La “complicità logistica” di molti governi ed operatori è decisiva per compiere
i crimini contro l’umanità e le violazioni degli accordi internazionali in
vigore. Per riportare nella legalità gli operatori e spingere i governi verso
una ricostruzione dell’ordine internazionale basato sulla diplomazia e il
disarmo, le vie principali e più incisive si dimostrano il boicottaggio delle
catene logistiche militarizzate e nel disinvestimento finanziario da chi produce
strumenti di guerra e distruzione.
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Due porti italiani sono stati nelle ultime settimane al centro dell’attenzione
di Weapon Watch: i porti di Genova e di Ravenna.
A Genova lo sciopero proclamato per non caricare un cannone navale OTO
Melara-Leonardo su una “nave della morte” saudita ha di fatto avuto successo,
anzi ha fatto capire che sul traffico di armi la concorrenza infra-sindacale si
può stemperare. È anche questo un segno dei tempi sempre più foschi, e della
generale percezione che se ne ha a Genova. Ulteriore prova è lo straordinario
successo della raccolta degli aiuti affidati alla Global Flottilla Sumud, a cui
hanno espresso vicinanza anche la sindaca Silvia Salis e l’arcivescovo mons.
Tasca. A questo diverso clima sembra riferirsi la magistratura genovese, che ha
aperto un fascicolo per accertare la legalità dei transiti di armi sulle navi
saudite: intervento che Weapon Watch aveva richiesto già cinque anni fa, e che
oggi rischia di essere inadeguato rispetto alla dimensione dei movimenti di armi
in porto in violazione alla legge 185.
A Genova, nell’aprile 2022.
A Ravenna sono venuti alla luce alcuni casi di palese violazione di leggi e
trattati internazionali, in gran parte relativi ad armi e affari in complicità
con l’apparato industrial-militare di Israele. Abbiamo riferito, in un recente
articolo intitolato “Ravenna crocevia dei traffici di armi per Israele?”, delle
indagini condotte dalla magistratura ravennate, ma con l’ultimo articolo di
Linda Maggiori, pubblicato da il manifesto il 2 settembre scorso, [lo trovate
anche nella nostra rassegna stampa] il punto interrogativo va tolto. Ravenna è
senza dubbio un porto vitale nella possente corrente di forniture militari che
si convoglia nell’Adriatico da tutti i paesi dell’Europa centro-orientale e si
dirige verso Israele. E con Ravenna lo sono anche Trieste, Capodistria e
Venezia-Marghera: è qui che si forma la supply chain diretta a Haifa e Ashdod,
una rotta percorsa con regolarità da almeno due navi che hanno attirato
l’attenzione degli attivisti locali, «ZIM New Zealand» e «Contship Era».
I casi emersi a Genova e Ravenna rivelano una grave asimmetria tra ciò che
vedono e denunciano i lavoratori dei porti e degli aeroporti italiani – cioè la
vistosissima crescita del traffico di armi, e la grave carenza dei controlli
preventivi – e il ruolo inerte delle autorità, a partire da quelle di sistema
portuale, di fronte a quelle denunce. Mentre il quadro internazionale sta
assumendo tinte drammatiche, non possono più valere gli escamotages, il rimpallo
sulle competenze che porta al mutismo informativo, ultima spiaggia di chi non
vuole assumersi le proprie responsabilità. Nel caso citato oggi su il manifesto,
l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli locale ha avanzato ragioni di
“riservatezza” per non rivelare la destinazione finale di ciò che non poteva
essere autorizzato al transito ma che è comunque transitato dal porto di
Ravenna: una spedizione di armi autorizzata dalla Repubblica ceca verso un paese
extra-UE (Israele), per giunta coinvolto nel peggior massacro di popolazioni
civili a cui l’umanità assiste via social, doveva essere fermata in ottemperanza
alle stesse disposizioni governative in vigore dal 7 ottobre 2023.
Nella loro lucidità, i portuali genovesi hanno avanzato una proposta intesa a
non far peggiorare il clima nel primo porto italiano, e a ristabilire un nesso
tra il funzionamento del porto stesso come piattaforma del commercio
internazionale e la cornice “aperta” entro cui Genova vuole svolgere questo
ruolo, di pace, fratellanza e solidarietà, e non di guerra, deportazione e
affamamento.
Per rendere almeno accettabile il livello delle informazioni che devono essere
garantite ai lavoratori nel caso del commercio degli armamenti, è indispensabile
la trasparenza sulla natura delle merci e la loro destinazione finale, come del
resto è scritto nella lettera stessa della Legge 185 del 1990. Destinatario di
queste informazioni, che sono certamente nella disponibilità di tutte le
autorità coinvolte in un trasferimento internazionale di armi (AdSP, Guardia
Costiera, Prefetture), potrebbe essere un “osservatorio permanente” a cui far
partecipare i delegati delle autorità insieme a quelli dei lavoratori, da
riunirsi periodicamente e in via preventiva, cioè in vista di un arrivo di navi
con carichi militari e soprattutto di munizioni ed esplosivi.
Crediamo che una ragionevole circolazione di informazioni, anche su un tema così
delicato, possa contribuire a ridurre la tensione sulle banchine, e nello stesso
tempo a togliere ad autorità e governi l’illusione che bastino opacità e
segretezza per evitare di rispondere di una complicità di fatto, quale oggi si
sta prefigurando, tra gli autori di un genocidio e chi ha fornito loro i mezzi
per compierlo.
Intorno a ReArm Europe e all’euforia dei mercati finanziari, impegnati a
investire una montagna di soldi nei titoli di borsa delle principali industrie
militari europee, è molto forte il rischio di un “abbaglio” sulle aspettative in
termini di ricadute occupazionali.
Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso è arrivato a
prospettare per le aziende della filiera dell’automotive incentivi per
riconvertirsi verso il settore aerospaziale e della difesa, mentre il suo
Governo – con la Legge di Bilancio 2025 – trasferiva 4,9 miliardi di euro dal
fondo per la transizione ecologica e sociale dell’automotive all’aumento delle
spese militari.
SPETTRO DELLA GUERRA
Non è semplice per qualsiasi governo far digerire l’aumento delle spese militari
a un’opinione pubblica cosciente dei corrispettivi tagli a sanità, istruzione,
welfare. Evocare lo spettro della guerra con la Russia, evidentemente non basta.
In questo caso è meglio giocarsi la carta delle ricadute industriali e
occupazionali. Non è la prima volta che succede.
Ricordate, ad esempio, i diecimila nuovi posti di lavoro “messi sul piatto” nel
2006 dal Capo di stato maggiore dell’Aeronautica Militare, Leonardo Tricarico e
dal sottosegretario alla Difesa, Lorenzo Forcieri (governo Prodi) se avessimo
acquistato i caccia-bombardieri F-35 della Lockeed Martin? A distanza di 20 anni
possiamo verificare quanto fosse una fakenews, per condizionare il dibattito
pubblico.
L’articolo di Gianni Alioti uscito su «il manifesto» il 31.5.2013.
Ma penso sia sbagliato liquidare con una semplice battuta i risvolti che
l’economia di guerra ha sul sistema industriale europeo e sul lavoro. Meglio
procedere secondo un rigore logico. È vero, come sostengono alcuni, che la corsa
agli armamenti può salvare l’economia europea? E rilanciare l’occupazione
industriale?
ANALISI DELLA REALTÀ
A queste domande cercherò di rispondere non in base alle mie convinzioni etiche
e politiche, ma attraverso l’analisi della realtà e dei dati (a consuntivo)
inerenti sia all’andamento delle spese militari, sia alla dimensione
dell’industria aerospaziale e della difesa in Europa.
I dati ufficiali del Consiglio Europeo1 ci dicono che dal 2014 al 2024 nei paesi
UE le spese militari sono più che raddoppiate a prezzi costanti (+121%). Sono
passate da 147 a 326 miliardi di euro.
All’interno delle spese militari, quelle specifiche per armamenti e
ricerca-sviluppo sono addirittura quadruplicate (+325%). Se consideriamo non i
Paesi UE, ma i Paesi europei della NATO le spese militari nel 2024 sono state di
più: 440 invece di 326 miliardi di euro. La crescita negli ultimi dieci anni
registra una tendenza simile.
TENDENZE DEL SETTORE
Secondo il rapporto pubblicato a novembre 2024 da ASD, European Aerospace,
Security and Defence Industries che riguarda i 27 Paesi UE + Norvegia, Regno
Unito e Turchia, a fine 2023 gli occupati totali diretti nell’industria
aerospaziale e della difesa in Europa risultano, un milione e 27 mila, di cui
518 mila relativi al militare (vedi il Grafico 1).
Il fatturato complessivo nel 2023 è stato di 290,4 miliardi di euro, di cui il
55 per cento nel militare. Partire dai dati forniti da ASD ha il vantaggio
dell’attendibilità e della continuità nel tempo, consentendo analisi e
valutazioni di natura strutturale sulle tendenze del settore.
Possiamo, infatti, analizzare cosa è successo in termini di fatturato e
occupazione nello stesso arco di tempo di dieci anni (2014-2023) nel quale le
spese militari sono cresciute del 90 per cento.
CRESCITA DEL 65 PER CENTO
I ricavi nel militare nell’intera industria del settore in Europa sono cresciuti
del 65 per cento, mentre l’occupazione è aumentata del 26 per cento da 407 mila
e 800 a 518 mila addetti.
La stessa dinamica occupazionale trova riscontro da una mia elaborazione sui
bilanci aziendali di 10 tra le principali big dell’industria aerospaziale e
della difesa europea2 per fatturato militare. Dal 2015 al 2024 il numero dei
loro occupati (nel civile e militare) è cresciuto in media del 23% (vedi il
Grafico 2).
Sulla base dei trend occupazionali registrati a consuntivo negli ultimi dieci
anni, possiamo azzardare alcune stime sull’incremento dei posti di lavoro
diretti e indiretti nell’industria della difesa in Europa nel prossimo periodo
2025-2035, prendendo a riferimento le previsioni di aumento delle spese militari
decise in ambito NATO.
Nel vertice di giugno all’Aia è stato deciso che i Paesi europei dell’Alleanza
Atlantica debbano arrivare, entro il 2035, a spendere un più 1,5 per cento in un
ambito ancora vago di “sicurezza allargata” e a raggiungere entro il 2035 una
spesa specifica in campo militare almeno del 3,5 per cento del loro PIL.
Le spese militari complessive passerebbero, quindi, da 440 a 969 miliardi di
euro l’anno. Un incremento pari al 120 per cento, una percentuale simile a
quella registrata nel periodo 2014-2024.
Pertanto, in base a quanto già successo negli ultimi dieci anni, possiamo
ipotizzare realisticamente un aumento dei posti di lavoro in campo militare
nell’industria aerospaziale e della difesa in Europa intorno al 25-30 per cento.
VALORE ASSOLUTO
In valore assoluto significa la creazione di 150-180 mila nuovi posti di lavoro
diretti. Calcolando l’impatto del settore nell’intera catena dei sub-fornitori
fino a quelli di terzo livello (circa 2 mila piccole-medie imprese secondo
l’ASD), possiamo stimare altri 120-170 mila nuovi posti di lavoro indiretti.
In tutto, quindi, un aumento previsto dell’occupazione da 270 a 350 mila unità.
Fatte le debite proporzioni, in Italia non si andrebbe oltre i 25-30 mila
occupati in più. Briciole in rapporto, ad esempio, ai posti di lavoro a rischio
nell’automotive.
Anche un recente rapporto di Ernst & Young (EY), uno dei principali network
mondiali di servizi professionali di consulenza, ha analizzato il potenziale
impatto economico dell’aumento della spesa militare europea, concentrandosi sul
settore manifatturiero dell’UE e sulla creazione di posti di lavoro.
SCENARI DIVERSI
Lo studio ha esplorato diversi scenari in cui i membri europei della NATO
aumentano la spesa per la difesa, in particolare per gli equipaggiamenti
militari (mediamente il 33 per cento delle spese militari nel 2024 rispetto al
14 per cento nel 2014), per rafforzare le proprie capacità difensive e ridurre
la dipendenza dagli Stati Uniti.
EY, nel suo rapporto, stima che se i membri europei della NATO aumentassero la
spesa annuale per gli equipaggiamenti militari di 65 miliardi di euro (passando
da 72 a 137 miliardi di euro), il conseguente aumento degli ordinativi per
l’industria della difesa europea, compresa la relativa catena di
approvvigionamento, ammonterebbe a 35,7 miliardi di euro e, secondo EY,
creerebbe forse 500 mila posti di lavoro in più.
Meno di un terzo dei 35,7 miliardi di euro aggiuntivi rientrerebbe
nell’industria militare europea in senso stretto; il resto ricadrebbe nella
catena di approvvigionamento. Ciò si traduce, comunque, nella creazione di circa
150 mila posti di lavoro diretti e aggiuntivi nell’industria militare europea.
Questa cifra coincide con quella contenuta anche in un nuovo rapporto di Bruegel
e Kiel Institute, due think tank (il primo europeo, il secondo tedesco)
specializzati in studi economici. Non solo, coincide anche con le mie previsioni
di 150-180 mila occupati diretti in più.
OCCUPATI INDIRETTI
Lo scarto tra le mie previsioni e quelle del rapporto di Ernst & Young riguarda
l’incremento di occupati indiretti nella catena dei sub-fornitori: 350 mila
contro 120-170 mila.
Il modello utilizzato da EY per calcolare l’aumento dei posti di lavoro in
relazione all’aumento delle spese per equipaggiamenti militari, è bottom-up.3
Al contrario, io ho utilizzato il coefficiente di moltiplicazione (1,02)
impiegato da ASD nel suo rapporto del 2022
https://www.asd-europe.org/news-media/publications/asd-reports-publications/economic-impact-report-2022/
tra occupati diretti e quelli indiretti occupati nell’intera catena dei
sub-fornitori fino a quelli di terzo livello.
MONTE SALARI DEI DIPENDENTI
Nel mio computo è esclusa la cosiddetta “occupazione indotta” dal riutilizzo
come spesa del monte salari dei dipendenti.
In ogni caso, anche se prendiamo per buona la previsione di EY dei 500 mila
posti di lavoro creati, è bene sapere che equivarrebbero a solo l’1,5 per cento
sul totale dei 33 milioni e centomila addetti nell’industria manifatturiera
europea (fonte Eurostat).
Pertanto, qualsiasi serio ragionamento sulle ricadute industriali e
occupazionali della corsa al riarmo non può prescindere dall’effettiva
dimensione economica e sociale del settore della difesa.
In Europa i ricavi nel militare dell’industria aerospaziale e difesa nel 2023
sono di 158,8 miliardi di euro. Solo lo 0,70 per cento del PIL dei 30 Paesi
europei considerati. Includendo anche i circa 80 miliardi di euro di impatto
economico indiretto il fatturato complessivo dell’industria militare non supera
l’1,1 pro cento del PIL, con un milione e 46 mila addetti tra diretti e
indiretti.
Una percentuale lontanissima dall’automotive, 3,7 per cento del PIL e 6 milioni
e 600 mila occupati solo nel manifatturiero. L’idea, quindi, che il gigantesco
piano di riarmo europeo rappresenti un’opportunità di crescita occupazionale e
di riconversione di un settore in crisi come l’automotive è smentita da questi
dati.
SPESA FOLLE
A fronte di una folle spesa di 800 miliardi aggiuntivi in 4 anni, in Italia
30-35 miliardi in più all’anno, l’impatto sul lavoro è alquanto modesto. In
alcuni casi concreti e circoscritti potrà rallentare la deindustrializzazione,
ma non la invertirà.
Senza contare che le spese militari sono soldi pubblici sottratti a sanità,
educazione, ricerca universitaria, transizione energetica e digitale, ambiente e
welfare. Tutti ambiti in cui, a parità di spesa, si creerebbero dal 40 al 120
per cento in più di posti di lavoro.
Per non parlare di un altro studio americano che dimostra l’impatto
occupazionale di un miliardo di dollari investito nel campo delle
telecomunicazioni (banda larga), nel settore della sanità (tecnologia
informatica), nel settore elettrico (smart grid). Si creerebbero rispettivamente
49 mila, 21 mila, 24 mila nuovi posti di lavoro. Da 3 a 7 volte in più rispetto
agli stessi soldi spesi in campo militare.
CONCLUSIONI
L’analisi dei dati dimostra ampiamente che raddoppiare o triplicare la spesa
militare in Europa, oltre a non cambiare gli equilibri strategici e funzionare
come deterrenza, non rappresenta un’inversione di tendenza alla crisi
industriale europea e ai processi di deindustrializzazione che coinvolgono
numerosi settori e territori.
Tale dinamica non alimenta né una forte espansione produttiva, tantomeno
dell’occupazione. Consente, viceversa, una forte crescita sia dei dividendi per
gli azionisti, sia degli ordinativi, dei ricavi e degli utili delle imprese
militari. E, soprattutto, della loro dimensione finanziaria attraverso
l’impennata delle loro quotazioni in Borsa.
Impennata quotazioni in borsa industrie belliche
Due esempi paradigmatici. A inizio gennaio del 2022, prima della invasione russa
in Ucraina, il valore di un’azione dell’italiana Leonardo era di 7,5 euro, al 5
agosto 2025 ha raggiunto 47,9 euro. Un incremento record del 538 per cento.
Nello stesso periodo il valore azionario della tedesca Rheinmetall è passato da
90 euro a 1.763 euro. Un incremento iperbolico del 1.859 per cento.
Tutto ciò grazie alle ingenti risorse dei singoli Stati destinate alle spese
militari e in nuovi armamenti e ai mercati finanziari controllati dai fondi
istituzionali come BlackRock, Vanguard, Capital Group, State Street Global,
Goldman Sachs, Fidelity Investments, Wellington Management, Invesco ecc. che al
contempo sono tra i principali azionisti di azionisti sia delle 5 big al mondo
per fatturato militare (Lockheed Martin, RTX, Northrop Grumman, Boeing e General
Dynamics), sia della tedesca Rheinmetall, delle britanniche BAE Systems e
Rolls-Royce, dell’italiana Leonardo, della trans-europea Airbus, della ucraina
JSC e di altre aziende europee che operano in campo militare.
Come ha scritto Maurizio Boni: “La retorica della “guerra di produzione”
utilizzata da Rutte […] trasforma la NATO da alleanza militare in cartello
industriale, dove la sicurezza diventa un pretesto per trasferimenti massicci di
denaro pubblico verso il settore privato della difesa”[7]
1 I dati sono quelli ufficiali del Consiglio Europeo
https://www.consilium.europa.eu/en/policies/defence-numbers/
2 Airbus, BAE Systems, Dassault, Hensoldt, Leonardo, Rheinmetall, Rolls
Royce, Saab, Safran, Thales.
3 Cioè dal “basso” verso l’“alto”, partendo dai dettagli per costruire una
visione d’insieme.
Segnaliamo:
https://pungolorosso.com/2025/08/17/liberta-per-marwan-barghouti-e-tutti-i-prigionieri-palestinesi/
COMUNICATO STAMPA (7 agosto 2025)
L’osservatorio Weapon Watch esprime piena solidarietà ai lavoratori del porto di
Genova e alle loro organizzazioni sindacali, che hanno organizzato la protesta –
l’ennesima – contro l’arrivo di una nave della compagnia marittima saudita
Bahri, come al solito carica di armi ed esplosivi. In questa occasione, la nave
doveva imbarcare anche cannoni di produzione Leonardo destinati ad Abu Dhabi,
giunti dalla Spezia e visti sulle banchine del terminal GMT.
Le ragioni della protesta sono molte e serie.
Per quello che riguarda i sistemi d’arma di produzione italiana destinati agli
Emirati Arabi Uniti, ricordiamo ciò che abbiamo scritto sul nostro sito web e
sulla pagina FB, cioè che la Legge 185 del 1990 vieta l’esportazione di armi a
paesi che non rispondono a una serie di criteri stringenti, tra cui quello di
non essere in stato di guerra, e di non utilizzare la guerra per risolvere le
controversie internazionali (gli Emirati hanno partecipato alla guerra contro lo
Yemen, con migliaia di vittime civili dal 2014 a oggi, guerra che non si è
conclusa e anzi minaccia di riesplodere dopo l’attacco israeliano all’Iran; e
stanno sostenendo le Forze di intervento rapido, milizia operante nel Sud Sudan
e protagonista della sanguinosa guerra civile in corso). Gli Emirati Arabi Uniti
nel 2025 sono al 119° posto (su 167 paesi) del Democracy Index della rivista
«the Economist», inseriti tra i paesi autoritari privi di sistema elettorale e
con scarsissime libertà civili.
Lo stesso vale per il transito di materiale militare non prodotto in Italia e
nell’Unione Europea. La «Bahri Yanbu» toccherà nel suo viaggio porti in Egitto e
Arabia Saudita, paesi ancora più autoritari degli Emirati, per proseguire poi
nell’oceano Indiano e il Far East. Non abbiamo garanzie circa circa il
destinatario finale e l’impiego del materiale militare trasportato.
Mezzi anfibi a bordo della «Yanbu», Genova 7 agosto 2025.
Oltre ai cannoni di Leonardo, la «Yanbu» trasporta un ingente carico di
blindati, carri armati e munizioni di fabbricazione statunitense, in particolare
mezzi anfibi da sbarco del tipo AAV-7 tipicamente usati dai marines, che non ci
risulta siano in dotazione nei paesi arabi. Il carico sembra preludere a
un’operazione militare dal mare di grandi dimensioni.
Motivo di allarme, poi, sono i molti container che trasportano dangerous goods
della classe 1.1, cioè la classe più pericolosa, in sostanza esplosivi con
rischio di esplosione di massa.
I containe con esplosivi (classe 1.1) a bordo della «Yanbu».
La nave saudita accerchiata dalla bettolina «Brezzamare» e dalla chimichiera
«Imera», oggi a Genova, tra POnte Eritrea e Ponte Somalia.
Oggi (7 agosto 2025) a fianco della «Yanbu» carica di esplosivo ha sostato la
bettolina-cisterna «Brezzamare», che ha rifornito di nafta la multipurpose «Coe
Luisa», mentre pochi metri più in là era ormeggiata la chimichiera maltese
«Imera» da 9.000 tonnellate: un ‘ingorgo’ altamente pericoloso a pochi passi dai
container carichi di esplosivi posizionati sul ponte della «Yanbu».
Abbiamo già sollevato in passato il problema della gestione del rischio di
esplosione, in occasione delle visite delle navi Bahri al molo Eritrea
(https://www.weaponwatch.net/2020/02/03/esplosivi-in-porto-siamo-sicuri/ ). Le
navi saudite cariche di munizioni ed esplosivi stazionano a 450 m dalle prime
case di Sampierdarena alle spalle del porto, e nel raggio di mille metri si
trovano consistenti depositi petroliferi e chimici.
Per dare un quadro dei rischi che lavoratori e cittadini hanno corso e corrono
ogni volta che gli esplosivi militari entrano in porto, ricordiamo che
l’esplosione che ha colpito il porto di Beirut il 4 agosto 2023 ha demolito ogni
fabbricato nel raggio di mezzo miglio, pari a 800 metri, e che le vittime si
sono registrate nel raggio di un miglio (1600 m).
Finora non abbiamo mai ricevuto sul tema della resistenza alcuna risposta dalle
autorità interessate. Nel giugno 2023 c’è stato un incontro informativo con il
Consiglio comunale di Genova, poi rimasto lettera morta.
Ci conforta che in occasione dell’odierna protesta le organizzazioni sindacali
abbiano ripreso il tema della sicurezza portuale e che abbiano ottenuto
dall’Autorità di Sistema portuale del mar Ligure occidentale la proposta di
avviare un osservatorio sul traffico delle armi in porto, nello sforzo di
garantire trasparenza e prevenzione dei rischi nel rispetto delle normative e
della Legge 185/1990.
L’iniziativa dei lavoratori di Genova può essere di stimolo per altre città
portuali italiane coinvolte in un traffico di armi sempre più intenso.
Come mostra l’immagine trasmessaci dai portuali genovesi, è in attesa di imbarco
al Ponte Eritrea, terminal GMT del Gruppo Steinweg, noto per essere il molo di
attracco delle famigerate “navi della morte” saudite della compagnia Bahri
(rappresentate in Italia dall’agenzia marittima Delta del gruppo Gastaldi),
coperto dall’imballaggio su un roll trailer (MAFI), un cannone navale 72/62 OTO
super rapido da 76mm prodotto a La Spezia nello stabilimento Leonardo.
Nel frattempo, è entrata in Mediterraneo, proveniente dal porto USA di
Baltimora-Dundalk e diretta in Medio-Oriente, la nave «Bahri Yanbu» che farà
scalo a Genova nel primo mattino di giovedì 7 agosto. Secondo le nostre
informazioni, la Yanbu caricherà due cannoni 72/62 e un container da 20” con gli
accessori per l’assemblaggio, con destinazione Abu Dhabi negli Emirati Arabi
Uniti (EAU).
Ricordiamo che Weapon Watch si è già occupata di questi cannoni in un articolo
del gennaio 2024, perché furono impiegati dalla Marina israeliana il 14 ottobre
2023 – pochi giorni dopo l’attacco di Hamas in territorio israeliano – per
bombardare dal mare i quartieri civili della Striscia di Gaza. Bombardamento che
aveva drammaticamente smentito le voci da ambienti di Leonardo, circa l’uso
esclusivamente “difensivo” degli armamenti fabbricati in Italia e consegnati
alle forze armate di Israele.
Immaginiamo che anche la vendita dei cannoni pronti all’imbarco a Genova sia
stata autorizzata secondo la legge dal governo italiano in quanto ufficialmente
destinati alla difesa degli EAU.
Ricordiamo che il governo Conte II nel 2019 aveva sospeso le vendite di armi
agli EAU, per la loro implicazione nella feroce guerra in Yemen a fianco
dell’Arabia Saudita; e che nel 2023 il governo Meloni ha revocato il divieto sia
per l’apparente disimpegno emiratino dalla guerra yemenita, sia per i segnali
promettenti (ad oggi rimasti tali) di un accordo di pace con i “ribelli houthi”,
che di fatto governano lo Yemen da un decennio nonostante l’isolamento
internazionale e le gravi crisi umanitarie causate dalla guerra.
Tuttavia, in questo strategico quadrante medio-orientale lo scontro militare
potrebbe diventare aperto e cruento, come conseguenza indiretta del recente
attacco israeliano all’Iran – tra i principali sostenitori del composito mosaico
delle milizie yemenite – e per la volontà degli EAU che qui hanno stabilito
solide basi di controllo militare, con l’appoggio delle azioni coperte e degli
omicidi mirati compiuti da anni dalle agenzie di contractors americane e
israeliane.
Il cannone di Leonardo sulla banchina del Genoa Metal Termnal, il 4 agosto 2025.
Oltre a costituire un’oggettiva minaccia nel precario equilibrio militare in
quest’area, le armi di fabbricazione italiana non dovrebbero essere vendute agli
EAU, che stanno al fondo della classifica nel rispetto dei diritti umani.
Secondo Amnesty International, gli Emirati non sono infatti un “paese dei
balocchi”, meta esotica di turismo e di business rampante, ma il major defense
partner degli USA, in possesso di una sempre più aggressiva industria militare e
impegnati nei teatri di conflitto di loro interesse in una intensa attività
bellica anche contro i civili. Lo fanno direttamente come in Yemen, o più spesso
attraverso l’armamento e il sostegno di forze locali come in Libia o Sudan.
Nel 2024 Amnesty ha scoperto nuove prove visive che i veicoli di trasporto di
truppe blindati prodotti negli EAU venivano utilizzati dalle Forze di supporto
rapido in Sudan, che hanno commesso crimini di guerra tra cui attacchi motivati
etnicamente contro i civili.
EAU è inoltre uno stato monarchico assoluto, privo di qualsiasi forma di
democrazia, che criminalizza i diritti alla libertà di espressione e di riunione
pacifica, dove i lavoratori migranti sono sfruttati e discriminati e gli è
negato il diritto a formare sindacati e scioperare, dove recentemente in nome
dell’alleanza con Israele, con cui ha mantenuto relazioni economiche,
l’espressione filo-palestinese viene repressa.
Se dunque gli EAU sono un Paese coinvolto in conflitti armati non difensivi,
quantunque mascherati, se la loro politica in ogni caso contrasta con i principi
dell’articolo 11 della nostra Costituzione, se sono notoriamente responsabili di
gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani,
allora perché non è vietata l’esportazione materiali di armamento verso gli
Emirati ai sensi della legge italiana (L.185/1990)? E perché i portuali
dovrebbero essere obbligati con il loro onesto lavoro a essere complici di
questo illegittimo e infame “carico di morte”?
A LA SPEZIA INCROCIO DI POSSIBILI TRAFFICI DI ARMAMENTI DESTINAZIONE ISRAELE
Sabato 26 luglio – ore 17.50
Il porto spezzino rimane sotto i riflettori per la sua vocazione come scalo di
carico e transito marittimo di armamenti.
Mentre scriviamo, attirano l’attenzione due navi.
La prima, «Cosco Pisces», una grande porta container che avrebbe dovuto far
scalo ieri mattina (25 luglio) alla Spezia, e invece da quasi un giorno è ferma
al largo, a trenta miglia dalla costa ligure. L’attenzione sulla nave è stata
richiamata dai portuali del Pireo. Infatti – secondo i portuali greci – avrebbe
in stiva cinque container carichi di componenti militari in acciaio che stanno
compiendo un lungo viaggio: partiti dal porto di Mumbai (India) a fine giugno
per Singapore, sono stati qui caricati sulla «Cosco Pisces», grande porta
container da 20.000 TEU che Cosco gestisce sulla rotta Asia-Mediterraneo.
Individuati al Pireo perché destinati a IMI Systems, uno dei grandi contractors
dell’industria militare israeliana, i cinque container sono con tutta
probabilità in procinto di essere re-imbarcati su una nave feeder diretta in
Israele in uno dei prossimi porti che la «Pisces» dovrebbe toccare, appunto La
Spezia, poi Genova, Marsiglia-Fos, Valencia, prima di ripartire per il Far East.
I portuali greci e italiani hanno chiamato alla mobilitazione anche i colleghi
francesi e spagnoli.
Una seconda nave è al momento in porto a La Spezia. Si tratta della «Aal
Gunsan», bandiera cipriota, una nave che solitamente opera in charter. Secondo
fonti locali, che non abbiamo potuto verificare, avrebbe imbarcato al molo
Garibaldi due container contenenti due cannoni e munizioni diretti in Indonesia.
Le nostre associazioni si fanno interpreti del pericolo che città e porto
possano divenire il crocevia di traffici destinati ad alimentare guerre, in
particolare quella in corso a Gaza, in cui Israele sta violando i più elementari
diritti umani e compiendo azioni genocidarie che sono sotto indagine da parte di
tribunali internazionali.
In proposito ricordiamo un recente caso a Ravenna che ha visto il coinvolgimento
di rinomate aziende lombarde in un tentativo di esportare in Israele come
“fucinati di acciaio” 14 tonnellate di componenti di cannoni, nonostante il
divieto governativo.
Chiediamo all’AdSP del Mar Ligure orientale di esercitare tutti i controlli
richiesti dalla legge 185/1990 e maggior trasparenza e dati certi circa il
passaggio di armi dai porti della Spezia e di Marina di Carrara, i rispettivi
quantitativi in esportazione, importazione e transito e le relative
destinazioni, dati che sono a conoscenza delle medesime autorità.
Chiediamo inoltre ai rappresentanti eletti nel Comune di La Spezia di prendere
posizione pubblicamente circa eventuali legami del tessuto economico spezzino
con l’economia di guerra di Israele, di cui è prova l’annunciata presenza alla
prossima edizione di SeaFuture di una delegazione ufficiale della Marina
israeliana.
Rete spezzina Pace e Disarmo e The Weapon Watch
28 luglio 2025, ore 10:30. La nave porta container «Cosco Shipping Pisces»,
giunta davanti al porto della Spezia venerdì 25 luglio e tuttora in attesa al
largo, si appresta all’attracco al molo spezzino di Fornelli al terminal LSCT,
ma l’agenzia italiana della compagnia di navigazione cinese assicura che «non
verranno sbarcati i tre container di Evergreen» con armamenti destinati a
Israele. Non solo, sembra intenzionata a «far tornare i tre box incriminati
direttamente in estremo Oriente da dov’erano partiti».
Lo afferma un lancio di Shipping Italy, che riportiamo in forma integrale e che
indirettamente attribuisce la decisione della compagnia alla campagna di
boicottaggio indetta dal sindacato USB. La notizia dei container carichi di
componenti in acciaio per armamenti è stata diffusa dai portuali del Pireo e dal
sindacato greco ENEDEP, sulla base del destinatario finale, IMI Systems, uno dei
grandi contractors dell’industria militare israeliana.
L’articolo di Shipping Italy si può leggere qui.
Il comunicato di USB Genova, che dichiara 24 ore di sciopero contro il trasporto
di armi.
Weapon Watch ha ricostruito il percorso dei container segnalati, che sono cinque
(tre di Evergreen, uno di Triton e uno di una compagnia sino-panamense). Partiti
a fine giugno dal porto di Mumbai, India, per Singapore, sono stati qui caricati
sulla «Cosco Shipping Pisces», grande porta container da 20.000 TEU che opera
sulla rotta Asia-Mediterraneo. Dal Pireo, la «Pisces» doveva toccare secondo
programma i porti di La Spezia, Genova, Marsiglia-Fos e Valencia, prima di
ripartire per il Far East.
La rete di osservazione internazionale, che segue da settimane i movimenti della
nave, vigilerà per verificare che i container effettivamente non vengano
sbarcati e re-imbarcati su navi feeder dirette in Israele.
Il caso della «Pisces» indica che la protesta organizzata nonviolenta e
soprattutto il ruolo dei lavoratori dei trasporti stanno dando un importante
contributo alla trasparenza di un mercato delle armi sempre più intenso e ampio.
Indica anche che l’orrore per ciò che da quasi due anni sta accadendo in
Palestina ha raggiunto una dimensione insopportabile, e che il rifornimento di
armi, tecnologia e capitali a Israele si sta ormai configurando come complicità
nel genocidio dei palestinesi.
Questa volta la «Bahri Jeddah», arrivata a Genova il 7 luglio, non trasportava
solo armi per l’Arabia Saudita e gli emiri del Golfo.
Prima di ripartire per la tappa egiziana di Alessandria, sulle banchine genovesi
ha depositato anche una strana attrezzatura, nuova di fabbrica e imbarcata nel
terminal di Dundalk, porto di Baltimora, Maryland.
Si tratta di un tunner, un aircraft cargo loading-unloading system, una grande
macchina mobile per il carico-scarico di merci da aeromobili.
L’attrezzatura appartiene all’US Air Force, è destinata alla base aerea di
Aviano ed è stata fabbricata da DRS Sustainment Systems Inc., società che in via
diretta e indiretta è controllata da Leonardo Spa. Attrezzature di questo genere
non sono utilizzate dalle forze armate italiane, che non dispongono di
giganteschi cargo militari come il C-5 ‘Galaxy’ (120 tonnellate di carico) e il
C-17 ‘Globemaster III’ (76 tonnellate di carico). Questa la ragione dell’invio
in Italia del macchinario, attraverso una nave commerciale degli “alleati”
sauditi.
A sx: il tunner di DRS SSI nelle operazioni di carico e scarico di un C-17
‘Globemaster III’.
Qui sopra: una pagina del sito web di Leonardo DRS in cui si illustra la
versatilità del tunner a 5 assi, peso a vuoto 68 tonnellate.
È dunque assai probabile che la base americana di Aviano – che ospita anche
ordigni nucleari – si stia preparando a ricevere nelle prossime settimane
numerosi voli dei grandi cargo USAF, carichi di armi e munizioni da smistare sui
teatri di guerra europei e mediorientali. A questo ruolo di “portaerei” il
nostro paese è da decenni disponibile, anche se – a leggere il recente libro del
generale Fabio Mini, La Nato in guerra. Dal patto di difesa alla frenesia
bellica’ – l’alleanza atlantica non ha affatto nel proprio statuto quello di
compiere missioni “di pace” armate, né di combattere “guerre preventive”, né
tantomeno di organizzare aggressioni di altri paesi, sullo stile del recente
“bombardamento chirurgico” dell’Iran.
Non ci sarà solo il ponte sullo Stretto, anche la nuova diga foranea del porto
di Genova contribuirà – nei desiderata del Governo – a coprire le spese militari
che l’Italia s’è impegnata in sede Nato a portare al 5% del Pil, una quota delle
quali (1,5%) potrà essere rappresentata da infrastrutture a valenza anche
militare.
Una vocazione cui, come anticipato da «Il Fatto», si stava lavorando da mesi
anche per la diga genovese, mega-opera da 1,3 miliardi di euro (già lievitati a
1,6 coi lavori nemmeno arrivati al 10%) pensata per ampliare la capacità
mercantile del porto.
Ieri l’ufficializzazione: «La nuova diga è infrastruttura dual use. Progettata
per scopi mercantili, in caso di crisi (bellica, nda) sarà utile perché consente
lo sbarco di portaerei leggere, navi Nato e strumenti e truppe» ha affermato
Carlo De Simone, subcommissario all’opera (il ‘titolare’ è Marco Bucci
presidente della Regione Liguria), durante una trasmissione tv.
Poco importa che le più grandi portaerei Nato abbiano dimensioni largamente
inferiori a quelle delle portacontainer abituali ospiti delle banchine genovesi
e che quindi potrebbero comodamente approdare sotto la Lanterna senza spendere
miliardi di euro per la diga. Né che a La Spezia, a 50 miglia nautiche, abbia
sede una delle maggiori basi della Marina militare: “La military mobility è un
programma dell’Unione europea per facilitare gli spostamenti rapidi di truppe e
contingenti all’interno dell’Europa” ha puntualizzato De Simone: “La diga può
contribuire al tetto di spesa del 5% perché è un investimento infrastrutturale
con funzionalità duale”.
Sicuramente l’obiettivo primario della militarizzazione, ma non forse l’unico.
Come accennato, l’opera, finanziata con 800 milioni di euro del fondo
complementare al Pnrr, ha problemi di copertura. Solo grazie a un’iniezione di
142 milioni dal recente Decreto economia Bucci ha potuto coprire parte degli
extracosti già emersi e bandire pochi giorni fa la seconda fase dell’appalto (la
prima se l’è aggiudicata una cordata guidata da Webuild), oggetto, nella prima
parte, di indagine della Procura europea e caratterizzato da dosi minime di
trasparenza.
Basti pensare che quest’ultima gara sulla Fase B è pubblicata senza elaborati
progettuali né capitolato. E che da anni Bucci e Autorità portuale negano il
rilascio dei documenti relativi al contenzioso con Webuild (già valso
all’appaltatore 300 milioni) e persino l’esistenza dei test condotti sul
consolidamento dei fondali, ritenuto fin dai primordi il punto debole del
progetto.
Naturale quindi che il dual use, potenziale viatico di nuovi esborsi e opacità,
abbia scatenato la polemica politica. “Ora Genova rischia di diventare un
obiettivo sensibile dal punto di vista militare. L’opera di per sé ha enormi
criticità, mai correttamente gestite. Se ora sarà anche ‘tinta’ di verde
militare, oltre al danno si aggiungerà la beffa. Il governo ha il dovere di
chiarire questo disegno surreale” hanno dichiarato il deputato M5S Roberto
Traversi con il senatore M5S Luca Pirondini, annunciando un’interrogazione
parlamentare.