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SULLE TRACCE DELLE FORNITURE MILITARI “INVISIBILI” ALLA GUERRA IN PALESTINA
DALLE PICCOLE FABBRICHE NELLE PREALPI LOMBARDE ALLE FORZE ARMATE DI ISRAELE ATTRAVERSO IL PORTO DI RAVENNA – Il 4 febbraio 2025 la Guardia di Finanza ha bloccato nel porto di Ravenna un carico di pezzi forgiati diretti a IMI Systems Ltd, la compagnia israeliana famosa per le armi leggere (la mitraglietta UZI, il fucile d’assalto Galil), dal 2018 assorbita da Elbit Systems, il principale contractor della difesa di Israele. L’episodio è divenuto pubblico solo ora grazie ai cronisti locali e al giornalismo investigativo di Linda Maggiori, che ne ha scritto su il manifesto. Venerdì 28 marzo la rete ravennate delle associazioni per la pace ne ha tratto un comunicato in cui ha ricordato che, circa un anno fa, l’Autorità portuale di Ravenna aveva messo per iscritto di non aver «alcuna informazione in merito a trasporti di armamento bellico in violazione delle leggi dello Stato», invitando chi ne avesse a informare la Procura della Repubblica. Presidio in piazza del Popolo, a Ravenna, il 29 marzo 2025, per protestare contro il transito di armi in porto. In effetti il caso è venuto alla luce perché, lungo la catena logistica e documentale, qualcuno ha rispettato le regole che qualcun altro cercava di aggirare, e ha denunciato il tentativo. Troppo grave era stata l’infrazione di leggi e trattati, in una tentata esportazione verso un paese dove si commettono terribili violazioni dei diritti umani e crimini di guerra, cercando fraudolentemente di nascondere la vera natura delle merci esportate. L’azienda esportatrice è Valforge Srl di Cortenova, in provincia di Lecco, specializzata in forgiatura e trattamento dei metalli, ma non iscritta al Registro nazionale delle imprese e quindi neppure in grado di chiedere l’autorizzazione a esportare materiale militare, come vuole la legge 185/1990. Eppure Valforge ha ottenuto una commessa da una delle aziende militari israeliane più note al mondo, e possiamo esser certi che abbia dovuto rispettare un capitolato tecnico preciso e conforme all’utilizzazione finale dei pezzi fabbricati. Ora l’azienda ne chiede il dissequestro, e sapremo se il tribunale di Ravenna le permetterà di tornare in possesso del materiale, con il rischio che possa provare a esportarlo per altra via, in un altro porto italiano o attraverso un altro paese. La laboriosa Valsassina, dove ha sede la Valforge, è terra di grande attivismo metallurgico e di grande e diffusa intraprendenza imprenditoriale. Se la Valforge vi opera dal 2006 (dal 2005 con altra denominazione, poi cessata), il suo proprietario Pierantonio Baruffaldi è attivo dal 2001 come titolare di un’altra azienda (Otomin Srl a Primaluna, minuterie metalliche), e dal 2016 coordina le sue attività mediante una piccola holding (B.Mecc Srl con sede a Introbio). La stampa ha riportato che le lavorazioni sono state effettivamente svolte da due aziende in provincia di Varese, e in effetti il Baruffaldi è stato per quattro anni anche amministratore delegato della Coinval Srl di Sumirago (VA), azienda cessata nel 2022 ma che ha operato in un’area con storica vocazione metalmeccanica, posta com’è a metà strada tra Varese e Gallarate. Tanto che all’ex indirizzo della Coinval oggi opera un laboratorio industriale che realizza test e controllo qualità per produzioni metalliche e in particolari in acciaio (non coinvolto nell’inchiesta). Dobbiamo però concentrare l’attenzione sul territorio in cui opera Valforge. In questo quadrante dell’Alto Lario, tra le province di Lecco e Sondrio, si è creato un ambiente piccolo-industriale ma attento alla digital innovation, erede dei ferascìncinquecenteschi ma proiettato sui mercati internazionali, da cui sono nate vere dinastie industriali. Quella della famiglia Galperti, gli antichi “Carlini” della Valsassina, si è ramificata nel tempo in tante branche, alcune divenute di dimensioni notevoli. A Nuova Olonio, dove il fiume Adda si getta nel Lago di Como, ha messo il suo quartier generale l’ingegner Nicola Galperti a cui fa capo un gruppo da 230 milioni di fatturato (2023), capofila la Ring Mill Spa. Questa società opera tra l’altro anche nel settore militare e nel 2022 ha ottenuto autorizzazione a esportare in Germania e anche verso Israele pezzi forgiati per cannoni, precisamente “sbozzati per canna, blocco otturatore e culatta da 155 mm cal. 52”. Quelli destinati a Israele sono montati sugli obici semoventi gommati ATMOS 2000, considerati come i più competitivi concorrenti dei noti cannoni francesi CAESAR, e fabbricati da Soltam Systems, azienda del gruppo Elbit Systems, lo stesso a cui appartiene la citata IMI Systems. L’obice semovente ATMOS 2000 155mm/52 può essere montato su veicolo 6×6 o 8×8. Nella sua pagina web, Elbit lo presenta come battle-proven. Fonte: pagina web di Elbit Systems Così, a pochi chilometri di distanza tra loro, vediamo due imprenditori entrambi operanti nello stesso specifico settore della forgiatura, sebbene su livelli diversi, vendere allo stesso cliente (Elbit Systems) semilavorati da assemblare in sistemi d’arma. Il primo, Pierantonio Baruffaldi, cade dalle nuvole quando gli sequestrano 13 tonnellate di materiale destinato – illegalmente – alla più importante industria militare di Israele. Il secondo, l’ing. Galperti presidente e CEO della Ring Mill, ha venduto – con la documentazione corretta ma con autorizzazioni che non dovevano essere concesse perché destinate a paesi in guerra – componenti di qualità per i sistemi d’artiglieria all’avanguardia sia a Rheinmetall (che li ha spediti in fretta in Ucraina), sia a Elbit che ne ha dotato le forze armate israeliane per fare il tiro a segno sulla popolazione di Gaza. Lavorazione a caldo nello stabilimento Ring Mill di Dubino (SO). Vengono in mente le parole di un altro Galperti, Roberto Galperti, anche lui industriale valsassinese delle lavorazioni metallurgiche a caldo, che in una vecchia intervista del 2013 proclamava di non investire più in Italia, dove si sentiva sconfitto da una “burocrazia cavillosa”: qui «qualsiasi cosa faccia, l’imprenditore è sospettato di non voler rispettare le leggi e quindi è potenzialmente considerato un criminale». Autorità e governo italiani farebbero meglio a seguire l’esempio del presidente brasiliano Lula da Silva. Nell’aprile 2024 il suo Ministero della difesa, da sempre geloso della propria autonomia in tema di procurement, ha firmato con Elbit un contratto di acquisto per 36 obici ATMOS 2000 completi. In ottobre Lula ­– che ha mantenuto pubblicamente una posizione molto netta circa le responsabilità israeliane nella cosiddetta “guerra di Gaza” – ha sospeso l’affare, nonostante le rimostranze del ministro della difesa, José Múcio, suo alleato di governo ma leader di un partito di destra. Nel febbraio 2025 la stampa brasiliana ha pubblicato la notizia che Lula approverà il contratto solo dopo un accordo di pace tra Israele e Hamas, e che lo stesso destino seguiranno tutti gli accordi in essere o in trattativa per acquisto di armi da aziende israeliane.
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È uscito il primo numero di “disfare – per la lotta contro il mondo-guerra”
Riceviamo e diffondiamo: Per richiesta di copie: disfare@autistici.org Scarica il pdf dell’anteprima: disfare_1_anteprima   Editoriale Europa anno zero Mentre, nello Studio Ovale della Casa Bianca, urla in faccia a Zelensky: «Vai in giro e costringi i coscritti in prima linea perché hai problemi di uomini», JD Vance non fa altro che svelare al mondo intero ciò che per tre anni è stato nascosto dalla propaganda di guerra atlantica, e che viene adesso rinfacciato – strumentalmente e non certo per motivazioni etiche – dal nuovo corso USA, di fronte ad una guerra evidentemente persa e ormai sfacciatamente scaricata sulla popolazione europea. Un’Europa la cui classe dirigente – riaffermando la difesa fino all’ultimo ucraino con la retorica della “pace giusta” – annuncia con patriottismo democratico scellerati piani di riarmo e deterrenza nucleare. La guerra è l’orizzonte storico terribile del nostro tempo. In Svezia e Norvegia vengono distribuiti opuscoli e si allargano i cimiteri per predisporre la popolazione all’eventualità di una guerra con la Russia; Von der Leyen dichiara di volere «la pace attraverso la forza»; Macron propone di estendere la force de frappe francese all’Europa; in Lombardia si dispone l’ampliamento delle scorte di iodio nell’eventualità di attacco nucleare; la NATO promuove la mobilitazione della società civile dei paesi alleati nell’Indopacifico per preparare un conflitto con la Cina; l’esercito italiano si prepara ad arruolare quarantamila soldati in più. In un quadro di interdipendenza tecnologica e finanziaria fra Cina e Stati Uniti, con l’elezione di Trump viene alla luce lo scontro in atto da anni tra la fazione globalista e quella sovranista delle classi dirigenti occidentali. Per sommi capi, la prima è decisa a uno scontro diretto e a qualsiasi costo con la Russia, la seconda favorevole a un’intesa col Cremlino per puntare, nel giro di alcuni anni, direttamente contro la Cina, ma entrambe convergono su un punto preciso: il riarmo europeo (peraltro deciso e annunciato molto tempo prima del ritorno di re Donald). Un gioco di specchi e provocazioni che, mentre potrebbe sfociare da un giorno all’altro nell’annientamento nucleare dell’umanità intera, trasformerà l’Europa, se non in un cumulo di macerie radioattive, in una fortezza blindata e militarizzata, dominata da un’economia di guerra che assorbirà tutte le risorse e le energie sociali. La guerra del nostro secolo è ibrida, totale, asimmetrica, civile. Il suo campo di battaglia è ovunque. La guerra del XXI secolo è una guerra senza limiti, che assume forme varie e pervasive. Si snoda tra i flussi energetici, prende la forma di attentati e sabotaggi di Stato, incorpora pienamente il denaro, i mezzi di informazione e i social network. La centralità assunta dalla tecnologia e dallo sviluppo scientifico si riverbera in ogni ambito del conflitto guerreggiato, attraverso droni, applicazioni che coinvolgono la popolazione nei servizi di intelligence (ad esempio per segnalare le posizioni delle unità nemiche), così come con la rivoluzione dell’intelligenza artificiale nelle dottrine militari, che ha un peso e delle conseguenze paragonabili all’invenzione del nucleare. Se l’IA e le tecnologie digitali sono fondamentali per fare la guerra, la ricerca del primato su questi dispositivi alimenta la competizione su scala internazionale per il saccheggio di materie prime e la vampirizzazione energetica. Le ipotesi di “deterrenza batteriologica” e la valenza apertamente militare dei bio-laboratori fanno coincidere guerra guerreggiata e guerra al vivente. Non per questo vengono meno forme “tradizionali” e sanguinose, riemergenti nei fronti di una guerra mondiale che per ora sarà anche «a pezzi», ma che si delinea sempre più chiaramente come prodotto della crisi dell’egemonia globale statunitense e contesa con i suoi sfidanti, in particolare la Cina. Sul fronte ucraino, la leva di massa e la guerra di posizione ci ricordano quanto avveniva durante la Prima Guerra Mondiale. Sul fronte mediorientale, dove per gli USA mantenere saldo il colonialismo d’insediamento israeliano – sorto come avamposto degli interessi occidentali – significa cercare di preservare il proprio predominio sulla regione, il genocidio sionista a Gaza e in Cisgiordania riporta all’attualità quanto avvenne durante la Seconda Guerra Mondiale. In nessun caso si tratta però di un ritorno del Novecento, bensì del reciproco alimentarsi di progresso tecnico e mobilitazione generale nella guerra totale del XXI secolo. Il potenziamento della tecnica è oggi l’orizzonte centrale per le forze che si contendono il dominio del mondo. Con un rovesciamento tra il concetto di mezzo e quello di fine, la tecnica guidata dalla scienza moderna si afferma secondo una propria logica. Il ruolo del sistema satellitare Starlink di Elon Musk – impostosi con la guerra in Ucraina – dà la misura di un protagonismo inedito delle multinazionali dell’high-tech, ma, come in altre fasi della rivoluzione industriale, non viene meno il ruolo dello Stato, che anzi assume una rinnovata centralità. Non è un caso che il Progetto Stargate della nuova amministrazione USA – 500 miliardi per lo sviluppo dell’IA – sia stato paragonato al Progetto Manhattan, quello che portò ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. La natura automatizzata del genocidio a Gaza appare come la sperimentazione sui “selvaggi delle colonie” di quello che rischia di accadere ai civilizzati stessi, allo stesso modo in cui il genocidio degli Herero in Namibia da parte del colonialismo tedesco (e l’insieme dei genocidi commessi dalle altre potenze coloniali) precedette e preparò l’attività dei campi di sterminio durante il nazismo. E mentre diventa sempre più chiaro come nell’organizzazione del mondo-guerra vi sia un’umanità eccedente di cui si può fare a meno e che va gestita o eliminata, si sta sdoganando l’idea che si possa fare a meno dell’umanità in quanto tale (come sostenuto apertamente da alcune correnti tecnocratiche tutt’altro che lontane dalle stanze dei bottoni). La guerra è prima di tutto un fatto di politica interna – e il più atroce di tutti. Così metteva in guardia Simone Weil, ventiquattrenne, nelle sue Riflessioni sulla guerra (1933), rispetto all’errore di considerare la guerra come un fatto di politica estera. Se i fatti drammatici a cui assistiamo ogni giorno in diretta streaming rischiano di apparirci distanti, la guerra è più vicina di quanto inconsciamente ci auguriamo.  A pochi passi da noi stanno infatti le sue molteplici basi materiali – dai centri decisionali alle fabbriche d’armi e munizioni, passando per snodi logistici che sono parti integranti della logistica militare e un sistema universitario che fa da laboratorio all’industria bellica –, sempre più nutrite da imponenti piani di riarmo. E nel mondo datificato e digitalizzato i confini fra civile e militare sono continuamente superati in entrambi i sensi: una app che oggi viene usata per profilarci come consumatori, pazienti sanitari o “cittadini digitali”, può servire, altrove come qui, per mettere al bando, arruolare, o eliminare una parte di umanità considerata nemica o inutile, mentre i dati che produciamo tutti i giorni sono direttamente al servizio della sorveglianza e degli eserciti. Se è vero che la guerra parte da qui, è altrettanto vero che la guerra torna indietro. Ritorna come necessità di “pacificare” le retrovie, militarizzandole: la sperimentazione delle “Zone Rosse” dopo Capodanno, il tentativo di varare un codice da legge marziale col Pacchetto Sicurezza (firmato anche dal ministro della Difesa), l’estensione del “modello Caivano” ad altre periferie. Sul piano interno, sono numerose le conseguenze a cascata del conflitto tra gli Stati fatte pagare alle classi dominate – aumento delle bollette, precarizzazione ulteriore del lavoro, fine di quel che rimane del cosiddetto “Stato sociale” – giustificate dalle necessità del riarmo e della difesa nazionale e Europea, con l’utilizzo costante dell’emergenzialità e la militarizzazione delle emergenze. È ciò che abbiamo ampiamente vissuto durante il “periodo pandemico”, in cui la guerra al virus ha predisposto il terreno per la guerra attuale con la sperimentazione su larga scala di una mobilitazione generale. La guerra totale è contemporaneamente guerra civile globale. Le condizioni di questa guerra civile sono ampiamente in essere anche alle nostre latitudini, come più d’uno ha affermato già nel secolo scorso. Il venir meno di collanti ideologici, la conflittualità intestina allo Stato e pure alle classi frantumate, sono sintomi che la barbarie non è qualcosa di lontano, ma si dispiega anche all’interno delle mura erette dalla “civiltà” e dal “progresso”. Basti pensare a quanto accade nelle periferie come riflesso della “guerra tra poveri” – italiani contro stranieri, disoccupati contro lavoratori “del nero”, piccoli esercenti autorizzati contro abusivi, regolari contro clandestini, abitanti delle case popolari contro occupanti, cittadini contro rom, antagonisti contro “maranza”… Se poi ci spostiamo nel Regno Unito, vediamo tornare né più né meno che i pogrom (con migranti e islamici al posto degli ebrei e dei rom). Se le insurrezioni e le rivoluzioni moderne sono sempre delle guerre civili, i due termini non coincidono. Oggi siamo precisamente in presenza di una guerra civile ubiqua e orizzontale in assenza di guerra sociale. Capita però che talvolta il conflitto si esprima verticalmente, come nelle sommosse di George Floyd e poi, con una composizione socialmente diversa, e per certi aspetti opposta, nell’assalto a Capitol Hill (USA, 2020 e 2021: prima proletari di tutti i colori contro padroni e istituzioni, e in particolare contro la polizia; poi una miscellanea di classi, ma tendenzialmente plebee e bianche, contro l’elezione di Biden); negli scontri dei popoli nativi contro il marco temporal dell’agroindustria (Brasile, 2023); nelle sommosse delle banlieues francesi (dal 2005 alle più recenti “rivolte di Nahel”) e, alle nostre latitudini, nelle accese manifestazioni antipoliziesche dopo l’assassinio di Ramy Elgaml a Milano da parte dei carabinieri. I fenomeni di disintegrazione sociale rappresentano in ogni caso una minaccia per l’ordine costituito, a cui lo Stato risponde in maniera autoritaria, in modo del tutto trasversale alle  tassonomie di governo formali (democrazia vs. autocrazia), senza mediazioni se non quelle offerte dal progresso tecnico. Basti pensare alla digitalizzazione e biometrizzazione delle identità legali, tramite cui l’identità civile diventa indistinguibile da un dispositivo di sorveglianza automatizzato. Oggi il “cittadino” che si rivolta o non obbedisce è sempre più meccanicamente “messo al bando”. Prendere atto della tendenza alla guerra non significa accettarne l’inevitabilità. Nonostante la religione dell’ineluttabilità sia il motore del nostro tempo, alcuni segnali sembrano incrinarla. In Ucraina, dopo la sbornia nazionalista, il sostegno alla guerra ha lasciato il posto a forme di renitenza, diserzione e non-collaborazione di massa che pesano non poco sulle sorti di quel conflitto e lasciano intravedere un possibile crollo del fronte occidentale. Nel frattempo, il genocidio a Gaza ha alimentato un movimento globale vasto e articolato che, grazie ad alcune testarde minoranze, ha riscoperto forme d’azione diretta e ha portato l’intifada nei campus statunitensi, facendosi carico di dire il non-detto, cioè il fondamento bellico e genocida del capitalismo occidentale. L’estensione della guerra a tutti gli ambiti della società moltiplica le opportunità di ammutinamento e sabotaggio, offrendo alla variabile umana inedite occasioni di inceppare la macchina mortifera. La propaganda di guerra – paradossalmente – ha avuto invece presa su alcune minoranze della minoranza antagonista, arrivate a esprimere sostegno a una sedicente, e inesistente, resistenza ucraina, e a esitare, nel contempo, a sostenere la resistenza palestinese, con la totale incapacità di distinguere tra un’ondata nazionalista fomentata e armata dalla NATO (e con autentici nazisti in prima fila, tra Parlamento, squadroni della morte, esercito, polizia, Guardia Nazionale) e una resistenza anticoloniale contro un colonialismo d’insediamento ancora in corso. Se i socialisti parlamentari di un tempo votarono i crediti di guerra, i loro ridicoli e corrotti eredi “progressisti”, dopo un secolo di collaborazionismo di classe, sostengono il piano di riarmo “ReArm Europe” e indicono piazze guerrafondaie “per la libertà”, volte unicamente a sostenere la prosecuzione del massacro in corso in Ucraina. A centodieci anni dall’entrata in guerra dell’Italia nel Primo Massacro Mondiale e a ottant’anni dalla fine del Secondo sul suolo europeo, sono la storia dell’antimilitarismo rivoluzionario e ancor più quella di chi lo ha abbandonato abbracciando la causa della “guerra giusta” di turno a illuminare tragicamente la strada da percorrere. L’unico modo di sottrarsi a guerre fratricide è assumere la logica del disfattismo e le sue implicazioni, ovvero adoperarsi per la rovina della parte capitalista che ti vuole arruolare e intruppare, e l’unico modo per sottrarre il disfattismo dall’arruolamento da parte del campo capitalista avverso è la logica dell’internazionalismo: quella con la quale ogni sfruttato vede il proprio nemico nel padronato di casa propria, solidarizzando con i propri fratelli e sorelle dall’altro lato del fronte. ¯¯¯ Con questo sguardo sul mondo nasce disfare, bollettino periodico in parte dedicato ad affrontare nodi cruciali per interpretare il fosco orizzonte in cui agiamo, in parte a dare diffusione di testi contro la guerra totale, per lo più inediti in lingua italiana, provenienti dai vari fronti e retrovie del mondo e anche dal passato. Il bollettino uscirà in quattro numeri annuali, un ritmo oltremodo lento per tenere il passo vertiginoso dell’attualità, ma che ci sembra – oltre che compatibile con le nostre energie – adatto al cristallizzarsi di un pensiero che provi ad avventurarsi oltre la superficie. Ci affidiamo a uno strumento cartaceo, senza escludere che possa essere affiancato da altri mezzi, convinti che nella dimensione digitale tutto sfreccia e poco o nulla si posa, rumore di fondo che non ha più importanza di qualsiasi altro rumore. Di fronte all’accelerazione di eventi di portata storica che stiamo vivendo, ci sembra utile dotarci di una pubblicazione che possa fornire uno spazio di discussione e in cui possano dialogare fra loro esperienze di lotta e analisi, anche geograficamente lontane e magari divergenti tra di loro, con il desiderio che questo possa stimolare pensiero e azione. Per questo invitiamo chi ci legge a contribuire con testi, grafiche, segnalazioni, critiche, diffusione. Nella speranza che l’accelerazione di questi tempi bui non ci trovi del tutto impreparati.    
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Con la Palestina nel cuore, Padova un po’ meno
Riceviamo e pubblichiamo questo comunicato del Collettivo Sumud di Venezia. Tutta la nostra solidarietà alla compagna e al compagno portati in Questura e colpiti dal foglio di via. Non è pedanteria ribadire che per noi non esistono “Stati legittimi”. Quello israeliano ha la stessa legittimazione che si sono auto-assegnati tutti gli Stati (pensiamo agli USA, fondati su un genocidio). La differenza – per cui noi siamo sfruttati mentre i palestinesi vengono sterminati – è che, espressione e gendarme di un colonialismo d’insediamento incompiuto (l’incompiutezza si chiama resistenza palestinese), Israele rinnova ogni giorno quella violenza fondativa che gli Stati rimuovono nel processo di normalizzazione e che riaffiora quando si organizzano per la guerra. Con la Palestina nel cuore, Padova un po’ meno Il 18 marzo, i Giovani Palestinesi di Padova hanno lanciato una giornata di lotta in città, contro le collaborazioni universitarie intrattenute con “Israele”, contro Maersk, azienda con sede all’interporto di Padova attivamente coinvolta nel trasporto di armi verso il sopracitato Stato illegittimo e contro la ripresa evidente del genocidio con gli attacchi sulla striscia di Gaza della notte precedente. A giornata conclusa, una compagna e un compagno del nostro collettivo che hanno partecipato alla manifestazione sono stati “colpiti” da un foglio di via dalla città, rispettivamente di due e tre anni, dopo essere stati portati in questura con altri 3 manifestanti, dopo essere stati seguìti da una decina di volanti per quasi un’ora. Ci teniamo a partire da quanto successo, non tanto per parlare delle misure repressive in sé, che ci interessano poco nei loro tentativi strumentali e materiali, ma come pretesto per dire due cose che ci stanno a cuore. Prima di tutto, ci rivendichiamo totalmente il senso della giornata: un presidio statico di denuncia e contro-informazione si è trasformato in un tentativo di occupazione dell’università complice del genocidio, per poi prendersi le strade con un corteo spontaneo e partecipato; questo, secondo noi, è segno di una variabile umana che, prendendo esempio dal popolo palestinese, si mette ancora in gioco ed è ancora pronta a lottare provando a superare divieti e cordoni di polizia. Perché se il genocidio continua e le collaborazioni sono ancora attive, noi non possiamo fermarci. La giornata del 18 a Padova fa sperare che la lotta a fianco del popolo palestinese continui, tutto il resto passa in secondo piano, a nostro avviso. Siamo felici di poter condividere piazze, percorsi, lotte con i Giovani Palestinesi, che da più di un anno riescono a dare indicazioni precise su come e dove agire in quanto solidali con il popolo palestinese. In secondo luogo, spendiamo alcune parole circa le “conseguenze legali” che hanno colpito i compagni: le rivendichiamo assieme al senso della giornata e delle azioni che sono state portate avanti. La repressione non è solo fogli di via, indagini, denunce, persone portate in questura e così via; la repressione è, secondo noi, un insieme di pratiche molto più ampio, che non viene portato avanti solo da polizia, ma è un modo di fare che si insinua ovunque e al quale ci si deve opporre con tutte le proprie forze per poter continuare la lotta. Non vogliamo fare la parte delle vittime che vengono colpite dalla “repressione” senza motivo; siamo due militanti presi in quanto “appartenenti” ad un’area politica che cerca nella coerenza una pratica di lotta, e gli atti repressivi che si presentano e tornano non vogliono che far pagare questo (o provarci). Concludiamo ringraziando con il cuore in mano tutte le persone che sono state fuori dalla Questura di Padova ad aspettare il rilascio dei cinque fermati per due-tre ore. Essere in quel luogo infame e sentire fuori i cori e il rumore dei solidali, è un’emozione difficilmente traducibile a parole. Un’emozione che chi ha compagne e compagni che fanno della solidarietà una pratica reale e concreta può provare, e che dà una forza incredibile, per la quale ringraziamo di condividere le lotte con persone così. Uscire e trovare volti conosciuti e no, fa dimenticare tutto il resto, e fa capire la potenza della solidarietà. Per questo ringraziamo sinceramente chiunque era lì fuori.
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La montagna non si arrende ai giochi d’azzardo
NESSUN IMPIANTO, NESSUN RIMORSO: ALCUNE CONSIDERAZIONI E UN RACCONTO A PIÙ VOCI DELLA MOBILITAZIONE DELLO SCORSO FEBBRAIO Lo scorso 9 febbraio una quindicina di escursioni hanno punteggiato la dorsale appenninica e l’arco alpino al grido La montagna non si arrende. Dopo l’esperienza di Reimagine winter (marzo ’23) e Ribelliamoci AlPeggio (ottobre ’23) decine di associazioni, spazi sociali, comitati di abitanti, climattiviste si convocano in risposta alla chiamata dell’Associazione Proletari Escursionisti. Un primo dato interessante sta proprio qui: realtà diverse, associative e militanti, singoli oppositori o gruppi organizzati riflettono le proprie voci di dissenso a progetti che disegnano una prospettiva di turismo sempre più aggressiva basata sulla depredazione dei territori. Troviamo che questa saldatura descriva due importanti momenti. Tanto per cominciare, sappiamo che in questa fase le lotte locali fanno paura al potere e sono tra le poche efficaci. Basti qui ricordare la pesantissima repressione NoTav, le manganellate al parco Don Bosco di Bologna, le forze dell’ordine sempre più spesso mandate a monitorare gruppi e iniziative di protesta locale o ancora le lotte contro il furto d’acqua e le dighe d’Oltralpe. Unire queste lotte a partire dall’urgenza dello sperpero olimpico e metterle in connessione tra loro non farà che rafforzarle e migliorarne l’efficacia, rendendo una volta ancora più esplicito il trait d’union che le accomuna: la necessità di sviluppare comunità disposte a interagire con i territori e a ragionare di come starci dentro e non sopra, insieme alll’improrogabilità di opporsi a prospettive che minacciano e calpestano luoghi ogni anno più fragili. Visioni superate, fuori tempo massimo, che strizzano ancora dopo aver spremuto. Idee sepolte, energivore, idrovore e che possono essere tranquillamente descritte come negazioniste del cambiamento climatico. In questo solco la proposta di una giornata di mobilitazione sincrona che riconosce nei Giochi olimpici invernali 2026 l’elemento apicale di una lunga sequenza di iniziative nocive e imposte, che drenano risorse pubbliche e minano la vita non solo umana nei territori coinvolti, può fungere da apripista a una galassia di resistenze contro cave e miniere, grandi opere stradali sovradimensionate, impianti eolici industriali, estrazione di fonti fossili, nuovi impianti di risalita. Un cartello capace di interrogare e interrogarsi su possibili forme di mutuo appoggio, produzione di spazi di confronto e formazione, impellenza di far emergere le lotte con lo scopo di portare a casa piccoli e grandi risultati utili a infondere fiducia nel binomio stop nocività / riprogettazione dal basso. Tutto nasce dall’appello: «Le terre alte bruciano. Non è una metafora. Lo zero termico a 4200 metri in pieno autunno, i ghiacciai si sfaldano, il permafrost si scioglie, le alluvioni devastanti sono la realtà quotidiana delle nostre montagne. Una realtà che stride con l’ostinazione di chi, dalle Alpi agli Appennini, continua a proporre un modello di sviluppo anacronistico e predatorio, basato su pratiche estrattive e grandi-eventi come i giochi olimpici invernali. La monocoltura turistica sottrae risorse economiche pubbliche a beneficio di pochi, a scapito di modelli plurali e alternativi di contrasto allo spopolamento delle terre interne e di convivenza armonica in territori montani fragili e unici». I NUMERI, LE OPERE (E I GIORNI) DI UNA CRISI Il versante sud delle alpi paga per primo il costo della crisi climatica: 260 impianti sciistici dismessi, oltre 170 in funzione “a intermittenza”, i bacini per l’innevamento artificiale crescono del 10% toccando la cifra record di 158 secondo il Rapporto Neve Diversa di Legambiente. Sempre in tema di dati, le prime analisi della Rete Open Olympics illustrano l’economia della promessa olimpica a partire dagli open data pubblicati sul sito di SiMiCo, l’SpA a controllo pubblico e principale stazione appaltante delle infrastrutture del ticket Milano-Cortina 2026. Dati che raccontano il modello spompo di una nazione al collasso che dopo essere implosa nell’industria e nella sua capacità di produzione non sa far altro che iniettare liquidità per generare reddito sottraendo spazi di cittadinanza. E così si ruba acqua a comunità che necessitano di autobotti per bagnare gli orti, si progettano impianti che abbattono boschi, si trasformano rifugi alpinistici in resort di lusso. La logica della turistificazione genera souvenir finto-artigianali, attrae gruppi di investimento, cancella servizi essenziali per le comunità. Il risultato di questo “favore al turismo” costi quel che costi altro non è che l’annientamento di economie locali, la crescita dei prezzi e l’impossibilità di vivere e sviluppare relazioni dove si è nati e cresciuti, quando anche vi ci si volesse rimanere. L’esplosione e l’atomizzazione del tessuto sociale. Scritte contro l’eccessiva invadenza del turismo all’Alpe di Siusi A un anno dallo start nella gestione del cantiere olimpico 2026, la metà delle opere risulta ancora in progettazione o in gara, le attese di una VAS nazionale sono state tradite e sulla Lombardia insiste il carico più alto (50% ca. di 3,38 miliardi) sia per numero di opere che per costo. La conclusione di diverse opere di “legacy”, che per il 70% sono stradali e per il 30% ferroviarie) è già in agenda per il 2028, 2030, 2032. Il binomio fretta/ritardo, distrattamente salutato come pura imperizia, costituisce una leva fondamentale della logica commissariale e della sua capacità di accelerare i processi di trasformazione territoriale bypassando i processi democratici di ascolto, interlocuzione, cessione di potere all’agognata sovranità popolare. A questo scenario si aggiungono i costi per la realizzazione dei Giochi veri e propri, in carico alla Fondazione Milano Cortina 2026 per 1,6 miliardi di euro. Il 70% delle opere collaterali alle Olimpiadi – in una nazione in cui crollano ponti, si sfaldano guardrail e lo stato di edifici pubblici a cominciare dalle scuole è pessimo, in cui le case non a norma, abusive, e a forte rischio in caso di evento sismico o meteorologico è disarmante, in cui  la manutenzione è inesistente e la priorità è spostare masse di turisti nel grand tour dell’invasione – sono strade. La politica pretende di ridurre gli intasamenti stradali aumentando il numero delle carreggiate – come nel caso del Passante di Bologna – e delle carrozzabili – come per la tangenziale di Bormio – senza ammettere che così facendo fa aumentare il volume del traffico e torna al “via”, a dover ampliare e costruire ancora e ancora. Opere per giustificare opere: infrastrutture per raggiungere borghi e città tronfi di mattone e bonus edilizi, centri urbani tirati a lucido e gentrificati, in preda alla smania di decoro e respingenti. Un Paese ricco di infrastrutture turistiche mal progettate che chiamano ciclabili. Opere inutili rispetto all’idea originaria – agevolare la mobilità interna -, che quando non contribuiscono a causare disastri, come in Emilia, sottraggono spazio ai marciapiedi e pedoni. L’ottica turistica nasconde nocività sotto al tappeto e inventa peculiarità e tradizioni, economie e bella vita, in una valanga schizofrenica che si ingigantisce e travolge tutto quel che incontra. Impianti anacronistici e funi ricollocate nella tradizionale destinazione d’uso, come nel caso dell’ovovia di Trieste, «una vetrina commerciale per le sue [di Leitner, ndr] cabinovie urbane, dato che il cambiamento climatico preclude altri impianti in quota». Meleti pervasivi che occupano il territorio in maniera tossica, fatta di fitofarmaci e pesticidi, mentre si invita la gente a voltarsi dall’altra parte per ammirare funivie che trasporteranno la frutta da stoccare. È questo il progetto Melinda che, vestiti i panni di novella Grimm, racconta una Biancaneve al contrario fatta di una funivia, riduzione del traffico di camion, buone mele “green” e biodiversità. Come se non fosse una presa per i fondelli parlare di biodiversità mentre si impone una monocoltura (o bi-coltura, se includiamo i vigneti) nociva. Come se la costruzione e il mantenimento di un impianto non fossero energivori, non impattassero sul territorio non inquinassero; come se, tolte poche centinaia di metri al trasporto su gomma – l’”ultimo miglio” – i camion non continuassero a portar merce dai produttori alla stazione di partenza della funivia, e dalla cella ipogea della cava di stoccaggio ai centri di distribuzione. In Trentino, la regione “illuminata” in cui l’invasione di animali umani inizia a produrre più noie che reddito, la Provincia preferisce millantare invasioni di una fauna anch’essa re-introdotta a uso turistico, salvo non garantirle il minimo spazio vitale e negarle corridoi di dispersione per poterla poi additare a emergenza criminale e pretendere di abbatterla. La negazione della vita per l’aleatorietà del fatturato perché, grattata la vernice, la menzogna si svela per quello che è: altro che interesse per l’ambiente, rispetto per le comunità, scelte lungimiranti per la collettività. INTERESSE PRIVATO E PITTATE DI VERNICE, STOP Per i Giochi è previsto l’arrivo di 1,8 milioni di presenze, che a mezzo stampa si usa arrotondare a 2 milioni, ma che in realtà è un modo curioso di parlare di 500.000 persone, per intenderci un settantesimo del giubileo capitolino. Il Rapporto di sostenibilità, impatto e legacy è una lettura di sicuro svago per gli amanti della chiarezza circa gli obiettivi dell’impresa: rafforzare la posizione sia di Milano, come città met dinamica e votata ad ospitare eventi internazionali, che di Cortina, quale località nel cuore delle Dolomiti e della regione alpina, attrazione turistica e polo leader a livello mondiale per sport invernali. Se solo escludiamo i nomi di località e discipline che riportano la parola alpina o alpino questa è l’unica volta in cui le Alpi sono citate in 164 pagine di documento. A titolo di paragone il lemma Milano (sede di gara della maggior parte delle discipline) restituisce oltre 250 risultati. Narrazioni dunque, cumuli di narrazioni che mirano a intruppare e a spostare l’attenzione dal cuore del problema: il modello di business distruttivo. Ecco perché è importantissimo questo inizio di “camminata larga”, ecco perché ci auguriamo che la contestazione fuori e oltre, al tema stretto “Milano-Cortina”, si allarghi. Partire dalle singole opere, dagli impianti, dai progetti – che siano in alto come in basso, in città come in piccoli borghi semi-disabitati –; partire dai sommovimenti e dalle lotte, metterle in “rete”. Perché le narrazioni attorno all’Olimpiade o a qualsiasi altro soggetto speculativo si adattano di volta in volta succhiando respiro, ma sono accomunate dalla stessa logica, perfettamente sovrapponibile a quella che anima l’assalto a tutto lo stivale: soldi, sfruttamento, impoverimento sociale. Leggere la dinamica aiuta a allargare lo sguardo, apre riflessioni di respiro, e sposta il piano. In questa logica non ha senso controbattere alla produzione immaginifica del monolite olimpico fatto di mille piedi, stare sul pezzo delle Olimpiadi come evento anacronistico, immaginare un unico motore no-olimpico. Come bene ha scritto Alberto di Monte, il nostro compagno Abo, su Umanità Nova: «L’importante non è vincere, oggi è importante non partecipare». Ne siamo convinti, le montagne meritano una nuova diserzione, le olimpiadi meritano diserzione, questo mondo merita diserzione. Disertare le loro battaglie e le loro costruzioni del nemico, spostare l’asse verso il conflitto giusto: non contro le narrazioni sognanti e distorcenti che produce il capitale, ma contro esso stesso. BORMIO – FAKE SNOW, REAL PROFIT! La comitiva in arrivo in pullman da Milano è accolta a Bormio dalla prima neve di stagione, che da qualche giorno scende copiosa in alta valle. Le centocinquanta persone partecipanti inscenano un’escursione-manifestazione-perlustrazione fino all’imbocco della Valdidentro prima di ripiegare nel centro storico per un pomeriggio di presidi itineranti. Sì perché la contestazione olimpica non è ben accetta dall’amministrazione locale né dalla questura di Sondrio e diverse iniziative sono state precettate nel tentativo di scorare i dimostranti e di tenere a distanza le sensibilità più curiose. L’epilogo di fronte all’ecomostro delle tribune al piede delle piste, lungo la via che dovrebbe intercettare il traffico della nuova tangenzialina, è la fotografia plastica dei “Giochi della sostenibilità”. Lo ski stadium di Bormio durante il presidio Per raggiungere Bormio abbiamo risalito la Valle Camonica e scavallato il passo dell’Aprica. Lungo il tragitto, sopra le nostre teste nubi dense contrastano con un paesaggio brullo, fatto per l’ennesimo inverno consecutivo di scarsissime precipitazioni, sia piovose che nevose. Attraversando la valle scorgiamo Montecampione, località sciistica fallita, e per fortuna: per tutta la bassa valle non s’intravede nemmeno una spruzzata di bianco. È febbraio ma sembra autunno. Più a Nord la situazione non è migliore, qualche incrostazione dalla Presolana, dal Pizzo Badile camuno e dalla Concarena in su, macchia appena monti di oltre 2000m di quota. All’Aprica, poco meno di 1200 mslm, scorgiamo i primi spazzaneve, i primi fiocchi. Siamo quasi stupiti, siamo in cinque ed è la prima neve dell’anno che vediamo. La località è triste: poca gente per la via centrale, ancor meno sulle piste, lingue bianche e artificiali a dividere masse verdi d’abete. Forse anche la gente si sta stancando di sport invernali senza inverno. Il passo dell’Aprica la mattina del 9 febbraio Scendiamo in Valtellina: a Tirano monti e fondovalle sono asciutti quanto quelli camuni. Man mano che ci inerpichiamo verso Bormio riprendono i fiocchi, “sta a vedere che portiamo il dono più prezioso al nemico”. Arriviamo a Bormio in leggero anticipo, la Piana dell’Alute è magnifica, ampia, di un verde che comincia a imbiancare. I bormini le sono molto legati, la amano per la sua storia, per il suo valore paesaggistico, per quello che è. Andrebbe vista, visitata, protetta; la nuova amministrazione invece la vorrebbe devastare per farci passare la “tangenzialina”. Altro che tangere, sventrare una piana stupenda per proiettare il vomito-massa nel cuore di Bormio. Chissà se reggerà a queste sollecitazioni. Chissà se questo piccolo microcosmo resisterà all’infarto. Cercando un parcheggio attraversiamo piazza Kuerc dove ancora non c’è nessuno. Lasciamo l’auto, calziamo gli scarponi e torniamo in centro. Bormio fa la stessa impressione dell’Aprica: pochi turisti, poco movimento in pista e fuori, i vecchi fasti delle località sciistiche sono passati, resistono giusto i comprensori-mastodonte come il Tonale, luogo di un’altra camminata di questo 9 febbraio. In piazza ci dirigiamo verso un bar per un caffè, due ragazze ci fermano e chiedono se sia qui il ritrovo. «Sì, e manca poco. Speriamo che il meteo non rovini la giornata». Al bar veniamo accolti bene, le ragazze che lo gestiscono ci chiedono se siamo qui per via della manifestazione, sono curiose. Fuori le stesse scene, qualche passante ci saluta e chiede, così come gli agricoltori che hanno approntato un mercatino sotto la copertura della piazza. La storiella dei valligiani chiusi, dei montanari ostili ai movimenti e felici di vedere “soldi per lo sviluppo” si scioglie come i fiocchi che cadono sul selciato di questa piazza. Il pullman da Milano è in ritardo, cogliamo l’occasione per salutare qualche conoscenza e per conoscere persone nuove che nel frattempo si stanno radunando. Il pericolo è scongiurato, gente ce n’è. A un certo punto avvertiamo una presenza chiassosa, svolto l’angolo e intravedo uno striscione che recita «Milano-Cortina 2026. Dalle Montagne alle città. Olimpiadi insostenibili». È arrivato il pullman, e bene: la questura ha vietato di tutto un po’, cortei compresi, ma la cosa non preoccupa né impensierisce troppo. Ci muoviamo quasi subito dietro lo striscione, ci sono anche alcune bandiere e intoniamo cori. I milanesi hanno studiato un canzoniere simpatico, provocatorio, scherzoso. Il corteo si fa, e attraversa tutto il paese. Qualche curioso si sporge dalle finestre, qualcun’altra chiede. Un signore è incuriosito dalla bandiera palestinese che sventola. «Cosa c’entra con questa iniziativa?», chiede. «Le lotte si tengono assieme, così si dà senso alle cose, alle sorellanza». Capisce. Annuisce. Se ne va sorridendo. Attraversiamo il fondovalle costeggiando il canale termale e poi pieghiamo a destra, inerpicandoci nei boschi, la neve attacca e meglio così, sotto di lei insidiose lastre di ghiaccio fanno pattinare e battere le natiche a terra a più di uno di noi. Ma fa presa anche negli animi, i cani ci zampettano felici, qualcuno ci si tuffa, si comincia una divertita battaglia a palle di neve. Nel frattempo tre digos stanchi, compito ingrato, ci seguono a sempre maggior distanza. Disinteressati. I locali hanno preparato alcuni interventi che danno il senso della giornata: la tangenziale, il progetto spalti della pista Stelvio che è già costato decine di milioni di euro e che altrettanti ne mangerà, la gentrificazione, la difficoltà del vivere ai margini dell’impero. C’è di tutto, ce n’è per tutti; quello che una volta tanto manca è la frustrazione, il senso di impotenza, e forse questa è la cosa più importante. Il senso della giornata, il motivo dell’umore positivo è dato alla perfezione da uno degli interventi del pomeriggio, di nuovo in Piazza del Kuerc, nel primo dei presidi mobili a cui i divieti questurini di corteo ci hanno obbligato. Tessere, unirsi, combattere. Essere consci che non è una battaglia per vincere, che le olimpiadi si faranno, ma che su qualche opera si può vincere e se su quelle vittorie si costruisce consapevolezza si segna un punto importante, si aggrega, si rilancia. Ci sarebbe di che confrontarsi, ce ne sarà occasione: i problemi bresciani risuonano in quelli valtellinesi, che fanno eco a quelli milanesi, del tutto simili a quelli appenninici, «che al mercato mio padre comprò»; se saremo bravi sarà semplice intersecare le lotte, riportarle a quello che sono: un’unica grande battaglia contro un unico nemico arrogante. Durante il rientro attraversiamo boschi di abeti e larici, vallette, passiamo dietro ai bagni di Bormio (ora irrimediabilmente chic), ci immergiamo in questa testimonianza silente delle peculiarità di un territorio maestoso e delicato. Lungo il cammino e prima della foto di rito da un belvedere, a fine camminata, è previsto un altro breve intervento che – appunto perché la lotta è una – include anche il racconto di quello che è successo al lago Bianco, dove si è pensato di posare tubi al fine di sfruttare il bacino per l’innevamento artificiale. In pieno Parco Nazionale dello Stelvio, prosciugando una torbiera e la sua complessità ecologica, a dimostrazione che è tutto sott’attacco, anche le aree più fragili e che pensavamo tutelate. La camminata è stata intensa, avvolta dall’odore e da quel senso di ovattamento sempre più raro che regala la neve, che aiuta a riflettere, che fa meglio percepire le sinapsi. Torniamo in piazza, mangiamo qualcosa e ci prepariamo per l’ultima parte della giornata, fatta di presidi dinamici che descrivano il senso dell’iniziativa e i cantieri “insostenibili”, con ultima tappa sotto le colate di cemento della già citata pista Stelvio. Si uniscono a noi comitati locali, due arzilli avanti con gli anni volantinano e raccolgono firme per i trasporti gestiti da regione Lombardia, contro il suo assessore, contro Trenord. Altro piccolo legame tra le due valli unite nello scempio: in quella camuna si va sviluppando il primo progetto italiano di treno a idrogeno su una linea capace di offrire soltanto disservizio, da anni. A causa di un piccolo acciacco e della conseguente sofferenza di uno di noi ce ne andiamo poco prima della fine e dei saluti, non partecipando all’ultimo dei presìdi, del resto “si parte e si torna insieme”. Ce ne andiamo però soddisfatti, pieni del senso di una giornata proficua, necessaria. Le connessioni ci sono tutte, le volontà anche. Non resta che cospirare. CALDAROLA – ANCHE IN APPENNINO: LA MONTAGNA NON SI ARRENDE (A DUE PASSI DAI SIBILLINI) Ci ritroviamo a camminare nell’Appennino maceratese a distanza di diversi mesi dall’escursione che ci portò a osservare dall’alto l’area interessata dal progetto monster degli impianti di Sassotetto e a diversi anni dalla fantastica Festa di Alpinismo Molotov del 2018. In questa fascia di montagna, a rispondere all’appello per la giornata di mobilitazione sono state due associazioni locali: C.A.S.A. Cosa Accade se Abitiamo e L’Occhio Nascosto dei Sibillini, ma la partecipazione come vedremo è stata poi molto più ampia, sia da parte di singoli che di realtà del territorio. Ma partiamo dalle basi, sottolineando un aspetto che non smetteremo di evidenziare: le dinamiche predatorie e speculative che interessano quest’area sono le stesse che ritroviamo in tutte le terre alte (e non solo in quelle), con l’aggravante che vanno a insistere su un territorio che ancora mostra tutte le ferite del sisma 2016/2017. Ferite visibili, fatte di case e paesi ancora – quando va bene – in fase di ricostruzione e di un tessuto sociale sempre più in difficoltà. Quando, nei primi mesi del post-terremoto, parlavamo di un territorio che rischiava di essere ancor più sotto attacco perché reso più debole dalle scosse e dalla mala gestione dell’emergenza (prima) e della ricostruzione (poi), facevamo una previsione fin troppo semplice. Per questo mobilitarsi in queste aree ha a avrà per lungo tempo una doppia valenza, una “di base” e una specifica sulle varie tematiche che si intendono affrontare. Questa volta gli interventi che hanno unito i nostri passi si sono concentrati su tre temi di base: i progetti turistici sui Sibillini, il Gasdotto SNAM che attraversa queste zone, il parco eolico che dovrebbe sorgere proprio dove stiamo camminando. Quest’ultimo tema è quello su cui ci si è soffermati maggiormente, anche ma non solo per il luogo scelto per l’escursione di questa giornata. Riprendiamo dall’appello: “(…) a ridosso del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, tra i comuni di Caldarola, Camerino e Serrapetrona, in provincia di Macerata, dovrebbe sorgere un parco eolico con aerogeneratori alti 200 m. A conferma di come l’energia rinnovabile, di cui ovviamente condividiamo la necessità alla base, non sia buona “di per sé” ma vada comunque sempre inserita in un contesto di rapporti sociali, politici ed economici e valutata considerando anche l’impatto sull’ambiente, sulle comunità e sull’intero territorio. Non è illogico riconoscere che dietro la famigerata transizione ecologica si nascondano altri interessi (il parco eolico in questione è stato richiesto appunto da una multinazionale norvegese con sede anche in Italia) che non hanno nessuna ricaduta positiva sulle comunità – defraudate di qualunque potere decisionale – perpetuando in chiave “green” lo stesso sistema economico che ci ha portato fino a questo punto.” Riportiamo queste considerazioni perché sono tornate più volte nel corso degli interventi e perché se sostituiamo il parco eolico con gli impianti di risalita o con il gasdotto il risultato finale non cambia: nessuna ricaduta positiva sui territori ed estrattivismo da parte del capitale. Su queste basi ci ritroviamo lungo il sentiero che da poco più avanti l’abitato di Castiglione si muove verso i Prati delle Raie e Croce di Valcimarra. Ci muoviamo intorno ai mille metri di quota e una fitta nebbia ci accompagna fin dalla partenza, siamo 100? 120? 90? È persino difficile contarsi e nel lungo serpentone si riconoscono le sagome solo dei dieci avanti e dietro ciascuno di noi. Una composizione variegata e di tutte le età, compagne e compagni che si incontrano sia in piazza che lungo i sentieri di montagna ma anche appassionati di escursionismo e persone del luogo sensibili agli argomenti trattati. Chi conosce questi posti racconta di come normalmente il panorama da quassù sia fantastico, da un lato le vette dei Sibillini che a tratti spuntano dietro ogni curva, dall’altro la vallata e Camerino in lontananza. Oggi la nebbia rende tutto surreale e qualcuno aggiunge che “oggi non avremmo visto neanche le pale se le avessero già piazzate”. Durante le prime due soste sul gasdotto e – soprattutto – sul parco eolico sono tante le domande e le considerazioni che si accavallano e chi ne sa di più prova a rispondere, non tanto sui tecnicismi quanto sull’assurdità del progetto in sé. Qualcuno ricorda che solo nelle Marche sono più di cento le pale eoliche – alte 250 metri – che dovrebbero essere installate lungo i crinali appenninici, tanto che sempre oggi sul Monte Strega è in corso un’altra escursione sempre sullo stesso tema. Continuiamo a salire e si iniziano a vedere i primi scampoli di cielo blu, giusto in tempo per la foto di rito con uno striscione realizzato con su scritto a caratteri cubitali “La montagna non si arrende”. Dopo poche centinaia di metri accompagnati dal sole l’itinerario ci porta a ripiombare nella nebbia per l’ultima “pausa narrata” sui progetti da decine di milioni di euro che andranno a impattare sui Sibillini con la scusa della “transizione turistica”, che ovviamente non viene chiamata così, ma sembra troppo affine alla transizione ecologica per non fare un accostamento. Scendendo ci siamo chiesti cosa avesse significato questa giornata e l’opinione di tutti è che, nonostante il meteo e un territorio che negli ultimi anni ne ha passate di tutti i colori, c’è ancora una spinta a mobilitarsi su questi temi. Spinta che ci auguriamo sia solo il primo passo di una rincorsa verso i prossimi appuntamenti, perché l’escursione di oggi ci ha dimostrato che nonostante tutto gli spazi di possibilità ci sono. Sempre. PONTE DI LEGNO – RI-PENSARE LE TERRE ALTE PER LA LORO SALVAGUARDIA La camminata a Ponte di Legno – pensata e condotta da APE Brescia, MTO2694, Unione Sportiva Stella Rossa, Collettivo 5.37 e L’Oco! Orco che orto – ha visto la partecipazione di un centinaio di persone, nonostante una fitta nevicata lungo il sentiero e pioggia battente all’imbocco della Val Sozzine, luogo di ritrovo della manifestazione, ma non è stata che l’apice di un percorso preparatorio di respiro. Va infatti fatta una doverosa premessa: in Valle Camonica sono state organizzate tre serate preparatorie alla camminata del 9 febbraio, con l’intento di coinvolgere una popolazione che sobbolle disorientata, di mettere a fuoco le tante questioni camune sul tavolo – Terme di Ponte di Legno, depredamento del bacino del Lago Bianco per realizzare un nuovo impianto di innevamento artificiale, ampliamento del comprensorio del Monte Tonale, Montecampione, terra di progetti di turistificazione varia – tra i quali spicca Imago nei parchi Nazionali delle Incisioni Rupestri. – e di tentativi di costruire relazioni stabili tra cittadini sparsi, associazioni, comitati e collettivi locali che si stanno opponendo o che ragionano criticamente su singoli progetti, per rinforzare la protesta. Tre serate molto partecipate e vivaci, organizzate da realtà strutturate che sono state in grado di aprirsi e accogliere la partecipazione non scontata di tanti singoli sparsi, sensibili ai temi ambientali e sociali del territorio. Tre assemblee grazie alle quali si è generato un passaparola propedeutico a allargare lo sguardo e le presenze del 9 febbraio. Nel suo complesso, la mobilitazione è infatti stata molto più larga rispetto a quella che ha frequentato il serpentone colorato del 9; sintomo di una tematica sentita e della capacità di intercettare molte istanze e soprattutto molti volti nuovi rispetto a quelli a cui ci la militanza camuna è abituata. Il  percorso scelto si è snodato lungo la ciclabile che da Ponte di Legno sale verso il Passo del Tonale, una camminata adatta a tutti, con punti panoramici dai quali osservare direttamente i luoghi delle criticità trattate e sufficientemente visibile perché i turisti in risalita verso le piste del Tonale se ne accorgessero. Ad accogliere i partecipanti giunti in auto e con un pullman, una micro delegazione delle forze dell’ordine che, una volta rassicurate rispetto all’idea pacifica della mobilitazione e della mancanza di volontà di bloccare le piste – voce preoccupata e forse messa in circolo con una certa malizia – si è allontanata salutando. Di altro tenore l’interesse della stampa locale, presente con rappresentanti di tutte le emittenti, che si è presentata per produrre servizi e articoli una volta tanto piuttosto potabili. Il meteo non è stato clemente, ma un percorso ben studiato ha consentito a chi non fosse attrezzato o si trovasse in difficoltà a camminare sotto la neve di seguire gli interventi muovendosi da una sosta all’altra, lungo la strada. Gli interventi hanno rivendicato maggiore vivibilità, sia economica e sociale che ecologica e ambientale. Hanno messo in luce la scarsità di prospettive e di servizi per i camuni: spopolamento, mancanza di servizi, redditi inferiori rispetto a quelli di pianura, impossibilità di non avere un’auto a causa dell’inefficienza della mobilità pubblica, aggravata dal progetto di Trenord di realizzare una linea sperimentale a idrogeno e ribadito contrarietà al continuo sperpero di risorse per ampliare i demani sciabili. La Valle Camonica infatti, anche se non sarà direttamente impattata dalle Olimpiadi, fa parte di quei territori che continuano a drenare fondi collettivi per cercare di rilanciare il turismo con nuovi comprensori, cannoni e sbancamenti, senza pensare minimamente di diversificare le proposte o gettando lo sguardo a un turismo più responsabile e meno impattante. Immaginando le tappe di avvicinamento e la giornata di mobilitazione, si è scelto un percorso indagante, morbido e inclusivo ben riassunto da questa dichiarazione del comitato MTO2694: «Progetti come quello sul Monte Tonale Occidentale, poco chiaro e ancora fumoso, che  in alcune ipotesi prevede lo sbancamento della cima e il disboscamento della Valle del Lares, sono un attacco all’ambiente e alla biodiversità». Un progetto «anacronistico, fuori tempo massimo». […] «Le critiche sono tante e addirittura alcune sono condivise da Regione Lombardia. La stessa Regione Lombardia che ha parzialmente finanziato questi impianti. Le criticità sono davanti agli occhi di tutti». Siamo contrari agli ampliamenti dei demani sciabili con nuovi impianti perché ci sembra una forzatura, non solo nei confronti dell’ambiente ma anche del clima che cambia. Noi non siamo contro lo sci, siamo contro le forzature». Per concludere, questa scelta, premiata da una folta partecipazione complessiva, ha dimostrato che stimolando un dibattito serio ci sono forze per continuare a sviluppare percorsi di critica, e si riesce anche a attrarre nuove presenze, fino all’8 febbraio per nulla scontate. ____________________________________ FONTI ISTITUZIONALI Cruscotto con lo stato di avanzamento delle opere in carico a Simico Dossier di candidatura Rapporto di Sostenibilità, Impatto e Legacy 2023 Proposta Programma per la Realizzazione dei Giochi Olimpici   FONTI OPEN Primo report OpenOlympics Secondo report OpenOlympics Rapporto Neve diversa 2024   FONTI COMPAGNE LA MONTAGNA NON SI ARRENDE (UTILI IN CALCE ALLA PAGINA “MATERIALI AUDIO” E “COSE INTERESSANTI”) Tracce (immagini satellitari impianti sciistici in lombardia dal 2016, Off Topic Lab) Umanità nova (articolo di Alberto “Abo” di Monte) Video integrale convegno Off Topic Video Duccio Facchini – Altreconomia L'articolo La montagna non si arrende ai giochi d’azzardo sembra essere il primo su Alpinismo Molotov.
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I lavoratori dell’aeroporto civile di Montichiari-Brescia proseguono nella loro obiezione nonviolenta ai traffici di armamenti. Anche in questa occasione, l’aereo in questione ha caricato casse (probabilmente di missili) giunte nottetempo su camion scortati, e sempre di notte – in coincidenza con la chiusura al traffico civile, e con manodopera nominativamente scelta e incentivata – caricati sull’aereo, che ha comunque sostato per circa ventiquattro ore in aeroporto prima di ripartire. Tutto di questo aereo ci conferma che opera lungo una supply chain militare. Si tratta di un vecchio Boeing 737-300, in circolazione da quasi 27 anni, oggi gestito dalla compagnia ucraina Constanta Airlines, ma in precedenza appartenuto a una lunga fila di compagnie, passando da quella di stato romena Tarom attraverso la Wells Fargo Bank (una delle big four americane) che l’affittò dal 2004 al 2022 a diversi operatori cinesi (Deer Jet, poi Beijing Capital; Yangtze River Express, poi Suparna Airlines, alias Jinpeng), per finire nelle mani di una compagnia cargo georgiana (Gryphon Air Cargo) e infine – dal giugno 2024 – alla compagnia ucraina Constanta Airlines. L’arrivo del vecchio Boeing, terzo velivolo operato dalla Constanta, ha seguito di poco la nomina alla supervisione operativa della compagnia dell’ex generale dell’esercito USA David L. Grange, entrato come azionista di minoranza insieme a un uomo d’affari inglese e a un imprenditore svedese. Insieme hanno poco più del 20% della Constanta Airlines. Grange ha fondato l’organizzazione benefica Osprey Global Solutions Ucraina «per la formazione gratuita dei militari ucraini in materia di sminamento, neutralizzazione di ordigni esplosivi e fornitura di assistenza medica d’emergenza secondo gli standard NATO», come recita il sito web della compagnia. La Constanta era stata acquisita nel 2018 da Roman Mileshko, ex pilota militare delle forze aeronavali ucraine con specializzazione conseguita alla Naval Postgraduate School di Monterey, California, e una decina di anni di missioni in Afghanistan, Ciad, RD del Congo, Somalia e Sudan, al quale è rimasta la maggioranza azionaria. Mileshko l’aveva acquisita in seguito alla bancarotta della precedente proprietà – una holding di Dubai – e dopo una lunga causa legale davanti a un tribunale londinese. La notizia dell’ingresso nella compagnia dell’ex. gen. Grandge è data con risalto sul sito web della Constanta AIrlines. Sullo sfondo, l’immagine dei due Antonov impiegati dalla Constanta, pruima dell’acquisizione del Boeing 727-300. Riutilizzando il vecchio numero di coda UR-UAA (già di un Antonov An-12, poi finito alla Africa West Cargo e irreparabilmente danneggiato), apparentemente il Boeing 737 di Constanta Airlines è entrare in attività proprio con questo volo registrato a Brescia-Montichiari, dove è giunto il 5 marzo 2025 dall’aeroporto slovacco di Piešťany, sua base operativa principale, con un volo della durata di un’ora, per ripartire il giorno successivo alle 9:07 per Ørland, base militare in Norvegia, dove è atterrato alle 13:25. La durata del volo Montichiari-Ørland (4 ore e 18 minuti) può apparire eccessiva rispetto alla distanza in linea d’aria (circa 2.000 km) e alla velocità di crociera del 737 (oltre 900 km/h), ma l’aereo ha seguito un’ampia rotta sulla Francia piuttosto che transitare verso nord, sopra Svizzera e Germania. Da Ørland – base fondamentale per la Royal Norwegian Air Force e la NATO – l’aereo ha poi fatto ritorno a Piešťany, dove è atterrato alle 19:21 del 6 marzo. Dall’Italia potrebbe anche aver trasportato parti di ricambio per gli F-35 e gli elicotteri AW101, fabbricati da Leonardo; o anche materiale per lo svolgimento delle manovre alleate “Joint Viking 25”, le esercitazioni congiunte che sono attualmente in corso (dal 3 al 14 marzo 2025, 10.000 soldati di nove diversi paesi). Nella baia di Trondheim, non lontano da Ørland, si trovano infatti giganteschi depositi dei Marines americani, uno dei contingenti prepositioned per le spedizioni militari degli Stati Uniti negli ambienti freddi. Preparativi dei marines in Norvegia per ‘Joint Viking 25’ Il volo del Boeing ucraino dimostra – se non bastavano altre evidenze – che attrezzature e personale civile ucraino stanno già operando entro la cornice NATO, con mezzi e collegamenti personali ad alto livello con le strutture militari USA. Va da sé che, in questo quadro, l’Italia sta fornendo le basi territoriali necessarie alle operazione degli alleati vecchi e nuovi: un coinvolgimento nella “guerra a oltranza” che si fa sempre più profondo e irreversibile.
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Con l’attentato alla petroliera di Vado Ligure la guerra ci è entrata in casa
GRAZIE A UN ALLEATO, COME NEL CASO DEL NORD STREAM DI CUI NON CI RICORDIAMO BENE… A dieci giorni dall’attentato alla petroliera «Seajewel» tutti gli interrogativi più importanti rimangono sul tavolo senza risposta, anzi altri se ne sono aggiunti. In ogni caso nessun nuovo elemento si è aggiunto che possa smentire quanto abbiamo già affermato: si tratta di un atto di guerra compiuto sul territorio del nostro paese, il primo che si possa mettere in collegamento diretto con la partecipazione dell’Italia alla guerra tra Russia e Ucraina. I silenzi della stampa – Come sappiamo per lunga esperienza storica, anche nel nostro paese la stampa ‘istituzionale’ che informa l’opinione pubblica fornisce informazioni anche in forma di silenzi. I silenzi sulla vicenda «Seajewel» ci sembrano significativi. Come abbiamo già riferito, le esplosioni che hanno danneggiato la petroliera si sono registrate nella notte tra venerdì 14 e sabato 15 febbraio. La Repubblica ha seguito il caso solo nella sua edizione genovese, su quella nazionale si è limitata a una ‘breve’ (a p. 23 il 20 febbraio). Il Fatto Quotidiano non ha pubblicato nulla sull’edizione cartacea. Il Giornale ha mantenuto il silenzio sino al 21.2, quando è uscito con un’“inchiesta” a p. 4. Il manifesto nulla. Il quotidiano che più ha seguito la notizia è stato il genovese Secolo XIX, forse perché da qualche mese è di proprietà del mega gruppo armatoriale MSC. Ha cominciato a occuparsene, però, non prima di martedì 18 (‘lavorato’ il 17), e per tre giorni consecutivi ha impaginato con lancio e foto in prima pagina e articoli alle pagine 2 e 3 (18, 20 e 21.2). Solo La Stampa, molto seguita nel Ponente ligure, ha seguito il Secolo, uscendo con informati articoli nella sezione ‘Primo piano’ per tre giorni consecutivi (18, 19 e 20.2). Il giornalismo embedded – A parte dobbiamo considerare il Corriere della Sera, che prima ha tardato a intervenire sul caso fino a giovedì 20 febbraio, poi ha fatto scendere in campo una firma di peso come Guido Olimpio che ha messo sul tavolo un altro tipo di notizie, quelle che non hanno fonte. Con il titolo «La guerra segreta sui mari – La petroliera in Liguria e i precedenti», l’attentato di Savona è presentato come uno dei “diversi strani episodi” accaduti negli ultimi mesi. “Forse sono incidenti, forse si è trattato dell’errore di marinai distratti, forse è stato altro”. La «Seajewel» “potrebbe essere rimasta vittima di un attacco con cariche esplosive che hanno provocato danni minori ma che, al tempo stesso, costituirebbe un segnale inquietante”. Va dunque inserita tra le navi che hanno subito incidenti sospetti negli ultimi due mesi: il cargo russo «Ursa Major», affondato il 23 dicembre 2024 mentre era in viaggio tra Spagna e Algeria (3 esplosioni a bordo); la nave spia russa «Kildin» abbandonata al largo di Tartus, in Siria, il 23 gennaio 2025 (esplosione e fuoco a bordo); la portarinfuse cinese «An Yang2» incagliata l’8 febbraio di fronte a Sakhalin, a nord del Giappone; e la cisterna «Koala» con bandiera di Antigua e Barbuda, che il 9 febbraio ha subito tre esplosioni al largo del porto russo di Ust-Luga, Mar di Finlandia. Vengono nominate anche altre navi e altri incidenti minori, in un quadro globale che infittendo le informazioni minori diventa confuso e indefinito. L’infografica pubblicata dal Corriere della Sera del 20 febbraio 2025 accompagna l’articolo “Savona, si indaga per terrorismo. La scia delle esplosioni sulle navi russe”, firmato da Guido Olimpio e Andrea Pasqualetto. La rivendicazione – C’è chi ha sottolineato che l’attentato di Savona non è stato rivendicato. Tuttavia, riprendendo le fonti locali savonesi in anticipo su tutti i giornali italiani, un quotidiano online di Kiev ha pubblicato (17.2) un articolo bene informato in cui si dà per scontato che la «Seajewel» appartenga alla ‘flotta fantasma’ che commercia il petrolio russo in violazione delle sanzioni internazionali. Nel dicembre 2024 la stessa Ukrainska Pravda aveva diffuso su YouTube un interessante servizio ‘investigativo’: servendosi degli strumenti del tracking navale e di teleobiettivi, nel porto rumeno di Costanza sono state filmate alcune petroliere dedite – si afferma nel servizio – al traffico ‘triangolare’ di petrolio russo tra Novorossiysk, i porti turchi e appunto Costanza. Tra esse, ben riconoscibile, la «Seajewel». Cos’è una ‘flotta ombra’ – Secondo Lloyd’s List, una nave cisterna appartiene a una ‘flotta ombra’ se ha almeno 15 anni di età, se è di proprietà anonima e/o ha una struttura societaria progettata per nascondere la proprietà effettiva, se è impiegata esclusivamente nei traffici petroliferi sanzionati e se è impegnata in una o più delle pratiche di navigazione ingannevoli secondo le linee guida del Dipartimento di Stato USA pubblicate nel maggio 2020. Le liste escludono le petroliere riconducibili a entità marittime controllate dai governi, come la russa Sovcomflot o l’iraniana National Iranian Tanker Co, e quelle già sanzionate. Allo stato attuale, ad aver individuato le navi che contrabbandano petrolio russo sono l’Unione Europea (16 pacchetti di sanzioni contro la Russia, che tra l’altro colpiscono 152 navi); il Regno Unito dal luglio 2024 ha blacklisted oltre 100 navi, in gran parte petroliere; gli Stati Uniti hanno sanzionato dall’agosto 2023 oltre duecento navi, di cui 155 cisterne nel solo gennaio 2025. La «Seajewel» non è tra le navi sottoposte a sanzioni internazionali. L’ultimo viaggio – La «Seajewel», che naviga sotto bandiera di Malta, appartiene ed è gestita dalla società armatrice greca Thenamaris, un colosso dello shipping internazionale che gestisce 93 navi tra cisterne, rinfuse e gasiere. Negli ultimi due mesi ha toccato nell’ordine i porti di Salonicco, Ceyhan (Turchia), Istanbul, Costanza (Romania), Fos-Marsiglia e Arzew, in Algeria, prima di raggiungere Vado. Se ha ‘triangolato’ petrolio russo può averlo caricato in Turchia e/o in Romania, entrambi paesi NATO che però – secondo gli ucraini – sono piattaforme di smistamento di greggio sanzionato. La supply chain – Al momento dell’attentato, la nave stava sbarcando greggio alle boe Sarpom di Vado Ligure, greggio destinato a raggiungere via oleodotto la raffineria Sarpom/IP-API di San Martino di Trecate (Novara), il primo operatore privato in Italia nel settore della distribuzione dei carburanti, che negli anni ha inglobato le reti già dei marchi Total, ERG, IP, Esso ed API. Si è minacciata quindi la sicurezza degli approvvigionamenti di una delle principali arterie energetiche del nostro paese, vitale per l’economia nazionale. Novità inquietanti – In queste ultime ore si stanno aggiungendo – sempre per merito soprattutto del Secolo XIX – altri particolari. 1. il 17 gennaio scorso anche la nave gemella «Seacharm», sempre appartenente a Thenamaris, ha subito un attentato al largo del porto turco di Ceyhan; 2. l’esplosivo utilizzato a Savona è dello stesso tipo di quello utilizzato in altri attentati compiuti recentemente nel Mediterraneo; 3. la seconda bomba sistemata sullo scafo della «Seajewel» è scoppiata circa 20 minuti dopo la prima, e sul fondo marino, non si sa se per malfunzionamento o per calcolo. La minaccia ambientale sottostimata – Se le paratie della nave non avessero tenuto, o se la seconda bomba avesse allargato la falla della prima, si sarebbe profilata una catastrofe dalle proporzioni simili a quella del disastro della petroliera «Haven» affondata al largo di Arenzano nel 1991, quando vennero riversate in mare 144.000 tonnellate di petrolio. La bonifica del fondale non è mai stata fatta, e oggi vi stazionano 50.000 tonnellate di catrame. I depositi e il relitto sono da allora una fonte di inquinamento continuo, e secondo gli esperti per mancanza di sedimentazione non ci sono prospettive di una decomposizione batterica del letto di catrame. Cosa (non) ricordiamo del caso Nord Stream ­– Era il 26 settembre del 2022 quando quattro bombe hanno distrutto i gasdotti Nord Stream 1 e 2. Ad appena due anni e mezzo di distanza, sembra che a ricordare uno dei più clamorosi attentati alle infrastrutture mai registrati sia rimasto solo Seymour ‘Sy’ Hersh, l’ottantasettenne giornalista investigativo premio Pulitzer nel 1970 per aver rivelato strage di Mỹ Lai, durante la guerra in Vietnam. Non si ricordano più le 150.000 tonnellate di metano rilasciate nell’atmosfera. Non si ricorda che la Russia ha chiesto sul caso un’indagine internazionale al Consiglio di sicurezza dell’ONU, richiesta respinta. Né si ricorda che i governi di Germania, Svezia e Danimarca promisero un’inchiesta approfondita, mai avvenuta. Circa un anno fa Danimarca e Svezia hanno chiuso le indagini e inviato i risultati alla Germania, che finora ha emesso un solo mandato di arresto per un ucraino senza nome. Eppure il sabotaggio era stato minacciato pubblicamente dal presidente Biden ricevendo il cancelliere Scholz a Washington, nel febbraio 2022. E secondo fonti riservate raccolte da Hersh, è stato un segnale da remoto a innescare l’esplosione degli oleodotti, minati mesi prima da due sommozzatori della US Navy. Da buon americano, in un recente articolo Hersh non ha nascosto la sua ammirazione per questi sub, “superbamente addestrati per svolgere il loro lavoro” a circa 80 metri di profondità nel Mar Baltico: “un gruppo altamente qualificato di sommozzatori addestrato dalla Marina, la cui capacità di rimuovere i detriti dai porti e le ostruzioni marine è stata ritenuta essenziale per decenni dai comandi della Marina around the world”.
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Ancora una nave-spola carica di armamenti
LA «SEVERINE» A BARI CARICA BLINDATI DELL’ESERCITO. IPOTESI SULLA DESTINAZIONE Lavoratori e militanti per la pace ci hanno segnalano l’ennesima presenza della nave ro-ro «Severine» (n° IMO 9539078) nel porto di Bari. È la stessa nave più volte notata negli scorsi mesi anche a Monfalcone, e di cui Weapon Watch si è già occupata in un precedente articolo. Come hanno ripetuto più volte i lavoratori e le organizzazioni sindacali di Monfalcone, infatti, il porto non è abilitato ai movimenti di armi e munizioni, neppure quelli al servizio delle Forze armate italiane, di cui invece è un hub molto frequentato. Nello scorso settembre, il Centro Balducci di Trieste e la Tavola della Pace del Friuli-Venezia Giulia hanno protestato pubblicamente contro questi movimenti. A Bari la nave «Severine» ha caricato una decina di mezzi militari pesanti, probabilmente i blindati “Freccia” dell’Esercito. Non sappiamo dove diretti. La «Severine» a Bari, 6 febbraio 2025. Particolare dei mezzi caricati in stiva. Da diverse fonti giornalistiche, sappiamo che «Severine» e la gemella «Capucine» (IMO 9539066) hanno sostituito il ro-ro «Excellent» della Visentini Giovanni Trasporti Fluviomarittimi nelle spedizioni marittime per conto del Ministero della Difesa italiano, tramite una gara vinta dal colosso danese DSV, affidatario abituale di questi servizi. Anche di DSV ci siamo occupati recentemente, considerando che con l’acquisto dell’ex DB Schenker, filiale delle ferrovie tedesche e grande trasportatore di armamenti in tutt’Europa, e dopo le acquisizioni negli anni di specialisti come Panalpina, Agility e ABX-Saima Avandero, DSV ha conquistato una posizione di primissimo piano nella logistica europea per la difesa. «Severine» e «Capucine» hanno la stessa bandiera (Malta), lo stesso manager (Anglo-Eastern UK Ltd, con sede a Glasgow, Scozia) e lo stesso armatore, Cadena Ro-Ro, che fa capo a CLdN RoRo, compagnia che ha sede in Lussemburgo meglio nota sotto l’insegna Cobelfret-Compagnie Belge D’Affrêtements. Sono entrambe navi abbastanza recenti, di quella tipologia che serve agli eserciti per muovere in una stessa spedizione grandi quantità di materiali. Prima del contratto militare la era impiegata nel Mare del Nord, area geografica completamente abbandonata da due anni a favore di quella del Mediterraneo. Sappiamo per esperienza che «Severine», come tutte le navi “militarizzate”, profitta delle norme internazionali che consentono di spegnere il transponder AIS in caso di «rischio di compromissione della sicurezza della nave» (IMO guidelines, Resolution A.917(22)), anche se le rotte frequentate dalla nave non ci sembrano affatto rischiose. Negli ultimi tre mesi, «Severine» ha toccato in più occasioni Monfalcone. Di norma riduce le fermate nei porti al tempo strettamente necessario alle operazioni in banchina. Nel periodo, le soste lunghe sono state due, 9 giorni a Crotone, 4 a Bari. Di quest’ultima sappiamo che la nave ha atteso il carico, ovvero i mezzi gommati militari entrati uno a uno in porto. Il giorno 10 febbraio la nave si è mossa da Bari ufficialmente diretta a Ortona. Gli scali della “Severine» tra dicembre e febbraio 2025. Significativamente, la nave non ha dato segnale AIS in occasione di probabili consegne di armamenti nel viaggio A/R da Monfalcone tra 6 e 14 dicembre 2024; poi da Monfalcone ad Alexandroupoli tra 2 e 8 gennaio 2025, e da Alexandroupoli a Crotone tra 8 e 11 gennaio. Infine ci sono 11 giorni tra la toccata di Savona (25 gennaio) e l’arrivo a Bari (6 febbraio). Deduciamo che un viaggio tra Monfalcone e Alexandroupoli si compie mediamente in 4-6 giorni, quindi quello compiuto nella prima metà di dicembre può plausibilmente essere Monfalcone-Alexandroupoli-Monfalcone (in otto giorni). Com’è noto, il porto greco di Alexandroupoli è il terminale marittimo usato dagli Stati Uniti per il materiale da spedire via terra (ferro/gomma) in Ucraina. Non va dimenticata l’assiduità della nave nel porto
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Al 9 febbraio: la montagna non si arrende, e nemmeno noi
Per il 9 febbraio c’è una chiama imprescindibile. Non solo le Olimpiadi di cui abbiamo scritto un anno fa, ciò che accade nelle terre interne, lungo i rilievi di tutta la penisola, non può lasciare indifferenti. Mentre la terra brucia per via della crisi climatica in cui siamo immersi, annusatone il sangue, i predoni dell’estrattivismo che fa rima con accanimento apparecchiano un banchetto di corvi sulla pretesa carogna di intere comunità, decisi a spremere dal turismo tutto quel che possono. Disboscano foreste giunte al limite di sopportazione e colpite da bostrico e dissesti assortiti, percorrono la strada della cementificazione esasperata per nuove strutture, infrastrutture e palazzetti dal gusto distopico. Attraggono mosche sullo zucchero di non-altrove utili a mettere in scena experience fotocopia, fatte degli stessi panorami fitti di vetro e cemento, degli stessi sapori, odori, colori e ritmi: recluse a sciare in cattedrali post-atomiche, a passeggio per i “corsi” di ex villaggi di pastori e stalle, ingozzandosi degli stessi cibi di lusso. Venghino siori venghino, il ceto medio si indebiti per una settimana bianca all-inclusive, terme-spa-motoslitta e pesce di mare. Per un giro a Cortina a respirare la stessa aria di Milano e replicarne le stesse pose fatte di vasche dello shopping e apericena. Sono gli ultimi colpi di maglio di un capitalismo – col capitale degli altri però (cioè soldi nostri) – che non si arrende e non sa immaginare altro che portare allo sfinimento un modello-cadavere fatto di nuovi piloni e cannoni via via più performanti (si legga: idrovori). Beautiful che incontra il sogno di soldi facili e il fatalismo della corsa all’oro nel Klondike, l’eterno presente capitalista la cui mentalità viene diffusa a pioggia da soap opere eterne, con Ridge in decadenza che giunto all’ottantesima stagione – i primi impianti coincidono grossomodo con l’Italia repubblicana – è costretto a recitare aggrappato al deambulatore e col catetere infilato. Un modello da gusto del macabro che attrezza pacchetti divertimento per qualsiasi gusto purché non siano rispettosi di luoghi che muoiono, purché non spingano a calarvisi incuriositi, ma a colonizzare; tantopiù che all’occorrenza si può sempre far sbriluccicare gli specchietti condendoli con la retorica del “recupero” della montagna abbandonata, dal recover washing si potrebbe dire. Champagne e motori; sfarzo sguaiato e arroganza, il requiem specchiato nella nostra decadenza fatto di topi festanti mentre la nave affonda, mentre non soltanto questi abbagli di uno sviluppo che non c’è se non nei conti in banca di chi lo sfrutta andrebbero spazzati via, ma con loro tutta un’infrastrutturazione nociva, le narrazioni sull’aria sana, i miti romantici dell’alpe e del quanto si stia bene in montagna. Tutto ciò non è emendabile, non perfettibile, non c’è compensazione o posti-lavoro che tenga. È da abbattere in toto, fino a festeggiarne il cadavere. Solo allora sarà possibile provare a immaginare qualcosa che possa avere senso. Il quadro che abbiamo tracciato è piuttosto apocalittico, e tutt’attorno ai monti non è meglio. L’intero pianeta umano sta subendo scosse telluriche forti, capaci di disarticolare e annichilire il pensiero dei più positivi. È frustrante trovarsi immersi in questo clima, sa dell’amara perdita di ogni speranza e voglia di rimettersi in gioco. Del resto i primi a rendersi conto che la pacchia del turismo invernale è finita sono proprio i costruttori di impianti di risalita, che infatti cercano grottescamente di rifilare le loro cabinovie alle città, spacciandole per mezzi di trasporto urbani sostenibili ed eco-friendly. È successo a Kotor in Montenegro, sta succedendo a Trieste, prossimamente succederà a Genova. A Trieste la mobilitazione spontanea di cittadini e comitati di quartiere è per ora riuscita a fermare un progetto ad alto impatto ambientale, che prevede la distruzione di un bosco protetto per permettere la costruzione di una cabinovia al servizio delle navi da crociera e del loro indotto. Diciamo “per ora” perché dopo due anni di mobilitazioni e di azioni legali è finalmente saltato il finanziamento PNRR; ma l’ineffabile ministro Salvini ha promesso un finanziamento ad hoc, con fondi ministeriali, perché lo Stato e la ditta appaltatrice, la Leitner, non possono permettersi di essere messi in scacco da un’accozzaglia di pezzenti. Proprio per questo è ancora più importante esserci a ogni latitudine, tener duro e non abbandonarsi al fato. Siamo in ottima compagnia, la rete che sta stringendo le maglie è larga e importante, dobbiamo darle continuità e forza ben oltre alle Olimpiadi, perché ne va anche delle nostre vite, della differenza che corre tra arrancarvici e viverle. Abbiamo deciso di aderire all’appello La montagna non si arrende e abbiamo deciso di mettere a nudo le difficoltà che attraversano noi e l’intero paesaggio. Ci sono iniziative di tutti i tipi, sono ben accette anche piccole testimonianze pressoché individuali, contribuiamo a propagare l’onda, partecipate, inventatevi qualcosa e stringete rapporti. Dal canto nostro, noi abbiamo deciso di non concentrarci su una manifestazione singola, ma di contaminarci e contaminare, spalmandoci e stando nella galassia di iniziative che si vanno a creare. Restituiremo le esperienze dei nostri corpi. A dopo il 9, ancora e ancora. L'articolo Al 9 febbraio: la montagna non si arrende, e nemmeno noi sembra essere il primo su Alpinismo Molotov.
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