COMUNICATO STAMPA (7 agosto 2025)
L’osservatorio Weapon Watch esprime piena solidarietà ai lavoratori del porto di
Genova e alle loro organizzazioni sindacali, che hanno organizzato la protesta –
l’ennesima – contro l’arrivo di una nave della compagnia marittima saudita
Bahri, come al solito carica di armi ed esplosivi. In questa occasione, la nave
doveva imbarcare anche cannoni di produzione Leonardo destinati ad Abu Dhabi,
giunti dalla Spezia e visti sulle banchine del terminal GMT.
Le ragioni della protesta sono molte e serie.
Per quello che riguarda i sistemi d’arma di produzione italiana destinati agli
Emirati Arabi Uniti, ricordiamo ciò che abbiamo scritto sul nostro sito web e
sulla pagina FB, cioè che la Legge 185 del 1990 vieta l’esportazione di armi a
paesi che non rispondono a una serie di criteri stringenti, tra cui quello di
non essere in stato di guerra, e di non utilizzare la guerra per risolvere le
controversie internazionali (gli Emirati hanno partecipato alla guerra contro lo
Yemen, con migliaia di vittime civili dal 2014 a oggi, guerra che non si è
conclusa e anzi minaccia di riesplodere dopo l’attacco israeliano all’Iran; e
stanno sostenendo le Forze di intervento rapido, milizia operante nel Sud Sudan
e protagonista della sanguinosa guerra civile in corso). Gli Emirati Arabi Uniti
nel 2025 sono al 119° posto (su 167 paesi) del Democracy Index della rivista
«the Economist», inseriti tra i paesi autoritari privi di sistema elettorale e
con scarsissime libertà civili.
Lo stesso vale per il transito di materiale militare non prodotto in Italia e
nell’Unione Europea. La «Bahri Yanbu» toccherà nel suo viaggio porti in Egitto e
Arabia Saudita, paesi ancora più autoritari degli Emirati, per proseguire poi
nell’oceano Indiano e il Far East. Non abbiamo garanzie circa circa il
destinatario finale e l’impiego del materiale militare trasportato.
Mezzi anfibi a bordo della «Yanbu», Genova 7 agosto 2025.
Oltre ai cannoni di Leonardo, la «Yanbu» trasporta un ingente carico di
blindati, carri armati e munizioni di fabbricazione statunitense, in particolare
mezzi anfibi da sbarco del tipo AAV-7 tipicamente usati dai marines, che non ci
risulta siano in dotazione nei paesi arabi. Il carico sembra preludere a
un’operazione militare dal mare di grandi dimensioni.
Motivo di allarme, poi, sono i molti container che trasportano dangerous goods
della classe 1.1, cioè la classe più pericolosa, in sostanza esplosivi con
rischio di esplosione di massa.
I containe con esplosivi (classe 1.1) a bordo della «Yanbu».
La nave saudita accerchiata dalla bettolina «Brezzamare» e dalla chimichiera
«Imera», oggi a Genova, tra POnte Eritrea e Ponte Somalia.
Oggi (7 agosto 2025) a fianco della «Yanbu» carica di esplosivo ha sostato la
bettolina-cisterna «Brezzamare», che ha rifornito di nafta la multipurpose «Coe
Luisa», mentre pochi metri più in là era ormeggiata la chimichiera maltese
«Imera» da 9.000 tonnellate: un ‘ingorgo’ altamente pericoloso a pochi passi dai
container carichi di esplosivi posizionati sul ponte della «Yanbu».
Abbiamo già sollevato in passato il problema della gestione del rischio di
esplosione, in occasione delle visite delle navi Bahri al molo Eritrea
(https://www.weaponwatch.net/2020/02/03/esplosivi-in-porto-siamo-sicuri/ ). Le
navi saudite cariche di munizioni ed esplosivi stazionano a 450 m dalle prime
case di Sampierdarena alle spalle del porto, e nel raggio di mille metri si
trovano consistenti depositi petroliferi e chimici.
Per dare un quadro dei rischi che lavoratori e cittadini hanno corso e corrono
ogni volta che gli esplosivi militari entrano in porto, ricordiamo che
l’esplosione che ha colpito il porto di Beirut il 4 agosto 2023 ha demolito ogni
fabbricato nel raggio di mezzo miglio, pari a 800 metri, e che le vittime si
sono registrate nel raggio di un miglio (1600 m).
Finora non abbiamo mai ricevuto sul tema della resistenza alcuna risposta dalle
autorità interessate. Nel giugno 2023 c’è stato un incontro informativo con il
Consiglio comunale di Genova, poi rimasto lettera morta.
Ci conforta che in occasione dell’odierna protesta le organizzazioni sindacali
abbiano ripreso il tema della sicurezza portuale e che abbiano ottenuto
dall’Autorità di Sistema portuale del mar Ligure occidentale la proposta di
avviare un osservatorio sul traffico delle armi in porto, nello sforzo di
garantire trasparenza e prevenzione dei rischi nel rispetto delle normative e
della Legge 185/1990.
L’iniziativa dei lavoratori di Genova può essere di stimolo per altre città
portuali italiane coinvolte in un traffico di armi sempre più intenso.
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Come mostra l’immagine trasmessaci dai portuali genovesi, è in attesa di imbarco
al Ponte Eritrea, terminal GMT del Gruppo Steinweg, noto per essere il molo di
attracco delle famigerate “navi della morte” saudite della compagnia Bahri
(rappresentate in Italia dall’agenzia marittima Delta del gruppo Gastaldi),
coperto dall’imballaggio su un roll trailer (MAFI), un cannone navale 72/62 OTO
super rapido da 76mm prodotto a La Spezia nello stabilimento Leonardo.
Nel frattempo, è entrata in Mediterraneo, proveniente dal porto USA di
Baltimora-Dundalk e diretta in Medio-Oriente, la nave «Bahri Yanbu» che farà
scalo a Genova nel primo mattino di giovedì 7 agosto. Secondo le nostre
informazioni, la Yanbu caricherà due cannoni 72/62 e un container da 20” con gli
accessori per l’assemblaggio, con destinazione Abu Dhabi negli Emirati Arabi
Uniti (EAU).
Ricordiamo che Weapon Watch si è già occupata di questi cannoni in un articolo
del gennaio 2024, perché furono impiegati dalla Marina israeliana il 14 ottobre
2023 – pochi giorni dopo l’attacco di Hamas in territorio israeliano – per
bombardare dal mare i quartieri civili della Striscia di Gaza. Bombardamento che
aveva drammaticamente smentito le voci da ambienti di Leonardo, circa l’uso
esclusivamente “difensivo” degli armamenti fabbricati in Italia e consegnati
alle forze armate di Israele.
Immaginiamo che anche la vendita dei cannoni pronti all’imbarco a Genova sia
stata autorizzata secondo la legge dal governo italiano in quanto ufficialmente
destinati alla difesa degli EAU.
Ricordiamo che il governo Conte II nel 2019 aveva sospeso le vendite di armi
agli EAU, per la loro implicazione nella feroce guerra in Yemen a fianco
dell’Arabia Saudita; e che nel 2023 il governo Meloni ha revocato il divieto sia
per l’apparente disimpegno emiratino dalla guerra yemenita, sia per i segnali
promettenti (ad oggi rimasti tali) di un accordo di pace con i “ribelli houthi”,
che di fatto governano lo Yemen da un decennio nonostante l’isolamento
internazionale e le gravi crisi umanitarie causate dalla guerra.
Tuttavia, in questo strategico quadrante medio-orientale lo scontro militare
potrebbe diventare aperto e cruento, come conseguenza indiretta del recente
attacco israeliano all’Iran – tra i principali sostenitori del composito mosaico
delle milizie yemenite – e per la volontà degli EAU che qui hanno stabilito
solide basi di controllo militare, con l’appoggio delle azioni coperte e degli
omicidi mirati compiuti da anni dalle agenzie di contractors americane e
israeliane.
Il cannone di Leonardo sulla banchina del Genoa Metal Termnal, il 4 agosto 2025.
Oltre a costituire un’oggettiva minaccia nel precario equilibrio militare in
quest’area, le armi di fabbricazione italiana non dovrebbero essere vendute agli
EAU, che stanno al fondo della classifica nel rispetto dei diritti umani.
Secondo Amnesty International, gli Emirati non sono infatti un “paese dei
balocchi”, meta esotica di turismo e di business rampante, ma il major defense
partner degli USA, in possesso di una sempre più aggressiva industria militare e
impegnati nei teatri di conflitto di loro interesse in una intensa attività
bellica anche contro i civili. Lo fanno direttamente come in Yemen, o più spesso
attraverso l’armamento e il sostegno di forze locali come in Libia o Sudan.
Nel 2024 Amnesty ha scoperto nuove prove visive che i veicoli di trasporto di
truppe blindati prodotti negli EAU venivano utilizzati dalle Forze di supporto
rapido in Sudan, che hanno commesso crimini di guerra tra cui attacchi motivati
etnicamente contro i civili.
EAU è inoltre uno stato monarchico assoluto, privo di qualsiasi forma di
democrazia, che criminalizza i diritti alla libertà di espressione e di riunione
pacifica, dove i lavoratori migranti sono sfruttati e discriminati e gli è
negato il diritto a formare sindacati e scioperare, dove recentemente in nome
dell’alleanza con Israele, con cui ha mantenuto relazioni economiche,
l’espressione filo-palestinese viene repressa.
Se dunque gli EAU sono un Paese coinvolto in conflitti armati non difensivi,
quantunque mascherati, se la loro politica in ogni caso contrasta con i principi
dell’articolo 11 della nostra Costituzione, se sono notoriamente responsabili di
gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani,
allora perché non è vietata l’esportazione materiali di armamento verso gli
Emirati ai sensi della legge italiana (L.185/1990)? E perché i portuali
dovrebbero essere obbligati con il loro onesto lavoro a essere complici di
questo illegittimo e infame “carico di morte”?
A LA SPEZIA INCROCIO DI POSSIBILI TRAFFICI DI ARMAMENTI DESTINAZIONE ISRAELE
Sabato 26 luglio – ore 17.50
Il porto spezzino rimane sotto i riflettori per la sua vocazione come scalo di
carico e transito marittimo di armamenti.
Mentre scriviamo, attirano l’attenzione due navi.
La prima, «Cosco Pisces», una grande porta container che avrebbe dovuto far
scalo ieri mattina (25 luglio) alla Spezia, e invece da quasi un giorno è ferma
al largo, a trenta miglia dalla costa ligure. L’attenzione sulla nave è stata
richiamata dai portuali del Pireo. Infatti – secondo i portuali greci – avrebbe
in stiva cinque container carichi di componenti militari in acciaio che stanno
compiendo un lungo viaggio: partiti dal porto di Mumbai (India) a fine giugno
per Singapore, sono stati qui caricati sulla «Cosco Pisces», grande porta
container da 20.000 TEU che Cosco gestisce sulla rotta Asia-Mediterraneo.
Individuati al Pireo perché destinati a IMI Systems, uno dei grandi contractors
dell’industria militare israeliana, i cinque container sono con tutta
probabilità in procinto di essere re-imbarcati su una nave feeder diretta in
Israele in uno dei prossimi porti che la «Pisces» dovrebbe toccare, appunto La
Spezia, poi Genova, Marsiglia-Fos, Valencia, prima di ripartire per il Far East.
I portuali greci e italiani hanno chiamato alla mobilitazione anche i colleghi
francesi e spagnoli.
Una seconda nave è al momento in porto a La Spezia. Si tratta della «Aal
Gunsan», bandiera cipriota, una nave che solitamente opera in charter. Secondo
fonti locali, che non abbiamo potuto verificare, avrebbe imbarcato al molo
Garibaldi due container contenenti due cannoni e munizioni diretti in Indonesia.
Le nostre associazioni si fanno interpreti del pericolo che città e porto
possano divenire il crocevia di traffici destinati ad alimentare guerre, in
particolare quella in corso a Gaza, in cui Israele sta violando i più elementari
diritti umani e compiendo azioni genocidarie che sono sotto indagine da parte di
tribunali internazionali.
In proposito ricordiamo un recente caso a Ravenna che ha visto il coinvolgimento
di rinomate aziende lombarde in un tentativo di esportare in Israele come
“fucinati di acciaio” 14 tonnellate di componenti di cannoni, nonostante il
divieto governativo.
Chiediamo all’AdSP del Mar Ligure orientale di esercitare tutti i controlli
richiesti dalla legge 185/1990 e maggior trasparenza e dati certi circa il
passaggio di armi dai porti della Spezia e di Marina di Carrara, i rispettivi
quantitativi in esportazione, importazione e transito e le relative
destinazioni, dati che sono a conoscenza delle medesime autorità.
Chiediamo inoltre ai rappresentanti eletti nel Comune di La Spezia di prendere
posizione pubblicamente circa eventuali legami del tessuto economico spezzino
con l’economia di guerra di Israele, di cui è prova l’annunciata presenza alla
prossima edizione di SeaFuture di una delegazione ufficiale della Marina
israeliana.
Rete spezzina Pace e Disarmo e The Weapon Watch
28 luglio 2025, ore 10:30. La nave porta container «Cosco Shipping Pisces»,
giunta davanti al porto della Spezia venerdì 25 luglio e tuttora in attesa al
largo, si appresta all’attracco al molo spezzino di Fornelli al terminal LSCT,
ma l’agenzia italiana della compagnia di navigazione cinese assicura che «non
verranno sbarcati i tre container di Evergreen» con armamenti destinati a
Israele. Non solo, sembra intenzionata a «far tornare i tre box incriminati
direttamente in estremo Oriente da dov’erano partiti».
Lo afferma un lancio di Shipping Italy, che riportiamo in forma integrale e che
indirettamente attribuisce la decisione della compagnia alla campagna di
boicottaggio indetta dal sindacato USB. La notizia dei container carichi di
componenti in acciaio per armamenti è stata diffusa dai portuali del Pireo e dal
sindacato greco ENEDEP, sulla base del destinatario finale, IMI Systems, uno dei
grandi contractors dell’industria militare israeliana.
L’articolo di Shipping Italy si può leggere qui.
Il comunicato di USB Genova, che dichiara 24 ore di sciopero contro il trasporto
di armi.
Weapon Watch ha ricostruito il percorso dei container segnalati, che sono cinque
(tre di Evergreen, uno di Triton e uno di una compagnia sino-panamense). Partiti
a fine giugno dal porto di Mumbai, India, per Singapore, sono stati qui caricati
sulla «Cosco Shipping Pisces», grande porta container da 20.000 TEU che opera
sulla rotta Asia-Mediterraneo. Dal Pireo, la «Pisces» doveva toccare secondo
programma i porti di La Spezia, Genova, Marsiglia-Fos e Valencia, prima di
ripartire per il Far East.
La rete di osservazione internazionale, che segue da settimane i movimenti della
nave, vigilerà per verificare che i container effettivamente non vengano
sbarcati e re-imbarcati su navi feeder dirette in Israele.
Il caso della «Pisces» indica che la protesta organizzata nonviolenta e
soprattutto il ruolo dei lavoratori dei trasporti stanno dando un importante
contributo alla trasparenza di un mercato delle armi sempre più intenso e ampio.
Indica anche che l’orrore per ciò che da quasi due anni sta accadendo in
Palestina ha raggiunto una dimensione insopportabile, e che il rifornimento di
armi, tecnologia e capitali a Israele si sta ormai configurando come complicità
nel genocidio dei palestinesi.
Questa volta la «Bahri Jeddah», arrivata a Genova il 7 luglio, non trasportava
solo armi per l’Arabia Saudita e gli emiri del Golfo.
Prima di ripartire per la tappa egiziana di Alessandria, sulle banchine genovesi
ha depositato anche una strana attrezzatura, nuova di fabbrica e imbarcata nel
terminal di Dundalk, porto di Baltimora, Maryland.
Si tratta di un tunner, un aircraft cargo loading-unloading system, una grande
macchina mobile per il carico-scarico di merci da aeromobili.
L’attrezzatura appartiene all’US Air Force, è destinata alla base aerea di
Aviano ed è stata fabbricata da DRS Sustainment Systems Inc., società che in via
diretta e indiretta è controllata da Leonardo Spa. Attrezzature di questo genere
non sono utilizzate dalle forze armate italiane, che non dispongono di
giganteschi cargo militari come il C-5 ‘Galaxy’ (120 tonnellate di carico) e il
C-17 ‘Globemaster III’ (76 tonnellate di carico). Questa la ragione dell’invio
in Italia del macchinario, attraverso una nave commerciale degli “alleati”
sauditi.
A sx: il tunner di DRS SSI nelle operazioni di carico e scarico di un C-17
‘Globemaster III’.
Qui sopra: una pagina del sito web di Leonardo DRS in cui si illustra la
versatilità del tunner a 5 assi, peso a vuoto 68 tonnellate.
È dunque assai probabile che la base americana di Aviano – che ospita anche
ordigni nucleari – si stia preparando a ricevere nelle prossime settimane
numerosi voli dei grandi cargo USAF, carichi di armi e munizioni da smistare sui
teatri di guerra europei e mediorientali. A questo ruolo di “portaerei” il
nostro paese è da decenni disponibile, anche se – a leggere il recente libro del
generale Fabio Mini, La Nato in guerra. Dal patto di difesa alla frenesia
bellica’ – l’alleanza atlantica non ha affatto nel proprio statuto quello di
compiere missioni “di pace” armate, né di combattere “guerre preventive”, né
tantomeno di organizzare aggressioni di altri paesi, sullo stile del recente
“bombardamento chirurgico” dell’Iran.
Non ci sarà solo il ponte sullo Stretto, anche la nuova diga foranea del porto
di Genova contribuirà – nei desiderata del Governo – a coprire le spese militari
che l’Italia s’è impegnata in sede Nato a portare al 5% del Pil, una quota delle
quali (1,5%) potrà essere rappresentata da infrastrutture a valenza anche
militare.
Una vocazione cui, come anticipato da «Il Fatto», si stava lavorando da mesi
anche per la diga genovese, mega-opera da 1,3 miliardi di euro (già lievitati a
1,6 coi lavori nemmeno arrivati al 10%) pensata per ampliare la capacità
mercantile del porto.
Ieri l’ufficializzazione: «La nuova diga è infrastruttura dual use. Progettata
per scopi mercantili, in caso di crisi (bellica, nda) sarà utile perché consente
lo sbarco di portaerei leggere, navi Nato e strumenti e truppe» ha affermato
Carlo De Simone, subcommissario all’opera (il ‘titolare’ è Marco Bucci
presidente della Regione Liguria), durante una trasmissione tv.
Poco importa che le più grandi portaerei Nato abbiano dimensioni largamente
inferiori a quelle delle portacontainer abituali ospiti delle banchine genovesi
e che quindi potrebbero comodamente approdare sotto la Lanterna senza spendere
miliardi di euro per la diga. Né che a La Spezia, a 50 miglia nautiche, abbia
sede una delle maggiori basi della Marina militare: “La military mobility è un
programma dell’Unione europea per facilitare gli spostamenti rapidi di truppe e
contingenti all’interno dell’Europa” ha puntualizzato De Simone: “La diga può
contribuire al tetto di spesa del 5% perché è un investimento infrastrutturale
con funzionalità duale”.
Sicuramente l’obiettivo primario della militarizzazione, ma non forse l’unico.
Come accennato, l’opera, finanziata con 800 milioni di euro del fondo
complementare al Pnrr, ha problemi di copertura. Solo grazie a un’iniezione di
142 milioni dal recente Decreto economia Bucci ha potuto coprire parte degli
extracosti già emersi e bandire pochi giorni fa la seconda fase dell’appalto (la
prima se l’è aggiudicata una cordata guidata da Webuild), oggetto, nella prima
parte, di indagine della Procura europea e caratterizzato da dosi minime di
trasparenza.
Basti pensare che quest’ultima gara sulla Fase B è pubblicata senza elaborati
progettuali né capitolato. E che da anni Bucci e Autorità portuale negano il
rilascio dei documenti relativi al contenzioso con Webuild (già valso
all’appaltatore 300 milioni) e persino l’esistenza dei test condotti sul
consolidamento dei fondali, ritenuto fin dai primordi il punto debole del
progetto.
Naturale quindi che il dual use, potenziale viatico di nuovi esborsi e opacità,
abbia scatenato la polemica politica. “Ora Genova rischia di diventare un
obiettivo sensibile dal punto di vista militare. L’opera di per sé ha enormi
criticità, mai correttamente gestite. Se ora sarà anche ‘tinta’ di verde
militare, oltre al danno si aggiungerà la beffa. Il governo ha il dovere di
chiarire questo disegno surreale” hanno dichiarato il deputato M5S Roberto
Traversi con il senatore M5S Luca Pirondini, annunciando un’interrogazione
parlamentare.
La tecnica berlusconiana di sdoganare ogni violazione alle regole scritte e non
scritte riguardanti la vita pubblica e i comportamenti dei rappresentanti eletti
ha trovato due recenti e macroscopiche applicazioni da parte del governo Meloni,
perfettamente adatte a questo clima politico in cui la “sicurezza” è
parola-chiave che apre ogni porta, e soprattutto ogni scrigno di denaro pubblico
disponibile.
Lo scorso 9 aprile il governo ha deliberato che il ponte sullo Stretto è
un’opera «fondamentale in caso di scenari di guerra» e «strategica per la difesa
europea e della Nato». Così un’opera faraonica e più dannosa che inutile, ma che
il governo Meloni-Salvini aveva già deciso di varare, non verrà più sottoposta
alle verifiche preventive di legge vista la sua urgenza e necessità. Innanzi
tutto potrà procedere spedita senza le “valutazioni di impatto ambientale” con
cui cavillosi esperti ritardano l’efficace azione governativa, anche se qui per
la verità si andrà a costruire in una zona sismica dove – a credere a Wikipedia
– si è registrata la più grave catastrofe naturale europea in tempi storici, il
terremoto-maremoto di Messina del 1908, con vittime stimate tra 75.000-82.000 a
140.000. E l’opera faraonica potrà anche bypassare le severe norme antimafia
che, in un territorio tra Sicilia e Calabria, potrebbero in effetti selezionare
e ridurre l’accesso agli appalti pubblici a molte imprese locali, con grave
danno delle (il)lecite aspettative di crescita economica.
L’articolo di Andrea Moizo è stato pubblicato da «Il Fatto Quotidiano» dell’8
luglio 2025.
Ieri (8 luglio 2025) c’è stato l’annuncio che anche la diga foranea del porto di
Genova va considerata dual use, cioè ad uso civile e ad uso militare. Lo ha
affermato il sub-commissario Carlo De Simone (cioè commissario nominato dal
commissario Marco Bucci, perché Genova ha fatto scuola negli appalti pubblici
“commissariati” stile nuovo ponte Morandi), che ha spiegato: «perché consente lo
sbarco di portaerei leggere, navi Nato e strumenti e truppe. È il tema della
mobilitary use». Così abbiamo imparato questa nuovissima crasi tra military e
mobility dal sub-commissario Carlo De Simone, che prima di mestiere faceva il
broker assicurativo e ora l’esperto di alto profilo economico-finanziario (come
dice nel suo blog https://carlodesimone.it/chi-sono/).
Ci sono effettive ragioni militari per considerare “strategiche” queste due
opere faraoniche?
A che cosa serva davvero la nuova diga foranea di Genova, con i suoi problemi
tecnici e progettuali, si è ripetutamente dedicato il blog del Comitato per il
dibattito pubblico di Riccardo Degl’Innocenti, a cui rimandiamo
(https://www.facebook.com/riccardodeglinnocentigenova). Per quel che riguarda in
particolare la utilità militare della nuova diga, notiamo che il porto di Genova
non è inserito nel programma “Basi Blu” del Ministero della Difesa, con
stanziamento iniziale di 2,5 miliardi di euro per ammodernare agli standard Nato
i porti di Taranto, La Spezia, Augusta e Brindisi. La Spezia si trova a
un’ottantina di chilometri da Genova, circa 40 miglia nautiche che una portaerei
può coprire in meno di due ore, quindi risulta perlomeno ridondante attrezzare
due porti così vicini per accogliere navi da guerra che possono essere
facilmente rifornite per via aerea o al largo, o in altre basi navali operative
in Italia già ampiamente utilizzate durante le esercitazioni navali Nato.
Il ponte sullo Stretto è stato giustificato con la necessità di collegare al
continente le basi siciliane della Nato (a noi non risulta che ce ne siano) e
degli Stati Uniti (quelle ci sono, eccome!), che però sono basi marittime e
aeree, e possono benissimo fare a meno in futuro di collegamenti terrestri, così
come già oggi non utilizzano il ferry tra Messina e Villa San Giovanni.
Accenniamo appena al costo “stimato” delle opere citate, ma c’è comunque da far
tremare le vene ai polsi. Il ponte sullo Stretto costa oggi 13,5 miliardi di
euro, la diga di Genova 1,6 miliardi di euro. Se si applicasse la proporzione di
“lievitazione” dei costi sulla base dell’esperienza amarissima della più celebre
opera faraonica, la TAV Torino-Lione, passata da 2,9 miliardi a 14,7 oggi (ma
chissà domani…), cioè se si moltiplicassero provvisoriamente i costi per cinque,
prima di essere terminati il ponte costerà 67,5 miliardi e la diga 8 miliardi di
euro.
I tempi invece sono importanti. Per le esigenze della difesa e della sicurezza
nazionale, sarebbe necessario avere le opere faraoniche disponibili al più
presto, perché Putin si sta facendo sempre più minaccioso. E invece la durata
dei lavori prevista è il 2032 per il ponte, anche se a tutt’oggi neppure il
progetto risulta completato; e per la diga si comincia a parlare del 2028 o
2029.
Ma c’è da crederci? Per la TAV i lavori cominciarono nel 2002, e forse l’opera
entrerà in funzione a fine 2033, 31 anni dopo, in uno scenario economico e
logistico che già oggi è completamente diverso da quello immaginato dal
progetto. Vedremo cosa ne sarà negli anni del ponte e della diga.
Le inchieste di «Altreconomia» e le segnalazioni dei lavoratori confermano
quello che Weapon Watch ha più volte pubblicato e sostenuto anche in incontri
pubblici: nel porto di Ravenna la violazione di leggi e trattati riguardanti il
commercio di armamenti è provata da molti episodi, a partire dal primo
registrato nel maggio 2021 – uno ‘sciopero sulla merce’ dichiarato da
Cgil-Cisl-Uil durante uno dei tanti bombardamenti su Gaza – che ha avuto il
merito di scoperchiare l’ipocrisia nel porto romagnolo.
Una ulteriore svolta verso la trasparenza si deve alla magistratura ravennate,
con l’inchiesta ancora in corso riguardante la ditta lecchese Valforge.
Così si sono esauditi gli auspici invocati nel febbraio 2024 dall’allora
presidente dell’autorità portuale Daniele Rossi in una sua lettera pubblica,
quando WW promosse insieme a Pax Christi e a numerose associazioni ravennati un
incontro pubblico sul tema. Rossi sostanzialmente disse: non ho notizia di
passaggi di armi in porto, se avete informazioni di violazioni di legge
denunciatele alla magistratura. Ebbene, oggi la denuncia c’è stata, ed è
arrivata non da esaltati pacifisti filo-palestinesi, bensì dal rappresentante di
un primario operatore logistico, cioè dall’interno del mondo dei trasporti
internazionali. Riguarda una filiera di pezzi forgiati per cannoni che ha
origine tra Varese e Lecco e destinazione una filiale di una delle maggiori
industrie militari di Israele, fornitura avvenuta aggirando il divieto
governativo di esportare armamenti verso Israele e del tutto priva di
autorizzazioni, anzi presentando in dogana il materiale come se fosse ad uso
civile.
Ora stanno prendendo forza le voci dei lavoratori e le loro denunce. I portuali
a Ravenna stanno vedendo passare i container di munizioni destinate alle IDF.
Caricano queste merci di morte sulle portacontainer dirette a Haifa e Ashdod,
quasi sempre navi della compagnia israeliana ZIM. Prima caricavano per lo più
ortofrutta e merci varie, ora sempre più dispositivi militari e munizioni la cui
probabilità di essere impiegate sulla popolazione civile inerme, in flagranti
crimini di guerra – come dovranno prima o poi verificare i tribunali
internazionali –, è altissima.
Ultima denuncia in ordine di tempo risale al 30 giugno scorso, quando alcuni
container con l’etichetta “esplosivi” classe 1.4 (cioè munizioni) sono stati
caricati a bordo della «ZIM New Zealand», partita con destinazione Haifa, dove è
regolarmente arrivata il 4 luglio.
Recentemente il presidente della Regione Emilia-Romagna ha dichiarato di voler
interrompere le relazioni con Israele. Ricordiamo al presidente De Pascale che
il principale operatore terminalistico del porto di Ravenna – unico scalo
internazionale della regione – è SAPIR-Porto Intermodale di Ravenna Spa, che
controlla direttamente anche Terminal Nord Spa e TCR (Terminal Container
Ravenna) Spa.
L’azionariato di SAPIR è così composto:
* 29,45% a Ravenna Holding Spa (77% del Comune di Ravenna, 7% Provincia di
Ravenna, il resto ai Comuni di Cervia, Faenza e Russi);
* 13,59 a Fin.Coport Srl (100% della Compagnia Portuale Srl, )
* 11,58% Camera di Commercio di Ferrara
* 10,46% Regione Emilia-Romagna
* tutti gli altri soci, a partire da La Petrolifera Italo Rumena Spa (8,70%,
nelle mani della famiglia Ottolenghi), hanno quote inferiori.
Teoricamente Comune, Regione e Compagnia portuale possono governare tutto il
porto di Ravenna con la maggioranza assoluta. Ci si aspetterebbe che queste
entità istituzionali concorressero almeno a vigilare – se non a controllare –
affinché non si possano svolgere i traffici illeciti che stanno rendendo il
porto di Ravenna indiretto complice di ciò che accade in Cisgiordania e a Gaza.
Quanto al rispetto della Costituzione, il presidente De Pascale ha correttamente
citato l’art. 117, che dà potere alle Regioni di intrattenere le proprie
relazioni internazionali. Ma bisognerebbe anche richiamarsi all’art. 11, quello
del rifiuto esplicito della guerra come soluzione delle divergenze
internazionali: un articolo che è violato clamorosamente dai governi italiani da
oltre trent’anni.
Nei primi giorni di giugno Farzåd è venuto a farci visita al centro di
aggregazione Approdo di Garbatella, a Roma, dove ha preso vita un laboratorio
radiofonico rivolto a ragazze e ragazzi delle scuole medie. Da poche ore sui
titoli dei quotidiani campeggiava la notizia del cessate il fuoco in Iran e
della fine della “guerra dei dodici giorni”. Prima che Farzåd facesse ingresso
nella nostra redazione, ho raccontato ai ragazzi quel poco che sapevo di lui. Ha
circa quaranta anni, è nato in Iran, è laureato in letteratura francese, faceva
il libraio, vive in Italia da una decina d’anni, è stato il protagonista di un
audio documentario trasmesso da Rai Radio3 e realizzato dall’amico e collega
Ciro Colonna in cui si dava molto spazio al lavoro di Farzåd qui a Roma: il
corriere in bicicletta.
Per una ventina di minuti, i ragazzi lo hanno tempestato di domande. Farzåd ha
risposto generosamente a ogni questione, seppure la vicenda lo facesse sempre
più sudare (i ragazzi mi avevano costretta a spegnere il ventilatore, per
evitare che il brusio disturbasse la registrazione). Le loro curiosità mi hanno
stupita. Nel corso della chiacchierata abbiamo scoperto che Farzåd legge romanzi
russi, che il suo calciatore preferito è Maradona, che tra montagna e mare
sceglie montagna, che per fare le consegne utilizza una bicicletta a pedalata
assistita, che il suo nome di battesimo (che non corrisponde a quello
d’invenzione che stiamo utilizzando in questo articolo) deriva da un libro epico
della tradizione iraniana, che è andato via dall’Iran per cercare una vita
diversa, che ascolta Mina, De Andrè e la musica tradizionale iraniana, che la
cosa che più lo ha colpito di Roma nei primi giorni dopo il suo arrivo erano i
palazzi e i monumenti, e che, sì, anche se ci lavora, crede che boicottare G.
sia una buona idea.
Come nelle migliori interviste, è stato dopo, a microfono spento (e ventilatore
riattivato), che Farzåd ha raccontato di questi giorni di guerra. Le notizie
arrivavano frammentate, confuse. La comunicazione con la famiglia e gli amici si
arrestava per interminabili ore. Lui nella calura di Roma smetteva di fare ogni
cosa, il cervello si arrovellava nel tentativo di capire, tuttavia districarsi
tra le tante informazioni, a volte discordanti, era impossibile. «Poi c’è stata
la tregua e finalmente ho potuto riprendere a parlare con amici e parenti. Dopo
gli attacchi degli hacker dello stato di Israele sulle infrastrutture digitali
della tv statale dell’Iran, il governo ha deciso di disconnettere Internet sulle
reti cellulari e non riuscivo a parlare con nessuno».
Nei giorni successivi alcuni amici di Farzåd riescono a connettersi, lo
aggiornano sui bombardamenti in tempo reale, lo mettono in contatto con i
genitori, portano informazioni sulla guerra e sulle condizioni di salute dei
parenti anche ad altri amici residenti all’estero. Farzåd, dal suo appartamento
rovente a San Lorenzo, attende notizie giorno e notte.
«L’ultima notte prima del cessate il fuoco è stata dura. In quelle ore c’è stato
il più pesante attacco delle forze armate di Israele sulle città iraniane. Gli
amici a Teheran riportavano le notizie dei bombardamenti e della difesa aerea da
parte delle forze iraniane in diretta sulla nostra chat. Mi hanno raccontato di
gente traumatizzata dagli attacchi, a molti ancora sembra di sentire i boati
dopo quella notte».
Dopo due giorni dalla tregua la connessione è stata riallacciata parzialmente.
Farzåd passa ore intere a parlare e scrivere con gli amici in Iran, «i cittadini
parlano di guerra ovunque, tutto il tempo; dicono che non è ancora finita,
aspettano un’imminente minaccia; sono tutti d’accordo sull’idea che ci sarà un
nuovo attacco da parte di Israele, ma ovviamente non sanno quando avverrà».
Li chiamano i figli della rivoluzione, i figli della guerra. Sono le persone
come Farzåd, nate a ridosso della rivoluzione del 1979 che ha rovesciato la
monarchia. Sono gli stessi che sono scesi in piazza nel 2009, cantando a gran
voce siamo la generazione della guerra e combattiamo fino alla fine contro lo
Stato. «Storicamente accade che dopo un tentativo di rovesciamento di un regime,
sia che si tratti di un colpo di stato sia che si tratti di un intervento
militare di un altro paese, quando non si raggiunge il risultato desiderato, il
sistema diventa ancora più aggressivo nei confronti di chi lo critica. Per ora
hanno arrestato più di settecento persone e ne hanno impiccate altre sei per
spionaggio. Un esempio recente di una situazione simile lo abbiamo visto in
Turchia, dopo il colpo di stato fallito nel 2016, che ha portato all’arresto di
tanti e alla persecuzione di vari gruppi della società turca».
I genitori di Farzåd, entrambi militanti comunisti, hanno avuto un ruolo attivo
nella rivoluzione del 1979, prima che si affermasse la componente islamista. Per
questo motivo non hanno più potuto esercitare la loro professione (erano due
insegnanti), per questa ragione la loro vita ha subito una brusca virata
insperata. Racconto a Farzåd di avere parlato con altre persone di origine
iraniana qui a Roma, alcuni si sono detti felici dell’attacco. «Nessuno dei miei
amici ha gioito degli attacchi sulle città e sulle infrastrutture civili del
paese. Anche i dissidenti in Iran non sono felici. Certo, sono felici i
dissidenti monarchici che vivono nella calma e nella tranquillità delle società
occidentali. Loro sì che sono contenti, credevano e speravano che con questi
attacchi finisse la teocrazia. Chiaramente questa loro speranza non coincide con
la realtà dei fatti. Questa gente vive in una bolla, in un’altra realtà. Chi si
trova in Iran è abbastanza intelligente da vedere quello che è successo. Queste
persone hanno visto già questo spettacolo in Iraq, in Libia e in Siria. Il
governo genocida di Israele non può essere il salvatore del popolo iraniano.
Questo fatto è chiaro ai cittadini iraniani all’interno del paese, ma non ai
monarchici all’estero. Il cancelliere tedesco che afferma che “Israel is doing
our dirty job” probabilmente dovrebbe pensare alle conseguenze di questo dirty
job per l’Europa». Farzåd fa l’esempio della Siria e dell’Iraq e di quello che è
accaduto dopo la guerra civile causata dall’intervento militare occidentale.
Trenta anni fa, esattamente il 3 luglio 1995, Alexander Langer si impiccava a un
albero di albicocco, alle porte di Firenze. Langer amava spesso ripetere che
tutto il suo lavoro, da politico, da scrittore, da sociologo, da attivista,
aveva un obiettivo: “provare a fare pace tra gli uomini e pace con il creato”.
Nello sforzo di tendere verso questa meta, promuoveva trasformazioni ecologiche
e trasformazioni sociali con radici ben solide nella non violenza e nel rifiuto
verso ogni divisione etnica. Ho pensato a lui dopo avere incontrato Farzåd.
Perché la sua storia è impastata di distorsioni, è una biografia che fa i conti
spietati con un sistema in cui crisi ambientale e guerre si intrecciano
indissolubilmente. E poi perché la vicenda di Farzåd costituisce un prezioso
tassello di un mosaico della Storia, di quelli che Langer avrebbe saputo
mirabilmente raccontare e appuntare sulla sua immancabile agendina.
Salutiamo Farzåd, lo lasciamo alle sue consegne in bicicletta tra le bollenti
strade di Roma e alle sue conversazioni con gli amici in Iran. E nella mente
rileggo i biglietti lasciati da Langer quel 3 luglio 1995. L’ ultimo è
un’esortazione: “Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”. (marzia
coronati)
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