BOICOTTARE BATTAGGION SPA
L’esempio dei portuali di Genova, dopo una pratica di azione diretta iniziata
nel 2019 contro l’esportazione e il transito di materiali d’armamento verso
l’Arabia Saudita coinvolta nella guerra in Yemen e continuata negli anni con
coerenza fino ai blocchi verso Israele, con il tempo è diventato contagioso.
Non solo tra altri lavoratori dei porti mediterranei ed europei (fino a quelli
australiani e nord-americani), ma nei diversi nodi della filiera logistica
militare, nel mondo della ricerca e università fino all’industria che produce
sistemi d’arma, dove sempre più giovani si rifiutano di lavorare.
È sempre più frequente incontrare, negli eventi in cui siamo invitati come The
Weapon Watch, singole persone, gruppi organizzati, associazioni che non si
accontentano solo di manifestare, ma si pongono il problema, a partire dai
territori in cui vivono, di mettere il classico granello di sabbia negli
ingranaggi logistici, produttivi e finanziari che, dall’economia delle guerre e
dei genocidi, traggono notevoli profitti.
È quanto avvenuto in questi mesi a Bergamo dove, nonostante sia un territorio
con una ridotta presenza di aziende coinvolte nella filiera militare, diversi
cittadini e associazioni che avevano accompagnato con solidarietà e speranza la
missione della Global Sumud Flotilla, hanno avviato un lavoro di ricerca e
intervento per interrompere qualsiasi complicità presente nell’economia
bergamasca con l’economia del genocidio, perpetrato dallo Stato di Israele nei
confronti dei palestinesi.
Nonostante il balbettio e le mezze verità del ministro degli Esteri e la falsità
arrogante di quello della Difesa, le istituzioni italiane sono responsabili di
violazione palese della Legge 185/90 per;
1. non aver interrotto tutte le esportazioni di materiali d’armamento verso
Israele, derivanti da autorizzazioni precedenti all’ottobre del 2023;
2. non aver bloccato i transiti dai nostri porti di navi cariche di armi,
munizioni, esplosivi ecc. provenienti da paesi terzi e diretti nei porti
israeliani di Haifa e Ashdod;
3. non aver impedito il traffico illecito e non autorizzato di materie prime,
semilavorati, componenti, composti chimici, tecnologie dual use ecc.
destinate alle principali industrie militari israeliane, tranne che in un
caso nel porto di Ravenna (come Weapon Watch ha già riferito in dettaglio).
Ma alle responsabilità pubbliche, come ha dimostrato la giurista italiana
Francesca Albanese nel suo rapporto all’Onu, si associano responsabilità private
delle imprese che traggono profitto dal contribuire o sostenere l’economia del
genocidio e le guerre israeliane.
A questo fine, ad esempio, la vendita di materiale d’armamento del Gruppo
Leonardo a Israele è finita in tribunale. Il 29 settembre 2025 le associazioni
AssoPacePalestina, A Buon Diritto, ATTAC Italia, ARCI, ACLI, Pax Christi, Un
Ponte Per… e la dott.ssa Hala Abulebdeh, cittadina palestinese, hanno depositato
un atto di citazione notificato a Leonardo e allo Stato italiano presso il
Tribunale civile di Roma, per chiedere che vengano dichiarati nulli i contratti
stipulati da Leonardo Spa e sue controllate con lo Stato di Israele,
relativamente alla vendita e alla fornitura di armi all’IDF, le forze armate
dello Stato d’Israele.
A loro volta gli attivisti bergamaschi, partendo dal loro territorio, hanno per
prima cosa identificato, analizzando i dati contenuti nelle relazioni annuali
presentate dal Governo a Camera e Senato, le sette aziende del territorio che
hanno esportato materiali di armamento dal 2022 al 2024. La principale di queste
è la Battaggion Spa, un’azienda metalmeccanica con stabilimento nel cuore della
città, che produce tecnologie civili e militari, le ultime destinate alla
produzione di esplosivi. A differenza delle altre aziende bergamasche che hanno
esportato verso altri paesi europei (compreso il Regno Unito) e negli Stati
Uniti, la Battaggion ha esportato verso Israele e paesi coinvolti in conflitti
armati (come l’India) e/o con documentate violazioni dei diritti umani (come
l’Uzbekistan).
Questa tabella e il grafico seguente sono stati presentati alla conferenza
stampa nel quale è stato lanciato l’appello “NO all’Economia di Guerra in
Bergamasca, NO all’Economia del Genocidio in Palestina”.
Il valore delle esportazioni di Battaggion rappresenta oltre l’80%
dell’esportazione complessiva bergamasca di materiali d’armamento. Tra il 2022 e
il 2024, l’azienda ha fatturato oltre 5 milioni di euro da commesse israeliane.
Le esportazioni verso Israele sono quindi avvenute anche durante il genocidio in
corso. Oltre ad esportare tecnologie per la produzione di esplosivi, l’azienda
invia in Israele personale specializzato per la loro installazione e
configurazione. La Battaggion vanta nuove commesse per ulteriori 5 milioni di
euro destinate a paesi teatro di conflitto, che attendono solo l’autorizzazione
del governo italiano.
A questo punto, oltre a dissociarsi apertamente – in quanto cittadini
bergamaschi – da qualsiasi coinvolgimento nell’economia del genocidio perpetrato
da Israele contro i palestinesi, sono state avanzate precise richieste alla
proprietà della Battaggion Spa, alle istituzioni locali e all’insieme della
società civile bergamasca.
* A Battaggion Spa: Riconsiderare immediatamente ogni esportazione di materiali
d’armamento verso Israele, con particolare riferimento alle commesse in
attesa di autorizzazione. Riposizionare l’offerta commerciale a favore
esclusivo degli usi civili delle sue tecnologie, evitando ogni possibile
utilizzo in violazione del diritto internazionale. Destinare risorse concrete
alla riparazione materiale dei danni subiti dal popolo palestinese,
attraverso contributi verificabili per la ricostruzione di ospedali,
infrastrutture sanitarie e idriche distrutte a Gaza. Garantire che il
riposizionamento commerciale dell’azienda non comporti alcuna conseguenza sui
livelli occupazionali. La riconversione produttiva deve essere accompagnata
da piani di salvaguardia dei posti di lavoro e riqualificazione
professionale.
* Alle istituzioni locali: Prendere posizione ufficiale contro il commercio di
materiali d’armamento da parte di aziende bergamasche a favore dello Stato di
Israele, con particolare riferimento al caso documentato di Battaggion Spa.
Sollecitare con urgenza il governo nazionale alla piena applicazione della
legge 185/1990. Vigilare affinché il territorio bergamasco non tragga
profitto da commerci con paesi sospetti di violazioni del diritto
internazionale umanitario. Opporsi con forza allo sviluppo dell’industria
militare locale alimentato dagli investimenti del piano di riarmo europeo.
* Alla società civile bergamasca: associazioni, enti giuridici, forze
politiche, sindacati e singoli cittadini detengono il potere dell’azione
collettiva. Esercitiamolo con determinazione, ciascuno in indipendenza e
secondo le proprie specificità, per contrastare le pratiche locali che
alimentano l’economia bellica di Israele.
(Gianni Alioti)
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L’osservatorio the Weapon Watch ha raccolto, in questi ultimi giorni, una serie
di notizie e informazioni che testimoniano l’ingresso di forza nella vita
quotidiana degli italiani della guerra, dei suoi strumenti e delle sue priorità.
Nel 1° episodio abbiamo parlato degli intensi movimenti di cannoni FH-70
attraverso la Liguria. Nel 2° episodio abbiamo guardato al potenziamento del
nodo ferroviario di Pisa-Tombolo al servizio della logistica militare
3° EPISODIO
Il movimento dei mezzi militari sulle strade del paese si intensifica, così come
tra i comuni cittadini diviene sempre più acuta l’attenzione verso
l’interferenza delle forze armate nella vita quotidiana.
Sulla via Flaminia, a Roma, sabato 21 nevembre 2025.
Dal punto di vista dell'”immaginario collettivo” – evidente obiettivo della
propaganda governativa – l’attivismo militare è al lavoro sin dal varo della
cosiddetta Operazione Strade Sicure, varata nel 2008 (appena quattro anni dopo
la “sospensione” della leva obbligatoria) e prorogata innumerevoli volte
(l’ultima con l’art. 90 della Legge di bilancio 2025, che la estende fino al 31
dicembre 2027), coinvolgendo 6000-7000 militari in compiti di polizia, cioè in
concreto di presenza armata nei luoghi “sensibili”, quali le stazioni
ferroviarie, le abitazioni di giudici e politici, sedi consolari e sinagoghe,
La presenza dei militari è sempre più estesa anche nel mondo della scuola. Dal
2014 è attivo il protocollo d’intesa tra i ministeri dell’Istruzione e della
Difesa, che di fatto ha consentito l’ingresso di attività “militari” o
“militarizzanti” nelle scuole, sia con progetti scuola-lavoro e attività
sportive di tiro a segno, sia con visite guidate nellinstallazioni e negli
stabilimenti militari, fino a sedute del collegio dei docenti tenutesi
all’interno di basi militari (ad Augusta, ottobre 2024), attività da anni
demunciate dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle
università. Dal canto loro, le università – riformate in senso privatistico
dalle “riforme” Berlinguer e Gelmini, e ora in procinto di subire la nuova
governance pensata dal duo Bernini-Galli della Loggia – sono da tempo terreni
d’elezione della ricerca militare di grandi gruppi come Leonardo e della
strisciante predilezione per la collaborazione dual use con Israele.
L’articolo è stato pubblicato da «il Giorno» il 3 aprile 2024.
Nella prima metà del Novecento non si è posto in Europa il problema di rendere
“normale” la guerra, c’era chi vedeva la guerra come “pulizia del mondo”, e chi
si illudeva di andare gioiosamente a combattere l’ultima guerra dell’umanità,
con le conseguenze che due Guerre mondiali e successivi immani spostamenti di
popolazioni ancora oggi ci mostrano.
Nella seconda metà del Novecento si è accanitamente cercato di rendere normale
la pace, con uno sforzo diplomatico senza precedenti e la creazione di entità
sovranazionali (ONU, Unione Europea) e organismi di cooperazione internazionale
efficienti. Ma il primo quarto del XXI secolo ha segnato un’inversione di rotta
drammatica, e negli ultimi due anni – successivi al trauma globale della
pandemia – si sono demolite una ad una tutte le infrastrutture della pace, a
cominciare da quelle psicologiche e culturali. Al punto che non scandalizzano
più le parole di un generale francese («La guerra ad alta intensità è un ritorno
alla normalità»), a cui oggi fanno seguito quelle del presidente Macron, uno dei
principali apripista verso il baratro collettivo, che intende ripristinare la
leva militare, per ora su base volontaria.
L’osservatorio the Weapon Watch ha raccolto, in questi ultimi giorni, una serie
di notizie e informazioni che testimoniano l’ingresso di forza nella vita
quotidiana degli italiani della guerra, dei suoi strumenti e delle sue priorità.
Nel 1° episodio abbiamo parlato degli intensi movimenti di cannoni FH-70
attraverso la Liguria.
2° EPISODIO
Un’interpellanza del giugno scorso, presentata dal consigliere Ciccio Auletta
(gruppo Diritti in Comune) al Consiglio comunale di Pisa, ha avuto risposta solo
nei giorni scorsi.
Vi si chiedeva ragione delle interruzioni della circolazione ferroviaria tra
Pisa e Livorno registratesi ogni mattina tra le 9.50 e le 12.50 dal 10 al 20
giugno 2025, ufficialmente motivate per “lavori di rinnovo degli scambi a
Tombolo”.
La risposta ufficiale di Rete Ferroviaria Italiana (RFI) all’assessore del
Comune di Pisa riferisce che «presso la stazione di Tombolo è stato eseguito un
intervento di potenziamento dell’infrastruttura ferroviaria, consistente nella
realizzazione di un nuovo fascio di binari lato ovest» e in particolare
«nell’ampliamento del corpo stradale e nella conseguente realizzazione di due
nuovi binari con relativi impianti di trazione elettrica, uno di circolazione a
modulo 750 nell’ambito del l’adeguamento del corridoio Tirrenico per le merci, e
l’altro di allacciamento al nuovo raccordo della base US Army di Camp Darby».
A questo proposito, RFI ha comunicato che nel periodo 1.1.2023-30.8.2025
attraverso il raccordo di Tombolo sono passati 44 treni (circa uno ogni tre
settimane, in media) diretti a Camp Darby. Anche i Ferrovieri Contro la Guerra,
in un loro comunicato, hanno rimarcato che la tardiva risposta di RFI e in
generale la mancata informazione sui lavori a Tombolo risponde al tentativo di
minimizzare la militarizzazione della rete e del lavoro ferroviario in atto.
Come documentato anche dall’Atlante dell’industria militare di Weapon Watch, in
realtà quello di Tombolo è un nodo intermodale di grande rilevanza militare.
Il raccordo ferroviario, del cui potenziamento abbiamo detto, è infatti
integrato con il porto fluviale sul Canale dei Navicelli, costruito nel 1980,
poi caduto in disuso e recentemente sottoposto a lavori di potenziamento sotto
la guida dell’839th Transportation battalion dell’US Army Military Surface
Deployment and Distribution Command (SDDC), per un valore di 42 milioni di $
complessivi. I lavori, cominciati nel 2018, e durati oltre tre anni, hanno
interessato soprattutto il ripristino della banchina (prima in ghiaia, ora
soletta di calcestruzzo) prolungata a 152 m, una gru da 150 tonnellate, un ponte
mobile ferroviario costruito poco a valle del ponte mobile stradale sulla Via
Livornese, e una nuova linea ferroviaria verso Livorno con rafforzamento della
testa dei binari. Alla fine dell’intervento lo scalo ferroviario di Tombolo – da
anni abbandonato per il traffico passeggeri – potrà ospitare 150 vagoni. Lo
stesso Canale dei Navicelli è stato potenziato con lavori di dragaggio e
ripalancolatura per aumentarne la portata, commissionati da NSPA (NATO Support
and Procurement Agency) alla Port Authority Pisa Srl (100% Comune di Pisa). Il
collaudo navale è stato effettuato a fine ottobre 2024, con il passaggio della
nave Dolphin-E, una portacontainer da 79 m, bandiera di Palau.
Settembre 2024, inaugurazione del ponte ferroviario girevole sul canale
Navicelli, alla presenza di autorità militari americane e italiane, tra cui il
presidente della Toscana, Eugenio Giani, il prefetto Maria Luisa D’Alessandro,
il Console generale degli Stati Uniti a Firenze, Ragini Gupta.
La frequenza dei passaggi ferroviari per Camp Darby si accorda bene con gli
arrivi a Livorno delle “navi della morte” provenienti dagli Stati Uniti, navi
sempre cariche di armi da smistare sui teatri di guerra, dall’Africa al Medio
Oriente, all’Ucraina. Weapon Watch ne ha già segnalato alcune, tra cui la bulk
carrier «SLNC Severn» lo scorso maggio (dopo le proteste di settembre, la
«Severn» opera ora sulla tratta Canada-Koper-Varna al servizio della logistica
militare ucraina), e la portacontainer «Ocean Jazz» (oggi ribattezzata
«Oceanic»).
L’osservatorio the Weapon Watch ha raccolto, in questi ultimi giorni, una serie
di notizie e informazioni che testimoniano l’ingresso di forza nella vita
quotidiana degli italiani della guerra, dei suoi strumenti e delle sue priorità.
1° EPISODIO
A Genova Pontedecimo, durante la giornata del 19 novembre 2025, quattro
autoarticolati che trasportavano ciascuno un cannone FH-70 155/39 sono rimasti
imbottigliati nel traffico della Val Polcevera, reso caotico dal presidio a
oltranza dei lavoratori dell’ex Ilva. I camion provenivano dal porto di Genova,
scortati dai carabinieri.
Uno degli autoarticolati bloccati in via Natale Gallino a Pontedecimo, la sera
del 19 novembre 2025.
Ben visibile l’insegna “Noltrans” su un secondo autoarticolato a Pontedecimo, in
coincidenza con il presidio dei lavoratori dell’ex Ilva.
Altri autoarticolati sono stati visti nella stessa giornata e in quella
successiva lungo l’autostrada A10 Genova-Ventimiglia, sempre trasportando
cannoni FH-70, forse diretti ai porti di Savona o di Vado Ligure.
L’autoarticolato fotografato sull’autostrada A10 fa parte della flotta della
ditta Franzoni Sergio Autotrasporti di Bedizzole (BS).
Sul pianale, ben visibile, un cannone FH-70.
È probabile che il movimento di questi pezzi d’artiglieria avvistati lungo le
strade liguri sia legato al programma di aggiornamento di mezzavita per conto
dell’Esercito dei cannoni FH-70 155/39. L’upgrade riguarda 90 pezzi sui 164
acquistati dall’Esercito, con un contratto che ha come capocommessa Leonardo e
principale esecutrice la ARIS Applicazioni Rielaborazioni Impianti Speciali Srl
con sede a Lombardore, provincia di Torino. Di qui l’afflusso dei pezzi via mare
verso lo stabilimento di ARIS, azienda che già da qualche anno ha sviluppato per
l’FH-70 – che può effettuare brevi spostamenti in autonomia – una nuova APU
(Auxiliary Power Unit) diesel, in sostituzione del vecchio motore a benzina VW
‘Maggiolino’.
Il cannone/obice FH-70 155/39 è un’arma pesante (tra 8 e 10 tonnellate)
semovente o a traino meccanico, progettata negli anni Settanta in collaborazione
anglo-italo-tedesca e prodotto dalla ex Vickers (poi BAE Systems), da
Rheinmetall e da OTO-Melara (poi Leonardo), oltre che in licenza dalla Japan
Steel Works. Può sparare proiettili calibro 155 di tutti i tipi, fumogeni,
illuminanti, incendiari, di tipo HERA (high-explosive rocket-assisted) e Vulcano
(con gittata fino a 55 km). È in servizio in una dozzina di eserciti, e ha una
consolidata esperienza sui campi di battaglia, dalla guerra civile in Libano
all’attuale in Ucraina, dove dall’Italia sono stati inviati almeno dieci pezzi
con i primi pacchetti di aiuti, nella primavera 2022. L’aggiornamento in corso
riguarda anche la sostituzione dei congegni di puntamento ottici, contenenti
trizio, con il sistema digitale LINAPS (Laser Inertial Navigation Artillery
Pointing System) di Leonardo UK.
ARIS Applicazioni Rielaborazioni Impianti Speciali Srl è azienda fondata nel
1946, da sempre impegnata nella manutenzione, riparazione e aggiornamento dei
mezzi militari, prima a S. Maurizio Canavese, poi dal 1969 a Lombardore, dove
dispone di stabilimento con 30.000 m² di aree coperte, tra zone produttive,
magazzini, uffici e aree di prova, oltre a un circuito esterno per la
sperimentazione ricavato dall’ex storico poligono militare di Ciriè, oggi
Riserva Naturale della Vauda. Sebbene abbia registrato bilanci in decremento
negli ultimi anni (24 M € nel 2022, 19 nel 2023, 14 nel 2024), ha mantenuto
stabile la forza lavoro (60-65 dipendenti). ARIS è controllata dalla famiglia
Bellezza Quater attraverso alcune società semplici, mentre Silvia e Paolo
Bellezza Quater sono direttamente coinvolti nello spin-off Nimbus Srl, società
entrata nel settore dei droni già nel 2006 soprattutto con applicazioni
industriali e risultati rimasti sinora modesti.
Una colonna di autoarticolati trasporta obici e carri armati per conto
dell’Esercito italiano. Dalla Fotogallery online della ditta Franzoni Sergio
Autotrasporti.
Un obice PzH 2000 su un autoarticolato della ditta Franzoni Sergio Autrasporti.
Dalla Fotogallery online della stessa Franzoni Sergio Autotrasporti Srl.
Almeno due aziende di autotrasporto si sono notate sinora nella movimentazione
in corso dei cannoni FH-70 per conto dell’Esercito italiano. Noltrans Srl è una
piccola azienda con sede a Battipaglia (SA) con una quindicina di dipendenti
fissi, il cui fatturato si è gonfiato a partire dal 2022 quando è riuscita a
inserirsi come “azienda ausiliaria” del colosso logistico danese DSV che
fornisce in esclusiva le spedizioni merci via gomma per il Ministero della
difesa. Più strutturata è la Franzoni Sergio Autotrasporti Srl di Bedizzole
(BS), 32 dipendenti fissi e un fatturato superiore agli 11 milioni di euro
(2024), con una flotta mono-brand Mercedes integralmente idonea al trasporto ADR
(cioè di merci pericolose via strada). La famiglia Franzoni opera nel settore
dal 1946 e si è specializzata nei trasporti militari dagli anni Settanta. La
società si è fatta notare recentemente (gennaio 2025) per essersi aggiudicata un
appalto del Ministero della difesa per un importo complessivo di 2 milioni di €
per 24 mesi (oltre a 500.000 € per ulteriori 6 mesi di proroga) per servizi di
trasporto/spedizione in ambito nazionale e internazionale di esplosivi e
munizioni classe 1 e materiali soggetti a normativa ADR.
(disegno di diego miedo)
Ho ascoltato il dibattito televisivo di martedì 18 novembre tra i due candidati
delle principali coalizioni nelle ormai imminenti elezioni regionali della
Campania e vorrei soffermarmi su un passaggio cruciale del confronto
Fico-Cirielli. Alla domanda della conduttrice sull’emergenza sociale in
Campania, i candidati non hanno di fatto dato risposta. Le loro attenzioni si
sono focalizzate su singoli settori, oggi e da molto tempo in stato di
sofferenza nella regione (trasporti, sanità, lavoro), ma né Fico né Cirielli
hanno accennato a una visione d’insieme.
È utile anzitutto riepilogare i termini della questione sociale oggi in
Campania, offrendo alcuni dati essenziali per cogliere l’entità del fenomeno.
Secondo dati diffusi da Openpolis nel 2023, quasi la metà della popolazione è a
rischio di povertà o esclusione sociale. Si tratta di un dato allarmante, il
peggiore tra quelli regionali nel nostro paese, insieme alla Sicilia. Se si
guarda ai dati Eurostat del 2024 su povertà ed esclusione sociale, la Campania
si conferma, insieme alla Calabria, tra le aree più in difficoltà in Europa. La
regione è stata poi eccezionalmente colpita dalla bolla turistica degli ultimi
anni, con effetti diretti sul costo delle abitazioni. Secondo recenti
rilevazioni dell’Ance, l’associazione nazionale dei costruttori edili, la città
di Napoli è tra quelle in Italia con prezzi immobiliari (per l’acquisto e per
l’affitto) meno accessibili in rapporto al reddito disponibile delle famiglie.
Supera perfino Milano, nota per il boom immobiliare di tipo speculativo al
centro delle cronache nazionali negli ultimi mesi. La crisi abitativa è
particolarmente allarmante a Napoli, dove secondo dati del Comune il 44,09%
della popolazione residente è in affitto, un dato due volte maggiore della media
nazionale in Italia, che è del 19,99%.
Inoltre la Campania negli anni scorsi, a cominciare dalla prima metà degli anni
2010, è stata sottoposta a forti tagli imposti dalle politiche di austerità
intraprese dai governi nazionali e implementate a livello territoriale dalle
giunte regionali, in particolare negli anni della presidenza Caldoro e del primo
mandato di De Luca, ma proseguite fino a oggi. Le politiche di austerità a
livello regionale sono state accompagnate dai tagli strutturali ai finanziamenti
comunali e da draconiani piani di rientro del debito, come il cosiddetto Patto
per Napoli. I flussi di finanziamento per gli enti locali del meridione saranno
nel prossimo futuro sempre più a rischio per il processo di autonomia
differenziata che il governo in carica sta continuando a portare avanti, a
dispetto delle (parziali) bocciature della Corte Costituzionale. Negli anni
scorsi, le misure di cosiddetta austerità in Campania hanno riguardato i settori
della sanità (chiusura di ospedali e presidi sanitari periferici), dei trasporti
(tagli al trasporto pubblico locale, fino alla soppressione di linee
fondamentali nei collegamenti extraurbani, in particolar modo nelle aree
periferiche e interne del territorio regionale). Inoltre la Campania ha record
negativi nella disponibilità di servizi primari come gli asili nido: secondo
dati Istat del 2021 solo sette bambini su cento hanno accesso all’asilo nido,
mentre in Toscana salgono a trentacinque. I costi delle politiche di austerità
si sono trasferiti sui conti familiari, che devono attingere a risorse proprie
già scarse per far fronte a servizi che in altre regioni sono forniti dalle
amministrazioni pubbliche.
La disattenzione alla crisi sociale da parte delle principali coalizioni che
concorrono per la guida della Regione Campania è tanto più sorprendente se si
guarda a ciò che accade in queste settimane nelle elezioni locali in altri
paesi. Negli Stati Uniti, il tema del rincaro nel costo della vita è diventato
centrale nelle elezioni delle grandi città: ha consentito a un candidato
indipendente come Zohran Mamdani di prevalere su un candidato potente,
espressione dell’establishment tradizionale, come Mario Cuomo, grazie a una
campagna che ha acceso gli entusiasmi della nuova generazione di attivisti
emersa in questi anni intorno alle lotte per la casa e per i diritti delle
minoranze. Il consenso ottenuto da Mamdani e l’ondata di partecipazione civica
che la sua candidatura ha generato nasce dalla determinazione con cui Mamdani ha
messo il contrasto a quella che negli Stati Uniti si chiama “crisi
di affordability” al centro della propria agenda politica. La crisi
di affordability indica l’aumento del divario tra prezzi dei beni di consumo
primario e retribuzioni delle famiglie: ciò rende sempre più difficile a
porzioni crescenti non solo delle classi con redditi più bassi ma anche del ceto
medio di accedere a beni e servizi primari, come le abitazioni, l’alimentazione,
i trasporti, le cure sanitarie a pagamento. Non solo negli Stati Uniti, ma anche
in Europa e con particolar vigore nelle regioni dell’Europa meridionale, come
evidenziano i dati sopra citati, l’aumento incontrollato dei prezzi di beni e
servizi primari generato dalla crisi energetica e dall’inflazione sostenuta
degli anni scorsi ha assottigliato, fino ad azzerarlo, il “reddito residuale” a
disposizione delle famiglie, vale a dire la quota di reddito che le persone
riescono a mettere da parte dopo aver compiuto le spese minime richieste per il
proprio sostentamento (affitto, consumi energetici, alimentazione, mobilità,
cure mediche).
La lontananza, emotiva e propositiva, dimostrata dai candidati delle principali
coalizioni partitiche in Campania dai bisogni concreti di sempre più larghe
fasce della popolazione oggi esposte al rischio di esclusione sociale e povertà
con ogni probabilità troverà riscontro in percentuali record di astensione dal
voto. Non ci sarà da sorprendersi se la percentuale di votanti sarà notevolmente
più bassa del già esiguo 55% dell’elettorato che si recò alle urne nel 2020. La
disaffezione dalla politica istituzionale è inevitabile se i grandi partiti si
dimostrano indifferenti ai bisogni concreti della popolazione. Eppure, le
amministrazioni regionali, che oggi hanno ampi poteri in settori cruciali della
riproduzione sociale, come le politiche abitative, per i trasporti e per la
sanità pubblica, potrebbero fare molto almeno per alleviare la sofferenza
sociale nei nostri territori. (ugo rossi)
ll podcast del nostro viaggio del venerdì su Anarres, il pianeta delle utopie
concrete. Dalle 11 alle 13 sui 105,250 delle libere frequenze di Blackout. Anche
in streaming
Ascolta e diffondi l’audio della puntata:
https://radioblackout.org/podcast/anarres-del-14-novembre-fiera-delle-armi-in-egitto-la-war-on-drugs-del-governo-meloni-warfare-e-conflitto-in-ucraina/
Dirette, approfondimenti, idee, proposte, appuntamenti:
Egitto, al via la più grande fiera d’armi d’Africa: l’Italia tra i principali
espositori e sponsor
Nello stesso periodo in cui si svolgerà a Torino l’Aerospace and defence
meetings in Egitto si terrà una delle più grandi esposizioni di sistemi bellici
mai realizzata nel continente africano e nell’area mediorientale: dall’1 al 4
dicembre l’Egitto ospiterà EDEX 2025, evento biennale organizzato dai ministeri
della Difesa e della Produzione militare, con il patrocinio del Presidente della
Repubblica Abdel Fattah Al Sisi, Comandante supremo delle forze armate egiziane.
La IV edizione della Fiera delle armi sarà ospitata presso l’International
Exhibition Centre del Cairo e vedrà la partecipazione di oltre 400 espositori,
primi fra tutti i colossi mondiali del comparto militare industriale e del
settore aerospaziale. Ospiti d’onore i ministri della Difesa e i Capi di Stato
maggiore delle forze armate di diversi paesi. Negli stand della kermesse faranno
bella mostra di sé le nuove tecnologie per le guerre aeree, terrestri e navali
prodotte in Italia.
Ne abbiamo parlato con Antonio Mazzeo
Effetti stupefacenti. La war on drugs del governo Meloni
La conferenza nazionale che si è svolta a Roma conferma la vocazione punitiva e
proibizionista del governo Meloni, che punta la propria propaganda sulla guerra
alla droga.
Del tutto ignorata la Million Marijuana March che si è svolta l’8 novembre nella
capitale.
Ne abbiamo parlato con Robertino Barbieri
Tempi di guerra: riarmo, warfare, conflitto in Ucraina
Il processo di riarmo ci racconta un’epoca in cui l’Europa è sul ciglio della
terza guerra mondiale, una guerra che, diversamente dalle altre in cui l’Italia
è impegnata da tempo, è una guerra che ti entra in casa. Una guerra, che passo
dopo passo, stiamo già pagando
Ne abbiamo parlato con Stefano Capello, che ieri sera ha partecipato alla serata
informativa di presentazione delle iniziative antimilitariste del 29 novembre e
del 2 dicembre.
Appuntamenti:
Venerdì 14 novembre ad Asti
Dibattito contro la guerra e chi la arma
in vista del corteo antimilitarista del 29 novembre a Torino
ore 20,30 in via XX Settembre 112
Organizza Felix, centro di documentazione anarchica
Intervengono compagn dell’Assemblea Antimilitarista
Sabato 15 settembre a Carrara
Le guerre partono anche dall’italia: industrie e aziende producono e vendono
morte made in Italy. l’aerospace and defense meetings di Torino è il luogo di
incontro tra la domanda e l’offerta del business bellico
ore 18 al Germinal in piazza Duomo
Intervengono compagn dell’Assemblea Antimilitarista
Venerdì 21 settembre a Reggio Emilia
Dibattito contro la guerra e chi la arma
via Dom Minzoni 1
in vista del corteo antimilitarista del 29 novembre a Torino
Domenica 23 novembre ad Alessandria
Dibattito contro la guerra e chi la arma
in vista del corteo antimilitarista del 29 novembre a Torino
Ore 16
Al Laboratorio Anarchico Perlanera via Tiziano Vecellio 1
Sabato 29 novembre a Torino
corteo antimilitarista
ore 14,30 corso Giulio Cesare angolo via Andreis
Contro la guerra e chi la arma!
Via i mercanti d’armi!
Martedì 2 dicembre
giornata di blocco all’Oval Lingotto in via Matté Trucco 70
No all’aerospace and defence meetings!
A-Distro e SeriRiot
ogni mercoledì
dalle 18 alle 20
in corso Palermo 46
(A)distro – libri, giornali, documenti e… tanto altro
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Riceviamo e diffondiamo:
Riceviamo e diffondiamo questi testi sulle denunce arrivate per i fatti dello
scorso 28 aprile a Lecco.
Qui il pdf: comunicato denunce.docx
In merito ai fatti dello scorso 28 aprile a Lecco
In questo fine ottobre a Lecco sono giunti gli atti di conclusione delle
indagini preliminari nei confronti di 17 persone a seguito dei fatti del 28
aprile 2025, giorno in cui si è deciso collettivamente e individualmente di
opporsi alla calata dei fascisti in città.
I reati contestati sono: manifestazione non autorizzata, radunata sediziosa,
interruzione di pubblico servizio, travisamento, oltraggio a pubblico ufficiale
e resistenza.
Tra le persone inquisite in molti partecipano all’assemblea permanente contro le
guerre, per questo ribadiamo ulteriormente ciò che abbiamo scritto e diffuso
come assemblea a seguito di quella giornata di lotta. (allegato qua sotto).
Leggere le prime carte relative all’inchiesta è qualcosa di formativo: leggere
di “progetto criminoso”, “aggressione alle forze dell’ordine”, “irruzione nel
municipio”, relativamente a quella giornata non può che far sorridere. Quel
giorno centinaia di persone hanno cercato di impedire un raduno fascista, e
quelli che ora fanno le vittime sono invece quelli che ne hanno garantito la
presenza. Quel giorno è la celere che ha aggredito, è il municipio che si è
meritato una contestazione, è la polizia che ha consentito quel raduno! Per il
resto sono carte da tribunale, e la carta è solo carta…
Non saranno certo denunce e intimidazioni poliziesche a fermare le lotte,
semplicemente non ne possono avere la forza necessaria, tanto più in questo
periodo storico in cui, davanti a genocidi, massacri e guerre sempre più feroci,
scegliere da che parte stare è qualcosa di improrogabile e fondamentale.
Di fronte ad un attacco repressivo non possiamo che ribadire la nostra presenza
nelle strade quel giorno, e porteremo il nostro punto di vista riguardo a quella
giornata anche nel tribunale di Lecco.
Un coro cantato quel giorno ci illustra la strada da seguire: l’antifascismo è
nostro e non lo deleghiamo!
Per questo saremo sempre in strada quando verrà dato spazio ai fascisti.
Per questo continueremo a lottare contro ogni guerra dei padroni, contro ogni
guerra imperialista, contro ogni collaborazione militare e politica nel
genocidio in Palestina.
01/11/2025 Assemblea permanente contro le guerre (Lecco)
Contro il fascismo di ieri e di oggi
A Lecco il 28 aprile un manipolo di fascisti ha indetto un presidio per
ricordare gli infami repubblichini fucilati nel 1945 allo stadio cittadino.
Vogliamo innanzitutto ricostruire i fatti avvenuti in quei giorni di 80 anni fa,
per far comprendere a chi vuole rimuovere quelle vicende, le motivazioni della
contestazione.
Erano i giorni della Liberazione. Gli eserciti occupanti si stavano disgregando,
affrontati da un numero sempre maggiore di partigiani. I nazifascisti in
rastrellamento vengono impegnati dalla brigata Garibaldi e tra il 25 e il 26
aprile 1945 cadono nelle mani dei partigiani. Vi è ancora qualche resistenza,
alcuni cecchini sparano dai tetti delle case.
A Lecco le brigate fasciste Leonessa e Perugia, provenienti da Brescia, che si
erano avviate sulla strada per Como, tornano sui propri passi e occupano
un’abitazione in via Como all’angolo con via Previati, decidendo di affrontare
la formazione SAP Poletti di Lecco e la Brigata Rosselli che, guidata da Piero
Losi, è nel frattempo entrata in città.
Il 26-27 aprile si scatena la battaglia di Pescarenico e i fascisti assediati si
difendono senza incertezze finché ad un tratto da una finestra viene sventolata
una bandiera bianca. Quando quattro partigiani escono allo scoperto per
parlamentare, nella convinzione che quelli stiano per arrendersi, vengono
falciati al suolo dalle mitraglie dei repubblichini.
A terra si raccolgono i corpi dei compagni Giovanni Giudici detto Farfallino,
Antonio Polvara, Silvano Rigamonti, Ettore Riva, due dei quali rimasti uccisi,
gli altri feriti.
Così la battaglia riprende con una vasta concentrazione di partigiani fino a
quando, la sera del 28, è annunciata la cattura dei giovani fascisti, arresisi
anche perché ormai privi di munizioni. I fascisti vengono arrestati, condotti
alle scuole in via Ghislanzoni e processati: sedici fra essi, considerati
responsabili del vile attacco, vengono condannati a morte e fucilati nello
stadio Rigamonti Ceppi.
In nome di quei partigiani uccisi si è deciso di contestare la manifestazione
fascista, con la volontà di impedire il raduno.
Alle 19 era prevista una chiamata pubblica indetta da alcune individualità a
poche centinaia di metri dallo stadio. Nel frattempo anche l’ANPI cittadina ha
indetto un presidio per le ore 18.30 a pochi metri dal precedente: il presidente
locale dell’ANPI è intervenuto affermando che bisognava stare fermi in quel
luogo e non accettare le (sic) “provocazioni” di chi voleva muoversi per andare
a contestare i fascisti. Alle ore 19.00 il comizio è stato interrotto invitando
tutti a muoversi in direzione dello stadio. Almeno la metà dei presenti ha
deciso di partire in corteo, fregandosene delle manfrine dei politicanti.
Subito la celere si è frapposta per evitare che le oltre 300 persone potessero
raggiungere lo stadio. Con la polizia in assetto antisommossa schierata, si è
deciso di raggiungere altri punti della città vicini allo stadio. Un rumoroso
corteo “spontaneo”, espressione di diverse idee, percorsi politici e
sensibilità, ma anche di semplici cittadini ha attraversato le strade di Lecco
cercando di arrivare al raduno fascista, intasando il traffico cittadino,
volantinando, urlando cori, facendo veloci cambi di percorso quando la celere
chiudeva una strada per percorrerne un’altra. Un corteo senza alcuna regia
preconfezionata, ma felicemente autogestito con rapide decisioni e repentine
scelte conseguenziali.
Ci si è provato in molti modi, senza purtroppo riuscirci ad impedire fisicamente
la commemorazione di quei fascisti che avevano trucidato vigliaccamente i
partigiani! Sarà per la prossima! Resta il fatto che i fascisti sono rimasti
accerchiati, con blindati che giravano per la città posizionandosi di volta in
volta in un punto diverso per difenderli.
Certo, la celere si sarà sicuramente divertita nel tirare manganellate alla
cieca appena gli antifascisti arrivavano a contatto diretto con loro; per le
autorità ormai è normale lasciare qualche livido a chi osa lottare contro le
ingiustizie imposte dal potere.
Il corteo ha deciso di finire il suo percorso in stazione, dove è situato anche
il Comune di Lecco. Il portone spalancato del Municipio ha accolto i
manifestanti che, a quel punto, hanno pensato di far sentire la propria voce,
contro la celebrazione fascista, urlando cori dal cortile interno del Palazzo,
mentre era in corso un consiglio comunale. Da qui è partito l’intervento
violento della celere, volto a chiudere l’accesso al municipio. Alcuni compagni
e compagne hanno retto la prima carica, permettendo così l’uscita dal Comune a
chi era entrato nel cortile. In seguito, dopo altre manganellate a casaccio a
cui qualcuno dei presenti ha giustamente reagito, il corteo si è concluso
proprio nella piazza da cui era partito.
Questo è il racconto reale degli avvenimenti del 28 aprile, ogni altra
ricostruzione è falsata da media e politicanti locali non presenti alla
manifestazione, o in malafede.
Questa serata ha dimostrato, ancora una volta, che lottare è possibile, basta
mettersi in gioco. Di sicuro assistiamo ad un aumento della violenza della
polizia, ma ciò deve portare tutti a scendere in piazza sempre più determinati,
decidendo anche di darsi maggiori strumenti di autodifesa.
Della serata del 28 è evidente il fatto che nessuno si è tirato indietro, tutti
hanno risposto alle cariche compattandosi senza scappare: si è rimasti uniti
nella voglia di combattere il fascismo e i suoi “nipotini”.
Nella situazione di guerra (questione innanzitutto interna prima che estera) in
cui viviamo, la militarizzazione della società non farà altro che aumentare: sta
ai sinceri ribelli e rivoluzionari trovare gli strumenti adatti a combatterla.
Dunque davanti al genocidio automatizzato dei palestinesi, alle guerre tra Stati
che usano la popolazione come carne da cannone, ad un mar Mediterraneo diventato
un cimitero e all’autoritarismo sempre più becero che stiamo vivendo, continuare
la lotta, antifascista, antimilitarista e antisionista, ci sembra l’unica via
percorribile per restare umani.
E per quanto riguarda i fascisti lecchesi, un solo pensiero: “¡No pasarán!”
Contro ogni autoritarismo, morte al fascio di ieri e di oggi!
3 0 aprile 2025 Assemblea permanente contro le guerre di Lecco
Alla luce delle manifestazioni di protesta contro l’invio di armi a Israele si
ritiene matura la proposta di creare nelle città sede di porti commerciali degli
osservatori indipendenti sulla movimentazione degli armamenti nei porti, perché
essa suscita preoccupazione politica, turbamento morale e insicurezza materiale
nei lavoratori e nei cittadini.
La movimentazione degli armamenti, disciplinata dalla legge 185/1990, è soggetta
all’autorizzazione e al controllo dello Stato, ma le istituzioni che esercitano
questi poteri latitano in trasparenza opponendo cortine burocratiche alle
istanze di accesso ai dati che dovrebbero essere pubblici.
Pertanto, che si sia di fronte a una qualche palese violazione della legge così
come a una qualche insufficiente informazione sulla natura delle merci in
transito nel porto, i lavoratori e i cittadini chiedono di non essere costretti
a iniziative di astensione sindacale dal lavoro o di manifestazione pubblica per
opporsi all’illegalità di certe movimentazioni e per dovere sostenere da sé i
diritti di informazione, tutela, sicurezza, obiezione di coscienza.
Nel caso particolare del trasporto di esplosivi e munizioni, i lavoratori del
porto e i cittadini che abitano in prossimità degli scali chiedono trasparenza
che la movimentazione avvenga in assoluta e verificata conformità agli speciali
regolamenti in materia.Oltre alle barriere burocratiche che ostacolano la
trasparenza e oltre alla complessità intrinseca del sistema commerciale, sono
state verificate pratiche elusive o ingannevoli da parte di vettori,
spedizionieri e imprese portuali, circa la natura militare delle merci
movimentate nei porti.
Di fronte a questi comportamenti, i lavoratori chiedono di potere conoscere
tempestivamente e ufficialmente l’eventuale natura militare della merce, la sua
origine e destinazione geografica, per avere certezza che non si infranga la
legge e che se ne interpreti autenticamente il valore costituzionale («I
portuali non lavorano per la guerra»).
A queste esigenze di puntuale informazione sindacale e pubblica, si accompagna
l’istanza di conoscere, attraverso dati statistici, l’incidenza della
movimentazione di queste merci nell’economia e nell’occupazione del porto e
della città.
Non è una domanda fine a sé, perché la stessa legge 185/1990 prescrive che il
Governo predisponga misure idonee ad assecondare la graduale differenziazione
produttiva e la conversione a fini civili delle industrie nel settore della
difesa (art.1 comma 3). Tale previsione, disattesa sinora da tutti i governi
avvicendatisi, nel caso specifico dei porti è priva di qualsiasi fonte
statistica utile a affrontare la questione.
Le conseguenze di questa lacuna si riverberano nell’assenza nei bilanci sociali
dei porti nazionali di una rendicontazione dedicata alla sostenibilità etica,
intesa come policy e atti regolatori con l’obiettivo di promuovere e attuare
l’attività portuale a esclusivo servizio di commerci di pace e di sviluppo del
benessere e della libertà dei popoli.
La necessità del confronto tra autorità, lavoratori e cittadini pone la
questione di disporre di un Osservatorio permanente, ossia di un “luogo” e di un
“tempo” in cui tale confronto possa avvenire con la necessaria franchezza e
trasparenza sulla base di dati e informazioni certe e qualificate.
Viste anche le recenti prese di posizione e deliberazioni di Sindaci e Consigli
comunali sui traffici d’armi nei rispettivi porti, la sede ospitante
dell’Osservatorio dovrebbe essere a nostro avviso nei Comuni sede di porti, per
la loro autorità elettiva sulla città da cui il porto dipende e a cui il porto
restituisce lavoro, ricchezza, identità e reputazione con i relativi costi
sociali e ambientali.
Il confronto può avvenire solo nella trasparenza dei processi decisionali e
delle informazioni che ne sono il presupposto. Informazioni che non sono in
alcun modo segrete, e semmai sottoposte all’obbligo della riservatezza
statistica. Di alcune informazioni, invece, è la stessa Legge 185 che impone la
pubblicità: il soggetto autorizzato, la natura e il valore degli armamenti, il
destinatario finale, i valori doganali dichiarati, l’appartenenza o meno a un
progetto di produzione internazionale, ecc.
L’osservatorio dovrà dotarsi della capacità di un triplice ordine di
obiettivi:1. un report periodico che dia conto dei traffici di armamenti
(origine/destinazione/merce) e della loro incidenza quantitativa e qualitativa
sul bilancio complessivo del porto;2. un servizio informativo, “a sportello”,
tempestivo e verificato con tutti gli attori coinvolti, su domanda dei
lavoratori e delle loro organizzazioni di rappresentanza, oltre che dei
cittadini, su arrivi e partenze di navi con carichi di armamenti eventualmente
sospetti;3. promuovere la qualificazione del porto sotto il profilo della
“sostenibilità etica”, improntata a capitali e organizzazioni di impresa non
compromessi in attività militari aggressive e in violazione dei diritti umani, e
a produzioni e commerci di pace.
Le fonti locali operanti dell’Osservatorio dovranno essere gli attori
istituzionali, sociali e civili che agiscono attivamente o passivamente nella
circostanza del traffico di materiali di armamento nel porto: Prefettura,
Capitaneria di porto-Guardia costiera, Autorità di Sistema Portuale, Agenzia
delle Dogane, Vettori e spedizionieri, Agenti marittimi, Imprese portuali,
Organizzazioni sindacali dei lavoratori, Municipi di circoscrizioni urbane
prospicienti il porto, Comitati civici e Associazioni pertinenti.
Una terza intervista di Effimera sulla situazione genovese e sugli scioperi dei
portuali a sostegno alla Sumud Flotilla. Parla Riccardo Degl’Innocenti,
genovese, esperto di porti, attivista di The Weapon Watch, Osservatorio sulle
armi nei porti europei (www.weaponwatch.net), da sempre al fianco del CALP di
Genova.
L’intervista è a cura di Lidia Demontis e Roberto Faure.
1. La vostra mobilitazione è stata un successo, anche mediatico. Come pensate di
allargare la protesta? Esiste un collegamento con gli altri porti italiani?
Le cronache mediatiche, il tam tam sui social, la presenza nei cortei, le
testimonianze all’Assemblea pubblica di Genova del 26 e 27 settembre scorsi,
hanno mostrato che esiste nei principali porti italiani una rete di collettivi
autonomi e di rappresentanze, sia del sindacalismo di base che di quello
“istituzionale”, attiva con lo scopo precipuo di impedire il transito
internazionale illegale ai sensi della legge 185/1990 di carichi di armi. Le
parole d’ordine, più che ideologiche contro il carattere imperialistico delle
guerre, diretto o indiretto, e l’organicità del sistema economico capitalistico
con gli apparati militare-industriali, ricalcano la disobbedienza civile,
l’obiezione di coscienza, la conservazione di sentimenti umani, l’irriducibilità
a essere produttori di strumenti di morte e complici di crimini contro
l’umanità. Sono improntate a modelli di tradizione non violenta e di resistenza
passiva, ma rilanciano forme di “azione diretta” collettiva proprie
dell’operaismo, senza forme esplicite di violenza, semmai figurate in modi che
trasmettano la determinazione dei manifestanti a sostenere fino alla fine,
“senza paura”, gli obiettivi della lotta intesa e vissuta come causa giusta e
sacrosanta. Una convinzione sincera, che si trasmette empaticamente e appare
tradursi favorevolmente in consenso e allargamento della partecipazione.
2. Per sanzionare Israele è possibile ipotizzare un più ampio blocco o almeno
parziale boicottaggio delle merci provenienti da o dirette verso Israele? Magari
coinvolgendo il trasporto aereo?
Si è lungi dal boicottare l’economia e la forza bellica di Israele solo con
l’azione dal basso dei portuali, ma c’è la consapevolezza che i porti sono gli
snodi principali dei suoi commerci. Ciò permette anche a singole iniziative
locali di incidere sulle catene di rifornimento di Israele, in maniera
significativa, perché i portuali – diversamente dal militante pacifista che
manifesta simbolicamente fuori dei cancelli della fabbrica o del porto –
intervengono concretamente a bloccare o quantomeno a rallentare i flussi di
merce, nuocendo altresì alla efficienza di maglie più estese della rete
logistica coinvolta (provocando ritardi alle navi e alle altre merci trasportate
o l’indisponibilità delle banchine ecc). Anche se il porto coincide con un solo
tratto delle Supply Chain globali, esso resta il nodo più critico per i volumi
che vi transitano (incomparabili per maggiore grandezza rispetto agli
aeroporti), per la “rottura di carico” ossia il passaggio fisico dei container
dal vettore terrestre a quello marino, con il relativo e cruciale avvicendamento
tra le relative figure professionali e “politiche” che operano nelle rispettive
movimentazioni. Il mondo della logistica in generale è particolarmente sensibile
alle variazioni di programmazione dei flussi e quindi incline a evitare ogni
imprevisto, e ciò talora finisce, se non per agevolare la contestazione dei
portuali, almeno per contenerne i danni organizzativi e economici. Ovviamente,
l’iniziativa dei portuali può essere spontanea e improvvisata solo all’inizio,
poi necessita di una sufficiente forza collettiva e consenso sociale, e
soprattutto di una “copertura” sindacale per potersi muovere, anche se solo
sulla linea di confine degli strumenti di lotta consentiti dalle leggi e dai
contratti di lavoro. Non dimentichiamo i decreti Salvini e la natura giuridica
di porti, aeroporti e stazioni oggetto, di speciali norme a protezione della
loro sicurezza, economica e sociale in realtà, più che strategica “di Stato”.
Lo sciopero generale del 22 settembre 2025, a Genova.
3. Si coglie nell’aria una convinta richiesta popolare di lotta unitaria per far
cessare il fuoco (e la strage) a Gaza, superando le differenze e puntando a
rompere il fronte di chi vuole la guerra. Che cosa pensate si possa fare?
La richiesta autentica e estesamente popolare ha rimescolato le carte anche tra
i partiti e i sindacati. Il fatto che a Genova l’azione sia partita da un
collettivo operaio autonomo (CALP) e successivamente dal collegato sindacato di
base (USB) ha un po’ spiazzato le OO.SS. “istituzionali”, a cominciare dalla
CGIL. Più nei tempi, perché nel merito i contenuti delle rispettive iniziative e
parole d’ordine in questa circostanza e forse per la prima volta convergono e
paiono sostanzialmente coincidere. La primazia va al CALP se non altro perché
il movimento contro le armi nei porti ha avuto la riedizione contemporanea (dopo
le esperienze degli anni 70 riferite soprattutto a Vietnam e Cile) grazie alle
azioni del CALP dal 2019 contro le navi “della morte”, le saudite Bahri dirette
verso i teatri di guerra del Medio-Oriente e in specie dello Yemen. Già allora
ci fu una partecipazione “popolare” larga, di componenti molto diverse
dell’attivismo politico e civile, dalla estrema sinistra al mondo cattolico.
Anche allora la CGIL arrivò un po’ dopo, ma fu comunque decisiva per il successo
grazie alla sua forza di rappresentanza. Così come lo fu la “benedizione” di
Papa Francesco che riconobbe pubblicamente nei lavoratori portuali il tratto
della parresìa, nel praticare la lotta in prima persona e nella fermezza dei
valori con cui la sostenevano mettendo a rischio la propria libertà, e ne fece
il confronto con l’ “ipocrisia armamentista” delle istituzioni politiche e del
mondo economico, pacifisti solo a parole.
Il precipitare della crisi di Gaza con il genocidio in corso ha riacceso la
brace che covava e di tanto in tanto aveva fiammeggiato in questi anni con le
iniziative del CALP. Questi, nel frattempo, è confluito sindacalmente in USB
abbandonando la CGIL, a causa tra l’altro della tiepida posizione di
quest’ultima sui decreti Salvini. La decisione con l’associazione genovese Music
for Peace di contribuire e partecipare con un proprio leader, Jose Nivoi, alla
spedizione della Flotilla, è sì apparsa meramente umanitaria, ma anche di
altissimo valore politico per il coraggio e la chiarezza del messaggio
trasmesso. Essa ha acceso un incendio indistinguibile di emozioni e di coscienze
che è andato oltre le etichette, per lo più ignote alla maggioranza dei 40mila
manifestanti del grande corteo che ha salutato la partenza della Flotilla.
Salvo l’etichetta del CALP, i cui membri, grazie ai loro comportamenti di lotta
a viso aperto in porto, hanno reincarnato il mito che si era un po’ spento dei
camalli duri, franchi e liberi. Grazie anche al loro costante presidio e azione
antifascista militante, nella città medaglia d’oro della resistenza come i loro
nonni e del 30 giugno 1960 come i loro padri. E grazie, in queste ultime
settimane, alla antiretorica asciutta e decisa di uno dei loro leader, Riccardo
Rudino, colui che ha invitato i portuali di tutta Europa a “bloccare tutto” se
la Flotilla sarà colpita. Con la avvedutezza, però, di una puntuale
declinazione: distinguere come e dove colpire gli interessi militari e economici
israeliani, oggi parimenti criminali, perché invece i commerci pacifici sono la
vita dei porti e il pane dei suoi lavoratori.
4. In particolare con quali soggetti politici e con quali comunità possiamo
sperare di costruire una rete capace di far sentire a Israele la nostra
indignazione?
I portuali per continuare a reggere il peso e i rischi del loro impegno hanno
bisogno non solo della vitale partecipazione popolare, ma anche dell’alleanza
con i lavoratori delle altre categorie che operano nella filiera del trasporto
marittimo e più in generale nell’ambito del cosiddetto “cluster portuale”.
Abbiamo documentato spesso come Associazione The WEAPON Watch la molteplicità di
interessi economici e di lavoratori che concorrono al viaggio internazionale
delle merci militari e al loro transito nei porti. Per fare un esempio, il porto
di Genova movimenta annualmente circa 30-35mila teu (unità di misura dei
container) nei confronti dei porti israeliani di Ashdod e Haifa. A trasportarli
sono principalmente le navi della compagnia di navigazione Borchard Lines,
rappresentata dall’agenzia Cosulich, ZIM e MSC. Esse fanno un centinaio di scali
all’anno a Genova, operate dal terminal Spinelli-Hapag Lloyd e dal terminal MSC.
I lavoratori dei tre terminal, insieme ai soci della CULMV, movimentano
nell’anno circa 600mila teu in totale, per cui il traffico con Israele
corrisponde al 5% del loro operato e all’1,5 dell’operato in teu dell’intero
porto. Insomma, una frazione marginale ma comunque significativa della domanda
di occupazione dello scalo genovese. Perché poi ci sono a contribuire alle
operazioni della nave e delle merci gli ormeggiatori, i rimorchiatori, gli
spedizionieri e gli impiegati pubblici dell’autorità portuale, delle dogane, e
tante altre categorie minori, pubbliche e private, con i rispettivi lavoratori.
È evidente che occorre che anche da parte di costoro debba nascere una
solidarietà sindacale e un attivismo sociale per affiancare i portuali e dare
maggiore estensione e equilibrio di forze all’impegno sindacale, e possibilità
di durata e di successo al movimento. L’obiettivo di un porto sostenibile da un
punto di vista etico potrebbe essere l’obiettivo comune su cui costruire
l’alleanza definendo i criteri di accessibilità e di trasparenza del transito
delle merci militari nel porto, liberando perciò i lavoratori dalla necessità di
dovere essere loro stessi a salvaguardare la loro coscienza, oltre alla loro
salute e incolumità nel caso di materiali bellici esplosivi come spesso accade.
5. E di Flotilla che dici?
Che sono preoccupatissimo, che tuttavia a mio modesto avviso occorre andare fino
in fondo. L’arcivescovo di Genova Tasca ha dichiarato pochi giorni fa,
distinguendosi dal Presidente Mattarella e dal suo stesso cardinale Zuppi
favorevoli alla mediazione: «Andiamo avanti. Perché è importante dare un segno.
In un momento così grave, in cui vediamo che stanno compiendo il male del mondo
su gente inerme, su donne e bambini, la simbologia è importante. E noi dobbiamo
dare dei segnali. La missione della Flotilla ha proprio il merito di aver reso
evidente la follia di quello che sta accadendo a Gaza». In questa missione c’è
tanto di Genova e dei suoi portuali di questi anni. Vento in poppa, compagni.