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LA GUERRA È TRA NOI: ORA SI VEDE
L’osservatorio the Weapon Watch ha raccolto, in questi ultimi giorni, una serie di notizie e informazioni che testimoniano l’ingresso di forza nella vita quotidiana degli italiani della guerra, dei suoi strumenti e delle sue priorità. 1° EPISODIO A Genova Pontedecimo, durante la giornata del 19 novembre 2025, quattro autoarticolati che trasportavano ciascuno un cannone FH-70 155/39 sono rimasti imbottigliati nel traffico della Val Polcevera, reso caotico dal presidio a oltranza dei lavoratori dell’ex Ilva. I camion provenivano dal porto di Genova, scortati dai carabinieri. Uno degli autoarticolati bloccati in via Natale Gallino a Pontedecimo, la sera del 19 novembre 2025. Ben visibile l’insegna “Noltrans” su un secondo autoarticolato a Pontedecimo, in coincidenza con il presidio dei lavoratori dell’ex Ilva. Altri autoarticolati sono stati visti nella stessa giornata e in quella successiva lungo l’autostrada A10 Genova-Ventimiglia, sempre trasportando cannoni FH-70, forse diretti ai porti di Savona o di Vado Ligure. L’autoarticolato fotografato sull’autostrada A10 fa parte della flotta della ditta Franzoni Sergio Autotrasporti di Bedizzole (BS). Sul pianale, ben visibile, un cannone FH-70. È probabile che il movimento di questi pezzi d’artiglieria avvistati lungo le strade liguri sia legato al programma di aggiornamento di mezzavita per conto dell’Esercito dei cannoni FH-70 155/39. L’upgrade riguarda 90 pezzi sui 164 acquistati dall’Esercito, con un contratto che ha come capocommessa Leonardo e principale esecutrice la ARIS Applicazioni Rielaborazioni Impianti Speciali Srl con sede a Lombardore, provincia di Torino. Di qui l’afflusso dei pezzi via mare verso lo stabilimento di ARIS, azienda che già da qualche anno ha sviluppato per l’FH-70 – che può effettuare brevi spostamenti in autonomia – una nuova APU (Auxiliary Power Unit) diesel, in sostituzione del vecchio motore a benzina VW ‘Maggiolino’. Il cannone/obice FH-70 155/39 è un’arma pesante (tra 8 e 10 tonnellate) semovente o a traino meccanico, progettata negli anni Settanta in collaborazione anglo-italo-tedesca e prodotto dalla ex Vickers (poi BAE Systems), da Rheinmetall e da OTO-Melara (poi Leonardo), oltre che in licenza dalla Japan Steel Works. Può sparare proiettili calibro 155 di tutti i tipi, fumogeni, illuminanti, incendiari, di tipo HERA (high-explosive rocket-assisted) e Vulcano (con gittata fino a 55 km). È in servizio in una dozzina di eserciti, e ha una consolidata esperienza sui campi di battaglia, dalla guerra civile in Libano all’attuale in Ucraina, dove dall’Italia sono stati inviati almeno dieci pezzi con i primi pacchetti di aiuti, nella primavera 2022. L’aggiornamento in corso riguarda anche la sostituzione dei congegni di puntamento ottici, contenenti trizio, con il sistema digitale LINAPS (Laser Inertial Navigation Artillery Pointing System) di Leonardo UK. ARIS Applicazioni Rielaborazioni Impianti Speciali Srl è azienda fondata nel 1946, da sempre impegnata nella manutenzione, riparazione e aggiornamento dei mezzi militari, prima a S. Maurizio Canavese, poi dal 1969 a Lombardore, dove dispone di stabilimento con 30.000 m² di aree coperte, tra zone produttive, magazzini, uffici e aree di prova, oltre a un circuito esterno per la sperimentazione ricavato dall’ex storico poligono militare di Ciriè, oggi Riserva Naturale della Vauda. Sebbene abbia registrato bilanci in decremento negli ultimi anni (24 M € nel 2022, 19 nel 2023, 14 nel 2024), ha mantenuto stabile la forza lavoro (60-65 dipendenti). ARIS è controllata dalla famiglia Bellezza Quater attraverso alcune società semplici, mentre Silvia e Paolo Bellezza Quater sono direttamente coinvolti nello spin-off Nimbus Srl, società entrata nel settore dei droni già nel 2006 soprattutto con applicazioni industriali e risultati rimasti sinora modesti. Una colonna di autoarticolati trasporta obici e carri armati per conto dell’Esercito italiano. Dalla Fotogallery online della ditta Franzoni Sergio Autotrasporti. Un obice PzH 2000 su un autoarticolato della ditta Franzoni Sergio Autrasporti. Dalla Fotogallery online della stessa Franzoni Sergio Autotrasporti Srl. Almeno due aziende di autotrasporto si sono notate sinora nella movimentazione in corso dei cannoni FH-70 per conto dell’Esercito italiano. Noltrans Srl è una piccola azienda con sede a Battipaglia (SA) con una quindicina di dipendenti fissi, il cui fatturato si è gonfiato a partire dal 2022 quando è riuscita a inserirsi come “azienda ausiliaria” del colosso logistico danese DSV che fornisce in esclusiva le spedizioni merci via gomma per il Ministero della difesa. Più strutturata è la Franzoni Sergio Autotrasporti Srl di Bedizzole (BS), 32 dipendenti fissi e un fatturato superiore agli 11 milioni di euro (2024), con una flotta mono-brand Mercedes integralmente idonea al trasporto ADR (cioè di merci pericolose via strada). La famiglia Franzoni opera nel settore dal 1946 e si è specializzata nei trasporti militari dagli anni Settanta. La società si è fatta notare recentemente (gennaio 2025) per essersi aggiudicata un appalto del Ministero della difesa per un importo complessivo di 2 milioni di € per 24 mesi (oltre a 500.000 € per ulteriori 6 mesi di proroga) per servizi di trasporto/spedizione in ambito nazionale e internazionale di esplosivi e munizioni classe 1 e materiali soggetti a normativa ADR.
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Elezioni regionali in Campania. La crisi sociale ignorata dai grandi partiti
(disegno di diego miedo) Ho ascoltato il dibattito televisivo di martedì 18 novembre tra i due candidati delle principali coalizioni nelle ormai imminenti elezioni regionali della Campania e vorrei soffermarmi su un passaggio cruciale del confronto Fico-Cirielli. Alla domanda della conduttrice sull’emergenza sociale in Campania, i candidati non hanno di fatto dato risposta. Le loro attenzioni si sono focalizzate su singoli settori, oggi e da molto tempo in stato di sofferenza nella regione (trasporti, sanità, lavoro), ma né Fico né Cirielli hanno accennato a una visione d’insieme. È utile anzitutto riepilogare i termini della questione sociale oggi in Campania, offrendo alcuni dati essenziali per cogliere l’entità del fenomeno. Secondo dati diffusi da Openpolis nel 2023, quasi la metà della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale. Si tratta di un dato allarmante, il peggiore tra quelli regionali nel nostro paese, insieme alla Sicilia. Se si guarda ai dati Eurostat del 2024 su povertà ed esclusione sociale, la Campania si conferma, insieme alla Calabria, tra le aree più in difficoltà in Europa. La regione è stata poi eccezionalmente colpita dalla bolla turistica degli ultimi anni, con effetti diretti sul costo delle abitazioni. Secondo recenti rilevazioni dell’Ance, l’associazione nazionale dei costruttori edili, la città di Napoli è tra quelle in Italia con prezzi immobiliari (per l’acquisto e per l’affitto) meno accessibili in rapporto al reddito disponibile delle famiglie. Supera perfino Milano, nota per il boom immobiliare di tipo speculativo al centro delle cronache nazionali negli ultimi mesi. La crisi abitativa è particolarmente allarmante a Napoli, dove secondo dati del Comune il 44,09% della popolazione residente è in affitto, un dato due volte maggiore della media nazionale in Italia, che è del 19,99%. Inoltre la Campania negli anni scorsi, a cominciare dalla prima metà degli anni 2010, è stata sottoposta a forti tagli imposti dalle politiche di austerità intraprese dai governi nazionali e implementate a livello territoriale dalle giunte regionali, in particolare negli anni della presidenza Caldoro e del primo mandato di De Luca, ma proseguite fino a oggi. Le politiche di austerità a livello regionale sono state accompagnate dai tagli strutturali ai finanziamenti comunali e da draconiani piani di rientro del debito, come il cosiddetto Patto per Napoli. I flussi di finanziamento per gli enti locali del meridione saranno nel prossimo futuro sempre più a rischio per il processo di autonomia differenziata che il governo in carica sta continuando a portare avanti, a dispetto delle (parziali) bocciature della Corte Costituzionale. Negli anni scorsi, le misure di cosiddetta austerità in Campania hanno riguardato i settori della sanità (chiusura di ospedali e presidi sanitari periferici), dei trasporti (tagli al trasporto pubblico locale, fino alla soppressione di linee fondamentali nei collegamenti extraurbani, in particolar modo nelle aree periferiche e interne del territorio regionale). Inoltre la Campania ha record negativi nella disponibilità di servizi primari come gli asili nido: secondo dati Istat del 2021 solo sette bambini su cento hanno accesso all’asilo nido, mentre in Toscana salgono a trentacinque. I costi delle politiche di austerità si sono trasferiti sui conti familiari, che devono attingere a risorse proprie già scarse per far fronte a servizi che in altre regioni sono forniti dalle amministrazioni pubbliche. La disattenzione alla crisi sociale da parte delle principali coalizioni che concorrono per la guida della Regione Campania è tanto più sorprendente se si guarda a ciò che accade in queste settimane nelle elezioni locali in altri paesi. Negli Stati Uniti, il tema del rincaro nel costo della vita è diventato centrale nelle elezioni delle grandi città: ha consentito a un candidato indipendente come Zohran Mamdani di prevalere su un candidato potente, espressione dell’establishment tradizionale, come Mario Cuomo, grazie a una campagna che ha acceso gli entusiasmi della nuova generazione di attivisti emersa in questi anni intorno alle lotte per la casa e per i diritti delle minoranze. Il consenso ottenuto da Mamdani e l’ondata di partecipazione civica che la sua candidatura ha generato nasce dalla determinazione con cui Mamdani ha messo il contrasto a quella che negli Stati Uniti si chiama “crisi di affordability” al centro della propria agenda politica. La crisi di affordability indica l’aumento del divario tra prezzi dei beni di consumo primario e retribuzioni delle famiglie: ciò rende sempre più difficile a porzioni crescenti non solo delle classi con redditi più bassi ma anche del ceto medio di accedere a beni e servizi primari, come le abitazioni, l’alimentazione, i trasporti, le cure sanitarie a pagamento. Non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa e con particolar vigore nelle regioni dell’Europa meridionale, come evidenziano i dati sopra citati, l’aumento incontrollato dei prezzi di beni e servizi primari generato dalla crisi energetica e dall’inflazione sostenuta degli anni scorsi ha assottigliato, fino ad azzerarlo, il  “reddito residuale” a disposizione delle famiglie, vale a dire la quota di reddito che le persone riescono a mettere da parte dopo aver compiuto le spese minime richieste per il proprio sostentamento (affitto, consumi energetici, alimentazione, mobilità, cure mediche). La lontananza, emotiva e propositiva, dimostrata dai candidati delle principali coalizioni partitiche in Campania dai bisogni concreti di sempre più larghe fasce della popolazione oggi esposte al rischio di esclusione sociale e povertà con ogni probabilità troverà riscontro in percentuali record di astensione dal voto. Non ci sarà da sorprendersi se la percentuale di votanti sarà notevolmente più bassa del già esiguo 55% dell’elettorato che si recò alle urne nel 2020. La disaffezione dalla politica istituzionale è inevitabile se i grandi partiti si dimostrano indifferenti ai bisogni concreti della popolazione. Eppure, le amministrazioni regionali, che oggi hanno ampi poteri in settori cruciali della riproduzione sociale, come le politiche abitative, per i trasporti e per la sanità pubblica, potrebbero fare molto almeno per alleviare la sofferenza sociale nei nostri territori. (ugo rossi)
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Denunce per i fatti del 28 aprile a Lecco
Riceviamo e diffondiamo questi testi sulle denunce arrivate per i fatti dello scorso 28 aprile a Lecco.  Qui il pdf: comunicato denunce.docx In merito ai fatti dello scorso 28 aprile a Lecco In questo fine ottobre a Lecco sono giunti gli atti di conclusione delle indagini preliminari nei confronti di 17 persone a seguito dei fatti del 28 aprile 2025, giorno in cui si è deciso collettivamente e individualmente di opporsi alla calata dei fascisti in città. I reati contestati sono: manifestazione non autorizzata, radunata sediziosa, interruzione di pubblico servizio, travisamento, oltraggio a pubblico ufficiale e resistenza. Tra le persone inquisite in molti partecipano all’assemblea permanente contro le guerre, per questo ribadiamo ulteriormente ciò che abbiamo scritto e diffuso come assemblea a seguito di quella giornata di lotta. (allegato qua sotto). Leggere le prime carte relative all’inchiesta è qualcosa di formativo: leggere di “progetto criminoso”, “aggressione alle forze dell’ordine”, “irruzione nel municipio”, relativamente a quella giornata non può che far sorridere. Quel giorno centinaia di persone hanno cercato di impedire un raduno fascista, e quelli che ora fanno le vittime sono invece quelli che ne hanno garantito la presenza. Quel giorno è la celere che ha aggredito, è il municipio che si è meritato una contestazione, è la polizia che ha consentito quel raduno! Per il resto sono carte da tribunale, e la carta è solo carta… Non saranno certo denunce e intimidazioni poliziesche a fermare le lotte, semplicemente non ne possono avere la forza necessaria, tanto più in questo periodo storico in cui, davanti a genocidi, massacri e guerre sempre più feroci, scegliere da che parte stare è qualcosa di improrogabile e fondamentale. Di fronte ad un attacco repressivo non possiamo che ribadire la nostra presenza nelle strade quel giorno, e porteremo il nostro punto di vista riguardo a quella giornata anche nel tribunale di Lecco. Un coro cantato quel giorno ci illustra la strada da seguire: l’antifascismo è nostro e non lo deleghiamo! Per questo saremo sempre in strada quando verrà dato spazio ai fascisti. Per questo continueremo a lottare contro ogni guerra dei padroni, contro ogni guerra imperialista, contro ogni collaborazione militare e politica nel genocidio in Palestina. 01/11/2025 Assemblea permanente contro le guerre (Lecco) Contro il fascismo di ieri e di oggi A Lecco il 28 aprile un manipolo di fascisti ha indetto un presidio per ricordare gli infami repubblichini fucilati nel 1945 allo stadio cittadino. Vogliamo innanzitutto ricostruire i fatti avvenuti in quei giorni di 80 anni fa, per far comprendere a chi vuole rimuovere quelle vicende, le motivazioni della contestazione. Erano i giorni della Liberazione. Gli eserciti occupanti si stavano disgregando, affrontati da un numero sempre maggiore di partigiani. I nazifascisti in rastrellamento vengono impegnati dalla brigata Garibaldi e tra il 25 e il 26 aprile 1945 cadono nelle mani dei partigiani. Vi è ancora qualche resistenza, alcuni cecchini sparano dai tetti delle case. A Lecco le brigate fasciste Leonessa e Perugia, provenienti da Brescia, che si erano avviate sulla strada per Como, tornano sui propri passi e occupano un’abitazione in via Como all’angolo con via Previati, decidendo di affrontare la formazione SAP Poletti di Lecco e la Brigata Rosselli che, guidata da Piero Losi, è nel frattempo entrata in città. Il 26-27 aprile si scatena la battaglia di Pescarenico e i fascisti assediati si difendono senza incertezze finché ad un tratto da una finestra viene sventolata una bandiera bianca. Quando quattro partigiani escono allo scoperto per parlamentare, nella convinzione che quelli stiano per arrendersi, vengono falciati al suolo dalle mitraglie dei repubblichini. A terra si raccolgono i corpi dei compagni Giovanni Giudici detto Farfallino, Antonio Polvara, Silvano Rigamonti, Ettore Riva, due dei quali rimasti uccisi, gli altri feriti. Così la battaglia riprende con una vasta concentrazione di partigiani fino a quando, la sera del 28, è annunciata la cattura dei giovani fascisti, arresisi anche perché ormai privi di munizioni. I fascisti vengono arrestati, condotti alle scuole in via Ghislanzoni e processati: sedici fra essi, considerati responsabili del vile attacco, vengono condannati a morte e fucilati nello stadio Rigamonti Ceppi. In nome di quei partigiani uccisi si è deciso di contestare la manifestazione fascista, con la volontà di impedire il raduno. Alle 19 era prevista una chiamata pubblica indetta da alcune individualità a poche centinaia di metri dallo stadio. Nel frattempo anche l’ANPI cittadina ha indetto un presidio per le ore 18.30 a pochi metri dal precedente: il presidente locale dell’ANPI è intervenuto affermando che bisognava stare fermi in quel luogo e non accettare le (sic) “provocazioni” di chi voleva muoversi per andare a contestare i fascisti. Alle ore 19.00 il comizio è stato interrotto invitando tutti a muoversi in direzione dello stadio. Almeno la metà dei presenti ha deciso di partire in corteo, fregandosene delle manfrine dei politicanti. Subito la celere si è frapposta per evitare che le oltre 300 persone potessero raggiungere lo stadio. Con la polizia in assetto antisommossa schierata, si è deciso di raggiungere altri punti della città vicini allo stadio. Un rumoroso corteo “spontaneo”, espressione di diverse idee, percorsi politici e sensibilità, ma anche di semplici cittadini ha attraversato le strade di Lecco cercando di arrivare al raduno fascista, intasando il traffico cittadino, volantinando, urlando cori, facendo veloci cambi di percorso quando la celere chiudeva una strada per percorrerne un’altra. Un corteo senza alcuna regia preconfezionata, ma felicemente autogestito con rapide decisioni e repentine scelte conseguenziali. Ci si è provato in molti modi, senza purtroppo riuscirci ad impedire fisicamente la commemorazione di quei fascisti che avevano trucidato vigliaccamente i partigiani! Sarà per la prossima! Resta il fatto che i fascisti sono rimasti accerchiati, con blindati che giravano per la città posizionandosi di volta in volta in un punto diverso per difenderli. Certo, la celere si sarà sicuramente divertita nel tirare manganellate alla cieca appena gli antifascisti arrivavano a contatto diretto con loro; per le autorità ormai è normale lasciare qualche livido a chi osa lottare contro le ingiustizie imposte dal potere. Il corteo ha deciso di finire il suo percorso in stazione, dove è situato anche il Comune di Lecco. Il portone spalancato del Municipio ha accolto i manifestanti che, a quel punto, hanno pensato di far sentire la propria voce, contro la celebrazione fascista, urlando cori dal cortile interno del Palazzo, mentre era in corso un consiglio comunale. Da qui è partito l’intervento violento della celere, volto a chiudere l’accesso al municipio. Alcuni compagni e compagne hanno retto la prima carica, permettendo così l’uscita dal Comune a chi era entrato nel cortile. In seguito, dopo altre manganellate a casaccio a cui qualcuno dei presenti ha giustamente reagito, il corteo si è concluso proprio nella piazza da cui era partito. Questo è il racconto reale degli avvenimenti del 28 aprile, ogni altra ricostruzione è falsata da media e politicanti locali non presenti alla manifestazione, o in malafede. Questa serata ha dimostrato, ancora una volta, che lottare è possibile, basta mettersi in gioco. Di sicuro assistiamo ad un aumento della violenza della polizia, ma ciò deve portare tutti a scendere in piazza sempre più determinati, decidendo anche di darsi maggiori strumenti di autodifesa. Della serata del 28 è evidente il fatto che nessuno si è tirato indietro, tutti hanno risposto alle cariche compattandosi senza scappare: si è rimasti uniti nella voglia di combattere il fascismo e i suoi “nipotini”. Nella situazione di guerra (questione innanzitutto interna prima che estera) in cui viviamo, la militarizzazione della società non farà altro che aumentare: sta ai sinceri ribelli e rivoluzionari trovare gli strumenti adatti a combatterla. Dunque davanti al genocidio automatizzato dei palestinesi, alle guerre tra Stati che usano la popolazione come carne da cannone, ad un mar Mediterraneo diventato un cimitero e all’autoritarismo sempre più becero che stiamo vivendo, continuare la lotta, antifascista, antimilitarista e antisionista, ci sembra l’unica via percorribile per restare umani. E per quanto riguarda i fascisti lecchesi, un solo pensiero: “¡No pasarán!” Contro ogni autoritarismo, morte al fascio di ieri e di oggi! 3 0 aprile 2025 Assemblea permanente contro le guerre di Lecco
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APPELLO AI SINDACI E AI CONSIGLI COMUNALI DELLE CITTA’ SEDE DI PORTI COMMERCIALI
Alla luce delle manifestazioni di protesta contro l’invio di armi a Israele si ritiene matura la proposta di creare nelle città sede di porti commerciali degli osservatori indipendenti sulla movimentazione degli armamenti nei porti, perché essa suscita preoccupazione politica, turbamento morale e insicurezza materiale nei lavoratori e nei cittadini. La movimentazione degli armamenti, disciplinata dalla legge 185/1990, è soggetta all’autorizzazione e al controllo dello Stato, ma le istituzioni che esercitano questi poteri latitano in trasparenza opponendo cortine burocratiche alle istanze di accesso ai dati che dovrebbero essere pubblici. Pertanto, che si sia di fronte a una qualche palese violazione della legge così come a una qualche insufficiente informazione sulla natura delle merci in transito nel porto, i lavoratori e i cittadini chiedono di non essere costretti a iniziative di astensione sindacale dal lavoro o di manifestazione pubblica per opporsi all’illegalità di certe movimentazioni e per dovere sostenere da sé i diritti di informazione, tutela, sicurezza, obiezione di coscienza. Nel caso particolare del trasporto di esplosivi e munizioni, i lavoratori del porto e i cittadini che abitano in prossimità degli scali chiedono trasparenza che la movimentazione avvenga in assoluta e verificata conformità agli speciali regolamenti in materia.Oltre alle barriere burocratiche che ostacolano la trasparenza e oltre alla complessità intrinseca del sistema commerciale, sono state verificate pratiche elusive o ingannevoli da parte di vettori, spedizionieri e imprese portuali, circa la natura militare delle merci movimentate nei porti. Di fronte a questi comportamenti, i lavoratori chiedono di potere conoscere tempestivamente e ufficialmente l’eventuale natura militare della merce, la sua origine e destinazione geografica, per avere certezza che non si infranga la legge e che se ne interpreti autenticamente il valore costituzionale («I portuali non lavorano per la guerra»). A queste esigenze di puntuale informazione sindacale e pubblica, si accompagna l’istanza di conoscere, attraverso dati statistici, l’incidenza della movimentazione di queste merci nell’economia e nell’occupazione del porto e della città. Non è una domanda fine a sé, perché la stessa legge 185/1990 prescrive che il Governo predisponga misure idonee ad assecondare la graduale differenziazione produttiva e la conversione a fini civili delle industrie nel settore della difesa (art.1 comma 3). Tale previsione, disattesa sinora da tutti i governi avvicendatisi, nel caso specifico dei porti è priva di qualsiasi fonte statistica utile a affrontare la questione. Le conseguenze di questa lacuna si riverberano nell’assenza nei bilanci sociali dei porti nazionali di una rendicontazione dedicata alla sostenibilità etica, intesa come policy e atti regolatori con l’obiettivo di promuovere e attuare l’attività portuale a esclusivo servizio di commerci di pace e di sviluppo del benessere e della libertà dei popoli. La necessità del confronto tra autorità, lavoratori e cittadini pone la questione di disporre di un Osservatorio permanente, ossia di un “luogo” e di un “tempo” in cui tale confronto possa avvenire con la necessaria franchezza e trasparenza sulla base di dati e informazioni certe e qualificate. Viste anche le recenti prese di posizione e deliberazioni di Sindaci e Consigli comunali sui traffici d’armi nei rispettivi porti, la sede ospitante dell’Osservatorio dovrebbe essere a nostro avviso nei Comuni sede di porti, per la loro autorità elettiva sulla città da cui il porto dipende e a cui il porto restituisce lavoro, ricchezza, identità e reputazione con i relativi costi sociali e ambientali. Il confronto può avvenire solo nella trasparenza dei processi decisionali e delle informazioni che ne sono il presupposto. Informazioni che non sono in alcun modo segrete, e semmai sottoposte all’obbligo della riservatezza statistica. Di alcune informazioni, invece, è la stessa Legge 185 che impone la pubblicità: il soggetto autorizzato, la natura e il valore degli armamenti, il destinatario finale, i valori doganali dichiarati, l’appartenenza o meno a un progetto di produzione internazionale, ecc. L’osservatorio dovrà dotarsi della capacità di un triplice ordine di obiettivi:1. un report periodico che dia conto dei traffici di armamenti (origine/destinazione/merce) e della loro incidenza quantitativa e qualitativa sul bilancio complessivo del porto;2. un servizio informativo, “a sportello”, tempestivo e verificato con tutti gli attori coinvolti, su domanda dei lavoratori e delle loro organizzazioni di rappresentanza, oltre che dei cittadini, su arrivi e partenze di navi con carichi di armamenti eventualmente sospetti;3. promuovere la qualificazione del porto sotto il profilo della “sostenibilità etica”, improntata a capitali e organizzazioni di impresa non compromessi in attività militari aggressive e in violazione dei diritti umani, e a produzioni e commerci di pace. Le fonti locali operanti dell’Osservatorio dovranno essere gli attori istituzionali, sociali e civili che agiscono attivamente o passivamente nella circostanza del traffico di materiali di armamento nel porto: Prefettura, Capitaneria di porto-Guardia costiera, Autorità di Sistema Portuale, Agenzia delle Dogane, Vettori e spedizionieri, Agenti marittimi, Imprese portuali, Organizzazioni sindacali dei lavoratori, Municipi di circoscrizioni urbane prospicienti il porto, Comitati civici e Associazioni pertinenti.
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Sugli scioperi dei portuali a sostegno alla Sumud Flotilla
Una terza intervista di Effimera sulla situazione genovese e sugli scioperi dei portuali a sostegno alla Sumud Flotilla. Parla Riccardo Degl’Innocenti, genovese, esperto di porti, attivista di The Weapon Watch, Osservatorio sulle armi nei porti europei (www.weaponwatch.net), da sempre al fianco del CALP di Genova.  L’intervista è a cura di Lidia Demontis e Roberto Faure. 1. La vostra mobilitazione è stata un successo, anche mediatico. Come pensate di allargare la protesta? Esiste un collegamento con gli altri porti italiani? Le cronache mediatiche, il tam tam sui social, la presenza nei cortei, le testimonianze all’Assemblea pubblica di Genova del 26 e 27 settembre scorsi, hanno mostrato che esiste nei principali porti italiani una rete di collettivi autonomi e di rappresentanze, sia del sindacalismo di base che di quello “istituzionale”, attiva con lo scopo precipuo di impedire il transito internazionale illegale ai sensi della legge 185/1990 di carichi di armi. Le parole d’ordine, più che ideologiche contro il carattere imperialistico delle guerre, diretto o indiretto, e l’organicità del sistema economico capitalistico con gli apparati militare-industriali, ricalcano la disobbedienza civile, l’obiezione di coscienza, la conservazione di sentimenti umani, l’irriducibilità a essere produttori di strumenti di morte e complici di crimini contro l’umanità. Sono improntate a modelli di tradizione non violenta e di resistenza passiva, ma rilanciano forme di “azione diretta” collettiva proprie dell’operaismo, senza forme esplicite di violenza, semmai figurate in modi che trasmettano la determinazione dei manifestanti a sostenere fino alla fine, “senza paura”, gli obiettivi della lotta intesa e vissuta come causa giusta e sacrosanta. Una convinzione sincera, che si trasmette empaticamente e appare tradursi favorevolmente in consenso e allargamento della partecipazione.    2. Per sanzionare Israele è possibile ipotizzare un più ampio blocco o almeno parziale boicottaggio delle merci provenienti da o dirette verso Israele? Magari coinvolgendo il trasporto aereo? Si è lungi dal boicottare l’economia e la forza bellica di Israele solo con l’azione dal basso dei portuali, ma c’è la consapevolezza che i porti sono gli snodi principali dei suoi commerci. Ciò permette anche a singole iniziative locali di incidere sulle catene di rifornimento di Israele, in maniera significativa, perché i portuali – diversamente dal militante pacifista che manifesta simbolicamente fuori dei cancelli della fabbrica o del porto – intervengono concretamente a bloccare o quantomeno a rallentare i flussi di merce, nuocendo altresì alla efficienza di maglie più estese della rete logistica coinvolta (provocando ritardi alle navi e alle altre merci trasportate o l’indisponibilità delle banchine ecc). Anche se il porto coincide con un solo tratto delle Supply Chain globali, esso resta il nodo più critico per i volumi che vi transitano (incomparabili per maggiore grandezza rispetto agli aeroporti), per la “rottura di carico” ossia il passaggio fisico dei container dal vettore terrestre a quello marino, con il relativo e cruciale avvicendamento tra le relative figure professionali e “politiche” che operano nelle rispettive movimentazioni. Il mondo della logistica in generale è particolarmente sensibile alle variazioni di programmazione dei flussi e quindi incline a evitare ogni imprevisto, e ciò talora finisce, se non per agevolare la contestazione dei portuali, almeno per contenerne i danni organizzativi e economici. Ovviamente, l’iniziativa dei portuali può essere spontanea e improvvisata solo all’inizio, poi necessita di una sufficiente forza collettiva e consenso sociale, e soprattutto di una “copertura” sindacale per potersi muovere, anche se solo sulla linea di confine degli strumenti di lotta consentiti dalle leggi e dai contratti di lavoro. Non dimentichiamo i decreti Salvini e la natura giuridica di porti, aeroporti e stazioni oggetto, di speciali norme a protezione della loro sicurezza, economica e sociale in realtà, più che strategica “di Stato”. Lo sciopero generale del 22 settembre 2025, a Genova. 3. Si coglie nell’aria una convinta richiesta popolare di lotta unitaria per far cessare il fuoco (e la strage) a Gaza, superando le differenze e puntando a rompere il fronte di chi vuole la guerra. Che cosa pensate si possa fare? La richiesta autentica e estesamente popolare ha rimescolato le carte anche tra i partiti e i sindacati. Il fatto che a Genova l’azione sia partita da un collettivo operaio autonomo (CALP) e successivamente dal collegato sindacato di base (USB) ha un po’ spiazzato le OO.SS. “istituzionali”, a cominciare dalla CGIL. Più nei tempi, perché nel merito i contenuti delle rispettive iniziative e parole d’ordine in questa circostanza e forse per la prima volta convergono e paiono sostanzialmente coincidere.  La primazia va al CALP se non altro perché il movimento contro le armi nei porti ha avuto la riedizione contemporanea (dopo le esperienze degli anni 70 riferite soprattutto a Vietnam e Cile) grazie alle azioni del CALP dal 2019 contro le navi “della morte”, le saudite Bahri dirette verso i teatri di guerra del Medio-Oriente e in specie dello Yemen. Già allora ci fu una partecipazione “popolare” larga, di componenti molto diverse dell’attivismo politico e civile, dalla estrema sinistra al mondo cattolico. Anche allora la CGIL arrivò un po’ dopo, ma fu comunque decisiva per il successo grazie alla sua forza di rappresentanza. Così come lo fu la “benedizione” di Papa Francesco che riconobbe pubblicamente nei lavoratori portuali il tratto della parresìa, nel praticare la lotta in prima persona e nella fermezza dei valori con cui la sostenevano mettendo a rischio la propria libertà, e ne fece il confronto con l’ “ipocrisia armamentista” delle istituzioni politiche e del mondo economico, pacifisti solo a parole. Il precipitare della crisi di Gaza con il genocidio in corso ha riacceso la brace che covava e di tanto in tanto aveva fiammeggiato in questi anni con le iniziative del CALP. Questi, nel frattempo, è confluito sindacalmente in USB abbandonando la CGIL, a causa tra l’altro della tiepida posizione di quest’ultima sui decreti Salvini. La decisione con l’associazione genovese Music for Peace di contribuire e partecipare con un proprio leader, Jose Nivoi, alla spedizione della Flotilla, è sì apparsa meramente umanitaria, ma anche di altissimo valore politico per il coraggio e la chiarezza del messaggio trasmesso. Essa ha acceso un incendio indistinguibile di emozioni e di coscienze che è andato oltre le etichette, per lo più ignote alla maggioranza dei 40mila manifestanti del grande corteo che ha salutato la partenza della Flotilla.  Salvo l’etichetta del CALP, i cui membri, grazie ai loro comportamenti di lotta a viso aperto in porto, hanno reincarnato il mito che si era un po’ spento dei camalli duri, franchi e liberi. Grazie anche al loro costante presidio e azione antifascista militante, nella città medaglia d’oro della resistenza come i loro nonni e del 30 giugno 1960 come i loro padri. E grazie, in queste ultime settimane, alla antiretorica asciutta e decisa di uno dei loro leader, Riccardo Rudino, colui che ha invitato i portuali di tutta Europa a “bloccare tutto” se la Flotilla sarà colpita. Con la avvedutezza, però, di una puntuale declinazione: distinguere come e dove colpire gli interessi militari e economici israeliani, oggi parimenti criminali, perché invece i commerci pacifici sono la vita dei porti e il pane dei suoi lavoratori. 4. In particolare con quali soggetti politici e con quali comunità possiamo sperare di costruire una rete capace di far sentire a Israele la nostra indignazione? I portuali per continuare a reggere il peso e i rischi del loro impegno hanno bisogno non solo della vitale partecipazione popolare, ma anche dell’alleanza con i lavoratori delle altre categorie che operano nella filiera del trasporto marittimo e più in generale nell’ambito del cosiddetto “cluster portuale”. Abbiamo documentato spesso come Associazione The WEAPON Watch la molteplicità di interessi economici e di lavoratori che concorrono al viaggio internazionale delle merci militari e al loro transito nei porti. Per fare un esempio, il porto di Genova movimenta annualmente circa 30-35mila teu (unità di misura dei container) nei confronti dei porti israeliani di Ashdod e Haifa. A trasportarli sono principalmente le navi della compagnia di navigazione Borchard Lines, rappresentata dall’agenzia Cosulich, ZIM e MSC. Esse fanno un centinaio di scali all’anno a Genova, operate dal terminal Spinelli-Hapag Lloyd e dal terminal MSC. I lavoratori dei tre terminal, insieme ai soci della CULMV, movimentano nell’anno circa 600mila teu in totale, per cui il traffico con Israele corrisponde al 5% del loro operato e all’1,5 dell’operato in teu dell’intero porto. Insomma, una frazione marginale ma comunque significativa della domanda di occupazione dello scalo genovese. Perché poi ci sono a contribuire alle operazioni della nave e delle merci gli ormeggiatori, i rimorchiatori, gli spedizionieri e gli impiegati pubblici dell’autorità portuale, delle dogane, e tante altre categorie minori, pubbliche e private, con i rispettivi lavoratori. È evidente che occorre che anche da parte di costoro debba nascere una solidarietà sindacale e un attivismo sociale per affiancare i portuali e dare maggiore estensione e equilibrio di forze all’impegno sindacale, e possibilità di durata e di successo al movimento. L’obiettivo di un porto sostenibile da un punto di vista etico potrebbe essere l’obiettivo comune su cui costruire l’alleanza definendo i criteri di accessibilità e di trasparenza del transito delle merci militari nel porto, liberando perciò i lavoratori dalla necessità di dovere essere loro stessi a salvaguardare la loro coscienza, oltre alla loro salute e incolumità nel caso di materiali bellici esplosivi come spesso accade. 5. E di Flotilla che dici? Che sono preoccupatissimo, che tuttavia a mio modesto avviso occorre andare fino in fondo. L’arcivescovo di Genova Tasca ha dichiarato pochi giorni fa, distinguendosi dal Presidente Mattarella e dal suo stesso cardinale Zuppi favorevoli alla mediazione: «Andiamo avanti. Perché è importante dare un segno. In un momento così grave, in cui vediamo che stanno compiendo il male del mondo su gente inerme, su donne e bambini, la simbologia è importante. E noi dobbiamo dare dei segnali. La missione della Flotilla ha proprio il merito di aver reso evidente la follia di quello che sta accadendo a Gaza». In questa missione c’è tanto di Genova e dei suoi portuali di questi anni. Vento in poppa, compagni.
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Le navi di JP Morgan che portano i Caterpillar a Israele
QUANDO BOICOTTAGGIO E DISINVESTIMENTO LASCIANO IL SEGNO La decisione del fondo sovrano norvegese NBIM di disinvestire da Caterpillar Inc. e da cinque banche israeliane ha una portata storica. Il Fondo governativo della Norvegia è il più grande fondo d’investimento al mondo, gestisce circa 2.000 miliardi di dollari. Il suo comitato etico ha valutato come «rischio inaccettabile che [Caterpillar e le banche israeliane, NdR] contribuiscano a gravi violazioni dei diritti degli individui in situazioni di guerra e conflitto». La decisione, che accomuna Caterpillar e le banche israeliane che finanziano gli insediamenti illegali in Cisgiordania, indica per la prima volta la corresponsabilità di un’azienda simbolo dell’industria americana con i crimini che si stanno commettendo in Palestina. Caterpillar Inc. è una mega azienda globale, oggi al 65° posto della classifica di Fortune 500, con 113.000 dipendenti e 64,8 miliardi di dollari di fatturato. È una public company inserita nel prestigioso Indice Dow Jones alla Borsa di New York, i cui principali azionisti sono grandi fondi d’investimento come Vanguard, State Streets e BlackRock, ma anche Melinda & Bill Gates ecc. L’impiego militare dei grandi bulldozers americani iniziò con la Prima guerra mondiale, per il traino dei pezzi d’artiglieria mediante trattori cingolati. Il modello pesante D9, introdotto da Caterpillar nel 1954, ha fatto le sue prove nella guerra del Vietnam ed è stato poi adottato dall’esercito israeliano nella guerra di Suez (1956). Dagli anni Ottanta le IDF utilizzano sulla linea del fronte i Caterpillar D9, modificati mediante un kit di blindatura e armamento progettato dal Centro di recupero e manutenzione dell’esercito e da IAI Israeli Aerospace Industries, installato sulle macchine con la collaborazione di ITE, la società importatrice in esclusiva di Caterpillar in Israele appartenente al gruppo Zoko. Come abbiamo scritto in un precedente articolo, una filiale americana di Leonardo (DRS Sustainment Systems) sta fornendo i triler a due assi che trasportano i carri armati e i bulldozer utilizzati a Gaza dai militari israeliani. Caterpillar non può ignorare l’utilizzazione che ne fa l’esercito israeliano per demolire illegalmente abitazioni e coltivazioni palestinesi, distruggere strade e infrastrutture urbane. Nel 1989, questi reati vennero pubblicamente denunciati da alcune ong, le stesse che nel 2001 spedirono oltre 50.000 lettere di protesta a Caterpillar. Nel 2004 l’Alto commissario ai Diritti umani dell’ONU inviò una lettera ufficiale alla società, anche in seguito alla vasta risonanza della morte della ventitreenne attivista americana Rachel Corrie, schiacciata da un bulldozer Caterpillar mentre tentava di impedire la demolizione di un’abitazione palestinese. Quel tragico episodio ebbe anche conseguenze legali, poiché dopo aver inutilmente intentato una causa in Israele contro l’esercito israeliano – subito archiviata per «grave responsabilità» della stessa vittima – la famiglia Corrie ne sollevò un’altra negli Stati Uniti contro il governo americano, accusato di aver favorito crimini di guerra e la violazione dei diritti umani, dal momento che i macchinari di Caterpillar erano e sono tuttora forniti a Israele mediante il programma Foreign Military Sales, sovvenzionato con i soldi dei contribuenti americani. Da decenni Caterpillar è inserita negli elenchi delle aziende che traggono profitti dall’occupazione illegale israeliana dei Territori palestinesi, stilati dalla Coalition of Women for Peace (vedi Who Profits?) e dall’American Friends Service Committee. Nel novembre 2024 la stessa amministrazione Biden in scadenza aveva deciso una temporanea sospensione della consegna di 134 Caterpillar D9 ordinati “con urgenza” da Israele nel 2023, compresi pezzi di ricambio, manutenzione e addestramento. Una misura che per quanto assai timida è stata immediatamente abolita dal presidente Trump appena insediatosi, nel gennaio 2025. I CAT D9 sono stati consegnati nel porto di Haifa in 9 luglio scorso, con un’operazione di logistica marittima curata dal Ministero della difesa israeliano e dalla rappresentanza israeliana per il procurement militare di stanza a Washington, che includeva anche la consegna di alcuni mezzi militari leggeri. Il Ministero stesso ha diffuso le immagini dello scaricamento a Haifa, e i media israeliani hanno ampiamente ripreso l’evento come prova della ristabilita alleanza di ferro con gli Stati Uniti sotto la presidenza Trump. A sx: operazioni di sbarco dei Caterpillar D9 dalla nave «SLNC Severn» nel porto di Haifa, il 9 luglio 2025. Sopra: la sistemazione dei bulldozer di Caterpillar nella stiva della portarinfuse «SLNC Severn» [fonte: Ministero della difesa di Israele, ripreso dal «Jerusalem Post» del 9.7.2025 L’intento propagandistico è stato però temperato da una serie di “oscuramenti”: le immagini riprendono i mezzi sbarcati ma i militari hanno offuscato il nome della nave e della compagnia marittima dipinto sulle fiancate, nonché le insegne commerciali sulle motrici degli autoarticolati che hanno preso in carico i Caterpillar sulla banchina portuale. L’osservatorio Weapon Watch è riuscito a ricostruire gran parte della catena logistica che ha rifornito a Israele i Caterpillar D9, macchinari dual use intensamente utilizzati dai militari per compiere una vasta e documentatissima serie di crimini di guerra. Per il trasporto dagli Stati Uniti, solitamente i grandi bulldozer D9 viaggiano in parte o del tutto disassemblati, in ogni caso privi degli accessori pesanti (pale, bracci oleopneumatici, cabine ecc.), e anche nel caso in esame la consegna è stata effettuata senza accessori, dalla nave al mezzo gommato mediante gru portuale. Invece la nave utilizzata per l’operazione era di tipologia inusuale, una portarinfuse con bandiera USA, nome «SLNC Severn», un tipo di nave solitamente impiegato per trasportare le cosiddette “rinfuse secche” (come minerali, carbone, cereali, cemento, ecc.). Nelle quattro stive coperte della «Severn» – al riparo da sguardi indiscreti – sono state ospitate dozzine di D9. Ciascuna macchina è stata caricata e scaricata mediante le grandi gru a portale. La «SLNC Severn» è una delle sette navi della compagnia Schuyler Line Navigation Company, con sede a Annapolis, Maryland, tutte battenti bandiera americana per poter operare sotto l’ombrello del Jones Act, la legge fondamentale per la supremazia marittima degli Stati Uniti. Da fine maggio la «Severn» è noleggiata per trasportare i D9, il 2 giugno viene fotografata mentre carica una ventina di bulldozer al terminal Holt Logistics di Gloucester City, New Jersey, che si trova nel grande comprensorio portuale di Filadelfia, Pennsylvania. A fine giugno ha intrapreso il viaggio senza scali intermedi per arrivare ad Ashdod il 7 luglio e il 9 a Haifa. La «SLNC Severn» al terminal Holt Logistics di Gloucester City, NJ; fotografata il 2 giugno 2025. Nell’ovale rosso, una ventina di Caterpillar D9 sulla banchina pronti all’imbarco. Fonte: Marine Traffic. È pressochè certo che la «Severn» sia tuttora al servizio della logistica militare USA a sostegno di Israele, con rotte pendolari tra costa orientale statunitense e Israele. Secondo «The Ditch», il 7 agosto la nave ha caricato nel porto di Paulsboro (sempre nell’area di Filadelfia, dove si trova un altro terminal di Holt) 374 tonnellate di bombe, del tipo da 2000 libbre, anch’esse bloccate in precedenza dall’amministrazione Biden. Da notare che la «Severn» ha recentemente fatto scalo a Souda Bay, Creta, una delle maggiori basi aeronavali americane nel Mediterraneo, dove in passato è stata vista movimentare merci con le gru di bordo. La compagnia di navigazione Schuyler è stata acquisita nell’agosto 2024 da JP Morgan Chase, una delle quattro più importanti banche americane, con l’intento dichiarato di rafforzare i programmi marittimi governativi e «restore America’s maritime dominance», secondo le parole del presidente Trump. Nell’ultimo anno alla flotta di Schuyler si sono aggiunte anche una petroliera da 50.000 tonnellate e una nave per carichi fuori norma, rafforzando ulteriormente la già notevole presenza di JP Morgan nel settore marittimo. L’attesa per un aumento dei noli e dei programmi governativi sostenuti dal clima bellico è infatti molto diffusa tra gli operatori. Non a caso la propaganda militare israeliana ha enfatizzato la portata dell’operazione logistica in corso dal 7 ottobre 2023 come la più grande nella storia di Israele, con 100.000 tonnellate di materiale militare movimentato attraverso 870 voli e 144 trasporti marittimi. La “complicità logistica” di molti governi ed operatori è decisiva per compiere i crimini contro l’umanità e le violazioni degli accordi internazionali in vigore. Per riportare nella legalità gli operatori e spingere i governi verso una ricostruzione dell’ordine internazionale basato sulla diplomazia e il disarmo, le vie principali e più incisive si dimostrano il boicottaggio delle catene logistiche militarizzate e nel disinvestimento finanziario da chi produce strumenti di guerra e distruzione.
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Dalle lotte portuali una proposta di trasparenza
Due porti italiani sono stati nelle ultime settimane al centro dell’attenzione di Weapon Watch: i porti di Genova e di Ravenna. A Genova lo sciopero proclamato per non caricare un cannone navale OTO Melara-Leonardo su una “nave della morte” saudita ha di fatto avuto successo, anzi ha fatto capire che sul traffico di armi la concorrenza infra-sindacale si può stemperare. È anche questo un segno dei tempi sempre più foschi, e della generale percezione che se ne ha a Genova. Ulteriore prova è lo straordinario successo della raccolta degli aiuti affidati alla Global Flottilla Sumud, a cui hanno espresso vicinanza anche la sindaca Silvia Salis e l’arcivescovo mons. Tasca. A questo diverso clima sembra riferirsi la magistratura genovese, che ha aperto un fascicolo per accertare la legalità dei transiti di armi sulle navi saudite: intervento che Weapon Watch aveva richiesto già cinque anni fa, e che oggi rischia di essere inadeguato rispetto alla dimensione dei movimenti di armi in porto in violazione alla legge 185. A Genova, nell’aprile 2022. A Ravenna sono venuti alla luce alcuni casi di palese violazione di leggi e trattati internazionali, in gran parte relativi ad armi e affari in complicità con l’apparato industrial-militare di Israele. Abbiamo riferito, in un recente articolo intitolato “Ravenna crocevia dei traffici di armi per Israele?”, delle indagini condotte dalla magistratura ravennate, ma con l’ultimo articolo di Linda Maggiori, pubblicato da il manifesto il 2 settembre scorso, [lo trovate anche nella nostra rassegna stampa] il punto interrogativo va tolto. Ravenna è senza dubbio un porto vitale nella possente corrente di forniture militari che si convoglia nell’Adriatico da tutti i paesi dell’Europa centro-orientale e si dirige verso Israele. E con Ravenna lo sono anche Trieste, Capodistria e Venezia-Marghera: è qui che si forma la supply chain diretta a Haifa e Ashdod, una rotta percorsa con regolarità da almeno due navi che hanno attirato l’attenzione degli attivisti locali, «ZIM New Zealand» e «Contship Era». I casi emersi a Genova e Ravenna rivelano una grave asimmetria tra ciò che vedono e denunciano i lavoratori dei porti e degli aeroporti italiani – cioè la vistosissima crescita del traffico di armi, e la grave carenza dei controlli preventivi – e il ruolo inerte delle autorità, a partire da quelle di sistema portuale, di fronte a quelle denunce. Mentre il quadro internazionale sta assumendo tinte drammatiche, non possono più valere gli escamotages, il rimpallo sulle competenze che porta al mutismo informativo, ultima spiaggia di chi non vuole assumersi le proprie responsabilità. Nel caso citato oggi su il manifesto, l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli locale ha avanzato ragioni di “riservatezza” per non rivelare la destinazione finale di ciò che non poteva essere autorizzato al transito ma che è comunque transitato dal porto di Ravenna: una spedizione di armi autorizzata dalla Repubblica ceca verso un paese extra-UE (Israele), per giunta coinvolto nel peggior massacro di popolazioni civili a cui l’umanità assiste via social, doveva essere fermata in ottemperanza alle stesse disposizioni governative in vigore dal 7 ottobre 2023. Nella loro lucidità, i portuali genovesi hanno avanzato una proposta intesa a non far peggiorare il clima nel primo porto italiano, e a ristabilire un nesso tra il funzionamento del porto stesso come piattaforma del commercio internazionale e la cornice “aperta” entro cui Genova vuole svolgere questo ruolo, di pace, fratellanza e solidarietà, e non di guerra, deportazione e affamamento. Per rendere almeno accettabile il livello delle informazioni che devono essere garantite ai lavoratori nel caso del commercio degli armamenti, è indispensabile la trasparenza sulla natura delle merci e la loro destinazione finale, come del resto è scritto nella lettera stessa della Legge 185 del 1990. Destinatario di queste informazioni, che sono certamente nella disponibilità di tutte le autorità coinvolte in un trasferimento internazionale di armi (AdSP, Guardia Costiera, Prefetture), potrebbe essere un “osservatorio permanente” a cui far partecipare i delegati delle autorità insieme a quelli dei lavoratori, da riunirsi periodicamente e in via preventiva, cioè in vista di un arrivo di navi con carichi militari e soprattutto di munizioni ed esplosivi. Crediamo che una ragionevole circolazione di informazioni, anche su un tema così delicato, possa contribuire a ridurre la tensione sulle banchine, e nello stesso tempo a togliere ad autorità e governi l’illusione che bastino opacità e segretezza per evitare di rispondere di una complicità di fatto, quale oggi si sta prefigurando, tra gli autori di un genocidio e chi ha fornito loro i mezzi per compierlo.
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L’industria delle armi in Europa e il suo impatto sul lavoro
Intorno a ReArm Europe e all’euforia dei mercati finanziari, impegnati a investire una montagna di soldi nei titoli di borsa delle principali industrie militari europee, è molto forte il rischio di un “abbaglio” sulle aspettative in termini di ricadute occupazionali. Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso è arrivato a prospettare per le aziende della filiera dell’automotive incentivi per riconvertirsi verso il settore aerospaziale e della difesa, mentre il suo Governo – con la Legge di Bilancio 2025 – trasferiva 4,9 miliardi di euro dal fondo per la transizione ecologica e sociale dell’automotive all’aumento delle spese militari. SPETTRO DELLA GUERRA Non è semplice per qualsiasi governo far digerire l’aumento delle spese militari a un’opinione pubblica cosciente dei corrispettivi tagli a sanità, istruzione, welfare. Evocare lo spettro della guerra con la Russia, evidentemente non basta. In questo caso è meglio giocarsi la carta delle ricadute industriali e occupazionali. Non è la prima volta che succede. Ricordate, ad esempio, i diecimila nuovi posti di lavoro “messi sul piatto” nel 2006 dal Capo di stato maggiore dell’Aeronautica Militare, Leonardo Tricarico e dal sottosegretario alla Difesa, Lorenzo Forcieri (governo Prodi) se avessimo acquistato i caccia-bombardieri F-35 della Lockeed Martin? A distanza di 20 anni possiamo verificare quanto fosse una fakenews, per condizionare il dibattito pubblico. L’articolo di Gianni Alioti uscito su «il manifesto» il 31.5.2013. Ma penso sia sbagliato liquidare con una semplice battuta i risvolti che l’economia di guerra ha sul sistema industriale europeo e sul lavoro. Meglio procedere secondo un rigore logico. È vero, come sostengono alcuni, che la corsa agli armamenti può salvare l’economia europea? E rilanciare l’occupazione industriale? ANALISI DELLA REALTÀ A queste domande cercherò di rispondere non in base alle mie convinzioni etiche e politiche, ma attraverso l’analisi della realtà e dei dati (a consuntivo) inerenti sia all’andamento delle spese militari, sia alla dimensione dell’industria aerospaziale e della difesa in Europa. I dati ufficiali del Consiglio Europeo1 ci dicono che dal 2014 al 2024 nei paesi UE le spese militari sono più che raddoppiate a prezzi costanti (+121%). Sono passate da 147 a 326 miliardi di euro. All’interno delle spese militari, quelle specifiche per armamenti e ricerca-sviluppo sono addirittura quadruplicate (+325%). Se consideriamo non i Paesi UE, ma i Paesi europei della NATO le spese militari nel 2024 sono state di più: 440 invece di 326 miliardi di euro. La crescita negli ultimi dieci anni registra una tendenza simile. TENDENZE DEL SETTORE Secondo il rapporto pubblicato a novembre 2024 da ASD, European Aerospace, Security and Defence Industries che riguarda i 27 Paesi UE + Norvegia, Regno Unito e Turchia, a fine 2023 gli occupati totali diretti nell’industria aerospaziale e della difesa in Europa risultano, un milione e 27 mila, di cui 518 mila relativi al militare (vedi il Grafico 1). Il fatturato complessivo nel 2023 è stato di 290,4 miliardi di euro, di cui il 55 per cento nel militare. Partire dai dati forniti da ASD ha il vantaggio dell’attendibilità e della continuità nel tempo, consentendo analisi e valutazioni di natura strutturale sulle tendenze del settore. Possiamo, infatti, analizzare cosa è successo in termini di fatturato e occupazione nello stesso arco di tempo di dieci anni (2014-2023) nel quale le spese militari sono cresciute del 90 per cento. CRESCITA DEL 65 PER CENTO I ricavi nel militare nell’intera industria del settore in Europa sono cresciuti del 65 per cento, mentre l’occupazione è aumentata del 26 per cento da 407 mila e 800 a 518 mila addetti. La stessa dinamica occupazionale trova riscontro da una mia elaborazione sui bilanci aziendali di 10 tra le principali big dell’industria aerospaziale e della difesa europea2 per fatturato militare. Dal 2015 al 2024 il numero dei loro occupati (nel civile e militare) è cresciuto in media del 23% (vedi il Grafico 2). Sulla base dei trend occupazionali registrati a consuntivo negli ultimi dieci anni, possiamo azzardare alcune stime sull’incremento dei posti di lavoro diretti e indiretti nell’industria della difesa in Europa nel prossimo periodo 2025-2035, prendendo a riferimento le previsioni di aumento delle spese militari decise in ambito NATO. Nel vertice di giugno all’Aia è stato deciso che i Paesi europei dell’Alleanza Atlantica debbano arrivare, entro il 2035, a spendere un più 1,5 per cento in un ambito ancora vago di “sicurezza allargata” e a raggiungere entro il 2035 una spesa specifica in campo militare almeno del 3,5 per cento del loro PIL. Le spese militari complessive passerebbero, quindi, da 440 a 969 miliardi di euro l’anno. Un incremento pari al 120 per cento, una percentuale simile a quella registrata nel periodo 2014-2024. Pertanto, in base a quanto già successo negli ultimi dieci anni, possiamo ipotizzare realisticamente un aumento dei posti di lavoro in campo militare nell’industria aerospaziale e della difesa in Europa intorno al 25-30 per cento. VALORE ASSOLUTO In valore assoluto significa la creazione di 150-180 mila nuovi posti di lavoro diretti. Calcolando l’impatto del settore nell’intera catena dei sub-fornitori fino a quelli di terzo livello (circa 2 mila piccole-medie imprese secondo l’ASD), possiamo stimare altri 120-170 mila nuovi posti di lavoro indiretti. In tutto, quindi, un aumento previsto dell’occupazione da 270 a 350 mila unità. Fatte le debite proporzioni, in Italia non si andrebbe oltre i 25-30 mila occupati in più. Briciole in rapporto, ad esempio, ai posti di lavoro a rischio nell’automotive. Anche un recente rapporto di Ernst & Young (EY), uno dei principali network mondiali di servizi professionali di consulenza, ha analizzato il potenziale impatto economico dell’aumento della spesa militare europea, concentrandosi sul settore manifatturiero dell’UE e sulla creazione di posti di lavoro. SCENARI DIVERSI Lo studio ha esplorato diversi scenari in cui i membri europei della NATO aumentano la spesa per la difesa, in particolare per gli equipaggiamenti militari (mediamente il 33 per cento delle spese militari nel 2024 rispetto al 14 per cento nel 2014), per rafforzare le proprie capacità difensive e ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti. EY, nel suo rapporto, stima che se i membri europei della NATO aumentassero la spesa annuale per gli equipaggiamenti militari di 65 miliardi di euro (passando da 72 a 137 miliardi di euro), il conseguente aumento degli ordinativi per l’industria della difesa europea, compresa la relativa catena di approvvigionamento, ammonterebbe a 35,7 miliardi di euro e, secondo EY, creerebbe forse 500 mila posti di lavoro in più. Meno di un terzo dei 35,7 miliardi di euro aggiuntivi rientrerebbe nell’industria militare europea in senso stretto; il resto ricadrebbe nella catena di approvvigionamento. Ciò si traduce, comunque, nella creazione di circa 150 mila posti di lavoro diretti e aggiuntivi nell’industria militare europea. Questa cifra coincide con quella contenuta anche in un nuovo rapporto di Bruegel e Kiel Institute, due think tank (il primo europeo, il secondo tedesco) specializzati in studi economici. Non solo, coincide anche con le mie previsioni di 150-180 mila occupati diretti in più. OCCUPATI INDIRETTI Lo scarto tra le mie previsioni e quelle del rapporto di Ernst & Young riguarda l’incremento di occupati indiretti nella catena dei sub-fornitori: 350 mila contro 120-170 mila. Il modello utilizzato da EY per calcolare l’aumento dei posti di lavoro in relazione all’aumento delle spese per equipaggiamenti militari, è bottom-up.3 Al contrario, io ho utilizzato il coefficiente di moltiplicazione (1,02) impiegato da ASD nel suo rapporto del 2022 https://www.asd-europe.org/news-media/publications/asd-reports-publications/economic-impact-report-2022/ tra occupati diretti e quelli indiretti occupati nell’intera catena dei sub-fornitori fino a quelli di terzo livello. MONTE SALARI DEI DIPENDENTI Nel mio computo è esclusa la cosiddetta “occupazione indotta” dal riutilizzo come spesa del monte salari dei dipendenti. In ogni caso, anche se prendiamo per buona la previsione di EY dei 500 mila posti di lavoro creati, è bene sapere che equivarrebbero a solo l’1,5 per cento sul totale dei 33 milioni e centomila addetti nell’industria manifatturiera europea (fonte Eurostat). Pertanto, qualsiasi serio ragionamento sulle ricadute industriali e occupazionali della corsa al riarmo non può prescindere dall’effettiva dimensione economica e sociale del settore della difesa. In Europa i ricavi nel militare dell’industria aerospaziale e difesa nel 2023 sono di 158,8 miliardi di euro. Solo lo 0,70 per cento  del PIL dei 30 Paesi europei considerati. Includendo anche i circa 80 miliardi di euro di impatto economico indiretto il fatturato complessivo dell’industria militare non supera l’1,1 pro cento del PIL, con un milione e 46 mila addetti tra diretti e indiretti. Una percentuale lontanissima dall’automotive, 3,7 per cento del PIL e 6 milioni e 600 mila occupati solo nel manifatturiero. L’idea, quindi, che il gigantesco piano di riarmo europeo rappresenti un’opportunità di crescita occupazionale e di riconversione di un settore in crisi come l’automotive è smentita da questi dati. SPESA FOLLE A fronte di una folle spesa di 800 miliardi aggiuntivi in 4 anni, in Italia 30-35 miliardi in più all’anno, l’impatto sul lavoro è alquanto modesto. In alcuni casi concreti e circoscritti potrà rallentare la deindustrializzazione, ma non la invertirà. Senza contare che le spese militari sono soldi pubblici sottratti a sanità, educazione, ricerca universitaria, transizione energetica e digitale, ambiente e welfare. Tutti ambiti in cui, a parità di spesa, si creerebbero dal 40 al 120 per cento in più di posti di lavoro. Per non parlare di un altro studio americano che dimostra l’impatto occupazionale di un miliardo di dollari investito nel campo delle telecomunicazioni (banda larga), nel settore della sanità (tecnologia informatica), nel settore elettrico (smart grid). Si creerebbero rispettivamente 49 mila, 21 mila, 24 mila nuovi posti di lavoro. Da 3 a 7 volte in più rispetto agli stessi soldi spesi in campo militare. CONCLUSIONI L’analisi dei dati dimostra ampiamente che raddoppiare o triplicare la spesa militare in Europa, oltre a non cambiare gli equilibri strategici e funzionare come deterrenza, non rappresenta un’inversione di tendenza alla crisi industriale europea e ai processi di deindustrializzazione che coinvolgono numerosi settori e territori. Tale dinamica non alimenta né una forte espansione produttiva, tantomeno dell’occupazione. Consente, viceversa, una forte crescita sia dei dividendi per gli azionisti, sia degli ordinativi, dei ricavi e degli utili delle imprese militari. E, soprattutto, della loro dimensione finanziaria attraverso l’impennata delle loro quotazioni in Borsa. Impennata quotazioni in borsa industrie belliche Due esempi paradigmatici. A inizio gennaio del 2022, prima della invasione russa in Ucraina, il valore di un’azione dell’italiana Leonardo era di 7,5 euro, al 5 agosto 2025 ha raggiunto 47,9 euro. Un incremento record del 538 per cento. Nello stesso periodo il valore azionario della tedesca Rheinmetall è passato da 90 euro a 1.763 euro. Un incremento iperbolico del 1.859 per cento. Tutto ciò grazie alle ingenti risorse dei singoli Stati destinate alle spese militari e in nuovi armamenti e ai mercati finanziari controllati dai fondi istituzionali come BlackRock, Vanguard, Capital Group, State Street Global, Goldman Sachs, Fidelity Investments, Wellington Management, Invesco ecc. che al contempo sono tra i principali azionisti di azionisti sia delle 5 big al mondo per fatturato militare (Lockheed Martin, RTX, Northrop Grumman, Boeing e General Dynamics), sia della tedesca Rheinmetall, delle britanniche BAE Systems e Rolls-Royce, dell’italiana Leonardo, della trans-europea Airbus, della ucraina JSC e di altre aziende europee che operano in campo militare. Come ha scritto Maurizio Boni: “La retorica della “guerra di produzione” utilizzata da Rutte […] trasforma la NATO da alleanza militare in cartello industriale, dove la sicurezza diventa un pretesto per trasferimenti massicci di denaro pubblico verso il settore privato della difesa”[7] 1    I dati sono quelli ufficiali del Consiglio Europeo https://www.consilium.europa.eu/en/policies/defence-numbers/ 2    Airbus, BAE Systems, Dassault, Hensoldt, Leonardo, Rheinmetall, Rolls Royce, Saab, Safran, Thales. 3    Cioè dal “basso” verso l’“alto”, partendo dai dettagli per costruire una visione d’insieme.
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