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La parola della settimana. Occhi
(disegno di ottoeffe) . I tuoi occhi sono pieni di sale Di quel sale mattutino che tu prendi in riva al mare Di quel sale che a pensarci ti viene voglia di guardare. (rino gaetano, i tuoi occhi sono pieni di sale) . Ho visto negli ultimi giorni due versioni ben riuscite di altrettante commedie di Eduardo De Filippo. La prima è stata Natale in casa Cupiello, messa in scena da Salemme e la seconda Gennareniello, con regia di Lino Musella. Non scontata ma prevedibile la buona riuscita dei due lavori, considerando che Musella aveva affrontato l’esame più difficile portando in giro per anni un importante spettacolo sull’Eduardo pubblico e privato, e che Salemme è uno degli ultimi rimasti tra quegli attori che sono stati stabilmente nella compagnia De Filippo per un po’ di anni (non ricordo chi scrisse che se tutti gli attori napoletani che sostengono di aver recitato con Eduardo dicessero il vero, avremmo a Napoli più grandi interpreti che panettieri o salumieri). https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/01/salemme-VEED.mp4 (credits in nota1) Un elemento centrale di Gennareniello sono gli occhi. Quelli del protagonista si illuminano davanti alla bellezza della giovane vicina e rivivono una passione senile e commovente grazie alla scenata di gelosia della moglie; poi ci sono quelli di Tommasino, che porta due fondi di bottiglia al posto degli occhiali e che vede pochissimo; e quelli di Uocchie c’arraggiunate, canzone napoletana per la quale Eduardo aveva una predilezione, come spiega anche Peppe Barra, che in una sua versione ricorda come “il direttore” se la facesse spesso cantare da Concetta Barra, sua madre, che stimava molto, e che era anche una bravissima cantante. Nelle attrici ancora di più che negli attori, si dice che Eduardo avesse la capacità di vedere il talento al primo sguardo. https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/01/angelaluce_defilippo.mp4 (credits in nota2) Qualche settimana fa sono stato a una presentazione di La scomparsa dei colori, libro in cui Luigi Manconi racconta le più interessanti sfaccettature e implicazioni della sua progressiva perdita della vista. Con Manconi, che non ha perso con gli anni la sua capacità di raccontare storie, c’era il solito Maurizio De Giovanni, che ha sfoggiato l’altrettanto solita sfilza di banalità, arrivando persino a dire – con una boria da pretino dell’Ottocento – che in fondo chi subisce una tragedia di questo genere è fortunato, perché può sfruttare al meglio sensi come l’olfatto e l’udito. Mentre Manconi lo smentiva con eleganza, a me veniva in mente questo: https://napolimonitor.it/wp-content/uploads/2025/01/troisi.mp4 (credits in nota3) Gli occhi più belli che ho visto, seppure in foto, nella mia vita, sono quelli di mio nonno paterno, morto tre anni prima che io nascessi. Erano blu scuro – come i miei, ma più belli – profondi, autorevoli. Pare che il nonno fosse un uomo molto carismatico, gentile ma risoluto. Non era esattamente di sinistra, anzi piuttosto di destra (piuttosto fascista, se proprio vogliamo dirla tutta), ma tant’è. Anche l’altro mio nonno, il papà di mia madre, aveva occhi molto belli. Era un artista, ma viveva come un artigiano, o meglio come un operaio. Cesellava metalli preziosi: di lui restano alcune opere in giro per case e in qualche museo della città (la maggior parte sono invece riconducibili, purtroppo, agli importanti gioiellieri a cui vendeva), l’arte che ha trasmesso alle sue studentesse, l’odore di pece bruciata, e la polvere d’oro sul suo banco di lavoro in un legno scuro, pieno di scritte fatte coi ferri, dai nipoti. You sign your own name / Firmi con il tuo nome and I sign mine. / e io firmo con il mio. They’re both the same but we still get separate rooms. / Sono uguali ma viviamo ancora in stanze separate. […] It all looks fine to the naked eye / Sembra vada tutto bene a occhio nudo but it don’t really happen that way at all. / ma non è affatto così che va. (the who, naked eyes) Ieri è stato il decimo anniversario della morte di Pino Daniele. Le commemorazioni sono state abbastanza banali, non hanno reso quasi nulla dell’importanza di questo autore nella produzione poetica della città, l’incredibile forza narrativa dei suoi testi, soprattutto negli anni Ottanta, la sua genialità musicale e la capacità di inventare non uno, ma mille generi contaminando tutto quello con cui si era nutrito nel corso della sua formazione artistica autodidatta.  Nel suo editoriale di fine anno il direttore di Repubblica Napoli ha parlato di Pino Daniele e di Antonio Conte mettendoli in relazione rispetto alle sfide che attenderebbero la città nel nuovo anno. Personalmente non ci ho capito molto. Mi sono ricordato invece che a inizio anni Novanta Pino Daniele aveva scritto una bella canzone per la sua nuova compagna, che sarebbe divenuta poi la sua seconda moglie. Occhi blu che si fermano sul mondo e guardano giù, dove il mare è più profondo, dove è nascosta la felicità. Facciamoci del male della serie senza pietà. Occhi blu diritto in fondo a questa strada ci sei tu. Troppo seria questa giornata per dire che tra noi non finirà. Anche se ti comporti bene vedrai qualcuno ti giudicherà […] Ti prego non mi mollare Io sto buono sulo cu’ te. Occhi blu che ti guardano le spalle, non ti senti più un uomo solo e senza palle. Noi che sciupiamo questa verità in un mondo di bugie ‘e ‘sta sfaccimma ‘e società. (a cura di riccardo rosa)
January 5, 2025 / NapoliMONiTOR
Il 2024 in dodici articoli
(disegno di martina di gennaro) GENNAIO LA CONVERGENZA IMPOSSIBILE. PANDEMIA, CLASSE OPERAIA E MOVIMENTI ECOLOGISTI Siamo a Trieste, e mio zio, come altre migliaia di persone della sua generazione, è sceso in piazza con il movimento No Green Pass, e ha solidarizzato con chi, come mia zia, è stata discriminata e, nel mezzo di una pandemia mondiale, sospesa dal proprio posto di lavoro. L’affiliazione a mondi culturali antitetici è mitigata da una comune origine di classe e dall’appartenenza alla stessa coorte anagrafica. Per queste e altre ragioni mio zio non può credere che mia zia possa essere una negazionista climatica. Per questo, o forse per affetto, o forse perché sono trent’anni che ogni Natale prova a portare il discorso a tavola, dopo almeno un paio di tartine ma prima di aver cominciato con i piatti forti. O forse per paternalismo. (leggi l’articolo) FEBBRAIO C’È DA SPOSTARE UNA MACCHIA. L’ULTIMO BOSCO SECOLARE DEL SALENTO SFRATTATO DAI CIRCUITI PORSCHE “Le automobili che vediamo su strada al novanta per cento sono passate a Nardò”, afferma un pilota tester del Nardò Technical Center durante l’inchiesta di Report. NTC è un complesso di piste di collaudo di proprietà del gruppo Porsche, con un’area di settecento ettari, un circuito ad anello lungo quasi tredici km, venti piste e impianti prova, per il quale passano le auto di tutte le marche e di tutte le gamme, non solo le Porsche (il grigio dell’asfalto del circuito ha ispirato la Ferrari grigio Nardò). All’interno dell’anello resiste (inaccessibile alla collettività) il bosco d’Arneo, ultimo pezzo di un bosco mediterraneo secolare, sito di interesse comunitario che rientra nella riserva naturale Palude del Conte e Duna costiera, con specie protette e habitat prioritari della rete Natura 2000, tutelati anche dalla Direttiva Habitat dell’Unione Europea per la salvaguardia della biodiversità. (leggi l’articolo)  MARZO “LA CORDA SI È TIRATA TROPPO ASSAI”. LO SCIOPERO DEI CORRIERI GLS DI NAPOLI E PROVINCIA “Te l’ho detto, stamattina non usciamo… finché non ci riconoscono i nostri diritti, di qua non ci muoviamo!”. Il ragazzo con la tuta azzurra urla nello smartphone per vincere il frastuono delle auto che gli passano accanto, ma anche sopra la testa, sul cavalcavia che sormonta via Ferrante Imparato, all’altezza dei cancelli della Gls di Poggioreale. Un collega gli passa accanto, il ragazzo lo inquadra col telefono e gli fa cenno di salutare. Poi le voci si smorzano, nel piazzale dello stabilimento sono ricominciati i cori: “Puos’ ‘e sord, puos’ ‘e sord, puos’ ‘e sord…”; “Stamattina non si entra, stamattina non si entra…”. (leggi l’articolo) APRILE DISTRUGGERE GLI SPAZI PUBBLICI. BOLOGNA DA CITTÀ PROGRESSISTA A CITTÀ NEOLIBERISTA Tutto è accelerato in questo periodo a Bologna. La presentazione di nuovi progetti urbanistici sì è fatta frenetica, i cantieri avanzano (e qualche volta, inaspettatamente, arretrano). E anche l’attacco verso chi si oppone alle politiche urbanistiche del Comune ha cambiato segno: in un paio di occasioni è intervenuta la polizia a farsene carico, con i manganelli. Per cercare di capire facciamo un passo indietro, e iniziamo con una fotografia… (leggi l’articolo) MAGGIO LA FINE DEL PROCESSO ALLE ONG. DIECI ANNI DI CALUNNIE CONTRO LA SOLIDARIETÀ IN MARE Il 19 aprile si è concluso il più grande processo contro la solidarietà in mare, con le Ong impegnate in operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale sul banco degli imputati. Ventuno membri degli equipaggi di Jugend Rettet, Save the Children e Medici Senza Frontiere sono stati prosciolti dal giudice dell’udienza preliminare di Trapani, perché “il fatto non sussiste“. Questa vittoria arriva dopo sette anni di calvario, costato milioni di euro di soldi pubblici, oltre quaranta comparizioni in aula e il deterioramento dell’imbarcazione Iuventa, sequestrata e lasciata in stato di abbandono nel porto di Trapani dal 2017. (leggi l’articolo) GIUGNO NEL PIATTO DEI GRANDI DEL MONDO. APPUNTI DAL G7 IN PUGLIA Quando vedi asfaltare le strade stanno arrivando le votazioni. Se vivi al sud lo sai, lo capisci più o meno quando impari come frenare sullo sterrato con la bici senza rotelle. Eppure, quest’anno l’assioma scricchiola: vedo strade scarificate, rulli e bitume ma le urne hanno appena chiuso. Prima che il fatalismo meridionale vacilli sotto la parvenza che qualcosa sta cambiando, il rumore di un elicottero in lontananza mi conforta: è il G7, il vertice annuale dei capi di stato e di governo. Quest’anno tocca all’Italia presiederlo, Giorgia Meloni ha scelto di accogliere i ministri delle principali democrazie industrializzate del mondo dal 13 al 15 giugno in un resort di lusso in provincia di Brindisi, a Savelletri di Fasano. (leggi l’articolo) LUGLIO L’ARTE DELLO SGOMBERO. CONSIGLI PER LIBERARE LE PROPRIETÀ DAI LORO ABITANTI Negli ultimi anni ho lavorato con proprietari immobiliari, ho respirato l’aria stantia degli uffici comunali e ho visitato le bigie stanze dei commissariati di quartiere. I giorni che mi restano sono pochi, ma non mi dilungherò in metafore sul tramonto, o inverno della vita. Amai poco le metafore, così come detestai le frasi convenzionali dei mediocri lavoranti che accompagnavano le mie giornate: ufficiali giudiziari, piccoli proprietari di palazzine maltenute, poliziotti in borghese, agenti immobiliari. Ti lascio queste mie note dove raccolgo un compendio di quel che ho imparato sull’arte dello sgombero. AGOSTO IL CROLLO DI SCAMPIA E LA CITTÀ DEGLI EVENTI SACRIFICALI Capita ciclicamente in questa città che tutta la violenza, la povertà, il malgoverno, tutto l’odio e la diffidenza tra le classi, l’incuria amministrativa e l’ipocrisia istituzionale, tutte queste cose improvvisamente collassino, letteralmente sprofondino in un punto preciso, microscopico, delimitato e si portino via con sé una o più vittime sacrificali. La sensazione è che questo accada sempre più spesso, che gli intervalli tra un sacrificio e l’altro siano sempre più brevi, e la conta dei sacrificati ogni giorno più lunga. In realtà, con il passare del tempo la memoria pubblica scolora e dall’elenco decadono i nomi più antichi; al loro posto, in testa, si aggiungono quelli dei nuovi sacrificati. (leggi l’articolo) SETTEMBRE DOVE SCORRE LA SENNA. QUARANT’ANNI DELLA LIBRERIA ITALIANA TOUR DE BABEL A PARIGI “Nella primavera del 1981, dopo un paio di visite a tre compagni del Veneto che da qualche tempo sono a Parigi, decido di rimanere anche io per qualche mese. Il 10 maggio Mitterrand viene eletto presidente e, subito dopo, le elezioni danno alla sinistra la maggioranza assoluta. La situazione dei rifugiati italiani (che pure all’epoca erano pochissimi a Parigi: la maggior parte di quelli che scappavano dall’Italia era sparpagliata per il mondo) cambia. Da paese a rischio, a tappa europea prima di partire verso un altro continente, la Francia si trasforma in terra accogliente. Io stesso pensavo di restarci solo per qualche mese, per poi andare in Messico”. (leggi l’articolo) OTTOBRE SFRUTTAMENTO E ANGHERIE NEL LAVORO SOCIALE. UN’INTERVISTA CORALE SUL CASO DI ALMATERRA A TORINO “Almaterra è un’associazione che si descrive come “associazione di donne e per donne”, che vuole tutelare le donne e le soggettività vittime di violenza di genere e di qualsiasi forma di discriminazione, che sia di razza o a livello lavorativo. Ci sono diversi sportelli: uno per il supporto psicologico, uno legale, lo sportello per il lavoro, il laboratorio di italiano, e altri ancora. Per ogni servizio c’è una persona di riferimento. Io ho lavorato per Almaterra circa un anno e tre mesi, nella prima accoglienza. Era, in pratica, il primo ufficio dal quale si passa appena si entra nell’associazione, in cui confluivano tutte le persone che attraversavano lo spazio. Le mie mansioni erano attività di segreteria: curare i social, rispondere alle mail e al telefono dell’associazione, gestire gli appuntamenti di tutti i vari servizi”. (leggi l’articolo) NOVEMBRE SPIAGGE PRIVATIZZATE E MARE NEGATO. IL GOVERNO PROROGA ANCORA LE CONCESSIONI BALNEARI “Almaterra è un’associazione che si descrive come “associazione di donne e per donne”, che vuole tutelare le donne e le soggettività vittime di violenza di genere e di qualsiasi forma di discriminazione, che sia di razza o a livello lavorativo. Ci sono diversi sportelli: uno per il supporto psicologico, uno legale, lo sportello per il lavoro, il laboratorio di italiano, e altri ancora. Per ogni servizio c’è una persona di riferimento. Io ho lavorato per Almaterra circa un anno e tre mesi, nella prima accoglienza. Era, in pratica, il primo ufficio dal quale si passa appena si entra nell’associazione, in cui confluivano tutte le persone che attraversavano lo spazio. Le mie mansioni erano attività di segreteria: curare i social, rispondere alle mail e al telefono dell’associazione, gestire gli appuntamenti di tutti i vari servizi”. (leggi l’articolo) DICEMBRE “GIORNALISTA, PENSAVI CHE FACEVAMO IL FUOCO?”. A MILANO, CANDELE NELLA NEBBIA PER RAMY A Milano nei giorni scorsi ci si svegliava nella nebbia e fino a metà mattina si faticava a vedere poco più in là di qualche decina di metri. All’imbrunire, i contorni dei palazzi si confondevano di nuovo, le auto sparivano e si distinguevano solo le insegne al neon e le luci dei semafori. A Corvetto, nella periferia sud-orientale, la nebbia era più fitta che altrove per la vicinanza alle aree agricole attraversate da rogge e canali intorno all’Abbazia di Chiaravalle. Un paesaggio rurale difficile da immaginare attraversando le vie della parte più storica e densa di Corvetto. Da piazzale Gabrio Rosa, il punto di congiunzione tra gli isolati costruiti nella seconda metà degli anni Venti dall’Istituto autonomo case popolari per ospitare “i poveri e i poverissimi” della città e le espansioni successive, si può scorgere il Parco Agricolo Sud, ma la nebbia di sabato sera aveva fatto svanire l’orizzonte. (leggi l’articolo)
December 31, 2024 / NapoliMONiTOR
Bussoleno, 14 dicembre: “Disertare la linea del fronte”
Riceviamo e diffondiamo: DISERTARE LA LINEA DEL FRONTE Sguardi e testimonianze sulla mobilitazione totale nella “guerra giusta” infinita In epoca capitalista, il fronte di uno Stato in guerra non è solo la trincea o l’industria militare, ma il dispiegarsi di una mobilitazione totale della popolazione da mutare in “massa disciplinata”, disponibile a funzionare secondo gli scopi bellici. Nel trionfo contemporaneo della “guerra giusta” – dalle «operazioni di polizia internazionale» del 1990-91, alle «operazione militare speciale» della Russia, «resistenza del “mondo libero”» in Ucraina, «autodifesa» di Israele – coloro che disertano ci forniscono una bussola etica e materiale per opporci al mondo-guerra. C’è ancora un’umanità che si sottrae, anche dentro al complesso scientifico-militare-industriale più sofisticato. Quest’incontro è per informarsi, per supportare i disertori e per confrontarci sulle forme che la mobilitazione totale può assumere, a partire dalla rilevanza della profilazione digitale nel definire i confini della cittadinanza contro gli indisciplinati, come i registri elettronici “Gosuslugi” in Russia e “Oberih” in Ucraina dimostrano e come l’epoca pandemica ci ha mostrato anche qui. INTERVERRANNO: • un disertore di Kharkov parte del gruppo anarchico Assembly, legato alle reti di mutuo appoggio dei disertori sul fronte russo/ucraino • una refusenik di Gerusalemme parte di Mesarvot, rete di supporto agli obiettori di coscienza in Israele (in chiamata) • le compagne di Torino diserta, redattrici dell’archivio campiselvaggi.noblogs.org, sulla centralità del progresso tecnico nella mobilitazione alla guerra A seguire PRANZO BENEFIT per Torino diserta! SABATO 14 DICEMBRE 2024, ALLE ORE 10:00 Associazione “La Credenza”, via Walter Fontan 31, Bussoleno
December 11, 2024 / il Rovescio
Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione (seconda puntata)
Nella prima parte di questa disamina abbiamo affrontato due differenti approcci: quello che pretende che il potere garantisca la fruizione in sicurezza dell’adrenalina facile e quello colpevolizzante verso l’escursionista per scaricare su di lui le responsabilità di politica e marketing, cioè di chi l’ha invogliato a andare in montagna promettendo adrenalina facile e sicura. In questo secondo pezzo vorremmo dar conto della visione Molotov, che è radicalmente opposta a entrambi agli approcci precedenti, perché li considera facce della stessa medaglia: l’estrattivismo turistico che va contestato in maniera radicale. La voce molotova promuove la conoscenza e il rispetto del territorio, la consapevolezza dei propri limiti e la responsabilità nell’assunzione del rischio. Per farlo, a seguito di una prima analisi, utilizzeremo un esempio assurto alle cronache quest’estate. PARTE TERZA – LA VERSIONE MOLOTOV – Le vere lacune, quello che manca in toto nel dibattito, sono conoscenza e consapevolezza di quel che si sta andando a fare. È più che evidente. E infatti si commentano drammi senza capacità di analizzarli, additando. Se ipotizzassimo una libertà di scelta consapevole e informata non sarebbe necessario garantire qualcuno, ma semplicemente assumere responsabilità senza pretesa di voler distribuire colpe. Come in ogni cosa della vita se ci si infila nei casini ci si arrangia, se non si è sicuri si evita. Detto in pratica, secondo noi la responsabilizzazione avrebbe senso se servisse a smontare l’idea che tanto, dovesse andar male qualcosa, qualcuno dall’alto dei cieli aiuterà se non si è capaci, se non si è ragionevolmente al sicuro. Semplicemente deve essere reso chiaro come dato ambientale che non ci si può fidare al 100% di nessun cavo, che non ci si può fidare di nessun sentiero, mappa, tacca, cartello, app, di niente e nessuno. Ci si può fidare di quello che si sa valutare, si impara a farlo non fidandosi, e non si è comunque del tutto immuni dal rischio. Riassumendo va sviluppata competenza a saggiare il territorio, a calarcisi dentro e non a starci sopra: la mappa non è il territorio. La consapevolezza di una scelta, in questo caso estrema: Hansjörg Auer in solitaria e slegato sulla Via attraverso il pesce alla Punta Rocca in Marmolada. C’è caso e caso: c’è chi assume la propria responsabilità conscio di quel che affronta e c’è chi non ha il senso dello stare in montagna tenendo conto degli altri. Tornare ‘slegati’ da un sentiero impervio e selvaggio, anche attrezzato, oppure scegliere di salire ‘slegati’ un itinerario alpinistico, osare quindi, è una cosa. E fa parte del gioco, pericoloso certo ma consapevole. Altra cosa è mettersi in mostra in una situazione turistica, non sapere cosa si rischia e si fa rischiare a chi è intorno. Per un sacco di ragioni. La prima che ci viene in mente è che se il terreno è isolato o poco frequentato si rischierà in proprio. I pericoli oggettivi sono comunque dietro l’angolo, ma non più che in ogni cosa della vita. Conoscere bene una zona e i propri limiti aiuta a saper valutare con sufficiente precisione e a ‘mettersi in sicurezza’. La stessa persona, con la stessa esperienza, saprà cambiare approccio di salita o discesa in relazione a un contesto diverso, da parco divertimenti. Ecco perché se si è su un tratto attrezzato zeppo di gente non è buona prassi passare slegati. Perché si fa rischiare, oltre a rischiare in proprio. L‘appiattimento di sfumatura che porta con sé l’iper-frequentazione non dà ragione di queste dinamiche spicce, figuriamoci di altre, ben più delicate. OUTRO – UN ESEMPIO – Prendiamo un esempio di cronaca e una ferrata che risponde al criterio dello snaturamento storico in ottica turistica: la Bepi Zac alle cime di Costabella. Una ferrata storica importante, in una regione a vocazione turistico-alpina talmente forte che va tenuta in piedi a qualsiasi costo. Ricordiamo qui che i grimaldelli che tengono in vita con accanimento questo come altri percorsi, sono l’inserimento delle infrastrutture della grande guerra tra i beni culturali protetti dal codice Urbani e la “sicurezza”. L’invasività dei lavori di consolidamento e “messa in sicurezza” della Ferrata Bepi Zac alle creste di Costabella. Il fatto è il seguente: alcune famigliole portano i bambini slegati sulla ferrata Bepi Zac che percorre sfasciumi in quota e sale fino attorno ai 2700mslm. Le foto sono state scattate nel secondo tratto, in zona Costabella. Di pericoli oggettivi ce ne sono, caduta massi ad esempio, ma non è nemmeno questo il punto, è proprio che ci sono passaggi esposti (come nella quasi totalità dei casi quando c’è un cavo) e portarsi un pargolo in braccio perché incapace a percorrerla (e forse spaventato) non pare il caso, tout court. A cadere su un terreno del genere ci si può far male-male; se si cade con un bimbo in braccio ci si è comportati idioti. Premesso questo, e che portare figli piccoli senza attrezzatura è promuovere l’incultura e non la cultura della fruizione della montagna, il dibattito a cui normalmente si assiste in questi casi è fuorviante, e suona più o meno sempre allo stesso modo: «criminali», oppure «se i tizi fossero dei super esperti della zona che avessero valutato quello che stavano facendo e non dei turisti sprovveduti?» Per quanto ci riguarda restano vittime del marketing. Possono essere tra i più esperti dell’Universo, sono però in un ambiente altamente frequentato, in cui il pericolo oggettivo è in primis l’affollamento (le scariche di sassi che ne possono derivare, attese lunghe e estenuanti fissi a un cavo, cadute altrui…). Altrettanto oggettivo è il fatto che un figlio piccolo non può essere esperto, che il genitore sta decidendo per lui (al punto che in alcuni scatti il genitore se lo carica in collo). Se ti cade un etto di sasso sul braccio che fai? È la visione indotta del marketing, in cui l’escursionista-consumatore viene preso in trappola, è la modalità di vendita della fruizione a proiettare l’immagine per cui basta spendere, comprare l’attrezzatura cara, per essere sicuri e al sicuro. Aggiungiamo poi che se il terreno di gioco è quello alpinistico, in cui il potere d’acquisto applicato alla retorica e al terreno acrobatico, al linguaggio spesse volte ricalcato da quello bellico – militarista –, essere indotti nell’abbaglio del superuomo che fa tutto da solo è un passo brevissimo. Comportamenti del genere su terreni a zero possibilità di sperimentazione, che obbligano a seguire un tracciato più pedissequamente che una via alpinistica o un sentiero, sono stupidi e non del tutto consapevoli. È una protesi del gioco che l’imprenditoria e la politica stanno costruendo sulla pelle delle valli e delle cime. In conclusione non caschiamo nel gioco: sono le scelte di indirizzo a generare i mostri cui la politica che le ha prodotte non vuole rispondere in maniera proficua. La responsabilità è politica, la colpa è del modello economico che ha intenzione di sfruttare ancor di più la montagna in ogni modo, oltre qualunque limite di ragionevolezza. In altre parole: se si precludono i corridoi faunistici agli orsi che si è ‘preteso’ di importare sul territorio anche per aumentare l’afflusso turistico, salvo poi lamentarsi del loro sovrannumero e proporre come unica soluzione l’abbattimento, si sta giocando con la pelle degli animali non umani. Se si rendono instagrammabili i sentieri, con panchine giganti e ammiccamenti acchiappa click, perché si vuol far crescere il turismo in maniera esponenziale e incontrollata ma poi li si chiude quando qualcuno si fa male, si sta giocando con la pelle degli animali umani. Se si trova normale spendere valanghe di soldi per alimentare i comprensori sciistici (o per realizzare skidome al chiuso in assenza di neve), per alimentare la speculazione edilizia, per realizzare Olimpiadi che lasceranno scheletri e macerie; se si pretende eliminare il rischio nelle attività ludiche criminalizzando per decreto o divieto ma si dà per assodata l’alta probabilità di farsi male in quell’obbligo alienante che è il mondo del lavoro si sta giocando con la pelle della società. Così facendo le amministrazioni e governi dimostrano di prendere scelte politiche di indirizzo che non manifestano rispetto alcuno verso i luoghi, verso le differenti specie animali che abitano quei luoghi, nessun rispetto anche verso le persone che abitano la montagna o che vengono da fuori, invogliate ad andare a ‘fare il ponte tibetano’ con la stessa spensieratezza con cui andrebbero nell’ennesimo inutile nuovissimo iper mega centro commerciale. In questi precisi ambiti queste scelte vanno censurate e attaccate. Servono cultura e capacità interpretative, sensibilizzazione, non overdose di emozioni indotte, normate da chi al primo guaio provocato si lava le mani e risponde con l’unico strumento che padroneggia: la repressione. L'articolo Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione (seconda puntata) sembra essere il primo su Alpinismo Molotov.
December 10, 2024 / Alpinismo Molotov
Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione
INTRO – INQUADRAMENTO- La storia dell’alpinismo, in genere, è una storia coloniale ed elitaria: il ricco, il nobile (“il” perché questa storia porta con sé anche un approccio maschilista) arriva ai monti inizialmente per ragioni cartografiche ed esplorative, in seguito per ragioni di conquista e blasone. In questa narrazione l’abitante, ‘il montanaro’, è un esserino grezzo e impaurito, che non sa godere delle bellezze della montagna, che non fa passeggiate o arrampicate per “vivere le cime” – con tutto il fascino di verticalità, desolazione e pericolosità – ma che tutt’al più “serve” perché conosce i luoghi circostanti a quelli che abita e può indicarli, e perché da bravo spallone può farsi portatore di strumenti e vettovaglie. Il monte come luogo piacevole e d’incanto, salubre, unito alla massificazione turistica cominciata tra gli anni ’60 e ‘70, porta allo sviluppo di un nuovo terreno di gioco, anche se non particolarmente originale, basti pensare alle similitudini con l’impiego di corde fisse. Se prima la ferrata era turistica e poi fu utilizzata per scopi militari, ora finte élite di eroi bardati assaltano il percorso ‘di massa’, un combinato da logica turistica: colonizzazione dello spazio e appiattimento dell’immaginario. Addentrarsi in questo ambiente è provare a sviscerare un tema tecnico e ispido, sul quale scegliamo di non intervenire, però qualche considerazione e riflessione generale crediamo vada fatta.   La successione di cenge attrezzate per mettere in sicurezza l’itinerario. Bocchette centrali di Brenta. Ci sono varie tipologie di ferrata: talune, storiche, nascono con l’idea di mettere in sicurezza percorsi già frequentati, altre, specie quelle dolomitiche o di bassa quota non sono realizzate per portare in un dato luogo ma esplicitamente per cercare la difficoltà. Fino ad una certa fase, forse, lo sviluppo di alcune ferrate assurde ha avuto a che fare con echi di arrampicata in artificiale, con diversi mezzi ma la medesima propensione a non porsi problema di manomissione del contesto. Un esempio di itinerario con logiche di artificiale, scale come staffe: ferrata Castiglioni alla Cima d’Agola. Possiamo distinguere grossomodo tre tipi di ferrate e conseguenti tipi di fruizione. 1. Opera militare mantenuta o ristrutturata a scopo turistico. Quasi assente in alpi occidentali; 2. attrezzatura fissa di un itinerario che semplifica una via alpinistica, rendendola accessibile a escursionisti ‘esperti’, e che di solito serve ad arrivare in cima o a traversare. È il caso della ferrata Bolver-Lugli a Cima Vezzana nelle Pale di San Martino o della Arosio al Corno di Grevo, nel gruppo dell’Adamello; 3. ferrata estrema, acrobatica, mozzafiato-adrenalina, tipicamente fine a sé stessa, in ottica di lunapark, di solito ridondante di infrastruttura: scalette, ponti, ecc., più orientata a palestrati che ad alpinisti/escursionisti. Non infrequente in alpi occidentali anche francesi, la ferrata Du Diable risponde sicuramente al caso lunapark. A sinistra la ferrata du Diable in tutta la sua insensatezza. A destra la ferrata Arosio al Corno di Grevo, già via alpinistica di cresta – per anni è stata accompagnata da polemiche. Più volte ne sono stati sabotati i fittoni e un tempo erano visibili scritte come «no ferrata» e «CAI Cedegolo incivile». Che ad esempio nei tardi anni ’30, in Dolomiti di Brenta, si sia pensato di attrezzare un percorso sfruttando le sequenze di cenge lì esistenti e ne siano così nate le Bocchette Centrali, può essere una cosa ragionevole. Il problema tuttavia, più che l’attrezzatura dei percorsi in sé, è la fruizione che se ne fa, la turistificazione intensiva dovuta al boom e al conseguente aumento del potere d’acquisto del ceto medio. Da qui nascono i ‘ferrata adventure park’ o percorsi come quello delle Aquile in Paganella o Intersport nel Donnerkogele. Tra questi ultimi e gli itinerari classici, storici, dovrebbe esserci una gran differenza. Sopra la  ferrata delle Aquile in Paganella. Sotto la ferrata Intersport al Donnerkogel. PARTE PRIMA – L’APPROCCIO SCERIFFO – Negli ultimi anni ci pare che le modalità di fruizione abbiano appiattito le sfumature costruttive in virtù di un’unica fruizione possibile. Così già da tempo (immagine del 2016): botta – risposta su un noto blog dedicato a tema   modo di stare sulla ferrata, la terminologia che ne descrive le difficoltà, gli entusiastici report fotografici che ne seguono, descrivono atteggiamenti assimilabili al tipo 3. Ci si concentra sull’adrenalina e non si riflette di sicurezza o rispetto dell’ambiente. Non si dice mai ad esempio, ed è disonesto, che una caduta su ferrata è potenzialmente molto più pericolosa di una in arrampicata. Senza tutto un sistema di dissipazione in ordine, senza competenze specifiche (spesso risolte con ‘compra l’attrezzatura’) si arriva a fattori di caduta nettamente più alti, con sollecitazioni che, per come sono progettati, moschettoni e corde non possono reggere. E se resistessero, non lo farebbe il corpo umano. La strada che si sta percorrendo – stiamo ragionando per ipotesi – è quella del «vorrei ma non posso, però c‘è la ferrata». È così che questi percorsi si sono guadagnati e si stanno guadagnando una larga ‘fetta di mercato’. buona parte delle criticità che stanno alla base sono la turistificazione e lo sfruttamento, il rilassamento delle sinapsi preposte all’accortezza, in favore della deresponsabilizzazione collettiva: ci si diverte, si provano ‘brividi’, si racconta l’atto eroico con la go-pro. E nel frattempo si intasa, si erode, si sovra-alimenta la bulimia del profitto. E così ferrate che potevano tranquillamente rientrare nella categoria 1, quella di opera militare manutenuta come il Sentiero dei Fiori in Adamello, grazie al battage pubblicitario schizzano dritte nella 3: adrenalina. Passerelle si materializzano al ritmo dei ponti tibetani, lavori degni di grandi opere, appalti con imprese e eccesso di infrastruttura. Nomi evocativi, da marketing, come nel caso dell’Epic trail. L’epica dell’Odissea, de Il mucchio selvaggio, messe a disposizione per pochi spicci a chi passa le settimane sfruttato sul luogo di lavoro, con giubilo dei geometri che progettano siffatti percorsi. Tram a Milano pubblicizzano il sentiero dei fiori. Se questa è la logica, ci sentiamo di affermare che, indipendentemente da quel che si pensi della loro bontà, una volta che una ferrata esiste chi va in montagna tende a pensare che sia in ordine. Che sia sufficiente fissare il moschettone a un cavo che terrà, i cui chiodi non salteranno via come bottoni, e seguirlo camminando. Su questo aspetto risulta impossibile colpevolizzare l’escursionista, e infatti si gioca alla deresponsabilizzazione, al ‘ludico gestito dalla legge’. Soprattutto se gli escursionisti vengono attratti e invogliati a percorrere quella ferrata dagli opuscoli delle Pro Loco. In alcune zone – Dolomiti – su tutte si esaspera il ruolo parco-giochi dei sentieri attrezzati, frequentati da individui accessoriati e pensati esplicitamente per cercare la difficoltà, in altre la loro dimensione tecnica conta molto meno, sono stati conservati come retaggi militari o sono nati soprattutto per poter dire «li abbiamo anche qui», anche se non sono nemmeno lontanamente paragonabili ai primi e salvo poche eccezioni hanno molto meno senso. Se si costruiscono parchi giochi, si promuove una certa idea per cui si paga il biglietto – leggi “compra l’attrezzatura giusta e magari figa per agganciarti alle pareti e il più è fatto” – ed è ragionevole che il consumatore pretenda che lo spettacolo fili liscio: che la messa in scena sia sicura e l’attrezzatura che userà sarà in buono stato, funzionante e certificata. PARTE SECONDA – L’APPROCCIO BIMBOMINKIA – Nei cantieri sono di solito posti cartelli in cui si elencano i vari strumenti di protezione e si invita i lavoratori a usarli. Della pericolosità del lavoro in sé niente, non si sa, non si dice. Aspetti diversi, certo, il cui trait d’union è che si può, si DEVE visto che si fa poco per evitarlo, morire di lavoro. Attraverso il marketing si raccontano domatori di montagne su ferrata salvo poi drammatizzare i sentieri per tenere alla larga rogne legali come capitato, ad esempio a San Felice in Circeo. Ordinanza di chiusura sentieri del comune di San Felice in Circeo. Stando al sito del parco del Circeo, nel momento in cui scriviamo il sentiero 750 risulta tuttora interdetto (clicca qui per leggere l’ordinanza completa). Manovre per le quali non è difficile immaginare la funzione di anticamera per stabilire parcelle di soccorso, nella cornice di un attacco al tempo libero, alla preservazione della ‘carne-lavoro’. Il tema delle garanzie e dei diritti – compreso quello alla sicurezza – vengono insomma innestati su aspetti della vita in cui non entrerebbero – o non dovrebbero entrare – per nulla, come gli ambienti naturali. La frequentazione di ambienti ‘selvaggi’ con tale mentalità, avviene dando per scontato che ‘qualcuno’ si occupi di ‘far funzionare’ tutto, che sia un preciso diritto del fruitore, che se qualcosa non funziona ci deve per forza essere qualcuno che ne ha colpa. In questo contesto a poco vale, è anzi fuorviante, l’idea lanciata dal CAI sulle pagine de Lo Scarpone di approdare a una non meglio codificata ‘autoresponsabilità sui sentieri’. Proposta che suona stonata quanto la colpevolizzazione dell’atteggiamento individuale di fronte a altri due macro-temi: la crisi climatica e la gestione pandemica appena trascorsa. A una lettura di superficie del dispositivo che dovrebbe responsabilizzare si potrebbe rispondere con qualcosa come: «Alla buon’ora. Bene.» Rileggendo tuttavia l’articolo de Lo Scarpone, le certezze vanno sgretolandosi. Anzitutto si scrive solo di sentieri e escursionisti, e non si fa cenno a tutte quelle situazioni e manovre dove responsabilità ‘altre, dall’alto e collettive’ potrebbero esserci: come è attrezzata una via alpinistica, quanto sono manutenute una ferrata o una falesia, ecc. Perché in fin dei conti una via di roccia, misto o ghiaccio, e a maggior ragione una ferrata, altro non sono che sentieri tecnicamente più difficili. In secondo luogo si legge: «i volontari che si occupano della manutenzione della rete sentieristica non possono essere responsabili di chi s’incammina lungo i sentieri con troppa leggerezza». Questa frase suona un po’ come uno scarico di responsabilità post tragedia in Marmolada. O post alluvione: non si muove un dito per piani di assesto idrogeologico, per uno studio approfondito e conseguente messa in sicurezza del territorio, in generale si continua ovunque nell’opera di cementificazione. Si irride il rischio, si perseguono disboscamenti e depauperamenti dei territori, e si realizzano grandi opere. Ma se succede qualcosa, se questo qualcosa si ripete con sempre maggior frequenza, tocca che si renda d’obbligo l’assicurazione, che l’individuo paghi. Vecchio gioco applicato all’alpe: quando mai non si è sovraccaricato il singolo di comportamenti non corretti per la morale corrente? Tipica mossa del cavallo criminalizzare l’individuo, utile a tutelare l’amministrazione pubblica di turno e il profitto dell’indotto. Molti sentieri sono manutenuti dai comuni, enti, o associazioni da questi riconosciute. Con l’iper-turistificazione in atto nelle terre alte ci si auto-sgrava da quel che si produce: intasamento e scarsa conoscenza. In rete e sui blog si leggono sempre più richieste del tenore: «la (tal ferrata) è percorribile d’inverno?», «è aperta anche se ha fatto molta neve? Fa freddo, se c’è ghiaccio ci si può andare?». Come se un percorso fosse equiparabile, assimilabile, a un impianto di risalita col relativo gestore a attivarne e regolarne la corrente, il flusso. L’idea di indagare Comuni e centri meteo a seguito della tragedia in Marmolada era pessima, le ipotesi di reato sono state archiviate, pare però che il CAI voglia espungere dal discorso quell’ipotesi per sovraccaricare il singolo di un altrettanto presunto e assurdo comportamento scorretto. Teniamo inoltre presente che a decidere non sarà uno specialista di monti, ma un giudice che non potrà applicare attenuanti, che anzi sarà messo in condizione di aggravare la posizione individuale sulla scorta di una valutazione di tipo morale. Una proposta che non impedirà comunque chiusure arbitrarie di percorsi in nome del securitarismo, della ‘sterilizzazione del pericolo’. Un’idea che rafforzerà la caccia alle streghe, i discorsi allucinati sulle responsabilità del capo-gita o cordata, individuato come ‘il più capace’ e dunque responsabile in toto della salute di interi gruppi, amicali e/o parentali. Il meccanismo piuttosto ricorrente, insomma, per cui si nasconde sotto al tappeto la responsabilità collettiva e si individua un capro espiatorio. E dal momento in cui tutto è acquistabile, non è difficile immaginare qualcosa di simile a vecchie proposte come il patentino di montagna o l’obbligo assicurativo per le calamità naturali o per sciare in pista. «Per sgravarsi dalla responsabilità su sentiero va pagata la guida», che è un po’ quello che già succede con l’obbligo di Artva, pala e sonda: «non conta dove vai o cosa fai, ma cosa possiedi. Compra l’attrezzatura, anche quella inutile o che non sai usare, e godrai di un trattamento ‘riservato’». Il fatto che nell’articolo si dica che molti dei lavori di manutenzione sono fatti da volontari fa puzzare la situazione, perché se dall’altra parte c’è il dito puntato sulla responsabilità individuale si corre il rischio di allontanarli, in fin dei conti sono individui pure loro. Fin qui ci siamo concentrati su due diversi approcci: quello dell’escursionista che pretende che il potere gli garantisca la fruizione in totale sicurezza dal momento che ha speso e acquistato materiale – confondendolo con l’esperienza – e quello del potere che dopo aver creato quest’illusione scarica in toto le responsabilità sull’individuo. Non sono due modi separati, stanno assieme e descrivono una sorta di double bind, di «grazie alla nostra ferrata puoi salire in sicurezza ma se il cavo si rompe e cadi è colpa tua». Per non restare intrappolati in questa costrizione bisogna allora ribaltare la prospettiva. Lo faremo nella prossima puntata, dando conto della nostra idea di come frequentare la montagna, rispettandola e rispettandosi.   L'articolo Moschettoni e doppi legami: le ferrate tra marketing e repressione sembra essere il primo su Alpinismo Molotov.
December 2, 2024 / Alpinismo Molotov
Giuliano, ciao
Clicca sull’immagine per ascoltare la sua “Ironica la vita”. Due giorni fa è mancato Giuliano Contardo, musicista amato e stimato nonché fratello del nostro compagno Daniele. Quando manca un fratello, un compagno di vita, ci si stringe attorno alla casa comune. Ci uniamo al passo e al cordoglio della famiglia, si parte e si torna insieme. L'articolo Giuliano, ciao sembra essere il primo su Alpinismo Molotov.
November 26, 2024 / Alpinismo Molotov
HoD2024, resistere ai Gafam e un saluto
https://hackordie.gattini.ninja/randioworld/wp-content/uploads/2024/11/hod_2024_19nove.ogg Condoglianze per la morte di Lunar a tutta la comunità transfemminista francofona, Debian e l’ecosistema Tor/Tails Citiamo tra i progetti da loro fondati: – Reproducible builds https://reproducible-builds.org/ – Nos oignons https://nos-oignons.net/    
November 19, 2024 / hack or die
Container di guerra
Diamo per scontato che il quadro politico internazionale e le decisioni dei governi, incluso quello sovranazionale di Bruxelles, si siano irreversibilmente orientati verso l’aumento della spesa militare e in particolare verso il riarmo. Nonostante le grandi mobilitazioni per la pace, l’enfasi sulla sicurezza e le “politiche della paura” (degli immigrati, della disoccupazione, delle pandemie, della criminalità, della Russia, della Cina…) dominano la comunicazione pubblica e spingono l’“economia della guerra”. È facile dunque prevedere che nei prossimi mesi e anni il movimento degli armamenti e delle munizioni si intensificherà in tutte le modalità di trasporto. Mobilitazione sindacale nel porto del Pireo, contro un container di munizioni destinate a Israele e pronte per essere caricate sul cargo «Marla Bull», battente bandiera delle Isole Marshall, 18 ottobre 2024. Secondo the Weapon Watch, l’osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei, in questo quadro si aprono prospettive nuove al ruolo di controinformazione e di denuncia che stanno svolgendo i lavoratori della logistica nei porti, negli aeroporti, nelle ferrovie. Molti episodi si sono già registrati –l’ultimo nel porto greco del Pireo –, Mobilitazione sindacale nel porto del Pireo, contro un container di munizioni destinate a Israele e pronte per essere caricate sul cargo «Marla Bull», battente bandiera delle Isole Marshall, 18 ottobre 2024. soprattutto riguardanti le navi che stanno portando munizioni verso Israele. Nonostante tutto, le armi sono più visibili – All’aumento della produzione e della circolazione degli armamenti corrisponde, ovviamente, una loro maggiore visibilità. Nei centri logistici, negli hubs di smistamento sarà più facile vedere transitare o sostare convogli di mezzi blindati, container di bombe e munizioni, casse di materiale militare. Le autorità cercano di celare queste catene logistiche della morte, le aziende produttrici temono il discredito e la pubblicità negativa ma certo non rinunciano ai profitti. Fare emergere il commercio di armamenti, rendere cosciente la cittadinanza di quello che avviene sotto i suoi occhi è già mettere in atto una protesta non violenta contro le guerre. Nel nostro Manuale per weapon watcher (vedi qui) abbiamo dato alcuni suggerimenti pratici per l’osservazione sul campo delle armi in movimento. Qui vedremo più in dettaglio i contenitori delle munizioni, grandi e piccole, la cui produzione è enormemente aumentata a causa dei conflitti in corso. Contenitori di munizioni leggere – Al di sotto dei 20 mm di calibro si parla di “munizioni leggere”. Sono il vero “carburante” dei conflitti armati, e sono uno dei fattori critici nelle operazioni militari sul campo. Tipica merce pericolosa (DG, dangerous good nel linguaggio professionale dei trasporti), le munizioni devono riportare su tutti i contenitori l’etichetta a losanga arancione e la classe di pericolosità. Via mare, le munizioni leggere viaggiano normalmente in container, imballati in scatole di cartone a loro volta collocate su pallet. Durante la navigazione le norme IMO impongono di posizionare i container contenenti merci di classe 1 (esplosivi di varie sottoclassi) lontano da qualsiasi fonte potenziale di calore o di accensione, e rispettando le norme di incompatibilità. Sebbene le munizioni ordinarie, normalmente di classe 1.4, possano essere posizionate indifferentemente sopra o sotto il ponte, purché in posizione “fresca”, è assai frequente che il capitano le collochi prudentemente sul il ponte, spesso in esterno di riga. All’interno del container le munizioni sono normalmente collocate in pallet forcabili, in scatole o casse sovrapponibili legate con cinghie, talvolta avvolte in film sensibile, sempre con l’obbligo di porre le etichette arancioni su ogni imballaggio. La portata massima di un europallet (il più utilizzato) è 1.500 kg, un container da 20 piedi porta 28 tonnellate, un High Cube da 40 piedi 26 tonnellate. Un carico di munizioni Fiocchi sequestrato dalla Guardia costiera senegalese sulla nave «Eolika», nel gennaio 2022. Il carico era in tre container, contenenti vari pallet, ciascuno per un centinaio di scatole. Sebbene la normativa internazionale sul trasporto delle merci pericolose sia in vigore da decenni, e rappresenti un’importante tutela per gli operatori logistici, è stata sommariamente applicata in passato, e spesso i vecchi stock di munizioni non sono correttamente etichettati. A sx: casse di munizioni di provenienza ucraina, collocate nei depositi militari della Maddalena nei primi anni 2000. Su alcune casse si può leggere 7.62-T-46, cioè cartucce cal. 7.62 con proiettile tracciante per fucili tipo Kalashnikov. Sopra: munizioni sequestrate dai Marines americani nei depositi del partito Bath, a Qalat Sukkar in Iraq, durante l’operazione Iraqi Freedom. Contenitori di munizioni da artiglieria – Dalla guerra in Ucraina abbiamo imparato che il proiettile d’artiglieria più usato è indubbiamente il calibro 155 mm, di cui l’esercito di Kiev “consuma” 200.000 pezzi al mese. Come arrivano in prima linea le munizioni di artiglieria? Le tecniche di rifornimento delle linee avanzate sono abbastanza semplici, e tendono a ridurre al massimo le “rotture del carico” nel passaggio da un veicolo all’altro. Gli americani usano il PDS Palletised Load System, gli inglesi il DROPS Demountable Rack Offload and Pickup System. In sostanza si tratta di pianali mobili che camion specializzati dotati di gru depositano a terra, riducendo al minimo la manipolazione del carico. A sx: un sistema di scarico pallettizzato con motrice Oshkosh M1075, usato dai reparti di artiglieria dell’esercito americano. A dx: diversi imballaggi per proiettili d’artiglieria impiegati dal US Army. In primo piano, proiettili illuminanti da 155 mm. Diversamente dal trasporto effettuato da operatori civili, nell’“ultimo miglio” intervengono mezzi e personali militare, e gli imballaggi sono ridotti all’essenziale per non ostacolare il pronto impiego delle munizioni. Missili e siluri – Sempre più di frequente, gli operatori logistici civili spediscono e trasportano sistemi d’arma più complessi. Prendiamo il MICA (missile d’interception, de combat et d’autodéfense), il missile antiaereo fabbricato dalla branca francese della società mista MBDA. Se ne sono dotati molti paesi africani e anche la Guardia Nazionale saudita. Viene lanciato sia da piattaforme aeree (aria-aria) che terrestri e navali (superficie-aria), in questo caso da contenitori di lancio posti verticalmente (versione VL, vertical launch) Da sx verso dx: imballaggio del missile MICA, contenitore del missile di 4 m di lunghezza, missili MICA NG (nouvelle génération) nelle due versioni IR (autodirezione a infrarossi) e EM (autodirezione elettromagnetica). Nei suoi tre stabilimenti italiani, MBDA produce il missile anti-nave Teseo, una delle evoluzioni aggiornate del celebre OTOMAT, progetto degli anni Settanta di OtoMelara e Matra la cui ultima versione (MK2/E cioè evolved) è ora in fase di collaudo nel “poligono a mare” interforze di Salto di Quirra, in Sardegna. Secondo quanto testimoniato dai lavoratori dell’aeroporto di Brescia-Montichiari, missili e piattaforme OTOMAT/Teseo sono state imbarcati lo scorso ottobre su voli commerciali con destinazione Bangladesh. A sx: contenitore/piattaforma del missile Teseo, in lavorazione presso lo stabilimento integrato di La Spezia-Aulla di MBDA. A dx: due tubi di lancio OTOMAT installati a bordo della fregata venezuelana «Mariscal Sucre». Nei suoi tre stabilimenti italiani, MBDA produce il missile anti-nave Teseo, una delle evoluzioni aggiornate del celebre OTOMAT, progetto degli anni Settanta di OtoMelara e Matra la cui ultima versione (MK2/E cioè evolved) è ora in fase di collaudo nel “poligono a mare” interforze di Salto di Quirra, in Sardegna. Secondo quanto testimoniato dai lavoratori dell’aeroporto di Brescia-Montichiari, missili e piattaforme OTOMAT/Teseo sono state imbarcati lo scorso ottobre su voli commerciali con destinazione Bangladesh. A sx: un contenitore di un missile Aster viene imbarcato su una fregata FREMM. Sopra: una sezione parziale della batteria Samp-T. Ciascuna batteria completa costa oltre 700 di euro. In questi mesi, si è parlato molto della fornitura all’Ucraina dei sistemi Samp-T (sol-air moyenne portée-terrestre), i “Patriot europei” costruiti da un consorzio a cui partecipano sia MBDA che la francese Thales, e basati sul missile Aster 30, di cui si sta approntando la versione Block 1 NT. Si noti che operazioni di manutenzione e di updating degli Aster si effettuano in tre stabilimenti, in Francia e Gran Bretagna, e per l’Italia ad Aulla, a una ventina di km da La Spezia, presso il Centro interforze munizionamento avanzato. La versione terrestre del sistema Samp è composta da 4 lanciatori verticali dotati di 8 missili ciascuno, un modulo radar, un modulo d’ingaggio, un modulo di comando, un modulo di generazione elettrica, più due moduli di ricarica, in totale si utilizzano dieci veicoli che nella versione italiana sono Iveco-Astra 8×8. L’esercito italiano ha in dotazione 5 batterie (tre dislocate in Italia, una in Slovacchia e una in Kuwait), ma il ministro della Difesa ha recentemente affermato di volerne acquistare altre dieci. Quella inviata in Ucraina, composta dal moduli radar italiani e lanciatori francesi, è già stata danneggiata, e verrà probabilmente integrata con quella in rientro dalla Slovacchia. Veicolo speciale per il trasporto di nitroglicerina e acetato d’etile approntato per Rheinmetall Denel Munition (RDM), filiale sudafricana del colosso tedesco. Come si trasporta l’esplosivo – La penuria di munizioni è anche penuria di esplosivi. Il mercato mondiale dei materiali energetici a scopo militare è in espansione, con previsione del raddoppio del fatturato globale nel giro dei prossimi dieci anni. L’Italia – pur rimanendo importatore netto – negli ultimi tre anni ha intensificato le proprie esportazioni, e nei primi sette mesi del 2024 l’Ucraina, mai comparsa tra i clienti, ne è divenuta il primo. La produzione e il trasporto degli esplosivi sono attività altamente pericolose. Gli stabilimenti sono sempre posti lontano dagli abitati urbani e gli spostamenti dei semilavorati e dei prodotti finiti verso i luoghi di caricamento delle munizioni sono effettuati con particolari precauzioni. Ciò nonostante gli incidenti si registrano con una certa regolarità.
November 12, 2024 / The Weapon Watch | 6a puntata: Intermediari e clienti per i droni killer israeliani
La ricetta progressista per la violenza giovanile a Napoli
Dopo i recenti fatti di cronaca che hanno portato all’uccisione di due giovani nel centro di Napoli e a San Sebastiano al Vesuvio il terzo settore cittadino ha convocato un’assemblea pubblica per sabato 9 novembre alle ore 10 in piazza Cavour. Nel manifesto di convocazione, che evita accuratamente di nominare le uccisioni di ragazzi per mano di appartenenti alle forze dell’ordine, si reclama “un patto costante tra istituzioni, mondo del terzo settore, scuola, associazionismo, realtà imprenditoriali, chiese e realtà religiose”. E poi “un lavoro dignitoso, una sicurezza senza retorica, un controllo del territorio e un piano educativo straordinario che contempli interventi straordinari dagli asili all’età adulta, e non provvedimenti presi sull’onda mediatica e che puntano solo sulla repressione, senza prendere in carico le persone e i contesti”. Gli enti del terzo settore affermano di essere stati “troppo soli, troppo precari, troppo inascoltati in questi anni”; e considerano questo “un momento per rendere visibile lo straordinario lavoro che facciamo e per chiedere che le nostre pratiche innovative, generative, informali, collaborative diventino una politica pubblica”. Sulle enormi contraddizioni del lavoro del terzo settore, non solo a Napoli, abbiamo scritto e continueremo a scrivere. Così come i ricorrenti sacrifici di queste giovani vite sono stati per noi le tristi occasioni per far sentire una voce diversa dalla litania progressista, tanto ipocrita quanto impotente. Riproponiamo qui uno degli ultimi articoli, originato da un libro di Isaia Sales, sintesi perfetta di tutte le velleità del mondo progressista. Napoli non è tra le prime cinquanta città più violente al mondo per numero di omicidi. E nemmeno in Europa. E neanche in Italia. E nemmeno per numero di minori coinvolti in reati. Esordisce con questi dati di fatto Isaia Sales – saggista, docente universitario, già deputato dei Ds –, nel suo ultimo libro, Teneri assassini. Il mondo delle babygang a Napoli (Marotta&Cafiero, 2021). Allora perché dedicare un volume alla violenza dei minori napoletani? Cosa caratterizza la situazione della città al punto da rendere la questione una vera emergenza? La “qualità” di questa violenza, sostiene l’autore; la “radicalizzazione” dei giovanissimi; l’alto tasso di recidiva da adulti dei minori finiti in carcere, ma anche “la percezione che si ha della fase attuale”. C’è uno scorrimento permanente – scrive Sales – tra criminalità minorile, giovanile e camorristica; tra delinquenza comune e organizzata. I gruppi camorristi sono più frammentati e instabili di quelli di mafia e ndrangheta. E questo ne aumenta la pericolosità. Le nuove bande, che spesso sorgono nel vuoto lasciato dai successi delle forze repressive, sono composte da persone sempre più giovani e incontrollabili, che per i gruppi di camorra costituiscono un “esercito delinquenziale di riserva”, da cui attingere in modo permanente. Secondo Sales il processo in atto non è più nemmeno definibile come “camorra”, la quale abitualmente esercita la propria influenza su uno strato più ampio, che non coincide del tutto con quello delinquenziale. Sales lo chiama “gangsterismo sociale”, una miscela più autoreferenziale di “illegalità di strada e affari milionari”. Con la droga di massa, la possibilità di arricchirsi si è estesa a dismisura e “attira masse di giovani un tempo dediti a lavori di sopravvivenza”. Provengono da un mondo di miseria, ma a quel mondo restano aggrappati anche quando hanno raggiunto l’obiettivo. La loro reputazione e le loro relazioni non varcano i confini del quartiere a cui appartengono. “Non si integrano”, annota Sales con sgomento. E non si accontentano di sopravvivere. L’emergenza criminale a Napoli è cominciata alla fine degli anni Settanta e non è ancora finita. Tra le sue cause, ricorda Sales, la fine della promiscuità sociale nel centro storico, dovuta allo spostamento dei ceti abbienti nei quartieri residenziali e al trasferimento dei ceti popolari nelle nuove periferie prive di tutto a partire dagli anni Sessanta. Poi il caos del dopo-terremoto e in anni recenti la crisi dello stato sociale; l’isolamento della città a livello nazionale; la mobilità sociale bloccata, e l’esercizio della violenza come unica chiave per sbloccarla. Sales sottolinea l’alto numero di minori coinvolti in procedimenti per associazione mafiosa. E il fatto che solo il dieci per cento dei reati di minori sia commesso da stranieri, molto meno che in altre grandi città italiane. La questione è quindi tutta “indigena”. Questi giovani provengono sempre dagli stessi quartieri e da un’unica condizione sociale. Sales li definisce “sottoproletari”. L’alta recidiva da adulti rivela, tra l’altro, la continuità con l’esperienza delinquenziale delle famiglie. Sono, infatti, spesso figli, fratelli o nipoti di pregiudicati. Da buon progressista, Sales sa (e lo afferma, che è già tanto di questi tempi) che “tutto ciò non ha niente a che fare con il destino, con i geni criminali nel sangue”, ma piuttosto con l’incidenza di specifici indicatori in determinate aree: gli alti tassi di disoccupazione e di abbandono scolastico, il disagio abitativo, i precedenti penali nel nucleo familiare. “Non si nasce camorrista, ma ci sono molte più probabilità di diventarlo in alcuni ambienti sociali del centro storico, delle periferie di Napoli o del suo hinterland”. Sales traccia un parallelo con Parigi e Londra. “L’insuccesso di Napoli come metropoli – scrive – è determinato dal continuo formarsi, lungo tutti i tentativi di modernizzazione che l’hanno caratterizzata, di consistenti sacche sociali irriducibili all’integrazione, di cui la camorra ha attirato e organizzato le parti più violente”. Al centro dell’attenzione quindi non sono i modi in cui la “modernizzazione” è stata realizzata dalle classi dirigenti locali e nazionali, ma le “resistenze” esercitate da queste “sacche” di presunti irriducibili. Un’altra caratteristica di questi refrattari sarebbe infatti questa: la “sostanziale assuefazione nei secoli delle classi popolari e plebee rispetto alle loro miserabili condizioni”. E ancora: “A Napoli non è la città del benessere che si separa dall’altra (come avviene di regola nelle metropoli moderne), è la città del malessere che si isola, si barrica, scava le trincee per rendere ancora più forte, più violenta la distanza”. Quest’ultima affermazione non corrisponde in nulla all’esperienza che ho della mia città, ma andiamo avanti. Ora, si dà il caso che proprio a partire dagli anni Sessanta della “grande modernizzazione”, anche a Napoli le classi popolari, talvolta su binari paralleli, talvolta intrecciando i propri percorsi con studenti, operai, esponenti delle professioni, abbiano compiuto enormi sforzi collettivi per emanciparsi dalla propria miseria, non solo rivendicando l’accesso ai fondamenti della modernità (una casa decente, un lavoro stabile, la possibilità di studiare, di curarsi, di abitare in quartieri salubri, ecc.), ma anche reclamando protagonismo e partecipazione alla vita pubblica attraverso forme autonome organizzate. Si dà anche il caso che tutti questi tentativi siano sempre stati osteggiati o abilmente svuotati dall’interno dal sistema politico, con il partito comunista in prima fila. Di questo recente periodo della storia cittadina, durato almeno quindici anni, Sales non fa menzione, soffermandosi invece sulle alleanze strette nei secoli passati tra il sistema di potere ed elementi popolari, o popolari e criminali, in funzione anti-riformista. Ci sono poi alcune annotazioni vaghe e opinabili sulle presunte connessioni tra i gruppi politici armati, che alla fine degli anni Settanta cominciarono a operare in città, e la camorra di Raffaele Cutolo allora in auge. Fino a questo sillogismo: “La camorra si rivela un’organizzazione criminale estremamente sensibile e permeabile alle ideologie politiche estreme e, a Napoli, sia quelle di sinistra, sia quelle di destra hanno storicamente tentato di rappresentare il sottoproletariato e i suoi contraddittori interessi”. L’aspirazione di Sales, se ne deduce, sarebbe una “integrazione” centrista, moderata, responsabile, sostanzialmente guidata dall’alto. Ma chi dovrebbe guidarla, e con quali modalità? Sales riconosce che finora si è operato poco e male al riguardo. Ma è proprio quando deve indicare una via d’uscita plausibile che il discorso progressista, costretto a misurarsi con i fatti, rivela tutta la sua inconsistenza. Colpisce, intanto, la disparità tra l’accuratezza della disamina sui mali e la superficialità dei rimedi proposti. Sulle duecento pagine del testo, l’autore dedica alla pars costruens, alle possibili soluzioni dei problemi esposti, appena sei pagine. Del disastro delle periferie dovrebbe occuparsi Renzo Piano. Punto. Renzo Piano, il “ricucitore”. Per i quartieri del centro storico, invece, si dovrebbe riuscire a “scompaginare la composizione sociale senza comprometterne la vitalità”. Come? Per esempio, trasformandoli nei “principali quartieri culturali e artistici della città”, ristrutturando edifici per farne case per studenti e lanciando un nuovo programma di edilizia economica e popolare. Alle famiglie a rischio bisognerebbe erogare prestiti o esenzioni per incentivare la frequenza scolastica dei figli. Andrebbero formate équipe multidisciplinari per seguire oltre l’orario scolastico i bambini di “particolari zone e quartieri, selezionati sulla base della percentuale di reati riscontrati tra i minorenni”. Lo stato dovrebbe supportare direttamente l’iniziativa, assumendo “migliaia di psicologi, assistenti sociali, insegnanti, tutor, affinché ogni bambino sia affidato fin dalla nascita a esperti che li seguano in tutti i passaggi della loro vita”. Per i più grandi, di fresco approdo nel circuito della giustizia, sarà necessario trasformare in scuole e fabbriche a tempo pieno gli attuali istituti di pena. “Chi arriva in quei circuiti deve conoscere la scuola che non ha conosciuto prima e imparare un mestiere che altrimenti non troverà e nessuno dovrà rifiutarsi”. All’uopo lo stato selezionerà gli insegnanti migliori, riserverà dei posti nelle università e nelle imprese, stabilirà sgravi fiscali per incentivare queste ultime. “Sarebbe interessante immaginare una scuola di alta formazione per il personale che si occuperà nel futuro di minori a rischio”. Il tono delle proposte è ispirato, da sogno a occhi aperti. Ma la realtà – e questo Sales non può non saperlo – è molto più terra terra. Come ignorare, per esempio, che la scuola pubblica a Napoli non ha più da tempo alcun tipo di presa su bambini e adolescenti che provengono da situazioni di grande precarietà e deprivazione. Inutile rifare l’elenco delle ragioni. Basti dire della consuetudine, nelle scuole di confine (tra quartieri bene e quartieri popolari), di selezionare accuratamente gli alunni per comporre classi omogenee, così che gli ambienti dei benestanti siano depurati dalla presenza di elementi popolari, e viceversa. Questo per il clima culturale. E basterebbe. Ma pensare di poter contare sulla scuola per un compito simile, dopo che due anni di gestione pandemica hanno messo all’angolo le già sparute sacche di tolleranza, dando briglia sciolta agli elementi più autoritari, sadici e paranoici tra i dirigenti e gli insegnanti; dopo che la transizione accelerata al digitale, sia a scuola che nel lavoro sociale, ha approfondito ulteriormente il baratro tra gli alfabetizzati e gli ignoranti, tra chi ha una famiglia stabile e chi non ce l’ha, tra chi vive in spazi adeguati e chi no; fare affidamento su questo panorama di macerie per pensare di redimere i “ragazzi cattivi” non è solo una fumosa velleità, ma una consapevole bugia. “L’integrazione delle masse sottoproletarie”, come dice di volerla Sales, non riuscirà a questa classe dirigente. Non ci sarà alcun piano di edilizia economica e popolare nel centro storico, ci saranno invece sempre più case vacanze, maggiori pressioni dei proprietari per sfrattare e ristrutturare, sempre più ristoranti e friggitorie che offriranno lavori sempre più precari, usuranti e sottopagati per i giovani che vorranno accettarli. Non ci saranno equipe multidisciplinari, ma sono già qui gli sgomberi di senzatetto e la militarizzazione dei quartieri centrali: è il modo in cui la nuova giunta comunale si è presentata alla città. Non ci saranno scuole di alta formazione per gli educatori, perché le imprese del terzo settore non hanno alcun interesse a investire su educatori e operatori sociali, ma solo a usarli come pedine usa e getta nel Risiko di bandi e progetti sempre più frammentari e slegati dai bisogni dei territori. Piuttosto che favoleggiare sul ruolo delle istituzioni esistenti, il “progetto integrazione” dovrebbe innanzitutto passare da una critica approfondita alle pratiche e alla cultura che quelle istituzioni veicolano. La “radicalizzazione” dei giovani violenti, sostiene Sales, non ha motivi apparenti. Si tratta di “insoddisfatti che non sanno bene i motivi della loro insoddisfazione”. È una “radicalizzazione del niente”, perché “niente sono quelli che la praticano e niente di concreto perseguono”. Ma si sbaglia di grosso. Troppa è qui la distanza del progressista dall’oggetto della sua analisi. Questi ragazzi, certo, galleggiano nell’ignoranza, ma non c’è bisogno di una laurea per accorgersi che la propria vita è priva di sbocchi. E, d’altra parte, dovrebbero vivere da eremiti per riuscire a sottrarsi ai messaggi ossessivi che provengono dalla società degli integrati: fai soldi, ottieni successo, consuma senza limiti, o non sarai niente. La cosa interessante, la cosa davvero meritevole di studio, è che la maggior parte di essi, nonostante tutto, sa sottrarsi al richiamo, sa riconoscere la trappola dell’autodistruzione. In molti, infatti, stringono i pugni, abbassano lo sguardo e accettano quel che c’è; fanno piani nella loro testa, tengono vivi i sogni, e intanto non si “integrano”. Non si illuda chi li vede servire ai tavoli, fare una consegna o armeggiare sotto la pancia di un’auto. Anche volendo, è difficile integrarsi in un mondo senza futuro. E poi ci sono gli altri. Quelli che oscillano, quelli che sbagliano e poi tornano indietro, quelli che vorrebbero tornare indietro ma ormai è troppo tardi, e quelli che si bruciano subito tutti i ponti alle spalle (la casistica è molto più varia di come la immaginano i progressisti). Sono quelli che daranno e riceveranno dolore, che andranno a sbattere da soli contro un muro o saranno ridotti alla resa con la forza. Si potrà provare a debellarli con strumenti gentili: le riqualificazioni urbanistiche, la “turistificazione” o l’emigrazione di massa. Ma per adesso sono ancora troppo numerosi perché spariscano tutti dentro le nostre sovraffollate galere. Non ci sarà nessuna integrazione. Tirarne fuori uno alla volta non paga. Non ha pagato. Ce ne siamo accorti in tutti questi anni, accompagnando i tentativi più onesti delle persone di buona volontà. I ragazzi cattivi dovranno uscirne tutti insieme oppure non ne usciranno. Le strade dell’emancipazione dovranno cercarle da sé, oppure insieme a chi avrà ancora la forza di accompagnarli per un tratto di strada: senza riserve mentali, senza appuntarsi medaglie, senza distrarsi dagli obiettivi. Ma intorno a loro dovranno succedere anche altre cose perché si possa alimentare qualche speranza. Devono fare da soli, ma non dipende solo da loro. (luca rossomando)
November 8, 2024 / NapoliMONiTOR