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Uno strano sbarco nel porto di Genova: tunner per Aviano
Questa volta la «Bahri Jeddah», arrivata a Genova il 7 luglio, non trasportava solo armi per l’Arabia Saudita e gli emiri del Golfo. Prima di ripartire per la tappa egiziana di Alessandria, sulle banchine genovesi ha depositato anche una strana attrezzatura, nuova di fabbrica e imbarcata nel terminal di Dundalk, porto di Baltimora, Maryland. Si tratta di un tunner, un aircraft cargo loading-unloading system, una grande macchina mobile per il carico-scarico di merci da aeromobili. L’attrezzatura appartiene all’US Air Force, è destinata alla base aerea di Aviano ed è stata fabbricata da DRS Sustainment Systems Inc., società che in via diretta e indiretta è controllata da Leonardo Spa. Attrezzature di questo genere non sono utilizzate dalle forze armate italiane, che non dispongono di giganteschi cargo militari come il C-5 ‘Galaxy’ (120 tonnellate di carico) e il C-17 ‘Globemaster III’ (76 tonnellate di carico). Questa la ragione dell’invio in Italia del macchinario, attraverso una nave commerciale degli “alleati” sauditi. A sx: il tunner di DRS SSI nelle operazioni di carico e scarico di un C-17 ‘Globemaster III’. Qui sopra: una pagina del sito web di Leonardo DRS in cui si illustra la versatilità del tunner a 5 assi, peso a vuoto 68 tonnellate. È dunque assai probabile che la base americana di Aviano – che ospita anche ordigni nucleari – si stia preparando a ricevere nelle prossime settimane numerosi voli dei grandi cargo USAF, carichi di armi e munizioni da smistare sui teatri di guerra europei e mediorientali. A questo ruolo di “portaerei” il nostro paese è da decenni disponibile, anche se – a leggere il recente libro del generale Fabio Mini, La Nato in guerra. Dal patto di difesa alla frenesia bellica’ – l’alleanza atlantica non ha affatto nel proprio statuto quello di compiere missioni “di pace” armate, né di combattere “guerre preventive”, né tantomeno di organizzare aggressioni di altri paesi, sullo stile del recente “bombardamento chirurgico” dell’Iran.
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IL NUOVO MODELLO DI SVILUPPO DEL PORTO DI GENOVA: AUMENTO DEI TRAFFICI COMMERCIALI? NO, RIDOTTO A UN ARSENALE MILITARE PUR DI SPENDERE SOLDI PUBBLICI
Non ci sarà solo il ponte sullo Stretto, anche la nuova diga foranea del porto di Genova contribuirà – nei desiderata del Governo – a coprire le spese militari che l’Italia s’è impegnata in sede Nato a portare al 5% del Pil, una quota delle quali (1,5%) potrà essere rappresentata da infrastrutture a valenza anche militare. Una vocazione cui, come anticipato da «Il Fatto», si stava lavorando da mesi anche per la diga genovese, mega-opera da 1,3 miliardi di euro (già lievitati a 1,6 coi lavori nemmeno arrivati al 10%) pensata per ampliare la capacità mercantile del porto. Ieri l’ufficializzazione: «La nuova diga è infrastruttura dual use. Progettata per scopi mercantili, in caso di crisi (bellica, nda) sarà utile perché consente lo sbarco di portaerei leggere, navi Nato e strumenti e truppe» ha affermato Carlo De Simone, subcommissario all’opera (il ‘titolare’ è Marco Bucci presidente della Regione Liguria), durante una trasmissione tv. Poco importa che le più grandi portaerei Nato abbiano dimensioni largamente inferiori a quelle delle portacontainer abituali ospiti delle banchine genovesi e che quindi potrebbero comodamente approdare sotto la Lanterna senza spendere miliardi di euro per la diga. Né che a La Spezia, a 50 miglia nautiche, abbia sede una delle maggiori basi della Marina militare: “La military mobility è un programma dell’Unione europea per facilitare gli spostamenti rapidi di truppe e contingenti all’interno dell’Europa” ha puntualizzato De Simone: “La diga può contribuire al tetto di spesa del 5% perché è un investimento infrastrutturale con funzionalità duale”. Sicuramente l’obiettivo primario della militarizzazione, ma non forse l’unico. Come accennato, l’opera, finanziata con 800 milioni di euro del fondo complementare al Pnrr, ha problemi di copertura. Solo grazie a un’iniezione di 142 milioni dal recente Decreto economia Bucci ha potuto coprire parte degli extracosti già emersi e bandire pochi giorni fa la seconda fase dell’appalto (la prima se l’è aggiudicata una cordata guidata da Webuild), oggetto, nella prima parte, di indagine della Procura europea e caratterizzato da dosi minime di trasparenza. Basti pensare che quest’ultima gara sulla Fase B è pubblicata senza elaborati progettuali né capitolato. E che da anni Bucci e Autorità portuale negano il rilascio dei documenti relativi al contenzioso con Webuild (già valso all’appaltatore 300 milioni) e persino l’esistenza dei test condotti sul consolidamento dei fondali, ritenuto fin dai primordi il punto debole del progetto. Naturale quindi che il dual use, potenziale viatico di nuovi esborsi e opacità, abbia scatenato la polemica politica. “Ora Genova rischia di diventare un obiettivo sensibile dal punto di vista militare. L’opera di per sé ha enormi criticità, mai correttamente gestite. Se ora sarà anche ‘tinta’ di verde militare, oltre al danno si aggiungerà la beffa. Il governo ha il dovere di chiarire questo disegno surreale” hanno dichiarato il deputato M5S Roberto Traversi con il senatore M5S Luca Pirondini, annunciando un’interrogazione parlamentare.
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La farsa delle opere pubbliche di guerra
La tecnica berlusconiana di sdoganare ogni violazione alle regole scritte e non scritte riguardanti la vita pubblica e i comportamenti dei rappresentanti eletti ha trovato due recenti e macroscopiche applicazioni da parte del governo Meloni, perfettamente adatte a questo clima politico in cui la “sicurezza” è parola-chiave che apre ogni porta, e soprattutto ogni scrigno di denaro pubblico disponibile. Lo scorso 9 aprile il governo ha deliberato che il ponte sullo Stretto è un’opera «fondamentale in caso di scenari di guerra» e «strategica per la difesa europea e della Nato». Così un’opera faraonica e più dannosa che inutile, ma che il governo Meloni-Salvini aveva già deciso di varare, non verrà più sottoposta alle verifiche preventive di legge vista la sua urgenza e necessità. Innanzi tutto potrà procedere spedita senza le “valutazioni di impatto ambientale” con cui cavillosi esperti ritardano l’efficace azione governativa, anche se qui per la verità si andrà a costruire in una zona sismica dove – a credere a Wikipedia ­– si è registrata la più grave catastrofe naturale europea in tempi storici, il terremoto-maremoto di Messina del 1908, con vittime stimate tra 75.000-82.000 a 140.000. E l’opera faraonica potrà anche bypassare le severe norme antimafia che, in un territorio tra Sicilia e Calabria, potrebbero in effetti selezionare e ridurre l’accesso agli appalti pubblici a molte imprese locali, con grave danno delle (il)lecite aspettative di crescita economica. L’articolo di Andrea Moizo è stato pubblicato da «Il Fatto Quotidiano» dell’8 luglio 2025. Ieri (8 luglio 2025) c’è stato l’annuncio che anche la diga foranea del porto di Genova va considerata dual use, cioè ad uso civile e ad uso militare. Lo ha affermato il sub-commissario Carlo De Simone (cioè commissario nominato dal commissario Marco Bucci, perché Genova ha fatto scuola negli appalti pubblici “commissariati” stile nuovo ponte Morandi), che ha spiegato: «perché consente lo sbarco di portaerei leggere, navi Nato e strumenti e truppe. È il tema della mobilitary use». Così abbiamo imparato questa nuovissima crasi tra military e mobility dal sub-commissario Carlo De Simone, che prima di mestiere faceva il broker assicurativo e ora l’esperto di alto profilo economico-finanziario (come dice nel suo blog https://carlodesimone.it/chi-sono/). Ci sono effettive ragioni militari per considerare “strategiche” queste due opere faraoniche? A che cosa serva davvero la nuova diga foranea di Genova, con i suoi problemi tecnici e progettuali, si è ripetutamente dedicato il blog del Comitato per il dibattito pubblico di Riccardo Degl’Innocenti, a cui rimandiamo (https://www.facebook.com/riccardodeglinnocentigenova). Per quel che riguarda in particolare la utilità militare della nuova diga, notiamo che il porto di Genova non è inserito nel programma “Basi Blu” del Ministero della Difesa, con stanziamento iniziale di 2,5 miliardi di euro per ammodernare agli standard Nato i porti di Taranto, La Spezia, Augusta e Brindisi. La Spezia si trova a un’ottantina di chilometri da Genova, circa 40 miglia nautiche che una portaerei può coprire in meno di due ore, quindi risulta perlomeno ridondante attrezzare due porti così vicini per accogliere navi da guerra che possono essere facilmente rifornite per via aerea o al largo, o in altre basi navali operative in Italia già ampiamente utilizzate durante le esercitazioni navali Nato. Il ponte sullo Stretto è stato giustificato con la necessità di collegare al continente le basi siciliane della Nato (a noi non risulta che ce ne siano) e degli Stati Uniti (quelle ci sono, eccome!), che però sono basi marittime e aeree, e possono benissimo fare a meno in futuro di collegamenti terrestri, così come già oggi non utilizzano il ferry tra Messina e Villa San Giovanni. Accenniamo appena al costo “stimato” delle opere citate, ma c’è comunque da far tremare le vene ai polsi. Il ponte sullo Stretto costa oggi 13,5 miliardi di euro, la diga di Genova 1,6 miliardi di euro. Se si applicasse la proporzione di “lievitazione” dei costi sulla base dell’esperienza amarissima della più celebre opera faraonica, la TAV Torino-Lione, passata da 2,9 miliardi a 14,7 oggi (ma chissà domani…), cioè se si moltiplicassero provvisoriamente i costi per cinque, prima di essere terminati il ponte costerà 67,5 miliardi e la diga 8 miliardi di euro. I tempi invece sono importanti. Per le esigenze della difesa e della sicurezza nazionale, sarebbe necessario avere le opere faraoniche disponibili al più presto, perché Putin si sta facendo sempre più minaccioso. E invece la durata dei lavori prevista è il 2032 per il ponte, anche se a tutt’oggi neppure il progetto risulta completato; e per la diga si comincia a parlare del 2028 o 2029. Ma c’è da crederci? Per la TAV i lavori cominciarono nel 2002, e forse l’opera entrerà in funzione a fine 2033, 31 anni dopo, in uno scenario economico e logistico che già oggi è completamente diverso da quello immaginato dal progetto. Vedremo cosa ne sarà negli anni del ponte e della diga.
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Ravenna crocevia dei traffici di armi per Israele?
Le inchieste di «Altreconomia» e le segnalazioni dei lavoratori confermano quello che Weapon Watch ha più volte pubblicato e sostenuto anche in incontri pubblici: nel porto di Ravenna la violazione di leggi e trattati riguardanti il commercio di armamenti è provata da molti episodi, a partire dal primo registrato nel maggio 2021 – uno ‘sciopero sulla merce’ dichiarato da Cgil-Cisl-Uil durante uno dei tanti bombardamenti su Gaza – che ha avuto il merito di scoperchiare l’ipocrisia nel porto romagnolo. Una ulteriore svolta verso la trasparenza si deve alla magistratura ravennate, con l’inchiesta ancora in corso riguardante la ditta lecchese Valforge. Così si sono esauditi gli auspici invocati nel febbraio 2024 dall’allora presidente dell’autorità portuale Daniele Rossi in una sua lettera pubblica, quando WW promosse insieme a Pax Christi e a numerose associazioni ravennati un incontro pubblico sul tema. Rossi sostanzialmente disse: non ho notizia di passaggi di armi in porto, se avete informazioni di violazioni di legge denunciatele alla magistratura. Ebbene, oggi la denuncia c’è stata, ed è arrivata non da esaltati pacifisti filo-palestinesi, bensì dal rappresentante di un primario operatore logistico, cioè dall’interno del mondo dei trasporti internazionali. Riguarda una filiera di pezzi forgiati per cannoni che ha origine tra Varese e Lecco e destinazione una filiale di una delle maggiori industrie militari di Israele, fornitura avvenuta aggirando il divieto governativo di esportare armamenti verso Israele e del tutto priva di autorizzazioni, anzi presentando in dogana il materiale come se fosse ad uso civile. Ora stanno prendendo forza le voci dei lavoratori e le loro denunce. I portuali a Ravenna stanno vedendo passare i container di munizioni destinate alle IDF. Caricano queste merci di morte sulle portacontainer dirette a Haifa e Ashdod, quasi sempre navi della compagnia israeliana ZIM. Prima caricavano per lo più ortofrutta e merci varie, ora sempre più dispositivi militari e munizioni la cui probabilità di essere impiegate sulla popolazione civile inerme, in flagranti crimini di guerra – come dovranno prima o poi verificare i tribunali internazionali –, è altissima. Ultima denuncia in ordine di tempo risale al 30 giugno scorso, quando alcuni container con l’etichetta “esplosivi” classe 1.4 (cioè munizioni) sono stati caricati a bordo della «ZIM New Zealand», partita con destinazione Haifa, dove è regolarmente arrivata il 4 luglio. Recentemente il presidente della Regione Emilia-Romagna ha dichiarato di voler interrompere le relazioni con Israele. Ricordiamo al presidente De Pascale che il principale operatore terminalistico del porto di Ravenna – unico scalo internazionale della regione – è SAPIR-Porto Intermodale di Ravenna Spa, che controlla direttamente anche Terminal Nord Spa e TCR (Terminal Container Ravenna) Spa. L’azionariato di SAPIR è così composto: * 29,45% a Ravenna Holding Spa (77% del Comune di Ravenna, 7% Provincia di Ravenna, il resto ai Comuni di Cervia, Faenza e Russi); * 13,59 a Fin.Coport Srl (100% della Compagnia Portuale Srl, ) * 11,58% Camera di Commercio di Ferrara * 10,46% Regione Emilia-Romagna * tutti gli altri soci, a partire da La Petrolifera Italo Rumena Spa (8,70%, nelle mani della famiglia Ottolenghi), hanno quote inferiori. Teoricamente Comune, Regione e Compagnia portuale possono governare tutto il porto di Ravenna con la maggioranza assoluta. Ci si aspetterebbe che queste entità istituzionali concorressero almeno a vigilare – se non a controllare – affinché non si possano svolgere i traffici illeciti che stanno rendendo il porto di Ravenna indiretto complice di ciò che accade in Cisgiordania e a Gaza. Quanto al rispetto della Costituzione, il presidente De Pascale ha correttamente citato l’art. 117, che dà potere alle Regioni di intrattenere le proprie relazioni internazionali. Ma bisognerebbe anche richiamarsi all’art. 11, quello del rifiuto esplicito della guerra come soluzione delle divergenze internazionali: un articolo che è violato clamorosamente dai governi italiani da oltre trent’anni.
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Da Farzåd a Langer. L’Iran e l’Italia in tempi di guerra
Nei primi giorni di giugno Farzåd è venuto a farci visita al centro di aggregazione Approdo di Garbatella, a Roma, dove ha preso vita un laboratorio radiofonico rivolto a ragazze e ragazzi delle scuole medie. Da poche ore sui titoli dei quotidiani campeggiava la notizia del cessate il fuoco in Iran e della fine della “guerra dei dodici giorni”. Prima che Farzåd facesse ingresso nella nostra redazione, ho raccontato ai ragazzi quel poco che sapevo di lui. Ha circa quaranta anni, è nato in Iran, è laureato in letteratura francese, faceva il libraio, vive in Italia da una decina d’anni, è stato il protagonista di un audio documentario trasmesso da Rai Radio3 e realizzato dall’amico e collega Ciro Colonna in cui si dava molto spazio al lavoro di Farzåd qui a Roma: il corriere in bicicletta. Per una ventina di minuti, i ragazzi lo hanno tempestato di domande. Farzåd ha risposto generosamente a ogni questione, seppure la vicenda lo facesse sempre più sudare (i ragazzi mi avevano costretta a spegnere il ventilatore, per evitare che il brusio disturbasse la registrazione). Le loro curiosità mi hanno stupita. Nel corso della chiacchierata abbiamo scoperto che Farzåd legge romanzi russi, che il suo calciatore preferito è Maradona, che tra montagna e mare sceglie montagna, che per fare le consegne utilizza una bicicletta a pedalata assistita, che il suo nome di battesimo (che non corrisponde a quello d’invenzione che stiamo utilizzando in questo articolo) deriva da un libro epico della tradizione iraniana, che è andato via dall’Iran per cercare una vita diversa, che ascolta Mina, De Andrè e la musica tradizionale iraniana, che la cosa che più lo ha colpito di Roma nei primi giorni dopo il suo arrivo erano i palazzi e i monumenti, e che, sì, anche se ci lavora, crede che boicottare G. sia una buona idea. Come nelle migliori interviste, è stato dopo, a microfono spento (e ventilatore riattivato), che Farzåd ha raccontato di questi giorni di guerra. Le notizie arrivavano frammentate, confuse. La comunicazione con la famiglia e gli amici si arrestava per interminabili ore. Lui nella calura di Roma smetteva di fare ogni cosa, il cervello si arrovellava nel tentativo di capire, tuttavia districarsi tra le tante informazioni, a volte discordanti, era impossibile. «Poi c’è stata la tregua e finalmente ho potuto riprendere a parlare con amici e parenti. Dopo gli attacchi degli hacker dello stato di Israele sulle infrastrutture digitali della tv statale dell’Iran, il governo ha deciso di disconnettere Internet sulle reti cellulari e non riuscivo a parlare con nessuno». Nei giorni successivi alcuni amici di Farzåd riescono a connettersi, lo aggiornano sui bombardamenti in tempo reale, lo mettono in contatto con i genitori, portano informazioni sulla guerra e sulle condizioni di salute dei parenti anche ad altri amici residenti all’estero. Farzåd, dal suo appartamento rovente a San Lorenzo, attende notizie giorno e notte. «L’ultima notte prima del cessate il fuoco è stata dura. In quelle ore c’è stato il più pesante attacco delle forze armate di Israele sulle città iraniane. Gli amici a Teheran riportavano le notizie dei bombardamenti e della difesa aerea da parte delle forze iraniane in diretta sulla nostra chat. Mi hanno raccontato di gente traumatizzata dagli attacchi, a molti ancora sembra di sentire i boati dopo quella notte». Dopo due giorni dalla tregua la connessione è stata riallacciata parzialmente. Farzåd passa ore intere a parlare e scrivere con gli amici in Iran, «i cittadini parlano di guerra ovunque, tutto il tempo; dicono che non è ancora finita, aspettano un’imminente minaccia; sono tutti d’accordo sull’idea che ci sarà un nuovo attacco da parte di Israele, ma ovviamente non sanno quando avverrà». Li chiamano i figli della rivoluzione, i figli della guerra. Sono le persone come Farzåd, nate a ridosso della rivoluzione del 1979 che ha rovesciato la monarchia. Sono gli stessi che sono scesi in piazza nel 2009, cantando a gran voce siamo la generazione della guerra e combattiamo fino alla fine contro lo Stato. «Storicamente accade che dopo un tentativo di rovesciamento di un regime, sia che si tratti di un colpo di stato sia che si tratti di un intervento militare di un altro paese, quando non si raggiunge il risultato desiderato, il sistema diventa ancora più aggressivo nei confronti di chi lo critica. Per ora hanno arrestato più di settecento persone e ne hanno impiccate altre sei per spionaggio. Un esempio recente di una situazione simile lo abbiamo visto in Turchia, dopo il colpo di stato fallito nel 2016, che ha portato all’arresto di tanti e alla persecuzione di vari gruppi della società turca». I genitori di Farzåd, entrambi militanti comunisti, hanno avuto un ruolo attivo nella rivoluzione del 1979, prima che si affermasse la componente islamista. Per questo motivo non hanno più potuto esercitare la loro professione (erano due insegnanti), per questa ragione la loro vita ha subito una brusca virata insperata. Racconto a Farzåd di avere parlato con altre persone di origine iraniana qui a Roma, alcuni si sono detti felici dell’attacco. «Nessuno dei miei amici ha gioito degli attacchi sulle città e sulle infrastrutture civili del paese. Anche i dissidenti in Iran non sono felici. Certo, sono felici i dissidenti monarchici che vivono nella calma e nella tranquillità delle società occidentali. Loro sì che sono contenti, credevano e speravano che con questi attacchi finisse la teocrazia. Chiaramente questa loro speranza non coincide con la realtà dei fatti. Questa gente vive in una bolla, in un’altra realtà. Chi si trova in Iran è abbastanza intelligente da vedere quello che è successo. Queste persone hanno visto già questo spettacolo in Iraq, in Libia e in Siria. Il governo genocida di Israele non può essere il salvatore del popolo iraniano. Questo fatto è chiaro ai cittadini iraniani all’interno del paese, ma non ai monarchici all’estero. Il cancelliere tedesco che afferma che “Israel is doing our dirty job” probabilmente dovrebbe pensare alle conseguenze di questo dirty job per l’Europa». Farzåd fa l’esempio della Siria e dell’Iraq e di quello che è accaduto dopo la guerra civile causata dall’intervento militare occidentale. Trenta anni fa, esattamente il 3 luglio 1995, Alexander Langer si impiccava a un albero di albicocco, alle porte di Firenze. Langer amava spesso ripetere che tutto il suo lavoro, da politico, da scrittore, da sociologo, da attivista, aveva un obiettivo: “provare a fare pace tra gli uomini e pace con il creato”. Nello sforzo di tendere verso questa meta, promuoveva trasformazioni ecologiche e trasformazioni sociali con radici ben solide nella non violenza e nel rifiuto verso ogni divisione etnica. Ho pensato a lui dopo avere incontrato Farzåd. Perché la sua storia è impastata di distorsioni, è una biografia che fa i conti spietati con un sistema in cui crisi ambientale e guerre si intrecciano indissolubilmente. E poi perché la vicenda di Farzåd costituisce un prezioso tassello di un mosaico della Storia, di quelli che Langer avrebbe saputo mirabilmente raccontare e appuntare sulla sua immancabile agendina. Salutiamo Farzåd, lo lasciamo alle sue consegne in bicicletta tra le bollenti strade di Roma e alle sue conversazioni con gli amici in Iran. E nella mente rileggo i biglietti lasciati da Langer quel 3 luglio 1995. L’ ultimo è un’esortazione: “Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”. (marzia coronati)
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Chi boicotta le armi verso Israele?
Nel mese di giugno di un anno fa il Governo vallone e quello federale belga hanno vietato alla Challenge Airlines BE di continuare il trasferimento di armi, materiale bellico e detonatori allo Stato israeliano attraverso il suo hub di Liegi-Bierset. Controllata dalla compagnia cargo internazionale Challenge Group, presente con linee aeree e divisioni nella logistica, gestione e servizi aeroportuali in Belgio, Israele e Malta, gli aerei della Challenge Airlines BE facevano spola dagli Stati Uniti a Israele usando l’aeroporto commerciale di Liegi-Bierset come scalo intermedio. Società civile, opinione pubblica, sindacati Da tempo molte organizzazioni non governative belghe si erano scagliate contro le autorità del proprio paese affinché fosse rispettato il Trattato sul commercio delle armi del 2013 firmato e ratificato anche dal loro paese. Trattato internazionale che vieta formalmente l’autorizzazione di trasferimenti di armi verso paesi che le stiano utilizzando, come nel caso di Israele, per «commettere genocidi, crimini contro l’umanità o attacchi contro civili». La pressione della società civile e dell’opinione pubblica, insieme alla decisione di alcuni sindacati del trasporto aereo di non far caricare più dai loro iscritti materiale militare destinato allo Stato israeliano, ha spinto il Governo federale belga ad agire per vietare tutti i trasferimenti di armi a Israele. Inoltre, il Governo vallone ha adottato un decreto che applica il divieto di trasportare armi verso Israele anche alle merci, provenienti da altri paesi, in transito senza trasbordo nel proprio territorio. È quanto previsto anche in Italia dalla Legge 185/90, la quale regola il controllo non solo dell’esportazione e importazione di materiali d’armamento, ma anche del loro transito sul territorio. Norma di legge solitamente disattesa e inapplicata dalle autorità italiane, tutte le volte che dai nostri porti transitano navi cargo e porta–container trasportando armamenti verso paesi in guerra e/o che non rispettano i diritti umani fondamentali. La maggior parte dei materiali di armamento destinati a Israele (compreso il munizionamento e i pezzi di ricambio) provengono dagli Stati Uniti (circa due terzi). In termini militari, quindi, il collegamento con gli Stati Uniti, per via aerea e marittima è parte della catena logistica vitale per le azioni di guerra dell’Israel Defense Forces. Il resto delle forniture di armamenti e di munizionamento (l’altro terzo) proviene prevalentemente dalla Germania, ma anche (seppure in piccola parte) da Italia e Gran Bretagna, da India e Australia. Altri aeroporti civili europei sono, pertanto, utilizzati come scali intermedi per gli aerei militari americani e di compagnie cargo, o come origine di spedizioni di armamenti dagli stessi paesi europei. Se si vuole, quindi, attuare un efficace embargo di armi verso Israele – per mettere fine allo sterminio del popolo palestinese – bisogna intervenire anche sul “transito senza trasbordo” dagli aeroporti ma, soprattutto, dai porti europei e mediterranei. E, in assenza di scelte e di azioni coraggiose da parte dei Governi, è essenziale l’azione diretta della società civile, specie se a promuoverla sono i sindacati dei lavoratori. Come l’azione di boicottaggio attuata nel porto di Tangeri Med, lo scorso mese di aprile, nei confronti della nave Nexoe della compagnia danese Maersk. La nave, in viaggio da alcune settimane, proveniva dal porto di Houston in Texas e trasportava componenti e pezzi di ricambio destinati ai caccia–bombardieri F–35 utilizzati dall’aviazione israeliana contro la popolazione civile a Gaza. La nave aveva già incontrato diverse proteste durante gli attracchi nei porti lungo la costa atlantica americana e, in prossimità del nostro continente, non avendo avuto l’autorizzazione ad attraccare nei porti atlantici della Spagna, aveva proseguito verso gli scali del Marocco. In questo paese a lanciare la mobilitazione è stato il sindacato dei portuali, affiliato alla principale confederazione sindacale marocchina, la UMT, chiedendo alle autorità di impedire alla nave di attraccare a Casablanca o a Tangeri Med e affermando in un comunicato che «chiunque faciliti il passaggio di questa nave è un complice diretto della guerra genocida contro il popolo palestinese». Il boicottaggio della Maersk Raccogliendo l’appello del sindacato, migliaia di persone si sono mobilitate per le strade di Rabat, Tangeri e Casablanca, con l’obiettivo di impedire l’attracco della Nexoe Maersk. All’arrivo della nave a Tangeri Med, il porto è stato raggiunto da oltre 1.500 persone e il 90% dei lavoratori portuali scesi in sciopero per due giorni ha impedito di avviare le gru e di fornire i servizi essenziali alla nave. Le proteste contro la nave danese fanno parte della campagna Mask off Maersk e del più ampio movimento di boicottaggio contro l’invio di armamenti a Israele, tra cui i componenti per i caccia–bombardieri F-35. Diversi rapporti provano infatti come le forze armate israeliane abbiano usato gli F-35 per attaccare Gaza. Tra gli episodi più noti c’è quello del luglio 2024, quando un F-35 è stato utilizzato per bombardare la “zona sicura” di Al-Mawasi, a Khan Younis, uccidendo 90 palestinesi. Per tale motivo, oltre 230 organizzazioni, tra cui Amnesty International, hanno chiesto, con una lettera congiunta ai Governi coinvolti nel programma del caccia–bombardiere prodotto dall’americana Lockeed Martin, tra cui l’Italia, di interrompere immediatamente il trasferimento di armi a Israele, incluso tutto ciò che concerne gli F-35. Il Trattato internazionale sul commercio di armi – ATT, prevede l’interruzione del commercio diretto e indiretto di attrezzature e di tecnologie militari, comprese parti e componenti, «qualora vi sia il rischio concreto che tali attrezzature e tecnologie possano essere utilizzate per commettere o facilitare una grave violazione del diritto umanitario internazionale o del diritto internazionale dei diritti umani». L’azione nei confronti di Maersk, il secondo gruppo armatoriale al mondo, è diventata un caso politico e mediatico quando, all’ultima assemblea generale dei soci nel marzo 2025, i vertici aziendali hanno dovuto difendersi e far votare contro la duplice richiesta – presentata da alcuni azionisti – di mettere al bando il trasporto di armi in Israele e di fare chiarezza sul proprio operato in ordine al rispetto dei diritti umani. Gli episodi di protesta e di boicottaggio che hanno coinvolto la Maersk sono, cronologicamente, solo gli ultimi che hanno visto protagonisti i lavoratori portuali e i loro sindacati in azioni dirette contro il trasferimento di armi in Israele (e verso altri paesi in guerra). Sulla base del lavoro di ricerca e di monitoraggio sviluppato dall’Osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei – The Weapon Watch, con sede a Genova, possiamo elencare gli episodi più importanti (sovente del tutto spontanei) registrati negli ultimi 5 anni. La mobilitazione dei sindacati Il primo si verifica nel maggio 2021 nei porti di Genova, Livorno e Napoli dove i lavoratori portuali aderenti al sindacato USB, allertati da una segnalazione di The Weapon Watch sul trasporto di missili e di esplosivi destinati a Israele, effettuato da una nave della compagnia SIM, si sono mobilitati dichiarando sciopero, allo scopo di ostacolare/impedire le operazioni di scarico e carico. Il secondo, nel giugno 2021, nel porto di Ravenna. I sindacati dei portuali, organizzati nelle federazioni dei trasporti di CGIL-CISL-UIL, proclamano lo sciopero generale per il giorno nel quale sarebbe dovuta salpare la nave Asiatic Liberty carica di armamenti diretta dal porto romagnolo a quello di Ashdod, in Israele. La determinazione dei portuali ravennati, con questa azione di boicottaggio, ottiene che l’armatore rinunci al carico e al trasferimento di armi a Israele. Ma è, soprattutto, dopo l’appello dei sindacati palestinesi del 16 ottobre 2023 e della mobilitazione internazionale Ceasefire In Gaza Now!, che si moltiplicano nel mondo le azioni dirette dei lavoratori per fermare le forniture militari a Israele o, quantomeno, per intralciare la catena logistica che alimenta le guerre e, in questo caso specifico, lo sterminio di civili palestinesi a Gaza. Il primo sindacato a raccogliere l’appello è quello dei lavoratori portuali del Pireo (Enedep) in Grecia, che si mobilita per l’arrivo della nave porta-container Marla Bull, diretta al porto di Haifa. La nave, battente bandiera delle Isole Marshall, deve imbarcare un container contenente 21 tonnellate di munizioni, proveniente dalla Macedonia del Nord e destinato a Israele. I portuali, a cui si sono uniti anche i lavoratori del settore navalmeccanico e gli studenti, bloccano il container e costringono la nave a partire senza il “carico di morte”. Pochi giorni dopo nel Kent in Gran Bretagna, una filiale del gruppo israeliano Elbit System, la Instro Precision Ltd che produce sensori elettro-ottici per droni, è bloccata per diverse ore da un gruppo di attivisti, insegnanti e lavoratori appartenenti ai sindacati Unite, Neu, Ucu, Bma e Bfawu. Negli USA il 3 novembre 2023 nel porto californiano di Oakland, alcune centinaia di attivisti pro-Palestina e portuali bloccano la partenza della nave Cape Orlando per il porto di Tacoma (nella costa nord-occidentale degli USA), dove avrebbe dovuto caricare armamenti destinati Israele, provenienti dalla grande base militare di Lewis-McChord. La stessa nave è bloccata nuovamente anche nel porto di Tacoma, in questo caso dalle piroghe dei nativi del popolo Salish che abitano nella regione. In Belgio, nello stesso mese di novembre, la confederazione sindacale cristiana (ACV) e la sua federazione dei trasporti (ACV-Transcom), insieme alle federazioni dei trasporti e dei tecnici e quadri (BTB e BBTK) della confederazione sindacale socialista, decidono che i propri iscritti incroceranno le braccia di fronte all’invio di armi e di munizioni destinate a Israele, a partire da quelle prodotte in Germania e caricate nei porti fiamminghi. In Spagna, una simile decisione è presa dal sindacato dei lavoratori portuali di Barcellona. Nel frattempo, in Australia le azioni degli attivisti e dei sindacalisti portuali di Melbourne e Sydney iniziano a bloccare i tir e le navi della compagnia marittima israeliana ZIM. Con questa azione diretta si accendono i riflettori sull’invio di armi australiane a Israele fino a quel momento occultato. Azioni di solidarietà con i lavoratori palestinesi finalizzate a fermare il trasferimento di armi a Israele arrivano, inoltre, dal sindacato francese CGT, così come dal coordinamento dei sindacati greci PAME e dal sindacato turco dei trasporti Nakliyat Is affiliato alla confederazione sindacale DISK. E in Italia? In Italia il sindacato USB mobilita i suoi iscritti in solidarietà con il popolo palestinese, promuovendo il 10 novembre 2023, una giornata nazionale di lotta, alla quale aderiscono altri sindacati di base e gruppi di attivisti e di associazioni pacifiste, con i blocchi dei varchi portuali a Genova e a Salerno. Nel capoluogo ligure, oltre i presidi e i picchetti a San Benigno e a Ponte Etiopia, un corteo di manifestanti raggiunge la sede della compagnia marittima israeliana SIM dove si inscena un sit-in di protesta. Lo stesso giorno, centinaia di sindacalisti nel Regno Unito, con lo slogan “Lavoratori per una Palestina libera”, bloccano l’ingresso alla fabbrica BAE Systems di Rochester, che fornisce componenti per gli F-35 utilizzati nei bombardamenti di Gaza. Nel dicembre 2023 è la volta di Ravenna, dove centinaia di persone partecipano all’iniziativa contro il traffico di armi davanti all’Autorità portuale, denunciando il passaggio di una nave della ZIM dallo scalo romagnolo trasportando materiali d’armamento verso Israele. Che il porto di Ravenna fosse diventato uno scalo opaco per il trasferimento di armi trova conferma nei mesi scorsi, quando il Gip del tribunale romagnolo convalida il sequestro d’urgenza effettuato dall’Agenzia delle Dogane a inizio febbraio 2025 di un carico di 14 tonnellate di componenti di armi diretto a Israele. In tutto ottocento pezzi metallici classificati come materiale d’armamento, prodotti dalla ditta Valforge di Lecco e diretti all’azienda Israel Military Industries Ltd (IMI), principale produttore israeliano di armi. La ditta lecchese, specializzata in fucina e stampa di articoli metallici, pur non avendo l’autorizzazione a esportare il materiale bellico, né l’iscrizione nel Registro nazionale delle imprese istituito presso il ministero della Difesa, rientrava da tempo nella catena di fornitura della IMI. Dal febbraio del 2024, anche in India, il sindacato dei lavoratori dei trasporti marittimi che organizza migliaia di lavoratori portuali decide di rifiutarsi di caricare o di scaricare carichi di armi provenienti e/o destinati a Israele. Nel maggio 2024 a Venezia centinaia di attivisti protestano contro la nave Bokrum, battente bandiera delle Barbados, contenente armamenti e diretta verso Israele, senza che le autorità italiane abbiano esercitato effettivi controlli dei carichi e garantito il rispetto delle leggi vigenti e dei trattati internazionali che regolano il trasferimento di armi. Non si ferma la solidarietà internazionale Affinché il diritto internazionale e le decisioni ONU siano rispettati dai singoli Stati, parte, nell’estate dell’anno scorso, la campagna internazionale #blocktheboat promossa da Amnesty e da un’ampia coalizione di organizzazioni per i diritti umani. A fine agosto la nave MV Kathrin, di proprietà tedesca e battente bandiera portoghese, parte dal Vietnam con un carico di 8 container di esplosivi Hexogen/RDX (componente chiave per la costruzione di missili) con destinazione Israele e altri 60 container di esplosivi TNT con altre destinazioni. La Namibia rifiuta l’attracco della nave nei suoi porti e la costringe a vagare in acque internazionali, fino ad arrivare nel Mediterraneo. Qui la nave si dirige verso il porto di Capodistria in Slovenia per scaricare parte del carico destinato a Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. La Slovenia gli nega l’attracco, dopo una mobilitazione dell’opinione pubblica. In Italia l’appello del CALP di Genova è raccolto dalla USB e da altri sindacati di base che, prontamente, si mobilitano per impedire l’attracco della nave nei porti adriatici e far rispettare l’ordinanza che vieta la circolazione nei porti del Golfo di Trieste di materiale bellico. La MV Kathrin è costretta a cambiar rotta e a dirigersi verso Malta, dove non riuscirà ad attraccare. Da quel momento sparisce dai radar. Ricompare a fine ottobre ad Alessandria d’Egitto, dove attracca in zona militare. Lì scarica tutto il suo carico. Formalmente non si sa nulla degli esplosivi diretti a Israele. Sappiamo solo che lo stesso giorno, dal porto egiziano è partita un’altra nave diretta al porto israeliano di Ashdod. È curiosa, anche in questo caso, la complicità con il governo israeliano dei governi arabi che controllano le 14 fazioni con cui si dividono i palestinesi. Viceversa, non si ferma la solidarietà internazionale. E, nel mese di gennaio di quest’anno, anche il sindacato svedese dei portuali notifica all’associazione imprenditoriale Swedish Ports il blocco di tutti gli scambi commerciali militari con Israele durante la guerra in corso a Gaza. La decisione di imporre il blocco è stata presa dai lavoratori iscritti al sindacato dei portuali con una votazione prima di Natale. In conseguenza del blocco, Erik Helgeson, da 20 anni lavoratore portuale a Göteborg, vicepresidente nazionale e portavoce del sindacato, è stato licenziato a febbraio per ragioni di “sicurezza nazionale” dalla sua azienda DFDS, la società danese di spedizioni e logistica internazionale proprietaria della maggior parte del terminal ro-ro di Göteborg. Questo caso dimostra che l’azione diretta dei sindacati dei lavoratori e degli attivisti, al fine di fermare qualsiasi trasferimento di armamenti verso Israele, ha una straordinaria valenza etica e di testimonianza. Ma al contempo sappiamo che l’embargo militare verso Israele è anche e, soprattutto, un obbligo giuridico-legale, che ricade innanzitutto sulle spalle degli Stati, di organizzazioni regionali come l’UE, l’OIC (Organisation of Islamic Cooperation) ecc., delle aziende e delle istituzioni accademiche. Se non attuano le misure necessarie per l’embargo militare, oltre a essere responsabili di violazione del diritto internazionale, saranno corresponsabili per il loro apporto ai crimini commessi da Israele. Post-fazione Avevo appena finito di scrivere e di inviare questo articolo alla redazione di SettimanaNews, che arriva la notizia dell’azione di boicottaggio deciso dal sindacato dei portuali di Marsiglia-Fos, aderente alla CGT francese. Giovedì 5 giugno il cargo israeliano «Contship Era» della compagnia ZIM avrebbe dovuto caricare nel porto di Fos sur Mer, 14 tonnellate di pezzi di ricambio per fucili mitragliatori e munizioni fabbricate dall’azienda francese Eurolinks e destinate all’azienda di armamenti Israel Military Industries, controllata da Elbit Systems, la principale industria israeliana per fatturato militare (27^ al mondo nel 2023). L’azione diretta dei lavoratori portuali marsigliesi, che prontamente si erano coordinati con gli amici portuali di Genova, ha avuto successo e il “carico di morte” non è stato imbarcato. Ripartita da Marsiglia, in ritardo sui tempi di navigazione previsti, la nave della ZIM destinata al porto israeliano di Haifa, ha in programma due scali tecnici nei porti di Genova e Salerno. Sin dal 5 giugno, coordinandosi con i portuali francesi, i sindacati portuali di USB e SI-Cobas hanno chiamato lavoratori e cittadinanza a presidiare i moli di questi due porti italiani, nei giorni di arrivo della nave (il 7 giugno a Genova e il giorno dopo a Salerno). Il fine di questa mobilitazione, pienamente riuscita, era assicurare che i container bloccati a Marsiglia non fossero imbarcati a Genova e che la nave non trasportasse alcun materiale di armamento per l’esercito israeliano. I portuali francesi della Cgt di Marsiglia hanno scritto un nuovo capitolo nell’atlante europeo delle resistenze contro il commercio di armamenti. L’azione dei lavoratori francesi non è stata improvvisata. A Marsiglia come a Genova, ad Anversa come nel Pireo, a Barcellona come a Tangeri i portuali sono diventati, come ha scritto Giulio Cavalli sul quotidiano Domani, i custodi materiali delle norme nazionali e internazionali che i governi disattendono. In Italia la legge 185/90 vieta esplicitamente l’esportazione e il transito di armi verso Paesi coinvolti in conflitti armati o responsabili di gravi violazioni dei diritti umani, eppure i flussi di armamenti non si sono mai fermati. E nel vuoto di legalità si inserisce l’azione dei portuali. È una catena di controllo dal basso che parte dalle banchine e costringe il potere politico a inseguire. Una lotta dal respiro europeo e mediterraneo, frutto di un’intelligence operaia. Una rete d’informazione e attivismo che collega i portuali con media investigativi e ong, tra cui noi di The Weapon Watch. Una rete che rappresenta oggi una delle più avanzate forme di controllo democratico dal basso sui traffici bellici. Gianni Alioti Redazione Redazione
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QUEL CHE NON SAPREMO PIÙ SE MODIFICHERANNO LA LEGGE 185/90 Nella primavera del 2024 abbiamo pubblicato “a puntate” una serie di spunti informativi tratti dalla Relazione 2024, presentata al Parlamento nel marzo di quell’anno. Qui riproponiamo la breve introduzione ai cinque articoli pubblicati, con i relativi rimandi per poterli leggere. Il governo Meloni si prepara a snaturare la Legge 185 del 1990, quella che impone il controllo delle attività di trasferimento degli armamenti concernenti l’Italia. La 185 prevede, tra l’altro, la pubblicazione di una Relazione annuale al Parlamento. Quella uscita pochi giorni fa potrebbe dunque essere l’ultima Relazione contenente tutti gli elementi che – ancorché pubblicati in una forma di proposito difficile da leggere – hanno sino a oggi permesso di dar conto all’opinione pubblica dei trasferimenti di armi che riguardano il nostro paese. La trasparenza del commercio internazionale ha sempre incontrato l’aperta contrarietà dei fabbricanti/esportatori di armi, grandi e piccoli. Preferirebbero condurre nella segretezza affari che condizionano pesantemente la politica estera di ogni paese, il sostegno alle guerre in corso e ai dittatori più impresentabili, la violazione dei trattati di regolazione e non proliferazione, la protezione umanitaria delle popolazioni civili coinvolte. Curti Costruzioni Meccaniche Spa (1a parte) agenzia industrie difesa Curti Costruzioni Meccaniche Spa (2a parte) Una specialità lecchese: macchine per armi Importare da Israele, esportare armi ad Israele
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Notizie dal fronte mediorientale
Lo scenario aperto dall’attacco di Israele all’Iran è dei più temibili, e la posizione dell’Italia tra gli alleati di Israele è tra le più esposte. Il parlamento non ha raccolto le proteste e le sollecitazioni della società civile contro il tacito rinnovo per altri cinque anni del memorandum militare segreto tra Italia e Israele, quindi tacitamente rinnovatosi lo scorso 8 giugno. Da parte sua, il ministro della Difesa Guido Crosetto durante il question time alla Camera dello scorso 21 maggio, ha affermato che il governo non sottopone le importazioni militari da Israele a «una valutazione di merito sulla provenienza dei materiali ma [al]la valutazione sul loro utilizzo finale e sull’impatto potenziale sulla difesa e sicurezza dell’Italia». Ha ammesso così che queste importazioni sono essenziali per la nostra difesa, sempre più dipendente dell’industria militare di Tel Aviv. I dati Istat confermano la crescente dipendenza dalle importazioni di un alleato militare che negli ultimi venti mesi ha aperto sette fronti di guerra (Gaza, Cisgiordania, Iran, Libano, Siria, Iraq, Yemen) e che un anno fa ha sparato sulle postazioni italiane Unifil in Libano. Nel 2022 l’Italia ha importato armi e munizioni militari (codice 9301) per 24 milioni di euro, nel 2023 per 16,5 milioni, nel 2024 diventati 32 milioni (+95% in un anno). Nei soli primi due mesi del 2025 ha importato per 21,9 milioni: se le consegne manterranno questo ritmo, alla fine dell’anno l’Italia potrebbe aver importato armi da Israele per oltre 130 milioni di euro. Anche in un altro settore, quello dell’industria aerospaziale (codice CL303), la bilancia commerciale è sempre più favorevole a Israele, in attivo negli ultimi tre anni, anche se nel primo trimestre 2025 l’export italiano è tornato a crescere. Preoccupante che aziende italiane nel 2024 abbiano fornito a Israele quantità consistenti di esplosivi (codice SH2 36). L’inchiesta del sito francese «Disclose» pubblicata nel marzo 2025 ha rivelato una fornitura a Israele di accessori per mitragliatrici leggere che non può essere considerata “solamente difensiva”, come affermato dal governo francese. Contro la spediizione del carica da Marsiglia-Fos si sono mobilitati i portuali francesi e italiani. Si sta formando una rete spontanea per fermare il traffico di armi verso Israele. Da Anversa si segnala la spedizione di due container di cuscinetti a rulli conici, da parte della società Timken France, filiale francese della multinazionale USA leader del settore. Destinataria l’industria israeliana Ashot Ashkelon, del gruppo IMI Israel Military Industries, specializzata in veicoli da guerra terrestri. Le navi coinvolte nel trasporto sono la «MSC Laura» e la «ZIM Vietnam». La prima è arrivata ad Anversa l’1 giugno, ed è ripartita il 6 giugno con il suo carico. È attesa in queste ore a Port Said, ultima tappa prima di toccare un porto israeliano. L’altro container non è stato caricato sulla «ZIM Vietnam» perché bloccata dalle autorità fiamminghe, su sollecitazione della ong belga Vredesactie che ha potuto vedere i documenti di trasporto e denunciare il transito di armamenti. Secondo lo spedizioniere, le merci dovrebbero comunque partire per Israele il 17 giugno, imbarcate probabilmente sulla «MSC Mombasa» in arrivo da Amburgo e diretta ad Ashdod. La collaborazione tra MSC e ZIM è il frutto secondario della riorganizzazione dello shipping globale conseguente alla fine della decennale alleanza “2M” tra MSC e Maesrk, annunciata nel 2023 e formalmente cessata nel gennaio 2025. È stata firmata nel settembre 2024 e durerà tre anni, e include ovviamente gli accordi di vessel sharing e slot charter. L’azienda Ashtot Ashkelon è la stessa al centro dell’inchiesta della procura di Ravenna, quale destinataria di 14 tonnellate di forgiati fabbricati in Italia ma presentati in dogana quali pezzi metallici, senza autorizzazione all’export, anche se Ashtot Ashkelon è certamente un’industria militare tra i più importanti fornitori di armamenti dell’esercito di Tel Aviv.
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Forlì: decreti penali di condanna dopo corteo spontaneo contro il Decreto Sicurezza
Riceviamo e diffondiamo: Negli scorsi giorni abbiamo avuto notizia di tre “decreti penali di condanna” per la partecipazione al bel presidio dell’8 febbraio 2025 a Forlì contro l’ex ddl 1660, detto “sicurezza”, poi trasformato dal governo in Decreto Legge ed approvato definitivamente lo scorso 4 giugno. Il presidio in pieno centro città, con la presa bene di circa settanta persone si è trasformato in un corteo spontaneo; poca cosa di fronte all’ampiezza dello sfacelo che ci troviamo di fronte ma di certo qualcosa di bello e inaspettato per la sonnolenta Forlì, che ha interrotto la noia e la quiete borghese della città. Crediamo sia questo che deve aver infastidito i tutori dell’ordine, che infatti hanno provveduto a recapitare i decreti di condanna a tre compagn*. I rapporti della digos indicano le tre persone, tra la settantina di presenti, come promotrici di una manifestazione che non ha rispettato il preavviso alla questura, obbligo peraltro introdotto dall’ordinamento fascista. Gli é addebitato l’aver preso pubblicamente parola e/o avere esposto uno striscione contro il decreto sicurezza, che in quel momento era in discussione in parlamento per la successiva autorizzazione. Queste misure repressive, che si vanno ad aggiungere alle tante e simili piovute contro chi da nord a sud ha partecipato alle proteste contro il decreto liberticida del governo, giungono in coincidenza della sua conversione in legge che rappresenta un atto di guerra al dissenso interno e alla marginalità sociale in un’epoca di guerra globale. E suonano come tentativi di scoraggiare le resistenze dal basso. Siamo nemiche e nemici di quest’ordine sociale della guerra e della morte, e veniamo trattat* di conseguenza. Di fronte a compagn* seppellit* da decenni di galera, ribelli pestat* nelle questure, internat* in inferni amministrativi come i CPR o i “centri d’igiene mentale”, tre decreti penali sono quasi un nonnulla, ma vogliamo con queste poche note esprimere solidarietà alle tre persone coinvolte, ribadendo che è fondamentale, anche di fronte all’approvazione del “decreto sicurezza” e a questi tentativi continui di zittire il dissenso, continuare a mobilitarci contro la repressione e mettere in pratica la libertà. Nemic* dell’autorità
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