Questa volta la «Bahri Jeddah», arrivata a Genova il 7 luglio, non trasportava
solo armi per l’Arabia Saudita e gli emiri del Golfo.
Prima di ripartire per la tappa egiziana di Alessandria, sulle banchine genovesi
ha depositato anche una strana attrezzatura, nuova di fabbrica e imbarcata nel
terminal di Dundalk, porto di Baltimora, Maryland.
Si tratta di un tunner, un aircraft cargo loading-unloading system, una grande
macchina mobile per il carico-scarico di merci da aeromobili.
L’attrezzatura appartiene all’US Air Force, è destinata alla base aerea di
Aviano ed è stata fabbricata da DRS Sustainment Systems Inc., società che in via
diretta e indiretta è controllata da Leonardo Spa. Attrezzature di questo genere
non sono utilizzate dalle forze armate italiane, che non dispongono di
giganteschi cargo militari come il C-5 ‘Galaxy’ (120 tonnellate di carico) e il
C-17 ‘Globemaster III’ (76 tonnellate di carico). Questa la ragione dell’invio
in Italia del macchinario, attraverso una nave commerciale degli “alleati”
sauditi.
A sx: il tunner di DRS SSI nelle operazioni di carico e scarico di un C-17
‘Globemaster III’.
Qui sopra: una pagina del sito web di Leonardo DRS in cui si illustra la
versatilità del tunner a 5 assi, peso a vuoto 68 tonnellate.
È dunque assai probabile che la base americana di Aviano – che ospita anche
ordigni nucleari – si stia preparando a ricevere nelle prossime settimane
numerosi voli dei grandi cargo USAF, carichi di armi e munizioni da smistare sui
teatri di guerra europei e mediorientali. A questo ruolo di “portaerei” il
nostro paese è da decenni disponibile, anche se – a leggere il recente libro del
generale Fabio Mini, La Nato in guerra. Dal patto di difesa alla frenesia
bellica’ – l’alleanza atlantica non ha affatto nel proprio statuto quello di
compiere missioni “di pace” armate, né di combattere “guerre preventive”, né
tantomeno di organizzare aggressioni di altri paesi, sullo stile del recente
“bombardamento chirurgico” dell’Iran.
Source - The Weapon Watch | 6a puntata: Intermediari e clienti per i droni killer israeliani
Osservatorio sulle Armi nei Porti Europei e Mediterranei
Non ci sarà solo il ponte sullo Stretto, anche la nuova diga foranea del porto
di Genova contribuirà – nei desiderata del Governo – a coprire le spese militari
che l’Italia s’è impegnata in sede Nato a portare al 5% del Pil, una quota delle
quali (1,5%) potrà essere rappresentata da infrastrutture a valenza anche
militare.
Una vocazione cui, come anticipato da «Il Fatto», si stava lavorando da mesi
anche per la diga genovese, mega-opera da 1,3 miliardi di euro (già lievitati a
1,6 coi lavori nemmeno arrivati al 10%) pensata per ampliare la capacità
mercantile del porto.
Ieri l’ufficializzazione: «La nuova diga è infrastruttura dual use. Progettata
per scopi mercantili, in caso di crisi (bellica, nda) sarà utile perché consente
lo sbarco di portaerei leggere, navi Nato e strumenti e truppe» ha affermato
Carlo De Simone, subcommissario all’opera (il ‘titolare’ è Marco Bucci
presidente della Regione Liguria), durante una trasmissione tv.
Poco importa che le più grandi portaerei Nato abbiano dimensioni largamente
inferiori a quelle delle portacontainer abituali ospiti delle banchine genovesi
e che quindi potrebbero comodamente approdare sotto la Lanterna senza spendere
miliardi di euro per la diga. Né che a La Spezia, a 50 miglia nautiche, abbia
sede una delle maggiori basi della Marina militare: “La military mobility è un
programma dell’Unione europea per facilitare gli spostamenti rapidi di truppe e
contingenti all’interno dell’Europa” ha puntualizzato De Simone: “La diga può
contribuire al tetto di spesa del 5% perché è un investimento infrastrutturale
con funzionalità duale”.
Sicuramente l’obiettivo primario della militarizzazione, ma non forse l’unico.
Come accennato, l’opera, finanziata con 800 milioni di euro del fondo
complementare al Pnrr, ha problemi di copertura. Solo grazie a un’iniezione di
142 milioni dal recente Decreto economia Bucci ha potuto coprire parte degli
extracosti già emersi e bandire pochi giorni fa la seconda fase dell’appalto (la
prima se l’è aggiudicata una cordata guidata da Webuild), oggetto, nella prima
parte, di indagine della Procura europea e caratterizzato da dosi minime di
trasparenza.
Basti pensare che quest’ultima gara sulla Fase B è pubblicata senza elaborati
progettuali né capitolato. E che da anni Bucci e Autorità portuale negano il
rilascio dei documenti relativi al contenzioso con Webuild (già valso
all’appaltatore 300 milioni) e persino l’esistenza dei test condotti sul
consolidamento dei fondali, ritenuto fin dai primordi il punto debole del
progetto.
Naturale quindi che il dual use, potenziale viatico di nuovi esborsi e opacità,
abbia scatenato la polemica politica. “Ora Genova rischia di diventare un
obiettivo sensibile dal punto di vista militare. L’opera di per sé ha enormi
criticità, mai correttamente gestite. Se ora sarà anche ‘tinta’ di verde
militare, oltre al danno si aggiungerà la beffa. Il governo ha il dovere di
chiarire questo disegno surreale” hanno dichiarato il deputato M5S Roberto
Traversi con il senatore M5S Luca Pirondini, annunciando un’interrogazione
parlamentare.
La tecnica berlusconiana di sdoganare ogni violazione alle regole scritte e non
scritte riguardanti la vita pubblica e i comportamenti dei rappresentanti eletti
ha trovato due recenti e macroscopiche applicazioni da parte del governo Meloni,
perfettamente adatte a questo clima politico in cui la “sicurezza” è
parola-chiave che apre ogni porta, e soprattutto ogni scrigno di denaro pubblico
disponibile.
Lo scorso 9 aprile il governo ha deliberato che il ponte sullo Stretto è
un’opera «fondamentale in caso di scenari di guerra» e «strategica per la difesa
europea e della Nato». Così un’opera faraonica e più dannosa che inutile, ma che
il governo Meloni-Salvini aveva già deciso di varare, non verrà più sottoposta
alle verifiche preventive di legge vista la sua urgenza e necessità. Innanzi
tutto potrà procedere spedita senza le “valutazioni di impatto ambientale” con
cui cavillosi esperti ritardano l’efficace azione governativa, anche se qui per
la verità si andrà a costruire in una zona sismica dove – a credere a Wikipedia
– si è registrata la più grave catastrofe naturale europea in tempi storici, il
terremoto-maremoto di Messina del 1908, con vittime stimate tra 75.000-82.000 a
140.000. E l’opera faraonica potrà anche bypassare le severe norme antimafia
che, in un territorio tra Sicilia e Calabria, potrebbero in effetti selezionare
e ridurre l’accesso agli appalti pubblici a molte imprese locali, con grave
danno delle (il)lecite aspettative di crescita economica.
L’articolo di Andrea Moizo è stato pubblicato da «Il Fatto Quotidiano» dell’8
luglio 2025.
Ieri (8 luglio 2025) c’è stato l’annuncio che anche la diga foranea del porto di
Genova va considerata dual use, cioè ad uso civile e ad uso militare. Lo ha
affermato il sub-commissario Carlo De Simone (cioè commissario nominato dal
commissario Marco Bucci, perché Genova ha fatto scuola negli appalti pubblici
“commissariati” stile nuovo ponte Morandi), che ha spiegato: «perché consente lo
sbarco di portaerei leggere, navi Nato e strumenti e truppe. È il tema della
mobilitary use». Così abbiamo imparato questa nuovissima crasi tra military e
mobility dal sub-commissario Carlo De Simone, che prima di mestiere faceva il
broker assicurativo e ora l’esperto di alto profilo economico-finanziario (come
dice nel suo blog https://carlodesimone.it/chi-sono/).
Ci sono effettive ragioni militari per considerare “strategiche” queste due
opere faraoniche?
A che cosa serva davvero la nuova diga foranea di Genova, con i suoi problemi
tecnici e progettuali, si è ripetutamente dedicato il blog del Comitato per il
dibattito pubblico di Riccardo Degl’Innocenti, a cui rimandiamo
(https://www.facebook.com/riccardodeglinnocentigenova). Per quel che riguarda in
particolare la utilità militare della nuova diga, notiamo che il porto di Genova
non è inserito nel programma “Basi Blu” del Ministero della Difesa, con
stanziamento iniziale di 2,5 miliardi di euro per ammodernare agli standard Nato
i porti di Taranto, La Spezia, Augusta e Brindisi. La Spezia si trova a
un’ottantina di chilometri da Genova, circa 40 miglia nautiche che una portaerei
può coprire in meno di due ore, quindi risulta perlomeno ridondante attrezzare
due porti così vicini per accogliere navi da guerra che possono essere
facilmente rifornite per via aerea o al largo, o in altre basi navali operative
in Italia già ampiamente utilizzate durante le esercitazioni navali Nato.
Il ponte sullo Stretto è stato giustificato con la necessità di collegare al
continente le basi siciliane della Nato (a noi non risulta che ce ne siano) e
degli Stati Uniti (quelle ci sono, eccome!), che però sono basi marittime e
aeree, e possono benissimo fare a meno in futuro di collegamenti terrestri, così
come già oggi non utilizzano il ferry tra Messina e Villa San Giovanni.
Accenniamo appena al costo “stimato” delle opere citate, ma c’è comunque da far
tremare le vene ai polsi. Il ponte sullo Stretto costa oggi 13,5 miliardi di
euro, la diga di Genova 1,6 miliardi di euro. Se si applicasse la proporzione di
“lievitazione” dei costi sulla base dell’esperienza amarissima della più celebre
opera faraonica, la TAV Torino-Lione, passata da 2,9 miliardi a 14,7 oggi (ma
chissà domani…), cioè se si moltiplicassero provvisoriamente i costi per cinque,
prima di essere terminati il ponte costerà 67,5 miliardi e la diga 8 miliardi di
euro.
I tempi invece sono importanti. Per le esigenze della difesa e della sicurezza
nazionale, sarebbe necessario avere le opere faraoniche disponibili al più
presto, perché Putin si sta facendo sempre più minaccioso. E invece la durata
dei lavori prevista è il 2032 per il ponte, anche se a tutt’oggi neppure il
progetto risulta completato; e per la diga si comincia a parlare del 2028 o
2029.
Ma c’è da crederci? Per la TAV i lavori cominciarono nel 2002, e forse l’opera
entrerà in funzione a fine 2033, 31 anni dopo, in uno scenario economico e
logistico che già oggi è completamente diverso da quello immaginato dal
progetto. Vedremo cosa ne sarà negli anni del ponte e della diga.
Le inchieste di «Altreconomia» e le segnalazioni dei lavoratori confermano
quello che Weapon Watch ha più volte pubblicato e sostenuto anche in incontri
pubblici: nel porto di Ravenna la violazione di leggi e trattati riguardanti il
commercio di armamenti è provata da molti episodi, a partire dal primo
registrato nel maggio 2021 – uno ‘sciopero sulla merce’ dichiarato da
Cgil-Cisl-Uil durante uno dei tanti bombardamenti su Gaza – che ha avuto il
merito di scoperchiare l’ipocrisia nel porto romagnolo.
Una ulteriore svolta verso la trasparenza si deve alla magistratura ravennate,
con l’inchiesta ancora in corso riguardante la ditta lecchese Valforge.
Così si sono esauditi gli auspici invocati nel febbraio 2024 dall’allora
presidente dell’autorità portuale Daniele Rossi in una sua lettera pubblica,
quando WW promosse insieme a Pax Christi e a numerose associazioni ravennati un
incontro pubblico sul tema. Rossi sostanzialmente disse: non ho notizia di
passaggi di armi in porto, se avete informazioni di violazioni di legge
denunciatele alla magistratura. Ebbene, oggi la denuncia c’è stata, ed è
arrivata non da esaltati pacifisti filo-palestinesi, bensì dal rappresentante di
un primario operatore logistico, cioè dall’interno del mondo dei trasporti
internazionali. Riguarda una filiera di pezzi forgiati per cannoni che ha
origine tra Varese e Lecco e destinazione una filiale di una delle maggiori
industrie militari di Israele, fornitura avvenuta aggirando il divieto
governativo di esportare armamenti verso Israele e del tutto priva di
autorizzazioni, anzi presentando in dogana il materiale come se fosse ad uso
civile.
Ora stanno prendendo forza le voci dei lavoratori e le loro denunce. I portuali
a Ravenna stanno vedendo passare i container di munizioni destinate alle IDF.
Caricano queste merci di morte sulle portacontainer dirette a Haifa e Ashdod,
quasi sempre navi della compagnia israeliana ZIM. Prima caricavano per lo più
ortofrutta e merci varie, ora sempre più dispositivi militari e munizioni la cui
probabilità di essere impiegate sulla popolazione civile inerme, in flagranti
crimini di guerra – come dovranno prima o poi verificare i tribunali
internazionali –, è altissima.
Ultima denuncia in ordine di tempo risale al 30 giugno scorso, quando alcuni
container con l’etichetta “esplosivi” classe 1.4 (cioè munizioni) sono stati
caricati a bordo della «ZIM New Zealand», partita con destinazione Haifa, dove è
regolarmente arrivata il 4 luglio.
Recentemente il presidente della Regione Emilia-Romagna ha dichiarato di voler
interrompere le relazioni con Israele. Ricordiamo al presidente De Pascale che
il principale operatore terminalistico del porto di Ravenna – unico scalo
internazionale della regione – è SAPIR-Porto Intermodale di Ravenna Spa, che
controlla direttamente anche Terminal Nord Spa e TCR (Terminal Container
Ravenna) Spa.
L’azionariato di SAPIR è così composto:
* 29,45% a Ravenna Holding Spa (77% del Comune di Ravenna, 7% Provincia di
Ravenna, il resto ai Comuni di Cervia, Faenza e Russi);
* 13,59 a Fin.Coport Srl (100% della Compagnia Portuale Srl, )
* 11,58% Camera di Commercio di Ferrara
* 10,46% Regione Emilia-Romagna
* tutti gli altri soci, a partire da La Petrolifera Italo Rumena Spa (8,70%,
nelle mani della famiglia Ottolenghi), hanno quote inferiori.
Teoricamente Comune, Regione e Compagnia portuale possono governare tutto il
porto di Ravenna con la maggioranza assoluta. Ci si aspetterebbe che queste
entità istituzionali concorressero almeno a vigilare – se non a controllare –
affinché non si possano svolgere i traffici illeciti che stanno rendendo il
porto di Ravenna indiretto complice di ciò che accade in Cisgiordania e a Gaza.
Quanto al rispetto della Costituzione, il presidente De Pascale ha correttamente
citato l’art. 117, che dà potere alle Regioni di intrattenere le proprie
relazioni internazionali. Ma bisognerebbe anche richiamarsi all’art. 11, quello
del rifiuto esplicito della guerra come soluzione delle divergenze
internazionali: un articolo che è violato clamorosamente dai governi italiani da
oltre trent’anni.
Comunicato-Palestina-RSU-Leonardo-siti-Varese
Nel mese di giugno di un anno fa il Governo vallone e quello federale belga
hanno vietato alla Challenge Airlines BE di continuare il trasferimento di armi,
materiale bellico e detonatori allo Stato israeliano attraverso il suo hub di
Liegi-Bierset. Controllata dalla compagnia cargo internazionale Challenge Group,
presente con linee aeree e divisioni nella logistica, gestione e servizi
aeroportuali in Belgio, Israele e Malta, gli aerei della Challenge Airlines BE
facevano spola dagli Stati Uniti a Israele usando l’aeroporto commerciale di
Liegi-Bierset come scalo intermedio.
Società civile, opinione pubblica, sindacati
Da tempo molte organizzazioni non governative belghe si erano scagliate contro
le autorità del proprio paese affinché fosse rispettato il Trattato sul
commercio delle armi del 2013 firmato e ratificato anche dal loro paese.
Trattato internazionale che vieta formalmente l’autorizzazione di trasferimenti
di armi verso paesi che le stiano utilizzando, come nel caso di Israele, per
«commettere genocidi, crimini contro l’umanità o attacchi contro civili».
La pressione della società civile e dell’opinione pubblica, insieme alla
decisione di alcuni sindacati del trasporto aereo di non far caricare più dai
loro iscritti materiale militare destinato allo Stato israeliano, ha spinto il
Governo federale belga ad agire per vietare tutti i trasferimenti di armi a
Israele. Inoltre, il Governo vallone ha adottato un decreto che applica il
divieto di trasportare armi verso Israele anche alle merci, provenienti da altri
paesi, in transito senza trasbordo nel proprio territorio.
È quanto previsto anche in Italia dalla Legge 185/90, la quale regola il
controllo non solo dell’esportazione e importazione di materiali d’armamento, ma
anche del loro transito sul territorio. Norma di legge solitamente disattesa e
inapplicata dalle autorità italiane, tutte le volte che dai nostri porti
transitano navi cargo e porta–container trasportando armamenti verso paesi in
guerra e/o che non rispettano i diritti umani fondamentali.
La maggior parte dei materiali di armamento destinati a Israele (compreso il
munizionamento e i pezzi di ricambio) provengono dagli Stati Uniti (circa due
terzi). In termini militari, quindi, il collegamento con gli Stati Uniti, per
via aerea e marittima è parte della catena logistica vitale per le azioni di
guerra dell’Israel Defense Forces.
Il resto delle forniture di armamenti e di munizionamento (l’altro terzo)
proviene prevalentemente dalla Germania, ma anche (seppure in piccola parte) da
Italia e Gran Bretagna, da India e Australia.
Altri aeroporti civili europei sono, pertanto, utilizzati come scali intermedi
per gli aerei militari americani e di compagnie cargo, o come origine di
spedizioni di armamenti dagli stessi paesi europei. Se si vuole, quindi, attuare
un efficace embargo di armi verso Israele – per mettere fine allo sterminio del
popolo palestinese – bisogna intervenire anche sul “transito senza trasbordo”
dagli aeroporti ma, soprattutto, dai porti europei e mediterranei.
E, in assenza di scelte e di azioni coraggiose da parte dei Governi, è
essenziale l’azione diretta della società civile, specie se a promuoverla sono i
sindacati dei lavoratori. Come l’azione di boicottaggio attuata nel porto di
Tangeri Med, lo scorso mese di aprile, nei confronti della nave Nexoe della
compagnia danese Maersk. La nave, in viaggio da alcune settimane, proveniva dal
porto di Houston in Texas e trasportava componenti e pezzi di ricambio destinati
ai caccia–bombardieri F–35 utilizzati dall’aviazione israeliana contro la
popolazione civile a Gaza.
La nave aveva già incontrato diverse proteste durante gli attracchi nei porti
lungo la costa atlantica americana e, in prossimità del nostro continente, non
avendo avuto l’autorizzazione ad attraccare nei porti atlantici della Spagna,
aveva proseguito verso gli scali del Marocco.
In questo paese a lanciare la mobilitazione è stato il sindacato dei portuali,
affiliato alla principale confederazione sindacale marocchina, la UMT, chiedendo
alle autorità di impedire alla nave di attraccare a Casablanca o a Tangeri Med e
affermando in un comunicato che «chiunque faciliti il passaggio di questa nave è
un complice diretto della guerra genocida contro il popolo palestinese».
Il boicottaggio della Maersk
Raccogliendo l’appello del sindacato, migliaia di persone si sono mobilitate per
le strade di Rabat, Tangeri e Casablanca, con l’obiettivo di impedire l’attracco
della Nexoe Maersk. All’arrivo della nave a Tangeri Med, il porto è stato
raggiunto da oltre 1.500 persone e il 90% dei lavoratori portuali scesi in
sciopero per due giorni ha impedito di avviare le gru e di fornire i servizi
essenziali alla nave.
Le proteste contro la nave danese fanno parte della campagna Mask off Maersk e
del più ampio movimento di boicottaggio contro l’invio di armamenti a Israele,
tra cui i componenti per i caccia–bombardieri F-35. Diversi rapporti provano
infatti come le forze armate israeliane abbiano usato gli F-35 per attaccare
Gaza. Tra gli episodi più noti c’è quello del luglio 2024, quando un F-35 è
stato utilizzato per bombardare la “zona sicura” di Al-Mawasi, a Khan Younis,
uccidendo 90 palestinesi.
Per tale motivo, oltre 230 organizzazioni, tra cui Amnesty International, hanno
chiesto, con una lettera congiunta ai Governi coinvolti nel programma del
caccia–bombardiere prodotto dall’americana Lockeed Martin, tra cui l’Italia, di
interrompere immediatamente il trasferimento di armi a Israele, incluso tutto
ciò che concerne gli F-35.
Il Trattato internazionale sul commercio di armi – ATT, prevede l’interruzione
del commercio diretto e indiretto di attrezzature e di tecnologie militari,
comprese parti e componenti, «qualora vi sia il rischio concreto che tali
attrezzature e tecnologie possano essere utilizzate per commettere o facilitare
una grave violazione del diritto umanitario internazionale o del diritto
internazionale dei diritti umani».
L’azione nei confronti di Maersk, il secondo gruppo armatoriale al mondo, è
diventata un caso politico e mediatico quando, all’ultima assemblea generale dei
soci nel marzo 2025, i vertici aziendali hanno dovuto difendersi e far votare
contro la duplice richiesta – presentata da alcuni azionisti – di mettere al
bando il trasporto di armi in Israele e di fare chiarezza sul proprio operato in
ordine al rispetto dei diritti umani.
Gli episodi di protesta e di boicottaggio che hanno coinvolto la Maersk sono,
cronologicamente, solo gli ultimi che hanno visto protagonisti i lavoratori
portuali e i loro sindacati in azioni dirette contro il trasferimento di armi in
Israele (e verso altri paesi in guerra). Sulla base del lavoro di ricerca e di
monitoraggio sviluppato dall’Osservatorio sulle armi nei porti europei e
mediterranei – The Weapon Watch, con sede a Genova, possiamo elencare gli
episodi più importanti (sovente del tutto spontanei) registrati negli ultimi 5
anni.
La mobilitazione dei sindacati
Il primo si verifica nel maggio 2021 nei porti di Genova, Livorno e Napoli dove
i lavoratori portuali aderenti al sindacato USB, allertati da una segnalazione
di The Weapon Watch sul trasporto di missili e di esplosivi destinati a Israele,
effettuato da una nave della compagnia SIM, si sono mobilitati dichiarando
sciopero, allo scopo di ostacolare/impedire le operazioni di scarico e carico.
Il secondo, nel giugno 2021, nel porto di Ravenna. I sindacati dei portuali,
organizzati nelle federazioni dei trasporti di CGIL-CISL-UIL, proclamano lo
sciopero generale per il giorno nel quale sarebbe dovuta salpare la nave Asiatic
Liberty carica di armamenti diretta dal porto romagnolo a quello di Ashdod, in
Israele. La determinazione dei portuali ravennati, con questa azione di
boicottaggio, ottiene che l’armatore rinunci al carico e al trasferimento di
armi a Israele.
Ma è, soprattutto, dopo l’appello dei sindacati palestinesi del 16 ottobre 2023
e della mobilitazione internazionale Ceasefire In Gaza Now!, che si moltiplicano
nel mondo le azioni dirette dei lavoratori per fermare le forniture militari a
Israele o, quantomeno, per intralciare la catena logistica che alimenta le
guerre e, in questo caso specifico, lo sterminio di civili palestinesi a Gaza.
Il primo sindacato a raccogliere l’appello è quello dei lavoratori portuali del
Pireo (Enedep) in Grecia, che si mobilita per l’arrivo della nave
porta-container Marla Bull, diretta al porto di Haifa. La nave, battente
bandiera delle Isole Marshall, deve imbarcare un container contenente 21
tonnellate di munizioni, proveniente dalla Macedonia del Nord e destinato a
Israele. I portuali, a cui si sono uniti anche i lavoratori del settore
navalmeccanico e gli studenti, bloccano il container e costringono la nave a
partire senza il “carico di morte”.
Pochi giorni dopo nel Kent in Gran Bretagna, una filiale del gruppo israeliano
Elbit System, la Instro Precision Ltd che produce sensori elettro-ottici per
droni, è bloccata per diverse ore da un gruppo di attivisti, insegnanti e
lavoratori appartenenti ai sindacati Unite, Neu, Ucu, Bma e Bfawu.
Negli USA il 3 novembre 2023 nel porto californiano di Oakland, alcune centinaia
di attivisti pro-Palestina e portuali bloccano la partenza della nave Cape
Orlando per il porto di Tacoma (nella costa nord-occidentale degli USA), dove
avrebbe dovuto caricare armamenti destinati Israele, provenienti dalla grande
base militare di Lewis-McChord. La stessa nave è bloccata nuovamente anche nel
porto di Tacoma, in questo caso dalle piroghe dei nativi del popolo Salish che
abitano nella regione.
In Belgio, nello stesso mese di novembre, la confederazione sindacale cristiana
(ACV) e la sua federazione dei trasporti (ACV-Transcom), insieme alle
federazioni dei trasporti e dei tecnici e quadri (BTB e BBTK) della
confederazione sindacale socialista, decidono che i propri iscritti incroceranno
le braccia di fronte all’invio di armi e di munizioni destinate a Israele, a
partire da quelle prodotte in Germania e caricate nei porti fiamminghi.
In Spagna, una simile decisione è presa dal sindacato dei lavoratori portuali di
Barcellona. Nel frattempo, in Australia le azioni degli attivisti e dei
sindacalisti portuali di Melbourne e Sydney iniziano a bloccare i tir e le navi
della compagnia marittima israeliana ZIM. Con questa azione diretta si accendono
i riflettori sull’invio di armi australiane a Israele fino a quel momento
occultato.
Azioni di solidarietà con i lavoratori palestinesi finalizzate a fermare il
trasferimento di armi a Israele arrivano, inoltre, dal sindacato francese CGT,
così come dal coordinamento dei sindacati greci PAME e dal sindacato turco dei
trasporti Nakliyat Is affiliato alla confederazione sindacale DISK.
E in Italia?
In Italia il sindacato USB mobilita i suoi iscritti in solidarietà con il popolo
palestinese, promuovendo il 10 novembre 2023, una giornata nazionale di lotta,
alla quale aderiscono altri sindacati di base e gruppi di attivisti e di
associazioni pacifiste, con i blocchi dei varchi portuali a Genova e a Salerno.
Nel capoluogo ligure, oltre i presidi e i picchetti a San Benigno e a Ponte
Etiopia, un corteo di manifestanti raggiunge la sede della compagnia marittima
israeliana SIM dove si inscena un sit-in di protesta.
Lo stesso giorno, centinaia di sindacalisti nel Regno Unito, con lo slogan
“Lavoratori per una Palestina libera”, bloccano l’ingresso alla fabbrica BAE
Systems di Rochester, che fornisce componenti per gli F-35 utilizzati nei
bombardamenti di Gaza.
Nel dicembre 2023 è la volta di Ravenna, dove centinaia di persone partecipano
all’iniziativa contro il traffico di armi davanti all’Autorità portuale,
denunciando il passaggio di una nave della ZIM dallo scalo romagnolo
trasportando materiali d’armamento verso Israele.
Che il porto di Ravenna fosse diventato uno scalo opaco per il trasferimento di
armi trova conferma nei mesi scorsi, quando il Gip del tribunale romagnolo
convalida il sequestro d’urgenza effettuato dall’Agenzia delle Dogane a inizio
febbraio 2025 di un carico di 14 tonnellate di componenti di armi diretto a
Israele. In tutto ottocento pezzi metallici classificati come materiale
d’armamento, prodotti dalla ditta Valforge di Lecco e diretti all’azienda Israel
Military Industries Ltd (IMI), principale produttore israeliano di armi. La
ditta lecchese, specializzata in fucina e stampa di articoli metallici, pur non
avendo l’autorizzazione a esportare il materiale bellico, né l’iscrizione nel
Registro nazionale delle imprese istituito presso il ministero della Difesa,
rientrava da tempo nella catena di fornitura della IMI.
Dal febbraio del 2024, anche in India, il sindacato dei lavoratori dei trasporti
marittimi che organizza migliaia di lavoratori portuali decide di rifiutarsi di
caricare o di scaricare carichi di armi provenienti e/o destinati a Israele.
Nel maggio 2024 a Venezia centinaia di attivisti protestano contro la nave
Bokrum, battente bandiera delle Barbados, contenente armamenti e diretta verso
Israele, senza che le autorità italiane abbiano esercitato effettivi controlli
dei carichi e garantito il rispetto delle leggi vigenti e dei trattati
internazionali che regolano il trasferimento di armi.
Non si ferma la solidarietà internazionale
Affinché il diritto internazionale e le decisioni ONU siano rispettati dai
singoli Stati, parte, nell’estate dell’anno scorso, la campagna internazionale
#blocktheboat promossa da Amnesty e da un’ampia coalizione di organizzazioni per
i diritti umani.
A fine agosto la nave MV Kathrin, di proprietà tedesca e battente bandiera
portoghese, parte dal Vietnam con un carico di 8 container di esplosivi
Hexogen/RDX (componente chiave per la costruzione di missili) con destinazione
Israele e altri 60 container di esplosivi TNT con altre destinazioni.
La Namibia rifiuta l’attracco della nave nei suoi porti e la costringe a vagare
in acque internazionali, fino ad arrivare nel Mediterraneo. Qui la nave si
dirige verso il porto di Capodistria in Slovenia per scaricare parte del carico
destinato a Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. La Slovenia gli nega
l’attracco, dopo una mobilitazione dell’opinione pubblica.
In Italia l’appello del CALP di Genova è raccolto dalla USB e da altri sindacati
di base che, prontamente, si mobilitano per impedire l’attracco della nave nei
porti adriatici e far rispettare l’ordinanza che vieta la circolazione nei porti
del Golfo di Trieste di materiale bellico.
La MV Kathrin è costretta a cambiar rotta e a dirigersi verso Malta, dove non
riuscirà ad attraccare. Da quel momento sparisce dai radar. Ricompare a fine
ottobre ad Alessandria d’Egitto, dove attracca in zona militare. Lì scarica
tutto il suo carico. Formalmente non si sa nulla degli esplosivi diretti a
Israele. Sappiamo solo che lo stesso giorno, dal porto egiziano è partita
un’altra nave diretta al porto israeliano di Ashdod. È curiosa, anche in questo
caso, la complicità con il governo israeliano dei governi arabi che controllano
le 14 fazioni con cui si dividono i palestinesi.
Viceversa, non si ferma la solidarietà internazionale. E, nel mese di gennaio di
quest’anno, anche il sindacato svedese dei portuali notifica all’associazione
imprenditoriale Swedish Ports il blocco di tutti gli scambi commerciali militari
con Israele durante la guerra in corso a Gaza. La decisione di imporre il blocco
è stata presa dai lavoratori iscritti al sindacato dei portuali con una
votazione prima di Natale.
In conseguenza del blocco, Erik Helgeson, da 20 anni lavoratore portuale a
Göteborg, vicepresidente nazionale e portavoce del sindacato, è stato licenziato
a febbraio per ragioni di “sicurezza nazionale” dalla sua azienda DFDS, la
società danese di spedizioni e logistica internazionale proprietaria della
maggior parte del terminal ro-ro di Göteborg.
Questo caso dimostra che l’azione diretta dei sindacati dei lavoratori e degli
attivisti, al fine di fermare qualsiasi trasferimento di armamenti verso
Israele, ha una straordinaria valenza etica e di testimonianza. Ma al contempo
sappiamo che l’embargo militare verso Israele è anche e, soprattutto, un obbligo
giuridico-legale, che ricade innanzitutto sulle spalle degli Stati, di
organizzazioni regionali come l’UE, l’OIC (Organisation of Islamic Cooperation)
ecc., delle aziende e delle istituzioni accademiche. Se non attuano le misure
necessarie per l’embargo militare, oltre a essere responsabili di violazione del
diritto internazionale, saranno corresponsabili per il loro apporto ai crimini
commessi da Israele.
Post-fazione
Avevo appena finito di scrivere e di inviare questo articolo alla redazione di
SettimanaNews, che arriva la notizia dell’azione di boicottaggio deciso dal
sindacato dei portuali di Marsiglia-Fos, aderente alla CGT francese. Giovedì 5
giugno il cargo israeliano «Contship Era» della compagnia ZIM avrebbe dovuto
caricare nel porto di Fos sur Mer, 14 tonnellate di pezzi di ricambio per fucili
mitragliatori e munizioni fabbricate dall’azienda francese Eurolinks e destinate
all’azienda di armamenti Israel Military Industries, controllata da Elbit
Systems, la principale industria israeliana per fatturato militare (27^ al mondo
nel 2023). L’azione diretta dei lavoratori portuali marsigliesi, che prontamente
si erano coordinati con gli amici portuali di Genova, ha avuto successo e il
“carico di morte” non è stato imbarcato.
Ripartita da Marsiglia, in ritardo sui tempi di navigazione previsti, la nave
della ZIM destinata al porto israeliano di Haifa, ha in programma due scali
tecnici nei porti di Genova e Salerno. Sin dal 5 giugno, coordinandosi con i
portuali francesi, i sindacati portuali di USB e SI-Cobas hanno chiamato
lavoratori e cittadinanza a presidiare i moli di questi due porti italiani, nei
giorni di arrivo della nave (il 7 giugno a Genova e il giorno dopo a Salerno).
Il fine di questa mobilitazione, pienamente riuscita, era assicurare che i
container bloccati a Marsiglia non fossero imbarcati a Genova e che la nave non
trasportasse alcun materiale di armamento per l’esercito israeliano.
I portuali francesi della Cgt di Marsiglia hanno scritto un nuovo capitolo
nell’atlante europeo delle resistenze contro il commercio di armamenti. L’azione
dei lavoratori francesi non è stata improvvisata. A Marsiglia come a Genova, ad
Anversa come nel Pireo, a Barcellona come a Tangeri i portuali sono diventati,
come ha scritto Giulio Cavalli sul quotidiano Domani, i custodi materiali delle
norme nazionali e internazionali che i governi disattendono. In Italia la legge
185/90 vieta esplicitamente l’esportazione e il transito di armi verso Paesi
coinvolti in conflitti armati o responsabili di gravi violazioni dei diritti
umani, eppure i flussi di armamenti non si sono mai fermati. E nel vuoto di
legalità si inserisce l’azione dei portuali. È una catena di controllo dal basso
che parte dalle banchine e costringe il potere politico a inseguire.
Una lotta dal respiro europeo e mediterraneo, frutto di un’intelligence operaia.
Una rete d’informazione e attivismo che collega i portuali con media
investigativi e ong, tra cui noi di The Weapon Watch. Una rete che rappresenta
oggi una delle più avanzate forme di controllo democratico dal basso sui
traffici bellici.
Gianni Alioti
Redazione
Redazione
QUEL CHE NON SAPREMO PIÙ SE MODIFICHERANNO LA LEGGE 185/90
Nella primavera del 2024 abbiamo pubblicato “a puntate” una serie di spunti informativi tratti dalla Relazione 2024, presentata al Parlamento nel marzo di quell’anno. Qui riproponiamo la breve introduzione ai cinque articoli pubblicati, con i relativi rimandi per poterli leggere.
Il governo Meloni si prepara a snaturare la Legge 185 del 1990, quella che
impone il controllo delle attività di trasferimento degli armamenti concernenti
l’Italia. La 185 prevede, tra l’altro, la pubblicazione di una Relazione annuale
al Parlamento. Quella uscita pochi giorni fa potrebbe dunque essere l’ultima
Relazione contenente tutti gli elementi che – ancorché pubblicati in una forma
di proposito difficile da leggere – hanno sino a oggi permesso di dar conto
all’opinione pubblica dei trasferimenti di armi che riguardano il nostro paese.
La trasparenza del commercio internazionale ha sempre incontrato l’aperta
contrarietà dei fabbricanti/esportatori di armi, grandi e piccoli.
Preferirebbero condurre nella segretezza affari che condizionano pesantemente la
politica estera di ogni paese, il sostegno alle guerre in corso e ai dittatori
più impresentabili, la violazione dei trattati di regolazione e non
proliferazione, la protezione umanitaria delle popolazioni civili coinvolte.
Curti Costruzioni Meccaniche Spa (1a parte)
agenzia industrie difesa
Curti Costruzioni Meccaniche Spa (2a parte)
Una specialità lecchese: macchine per armi
Importare da Israele, esportare armi ad Israele
Lo scenario aperto dall’attacco di Israele all’Iran è dei più temibili, e la
posizione dell’Italia tra gli alleati di Israele è tra le più esposte.
Il parlamento non ha raccolto le proteste e le sollecitazioni della società
civile contro il tacito rinnovo per altri cinque anni del memorandum militare
segreto tra Italia e Israele, quindi tacitamente rinnovatosi lo scorso 8 giugno.
Da parte sua, il ministro della Difesa Guido Crosetto durante il question time
alla Camera dello scorso 21 maggio, ha affermato che il governo non sottopone le
importazioni militari da Israele a «una valutazione di merito sulla provenienza
dei materiali ma [al]la valutazione sul loro utilizzo finale e sull’impatto
potenziale sulla difesa e sicurezza dell’Italia». Ha ammesso così che queste
importazioni sono essenziali per la nostra difesa, sempre più dipendente
dell’industria militare di Tel Aviv.
I dati Istat confermano la crescente dipendenza dalle importazioni di un alleato
militare che negli ultimi venti mesi ha aperto sette fronti di guerra (Gaza,
Cisgiordania, Iran, Libano, Siria, Iraq, Yemen) e che un anno fa ha sparato
sulle postazioni italiane Unifil in Libano.
Nel 2022 l’Italia ha importato armi e munizioni militari (codice 9301) per 24
milioni di euro, nel 2023 per 16,5 milioni, nel 2024 diventati 32 milioni (+95%
in un anno). Nei soli primi due mesi del 2025 ha importato per 21,9 milioni: se
le consegne manterranno questo ritmo, alla fine dell’anno l’Italia potrebbe aver
importato armi da Israele per oltre 130 milioni di euro.
Anche in un altro settore, quello dell’industria aerospaziale (codice CL303), la
bilancia commerciale è sempre più favorevole a Israele, in attivo negli ultimi
tre anni, anche se nel primo trimestre 2025 l’export italiano è tornato a
crescere. Preoccupante che aziende italiane nel 2024 abbiano fornito a Israele
quantità consistenti di esplosivi (codice SH2 36).
L’inchiesta del sito francese «Disclose» pubblicata nel marzo 2025 ha rivelato
una fornitura a Israele di accessori per mitragliatrici leggere che non può
essere considerata “solamente difensiva”, come affermato dal governo francese.
Contro la spediizione del carica da Marsiglia-Fos si sono mobilitati i portuali
francesi e italiani.
Si sta formando una rete spontanea per fermare il traffico di armi verso
Israele. Da Anversa si segnala la spedizione di due container di cuscinetti a
rulli conici, da parte della società Timken France, filiale francese della
multinazionale USA leader del settore. Destinataria l’industria israeliana Ashot
Ashkelon, del gruppo IMI Israel Military Industries, specializzata in veicoli da
guerra terrestri.
Le navi coinvolte nel trasporto sono la «MSC Laura» e la «ZIM Vietnam».
La prima è arrivata ad Anversa l’1 giugno, ed è ripartita il 6 giugno con il suo
carico. È attesa in queste ore a Port Said, ultima tappa prima di toccare un
porto israeliano.
L’altro container non è stato caricato sulla «ZIM Vietnam» perché bloccata dalle
autorità fiamminghe, su sollecitazione della ong belga Vredesactie che ha potuto
vedere i documenti di trasporto e denunciare il transito di armamenti. Secondo
lo spedizioniere, le merci dovrebbero comunque partire per Israele il 17 giugno,
imbarcate probabilmente sulla «MSC Mombasa» in arrivo da Amburgo e diretta ad
Ashdod.
La collaborazione tra MSC e ZIM è il frutto secondario della riorganizzazione
dello shipping globale conseguente alla fine della decennale alleanza “2M” tra
MSC e Maesrk, annunciata nel 2023 e formalmente cessata nel gennaio 2025. È
stata firmata nel settembre 2024 e durerà tre anni, e include ovviamente gli
accordi di vessel sharing e slot charter.
L’azienda Ashtot Ashkelon è la stessa al centro dell’inchiesta della procura di
Ravenna, quale destinataria di 14 tonnellate di forgiati fabbricati in Italia ma
presentati in dogana quali pezzi metallici, senza autorizzazione all’export,
anche se Ashtot Ashkelon è certamente un’industria militare tra i più importanti
fornitori di armamenti dell’esercito di Tel Aviv.
FACCIAMO LUCE SUI TRAFFICI DI ARMI ED ESPLOSIVI TRA ITALIA E ISRAELE
Mentre il governo si sta orientando al tacito rinnovo per altri cinque anni
dell’accordo militare segreto tra Italia e Israele, a che punto è l’interscambio
di armamenti tra i due paesi?
Come riporta l’ultima Relazione sulle operazioni autorizzate dalla Legge
185/1990, per decisione del governo nel 2024 le aziende italiane non hanno
ricevuto autorizzazioni ad esportare in Israele, paese in guerra – tra l’altro
– con gli stessi territori occupati nel 1967 (nel 2004 l’Alta corte di
giustizia di Tel Aviv l’ha definita «occupazione belligerante»). Negli anni
precedenti le esportazioni militari italiane verso Israele avevano mostrato una
tendenza declinante: nel 2023 le autorizzazioni erano state di 9,9 milioni di
euro, rispetto ai 21,4 milioni di euro registrati nel 2020.
La decisione del governo non ha però bloccato le consegne relative alle commesse
autorizzate in precedenza. Infatti proprio nel 2024 il Ministero delle Finanze
ha registrato esportazioni di armi ad Israele per 35,2 milioni di euro (importi
segnalati di transazioni definitive). Se dunque la posizione ufficiale del
nostro paese sul conflitto di Gaza è cauta, di fatto le armi prodotte in Italia
hanno contribuito e stanno contribuendo al massacro della popolazione civile
palestinese. È noto il caso dei cannoni super rapidi OTO Melara 76/62 fabbricati
a La Spezia dal gruppo Leonardo e impiegati sin dall’ottobre 2023 per bombardare
dal mare la popolazione di Gaza (vedi il nostro articolo del gennaio 2024).
Secondo l’Atlante di Weapon Watch, sono una sessantina le aziende che negli
ultimi anni hanno venduto armi a Israele. Le principali sono direttamente o
indirettamente sotto controllo governativo: Leonardo, Elettronica, Consorzio
Iveco-Oto Melara. Quasi tutte partecipano ai maggiori programmi di cooperazione
militare, in particolare per gli addestratori M-346 Alenia-Leonardo, i caccia
F16 (Fighting Falcon) e JSF (F-35). Alcune forniscono munizioni e attrezzature
per fabbricare munizioni, di cui Israele è grande acquirente globale e
fortissimo consumatore.
I dati che Istat raggruppa sotto il codice merceologico 93 – che mescola armi
leggere militari e civili, parti e ricambi e anche bombe pesanti e granate –
indicano che nonostante il blocco governativo nel 2024 l’export verso Israele è
stato quasi del tutto (89%) da armi militari. Le province più implicate sono
Lecco (probabilmente da Fiocchi Munizioni) e Brescia (il “distretto Beretta”
delle armi leggere).
Il dato più preoccupante, però, è la crescente dipendenza dalle forniture
militari israeliane, che contrariamente alle esportazioni stanno crescendo
fortemente. Il ministro Crosetto il 21 maggio scorso in Parlamento ha spiegato
che la Legge 185 «non prevede una valutazione di merito sulla provenienza dei
materiali ma la valutazione sul loro utilizzo finale e sull’impatto potenziale
sulla difesa e sicurezza dell’Italia». Quindi armi e attrezzature militari
israeliane sono indispensabili per la difesa italiana, al punto che è passato in
secondo piano il contributo economico sempre più forte che il nostro paese dà
all’apparato militare-industriale di Tel Aviv, apparato che si ramifica e
pervade gran parte dell’economia israeliana, oltre che i vertici militari e lo
stesso governo.
Dal 2021 le importazioni militari dell’Italia da Israele hanno superato le
esportazioni. Nel 2024, ben il 21% (in valore) delle importazioni militari
complessive autorizzate ha riguardato Israele, con 42 autorizzazioni, al secondo
posto appena dopo gli Stati Uniti (24%). Per quel che riguarda le operazioni
effettivamente svolte, tra le aziende importatrici troviamo in prima fila
Leonardo e le sue controllate Elettronica e Telespazio, due colossi globali del
munizionamento come KNDS-Simmel Difesa e RWM Italia (che probabilmente ha
ordinato in Israele 608 tonnellate di esplosivo CXM-7), Gelco (800 kit completi
per missile anticarro Pike) e anche dell’operatore logistico SLS che opera per
conto delle forze armate italiane e di gruppi come Leonardo, Fincantieri,
Thales.
La sempre più profonda interconnessione tra la difesa italiana e il complesso
militare-industriale israeliano è del resto un modello seguito da molti paesi
europei. Sono di ieri i dati diffusi dal Ministero della difesa di Tel Aviv – e
ripresi dal New York Times – che ha sottolineato il raggiungimento nel 2024 di
un record storico di vendite negli armamenti: 14,7 miliardi di dollari, di cui
circa la metà costituito da missili, razzi e sistemi di difesa aerea. Il 54%
delle armi prodotte da Israele è acquistato dai paesi europei.
Dal sito dell’azienda israeliana Ashtot Ashkelon Industries, destinataria del
materiale militare sequestrato nel porto di Ravenna
Il recente caso venuto alla luce nel porto di Ravenna (ne abbiamo parlato in un
articolo del marzo scorso) dimostra che la domanda dell’industria militare
israeliana, affamata di componenti per il proprio export, è molto forte e cerca
ogni via, anche illegale, per aggirare divieti e restrizioni. Quelli sequestrati
a Ravenna sono componenti per cannoni presentati in dogana da un “prestanome”
delle vere aziende produttrici come “lavori di ferro o acciai fucinati”.
DALLE PICCOLE FABBRICHE NELLE PREALPI LOMBARDE ALLE FORZE ARMATE DI ISRAELE
ATTRAVERSO IL PORTO DI RAVENNA –
Il 4 febbraio 2025 la Guardia di Finanza ha bloccato nel porto di Ravenna un
carico di pezzi forgiati diretti a IMI Systems Ltd, la compagnia israeliana
famosa per le armi leggere (la mitraglietta UZI, il fucile d’assalto Galil), dal
2018 assorbita da Elbit Systems, il principale contractor della difesa di
Israele.
L’episodio è divenuto pubblico solo ora grazie ai cronisti locali e al
giornalismo investigativo di Linda Maggiori, che ne ha scritto su il manifesto.
Venerdì 28 marzo la rete ravennate delle associazioni per la pace ne ha tratto
un comunicato in cui ha ricordato che, circa un anno fa, l’Autorità portuale di
Ravenna aveva messo per iscritto di non aver «alcuna informazione in merito a
trasporti di armamento bellico in violazione delle leggi dello Stato», invitando
chi ne avesse a informare la Procura della Repubblica.
Presidio in piazza del Popolo, a Ravenna, il 29 marzo 2025, per protestare
contro il transito di armi in porto.
In effetti il caso è venuto alla luce perché, lungo la catena logistica e
documentale, qualcuno ha rispettato le regole che qualcun altro cercava di
aggirare, e ha denunciato il tentativo. Troppo grave era stata l’infrazione di
leggi e trattati, in una tentata esportazione verso un paese dove si commettono
terribili violazioni dei diritti umani e crimini di guerra, cercando
fraudolentemente di nascondere la vera natura delle merci esportate.
L’azienda esportatrice è Valforge Srl di Cortenova, in provincia di Lecco,
specializzata in forgiatura e trattamento dei metalli, ma non iscritta al
Registro nazionale delle imprese e quindi neppure in grado di chiedere
l’autorizzazione a esportare materiale militare, come vuole la legge 185/1990.
Eppure Valforge ha ottenuto una commessa da una delle aziende militari
israeliane più note al mondo, e possiamo esser certi che abbia dovuto rispettare
un capitolato tecnico preciso e conforme all’utilizzazione finale dei pezzi
fabbricati. Ora l’azienda ne chiede il dissequestro, e sapremo se il tribunale
di Ravenna le permetterà di tornare in possesso del materiale, con il rischio
che possa provare a esportarlo per altra via, in un altro porto italiano o
attraverso un altro paese.
La laboriosa Valsassina, dove ha sede la Valforge, è terra di grande attivismo
metallurgico e di grande e diffusa intraprendenza imprenditoriale. Se la
Valforge vi opera dal 2006 (dal 2005 con altra denominazione, poi cessata), il
suo proprietario Pierantonio Baruffaldi è attivo dal 2001 come titolare di
un’altra azienda (Otomin Srl a Primaluna, minuterie metalliche), e dal 2016
coordina le sue attività mediante una piccola holding (B.Mecc Srl con sede a
Introbio). La stampa ha riportato che le lavorazioni sono state effettivamente
svolte da due aziende in provincia di Varese, e in effetti il Baruffaldi è stato
per quattro anni anche amministratore delegato della Coinval Srl di Sumirago
(VA), azienda cessata nel 2022 ma che ha operato in un’area con storica
vocazione metalmeccanica, posta com’è a metà strada tra Varese e Gallarate.
Tanto che all’ex indirizzo della Coinval oggi opera un laboratorio industriale
che realizza test e controllo qualità per produzioni metalliche e in particolari
in acciaio (non coinvolto nell’inchiesta).
Dobbiamo però concentrare l’attenzione sul territorio in cui opera Valforge. In
questo quadrante dell’Alto Lario, tra le province di Lecco e Sondrio, si è
creato un ambiente piccolo-industriale ma attento alla digital innovation, erede
dei ferascìncinquecenteschi ma proiettato sui mercati internazionali, da cui
sono nate vere dinastie industriali. Quella della famiglia Galperti, gli antichi
“Carlini” della Valsassina, si è ramificata nel tempo in tante branche, alcune
divenute di dimensioni notevoli. A Nuova Olonio, dove il fiume Adda si getta nel
Lago di Como, ha messo il suo quartier generale l’ingegner Nicola Galperti a cui
fa capo un gruppo da 230 milioni di fatturato (2023), capofila la Ring Mill Spa.
Questa società opera tra l’altro anche nel settore militare e nel 2022 ha
ottenuto autorizzazione a esportare in Germania e anche verso Israele pezzi
forgiati per cannoni, precisamente “sbozzati per canna, blocco otturatore e
culatta da 155 mm cal. 52”. Quelli destinati a Israele sono montati sugli obici
semoventi gommati ATMOS 2000, considerati come i più competitivi concorrenti dei
noti cannoni francesi CAESAR, e fabbricati da Soltam Systems, azienda del gruppo
Elbit Systems, lo stesso a cui appartiene la citata IMI Systems.
L’obice semovente ATMOS 2000 155mm/52 può essere montato su veicolo 6×6 o 8×8.
Nella sua pagina web, Elbit lo presenta come battle-proven. Fonte: pagina web di
Elbit Systems
Così, a pochi chilometri di distanza tra loro, vediamo due imprenditori entrambi
operanti nello stesso specifico settore della forgiatura, sebbene su livelli
diversi, vendere allo stesso cliente (Elbit Systems) semilavorati da assemblare
in sistemi d’arma. Il primo, Pierantonio Baruffaldi, cade dalle nuvole quando
gli sequestrano 13 tonnellate di materiale destinato – illegalmente – alla più
importante industria militare di Israele. Il secondo, l’ing. Galperti presidente
e CEO della Ring Mill, ha venduto – con la documentazione corretta ma con
autorizzazioni che non dovevano essere concesse perché destinate a paesi in
guerra – componenti di qualità per i sistemi d’artiglieria all’avanguardia sia a
Rheinmetall (che li ha spediti in fretta in Ucraina), sia a Elbit che ne ha
dotato le forze armate israeliane per fare il tiro a segno sulla popolazione di
Gaza.
Lavorazione a caldo nello stabilimento Ring Mill di Dubino (SO).
Vengono in mente le parole di un altro Galperti, Roberto Galperti, anche lui
industriale valsassinese delle lavorazioni metallurgiche a caldo, che in una
vecchia intervista del 2013 proclamava di non investire più in Italia, dove si
sentiva sconfitto da una “burocrazia cavillosa”: qui «qualsiasi cosa faccia,
l’imprenditore è sospettato di non voler rispettare le leggi e quindi è
potenzialmente considerato un criminale».
Autorità e governo italiani farebbero meglio a seguire l’esempio del presidente
brasiliano Lula da Silva. Nell’aprile 2024 il suo Ministero della difesa, da
sempre geloso della propria autonomia in tema di procurement, ha firmato con
Elbit un contratto di acquisto per 36 obici ATMOS 2000 completi. In ottobre Lula
– che ha mantenuto pubblicamente una posizione molto netta circa le
responsabilità israeliane nella cosiddetta “guerra di Gaza” – ha sospeso
l’affare, nonostante le rimostranze del ministro della difesa, José Múcio, suo
alleato di governo ma leader di un partito di destra. Nel febbraio 2025 la
stampa brasiliana ha pubblicato la notizia che Lula approverà il contratto solo
dopo un accordo di pace tra Israele e Hamas, e che lo stesso destino seguiranno
tutti gli accordi in essere o in trattativa per acquisto di armi da aziende
israeliane.
I lavoratori dell’aeroporto civile di Montichiari-Brescia proseguono nella loro
obiezione nonviolenta ai traffici di armamenti.
Anche in questa occasione, l’aereo in questione ha caricato casse (probabilmente
di missili) giunte nottetempo su camion scortati, e sempre di notte – in
coincidenza con la chiusura al traffico civile, e con manodopera nominativamente
scelta e incentivata – caricati sull’aereo, che ha comunque sostato per circa
ventiquattro ore in aeroporto prima di ripartire.
Tutto di questo aereo ci conferma che opera lungo una supply chain militare.
Si tratta di un vecchio Boeing 737-300, in circolazione da quasi 27 anni, oggi
gestito dalla compagnia ucraina Constanta Airlines, ma in precedenza appartenuto
a una lunga fila di compagnie, passando da quella di stato romena Tarom
attraverso la Wells Fargo Bank (una delle big four americane) che l’affittò dal
2004 al 2022 a diversi operatori cinesi (Deer Jet, poi Beijing Capital; Yangtze
River Express, poi Suparna Airlines, alias Jinpeng), per finire nelle mani di
una compagnia cargo georgiana (Gryphon Air Cargo) e infine – dal giugno 2024 –
alla compagnia ucraina Constanta Airlines.
L’arrivo del vecchio Boeing, terzo velivolo operato dalla Constanta, ha seguito
di poco la nomina alla supervisione operativa della compagnia dell’ex generale
dell’esercito USA David L. Grange, entrato come azionista di minoranza insieme a
un uomo d’affari inglese e a un imprenditore svedese. Insieme hanno poco più del
20% della Constanta Airlines.
Grange ha fondato l’organizzazione benefica Osprey Global Solutions Ucraina «per
la formazione gratuita dei militari ucraini in materia di sminamento,
neutralizzazione di ordigni esplosivi e fornitura di assistenza medica
d’emergenza secondo gli standard NATO», come recita il sito web della compagnia.
La Constanta era stata acquisita nel 2018 da Roman Mileshko, ex pilota militare
delle forze aeronavali ucraine con specializzazione conseguita alla Naval
Postgraduate School di Monterey, California, e una decina di anni di missioni in
Afghanistan, Ciad, RD del Congo, Somalia e Sudan, al quale è rimasta la
maggioranza azionaria. Mileshko l’aveva acquisita in seguito alla bancarotta
della precedente proprietà – una holding di Dubai – e dopo una lunga causa
legale davanti a un tribunale londinese.
La notizia dell’ingresso nella compagnia dell’ex. gen. Grandge è data con
risalto sul sito web della Constanta AIrlines.
Sullo sfondo, l’immagine dei due Antonov impiegati dalla Constanta, pruima
dell’acquisizione del Boeing 727-300.
Riutilizzando il vecchio numero di coda UR-UAA (già di un Antonov An-12, poi
finito alla Africa West Cargo e irreparabilmente danneggiato), apparentemente il
Boeing 737 di Constanta Airlines è entrare in attività proprio con questo volo
registrato a Brescia-Montichiari, dove è giunto il 5 marzo 2025 dall’aeroporto
slovacco di Piešťany, sua base operativa principale, con un volo della durata di
un’ora, per ripartire il giorno successivo alle 9:07 per Ørland, base militare
in Norvegia, dove è atterrato alle 13:25.
La durata del volo Montichiari-Ørland (4 ore e 18 minuti) può apparire eccessiva
rispetto alla distanza in linea d’aria (circa 2.000 km) e alla velocità di
crociera del 737 (oltre 900 km/h), ma l’aereo ha seguito un’ampia rotta sulla
Francia piuttosto che transitare verso nord, sopra Svizzera e Germania.
Da Ørland – base fondamentale per la Royal Norwegian Air Force e la NATO –
l’aereo ha poi fatto ritorno a Piešťany, dove è atterrato alle 19:21 del 6
marzo.
Dall’Italia potrebbe anche aver trasportato parti di ricambio per gli F-35 e gli
elicotteri AW101, fabbricati da Leonardo; o anche materiale per lo svolgimento
delle manovre alleate “Joint Viking 25”, le esercitazioni congiunte che sono
attualmente in corso (dal 3 al 14 marzo 2025, 10.000 soldati di nove diversi
paesi). Nella baia di Trondheim, non lontano da Ørland, si trovano infatti
giganteschi depositi dei Marines americani, uno dei contingenti prepositioned
per le spedizioni militari degli Stati Uniti negli ambienti freddi.
Preparativi dei marines in Norvegia per ‘Joint Viking 25’
Il volo del Boeing ucraino dimostra – se non bastavano altre evidenze – che
attrezzature e personale civile ucraino stanno già operando entro la cornice
NATO, con mezzi e collegamenti personali ad alto livello con le strutture
militari USA. Va da sé che, in questo quadro, l’Italia sta fornendo le basi
territoriali necessarie alle operazione degli alleati vecchi e nuovi: un
coinvolgimento nella “guerra a oltranza” che si fa sempre più profondo e
irreversibile.
GRAZIE A UN ALLEATO, COME NEL CASO DEL NORD STREAM DI CUI NON CI RICORDIAMO
BENE…
A dieci giorni dall’attentato alla petroliera «Seajewel» tutti gli interrogativi
più importanti rimangono sul tavolo senza risposta, anzi altri se ne sono
aggiunti.
In ogni caso nessun nuovo elemento si è aggiunto che possa smentire quanto
abbiamo già affermato: si tratta di un atto di guerra compiuto sul territorio
del nostro paese, il primo che si possa mettere in collegamento diretto con la
partecipazione dell’Italia alla guerra tra Russia e Ucraina.
I silenzi della stampa – Come sappiamo per lunga esperienza storica, anche nel
nostro paese la stampa ‘istituzionale’ che informa l’opinione pubblica fornisce
informazioni anche in forma di silenzi. I silenzi sulla vicenda «Seajewel» ci
sembrano significativi.
Come abbiamo già riferito, le esplosioni che hanno danneggiato la petroliera si
sono registrate nella notte tra venerdì 14 e sabato 15 febbraio. La Repubblica
ha seguito il caso solo nella sua edizione genovese, su quella nazionale si è
limitata a una ‘breve’ (a p. 23 il 20 febbraio). Il Fatto Quotidiano non ha
pubblicato nulla sull’edizione cartacea. Il Giornale ha mantenuto il silenzio
sino al 21.2, quando è uscito con un’“inchiesta” a p. 4. Il manifesto nulla.
Il quotidiano che più ha seguito la notizia è stato il genovese Secolo XIX,
forse perché da qualche mese è di proprietà del mega gruppo armatoriale MSC. Ha
cominciato a occuparsene, però, non prima di martedì 18 (‘lavorato’ il 17), e
per tre giorni consecutivi ha impaginato con lancio e foto in prima pagina e
articoli alle pagine 2 e 3 (18, 20 e 21.2). Solo La Stampa, molto seguita nel
Ponente ligure, ha seguito il Secolo, uscendo con informati articoli nella
sezione ‘Primo piano’ per tre giorni consecutivi (18, 19 e 20.2).
Il giornalismo embedded – A parte dobbiamo considerare il Corriere della Sera,
che prima ha tardato a intervenire sul caso fino a giovedì 20 febbraio, poi ha
fatto scendere in campo una firma di peso come Guido Olimpio che ha messo sul
tavolo un altro tipo di notizie, quelle che non hanno fonte. Con il titolo «La
guerra segreta sui mari – La petroliera in Liguria e i precedenti», l’attentato
di Savona è presentato come uno dei “diversi strani episodi” accaduti negli
ultimi mesi. “Forse sono incidenti, forse si è trattato dell’errore di marinai
distratti, forse è stato altro”. La «Seajewel» “potrebbe essere rimasta vittima
di un attacco con cariche esplosive che hanno provocato danni minori ma che, al
tempo stesso, costituirebbe un segnale inquietante”. Va dunque inserita tra le
navi che hanno subito incidenti sospetti negli ultimi due mesi: il cargo russo
«Ursa Major», affondato il 23 dicembre 2024 mentre era in viaggio tra Spagna e
Algeria (3 esplosioni a bordo); la nave spia russa «Kildin» abbandonata al largo
di Tartus, in Siria, il 23 gennaio 2025 (esplosione e fuoco a bordo); la
portarinfuse cinese «An Yang2» incagliata l’8 febbraio di fronte a Sakhalin, a
nord del Giappone; e la cisterna «Koala» con bandiera di Antigua e Barbuda, che
il 9 febbraio ha subito tre esplosioni al largo del porto russo di Ust-Luga, Mar
di Finlandia.
Vengono nominate anche altre navi e altri incidenti minori, in un quadro globale
che infittendo le informazioni minori diventa confuso e indefinito.
L’infografica pubblicata dal Corriere della Sera del 20 febbraio 2025 accompagna
l’articolo “Savona, si indaga per terrorismo. La scia delle esplosioni sulle
navi russe”, firmato da Guido Olimpio e Andrea Pasqualetto.
La rivendicazione – C’è chi ha sottolineato che l’attentato di Savona non è
stato rivendicato. Tuttavia, riprendendo le fonti locali savonesi in anticipo su
tutti i giornali italiani, un quotidiano online di Kiev ha pubblicato (17.2) un
articolo bene informato in cui si dà per scontato che la «Seajewel» appartenga
alla ‘flotta fantasma’ che commercia il petrolio russo in violazione delle
sanzioni internazionali. Nel dicembre 2024 la stessa Ukrainska Pravda aveva
diffuso su YouTube un interessante servizio ‘investigativo’: servendosi degli
strumenti del tracking navale e di teleobiettivi, nel porto rumeno di Costanza
sono state filmate alcune petroliere dedite – si afferma nel servizio – al
traffico ‘triangolare’ di petrolio russo tra Novorossiysk, i porti turchi e
appunto Costanza. Tra esse, ben riconoscibile, la «Seajewel».
Cos’è una ‘flotta ombra’ – Secondo Lloyd’s List, una nave cisterna appartiene a
una ‘flotta ombra’ se ha almeno 15 anni di età, se è di proprietà anonima e/o ha
una struttura societaria progettata per nascondere la proprietà effettiva, se è
impiegata esclusivamente nei traffici petroliferi sanzionati e se è impegnata in
una o più delle pratiche di navigazione ingannevoli secondo le linee guida del
Dipartimento di Stato USA pubblicate nel maggio 2020. Le liste escludono le
petroliere riconducibili a entità marittime controllate dai governi, come la
russa Sovcomflot o l’iraniana National Iranian Tanker Co, e quelle già
sanzionate.
Allo stato attuale, ad aver individuato le navi che contrabbandano petrolio
russo sono l’Unione Europea (16 pacchetti di sanzioni contro la Russia, che tra
l’altro colpiscono 152 navi); il Regno Unito dal luglio 2024 ha blacklisted
oltre 100 navi, in gran parte petroliere; gli Stati Uniti hanno sanzionato
dall’agosto 2023 oltre duecento navi, di cui 155 cisterne nel solo gennaio 2025.
La «Seajewel» non è tra le navi sottoposte a sanzioni internazionali.
L’ultimo viaggio – La «Seajewel», che naviga sotto bandiera di Malta, appartiene
ed è gestita dalla società armatrice greca Thenamaris, un colosso dello shipping
internazionale che gestisce 93 navi tra cisterne, rinfuse e gasiere. Negli
ultimi due mesi ha toccato nell’ordine i porti di Salonicco, Ceyhan (Turchia),
Istanbul, Costanza (Romania), Fos-Marsiglia e Arzew, in Algeria, prima di
raggiungere Vado. Se ha ‘triangolato’ petrolio russo può averlo caricato in
Turchia e/o in Romania, entrambi paesi NATO che però – secondo gli ucraini –
sono piattaforme di smistamento di greggio sanzionato.
La supply chain – Al momento dell’attentato, la nave stava sbarcando greggio
alle boe Sarpom di Vado Ligure, greggio destinato a raggiungere via oleodotto la
raffineria Sarpom/IP-API di San Martino di Trecate (Novara), il primo operatore
privato in Italia nel settore della distribuzione dei carburanti, che negli anni
ha inglobato le reti già dei marchi Total, ERG, IP, Esso ed API. Si è minacciata
quindi la sicurezza degli approvvigionamenti di una delle principali arterie
energetiche del nostro paese, vitale per l’economia nazionale.
Novità inquietanti – In queste ultime ore si stanno aggiungendo – sempre per
merito soprattutto del Secolo XIX – altri particolari.
1. il 17 gennaio scorso anche la nave gemella «Seacharm», sempre appartenente a
Thenamaris, ha subito un attentato al largo del porto turco di Ceyhan;
2. l’esplosivo utilizzato a Savona è dello stesso tipo di quello utilizzato in
altri attentati compiuti recentemente nel Mediterraneo;
3. la seconda bomba sistemata sullo scafo della «Seajewel» è scoppiata circa 20
minuti dopo la prima, e sul fondo marino, non si sa se per malfunzionamento o
per calcolo.
La minaccia ambientale sottostimata – Se le paratie della nave non avessero
tenuto, o se la seconda bomba avesse allargato la falla della prima, si sarebbe
profilata una catastrofe dalle proporzioni simili a quella del disastro della
petroliera «Haven» affondata al largo di Arenzano nel 1991, quando vennero
riversate in mare 144.000 tonnellate di petrolio. La bonifica del fondale non è
mai stata fatta, e oggi vi stazionano 50.000 tonnellate di catrame. I depositi e
il relitto sono da allora una fonte di inquinamento continuo, e secondo gli
esperti per mancanza di sedimentazione non ci sono prospettive di una
decomposizione batterica del letto di catrame.
Cosa (non) ricordiamo del caso Nord Stream – Era il 26 settembre del 2022
quando quattro bombe hanno distrutto i gasdotti Nord Stream 1 e 2. Ad appena due
anni e mezzo di distanza, sembra che a ricordare uno dei più clamorosi attentati
alle infrastrutture mai registrati sia rimasto solo Seymour ‘Sy’ Hersh,
l’ottantasettenne giornalista investigativo premio Pulitzer nel 1970 per aver
rivelato strage di Mỹ Lai, durante la guerra in Vietnam.
Non si ricordano più le 150.000 tonnellate di metano rilasciate nell’atmosfera.
Non si ricorda che la Russia ha chiesto sul caso un’indagine internazionale al
Consiglio di sicurezza dell’ONU, richiesta respinta. Né si ricorda che i governi
di Germania, Svezia e Danimarca promisero un’inchiesta approfondita, mai
avvenuta. Circa un anno fa Danimarca e Svezia hanno chiuso le indagini e inviato
i risultati alla Germania, che finora ha emesso un solo mandato di arresto per
un ucraino senza nome.
Eppure il sabotaggio era stato minacciato pubblicamente dal presidente Biden
ricevendo il cancelliere Scholz a Washington, nel febbraio 2022. E secondo fonti
riservate raccolte da Hersh, è stato un segnale da remoto a innescare
l’esplosione degli oleodotti, minati mesi prima da due sommozzatori della US
Navy. Da buon americano, in un recente articolo Hersh non ha nascosto la sua
ammirazione per questi sub, “superbamente addestrati per svolgere il loro
lavoro” a circa 80 metri di profondità nel Mar Baltico: “un gruppo altamente
qualificato di sommozzatori addestrato dalla Marina, la cui capacità di
rimuovere i detriti dai porti e le ostruzioni marine è stata ritenuta essenziale
per decenni dai comandi della Marina around the world”.