COMUNICATO STAMPA (7 agosto 2025)
L’osservatorio Weapon Watch esprime piena solidarietà ai lavoratori del porto di
Genova e alle loro organizzazioni sindacali, che hanno organizzato la protesta –
l’ennesima – contro l’arrivo di una nave della compagnia marittima saudita
Bahri, come al solito carica di armi ed esplosivi. In questa occasione, la nave
doveva imbarcare anche cannoni di produzione Leonardo destinati ad Abu Dhabi,
giunti dalla Spezia e visti sulle banchine del terminal GMT.
Le ragioni della protesta sono molte e serie.
Per quello che riguarda i sistemi d’arma di produzione italiana destinati agli
Emirati Arabi Uniti, ricordiamo ciò che abbiamo scritto sul nostro sito web e
sulla pagina FB, cioè che la Legge 185 del 1990 vieta l’esportazione di armi a
paesi che non rispondono a una serie di criteri stringenti, tra cui quello di
non essere in stato di guerra, e di non utilizzare la guerra per risolvere le
controversie internazionali (gli Emirati hanno partecipato alla guerra contro lo
Yemen, con migliaia di vittime civili dal 2014 a oggi, guerra che non si è
conclusa e anzi minaccia di riesplodere dopo l’attacco israeliano all’Iran; e
stanno sostenendo le Forze di intervento rapido, milizia operante nel Sud Sudan
e protagonista della sanguinosa guerra civile in corso). Gli Emirati Arabi Uniti
nel 2025 sono al 119° posto (su 167 paesi) del Democracy Index della rivista
«the Economist», inseriti tra i paesi autoritari privi di sistema elettorale e
con scarsissime libertà civili.
Lo stesso vale per il transito di materiale militare non prodotto in Italia e
nell’Unione Europea. La «Bahri Yanbu» toccherà nel suo viaggio porti in Egitto e
Arabia Saudita, paesi ancora più autoritari degli Emirati, per proseguire poi
nell’oceano Indiano e il Far East. Non abbiamo garanzie circa circa il
destinatario finale e l’impiego del materiale militare trasportato.
Mezzi anfibi a bordo della «Yanbu», Genova 7 agosto 2025.
Oltre ai cannoni di Leonardo, la «Yanbu» trasporta un ingente carico di
blindati, carri armati e munizioni di fabbricazione statunitense, in particolare
mezzi anfibi da sbarco del tipo AAV-7 tipicamente usati dai marines, che non ci
risulta siano in dotazione nei paesi arabi. Il carico sembra preludere a
un’operazione militare dal mare di grandi dimensioni.
Motivo di allarme, poi, sono i molti container che trasportano dangerous goods
della classe 1.1, cioè la classe più pericolosa, in sostanza esplosivi con
rischio di esplosione di massa.
I containe con esplosivi (classe 1.1) a bordo della «Yanbu».
La nave saudita accerchiata dalla bettolina «Brezzamare» e dalla chimichiera
«Imera», oggi a Genova, tra POnte Eritrea e Ponte Somalia.
Oggi (7 agosto 2025) a fianco della «Yanbu» carica di esplosivo ha sostato la
bettolina-cisterna «Brezzamare», che ha rifornito di nafta la multipurpose «Coe
Luisa», mentre pochi metri più in là era ormeggiata la chimichiera maltese
«Imera» da 9.000 tonnellate: un ‘ingorgo’ altamente pericoloso a pochi passi dai
container carichi di esplosivi posizionati sul ponte della «Yanbu».
Abbiamo già sollevato in passato il problema della gestione del rischio di
esplosione, in occasione delle visite delle navi Bahri al molo Eritrea
(https://www.weaponwatch.net/2020/02/03/esplosivi-in-porto-siamo-sicuri/ ). Le
navi saudite cariche di munizioni ed esplosivi stazionano a 450 m dalle prime
case di Sampierdarena alle spalle del porto, e nel raggio di mille metri si
trovano consistenti depositi petroliferi e chimici.
Per dare un quadro dei rischi che lavoratori e cittadini hanno corso e corrono
ogni volta che gli esplosivi militari entrano in porto, ricordiamo che
l’esplosione che ha colpito il porto di Beirut il 4 agosto 2023 ha demolito ogni
fabbricato nel raggio di mezzo miglio, pari a 800 metri, e che le vittime si
sono registrate nel raggio di un miglio (1600 m).
Finora non abbiamo mai ricevuto sul tema della resistenza alcuna risposta dalle
autorità interessate. Nel giugno 2023 c’è stato un incontro informativo con il
Consiglio comunale di Genova, poi rimasto lettera morta.
Ci conforta che in occasione dell’odierna protesta le organizzazioni sindacali
abbiano ripreso il tema della sicurezza portuale e che abbiano ottenuto
dall’Autorità di Sistema portuale del mar Ligure occidentale la proposta di
avviare un osservatorio sul traffico delle armi in porto, nello sforzo di
garantire trasparenza e prevenzione dei rischi nel rispetto delle normative e
della Legge 185/1990.
L’iniziativa dei lavoratori di Genova può essere di stimolo per altre città
portuali italiane coinvolte in un traffico di armi sempre più intenso.
Source - The Weapon Watch | 6a puntata: Intermediari e clienti per i droni killer israeliani
Osservatorio sulle Armi nei Porti Europei e Mediterranei
Come mostra l’immagine trasmessaci dai portuali genovesi, è in attesa di imbarco
al Ponte Eritrea, terminal GMT del Gruppo Steinweg, noto per essere il molo di
attracco delle famigerate “navi della morte” saudite della compagnia Bahri
(rappresentate in Italia dall’agenzia marittima Delta del gruppo Gastaldi),
coperto dall’imballaggio su un roll trailer (MAFI), un cannone navale 72/62 OTO
super rapido da 76mm prodotto a La Spezia nello stabilimento Leonardo.
Nel frattempo, è entrata in Mediterraneo, proveniente dal porto USA di
Baltimora-Dundalk e diretta in Medio-Oriente, la nave «Bahri Yanbu» che farà
scalo a Genova nel primo mattino di giovedì 7 agosto. Secondo le nostre
informazioni, la Yanbu caricherà due cannoni 72/62 e un container da 20” con gli
accessori per l’assemblaggio, con destinazione Abu Dhabi negli Emirati Arabi
Uniti (EAU).
Ricordiamo che Weapon Watch si è già occupata di questi cannoni in un articolo
del gennaio 2024, perché furono impiegati dalla Marina israeliana il 14 ottobre
2023 – pochi giorni dopo l’attacco di Hamas in territorio israeliano – per
bombardare dal mare i quartieri civili della Striscia di Gaza. Bombardamento che
aveva drammaticamente smentito le voci da ambienti di Leonardo, circa l’uso
esclusivamente “difensivo” degli armamenti fabbricati in Italia e consegnati
alle forze armate di Israele.
Immaginiamo che anche la vendita dei cannoni pronti all’imbarco a Genova sia
stata autorizzata secondo la legge dal governo italiano in quanto ufficialmente
destinati alla difesa degli EAU.
Ricordiamo che il governo Conte II nel 2019 aveva sospeso le vendite di armi
agli EAU, per la loro implicazione nella feroce guerra in Yemen a fianco
dell’Arabia Saudita; e che nel 2023 il governo Meloni ha revocato il divieto sia
per l’apparente disimpegno emiratino dalla guerra yemenita, sia per i segnali
promettenti (ad oggi rimasti tali) di un accordo di pace con i “ribelli houthi”,
che di fatto governano lo Yemen da un decennio nonostante l’isolamento
internazionale e le gravi crisi umanitarie causate dalla guerra.
Tuttavia, in questo strategico quadrante medio-orientale lo scontro militare
potrebbe diventare aperto e cruento, come conseguenza indiretta del recente
attacco israeliano all’Iran – tra i principali sostenitori del composito mosaico
delle milizie yemenite – e per la volontà degli EAU che qui hanno stabilito
solide basi di controllo militare, con l’appoggio delle azioni coperte e degli
omicidi mirati compiuti da anni dalle agenzie di contractors americane e
israeliane.
Il cannone di Leonardo sulla banchina del Genoa Metal Termnal, il 4 agosto 2025.
Oltre a costituire un’oggettiva minaccia nel precario equilibrio militare in
quest’area, le armi di fabbricazione italiana non dovrebbero essere vendute agli
EAU, che stanno al fondo della classifica nel rispetto dei diritti umani.
Secondo Amnesty International, gli Emirati non sono infatti un “paese dei
balocchi”, meta esotica di turismo e di business rampante, ma il major defense
partner degli USA, in possesso di una sempre più aggressiva industria militare e
impegnati nei teatri di conflitto di loro interesse in una intensa attività
bellica anche contro i civili. Lo fanno direttamente come in Yemen, o più spesso
attraverso l’armamento e il sostegno di forze locali come in Libia o Sudan.
Nel 2024 Amnesty ha scoperto nuove prove visive che i veicoli di trasporto di
truppe blindati prodotti negli EAU venivano utilizzati dalle Forze di supporto
rapido in Sudan, che hanno commesso crimini di guerra tra cui attacchi motivati
etnicamente contro i civili.
EAU è inoltre uno stato monarchico assoluto, privo di qualsiasi forma di
democrazia, che criminalizza i diritti alla libertà di espressione e di riunione
pacifica, dove i lavoratori migranti sono sfruttati e discriminati e gli è
negato il diritto a formare sindacati e scioperare, dove recentemente in nome
dell’alleanza con Israele, con cui ha mantenuto relazioni economiche,
l’espressione filo-palestinese viene repressa.
Se dunque gli EAU sono un Paese coinvolto in conflitti armati non difensivi,
quantunque mascherati, se la loro politica in ogni caso contrasta con i principi
dell’articolo 11 della nostra Costituzione, se sono notoriamente responsabili di
gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani,
allora perché non è vietata l’esportazione materiali di armamento verso gli
Emirati ai sensi della legge italiana (L.185/1990)? E perché i portuali
dovrebbero essere obbligati con il loro onesto lavoro a essere complici di
questo illegittimo e infame “carico di morte”?
A LA SPEZIA INCROCIO DI POSSIBILI TRAFFICI DI ARMAMENTI DESTINAZIONE ISRAELE
Sabato 26 luglio – ore 17.50
Il porto spezzino rimane sotto i riflettori per la sua vocazione come scalo di
carico e transito marittimo di armamenti.
Mentre scriviamo, attirano l’attenzione due navi.
La prima, «Cosco Pisces», una grande porta container che avrebbe dovuto far
scalo ieri mattina (25 luglio) alla Spezia, e invece da quasi un giorno è ferma
al largo, a trenta miglia dalla costa ligure. L’attenzione sulla nave è stata
richiamata dai portuali del Pireo. Infatti – secondo i portuali greci – avrebbe
in stiva cinque container carichi di componenti militari in acciaio che stanno
compiendo un lungo viaggio: partiti dal porto di Mumbai (India) a fine giugno
per Singapore, sono stati qui caricati sulla «Cosco Pisces», grande porta
container da 20.000 TEU che Cosco gestisce sulla rotta Asia-Mediterraneo.
Individuati al Pireo perché destinati a IMI Systems, uno dei grandi contractors
dell’industria militare israeliana, i cinque container sono con tutta
probabilità in procinto di essere re-imbarcati su una nave feeder diretta in
Israele in uno dei prossimi porti che la «Pisces» dovrebbe toccare, appunto La
Spezia, poi Genova, Marsiglia-Fos, Valencia, prima di ripartire per il Far East.
I portuali greci e italiani hanno chiamato alla mobilitazione anche i colleghi
francesi e spagnoli.
Una seconda nave è al momento in porto a La Spezia. Si tratta della «Aal
Gunsan», bandiera cipriota, una nave che solitamente opera in charter. Secondo
fonti locali, che non abbiamo potuto verificare, avrebbe imbarcato al molo
Garibaldi due container contenenti due cannoni e munizioni diretti in Indonesia.
Le nostre associazioni si fanno interpreti del pericolo che città e porto
possano divenire il crocevia di traffici destinati ad alimentare guerre, in
particolare quella in corso a Gaza, in cui Israele sta violando i più elementari
diritti umani e compiendo azioni genocidarie che sono sotto indagine da parte di
tribunali internazionali.
In proposito ricordiamo un recente caso a Ravenna che ha visto il coinvolgimento
di rinomate aziende lombarde in un tentativo di esportare in Israele come
“fucinati di acciaio” 14 tonnellate di componenti di cannoni, nonostante il
divieto governativo.
Chiediamo all’AdSP del Mar Ligure orientale di esercitare tutti i controlli
richiesti dalla legge 185/1990 e maggior trasparenza e dati certi circa il
passaggio di armi dai porti della Spezia e di Marina di Carrara, i rispettivi
quantitativi in esportazione, importazione e transito e le relative
destinazioni, dati che sono a conoscenza delle medesime autorità.
Chiediamo inoltre ai rappresentanti eletti nel Comune di La Spezia di prendere
posizione pubblicamente circa eventuali legami del tessuto economico spezzino
con l’economia di guerra di Israele, di cui è prova l’annunciata presenza alla
prossima edizione di SeaFuture di una delegazione ufficiale della Marina
israeliana.
Rete spezzina Pace e Disarmo e The Weapon Watch
28 luglio 2025, ore 10:30. La nave porta container «Cosco Shipping Pisces»,
giunta davanti al porto della Spezia venerdì 25 luglio e tuttora in attesa al
largo, si appresta all’attracco al molo spezzino di Fornelli al terminal LSCT,
ma l’agenzia italiana della compagnia di navigazione cinese assicura che «non
verranno sbarcati i tre container di Evergreen» con armamenti destinati a
Israele. Non solo, sembra intenzionata a «far tornare i tre box incriminati
direttamente in estremo Oriente da dov’erano partiti».
Lo afferma un lancio di Shipping Italy, che riportiamo in forma integrale e che
indirettamente attribuisce la decisione della compagnia alla campagna di
boicottaggio indetta dal sindacato USB. La notizia dei container carichi di
componenti in acciaio per armamenti è stata diffusa dai portuali del Pireo e dal
sindacato greco ENEDEP, sulla base del destinatario finale, IMI Systems, uno dei
grandi contractors dell’industria militare israeliana.
L’articolo di Shipping Italy si può leggere qui.
Il comunicato di USB Genova, che dichiara 24 ore di sciopero contro il trasporto
di armi.
Weapon Watch ha ricostruito il percorso dei container segnalati, che sono cinque
(tre di Evergreen, uno di Triton e uno di una compagnia sino-panamense). Partiti
a fine giugno dal porto di Mumbai, India, per Singapore, sono stati qui caricati
sulla «Cosco Shipping Pisces», grande porta container da 20.000 TEU che opera
sulla rotta Asia-Mediterraneo. Dal Pireo, la «Pisces» doveva toccare secondo
programma i porti di La Spezia, Genova, Marsiglia-Fos e Valencia, prima di
ripartire per il Far East.
La rete di osservazione internazionale, che segue da settimane i movimenti della
nave, vigilerà per verificare che i container effettivamente non vengano
sbarcati e re-imbarcati su navi feeder dirette in Israele.
Il caso della «Pisces» indica che la protesta organizzata nonviolenta e
soprattutto il ruolo dei lavoratori dei trasporti stanno dando un importante
contributo alla trasparenza di un mercato delle armi sempre più intenso e ampio.
Indica anche che l’orrore per ciò che da quasi due anni sta accadendo in
Palestina ha raggiunto una dimensione insopportabile, e che il rifornimento di
armi, tecnologia e capitali a Israele si sta ormai configurando come complicità
nel genocidio dei palestinesi.
Questa volta la «Bahri Jeddah», arrivata a Genova il 7 luglio, non trasportava
solo armi per l’Arabia Saudita e gli emiri del Golfo.
Prima di ripartire per la tappa egiziana di Alessandria, sulle banchine genovesi
ha depositato anche una strana attrezzatura, nuova di fabbrica e imbarcata nel
terminal di Dundalk, porto di Baltimora, Maryland.
Si tratta di un tunner, un aircraft cargo loading-unloading system, una grande
macchina mobile per il carico-scarico di merci da aeromobili.
L’attrezzatura appartiene all’US Air Force, è destinata alla base aerea di
Aviano ed è stata fabbricata da DRS Sustainment Systems Inc., società che in via
diretta e indiretta è controllata da Leonardo Spa. Attrezzature di questo genere
non sono utilizzate dalle forze armate italiane, che non dispongono di
giganteschi cargo militari come il C-5 ‘Galaxy’ (120 tonnellate di carico) e il
C-17 ‘Globemaster III’ (76 tonnellate di carico). Questa la ragione dell’invio
in Italia del macchinario, attraverso una nave commerciale degli “alleati”
sauditi.
A sx: il tunner di DRS SSI nelle operazioni di carico e scarico di un C-17
‘Globemaster III’.
Qui sopra: una pagina del sito web di Leonardo DRS in cui si illustra la
versatilità del tunner a 5 assi, peso a vuoto 68 tonnellate.
È dunque assai probabile che la base americana di Aviano – che ospita anche
ordigni nucleari – si stia preparando a ricevere nelle prossime settimane
numerosi voli dei grandi cargo USAF, carichi di armi e munizioni da smistare sui
teatri di guerra europei e mediorientali. A questo ruolo di “portaerei” il
nostro paese è da decenni disponibile, anche se – a leggere il recente libro del
generale Fabio Mini, La Nato in guerra. Dal patto di difesa alla frenesia
bellica’ – l’alleanza atlantica non ha affatto nel proprio statuto quello di
compiere missioni “di pace” armate, né di combattere “guerre preventive”, né
tantomeno di organizzare aggressioni di altri paesi, sullo stile del recente
“bombardamento chirurgico” dell’Iran.
Non ci sarà solo il ponte sullo Stretto, anche la nuova diga foranea del porto
di Genova contribuirà – nei desiderata del Governo – a coprire le spese militari
che l’Italia s’è impegnata in sede Nato a portare al 5% del Pil, una quota delle
quali (1,5%) potrà essere rappresentata da infrastrutture a valenza anche
militare.
Una vocazione cui, come anticipato da «Il Fatto», si stava lavorando da mesi
anche per la diga genovese, mega-opera da 1,3 miliardi di euro (già lievitati a
1,6 coi lavori nemmeno arrivati al 10%) pensata per ampliare la capacità
mercantile del porto.
Ieri l’ufficializzazione: «La nuova diga è infrastruttura dual use. Progettata
per scopi mercantili, in caso di crisi (bellica, nda) sarà utile perché consente
lo sbarco di portaerei leggere, navi Nato e strumenti e truppe» ha affermato
Carlo De Simone, subcommissario all’opera (il ‘titolare’ è Marco Bucci
presidente della Regione Liguria), durante una trasmissione tv.
Poco importa che le più grandi portaerei Nato abbiano dimensioni largamente
inferiori a quelle delle portacontainer abituali ospiti delle banchine genovesi
e che quindi potrebbero comodamente approdare sotto la Lanterna senza spendere
miliardi di euro per la diga. Né che a La Spezia, a 50 miglia nautiche, abbia
sede una delle maggiori basi della Marina militare: “La military mobility è un
programma dell’Unione europea per facilitare gli spostamenti rapidi di truppe e
contingenti all’interno dell’Europa” ha puntualizzato De Simone: “La diga può
contribuire al tetto di spesa del 5% perché è un investimento infrastrutturale
con funzionalità duale”.
Sicuramente l’obiettivo primario della militarizzazione, ma non forse l’unico.
Come accennato, l’opera, finanziata con 800 milioni di euro del fondo
complementare al Pnrr, ha problemi di copertura. Solo grazie a un’iniezione di
142 milioni dal recente Decreto economia Bucci ha potuto coprire parte degli
extracosti già emersi e bandire pochi giorni fa la seconda fase dell’appalto (la
prima se l’è aggiudicata una cordata guidata da Webuild), oggetto, nella prima
parte, di indagine della Procura europea e caratterizzato da dosi minime di
trasparenza.
Basti pensare che quest’ultima gara sulla Fase B è pubblicata senza elaborati
progettuali né capitolato. E che da anni Bucci e Autorità portuale negano il
rilascio dei documenti relativi al contenzioso con Webuild (già valso
all’appaltatore 300 milioni) e persino l’esistenza dei test condotti sul
consolidamento dei fondali, ritenuto fin dai primordi il punto debole del
progetto.
Naturale quindi che il dual use, potenziale viatico di nuovi esborsi e opacità,
abbia scatenato la polemica politica. “Ora Genova rischia di diventare un
obiettivo sensibile dal punto di vista militare. L’opera di per sé ha enormi
criticità, mai correttamente gestite. Se ora sarà anche ‘tinta’ di verde
militare, oltre al danno si aggiungerà la beffa. Il governo ha il dovere di
chiarire questo disegno surreale” hanno dichiarato il deputato M5S Roberto
Traversi con il senatore M5S Luca Pirondini, annunciando un’interrogazione
parlamentare.
La tecnica berlusconiana di sdoganare ogni violazione alle regole scritte e non
scritte riguardanti la vita pubblica e i comportamenti dei rappresentanti eletti
ha trovato due recenti e macroscopiche applicazioni da parte del governo Meloni,
perfettamente adatte a questo clima politico in cui la “sicurezza” è
parola-chiave che apre ogni porta, e soprattutto ogni scrigno di denaro pubblico
disponibile.
Lo scorso 9 aprile il governo ha deliberato che il ponte sullo Stretto è
un’opera «fondamentale in caso di scenari di guerra» e «strategica per la difesa
europea e della Nato». Così un’opera faraonica e più dannosa che inutile, ma che
il governo Meloni-Salvini aveva già deciso di varare, non verrà più sottoposta
alle verifiche preventive di legge vista la sua urgenza e necessità. Innanzi
tutto potrà procedere spedita senza le “valutazioni di impatto ambientale” con
cui cavillosi esperti ritardano l’efficace azione governativa, anche se qui per
la verità si andrà a costruire in una zona sismica dove – a credere a Wikipedia
– si è registrata la più grave catastrofe naturale europea in tempi storici, il
terremoto-maremoto di Messina del 1908, con vittime stimate tra 75.000-82.000 a
140.000. E l’opera faraonica potrà anche bypassare le severe norme antimafia
che, in un territorio tra Sicilia e Calabria, potrebbero in effetti selezionare
e ridurre l’accesso agli appalti pubblici a molte imprese locali, con grave
danno delle (il)lecite aspettative di crescita economica.
L’articolo di Andrea Moizo è stato pubblicato da «Il Fatto Quotidiano» dell’8
luglio 2025.
Ieri (8 luglio 2025) c’è stato l’annuncio che anche la diga foranea del porto di
Genova va considerata dual use, cioè ad uso civile e ad uso militare. Lo ha
affermato il sub-commissario Carlo De Simone (cioè commissario nominato dal
commissario Marco Bucci, perché Genova ha fatto scuola negli appalti pubblici
“commissariati” stile nuovo ponte Morandi), che ha spiegato: «perché consente lo
sbarco di portaerei leggere, navi Nato e strumenti e truppe. È il tema della
mobilitary use». Così abbiamo imparato questa nuovissima crasi tra military e
mobility dal sub-commissario Carlo De Simone, che prima di mestiere faceva il
broker assicurativo e ora l’esperto di alto profilo economico-finanziario (come
dice nel suo blog https://carlodesimone.it/chi-sono/).
Ci sono effettive ragioni militari per considerare “strategiche” queste due
opere faraoniche?
A che cosa serva davvero la nuova diga foranea di Genova, con i suoi problemi
tecnici e progettuali, si è ripetutamente dedicato il blog del Comitato per il
dibattito pubblico di Riccardo Degl’Innocenti, a cui rimandiamo
(https://www.facebook.com/riccardodeglinnocentigenova). Per quel che riguarda in
particolare la utilità militare della nuova diga, notiamo che il porto di Genova
non è inserito nel programma “Basi Blu” del Ministero della Difesa, con
stanziamento iniziale di 2,5 miliardi di euro per ammodernare agli standard Nato
i porti di Taranto, La Spezia, Augusta e Brindisi. La Spezia si trova a
un’ottantina di chilometri da Genova, circa 40 miglia nautiche che una portaerei
può coprire in meno di due ore, quindi risulta perlomeno ridondante attrezzare
due porti così vicini per accogliere navi da guerra che possono essere
facilmente rifornite per via aerea o al largo, o in altre basi navali operative
in Italia già ampiamente utilizzate durante le esercitazioni navali Nato.
Il ponte sullo Stretto è stato giustificato con la necessità di collegare al
continente le basi siciliane della Nato (a noi non risulta che ce ne siano) e
degli Stati Uniti (quelle ci sono, eccome!), che però sono basi marittime e
aeree, e possono benissimo fare a meno in futuro di collegamenti terrestri, così
come già oggi non utilizzano il ferry tra Messina e Villa San Giovanni.
Accenniamo appena al costo “stimato” delle opere citate, ma c’è comunque da far
tremare le vene ai polsi. Il ponte sullo Stretto costa oggi 13,5 miliardi di
euro, la diga di Genova 1,6 miliardi di euro. Se si applicasse la proporzione di
“lievitazione” dei costi sulla base dell’esperienza amarissima della più celebre
opera faraonica, la TAV Torino-Lione, passata da 2,9 miliardi a 14,7 oggi (ma
chissà domani…), cioè se si moltiplicassero provvisoriamente i costi per cinque,
prima di essere terminati il ponte costerà 67,5 miliardi e la diga 8 miliardi di
euro.
I tempi invece sono importanti. Per le esigenze della difesa e della sicurezza
nazionale, sarebbe necessario avere le opere faraoniche disponibili al più
presto, perché Putin si sta facendo sempre più minaccioso. E invece la durata
dei lavori prevista è il 2032 per il ponte, anche se a tutt’oggi neppure il
progetto risulta completato; e per la diga si comincia a parlare del 2028 o
2029.
Ma c’è da crederci? Per la TAV i lavori cominciarono nel 2002, e forse l’opera
entrerà in funzione a fine 2033, 31 anni dopo, in uno scenario economico e
logistico che già oggi è completamente diverso da quello immaginato dal
progetto. Vedremo cosa ne sarà negli anni del ponte e della diga.
Le inchieste di «Altreconomia» e le segnalazioni dei lavoratori confermano
quello che Weapon Watch ha più volte pubblicato e sostenuto anche in incontri
pubblici: nel porto di Ravenna la violazione di leggi e trattati riguardanti il
commercio di armamenti è provata da molti episodi, a partire dal primo
registrato nel maggio 2021 – uno ‘sciopero sulla merce’ dichiarato da
Cgil-Cisl-Uil durante uno dei tanti bombardamenti su Gaza – che ha avuto il
merito di scoperchiare l’ipocrisia nel porto romagnolo.
Una ulteriore svolta verso la trasparenza si deve alla magistratura ravennate,
con l’inchiesta ancora in corso riguardante la ditta lecchese Valforge.
Così si sono esauditi gli auspici invocati nel febbraio 2024 dall’allora
presidente dell’autorità portuale Daniele Rossi in una sua lettera pubblica,
quando WW promosse insieme a Pax Christi e a numerose associazioni ravennati un
incontro pubblico sul tema. Rossi sostanzialmente disse: non ho notizia di
passaggi di armi in porto, se avete informazioni di violazioni di legge
denunciatele alla magistratura. Ebbene, oggi la denuncia c’è stata, ed è
arrivata non da esaltati pacifisti filo-palestinesi, bensì dal rappresentante di
un primario operatore logistico, cioè dall’interno del mondo dei trasporti
internazionali. Riguarda una filiera di pezzi forgiati per cannoni che ha
origine tra Varese e Lecco e destinazione una filiale di una delle maggiori
industrie militari di Israele, fornitura avvenuta aggirando il divieto
governativo di esportare armamenti verso Israele e del tutto priva di
autorizzazioni, anzi presentando in dogana il materiale come se fosse ad uso
civile.
Ora stanno prendendo forza le voci dei lavoratori e le loro denunce. I portuali
a Ravenna stanno vedendo passare i container di munizioni destinate alle IDF.
Caricano queste merci di morte sulle portacontainer dirette a Haifa e Ashdod,
quasi sempre navi della compagnia israeliana ZIM. Prima caricavano per lo più
ortofrutta e merci varie, ora sempre più dispositivi militari e munizioni la cui
probabilità di essere impiegate sulla popolazione civile inerme, in flagranti
crimini di guerra – come dovranno prima o poi verificare i tribunali
internazionali –, è altissima.
Ultima denuncia in ordine di tempo risale al 30 giugno scorso, quando alcuni
container con l’etichetta “esplosivi” classe 1.4 (cioè munizioni) sono stati
caricati a bordo della «ZIM New Zealand», partita con destinazione Haifa, dove è
regolarmente arrivata il 4 luglio.
Recentemente il presidente della Regione Emilia-Romagna ha dichiarato di voler
interrompere le relazioni con Israele. Ricordiamo al presidente De Pascale che
il principale operatore terminalistico del porto di Ravenna – unico scalo
internazionale della regione – è SAPIR-Porto Intermodale di Ravenna Spa, che
controlla direttamente anche Terminal Nord Spa e TCR (Terminal Container
Ravenna) Spa.
L’azionariato di SAPIR è così composto:
* 29,45% a Ravenna Holding Spa (77% del Comune di Ravenna, 7% Provincia di
Ravenna, il resto ai Comuni di Cervia, Faenza e Russi);
* 13,59 a Fin.Coport Srl (100% della Compagnia Portuale Srl, )
* 11,58% Camera di Commercio di Ferrara
* 10,46% Regione Emilia-Romagna
* tutti gli altri soci, a partire da La Petrolifera Italo Rumena Spa (8,70%,
nelle mani della famiglia Ottolenghi), hanno quote inferiori.
Teoricamente Comune, Regione e Compagnia portuale possono governare tutto il
porto di Ravenna con la maggioranza assoluta. Ci si aspetterebbe che queste
entità istituzionali concorressero almeno a vigilare – se non a controllare –
affinché non si possano svolgere i traffici illeciti che stanno rendendo il
porto di Ravenna indiretto complice di ciò che accade in Cisgiordania e a Gaza.
Quanto al rispetto della Costituzione, il presidente De Pascale ha correttamente
citato l’art. 117, che dà potere alle Regioni di intrattenere le proprie
relazioni internazionali. Ma bisognerebbe anche richiamarsi all’art. 11, quello
del rifiuto esplicito della guerra come soluzione delle divergenze
internazionali: un articolo che è violato clamorosamente dai governi italiani da
oltre trent’anni.
Comunicato-Palestina-RSU-Leonardo-siti-Varese
Nel mese di giugno di un anno fa il Governo vallone e quello federale belga
hanno vietato alla Challenge Airlines BE di continuare il trasferimento di armi,
materiale bellico e detonatori allo Stato israeliano attraverso il suo hub di
Liegi-Bierset. Controllata dalla compagnia cargo internazionale Challenge Group,
presente con linee aeree e divisioni nella logistica, gestione e servizi
aeroportuali in Belgio, Israele e Malta, gli aerei della Challenge Airlines BE
facevano spola dagli Stati Uniti a Israele usando l’aeroporto commerciale di
Liegi-Bierset come scalo intermedio.
Società civile, opinione pubblica, sindacati
Da tempo molte organizzazioni non governative belghe si erano scagliate contro
le autorità del proprio paese affinché fosse rispettato il Trattato sul
commercio delle armi del 2013 firmato e ratificato anche dal loro paese.
Trattato internazionale che vieta formalmente l’autorizzazione di trasferimenti
di armi verso paesi che le stiano utilizzando, come nel caso di Israele, per
«commettere genocidi, crimini contro l’umanità o attacchi contro civili».
La pressione della società civile e dell’opinione pubblica, insieme alla
decisione di alcuni sindacati del trasporto aereo di non far caricare più dai
loro iscritti materiale militare destinato allo Stato israeliano, ha spinto il
Governo federale belga ad agire per vietare tutti i trasferimenti di armi a
Israele. Inoltre, il Governo vallone ha adottato un decreto che applica il
divieto di trasportare armi verso Israele anche alle merci, provenienti da altri
paesi, in transito senza trasbordo nel proprio territorio.
È quanto previsto anche in Italia dalla Legge 185/90, la quale regola il
controllo non solo dell’esportazione e importazione di materiali d’armamento, ma
anche del loro transito sul territorio. Norma di legge solitamente disattesa e
inapplicata dalle autorità italiane, tutte le volte che dai nostri porti
transitano navi cargo e porta–container trasportando armamenti verso paesi in
guerra e/o che non rispettano i diritti umani fondamentali.
La maggior parte dei materiali di armamento destinati a Israele (compreso il
munizionamento e i pezzi di ricambio) provengono dagli Stati Uniti (circa due
terzi). In termini militari, quindi, il collegamento con gli Stati Uniti, per
via aerea e marittima è parte della catena logistica vitale per le azioni di
guerra dell’Israel Defense Forces.
Il resto delle forniture di armamenti e di munizionamento (l’altro terzo)
proviene prevalentemente dalla Germania, ma anche (seppure in piccola parte) da
Italia e Gran Bretagna, da India e Australia.
Altri aeroporti civili europei sono, pertanto, utilizzati come scali intermedi
per gli aerei militari americani e di compagnie cargo, o come origine di
spedizioni di armamenti dagli stessi paesi europei. Se si vuole, quindi, attuare
un efficace embargo di armi verso Israele – per mettere fine allo sterminio del
popolo palestinese – bisogna intervenire anche sul “transito senza trasbordo”
dagli aeroporti ma, soprattutto, dai porti europei e mediterranei.
E, in assenza di scelte e di azioni coraggiose da parte dei Governi, è
essenziale l’azione diretta della società civile, specie se a promuoverla sono i
sindacati dei lavoratori. Come l’azione di boicottaggio attuata nel porto di
Tangeri Med, lo scorso mese di aprile, nei confronti della nave Nexoe della
compagnia danese Maersk. La nave, in viaggio da alcune settimane, proveniva dal
porto di Houston in Texas e trasportava componenti e pezzi di ricambio destinati
ai caccia–bombardieri F–35 utilizzati dall’aviazione israeliana contro la
popolazione civile a Gaza.
La nave aveva già incontrato diverse proteste durante gli attracchi nei porti
lungo la costa atlantica americana e, in prossimità del nostro continente, non
avendo avuto l’autorizzazione ad attraccare nei porti atlantici della Spagna,
aveva proseguito verso gli scali del Marocco.
In questo paese a lanciare la mobilitazione è stato il sindacato dei portuali,
affiliato alla principale confederazione sindacale marocchina, la UMT, chiedendo
alle autorità di impedire alla nave di attraccare a Casablanca o a Tangeri Med e
affermando in un comunicato che «chiunque faciliti il passaggio di questa nave è
un complice diretto della guerra genocida contro il popolo palestinese».
Il boicottaggio della Maersk
Raccogliendo l’appello del sindacato, migliaia di persone si sono mobilitate per
le strade di Rabat, Tangeri e Casablanca, con l’obiettivo di impedire l’attracco
della Nexoe Maersk. All’arrivo della nave a Tangeri Med, il porto è stato
raggiunto da oltre 1.500 persone e il 90% dei lavoratori portuali scesi in
sciopero per due giorni ha impedito di avviare le gru e di fornire i servizi
essenziali alla nave.
Le proteste contro la nave danese fanno parte della campagna Mask off Maersk e
del più ampio movimento di boicottaggio contro l’invio di armamenti a Israele,
tra cui i componenti per i caccia–bombardieri F-35. Diversi rapporti provano
infatti come le forze armate israeliane abbiano usato gli F-35 per attaccare
Gaza. Tra gli episodi più noti c’è quello del luglio 2024, quando un F-35 è
stato utilizzato per bombardare la “zona sicura” di Al-Mawasi, a Khan Younis,
uccidendo 90 palestinesi.
Per tale motivo, oltre 230 organizzazioni, tra cui Amnesty International, hanno
chiesto, con una lettera congiunta ai Governi coinvolti nel programma del
caccia–bombardiere prodotto dall’americana Lockeed Martin, tra cui l’Italia, di
interrompere immediatamente il trasferimento di armi a Israele, incluso tutto
ciò che concerne gli F-35.
Il Trattato internazionale sul commercio di armi – ATT, prevede l’interruzione
del commercio diretto e indiretto di attrezzature e di tecnologie militari,
comprese parti e componenti, «qualora vi sia il rischio concreto che tali
attrezzature e tecnologie possano essere utilizzate per commettere o facilitare
una grave violazione del diritto umanitario internazionale o del diritto
internazionale dei diritti umani».
L’azione nei confronti di Maersk, il secondo gruppo armatoriale al mondo, è
diventata un caso politico e mediatico quando, all’ultima assemblea generale dei
soci nel marzo 2025, i vertici aziendali hanno dovuto difendersi e far votare
contro la duplice richiesta – presentata da alcuni azionisti – di mettere al
bando il trasporto di armi in Israele e di fare chiarezza sul proprio operato in
ordine al rispetto dei diritti umani.
Gli episodi di protesta e di boicottaggio che hanno coinvolto la Maersk sono,
cronologicamente, solo gli ultimi che hanno visto protagonisti i lavoratori
portuali e i loro sindacati in azioni dirette contro il trasferimento di armi in
Israele (e verso altri paesi in guerra). Sulla base del lavoro di ricerca e di
monitoraggio sviluppato dall’Osservatorio sulle armi nei porti europei e
mediterranei – The Weapon Watch, con sede a Genova, possiamo elencare gli
episodi più importanti (sovente del tutto spontanei) registrati negli ultimi 5
anni.
La mobilitazione dei sindacati
Il primo si verifica nel maggio 2021 nei porti di Genova, Livorno e Napoli dove
i lavoratori portuali aderenti al sindacato USB, allertati da una segnalazione
di The Weapon Watch sul trasporto di missili e di esplosivi destinati a Israele,
effettuato da una nave della compagnia SIM, si sono mobilitati dichiarando
sciopero, allo scopo di ostacolare/impedire le operazioni di scarico e carico.
Il secondo, nel giugno 2021, nel porto di Ravenna. I sindacati dei portuali,
organizzati nelle federazioni dei trasporti di CGIL-CISL-UIL, proclamano lo
sciopero generale per il giorno nel quale sarebbe dovuta salpare la nave Asiatic
Liberty carica di armamenti diretta dal porto romagnolo a quello di Ashdod, in
Israele. La determinazione dei portuali ravennati, con questa azione di
boicottaggio, ottiene che l’armatore rinunci al carico e al trasferimento di
armi a Israele.
Ma è, soprattutto, dopo l’appello dei sindacati palestinesi del 16 ottobre 2023
e della mobilitazione internazionale Ceasefire In Gaza Now!, che si moltiplicano
nel mondo le azioni dirette dei lavoratori per fermare le forniture militari a
Israele o, quantomeno, per intralciare la catena logistica che alimenta le
guerre e, in questo caso specifico, lo sterminio di civili palestinesi a Gaza.
Il primo sindacato a raccogliere l’appello è quello dei lavoratori portuali del
Pireo (Enedep) in Grecia, che si mobilita per l’arrivo della nave
porta-container Marla Bull, diretta al porto di Haifa. La nave, battente
bandiera delle Isole Marshall, deve imbarcare un container contenente 21
tonnellate di munizioni, proveniente dalla Macedonia del Nord e destinato a
Israele. I portuali, a cui si sono uniti anche i lavoratori del settore
navalmeccanico e gli studenti, bloccano il container e costringono la nave a
partire senza il “carico di morte”.
Pochi giorni dopo nel Kent in Gran Bretagna, una filiale del gruppo israeliano
Elbit System, la Instro Precision Ltd che produce sensori elettro-ottici per
droni, è bloccata per diverse ore da un gruppo di attivisti, insegnanti e
lavoratori appartenenti ai sindacati Unite, Neu, Ucu, Bma e Bfawu.
Negli USA il 3 novembre 2023 nel porto californiano di Oakland, alcune centinaia
di attivisti pro-Palestina e portuali bloccano la partenza della nave Cape
Orlando per il porto di Tacoma (nella costa nord-occidentale degli USA), dove
avrebbe dovuto caricare armamenti destinati Israele, provenienti dalla grande
base militare di Lewis-McChord. La stessa nave è bloccata nuovamente anche nel
porto di Tacoma, in questo caso dalle piroghe dei nativi del popolo Salish che
abitano nella regione.
In Belgio, nello stesso mese di novembre, la confederazione sindacale cristiana
(ACV) e la sua federazione dei trasporti (ACV-Transcom), insieme alle
federazioni dei trasporti e dei tecnici e quadri (BTB e BBTK) della
confederazione sindacale socialista, decidono che i propri iscritti incroceranno
le braccia di fronte all’invio di armi e di munizioni destinate a Israele, a
partire da quelle prodotte in Germania e caricate nei porti fiamminghi.
In Spagna, una simile decisione è presa dal sindacato dei lavoratori portuali di
Barcellona. Nel frattempo, in Australia le azioni degli attivisti e dei
sindacalisti portuali di Melbourne e Sydney iniziano a bloccare i tir e le navi
della compagnia marittima israeliana ZIM. Con questa azione diretta si accendono
i riflettori sull’invio di armi australiane a Israele fino a quel momento
occultato.
Azioni di solidarietà con i lavoratori palestinesi finalizzate a fermare il
trasferimento di armi a Israele arrivano, inoltre, dal sindacato francese CGT,
così come dal coordinamento dei sindacati greci PAME e dal sindacato turco dei
trasporti Nakliyat Is affiliato alla confederazione sindacale DISK.
E in Italia?
In Italia il sindacato USB mobilita i suoi iscritti in solidarietà con il popolo
palestinese, promuovendo il 10 novembre 2023, una giornata nazionale di lotta,
alla quale aderiscono altri sindacati di base e gruppi di attivisti e di
associazioni pacifiste, con i blocchi dei varchi portuali a Genova e a Salerno.
Nel capoluogo ligure, oltre i presidi e i picchetti a San Benigno e a Ponte
Etiopia, un corteo di manifestanti raggiunge la sede della compagnia marittima
israeliana SIM dove si inscena un sit-in di protesta.
Lo stesso giorno, centinaia di sindacalisti nel Regno Unito, con lo slogan
“Lavoratori per una Palestina libera”, bloccano l’ingresso alla fabbrica BAE
Systems di Rochester, che fornisce componenti per gli F-35 utilizzati nei
bombardamenti di Gaza.
Nel dicembre 2023 è la volta di Ravenna, dove centinaia di persone partecipano
all’iniziativa contro il traffico di armi davanti all’Autorità portuale,
denunciando il passaggio di una nave della ZIM dallo scalo romagnolo
trasportando materiali d’armamento verso Israele.
Che il porto di Ravenna fosse diventato uno scalo opaco per il trasferimento di
armi trova conferma nei mesi scorsi, quando il Gip del tribunale romagnolo
convalida il sequestro d’urgenza effettuato dall’Agenzia delle Dogane a inizio
febbraio 2025 di un carico di 14 tonnellate di componenti di armi diretto a
Israele. In tutto ottocento pezzi metallici classificati come materiale
d’armamento, prodotti dalla ditta Valforge di Lecco e diretti all’azienda Israel
Military Industries Ltd (IMI), principale produttore israeliano di armi. La
ditta lecchese, specializzata in fucina e stampa di articoli metallici, pur non
avendo l’autorizzazione a esportare il materiale bellico, né l’iscrizione nel
Registro nazionale delle imprese istituito presso il ministero della Difesa,
rientrava da tempo nella catena di fornitura della IMI.
Dal febbraio del 2024, anche in India, il sindacato dei lavoratori dei trasporti
marittimi che organizza migliaia di lavoratori portuali decide di rifiutarsi di
caricare o di scaricare carichi di armi provenienti e/o destinati a Israele.
Nel maggio 2024 a Venezia centinaia di attivisti protestano contro la nave
Bokrum, battente bandiera delle Barbados, contenente armamenti e diretta verso
Israele, senza che le autorità italiane abbiano esercitato effettivi controlli
dei carichi e garantito il rispetto delle leggi vigenti e dei trattati
internazionali che regolano il trasferimento di armi.
Non si ferma la solidarietà internazionale
Affinché il diritto internazionale e le decisioni ONU siano rispettati dai
singoli Stati, parte, nell’estate dell’anno scorso, la campagna internazionale
#blocktheboat promossa da Amnesty e da un’ampia coalizione di organizzazioni per
i diritti umani.
A fine agosto la nave MV Kathrin, di proprietà tedesca e battente bandiera
portoghese, parte dal Vietnam con un carico di 8 container di esplosivi
Hexogen/RDX (componente chiave per la costruzione di missili) con destinazione
Israele e altri 60 container di esplosivi TNT con altre destinazioni.
La Namibia rifiuta l’attracco della nave nei suoi porti e la costringe a vagare
in acque internazionali, fino ad arrivare nel Mediterraneo. Qui la nave si
dirige verso il porto di Capodistria in Slovenia per scaricare parte del carico
destinato a Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. La Slovenia gli nega
l’attracco, dopo una mobilitazione dell’opinione pubblica.
In Italia l’appello del CALP di Genova è raccolto dalla USB e da altri sindacati
di base che, prontamente, si mobilitano per impedire l’attracco della nave nei
porti adriatici e far rispettare l’ordinanza che vieta la circolazione nei porti
del Golfo di Trieste di materiale bellico.
La MV Kathrin è costretta a cambiar rotta e a dirigersi verso Malta, dove non
riuscirà ad attraccare. Da quel momento sparisce dai radar. Ricompare a fine
ottobre ad Alessandria d’Egitto, dove attracca in zona militare. Lì scarica
tutto il suo carico. Formalmente non si sa nulla degli esplosivi diretti a
Israele. Sappiamo solo che lo stesso giorno, dal porto egiziano è partita
un’altra nave diretta al porto israeliano di Ashdod. È curiosa, anche in questo
caso, la complicità con il governo israeliano dei governi arabi che controllano
le 14 fazioni con cui si dividono i palestinesi.
Viceversa, non si ferma la solidarietà internazionale. E, nel mese di gennaio di
quest’anno, anche il sindacato svedese dei portuali notifica all’associazione
imprenditoriale Swedish Ports il blocco di tutti gli scambi commerciali militari
con Israele durante la guerra in corso a Gaza. La decisione di imporre il blocco
è stata presa dai lavoratori iscritti al sindacato dei portuali con una
votazione prima di Natale.
In conseguenza del blocco, Erik Helgeson, da 20 anni lavoratore portuale a
Göteborg, vicepresidente nazionale e portavoce del sindacato, è stato licenziato
a febbraio per ragioni di “sicurezza nazionale” dalla sua azienda DFDS, la
società danese di spedizioni e logistica internazionale proprietaria della
maggior parte del terminal ro-ro di Göteborg.
Questo caso dimostra che l’azione diretta dei sindacati dei lavoratori e degli
attivisti, al fine di fermare qualsiasi trasferimento di armamenti verso
Israele, ha una straordinaria valenza etica e di testimonianza. Ma al contempo
sappiamo che l’embargo militare verso Israele è anche e, soprattutto, un obbligo
giuridico-legale, che ricade innanzitutto sulle spalle degli Stati, di
organizzazioni regionali come l’UE, l’OIC (Organisation of Islamic Cooperation)
ecc., delle aziende e delle istituzioni accademiche. Se non attuano le misure
necessarie per l’embargo militare, oltre a essere responsabili di violazione del
diritto internazionale, saranno corresponsabili per il loro apporto ai crimini
commessi da Israele.
Post-fazione
Avevo appena finito di scrivere e di inviare questo articolo alla redazione di
SettimanaNews, che arriva la notizia dell’azione di boicottaggio deciso dal
sindacato dei portuali di Marsiglia-Fos, aderente alla CGT francese. Giovedì 5
giugno il cargo israeliano «Contship Era» della compagnia ZIM avrebbe dovuto
caricare nel porto di Fos sur Mer, 14 tonnellate di pezzi di ricambio per fucili
mitragliatori e munizioni fabbricate dall’azienda francese Eurolinks e destinate
all’azienda di armamenti Israel Military Industries, controllata da Elbit
Systems, la principale industria israeliana per fatturato militare (27^ al mondo
nel 2023). L’azione diretta dei lavoratori portuali marsigliesi, che prontamente
si erano coordinati con gli amici portuali di Genova, ha avuto successo e il
“carico di morte” non è stato imbarcato.
Ripartita da Marsiglia, in ritardo sui tempi di navigazione previsti, la nave
della ZIM destinata al porto israeliano di Haifa, ha in programma due scali
tecnici nei porti di Genova e Salerno. Sin dal 5 giugno, coordinandosi con i
portuali francesi, i sindacati portuali di USB e SI-Cobas hanno chiamato
lavoratori e cittadinanza a presidiare i moli di questi due porti italiani, nei
giorni di arrivo della nave (il 7 giugno a Genova e il giorno dopo a Salerno).
Il fine di questa mobilitazione, pienamente riuscita, era assicurare che i
container bloccati a Marsiglia non fossero imbarcati a Genova e che la nave non
trasportasse alcun materiale di armamento per l’esercito israeliano.
I portuali francesi della Cgt di Marsiglia hanno scritto un nuovo capitolo
nell’atlante europeo delle resistenze contro il commercio di armamenti. L’azione
dei lavoratori francesi non è stata improvvisata. A Marsiglia come a Genova, ad
Anversa come nel Pireo, a Barcellona come a Tangeri i portuali sono diventati,
come ha scritto Giulio Cavalli sul quotidiano Domani, i custodi materiali delle
norme nazionali e internazionali che i governi disattendono. In Italia la legge
185/90 vieta esplicitamente l’esportazione e il transito di armi verso Paesi
coinvolti in conflitti armati o responsabili di gravi violazioni dei diritti
umani, eppure i flussi di armamenti non si sono mai fermati. E nel vuoto di
legalità si inserisce l’azione dei portuali. È una catena di controllo dal basso
che parte dalle banchine e costringe il potere politico a inseguire.
Una lotta dal respiro europeo e mediterraneo, frutto di un’intelligence operaia.
Una rete d’informazione e attivismo che collega i portuali con media
investigativi e ong, tra cui noi di The Weapon Watch. Una rete che rappresenta
oggi una delle più avanzate forme di controllo democratico dal basso sui
traffici bellici.
Gianni Alioti
Redazione
Redazione
QUEL CHE NON SAPREMO PIÙ SE MODIFICHERANNO LA LEGGE 185/90
Nella primavera del 2024 abbiamo pubblicato “a puntate” una serie di spunti informativi tratti dalla Relazione 2024, presentata al Parlamento nel marzo di quell’anno. Qui riproponiamo la breve introduzione ai cinque articoli pubblicati, con i relativi rimandi per poterli leggere.
Il governo Meloni si prepara a snaturare la Legge 185 del 1990, quella che
impone il controllo delle attività di trasferimento degli armamenti concernenti
l’Italia. La 185 prevede, tra l’altro, la pubblicazione di una Relazione annuale
al Parlamento. Quella uscita pochi giorni fa potrebbe dunque essere l’ultima
Relazione contenente tutti gli elementi che – ancorché pubblicati in una forma
di proposito difficile da leggere – hanno sino a oggi permesso di dar conto
all’opinione pubblica dei trasferimenti di armi che riguardano il nostro paese.
La trasparenza del commercio internazionale ha sempre incontrato l’aperta
contrarietà dei fabbricanti/esportatori di armi, grandi e piccoli.
Preferirebbero condurre nella segretezza affari che condizionano pesantemente la
politica estera di ogni paese, il sostegno alle guerre in corso e ai dittatori
più impresentabili, la violazione dei trattati di regolazione e non
proliferazione, la protezione umanitaria delle popolazioni civili coinvolte.
Curti Costruzioni Meccaniche Spa (1a parte)
agenzia industrie difesa
Curti Costruzioni Meccaniche Spa (2a parte)
Una specialità lecchese: macchine per armi
Importare da Israele, esportare armi ad Israele
Lo scenario aperto dall’attacco di Israele all’Iran è dei più temibili, e la
posizione dell’Italia tra gli alleati di Israele è tra le più esposte.
Il parlamento non ha raccolto le proteste e le sollecitazioni della società
civile contro il tacito rinnovo per altri cinque anni del memorandum militare
segreto tra Italia e Israele, quindi tacitamente rinnovatosi lo scorso 8 giugno.
Da parte sua, il ministro della Difesa Guido Crosetto durante il question time
alla Camera dello scorso 21 maggio, ha affermato che il governo non sottopone le
importazioni militari da Israele a «una valutazione di merito sulla provenienza
dei materiali ma [al]la valutazione sul loro utilizzo finale e sull’impatto
potenziale sulla difesa e sicurezza dell’Italia». Ha ammesso così che queste
importazioni sono essenziali per la nostra difesa, sempre più dipendente
dell’industria militare di Tel Aviv.
I dati Istat confermano la crescente dipendenza dalle importazioni di un alleato
militare che negli ultimi venti mesi ha aperto sette fronti di guerra (Gaza,
Cisgiordania, Iran, Libano, Siria, Iraq, Yemen) e che un anno fa ha sparato
sulle postazioni italiane Unifil in Libano.
Nel 2022 l’Italia ha importato armi e munizioni militari (codice 9301) per 24
milioni di euro, nel 2023 per 16,5 milioni, nel 2024 diventati 32 milioni (+95%
in un anno). Nei soli primi due mesi del 2025 ha importato per 21,9 milioni: se
le consegne manterranno questo ritmo, alla fine dell’anno l’Italia potrebbe aver
importato armi da Israele per oltre 130 milioni di euro.
Anche in un altro settore, quello dell’industria aerospaziale (codice CL303), la
bilancia commerciale è sempre più favorevole a Israele, in attivo negli ultimi
tre anni, anche se nel primo trimestre 2025 l’export italiano è tornato a
crescere. Preoccupante che aziende italiane nel 2024 abbiano fornito a Israele
quantità consistenti di esplosivi (codice SH2 36).
L’inchiesta del sito francese «Disclose» pubblicata nel marzo 2025 ha rivelato
una fornitura a Israele di accessori per mitragliatrici leggere che non può
essere considerata “solamente difensiva”, come affermato dal governo francese.
Contro la spediizione del carica da Marsiglia-Fos si sono mobilitati i portuali
francesi e italiani.
Si sta formando una rete spontanea per fermare il traffico di armi verso
Israele. Da Anversa si segnala la spedizione di due container di cuscinetti a
rulli conici, da parte della società Timken France, filiale francese della
multinazionale USA leader del settore. Destinataria l’industria israeliana Ashot
Ashkelon, del gruppo IMI Israel Military Industries, specializzata in veicoli da
guerra terrestri.
Le navi coinvolte nel trasporto sono la «MSC Laura» e la «ZIM Vietnam».
La prima è arrivata ad Anversa l’1 giugno, ed è ripartita il 6 giugno con il suo
carico. È attesa in queste ore a Port Said, ultima tappa prima di toccare un
porto israeliano.
L’altro container non è stato caricato sulla «ZIM Vietnam» perché bloccata dalle
autorità fiamminghe, su sollecitazione della ong belga Vredesactie che ha potuto
vedere i documenti di trasporto e denunciare il transito di armamenti. Secondo
lo spedizioniere, le merci dovrebbero comunque partire per Israele il 17 giugno,
imbarcate probabilmente sulla «MSC Mombasa» in arrivo da Amburgo e diretta ad
Ashdod.
La collaborazione tra MSC e ZIM è il frutto secondario della riorganizzazione
dello shipping globale conseguente alla fine della decennale alleanza “2M” tra
MSC e Maesrk, annunciata nel 2023 e formalmente cessata nel gennaio 2025. È
stata firmata nel settembre 2024 e durerà tre anni, e include ovviamente gli
accordi di vessel sharing e slot charter.
L’azienda Ashtot Ashkelon è la stessa al centro dell’inchiesta della procura di
Ravenna, quale destinataria di 14 tonnellate di forgiati fabbricati in Italia ma
presentati in dogana quali pezzi metallici, senza autorizzazione all’export,
anche se Ashtot Ashkelon è certamente un’industria militare tra i più importanti
fornitori di armamenti dell’esercito di Tel Aviv.