DALLE PICCOLE FABBRICHE NELLE PREALPI LOMBARDE ALLE FORZE ARMATE DI ISRAELE
ATTRAVERSO IL PORTO DI RAVENNA –
Il 4 febbraio 2025 la Guardia di Finanza ha bloccato nel porto di Ravenna un
carico di pezzi forgiati diretti a IMI Systems Ltd, la compagnia israeliana
famosa per le armi leggere (la mitraglietta UZI, il fucile d’assalto Galil), dal
2018 assorbita da Elbit Systems, il principale contractor della difesa di
Israele.
L’episodio è divenuto pubblico solo ora grazie ai cronisti locali e al
giornalismo investigativo di Linda Maggiori, che ne ha scritto su il manifesto.
Venerdì 28 marzo la rete ravennate delle associazioni per la pace ne ha tratto
un comunicato in cui ha ricordato che, circa un anno fa, l’Autorità portuale di
Ravenna aveva messo per iscritto di non aver «alcuna informazione in merito a
trasporti di armamento bellico in violazione delle leggi dello Stato», invitando
chi ne avesse a informare la Procura della Repubblica.
Presidio in piazza del Popolo, a Ravenna, il 29 marzo 2025, per protestare
contro il transito di armi in porto.
In effetti il caso è venuto alla luce perché, lungo la catena logistica e
documentale, qualcuno ha rispettato le regole che qualcun altro cercava di
aggirare, e ha denunciato il tentativo. Troppo grave era stata l’infrazione di
leggi e trattati, in una tentata esportazione verso un paese dove si commettono
terribili violazioni dei diritti umani e crimini di guerra, cercando
fraudolentemente di nascondere la vera natura delle merci esportate.
L’azienda esportatrice è Valforge Srl di Cortenova, in provincia di Lecco,
specializzata in forgiatura e trattamento dei metalli, ma non iscritta al
Registro nazionale delle imprese e quindi neppure in grado di chiedere
l’autorizzazione a esportare materiale militare, come vuole la legge 185/1990.
Eppure Valforge ha ottenuto una commessa da una delle aziende militari
israeliane più note al mondo, e possiamo esser certi che abbia dovuto rispettare
un capitolato tecnico preciso e conforme all’utilizzazione finale dei pezzi
fabbricati. Ora l’azienda ne chiede il dissequestro, e sapremo se il tribunale
di Ravenna le permetterà di tornare in possesso del materiale, con il rischio
che possa provare a esportarlo per altra via, in un altro porto italiano o
attraverso un altro paese.
La laboriosa Valsassina, dove ha sede la Valforge, è terra di grande attivismo
metallurgico e di grande e diffusa intraprendenza imprenditoriale. Se la
Valforge vi opera dal 2006 (dal 2005 con altra denominazione, poi cessata), il
suo proprietario Pierantonio Baruffaldi è attivo dal 2001 come titolare di
un’altra azienda (Otomin Srl a Primaluna, minuterie metalliche), e dal 2016
coordina le sue attività mediante una piccola holding (B.Mecc Srl con sede a
Introbio). La stampa ha riportato che le lavorazioni sono state effettivamente
svolte da due aziende in provincia di Varese, e in effetti il Baruffaldi è stato
per quattro anni anche amministratore delegato della Coinval Srl di Sumirago
(VA), azienda cessata nel 2022 ma che ha operato in un’area con storica
vocazione metalmeccanica, posta com’è a metà strada tra Varese e Gallarate.
Tanto che all’ex indirizzo della Coinval oggi opera un laboratorio industriale
che realizza test e controllo qualità per produzioni metalliche e in particolari
in acciaio (non coinvolto nell’inchiesta).
Dobbiamo però concentrare l’attenzione sul territorio in cui opera Valforge. In
questo quadrante dell’Alto Lario, tra le province di Lecco e Sondrio, si è
creato un ambiente piccolo-industriale ma attento alla digital innovation, erede
dei ferascìncinquecenteschi ma proiettato sui mercati internazionali, da cui
sono nate vere dinastie industriali. Quella della famiglia Galperti, gli antichi
“Carlini” della Valsassina, si è ramificata nel tempo in tante branche, alcune
divenute di dimensioni notevoli. A Nuova Olonio, dove il fiume Adda si getta nel
Lago di Como, ha messo il suo quartier generale l’ingegner Nicola Galperti a cui
fa capo un gruppo da 230 milioni di fatturato (2023), capofila la Ring Mill Spa.
Questa società opera tra l’altro anche nel settore militare e nel 2022 ha
ottenuto autorizzazione a esportare in Germania e anche verso Israele pezzi
forgiati per cannoni, precisamente “sbozzati per canna, blocco otturatore e
culatta da 155 mm cal. 52”. Quelli destinati a Israele sono montati sugli obici
semoventi gommati ATMOS 2000, considerati come i più competitivi concorrenti dei
noti cannoni francesi CAESAR, e fabbricati da Soltam Systems, azienda del gruppo
Elbit Systems, lo stesso a cui appartiene la citata IMI Systems.
L’obice semovente ATMOS 2000 155mm/52 può essere montato su veicolo 6×6 o 8×8.
Nella sua pagina web, Elbit lo presenta come battle-proven. Fonte: pagina web di
Elbit Systems
Così, a pochi chilometri di distanza tra loro, vediamo due imprenditori entrambi
operanti nello stesso specifico settore della forgiatura, sebbene su livelli
diversi, vendere allo stesso cliente (Elbit Systems) semilavorati da assemblare
in sistemi d’arma. Il primo, Pierantonio Baruffaldi, cade dalle nuvole quando
gli sequestrano 13 tonnellate di materiale destinato – illegalmente – alla più
importante industria militare di Israele. Il secondo, l’ing. Galperti presidente
e CEO della Ring Mill, ha venduto – con la documentazione corretta ma con
autorizzazioni che non dovevano essere concesse perché destinate a paesi in
guerra – componenti di qualità per i sistemi d’artiglieria all’avanguardia sia a
Rheinmetall (che li ha spediti in fretta in Ucraina), sia a Elbit che ne ha
dotato le forze armate israeliane per fare il tiro a segno sulla popolazione di
Gaza.
Lavorazione a caldo nello stabilimento Ring Mill di Dubino (SO).
Vengono in mente le parole di un altro Galperti, Roberto Galperti, anche lui
industriale valsassinese delle lavorazioni metallurgiche a caldo, che in una
vecchia intervista del 2013 proclamava di non investire più in Italia, dove si
sentiva sconfitto da una “burocrazia cavillosa”: qui «qualsiasi cosa faccia,
l’imprenditore è sospettato di non voler rispettare le leggi e quindi è
potenzialmente considerato un criminale».
Autorità e governo italiani farebbero meglio a seguire l’esempio del presidente
brasiliano Lula da Silva. Nell’aprile 2024 il suo Ministero della difesa, da
sempre geloso della propria autonomia in tema di procurement, ha firmato con
Elbit un contratto di acquisto per 36 obici ATMOS 2000 completi. In ottobre Lula
– che ha mantenuto pubblicamente una posizione molto netta circa le
responsabilità israeliane nella cosiddetta “guerra di Gaza” – ha sospeso
l’affare, nonostante le rimostranze del ministro della difesa, José Múcio, suo
alleato di governo ma leader di un partito di destra. Nel febbraio 2025 la
stampa brasiliana ha pubblicato la notizia che Lula approverà il contratto solo
dopo un accordo di pace tra Israele e Hamas, e che lo stesso destino seguiranno
tutti gli accordi in essere o in trattativa per acquisto di armi da aziende
israeliane.
Source - The Weapon Watch | 6a puntata: Intermediari e clienti per i droni killer israeliani
Osservatorio sulle Armi nei Porti Europei e Mediterranei
I lavoratori dell’aeroporto civile di Montichiari-Brescia proseguono nella loro
obiezione nonviolenta ai traffici di armamenti.
Anche in questa occasione, l’aereo in questione ha caricato casse (probabilmente
di missili) giunte nottetempo su camion scortati, e sempre di notte – in
coincidenza con la chiusura al traffico civile, e con manodopera nominativamente
scelta e incentivata – caricati sull’aereo, che ha comunque sostato per circa
ventiquattro ore in aeroporto prima di ripartire.
Tutto di questo aereo ci conferma che opera lungo una supply chain militare.
Si tratta di un vecchio Boeing 737-300, in circolazione da quasi 27 anni, oggi
gestito dalla compagnia ucraina Constanta Airlines, ma in precedenza appartenuto
a una lunga fila di compagnie, passando da quella di stato romena Tarom
attraverso la Wells Fargo Bank (una delle big four americane) che l’affittò dal
2004 al 2022 a diversi operatori cinesi (Deer Jet, poi Beijing Capital; Yangtze
River Express, poi Suparna Airlines, alias Jinpeng), per finire nelle mani di
una compagnia cargo georgiana (Gryphon Air Cargo) e infine – dal giugno 2024 –
alla compagnia ucraina Constanta Airlines.
L’arrivo del vecchio Boeing, terzo velivolo operato dalla Constanta, ha seguito
di poco la nomina alla supervisione operativa della compagnia dell’ex generale
dell’esercito USA David L. Grange, entrato come azionista di minoranza insieme a
un uomo d’affari inglese e a un imprenditore svedese. Insieme hanno poco più del
20% della Constanta Airlines.
Grange ha fondato l’organizzazione benefica Osprey Global Solutions Ucraina «per
la formazione gratuita dei militari ucraini in materia di sminamento,
neutralizzazione di ordigni esplosivi e fornitura di assistenza medica
d’emergenza secondo gli standard NATO», come recita il sito web della compagnia.
La Constanta era stata acquisita nel 2018 da Roman Mileshko, ex pilota militare
delle forze aeronavali ucraine con specializzazione conseguita alla Naval
Postgraduate School di Monterey, California, e una decina di anni di missioni in
Afghanistan, Ciad, RD del Congo, Somalia e Sudan, al quale è rimasta la
maggioranza azionaria. Mileshko l’aveva acquisita in seguito alla bancarotta
della precedente proprietà – una holding di Dubai – e dopo una lunga causa
legale davanti a un tribunale londinese.
La notizia dell’ingresso nella compagnia dell’ex. gen. Grandge è data con
risalto sul sito web della Constanta AIrlines.
Sullo sfondo, l’immagine dei due Antonov impiegati dalla Constanta, pruima
dell’acquisizione del Boeing 727-300.
Riutilizzando il vecchio numero di coda UR-UAA (già di un Antonov An-12, poi
finito alla Africa West Cargo e irreparabilmente danneggiato), apparentemente il
Boeing 737 di Constanta Airlines è entrare in attività proprio con questo volo
registrato a Brescia-Montichiari, dove è giunto il 5 marzo 2025 dall’aeroporto
slovacco di Piešťany, sua base operativa principale, con un volo della durata di
un’ora, per ripartire il giorno successivo alle 9:07 per Ørland, base militare
in Norvegia, dove è atterrato alle 13:25.
La durata del volo Montichiari-Ørland (4 ore e 18 minuti) può apparire eccessiva
rispetto alla distanza in linea d’aria (circa 2.000 km) e alla velocità di
crociera del 737 (oltre 900 km/h), ma l’aereo ha seguito un’ampia rotta sulla
Francia piuttosto che transitare verso nord, sopra Svizzera e Germania.
Da Ørland – base fondamentale per la Royal Norwegian Air Force e la NATO –
l’aereo ha poi fatto ritorno a Piešťany, dove è atterrato alle 19:21 del 6
marzo.
Dall’Italia potrebbe anche aver trasportato parti di ricambio per gli F-35 e gli
elicotteri AW101, fabbricati da Leonardo; o anche materiale per lo svolgimento
delle manovre alleate “Joint Viking 25”, le esercitazioni congiunte che sono
attualmente in corso (dal 3 al 14 marzo 2025, 10.000 soldati di nove diversi
paesi). Nella baia di Trondheim, non lontano da Ørland, si trovano infatti
giganteschi depositi dei Marines americani, uno dei contingenti prepositioned
per le spedizioni militari degli Stati Uniti negli ambienti freddi.
Preparativi dei marines in Norvegia per ‘Joint Viking 25’
Il volo del Boeing ucraino dimostra – se non bastavano altre evidenze – che
attrezzature e personale civile ucraino stanno già operando entro la cornice
NATO, con mezzi e collegamenti personali ad alto livello con le strutture
militari USA. Va da sé che, in questo quadro, l’Italia sta fornendo le basi
territoriali necessarie alle operazione degli alleati vecchi e nuovi: un
coinvolgimento nella “guerra a oltranza” che si fa sempre più profondo e
irreversibile.
GRAZIE A UN ALLEATO, COME NEL CASO DEL NORD STREAM DI CUI NON CI RICORDIAMO
BENE…
A dieci giorni dall’attentato alla petroliera «Seajewel» tutti gli interrogativi
più importanti rimangono sul tavolo senza risposta, anzi altri se ne sono
aggiunti.
In ogni caso nessun nuovo elemento si è aggiunto che possa smentire quanto
abbiamo già affermato: si tratta di un atto di guerra compiuto sul territorio
del nostro paese, il primo che si possa mettere in collegamento diretto con la
partecipazione dell’Italia alla guerra tra Russia e Ucraina.
I silenzi della stampa – Come sappiamo per lunga esperienza storica, anche nel
nostro paese la stampa ‘istituzionale’ che informa l’opinione pubblica fornisce
informazioni anche in forma di silenzi. I silenzi sulla vicenda «Seajewel» ci
sembrano significativi.
Come abbiamo già riferito, le esplosioni che hanno danneggiato la petroliera si
sono registrate nella notte tra venerdì 14 e sabato 15 febbraio. La Repubblica
ha seguito il caso solo nella sua edizione genovese, su quella nazionale si è
limitata a una ‘breve’ (a p. 23 il 20 febbraio). Il Fatto Quotidiano non ha
pubblicato nulla sull’edizione cartacea. Il Giornale ha mantenuto il silenzio
sino al 21.2, quando è uscito con un’“inchiesta” a p. 4. Il manifesto nulla.
Il quotidiano che più ha seguito la notizia è stato il genovese Secolo XIX,
forse perché da qualche mese è di proprietà del mega gruppo armatoriale MSC. Ha
cominciato a occuparsene, però, non prima di martedì 18 (‘lavorato’ il 17), e
per tre giorni consecutivi ha impaginato con lancio e foto in prima pagina e
articoli alle pagine 2 e 3 (18, 20 e 21.2). Solo La Stampa, molto seguita nel
Ponente ligure, ha seguito il Secolo, uscendo con informati articoli nella
sezione ‘Primo piano’ per tre giorni consecutivi (18, 19 e 20.2).
Il giornalismo embedded – A parte dobbiamo considerare il Corriere della Sera,
che prima ha tardato a intervenire sul caso fino a giovedì 20 febbraio, poi ha
fatto scendere in campo una firma di peso come Guido Olimpio che ha messo sul
tavolo un altro tipo di notizie, quelle che non hanno fonte. Con il titolo «La
guerra segreta sui mari – La petroliera in Liguria e i precedenti», l’attentato
di Savona è presentato come uno dei “diversi strani episodi” accaduti negli
ultimi mesi. “Forse sono incidenti, forse si è trattato dell’errore di marinai
distratti, forse è stato altro”. La «Seajewel» “potrebbe essere rimasta vittima
di un attacco con cariche esplosive che hanno provocato danni minori ma che, al
tempo stesso, costituirebbe un segnale inquietante”. Va dunque inserita tra le
navi che hanno subito incidenti sospetti negli ultimi due mesi: il cargo russo
«Ursa Major», affondato il 23 dicembre 2024 mentre era in viaggio tra Spagna e
Algeria (3 esplosioni a bordo); la nave spia russa «Kildin» abbandonata al largo
di Tartus, in Siria, il 23 gennaio 2025 (esplosione e fuoco a bordo); la
portarinfuse cinese «An Yang2» incagliata l’8 febbraio di fronte a Sakhalin, a
nord del Giappone; e la cisterna «Koala» con bandiera di Antigua e Barbuda, che
il 9 febbraio ha subito tre esplosioni al largo del porto russo di Ust-Luga, Mar
di Finlandia.
Vengono nominate anche altre navi e altri incidenti minori, in un quadro globale
che infittendo le informazioni minori diventa confuso e indefinito.
L’infografica pubblicata dal Corriere della Sera del 20 febbraio 2025 accompagna
l’articolo “Savona, si indaga per terrorismo. La scia delle esplosioni sulle
navi russe”, firmato da Guido Olimpio e Andrea Pasqualetto.
La rivendicazione – C’è chi ha sottolineato che l’attentato di Savona non è
stato rivendicato. Tuttavia, riprendendo le fonti locali savonesi in anticipo su
tutti i giornali italiani, un quotidiano online di Kiev ha pubblicato (17.2) un
articolo bene informato in cui si dà per scontato che la «Seajewel» appartenga
alla ‘flotta fantasma’ che commercia il petrolio russo in violazione delle
sanzioni internazionali. Nel dicembre 2024 la stessa Ukrainska Pravda aveva
diffuso su YouTube un interessante servizio ‘investigativo’: servendosi degli
strumenti del tracking navale e di teleobiettivi, nel porto rumeno di Costanza
sono state filmate alcune petroliere dedite – si afferma nel servizio – al
traffico ‘triangolare’ di petrolio russo tra Novorossiysk, i porti turchi e
appunto Costanza. Tra esse, ben riconoscibile, la «Seajewel».
Cos’è una ‘flotta ombra’ – Secondo Lloyd’s List, una nave cisterna appartiene a
una ‘flotta ombra’ se ha almeno 15 anni di età, se è di proprietà anonima e/o ha
una struttura societaria progettata per nascondere la proprietà effettiva, se è
impiegata esclusivamente nei traffici petroliferi sanzionati e se è impegnata in
una o più delle pratiche di navigazione ingannevoli secondo le linee guida del
Dipartimento di Stato USA pubblicate nel maggio 2020. Le liste escludono le
petroliere riconducibili a entità marittime controllate dai governi, come la
russa Sovcomflot o l’iraniana National Iranian Tanker Co, e quelle già
sanzionate.
Allo stato attuale, ad aver individuato le navi che contrabbandano petrolio
russo sono l’Unione Europea (16 pacchetti di sanzioni contro la Russia, che tra
l’altro colpiscono 152 navi); il Regno Unito dal luglio 2024 ha blacklisted
oltre 100 navi, in gran parte petroliere; gli Stati Uniti hanno sanzionato
dall’agosto 2023 oltre duecento navi, di cui 155 cisterne nel solo gennaio 2025.
La «Seajewel» non è tra le navi sottoposte a sanzioni internazionali.
L’ultimo viaggio – La «Seajewel», che naviga sotto bandiera di Malta, appartiene
ed è gestita dalla società armatrice greca Thenamaris, un colosso dello shipping
internazionale che gestisce 93 navi tra cisterne, rinfuse e gasiere. Negli
ultimi due mesi ha toccato nell’ordine i porti di Salonicco, Ceyhan (Turchia),
Istanbul, Costanza (Romania), Fos-Marsiglia e Arzew, in Algeria, prima di
raggiungere Vado. Se ha ‘triangolato’ petrolio russo può averlo caricato in
Turchia e/o in Romania, entrambi paesi NATO che però – secondo gli ucraini –
sono piattaforme di smistamento di greggio sanzionato.
La supply chain – Al momento dell’attentato, la nave stava sbarcando greggio
alle boe Sarpom di Vado Ligure, greggio destinato a raggiungere via oleodotto la
raffineria Sarpom/IP-API di San Martino di Trecate (Novara), il primo operatore
privato in Italia nel settore della distribuzione dei carburanti, che negli anni
ha inglobato le reti già dei marchi Total, ERG, IP, Esso ed API. Si è minacciata
quindi la sicurezza degli approvvigionamenti di una delle principali arterie
energetiche del nostro paese, vitale per l’economia nazionale.
Novità inquietanti – In queste ultime ore si stanno aggiungendo – sempre per
merito soprattutto del Secolo XIX – altri particolari.
1. il 17 gennaio scorso anche la nave gemella «Seacharm», sempre appartenente a
Thenamaris, ha subito un attentato al largo del porto turco di Ceyhan;
2. l’esplosivo utilizzato a Savona è dello stesso tipo di quello utilizzato in
altri attentati compiuti recentemente nel Mediterraneo;
3. la seconda bomba sistemata sullo scafo della «Seajewel» è scoppiata circa 20
minuti dopo la prima, e sul fondo marino, non si sa se per malfunzionamento o
per calcolo.
La minaccia ambientale sottostimata – Se le paratie della nave non avessero
tenuto, o se la seconda bomba avesse allargato la falla della prima, si sarebbe
profilata una catastrofe dalle proporzioni simili a quella del disastro della
petroliera «Haven» affondata al largo di Arenzano nel 1991, quando vennero
riversate in mare 144.000 tonnellate di petrolio. La bonifica del fondale non è
mai stata fatta, e oggi vi stazionano 50.000 tonnellate di catrame. I depositi e
il relitto sono da allora una fonte di inquinamento continuo, e secondo gli
esperti per mancanza di sedimentazione non ci sono prospettive di una
decomposizione batterica del letto di catrame.
Cosa (non) ricordiamo del caso Nord Stream – Era il 26 settembre del 2022
quando quattro bombe hanno distrutto i gasdotti Nord Stream 1 e 2. Ad appena due
anni e mezzo di distanza, sembra che a ricordare uno dei più clamorosi attentati
alle infrastrutture mai registrati sia rimasto solo Seymour ‘Sy’ Hersh,
l’ottantasettenne giornalista investigativo premio Pulitzer nel 1970 per aver
rivelato strage di Mỹ Lai, durante la guerra in Vietnam.
Non si ricordano più le 150.000 tonnellate di metano rilasciate nell’atmosfera.
Non si ricorda che la Russia ha chiesto sul caso un’indagine internazionale al
Consiglio di sicurezza dell’ONU, richiesta respinta. Né si ricorda che i governi
di Germania, Svezia e Danimarca promisero un’inchiesta approfondita, mai
avvenuta. Circa un anno fa Danimarca e Svezia hanno chiuso le indagini e inviato
i risultati alla Germania, che finora ha emesso un solo mandato di arresto per
un ucraino senza nome.
Eppure il sabotaggio era stato minacciato pubblicamente dal presidente Biden
ricevendo il cancelliere Scholz a Washington, nel febbraio 2022. E secondo fonti
riservate raccolte da Hersh, è stato un segnale da remoto a innescare
l’esplosione degli oleodotti, minati mesi prima da due sommozzatori della US
Navy. Da buon americano, in un recente articolo Hersh non ha nascosto la sua
ammirazione per questi sub, “superbamente addestrati per svolgere il loro
lavoro” a circa 80 metri di profondità nel Mar Baltico: “un gruppo altamente
qualificato di sommozzatori addestrato dalla Marina, la cui capacità di
rimuovere i detriti dai porti e le ostruzioni marine è stata ritenuta essenziale
per decenni dai comandi della Marina around the world”.
LA «SEVERINE» A BARI CARICA BLINDATI DELL’ESERCITO. IPOTESI SULLA DESTINAZIONE
Lavoratori e militanti per la pace ci hanno segnalano l’ennesima presenza della
nave ro-ro «Severine» (n° IMO 9539078) nel porto di Bari.
È la stessa nave più volte notata negli scorsi mesi anche a Monfalcone, e di cui
Weapon Watch si è già occupata in un precedente articolo. Come hanno ripetuto
più volte i lavoratori e le organizzazioni sindacali di Monfalcone, infatti, il
porto non è abilitato ai movimenti di armi e munizioni, neppure quelli al
servizio delle Forze armate italiane, di cui invece è un hub molto frequentato.
Nello scorso settembre, il Centro Balducci di Trieste e la Tavola della Pace del
Friuli-Venezia Giulia hanno protestato pubblicamente contro questi movimenti.
A Bari la nave «Severine» ha caricato una decina di mezzi militari pesanti,
probabilmente i blindati “Freccia” dell’Esercito. Non sappiamo dove diretti.
La «Severine» a Bari, 6 febbraio 2025.
Particolare dei mezzi caricati in stiva.
Da diverse fonti giornalistiche, sappiamo che «Severine» e la gemella «Capucine»
(IMO 9539066) hanno sostituito il ro-ro «Excellent» della Visentini Giovanni
Trasporti Fluviomarittimi nelle spedizioni marittime per conto del Ministero
della Difesa italiano, tramite una gara vinta dal colosso danese DSV,
affidatario abituale di questi servizi. Anche di DSV ci siamo occupati
recentemente, considerando che con l’acquisto dell’ex DB Schenker, filiale delle
ferrovie tedesche e grande trasportatore di armamenti in tutt’Europa, e dopo le
acquisizioni negli anni di specialisti come Panalpina, Agility e ABX-Saima
Avandero, DSV ha conquistato una posizione di primissimo piano nella logistica
europea per la difesa.
«Severine» e «Capucine» hanno la stessa bandiera (Malta), lo stesso manager
(Anglo-Eastern UK Ltd, con sede a Glasgow, Scozia) e lo stesso armatore, Cadena
Ro-Ro, che fa capo a CLdN RoRo, compagnia che ha sede in Lussemburgo meglio nota
sotto l’insegna Cobelfret-Compagnie Belge D’Affrêtements. Sono entrambe navi
abbastanza recenti, di quella tipologia che serve agli eserciti per muovere in
una stessa spedizione grandi quantità di materiali.
Prima del contratto militare la era impiegata nel Mare del Nord, area geografica
completamente abbandonata da due anni a favore di quella del Mediterraneo.
Sappiamo per esperienza che «Severine», come tutte le navi “militarizzate”,
profitta delle norme internazionali che consentono di spegnere il transponder
AIS in caso di «rischio di compromissione della sicurezza della nave» (IMO
guidelines, Resolution A.917(22)), anche se le rotte frequentate dalla nave non
ci sembrano affatto rischiose.
Negli ultimi tre mesi, «Severine» ha toccato in più occasioni Monfalcone.
Di norma riduce le fermate nei porti al tempo strettamente necessario alle
operazioni in banchina. Nel periodo, le soste lunghe sono state due, 9 giorni a
Crotone, 4 a Bari. Di quest’ultima sappiamo che la nave ha atteso il carico,
ovvero i mezzi gommati militari entrati uno a uno in porto. Il giorno 10
febbraio la nave si è mossa da Bari ufficialmente diretta a Ortona.
Gli scali della “Severine» tra dicembre e febbraio 2025.
Significativamente, la nave non ha dato segnale AIS in occasione di probabili
consegne di armamenti nel viaggio A/R da Monfalcone tra 6 e 14 dicembre 2024;
poi da Monfalcone ad Alexandroupoli tra 2 e 8 gennaio 2025, e da Alexandroupoli
a Crotone tra 8 e 11 gennaio. Infine ci sono 11 giorni tra la toccata di Savona
(25 gennaio) e l’arrivo a Bari (6 febbraio).
Deduciamo che un viaggio tra Monfalcone e Alexandroupoli si compie mediamente in
4-6 giorni, quindi quello compiuto nella prima metà di dicembre può
plausibilmente essere Monfalcone-Alexandroupoli-Monfalcone (in otto giorni).
Com’è noto, il porto greco di Alexandroupoli è il terminale marittimo usato
dagli Stati Uniti per il materiale da spedire via terra (ferro/gomma) in
Ucraina.
Non va dimenticata l’assiduità della nave nel porto
COSA LEGA LA “GUERRA MONDIALE A PEZZI” ALLE LOTTE CONTRO I MALFATTORI DELLA
LOGISTICA
Questa volta la notizia riguarda FedEx, ma si tratta della 33a indagine di
questo tipo in cinque anni avviata dalla Procura di Milano, sempre per frodi
fiscali e previdenziali e falsi documenti che riguardano la somministrazione di
manodopera. I giudici di Milano applicano uno schema fisso: rilevate le frodi ai
danni del fisco, le valutano e sequestrano un pari importo all’azienda, che poi
lo riconosce in via definitiva per saldare la propria posizione, fatte salve le
responsabilità penali dei manager. Nella loro rete è finito il “fior fiore”
della logistica italiana, che in realtà si configura come un sistema per
truffare i lavoratori, in buona parte precari e immigrati. Detto in altro modo,
gli uffici legali e di consulenza dei grandi gruppi globali continuano a
elaborare nuove versioni del caporalato e del lavoro schiavistico, la più
recente – anche dopo i sequestri e la composizione giudiziale – quella di
costringere i lavoratori alla rinuncia del Tfr in cambio dell’assunzione
prevista dagli accordi.
C’è una impressionante coincidenza tra i grandi gruppi indagati e poi
“ravvedutisi” e gli operatori mondiali della logistica militare, quelli che
portano le armi e i proiettili nelle guerre in corso e che organizzano le guerre
future.
Il sequestro che pochi giorni fa ha colpito FedEx (46 milioni di euro) fa
seguito a quelli subiti dalle filiali italiane di GXO (83,9 milioni, luglio
2024), UPS (86 milioni, dicembre 2023), Dhl (23 milioni, febbraio 2023; 20
milioni, giugno 2021, poi versati 35 in via definitiva), Geodis (37 milioni,
dicembre 2022, finita poi in amministrazione giudiziaria), DB Schenker (nel 2022
commissariata per “infiltrazioni mafiose”, poi condannata a versare 10 milioni
al fisco e assumere 200 lavoratori). Sono tutti giganteschi gruppi americani ed
europei che vantano una grande esperienza nella cosiddetta defence logistics,
primari fornitori di servizi ai rispettivi apparati militari e ministeri della
difesa e operatori sul mercato globale.
Tutti conoscono la vocazione militare di FedEx. Fred Smith, il suo fondatore, è
stato pilota nei Marines in Vietnam. Un gran numero di ex militari lavora in
FedEx a tutti i livelli, reclutati con programmi specifici, siano ufficiali
piloti dell’Airforce o mogli di militari in servizio. Già sei mesi prima della
fine della ferma, il personale militare può frequentare corsi di formazione per
l’ingresso in azienda. FedEx invia pacchi dono personali in tutte le basi USA
sparse sul globo. È intrisa di cultura militare: i dipendenti che compiono
prestazioni esemplari al di là delle normali responsabilità lavorative ricevono
il premio “Bravo Zulu” (BZ), espressione con cui nella Marina militare si indica
il “lavoro ben fatto”.
Non c’è da stupirsi se FedEx è uno dei principali fornitori del Pentagono. Un
solo appalto, quello per la consegna di pacchetti espresso interni e
internazionali, valeva nel 2017 2,35 miliardi di dollari per cinque anni,
replicato nel dicembre 2022 con un appalto quadriennale da 2,24 miliardi di
dollari, da spartire insieme a Polar Air Cargo e UPS ma prolungabile fino al
2030. Fedex partecipa al programma CRAF (Civil Reserve Air Fleet), che consente
al Dipartimento della Difesa la requisizione (a prezzi di mercato) dei cargo
wide-body e a Fedex di partecipare alle gare di appalto per i servizi charter
della difesa.
Un fotogramma di Cast Away, film di R. Zemeckis (2000). Nel cerchio blu il
fondatore di FedEx, Fred Smith, nel ruolo di se stesso che dà il bentornato al
protagonista Chuck, interpretato da Tom Hanks (nell’ovale giallo).
Gli appalti della difesa, a partire da quelli negli Stati Uniti, sono
ambitissimi da tutti i grandi operatori della logistica e dei trasporti. Sono
ben remunerati, regolari, migliorano l’immagine commerciale. Tutti i gruppi
internazionali inquisiti a Milano servono gli apparati militari USA ed europei.
Ad esempio DB Schenker, filiale delle ferrovie tedesche, trasportava armamenti
in tutt’Europa prima di essere venduta a DSV, azienda danese che negli anni ha
inglobato specialisti come Panalpina, Agility e Saima Avandero, e che da tempo
garantisce praticamente in monopolio servizi a terra e in mare per le forze
armate italiane.
Notiamo che sinora le inchieste della magistratura italiana non hanno riguardato
i maggiori operatori della logistica globale, le gigantesche compagnie
armatoriali e marittime. I giudici sono partiti dalle cooperative fittizie che
gravitano attorno ai grandi centri logistici del nostro paese, e sono risaliti
lungo la catena di fornitura del lavoro. È tecnicamente difficile andare oltre e
coinvolgere la logistica marittima, che opera sfruttando ampiamente i porti
franchi doganali, i paradisi fiscali, le bandiere ombra, i registri navali di
comodo, e in strutture portuali che sono spesso controllate dalle stesse
mega-compagnie armatoriali. Eppure i padroni del traffico mondiale dei container
come MSC, Maersk, CMA-CGM, Hapag-Lloyd e i loro alleati d’Oriente stanno
costruendo le loro reti a terra, integrando filiere e modalità inseguendo la
catena da valore: l’integrazione di fatto c’è, ma è difficile dimostrare la
co-responsabilità.
Bisogna tener conto, poi, che chi opera stabilmente con gli apparati militari
deve di solito fornire garanzie onerose: utilizzare la bandiera nazionale,
rispettare gli standard di sicurezza più esigenti, applicare i contratti di
lavoro nazionali e garantire la cittadinanza del personale imbarcato. Per questa
ragione, l’armatore danese Maersk mantiene sotto bandiera americana più di
quaranta navi (portacontenitori, ro-ro, petroliere, general cargo), così come la
tedesca Hapag-Lloyd (sette navi). La partecipazione ai programmi del Military
Sealift Command americano permette – analogamente al cargo aereo – di
partecipare in posizione preferenziale ai bandi per i contratti charter.
Pur rappresentando una frazione tutto sommato ridotta del commercio mondiale, la
logistica per la difesa sta sempre più modellando il mondo dei trasporti e le
relative relazioni di lavoro. Tempo fa l’amministrazione militare italiana fu
costretta a vietare al proprio personale di pubblicare i propri profili
LinkedIn, per cercare di arginare l’emorragia di ufficiali verso impieghi in
Amazon e nei magazzini logistici. Il settore si sta trasformando e adottando le
prassi autoritarie – ipocritamente chiamate “efficienza” – che puntano sulla
divisione dei lavoratori (da una parte caste privilegiate e tutelate, dall’altra
paria senza diritti, con salari infimi e nessuna prevenzione degli infortuni),
mentre pratica ampiamente le frodi fiscali e previdenziali e lascia mano libera
ai grandi monopoli multimodali, too big to convict.
In fondo è a questo che servono le guerre.
Diamo per scontato che il quadro politico internazionale e le decisioni dei
governi, incluso quello sovranazionale di Bruxelles, si siano irreversibilmente
orientati verso l’aumento della spesa militare e in particolare verso il riarmo.
Nonostante le grandi mobilitazioni per la pace, l’enfasi sulla sicurezza e le
“politiche della paura” (degli immigrati, della disoccupazione, delle pandemie,
della criminalità, della Russia, della Cina…) dominano la comunicazione pubblica
e spingono l’“economia della guerra”. È facile dunque prevedere che nei prossimi
mesi e anni il movimento degli armamenti e delle munizioni si intensificherà in
tutte le modalità di trasporto.
Mobilitazione sindacale nel porto del Pireo, contro un container di munizioni
destinate a Israele e pronte per essere caricate sul cargo «Marla Bull»,
battente bandiera delle Isole Marshall, 18 ottobre 2024.
Secondo the Weapon Watch, l’osservatorio sulle armi nei porti europei e
mediterranei, in questo quadro si aprono prospettive nuove al ruolo di
controinformazione e di denuncia che stanno svolgendo i lavoratori della
logistica nei porti, negli aeroporti, nelle ferrovie. Molti episodi si sono già
registrati –l’ultimo nel porto greco del Pireo –,
Mobilitazione sindacale nel porto del Pireo, contro un container di munizioni
destinate a Israele e pronte per essere caricate sul cargo «Marla Bull»,
battente bandiera delle Isole Marshall, 18 ottobre 2024. soprattutto riguardanti
le navi che stanno portando munizioni verso Israele.
Nonostante tutto, le armi sono più visibili – All’aumento della produzione e
della circolazione degli armamenti corrisponde, ovviamente, una loro maggiore
visibilità. Nei centri logistici, negli hubs di smistamento sarà più facile
vedere transitare o sostare convogli di mezzi blindati, container di bombe e
munizioni, casse di materiale militare. Le autorità cercano di celare queste
catene logistiche della morte, le aziende produttrici temono il discredito e la
pubblicità negativa ma certo non rinunciano ai profitti. Fare emergere il
commercio di armamenti, rendere cosciente la cittadinanza di quello che avviene
sotto i suoi occhi è già mettere in atto una protesta non violenta contro le
guerre.
Nel nostro Manuale per weapon watcher (vedi qui) abbiamo dato alcuni
suggerimenti pratici per l’osservazione sul campo delle armi in movimento.
Qui vedremo più in dettaglio i contenitori delle munizioni, grandi e piccole, la
cui produzione è enormemente aumentata a causa dei conflitti in corso.
Contenitori di munizioni leggere – Al di sotto dei 20 mm di calibro si parla di
“munizioni leggere”. Sono il vero “carburante” dei conflitti armati, e sono uno
dei fattori critici nelle operazioni militari sul campo. Tipica merce pericolosa
(DG, dangerous good nel linguaggio professionale dei trasporti), le munizioni
devono riportare su tutti i contenitori l’etichetta a losanga arancione e la
classe di pericolosità.
Via mare, le munizioni leggere viaggiano normalmente in container, imballati in
scatole di cartone a loro volta collocate su pallet. Durante la navigazione le
norme IMO impongono di posizionare i container contenenti merci di classe 1
(esplosivi di varie sottoclassi) lontano da qualsiasi fonte potenziale di calore
o di accensione, e rispettando le norme di incompatibilità. Sebbene le munizioni
ordinarie, normalmente di classe 1.4, possano essere posizionate
indifferentemente sopra o sotto il ponte, purché in posizione “fresca”, è assai
frequente che il capitano le collochi prudentemente sul il ponte, spesso in
esterno di riga.
All’interno del container le munizioni sono normalmente collocate in pallet
forcabili, in scatole o casse sovrapponibili legate con cinghie, talvolta
avvolte in film sensibile, sempre con l’obbligo di porre le etichette arancioni
su ogni imballaggio. La portata massima di un europallet (il più utilizzato) è
1.500 kg, un container da 20 piedi porta 28 tonnellate, un High Cube da 40 piedi
26 tonnellate.
Un carico di munizioni Fiocchi sequestrato dalla Guardia costiera senegalese
sulla nave «Eolika», nel gennaio 2022. Il carico era in tre container,
contenenti vari pallet, ciascuno per un centinaio di scatole.
Sebbene la normativa internazionale sul trasporto delle merci pericolose sia in
vigore da decenni, e rappresenti un’importante tutela per gli operatori
logistici, è stata sommariamente applicata in passato, e spesso i vecchi stock
di munizioni non sono correttamente etichettati.
A sx: casse di munizioni di provenienza ucraina, collocate nei depositi militari
della Maddalena nei primi anni 2000. Su alcune casse si può leggere 7.62-T-46,
cioè cartucce cal. 7.62 con proiettile tracciante per fucili tipo Kalashnikov.
Sopra: munizioni sequestrate dai Marines americani nei depositi del partito
Bath, a Qalat Sukkar in Iraq, durante l’operazione Iraqi Freedom.
Contenitori di munizioni da artiglieria – Dalla guerra in Ucraina abbiamo
imparato che il proiettile d’artiglieria più usato è indubbiamente il calibro
155 mm, di cui l’esercito di Kiev “consuma” 200.000 pezzi al mese. Come arrivano
in prima linea le munizioni di artiglieria? Le tecniche di rifornimento delle
linee avanzate sono abbastanza semplici, e tendono a ridurre al massimo le
“rotture del carico” nel passaggio da un veicolo all’altro. Gli americani usano
il PDS Palletised Load System, gli inglesi il DROPS Demountable Rack Offload and
Pickup System. In sostanza si tratta di pianali mobili che camion specializzati
dotati di gru depositano a terra, riducendo al minimo la manipolazione del
carico.
A sx: un sistema di scarico pallettizzato con motrice Oshkosh M1075, usato dai
reparti di artiglieria dell’esercito americano. A dx: diversi imballaggi per
proiettili d’artiglieria impiegati dal US Army. In primo piano, proiettili
illuminanti da 155 mm.
Diversamente dal trasporto effettuato da operatori civili, nell’“ultimo miglio”
intervengono mezzi e personali militare, e gli imballaggi sono ridotti
all’essenziale per non ostacolare il pronto impiego delle munizioni.
Missili e siluri – Sempre più di frequente, gli operatori logistici civili
spediscono e trasportano sistemi d’arma più complessi. Prendiamo il MICA
(missile d’interception, de combat et d’autodéfense), il missile antiaereo
fabbricato dalla branca francese della società mista MBDA. Se ne sono dotati
molti paesi africani e anche la Guardia Nazionale saudita. Viene lanciato sia da
piattaforme aeree (aria-aria) che terrestri e navali (superficie-aria), in
questo caso da contenitori di lancio posti verticalmente (versione VL, vertical
launch)
Da sx verso dx: imballaggio del missile MICA, contenitore del missile di 4 m di
lunghezza, missili MICA NG (nouvelle génération) nelle due versioni IR
(autodirezione a infrarossi) e EM (autodirezione elettromagnetica).
Nei suoi tre stabilimenti italiani, MBDA produce il missile anti-nave Teseo, una
delle evoluzioni aggiornate del celebre OTOMAT, progetto degli anni Settanta di
OtoMelara e Matra la cui ultima versione (MK2/E cioè evolved) è ora in fase di
collaudo nel “poligono a mare” interforze di Salto di Quirra, in Sardegna.
Secondo quanto testimoniato dai lavoratori dell’aeroporto di
Brescia-Montichiari, missili e piattaforme OTOMAT/Teseo sono state imbarcati lo
scorso ottobre su voli commerciali con destinazione Bangladesh.
A sx: contenitore/piattaforma del missile Teseo, in lavorazione presso lo
stabilimento integrato di La Spezia-Aulla di MBDA. A dx: due tubi di lancio
OTOMAT installati a bordo della fregata venezuelana «Mariscal Sucre».
Nei suoi tre stabilimenti italiani, MBDA produce il missile anti-nave Teseo, una
delle evoluzioni aggiornate del celebre OTOMAT, progetto degli anni Settanta di
OtoMelara e Matra la cui ultima versione (MK2/E cioè evolved) è ora in fase di
collaudo nel “poligono a mare” interforze di Salto di Quirra, in Sardegna.
Secondo quanto testimoniato dai lavoratori dell’aeroporto di
Brescia-Montichiari, missili e piattaforme OTOMAT/Teseo sono state imbarcati lo
scorso ottobre su voli commerciali con destinazione Bangladesh.
A sx: un contenitore di un missile Aster viene imbarcato su una fregata FREMM.
Sopra: una sezione parziale della batteria Samp-T. Ciascuna batteria completa
costa oltre 700 di euro.
In questi mesi, si è parlato molto della fornitura all’Ucraina dei sistemi
Samp-T (sol-air moyenne portée-terrestre), i “Patriot europei” costruiti da un
consorzio a cui partecipano sia MBDA che la francese Thales, e basati sul
missile Aster 30, di cui si sta approntando la versione Block 1 NT. Si noti che
operazioni di manutenzione e di updating degli Aster si effettuano in tre
stabilimenti, in Francia e Gran Bretagna, e per l’Italia ad Aulla, a una ventina
di km da La Spezia, presso il Centro interforze munizionamento avanzato.
La versione terrestre del sistema Samp è composta da 4 lanciatori verticali
dotati di 8 missili ciascuno, un modulo radar, un modulo d’ingaggio, un modulo
di comando, un modulo di generazione elettrica, più due moduli di ricarica, in
totale si utilizzano dieci veicoli che nella versione italiana sono Iveco-Astra
8×8. L’esercito italiano ha in dotazione 5 batterie (tre dislocate in Italia,
una in Slovacchia e una in Kuwait), ma il ministro della Difesa ha recentemente
affermato di volerne acquistare altre dieci. Quella inviata in Ucraina, composta
dal moduli radar italiani e lanciatori francesi, è già stata danneggiata, e
verrà probabilmente integrata con quella in rientro dalla Slovacchia.
Veicolo speciale per il trasporto di nitroglicerina e acetato d’etile approntato
per Rheinmetall Denel Munition (RDM), filiale sudafricana del colosso tedesco.
Come si trasporta l’esplosivo – La penuria di munizioni è anche penuria di
esplosivi. Il mercato mondiale dei materiali energetici a scopo militare è in
espansione, con previsione del raddoppio del fatturato globale nel giro dei
prossimi dieci anni. L’Italia – pur rimanendo importatore netto – negli ultimi
tre anni ha intensificato le proprie esportazioni, e nei primi sette mesi del
2024 l’Ucraina, mai comparsa tra i clienti, ne è divenuta il primo.
La produzione e il trasporto degli esplosivi sono attività altamente pericolose.
Gli stabilimenti sono sempre posti lontano dagli abitati urbani e gli
spostamenti dei semilavorati e dei prodotti finiti verso i luoghi di caricamento
delle munizioni sono effettuati con particolari precauzioni. Ciò nonostante gli
incidenti si registrano con una certa regolarità.
Contributo per il Laboratorio permanente per una politica industriale di pace in
Italia, a cura di Gianni Alioti (Weapon Watch) e Maurizio Simoncelli (Istituto
Ricerche Internazionali Archivio Disarmo) Supplemento al n. 6 – giugno 2024 di
IRIAD Review. Studi sulla...
Secondo la Relazione al Parlamento, le dieci aziende che nel 2023 hanno
importato materiale militare da Israele sono: Elettronica, Era Electronic
Systems, Gelco, Leonardo, MBDA, Milexia, RWM Italia, Simecon, Simmel Difesa,
Telespazio. L’importo complessivo è di 46,4 milioni di euro,...
Ne aveva dato notizia «Il Tirreno» lo scorso 5 aprile: il porto toscano è il
punto di transito di ingenti quantità di materiale militare USA, in particolare
mezzi gommati e container. La vicinanza di Camp Darby, la più grande base...
Senza le dettagliate informazioni sul materiale esportato contenute nella
Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo
dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento – questo è
il titolo completo della relazione annuale al Parlamento secondo la Legge...