
A ognuno il suo ruolo. Note a margine del Rapporto di Antigone sulle prigioni
NapoliMONiTOR - Friday, July 11, 2025
Ogni anno l’Osservatorio di Antigone stila il Rapporto sulle condizioni delle prigioni e sul funzionamento della macchina penale. Senza respiro è il ventunesimo ed è stato presentato il 21 maggio di quest’anno a Roma nella sede dell’associazione.
L’analisi come sempre è rigorosa e si articola in un’area tecnica (Temi) in cui si definiscono i contorni maggiormente problematici della detenzione intra ed extra-muraria, due dossier specifici (uno riguardo ai suicidi dal 2024 al 2025, l’altro sui principali processi per tortura in corso), un’ultima area distinta di Approfondimenti riguardo agli aspetti di politica criminale ed esperienze di attivismo all’interno delle galere.
Le prigioni, come da sempre sosteniamo, sono un ingranaggio nevralgico per il funzionamento dell’economia capitalistica perché rappresentano l’argine principale per la massa crescente di soggetti espulsi dal sistema produttivo. Per questo l’immagine che viene fuori dalla lettura del Rapporto è interessante per capire la fase che stiamo attraversando.
Prima di ogni cosa i numeri. Il 30 aprile i detenuti presenti erano 63.445, il 30 giugno erano 62.728 in spazi che possono contenerne 51.280 (a cui devono sottrarsi ameno 4.500 posti perché spazi inagibili o in ristrutturazione). L’aumento è consistente e “se si pensa che le nostre carceri hanno una capienza media di circa trecento posti significa che la popolazione detenuta sta crescendo dell’equivalente di un nuovo carcere ogni due mesi”.
Questi flussi impattano fortemente sull’economia nazionale, tuttavia il bilancio dell’Amministrazione penitenziaria indica che il costo per sostenere ogni recluso è in netta diminuzione e questo significa che all’aumento delle persone detenute non corrispondono maggiori investimenti. A ogni modo, come sempre la voce di spesa più alta dell’intero budget (61,7%) è destinata al pagamento del personale di polizia penitenziaria.
A proposito dei costi destinati alla reclusione, l’Osservatorio registra il progressivo allargamento delle attività del terzo settore anche nella gestione dell’esecuzione della pena. Tale processo di privatizzazione non riguarda soltanto l’affidamento di singoli servizi a enti esterni (come la mensa o l’approvvigionamento idrico per le strutture che non hanno l’allaccio), ovvero di percorsi trattamentali (il laboratorio di teatro) e lavorativi (la sartoria) già ampiamente affidati a cooperative, ma della reclusione tout court. Il decreto legge 92/2024, convertito con legge 112/2024, disciplina le nuove “strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale dei detenuti”. Il ministero di giustizia dispone di un elenco delle strutture residenziali e per il funzionamento di questi spazi affida un finanziamento di sette milioni di euro (bacino economico di Cassa delle Ammende). La critica di Antigone è chiara: “Il comma 4 dell’art. 8 cita esplicitamente la disponibilità ad accogliere soggetti in regime di detenzione domiciliare. Quest’ultima è una forma di detenzione a tutti gli effetti, sebbene in privata dimora. Quando la privata dimora non appartiene alla persona stessa che sta scontando la pena bensì ad altro soggetto privato, e quando questo soggetto privato riceve fondi pubblici per provvedere alla reintegrazione sociale del condannato, il risultato somiglia molto a un carcere privato”.
L’“impresa del bene”, cresciuta nei margini di questo settore, comincia a recuperare fette di mercato sempre più ampie. È il caso della regione Emilia-Romagna che sostiene le Comunità Educanti con i Carcerati, che propongono un programma di rieducazione del condannato gestito privatamente dalla Comunità Papa Giovanni XXIII. Anche in Campania si trova un’esperienza simile, infatti l’associazione Terra Dorea, costituita a gennaio 2025, già a maggio ha stretto un importante protocollo con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per “creare comunità educative alternative alla detenzione e, così, ridurre il sovraffollamento carcerario”. Di quest’ultima associazione si sa pochissimo, sembra nata dal nulla, ma appare già molto inserita nel contesto istituzionale della pena. Dopo un mese dalla costituzione, il 5 febbraio firma una convenzione con il Tribunale di Napoli Nord per lo svolgimento di percorsi di recupero destinati agli autori di reati di violenza domestica e di genere. Questo ente del terzo settore si sta muovendo su ogni campo del reinserimento. Spiega la giovanissima presidente, avvocata Claudia Majolo, in una delle prime note apparse sulla stampa locale: “Terra Dorea si propone come un ponte tra il carcere e la comunità, promuovendo l’educazione, la formazione professionale e il supporto psicologico. L’obiettivo è fornire gli strumenti necessari affinché chi ha vissuto l’esperienza della detenzione possa riscattarsi, facendo leva su una visione di giustizia che non si limiti alla punizione, ma che favorisca una reale trasformazione sociale e culturale”.
L’immagine dell’istituzione che viene fuori dalla lettura del rapporto è di un carcere pronto a implodere di nuovo e che tenta di immaginare possibili traiettorie di riequilibrio in senso securitario, ma tali soluzioni sono del tutto inconsistenti rispetto alle contraddizioni interne e alla enorme pressione degli ingressi.
Rispetto a quest’ultimo punto, è interessante la posizione del ministero espressa nel corso della presentazione romana. Il consigliere Ernesto Napolillo, ex magistrato, direttore dell’Ufficio generale detenuti e trattamento, comincia il proprio intervento senza mezzi termini: gli unici dati giusti sono quelli forniti dall’istituzione, le associazioni e gli altri enti non operano con metodo scientifico e devono occuparsi di altro. Entra poi nel merito toccando alcuni punti oggetto della discussione. L’ufficio che dirige l’ex magistrato coniuga le due tensioni del carcere: l’esigenza di sicurezza connessa alla pericolosità penitenziaria e la necessità del trattamento del detenuto. Sulla rieducazione, il consigliere penitenziario afferma senza remore che l’istituzione registra un “cronico e gravissimo problema di effettività del trattamento”. Secondo il ministero l’assenza di lavoro è la causa principale.
L’autorità si dilunga, poi, esponendo il posizionamento politico: “Il modello tradizionale di carcere come luogo di segregazione votato anche al trattamento è superato… il carcere non è più il luogo della pena ma è un luogo di conquista della criminalità organizzata. Ci sono delle organizzazioni criminali che preparano i propri affiliati e li mandano in carcere per controllare le piazze di spaccio nelle carceri”. C’è la necessità, quindi, di un nuovo paradigma per riequilibrare l’istituzione ed è quello della legalità: “Garantire il diritto alla sicurezza è il miglior modo per garantire la sicurezza dei diritti”. A ognuno il proprio ruolo: il trattamento è rimesso alla società civile, al volontariato, alle organizzazioni religiose. L’istituzione, invece, deve garantire la sicurezza e l’autorità attacca la vuota retorica dei proclami delle amministrazioni precedenti: “Troppe passarelle ci sono state fino a oggi… ci sono più protocolli che attività, ci sono più iniziative di lavoro che lavoratori”.
Il piano politico è coerente con una rappresentazione muscolare dell’istituzione: rispristinare la sicurezza conducendo una guerra totale. In tale prospettiva devono essere letti il decreto sicurezza (convertito in legge 80/2025) e la nuova iniziativa legislativa titolata “Operazioni sotto copertura per la sicurezza degli istituti penitenziari” che estende alla polizia penitenziaria le possibilità dell’art. 9 della legge 146/2006, ammettendo operazioni sotto copertura, uso di identità coperte e lo scudo penale per gli agenti coinvolti, purché le autorità giudiziarie siano previamente informate. Queste misure rappresentano gli armamenti giuridici per condurre il conflitto interno e impedire l’organizzazione collettiva delle lotte. Dal mondo delle prigioni emerge il coerente rafforzamento dei poteri repressivi dello Stato in una fase complicata per il capitalismo italiano ed europeo in cui si deve necessariamente conservare l’ordine sociale mentre occupazione e salari sono in caduta ripida e gli scenari di guerra esterna si fanno sempre più concreti.
Ci sono tuttavia delle distonie che rendono problematica la realizzazione del programma politico. Alcune sono emerse sempre nel corso della presentazione del Rapporto di Antigone. Il sindacalista Gennarino De Fazio, segretario Uil Pa, rispondendo punto per punto alle affermazioni del dirigente dell’Amministrazione, ha ricordato che i suicidi tra le fila della polizia penitenziaria sono in aumento (l’ultimo si è ammazzato il 27 giugno, appena finito il turno con un colpo di pistola nel parcheggio del carcere di Secondigliano). La frustrazione al fronte è enorme e senza soluzione. Questa guerra si combatte senza soldati. “I detenuti sono aumentati di 5.000 unità… al di là della propaganda la polizia penitenziaria è aumentata di 133 unità che non sono andate nelle carceri ma a integrare gli uffici dipartimentali dove c’è anche il consigliere Napolillo. Il personale è sempre più senza respiro”.
Il sindacalista ha criticato fortemente il graduale processo di omologazione degli agenti penitenziari agli altri corpi di polizia, perché la funzione è sostanzialmente diversa e ha attaccato duramente il piano formativo dei nuovi agenti che vengono mandati al macello con qualche giorno di corso da remoto.
Tralasciando il tentativo di rafforzare la propria organizzazione di categoria, le criticità segnalate e la spaccatura interna tra la polizia che opera in trincea e i generali che governano la battaglia dalle scrivanie è reale. Lo registriamo costantemente anche nei corridoi dell’aula bunker durante le lunghe attese del processo sulla Mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Difatti, per quanto gli apparati stiano correndo per prepararsi alla guerra, da tempo le macerie sociali di questo ordine di cose aumentano. Le prigioni sono una di queste e sono pronte a esplodere. Non c’è tempo. La realtà dei fatti, al di là delle lezioni di vita dei dirigenti, è che molti istituti di pena si autogestiscono. In istituti dove persiste un sovraffollamento del 150% circa, dove è assente ogni tipo di intervento anche solo riempitivo della giornata, con le presenze di personale civile e in divisa in sottorganico, l’implosione è scongiurata solo in virtù di autogestione informale e precaria dei poteri interni ufficiosi e ufficiali.
“Vengo da laggiù dove tutto è finito… e tutto ricomincia”, sono le parole della Cassandra di Dimitriadis; stiamo ricominciando daccapo ed è necessario per evitare di rimanere sepolti dalle rovine di questo mondo, rivitalizzare e moltiplicare l’organizzazione delle lotte, estendendo l’intervento a ogni ambito della riproduzione sociale. Trovare nei legami collettivi e nei percorsi di resistenza la fiducia per “l’assalto al cielo”. A ognuno il suo ruolo, questo è il nostro. (luigi romano)