(disegno di cyop&kaf)
Tra il 9 e il 10 settembre scorso tre attivisti sono stati arrestati con
l’accusa di resistenza e lesioni, reati commessi durante il Carnevale No
Ponte tenutosi il primo marzo scorso nella città dello Stretto.
Il corteo, composto da circa un centinaio di persone mascherate, aveva
attraversato le vie principali della città, facendo registrare qualche scontro
tra manifestanti e forze dell’ordine. A fine giornata, un’agente di polizia
riportava una frattura della clavicola guaribile in centotrentacinque giorni.
Dalla visione dei filmati delle telecamere e dai travestimenti usati, la
questura individua tre ragazzi. Guido è accusato del reato di resistenza
pluriaggravata. Gabriele e Andrea, oltre a resistenza pluriaggravata, vengono
accusati del reato di lesioni gravi.
Gli arresti, come documentato da Radio Onda d’Urto e Radio Onda Rossa, avvengono
contemporaneamente in diverse città italiane, tra Napoli, Bari e Varese. 
Gabriele viene arrestato a Napoli mentre attende l’arrivo del Flixbus per
recarsi da alcuni suoi amici in Francia. Giunto alla stazione trova gli agenti
della digos di Messina, che insieme a quelli napoletani, lo fermano e lo portano
all’istituto penitenziario di Poggioreale.
Nella stessa giornata, agenti della digos di Messina e di Bari perquisiscono
l’appartamento di Sara, ex ragazza di Gabriele, che lì ha la residenza. Sara è
indagata nello stesso filone di indagini.
Andrea viene bloccato su un’auto a Bari, fermato da una volante all’esterno del
centro sociale Bread and Roses. La digos gli comunica di seguirlo in questura
per la consegna di una notifica. In caserma scopre che la notifica è legata agli
incidenti del Carnevale. Andrea trascorre la notte lì, e la mattina dopo viene
trasferito nel carcere di Bari.
Guido intanto subisce una perquisizione a Varese, nel suo appartamento, insieme
ad altri compagni. Ultimata la perquisizione, gli agenti lo accompagnano nel
carcere di Varese.
Guido è l’unico che sapeva di un’indagine a suo carico, perché vittima della
“caccia all’uomo” organizzata dalle forze dell’ordine messinesi qualche ora dopo
la fine del corteo. Di quelle ore si ricorda l’entusiasmo di Matteo Salvini che
si affrettava a diffondere pubblicamente la notizia, e la narrazione del solito
copione sui facinorosi che portano scompiglio in città.
Altro elemento ricorrente è il tentativo di dividere i manifestanti tra buoni e
cattivi. Gli attivisti, tutti e tre incensurati, vengono qualificati come
pericolosi socialmente,  una presunzione che sarebbe corroborata dalla generica
appartenenza politica ll’area anarco-antagonista, un pretesto utilizzato anche
dal gip di Messina per sostenere l’obbligo carcerario nei loro confronti.
Per una ventina di giorni gli attivisti vengono spostati da un carcere a un
altro, dove vengono messi in isolamento, negandogli la possibilità di poter
parlare con i propri conoscenti e avvocati. Intanto in loro supporto si
costituisce un pool di legali (Moschella, Losco, Calabro, di Stefano), con
l’obiettivo di smontare accuse molto gravi, le cui sanzioni potrebbero oscillare
tra gli otto e i quindici anni.
Al momento i tre si trovano agli arresti domiciliari, in attesa della prossima
udienza fissata a gennaio 2026. Abbiamo chiesto all’avvocato Francesco Calabro
informazioni utili per approfondire la vicenda.
Hai ravvisato delle anomalie negli arresti?
Intanto mi preme dire che entrambi ragazzi hanno sofferto in maniera particolare
il periodo di detenzione. Sia perché erano alla prima esperienza, sia le
condizioni, notoriamente disumane.
La prima anomalia riguarda il caso di Andrea e gli accadimenti intercorsi tra
l’arresto e l’interrogatorio di garanzia, fissato per il dodici.
Il mio assistito ha trascorso le prime notti al carcere di Bari, ma il giorno
prima dell’interrogatorio è stato condotto al penitenziario di Potenza.
Uno spostamento che ha impedito di poter effettuare un colloquio difensivo in
vista dell’interrogatorio con il giudice.
Su questo ho protestato con il gip, perché il trasferimento era motivato da
esigenze organizzative legate all’amministrazione penitenziaria, che in questo
strano paese prevalgono sul diritto della difesa. 
Con Gabriele è accaduta la stessa cosa: per diverso tempo sia il sottoscritto
che la madre abbiamo avuto difficoltà a ottenere colloqui telefonici nel carcere
di Poggioreale. Un altro problema riscontrato nell’inchiesta riguarda la
modalità di gestione dell’interrogatorio di garanzia.
Sebbene l’ordinanza di custodia cautelare fosse stata emessa dal gip di Messina,
l’interrogatorio è stato delegato per rogatoria, nel caso di Gabriele al gip di
Napoli, nel caso di Andrea a quello di Bari.
Parliamo di magistrati che non avevano alcuna conoscenza, se non informazioni
sommarie, sulla vicenda.
La cosa singolare è che lo svolgimento dell’interrogatorio di Andrea è avvenuto
in videoconferenza. Non si comprende a questo punto per quale ragione non abbia
proceduto il gip di Messina, che aveva una conoscenza degli atti più
dettagliata. Questo elemento fortunatamente non ha inciso, perché ci saremmo
comunque avvalsi della facoltà di non rispondere.
Il gip di Messina accusa gli attivisti di essere pericolosi socialmente, puoi
spiegare meglio queste accuse?
Il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto particolarmente gravi i
reati, disponendo per tutti e tre gli attivisti la reclusione detentiva.
Il ragionamento è legato alla gravità del fatto contestato, e al contempo a una
chiara manifestazione di ostilità, tenuta durante il corteo, nei confronti
dell’autorità.
Una motivazione che a me è apparsa discutibile: perché se gli attivisti non
rispettano le prescrizioni stabilite dal questore – travestimenti, utilizzo di
fumogeni – tale comportamento non ravvisa un’automatica trasgressione delle
prescrizioni imposte per gli arresti domiciliari. Parliamo di contesti
differenti: dentro il corteo, di un’iniziativa collettiva nella quale la
presenza del gruppo è un fattore motivante rispetto all’azione; negli arresti
domiciliari invece sei solo. Inoltre, se violi le prescrizioni di un corteo non
puoi immaginare che come conseguenza diretta tu possa finire in carcere, mentre
se trasgredisci le prescrizioni dei domiciliari sei consapevole che non ci sono
alternative al collocamento detentivo in carcere.
A che punto siamo nel processo?
Abbiamo avanzato istanza di riesame contro l’ordinanza del gip che prevedeva il
carcere. E il tribunale del riesame, il 26 settembre, ha disposto la
sostituzione della misura carceraria in arresti domiciliari con il braccialetto
elettronico. Da poco abbiamo ricevuto dal gip di Messina la notifica del decreto
di giudizio immediato, fissato per gennaio.
Abbiamo quindici giorni di tempo dalla notifica per valutare riti alternativi
che possono essere un giudizio abbreviato oppure, nel caso di chi ha la
posizione più lieve, la sospensione del processo attraverso la richiesta di
messa alla prova. Io mi orienterò ragionevolmente per un giudizio abbreviato.
Certamente il processo è complicato, e non riesco a fare un pronostico su come
finirà. Resta un processo che offre margini di difesa, in particolare sulle
aggravanti e lesioni provocate al pubblico ufficiale.
Il processo potrebbe risentire dell’inasprimento delle pene stabilito dal nuovo
ddl sicurezza?
Questi sono i primi processi post-pacchetto sicurezza. Nel caso specifico non ci
sono effetti immediati sulle contestazioni e le qualificazioni giuridiche
provocate dal pacchetto sicurezza: i fatti contestati risalgono al primo marzo
del 2025, a un’epoca antecedente all’entrata in vigore del ddl.
Le imputazioni invece risentono del progressivo inasprimento delle pene
precedente all’approvazione del ddl: provvedimenti che mirano a colpire
maggiormente i reati commessi in occasione di manifestazioni svolte in luogo
pubblico, come i reati di lesioni aggravate a carico di pubblici ufficiali.
Stessa cosa per il reato di resistenza a pubblico ufficiale che con l’aggravante
della presenza di più persone, dell’uso di armi improprie, e della condotta
dentro la cornice di una manifestazione pubblica, sono condotte punibili con
pene fino ai quindici anni di reclusione. (giuseppe mammana)
Tag - detenzioni
(archivio disegni napolimonitor)
Il Decreto Caivano e altre misure di recente approvazione hanno comportato un
inasprimento del livello di criminalizzazione nei confronti di soggetti come i
giovani delle classi popolari, dei territori più marginalizzati, dei migranti,
nonché l’istituzione di nuovi reati atti a colpirli e un’impennata di condanne a
pene detentive. Ma questi interventi normativi hanno anche fatto sì che
emergesse la necessità di un piano di potenziamento delle strutture detentive
per minori e l’apertura di nuove carceri.
L’intervento ministeriale che prevede l’apertura di quattro nuovi Istituti
penitenziari minorili (Ipm), insieme a L’Aquila, Rovigo e Lecce, individua come
sede anche la piccola città campana di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di
Caserta. La struttura individuata come futuro penitenziario è l’Istituto
Angiulli, già in passato centro di detenzione minorile, ma che a oggi ospita,
oltre a un museo e una biblioteca comunale, un Centro diurno polifunzionale.
Questo centro, racconta una volontaria che vi opera, offre un modello
alternativo di scontare la pena, a partire da attività che permettano ai ragazzi
di costruirsi strumenti di crescita attraverso corsi di formazione lavorativa e
non, come la falegnameria e il laboratorio di restauro di moto d’epoca: «Abbiamo
anche a disposizione impianti sportivi e un teatro, ma non abbiamo mai ricevuto
i fondi destinati alla loro ristrutturazione».
Il futuro dell’Angiulli è ancora incerto. In un primo momento si era parlato di
chiusura, poi di trasferimento, ma la difficoltà a trovare i locali adatti per
dare continuità alle attività del centro, in una città in cui mancano gli spazi
tanto per l’istruzione quanto per l’attività sociale, è enorme. Ancora più
preoccupante è il silenzio delle istituzioni locali su una decisione calata
dall’alto dal governo, considerando anche che, poco meno di dieci anni fa,
l’attuale sindaco Mirra (eletto con una coalizione civica in quota
centrosinistra) sbandierava come una vittoria la riqualifica della struttura.
Come a L’Aquila, in ogni caso, dove l’inaugurazione del nuovo Ipm è stata
presentata come una vittoria, il “modello Caivano” arriva a Santa Maria con
l’intento di “combattere il disagio giovanile”, un disagio che ha ovviamente
radici profonde, e ben radicate altrove: edifici scolastici inadeguati,
un’istruzione votata unicamente alla formazione di futuri lavoratori precari e
ricattabili, costante e asfissiante presenza di polizia ed esercito in tutte le
scuole della provincia di Caserta, con controlli ed eventi propagandistici
imbastiti con il solo fine di racimolare consenso e arruolamenti, assenza di
impianti sportivi e di luoghi di socialità accessibili anche alle classi meno
abbienti. E ancora: emergenza abitativa, lavoro nero e precario, una criminalità
organizzata onnipresente e sempre alla ricerca di nuova manovalanza. Il
risultato più evidente di tutto ciò è la fuga, per chi può permetterselo, da una
gabbia a cielo aperto fatta di sfruttamento, abbandono e marginalità. E chi non
può fuggire, si arrangia.
In realtà, il rapporto tra marginalità e istituzioni totali è ancora più
evidente su territori come questo. La situazione a Santa Maria Capua Vetere,
dove già nel 2020 si consumò una mattanza di detenuti nella casa circondariale
Francesco Uccella, è il riflesso di un’emergenza che attraversa l’intero paese e
che riempie le carceri di “elementi di disturbo”: sovraffollamento, violenze
contro i detenuti, isolamento e condizioni di vita indignitose accomunano le
carceri ai lager di Stato, i cosiddetti Cpr, e sono in aumento anche negli
istituti minorili. I tassi elevatissimi di recidività, i suicidi e i continui
atti di autolesionismo ne sono la prova più lampante.
Davanti a questa escalation, qualcosa però si muove. Lo scorso maggio a Santa
Maria Capua Vetere si è tenuto un presidio proprio fuori all’istituto Angiulli
con un messaggio molto chiaro: totale opposizione alla riapertura dell’Ipm e a
nuove carceri minorili su tutto il territorio italiano; richiesta di fondi per
il potenziamento del Centro diurno polifunzionale, delle scuole, degli ospedali
e dei servizi pubblici nel casertano; denuncia dei piani securitari del governo
Meloni e del silenzio dell’amministrazione locale. Naturalmente si è trattato
solo di un primo passo di un percorso che tenta di rimettere sotto i riflettori
il tema del carcere e la sua normalizzazione, ancora di più in aree di provincia
e di periferia: un tentativo che avrà seguito con altre iniziative a partire dal
prossimo autunno e che avrà bisogno di voce e supporto anche da parte di tutti
gli altri territori. (raul lamia)
(disegno di martina di gennaro)
All’alba del 19 maggio scorso, tra le 4:30 e le 6:09, nella cella 214 del
padiglione B del carcere torinese Lorusso e Cutugno, Hamid Badoui si tolse i
lacci delle scarpe e li legò al collo. In quell’istituto i lacci vengono
ritirati solo ai detenuti classificati come “ad alto rischio suicidario”. Hamid
non era tra loro, e quei lacci, apparentemente un dettaglio, divennero una
condanna.
Passarono ventidue lunghissimi minuti prima che qualcuno aprisse la porta:
ventidue minuti in cui rimase solo, avvolto da un silenzio che lo soffocava.
Quando gli agenti entrarono, alle 6:31, per lui non c’era più tempo. 
Hamid aveva quarantun’anni e da quindici viveva a Torino. Era nato a Oued Zem,
in Marocco, in una famiglia a cui era legatissimo. A soli quindici anni aveva
lasciato la sua terra per la Spagna, accolto in una comunità per minori. Lì
aveva studiato, ottenuto i documenti spagnoli e un diploma da cameriere. Con i
suoi primi lavori riusciva a mandare denaro alla madre, gesto che non interruppe
neppure durante i periodi difficili. Anche durante la detenzione a Fossano,
nonostante le ristrettezze, continuò a inviarle parte dei piccoli guadagni
ottenuti dentro il carcere. Era il suo modo di restare figlio presente, anche
dietro le sbarre. Sua sorella Zahira lo ricorda con tenerezza: «Mamma era il suo
punto debole, la sua gioia più grande».
In Italia Hamid continuò a lavorare in cucina, a studiare, a conservare con cura
documenti e ricevute, segni concreti della sua volontà di costruirsi un futuro
dignitoso. Ma le difficoltà non mancavano: i documenti scaduti, la vicinanza a
persone sbagliate, la lotta con la dipendenza dal crack. Più volte chiese aiuto,
affidandosi al Gruppo Abele per percorsi di cura e disintossicazione. Con Zahira
parlava spesso del desiderio di tornare al Sert, curarsi e riavvicinarsi alla
famiglia. «Parlavamo ogni giorno», ricorda la sorella. «Poi, all’improvviso, il
suo telefono è rimasto spento. Il lunedì è arrivata la notizia che nessuno di
noi avrebbe mai voluto ricevere».
Dopo più di una detenzione Hamid era stato trasferito nel Cpr di Bari e poi
deportato in Albania, nel centro di Gjadër. Era rimasto lì trentatré giorni, lo
aveva definito “un inferno”. «Meglio il carcere che Shengjin», aveva confidato
al suo avvocato, spaventato da quella esperienza che lo aveva segnato
profondamente. La decisione di un giudice romano, che ne dispose la liberazione,
sollevò dubbi sulla legittimità costituzionale del trattenimento nei Cpr.
Hamid era tornato a Torino di venerdì notte, libero sulla carta, ma attanagliato
dalla paura di essere nuovamente rinchiuso. Sabato 17 maggio, poco dopo le
14:00, davanti a una tabaccheria di corso Giulio Cesare, chiamò la polizia per
denunciare una truffa: la Sim che aveva acquistato non funzionava. Quel gesto,
nato dal desiderio di giustizia, si trasformò in un arresto per resistenza a
pubblico ufficiale. La folla guardava, filmava, gridava. Da quell’istante la sua
fragile traiettoria cambiò.
Hamid trascorse oltre dieci ore in una camera di sicurezza, senza alcuna
assistenza. Solo alle 3:43 del 18 maggio varcò l’ingresso del carcere torinese.
Alle 4:20 un medico lo visitò per dieci minuti, troppo poco per cogliere il suo
stato d’animo. Segnalò di assumere Lyrica e Rivotril, ma il rischio suicidario
fu giudicato “basso”. Da quel momento si apre il primo vuoto temporale: dalle
4:30 del mattino fino alle 19:00 nessuna annotazione, nessuna osservazione,
quasi quindici ore in cui Hamid rimane invisibile. Sappiamo che poco prima delle
19:00 ha trascorso circa un’ora nell’ufficio del sovrintendente, perché aveva
rifiutato di condividere la cella. Poco dopo viene riaccompagnato nella 214 e si
apre il secondo intervallo di silenzio: dalle 19:00 circa fino alle 4:30 del
mattino successivo.
Alle 4:30 gli agenti effettuano il giro di controllo per verificare che i
detenuti stiano bene. È nel letto, apparentemente dormiente. Alle 6:09 il suo
corpo viene trovato legato alle sbarre del cancello della cella 214. Le chiavi
sono al piano terra: trascorrono ventidue minuti prima che venga aperta. Alle
6:31, quando gli agenti entrano, è troppo tardi.
Zahira, insieme all’avvocato Luca Motta, ha presentato un esposto in procura.
Denuncia omissioni, silenzi, ritardi. Ricorda che Hamid avrebbe potuto andare ai
domiciliari, che l’arresto non era obbligatorio, che la sua fragilità era
evidente. L’esposto parla chiaro: quattordici ore dall’arresto alla visita
medica, oltre dieci in isolamento, diciassette escoriazioni sul corpo. Il medico
legale ha confermato: non furono le ferite a ucciderlo, ma l’asfissia da
impiccagione.
Il 27 maggio corso Palermo si riempì di persone. Fiori, cartelli, passi
condivisi. Circa duecento voci unite per dire che nessuno deve morire così, nel
silenzio di una cella. Hamid aveva scelto di vivere, di curarsi, di
ricominciare. Ma in carcere ha trovato tutto fuorché custodia o protezione. Dopo
l’autopsia, Zahira ha completato le pratiche per riportarlo in Marocco, come
desiderava la madre. Un ultimo gesto d’amore, per restituirgli dignità e pace.
Rimane la memoria: il suo sorriso, i suoi gesti di affetto, la sua forza fragile
che chi lo ha amato custodirà sempre.
Rabi yrahmou, Hamid. Ma tensach. (luna casarotti – yairaiha ets)
(disegno di sam3)
Il 5 ottobre del 2025 è stata una giornata storica: migliaia di persone scesero
in piazza a Porta San Paolo, a Roma. I manifestanti, sfidando i divieti del
governo, reclamavano a gran voce la fine del genocidio a Gaza. Per diverse ore,
sotto una pioggia torrenziale, le forze dell’ordine circondarono il presidio con
i blindati permettendo l’ingresso ai manifestanti solo previa identificazione;
anche nei pressi della città, nelle aree di servizio autostradali adiacenti la
capitale, le forze dell’ordine impedirono ai manifestanti, tramite fogli di via,
di raggiungere il presidio. In piazza, dopo una serie di provocazioni
poliziesche e un fitto lancio di lacrimogeni, si arrivò agli scontri su via
Ostiense. In serata venne arrestato uno studente italiano, Tiziano, portato in
questura e posto agli arresti domiciliari. Il tribunale l’ha condannato a due
anni, ma la pena è stata sospesa per l’applicazione della condizionale in quanto
soggetto incensurato.
Qualche settimana dopo, nel silenzio dei media, venne arrestato un altro
ragazzo, un tunisino di nome Tarek. Anche lui, come Tiziano, accusato di
resistenza a pubblico ufficiale. A differenza dello studente italiano, Tarek è
un ragazzo straniero con precedenti penali, con lo stigma della sua condizione
etnica. Le accuse inchiodano Tarek seguendo il solito razzismo istituzionale. Il
ragazzo viene descritto come un uomo dalle sembianze magrebine, che dopo aver
colpito gli agenti a ombrellate, e lanciato delle bottiglie, si infligge
volontariamente dei tagli per impedire il fermo da parte delle forze di polizia.
La vicenda emerge diversi mesi dopo, a maggio, grazie a una corrispondenza
telefonica, su Radio Onda Rossa, in cui l’avvocato di Tarek spiega che il
ragazzo è stato condannato, con il rito abbreviato, a una pena di quattro anni e
otto mesi. Una sentenza singolare perché la condanna è superiore alla richiesta
del pubblico ministero che chiedeva tre anni. Il 21 maggio, davanti al carcere
di Regina Coeli, viene indetto un presidio per esprimere solidarietà al ragazzo
tunisino, e agli altri detenuti, in cui tra l’altro i manifestanti leggono una
lettera di Tiziano indirizzata allo stesso Tarek.
Per approfondire la vicenda decido di incontrare l’avvocato del ragazzo,
Leonardo Pompili. Una chiacchierata in attesa della pronuncia dell’udienza di
appello fissata il prossimo 21 novembre.
Mi racconti la storia di Tarek?
Tarek è arrivato in Italia nel 2008, dalla Tunisia. In Italia ha conosciuto una
compagna con cui ha avuto una relazione, e da cui sono nati due figli. Aveva il
permesso di soggiorno e lavorava. Dopo sono iniziati i primi problemi e Tarek ha
deciso di separarsi dalla compagna. Da questo momento comincia a precipitare
nella marginalità: difficoltà a trovare una casa, difficoltà a trovare un posto
di lavoro. Nel 2020, un altro episodio segna la vita di Tarek. Un litigio con
due persone si trasforma in una colluttazione. Viene aperto un fascicolo a suo
carico e Tarek viene condannato per tentato omicidio. In carcere la  situazione
si aggrava, e la depressione lo porta a un consumo esorbitante di farmaci.
Scontata la condanna ricomincia a lavorare, ma a nero. A tal punto che dopo
l’arresto, avvenuto qualche giorno dopo il 5 ottobre, il datore di lavoro con
cui lavorava nega di conoscerlo. Tutto questo impedisce al ragazzo di recuperare
una parte della retribuzione che gli spettava. Inoltre, al momento, appare
difficile regolarizzare la sua posizione. Tarek ha una carta d’identità ma il
permesso di soggiorno scaduto. A giugno doveva presentarsi all’ufficio
immigrazione per il rinnovo, ma a causa della detenzione carceraria non è
riuscito a presentarsi all’appuntamento ed è stato chiesto un rinvio.
Ci racconti che è successo il 5 ottobre?
Tarek frequentava la zona di Ostiense e si trovava in un locale lì vicino. Non
era andato appositamente al corteo. Decide di avvicinarsi quando la piazza era
già blindata. E quando vede la polizia che manganella da un lato, e le bandiere
della Palestina dall’altro, decide di compiere un gesto di protesta estrema: si
leva la maglietta, e comincia a tagliarsi. Si tratta di un gesto comune a molti
detenuti ed ex detenuti: compiere mutilazioni corporali come quelli che
avvengono nei Cpr, quando i reclusi si cuciono la bocca. Un gesto di protesta
nonché irriverente, perché il corpo è l’unica parte che non è soggetta al
controllo del carceriere. Oltre al gesto autolesionistico, la procura lo accusa
di aver preso a ombrellate un agente, e di aver lanciato delle bottiglie. La
cosa singolare è che per giustificare il reato di resistenza a pubblico
ufficiale l’accusa capovolge la cronologia della condotta: sostenendo che prima
il ragazzo prende a ombrellate gli agenti, dopo lancia le bottiglie, e infine si
taglia per non farsi arrestare. Tutte accuse opinabili. Per esempio, riguardo al
lancio di bottiglie, nei video non si vedono i lanci né contro cose e né contro
persone. Stessa cosa per l’accusa di aver colpito a ombrellate gli agenti: le
forze di polizia sostengono che Tarek abbia colpito con l’ombrello un agente
sull’avambraccio. Eppure non ci sono agenti refertati. Si vede solamente che lui
agita un ombrello, per quarantanove secondi, verso il contingente di polizia, e
poi scappa, senza colpire nessuno. Altra anomalia resta l’aggravante del numero
di persone. Gli agenti sostengono che Tarek si sia messo alla testa dei
manifestanti, dal video invece si nota come un piccolo contingente di poliziotti
si stacca andando verso il ragazzo tunisino, e nel momento in cui prenderebbe a
ombrellate gli agenti, lui si trova da solo. Questo dimostra che Tarek ha fatto
tutto da solo. E il fatto che lo stesso giorno nella piazza ci siano stati
disordini, non significa che puoi unire gli episodi. Per me non c’è resistenza
perché nessuna delle condotte ha impedito nulla. Ma a ogni modo, pure che fosse
resistenza aggravata, che va dai tre ai quindici anni, non puoi partire dai
sette anni. Se immaginiamo il massimo della gravità, che può arrivare a un
massimo di quindici anni, chi agita un ombrello non può rischiare sette anni,
cioè la metà. Tanto più se la condotta è durata solamente un minuto e cinquanta
secondi.
Pensi ci sia un nesso tra la condanna di Tarek e il nuovo ddl sicurezza?
Sì, il suo caso è un’anticipazione di quello che è il Ddl sicurezza.
Introduzione di nuovi reati, aumento di pene. Reati che non sono certamente
delle novità. Nel nuovo ddl tuttavia c’è un salto di qualità: le norme sono
incentrate sulla punizione di quei soggetti che vivono nella marginalità
sociale. E contro coloro che questa marginalità sociale non l’accettano.
Soggetti che combaciano con il profilo di Tarek, un ex detenuto che in piazza ha
fatto un gesto estremo. Nel suo caso forse scimmiottante rispetto a un vero e
proprio conflitto. Il ddl è pieno di norme che vanno a sanzionare il dissenso. I
reati di opinione, con il nuovo pacchetto sicurezza, rientreranno nella cornice
del 4-bis: la condanna della pena deve essere espiata in carcere. A me è
capitato di seguire dei processi per reati di opinione. Uno per una rivista
anarchica, e un altro per delle canzoni trap, in cui c’è l’aggravante del
terrorismo. Una cosa impensabile alcuni anni fa. Oltretutto in questo pacchetto
sono previste aggravanti per la resistenza. Insomma, hai una pena aggravata se
commetti degli abusi contro un operatore delle forze dell’ordine. In più, nella
normativa, ci sono benefici per gli agenti: il pagamento delle spese legali, o
la possibilità di girare con un’altra arma oltre a quella di  ordinanza, senza
bisogno di avere il porto d’armi. Adesso si sta parlando di approvare un’altra
legge che permetterebbe di non iscrivere più notizie di reato a carico degli
agenti di pubblica sicurezza.
Quali sono le condizioni di Tarek?
Alterna periodi in cui sta male, non parla molto, ha tanti pensieri, e non
riesce a dormire, ad altri in cui sta meglio, e sembra molto attivo e
dialogante. A fine maggio hanno organizzato una manifestazione davanti al Regina
Coeli, nel penitenziario dove si trova, ma non aveva capito che fosse per lui.
Ha detto che aveva sentito le grida da fuori, e quando gli ho riferito che era
per lui è rimasto molto sorpreso. Mi dice che lo spostano continuamente, ora lo
hanno messo in una sala ricreativa, adibita a cella, per assenza di spazio. È
apparso molto felice quando ha saputo che era apparsa una storia a fumetti su di
lui pubblicata da Internazionale. Non immaginava tutta questa solidarietà. Tarek
ha delle problematiche di salute che sono state evidenziate nel processo.
Problemi che sono stati ignorati. Ho chiesto una perizia ma non è stata
concessa. Non c’è stato nemmeno un confronto con la documentazione prodotta,
nessuna motivazione. Hanno semplicemente detto che non c’erano motivi validi per
indagare sui disturbi di Tarek. Perché un conto è la condotta di una persona che
sta bene, un altro è quella di un soggetto con dei problemi. Spesso è una scelta
di opportunità, altre volte dettata da altre ragioni, come evitare perdite di
tempo, in quanto approfondire le condizioni di un detenuto implica la nomina di
un perito. Molte persone che sono in carcere soffrono di questi problemi, ma dal
momento che dovrebbero metterli tutti fuori e non ci sono le strutture, ti
dicono che queste non sono malattie psichiatriche ma disturbi. Il carcere non
funziona, è una discarica sociale e se andiamo a vedere la popolazione
carceraria, la maggior parte dei detenuti sono poveri e immigrati. (giuseppe
mammana)
(disegno di cyop&kaf)
C’è qualcosa di stonato e grottesco nei toni trionfalistici con cui è stata
celebrata la riapertura dell’Istituto penale per i minorenni dell’Aquila.
Bisogna avere una concezione distorta di cosa possa costituire una “giornata di
gioia”, per usare le parole del sottosegretario Delmastro, presente
all’inaugurazione, per festeggiare la riapertura di un carcere in questi
termini, tanto più se destinato a minori.
Non si trattava di locali abbandonati o inutilizzati, come si è voluto far
credere, ma di un presidio pubblico pienamente attivo. Infatti, fino a poco
tempo fa, i locali di Acquasanta ospitavano i corsi di economia dell’Università
dell’Aquila, con una mensa utilizzata anche dagli studenti del vicino
conservatorio.
Nel suo intervento, Delmastro ha parlato della chiusura di una “pagina nefasta”,
riferendosi alla decisione dell’allora ministro Orlando di chiudere l’Ipm. Una
decisione definita “sciagurata, improvvida”, ma che in realtà permise alla
struttura di diventare una sede universitaria in un momento in cui la città
tentava ancora di rialzarsi dalle proprie macerie, restituendo così alla
collettività uno spazio pubblico e formativo.
Fu proprio quella scelta a consentire, nel 2014, l’assegnazione definitiva della
struttura all’ateneo, che nel frattempo aveva investito per adeguarla alle
esigenze didattiche. Nel maggio 2023, però, Delmastro ha rivendicato la
proprietà dell’edificio per restituirla a quella che ha definito la sua
“funzione originaria” di istituto penale. A gennaio 2025 i docenti sono stati
costretti a sgomberare e da marzo i lavori di riconversione sono proseguiti a
ritmo serrato. Una rapidità di esecuzione che raramente vediamo sui nostri
territori e quasi mai trova riscontro nel potenziamento dei servizi pubblici
essenziali.
Sempre durante l’inaugurazione si è definita “impropria” la destinazione
universitaria, per poi celebrare come vittoria la riconversione alla detenzione
degli spazi, presentando l’Ipm addirittura come un’opportunità per il
territorio, nonché come il riscatto di “uno scippo subito dalla città” (parole
del sindaco dell’Aquila Pierluigi Biondi). Un pericoloso rovesciamento
ideologico che occulta il fatto che proprio il carcere dovrebbe essere il
massimo fallimento di una società e delle sue istituzioni.
Questo rovesciamento di senso si inserisce nel solco tracciato dalla cosiddetta
“rinascita” dell’Aquila, immaginata dalla giunta Biondi e non solo. Una
rinascita che passa per una società ossessionata dal controllo, convinta che la
repressione, e non la presa in cura della popolazione che vive sul territorio,
possa colmare i vuoti lasciati dallo smantellamento delle politiche sociali. Nel
frattempo, dissenso e malcontento vengono neutralizzati, anche qui in linea con
le politiche promosse dal governo nazionale.
L’impianto ideologico che ha generato la riapertura dell’Ipm, d’altronde, è in
piena continuità con le tendenze nazionali. Quelle imposte, per esempio, con il
Decreto Caivano (non a caso più volte evocato durante l’inaugurazione), oggi
assunto a modello per il trattamento del “disagio giovanile”, riducendo il tema
a mera questione di ordine pubblico. Un decreto che ignora le cause sociali,
economiche, culturali dei problemi e che non ha mai voluto affrontarne la
complessità, alimentando piuttosto una narrazione emergenziale permanente, utile
a giustificare misure eccezionali, ridurre l’uso di misure alternative,
estendere la detenzione amministrativa, arrivando a colpire pesantemente minori
in età scolare.
Tra le giustificazioni offerte per la riapertura del carcere minorile si è
parlato, com’era prevedibile, anche di sovraffollamento. Basta leggere i dati
dell’associazione Antigone per scoprire che l’applicazione del Decreto Caivano è
tra le principali cause dell’aumento della popolazione carceraria minorile.
Tutto questo, ovviamente, viene sottaciuto e avvolto nella ripetizione ossessiva
di slogan del tipo “lo Stato torna presente sul territorio”, le stesse parole
pronunciate da Giorgia Meloni a Caivano e rilanciate da Delmastro davanti al
nastro tricolore del nuovo istituto penale.
È curioso come lo Stato torni a essere presente con prontezza solo quando deve
mostrare i muscoli e dispiegare i propri dispositivi di violenza. Molto meno
solerte quando si tratta di ricostruire le scuole della città, ancora in attesa
della piena riconsegna; o di affrontare il debito strutturale che strangola la
sanità abruzzese (era presente anche il presidente della Regione, il romano
Marco Marsilio) ridotta a sopravvivere a tentoni, tra continui tagli; o di
garantire consultori, sportelli territoriali, spazi pubblici essenziali che
invece continuano a chiudere, in particolare quelli rivolti alle donne e ai
soggetti più fragili.
Questa impalcatura repressiva ha bisogno di una legittimazione simbolica, e l’ha
trovata in un concetto tanto potente quanto di recente strumentalizzato: il
diritto all’affettività. Durante l’inaugurazione si è molto insistito sulla
possibilità, per i minori che sono detenuti nel “nuovo istituto” (potrà
accoglierne fino a ventotto), di scontare la pena senza essere allontanati dal
proprio contesto territoriale.  Un diritto fondamentale che dovrebbe essere
sempre garantito, ma che, nella realtà concreta del carcere e considerando le
condizioni materiali che la detenzione impone (dall’abuso sistematico di
psicofarmaci ai numerosi atti di autolesionismo, fino al progressivo
annientamento emotivo e relazionale), finisce per ridursi a un’etichetta di
comodo, appiccicata per coprire un’operazione afflittiva continuativa che poco
ha a che vedere con la fruizione occasionale dell’“affettività”.
La retorica della “prossimità” è un inganno più o meno consapevole, e
l’ipocrisia diventa lampante anche nelle parole della garante Monia Scalera, che
recita il mantra del carcere come “estrema ratio”, mentre il ministro Nordio
annuncia con una lettera l’apertura di altri due istituti minorili entro
dicembre, entrambi all’Aquila. Vale la pena ricordare che la stessa Scalera,
pochi mesi fa, ha pubblicamente negato l’esistenza del sovraffollamento a
Castrogno, Teramo, uno degli istituti più in affanno d’Italia da questo punto di
vista; un luogo attraversato da numerosi suicidi e atti di autolesionismo, tanto
che è lecito domandarsi quale tipo di garanzia possa offrire una figura
istituzionale che normalizza pubblicamente simili realtà.
Tutto questo rientra in un disegno preciso. Il carcere minorile è il tassello
più inquietante di un’architettura repressiva fondata sull’idea che lo Stato non
solo possa, ma debba esercitare violenza: una violenza preventiva che ora
vorrebbe essere anche pedagogica, che si erge a strumento ordinario per tappare
le falle che esso stesso ha prodotto e continua a produrre. (francesca di
egidio)
(disegno di cyop&kaf)
Un’altra bomboletta. Un altro corpo.
Non c’era più ossigeno in cella, ma ce n’era abbastanza
per bruciare un’altra vita nel silenzio dell’indifferenza.
La libertà non è sempre oltre il muro,
a volte è nascosta dietro una valvola, dentro una boccata.
Il giudice sfoglia il codice penale, il ministro pronuncia slogan in conferenza
stampa, ognuno ha la sua parte nel teatro della legalità. La pena ha la sua
cornice, la colpa la sua misura, l’espiazione il suo recinto. Ma appena cala il
sipario pochi metri di cemento, un bagno alla turca, un tavolino inchiodato al
pavimento, spazi inospitali, finestre sbarrate e ambienti privi di aerazione. In
questo spazio claustrofobico, privo di aria e di orizzonti, un uomo inala gas da
campeggio per non sentire più il peso della sua esistenza.
Quel gas arriva da una bomboletta acquistata tramite il “sopravvitto”, l’elenco
dei prodotti ufficialmente disponibili in carcere. È lo stesso articolo che si
trova accanto ai fornelli da picnic nei supermercati. Sull’etichetta una
raccomandazione chiara: “Usare solo in ambienti ben ventilati” (la cella è un
bozzolo di tre metri per quattro con la finestra “sigillata”). Si censura una
lettera, si vieta un accendino, ma il butano industriale è autorizzato. La
bomboletta è legale, viene richiesta col modello 72, un modulo con cui ogni
detenuto può acquistare, a proprie spese, prodotti extra rispetto alla dotazione
di base fornita dallo Stato. È un foglio semplice, da compilare a penna, con il
numero di matricola, i codici degli articoli richiesti, la quantità desiderata e
la firma. Una volta ordinata, la bomboletta viene custodita in armadietti chiusi
a chiave, sotto il controllo degli agenti. Quando finisce, si restituisce e se
ne prende un’altra. Tutto tracciato.
Eppure “tirarsi il gas”, inalare il butano per evadere non fisicamente ma
mentalmente, è una pratica che tutti conoscono ma nessuno affronta, perché
cambiare la sceneggiatura significherebbe ammettere che c’è un problema.
L’effetto? Un blackout chimico: euforia, vertigini, battito irregolare, labbra
anestetizzate, cervello in tilt. Per qualche minuto non c’è più il muro, la
cella, la pena. Solo un vuoto ovattato dove la coscienza galleggia o affonda.
Per alcuni è tregua, per altri fuga, per altri ancora un addio. Nessuno lo
chiama con il suo nome di “evasione tossica” ma dentro c’è chi cerca pace, chi
l’oblio, chi non vuole più tornare da quel viaggio. Se non si può evadere con il
corpo, ci si dissolve con la chimica, e se non torni non è quasi mai suicidio,
ma un “evento imprevedibile”.
Tutto questo avviene nel pieno rispetto delle norme. Il modello 72 continua a
offrire bombolette. Basterebbe poco per cambiare: una circolare, una revisione
del catalogo, una scelta più sensata. Le piastre elettriche? Troppo costose,
troppo complicato adeguare gli impianti, dicono. Si potrebbe optare per altre
bombole e fornelli, con dispositivi atti a limitarne l’uso improprio. Ma nemmeno
questo si fa. Costa sicuramente meno lasciare tutto com’è, e anche le ditte che
gestiscono il sopravvitto hanno il loro tornaconto. Offrire soluzioni più sicure
significherebbe investire in alternative meno redditizie. E poi aumentano i
prezzi, i detenuti protestano, non per capriccio, ma perché molti non hanno
soldi, non ricevono pacchi, non fanno colloqui, non hanno familiari su cui
contare. In carcere anche pochi centesimi fanno la differenza. E allora, per
evitare il problema, si sceglie di non cambiare nulla. Del resto, già la carta
igienica, lì dentro, sembra un bene di lusso: la paghi come seta, ma gratta come
carta vetrata. Così, la bomboletta resta l’unica opzione disponibile, utile per
cucinare o per staccare la spina, a seconda dell’umore.
E gli psichiatri? Parlano, ma nessuno li ascolta. Già nel 2019, la Rivista di
Psichiatria denunciava l’inadeguatezza dello Stato nel contrastare l’abuso di
bombolette in carcere, spesso legato ad atti autolesivi o suicidi. Le morti per
inalazione non vengono sempre classificate come suicidi: restano escluse dalle
statistiche ufficiali, senza indagini né responsabilità attribuite. Questa
contraddizione è grave e preoccupante. Secondo la medicina legale, l’inalazione
volontaria di gas con esito fatale è a tutti gli effetti un suicidio, rientrando
nella categoria delle asfissie chimiche volontarie. In questi casi, il
protocollo medico-legale prevede accertamenti rigorosi: autopsia completa,
analisi tossicologiche, ricostruzione della dinamica e valutazione del contesto
psicologico. In carcere tutto questo dovrebbe essere obbligatorio, poiché la
privazione della libertà impone allo Stato una responsabilità sulla vita e
sull’incolumità del detenuto. Tuttavia, l’amministrazione penitenziaria adotta
un approccio incerto: se manca una prova esplicita dell’intento suicidario, il
decesso viene spesso classificato come “evento accidentale” o “causa da
accertare”. Lo stesso gesto, inalare gas con un sacchetto di nylon, può essere
interpretato come uso improprio per alterare lo stato di coscienza e non
necessariamente come suicidio. Questo porta a sottovalutare il gesto, a non
attivare protocolli di prevenzione e a ignorare il contesto psichiatrico.
Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale,
nella sua relazione del 15 dicembre 2024, ha evidenziato come diversi decessi in
carcere per inalazione di gas siano stati classificati come “cause da accertare”
proprio per questa ambiguità interpretativa. Il risultato è che alcune morti
restano fuori dal conteggio ufficiale, rendendo più opaca l’analisi del
fenomeno. Ma sebbene la morte per inalazione sia formalmente un suicidio, la
responsabilità non può ricadere esclusivamente sul detenuto. Lo Stato, fornendo
nelle celle bombole di gas butano (prodotto potenzialmente letale) e non
adottando protocolli sanitari e di prevenzione adeguati, contribuisce a creare
le condizioni che favoriscono queste tragedie. Inoltre il suicidio in carcere
non è mai un atto isolato o imprevedibile, ma spesso il risultato di un sistema
che non interviene efficacemente. Gli esperti lo dicono con chiarezza: non basta
autorizzare un prodotto, quando potenzialmente letale. Serve una valutazione
clinica costante, multidisciplinare, attenta al percorso psichico della persona,
non solo momentaneo. Serve sapere chi lo richiede, perché e in che condizione
psicologica. Serve uno sguardo clinico. Ma manca.
La storia di Fabio Romagnoli lo dimostra. Aveva già tentato varie volte il
suicidio. Era affetto da disturbi psichiatrici documentati. La sua fragilità era
nota. Gli fu tolta la bomboletta, poi riconsegnata dopo una valutazione che non
ha saputo o potuto cogliere il disegno più ampio. Così il suo gesto, per il
sistema “imprevedibile”, si è compiuto: eppure lo Stato distribuisce gas butano
in celle prive di ventilazione, senza protocolli sanitari adeguati, con medici
insufficienti. Vietato negli ospedali, sconsigliato nelle case, il butano
diventa compatibile con l’ambiente carcerario. Gesto imprevedibile, dicono. 
In questo contesto la salute mentale è secondaria e la dignità uno slogan. Dopo
ogni tragedia si invocano ispezioni, si esprimono cordogli, poi si archivia
tutto e si continua a morire in silenzio: per un colpo di gas, un cappio
improvvisato, una psicosi lasciata marcire, un abbandono medico travestito da
fatalità. Tutti vedono ma nessuno ascolta, al massimo si verbalizza. Eppure in
Italia si può morire così, inalando gas in un luogo dove già respirare è
difficile, un prodotto pensato per l’escursionismo e divenuto parte dell’arredo
carcerario, un veicolo di fuga, non verso un prato o una montagna, ma verso
l’oblio. Una fragranza sintetica che non sa di libertà, ma la imita, come un
profumo contraffatto. Perché anche l’aria dietro le sbarre può avere il sapore
della burocrazia. (luna casarotti – yairaiha ets)
(disegno di sam3)
Torno a trovare Marta. È al telefono, come quasi ogni giorno da mesi, alla
ricerca di un medico, un funzionario, un referente che possa indicarle come
muoversi. È la prima volta che il suo inguaribile ottimismo retrocede
all’imperativo di trattenere le lacrime. Suo figlio, Silvio, ha ventisette anni.
Da dicembre è trattenuto nell’articolazione psichiatrica del carcere di Salerno,
in
attesa di un trasferimento in comunità terapeutica: un trasferimento che, accertata la
sua assoluta incompatibilità con il carcere, il giudice ha già autorizzato in via teorica,
ma che nei fatti non riesce ancora a concretizzarsi.
Nel frattempo si accumulano colloqui, tentativi, rinvii. Il tribunale non può
validare senza un documento o un modulo firmato. Tutto è paralizzato da una
catena di responsabilità frammentate: Asl, Uosm, Uepe, Serd, tribunali. Organi
distinti con compiti precisi che però, proprio nella loro parcellizzazione,
favoriscono una deresponsabilizzazione diffusa nella presa in carico delle
persone. In questo quadro, ogni rinvio e indecisione producono conseguenze
faticose e danni concreti.
Silvio è affetto da schizofrenia paranoidea, diagnosi documentata a partire dal
2018 dall’Asl territoriale (Uosm 9 di Agropoli), dopo un primo Trattamento
sanitario obbligatorio e anni di sintomi evidenti: dispercezioni uditive,
comportamenti disorganizzati, oscillazioni tra rabbia e chiusura, e un abuso
cronico di sostanze iniziato in adolescenza. Il suo quadro clinico dovrebbe
rientrare in quella condizione nota come comorbilità psichiatrica, o “doppia
diagnosi”.
Questa vicenda si sviluppa lungo quasi un decennio di segnali discontinui, negazioni
e tentativi frammentari di cura. Tutto comincia in adolescenza, quando i primi
segni di sofferenza vengono interpretati, come spesso accade, secondo letture
rassicuranti: una crisi passeggera o una fase delicata della crescita. Con il
tempo, e non senza esitazioni, la famiglia inizia a confrontarsi con una
fragilità più profonda, difficile da decifrare. Ma prendere consapevolezza del
disagio psichico non è mai un processo lineare: richiede tempo, strumenti, e una
trasformazione lenta anche dello sguardo di chi accompagna. Le resistenze non
sono solo del soggetto, ma anche dell’ambiente intorno: affettive, culturali,
spesso inconsce. In un contesto sociale in cui il disagio mentale è ancora
circondato da
stigma, paura o rimozione, le famiglie si ritrovano spesso senza un linguaggio adeguato,
senza riferimenti condivisi, senza una rete in grado di accompagnarle. La
diagnosi, arrivata nel 2018, non dà avvio a un percorso strutturato, ma rimane
un’etichetta sospesa, priva di un progetto in grado di sostenerla. A complicare
tutto sopraggiunge la negazione ostinata della malattia da parte di Silvio che
ha reso ogni intervento clinico discontinuo e frammentato. La famiglia, spesso
sola, comincia a muoversi tra servizi diversi, ricoveri e dimissioni, cercando
di orientarsi in un sistema che non sempre riconosce la continuità come parte
essenziale della cura.
Negli ultimi mesi lo stato di Silvio si aggrava. Sviluppa un’ossessione
crescente verso i vicini, convinto siano l’origine di insulti e persecuzioni.
Ciò che altrove sarebbe riconosciuto come un episodio di dispercezione uditiva
all’interno di un quadro psicotico qui diviene il preludio al crollo. A
novembre, dopo alcuni episodi di aggressività, viene arrestato. Il giudice
dispone i domiciliari, ma li stabilisce nella stessa casa accanto al contesto
persecutorio da cui Silvio cercava di difendersi: un cortocircuito inevitabile.
Silvio evade e viene trasferito in carcere.
Da quel momento, la sua condizione psichiatrica viene progressivamente
soppiantata da quella di reo. La malattia scompare dal lessico istituzionale,
resta quasi come premessa accessoria, e il caso comincia a muoversi secondo
tempi incompatibili con l’urgenza della sua condizione. Dopo circa un mese di
detenzione, Silvio riesce almeno a essere trasferito nell’articolazione
psichiatrica della casa circondariale di Salerno. Lì, la gestione sanitaria è
affidata all’area penitenziaria dell’Asl. Ma da quel momento, nessun contatto
viene permesso tra la famiglia e l’équipe medica. Pec, mail, richieste di
incontro vengono tutte ignorate. I familiari cercano allora di supplire, da
soli, con la raccolta di documentazione, contattando comunità terapeutiche,
medici, garanti, cercando una soluzione che possa sbloccare una condizione
arenatasi nel silenzio.
La vicenda di Silvio mette in luce criticità strutturali che emergono ogni
qualvolta la risposta istituzionale resta incerta e frammentata. Non solo in
ambito sanitario, ma anche giuridico, sociale e psicologico. È da casi come
questo che si misura l’efficacia, o l’assenza, della psichiatria pubblica.
Quando la malattia mentale incrocia la giustizia penale, smette spesso di essere
trattata come una questione sanitaria. Diviene marginale, mentre il peso delle
decisioni ricade altrove: sul controllo del rischio e sulla gestione
dell’ordine.
Dopo mesi di rinvii e scarsa coordinazione, il giudice accoglie la richiesta di
patteggiamento con misura alternativa: un anno e otto mesi da scontare in una
struttura alternativa al carcere. Ma questa possibilità resta ancora soltanto
teorica. Per procedere con un invio a una comunità, è infatti necessario che
l’accesso avvenga attraverso una presa in carico da parte dell’Asl o del Serd, o
da entrambi in presenza di una doppia diagnosi. Nel caso di Silvio, però, l’Asl
si rifiuta tuttora di formalizzare qualunque passaggio, negando inoltre la
componente di dipendenza, nonostante se ne attesti la presenza da relazioni
cliniche precedenti. Di conseguenza, il Serd non può intervenire autonomamente,
poiché Silvio non è iscritto al servizio e l’attivazione di una presa in carico
interna al carcere si sta rivelando un processo farraginoso, quasi kafkiano.
Silvio vive così in un limbo giuridico e istituzionale. Detenuto in attesa,
trattato come colpevole, senza alcun margine di elaborazione su quel che è
accaduto. L’impossibilità di comprendere il proprio presente, o di immaginare un
“dopo”, non è solo un effetto collaterale, è il catalizzatore di una condizione
psichica che peggiora progressivamente.
Nel frattempo, il giorno precedente l’udienza che avrebbe dovuto finalmente
concretizzare il patteggiamento, già rinviata numerose volte e datata poi al 16
maggio, emerge l’ennesimo cortocircuito del sistema. L’Asl penitenziaria di
Salerno invia al giudice una relazione in cui si sostiene che “allo stato non
sono presenti sintomi di acuzie clinica tali da non poter essere curati negli
attuali luoghi”, cioè il carcere. Il documento dipinge un’immagine parziale e
ambigua del paziente. La dipendenza da sostanze viene minimizzata, la negazione
della malattia non è riconosciuta come tratto strutturale della stessa, mentre
l’aderenza alla realtà viene valutata esclusivamente sulla base di dichiarazioni
rese da un soggetto ristretto in un contesto tutt’altro che neutro, senza
coinvolgere chi ha potuto restituirne la complessità della storia. Il consumo di
cannabis è attribuito a un uso esclusivamente “ludico-ricreativo”,
contraddicendo tra l’altro precedenti diagnosi che parlavano invece di una
dipendenza reale e cronica. Questo giudizio arbitrario non solo sottovaluta la
patologia, ma esclude di fatto Silvio dall’accesso alle comunità specializzate
nella doppia diagnosi, quelle che sembrerebbero più adatte alla sua situazione.
Nel rapporto si legge inoltre che la “non consapevolezza e volontarietà a partecipare
a percorsi di cura” costituisce un “elemento prognosticamente inficiante un buon
esito”. Qui si apre il primo grande paradosso: chi, per struttura della propria
malattia, nega di averne bisogno, viene escluso dall’accesso alle cure proprio
per tale ragione. La storia di Silvio non è solo la cronaca di un caso di
negligenza istituzionale, ma racconta una condizione umana e clinica di grande
complessità.
Silvio è un giovane che da anni nega la propria malattia, come spesso accade in
quei disturbi psichici che incidono sulla percezione del reale e sul senso di
sé. Negare la malattia, in casi come questo, non è un rifiuto superficiale o
volontario, ma si concretizza come una struttura profonda dell’esperienza
personale, una modalità di difesa indispensabile per non crollare in uno stato
di totale spaesamento. Qui sorge una domanda cruciale e mai risolta: come si
accompagna una persona che soffre di psicosi verso una graduale consapevolezza
della propria condizione?
L’esperienza insegna che non si tratta di un processo automatico né di un
protocollo applicabile meccanicamente. È un percorso che richiede prossimità e
continuità, un’alleanza terapeutica che non può prescindere dal contesto
relazionale in cui la persona vive. Un percorso che rimane oggi ancora carico di
troppe domande e troppe poche risposte. È noto ormai che, dopo la chiusura dei
manicomi, la funzione di contenimento non sia scomparsa ma abbia assunto nuove
forme, disseminandosi in una costellazione di strutture: comunità terapeutiche,
Rems, Spdc, strutture residenziali, articolazioni psichiatriche del carcere.
Queste strutture agiscono in ordine sparso, secondo logiche eterogenee e
obiettivi raramente condivisi. In questa frammentazione, la figura stessa del
soggetto psichiatrico tende a dissolversi: non più un paziente da accompagnare
nel tempo, ma un caso da collocare e un corpo da contenere. Le comunità
terapeutiche, spesso pensate come luoghi di ripartenza, finiscono per escludere
proprio quei soggetti che più avrebbero bisogno di uno spazio di legame: chi è
troppo reticente e non ha ancora accettato la diagnosi, chi fatica a tradurre il
proprio disagio nei linguaggi riconosciuti dalla clinica. Si rimanda allora a
strutture intermedie, come le cliniche, che nei fatti reiterano una logica
contenitiva, configurandosi non come luoghi di soggettivazione, ma di gestione,
dove la cura coincide esclusivamente con la somministrazione farmacologica e
l’attenuazione del sintomo.
Nei casi più complessi, in cui il disturbo psichico intercetta il codice penale, la filiera
della cura si interrompe del tutto. Si ricorre allora alle Rems (Residenze per
l’esecuzione delle misure di sicurezza) o, come nel caso di Silvio, direttamente
al carcere, che diventa l’ultimo contenitore residuale. In entrambi i casi, la
finalità terapeutica si intreccia a quella detentiva, e il tempo della cura si
può svuotare in una durata indeterminata della custodia. In nome della
sicurezza, il trattamento psichiatrico assume i tratti della reclusione. Queste
strutture divengono un prosecuzione muta dell’apparato manicomiale, la sua ombra
più opaca: ne conservano la logica di segregazione, ne aggiornano i linguaggi,
ne oscurano la violenza dietro il lessico tecnico della tutela.
Nel sistema carcerario la malattia mentale non è trattata, ma gestita come un
problema di ordine. Da qui emerge lo snodo centrale: non la diagnosi in sé, ma
la totale assenza di potere contrattuale del malato, che non ha voce, non ha
strumenti, e spesso non ha altra possibilità di espressione se non attraverso
comportamenti estremi, ab-normali, disfunzionali. Qualunque sia la sua
condizione mentale, l’uomo finisce per identificarsi sempre con le leggi che lo
internano. L’apatia, il disinteresse e l’insensibilità che spesso vengono letti
come sintomi della malattia, sono in realtà una forma estrema di difesa:
l’ultima risorsa che il soggetto oppone a un mondo che prima lo esclude e poi lo
annienta. Accogliere l’eredità della lezione basagliana significa comprendere
che non è tanto la diagnosi a produrre la malattia, quanto il rapporto di potere
che si instaura tra il medico e il paziente, tra curante e curato.
Finché quel rapporto è fondato su un’autorità unilaterale, terapeutica e istituzionale,
il malato si adatterà al ruolo che gli viene cucito addosso, anzi in questa
oggettivazione troverà quasi sollievo perdendo ogni volontà di agire, di
responsabilizzarsi, di riconoscersi come soggetto. È in quel rapporto che la
regressione si consolida, e si fa cronica.
Se è vero dunque che il problema non è tanto la malattia, quanto il tipo di
rapporto che si stabilisce con il malato, allora vien da chiedersi: che tipo di
rapporto si sta stabilendo oggi tra paziente e istituzioni che dovrebbero
occuparsi della sua cura? Nessuna cura è possibile se l’unica forma di azione
risulta essere quella penale e l’unico margine d’azione del soggetto consiste,
nel migliore dei casi, nel rifiuto e nella protesta. Se il malato non può
aderire al progetto terapeutico, perché per struttura nega la malattia, allora è
la comunità che dovrebbe farsi carico, con lucidità e fermezza, della sua
tutela.
Quando il manicomio non è più una struttura unica e visibile, ma una funzione
diffusa e condivisa, allora la sua violenza si fa più sottile e insidiosa,
perché si nasconde dietro le pieghe della burocrazia e del linguaggio tecnico, e
rende sempre più difficile individuare responsabilità, nominare l’esclusione,
rivendicare un’altra possibilità. In questo scenario, ciò che manca non è solo
un luogo, ma una disposizione etica: un desiderio di prendersi cura che sappia
farsi carico della fragilità, dell’ambivalenza e del tempo necessario. Finché la
psichiatria continuerà ad agire come dispositivo selettivo, che cura solo chi si
dimostra già adatto alla cura, chi ne parla nei termini giusti, chi ne accetta
il linguaggio e le regole, resterà incapace di raggiungere proprio chi più ne ha
bisogno.
Quando la situazione di Silvio si è aggravata, l’Uosm di Agropoli ha cominciato
a suggerire come unica via possibile per attivare un percorso terapeutico
strutturato la denuncia penale: solo così, vista l’ assenza di un obbligo di
cura e della volontà esplicita del paziente, i familiari avrebbero potuto
costruire un aggancio istituzionale e una rete solida. Una prospettiva difficile
da accettare per Marta e suo marito Giorgio, che hanno esitato a lungo prima di
considerare praticabile una strada che li avrebbe condotti a un paradosso
crudele: dover proteggere chi soffre attraverso un atto che può apparire come un
abbandono, o peggio ancora, come un tradimento.
Assumere un simile ruolo, per un genitore, significa entrare in contraddizione
profonda con se stessi, cortocircuitando un sistema emotivo già provato. Chi da
anni convive con la malattia di un figlio spesso si muove in un terreno fragile,
segnato da sensi di colpa stratificati e da una difficoltà strutturale a porre
confini netti, soprattutto quando non si è riusciti a farlo nei momenti cruciali
della crescita. Agire in qualunque senso diviene allora ancora più complesso. Il
rischio è quello di insistere proprio su quella spirale silenziosa di colpa, in
cui ogni scelta appare sbagliata: restare fermi significa lasciare soffrire e
soffrire, mentre intervenire rischia di essere percepito come un atto di
violenza ulteriore. Allora che fare? Si attende mentre la tua vita retrocede
progressivamente davanti al dolore di un figlio. Normalizzazione dell’impotenza.
Poi la denuncia arriva dai vicini, il fatto che a pronunciarla sia una voce
terza, a tratti quasi impersonale, sembra per un istante alleggerire il carico
insostenibile della scelta. Come se da fuori giungesse quasi un verdetto
oracolare: qualcosa deve cambiare. Allora ci si riorganizza, sperando sia più
semplice, si tenta di leggerlo come un punto di rottura da cui costruire una
presa in carico integrata. Ma quella rete, promessa allora come necessaria,
fatica oggi ad attivarsi.
In quella stessa relazione si legge ancora che il comportamento frequentemente
disfunzionale di Silvio non sarebbe tanto legato alla sua condizione
psichiatrica, quanto piuttosto espressione di uno stile di vita coerente con il
suo retroterra
educativo, affettivo e culturale; come se le difficoltà derivassero in misura prevalente
dalla sua storia familiare e dal contesto di vita. Ma se davvero si ritiene che il disagio
sia radicato anche nel contesto sociale, risulta ancora più inspiegabile
l’esclusione sistematica della famiglia da qualunque processo di cura.
Il punto non è idealizzare i legami familiari, ma riconoscerne la portata
concreta. In una psichiatria che ambisce a essere comunitaria, non è pensabile
costruire percorsi terapeutici efficaci ignorando il luogo da cui quella
soggettività proviene e al quale inevitabilmente farà ritorno. Escludere la
famiglia, senza ascoltarla e senza tentare di responsabilizzarla in modo
condiviso, significa reiterare quella frammentazione sistemica che continua a
rendere la cura un’astrazione inapplicabile.
Nei successivi mesi, numerosi altri patteggiamenti sono stati rinviati, a causa
di una cronica mancanza di coordinazione tra i diversi soggetti coinvolti. Marta
e Giorgio, consapevoli dell’impasse e della lentezza burocratica, avevano deciso
di agire in via privata, nonostante l’ingente onere economico che questo avrebbe
comportato, rivolgendosi a una comunità in Umbria. Un gesto consapevole per
interrompere una catena di negligenza istituzionale che sembrava inarrestabile.
Questa scelta rappresentava un tentativo di restituire a Silvio un margine di
azione e di speranza, un modo per dimostrargli che esisteva una possibilità di
cura al di fuori del limbo in cui era stato confinato, e che sarebbe bastato
portare pazienza ancora per poco. Per un ragazzo che da anni rifiuta ogni
etichetta clinica e ogni offerta di aiuto, l’accettazione, seppur esitante, di
prendere parte ai colloqui con comunità terapeutiche, è già un atto carico di
senso. È un’esposizione fragile, spesso rischiosa e temporanea, che rende
necessari accompagnamento e presenza. Non si può chiedere a chi ha appena
cominciato a sporgersi oltre la soglia del rifiuto di reggere, da solo, il peso
dell’incertezza istituzionale. Ogni rinvio, ogni data annunciata e poi smentita,
ogni promessa disattesa, rischiano di frantumare quello spazio minimo di fiducia
aperto a fatica.
Un primo colloquio era stato fissato con la comunità terapeutica proposta dalla
famiglia, in vista dell’udienza inizialmente prevista per il 9 luglio.
Parallelamente, un medico della Uosm territoriale di Agropoli, animato da un
improvviso risveglio di coscienza, aveva deciso di superare le resistenze
dell’Asl di Salerno e procedere autonomamente con un invio verso un’altra
comunità di Salerno, specializzata nel trattamento delle tossicodipendenze, con
la promessa di un programma condiviso per la parte psichiatrica. Gli incontri,
entrambi calendarizzati per il 27 giugno, sono stati compromessi da una gestione
organizzativa fallimentare: solo il colloquio con la comunità proposta dall’Uosm
ha potuto svolgersi, mentre l’altro appuntamento veniva riprogrammato per il 3
luglio. Questo ha determinato un ulteriore rinvio dell’udienza, fissata poi per
il 16 luglio. Nonostante le richieste della famiglia di estendere le possibilità
praticabili con invii a più comunità, il medico dell’Uosm ha mantenuto una
posizione rigida, convinto della validità del percorso intrapreso, dichiarandosi
ottimista sulla buona riuscita dell’inserimento. Invece proprio la comunità da
lui segnalata ha poi comunicato l’impossibilità di avviare l’inserimento prima
di settembre.
Nel frattempo, la comunità privata contattata dalla famiglia ha comunicato la
propria indisponibilità ad accogliere Silvio. Pur trattandosi di una struttura
specializzata nella doppia diagnosi, il contesto richiede da parte del paziente
un certo grado di consapevolezza, partecipazione emotiva e impegno relazionale.
Secondo questa comunità un inserimento oggi sarebbe prematuro, e si dovrebbe
prevedere prima un passaggio clinico residenziale più contenitivo, capace di
accompagnare l’emersione di una maggiore consapevolezza e stabilità. Tale
valutazione, seppur lucida su un piano teoricamente clinico, rende evidente la
contraddizione strutturale già emersa: l’accesso alla cura viene subordinato a
requisiti quali motivazione, lucidità, adesione al percorso, che sono spesso
proprio ciò che la cura dovrebbe iniziare a rendere possibili. La selettività
dell’accoglienza finisce per escludere proprio i soggetti che più avrebbero
bisogno di essere accolti, relegandoli a strutture unicamente contenitive. Di
fatto, entrambe le risposte rendono impossibile formalizzare in tempo utile
l’esecuzione del patteggiamento, che resta a oggi l’unica alternativa concreta
alla detenzione. L’udienza del 16 luglio è l’ultima possibile: in assenza di un
progetto di accoglienza, si procederà a rito abbreviato, esponendo Silvio al
rischio di un processo penale e a un ulteriore aggravamento del quadro psichico.
L’ impressione è che l’Asl penitenziaria non voglia assumersi la responsabilità
del passaggio in comunità per il timore che Silvio possa allontanarsi e
compromettere l’incolumità di soggetti terzi. Un timore comprensibile, ma che
solleva una questione più profonda: che tipo di atto terapeutico può fondarsi
esclusivamente sulla prevenzione del rischio? Ogni percorso terapeutico serio
presuppone un margine di fiducia, e quindi di rischio. Se la priorità resta solo
quella di evitare la fuga, la responsabilità sanitaria si riduce a gestione del
pericolo. Le argomentazioni legate alla sicurezza, all’emergenza, alla
potenziale pericolosità del paziente psichiatrico, non fanno che riproporre,
sotto nuove vesti, il vecchio pregiudizio della follia come minaccia. Quando
questo pregiudizio orienta le scelte, l’isolamento e la contenzione appaiono
dunque quasi naturali.
La vicenda di Silvio non è solo il racconto di una fragilità individuale, è una
forma strutturale di logoramento che riguarda chiunque si trovi costretto a
muoversi negli interstizi di un sistema che promette cura ma esercita solo
controllo. L’atto di fiducia compiuto da Silvio, accettare il confronto e
tentare di intravedere una possibilità, rischia ora di infrangersi contro
l’ambiguità di una risposta incapace di restituire continuità e
reali responsabilità. Nel frattempo, all’alba dell’ennesima visita in carcere,
Marta e Giorgio mi chiedono: come possiamo spiegare a Silvio che anche questa
volta nulla è cambiato? Per uno sguardo già popolato da demoni persecutori, non
è solo l’ennesimo rinvio burocratico, ma l’ulteriore conferma, che nessuno stia
dicendo la verità. Io cerco qualche cenno di solidarietà nella totale
impraticabilità delle parole e a mia volta mi chiedo: come si nomina il
logoramento quotidiano che tante famiglie, come questa, si trovano a
fronteggiare da sole? Settimane intere trascorse a inseguire risposte mai
definitive, aggrappandosi a promesse informali e mail senza seguito.
Come si raccontano queste vite sospese a un telefono nel terrore di mancare la
chiamata decisiva? Non si attende solo una voce, di un figlio che chiama
disperato dal carcere come di un funzionario che forse darà una risposta, si
attende il riconoscimento di una condizione che, fuori dal linguaggio
dell’urgenza penale, continua a non trovare forma. Ogni venerdì porta con sé
l’eco di un “forse” che il lunedì smentisce. E nel frattempo la vita,
lentamente, si ritrae: non scompare, ma si trasforma in gestione: del tempo,
dell’angoscia, della speranza. Una gestione silenziosa in cui l’attesa diviene
la sostanza stessa dell’esperienza. Il tempo assume l’incedere di un ingranaggio
rotto. Non è la malattia ad arrestarlo ma l’apparato. Una macchina che non
produce soggetti da curare, ma corpi da gestire, da valutare in base alla
governabilità. E intorno a questa macchina, come intorno a un centro vuoto,
ruotano organi distinti, parcellizzati, ciascuno convinto di non poter, o non
dover, fare il primo passo. (vera nau)
(disegno di mattia vincenzo abbruzzese)
Sembra un mosaico in accurata composizione, tassello dopo tassello per
rafforzare il potere di chi lo esercita e silenziare la voce di chi lo subisce.
Nelle carceri italiane, il tasso di sovraffollamento ha superato il 133 per
cento nel giugno 2025: Milano San Vittore ha raggiunto il 220 per cento, Foggia
il 212. Secondo il ministero della giustizia, tra gennaio e giugno si sono
registrati trentasei suicidi, cui si sommano i novantuno del 2024, triste record
assoluto nella storia penitenziaria. È il segno di un sistema al collasso, dove
i corpi diventano esuberi amministrativi e la dignità si riduce a statistica.
Di fronte a tutto ciò, l’istituzione deputata a garantire trasparenza nei luoghi
di privazione della libertà è oggi muta. Il Garante nazionale dei diritti delle
persone private della libertà, istituito a seguito della sentenza Torreggiani
nel 2013, è attualmente presieduto da Riccardo Turrini Vita: magistrato e
dirigente di lungo corso del ministero della giustizia, con una carriera
soprattutto nel dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Turrini Vita è
stato nominato nell’ottobre 2024 su proposta del ministroNordio, con delibera
del consiglio dei ministri, affiancato da Irma Conti e Mario Serio. Tuttavia, la
relazione annuale al parlamento non è ancora stata presentata dall’attuale
collegio, anzi l’ultima risale addirittura al 2023 (sotto la gestione di Mauro
Palma). Il garante non effettua inoltre ispezioni non annunciate ed è stato
segnalato da avvocati e associazioni come difficilmente raggiungibile dai
detenuti, i quali inviano istanze e comunicazioni senza ricevere risposta.
A giugno 2025 Michele Passione, storico legale del garante, e le avvocate Maria
Brucale, Antonella Calcaterra e Giovanni Rossi, psichiatra e membro esperto,
hanno lasciato il loro incarico. La decisione è maturata, da parte di tutti, di
fronte a un contesto sempre più impermeabile all’ascolto e al confronto.
Passione ha motivato così la sua scelta, in una dichiarazione pubblica: “Se non
entri nei luoghi della detenzione, se non guardi, non puoi nemmeno vedere cosa
sta succedendo. Io mandavo report, segnalavo, ma nessuno rispondeva. Quando il
garante smette di ascoltare, è finita”. Sempre Passione ha rilevato come,
dall’inizio del mandato, l’attuale garante “non abbia mai effettuato visite nei
centri per migranti in Albania, né svolto alcun monitoraggio dei voli di
rimpatrio”. Per quanto riguarda le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure
di sicurezza), strutture che ospitano persone sottoposte a misure detentive per
motivi psichiatrici, risulta che nel primo semestre del 2025 sia stata
effettuata soltanto una visita ufficiale, il 30 gennaio, a Rieti. Un dato che
lascia perplessi sulla continuità e sull’effettiva incisività dell’attività di
monitoraggio in luoghi tanto delicati.
Anche il governo, intanto, posizionava i suoi tasselli. Il Decreto sicurezza
(Dl 48/2025), convertito in legge il 9 giugno 2025, prevede all’articolo 22 un
fondo per coprire le spese legali degli agenti di polizia penitenziaria e delle
forze dell’ordine indagati per atti commessi durante il servizio. Il rimborso
può arrivare fino a diecimila euro per ciascuna fase del procedimento penale,
comprese le indagini preliminari: un vero e proprio scudo legale a favore degli
imputati pubblici ufficiali. Contestualmente, il decreto introduce il reato di
“rivolta carceraria”, estendendo la resistenza passiva (incluse la battitura
delle sbarre e lo sciopero della fame) a una fattispecie punibile con la
reclusione da sei mesi a cinque anni. Si aggiungono aggravanti per le
manifestazioni “dentro e fuori le stazioni ferroviarie e della metropolitana”,
una nuova disciplina sulla detenzione di materiale “propedeutico al terrorismo”
punita con reclusione da due a sei anni anche in assenza di reati collegati, e
restrizioni all’accesso a misure alternative per le detenute madri. La Corte di
Cassazione, nella Relazione n. 33/2025 (23 giugno 2025), ha mosso critiche
durissime al provvedimento. Ha rilevato l’assenza dei presupposti di necessità e
urgenza per il ricorso al decreto legge, denunciandone l’eterogeneità,
l’approccio repressivo e la vocazione simbolica, definendolo una forma di
“ipertrofia penalistica” che rischia di criminalizzare anche le proteste non
violente. Secondo la Suprema Corte, il decreto non solo punisce l’intenzione più
che l’atto, ma compromette anche l’equilibrio tra accusa e difesa, il principio
di proporzionalità, il divieto di trattamenti inumani o degradanti, e il diritto
alla libera manifestazione del pensiero. Pochi giorni dopo, il 25 giugno 2025,
Matteo Salvini ha annunciato in conferenza stampa alla Camera l’intenzione di
proporre una modifica dell’articolo 613 bis del Codice Penale, che disciplina il
reato di tortura, introdotto con la legge 110/2017 dopo la condanna dell’Italia
da parte della Corte europea dei diritti umani per i fatti del G8 di Genova, in
particolare per le violenze alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto.
Salvini ha dichiarato che il reato di tortura dovrebbe essere modificato per
permettere alla polizia penitenziaria di svolgere il proprio lavoro senza
rischiare accuse ingiustificate. Ha sottolineato che gli agenti penitenziari
sono spesso etichettati come “aguzzini e torturatori” senza motivo.
Se Mario Serio, componente del collegio del garante nazionale, ha dichiarato che
“il garante continuerà a costituirsi in giudizio contro le forze di polizia
accusate di maltrattamenti e tortura”, Michele Passione, a cui è stato richiesto
un commento sul punto, ha precisato: “Quanto alla volontà dichiarata di
proseguire nell’attività processuale del garante, a oggi non posso affermare con
certezza che siano stati nominati nuovi avvocati. Posso solo rilevare che, dopo
la mia rinuncia, ho continuato a ricevere notifiche dalle autorità giudiziarie
presso le quali ero parte civile. Sembrerebbe quindi che non sia stata ancora
depositata una nuova nomina: per legge, infatti, il difensore della parte civile
è domiciliatario. Alle date in cui ho ricevuto le notifiche, quindi, un nuovo
difensore non era stato probabilmente nominato”.
Il 6 aprile 2020, a Santa Maria Capua Vetere, telecamere interne all’istituto
riprendevano un vero e proprio raid punitivo condotto da quasi trecento agenti
penitenziari. Durante questo raid centosettantasette detenuti furono pestati,
insultati, denudati e umiliati. L’inchiesta ha indagato su centoventi persone e
portato all’emissione di cinquantadue misure cautelari, ma l’attenzione pubblica
si è velocemente dissolta. A Foggia, l’11 agosto 2023, dieci agenti aggredivano
e picchiavano due detenuti per oltre mezz’ora: uno di loro soffriva di una grave
patologia psichiatrica. L’indagine, supportata da video e testimonianze interne,
ha portato a quattordici ordinanze cautelari nel marzo 2024. Nel 2025, la
Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per tortura, concussione e falsità
ideologica, evidenziando coperture sanitarie e tentativi di insabbiamento.
Non si tratta di episodi isolati. A San Gimignano, il 9 marzo 2023, il Tribunale
di Siena ha condannato cinque agenti della polizia penitenziaria a pene tra
cinque anni e dieci mesi e i sei anni e sei mesi per tortura, falso e minaccia
aggravata. I fatti risalivano all’ottobre 2018, quando un detenuto tunisino era
stato brutalmente pestato. La sentenza ha riconosciuto non solo la violenza
sproporzionata, ma anche il tentativo sistematico di copertura dell’accaduto. La
Corte d’Appello di Firenze ha successivamente confermato tutte le condanne,
sebbene cinque imputati abbiano ricevuto uno sconto di pena. Ancora – ma si
potrebbe andare avanti a lungo – nel febbraio 2025 il Gup di Reggio Emilia ha
condannato dieci agenti di polizia penitenziaria per il pestaggio di un detenuto
tunisino avvenuto il 3 aprile 2023 nel carcere della Pulce. In quel caso il
reato di tortura non è stato riconosciuto, e le condanne per abuso di autorità,
lesioni e falso ideologico sono variate da quattro mesi a due anni (nonostante
ciò, l’impianto accusatorio ha mostrato pratiche di violenza istituzionale
reiterata, perseguibili solo grazie alla legge 110/2017, oggi sotto attacco). 
Alla violenza fisica si accompagna una crescente medicalizzazione della
custodia. Il XXI Rapporto di Antigone (Senza Respiro, presentato il 29 maggio
2025) ha rilevato che il quarantaquattro per cento dei detenuti assume sedativi
o ipnotici, mentre il venti per cento fa uso di stabilizzanti dell’umore,
antidepressivi o antipsicotici, spesso in assenza di una diagnosi psichiatrica
formale. Il fenomeno è particolarmente allarmante nelle carceri minorili, dove
il consumo di psicofarmaci è aumentato drasticamente (del sessantaquattro per
cento all’istituto di Torino e del trecento cinquantadue per cento a Nisida,
rispetto al 2022) Nei reparti per l’“osservazione psichiatrica” sono state
documentate prassi come l’isolamento prolungato per settimane, la sedazione
forzata e la contenzione meccanica. Secondo le linee guida delle Nazioni Unite e
le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt),
tali pratiche possono configurare trattamenti inumani o degradanti. In istituti
come Poggioreale e Vigevano il Cpt ha segnalato la totale assenza di
monitoraggio esterno, l’uso di farmaci senza consenso informato e gravi lacune
nella documentazione degli episodi di contenzione, compromettendo ogni forma di
trasparenza e tutela.
L’approccio segregativo e le pratiche torturatorie si estendono sempre più anche
all’esterno dei luoghi carcerari “tradizionali”. Da gennaio 2025, l’Italia ha
avviato i primi trasferimenti di migranti irregolari nei Cpr albanesi costruiti
a Shëngjin e Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale del 6 novembre 2023.
Queste strutture, gestite con appalti diretti e contratti blindati, sono
collocate fuori dal territorio nazionale: secondo la narrazione governativa, ciò
le escluderebbe dalla giurisdizione italiana.  La Corte di Cassazione, con
l’ordinanza n. 23105 del 20 giugno 2025, ha stabilito che i centri albanesi sono
“formalmente e sostanzialmente sottratti alle garanzie giurisdizionali
italiane”, in violazione della Direttiva 2008/115/CE e della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea. La Suprema Corte ha inoltre sollevato due
questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, affermando
che il trattenimento nei Cpr albanesi rappresenta “una forma di detenzione
extragiudiziale in territorio straniero, priva delle tutele minime previste dal
diritto europeo”.
Secondo quanto riportato dall’Asgi, nei primi sei mesi del 2025 oltre
centoventicinque migranti sono stati trasferiti nei Cpr albanesi di Shengjin e
Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale siglato tra Italia e Albania.
Diverse autorità giudiziarie italiane, tra cui i giudici di pace di Roma,
Bologna e Catania, hanno successivamente disposto il rilascio immediato di
alcuni richiedenti asilo, ritenendo il trattenimento “giuridicamente nullo” per
l’assenza di tutele legali e giurisdizionali. Il 3 luglio 2025 la Corte
Costituzionale (con la sentenza n. 96/2025) ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale della disciplina del trattenimento nei Cpr, per violazione
dell’articolo 13 della Costituzione. La Consulta ha rilevato che la privazione
della libertà personale nei centri per il rimpatrio avviene sulla base di una
norma, l’articolo  14, comma 2 del Testo Unico Immigrazione, che non definisce
con sufficiente precisione i modi del trattenimento, rinviando a fonti
secondarie e a prassi amministrative, in violazione della riserva assoluta di
legge in materia di libertà personale. La Corte ha inoltre sottolineato che
l’attuale disciplina non garantisce un controllo giurisdizionale effettivo e
continuo, come imposto dall’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo (Cedu), che tutela ogni persona da forme di detenzione amministrativa
arbitrarie. In assenza di una normativa primaria che disciplini condizioni,
durata e modalità del trattenimento, questo si configura come un assoggettamento
fisico all’altrui potere, potenzialmente lesivo della libertà personale e privo
delle necessarie garanzie di legge. Sono state inoltre sollevate (anche se
dichiarate inammissibili) questioni relative alla violazione degli articoli 24 e
111 della Costituzione, in particolare per la mancata effettività del diritto
alla difesa, l’assenza di informazioni chiare sui diritti del trattenuto e le
difficoltà nell’accesso a un avvocato e nel ricorso contro il trattenimento. La
Corte ha ritenuto inoltre non scrutinabili le questioni relative alla violazione
dell’articolo 3 della Costituzione, che denunciavano una disparità di
trattamento rispetto al regime carcerario ordinario. Nel merito, va
sottolineato, non ha fornito una disciplina sostitutiva, ma ha rivolto un
preciso monito al legislatore: in mancanza di un intervento normativo che
regolamenti in modo chiaro il trattenimento nei Cpr quanto a modalità, durata,
condizioni materiali e garanzie giurisdizionali, la misura risulta
costituzionalmente inammissibile.
È chiaro, tuttavia, che un intervento meramente giurisdizionale non può essere
sufficiente davanti a un mosaico che si compone e ricompone di continuo. Un
garante che non parla, una legge che protegge chi picchia, un decreto che
finanzia la difesa degli imputati in divisa, una riforma che sterilizza il reato
di tortura, una giurisdizione che si dissolve verso strutture extraterritoriali:
tutto è coerente con l’obiettivo di silenziare la denuncia, ridurre al minimo le
garanzie, garantire l’impunità e normalizzare l’eccezione. È il passaggio dalla
giustizia alla gestione, dal diritto alla forza, e non è solo una crisi: è una
precisa scelta politica. Di fronte a un sistema che si regge sulla paura e
sull’opacità, il rischio non riguarda solo i detenuti, i migranti o i marginali:
è un rischio per tutti, e per gli equilibri democratici generali, perché quando
il potere si protegge dalla legge e non con la legge, la libertà smette di
essere un principio, e diventa un privilegio. (luna casarotti – yairaiha ets)
(disegno di rosario vicidomini)
Ogni anno l’Osservatorio di Antigone stila il Rapporto sulle condizioni delle
prigioni e sul funzionamento della macchina penale. Senza respiro è il
ventunesimo ed è stato presentato il 21 maggio di quest’anno a Roma nella sede
dell’associazione.
L’analisi come sempre è rigorosa e si articola in un’area tecnica (Temi) in cui
si definiscono i contorni maggiormente problematici della detenzione intra ed
extra-muraria, due dossier specifici (uno riguardo ai suicidi dal 2024 al 2025,
l’altro sui principali processi per tortura in corso), un’ultima area distinta
di Approfondimenti riguardo agli aspetti di politica criminale ed esperienze di
attivismo all’interno delle galere.
Le prigioni, come da sempre sosteniamo, sono un ingranaggio nevralgico per il
funzionamento dell’economia capitalistica perché rappresentano l’argine
principale per la massa crescente di soggetti espulsi dal sistema produttivo.
Per questo l’immagine che viene fuori dalla lettura del Rapporto è interessante
per capire la fase che stiamo attraversando.
Prima di ogni cosa i numeri. Il 30 aprile i detenuti presenti erano 63.445, il
30 giugno erano 62.728 in spazi che possono contenerne 51.280 (a cui devono
sottrarsi ameno 4.500 posti perché spazi inagibili o in ristrutturazione).
L’aumento è consistente e “se si pensa che le nostre carceri hanno una capienza
media di circa trecento posti significa che la popolazione detenuta sta
crescendo dell’equivalente di un nuovo carcere ogni due mesi”.
Questi flussi impattano fortemente sull’economia nazionale, tuttavia il bilancio
dell’Amministrazione penitenziaria indica che il costo per sostenere ogni
recluso è in netta diminuzione e questo significa che all’aumento delle persone
detenute non corrispondono maggiori investimenti. A ogni modo, come sempre la
voce di spesa più alta dell’intero budget (61,7%) è destinata al pagamento del
personale di polizia penitenziaria.
A proposito dei costi destinati alla reclusione, l’Osservatorio registra il
progressivo allargamento delle attività del terzo settore anche nella gestione
dell’esecuzione della pena. Tale processo di privatizzazione non riguarda
soltanto l’affidamento di singoli servizi a enti esterni (come la mensa o
l’approvvigionamento idrico per le strutture che non hanno l’allaccio), ovvero
di percorsi trattamentali (il laboratorio di teatro) e lavorativi (la sartoria)
già ampiamente affidati a cooperative, ma della reclusione tout court. Il
decreto legge 92/2024, convertito con legge 112/2024, disciplina le nuove
“strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale dei
detenuti”. Il ministero di giustizia dispone di un elenco delle strutture
residenziali e per il funzionamento di questi spazi affida un finanziamento di
sette milioni di euro (bacino economico di Cassa delle Ammende). La critica di
Antigone è chiara: “Il comma 4 dell’art. 8 cita esplicitamente la disponibilità
ad accogliere soggetti in regime di detenzione domiciliare. Quest’ultima è una
forma di detenzione a tutti gli effetti, sebbene in privata dimora. Quando la
privata dimora non appartiene alla persona stessa che sta scontando la pena
bensì ad altro soggetto privato, e quando questo soggetto privato riceve fondi
pubblici per provvedere alla reintegrazione sociale del condannato, il risultato
somiglia molto a un carcere privato”.
L’“impresa del bene”, cresciuta nei margini di questo settore, comincia a
recuperare fette di mercato sempre più ampie. È il caso della regione
Emilia-Romagna che sostiene le Comunità Educanti con i Carcerati, che propongono
un programma di rieducazione del condannato gestito privatamente dalla Comunità
Papa Giovanni XXIII. Anche in Campania si trova un’esperienza simile, infatti
l’associazione Terra Dorea, costituita a gennaio 2025, già a maggio ha stretto
un importante protocollo con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria
per “creare comunità educative alternative alla detenzione e, così, ridurre il
sovraffollamento carcerario”. Di quest’ultima associazione si sa pochissimo,
sembra nata dal nulla, ma appare già molto inserita nel contesto istituzionale
della pena. Dopo un mese dalla costituzione, il 5 febbraio firma una convenzione
con il Tribunale di Napoli Nord per lo svolgimento di percorsi di recupero
destinati agli autori di reati di violenza domestica e di genere. Questo ente
del terzo settore si sta muovendo su ogni campo del reinserimento. Spiega la
giovanissima presidente, avvocata Claudia Majolo, in una delle prime note
apparse sulla stampa locale: “Terra Dorea si propone come un ponte tra il
carcere e la comunità, promuovendo l’educazione, la formazione professionale e
il supporto psicologico. L’obiettivo è fornire gli strumenti necessari affinché
chi ha vissuto l’esperienza della detenzione possa riscattarsi, facendo leva su
una visione di giustizia che non si limiti alla punizione, ma che favorisca una
reale trasformazione sociale e culturale”.
L’immagine dell’istituzione che viene fuori dalla lettura del rapporto è di un
carcere pronto a implodere di nuovo e che tenta di immaginare possibili
traiettorie di riequilibrio in senso securitario, ma tali soluzioni sono del
tutto inconsistenti rispetto alle contraddizioni interne e alla enorme pressione
degli ingressi.
Rispetto a quest’ultimo punto, è interessante la posizione del ministero
espressa nel corso della presentazione romana. Il consigliere Ernesto Napolillo,
ex magistrato, direttore dell’Ufficio generale detenuti e trattamento, comincia
il proprio intervento senza mezzi termini: gli unici dati giusti sono quelli
forniti dall’istituzione, le associazioni e gli altri enti non operano con
metodo scientifico e devono occuparsi di altro. Entra poi nel merito toccando
alcuni punti oggetto della discussione. L’ufficio che dirige l’ex magistrato
coniuga le due tensioni del carcere: l’esigenza di sicurezza connessa alla
pericolosità penitenziaria e la necessità del trattamento del detenuto. Sulla
rieducazione, il consigliere penitenziario afferma senza remore che
l’istituzione registra un “cronico e gravissimo problema di effettività del
trattamento”. Secondo il ministero l’assenza di lavoro è la causa principale.
L’autorità si dilunga, poi, esponendo il posizionamento politico: “Il modello
tradizionale di carcere come luogo di segregazione votato anche al trattamento è
superato… il carcere non è più il luogo della pena ma è un luogo di conquista
della criminalità organizzata. Ci sono delle organizzazioni criminali che
preparano i propri affiliati e li mandano in carcere per controllare le piazze
di spaccio nelle carceri”. C’è la necessità, quindi, di un nuovo paradigma per
riequilibrare l’istituzione ed è quello della legalità: “Garantire il diritto
alla sicurezza è il miglior modo per garantire la sicurezza dei diritti”. A
ognuno il proprio ruolo: il trattamento è rimesso alla società civile, al
volontariato, alle organizzazioni religiose. L’istituzione, invece, deve
garantire la sicurezza e l’autorità attacca la vuota retorica dei proclami delle
amministrazioni precedenti: “Troppe passarelle ci sono state fino a oggi… ci
sono più protocolli che attività, ci sono più iniziative di lavoro che
lavoratori”.
Il piano politico è coerente con una rappresentazione muscolare
dell’istituzione: rispristinare la sicurezza conducendo una guerra totale. In
tale prospettiva devono essere letti il decreto sicurezza (convertito in legge
80/2025) e la nuova iniziativa legislativa titolata “Operazioni sotto copertura
per la sicurezza degli istituti penitenziari” che estende alla polizia
penitenziaria le possibilità dell’art. 9 della legge 146/2006, ammettendo
operazioni sotto copertura, uso di identità coperte e lo scudo penale per gli
agenti coinvolti, purché le autorità giudiziarie siano previamente informate.
Queste misure rappresentano gli armamenti giuridici per condurre il conflitto
interno e impedire l’organizzazione collettiva delle lotte. Dal mondo delle
prigioni emerge il coerente rafforzamento dei poteri repressivi dello Stato in
una fase complicata per il capitalismo italiano ed europeo in cui si deve
necessariamente conservare l’ordine sociale mentre occupazione e salari sono in
caduta ripida e gli scenari di guerra esterna si fanno sempre più concreti.
Ci sono tuttavia delle distonie che rendono problematica la realizzazione del
programma politico. Alcune sono emerse sempre nel corso della presentazione del
Rapporto di Antigone. Il sindacalista Gennarino De Fazio, segretario Uil Pa,
rispondendo punto per punto alle affermazioni del dirigente
dell’Amministrazione, ha ricordato che i suicidi tra le fila della polizia
penitenziaria sono in aumento (l’ultimo si è ammazzato il 27 giugno, appena
finito il turno con un colpo di pistola nel parcheggio del carcere di
Secondigliano). La frustrazione al fronte è enorme e senza soluzione. Questa
guerra si combatte senza soldati. “I detenuti sono aumentati di 5.000 unità… al
di là della propaganda la polizia penitenziaria è aumentata di 133 unità che non
sono andate nelle carceri ma a integrare gli uffici dipartimentali dove c’è
anche il consigliere Napolillo. Il personale è sempre più senza respiro”.
Il sindacalista ha criticato fortemente il graduale processo di omologazione
degli agenti penitenziari agli altri corpi di polizia, perché la funzione è
sostanzialmente diversa e ha attaccato duramente il piano formativo dei nuovi
agenti che vengono mandati al macello con qualche giorno di corso da remoto.
Tralasciando il tentativo di rafforzare la propria organizzazione di categoria,
le criticità segnalate e la spaccatura interna tra la polizia che opera in
trincea e i generali che governano la battaglia dalle scrivanie è reale. Lo
registriamo costantemente anche nei corridoi dell’aula bunker durante le lunghe
attese del processo sulla Mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.
Difatti, per quanto gli apparati stiano correndo per prepararsi alla guerra, da
tempo le macerie sociali di questo ordine di cose aumentano. Le prigioni sono
una di queste e sono pronte a esplodere. Non c’è tempo. La realtà dei fatti, al
di là delle lezioni di vita dei dirigenti, è che molti istituti di pena si
autogestiscono. In istituti dove persiste un sovraffollamento del 150% circa,
dove è assente ogni tipo di intervento anche solo riempitivo della giornata, con
le presenze di personale civile e in divisa in sottorganico, l’implosione è
scongiurata solo in virtù di autogestione informale e precaria dei poteri
interni ufficiosi e ufficiali.
“Vengo da laggiù dove tutto è finito… e tutto ricomincia”, sono le parole della
Cassandra di Dimitriadis; stiamo ricominciando daccapo ed è necessario per
evitare di rimanere sepolti dalle rovine di questo mondo, rivitalizzare e
moltiplicare l’organizzazione delle lotte, estendendo l’intervento a ogni ambito
della riproduzione sociale. Trovare nei legami collettivi e nei percorsi di
resistenza la fiducia per “l’assalto al cielo”. A ognuno il suo ruolo, questo è
il nostro. (luigi romano)
(disegno di canemorto)
Con la sentenza n.76 del 2025 la Corte Costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità parziale dell’articolo 35 della legge 833/1978, che norma il
Trattamento sanitario obbligatorio, ex articolo 3 della legge 180/78, cosiddetta
“legge Basaglia”. In particolare, la sentenza ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’articolo 35 in relazione alla mancata previsione di tre
garanzie fondamentali: il diritto all’informazione e comunicazione del
provvedimento alla persona interessata o al suo legale rappresentante (avvocato,
amministratore di sostegno, tutore o curatore); il diritto della persona a
essere sentita prima della convalida; la notifica del provvedimento di Tso alla
persona interessata o al suo legale rappresentante.
Il giudizio di legittimità costituzionale era stato sollevato dalla Corte di
Cassazione nel settembre 2024, nell’ambito di una controversia promossa da una
donna sottoposta a Tso a Caltanissetta. La donna, tramite il suo avvocato, aveva
presentato opposizione lamentando di non aver ricevuto alcuna notifica, di non
essere stata ascoltata dal giudice e di non avere avuto strumenti effettivi per
difendersi. La Cassazione, valutando il ricorso, aveva posto in evidenza una
serie di gravi lacune nel procedimento, affermando che “la mancata audizione
della persona da parte del giudice tutelare prima della convalida rende il
controllo giudiziale meramente formale”. I giudici della Corte Costituzionale,
in seguito al ricorso presentato dalla donna in Cassazione, hanno rilevato come
l’articolo 35 della legge 833 non garantisca in effetti adeguate tutele,
evidenziando che “il sindaco e il giudice tutelare comunicherebbero tra loro, ma
nessuno dei due comunicherebbe con il paziente”.
La sentenza della Corte Costituzionale dovrebbe avere da ora effetto immediato
su tutti i procedimenti in corso e su quelli futuri. I sindaci, in qualità di
autorità sanitarie locali, dovranno garantire, ai sensi del pronunciamento, che
il provvedimento sia notificato alla persona o al suo legale rappresentante. I
giudici tutelari saranno obbligati quindi ad ascoltare l’interessato prima di
convalidare il trattamento e la mancata osservanza di tali garanzie potrà
determinare l’illegittimità del Tso. Di prassi, il legislatore dovrebbe inoltre
intervenire per adeguare il testo normativo al nuovo orientamento
costituzionale.
LA SENTENZA
Abbiamo ritenuto opportuno approfondire i meccanismi interni della sentenza.
Secondo la Corte Costituzionale l’assenza della tempestiva informazione sulle
modalità di opposizione costituisce “un ostacolo rilevante all’esercizio del
diritto a un ricorso effettivo alla difesa e, in ultima istanza, a un giusto
processo”, anche se la 833 preveda la possibilità di chiedere la revoca del
provvedimento di Tso e di proporre successiva opposizione. La Corte ha sostenuto
che la non comunicazione, la mancata audizione del giudice tutelare e la mancata
convalida del provvedimento rappresentino “una violazione del diritto al
contraddittorio e alla difesa, dunque un deficit costituzionalmente rilevante”.
Ha fatto appello in particolare ad articoli fondamentali della Costituzione: il
13, sulla libertà personale, il 24, sul diritto di difesa in giudizio, e il 111,
sul giusto processo.
La Consulta ha stabilito che la persona sottoposta a Tso deve essere messa a
conoscenza del provvedimento restrittivo della libertà personale e deve
partecipare al procedimento di convalida, in quanto titolare del diritto
costituzionale di agire e di difendersi in giudizio, anche nel caso in cui si
trovi in stato di “incapacità naturale”.
Nella sentenza è scritto inoltre che l’audizione della persona sottoposta a Tso
da parte del giudice tutelare debba avvenire prima della convalida “presso il
luogo in cui la persona si trova – normalmente un reparto del servizio
psichiatrico di diagnosi e cura”, perché questo incontro tra paziente e giudice
“è garanzia che il trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di
violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà
personale (articolo 13, quarto comma, della Costituzione) e nei limiti imposti
dal rispetto della persona umana (articolo 32, secondo comma, della
Costituzione)”. L’audizione per la convalida – che deve avvenire entro
quarantotto ore – rappresenta un primo contatto che consente al giudice tutelare
di conoscere le condizioni della persona, compresa “l’esistenza di una rete di
sostegno familiare e sociale”.
La sentenza ha fatto anche riferimento al rapporto del Comitato europeo per la
prevenzione della tortura, che nel 2023 aveva evidenziato come il Tso in Italia
segua un “formato standardizzato e ripetitivo” in cui il giudice tutelare “non
incontra mai i pazienti che rimangono disinformati sul loro status legale”. La
Corte non si è limitata alla questione Tso, mettendo giustamente in discussione
l’analogo dispositivo amministrativo restrittivo della libertà personale che
riguarda i migranti senza documenti: “L’accompagnamento coattivo alla frontiera
e il trattenimento dello straniero nei centri di permanenza per il rimpatrio
devono essere assistiti dal diritto di essere ascoltati dal giudice in sede di
convalida, sicché sarebbe irragionevole e lesiva del principio di eguaglianza
l’omessa previsione di analogo adempimento nel trattamento sanitario coattivo”. 
QUARANTASETTE ANNI SENZA COSTITUZIONE
Se il Tso è stato costituzionalmente illegittimo finora, chi ci garantisce che
le cose cambieranno? Con che modalità queste persone saranno ascoltate? Verranno
tutelate la libertà e il diritto di difesa della persona che la sentenza della
Corte Costituzionale, in maniera precisa, definisce? Malgrado la sentenza abbia
riportato a chiare lettere che l’audizione debba avvenire nello stesso luogo in
cui la persona si trova, il tribunale di Milano ha già chiesto l’attivazione di
un numero per fare le audizioni in videochiamata. Il rischio è dunque che questa
nuova procedura venga risolta aggirando i dispositivi più tutelanti, in barba
alla stessa sentenza. Quale tutela, quale salvaguardia di diritti potrebbe
assicurare una videochiamata, magari in presenza di personale sanitario, con un
paziente già sedato? In queste condizioni immaginiamo i giudici tutelari
convalidare i Tso come un atto meramente burocratico: tutt’altro che come
garanzia di controllo sul divieto di violenza fisica e morale indicato nella
sentenza.
Se la legge prevede il ricovero coatto solo in casi limitati e nel rispetto
rigoroso di alcune condizioni, la realtà testimoniata da chi la psichiatria la
subisce è ben diversa. Chi scrive sa bene – dopo vent’anni di esperienza
accumulata attraverso lotta dura contro le pratiche manicomiali – che il
protocollo della procedura di imposizione di Tso molto spesso non è applicato, e
che il trattamento non è affatto un provvedimento di extrema ratio. Troppo
spesso le procedure giuridiche e mediche durante il Tso vengono aggirate: nella
maggior parte dei casi i ricoveri coatti sono eseguiti senza rispettare le norme
che li regolano e seguono il loro corso semplicemente per il fatto che quasi
nessuno è a conoscenza delle normative e dei diritti della persona.
Uno degli inganni del sistema psichiatrico sta nel far credere che un Tso duri
in fondo solo sette giorni, o quattordici nel caso peggiore. La verità è che il
Tso implica una coatta presa in carico della persona da parte dei servizi di
salute mentale del territorio che può durare per decenni. Una volta entrato in
questo meccanismo infernale, una volta bollato con lo stigma della “malattia
mentale”, il paziente vi rimane invischiato a vita, costretto a continue visite
psichiatriche e, soprattutto, alla somministrazione obbligatoria di
psicofarmaci, pena un nuovo ricovero coatto. Per i ricoverati in Tso si ricorre
ancora spesso all’isolamento e alla contenzione fisica, mentre i cocktails di
farmaci somministrati mirano ad annullare la coscienza di sé della persona, a
renderla docile ai ritmi e alle regole ospedaliere. Il grado di
spersonalizzazione e alienazione che si può raggiungere durante una settimana di
Tso ha pochi eguali, anche per il bombardamento chimico a cui si è sottoposti.
L’obbligo di cura non significa più necessariamente e solamente reclusione in
una struttura, ma si trasforma nell’impossibilità di modificare o sospendere il
trattamento psichiatrico, sotto costante minaccia di ricovero coatto, sfruttato
come strumento di ricatto, punizione e repressione.
IL TSO COME VIOLAZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI
Come Collettivo riteniamo però che ci sia una seconda, ulteriore, considerazione
di cui tenere conto. La sentenza n.76, pur non menzionando esplicitamente la
contenzione meccanica, offre, a nostro avviso, un forte potenziale
interpretativo critico. Il nucleo della pronuncia è il rafforzamento del
controllo giurisdizionale sul Tso, tramite l’audizione preventiva e in loco
della persona da parte del giudice tutelare. La Corte esplicita, ed è questo
l’elemento che vorremmo sottolineare, che tale audizione è “garanzia che il
trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di violenza fisica e morale
sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale” (articolo 13,
comma 4 della Costituzione) e “nei limiti imposti dal rispetto della persona
umana” (articolo 32, comma 2 della Costituzione). La sentenza parla inoltre di
“audizione”, e quindi di ascolto.
Deducendo da ciò: la contenzione meccanica, essendo una limitazione fisica
diretta e potenzialmente lesiva della dignità, rientra a pieno titolo nelle
“violazioni fisiche e morali” e nel mancato “rispetto della persona umana”.
Difficilmente si può pensare che, ascoltando la persona in stato di malessere si
possa poi procedere a legarne gli arti o a limitarne la mobilità in modo
pesantemente coercitivo.
La sentenza, esigendo un controllo giudiziale non più formale ma sostanziale
sulla concreta esecuzione del trattamento, rende ogni ricorso alla contenzione
immediatamente sindacabile e, riteniamo, censurabile sotto il profilo di questi
inderogabili principi costituzionali. La sua applicazione, pertanto, è ora
direttamente e immediatamente riconducibile a una possibile violazione dei
diritti fondamentali della persona, richiedendo una strettissima aderenza ai
criteri di necessità ed eccezionalità per sfuggire alla qualificazione di
violenza costituzionalmente illegittima. (collettivo antipsichiatrico antonin
artaud)