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Diario dal bunker. Il processo per le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere #9
(disegno di cyop&kaf) L’interporto di Teverola sembra impazzire a dicembre, le processioni dei tir non finiscono mai e si impiega molto più tempo per arrivare in aula bunker. L’aumento produttivo nelle ferie natalizie è l’obiettivo di fase che i padroni inseguono sempre e quel disturbo ossessivo attraversa i magazzini di cemento determinando ritmi di lavoro infernali. Anche le campagne a ridosso del carcere di Santa Maria Capua Vetere sono affollate da un numero di braccianti superiore al solito. A pochi passi dal luogo in cui si celebra il processo si intravedono i caporali che sorvegliano la raccolta dei friarielli tra i falò delle prostitute. L’addensarsi disgregato di questi micromondi rende quel territorio una bestia unica. *     *     *    Prima della sospensione delle ferie natalizie la Corte di Assise ha concluso l’audizione delle persone offese individuate dalla Procura. L’8 gennaio il processo riprenderà con la batteria di testi dell’accusa in giacca e cravatta che potranno ricostruire le dinamiche della Mattanza dal punto di vista “interno”. Si dovranno ricostruire le decisioni degli apici della catena di comando e si dovrà circoscrivere quel momento temporale rimasto finora in controluce in cui i vertici decisero di operare con una perquisizione straordinaria, detonando la ferocia di circa trecento uomini della penitenziaria.   Il tempo sta logorando l’attenzione di tutti. I visi in aula sono stanchi, implorano a ogni udienza la fine di questo dibattimento. I giudici popolari sono annoiati e sempre più distaccati da quanto accaduto nel carcere Francesco Uccella il 6 aprile del 2020. Il presidente della Corte e il giudice a latere rimangono vigili nel corso delle lunghissime udienze settimanali ma dalla mimica dei loro visi traspare la fatica accumulata negli anni. Le due sostitute procuratrici e il procuratore aggiunto sono in una sorta di trance ritmata come Darwīsh, mantengono il punto e sanno che dovranno farlo fino alla fine perché con questo processo si stanno giocando anche le loro ambizioni professionali. Gli avvocati sono diminuiti con il tempo; quelli degli imputati sono una decina, ma tre o quattro portano avanti il lavoro di tutti e sono quelli che hanno studi legali organizzati alle spalle, che semplificano il lavoro di analisi degli atti. I difensori delle parti civili che continuano a seguire in aula il processo si contano sulle prime dita di una mano. Nonostante la difficile routine, come in ogni maxiprocesso alcune udienze rimangono significative anche dopo anni di dibattimento: la dialettica tra le parti si accende d’improvviso e si conserva tesa come nei primi giorni. I difensori dei poliziotti hanno infatti tentato come sempre di rompere quella inerzia con eccezioni e richieste. È il caso della scomparsa della registrazione del video colloquio tra Hakimi Lamine e il magistrato di sorveglianza avvenuto a poche ore di distanza dalle violenze del 6 aprile. Non è chiaro se il colloquio via Microsoft Teams sia stato registrato dal giudice ovvero se il file sia stato perduto. Le difese degli imputati hanno chiesto delucidazioni sul punto e il sequestro del portatile del magistrato che contiene i file degli altri colloqui con i quindici prigionieri tradotti al Danubio. La notizia è rimbalzata sui giornali e nel solito tg regionale, che tempestivamente cerca di sminuire l’indagine e i fatti del 6 aprile. Il tentativo di fondo degli avvocati è di suggerire l’esistenza di una macchinazione tra gli organi che hanno agito in fase di indagine e la scomparsa della registrazione del video colloquio offre una sponda facile a questo gioco di ombre. In realtà, questa stranezza impatta poco o nulla sulle risultanze probatorie. Quel video potrebbe soltanto aggiungere un pezzetto alla storia del pestaggio di Hakimi e alle sue condizioni psicologiche in isolamento. Rispetto ai danni del pestaggio ci sono le consulenze mediche della Procura e per le fragilità esplose dopo le mazzate ci sono le testimonianze dei compagni di prigionia con cui Hakimi ha condiviso le ultime ore prima di morire. Il video avrebbe dato sicuramente un volto e una voce al fantasma di Hakimi ma non avrebbe aggiunto molto di più. Proprio sulla morte dell’algerino, sulle condizioni del reparto Danubio e sulle vicende intercorse dal 6 aprile (giorno del trasferimento) al 4 maggio (giorno della morte) si è dilungato Mahdi, il lavorante di sezione. P.M.: Conosceva il detenuto Hakimi Lamine? Teste: Stato suo piantone. P.M.: È stato il suo piantone. Ricorda che quella sera è arrivato dal reparto Nilo? Teste: Sì. P.M.: L’ha incontrato quindi al Danubio? Teste: Sì. P.M.: Ricorda come stava, in che condizioni era? Teste: Stava distrutto, aveva un bombolone qua, una emorragia. P.M.: Dietro la testa? Teste: Sì. P.M.: Cioè era gonfio dietro la testa? Teste: Una cosa gonfia, un’emorragia, ha preso la botta, forse non è uscito sangue, perciò è rimasto. […] P.M.: Fu più preciso, glielo ricordo: “Lui era particolarmente triste perché voleva rivedere sua madre; alle due di notte l’appuntato del Danubio venne a chiamarmi per farmi parlare con lui e farlo calmare”. Teste: Sì, un minuto mi ha fatto uscire, ho parlato con lui, mi ha detto: “Mahdi, mamma”, piangeva, poi l’assistente mi dice: “Mahdi, basta”, perché l’unico io che parlava sua lingua, con l’assistente mai stato d’accordo… Lamine è stato picchiato più volte e gettato da solo in una cella di isolamento. Dopo aver ricostruito l’ingresso in reparto dei quindici prigionieri ritenuti responsabili della protesta del 5 aprile e le urla di sofferenza di Hakimi, Mahdi ha affrontato il controesame violento delle difese. Senza troppi giri di parole gli avvocati degli imputati hanno provato a insinuare che i lavoranti del Danubio governassero lo spaccio interno di farmaci e che siano stati loro a procurare il cocktail letale che ha ucciso Hakimi. Lo sforzo interpretativo degli uomini in toga ha raccolto solo suggestioni che non hanno trovato riscontri solidi, poggiando esclusivamente sulle voci di corridoio. Anche Morouane Fakhri è un fantasma in questo dibattimento. È morto dopo qualche anno dalla Mattanza dandosi fuoco nel carcere di Pescara per un motivo rimasto sconosciuto. Il suo compagno di cella ha ricordato le pene sofferte e le sue parole. P.M.: È riuscito a vedere se Fakhri è stato picchiato? Teste: Hanno picchiato lui di più. P.M.: Più di lei? Teste: Sì. P.M.: Anche lui era stato messo in ginocchio, che cosa ricorda? Teste: Sì, sì, perché hanno riconosciuto lui, perché lui venuto da poco da altro carcere, Cassino. P.M.: Hanno riconosciuto lui in che senso, mi sa spiegare? Teste: Perché loro dice: “Un’altra volta qua?”, perché hanno detto che forse nel carcere che stava hanno fatto rivolta là. P.M.: Quindi veniva da un carcere dove c’era stata la rivolta? Teste: Sì, sì, sì. P.M.: Si ricorda da che carcere veniva Fakhri? Teste: Cassino. P.M.: Chi l’ha riconosciuto? Teste: Una delle guardie ha detto: “Un’altra volta tu qua?”. P.M.: E quindi l’hanno picchiato più di lei? Teste: Sì, sì. P.M.: Questa guardia che ha detto: “Ancora tu qua”, l’aveva mai vista? Teste: No, perché è venuta da altro carcere, io mai visto lui. […] Teste: 6 aprile, perché quando loro stavano picchiando altri detenuti noi stavamo guardando tramite finestra, allora Fakhri dice: “Vedi che dopo vengono da noi”; io ho detto: “Come vengono da noi se noi non abbiamo fatto niente?”. […] Teste: Sì, stavamo guardando da finestra che stavano picchiando gente e mettevano al passeggio, allora Fakhri mi ha detto: “Senti, preparati che dopo vengono da noi”; dico: “Come mai? Io non ho fatto niente, come fanno a venire qua?”; ha detto: “Così succede, è successo così a Cassino”. *     *     * I capi d’accusa da 73 a 84 del decreto che dispone il giudizio riguardano calunnie, falsi, depistaggi, rilevazioni di segreti d’ufficio, favoreggiamento e omesse denunce. Alcune contestazioni riguardano le condotte realizzate per coprire il massacro e giustificare i trasferimenti; altre, invece, si riferiscono alle attività di mascheramento che sono state realizzate per sviare le indagini. Prima della pausa natalizia la Procura ha offerto alla Corte di Assise una prima interessante testimonianza con la deposizione della psicologa esperta del Danubio, ancora in servizio presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere. La giovane dottoressa ha mostrato da subito una certa rigidità fin dalle prime risposte. P.M.:  Si ricorda se lei è stata componente della riunione del GOT del 4 maggio 2020 in relazione anche a questo detenuto deceduto Hakimi Lamine, deceduto il 4 maggio 2020? Teste: Probabilmente, visto che ha il verbale, sì. P.M.: Adesso le faccio vedere il verbale, glielo mostro, c’è anche la sua firma apparente, glielo lascio in visione e lei mi dice se conferma la sua sottoscrizione e lo tiene con sé per le domande che le farò. Si dà atto che viene posto in visione il verbale già acquisito agli atti del dibattimento del 4 maggio 2020 ore 16:30, verbale di riunione GOT, in cui si esprime parere per l’allocazione dei detenuti Irollo Emanuele, D’Alessio Luigi e Hakimi Lamine; è data la presenza della psicologa ex art. 80 OP dottoressa Affinito, esperto psicologo. La psicologa ha partecipato alla riunione del gruppo di osservazione e trattamento che si riunì con una “certa agitazione” il giorno della morte di Lamine per ratificare l’allocazione dei detenuti e in particolare del ragazzo algerino morto quel giorno nella sezione ex art. 32. P.M.: Su questo punto lei ha reso vari passaggi dichiarativi, le leggo il primo a pagina 2: “Quel giorno la situazione era caotica, ricordo che entrambi i direttori facevano dei nomi, facevano delle telefonate, parlando del problema di quei giorni che erano trascorsi senza che i detenuti fossero stati allocati nel luogo dove dovevano esserlo; entrambi i direttori erano preoccupati per tutti e tre i detenuti oggetto di quel verbale e non solamente per Hakimi Lamine”. Si ricorda? Teste: A oggi non ho questo ricordo vivo, non ricordo le telefonate, i riferimenti alle telefonate. La testimonianza della dottoressa non ha spiccato per coraggio e rigore professionale, forse il fatto che è ancora impiegata nel medesimo istituto ha aggiunto un grado di insicurezza maggiore. P.M.: Sempre nello stesso verbale, a pagina 2 ha dichiarato: “All’esito delle manifestate preoccupazioni la dottoressa Parenti e il dottore Rubino hanno deciso di compilare il verbale nel modo in cui si legge; i due si rimpallavano le responsabilità e l’uno voleva che l’altro comparisse nel verbale, cercando di non darsi per presente e ciò in relazione alle loro preoccupazioni e agitazione; alla fine decisero di essere formalmente presenti entrambi, nei fatti come si coglie dalla lettura del verbale la dottoressa Parenti firmò il verbale nella parte in cui esprimeva parere favorevole quale componente del GOT, mentre Rubino firmò la parte in cui ratificava l’allocazione nella sezione ex art. 32 RE”. Teste: Sì, lo ricordo questo. […] P.M.: Nello stesso verbale a pagina 3 ha dichiarato, sempre nel contesto della problematica della verbalizzazione e di quello che è scritto: “In quel contesto io pensavo principalmente al decesso di quel detenuto e non ho fatto caso all’indicazione scritta che so essere non vera nella parte in cui si legge nel verbale che non si è ancora potuto dare seguito ai comminati 15 giorni dell’EAC – esclusione dalle attività in comune – per mancanza di posti in stanza singola, atteso che so bene che l’EAC può essere eseguito anche in una stanza non singola, atteso che il provvedimento di isolamento non è connesso indissolubilmente alla sanzione disciplinare dell’EAC”. Comunque, oltre alla paura di esporsi, vi è un altro elemento di fragilità colto immediatamente dalle difese degli imputati e riguarda la presenza di elementi indizianti a carico della psicologa. In fondo, la signora ha ammesso in udienza di aver partecipato alla redazione di un verbale falso e questo costituirebbe per gli avvocati dei dirigenti penitenziari motivo per interrompere la testimonianza e trasmettere gli atti agli organi inquirenti. L’eccezione, non accolta dalla Corte di Assise perché «detta affermazione a giudizio del Collegio non consente di ritenere la dichiarazione auto indiziante…», ha centrato l’obiettivo di rendere ancora più tesa e frenata la testimonianza. In ogni caso, il passaggio è significativo sia per capire il modus operandi dei dirigenti per giustificare le condotte abnormi dell’operazione straordinaria del 6 aprile, che per cogliere la difficoltà di chi ha avuto un ruolo marginale, di “lieve” coinvolgimento. Anche il comparto amministrativo sembra essersi chiuso a riccio provando a evitare ogni tipo di testimonianza scomoda. Infatti, ricordiamo che nessuno (a parte i detenuti e i loro familiari e poche associazioni) ha denunciato quella mattanza. Per l’ormai noto spirito di corpo era quasi impossibile che lo facessero gli agenti, ma non lo hanno fatto i medici, gli infermieri, gli psicologi, i funzionari giuridico-pedagogici, i dirigenti dell’istituto… tutti “cuor di leone” fedeli alla Costituzione italiana e alcuni stanno già incassando il gettone di carriera. *     *    * Nella stagione invernale le udienze finiscono con il buio. Le strade intorno al carcere sono poco illuminate ma il traffico intenso e il via vai della Statale danno la sensazione che in quei mondi ci sia sempre lo stesso tempo. Mentre siamo in coda alla radio danno la notizia dell’indagine di Trapani: una squadretta di agenti avrebbe torturato e seviziato detenuti con fragilità psichiatriche nella sezione blu, destinata all’isolamento. Le parole del procuratore Paci sono nette: «A volte i detenuti venivano fatti spogliare, investiti da lanci d’acqua mista a urina e praticata violenza quasi di gruppo, gratuita e inconcepibile… In questa sorta di girone dantesco sembra leggere parti dei Miserabili di VictorHugo». Il pensiero improvvisamente corre all’8 gennaio, quando sentiremo in udienza il dottor Basentini, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel periodo dell’emergenza pandemica, di quando implosero le carceri, dei morti di Modena… e nel frattempo ripetiamo sottovoce “cantami o diva l’ira funesta degli ultimi e aiutami a gestire la rabbia…”. (napolimonitor)
January 3, 2025 / NapoliMONiTOR
Immagina! Brevi storie delle novanta persone che si sono tolte la vita in carcere nel 2024
(archivio disegni napolimonitor) Lo sportello di supporto psicologico per i familiari dei detenuti, da cui prende le mosse anche questa rubrica, è quasi arrivato al suo secondo anno di attività. Oggi vi partecipano non solo i familiari delle persone uccise dal carcere, ma anche quelli dei detenuti che vivono un calvario all’interno del sistema penitenziario a causa di patologie non conciliabili con la detenzione, mancanza di cure fisiche e psicologiche. Vi sono inoltre ex detenuti che hanno vissuto l’oscurità delle celle e che condividono la propria storia. Tutti sono benvenuti a partecipare, ogni contributo è importante. Le riunioni si svolgono ogni venerdì dalle 19:00 alle 21:00. Il link per accedere alla riunione settimanale viene pubblicato qualche giorno prima dell’incontro sul gruppo Telegram “Morire di carcere” e su quello Whatsapp “Sportello di supporto psicologico per i familiari dei detenuti”. Adesioni e lettere possono essere inviati anche all’indirizzo e-mail dell’associazione Yairahia Ets (yairaiha@gmail.com). Avvocati, volontari, membri di associazioni, garanti delle persone private della libertà sono invitati a unirsi e a condividere il proprio punto di vista. *     *    * Immagina un orologio fermo, con le lancette incrinate, in primo piano. L’inquadratura si allarga lentamente su una cella spoglia, illuminata solo dalla luce fioca di un neon tremolante. Immagina una lunga sequenza di calendari appesi alla parete, che si sfogliano all’indietro, mentre voci sussurrano qualcosa di poco chiaro. Il vento sfoglia lentamente le pagine, fino a fermarsi su una pagina bianca. Al centro, qualcuno ha scritto: “Anche nel buio, c’è luce”. Immagina novanta persone che si sono tolte la vita. Novanta detenuti, ognuno con una storia, un sogno infranto, una voce mai ascoltata. Immagina i loro volti, le loro speranze, che si dissolvono nel silenzio. Ogni numero è una vita, ogni vita è un dolore che si aggiunge a quello di chi resta. Immagina un uomo guidato dal sogno di dare un futuro migliore alla sua famiglia: «Mi chiamo… O forse no. Qui dentro i nomi non contano più. Solo i numeri. Solo il silenzio…». Immagina Giuseppe Santoleri seduto sulla branda, il volto nascosto tra le mani, il grigio della cella che sembra avvolgerlo. Immagina di essere un’ombra tra tante. «Ho gridato aiuto fino a perdere la voce. Ma qui le parole rimbalzano sui muri e tornano indietro, vuote…». Immagina Fabiano Visentini appoggiato contro il muro, con lo sguardo fisso nel vuoto: «Il dolore è diventato il mio compagno di cella. L’unico che non mi abbandona mai…». Le sue richieste di farmaci antalgici rimangono inascoltate. Il dolore diventa insopportabile. Un uomo che pensava solo a scontare la sua pena, abbandonato dal sistema che doveva curarlo. Immagina Giuseppe Pietralito, inginocchiato sul pavimento mentre guarda le sbarre: «Cercavo un lavoro, una possibilità. Ho trovato porte chiuse e silenzio…». Ai suoi legali confessa il peso della sua condizione, la sfiducia che lo divora. Il 2026 sembrava troppo lontano. Un lenzuolo diventa la sua ultima scelta. Immagina Giuseppe Pilade seduto su un letto, con le mani che stringono le coperte: «Otto mesi. Duemilaquattrocento ore di solitudine. Il tempo qui non scorre, striscia…». Un’anima fragile, abbandonata all’isolamento. Otto mesi di solitudine forzata. Le sue richieste di aiuto rimbalzano su muri di indifferenza. Un passato di tentativi di evasione diventa la sua condanna definitiva. La sua vulnerabilità ignorata, insieme a una sofferenza psicologica destinata a crescere. Immagina un giovane, giacente immobile sul letto bianco. Intorno a lui, la sua famiglia in lacrime. Il silenzio è rotto solo dal suono ritmico dei macchinari. Dottore: «Ha espresso già da tempo la volontà di donare i suoi organi». Un ultimo gesto d’amore. Anche dalla più profonda disperazione, ha scelto di donare speranza. Di trasformare il suo addio in un nuovo inizio per altri. Ogni giorno, qualcuno smette di respirare. Non per mancanza d’aria, ma per eccesso di disperazione. Immagina più di seicento vite spezzate in dieci anni. Numeri che crescono, dolori che restano invisibili. Dietro ogni cifra c’è un volto, una storia, una voce mai ascoltata. Immagina una scritta: “Novanta vite spezzate nel 2024. Questa non è una storia. È la nostra realtà”. Immagina una sequenza di titoli di giornale che si ripete anno dopo anno: “Emergenza carceri”, “Sovraffollamento in carcere”, “Ancora un suicidio”. La voce narrante legge i nomi e le date degli ultimi suicidi. Immagina un racconto che non è solo dolore. Un invito a ricordare che, dietro ogni numero, c’è una vita. Un’anima che ha bisogno di essere ascoltata. Immagina la parola “FINE” sullo schermo, seguita da un punto interrogativo lampeggiante: una domanda assillante per una società che continua a voltare lo sguardo dall’altra parte, prima che tutto svanisca. Non sono storie di fantasia. Sono cronache quotidiane di un sistema che ignora il significato della parola “riabilitazione”. Ogni nome citato è reale, ogni storia è vera, ogni dolore è stato vissuto nella solitudine di celle che sono diventate tombe per sogni e speranze. E soprattutto, aleggia in queste storie la legge non scritta del carcere, che impone silenzio, che stabilisce chi può parlare e chi deve tacere, che induce a non fidarsi di nessuno. Immagina il calendario sul muro che continua a segnare i giorni, mentre nuove storie si aggiungono a un archivio di dolore che sembra non avere fine. Le pagine si sfogliano, portando con sé il peso di vite interrotte, di grida inascoltate, di dignità negate. Non è fiction, è la realtà quotidiana delle carceri italiane, dove ogni giorno qualcuno perde la speranza, dove la solitudine diventa una condanna più pesante di qualsiasi sentenza, dove l’indifferenza uccide più delle sbarre. Il contatore anno dopo anno continua a girare, inesorabile. IL TRAGICO ELENCO DEGLI OMICIDI DI STATO 30 dicembre 2024. Muore Wajdi Hella, tunisino di ventisette anni, trasferito dalla casa circondariale di Ferrara a quella di Piacenza per motivi disciplinari e lì posto in isolamento. All’inizio della sua detenzione a Piacenza gli era stato attribuito un rischio suicidario medio, successivamente tolto. Il giovane si sarebbe messo il cappio attorno al collo e sarebbe salito su una sedia. Un agente di polizia penitenziaria, accortosi della situazione, sarebbe corso a prendere le chiavi della cella, ma al suo ritorno ha trovato il ragazzo impiccato. 17 dicembre 2024. Un giovane detenuto italiano di ventitré anni si toglie la vita nel carcere di Mammagialla a Viterbo. Si impicca alla finestra della cella. Nome non reso pubblico. 15 dicembre 2024. Luca Lunardi, italiano, cinquant’anni, aveva tentato di togliersi la vita impiccandosi in una cella del reparto “transito” della Casa di reclusione di Alessandria San Michele. Soccorso, muore pochi giorni dopo in ospedale. 6 dicembre 2024. Robert Octavian Radion, ventiquattro anni, si toglie la vita nella casa circondariale di Montorio, impiccandosi con un lenzuolo nella sua cella. Dopo un’agonia durata due giorni spira all’ospedale di Verona. Nonostante fosse stato identificato come un ragazzo con “seri problemi psichiatrici”, si trovava in carcere anziché in una struttura di cura. 4 dicembre 2024. Amir Dhouiou, ventuno anni, di origini tunisine, si suicida nel carcere di Marassi. Era stato collocato al centro clinico, nella sezione speciale per detenuti con problemi di salute, e sottoposto a monitoraggio continuo. 28 novembre 2024. Cristian Francu, cinquantuno anni, di nazionalità rumena, si toglie la vita gettandosi dal quinto piano dell’ospedale di Perugia. Era stato trasferito dal carcere di Terni al reparto di medicina interna poco prima del tragico gesto. 27 novembre 2024. Luca Zampini, quarantacinque anni, muore in ospedale dopo essersi impiccato nella sua cella del carcere di La Spezia. 26 novembre 2024. Giampiero Orrù, ventisette anni, si toglie la vita in carcere a Uta. Aspettava il nulla osta per essere trasferito in comunità. I suoi organi hanno permesso di salvare cinque vite. Il suo cuore è stato donato a una ragazza di diciannove anni affetta da cardiomiopatia, restituendole la possibilità di una vita normale. Il fegato ha dato speranza a un uomo di sessantotto anni colpito da una grave epatopatia. Il rene destro è stato trapiantato a una donna di quarantaquattro anni che lottava contro l’insufficienza renale, mentre il pancreas e il rene sinistro hanno cambiato la vita di un uomo di quarantasette anni affetto da una forma grave di diabete. 21 novembre 2024. Benito Viscovo, ventotto anni, si suicida impiccandosi con un lenzuolo nel carcere di Poggioreale. 15 novembre 2024. Ben Mahmoud Moussa, tunisino di ventotto anni, si suicida pochi giorni dopo essere stato arrestato in stato confusionale a Marassi. Gli addetti alla sorveglianza cercano di salvarlo ma lui muore in ospedale poche ore dopo. Fuori dal carcere aveva un lavoro, faceva il pizzaiolo, ed era in cura per disturbi mentali. 5 novembre 2024. T.M., un uomo marocchino di quarantuno anni, si toglie la vita nel carcere di Venezia. A febbraio avrebbe riacquistato la libertà, ma ha deciso di suicidarsi nella sua cella utilizzando una cinghia. 2 novembre 2024. Vincenzo Bellafesta, cinquantatré anni, si suicida nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Utilizza un lenzuolo per impiccarsi. 28 ottobre 2024. Federico Librere, cinquantasette anni, descritto come un detenuto “tranquillo”, si toglie la vita nel carcere di Prato. 22 ottobre 2024. Giuseppe Lacarpia, sessantacinque anni, si impicca nella sua cella del carcere di Bari. 11 ottobre 2024. Pasquale Del Mastro, quarantaquattro anni, si suicida nel carcere di San Vittore strangolandosi con i lacci delle scarpe nel suo letto. 8 ottobre 2024. Un uomo di quarant’anni, di nazionalità tunisina, si toglie la vita impiccandosi nel carcere di Vigevano. Gli mancava un anno per il fine pena. Nome non reso pubblico. 4 ottobre 2024. K.S., marocchino di ventiquattro anni, viene trovato impiccato alle sbarre della sua cella nel carcere di Vicenza. 17 settembre 2024. Salvatore Di Vivo, cinquant’anni, si toglie la vita impiccandosi nella sua cella del carcere di Regina Coeli. 16 settembre 2024. John Ogais, trentadue anni, era stato trasferito dal carcere di Avellino a quello del Tricolle. Soffriva di problemi psichici. Si suicida nel carcere di Ariano Irpino. Era sottoposto a sorveglianza attiva dopo aver aggredito quattro agenti il giorno precedente. 5 settembre 2024. Vincenzo Villani, quarantasette anni, si toglie la vita nel carcere di Imperia, impiccandosi nella sua cella. Aveva una pena di sei mesi, che sarebbe terminata a gennaio 2025. A fare la tragica scoperta sono stati i suoi compagni di cella, al rientro dall’ora d’aria. 5 settembre 2024. V. G., cinquant’anni, detenuto al carcere di Gorgona, pone tragicamente fine alla propria vita in un appartamento a Rosignano, mentre si trova in permesso premio. 2 settembre 2024. Un detenuto italiano, sessantadue anni, ex tossicodipendente e apparentemente privo di legami familiari, si toglie la vita impiccandosi nella sua cella, sezione di isolamento del carcere di Benevento. Nome non reso pubblico. 29 agosto 2024. Abdeljalil Saddiki, cinquantaquattro anni, di origine marocchina e padre di due figli, si toglie la vita nel carcere della Pulce a Reggio Emilia. 15 agosto 2024. Oussiai Atef, trentasei anni, tunisino, era stato trasferito la sera precedente dal carcere di Ascoli Piceno. Viene trovato impiccato nel giorno di Ferragosto, nella sezione di isolamento del carcere di Parma.  7 agosto 2024. Djobbi Saber, trentacinque anni, tunisino, si toglie la vita nella sua cella del reparto isolamento, con il laccio che usava come cintura, nella Casa circondariale di Prato.  5 agosto 2024. Shein Ajim, cinquantacinque anni, origini albanesi. Muore impiccandosi nella casa circondariale di Biella. A nulla servono i soccorsi. 5 agosto 2024. Luca Di Lascio, quarantotto anni, originario di Montecorvino Rovella, si sarebbe suicidato impiccandosi nel bagno della camera di sicurezza del Tribunale di Salerno dov’era stato tradotto in mattinata per la convalida dell’arresto.  3 agosto 2024. Un uomo di trentuno anni, originario del Marocco, si toglie la vita nella cella della casa circondariale di Cremona. Nome non reso pubblico. 30 luglio 2024. Kassab Mohammad, venticinque anni, carcere di Rieti, si toglie la vita mentre è in isolamento. Era in attesa di giudizio.   27 luglio 2024. Ismaele Lebiati, ventisei anni, si impicca nella sua cella della casa circondariale di Prato. Subito soccorso e condotto in ospedale, spira poco dopo.   26 luglio 2024. Giuseppe Pietralito, trent’anni, si suicida nel carcere di Rebibbia, Reparto G12. La paura di Giuseppe Pietralito era racchiusa in poche parole confidate ai suoi avvocati: «Non ho un lavoro. Non ho nulla. Nessuno crederà in me». Queste frasi esprimevano la sua angoscia, un timore profondo per ciò che si trovava oltre le sbarre. Il futuro sembrava per lui un incubo, privo di riscatto, di prospettive e di opportunità. 21 luglio 2024. Lulzim Musta, quarantottenne di origine albanese, si suicida nella casa circondariale di Bologna.   15 luglio 2024. Alessandro Patrizio Girardi, originario di San Donà di Piave, trentasette anni, viene trovato impiccato nella notte con un lenzuolo, nella sua cella della casa circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia.   13 luglio 2024. Un detenuto straniero, quarantacinque anni, muore soffocato con un sacchetto di plastica nel carcere di Monza. Nome non reso pubblico. 12 luglio 2024. Fabiano Visentini, cinquantuno anni, si suicida in carcere a Montorio: era in sciopero della fame per ottenere i farmaci per le sue patologie. Si è ammazzato inalando il gas di una delle bombolette che vengono usate per i fornellini da cucina in dotazione nelle celle.   8 luglio 2024. Fabrizio Mazzaggio, cinquantasette anni, si impicca nel bagno della sua cella a Varese. Aveva problemi di tossicodipendenza. 7 luglio 2024. Vincenzo Urbisaglia, ottantuno anni, muore suicida nel carcere di Potenza. Pochi giorni prima, ai suoi avvocati era stata rifiutata la richiesta di scarcerazione per condizioni di salute fisica e mentale problematiche.  4 luglio 2024. Fadi Bin Sasi, vent’anni, tunisino, si impicca nella casa circondariale di Solliciano. Dopo aver appreso la notizia, i compagni danno inizio a una protesta.  4 luglio 2024. Yousef Hamga, vent’anni, egiziano, si impicca nella casa circondariale di Pavia. Muore in ospedale.  2 luglio 2024. Muore in ospedale un detenuto di trentacinque anni che si era impiccato a Livorno. Era in carcere da venti giorni. Nome non reso pubblico. 1 luglio 2024. Giuseppe Spolzino, ventuno anni, si impicc nella doccia della sua cella nel carcere di Paola. Sarebbe uscito nel 2027.   27 giugno 2024. Luca Mailon D’Auria, un ragazzo di ventuno anni, già sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, si uccide inalando gas nel carcere di Frosinone. Non era la prima volta che tentava di togliersi la vita. 27 giugno 2024. Un detenuto egiziano di quarantasette anni si impicca nella sua cella nel carcere di Marassi a Genova. Nome non reso pubblico. 26 giugno 2024. Francesco Fiandaca, trentotto anni, lavorante in cucina, impegnato in diverse attività “rieducative”, si impicca nel carcere Malaspina di Caltanissetta. 21 giugno 2024. Alì Saufiane, algerino, vent’anni, si impicca nel carcere di Novara “con un cappio rudimentale” (così riferisce il sindacato della polizia penitenziaria).   15 giugno 2024. Un detenuto italiano di quarantatré anni si suicida nel carcere di Sassari. Nome non reso pubblico.     15 giugno 2024. Giuseppe Santoleri, settantaquattro anni, si suicida soffocandosi nel proprio letto nel carcere di Teramo. 14 giugno 2024. Alin Vasili Ciobotariu, quarantasei anni, si suicida impiccandosi alla finestra della sua cella, nel carcere di Biella. 13 giugno 2024. Antimo Luigi Bencivenga, trentotto anni, si toglie la vita nella casa circondariale di Ariano Irpino. 11 giugno 2024. Domenico Amato, cinquantasei anni, viene trovato impiccato di mattina presto nel carcere di Ferrara.   4 giugno 2024. Mohamed Ishaq Jan, pachistano, trentuno anni, si toglie la vita nel carcere di Regina Coeli. 2 giugno 2024. George Corciovei, trentuno anni, rumeno, si suicida impiccandosi in cella quando gli altri detenuti che condividevano con lui la stanza sono all’ora d’aria, nel carcere di Santa Maria Maggiore. 2 giugno 2024. Mustafà Attar, ventitré anni, si impicca nel carcere di Cagliari, ma il suo corpo non cede subito. Muore due giorni dopo in ospedale. 23 maggio 2024. Maria Assunta Pulito, sessantaquattro anni, si soffoca con due sacchetti di plastica annodati intorno alla testa e alla gola, nel carcere di Torino.   16 maggio 2024. Santo Perez, venticinque anni, si toglie la vita impiccandosi nella sezione Media sicurezza del carcere di Parma.  4 maggio 2024. Giuseppe Pilade, trentadue anni, aveva disturbi psichiatrici e sarebbe dovuto stare in una Rems. Come per la maggior parte dei sofferenti psichiatrici, non c’era posto per lui.  Si impicca utilizzando il lenzuolo del suo letto nel carcere di Siracusa. 22 aprile 2024. Yu Yang, trentasei anni, si impicca attaccandosi alla terza branda del letto a castello a Regina Coeli. 17 aprile 2024. Nazim Mordjane, trentadue anni, palestinese, muore inalando gas da un fornello da campeggio nel carcere di Como. Nel settembre 2023 era scappato dall’ospedale San Paolo di Milano.   10 aprile 2024. Ahmed Fathy El Haddad, quarantadue anni, egiziano, tenta di impiccarsi con il cavo del televisore nel carcere di Pavia. Muore poco dopo in ospedale.  7 aprile 2024. Karim Abderrahin, trentasette anni, si impicca in cella nel carcere di Vibo Valentia. 1 aprile 2024. Massimiliano Pinna, trentadue anni, si impicca al suo secondo giorno di detenzione nel carcere di Uta. 27 Marzo 2024. Un detenuto nigeriano ventiseienne si suicida nel carcere di Tempio Pausania in provincia di Sassari. Nome non reso pubblico. 27 marzo 2024. Un detenuto italiano, cinquantadue anni, si impicca al cancello della cella con il laccio dei pantaloni nel carcere di Bancali. Nome non reso pubblico. 24 marzo 2024. Alvaro Fabrizio Nunez Sanchez, trentuno anni, attendeva l’ingresso in una Rems da alcuni mesi, per gravi sofferenze psichiatriche. Si uccide nel carcere di Torino. 21 marzo 2024. Alicia Siposova, cinquantasei anni, slovacca, si suicida dopo aver inalato del gas, nel carcere di Bologna.  14 marzo 2024. Amin Taib, ventotto anni, tossicodipendente, si uccide nella cella di isolamento a Parma. 13 marzo 2024. Patrck Guarnieri si impicca e muore per asfissia il giorno in cui compie vent’anni nel carcere di Teramo. 13 marzo 2024: Andrea Pojioca, trentuno anni, ucraino. Si toglie la vita nel carcere di Poggioreale, a Napoli. 12 marzo 2024. Jordan Tinti, trapper, ventisette anni, si uccide in carcere a Pavia. Aveva già tentato il suicidio pochi mesi prima. 26 febbraio 2024. Un detenuto marocchino di quarantacinque anni si impicca nel carcere di Prato. Nome non reso pubblico. 14 febbraio 2024. Matteo Lacorte, quarantanove anni, si impicca nel carcere di Lecce, reparto di massima sicurezza. La Procura apre delle indagini per istigazione al suicidio. 13 febbraio 2024. Rocco Tammone, sessantaquattro anni, in semilibertà, si toglie la vita nel cortile del carcere dopo essere rientrato dal lavoro.  11 febbraio. Un detenuto albanese di quarantasei anni, imprenditore, si uccide nel carcere di Terni. Il suicidio sembrerebbe legato a un dramma familiare. Nome non reso pubblico. 10 febbraio 2024. Singh Parwinder, trentasei anni, d’origine indiana, si uccide nel bagno del carcere di Latina. 8 febbraio 2024. Hawaray Amiso, ventotto anni, doveva scontare solo tre mesi di carcere a Genova. Avrebbe manomesso la serratura del cancello della cella per ritardare l’intervento degli agenti di custodia prima di impiccarsi. 4 febbraio 2024. Ousmane Sylla, ventidue anni, si suicida nel CPR di Ponte Galeria a Roma. 3 febbraio 2024. Alexander Sasha, ucraino di trentotto anni, si suicida nel carcere di Montorio. Aveva già tentato di tagliarsi la gola una settimana prima di impiccarsi.  3 febbraio 2024. Carmine S., detenuto disabile di cinquantotto anni, si impicca nel carcere di Carinola (Caserta).    28 gennaio 2024. Michele Scarlata, sessantasei anni, si uccide nel carcere di Imperia pochi giorni dopo esserci entrato. Era in attesa di giudizio. 25 gennaio 2024. Ivano Lucera, trentacinque anni, si impicca nel carcere di Foggia. 25 gennaio 2024. Ahmed Adel Elsayed, trentaquattro anni, di origine egiziana, viene trovato dagli agenti impiccato nel bagno della sua cella a Rossano Calabro. Gli mancava poco per il fine pena. 24 gennaio 2024. Jeton Bislimi, trentaquattro anni, si uccide nel carcere di Castrogno a Teramo. Aveva già tentato il suicidio altre volte. 23 gennaio 2024. Antonio Giuffrida, cinquantasette anni, si impicca nel carcere di Montorio. 22 gennaio 2024. Luciano Gilardi, a cui manca un mese per ottenere la libertà, muore suicida a Poggioreale. 15 gennaio 2024. Mahomoud Ghoulam, trentotto anni, marocchino, entrato da poco in carcere, si toglie la vita a Poggioreale. 15 gennaio 2024. Andrea Napolitano, trentatré anni, si uccide a Poggioreale. Soffriva di disturbi psichiatrici. 12 gennaio 2024. Fabrizio Pullano, cinquantanove anni, si impicca nel padiglione di Alta sicurezza del carcere di Agrigento. 10 gennaio 2024. Alam Jahangir, quarant’anni, originario del Bangladesh, si impicca con un pezzo di lenzuolo a Cuneo pochi giorni dopo il suo ingresso in carcere.  8 gennaio 2024. Stefano Voltolina, ventisei anni, soffriva di depressione. Muore impiccato nel carcere di Padova. 6 gennaio 2024. Matteo Concetti, ventitré anni, affetto da disturbo bipolare, era stato riportato nel carcere di Ancona dopo aver violato l’orario di rientro mentre stava scontando una pena alternativa lavorando in una pizzeria. Il 5 gennaio avverte sua madre: «Se mi mandano in isolamento, mi uccido». Così accade. (a cura dell’associazione yairaiha ETS)
January 2, 2025 / NapoliMONiTOR
Babbo Natale libera tutti! Lettere di ex detenuti, familiari e attivisti dello sportello di supporto psicologico
(disegno di cyop&kaf) Lo sportello di supporto psicologico per i familiari dei detenuti, da cui prende le mosse anche questa rubrica, è quasi arrivato al suo secondo anno di attività. Oggi vi partecipano non solo i familiari delle persone uccise dal carcere, ma anche quelli dei detenuti che vivono un calvario all’interno del sistema penitenziario a causa di patologie non conciliabili con la detenzione, mancanza di cure fisiche e psicologiche. Vi sono inoltre ex detenuti che hanno vissuto l’oscurità delle celle e che condividono la propria storia. Tutti sono benvenuti a partecipare, ogni contributo è importante. Le riunioni si svolgono ogni venerdì dalle 19:00 alle 21:00. Il link per accedere alla riunione settimanale viene pubblicato qualche giorno prima dell’incontro sul gruppo Telegram “Morire di carcere” e su quello Whatsapp “Sportello di supporto psicologico per i familiari dei detenuti”. Adesioni e lettere possono essere inviati anche all’indirizzo e-mail dell’associazione Yairahia Ets (yairaiha@gmail.com). Avvocati, volontari, membri di associazioni, garanti delle persone private della libertà sono invitati a unirsi e a condividere il proprio punto di vista. A seguire, pubblichiamo le “lettere a Babbo Natale” scritte da chi partecipa a questo percorso: testimonianze, desideri, riflessioni e speranze di persone che vivono in un modo o in un altro la realtà del carcere. *     *    * Caro Babbo Natale, faccio fatica ad avere desideri anche quest’ anno e quest’anno ancora di più. Se potessi sognare vorrei arrivare a rivedere mio figlio detenuto come lo ricordo io… affettuoso, sorridente e premuroso. L’uomo che è divenuto muto non lo conosco più. Mamma Luisa ____________________________ Caro Babbo Natale, vorrei tanto che tu riportassi in vita mio zio, ma questo non è possibile farlo. È vero non puoi più darmi momenti felici e spensierati con lui ma almeno, ti prego, aiutami a scoprire la verità sulla sua morte e aiutami anche a sopportare la sua assenza perché io non riesco più ad essere felice. Vorrei anche tanto far capire alla gente che dietro alle sbarre non ci sono solo persone cattive o persone sbagliate. Valentina ____________________________ Caro Babbo Natale, lo scorso anno ti avevo chiesto di stare con mio figlio a Natale. Non è proprio andata così ma… per Capodanno era a casa. Aveva tante paure ma anche tanti sogni nel cassetto, ora svaniti. Quest’anno ti chiedo con tutta la disperazione che questo paese diventi un paese civile. Nessuno deve essere emarginato. Mio figlio non chiede ricchezze. Chiede una vita normale, lo stipendio a fine mese per poter pagare le bollette, fare una vita degna di essere vissuta. Niente di più…un posto dove vivere. E per me chiedo la forza di gestire la sua angoscia, l’angoscia di essere già fallito a trentatré anni, le sue richieste di aiuto urlate con rabbia e inascoltate dai più. Ti chiedo che abbia la forza di non cadere di nuovo. E per me anche la forza di gestire un marito che improvvisamente si ritrova invalido. Ti chiedo di non sentire più false promesse, ti chiedo un po’ di pace e serenità. Rossella Biagini ____________________________ Caro Babbo Natale, ho un solo desiderio: vorrei che tu esistessi. Se tu esistessi non ci sarebbero carceri, non ci sarebbero torture, non ci sarebbero morti in cella. Se tu esistessi non ci sarebbero viaggi estenuanti verso case di contenzione, file, perquisizioni per rivedere gli occhi di chi ami. Se tu esistessi non ci sarebbe il 41-bis, non ci sarebbero famiglie spezzate e posti a tavola vuoti. Un solo desiderio: voglio che tu esista. Se non ci sei sto scrivendo a un sogno. E se ai sogni non si mettono limiti, allora voglio che ogni carcere sia raso al suolo. Rossella ____________________________ Caro Babbo Natale, partendo dalla premessa che i regali non dovrebbero essere richiesti ma fatti volontariamente, e visto che sei in qualche modo attento alle richieste di tutti, dovrei essere un pochetto arrabbiata perché non ti occupi abbastanza di noi. Forse ti sei distratto con i bambini, del tutto lecito e doveroso, anzi scusami se ti farò richieste per gli adulti. Sai già che vorrei che tutti i bimbi del mondo avessero vite felici, e vorrei tanto che quei bambini potessero diventare adulti senza dimenticare il gioco, la gioia e la speranza.   Ma qui ti chiedo di far respirare chi di respiro ne ha troppo poco. Dietro le sbarre ogni respiro diventa ossigeno, necessario a tutti. Allo stesso tempo, porta respiro alle famiglie, quelle che si fanno carico della loro e della propria sofferenza, dell’angoscia, dell’aiuto economico, della fatica fisica e mentale. Ti chiedo del darci del tempo, tanto, da poter passare insieme a loro, per capire e dare conforto. Poter ancora ridere e sorridere. Ti chiedo di dare opportunità di lavoro, di riscatto, di rinascita, a chi è dentro e a chi esce, di dare loro speranza di vita.  Ti chiedo di parlare alle menti obnubilate di chi fa le leggi, di chi le applica e di aprire e rischiarare coscienza e cuore. Ti chiedo un mondo dove sognarlo diverso, più giusto, sia ancora possibile. Ti chiedo di permettere alle persone di riparare gli errori e di poter rimediare ai torti fatti e subìti.  Ti chiedo …ok troppe cose ti sto chiedendo! Magari ti sembrerò troppo esigente! Lo so che le tue possibilità sono ristrette, ma se solo mi regalassi qualcuna delle cose che ti ho chiesto, mi accontenterei, e spargerei in giro la lieta novella, così che tanti altri crederebbero ancora in te e ti affiderebbero più consegne e più guadagni (che ne dici di superare il tuo rivale Amazon? Lo fai verde di bile!). Ah, se hai possibilità, procurami una slitta a motore, che i viaggi interminabili per andare a trovare mio figlio stanno diventando sempre più pesanti e non sono più così giovincella! A proposito, ti chiederei anche di far sparire le mie rughe, la mia tristezza e le mie lacrime, ma questo lo tralasciamo: pensa soprattutto a far entrare più gioia nella mia vita, che le rughe possono aspettare. Con speranza di risposta alla mia lettera, auguro anche a te buon Natale. Giusy ____________________________ Caro Babbo Natale, ti scrivo da fuori, ma con il pensiero rivolto a chi, dentro, non ha nemmeno un briciolo di Natale. Non ci sono alberi addobbati, non c’è il profumo delle cene di famiglia, e nemmeno il suono dei bambini che ridono. In carcere il tempo si ferma, le “attività” spariscono, e con loro anche ogni tentativo di rendere il giorno diverso da un altro. Me li ricordo quei Natali dietro le sbarre: giornate uguali alle altre, svuotate di ogni senso di festa o calore, in cui “Natale” non era che una parola priva di significato. Vorrei chiederti di portare a chi è lì un frammento di normalità. Quel genere di normalità che noi, qui fuori, diamo per scontata. Una tavola apparecchiata, una lettera che arrivi davvero, una telefonata che duri più di dieci minuti senza interruzioni. Porta loro il calore di sentirsi ancora padri, madri, figli, o semplicemente persone, anche se solo per un momento. E a noi qui fuori, caro Babbo Natale, regala la forza di non voltare lo sguardo. Ricordaci che il carcere non risolve nulla, è il simbolo di una società che punisce invece di curare, che isola invece di accogliere. È il riflesso delle nostre paure e della nostra incapacità di immaginare alternative. Porta il coraggio di lottare per un mondo senza prigioni, dove nessuno venga privato della propria libertà. Un mondo che abolisca la prigionia, perché nessuna gabbia può generare giustizia. Luna Casarotti ____________________________ Caro Babbo Natale, liberi tutti. Sandra Berardi ____________________________ Caro Babbo Natale, ti chiedo una cosa difficile, ma non impossibile. Vorrei un mondo senza gabbie e sorveglianza, in cui non ci sia punizione, ma trasformazione e dignità. Un mondo che metta al centro la cura. Caro Babbo Natale, non voglio che aggiusti questo o quel carcere, che tu lo renda un po’ più umano, un po’ meno brutale. Non ti chiedo più percorsi “rieducativi”, più educatori, eccetera. Come quando si è sognato, centinaia di anni fa’ di abolire la schiavitù e non si è detto “miglioriamo la schiavitù”, non si è detto rendiamola più umana, così io ti chiedo di abolire il sistema carcerario, per rifondare un modo nuovo di stare insieme. Sono sicuro che mi ascolterai, io intanto faccio la mia parte. Fabrizio ____________________________ Caro Babbo Natale, questo è il primo anno che riesco a vedere differenti luci. Non più quel vecchio e sbiadito albero posto nella rotonda del carcere, non più quelli piccole luci che si confondono con il colore grigio delle sezioni. Questo è il primo Natale in famiglia dopo parecchio tempo. Sono passati anni ma oggi posso nuovamente stare vicino a persone che mi vogliono bene. Babbo Natale dedico questa lettera a tutti i ragazzi che ancora celebreranno questa ricorrenza al di là delle sbarre. Per non dimenticare mai. Walter Monaco ____________________________ Caro Babbo Natale, ho sessant’anni ma dentro di me c’è ancora una bambina, la bambina che ha creduto in te, e aspettava i tuoi regali con trepidazione. Ancora oggi credo in te, perché so che c’è qualcuno sopra di noi che ci può donare tanto. Quest’anno come tutti gli altri anni passati ti chiedo la remissione per i carcerati. Vorrei che si aprissero tutte le porte e che tutti, proprio tutti, tornassero in libertà. Soprattutto, però, i detenuti ammalati, quelli soli e abbandonati. Oggi la nostra società è pronta a giudicare e a condannare. Ma dietro un comportamento sbagliato, un omicidio e tanto altro non sappiamo cosa c’è. Non possiamo sapere cosa ha scatenato la delinquenza. E poi, caro Babbo Natale, è importante dare un’altra possibilità alle persone. La possibilità di redimersi, di un riscatto sociale. Io, personalmente, vorrei poter vedere mio marito ristretto al 41-bis. Sono cinque anni che non vuole più fare i colloqui con noi familiari, non vuole vedere nessuno. Mi aspetto da te, caro Babbo Natale, che succeda questo miracolo, che io e la mia famiglia possiamo rivedere il nostro caro, poter parlare con lui, portargli i nostri nipoti che neanche conosce. So che tutto ciò è atroce e doloroso, ma non perdo mai la speranza. La speranza non deve mai morire. Maria ____________________________ Caro Babbo, quand’ ero piccola, a casa di mia nonna, durante la cena di Natale, ero solita scrivere delle letterine e metterle sotto ai piatti dei nonni e degli zii. Le richieste relative ai regali erano tante. Sono passati tanti anni…! Ma oggi che sono andata insieme al mio nipotino Cristian a far visita a mio figlio, il suo caro papà nella casa circondariale di Taranto, mi sono decisa di ricominciare a scriverti e di farti una richiesta un po’ speciale, dato che quasi tutti gli adulti ti chiedono doni materiali. Io ti vorrei chiedere invece di trasformare quest’annus horribilis in una magica atmosfera natalizia, ricca di speranza e di pace nei nostri cuori e nei cuori di tutti i bambini senza i loro papà. In questi luoghi atipici e strani come le carceri accendi una candela che illumini le menti  e i cuori dei direttori, degli psicologi, degli educatori e delle guardie soprattutto, perché i loro volti possano brillare di umanità è di carità cristiana, per condividerle con generosità con tutti quelli che ne hanno bisogno per poter ricominciare una nuova e diversa vita. Grazie Babbo. Lucia ____________________________ Caro Babbo Natale, ti scrivo come si scrive a tutte le persone fantastiche, sperando che non restino solo di fantasia ma entrino nella realtà. Frequento le carceri da tanti anni. Un giorno un compagno di partito mi disse che mi sarei dovuto occupare della distribuzione di metadone nelle prigioni marchigiane, per vedere se funzionasse regolarmente. Mi ero occupato di droghe perché molti miei amici […] utilizzavano droghe e io non l’avevo mai criticato, anzi mi ero preoccupato perché quelle robe non si vendono al negozio ma per strada. I compratori vengono costretti a stare ai prezzi e alle minacce dei venditori, i quali devono sottostare ad altri venditori più grandi. È così che si costruisce un inferno. Io, più o meno in quegli stessi anni, avevo scelto, per reagire alle cose che non mi piacevano e non mi erano mai piaciute, di mettermi a bere. All’inizio fu un esercizio di forza, di destrezza, al quale partecipavano in tanti. Ma io […] reggevo il vino più di tanti altri, e mi dava il coraggio di fare tante cose. Poi le cose belle sono cominciate a diminuire, sono arrivati anni bui nei quali siamo diventati da belli a brutti, e anche l’alcool non è stato più simbolo di gioia e fratellanza. È diventato solo superalcolico, non più il vino in compagnia, ma brutte bevande secche in solitudine. Ho avuto la fortuna di non finire mai dentro, pur con tutti i guai che ho combinato sotto l’alcool, ma quando ho deciso di smettere ho scoperto quanto  sia difficile scegliere tra nascondersi e uscire allo scoperto. Ora, caro Babbo Natale, […] mi basterebbe che tu facessi entrare in ogni carcere, assieme a medici e infermieri, tante persone come me, che sanno quanta fatica costi uscire dall’inferno delle dipendenze. Poi, dopo aver letto questa mia lettera, ti chiedo di rileggerla fra un anno, a Natale 2025, e di dirmi cosa è successo. Se non sarà successo niente, vorrà dire che ho sbagliato. Ma se invece sarà cambiato qualcosa, ti chiedo di portare con te tutti i medici e gli infermieri “normali”, e insieme agli agenti di polizia penitenziaria, a distribuire doni e dare da mangiare alle renne. Sicuramente faranno meno danni che dentro agli istituti. Marcello (che proprio perché ha avuto la fortuna di non finire dentro vorrebbe ripagare un po’ quelli meno fortunati di lui). ____________________________ Caro Babbo Natale, ti chiedo il favore di far sentire una voce di solidarietà ai torturati al 41bis. Che come minimo possano avere la possibilità di usare farina e lievito. Perché la democratura nega pure questo diritto col timbro della Cassazione. Tempi molto bui… Grazie! Frank Cimini ____________________________ Carissimo Babbo Natale, quest’anno voglio chiederti di illuminare la mente e il cuore del signor ministro della giustizia e del presidente del consiglio… come prima cosa di togliere la delega allo stolto di Del Mastro, la seconda di umanizzare le carceri, e soprattutto di abolire la tortura di stato del 41-bis!!! Non ti chiedo indulti o amnistie, so che un governo “neofascista” non farà mai una cosa del genere!! Ciò che ti chiedo è il minimo per considerarci un paese civile. Con stima. Gerardo (Aldo) Schettino ____________________________ Caro Babbo Natale, quest’anno vorrei che portassi “cure appropriate ed efficaci” a tutti i detenuti che soffrono di “disturbi psichici”. Tu lo sai quanto è dura la vita nelle carceri del nostro paese, per tutti i detenuti: immagina quanto sia insopportabile per chi ogni giorno deve combattere con un disturbo che gli rende quasi impossibile governare le proprie azioni, interagire in modo funzionale con gli altri, sopportare i periodi di isolamento, coltivare la speranza; immagina quanto queste persone possano – senza volerlo – rendere la vita difficile a se stessi e anche a chi condivide la cella con loro e a chi si deve occupare della loro sicurezza. Pensaci tu a loro, perché alla maggior parte di loro non pensa nessuno. Maria ____________________________ Caro Babbo Natale, tu che porti doni e sorrisi a tutto il mondo, pare che ti sia scordato delle carceri, in cui avvengono mattanze carcerarie quotidiane. Detenuti “colpevoli”, di non avere diritto alla dignità come tra l’altro prevede la Costituzione, è una cosa di “normale umanità”. Il popolo forcaiolo, ahinoi la maggioranza, vuole i detenuti, colpevoli e innocenti, morire piano piano nel silenzio. Anche a Natale, giorno in cui noi “dovremmo” essere più buoni e comprensivi. Non è Natale se ci si dimentica dei fratelli e delle sorelle sfortunati, mentre Dio ci esorta sempre a visitarli ed essere vicini a loro. Ti prego anche perché chi ha “in custodia” questi fratelli sfortunati […] possa non assumere quella espressione demenziale quando ha di fronte il detenuto, e contare fino a dieci prima di re-agire. E poi, caro Babbo Natale, fermati anche tu nei penitenziari con la tua slitta, porta anche nelle carceri vicinanza, fratellanza e soprattutto restituisci a questi uomini e donne la dignità perduta. Con tanto affetto e stima. Cristiano Scardella ____________________________ Caro Babbo Natale, ti scrivo per parlarti di quelle persone scomparse alla vista della società, cacciate da ogni sentimento di civiltà, ammassate in ambienti sovraffollati e stretti. Non hanno neanche lo spazio per camminare, spesso si muovono a turno, sono in cinque dove dovrebbero essere in tre o in sei dove dovrebbero essere in quattro. Sono trattate come bestie, rinchiuse per la stragrande maggioranza della giornata in un ambiente claustrofobico. Prova fare un viaggio in un’auto da cinque posti in sette, e capirai. Hanno commesso reati ma molti tra questi, anzi la maggior parte, sono ascrivibili alla povertà che li riguarda dalla nascita, in un circolo vizioso di quartieri e zone sociali emarginate, cosicché di padre in figlio si passa l’orrido destino della devianza per vivere, devianza che conduce al carcere. Certo, si può creare una “cultura dell’emarginazione”, ma i dati sono chiari: il 90% dei reati è commesso dai sei milioni di italiani che vivono sotto la soglia di povertà, che delinquono uno su cento (mentre in tutti gli altri casi sono solo uno su diecimila). La maggior parte son meridionali, poveri, migranti emarginati, tossicodipendenti o piccoli spacciatori. Tutto questo basterebbe a far vedere i carcerati anche come vittime non solo colpevoli, e a segnare verso loro un percorso di rieducazione dove la società si prende una parte di colpe della loro situazione. E poi, perché non dar loro spazi umani come in altri paesi? Già privare della libertà è una pena, perché torturare in ambienti così nefasti? Perché non far telefonare più spesso ai loro cari? Perché far loro accettare questa situazione ricorrendo a dosi fortissime di psicofarmaci? Perché, poi, spesso picchiarli selvaggiamente? Sono certo del tuo buon cuore e che intercederai dove si può e si deve per migliorare la sorte di questi fratelli, per ridare luce alla loro umanità calpestata. Tuo, Marco Chiavistelli ____________________________ Caro Babbo Natale, quest’anno ti scrivo per parlarti di un tema che mi sta molto a cuore: le condizioni all’interno delle carceri.  Negli ultimi anni, abbiamo assistito a molte persone che, a causa di errori del passato, si trovano in situazioni difficili nelle prigioni. Spesso, queste strutture non offrono le opportunità di riabilitazione e sostegno di cui gli individui hanno bisogno per reintegrarsi nella società. Ti chiedo di aiutare a diffondere consapevolezza su questo tema e di incoraggiare le persone a lavorare insieme per migliorare la vita di chi si trova dietro le sbarre. Vorrei che nel tuo sacco di doni ci fosse un messaggio di speranza e un invito a tutti noi a fare la nostra parte per promuovere un sistema penale più giusto e umano. Che si possa investire di più nella formazione, nel supporto psicologico e nelle attività che possano riabilitare le persone, perché ogni vita merita una seconda possibilità. Jessica ____________________________ Caro Babbo Natale, so che il tuo potere è simbolico ma spero che questo messaggio riesca a recapitarlo a chi di dovere. Non voglio regali, anzi incomincio col dirti quello che non voglio. Non voglio una classe politica con una visione carcerocentrica e panpenalista, non voglio una polizia penitenziaria che abiuri al suo motto Despondere spem munus nostrum, non voglio chi prova intima gioia nel togliere il respiro ai detenuti, non voglio una società che stigmatizzi chi ha sbagliato e che troppo spesso confonde la persona con il reato, non voglio un pallottoliere con il quale contare i suicidi in carcere né tanto meno voglio più incontrare gli occhi pieni di lacrime di mogli e figli ai colloqui e ai quali lo Stato fa pagare una pena pur non avendo commesso reati.  Vorrei che tu riuscissi a far scomparire il carcere […]. So che forse ti chiedo troppo o che comunque sarà difficile, e allora almeno assicuriamoci che ogni detenuto abbia accesso a spazi adeguati, cibo nutriente e cure mediche appropriate, programmi di istruzione e formazione professionale, lavoro,  assistenza psicologica e programmi di supporto. E soprattutto che venga garantita loro l’affettività, e colloqui e telefonate in numero adeguato. Babbo Natale ti ho caricato di troppe responsabilità ma ce la puoi fare se farai tuo il nostro motto SPES contra SPEM. Fabrizio Pomes ____________________________ Caro Babbo Natale, non sappiamo più a che Santo votarci. È il detto popolare che viene in mente di fronte a certi ostacoli burocratici. Mi è venuta però una idea. Il massimo della tattica istituzionale “non responder” , quando si parla di accesso alle informazioni sulle condizioni carcerarie, è Bari; da lungo tempo chiediamo il rapporto semestrale Ausl sugli istituti di pena (Bari , Bari minorile e Turi); anni fa, alla terza richiesta da parte nostra, la risposta è stata: “Non abbiamo capito cosa state chiedendo”!!! Quest’anno, reiterata l’istanza anche all’indirizzo dei sindaci, ancora una condotta da “non responder”. Proviamo allora a fare appello a Babbo Natale; la trasparenza è un prerequisito della giustizia sociale e bisogna insistere per garantirla; non entro nel merito del rapporto tra Babbo Natale e San Nicola, se la transizione da un personaggio all’altro sia stata una mutazione genetica o un problema di doppia personalità. Sta di fatto che San Nicola è considerato dai baresi il santo protettore. Una figura che ha mostrato grande sensibilità sociale col gesto che gli viene attribuito di affrancare tre fanciulle dall’avvio alla prostituzione. Si trovano diversi affreschi sul tema, nelle chiese). E non solo:  è un santo che sprizza pacifismo (di questi tempi…), è venerato sia dai cattolici romani che dagli ortodossi dell’est Europa (visitando la magnifica basilica di Bari notai che mentre il prete ortodosso diceva messa nella cripta, il prete cattolico la celebrava al pian terreno! Incredibile: cattolici e ortodossi non si sparavano l’un l’altro come è spesso accaduto nella storia. Questo ricordo mi ha convinto che per garantire trasparenza sulle carceri ci è rimasta solo una possibilità: Santa Klaus/Babbo Natale, facci ‘a grazia, ricordati della sofferenza delle persone private della libertà, e vai in sonno dolcemente ai “non responders” , dandogli la sveglia. Vito Totire ____________________________ Caro Babbo natale, quest’anno vorrei che la giustizia inizi a rispettare la scritta presente in ogni tribunale: “LA LEGGE E UGUALE PER TUTTI”. E vorrei che una persona venga condannata (se ha sbagliato) giudicando il reato e non a chi a pestato i piedi. Vorrei che tutti venissero puniti allo stesso modo: persone comuni, forze dell’ordine, magistrati e detenuti. Lo so, forse chiedo troppo, ma avere una giustizia UGUALE PER TUTTI sarebbe il mio desiderio. Luca ____________________________ Caro Babbo Natale, potresti per favore abolire il carcere? Oppure, almeno, abolire il 41-bis? Porta almeno la mia solidarietà a tutti i detenuti. Anche a quelli innocenti. Mario Di Vito ____________________________ Caro Babbo, non chiedo mai nulla da anni perché odio il Natale. Ma una cosa, però grande, te la chiedo. Vorrei che tutte le mamme detenute con i loro bambini possano vivere con i propri figli lontani dal carcere. Non è un luogo per i bimbi. Ti prego, pensaci tu a tutti loro, ai bimbi detenuti. Grazie, aspetto il tuo regalo… sul serio. Un avvocato ____________________________ Caro Babbo Natale, non sono uno di molte pretese. Ti chiedo non di portarmi dei doni, ma di togliere. Per esempio, il DDL 1660, il decreto Caivano, il 41-bis, il 4-bis, le leggi antidroga e anti-immigrazione, sarebbe bellissimo se le facessi togliere. Ma, soprattutto, toglici di torno questo governo di fascisti. Grazie Babbo Natale. Vincenzo Scalia ____________________________ Caro Babbo Natale, non ti chiederò grandi cose per i nostri detenuti, non chiederò nuove carceri, non chiederò beni materiali e nemmeno sforzi politici. Ti chiedo solo più umanità da parte di chi li dentro ci vive. Da parte di chi dovrebbe sostenere e non schiacciare. Vito Daniele Cimiotta ____________________________ Caro Babbo Natale, una persona lo scorso anno mi disse: “Le parole sono la cura”. Eravamo vicini, eppure lontani, come se appartenessimo a due dimensioni parallele: potevamo vederci, purché le mani non si sfiorassero, potevamo sentirci, purché il tempo non fosse dissipato. Ti chiedo di portare in dono le parole, al posto dei proclami: le parole che leniscono l’inquietudine avvolgono al pari di un abbraccio; le parole sono casa e cura. Anonimo ____________________________ Caro Babbo Natale, io ti chiederei che i detenuti siano trattati come esseri umani. E non intendo solo all’interno delle strutture carcerarie. Intendo quando devono avere i benefici penitenziari, quando devono essere esaminati da educatori, psicologi, direttori, medici, magistrati e giudici di sorveglianza… Perché lì dentro ogni parola, ogni promessa, ogni ventilata speranza, diventa un’aspettativa per un futuro migliore… Perciò è giusto che ti deve decidere del loro futuro, non lo faccia solo per lavoro, ma lo faccia senza dimenticare mai che sta decidendo sul futuro di esseri umani, che nella maggior parte dei casi vogliono solo avere una buona parola e un po’ di fiducia per poter ricominciare una vita normale. Alessandra De Filippis ____________________________ Caro Babbo Natale, auguro una pronta libertà a tutti i giovani che stanno perdendo i loro migliori anni nelle carceri minorili. Che le loro voci possano avere una eco attraverso le sbarre. G. ____________________________ Caro Babbo Natale, io ti chiedo che le persone vedano che il carcere è un pezzo della nostra società che viene trattato come colpa e come immondizia di tutto quello che non vogliamo vedere. Ti chiedo di far sì che tutti capiscano che siamo coinvolti, tutti, nel trattamento che il nostro “sistema cannibale” impone a chi reputa inadatto. Ti chiedo di farci diventare tutti inadatti. Federico
December 23, 2024 / NapoliMONiTOR
Il fantasma della libertà. L’epopea del Vaquilla nella Barcellona degli anni Settanta
(disegno di ginevra naviglio) “Sì, il Vaquilla, chi non lo conosce… – dice la donna, mentre aspetta suo figlio all’uscita di  scuola –. Rubava macchine, rapinava le banche, le cose che si facevano allora… È anche uscito, ma poi ricadeva ogni volta”. “La sorella vive ancora nel quartiere. Ha un banco di pesce al mercato – interviene un’altra donna –. Lui è morto in carcere, dicono che si sia ucciso…”. Alla periferia di Barcellona, nel quartiere della Mina, è ancora viva la memoria del Vaquilla, giovane eroe popolare e bandito morto recluso a quarantadue anni, dopo un’infinità di piccoli reati, condanne ed evasioni rocambolesche. La sua figura si presta all’eccesso e molti non esitano a trasfigurarlo, attribuendogli ogni tipo di imprese, sempre in bilico tra eroismo e delinquenza, nobiltà d’animo e vanteria. Juan José Moreno Cuenca, detto El Vaquilla, non era morto in carcere, ma in un ospedale di Badalona, per una cirrosi epatica contratta in prigione a causa del virus dell’epatite C. Aveva appena compiuto quarantadue anni, più della metà dei quali trascorsi dietro le sbarre. Gitano, ladro d’auto e rapinatore di banche, negli anni Settanta aveva rappresentato suo malgrado il tipico prodotto della periferia marginale. I mezzi di comunicazione si erano impadroniti della sua storia, trasformandolo nel prototipo del delinquente giovanile. Dalle sue imprese un regista del genere “malavita” aveva tratto tre film di successo. Il gruppo di flamenco più ascoltato di allora gli aveva dedicato una famosa canzone, in cui veniva definito “el alegre bandolero”. Con la maggiore età, il Vaquilla aveva alimentato la sua fama con sommosse e tentativi di fuga. Una delle evasioni si era conclusa con un inseguimento in pieno centro di Barcellona. La sua spettacolare cattura, ripresa dalle telecamere e trasmessa all’ora di pranzo da tutti i telegiornali, l’aveva consacrato come il delinquente più famoso del paese. Juan José non aveva conosciuto suo padre. Viveva con la madre in una baracca nei sobborghi di Barcellona. Un giorno la madre fuggì con il suo nuovo compagno. I servizi sociali lo affidarono alla tutela dello zio. Per Juan José cominciò una vita nomade, a bordo di una roulotte, che lo zio parcheggiava ogni sera in luoghi appartati, per evitare il contatto con le forze dell’ordine. A sette anni conobbe i quattro fratelli maggiori, nati da una precedente relazione della madre. Antonet, uno di loro, cominciò a fargli visita con assiduità. Un giorno Juan José salì sul treno che riportava il fratello in città e lasciò per sempre lo zio, accampato in uno spiazzo ai margini dell’autostrada. Antonet era già sposato. Viveva a Barcellona, nel Campo de la Bota, un insediamento di baracche di fronte al mare, così ai margini della città che nei primi anni della dittatura i franchisti lo usavano per fucilare i prigionieri politici. Gli uomini del Campo partivano ogni notte per spedizioni misteriose, da cui tornavano qualche ora dopo con le macchine cariche di articoli d’ogni tipo: pelli, prosciutti, elettrodomestici, vestiti, sigarette… I bambini salivano sui pali del passaggio a livello all’entrata del campo e davano l’allarme quando da lontano appariva la polizia. Nel frattempo gli uomini scaricavano la mercanzia e le donne la vendevano alle vicine, in un improvvisato ed effimero mercato. Dopo qualche mese da sentinella Juan José cominciò a uscire con i ragazzi della sua età, a rubare auto e a caricarle con tutto quel che trovavano. A nove anni entrò per la prima volta in  riformatorio. La polizia lo sorprese sulla spiaggia del Campo de la Bota a fare acrobazie su una moto rubata. Qualche giorno dopo scappò, scavalcando il muro di cinta. Lo arrestarono ancora, ma ogni volta si dava alla fuga. Il suo soprannome cominciò ad apparire sulle pagine dei giornali. In quegli articoli il Vaquilla era a capo di una banda di ragazzini che rubava auto di grossa cilindrata; doveva mettere un cuscino sotto il sedere per arrivare all’altezza del volante, ma si diceva che negli inseguimenti fosse imprendibile. I giudici gli cercarono un riformatorio da cui non potesse scappare, ma alla fine non trovarono altro rimedio che chiuderlo alla Modello di Barcellona, il carcere degli adulti. Aveva tredici anni, l’età penale era fissata a sedici. Alcuni prigionieri politici se ne accorsero e denunciarono il fatto per iscritto. Sette mesi dopo tornò in libertà. Nel dicembre del ’76 fu arrestato di nuovo. Quando uscì lo affidarono a una casa famiglia, ma l’esperimento non durò a lungo. Aveva voglia di rivedere i fratelli e tornò alla Bota. Non trovò più le baracche, ma palazzi alti e squadrati, innalzati a poca distanza da quel che restava del Campo. Il suo quartiere adesso veniva chiamato la Mina. Nel ’77 il Vaquilla fu arrestato per due rapine in banca, ma all’ultimo momento i testimoni ritrattarono e tornò in libertà. Un’altra rapina, invece, si concluse in una sparatoria con la polizia. Juan José ne uscì illeso, ma con le manette ai polsi. Il suo compagno lo portarono all’ospedale con due pallottole nei polmoni. Rimase in coma tre mesi, ma si salvò. A lui diedero sei anni e mezzo. Quattro per la pistola, due per la rapina e sei mesi per l’auto rubata. Fu inviato a Herrera de la Mancha, la prima prigione di alta sicurezza inaugurata dalla giovane democrazia spagnola. Passava la maggior parte del tempo in isolamento. Cominciò a leggere Freud, Voltaire, Flaubert e Dostoijevski. La popolarità del suo soprannome gli attirava la curiosità degli altri detenuti, ma soprattutto le violenze dei carcerieri. Nell’aprile dell’84 capeggiò la sommossa nella prigione Modello di Barcellona. Il piano prevedeva di chiudersi in un ala del carcere, presentare una piattaforma di rivendicazioni e ottenere che i giornalisti entrassero a visitare le celle. Nel frattempo, un gruppo di detenuti sarebbe sceso nei sotterranei del carcere per scavare una galleria che doveva sbucare in strada. Lui stesso si incaricò di fare il primo passo, sbarrando gli accessi della sezione, dopo aver preso in ostaggio quattro guardie con uno stiletto nascosto nello shampoo. La fuga sotterranea venne frustrata dai reparti speciali, che si infilarono dentro le fogne intorno al penitenziario. Allora il gruppo che guidava la rivolta si concentrò sulle rivendicazioni. Fecero entrare i giornalisti, ma questi, oltrepassati i cancelli, si precipitarono sul Vaquilla, sommergendolo di domande; sembrava non gli importasse il motivo per il quale si trovavano lì dentro. Alla fine si riuscì a organizzare una visita alle celle e una conferenza stampa. I detenuti resero pubblici maltrattamenti e torture. Poi la rivolta terminò. Non c’erano stati incidenti, né feriti. Il giudice chiese per il Vaquilla quarantotto anni di carcere. Ogni volta che doveva comparire davanti al tribunale di Barcellona Juan José veniva trasferito a Lerida, dove avevano preparato una cella speciale solo per lui. Fu in questo carcere che ritrovò il fratello Antonet. Insieme prepararono un nuovo piano di fuga. Erano in sei. Travestiti da guardie, presero in ostaggio un funzionario e un cancello dopo l’altro arrivarono fino all’ultima porta. L’uomo riuscì a liberarsi e dare l’allarme, ma in quel momento il Vaquilla e i compagni erano già fuori. Scapparono a piedi attraverso i campi, poi in auto, rubando una vettura dopo l’altra e cambiando continuamente direzione. Gli inseguitori li sorvegliavano dagli elicotteri. In un villaggio ai piedi dei Pirenei i fuggiaschi abbandonarono l’auto e imboccarono un cammino di montagna. Era dicembre, nevicava. Camminarono tutta la notte per arrivare al confine, ma poi decisero di fermarsi e di tornare indietro; rubarono un’altra auto, per arrivare a Barcellona prima dell’alba. Entrarono in città dalla Gran Via, il lungo viale che corre parallelo al mare. Il Vaquilla, al volante, sfilò al primo controllo senza farsi notare. Dopo qualche metro, però, dovette fermarsi a un semaforo. Lo affiancò un’auto senza contrassegni. Un poliziotto in borghese si sporse lentamente dal finestrino e mostrò la pistola. Anche quelli del posto di blocco ci ripensarono e accostarono dall’altro lato. Al verde, il Vaquilla accelerò bruscamente. Risuonarono gli spari, ma l’auto dei fuggitivi continuò la sua corsa. L’inseguimento nel traffico del primo mattino durò qualche minuto. Juan José poteva tenere dietro le macchine della polizia, ma le moto, che affluivano da tutte le direzioni, erano più difficili da seminare. Alla fine andò a sbattere contro una macchina che gli apparve davanti all’improvviso. L’auto si accartocciò su se stessa, con le portiere bloccate. I poliziotti cominciarono a sparare. Juan José fu l’unico ferito, alla spalla. Gli agenti lo tirarono fuori e lo ammanettarono davanti alle telecamere. Poi lo lasciarono lì e si misero a litigare tra loro per stabilire a chi toccasse l’onore della sua cattura. Juan José ricomincerà da zero. Si metterà a studiare e dopo anni di isolamento tornerà alla vita in comune con gli altri reclusi. Con una macchina da scrivere e gli articoli dei detenuti comporrà la rivista Alegato. E scriverà per El Pais un editoriale dal titolo: “Le carceri, senza demagogia”. Cambierà altre carceri e per molti anni ancora sarà trattato come un pericolo pubblico. Si farà coinvolgere in un’altra rivolta, pregiudicando la concessione di un permesso che sembrava imminente. Il giudice lo condannerà a centoquattro anni, ma all’uscita del tribunale giornalisti e fotografi lo attenderanno in mezzo a una folla acclamante. Cercherà di smettere la dipendenza dall’eroina e più d’una volta proverà a suicidarsi: tagliandosi le vene, iniettandosi un’overdose o inghiottendo l’antenna di una radio. Nel gennaio del ’94 gli concederanno finalmente i primi tre giorni di libertà, ma qualche mese dopo scapperà durante un trasferimento. La fuga durerà qualche ora. In carcere apprenderà della morte del fratello Antonet, in una sparatoria dopo una rapina in gioielleria. Beneficerà di un indulto parziale, ma tornerà a rubare per procurarsi la droga, perdendo una volta di più la possibilità di ottenere permessi. Il Vaquilla non aveva mai ucciso. La pena di sei anni, con la quale era entrato in carcere alla fine degli anni Settanta, si era convertita con il passare del tempo in una condanna a vita. Il giorno della sua morte, il 19 dicembre del 2003, ancora quattro anni lo separavano dal simulacro della libertà. (luca rossomando)
December 18, 2024 / NapoliMONiTOR
Storie, dialoghi e testimonianze sulla contenzione. Domani a Napoli il libro di Antonio Esposito
(disegno di sergio cennini) Sarà presentato martedì 26 novembre, dalle ore 18,00, a Palazzo Venezia (via Benedetto Croce 19), il libro di Antoni Esposito Come Cristo in croce. Storie, dialoghi, testimonianze sulla contenzione (Sensibili alle foglie). Con l’autore discuteranno Teresa Capacchione, Dario Stefano Dell’Aquila e Novella Formisani. Pubblichiamo a seguire un estratto del volume, dal capitolo Disumanità e violenza, le immagini di un Spdc / La storia di Francesco Mastrogiovanni *     *    * Nella storia della contenzione in Italia, esiste uno spartiacque che segna un prima e un dopo, sia per quanto concerne il campo giuridico-legale e la riflessione etica e bioetica, sia nell’ambito del dibattito pubblico: la vicenda di Francesco Mastrogiovanni, il maestro elementare cilentano che, il 4 agosto 2009, muore nel reparto di Diagnosi e cura dell’Ospedale di Vallo della Lucania, a seguito di una contenzione durata oltre ottantasette ore, tenendolo legato ai quattro arti a un letto, in condizioni disumane e degradanti, quasi per l’intero periodo di un ricovero determinato da un Trattamento Sanitario Obbligatorio iniziato il 31 luglio. La presenza delle immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza del reparto, rese pubbliche dalla famiglia che, con il “Comitato Verità e Giustizia per Francesco Mastrogiovanni”, ha strenuamente lottato perché fosse ricostruito tutto quanto accaduto in quei giorni e fossero riconosciute le responsabilità di quanto si era determinato, hanno mostrato a un intero paese la violenza e l’inumanità di una pratica, la contenzione, che era diventata uno strumento routinario nella vita quotidiana di quel reparto ospedaliero. I filmati, inoltre, sono stati determinanti nel corso dei tre gradi di giudizio che hanno coinvolto medici e infermieri dell’ospedale, portando, in Cassazione, a una sentenza storica (Sezione V, sentenza n. 50497 del 20/06/2018), con la quale, al di là delle condanne comminate agli imputati, si giunge, per la prima volta, ad affermare che la contenzione non può essere considerata un atto medico, quanto piuttosto un “presidio restrittivo della libertà personale che non ha né una finalità curativa né produce materialmente l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente – anzi, secondo la letteratura scientifica, può concretamente provocare, se non utilizzato con le dovute cautele, lesioni anche gravi all’organismo, determinate non solo dalla pressione esterna del dispositivo contenitivo, quali abrasioni, lacerazioni, strangolamento, ma anche dalla posizione di immobilità forzata cui è costretto il paziente – svolgendo […] una mera funzione di tipo “cautelare”, essendo diretto a salvaguardare l’integrità fisica del paziente, o di coloro che vengono a contatto con quest’ultimo, allorquando ricorra una situazione di concreto pericolo per l’incolumità dei medesimi”. Chi scrive ha già ricostruito altrove quanto accaduto a Francesco Mastrogiovanni, analizzando in dettaglio la sentenza della Cassazione. Rinviando a quel lavoro per ulteriori approfondimenti, di seguito sono indicati solo i punti essenziali degli eventi che hanno portato alla morte di Mastrogiovanni e della successiva vicenda giudiziaria, lasciando, poi, ai dialoghi con Grazia Serra e Giuseppe Ortano lo spazio di ulteriori indicazioni, riflessioni e analisi. Partiamo, quindi, dalla ricostruzione degli accadimenti e delle dinamiche che hanno portato all’emanazione del Tso, seppure, ancora oggi, la vicenda resti non del tutto chiara, presentando aspetti mai completamente approfonditi e alcune incongruenze che, nel tempo, hanno anche portato a dubitare sulla legittimità di quel provvedimento emanato dall’allora sindaco di Pollica Angelo Vassallo. La sera del 30 luglio 2009, secondo la ricostruzione della polizia municipale, un’auto avrebbe attraversato a forte velocità un’isola pedonale di Acciaroli (senza però causare danni a cose o a persone, elemento che, insieme ad alcune testimonianze raccolte, porta a dubitare che l’auto andasse a una velocità sostenuta). Il mattino successivo, i carabinieri hanno avvistato la stessa auto, che non si sarebbe fermata all’alt delle forze dell’ordine, determinando un inseguimento conclusosi all’altezza di un cub turistico della zona, dove Mastrogiovanni, che qui stava trascorrendo le vacanze, si è fermato, raggiungendo il mare (secondo alcune testimonianze cantando la canzone anarchica Addio Lugano bella), in cui si è rifugiato mentre, come se si stesse realizzando una vera e propria caccia all’uomo, sopraggiungevano forze dell’ordine e operatori sanitari su tutti i fronti: a largo una vedetta della Capitaneria di porto, sulla spiaggia agenti della polizia municipale, carabinieri e operatori sanitari con ambulanza a seguito. Dopo una lunga trattativa, Mastrogiovanni è uscito dal mare, gli sono stati somministrati farmaci, ha fatto una doccia, è salito autonomamente sull’ambulanza. Tutti elementi che sembrerebbero far venir meno la necessità di un Tso che invece è proseguito: con l’ordinanza n. 53 del 31 luglio 2009, il sindaco ha disposto il Trattamento Sanitario Obbligatorio in degenza ospedaliera, e gli operatori sono rimasti sordi all’invocazione dello stesso Mastrogiovanni la cui unica richiesta, al momento di entrare sul mezzo del 118, è stata di non essere trasferito all’ospedale di Vallo perché lì, con un terribile presagio che forse ha radici in esperienze passate, si dice certo che lo avrebbero ammazzato. Come ancora troppo spesso accade, il Trattamento Sanitario Obbligatorio, che dovrebbe essere uno strumento eccezionale, con esclusiva valenza sanitaria, di tutela delle persone con sofferenza psichica, sembra trasformarsi in una sorta di mandato di cattura, un atto che tradisce i principi ispiratori della legge e delle tutele costituzionali, realizzando sottrazione e compressione dei diritti. Quello che è accaduto nel reparto psichiatrico dell’Ospedale San Luca, prima che dagli atti processuali, viene restituito dai filmati delle telecamere di videosorveglianza del reparto, che, mostrati in trasmissioni televisive, incontri e nel documentario 87 ore – Gli ultimi giorni di Francesco Mastrogiovanni di Costanza Quatriglio, hanno rivelato la realtà di un reparto ospedaliero di psichiatria le cui prassi di intervento nulla sembrano avere a che fare con la cura: in quelle immagini si riproduce la visione di luoghi angusti e trasandati, in cui il corpo di Mastrogiovanni (e non solo il suo) resta legato per giorni interi a un letto, mentre è sedato dagli psicofarmaci, con cinghie ai polsi e alle caviglie. In un reparto confinato da una porta sempre chiusa, medici e infermieri appaiono indifferenti al dolore, alle richieste d’aiuto, non mostrano alcuno sguardo di cura, l’unico intervento è quello farmacologico e una contenzione protratta per oltre ottantasette ore. Mastrogiovanni subisce un processo di progressiva mortificazione e nullificazione della persona, resta bloccato su un lettino troppo piccolo, che non riesce nemmeno a tenere tutto il suo corpo, a volte nudo, altre solo con un pannolone, le flebo applicate al braccio da cui, nel corso di questa vera e propria agonia, fuoriesce anche del sangue che va a formare una chiazza rossa sul pavimento, pulita dagli inservienti senza prestare alcuna attenzione al paziente. Un’assenza di empatia che si reitera per tutto il tempo del ricovero, anche quando portano il pranzo e, nel corso di una scena tragicamente grottesca, lo lasciano dove Mastrogiovanni, legato, non può arrivare, dovendolo quindi riportare via intonso, per poi affermare, nel corso del processo, che sarebbe stato Mastrogiovanni a non voler mangiare. Alcune immagini mostrano anche un altro uomo legato, evidenziando, come emerso pure nelle diverse fasi processuali, un utilizzo della contenzione acritico e routinario. […] Dal 31 luglio al 4 agosto del 2009, quindi, nel reparto psichiatrico di un ospedale pubblico italiano, un uomo che svolge il lavoro di maestro elementare ed è amato dai suoi allievi, viene sedato e legato al letto mentre dorme, senza una giustificazione, senza che nessuno gli parli, lasciato in uno stato di totale abbandono, senza che si realizzino le doverose e continue azioni di controllo e monitoraggio delle sue condizioni di salute, che man mano peggiorano, senza alcuna annotazione della contenzione nella cartella clinica. Alla nipote, che, come ci racconta di seguito, si era recata in ospedale per incontrarlo, viene negato il diritto a visitare lo zio, “per non turbarlo” le dice (come troppo spesso ancora si sente ripetere in situazioni simili) il medico del reparto. Per tutto il tempo del ricovero, le braccia e le gambe di quest’uomo restano strette dalle fascette al letto, non può muoversi, non si alimenta e non beve autonomamente, gli somministrano integratori e psicofarmaci volti alla sedazione di uno stato di agitazione che, come conferma nel successivo dialogo Ortano, nulla ha che fare con atteggiamenti auto o etero-aggressivi (che Mastrogiovanni non manifesta mai durante il ricovero), ma cresce, col passare delle ore, proprio per l’impossibilità di muoversi, per l’essere bloccato, per le abrasioni e le escoriazioni sul corpo, determinate da quella condizione di cattività resa ancora più insopportabile dal caldo di quelle giornate estive. Francesco Mastrogiovanni muore nella notte per edema polmonare acuto, ma se ne accorgeranno solo in mattinata, annotando il decesso nella cartella clinica a distanza di dieci ore dalla precedente indicazione.
November 25, 2024 / NapoliMONiTOR
Arte contro ergastolo e pena di morte, domani all’ex Opg di Napoli
(quadro di fernando eros caro dal braccio della morte, san quentin) Avrà luogo a Napoli, sabato 2 novembre, dopo le prime due svoltesi a Roma, la terza edizione di Arte contro le pene capitali, una manifestazione organizzata da Monitor, Sensibili alle foglie e dal gruppo carcere dell’ex Opg – Je so’ pazzo.  In Italia la pena di morte è stata abolita con il nuovo codice penale militare di guerra nel 1994 e in Costituzione solo nel 2007. Nel codice penale vi è tuttavia ancora la pena dell’ergastolo, che non costituisce un’alternativa alla pena di morte, in quanto essa stessa è una pena fino alla morte. Nei paesi in cui è in vigore, inoltre, la stessa pena di morte non è più lo spettacolo patibolare di un tempo ma una esecuzione durevole nel tempo, che si può protrarre anche per molti anni prima dell’azione del boia. Pena di morte ed ergastolo sono quindi due istituti che inducono l’agonia nelle persone che vi vengono condannate, decretandone la morte a ogni prospettiva sociale e un lento “vivere morendo”. Nel corso dei mesi passati, il gruppo organizzatore della manifestazione ha diffuso una call invitando artisti a sollecitare la propria vena creativa intorno al tema dell’ergastolo e della pena di morte.  Questo è il programma delle esibizioni live: ore 15.30 – Apertura in piazza a Materdei con la Banda Basaglia ore 17.00 – Michele Fragna, poesie ore 17.30 – Arrevuoto Teatro e Pedagogia e Chi rom e chi no, L’ultimo giorno di un condannato a morte ore 18.00 – Stefania Musto, Firfaust ore 18.30 – Teatro Popolare e Collettivo delle arti, Fine bianca ore 19.00 – Antonio Raia, Come se ore 20.00 – Gruppo popolare Terra e lavoro, Le pene del capitale ore 21.00 – India Santella, Da qui il mare non si vede ore 21.30 – Dolores Melodia, Canzoni e musiche sul carcere ore 22.00 – Dem Pasan, Danza contro la pena di morte ore 22.15 – Caterina Bianco e Nicola Valentino, Mc Pherson lament ore 23.00 – Frente Murguero Campano, Danze e musiche tradizionali per i condannati a morte Dalle 16 fino a mezzanotte saranno inoltre visibili in mostra le opere degli artisti che hanno contribuito e che trovate qui in locandina. A seguire potete leggere alcuni estratti dal libro collettivo Morire di pena. Per l’abolizione di ergastolo e 41-bis, in cui si riflette sulla presenza nel codice del nostro paese dell’ergastolo come pena di morte mascherata. *     *     * Al contrario della vulgata corrente, l’ergastolo in Italia esiste eccome: la differenza numerica tra i detenuti che una volta condannati all’ergastolo ci rimangono fino alla morte e quelli che ottengono i benefici per uscirne è incommensurabile (sulla base di questo dato il gruppo di Morire di pena rifiuta la differenziazione tra ergastolo ostativo e non ostativo, rivendicando l’eliminazione dell’istituto in toto e il diritto, per qualsiasi essere umano, di poter conoscere, al momento della propria condanna, il momento in cui potrà essere liberato). Dai primi anni Novanta (il cosiddetto “periodo stragista”) a oggi, gli ergastoli sono più che quadruplicati. Al 31 dicembre 1992 erano 408, mentre allo stato attuale i detenuti condannati all’ergastolo sono 1864, due terzi dei quali ostativi. Eppure, per esempio, il numero degli omicidi nel paese è letteralmente crollato: negli anni Novanta si sfiorava quota duemila l’anno, mentre oggi siamo a meno di trecento. Anche solo questi dati, nudi e crudi, dovrebbero indurre a riflettere.  L’articolo 4-bis viene introdotto nell’ordinamento penitenziario tra il 1991 e il 1992. La disciplina, assai discussa negli anni in termini di incostituzionalità, ha come caratteristica una differenziazione del trattamento penitenziario dei condannati per reati legati alla criminalità organizzata o per altri gravi delitti: subordina, infatti, l’accesso ai benefici previsti dalla legge a una condizione: l’avvenuta collaborazione con la giustizia. Ne risulta che un ergastolo “ostativo” – applicato automaticamente in caso di condanna all’ergastolo per uno dei reati di cui sopra – conduce il detenuto fino alla morte in cella, perché gli impedisce di uscire di prigione anche dopo decenni di detenzione, a meno che questi non “decida” di collaborare con la giustizia. Se è vero, inoltre, che è l’“ostatività” a privare i detenuti condannati all’ergastolo della possibilità di accedere ai benefici penitenziari, è vero anche che pure per gli altri ergastolani, non soggetti a condanna ostativa, questa possibilità è estremamente residuale. Sono pochi gli ergastolani, in sostanza, che non restano in cella fino alla morte, e pertanto il tanto discusso tema dell’eliminazione eventuale dell’ostatività è solo una parte del problema, mentre la vera questione è l’eliminazione dell’ergastolo in toto (i numeri d’altronde ci dicono che tra il 2008 e il 2020 sono state concesse trentatré liberazioni condizionali, mentre centoundici persone soggette all’ergastolo sono morte in galera). Con la recente legge approvata dal parlamento, inoltre, le possibilità di ottenere una liberazione condizionale vengono ulteriormente ridotte: bisogna essere sopravvissuti a trent’anni di pena scontata (e non più a ventisei), senza contare che numerose altre condizioni rendono altamente improbabile la possibilità di affrancamento dalla pena. La più dura tra queste prescrive che il detenuto sia obbligato a fornire (dal carcere!) elementi che consentano di escludere l’attualità di collegamenti non solo con l’organizzazione ma anche con il contesto nel quale il reato è stato commesso (una interpretazione, quella del “contesto”, che può essere estesa per esempio a un qualsiasi rapporto di parentela, a una residenza in una stessa città o paese rispetto a membri o ex membri de ll’organizzazione, rendendo quindi l’attribuzione del beneficio ancora una volta estremamente difficile e discrezionale). Va ribadito, infine, che la previsione di una pena perpetua contrasta con la Carta costituzionale: se la pena deve tendere alla rieducazione, il fine pena mai è estraneo a questo principio (“rieducare” in vista di cosa?). Questa incompatibilità non può essere salvata, naturalmente, dal sofisma secondo cui l’ergastolo esiste in quanto tende a non esistere, cioè perché prevede la possibilità di non essere ergastolo, per effetto dell’ipotesi di concessione della liberazione condizionale (nel caso dell’ergastolo “non ostativo”). Nel 1981, con un referendum promosso dal partito Radicale più di sette milioni di italiani si espressero per l’abolizione del “fine pena mai”. Negli anni successivi il movimento “Liberarsi dalla necessità del carcere” nacque tra Parma e Trieste e crebbe rapidamente in tutta Italia, fondato sulla lucidità di operatori con grande sensibilità sociale, legati perlopiù al movimento per l’abolizione dei manicomi, ma anche sull’alleanza con battaglieri amministratori locali. Per citare epoche più recenti, infine, si può tornare al 1998 quando centosette senatori (contro cinquantuno contrari e otto astenuti) votarono a favore dell’abolizione dell’ergastolo partendo da un testo promosso dalla senatrice comunista Ersilia Salvato, prima che la legge si arenasse alla Camera e poi venisse per sempre archiviata con la caduta del governo Prodi, pochi mesi dopo.  Da quell’ultimo tentativo sono passati vent’anni, non cento. Abbiamo oggi, trasversalmente, una classe politica più rozza e opportunista, e il bombardamento mediatico che propone le prigioni come il più efficace strumento di gestione dell’ordine sociale e come anestetico alle paure della popolazione ha raggiunto i suoi scopi. Tuttavia – lo spiega bene Sergio Segio in un testo pubblicato qualche tempo fa sulla rivista Vita – anche nelle esperienze appena citate si poteva percepire l’esistenza di “un paese comunque più civile e avanzato dei suoi rappresentanti politici, in maggioranza schierati per la permanenza dell’ergastolo, tentennanti o silenti”. Allo stesso modo, dal basso, “dalla capacità di proporre riflessione, confronto, sensibilizzazione e iniziativa, sia all’interno delle carceri che della società libera”, partirono in quegli anni le spinte che poi sono state all’origine delle innovazioni più avanzate della riforma Gozzini (1986). Perché, allora, questo non può accadere oggi? La battaglia politica per l’abolizione dell’ergastolo e del 41-bis può essere portata avanti da ognuno di noi nelle forme e nelle modalità che gli sono più consone, mantenendo ferma all’orizzonte l’idea del necessario superamento della più antistorica delle nostre istituzioni: il carcere. Un obiettivo di civiltà e progresso, che oggi non può e non deve più essere considerato utopia.
November 1, 2024 / NapoliMONiTOR
Storie di palestinesi incarcerati in Italia e delle loro famiglie
(foto di -fm) Quella che state per leggere non è solo la storia dell’arresto e dell’ingiusta detenzione di tre uomini palestinesi. È una storia di donne, famiglie e bambini intrappolati in una rete che si stringe sempre più attorno e rischia costantemente di soffocarli. 10 MARZO Questa storia inizia, per me, sotto una pioggia incessante, a Terni, il 10 marzo. Mi trovo qui per raccontare di Anan, arrestato a L’Aquila una ventina di giorni fa a causa dei suoi trascorsi in Cisgiordania. Anan è un partigiano che stava ricostruendosi la vita in una terra di partigiani come l’Abruzzo. Nato e cresciuto a Tulkarem, in Cisgiordania, il destino di quest’uomo è legato fin dalla gioventù alla lotta per la libertà del suo popolo. Siamo negli anni della Seconda Intifada, inizio del nuovo millennio. I palestinesi insorgono contro l’occupazione israeliana, dopo anni di negoziati falliti e una crescente violenza che si diffonde nei Territori Occupati. È un’epoca di assalti, incursioni militari, barbarie, che segnerà profondamente un’intera generazione di palestinesi. Anan è parte della resistenza. Come molti altri viene arrestato, torturato, e conosce l’orrore delle carceri israeliane. Nel 2006 è vittima di un agguato delle forze speciali israeliane, un tentativo di esecuzione che avrebbe dovuto toglierlo di mezzo per sempre. Sopravvive, seppur segnato con i proiettili nel corpo e con cicatrici invisibili ancora più profonde. Nel 2013 Anan lascia la Palestina con la speranza di trovare un luogo sicuro in Europa. Prima in Norvegia, dove viene sottoposto a interventi per rimuovere i proiettili rimasti nel suo corpo, poi in Italia, dove nel 2019 ottiene lo status di rifugiato politico. Quella protezione avrebbe dovuto rappresentare una tregua, la fine di un incubo che durava da anni. Ma nel gennaio di quest’anno, mentre cerca di costruirsi una vita normale a L’Aquila, arriva un nuovo colpo: l’arresto e una richiesta di estradizione da parte di Israele, che lo accusa di terrorismo. In realtà la sua figura rappresenta un altro tipo di pericolo: è un uomo che ha resistito, un simbolo della lotta per la libertà palestinese. L’Italia si trova di fronte a una scelta: rispettare le direttive del diritto internazionale, che protegge i rifugiati, o cedere alla pressione di Israele, che lo rivuole indietro. Lo status di rifugiato politico dovrebbe essere una protezione solida, una barriera contro l’arbitrio e l’ingiustizia, ma per Anan questa protezione inizia a vacillare. Se la giustizia italiana accetta di vederlo come un terrorista, per lui non ci sarà scampo. Sarà estradato e dovrà affrontare un processo in un tribunale militare israeliano, dove la parola “giustizia” non ha alcun significato. Appena arrestato, Anan viene condotto con una misura cautelare nel carcere di sorveglianza d’alta sicurezza a Terni. È da lì che, a febbraio, riceviamo una sua lettera: “Grazie per tutto quello che state facendo per me e per la Palestina, voi siete la nostra voce e siete parte della nostra lotta. Nonostante noi siamo sotto attacco siamo liberi, come voi che lottate per la libertà”. A Terni c’è un tempo da lupi. Piove a secchiate. Lo striscione che qualcuno ha appeso a una rete viene subito strappato da una violenta folata di vento. Impossibile prendere appunti. Ogni volta che ci provo la pioggia mi inzuppa i fogli del quaderno. Resto a osservare e ad ascoltare, fuori dal carcere, tra una raffica di vento e un cielo che non sembra volerci dare tregua. Ci raduniamo intorno al camioncino per l’intervento telefonico dell’avvocato Flavio Rossi Albertini: «È sempre più chiara la matrice politica che sta dietro la richiesta di estradizione formulata da Israele, che cerca di intimidire, tacitare e recludere chi resiste all’occupazione coloniale della Palestina ma anche chi è solidale con la lotta per l’autodeterminazione che il popolo palestinese combatte da decenni». Cori si levano chiedendo Anan libero, Palestina libera. Dal carcere rispondono voci solidali. Qualcuno ha recuperato lo striscione strappato dal vento. Ora posso finalmente leggere cosa c’è scritto: “La resistenza non è un reato, il genocidio sì. Anan Yaeesh libero, Palestina libera”. 12 MARZO, CORTE D’APPELLO Sempre a marzo la Corte d’appello di L’Aquila rigetta la richiesta di estradizione di Anan: il rischio di torture nelle carceri israeliane è troppo alto. Per lui, che ha già subito violenze e abusi, sarebbe ripiombare nello stesso inferno da cui è scappato. Questa vittoria giudiziaria non è però risolutiva. Il giorno prima della sentenza c’è un nuovo colpo di scena: nuove accuse, nuovi arresti. Questa volta vengono coinvolti anche due suoi amici e connazionali, Alì Irar e Mansour Doghmosh. L’accusa è quella di “promozione, costituzione, organizzazione o finanziamento di associazioni terroristiche tese all’eversione dell’ordine democratico in uno stato estero”, ovvero quella di far parte di una presunta cellula terroristica che pianifica atti terroristici in Cisgiordania contro Israele, in collaborazione con le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. Ali Irar viene prelevato e trasferito nel carcere di alta sicurezza di Ferrara, mentre Mansour Dogmosh subisce una sorte ancor più dura, spedito nel carcere di Rossano Calabro, istituto di massima sicurezza noto come la “Guantanamo italiana”. Un luogo distante dalla propria nuova casa, ai margini estremi del paese, lontano da tutto e da tutti. Il tempismo delle nuove accuse lascia spazio a molte domande. Non si può fare a meno di notare la coincidenza tra il rigetto della richiesta di estradizione e questo nuovo arresto. Ci si chiede se queste accuse non siano un tentativo di destabilizzare la sua posizione di rifugiato politico. La protezione concessa a chi fugge da un contesto di guerra e repressione, infatti, può essere revocata solo in casi specifici, come quelli legati al terrorismo. Le prove, d’altronde, appaiono deboli e vaghe, insufficienti a giustificare un’accusa così pesante. Viene da chiedersi, ancora una volta, se la giustizia si stia muovendo su un piano legale o politico. Nel frattempo, comunque, le piazze italiane cominciano a riempirsi di manifestanti, attraversate da cortei a sostegno della Palestina. “From the River to the Sea, Palestine Will Be Free” è lo slogan che più risuona nelle strade, che ribollono di energia e rabbia. Da aprile la protesta sale ancora di intensità, e sotto le sedi della Rai migliaia di manifestanti si riuniscono per contestare la narrazione della televisione pubblica totalmente sbilanciata a favore di Israele. Ciò che si chiede è una copertura più equa e veritiera, che dia spazio alle voci della resistenza palestinese e denunci il genocidio in corso, un dramma che non trova alcun riscontro nella vulgata ufficiale. A Roma, davanti alla Farnesina, gli studenti si riuniscono chiedendo un incontro con il ministro Tajani per discutere della complicità italiana nell’oppressione del popolo palestinese, ma vengono lasciati sotto il sole e ignorati. A Napoli, durante il concerto per il settantacinquesimo compleanno della Nato al teatro San Carlo, i manifestanti mobilitatosi per denunciare la connivenza tra l’alleanza atlantica e il supporto militare a Israele vengono manganellati e identificati dalla polizia. La rabbia e la determinazione si riversano anche nei rettorati occupati delle università italiane. Napoli, Roma, Torino, Bologna diventano i centri nevralgici della mobilitazione. Studenti, ricercatori e docenti si uniscono per chiedere che le istituzioni accademiche italiane interrompano i rapporti con le università israeliane, contribuendo alla discussa modalità di ricerca che si articola sul binario del dual-use (ogni tecnologia o innovazione può avere una funzione tanto civile quanto militare). In particolare, gli studenti denunciano la collaborazione dei propri atenei con aziende come la Leonardo, che grazie ai finanziamenti universitari sviluppa tecnologie utilizzate dall’esercito israeliano nell’occupazione prima e nella distruzione poi dei territori palestinesi. La vicenda di Anan, Alì e Mansour diventa parte integrante di questa lotta. I loro nomi compaiono nella narrazione, vengono scanditi nei cortei. La loro battaglia si intreccia con quella contro la complicità italiana nel finanziare l’industria bellica israeliana. Sono ormai simboli di resistenza, non solo contro l’occupazione israeliana, ma contro un sistema che criminalizza chiunque difenda la libertà, in Palestina come in Italia. 9 MAGGIO, LETTERA DI ANAN A LUIGIA Cara amica, dovrei spiegarti una cosa. Oggi sono in un carcere italiano perché vogliono mostrare a Israele che gli italiani sono con loro, con Israele, quindi quello che succede non è normale. Nel 2005, quando ero bambino, sono stato arrestato in un carcere americano e inglese perché ero nelle Brigate di Al-Aqsa. Israele ha provato a uccidermi quattro volte per questo motivo. Per la stessa ragione sono stato arrestato nel 2006 e mi hanno cacciato dalla Palestina nel 2013. Per la stessa ragione Israele ha fatto la stessa richiesta in Norvegia nel 2015 e per lo stesso motivo sono venuto in Italia, ho chiesto rifugio e l’ho ottenuto […]. Sono stato arrestato in Giordania l’anno scorso per lo stesso motivo e ora l’Italia mi ha arrestato per gli stessi motivi. Quindi niente di nuovo, ma è qualcosa di politico, solo per dimostrare che Israele mi segue da molto tempo non solo adesso, e lo so, sono sicuro, che se sarò libero o se rimarrò qualche anno e dopo sarò libero, Israele non si arrenderà mai e non mi lascerà mai, non si fermeranno prima di uccidermi. E questo è il loro messaggio per me, ma sicuramente non ne parleranno in tv o in pubblico. La polizia italiana lo sa, sono sicuri al cento per cento che Ali e Mansour sono solo miei amici. Non fanno niente e non sapevano niente, ma li hanno arrestati solo per dire che la polizia ha arrestato un gruppo di terroristi, non solo Anan, che lo vuole Israele. La mia vita non è segreta, la gente non mi conosce, ma tutta la polizia di tutti i paesi mi conosce molto bene, è solo un gioco politico. Ma, come ho detto prima, non mi arrenderò mai finché non avremo la nostra libertà per la Palestina e i palestinesi, perché la mia vita e tutto quello che ho è per la Palestina, perché la Palestina merita sempre di più. Grazie mia cara, e grazie a tutti quelli che ci sostengono. Flavio mi ha detto che il 30 aprile c’è stato un gruppo di persone che si sono presentate in tribunale a sostenermi, e come sicuramente sai Israele ha respinto la richiesta, ma è solo un gioco tra di loro. Ora il mio tribunale sarà pubblico, non come prima. Quindi chiunque potrà entrare e guardare. Quindi mi piacerebbe vedervi lì. Certo, sarò nella telecamera ma posso vedere tutto. Grazie a tutti per il vostro potere e le vostre parole positive; è vero che noi non saremo mai terroristi, perché la resistenza è un atto di amore, e io, che amo la vita più di chiunque altro, preferirei morire per ottenere la libertà del mio popolo, per vedere tutti i bambini in Palestina andare a scuola senza paura, per vedere tutte le ragazze andare per strada senza paura, quindi amo la mia vita, ho molti sogni come tutti in questa vita, ho molti sentimenti nel mio cuore, amo vivere in pace e farmi una famiglia, ma la Palestina è la cosa più importante prima di ogni cosa e prima della mia vita. Cara amica ancora una volta grazie per ogni cosa e spero di poter fare te e tutti quelli che sono con te, felici un giorno con tutti i miei auguri e un grande abbraccio, vostro amico Anan Yaeesh, Palestina per la Palestina! FINE MAGGIO, STORIA DI MAYS La notizia mi giunge durante un’assemblea del collettivo di cui faccio parte: Mansour, uno dei tre palestinesi arrestati, ha una moglie, Mays, da poco inserita nel sistema d’accoglienza di Teramo, la mia città. Rimasta sola con tre bambini piccoli, Mays non ha soltanto bisogno di aiuto economico, ma di un sostegno umano. La vicenda, da politica, si trasforma in qualcosa di personale. Non si tratta più soltanto di sostenere tre uomini ingiustamente detenuti. Dobbiamo assicurarci che una donna giovane e i suoi figli non vengano travolti da una vicenda che minaccia di stritolarli. Il nostro primo incontro avviene in una giornata qualsiasi. Mi offro di accompagnarla a fare la spesa in auto, sperando che quel gesto di quotidiana semplicità possa rompere il ghiaccio fra noi. La prima immagine che ho di lei è riflessa nello specchietto retrovisore della macchina: una giovane donna dagli occhi grandi e marroni, bellissima, dignitosa, con un’espressione che tradisce più smarrimento di quanto le sue poche parole possano esprimere. Le nostre vite si incrociano così. Qualche settimana dopo ci ritroviamo intorno a un piccolo tavolo di legno. Ci sono le donne della comunità islamica, arrivate per offrirci il loro aiuto con la traduzione; accanto a loro, compagne giunte da diverse parti d’Italia, ognuna con la propria storia cucita addosso, la propria grande esperienza e determinazione. Donne di terre, religioni e culture diverse, unite dalla solidarietà. L’appartamento, sopra i magazzini di un centro commerciale, diventa il “nostro” spazio e piccolo rifugio; dal terrazzo la vista si apre su un maestoso Gran Sasso, la sua cima nascosta da una lattiginosa foschia è lì, immobile e imponente. Ci osserva silenzioso, testimone di una storia che non appartiene solo a noi. I figli di Mays si muovono come spiritelli e schizzano da una stanza all’altra della casa, rincorsi dalle loro stesse risate, inconsapevoli dei discorsi che si fanno sopra le loro teste. Le loro esplosioni di vita si intrecciano nelle nostre conversazioni, rendendole elettriche e spezzandone il ritmo. Ogni tanto si arrampicano sul davanzale come piccoli gatti, saltando dentro la stanza per guardarci con occhi curiosi e pieni di eccitazione. Per loro, tutte quelle donne così diverse, lì unite, sono una novità affascinante. Parliamo di come organizzarci, di cosa fare per aiutare Mansour: la raccolta di denaro, i colloqui con gli avvocati, la possibilità di viaggiare verso Rossano Calabro per fargli incontrare la sua famiglia. L’idea diventa necessità quando Mays ci racconta del suo bisogno di vedere Mansour, che negli ultimi colloqui aveva mostrato una crescente sofferenza. Eppure, intorno a noi c’è una specie di serenità. L’aroma del caffè e della torta si mescola ai sorrisi. L’insicurezza con cui eravamo entrate sembrava dissolversi, lasciando spazio a una sottile speranza. Anche Mays sorride spesso, ma nei suoi occhi si legge soprattutto il bisogno di non essere lasciata sola, di aggrapparsi a quella rete di supporto che stavamo cercando di costruire. Quando ci alziamo per andar via, vedo i suoi occhi riempirsi di lacrime. Eravamo state un’ondata di energia e speranza che le aveva riempito la casa, un sollievo dopo mesi di solitudine. Quell’onda, però, con la risacca, si stava ritirando. Chissà se sarebbe tornata, se non fosse stata solo un’altra vaga promessa fra tante. Dal canto nostro, giorno dopo giorno, abbiamo invece provato ad aggiungere un filo sottile a quella fragile tela fatta di gesti, sguardi e parole spezzate. Una tela che è rimasta in bilico, minacciata dal peso dell’attesa. Ogni volta che sembravamo avvicinarci a una svolta, la trama si complicava e si disfaceva, lasciandoci sotto l’ombra di Penelope, costrette a ricominciare daccapo. 20 LUGLIO, CORTE DI CASSAZIONE Prima di affrontare il viaggio verso Rossano Calabro, decidiamo di fare una prova, una prima trasferta con Mays e i bambini. 20 luglio, Roma, udienza in Cassazione per Mansour e Alì. Un’occasione per vedere come Mays e i piccoli avrebbero affrontato un viaggio impegnativo. In un certo senso, una prova di resistenza, per loro e per noi tutte. La capitale, quel giorno, brucia sotto un sole implacabile. L’asfalto sembra sciogliersi sotto i nostri piedi mentre ci muoviamo a passo lento verso piazza Cavour. Le palme della piazza offrono un’ombra esile, quasi ridicola rispetto alla distesa di calore che ci circonda. Al nostro arrivo, davanti la Corte c’è già un presidio di manifestanti. Molti sono attivisti per la Palestina, con bandiere e striscioni che chiedono libertà per Anan, Mansour, e Ali. La mattina sembra scivolare via lentamente, e con essa la speranza di una risposta rapida, come spesso accade con i procedimenti legali. Mays rilascia un’intervista ai giornalisti. La sua voce è ferma, determinata, anche se l’emozione si percepisce. «Mansour sta cercando di resistere, non solo per sé, ma anche per i nostri figli». Parla con lucidità, ribadendo il diritto alla libertà, alla dignità, chiedendo giustizia. «Siamo scappati dall’oppressione – dice – non vogliamo ritrovarci davanti a una nuova forma di oppressione in Italia». Verso metà giornata, le porte del tribunale si aprirono e compaiono gli avvocati della difesa. Per Anan non ci sono buone notizie: la Corte conferma le misure cautelari, questo significa che rimarrà in carcere fino alla fine del processo. Per Mansour e Ali, invece, si riaccende la luce di una piccola speranza: la Cassazione annulla con rinvio la decisione del tribunale di L’Aquila, e impone che il loro caso venga riesaminato. Non è una vittoria, ma almeno un passo avanti. Nel frattempo la vita continua. Ogni colloquio in videochiamata tra Mays e Mansour è un calvario, lui continua a ripetere di non riuscire più a resistere. Le notizie di suicidi in carcere sono all’ordine del giorno. Ogni mattina sembra che una nuova vita venga inghiottita da quel sistema opprimente. Una mattina, l’ennesima tra queste morti mi spinge a prendere il telefono. Quando Elena mi risponde sembriamo leggerci nel pensiero: “E se succede anche a lui? Se non riesce a reggere?”. La decisione sembra inevitabile: dobbiamo muoverci. Non importa se è l’estate più calda di sempre, se il viaggio sarà stato estenuante. Non possiamo permetterci di aspettare un altro giorno. 7 AGOSTO, VIAGGIO PER ROSSANO CALABRO Dopo settimane di impotenza, decidiamo di partire. Dobbiamo attraversare l’Italia prima da est a ovest, poi da nord a sud. Siamo serrati dentro l’abitacolo, il caldo fuori è inumano, una morsa ci schiaccia all’asfalto. I finestrini sono chiusi, l’aria condizionata al massimo. Non parliamo del luogo in cui stiamo andando, di quello che avremmo potuto trovare, anche perché tanto da dire non c’è. Ci concentriamo sui chilometri da percorrere, sul pieno da fare, il viaggio sembra interminabile. Mays è seduta di nuovo dietro di me, con i bambini sul sedile posteriore. Il suo sguardo è fisso fuori dal finestrino. Ciascuno di noi ha un’aspettativa per questo viaggio, ma lei? Cosa si aspetta? E cosa immaginano i bambini? Arriviamo di sera al b&b così da essere puntuali all’appuntamento delle otto del mattino seguente, anche se poi davanti al carcere siamo già dalle sette. L’aria è già calda e appiccicosa. La prigione è sorprendentemente vicina alle case, potresti quasi guardare dentro affacciandoti dal balcone di qualcuno. Da dove vengo io, invece, le carceri stanno lontane dal centro, isolate, nascoste.  Troviamo riparo sotto un piccolo gazebo di legno, tra la strada e i cancelli. In quel luogo ostile, progettato per separare, quel rifugio sembra quasi un gesto di umanità, anche se poi il carcere ci copre la vista del mare. I bambini, come sempre, sono pieni di energia. Corrono avanti e indietro, ridono e scherzano come se fossimo al parco in un normale giorno di vacanza estiva. Elena inventa giochi per loro – “un-due-tre-stella!” –, io sono concentrata a tenere sotto controllo la mia ansia. Più di tutto mi spaventava il momento in cui dovremmo lasciarli andare. Mi sento impotente: una volta che loro varcheranno il cancello, io ed Elena saremmo fuori, separate, senza possibilità di poterli aiutare in alcun modo. I bambini, poi, si troveranno davanti estranei indifferenti al loro destino, in un contesto anomalo, distante da ogni esperienza vissuta fino a questo momento. E poi Mays. Parla appena italiano, e dentro non ci sarà un interprete, né niente di simile. Mentre sono assorta una guardia si avvicina al cancello, interrompendo i miei pensieri e il gioco dei bambini. Khalil resta fermo nella sua posizione, si volta e pensando al gioco, o forse no, ci interroga: «Abbiamo perso tutti?». IL CPR La scarcerazione di Mansour viene accolta da un’esplosione di gioia: dopo mesi di sofferenza sembra aprirsi uno spiraglio. Una sensazione che però si trasforma subito perché un’ora dopo ci comunicano che fuori dal carcere ha trovato la polizia ad attenderlo. Lo hanno identificato e trasferito in un Cpr, un centro di permanenza per il rimpatrio. La scarcerazione, che avrebbe potuto rappresentare la fine di quell’incubo, è solo l’inizio di un nuovo capitolo. Naturalmente non ci dicono dove lo porteranno. Ciò che io posso fare è mettermi a raccogliere i documenti necessari a tirarlo fuori di lì, ripercorrendo tra le scartoffie burocratiche la vita di un uomo che ha attraversato più di un inferno (tempo dopo, Mansour, mi avrebbe detto che i tre giorni nel Cpr sono stati peggio di sei mesi in Alta sicurezza): “Motivi per cui ha lasciato il suo paese d’origine e possibili conseguenze di un eventuale rientro nel paese d’origine: dichiara che era impossibile vivere nel campo di Tulkarem perchè era sempre sotto il tiro delle forze israeliane ed era sempre bombardato. Da piccolo, a seguito di un bombardamento, ha riportato ferite”. Anche il viaggio di Mansour attraverso l’Europa, seguendo quella che conosciamo tristemente come “rotta balcanica”, si può ricostruire attraverso il freddo linguaggio dei documenti. Le immagini si sovrappongono nella mente: la fuga, la paura, la ricerca disperata di una vita migliore, e ora, dopo anni di battaglie, la prigione, in una terra che avrebbe dovuto offrirgli rifugio. Passo ore a studiare queste carte e a riflettere, finché il giorno dopo riesco a sapere la destinazione di Mansour: il Cpr di PonteGaleria, un luogo che non mi è sconosciuto, anzi, il suo nome emerge periodicamente nelle più insopportabili “brevi” di cronaca. Qualche mese fa, per esempio, un ragazzo di ventidue anni, Ousmane Sylla, si è tolto la vita tra quelle sbarre. La sua morte aveva scatenato una rivolta, rivelando brevemente al mondo esterno la disperazione che si respirava in quel luogo. RITORNO A CASA È notte, e mi trovo alla stazione dei bus. Uno di questi da Roma riporterà Mansour a casa. Le misure cautelari sono state annullate, ora ci sarà da attendere il processo. L’accusa di terrorismo è molto pesante. Alì e Mansour possono aspettarlo da uomini liberi, mentre Anan è ancora nel carcere di Terni. Io sono sola nel piazzale. Ancora una volta non so bene cosa aspettarmi né come comportarmi. Mentre l’autobus si ferma e la gente inizia a scendere, scruto i volti chiedendomi se lo riconoscerò. Poi lo vedo. Cammina lentamente, frastornato, credo dai rumori e dalle luci della stazione. Stringe tra le mani una busta con le sue cose. Lo chiamo con il suo nome. Un attimo di esitazione, capisce che sono lì per riportarlo verso casa. Mando un messaggio a Mays: “Stiamo arrivando”. Lei risponde subito, un solo grande, gigantesco cuore. Sorrido immaginando la sua trepidazione e il suo volto. Quando arriviamo la porta è già socchiusa. Mays ci aspetta, gli occhi che brillano di una luce viva. Il silenzio della notte avvolge ogni cosa. I bambini dormono. Non ci sono gesti plateali, né abbracci immediati, ma una tenerezza silenziosa pervade l’atmosfera. L’interazione tra loro è delicata, intima. Ogni gesto, anche il più piccolo, sembra carico di significati. È come se l’intero spazio fosse immerso in un’attesa che non osa ancora sciogliersi. I due si cercano, ma non si toccano subito. Capisco che è la mia presenza a creare una barriera invisibile di pudore: l’abbraccio, quello vero, resta sospeso nell’aria, come un momento che appartiene solo a loro, in un tempo che non è il nostro. Esco di scena. (francesca mononoke)
October 29, 2024 / NapoliMONiTOR
Come governo e tribunale ostacolano la ricerca della verità sul caso Dal Corso
(disegno di cyop&kaf) L’esame autoptico, più noto come autopsia, è un esame che si effettua dopo la morte di una persona con l’obiettivo di accertarne le cause, i tempi e le modalità. L’autorità giudiziaria può disporre l’autopsia quando si sospetta che la morte sia collegata a un reato o comunque sia avvenuta in circostanze non chiare. In molti stati europei, quando il decesso avviene in un istituto penitenziario, l’autopsia è obbligatoria. In altri, come l’Italia e la Serbia, no: quando una persona detenuta muore e le circostanze del decesso vengono considerate “evidenti” o “palesi” l’esame autoptico è ritenuto inutile. Per questa ragione, ribadita per iscritto dal ministro della giustizia Nordio, la richiesta della famiglia di Stefano Dal Corso, giovane romano detenuto e poi morto a Oristano, è stata respinta per ben sette volte. Secondo il ministro, la sua era una morte “avvenuta in circostanze palesi”. Almeno fino a quando l’ottava richiesta non è stata accolta. Marisa Dal Corso, sorella di Stefano, intervenendo mercoledì alla conferenza stampa presso la Camera dei deputati, ha mostrato come questa presunta “evidenza” sia tutta da dimostrare. Per lei e per la sua famiglia le certezze sono altre: Stefano stava per uscire dal carcere, avrebbe riabbracciato la figlia e immaginato, insieme a lei, un prossimo futuro da libero. Eppure poco tempo prima della sua scarcerazione è stato trovato morto nel reparto dell’infermeria dell’istituto sardo, esattamente due anni fa, in condizioni che secondo le relazioni ufficiali sarebbero compatibili con il suicidio. È utile fare un passo indietro e tornare a un articolo di Luna Casarotti, scritto nell’agosto del 2023, proprio a partire dalle parole della sorella di Dal Corso: “La ferita che Stefano aveva attorno al collo – si evinceva già all’epoca da una delle perizie – sembrava più vicina a quella di uno strangolamento che non a una impiccagione”. Armida Decima, legale della famiglia Dal Corso, durante la conferenza ha spiegato che l’unico modo per dimostrare che non si sia trattato di strangolamento ma di “impiccagione atipica” (parte del corpo che poggia su una superficie) sarebbe stato quello di verificare lo stato dei polmoni al momento del decesso. L’autopsia però è stata accordata solo nel gennaio del 2024, ossia più di un anno e mezzo dopo il decesso, quando il corpo era ormai in stato di avanzato deterioramento. Tuttavia, l’autopsia ha comunque restituito alcuni dati importanti: l’osso del collo, diversamente da quanto era stato lasciato intendere, non era rotto, ma perfettamente integro. Sulla coscia, lato interno, è stato rinvenuto un ematoma profondo, compatibile con un calcio. Inoltre, dalle analisi del sangue risultano evidenti tracce di medicinali, che certo potrebbero essere anche compatibili con la terapia che Stefano seguiva in carcere. Per esserne sicuri occorrerebbe però stabilire l’esatto dosaggio di queste sostanze presenti nel sangue, cosa impossibile dopo tutto questo tempo. E quindi? È proprio Decima a domandarlo ai giornalisti: «I risultati dell’esame autoptico consentono di ritenere che le modalità siano compatibili con il suicidio? Si, ma allo stesso tempo non si può escludere una morte per strangolamento». A questo interrogativo se ne aggiunge un altro, che deriva dalla presenza di tracce di sangue sul lenzuolo di Stefano. Da quel sangue sono ravvisabili tracce di Dna anche diverso dal suo. Alla richiesta, però, dell’avvocato della famiglia, di confrontare il Dna trovato con quello di chi era entrato effettivamente in contatto con Stefano quel giorno, la procura di Oristano non ha mai risposto. Piuttosto, ha fatto seguire una seconda richiesta di archiviazione. A cui, è stato ribadito ieri, la parte civile si opporrà. Le morti in carcere sono sospette per definizione: lo sono nella misura in cui il decesso all’interno di un penitenziario dovrebbe apparire come una anomalia del sistema. Lo Stato dovrebbe custodire il corpo del recluso, rispondere ai suoi bisogni e tutelarne l’incolumità. E quando questo non avviene, quando il corpo perisce, dovrebbe essere lo Stato stesso a pretendere la verità. A questo proposito, intervenendo in conferenza, i parlamentari Roberto Giachetti e Ilaria Cucchi hanno affermato la necessità di portare avanti un disegno di legge che è oggi in Commissione Giustizia e che intende introdurre, anche in Italia, l’autopsia obbligatoria. “I dati statistici rispetto ai decessi nelle strutture detentive – si legge nel ddl – riportano ogni anno diversi casi in cui non sia possibile accertarne precisamente le cause. Sono stati infatti numerosi in passato i casi nei quali le versioni ufficiali presentano zone d’ombra e incongruenze tali da far nascere il sospetto che mascherino degli episodi di maltrattamenti a opera di agenti o di violenza da parte altri detenuti”. Alla fine della conferenza Marisa Dal Corso ha raccontato di aver ricevuto molte segnalazioni da parte di familiari di altri detenuti: le violenze, quando raccontate, ne portano con sé altre, più nascoste e dimenticate. In fondo, quello che chiede lei è quanto chiedono molti di loro: vivere senza il dubbio che un proprio caro sia morto nella menzogna e nell’oblio. (marica fantauzzi)
October 25, 2024 / NapoliMONiTOR
Genova-Marassi, la storia di Youssef e la violenza strutturale sui detenuti più vulnerabili
(disegno di cyop&kaf) Genova, carcere di Marassi. Youssef è un giovane detenuto di venticinque anni con una lunga storia di problemi psicologici e comportamentali. Il 3 ottobre è stato brutalmente aggredito da diversi agenti penitenziari. Il ragazzo – affetto da disturbo borderline della personalità e con una diagnosi di ritardo mentale lieve – si stava recando nella sala colloqui dove era atteso dal suo avvocato. La tensione emotiva che caratterizza il suo stato mentale lo ha portato a un’interazione con un brigadiere della polizia penitenziaria presente, innescando una reazione a catena che si sarebbe certamente potuta evitare. Secondo le testimonianze raccolte, alla provocazione da parte di Youssef – un insulto verbale – è seguita una risposta di forza da parte del brigadiere, che ha colpito il giovane al volto distruggendogli gli occhiali. La situazione è successivamente degenerata in una violenta aggressione collettiva, con altri agenti della penitenziaria che si sarebbero uniti al pestaggio, a ridosso della stessa sala colloqui, lasciando Youssef con ferite evidenti. Nonostante la presenza di testimoni e la denuncia dei fatti, è stato uno dei detenuti che aveva visto Youssef durante l’ora d’aria a diffondere per primo la notizia, raccontando a sua madre le condizioni in cui lo aveva trovato. La donna ha riferito queste informazioni alla sorella del ragazzo, mentre solo due giorni dopo l’episodio, suo figlio, il detenuto che la aveva avvertita, è stato trasferito. Il quadro clinico di Youssef – emerso dalla perizia psichiatrica allegata all’esposto-querela presentato dall’associazione Yairaiha – evidenzia una condizione estremamente complessa che richiede interventi terapeutici specifici e mirati. Nato a Milano, di origini tunisine, Youssef ha manifestato fin dall’adolescenza comportamenti “devianti”, culminati in reati di furto e rapina. Sin dai suoi primi anni di vita ha mostrato segni di difficoltà cognitive, con una diagnosi di disturbi dell’apprendimento come disortografia e discalculia, accompagnati da un quoziente intellettivo sotto la norma (QI 65). Queste problematiche si sono aggravate con l’abuso di sostanze stupefacenti, in particolare cocaina e cannabinoidi, che ha portato anche a comportamenti autolesionistici documentati. Youssef presenta una grave fragilità cognitiva e psicologica, aggravata da un disturbo borderline e antisociale della personalità e da una dipendenza da sostanze (cannabis, cocaina e alcol). Ha vissuto diversi ricoveri per agitazione legata all’abuso di sostanze, con comportamenti esplosivi e impulsivi. Nonostante accetti il trattamento, rifiuta farmaci che ritiene inibiscano le sue emozioni. Durante l’esame psichiatrico ha mostrato limitate competenze cognitive, con difficoltà nell’autocontrollo e una scarsa consapevolezza delle proprie azioni. Il pensiero è povero e concreto, privo di introspezione. Pur non manifestando deliri o allucinazioni, presenta un tono dell’umore deflesso con scatti di rabbia e un’emotività instabile. Le sue capacità progettuali sono grossolanamente limitate e condizionate dall’impulsività. Dal punto di vista psichiatrico forense, la valutazione suggerisce un possibile “vizio parziale di mente”, dovuto alla somma di carenze cognitive e disturbi di personalità: “Si raccomanda un trattamento presso una struttura comunitaria con doppia diagnosi, vincolato a un intervento giuridico, per affrontare il problema delle dipendenze e il disturbo mentale”, è scritto nella relazione. A fronte di situazioni così complesse e delicate, gli episodi di violenza a danno delle persone che vivono questo tipo di sofferenza all’interno delle carceri non sono casi isolati, ma il riflesso di una cultura carceraria che glorifica la repressione di ogni istinto e ignora le esigenze riabilitative dei detenuti, soprattutto quelli più fragili. La mancanza di protocolli adeguati per la gestione delle crisi, e in generale dei comportamenti delle persone affette da disturbi psichici, evidenziano l’assoluta necessità che queste persone vengano curate, e non ristrette in un carcere. La cultura dell’abuso di potere all’interno delle strutture è spesso nascosta inoltre dietro il velo dell’indifferenza istituzionale. Le segnalazioni di violenze, maltrattamenti e vendette personali da parte del personale penitenziario nei confronti dei detenuti più vulnerabili sono numerose, ma raramente portano a sanzioni o a cambiamenti strutturali. Il trasferimento dei testimoni, come nel caso di Youssef, non fa altro che alimentare il sospetto di un sistema che cerca di proteggere i propri abusi. In seguito all’aggressione l’avvocato di Youssef, insieme al Garante dei detenuti e all’associazione Yairaiha, ha chiesto un’indagine urgente per fare chiarezza sull’accaduto e garantire giustizia. La richiesta di acquisizione di testimonianze e filmati di video sorveglianza potrebbe essere cruciale per far luce sulla vicenda e rivelare la verità dietro l’ennesimo episodio di violenza. Tuttavia, resta il dubbio che queste prove possano essere occultate o manipolate, come spesso accade in casi simili, ancor più di quando la parte lesa è un detenuto “ordinario” e quindi considerato maggiormente “credibile”. Invece di riconoscere e affrontare le vulnerabilità, di fatto, anche nella gestione dei singoli casi il sistema gestisce le fragilità con ordinarie punizioni che non fanno altro che esasperare il disagio di persone come Youssef, affette da disturbi mentali complessi. Il carcere, così com’è strutturato, fondato su un meccanismo meramente punitivo, sublima la sua inutilità nell’incapacità di offrire alcun tipo di intervento e supporto adeguato per chi si trova in condizioni così problematiche. Intanto, qualche giorno dopo l’inoltro dell’esposto, è giunta notizia del trasferimento di Youssef al carcere di Alessandria, dove si trova in stato di isolamento, l’ennesima tappa di un doloroso percorso fatto di spostamenti tra istituti penitenziari, senza interesse alcuno per una vera soluzione. Prima di Alessandria, Youssef era infatti stato detenuto a Torino, Cuneo e Marassi, una gestione estemporanea ed “emergenziale” del caso, che non ha mai tenuto conto dei suoi bisogni fisici e psichici. Ogni trasferimento di questo ragazzo da una prigione all’altra non fa che spostare il problema, senza mai affrontare le radici della sua fragilità e anzi peggiorando il suo stato mentale, privandolo di riferimenti stabili, sia umani che medici. Ogni nuovo carcere si traduce per lui in un ulteriore trauma, che compromette la sua già fragile stabilità emotiva e ostacola l’avvio di un percorso terapeutico continuativo, fondamentale per gestire le sue dipendenze e problematiche psichiatriche. Un circolo vizioso che non potrà mai risolvere la condizione di Youssef o né di nessun altro detenuto che si trova in situazioni simili. (luna casarotti, associazione yairaiha ETS)
October 23, 2024 / NapoliMONiTOR