(disegno di ottoeffe)
Uscito nel 2020 in inglese e tradotto in italiano nel 2024 dal collettivo Dalla
Ridda, il libro Per una giustizia trasformativa. Una critica alla cancel
culture, di adrienne maree brown, contiene nella sua traduzione, oltre al testo
dell’autrice statunitense, uno scritto del Laboratorio Smaschieramenti dal
titolo: Ci siamo cancellate? Note su una giustizia trasformativa e
soggettivazione vittimaria nel contesto italiano.
Se il testo di borwn ci fornisce strumenti per avvicinarci alla pratica della
giustizia trasformativa e per comprenderne la sua portata rivoluzionaria
all’interno di un panorama abolizionista, quello di Smaschieramenti ci stimola a
uno sguardo critico, interrogando la sua capacità di scardinare la logica
securitario-carceraria che alimenta le violenze del sistema di giustizia
punitiva. Proprio sulla scia di questa riflessione è fondamentale, a mio avviso,
rileggere la proposta di adrienne maree brown.
Trama alternativa (citando Giusi Palomba) che si contrappone alla risposta
individualizzante e criminalizzante della giustizia punitiva, la giustizia
trasformativa è innanzitutto una presa di responsabilità collettiva di fronte a
un conflitto, a un danno, un abuso o una violenza. Con la consapevolezza che
ogni evento accade all’interno di una cornice più ampia, e che l’agire
individuale è frutto del contesto sociale di cui partecipa, la giustizia
trasformativa mette in discussione la reazione punitiva, escludente e repressiva
che caratterizza la gestione tradizionale dei “crimini”, una risposta troppo
sbrigativa che semplicemente elude il problema, senza preoccuparsi di
affrontarlo nella sua complessità. Con l’obiettivo di intervenire sulle
situazioni e le motivazioni che hanno contribuito al realizzarsi dell’“evento
problematico” (è così che il criminologo abolizionista olandese Louck Hulsman ci
invita a risignificare il “crimine”), la giustizia trasformativa conferisce
centralità alle soggettività coinvolte, occupandosi di guarire le ferite delle
persone violate e di costruire percorsi di cambiamento per chi le ha inflitte.
“La giustizia trasformativa è relazionale, accade su scala comunitaria”, scrive
l’autrice: è una gestione condivisa delle violenze e delle ingiustizie, il cui
verificarsi, lungi dall’essere semplicemente giudicato, è colto come occasione
di riflessione e di apprendimento per l’intera comunità.
Lo scritto del Laboratorio Smaschieramenti problematizza l’affidamento della
gestione dei conflitti alle comunità come pratica capace di garantire
necessariamente l’eliminazione di ogni risvolto punitivo dal processo di
giustizia (il rischio che vi sia un ricatto “penale” di sottofondo può rimanere
anche all’interno di una proposta trasformativa): è solo decostruendo alla
radice le ragioni che alimentano la reazione punitiva su scala personale e
sociale, che si può intraprendere una gestione abolizionista degli eventi
problematici – radicalmente alternativa non solo alle strutture repressive del
complesso carcerario industriale, ma anche alla stessa logica dominante che ne
giustifica e ne alimenta l’esistenza. Quest’idea è in effetti condivisa anche
dalla stessa maree brown, che scrive: “Finché non ci dotiamo di un’analisi
dell’abolizione e dello smantellamento dei sistemi di oppressione, non
realizzeremo cosa abbiamo nelle nostre mani, non deporremo mai gli strumenti del
predatore e non capiremo mai quali sono e potrebbero essere i nostri strumenti”
(nello scritto di Smarchieramenti, così: “Se vuoi cambiare un comportamento non
ti puoi limitare a dire: ‘è sbagliato’, ti devi chiedere che gusto ci prova la
gente, che cosa ci trova, e cercare delle alternative”).
Dietro la logica punitiva, sostiene brown, si cela l’affermazione del potere e
della correttezza di una parte a discapito di un’altra. Punire chi devia dalle
norme o dai valori condivisi, chi commette ingiustizie o attua violenze,
consente a una parte di rafforzarsi dall’indebolimento di un’altra: “Il giudizio
e la punizione sono pratiche di potere su altre persone. È ciò che chi detiene
il potere fa a chi non è in grado di fermarlo, a chi non può chiedere
giustizia”. Come ci suggeriscono anche Angela Davis, Gina Dent, Erica Meiners e
Berth Richie in Abolizionismo. Femminismo. Adesso, quello perpetuato dal sistema
securitario-carcerario è lo stesso atteggiamento dominante dello Stato
patriarcale, nel suo relegare “esseri umani e altre creature allo status di
oggetti di cui disporre”. La violenza strutturale è sempre la stessa: la
legittimazione di un linguaggio, di un punto di vista, di un modo d’essere, di
una norma giuridica o sociale, attraverso la discriminazione dell’alterità.
Immediatamente “colpevole”, “sbagliata” o “deviante”, la singolarità
non-conforme, qualsiasi essa sia, non può esprimersi nella sua differenza:
privata del proprio potere, l’alterità non può alla fine fungere da limite
conflittuale per il ripensamento delle strutture sovrane (e patriarcali), che
anzi si rafforzano della sua esclusione.
Alla luce di questo, come può la giustizia trasformativa porre fine a quella
ciclicità del danno che brown rintraccia nella tradizionale gestione dei
conflitti e degli abusi? Come ci si può liberare da questa violenza e attuare un
processo di giustizia non-violento? Come, ovvero, non-violare l’alterità, non
privarla della sua autonomia, non renderla subalterna?
Alcuni spunti nel merito possono forse dare un contributo a una indispensabile
riflessione collettiva. Prima di tutto, un progetto abolizionista radicalmente
alternativo alla logica securitario-carceraria dovrebbe assicurarsi di estendere
le implicazioni delle sue decostruzioni a qualsiasi alterità, tanto a quella
della “vittima”, quanto – per dirne una – a quella dell’“offensore”; muoversi in
un orizzonte in cui non si pretenda di giudicare la legittimità o
l’illegittimità della sofferenza, ma si immagini di dover curare le soggettività
ferite per il solo fatto che si stiano percependo tali, senza attribuire la
responsabilità a una delle parti e senza proporgli un percorso di cambiamento
privandola della possibilità di condividere o discutere le ragioni che motivano
quell’attribuzione di responsabilità. Farlo significherebbe uscire – e a questo
ci invitano sia Smaschieramenti che adrienne maree brown – dall’idea a cui siamo
abituati, per cui la possibilità di ricevere supporto per la sofferenza che
proviamo sia associata al riconoscimento condiviso di una colpa individuale, e
la presenza di un conflitto o un danno sia associata alla facoltà di giudicare o
responsabilizzare l’individuo ritenuto colpevole. Significherebbe, cioè,
rinunciare a presupporre come valido uno dei punti di vista, ammettendo la
possibilità che vi siano prospettive divergenti, ulteriori e capaci di mettere
in discussione i nostri criteri di valutazione – tanto quelli con cui si
legittimano le sofferenze, quanto quelli con cui si attribuisce la
responsabilità o si propone il cambiamento. Sarebbe, altrimenti, una posizione
ancora subalterna, quella della soggettività “vittima” (etero-determinata), così
come quella della soggettività “offensore” (etero-normata).
Un processo di giustizia alternativo e abolizionista dovrebbe, in sostanza,
trovare le modalità per immaginarsi radicalmente orizzontale senza che vi siano
parti giuste e altre sbagliate già in partenza, ma in cui tutte le parti –
compresa quella che attua la “mediazione” – possano essere messe in discussione.
Per quanto possa apparire a istinto ingiusto, confusionario o paradossale, non è
forse lasciando a chiunque la possibilità di esprimere il proprio disaccordo,
che il processo trasformativo può riguardare l’intera collettività? Non è forse
aprendosi anche alla possibilità di cambiare i parametri con cui si valuta ciò
che è giusto o sbagliato all’interno di una comunità, che si può accogliere,
delle relazioni, tutta la loro complessità? (zoe ermini)
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(disegno di ottoeffe)
2021. Ion Nicolae, all’epoca quarantottenne, vive in carcere, ma in realtà da
tempo, una condizione di isolamento totale. È privo del supporto di parenti
vicini, una situazione che contribuisce all’emissione di un provvedimento per il
suo rimpatrio in Romania. Nicolae resta però in Italia, anzi dopo anni di
detenzione a Verona ottiene la semi-libertà, intraprendendo un percorso di
reinserimento sociale. A dicembre scorso, senza alcun preavviso, è stato
prelevato dalla sua abitazione, dove viveva insieme alla compagna, e trasferito
al carcere di Rebibbia per essere rimpatriato, interrompendo il suo cammino di
lento rientro alla vita.
La storia di Nicolae è segnata da sofferenze profonde. In un momento di estrema
disperazione, a Rebibbia, ha ingerito delle batterie, richiedendo un intervento
chirurgico d’urgenza che gli ha salvato la vita. Eppure ha dimostrato grande
determinazione nel tentativo di ricostruirsi una vita migliore. Lui e la sua
compagna si trovano ora ad affrontare una nuova difficoltà: il loro matrimonio,
previsto per il 12 febbraio a Verona, rischia di non poter essere celebrato a
causa del trasferimento. Quel matrimonio rappresenta un passo importante verso
la stabilità, oltre che un progetto di vita comune. A Verona, gli avvocati
Francesco Spanò e Simone Giuseppe Bergamini hanno presentato una richiesta
urgente per sospendere e revocare il trasferimento di Ion Nicolae, cittadino
rumeno, detenuto con fine pena previsto per il 2027. Quando è è stato trasferito
al carcere di Rebibbia, la sua difesa non era stata informata. “Il trattamento
riservato a Ion Nicolae è disumano e kafkiano”, denunciano gli avvocati,
sottolineando come al loro assistito non sia stata garantita un’adeguata
informativa sui suoi diritti e sulla decisione di trasferimento, violando così
il suo diritto alla difesa.
Chi conosce Nicolae, a cominciare dai suoi avvocati, è preoccupato per le gravi
conseguenze sul benessere psicofisico dell’uomo, incluso il rischio di atti di
autolesionismo, che potrebbe comportare questa decisione. La sospensione e la
revoca del trasferimento sono stati chiesti, affinché l’uomo possa scontare il
residuo della pena in Italia. “Nicolae sta per sposarsi con una cittadina
italiana e ha costruito la sua vita sulla legalità, richiedendo misure
alternative alla detenzione”, spiegano gli avvocati. “In Romania non avrebbe la
possibilità di esercitare tali facoltà”.
Il diritto al matrimonio è sancito dall’articolo 29 della Costituzione, da
trattati internazionali come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo
(articolo 8) e la Dichiarazione universale dei diritti umani. Per i detenuti il
matrimonio rappresenta un elemento essenziale per il recupero di un benessere
personale e sociale. Negare questa opportunità a Nicolae significa violare un
diritto fondamentale e interrompere un progetto di vita. Tuttavia, il caso di
Nicolae non è isolato, anzi mette in evidenza un problema più ampio legato al
diritto all’affettività per i detenuti. Nel gennaio 2024, la Corte
Costituzionale, con la sentenza numero 10/2024, ha riconosciuto il diritto dei
detenuti a vivere momenti di intimità con i propri cari, includendo i legami
affettivi e sessuali. Tuttavia questa sentenza, sebbene importante, si scontra
con una realtà carceraria che non dispone (né si predispone a farlo) delle
strutture adeguate per rendere effettivi tali diritti. La mancanza di spazi
adeguati e il sovraffollamento degli istituti compromettono la possibilità di
costruire e mantenere relazioni significative, fondamentali per l’equilibrio
psicologico e il reinserimento sociale. Tali legami, tuttavia, sono riconosciuti
come elementi essenziali per il recupero e la riabilitazione. Nel caso di
Nicolae, se l’uomo venisse rimpatriato in Romania, le conseguenze sarebbero
molto gravi. Le condizioni delle carceri rumene sono ancora peggiori di quelle
italiane: lo spazio vitale per detenuto è spesso inferiore ai due metri
quadrati, violando standard minimi di dignità. Inoltre, sono stati segnalati
maltrattamenti e abusi fisici, tra cui la pratica brutale della “falaka,” che
consiste nel colpire violentemente la pianta dei piedi del prigioniero. Nicolae,
già emotivamente fragile a causa del suo passato e degli episodi di
autolesionismo, rischierebbe di trovarsi in una situazione ancora più critica.
Questo trasferimento, oltre a violare i diritti processuali di un detenuto,
rappresenta un esempio emblematico delle difficoltà che il sistema penitenziario
italiano, strutturalmente violento e ingiusto, pone di fronte al rispetto della
dignità umana. La vicenda di Nicolae richiama l’urgenza di tradurre in pratica
principi base che sono sanciti dalla legge, come garantire ai detenuti il
diritto al matrimonio e alla sfera affettiva. Investire in strutture adeguate,
come spazi per i colloqui intimi, non deve essere considerato un privilegio, ma
una componente fondamentale di un sistema penitenziario che ponga al centro la
dignità della persona. Offrire ai detenuti la possibilità di mantenere legami
affettivi è un passo indispensabile, a patto che il recupero sociale non voglia
essere solo una promessa mancata, ma una realtà concreta. (luna casarotti,
associazione yairaiha ETS)
(disegno di ginevra naviglio)
Quello dell’affettività in carcere è un tema cruciale e ampio, che ingloba
questioni come lo spazio dato ai legami personali dentro le mura degli istituti,
le pratiche che sostengono o negano queste relazioni, le dinamiche e i rapporti
di potere che le modellano. Non è solo una questione di diritti da rivendicare,
ma di comprendere come questo diritto costituisca un terreno complesso e
significativo, un intreccio di dinamiche di esclusione, pratiche di controllo e
indisponibilità all’ascolto di istanze di semplice umanità.
L’espansione in termini quantitativi e l’estensione delle funzioni del carcere,
lo configura ogni giorno di più come luogo di marginalità, spazio in cui vengono
sospesi non solo i corpi, ma anche le relazioni: i detenuti vivono in un sistema
finalizzato ad allontanare se non a recidere i legami affettivi, sfilacciati,
ridotti – come spiega Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti e
presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia – a pochi momenti
privi di privacy, “che spesso non bastano neppure per mantenere vivo un
rapporto”.
Già nel 2012, con la sentenza numero 301, la Corte Costituzionale aveva
sottolineato l’importanza di riconoscere ai detenuti il diritto all’affettività,
chiedendo al governo di intervenire per regolare questa materia. La Corte
affermava che negare del tutto l’intimità e i legami affettivi costituiva una
violazione della dignità umana, in contrasto quindi con la funzione
costituzionale della pena.
Da allora non ci sono stati interventi legislativi in questa direzione, così
dodici anni dopo, nel 2024, la Corte ha fatto un ulteriore passo avanti,
dichiarando incostituzionale l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, che
impediva ai detenuti di avere colloqui intimi con il coniuge, il partner
dell’unione civile o la persona convivente senza la sorveglianza del personale
di custodia. Ero in carcere, quella mattina del gennaio di un anno fa, quando la
notizia fece ingresso nel femminile di Pozzuoli. Alcune detenute immaginarono,
insieme a me e alle altre operatrici di Antigone presenti, quel momento tanto
sognato: quella sentenza non rappresentava solo un diritto riconosciuto, ma una
flebile speranza di recuperare un pezzetto di umanità che credevano perduto. Per
altre, invece, l’idea di non essere controllate a vista dal personale
penitenziario era un’eventualità remota, una possibilità mai presa in
considerazione, accolta con una certa diffidenza e scetticismo.
VUOTO LEGISLATIVO E DISCREZIONALITÀ
La decisione della Corte si basa sui principi fondamentali della Costituzione,
richiamando l’articolo 3 (quello sull’uguaglianza davanti alla legge),
l’articolo 27 (sulla funzione della pena) e l’articolo 117, legato alla
Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Consulta ha sottolineato come la
privazione del diritto all’affettività non sia giustificabile, e contribuisca a
rendere il carcere un luogo ancora più desocializzante e deumanizzante: la
negazione di una dimensione così essenziale non solo aliena gli individui, ma
taglia ogni filo con la società, spingendoli a vivere in una realtà priva di
legami autentici. Va sottolineato, in questo senso, che l’Italia resta agli
ultimi posti in Europa sul sostegno ai legami affettivi dei detenuti (paesi come
Francia, Olanda e Romania offrono già da tempo possibilità di incontri intimi in
contesti riservati). Un tabù che sembra avere radici anche più resistenti degli
interventi della Consulta: può capitare, per esempio, che un magistrato di
sorveglianza – è successo a Torino – dichiari inammissibile il reclamo di un
detenuto del carcere di Asti che aveva richiesto di poter effettuare un
colloquio intimo con sua moglie, sterilizzando l’orientamento della Corte
Costituzionale e sollevando dubbi sulla capacità del sistema giuridico di
tradurre i principi sanciti dalla Consulta in diritti concretamente esigibili (a
risolvere la situazione è dovuta intervenire la Corte di Cassazione, ribadendo
che il diritto ai colloqui intimi non può essere ridotto a “una semplice
aspettativa”: questo tipo di relazione rappresenta infatti una legittima
espressione del diritto all’affettività e alla cura dei legami familiari,
limitabili solo per ragioni di sicurezza, ordine o esigenze giudiziarie).
Considerando il livello di sovraffollamento delle carceri, il quadro è anche
quantitativamente critico: ci sono in Italia oltre sessantamila persone
detenute, a cui vanno aggiunti i rispettivi partner, per le cui affettività e
sessualità sembra non esserci né spazio né interesse. Parliamo, è bene ribadirlo
a oltranza, di una dimensione essenziale, capace di caratterizzare (basta citare
anche solo l’enciclopedia Treccani) “le tendenze e le reazioni psichiche di un
individuo”. La repressione totale di questa dimensione, in un contesto come
quello carcerario, risulta totale. Michele Esposito, in una sua analisi sul
numero zero di Ristretti Orizzonti, ha osservato come la soppressione
dell’espressione affettiva e sessuale dell’individuo non solo ne aggravi le
condizioni fisiche e psichiche, ma danneggi anche la sua vita familiare e
sociale: “Di tutti gli aspetti volutamente negativi che il carcere infligge,
questo è certamente il peggiore e, alla lunga, il più deleterio per la psiche di
una persona, perché distrugge la vita affettiva del detenuto e delle persone a
lui legate, e quindi anche l’istituzione della famiglia”. La dimensione
dell’affettività non investe infatti solo la vita di coppia e l’aspetto
sessuale: riguarda anche le relazioni tra il detenuto o la detenuta con i propri
figli, e la tutela della bigenitorialità, intesa come il diritto del figlio di
conservare un rapporto equilibrato e continuativo sia con la figura paterna che
con quella materna, ricevendo cura, educazione e istruzione da entrambe.
Ancora Favero ha spiegato come l’affettività comprenda anche momenti di
condivisione e quotidianità essenziali per il benessere psicologico di un
detenuto e per mantenere i legami familiari, mostrando come anche la semplice
possibilità di pranzare con i propri familiari, in quanto semplice atto di
condivisione, possa rappresentare un momento di contatto umano essenziale per
salvaguardare un certo grado di benessere psicologico nei detenuti, e aiutare a
mantenere saldi i legami affettivi anche in un contesto di privazione della
libertà.
A dispetto delle aperture legislative, tuttavia, la realizzazione del diritto
all’affettività in carcere resta un obiettivo ambizioso e lontano. L’assenza di
una normativa organica che disciplini le modalità di esercizio di questo diritto
continua a lasciare spazio a interpretazioni restrittive e discrezionali,
subordinando i diritti fondamentali a logiche premiali. Al momento, l’unica
possibilità per i detenuti di vivere la propria intimità durante la detenzione è
legata ai permessi premio, che, sebbene non concepiti per soddisfare tale
esigenza, finiscono per assolvere a tale funzione (un meccanismo che
naturalmente esclude una grande parte della popolazione carceraria, perpetuando
una disparità di trattamento che comprime ulteriormente la dignità umana).
Occorre invece un intervento legislativo chiaro e coraggioso che superi le
logiche di concessione condizionata e riconosca questo diritto come un elemento
da tutelare a ogni costo durante l’esecuzione della pena, integrandolo come
principio all’interno del sistema penitenziario italiano. La privazione
sistematica di legami affettivi e intimi non è solo contraria alla Costituzione,
ma è anche una delle pratiche più violente di questo sistema, capace di palesare
la vera funzione del carcere, dispositivo di controllo le cui armi principali
sono marginalizzazione e deumanizzazione dell’individuo. (rossella faella)
(disegno di cyop&kaf)
L’interporto di Teverola sembra impazzire a dicembre, le processioni dei tir non
finiscono mai e si impiega molto più tempo per arrivare in aula bunker.
L’aumento produttivo nelle ferie natalizie è l’obiettivo di fase che i padroni
inseguono sempre e quel disturbo ossessivo attraversa i magazzini di cemento
determinando ritmi di lavoro infernali.
Anche le campagne a ridosso del carcere di Santa Maria Capua Vetere sono
affollate da un numero di braccianti superiore al solito. A pochi passi dal
luogo in cui si celebra il processo si intravedono i caporali che sorvegliano la
raccolta dei friarielli tra i falò delle prostitute.
L’addensarsi disgregato di questi micromondi rende quel territorio una bestia
unica.
* * *
Prima della sospensione delle ferie natalizie la Corte di Assise ha concluso
l’audizione delle persone offese individuate dalla Procura. L’8 gennaio il
processo riprenderà con la batteria di testi dell’accusa in giacca e cravatta
che potranno ricostruire le dinamiche della Mattanza dal punto di vista
“interno”. Si dovranno ricostruire le decisioni degli apici della catena di
comando e si dovrà circoscrivere quel momento temporale rimasto finora in
controluce in cui i vertici decisero di operare con una perquisizione
straordinaria, detonando la ferocia di circa trecento uomini della
penitenziaria.
Il tempo sta logorando l’attenzione di tutti. I visi in aula sono stanchi,
implorano a ogni udienza la fine di questo dibattimento. I giudici popolari sono
annoiati e sempre più distaccati da quanto accaduto nel carcere Francesco
Uccella il 6 aprile del 2020. Il presidente della Corte e il giudice a latere
rimangono vigili nel corso delle lunghissime udienze settimanali ma dalla mimica
dei loro visi traspare la fatica accumulata negli anni. Le due sostitute
procuratrici e il procuratore aggiunto sono in una sorta di trance ritmata come
Darwīsh, mantengono il punto e sanno che dovranno farlo fino alla fine perché
con questo processo si stanno giocando anche le loro ambizioni professionali.
Gli avvocati sono diminuiti con il tempo; quelli degli imputati sono una decina,
ma tre o quattro portano avanti il lavoro di tutti e sono quelli che hanno studi
legali organizzati alle spalle, che semplificano il lavoro di analisi degli
atti. I difensori delle parti civili che continuano a seguire in aula il
processo si contano sulle prime dita di una mano.
Nonostante la difficile routine, come in ogni maxiprocesso alcune udienze
rimangono significative anche dopo anni di dibattimento: la dialettica tra le
parti si accende d’improvviso e si conserva tesa come nei primi giorni. I
difensori dei poliziotti hanno infatti tentato come sempre di rompere quella
inerzia con eccezioni e richieste. È il caso della scomparsa della registrazione
del video colloquio tra Hakimi Lamine e il magistrato di sorveglianza avvenuto a
poche ore di distanza dalle violenze del 6 aprile. Non è chiaro se il colloquio
via Microsoft Teams sia stato registrato dal giudice ovvero se il file sia stato
perduto. Le difese degli imputati hanno chiesto delucidazioni sul punto e il
sequestro del portatile del magistrato che contiene i file degli altri colloqui
con i quindici prigionieri tradotti al Danubio. La notizia è rimbalzata sui
giornali e nel solito tg regionale, che tempestivamente cerca di sminuire
l’indagine e i fatti del 6 aprile. Il tentativo di fondo degli avvocati è di
suggerire l’esistenza di una macchinazione tra gli organi che hanno agito in
fase di indagine e la scomparsa della registrazione del video colloquio offre
una sponda facile a questo gioco di ombre.
In realtà, questa stranezza impatta poco o nulla sulle risultanze probatorie.
Quel video potrebbe soltanto aggiungere un pezzetto alla storia del pestaggio di
Hakimi e alle sue condizioni psicologiche in isolamento. Rispetto ai danni del
pestaggio ci sono le consulenze mediche della Procura e per le fragilità esplose
dopo le mazzate ci sono le testimonianze dei compagni di prigionia con cui
Hakimi ha condiviso le ultime ore prima di morire. Il video avrebbe dato
sicuramente un volto e una voce al fantasma di Hakimi ma non avrebbe aggiunto
molto di più.
Proprio sulla morte dell’algerino, sulle condizioni del reparto Danubio e sulle
vicende intercorse dal 6 aprile (giorno del trasferimento) al 4 maggio (giorno
della morte) si è dilungato Mahdi, il lavorante di sezione.
P.M.: Conosceva il detenuto Hakimi Lamine?
Teste: Stato suo piantone.
P.M.: È stato il suo piantone. Ricorda che quella sera è arrivato dal reparto
Nilo?
Teste: Sì.
P.M.: L’ha incontrato quindi al Danubio?
Teste: Sì.
P.M.: Ricorda come stava, in che condizioni era?
Teste: Stava distrutto, aveva un bombolone qua, una emorragia.
P.M.: Dietro la testa?
Teste: Sì.
P.M.: Cioè era gonfio dietro la testa?
Teste: Una cosa gonfia, un’emorragia, ha preso la botta, forse non è uscito
sangue, perciò è rimasto.
[…]
P.M.: Fu più preciso, glielo ricordo: “Lui era particolarmente triste perché
voleva rivedere sua madre; alle due di notte l’appuntato del Danubio venne a
chiamarmi per farmi parlare con lui e farlo calmare”.
Teste: Sì, un minuto mi ha fatto uscire, ho parlato con lui, mi ha detto:
“Mahdi, mamma”, piangeva, poi l’assistente mi dice: “Mahdi, basta”, perché
l’unico io che parlava sua lingua, con l’assistente mai stato d’accordo…
Lamine è stato picchiato più volte e gettato da solo in una cella di isolamento.
Dopo aver ricostruito l’ingresso in reparto dei quindici prigionieri ritenuti
responsabili della protesta del 5 aprile e le urla di sofferenza di Hakimi,
Mahdi ha affrontato il controesame violento delle difese. Senza troppi giri di
parole gli avvocati degli imputati hanno provato a insinuare che i lavoranti del
Danubio governassero lo spaccio interno di farmaci e che siano stati loro a
procurare il cocktail letale che ha ucciso Hakimi. Lo sforzo interpretativo
degli uomini in toga ha raccolto solo suggestioni che non hanno trovato
riscontri solidi, poggiando esclusivamente sulle voci di corridoio.
Anche Morouane Fakhri è un fantasma in questo dibattimento. È morto dopo qualche
anno dalla Mattanza dandosi fuoco nel carcere di Pescara per un motivo rimasto
sconosciuto. Il suo compagno di cella ha ricordato le pene sofferte e le sue
parole.
P.M.: È riuscito a vedere se Fakhri è stato picchiato?
Teste: Hanno picchiato lui di più.
P.M.: Più di lei?
Teste: Sì.
P.M.: Anche lui era stato messo in ginocchio, che cosa ricorda?
Teste: Sì, sì, perché hanno riconosciuto lui, perché lui venuto da poco da altro
carcere, Cassino.
P.M.: Hanno riconosciuto lui in che senso, mi sa spiegare?
Teste: Perché loro dice: “Un’altra volta qua?”, perché hanno detto che forse nel
carcere che stava hanno fatto rivolta là.
P.M.: Quindi veniva da un carcere dove c’era stata la rivolta?
Teste: Sì, sì, sì.
P.M.: Si ricorda da che carcere veniva Fakhri?
Teste: Cassino.
P.M.: Chi l’ha riconosciuto?
Teste: Una delle guardie ha detto: “Un’altra volta tu qua?”.
P.M.: E quindi l’hanno picchiato più di lei?
Teste: Sì, sì.
P.M.: Questa guardia che ha detto: “Ancora tu qua”, l’aveva mai vista?
Teste: No, perché è venuta da altro carcere, io mai visto lui.
[…]
Teste: 6 aprile, perché quando loro stavano picchiando altri detenuti noi
stavamo guardando tramite finestra, allora Fakhri dice: “Vedi che dopo vengono
da noi”; io ho detto: “Come vengono da noi se noi non abbiamo fatto niente?”.
[…]
Teste: Sì, stavamo guardando da finestra che stavano picchiando gente e
mettevano al passeggio, allora Fakhri mi ha detto: “Senti, preparati che dopo
vengono da noi”; dico: “Come mai? Io non ho fatto niente, come fanno a venire
qua?”; ha detto: “Così succede, è successo così a Cassino”.
* * *
I capi d’accusa da 73 a 84 del decreto che dispone il giudizio riguardano
calunnie, falsi, depistaggi, rilevazioni di segreti d’ufficio, favoreggiamento e
omesse denunce. Alcune contestazioni riguardano le condotte realizzate per
coprire il massacro e giustificare i trasferimenti; altre, invece, si
riferiscono alle attività di mascheramento che sono state realizzate per sviare
le indagini.
Prima della pausa natalizia la Procura ha offerto alla Corte di Assise una prima
interessante testimonianza con la deposizione della psicologa esperta del
Danubio, ancora in servizio presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere. La
giovane dottoressa ha mostrato da subito una certa rigidità fin dalle prime
risposte.
P.M.: Si ricorda se lei è stata componente della riunione del GOT del 4 maggio
2020 in relazione anche a questo detenuto deceduto Hakimi Lamine, deceduto il 4
maggio 2020?
Teste: Probabilmente, visto che ha il verbale, sì.
P.M.: Adesso le faccio vedere il verbale, glielo mostro, c’è anche la sua firma
apparente, glielo lascio in visione e lei mi dice se conferma la sua
sottoscrizione e lo tiene con sé per le domande che le farò. Si dà atto che
viene posto in visione il verbale già acquisito agli atti del dibattimento del 4
maggio 2020 ore 16:30, verbale di riunione GOT, in cui si esprime parere per
l’allocazione dei detenuti Irollo Emanuele, D’Alessio Luigi e Hakimi Lamine; è
data la presenza della psicologa ex art. 80 OP dottoressa Affinito, esperto
psicologo.
La psicologa ha partecipato alla riunione del gruppo di osservazione e
trattamento che si riunì con una “certa agitazione” il giorno della morte di
Lamine per ratificare l’allocazione dei detenuti e in particolare del ragazzo
algerino morto quel giorno nella sezione ex art. 32.
P.M.: Su questo punto lei ha reso vari passaggi dichiarativi, le leggo il primo
a pagina 2: “Quel giorno la situazione era caotica, ricordo che entrambi i
direttori facevano dei nomi, facevano delle telefonate, parlando del problema di
quei giorni che erano trascorsi senza che i detenuti fossero stati allocati nel
luogo dove dovevano esserlo; entrambi i direttori erano preoccupati per tutti e
tre i detenuti oggetto di quel verbale e non solamente per Hakimi Lamine”. Si
ricorda?
Teste: A oggi non ho questo ricordo vivo, non ricordo le telefonate, i
riferimenti alle telefonate.
La testimonianza della dottoressa non ha spiccato per coraggio e rigore
professionale, forse il fatto che è ancora impiegata nel medesimo istituto ha
aggiunto un grado di insicurezza maggiore.
P.M.: Sempre nello stesso verbale, a pagina 2 ha dichiarato: “All’esito delle
manifestate preoccupazioni la dottoressa Parenti e il dottore Rubino hanno
deciso di compilare il verbale nel modo in cui si legge; i due si rimpallavano
le responsabilità e l’uno voleva che l’altro comparisse nel verbale, cercando di
non darsi per presente e ciò in relazione alle loro preoccupazioni e agitazione;
alla fine decisero di essere formalmente presenti entrambi, nei fatti come si
coglie dalla lettura del verbale la dottoressa Parenti firmò il verbale nella
parte in cui esprimeva parere favorevole quale componente del GOT, mentre Rubino
firmò la parte in cui ratificava l’allocazione nella sezione ex art. 32 RE”.
Teste: Sì, lo ricordo questo.
[…]
P.M.: Nello stesso verbale a pagina 3 ha dichiarato, sempre nel contesto della
problematica della verbalizzazione e di quello che è scritto: “In quel contesto
io pensavo principalmente al decesso di quel detenuto e non ho fatto caso
all’indicazione scritta che so essere non vera nella parte in cui si legge nel
verbale che non si è ancora potuto dare seguito ai comminati 15 giorni
dell’EAC – esclusione dalle attività in comune – per mancanza di posti in stanza
singola, atteso che so bene che l’EAC può essere eseguito anche in una stanza
non singola, atteso che il provvedimento di isolamento non è connesso
indissolubilmente alla sanzione disciplinare dell’EAC”.
Comunque, oltre alla paura di esporsi, vi è un altro elemento di fragilità colto
immediatamente dalle difese degli imputati e riguarda la presenza di elementi
indizianti a carico della psicologa. In fondo, la signora ha ammesso in udienza
di aver partecipato alla redazione di un verbale falso e questo costituirebbe
per gli avvocati dei dirigenti penitenziari motivo per interrompere la
testimonianza e trasmettere gli atti agli organi inquirenti. L’eccezione, non
accolta dalla Corte di Assise perché «detta affermazione a giudizio del Collegio
non consente di ritenere la dichiarazione auto indiziante…», ha centrato
l’obiettivo di rendere ancora più tesa e frenata la testimonianza.
In ogni caso, il passaggio è significativo sia per capire il modus operandi dei
dirigenti per giustificare le condotte abnormi dell’operazione straordinaria del
6 aprile, che per cogliere la difficoltà di chi ha avuto un ruolo marginale, di
“lieve” coinvolgimento. Anche il comparto amministrativo sembra essersi chiuso a
riccio provando a evitare ogni tipo di testimonianza scomoda. Infatti,
ricordiamo che nessuno (a parte i detenuti e i loro familiari e poche
associazioni) ha denunciato quella mattanza. Per l’ormai noto spirito di corpo
era quasi impossibile che lo facessero gli agenti, ma non lo hanno fatto i
medici, gli infermieri, gli psicologi, i funzionari giuridico-pedagogici, i
dirigenti dell’istituto… tutti “cuor di leone” fedeli alla Costituzione italiana
e alcuni stanno già incassando il gettone di carriera.
* * *
Nella stagione invernale le udienze finiscono con il buio. Le strade intorno al
carcere sono poco illuminate ma il traffico intenso e il via vai della Statale
danno la sensazione che in quei mondi ci sia sempre lo stesso tempo. Mentre
siamo in coda alla radio danno la notizia dell’indagine di Trapani: una
squadretta di agenti avrebbe torturato e seviziato detenuti con fragilità
psichiatriche nella sezione blu, destinata all’isolamento. Le parole del
procuratore Paci sono nette: «A volte i detenuti venivano fatti spogliare,
investiti da lanci d’acqua mista a urina e praticata violenza quasi di gruppo,
gratuita e inconcepibile… In questa sorta di girone dantesco sembra leggere
parti dei Miserabili di VictorHugo».
Il pensiero improvvisamente corre all’8 gennaio, quando sentiremo in udienza il
dottor Basentini, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel
periodo dell’emergenza pandemica, di quando implosero le carceri, dei morti di
Modena… e nel frattempo ripetiamo sottovoce “cantami o diva l’ira funesta degli
ultimi e aiutami a gestire la rabbia…”. (napolimonitor)
(archivio disegni napolimonitor)
Lo sportello di supporto psicologico per i familiari dei detenuti, da cui prende
le mosse anche questa rubrica, è quasi arrivato al suo secondo anno di attività.
Oggi vi partecipano non solo i familiari delle persone uccise dal carcere, ma
anche quelli dei detenuti che vivono un calvario all’interno del sistema
penitenziario a causa di patologie non conciliabili con la detenzione, mancanza
di cure fisiche e psicologiche. Vi sono inoltre ex detenuti che hanno vissuto
l’oscurità delle celle e che condividono la propria storia. Tutti sono benvenuti
a partecipare, ogni contributo è importante. Le riunioni si svolgono ogni
venerdì dalle 19:00 alle 21:00. Il link per accedere alla riunione settimanale
viene pubblicato qualche giorno prima dell’incontro sul gruppo Telegram “Morire
di carcere” e su quello Whatsapp “Sportello di supporto psicologico per i
familiari dei detenuti”.
Adesioni e lettere possono essere inviati anche all’indirizzo e-mail
dell’associazione Yairahia Ets (yairaiha@gmail.com). Avvocati, volontari, membri
di associazioni, garanti delle persone private della libertà sono invitati a
unirsi e a condividere il proprio punto di vista.
* * *
Immagina un orologio fermo, con le lancette incrinate, in primo piano.
L’inquadratura si allarga lentamente su una cella spoglia, illuminata solo dalla
luce fioca di un neon tremolante. Immagina una lunga sequenza di calendari
appesi alla parete, che si sfogliano all’indietro, mentre voci sussurrano
qualcosa di poco chiaro. Il vento sfoglia lentamente le pagine, fino a fermarsi
su una pagina bianca. Al centro, qualcuno ha scritto: “Anche nel buio, c’è
luce”. Immagina novanta persone che si sono tolte la vita. Novanta detenuti,
ognuno con una storia, un sogno infranto, una voce mai ascoltata. Immagina i
loro volti, le loro speranze, che si dissolvono nel silenzio. Ogni numero è una
vita, ogni vita è un dolore che si aggiunge a quello di chi resta.
Immagina un uomo guidato dal sogno di dare un futuro migliore alla sua famiglia:
«Mi chiamo… O forse no. Qui dentro i nomi non contano più. Solo i numeri. Solo
il silenzio…».
Immagina Giuseppe Santoleri seduto sulla branda, il volto nascosto tra le mani,
il grigio della cella che sembra avvolgerlo. Immagina di essere un’ombra tra
tante. «Ho gridato aiuto fino a perdere la voce. Ma qui le parole rimbalzano sui
muri e tornano indietro, vuote…».
Immagina Fabiano Visentini appoggiato contro il muro, con lo sguardo fisso nel
vuoto: «Il dolore è diventato il mio compagno di cella. L’unico che non mi
abbandona mai…». Le sue richieste di farmaci antalgici rimangono inascoltate. Il
dolore diventa insopportabile. Un uomo che pensava solo a scontare la sua pena,
abbandonato dal sistema che doveva curarlo.
Immagina Giuseppe Pietralito, inginocchiato sul pavimento mentre guarda le
sbarre: «Cercavo un lavoro, una possibilità. Ho trovato porte chiuse e
silenzio…». Ai suoi legali confessa il peso della sua condizione, la sfiducia
che lo divora. Il 2026 sembrava troppo lontano. Un lenzuolo diventa la sua
ultima scelta.
Immagina Giuseppe Pilade seduto su un letto, con le mani che stringono le
coperte: «Otto mesi. Duemilaquattrocento ore di solitudine. Il tempo qui non
scorre, striscia…». Un’anima fragile, abbandonata all’isolamento. Otto mesi di
solitudine forzata. Le sue richieste di aiuto rimbalzano su muri di
indifferenza. Un passato di tentativi di evasione diventa la sua condanna
definitiva. La sua vulnerabilità ignorata, insieme a una sofferenza psicologica
destinata a crescere.
Immagina un giovane, giacente immobile sul letto bianco. Intorno a lui, la sua
famiglia in lacrime. Il silenzio è rotto solo dal suono ritmico dei macchinari.
Dottore: «Ha espresso già da tempo la volontà di donare i suoi organi». Un
ultimo gesto d’amore. Anche dalla più profonda disperazione, ha scelto di donare
speranza. Di trasformare il suo addio in un nuovo inizio per altri.
Ogni giorno, qualcuno smette di respirare. Non per mancanza d’aria, ma per
eccesso di disperazione. Immagina più di seicento vite spezzate in dieci anni.
Numeri che crescono, dolori che restano invisibili. Dietro ogni cifra c’è un
volto, una storia, una voce mai ascoltata. Immagina una scritta: “Novanta vite
spezzate nel 2024. Questa non è una storia. È la nostra realtà”. Immagina una
sequenza di titoli di giornale che si ripete anno dopo anno: “Emergenza
carceri”, “Sovraffollamento in carcere”, “Ancora un suicidio”.
La voce narrante legge i nomi e le date degli ultimi suicidi. Immagina un
racconto che non è solo dolore. Un invito a ricordare che, dietro ogni numero,
c’è una vita. Un’anima che ha bisogno di essere ascoltata.
Immagina la parola “FINE” sullo schermo, seguita da un punto interrogativo
lampeggiante: una domanda assillante per una società che continua a voltare lo
sguardo dall’altra parte, prima che tutto svanisca. Non sono storie di fantasia.
Sono cronache quotidiane di un sistema che ignora il significato della parola
“riabilitazione”. Ogni nome citato è reale, ogni storia è vera, ogni dolore è
stato vissuto nella solitudine di celle che sono diventate tombe per sogni e
speranze. E soprattutto, aleggia in queste storie la legge non scritta del
carcere, che impone silenzio, che stabilisce chi può parlare e chi deve tacere,
che induce a non fidarsi di nessuno.
Immagina il calendario sul muro che continua a segnare i giorni, mentre nuove
storie si aggiungono a un archivio di dolore che sembra non avere fine. Le
pagine si sfogliano, portando con sé il peso di vite interrotte, di grida
inascoltate, di dignità negate. Non è fiction, è la realtà quotidiana delle
carceri italiane, dove ogni giorno qualcuno perde la speranza, dove la
solitudine diventa una condanna più pesante di qualsiasi sentenza, dove
l’indifferenza uccide più delle sbarre. Il contatore anno dopo anno continua a
girare, inesorabile.
IL TRAGICO ELENCO DEGLI OMICIDI DI STATO
30 dicembre 2024. Muore Wajdi Hella, tunisino di ventisette anni, trasferito
dalla casa circondariale di Ferrara a quella di Piacenza per motivi disciplinari
e lì posto in isolamento. All’inizio della sua detenzione a Piacenza gli era
stato attribuito un rischio suicidario medio, successivamente tolto. Il giovane
si sarebbe messo il cappio attorno al collo e sarebbe salito su una sedia. Un
agente di polizia penitenziaria, accortosi della situazione, sarebbe corso a
prendere le chiavi della cella, ma al suo ritorno ha trovato il ragazzo
impiccato.
17 dicembre 2024. Un giovane detenuto italiano di ventitré anni si toglie la
vita nel carcere di Mammagialla a Viterbo. Si impicca alla finestra della cella.
Nome non reso pubblico.
15 dicembre 2024. Luca Lunardi, italiano, cinquant’anni, aveva tentato di
togliersi la vita impiccandosi in una cella del reparto “transito” della Casa di
reclusione di Alessandria San Michele. Soccorso, muore pochi giorni dopo in
ospedale.
6 dicembre 2024. Robert Octavian Radion, ventiquattro anni, si toglie la vita
nella casa circondariale di Montorio, impiccandosi con un lenzuolo nella sua
cella. Dopo un’agonia durata due giorni spira all’ospedale di Verona. Nonostante
fosse stato identificato come un ragazzo con “seri problemi psichiatrici”, si
trovava in carcere anziché in una struttura di cura.
4 dicembre 2024. Amir Dhouiou, ventuno anni, di origini tunisine, si suicida nel
carcere di Marassi. Era stato collocato al centro clinico, nella sezione
speciale per detenuti con problemi di salute, e sottoposto a monitoraggio
continuo.
28 novembre 2024. Cristian Francu, cinquantuno anni, di nazionalità rumena, si
toglie la vita gettandosi dal quinto piano dell’ospedale di Perugia. Era stato
trasferito dal carcere di Terni al reparto di medicina interna poco prima del
tragico gesto.
27 novembre 2024. Luca Zampini, quarantacinque anni, muore in ospedale dopo
essersi impiccato nella sua cella del carcere di La Spezia.
26 novembre 2024. Giampiero Orrù, ventisette anni, si toglie la vita in carcere
a Uta. Aspettava il nulla osta per essere trasferito in comunità. I suoi organi
hanno permesso di salvare cinque vite. Il suo cuore è stato donato a una ragazza
di diciannove anni affetta da cardiomiopatia, restituendole la possibilità di
una vita normale. Il fegato ha dato speranza a un uomo di sessantotto anni
colpito da una grave epatopatia. Il rene destro è stato trapiantato a una donna
di quarantaquattro anni che lottava contro l’insufficienza renale, mentre il
pancreas e il rene sinistro hanno cambiato la vita di un uomo di quarantasette
anni affetto da una forma grave di diabete.
21 novembre 2024. Benito Viscovo, ventotto anni, si suicida impiccandosi con un
lenzuolo nel carcere di Poggioreale.
15 novembre 2024. Ben Mahmoud Moussa, tunisino di ventotto anni, si suicida
pochi giorni dopo essere stato arrestato in stato confusionale a Marassi. Gli
addetti alla sorveglianza cercano di salvarlo ma lui muore in ospedale poche ore
dopo. Fuori dal carcere aveva un lavoro, faceva il pizzaiolo, ed era in cura per
disturbi mentali.
5 novembre 2024. T.M., un uomo marocchino di quarantuno anni, si toglie la vita
nel carcere di Venezia. A febbraio avrebbe riacquistato la libertà, ma ha deciso
di suicidarsi nella sua cella utilizzando una cinghia.
2 novembre 2024. Vincenzo Bellafesta, cinquantatré anni, si suicida nel carcere
di Santa Maria Capua Vetere. Utilizza un lenzuolo per impiccarsi.
28 ottobre 2024. Federico Librere, cinquantasette anni, descritto come un
detenuto “tranquillo”, si toglie la vita nel carcere di Prato.
22 ottobre 2024. Giuseppe Lacarpia, sessantacinque anni, si impicca nella sua
cella del carcere di Bari.
11 ottobre 2024. Pasquale Del Mastro, quarantaquattro anni, si suicida nel
carcere di San Vittore strangolandosi con i lacci delle scarpe nel suo letto.
8 ottobre 2024. Un uomo di quarant’anni, di nazionalità tunisina, si toglie la
vita impiccandosi nel carcere di Vigevano. Gli mancava un anno per il fine pena.
Nome non reso pubblico.
4 ottobre 2024. K.S., marocchino di ventiquattro anni, viene trovato impiccato
alle sbarre della sua cella nel carcere di Vicenza.
17 settembre 2024. Salvatore Di Vivo, cinquant’anni, si toglie la vita
impiccandosi nella sua cella del carcere di Regina Coeli.
16 settembre 2024. John Ogais, trentadue anni, era stato trasferito dal carcere
di Avellino a quello del Tricolle. Soffriva di problemi psichici. Si suicida nel
carcere di Ariano Irpino. Era sottoposto a sorveglianza attiva dopo aver
aggredito quattro agenti il giorno precedente.
5 settembre 2024. Vincenzo Villani, quarantasette anni, si toglie la vita nel
carcere di Imperia, impiccandosi nella sua cella. Aveva una pena di sei mesi,
che sarebbe terminata a gennaio 2025. A fare la tragica scoperta sono stati i
suoi compagni di cella, al rientro dall’ora d’aria.
5 settembre 2024. V. G., cinquant’anni, detenuto al carcere di Gorgona, pone
tragicamente fine alla propria vita in un appartamento a Rosignano, mentre si
trova in permesso premio.
2 settembre 2024. Un detenuto italiano, sessantadue anni, ex tossicodipendente e
apparentemente privo di legami familiari, si toglie la vita impiccandosi nella
sua cella, sezione di isolamento del carcere di Benevento. Nome non reso
pubblico.
29 agosto 2024. Abdeljalil Saddiki, cinquantaquattro anni, di origine marocchina
e padre di due figli, si toglie la vita nel carcere della Pulce a Reggio Emilia.
15 agosto 2024. Oussiai Atef, trentasei anni, tunisino, era stato trasferito la
sera precedente dal carcere di Ascoli Piceno. Viene trovato impiccato nel giorno
di Ferragosto, nella sezione di isolamento del carcere di Parma.
7 agosto 2024. Djobbi Saber, trentacinque anni, tunisino, si toglie la vita
nella sua cella del reparto isolamento, con il laccio che usava come cintura,
nella Casa circondariale di Prato.
5 agosto 2024. Shein Ajim, cinquantacinque anni, origini albanesi. Muore
impiccandosi nella casa circondariale di Biella. A nulla servono i soccorsi.
5 agosto 2024. Luca Di Lascio, quarantotto anni, originario di Montecorvino
Rovella, si sarebbe suicidato impiccandosi nel bagno della camera di sicurezza
del Tribunale di Salerno dov’era stato tradotto in mattinata per la convalida
dell’arresto.
3 agosto 2024. Un uomo di trentuno anni, originario del Marocco, si toglie la
vita nella cella della casa circondariale di Cremona. Nome non reso pubblico.
30 luglio 2024. Kassab Mohammad, venticinque anni, carcere di Rieti, si toglie
la vita mentre è in isolamento. Era in attesa di giudizio.
27 luglio 2024. Ismaele Lebiati, ventisei anni, si impicca nella sua cella della
casa circondariale di Prato. Subito soccorso e condotto in ospedale, spira poco
dopo.
26 luglio 2024. Giuseppe Pietralito, trent’anni, si suicida nel carcere di
Rebibbia, Reparto G12. La paura di Giuseppe Pietralito era racchiusa in poche
parole confidate ai suoi avvocati: «Non ho un lavoro. Non ho nulla. Nessuno
crederà in me». Queste frasi esprimevano la sua angoscia, un timore profondo per
ciò che si trovava oltre le sbarre. Il futuro sembrava per lui un incubo, privo
di riscatto, di prospettive e di opportunità.
21 luglio 2024. Lulzim Musta, quarantottenne di origine albanese, si suicida
nella casa circondariale di Bologna.
15 luglio 2024. Alessandro Patrizio Girardi, originario di San Donà di Piave,
trentasette anni, viene trovato impiccato nella notte con un lenzuolo, nella sua
cella della casa circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia.
13 luglio 2024. Un detenuto straniero, quarantacinque anni, muore soffocato con
un sacchetto di plastica nel carcere di Monza. Nome non reso pubblico.
12 luglio 2024. Fabiano Visentini, cinquantuno anni, si suicida in carcere a
Montorio: era in sciopero della fame per ottenere i farmaci per le sue
patologie. Si è ammazzato inalando il gas di una delle bombolette che vengono
usate per i fornellini da cucina in dotazione nelle celle.
8 luglio 2024. Fabrizio Mazzaggio, cinquantasette anni, si impicca nel bagno
della sua cella a Varese. Aveva problemi di tossicodipendenza.
7 luglio 2024. Vincenzo Urbisaglia, ottantuno anni, muore suicida nel carcere di
Potenza. Pochi giorni prima, ai suoi avvocati era stata rifiutata la richiesta
di scarcerazione per condizioni di salute fisica e mentale problematiche.
4 luglio 2024. Fadi Bin Sasi, vent’anni, tunisino, si impicca nella casa
circondariale di Solliciano. Dopo aver appreso la notizia, i compagni danno
inizio a una protesta.
4 luglio 2024. Yousef Hamga, vent’anni, egiziano, si impicca nella casa
circondariale di Pavia. Muore in ospedale.
2 luglio 2024. Muore in ospedale un detenuto di trentacinque anni che si era
impiccato a Livorno. Era in carcere da venti giorni. Nome non reso pubblico.
1 luglio 2024. Giuseppe Spolzino, ventuno anni, si impicc nella doccia della sua
cella nel carcere di Paola. Sarebbe uscito nel 2027.
27 giugno 2024. Luca Mailon D’Auria, un ragazzo di ventuno anni, già sottoposto
a trattamento sanitario obbligatorio, si uccide inalando gas nel carcere di
Frosinone. Non era la prima volta che tentava di togliersi la vita.
27 giugno 2024. Un detenuto egiziano di quarantasette anni si impicca nella sua
cella nel carcere di Marassi a Genova. Nome non reso pubblico.
26 giugno 2024. Francesco Fiandaca, trentotto anni, lavorante in cucina,
impegnato in diverse attività “rieducative”, si impicca nel carcere Malaspina di
Caltanissetta.
21 giugno 2024. Alì Saufiane, algerino, vent’anni, si impicca nel carcere di
Novara “con un cappio rudimentale” (così riferisce il sindacato della polizia
penitenziaria).
15 giugno 2024. Un detenuto italiano di quarantatré anni si suicida nel carcere
di Sassari. Nome non reso pubblico.
15 giugno 2024. Giuseppe Santoleri, settantaquattro anni, si suicida
soffocandosi nel proprio letto nel carcere di Teramo.
14 giugno 2024. Alin Vasili Ciobotariu, quarantasei anni, si suicida
impiccandosi alla finestra della sua cella, nel carcere di Biella.
13 giugno 2024. Antimo Luigi Bencivenga, trentotto anni, si toglie la vita nella
casa circondariale di Ariano Irpino.
11 giugno 2024. Domenico Amato, cinquantasei anni, viene trovato impiccato di
mattina presto nel carcere di Ferrara.
4 giugno 2024. Mohamed Ishaq Jan, pachistano, trentuno anni, si toglie la vita
nel carcere di Regina Coeli.
2 giugno 2024. George Corciovei, trentuno anni, rumeno, si suicida impiccandosi
in cella quando gli altri detenuti che condividevano con lui la stanza sono
all’ora d’aria, nel carcere di Santa Maria Maggiore.
2 giugno 2024. Mustafà Attar, ventitré anni, si impicca nel carcere di Cagliari,
ma il suo corpo non cede subito. Muore due giorni dopo in ospedale.
23 maggio 2024. Maria Assunta Pulito, sessantaquattro anni, si soffoca con due
sacchetti di plastica annodati intorno alla testa e alla gola, nel carcere di
Torino.
16 maggio 2024. Santo Perez, venticinque anni, si toglie la vita impiccandosi
nella sezione Media sicurezza del carcere di Parma.
4 maggio 2024. Giuseppe Pilade, trentadue anni, aveva disturbi psichiatrici e
sarebbe dovuto stare in una Rems. Come per la maggior parte dei sofferenti
psichiatrici, non c’era posto per lui. Si impicca utilizzando il lenzuolo del
suo letto nel carcere di Siracusa.
22 aprile 2024. Yu Yang, trentasei anni, si impicca attaccandosi alla terza
branda del letto a castello a Regina Coeli.
17 aprile 2024. Nazim Mordjane, trentadue anni, palestinese, muore inalando gas
da un fornello da campeggio nel carcere di Como. Nel settembre 2023 era scappato
dall’ospedale San Paolo di Milano.
10 aprile 2024. Ahmed Fathy El Haddad, quarantadue anni, egiziano, tenta di
impiccarsi con il cavo del televisore nel carcere di Pavia. Muore poco dopo in
ospedale.
7 aprile 2024. Karim Abderrahin, trentasette anni, si impicca in cella nel
carcere di Vibo Valentia.
1 aprile 2024. Massimiliano Pinna, trentadue anni, si impicca al suo secondo
giorno di detenzione nel carcere di Uta.
27 Marzo 2024. Un detenuto nigeriano ventiseienne si suicida nel carcere di
Tempio Pausania in provincia di Sassari. Nome non reso pubblico.
27 marzo 2024. Un detenuto italiano, cinquantadue anni, si impicca al cancello
della cella con il laccio dei pantaloni nel carcere di Bancali. Nome non reso
pubblico.
24 marzo 2024. Alvaro Fabrizio Nunez Sanchez, trentuno anni, attendeva
l’ingresso in una Rems da alcuni mesi, per gravi sofferenze psichiatriche. Si
uccide nel carcere di Torino.
21 marzo 2024. Alicia Siposova, cinquantasei anni, slovacca, si suicida dopo
aver inalato del gas, nel carcere di Bologna.
14 marzo 2024. Amin Taib, ventotto anni, tossicodipendente, si uccide nella
cella di isolamento a Parma.
13 marzo 2024. Patrck Guarnieri si impicca e muore per asfissia il giorno in cui
compie vent’anni nel carcere di Teramo.
13 marzo 2024: Andrea Pojioca, trentuno anni, ucraino. Si toglie la vita nel
carcere di Poggioreale, a Napoli.
12 marzo 2024. Jordan Tinti, trapper, ventisette anni, si uccide in carcere a
Pavia. Aveva già tentato il suicidio pochi mesi prima.
26 febbraio 2024. Un detenuto marocchino di quarantacinque anni si impicca nel
carcere di Prato. Nome non reso pubblico.
14 febbraio 2024. Matteo Lacorte, quarantanove anni, si impicca nel carcere di
Lecce, reparto di massima sicurezza. La Procura apre delle indagini per
istigazione al suicidio.
13 febbraio 2024. Rocco Tammone, sessantaquattro anni, in semilibertà, si toglie
la vita nel cortile del carcere dopo essere rientrato dal lavoro.
11 febbraio. Un detenuto albanese di quarantasei anni, imprenditore, si uccide
nel carcere di Terni. Il suicidio sembrerebbe legato a un dramma familiare. Nome
non reso pubblico.
10 febbraio 2024. Singh Parwinder, trentasei anni, d’origine indiana, si uccide
nel bagno del carcere di Latina.
8 febbraio 2024. Hawaray Amiso, ventotto anni, doveva scontare solo tre mesi di
carcere a Genova. Avrebbe manomesso la serratura del cancello della cella per
ritardare l’intervento degli agenti di custodia prima di impiccarsi.
4 febbraio 2024. Ousmane Sylla, ventidue anni, si suicida nel CPR di Ponte
Galeria a Roma.
3 febbraio 2024. Alexander Sasha, ucraino di trentotto anni, si suicida nel
carcere di Montorio. Aveva già tentato di tagliarsi la gola una settimana prima
di impiccarsi.
3 febbraio 2024. Carmine S., detenuto disabile di cinquantotto anni, si impicca
nel carcere di Carinola (Caserta).
28 gennaio 2024. Michele Scarlata, sessantasei anni, si uccide nel carcere di
Imperia pochi giorni dopo esserci entrato. Era in attesa di giudizio.
25 gennaio 2024. Ivano Lucera, trentacinque anni, si impicca nel carcere di
Foggia.
25 gennaio 2024. Ahmed Adel Elsayed, trentaquattro anni, di origine egiziana,
viene trovato dagli agenti impiccato nel bagno della sua cella a Rossano
Calabro. Gli mancava poco per il fine pena.
24 gennaio 2024. Jeton Bislimi, trentaquattro anni, si uccide nel carcere di
Castrogno a Teramo. Aveva già tentato il suicidio altre volte.
23 gennaio 2024. Antonio Giuffrida, cinquantasette anni, si impicca nel carcere
di Montorio.
22 gennaio 2024. Luciano Gilardi, a cui manca un mese per ottenere la libertà,
muore suicida a Poggioreale.
15 gennaio 2024. Mahomoud Ghoulam, trentotto anni, marocchino, entrato da poco
in carcere, si toglie la vita a Poggioreale.
15 gennaio 2024. Andrea Napolitano, trentatré anni, si uccide a Poggioreale.
Soffriva di disturbi psichiatrici.
12 gennaio 2024. Fabrizio Pullano, cinquantanove anni, si impicca nel padiglione
di Alta sicurezza del carcere di Agrigento.
10 gennaio 2024. Alam Jahangir, quarant’anni, originario del Bangladesh, si
impicca con un pezzo di lenzuolo a Cuneo pochi giorni dopo il suo ingresso in
carcere.
8 gennaio 2024. Stefano Voltolina, ventisei anni, soffriva di depressione.
Muore impiccato nel carcere di Padova.
6 gennaio 2024. Matteo Concetti, ventitré anni, affetto da disturbo bipolare,
era stato riportato nel carcere di Ancona dopo aver violato l’orario di rientro
mentre stava scontando una pena alternativa lavorando in una pizzeria. Il 5
gennaio avverte sua madre: «Se mi mandano in isolamento, mi uccido». Così
accade. (a cura dell’associazione yairaiha ETS)
(disegno di cyop&kaf)
Lo sportello di supporto psicologico per i familiari dei detenuti, da cui prende
le mosse anche questa rubrica, è quasi arrivato al suo secondo anno di attività.
Oggi vi partecipano non solo i familiari delle persone uccise dal carcere, ma
anche quelli dei detenuti che vivono un calvario all’interno del sistema
penitenziario a causa di patologie non conciliabili con la detenzione, mancanza
di cure fisiche e psicologiche. Vi sono inoltre ex detenuti che hanno vissuto
l’oscurità delle celle e che condividono la propria storia. Tutti sono benvenuti
a partecipare, ogni contributo è importante. Le riunioni si svolgono ogni
venerdì dalle 19:00 alle 21:00. Il link per accedere alla riunione settimanale
viene pubblicato qualche giorno prima dell’incontro sul gruppo Telegram “Morire
di carcere” e su quello Whatsapp “Sportello di supporto psicologico per i
familiari dei detenuti”. Adesioni e lettere possono essere inviati anche
all’indirizzo e-mail dell’associazione Yairahia Ets (yairaiha@gmail.com).
Avvocati, volontari, membri di associazioni, garanti delle persone private della
libertà sono invitati a unirsi e a condividere il proprio punto di vista.
A seguire, pubblichiamo le “lettere a Babbo Natale” scritte da chi partecipa a
questo percorso: testimonianze, desideri, riflessioni e speranze di persone che
vivono in un modo o in un altro la realtà del carcere.
* * *
Caro Babbo Natale, faccio fatica ad avere desideri anche quest’ anno e
quest’anno ancora di più. Se potessi sognare vorrei arrivare a rivedere mio
figlio detenuto come lo ricordo io… affettuoso, sorridente e premuroso. L’uomo
che è divenuto muto non lo conosco più.
Mamma Luisa
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Caro Babbo Natale, vorrei tanto che tu riportassi in vita mio zio, ma questo non
è possibile farlo. È vero non puoi più darmi momenti felici e spensierati con
lui ma almeno, ti prego, aiutami a scoprire la verità sulla sua morte e aiutami
anche a sopportare la sua assenza perché io non riesco più ad essere felice.
Vorrei anche tanto far capire alla gente che dietro alle sbarre non ci sono solo
persone cattive o persone sbagliate.
Valentina
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Caro Babbo Natale, lo scorso anno ti avevo chiesto di stare con mio figlio a
Natale. Non è proprio andata così ma… per Capodanno era a casa. Aveva tante
paure ma anche tanti sogni nel cassetto, ora svaniti. Quest’anno ti chiedo con
tutta la disperazione che questo paese diventi un paese civile. Nessuno deve
essere emarginato. Mio figlio non chiede ricchezze. Chiede una vita normale, lo
stipendio a fine mese per poter pagare le bollette, fare una vita degna di
essere vissuta. Niente di più…un posto dove vivere. E per me chiedo la forza di
gestire la sua angoscia, l’angoscia di essere già fallito a trentatré anni, le
sue richieste di aiuto urlate con rabbia e inascoltate dai più. Ti chiedo che
abbia la forza di non cadere di nuovo. E per me anche la forza di gestire un
marito che improvvisamente si ritrova invalido.
Ti chiedo di non sentire più false promesse, ti chiedo un po’ di pace e
serenità.
Rossella Biagini
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Caro Babbo Natale, ho un solo desiderio: vorrei che tu esistessi. Se tu
esistessi non ci sarebbero carceri, non ci sarebbero torture, non ci sarebbero
morti in cella. Se tu esistessi non ci sarebbero viaggi estenuanti verso case di
contenzione, file, perquisizioni per rivedere gli occhi di chi ami. Se tu
esistessi non ci sarebbe il 41-bis, non ci sarebbero famiglie spezzate e posti a
tavola vuoti. Un solo desiderio: voglio che tu esista. Se non ci sei sto
scrivendo a un sogno. E se ai sogni non si mettono limiti, allora voglio che
ogni carcere sia raso al suolo.
Rossella
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Caro Babbo Natale, partendo dalla premessa che i regali non dovrebbero essere
richiesti ma fatti volontariamente, e visto che sei in qualche modo attento alle
richieste di tutti, dovrei essere un pochetto arrabbiata perché non ti occupi
abbastanza di noi. Forse ti sei distratto con i bambini, del tutto lecito e
doveroso, anzi scusami se ti farò richieste per gli adulti. Sai già che vorrei
che tutti i bimbi del mondo avessero vite felici, e vorrei tanto che quei
bambini potessero diventare adulti senza dimenticare il gioco, la gioia e la
speranza.
Ma qui ti chiedo di far respirare chi di respiro ne ha troppo poco. Dietro le
sbarre ogni respiro diventa ossigeno, necessario a tutti. Allo stesso tempo,
porta respiro alle famiglie, quelle che si fanno carico della loro e della
propria sofferenza, dell’angoscia, dell’aiuto economico, della fatica fisica e
mentale. Ti chiedo del darci del tempo, tanto, da poter passare insieme a loro,
per capire e dare conforto. Poter ancora ridere e sorridere. Ti chiedo di dare
opportunità di lavoro, di riscatto, di rinascita, a chi è dentro e a chi esce,
di dare loro speranza di vita. Ti chiedo di parlare alle menti obnubilate di
chi fa le leggi, di chi le applica e di aprire e rischiarare coscienza e cuore.
Ti chiedo un mondo dove sognarlo diverso, più giusto, sia ancora possibile. Ti
chiedo di permettere alle persone di riparare gli errori e di poter rimediare ai
torti fatti e subìti. Ti chiedo …ok troppe cose ti sto chiedendo! Magari ti
sembrerò troppo esigente! Lo so che le tue possibilità sono ristrette, ma se
solo mi regalassi qualcuna delle cose che ti ho chiesto, mi accontenterei, e
spargerei in giro la lieta novella, così che tanti altri crederebbero ancora in
te e ti affiderebbero più consegne e più guadagni (che ne dici di superare il
tuo rivale Amazon? Lo fai verde di bile!). Ah, se hai possibilità, procurami una
slitta a motore, che i viaggi interminabili per andare a trovare mio figlio
stanno diventando sempre più pesanti e non sono più così giovincella! A
proposito, ti chiederei anche di far sparire le mie rughe, la mia tristezza e le
mie lacrime, ma questo lo tralasciamo: pensa soprattutto a far entrare più gioia
nella mia vita, che le rughe possono aspettare. Con speranza di risposta alla
mia lettera, auguro anche a te buon Natale.
Giusy
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Caro Babbo Natale, ti scrivo da fuori, ma con il pensiero rivolto a chi, dentro,
non ha nemmeno un briciolo di Natale. Non ci sono alberi addobbati, non c’è il
profumo delle cene di famiglia, e nemmeno il suono dei bambini che ridono. In
carcere il tempo si ferma, le “attività” spariscono, e con loro anche ogni
tentativo di rendere il giorno diverso da un altro.
Me li ricordo quei Natali dietro le sbarre: giornate uguali alle altre, svuotate
di ogni senso di festa o calore, in cui “Natale” non era che una parola priva di
significato. Vorrei chiederti di portare a chi è lì un frammento di normalità.
Quel genere di normalità che noi, qui fuori, diamo per scontata. Una tavola
apparecchiata, una lettera che arrivi davvero, una telefonata che duri più di
dieci minuti senza interruzioni.
Porta loro il calore di sentirsi ancora padri, madri, figli, o semplicemente
persone, anche se solo per un momento. E a noi qui fuori, caro Babbo Natale,
regala la forza di non voltare lo sguardo. Ricordaci che il carcere non risolve
nulla, è il simbolo di una società che punisce invece di curare, che isola
invece di accogliere. È il riflesso delle nostre paure e della nostra incapacità
di immaginare alternative. Porta il coraggio di lottare per un mondo senza
prigioni, dove nessuno venga privato della propria libertà. Un mondo che
abolisca la prigionia, perché nessuna gabbia può generare giustizia.
Luna Casarotti
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Caro Babbo Natale, liberi tutti.
Sandra Berardi
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Caro Babbo Natale, ti chiedo una cosa difficile, ma non impossibile. Vorrei un
mondo senza gabbie e sorveglianza, in cui non ci sia punizione, ma
trasformazione e dignità. Un mondo che metta al centro la cura. Caro Babbo
Natale, non voglio che aggiusti questo o quel carcere, che tu lo renda un po’
più umano, un po’ meno brutale. Non ti chiedo più percorsi “rieducativi”, più
educatori, eccetera. Come quando si è sognato, centinaia di anni fa’ di abolire
la schiavitù e non si è detto “miglioriamo la schiavitù”, non si è detto
rendiamola più umana, così io ti chiedo di abolire il sistema carcerario, per
rifondare un modo nuovo di stare insieme. Sono sicuro che mi ascolterai, io
intanto faccio la mia parte.
Fabrizio
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Caro Babbo Natale, questo è il primo anno che riesco a vedere differenti luci.
Non più quel vecchio e sbiadito albero posto nella rotonda del carcere, non più
quelli piccole luci che si confondono con il colore grigio delle sezioni. Questo
è il primo Natale in famiglia dopo parecchio tempo. Sono passati anni ma oggi
posso nuovamente stare vicino a persone che mi vogliono bene. Babbo Natale
dedico questa lettera a tutti i ragazzi che ancora celebreranno questa
ricorrenza al di là delle sbarre. Per non dimenticare mai.
Walter Monaco
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Caro Babbo Natale, ho sessant’anni ma dentro di me c’è ancora una bambina, la
bambina che ha creduto in te, e aspettava i tuoi regali con trepidazione. Ancora
oggi credo in te, perché so che c’è qualcuno sopra di noi che ci può donare
tanto.
Quest’anno come tutti gli altri anni passati ti chiedo la remissione per i
carcerati. Vorrei che si aprissero tutte le porte e che tutti, proprio tutti,
tornassero in libertà. Soprattutto, però, i detenuti ammalati, quelli soli e
abbandonati. Oggi la nostra società è pronta a giudicare e a condannare. Ma
dietro un comportamento sbagliato, un omicidio e tanto altro non sappiamo cosa
c’è. Non possiamo sapere cosa ha scatenato la delinquenza. E poi, caro Babbo
Natale, è importante dare un’altra possibilità alle persone. La possibilità di
redimersi, di un riscatto sociale. Io, personalmente, vorrei poter vedere mio
marito ristretto al 41-bis. Sono cinque anni che non vuole più fare i colloqui
con noi familiari, non vuole vedere nessuno. Mi aspetto da te, caro Babbo
Natale, che succeda questo miracolo, che io e la mia famiglia possiamo rivedere
il nostro caro, poter parlare con lui, portargli i nostri nipoti che neanche
conosce. So che tutto ciò è atroce e doloroso, ma non perdo mai la speranza. La
speranza non deve mai morire.
Maria
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Caro Babbo, quand’ ero piccola, a casa di mia nonna, durante la cena di Natale,
ero solita scrivere delle letterine e metterle sotto ai piatti dei nonni e degli
zii. Le richieste relative ai regali erano tante. Sono passati tanti anni…! Ma
oggi che sono andata insieme al mio nipotino Cristian a far visita a mio figlio,
il suo caro papà nella casa circondariale di Taranto, mi sono decisa di
ricominciare a scriverti e di farti una richiesta un po’ speciale, dato che
quasi tutti gli adulti ti chiedono doni materiali. Io ti vorrei chiedere invece
di trasformare quest’annus horribilis in una magica atmosfera natalizia, ricca
di speranza e di pace nei nostri cuori e nei cuori di tutti i bambini senza i
loro papà. In questi luoghi atipici e strani come le carceri accendi una candela
che illumini le menti e i cuori dei direttori, degli psicologi, degli educatori
e delle guardie soprattutto, perché i loro volti possano brillare di umanità è
di carità cristiana, per condividerle con generosità con tutti quelli che ne
hanno bisogno per poter ricominciare una nuova e diversa vita. Grazie Babbo.
Lucia
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Caro Babbo Natale, ti scrivo come si scrive a tutte le persone fantastiche,
sperando che non restino solo di fantasia ma entrino nella realtà. Frequento le
carceri da tanti anni. Un giorno un compagno di partito mi disse che mi sarei
dovuto occupare della distribuzione di metadone nelle prigioni marchigiane, per
vedere se funzionasse regolarmente. Mi ero occupato di droghe perché molti miei
amici […] utilizzavano droghe e io non l’avevo mai criticato, anzi mi ero
preoccupato perché quelle robe non si vendono al negozio ma per strada. I
compratori vengono costretti a stare ai prezzi e alle minacce dei venditori, i
quali devono sottostare ad altri venditori più grandi. È così che si costruisce
un inferno.
Io, più o meno in quegli stessi anni, avevo scelto, per reagire alle cose che
non mi piacevano e non mi erano mai piaciute, di mettermi a bere. All’inizio fu
un esercizio di forza, di destrezza, al quale partecipavano in tanti. Ma io […]
reggevo il vino più di tanti altri, e mi dava il coraggio di fare tante cose.
Poi le cose belle sono cominciate a diminuire, sono arrivati anni bui nei quali
siamo diventati da belli a brutti, e anche l’alcool non è stato più simbolo di
gioia e fratellanza. È diventato solo superalcolico, non più il vino in
compagnia, ma brutte bevande secche in solitudine. Ho avuto la fortuna di non
finire mai dentro, pur con tutti i guai che ho combinato sotto l’alcool, ma
quando ho deciso di smettere ho scoperto quanto sia difficile scegliere tra
nascondersi e uscire allo scoperto.
Ora, caro Babbo Natale, […] mi basterebbe che tu facessi entrare in ogni
carcere, assieme a medici e infermieri, tante persone come me, che sanno quanta
fatica costi uscire dall’inferno delle dipendenze. Poi, dopo aver letto questa
mia lettera, ti chiedo di rileggerla fra un anno, a Natale 2025, e di dirmi cosa
è successo. Se non sarà successo niente, vorrà dire che ho sbagliato. Ma se
invece sarà cambiato qualcosa, ti chiedo di portare con te tutti i medici e gli
infermieri “normali”, e insieme agli agenti di polizia penitenziaria, a
distribuire doni e dare da mangiare alle renne. Sicuramente faranno meno danni
che dentro agli istituti.
Marcello (che proprio perché ha avuto la fortuna di non finire dentro vorrebbe
ripagare un po’ quelli meno fortunati di lui).
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Caro Babbo Natale, ti chiedo il favore di far sentire una voce di solidarietà ai
torturati al 41bis. Che come minimo possano avere la possibilità di usare farina
e lievito. Perché la democratura nega pure questo diritto col timbro della
Cassazione. Tempi molto bui… Grazie!
Frank Cimini
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Carissimo Babbo Natale, quest’anno voglio chiederti di illuminare la mente e il
cuore del signor ministro della giustizia e del presidente del consiglio… come
prima cosa di togliere la delega allo stolto di Del Mastro, la seconda di
umanizzare le carceri, e soprattutto di abolire la tortura di stato del
41-bis!!! Non ti chiedo indulti o amnistie, so che un governo “neofascista” non
farà mai una cosa del genere!! Ciò che ti chiedo è il minimo per considerarci un
paese civile. Con stima.
Gerardo (Aldo) Schettino
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Caro Babbo Natale, quest’anno vorrei che portassi “cure appropriate ed efficaci”
a tutti i detenuti che soffrono di “disturbi psichici”. Tu lo sai quanto è dura
la vita nelle carceri del nostro paese, per tutti i detenuti: immagina quanto
sia insopportabile per chi ogni giorno deve combattere con un disturbo che gli
rende quasi impossibile governare le proprie azioni, interagire in modo
funzionale con gli altri, sopportare i periodi di isolamento, coltivare la
speranza; immagina quanto queste persone possano – senza volerlo – rendere la
vita difficile a se stessi e anche a chi condivide la cella con loro e a chi si
deve occupare della loro sicurezza. Pensaci tu a loro, perché alla maggior parte
di loro non pensa nessuno.
Maria
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Caro Babbo Natale, tu che porti doni e sorrisi a tutto il mondo, pare che ti sia
scordato delle carceri, in cui avvengono mattanze carcerarie quotidiane.
Detenuti “colpevoli”, di non avere diritto alla dignità come tra l’altro prevede
la Costituzione, è una cosa di “normale umanità”. Il popolo forcaiolo, ahinoi la
maggioranza, vuole i detenuti, colpevoli e innocenti, morire piano piano nel
silenzio. Anche a Natale, giorno in cui noi “dovremmo” essere più buoni e
comprensivi. Non è Natale se ci si dimentica dei fratelli e delle sorelle
sfortunati, mentre Dio ci esorta sempre a visitarli ed essere vicini a loro.
Ti prego anche perché chi ha “in custodia” questi fratelli sfortunati […] possa
non assumere quella espressione demenziale quando ha di fronte il detenuto, e
contare fino a dieci prima di re-agire.
E poi, caro Babbo Natale, fermati anche tu nei penitenziari con la tua slitta,
porta anche nelle carceri vicinanza, fratellanza e soprattutto restituisci a
questi uomini e donne la dignità perduta. Con tanto affetto e stima.
Cristiano Scardella
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Caro Babbo Natale, ti scrivo per parlarti di quelle persone scomparse alla vista
della società, cacciate da ogni sentimento di civiltà, ammassate in ambienti
sovraffollati e stretti. Non hanno neanche lo spazio per camminare, spesso si
muovono a turno, sono in cinque dove dovrebbero essere in tre o in sei dove
dovrebbero essere in quattro. Sono trattate come bestie, rinchiuse per la
stragrande maggioranza della giornata in un ambiente claustrofobico. Prova fare
un viaggio in un’auto da cinque posti in sette, e capirai.
Hanno commesso reati ma molti tra questi, anzi la maggior parte, sono
ascrivibili alla povertà che li riguarda dalla nascita, in un circolo vizioso di
quartieri e zone sociali emarginate, cosicché di padre in figlio si passa
l’orrido destino della devianza per vivere, devianza che conduce al carcere.
Certo, si può creare una “cultura dell’emarginazione”, ma i dati sono chiari: il
90% dei reati è commesso dai sei milioni di italiani che vivono sotto la soglia
di povertà, che delinquono uno su cento (mentre in tutti gli altri casi sono
solo uno su diecimila). La maggior parte son meridionali, poveri, migranti
emarginati, tossicodipendenti o piccoli spacciatori. Tutto questo basterebbe a
far vedere i carcerati anche come vittime non solo colpevoli, e a segnare verso
loro un percorso di rieducazione dove la società si prende una parte di colpe
della loro situazione. E poi, perché non dar loro spazi umani come in altri
paesi? Già privare della libertà è una pena, perché torturare in ambienti così
nefasti? Perché non far telefonare più spesso ai loro cari? Perché far loro
accettare questa situazione ricorrendo a dosi fortissime di psicofarmaci?
Perché, poi, spesso picchiarli selvaggiamente?
Sono certo del tuo buon cuore e che intercederai dove si può e si deve per
migliorare la sorte di questi fratelli, per ridare luce alla loro umanità
calpestata.
Tuo, Marco Chiavistelli
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Caro Babbo Natale, quest’anno ti scrivo per parlarti di un tema che mi sta molto
a cuore: le condizioni all’interno delle carceri. Negli ultimi anni, abbiamo
assistito a molte persone che, a causa di errori del passato, si trovano in
situazioni difficili nelle prigioni. Spesso, queste strutture non offrono le
opportunità di riabilitazione e sostegno di cui gli individui hanno bisogno per
reintegrarsi nella società. Ti chiedo di aiutare a diffondere consapevolezza su
questo tema e di incoraggiare le persone a lavorare insieme per migliorare la
vita di chi si trova dietro le sbarre. Vorrei che nel tuo sacco di doni ci fosse
un messaggio di speranza e un invito a tutti noi a fare la nostra parte per
promuovere un sistema penale più giusto e umano. Che si possa investire di più
nella formazione, nel supporto psicologico e nelle attività che possano
riabilitare le persone, perché ogni vita merita una seconda possibilità.
Jessica
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Caro Babbo Natale, so che il tuo potere è simbolico ma spero che questo
messaggio riesca a recapitarlo a chi di dovere. Non voglio regali, anzi
incomincio col dirti quello che non voglio. Non voglio una classe politica con
una visione carcerocentrica e panpenalista, non voglio una polizia penitenziaria
che abiuri al suo motto Despondere spem munus nostrum, non voglio chi prova
intima gioia nel togliere il respiro ai detenuti, non voglio una società che
stigmatizzi chi ha sbagliato e che troppo spesso confonde la persona con il
reato, non voglio un pallottoliere con il quale contare i suicidi in carcere né
tanto meno voglio più incontrare gli occhi pieni di lacrime di mogli e figli ai
colloqui e ai quali lo Stato fa pagare una pena pur non avendo commesso reati.
Vorrei che tu riuscissi a far scomparire il carcere […].
So che forse ti chiedo troppo o che comunque sarà difficile, e allora almeno
assicuriamoci che ogni detenuto abbia accesso a spazi adeguati, cibo nutriente e
cure mediche appropriate, programmi di istruzione e formazione professionale,
lavoro, assistenza psicologica e programmi di supporto. E soprattutto che venga
garantita loro l’affettività, e colloqui e telefonate in numero adeguato.
Babbo Natale ti ho caricato di troppe responsabilità ma ce la puoi fare se farai
tuo il nostro motto SPES contra SPEM.
Fabrizio Pomes
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Caro Babbo Natale, non sappiamo più a che Santo votarci.
È il detto popolare che viene in mente di fronte a certi ostacoli burocratici.
Mi è venuta però una idea.
Il massimo della tattica istituzionale “non responder” , quando si parla di
accesso alle informazioni sulle condizioni carcerarie, è Bari; da lungo tempo
chiediamo il rapporto semestrale Ausl sugli istituti di pena (Bari , Bari
minorile e Turi); anni fa, alla terza richiesta da parte nostra, la risposta è
stata: “Non abbiamo capito cosa state chiedendo”!!! Quest’anno, reiterata
l’istanza anche all’indirizzo dei sindaci, ancora una condotta da “non
responder”. Proviamo allora a fare appello a Babbo Natale; la trasparenza è un
prerequisito della giustizia sociale e bisogna insistere per garantirla; non
entro nel merito del rapporto tra Babbo Natale e San Nicola, se la transizione
da un personaggio all’altro sia stata una mutazione genetica o un problema di
doppia personalità. Sta di fatto che San Nicola è considerato dai baresi il
santo protettore. Una figura che ha mostrato grande sensibilità sociale col
gesto che gli viene attribuito di affrancare tre fanciulle dall’avvio alla
prostituzione. Si trovano diversi affreschi sul tema, nelle chiese). E non
solo: è un santo che sprizza pacifismo (di questi tempi…), è venerato sia dai
cattolici romani che dagli ortodossi dell’est Europa (visitando la magnifica
basilica di Bari notai che mentre il prete ortodosso diceva messa nella cripta,
il prete cattolico la celebrava al pian terreno! Incredibile: cattolici e
ortodossi non si sparavano l’un l’altro come è spesso accaduto nella storia.
Questo ricordo mi ha convinto che per garantire trasparenza sulle carceri ci è
rimasta solo una possibilità: Santa Klaus/Babbo Natale, facci ‘a grazia,
ricordati della sofferenza delle persone private della libertà, e vai in sonno
dolcemente ai “non responders” , dandogli la sveglia.
Vito Totire
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Caro Babbo natale, quest’anno vorrei che la giustizia inizi a rispettare la
scritta presente in ogni tribunale: “LA LEGGE E UGUALE PER TUTTI”. E vorrei che
una persona venga condannata (se ha sbagliato) giudicando il reato e non a chi a
pestato i piedi. Vorrei che tutti venissero puniti allo stesso modo: persone
comuni, forze dell’ordine, magistrati e detenuti. Lo so, forse chiedo troppo, ma
avere una giustizia UGUALE PER TUTTI sarebbe il mio desiderio.
Luca
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Caro Babbo Natale, potresti per favore abolire il carcere? Oppure, almeno,
abolire il 41-bis? Porta almeno la mia solidarietà a tutti i detenuti. Anche a
quelli innocenti.
Mario Di Vito
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Caro Babbo, non chiedo mai nulla da anni perché odio il Natale. Ma una cosa,
però grande, te la chiedo. Vorrei che tutte le mamme detenute con i loro bambini
possano vivere con i propri figli lontani dal carcere. Non è un luogo per i
bimbi. Ti prego, pensaci tu a tutti loro, ai bimbi detenuti. Grazie, aspetto il
tuo regalo… sul serio.
Un avvocato
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Caro Babbo Natale, non sono uno di molte pretese. Ti chiedo non di portarmi dei
doni, ma di togliere. Per esempio, il DDL 1660, il decreto Caivano, il 41-bis,
il 4-bis, le leggi antidroga e anti-immigrazione, sarebbe bellissimo se le
facessi togliere. Ma, soprattutto, toglici di torno questo governo di fascisti.
Grazie Babbo Natale.
Vincenzo Scalia
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Caro Babbo Natale, non ti chiederò grandi cose per i nostri detenuti, non
chiederò nuove carceri, non chiederò beni materiali e nemmeno sforzi politici.
Ti chiedo solo più umanità da parte di chi li dentro ci vive. Da parte di chi
dovrebbe sostenere e non schiacciare.
Vito Daniele Cimiotta
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Caro Babbo Natale, una persona lo scorso anno mi disse: “Le parole sono la
cura”. Eravamo vicini, eppure lontani, come se appartenessimo a due dimensioni
parallele: potevamo vederci, purché le mani non si sfiorassero, potevamo
sentirci, purché il tempo non fosse dissipato. Ti chiedo di portare in dono le
parole, al posto dei proclami: le parole che leniscono l’inquietudine avvolgono
al pari di un abbraccio; le parole sono casa e cura.
Anonimo
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Caro Babbo Natale, io ti chiederei che i detenuti siano trattati come esseri
umani. E non intendo solo all’interno delle strutture carcerarie. Intendo quando
devono avere i benefici penitenziari, quando devono essere esaminati da
educatori, psicologi, direttori, medici, magistrati e giudici di sorveglianza…
Perché lì dentro ogni parola, ogni promessa, ogni ventilata speranza, diventa
un’aspettativa per un futuro migliore… Perciò è giusto che ti deve decidere del
loro futuro, non lo faccia solo per lavoro, ma lo faccia senza dimenticare mai
che sta decidendo sul futuro di esseri umani, che nella maggior parte dei casi
vogliono solo avere una buona parola e un po’ di fiducia per poter ricominciare
una vita normale.
Alessandra De Filippis
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Caro Babbo Natale, auguro una pronta libertà a tutti i giovani che stanno
perdendo i loro migliori anni nelle carceri minorili. Che le loro voci possano
avere una eco attraverso le sbarre.
G.
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Caro Babbo Natale, io ti chiedo che le persone vedano che il carcere è un pezzo
della nostra società che viene trattato come colpa e come immondizia di tutto
quello che non vogliamo vedere. Ti chiedo di far sì che tutti capiscano che
siamo coinvolti, tutti, nel trattamento che il nostro “sistema cannibale” impone
a chi reputa inadatto.
Ti chiedo di farci diventare tutti inadatti.
Federico
(disegno di ginevra naviglio)
“Sì, il Vaquilla, chi non lo conosce… – dice la donna, mentre aspetta suo figlio
all’uscita di scuola –. Rubava macchine, rapinava le banche, le cose che si
facevano allora… È anche uscito, ma poi ricadeva ogni volta”. “La sorella vive
ancora nel quartiere. Ha un banco di pesce al mercato – interviene un’altra
donna –. Lui è morto in carcere, dicono che si sia ucciso…”.
Alla periferia di Barcellona, nel quartiere della Mina, è ancora viva la memoria
del Vaquilla, giovane eroe popolare e bandito morto recluso a quarantadue anni,
dopo un’infinità di piccoli reati, condanne ed evasioni rocambolesche. La sua
figura si presta all’eccesso e molti non esitano a trasfigurarlo, attribuendogli
ogni tipo di imprese, sempre in bilico tra eroismo e delinquenza, nobiltà
d’animo e vanteria.
Juan José Moreno Cuenca, detto El Vaquilla, non era morto in carcere, ma in un
ospedale di Badalona, per una cirrosi epatica contratta in prigione a causa del
virus dell’epatite C. Aveva appena compiuto quarantadue anni, più della metà dei
quali trascorsi dietro le sbarre. Gitano, ladro d’auto e rapinatore di banche,
negli anni Settanta aveva rappresentato suo malgrado il tipico prodotto della
periferia marginale. I mezzi di comunicazione si erano impadroniti della sua
storia, trasformandolo nel prototipo del delinquente giovanile. Dalle sue
imprese un regista del genere “malavita” aveva tratto tre film di successo. Il
gruppo di flamenco più ascoltato di allora gli aveva dedicato una famosa
canzone, in cui veniva definito “el alegre bandolero”.
Con la maggiore età, il Vaquilla aveva alimentato la sua fama con sommosse e
tentativi di fuga. Una delle evasioni si era conclusa con un inseguimento in
pieno centro di Barcellona. La sua spettacolare cattura, ripresa dalle
telecamere e trasmessa all’ora di pranzo da tutti i telegiornali, l’aveva
consacrato come il delinquente più famoso del paese.
Juan José non aveva conosciuto suo padre. Viveva con la madre in una baracca nei
sobborghi di Barcellona. Un giorno la madre fuggì con il suo nuovo compagno. I
servizi sociali lo affidarono alla tutela dello zio. Per Juan José cominciò una
vita nomade, a bordo di una roulotte, che lo zio parcheggiava ogni sera in
luoghi appartati, per evitare il contatto con le forze dell’ordine. A sette anni
conobbe i quattro fratelli maggiori, nati da una precedente relazione della
madre. Antonet, uno di loro, cominciò a fargli visita con assiduità. Un giorno
Juan José salì sul treno che riportava il fratello in città e lasciò per sempre
lo zio, accampato in uno spiazzo ai margini dell’autostrada.
Antonet era già sposato. Viveva a Barcellona, nel Campo de la Bota, un
insediamento di baracche di fronte al mare, così ai margini della città che nei
primi anni della dittatura i franchisti lo usavano per fucilare i prigionieri
politici. Gli uomini del Campo partivano ogni notte per spedizioni misteriose,
da cui tornavano qualche ora dopo con le macchine cariche di articoli d’ogni
tipo: pelli, prosciutti, elettrodomestici, vestiti, sigarette… I bambini
salivano sui pali del passaggio a livello all’entrata del campo e davano
l’allarme quando da lontano appariva la polizia. Nel frattempo gli uomini
scaricavano la mercanzia e le donne la vendevano alle vicine, in un improvvisato
ed effimero mercato.
Dopo qualche mese da sentinella Juan José cominciò a uscire con i ragazzi della
sua età, a rubare auto e a caricarle con tutto quel che trovavano. A nove anni
entrò per la prima volta in riformatorio. La polizia lo sorprese sulla spiaggia
del Campo de la Bota a fare acrobazie su una moto rubata. Qualche giorno dopo
scappò, scavalcando il muro di cinta. Lo arrestarono ancora, ma ogni volta si
dava alla fuga. Il suo soprannome cominciò ad apparire sulle pagine dei
giornali. In quegli articoli il Vaquilla era a capo di una banda di ragazzini
che rubava auto di grossa cilindrata; doveva mettere un cuscino sotto il sedere
per arrivare all’altezza del volante, ma si diceva che negli inseguimenti fosse
imprendibile.
I giudici gli cercarono un riformatorio da cui non potesse scappare, ma alla
fine non trovarono altro rimedio che chiuderlo alla Modello di Barcellona, il
carcere degli adulti. Aveva tredici anni, l’età penale era fissata a sedici.
Alcuni prigionieri politici se ne accorsero e denunciarono il fatto per
iscritto. Sette mesi dopo tornò in libertà.
Nel dicembre del ’76 fu arrestato di nuovo. Quando uscì lo affidarono a una casa
famiglia, ma l’esperimento non durò a lungo. Aveva voglia di rivedere i fratelli
e tornò alla Bota. Non trovò più le baracche, ma palazzi alti e squadrati,
innalzati a poca distanza da quel che restava del Campo. Il suo quartiere adesso
veniva chiamato la Mina.
Nel ’77 il Vaquilla fu arrestato per due rapine in banca, ma all’ultimo momento
i testimoni ritrattarono e tornò in libertà. Un’altra rapina, invece, si
concluse in una sparatoria con la polizia. Juan José ne uscì illeso, ma con le
manette ai polsi. Il suo compagno lo portarono all’ospedale con due pallottole
nei polmoni. Rimase in coma tre mesi, ma si salvò. A lui diedero sei anni e
mezzo. Quattro per la pistola, due per la rapina e sei mesi per l’auto rubata.
Fu inviato a Herrera de la Mancha, la prima prigione di alta sicurezza
inaugurata dalla giovane democrazia spagnola. Passava la maggior parte del tempo
in isolamento. Cominciò a leggere Freud, Voltaire, Flaubert e Dostoijevski. La
popolarità del suo soprannome gli attirava la curiosità degli altri detenuti, ma
soprattutto le violenze dei carcerieri.
Nell’aprile dell’84 capeggiò la sommossa nella prigione Modello di Barcellona.
Il piano prevedeva di chiudersi in un ala del carcere, presentare una
piattaforma di rivendicazioni e ottenere che i giornalisti entrassero a visitare
le celle. Nel frattempo, un gruppo di detenuti sarebbe sceso nei sotterranei del
carcere per scavare una galleria che doveva sbucare in strada. Lui stesso si
incaricò di fare il primo passo, sbarrando gli accessi della sezione, dopo aver
preso in ostaggio quattro guardie con uno stiletto nascosto nello shampoo.
La fuga sotterranea venne frustrata dai reparti speciali, che si infilarono
dentro le fogne intorno al penitenziario. Allora il gruppo che guidava la
rivolta si concentrò sulle rivendicazioni. Fecero entrare i giornalisti, ma
questi, oltrepassati i cancelli, si precipitarono sul Vaquilla, sommergendolo di
domande; sembrava non gli importasse il motivo per il quale si trovavano lì
dentro. Alla fine si riuscì a organizzare una visita alle celle e una conferenza
stampa. I detenuti resero pubblici maltrattamenti e torture. Poi la rivolta
terminò. Non c’erano stati incidenti, né feriti.
Il giudice chiese per il Vaquilla quarantotto anni di carcere. Ogni volta che
doveva comparire davanti al tribunale di Barcellona Juan José veniva trasferito
a Lerida, dove avevano preparato una cella speciale solo per lui. Fu in questo
carcere che ritrovò il fratello Antonet. Insieme prepararono un nuovo piano di
fuga.
Erano in sei. Travestiti da guardie, presero in ostaggio un funzionario e un
cancello dopo l’altro arrivarono fino all’ultima porta. L’uomo riuscì a
liberarsi e dare l’allarme, ma in quel momento il Vaquilla e i compagni erano
già fuori. Scapparono a piedi attraverso i campi, poi in auto, rubando una
vettura dopo l’altra e cambiando continuamente direzione. Gli inseguitori li
sorvegliavano dagli elicotteri. In un villaggio ai piedi dei Pirenei i
fuggiaschi abbandonarono l’auto e imboccarono un cammino di montagna. Era
dicembre, nevicava. Camminarono tutta la notte per arrivare al confine, ma poi
decisero di fermarsi e di tornare indietro; rubarono un’altra auto, per arrivare
a Barcellona prima dell’alba.
Entrarono in città dalla Gran Via, il lungo viale che corre parallelo al mare.
Il Vaquilla, al volante, sfilò al primo controllo senza farsi notare. Dopo
qualche metro, però, dovette fermarsi a un semaforo. Lo affiancò un’auto senza
contrassegni. Un poliziotto in borghese si sporse lentamente dal finestrino e
mostrò la pistola. Anche quelli del posto di blocco ci ripensarono e accostarono
dall’altro lato. Al verde, il Vaquilla accelerò bruscamente. Risuonarono gli
spari, ma l’auto dei fuggitivi continuò la sua corsa.
L’inseguimento nel traffico del primo mattino durò qualche minuto. Juan José
poteva tenere dietro le macchine della polizia, ma le moto, che affluivano da
tutte le direzioni, erano più difficili da seminare. Alla fine andò a sbattere
contro una macchina che gli apparve davanti all’improvviso. L’auto si
accartocciò su se stessa, con le portiere bloccate. I poliziotti cominciarono a
sparare. Juan José fu l’unico ferito, alla spalla. Gli agenti lo tirarono fuori
e lo ammanettarono davanti alle telecamere. Poi lo lasciarono lì e si misero a
litigare tra loro per stabilire a chi toccasse l’onore della sua cattura.
Juan José ricomincerà da zero. Si metterà a studiare e dopo anni di isolamento
tornerà alla vita in comune con gli altri reclusi. Con una macchina da scrivere
e gli articoli dei detenuti comporrà la rivista Alegato. E scriverà per El
Pais un editoriale dal titolo: “Le carceri, senza demagogia”. Cambierà altre
carceri e per molti anni ancora sarà trattato come un pericolo pubblico. Si farà
coinvolgere in un’altra rivolta, pregiudicando la concessione di un permesso che
sembrava imminente. Il giudice lo condannerà a centoquattro anni, ma all’uscita
del tribunale giornalisti e fotografi lo attenderanno in mezzo a una folla
acclamante. Cercherà di smettere la dipendenza dall’eroina e più d’una volta
proverà a suicidarsi: tagliandosi le vene, iniettandosi un’overdose o
inghiottendo l’antenna di una radio. Nel gennaio del ’94 gli concederanno
finalmente i primi tre giorni di libertà, ma qualche mese dopo scapperà durante
un trasferimento. La fuga durerà qualche ora. In carcere apprenderà della morte
del fratello Antonet, in una sparatoria dopo una rapina in gioielleria.
Beneficerà di un indulto parziale, ma tornerà a rubare per procurarsi la droga,
perdendo una volta di più la possibilità di ottenere permessi.
Il Vaquilla non aveva mai ucciso. La pena di sei anni, con la quale era entrato
in carcere alla fine degli anni Settanta, si era convertita con il passare del
tempo in una condanna a vita. Il giorno della sua morte, il 19 dicembre del
2003, ancora quattro anni lo separavano dal simulacro della libertà. (luca
rossomando)
(disegno di sergio cennini)
Sarà presentato martedì 26 novembre, dalle ore 18,00, a Palazzo Venezia (via
Benedetto Croce 19), il libro di Antoni Esposito Come Cristo in croce. Storie,
dialoghi, testimonianze sulla contenzione (Sensibili alle foglie). Con l’autore
discuteranno Teresa Capacchione, Dario Stefano Dell’Aquila e Novella Formisani.
Pubblichiamo a seguire un estratto del volume, dal capitolo Disumanità e
violenza, le immagini di un Spdc / La storia di Francesco Mastrogiovanni
* * *
Nella storia della contenzione in Italia, esiste uno spartiacque che segna un
prima e un dopo, sia per quanto concerne il campo giuridico-legale e la
riflessione etica e bioetica, sia nell’ambito del dibattito pubblico: la vicenda
di Francesco Mastrogiovanni, il maestro elementare cilentano che, il 4 agosto
2009, muore nel reparto di Diagnosi e cura dell’Ospedale di Vallo della Lucania,
a seguito di una contenzione durata oltre ottantasette ore, tenendolo legato ai
quattro arti a un letto, in condizioni disumane e degradanti, quasi per l’intero
periodo di un ricovero determinato da un Trattamento Sanitario Obbligatorio
iniziato il 31 luglio.
La presenza delle immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza del
reparto, rese pubbliche dalla famiglia che, con il “Comitato Verità e Giustizia
per Francesco Mastrogiovanni”, ha strenuamente lottato perché fosse ricostruito
tutto quanto accaduto in quei giorni e fossero riconosciute le responsabilità
di quanto si era determinato, hanno mostrato a un intero paese la violenza e
l’inumanità di una pratica, la contenzione, che era diventata uno strumento
routinario nella vita quotidiana di quel reparto ospedaliero. I filmati,
inoltre, sono stati determinanti nel corso dei tre gradi di giudizio che hanno
coinvolto medici e infermieri dell’ospedale, portando, in Cassazione, a una
sentenza storica (Sezione V, sentenza n. 50497 del 20/06/2018), con la quale, al
di là delle condanne comminate agli imputati, si giunge, per la prima volta, ad
affermare che la contenzione non può essere considerata un atto medico, quanto
piuttosto un “presidio restrittivo della libertà personale che non ha né una
finalità curativa né produce materialmente l’effetto di migliorare le
condizioni di salute del paziente – anzi, secondo la letteratura scientifica,
può concretamente provocare, se non utilizzato con le dovute cautele, lesioni
anche gravi all’organismo, determinate non solo dalla pressione esterna del
dispositivo contenitivo, quali abrasioni, lacerazioni, strangolamento, ma anche
dalla posizione di immobilità forzata cui è costretto il paziente – svolgendo
[…] una mera funzione di tipo “cautelare”, essendo diretto a salvaguardare
l’integrità fisica del paziente, o di coloro che vengono a contatto con
quest’ultimo, allorquando ricorra una situazione di concreto pericolo per
l’incolumità dei medesimi”.
Chi scrive ha già ricostruito altrove quanto accaduto a Francesco
Mastrogiovanni, analizzando in dettaglio la sentenza della Cassazione. Rinviando
a quel lavoro per ulteriori approfondimenti, di seguito sono indicati solo i
punti essenziali degli eventi che hanno portato alla morte di Mastrogiovanni e
della successiva vicenda giudiziaria, lasciando, poi, ai dialoghi con Grazia
Serra e Giuseppe Ortano lo spazio di ulteriori indicazioni, riflessioni e
analisi.
Partiamo, quindi, dalla ricostruzione degli accadimenti e delle dinamiche che
hanno portato all’emanazione del Tso, seppure, ancora oggi, la vicenda resti non
del tutto chiara, presentando aspetti mai completamente approfonditi e alcune
incongruenze che, nel tempo, hanno anche portato a dubitare sulla legittimità
di quel provvedimento emanato dall’allora sindaco di Pollica Angelo Vassallo. La
sera del 30 luglio 2009, secondo la ricostruzione della polizia municipale,
un’auto avrebbe attraversato a forte velocità un’isola pedonale di Acciaroli
(senza però causare danni a cose o a persone, elemento che, insieme ad alcune
testimonianze raccolte, porta a dubitare che l’auto andasse a una velocità
sostenuta). Il mattino successivo, i carabinieri hanno avvistato la stessa auto,
che non si sarebbe fermata all’alt delle forze dell’ordine, determinando un
inseguimento conclusosi all’altezza di un cub turistico della zona, dove
Mastrogiovanni, che qui stava trascorrendo le vacanze, si è fermato,
raggiungendo il mare (secondo alcune testimonianze cantando la canzone anarchica
Addio Lugano bella), in cui si è rifugiato mentre, come se si stesse
realizzando una vera e propria caccia all’uomo, sopraggiungevano forze
dell’ordine e operatori sanitari su tutti i fronti: a largo una vedetta della
Capitaneria di porto, sulla spiaggia agenti della polizia municipale,
carabinieri e operatori sanitari con ambulanza a seguito. Dopo una lunga
trattativa, Mastrogiovanni è uscito dal mare, gli sono stati somministrati
farmaci, ha fatto una doccia, è salito autonomamente sull’ambulanza. Tutti
elementi che sembrerebbero far venir meno la necessità di un Tso che invece è
proseguito: con l’ordinanza n. 53 del 31 luglio 2009, il sindaco ha disposto il
Trattamento Sanitario Obbligatorio in degenza ospedaliera, e gli operatori sono
rimasti sordi all’invocazione dello stesso Mastrogiovanni la cui unica
richiesta, al momento di entrare sul mezzo del 118, è stata di non essere
trasferito all’ospedale di Vallo perché lì, con un terribile presagio che
forse ha radici in esperienze passate, si dice certo che lo avrebbero ammazzato.
Come ancora troppo spesso accade, il Trattamento Sanitario Obbligatorio, che
dovrebbe essere uno strumento eccezionale, con esclusiva valenza sanitaria, di
tutela delle persone con sofferenza psichica, sembra trasformarsi in una sorta
di mandato di cattura, un atto che tradisce i principi ispiratori della legge e
delle tutele costituzionali, realizzando sottrazione e compressione dei diritti.
Quello che è accaduto nel reparto psichiatrico dell’Ospedale San Luca, prima
che dagli atti processuali, viene restituito dai filmati delle telecamere di
videosorveglianza del reparto, che, mostrati in trasmissioni televisive,
incontri e nel documentario 87 ore – Gli ultimi giorni di Francesco
Mastrogiovanni di Costanza Quatriglio, hanno rivelato la realtà di un reparto
ospedaliero di psichiatria le cui prassi di intervento nulla sembrano avere a
che fare con la cura: in quelle immagini si riproduce la visione di luoghi
angusti e trasandati, in cui il corpo di Mastrogiovanni (e non solo il suo)
resta legato per giorni interi a un letto, mentre è sedato dagli psicofarmaci,
con cinghie ai polsi e alle caviglie. In un reparto confinato da una porta
sempre chiusa, medici e infermieri appaiono indifferenti al dolore, alle
richieste d’aiuto, non mostrano alcuno sguardo di cura, l’unico intervento è
quello farmacologico e una contenzione protratta per oltre ottantasette ore.
Mastrogiovanni subisce un processo di progressiva mortificazione e
nullificazione della persona, resta bloccato su un lettino troppo piccolo, che
non riesce nemmeno a tenere tutto il suo corpo, a volte nudo, altre solo con un
pannolone, le flebo applicate al braccio da cui, nel corso di questa vera e
propria agonia, fuoriesce anche del sangue che va a formare una chiazza rossa
sul pavimento, pulita dagli inservienti senza prestare alcuna attenzione al
paziente. Un’assenza di empatia che si reitera per tutto il tempo del ricovero,
anche quando portano il pranzo e, nel corso di una scena tragicamente grottesca,
lo lasciano dove Mastrogiovanni, legato, non può arrivare, dovendolo quindi
riportare via intonso, per poi affermare, nel corso del processo, che sarebbe
stato Mastrogiovanni a non voler mangiare. Alcune immagini mostrano anche un
altro uomo legato, evidenziando, come emerso pure nelle diverse fasi
processuali, un utilizzo della contenzione acritico e routinario. […]
Dal 31 luglio al 4 agosto del 2009, quindi, nel reparto psichiatrico di un
ospedale pubblico italiano, un uomo che svolge il lavoro di maestro elementare
ed è amato dai suoi allievi, viene sedato e legato al letto mentre dorme, senza
una giustificazione, senza che nessuno gli parli, lasciato in uno stato di
totale abbandono, senza che si realizzino le doverose e continue azioni di
controllo e monitoraggio delle sue condizioni di salute, che man mano
peggiorano, senza alcuna annotazione della contenzione nella cartella clinica.
Alla nipote, che, come ci racconta di seguito, si era recata in ospedale per
incontrarlo, viene negato il diritto a visitare lo zio, “per non turbarlo” le
dice (come troppo spesso ancora si sente ripetere in situazioni simili) il
medico del reparto. Per tutto il tempo del ricovero, le braccia e le gambe di
quest’uomo restano strette dalle fascette al letto, non può muoversi, non si
alimenta e non beve autonomamente, gli somministrano integratori e psicofarmaci
volti alla sedazione di uno stato di agitazione che, come conferma nel
successivo dialogo Ortano, nulla ha che fare con atteggiamenti auto o
etero-aggressivi (che Mastrogiovanni non manifesta mai durante il ricovero), ma
cresce, col passare delle ore, proprio per l’impossibilità di muoversi, per
l’essere bloccato, per le abrasioni e le escoriazioni sul corpo, determinate da
quella condizione di cattività resa ancora più insopportabile dal caldo di
quelle giornate estive.
Francesco Mastrogiovanni muore nella notte per edema polmonare acuto, ma se ne
accorgeranno solo in mattinata, annotando il decesso nella cartella clinica a
distanza di dieci ore dalla precedente indicazione.
(quadro di fernando eros caro dal braccio della morte, san quentin)
Avrà luogo a Napoli, sabato 2 novembre, dopo le prime due svoltesi a Roma, la
terza edizione di Arte contro le pene capitali, una manifestazione organizzata
da Monitor, Sensibili alle foglie e dal gruppo carcere dell’ex Opg – Je so’
pazzo.
In Italia la pena di morte è stata abolita con il nuovo codice penale militare
di guerra nel 1994 e in Costituzione solo nel 2007. Nel codice penale vi è
tuttavia ancora la pena dell’ergastolo, che non costituisce un’alternativa alla
pena di morte, in quanto essa stessa è una pena fino alla morte. Nei paesi in
cui è in vigore, inoltre, la stessa pena di morte non è più lo spettacolo
patibolare di un tempo ma una esecuzione durevole nel tempo, che si può
protrarre anche per molti anni prima dell’azione del boia. Pena di morte ed
ergastolo sono quindi due istituti che inducono l’agonia nelle persone che vi
vengono condannate, decretandone la morte a ogni prospettiva sociale e un lento
“vivere morendo”.
Nel corso dei mesi passati, il gruppo organizzatore della manifestazione ha
diffuso una call invitando artisti a sollecitare la propria vena creativa
intorno al tema dell’ergastolo e della pena di morte.
Questo è il programma delle esibizioni live:
ore 15.30 – Apertura in piazza a Materdei con la Banda Basaglia
ore 17.00 – Michele Fragna, poesie
ore 17.30 – Arrevuoto Teatro e Pedagogia e Chi rom e chi no, L’ultimo giorno di
un condannato a morte
ore 18.00 – Stefania Musto, Firfaust
ore 18.30 – Teatro Popolare e Collettivo delle arti, Fine bianca
ore 19.00 – Antonio Raia, Come se
ore 20.00 – Gruppo popolare Terra e lavoro, Le pene del capitale
ore 21.00 – India Santella, Da qui il mare non si vede
ore 21.30 – Dolores Melodia, Canzoni e musiche sul carcere
ore 22.00 – Dem Pasan, Danza contro la pena di morte
ore 22.15 – Caterina Bianco e Nicola Valentino, Mc Pherson lament
ore 23.00 – Frente Murguero Campano, Danze e musiche tradizionali per i
condannati a morte
Dalle 16 fino a mezzanotte saranno inoltre visibili in mostra le opere degli
artisti che hanno contribuito e che trovate qui in locandina.
A seguire potete leggere alcuni estratti dal libro collettivo Morire di pena.
Per l’abolizione di ergastolo e 41-bis, in cui si riflette sulla presenza nel
codice del nostro paese dell’ergastolo come pena di morte mascherata.
* * *
Al contrario della vulgata corrente, l’ergastolo in Italia esiste eccome: la
differenza numerica tra i detenuti che una volta condannati all’ergastolo ci
rimangono fino alla morte e quelli che ottengono i benefici per uscirne è
incommensurabile (sulla base di questo dato il gruppo di Morire di pena rifiuta
la differenziazione tra ergastolo ostativo e non ostativo, rivendicando
l’eliminazione dell’istituto in toto e il diritto, per qualsiasi essere umano,
di poter conoscere, al momento della propria condanna, il momento in cui potrà
essere liberato).
Dai primi anni Novanta (il cosiddetto “periodo stragista”) a oggi, gli ergastoli
sono più che quadruplicati. Al 31 dicembre 1992 erano 408, mentre allo stato
attuale i detenuti condannati all’ergastolo sono 1864, due terzi dei quali
ostativi. Eppure, per esempio, il numero degli omicidi nel paese è letteralmente
crollato: negli anni Novanta si sfiorava quota duemila l’anno, mentre oggi siamo
a meno di trecento. Anche solo questi dati, nudi e crudi, dovrebbero indurre a
riflettere.
L’articolo 4-bis viene introdotto nell’ordinamento penitenziario tra il 1991 e
il 1992. La disciplina, assai discussa negli anni in termini di
incostituzionalità, ha come caratteristica una differenziazione del trattamento
penitenziario dei condannati per reati legati alla criminalità organizzata o per
altri gravi delitti: subordina, infatti, l’accesso ai benefici previsti dalla
legge a una condizione: l’avvenuta collaborazione con la giustizia. Ne risulta
che un ergastolo “ostativo” – applicato automaticamente in caso di condanna
all’ergastolo per uno dei reati di cui sopra – conduce il detenuto fino alla
morte in cella, perché gli impedisce di uscire di prigione anche dopo decenni di
detenzione, a meno che questi non “decida” di collaborare con la giustizia. Se è
vero, inoltre, che è l’“ostatività” a privare i detenuti condannati
all’ergastolo della possibilità di accedere ai benefici penitenziari, è vero
anche che pure per gli altri ergastolani, non soggetti a condanna ostativa,
questa possibilità è estremamente residuale. Sono pochi gli ergastolani, in
sostanza, che non restano in cella fino alla morte, e pertanto il tanto discusso
tema dell’eliminazione eventuale dell’ostatività è solo una parte del problema,
mentre la vera questione è l’eliminazione dell’ergastolo in toto (i numeri
d’altronde ci dicono che tra il 2008 e il 2020 sono state concesse trentatré
liberazioni condizionali, mentre centoundici persone soggette all’ergastolo sono
morte in galera).
Con la recente legge approvata dal parlamento, inoltre, le possibilità di
ottenere una liberazione condizionale vengono ulteriormente ridotte: bisogna
essere sopravvissuti a trent’anni di pena scontata (e non più a ventisei), senza
contare che numerose altre condizioni rendono altamente improbabile la
possibilità di affrancamento dalla pena. La più dura tra queste prescrive che il
detenuto sia obbligato a fornire (dal carcere!) elementi che consentano di
escludere l’attualità di collegamenti non solo con l’organizzazione ma anche con
il contesto nel quale il reato è stato commesso (una interpretazione, quella del
“contesto”, che può essere estesa per esempio a un qualsiasi rapporto di
parentela, a una residenza in una stessa città o paese rispetto a membri o ex
membri de ll’organizzazione, rendendo quindi l’attribuzione del beneficio ancora
una volta estremamente difficile e discrezionale).
Va ribadito, infine, che la previsione di una pena perpetua contrasta con la
Carta costituzionale: se la pena deve tendere alla rieducazione, il fine pena
mai è estraneo a questo principio (“rieducare” in vista di cosa?). Questa
incompatibilità non può essere salvata, naturalmente, dal sofisma secondo cui
l’ergastolo esiste in quanto tende a non esistere, cioè perché prevede la
possibilità di non essere ergastolo, per effetto dell’ipotesi di concessione
della liberazione condizionale (nel caso dell’ergastolo “non ostativo”).
Nel 1981, con un referendum promosso dal partito Radicale più di sette milioni
di italiani si espressero per l’abolizione del “fine pena mai”. Negli anni
successivi il movimento “Liberarsi dalla necessità del carcere” nacque tra Parma
e Trieste e crebbe rapidamente in tutta Italia, fondato sulla lucidità di
operatori con grande sensibilità sociale, legati perlopiù al movimento per
l’abolizione dei manicomi, ma anche sull’alleanza con battaglieri amministratori
locali. Per citare epoche più recenti, infine, si può tornare al 1998 quando
centosette senatori (contro cinquantuno contrari e otto astenuti) votarono a
favore dell’abolizione dell’ergastolo partendo da un testo promosso dalla
senatrice comunista Ersilia Salvato, prima che la legge si arenasse alla Camera
e poi venisse per sempre archiviata con la caduta del governo Prodi, pochi mesi
dopo.
Da quell’ultimo tentativo sono passati vent’anni, non cento. Abbiamo oggi,
trasversalmente, una classe politica più rozza e opportunista, e il
bombardamento mediatico che propone le prigioni come il più efficace strumento
di gestione dell’ordine sociale e come anestetico alle paure della popolazione
ha raggiunto i suoi scopi. Tuttavia – lo spiega bene Sergio Segio in un testo
pubblicato qualche tempo fa sulla rivista Vita – anche nelle esperienze appena
citate si poteva percepire l’esistenza di “un paese comunque più civile e
avanzato dei suoi rappresentanti politici, in maggioranza schierati per la
permanenza dell’ergastolo, tentennanti o silenti”. Allo stesso modo, dal basso,
“dalla capacità di proporre riflessione, confronto, sensibilizzazione e
iniziativa, sia all’interno delle carceri che della società libera”, partirono
in quegli anni le spinte che poi sono state all’origine delle innovazioni più
avanzate della riforma Gozzini (1986). Perché, allora, questo non può accadere
oggi? La battaglia politica per l’abolizione dell’ergastolo e del 41-bis può
essere portata avanti da ognuno di noi nelle forme e nelle modalità che gli sono
più consone, mantenendo ferma all’orizzonte l’idea del necessario superamento
della più antistorica delle nostre istituzioni: il carcere. Un obiettivo di
civiltà e progresso, che oggi non può e non deve più essere considerato utopia.
(foto di -fm)
Quella che state per leggere non è solo la storia dell’arresto e dell’ingiusta
detenzione di tre uomini palestinesi. È una storia di donne, famiglie e bambini
intrappolati in una rete che si stringe sempre più attorno e rischia
costantemente di soffocarli.
10 MARZO
Questa storia inizia, per me, sotto una pioggia incessante, a Terni, il 10
marzo. Mi trovo qui per raccontare di Anan, arrestato a L’Aquila una ventina di
giorni fa a causa dei suoi trascorsi in Cisgiordania. Anan è un partigiano che
stava ricostruendosi la vita in una terra di partigiani come l’Abruzzo.
Nato e cresciuto a Tulkarem, in Cisgiordania, il destino di quest’uomo è legato
fin dalla gioventù alla lotta per la libertà del suo popolo. Siamo negli anni
della Seconda Intifada, inizio del nuovo millennio. I palestinesi insorgono
contro l’occupazione israeliana, dopo anni di negoziati falliti e una crescente
violenza che si diffonde nei Territori Occupati. È un’epoca di assalti,
incursioni militari, barbarie, che segnerà profondamente un’intera generazione
di palestinesi. Anan è parte della resistenza. Come molti altri viene arrestato,
torturato, e conosce l’orrore delle carceri israeliane. Nel 2006 è vittima di un
agguato delle forze speciali israeliane, un tentativo di esecuzione che avrebbe
dovuto toglierlo di mezzo per sempre. Sopravvive, seppur segnato con i
proiettili nel corpo e con cicatrici invisibili ancora più profonde.
Nel 2013 Anan lascia la Palestina con la speranza di trovare un luogo sicuro in
Europa. Prima in Norvegia, dove viene sottoposto a interventi per rimuovere i
proiettili rimasti nel suo corpo, poi in Italia, dove nel 2019 ottiene lo status
di rifugiato politico. Quella protezione avrebbe dovuto rappresentare una
tregua, la fine di un incubo che durava da anni. Ma nel gennaio di quest’anno,
mentre cerca di costruirsi una vita normale a L’Aquila, arriva un nuovo colpo:
l’arresto e una richiesta di estradizione da parte di Israele, che lo accusa di
terrorismo. In realtà la sua figura rappresenta un altro tipo di pericolo: è un
uomo che ha resistito, un simbolo della lotta per la libertà palestinese.
L’Italia si trova di fronte a una scelta: rispettare le direttive del diritto
internazionale, che protegge i rifugiati, o cedere alla pressione di Israele,
che lo rivuole indietro. Lo status di rifugiato politico dovrebbe essere una
protezione solida, una barriera contro l’arbitrio e l’ingiustizia, ma per Anan
questa protezione inizia a vacillare. Se la giustizia italiana accetta di
vederlo come un terrorista, per lui non ci sarà scampo. Sarà estradato e dovrà
affrontare un processo in un tribunale militare israeliano, dove la parola
“giustizia” non ha alcun significato.
Appena arrestato, Anan viene condotto con una misura cautelare nel carcere di
sorveglianza d’alta sicurezza a Terni. È da lì che, a febbraio, riceviamo una
sua lettera: “Grazie per tutto quello che state facendo per me e per la
Palestina, voi siete la nostra voce e siete parte della nostra lotta. Nonostante
noi siamo sotto attacco siamo liberi, come voi che lottate per la libertà”.
A Terni c’è un tempo da lupi. Piove a secchiate. Lo striscione che qualcuno ha
appeso a una rete viene subito strappato da una violenta folata di vento.
Impossibile prendere appunti. Ogni volta che ci provo la pioggia mi inzuppa i
fogli del quaderno. Resto a osservare e ad ascoltare, fuori dal carcere, tra una
raffica di vento e un cielo che non sembra volerci dare tregua. Ci raduniamo
intorno al camioncino per l’intervento telefonico dell’avvocato Flavio Rossi
Albertini: «È sempre più chiara la matrice politica che sta dietro la richiesta
di estradizione formulata da Israele, che cerca di intimidire, tacitare e
recludere chi resiste all’occupazione coloniale della Palestina ma anche chi è
solidale con la lotta per l’autodeterminazione che il popolo palestinese
combatte da decenni».
Cori si levano chiedendo Anan libero, Palestina libera. Dal carcere rispondono
voci solidali. Qualcuno ha recuperato lo striscione strappato dal vento. Ora
posso finalmente leggere cosa c’è scritto: “La resistenza non è un reato, il
genocidio sì. Anan Yaeesh libero, Palestina libera”.
12 MARZO, CORTE D’APPELLO
Sempre a marzo la Corte d’appello di L’Aquila rigetta la richiesta di
estradizione di Anan: il rischio di torture nelle carceri israeliane è troppo
alto. Per lui, che ha già subito violenze e abusi, sarebbe ripiombare nello
stesso inferno da cui è scappato.
Questa vittoria giudiziaria non è però risolutiva. Il giorno prima della
sentenza c’è un nuovo colpo di scena: nuove accuse, nuovi arresti. Questa volta
vengono coinvolti anche due suoi amici e connazionali, Alì Irar e Mansour
Doghmosh. L’accusa è quella di “promozione, costituzione, organizzazione o
finanziamento di associazioni terroristiche tese all’eversione dell’ordine
democratico in uno stato estero”, ovvero quella di far parte di una presunta
cellula terroristica che pianifica atti terroristici in Cisgiordania contro
Israele, in collaborazione con le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa.
Ali Irar viene prelevato e trasferito nel carcere di alta sicurezza di Ferrara,
mentre Mansour Dogmosh subisce una sorte ancor più dura, spedito nel carcere di
Rossano Calabro, istituto di massima sicurezza noto come la “Guantanamo
italiana”. Un luogo distante dalla propria nuova casa, ai margini estremi del
paese, lontano da tutto e da tutti.
Il tempismo delle nuove accuse lascia spazio a molte domande. Non si può fare a
meno di notare la coincidenza tra il rigetto della richiesta di estradizione e
questo nuovo arresto. Ci si chiede se queste accuse non siano un tentativo di
destabilizzare la sua posizione di rifugiato politico. La protezione concessa a
chi fugge da un contesto di guerra e repressione, infatti, può essere revocata
solo in casi specifici, come quelli legati al terrorismo. Le prove, d’altronde,
appaiono deboli e vaghe, insufficienti a giustificare un’accusa così pesante.
Viene da chiedersi, ancora una volta, se la giustizia si stia muovendo su un
piano legale o politico.
Nel frattempo, comunque, le piazze italiane cominciano a riempirsi di
manifestanti, attraversate da cortei a sostegno della Palestina. “From the River
to the Sea, Palestine Will Be Free” è lo slogan che più risuona nelle strade,
che ribollono di energia e rabbia. Da aprile la protesta sale ancora di
intensità, e sotto le sedi della Rai migliaia di manifestanti si riuniscono per
contestare la narrazione della televisione pubblica totalmente sbilanciata a
favore di Israele. Ciò che si chiede è una copertura più equa e veritiera, che
dia spazio alle voci della resistenza palestinese e denunci il genocidio in
corso, un dramma che non trova alcun riscontro nella vulgata ufficiale.
A Roma, davanti alla Farnesina, gli studenti si riuniscono chiedendo un incontro
con il ministro Tajani per discutere della complicità italiana nell’oppressione
del popolo palestinese, ma vengono lasciati sotto il sole e ignorati. A Napoli,
durante il concerto per il settantacinquesimo compleanno della Nato al
teatro San Carlo, i manifestanti mobilitatosi per denunciare la connivenza tra
l’alleanza atlantica e il supporto militare a Israele vengono manganellati e
identificati dalla polizia.
La rabbia e la determinazione si riversano anche nei rettorati occupati delle
università italiane. Napoli, Roma, Torino, Bologna diventano i centri nevralgici
della mobilitazione. Studenti, ricercatori e docenti si uniscono per chiedere
che le istituzioni accademiche italiane interrompano i rapporti con le
università israeliane, contribuendo alla discussa modalità di ricerca che si
articola sul binario del dual-use (ogni tecnologia o innovazione può avere una
funzione tanto civile quanto militare). In particolare, gli studenti denunciano
la collaborazione dei propri atenei con aziende come la Leonardo, che grazie ai
finanziamenti universitari sviluppa tecnologie utilizzate dall’esercito
israeliano nell’occupazione prima e nella distruzione poi dei territori
palestinesi.
La vicenda di Anan, Alì e Mansour diventa parte integrante di questa lotta. I
loro nomi compaiono nella narrazione, vengono scanditi nei cortei. La loro
battaglia si intreccia con quella contro la complicità italiana nel finanziare
l’industria bellica israeliana. Sono ormai simboli di resistenza, non solo
contro l’occupazione israeliana, ma contro un sistema che criminalizza chiunque
difenda la libertà, in Palestina come in Italia.
9 MAGGIO, LETTERA DI ANAN A LUIGIA
Cara amica, dovrei spiegarti una cosa. Oggi sono in un carcere italiano perché
vogliono mostrare a Israele che gli italiani sono con loro, con Israele, quindi
quello che succede non è normale. Nel 2005, quando ero bambino, sono stato
arrestato in un carcere americano e inglese perché ero nelle Brigate di Al-Aqsa.
Israele ha provato a uccidermi quattro volte per questo motivo. Per la stessa
ragione sono stato arrestato nel 2006 e mi hanno cacciato dalla Palestina nel
2013. Per la stessa ragione Israele ha fatto la stessa richiesta in Norvegia nel
2015 e per lo stesso motivo sono venuto in Italia, ho chiesto rifugio e l’ho
ottenuto […].
Sono stato arrestato in Giordania l’anno scorso per lo stesso motivo e ora
l’Italia mi ha arrestato per gli stessi motivi. Quindi niente di nuovo, ma è
qualcosa di politico, solo per dimostrare che Israele mi segue da molto tempo
non solo adesso, e lo so, sono sicuro, che se sarò libero o se rimarrò qualche
anno e dopo sarò libero, Israele non si arrenderà mai e non mi lascerà mai, non
si fermeranno prima di uccidermi. E questo è il loro messaggio per me, ma
sicuramente non ne parleranno in tv o in pubblico. La polizia italiana lo sa,
sono sicuri al cento per cento che Ali e Mansour sono solo miei amici. Non fanno
niente e non sapevano niente, ma li hanno arrestati solo per dire che la polizia
ha arrestato un gruppo di terroristi, non solo Anan, che lo vuole Israele.
La mia vita non è segreta, la gente non mi conosce, ma tutta la polizia di tutti
i paesi mi conosce molto bene, è solo un gioco politico. Ma, come ho detto
prima, non mi arrenderò mai finché non avremo la nostra libertà per la Palestina
e i palestinesi, perché la mia vita e tutto quello che ho è per la Palestina,
perché la Palestina merita sempre di più. Grazie mia cara, e grazie a tutti
quelli che ci sostengono.
Flavio mi ha detto che il 30 aprile c’è stato un gruppo di persone che si sono
presentate in tribunale a sostenermi, e come sicuramente sai Israele ha respinto
la richiesta, ma è solo un gioco tra di loro. Ora il mio tribunale sarà
pubblico, non come prima. Quindi chiunque potrà entrare e guardare. Quindi mi
piacerebbe vedervi lì. Certo, sarò nella telecamera ma posso vedere tutto.
Grazie a tutti per il vostro potere e le vostre parole positive; è vero che noi
non saremo mai terroristi, perché la resistenza è un atto di amore, e io, che
amo la vita più di chiunque altro, preferirei morire per ottenere la libertà del
mio popolo, per vedere tutti i bambini in Palestina andare a scuola senza paura,
per vedere tutte le ragazze andare per strada senza paura, quindi amo la mia
vita, ho molti sogni come tutti in questa vita, ho molti sentimenti nel mio
cuore, amo vivere in pace e farmi una famiglia, ma la Palestina è la cosa più
importante prima di ogni cosa e prima della mia vita.
Cara amica ancora una volta grazie per ogni cosa e spero di poter fare te e
tutti quelli che sono con te, felici un giorno con tutti i miei auguri e un
grande abbraccio,
vostro amico Anan Yaeesh, Palestina per la Palestina!
FINE MAGGIO, STORIA DI MAYS
La notizia mi giunge durante un’assemblea del collettivo di cui faccio parte:
Mansour, uno dei tre palestinesi arrestati, ha una moglie, Mays, da poco
inserita nel sistema d’accoglienza di Teramo, la mia città. Rimasta sola con tre
bambini piccoli, Mays non ha soltanto bisogno di aiuto economico, ma di un
sostegno umano. La vicenda, da politica, si trasforma in qualcosa di personale.
Non si tratta più soltanto di sostenere tre uomini ingiustamente detenuti.
Dobbiamo assicurarci che una donna giovane e i suoi figli non vengano travolti
da una vicenda che minaccia di stritolarli.
Il nostro primo incontro avviene in una giornata qualsiasi. Mi offro di
accompagnarla a fare la spesa in auto, sperando che quel gesto di quotidiana
semplicità possa rompere il ghiaccio fra noi. La prima immagine che ho di lei è
riflessa nello specchietto retrovisore della macchina: una giovane donna dagli
occhi grandi e marroni, bellissima, dignitosa, con un’espressione che tradisce
più smarrimento di quanto le sue poche parole possano esprimere. Le nostre vite
si incrociano così.
Qualche settimana dopo ci ritroviamo intorno a un piccolo tavolo di legno. Ci
sono le donne della comunità islamica, arrivate per offrirci il loro aiuto con
la traduzione; accanto a loro, compagne giunte da diverse parti d’Italia, ognuna
con la propria storia cucita addosso, la propria grande esperienza e
determinazione. Donne di terre, religioni e culture diverse, unite dalla
solidarietà.
L’appartamento, sopra i magazzini di un centro commerciale, diventa il “nostro”
spazio e piccolo rifugio; dal terrazzo la vista si apre su un maestoso Gran
Sasso, la sua cima nascosta da una lattiginosa foschia è lì, immobile e
imponente. Ci osserva silenzioso, testimone di una storia che non appartiene
solo a noi.
I figli di Mays si muovono come spiritelli e schizzano da una stanza all’altra
della casa, rincorsi dalle loro stesse risate, inconsapevoli dei discorsi che si
fanno sopra le loro teste. Le loro esplosioni di vita si intrecciano nelle
nostre conversazioni, rendendole elettriche e spezzandone il ritmo. Ogni tanto
si arrampicano sul davanzale come piccoli gatti, saltando dentro la stanza per
guardarci con occhi curiosi e pieni di eccitazione. Per loro, tutte quelle donne
così diverse, lì unite, sono una novità affascinante.
Parliamo di come organizzarci, di cosa fare per aiutare Mansour: la raccolta di
denaro, i colloqui con gli avvocati, la possibilità di viaggiare verso Rossano
Calabro per fargli incontrare la sua famiglia. L’idea diventa necessità quando
Mays ci racconta del suo bisogno di vedere Mansour, che negli ultimi colloqui
aveva mostrato una crescente sofferenza. Eppure, intorno a noi c’è una specie di
serenità. L’aroma del caffè e della torta si mescola ai sorrisi. L’insicurezza
con cui eravamo entrate sembrava dissolversi, lasciando spazio a una sottile
speranza. Anche Mays sorride spesso, ma nei suoi occhi si legge soprattutto il
bisogno di non essere lasciata sola, di aggrapparsi a quella rete di supporto
che stavamo cercando di costruire.
Quando ci alziamo per andar via, vedo i suoi occhi riempirsi di lacrime. Eravamo
state un’ondata di energia e speranza che le aveva riempito la casa, un sollievo
dopo mesi di solitudine. Quell’onda, però, con la risacca, si stava ritirando.
Chissà se sarebbe tornata, se non fosse stata solo un’altra vaga promessa fra
tante. Dal canto nostro, giorno dopo giorno, abbiamo invece provato ad
aggiungere un filo sottile a quella fragile tela fatta di gesti, sguardi e
parole spezzate. Una tela che è rimasta in bilico, minacciata dal peso
dell’attesa. Ogni volta che sembravamo avvicinarci a una svolta, la trama si
complicava e si disfaceva, lasciandoci sotto l’ombra di Penelope, costrette a
ricominciare daccapo.
20 LUGLIO, CORTE DI CASSAZIONE
Prima di affrontare il viaggio verso Rossano Calabro, decidiamo di fare una
prova, una prima trasferta con Mays e i bambini. 20 luglio, Roma, udienza in
Cassazione per Mansour e Alì. Un’occasione per vedere come Mays e i piccoli
avrebbero affrontato un viaggio impegnativo. In un certo senso, una prova di
resistenza, per loro e per noi tutte.
La capitale, quel giorno, brucia sotto un sole implacabile. L’asfalto sembra
sciogliersi sotto i nostri piedi mentre ci muoviamo a passo lento verso piazza
Cavour. Le palme della piazza offrono un’ombra esile, quasi ridicola rispetto
alla distesa di calore che ci circonda. Al nostro arrivo, davanti la Corte c’è
già un presidio di manifestanti. Molti sono attivisti per la Palestina, con
bandiere e striscioni che chiedono libertà per Anan, Mansour, e Ali.
La mattina sembra scivolare via lentamente, e con essa la speranza di una
risposta rapida, come spesso accade con i procedimenti legali. Mays rilascia
un’intervista ai giornalisti. La sua voce è ferma, determinata, anche se
l’emozione si percepisce. «Mansour sta cercando di resistere, non solo per sé,
ma anche per i nostri figli». Parla con lucidità, ribadendo il diritto alla
libertà, alla dignità, chiedendo giustizia. «Siamo scappati dall’oppressione –
dice – non vogliamo ritrovarci davanti a una nuova forma di oppressione in
Italia».
Verso metà giornata, le porte del tribunale si aprirono e compaiono gli avvocati
della difesa. Per Anan non ci sono buone notizie: la Corte conferma le misure
cautelari, questo significa che rimarrà in carcere fino alla fine del processo.
Per Mansour e Ali, invece, si riaccende la luce di una piccola speranza: la
Cassazione annulla con rinvio la decisione del tribunale di L’Aquila, e impone
che il loro caso venga riesaminato. Non è una vittoria, ma almeno un passo
avanti.
Nel frattempo la vita continua. Ogni colloquio in videochiamata tra Mays e
Mansour è un calvario, lui continua a ripetere di non riuscire più a resistere.
Le notizie di suicidi in carcere sono all’ordine del giorno. Ogni mattina sembra
che una nuova vita venga inghiottita da quel sistema opprimente. Una mattina,
l’ennesima tra queste morti mi spinge a prendere il telefono. Quando Elena mi
risponde sembriamo leggerci nel pensiero: “E se succede anche a lui? Se non
riesce a reggere?”. La decisione sembra inevitabile: dobbiamo muoverci. Non
importa se è l’estate più calda di sempre, se il viaggio sarà stato estenuante.
Non possiamo permetterci di aspettare un altro giorno.
7 AGOSTO, VIAGGIO PER ROSSANO CALABRO
Dopo settimane di impotenza, decidiamo di partire. Dobbiamo attraversare
l’Italia prima da est a ovest, poi da nord a sud. Siamo serrati dentro
l’abitacolo, il caldo fuori è inumano, una morsa ci schiaccia all’asfalto. I
finestrini sono chiusi, l’aria condizionata al massimo. Non parliamo del luogo
in cui stiamo andando, di quello che avremmo potuto trovare, anche perché tanto
da dire non c’è. Ci concentriamo sui chilometri da percorrere, sul pieno da
fare, il viaggio sembra interminabile. Mays è seduta di nuovo dietro di me, con
i bambini sul sedile posteriore. Il suo sguardo è fisso fuori dal finestrino.
Ciascuno di noi ha un’aspettativa per questo viaggio, ma lei? Cosa si aspetta? E
cosa immaginano i bambini?
Arriviamo di sera al b&b così da essere puntuali all’appuntamento delle otto del
mattino seguente, anche se poi davanti al carcere siamo già dalle sette. L’aria
è già calda e appiccicosa. La prigione è sorprendentemente vicina alle case,
potresti quasi guardare dentro affacciandoti dal balcone di qualcuno. Da dove
vengo io, invece, le carceri stanno lontane dal centro, isolate, nascoste.
Troviamo riparo sotto un piccolo gazebo di legno, tra la strada e i cancelli. In
quel luogo ostile, progettato per separare, quel rifugio sembra quasi un gesto
di umanità, anche se poi il carcere ci copre la vista del mare.
I bambini, come sempre, sono pieni di energia. Corrono avanti e indietro, ridono
e scherzano come se fossimo al parco in un normale giorno di vacanza estiva.
Elena inventa giochi per loro – “un-due-tre-stella!” –, io sono concentrata a
tenere sotto controllo la mia ansia. Più di tutto mi spaventava il momento in
cui dovremmo lasciarli andare. Mi sento impotente: una volta che loro
varcheranno il cancello, io ed Elena saremmo fuori, separate, senza possibilità
di poterli aiutare in alcun modo. I bambini, poi, si troveranno davanti estranei
indifferenti al loro destino, in un contesto anomalo, distante da ogni
esperienza vissuta fino a questo momento. E poi Mays. Parla appena italiano, e
dentro non ci sarà un interprete, né niente di simile.
Mentre sono assorta una guardia si avvicina al cancello, interrompendo i miei
pensieri e il gioco dei bambini. Khalil resta fermo nella sua posizione, si
volta e pensando al gioco, o forse no, ci interroga: «Abbiamo perso tutti?».
IL CPR
La scarcerazione di Mansour viene accolta da un’esplosione di gioia: dopo mesi
di sofferenza sembra aprirsi uno spiraglio. Una sensazione che però si trasforma
subito perché un’ora dopo ci comunicano che fuori dal carcere ha trovato la
polizia ad attenderlo. Lo hanno identificato e trasferito in un Cpr, un centro
di permanenza per il rimpatrio. La scarcerazione, che avrebbe potuto
rappresentare la fine di quell’incubo, è solo l’inizio di un nuovo capitolo.
Naturalmente non ci dicono dove lo porteranno. Ciò che io posso fare è mettermi
a raccogliere i documenti necessari a tirarlo fuori di lì, ripercorrendo tra le
scartoffie burocratiche la vita di un uomo che ha attraversato più di un inferno
(tempo dopo, Mansour, mi avrebbe detto che i tre giorni nel Cpr sono stati
peggio di sei mesi in Alta sicurezza): “Motivi per cui ha lasciato il suo paese
d’origine e possibili conseguenze di un eventuale rientro nel paese d’origine:
dichiara che era impossibile vivere nel campo di Tulkarem perchè era sempre
sotto il tiro delle forze israeliane ed era sempre bombardato. Da piccolo, a
seguito di un bombardamento, ha riportato ferite”.
Anche il viaggio di Mansour attraverso l’Europa, seguendo quella che conosciamo
tristemente come “rotta balcanica”, si può ricostruire attraverso il freddo
linguaggio dei documenti. Le immagini si sovrappongono nella mente: la fuga, la
paura, la ricerca disperata di una vita migliore, e ora, dopo anni di battaglie,
la prigione, in una terra che avrebbe dovuto offrirgli rifugio.
Passo ore a studiare queste carte e a riflettere, finché il giorno dopo riesco a
sapere la destinazione di Mansour: il Cpr di PonteGaleria, un luogo che non mi è
sconosciuto, anzi, il suo nome emerge periodicamente nelle più insopportabili
“brevi” di cronaca. Qualche mese fa, per esempio, un ragazzo di ventidue anni,
Ousmane Sylla, si è tolto la vita tra quelle sbarre. La sua morte aveva
scatenato una rivolta, rivelando brevemente al mondo esterno la disperazione che
si respirava in quel luogo.
RITORNO A CASA
È notte, e mi trovo alla stazione dei bus. Uno di questi da Roma riporterà
Mansour a casa. Le misure cautelari sono state annullate, ora ci sarà da
attendere il processo. L’accusa di terrorismo è molto pesante. Alì e Mansour
possono aspettarlo da uomini liberi, mentre Anan è ancora nel carcere di Terni.
Io sono sola nel piazzale. Ancora una volta non so bene cosa aspettarmi né come
comportarmi. Mentre l’autobus si ferma e la gente inizia a scendere, scruto i
volti chiedendomi se lo riconoscerò. Poi lo vedo. Cammina lentamente,
frastornato, credo dai rumori e dalle luci della stazione. Stringe tra le mani
una busta con le sue cose.
Lo chiamo con il suo nome. Un attimo di esitazione, capisce che sono lì per
riportarlo verso casa. Mando un messaggio a Mays: “Stiamo arrivando”. Lei
risponde subito, un solo grande, gigantesco cuore. Sorrido immaginando la sua
trepidazione e il suo volto.
Quando arriviamo la porta è già socchiusa. Mays ci aspetta, gli occhi che
brillano di una luce viva. Il silenzio della notte avvolge ogni cosa. I bambini
dormono. Non ci sono gesti plateali, né abbracci immediati, ma una tenerezza
silenziosa pervade l’atmosfera. L’interazione tra loro è delicata, intima. Ogni
gesto, anche il più piccolo, sembra carico di significati. È come se l’intero
spazio fosse immerso in un’attesa che non osa ancora sciogliersi. I due si
cercano, ma non si toccano subito. Capisco che è la mia presenza a creare una
barriera invisibile di pudore: l’abbraccio, quello vero, resta sospeso
nell’aria, come un momento che appartiene solo a loro, in un tempo che non è il
nostro. Esco di scena. (francesca mononoke)