(disegno di mattia vincenzo abbruzzese)
Sembra un mosaico in accurata composizione, tassello dopo tassello per
rafforzare il potere di chi lo esercita e silenziare la voce di chi lo subisce.
Nelle carceri italiane, il tasso di sovraffollamento ha superato il 133 per
cento nel giugno 2025: Milano San Vittore ha raggiunto il 220 per cento, Foggia
il 212. Secondo il ministero della giustizia, tra gennaio e giugno si sono
registrati trentasei suicidi, cui si sommano i novantuno del 2024, triste record
assoluto nella storia penitenziaria. È il segno di un sistema al collasso, dove
i corpi diventano esuberi amministrativi e la dignità si riduce a statistica.
Di fronte a tutto ciò, l’istituzione deputata a garantire trasparenza nei luoghi
di privazione della libertà è oggi muta. Il Garante nazionale dei diritti delle
persone private della libertà, istituito a seguito della sentenza Torreggiani
nel 2013, è attualmente presieduto da Riccardo Turrini Vita: magistrato e
dirigente di lungo corso del ministero della giustizia, con una carriera
soprattutto nel dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Turrini Vita è
stato nominato nell’ottobre 2024 su proposta del ministroNordio, con delibera
del consiglio dei ministri, affiancato da Irma Conti e Mario Serio. Tuttavia, la
relazione annuale al parlamento non è ancora stata presentata dall’attuale
collegio, anzi l’ultima risale addirittura al 2023 (sotto la gestione di Mauro
Palma). Il garante non effettua inoltre ispezioni non annunciate ed è stato
segnalato da avvocati e associazioni come difficilmente raggiungibile dai
detenuti, i quali inviano istanze e comunicazioni senza ricevere risposta.
A giugno 2025 Michele Passione, storico legale del garante, e le avvocate Maria
Brucale, Antonella Calcaterra e Giovanni Rossi, psichiatra e membro esperto,
hanno lasciato il loro incarico. La decisione è maturata, da parte di tutti, di
fronte a un contesto sempre più impermeabile all’ascolto e al confronto.
Passione ha motivato così la sua scelta, in una dichiarazione pubblica: “Se non
entri nei luoghi della detenzione, se non guardi, non puoi nemmeno vedere cosa
sta succedendo. Io mandavo report, segnalavo, ma nessuno rispondeva. Quando il
garante smette di ascoltare, è finita”. Sempre Passione ha rilevato come,
dall’inizio del mandato, l’attuale garante “non abbia mai effettuato visite nei
centri per migranti in Albania, né svolto alcun monitoraggio dei voli di
rimpatrio”. Per quanto riguarda le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure
di sicurezza), strutture che ospitano persone sottoposte a misure detentive per
motivi psichiatrici, risulta che nel primo semestre del 2025 sia stata
effettuata soltanto una visita ufficiale, il 30 gennaio, a Rieti. Un dato che
lascia perplessi sulla continuità e sull’effettiva incisività dell’attività di
monitoraggio in luoghi tanto delicati.
Anche il governo, intanto, posizionava i suoi tasselli. Il Decreto sicurezza
(Dl 48/2025), convertito in legge il 9 giugno 2025, prevede all’articolo 22 un
fondo per coprire le spese legali degli agenti di polizia penitenziaria e delle
forze dell’ordine indagati per atti commessi durante il servizio. Il rimborso
può arrivare fino a diecimila euro per ciascuna fase del procedimento penale,
comprese le indagini preliminari: un vero e proprio scudo legale a favore degli
imputati pubblici ufficiali. Contestualmente, il decreto introduce il reato di
“rivolta carceraria”, estendendo la resistenza passiva (incluse la battitura
delle sbarre e lo sciopero della fame) a una fattispecie punibile con la
reclusione da sei mesi a cinque anni. Si aggiungono aggravanti per le
manifestazioni “dentro e fuori le stazioni ferroviarie e della metropolitana”,
una nuova disciplina sulla detenzione di materiale “propedeutico al terrorismo”
punita con reclusione da due a sei anni anche in assenza di reati collegati, e
restrizioni all’accesso a misure alternative per le detenute madri. La Corte di
Cassazione, nella Relazione n. 33/2025 (23 giugno 2025), ha mosso critiche
durissime al provvedimento. Ha rilevato l’assenza dei presupposti di necessità e
urgenza per il ricorso al decreto legge, denunciandone l’eterogeneità,
l’approccio repressivo e la vocazione simbolica, definendolo una forma di
“ipertrofia penalistica” che rischia di criminalizzare anche le proteste non
violente. Secondo la Suprema Corte, il decreto non solo punisce l’intenzione più
che l’atto, ma compromette anche l’equilibrio tra accusa e difesa, il principio
di proporzionalità, il divieto di trattamenti inumani o degradanti, e il diritto
alla libera manifestazione del pensiero. Pochi giorni dopo, il 25 giugno 2025,
Matteo Salvini ha annunciato in conferenza stampa alla Camera l’intenzione di
proporre una modifica dell’articolo 613 bis del Codice Penale, che disciplina il
reato di tortura, introdotto con la legge 110/2017 dopo la condanna dell’Italia
da parte della Corte europea dei diritti umani per i fatti del G8 di Genova, in
particolare per le violenze alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto.
Salvini ha dichiarato che il reato di tortura dovrebbe essere modificato per
permettere alla polizia penitenziaria di svolgere il proprio lavoro senza
rischiare accuse ingiustificate. Ha sottolineato che gli agenti penitenziari
sono spesso etichettati come “aguzzini e torturatori” senza motivo.
Se Mario Serio, componente del collegio del garante nazionale, ha dichiarato che
“il garante continuerà a costituirsi in giudizio contro le forze di polizia
accusate di maltrattamenti e tortura”, Michele Passione, a cui è stato richiesto
un commento sul punto, ha precisato: “Quanto alla volontà dichiarata di
proseguire nell’attività processuale del garante, a oggi non posso affermare con
certezza che siano stati nominati nuovi avvocati. Posso solo rilevare che, dopo
la mia rinuncia, ho continuato a ricevere notifiche dalle autorità giudiziarie
presso le quali ero parte civile. Sembrerebbe quindi che non sia stata ancora
depositata una nuova nomina: per legge, infatti, il difensore della parte civile
è domiciliatario. Alle date in cui ho ricevuto le notifiche, quindi, un nuovo
difensore non era stato probabilmente nominato”.
Il 6 aprile 2020, a Santa Maria Capua Vetere, telecamere interne all’istituto
riprendevano un vero e proprio raid punitivo condotto da quasi trecento agenti
penitenziari. Durante questo raid centosettantasette detenuti furono pestati,
insultati, denudati e umiliati. L’inchiesta ha indagato su centoventi persone e
portato all’emissione di cinquantadue misure cautelari, ma l’attenzione pubblica
si è velocemente dissolta. A Foggia, l’11 agosto 2023, dieci agenti aggredivano
e picchiavano due detenuti per oltre mezz’ora: uno di loro soffriva di una grave
patologia psichiatrica. L’indagine, supportata da video e testimonianze interne,
ha portato a quattordici ordinanze cautelari nel marzo 2024. Nel 2025, la
Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per tortura, concussione e falsità
ideologica, evidenziando coperture sanitarie e tentativi di insabbiamento.
Non si tratta di episodi isolati. A San Gimignano, il 9 marzo 2023, il Tribunale
di Siena ha condannato cinque agenti della polizia penitenziaria a pene tra
cinque anni e dieci mesi e i sei anni e sei mesi per tortura, falso e minaccia
aggravata. I fatti risalivano all’ottobre 2018, quando un detenuto tunisino era
stato brutalmente pestato. La sentenza ha riconosciuto non solo la violenza
sproporzionata, ma anche il tentativo sistematico di copertura dell’accaduto. La
Corte d’Appello di Firenze ha successivamente confermato tutte le condanne,
sebbene cinque imputati abbiano ricevuto uno sconto di pena. Ancora – ma si
potrebbe andare avanti a lungo – nel febbraio 2025 il Gup di Reggio Emilia ha
condannato dieci agenti di polizia penitenziaria per il pestaggio di un detenuto
tunisino avvenuto il 3 aprile 2023 nel carcere della Pulce. In quel caso il
reato di tortura non è stato riconosciuto, e le condanne per abuso di autorità,
lesioni e falso ideologico sono variate da quattro mesi a due anni (nonostante
ciò, l’impianto accusatorio ha mostrato pratiche di violenza istituzionale
reiterata, perseguibili solo grazie alla legge 110/2017, oggi sotto attacco).
Alla violenza fisica si accompagna una crescente medicalizzazione della
custodia. Il XXI Rapporto di Antigone (Senza Respiro, presentato il 29 maggio
2025) ha rilevato che il quarantaquattro per cento dei detenuti assume sedativi
o ipnotici, mentre il venti per cento fa uso di stabilizzanti dell’umore,
antidepressivi o antipsicotici, spesso in assenza di una diagnosi psichiatrica
formale. Il fenomeno è particolarmente allarmante nelle carceri minorili, dove
il consumo di psicofarmaci è aumentato drasticamente (del sessantaquattro per
cento all’istituto di Torino e del trecento cinquantadue per cento a Nisida,
rispetto al 2022) Nei reparti per l’“osservazione psichiatrica” sono state
documentate prassi come l’isolamento prolungato per settimane, la sedazione
forzata e la contenzione meccanica. Secondo le linee guida delle Nazioni Unite e
le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt),
tali pratiche possono configurare trattamenti inumani o degradanti. In istituti
come Poggioreale e Vigevano il Cpt ha segnalato la totale assenza di
monitoraggio esterno, l’uso di farmaci senza consenso informato e gravi lacune
nella documentazione degli episodi di contenzione, compromettendo ogni forma di
trasparenza e tutela.
L’approccio segregativo e le pratiche torturatorie si estendono sempre più anche
all’esterno dei luoghi carcerari “tradizionali”. Da gennaio 2025, l’Italia ha
avviato i primi trasferimenti di migranti irregolari nei Cpr albanesi costruiti
a Shëngjin e Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale del 6 novembre 2023.
Queste strutture, gestite con appalti diretti e contratti blindati, sono
collocate fuori dal territorio nazionale: secondo la narrazione governativa, ciò
le escluderebbe dalla giurisdizione italiana. La Corte di Cassazione, con
l’ordinanza n. 23105 del 20 giugno 2025, ha stabilito che i centri albanesi sono
“formalmente e sostanzialmente sottratti alle garanzie giurisdizionali
italiane”, in violazione della Direttiva 2008/115/CE e della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea. La Suprema Corte ha inoltre sollevato due
questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, affermando
che il trattenimento nei Cpr albanesi rappresenta “una forma di detenzione
extragiudiziale in territorio straniero, priva delle tutele minime previste dal
diritto europeo”.
Secondo quanto riportato dall’Asgi, nei primi sei mesi del 2025 oltre
centoventicinque migranti sono stati trasferiti nei Cpr albanesi di Shengjin e
Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale siglato tra Italia e Albania.
Diverse autorità giudiziarie italiane, tra cui i giudici di pace di Roma,
Bologna e Catania, hanno successivamente disposto il rilascio immediato di
alcuni richiedenti asilo, ritenendo il trattenimento “giuridicamente nullo” per
l’assenza di tutele legali e giurisdizionali. Il 3 luglio 2025 la Corte
Costituzionale (con la sentenza n. 96/2025) ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale della disciplina del trattenimento nei Cpr, per violazione
dell’articolo 13 della Costituzione. La Consulta ha rilevato che la privazione
della libertà personale nei centri per il rimpatrio avviene sulla base di una
norma, l’articolo 14, comma 2 del Testo Unico Immigrazione, che non definisce
con sufficiente precisione i modi del trattenimento, rinviando a fonti
secondarie e a prassi amministrative, in violazione della riserva assoluta di
legge in materia di libertà personale. La Corte ha inoltre sottolineato che
l’attuale disciplina non garantisce un controllo giurisdizionale effettivo e
continuo, come imposto dall’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo (Cedu), che tutela ogni persona da forme di detenzione amministrativa
arbitrarie. In assenza di una normativa primaria che disciplini condizioni,
durata e modalità del trattenimento, questo si configura come un assoggettamento
fisico all’altrui potere, potenzialmente lesivo della libertà personale e privo
delle necessarie garanzie di legge. Sono state inoltre sollevate (anche se
dichiarate inammissibili) questioni relative alla violazione degli articoli 24 e
111 della Costituzione, in particolare per la mancata effettività del diritto
alla difesa, l’assenza di informazioni chiare sui diritti del trattenuto e le
difficoltà nell’accesso a un avvocato e nel ricorso contro il trattenimento. La
Corte ha ritenuto inoltre non scrutinabili le questioni relative alla violazione
dell’articolo 3 della Costituzione, che denunciavano una disparità di
trattamento rispetto al regime carcerario ordinario. Nel merito, va
sottolineato, non ha fornito una disciplina sostitutiva, ma ha rivolto un
preciso monito al legislatore: in mancanza di un intervento normativo che
regolamenti in modo chiaro il trattenimento nei Cpr quanto a modalità, durata,
condizioni materiali e garanzie giurisdizionali, la misura risulta
costituzionalmente inammissibile.
È chiaro, tuttavia, che un intervento meramente giurisdizionale non può essere
sufficiente davanti a un mosaico che si compone e ricompone di continuo. Un
garante che non parla, una legge che protegge chi picchia, un decreto che
finanzia la difesa degli imputati in divisa, una riforma che sterilizza il reato
di tortura, una giurisdizione che si dissolve verso strutture extraterritoriali:
tutto è coerente con l’obiettivo di silenziare la denuncia, ridurre al minimo le
garanzie, garantire l’impunità e normalizzare l’eccezione. È il passaggio dalla
giustizia alla gestione, dal diritto alla forza, e non è solo una crisi: è una
precisa scelta politica. Di fronte a un sistema che si regge sulla paura e
sull’opacità, il rischio non riguarda solo i detenuti, i migranti o i marginali:
è un rischio per tutti, e per gli equilibri democratici generali, perché quando
il potere si protegge dalla legge e non con la legge, la libertà smette di
essere un principio, e diventa un privilegio. (luna casarotti – yairaiha ets)
Tag - detenzioni
(disegno di rosario vicidomini)
Ogni anno l’Osservatorio di Antigone stila il Rapporto sulle condizioni delle
prigioni e sul funzionamento della macchina penale. Senza respiro è il
ventunesimo ed è stato presentato il 21 maggio di quest’anno a Roma nella sede
dell’associazione.
L’analisi come sempre è rigorosa e si articola in un’area tecnica (Temi) in cui
si definiscono i contorni maggiormente problematici della detenzione intra ed
extra-muraria, due dossier specifici (uno riguardo ai suicidi dal 2024 al 2025,
l’altro sui principali processi per tortura in corso), un’ultima area distinta
di Approfondimenti riguardo agli aspetti di politica criminale ed esperienze di
attivismo all’interno delle galere.
Le prigioni, come da sempre sosteniamo, sono un ingranaggio nevralgico per il
funzionamento dell’economia capitalistica perché rappresentano l’argine
principale per la massa crescente di soggetti espulsi dal sistema produttivo.
Per questo l’immagine che viene fuori dalla lettura del Rapporto è interessante
per capire la fase che stiamo attraversando.
Prima di ogni cosa i numeri. Il 30 aprile i detenuti presenti erano 63.445, il
30 giugno erano 62.728 in spazi che possono contenerne 51.280 (a cui devono
sottrarsi ameno 4.500 posti perché spazi inagibili o in ristrutturazione).
L’aumento è consistente e “se si pensa che le nostre carceri hanno una capienza
media di circa trecento posti significa che la popolazione detenuta sta
crescendo dell’equivalente di un nuovo carcere ogni due mesi”.
Questi flussi impattano fortemente sull’economia nazionale, tuttavia il bilancio
dell’Amministrazione penitenziaria indica che il costo per sostenere ogni
recluso è in netta diminuzione e questo significa che all’aumento delle persone
detenute non corrispondono maggiori investimenti. A ogni modo, come sempre la
voce di spesa più alta dell’intero budget (61,7%) è destinata al pagamento del
personale di polizia penitenziaria.
A proposito dei costi destinati alla reclusione, l’Osservatorio registra il
progressivo allargamento delle attività del terzo settore anche nella gestione
dell’esecuzione della pena. Tale processo di privatizzazione non riguarda
soltanto l’affidamento di singoli servizi a enti esterni (come la mensa o
l’approvvigionamento idrico per le strutture che non hanno l’allaccio), ovvero
di percorsi trattamentali (il laboratorio di teatro) e lavorativi (la sartoria)
già ampiamente affidati a cooperative, ma della reclusione tout court. Il
decreto legge 92/2024, convertito con legge 112/2024, disciplina le nuove
“strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale dei
detenuti”. Il ministero di giustizia dispone di un elenco delle strutture
residenziali e per il funzionamento di questi spazi affida un finanziamento di
sette milioni di euro (bacino economico di Cassa delle Ammende). La critica di
Antigone è chiara: “Il comma 4 dell’art. 8 cita esplicitamente la disponibilità
ad accogliere soggetti in regime di detenzione domiciliare. Quest’ultima è una
forma di detenzione a tutti gli effetti, sebbene in privata dimora. Quando la
privata dimora non appartiene alla persona stessa che sta scontando la pena
bensì ad altro soggetto privato, e quando questo soggetto privato riceve fondi
pubblici per provvedere alla reintegrazione sociale del condannato, il risultato
somiglia molto a un carcere privato”.
L’“impresa del bene”, cresciuta nei margini di questo settore, comincia a
recuperare fette di mercato sempre più ampie. È il caso della regione
Emilia-Romagna che sostiene le Comunità Educanti con i Carcerati, che propongono
un programma di rieducazione del condannato gestito privatamente dalla Comunità
Papa Giovanni XXIII. Anche in Campania si trova un’esperienza simile, infatti
l’associazione Terra Dorea, costituita a gennaio 2025, già a maggio ha stretto
un importante protocollo con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria
per “creare comunità educative alternative alla detenzione e, così, ridurre il
sovraffollamento carcerario”. Di quest’ultima associazione si sa pochissimo,
sembra nata dal nulla, ma appare già molto inserita nel contesto istituzionale
della pena. Dopo un mese dalla costituzione, il 5 febbraio firma una convenzione
con il Tribunale di Napoli Nord per lo svolgimento di percorsi di recupero
destinati agli autori di reati di violenza domestica e di genere. Questo ente
del terzo settore si sta muovendo su ogni campo del reinserimento. Spiega la
giovanissima presidente, avvocata Claudia Majolo, in una delle prime note
apparse sulla stampa locale: “Terra Dorea si propone come un ponte tra il
carcere e la comunità, promuovendo l’educazione, la formazione professionale e
il supporto psicologico. L’obiettivo è fornire gli strumenti necessari affinché
chi ha vissuto l’esperienza della detenzione possa riscattarsi, facendo leva su
una visione di giustizia che non si limiti alla punizione, ma che favorisca una
reale trasformazione sociale e culturale”.
L’immagine dell’istituzione che viene fuori dalla lettura del rapporto è di un
carcere pronto a implodere di nuovo e che tenta di immaginare possibili
traiettorie di riequilibrio in senso securitario, ma tali soluzioni sono del
tutto inconsistenti rispetto alle contraddizioni interne e alla enorme pressione
degli ingressi.
Rispetto a quest’ultimo punto, è interessante la posizione del ministero
espressa nel corso della presentazione romana. Il consigliere Ernesto Napolillo,
ex magistrato, direttore dell’Ufficio generale detenuti e trattamento, comincia
il proprio intervento senza mezzi termini: gli unici dati giusti sono quelli
forniti dall’istituzione, le associazioni e gli altri enti non operano con
metodo scientifico e devono occuparsi di altro. Entra poi nel merito toccando
alcuni punti oggetto della discussione. L’ufficio che dirige l’ex magistrato
coniuga le due tensioni del carcere: l’esigenza di sicurezza connessa alla
pericolosità penitenziaria e la necessità del trattamento del detenuto. Sulla
rieducazione, il consigliere penitenziario afferma senza remore che
l’istituzione registra un “cronico e gravissimo problema di effettività del
trattamento”. Secondo il ministero l’assenza di lavoro è la causa principale.
L’autorità si dilunga, poi, esponendo il posizionamento politico: “Il modello
tradizionale di carcere come luogo di segregazione votato anche al trattamento è
superato… il carcere non è più il luogo della pena ma è un luogo di conquista
della criminalità organizzata. Ci sono delle organizzazioni criminali che
preparano i propri affiliati e li mandano in carcere per controllare le piazze
di spaccio nelle carceri”. C’è la necessità, quindi, di un nuovo paradigma per
riequilibrare l’istituzione ed è quello della legalità: “Garantire il diritto
alla sicurezza è il miglior modo per garantire la sicurezza dei diritti”. A
ognuno il proprio ruolo: il trattamento è rimesso alla società civile, al
volontariato, alle organizzazioni religiose. L’istituzione, invece, deve
garantire la sicurezza e l’autorità attacca la vuota retorica dei proclami delle
amministrazioni precedenti: “Troppe passarelle ci sono state fino a oggi… ci
sono più protocolli che attività, ci sono più iniziative di lavoro che
lavoratori”.
Il piano politico è coerente con una rappresentazione muscolare
dell’istituzione: rispristinare la sicurezza conducendo una guerra totale. In
tale prospettiva devono essere letti il decreto sicurezza (convertito in legge
80/2025) e la nuova iniziativa legislativa titolata “Operazioni sotto copertura
per la sicurezza degli istituti penitenziari” che estende alla polizia
penitenziaria le possibilità dell’art. 9 della legge 146/2006, ammettendo
operazioni sotto copertura, uso di identità coperte e lo scudo penale per gli
agenti coinvolti, purché le autorità giudiziarie siano previamente informate.
Queste misure rappresentano gli armamenti giuridici per condurre il conflitto
interno e impedire l’organizzazione collettiva delle lotte. Dal mondo delle
prigioni emerge il coerente rafforzamento dei poteri repressivi dello Stato in
una fase complicata per il capitalismo italiano ed europeo in cui si deve
necessariamente conservare l’ordine sociale mentre occupazione e salari sono in
caduta ripida e gli scenari di guerra esterna si fanno sempre più concreti.
Ci sono tuttavia delle distonie che rendono problematica la realizzazione del
programma politico. Alcune sono emerse sempre nel corso della presentazione del
Rapporto di Antigone. Il sindacalista Gennarino De Fazio, segretario Uil Pa,
rispondendo punto per punto alle affermazioni del dirigente
dell’Amministrazione, ha ricordato che i suicidi tra le fila della polizia
penitenziaria sono in aumento (l’ultimo si è ammazzato il 27 giugno, appena
finito il turno con un colpo di pistola nel parcheggio del carcere di
Secondigliano). La frustrazione al fronte è enorme e senza soluzione. Questa
guerra si combatte senza soldati. “I detenuti sono aumentati di 5.000 unità… al
di là della propaganda la polizia penitenziaria è aumentata di 133 unità che non
sono andate nelle carceri ma a integrare gli uffici dipartimentali dove c’è
anche il consigliere Napolillo. Il personale è sempre più senza respiro”.
Il sindacalista ha criticato fortemente il graduale processo di omologazione
degli agenti penitenziari agli altri corpi di polizia, perché la funzione è
sostanzialmente diversa e ha attaccato duramente il piano formativo dei nuovi
agenti che vengono mandati al macello con qualche giorno di corso da remoto.
Tralasciando il tentativo di rafforzare la propria organizzazione di categoria,
le criticità segnalate e la spaccatura interna tra la polizia che opera in
trincea e i generali che governano la battaglia dalle scrivanie è reale. Lo
registriamo costantemente anche nei corridoi dell’aula bunker durante le lunghe
attese del processo sulla Mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.
Difatti, per quanto gli apparati stiano correndo per prepararsi alla guerra, da
tempo le macerie sociali di questo ordine di cose aumentano. Le prigioni sono
una di queste e sono pronte a esplodere. Non c’è tempo. La realtà dei fatti, al
di là delle lezioni di vita dei dirigenti, è che molti istituti di pena si
autogestiscono. In istituti dove persiste un sovraffollamento del 150% circa,
dove è assente ogni tipo di intervento anche solo riempitivo della giornata, con
le presenze di personale civile e in divisa in sottorganico, l’implosione è
scongiurata solo in virtù di autogestione informale e precaria dei poteri
interni ufficiosi e ufficiali.
“Vengo da laggiù dove tutto è finito… e tutto ricomincia”, sono le parole della
Cassandra di Dimitriadis; stiamo ricominciando daccapo ed è necessario per
evitare di rimanere sepolti dalle rovine di questo mondo, rivitalizzare e
moltiplicare l’organizzazione delle lotte, estendendo l’intervento a ogni ambito
della riproduzione sociale. Trovare nei legami collettivi e nei percorsi di
resistenza la fiducia per “l’assalto al cielo”. A ognuno il suo ruolo, questo è
il nostro. (luigi romano)
(disegno di canemorto)
Con la sentenza n.76 del 2025 la Corte Costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità parziale dell’articolo 35 della legge 833/1978, che norma il
Trattamento sanitario obbligatorio, ex articolo 3 della legge 180/78, cosiddetta
“legge Basaglia”. In particolare, la sentenza ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’articolo 35 in relazione alla mancata previsione di tre
garanzie fondamentali: il diritto all’informazione e comunicazione del
provvedimento alla persona interessata o al suo legale rappresentante (avvocato,
amministratore di sostegno, tutore o curatore); il diritto della persona a
essere sentita prima della convalida; la notifica del provvedimento di Tso alla
persona interessata o al suo legale rappresentante.
Il giudizio di legittimità costituzionale era stato sollevato dalla Corte di
Cassazione nel settembre 2024, nell’ambito di una controversia promossa da una
donna sottoposta a Tso a Caltanissetta. La donna, tramite il suo avvocato, aveva
presentato opposizione lamentando di non aver ricevuto alcuna notifica, di non
essere stata ascoltata dal giudice e di non avere avuto strumenti effettivi per
difendersi. La Cassazione, valutando il ricorso, aveva posto in evidenza una
serie di gravi lacune nel procedimento, affermando che “la mancata audizione
della persona da parte del giudice tutelare prima della convalida rende il
controllo giudiziale meramente formale”. I giudici della Corte Costituzionale,
in seguito al ricorso presentato dalla donna in Cassazione, hanno rilevato come
l’articolo 35 della legge 833 non garantisca in effetti adeguate tutele,
evidenziando che “il sindaco e il giudice tutelare comunicherebbero tra loro, ma
nessuno dei due comunicherebbe con il paziente”.
La sentenza della Corte Costituzionale dovrebbe avere da ora effetto immediato
su tutti i procedimenti in corso e su quelli futuri. I sindaci, in qualità di
autorità sanitarie locali, dovranno garantire, ai sensi del pronunciamento, che
il provvedimento sia notificato alla persona o al suo legale rappresentante. I
giudici tutelari saranno obbligati quindi ad ascoltare l’interessato prima di
convalidare il trattamento e la mancata osservanza di tali garanzie potrà
determinare l’illegittimità del Tso. Di prassi, il legislatore dovrebbe inoltre
intervenire per adeguare il testo normativo al nuovo orientamento
costituzionale.
LA SENTENZA
Abbiamo ritenuto opportuno approfondire i meccanismi interni della sentenza.
Secondo la Corte Costituzionale l’assenza della tempestiva informazione sulle
modalità di opposizione costituisce “un ostacolo rilevante all’esercizio del
diritto a un ricorso effettivo alla difesa e, in ultima istanza, a un giusto
processo”, anche se la 833 preveda la possibilità di chiedere la revoca del
provvedimento di Tso e di proporre successiva opposizione. La Corte ha sostenuto
che la non comunicazione, la mancata audizione del giudice tutelare e la mancata
convalida del provvedimento rappresentino “una violazione del diritto al
contraddittorio e alla difesa, dunque un deficit costituzionalmente rilevante”.
Ha fatto appello in particolare ad articoli fondamentali della Costituzione: il
13, sulla libertà personale, il 24, sul diritto di difesa in giudizio, e il 111,
sul giusto processo.
La Consulta ha stabilito che la persona sottoposta a Tso deve essere messa a
conoscenza del provvedimento restrittivo della libertà personale e deve
partecipare al procedimento di convalida, in quanto titolare del diritto
costituzionale di agire e di difendersi in giudizio, anche nel caso in cui si
trovi in stato di “incapacità naturale”.
Nella sentenza è scritto inoltre che l’audizione della persona sottoposta a Tso
da parte del giudice tutelare debba avvenire prima della convalida “presso il
luogo in cui la persona si trova – normalmente un reparto del servizio
psichiatrico di diagnosi e cura”, perché questo incontro tra paziente e giudice
“è garanzia che il trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di
violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà
personale (articolo 13, quarto comma, della Costituzione) e nei limiti imposti
dal rispetto della persona umana (articolo 32, secondo comma, della
Costituzione)”. L’audizione per la convalida – che deve avvenire entro
quarantotto ore – rappresenta un primo contatto che consente al giudice tutelare
di conoscere le condizioni della persona, compresa “l’esistenza di una rete di
sostegno familiare e sociale”.
La sentenza ha fatto anche riferimento al rapporto del Comitato europeo per la
prevenzione della tortura, che nel 2023 aveva evidenziato come il Tso in Italia
segua un “formato standardizzato e ripetitivo” in cui il giudice tutelare “non
incontra mai i pazienti che rimangono disinformati sul loro status legale”. La
Corte non si è limitata alla questione Tso, mettendo giustamente in discussione
l’analogo dispositivo amministrativo restrittivo della libertà personale che
riguarda i migranti senza documenti: “L’accompagnamento coattivo alla frontiera
e il trattenimento dello straniero nei centri di permanenza per il rimpatrio
devono essere assistiti dal diritto di essere ascoltati dal giudice in sede di
convalida, sicché sarebbe irragionevole e lesiva del principio di eguaglianza
l’omessa previsione di analogo adempimento nel trattamento sanitario coattivo”.
QUARANTASETTE ANNI SENZA COSTITUZIONE
Se il Tso è stato costituzionalmente illegittimo finora, chi ci garantisce che
le cose cambieranno? Con che modalità queste persone saranno ascoltate? Verranno
tutelate la libertà e il diritto di difesa della persona che la sentenza della
Corte Costituzionale, in maniera precisa, definisce? Malgrado la sentenza abbia
riportato a chiare lettere che l’audizione debba avvenire nello stesso luogo in
cui la persona si trova, il tribunale di Milano ha già chiesto l’attivazione di
un numero per fare le audizioni in videochiamata. Il rischio è dunque che questa
nuova procedura venga risolta aggirando i dispositivi più tutelanti, in barba
alla stessa sentenza. Quale tutela, quale salvaguardia di diritti potrebbe
assicurare una videochiamata, magari in presenza di personale sanitario, con un
paziente già sedato? In queste condizioni immaginiamo i giudici tutelari
convalidare i Tso come un atto meramente burocratico: tutt’altro che come
garanzia di controllo sul divieto di violenza fisica e morale indicato nella
sentenza.
Se la legge prevede il ricovero coatto solo in casi limitati e nel rispetto
rigoroso di alcune condizioni, la realtà testimoniata da chi la psichiatria la
subisce è ben diversa. Chi scrive sa bene – dopo vent’anni di esperienza
accumulata attraverso lotta dura contro le pratiche manicomiali – che il
protocollo della procedura di imposizione di Tso molto spesso non è applicato, e
che il trattamento non è affatto un provvedimento di extrema ratio. Troppo
spesso le procedure giuridiche e mediche durante il Tso vengono aggirate: nella
maggior parte dei casi i ricoveri coatti sono eseguiti senza rispettare le norme
che li regolano e seguono il loro corso semplicemente per il fatto che quasi
nessuno è a conoscenza delle normative e dei diritti della persona.
Uno degli inganni del sistema psichiatrico sta nel far credere che un Tso duri
in fondo solo sette giorni, o quattordici nel caso peggiore. La verità è che il
Tso implica una coatta presa in carico della persona da parte dei servizi di
salute mentale del territorio che può durare per decenni. Una volta entrato in
questo meccanismo infernale, una volta bollato con lo stigma della “malattia
mentale”, il paziente vi rimane invischiato a vita, costretto a continue visite
psichiatriche e, soprattutto, alla somministrazione obbligatoria di
psicofarmaci, pena un nuovo ricovero coatto. Per i ricoverati in Tso si ricorre
ancora spesso all’isolamento e alla contenzione fisica, mentre i cocktails di
farmaci somministrati mirano ad annullare la coscienza di sé della persona, a
renderla docile ai ritmi e alle regole ospedaliere. Il grado di
spersonalizzazione e alienazione che si può raggiungere durante una settimana di
Tso ha pochi eguali, anche per il bombardamento chimico a cui si è sottoposti.
L’obbligo di cura non significa più necessariamente e solamente reclusione in
una struttura, ma si trasforma nell’impossibilità di modificare o sospendere il
trattamento psichiatrico, sotto costante minaccia di ricovero coatto, sfruttato
come strumento di ricatto, punizione e repressione.
IL TSO COME VIOLAZIONE DEI DIRITTI FONDAMENTALI
Come Collettivo riteniamo però che ci sia una seconda, ulteriore, considerazione
di cui tenere conto. La sentenza n.76, pur non menzionando esplicitamente la
contenzione meccanica, offre, a nostro avviso, un forte potenziale
interpretativo critico. Il nucleo della pronuncia è il rafforzamento del
controllo giurisdizionale sul Tso, tramite l’audizione preventiva e in loco
della persona da parte del giudice tutelare. La Corte esplicita, ed è questo
l’elemento che vorremmo sottolineare, che tale audizione è “garanzia che il
trattamento venga eseguito nel rispetto del divieto di violenza fisica e morale
sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale” (articolo 13,
comma 4 della Costituzione) e “nei limiti imposti dal rispetto della persona
umana” (articolo 32, comma 2 della Costituzione). La sentenza parla inoltre di
“audizione”, e quindi di ascolto.
Deducendo da ciò: la contenzione meccanica, essendo una limitazione fisica
diretta e potenzialmente lesiva della dignità, rientra a pieno titolo nelle
“violazioni fisiche e morali” e nel mancato “rispetto della persona umana”.
Difficilmente si può pensare che, ascoltando la persona in stato di malessere si
possa poi procedere a legarne gli arti o a limitarne la mobilità in modo
pesantemente coercitivo.
La sentenza, esigendo un controllo giudiziale non più formale ma sostanziale
sulla concreta esecuzione del trattamento, rende ogni ricorso alla contenzione
immediatamente sindacabile e, riteniamo, censurabile sotto il profilo di questi
inderogabili principi costituzionali. La sua applicazione, pertanto, è ora
direttamente e immediatamente riconducibile a una possibile violazione dei
diritti fondamentali della persona, richiedendo una strettissima aderenza ai
criteri di necessità ed eccezionalità per sfuggire alla qualificazione di
violenza costituzionalmente illegittima. (collettivo antipsichiatrico antonin
artaud)
(disegno di adriana marineo)
Tra il 24 e il 27 giugno si svolgeranno, in concomitanza con le udienze previste
presso il tribunale di L’Aquila, una serie di iniziative di mobilitazione a
sostegno dei tre cittadini palestinesi Anaan Yaeesh, Ali Irar e Mansour
Doghmosh.
Tra queste iniziative c’è la presentazione del numero 14 de Lo stato delle città
al laboratorio Radici, partendo dall’articolo scritto sulla questione
da Francesca Di Egidio, e con il supporto di CaseMatte L’Aquila e Fuori Genere.
L’incontro si svolgerà martedì 24 al laboratorio Radici (via Leosini, 6) a
partire dalle 18:30. Di quell’articolo vi proponiamo a seguire un estratto.
* * *
Il procedimento, che oggi entra nella fase dibattimentale, è stato preceduto da
quasi un anno di mobilitazioni. Un percorso cominciato con l’arresto di Anan,
che nelle ultime settimane ha ripreso forza con assemblee, presìdi,
manifestazioni in diverse città italiane. Una rete, quella di “Free Anan”, che
negli ultimi tempi ha raggiunto anche altre città europee come Marsiglia e
Parigi. Questa storia, che oggi porta un centinaio di persone davanti a un
tribunale, comincia proprio qui, all’Aquila, nel marzo 2024, quando Anan Yaeesh
viene arrestato su richiesta di Israele. Inizialmente si trattava di una
richiesta di estradizione: lo stato israeliano lo accusava di appartenere a una
cellula terroristica attiva a Tulkarem. Il ministro della giustizia, Carlo
Nordio, trasmetteva prontamente gli atti alla Corte d’Appello dell’Aquila, che
ne disponeva la custodia cautelare. Il 13 marzo 2024, la Corte d’Appello negava
l’estradizione, riconoscendo che, in caso di consegna a Israele, l’uomo avrebbe
rischiato trattamenti crudeli, inumani e degradanti. I giudici basano queste
decisioni su documenti delle Nazioni Unite, rapporti di Ong internazionali e
osservazioni costanti su ciò che accade nelle carceri israeliane. Accolgono così
il principio di non-refoulement, secondo il quale nessuno può essere trasferito
verso un paese dove rischia tortura o violenza.
La vicenda giudiziaria però non si conclude. L’Italia, dopo aver negato la
consegna a Israele, decide di trattenere Anan e di aprire un nuovo procedimento,
stavolta su iniziativa autonoma della procura. L’11 marzo, due giorni prima
della decisione della Corte d’Appello, i magistrati aquilani ottengono una nuova
ordinanza di custodia cautelare. Oltre ad Anan, vengono arrestati anche Ali Irar
e Mansour Doghmosh, accusati di associazione con finalità di terrorismo
internazionale (ex art. 270 bis c.p.). Secondo l’accusa, i due sono coinvolti
soprattutto per la loro vicinanza ad Anan: è anche grazie a questo legame che
viene costruita l’ipotesi di un’associazione terroristica.
Non si tratta più di eseguire una richiesta estera. Questa volta è lo stato
italiano che si fa carico dell’inchiesta, che prolunga la detenzione di Anan,
che assume l’impianto accusatorio costruito da Israele in un altro ordinamento
giuridico e in un altro contesto politico. E lo fa utilizzando le stesse fonti,
le stesse prove, gli stessi verbali raccolti dalle autorità israeliane nei
territori occupati. È difficile non vedere, in questa scelta, una forma di
supplenza. Per alcuni osservatori è un precedente grave, esempio di come il
sistema penale possa diventare strumento di repressione politica anche fuori dai
propri confini.
[…]
Il processo che si è aperto all’Aquila rappresenta un precedente giuridico e
politico delicato e non privo di implicazioni. Da un lato, ci mostra fino a che
punto possa spingersi la cooperazione giudiziaria in materia di antiterrorismo:
l’Italia si ritrova a giudicare atti avvenuti nei territori palestinesi
occupati, basandosi su elementi istruttori prodotti da uno stato straniero,
Israele, e assumendo in proprio un impianto accusatorio costruito dentro un
altro ordinamento giuridico e in un altro contesto politico. Dall’altro,
evidenzia quanto le dinamiche geopolitiche riescano a infiltrarsi nei margini
della giustizia, spingendola oltre i suoi confini ordinari: il principio di
giurisdizione territoriale, il diritto alla difesa, la necessità di rispettare
il diritto internazionale vengono messi alla prova da logiche di alleanze e
rapporti di forza. Fino a che punto uno stato che si professa democratico può
processare una forma di resistenza armata legata a una causa di liberazione
nazionale, e farlo in nome della lotta al terrorismo? La distinzione tra
terrorismo e resistenza, tra dissenso e minaccia, appare oggi sempre più fragile
nel linguaggio giuridico, soprattutto in un’Europa che, dopo il 7 ottobre,
sembra tollerare sempre meno ogni forma di mobilitazione legata alla causa
palestinese.
Nei prossimi mesi il dibattimento proseguirà con un calendario serrato.
L’udienza del 16 aprile ha intanto aggiunto alcuni elementi rilevanti. Tra i
testi dell’accusa ascoltati vi era un perito balistico, incaricato di
analizzare un fucile apparso in una delle fotografie del materiale probatorio e
attribuito ad Anan. Dalla sua perizia è emerso che si trattava di un’arma
giocattolo, in plastica, facilmente reperibile in commercio, priva di qualsiasi
funzionalità. Il fatto stesso che su un oggetto del genere sia stata disposta
una perizia balistica, poi acquisita come prova, ha suscitato un momento di
ilarità tra i presenti. È stato questo uno dei momenti in cui il processo si è
spinto su un piano quasi surreale. Una sensazione che si è manifestata anche in
altri momenti, quando si è fatto ricorso a fonti aperte (post Facebook, video
YouTube, fotografie, materiali pubblici), utilizzate come elementi probatori. Un
aspetto che in quella giornata è affiorato appena, ma che tornerà con ogni
probabilità al centro delle prossime udienze, quando verrà riconvocato l’ex
commissario della Digos a cui fu affidata l’operazione che portò all’arresto di
Anan e per la quale avrebbe ricevuto una premiazione.
Ben più rilevante, però, è ancora una volta quanto accaduto sul fronte dei
verbali d’interrogatorio raccolti da Israele. La difesa, infatti, ha presentato
una ricerca giurisprudenziale articolata che richiama un principio consolidato
del nostro ordinamento, secondo cui gli atti raccolti da autorità straniere
possono entrare in un processo italiano solo se rispettano le garanzie
fondamentali del diritto interno, come il contraddittorio, la presenza di un
difensore, il divieto di coercizione. Ed è proprio l’assenza di queste garanzie
a rendere quegli atti incompatibili con un processo giusto. A differenza di
quanto accaduto il 2 aprile, quando la Corte aveva ammesso i verbali senza
esitazioni, questa volta i giudici hanno deciso di riservarsi la decisione, che
sarà sciolta il 7 maggio. Da tale decisione potrebbe dipendere molto, poiché una
parte sostanziale dell’impianto accusatorio si fonda proprio su quei verbali.
Come già si intuisce da queste prime fasi, il cuore del processo non risiede
solo nel suo esito finale, ma anche nelle modalità con cui verranno affrontati i
nodi giuridici ancora aperti: l’utilizzabilità di prove raccolte da un altro
stato, il riconoscimento o la negazione del contesto in cui quei fatti si sono
prodotti. In gioco non c’è solo la sorte giudiziaria di tre uomini (uno dei
quali, va ricordato, è detenuto in regime cautelare da oltre un anno, senza
condanna definitiva) ma il senso stesso del diritto. Capire quindi se questo
processo sarà fondato sulla ricerca della giustizia o se sarà, invece, piegato
alle logiche della ragion di stato. (francesca di egidio – versione integrale
dell’articolo sul numero 14 de lo stato delle città)
(disegno di cyop&kaf)
Al 31 maggio, i detenuti in Italia erano 62.722, a fronte di una capienza
regolamentare di 51.285 posti, con un tasso di sovraffollamento del 134,29 per
cento (4.579 posti sono tra l’altro indisponibili per inagibilità). Le
condizioni disumane delle persone che vivono in detenzione sono ormai note a
tutti: celle sovraffollate, mancanza di accesso regolare alle cure mediche e
psicologiche, assenza di mediatori culturali. Per i detenuti stranieri, le
barriere linguistiche e giuridiche aumentano l’isolamento e la vulnerabilità.
Nel 2024 sono morte duecento quarantotto persone in carcere, per suicidio,
malattia, overdose, incuria o violenza. In molti casi, si tratta di morti
annunciate, frutto di una sanità penitenziaria al collasso e di una gestione che
disattende le norme costituzionali e internazionali in materia di diritti umani.
Tra queste morti, novantuno riguardano detenuti che si sono tolti la vita,
superando il precedente picco del 2022 (ottantaquattro suicidi). Dietro queste
cifre si cela una realtà di disperazione, isolamento e abbandono che colpisce le
persone rinchiuse dietro le sbarre. Tra le vittime, almeno quaranta erano
detenuti stranieri, dieci dei quali di origine tunisina, una comunità
particolarmente vulnerabile nel sistema penitenziario italiano. Nei primi sei
mesi del 2025, quattro cittadini tunisini sono morti in carcere.
Secondo dati raccolti e confermati dall’ex deputato tunisino Majdi Karbai, i
quattordici tunisini morti in carcere nell’ultimo anno e mezzo erano per lo più
giovani arrestati per reati minori, intrappolati in strutture sovraffollate e
fatiscenti. Un caso emblematico è quello di un giovane di ventisette anni
deceduto nel carcere di Piacenza, la cui morte, come tante altre, resta avvolta
nel silenzio e nella mancata trasparenza, alimentando dubbi e sospetti tra i
familiari.
Per gli islamici praticanti, ma anche per chi non riesce a professare la propria
fede in maniera piena anche in un paese straniero (cosa tutt’altro che
scontata), il suicidio è un atto assai grave, profondamente inaccettabile. Il
Corano, d’altronde, come altri testi sacri, condanna apertamente
l’autosottrazione della vita:
“O voi che credete, non uccidete voi stessi. In verità, Allah è misericordioso
verso di voi” (Sura An-Nisa 4:29).
“E non gettatevi con le vostre mani nella distruzione” (Sura Al-Baqara 2:195).
Se la violenza istituzionale all’interno degli istituti non risparmia nessuno, è
vero che le comunità migranti sono spesso le più vulnerabili, dal momento che
molti detenuti non hanno alcuna possibilità di far valere le proprie ragioni
nell’unico modo possibile agli altri: quello giudiziario.
Nel 2023, nel carcere di Reggio Emilia, un detenuto tunisino è stato
incappucciato, denudato e picchiato a lungo da dieci agenti penitenziari.
Nonostante la presenza di immagini video inequivocabili, il processo di primo
grado si è concluso a febbraio 2025 con condanne per abuso d’autorità e percosse
aggravate, ma non per tortura. Le parti civili, tra cui l’associazione Yairaiha
di cui chi scrive fa parte, e la Procura della Repubblica, hanno fatto ricorso
in appello.
Diverso l’esito del caso San Gimignano, dove, con sentenza definitiva nel 2025,
la Corte d’Appello di Firenze ha riconosciuto la tortura inflitta nel 2018 da
quindici agenti a un detenuto tunisino. È una delle rare sentenze in cui la
legge italiana sulla tortura, approvata nel 2017, è stata applicata in modo
pieno.
Le carceri, tuttavia, non sono l’unico volto della detenzione in Italia. I
Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR), di cui questo giornale si è spesso
occupato (per esempio qui e qui), rappresentano una zona grigia e opaca dove i
diritti fondamentali vengono sistematicamente annientati. Si tratta di luoghi
disumani assimilabili a veri e propri lager amministrativi, dove le persone sono
trattenute senza aver commesso reati. Le condizioni sono degradanti, con
limitatissimo accesso a cure mediche, supporto legale o mediazione linguistica,
in attesa del rimpatrio.
Negli ultimi anni, l’Italia ha siglato con la Tunisia un accordo di cooperazione
che prevede due voli charter settimanali di rimpatrio. Ogni volo può trasportare
da venti a quaranta persone, ciascuna accompagnata da agenti di scorta. Si
tratta di operazioni silenziose, spesso eseguite all’alba, senza un’adeguata
informazione giuridica e in assenza di un effettivo diritto alla difesa. Nel
2023, il sessantasei per cento dei voli di rimpatrio (settanta su centosei) sono
stati destinati alla Tunisia, per un totale di 2.006 cittadini tunisini
deportati, su un totale di 2.506 persone rimpatriate.
Dal canto suo, la Tunisia promuove quella che definisce “politica di ritorno
volontario”, ma la realtà è più sfumata. Secondo il Ministero dell’Interno
tunisino e secondo fonti stampa, 3.400 migranti irregolari sono stati
rimpatriati volontariamente nel 2025. Numerose Ong denunciano tuttavia che molti
di questi rimpatri avvengono sotto pressione, senza un vero consenso informato
né assistenza giuridica, e con la minaccia di detenzione per chi rifiuta il
ritorno.
Emblematico, in questo contesto, è il caso di Wissem Ben Abdel Latif, giovane
tunisino di ventisei anni morto il 28 novembre 2021 dopo essere stato legato
mani e piedi per oltre cento ore in un letto dell’ospedale San Camillo di Roma,
dove era stato ricoverato per disagio psichico dopo un periodo nel Cpr di Ponte
Galeria.
Wissem era arrivato a Lampedusa a ottobre, con il sogno di raggiungere lo zio in
Francia. Durante la sua detenzione, aveva iniziato a manifestare segnali
evidenti di sofferenza mentale, ignorati dalle autorità. Nonostante una sentenza
del giudice di pace che il 24 novembre aveva disposto la revoca del
trattenimento, Wissem non fu mai informato della sua liberazione. Morì pochi
giorni dopo, sedato e immobilizzato, senza che nessuno lo assistesse o
tutelasse. La sua morte è una ferita aperta che chiama in causa l’intero sistema
di gestione della detenzione migrante in Italia.
La totale assenza dello stato tunisino in queste vicende aggrava ulteriormente
il quadro: né il ministero degli esteri né le rappresentanze consolari si
costituiscono parte civile, né offrono assistenza concreta ai familiari delle
vittime. È lasciato alle associazioni e ai comitati di lotta il compito di
affiancare le famiglie, portare avanti battaglie legali e tenere viva la memoria
delle persone uccise dal silenzio e dall’abbandono; chi sopravvive, intanto,
dopo essere partito con il sogno di aiutare i propri familiari in patria, non di
rado è costretto a tornare al proprio paese sopportando un fardello di vergogna
e senso di colpa.
La realtà dei rimpatri è quindi fortemente legata alle tragedie delle morti in
mare, dei suicidi in carcere, delle torture nei centri di detenzione
amministrativa, seguendo il filo rosso di una politica che punta alla rimozione
del problema e all’invisibilità delle sue vittime. Ma ogni deportazione lascia
una traccia nei corpi, nelle memorie, nelle storie spezzate.
Queste morti, infatti, non sono inevitabili: sono il prodotto di scelte
politiche, di inazione, di un sistema che criminalizza la povertà e la
provenienza. Chi si toglie la vita, spesso non lo fa per scelta, ma per
disperazione e invisibilità. Chi muore per incuria o per le botte, è vittima di
uno Stato che ha smesso di guardare ai diritti come fondamento della giustizia.
El haqq ma ydi’s and Rabbi
Man yadus ala karamat ghayrih, sa ya thur yawman bi qadarih
حلمة كانت في بالي، والواقع صحان ي نحاول نطي ر بجناحي، لكن الريح كسرتني نعيش في
دنيا قاسية، والفرحة نسيتن ي
Un sogno era nella mia mente, ma la realtà mi ha svegliato.
Cerco di volare con le mie ali, ma il vento mi ha spezzato.
Vivo in un mondo duro, e la felicità mi ha dimenticato.
Balti “7elma” (حلمة Sogno)
(luna casarotti – yairaiha ets)
(disegno di irene servillo)
Sette cancelli separano il mondo di fuori da quello di dentro. Hanno detto così
le donne che stanno dentro. Ogni settimana provo a contarli, ma mi fermo a
cinque. Gli ultimi due mi mancano, si perdono. La separazione tra fuori e dentro
è un calcolo che non torna.
Fuori, sul verde acceso delle campagne, si affaccia la dormiente del Sannio: il
monte Pentime che disegna i capelli sciolti fino al fiume Calore, un corpo
addormentato che poggia le gambe sul Taburno.
Dentro, un piccolo televisore che trasmette la puntata di Uomini e Donne, chiavi
grandi, mai viste così grandi, un’immaginetta di Padre Pio, il suono del metal
detector, quotidiani non letti che dicono che il Napoli crede nello scudetto.
Fuori-dentro, ogni venerdì. E poi di nuovo fuori, io.
In macchina parte Friday I’m in love.
Parcheggio davanti a quel mostro di cemento marrone che da bambina mi sembrava
avesse qualcosa di inquietante, come la bocca di una balena spalancata sulle
campagne, pronta a divorare per lasciare posto soltanto al silenzio.
Sezione femminile, laboratorio di teatro, i nomi da segnare. Sempre quelli.
Ogni settimana si entra nella pancia della balena con Exit Strategy, nata come
associazione a Benevento nel 2013 mettendo al centro l’autodeterminazione
femminile in un territorio in cui le diverse facce della violenza di genere
restano spesso un magma sommerso. Un’associazione di donne che fin dal primo
momento decide di occuparsi delle più invisibili, quelle detenute e private
della propria libertà, e decide di farlo attraverso il teatro.
In testa ho ancora il ritornello di quella canzone dei Cure sentita in macchina.
Robert Smith dice di averla scritta viaggiando in auto verso casa in un venerdì
in cui non vedeva l’ora di tornare.
Tornare dalla famiglia è un pensiero costante di chi sta qui, scandito da
ricorrenze che certe volte sembrano un gioco sadico per chi è lontano. Il
compleanno di un figlio, quello proprio, un anniversario. Una lettera. Loredana,
nome di fantasia, racconta che quando sapeva di dover andare in carcere è andata
dal parrucchiere a tagliarsi i capelli, perché sapeva che lì sarebbe stato
complicato asciugarli lunghi com’erano. Penso al rumore di phon accesi coperto
solo dalle canzoni alla radio, alle donne che si preparano per il sabato sera,
per una cerimonia, alla palettina monouso lasciata nel bicchierino di caffè
vuoto mentre si aspetta con il colore in posa, all’affollarsi di opinioni da
superficie e frasi euforiche, al commento sul nuovo taglio. Alla sua testa
mentre la parrucchiera le chiede se l’acqua va bene o è fredda, mentre si fa i
capelli per il carcere.
La lontananza si nutre di un conto alla rovescia verso il fine pena. Ma per
qualcuno quel conto è solo uno in più tra quelli che non tornano. Per Anna,
altro nome di fantasia, la fine pena è mai. Dieci anni fa ha messo piede nella
pancia del mostro. Racconta: “Non sapevo nulla del carcere. Non sapevo cosa mi
aspettava all’interno di quello stabile che mi sembrava tanto freddo e che avevo
capito che da quel giorno sarebbe dovuta essere la mia casa”. Entrare in carcere
per lei è significato diventare invisibile, la chiusura totale in se stessa. Una
condanna troppo grande per essere sopportata. Una condanna senza numero. I
numeri da contare ogni giorno sono sempre gli stessi. Ma un giorno poi diventano
di nuovo sette. 1: cancello della cella, 2: androne del femminile, 3: fuori dal
femminile, si respira l’aria, 4: matricola, 5: portellone che si apre vicino
l’uscita, 6: dove gli agenti depositano le loro cose, 7: l’ultimo, quello della
libertà.
Sette cancelli sono anche quelli che hanno dato il titolo a uno spettacolo
portato in scena un anno fa al Teatro comunale di Benevento. Per salire sul
palco ad Anna viene accordato un permesso di otto ore che assomiglia a un
miracolo. Di quella serata dice: “In quelle otto ore non ero più una detenuta,
ma una persona con tanta voglia di vivere, di amare e di spiegare la mia vita,
anche se sembra che vita non è”.
La vita passa attraverso le sbarre nei mandarini che spuntano sui rami, certe
volte è la felicità di farsi la crema idratante con l’olio d’oliva, come dice
una di loro. La vita è quella che poi al mostro di cemento viene data in pasto.
Il 2024 è stato l’annus horribilis dei suicidi in carcere. Il rapporto annuale
di Antigone parla di ottantotto persone detenute che si sono tolte la vita. Mai
così tante. Nello stesso anno, mentre il ministro Nordio parla dell’importanza
del lavoro per il reinserimento sociale e l’abbassamento del rischio di
recidiva, dal ministero della giustizia è arrivato un taglio pari a circa il
cinquanta per cento dei fondi destinati al pagamento delle persone detenute
lavoranti in carcere.
Nel mese di aprile di quest’anno, nella visita dell’osservatorio di Antigone
alla Casa circondariale di Benevento, vengono rilevate 378 persone ristrette a
fronte di una capienza massima di 259 posti. Il reparto femminile in particolare
ha una percentuale di sovraffollamento pari a circa il duecento per cento, un
incremento dovuto anche al trasferimento delle donne sfollate dalla casa
circondariale di Pozzuoli. Sempre Antigone riporta la carenza di personale
sanitario e segnala che oltre i due terzi della popolazione detenuta assume
psicofarmaci al bisogno, mentre lo psichiatra si reca in istituto per solo
quattro ore a settimana.
Esco e mi lascio il mostro alle spalle. Al semaforo c’è un ragazzo che vende
rose sotto la pioggia. Friday I’m in love. (giulia tesauro)
(disegno di malov)
Sono trascorsi più di due anni e mezzo da quando ho visto Henda Benali e Kamel
Abdellatif per la prima volta, nella loro casa di Kebili, una città della
Tunisia interna. Il nostro incontro più recente risale invece a questa
primavera, nella sala del Kif Kif, un locale che è anche punto di ritrovo per la
sinistra araba a Roma. Rispetto a quanto percepito quella mattina del settembre
2022, Henda e Kamel mi sono sembrati stavolta più forti e agguerriti. Come se
lottare per la verità sulla morte del loro primogenito li avesse in qualche
modo, forse loro malgrado, costretti alla vita. Le lacrime c’erano sempre, ma
non era il dolore sordo di Kebili. Era un dolore rumoroso.
Henda e Kamel avevano attraversato il paese, da Roma a Bologna, con il comitato
Verità e Giustizia per Wissem Ben Abdellatif, per raccontare la storia di un
giovane uomo che chi legge questo giornale conosce bene. Wissem che giocava bene
a calcio. Wissem che ascoltava Bob Marley e aveva perso il lavoro. Wissem che
sorrideva, con gli amici, girando video sulla barca che lo portava in Italia.
Wissem che è morto, in seguito alla detenzione nel Cpr di Ponte Galeria e a una
contenzione fisica durata centotré ore, quaranta all’ospedale Grassi di Ostia,
poi sessantatré al San Camillo di Roma. Legato per centotré ore.
«Wissem ha detto chiaramente di aver ricevuto delle manganellate in testa nel
Cpr di Ponte Galeria, e anche i suoi compagni di detenzione hanno confermato
questa cosa», ha raccontato il padre durante l’incontro pubblico. Magro, provato
dai problemi di salute, tremava. Ha smesso di parlare, Kamel, ma una scritta in
inglese sul suo cappellino diceva per lui: “No Fear”. Niente Paura.
«Perché ucciderlo in quel modo?». Si è chiesta invece, ancora una volta
“perché?”, Henda, la madre. Spera che suo figlio sia un esempio per tutte e
tutti. Wissem aveva voluto denunciare la situazione sua e dei suoi compagni di
detenzione, girando video nel Cpr e diffondendoli in rete. Wissem, Henda ne è
sicura, ora è in Paradiso. Tradotta a braccio da un giovane tunisino, commosso
anche lui, conclude: «Se fosse stata una morte normale l’avremmo accettata».
L’avvocato Romeo ha spiegato che la procura di Roma ha richiesto l’archiviazione
per la denuncia per sequestro di persona contro il primario del reparto
psichiatrico del San Camillo, che poi è lo stesso del Grassi di Ostia, e contro
gli altri medici coinvolti nella lunga contenzione fisica di Wissem: «Sebbene
avessimo chiesto di essere informati nell’eventualità di una richiesta di
archiviazione, la notizia di quest’ultima è arrivata solo al momento
dell’udienza preliminare, che si è tenuta ad aprile nei confronti dell’unica
persona ancora indagata, l’infermiere che ha somministrato una dose di farmaci
non prevista dalla scheda terapeutica di Wissem». La prossima udienza si terrà a
Roma il 10 settembre: i genitori si sono costituiti parte civile, e i loro
legali hanno ottenuto che venga chiamata in causa anche l’Asl Roma 3, nella cui
giurisdizione si trova il reparto psichiatrico dove Wissem ha trascorso le sue
ultime ore. In generale, fanno sapere ancora dal comitato, “ci si aspetta che la
controparte punti a far passare la morte di Wissem, una morte di Stato, come
morte naturale”. Come in altri casi si tenderà in effetti a punire solo le
ultime violenze subite da Wissem, normalizzando la lunga catena di abusi che le
hanno precedute.
L’ingiustizia subita dal ventiseienne di Kebili, però, non sta solo in un
sovradosaggio di farmaci. Sta nella lunghissima contenzione fisica. Nella
detenzione in Cpr, esperienza vicina a quella del carcere più duro e che
sanziona per di più un semplice illecito amministrativo come la permanenza
irregolare su un territorio nazionale. Anche queste violenze sono dettagli
accidentali, effetti collaterali della grande ingiustizia di un ampio e
capillare regime di frontiera basato su razza e classe. Se Wissem ha dovuto
attraversare il mare, finire a Lampedusa, essere chiuso in una nave quarantena
ad Augusta e poi in Cpr, è perché non ha avuto, come centinaia di migliaia di
altre persone, nessuna opportunità di attraversare legalmente il Mediterraneo.
Sarebbe bastato un visto turistico, una borsa lavoro, una borsa di studio, come
quella che chi scrive ha ottenuto qualche anno fa, senza particolari meriti
accademici peraltro, proprio per la Tunisia, proprio a ventisei anni.
La grande violenza normalizzata, che si colloca nel livello antecedente a quella
individuale subita da Wissem, sta nel fatto che i visti Schengen agli africani,
e in generale alle persone non bianche, siano un’eccezione. Eppure, anche se
divenuto marginale nei dibattiti sulla migrazione, il muro della burocrazia e
dell’esclusione dalla libertà di movimento è il più pervasivo e strutturale
fondamento di questo sistema. A rafforzare questo muro ci sono le decine di
barriere che impediscono le vite dei migranti: non solo quella del Mediterraneo
o del deserto, non solo i lager libici e quelli europei, ma anche le
interdizioni che molto spesso rendono impossibile lavorare al di fuori del
bracciantato agricolo sottopagato, dello spaccio, della prostituzione. Fino al
carcere, che spesso consegue a tutto questo.
Solo nel 2023, secondo i dati di Schengen Visa Statistics, settecentomila
persone di varie nazionalità africane hanno perso ottanta euro, una cifra pari
alla metà di uno degli ultimi stipendi di Wissem, per fare la domanda di un
visto europeo che non hanno mai ottenuto. I dinieghi dei paesi europei verso le
persone di nazionalità africane che chiedono il visto hanno rappresentato il 43%
del totale dei visti negati in tutto il mondo. Del resto, tante persone non ci
hanno nemmeno provato, a entrare legalmente, perché non avevano le migliaia di
euro di fideiussione bancaria necessarie a farlo.
Sono quindi le nostre frontiere blindate, l’unica causa profonda della
“migrazione irregolare”, espressione abusata da tanti governi, italiani e non
solo. Fanno qualcosa di male – è il sottinteso decisivo – le persone che non si
spostano “a causa” di una forza maggiore, ma perché, semplicemente, lo
desiderano. Ora seguito dall’ipocrita corollario del “Piano Mattei”, l’assioma
dominante ripete: “fermiamo la migrazione irregolare”, “aiutiamoli a casa loro”.
Ma per chi subisce l’oppressione e la repressione non esiste un loro da
“aiutare” o “salvare” che sia diverso dal “noi”. L’imperativo della frontiera,
il non vi muovete che ha dilaniato il corpo di Wissem, è sempre più pressante
sul corpo di chiunque, come lui, voglia migrare; e poi manifestare, occupare,
protestare.
Accertare la verità sulla dinamica della sua morte, a cominciare dalla prossima
udienza è quindi, come dice l’avvocato Romeo, “una prima forma di giustizia”.
L’ultima è l’intero orizzonte verso cui guardare e tendere, perché, come insiste
Henda, la morte di Wissem serva a impedire che casi come il suo si ripetano
ancora. (giulia beatrice filpi)
(disegno di martina di gennaro)
Può accadere che trovandosi a Istanbul e dicendo che ti stai recando in uno dei
suoi distretti, a Silivri, qualcuno ti risponderà che “a Silivri fa freddo”.
Anche se è estate inoltrata e ci sono trentacinque gradi. Situata sulla sponda
europea della provincia di Istanbul, antico villaggio di pescatori, dal 2008
ospita la più grande prigione europea con una capienza di 11 mila persone e ne
detiene attualmente circa 22 mila, tra cui una buona parte di prigionieri
politici detenuti in un regime di carcere duro noto come prigione di tipo F. È
da questa grigia superficie, che si estende su 955.354 metri quadrati, che
proviene l’aria gelida di Silivri.
All’interno dello stesso comune, a circa venti chilometri di distanza, sorge
un’altra struttura detentiva, meno rinomata, il Centro di permanenza per il
rimpatrio femminile di Selimpaşa, uno dei trenta Cpr costruiti in Turchia in
seguito agli ingenti finanziamenti che dal 2015 vengono stanziati dall’Unione
europea all’interno di progetti per il supporto di “pace e stabilità” (IcPS) con
l’intento di contenere e controllare i migranti verso l’Europa da Siria, Iran,
Iraq e Afghanistan.
In un comunicato stampa in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, il
partito Dem (partito dell’uguaglianza e della democrazia tra i popoli) afferma
che i Cpr “sono luoghi costruiti appositamente per torture e maltrattamenti” e
che “l’accordo con l’Unione europea è di per sé un crimine”. Sono numerosi gli
immigrati a essere arrestati e trattenuti arbitrariamente in questi centri e
rispediti illegalmente nei paesi di provenienza, anche in seguito a richiesta di
asilo, attraverso l’ottenimento delle loro firme di rimpatrio volontario,
sottratte utilizzando tecniche ingannevoli o violenza psicologica e fisica. Il
numero di arresti si è intensificato notevolmente dopo le ultime elezioni
presidenziali, con l’aumento di controlli capillari supportati da camionette
predisposte esclusivamente alla detenzione degli immigrati. Nel giugno 2024 il
ministro dell’interno Ali Yerlikaya ha dichiarato compiaciuto che “nell’ultimo
anno si è raggiunto il numero record di 141.187 espulsioni di stranieri
irregolari”.
Fuori al Cpr di Selimpaşa, ogni mercoledì, una fitta folla aspetta in fila per
registrare le impronte digitali su un veicolo sul quale compaiono, congiunte, la
bandiera turca insieme a quella dell’Unione Europea. Per chi è riuscito a uscire
e si trova sotto sorveglianza amministrativa con obbligo di firma in attesa di
processo, l’incremento dei detenuti è stato tangibile: “Una volta al mese
veniamo a firmare – dice una donna in fila –, se prima si aspettava non più di
mezz’ora, dalla metà del 2023 la gente che è entrata qui è aumentata e si sta in
fila in piedi anche per quattro ore sotto il sole e le intemperie; ci sono donne
incinte e bambini piccoli, se ci si lamenta e ci si siede in un angolo fuori
dalla fila i gendarmi richiamano all’ordine e minacciano di rimetterci dentro.
Se sono stranieri, minacciano anche i nostri accompagnatori”.
Alcune attiviste arrestate in seguito al corteo del 25 novembre (giornata
mondiale contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere)
descrivono lo spazio detentivo come insufficiente e malsano: “La struttura si
compone di tre piani riservati alle sezioni. In ognuna di esse, appena superate
le sbarre, si è subito catapultati nello stretto corridoio affollato da
materassi, ai cui lati si aprono sette stanze fornite di letti. La più grande ne
conteneva sei. I bagni utilizzabili nella nostra sezione erano tre. Le docce
due, di cui una ricavata da un precedente bagno alla turca riempito
grossolanamente con qualcosa di simile allo stucco per chiudere l’orinatoio.
Abbiamo provato a contare le donne detenute al terzo piano e crediamo
raggiungessero circa il centinaio al nostro ultimo giorno di detenzione.
Riscontriamo più persone che entrano rispetto a quelle che escono ed è molto
probabile che una buona parte di chi è uscito sia stata in realtà trasferita in
altri centri; accade spesso che ti dicano che verrai liberato, ma in realtà ti
trasferiscono in Cpr più lontani dal luogo di residenza, a Gaziantep, Şanlıurfa
e Erzurum, più vicini ai confini con Siria, Afghanistan e Iran, rallentando cosi
le procedure legali per le scarcerazioni e agevolando la procedura di rimpatrio
‘volontario’ in piena violazione del principio di non-refoulement sancito dalla
Convenzione di Ginevra. È raro che il trasferimento venga notificato, dal
momento che sono frequenti i casi in cui avvocati e famiglie ne sono venuti a
conoscenza a deportazione avvenuta. La comunicazione con l’esterno è assai
limitata: hai a disposizione dieci minuti due giorni a settimana, dalle 16 alle
20 circa, ma gli orari vengono decisi arbitrariamente dalla guardia di turno. Il
tempo non era mai sufficiente per le chiamate di tutte e inoltre, se non hai a
disposizione il denaro contante per ricaricare la scheda telefonica non hai
possibilità di comunicazione, così come di accedere ai beni di prima necessità
venduti allo spaccio del centro a prezzi che superano quelli del mercato fuori.
“È negato il diritto alla salute, è ostruito l’accesso a qualsiasi tipo di
farmaco proveniente dall’esterno e l’unica cura possibile a qualsiasi tipo di
male fornita dal centro è una pillola di ‘antibiotico’ del quale non conosciamo
il principio attivo, consegnata direttamente sul palmo della mano, priva del suo
blister. Jana, una giovane donna sudamericana [nome e provenienza di fantasia],
che riportava una ferita sull’arco palmare suturata con dei punti metallici per
spillatrice, svigorita dalla permanenza in quel luogo firmò per il rimpatrio.
Per legge, la Direzione provinciale per la gestione delle migrazioni dovrebbe
finanziarne i costi, ma fu costretta a chiedere un prestito a qualcuno
oltreoceano per acquistare un biglietto aereo. Il giorno del volo partì in
direzione aeroporto con la camionetta guidata dai gendarmi. Non sappiamo
esattamente cosa accadde ma la riportarono indietro dopo qualche ora. Ci
dirigemmo verso di lei non appena oltrepassò le sbarre: il suo sguardo era
orientato in una direzione che non era la nostra e quella di nessun altro lì
dentro, non rispondeva a nessuno stimolo. Si accostò a uno dei materassi
posizionati ai lati del corridoio per sdraiarsi e ci rimase come se fosse morta
per i due giorni successivi. Dopodiché siamo uscite e non abbiamo saputo più
niente di Jana, non ci ha mai richiamate al recapito che le avevamo lasciato”.
In seguito agli arresti arbitrari di cinque persone straniere – tra cui anche di
provenienza europea – avvenuti durante il ventunesimo Pride di Istanbul (2023),
un’associazione di avvocati volontari ha denunciato le condizioni di detenzione
in questi centri, i trattamenti inumani e degradanti, la mancanza di accesso a
cure mediche adeguate, alla ventilazione, la scarsa igiene (GGM’lerde Neler
Oluyor?). Uno degli attivisti arrestati riportava una ferita alla gamba che non
è mai stata curata adeguatamente in un luogo sterile. È stato reso noto il
limitato accesso alla protezione internazionale e il contenimento arbitrario
della comunicazione con i propri clienti. Nell’autunno 2024 alcune studentesse e
attiviste palestinesi dell’organizzazione Filistin için bin genç sono state
arrestate (anche con raid domestici a seguito di perquisizioni a casa),
trattenute in custodia cautelare per diciotto ore senza possibilità di
soddisfare i propri bisogni primari e trasferite nel Cpr di Selimpaşa al cui
ingresso, segnala l’organizzazione, è stato strappato loro l’hijab. L’accusa
illegittima è di vilipendio al presidente e violazione dei termini della legge
n. 2911, entrata in vigore dopo il golpe militare del 1980, che limita il
diritto di riunione e manifestazione, per aver esposto all’interno della
campagna “Stop fueling genocide” gli accordi commerciali turchi con Israele e la
compagnia energetica azera Socar. Da Ceyhan, a sud della Turchia, viene spedito
infatti il petrolio azero fino al porto di Ashkelon, circa il trenta per cento
del petrolio importato dall’entità israeliana. Attribuendo in aggiunta vaghe
accuse come il rappresentare una “minaccia per l’ordine pubblico” questi centri
diventano anche il luogo per silenziare studenti non cittadini, migranti e tutte
le persone in movimento che denunciano apertamente il razzismo, lo sfruttamento,
la violenza patriarcale e le politiche governative. (dalila procopio)
(archivio disegni napolimonitor)
Si chiamava Cie (Centro di Identificazione e di espulsione), però era già molto
conosciuto come carcere per stranieri. Allora il governo italiano, per
confondere la società e lasciarla disinformata, ha cambiato il nome in Cpr
(Centro di permanenza per il rimpatrio). Con la difficoltà di comunicazione gli
abitanti di questa penisola vivono per la maggior parte disinformati. Qui a
Torino il Cpr ha riaperto questa primavera.
Un mese fa ero al presidio sotto il Cpr di corso Brunelleschi. Era un sabato, io
sono straccivendola abusiva e dopo il mercato del Balon mi sono direzionata al
movimento di resistenza. L’appuntamento per il presidio era alle 16 e io sono
arrivata alle 19 dalla parte dell’entrata principale. Il movimento nella strada
e l’eco del vuoto mi facevano avere passi decisi mentre fotografavo le mura
indegne di questa prigione. “Fuoco ai CPR” era la scritta in rosso a bella vista
in un quartiere silenzioso, oppressore e complice del campo di prigionia che
trattiene esseri umani senza una carta di soggiorno.
Nel prato di corso Brunelleschi le macchine accompagnano il semaforo, mentre
davanti al muro, nell’angolo della via, davanti a me sbuca la macchina degli
sbirri nel suo blu celeste colore della Madonna. I salvatori dall’ardore
infernale mi fermano sul viale mentre cammino verso la fermata. Il poliziotto
esce e urla: «Ferma!».
Bloccata nel viale invio subito un vocale mentre il discepolo stradale mi
chiede: «Documento?». Dico la mia generalità e nel confronto lo sbirro chiede se
so il significato di “generalità”. Rimaniamo per quasi venti minuti a fare
ricerca su di me. Dico che abito da vent’anni in Italia, neanche così: «Permesso
di soggiorno!», «Carta di identità!», ma la carta è solo solo carta e la carta
brucerà.
Ferma, fisso negli occhi quello che fa la ronda sulla vita delle persone. In
dieci minuti si aggiunge la macchina della finanza con i rinforzi, mi ordinano
di posare il telefono, dicono che loro sono educati e pazienti: ecco tutti
angeli scesi dal Paradiso. Arrivano i compagni e prendono un ruolo nel presepio,
poi gli asini della Digos a confermare la mia liberazione.
Dopo questa scena la vita procede quotidiana per le vie di Torino. Il 25 aprile,
giorno della Liberazione, c’è una biciclettata e ha portato calore musica e
tante urla davanti al Cpr. «Hurrya, libertà, freedom!». Scambio di messaggi con
conflitto. Mentre urlavamo, da dentro loro gridavano: «Non abbiamo la libertà!».
Dentro di me un vuoto e poi niente, niente, non c’era senso, neanche la musica,
nessun senso, nessun perché di quelle mura. Perché siamo così pochi? Perché il
vicinato accetta quelle mura? Anzi, ci sono due, tre maledetti che dentro casa
urlano che gli stranieri devono morire, marcire dentro i Cpr.
Continua il 25 aprile di Torino, è festa: gli americani li hanno salvati,
ottant’anni fa, e oggi sono gli stranieri i pericolosi, ma gli stranieri non
hanno armi, non hanno neanche le possibilità di avere una penna e un quaderno
per andare a scuola, non hanno residenza, vivono in cantina come topi, urinano
ovunque nei bar mentre fanno una colazione veloci, vivono nel subprecario perché
i padroni non vogliono che esistano.
Fine aprile, arriva il messaggio di una rivolta in corso Brunelleschi. Ognuno
segue la propria vita, così all’improvviso il senso di colpa consuma tutto il
tuo corpo e non puoi scapparne anche se sei sotto le coperte con il corpo che
chiede riposo. Resistere alla stanchezza e fare un salto verso l’armadio a
cercare all’improvviso una maglia per andare da loro, da chi si rivolta. Ancora
siamo lontani a prendere una bazooka e far detonare quelle mura.
Sono le dieci di sera e non c’è tanto da pensare, si va il più veloce possibile.
Ho scelto il pullman, ma come sempre a Torino, una periferia che vuol
travestirsi da metropoli, niente funziona. Si arriva in pullman, bici, macchina,
tram: l’importante è esserci. Finalmente si arriva e il calore della resistenza
è fare un piccolo corteo, con le proprie forze si trovano i vecchi compagni di
strada e anche nuove figure che con sorrisi salutano e le urla oltrepassano le
mura. Si sentono i ragazzi, si scambia numero di telefono, si chiede come
stanno. Loro chiedono la musica che piace: Clandestino.
Nel prato gira voce che c’è un ferito, uno in sciopero della fame da dieci
giorni in quelle mura maledette e semplicemente perché l’Italia e la sua cupola
hanno deciso di sacrificare gli innocenti. Il Papa è morto! Nessun politico
nelle vicinanze. Un noto avvocato è passato e ci dice che non lo hanno lasciato
entrare, è lì come noi, come uno di noi.
È passata mezzanotte, non abbiamo acqua, una birretta nemmeno e non sappiamo
neanche come ritornare. Gli sbirri sono lì a osservare le nostre facce già
conosciute. Uno spreco di tempo: i burattini del presepio come asini ad
aspettare la briciole di pagnotta su racconti fittizi. È passata l’una e ci si
saluta con un ciao ragazzi, resistete, non siete soli. Siamo con voi!
Già è il primo maggio e il Cpr di Torino è in rivolta. A Brindisi in Puglia
muore uno straniero, dicono che si è suicidato. Un inizio di rivolta a Torino e
un straniero morto nel Cpr di Brindisi in un primo maggio è una grande scintilla
per una rivoluzione. Al corteo del primo maggio i leninisti addestrano gli
stranieri in regola; nel centro di Torino la sfilata per i diritti lavorativi
porta a tante belle parole con l’accento del latino perfetto, mentre i corpi
marciscono dentro le mura del Cpr, gli stessi loro paesani. Importa sventolare
le bandiere, così siamo apparentemente più cittadini.
Ritorniamo al Cpr per un nuovo saluto, alle sette, con il corpo stanco ma ad
alta voce, ognuno con le proprie possibilità mentre nel viale l’anziana con il
suo girello prendeva l’aria, il signore con i suoi cento chili sedeva con le
gambe larghe sulla panchina lungo il viale di corso Brunelleschi ad ammirare i
rivoltosi contro il lager di Torino. Come un cinema all’aperto solo lui era il
protagonista della propria solitudine. Fuochi pirotecnici brillavano nel cielo
mentre gli angioletti travestiti da traditori passavano appoggiati alle macchine
blu.
Il traffico va in tilt mentre appaiono due demoni dal tetto del palazzo in
costruzione, con le ali della libertà annunciano: «Fuoco ai Cpr!». Si disperde
il presidio e il primo maggio prende il volo con l’annuncio indemoniato.
Ricordiamo la notte precedente quando il Cpr di corso Brunelleschi è andato in
scintille e il fuoco è apparso come simbolo di resistenza degli ultimi stranieri
a Torino. Nel viavai dei soccorsi un eroe era evaso. (claudia muniz)
(archivio disegni napolimonitor)
L’11 aprile quaranta migranti sono stati trasferiti da centri di permanenza per
il rimpatrio italiani a uno dei centri di detenzione amministrativa di Gjadër,
in Albania. Da alcune testimonianze si è evinto che i migranti sono stati legati
per tutto il viaggio e la fase di sbarco con fascette ai polsi, compresi i
momenti dei pasti e di utilizzo dei servizi igienici (pratica rivendicata
orgogliosamente dai ministri Piantedosi e Salvini).
Poco dopo l’arrivo in Albania i detenuti si sono organizzati e hanno avviato una
protesta. L’Ansa ha comunicato che dopo queste proteste dieci dei quaranta
migranti sono stati reclusi nel carcere del centro, sotto il controllo della
polizia penitenziaria. Qualche ora dopo il Viminale ha smentito, senza tuttavia
diffondere altri elementi.
L’operatività della prigione mascherata per migranti richiedenti asilo,
esternalizzata in Albania su iniziativa del governo Meloni, è finora rimasta
inattuata a causa dello stop da parte dei tribunali italiani. Nonostante le
dichiarazioni ufficiali, ostacoli giuridici hanno bloccato l’avvio
dell’operazione, in particolare relativi alla compatibilità di questa misura con
la normativa europea.
I centri “delocalizzati” sono l’emblema del trattamento differenziato riservato
alle persone migranti, come ha sottolineato l’Asgi. Per “risolvere” il problema
giuridico, il governo ha approvato un decreto, il 28 marzo, trasformando quei
centri in Cpr. Da tempo, d’altronde, il ministro Piantedosi sostiene la
necessità di allargare la rete dei centri di permanenza per il rimpatrio, e il
trasferimento a Gjadër rappresenta un ulteriore colpo al diritto delle persone
migranti, isolate con la deportazione in Albania ancora di più, e con una minore
possibilità – per esempio – di entrare in contatto con i rispettivi legali.
Il sistema della detenzione amministrativa illustra perfettamente il rapporto
che intercorre tra dinamiche di repressione dello Stato e l’accumulazione di
profitto da parte dei privati. Sebbene le strutture siano finanziate dal
governo, la loro gestione è affidata a cooperative e aziende, guidate
esclusivamente dall’obiettivo della massimizzazione dei guadagni. Nati nella
forma di Centri di Permanenza Temporanea (Cpt) nel 1998, gli attuali Cpr sono
diventati simbolo di sofferenza quotidiana, abusi sistematici e violazioni dei
diritti umani protratte in un tempo lunghissimo.
Se la legge Turco-Napolitano aveva previsto che i migranti irregolari potessero
essere trattenuti per un periodo massimo di trenta giorni, ben presto la durata
di questa detenzione venne aumentata. Con la legge Bossi-Fini (governo di
centrodestra) del 2002 venne estesa a sessanta giorni, mentre il decreto
Minniti-Orlando del 2017 (governo di centrosinistra) trasformò i Cpt in Cpr,
innalzando la durata a novanta giorni. Nel 2018, il decreto Sicurezza firmato da
Matteo Salvini la aumentò ulteriormente a centottanta, riducendo nel contempo le
possibilità di regolarizzazione attraverso la protezione umanitaria. Infine, nel
2023, il governo Meloni ha innalzato la durata della detenzione fino a dodici
mesi anche per i richiedenti asilo (oltre a siglare l’accordo di cui sopra con
l’Albania).
Le sofferenze patite dai migranti nei centri italiani sono state ampiamente
provate negli anni. Sovraffollamento, carenze igienico-sanitarie, cibo di scarsa
qualità, uso indiscriminato di psicofarmaci sono solo alcuni tra questi. I
farmaci vengono utilizzati in grande quantità e senza consenso del “paziente”,
non solo per “gestire” il malessere psicologico ma anche per sedare la tendenza
a protestare, naturale in quelle condizioni. Numerose sono le testimonianze di
migranti che hanno sviluppato dipendenze o subito danni permanenti a causa di
trattamenti farmacologici imposti, senza alcun supporto o cura adeguata. Anche
le morti, per suicidi indotti dalla prigionia, sono tristemente note.
Della storia di Wissem Ben Abdel Latif questo giornale si è occupato e si
continua di occupare da tempo. Nel 2022 un’inchiesta è stata aperta nei
confronti di un medico del Cpr di Ponte Galeria per la morte di Mustafà Fannane,
con l’accusa di avergli somministrato trattamenti inadeguati. Ousmane Sylla e
Moussa Balde, invece, si sono tolti la vita nei Cpr rispettivamente di Ponte
Galeria e Torino (una delle strutture più infami). Belmaan Oussama è morto nel
Cpr di Palazzo San Gervasio nel luglio 2024, mentre Aziz Tarhouni ha più volte
tentato il suicidio, in uno stato di estrema sofferenza psichica, mentre era
detenuto a Trapani-Milo. (luna casarotti)