(archivio disegni napolimonitor)
La scorsa estate, a seguito di ripetute tensioni createsi all’interno del
carcere di Matera, una certa attenzione mediatica si concentrava sul
funzionamento dell’istituto e sulle sue criticità. Dopo una visita alla casa
circondariale, la garante regionale per i detenuti Tiziana Silletti denunciava
una situazione insostenibile in termini di sovraffollamento, con 197 detenuti a
fronte di 132 posti (dato coerente con quello di tutte le strutture della
regione Basilicata, che si attesta sul 144 per cento). Poche settimane dopo,
l’associazione Luca Coscioni, che aveva lavorato a un report sulla situazione
sanitaria delle carceri della regione, comunicava che l’azienda sanitaria
materana non aveva fornito alcuna documentazione a dispetto della richiesta di
accesso civico agli atti.
Con il passare dei mesi, a dispetto di una situazione rimasta pressappoco
immutata, l’interesse per le condizioni del corpo detentivo dell’istituto
materano sembra essersi sopito. Nel tentativo di rialzare il livello di
attenzione su quanto accade in quel carcere, e ovviamente in tanti altri
istituti del paese, pubblichiamo a seguire un resoconto della dottoressa Maria
Clara Labanca, medico penitenziario e membro dell’associazione Yairaiha.
* * *
Celle sovraffollate, personale sanitario insufficiente e accesso alle cure
estremamente limitato: questa è la realtà quotidiana del carcere di Matera. La
struttura, progettata per centotrenta posti, ospita stabilmente oltre
centosettanta detenuti, con punte superiori alle duecento unità. In questo
contesto, il diritto alla salute dei detenuti risulta sistematicamente
compromesso.
Il presidio sanitario funziona in maniera frammentaria. La mattina non è
presente alcun medico, e a volte il peso della gestione di casi clinici
complessi ricade sugli infermieri, costretti a intervenire senza supervisione
diretta. Le visite mediche, effettuate nel pomeriggio, si svolgono in modo molto
concitato a causa della carenza di personale di polizia che limita gli
spostamenti dei detenuti. Questo comporta un aumento del rischio di diagnosi
incomplete, visite superficiali e ritardi nella presa in carico di patologie
rilevanti. Di notte, tutte le emergenze ricadono su un unico medico, senza
supporto infermieristico, compromettendo ulteriormente la capacità di intervento
tempestivo.
La salute mentale dei detenuti è un ambito particolarmente critico. Lo
psichiatra effettua interventi solo due ore a settimana, a fronte di un numero
elevato di soggetti con disturbi psichici spesso associati a problemi di
tossicodipendenze. In assenza di percorsi terapeutici strutturati, molti di essi
vengono trattati con psicofarmaci senza adeguato inquadramento diagnostico,
aumentando il rischio di effetti collaterali e senza risolvere le problematiche
esistenti. Inoltre, alcuni agenti penitenziari esercitano pressioni indebite sui
medici affinché somministrino sedativi o ipnotici, trasformando il trattamento
psichiatrico in strumento di controllo piuttosto che in intervento terapeutico.
Non sono neanche infrequenti episodi di tensione tra personale sanitario e di
polizia penitenziaria, di fronte a un rifiuto da parte del medico nella
prescrizione di questa tipologia di farmaci. La carenza di supporto psicologico
e di personale qualificato determina un peggioramento dei disturbi psichici, con
ricadute sulla sicurezza interna e sul benessere dei detenuti.
Le visite specialistiche rappresentano un ulteriore fattore di criticità.
Consultazioni come quelle gastroenterologiche, infettivologiche o oculistiche
possono richiedere mesi di attesa, talvolta oltre un anno. Le carenze
nell’ambito del Nucleo Traduzioni, incaricato di accompagnare i detenuti agli
appuntamenti esterni, provoca rinvii sistematici. Anche quando l’azienda
sanitaria fissa regolarmente gli appuntamenti, questi spesso non vengono
rispettati perché non viene presa visione delle comunicazioni e delle
prenotazioni, privando i detenuti delle cure pianificate.
Molti detenuti si trovano in condizioni di grave criticità clinica a causa di
patologie acute o croniche, ma la presa in carico è frequentemente ritardata o
inadeguata. Il trasferimento verso strutture idonee è subordinato alla
produzione di documentazione che attesti l’incompatibilità con il regime
detentivo, determinando ritardi nell’accesso a interventi sanitari appropriati
e, in alcuni casi, esiti clinici sfavorevoli.
Le strutture e le attrezzature sanitarie risultano insufficienti. Mancano
cartelle cliniche informatizzate, dispositivi diagnostici e terapeutici adeguati
e personale specializzato in grado di utilizzarli. La combinazione di
infrastrutture carenti e organico ridotto compromette la tempestività
nell’identificazione e nel trattamento delle patologie, riducendo
significativamente la qualità della presa in carico sanitaria.
Il sovraffollamento e la carenza di personale di sicurezza aggravano
ulteriormente la situazione. Le quattro sezioni della struttura – Accoglienza,
Giudiziario, Sirio e Pegaso – ospitano centinaia di persone in spazi inadeguati
e obsoleti. Le carenze di personale complicano la gestione dei piantonamenti
ospedalieri e delle udienze, spesso impossibili da svolgere tramite collegamento
da remoto.
Tuttavia, il carcere di Matera è solo l’emblema di un sistema penitenziario in
crisi. Sovraffollamento, carenze di personale e un presidio sanitario inadeguato
espongono quotidianamente i detenuti a rischi clinici significativi. Senza
interventi strutturali urgenti, la detenzione rischia di trasformarsi in un
tempo sospeso, in cui i diritti fondamentali, primo fra tutti quello alla
salute, restano sistematicamente negati. (maria clara labanca)
Tag - detenzioni
(disegno di giancarlo savino)
Quella di venerdì 31 ottobre doveva essere una semplice udienza tecnica: nessun
testimone, né dell’accusa né della difesa, solo i periti linguistici convocati
per il reintegro delle traduzioni all’interno dei fascicoli del processo che da
mesi va avanti a carico di Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh. Per questo
in aula siamo in pochi: i più affezionati al processo, che dopo le estenuanti
tre giornate di udienza di fine giugno, che pure avevano segnato un’apparente
accelerazione, ora procede a intermittenza.
Approfittiamo di queste udienze di passaggio, apparentemente secondarie, per
rimettere ordine negli appunti. Ci eravamo lasciati mentre tracciavamo una rotta
tra traduzioni monche, trascrizioni spezzate, liste di ID telefonici, numeri che
si rincorrevano e moltiplicavano, disegnando una geografia incerta, dove i
riferimenti cambiavano di continuo, ritornando con nomi diversi anche quando
parlavano delle stesse persone. E da lì riemergiamo, come dopo una lunga
traversata, ancora storditi dalla confusione.
La difficoltà vera, ancora oggi, è che di fronte a noi non si presenti una linea
d’accusa chiara, coerente, dotata di un impianto che si sostenga su basi
fattuali. Lascia attoniti il fatto che, a fronte della detenzione di Anan (da
oltre diciannove mesi in regime di alta sicurezza) e di un’imputazione così
pesante, quella di terrorismo internazionale (articolo 270-bis c. p.), che pesa
sulla vita dei tre imputati, non ci sia ancora un impianto probatorio ben
definito.
Uno dei vulnus più importanti che ha segnato tutta la linea accusatoria, fin
dalle prime udienze, è stata la totale mancanza di contesto geopolitico degli
elementi portati in aula rispetto a ciò che accade da anni in Palestina, alla
sua lunga storia genocidaria, alla realtà dei Territori Occupati e alla relativa
struttura di apartheid e, soprattutto, al diritto alla resistenza del popolo
palestinese. Eppure, nel frattempo, non possiamo non dire che fuori da
quell’aula di tribunale non sia successo nulla. Anzi! Sul piano politico, più di
un passaggio si è intrecciato direttamente con la storia stessa di questo
processo.
PASSAGGI MINORI
Settembre è stato un mese chiave. Il 23 Anan Yaeesh viene trasferito all’alba
dal carcere di Terni al penitenziario di Melfi, nella remota Basilicata. Un
provvedimento apparso da subito come un tentativo di recidere la rete di
solidarietà che, in oltre un anno, si era fatta sempre più visibile e ampia
intorno alla figura del prigioniero politico. Una decisione che arrivava in un
momento tutt’altro che neutro. Solo ventiquattr’ore prima, il 22 settembre, si
era svolto uno sciopero nazionale promosso dai sindacati di base, lanciato su
iniziativa dei portuali, al grido di “blocchiamo tutto”. Era il momento in cui
il mondo guardava di nuovo a Gaza, ne riconosceva finalmente il genocidio,
mentre seguiva la rotta della Global Sumud Flotilla che cercava di rompere il
blocco navale israeliano.
Il secondo passaggio riguarda il trasferimento della giudice a latere. Il
decreto risale all’8 settembre, ma alla fine del mese nessuna comunicazione era
ancora giunta al Consiglio superiore della magistratura per garantire la
continuità del collegio. Un vuoto procedurale che ha causato un rinvio
significativo: saltano le udienze del 19 e del 26 settembre, si torna in aula
solo il 31 ottobre. Un rinvio che ha sollevato più di un sospetto che quei
ritardi non fossero affatto casuali, ma calibrati per evitare udienze troppo
scomode e troppo vicine a una data che si stava profilando all’orizzonte, quella
della manifestazione nazionale del 4 ottobre a Roma contro il genocidio in
Palestina. Nel clima incandescente di quei giorni, la Corte e l’intero impianto
processuale si sarebbero trovati sotto i riflettori di un’opinione pubblica
sempre più ampia, arrabbiata e determinata a richiedere la fine di ogni
complicità dello Stato italiano con il genocidio in corso. È difficile
immaginare, per quel momento, una situazione più carica di tensione di quella
che avrebbe potuto generarsi in un’aula di tribunale dove lo Stato italiano,
nella sua funzione giudiziaria, si fa braccio della repressione israeliana.
RITORNO IN AULA
Il 31 ottobre, dunque, si torna in aula. Il Collegio è stato ricomposto
promettendo una continuità minima nel filo delle valutazioni. E non è poco,
visto tutto il resto. L’inizio della mattinata è movimentato dal solito momento
di bagarre tra il pubblico in aula e la pm, che intima la rimozione di una
bandiera palestinese introdotta in aula e invoca, per le prossime udienze, il
divieto di portare kefiah, in nome di una presunta “assenza di connotazioni
politiche”. Si risponde con insofferenza aperta davanti alla riproposizione di
un teatrino già visto mille volte che oggi appare soprattutto come un tentativo
di deviare l’attenzione dall’approssimazione con cui, ancora una volta, si è
arrivati fin qui, con traduzioni mancanti.
È sul reintegro delle traduzioni dall’ebraico che si addensa il punto più
delicato della giornata. Si torna su un documento già acquisito a luglio, sempre
su richiesta della difesa. Si tratta di alcune immagini tratte dal profilo
Facebook ufficiale del corpo logistico dell’IDF, che documentano interventi di
ristrutturazione compiuti nel 2021 all’interno di una caserma militare situata
nel perimetro di Avnei Hefetz. Una delle diciture riportate in quelle foto viene
letta integralmente in aula: “Benvenuti ad Avnei Hefetz – campo militare”. Viene
tradotto anche un secondo cartello, con la scritta “Menashe”, indicato come
“brigata locale”, probabilmente riferita all’unità che prese parte ai lavori di
ristrutturazione della base. Due immagini che, da sole, sono sufficienti a
incrinare la narrativa dell’accusa, per cui Avnei Hefetz sarebbe un semplice
insediamento civile.
È a questo punto che la Procura gioca una carta pesante. Chiede l’acquisizione
di un documento redatto da un ufficiale di collegamento tra l’ambasciata
israeliana e il Sud Europa, in cui si definisce Avnei Hefetz come un
insediamento civile. La Corte accoglie la richiesta in parte: non acquisisce il
documento, ma decide comunque di convocare l’autore (o un suo delegato) alla
prossima udienza del 21 novembre. Per la prima volta, in questo processo, sul
banco dei testimoni salirà un funzionario diplomatico di uno Stato estero, che
non è spettatore neutrale della storia che si racconta, ma parte in causa nel
conflitto da cui tutto origina. L’ambasciatore, o chi parlerà al suo posto, sarà
chiamato a rispondere a una domanda precisa, che è anche la domanda su cui pende
il futuro di tre imputati: che cos’è Avnei Hefetz? La difesa, in controcanto,
chiede l’audizione dell’architetto francese Léopold Lambert, esperto di
urbanistica coloniale, che da anni studia le trasformazioni militari del
territorio in Cisgiordania.
Intanto, la tensione in aula è salita di qualche grado. Israele entrerà in
tribunale. Non per farsi finalmente giudicare. Non per rispondere ai decenni di
occupazione, di apartheid, di crimini contro la popolazione palestinese. No.
Ancora una volta, siederà dal lato dell’accusa, con la voce autorevole di un
ambasciatore incaricato di definire la natura di un luogo. Sarà lui, o chi per
lui, a dire cos’è Avnei Hefetz.
COS’È AVNEI HEFETZ?
Il nome compare per la prima volta in aula il 25 giugno, durante la deposizione
dell’ispettrice capo della digos, Alessia Fiordigigli, chiamata a illustrare i
dati emersi dalle intercettazioni dei telefoni sequestrati ai tre imputati. Nei
documenti dell’accusa torna spesso il nome di Avnei Hefetz, colonia israeliana
nei pressi di Tulkarem, nei Territori Occupati. Secondo la Procura, sarebbe
l’obiettivo presunto di un’azione pianificata dalle cosiddette Brigate di
Risposta Rapida di Tulkarem, e fulcro di ipotetici legami con gli imputati.
Capire la natura di Avnei Hefetz non è affatto un mero tecnicismo. Infatti,
in un processo che ruota intorno a ipotesi di associazione terroristica,
messaggi intercettati e presunte finalità eversive, stabilire se quel luogo sia
un obiettivo civile o militare diventa un nodo cruciale.
Peccato che l’intero impianto accusatorio poggi su un fraintendimento: si
continua a considerare Avnei Hefetz e a parlarne come se fosse un’area civile,
ordinaria, situata in un contesto di pace. Quando non è così. Si sta,
volutamento o meno, ignorando che quel territorio è occupato militarmente. Una
realtà che cambia radicalmente il senso di tutto ciò che viene contestato.
Quel fraintendimento fu, a giugno, il terreno di un serrato dibattimento tra
l’avvocato Flavio Rossi Albertini e l’ispettrice capo della digos, Alessia
Fiordigigli, durante il controesame della difesa che mirava a far emergere la
superficialità e il metodo discutibile con cui era stata effettuata l’indagine.
Dallo scambio tra l’avvocato Rossi Albertini e Fiordigigli, emergeva che al di
là di una rapida consultazione di fonti aperte, le indagini non si erano mai
spinte ad accertare la natura esatta di Avnei Hefetz. Mai, in sostanza, era
stato verificato se si trattasse di un insediamento civile, militare o un
check-point.
Il documento Onu che Fiordigigli citava come conferma della natura civile
dell’insediamento, in realtà, non supportava affatto quella tesi. Anzi, la
smentiva. “The Question of Palestine” qualifica le colonie nei Territori
Occupati, tra le quali Avnei Hefetz, come illegali ai sensi del diritto
internazionale e le indica esplicitamente come uno degli ostacoli principali al
conseguimento della pace. Chiunque abbia letto quel testo, anche solo per sommi
capi, riconosce subito che è un testo di denuncia.
Lacune di questo genere emergevano anche su altre questioni: prima di tutto
sulle ricerche (o meglio le “non ricerche”) riguardo le modalità, le pratiche e
le conseguenze dell’occupazione militare israeliana nel governatorato di
Tulkarem, secondo Fiordigigli “non inerente” alle indagini di polizia; e ancora
sull’eventualità che l’azione di cui l’imputato scrive in chat sia stata
effettivamente consumata, per la quale non emerge dalle indagini nessun
riscontro.
Anche nel corso del controesame del 25 giugno nessuna prova documentale che
attestasse l’effettiva realizzazione dell’azione è stata fornita.
«Ma sappiamo cosa è avvenuto?», domandava in ultimo la difesa a Fiordigigli.
«No».
LE PIETRE DEL DESIDERIO
Seguiamo il “metodo Fiordigigli” e proviamo a googlare Avnei Hefetz. In pochi
secondi si apre davanti agli occhi un piccolo mosaico di fonti che monitorano la
colonizzazione dei Territori Occupati: le mappe minuziose di Peace Now, i
rapporti di POICA sulle trasformazioni dei villaggi palestinesi, le schede del
Land Research Center. E poi, quasi nascosta tra i risultati, una pagina del
rabbinato dell’insediamento che ci descrive l’intero complesso: “L’area
dell’insediamento comprende la ‘montagna’ sulle sue due cime, tutti i quartieri
dell’insediamento, la base militare fino oltre la porta dell’insediamento, la
torre di osservazione militare – sono tutto un insieme, un unico
insediamento”. Una frase così semplice e così trasparente da rivelare, più di
molti report, la natura ibrida di Avnei Hefetz.
Fondata nel 1987, Avnei Hefetz (il cui nome significa “le pietre del desiderio”)
si arrampica su un’altura che domina la piana di Tulkarem e la rete di villaggi
palestinesi – Shufa, Kafr al-Labad, Izbat Shufa, Al-Hafasa – che da generazioni
coltivano quella terra fertilissima oggi inglobata dalla colonia. La posizione,
scelta con cura, offre un controllo visivo e logistico sull’intero territorio.
Durante la Seconda Intifada l’area sarà la base di partenza per incursioni verso
i villaggi vicini, e nei tempi ufficialmente “ordinari” continua a funzionare
come strategico punto di sorveglianza.
L’espansione dell’insediamento si può seguire scorrendo gli ordini militari. Nel
2005 l’ordinanza T/77/05 espropria 418 dunum (42 ettari) di terreni coltivati
per “costruire una nuova recinzione”, che di fatto amplia il perimetro coloniale
inglobando campi, oliveti e sentieri di uso comunitario. Dieci anni più tardi un
altro ordine autorizza la costruzione di una strada asfaltata riservata ai
coloni che attraversa i terreni di Shufa e li divide in due, lasciando i
contadini dall’altra parte di una barriera invalicabile presidiata da
check-point fissi. Seguono, nel 2017 e nel 2018, ulteriori ordinanze che
prevedono demolizioni e nuove confische di proprietà palestinesi. Nell’arco di
poco più di un decennio Avnei Hefetz raddoppia la propria estensione e trasforma
radicalmente la geografia dell’area.
Tra i villaggi colpiti dall’espansione coloniale di Avnei Hefetz, Shufa è quello
che ha pagato il prezzo più alto in termini di frammentazione, fino a trovarsi
quasi tagliato fuori da qualsiasi collegamento. La sua strada principale verso
Tulkarem viene chiusa nei primi anni Duemila con cumuli di terra e blocchi di
cemento. Nel 2011 la comunità tenta di costruire una strada agricola per
raggiungere i campi e mantenere un minimo di collegamento con i villaggi vicini,
ma anche quel tracciato viene sigillato dall’esercito per ragioni di sicurezza
legate alla colonia. Da allora una torre militare è piantata a guardia
dell’ingresso del villaggio. Shufa vive letteralmente all’ombra di Avnei Hefetz,
isolata dal resto della piana, con il suo territorio piegato e risagomato dalla
colonia.
OLTRE IL BANCO DEGLI IMPUTATI
C’è un punto che continua a restare scoperto mentre ci avviciniamo alla prossima
udienza. Non riguarda soltanto la cronaca del processo, ma il modo in cui
scegliamo di guardare alla resistenza armata dentro un territorio occupato. Non
si tratta semplicemente di stabilire se un atto rientri o meno nel diritto alla
resistenza riconosciuto dal diritto internazionale, ma di comprendere che cosa
viene messo a fuoco e che cosa invece scompare quando quella valutazione viene
trasportata in un’aula di giustizia europea, lontana dal luogo in cui la
violenza si produce. Con questo slittamento geografico e politico è proprio la
parola “occupazione” a finire ai margini della scena, mentre è la risposta
armata e violenta a occupare l’inquadratura con tutto il suo immaginario.
Poi c’è quella parola, “terrorismo”, che appena entra in scena manda tutto in
cortocircuito, perché non si poggia su una definizione unica e condivisa ma
continua a oscillare tra convenzioni, risoluzioni, formule che non arrivano mai
a sovrapporsi del tutto. In questa zona grigia si annida forse la confusione più
pericolosa che finisce per accostare la resistenza di un popolo ad atti di
terrorismo, mettendo sullo stesso piano chi si ribella a un regime di dominio e
chi fa del terrore un metodo ordinario di governo.
Le condotte attribuite ad Anan,Ali e Mansour vengono giudicate sotto il capo di
imputazione dell’articolo 270-bis del codice penale, che nell’ordinamento
italiano definisce il terrorismo, anche internazionale, seguendo il crinale
delle intenzioni. Significa che non è rilevante la scena materiale in cui i
fatti si producono a costituire il criterio principale della valutazione, ma il
fine che viene attribuito a queste azioni sul piano giuridico. La norma
individua come terroristiche le azioni che mirano a intimidire gravemente la
popolazione, a costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale
a compiere o ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto, a destabilizzare o
distruggere le strutture politiche, costituzionali, economiche e sociali di un
Paese o di un’organizzazione internazionale.
Se per puro esercizio volessimo applicare quelle stesse parole – intimidire,
costringere, destabilizzare – alla geografia dei Territori Occupati, vedremmo
che descrivono in modo quasi letterale la maniera in cui colonie e coloni
disciplinano lo spazio e chi lo abita. Nella Cisgiordania occupata, dove le
colonie israeliane sono vietate dal diritto internazionale e tuttavia continuano
a espandersi, chi è che usa l’intimidazione e la coercizione come strumenti
ordinari di governo del territorio e di pressione sulla popolazione perché
abbandoni la propria terra?
Durante l’ultima stagione della raccolta degli ulivi, testate internazionali
come Al Jazeera hanno documentato una sequenza di aggressioni a contadini
palestinesi da parte di coloni con il volto coperto, armati di bastoni e fucili,
che aggredivano chi raccoglieva, incendiavano intere file di alberi, davano
fuoco alle auto e ai casolari ai margini dei campi. In alcune immagini si vedono
distese di ulivi anneriti lungo pendii interi trasformati in cenere.
L’altro elemento che il 270-bis indica tra i fini del terrore è la
destabilizzazione dell’ordine politico e sociale, e difficilmente si potrebbe
trovare qualcosa di più vicino a ciò che producono le colonie in Cisgiordania.
La Cisgiordania è ormai un arcipelago di villaggi palestinesi disseminati tra
blocchi di colonie e infrastrutture israeliane. Per chi abita questi luoghi
l’accesso alla terra e alle risorse è limitato, la mobilità quotidiana è
subordinata ai check-point, si vive tra permessi e deviazioni forzate, sotto la
minaccia costante di demolizioni e sgomberi. La destabilizzazione incide anche
sul piano psichico, simbolico e sociale: si interrompono i legami tra villaggi e
città, si spezza la continuità tra scuola, lavoro e assistenza sanitaria, si
incrina la trama di relazioni e di luoghi che teneva insieme memoria e senso di
appartenenza. In una geografia come questa l’orizzonte di vita rimane sospeso,
perché nulla (la casa, il campo, la strada che si percorre ogni giorno) può
dirsi davvero garantito neppure nel domani più vicino.
In questo quadro rientra Avnei Hefetz. È un luogo in cui tentare di applicare
una distinzione netta tra civile e militare non regge, punteggiato com’è da
case, torri, recinzioni, strade d’accesso e sistemi di sicurezza che formano un
corpo unico senza soluzione di continuità. Questa fusione tra colonia e apparato
militare viene definita da Francesca Albanese nel suo rapporto alle Nazioni
Unite del 2023 con l’espressione militarised settler-colonial occupation: nelle
colonie non si hanno due regimi distinti, uno “militare” e uno “civile”, che
occasionalmente si toccano, ma un unico regime di potere che utilizza tanto la
forza armata dello Stato quanto la violenza dei coloni come strumenti integrati
dello stesso progetto.
La separazione tra “coloni” e “soldati” è una distinzione utile al diritto, alla
diplomazia e, infine, anche alla propaganda israeliana. Per chi l’occupazione la
subisce, questa distinzione semplicemente non esiste: la violenza che gli arriva
addosso è la stessa, sia che provenga dal civile armato che scende dalla
colonia, sia che provenga dal soldato che lo accompagna. Nella sua esperienza,
entrambi si confondono in un’unica figura di potere, che dispone della sua vita
e della sua possibilità di restare su quella terra.
Quando un soggetto armato, pur non arruolato, coopera stabilmente con le forze
d’occupazione, svolge funzioni di sicurezza e partecipa direttamente ad azioni
ostili, quale status assume in quel frangente? Una colonia può davvero essere
esclusa dalla categoria di obiettivo militare, se si guarda alla sua struttura e
al suo scopo di occupazione?
Non va dimenticato che questi interrogativi si collocano dentro un quadro
giuridico segnato da un doppio standard, che impedisce di riportare la violenza
a una piazza comune del diritto. Tutto si poggia su un’asimmetria radicale sul
piano legale: nei casi di violenza attribuita a palestinesi la condotta viene
giudicata da tribunali militari israeliani, mentre per i coloni la giurisdizione
resta sul piano civile, se e quando un procedimento viene effettivamente aperto.
A questo punto, non è più importante soltanto stabilire che cosa sia lecito come
atto di resistenza armata, ma anche capire chi sta usando il proprio potere per
attribuire a quell’atto un significato di resistenza o, al contrario, di
terrorismo, e da quale posizione lo sta facendo. Il 21 novembre in aula
ascolteremo l’ambasciatore israeliano, chiamato dalla Corte d’assise dell’Aquila
a descrivere la natura della colonia di Avnei Hefetz. La sua voce, con ogni
probabilità, si aggiungerà a quelle che pronunceranno la parola “terrorismo”
guardando unicamente verso il banco degli imputati. Eppure dovrebbe essere
proprio lui, in quanto rappresentante dello Stato israeliano che ha voluto e
protetto colonie come Avnei Hefetz, a essere chiamato a rispondere in aula: non
con una definizione tecnica di che cos’è una colonia, né con l’ennesima
lezioncina su quella che viene presentata come normalità insediativa nei
Territori Occupati, ma assumendosi fino in fondo la responsabilità politica e
giuridica della violenza che queste strutture esercitano sui palestinesi e sui
loro territori. Una volta per tutte. (francesca di egidio)
(disegno di dalila amendola)
Neanche un filo d’erba. Socioanalisi narrativa di un carcere minorile è un bel
libro curato da Paolo Bellati e Renato Curcio, da pochi giorni pubblicato tra i
Quaderni di ricerca sociale delle edizioni Sensibili alle foglie. Il volume
costituisce l’ultima tappa di una serie di incontri fatti con un gruppo di
giovani ex detenuti del carcere minorile Beccaria di Milano, e restituisce un
quadro preciso di questa istituzione che è sempre più uno strumento ordinario
nella gestione delle politiche giovanili. Non è un caso che dall’entrata in
vigore del decreto Caivano, che aumenta a dismisura le possibilità per un minore
di finire in carcere a discapito delle pene alternative, gli ingressi nei
penitenziari minorili siano aumentati del cinquantaquattro per cento, facendo
arrivare a seicento il numero dei giovani ristretti.
Ho letto Neanche un filo d’erba mentre sono costretto a fare i conti con le
storie di due ragazzi da qualche mese detenuti in due istituti penali minorili
campani (Nisida e Airola). Li conosco da bambini – ora hanno rispettivamente
sedici e diciassette anni – e li ho seguiti come educatore per buona parte della
loro vita, entrando in relazione con i loro ambienti familiari, con le gioie e
le frustrazioni, le aspirazioni e gli errori.
M. è finito dentro per una serie di aggressioni, di cui una a un poliziotto,
connesse a una patologica difficoltà, mai affrontata da nessuno, a gestire le
proprie emozioni negative. L’altro è semplicemente un giovane inquieto e
irrequieto. È un adolescente come tanti, C., in cerca di risposte che non sa e
probabilmente non vuole darsi, ma che ben presto si è stancato della scuola, del
calcio, degli assistenti sociali e di chiunque gli imponga, o anche solo gli
suggerisca, una strada o un modo di fare. Sia M. che C., in momenti diversi,
hanno scelto di andare in carcere rinunciando alla possibilità, dopo averla
sperimentata, di stare in una comunità.
Il Beccaria di Milano è uno degli istituti in Italia che più di frequente
raggiunge gli onori della cronaca per scandali di vario genere, episodi di
violenza, proteste e rivolte dei detenuti. Le riflessioni dei due curatori del
libro, e soprattutto le parole dei diretti protagonisti, non risparmiano nulla a
chi legge: sovraffollamento a livelli cronici, incapacità (e mancanza di
volontà) nell’affrontare la multietnicità sempre crescente, violenza costante e
quasi sempre impunita degli agenti con attribuzione arbitraria di punizioni
fisiche e psicologiche ai ragazzi, normalizzazione di prassi non scritte – se
non in qualche astrusa circolare – che così come nel carcere degli adulti
costruiscono le regole de facto del carcere, e che sono diverse istituto per
istituto. È il caso di quella che Bellati e Curcio definiscono “pedagogia nera”,
la pedagogia della pena o “del bastone”, una traslazione dell’equilibrio basato
sulla punizione che sorregge l’istituzione (degli adulti) in un universo che,
nelle sue folli teorizzazioni, pretenderebbe di essere educativo per giovani che
hanno commesso degli errori ma hanno un’intera vita davanti per recuperare. “Per
i maltrattamenti aggravati – si legge nel volume – esercitati tra il 2021 e il
2024 (tra i quali, oltre alle lesioni, le umiliazioni e gli insulti razzisti
subiti dai ragazzi compaiono una tentata violenza sessuale operata da un agente
nei confronti di un detenuto, e la voce ‘torture’) sono state messe sotto
inchiesta giudiziaria quarantadue persone. In un primo tempo, nell’aprile 2024
vennero messi sotto indagine tredici agenti penitenziari, otto dei quali furono
anche sospesi dal lavoro. All’inizio di agosto 2025 i pm incaricati hanno però
aggiunto a quel primo elenco un comandante e altri tredici agenti, un medico,
due operatori sanitari, due ex direttrici e una vicedirettrice”.
Il libro ha il merito di partire dall’analisi di un caso per tracciare linee
generali, ragionando – sempre a partire dalle parole dei ragazzi – sul (non)
funzionamento di questa istituzione. È probabilmente per questo che i capitoli
più efficaci risultano quello che rivela il carcere minorile come arma impropria
della gestione illiberale del fenomeno migratorio; quelli che svelano con pochi
e chiari esempi l’ascensore dei meccanismi premiali, un inferno dantesco che
istituisce condizioni diverse di detenzione a seconda della docilità o della
renitenza di un detenuto al rispetto di regole assurde; quelli che sconfinano
senza perdere il filo del ragionamento nei campi della sociologia dei processi
migratori, della psicologia, dell’antropologia culturale, mostrando le continue
evoluzioni e involuzioni, a livello individuale e collettivo, delle relazioni
tra istituzioni totali e linguaggio, privazione dello spazio e processi di
alienazione, gestione chimica del dolore, autolesionismo e “ricadute”,
invisibilizzazione burocratico-amministrativa e rivendicazioni identitarie.
Vale la pena infine soffermarsi su due questioni che hanno la forza di aprire
spunti di riflessione non scontati sulla carcerazione minorile. La prima è
quella relativa agli “spazi per il sé”, una lettura più profonda del tema del
sovraffollamento, che non si riduce alla denuncia di condizioni pur infami di
detenzione, e alla descrizione di stanze in cui per andare in bagno bisogna
calpestare i materassi su cui, per terra, sono assiepati gli altri detenuti.
Quello che è in ballo, spiegano gli autori del volume, è l’impossibilità di
momenti d’introflessione, di elaborazione della propria situazione e delle
possibili prospettive: “momenti indispensabili a qualunque età, ma in quella dei
ragazzi più ancora decisiva sia per la loro crescita personale che per la
maturazione emotiva. Si tratta, insomma, di un vero e proprio soffocamento
psicologico e sociale” che “aggiunge un quid specifico alla brutalità ordinaria
della condizione carceraria, ne accentua, se possibile, la pena e la sofferenza
dei corpi” e “contribuisce in modo decisivo allo smantellamento di un
qualsivoglia, sia pure vago ed embrionale, progetto educativo”.
Anche la seconda questione, che riporta alle storie dei ragazzi napoletani con
cui si è iniziato questo testo, ha molto a che vedere con lo “smantellamento del
progetto educativo” scientemente operato dal carcere minorile. È infatti legata
alla desolante descrizione, che è uno dei fili conduttori del libro, del
complesso equilibrio di relazioni, rapporti lavorativi e personali,
compartimentazione delle mansioni e quindi delle responsabilità del mondo degli
adulti che operano in carcere. Gli educatori e il personale civile escono a
pezzi dalla descrizione dei ragazzi, che ritraggono queste figure per lo più –
mantenendo comunque una discreta capacità di differenziazione – come quelle di
scialbi passacarte, capaci di parlare e mai di ascoltare, latitanti tra le
sezioni persino nelle poche ore durante le quali sono chiamati, con un magro
stipendio, va detto, a lavorare nelle strutture.
Il fatto che molti ragazzi finiscano loro stessi per preferire, almeno nella
brutale quotidianità, la guardia all’educatore, il carcere alla comunità, la
repressione al confronto, è a ben pensarci il trionfo dell’istituzione totale,
che ha come unico scopo un disciplinamento sociale raggiungibile solo attraverso
la punizione, e perciò inconciliabile con qualsiasi millantata velleità di
crescita personale, riabilitazione e reinserimento. A parità di vuoto, di noia,
di assenza di figure adulte adeguate con cui confrontarsi, e di mancata apertura
verso nuove prospettive reali, è comprensibile che i ragazzi scelgano almeno la
chiarezza delle regole (per quanto ingiuste) e degli intenti all’ambiguità;
preferiscano la crudezza all’ipocrisia, la punizione al ricatto morale, persino
le botte alle chiacchiere vuote. Ma se questo modello disciplinante è
indispensabile per la buona riuscita di ogni innaturale tentativo di mantenere
una persona chiusa e ferma in una gabbia per un certo lasso di tempo, è anche
vero che nel mondo dei ragazzi ha bisogno di più sforzo e tempo, elementi
necessari a scalfire animi spesso più istintivi, meno interessati a calcolare il
rapporto tra i comportamenti e le loro conseguenze, non ancora del tutto
assoggettabili al rispetto di piccoli e grandi soprusi.
Le continue proteste e le rivolte, più o meno pubblicizzate, che ogni settimana
avvengono in molte carceri minorili in tutto il paese ci dicono che questo
modello non è necessariamente destinato a vincere. Quella però è la parte che
possono fare i giovani detenuti per l’eliminazione di queste inutili e ipocrite
istituzioni. È ora di chiedersi cosa siamo disposti a fare noi. (riccardo rosa)
(disegno di cykalov)
Quando, nell’aprile del 2021, durante una trasmissione giornalistica della Rai,
viene dedicato un approfondimento al tema “I disturbi dei giovani dopo un anno
di pandemia” le telecamere entrano nel reparto di neuropsichiatria dell’ospedale
pediatrico Bambino Gesù di Roma, diretto da uno dei luminari del settore,
Stefano Vicari. La scena è molto diversa da quella che, in altre trasmissioni,
racconta il quotidiano lavoro di altri reparti di questo ospedale: alla
neuropsichiatria infantile, infatti, si accede attraverso una pesante porta
d’acciaio, chiusa e allarmata, che la giornalista definisce «di massima
sicurezza, dove dietro a porte antifuga ci sono telecamere in ogni stanza, e
letti, armadi, comodini ancorati a terra». Poi Vicari aggiunge: «Non ci sono
maniglie o appigli perché questi potrebbero essere uno strumento per potersi
appendere. I sanitari sono in acciaio e non di ceramica in modo che non possano
essere rotti e quindi utilizzati ancora una volta per farsi del male». Sia
chiaro: nessun segno di incuria o sciatteria, anzi, tutto è assolutamente lindo
e pulito, clinicizzato; medici, infermieri e inservienti sono tutti
perfettamente in camice bianco. Eppure, nonostante alcuni disegni alle pareti e
le riprese che indugiano su un bambino intento a giocare con una macchinina, le
immagini restituiscono a chi scrive un profondo senso di claustrofobia e
tensione, un ambiente che lascia riecheggiare dispositivi asilari.
Non mi ha sorpreso dunque apprendere, successivamente, da alcune inchieste
giornalistiche, che in quell’ospedale si utilizzi la contenzione fisica sui
minori. D’altro canto, seppure spesso resti una prassi sottaciuta, anche in
Lombardia ci sono reparti di neuropsichiatria (a volte pure quelli per adulti)
in cui sono legati bambini e adolescenti, e così, seppur in assenza di dati
certi, possiamo ipotizzare avvenga anche in altre regioni italiane. Bambini,
ragazzi, giovani, sono dunque legati ai letti, braccia, gambe, a volte anche con
il corpetto per il busto (e non solo nei reparti ospedalieri) come accade agli
adulti e agli anziani, perché la contenzione, tra i più evidenti e dolorosi
lasciti dell’armamentario manicomiale, continua ad essere parte sostanziale
dell’intervento psichiatrico (e non solo di questo).
Le tanto attese Linee di indirizzo per il superamento della contenzione
meccanica nei luoghi di cura della salute mentale, approvate il 23 ottobre
scorso dalla Conferenza Stato-Regioni, pur dichiarandosi “una cornice di
carattere generale accompagnata da indicazioni specifiche per favorire il
percorso di progressivo superamento della contenzione nei luoghi di cura della
salute mentale”, e pur richiamando, con la Cassazione, che la contenzione non
possa mai considerarsi un atto sanitario, scivolano, nelle ventuno pagine di
cui sono composte, nella sostanziale e acritica accettazione dello status quo,
che nel breve e inconsistente paragrafo dedicato alle “specificità dei servizi
di neuropsichiatria per l’infanzia e adolescenza” trova la sua più eclatante e
sconcertante dichiarazione: “in riferimento alla prevenzione della contenzione
dei minori – si afferma – valgono gli stessi principi generali descritti per gli
adulti”. Nessuna specifica valutazione, nessuna adozione di un principio
precauzionale almeno più stringente, nessuna considerazione sulla portata che
quell’evento potrà avere sul futuro sviluppo del ragazzo, solo una serie di
minime raccomandazioni che chiedono di informare e coinvolgere i genitori, di
prestare particolare attenzione alla gestione ambientale e relazionale
(soprattutto in caso di abuso di sostanze), di coinvolgere i minori nella
formalizzazione di un non meglio specificato “piano crisi”, di utilizzare
strategie mirate di analisi e modificazione delle catene comportamentali per la
gestione della crisi nelle persone con disabilità intellettiva e/o autismo (sia
adulte che minori). In ultima analisi si potrebbe affermare che queste Linee di
indirizzo siano tra i primi documenti ufficiali in cui si legittima il ricorso
della contenzione anche sui minori (certo come extrema ratio legata allo “stato
di necessità”, la cui definizione e qualificazione, però, restano
sostanzialmente vacue e discrezionali).
Più complessivamente, tanto per gli adulti quanto per i minori, la solita
elencazione di “buone pratiche” e le cinque striminzite “indicazioni per il
progressivo superamento della contenzione” finiscono col rappresentare, come
nelle tante linee guida di diverse aziende sanitarie che si sono succedute negli
anni, da un lato, un vuoto esercizio di retorica dei buoni propositi, dall’altro
una congerie di atti dal carattere meramente burocratico, volti a definire la
correttezza delle procedure, a volte rischiando di produrre un paradossale
effetto di ampliamento della liceità del ricorso alla contenzione. Si tratta, in
definitiva, di un documento non solo inutile ed evanescente, privo di analisi di
dettaglio e di contesto, di contenuti di merito rispetto alle necessarie risorse
umane ed economiche, di un qualsivoglia valore prescrittivo, ma che rischia di
essere, nella sua inerzia, anche pericoloso. Anche perché è al vaglio del
parlamento un disegno di legge, il ddl Zaffini – presentato dal senatore di
Fratelli d’Italia e adottato come testo base per la riforma del settore dalla
Commissione Affari Sociali del Senato –, in cui, nella sostanziale
indeterminatezza di alcune allocuzioni, si legittima normativamente il ricorso
alla contenzione, lasciandone indefiniti i confini applicativi. La specifica
previsione del disegno di legge sulla contenzione, come formulata, pare in linea
con il più complessivo impianto della proposta normativa, innervata su una
visione securitaria e fortemente medicalizzata della sofferenza psichica,
ricondotta in un alveo di interventi psichiatrici i cui argini sembrano segnati,
da un lato, da un paradigma prettamente biologistico del disturbo e del disagio
mentale, dall’altro, dalla riproposizione, stemperata nella formulazione
dell’incolumità (propria e di terzi, soprattutto degli operatori),
dell’equazione tra malattia mentale e pericolosità sociale e personale.
L’eventuale saldatura tra questo ddl e le linee di indirizzo adottate dalla
Conferenza, rappresenterebbe un rischio mortale per i principi sanciti con la
legge 180.
Le Linee di indirizzo, inoltre, si concentrano sull’utilizzo della contenzione
nel solo spazio dei reparti psichiatrici ospedalieri (per adulti e minori) e
delle Rems, non prendendo in considerazione tutti gli altri luoghi in cui la
contenzione rappresenta un mezzo di intervento routinario, innanzitutto le
residenze per anziani. Ancora, al di là della mera individuazione concettuale,
nel documento si sceglie di non affrontare il tema della contenzione ambientale
e farmacologica, come se, nella realtà fattuale, le diverse tipologie di
contenzione non agissero intrecciandosi e sovrapponendosi.
Il tema, in sostanza, appare affrontato in modo assolutamente parziale,
soprattutto slegato dalla permanenza di quei dispositivi di internamento che,
nei diversi luoghi, sottraggono libertà in nome della sicurezza, mortificano
diritti e dignità delle persone riproponendo la stanca retorica del “è per il
suo bene”, consentono margini di profitto altissimi agli imprenditori delle
strutture private che sopperiscono alle carenze determinate dai mancati
investimenti nel pubblico, legittimano una formazione di medici, infermieri e
operatori in cui il sofferente smette di essere persona per diventare un mero
corpo malato.
Ecco, soprattutto, in queste Linee di indirizzo non ci sono le persone
sofferenti, le storie di chi è morto di contenzione, i vissuti di chi, pure
sopravvissuto, continua a portare una ferita profonda di fascette che non solo
hanno bloccato i suoi arti, ma, soprattutto, hanno profanato il suo sé. Questo
documento, allora, mantiene l’abissale distanza d’offesa tra chi lega e chi è
legato, tra chi si ritiene normale e chi è considerato anormale e pericoloso,
tra chi ha e chi non ha.
(disegno di cyop&kaf)
Tra il 9 e il 10 settembre scorso tre attivisti sono stati arrestati con
l’accusa di resistenza e lesioni, reati commessi durante il Carnevale No
Ponte tenutosi il primo marzo scorso nella città dello Stretto.
Il corteo, composto da circa un centinaio di persone mascherate, aveva
attraversato le vie principali della città, facendo registrare qualche scontro
tra manifestanti e forze dell’ordine. A fine giornata, un’agente di polizia
riportava una frattura della clavicola guaribile in centotrentacinque giorni.
Dalla visione dei filmati delle telecamere e dai travestimenti usati, la
questura individua tre ragazzi. Guido è accusato del reato di resistenza
pluriaggravata. Gabriele e Andrea, oltre a resistenza pluriaggravata, vengono
accusati del reato di lesioni gravi.
Gli arresti, come documentato da Radio Onda d’Urto e Radio Onda Rossa, avvengono
contemporaneamente in diverse città italiane, tra Napoli, Bari e Varese.
Gabriele viene arrestato a Napoli mentre attende l’arrivo del Flixbus per
recarsi da alcuni suoi amici in Francia. Giunto alla stazione trova gli agenti
della digos di Messina, che insieme a quelli napoletani, lo fermano e lo portano
all’istituto penitenziario di Poggioreale.
Nella stessa giornata, agenti della digos di Messina e di Bari perquisiscono
l’appartamento di Sara, ex ragazza di Gabriele, che lì ha la residenza. Sara è
indagata nello stesso filone di indagini.
Andrea viene bloccato su un’auto a Bari, fermato da una volante all’esterno del
centro sociale Bread and Roses. La digos gli comunica di seguirlo in questura
per la consegna di una notifica. In caserma scopre che la notifica è legata agli
incidenti del Carnevale. Andrea trascorre la notte lì, e la mattina dopo viene
trasferito nel carcere di Bari.
Guido intanto subisce una perquisizione a Varese, nel suo appartamento, insieme
ad altri compagni. Ultimata la perquisizione, gli agenti lo accompagnano nel
carcere di Varese.
Guido è l’unico che sapeva di un’indagine a suo carico, perché vittima della
“caccia all’uomo” organizzata dalle forze dell’ordine messinesi qualche ora dopo
la fine del corteo. Di quelle ore si ricorda l’entusiasmo di Matteo Salvini che
si affrettava a diffondere pubblicamente la notizia, e la narrazione del solito
copione sui facinorosi che portano scompiglio in città.
Altro elemento ricorrente è il tentativo di dividere i manifestanti tra buoni e
cattivi. Gli attivisti, tutti e tre incensurati, vengono qualificati come
pericolosi socialmente, una presunzione che sarebbe corroborata dalla generica
appartenenza politica ll’area anarco-antagonista, un pretesto utilizzato anche
dal gip di Messina per sostenere l’obbligo carcerario nei loro confronti.
Per una ventina di giorni gli attivisti vengono spostati da un carcere a un
altro, dove vengono messi in isolamento, negandogli la possibilità di poter
parlare con i propri conoscenti e avvocati. Intanto in loro supporto si
costituisce un pool di legali (Moschella, Losco, Calabro, di Stefano), con
l’obiettivo di smontare accuse molto gravi, le cui sanzioni potrebbero oscillare
tra gli otto e i quindici anni.
Al momento i tre si trovano agli arresti domiciliari, in attesa della prossima
udienza fissata a gennaio 2026. Abbiamo chiesto all’avvocato Francesco Calabro
informazioni utili per approfondire la vicenda.
Hai ravvisato delle anomalie negli arresti?
Intanto mi preme dire che entrambi ragazzi hanno sofferto in maniera particolare
il periodo di detenzione. Sia perché erano alla prima esperienza, sia le
condizioni, notoriamente disumane.
La prima anomalia riguarda il caso di Andrea e gli accadimenti intercorsi tra
l’arresto e l’interrogatorio di garanzia, fissato per il dodici.
Il mio assistito ha trascorso le prime notti al carcere di Bari, ma il giorno
prima dell’interrogatorio è stato condotto al penitenziario di Potenza.
Uno spostamento che ha impedito di poter effettuare un colloquio difensivo in
vista dell’interrogatorio con il giudice.
Su questo ho protestato con il gip, perché il trasferimento era motivato da
esigenze organizzative legate all’amministrazione penitenziaria, che in questo
strano paese prevalgono sul diritto della difesa.
Con Gabriele è accaduta la stessa cosa: per diverso tempo sia il sottoscritto
che la madre abbiamo avuto difficoltà a ottenere colloqui telefonici nel carcere
di Poggioreale. Un altro problema riscontrato nell’inchiesta riguarda la
modalità di gestione dell’interrogatorio di garanzia.
Sebbene l’ordinanza di custodia cautelare fosse stata emessa dal gip di Messina,
l’interrogatorio è stato delegato per rogatoria, nel caso di Gabriele al gip di
Napoli, nel caso di Andrea a quello di Bari.
Parliamo di magistrati che non avevano alcuna conoscenza, se non informazioni
sommarie, sulla vicenda.
La cosa singolare è che lo svolgimento dell’interrogatorio di Andrea è avvenuto
in videoconferenza. Non si comprende a questo punto per quale ragione non abbia
proceduto il gip di Messina, che aveva una conoscenza degli atti più
dettagliata. Questo elemento fortunatamente non ha inciso, perché ci saremmo
comunque avvalsi della facoltà di non rispondere.
Il gip di Messina accusa gli attivisti di essere pericolosi socialmente, puoi
spiegare meglio queste accuse?
Il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto particolarmente gravi i
reati, disponendo per tutti e tre gli attivisti la reclusione detentiva.
Il ragionamento è legato alla gravità del fatto contestato, e al contempo a una
chiara manifestazione di ostilità, tenuta durante il corteo, nei confronti
dell’autorità.
Una motivazione che a me è apparsa discutibile: perché se gli attivisti non
rispettano le prescrizioni stabilite dal questore – travestimenti, utilizzo di
fumogeni – tale comportamento non ravvisa un’automatica trasgressione delle
prescrizioni imposte per gli arresti domiciliari. Parliamo di contesti
differenti: dentro il corteo, di un’iniziativa collettiva nella quale la
presenza del gruppo è un fattore motivante rispetto all’azione; negli arresti
domiciliari invece sei solo. Inoltre, se violi le prescrizioni di un corteo non
puoi immaginare che come conseguenza diretta tu possa finire in carcere, mentre
se trasgredisci le prescrizioni dei domiciliari sei consapevole che non ci sono
alternative al collocamento detentivo in carcere.
A che punto siamo nel processo?
Abbiamo avanzato istanza di riesame contro l’ordinanza del gip che prevedeva il
carcere. E il tribunale del riesame, il 26 settembre, ha disposto la
sostituzione della misura carceraria in arresti domiciliari con il braccialetto
elettronico. Da poco abbiamo ricevuto dal gip di Messina la notifica del decreto
di giudizio immediato, fissato per gennaio.
Abbiamo quindici giorni di tempo dalla notifica per valutare riti alternativi
che possono essere un giudizio abbreviato oppure, nel caso di chi ha la
posizione più lieve, la sospensione del processo attraverso la richiesta di
messa alla prova. Io mi orienterò ragionevolmente per un giudizio abbreviato.
Certamente il processo è complicato, e non riesco a fare un pronostico su come
finirà. Resta un processo che offre margini di difesa, in particolare sulle
aggravanti e lesioni provocate al pubblico ufficiale.
Il processo potrebbe risentire dell’inasprimento delle pene stabilito dal nuovo
ddl sicurezza?
Questi sono i primi processi post-pacchetto sicurezza. Nel caso specifico non ci
sono effetti immediati sulle contestazioni e le qualificazioni giuridiche
provocate dal pacchetto sicurezza: i fatti contestati risalgono al primo marzo
del 2025, a un’epoca antecedente all’entrata in vigore del ddl.
Le imputazioni invece risentono del progressivo inasprimento delle pene
precedente all’approvazione del ddl: provvedimenti che mirano a colpire
maggiormente i reati commessi in occasione di manifestazioni svolte in luogo
pubblico, come i reati di lesioni aggravate a carico di pubblici ufficiali.
Stessa cosa per il reato di resistenza a pubblico ufficiale che con l’aggravante
della presenza di più persone, dell’uso di armi improprie, e della condotta
dentro la cornice di una manifestazione pubblica, sono condotte punibili con
pene fino ai quindici anni di reclusione. (giuseppe mammana)
(archivio disegni napolimonitor)
Il Decreto Caivano e altre misure di recente approvazione hanno comportato un
inasprimento del livello di criminalizzazione nei confronti di soggetti come i
giovani delle classi popolari, dei territori più marginalizzati, dei migranti,
nonché l’istituzione di nuovi reati atti a colpirli e un’impennata di condanne a
pene detentive. Ma questi interventi normativi hanno anche fatto sì che
emergesse la necessità di un piano di potenziamento delle strutture detentive
per minori e l’apertura di nuove carceri.
L’intervento ministeriale che prevede l’apertura di quattro nuovi Istituti
penitenziari minorili (Ipm), insieme a L’Aquila, Rovigo e Lecce, individua come
sede anche la piccola città campana di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di
Caserta. La struttura individuata come futuro penitenziario è l’Istituto
Angiulli, già in passato centro di detenzione minorile, ma che a oggi ospita,
oltre a un museo e una biblioteca comunale, un Centro diurno polifunzionale.
Questo centro, racconta una volontaria che vi opera, offre un modello
alternativo di scontare la pena, a partire da attività che permettano ai ragazzi
di costruirsi strumenti di crescita attraverso corsi di formazione lavorativa e
non, come la falegnameria e il laboratorio di restauro di moto d’epoca: «Abbiamo
anche a disposizione impianti sportivi e un teatro, ma non abbiamo mai ricevuto
i fondi destinati alla loro ristrutturazione».
Il futuro dell’Angiulli è ancora incerto. In un primo momento si era parlato di
chiusura, poi di trasferimento, ma la difficoltà a trovare i locali adatti per
dare continuità alle attività del centro, in una città in cui mancano gli spazi
tanto per l’istruzione quanto per l’attività sociale, è enorme. Ancora più
preoccupante è il silenzio delle istituzioni locali su una decisione calata
dall’alto dal governo, considerando anche che, poco meno di dieci anni fa,
l’attuale sindaco Mirra (eletto con una coalizione civica in quota
centrosinistra) sbandierava come una vittoria la riqualifica della struttura.
Come a L’Aquila, in ogni caso, dove l’inaugurazione del nuovo Ipm è stata
presentata come una vittoria, il “modello Caivano” arriva a Santa Maria con
l’intento di “combattere il disagio giovanile”, un disagio che ha ovviamente
radici profonde, e ben radicate altrove: edifici scolastici inadeguati,
un’istruzione votata unicamente alla formazione di futuri lavoratori precari e
ricattabili, costante e asfissiante presenza di polizia ed esercito in tutte le
scuole della provincia di Caserta, con controlli ed eventi propagandistici
imbastiti con il solo fine di racimolare consenso e arruolamenti, assenza di
impianti sportivi e di luoghi di socialità accessibili anche alle classi meno
abbienti. E ancora: emergenza abitativa, lavoro nero e precario, una criminalità
organizzata onnipresente e sempre alla ricerca di nuova manovalanza. Il
risultato più evidente di tutto ciò è la fuga, per chi può permetterselo, da una
gabbia a cielo aperto fatta di sfruttamento, abbandono e marginalità. E chi non
può fuggire, si arrangia.
In realtà, il rapporto tra marginalità e istituzioni totali è ancora più
evidente su territori come questo. La situazione a Santa Maria Capua Vetere,
dove già nel 2020 si consumò una mattanza di detenuti nella casa circondariale
Francesco Uccella, è il riflesso di un’emergenza che attraversa l’intero paese e
che riempie le carceri di “elementi di disturbo”: sovraffollamento, violenze
contro i detenuti, isolamento e condizioni di vita indignitose accomunano le
carceri ai lager di Stato, i cosiddetti Cpr, e sono in aumento anche negli
istituti minorili. I tassi elevatissimi di recidività, i suicidi e i continui
atti di autolesionismo ne sono la prova più lampante.
Davanti a questa escalation, qualcosa però si muove. Lo scorso maggio a Santa
Maria Capua Vetere si è tenuto un presidio proprio fuori all’istituto Angiulli
con un messaggio molto chiaro: totale opposizione alla riapertura dell’Ipm e a
nuove carceri minorili su tutto il territorio italiano; richiesta di fondi per
il potenziamento del Centro diurno polifunzionale, delle scuole, degli ospedali
e dei servizi pubblici nel casertano; denuncia dei piani securitari del governo
Meloni e del silenzio dell’amministrazione locale. Naturalmente si è trattato
solo di un primo passo di un percorso che tenta di rimettere sotto i riflettori
il tema del carcere e la sua normalizzazione, ancora di più in aree di provincia
e di periferia: un tentativo che avrà seguito con altre iniziative a partire dal
prossimo autunno e che avrà bisogno di voce e supporto anche da parte di tutti
gli altri territori. (raul lamia)
(disegno di martina di gennaro)
All’alba del 19 maggio scorso, tra le 4:30 e le 6:09, nella cella 214 del
padiglione B del carcere torinese Lorusso e Cutugno, Hamid Badoui si tolse i
lacci delle scarpe e li legò al collo. In quell’istituto i lacci vengono
ritirati solo ai detenuti classificati come “ad alto rischio suicidario”. Hamid
non era tra loro, e quei lacci, apparentemente un dettaglio, divennero una
condanna.
Passarono ventidue lunghissimi minuti prima che qualcuno aprisse la porta:
ventidue minuti in cui rimase solo, avvolto da un silenzio che lo soffocava.
Quando gli agenti entrarono, alle 6:31, per lui non c’era più tempo.
Hamid aveva quarantun’anni e da quindici viveva a Torino. Era nato a Oued Zem,
in Marocco, in una famiglia a cui era legatissimo. A soli quindici anni aveva
lasciato la sua terra per la Spagna, accolto in una comunità per minori. Lì
aveva studiato, ottenuto i documenti spagnoli e un diploma da cameriere. Con i
suoi primi lavori riusciva a mandare denaro alla madre, gesto che non interruppe
neppure durante i periodi difficili. Anche durante la detenzione a Fossano,
nonostante le ristrettezze, continuò a inviarle parte dei piccoli guadagni
ottenuti dentro il carcere. Era il suo modo di restare figlio presente, anche
dietro le sbarre. Sua sorella Zahira lo ricorda con tenerezza: «Mamma era il suo
punto debole, la sua gioia più grande».
In Italia Hamid continuò a lavorare in cucina, a studiare, a conservare con cura
documenti e ricevute, segni concreti della sua volontà di costruirsi un futuro
dignitoso. Ma le difficoltà non mancavano: i documenti scaduti, la vicinanza a
persone sbagliate, la lotta con la dipendenza dal crack. Più volte chiese aiuto,
affidandosi al Gruppo Abele per percorsi di cura e disintossicazione. Con Zahira
parlava spesso del desiderio di tornare al Sert, curarsi e riavvicinarsi alla
famiglia. «Parlavamo ogni giorno», ricorda la sorella. «Poi, all’improvviso, il
suo telefono è rimasto spento. Il lunedì è arrivata la notizia che nessuno di
noi avrebbe mai voluto ricevere».
Dopo più di una detenzione Hamid era stato trasferito nel Cpr di Bari e poi
deportato in Albania, nel centro di Gjadër. Era rimasto lì trentatré giorni, lo
aveva definito “un inferno”. «Meglio il carcere che Shengjin», aveva confidato
al suo avvocato, spaventato da quella esperienza che lo aveva segnato
profondamente. La decisione di un giudice romano, che ne dispose la liberazione,
sollevò dubbi sulla legittimità costituzionale del trattenimento nei Cpr.
Hamid era tornato a Torino di venerdì notte, libero sulla carta, ma attanagliato
dalla paura di essere nuovamente rinchiuso. Sabato 17 maggio, poco dopo le
14:00, davanti a una tabaccheria di corso Giulio Cesare, chiamò la polizia per
denunciare una truffa: la Sim che aveva acquistato non funzionava. Quel gesto,
nato dal desiderio di giustizia, si trasformò in un arresto per resistenza a
pubblico ufficiale. La folla guardava, filmava, gridava. Da quell’istante la sua
fragile traiettoria cambiò.
Hamid trascorse oltre dieci ore in una camera di sicurezza, senza alcuna
assistenza. Solo alle 3:43 del 18 maggio varcò l’ingresso del carcere torinese.
Alle 4:20 un medico lo visitò per dieci minuti, troppo poco per cogliere il suo
stato d’animo. Segnalò di assumere Lyrica e Rivotril, ma il rischio suicidario
fu giudicato “basso”. Da quel momento si apre il primo vuoto temporale: dalle
4:30 del mattino fino alle 19:00 nessuna annotazione, nessuna osservazione,
quasi quindici ore in cui Hamid rimane invisibile. Sappiamo che poco prima delle
19:00 ha trascorso circa un’ora nell’ufficio del sovrintendente, perché aveva
rifiutato di condividere la cella. Poco dopo viene riaccompagnato nella 214 e si
apre il secondo intervallo di silenzio: dalle 19:00 circa fino alle 4:30 del
mattino successivo.
Alle 4:30 gli agenti effettuano il giro di controllo per verificare che i
detenuti stiano bene. È nel letto, apparentemente dormiente. Alle 6:09 il suo
corpo viene trovato legato alle sbarre del cancello della cella 214. Le chiavi
sono al piano terra: trascorrono ventidue minuti prima che venga aperta. Alle
6:31, quando gli agenti entrano, è troppo tardi.
Zahira, insieme all’avvocato Luca Motta, ha presentato un esposto in procura.
Denuncia omissioni, silenzi, ritardi. Ricorda che Hamid avrebbe potuto andare ai
domiciliari, che l’arresto non era obbligatorio, che la sua fragilità era
evidente. L’esposto parla chiaro: quattordici ore dall’arresto alla visita
medica, oltre dieci in isolamento, diciassette escoriazioni sul corpo. Il medico
legale ha confermato: non furono le ferite a ucciderlo, ma l’asfissia da
impiccagione.
Il 27 maggio corso Palermo si riempì di persone. Fiori, cartelli, passi
condivisi. Circa duecento voci unite per dire che nessuno deve morire così, nel
silenzio di una cella. Hamid aveva scelto di vivere, di curarsi, di
ricominciare. Ma in carcere ha trovato tutto fuorché custodia o protezione. Dopo
l’autopsia, Zahira ha completato le pratiche per riportarlo in Marocco, come
desiderava la madre. Un ultimo gesto d’amore, per restituirgli dignità e pace.
Rimane la memoria: il suo sorriso, i suoi gesti di affetto, la sua forza fragile
che chi lo ha amato custodirà sempre.
Rabi yrahmou, Hamid. Ma tensach. (luna casarotti – yairaiha ets)
(disegno di sam3)
Il 5 ottobre del 2025 è stata una giornata storica: migliaia di persone scesero
in piazza a Porta San Paolo, a Roma. I manifestanti, sfidando i divieti del
governo, reclamavano a gran voce la fine del genocidio a Gaza. Per diverse ore,
sotto una pioggia torrenziale, le forze dell’ordine circondarono il presidio con
i blindati permettendo l’ingresso ai manifestanti solo previa identificazione;
anche nei pressi della città, nelle aree di servizio autostradali adiacenti la
capitale, le forze dell’ordine impedirono ai manifestanti, tramite fogli di via,
di raggiungere il presidio. In piazza, dopo una serie di provocazioni
poliziesche e un fitto lancio di lacrimogeni, si arrivò agli scontri su via
Ostiense. In serata venne arrestato uno studente italiano, Tiziano, portato in
questura e posto agli arresti domiciliari. Il tribunale l’ha condannato a due
anni, ma la pena è stata sospesa per l’applicazione della condizionale in quanto
soggetto incensurato.
Qualche settimana dopo, nel silenzio dei media, venne arrestato un altro
ragazzo, un tunisino di nome Tarek. Anche lui, come Tiziano, accusato di
resistenza a pubblico ufficiale. A differenza dello studente italiano, Tarek è
un ragazzo straniero con precedenti penali, con lo stigma della sua condizione
etnica. Le accuse inchiodano Tarek seguendo il solito razzismo istituzionale. Il
ragazzo viene descritto come un uomo dalle sembianze magrebine, che dopo aver
colpito gli agenti a ombrellate, e lanciato delle bottiglie, si infligge
volontariamente dei tagli per impedire il fermo da parte delle forze di polizia.
La vicenda emerge diversi mesi dopo, a maggio, grazie a una corrispondenza
telefonica, su Radio Onda Rossa, in cui l’avvocato di Tarek spiega che il
ragazzo è stato condannato, con il rito abbreviato, a una pena di quattro anni e
otto mesi. Una sentenza singolare perché la condanna è superiore alla richiesta
del pubblico ministero che chiedeva tre anni. Il 21 maggio, davanti al carcere
di Regina Coeli, viene indetto un presidio per esprimere solidarietà al ragazzo
tunisino, e agli altri detenuti, in cui tra l’altro i manifestanti leggono una
lettera di Tiziano indirizzata allo stesso Tarek.
Per approfondire la vicenda decido di incontrare l’avvocato del ragazzo,
Leonardo Pompili. Una chiacchierata in attesa della pronuncia dell’udienza di
appello fissata il prossimo 21 novembre.
Mi racconti la storia di Tarek?
Tarek è arrivato in Italia nel 2008, dalla Tunisia. In Italia ha conosciuto una
compagna con cui ha avuto una relazione, e da cui sono nati due figli. Aveva il
permesso di soggiorno e lavorava. Dopo sono iniziati i primi problemi e Tarek ha
deciso di separarsi dalla compagna. Da questo momento comincia a precipitare
nella marginalità: difficoltà a trovare una casa, difficoltà a trovare un posto
di lavoro. Nel 2020, un altro episodio segna la vita di Tarek. Un litigio con
due persone si trasforma in una colluttazione. Viene aperto un fascicolo a suo
carico e Tarek viene condannato per tentato omicidio. In carcere la situazione
si aggrava, e la depressione lo porta a un consumo esorbitante di farmaci.
Scontata la condanna ricomincia a lavorare, ma a nero. A tal punto che dopo
l’arresto, avvenuto qualche giorno dopo il 5 ottobre, il datore di lavoro con
cui lavorava nega di conoscerlo. Tutto questo impedisce al ragazzo di recuperare
una parte della retribuzione che gli spettava. Inoltre, al momento, appare
difficile regolarizzare la sua posizione. Tarek ha una carta d’identità ma il
permesso di soggiorno scaduto. A giugno doveva presentarsi all’ufficio
immigrazione per il rinnovo, ma a causa della detenzione carceraria non è
riuscito a presentarsi all’appuntamento ed è stato chiesto un rinvio.
Ci racconti che è successo il 5 ottobre?
Tarek frequentava la zona di Ostiense e si trovava in un locale lì vicino. Non
era andato appositamente al corteo. Decide di avvicinarsi quando la piazza era
già blindata. E quando vede la polizia che manganella da un lato, e le bandiere
della Palestina dall’altro, decide di compiere un gesto di protesta estrema: si
leva la maglietta, e comincia a tagliarsi. Si tratta di un gesto comune a molti
detenuti ed ex detenuti: compiere mutilazioni corporali come quelli che
avvengono nei Cpr, quando i reclusi si cuciono la bocca. Un gesto di protesta
nonché irriverente, perché il corpo è l’unica parte che non è soggetta al
controllo del carceriere. Oltre al gesto autolesionistico, la procura lo accusa
di aver preso a ombrellate un agente, e di aver lanciato delle bottiglie. La
cosa singolare è che per giustificare il reato di resistenza a pubblico
ufficiale l’accusa capovolge la cronologia della condotta: sostenendo che prima
il ragazzo prende a ombrellate gli agenti, dopo lancia le bottiglie, e infine si
taglia per non farsi arrestare. Tutte accuse opinabili. Per esempio, riguardo al
lancio di bottiglie, nei video non si vedono i lanci né contro cose e né contro
persone. Stessa cosa per l’accusa di aver colpito a ombrellate gli agenti: le
forze di polizia sostengono che Tarek abbia colpito con l’ombrello un agente
sull’avambraccio. Eppure non ci sono agenti refertati. Si vede solamente che lui
agita un ombrello, per quarantanove secondi, verso il contingente di polizia, e
poi scappa, senza colpire nessuno. Altra anomalia resta l’aggravante del numero
di persone. Gli agenti sostengono che Tarek si sia messo alla testa dei
manifestanti, dal video invece si nota come un piccolo contingente di poliziotti
si stacca andando verso il ragazzo tunisino, e nel momento in cui prenderebbe a
ombrellate gli agenti, lui si trova da solo. Questo dimostra che Tarek ha fatto
tutto da solo. E il fatto che lo stesso giorno nella piazza ci siano stati
disordini, non significa che puoi unire gli episodi. Per me non c’è resistenza
perché nessuna delle condotte ha impedito nulla. Ma a ogni modo, pure che fosse
resistenza aggravata, che va dai tre ai quindici anni, non puoi partire dai
sette anni. Se immaginiamo il massimo della gravità, che può arrivare a un
massimo di quindici anni, chi agita un ombrello non può rischiare sette anni,
cioè la metà. Tanto più se la condotta è durata solamente un minuto e cinquanta
secondi.
Pensi ci sia un nesso tra la condanna di Tarek e il nuovo ddl sicurezza?
Sì, il suo caso è un’anticipazione di quello che è il Ddl sicurezza.
Introduzione di nuovi reati, aumento di pene. Reati che non sono certamente
delle novità. Nel nuovo ddl tuttavia c’è un salto di qualità: le norme sono
incentrate sulla punizione di quei soggetti che vivono nella marginalità
sociale. E contro coloro che questa marginalità sociale non l’accettano.
Soggetti che combaciano con il profilo di Tarek, un ex detenuto che in piazza ha
fatto un gesto estremo. Nel suo caso forse scimmiottante rispetto a un vero e
proprio conflitto. Il ddl è pieno di norme che vanno a sanzionare il dissenso. I
reati di opinione, con il nuovo pacchetto sicurezza, rientreranno nella cornice
del 4-bis: la condanna della pena deve essere espiata in carcere. A me è
capitato di seguire dei processi per reati di opinione. Uno per una rivista
anarchica, e un altro per delle canzoni trap, in cui c’è l’aggravante del
terrorismo. Una cosa impensabile alcuni anni fa. Oltretutto in questo pacchetto
sono previste aggravanti per la resistenza. Insomma, hai una pena aggravata se
commetti degli abusi contro un operatore delle forze dell’ordine. In più, nella
normativa, ci sono benefici per gli agenti: il pagamento delle spese legali, o
la possibilità di girare con un’altra arma oltre a quella di ordinanza, senza
bisogno di avere il porto d’armi. Adesso si sta parlando di approvare un’altra
legge che permetterebbe di non iscrivere più notizie di reato a carico degli
agenti di pubblica sicurezza.
Quali sono le condizioni di Tarek?
Alterna periodi in cui sta male, non parla molto, ha tanti pensieri, e non
riesce a dormire, ad altri in cui sta meglio, e sembra molto attivo e
dialogante. A fine maggio hanno organizzato una manifestazione davanti al Regina
Coeli, nel penitenziario dove si trova, ma non aveva capito che fosse per lui.
Ha detto che aveva sentito le grida da fuori, e quando gli ho riferito che era
per lui è rimasto molto sorpreso. Mi dice che lo spostano continuamente, ora lo
hanno messo in una sala ricreativa, adibita a cella, per assenza di spazio. È
apparso molto felice quando ha saputo che era apparsa una storia a fumetti su di
lui pubblicata da Internazionale. Non immaginava tutta questa solidarietà. Tarek
ha delle problematiche di salute che sono state evidenziate nel processo.
Problemi che sono stati ignorati. Ho chiesto una perizia ma non è stata
concessa. Non c’è stato nemmeno un confronto con la documentazione prodotta,
nessuna motivazione. Hanno semplicemente detto che non c’erano motivi validi per
indagare sui disturbi di Tarek. Perché un conto è la condotta di una persona che
sta bene, un altro è quella di un soggetto con dei problemi. Spesso è una scelta
di opportunità, altre volte dettata da altre ragioni, come evitare perdite di
tempo, in quanto approfondire le condizioni di un detenuto implica la nomina di
un perito. Molte persone che sono in carcere soffrono di questi problemi, ma dal
momento che dovrebbero metterli tutti fuori e non ci sono le strutture, ti
dicono che queste non sono malattie psichiatriche ma disturbi. Il carcere non
funziona, è una discarica sociale e se andiamo a vedere la popolazione
carceraria, la maggior parte dei detenuti sono poveri e immigrati. (giuseppe
mammana)
(disegno di cyop&kaf)
C’è qualcosa di stonato e grottesco nei toni trionfalistici con cui è stata
celebrata la riapertura dell’Istituto penale per i minorenni dell’Aquila.
Bisogna avere una concezione distorta di cosa possa costituire una “giornata di
gioia”, per usare le parole del sottosegretario Delmastro, presente
all’inaugurazione, per festeggiare la riapertura di un carcere in questi
termini, tanto più se destinato a minori.
Non si trattava di locali abbandonati o inutilizzati, come si è voluto far
credere, ma di un presidio pubblico pienamente attivo. Infatti, fino a poco
tempo fa, i locali di Acquasanta ospitavano i corsi di economia dell’Università
dell’Aquila, con una mensa utilizzata anche dagli studenti del vicino
conservatorio.
Nel suo intervento, Delmastro ha parlato della chiusura di una “pagina nefasta”,
riferendosi alla decisione dell’allora ministro Orlando di chiudere l’Ipm. Una
decisione definita “sciagurata, improvvida”, ma che in realtà permise alla
struttura di diventare una sede universitaria in un momento in cui la città
tentava ancora di rialzarsi dalle proprie macerie, restituendo così alla
collettività uno spazio pubblico e formativo.
Fu proprio quella scelta a consentire, nel 2014, l’assegnazione definitiva della
struttura all’ateneo, che nel frattempo aveva investito per adeguarla alle
esigenze didattiche. Nel maggio 2023, però, Delmastro ha rivendicato la
proprietà dell’edificio per restituirla a quella che ha definito la sua
“funzione originaria” di istituto penale. A gennaio 2025 i docenti sono stati
costretti a sgomberare e da marzo i lavori di riconversione sono proseguiti a
ritmo serrato. Una rapidità di esecuzione che raramente vediamo sui nostri
territori e quasi mai trova riscontro nel potenziamento dei servizi pubblici
essenziali.
Sempre durante l’inaugurazione si è definita “impropria” la destinazione
universitaria, per poi celebrare come vittoria la riconversione alla detenzione
degli spazi, presentando l’Ipm addirittura come un’opportunità per il
territorio, nonché come il riscatto di “uno scippo subito dalla città” (parole
del sindaco dell’Aquila Pierluigi Biondi). Un pericoloso rovesciamento
ideologico che occulta il fatto che proprio il carcere dovrebbe essere il
massimo fallimento di una società e delle sue istituzioni.
Questo rovesciamento di senso si inserisce nel solco tracciato dalla cosiddetta
“rinascita” dell’Aquila, immaginata dalla giunta Biondi e non solo. Una
rinascita che passa per una società ossessionata dal controllo, convinta che la
repressione, e non la presa in cura della popolazione che vive sul territorio,
possa colmare i vuoti lasciati dallo smantellamento delle politiche sociali. Nel
frattempo, dissenso e malcontento vengono neutralizzati, anche qui in linea con
le politiche promosse dal governo nazionale.
L’impianto ideologico che ha generato la riapertura dell’Ipm, d’altronde, è in
piena continuità con le tendenze nazionali. Quelle imposte, per esempio, con il
Decreto Caivano (non a caso più volte evocato durante l’inaugurazione), oggi
assunto a modello per il trattamento del “disagio giovanile”, riducendo il tema
a mera questione di ordine pubblico. Un decreto che ignora le cause sociali,
economiche, culturali dei problemi e che non ha mai voluto affrontarne la
complessità, alimentando piuttosto una narrazione emergenziale permanente, utile
a giustificare misure eccezionali, ridurre l’uso di misure alternative,
estendere la detenzione amministrativa, arrivando a colpire pesantemente minori
in età scolare.
Tra le giustificazioni offerte per la riapertura del carcere minorile si è
parlato, com’era prevedibile, anche di sovraffollamento. Basta leggere i dati
dell’associazione Antigone per scoprire che l’applicazione del Decreto Caivano è
tra le principali cause dell’aumento della popolazione carceraria minorile.
Tutto questo, ovviamente, viene sottaciuto e avvolto nella ripetizione ossessiva
di slogan del tipo “lo Stato torna presente sul territorio”, le stesse parole
pronunciate da Giorgia Meloni a Caivano e rilanciate da Delmastro davanti al
nastro tricolore del nuovo istituto penale.
È curioso come lo Stato torni a essere presente con prontezza solo quando deve
mostrare i muscoli e dispiegare i propri dispositivi di violenza. Molto meno
solerte quando si tratta di ricostruire le scuole della città, ancora in attesa
della piena riconsegna; o di affrontare il debito strutturale che strangola la
sanità abruzzese (era presente anche il presidente della Regione, il romano
Marco Marsilio) ridotta a sopravvivere a tentoni, tra continui tagli; o di
garantire consultori, sportelli territoriali, spazi pubblici essenziali che
invece continuano a chiudere, in particolare quelli rivolti alle donne e ai
soggetti più fragili.
Questa impalcatura repressiva ha bisogno di una legittimazione simbolica, e l’ha
trovata in un concetto tanto potente quanto di recente strumentalizzato: il
diritto all’affettività. Durante l’inaugurazione si è molto insistito sulla
possibilità, per i minori che sono detenuti nel “nuovo istituto” (potrà
accoglierne fino a ventotto), di scontare la pena senza essere allontanati dal
proprio contesto territoriale. Un diritto fondamentale che dovrebbe essere
sempre garantito, ma che, nella realtà concreta del carcere e considerando le
condizioni materiali che la detenzione impone (dall’abuso sistematico di
psicofarmaci ai numerosi atti di autolesionismo, fino al progressivo
annientamento emotivo e relazionale), finisce per ridursi a un’etichetta di
comodo, appiccicata per coprire un’operazione afflittiva continuativa che poco
ha a che vedere con la fruizione occasionale dell’“affettività”.
La retorica della “prossimità” è un inganno più o meno consapevole, e
l’ipocrisia diventa lampante anche nelle parole della garante Monia Scalera, che
recita il mantra del carcere come “estrema ratio”, mentre il ministro Nordio
annuncia con una lettera l’apertura di altri due istituti minorili entro
dicembre, entrambi all’Aquila. Vale la pena ricordare che la stessa Scalera,
pochi mesi fa, ha pubblicamente negato l’esistenza del sovraffollamento a
Castrogno, Teramo, uno degli istituti più in affanno d’Italia da questo punto di
vista; un luogo attraversato da numerosi suicidi e atti di autolesionismo, tanto
che è lecito domandarsi quale tipo di garanzia possa offrire una figura
istituzionale che normalizza pubblicamente simili realtà.
Tutto questo rientra in un disegno preciso. Il carcere minorile è il tassello
più inquietante di un’architettura repressiva fondata sull’idea che lo Stato non
solo possa, ma debba esercitare violenza: una violenza preventiva che ora
vorrebbe essere anche pedagogica, che si erge a strumento ordinario per tappare
le falle che esso stesso ha prodotto e continua a produrre. (francesca di
egidio)
(disegno di cyop&kaf)
Un’altra bomboletta. Un altro corpo.
Non c’era più ossigeno in cella, ma ce n’era abbastanza
per bruciare un’altra vita nel silenzio dell’indifferenza.
La libertà non è sempre oltre il muro,
a volte è nascosta dietro una valvola, dentro una boccata.
Il giudice sfoglia il codice penale, il ministro pronuncia slogan in conferenza
stampa, ognuno ha la sua parte nel teatro della legalità. La pena ha la sua
cornice, la colpa la sua misura, l’espiazione il suo recinto. Ma appena cala il
sipario pochi metri di cemento, un bagno alla turca, un tavolino inchiodato al
pavimento, spazi inospitali, finestre sbarrate e ambienti privi di aerazione. In
questo spazio claustrofobico, privo di aria e di orizzonti, un uomo inala gas da
campeggio per non sentire più il peso della sua esistenza.
Quel gas arriva da una bomboletta acquistata tramite il “sopravvitto”, l’elenco
dei prodotti ufficialmente disponibili in carcere. È lo stesso articolo che si
trova accanto ai fornelli da picnic nei supermercati. Sull’etichetta una
raccomandazione chiara: “Usare solo in ambienti ben ventilati” (la cella è un
bozzolo di tre metri per quattro con la finestra “sigillata”). Si censura una
lettera, si vieta un accendino, ma il butano industriale è autorizzato. La
bomboletta è legale, viene richiesta col modello 72, un modulo con cui ogni
detenuto può acquistare, a proprie spese, prodotti extra rispetto alla dotazione
di base fornita dallo Stato. È un foglio semplice, da compilare a penna, con il
numero di matricola, i codici degli articoli richiesti, la quantità desiderata e
la firma. Una volta ordinata, la bomboletta viene custodita in armadietti chiusi
a chiave, sotto il controllo degli agenti. Quando finisce, si restituisce e se
ne prende un’altra. Tutto tracciato.
Eppure “tirarsi il gas”, inalare il butano per evadere non fisicamente ma
mentalmente, è una pratica che tutti conoscono ma nessuno affronta, perché
cambiare la sceneggiatura significherebbe ammettere che c’è un problema.
L’effetto? Un blackout chimico: euforia, vertigini, battito irregolare, labbra
anestetizzate, cervello in tilt. Per qualche minuto non c’è più il muro, la
cella, la pena. Solo un vuoto ovattato dove la coscienza galleggia o affonda.
Per alcuni è tregua, per altri fuga, per altri ancora un addio. Nessuno lo
chiama con il suo nome di “evasione tossica” ma dentro c’è chi cerca pace, chi
l’oblio, chi non vuole più tornare da quel viaggio. Se non si può evadere con il
corpo, ci si dissolve con la chimica, e se non torni non è quasi mai suicidio,
ma un “evento imprevedibile”.
Tutto questo avviene nel pieno rispetto delle norme. Il modello 72 continua a
offrire bombolette. Basterebbe poco per cambiare: una circolare, una revisione
del catalogo, una scelta più sensata. Le piastre elettriche? Troppo costose,
troppo complicato adeguare gli impianti, dicono. Si potrebbe optare per altre
bombole e fornelli, con dispositivi atti a limitarne l’uso improprio. Ma nemmeno
questo si fa. Costa sicuramente meno lasciare tutto com’è, e anche le ditte che
gestiscono il sopravvitto hanno il loro tornaconto. Offrire soluzioni più sicure
significherebbe investire in alternative meno redditizie. E poi aumentano i
prezzi, i detenuti protestano, non per capriccio, ma perché molti non hanno
soldi, non ricevono pacchi, non fanno colloqui, non hanno familiari su cui
contare. In carcere anche pochi centesimi fanno la differenza. E allora, per
evitare il problema, si sceglie di non cambiare nulla. Del resto, già la carta
igienica, lì dentro, sembra un bene di lusso: la paghi come seta, ma gratta come
carta vetrata. Così, la bomboletta resta l’unica opzione disponibile, utile per
cucinare o per staccare la spina, a seconda dell’umore.
E gli psichiatri? Parlano, ma nessuno li ascolta. Già nel 2019, la Rivista di
Psichiatria denunciava l’inadeguatezza dello Stato nel contrastare l’abuso di
bombolette in carcere, spesso legato ad atti autolesivi o suicidi. Le morti per
inalazione non vengono sempre classificate come suicidi: restano escluse dalle
statistiche ufficiali, senza indagini né responsabilità attribuite. Questa
contraddizione è grave e preoccupante. Secondo la medicina legale, l’inalazione
volontaria di gas con esito fatale è a tutti gli effetti un suicidio, rientrando
nella categoria delle asfissie chimiche volontarie. In questi casi, il
protocollo medico-legale prevede accertamenti rigorosi: autopsia completa,
analisi tossicologiche, ricostruzione della dinamica e valutazione del contesto
psicologico. In carcere tutto questo dovrebbe essere obbligatorio, poiché la
privazione della libertà impone allo Stato una responsabilità sulla vita e
sull’incolumità del detenuto. Tuttavia, l’amministrazione penitenziaria adotta
un approccio incerto: se manca una prova esplicita dell’intento suicidario, il
decesso viene spesso classificato come “evento accidentale” o “causa da
accertare”. Lo stesso gesto, inalare gas con un sacchetto di nylon, può essere
interpretato come uso improprio per alterare lo stato di coscienza e non
necessariamente come suicidio. Questo porta a sottovalutare il gesto, a non
attivare protocolli di prevenzione e a ignorare il contesto psichiatrico.
Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale,
nella sua relazione del 15 dicembre 2024, ha evidenziato come diversi decessi in
carcere per inalazione di gas siano stati classificati come “cause da accertare”
proprio per questa ambiguità interpretativa. Il risultato è che alcune morti
restano fuori dal conteggio ufficiale, rendendo più opaca l’analisi del
fenomeno. Ma sebbene la morte per inalazione sia formalmente un suicidio, la
responsabilità non può ricadere esclusivamente sul detenuto. Lo Stato, fornendo
nelle celle bombole di gas butano (prodotto potenzialmente letale) e non
adottando protocolli sanitari e di prevenzione adeguati, contribuisce a creare
le condizioni che favoriscono queste tragedie. Inoltre il suicidio in carcere
non è mai un atto isolato o imprevedibile, ma spesso il risultato di un sistema
che non interviene efficacemente. Gli esperti lo dicono con chiarezza: non basta
autorizzare un prodotto, quando potenzialmente letale. Serve una valutazione
clinica costante, multidisciplinare, attenta al percorso psichico della persona,
non solo momentaneo. Serve sapere chi lo richiede, perché e in che condizione
psicologica. Serve uno sguardo clinico. Ma manca.
La storia di Fabio Romagnoli lo dimostra. Aveva già tentato varie volte il
suicidio. Era affetto da disturbi psichiatrici documentati. La sua fragilità era
nota. Gli fu tolta la bomboletta, poi riconsegnata dopo una valutazione che non
ha saputo o potuto cogliere il disegno più ampio. Così il suo gesto, per il
sistema “imprevedibile”, si è compiuto: eppure lo Stato distribuisce gas butano
in celle prive di ventilazione, senza protocolli sanitari adeguati, con medici
insufficienti. Vietato negli ospedali, sconsigliato nelle case, il butano
diventa compatibile con l’ambiente carcerario. Gesto imprevedibile, dicono.
In questo contesto la salute mentale è secondaria e la dignità uno slogan. Dopo
ogni tragedia si invocano ispezioni, si esprimono cordogli, poi si archivia
tutto e si continua a morire in silenzio: per un colpo di gas, un cappio
improvvisato, una psicosi lasciata marcire, un abbandono medico travestito da
fatalità. Tutti vedono ma nessuno ascolta, al massimo si verbalizza. Eppure in
Italia si può morire così, inalando gas in un luogo dove già respirare è
difficile, un prodotto pensato per l’escursionismo e divenuto parte dell’arredo
carcerario, un veicolo di fuga, non verso un prato o una montagna, ma verso
l’oblio. Una fragranza sintetica che non sa di libertà, ma la imita, come un
profumo contraffatto. Perché anche l’aria dietro le sbarre può avere il sapore
della burocrazia. (luna casarotti – yairaiha ets)