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Arte contro ergastolo e pena di morte, domani all’ex Opg di Napoli
(quadro di fernando eros caro dal braccio della morte, san quentin) Avrà luogo a Napoli, sabato 2 novembre, dopo le prime due svoltesi a Roma, la terza edizione di Arte contro le pene capitali, una manifestazione organizzata da Monitor, Sensibili alle foglie e dal gruppo carcere dell’ex Opg – Je so’ pazzo.  In Italia la pena di morte è stata abolita con il nuovo codice penale militare di guerra nel 1994 e in Costituzione solo nel 2007. Nel codice penale vi è tuttavia ancora la pena dell’ergastolo, che non costituisce un’alternativa alla pena di morte, in quanto essa stessa è una pena fino alla morte. Nei paesi in cui è in vigore, inoltre, la stessa pena di morte non è più lo spettacolo patibolare di un tempo ma una esecuzione durevole nel tempo, che si può protrarre anche per molti anni prima dell’azione del boia. Pena di morte ed ergastolo sono quindi due istituti che inducono l’agonia nelle persone che vi vengono condannate, decretandone la morte a ogni prospettiva sociale e un lento “vivere morendo”. Nel corso dei mesi passati, il gruppo organizzatore della manifestazione ha diffuso una call invitando artisti a sollecitare la propria vena creativa intorno al tema dell’ergastolo e della pena di morte.  Questo è il programma delle esibizioni live: ore 15.30 – Apertura in piazza a Materdei con la Banda Basaglia ore 17.00 – Michele Fragna, poesie ore 17.30 – Arrevuoto Teatro e Pedagogia e Chi rom e chi no, L’ultimo giorno di un condannato a morte ore 18.00 – Stefania Musto, Firfaust ore 18.30 – Teatro Popolare e Collettivo delle arti, Fine bianca ore 19.00 – Antonio Raia, Come se ore 20.00 – Gruppo popolare Terra e lavoro, Le pene del capitale ore 21.00 – India Santella, Da qui il mare non si vede ore 21.30 – Dolores Melodia, Canzoni e musiche sul carcere ore 22.00 – Dem Pasan, Danza contro la pena di morte ore 22.15 – Caterina Bianco e Nicola Valentino, Mc Pherson lament ore 23.00 – Frente Murguero Campano, Danze e musiche tradizionali per i condannati a morte Dalle 16 fino a mezzanotte saranno inoltre visibili in mostra le opere degli artisti che hanno contribuito e che trovate qui in locandina. A seguire potete leggere alcuni estratti dal libro collettivo Morire di pena. Per l’abolizione di ergastolo e 41-bis, in cui si riflette sulla presenza nel codice del nostro paese dell’ergastolo come pena di morte mascherata. *     *     * Al contrario della vulgata corrente, l’ergastolo in Italia esiste eccome: la differenza numerica tra i detenuti che una volta condannati all’ergastolo ci rimangono fino alla morte e quelli che ottengono i benefici per uscirne è incommensurabile (sulla base di questo dato il gruppo di Morire di pena rifiuta la differenziazione tra ergastolo ostativo e non ostativo, rivendicando l’eliminazione dell’istituto in toto e il diritto, per qualsiasi essere umano, di poter conoscere, al momento della propria condanna, il momento in cui potrà essere liberato). Dai primi anni Novanta (il cosiddetto “periodo stragista”) a oggi, gli ergastoli sono più che quadruplicati. Al 31 dicembre 1992 erano 408, mentre allo stato attuale i detenuti condannati all’ergastolo sono 1864, due terzi dei quali ostativi. Eppure, per esempio, il numero degli omicidi nel paese è letteralmente crollato: negli anni Novanta si sfiorava quota duemila l’anno, mentre oggi siamo a meno di trecento. Anche solo questi dati, nudi e crudi, dovrebbero indurre a riflettere.  L’articolo 4-bis viene introdotto nell’ordinamento penitenziario tra il 1991 e il 1992. La disciplina, assai discussa negli anni in termini di incostituzionalità, ha come caratteristica una differenziazione del trattamento penitenziario dei condannati per reati legati alla criminalità organizzata o per altri gravi delitti: subordina, infatti, l’accesso ai benefici previsti dalla legge a una condizione: l’avvenuta collaborazione con la giustizia. Ne risulta che un ergastolo “ostativo” – applicato automaticamente in caso di condanna all’ergastolo per uno dei reati di cui sopra – conduce il detenuto fino alla morte in cella, perché gli impedisce di uscire di prigione anche dopo decenni di detenzione, a meno che questi non “decida” di collaborare con la giustizia. Se è vero, inoltre, che è l’“ostatività” a privare i detenuti condannati all’ergastolo della possibilità di accedere ai benefici penitenziari, è vero anche che pure per gli altri ergastolani, non soggetti a condanna ostativa, questa possibilità è estremamente residuale. Sono pochi gli ergastolani, in sostanza, che non restano in cella fino alla morte, e pertanto il tanto discusso tema dell’eliminazione eventuale dell’ostatività è solo una parte del problema, mentre la vera questione è l’eliminazione dell’ergastolo in toto (i numeri d’altronde ci dicono che tra il 2008 e il 2020 sono state concesse trentatré liberazioni condizionali, mentre centoundici persone soggette all’ergastolo sono morte in galera). Con la recente legge approvata dal parlamento, inoltre, le possibilità di ottenere una liberazione condizionale vengono ulteriormente ridotte: bisogna essere sopravvissuti a trent’anni di pena scontata (e non più a ventisei), senza contare che numerose altre condizioni rendono altamente improbabile la possibilità di affrancamento dalla pena. La più dura tra queste prescrive che il detenuto sia obbligato a fornire (dal carcere!) elementi che consentano di escludere l’attualità di collegamenti non solo con l’organizzazione ma anche con il contesto nel quale il reato è stato commesso (una interpretazione, quella del “contesto”, che può essere estesa per esempio a un qualsiasi rapporto di parentela, a una residenza in una stessa città o paese rispetto a membri o ex membri de ll’organizzazione, rendendo quindi l’attribuzione del beneficio ancora una volta estremamente difficile e discrezionale). Va ribadito, infine, che la previsione di una pena perpetua contrasta con la Carta costituzionale: se la pena deve tendere alla rieducazione, il fine pena mai è estraneo a questo principio (“rieducare” in vista di cosa?). Questa incompatibilità non può essere salvata, naturalmente, dal sofisma secondo cui l’ergastolo esiste in quanto tende a non esistere, cioè perché prevede la possibilità di non essere ergastolo, per effetto dell’ipotesi di concessione della liberazione condizionale (nel caso dell’ergastolo “non ostativo”). Nel 1981, con un referendum promosso dal partito Radicale più di sette milioni di italiani si espressero per l’abolizione del “fine pena mai”. Negli anni successivi il movimento “Liberarsi dalla necessità del carcere” nacque tra Parma e Trieste e crebbe rapidamente in tutta Italia, fondato sulla lucidità di operatori con grande sensibilità sociale, legati perlopiù al movimento per l’abolizione dei manicomi, ma anche sull’alleanza con battaglieri amministratori locali. Per citare epoche più recenti, infine, si può tornare al 1998 quando centosette senatori (contro cinquantuno contrari e otto astenuti) votarono a favore dell’abolizione dell’ergastolo partendo da un testo promosso dalla senatrice comunista Ersilia Salvato, prima che la legge si arenasse alla Camera e poi venisse per sempre archiviata con la caduta del governo Prodi, pochi mesi dopo.  Da quell’ultimo tentativo sono passati vent’anni, non cento. Abbiamo oggi, trasversalmente, una classe politica più rozza e opportunista, e il bombardamento mediatico che propone le prigioni come il più efficace strumento di gestione dell’ordine sociale e come anestetico alle paure della popolazione ha raggiunto i suoi scopi. Tuttavia – lo spiega bene Sergio Segio in un testo pubblicato qualche tempo fa sulla rivista Vita – anche nelle esperienze appena citate si poteva percepire l’esistenza di “un paese comunque più civile e avanzato dei suoi rappresentanti politici, in maggioranza schierati per la permanenza dell’ergastolo, tentennanti o silenti”. Allo stesso modo, dal basso, “dalla capacità di proporre riflessione, confronto, sensibilizzazione e iniziativa, sia all’interno delle carceri che della società libera”, partirono in quegli anni le spinte che poi sono state all’origine delle innovazioni più avanzate della riforma Gozzini (1986). Perché, allora, questo non può accadere oggi? La battaglia politica per l’abolizione dell’ergastolo e del 41-bis può essere portata avanti da ognuno di noi nelle forme e nelle modalità che gli sono più consone, mantenendo ferma all’orizzonte l’idea del necessario superamento della più antistorica delle nostre istituzioni: il carcere. Un obiettivo di civiltà e progresso, che oggi non può e non deve più essere considerato utopia.
November 1, 2024 / NapoliMONiTOR
Storie di palestinesi incarcerati in Italia e delle loro famiglie
(foto di -fm) Quella che state per leggere non è solo la storia dell’arresto e dell’ingiusta detenzione di tre uomini palestinesi. È una storia di donne, famiglie e bambini intrappolati in una rete che si stringe sempre più attorno e rischia costantemente di soffocarli. 10 MARZO Questa storia inizia, per me, sotto una pioggia incessante, a Terni, il 10 marzo. Mi trovo qui per raccontare di Anan, arrestato a L’Aquila una ventina di giorni fa a causa dei suoi trascorsi in Cisgiordania. Anan è un partigiano che stava ricostruendosi la vita in una terra di partigiani come l’Abruzzo. Nato e cresciuto a Tulkarem, in Cisgiordania, il destino di quest’uomo è legato fin dalla gioventù alla lotta per la libertà del suo popolo. Siamo negli anni della Seconda Intifada, inizio del nuovo millennio. I palestinesi insorgono contro l’occupazione israeliana, dopo anni di negoziati falliti e una crescente violenza che si diffonde nei Territori Occupati. È un’epoca di assalti, incursioni militari, barbarie, che segnerà profondamente un’intera generazione di palestinesi. Anan è parte della resistenza. Come molti altri viene arrestato, torturato, e conosce l’orrore delle carceri israeliane. Nel 2006 è vittima di un agguato delle forze speciali israeliane, un tentativo di esecuzione che avrebbe dovuto toglierlo di mezzo per sempre. Sopravvive, seppur segnato con i proiettili nel corpo e con cicatrici invisibili ancora più profonde. Nel 2013 Anan lascia la Palestina con la speranza di trovare un luogo sicuro in Europa. Prima in Norvegia, dove viene sottoposto a interventi per rimuovere i proiettili rimasti nel suo corpo, poi in Italia, dove nel 2019 ottiene lo status di rifugiato politico. Quella protezione avrebbe dovuto rappresentare una tregua, la fine di un incubo che durava da anni. Ma nel gennaio di quest’anno, mentre cerca di costruirsi una vita normale a L’Aquila, arriva un nuovo colpo: l’arresto e una richiesta di estradizione da parte di Israele, che lo accusa di terrorismo. In realtà la sua figura rappresenta un altro tipo di pericolo: è un uomo che ha resistito, un simbolo della lotta per la libertà palestinese. L’Italia si trova di fronte a una scelta: rispettare le direttive del diritto internazionale, che protegge i rifugiati, o cedere alla pressione di Israele, che lo rivuole indietro. Lo status di rifugiato politico dovrebbe essere una protezione solida, una barriera contro l’arbitrio e l’ingiustizia, ma per Anan questa protezione inizia a vacillare. Se la giustizia italiana accetta di vederlo come un terrorista, per lui non ci sarà scampo. Sarà estradato e dovrà affrontare un processo in un tribunale militare israeliano, dove la parola “giustizia” non ha alcun significato. Appena arrestato, Anan viene condotto con una misura cautelare nel carcere di sorveglianza d’alta sicurezza a Terni. È da lì che, a febbraio, riceviamo una sua lettera: “Grazie per tutto quello che state facendo per me e per la Palestina, voi siete la nostra voce e siete parte della nostra lotta. Nonostante noi siamo sotto attacco siamo liberi, come voi che lottate per la libertà”. A Terni c’è un tempo da lupi. Piove a secchiate. Lo striscione che qualcuno ha appeso a una rete viene subito strappato da una violenta folata di vento. Impossibile prendere appunti. Ogni volta che ci provo la pioggia mi inzuppa i fogli del quaderno. Resto a osservare e ad ascoltare, fuori dal carcere, tra una raffica di vento e un cielo che non sembra volerci dare tregua. Ci raduniamo intorno al camioncino per l’intervento telefonico dell’avvocato Flavio Rossi Albertini: «È sempre più chiara la matrice politica che sta dietro la richiesta di estradizione formulata da Israele, che cerca di intimidire, tacitare e recludere chi resiste all’occupazione coloniale della Palestina ma anche chi è solidale con la lotta per l’autodeterminazione che il popolo palestinese combatte da decenni». Cori si levano chiedendo Anan libero, Palestina libera. Dal carcere rispondono voci solidali. Qualcuno ha recuperato lo striscione strappato dal vento. Ora posso finalmente leggere cosa c’è scritto: “La resistenza non è un reato, il genocidio sì. Anan Yaeesh libero, Palestina libera”. 12 MARZO, CORTE D’APPELLO Sempre a marzo la Corte d’appello di L’Aquila rigetta la richiesta di estradizione di Anan: il rischio di torture nelle carceri israeliane è troppo alto. Per lui, che ha già subito violenze e abusi, sarebbe ripiombare nello stesso inferno da cui è scappato. Questa vittoria giudiziaria non è però risolutiva. Il giorno prima della sentenza c’è un nuovo colpo di scena: nuove accuse, nuovi arresti. Questa volta vengono coinvolti anche due suoi amici e connazionali, Alì Irar e Mansour Doghmosh. L’accusa è quella di “promozione, costituzione, organizzazione o finanziamento di associazioni terroristiche tese all’eversione dell’ordine democratico in uno stato estero”, ovvero quella di far parte di una presunta cellula terroristica che pianifica atti terroristici in Cisgiordania contro Israele, in collaborazione con le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. Ali Irar viene prelevato e trasferito nel carcere di alta sicurezza di Ferrara, mentre Mansour Dogmosh subisce una sorte ancor più dura, spedito nel carcere di Rossano Calabro, istituto di massima sicurezza noto come la “Guantanamo italiana”. Un luogo distante dalla propria nuova casa, ai margini estremi del paese, lontano da tutto e da tutti. Il tempismo delle nuove accuse lascia spazio a molte domande. Non si può fare a meno di notare la coincidenza tra il rigetto della richiesta di estradizione e questo nuovo arresto. Ci si chiede se queste accuse non siano un tentativo di destabilizzare la sua posizione di rifugiato politico. La protezione concessa a chi fugge da un contesto di guerra e repressione, infatti, può essere revocata solo in casi specifici, come quelli legati al terrorismo. Le prove, d’altronde, appaiono deboli e vaghe, insufficienti a giustificare un’accusa così pesante. Viene da chiedersi, ancora una volta, se la giustizia si stia muovendo su un piano legale o politico. Nel frattempo, comunque, le piazze italiane cominciano a riempirsi di manifestanti, attraversate da cortei a sostegno della Palestina. “From the River to the Sea, Palestine Will Be Free” è lo slogan che più risuona nelle strade, che ribollono di energia e rabbia. Da aprile la protesta sale ancora di intensità, e sotto le sedi della Rai migliaia di manifestanti si riuniscono per contestare la narrazione della televisione pubblica totalmente sbilanciata a favore di Israele. Ciò che si chiede è una copertura più equa e veritiera, che dia spazio alle voci della resistenza palestinese e denunci il genocidio in corso, un dramma che non trova alcun riscontro nella vulgata ufficiale. A Roma, davanti alla Farnesina, gli studenti si riuniscono chiedendo un incontro con il ministro Tajani per discutere della complicità italiana nell’oppressione del popolo palestinese, ma vengono lasciati sotto il sole e ignorati. A Napoli, durante il concerto per il settantacinquesimo compleanno della Nato al teatro San Carlo, i manifestanti mobilitatosi per denunciare la connivenza tra l’alleanza atlantica e il supporto militare a Israele vengono manganellati e identificati dalla polizia. La rabbia e la determinazione si riversano anche nei rettorati occupati delle università italiane. Napoli, Roma, Torino, Bologna diventano i centri nevralgici della mobilitazione. Studenti, ricercatori e docenti si uniscono per chiedere che le istituzioni accademiche italiane interrompano i rapporti con le università israeliane, contribuendo alla discussa modalità di ricerca che si articola sul binario del dual-use (ogni tecnologia o innovazione può avere una funzione tanto civile quanto militare). In particolare, gli studenti denunciano la collaborazione dei propri atenei con aziende come la Leonardo, che grazie ai finanziamenti universitari sviluppa tecnologie utilizzate dall’esercito israeliano nell’occupazione prima e nella distruzione poi dei territori palestinesi. La vicenda di Anan, Alì e Mansour diventa parte integrante di questa lotta. I loro nomi compaiono nella narrazione, vengono scanditi nei cortei. La loro battaglia si intreccia con quella contro la complicità italiana nel finanziare l’industria bellica israeliana. Sono ormai simboli di resistenza, non solo contro l’occupazione israeliana, ma contro un sistema che criminalizza chiunque difenda la libertà, in Palestina come in Italia. 9 MAGGIO, LETTERA DI ANAN A LUIGIA Cara amica, dovrei spiegarti una cosa. Oggi sono in un carcere italiano perché vogliono mostrare a Israele che gli italiani sono con loro, con Israele, quindi quello che succede non è normale. Nel 2005, quando ero bambino, sono stato arrestato in un carcere americano e inglese perché ero nelle Brigate di Al-Aqsa. Israele ha provato a uccidermi quattro volte per questo motivo. Per la stessa ragione sono stato arrestato nel 2006 e mi hanno cacciato dalla Palestina nel 2013. Per la stessa ragione Israele ha fatto la stessa richiesta in Norvegia nel 2015 e per lo stesso motivo sono venuto in Italia, ho chiesto rifugio e l’ho ottenuto […]. Sono stato arrestato in Giordania l’anno scorso per lo stesso motivo e ora l’Italia mi ha arrestato per gli stessi motivi. Quindi niente di nuovo, ma è qualcosa di politico, solo per dimostrare che Israele mi segue da molto tempo non solo adesso, e lo so, sono sicuro, che se sarò libero o se rimarrò qualche anno e dopo sarò libero, Israele non si arrenderà mai e non mi lascerà mai, non si fermeranno prima di uccidermi. E questo è il loro messaggio per me, ma sicuramente non ne parleranno in tv o in pubblico. La polizia italiana lo sa, sono sicuri al cento per cento che Ali e Mansour sono solo miei amici. Non fanno niente e non sapevano niente, ma li hanno arrestati solo per dire che la polizia ha arrestato un gruppo di terroristi, non solo Anan, che lo vuole Israele. La mia vita non è segreta, la gente non mi conosce, ma tutta la polizia di tutti i paesi mi conosce molto bene, è solo un gioco politico. Ma, come ho detto prima, non mi arrenderò mai finché non avremo la nostra libertà per la Palestina e i palestinesi, perché la mia vita e tutto quello che ho è per la Palestina, perché la Palestina merita sempre di più. Grazie mia cara, e grazie a tutti quelli che ci sostengono. Flavio mi ha detto che il 30 aprile c’è stato un gruppo di persone che si sono presentate in tribunale a sostenermi, e come sicuramente sai Israele ha respinto la richiesta, ma è solo un gioco tra di loro. Ora il mio tribunale sarà pubblico, non come prima. Quindi chiunque potrà entrare e guardare. Quindi mi piacerebbe vedervi lì. Certo, sarò nella telecamera ma posso vedere tutto. Grazie a tutti per il vostro potere e le vostre parole positive; è vero che noi non saremo mai terroristi, perché la resistenza è un atto di amore, e io, che amo la vita più di chiunque altro, preferirei morire per ottenere la libertà del mio popolo, per vedere tutti i bambini in Palestina andare a scuola senza paura, per vedere tutte le ragazze andare per strada senza paura, quindi amo la mia vita, ho molti sogni come tutti in questa vita, ho molti sentimenti nel mio cuore, amo vivere in pace e farmi una famiglia, ma la Palestina è la cosa più importante prima di ogni cosa e prima della mia vita. Cara amica ancora una volta grazie per ogni cosa e spero di poter fare te e tutti quelli che sono con te, felici un giorno con tutti i miei auguri e un grande abbraccio, vostro amico Anan Yaeesh, Palestina per la Palestina! FINE MAGGIO, STORIA DI MAYS La notizia mi giunge durante un’assemblea del collettivo di cui faccio parte: Mansour, uno dei tre palestinesi arrestati, ha una moglie, Mays, da poco inserita nel sistema d’accoglienza di Teramo, la mia città. Rimasta sola con tre bambini piccoli, Mays non ha soltanto bisogno di aiuto economico, ma di un sostegno umano. La vicenda, da politica, si trasforma in qualcosa di personale. Non si tratta più soltanto di sostenere tre uomini ingiustamente detenuti. Dobbiamo assicurarci che una donna giovane e i suoi figli non vengano travolti da una vicenda che minaccia di stritolarli. Il nostro primo incontro avviene in una giornata qualsiasi. Mi offro di accompagnarla a fare la spesa in auto, sperando che quel gesto di quotidiana semplicità possa rompere il ghiaccio fra noi. La prima immagine che ho di lei è riflessa nello specchietto retrovisore della macchina: una giovane donna dagli occhi grandi e marroni, bellissima, dignitosa, con un’espressione che tradisce più smarrimento di quanto le sue poche parole possano esprimere. Le nostre vite si incrociano così. Qualche settimana dopo ci ritroviamo intorno a un piccolo tavolo di legno. Ci sono le donne della comunità islamica, arrivate per offrirci il loro aiuto con la traduzione; accanto a loro, compagne giunte da diverse parti d’Italia, ognuna con la propria storia cucita addosso, la propria grande esperienza e determinazione. Donne di terre, religioni e culture diverse, unite dalla solidarietà. L’appartamento, sopra i magazzini di un centro commerciale, diventa il “nostro” spazio e piccolo rifugio; dal terrazzo la vista si apre su un maestoso Gran Sasso, la sua cima nascosta da una lattiginosa foschia è lì, immobile e imponente. Ci osserva silenzioso, testimone di una storia che non appartiene solo a noi. I figli di Mays si muovono come spiritelli e schizzano da una stanza all’altra della casa, rincorsi dalle loro stesse risate, inconsapevoli dei discorsi che si fanno sopra le loro teste. Le loro esplosioni di vita si intrecciano nelle nostre conversazioni, rendendole elettriche e spezzandone il ritmo. Ogni tanto si arrampicano sul davanzale come piccoli gatti, saltando dentro la stanza per guardarci con occhi curiosi e pieni di eccitazione. Per loro, tutte quelle donne così diverse, lì unite, sono una novità affascinante. Parliamo di come organizzarci, di cosa fare per aiutare Mansour: la raccolta di denaro, i colloqui con gli avvocati, la possibilità di viaggiare verso Rossano Calabro per fargli incontrare la sua famiglia. L’idea diventa necessità quando Mays ci racconta del suo bisogno di vedere Mansour, che negli ultimi colloqui aveva mostrato una crescente sofferenza. Eppure, intorno a noi c’è una specie di serenità. L’aroma del caffè e della torta si mescola ai sorrisi. L’insicurezza con cui eravamo entrate sembrava dissolversi, lasciando spazio a una sottile speranza. Anche Mays sorride spesso, ma nei suoi occhi si legge soprattutto il bisogno di non essere lasciata sola, di aggrapparsi a quella rete di supporto che stavamo cercando di costruire. Quando ci alziamo per andar via, vedo i suoi occhi riempirsi di lacrime. Eravamo state un’ondata di energia e speranza che le aveva riempito la casa, un sollievo dopo mesi di solitudine. Quell’onda, però, con la risacca, si stava ritirando. Chissà se sarebbe tornata, se non fosse stata solo un’altra vaga promessa fra tante. Dal canto nostro, giorno dopo giorno, abbiamo invece provato ad aggiungere un filo sottile a quella fragile tela fatta di gesti, sguardi e parole spezzate. Una tela che è rimasta in bilico, minacciata dal peso dell’attesa. Ogni volta che sembravamo avvicinarci a una svolta, la trama si complicava e si disfaceva, lasciandoci sotto l’ombra di Penelope, costrette a ricominciare daccapo. 20 LUGLIO, CORTE DI CASSAZIONE Prima di affrontare il viaggio verso Rossano Calabro, decidiamo di fare una prova, una prima trasferta con Mays e i bambini. 20 luglio, Roma, udienza in Cassazione per Mansour e Alì. Un’occasione per vedere come Mays e i piccoli avrebbero affrontato un viaggio impegnativo. In un certo senso, una prova di resistenza, per loro e per noi tutte. La capitale, quel giorno, brucia sotto un sole implacabile. L’asfalto sembra sciogliersi sotto i nostri piedi mentre ci muoviamo a passo lento verso piazza Cavour. Le palme della piazza offrono un’ombra esile, quasi ridicola rispetto alla distesa di calore che ci circonda. Al nostro arrivo, davanti la Corte c’è già un presidio di manifestanti. Molti sono attivisti per la Palestina, con bandiere e striscioni che chiedono libertà per Anan, Mansour, e Ali. La mattina sembra scivolare via lentamente, e con essa la speranza di una risposta rapida, come spesso accade con i procedimenti legali. Mays rilascia un’intervista ai giornalisti. La sua voce è ferma, determinata, anche se l’emozione si percepisce. «Mansour sta cercando di resistere, non solo per sé, ma anche per i nostri figli». Parla con lucidità, ribadendo il diritto alla libertà, alla dignità, chiedendo giustizia. «Siamo scappati dall’oppressione – dice – non vogliamo ritrovarci davanti a una nuova forma di oppressione in Italia». Verso metà giornata, le porte del tribunale si aprirono e compaiono gli avvocati della difesa. Per Anan non ci sono buone notizie: la Corte conferma le misure cautelari, questo significa che rimarrà in carcere fino alla fine del processo. Per Mansour e Ali, invece, si riaccende la luce di una piccola speranza: la Cassazione annulla con rinvio la decisione del tribunale di L’Aquila, e impone che il loro caso venga riesaminato. Non è una vittoria, ma almeno un passo avanti. Nel frattempo la vita continua. Ogni colloquio in videochiamata tra Mays e Mansour è un calvario, lui continua a ripetere di non riuscire più a resistere. Le notizie di suicidi in carcere sono all’ordine del giorno. Ogni mattina sembra che una nuova vita venga inghiottita da quel sistema opprimente. Una mattina, l’ennesima tra queste morti mi spinge a prendere il telefono. Quando Elena mi risponde sembriamo leggerci nel pensiero: “E se succede anche a lui? Se non riesce a reggere?”. La decisione sembra inevitabile: dobbiamo muoverci. Non importa se è l’estate più calda di sempre, se il viaggio sarà stato estenuante. Non possiamo permetterci di aspettare un altro giorno. 7 AGOSTO, VIAGGIO PER ROSSANO CALABRO Dopo settimane di impotenza, decidiamo di partire. Dobbiamo attraversare l’Italia prima da est a ovest, poi da nord a sud. Siamo serrati dentro l’abitacolo, il caldo fuori è inumano, una morsa ci schiaccia all’asfalto. I finestrini sono chiusi, l’aria condizionata al massimo. Non parliamo del luogo in cui stiamo andando, di quello che avremmo potuto trovare, anche perché tanto da dire non c’è. Ci concentriamo sui chilometri da percorrere, sul pieno da fare, il viaggio sembra interminabile. Mays è seduta di nuovo dietro di me, con i bambini sul sedile posteriore. Il suo sguardo è fisso fuori dal finestrino. Ciascuno di noi ha un’aspettativa per questo viaggio, ma lei? Cosa si aspetta? E cosa immaginano i bambini? Arriviamo di sera al b&b così da essere puntuali all’appuntamento delle otto del mattino seguente, anche se poi davanti al carcere siamo già dalle sette. L’aria è già calda e appiccicosa. La prigione è sorprendentemente vicina alle case, potresti quasi guardare dentro affacciandoti dal balcone di qualcuno. Da dove vengo io, invece, le carceri stanno lontane dal centro, isolate, nascoste.  Troviamo riparo sotto un piccolo gazebo di legno, tra la strada e i cancelli. In quel luogo ostile, progettato per separare, quel rifugio sembra quasi un gesto di umanità, anche se poi il carcere ci copre la vista del mare. I bambini, come sempre, sono pieni di energia. Corrono avanti e indietro, ridono e scherzano come se fossimo al parco in un normale giorno di vacanza estiva. Elena inventa giochi per loro – “un-due-tre-stella!” –, io sono concentrata a tenere sotto controllo la mia ansia. Più di tutto mi spaventava il momento in cui dovremmo lasciarli andare. Mi sento impotente: una volta che loro varcheranno il cancello, io ed Elena saremmo fuori, separate, senza possibilità di poterli aiutare in alcun modo. I bambini, poi, si troveranno davanti estranei indifferenti al loro destino, in un contesto anomalo, distante da ogni esperienza vissuta fino a questo momento. E poi Mays. Parla appena italiano, e dentro non ci sarà un interprete, né niente di simile. Mentre sono assorta una guardia si avvicina al cancello, interrompendo i miei pensieri e il gioco dei bambini. Khalil resta fermo nella sua posizione, si volta e pensando al gioco, o forse no, ci interroga: «Abbiamo perso tutti?». IL CPR La scarcerazione di Mansour viene accolta da un’esplosione di gioia: dopo mesi di sofferenza sembra aprirsi uno spiraglio. Una sensazione che però si trasforma subito perché un’ora dopo ci comunicano che fuori dal carcere ha trovato la polizia ad attenderlo. Lo hanno identificato e trasferito in un Cpr, un centro di permanenza per il rimpatrio. La scarcerazione, che avrebbe potuto rappresentare la fine di quell’incubo, è solo l’inizio di un nuovo capitolo. Naturalmente non ci dicono dove lo porteranno. Ciò che io posso fare è mettermi a raccogliere i documenti necessari a tirarlo fuori di lì, ripercorrendo tra le scartoffie burocratiche la vita di un uomo che ha attraversato più di un inferno (tempo dopo, Mansour, mi avrebbe detto che i tre giorni nel Cpr sono stati peggio di sei mesi in Alta sicurezza): “Motivi per cui ha lasciato il suo paese d’origine e possibili conseguenze di un eventuale rientro nel paese d’origine: dichiara che era impossibile vivere nel campo di Tulkarem perchè era sempre sotto il tiro delle forze israeliane ed era sempre bombardato. Da piccolo, a seguito di un bombardamento, ha riportato ferite”. Anche il viaggio di Mansour attraverso l’Europa, seguendo quella che conosciamo tristemente come “rotta balcanica”, si può ricostruire attraverso il freddo linguaggio dei documenti. Le immagini si sovrappongono nella mente: la fuga, la paura, la ricerca disperata di una vita migliore, e ora, dopo anni di battaglie, la prigione, in una terra che avrebbe dovuto offrirgli rifugio. Passo ore a studiare queste carte e a riflettere, finché il giorno dopo riesco a sapere la destinazione di Mansour: il Cpr di PonteGaleria, un luogo che non mi è sconosciuto, anzi, il suo nome emerge periodicamente nelle più insopportabili “brevi” di cronaca. Qualche mese fa, per esempio, un ragazzo di ventidue anni, Ousmane Sylla, si è tolto la vita tra quelle sbarre. La sua morte aveva scatenato una rivolta, rivelando brevemente al mondo esterno la disperazione che si respirava in quel luogo. RITORNO A CASA È notte, e mi trovo alla stazione dei bus. Uno di questi da Roma riporterà Mansour a casa. Le misure cautelari sono state annullate, ora ci sarà da attendere il processo. L’accusa di terrorismo è molto pesante. Alì e Mansour possono aspettarlo da uomini liberi, mentre Anan è ancora nel carcere di Terni. Io sono sola nel piazzale. Ancora una volta non so bene cosa aspettarmi né come comportarmi. Mentre l’autobus si ferma e la gente inizia a scendere, scruto i volti chiedendomi se lo riconoscerò. Poi lo vedo. Cammina lentamente, frastornato, credo dai rumori e dalle luci della stazione. Stringe tra le mani una busta con le sue cose. Lo chiamo con il suo nome. Un attimo di esitazione, capisce che sono lì per riportarlo verso casa. Mando un messaggio a Mays: “Stiamo arrivando”. Lei risponde subito, un solo grande, gigantesco cuore. Sorrido immaginando la sua trepidazione e il suo volto. Quando arriviamo la porta è già socchiusa. Mays ci aspetta, gli occhi che brillano di una luce viva. Il silenzio della notte avvolge ogni cosa. I bambini dormono. Non ci sono gesti plateali, né abbracci immediati, ma una tenerezza silenziosa pervade l’atmosfera. L’interazione tra loro è delicata, intima. Ogni gesto, anche il più piccolo, sembra carico di significati. È come se l’intero spazio fosse immerso in un’attesa che non osa ancora sciogliersi. I due si cercano, ma non si toccano subito. Capisco che è la mia presenza a creare una barriera invisibile di pudore: l’abbraccio, quello vero, resta sospeso nell’aria, come un momento che appartiene solo a loro, in un tempo che non è il nostro. Esco di scena. (francesca mononoke)
October 29, 2024 / NapoliMONiTOR
Come governo e tribunale ostacolano la ricerca della verità sul caso Dal Corso
(disegno di cyop&kaf) L’esame autoptico, più noto come autopsia, è un esame che si effettua dopo la morte di una persona con l’obiettivo di accertarne le cause, i tempi e le modalità. L’autorità giudiziaria può disporre l’autopsia quando si sospetta che la morte sia collegata a un reato o comunque sia avvenuta in circostanze non chiare. In molti stati europei, quando il decesso avviene in un istituto penitenziario, l’autopsia è obbligatoria. In altri, come l’Italia e la Serbia, no: quando una persona detenuta muore e le circostanze del decesso vengono considerate “evidenti” o “palesi” l’esame autoptico è ritenuto inutile. Per questa ragione, ribadita per iscritto dal ministro della giustizia Nordio, la richiesta della famiglia di Stefano Dal Corso, giovane romano detenuto e poi morto a Oristano, è stata respinta per ben sette volte. Secondo il ministro, la sua era una morte “avvenuta in circostanze palesi”. Almeno fino a quando l’ottava richiesta non è stata accolta. Marisa Dal Corso, sorella di Stefano, intervenendo mercoledì alla conferenza stampa presso la Camera dei deputati, ha mostrato come questa presunta “evidenza” sia tutta da dimostrare. Per lei e per la sua famiglia le certezze sono altre: Stefano stava per uscire dal carcere, avrebbe riabbracciato la figlia e immaginato, insieme a lei, un prossimo futuro da libero. Eppure poco tempo prima della sua scarcerazione è stato trovato morto nel reparto dell’infermeria dell’istituto sardo, esattamente due anni fa, in condizioni che secondo le relazioni ufficiali sarebbero compatibili con il suicidio. È utile fare un passo indietro e tornare a un articolo di Luna Casarotti, scritto nell’agosto del 2023, proprio a partire dalle parole della sorella di Dal Corso: “La ferita che Stefano aveva attorno al collo – si evinceva già all’epoca da una delle perizie – sembrava più vicina a quella di uno strangolamento che non a una impiccagione”. Armida Decima, legale della famiglia Dal Corso, durante la conferenza ha spiegato che l’unico modo per dimostrare che non si sia trattato di strangolamento ma di “impiccagione atipica” (parte del corpo che poggia su una superficie) sarebbe stato quello di verificare lo stato dei polmoni al momento del decesso. L’autopsia però è stata accordata solo nel gennaio del 2024, ossia più di un anno e mezzo dopo il decesso, quando il corpo era ormai in stato di avanzato deterioramento. Tuttavia, l’autopsia ha comunque restituito alcuni dati importanti: l’osso del collo, diversamente da quanto era stato lasciato intendere, non era rotto, ma perfettamente integro. Sulla coscia, lato interno, è stato rinvenuto un ematoma profondo, compatibile con un calcio. Inoltre, dalle analisi del sangue risultano evidenti tracce di medicinali, che certo potrebbero essere anche compatibili con la terapia che Stefano seguiva in carcere. Per esserne sicuri occorrerebbe però stabilire l’esatto dosaggio di queste sostanze presenti nel sangue, cosa impossibile dopo tutto questo tempo. E quindi? È proprio Decima a domandarlo ai giornalisti: «I risultati dell’esame autoptico consentono di ritenere che le modalità siano compatibili con il suicidio? Si, ma allo stesso tempo non si può escludere una morte per strangolamento». A questo interrogativo se ne aggiunge un altro, che deriva dalla presenza di tracce di sangue sul lenzuolo di Stefano. Da quel sangue sono ravvisabili tracce di Dna anche diverso dal suo. Alla richiesta, però, dell’avvocato della famiglia, di confrontare il Dna trovato con quello di chi era entrato effettivamente in contatto con Stefano quel giorno, la procura di Oristano non ha mai risposto. Piuttosto, ha fatto seguire una seconda richiesta di archiviazione. A cui, è stato ribadito ieri, la parte civile si opporrà. Le morti in carcere sono sospette per definizione: lo sono nella misura in cui il decesso all’interno di un penitenziario dovrebbe apparire come una anomalia del sistema. Lo Stato dovrebbe custodire il corpo del recluso, rispondere ai suoi bisogni e tutelarne l’incolumità. E quando questo non avviene, quando il corpo perisce, dovrebbe essere lo Stato stesso a pretendere la verità. A questo proposito, intervenendo in conferenza, i parlamentari Roberto Giachetti e Ilaria Cucchi hanno affermato la necessità di portare avanti un disegno di legge che è oggi in Commissione Giustizia e che intende introdurre, anche in Italia, l’autopsia obbligatoria. “I dati statistici rispetto ai decessi nelle strutture detentive – si legge nel ddl – riportano ogni anno diversi casi in cui non sia possibile accertarne precisamente le cause. Sono stati infatti numerosi in passato i casi nei quali le versioni ufficiali presentano zone d’ombra e incongruenze tali da far nascere il sospetto che mascherino degli episodi di maltrattamenti a opera di agenti o di violenza da parte altri detenuti”. Alla fine della conferenza Marisa Dal Corso ha raccontato di aver ricevuto molte segnalazioni da parte di familiari di altri detenuti: le violenze, quando raccontate, ne portano con sé altre, più nascoste e dimenticate. In fondo, quello che chiede lei è quanto chiedono molti di loro: vivere senza il dubbio che un proprio caro sia morto nella menzogna e nell’oblio. (marica fantauzzi)
October 25, 2024 / NapoliMONiTOR
Genova-Marassi, la storia di Youssef e la violenza strutturale sui detenuti più vulnerabili
(disegno di cyop&kaf) Genova, carcere di Marassi. Youssef è un giovane detenuto di venticinque anni con una lunga storia di problemi psicologici e comportamentali. Il 3 ottobre è stato brutalmente aggredito da diversi agenti penitenziari. Il ragazzo – affetto da disturbo borderline della personalità e con una diagnosi di ritardo mentale lieve – si stava recando nella sala colloqui dove era atteso dal suo avvocato. La tensione emotiva che caratterizza il suo stato mentale lo ha portato a un’interazione con un brigadiere della polizia penitenziaria presente, innescando una reazione a catena che si sarebbe certamente potuta evitare. Secondo le testimonianze raccolte, alla provocazione da parte di Youssef – un insulto verbale – è seguita una risposta di forza da parte del brigadiere, che ha colpito il giovane al volto distruggendogli gli occhiali. La situazione è successivamente degenerata in una violenta aggressione collettiva, con altri agenti della penitenziaria che si sarebbero uniti al pestaggio, a ridosso della stessa sala colloqui, lasciando Youssef con ferite evidenti. Nonostante la presenza di testimoni e la denuncia dei fatti, è stato uno dei detenuti che aveva visto Youssef durante l’ora d’aria a diffondere per primo la notizia, raccontando a sua madre le condizioni in cui lo aveva trovato. La donna ha riferito queste informazioni alla sorella del ragazzo, mentre solo due giorni dopo l’episodio, suo figlio, il detenuto che la aveva avvertita, è stato trasferito. Il quadro clinico di Youssef – emerso dalla perizia psichiatrica allegata all’esposto-querela presentato dall’associazione Yairaiha – evidenzia una condizione estremamente complessa che richiede interventi terapeutici specifici e mirati. Nato a Milano, di origini tunisine, Youssef ha manifestato fin dall’adolescenza comportamenti “devianti”, culminati in reati di furto e rapina. Sin dai suoi primi anni di vita ha mostrato segni di difficoltà cognitive, con una diagnosi di disturbi dell’apprendimento come disortografia e discalculia, accompagnati da un quoziente intellettivo sotto la norma (QI 65). Queste problematiche si sono aggravate con l’abuso di sostanze stupefacenti, in particolare cocaina e cannabinoidi, che ha portato anche a comportamenti autolesionistici documentati. Youssef presenta una grave fragilità cognitiva e psicologica, aggravata da un disturbo borderline e antisociale della personalità e da una dipendenza da sostanze (cannabis, cocaina e alcol). Ha vissuto diversi ricoveri per agitazione legata all’abuso di sostanze, con comportamenti esplosivi e impulsivi. Nonostante accetti il trattamento, rifiuta farmaci che ritiene inibiscano le sue emozioni. Durante l’esame psichiatrico ha mostrato limitate competenze cognitive, con difficoltà nell’autocontrollo e una scarsa consapevolezza delle proprie azioni. Il pensiero è povero e concreto, privo di introspezione. Pur non manifestando deliri o allucinazioni, presenta un tono dell’umore deflesso con scatti di rabbia e un’emotività instabile. Le sue capacità progettuali sono grossolanamente limitate e condizionate dall’impulsività. Dal punto di vista psichiatrico forense, la valutazione suggerisce un possibile “vizio parziale di mente”, dovuto alla somma di carenze cognitive e disturbi di personalità: “Si raccomanda un trattamento presso una struttura comunitaria con doppia diagnosi, vincolato a un intervento giuridico, per affrontare il problema delle dipendenze e il disturbo mentale”, è scritto nella relazione. A fronte di situazioni così complesse e delicate, gli episodi di violenza a danno delle persone che vivono questo tipo di sofferenza all’interno delle carceri non sono casi isolati, ma il riflesso di una cultura carceraria che glorifica la repressione di ogni istinto e ignora le esigenze riabilitative dei detenuti, soprattutto quelli più fragili. La mancanza di protocolli adeguati per la gestione delle crisi, e in generale dei comportamenti delle persone affette da disturbi psichici, evidenziano l’assoluta necessità che queste persone vengano curate, e non ristrette in un carcere. La cultura dell’abuso di potere all’interno delle strutture è spesso nascosta inoltre dietro il velo dell’indifferenza istituzionale. Le segnalazioni di violenze, maltrattamenti e vendette personali da parte del personale penitenziario nei confronti dei detenuti più vulnerabili sono numerose, ma raramente portano a sanzioni o a cambiamenti strutturali. Il trasferimento dei testimoni, come nel caso di Youssef, non fa altro che alimentare il sospetto di un sistema che cerca di proteggere i propri abusi. In seguito all’aggressione l’avvocato di Youssef, insieme al Garante dei detenuti e all’associazione Yairaiha, ha chiesto un’indagine urgente per fare chiarezza sull’accaduto e garantire giustizia. La richiesta di acquisizione di testimonianze e filmati di video sorveglianza potrebbe essere cruciale per far luce sulla vicenda e rivelare la verità dietro l’ennesimo episodio di violenza. Tuttavia, resta il dubbio che queste prove possano essere occultate o manipolate, come spesso accade in casi simili, ancor più di quando la parte lesa è un detenuto “ordinario” e quindi considerato maggiormente “credibile”. Invece di riconoscere e affrontare le vulnerabilità, di fatto, anche nella gestione dei singoli casi il sistema gestisce le fragilità con ordinarie punizioni che non fanno altro che esasperare il disagio di persone come Youssef, affette da disturbi mentali complessi. Il carcere, così com’è strutturato, fondato su un meccanismo meramente punitivo, sublima la sua inutilità nell’incapacità di offrire alcun tipo di intervento e supporto adeguato per chi si trova in condizioni così problematiche. Intanto, qualche giorno dopo l’inoltro dell’esposto, è giunta notizia del trasferimento di Youssef al carcere di Alessandria, dove si trova in stato di isolamento, l’ennesima tappa di un doloroso percorso fatto di spostamenti tra istituti penitenziari, senza interesse alcuno per una vera soluzione. Prima di Alessandria, Youssef era infatti stato detenuto a Torino, Cuneo e Marassi, una gestione estemporanea ed “emergenziale” del caso, che non ha mai tenuto conto dei suoi bisogni fisici e psichici. Ogni trasferimento di questo ragazzo da una prigione all’altra non fa che spostare il problema, senza mai affrontare le radici della sua fragilità e anzi peggiorando il suo stato mentale, privandolo di riferimenti stabili, sia umani che medici. Ogni nuovo carcere si traduce per lui in un ulteriore trauma, che compromette la sua già fragile stabilità emotiva e ostacola l’avvio di un percorso terapeutico continuativo, fondamentale per gestire le sue dipendenze e problematiche psichiatriche. Un circolo vizioso che non potrà mai risolvere la condizione di Youssef o né di nessun altro detenuto che si trova in situazioni simili. (luna casarotti, associazione yairaiha ETS)
October 23, 2024 / NapoliMONiTOR