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Emergenza sanitaria e sovraffollamento. Il carcere di Matera visto da dentro
(archivio disegni napolimonitor) La scorsa estate, a seguito di ripetute tensioni createsi all’interno del carcere di Matera, una certa attenzione mediatica si concentrava sul funzionamento dell’istituto e sulle sue criticità. Dopo una visita alla casa circondariale, la garante regionale per i detenuti Tiziana Silletti denunciava una situazione insostenibile in termini di sovraffollamento, con 197 detenuti a fronte di 132 posti (dato coerente con quello di tutte le strutture della regione Basilicata, che si attesta sul 144 per cento). Poche settimane dopo, l’associazione Luca Coscioni, che aveva lavorato a un report sulla situazione sanitaria delle carceri della regione, comunicava che l’azienda sanitaria materana non aveva fornito alcuna documentazione a dispetto della richiesta di accesso civico agli atti. Con il passare dei mesi, a dispetto di una situazione rimasta pressappoco immutata, l’interesse per le condizioni del corpo detentivo dell’istituto materano sembra essersi sopito. Nel tentativo di rialzare il livello di attenzione su quanto accade in quel carcere, e ovviamente in tanti altri istituti del paese, pubblichiamo a seguire un resoconto della dottoressa Maria Clara Labanca, medico penitenziario e membro dell’associazione Yairaiha. *     *     *  Celle sovraffollate, personale sanitario insufficiente e accesso alle cure estremamente limitato: questa è la realtà quotidiana del carcere di Matera. La struttura, progettata per centotrenta posti, ospita stabilmente oltre centosettanta detenuti, con punte superiori alle duecento unità. In questo contesto, il diritto alla salute dei detenuti risulta sistematicamente compromesso. Il presidio sanitario funziona in maniera frammentaria. La mattina non è presente alcun medico, e a volte il peso della gestione di casi clinici complessi ricade sugli infermieri, costretti a intervenire senza supervisione diretta. Le visite mediche, effettuate nel pomeriggio, si svolgono in modo molto concitato a causa della carenza di personale di polizia che limita gli spostamenti dei detenuti. Questo comporta un aumento del rischio di diagnosi incomplete, visite superficiali e ritardi nella presa in carico di patologie rilevanti. Di notte, tutte le emergenze ricadono su un unico medico, senza supporto infermieristico, compromettendo ulteriormente la capacità di intervento tempestivo. La salute mentale dei detenuti è un ambito particolarmente critico. Lo psichiatra effettua interventi solo due ore a settimana, a fronte di un numero elevato di soggetti con disturbi psichici spesso associati a problemi di tossicodipendenze. In assenza di percorsi terapeutici strutturati, molti di essi vengono trattati con psicofarmaci senza adeguato inquadramento diagnostico, aumentando il rischio di effetti collaterali e senza risolvere le problematiche esistenti. Inoltre, alcuni agenti penitenziari esercitano pressioni indebite sui medici affinché somministrino sedativi o ipnotici, trasformando il trattamento psichiatrico in strumento di controllo piuttosto che in intervento terapeutico. Non sono neanche infrequenti episodi di tensione tra personale sanitario e di polizia penitenziaria, di fronte a un rifiuto da parte del medico nella prescrizione di questa tipologia di farmaci. La carenza di supporto psicologico e di personale qualificato determina un peggioramento dei disturbi psichici, con ricadute sulla sicurezza interna e sul benessere dei detenuti. Le visite specialistiche rappresentano un ulteriore fattore di criticità. Consultazioni come quelle gastroenterologiche, infettivologiche o oculistiche possono richiedere mesi di attesa, talvolta oltre un anno. Le carenze nell’ambito del Nucleo Traduzioni, incaricato di accompagnare i detenuti agli appuntamenti esterni, provoca rinvii sistematici. Anche quando l’azienda sanitaria fissa regolarmente gli appuntamenti, questi spesso non vengono rispettati perché non viene presa visione delle comunicazioni e delle prenotazioni, privando i detenuti delle cure pianificate. Molti detenuti si trovano in condizioni di grave criticità clinica a causa di patologie acute o croniche, ma la presa in carico è frequentemente ritardata o inadeguata. Il trasferimento verso strutture idonee è subordinato alla produzione di documentazione che attesti l’incompatibilità con il regime detentivo, determinando ritardi nell’accesso a interventi sanitari appropriati e, in alcuni casi, esiti clinici sfavorevoli. Le strutture e le attrezzature sanitarie risultano insufficienti. Mancano cartelle cliniche informatizzate, dispositivi diagnostici e terapeutici adeguati e personale specializzato in grado di utilizzarli. La combinazione di infrastrutture carenti e organico ridotto compromette la tempestività nell’identificazione e nel trattamento delle patologie, riducendo significativamente la qualità della presa in carico sanitaria. Il sovraffollamento e la carenza di personale di sicurezza aggravano ulteriormente la situazione. Le quattro sezioni della struttura – Accoglienza, Giudiziario, Sirio e Pegaso – ospitano centinaia di persone in spazi inadeguati e obsoleti. Le carenze di personale complicano la gestione dei piantonamenti ospedalieri e delle udienze, spesso impossibili da svolgere tramite collegamento da remoto. Tuttavia, il carcere di Matera è solo l’emblema di un sistema penitenziario in crisi. Sovraffollamento, carenze di personale e un presidio sanitario inadeguato espongono quotidianamente i detenuti a rischi clinici significativi. Senza interventi strutturali urgenti, la detenzione rischia di trasformarsi in un tempo sospeso, in cui i diritti fondamentali, primo fra tutti quello alla salute, restano sistematicamente negati. (maria clara labanca)
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Oltre il banco degli imputati. La resistenza palestinese sotto processo a L’Aquila
(disegno di giancarlo savino) Quella di venerdì 31 ottobre doveva essere una semplice udienza tecnica: nessun testimone, né dell’accusa né della difesa, solo i periti linguistici convocati per il reintegro delle traduzioni all’interno dei fascicoli del processo che da mesi va avanti a carico di Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh. Per questo in aula siamo in pochi: i più affezionati al processo, che dopo le estenuanti tre giornate di udienza di fine giugno, che pure avevano segnato un’apparente accelerazione, ora procede a intermittenza. Approfittiamo di queste udienze di passaggio, apparentemente secondarie, per rimettere ordine negli appunti. Ci eravamo lasciati mentre tracciavamo una rotta tra traduzioni monche, trascrizioni spezzate, liste di ID telefonici, numeri che si rincorrevano e moltiplicavano, disegnando una geografia incerta, dove i riferimenti cambiavano di continuo, ritornando con nomi diversi anche quando parlavano delle stesse persone. E da lì riemergiamo, come dopo una lunga traversata, ancora storditi dalla confusione. La difficoltà vera, ancora oggi, è che di fronte a noi non si presenti una linea d’accusa chiara, coerente, dotata di un impianto che si sostenga su basi fattuali. Lascia attoniti il fatto che, a fronte della detenzione di Anan (da oltre diciannove mesi in regime di alta sicurezza) e di un’imputazione così pesante, quella di terrorismo internazionale (articolo 270-bis c. p.), che pesa sulla vita dei tre imputati, non ci sia ancora un impianto probatorio ben definito. Uno dei vulnus più importanti che ha segnato tutta la linea accusatoria, fin dalle prime udienze, è stata la totale mancanza di contesto geopolitico degli elementi portati in aula rispetto a ciò che accade da anni in Palestina, alla sua lunga storia genocidaria, alla realtà dei Territori Occupati e alla relativa struttura di apartheid e, soprattutto, al diritto alla resistenza del popolo palestinese. Eppure, nel frattempo, non possiamo non dire che fuori da quell’aula di tribunale non sia successo nulla. Anzi! Sul piano politico, più di un passaggio si è intrecciato direttamente con la storia stessa di questo processo. PASSAGGI MINORI Settembre è stato un mese chiave. Il 23 Anan Yaeesh viene trasferito all’alba dal carcere di Terni al penitenziario di Melfi, nella remota Basilicata. Un provvedimento apparso da subito come un tentativo di recidere la rete di solidarietà che, in oltre un anno, si era fatta sempre più visibile e ampia intorno alla figura del prigioniero politico. Una decisione che arrivava in un momento tutt’altro che neutro. Solo ventiquattr’ore prima, il 22 settembre, si era svolto uno sciopero nazionale promosso dai sindacati di base, lanciato su iniziativa dei portuali, al grido di “blocchiamo tutto”. Era il momento in cui il mondo guardava di nuovo a Gaza, ne riconosceva finalmente il genocidio, mentre seguiva la rotta della Global Sumud Flotilla che cercava di rompere il blocco navale israeliano. Il secondo passaggio riguarda il trasferimento della giudice a latere. Il decreto risale all’8 settembre, ma alla fine del mese nessuna comunicazione era ancora giunta al Consiglio superiore della magistratura per garantire la continuità del collegio. Un vuoto procedurale che ha causato un rinvio significativo: saltano le udienze del 19 e del 26 settembre, si torna in aula solo il 31 ottobre. Un rinvio che ha sollevato più di un sospetto che quei ritardi non fossero affatto casuali, ma calibrati per evitare udienze troppo scomode e troppo vicine a una data che si stava profilando all’orizzonte, quella della manifestazione nazionale del 4 ottobre a Roma contro il genocidio in Palestina. Nel clima incandescente di quei giorni, la Corte e l’intero impianto processuale si sarebbero trovati sotto i riflettori di un’opinione pubblica sempre più ampia, arrabbiata e determinata a richiedere la fine di ogni complicità dello Stato italiano con il genocidio in corso. È difficile immaginare, per quel momento, una situazione più carica di tensione di quella che avrebbe potuto generarsi in un’aula di tribunale dove lo Stato italiano, nella sua funzione giudiziaria, si fa braccio della repressione israeliana. RITORNO IN AULA Il 31 ottobre, dunque, si torna in aula. Il Collegio è stato ricomposto promettendo una continuità minima nel filo delle valutazioni. E non è poco, visto tutto il resto. L’inizio della mattinata è movimentato dal solito momento di bagarre tra il pubblico in aula e la pm, che intima la rimozione di una bandiera palestinese introdotta in aula e invoca, per le prossime udienze, il divieto di portare kefiah, in nome di una presunta “assenza di connotazioni politiche”. Si risponde con insofferenza aperta davanti alla riproposizione di un teatrino già visto mille volte che oggi appare soprattutto come un tentativo di deviare l’attenzione dall’approssimazione con cui, ancora una volta, si è arrivati fin qui, con traduzioni mancanti. È sul reintegro delle traduzioni dall’ebraico che si addensa il punto più delicato della giornata. Si torna su un documento già acquisito a luglio, sempre su richiesta della difesa. Si tratta di alcune immagini tratte dal profilo Facebook ufficiale del corpo logistico dell’IDF, che documentano interventi di ristrutturazione compiuti nel 2021 all’interno di una caserma militare situata nel perimetro di Avnei Hefetz. Una delle diciture riportate in quelle foto viene letta integralmente in aula: “Benvenuti ad Avnei Hefetz – campo militare”. Viene tradotto anche un secondo cartello, con la scritta “Menashe”, indicato come “brigata locale”, probabilmente riferita all’unità che prese parte ai lavori di ristrutturazione della base. Due immagini che, da sole, sono sufficienti a incrinare la narrativa dell’accusa, per cui Avnei Hefetz sarebbe un semplice insediamento civile. È a questo punto che la Procura gioca una carta pesante. Chiede l’acquisizione di un documento redatto da un ufficiale di collegamento tra l’ambasciata israeliana e il Sud Europa, in cui si definisce Avnei Hefetz come un insediamento civile. La Corte accoglie la richiesta in parte: non acquisisce il documento, ma decide comunque di convocare l’autore (o un suo delegato) alla prossima udienza del 21 novembre. Per la prima volta, in questo processo, sul banco dei testimoni salirà un funzionario diplomatico di uno Stato estero, che non è spettatore neutrale della storia che si racconta, ma parte in causa nel conflitto da cui tutto origina. L’ambasciatore, o chi parlerà al suo posto, sarà chiamato a rispondere a una domanda precisa, che è anche la domanda su cui pende il futuro di tre imputati: che cos’è Avnei Hefetz? La difesa, in controcanto, chiede l’audizione dell’architetto francese Léopold Lambert, esperto di urbanistica coloniale, che da anni studia le trasformazioni militari del territorio in Cisgiordania. Intanto, la tensione in aula è salita di qualche grado. Israele entrerà in tribunale. Non per farsi finalmente giudicare. Non per rispondere ai decenni di occupazione, di apartheid, di crimini contro la popolazione palestinese. No. Ancora una volta, siederà dal lato dell’accusa, con la voce autorevole di un ambasciatore incaricato di definire la natura di un luogo. Sarà lui, o chi per lui, a dire cos’è Avnei Hefetz. COS’È AVNEI HEFETZ? Il nome compare per la prima volta in aula il 25 giugno, durante la deposizione dell’ispettrice capo della digos, Alessia Fiordigigli, chiamata a illustrare i dati emersi dalle intercettazioni dei telefoni sequestrati ai tre imputati. Nei documenti dell’accusa torna spesso il nome di Avnei Hefetz, colonia israeliana nei pressi di Tulkarem, nei Territori Occupati. Secondo la Procura, sarebbe l’obiettivo presunto di un’azione pianificata dalle cosiddette Brigate di Risposta Rapida di Tulkarem, e fulcro di ipotetici legami con gli imputati. Capire la natura di Avnei Hefetz non è affatto un mero tecnicismo. Infatti, in  un processo che ruota intorno a ipotesi di associazione terroristica, messaggi intercettati e presunte finalità eversive, stabilire se quel luogo sia un obiettivo civile o militare diventa un nodo cruciale. Peccato che l’intero impianto accusatorio poggi su un fraintendimento: si continua a considerare Avnei Hefetz e a parlarne come se fosse un’area civile, ordinaria, situata in un contesto di pace. Quando non è così. Si sta, volutamento o meno, ignorando che quel territorio è occupato militarmente. Una realtà che cambia radicalmente il senso di tutto ciò che viene contestato. Quel fraintendimento fu, a giugno, il terreno di un serrato dibattimento tra l’avvocato Flavio Rossi Albertini e l’ispettrice capo della digos, Alessia Fiordigigli, durante il controesame della difesa che mirava a far emergere la superficialità e il metodo discutibile con cui era stata effettuata l’indagine. Dallo scambio tra l’avvocato Rossi Albertini e Fiordigigli, emergeva che al di là di una rapida consultazione di fonti aperte, le indagini non si erano mai spinte ad accertare la natura esatta di Avnei Hefetz. Mai, in sostanza, era stato verificato se si trattasse di un insediamento civile, militare o un check-point. Il documento Onu che Fiordigigli citava come conferma della natura civile dell’insediamento, in realtà, non supportava affatto quella tesi. Anzi, la smentiva. “The Question of Palestine” qualifica le colonie nei Territori Occupati, tra le quali Avnei Hefetz, come illegali ai sensi del diritto internazionale e le indica esplicitamente come uno degli ostacoli principali al conseguimento della pace. Chiunque abbia letto quel testo, anche solo per sommi capi, riconosce subito che è un testo di denuncia. Lacune di questo genere emergevano anche su altre questioni: prima di tutto sulle ricerche (o meglio le “non ricerche”) riguardo le modalità, le pratiche e le conseguenze dell’occupazione militare israeliana nel governatorato di Tulkarem, secondo Fiordigigli “non inerente” alle indagini di polizia; e ancora sull’eventualità che l’azione di cui l’imputato scrive in chat sia stata effettivamente consumata, per la quale non emerge dalle indagini nessun riscontro. Anche nel corso del controesame del 25 giugno nessuna prova documentale che attestasse l’effettiva realizzazione dell’azione è stata fornita. «Ma sappiamo cosa è avvenuto?», domandava in ultimo la difesa a Fiordigigli. «No». LE PIETRE DEL DESIDERIO Seguiamo il “metodo Fiordigigli” e proviamo a googlare Avnei Hefetz. In pochi secondi si apre davanti agli occhi un piccolo mosaico di fonti che monitorano la colonizzazione dei Territori Occupati: le mappe minuziose di Peace Now, i rapporti di POICA sulle trasformazioni dei villaggi palestinesi, le schede del Land Research Center. E poi, quasi nascosta tra i risultati, una pagina del rabbinato dell’insediamento che ci descrive l’intero complesso: “L’area dell’insediamento comprende la ‘montagna’ sulle sue due cime, tutti i quartieri dell’insediamento, la base militare fino oltre la porta dell’insediamento, la torre di osservazione militare – sono tutto un insieme, un unico insediamento”. Una frase così semplice e così trasparente da rivelare, più di molti report, la natura ibrida di Avnei Hefetz. Fondata nel 1987, Avnei Hefetz (il cui nome significa “le pietre del desiderio”) si arrampica su un’altura che domina la piana di Tulkarem e la rete di villaggi palestinesi – Shufa, Kafr al-Labad, Izbat Shufa, Al-Hafasa – che da generazioni coltivano quella terra fertilissima oggi inglobata dalla colonia. La posizione, scelta con cura, offre un controllo visivo e logistico sull’intero territorio. Durante la Seconda Intifada l’area sarà la base di partenza per incursioni verso i villaggi vicini, e nei tempi ufficialmente “ordinari” continua a funzionare come strategico punto di sorveglianza. L’espansione dell’insediamento si può seguire scorrendo gli ordini militari. Nel 2005 l’ordinanza T/77/05 espropria 418 dunum (42 ettari) di terreni coltivati per “costruire una nuova recinzione”, che di fatto amplia il perimetro coloniale inglobando campi, oliveti e sentieri di uso comunitario. Dieci anni più tardi un altro ordine autorizza la costruzione di una strada asfaltata riservata ai coloni che attraversa i terreni di Shufa e li divide in due, lasciando i contadini dall’altra parte di una barriera invalicabile presidiata da check-point fissi. Seguono, nel 2017 e nel 2018, ulteriori ordinanze che prevedono demolizioni e nuove confische di proprietà palestinesi. Nell’arco di poco più di un decennio Avnei Hefetz raddoppia la propria estensione e trasforma radicalmente la geografia dell’area. Tra i villaggi colpiti dall’espansione coloniale di Avnei Hefetz, Shufa è quello che ha pagato il prezzo più alto in termini di frammentazione, fino a trovarsi quasi tagliato fuori da qualsiasi collegamento. La sua strada principale verso Tulkarem viene chiusa nei primi anni Duemila con cumuli di terra e blocchi di cemento. Nel 2011 la comunità tenta di costruire una strada agricola per raggiungere i campi e mantenere un minimo di collegamento con i villaggi vicini, ma anche quel tracciato viene sigillato dall’esercito per ragioni di sicurezza legate alla colonia. Da allora una torre militare è piantata a guardia dell’ingresso del villaggio. Shufa vive letteralmente all’ombra di Avnei Hefetz, isolata dal resto della piana, con il suo territorio piegato e risagomato dalla colonia. OLTRE IL BANCO DEGLI IMPUTATI C’è un punto che continua a restare scoperto mentre ci avviciniamo alla prossima udienza. Non riguarda soltanto la cronaca del processo, ma il modo in cui scegliamo di guardare alla resistenza armata dentro un territorio occupato. Non si tratta semplicemente di stabilire se un atto rientri o meno nel diritto alla resistenza riconosciuto dal diritto internazionale, ma di comprendere che cosa viene messo a fuoco e che cosa invece scompare quando quella valutazione viene trasportata in un’aula di giustizia europea, lontana dal luogo in cui la violenza si produce. Con questo slittamento geografico e politico è proprio la parola “occupazione” a finire ai margini della scena, mentre è la risposta armata e violenta a occupare l’inquadratura con tutto il suo immaginario. Poi c’è quella parola, “terrorismo”, che appena entra in scena manda tutto in cortocircuito, perché non si poggia su una definizione unica e condivisa ma continua a oscillare tra convenzioni, risoluzioni, formule che non arrivano mai a sovrapporsi del tutto. In questa zona grigia si annida forse la confusione più pericolosa che finisce per accostare la resistenza di un popolo ad atti di terrorismo, mettendo sullo stesso piano chi si ribella a un regime di dominio e chi fa del terrore un metodo ordinario di governo. Le condotte attribuite ad Anan,Ali e Mansour vengono giudicate sotto il capo di imputazione dell’articolo 270-bis del codice penale, che nell’ordinamento italiano definisce il terrorismo, anche internazionale, seguendo il crinale delle intenzioni. Significa che non è rilevante la scena materiale in cui i fatti si producono a costituire il criterio principale della valutazione, ma il fine che viene  attribuito a queste azioni sul piano giuridico. La norma individua come terroristiche le azioni che mirano a intimidire gravemente la popolazione, a costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto, a destabilizzare o distruggere le strutture politiche, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale. Se per puro esercizio volessimo applicare quelle stesse parole – intimidire, costringere, destabilizzare – alla geografia dei Territori Occupati, vedremmo che descrivono in modo quasi letterale la maniera in cui colonie e coloni disciplinano lo spazio e chi lo abita. Nella Cisgiordania occupata, dove le colonie israeliane sono vietate dal diritto internazionale e tuttavia continuano a espandersi, chi è che usa l’intimidazione e la coercizione come strumenti ordinari di governo del territorio e di pressione sulla popolazione perché abbandoni la propria terra? Durante l’ultima stagione della raccolta degli ulivi, testate internazionali come Al Jazeera hanno documentato una sequenza di aggressioni a contadini palestinesi da parte di coloni con il volto coperto, armati di bastoni e fucili, che aggredivano chi raccoglieva, incendiavano intere file di alberi, davano fuoco alle auto e ai casolari ai margini dei campi. In alcune immagini si vedono distese di ulivi anneriti lungo pendii interi trasformati in cenere. L’altro elemento che il 270-bis indica tra i fini del terrore è la destabilizzazione dell’ordine politico e sociale, e difficilmente si potrebbe trovare qualcosa di più vicino a ciò che producono le colonie in Cisgiordania. La Cisgiordania è ormai un arcipelago di villaggi palestinesi disseminati tra blocchi di colonie e infrastrutture israeliane. Per chi abita questi luoghi l’accesso alla terra e alle risorse è limitato, la mobilità quotidiana è subordinata ai check-point, si vive tra permessi e deviazioni forzate, sotto la minaccia costante di demolizioni e sgomberi. La destabilizzazione incide anche sul piano psichico, simbolico e sociale: si interrompono i legami tra villaggi e città, si spezza la continuità tra scuola, lavoro e assistenza sanitaria, si incrina la trama di relazioni e di luoghi che teneva insieme memoria e senso di appartenenza. In una geografia come questa l’orizzonte di vita rimane sospeso, perché nulla (la casa, il campo, la strada che si percorre ogni giorno) può dirsi davvero garantito neppure nel domani più vicino. In questo quadro rientra Avnei Hefetz. È un luogo in cui tentare di applicare una distinzione netta tra civile e militare non regge, punteggiato com’è da case, torri, recinzioni, strade d’accesso e sistemi di sicurezza che formano un corpo unico senza soluzione di continuità. Questa fusione tra colonia e apparato militare viene definita da Francesca Albanese nel suo rapporto alle Nazioni Unite del 2023 con l’espressione militarised settler-colonial occupation: nelle colonie non si hanno due regimi distinti, uno “militare” e uno “civile”, che occasionalmente si toccano, ma un unico regime di potere che utilizza tanto la forza armata dello Stato quanto la violenza dei coloni come strumenti integrati dello stesso progetto. La separazione tra “coloni” e “soldati” è una distinzione utile al diritto, alla diplomazia e, infine, anche alla propaganda israeliana. Per chi l’occupazione la subisce, questa distinzione semplicemente non esiste: la violenza che gli arriva addosso è la stessa, sia che provenga dal civile armato che scende dalla colonia, sia che provenga dal soldato che lo accompagna. Nella sua esperienza, entrambi si confondono in un’unica figura di potere, che dispone della sua vita e della sua possibilità di restare su quella terra. Quando un soggetto armato, pur non arruolato, coopera stabilmente con le forze d’occupazione, svolge funzioni di sicurezza e partecipa direttamente ad azioni ostili, quale status assume in quel frangente? Una colonia può davvero essere esclusa dalla categoria di obiettivo militare, se si guarda alla sua struttura e al suo scopo di occupazione? Non va dimenticato che questi interrogativi si collocano dentro un quadro giuridico segnato da un doppio standard, che impedisce di riportare la violenza a una piazza comune del diritto. Tutto si poggia su un’asimmetria radicale sul piano legale: nei casi di violenza attribuita a palestinesi la condotta viene giudicata da tribunali militari israeliani, mentre per i coloni la giurisdizione resta sul piano civile, se e quando un procedimento viene effettivamente aperto. A questo punto, non è più importante soltanto stabilire che cosa sia lecito come atto di resistenza armata, ma anche capire chi sta usando il proprio potere per attribuire a quell’atto un significato di resistenza o, al contrario, di terrorismo, e da quale posizione lo sta facendo. Il 21 novembre in aula ascolteremo l’ambasciatore israeliano, chiamato dalla Corte d’assise dell’Aquila a descrivere la natura della colonia di Avnei Hefetz. La sua voce, con ogni probabilità, si aggiungerà a quelle che pronunceranno la parola “terrorismo” guardando unicamente verso il banco degli imputati. Eppure dovrebbe essere proprio lui, in quanto rappresentante dello Stato israeliano che ha voluto e protetto colonie come Avnei Hefetz, a essere chiamato a rispondere in aula: non con una definizione tecnica di che cos’è una colonia, né con l’ennesima lezioncina su quella che viene presentata come normalità insediativa nei Territori Occupati, ma assumendosi fino in fondo la responsabilità politica e giuridica della violenza che queste strutture esercitano sui palestinesi e sui loro territori. Una volta per tutte. (francesca di egidio)
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Neanche un filo d’erba. Il carcere minorile in un libro di Curcio e Bellati
(disegno di dalila amendola) Neanche un filo d’erba. Socioanalisi narrativa di un carcere minorile è un bel libro curato da Paolo Bellati e Renato Curcio, da pochi giorni pubblicato tra i Quaderni di ricerca sociale delle edizioni Sensibili alle foglie. Il volume costituisce l’ultima tappa di una serie di incontri fatti con un gruppo di giovani ex detenuti del carcere minorile Beccaria di Milano, e restituisce un quadro preciso di questa istituzione che è sempre più uno strumento ordinario nella gestione delle politiche giovanili. Non è un caso che dall’entrata in vigore del decreto Caivano, che aumenta a dismisura le possibilità per un minore di finire in carcere a discapito delle pene alternative, gli ingressi nei penitenziari minorili siano aumentati del cinquantaquattro per cento, facendo arrivare a seicento il numero dei giovani ristretti. Ho letto Neanche un filo d’erba mentre sono costretto a fare i conti con le storie di due ragazzi da qualche mese detenuti in due istituti penali minorili campani (Nisida e Airola). Li conosco da bambini – ora hanno rispettivamente sedici e diciassette anni – e li ho seguiti come educatore per buona parte della loro vita, entrando in relazione con i loro ambienti familiari, con le gioie e le frustrazioni, le aspirazioni e gli errori. M. è finito dentro per una serie di aggressioni, di cui una a un poliziotto, connesse a una patologica difficoltà, mai affrontata da nessuno, a gestire le proprie emozioni negative. L’altro è semplicemente un giovane inquieto e irrequieto. È un adolescente come tanti, C., in cerca di risposte che non sa e probabilmente non vuole darsi, ma che ben presto si è stancato della scuola, del calcio, degli assistenti sociali e di chiunque gli imponga, o anche solo gli suggerisca, una strada o un modo di fare. Sia M. che C., in momenti diversi, hanno scelto di andare in carcere rinunciando alla possibilità, dopo averla sperimentata, di stare in una comunità. Il Beccaria di Milano è uno degli istituti in Italia che più di frequente raggiunge gli onori della cronaca per scandali di vario genere, episodi di violenza, proteste e rivolte dei detenuti. Le riflessioni dei due curatori del libro, e soprattutto le parole dei diretti protagonisti, non risparmiano nulla a chi legge: sovraffollamento a livelli cronici, incapacità (e mancanza di volontà) nell’affrontare la multietnicità sempre crescente, violenza costante e quasi sempre impunita degli agenti con attribuzione arbitraria di punizioni fisiche e psicologiche ai ragazzi, normalizzazione di prassi non scritte – se non in qualche astrusa circolare – che così come nel carcere degli adulti costruiscono le regole de facto del carcere, e che sono diverse istituto per istituto. È il caso di quella che Bellati e Curcio definiscono “pedagogia nera”, la pedagogia della pena o “del bastone”, una traslazione dell’equilibrio basato sulla punizione che sorregge l’istituzione (degli adulti) in un universo che, nelle sue folli teorizzazioni, pretenderebbe di essere educativo per giovani che hanno commesso degli errori ma hanno un’intera vita davanti per recuperare. “Per i maltrattamenti aggravati – si legge nel volume – esercitati tra il 2021 e il 2024 (tra i quali, oltre alle lesioni, le umiliazioni e gli insulti razzisti subiti dai ragazzi compaiono una tentata violenza sessuale operata da un agente nei confronti di un detenuto, e la voce ‘torture’) sono state messe sotto inchiesta giudiziaria quarantadue persone. In un primo tempo, nell’aprile 2024 vennero messi sotto indagine tredici agenti penitenziari, otto dei quali furono anche sospesi dal lavoro. All’inizio di agosto 2025 i pm incaricati hanno però aggiunto a quel primo elenco un comandante e altri tredici agenti, un medico, due operatori sanitari, due ex direttrici e una vicedirettrice”. Il libro ha il merito di partire dall’analisi di un caso per tracciare linee generali, ragionando – sempre a partire dalle parole dei ragazzi – sul (non) funzionamento di questa istituzione. È probabilmente per questo che i capitoli più efficaci risultano quello che rivela il carcere minorile come arma impropria della gestione illiberale del fenomeno migratorio; quelli che svelano con pochi e chiari esempi l’ascensore dei meccanismi premiali, un inferno dantesco che istituisce condizioni diverse di detenzione a seconda della docilità o della renitenza di un detenuto al rispetto di regole assurde; quelli che sconfinano senza perdere il filo del ragionamento nei campi della sociologia dei processi migratori, della psicologia, dell’antropologia culturale, mostrando le continue evoluzioni e involuzioni, a livello individuale e collettivo, delle relazioni tra istituzioni totali e linguaggio, privazione dello spazio e processi di alienazione, gestione chimica del dolore, autolesionismo e “ricadute”, invisibilizzazione burocratico-amministrativa e rivendicazioni identitarie. Vale la pena infine soffermarsi su due questioni che hanno la forza di aprire spunti di riflessione non scontati sulla carcerazione minorile. La prima è quella relativa agli “spazi per il sé”, una lettura più profonda del tema del sovraffollamento, che non si riduce alla denuncia di condizioni pur infami di detenzione, e alla descrizione di stanze in cui per andare in bagno bisogna calpestare i materassi su cui, per terra, sono assiepati gli altri detenuti. Quello che è in ballo, spiegano gli autori del volume, è l’impossibilità di momenti d’introflessione, di elaborazione della propria situazione e delle possibili prospettive: “momenti indispensabili a qualunque età, ma in quella dei ragazzi più ancora decisiva sia per la loro crescita personale che per la maturazione emotiva. Si tratta, insomma, di un vero e proprio soffocamento psicologico e sociale” che “aggiunge un quid specifico alla brutalità ordinaria della condizione carceraria, ne accentua, se possibile, la pena e la sofferenza dei corpi” e “contribuisce in modo decisivo allo smantellamento di un qualsivoglia, sia pure vago ed embrionale, progetto educativo”. Anche la seconda questione, che riporta alle storie dei ragazzi napoletani con cui si è iniziato questo testo, ha molto a che vedere con lo “smantellamento del progetto educativo” scientemente operato dal carcere minorile. È infatti legata alla desolante descrizione, che è uno dei fili conduttori del libro, del complesso equilibrio di relazioni, rapporti lavorativi e personali, compartimentazione delle mansioni e quindi delle responsabilità del mondo degli adulti che operano in carcere. Gli educatori e il personale civile escono a pezzi dalla descrizione dei ragazzi, che ritraggono queste figure per lo più – mantenendo comunque una discreta capacità di differenziazione – come quelle di scialbi passacarte, capaci di parlare e mai di ascoltare, latitanti tra le sezioni persino nelle poche ore durante le quali sono chiamati, con un magro stipendio, va detto, a lavorare nelle strutture. Il fatto che molti ragazzi finiscano loro stessi per preferire, almeno nella brutale quotidianità, la guardia all’educatore, il carcere alla comunità, la repressione al confronto, è a ben pensarci il trionfo dell’istituzione totale, che ha come unico scopo un disciplinamento sociale raggiungibile solo attraverso la punizione, e perciò inconciliabile con qualsiasi millantata velleità di crescita personale, riabilitazione e reinserimento. A parità di vuoto, di noia, di assenza di figure adulte adeguate con cui confrontarsi, e di mancata apertura verso nuove prospettive reali, è comprensibile che i ragazzi scelgano almeno la chiarezza delle regole (per quanto ingiuste) e degli intenti all’ambiguità; preferiscano la crudezza all’ipocrisia, la punizione al ricatto morale, persino le botte alle chiacchiere vuote. Ma se questo modello disciplinante è indispensabile per la buona riuscita di ogni innaturale tentativo di mantenere una persona chiusa e ferma in una gabbia per un certo lasso di tempo, è anche vero che nel mondo dei ragazzi ha bisogno di più sforzo e tempo, elementi necessari a scalfire animi spesso più istintivi, meno interessati a calcolare il rapporto tra i comportamenti e le loro conseguenze, non ancora del tutto assoggettabili al rispetto di piccoli e grandi soprusi. Le continue proteste e le rivolte, più o meno pubblicizzate, che ogni settimana avvengono in molte carceri minorili in tutto il paese ci dicono che questo modello non è necessariamente destinato a vincere. Quella però è la parte che possono fare i giovani detenuti per l’eliminazione di queste inutili e ipocrite istituzioni. È ora di chiedersi cosa siamo disposti a fare noi. (riccardo rosa)
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Le linee di indirizzo sulla contenzione, tra retorica dei buoni propositi e vuota burocrazia
(disegno di cykalov) Quando, nell’aprile del 2021, durante una trasmissione giornalistica della Rai, viene dedicato un approfondimento al tema “I disturbi dei giovani dopo un anno di pandemia” le telecamere entrano nel reparto di neuropsichiatria dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, diretto da uno dei luminari del settore, Stefano Vicari. La scena è molto diversa da quella che, in altre trasmissioni, racconta il quotidiano lavoro di altri reparti di questo ospedale: alla neuropsichiatria infantile, infatti, si accede attraverso una pesante porta d’acciaio, chiusa e allarmata, che la giornalista definisce «di massima sicurezza, dove dietro a porte antifuga ci sono telecamere in ogni stanza, e letti, armadi, comodini ancorati a terra». Poi Vicari aggiunge: «Non ci sono maniglie o appigli perché questi potrebbero essere uno strumento per potersi appendere. I sanitari sono in acciaio e non di ceramica in modo che non possano essere rotti e quindi utilizzati ancora una volta per farsi del male». Sia chiaro: nessun segno di incuria o sciatteria, anzi, tutto è assolutamente lindo e pulito, clinicizzato; medici, infermieri e inservienti sono tutti perfettamente in camice bianco. Eppure, nonostante alcuni disegni alle pareti e le riprese che indugiano su un bambino intento a giocare con una macchinina, le immagini restituiscono a chi scrive un profondo senso di claustrofobia e tensione, un ambiente che lascia riecheggiare dispositivi asilari. Non mi ha sorpreso dunque apprendere, successivamente, da alcune inchieste giornalistiche, che in quell’ospedale si utilizzi la contenzione fisica sui minori. D’altro canto, seppure spesso resti una prassi sottaciuta, anche in Lombardia ci sono reparti di neuropsichiatria (a volte pure quelli per adulti) in cui sono legati bambini e adolescenti, e così, seppur in assenza di dati certi, possiamo ipotizzare avvenga anche in altre regioni italiane. Bambini, ragazzi, giovani, sono dunque legati ai letti, braccia, gambe, a volte anche con il corpetto per il busto (e non solo nei reparti ospedalieri) come accade agli adulti e agli anziani, perché la contenzione, tra i più evidenti e dolorosi lasciti dell’armamentario manicomiale, continua ad essere parte sostanziale dell’intervento psichiatrico (e non solo di questo). Le tanto attese Linee di indirizzo per il superamento della contenzione meccanica nei luoghi di cura della salute mentale, approvate il 23 ottobre scorso dalla Conferenza Stato-Regioni, pur dichiarandosi “una cornice di carattere generale accompagnata da indicazioni specifiche per favorire il percorso di progressivo superamento della contenzione nei luoghi di cura della salute mentale”, e pur richiamando, con la Cassazione, che la contenzione non possa mai considerarsi un atto sanitario,  scivolano, nelle ventuno pagine di cui sono composte, nella sostanziale e acritica accettazione dello status quo, che nel breve e inconsistente paragrafo dedicato alle “specificità dei servizi di neuropsichiatria per l’infanzia e adolescenza” trova la sua più eclatante e sconcertante dichiarazione: “in riferimento alla prevenzione della contenzione dei minori – si afferma – valgono gli stessi principi generali descritti per gli adulti”. Nessuna specifica valutazione, nessuna adozione di un principio precauzionale almeno più stringente, nessuna considerazione sulla portata che quell’evento potrà avere sul futuro sviluppo del ragazzo, solo una serie di minime raccomandazioni che chiedono di informare e coinvolgere i genitori, di prestare particolare attenzione alla gestione ambientale e relazionale (soprattutto in caso di abuso di sostanze), di coinvolgere i minori nella formalizzazione di un non meglio specificato “piano crisi”, di utilizzare strategie mirate di analisi e modificazione delle catene comportamentali per la gestione della crisi nelle persone con disabilità intellettiva e/o autismo (sia adulte che minori). In ultima analisi si potrebbe affermare che queste Linee di indirizzo siano tra i primi documenti ufficiali in cui si legittima il ricorso della contenzione anche sui minori (certo come extrema ratio legata allo “stato di necessità”, la cui definizione e qualificazione, però, restano sostanzialmente vacue e discrezionali). Più complessivamente, tanto per gli adulti quanto per i minori, la solita elencazione di “buone pratiche” e le cinque striminzite “indicazioni per il progressivo superamento della contenzione” finiscono col rappresentare, come nelle tante linee guida di diverse aziende sanitarie che si sono succedute negli anni, da un lato, un vuoto esercizio di retorica dei buoni propositi, dall’altro una congerie di atti dal carattere meramente burocratico, volti a definire la correttezza delle procedure, a volte rischiando di produrre un paradossale effetto di ampliamento della liceità del ricorso alla contenzione. Si tratta, in definitiva, di un documento non solo inutile ed evanescente, privo di analisi di dettaglio e di contesto, di contenuti di merito rispetto alle necessarie risorse umane ed economiche, di un qualsivoglia valore prescrittivo, ma che rischia di essere, nella sua inerzia, anche pericoloso. Anche perché è al vaglio del parlamento un disegno di legge, il ddl Zaffini – presentato dal senatore di Fratelli d’Italia e adottato come testo base per la riforma del settore dalla Commissione Affari Sociali del Senato –, in cui, nella sostanziale indeterminatezza di alcune allocuzioni, si legittima normativamente il ricorso alla contenzione, lasciandone indefiniti i confini applicativi. La specifica previsione del disegno di legge sulla contenzione, come formulata, pare in linea con il più complessivo impianto della proposta normativa, innervata su una visione securitaria e fortemente medicalizzata della sofferenza psichica, ricondotta in un alveo di interventi psichiatrici i cui argini sembrano segnati, da un lato, da un paradigma prettamente biologistico del disturbo e del disagio mentale, dall’altro, dalla riproposizione, stemperata nella formulazione dell’incolumità (propria e di terzi, soprattutto degli operatori), dell’equazione tra malattia mentale e pericolosità sociale e personale. L’eventuale saldatura tra questo ddl e le linee di indirizzo adottate dalla Conferenza, rappresenterebbe un rischio mortale per i principi sanciti con la legge 180. Le Linee di indirizzo, inoltre, si concentrano sull’utilizzo della contenzione nel solo spazio dei reparti psichiatrici ospedalieri (per adulti e minori) e delle Rems, non prendendo in considerazione tutti gli altri luoghi in cui la contenzione rappresenta un mezzo di intervento routinario, innanzitutto le residenze per anziani. Ancora, al di là della mera individuazione concettuale, nel documento si sceglie di non affrontare il tema della contenzione ambientale e farmacologica, come se, nella realtà fattuale, le diverse tipologie di contenzione non agissero intrecciandosi e sovrapponendosi. Il tema, in sostanza, appare affrontato in modo assolutamente parziale, soprattutto slegato dalla permanenza di quei dispositivi di internamento che, nei diversi luoghi, sottraggono libertà in nome della sicurezza, mortificano diritti e dignità delle persone riproponendo la stanca retorica del “è per il suo bene”, consentono margini di profitto altissimi agli imprenditori delle strutture private che sopperiscono alle carenze determinate dai mancati investimenti nel pubblico, legittimano una formazione di medici, infermieri e operatori in cui il sofferente smette di essere persona per diventare un mero corpo malato. Ecco, soprattutto, in queste Linee di indirizzo non ci sono le persone sofferenti, le storie di chi è morto di contenzione, i vissuti di chi, pure sopravvissuto, continua a portare una ferita profonda di fascette che non solo hanno bloccato i suoi arti, ma, soprattutto, hanno profanato il suo sé. Questo documento, allora, mantiene l’abissale distanza d’offesa tra chi lega e chi è legato, tra chi si ritiene normale e chi è considerato anormale e pericoloso, tra chi ha e chi non ha.
sanità
detenzioni
Messina, dal Carnevale al carcere. Il punto sul processo ai tre attivisti No Ponte
(disegno di cyop&kaf) Tra il 9 e il 10 settembre scorso tre attivisti sono stati arrestati con l’accusa di resistenza e lesioni, reati commessi durante il Carnevale No Ponte tenutosi il primo marzo scorso nella città dello Stretto. Il corteo, composto da circa un centinaio di persone mascherate, aveva attraversato le vie principali della città, facendo registrare qualche scontro tra manifestanti e forze dell’ordine. A fine giornata, un’agente di polizia riportava una frattura della clavicola guaribile in centotrentacinque giorni. Dalla visione dei filmati delle telecamere e dai travestimenti usati, la questura individua tre ragazzi. Guido è accusato del reato di resistenza pluriaggravata. Gabriele e Andrea, oltre a resistenza pluriaggravata, vengono accusati del reato di lesioni gravi. Gli arresti, come documentato da Radio Onda d’Urto e Radio Onda Rossa, avvengono contemporaneamente in diverse città italiane, tra Napoli, Bari e Varese.  Gabriele viene arrestato a Napoli mentre attende l’arrivo del Flixbus per recarsi da alcuni suoi amici in Francia. Giunto alla stazione trova gli agenti della digos di Messina, che insieme a quelli napoletani, lo fermano e lo portano all’istituto penitenziario di Poggioreale. Nella stessa giornata, agenti della digos di Messina e di Bari perquisiscono l’appartamento di Sara, ex ragazza di Gabriele, che lì ha la residenza. Sara è indagata nello stesso filone di indagini. Andrea viene bloccato su un’auto a Bari, fermato da una volante all’esterno del centro sociale Bread and Roses. La digos gli comunica di seguirlo in questura per la consegna di una notifica. In caserma scopre che la notifica è legata agli incidenti del Carnevale. Andrea trascorre la notte lì, e la mattina dopo viene trasferito nel carcere di Bari. Guido intanto subisce una perquisizione a Varese, nel suo appartamento, insieme ad altri compagni. Ultimata la perquisizione, gli agenti lo accompagnano nel carcere di Varese. Guido è l’unico che sapeva di un’indagine a suo carico, perché vittima della “caccia all’uomo” organizzata dalle forze dell’ordine messinesi qualche ora dopo la fine del corteo. Di quelle ore si ricorda l’entusiasmo di Matteo Salvini che si affrettava a diffondere pubblicamente la notizia, e la narrazione del solito copione sui facinorosi che portano scompiglio in città. Altro elemento ricorrente è il tentativo di dividere i manifestanti tra buoni e cattivi. Gli attivisti, tutti e tre incensurati, vengono qualificati come pericolosi socialmente,  una presunzione che sarebbe corroborata dalla generica appartenenza politica ll’area anarco-antagonista, un pretesto utilizzato anche dal gip di Messina per sostenere l’obbligo carcerario nei loro confronti. Per una ventina di giorni gli attivisti vengono spostati da un carcere a un altro, dove vengono messi in isolamento, negandogli la possibilità di poter parlare con i propri conoscenti e avvocati. Intanto in loro supporto si costituisce un pool di legali (Moschella, Losco, Calabro, di Stefano), con l’obiettivo di smontare accuse molto gravi, le cui sanzioni potrebbero oscillare tra gli otto e i quindici anni. Al momento i tre si trovano agli arresti domiciliari, in attesa della prossima udienza fissata a gennaio 2026. Abbiamo chiesto all’avvocato Francesco Calabro informazioni utili per approfondire la vicenda. Hai ravvisato delle anomalie negli arresti? Intanto mi preme dire che entrambi ragazzi hanno sofferto in maniera particolare il periodo di detenzione. Sia perché erano alla prima esperienza, sia le condizioni, notoriamente disumane. La prima anomalia riguarda il caso di Andrea e gli accadimenti intercorsi tra l’arresto e l’interrogatorio di garanzia, fissato per il dodici. Il mio assistito ha trascorso le prime notti al carcere di Bari, ma il giorno prima dell’interrogatorio è stato condotto al penitenziario di Potenza. Uno spostamento che ha impedito di poter effettuare un colloquio difensivo in vista dell’interrogatorio con il giudice. Su questo ho protestato con il gip, perché il trasferimento era motivato da esigenze organizzative legate all’amministrazione penitenziaria, che in questo strano paese prevalgono sul diritto della difesa.  Con Gabriele è accaduta la stessa cosa: per diverso tempo sia il sottoscritto che la madre abbiamo avuto difficoltà a ottenere colloqui telefonici nel carcere di Poggioreale. Un altro problema riscontrato nell’inchiesta riguarda la modalità di gestione dell’interrogatorio di garanzia. Sebbene l’ordinanza di custodia cautelare fosse stata emessa dal gip di Messina, l’interrogatorio è stato delegato per rogatoria, nel caso di Gabriele al gip di Napoli, nel caso di Andrea a quello di Bari. Parliamo di magistrati che non avevano alcuna conoscenza, se non informazioni sommarie, sulla vicenda. La cosa singolare è che lo svolgimento dell’interrogatorio di Andrea è avvenuto in videoconferenza. Non si comprende a questo punto per quale ragione non abbia proceduto il gip di Messina, che aveva una conoscenza degli atti più dettagliata. Questo elemento fortunatamente non ha inciso, perché ci saremmo comunque avvalsi della facoltà di non rispondere. Il gip di Messina accusa gli attivisti di essere pericolosi socialmente, puoi spiegare meglio queste accuse? Il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto particolarmente gravi i reati, disponendo per tutti e tre gli attivisti la reclusione detentiva. Il ragionamento è legato alla gravità del fatto contestato, e al contempo a una chiara manifestazione di ostilità, tenuta durante il corteo, nei confronti dell’autorità. Una motivazione che a me è apparsa discutibile: perché se gli attivisti non rispettano le prescrizioni stabilite dal questore – travestimenti, utilizzo di fumogeni – tale comportamento non ravvisa un’automatica trasgressione delle prescrizioni imposte per gli arresti domiciliari. Parliamo di contesti differenti: dentro il corteo, di un’iniziativa collettiva nella quale la presenza del gruppo è un fattore motivante rispetto all’azione; negli arresti domiciliari invece sei solo. Inoltre, se violi le prescrizioni di un corteo non puoi immaginare che come conseguenza diretta tu possa finire in carcere, mentre se trasgredisci le prescrizioni dei domiciliari sei consapevole che non ci sono alternative al collocamento detentivo in carcere. A che punto siamo nel processo? Abbiamo avanzato istanza di riesame contro l’ordinanza del gip che prevedeva il carcere. E il tribunale del riesame, il 26 settembre, ha disposto la sostituzione della misura carceraria in arresti domiciliari con il braccialetto elettronico. Da poco abbiamo ricevuto dal gip di Messina la notifica del decreto di giudizio immediato, fissato per gennaio. Abbiamo quindici giorni di tempo dalla notifica per valutare riti alternativi che possono essere un giudizio abbreviato oppure, nel caso di chi ha la posizione più lieve, la sospensione del processo attraverso la richiesta di messa alla prova. Io mi orienterò ragionevolmente per un giudizio abbreviato. Certamente il processo è complicato, e non riesco a fare un pronostico su come finirà. Resta un processo che offre margini di difesa, in particolare sulle aggravanti e lesioni provocate al pubblico ufficiale. Il processo potrebbe risentire dell’inasprimento delle pene stabilito dal nuovo ddl sicurezza? Questi sono i primi processi post-pacchetto sicurezza. Nel caso specifico non ci sono effetti immediati sulle contestazioni e le qualificazioni giuridiche provocate dal pacchetto sicurezza: i fatti contestati risalgono al primo marzo del 2025, a un’epoca antecedente all’entrata in vigore del ddl. Le imputazioni invece risentono del progressivo inasprimento delle pene precedente all’approvazione del ddl: provvedimenti che mirano a colpire maggiormente i reati commessi in occasione di manifestazioni svolte in luogo pubblico, come i reati di lesioni aggravate a carico di pubblici ufficiali. Stessa cosa per il reato di resistenza a pubblico ufficiale che con l’aggravante della presenza di più persone, dell’uso di armi improprie, e della condotta dentro la cornice di una manifestazione pubblica, sono condotte punibili con pene fino ai quindici anni di reclusione. (giuseppe mammana)
detenzioni
Decreto Caivano e detenzione minorile. Contro un nuovo carcere a Santa Maria Capua Vetere
(archivio disegni napolimonitor) Il Decreto Caivano e altre misure di recente approvazione hanno comportato un inasprimento del livello di criminalizzazione nei confronti di soggetti come i giovani delle classi popolari, dei territori più marginalizzati, dei migranti, nonché l’istituzione di nuovi reati atti a colpirli e un’impennata di condanne a pene detentive. Ma questi interventi normativi hanno anche fatto sì che emergesse la necessità di un piano di potenziamento delle strutture detentive per minori e l’apertura di nuove carceri. L’intervento ministeriale che prevede l’apertura di quattro nuovi Istituti penitenziari minorili (Ipm), insieme a L’Aquila, Rovigo e Lecce, individua come sede anche la piccola città campana di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. La struttura individuata come futuro penitenziario è l’Istituto Angiulli, già in passato centro di detenzione minorile, ma che a oggi ospita, oltre a un museo e una biblioteca comunale, un Centro diurno polifunzionale. Questo centro, racconta una volontaria che vi opera, offre un modello alternativo di scontare la pena, a partire da attività che permettano ai ragazzi di costruirsi strumenti di crescita attraverso corsi di formazione lavorativa e non, come la falegnameria e il laboratorio di restauro di moto d’epoca: «Abbiamo anche a disposizione impianti sportivi e un teatro, ma non abbiamo mai ricevuto i fondi destinati alla loro ristrutturazione». Il futuro dell’Angiulli è ancora incerto. In un primo momento si era parlato di chiusura, poi di trasferimento, ma la difficoltà a trovare i locali adatti per dare continuità alle attività del centro, in una città in cui mancano gli spazi tanto per l’istruzione quanto per l’attività sociale, è enorme. Ancora più preoccupante è il silenzio delle istituzioni locali su una decisione calata dall’alto dal governo, considerando anche che, poco meno di dieci anni fa, l’attuale sindaco Mirra (eletto con una coalizione civica in quota centrosinistra) sbandierava come una vittoria la riqualifica della struttura. Come a L’Aquila, in ogni caso, dove l’inaugurazione del nuovo Ipm è stata presentata come una vittoria, il “modello Caivano” arriva a Santa Maria con l’intento di “combattere il disagio giovanile”, un disagio che ha ovviamente radici profonde, e ben radicate altrove: edifici scolastici inadeguati, un’istruzione votata unicamente alla formazione di futuri lavoratori precari e ricattabili, costante e asfissiante presenza di polizia ed esercito in tutte le scuole della provincia di Caserta, con controlli ed eventi propagandistici imbastiti con il solo fine di racimolare consenso e arruolamenti, assenza di impianti sportivi e di luoghi di socialità accessibili anche alle classi meno abbienti. E ancora: emergenza abitativa, lavoro nero e precario, una criminalità organizzata onnipresente e sempre alla ricerca di nuova manovalanza. Il risultato più evidente di tutto ciò è la fuga, per chi può permetterselo, da una gabbia a cielo aperto fatta di sfruttamento, abbandono e marginalità. E chi non può fuggire, si arrangia. In realtà, il rapporto tra marginalità e istituzioni totali è ancora più evidente su territori come questo. La situazione a Santa Maria Capua Vetere, dove già nel 2020 si consumò una mattanza di detenuti nella casa circondariale Francesco Uccella, è il riflesso di un’emergenza che attraversa l’intero paese e che riempie le carceri di “elementi di disturbo”: sovraffollamento, violenze contro i detenuti, isolamento e condizioni di vita indignitose accomunano le carceri ai lager di Stato, i cosiddetti Cpr, e sono in aumento anche negli istituti minorili. I tassi elevatissimi di recidività, i suicidi e i continui atti di autolesionismo ne sono la prova più lampante. Davanti a questa escalation, qualcosa però si muove. Lo scorso maggio a Santa Maria Capua Vetere si è tenuto un presidio proprio fuori all’istituto Angiulli con un messaggio molto chiaro: totale opposizione alla riapertura dell’Ipm e a nuove carceri minorili su tutto il territorio italiano; richiesta di fondi per il potenziamento del Centro diurno polifunzionale, delle scuole, degli ospedali e dei servizi pubblici nel casertano; denuncia dei piani securitari del governo Meloni e del silenzio dell’amministrazione locale. Naturalmente si è trattato solo di un primo passo di un percorso che tenta di rimettere sotto i riflettori il tema del carcere e la sua normalizzazione, ancora di più in aree di provincia e di periferia: un tentativo che avrà seguito con altre iniziative a partire dal prossimo autunno e che avrà bisogno di voce e supporto anche da parte di tutti gli altri territori. (raul lamia)
detenzioni
Dal Cpr al carcere, chi ha ucciso Hamid Badoui?
(disegno di martina di gennaro) All’alba del 19 maggio scorso, tra le 4:30 e le 6:09, nella cella 214 del padiglione B del carcere torinese Lorusso e Cutugno, Hamid Badoui si tolse i lacci delle scarpe e li legò al collo. In quell’istituto i lacci vengono ritirati solo ai detenuti classificati come “ad alto rischio suicidario”. Hamid non era tra loro, e quei lacci, apparentemente un dettaglio, divennero una condanna. Passarono ventidue lunghissimi minuti prima che qualcuno aprisse la porta: ventidue minuti in cui rimase solo, avvolto da un silenzio che lo soffocava. Quando gli agenti entrarono, alle 6:31, per lui non c’era più tempo.  Hamid aveva quarantun’anni e da quindici viveva a Torino. Era nato a Oued Zem, in Marocco, in una famiglia a cui era legatissimo. A soli quindici anni aveva lasciato la sua terra per la Spagna, accolto in una comunità per minori. Lì aveva studiato, ottenuto i documenti spagnoli e un diploma da cameriere. Con i suoi primi lavori riusciva a mandare denaro alla madre, gesto che non interruppe neppure durante i periodi difficili. Anche durante la detenzione a Fossano, nonostante le ristrettezze, continuò a inviarle parte dei piccoli guadagni ottenuti dentro il carcere. Era il suo modo di restare figlio presente, anche dietro le sbarre. Sua sorella Zahira lo ricorda con tenerezza: «Mamma era il suo punto debole, la sua gioia più grande». In Italia Hamid continuò a lavorare in cucina, a studiare, a conservare con cura documenti e ricevute, segni concreti della sua volontà di costruirsi un futuro dignitoso. Ma le difficoltà non mancavano: i documenti scaduti, la vicinanza a persone sbagliate, la lotta con la dipendenza dal crack. Più volte chiese aiuto, affidandosi al Gruppo Abele per percorsi di cura e disintossicazione. Con Zahira parlava spesso del desiderio di tornare al Sert, curarsi e riavvicinarsi alla famiglia. «Parlavamo ogni giorno», ricorda la sorella. «Poi, all’improvviso, il suo telefono è rimasto spento. Il lunedì è arrivata la notizia che nessuno di noi avrebbe mai voluto ricevere». Dopo più di una detenzione Hamid era stato trasferito nel Cpr di Bari e poi deportato in Albania, nel centro di Gjadër. Era rimasto lì trentatré giorni, lo aveva definito “un inferno”. «Meglio il carcere che Shengjin», aveva confidato al suo avvocato, spaventato da quella esperienza che lo aveva segnato profondamente. La decisione di un giudice romano, che ne dispose la liberazione, sollevò dubbi sulla legittimità costituzionale del trattenimento nei Cpr. Hamid era tornato a Torino di venerdì notte, libero sulla carta, ma attanagliato dalla paura di essere nuovamente rinchiuso. Sabato 17 maggio, poco dopo le 14:00, davanti a una tabaccheria di corso Giulio Cesare, chiamò la polizia per denunciare una truffa: la Sim che aveva acquistato non funzionava. Quel gesto, nato dal desiderio di giustizia, si trasformò in un arresto per resistenza a pubblico ufficiale. La folla guardava, filmava, gridava. Da quell’istante la sua fragile traiettoria cambiò. Hamid trascorse oltre dieci ore in una camera di sicurezza, senza alcuna assistenza. Solo alle 3:43 del 18 maggio varcò l’ingresso del carcere torinese. Alle 4:20 un medico lo visitò per dieci minuti, troppo poco per cogliere il suo stato d’animo. Segnalò di assumere Lyrica e Rivotril, ma il rischio suicidario fu giudicato “basso”. Da quel momento si apre il primo vuoto temporale: dalle 4:30 del mattino fino alle 19:00 nessuna annotazione, nessuna osservazione, quasi quindici ore in cui Hamid rimane invisibile. Sappiamo che poco prima delle 19:00 ha trascorso circa un’ora nell’ufficio del sovrintendente, perché aveva rifiutato di condividere la cella. Poco dopo viene riaccompagnato nella 214 e si apre il secondo intervallo di silenzio: dalle 19:00 circa fino alle 4:30 del mattino successivo. Alle 4:30 gli agenti effettuano il giro di controllo per verificare che i detenuti stiano bene. È nel letto, apparentemente dormiente. Alle 6:09 il suo corpo viene trovato legato alle sbarre del cancello della cella 214. Le chiavi sono al piano terra: trascorrono ventidue minuti prima che venga aperta. Alle 6:31, quando gli agenti entrano, è troppo tardi. Zahira, insieme all’avvocato Luca Motta, ha presentato un esposto in procura. Denuncia omissioni, silenzi, ritardi. Ricorda che Hamid avrebbe potuto andare ai domiciliari, che l’arresto non era obbligatorio, che la sua fragilità era evidente. L’esposto parla chiaro: quattordici ore dall’arresto alla visita medica, oltre dieci in isolamento, diciassette escoriazioni sul corpo. Il medico legale ha confermato: non furono le ferite a ucciderlo, ma l’asfissia da impiccagione. Il 27 maggio corso Palermo si riempì di persone. Fiori, cartelli, passi condivisi. Circa duecento voci unite per dire che nessuno deve morire così, nel silenzio di una cella. Hamid aveva scelto di vivere, di curarsi, di ricominciare. Ma in carcere ha trovato tutto fuorché custodia o protezione. Dopo l’autopsia, Zahira ha completato le pratiche per riportarlo in Marocco, come desiderava la madre. Un ultimo gesto d’amore, per restituirgli dignità e pace. Rimane la memoria: il suo sorriso, i suoi gesti di affetto, la sua forza fragile che chi lo ha amato custodirà sempre. Rabi yrahmou, Hamid. Ma tensach. (luna casarotti – yairaiha ets)
detenzioni
La storia silenziosa di Tarek. L’arresto in piazza, la condanna, la solidarietà
(disegno di sam3) Il 5 ottobre del 2025 è stata una giornata storica: migliaia di persone scesero in piazza a Porta San Paolo, a Roma. I manifestanti, sfidando i divieti del governo, reclamavano a gran voce la fine del genocidio a Gaza. Per diverse ore, sotto una pioggia torrenziale, le forze dell’ordine circondarono il presidio con i blindati permettendo l’ingresso ai manifestanti solo previa identificazione; anche nei pressi della città, nelle aree di servizio autostradali adiacenti la capitale, le forze dell’ordine impedirono ai manifestanti, tramite fogli di via, di raggiungere il presidio. In piazza, dopo una serie di provocazioni poliziesche e un fitto lancio di lacrimogeni, si arrivò agli scontri su via Ostiense. In serata venne arrestato uno studente italiano, Tiziano, portato in questura e posto agli arresti domiciliari. Il tribunale l’ha condannato a due anni, ma la pena è stata sospesa per l’applicazione della condizionale in quanto soggetto incensurato. Qualche settimana dopo, nel silenzio dei media, venne arrestato un altro ragazzo, un tunisino di nome Tarek. Anche lui, come Tiziano, accusato di resistenza a pubblico ufficiale. A differenza dello studente italiano, Tarek è un ragazzo straniero con precedenti penali, con lo stigma della sua condizione etnica. Le accuse inchiodano Tarek seguendo il solito razzismo istituzionale. Il ragazzo viene descritto come un uomo dalle sembianze magrebine, che dopo aver colpito gli agenti a ombrellate, e lanciato delle bottiglie, si infligge volontariamente dei tagli per impedire il fermo da parte delle forze di polizia. La vicenda emerge diversi mesi dopo, a maggio, grazie a una corrispondenza telefonica, su Radio Onda Rossa, in cui l’avvocato di Tarek spiega che il ragazzo è stato condannato, con il rito abbreviato, a una pena di quattro anni e otto mesi. Una sentenza singolare perché la condanna è superiore alla richiesta del pubblico ministero che chiedeva tre anni. Il 21 maggio, davanti al carcere di Regina Coeli, viene indetto un presidio per esprimere solidarietà al ragazzo tunisino, e agli altri detenuti, in cui tra l’altro i manifestanti leggono una lettera di Tiziano indirizzata allo stesso Tarek. Per approfondire la vicenda decido di incontrare l’avvocato del ragazzo, Leonardo Pompili. Una chiacchierata in attesa della pronuncia dell’udienza di appello fissata il prossimo 21 novembre. Mi racconti la storia di Tarek? Tarek è arrivato in Italia nel 2008, dalla Tunisia. In Italia ha conosciuto una compagna con cui ha avuto una relazione, e da cui sono nati due figli. Aveva il permesso di soggiorno e lavorava. Dopo sono iniziati i primi problemi e Tarek ha deciso di separarsi dalla compagna. Da questo momento comincia a precipitare nella marginalità: difficoltà a trovare una casa, difficoltà a trovare un posto di lavoro. Nel 2020, un altro episodio segna la vita di Tarek. Un litigio con due persone si trasforma in una colluttazione. Viene aperto un fascicolo a suo carico e Tarek viene condannato per tentato omicidio. In carcere la  situazione si aggrava, e la depressione lo porta a un consumo esorbitante di farmaci. Scontata la condanna ricomincia a lavorare, ma a nero. A tal punto che dopo l’arresto, avvenuto qualche giorno dopo il 5 ottobre, il datore di lavoro con cui lavorava nega di conoscerlo. Tutto questo impedisce al ragazzo di recuperare una parte della retribuzione che gli spettava. Inoltre, al momento, appare difficile regolarizzare la sua posizione. Tarek ha una carta d’identità ma il permesso di soggiorno scaduto. A giugno doveva presentarsi all’ufficio immigrazione per il rinnovo, ma a causa della detenzione carceraria non è riuscito a presentarsi all’appuntamento ed è stato chiesto un rinvio. Ci racconti che è successo il 5 ottobre? Tarek frequentava la zona di Ostiense e si trovava in un locale lì vicino. Non era andato appositamente al corteo. Decide di avvicinarsi quando la piazza era già blindata. E quando vede la polizia che manganella da un lato, e le bandiere della Palestina dall’altro, decide di compiere un gesto di protesta estrema: si leva la maglietta, e comincia a tagliarsi. Si tratta di un gesto comune a molti detenuti ed ex detenuti: compiere mutilazioni corporali come quelli che avvengono nei Cpr, quando i reclusi si cuciono la bocca. Un gesto di protesta nonché irriverente, perché il corpo è l’unica parte che non è soggetta al controllo del carceriere. Oltre al gesto autolesionistico, la procura lo accusa di aver preso a ombrellate un agente, e di aver lanciato delle bottiglie. La cosa singolare è che per giustificare il reato di resistenza a pubblico ufficiale l’accusa capovolge la cronologia della condotta: sostenendo che prima il ragazzo prende a ombrellate gli agenti, dopo lancia le bottiglie, e infine si taglia per non farsi arrestare. Tutte accuse opinabili. Per esempio, riguardo al lancio di bottiglie, nei video non si vedono i lanci né contro cose e né contro persone. Stessa cosa per l’accusa di aver colpito a ombrellate gli agenti: le forze di polizia sostengono che Tarek abbia colpito con l’ombrello un agente sull’avambraccio. Eppure non ci sono agenti refertati. Si vede solamente che lui agita un ombrello, per quarantanove secondi, verso il contingente di polizia, e poi scappa, senza colpire nessuno. Altra anomalia resta l’aggravante del numero di persone. Gli agenti sostengono che Tarek si sia messo alla testa dei manifestanti, dal video invece si nota come un piccolo contingente di poliziotti si stacca andando verso il ragazzo tunisino, e nel momento in cui prenderebbe a ombrellate gli agenti, lui si trova da solo. Questo dimostra che Tarek ha fatto tutto da solo. E il fatto che lo stesso giorno nella piazza ci siano stati disordini, non significa che puoi unire gli episodi. Per me non c’è resistenza perché nessuna delle condotte ha impedito nulla. Ma a ogni modo, pure che fosse resistenza aggravata, che va dai tre ai quindici anni, non puoi partire dai sette anni. Se immaginiamo il massimo della gravità, che può arrivare a un massimo di quindici anni, chi agita un ombrello non può rischiare sette anni, cioè la metà. Tanto più se la condotta è durata solamente un minuto e cinquanta secondi. Pensi ci sia un nesso tra la condanna di Tarek e il nuovo ddl sicurezza? Sì, il suo caso è un’anticipazione di quello che è il Ddl sicurezza. Introduzione di nuovi reati, aumento di pene. Reati che non sono certamente delle novità. Nel nuovo ddl tuttavia c’è un salto di qualità: le norme sono incentrate sulla punizione di quei soggetti che vivono nella marginalità sociale. E contro coloro che questa marginalità sociale non l’accettano. Soggetti che combaciano con il profilo di Tarek, un ex detenuto che in piazza ha fatto un gesto estremo. Nel suo caso forse scimmiottante rispetto a un vero e proprio conflitto. Il ddl è pieno di norme che vanno a sanzionare il dissenso. I reati di opinione, con il nuovo pacchetto sicurezza, rientreranno nella cornice del 4-bis: la condanna della pena deve essere espiata in carcere. A me è capitato di seguire dei processi per reati di opinione. Uno per una rivista anarchica, e un altro per delle canzoni trap, in cui c’è l’aggravante del terrorismo. Una cosa impensabile alcuni anni fa. Oltretutto in questo pacchetto sono previste aggravanti per la resistenza. Insomma, hai una pena aggravata se commetti degli abusi contro un operatore delle forze dell’ordine. In più, nella normativa, ci sono benefici per gli agenti: il pagamento delle spese legali, o la possibilità di girare con un’altra arma oltre a quella di  ordinanza, senza bisogno di avere il porto d’armi. Adesso si sta parlando di approvare un’altra legge che permetterebbe di non iscrivere più notizie di reato a carico degli agenti di pubblica sicurezza. Quali sono le condizioni di Tarek? Alterna periodi in cui sta male, non parla molto, ha tanti pensieri, e non riesce a dormire, ad altri in cui sta meglio, e sembra molto attivo e dialogante. A fine maggio hanno organizzato una manifestazione davanti al Regina Coeli, nel penitenziario dove si trova, ma non aveva capito che fosse per lui. Ha detto che aveva sentito le grida da fuori, e quando gli ho riferito che era per lui è rimasto molto sorpreso. Mi dice che lo spostano continuamente, ora lo hanno messo in una sala ricreativa, adibita a cella, per assenza di spazio. È apparso molto felice quando ha saputo che era apparsa una storia a fumetti su di lui pubblicata da Internazionale. Non immaginava tutta questa solidarietà. Tarek ha delle problematiche di salute che sono state evidenziate nel processo. Problemi che sono stati ignorati. Ho chiesto una perizia ma non è stata concessa. Non c’è stato nemmeno un confronto con la documentazione prodotta, nessuna motivazione. Hanno semplicemente detto che non c’erano motivi validi per indagare sui disturbi di Tarek. Perché un conto è la condotta di una persona che sta bene, un altro è quella di un soggetto con dei problemi. Spesso è una scelta di opportunità, altre volte dettata da altre ragioni, come evitare perdite di tempo, in quanto approfondire le condizioni di un detenuto implica la nomina di un perito. Molte persone che sono in carcere soffrono di questi problemi, ma dal momento che dovrebbero metterli tutti fuori e non ci sono le strutture, ti dicono che queste non sono malattie psichiatriche ma disturbi. Il carcere non funziona, è una discarica sociale e se andiamo a vedere la popolazione carceraria, la maggior parte dei detenuti sono poveri e immigrati. (giuseppe mammana)
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Meno università, più carcere. A L’Aquila il governo Meloni investe in repressione
(disegno di cyop&kaf) C’è qualcosa di stonato e grottesco nei toni trionfalistici con cui è stata celebrata la riapertura dell’Istituto penale per i minorenni dell’Aquila. Bisogna avere una concezione distorta di cosa possa costituire una “giornata di gioia”, per usare le parole del sottosegretario Delmastro, presente all’inaugurazione, per festeggiare la riapertura di un carcere in questi termini, tanto più se destinato a minori. Non si trattava di locali abbandonati o inutilizzati, come si è voluto far credere, ma di un presidio pubblico pienamente attivo. Infatti, fino a poco tempo fa, i locali di Acquasanta ospitavano i corsi di economia dell’Università dell’Aquila, con una mensa utilizzata anche dagli studenti del vicino conservatorio. Nel suo intervento, Delmastro ha parlato della chiusura di una “pagina nefasta”, riferendosi alla decisione dell’allora ministro Orlando di chiudere l’Ipm. Una decisione definita “sciagurata, improvvida”, ma che in realtà permise alla struttura di diventare una sede universitaria in un momento in cui la città tentava ancora di rialzarsi dalle proprie macerie, restituendo così alla collettività uno spazio pubblico e formativo. Fu proprio quella scelta a consentire, nel 2014, l’assegnazione definitiva della struttura all’ateneo, che nel frattempo aveva investito per adeguarla alle esigenze didattiche. Nel maggio 2023, però, Delmastro ha rivendicato la proprietà dell’edificio per restituirla a quella che ha definito la sua “funzione originaria” di istituto penale. A gennaio 2025 i docenti sono stati costretti a sgomberare e da marzo i lavori di riconversione sono proseguiti a ritmo serrato. Una rapidità di esecuzione che raramente vediamo sui nostri territori e quasi mai trova riscontro nel potenziamento dei servizi pubblici essenziali. Sempre durante l’inaugurazione si è definita “impropria” la destinazione universitaria, per poi celebrare come vittoria la riconversione alla detenzione degli spazi, presentando l’Ipm addirittura come un’opportunità per il territorio, nonché come il riscatto di “uno scippo subito dalla città” (parole del sindaco dell’Aquila Pierluigi Biondi). Un pericoloso rovesciamento ideologico che occulta il fatto che proprio il carcere dovrebbe essere il massimo fallimento di una società e delle sue istituzioni. Questo rovesciamento di senso si inserisce nel solco tracciato dalla cosiddetta “rinascita” dell’Aquila, immaginata dalla giunta Biondi e non solo. Una rinascita che passa per una società ossessionata dal controllo, convinta che la repressione, e non la presa in cura della popolazione che vive sul territorio, possa colmare i vuoti lasciati dallo smantellamento delle politiche sociali. Nel frattempo, dissenso e malcontento vengono neutralizzati, anche qui in linea con le politiche promosse dal governo nazionale. L’impianto ideologico che ha generato la riapertura dell’Ipm, d’altronde, è in piena continuità con le tendenze nazionali. Quelle imposte, per esempio, con il Decreto Caivano (non a caso più volte evocato durante l’inaugurazione), oggi assunto a modello per il trattamento del “disagio giovanile”, riducendo il tema a mera questione di ordine pubblico. Un decreto che ignora le cause sociali, economiche, culturali dei problemi e che non ha mai voluto affrontarne la complessità, alimentando piuttosto una narrazione emergenziale permanente, utile a giustificare misure eccezionali, ridurre l’uso di misure alternative, estendere la detenzione amministrativa, arrivando a colpire pesantemente minori in età scolare. Tra le giustificazioni offerte per la riapertura del carcere minorile si è parlato, com’era prevedibile, anche di sovraffollamento. Basta leggere i dati dell’associazione Antigone per scoprire che l’applicazione del Decreto Caivano è tra le principali cause dell’aumento della popolazione carceraria minorile. Tutto questo, ovviamente, viene sottaciuto e avvolto nella ripetizione ossessiva di slogan del tipo “lo Stato torna presente sul territorio”, le stesse parole pronunciate da Giorgia Meloni a Caivano e rilanciate da Delmastro davanti al nastro tricolore del nuovo istituto penale. È curioso come lo Stato torni a essere presente con prontezza solo quando deve mostrare i muscoli e dispiegare i propri dispositivi di violenza. Molto meno solerte quando si tratta di ricostruire le scuole della città, ancora in attesa della piena riconsegna; o di affrontare il debito strutturale che strangola la sanità abruzzese (era presente anche il presidente della Regione, il romano Marco Marsilio) ridotta a sopravvivere a tentoni, tra continui tagli; o di garantire consultori, sportelli territoriali, spazi pubblici essenziali che invece continuano a chiudere, in particolare quelli rivolti alle donne e ai soggetti più fragili. Questa impalcatura repressiva ha bisogno di una legittimazione simbolica, e l’ha trovata in un concetto tanto potente quanto di recente strumentalizzato: il diritto all’affettività. Durante l’inaugurazione si è molto insistito sulla possibilità, per i minori che sono detenuti nel “nuovo istituto” (potrà accoglierne fino a ventotto), di scontare la pena senza essere allontanati dal proprio contesto territoriale.  Un diritto fondamentale che dovrebbe essere sempre garantito, ma che, nella realtà concreta del carcere e considerando le condizioni materiali che la detenzione impone (dall’abuso sistematico di psicofarmaci ai numerosi atti di autolesionismo, fino al progressivo annientamento emotivo e relazionale), finisce per ridursi a un’etichetta di comodo, appiccicata per coprire un’operazione afflittiva continuativa che poco ha a che vedere con la fruizione occasionale dell’“affettività”. La retorica della “prossimità” è un inganno più o meno consapevole, e l’ipocrisia diventa lampante anche nelle parole della garante Monia Scalera, che recita il mantra del carcere come “estrema ratio”, mentre il ministro Nordio annuncia con una lettera l’apertura di altri due istituti minorili entro dicembre, entrambi all’Aquila. Vale la pena ricordare che la stessa Scalera, pochi mesi fa, ha pubblicamente negato l’esistenza del sovraffollamento a Castrogno, Teramo, uno degli istituti più in affanno d’Italia da questo punto di vista; un luogo attraversato da numerosi suicidi e atti di autolesionismo, tanto che è lecito domandarsi quale tipo di garanzia possa offrire una figura istituzionale che normalizza pubblicamente simili realtà. Tutto questo rientra in un disegno preciso. Il carcere minorile è il tassello più inquietante di un’architettura repressiva fondata sull’idea che lo Stato non solo possa, ma debba esercitare violenza: una violenza preventiva che ora vorrebbe essere anche pedagogica, che si erge a strumento ordinario per tappare le falle che esso stesso ha prodotto e continua a produrre. (francesca di egidio)
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Evasione impossibile. Le morti silenziose per inalazione di gas in carcere
(disegno di cyop&kaf) Un’altra bomboletta. Un altro corpo. Non c’era più ossigeno in cella, ma ce n’era abbastanza per bruciare un’altra vita nel silenzio dell’indifferenza. La libertà non è sempre oltre il muro, a volte è nascosta dietro una valvola, dentro una boccata. Il giudice sfoglia il codice penale, il ministro pronuncia slogan in conferenza stampa, ognuno ha la sua parte nel teatro della legalità. La pena ha la sua cornice, la colpa la sua misura, l’espiazione il suo recinto. Ma appena cala il sipario pochi metri di cemento, un bagno alla turca, un tavolino inchiodato al pavimento, spazi inospitali, finestre sbarrate e ambienti privi di aerazione. In questo spazio claustrofobico, privo di aria e di orizzonti, un uomo inala gas da campeggio per non sentire più il peso della sua esistenza. Quel gas arriva da una bomboletta acquistata tramite il “sopravvitto”, l’elenco dei prodotti ufficialmente disponibili in carcere. È lo stesso articolo che si trova accanto ai fornelli da picnic nei supermercati. Sull’etichetta una raccomandazione chiara: “Usare solo in ambienti ben ventilati” (la cella è un bozzolo di tre metri per quattro con la finestra “sigillata”). Si censura una lettera, si vieta un accendino, ma il butano industriale è autorizzato. La bomboletta è legale, viene richiesta col modello 72, un modulo con cui ogni detenuto può acquistare, a proprie spese, prodotti extra rispetto alla dotazione di base fornita dallo Stato. È un foglio semplice, da compilare a penna, con il numero di matricola, i codici degli articoli richiesti, la quantità desiderata e la firma. Una volta ordinata, la bomboletta viene custodita in armadietti chiusi a chiave, sotto il controllo degli agenti. Quando finisce, si restituisce e se ne prende un’altra. Tutto tracciato. Eppure “tirarsi il gas”, inalare il butano per evadere non fisicamente ma mentalmente, è una pratica che tutti conoscono ma nessuno affronta, perché cambiare la sceneggiatura significherebbe ammettere che c’è un problema. L’effetto? Un blackout chimico: euforia, vertigini, battito irregolare, labbra anestetizzate, cervello in tilt. Per qualche minuto non c’è più il muro, la cella, la pena. Solo un vuoto ovattato dove la coscienza galleggia o affonda. Per alcuni è tregua, per altri fuga, per altri ancora un addio. Nessuno lo chiama con il suo nome di “evasione tossica” ma dentro c’è chi cerca pace, chi l’oblio, chi non vuole più tornare da quel viaggio. Se non si può evadere con il corpo, ci si dissolve con la chimica, e se non torni non è quasi mai suicidio, ma un “evento imprevedibile”. Tutto questo avviene nel pieno rispetto delle norme. Il modello 72 continua a offrire bombolette. Basterebbe poco per cambiare: una circolare, una revisione del catalogo, una scelta più sensata. Le piastre elettriche? Troppo costose, troppo complicato adeguare gli impianti, dicono. Si potrebbe optare per altre bombole e fornelli, con dispositivi atti a limitarne l’uso improprio. Ma nemmeno questo si fa. Costa sicuramente meno lasciare tutto com’è, e anche le ditte che gestiscono il sopravvitto hanno il loro tornaconto. Offrire soluzioni più sicure significherebbe investire in alternative meno redditizie. E poi aumentano i prezzi, i detenuti protestano, non per capriccio, ma perché molti non hanno soldi, non ricevono pacchi, non fanno colloqui, non hanno familiari su cui contare. In carcere anche pochi centesimi fanno la differenza. E allora, per evitare il problema, si sceglie di non cambiare nulla. Del resto, già la carta igienica, lì dentro, sembra un bene di lusso: la paghi come seta, ma gratta come carta vetrata. Così, la bomboletta resta l’unica opzione disponibile, utile per cucinare o per staccare la spina, a seconda dell’umore. E gli psichiatri? Parlano, ma nessuno li ascolta. Già nel 2019, la Rivista di Psichiatria denunciava l’inadeguatezza dello Stato nel contrastare l’abuso di bombolette in carcere, spesso legato ad atti autolesivi o suicidi. Le morti per inalazione non vengono sempre classificate come suicidi: restano escluse dalle statistiche ufficiali, senza indagini né responsabilità attribuite. Questa contraddizione è grave e preoccupante. Secondo la medicina legale, l’inalazione volontaria di gas con esito fatale è a tutti gli effetti un suicidio, rientrando nella categoria delle asfissie chimiche volontarie. In questi casi, il protocollo medico-legale prevede accertamenti rigorosi: autopsia completa, analisi tossicologiche, ricostruzione della dinamica e valutazione del contesto psicologico. In carcere tutto questo dovrebbe essere obbligatorio, poiché la privazione della libertà impone allo Stato una responsabilità sulla vita e sull’incolumità del detenuto. Tuttavia, l’amministrazione penitenziaria adotta un approccio incerto: se manca una prova esplicita dell’intento suicidario, il decesso viene spesso classificato come “evento accidentale” o “causa da accertare”. Lo stesso gesto, inalare gas con un sacchetto di nylon, può essere interpretato come uso improprio per alterare lo stato di coscienza e non necessariamente come suicidio. Questo porta a sottovalutare il gesto, a non attivare protocolli di prevenzione e a ignorare il contesto psichiatrico. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, nella sua relazione del 15 dicembre 2024, ha evidenziato come diversi decessi in carcere per inalazione di gas siano stati classificati come “cause da accertare” proprio per questa ambiguità interpretativa. Il risultato è che alcune morti restano fuori dal conteggio ufficiale, rendendo più opaca l’analisi del fenomeno. Ma sebbene la morte per inalazione sia formalmente un suicidio, la responsabilità non può ricadere esclusivamente sul detenuto. Lo Stato, fornendo nelle celle bombole di gas butano (prodotto potenzialmente letale) e non adottando protocolli sanitari e di prevenzione adeguati, contribuisce a creare le condizioni che favoriscono queste tragedie. Inoltre il suicidio in carcere non è mai un atto isolato o imprevedibile, ma spesso il risultato di un sistema che non interviene efficacemente. Gli esperti lo dicono con chiarezza: non basta autorizzare un prodotto, quando potenzialmente letale. Serve una valutazione clinica costante, multidisciplinare, attenta al percorso psichico della persona, non solo momentaneo. Serve sapere chi lo richiede, perché e in che condizione psicologica. Serve uno sguardo clinico. Ma manca. La storia di Fabio Romagnoli lo dimostra. Aveva già tentato varie volte il suicidio. Era affetto da disturbi psichiatrici documentati. La sua fragilità era nota. Gli fu tolta la bomboletta, poi riconsegnata dopo una valutazione che non ha saputo o potuto cogliere il disegno più ampio. Così il suo gesto, per il sistema “imprevedibile”, si è compiuto: eppure lo Stato distribuisce gas butano in celle prive di ventilazione, senza protocolli sanitari adeguati, con medici insufficienti. Vietato negli ospedali, sconsigliato nelle case, il butano diventa compatibile con l’ambiente carcerario. Gesto imprevedibile, dicono.  In questo contesto la salute mentale è secondaria e la dignità uno slogan. Dopo ogni tragedia si invocano ispezioni, si esprimono cordogli, poi si archivia tutto e si continua a morire in silenzio: per un colpo di gas, un cappio improvvisato, una psicosi lasciata marcire, un abbandono medico travestito da fatalità. Tutti vedono ma nessuno ascolta, al massimo si verbalizza. Eppure in Italia si può morire così, inalando gas in un luogo dove già respirare è difficile, un prodotto pensato per l’escursionismo e divenuto parte dell’arredo carcerario, un veicolo di fuga, non verso un prato o una montagna, ma verso l’oblio. Una fragranza sintetica che non sa di libertà, ma la imita, come un profumo contraffatto. Perché anche l’aria dietro le sbarre può avere il sapore della burocrazia. (luna casarotti – yairaiha ets)
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