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Tra giustizia e ragion di stato. La posta in gioco del processo dell’Aquila ai tre palestinesi
(disegno di adriana marineo) Tra il 24 e il 27 giugno si svolgeranno, in concomitanza con le udienze previste presso il tribunale di L’Aquila, una serie di iniziative di mobilitazione a sostegno dei tre cittadini palestinesi Anaan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh. Tra queste iniziative c’è la presentazione del numero 14 de Lo stato delle città al laboratorio Radici, partendo dall’articolo scritto sulla questione da Francesca Di Egidio, e con il supporto di CaseMatte L’Aquila e Fuori Genere. L’incontro si svolgerà martedì 24 al laboratorio Radici (via Leosini, 6) a partire dalle 18:30. Di quell’articolo vi proponiamo a seguire un estratto.  *     *     *  Il procedimento, che oggi entra nella fase dibattimentale, è stato preceduto da quasi un anno di mobilitazioni. Un percorso cominciato con l’arresto di Anan, che nelle ultime settimane ha ripreso forza con assemblee, presìdi, manifestazioni in diverse città italiane. Una rete, quella di “Free Anan”, che negli ultimi tempi ha raggiunto anche altre città europee come Marsiglia e Parigi. Questa storia, che oggi porta un centinaio di persone davanti a un tribunale, comincia proprio qui, all’Aquila, nel marzo 2024, quando Anan Yaeesh viene arrestato su richiesta di Israele. Inizialmente si trattava di una richiesta di estradizione: lo stato israeliano lo accusava di appartenere a una cellula terroristica attiva a Tulkarem. Il ministro della giustizia, Carlo Nordio, trasmetteva prontamente gli atti alla Corte d’Appello dell’Aquila, che ne disponeva la custodia cautelare. Il 13 marzo 2024, la Corte d’Appello negava l’estradizione, riconoscendo che, in caso di consegna a Israele, l’uomo avrebbe rischiato trattamenti crudeli, inumani e degradanti. I giudici basano queste decisioni su documenti delle Nazioni Unite, rapporti di Ong internazionali e osservazioni costanti su ciò che accade nelle carceri israeliane. Accolgono così il principio di non-refoulement, secondo il quale nessuno può essere trasferito verso un paese dove rischia tortura o violenza. La vicenda giudiziaria però non si conclude. L’Italia, dopo aver negato la consegna a Israele, decide di trattenere Anan e di aprire un nuovo procedimento, stavolta su iniziativa autonoma della procura. L’11 marzo, due giorni prima della decisione della Corte d’Appello, i magistrati aquilani ottengono una nuova ordinanza di custodia cautelare. Oltre ad Anan, vengono arrestati anche Ali Irar e Mansour Doghmosh, accusati di associazione con finalità di terrorismo internazionale (ex art. 270 bis c.p.). Secondo l’accusa, i due sono coinvolti soprattutto per la loro vicinanza ad Anan: è anche grazie a questo legame che viene costruita l’ipotesi di un’associazione terroristica. Non si tratta più di eseguire una richiesta estera. Questa volta è lo stato italiano che si fa carico dell’inchiesta, che prolunga la detenzione di Anan, che assume l’impianto accusatorio costruito da Israele in un altro ordinamento giuridico e in un altro contesto politico. E lo fa utilizzando le stesse fonti, le stesse prove, gli stessi verbali raccolti dalle autorità israeliane nei territori occupati. È difficile non vedere, in questa scelta, una forma di supplenza. Per alcuni osservatori è un precedente grave, esempio di come il sistema penale possa diventare strumento di repressione politica anche fuori dai propri confini. […] Il processo che si è aperto all’Aquila rappresenta un precedente giuridico e politico delicato e non privo di implicazioni. Da un lato, ci mostra fino a che punto possa spingersi la cooperazione giudiziaria in materia di antiterrorismo: l’Italia si ritrova a giudicare atti avvenuti nei territori palestinesi occupati, basandosi su elementi istruttori prodotti da uno stato straniero, Israele, e assumendo in proprio un impianto accusatorio costruito dentro un altro ordinamento giuridico e in un altro contesto politico. Dall’altro, evidenzia quanto le dinamiche geopolitiche riescano a infiltrarsi nei margini della giustizia, spingendola oltre i suoi confini ordinari: il principio di giurisdizione territoriale, il diritto alla difesa, la necessità di rispettare il diritto internazionale vengono messi alla prova da logiche di alleanze e rapporti di forza. Fino a che punto uno stato che si professa democratico può processare una forma di resistenza armata legata a una causa di liberazione nazionale, e farlo in nome della lotta al terrorismo? La distinzione tra terrorismo e resistenza, tra dissenso e minaccia, appare oggi sempre più fragile nel linguaggio giuridico, soprattutto in un’Europa che, dopo il 7 ottobre, sembra tollerare sempre meno ogni forma di mobilitazione legata alla causa palestinese. Nei prossimi mesi il dibattimento proseguirà con un calendario serrato. L’udienza del 16 aprile ha intanto aggiunto alcuni elementi rilevanti. Tra i testi dell’accusa ascoltati vi era un perito balistico,  incaricato di analizzare un fucile apparso in una delle fotografie del materiale probatorio e attribuito ad Anan. Dalla sua perizia è emerso che si trattava di un’arma giocattolo, in plastica, facilmente reperibile in commercio, priva di qualsiasi funzionalità. Il fatto stesso che su un oggetto del genere sia stata disposta una perizia balistica, poi acquisita come prova, ha suscitato un momento di ilarità tra i presenti. È stato questo uno dei momenti in cui il processo si è spinto su un piano quasi surreale. Una sensazione che si è manifestata anche in altri momenti, quando si è fatto ricorso a fonti aperte (post Facebook, video YouTube, fotografie, materiali pubblici), utilizzate come elementi probatori. Un aspetto che in quella giornata è affiorato appena, ma che tornerà con ogni probabilità al centro delle prossime udienze, quando verrà riconvocato l’ex commissario della Digos a cui fu affidata l’operazione che portò all’arresto di Anan e per la quale avrebbe ricevuto una premiazione. Ben più rilevante, però, è ancora una volta quanto accaduto sul fronte dei verbali d’interrogatorio raccolti da Israele. La difesa, infatti, ha presentato una ricerca giurisprudenziale articolata che richiama un principio consolidato del nostro ordinamento, secondo cui gli atti raccolti da autorità straniere possono entrare in un processo italiano solo se rispettano le garanzie fondamentali del diritto interno, come il contraddittorio, la presenza di un difensore, il divieto di coercizione. Ed è proprio l’assenza di queste garanzie a rendere quegli atti incompatibili con un processo giusto. A differenza di quanto accaduto il 2 aprile, quando la Corte aveva ammesso i verbali senza esitazioni, questa volta i giudici hanno deciso di riservarsi la decisione, che sarà sciolta il 7 maggio. Da tale decisione potrebbe dipendere molto, poiché una parte sostanziale dell’impianto accusatorio si fonda proprio su quei verbali. Come già si intuisce da queste prime fasi, il cuore del processo non risiede solo nel suo esito finale, ma anche nelle modalità con cui verranno affrontati i nodi giuridici ancora aperti: l’utilizzabilità di prove raccolte da un altro stato, il riconoscimento o la negazione del contesto in cui quei fatti si sono prodotti. In gioco non c’è solo la sorte giudiziaria di tre uomini (uno dei quali, va ricordato, è detenuto in regime cautelare da oltre un anno, senza condanna definitiva) ma il senso stesso del diritto. Capire quindi se questo processo sarà fondato sulla ricerca della giustizia o se sarà, invece, piegato alle logiche della ragion di stato. (francesca di egidio – versione integrale dell’articolo sul numero 14 de lo stato delle città)
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Detenzioni, suicidi e rimpatri. I cittadini tunisini nelle carceri italiane
(disegno di cyop&kaf) Al 31 maggio, i detenuti in Italia erano 62.722, a fronte di una capienza regolamentare di 51.285 posti, con un tasso di sovraffollamento del 134,29 per cento (4.579 posti sono tra l’altro indisponibili per inagibilità). Le condizioni disumane delle persone che vivono in detenzione sono ormai note a tutti: celle sovraffollate, mancanza di accesso regolare alle cure mediche e psicologiche, assenza di mediatori culturali. Per i detenuti stranieri, le barriere linguistiche e giuridiche aumentano l’isolamento e la vulnerabilità. Nel 2024 sono morte duecento quarantotto persone in carcere, per suicidio, malattia, overdose, incuria o violenza. In molti casi, si tratta di morti annunciate, frutto di una sanità penitenziaria al collasso e di una gestione che disattende le norme costituzionali e internazionali in materia di diritti umani. Tra queste morti, novantuno riguardano detenuti che si sono tolti la vita, superando il precedente picco del 2022 (ottantaquattro suicidi). Dietro queste cifre si cela una realtà di disperazione, isolamento e abbandono che colpisce le persone rinchiuse dietro le sbarre. Tra le vittime, almeno quaranta erano detenuti stranieri, dieci dei quali di origine tunisina, una comunità particolarmente vulnerabile nel sistema penitenziario italiano. Nei primi sei mesi del 2025, quattro cittadini tunisini sono morti in carcere. Secondo dati raccolti e confermati dall’ex deputato tunisino Majdi Karbai, i quattordici tunisini morti in carcere nell’ultimo anno e mezzo erano per lo più giovani arrestati per reati minori, intrappolati in strutture sovraffollate e fatiscenti. Un caso emblematico è quello di un giovane di ventisette anni deceduto nel carcere di Piacenza, la cui morte, come tante altre, resta avvolta nel silenzio e nella mancata trasparenza, alimentando dubbi e sospetti tra i familiari. Per gli islamici praticanti, ma anche per chi non riesce a professare la propria fede in maniera piena anche in un paese straniero (cosa tutt’altro che scontata), il suicidio è un atto assai grave, profondamente inaccettabile. Il Corano, d’altronde, come altri testi sacri, condanna apertamente l’autosottrazione della vita:  “O voi che credete, non uccidete voi stessi. In verità, Allah è misericordioso verso di voi” (Sura An-Nisa 4:29). “E non gettatevi con le vostre mani nella distruzione” (Sura Al-Baqara 2:195). Se la violenza istituzionale all’interno degli istituti non risparmia nessuno, è vero che le comunità migranti sono spesso le più vulnerabili, dal momento che molti detenuti non hanno alcuna possibilità di far valere le proprie ragioni nell’unico modo possibile agli altri: quello giudiziario. Nel 2023, nel carcere di Reggio Emilia, un detenuto tunisino è stato incappucciato, denudato e picchiato a lungo da dieci agenti penitenziari. Nonostante la presenza di immagini video inequivocabili, il processo di primo grado si è concluso a febbraio 2025 con condanne per abuso d’autorità e percosse aggravate, ma non per tortura. Le parti civili, tra cui l’associazione Yairaiha di cui chi scrive fa parte, e la Procura della Repubblica, hanno fatto ricorso in appello. Diverso l’esito del caso San Gimignano, dove, con sentenza definitiva nel 2025, la Corte d’Appello di Firenze ha riconosciuto la tortura inflitta nel 2018 da quindici agenti a un detenuto tunisino. È una delle rare sentenze in cui la legge italiana sulla tortura, approvata nel 2017, è stata applicata in modo pieno. Le carceri, tuttavia, non sono l’unico volto della detenzione in Italia. I Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR), di cui questo giornale si è spesso occupato (per esempio qui e qui), rappresentano una zona grigia e opaca dove i diritti fondamentali vengono sistematicamente annientati. Si tratta di luoghi disumani assimilabili a veri e propri lager amministrativi, dove le persone sono trattenute senza aver commesso reati. Le condizioni sono degradanti, con limitatissimo accesso a cure mediche, supporto legale o mediazione linguistica, in attesa del rimpatrio. Negli ultimi anni, l’Italia ha siglato con la Tunisia un accordo di cooperazione che prevede due voli charter settimanali di rimpatrio. Ogni volo può trasportare da venti a quaranta persone, ciascuna accompagnata da agenti di scorta. Si tratta di operazioni silenziose, spesso eseguite all’alba, senza un’adeguata informazione giuridica e in assenza di un effettivo diritto alla difesa. Nel 2023, il sessantasei per cento dei voli di rimpatrio (settanta su centosei) sono stati destinati alla Tunisia, per un totale di 2.006 cittadini tunisini deportati, su un totale di 2.506 persone rimpatriate. Dal canto suo, la Tunisia promuove quella che definisce “politica di ritorno volontario”, ma la realtà è più sfumata. Secondo il Ministero dell’Interno tunisino e secondo fonti stampa, 3.400 migranti irregolari sono stati rimpatriati volontariamente nel 2025. Numerose Ong denunciano tuttavia che molti di questi rimpatri avvengono sotto pressione, senza un vero consenso informato né assistenza giuridica, e con la minaccia di detenzione per chi rifiuta il ritorno. Emblematico, in questo contesto, è il caso di Wissem Ben Abdel Latif, giovane tunisino di ventisei anni morto il 28 novembre 2021 dopo essere stato legato mani e piedi per oltre cento ore in un letto dell’ospedale San Camillo di Roma, dove era stato ricoverato per disagio psichico dopo un periodo nel Cpr di Ponte Galeria. Wissem era arrivato a Lampedusa a ottobre, con il sogno di raggiungere lo zio in Francia. Durante la sua detenzione, aveva iniziato a manifestare segnali evidenti di sofferenza mentale, ignorati dalle autorità. Nonostante una sentenza del giudice di pace che il 24 novembre aveva disposto la revoca del trattenimento, Wissem non fu mai informato della sua liberazione. Morì pochi giorni dopo, sedato e immobilizzato, senza che nessuno lo assistesse o tutelasse. La sua morte è una ferita aperta che chiama in causa l’intero sistema di gestione della detenzione migrante in Italia. La totale assenza dello stato tunisino in queste vicende aggrava ulteriormente il quadro: né il ministero degli esteri né le rappresentanze consolari si costituiscono parte civile, né offrono assistenza concreta ai familiari delle vittime. È lasciato alle associazioni e ai comitati di lotta il compito di affiancare le famiglie, portare avanti battaglie legali e tenere viva la memoria delle persone uccise dal silenzio e dall’abbandono; chi sopravvive, intanto, dopo essere partito con il sogno di aiutare i propri familiari in patria, non di rado è costretto a tornare al proprio paese sopportando un fardello di vergogna e senso di colpa. La realtà dei rimpatri è quindi fortemente legata alle tragedie delle morti in mare, dei suicidi in carcere, delle torture nei centri di detenzione amministrativa, seguendo il filo rosso di una politica che punta alla rimozione del problema e all’invisibilità delle sue vittime. Ma ogni deportazione lascia una traccia nei corpi, nelle memorie, nelle storie spezzate. Queste morti, infatti, non sono inevitabili: sono il prodotto di scelte politiche, di inazione, di un sistema che criminalizza la povertà e la provenienza. Chi si toglie la vita, spesso non lo fa per scelta, ma per disperazione e invisibilità. Chi muore per incuria o per le botte, è vittima di uno Stato che ha smesso di guardare ai diritti come fondamento della giustizia. El haqq ma ydi’s and Rabbi Man yadus ala karamat ghayrih, sa ya thur yawman bi qadarih حلمة كانت في بالي، والواقع صحان ي نحاول نطي ر بجناحي، لكن الريح كسرتني  نعيش في دنيا قاسية، والفرحة نسيتن ي Un sogno era nella mia mente, ma la realtà mi ha svegliato. Cerco di volare con le mie ali, ma il vento mi ha spezzato. Vivo in un mondo duro, e la felicità mi ha dimenticato. Balti  “7elma” (حلمة Sogno) (luna casarotti – yairaiha ets)
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Sette cancelli. Voci di donne dal carcere di Benevento
(disegno di irene servillo) Sette cancelli separano il mondo di fuori da quello di dentro. Hanno detto così le donne che stanno dentro. Ogni settimana provo a contarli, ma mi fermo a cinque. Gli ultimi due mi mancano, si perdono. La separazione tra fuori e dentro è un calcolo che non torna. Fuori, sul verde acceso delle campagne, si affaccia la dormiente del Sannio: il monte Pentime che disegna i capelli sciolti fino al fiume Calore, un corpo addormentato che poggia le gambe sul Taburno. Dentro, un piccolo televisore che trasmette la puntata di Uomini e Donne, chiavi grandi, mai viste così grandi, un’immaginetta di Padre Pio, il suono del metal detector, quotidiani non letti che dicono che il Napoli crede nello scudetto. Fuori-dentro, ogni venerdì. E poi di nuovo fuori, io. In macchina parte Friday I’m in love. Parcheggio davanti a quel mostro di cemento marrone che da bambina mi sembrava avesse qualcosa di inquietante, come la bocca di una balena spalancata sulle campagne, pronta a divorare per lasciare posto soltanto al silenzio. Sezione femminile, laboratorio di teatro, i nomi da segnare. Sempre quelli. Ogni settimana si entra nella pancia della balena con Exit Strategy, nata come associazione a Benevento nel 2013 mettendo al centro l’autodeterminazione femminile in un territorio in cui le diverse facce della violenza di genere restano spesso un magma sommerso. Un’associazione di donne che fin dal primo momento decide di occuparsi delle più invisibili, quelle detenute e private della propria libertà, e decide di farlo attraverso il teatro. In testa ho ancora il ritornello di quella canzone dei Cure sentita in macchina. Robert Smith dice di averla scritta viaggiando in auto verso casa in un venerdì in cui non vedeva l’ora di tornare. Tornare dalla famiglia è un pensiero costante di chi sta qui, scandito da ricorrenze che certe volte sembrano un gioco sadico per chi è lontano. Il compleanno di un figlio, quello proprio, un anniversario. Una lettera. Loredana, nome di fantasia, racconta che quando sapeva di dover andare in carcere è andata dal parrucchiere a tagliarsi i capelli, perché sapeva che lì sarebbe stato complicato asciugarli lunghi com’erano. Penso al rumore di phon accesi coperto solo dalle canzoni alla radio, alle donne che si preparano per il sabato sera, per una cerimonia, alla palettina monouso lasciata nel bicchierino di caffè vuoto mentre si aspetta con il colore in posa, all’affollarsi di opinioni da superficie e frasi euforiche, al commento sul nuovo taglio. Alla sua testa mentre la parrucchiera le chiede se l’acqua va bene o è fredda, mentre si fa i capelli per il carcere. La lontananza si nutre di un conto alla rovescia verso il fine pena. Ma per qualcuno quel conto è solo uno in più tra quelli che non tornano. Per Anna, altro nome di fantasia, la fine pena è mai. Dieci anni fa ha messo piede nella pancia del mostro. Racconta: “Non sapevo nulla del carcere. Non sapevo cosa mi aspettava all’interno di quello stabile che mi sembrava tanto freddo e che avevo capito che da quel giorno sarebbe dovuta essere la mia casa”. Entrare in carcere per lei è significato diventare invisibile, la chiusura totale in se stessa. Una condanna troppo grande per essere sopportata. Una condanna senza numero. I numeri da contare ogni giorno sono sempre gli stessi. Ma un giorno poi diventano di nuovo sette. 1: cancello della cella, 2: androne del femminile, 3: fuori dal femminile, si respira l’aria, 4: matricola, 5: portellone che si apre vicino l’uscita, 6: dove gli agenti depositano le loro cose, 7: l’ultimo, quello della libertà. Sette cancelli sono anche quelli che hanno dato il titolo a uno spettacolo portato in scena un anno fa al Teatro comunale di Benevento. Per salire sul palco ad Anna viene accordato un permesso di otto ore che assomiglia a un miracolo. Di quella serata dice: “In quelle otto ore non ero più una detenuta, ma una persona con tanta voglia di vivere, di amare e di spiegare la mia vita, anche se sembra che vita non è”. La vita passa attraverso le sbarre nei mandarini che spuntano sui rami, certe volte è la felicità di farsi la crema idratante con l’olio d’oliva, come dice una di loro. La vita è quella che poi al mostro di cemento viene data in pasto. Il 2024 è stato l’annus horribilis dei suicidi in carcere. Il rapporto annuale di Antigone parla di ottantotto persone detenute che si sono tolte la vita. Mai così tante. Nello stesso anno, mentre il ministro Nordio parla dell’importanza del lavoro per il reinserimento sociale e l’abbassamento del rischio di recidiva, dal ministero della giustizia è arrivato un taglio pari a circa il cinquanta per cento dei fondi destinati al pagamento delle persone detenute lavoranti in carcere. Nel mese di aprile di quest’anno, nella visita dell’osservatorio di Antigone alla Casa circondariale di Benevento, vengono rilevate 378 persone ristrette a fronte di una capienza massima di 259 posti. Il reparto femminile in particolare ha una percentuale di sovraffollamento pari a circa il duecento per cento, un incremento dovuto anche al trasferimento delle donne sfollate dalla casa circondariale di Pozzuoli. Sempre Antigone riporta la carenza di personale sanitario e segnala che oltre i due terzi della popolazione detenuta assume psicofarmaci al bisogno, mentre lo psichiatra si reca in istituto per solo quattro ore a settimana. Esco e mi lascio il mostro alle spalle. Al semaforo c’è un ragazzo che vende rose sotto la pioggia. Friday I’m in love. (giulia tesauro)
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L’imperativo della frontiera. Sull’udienza preliminare del processo per la morte di Wissem Ben Abdellatif
(disegno di malov) Sono trascorsi più di due anni e mezzo da quando ho visto Henda Benali e Kamel Abdellatif per la prima volta, nella loro casa di Kebili, una città della Tunisia interna. Il nostro incontro più recente risale invece a questa primavera, nella sala del Kif Kif, un locale che è anche punto di ritrovo per la sinistra araba a Roma. Rispetto a quanto percepito quella mattina del settembre 2022, Henda e Kamel mi sono sembrati stavolta più forti e agguerriti. Come se lottare per la verità sulla morte del loro primogenito li avesse in qualche modo, forse loro malgrado, costretti alla vita. Le lacrime c’erano sempre, ma non era il dolore sordo di Kebili. Era un dolore rumoroso. Henda e Kamel avevano attraversato il paese, da Roma a Bologna, con il comitato Verità e Giustizia per Wissem Ben Abdellatif, per raccontare la storia di un giovane uomo che chi legge questo giornale conosce bene. Wissem che giocava bene a calcio. Wissem che ascoltava Bob Marley e aveva perso il lavoro. Wissem che sorrideva, con gli amici, girando video sulla barca che lo portava in Italia. Wissem che è morto, in seguito alla detenzione nel Cpr di Ponte Galeria e a una contenzione fisica durata centotré ore, quaranta all’ospedale Grassi di Ostia, poi sessantatré al San Camillo di Roma. Legato per centotré ore. «Wissem ha detto chiaramente di aver ricevuto delle manganellate in testa nel Cpr di Ponte Galeria, e anche i suoi compagni di detenzione hanno confermato questa cosa», ha raccontato il padre durante l’incontro pubblico. Magro, provato dai problemi di salute, tremava. Ha smesso di parlare, Kamel, ma una scritta in inglese sul suo cappellino diceva per lui: “No Fear”. Niente Paura. «Perché ucciderlo in quel modo?». Si è chiesta invece, ancora una volta “perché?”, Henda, la madre. Spera che suo figlio sia un esempio per tutte e tutti. Wissem aveva voluto denunciare la situazione sua e dei suoi compagni di detenzione, girando video nel Cpr e diffondendoli in rete. Wissem, Henda ne è sicura, ora è in Paradiso. Tradotta a braccio da un giovane tunisino, commosso anche lui, conclude: «Se fosse stata una morte normale l’avremmo accettata». L’avvocato Romeo ha spiegato che la procura di Roma ha richiesto l’archiviazione per la denuncia per sequestro di persona contro il primario del reparto psichiatrico del San Camillo, che poi è lo stesso del Grassi di Ostia, e contro gli altri medici coinvolti nella lunga contenzione fisica di Wissem: «Sebbene avessimo chiesto di essere informati nell’eventualità di una richiesta di archiviazione, la notizia di quest’ultima è arrivata solo al momento dell’udienza preliminare, che si è tenuta ad aprile nei confronti dell’unica persona ancora indagata, l’infermiere che ha somministrato una dose di farmaci non prevista dalla scheda terapeutica di Wissem». La prossima udienza si terrà a Roma il 10 settembre: i genitori si sono costituiti parte civile, e i loro legali hanno ottenuto che venga chiamata in causa anche l’Asl Roma 3, nella cui giurisdizione si trova il reparto psichiatrico dove Wissem ha trascorso le sue ultime ore. In generale, fanno sapere ancora dal comitato, “ci si aspetta che la controparte punti a far passare la morte di Wissem, una morte di Stato, come morte naturale”. Come in altri casi si tenderà in effetti a punire solo le ultime violenze subite da Wissem, normalizzando la lunga catena di abusi che le hanno precedute. L’ingiustizia subita dal ventiseienne di Kebili, però, non sta solo in un sovradosaggio di farmaci. Sta nella lunghissima contenzione fisica. Nella detenzione in Cpr, esperienza vicina a quella del carcere più duro e che sanziona per di più un semplice illecito amministrativo come la permanenza irregolare su un territorio nazionale. Anche queste violenze sono dettagli accidentali, effetti collaterali della grande ingiustizia di un ampio e capillare regime di frontiera basato su razza e classe. Se Wissem ha dovuto attraversare il mare, finire a Lampedusa, essere chiuso in una nave quarantena ad Augusta e poi in Cpr, è perché non ha avuto, come centinaia di migliaia di altre persone, nessuna opportunità di attraversare legalmente il Mediterraneo. Sarebbe bastato un visto turistico, una borsa lavoro, una borsa di studio, come quella che chi scrive ha ottenuto qualche anno fa, senza particolari meriti accademici peraltro, proprio per la Tunisia, proprio a ventisei anni. La grande violenza normalizzata, che si colloca nel livello antecedente a quella individuale subita da Wissem, sta nel fatto che i visti Schengen agli africani, e in generale alle persone non bianche, siano un’eccezione. Eppure, anche se divenuto marginale nei dibattiti sulla migrazione, il muro della burocrazia e dell’esclusione dalla libertà di movimento è il più pervasivo e strutturale fondamento di questo sistema. A rafforzare questo muro ci sono le decine di barriere che impediscono le vite dei migranti: non solo quella del Mediterraneo o del deserto, non solo i lager libici e quelli europei, ma anche le interdizioni che molto spesso rendono impossibile lavorare al di fuori del bracciantato agricolo sottopagato, dello spaccio, della prostituzione. Fino al carcere, che spesso consegue a tutto questo. Solo nel 2023, secondo i dati di Schengen Visa Statistics, settecentomila persone di varie nazionalità africane hanno perso ottanta euro, una cifra pari alla metà di uno degli ultimi stipendi di Wissem, per fare la domanda di un visto europeo che non hanno mai ottenuto. I dinieghi dei paesi europei verso le persone di nazionalità africane che chiedono il visto hanno rappresentato il 43% del totale dei visti negati in tutto il mondo. Del resto, tante persone non ci hanno nemmeno provato, a entrare legalmente, perché non avevano le migliaia di euro di fideiussione bancaria necessarie a farlo. Sono quindi le nostre frontiere blindate, l’unica causa profonda della “migrazione irregolare”, espressione abusata da tanti governi, italiani e non solo. Fanno qualcosa di male – è il sottinteso decisivo – le persone che non si spostano “a causa” di una forza maggiore, ma perché, semplicemente, lo desiderano. Ora seguito dall’ipocrita corollario del “Piano Mattei”, l’assioma dominante ripete: “fermiamo la migrazione irregolare”, “aiutiamoli a casa loro”. Ma per chi subisce l’oppressione e la repressione non esiste un loro da “aiutare” o “salvare” che sia diverso dal “noi”. L’imperativo della frontiera, il non vi muovete che ha dilaniato il corpo di Wissem, è sempre più pressante sul corpo di chiunque, come lui, voglia migrare; e poi manifestare, occupare, protestare. Accertare la verità sulla dinamica della sua morte, a cominciare dalla prossima udienza è quindi, come dice l’avvocato Romeo, “una prima forma di giustizia”. L’ultima è l’intero orizzonte verso cui guardare e tendere, perché, come insiste Henda, la morte di Wissem serva a impedire che casi come il suo si ripetano ancora. (giulia beatrice filpi)
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“A Silivri fa freddo”. Violazioni dei diritti umani nei Cpr della Turchia
(disegno di martina di gennaro) Può accadere che trovandosi a Istanbul e dicendo che ti stai recando in uno dei suoi distretti, a Silivri, qualcuno ti risponderà che “a Silivri fa freddo”. Anche se è estate inoltrata e ci sono trentacinque gradi. Situata sulla sponda europea della provincia di Istanbul, antico villaggio di pescatori, dal 2008 ospita la più grande prigione europea con una capienza di 11 mila persone e ne detiene attualmente circa 22 mila, tra cui una buona parte di prigionieri politici detenuti in un regime di carcere duro noto come prigione di tipo F. È da questa grigia superficie, che si estende su 955.354 metri quadrati, che proviene l’aria gelida di Silivri. All’interno dello stesso comune, a circa venti chilometri di distanza, sorge un’altra struttura detentiva, meno rinomata, il Centro di permanenza per il rimpatrio femminile di Selimpaşa, uno dei trenta Cpr costruiti in Turchia in seguito agli ingenti finanziamenti che dal 2015 vengono stanziati dall’Unione europea all’interno di progetti per il supporto di “pace e stabilità” (IcPS) con l’intento di contenere e controllare i migranti verso l’Europa da Siria, Iran, Iraq e Afghanistan. In un comunicato stampa in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, il partito Dem (partito dell’uguaglianza e della democrazia tra i popoli) afferma che i Cpr “sono luoghi costruiti appositamente per torture e maltrattamenti” e che “l’accordo con l’Unione europea è di per sé un crimine”. Sono numerosi gli immigrati a essere arrestati e trattenuti arbitrariamente in questi centri e rispediti illegalmente nei paesi di provenienza, anche in seguito a richiesta di asilo, attraverso l’ottenimento delle loro firme di rimpatrio volontario, sottratte utilizzando tecniche ingannevoli o violenza psicologica e fisica. Il numero di arresti si è intensificato notevolmente dopo le ultime elezioni presidenziali, con l’aumento di controlli capillari supportati da camionette predisposte esclusivamente alla detenzione degli immigrati. Nel giugno 2024 il ministro dell’interno Ali Yerlikaya ha dichiarato compiaciuto che “nell’ultimo anno si è raggiunto il numero record di 141.187 espulsioni di stranieri irregolari”. Fuori al Cpr di Selimpaşa, ogni mercoledì, una fitta folla aspetta in fila per registrare le impronte digitali su un veicolo sul quale compaiono, congiunte, la bandiera turca insieme a quella dell’Unione Europea. Per chi è riuscito a uscire e si trova sotto sorveglianza amministrativa con obbligo di firma in attesa di processo, l’incremento dei detenuti è stato tangibile: “Una volta al mese veniamo a firmare – dice una donna in fila –, se prima si aspettava non più di mezz’ora, dalla metà del 2023 la gente che è entrata qui è aumentata e si sta in fila in piedi anche per quattro ore sotto il sole e le intemperie; ci sono donne incinte e bambini piccoli, se ci si lamenta e ci si siede in un angolo fuori dalla fila i gendarmi richiamano all’ordine e minacciano di rimetterci dentro. Se sono stranieri, minacciano anche i nostri accompagnatori”. Alcune attiviste arrestate in seguito al corteo del 25 novembre (giornata mondiale contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere) descrivono lo spazio detentivo come insufficiente e malsano: “La struttura si compone di tre piani riservati alle sezioni. In ognuna di esse, appena superate le sbarre, si è subito catapultati nello stretto corridoio affollato da materassi, ai cui lati si aprono sette stanze fornite di letti. La più grande ne conteneva sei. I bagni utilizzabili nella nostra sezione erano tre. Le docce due, di cui una ricavata da un precedente bagno alla turca riempito grossolanamente con qualcosa di simile allo stucco per chiudere l’orinatoio. Abbiamo provato a contare le donne detenute al terzo piano e crediamo raggiungessero circa il centinaio al nostro ultimo giorno di detenzione. Riscontriamo più persone che entrano rispetto a quelle che escono ed è molto probabile che una buona parte di chi è uscito sia stata in realtà trasferita in altri centri; accade spesso che ti dicano che verrai liberato, ma in realtà ti trasferiscono in Cpr più lontani dal luogo di residenza, a Gaziantep, Şanlıurfa e Erzurum, più vicini ai confini con Siria, Afghanistan e Iran, rallentando cosi le procedure legali per le scarcerazioni e agevolando la procedura di rimpatrio ‘volontario’ in piena violazione del principio di non-refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra. È raro che il trasferimento venga notificato, dal momento che sono frequenti i casi in cui avvocati e famiglie ne sono venuti a conoscenza a deportazione avvenuta. La comunicazione con l’esterno è assai limitata: hai a disposizione dieci minuti due giorni a settimana, dalle 16 alle 20 circa, ma gli orari vengono decisi arbitrariamente dalla guardia di turno. Il tempo non era mai sufficiente per le chiamate di tutte e inoltre, se non hai a disposizione il denaro contante per ricaricare la scheda telefonica non hai possibilità di comunicazione, così come di accedere ai beni di prima necessità venduti allo spaccio del centro a prezzi che superano quelli del mercato fuori. “È negato il diritto alla salute, è ostruito l’accesso a qualsiasi tipo di farmaco proveniente dall’esterno e l’unica cura possibile a qualsiasi tipo di male fornita dal centro è una pillola di ‘antibiotico’ del quale non conosciamo il principio attivo, consegnata direttamente sul palmo della mano, priva del suo blister. Jana, una giovane donna sudamericana [nome e provenienza di fantasia], che riportava una ferita sull’arco palmare suturata con dei punti metallici per spillatrice, svigorita dalla permanenza in quel luogo firmò per il rimpatrio. Per legge, la Direzione provinciale per la gestione delle migrazioni dovrebbe finanziarne i costi, ma fu costretta a chiedere un prestito a qualcuno oltreoceano per acquistare un biglietto aereo. Il giorno del volo partì in direzione aeroporto con la camionetta guidata dai gendarmi. Non sappiamo esattamente cosa accadde ma la riportarono indietro dopo qualche ora. Ci dirigemmo verso di lei non appena oltrepassò le sbarre: il suo sguardo era orientato in una direzione che non era la nostra e quella di nessun altro lì dentro, non rispondeva a nessuno stimolo. Si accostò a uno dei materassi posizionati ai lati del corridoio per sdraiarsi e ci rimase come se fosse morta per i due giorni successivi. Dopodiché siamo uscite e non abbiamo saputo più niente di Jana, non ci ha mai richiamate al recapito che le avevamo lasciato”. In seguito agli arresti arbitrari di cinque persone straniere – tra cui anche di provenienza europea – avvenuti durante il ventunesimo Pride di Istanbul (2023), un’associazione di avvocati volontari ha denunciato le condizioni di detenzione in questi centri, i trattamenti inumani e degradanti, la mancanza di accesso a cure mediche adeguate, alla ventilazione, la scarsa igiene (GGM’lerde Neler Oluyor?). Uno degli attivisti arrestati riportava una ferita alla gamba che non è mai stata curata adeguatamente in un luogo sterile. È stato reso noto il limitato accesso alla protezione internazionale e il contenimento arbitrario della comunicazione con i propri clienti. Nell’autunno 2024 alcune studentesse e attiviste palestinesi dell’organizzazione Filistin için bin genç sono state arrestate (anche con raid domestici a seguito di perquisizioni a casa), trattenute in custodia cautelare per diciotto ore senza possibilità di soddisfare i propri bisogni primari e trasferite nel Cpr di Selimpaşa al cui ingresso, segnala l’organizzazione, è stato strappato loro l’hijab. L’accusa illegittima è di vilipendio al presidente e violazione dei termini della legge n. 2911, entrata in vigore dopo il golpe militare del 1980, che limita il diritto di riunione e manifestazione, per aver esposto all’interno della campagna “Stop fueling genocide” gli accordi commerciali turchi con Israele e la compagnia energetica azera Socar. Da Ceyhan, a sud della Turchia, viene spedito infatti il petrolio azero fino al porto di Ashkelon, circa il trenta per cento del petrolio importato dall’entità israeliana. Attribuendo in aggiunta vaghe accuse come il rappresentare una “minaccia per l’ordine pubblico” questi centri diventano anche il luogo per silenziare studenti non cittadini, migranti e tutte le persone in movimento che denunciano apertamente il razzismo, lo sfruttamento, la violenza patriarcale e le politiche governative. (dalila procopio)
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Il fuoco fra le urla e i silenzi. Rivolte e solidarietà al CPR di Torino
(archivio disegni napolimonitor) Si chiamava Cie (Centro di Identificazione e di espulsione), però era già molto conosciuto come carcere per stranieri. Allora il governo italiano, per confondere la società e lasciarla disinformata, ha cambiato il nome in Cpr (Centro di permanenza per il rimpatrio). Con la difficoltà di comunicazione gli abitanti di questa penisola vivono per la maggior parte disinformati. Qui a Torino il Cpr ha riaperto questa primavera. Un mese fa ero al presidio sotto il Cpr di corso Brunelleschi. Era un sabato, io sono straccivendola abusiva e dopo il mercato del Balon mi sono direzionata al movimento di resistenza. L’appuntamento per il presidio era alle 16 e io sono arrivata alle 19 dalla parte dell’entrata principale. Il movimento nella strada e l’eco del vuoto mi facevano avere passi decisi mentre fotografavo le mura indegne di questa prigione. “Fuoco ai CPR” era la scritta in rosso a bella vista in un quartiere silenzioso, oppressore e complice del campo di prigionia che trattiene esseri umani senza una carta di soggiorno. Nel prato di corso Brunelleschi le macchine accompagnano il semaforo, mentre davanti al muro, nell’angolo della via, davanti a me sbuca la macchina degli sbirri nel suo blu celeste colore della Madonna. I salvatori dall’ardore infernale mi fermano sul viale mentre cammino verso la fermata. Il poliziotto esce e urla: «Ferma!». Bloccata nel viale invio subito un vocale mentre il discepolo stradale mi chiede: «Documento?». Dico la mia generalità e nel confronto lo sbirro chiede se so il significato di “generalità”. Rimaniamo per quasi venti minuti a fare ricerca su di me. Dico che abito da vent’anni in Italia, neanche così: «Permesso di soggiorno!», «Carta di identità!», ma la carta è solo solo carta e la carta brucerà. Ferma, fisso negli occhi quello che fa la ronda sulla vita delle persone. In dieci minuti si aggiunge la macchina della finanza con i rinforzi, mi ordinano di posare il telefono, dicono che loro sono educati e pazienti: ecco tutti angeli scesi dal Paradiso. Arrivano i compagni e prendono un ruolo nel presepio, poi gli asini della Digos a confermare la mia liberazione. Dopo questa scena la vita procede quotidiana per le vie di Torino. Il 25 aprile, giorno della Liberazione, c’è una biciclettata e ha portato calore musica e tante urla davanti al Cpr. «Hurrya, libertà, freedom!». Scambio di messaggi con conflitto. Mentre urlavamo, da dentro loro gridavano: «Non abbiamo la libertà!». Dentro di me un vuoto e poi niente, niente, non c’era senso, neanche la musica, nessun senso, nessun perché di quelle mura. Perché siamo così pochi? Perché il vicinato accetta quelle mura? Anzi, ci sono due, tre maledetti che dentro casa urlano che gli stranieri devono morire, marcire dentro i Cpr. Continua il 25 aprile di Torino, è festa: gli americani li hanno salvati, ottant’anni fa, e oggi sono gli stranieri i pericolosi, ma gli stranieri non hanno armi, non hanno neanche le possibilità di avere una penna e un quaderno per andare a scuola, non hanno residenza, vivono in cantina come topi, urinano ovunque nei bar mentre fanno una colazione veloci, vivono nel subprecario perché i padroni non vogliono che esistano. Fine aprile, arriva il messaggio di una rivolta in corso Brunelleschi. Ognuno segue la propria vita, così all’improvviso il senso di colpa consuma tutto il tuo corpo e non puoi scapparne anche se sei sotto le coperte con il corpo che chiede riposo. Resistere alla stanchezza e fare un salto verso l’armadio a cercare all’improvviso una maglia per andare da loro, da chi si rivolta. Ancora siamo lontani a prendere una bazooka e far detonare quelle mura. Sono le dieci di sera e non c’è tanto da pensare, si va il più veloce possibile. Ho scelto il pullman, ma come sempre a Torino, una periferia che vuol travestirsi da metropoli, niente funziona. Si arriva in pullman, bici, macchina, tram: l’importante è esserci. Finalmente si arriva e il calore della resistenza è fare un piccolo corteo, con le proprie forze si trovano i vecchi compagni di strada e anche nuove figure che con sorrisi salutano e le urla oltrepassano le mura. Si sentono i ragazzi, si scambia numero di telefono, si chiede come stanno. Loro chiedono la musica che piace: Clandestino. Nel prato gira voce che c’è un ferito, uno in sciopero della fame da dieci giorni in quelle mura maledette e semplicemente perché l’Italia e la sua cupola hanno deciso di sacrificare gli innocenti. Il Papa è morto! Nessun politico nelle vicinanze. Un noto avvocato è passato e ci dice che non lo hanno lasciato entrare, è lì come noi, come uno di noi. È passata mezzanotte, non abbiamo acqua, una birretta nemmeno e non sappiamo neanche come ritornare. Gli sbirri sono lì a osservare le nostre facce già conosciute. Uno spreco di tempo: i burattini del presepio come asini ad aspettare la briciole di pagnotta su racconti fittizi. È passata l’una e ci si saluta con un ciao ragazzi, resistete, non siete soli. Siamo con voi! Già è il primo maggio e il Cpr di Torino è in rivolta. A Brindisi in Puglia muore uno straniero, dicono che si è suicidato. Un inizio di rivolta a Torino e un straniero morto nel Cpr di Brindisi in un primo maggio è una grande scintilla per una rivoluzione. Al corteo del primo maggio i leninisti addestrano gli stranieri in regola; nel centro di Torino la sfilata per i diritti lavorativi porta a tante belle parole con l’accento del latino perfetto, mentre i corpi marciscono dentro le mura del Cpr, gli stessi loro paesani. Importa sventolare le bandiere, così siamo apparentemente più cittadini. Ritorniamo al Cpr per un nuovo saluto, alle sette, con il corpo stanco ma ad alta voce, ognuno con le proprie possibilità mentre nel viale l’anziana con il suo girello prendeva l’aria, il signore con i suoi cento chili sedeva con le gambe larghe sulla panchina lungo il viale di corso Brunelleschi ad ammirare i rivoltosi contro il lager di Torino. Come un cinema all’aperto solo lui era il protagonista della propria solitudine. Fuochi pirotecnici brillavano nel cielo mentre gli angioletti travestiti da traditori passavano appoggiati alle macchine blu. Il traffico va in tilt mentre appaiono due demoni dal tetto del palazzo in costruzione, con le ali della libertà annunciano: «Fuoco ai Cpr!». Si disperde il presidio e il primo maggio prende il volo con l’annuncio indemoniato. Ricordiamo la notte precedente quando il Cpr di corso Brunelleschi è andato in scintille e il fuoco è apparso come simbolo di resistenza degli ultimi stranieri a Torino. Nel viavai dei soccorsi un eroe era evaso. (claudia muniz)
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Dalla Turco-Napolitano ai centri in Albania. Breve storia dei Cpr
(archivio disegni napolimonitor) L’11 aprile quaranta migranti sono stati trasferiti da centri di permanenza per il rimpatrio italiani a uno dei centri di detenzione amministrativa di Gjadër, in Albania. Da alcune testimonianze si è evinto che i migranti sono stati legati per tutto il viaggio e la fase di sbarco con fascette ai polsi, compresi i momenti dei pasti e di utilizzo dei servizi igienici (pratica rivendicata orgogliosamente dai ministri Piantedosi e Salvini).   Poco dopo l’arrivo in Albania i detenuti si sono organizzati e hanno avviato una protesta. L’Ansa ha comunicato che dopo queste proteste dieci dei quaranta migranti sono stati reclusi nel carcere del centro, sotto il controllo della polizia penitenziaria. Qualche ora dopo il Viminale ha smentito, senza tuttavia diffondere altri elementi.  L’operatività della prigione mascherata per migranti richiedenti asilo, esternalizzata in Albania su iniziativa del governo Meloni, è finora rimasta inattuata a causa dello stop da parte dei tribunali italiani. Nonostante le dichiarazioni ufficiali, ostacoli giuridici hanno bloccato l’avvio dell’operazione, in particolare relativi alla compatibilità di questa misura con la normativa europea. I centri “delocalizzati” sono l’emblema del trattamento differenziato riservato alle persone migranti, come ha sottolineato l’Asgi. Per “risolvere” il problema giuridico, il governo ha approvato un decreto, il 28 marzo, trasformando quei centri in Cpr. Da tempo, d’altronde, il ministro Piantedosi sostiene la necessità di allargare la rete dei centri di permanenza per il rimpatrio, e il trasferimento a Gjadër rappresenta un ulteriore colpo al diritto delle persone migranti, isolate con la deportazione in Albania ancora di più, e con una minore possibilità – per esempio – di entrare in contatto con i rispettivi legali.  Il sistema della detenzione amministrativa illustra perfettamente il rapporto che intercorre tra dinamiche di repressione dello Stato e l’accumulazione di profitto da parte dei privati. Sebbene le strutture siano finanziate dal governo, la loro gestione è affidata a cooperative e aziende, guidate esclusivamente dall’obiettivo della massimizzazione dei guadagni. Nati nella forma di Centri di Permanenza Temporanea (Cpt) nel 1998, gli attuali Cpr sono diventati simbolo di sofferenza quotidiana, abusi sistematici e violazioni dei diritti umani protratte in un tempo lunghissimo. Se la legge Turco-Napolitano aveva previsto che i migranti irregolari potessero essere trattenuti per un periodo massimo di trenta giorni, ben presto la durata di questa detenzione venne aumentata. Con la legge Bossi-Fini (governo di centrodestra) del 2002 venne estesa a sessanta giorni, mentre il decreto Minniti-Orlando del 2017 (governo di centrosinistra) trasformò i Cpt in Cpr, innalzando la durata a novanta giorni. Nel 2018, il decreto Sicurezza firmato da Matteo Salvini la aumentò ulteriormente a centottanta, riducendo nel contempo le possibilità di regolarizzazione attraverso la protezione umanitaria. Infine, nel 2023, il governo Meloni ha innalzato la durata della detenzione fino a dodici mesi anche per i richiedenti asilo (oltre a siglare l’accordo di cui sopra con l’Albania). Le sofferenze patite dai migranti nei centri italiani sono state ampiamente provate negli anni. Sovraffollamento, carenze igienico-sanitarie, cibo di scarsa qualità, uso indiscriminato di psicofarmaci sono solo alcuni tra questi. I farmaci vengono utilizzati in grande quantità e senza consenso del “paziente”, non solo per “gestire” il malessere psicologico ma anche per sedare la tendenza a protestare, naturale in quelle condizioni. Numerose sono le testimonianze di migranti che hanno sviluppato dipendenze o subito danni permanenti a causa di trattamenti farmacologici imposti, senza alcun supporto o cura adeguata. Anche le morti, per suicidi indotti dalla prigionia, sono tristemente note. Della storia di Wissem Ben Abdel Latif questo giornale si è occupato e si continua di occupare da tempo. Nel 2022 un’inchiesta è stata aperta nei confronti di un medico del Cpr di Ponte Galeria per la morte di Mustafà Fannane, con l’accusa di avergli somministrato trattamenti inadeguati. Ousmane Sylla e Moussa Balde, invece, si sono tolti la vita nei Cpr rispettivamente di Ponte Galeria e Torino (una delle strutture più infami). Belmaan Oussama è morto nel Cpr di Palazzo San Gervasio nel luglio 2024, mentre Aziz Tarhouni ha più volte tentato il suicidio, in uno stato di estrema sofferenza psichica, mentre era detenuto a Trapani-Milo. (luna casarotti)
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Ci siamo cancellate? Riflessioni a partire da un libro sulla giustizia trasformativa
(disegno di ottoeffe) Uscito nel 2020 in inglese e tradotto in italiano nel 2024 dal collettivo Dalla Ridda, il libro Per una giustizia trasformativa. Una critica alla cancel culture, di adrienne maree brown, contiene nella sua traduzione, oltre al testo dell’autrice statunitense, uno scritto del Laboratorio Smaschieramenti dal titolo: Ci siamo cancellate? Note su una giustizia trasformativa e soggettivazione vittimaria nel contesto italiano. Se il testo di borwn ci fornisce strumenti per avvicinarci alla pratica della giustizia trasformativa e per comprenderne la sua portata rivoluzionaria all’interno di un panorama abolizionista, quello di Smaschieramenti ci stimola a uno sguardo critico, interrogando la sua capacità di scardinare la logica securitario-carceraria che alimenta le violenze del sistema di giustizia punitiva. Proprio sulla scia di questa riflessione è fondamentale, a mio avviso, rileggere la proposta di adrienne maree brown. Trama alternativa (citando Giusi Palomba) che si contrappone alla risposta individualizzante e criminalizzante della giustizia punitiva, la giustizia trasformativa è innanzitutto una presa di responsabilità collettiva di fronte a un conflitto, a un danno, un abuso o una violenza. Con la consapevolezza che ogni evento accade all’interno di una cornice più ampia, e che l’agire individuale è frutto del contesto sociale di cui partecipa, la giustizia trasformativa mette in discussione la reazione punitiva, escludente e repressiva che caratterizza la gestione tradizionale dei “crimini”, una risposta troppo sbrigativa che semplicemente elude il problema, senza preoccuparsi di affrontarlo nella sua complessità. Con l’obiettivo di intervenire sulle situazioni e le motivazioni che hanno contribuito al realizzarsi dell’“evento problematico” (è così che il criminologo abolizionista olandese Louck Hulsman ci invita a risignificare il “crimine”), la giustizia trasformativa conferisce centralità alle soggettività coinvolte, occupandosi di guarire le ferite delle persone violate e di costruire percorsi di cambiamento per chi le ha inflitte. “La giustizia trasformativa è relazionale, accade su scala comunitaria”, scrive l’autrice: è una gestione condivisa delle violenze e delle ingiustizie, il cui verificarsi, lungi dall’essere semplicemente giudicato, è colto come occasione di riflessione e di apprendimento per l’intera comunità. Lo scritto del Laboratorio Smaschieramenti problematizza l’affidamento della gestione dei conflitti alle comunità come pratica capace di garantire necessariamente l’eliminazione di ogni risvolto punitivo dal processo di giustizia (il rischio che vi sia un ricatto “penale” di sottofondo può rimanere anche all’interno di una proposta trasformativa): è solo decostruendo alla radice le ragioni che alimentano la reazione punitiva su scala personale e sociale, che si può intraprendere una gestione abolizionista degli eventi problematici – radicalmente alternativa non solo alle strutture repressive del complesso carcerario industriale, ma anche alla stessa logica dominante che ne giustifica e ne alimenta l’esistenza. Quest’idea è in effetti condivisa anche dalla stessa maree brown, che scrive: “Finché non ci dotiamo di un’analisi dell’abolizione e dello smantellamento dei sistemi di oppressione, non realizzeremo cosa abbiamo nelle nostre mani, non deporremo mai gli strumenti del predatore e non capiremo mai quali sono e potrebbero essere i nostri strumenti” (nello scritto di Smarchieramenti, così: “Se vuoi cambiare un comportamento non ti puoi limitare a dire: ‘è sbagliato’, ti devi chiedere che gusto ci prova la gente, che cosa ci trova, e cercare delle alternative”). Dietro la logica punitiva, sostiene brown, si cela l’affermazione del potere e della correttezza di una parte a discapito di un’altra. Punire chi devia dalle norme o dai valori condivisi, chi commette ingiustizie o attua violenze, consente a una parte di rafforzarsi dall’indebolimento di un’altra: “Il giudizio e la punizione sono pratiche di potere su altre persone. È ciò che chi detiene il potere fa a chi non è in grado di fermarlo, a chi non può chiedere giustizia”. Come ci suggeriscono anche Angela Davis, Gina Dent, Erica Meiners e Berth Richie in Abolizionismo. Femminismo. Adesso, quello perpetuato dal sistema securitario-carcerario è lo stesso atteggiamento dominante dello Stato patriarcale, nel suo relegare “esseri umani e altre creature allo status di oggetti di cui disporre”. La violenza strutturale è sempre la stessa: la legittimazione di un linguaggio, di un punto di vista, di un modo d’essere, di una norma giuridica o sociale, attraverso la discriminazione dell’alterità. Immediatamente “colpevole”, “sbagliata” o “deviante”, la singolarità non-conforme, qualsiasi essa sia, non può esprimersi nella sua differenza: privata del proprio potere, l’alterità non può alla fine fungere da limite conflittuale per il ripensamento delle strutture sovrane (e patriarcali), che anzi si rafforzano della sua esclusione. Alla luce di questo, come può la giustizia trasformativa porre fine a quella ciclicità del danno che brown rintraccia nella tradizionale gestione dei conflitti e degli abusi? Come ci si può liberare da questa violenza e attuare un processo di giustizia non-violento? Come, ovvero, non-violare l’alterità, non privarla della sua autonomia, non renderla subalterna? Alcuni spunti nel merito possono forse dare un contributo a una indispensabile riflessione collettiva. Prima di tutto, un progetto abolizionista radicalmente alternativo alla logica securitario-carceraria dovrebbe assicurarsi di estendere le implicazioni delle sue decostruzioni a qualsiasi alterità, tanto a quella della “vittima”, quanto – per dirne una – a quella dell’“offensore”; muoversi in un orizzonte in cui non si pretenda di giudicare la legittimità o l’illegittimità della sofferenza, ma si immagini di dover curare le soggettività ferite per il solo fatto che si stiano percependo tali, senza attribuire la responsabilità a una delle parti e senza proporgli un percorso di cambiamento privandola della possibilità di condividere o discutere le ragioni che motivano quell’attribuzione di responsabilità. Farlo significherebbe uscire – e a questo ci invitano sia Smaschieramenti che adrienne maree brown – dall’idea a cui siamo abituati, per cui la possibilità di ricevere supporto per la sofferenza che proviamo sia associata al riconoscimento condiviso di una colpa individuale, e la presenza di un conflitto o un danno sia associata alla facoltà di giudicare o responsabilizzare l’individuo ritenuto colpevole. Significherebbe, cioè, rinunciare a presupporre come valido uno dei punti di vista, ammettendo la possibilità che vi siano prospettive divergenti, ulteriori e capaci di mettere in discussione i nostri criteri di valutazione – tanto quelli con cui si legittimano le sofferenze, quanto quelli con cui si attribuisce la responsabilità o si propone il cambiamento. Sarebbe, altrimenti, una posizione ancora subalterna, quella della soggettività “vittima” (etero-determinata), così come quella della soggettività “offensore” (etero-normata). Un processo di giustizia alternativo e abolizionista dovrebbe, in sostanza, trovare le modalità per immaginarsi radicalmente orizzontale senza che vi siano parti giuste e altre sbagliate già in partenza, ma in cui tutte le parti – compresa quella che attua la “mediazione” – possano essere messe in discussione. Per quanto possa apparire a istinto ingiusto, confusionario o paradossale, non è forse lasciando a chiunque la possibilità di esprimere il proprio disaccordo, che il processo trasformativo può riguardare l’intera collettività? Non è forse aprendosi anche alla possibilità di cambiare i parametri con cui si valuta ciò che è giusto o sbagliato all’interno di una comunità, che si può accogliere, delle relazioni, tutta la loro complessità? (zoe ermini)
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L’assurdo rimpatrio di Ion Nicolae e il diritto all’affettività per i detenuti
(disegno di ottoeffe) 2021. Ion Nicolae, all’epoca quarantottenne, vive in carcere, ma in realtà da tempo, una condizione di isolamento totale. È privo del supporto di parenti vicini, una situazione che contribuisce all’emissione di un provvedimento per il suo rimpatrio in Romania. Nicolae resta però in Italia, anzi dopo anni di detenzione a Verona ottiene la semi-libertà, intraprendendo un percorso di reinserimento sociale. A dicembre scorso, senza alcun preavviso, è stato prelevato dalla sua abitazione, dove viveva insieme alla compagna, e trasferito al carcere di Rebibbia per essere rimpatriato, interrompendo il suo cammino di lento rientro alla vita. La storia di Nicolae è segnata da sofferenze profonde. In un momento di estrema disperazione, a Rebibbia, ha ingerito delle batterie, richiedendo un intervento chirurgico d’urgenza che gli ha salvato la vita. Eppure ha dimostrato grande determinazione nel tentativo di ricostruirsi una vita migliore. Lui e la sua compagna si trovano ora ad affrontare una nuova difficoltà: il loro matrimonio, previsto per il 12 febbraio a Verona, rischia di non poter essere celebrato a causa del trasferimento. Quel matrimonio rappresenta un passo importante verso la stabilità, oltre che un progetto di vita comune. A Verona, gli avvocati Francesco Spanò e Simone Giuseppe Bergamini hanno presentato una richiesta urgente per sospendere e revocare il trasferimento di Ion Nicolae, cittadino rumeno, detenuto con fine pena previsto per il 2027. Quando è è stato trasferito al carcere di Rebibbia, la sua difesa non era stata informata. “Il trattamento riservato a Ion Nicolae è disumano e kafkiano”, denunciano gli avvocati, sottolineando come al loro assistito non sia stata garantita un’adeguata informativa sui suoi diritti e sulla decisione di trasferimento, violando così il suo diritto alla difesa. Chi conosce Nicolae, a cominciare dai suoi avvocati, è preoccupato per le gravi conseguenze sul benessere psicofisico dell’uomo, incluso il rischio di atti di autolesionismo, che potrebbe comportare questa decisione. La sospensione e la revoca del trasferimento sono stati chiesti, affinché l’uomo possa scontare il residuo della pena in Italia. “Nicolae sta per sposarsi con una cittadina italiana e ha costruito la sua vita sulla legalità, richiedendo misure alternative alla detenzione”, spiegano gli avvocati. “In Romania non avrebbe la possibilità di esercitare tali facoltà”. Il diritto al matrimonio è sancito dall’articolo 29 della Costituzione, da trattati internazionali come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (articolo 8) e la Dichiarazione universale dei diritti umani. Per i detenuti il matrimonio rappresenta un elemento essenziale per il recupero di un benessere personale e sociale. Negare questa opportunità a Nicolae significa violare un diritto fondamentale e interrompere un progetto di vita. Tuttavia, il caso di Nicolae non è isolato, anzi mette in evidenza un problema più ampio legato al diritto all’affettività per i detenuti. Nel gennaio 2024, la Corte Costituzionale, con la sentenza numero 10/2024, ha riconosciuto il diritto dei detenuti a vivere momenti di intimità con i propri cari, includendo i legami affettivi e sessuali. Tuttavia questa sentenza, sebbene importante, si scontra con una realtà carceraria che non dispone (né si predispone a farlo) delle strutture adeguate per rendere effettivi tali diritti. La mancanza di spazi adeguati e il sovraffollamento degli istituti compromettono la possibilità di costruire e mantenere relazioni significative, fondamentali per l’equilibrio psicologico e il reinserimento sociale. Tali legami, tuttavia, sono riconosciuti come elementi essenziali per il recupero e la riabilitazione. Nel caso di Nicolae, se l’uomo venisse rimpatriato in Romania, le conseguenze sarebbero molto gravi. Le condizioni delle carceri rumene sono ancora peggiori di quelle italiane: lo spazio vitale per detenuto è spesso inferiore ai due metri quadrati, violando standard minimi di dignità. Inoltre, sono stati segnalati maltrattamenti e abusi fisici, tra cui la pratica brutale della “falaka,” che consiste nel colpire violentemente la pianta dei piedi del prigioniero. Nicolae, già emotivamente fragile a causa del suo passato e degli episodi di autolesionismo, rischierebbe di trovarsi in una situazione ancora più critica. Questo trasferimento, oltre a violare i diritti processuali di un detenuto, rappresenta un esempio emblematico delle difficoltà che il sistema penitenziario italiano, strutturalmente violento e ingiusto,  pone di fronte al rispetto della dignità umana. La vicenda di Nicolae richiama l’urgenza di tradurre in pratica principi base che sono sanciti dalla legge, come garantire ai detenuti il diritto al matrimonio e alla sfera affettiva. Investire in strutture adeguate, come spazi per i colloqui intimi, non deve essere considerato un privilegio, ma una componente fondamentale di un sistema penitenziario che ponga al centro la dignità della persona. Offrire ai detenuti la possibilità di mantenere legami affettivi è un passo indispensabile, a patto che il recupero sociale non voglia essere solo una promessa mancata, ma una realtà concreta. (luna casarotti, associazione yairaiha ETS)
detenzioni
Carcere, la privazione dell’affettività e la deumanizzazione del detenuto
(disegno di ginevra naviglio) Quello dell’affettività in carcere è un tema cruciale e ampio, che ingloba questioni come lo spazio dato ai legami personali dentro le mura degli istituti, le pratiche che sostengono o negano queste relazioni, le dinamiche e i rapporti di potere che le modellano. Non è solo una questione di diritti da rivendicare, ma di comprendere come questo diritto costituisca un terreno complesso e significativo, un intreccio di dinamiche di esclusione, pratiche di controllo e indisponibilità all’ascolto di istanze di semplice umanità. L’espansione in termini quantitativi e l’estensione delle funzioni del carcere, lo configura ogni giorno di più come luogo di marginalità, spazio in cui vengono sospesi non solo i corpi, ma anche le relazioni: i detenuti vivono in un sistema finalizzato ad allontanare se non a recidere i legami affettivi, sfilacciati, ridotti – come spiega Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia – a pochi momenti privi di privacy, “che spesso non bastano neppure per mantenere vivo un rapporto”. Già nel 2012, con la sentenza numero 301, la Corte Costituzionale aveva sottolineato l’importanza di riconoscere ai detenuti il diritto all’affettività, chiedendo al governo di intervenire per regolare questa materia. La Corte affermava che negare del tutto l’intimità e i legami affettivi costituiva una violazione della dignità umana, in contrasto quindi con la funzione costituzionale della pena. Da allora non ci sono stati interventi legislativi in questa direzione, così dodici anni dopo, nel 2024, la Corte ha fatto un ulteriore passo avanti, dichiarando incostituzionale l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, che impediva ai detenuti di avere colloqui intimi con il coniuge, il partner dell’unione civile o la persona convivente senza la sorveglianza del personale di custodia. Ero in carcere, quella mattina del gennaio di un anno fa, quando la notizia fece ingresso nel femminile di Pozzuoli. Alcune detenute immaginarono, insieme a me e alle altre operatrici di Antigone presenti, quel momento tanto sognato: quella sentenza non rappresentava solo un diritto riconosciuto, ma una flebile speranza di recuperare un pezzetto di umanità che credevano perduto. Per altre, invece, l’idea di non essere controllate a vista dal personale penitenziario era un’eventualità remota, una possibilità mai presa in considerazione, accolta con una certa diffidenza e scetticismo. VUOTO LEGISLATIVO E DISCREZIONALITÀ La decisione della Corte si basa sui principi fondamentali della Costituzione, richiamando l’articolo 3 (quello sull’uguaglianza davanti alla legge), l’articolo 27 (sulla funzione della pena) e l’articolo 117, legato alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Consulta ha sottolineato come la privazione del diritto all’affettività non sia giustificabile, e contribuisca a rendere il carcere un luogo ancora più desocializzante e deumanizzante: la negazione di una dimensione così essenziale non solo aliena gli individui, ma taglia ogni filo con la società, spingendoli a vivere in una realtà priva di legami autentici. Va sottolineato, in questo senso, che l’Italia resta agli ultimi posti in Europa sul sostegno ai legami affettivi dei detenuti (paesi come Francia, Olanda e Romania offrono già da tempo possibilità di incontri intimi in contesti riservati). Un tabù che sembra avere radici anche più resistenti degli interventi della Consulta: può capitare, per esempio, che un magistrato di sorveglianza – è successo a Torino – dichiari inammissibile il reclamo di un detenuto del carcere di Asti che aveva richiesto di poter effettuare un colloquio intimo con sua moglie, sterilizzando l’orientamento della Corte Costituzionale e sollevando dubbi sulla capacità del sistema giuridico di tradurre i principi sanciti dalla Consulta in diritti concretamente esigibili (a risolvere la situazione è dovuta intervenire la Corte di Cassazione, ribadendo che il diritto ai colloqui intimi non può essere ridotto a “una semplice aspettativa”: questo tipo di relazione rappresenta infatti una legittima espressione del diritto all’affettività e alla cura dei legami familiari, limitabili solo per ragioni di sicurezza, ordine o esigenze giudiziarie). Considerando il livello di sovraffollamento delle carceri, il quadro è anche quantitativamente critico: ci sono in Italia oltre sessantamila persone detenute, a cui vanno aggiunti i rispettivi partner, per le cui affettività e sessualità sembra non esserci né spazio né interesse. Parliamo, è bene ribadirlo a oltranza, di una dimensione essenziale, capace di caratterizzare (basta citare anche solo l’enciclopedia Treccani) “le tendenze e le reazioni psichiche di un individuo”. La repressione totale di questa dimensione, in un contesto come quello carcerario, risulta totale. Michele Esposito, in una sua analisi sul numero zero di Ristretti Orizzonti, ha osservato come la soppressione dell’espressione affettiva e sessuale dell’individuo non solo ne aggravi le condizioni fisiche e psichiche, ma danneggi anche la sua vita familiare e sociale: “Di tutti gli aspetti volutamente negativi che il carcere infligge, questo è certamente il peggiore e, alla lunga, il più deleterio per la psiche di una persona, perché distrugge la vita affettiva del detenuto e delle persone a lui legate, e quindi anche l’istituzione della famiglia”. La dimensione dell’affettività non investe infatti solo la vita di coppia e l’aspetto sessuale: riguarda anche le relazioni tra il detenuto o la detenuta con i propri figli, e la tutela della bigenitorialità, intesa come il diritto del figlio di conservare un rapporto equilibrato e continuativo sia con la figura paterna che con quella materna, ricevendo cura, educazione e istruzione da entrambe. Ancora Favero ha spiegato come l’affettività comprenda anche momenti di condivisione e quotidianità essenziali per il benessere psicologico di un detenuto e per mantenere i legami familiari, mostrando come anche la semplice possibilità di pranzare con i propri familiari, in quanto semplice atto di condivisione, possa rappresentare un momento di contatto umano essenziale per salvaguardare un certo grado di benessere psicologico nei detenuti, e aiutare a mantenere saldi i legami affettivi anche in un contesto di privazione della libertà. A dispetto delle aperture legislative, tuttavia, la realizzazione del diritto all’affettività in carcere resta un obiettivo ambizioso e lontano. L’assenza di una normativa organica che disciplini le modalità di esercizio di questo diritto continua a lasciare spazio a interpretazioni restrittive e discrezionali, subordinando i diritti fondamentali a logiche premiali. Al momento, l’unica possibilità per i detenuti di vivere la propria intimità durante la detenzione è legata ai permessi premio, che, sebbene non concepiti per soddisfare tale esigenza, finiscono per assolvere a tale funzione (un meccanismo che naturalmente esclude una grande parte della popolazione carceraria, perpetuando una disparità di trattamento che comprime ulteriormente la dignità umana). Occorre invece un intervento legislativo chiaro e coraggioso che superi le logiche di concessione condizionata e riconosca questo diritto come un elemento da tutelare a ogni costo durante l’esecuzione della pena, integrandolo come principio all’interno del sistema penitenziario italiano. La privazione sistematica di legami affettivi e intimi non è solo contraria alla Costituzione, ma è anche una delle pratiche più violente di questo sistema, capace di palesare la vera funzione del carcere, dispositivo di controllo le cui armi principali sono marginalizzazione e deumanizzazione dell’individuo. (rossella faella)
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