Storie di palestinesi incarcerati in Italia e delle loro famiglie(foto di -fm)
Quella che state per leggere non è solo la storia dell’arresto e dell’ingiusta
detenzione di tre uomini palestinesi. È una storia di donne, famiglie e bambini
intrappolati in una rete che si stringe sempre più attorno e rischia
costantemente di soffocarli.
10 MARZO
Questa storia inizia, per me, sotto una pioggia incessante, a Terni, il 10
marzo. Mi trovo qui per raccontare di Anan, arrestato a L’Aquila una ventina di
giorni fa a causa dei suoi trascorsi in Cisgiordania. Anan è un partigiano che
stava ricostruendosi la vita in una terra di partigiani come l’Abruzzo.
Nato e cresciuto a Tulkarem, in Cisgiordania, il destino di quest’uomo è legato
fin dalla gioventù alla lotta per la libertà del suo popolo. Siamo negli anni
della Seconda Intifada, inizio del nuovo millennio. I palestinesi insorgono
contro l’occupazione israeliana, dopo anni di negoziati falliti e una crescente
violenza che si diffonde nei Territori Occupati. È un’epoca di assalti,
incursioni militari, barbarie, che segnerà profondamente un’intera generazione
di palestinesi. Anan è parte della resistenza. Come molti altri viene arrestato,
torturato, e conosce l’orrore delle carceri israeliane. Nel 2006 è vittima di un
agguato delle forze speciali israeliane, un tentativo di esecuzione che avrebbe
dovuto toglierlo di mezzo per sempre. Sopravvive, seppur segnato con i
proiettili nel corpo e con cicatrici invisibili ancora più profonde.
Nel 2013 Anan lascia la Palestina con la speranza di trovare un luogo sicuro in
Europa. Prima in Norvegia, dove viene sottoposto a interventi per rimuovere i
proiettili rimasti nel suo corpo, poi in Italia, dove nel 2019 ottiene lo status
di rifugiato politico. Quella protezione avrebbe dovuto rappresentare una
tregua, la fine di un incubo che durava da anni. Ma nel gennaio di quest’anno,
mentre cerca di costruirsi una vita normale a L’Aquila, arriva un nuovo colpo:
l’arresto e una richiesta di estradizione da parte di Israele, che lo accusa di
terrorismo. In realtà la sua figura rappresenta un altro tipo di pericolo: è un
uomo che ha resistito, un simbolo della lotta per la libertà palestinese.
L’Italia si trova di fronte a una scelta: rispettare le direttive del diritto
internazionale, che protegge i rifugiati, o cedere alla pressione di Israele,
che lo rivuole indietro. Lo status di rifugiato politico dovrebbe essere una
protezione solida, una barriera contro l’arbitrio e l’ingiustizia, ma per Anan
questa protezione inizia a vacillare. Se la giustizia italiana accetta di
vederlo come un terrorista, per lui non ci sarà scampo. Sarà estradato e dovrà
affrontare un processo in un tribunale militare israeliano, dove la parola
“giustizia” non ha alcun significato.
Appena arrestato, Anan viene condotto con una misura cautelare nel carcere di
sorveglianza d’alta sicurezza a Terni. È da lì che, a febbraio, riceviamo una
sua lettera: “Grazie per tutto quello che state facendo per me e per la
Palestina, voi siete la nostra voce e siete parte della nostra lotta. Nonostante
noi siamo sotto attacco siamo liberi, come voi che lottate per la libertà”.
A Terni c’è un tempo da lupi. Piove a secchiate. Lo striscione che qualcuno ha
appeso a una rete viene subito strappato da una violenta folata di vento.
Impossibile prendere appunti. Ogni volta che ci provo la pioggia mi inzuppa i
fogli del quaderno. Resto a osservare e ad ascoltare, fuori dal carcere, tra una
raffica di vento e un cielo che non sembra volerci dare tregua. Ci raduniamo
intorno al camioncino per l’intervento telefonico dell’avvocato Flavio Rossi
Albertini: «È sempre più chiara la matrice politica che sta dietro la richiesta
di estradizione formulata da Israele, che cerca di intimidire, tacitare e
recludere chi resiste all’occupazione coloniale della Palestina ma anche chi è
solidale con la lotta per l’autodeterminazione che il popolo palestinese
combatte da decenni».
Cori si levano chiedendo Anan libero, Palestina libera. Dal carcere rispondono
voci solidali. Qualcuno ha recuperato lo striscione strappato dal vento. Ora
posso finalmente leggere cosa c’è scritto: “La resistenza non è un reato, il
genocidio sì. Anan Yaeesh libero, Palestina libera”.
12 MARZO, CORTE D’APPELLO
Sempre a marzo la Corte d’appello di L’Aquila rigetta la richiesta di
estradizione di Anan: il rischio di torture nelle carceri israeliane è troppo
alto. Per lui, che ha già subito violenze e abusi, sarebbe ripiombare nello
stesso inferno da cui è scappato.
Questa vittoria giudiziaria non è però risolutiva. Il giorno prima della
sentenza c’è un nuovo colpo di scena: nuove accuse, nuovi arresti. Questa volta
vengono coinvolti anche due suoi amici e connazionali, Alì Irar e Mansour
Doghmosh. L’accusa è quella di “promozione, costituzione, organizzazione o
finanziamento di associazioni terroristiche tese all’eversione dell’ordine
democratico in uno stato estero”, ovvero quella di far parte di una presunta
cellula terroristica che pianifica atti terroristici in Cisgiordania contro
Israele, in collaborazione con le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa.
Ali Irar viene prelevato e trasferito nel carcere di alta sicurezza di Ferrara,
mentre Mansour Dogmosh subisce una sorte ancor più dura, spedito nel carcere di
Rossano Calabro, istituto di massima sicurezza noto come la “Guantanamo
italiana”. Un luogo distante dalla propria nuova casa, ai margini estremi del
paese, lontano da tutto e da tutti.
Il tempismo delle nuove accuse lascia spazio a molte domande. Non si può fare a
meno di notare la coincidenza tra il rigetto della richiesta di estradizione e
questo nuovo arresto. Ci si chiede se queste accuse non siano un tentativo di
destabilizzare la sua posizione di rifugiato politico. La protezione concessa a
chi fugge da un contesto di guerra e repressione, infatti, può essere revocata
solo in casi specifici, come quelli legati al terrorismo. Le prove, d’altronde,
appaiono deboli e vaghe, insufficienti a giustificare un’accusa così pesante.
Viene da chiedersi, ancora una volta, se la giustizia si stia muovendo su un
piano legale o politico.
Nel frattempo, comunque, le piazze italiane cominciano a riempirsi di
manifestanti, attraversate da cortei a sostegno della Palestina. “From the River
to the Sea, Palestine Will Be Free” è lo slogan che più risuona nelle strade,
che ribollono di energia e rabbia. Da aprile la protesta sale ancora di
intensità, e sotto le sedi della Rai migliaia di manifestanti si riuniscono per
contestare la narrazione della televisione pubblica totalmente sbilanciata a
favore di Israele. Ciò che si chiede è una copertura più equa e veritiera, che
dia spazio alle voci della resistenza palestinese e denunci il genocidio in
corso, un dramma che non trova alcun riscontro nella vulgata ufficiale.
A Roma, davanti alla Farnesina, gli studenti si riuniscono chiedendo un incontro
con il ministro Tajani per discutere della complicità italiana nell’oppressione
del popolo palestinese, ma vengono lasciati sotto il sole e ignorati. A Napoli,
durante il concerto per il settantacinquesimo compleanno della Nato al
teatro San Carlo, i manifestanti mobilitatosi per denunciare la connivenza tra
l’alleanza atlantica e il supporto militare a Israele vengono manganellati e
identificati dalla polizia.
La rabbia e la determinazione si riversano anche nei rettorati occupati delle
università italiane. Napoli, Roma, Torino, Bologna diventano i centri nevralgici
della mobilitazione. Studenti, ricercatori e docenti si uniscono per chiedere
che le istituzioni accademiche italiane interrompano i rapporti con le
università israeliane, contribuendo alla discussa modalità di ricerca che si
articola sul binario del dual-use (ogni tecnologia o innovazione può avere una
funzione tanto civile quanto militare). In particolare, gli studenti denunciano
la collaborazione dei propri atenei con aziende come la Leonardo, che grazie ai
finanziamenti universitari sviluppa tecnologie utilizzate dall’esercito
israeliano nell’occupazione prima e nella distruzione poi dei territori
palestinesi.
La vicenda di Anan, Alì e Mansour diventa parte integrante di questa lotta. I
loro nomi compaiono nella narrazione, vengono scanditi nei cortei. La loro
battaglia si intreccia con quella contro la complicità italiana nel finanziare
l’industria bellica israeliana. Sono ormai simboli di resistenza, non solo
contro l’occupazione israeliana, ma contro un sistema che criminalizza chiunque
difenda la libertà, in Palestina come in Italia.
9 MAGGIO, LETTERA DI ANAN A LUIGIA
Cara amica, dovrei spiegarti una cosa. Oggi sono in un carcere italiano perché
vogliono mostrare a Israele che gli italiani sono con loro, con Israele, quindi
quello che succede non è normale. Nel 2005, quando ero bambino, sono stato
arrestato in un carcere americano e inglese perché ero nelle Brigate di Al-Aqsa.
Israele ha provato a uccidermi quattro volte per questo motivo. Per la stessa
ragione sono stato arrestato nel 2006 e mi hanno cacciato dalla Palestina nel
2013. Per la stessa ragione Israele ha fatto la stessa richiesta in Norvegia nel
2015 e per lo stesso motivo sono venuto in Italia, ho chiesto rifugio e l’ho
ottenuto […].
Sono stato arrestato in Giordania l’anno scorso per lo stesso motivo e ora
l’Italia mi ha arrestato per gli stessi motivi. Quindi niente di nuovo, ma è
qualcosa di politico, solo per dimostrare che Israele mi segue da molto tempo
non solo adesso, e lo so, sono sicuro, che se sarò libero o se rimarrò qualche
anno e dopo sarò libero, Israele non si arrenderà mai e non mi lascerà mai, non
si fermeranno prima di uccidermi. E questo è il loro messaggio per me, ma
sicuramente non ne parleranno in tv o in pubblico. La polizia italiana lo sa,
sono sicuri al cento per cento che Ali e Mansour sono solo miei amici. Non fanno
niente e non sapevano niente, ma li hanno arrestati solo per dire che la polizia
ha arrestato un gruppo di terroristi, non solo Anan, che lo vuole Israele.
La mia vita non è segreta, la gente non mi conosce, ma tutta la polizia di tutti
i paesi mi conosce molto bene, è solo un gioco politico. Ma, come ho detto
prima, non mi arrenderò mai finché non avremo la nostra libertà per la Palestina
e i palestinesi, perché la mia vita e tutto quello che ho è per la Palestina,
perché la Palestina merita sempre di più. Grazie mia cara, e grazie a tutti
quelli che ci sostengono.
Flavio mi ha detto che il 30 aprile c’è stato un gruppo di persone che si sono
presentate in tribunale a sostenermi, e come sicuramente sai Israele ha respinto
la richiesta, ma è solo un gioco tra di loro. Ora il mio tribunale sarà
pubblico, non come prima. Quindi chiunque potrà entrare e guardare. Quindi mi
piacerebbe vedervi lì. Certo, sarò nella telecamera ma posso vedere tutto.
Grazie a tutti per il vostro potere e le vostre parole positive; è vero che noi
non saremo mai terroristi, perché la resistenza è un atto di amore, e io, che
amo la vita più di chiunque altro, preferirei morire per ottenere la libertà del
mio popolo, per vedere tutti i bambini in Palestina andare a scuola senza paura,
per vedere tutte le ragazze andare per strada senza paura, quindi amo la mia
vita, ho molti sogni come tutti in questa vita, ho molti sentimenti nel mio
cuore, amo vivere in pace e farmi una famiglia, ma la Palestina è la cosa più
importante prima di ogni cosa e prima della mia vita.
Cara amica ancora una volta grazie per ogni cosa e spero di poter fare te e
tutti quelli che sono con te, felici un giorno con tutti i miei auguri e un
grande abbraccio,
vostro amico Anan Yaeesh, Palestina per la Palestina!
FINE MAGGIO, STORIA DI MAYS
La notizia mi giunge durante un’assemblea del collettivo di cui faccio parte:
Mansour, uno dei tre palestinesi arrestati, ha una moglie, Mays, da poco
inserita nel sistema d’accoglienza di Teramo, la mia città. Rimasta sola con tre
bambini piccoli, Mays non ha soltanto bisogno di aiuto economico, ma di un
sostegno umano. La vicenda, da politica, si trasforma in qualcosa di personale.
Non si tratta più soltanto di sostenere tre uomini ingiustamente detenuti.
Dobbiamo assicurarci che una donna giovane e i suoi figli non vengano travolti
da una vicenda che minaccia di stritolarli.
Il nostro primo incontro avviene in una giornata qualsiasi. Mi offro di
accompagnarla a fare la spesa in auto, sperando che quel gesto di quotidiana
semplicità possa rompere il ghiaccio fra noi. La prima immagine che ho di lei è
riflessa nello specchietto retrovisore della macchina: una giovane donna dagli
occhi grandi e marroni, bellissima, dignitosa, con un’espressione che tradisce
più smarrimento di quanto le sue poche parole possano esprimere. Le nostre vite
si incrociano così.
Qualche settimana dopo ci ritroviamo intorno a un piccolo tavolo di legno. Ci
sono le donne della comunità islamica, arrivate per offrirci il loro aiuto con
la traduzione; accanto a loro, compagne giunte da diverse parti d’Italia, ognuna
con la propria storia cucita addosso, la propria grande esperienza e
determinazione. Donne di terre, religioni e culture diverse, unite dalla
solidarietà.
L’appartamento, sopra i magazzini di un centro commerciale, diventa il “nostro”
spazio e piccolo rifugio; dal terrazzo la vista si apre su un maestoso Gran
Sasso, la sua cima nascosta da una lattiginosa foschia è lì, immobile e
imponente. Ci osserva silenzioso, testimone di una storia che non appartiene
solo a noi.
I figli di Mays si muovono come spiritelli e schizzano da una stanza all’altra
della casa, rincorsi dalle loro stesse risate, inconsapevoli dei discorsi che si
fanno sopra le loro teste. Le loro esplosioni di vita si intrecciano nelle
nostre conversazioni, rendendole elettriche e spezzandone il ritmo. Ogni tanto
si arrampicano sul davanzale come piccoli gatti, saltando dentro la stanza per
guardarci con occhi curiosi e pieni di eccitazione. Per loro, tutte quelle donne
così diverse, lì unite, sono una novità affascinante.
Parliamo di come organizzarci, di cosa fare per aiutare Mansour: la raccolta di
denaro, i colloqui con gli avvocati, la possibilità di viaggiare verso Rossano
Calabro per fargli incontrare la sua famiglia. L’idea diventa necessità quando
Mays ci racconta del suo bisogno di vedere Mansour, che negli ultimi colloqui
aveva mostrato una crescente sofferenza. Eppure, intorno a noi c’è una specie di
serenità. L’aroma del caffè e della torta si mescola ai sorrisi. L’insicurezza
con cui eravamo entrate sembrava dissolversi, lasciando spazio a una sottile
speranza. Anche Mays sorride spesso, ma nei suoi occhi si legge soprattutto il
bisogno di non essere lasciata sola, di aggrapparsi a quella rete di supporto
che stavamo cercando di costruire.
Quando ci alziamo per andar via, vedo i suoi occhi riempirsi di lacrime. Eravamo
state un’ondata di energia e speranza che le aveva riempito la casa, un sollievo
dopo mesi di solitudine. Quell’onda, però, con la risacca, si stava ritirando.
Chissà se sarebbe tornata, se non fosse stata solo un’altra vaga promessa fra
tante. Dal canto nostro, giorno dopo giorno, abbiamo invece provato ad
aggiungere un filo sottile a quella fragile tela fatta di gesti, sguardi e
parole spezzate. Una tela che è rimasta in bilico, minacciata dal peso
dell’attesa. Ogni volta che sembravamo avvicinarci a una svolta, la trama si
complicava e si disfaceva, lasciandoci sotto l’ombra di Penelope, costrette a
ricominciare daccapo.
20 LUGLIO, CORTE DI CASSAZIONE
Prima di affrontare il viaggio verso Rossano Calabro, decidiamo di fare una
prova, una prima trasferta con Mays e i bambini. 20 luglio, Roma, udienza in
Cassazione per Mansour e Alì. Un’occasione per vedere come Mays e i piccoli
avrebbero affrontato un viaggio impegnativo. In un certo senso, una prova di
resistenza, per loro e per noi tutte.
La capitale, quel giorno, brucia sotto un sole implacabile. L’asfalto sembra
sciogliersi sotto i nostri piedi mentre ci muoviamo a passo lento verso piazza
Cavour. Le palme della piazza offrono un’ombra esile, quasi ridicola rispetto
alla distesa di calore che ci circonda. Al nostro arrivo, davanti la Corte c’è
già un presidio di manifestanti. Molti sono attivisti per la Palestina, con
bandiere e striscioni che chiedono libertà per Anan, Mansour, e Ali.
La mattina sembra scivolare via lentamente, e con essa la speranza di una
risposta rapida, come spesso accade con i procedimenti legali. Mays rilascia
un’intervista ai giornalisti. La sua voce è ferma, determinata, anche se
l’emozione si percepisce. «Mansour sta cercando di resistere, non solo per sé,
ma anche per i nostri figli». Parla con lucidità, ribadendo il diritto alla
libertà, alla dignità, chiedendo giustizia. «Siamo scappati dall’oppressione –
dice – non vogliamo ritrovarci davanti a una nuova forma di oppressione in
Italia».
Verso metà giornata, le porte del tribunale si aprirono e compaiono gli avvocati
della difesa. Per Anan non ci sono buone notizie: la Corte conferma le misure
cautelari, questo significa che rimarrà in carcere fino alla fine del processo.
Per Mansour e Ali, invece, si riaccende la luce di una piccola speranza: la
Cassazione annulla con rinvio la decisione del tribunale di L’Aquila, e impone
che il loro caso venga riesaminato. Non è una vittoria, ma almeno un passo
avanti.
Nel frattempo la vita continua. Ogni colloquio in videochiamata tra Mays e
Mansour è un calvario, lui continua a ripetere di non riuscire più a resistere.
Le notizie di suicidi in carcere sono all’ordine del giorno. Ogni mattina sembra
che una nuova vita venga inghiottita da quel sistema opprimente. Una mattina,
l’ennesima tra queste morti mi spinge a prendere il telefono. Quando Elena mi
risponde sembriamo leggerci nel pensiero: “E se succede anche a lui? Se non
riesce a reggere?”. La decisione sembra inevitabile: dobbiamo muoverci. Non
importa se è l’estate più calda di sempre, se il viaggio sarà stato estenuante.
Non possiamo permetterci di aspettare un altro giorno.
7 AGOSTO, VIAGGIO PER ROSSANO CALABRO
Dopo settimane di impotenza, decidiamo di partire. Dobbiamo attraversare
l’Italia prima da est a ovest, poi da nord a sud. Siamo serrati dentro
l’abitacolo, il caldo fuori è inumano, una morsa ci schiaccia all’asfalto. I
finestrini sono chiusi, l’aria condizionata al massimo. Non parliamo del luogo
in cui stiamo andando, di quello che avremmo potuto trovare, anche perché tanto
da dire non c’è. Ci concentriamo sui chilometri da percorrere, sul pieno da
fare, il viaggio sembra interminabile. Mays è seduta di nuovo dietro di me, con
i bambini sul sedile posteriore. Il suo sguardo è fisso fuori dal finestrino.
Ciascuno di noi ha un’aspettativa per questo viaggio, ma lei? Cosa si aspetta? E
cosa immaginano i bambini?
Arriviamo di sera al b&b così da essere puntuali all’appuntamento delle otto del
mattino seguente, anche se poi davanti al carcere siamo già dalle sette. L’aria
è già calda e appiccicosa. La prigione è sorprendentemente vicina alle case,
potresti quasi guardare dentro affacciandoti dal balcone di qualcuno. Da dove
vengo io, invece, le carceri stanno lontane dal centro, isolate, nascoste.
Troviamo riparo sotto un piccolo gazebo di legno, tra la strada e i cancelli. In
quel luogo ostile, progettato per separare, quel rifugio sembra quasi un gesto
di umanità, anche se poi il carcere ci copre la vista del mare.
I bambini, come sempre, sono pieni di energia. Corrono avanti e indietro, ridono
e scherzano come se fossimo al parco in un normale giorno di vacanza estiva.
Elena inventa giochi per loro – “un-due-tre-stella!” –, io sono concentrata a
tenere sotto controllo la mia ansia. Più di tutto mi spaventava il momento in
cui dovremmo lasciarli andare. Mi sento impotente: una volta che loro
varcheranno il cancello, io ed Elena saremmo fuori, separate, senza possibilità
di poterli aiutare in alcun modo. I bambini, poi, si troveranno davanti estranei
indifferenti al loro destino, in un contesto anomalo, distante da ogni
esperienza vissuta fino a questo momento. E poi Mays. Parla appena italiano, e
dentro non ci sarà un interprete, né niente di simile.
Mentre sono assorta una guardia si avvicina al cancello, interrompendo i miei
pensieri e il gioco dei bambini. Khalil resta fermo nella sua posizione, si
volta e pensando al gioco, o forse no, ci interroga: «Abbiamo perso tutti?».
IL CPR
La scarcerazione di Mansour viene accolta da un’esplosione di gioia: dopo mesi
di sofferenza sembra aprirsi uno spiraglio. Una sensazione che però si trasforma
subito perché un’ora dopo ci comunicano che fuori dal carcere ha trovato la
polizia ad attenderlo. Lo hanno identificato e trasferito in un Cpr, un centro
di permanenza per il rimpatrio. La scarcerazione, che avrebbe potuto
rappresentare la fine di quell’incubo, è solo l’inizio di un nuovo capitolo.
Naturalmente non ci dicono dove lo porteranno. Ciò che io posso fare è mettermi
a raccogliere i documenti necessari a tirarlo fuori di lì, ripercorrendo tra le
scartoffie burocratiche la vita di un uomo che ha attraversato più di un inferno
(tempo dopo, Mansour, mi avrebbe detto che i tre giorni nel Cpr sono stati
peggio di sei mesi in Alta sicurezza): “Motivi per cui ha lasciato il suo paese
d’origine e possibili conseguenze di un eventuale rientro nel paese d’origine:
dichiara che era impossibile vivere nel campo di Tulkarem perchè era sempre
sotto il tiro delle forze israeliane ed era sempre bombardato. Da piccolo, a
seguito di un bombardamento, ha riportato ferite”.
Anche il viaggio di Mansour attraverso l’Europa, seguendo quella che conosciamo
tristemente come “rotta balcanica”, si può ricostruire attraverso il freddo
linguaggio dei documenti. Le immagini si sovrappongono nella mente: la fuga, la
paura, la ricerca disperata di una vita migliore, e ora, dopo anni di battaglie,
la prigione, in una terra che avrebbe dovuto offrirgli rifugio.
Passo ore a studiare queste carte e a riflettere, finché il giorno dopo riesco a
sapere la destinazione di Mansour: il Cpr di PonteGaleria, un luogo che non mi è
sconosciuto, anzi, il suo nome emerge periodicamente nelle più insopportabili
“brevi” di cronaca. Qualche mese fa, per esempio, un ragazzo di ventidue anni,
Ousmane Sylla, si è tolto la vita tra quelle sbarre. La sua morte aveva
scatenato una rivolta, rivelando brevemente al mondo esterno la disperazione che
si respirava in quel luogo.
RITORNO A CASA
È notte, e mi trovo alla stazione dei bus. Uno di questi da Roma riporterà
Mansour a casa. Le misure cautelari sono state annullate, ora ci sarà da
attendere il processo. L’accusa di terrorismo è molto pesante. Alì e Mansour
possono aspettarlo da uomini liberi, mentre Anan è ancora nel carcere di Terni.
Io sono sola nel piazzale. Ancora una volta non so bene cosa aspettarmi né come
comportarmi. Mentre l’autobus si ferma e la gente inizia a scendere, scruto i
volti chiedendomi se lo riconoscerò. Poi lo vedo. Cammina lentamente,
frastornato, credo dai rumori e dalle luci della stazione. Stringe tra le mani
una busta con le sue cose.
Lo chiamo con il suo nome. Un attimo di esitazione, capisce che sono lì per
riportarlo verso casa. Mando un messaggio a Mays: “Stiamo arrivando”. Lei
risponde subito, un solo grande, gigantesco cuore. Sorrido immaginando la sua
trepidazione e il suo volto.
Quando arriviamo la porta è già socchiusa. Mays ci aspetta, gli occhi che
brillano di una luce viva. Il silenzio della notte avvolge ogni cosa. I bambini
dormono. Non ci sono gesti plateali, né abbracci immediati, ma una tenerezza
silenziosa pervade l’atmosfera. L’interazione tra loro è delicata, intima. Ogni
gesto, anche il più piccolo, sembra carico di significati. È come se l’intero
spazio fosse immerso in un’attesa che non osa ancora sciogliersi. I due si
cercano, ma non si toccano subito. Capisco che è la mia presenza a creare una
barriera invisibile di pudore: l’abbraccio, quello vero, resta sospeso
nell’aria, come un momento che appartiene solo a loro, in un tempo che non è il
nostro. Esco di scena. (francesca mononoke)