Giardini nascosti e cantieri del governo. Un viaggio in Sinai

NapoliMONiTOR - Thursday, September 14, 2023
(copertina di cyop&kaf)

Dal numero 10 de Lo stato delle città

LA FORTEZZA DI SHARM EL-SHEIK
Accanto alla strada le palme sono secche, paiono stecchi alti in fila lungo le corsie d’asfalto. Sharm el-Sheikh non è un luogo, ma una nebulosa di strutture distanti – l’aeroporto, la stazione dei bus, i resort – collegate da strade larghe dove le auto sibilano furiose. Dall’aeroporto alla stazione dei bus ci sono quindici chilometri, viaggio con un vecchio tassista senza denti, parla un misto di italiano, arabo e inglese. Il taxi è scassato, singhiozza prima di partire, ma i sedili sono comodi. Dice lo sdentato che tutti i tassisti pagano una tassa per stare in aeroporto, per questo i prezzi delle corse sono così alti. «Cosa ci fai qui?», mi chiede. «Vuoi osservare le tecniche di raccolta delle acque in montagna?». Sorride. Poi mi dice che le palme nel deserto, la sera, stringono le foglie per favorire la condensazione dell’acqua e così di notte recuperano stille d’umidità atmosferica, e s’idratano. Ha staccato la mano dal volante e lentamente la chiude per imitare il movimento delle foglie di palma. «Questo non lo sapevi, te lo insegno io». Mi lascia alla stazione dei bus e ci salutiamo nella sera soffocante di settembre. 

La stazione dei bus di Sharm el-Sheikh è una struttura moderna di bianche colonne, sembra costruita in fretta e con materiali scadenti. Il salone centrale ha sedie di metallo rigato, sbrecciato dal tempo; il caldo pesa sul collo. In un angolo, oltre le vetrate, c’è un piccolo ufficio con i funzionari della compagnia di trasporti: solo loro godono dell’aria fresca di un condizionatore. Un uomo sta accanto allo sportello aperto al pubblico, conta i soldi, non guarda negli occhi e dice che il bus per Dahab arriverà alle nove o alle dieci di sera, non si sa, è in viaggio dal Cairo. Sono le sei, vicino agli stalli c’è una bancarella incustodita con bigiotteria, orologi, cappellini e cuscini per dormire comodi sui sedili. Poco oltre un frigo e un banco con dolci e altri cibi confezionati e una caffetteria lurida. Sento suonare musica popolare egiziana.

Passano le ore e l’uomo allo sportello conta ancora i soldi. Arrivano bus e poi partono, vanno tutti a El-Tor. Vedo i viaggiatori raccogliersi intorno al ventre nero che raccoglie i bagagli. Funzionari della stazione urlano a un microfono le destinazioni, un uomo con i baffi inserisce un mocio in un secchio di acqua nera e pulisce per terra, l’acqua viene dallo sgocciolio del condizionatore che rinfresca l’ufficio del bigliettaio. In questa sala d’aspetto ci sono persone addormentate, uomini stanchi e seriosi addossati alle sedie, un operaio con una sega davvero lunga, madri e bambine, giovani scanzonati. Ogni tanto arriva un’auto della polizia, una jeep della polizia, un furgone della polizia e scendono agenti, entrano nell’ufficio, escono. L’uomo all’interno non dice nulla, guarda uno schermo e sfoglia banconote. Sono in un purgatorio dove si scontano i peccati in attesa del bus.

Mi chiedo da dove venga questa povera gente, dove vada, perché sia qui. A Sharm, per i viaggiatori come me, il letto più economico costa settanta euro, ma la media supera i cento euro. Eppure qui, fuori dai recinti d’oro delle strutture turistiche, esiste una stazione con i cessi e i lavandini intasati e dopo una pisciata un uomo sorridente saluta e allunga la mano. Non ci sono turisti. Esistono almeno due mondi a Sharm: quello delle vacanze per i bianchi e questo dei lavoratori che si spostano in Sinai. Ecco perché nessuno fa caso a me: io non dovrei essere qui in attesa di un bus che per due euro mi porti a Dahab; io avrei dovuto spendere cinquanta euro di taxi. Anzi, il fatto che io sia qui significa che non intendo svolgere l’unico compito sensato che mi compete: cacciare denaro europeo. Forse Sharm è un’industria turistica controllata da imprenditori egiziani e compagnie internazionali che s’arricchiscono mentre il popolo intorno lavora e vive di briciole lasciate da noi.

Finalmente arriva il bus, sono quasi le undici di sera. Sharm el-Sheikh è come un castello circondato da mura, lo capisco al check point presidiato da polizia e militari. Ho ancora il tempo per vedere un enorme simbolo della pace sopra la guardiola dei militari. Nella notte il bus incontra altri tre posti di blocco. Sale un agente in borghese con la pistola nella fondina, l’arma sporge e sento il freddo del metallo contro il mio braccio mentre il poliziotto chiede i documenti ai miei vicini. Qui, come in Israele, mi abituo presto al contatto con le armi. È notte, intorno a me intravedo le prime alture nel deserto, ogni tanto compaiono transenne e militari.

DA SHARM A SANTA CATERINA
In Sinai, ogni incrocio tra le strade principali ha un posto di blocco. Un posto di blocco controlla lo svincolo fra Dahab e Nuweiba, poi le transenne appaiono contro le prime montagne lungo la via per Santa Caterina ed ecco un ultimo check point presso la deviazione per il monastero. Ogni presidio è controllato da almeno dieci poliziotti, senza contare i militari; nessuno di loro è d’origine beduina. Viaggio verso l’alto deserto con Mohammed, il nipote di Sheikh Mousa, e mi dice che la guerra non c’è più, nemmeno al nord, che tutto è tranquillo, che i check point servono a tenere alti i livelli di occupazione. «E lo sai che con un fuoristrada ti posso portare da Santa Caterina a Sharm senza passare da un solo controllo? Basta conoscere le piste beduine del deserto».

Santa Caterina è un villaggio tra le alture del Sinai, vicino a Jebel Musa, il monte di Mosè. Poche migliaia di beduini vivono qui, nell’insediamento nato vicino a un antico monastero ancora abitato da monaci ortodossi. Oltre le mura del monastero ulivi d’argento spiccano tra il marrone rossastro delle montagne desertiche. Jebel Musa è sacro per i tre monoteismi e i turisti scesi dai bus s’allineano accanto a un metal detector. I viaggiatori – centinaia, ogni mattina – vengono da Sharm, visitano i dintorni e poi ripartono veloci verso la costa. Ora siamo osservati da quattro poliziotti in borghese con pistola nel cinturone: uno di loro è seduto e ha davanti un enorme registro di carta dove segna nomi e numeri dei documenti. Annoiato, osservo la valle: in fondo s’intravede la prima periferia del villaggio dove un enorme cantiere da mesi solleva la polvere del deserto. Vedo gli scheletri dei nuovi hotel addossati contro un’altura, la forma del “visitors centre” che accoglierà negozi, un mall, un museo. E poco oltre stanno costruendo campi da calcio, una piscina, un “industrial river” che dovrà raccogliere e convogliare le acque nelle nuove aree residenziali. Ci sarà anche una sinagoga a forma di anfiteatro per i turisti israeliani. L’intero intervento urbanistico è sostenuto dal governo di Al-Sisi. Immagino per Santa Caterina un futuro colorato da consumismo accelerato, controlli di polizia e hotel di lusso: una Sharm senza mare per il turismo religioso.

Pochi viaggiatori lasciano la valle del monastero e s’immergono nel nugolo di polveri sollevate dal cantiere. In alto a sinistra, a monte del cantiere, si trova il villaggio di Santa Caterina. È un agglomerato di case basse intorno al minareto dell’unica moschea. Il tempio fu costruito dagli israeliani durante l’occupazione del Sinai tra il 1967 e il 1982. Gli occupanti edificarono anche i blocchi di cemento e pietra che accolgono la panetteria, il piccolo spaccio con spezie e polli surgelati, il ristorante di Ramadan, il fruttivendolo e la banca con lo sportello presidiato da un poliziotto vestito di bianco. Il ristorante di Ramadan dà su un porticato dove l’ombra protegge panche e tavoli di legno. Il pasto offerto è quello tipico: minestra di verdure, minestra di lenticchie con succo di limone, insalata fresca di cetrioli e pomodori, riso e pollo arrosto. Intorno si scorgono ancora spazi aperti per orti polverosi o angoli di sosta dei cammelli. Se mi siedo a bere il tè, lo sguardo è avvolto da un circolo di monti aridi e franosi: ocra appaiono all’alba, rosa e arancioni alla fine del giorno.

Gianni mi ha parlato degli operai, suoi vicini di casa. Gianni vive da quattro anni tra Santa Caterina e Nuweiba. Ha sessant’anni, alto e allampanato si muove sorridente e stralunato, ha acciacchi alla schiena e dolori alle gambe ed è buono come il pane. È di Suzzara, nella pianura del Po, a pochi passi dalla Luzzara di Strand e Zavattini. Fuma erba beduina e ogni tanto si concede una bottiglia di vino sudafricano che un vecchio hotel in disarmo vende a venti euro la bottiglia. Gianni ha come vicini di casa alcuni operai impegnati nei cantieri di Santa Caterina. Lavorano undici ore al giorno per sei giorni e anche il venerdì lavorano quattro ore. Sono settanta ore alla settimana. Vengono dalla valle del Nilo, devono pagare vitto e alloggio e si spaccano la schiena perché alla fine, forse, avranno i soldi per sposarsi e mettere su famiglia. Alcuni di loro ogni tanto vanno a sgobbare giù ai cantieri di Sharm el-Sheikh, perché il governo si prepara ad accogliere gli ospiti internazionali della Cop 27, la conferenza di novembre sul cambiamento climatico. All’alba, accanto alla moschea, vedo gli operai salire su furgoni e pick-up e partire per il cantiere: hanno berretti, leggeri passamontagna, altri a testa scoperta scacciano il sonno con una sigaretta. La sera, quando il sole è ormai al di sotto della linea dei monti occidentali e il muezzin chiama alla preghiera, incontro piccoli gruppi di lavoratori sfiancati, ondeggiano a piedi verso il centro, spaiati, alcuni portano gli attrezzi sulle spalle, la testa bassa, e la sabbia s’insinua tra labbra e narici, oppure s’è posata sugli abiti di lavoro. Gianni li saluta perché fa piacere salutare ed essere salutati, dice, si è tutti più felici anche se dobbiamo vivere in questo mondo che fa schifo.

L’ALTO DESERTO
A nord e a ovest di Santa Caterina, dietro i crinali delle prime montagne, si aprono i wadi che accolgono gli antichi giardini dei beduini. Nel deserto le vie principali seguono il corso dei wadi, i letti dei fiumi privi di acqua. Per cambiare valle si sale su pendii che conducono ai passi d’altura, ma la scalata non è mai impervia: l’erosione di millenni smussa le montagne. A volte una confluenza di wadi forma un ampio falsopiano sormontato dalle montagne: un farsh. Non sempre si sale o discende un wadi, ma un naqb: una fenditura ripida scavata da acque torrentizie. Il naqb presenta massi imponenti, levigati, e il passo segue la linea dell’acqua, forza potente e saltuaria. Nei punti più stretti del naqb si cammina in una gola. Nel deserto le rocce sono rosse, scheggiate e friabili, oppure più solide e chiare, tonde perché levigate dalle acque o dai venti; sulle pareti s’intravvedono vene di quarzo o altre linee più scure. In verità, la mente nel deserto oscilla tra l’analisi delle differenze oggettive e l’apparizione di immagini sotto il sole: quel picco sembra un’aquila, ho visto volti urlanti o grandi nasi, balene sorridenti, elefanti zannuti. Lo spazio è così ampio, le forme così varie, e l’immaginazione libera la sua creatività.

Trascorro quattro giorni nell’alto deserto con Shaban, una guida beduina. Quando cammino osservo Shaban. Con grazia e leggerezza, mentre rallenta il passo, raccoglie, e senza chinarsi, quel che la via offre: uno stelo, un fiore, un esile baccello d’erba, un frammento di bambù accanto alle sorgenti. E si porta i frammenti al naso, alla bocca, forse li mastica un po’. Io provo a imitarlo e annuso l’odore amaro e fragrante delle erbe del deserto. Le mie mani sono così impregnate di odori, e anche i nostri corpi sanno di fiori del deserto, addosso abbiamo aromi penetranti nella secchezza ventosa. Shaban cammina senza mettere mai un passo in fallo, come una danza. Appare a volte così concentrato da essere una parte del paesaggio, e si dimentica di me. Dice di amare il deserto e il suo silenzio, di detestare le città e le loro inquietudini. Racconta che i beduini hanno iniziato ad abbandonare i giardini del deserto negli anni Ottanta, quando il governo ha costruito la scuola e le famiglie si sono spostate nel villaggio, a Santa Caterina, per nove mesi. All’inizio tornavano nei giardini d’estate, poi sempre meno. Anche la pastorizia sta scomparendo. Ricorda che un tempo erano le ragazze di tredici, quattordici anni a portare le capre al pascolo, perché i genitori avevano altri lavori in campagna, ma anche in questo caso gli impegni richiesti dalla modernità hanno tolto ai contadini le forze più giovani. Secondo Shaban una volta ci si sposava solo nella tribù di appartenenza, e l’uomo poteva decidere e la donna no. La sua generazione, invece, è la prima a contrarre matrimoni fuori dalla tribù senza subire il giudizio negativo della comunità. Ed è un bene? Sì, è un bene ed è anche più salutare per il sangue, dice.

Quando siamo partiti, la prima mattina, Shaban indossava il vestito tradizionale: la lunga tunica, i pantaloni bianchi, un copricapo grigio. Alla prima sosta si è cambiato e ha indossato una maglia di cotone a maniche lunghe e grigi, comodi pantaloni di tuta. Non ha mai tolto il copricapo in mia presenza nemmeno per dormire. L’ultimo giorno, dopo pranzo, Shaban ha indossato di nuovo il vestito da beduino e così siamo tornati a Santa Caterina in un pomeriggio di venerdì. Ci siamo salutati con un sorriso. Su in montagna Shaban era un individuo senza tempo, e un maestro: la voce sempre pacata, uomo di preghiera, gli occhi neri e brillanti di profondità, a volte così serio da essere scostante, o meglio assente, confuso con il deserto. Ora leggo gli appunti e mi chiedo: che egli sia proiezione dei miei sogni?

Scrivo i miei appunti giorno dopo giorno, poco fa ho visto di nuovo Shaban, dopo cena, al piccolo spaccio di cibi e oggetti accanto al campo di Sheikh Mousa. Che gioia rivedersi. È senza copricapo, i capelli sono schiacciati dalla brillantina, ha una maglietta rossa sgargiante. Dunque in città gira abbigliato in modo estremamente informale, perché allora munirsi di vestito tradizionale? Forse l’abbigliamento è il segno distintivo di una guida, un ruolo sociale ben definito? Nel piccolo spaccio invece sembra un ragazzo più giovane di me, ora mi è impossibile definire la sua età. I giardini stanno scomparendo, però Shaban, grazie al turismo sta trovando il modo di restare legato ai suoi luoghi. Le forze della modernità cancellano i giardini e il mondo di Shaban, e allo stesso tempo egli trova un equilibrio, forse precario, come guida per turisti. Questo mi sembra un paradosso. Chissà cosa pensa Shaban dei lavori che stanno trasformando il volto di Santa Caterina in nome di un turismo di massa.

I GIARDINI BEDUINI
I giardini crescono nei wadi, là dove in primavera scorre l’acqua. In verità un giardino non occupa l’intero letto, ma è posto di lato, addossato all’altura che lo sovrasta. In punti impervi nel deserto ho visto zone di verde non coltivate: crescono autonome nei wadi grazie allo scorrimento occasionale delle acque piovane, a sorgenti vicine e alla protezione di pareti rocciose che permettono una minore evaporazione. Forse i giardini degli uomini nascono dall’attenta osservazione di questo fenomeno: i coltivatori devono riprodurre e rafforzare le condizioni che permettono alle piante di vivere nel deserto.

L’acqua proviene dalle piogge stagionali che si raccolgono in rivoli e scaturiscono nei wadi, ma anche dalle falde acquifere interne che possono zampillare in flebili sorgenti dalle rocce. Così il giardino nasce da tecniche di raccolta e conservazione dell’acqua, adattate alla conformazione fisica del territorio. Lo strumento più comune per avere acqua, almeno oggi, è il pozzo. Ho visto pozzi antichi, ma ora i beduini possono realizzare un nuovo giardino anche in tratti di wadi mai coltivati, e aridi, grazie alle moderne tecniche di scavo che consentono di scendere oltre i dieci metri di profondità. L’acqua è tratta dai pozzi tramite pompe meccaniche, oppure i coltivatori sfruttano la pendenza del suolo se il pozzo si trova a monte rispetto al coltivo. I beduini scelgono dove scavare un pozzo affidandosi all’esperienza e all’intuito: i vecchi sanno leggere le linee delle montagne per immaginare la posizione di una falda, ma non sempre va bene e uno scavo in ogni caso costa ingenti somme di denaro. Nel deserto trasportano i macchinari di scavo con i cammelli.

Nei giardini più antichi ho trovato le vestigia di una tecnica ora abbandonata: i canali scolpiti nella roccia, o scavati nel terreno. I canali partivano da una fonte e potevano proseguire per centinaia di metri fino a entrare nei giardini. Dietro al giardino di Salem Faraj ho osservato i segni di un canale che sboccava in un frutteto e proveniva dalle rocce appena sopra; ho seguito il suo corso e ho trovato due vasche di raccolta collegate: radunavano l’acqua della pioggia che scorreva dalle pareti della montagna. Ora accanto ai canali in disuso si possono vedere i tubi di irrigazione: due tecnologie sovrapposte.

Ogni giardino, spazio in lieve pendenza tra il wadi e la montagna, è circondato dai muretti a secco da ogni lato. Qual è la loro funzione? Certo difendono il giardino dagli animali, in particolare dai branchi di asini selvatici che si aggirano nel deserto. Eppure ho visto muri alti più di due metri. Ancora, ho notato resti di muro addossati in alto su pareti montuose che ripide scendono nel wadi. In questi luoghi gli animali non potrebbero passare, la roccia è una difesa naturale. Immagino che anche i muretti siano un’architettura legata al controllo dell’acqua. Molti giardini hanno al loro interno muri a secco che segnano lievi dislivelli: qui l’acqua è rallentata e viene meglio distribuita. Anche i muri di confine sono utili a trattenere l’acqua che giunge dal wadi nelle stagioni piovose. Spesso nei wadi ci sono file di pietre che formano una barriera che s’oppone al corso torrentizio e accanto c’è un giardino il cui muretto a secco ha un foro alla base: il flusso d’acqua è deviato per entrare nel giardino e i muretti lo contengono. Barriere e muretti a secco erano dunque in simbiosi, origine degli orti beduini. Quando il wadi è in piena può inondare i giardini e i muretti non ne risentono: l’acqua li sovrasta, vi filtra attraverso e non ne compromette la tenuta. Dopo la piena l’acqua defluisce, ma più lentamente grazie alla resistenza degli stessi muri di confine, così il suolo resta umido più a lungo. Se nel Mediterraneo settentrionale, come in Liguria, i muretti a secco servono a trattenere la terra, qui, al contrario, servono a trattenere, rallentare l’acqua.

Ogni giardino è una sosta per i turisti, ma anche per gli altri beduini; credo che gli orti siano un risvolto materiale delle relazioni sociali tra le famiglie, ovvero spazi pubblici aperti all’incontro e alla tessitura di rapporti sociali. Dal wadi Gibal scendevamo una sera al wadi Zawatyn. Le macchie di verde tendevano all’argento: erano giardini di ulivi. Wadi Zawatyn, in arabo, è la valle degli ulivi. Alcuni alberi, dal tronco spesso e nodoso, sono secolari e hanno un muretto a secco circolare attorno. Nella luce rosa del sole che moriva avevamo davanti una linea verde che correva lungo il wadi. Ci siamo fermati nel giardino di Mohammed Hashash per trascorrere la notte; era un eden di meli con frutti gialli appesi, ulivi, fichi, mandorli e melograni. Sul versante montuoso ho intravisto antichi muretti, forse utili a convogliare le acque. Al centro invece sorgeva un pozzo collegato a un’ampia vasca di stoccaggio che un tempo riforniva una rete di canali. Qui ho immaginato il volto di questo deserto secoli fa: una tessitura di fili verdi nei corsi dei wadi. Shaban intanto pregava e gli altri cuocevano il pane su una superficie convessa, riscaldata da fiamme che bruciavano la merda di cammello secca.

IL DOTTOR AHMED
Con le spalle a Santa Caterina, che resta a sud, il wadi Itlah scava un percorso dritto tra le montagne e all’orizzonte piega appena a sinistra. Là in fondo si trova il giardino El Helwa del dottor Ahmed. Per arrivare bisogna percorrere il fondo del wadi, una via verde di giardini coltivati ancora, o in abbandono. El Helwa si stende allungato accanto al wadi, i muretti a secco s’appoggiano ad alcune rocce levigate enormi, rotolate secoli fa. Ci sono tre bacini di raccolta delle acque e un pozzo a essi collegato. All’ingresso meridionale del giardino ho visto una sorgente che sprigiona acqua a poco a poco, erba cresce intorno. Nel muro s’apre un buco collegato a un antico canale che risale il versante occidentale per più di duecento metri e si connette a un’ulteriore fonte d’acqua. In El Helwa crescono ulivi dalle olive già nere, e grosse: ne ho schiacciata una tra le dita e ne è sprizzato il succo oleoso. Poi ho visto mandorli, palme da dattero, palme di fico d’india e viti d’uva bianca da pasto, due alberi di limoni. Il dottor Ahmed vive qui in solitudine, si sposta a Santa Caterina soltanto il venerdì per la preghiera.

L’interno della sua dimora, una stanza, presenta i caratteri beduini tipici: un focolare al centro e tre stuoie sottili ai lati, su ogni stuoia è steso un tappeto colorato. Il suolo è di sabbia dai grani spessi e alle pareti sono addossati contenitori con erbe secche, una borraccia, stoviglie, un libro, buste di plastica e scatole di cartone, un binocolo. Ogni volta che il dottor Ahmed ha bisogno di qualcosa, allunga un braccio e lo afferra. I piatti, le posate e i bicchieri sono posti nella credenza nell’angolo della stanza libero dalle stuoie. Sul fuoco, alimentato da una bombola a gas, ribolle una teiera dove il dottor Ahmed ha appena gettato le sue erbe, tra cui menta e habag. Ci offre di restare a pranzo. In un largo piatto fa a pezzi il pane e ne dispone i frammenti in modo omogeneo, sopra stende il riso e le lenticchie cotti e infine dispone uno strato di pomodori e cetrioli tagliati a piccoli pezzi e conditi con olio, limone, sale e prezzemolo. Lascia l’intero piatto a me e a Jomat, la guida beduina.

Ho trascritto gli insegnamenti medici del dottor Ahmed. Dice che i problemi di salute degli uomini nascono da tre punti. Il primo, la prostata. La prostata è il centro dei problemi! Perché? Un tempo i beduini vivevano nei giardini e potevano pisciare quando volevano, anche sul cammello il beduino si girava appena e pisciava dall’alto. Ora, le città impongono di tenersela. Hai visto tutti quegli uomini per ore in minibus? Se la tengono. E come fai a pisciare in città? Te la tieni finché non trovi una toilette. Questo fa male alla prostata. Gli uomini non vivono più liberi, all’aria aperta nei giardini, e hanno problemi come i dolori di schiena. E i dolori alla schiena non partono dal malessere della prostata? Ecco spiegata la prima origine dei mali. La seconda, i polmoni. Si soffre per mancanza di ossigeno, perché ora gli uomini vivono nelle stanze chiuse, con la paura del freddo, e tengono tutte le finestre chiuse e hanno poco ossigeno. Non aprono mai la finestra e se hanno caldo accendono l’aria condizionata! La mancanza di ossigeno fa male al sangue e cattivo sangue genera malanni. Non ne parliamo con questo virus, che gli uomini si sono chiusi in casa e si sono messi la mascherina, questi vivono proprio senza ossigeno e l’ossigeno è importante per la salute. Ho detto al dottor Ahmed che mia madre è spesso triste e vuole sapere dal dottor Ahmed come guarire dalla tristezza. Non ha abbastanza ossigeno, è sicuro! Vada a farsi dei giri per l’aperto mondo. Terzo punto di origine dei problemi: il fegato. E il fegato sta male perché gli uomini mangiano cibi nocivi, ovvero quelli chiusi nelle scatole. Non si possono mangiare le verdure chiuse nelle scatole! Quando mai i beduini hanno mangiato carote e piselli tratti dalle scatole sigillate, al tempo in cui erano nei giardini?

La medicina del dottor Ahmed individua l’origine dei cattivi sintomi nel chiuso: il chiuso degli spazi privati urbani dove non si può pisciare, il chiuso delle stanze senza ossigeno, il chiuso delle scatolette che si comprano al supermercato. Il dottor Ahmed è portavoce d’un mondo in cui si viveva all’aria aperta. Dice che erano in tredici a esercitare il sapere medico beduino e ora lui è l’ultimo, con lui finirà una tradizione di secoli. I giovani stanno al telefono, vogliono l’auto e i giardini sono abbandonati. La modernità? La modernità è una distruzione. Come facevano i beduini a isolare le tende e a raccogliere l’acqua? Coprivano le tende con la lana di capra nera. Il dottore prende dei fili intrecciati di lana nera e li mette in un bicchiere pieno d’acqua in modo che le estremità pendano fuori dai bordi: mi mostra come la lana assorba l’umidità e la faccia scorrere fuori, verso il basso. Dopo un’ora il bicchiere è quasi vuoto e intorno c’è un circolo di acqua rilasciata dall’intreccio lanoso. Ma i beduini non conoscono più queste tecniche, dice il dottor Ahmed. Alas, i beduini sono finiti, alas, dice, avvicina le mani e le allontana: finiti. Il dottor Ahmed non parla inglese, a tradurre è la guida beduina Jomat, che in arabo significa “venerdì”.

Mi sembra l’occasione per discutere della fine della vecchia Santa Caterina e della nuova città di hotel. Secondo il dottor Ahmed il turismo che verrà è un bene perché porta più soldi e i beduini possono investirli nella cura dei giardini. Anche secondo Jomat senza turismo non c’è nulla da fare per i beduini. Jomat è una guida sulla via per il Jebel Musa e se arrivano più turisti il lavoro aumenta per le guide. Di certo loro ne sanno più di me, vivono qui, ma ho l’impressione, dico, che quando arrivano le grandi compagnie tutto viene irregimentato. E chissà, i proprietari degli alberghi aumenteranno i prezzi delle passeggiate, terranno sotto controllo la zona e daranno lavoro solo alle guide scelte da loro, disposte ad accettare le briciole, insomma abbasseranno il costo dei salari. Il senso delle mie frasi è questo, anche se non ho parlato proprio così. Penso a voce alta, dico, io non so niente, ma ho l’impressione che il denaro non arriverà ai beduini. Mi risponde il dottor Ahmed: «Se loro fanno mille e il beduino ne guadagna cento, il beduino sta bene così. Perché, cosa ce ne facciamo dei soldi? Nulla, meglio averne pochi, ma abbastanza per tornare ai giardini». Inoltre, dice il dottore, tutti questi israeliani turisti sono un bene. Che ne sarebbe di noi senza israeliani, esclama Jomat. Secondo il dottor Ahmed beduini e israeliani sono così, congiunge insieme i due indici, sono affratellati. Quando Israele occupava il Sinai, loro, i beduini, se ne andavano a Tel Aviv, il dottor Ahmed c’è stato, a Tel Aviv.

RAGLI NELLA NOTTE
Nel tempo libero, sotto la tettoia delle stuoie nell’accampamento di Sheikh Mousa, leggevo la raccolta di saggi La piramide rovesciata. Il modello dell’oasi per il pianeta terra di Pietro Laureano. L’autore descrive le pratiche di collezione delle acque nel deserto e l’architettura dei giardini nel Sahara algerino, in Yemen, a Petra in Giordania. Laureano mostra assonanze antiche tra le tecniche di canalizzazione: “Alle foggara sahariane corrispondono, sia pure con caratteristiche differenti, i qanat o kariz persiani, i falaj arabi, le khottara marocchine, le madjirat andaluse”. Immagino una costellazione mediterranea che connette le forme di gestione oculata delle acque. Ancora ricordo i giardini saraceni di Tricarico nella Lucania interna: un sistema di canali e vasche di decantazione creato mille anni fa dagli arabi, oggi ancora funzionante. Non credo sia un caso che Laureano sia nato a Tricarico: le sue ricerche sono forse la riscoperta di un’origine.

Quando camminavo con Shaban non pensavo soltanto ai canali di Tricarico e alla tradizione del paesaggio mediterraneo. Spesso sotto il sole del deserto i giardini dei beduini mi ricordavano i progetti del popolo Fremen nel pianeta desertico di Dune, il romanzo di fantascienza di Frank Herbert pubblicato nel 1965. Arrakis è un pianeta arido, ma è l’unico deposito galattico di spezia, la materia prima necessaria ai viaggi interplanetari. Così l’impero e la gilda dei trasportatori sfruttano senza scrupoli il pianeta e i suoi abitanti, finché i Fremen, guidati da un sogno di rivalsa, si ribellano. Le forze imperialistiche non conoscono i Fremen e la loro cultura, non sanno in che modo i popoli del deserto si sono adattati alle condizioni aspre del pianeta: “L’acqua era talmente preziosa su Arrakis che perfino la rugiada veniva raccolta”. I condensatori di rugiada dei Fremen raccolgono le gocce d’acqua notturne create dall’escursione termica, le trappole a vento invece servono a far precipitare e assorbire l’umidità dell’aria. Esistono enormi vasche d’acqua in antri sotterranei e ogni Fremen sogna di invertire il ciclo ecologico di Arrakis per trasformare il deserto in giardino: “S’immaginò l’aria satura di umidità… la duna rivestita di erba… una distesa d’acqua, all’aperto, dietro di lui, un lungo qanat le cui acque scorrevano nel deserto, e file di alberi sulle rive…”. Dune è un fecondo stimolo per il pensiero ecologico: “La più alta funzione dell’ecologia è la comprensione delle conseguenze”. Così la fantascienza era un archivio dell’immaginazione disponibile ai movimenti sociali in gestazione.

Una notte dormivo nel letto dell’accampamento a Santa Caterina. Mi sono svegliato, disturbato dal raglio lontano degli asini nel deserto: i loro versi rimbombavano tra echi nelle montagne. Gli asini più vicini lanciavano chiaro il loro verso spezzato, sincopato; le urla animali in lontananza, invece, apparivano continue e ondulate nella modulazione. Quei richiami remoti di asini erano identici ai versi dei Sand People in Star Wars, i predoni del primo film – erano gli anni Settanta – ambientato sul pianeta desertico di Tatooine. Qui la fattoria dei Lars su Tatooine richiama l’insediamento ipogeo dei popoli sahariani: da uno scavo principale si ricavano nuove stanze nel sottosuolo e la corte esterna resta all’aria aperta. Ecco, nel dormiveglia ho creduto di essere nel pianeta desertico di una galassia lontana. Ci muoviamo in reti di immagini o di ricordi, ho pensato, e io ora sono finito in una sacca di visioni e proiezioni del mio mondo, l’occidente: il viaggio è una visitazione dei sogni altrui e non dei luoghi. In una lettera inviata alla madre dall’Egitto, il 5 gennaio 1850, scriveva Flaubert: “Spesso è come se ritrovassi di colpo dei vecchi sogni dimenticati”. Così in Sinai esploro l’immaginario occidentale, e coloniale, di mondi lontani. Eppure la fantascienza ha recuperato e configurato di nuovo le allucinazioni del deserto: in questo scarto tento di capovolgere le nostre fascinazioni e trasformarle in strumento critico. Nelle visioni di un’ecologia del deserto, ispirate da un futuro immaginato nel passato, intravedo la contestazione dei modelli di sviluppo e predazione peculiari a ogni impero. E poi è l’alba, il canto del muezzin è il preludio al lavoro di centinaia di operai sfruttati nei cantieri voluti da Al-Sisi. (francesco migliaccio)

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