(disegno di bonnie colin)
Il 28 febbraio è stata una data storica per le mobilitazioni di piazza in
Grecia. È stata, ormai su questo concordano tutti, anche i media mainstream, la
più grande manifestazione mai avvenuta nel paese. Non solo ad Atene e a
Salonicco. Nelle piazze di tutte le città e paesi le persone sono accorse per
manifestare. Ed è qui, purtroppo, che comincia anche la narrazione dei media
stranieri, sicuramente di quelli italiani. Quali sono le ragioni che hanno
portato in piazza questo “popolo con le palle”? Nessuno lo sapeva veramente.
Sono state abbozzate congetture e approssimazioni. Quando è stato assodato che
il motivo erano i cinquantasette morti in un incidente ferroviario avvenuto due
anni prima, qualcuno ha detto “ma evidentemente ci sono altre cose”. Non può
essere solo questo.
Durante gli anni della crisi, la Grecia, e in modo metonimico Atene, sono
diventate per i movimenti di mezza Europa un modello di conflittualità sociale.
“Fare come in Grecia”, era uno slogan diffusissimo, che alludeva più agli sforzi
muscolari delle piazze, che non alla miriade di complesse negoziazioni e
aggiustamenti che gruppi formali e informali, sindacati, persino confederazioni
di professionisti si sono trovati a mettere in pratica per far funzionare le
reti dal basso che hanno permesso alle persone di sopravvivere con dignità, in
un periodo di grande depressione e di prepotenti ingerenze da parte delle
istituzioni finanziarie e politiche europee.
Purtroppo, l’Europa della solidarietà e dell’internazionalismo non è stata in
grado, come non lo è ora, di costruire uno sguardo e delle pratiche che fossero
veramente di supporto, e si è finiti (ora come allora) per parassitare un
immaginario conflittuale che era utile all’immobilismo nostrano. Per un curioso
cortocircuito, l’anarcoturismo che all’inizio era guardato come la possibilità,
sebbene limitata nel tempo, di uno scambio di saperi e pratiche conflittuali, si
è trasformato in uno dei motori della gentrificazione di quartieri come
Exarchia, per esempio, mecca di questo genere di pratiche che con il tempo si
sono fatte sempre meno interessate a una comprensione delle dinamiche interne e
sempre più incentrate sull’esperienza individuale. Come scrive il geografo
anarchico Antonis Vradis, Exarchia si è sempre caratterizzata per essere il
luogo di un “contratto spaziale”: “La peculiare concentrazione di rivolte nel
quartiere durante l’era post-dittatoriale in Grecia è […] la manifestazione di
una sorta di contratto spaziale, in cui il conflitto locale e la contestazione
della sovranità statale persistono all’interno della più ampia riproduzione
regionale e nazionale dell’egemonia statale. La reputazione e la continuità di
Exarchia come luogo di protesta diventano così spiegabili attraverso un tacito
ma duraturo patto tra Stato e società, che permette la prosecuzione della
contestazione locale a condizione che essa rimanga anche spazialmente
circoscritta”.
Questa condizione ha reso il quartiere il luogo mitico dell’insurrezionalismo
europeo, il catalizzatore di una narrazione, non importa se veritiera, ma
sicuramente funzionale alla riaffermazione del sé.
Il 28 febbraio scorso abbiamo perso un’altra grande occasione. Lo sguardo
coloniale, mitico, ha narrato una giornata complessa e articolata, e ha
soprattutto schiacciato tutta la sua portata storica nell’immaginario funzionale
che essa evocava: quella di un popolo indomito. Per questo le ragioni della
mobilitazione sembravano fuori luogo, inadatte, insufficienti. Cosa c’entra un
incidente ferroviario con la rivolta, con il sempre evocato “fuoco greco”? Serve
in questo senso fare un passo indietro e spiegare forse dal principio cosa è
successo a Tempe più di due anni fa.
Alle 23:21 del 28 febbraio 2023, un treno passeggeri InterCity che correva alla
velocità di 160 km/h verso Salonicco si è scontrato frontalmente con un merci
che proseguiva in direzione opposta, a 100 km/h, in prossimità della Valle di
Tempe, vicino a Larissa. L’impatto ha generato un calore che ha letteralmente
sciolto l’acciaio dei vagoni, alcuni dei quali si sono letteralmente
disintegrati. E questo sarà un punto importante, che vale la pena tenere a
mente.
È stato uno degli incidenti ferroviari più gravi della storia europea dei
trasporti su rotaia. Nelle ore immediatamente successive, a una dimissione
formale del ministro delle infrastrutture e dei trasporti Konstantinos
Karamanlis, è seguito l’arresto del capostazione di Larissa, identificato come
unico colpevole dell’errore umano che ha causato l’incidente. Inoltre,
“qualcuno” ha dato l’ordine di cementare il luogo dell’incidente, prima che gli
ufficiali preposti alle indagini giungessero sul campo, e quando ancora si
estraevano letteralmente pezzi di corpi e di effetti personali dal terreno e
dalle lamiere. Chi sia quel “qualcuno”, a oltre due anni dall’incidente, è
ancora sconosciuto e oggetto di dibattito.
Nella linea ferroviaria Atene-Salonicco, l’unica del paese, mancano i
telecomandi indispensabili agli scambiatori e al funzionamento ordinario delle
linee, obbligando il personale a comunicare attraverso i propri telefoni
cellulari e attivando tutto manualmente; dal 2009 al 2013, nonostante una spesa
di 460 milioni di euro e nove diversi contratti, nessun sistema di segnalazione
è stato mai installato nei punti critici della linea, come nella Valle di Tempe.
Appena pochi giorni prima dell’incidente, il 24 febbraio, il sindacato nazionale
dei ferrovieri aveva rilasciato un comunicato che denunciava la fatiscenza del
sistema ferroviario, dichiarando a chiare lettere che “la politica delle
privatizzazioni concepita e attuata da tutti i governi, specialmente dalla crisi
in poi, ha decisamente peggiorato le condizioni della rete” e che “lo stato di
profonda incuria in cui versa tutto il comparto, sia per quanto riguarda i mezzi
che il personale”, con sistemi di sicurezza obsoleti e il blocco delle
assunzioni dal 1985, metteva in grave pericolo la sicurezza di viaggiatori e
personale.
In effetti, dal 2018 al 2020 la Grecia ha avuto il più alto tasso di incidenti
ferroviari mortali per chilometro di tutta l’Europa. In un’interrogazione
parlamentare sul tema, il ministro dei trasporti si era rivolto con sdegno al
sindacato dei ferrovieri per aver mosso tali insinuazioni circa la sicurezza
della linea ferroviaria. Pochi giorni dopo è avvenuto lo scontro a Tempe.
Fino al 2017, anno della privatizzazione delle ferrovie greche, come parte delle
riforme imposte dalla Troika durante i dolorosi anni della crisi economica,
quando Ferrovie Italiane si è assicurata il monopolio del trasporto merci e
passeggeri comprando TrainOse per circa cinquanta milioni di euro, il trasporto
su rotaia da e verso Salonicco poteva contare su un paio di treni al giorno che
ci mettevano parecchie ore (si era soliti dire “una notte”) per connettere le
due città.
Tuttavia, da allora TrainOse, rinominata dai nuovi padroni italiani Hellenic
Train, si è dotata di “treni veloci” (alcuni vecchi convogli dismessi che
Trenitalia ha comprato dalla Svizzera) che riducono il tempo di viaggio a
quattro ore e la politica commerciale delle offerte fa talvolta preferire questo
mezzo di trasporto alle più comunemente utilizzate corriere. Le infrastrutture
di terra e le linee invece sono rimaste “greche”, di proprietà di una
partecipata, e versano da anni in uno stato di grave trascuratezza. Proprio
questo tema era stato oggetto di forte critica dall’allora opposizione di Nea
Demokratia, che riferiva come il governo di Syriza, attraverso la svendita del
servizio su rotaia agli italiani, facesse circolare treni troppo “nuovi” su
un’infrastruttura fatiscente. Una volta al governo però nessun ammodernamento di
questa infrastruttura è mai stato portato in parlamento, nemmeno come proposta.
Nei due anni trascorsi dalla tragedia, il governo ha fatto di tutto per
insabbiare le indagini. È servito che il comitato delle famiglie delle vittime e
dei sopravvissuti andasse alla Commissione europea a chiedere che l’indagine non
venisse chiusa, che si indagasse sulle responsabilità specifiche. Il governo,
oltre ad aver cercato di gettare tutta la colpa sul capostazione, ha più volte
insultato le famiglie delle vittime accusandole di alzare polveroni per
guadagnare più soldi dai risarcimenti.
Un mese fa è stato pubblicato un audio inedito, nel quale si sentono le voci dei
passeggeri del treno qualche minuto dopo la collisione, mentre chiamano il
pronto intervento chiedendo aiuto. Nel video, che è stato montato dai periti di
parte in modo tale da far coincidere i tempi reali dell’impatto con le chiamate
dei passeggeri, le persone riferiscono di non riuscire a respirare, di non avere
ossigeno. Inoltre, uno studio accurato da parte degli ingegneri di diversi
politecnici del paese ha dimostrato che il grande fungo di fuoco scaturito
durante l’incidente, sarebbe stato ingiustificato se nel treno merci non ci
fosse stato – probabilmente nascosto, visto che il carico dichiarato erano
recinzioni metalliche – del materiale infiammabile ed esplosivo.
Queste due notizie hanno aperto una ferita profonda nell’opinione pubblica e già
a fine gennaio la gente si è riversata nelle strade in una gigantesca
mobilitazione, chiamata dal comitato delle famiglie delle vittime e dei
sopravvissuti, per chiedere giustizia.
Dalla pubblicazione di quel video non è passato un giorno senza che alle
quotidiane rivelazioni sulla reale dinamica dei fatti seguissero reazioni
scomposte da parte del governo, che hanno diffuso la comune percezione che non
solo ci fosse qualcosa da nascondere, ma anche e soprattutto che si facesse
sempre più difficile arrivare alla verità, e quindi alla giustizia, per le
vittime e i sopravvissuti di questo incidente.
In questo clima, il 28 febbraio, a due anni esatti dall’incidente, le persone
sono scese in ogni piazza della Grecia e in diverse piazze del mondo, per
chiedere giustizia per i morti e per protestare contro i tentativi di
insabbiamento del governo. La manifestazione non aveva colore politico e, in
effetti, erano svariate le componenti sociali che vi hanno partecipato. Da
qualunque parte di Atene si cercasse di raggiungere Syntagma, strade e viali
erano colmi di persone che si affrettavano a passo svelto verso il centro della
città.
Subito dopo gli interventi delle famiglie da piazza Syntagma e un collegamento
con Larissa dove aveva luogo una commemorazione religiosa, sono cominciati gli
scontri, al coro di “Mitsotaki gamiese”, letteralmente “Mitsotakis fottiti”, che
sono durati alcune ore.
La gestione della piazza da parte delle forze dell’ordine è stata una delle
ragioni principali che ha spinto le persone a tornare sul posto anche i giorni
successivi. Le cariche violente al corteo oceanico, che faticava a uscire dalla
piazza e non trovava vie d’uscita, mentre ai crocevia gli operatori delle
ambulanze prestavano aiuto a persone di tutte le età che si erano sentite male
per i lacrimogeni o le bombe stordenti, ha suscitato ulteriore sdegno. Tanto che
in quella, come nelle altre manifestazioni che da quel giorno si sono succedute
a ritmi serrati per le strade, soprattutto di Atene e Salonicco, le persone
respinte dalle cariche hanno poi sempre cercato di fare ritorno nella piazza dei
presidi.
Questa persistenza, questa volontà di riaffermare la propria contrarietà, non
può essere ridotta al momento dello scontro di piazza che pure c’è stato ed è
importante. Infatti, già nel corso degli scontri del 28 febbraio, hanno
cominciato a diffondersi luoghi comuni e discorsi, ormai noti, sul fatto che ci
fossero infiltrati che fomentavano gli scontri tra la folla pacifica che
chiedeva solo giustizia.
Se da un lato lo spauracchio dell’infiltrato può essere visto come funzionale
alla “pessima reputazione” delle forze di polizia, dall’altra, e questo è il
rischio a cui per fortuna molti sono riusciti a dare una risposta forte, è anche
una retorica utile a pacificare le istanze radicali e le pratiche che sorgono
dalla rabbia autentica di una componente importante della piazza.
Come ha scritto l’antropologo Nikòlas Kosmatopoulos: “La rinuncia alla violenza
politica come mezzo di liberazione da parte di alcuni settori della sinistra, in
cambio della loro accettazione da parte del sistema borghese, ha come risultato
il vedere ovunque agenti infiltrati all’interno del movimento, così come il non
‘vedere’ i movimenti di liberazione violenti del Sud Globale come solidali,
vicini e spesso più avanzati – politicamente e strategicamente – rispetto a
loro. […] Ciò che ora è necessario è una violenza politica efficace. Scioperi,
occupazioni, scontri. Altrimenti, il governo fa finta di nulla (definendo le
manifestazioni di rabbia collettiva come ‘cerimonie commemorative’) e investe
nella teoria della provocazione per delegittimare la resistenza e guadagnare
terreno. Una risposta di massa, organizzata ed efficace alla violenza
governativa può diventare la scintilla del crollo, purché avvenga secondo
principi di azione collettiva, autodifesa e obiettivi politici”.
Le manifestazioni in Grecia stanno continuando. Pur senza la massiccia portata
del 28 febbraio, le persone sembrano non voler lasciare che la morte e la
rassegnazione si impossessino delle loro vite. Quello che rimane da capire, ma
serve uno sguardo non pruriginoso e più accorto di quello che i movimenti
internazionali hanno riservato finora alla dimensione politica di questo paese,
è in che modo le istanze di questa grande sollevazione anti-necropolitica,
saranno in grado di non lasciarsi incanalare nella politica della rappresentanza
e saranno invece capaci, come al momento sembrano perfettamente in grado di
fare, di unire i punti di una politica oppressiva e neoliberale che causa morte
e distruzione dovunque si posi: dai grandi incendi che devastano il paese ogni
estate e che celano, malamente, il progetto di far diventare la Grecia un hub
dell’energia “verde” in Europa, alla “rigenerazione urbana” dei grandi gruppi
immobiliari greci e internazionali che erode patrimonio costruito a beneficio
del turismo di massa e degli interessi finanziari di gruppi multinazionali, sino
ai progetti faraonici come quello delle nuove linee metropolitane che hanno
messo e metteranno in scacco gli spazi urbani di Atene e Salonicco e
l’incolumità di abitanti e passeggeri.
Se la ristrutturazione neoliberale e neocoloniale di questo paese potrà essere
messa alla prova da un movimento in grado di reggere lo schianto delle retoriche
interne della pacificazione sociale e dello sguardo mitizzante dei suoi
osservatori internazionali, sarà la grande sfida dei prossimi tempi. (anna
giulia della puppa)
Tag - mondo
(disegno di enrico pantani)
Dal numero 13 de Lo Stato delle Città.
Quando arrivai a Berlino la prima volta, nel settembre del 1997, la Germania era
stata riunificata da pochi anni e la città era un immenso cantiere. Stava
prendendo forma quella che i media mainstream e il governo chiamavano Das Neue
Berlin, la nuova Berlino. La Berlino nuovamente capitale del paese. La Berlino
non più divisa dal muro. Quel muro che prese forma il 13 agosto del 1961 e che
per quarant’anni è stato il simbolo della Guerra Fredda. Uno spazio divisorio
che nel corso del tempo era diventato un apparato urbanistico fatto di filo
spinato, torrette di sorveglianza e terra di nessuno. Uno spazio lacerante che
segnava il passaggio fisico tra l’est e l’ovest della città, ma anche uno spazio
simbolico tra due mondi, sue società, due stili di vita, due culture materiali.
Das Neue Berlin avrebbe cancellato ogni traccia del passato. O meglio, avrebbe
gestito il passato in maniera funzionale alla nuova identità nazionale dei
tedeschi finalmente riuniti, soprattutto sarebbe stata il nuovo orizzonte per
quei sedici milioni di cittadini della Ddr che fino a quel momento avevano
vissuto in un carcere a cielo aperto. In quel periodo la Repubblica Democratica
Tedesca veniva considerata, in modo sprezzante, Stasiland, ovvero il paese della
Stasi, la polizia per la sicurezza dello Stato che sorvegliava l’integrità
politica, sociale e culturale della società tedesco-orientale. Era, in effetti,
un dispositivo di sorveglianza e repressione capillare. L’apertura dei suoi
archivi in seguito all’assalto dei cittadini nel novembre del 1989, aveva
rivelato l’esistenza di una rete di informatori “non ufficiali” diffusa in tutti
i gangli della società, una complicità con la Stasi che divenne un marchio di
infamia per cittadini e cittadine di diversa estrazione sociale, dal semplice
vicino di casa a figure apicali della controcultura. Fece scalpore il caso di
Sasha Anderson, poeta della contestazione al realsocialismo, elemento di spicco
della scena controculturale orientale che in realtà informava la Stasi in modo
dettagliato ricavandone una serie di privilegi, primo tra tutti la possibilità
di attraversare il muro senza difficoltà. Il drammaturgo Heiner Müller come la
scrittrice Christa Wolf e altri eminenti esponenti della cultura ufficiale della
Ddr furono accusati di essere stati tra i collaboratori. Fu creata una
commissione governativa per l’analisi dei documenti della Stasi che si
trasformò, in breve tempo, in un organo capace di assegnare patenti di
integrità. Nessun funzionario pubblico della Ddr venne integrato nella nuova
amministrazione unitaria. Venne smantellato il settore scolastico e accademico.
Venne smantellato l’intero tessuto produttivo. Nel 1991 un milione di persone
circa si ritrovarono disoccupate. Il patrimonio industriale e quello edilizio
vennero privatizzati. A est, nei nuovi Bundesländer, la frustrazione sociale
portava in molti a parlare di “annessione” della Ddr e non di riunificazione
tedesca. Ecco, nei primi anni Novanta, si costruivano le fondamenta della
profonda divisione che tutt’oggi separa i tedeschi dell’est da quelli
dell’ovest. Fenomeno che oggi prende forma nei recenti risultati elettorali che
hanno premiato in Turingia e Brandeburgo partiti di ispirazione nazionalista
come l’estrema destra dell’AFD e la sinistra conservatrice del BSW.
Quella in cui mi ritrovai, insomma, era una città al centro di un processo di
riscrittura della propria storia. I segni tangibili della Berlino capitale della
Ddr venivano sistematicamente smantellati. L’edilizia storica del centro
cittadino, fatta di vecchi palazzi malandati, veniva sanificata, ristrutturata,
“colorata”. Grandi società immobiliari occidentali comprarono a prezzi
stracciati interi palazzi per rivenderli – ristrutturati – ai nuovi cittadini
della capitale. C’è da dire che negli ultimi anni della Ddr il centro cittadino
si era andato progressivamente svuotando. Molti degli abitanti si erano
trasferiti nei casermoni dell’edilizia popolare realsocialista in quartieri
periferici e la nomenklatura viveva nelle villette di Pankow. I quartieri di
Mitte, Prenzlauerberg e Friedrichs’hain erano il luogo della bohème tedesco
orientale.
Die legende von Paul und Paula, di Heiner Carow del 1973, forse il film che
meglio racconta la complessità della società tedesco-orientale, descrive con
sguardo poetico le contraddizioni del processo di modernizzazione del socialismo
tedesco insistendo, forse involontariamente, sulla trasformazione dell’abitare.
Il desiderio di appartamenti funzionali e moderni che spingeva la popolazione ad
abbandonare abitazioni sempre più fatiscenti che, dal canto loro, diventavano
soluzioni abitative pressoché gratuite per quelli che lo Stato chiamava asociali
e devianti.
Certo, quando sono arrivato io Das Neue Berlin non era ancora compiuta. Si
respirava l’odore del carbone che bruciava nelle enormi stufe con cui, negli
appartamenti non ancora risanati, ci si proteggeva dal freddo intenso dei mesi
invernali; resistevano intere palazzine occupate che un po’ alla volta venivano
sgomberate con la forza dalla polizia. Soprattutto gli affitti si mantenevano
per lo più a prezzi ragionevoli. C’erano ancora locali informali dove si poteva
bere e ascoltare musica o assistere alle più svariate performance artistiche. In
poche parole Berlino non era cool, anzi. Era una città in trasformazione, certo
a suo modo aggredita dal modello neoliberale ma ancora piena di pratiche e
discorsi di resistenza e sperimentazione radicale politica, sociale e culturale.
Scelsi di prendere casa a est. Ero arrivato in città, infatti, per una ricerca
di storia sociale sulla Ddr. Ero assetato di testimonianze sulla vita
quotidiana. Frequentavo in maniera compulsiva i mercati delle pulci (all’epoca
un’istituzione a Berlino) cercando oggetti e segni della Ddr. Incontravo
lampade, libri, mobili dismessi, vestiti, dischi. Oggetti di un’archeologia
contemporanea, simulacri di un paese che non esisteva più. Ero, in fin dei
conti, curioso di capire come fosse stato possibile sopravvivere in un paese che
veniva descritto come una distopia autoritaria. I libri e gli articoli
specialistici che leggevo convergevano, con sfumature diverse, su una narrazione
consolidata della Ddr come dittatura quasi peggiore del reich hitleriano. Un
paese arido, popolato da una società immobile. Eppure, incontravo di continuo
fonti, racconti e indizi che stridevano con il passato che veniva raccontato
dagli storici e dall’industria culturale. Un certo stupore lo ebbi la prima
volta che misi piede nella sezione dell’archivio federale di Stato dedicata alla
documentazione della ex Ddr. Mi ritrovai a disposizione una massa ingente di
documenti del governo e delle organizzazioni sociali. Potevo accedere a fonti
ufficiali di ogni tipo senza nessuna limitazione. Ho passato diversi anni
lavorando con quelle carte. Documenti ufficiali da cui, però, trasparivano
elementi di un immaginario peculiare, così come di una cultura materiale
decisamente originale. Trovai storie di libri di fantascienza, di avventura, di
spionaggio, di western che venivano pubblicati o meno, e messi in circolazione
in tutta la Ddr; trovai piani quinquennali per la produzione di alta moda
realsocialista, indagini sui gusti della “gioventù”, pianificazione della
produzione di rock realsocialista. Attraverso le relazioni delle forze
dell’ordine emergevano anche i tratti delle controculture presenti a Berlino est
e nelle altre città della Ddr. Mi resi conto di cosa fosse la criminalità, il
contrabbando, la violazione delle regole del contratto sociale che reggeva la
Germania dell’est.
Fuori dall’archivio, intanto, facevo incetta di riviste della FDJ,
l’organizzazione giovanile della SED, il partito-stato che aveva governato fino
al 1989, e di fanzine fotocopiate dei poeti beat di Berlino est; parlavo con
decine di persone che mi riportavano racconti di vita quotidiana; vedevo i film
della DEFA, la casa di produzione cinematografica della Ddr, scoprivo il western
realsocialista. E intanto intorno a me si sviluppava una tendenza che prese il
nome di Ostalgie, la nostalgia dell’Est. Cos’era? La riscoperta, soprattutto
estetica, ma anche politica, del mondo materiale della Ddr. Da un lato gli
oggetti, i vestiti, la musica, dall’altro l’affermazione elettorale, nei
nuovi bundesländer, del partito Die Linke, costruito sulle ceneri della SED. Una
nostalgia che si esprimeva anche in forme di rifiuto della società
multiculturale, di diffidenza verso lo straniero. Una reazione al sentimento di
spoliazione economica e culturale che serpeggiava nelle contrade orientali.
Ostalgie aprì un dibattito articolato nella comunità degli storici. Furono
pubblicati articoli e saggi sulla storia sociale della Ddr che prendevano in
esame la Alltagsgeschichte, la storia del quotidiano. Studi che posero la
necessità di integrare la storia della Germania orientale all’interno della
storia tedesca, non escludendola come infausta parentesi. Intanto Das Neue
Berlin assumeva contorni sempre più definiti. Diventava sempre più una città da
consumare. La scarna e cupa città divisa andava addobbata di attraenti
destinazioni per i turisti.
Dopo un lungo periodo mi sono allontanato tanto da Berlino quanto dalla storia
della Ddr. A Berlino sono tornato spesso, ma in verità più attratto dalla sua
metà occidentale, dai movimenti autonomi negli anni Ottanta e Novanta radicati a
Kreuzberg, dalla mescolanza culturale che trasformava la capitale in una
metropoli dapprima unica poi sempre più schiacciata sui palinsesti urbani delle
grandi città occidentali.
Quando ci sono tornato di recente per un periodo abbastanza lungo non ho più
trovato Das Neue Berlin bensì il suo superamento. Una città del tutto
anestetizzata. Benestante, giovane e prevalentemente bianca. Ma soprattutto ciò
che mi ha colpito è stato l’uso della storia come attrazione turistica. Simbolo
di tale fenomeno è senz’altro l’edificazione dell’antico castello federiciano
settecentesco al posto della VolksKammer (il parlamento della Ddr) non lontano
dalla centrale Alexander Platz. Un edificio ricostruito in pochi anni a ridosso
delle architetture moderniste della vecchia Berlino est. Un simulacro
dell’intenzione di scrivere una storia tedesca condivisa in cui l’Est va
neutralizzato attraverso una musealizzazione progressiva e diffusa nel
territorio urbano.
Innanzitutto la città è stata dotata di infrastrutture esperienziali, ovvero
luoghi e percorsi che offrono al turista una forma di intrattenimento basata
sull’idea di vivere per un momento il passato in maniera diretta. Da un lato
troviamo il Trabant Safari, ovvero un giro della città a bordo delle auto
tipiche della Ddr (motori a due tempi estremamente inquinanti per altro) che
tocca i luoghi più significativi della Berlino divisa. Dal check point Charlie
(la stazione di confine tra le due Berlino controllata dai militari Usa), dove è
anche possibile visitare una mostra fotografica e comprare souvenir a tema; la
torre della televisione al centro dell’Alexander Platz; pezzi di muro superstiti
e l’immancabile museo della Stasi. Dall’altro troviamo tour in bicicletta (più
ecologici) che portano i visitatori alla scoperta dell’archeologia industriale
della città, le fabbriche di origine ottocentesca come la AEG le cui strutture
puntellano ancora diversi quartieri a ovest come a est.
Altro tipo di esperienza, stavolta più statica, è data dai musei tematici. Il
più stucchevole è il Berlin Ddr Museum, uno stanzone sito nella zona divenuta il
centro turistico della città, in cui al modico prezzo di venti euro, viene
offerta la possibilità di immergersi in una Ddr virtuale. Attraverso filmati,
ricostruzione di ambienti e teche con gli oggetti più disparati si entra in una
sorta di zoo in cui curiosare nella vita quotidiana di un paese sotto scacco
della Stasi e dell’ideologia comunista. Un museo “per famiglie” che mette in
mostra la ricostruzione di un paese che forse non è mai esistito. A fare da
contraltare, troviamo un altro tipo di musealizzazione della Germania dell’est.
La mostra permanente sulla vita quotidiana in Ddr ospitata dal Museo della
Kultur Brauerei nel quartiere orientale di Prenzlauerberg. Qui il rigore
scientifico è di altra caratura, anche se il modo di ricostruire gli ambienti
(dalla fabbrica al salotto dei poeti della contestazione) resta quello
imperante. Nella stessa struttura è ospitata per un breve periodo un’altra
mostra, dedicata alla scena del Rock Metal della Ddr con tanto di ricostruzione
dello studio di registrazione della band più famosa degli anni Ottanta. Qui la
Ddr appare una società decisamente più complessa e articolata, emergono
sfumature diverse del quotidiano, non ci sono animali da osservare ma il
tentativo di restituire alle persone del passato la propria dignità.
E sempre in tema Ddr troviamo, poco distante, il monumento della Bernauer Str.
La strada dove sono avvenute il maggior numero di fughe (e vittime) dall’est
verso l’ovest subito dopo la costruzione del muro. Qui il muro e i suoi
dispositivi di sorveglianza sono stati mantenuti nella loro forma originale, non
si è ricostruito ma si è conservato. Una mostra dettagliata, inoltre, documenta
tutte le evoluzioni architettoniche del Muro. L’enfasi è sul dispositivo di
sorveglianza della dittatura.
Un modello mutuato dalla mostra Topographie des Terrors, nata alla fine degli
anni Settanta e resa permanente a Berlino ovest nella zona in cui sorgevano i
ministeri del Reich da cui si dirigeva l’Olocausto e la guerra. Sulle vecchie
fondamenta una serie di pannelli ripercorre l’ascesa del nazismo e termina, in
una strana continuità, con una breve storia della Ddr.
Ma Berlino, oltre a essere una città divisa, è stata durante la Guerra Fredda la
capitale delle spie. A ricordarcelo troviamo il Deutsches Spionage Museum in cui
è possibile utilizzare direttamente molti dei trucchi utilizzati dai servizi
segreti per spiare gli avversari (reali o supposti). I visitatori del museo
possono calarsi per qualche ora nei panni delle spie che hanno alimentato tanto
la storia che la letteratura della Guerra Fredda; aprono lettere con il vapore,
montano un microfono e ascoltano di soppiatto le parole pronunziate nella stanza
a fianco, scoprono doppifondi in valigette di pelle. Tecniche utilizzate da
tutti i lati, ma grande risalto è dato, ovviamente, al lavoro della Stasi.
Ospitato in una vecchia struttura tedesco-orientale dedicata all’ascolto delle
onde radio del nemico, il museo è una delle casematte dell’uso pubblico della
storia e del passato. I turisti ripartono portando con sé un’idea ben precisa di
quanto sia avvenuto in passato nella capitale tedesca; consumano una narrazione
costruita da elementi selezionati, riportano con sé souvenir di una vittoria del
bene sul male. La musealizzazione e commercializzazione della Ddr risignifica un
passato a senso unico, svilisce la complessità che ha determinato una cesura
storica fondamentale come il crollo del Muro e il collasso del gigante
sovietico. I safari in Trabant, la ricostruzione dozzinale di ambienti tipici
della Ddr ridicolizzano il passato, trasformano oggetti ed esperienze reali di
un passato recente in elementi stereotipati così come avviene ad altre
latitudini investite dal turismo di massa. In assenza di vicoli caratteristici,
di folklore popolare, di monumenti e opere d’arte da blindare con biglietti a
pagamento, il fulcro del consumo è un oggetto immateriale, un folklore
inventato, o meglio, una cultura materiale da esporre in vetrina, un’esperienza
di quotidianità lacerante da dare in pasto a file di turisti pronte a digerire
le cicatrici della Storia come un panino imbottito.
I riverberi del consumo della storia, li ritrovo passeggiando per le strade di
Kreuzberg, quartiere ribelle della Berlino occidentale. Non assumono la forma di
mostre preconfezionate ma, al contrario, di una radicale trasformazione dei
luoghi, di una lenta ma inesorabile sostituzione di popolazione. Hipster,
consumo di prodotti biologici, bar e ritrovi à la page, affitti saliti alle
stelle laddove le case erano per lo più occupate. Un multiculturalismo
occidentale, bianco e benestante ha sostituto la miscela di lingue e culture che
abitava lo stesso spazio. La ricerca dell’esperienza oltrepassa il momento,
diventa quotidiano. Si cerca l’ebbrezza di una città scomparsa, trasformata
quasi in un parco tematico di una controcultura anestetizzata, divenuta, per la
gran parte, un dispositivo di intrattenimento. Creatività da commercializzare,
consumare. Processo che, senza dubbio, incontra resistenze, ostacoli e che,
tuttavia, sembra essere irresistibile, irrefrenabile.
Se nella Das Neue Berlin di fine anni Novanta la storia era un oggetto
ingombrante, un materiale vischioso, un peso da cancellare, nella Berlino
contemporanea sembra essere diventata un utensile liquido, malleabile, da
modellare, adattare ai gusti variegati dei consumatori. Certo, la ricerca
professionale può ancora contare sul patrimonio archivistico ingente degli
archivi di stato, municipali e perfino di quartiere. Ma è il suo uso pubblico
che sembra essere stato del tutto ribaltato. Discorsi sbrindellati sull’identità
nazionale sono ormai il carburante per visioni politiche identitarie che
ripropongono in modo strumentale la passata divisione tra Est ed Ovest.
L’annessione della Ddr o altrimenti la riunificazione tedesca ha sepolto
qualsiasi opportunità di prospettiva cosmopolita, multiculturale, favorendo, al
contrario una polarizzazione sociale, economica e razziale. Come se le diverse
componenti che abitano la città diventassero sempre di più comunità separate.
Turchi e arabi, classe media globale e benestante, proletariato orientale,
poveri ed esclusi. Ognuno circoscritto nel proprio spazio urbano. E finalmente,
dopo mezzo secolo, anche Berlino ha un suo centro cittadino riconoscibile.
Vuoto, silenzioso. Musei e ministeri ne hanno ridefinito i contorni abitati da
funzionari e turisti che si cibano di street food sofisticato.
Heiner Müller, nel suo Hamletmaschine del 1977, aveva immaginato lo scenario di
macerie: “Per le bugie che vengono credute/ Da coloro che le raccontano e da
nessun altro Nausea/ per le facce dei facitori segnate/ Dalla lotta per i posti
i Voti i Conti in Banca/ Nausea Carro falcato lampeggiante di battute/ Vado per
strade per magazzini per facce/ Con le cicatrici della battaglia per il consumo
Povertà/ Senza decoro Povertà senza dignità/ […] Risa di Pance Morte /Heil COCA
COLA”.
Il filo spinato che separava la città è diventato invisibile. (-ma)
(disegno di cyop&kaf)
Asmaa Abusamra è una docente universitaria. Nel marzo 2024 ha lasciato la
Striscia di Gaza per andare in Norvegia nell’ambito del progetto Scholars at
Risk (SAR).
Mi ha dato appuntamento alla Biblioteca Centrale dell’Università di Oslo.
L’intervista si svolgerà al terzo piano ma non prendiamo l’ascensore «perché da
quando è cominciata la guerra non riesco più a stare in spazi stretti».
Arriviamo in una sala riunioni con larghe finestre che mostrano i palazzi vicini
e lei mi indica quello più alto: «È il Policlinico universitario, ogni tanto un
elicottero si alza dal tetto e a me viene l’ansia perché il rumore mi ricorda
quello dei droni che sono la colonna sonora costante di ogni giorno a Gaza».
Mi fa accomodare e si allontana per prendere caffè e acqua. Al suo ritorno, Asma
mi racconterà della vita della gente di Gaza durante la guerra iniziata il 7
ottobre 2023, e di come l’educazione e l’insegnamento sono tra le poche cose a
cui aggrapparsi per restare umani durante il massacro.
«A Gaza prima della guerra c’erano diciassette istituzioni universitarie e circa
ottantottomila studenti immatricolati. Noi palestinesi siamo fieri del fatto che
abbiamo il più alto tasso di iscritti all’università in tutto il mondo arabo. La
mia si trova nella parte sud di Gaza City, vicino al corridoio di Netzarim. Fino
a settembre 2024 alcuni edifici erano ancora in piedi e si poteva fare lezione,
ma a settembre Israele ha raso al suolo tutto.
«Io sono una professoressa di Education Management allo University College of
Applied Sciences of Gaza. Sono nata nel nord della Striscia e la mia famiglia,
il mio lavoro e la mia vita, tutto ciò che mi appartiene è a Gaza. Vivevo nel
quartiere di Shejayah, che era già stato bombardato durante la guerra del 2014.
All’epoca la nostra casa subì qualche danno alle finestre, ma dopo una settimana
siamo potuti rientrare. Il 7 ottobre avevo capito immediatamente che questa
volta sarebbe stato molto diverso».
La interrompo per dire che altra gente da Gaza con cui ho parlato non si
aspettava una reazione israeliana così devastante dopo il 7 ottobre. «Io invece
l’ho capito subito – spiega – perché ho visto tante guerre da quando sono nata.
Di solito la gente di Gaza sa che tipo di reazione aspettarsi da Israele, e
molti speravano che sarebbe stato come le altre volte. Io mi sono resa conto
subito che questa volta era diverso, che avevano bisogno di una scusa per fare
qualcosa di molto peggio. Avevo capito che la punizione di Israele non sarebbe
stata raddoppiata o triplicata come le altre volte, ma sarebbe stata
decuplicata.
«Dissi a mia madre e a mio padre qual era la mia sensazione, ma all’inizio non
mi presero sul serio. In ogni caso dovevamo andarcene, ma dove? Noi conosciamo
solo Gaza e abbiamo qualche parente al sud, ma come fare a traslocare in quella
situazione? Abbiamo preso qualcosa, la mia famiglia pensava che in un paio di
settimane saremmo tornati a casa. Io presi il mio computer e andammo a Nuseirat,
ma anche lì non era sicuro per niente, anche lì c’era la guerra. Arrivammo a
piedi il 15 ottobre e c’erano scene di panico, centinaia di migliaia di persone
che si muovevano verso sud e Israele bombardava anche chi scappava. Erano
bombardamenti a caso, non potevamo sapere chi sarebbe stato il bersaglio. Alcuni
miei parenti scamparono per un pelo alle bombe e si unirono a noi. Arrivati a
Nuseirat siamo rimasti solo due settimane perché vedevamo le bombe esplodere a
duecento metri da noi, le porte e le finestre della casa dove eravamo vennero
distrutte, così a novembre fummo costretti a rifugiarci in una scuola.
«Io ho quarantatré anni e nella mia vita non ero mai stata rifugiata in una
scuola durante i bombardamenti. Questo ha aggiunto altro dolore perché non era
facile convivere con altre trentacinque persone sconosciute in una stanza grande
quanto un’aula scolastica. Per questo motivo andammo a Rafah, e lì non
conoscevamo nessuno e non c’era né acqua né cibo.
«Quando dico che non c’era cibo intendo dire che non avevamo né pane né acqua.
Io sono la sorella più grande e ho sempre provveduto io alla mia famiglia. Mio
fratello ha due figli e sua moglie era incinta in quel momento quindi doveva
pensare a loro. Trovare da mangiare era diventata la nostra priorità, per cui
ogni giorno mia sorella e io ci mettevamo in fila all’alba, una per il pane e
l’altra per l’acqua. A volte tornavamo soltanto a notte fonda. Comprare il pane
era troppo costoso».
Mentre Asmaa mi raccontava queste cose, ho ripensato alle parole che mi ha detto
un’altra persona che era a Gaza in quei giorni: Israele ha bombardato e
distrutto tutti i bancomat nella Striscia di Gaza. Per comprare cibo al mercato
nero la gente che ha parenti all’estero e qualche soldo sul conto è costretta a
versare i soldi sui conti di alcune famiglie di trafficanti che, con metodo
mafioso, si tengono i soldi e forniscono cibo a prezzi altissimi: un uovo può
costare anche due euro. Quando si parla di crisi umanitaria a Gaza si parla di
situazioni come questa, e il vuoto di potere causato dalla guerra ha tolto ogni
riferimento istituzionale alla popolazione.
«Era il caos. Se penso all’anno scorso penso solo al caos che vivevamo e al
fatto che nessuno aveva a cuore la popolazione. Ognuno doveva pensare a sé
stesso. Siamo rimasti a Rafah per duecento giorni, sette mesi».
Anche in questo caos Asmaa ha ricominciato a fare ciò che aveva sempre fatto:
fare ricerca e insegnare, cercando di tenere insieme la comunità accademica di
Gaza. «Mi sono messa a scrivere. Per tre mesi il mio laptop è rimasto spento
perché non avevamo elettricità. A Rafah riuscimmo a trovare una presa per
caricare computer e cellulare e ho cominciato a scrivere un articolo accademico,
il titolo è Brain Drain or Brain Circulation. Mi sono chiesta cosa sarebbe
successo alla comunità accademica di Gaza, cosa potrebbe succedere se tutti gli
accademici lasciassero Gaza con permessi umanitari.
In quei giorni mi sono resa conto di quanto sia un privilegio avere internet,
quando ho potuto ho aperto Facebook e ho visto le foto di moltissimi miei
colleghi uccisi nelle settimane precedenti. Almeno quarantacinque persone, tutte
uccise con la loro famiglia perché noi a Gaza diamo molto valore alla famiglia e
stiamo sempre insieme. Tutte queste persone, io le conoscevo da vent’anni, ho
visto crescere i loro figli, ed è molto difficile parlarne al passato».
A questo punto dell’intervista Asmaa apre il computer e comincia a mostrarmi
immagini della sua università. Laboratori nuovi di zecca, postazioni di realtà
virtuale e strumenti tecnologici. Impressionato, esclamo: «Ma che bella! Molto
più avanzata della mia università a Palermo!». Asma mi racconta che c’è stata,
che le è piaciuta ma che il cibo non è buono. Ridiamo e le dico che di solito la
gente dice il contrario. A lei non piacciono la pasta e la pizza, però il pesce
le è piaciuto.
«Ho viaggiato molto nella mia vita, ho fatto il dottorato in Indonesia e sono
stata a insegnare in Turchia, in Belgio, in Malesia, in Francia. Ma casa mia è
Gaza e non me ne sarei mai andata. A dicembre 2023 i miei amici e colleghi
norvegesi mi hanno detto che c’era la possibilità di venire qui con un visto per
accademici, ma io non avevo la minima intenzione di andarmene e lasciare i miei
genitori da soli. I miei amici hanno insistito e hanno detto che ci avrebbero
pensato loro a fare tutta la parte burocratica, e poi avrei potuto decidere se
partire oppure no. La pratica è andata a buon fine e a gennaio 2024 sarei potuta
partire ma non volevo andarmene. Rimasi a Rafah per tutto febbraio finché a
marzo mia madre mi disse: “Asmaa, qui non sei utile. Tu devi essere fedele a ciò
che sei. Vai, continua la tua carriera e da fuori potrai aiutarci più di quanto
tu possa fare da qui”. A quel punto mi sono convinta anche perché non lavoravo e
non avevo più soldi».
Per arrivare al Cairo e da lì raggiungere la Norvegia, Asmaa ha fatto come tutti
i circa centomila abitanti della Striscia che sono riusciti ad andarsene: ha
pagato cinquemila dollari a una organizzazione egiziana per attraversare il
valico di Rafah. Poco dopo la sua partenza, Israele ha occupato il corridoio di
Filadelfi e oggi nessuno, neanche pagando, può scappare.
«Adesso sono qui a Oslo con una sensazione che molti chiamano “survivor guilt”,
il senso di colpa di chi è sopravvissuto. Quando la gente mi chiede: “Come stai
Asmaa?”, io rispondo: “Quale Asmaa? Quella che vive in Norvegia o quella che è
rimasta a Gaza?”.
«Sono in Norvegia con un permesso temporaneo di un anno, non so cosa accadrà
dopo. Sto già cominciando a cercare lavoro ma non è facile in queste condizioni.
L’unica cosa che mi dà forza è che devo essere attiva e sveglia per aiutare la
mia gente. Io lavoro all’università da vent’anni, ho cresciuto generazioni di
studenti. Durante ogni guerra, sotto le bombe, lo studio e la ricerca erano le
uniche cose che riuscivano a farci superare i nostri problemi. Ho sempre
insegnato ai miei studenti che l’educazione è libertà. Siamo occupati da Israele
ma lo studio permette alla tua mente di essere libera, e anche al tuo corpo.
Uscire da Gaza non era facile neanche prima della guerra, non era facile neanche
per un topo o per un gatto passare il confine, ma se io e molti miei colleghi
abbiamo potuto viaggiare è stato solo grazie all’università e alla ricerca. Di
recente sono stata invitata da una università tedesca, in Germania non è facile
per noi palestinesi ora, ma ho avuto la fortuna di trovare persone disposte ad
ascoltare. La direttrice del dipartimento che mi ha invitata mi ha detto: “Noi
cerchiamo di preparare gli studenti a capire il mondo, ma in questo momento mi
fanno domande a cui non so rispondere, per questo motivo ti ho invitata, perché
penso che tu sappia rispondere”; e per questo motivo io continuo a parlare in
pubblico, anche se a volte mi sento schiacciata dalla situazione che vivo,
comunque la sento come una responsabilità per proteggere la nostra umanità e la
nostra storia collettiva.
«A Gaza abbiamo creato tante università con lo scopo di preservare la nostra
identità e la nostra cultura. Oggi tutte le diciassette università sono state
distrutte ma tutte continuano a lavorare! Siamo nel mezzo del primo semestre e
le attività vanno avanti. Nella mia università c’erano undicimila studenti
immatricolati, oggi novemila di loro stanno continuando a studiare e a dare
esami online; anche se non abbiamo server continuiamo a studiare. Abbiamo
ricevuto dall’estero donazioni per mantenere i server per la didattica a
distanza. I professori insegnano senza stipendio perché i nostri stipendi li
pagavano gli studenti che oggi ovviamente non possono pagare. Anche a Rafah
abbiamo messo su una scuola e sotto le bombe facevamo lezione ai bambini più
piccoli.
«La gente fuori pensa che Gaza prima del 7 ottobre fosse un campo di
concentramento, ma non è vero. Certo, eravamo sotto occupazione, ma avevamo
librerie, università, biblioteche, ristoranti, eventi culturali, la gente andava
a rilassarsi in spiaggia. Noi avevamo creato una struttura per l’apprendimento
di materie tecniche a Gaza: laboratori per formare meccanici, dentisti,
estetisti, per dare lavoro ai ragazzi. Avevamo da poco inaugurato queste
strutture e ora è tutto distrutto. Dietro ogni macchinario e apparecchio
tecnologico c’è una storia, un lavoro, un progetto che ho seguito personalmente.
Vedere tutto distrutto mi fa piangere il cuore, sapere che le persone che hanno
lavorato a tutto ciò sono state uccise è qualcosa di irreale, fatico ad
abituarmi».
Mentre parliamo, Asmaa continua a mostrarmi le foto dell’università, i video dei
suoi studenti e altri ricordi dei mesi di guerra a Rafah. Mi mostra la foto di
sua nipote, Zeina, che oggi ha cinque mesi. Sua cognata scoprì di essere incinta
due settimane prima del 7 ottobre. Oggi Zeina è denutrita e non ha ospedali dove
andare per le cure pediatriche.
«Nessuno merita di soffrire ma in questo momento vogliono toglierci anche il
diritto di piangere e di vivere il lutto. Quando ho pubblicato i video delle
conferenze che ho fatto qui, ho ricevuto insulti e minacce, mi hanno scritto via
mail che la gente di Gaza si merita di essere distrutta. La verità è che in
questo momento non ci sono due fazioni contrapposte sul terreno, c’è solo un
esercito che sta bombardando la popolazione civile. Non è una guerra tra due
eserciti, è un massacro.
«In questo momento non ci sono istituzioni a cui affidarsi, non possiamo neanche
fuggire. Ci basterebbe avere lo stesso trattamento che hanno avuto i profughi
ucraini, la libertà di raggiungere l’Europa o di muoverci liberamente, ma è
ancora impossibile. Io non mi considero una rifugiata, sono stata costretta a
fuggire e non avrei mai voluto lasciare Gaza, sono qui contro la mia volontà e
il mio obiettivo è tornare a Gaza perché la mia vita è lì. Ma non voglio tornare
solo perché costretta da un visto umanitario scaduto. Sono stanca e non voglio
che i miei genitori soffrano ancora. A Rafah avevamo almeno dei muri intorno a
noi, oggi ci sono le tende, e se arrivano le bombe la gente rimane bruciata
viva, distrutta, vaporizzata, non rimane nulla. Molta gente in Europa ancora
parla di terrorismo e di continuare la guerra, ma cosa vogliono ancora da noi?
Non capisco perché molti vogliono ancora peggiorare la miseria della mia gente,
dopo tutto ciò che abbiamo subito. I bambini a Gaza non sanno cosa sono gli
aerei civili, hanno visto solo aerei da guerra per tutta la loro breve
vita». (carlo trombino)
(disegno di ginevra naviglio)
“Sì, il Vaquilla, chi non lo conosce… – dice la donna, mentre aspetta suo figlio
all’uscita di scuola –. Rubava macchine, rapinava le banche, le cose che si
facevano allora… È anche uscito, ma poi ricadeva ogni volta”. “La sorella vive
ancora nel quartiere. Ha un banco di pesce al mercato – interviene un’altra
donna –. Lui è morto in carcere, dicono che si sia ucciso…”.
Alla periferia di Barcellona, nel quartiere della Mina, è ancora viva la memoria
del Vaquilla, giovane eroe popolare e bandito morto recluso a quarantadue anni,
dopo un’infinità di piccoli reati, condanne ed evasioni rocambolesche. La sua
figura si presta all’eccesso e molti non esitano a trasfigurarlo, attribuendogli
ogni tipo di imprese, sempre in bilico tra eroismo e delinquenza, nobiltà
d’animo e vanteria.
Juan José Moreno Cuenca, detto El Vaquilla, non era morto in carcere, ma in un
ospedale di Badalona, per una cirrosi epatica contratta in prigione a causa del
virus dell’epatite C. Aveva appena compiuto quarantadue anni, più della metà dei
quali trascorsi dietro le sbarre. Gitano, ladro d’auto e rapinatore di banche,
negli anni Settanta aveva rappresentato suo malgrado il tipico prodotto della
periferia marginale. I mezzi di comunicazione si erano impadroniti della sua
storia, trasformandolo nel prototipo del delinquente giovanile. Dalle sue
imprese un regista del genere “malavita” aveva tratto tre film di successo. Il
gruppo di flamenco più ascoltato di allora gli aveva dedicato una famosa
canzone, in cui veniva definito “el alegre bandolero”.
Con la maggiore età, il Vaquilla aveva alimentato la sua fama con sommosse e
tentativi di fuga. Una delle evasioni si era conclusa con un inseguimento in
pieno centro di Barcellona. La sua spettacolare cattura, ripresa dalle
telecamere e trasmessa all’ora di pranzo da tutti i telegiornali, l’aveva
consacrato come il delinquente più famoso del paese.
Juan José non aveva conosciuto suo padre. Viveva con la madre in una baracca nei
sobborghi di Barcellona. Un giorno la madre fuggì con il suo nuovo compagno. I
servizi sociali lo affidarono alla tutela dello zio. Per Juan José cominciò una
vita nomade, a bordo di una roulotte, che lo zio parcheggiava ogni sera in
luoghi appartati, per evitare il contatto con le forze dell’ordine. A sette anni
conobbe i quattro fratelli maggiori, nati da una precedente relazione della
madre. Antonet, uno di loro, cominciò a fargli visita con assiduità. Un giorno
Juan José salì sul treno che riportava il fratello in città e lasciò per sempre
lo zio, accampato in uno spiazzo ai margini dell’autostrada.
Antonet era già sposato. Viveva a Barcellona, nel Campo de la Bota, un
insediamento di baracche di fronte al mare, così ai margini della città che nei
primi anni della dittatura i franchisti lo usavano per fucilare i prigionieri
politici. Gli uomini del Campo partivano ogni notte per spedizioni misteriose,
da cui tornavano qualche ora dopo con le macchine cariche di articoli d’ogni
tipo: pelli, prosciutti, elettrodomestici, vestiti, sigarette… I bambini
salivano sui pali del passaggio a livello all’entrata del campo e davano
l’allarme quando da lontano appariva la polizia. Nel frattempo gli uomini
scaricavano la mercanzia e le donne la vendevano alle vicine, in un improvvisato
ed effimero mercato.
Dopo qualche mese da sentinella Juan José cominciò a uscire con i ragazzi della
sua età, a rubare auto e a caricarle con tutto quel che trovavano. A nove anni
entrò per la prima volta in riformatorio. La polizia lo sorprese sulla spiaggia
del Campo de la Bota a fare acrobazie su una moto rubata. Qualche giorno dopo
scappò, scavalcando il muro di cinta. Lo arrestarono ancora, ma ogni volta si
dava alla fuga. Il suo soprannome cominciò ad apparire sulle pagine dei
giornali. In quegli articoli il Vaquilla era a capo di una banda di ragazzini
che rubava auto di grossa cilindrata; doveva mettere un cuscino sotto il sedere
per arrivare all’altezza del volante, ma si diceva che negli inseguimenti fosse
imprendibile.
I giudici gli cercarono un riformatorio da cui non potesse scappare, ma alla
fine non trovarono altro rimedio che chiuderlo alla Modello di Barcellona, il
carcere degli adulti. Aveva tredici anni, l’età penale era fissata a sedici.
Alcuni prigionieri politici se ne accorsero e denunciarono il fatto per
iscritto. Sette mesi dopo tornò in libertà.
Nel dicembre del ’76 fu arrestato di nuovo. Quando uscì lo affidarono a una casa
famiglia, ma l’esperimento non durò a lungo. Aveva voglia di rivedere i fratelli
e tornò alla Bota. Non trovò più le baracche, ma palazzi alti e squadrati,
innalzati a poca distanza da quel che restava del Campo. Il suo quartiere adesso
veniva chiamato la Mina.
Nel ’77 il Vaquilla fu arrestato per due rapine in banca, ma all’ultimo momento
i testimoni ritrattarono e tornò in libertà. Un’altra rapina, invece, si
concluse in una sparatoria con la polizia. Juan José ne uscì illeso, ma con le
manette ai polsi. Il suo compagno lo portarono all’ospedale con due pallottole
nei polmoni. Rimase in coma tre mesi, ma si salvò. A lui diedero sei anni e
mezzo. Quattro per la pistola, due per la rapina e sei mesi per l’auto rubata.
Fu inviato a Herrera de la Mancha, la prima prigione di alta sicurezza
inaugurata dalla giovane democrazia spagnola. Passava la maggior parte del tempo
in isolamento. Cominciò a leggere Freud, Voltaire, Flaubert e Dostoijevski. La
popolarità del suo soprannome gli attirava la curiosità degli altri detenuti, ma
soprattutto le violenze dei carcerieri.
Nell’aprile dell’84 capeggiò la sommossa nella prigione Modello di Barcellona.
Il piano prevedeva di chiudersi in un ala del carcere, presentare una
piattaforma di rivendicazioni e ottenere che i giornalisti entrassero a visitare
le celle. Nel frattempo, un gruppo di detenuti sarebbe sceso nei sotterranei del
carcere per scavare una galleria che doveva sbucare in strada. Lui stesso si
incaricò di fare il primo passo, sbarrando gli accessi della sezione, dopo aver
preso in ostaggio quattro guardie con uno stiletto nascosto nello shampoo.
La fuga sotterranea venne frustrata dai reparti speciali, che si infilarono
dentro le fogne intorno al penitenziario. Allora il gruppo che guidava la
rivolta si concentrò sulle rivendicazioni. Fecero entrare i giornalisti, ma
questi, oltrepassati i cancelli, si precipitarono sul Vaquilla, sommergendolo di
domande; sembrava non gli importasse il motivo per il quale si trovavano lì
dentro. Alla fine si riuscì a organizzare una visita alle celle e una conferenza
stampa. I detenuti resero pubblici maltrattamenti e torture. Poi la rivolta
terminò. Non c’erano stati incidenti, né feriti.
Il giudice chiese per il Vaquilla quarantotto anni di carcere. Ogni volta che
doveva comparire davanti al tribunale di Barcellona Juan José veniva trasferito
a Lerida, dove avevano preparato una cella speciale solo per lui. Fu in questo
carcere che ritrovò il fratello Antonet. Insieme prepararono un nuovo piano di
fuga.
Erano in sei. Travestiti da guardie, presero in ostaggio un funzionario e un
cancello dopo l’altro arrivarono fino all’ultima porta. L’uomo riuscì a
liberarsi e dare l’allarme, ma in quel momento il Vaquilla e i compagni erano
già fuori. Scapparono a piedi attraverso i campi, poi in auto, rubando una
vettura dopo l’altra e cambiando continuamente direzione. Gli inseguitori li
sorvegliavano dagli elicotteri. In un villaggio ai piedi dei Pirenei i
fuggiaschi abbandonarono l’auto e imboccarono un cammino di montagna. Era
dicembre, nevicava. Camminarono tutta la notte per arrivare al confine, ma poi
decisero di fermarsi e di tornare indietro; rubarono un’altra auto, per arrivare
a Barcellona prima dell’alba.
Entrarono in città dalla Gran Via, il lungo viale che corre parallelo al mare.
Il Vaquilla, al volante, sfilò al primo controllo senza farsi notare. Dopo
qualche metro, però, dovette fermarsi a un semaforo. Lo affiancò un’auto senza
contrassegni. Un poliziotto in borghese si sporse lentamente dal finestrino e
mostrò la pistola. Anche quelli del posto di blocco ci ripensarono e accostarono
dall’altro lato. Al verde, il Vaquilla accelerò bruscamente. Risuonarono gli
spari, ma l’auto dei fuggitivi continuò la sua corsa.
L’inseguimento nel traffico del primo mattino durò qualche minuto. Juan José
poteva tenere dietro le macchine della polizia, ma le moto, che affluivano da
tutte le direzioni, erano più difficili da seminare. Alla fine andò a sbattere
contro una macchina che gli apparve davanti all’improvviso. L’auto si
accartocciò su se stessa, con le portiere bloccate. I poliziotti cominciarono a
sparare. Juan José fu l’unico ferito, alla spalla. Gli agenti lo tirarono fuori
e lo ammanettarono davanti alle telecamere. Poi lo lasciarono lì e si misero a
litigare tra loro per stabilire a chi toccasse l’onore della sua cattura.
Juan José ricomincerà da zero. Si metterà a studiare e dopo anni di isolamento
tornerà alla vita in comune con gli altri reclusi. Con una macchina da scrivere
e gli articoli dei detenuti comporrà la rivista Alegato. E scriverà per El
Pais un editoriale dal titolo: “Le carceri, senza demagogia”. Cambierà altre
carceri e per molti anni ancora sarà trattato come un pericolo pubblico. Si farà
coinvolgere in un’altra rivolta, pregiudicando la concessione di un permesso che
sembrava imminente. Il giudice lo condannerà a centoquattro anni, ma all’uscita
del tribunale giornalisti e fotografi lo attenderanno in mezzo a una folla
acclamante. Cercherà di smettere la dipendenza dall’eroina e più d’una volta
proverà a suicidarsi: tagliandosi le vene, iniettandosi un’overdose o
inghiottendo l’antenna di una radio. Nel gennaio del ’94 gli concederanno
finalmente i primi tre giorni di libertà, ma qualche mese dopo scapperà durante
un trasferimento. La fuga durerà qualche ora. In carcere apprenderà della morte
del fratello Antonet, in una sparatoria dopo una rapina in gioielleria.
Beneficerà di un indulto parziale, ma tornerà a rubare per procurarsi la droga,
perdendo una volta di più la possibilità di ottenere permessi.
Il Vaquilla non aveva mai ucciso. La pena di sei anni, con la quale era entrato
in carcere alla fine degli anni Settanta, si era convertita con il passare del
tempo in una condanna a vita. Il giorno della sua morte, il 19 dicembre del
2003, ancora quattro anni lo separavano dal simulacro della libertà. (luca
rossomando)
(disegno di escif)
La guerra israeliana a Gaza si è manifestata in una varietà di forme brutali. La
più insidiosa e devastante è stata l’utilizzo della fame come arma. Il 9 ottobre
2023, il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant ha annunciato che non
avrebbe permesso l’arrivo a Gaza “di l’elettricità, cibo, né carburante”. La
giustificazione è stata che Israele “sta combattendo contro bestie umane”. Due
settimane dopo, il membro della Knesset Tally Gotliv ha dichiarato: “Senza fame
e sete tra la popolazione di Gaza non potremmo essere in grado di corrompere la
gente con cibo, bevande, medicine per ottenere informazioni”.
Nei mesi successivi Israele non solo ha ostacolato la consegna degli aiuti ai
palestinesi di Gaza, ma ha anche monitorato e distrutto le infrastrutture per la
produzione di cibo, tra cui campi coltivati, panifici, mulini e negozi di
alimentari. Questa strategia, volta a soggiogare e spezzare lo spirito del
popolo palestinese, ha mietuto innumerevoli vittime a Gaza – molte delle quali
neonati e bambini piccoli. Ma ha avuto anche profonde conseguenze per i
palestinesi di altre zone.
Come professionista della salute mentale ho riscontrato in prima persona il peso
psicologico e fisico che questa punizione collettiva ha avuto sugli individui di
Gerusalemme Est e della Cisgiordania occupata. Ho osservato giovani palestinesi
che stanno sviluppando relazioni complicate con il cibo, con il loro corpo e con
la loro identità sociale e nazionale come risposta agli orrori a cui assistono e
di cui sentono parlare quotidianamente.
La cura richiederebbe un intervento molto più complesso che affronti non solo i
traumi individuali ma anche quelli politici e storici dell’intera società.
TRAUMA POLITICO E SOCIALE
Per comprendere gli effetti dell’utilizzo della fame come arma, è essenziale
considerare il più ampio quadro sociale e psicologico in cui si verifica.
Ignacio Martín-Baró, figura di spicco della psicologia della liberazione, ha
sostenuto che il trauma è prodotto a livello sociale. Questo significa che non è
semplicemente un’esperienza individuale, ma è incorporato ed esacerbato dalle
condizioni e dalle strutture sociali che circondano l’individuo.
A Gaza, le strutture traumatogene comprendono l’assedio in corso, l’aggressione
genocida ma anche la deliberata privazione di risorse essenziali come cibo,
acqua e medicine. Il trauma che ne deriva è aggravato dalla memoria collettiva
della sofferenza avvenuta durante la Nakba (la pulizia etnica di massa dei
palestinesi nel 1947-48), dal continuo esodo e dall’oppressione sistemica
dell’occupazione. In questo ambiente, il trauma non è solo un’esperienza
personale, ma una realtà collettiva, socialmente e politicamente radicata.
Sebbene i palestinesi al di fuori di Gaza non sperimentino direttamente la
violenza genocida scatenata da Israele, sono esposti quotidianamente a immagini
e storie strazianti su di essa. L’implacabile e sistematica morte per fame dei
residenti di Gaza è stata una testimonianza particolarmente traumatica anche per
loro.
A poche settimane dalla dichiarazione di Gallant, la carenza di cibo ha iniziato
ad avere i suoi effetti. A gennaio, i prezzi dei generi alimentari sono saliti
alle stelle, soprattutto nel nord di Gaza, dove un collega mi ha detto di aver
pagato duecento dollari per una zucca. Più o meno in questo periodo sono
iniziate a emergere notizie di palestinesi costretti a mescolare foraggio
animale e farina per fare il pane. A febbraio, le prime immagini di neonati e
bambini palestinesi morti per malnutrizione hanno invaso i social media.
A marzo, l’UNICEF riferiva che un bambino su tre sotto i due anni era gravemente
malnutrito nel nord di Gaza. Ad aprile, Oxfam stimava che l’assunzione media di
cibo per i palestinesi nel nord di Gaza non superava le duecento quarantacinque
calorie al giorno, ovvero solo il 12% del fabbisogno giornaliero. All’incirca in
quel periodo, il ministero della sanità palestinese ha annunciato che trentadue
palestinesi, tra cui ventotto bambini, erano stati uccisi dalla fame, anche se
il vero bilancio delle vittime era probabilmente molto più alto.
Circolavano anche storie di palestinesi uccisi da colpi d’arma da fuoco in
attesa della distribuzione di aiuti alimentari, o annegati in mare mentre
correvano dietro a pacchi di cibo lanciati per via aerea da parte dei governi
che hanno appoggiato la guerra israeliana a Gaza.
In una lettera pubblicata sulla rivista medica The Lancet il 22 aprile, il
dottor Abdullah al-Jamal, l’unico psichiatra rimasto nel nord di Gaza, ha
scritto che l’assistenza mentale è stata completamente smantellata. E ha
aggiunto: “I problemi più grandi ora a Gaza, soprattutto nel nord, sono la
carestia e la mancanza di sicurezza. La polizia non è in grado di operare perché
viene immediatamente presa di mira da droni e aerei spia. Bande armate che
collaborano con le forze israeliane controllano la distribuzione e i prezzi dei
prodotti alimentari e farmaceutici che entrano a Gaza come aiuti, compresi
quelli che vengono lanciati con i paracadute. Alcuni prodotti alimentari, come
la farina, sono raddoppiati di prezzo molte volte, aggravando la crisi della
popolazione”.
CASI CLINICI DI TRAUMA DA FAME
La politica di affamamento a Gaza ha avuto effetti psicologici e fisici a catena
in tutte le altre comunità palestinesi. Nella mia esperienza clinica ho
incontrato diversi casi nella Gerusalemme Est occupata e nella Cisgiordania
occupata che illustrano come il trauma della fame si rifletta nelle vite di
giovani palestinesi anche lontani dalla zona del conflitto. Eccone alcuni.
Alì, un diciassettenne della Cisgiordania, ha mostrato cambiamenti nel
comportamento alimentare e ha perso otto chili in due mesi dopo la detenzione di
un suo amico da parte delle forze israeliane. Nonostante la significativa
perdita di peso, ha negato di sentirsi triste, insistendo sul fatto che “la
prigione rende uomini”. Tuttavia, il fatto che avesse espresso apertamente la
sua rabbia per le condizioni di Gaza, e i suoi disturbi del sonno, hanno
suggerito un profondo impatto psicologico di questi eventi. “Non riesco a
smettere di guardare i bombardamenti e la fame a Gaza, mi sento così impotente”.
La perdita di appetito di Alì è una manifestazione della sua rabbia e del suo
dolore interiorizzati, che riflettono il più ampio trauma sociale che lo ha
avvolto.
Salma, a soli undici anni, ha accumulato lattine di cibo, bottiglie d’acqua e
fagioli secchi nella sua camera da letto. Ha dichiarato di “prepararsi al
genocidio” in Cisgiordania. Il padre di Salma ha riferito che diventa “isterica”
quando lui porta a casa prodotti alimentari costosi come carne o frutta. La
graduale diminuzione dell’assunzione di cibo e il suo rifiuto di mangiare, che
si sono esacerbati durante il mese di Ramadan, rivelano un profondo senso di
ansia e di colpa per la fame dei bambini di Gaza. Il caso di Salma illustra come
il trauma della fame, anche se vissuto indirettamente, possa alterare
profondamente il rapporto di un bambino con il cibo e il suo senso di sicurezza
nel mondo.
Layla, ragazzina di tredici anni, mostra una misteriosa incapacità di mangiare,
descrivendo la sensazione che “qualcosa nella mia gola mi impedisce di mangiare;
una spina che blocca la mia gola”. Nonostante gli esami medici approfonditi non
è stata trovata alcuna causa fisica. Ulteriori approfondimenti hanno rivelato
che il padre di Layla è stato arrestato dalle forze israeliane e che lei non ha
più avuto notizie di lui. L’incapacità di Layla di mangiare è una risposta
psicosomatica al trauma della detenzione del padre e alla consapevolezza della
fame, delle torture e delle violenze sessuali inflitte ai prigionieri politici
palestinesi. Layla è stata anche profondamente colpita dalle notizie sulla fame
e sulla violenza a Gaza, facendo un parallelo tra le sofferenze di Gaza e il
destino incerto di suo padre, che ha amplificato i suoi sintomi psicosomatici.
Riham, una ragazza di quindici anni, ha sviluppato un processo di vomito
involontario ripetitivo e un profondo disgusto per il cibo, in particolare per
la carne. La sua famiglia ha una storia di obesità e di gastrectomia, ma lei ha
negato qualsiasi preoccupazione per l’immagine corporea. Attribuisce il suo
vomito alle immagini di sangue e di smembramento delle persone a Gaza che ha
visto. Nel corso del tempo, la sua avversione si è estesa agli alimenti a base
di farina, per il timore che possano essere mescolati con mangimi animali. Pur
comprendendo che questo non accade nel luogo in cui si trova, è il suo stomaco a
rifiutare il cibo quando tenta di mangiarlo.
APPELLO ALL’AZIONE
Le storie di Ali, Salma, Layla e Riham non sono casi classici di disturbi
alimentari. Le raggrupperei come casi di disordine alimentare dovuti a un trauma
politico e sociale senza precedenti nel contesto di Gaza e del territorio
palestinese nel suo complesso.
Questi bambini non sono solo pazienti con problemi psicologici unici. Soffrono
gli effetti di un ambiente traumatogeno creato dalla violenza coloniale in
corso, dalla militarizzazione della fame e dalle strutture politiche che
perpetuano queste condizioni.
Come professionisti della salute mentale, è nostra responsabilità non solo
trattare i sintomi presentati da questi pazienti, ma anche affrontare le radici
politiche del loro trauma. Questo richiede un approccio olistico che tenga conto
del contesto socio-politico in cui questi individui vivono.
Il sostegno psicosociale ha il compito di dare potere ai sopravvissuti,
restituire loro dignità e rispondere ai bisogni di base, in modo che prendano
atto dell’interazione tra le condizioni di oppressione e la loro vulnerabilità,
e perché possano non sentirsi soli. Gli interventi basati sulle relazioni di
comunità dovrebbero essere realizzati promuovendo spazi sicuri per le persone,
in modo che possano elaborare le loro emozioni, impegnarsi in una narrazione
collettiva e ricostruire un senso di controllo.
I professionisti della salute mentale in Palestina devono adottare un quadro di
psicologia della liberazione integrando il lavoro terapeutico con il sostegno
alla comunità, l’intervento pubblico e strutturale. Questo significa affrontare
le ingiustizie, sfidare le narrazioni che normalizzano la violenza e partecipare
agli sforzi per porre fine all’assedio e all’occupazione. La difesa da parte
degli operatori della salute mentale fornisce ai pazienti una validazione,
riduce l’isolamento e promuove la speranza attraverso la solidarietà. Solo con
questo approccio possiamo sperare di curare le ferite degli individui e della
comunità. (samah jabr / traduzione di riccardo rosa)
(disegno di cyop&kaf)
Il primo dicembre, con la scadenza del contratto di lavoro dei circa 120 mila
lavoratori degli stabilimenti tedeschi del gruppo Volkswagen, il sindacato
dell’industria IG Metall ha indetto i primi scioperi in risposta agli annunci
dei vertici aziendali, che da settimane annunciavano con toni perentori e
scoraggianti, eppure allusivi e fumosi, l’improrogabilità di una non meglio
precisata drastica riduzione della produzione. Il 4 dicembre l’amministratore
delegato del gruppo Volkswagen Oliver Blume, in una turbolenta assemblea
d’impresa nello stabilimento centrale di Wolfsburg, in cui non sono mancati
fischi e contestazioni, ha definito il gruppo Volkswagen un’azienda da sanare.
Si tratta della stessa persona che nei primi mesi di quest’anno, illustrando il
consuntivo del 2023, aveva detto: “Abbiamo lavorato a un buon consolidamento.
Conosciamo i nostri cantieri aperti e li affrontiamo per accrescere l’enorme
potenziale del gruppo Volkswagen. L’azienda entra nella competizione di lungo
corso della trasformazione da una posizione di forza”. Oggi pare che la
posizione di forza di cui Blume, appena pochi mesi fa, diceva che Volkswagen
avrebbe goduto nella competizione globale dell’automotive abbia il suo nocciolo
in un’ondata di licenziamenti e nella riduzione del dieci per cento della paga
di chi rimane, come trapela dalle linee guida di parte datoriale nel primo round
di trattative con IG Metall per il rinnovo del contratto di lavoro.
Per non cadere nello sgomento indotto dalla narrazione dominante dei media, che
racconta di un amaro calice da bere per evitare di doverne trangugiare uno
ancora più amaro, se non mortale, è bene ricordare che il gruppo VW nel 2023 ha
avuto profitti netti per 17,9 miliardi di euro, contro i 12,1 di Mercedes e i
5,7 di BMW. I dati del 2023 hanno portato il gruppo VW a una riserva complessiva
di utili, cui attingere quando si va incontro al rischio di nuovi investimenti,
di 147,8 miliardi di euro, contro i 21,1 di Mercedes e i 90,9 di BMW. Ed è bene
anche ricordare che la politica tedesca ha sempre considerato la promozione
dell’automotive nazionale come una missione strategica per il consolidamento
della propria economia, benché molte decisioni prese nel corso degli anni siano
andate in direzione contraria a quanto ci si augurasse: nel 2009 il governo
Merkel introdusse un premio rottamazione di 2.500 euro per ogni nuova auto
acquistata e il risultato fu che nel periodo di incentivi alla rottamazione le
importazioni di auto salirono dell’undici per cento e i profitti interni
calarono del ventuno per cento. Il ceto medio si mostrava interessato al premio
pagato dal contribuente, ma spesso per cambiare la sua vecchia Golf con
un’affidabile citycar coreana. Come se tutto ciò non fosse stato parte di un
errore politico made in Germany, il governo ibrido Scholz, formato da
socialisti, verdi e liberali, ha provato ad alzare la posta del premio a 6.000
euro per ogni nuova immatricolazione e soprattutto, sul finire dei suoi tre anni
di vita, ha fatto salire a 95 mila euro il tetto massimo del prezzo di listino
per la vendita agevolata delle auto immatricolate come veicoli aziendali:
l’utente di un veicolo aziendale deve pagare mensilmente al fisco lo 0,25% del
prezzo di listino dell’auto, se elettrica, lo 0,5% se ibrida e di questa cifra
si calcola solo il quaranta per cento dell’aliquota fiscale marginale. Se dunque
l’utente di un SUV elettrico Mercedes, che di listino costa 95 mila euro, lo
immatricola come vettura aziendale, per goderne come auto propria dovrà pagare
mensilmente 238 euro, cifra che poi, al netto delle detrazioni dell’aliquota,
scende definitivamente a 95 euro. Se non è un regalo, poco ci manca. Di questa
operazione hanno ringraziato gli elettori dei liberali e anche dei verdi,
ridotti ormai a riserva di caccia di un’upper class boriosa e indolente, che si
è autoproclamata buona, giusta e pulita. Perché ci si siano accodati anche i
socialdemocratici, resta un mistero. O forse neanche. Di certo, l’insolenza con
cui si lascia impinguare le aziende automobilistiche con i soldi dei lavoratori
dipendenti per permettere al lavoratore autonomo di scegliersi
uno status-symbol quasi a costo zero, induce a riflettere sul fatto che il ruolo
di locomotiva d’Europa, tanto volentieri affibbiatole, spetti di diritto alla
Germania non tanto in virtù di una non meglio argomentata solidità economica,
quanto piuttosto per il suo ruolo di apripista europeo nel condurre una guerra
di discriminazione sociale in cui si vendono per eque e utili a tutti, decisioni
politiche che consolidano le risorse dei più forti facendo strame di quelle dei
più deboli.
Nel caso specifico di Volkswagen, l’abbraccio mortale della politica è
particolarmente diretto e pervasivo, essendo il Land della Bassa Sassonia,
regione in cui si trova Wolfsburg, la città-azienda del marchio VW, proprietario
del venti per cento dell’azionariato: con simili rapporti di forza, è elementare
che l’umore dell’azienda divenga un termometro su cui misurare le affezioni
della politica e che quest’ultima sia sempre pronta a far partire gli idranti
ogni volta che dai consigli d’amministrazione partono le più funeste previsioni
di incendi potenzialmente indomabili.
Ma la stessa politica che per autotutelarsi corre in soccorso
dell’automotive con i soldi del contribuente, non è stata in grado di fiutare in
tempo i nuovi bisogni di infrastrutture in uno scenario in cui l’Unione europea
ha decretato che nei suoi territori nel 2034 cesseranno di essere prodotte auto
a combustione. E la conversione all’elettrico avanza con lentezza perché, al di
là degli slogan ecologisti buoni per tutte le stagioni, la politica ha fatto
poco per sviluppare un’infrastruttura di sistemi a rapida alimentazione, che
richiede erogazioni di almeno 300 kwh. Il risultato è che nel mese di luglio
2024 le immatricolazioni di auto elettriche sono state 30.762, a fronte di
43.107 diesel, 79.870 ibride e 83.405 a benzina: tra soli dieci anni nell’Ue la
produzione di motori a combustione fossile sarà illegale, eppure nel paese più
popoloso dell’Unione le auto elettriche si sono finora integrate al paesaggio al
massimo come uno sfizio per benestanti, che si montano fuori la porta delle loro
agiate case monofamiliari la colonnina privata di alimentazione elettrica,
possibilmente vicino alla pompa di calore, per la quale il ministro
dell’economia uscente, il verde Robert Habeck, ha fatto una campagna
scandalosamente militante come nuovo sacro Graal del rifornimento di energia,
alla quale la classe agiata tedesca si è accodata compatta. Chissà se sia stato
un caso che nel 2023, nel pieno del tambureggiamento mediatico condotto con toni
tali da far sentire chi ancora usava il gas per il riscaldamento come un nemico
della patria, la Viessmann, prima azienda tedesca nella produzione di pompe di
calore, sia stata acquistata dagli americani di Carrier Global per dodici
miliardi di euro.
Tornando alle cause della crisi presunta insostenibile di Volkswagen, va detto
che la politica, a scelte sbagliate riguardo il modo di incoraggiare la
diffusione della mobilità elettrica, ha aggiunto una ferma rigidità nell’aumento
dei costi dell’energia per l’industria, in conseguenza delle sanzioni economiche
alla Russia dopo lo scoppio della guerra contro l’Ucraina. Si è passati dai
15-18 cent/kwh anteguerra ai 43,20 del 2022, diventati 24,46 nel 2023 e tornati
oggi al livello anteguerra, ma solo grazie alle sovvenzioni statali che non si
sa fin quando dureranno. E i costi energetici pesano doppiamente per i
produttori: per la produzione in loco e per il prezzo finale delle componenti
prodotte per conto terzi. In un contesto di generale contrazione del potere
d’acquisto, causato dall’aumento dei tassi d’interesse in risposta
all’inflazione, è naturale che la produzione automobilistica tedesca soffra
molto la concorrenza cinese, che produce a costi non solo energetici più bassi,
nel settore medio, mentre nel settore alto continui a essere brillante: chi
vuole la Porsche e se la può comprare, se la comprerà in qualsiasi congiuntura
geopolitica. Dunque la politica ha commesso anche l’errore di non orchestrare
decisioni coraggiose che permettessero di ridurre i prezzi sorgenti della
produzione industriale, come sarebbe stato più utile fare, piuttosto che cercare
di incentivare con danaro pubblico la vendita degli immensi parchi-auto di
carissima produzione tedesca, destinata senza incentivi a restare ancora più
desolatamente invenduta. Ma occorre non dimenticare che, come già riportato,
nonostante l’esorbitante aumento dei prezzi di produzione, le case
automobilistiche tedesche, a cominciare da Volkswagen, hanno continuato a
riportare margini di profitto a dir poco robusti.
La politica potrebbe giocarsi carte pesanti per lenire evidenti storture, per
esempio superare le sanzioni alla Russia e riprendere a importare gas a prezzi
moderati, nonostante il sabotaggio (anche quello politico) di Nord Stream. Come
potrebbe ripensare i termini dell’uscita di scena dei motori a combustione, che
oltretutto l’Ue non condivide con quasi tutto il resto del mondo. E questo non
per tornare ai combustibili fossili, ma per prendere il tempo realistico e
necessario allo sviluppo di carburanti a idrogeno, come degli e-fuels,
carburanti sintetici prodotti con l’elettricità, la cui affidabilità a oggi non
è ancora paragonabile a quella delle batterie elettriche, ma il cui
approvvigionamento potrebbe servirsi un giorno della già esistente rete di
distribuzione dei combustibili fossili. Questi temi tuttavia, nell’Ue e nei
singoli paesi che vogliono accreditarsi suoi fedeli membri, sono tabù
indiscutibili e questo la dice lunga sull’onestà intellettuale di chi si
accredita come mediatore di soluzioni condivise nel più generale interesse
possibile.
La crisi di Volkswagen è una crisi di sistema, la crisi incestuosa di un’idea di
fare politica e di un‘idea di produrre ricchezza in cui lo sfruttamento e il
sacrificio di chi non ha voce in capitolo vengono raccontati, al più, come mali
necessari. Ed è una crisi che giunge all’indomani della caduta del governo
tedesco e dell’indizione di elezioni anticipate in marzo: troppo tempo per
aspettare nuovi interlocutori politici cui affidare le proprie letterine di
desideri natalizi, ancor più se si pensa che dal 2025 l’Ue punirà con pesanti
sanzioni economiche le industrie automobilistiche europee il cui complessivo
parco-auto supererà una soglia massima di emissioni di anidride carbonica: qui
BMW non ha nulla da temere, mentre Mercedes e ancor più Volkswagen sono
minacciate da sanzioni nell’ordine di svariati miliardi di euro, anche perché i
membri di un governo che si facevano la guerra in casa propria hanno avuto
comprensibilmente scarsissima capacità di fare lobbying a Bruxelles.
Nell’algido e desolato slang manageriale tedesco, da un po’ di tempo a questa
parte si è fatta largo la parola Transformation, che col suo carico esterofilo è
capace di suscitare sgomento e costernazione, soprattutto quando se a ripeterla
è un top manager che annuncia cambiamenti epocali. Questa parola serve a creare
un feeling, l’impressione che per restare dentro la storia bisogna accettare ciò
che di nuovo la storia pretende da noi. Appena scade nell‘impersonale, la
narrazione della Transformation entra nel vivo della sua infamia: ipostatizza a
verità metafisica modelli di sfruttamento e di dominio come uniche possibili
forme di relazione tra esseri umani, e tra esseri umani e natura. La sfida della
logistica è ormai la Transformation di ogni principio regolatore nel cardine del
paradigma-Amazon. La sfida dell’automotive è ormai la Transformation nel cardine
del paradigma-Tesla. E ce ne sarebbe ancora, per l’informazione, per la
comunicazione, per l’alimentazione. Su ogni questione della vita quotidiana e
comunitaria grava l’ombra di una Transformation che promette un benessere capace
di non inciampare mai nel fastidio della libertà. (pasquale guadagni)
Abbassare gli affitti del 50%: questa è la richiesta chiara dell’imponente
manifestazione che ha sfilato sabato per le strade di Barcellona. Oltre 170.000
persone, i collettivi in difesa della casa, gruppi ecologisti, sindacati, hanno
unito le loro richieste per la prima volta in un evento senza precedenti nella
capitale catalana, e superiore anche ai numeri, già significativi, delle
manifestazioni per la casa degli ultimi mesi a Madrid, Valencia, Palma. Le
richieste vanno anche oltre alla riduzione degli affitti. Si parla di annullare
tutti i contratti temporanei e turistici, del divieto di acquisto di case a
scopo speculativo, e del recupero delle case abbandonate per uso abitativo. La
manifestazione è stata un successo, ora si ventila anche la possibilità di uno
sciopero degli affitti per rendere concreta l’urgenza di queste rivendicazioni.
(galleria di victor serri)
(disegno di sam3)
Da domani, 10 novembre, e fino a martedì 12, la psichiatra e psicoterapeuta
Samah Jabr sarà a Napoli per parlare del suo ultimo libro, Il tempo del
genocidio, e del massacro in corso in Palestina da più di un anno.
Il primo appuntamento è per domani, alle ore 17:00 all’ex Asilo Filangieri (vico
Giuseppe Maffei, 4). L’ultimo martedì 12, all’università L’Orientale per uno dei
seminari del ciclo Huna Filastin. Qui potete trovare il programma completo.
Pubblichiamo a seguire un articolo scritto da Samah per il quotidiano arabo
on-line Alquds e tradotto dall’inglese da Cloe Curcio (Sensibili alle foglie).
* * *
Nel contesto dell’aggressione in corso su Gaza sta emergendo un nuovo fenomeno
psicologico. Migliaia di bambini vengono privati della loro infanzia e stanno
assumendo i ruoli di adulti dopo aver perso i loro padri e madri. L’aggressione
in corso a Gaza ha lasciato decine di migliaia di orfani, di uno o entrambi i
genitori, e quasi un milione di bambini sfollati, costringendoli a rinunciare al
gioco e allo studio per assumersi responsabilità superiori a quelle appropriate
per la loro età. In questo ambiente duro, questi bambini si stanno trasformando
in “piccoli capifamiglia”, in un tentativo disperato di riempire il vuoto
lasciato dall’assenza degli adulti. In ogni caso, l’immenso fardello psicologico
di questi ruoli può lasciare profonde ferite nei loro spiriti, che dureranno per
tutta la loro vita.
DIARIO DI CAMPO
Nelle strade di Gaza sono chiaramente visibili le caratteristiche di questa
tragedia quotidiana. Vediamo un bambino non più grande di dieci anni che lavora
per portare sacchi di farina da venticinque chili sulle sue esili spalle, per
guadagnare una manciata di shekel per sfamare i suoi famigliari dopo che suo
padre è stato martirizzato e sua madre è stata dichiarata dispersa. Vediamo un
altro dodicenne che porta il suo fratellino neonato sulla schiena, occupandosi
costantemente di lui dopo che sua madre è stata martirizzata. Vediamo anche una
ragazzina di dieci anni che percorre a piedi quotidianamente lunghe distanze per
procurare pesanti galloni d’acqua e un’altra che trasporta la sorellina quasi
coetanea impossibilitata a camminare, alla ricerca di un luogo sicuro. Un altro
bambino conforta sua madre in lutto, vedova e ferita, che non riesce a prendersi
cura di lui, per incoraggiarla e consolarla. Questi esempi non sono casistiche
individuali, piuttosto rappresentano immagini quotidiane significative della
cupa realtà sofferta da centinaia di migliaia di bambini a Gaza, privati della
loro infanzia e della loro naturale dipendenza dai genitori, sotto il peso del
genocidio che ha portato in tutte le famiglie, nessuna esclusa, dolore e lutti.
IL FARDELLO INSOSTENIBILE DI UN RUOLO DA ADULTO
I ruoli imposti ai bambini in guerra hanno conseguenze psicologiche complesse e
difficili da risolvere. Lo stress a cui vengono sottoposti questi bambini è uno
stress psicologico grave e duraturo, che supera la capacità fisica e psicologica
di riprendersi. Questo tipo di stress inficia lo sviluppo sano del cervello e le
connessioni emotive normali proprie di questa età. I bambini che vivono in
queste condizioni di stress perdono la capacità di concentrarsi e di apprendere,
esibendo una tendenza a ritrarsi socialmente che compromette il loro sviluppo
psicologico e cognitivo.
Nonostante attribuire ai bambini alcune responsabilità commisurate alla loro età
e alle loro competenze possa migliorare la loro autostima e contribuire al loro
sviluppo, quando essi si trovano ad assumere ruoli oltre la loro età vengono
privati dell’opportunità di esplorare se stessi attraverso l’educazione e il
gioco, si ritrovano bloccati in responsabilità che non sono adeguate alle loro
capacità. Questi bambini poi soffrono di difficoltà nel definire se stessi oltre
i ruoli di capofamiglia e di caregiver imposti loro dalla guerra. Un ulteriore
aspetto psicologico di questa sofferenza è la soppressione delle emozioni e lo
sviluppo di sensi di colpa cronici, poiché i bambini sono costretti a sopprimere
i loro sentimenti per non sembrare deboli davanti ai loro parenti, incrementando
così il loro senso di responsabilità e imponendo su di loro pesanti fardelli
psicologici. Essi si sentono in colpa ogni volta che si scoprono incapaci di
soddisfare i bisogni delle loro famiglia e questa sensazione può far insorgere
disturbi ansiosi e depressivi nel lungo termine.
I bambini sono inoltre soggetti a quella che è definita una “normalizzazione
della sofferenza”, dove la violenza e la sofferenza diventano una parte normale
della vita quotidiana. Questa normalizzazione li rende incapaci di riconoscere
un’infanzia normale, esacerbando la loro sofferenza psicologica e incrementando
la loro esposizione a rischi sproporzionati alla loro età. Per esempio, alla
domanda: «Cosa farai da grande?», abbiamo sentito un bambino rispondere: «I
bambini non crescono, a Gaza».
Inoltre, i bambini che assumono il ruolo di caregiver nelle loro famiglie hanno
difficoltà a costruire relazioni sane in futuro. Per loro, i concetti di amore e
cura sono associati con il portare fardelli pesanti, che li spinge a dare
eccessivamente o evitare completamente le relazioni romantiche, nel timore di
cadere nuovamente nella trappola della responsabilità.
L’INTERVENTO PSICOLOGICO SOTTO LE BOMBE
In questa atroce realtà l’intervento psicologico è una necessità urgente, ma la
sua implementazione in un ambiente soggetto a bombardamenti e sotto assedio
risulta estremamente difficile. Il supporto psicologico non può essere offerto
efficientemente sotto bombardamenti continui, poiché ai bambini manca un
ambiente in cui elaborare e superare il trauma. Inoltre, i blackout di energia
elettrica e di internet, insieme alla massiccia distruzione di infrastrutture,
impediscono l’offerta di assistenza in maniera utile dall’esterno della
Striscia.
Anche quando sono disponibili delle sessioni di psicoterapia, i terapeuti hanno
difficoltà a fare un progresso sostenibile dovuto al perdurare di paura, fame,
sfollamenti e instabilità. Un bambino non può riprendersi dal trauma della
perdita dei propri genitori mentre si trova sotto la minaccia di morte o
sfollamento in qualsiasi momento. Nonostante i programmi di psicoterapia siano
importanti, essi devono essere integrati da sforzi comunitari e internazionali
per offrire protezione ai bambini e ristabilire il senso di sicurezza che hanno
perso.
Al fine di alleviare la sofferenza di questi bambini occorre offrire un sostegno
comprensivo per ristabilire il loro ruolo normale e l’equilibrio psicologico e
sociale. Oltre al trattamento psicologico, alleviare il fardello dei bambini
richiede di offrire assistenza finanziaria diretta alle famiglie in difficoltà e
di incoraggiare i membri della comunità a prendersi cura di quei bambini, per
evitare che essi siano costretti a lavorare da piccoli. La comunità locale deve
anche essere coinvolta nell’offerta di cura e custodia. I membri della comunità
possono essere formati per offrire supporto psicologico ai bambini, oltre a
costruire centri di comunità che offrano attività sportive e artistiche per
aiutarli a esprimersi. Ambienti sicuri di apprendimento sono necessari per
reintegrarli nelle scuole e compensare la perdita educativa conseguente alla
guerra. Questi sforzi devono essere integrati con campagne internazionali che
facciano pressione per porre fine al genocidio e garantire l’accesso umanitario
a Gaza.
La “forza” mostrata dai bambini di Gaza nel sostenere i fardelli non è sempre
motivo di orgoglio, ma piuttosto un grido d’aiuto che riflette la profondità
della sofferenza che stanno vivendo. Questi bambini hanno bisogno di un supporto
reale, che ripristini la loro infanzia rubata e offra loro l’opportunità di
crescere normalmente in un ambiente sicuro, dove i loro diritti fondamentali
siano rispettati. Ristabilire la loro infanzia non è un lusso, ma un’urgente
necessità per garantire un futuro sano alla società palestinese. (samah jabr /
traduzione di cloe curcio)
Oltre la metà del calendario è ormai occupata da “giornate mondiali”, “europee”,
“nazionali”, dedicate alle più svariate tematiche. Solo l’Onu, nel suo
calendario delle Giornate Internazionali, ne celebra centoquaranta. Una
ipertrofia consumistico/commemorativa che, svuotata [...]
L'articolo Sull’inutilità e il danno di una giornata mondiale per la salute
mentale sembra essere il primo su NapoliMONiTOR.
Accanto alla strada le palme sono secche, paiono stecchi alti in fila lungo le
corsie d’asfalto. Sharm el-Sheikh non è un luogo, ma una nebulosa di strutture
distanti – l’aeroporto, la stazione dei bus, i resort - collegate a [...]
L'articolo Giardini nascosti e cantieri del governo. Un viaggio in Sinai sembra
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