Germania in autunno. La crisi di Volkswagen è la crisi di un sistema(disegno di cyop&kaf)
Il primo dicembre, con la scadenza del contratto di lavoro dei circa 120 mila
lavoratori degli stabilimenti tedeschi del gruppo Volkswagen, il sindacato
dell’industria IG Metall ha indetto i primi scioperi in risposta agli annunci
dei vertici aziendali, che da settimane annunciavano con toni perentori e
scoraggianti, eppure allusivi e fumosi, l’improrogabilità di una non meglio
precisata drastica riduzione della produzione. Il 4 dicembre l’amministratore
delegato del gruppo Volkswagen Oliver Blume, in una turbolenta assemblea
d’impresa nello stabilimento centrale di Wolfsburg, in cui non sono mancati
fischi e contestazioni, ha definito il gruppo Volkswagen un’azienda da sanare.
Si tratta della stessa persona che nei primi mesi di quest’anno, illustrando il
consuntivo del 2023, aveva detto: “Abbiamo lavorato a un buon consolidamento.
Conosciamo i nostri cantieri aperti e li affrontiamo per accrescere l’enorme
potenziale del gruppo Volkswagen. L’azienda entra nella competizione di lungo
corso della trasformazione da una posizione di forza”. Oggi pare che la
posizione di forza di cui Blume, appena pochi mesi fa, diceva che Volkswagen
avrebbe goduto nella competizione globale dell’automotive abbia il suo nocciolo
in un’ondata di licenziamenti e nella riduzione del dieci per cento della paga
di chi rimane, come trapela dalle linee guida di parte datoriale nel primo round
di trattative con IG Metall per il rinnovo del contratto di lavoro.
Per non cadere nello sgomento indotto dalla narrazione dominante dei media, che
racconta di un amaro calice da bere per evitare di doverne trangugiare uno
ancora più amaro, se non mortale, è bene ricordare che il gruppo VW nel 2023 ha
avuto profitti netti per 17,9 miliardi di euro, contro i 12,1 di Mercedes e i
5,7 di BMW. I dati del 2023 hanno portato il gruppo VW a una riserva complessiva
di utili, cui attingere quando si va incontro al rischio di nuovi investimenti,
di 147,8 miliardi di euro, contro i 21,1 di Mercedes e i 90,9 di BMW. Ed è bene
anche ricordare che la politica tedesca ha sempre considerato la promozione
dell’automotive nazionale come una missione strategica per il consolidamento
della propria economia, benché molte decisioni prese nel corso degli anni siano
andate in direzione contraria a quanto ci si augurasse: nel 2009 il governo
Merkel introdusse un premio rottamazione di 2.500 euro per ogni nuova auto
acquistata e il risultato fu che nel periodo di incentivi alla rottamazione le
importazioni di auto salirono dell’undici per cento e i profitti interni
calarono del ventuno per cento. Il ceto medio si mostrava interessato al premio
pagato dal contribuente, ma spesso per cambiare la sua vecchia Golf con
un’affidabile citycar coreana. Come se tutto ciò non fosse stato parte di un
errore politico made in Germany, il governo ibrido Scholz, formato da
socialisti, verdi e liberali, ha provato ad alzare la posta del premio a 6.000
euro per ogni nuova immatricolazione e soprattutto, sul finire dei suoi tre anni
di vita, ha fatto salire a 95 mila euro il tetto massimo del prezzo di listino
per la vendita agevolata delle auto immatricolate come veicoli aziendali:
l’utente di un veicolo aziendale deve pagare mensilmente al fisco lo 0,25% del
prezzo di listino dell’auto, se elettrica, lo 0,5% se ibrida e di questa cifra
si calcola solo il quaranta per cento dell’aliquota fiscale marginale. Se dunque
l’utente di un SUV elettrico Mercedes, che di listino costa 95 mila euro, lo
immatricola come vettura aziendale, per goderne come auto propria dovrà pagare
mensilmente 238 euro, cifra che poi, al netto delle detrazioni dell’aliquota,
scende definitivamente a 95 euro. Se non è un regalo, poco ci manca. Di questa
operazione hanno ringraziato gli elettori dei liberali e anche dei verdi,
ridotti ormai a riserva di caccia di un’upper class boriosa e indolente, che si
è autoproclamata buona, giusta e pulita. Perché ci si siano accodati anche i
socialdemocratici, resta un mistero. O forse neanche. Di certo, l’insolenza con
cui si lascia impinguare le aziende automobilistiche con i soldi dei lavoratori
dipendenti per permettere al lavoratore autonomo di scegliersi
uno status-symbol quasi a costo zero, induce a riflettere sul fatto che il ruolo
di locomotiva d’Europa, tanto volentieri affibbiatole, spetti di diritto alla
Germania non tanto in virtù di una non meglio argomentata solidità economica,
quanto piuttosto per il suo ruolo di apripista europeo nel condurre una guerra
di discriminazione sociale in cui si vendono per eque e utili a tutti, decisioni
politiche che consolidano le risorse dei più forti facendo strame di quelle dei
più deboli.
Nel caso specifico di Volkswagen, l’abbraccio mortale della politica è
particolarmente diretto e pervasivo, essendo il Land della Bassa Sassonia,
regione in cui si trova Wolfsburg, la città-azienda del marchio VW, proprietario
del venti per cento dell’azionariato: con simili rapporti di forza, è elementare
che l’umore dell’azienda divenga un termometro su cui misurare le affezioni
della politica e che quest’ultima sia sempre pronta a far partire gli idranti
ogni volta che dai consigli d’amministrazione partono le più funeste previsioni
di incendi potenzialmente indomabili.
Ma la stessa politica che per autotutelarsi corre in soccorso
dell’automotive con i soldi del contribuente, non è stata in grado di fiutare in
tempo i nuovi bisogni di infrastrutture in uno scenario in cui l’Unione europea
ha decretato che nei suoi territori nel 2034 cesseranno di essere prodotte auto
a combustione. E la conversione all’elettrico avanza con lentezza perché, al di
là degli slogan ecologisti buoni per tutte le stagioni, la politica ha fatto
poco per sviluppare un’infrastruttura di sistemi a rapida alimentazione, che
richiede erogazioni di almeno 300 kwh. Il risultato è che nel mese di luglio
2024 le immatricolazioni di auto elettriche sono state 30.762, a fronte di
43.107 diesel, 79.870 ibride e 83.405 a benzina: tra soli dieci anni nell’Ue la
produzione di motori a combustione fossile sarà illegale, eppure nel paese più
popoloso dell’Unione le auto elettriche si sono finora integrate al paesaggio al
massimo come uno sfizio per benestanti, che si montano fuori la porta delle loro
agiate case monofamiliari la colonnina privata di alimentazione elettrica,
possibilmente vicino alla pompa di calore, per la quale il ministro
dell’economia uscente, il verde Robert Habeck, ha fatto una campagna
scandalosamente militante come nuovo sacro Graal del rifornimento di energia,
alla quale la classe agiata tedesca si è accodata compatta. Chissà se sia stato
un caso che nel 2023, nel pieno del tambureggiamento mediatico condotto con toni
tali da far sentire chi ancora usava il gas per il riscaldamento come un nemico
della patria, la Viessmann, prima azienda tedesca nella produzione di pompe di
calore, sia stata acquistata dagli americani di Carrier Global per dodici
miliardi di euro.
Tornando alle cause della crisi presunta insostenibile di Volkswagen, va detto
che la politica, a scelte sbagliate riguardo il modo di incoraggiare la
diffusione della mobilità elettrica, ha aggiunto una ferma rigidità nell’aumento
dei costi dell’energia per l’industria, in conseguenza delle sanzioni economiche
alla Russia dopo lo scoppio della guerra contro l’Ucraina. Si è passati dai
15-18 cent/kwh anteguerra ai 43,20 del 2022, diventati 24,46 nel 2023 e tornati
oggi al livello anteguerra, ma solo grazie alle sovvenzioni statali che non si
sa fin quando dureranno. E i costi energetici pesano doppiamente per i
produttori: per la produzione in loco e per il prezzo finale delle componenti
prodotte per conto terzi. In un contesto di generale contrazione del potere
d’acquisto, causato dall’aumento dei tassi d’interesse in risposta
all’inflazione, è naturale che la produzione automobilistica tedesca soffra
molto la concorrenza cinese, che produce a costi non solo energetici più bassi,
nel settore medio, mentre nel settore alto continui a essere brillante: chi
vuole la Porsche e se la può comprare, se la comprerà in qualsiasi congiuntura
geopolitica. Dunque la politica ha commesso anche l’errore di non orchestrare
decisioni coraggiose che permettessero di ridurre i prezzi sorgenti della
produzione industriale, come sarebbe stato più utile fare, piuttosto che cercare
di incentivare con danaro pubblico la vendita degli immensi parchi-auto di
carissima produzione tedesca, destinata senza incentivi a restare ancora più
desolatamente invenduta. Ma occorre non dimenticare che, come già riportato,
nonostante l’esorbitante aumento dei prezzi di produzione, le case
automobilistiche tedesche, a cominciare da Volkswagen, hanno continuato a
riportare margini di profitto a dir poco robusti.
La politica potrebbe giocarsi carte pesanti per lenire evidenti storture, per
esempio superare le sanzioni alla Russia e riprendere a importare gas a prezzi
moderati, nonostante il sabotaggio (anche quello politico) di Nord Stream. Come
potrebbe ripensare i termini dell’uscita di scena dei motori a combustione, che
oltretutto l’Ue non condivide con quasi tutto il resto del mondo. E questo non
per tornare ai combustibili fossili, ma per prendere il tempo realistico e
necessario allo sviluppo di carburanti a idrogeno, come degli e-fuels,
carburanti sintetici prodotti con l’elettricità, la cui affidabilità a oggi non
è ancora paragonabile a quella delle batterie elettriche, ma il cui
approvvigionamento potrebbe servirsi un giorno della già esistente rete di
distribuzione dei combustibili fossili. Questi temi tuttavia, nell’Ue e nei
singoli paesi che vogliono accreditarsi suoi fedeli membri, sono tabù
indiscutibili e questo la dice lunga sull’onestà intellettuale di chi si
accredita come mediatore di soluzioni condivise nel più generale interesse
possibile.
La crisi di Volkswagen è una crisi di sistema, la crisi incestuosa di un’idea di
fare politica e di un‘idea di produrre ricchezza in cui lo sfruttamento e il
sacrificio di chi non ha voce in capitolo vengono raccontati, al più, come mali
necessari. Ed è una crisi che giunge all’indomani della caduta del governo
tedesco e dell’indizione di elezioni anticipate in marzo: troppo tempo per
aspettare nuovi interlocutori politici cui affidare le proprie letterine di
desideri natalizi, ancor più se si pensa che dal 2025 l’Ue punirà con pesanti
sanzioni economiche le industrie automobilistiche europee il cui complessivo
parco-auto supererà una soglia massima di emissioni di anidride carbonica: qui
BMW non ha nulla da temere, mentre Mercedes e ancor più Volkswagen sono
minacciate da sanzioni nell’ordine di svariati miliardi di euro, anche perché i
membri di un governo che si facevano la guerra in casa propria hanno avuto
comprensibilmente scarsissima capacità di fare lobbying a Bruxelles.
Nell’algido e desolato slang manageriale tedesco, da un po’ di tempo a questa
parte si è fatta largo la parola Transformation, che col suo carico esterofilo è
capace di suscitare sgomento e costernazione, soprattutto quando se a ripeterla
è un top manager che annuncia cambiamenti epocali. Questa parola serve a creare
un feeling, l’impressione che per restare dentro la storia bisogna accettare ciò
che di nuovo la storia pretende da noi. Appena scade nell‘impersonale, la
narrazione della Transformation entra nel vivo della sua infamia: ipostatizza a
verità metafisica modelli di sfruttamento e di dominio come uniche possibili
forme di relazione tra esseri umani, e tra esseri umani e natura. La sfida della
logistica è ormai la Transformation di ogni principio regolatore nel cardine del
paradigma-Amazon. La sfida dell’automotive è ormai la Transformation nel cardine
del paradigma-Tesla. E ce ne sarebbe ancora, per l’informazione, per la
comunicazione, per l’alimentazione. Su ogni questione della vita quotidiana e
comunitaria grava l’ombra di una Transformation che promette un benessere capace
di non inciampare mai nel fastidio della libertà. (pasquale guadagni)