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“Macron! Démission!”. Il 10 settembre a Parigi
(disegno di escif) Alla fine è arrivato questo dieci settembre francese. Se n’è parlato per tutta l’estate: dai grandi giornali era tutto un fiorire di “-isti”: “complottisti”, “putinisti”, “sovranisti”. Aggettivi-spauracchio, buttati lì senza attenzione, però è vero che la data era, più che nebulosa, avvolta nella nebbia, imperscrutabile. Così ho cominciato il mio giro al mattino a place des Fêtes, sopra Belleville. I blocchi erano iniziati sulla porta della tangenziale all’alba, ben prima dell’orario al quale sono giunto in piazza. Lì c’erano diverse centinaia di persone, soprattutto tanti studenti. Una folla era assiepata in assemblea, ma c’era chiasso e mi arrivavano dei lemmi come a intermittenza: Palestina, taxer les riches, occupation, blocages… Più in giù, a République, c’erano invece diverse migliaia di persone. La piazza era gestita dai movimenti dei lavoratori sans-papiers. Dal palco un uomo gridava: «Abbiamo fatto cadere [il governo di François] Bayrou, ora facciamo cadere Macron!». Ed effettivamente il nome del Président è su tutte le bocche e su altrettanti muri, spesso seguito dall’urlo: «Démission!». Mentre passeggio e guardo, la nebbia si dissipa. Ancora non so mettere a fuoco precisamente i contorni del paesaggio, ma riconosco la sensazione di trovarmi in terreno conosciuto: quello che succede è nuovo nelle pratiche, ma anche famigliare e, soprattutto, la gente che vi partecipa non mi è estranea. In disparte scorgo un gruppetto di gilets jaunes. Due di loro hanno il gilet ricoperto da delle date tracciate a mano, in linea retta, col pennarello blu; l’inchiostro è ormai appassito dalle intemperie. Lei si chiama Michèle, lui Jean-Claude e sono entrambi gilet gialli della prima ora, ormai dei veterani. Lavorano entrambi nell’industria farmaceutica nella grande banlieue parigina. Si dicono “tecnici”, ma hanno l’aspetto umile. Lei ha i capelli bianchi arruffati, dice di aspettare con ansia la pensione; lui, alto e magro, ha un filo di barba e qualche problema ai denti. Michèle dice che è contenta «che la gente sia fuori, per strada», ma giudica l’appello – “bloccare tutto” – un po’ «confuso». Comunque, dice, «è un buon inizio». Jean-Claude fa tutto un discorso che risale a quel fatidico 2018. Quando sono scesi in piazza, dice, «era per ottenere il referendum d’iniziativa cittadina» (in Francia il referendum all’italiana non esiste), ovvero, «per riprendere il controllo sulle istituzioni». Hanno fallito, riconosce, e quindi eccoci qua con un presidente che fa quel che vuole con le istituzioni, un presidente che «nomina primi ministri senza tener conto del voto». E il risultato è che si producono movimento come quello odierno. Scendo nella metro mentre qualcuno offre dei panini («Prenez des forces! Vous en aurez besoin!»), mi ritrovo intruppato in un gruppo e di giovani. Una ragazza: «Ce ne siamo presi di lacrimogeni. A Gare du Nord, sì». Poco prima, qualche centinaio di persone avevano tentato di bloccare la stazione ed erano stati caricati dalla polizia. Sui video mi aveva colpito il fatto che, per la prima volta da anni, i ragazzi facessero cordone e non retrocedessero alla prima carica. C’era come un’abitudine, una disinvoltura allo scontro. Esco dal sottosuolo a Hotel de Ville. Voglio andare a Châtelet, ma anche fare due passi, vedere. Non appena metto i piedi sulla strada, sono avvolto da centinaia di bolle di sapone: sorpreso, scorgo un saltimbanco che, con due grandi corde e un pezzo di tela, intrattiene dei turisti riempiendo il parvis del comune con queste grandi bolle insaponate. Più in là la piazza di Châtelet è gremita. Qui la piazza è quella sindacale, convocata dalle federazioni della Cgt che, disobbedendo all’imbarazzo della direzione centrale, si sono buttate nel sostegno a questa protesta spontanea. Chiacchiero con una compagna che torna dai blocchi mattutini, stravolta dalla stanchezza. Dice che è andata bene, che erano ovunque, anche se la composizione è quella solita: tanti gauchistes… Un’infermiera in sciopero mi racconta di un’assemblea con cinquecento persone davanti al suo ospedale, gremita di colleghi e di abitanti del quartiere; e di come dopo siano andati in gruppo al deposito Ratp lì vicino dove c’era un picchetto. Un compagno mi racconta dei picchetti agli inceneritori. Un’altra dell’assemblea dei ferrovieri a Gare de Lyon, poi giunta in corteo a Châtelet, e dell’aggressività della polizia che aveva paura bloccassero i binari. Faccio un giro. Una ragazza bardata con uno scialle dice che ora vanno a bloccare rue de Rivoli, ma è tutto calmo. Poi la massa si muove verso République, come una gigantesca manif sauvage: rivoli di folla emergono sul boulevard Sébastopol, non credo di aver mai visto una manif sauvage così grossa. Spuntano le prime barricate, cassonetti rovesciati e dati alle fiamme, due materassi coperti da spazzatura bloccano il traffico, un giovane dà loro fuoco e partono i primi lacrimogeni. Le persone a malapena ci fanno caso: l’unico gesto di risposta avviene all’unisono, ed è quello della mano che rapida e sicura mette la mascherina a coprire la bocca e il naso. La gente si perde nelle viuzze, verso Opéra. La sera vado a Place des Fêtes, piove. Ci sono migliaia di persone. Un’assemblea gigante, memore di Nuit Debout, ma meno organizzata, il suono degli interventi si perde tra il battere della pioggia sugli ombrelli. Qualcuno fa una barricata e le dà fuoco, le batterie al litio delle bici in sharing scoppiettano e mandano scintille bianche, sotto lo sguardo scazzato dei pompieri. Dopo un po’ la polizia sgombera, e ora riconosco il paesaggio: è quello del movimento nel 2023 contro la riforma delle pensioni di Macron. Che si svegliava all’alba per partecipare ai picchetti davanti ai depositi dei trasporti, agli inceneritori, alle stazioni e agli ospedali. Ma questa volta si è attivato senza chiedere il permesso delle “centrali” sindacali, e quindi non solo detta l’agenda, ma pesca liberamente dalle pratiche dell’ultimo decennio: ecco allora i blocchi e le azioni da gilet jaunes e le assemblee alla Nuit debout, i picchetti… Un decennio di lotte condensato in una strana festa, assembleare, incerta. Promette molto e bene. Chissà. In ogni caso, Macron démission. (filippo ortona)
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Viaggio nei territori occupati della Cisgiordania. Intervista a un contadino di Via Campesina
(disegno di giancarlo savino) Nel dicembre 2024 una delegazione di agricoltori europei affiliati al movimento Via Campesina è andata in visita in Cisgiordania, da un lato per esprimere solidarietà ai lavoratori agricoli palestinesi dell’UAWC, dall’altra per promuovere la salvaguardia dell’autonomia alimentare palestinese: dalla produzione di ortaggi, all’olio di oliva, fino ai prodotti locali coltivati nei territori occupati. Via Campesina è un movimento internazionale nato nei primi anni Novanta in Belgio, per unire le rivendicazioni di milioni di contadini, lavoratori senza terra, popolazioni indigene, pastori, pescatori, lavoratori agricoli migranti, piccoli e medi agricoltori; una lotta che naturalmente oggi si intreccia con le rivendicazioni palestinesi, visto che l’attacco alla sovranità alimentare è un fattore chiave del sistema di oppressione israeliano, poiché il controllo dei mezzi di produzione agricoli  impedisce l’autonomia del popolo palestinese. Per parlare dell’esperienza in Cisgiordania contatto uno dei delegati che ha preso parte alla visita. Partiamo da Gaza. Qual è la situazione rispetto ai dati in vostro possesso? La situazione a Gaza è catastrofica. Il pesce prodotto in Palestina arrivava dai pescatori a Gaza, ma quella flotta di pescatori non esiste più. Anche la situazione dell’agricoltura è drammatica. La quasi totalità delle terre sono completamente inutilizzabili. L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite rileva che solo l’8,6% dei terreni coltivabili a Gaza è ancora accessibile, mentre solo l’1,5% dei terreni coltivabili è sia accessibile che intatto. Alcuni campi sono stati resi non coltivabili dai residui chimici dei bombardamenti, che nessuno sa come smaltire. Inoltre il cuscinetto di sicurezza che Israele sta imponendo nella Striscia sta diventando sempre più esteso, si parla di una zona inaccessibile profonda fino a due chilometri dal confine della Striscia. Una dimostrazione di come Israele non voglia che Gaza torni a essere abitabile. Siamo preoccupati dall’indifferenza degli organismi istituzionali. Già dai primi mesi del 2024 disponevano di dati che mostravano come a Gaza fosse in atto una carestia. Tuttavia a causa del blocco imposto dall’esercito israeliano all’ingresso di ispettori internazionali, il comitato tecnico legato alle Nazioni Unite ha ritardato il riconoscimento dello status, ratificandolo pubblicamente solo alcuni giorni fa. In Cisgiordania, invece, c’è stato un attacco molto recente a Hebron, contro l’unità di riproduzione di sementi dell’UAWC. L’attacco dimostra come nessun luogo in Cisgiordania è al sicuro, nemmeno gli uffici o i campi coltivati di un’organizzazione. L’offensiva ha colpito una delle unità di riproduzione delle sementi palestinesi nei territori occupati ed è stato lanciato senza alcun preavviso. L’unità di riproduzione garantiva la salvaguardia di un assortimento evolutivo di sementi selezionando, attraverso laboratori all’avanguardia, quelle più vitali e più salubri da distribuire ai contadini che ne facciano richiesta. L’UAWC svolge un altro ruolo fondamentale: identificare i terreni che sono a rischio requisizione. Nel 1950 in Israele è stata approvata una legge che stabilisce che tutti i terreni non coltivati o non lavorati regolarmente, vengano requisiti e redistribuiti a coloni o cittadini che ne facciano richiesta. Per questo è fondamentale il ruolo di supporto a UAWC: perché piantare degli ulivi o prendersi cura della terra viene visto come un’attività che mette a repentaglio l’esistenza stessa di Israele. Tuttavia i metodi di persecuzione maggiormente utilizzati dal governo israeliano consistono nel fiaccare i contadini attraverso attacchi mirati. L’esercito israeliano, per esempio, attacca gli allevamenti di polli quando sono pronti per la vendita, come accaduto nel villaggio di Qusra, dove sono stati messi i sigilli, chiusi gli edifici e staccata l’elettricità. Stessa cosa succede nei campi con la distruzione del frumento poco prima della trebbiatura. Tuttavia vediamo una coscienza contadina e delle radici ancora molto forti. A Betlemme abbiamo visitato un campo profughi palestinese, in luoghi dove l’acqua è razionata. Nel campo, sopra il tetto di una casa, gli abitanti avevano costruito una serra idroponica per svolgere attività educative con i bambini. Un’immagine iconica che dimostra quanto i palestinesi abbiano a cuore il rapporto con la terra e con le proprie coltivazioni. Quali sono i pericoli a cui vanno incontro i contadini che coltivano le terre in Cisgiordania? In primo luogo i contadini ci hanno raccontato delle difficoltà incontrate per l’accesso ai campi. Viene negato l’ingresso ai contadini con un’età inferiore ai quaranta anni. Una strategia per rendere l’agricoltura un settore minoritario e non attrattivo per i giovani. Inoltre, circa il sessanta per cento della Cisgiordania ricade nella zona controllata da Israele, secondo gli accordi di Oslo, denominata zona C; in questa fascia di terra troviamo la maggior parte della produzione agricola palestinese. Per coltivare i terreni è necessario che gli agricoltori dispongano di un documento, rilasciato da un ufficio di coordinamento, che autorizzi i contadini ad accedere ai propri terreni. Senza l’autorizzazione diventa più semplice per i coloni e l’esercito giustificare attacchi violenti contro gli agricoltori e i volontari internazionali. L’altra cosa che abbiamo visto, in particolare nella valle del Giordano, è la presenza di fiumi e fonti d’acqua circondati dal filo spinato. Un modo per negare ai palestinesi il prelievo dell’acqua. Nei casi in cui l’accesso ai pozzi non viene recintato, l’accesso viene regolato da aziende israeliane parastatali, come la Mekorot, che ricattano la popolazione palestinese creando una sorta di competizione interna nei villaggi, costringendo gli abitanti a scegliere se mandare l’acqua verso le case o per l’irrigazione dei terreni. In taluni casi, in cui i villaggi palestinesi vengono dotati di condutture idriche grazie a finanziamenti provenienti da fondi europei – come nel paese di Bardala, nella valle del Giordano, dove un centinaio di famiglie beneficiavano dell’infrastruttura – i soldati hanno distrutto centinaia di metri di tubature. Un’altra questione è legata alla diffusione di un lavoro agricolo, specialmente nella valle del Giordano, in cui si cerca di attrarre manodopera palestinese nelle colonie di monocolture intensive israeliane garantendo paghe molto alte e creando così una doppia frattura: rafforzamento del sistema produttivo israeliano e indebolimento dell’agricoltura palestinese. Non tutti cadono in questa trappola. In alcuni villaggi dove esiste un’organizzazione sociale più radicata, l’intero villaggio sceglie collettivamente, in assemblea, di non piegarsi a questo meccanismo coloniale. Cosa è cambiato dopo il 7 ottobre? Dopo il sette ottobre l’occupazione delle terre procede a una velocità impressionante. Rispetto al 2017 – il mio precedente viaggio in Cisgiordania – il movimento dei coloni ha sviluppato metodologie sempre più violente, come le colonie pastoraliste mobili che si dotano di capi bestiame più o meno numerosi e che, con delle roulotte, si fanno spazio nelle aree semi desertiche tra la valle del Giordano e le zone più popolate della Cisgiordania. Una modalità che aggredisce le comunità beduine che vivono una vita seminomade. Questi ultimi non avendo lo spazio per muoversi, e non essendo più liberi di spostarsi, sono costretti a restare nello stesso posto; a dover comprare il mangime, l’acqua e i medicinali perché gli animali abituati a pascolare allo stato brado cominciano a produrre meno latte. Un’altra cosa che abbiamo notato è la crescita dei cosiddetti “avamposti bandiera”. I coloni che piantano una bandiera israeliana in cima a una collina. E formando un recinto e un piccolo muro bloccano l’accesso ai campi agli agricoltori palestinesi. Basta una bandiera piantata su un mucchio di terra e di colpo interi campi diventano di proprietà dei coloni israeliani come accaduto a Gerusalemme Est. Come movimento su cosa bisogna lavorare per supportare la lotta in Palestina? Abbiamo notato come la presenza di volontari e attivisti internazionali sia fondamentale. Tuttavia bisogna osservare la questione con una lente decoloniale. Nel movimento europeo forse è presente un paternalismo di fondo, una modalità frequente nei progetti della comunità internazionale, dove eleggiamo i rappresentanti e scegliamo quelli che sono i temi. In realtà, sono i palestinesi che devono indicarci le loro priorità. Questo ci è stato segnalato da un’organizzazione femminista incontrata a Ramallah, dove abbiamo parlato per un’ora e mezza su come la violenza di genere, l’oppressione delle donne, e le violenze sessuali sono rilevanti nella strategia di oppressione e di massacro della popolazione palestinese. Allo stesso tempo ci hanno detto che quando la loro organizzazione si rapporta con i movimenti femministi europei, nord americani e le Ong si tende a dare più peso alla violenza domestica, piuttosto che alla violenza strutturale contro le donne nell’occupazione sionista. Noi crediamo in un rapporto orizzontale e internazionalista tra popoli, non a una solidarietà selettiva nei confronti del popolo palestinese. Dobbiamo lavorare per spogliarci di questi retaggi colonialistici, concentrando gli sforzi in ciò che i palestinesi chiedono: cessate il fuoco, fine del genocidio e delle politiche espansionistiche di occupazione in Cisgiordania. Per questo è necessario pressare Israele attraverso campagne di boicottaggio economico, nonché sanzioni e cessazioni degli accordi internazionali. (intervista a cura di giuseppe mammana)
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Da Jujuy a Buenos Aires. Reportage sulla lotta indigena contro l’estrazione del litio
(disegno di manincuore) Dal numero 12 (maggio 2024) de Lo stato delle città.  «Noi, dopo che hanno pascolato, i lama li leghiamo tutti insieme e li mettiamo dentro l’ovile, ben stretti. E io così mi sento quando saliamo al Subte [la metropolitana di Buenos Aires], come gli animali da pascolo» – mi ha detto un giorno Flavia, trent’anni, oggi presidente della comunità indigena di Santuario de Tres Pozos, situata nella regione di Salinas Grandes y Laguna de Guayatayoc, nella provincia argentina di Jujuy. «Poi quando si apre la porta, scappano tutti». È ormai scesa dalle scale mobili e si è messa in attesa della metro, insieme alle sue compagne di lotta del Tercer Malón de la Paz. «Prima di venire qui non ero mai salita su un Subte. All’inizio le scale mobili mi spaventavano, non riuscivo a salire da sola. Allora qualcuno mi spingeva e mi aiutava, per più di tre volte ho rischiato di cadere» – l’arrivo della metro ha interrotto la risata di Flavia. Siamo saliti sulla linea D, in direzione dell’Hotel Hilton a Puerto Madero. Dal 22 novembre 2023 vi si riunivano ministri e impresari per il secondo vertice argentino sul litio, perciò il Malón aveva organizzato, fuori dall’albergo, un presidio di contestazione con finalità informative. Il brusio della metropolitana si riempì di un canto: «Cinco siglos resistiendo, cinco siglos de coraje, manteniendo siempre la esencia…». All’uscita dal vagone Wili, la guida spirituale di questa nuova comunità urbana in lotta, continuava a soffiare nella sua conchiglia. Il suono che ne usciva sovrastava il frastuono della metropolitana in ripartenza. Il Tercer Malón de la Paz è arrivato a Buenos Aires il primo agosto del 2023. Erano circa duecento persone, membri di più di cento comunità indigene di tutte le regioni della provincia di Jujuy, situata nel nord-ovest dell’Argentina, al confine con Cile e Bolivia. Hanno attraversato tutte le provincie nordoccidentali del paese per avvicinare il loro grido di protesta ai luoghi del potere istituzionale. Sono giunti fin qui per contestare la riforma costituzionale della loro provincia, volta a favorire l’estrazione del litio dalla loro terra. IL MALON DE LA PAZ La parola “malón” appartiene al lessico colonizzatore castigliano e veniva utilizzata per significare un’offensiva rapida e inaspettata da parte degli indigeni ai danni di uno stanziamento colono o criollo. Il significato è cambiato con il primo Malón de la Paz quando, era il 1946, 174 indigeni del pueblo kolla partirono dalla regione di Cochinoca nell’altopiano andino della regione del Jujuy per camminare in direzione di Buenos Aires. Nella capitale il governo di Juan Domingo Peron era prossimo all’insediamento e intendeva realizzare una riforma agraria. Certi di vedere ascoltato e riconosciuto il loro diritto di preesistenza ancestrale e dunque alla restituzione di terra appropriata o acquistata compulsivamente dallo Stato, i manifestanti camminarono per duemila chilometri da Jujuy a Plaza de Mayo. Eppure, non fu mantenuta la promessa di restituire le terre. E poche settimane dopo le forze della milizia navale, armate di spranghe e gas lacrimogeni, procedettero allo sgombero del primo Malón de la Paz. I maloneros furono caricati su un treno già predisposto sulla linea ferroviaria alle spalle dell’Hotel degli immigranti – dove erano stati alloggiati, per quanto immigranti non fossero –, comunicante direttamente con la stazione di Retiro; li scortarono fino a Jujuy, dove ancora oggi i popoli originari non vedono applicato il loro diritto all’esercizio della possessione ancestrale delle terre che abitano, lavorano e difendono. Sono passati quasi ottant’anni e la politica di sfruttamento del potere istituzionale ai danni dei popoli originari e delle loro terre ricche di risorse naturali prosegue indisturbata. Un tempo i coloni estraevano l’oro, ma oggi la ricchezza ha cambiato nome e colore: l’oro si è fatto bianco e si chiama litio. In nome della riconversione energetica all’elettrico, le imprese mondiali insistono nel risucchiare su larga scala le risorse non rinnovabili nascoste nel cuore del pianeta. È la cosiddetta rivoluzione verde: il Consiglio Mondiale dell’Energia ha affermato che le risorse di petrolio si esauriranno entro una cinquantina di anni. Perciò al combustibile fossile nelle automobili si comincia a sostituire il motore elettrico, la marmitta si trasforma in batteria al litio. Il sole e il vento sono intermittenti, il litio c’è e si sa anche dove. L’ottanta per cento delle risorse mondiali si trova in un triangolo di terra che tocca Cile, Bolivia e Argentina. Quest’ultima è la nazione eletta: le multinazionali hanno già avviato più di sessanta progetti minerari nel paese, nelle provincie di Catamarca, Salta e Jujuy. Il territorio argentino vince la gara della dinamite mineraria perché qui i grossi investitori devono pagare solo il tre per cento delle regalie allo Stato e non subiscono nessuna restrizione né controllo sull’esportazione. «Così l’Argentina diventerà la fornitrice di più della metà del litio necessario a soddisfare la domanda mondiale», annunciava fieramente qualche anno fa Mauricio Macri, presidente del paese dal 2015 al 2019. In pochi anni il valore di una tonnellata di carbonato di litio è passato da duemila a dodicimila dollari. Per produrre una tonnellata di questo minerale servono due milioni di litri di acqua. Per costruire un’auto elettrica (equivalente a circa diciassettemila cellulari) sono necessari più di quattro chili di litio. Una Tesla S contiene una batteria di sei chili di litio. Due milioni di litri d’acqua provenienti dalle Ande di Jujuy si trasformano così in duecento auto elettriche prodotte da compagnie europee, nordamericane, australiane, cinesi, giapponesi e poi distribuite nei rispettivi paesi. Come? Si pompa l’acqua salmastra già a disposizione nelle immense saline jujeñe e la si colloca in enormi piscine la cui superficie equivale a varie migliaia di stadi di calcio. Sotto la radiazione solare l’acqua evapora, il carbonato di litio si deposita. Dopodiché deve essere separato, usando la calce, e poi lavato, e per lavarlo è necessaria acqua pura, di sorgente, che è l’acqua che beve la gente delle comunità dell’altopiano argentino. Le miniere di litio sono miniere d’acqua. Esce più acqua di quella che entra nel sistema, e quest’ultima, quella che vi ritorna, rientra contaminata dalle sostanze tossiche disperse durante la separazione del litio. Il punto della questione attuale, quella gridata per le strade di Buenos Aires dal Tercer Malón de la Paz, non si ferma dunque alla difesa e alla tutela della preesistenza dei popoli originari e del loro diritto a disporre liberamente e rispettosamente delle risorse della terra che abitano, ma consiste anche nel prendere coscienza che la cosiddetta “energia verde” corrisponde in realtà all’ennesimo dispositivo di distruzione dell’ecosistema. Iber mi ha riferito i dati sul processo estrattivo del litio. Eravamo sull’autobus che ci portava verso la sede del SERPAJ (Servicio Paz y Justicia), le cui avvocate si sono occupate di appoggiare e fortificare legalmente le rivendicazioni del Tercer Malón. Iber ha ventiquattro anni ed è di Alfarcito, una piccola comunità situata nella regione di Salinas Grandes, la stessa da cui proviene Flavia. Lì si concentra la maggior parte delle risorse di litio argentine e per questo la lotta contro i progetti di esplorazione per l’apertura di nuove miniere cominciò già nel primo decennio del Duemila. Iber è nato nella lotta. Prima di scendere dall’autobus mi ha detto: «Oggi siamo in guerra, perché è una guerra questa. Tra chi vuole difendere la Madre Terra e chi vuole continuare a venderla per profitto. Stiamo lottando per l’acqua, perché sia libera e ce ne sia per tutti e per tutte. Se perdiamo questa guerra, domani la guerra sarà tra di noi: io e il mio vicino di casa arriveremo a litigare per un bicchiere d’acqua». Poi è squillato il suo cellulare e una voce diceva: “Cinco siglos resistiendo”. LA RIFORMA DI MORALES Dopo una lunga battaglia nell’ambito dei diritti umani indigeni, cinque secoli dopo l’inizio della colonizzazione e della resistenza a essa, nell’agosto 1994, la Costituzione Nazionale Argentina accolse l’articolo 75, che all’inciso 17 stabilisce la responsabilità del Congresso ad “ammettere la preesistenza etnica e culturale dei popoli originari, garantire il rispetto della loro identità culturale e linguistica, riconoscere la persona giuridica delle comunità e la possessione comunitaria delle terre che tradizionalmente occupano e infine assicurare la partecipazione dei popoli originari nella gestione delle loro risorse naturali e degli interessi che le riguardano”. Grazie all’incorporamento di questi statuti normativi, sul finire degli anni Novanta alcune, ma non tutte, delle comunità originarie dislocate nel territorio jujeño si videro legalmente riconosciuta la personalità giuridica, nonché assegnati i titoli di possessione delle porzioni territoriali di insistenza, assegnazione avvenuta in parte in forma comunitaria e in parte direttamente a famiglie o singoli. Nonostante la sussistenza di questi baluardi costituzionali e dei conseguenti atti notarili, lo scorso giugno a Jujuy è stata approvata, senza previa consultazione dei popoli originari, una riforma provinciale, promossa dal governatore Gerardo Morales, che ha facilitato il via libera alle procedure estrattiviste nei territori indigeni e ha autorizzato misure repressive ai danni di qualsiasi tentativo di resistenza. Per via del carattere federale del governo argentino, infatti, le province sono considerate “antecedenti” all’unificazione dello stato-nazione e mantengono un forte potere di autonomia. Per questo ogni provincia dispone di una Carta Costituzionale ed è su di essa che Morales ha agito. Il governatore è riuscito a modificare 66 dei 212 articoli della Carta provinciale, la maggioranza dei quali riguardavano il tema delle risorse naturali. Dichiarando il litio come “risorsa strategica” e stabilendo al minimo la quota di interessi da tributare allo Stato, la nuova riforma sancisce il contratto di svendita del sottosuolo jujeño alle multinazionali estere. Mentre nel governo di Jujuy si discuteva la riforma, Flavia, Iber, Wili e tutto il Tercer Malón de la Paz, erano in marcia sulla Ruta che da Abrapampa cammina verso la capitale di Jujuy. All’alba del 16 giugno Morales ha annunciato l’approvazione della riforma provinciale. Dopo un giorno di mobilitazione a San Salvador de Jujuy, con i popoli originari uniti ai docenti già in protesta per la rivendicazione di un salario degno, il Malón ha organizzato un blocco stradale lì dove si incontrano la Ruta 9 e la 52, quella che porta all’area di Salinas Grandes, la più minacciata dagli interessi speculativi. Il blocco era un’azione di protesta volta anche a informare i passanti sull’incostituzionalità della riforma. Vi sono confluite quasi duecento comunità, per un totale di più di quattrocento persone. I cortes, i blocchi stradali, sono stati un grande esperimento di gestione comunitaria della lotta. Il blocco avveniva su tre fronti: a nord e sud della ruta 9, per i veicoli provenienti rispettivamente dalle regioni al confine con la Bolivia e dalla capitale jujeña, e sulla ruta 52, per bloccare qualsiasi accesso alla zona di Salinas. L’intento era tanto quello di generare scompiglio e sensibilizzazione, quanto di impedire il passaggio di camion trasportanti calce o altri elementi necessari alla estrazione e separazione del litio già in corso nel Salar de Olaroz, centocinquanta chilometri dopo Salinas. Si lasciavano circolare solo i veicoli sanitari o le auto con a bordo minori e anziani. Uno dei ruoli principali, nonché di maggiore responsabilità, nel funzionamento dei cortes era pertanto quello di chi circolava tra i veicoli fermi in strada, distribuendo materiali informativi sull’incostituzionalità della riforma e cercando di dialogare con gli autisti più spazientiti. Ogni ruolo veniva scandito da turni di quattro o sei ore. Oltre a chi volantinava, c’era chi si impegnava a sorvegliare ed eventualmente rafforzare le barricate, costruite con massi e pezzi di legna. La cucina del campo era gestita in modo comunitario: si teneva sempre acceso il fuoco, per smorzare le basse temperature invernali e poter riscaldare i pasti provenienti dalla non troppo lontana Tilcara. Lì infatti, nel campo base di un gruppo di militanti, si cucinavano grosse quantità di zuppa e carne stufata per poi distribuirle nei tre blocchi di Purmamarca, il paese più vicino al luogo del presidio. Di notte ci si turnava per fare da guardia all’accampamento mentre sulle colorate montagne che sovrastano l’incrocio stradale erano presenti gruppi di vedetta pronti ad avvisare dell’arrivo di veicoli delle forze del supposto ordine. E infatti, forti dei nuovi decreti costituzionali che proibivano espressamente blocchi stradali totali così come qualsiasi altro ostacolo alla libera circolazione, alle sei di mattina, poi alle tre e alle sette del pomeriggio del 17 giugno 2023, sono arrivate puntuali le repressioni. La fanteria e la polizia federale hanno iniziato a colpire chiunque avesse a tiro, usando pallottole di gomma e gas lacrimogeni di nuovo brevetto. Hanno distrutto cellulari e videocamere, caricato uomini e donne sui camion pronti a partire verso la questura. A Tilcara, a pochi giorni dall’inizio del Carnevale del 2024, Maria mi ha raccontato la sua esperienza di lotta nei cortes mentre cucivamo la bandiera che avrebbero utilizzato durante la parata del collettivo femminista delle Cari Chupi (belle facce). Mi ha mostrato con orgoglio la sua cicatrice sul polso destro e mi ha detto che non c’era praticamente nessuna e nessun manifestante che non riportasse il segno di un proiettile di gomma sulle gambe o sulle mani usate per proteggersi la faccia. La fanteria sparava ad altezza viso ed è così che tre uomini hanno perso la vista da un occhio. Mi ricordo di quando dagli occhi di Karen, bardati dietro due spesse lenti nere che la riparavano dal sole accecante delle Salinas, è colata una grossa lacrima mentre ripercorreva i fatti del 17 giugno e mi chiedeva di non parlarne più. Karen, insieme a Santiago, rappresentanti della comunità di Pozo Colorado, sono stati detenuti per una decina di giorni nel carcere di Jujuy. Oggi anche loro sono imputati nelle centinaia di cause che il governo provinciale porta avanti in nome della criminalizzazione delle proteste di giugno. Nonostante le repressioni, i cortes sono proseguiti per settimane, continuando a informare i veicoli di passaggio sulla pericolosità della nuova riforma. Non sono mancati episodi di resistenza a nuovi tentativi di attacco delle forze armate. Gridato l’annuncio dalle vedette d’altura, erano spesso le donne a schierarsi in prima linea e a lanciare contro le guardie olio bollente e pietre. «Sembrava una guerra civile – mi ha raccontato uno dei militanti di Tilcara –, dato anche l’alto numero di familiari e conoscenti impiegati nelle forze di polizia locale». E quella guerra civile sembrava anche sostenibile, per quanto indicibilmente stancante e dolorosa, fin quando il 20 agosto, a una settimana dalla sconfitta nelle primarie come candidato alla vice-presidenza dell’Argentina, Gerardo Morales ha mandato un plotone dell’esercito non più in assetto anti-sommossa, bensì dotato di armi belliche vere e proprie. Il plotone ha proceduto allo sgombero e allo smantellamento definitivo dell’accampamento. Il traffico di Jujuy è stato ripristinato senza più interruzioni. I grossi camion di calce hanno ricominciato a raggiungere le miniere di Olaroz Chico e le auto della Toyota, una delle principali case automobilistiche giapponesi, bramosa di batterie al litio, hanno ripreso a fermarsi sulla ruta 52 per proporre alle comunità locali nuovi accordi di esplorazione. IL MALON A BUENOS AIRES Un mese prima, il 25 luglio 2023, il Tercer Malón de la Paz aveva preso la decisione collettiva di cominciare il cammino verso Buenos Aires e ho passato giornate intere con loro nella capitale. A Buenos Aires Flavia mi ha raccontato il costante aumento delle visite da parte delle imprese nella sua comunità di Santuario de Tres Pozos, che vive soprattutto di estrazione del sale, allevamento di lama, turismo e artigianato. Il villaggio di Santuario lo fondò suo nonno, costruendolo a poco a poco, a partire da una scuola. Flavia è nata a casa sua, del nonno, «anche per questo sto lottando – mi ha detto – non voglio che quel luogo venga distrutto». Suo nonno è morto il 26 maggio 2023, non c’è stato abbastanza tempo per stare con il dolore prima del nuovo caos generato dalle repressioni nei cortes di Purmamarca. «Eppure, io da qui mi porto una nuova famiglia». Eravamo nella sua tenda, nell’accampamento di Plaza Lavalle, sotto la Corte Suprema che ormai da più di quattro mesi non offriva ascolto né udienza alle rivendicazioni del Malón. Come nominò la parola “famiglia” il vento forte di quella sera buttò a terra il suo telefono, che appoggiato su un asse del tetto faceva da torcia per illuminare il viso di Flavia e la whipala che le stava dietro, la bandiera dei popoli originari. Abbiamo riso al buio. Fuori dalla tenda di Flavia era una sera come un’altra. Alcune maloneras si godevano il ritmo di una samba cantata da Ivan, un altro dei giovani del Malón. José, che per trent’anni ha lavorato in una miniera di rame, per poi cominciare a unirsi alle lotte sindacali fino ad arrivare a Buenos Aires con il Malón, aveva il piede gonfio per una qualche infezione. Wili glielo massaggiava, poi lo ha lasciato riposare in un secchio pieno di ghiaccio. Raul, uno dei più impegnati nel lavoro di approfondimento dei diritti indigeni, masticava coca mentre leggeva al computer. Iber era appena tornato con le bocce piene d’acqua. Era andato a riempirle davanti al teatro Colón, dall’altro lato della piazza, perché dalla parte dell’accampamento le autorità cittadine avevano tagliato la distribuzione idrica alle fonti pubbliche, per rendere più scomoda la permanenza degli indios di questa fase della storia. L’abuelita Sabina intrecciava tranquilla fili di tutti i colori nel suo piccolo telaio portatile. Yamil, un altro giovane, lottava contro il sonno e cercava di studiare: doveva tornare a San Salvador per dare un esame di ingegneria. Fabiana, una senzatetto adottata dall’accampamento di Plaza Lavalle, veniva a chiedere con la sua andatura claudicante un piatto di zuppa. Estela lo riscaldò e Monica glielo servì fumante. Per pranzo, come ogni lunedì, aveva cucinato un gruppo di donne e uomini salteñi che risiedono da tempo a Buenos Aires e che partecipavano così alla lotta delle loro sorelle e fratelli. Un uccello cantava alla luna calante di quella notte. Era stata la giornata internazionale di lotta all’estrattivismo, il 4 dicembre. Il Tercer Malón aveva aperto il corteo che partiva dall’obelisco di Avenida 9 de Julio fino a Plaza de Mayo, a suon di canti e del motto “Arriba los derechos! Abajo la reforma!”. Erano tutte e tutti stanchi, e presto sarebbero andati a dormire. Da agosto a dicembre Plaza Lavalle è stata attraversata da migliaia di persone, alcune delle quali hanno porto ascolto e gesti di adesione alla lotta, che fossero un pacco di pasta, una chitarra per fare musica insieme, un cartellone preparato per la manifestazione del giorno, e magari tradotto in una lingua altra dal castigliano, per poter cogliere l’attenzione di un turista di passaggio, o insomma una delle infinite modalità possibili per allargare la cassa di risonanza di questa storia che ha urgenza e portata di coinvolgimento universale. Persino il 19 novembre 2023, giorno della vittoria elettorale di Javier Milei, la piazza del Malón è stato un luogo dove versare lacrime e stringersi nel silenzio e nella forza di un abbraccio. Ricordo che Wili ha insitito e alla fine, mentre cominciavano a levarsi suonate di clacson e grida moleste come «Viva la libertad, carajo!», abbiamo giocato a calcio e per un attimo i pensieri sono rotolati insieme al pallone. Durante la partita Wili è caduto molte volte e a gioco finito mi ha detto: «Sai cosa significano tutte queste cadute? Che abbiamo ancora qualcosa da fare su questa terra». Per questo Yamil, tornato all’accampamento con un altro esame superato sul libretto, si dichiarava felice di avere rallentato il suo percorso di studi per unirsi a una lotta in nome della giustizia. Quando tornò a Plaza Lavalle urlando «Jallalla!», il grido che sempre si ripete a sostegno della lotta delle comunità andine del nord-ovest argentino, produsse un’eco che durò fino all’ultimo pomeriggio del Malón a Buenos Aires. L’ombra del potere di Milei, il nuovo presidente nazionale di estrema destra, era sceso sul Jujuy e sull’intera Argentina. Il Tercer Malón de la Paz ha annunciato in conferenza stampa la sua ritirata, prevista per la notte tarda del 15 dicembre. Si preparava così a lasciare la capitale argentina senza aver visto, da parte dei due governi succedutisi al potere durante la sua permanenza in città, alcuna mossa in direzione dell’obiettivo principale della sua lotta: l’abolizione della riforma provinciale di Jujuy sulla base della sua incostituzionalità, tanto procedurale quanto contenutistica. Anzi, l’insediamento del nuovo presidente Milei già lascia intuire ciò che da tempo il popolo jujeño profetizzava: la riforma provinciale, tanto nella sua parte impegnata a criminalizzare le proteste, quanto nella sua più generale ottica produttivistica, è un perfetto laboratorio in cui sperimentare misure da attuare poi su scala nazionale. Il sole stava per tramontare. I lavori di smontaggio delle tende si sono fermati: è giunta la notizia di un guasto meccanico al pullman che da Jujuy stava muovendo verso la capitale per poi riprendere il viaggio in direzione contraria. Era fermo a settecento chilometri di distanza in attesa di una riparazione, che probabilmente sarebbe potuta avvenire solo la mattina seguente. Solo Wili ha proseguito i preparativi del suo bagaglio. Non sarebbe tornato subito in Jujuy col resto del Malón, aveva intenzione di fermarsi ancora un paio di settimane nella provincia di Buenos Aires per continuare un percorso di formazione spirituale con un vecchio saggio della zona. Mentre mi indicava un punto del cielo sopra il teatro Colón, da dove ogni giorno vedeva sorgere il sole, mi ha detto: «I nostri anziani dicono che siamo esseri solari». Secondo la cultura andina indigena il sole, e con esso il pianeta Terra e l’umanità tutta, sono recentemente entrati in un nuovo ciclo temporale chiamato Pachacuti. Significa ritorno all’anteriore, a tutta la saggezza anteriore che invoca la cura della Madre Terra e delle future generazioni. Mentre continuava a disarmare la sua tenda Wili ha aggiunto: «Noi abbiamo lasciato questo messaggio alla società qui a Buenos Aires affinché ne prenda consapevolezza, perché è l’unica forma di sopravvivenza, se no scompariremo tutti». Scioglieva un nodo, poi un altro. Suo nonno aveva partecipato al primo Malón de la Paz. Ha rimosso il telo di plastica che gli faceva da copertura anti-pioggia. Il sole tramontava, Wili è partito col suo sorriso. Il pullman era sempre fermo nella provincia di Córdoba. Il Malón è andato a dormire ancora incerto sull’orario di partenza, ma ben convinto che era tempo di tornare al territorio, a progettare da lì nuove strategie di resistenza e difesa collettive. Eppure, l’assalto è avvenuto prima del previsto. All’alba dell’indomani, a sei mesi esatti dal giorno dell’approvazione della riforma incostituzionale, non è stato il pullman ad arrivare, bensì, come settantasette anni prima, in pieno rispetto della ciclicità della storia, la polizia della città. Li hanno svegliati alle sei di mattina, entrando nelle tende, e intanto già cominciavano a “bonificare” (questo il lessico usato dalle forze dell’ordine) il lato dell’accampamento dove fino alla sera prima c’erano la cucina e la dispensa, gettando nel tritarifiuti tutto ciò che non era stato ancora imballato, e cioè gli alimenti per la colazione e per il lungo viaggio fino a Jujuy. Il Malón così risvegliato ha cercato un dialogo: spiegava il ritardo imprevisto, sosteneva l’inutilità di questa misura di forza visto l’annuncio della partenza imminente, chiedeva dunque pazienza affinché potessero finire di disarmare l’accampamento seguendo i propri criteri e aspettare l’arrivo del mezzo di trasporto. Ma il capo della polizia ripeteva di «dover pulire immediatamente questa spazzatura» e infine far arrivare una squadra di polizia federale che contava un’ottantina di uomini e donne, a fronte della trentina di persone rimaste. I poliziotti filmavano le azioni dei lavoratori di Buenos Aires Ciudad Verde e di un’azienda privata, convocati per lo smantellamento completo dell’accampamento, l’arrivo trionfante delle forze federali, il coordinamento delle operazioni da parte dei capisquadra e le strette di mano forti e complici tra gli stessi. Più o meno in questa sequenza hanno montato le immagini nel video che è comparso il pomeriggio stesso sulle pagine social della Policía de la Ciudad de Buenos Aires, con la didascalia scritta in maiuscolo: “Si è posto fine alla fattoria a Tribunales – e con ordine”. Seguiva il cartello finale: “Proteggere i porteñi, rafforzare l’ordine, rispetto alla polizia della città”. Io con la mia telecamera seguivo la nonna Sabina, che si aggirava tra le forze dell’ordine con il fuoco sacro «per togliere la malaonda». Poi con disinvoltura ha chiesto a un poliziotto di spostarsi. Stava in piedi sopra alla Pachamama, e cioè a un punto del giardino della piazza dove era stato fatto un buco, all’arrivo del Malón in agosto, per offrire omaggi alla Madre Terra, chiederle accoglienza e protezione durante il periodo di permanenza in quel luogo. Poi ha ripreso il suo cammino, emanante essenza di terra e foglie di coca, rapida e sicura, dicendo tra sé: «Facciano ciò che vogliono con noi, però con lei non possono fare ciò che vogliono, lei è l’autorità più forte e più potente ed è grazie a lei che viviamo». Il Malón è salito sul pullman alle quattro del pomeriggio del 16 dicembre 2023. Subito prima erano canti, lacrime e sorrisi, abbracci e saluti con le persone che nel corso di quei quattro mesi e mezzo hanno accompagnato la lotta. Il Malón che partiva verso Jujuy ringraziava a pugno chiuso la città che restava, a ricordare che questa lotta è di tutte e di tutti, e non il capriccio di “poveri indios selvaggi”, perché è la lotta in difesa della vita contro il sistema neoliberista che sfrutta e fagocita ogni pezzo di terra, ogni goccia d’acqua, ogni essere umano in nome del profitto. (agnese giovanardi)  
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Algeri-Marsiglia-Roma. Piccola storia di Camila e dei suoi viaggi
(archivio disegni napoli monitor) «Sbah el kheir, mama!». Mi sveglio in questo caldo mese di agosto in modo diverso. Oggi partiamo per Roma. Mio padre mi ha regalato questo viaggio. Sapeva quanto l’Italia fosse importante per me. L’importanza di poter finalmente parlare una lingua che padroneggio quasi perfettamente e che ho imparato per sette anni. L’importanza di scoprire la città che vedo solo attraverso il Colosseo e gli infiniti capitoli di storia sull’Impero Romano a scuola. La possibilità di iniziare questa serie di viaggi che voglio intraprendere per il resto della mia vita. Neanche i miei genitori hanno mai visitato l’Italia. Forse alla fine è grazie a me che la visiteranno. Hanno sempre vissuto in Algeria e mi hanno trasmesso l’amore per il mio paese. Il loro paese è diventato il mio: amo l’Algeria come amo la mia famiglia, scorre nel mio sangue ogni minuto e mi legherà sempre alle mie radici. Ma ora che siamo a Marsiglia è tutto diverso. dobbiamo imparare a tenere per noi le nostre origini quando possono portarci pregiudizio. A volte dobbiamo confonderci con la folla per non essere giudicati o discriminati. In un paese in cui la diversità etnica non è valorizzata, a volte è meglio nasconderla. Anche se questo non ci impedisce di andare in Algeria ogni estate con lo stesso piacere. Ho scoperto lì l’italiano, tra i ferventi tifosi algerini e i venditori itineranti di karantika, vicino allo stadio di Algeri. La karantika è la specialità che appartiene all’Algeria, è una delle prime cose da mangiare lì. L’autentica karantika si trova solo in Algeria. Si trova ovunque, in ogni panificio, fast food, pasticceria, pizzeria, ma soprattutto in ogni angolo di strada. È un piatto e panino algerino a base di farina di ceci, simile a un gratin o a uno sformato. Venduto spesso da venditori ambulanti nelle principali città algerine, si consuma preferibilmente caldo. Il principio della karantika è semplice. Si mette una fetta di questo gratin in un pane croccante e si condisce con cumino per un sapore più intenso e, soprattutto, con harissa. Il sapore della karantika è dolce ma allo stesso tempo piccante. Un po’ come in Algeria, caldo ma piccante. Il gratin di ceci è molto leggero al palato, ma il cumino e l’harissa aggiungono un’esplosione di sapore e danno alla leggerezza del gratin un gusto nuovo. Assaggiare una karantika, anche dopo centinaia di volte, mi riporta sempre alla mia infanzia, come una fiamma che sto riaccendendo, che quella karantika sta accendendo… Mi ricordo di quel momento speciale che non ricorderò mai di aver vissuto, ma che rivive nei racconti della mia famiglia. Estate 2008. Il sole caldo batte sul giardino della nostra casa tra le montagne della Cabilia. Ero già immersa nella lingua cabila, che ho imparato prima del francese. Ma quel giorno ho mosso i primi passi. Comincio a camminare, a scoprire il mondo che mi circondava e in quell’occasione assaggio per la prima volta la karantika. Mia zia aveva solo quindici anni e giocava con me come se fossi la sua sorellina. Giocava con me con una karantika in mano. Quello che aveva in mano mi incuriosiva. Capisco subito che si trattava di qualcosa da mangiare. Solo che era pieno di harissa, e l’harissa punge. La famiglia intorno a me aspettava che la sputassi. «Outhezmirara atecith!» (in cabilo: «Non può mangiarlo!») dicevano le mie zie e mia madre. Inaspettatamente, lo mangiai tutto, sorprendendoli. Mi ero già innamorata della karantika. Poi chiedo loro di darmi dell’acqua. Ho gridato: «Fkiyid aman!», che è stata anche la mia prima frase in cabilo. Da quando sono piccola, ascoltavo l’italiano. Appassionata di calcio, vado ogni anno in Algeria, allo stadio della mia città. Lo stadio è impressionante quando si entra, anche se non è esattamente di dimensioni enormi. È l’atmosfera di uno stadio e dei suoi tifosi che rende grande uno stadio, e questo l’ho scoperto in Algeria. Nei giorni delle partite, le strade solitamente vuote si riempiono di uomini, donne, bambini e anziani. I negozianti non chiudono e i bar lavorano fino all’alba. La coda per entrare allo stadio è fastidiosa e stimolante. Da un lato, non vedo l’ora di entrare allo stadio, ma dall’altro l’attesa è sempre lunga. Seduta al mio posto, le poche migliaia di tifosi mi hanno fatto sentire come se fossi allo Stade de France, circondata da ottantamila persone. La squadra di Algeri riprende molte frasi in italiano. «Forza Alger!», «La magia rosso e nera», «Non dimenticheremo mai quello che abbiamo passato…»; o ancora: «La guerra non è niente; l’abbiamo già vinta», «Sempre con fierezza». Queste ultime frasi si riferiscono a uno stesso periodo che risuona e fa parte della vita quotidiana di ogni algerino: la guerra e l’indipendenza dell’Algeria. Sappiamo tutti che se oggi siamo qui è perché i nostri antenati sono morti per la nostra indipendenza. Mi hanno sempre detto: quando ti senti male, ricordati che sei algerina e tutto andrà meglio. Anche i miei antenati hanno vissuto questa guerra. Alcuni sono morti, altri hanno imparato a convivere con le loro cicatrici.  Gli slogan dei tifosi sono in italiano o in arabo. Nello stadio ascolto i canti dei tifosi che ripetono le espressioni in italiano, tutti insieme, come se fosse l’ultima partita della loro vita. L’arrivo dei giocatori è l’unico momento di silenzio. L’intero stadio ascolta il silenzio nell’attesa di riprendere i canti. Quello che ascolto cambia totalmente all’arrivo della squadra avversa. I canti si trasformano in fischi. È sgradevole per le mie orecchie, ma fischio anch’io. L’atmosfera è unica e magica. La miscela di canti e fischi si accompagna agli odori del fumo e dei fuochi d’artificio. La nebbia del fumo mi nascondeva sempre una parte del campo. È sorprendente, ma non è un ostacolo alla mia gioia e al mio impegno.  Questo momento di condivisione è il mio momento preferito, ogni vacanza in Algeria. Vivo simili notti a Marsiglia, allo stadio Velodrome. Stessi canti, stessi odori, ma con una passione differente. Sento sempre un’emozione particolare, un fiume in me quando torno nel mio paese. Una fiamma che non si consuma mai, che viene riaccesa in ogni momento da ogni cultura che vive in me. Una fiamma che ho cura di riaccendere e che mi infiamma soprattutto quando visito la terra dei genitori. La terra che vedo solo una volta all’anno, perché viviamo a Marsiglia. Questa è la storia dei miei genitori: cercare un futuro migliore per i loro figli in Francia. Marsiglia è tutta la mia vita. Mi chiedo ancora se potrò mai lasciare questa città. Marsiglia è il luogo dove sono nata e cresciuta, dove ho sorriso e pianto. Sono diciassette anni che trascorro lì la maggior parte del mio tempo. Ho visitato così tanto il Vecchio Porto che non mi impressiona più. Ho fatto il bagno così tanto alla spiaggia della Pointe Rouge che non ci vado più. Ma mi sono ripromessa di non lasciarla. Marsiglia è una culla dove sto bene, dove si sta sempre meglio. Ho sempre ritenuto che il mio carattere fosse compatibile con Marsiglia. Sanguigna e impulsiva, ma generosa e accogliente. Un po’ come l’Algeria e la karantika. Dolce ma allo stesso tempo piccante. Marsiglia e l’Algeria si assomigliano e mi assomigliano. Mi sento a casa in entrambi i luoghi. Sulle rive del Mediterraneo, con lo stesso clima e lo stesso temperamento. Ma questa volta presenterò ai miei genitori un mondo nuovo, lontano dall’Algeria che hanno conosciuto e dalla Marsiglia in cui abitano da diciott’anni. Oggi partiamo per Roma. Il mio cuore arde di attesa, so che qualcosa mi lega a questo paese. Non vedo l’ora di parlare italiano, di incontrare la gente, di immergermi nella cultura del paese. Non abbiamo scelto Roma senza motivo: avrei potuto scegliere Firenze, Venezia, Milano o ancora Napoli. Ma Roma è sempre stata nella mia mente. Ho aspettato pazientemente le dodici ore di viaggio. Che gioia incontrare i primi cartelli in italiano, ricevere un messaggio dal mio operatore che diceva “benvenuto in Italia” e vedere i controlli di frontiera. Finalmente sono qui! Forse la mia fiamma stava aspettando Roma per continuare a risplendere. La mattina del mio arrivo, naturalmente, sono passata davanti allo stadio Olimpico. Da appassionata di calcio non potevo andare a Roma senza vederlo. Quando sono tornata a Ostia, dove eravamo in campeggio, con i miei genitori e i miei tre fratelli, abbiamo avuto un incontro inaspettato. Abbiamo preso l’autobus 71 che dalla stazione della metropolitana di Eur-Fermi portava alla spiaggia di Ostia. Questo autobus ci ha lasciato il segno. Era l’autobus che collegava il nostro campeggio alla stazione della metropolitana che ci permetteva di raggiungere il centro città. Lo prendevamo la mattina e la sera, come tutte le altre famiglie del campeggio. Durante il viaggio, mi sono concentrata a cercare di individuare le persone che indossavano i famosi braccialetti gialli che consentono l’accesso al campeggio. Ho sentito parlare tutte le lingue: tedesco, libanese, inglese, francese e spagnolo. È stata una grande opportunità per incontrare persone di altri paesi e culture. Come al solito, mi destreggio tra arabo e cabilo con i genitori, francese con i miei fratelli e italiano con l’autista per chiedere se stiamo andando nella direzione giusta. All’improvviso, un uomo anziano mi si avvicina e mi parla in italiano. Molto alto, probabilmente si avvicina ai settant’anni. Mi chiedo cosa possa dirmi. Anche lui sembra essere un turista e porta uno zaino come me. Mi chiedo come possa aiutarmi se nemmeno lui è di qui. «Il campeggio di Ostia? Sì, siete sulla strada giusta, non preoccuparti». «Grazie signore», ho detto, ancora esitante per paura di fare un errore linguistico. «Non preoccuparti, neanche io sono di Roma. Abito a Bari. E voi da dove venite?». «Veniamo da Marsiglia, siamo francesi». I miei fratelli giocavano in fondo all’autobus e i miei genitori osservavano questo incontro, cercando di capire qualche parola che fosse trasparente. Sembrano attenti, come se capissero l’intera discussione. In realtà, durante il mio soggiorno ho insegnato loro le basi di come cavarsela, cioè buongiorno, grazie, per favore, mi scusi signore o signora, per esempio. Ma sono riusciti a capire le frasi usando come punti di riferimento parole trasparenti e il contesto. Per esempio, quando chiedo a qualcuno un’indicazione stradale dicendo «Siamo sulla strada giusta…?», riescono a dedurre dalla parola “giusta” ciò che ho chiesto. È stato molto emozionante vederli interessarsi all’italiano, aggrappandosi a quelle poche parole che potevano collegare al francese. Mi ricordavano me, quando ho preso il primo corso d’italiano della mia vita. Abbiamo confrontato tutto con la Francia: prezzi, cibo, strade, negozi, trasporti pubblici e soprattutto la lingua. Su alcuni punti, Francia e Italia si completano, su altri sono completamente diverse, ed è questo che le rende così affascinanti e uniche. Ecco perché l’Italia rimarrà impressa nel mio cuore, e soprattutto quel primo viaggio a Roma. «Come è possibile avere un aspetto così italiano? È bellissimo! Avete origini italiane? L’uomo ha detto ai miei genitori». «No, l’ho imparato a scuola», ho risposto. «Mia moglie è professoressa di francese. Abbiamo vissuto in Francia per molti anni». Dietro di lui apparve una donna, che sembrava essere sua moglie. È molto più bassa, con capelli rossi molto ben pettinati e assomigliava molto alle vecchie signore parigine. All’improvviso, la coppia comincia a parlarmi in francese, con un leggero accento italiano piuttosto affascinante. Originaria di Bari, l’anziana signora mi ha raccontato dei vent’anni trascorsi a studiare e insegnare a Parigi. A Parigi aveva conosciuto suo marito, che dopo aveva lasciato la città per raggiungerla. La storia era affascinante: sebbene fossero vicini di casa a Bari, si erano innamorati l’uno dell’altra solo dopo essersi incontrati a Parigi. Ormai in pensione, visitano le città d’Italia come amanti. Una storia d’amore all’interno della mia. Roma è diventata la mia storia d’amore quest’estate. È diventata parte della mia storia, già impregnata dalla Francia e dall’Algeria. A suo modo, ha contribuito a riaccendere la fiamma che mi ha permesso di forgiare la mia identità e di unire le culture e le lingue che riecheggiano dentro di me ogni giorno, ogni secondo. (camila abdelmoula)
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Marsiglia, la sentenza sui “mercanti di sonno” sette anni dopo la strage di rue D’Aubagne
(archivio disegni monitor) 5 novembre 2018. Nove di mattina. Due edifici crollano a rue D’Aubagne a Marsiglia. È il mio quartiere, la strada in cui vivo da dieci anni. Un quartiere popolare in cui ci si era abituati che le scale degli immobili fossero storte, che le crepe a muri e soffitti disegnassero ogni mese nuove geometrie. Muoiono otto persone. I loro nomi e le loro biografie ci scuotono tutti. Studenti fuori sede, giovani lavoratori, madri di famiglia. Gli otto morti sono il quartiere, un miscuglio di traiettorie umane che condividono uno stesso luogo. Oulome, comoriana, madre di sei bambini, Marie-Emmanuelle, un’artista di Grenoble, per tutte e due la vita si ferma a 55 anni. Julien, franco-peruviano ha appena compiuto 30 anni, Fabien è pittore, Taher, tunisino e Cherif, algerino, sono ospiti a casa di Rachid, che non è lì quella mattina. Sono invece insieme Simona e Pape, italiani, lei di Taranto, lui di origine senegalese. La morte di Simona, appena trentenne, forse dà un brivido in più a tutti noi italiani e italofoni venuti negli anni a vivere qui. La città dà la colpa alla pioggia. Il sindaco non va sul luogo del dramma perché sta inaugurando un salone del cioccolato, e si sa, nella vita, e nella politica, ci sono priorità. La gente si indigna. Scende in strada, protesta, si fa riempire di gas lacrimogeni da una polizia che forse per imbarazzo reagisce con troppa veemenza. Un lacrimogeno sbaglia strada e colpisce Zineb, ottant’anni, che guarda la manifestazione al quarto piano, dalla finestra. Zineb muore. Nove. Questo va e vieni di manifestazioni, di indignazione e repressione violenta durano mesi, noi, forse, riscopriamo una dimensione collettiva di abitanti attraverso il lutto. Come un segreto di Pulcinella si scopre che decine, centinaia di case sono in pericolo. La gente è espulsa, per ragioni di sicurezza, alloggiata qualche settimana in un motel all’altro capo della città e poi dimenticata. Io ho appena comprato casa, ogni mattina mi informo con la vicina che ha la madre che lavora in Comune se rischiamo anche noi. Gli espulsi mi somigliano quasi più che i morti. I bobo. Siamo noi. Tutti per strada perché lo spazio pubblico è il nostro mezzo di informazione. E per una volta nessuno guarda agli altri con compassione, nessuno osserva con un piglio da antropologo la miseria altrui. Popolo in fondo lo si è tutti. Nella sfiga c’è posto per tutti. Nel quartiere si iniziano ad aggirare promotori immobiliari che come avvoltoi per qualche soldo ricomprano le case in cui la gente non può più entrare. Io faccio fatica a non notare con amarezza l’ironia dei supermercati: quando paghi ti propongono di dare soldi per Notre-Dame che è bruciata ad aprile: lutto nazionale. Della rue D’Aubagne e dei suoi morti, invece, ci sono i cartelli, le voci che gridano con rabbia, ma non certo molta eco tra giornali e discorso di massa. 7 luglio 2025. Sono passati quasi sette anni. Il tribunale emette la sentenza. Il sindaco è morto. Né per la pioggia, né per condizioni insalubri: era vecchio. Ma nel frattempo aveva perso le elezioni, dopo venticinque anni, anche per via dell’indignazione popolare per il dramma della rue D’Aubagne che aveva portato alla creazione della Primavera Marsigliese, un movimento popolare che aveva vinto le elezioni, per la prima volta con una donna sindaco, a dire il vero durata poco. Questo processo è sicuramente merito di un movimento che non ha smesso di rimanere attento, che non ha barattato l’indignazione e la rabbia per niente. Che si è organizzato. Nella sentenza si mette in evidenza tutto il sistema di malgoverno e quello della speculazione sulle abitazioni insalubri e popolari. Si dà finalmente una faccia ai marchands de sommeil, letteralmente “mercanti di sonno”, che di poetico hanno solo il nome. Si scopre che sono avvocati, società rispettabili, funzionari in doppio petto. A ricevere una condanna persino Ruas, vicesindaco e delegato agli alloggi insalubri della città. Il giudice lascia intuire che solo la morte ha salvato il vecchio sindaco da essere definito il vero capomafia di tutto l’inghippo. Eppure, le condanne sono nel peggiore dei casi un anno di braccialetto elettronico a bordo piscina. Per lo più sono pene di sursis, cioè stai attento, se lo rifai rischi grosso… Le multe poco più che per un divieto di sosta. La vita di Simona vale ottantamila, le persone che hanno perso casa, dopo aver dimostrato che avevano subito un danno psicologico maggiore, possono, forse, ottenere otto o novemila. Chi non aveva un contratto d’affitto in regola come potrà dimostrare che viveva lì? Si esce tutti dalla sala. Un processo importante. Necessario. Una lente d’ingrandimento sul giochino della mafia che ha scoperto che con più sabbia e meno cemento si gioca al lascia o raddoppia e soprattutto che la miseria e la precarietà sono un ottimo supermercato. Eppure si esce sgomenti. Si sono sentite cose tremende e letti messaggi sconcertanti degli imputati. Parole che trasudano un disprezzo per l’umano che sembra quasi grottesco. La distanza tra le frasi perentorie del giudice che li dichiara colpevoli di lunghe liste di atti vergognosi e le condanne quasi simboliche. Un meccanismo malsano è stato messo a nudo dal lavoro infaticabile dei superstiti. La città aveva sei milioni per gestire le case insalubri. Ne ha spesi solo trecentomila. Ma quel menefreghismo li assolve dal delitto di corruzione. In tutte quelle case gli abitanti avevano da tempo dato l’allarme. Un tecnico li aveva rassicurati il giorno prima del dramma. Partiva per la Grecia il giorno dopo. È dichiarato colpevole di negligenza, ma non di averne approfittato: la vacanza era prevista da tempo. Quando i colpevoli escono, la folla grida un qualche  indignato “assassini”. Nelle manifestazioni le urla erano molto più forti, qui lo si grida con voce rotta. Un avvocato, peraltro della difesa della parte civile, ci rimprovera dall’alto della sua consapevolezza del bene e del male. «Vergognatevi, non hanno mica pugnalato qualcuno. Siate grati, senza di noi non avreste mai avuto giustizia», ci insegna. Immagino Simona, Julien, Taher, Marie Emmanuel, Cherif, Pape, Ouolume, Fabien. La sentenza ha detto che non hanno avuto paura. Che non c’è stata agonia. La morte è arrivata improvvisa e per questo il rimborso vale meno. Quanto fa male una pugnalata? Quanto ci serve questa giustizia edulcorata? (manuel maria perrone)
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Ballare sul genocidio. Musica, boicottaggio e grandi festival internazionali
(archivio disegni napolimonitor) “Stai dando a un’organizzazione il permesso implicito di essere complice del genocidio in Palestina, per poi fare donazioni a chi riesce a sopravvivere. Non ha davvero alcun senso ed è profondamente ipocrita. Hai potere nell’industria e potresti usare il tuo privilegio con intelligenza. Stai facendo una stronzata!”. “Hai passato così tanto tempo a suonare in Israele e il pubblico ti ha dato tutto il supporto e il rispetto di cui avevi bisogno. È triste e deludente vedere che non dici una parola sugli ostaggi israeliani o sulle persone innocenti uccise al festival musicale Nova. Vergognati!”. “Ecco un artista con le palle! Finalmente!”. Alla fine di maggio 2025, questi tre commenti dai toni decisamente divergenti sono apparsi sotto lo stesso post Instagram. E non sono stati gli unici. In poche ore, il comunicato di Dixon, nome di punta della scena techno e house berlinese, di commenti ne ha raccolti oltre tremila. Il post, molto atteso dai fan e dalla comunità EDM in generale, riguardava la sua partecipazione al Field Day, festival elettronico previsto per il 4 giugno a Brockwell Park, Londra, dove sarebbe stato uno degli headliner insieme a Peggy Gou. In quei giorni il Field Day era sulla bocca di tutti. Una lettera aperta firmata da duecentotrenta artisti – tra cui Ben Ufo, Brian Eno e Robert del Naja – aveva chiesto una presa di posizione forte da parte del festival contro il genocidio in Palestina e l’aderenza alle linee guida del BDS. La mancata risposta del Field Day, diventata poi tardiva, e, secondo molti, rimasta insufficiente, aveva convinto diversi artisti a passare all’azione. Nelle tre settimane precedenti al festival la line up del Field Day si era letteralmente dimezzata, con oltre venti artisti che hanno scelto di ritirarsi. Proprio mentre le cancellazioni iniziavano a prendere piede, Dixon ha pubblicato un post per confermare il proprio set, annunciando che avrebbe devoluto interamente il proprio cachet a un’organizzazione umanitaria attiva nella Striscia di Gaza. La scelta di Dixon ha scontentato molti, e per ragioni evidentemente opposte. Alla fine, pur decimato nella line up, il festival si è svolto regolarmente. Ma qual era il problema del Field Day? Dopo una quindicina di edizioni in crescita, nel 2023 Field Day è passato sotto la proprietà di Superstruct Entertainment, una società britannica attiva nella produzione di festival musicali diventata in pochi anni un gigante del settore. Dalla sua fondazione nel 2017, Superstruct ha condotto un’aggressiva campagna di acquisizione, inglobando oltre ottantacinque cosiddetti macrofestival, tra cui Szieget (Ungheria), Mighty Hoopla (UK), Parookaville (Germania), Øyafestivalen (Norvegia), Hideout (Croazia), Flow Festival (Finalndia), Zwarte Cross (Olanda) e dozzine di altri. Insomma, che siate animali da festival o semplicemente avete viaggiato per ascoltare dal vivo i vostri artisti preferiti negli ultimi anni, è molto probabile che abbiate fatto tappa anche voi a un evento targato Superstruct. Il passaggio non è stato traumatico come ci si potrebbe aspettare. Nella maggior parte dei casi, l’acquisizione ha riguardato non solo il marchio e le licenze, ma anche l’intero team di produzione dietro i singoli festival, assicurando continuità alle scelte artistiche e consolidando il lavoro fatto negli anni con una generosa iniezione di capitale. La campagna acquisti di Superstruct si è fatta più serrata nel post-pandemia, quando molti festival di successo erano sull’orlo della bancarotta. In quel periodo, il passaggio a una compagnia con grosse disponibilità finanziarie è stato visto da molti addetti ai lavori come un’ancora di salvezza – o una strada obbligata – per un comparto devastato da due anni di cancellazioni, incertezze e contributi statali insufficenti. Insomma, fin qui niente di nuovo. It’s capitalism, baby. I problemi veri iniziano nel giugno 2024, quando Superstruct Entertainment viene comprata per 1.7 miliardi di dollari da Providence Equity Partners L.L.C., a sua volta parte di Kohlberg Kravis Roberts & Co – meglio noto come KKR, dai nomi dei tre fondatori. KKR è un fondo fiduciario a stelle e strisce con cinquemila dipendenti, sedi in una ventina di paesi e un portafoglio di investimenti stimato poco sopra i settecento miliardi di dollari. Come è lecito aspettarsi, un fondo di questo tipo non è un esempio di finanza etica. KKR investe letteralmente in tutto il pianeta e in qualunque cosa possa generare profitti: telecomunicazioni e sanità, energie rinnovabili e sviluppo software, raccolta differenziata e costruzioni. E anche nella pulizia etnica. In Israele, KKR detiene quote di società operanti nel settore della cybersicurezza, dell’elaborazione dati e della produzione di armi. È anche azionista di maggioranza in una cordata di compagnie che offrono e pubblicizzano investimenti immobiliari nei territori occupati. Il corto circuito è servito: un comparto che lavora offrendo esperienze culturali e ricreative orientate (almeno sulla carta) alla promozione della diversità, della tolleranza e della pacifica convivenza si ritrova dalla sera alla mattina tra gli asset di un conglomerato che letteralmente investe nel genocidio. Come in un gioco di matrioske, nella più piccola c’è il tuo dj preferito – ma la più grande è sporca di sangue. Dopo il Field Day, l’attenzione si è concentrata sulla Spagna. Qui il dibattito è cresciuto per diversi motivi. In primo luogo, Superstruct in Spagna ha fatto man bassa, acquisendo oltre venti dei festival più amati, tra cui Sónar, Viña Rock, Resurrection Fest, Monegros, Arenal Sound e FIB. In secondo luogo, il sostegno alla causa palestinese nel paese è forte e trasversale, e include (almeno in parte) anche il governo in carica. Infine, i festival in questione non hanno solo un notevole peso economico, ma sono parte integrante dell’identità di un paese che nel giro di trent’anni ha visto crescere la produzione culturale, la qualità della vita e i diritti civili – seppur con tutte le contraddizioni del caso; e che dalla sera alla mattina si ritrova alle dipendenze di un fondo che fa profitti col genocidio. Il primo a finire sotto i riflettori è stato il Sónar, festival simbolo di Barcellona e riferimento europeo per gli appassionati di musica elettronica. Poche settimane prima dell’inizio, una lettera aperta firmata da ottanta artisti ha chiesto al festival di aderire alle raccomandazioni del PACBI (The Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel), una delle entità al cuore del movimento BDS. Le richieste avanzate dal PACBI nei confronti del Sónar riguardavano inizialmente solo gli accordi di sponsorizzazione con McDonald’s e Coca Cola. Dopo un po’ di tentennamenti Sónar ha mollato gli sponsor, e PACBI ha rilanciato con la richiesta di una formale presa di distanza dagli investimenti di KKR e aderenza alle linee guida del BDS in termini di politica culturale. Come già il Field Day, Sónar ha preso tempo, probabilmente sperando che la polemica sfumasse. Alla fine, una tardiva presa di distanza c’è stata, assieme a dei chiarimenti circa la destinazione dei profitti. Nel mentre, circa cinquanta artisti hanno cancellato la propria esibizione. Sónar è comunque riuscito ad assorbire il colpo – per usare un eufemismo – segnando un record di 161 mila presenze tra il 18 e il 20 giugno. I biglietti per l’edizione 2026 sono già in vendita. In attesa che il calendario porti un altro festival sotto i riflettori (mentre questo pezzo viene ultimato stanno iniziando le cancellazioni per il Monegros) ci sembra il caso di prendere spunto dalla vicenda per provare a buttare giù delle considerazioni di carattere più generale sul rapporto tra forme di protesta dal basso, politiche culturali e il funzionamento dell’industria musicale nel post-pandemia. Iniziamo col dire che il boicottaggio spontaneo e diffuso a opera di artisti e pubblico dei festival targati KKR è sicuramente un’ottima notizia – per più di una ragione. Non solo testimonia la sempre più trasversale condanna delle politiche dello stato d’Israele, ma contribuisce a mantenere alta l’attenzione mentre Gaza scivola via dalle prime pagine dei giornali a causa del moltiplicarsi delle tensioni internazionali. Inoltre, cosa forse ancora più importante, segnala la diffusione di una serie di soglie etiche che tanta gente non è più disposta a superare e che riguardano la propria connivenza, anche involontaria, con il genocidio in corso. La pressione sui social costringe gli artisti a prendere posizione, e di conseguenza i festival, che devono dare conto delle assenze nella line up anche agli spettatori meno informati. Ci sono però altri fattori da considerare se si vuole sperare che questa campagna spontanea possa diventare qualcosa di più, e magari forgiare alleanze più ampie. In primo luogo è bene ricordare che un boicottaggio, per essere efficace, deve dotarsi di coordinamento, obiettivi chiari e una strategia per raggiungerli. Per esempio, le linee guida ufficiali del BDS identificano gli eventi o i prodotti culturali da boicottare in quelli che ricevono finanziamenti diretti o indiretti da governo o istituzioni israeliane, ne alimentano la propaganda, o normalizzano l’occupazione. Le stesse linee guida sono inoltre esplicite nell’indicare che il boicottaggio deve essere il più possibile mirato e avanzare richieste specifiche, che di solito consistono nella cancellazione di un accordo di collaborazione, sponsorizzazione o partecipazione. E questo non è esattamente il caso dei festival in questione, dove artisti e pubblico al momento procedono in ordine sparso, e dove il legame con l’occupazione è obliquo e, in molti casi, decisamente sgradito. In Spagna, assieme al dibattito è montato anche il disagio di chi si è trovato, suo malgrado, nell’occhio del ciclone. Il legame tra i singoli festival e KKR non è diretto, ma frutto di una catena di operazioni finanziarie che avvengono senza il coinvolgimento né il consenso dei diretti interessati. Macchine complesse come Sónar o Monegros impiegano migliaia di persone tra produzione, direzione, comparto tecnico e logistico, oltre agli artisti che – non dimentichiamolo – sono anch’essi lavoratori. Parlando con diverse di queste figure, i sentimenti più diffusi sono sconforto e senso di impotenza. Il fatto che larga parte del dibattito si svolga sui social con modalità che oscillano tra callout e shitstorm contribuisce ad aumentare la frustrazione di chi, da un giorno all’altro, si è ritrovato suo malgrado dalla parte sbagliata della storia. Tra quelli che soffrono la contraddizione ma non riescono a partecipare direttamente al boicottaggio ci sono molti lavoratori che non hanno la possibilità economica di rifiutare ingaggi. Per gli artisti di piccolo e medio calibro pesano le penali previste per le cancellazioni e il rapporto con le proprie agenzie. Tra gli artisti maggiori, che sicuramente avrebbero la possibilità economica di cancellare, molti fanno riferimento a una rete di relazioni personali che li legano a determinate organizzazioni attraverso traiettorie condivise negli anni. Per le persone che hanno fondato e diretto questi festival, ora legate a Superstruct da contratti pluriennali, l’unica via d’uscita sarebbe rassegnare le dimissioni, pagare importanti penali e vedere il lavoro di anni andare alle ortiche o passare nelle mani di qualcuno che la contraddizione non la sente neanche. Sono scelte non impossibili ma sicuramente non prive di conseguenze, che sarebbe più facile sostenere collettivamente avendo chiaro il risultato che si vuole ottenere. In assenza di coordinamento e obiettivi tangibili sembra però difficile segnare un punto che vada al di là di quanto già elencato. Se affondare il singolo festival è difficile, come dimostrano il Field Day e il Sónar, colpirne dozzine è praticamente impossibile. E anche se lo fosse, cosa si otterrebbe sul lungo termine? Superstruct è poca roba per KKR, la cui penetrazione nel tessuto economico rende inoltre difficile, se non impossibile, tenersene del tutto alla larga. In Spagna, per esempio, il fondo ha partecipazioni importanti nella prima compagnia telefonica del paese, MasMovil, nella catena di ristoranti Telepizza, nel parco divertimenti Port Aventura, e in decine di altre società. Nel Regno Unito, lo scorso anno è stato a un soffio dall’acquisire Thames Water, la società idrica di Londra. E via così in decine di altri paesi. In altre parole, l’eventuale collasso di Superstruct non sarebbe un grosso colpo per KKR, mentre disporre delle macerie potrebbe essere un compito titanico per il comparto musicale europeo. E allora, che fare? Quello che tanti artisti, fan e lavoratori solidali stanno manifestando nel modo che riescono a permettersi (boicottaggi, comunicati, cancellazioni, devoluzioni del cachet in beneficenza, denunce dal palco, rinuncia al lavoro, e chi più ne ha più ne metta) è l’espressione di un disagio profondo a cui si cerca di trovare una soluzione individuale. E se fosse invece proprio questo disagio – nella sua dimensione collettiva – il dato da cui ripartire per provare a ribaltare il tavolo? Il problema della presenza tossica di KKR non dovrebbe essere un affare del singolo festival, artista o spettatore. È invece un problema strutturale del settore culturale spagnolo e, per alcuni versi, europeo. Come tale, non può essere affrontato solo con scelte e sacrifici individuali, senz’altro ammirevoli, che hanno l’effetto di risolvere il malessere dei singoli senza tuttavia riuscire a intaccare lo stato delle cose. Il disagio, lo sconforto e la frustrazione andrebbero invece coltivati, condivisi, formalizzati e sbattuti sul tavolo con tutto il loro peso. Pensiamo a una piattaforma o una lettera aperta che coinvolga tutte le organizzazioni, gli artisti, i lavoratori, e la comunità degli spettatori e chiami in causa il governo e la società civile. Non per offrire soluzioni che sarebbero necessariamente parziali, ma precisamente per ingigantire la questione a tutti i livelli e farla diventare un problema condiviso. Qualcosa del tipo: “Hey, abbiamo questo grosso problema – così grosso che non è più solo nostro, ma anche vostro. Qualche idea per venirne fuori insieme?”. L’onere della prima mossa in questo senso spetta senz’altro ai festival, che nella maggior parte dei casi hanno gestito la situazione in maniera pasticciata e debole. Comunicati generici e poco efficaci, evidentemente affidati a uffici stampa non avvezzi a gestire questo tipo di questioni, non hanno fatto che peggiorare la situazione. Invece di arroccarsi su posizioni difensive o tentare di salvare il salvabile, i festival dovrebbero invece giocare in attacco, canalizzando il malessere che accomuna tutte la parti coinvolte per provare a rispedirlo al mittente. Ci sono già stati alcuni segnali di apertura in questa direzione. Il ministro spagnolo della cultura Ernest Urtasun ha affermato a maggio che “KKR non è il benvenuto in Spagna” esprimendo “preoccupazione” per la sua penetrazione nel settore della cultura. L’amministrazione di Rivas Vaciamadrid ha rescisso l’accordo con Sharemusic!, altra partecipata di KKR che organizza festival musicali, a partire dal prossimo anno. La creazione di una piattaforma comune potrebbe non solo amplificare ulteriormente le ragioni della protesta, ma anche incentivare il supporto istituzionale e, sul lungo termine, attivare la creazione di protocolli automatici di controllo o di una legislazione specifica che regoli gli investimenti nel settore della cultura. Infine, la situazione dovrebbe servire da monito per una riflessione più ampia sulla direzione della musica dal vivo. Il dogma della crescita a tutti costi negli ultimi venti anni ha avuto un impatto particolarmente forte sulla scena della musica elettronica, riconfezionandone le spinte più anti-normative in favore di un pubblico generalista. Ma prima o poi arriva il conto da  pagare. Oltre una certa soglia, i numeri iniziano a diventare appetibili proprio in quanto numeri, e non per quello che c’è dietro: cultura, sperimentazione, comunità. I grandi festival possono sembrare delle navi da guerra nello specchio d’acqua della musica dal vivo, ma nell’oceano del grande capitalismo finanziario sono poco più che zattere in balia delle onde – e dei pescecani. Voci in disaccordo con la logica dei macro-festival iniziavano a farsi sentire anche prima dell’arrivo di KKR, per motivi che vanno dall’appiattimento dell’esperienza all’impatto ambientale insostenibile. Ma se i dischi non si vendono più, lo streaming paga quasi zero, club e locali chiudono e i piccoli festival indipendenti soffrono l’aumento dei costi e della burocrazia, il peso dei grandi eventi nell’economia del settore cresce in modo esponenziale, fino a diventare irrinunciabile. È tempo, insomma, di ripensare il modo in cui la musica dal vivo si produce, si consuma e si performa. (brian d’aquino) 
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Mario Paciolla, il tribunale archivia il caso ma la famiglia continua a lottare
(foto di archivio famiglia paciolla) Il 30 giugno scorso il tribunale di Roma ha disposto l’archiviazione dell’inchiesta per la morte di Mario Paciolla, cooperante italiano dell’Onu trovato morto nel 2020 nella sua casa di San Vicente del Caguan, in Colombia. L’ipotesi del suicidio, sostenuta dalle autorità colombiane, è stata fortemente messa in discussione da diverse inchieste giornalistiche internazionali e dalla caparbietà nel chiedere giustizia dei genitori di Paciolla, supportati da un comitato nato dopo la sua morte. La procura di Roma ha invece ritenuto che non ci fossero elementi per aprire un nuovo procedimento e ha chiesto pertanto l’archiviazione, ora accordata dal tribunale. Al momento della sua morte Paciolla aveva trentatré anni e si trovava in missione in Colombia per conto delle Nazioni Unite, verificando l’applicazione dell’accordo di pace del 2016 tra le Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia) e il governo colombiano. Già una prima volta la procura romana aveva chiesto l’archiviazione del caso, richiesta respinta dal giudice per le indagini preliminari che aveva argomentato la sua decisione con una dettagliata ordinanza di settanta pagine, dalla quale emergevano le incongruenze e le lacune delle indagini: tra le altre, rimangono tuttora irrisolte la questione relativa alla “bonifica” fatta nell’appartamento in cui abitava Paciolla, nel quale non è stata rintracciata alcuna impronta digitale, e il ruolo rivestito nella vicenda da Christian Thompson, responsabile della sicurezza per la missione a cui partecipava il cooperante italiano, l’uomo che è arrivato prima di tutti sul luogo del delitto e che ha gestito le operazioni (qualche mese dopo la morte di Paciolla, Thompson è stato promosso a capo nazionale del Centro operazioni di sicurezza Onu a Bogotà). Oggi, 15 luglio, a cinque anni dalla morte di Paciolla, i familiari e il comitato hanno organizzato una serie di iniziative a Napoli per denunciare l’illogicità di questa decisione e chiedere giustizia per quello che, a ragion veduta, ritengono essere un omicidio. Un corteo attraverserà il centro a partire dalle 18:00, da piazza Municipio fino a piazza Dante; dopo, al parco Ventaglieri, verrà proiettata una video inchiesta sul caso realizzata dal quotidiano online Fanpage; infine, interventi al microfono di solidali, artisti e musicisti a supporto del comitato. (redazione)
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Porto, tra scomparsa delle case e speculazione immobiliare. Un tentativo di resistenza
(disegno di escif) Il Largo do doutor Pedro Vitorino si trova nel centro di Porto. Nei pressi c’è un piccolo spiazzo panoramico, il Miradouro da Vitoria, da cui si possono vedere il fiume Douro e il ponte Luiz I, che unisce Porto con Vila nova de Gaia, città di oltre trecentomila abitanti che si estende a sud del fiume. Nel complesso i due comuni, situati nel nord nel Portogallo, superano i cinquecentomila abitanti, costituendo la seconda area urbana del paese dopo la capitale Lisbona. Dall’altra parte del Douro si vedono le sedi di alcune aziende produttrici del famoso vino locale, il Porto, mentre una funivia collega la riva del fiume con il parco chiamato Jardim do Morro. In mezzo alle case e agli edifici del centro, da entrambi i lati del fiume, si vedono diverse gru per costruzioni. Nelle sue zone centrali – come quella intorno alla stazione della metro Aliados, dove ha sede il Comune, e alla stazione ferroviaria di São Bento – Porto è piena di turisti. È forse scontato dire che il turismo sta cambiando la città, ma quello che altrove è ormai un fenomeno affermato qui sembra avere ancora margine di crescita. Sia in centro che in periferia si vedono diversi edifici fatiscenti: in più occasioni si possono notare piani interni crollati e solo la facciata in piedi, con poche travi all’interno. Come in rua Conde de Vizela, a due passi dalle aree più interessate dalla presenza turistica, dove un edificio in queste condizioni è affiancato da locali alla moda e da altri palazzi ristrutturati di recente. L’immobile, come molti altre nelle stesse condizioni, è in vendita. Basta passeggiare per le strade della città per rendersi conto che la questione abitativa a Porto è diventata di primaria importanza: nel centro sono affissi tanti manifesti di Habitação hoje, un’organizzazione politica nata nel 2021 che si occupa della difesa del diritto all’abitare. «Habitação hoje ha avuto da subito l’idea di aggregare una forza collettiva per provare a cambiare le cose. Facciamo il possibile per ritardare gli sfratti: in Portogallo la legge tutela i proprietari e quindi evitarli è quasi impossibile. Possiamo però allungare i tempi della procedura», afferma R. Il gruppo fornisce assistenza legale e promuove due volte al mese delle assemblee per chi si trova in condizione di fragilità o in emergenza abitativa. «Negli ultimi anni con il sindaco Rui Rio (in carica dal 2002 al 2013, ndr) e poi con l’attuale Rui Moreira (già al terzo mandato) la città si è trasformata in una sorta di parco giochi per immobiliaristi: si è progressivamente costruita l’immagine di una Porto accogliente per i turisti e questo ha sconvolto la vita di chi abita qui», ci dice ancora R. Una delle date fondamentali per ricostruire questo processo è il 1996, anno in cui il centro di Porto è entrato a far parte della lista dei siti “patrimonio dell’umanità” dell’Unesco. Oggi in quest’area sono frequenti i cartelli che ricordano il riconoscimento. Nel 2001, la città, allora amministrata dal sindaco Nuno Cardoso, è stata capitale europea della cultura. Oggi si possono vedere diversi interventi urbanistici risalenti a quel periodo, come la Casa della musica nel quartiere Boavista, sulla direttrice che dal centro porta verso occidente e quindi verso l’oceano. «Quello è stato un momento decisivo per la città – ci dice R. – anche perché Porto è entrata a far parte delle destinazioni della compagnia Ryanair e sono state approvate alcune leggi che favoriscono gli affitti brevi. Questi interventi si sono sommati a un percorso legislativo che negli anni Novanta aveva già indebolito le tutele verso gli affittuari». Negli ultimi venti anni anche la zona orientale della città ha subito profondi cambiamenti. Nel 2004 il Portogallo ha ospitato i campionati europei di calcio, che hanno portato alla costruzione di un nuovo stadio (il Do Dragão: “Del drago”) poi utilizzato dal Porto, la squadra di calcio locale. Accanto allo stadio si trovano un grande centro commerciale e diversi edifici a uso residenziale. Nella stessa zona, appena più verso il centro, c’è la stazione intermodale di Campanhã, in cui una recente stazione per i bus si affianca a una stazione dei treni che ora è diventata la principale di Porto. Su quest’area l’amministrazione di Rui Moreira sta investendo molto. In una conferenza stampa del 25 marzo scorso Pedro Baganha, il responsabile della giunta Moreira dell’assessorato all’urbanistica, si è detto soddisfatto di come stanno procedendo i lavori nella zona, sottolineando un aumento delle abitazioni disponibili e degli hotel, prima “praticamente inesistenti”. Prendiamo queste informazioni da Porto.pt, il portale di informazione gestito e promosso dal Comune, che è ben presente in città, soprattutto nelle metropolitane e in alcune piazze. «Il problema della gestione delle informazioni a Porto è cruciale: – aggiunge R. –  Porto.pt non dà notizie false, ma dice solo quello che fa comodo alla giunta comunale. Per esempio, tempo fa rispetto a un caso di persone in emergenza abitativa il portale ha annunciato che per loro era stata subito trovata una soluzione alternativa, senza però specificare che questa sarebbe durata appena qualche giorno». Per quanto riguarda l’aumento di case disponibili a Campanhã di cui parla Baganha, viene naturale chiedersi chi potranno esserne gli abitanti. Mentre il Comune rivendica di aver messo in piedi quella che è stata chiamata Strategia locale per l’abitazione (Estratégia local de Habitação), Habitação hoje fa notare che molte delle persone più in difficoltà, come le donne sole ultrasessantenni, finiscono per non poter accedere alle case presentate come “accessibili”. «Vengono affittate a un prezzo che è di poco inferiore a quello di mercato. Inoltre la quota che verrebbe “sottratta” al proprietario, impossibilitato a venderla al prezzo corrente, viene comunque data dal Comune che garantisce così la rendita. Ciò determina che chi partecipa all’assegnazione di queste case non avrebbe bisogno di un sostegno istituzionale, mentre chi si trova in difficoltà viene escluso e deve trovare altre soluzioni, se ci sono. Sono soprattutto le donne a rivolgersi ad Habitação hoje, in particolare quelle con più di sessantacinque anni, con pochi contributi versati e senza lavori stabili. Inoltre, il Comune non ha una vera e propria struttura che possa sostenere chi perde la casa: a quel punto queste persone possono solo contare sul sostegno di familiari e amici. Esistono dei rifugi notturni in città, ma sono abbastanza problematici e non riescono a far fronte a tutte le richieste. Di conseguenza diverse persone finiscono per strada», ci fa notare ancora R. Allo stesso tempo, il Portogallo negli ultimi anni si è dato da fare per attirare fasce di popolazione con una buona capacità di spesa, come i pensionati di altri paesi europei e cittadini di paesi esterni all’Unione Europea che, tramite un investimento fino al 2023 ottenevano il cosiddetto visto Gold, che permette di muoversi senza problemi in tutta l’Unione. Questo fenomeno ha sottratto ulteriori case dal mercato e ha anche innalzato i prezzi di molti immobili, spesso di quel tanto che bastava per raggiungere il livello minimo dell’investimento richiesto per ottenere il visto. Tutto ciò accade nonostante l’articolo 65 della costituzione portoghese garantisca il diritto a un’abitazione degna per ogni persona, impegnando anche lo Stato a promuovere delle forme adeguate di edilizia pubblica, senza escludere iniziative private o delle comunità che sentono in prima persona il problema abitativo: in realtà le case popolari oggi coprono solo una piccola parte del patrimonio immobiliare del paese e alcune esperienze innovatrici nate dopo il crollo della dittatura del cosiddetto Estado Novo, avvenuto il 25 aprile 1974 dopo quarantuno anni di regime, sono state riassorbite nel giro di pochi anni. Il riferimento è a quanto avvenuto durante il cosiddetto Prec (Proceso revolucionário em curso), cioè il tentativo di indirizzare la giovane repubblica portoghese verso una forma di socialismo. «L’esperienza di alcune cooperative ha garantito delle case a basso costo a diverse persone, ma alle condizioni attuali è molto difficile ripetere qualcosa di simile», ci spiega ancora R. Prima di lasciare la città diamo un’ultima occhiata al Douro dal Passeio das Virtudes, un piccolo parco in centro che offre una bellissimo panorama sul corso finale del fiume e sulle zone di Porto che si estendono fino all’Oceano Atlantico. Ripensiamo a quanto visto nei giorni precedenti. Ci sembra che la città stia subendo la sorte di tanti altri luoghi nel mondo: una grande potenzialità in termini di spazi disponibili si trasforma in una preda ghiotta per chi nel mercato immobiliare e nel turismo, con l’aiuto decisivo delle istituzioni, ha trovato uno strumento per realizzare forti profitti in breve tempo, facendo aumentare i costi della vita di chi abita in città. Rimane però anche l’impressione che, per chi vive problemi comuni, riconoscersi e organizzarsi sia il primo passo per trovare soluzioni collettive, soprattutto quando le istituzioni hanno altre priorità. (alessandro stoppoloni)
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“A Silivri fa freddo”. Violazioni dei diritti umani nei Cpr della Turchia
(disegno di martina di gennaro) Può accadere che trovandosi a Istanbul e dicendo che ti stai recando in uno dei suoi distretti, a Silivri, qualcuno ti risponderà che “a Silivri fa freddo”. Anche se è estate inoltrata e ci sono trentacinque gradi. Situata sulla sponda europea della provincia di Istanbul, antico villaggio di pescatori, dal 2008 ospita la più grande prigione europea con una capienza di 11 mila persone e ne detiene attualmente circa 22 mila, tra cui una buona parte di prigionieri politici detenuti in un regime di carcere duro noto come prigione di tipo F. È da questa grigia superficie, che si estende su 955.354 metri quadrati, che proviene l’aria gelida di Silivri. All’interno dello stesso comune, a circa venti chilometri di distanza, sorge un’altra struttura detentiva, meno rinomata, il Centro di permanenza per il rimpatrio femminile di Selimpaşa, uno dei trenta Cpr costruiti in Turchia in seguito agli ingenti finanziamenti che dal 2015 vengono stanziati dall’Unione europea all’interno di progetti per il supporto di “pace e stabilità” (IcPS) con l’intento di contenere e controllare i migranti verso l’Europa da Siria, Iran, Iraq e Afghanistan. In un comunicato stampa in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, il partito Dem (partito dell’uguaglianza e della democrazia tra i popoli) afferma che i Cpr “sono luoghi costruiti appositamente per torture e maltrattamenti” e che “l’accordo con l’Unione europea è di per sé un crimine”. Sono numerosi gli immigrati a essere arrestati e trattenuti arbitrariamente in questi centri e rispediti illegalmente nei paesi di provenienza, anche in seguito a richiesta di asilo, attraverso l’ottenimento delle loro firme di rimpatrio volontario, sottratte utilizzando tecniche ingannevoli o violenza psicologica e fisica. Il numero di arresti si è intensificato notevolmente dopo le ultime elezioni presidenziali, con l’aumento di controlli capillari supportati da camionette predisposte esclusivamente alla detenzione degli immigrati. Nel giugno 2024 il ministro dell’interno Ali Yerlikaya ha dichiarato compiaciuto che “nell’ultimo anno si è raggiunto il numero record di 141.187 espulsioni di stranieri irregolari”. Fuori al Cpr di Selimpaşa, ogni mercoledì, una fitta folla aspetta in fila per registrare le impronte digitali su un veicolo sul quale compaiono, congiunte, la bandiera turca insieme a quella dell’Unione Europea. Per chi è riuscito a uscire e si trova sotto sorveglianza amministrativa con obbligo di firma in attesa di processo, l’incremento dei detenuti è stato tangibile: “Una volta al mese veniamo a firmare – dice una donna in fila –, se prima si aspettava non più di mezz’ora, dalla metà del 2023 la gente che è entrata qui è aumentata e si sta in fila in piedi anche per quattro ore sotto il sole e le intemperie; ci sono donne incinte e bambini piccoli, se ci si lamenta e ci si siede in un angolo fuori dalla fila i gendarmi richiamano all’ordine e minacciano di rimetterci dentro. Se sono stranieri, minacciano anche i nostri accompagnatori”. Alcune attiviste arrestate in seguito al corteo del 25 novembre (giornata mondiale contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere) descrivono lo spazio detentivo come insufficiente e malsano: “La struttura si compone di tre piani riservati alle sezioni. In ognuna di esse, appena superate le sbarre, si è subito catapultati nello stretto corridoio affollato da materassi, ai cui lati si aprono sette stanze fornite di letti. La più grande ne conteneva sei. I bagni utilizzabili nella nostra sezione erano tre. Le docce due, di cui una ricavata da un precedente bagno alla turca riempito grossolanamente con qualcosa di simile allo stucco per chiudere l’orinatoio. Abbiamo provato a contare le donne detenute al terzo piano e crediamo raggiungessero circa il centinaio al nostro ultimo giorno di detenzione. Riscontriamo più persone che entrano rispetto a quelle che escono ed è molto probabile che una buona parte di chi è uscito sia stata in realtà trasferita in altri centri; accade spesso che ti dicano che verrai liberato, ma in realtà ti trasferiscono in Cpr più lontani dal luogo di residenza, a Gaziantep, Şanlıurfa e Erzurum, più vicini ai confini con Siria, Afghanistan e Iran, rallentando cosi le procedure legali per le scarcerazioni e agevolando la procedura di rimpatrio ‘volontario’ in piena violazione del principio di non-refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra. È raro che il trasferimento venga notificato, dal momento che sono frequenti i casi in cui avvocati e famiglie ne sono venuti a conoscenza a deportazione avvenuta. La comunicazione con l’esterno è assai limitata: hai a disposizione dieci minuti due giorni a settimana, dalle 16 alle 20 circa, ma gli orari vengono decisi arbitrariamente dalla guardia di turno. Il tempo non era mai sufficiente per le chiamate di tutte e inoltre, se non hai a disposizione il denaro contante per ricaricare la scheda telefonica non hai possibilità di comunicazione, così come di accedere ai beni di prima necessità venduti allo spaccio del centro a prezzi che superano quelli del mercato fuori. “È negato il diritto alla salute, è ostruito l’accesso a qualsiasi tipo di farmaco proveniente dall’esterno e l’unica cura possibile a qualsiasi tipo di male fornita dal centro è una pillola di ‘antibiotico’ del quale non conosciamo il principio attivo, consegnata direttamente sul palmo della mano, priva del suo blister. Jana, una giovane donna sudamericana [nome e provenienza di fantasia], che riportava una ferita sull’arco palmare suturata con dei punti metallici per spillatrice, svigorita dalla permanenza in quel luogo firmò per il rimpatrio. Per legge, la Direzione provinciale per la gestione delle migrazioni dovrebbe finanziarne i costi, ma fu costretta a chiedere un prestito a qualcuno oltreoceano per acquistare un biglietto aereo. Il giorno del volo partì in direzione aeroporto con la camionetta guidata dai gendarmi. Non sappiamo esattamente cosa accadde ma la riportarono indietro dopo qualche ora. Ci dirigemmo verso di lei non appena oltrepassò le sbarre: il suo sguardo era orientato in una direzione che non era la nostra e quella di nessun altro lì dentro, non rispondeva a nessuno stimolo. Si accostò a uno dei materassi posizionati ai lati del corridoio per sdraiarsi e ci rimase come se fosse morta per i due giorni successivi. Dopodiché siamo uscite e non abbiamo saputo più niente di Jana, non ci ha mai richiamate al recapito che le avevamo lasciato”. In seguito agli arresti arbitrari di cinque persone straniere – tra cui anche di provenienza europea – avvenuti durante il ventunesimo Pride di Istanbul (2023), un’associazione di avvocati volontari ha denunciato le condizioni di detenzione in questi centri, i trattamenti inumani e degradanti, la mancanza di accesso a cure mediche adeguate, alla ventilazione, la scarsa igiene (GGM’lerde Neler Oluyor?). Uno degli attivisti arrestati riportava una ferita alla gamba che non è mai stata curata adeguatamente in un luogo sterile. È stato reso noto il limitato accesso alla protezione internazionale e il contenimento arbitrario della comunicazione con i propri clienti. Nell’autunno 2024 alcune studentesse e attiviste palestinesi dell’organizzazione Filistin için bin genç sono state arrestate (anche con raid domestici a seguito di perquisizioni a casa), trattenute in custodia cautelare per diciotto ore senza possibilità di soddisfare i propri bisogni primari e trasferite nel Cpr di Selimpaşa al cui ingresso, segnala l’organizzazione, è stato strappato loro l’hijab. L’accusa illegittima è di vilipendio al presidente e violazione dei termini della legge n. 2911, entrata in vigore dopo il golpe militare del 1980, che limita il diritto di riunione e manifestazione, per aver esposto all’interno della campagna “Stop fueling genocide” gli accordi commerciali turchi con Israele e la compagnia energetica azera Socar. Da Ceyhan, a sud della Turchia, viene spedito infatti il petrolio azero fino al porto di Ashkelon, circa il trenta per cento del petrolio importato dall’entità israeliana. Attribuendo in aggiunta vaghe accuse come il rappresentare una “minaccia per l’ordine pubblico” questi centri diventano anche il luogo per silenziare studenti non cittadini, migranti e tutte le persone in movimento che denunciano apertamente il razzismo, lo sfruttamento, la violenza patriarcale e le politiche governative. (dalila procopio)
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Spagna, i movimenti per la casa in piazza e l’intervento del governo sugli affitti brevi
Fotogalleria di Victor Serri Questa mattina il parlamento catalano ha finalmente approvato la regolamentazione degli affitti brevi turistici, dopo anni di pressioni da parte dei movimenti per la casa, e dopo le grandi manifestazioni in tutto lo stato spagnolo di sabato scorso. Oltre centomila persone, secondo gli organizzatori (poco più di ventimila per la polizia municipale), hanno sfilato a Barcellona per esigere la riduzione degli affitti, mentre un’altra manifestazione avveniva nello stesso momento a Madrid e in altre quaranta città dello stato spagnolo. La grande mobilitazione per la casa, in crescita da alcuni anni grazie al lavoro di base di un gran numero di strutture organizzate, per lo più assemblee territoriali, ha minacciato di far partire un grande sciopero degli affitti in tutto lo stato, se non verranno soddisfatte le richieste fondamentali degli inquilini: la riduzione degli affitti, il ritorno ai contratti indefiniti aboliti dal Partito Socialista negli anni Novanta, la fine delle compravendite speculative, il recupero delle case vuote e di quelle adibite a case vacanza, e l’aumento del numero di case popolari. La Catalogna è il territorio di tutto lo stato che sta subendo in modo più violento le conseguenze dell’impennata dei valori immobiliari: nei primi due trimestri del 2024 sono stati eseguiti più di quattromila sfratti, di cui mille e ottocento solo a Barcellona; gli affitti  sono aumentati del quarantacinque per cento in dieci anni, al punto che oggi l’affitto medio per una famiglia a Barcellona è di 1.300 euro al mese. Due grandi episodi di resistenza hanno segnato la fine del 2024 nella capitale catalana: lo sgombero della Antiga Massana, un’ex accademia d’arte occupata dal Movimento Socialista a due passi dalla Rambla, e il tentativo di sfratto degli inquilini della Casa Orsola, un palazzetto modernista del quartiere Eixample, acquistata da un fondo immobiliare. Nel primo caso, migliaia di attivisti e attiviste avevano riempito le strade del centro in protesta contro l’espulsione; nel secondo, un picchetto di almeno un migliaio di persone per impedire l’accesso alla polizia è durato tutta la notte, mentre alcuni artisti suonavano o parlavano dai balconi degli appartamenti minacciati di sfratto. Il movimento catalano comprende varie anime, ognuna con il suo modello organizzativo. La più antica è la PAH, la struttura creata dopo le mobilitazioni del 2010 per difendere gli abitanti che perdevano le case per la crisi dei mutui. La PAH era riuscita a occupare molto spazio nell’opinione pubblica di tutto lo stato, al punto che dalle sue fila era emerso il movimento municipalista di Barcelona en Comú, guidato dall’ex sindaca Ada Colau. La PAH ha segnato il modello per tutti gli altri movimenti, ma ultimamente ha perso forza, anche se si mantengono varie assemblee territoriali. Una seconda struttura, che oggi ha più protagonismo nella sfera pubblica, è quella dei Sindicats d’habitatge, i sindacati inquilini, emersi invece dalle lotte dei quartieri dopo il 2017. Si tratta per lo più di assemblee di inquilini, organizzate in forma orizzontale, con basi nelle diverse cittadine catalane e nei quartieri di Barcellona. Una struttura più grande chiamata Sindicat de llogateres de Catalunya mantiene la stessa struttura organizzativa e si coordina con i sindacati più piccoli, ma il suo ambito è tutto il territorio catalano. La confluenza di queste assemblee ha dato luogo alla Confederació Sindical de l’Habitatge, a cui partecipano anche diverse assemblee della PAH (ma non quella di Barcellona). Un terzo modello si è diffuso negli ultimi anni: il Moviment Socialista, emerso nel País Vasco e poi in Catalogna. In rottura con i movimenti indipendentisti e contro l’istituzionalizzazione del municipalismo di Podemos e Barcelona en Comù, considerato un fallimento, è cresciuta un’organizzazione comunista centralizzata, organizzata gerarchicamente, con sezioni locali e una struttura di coordinatori e rappresentanti. Il MS ha saputo fare un uso molto efficace delle reti sociali, mobilitando migliaia di giovani e giovanissimi: alcuni sindacati della casa catalani si sono dichiaratamente posizionati all’interno di questa organizzazione, e sono rappresentati da un Sindicat d’Habitatge Socialista. Questa struttura però potrebbe però aver raggiunto il suo limite di espansione, ed è la più reticente a coordinarsi con i gruppi di diverso orientamento politico. Eppure, la volontà di convergenza e organizzazione comune è generalizzata. Il congresso di febbraio e la manifestazione di sabato sono riusciti proprio perché hanno tenuto insieme le diverse anime – PAH, Confederació, Sindicat socialista – senza che nessuna perdesse le proprie strutture, facendone un movimento unitario. Il nuovo ciclo di lotte di cui le ultime manifestazioni sono espressione sarà il banco di prova per vedere se una forma organizzativa di questo tipo riuscirà a tenere insieme le migliaia di inquilini in lotta nello stato spagnolo organizzando uno sciopero degli affitti – con tutto ciò che comporta in termini di repressione e di sfratti – e a consolidare finalmente un ribaltamento radicale dei rapporti di potere intorno alla questione della casa. Il patto tra le forze di governo per regolare gli affitti brevi è sicuramente un primo passo, ottenuto dai movimenti non grazie a complesse alleanze istituzionali, ma grazie alla pressione popolare che si è espressa nei picchetti, nelle proteste e nell’ultima grande manifestazione. (stefano portelli)
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