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Molto più che un incidente ferroviario. Sulle ultime mobilitazioni in Grecia
(disegno di bonnie colin) Il 28 febbraio è stata una data storica per le mobilitazioni di piazza in Grecia. È stata, ormai su questo concordano tutti, anche i media mainstream, la più grande manifestazione mai avvenuta nel paese. Non solo ad Atene e a Salonicco. Nelle piazze di tutte le città e paesi le persone sono accorse per manifestare. Ed è qui, purtroppo, che comincia anche la narrazione dei media stranieri, sicuramente di quelli italiani. Quali sono le ragioni che hanno portato in piazza questo “popolo con le palle”? Nessuno lo sapeva veramente. Sono state abbozzate congetture e approssimazioni. Quando è stato assodato che il motivo erano i cinquantasette morti in un incidente ferroviario avvenuto due anni prima, qualcuno ha detto “ma evidentemente ci sono altre cose”. Non può essere solo questo. Durante gli anni della crisi, la Grecia, e in modo metonimico Atene, sono diventate per i movimenti di mezza Europa un modello di conflittualità sociale. “Fare come in Grecia”, era uno slogan diffusissimo, che alludeva più agli sforzi muscolari delle piazze, che non alla miriade di complesse negoziazioni e aggiustamenti che gruppi formali e informali, sindacati, persino confederazioni di professionisti si sono trovati a mettere in pratica per far funzionare le reti dal basso che hanno permesso alle persone di sopravvivere con dignità, in un periodo di grande depressione e di prepotenti ingerenze da parte delle istituzioni finanziarie e politiche europee. Purtroppo, l’Europa della solidarietà e dell’internazionalismo non è stata in grado, come non lo è ora, di costruire uno sguardo e delle pratiche che fossero veramente di supporto, e si è finiti (ora come allora) per parassitare un immaginario conflittuale che era utile all’immobilismo nostrano. Per un curioso cortocircuito, l’anarcoturismo che all’inizio era guardato come la possibilità, sebbene limitata nel tempo, di uno scambio di saperi e pratiche conflittuali, si è trasformato in uno dei motori della gentrificazione di quartieri come Exarchia, per esempio, mecca di questo genere di pratiche che con il tempo si sono fatte sempre meno interessate a una comprensione delle dinamiche interne e sempre più incentrate sull’esperienza individuale. Come scrive il geografo anarchico Antonis Vradis, Exarchia si è sempre caratterizzata per essere il luogo di un “contratto spaziale”: “La peculiare concentrazione di rivolte nel quartiere durante l’era post-dittatoriale in Grecia è […] la manifestazione di una sorta di contratto spaziale, in cui il conflitto locale e la contestazione della sovranità statale persistono all’interno della più ampia riproduzione regionale e nazionale dell’egemonia statale. La reputazione e la continuità di Exarchia come luogo di protesta diventano così spiegabili attraverso un tacito ma duraturo patto tra Stato e società, che permette la prosecuzione della contestazione locale a condizione che essa rimanga anche spazialmente circoscritta”. Questa condizione ha reso il quartiere il luogo mitico dell’insurrezionalismo europeo, il catalizzatore di una narrazione, non importa se veritiera, ma sicuramente funzionale alla riaffermazione del sé. Il 28 febbraio scorso abbiamo perso un’altra grande occasione. Lo sguardo coloniale, mitico, ha narrato una giornata complessa e articolata, e ha soprattutto schiacciato tutta la sua portata storica nell’immaginario funzionale che essa evocava: quella di un popolo indomito. Per questo le ragioni della mobilitazione sembravano fuori luogo, inadatte, insufficienti. Cosa c’entra un incidente ferroviario con la rivolta, con il sempre evocato “fuoco greco”? Serve in questo senso fare un passo indietro e spiegare forse dal principio cosa è successo a Tempe più di due anni fa. Alle 23:21 del 28 febbraio 2023, un treno passeggeri InterCity che correva alla velocità di 160 km/h verso Salonicco si è scontrato frontalmente con un merci che proseguiva in direzione opposta, a 100 km/h, in prossimità della Valle di Tempe, vicino a Larissa. L’impatto ha generato un calore che ha letteralmente sciolto l’acciaio dei vagoni, alcuni dei quali si sono letteralmente disintegrati. E questo sarà un punto importante, che vale la pena tenere a mente. È stato uno degli incidenti ferroviari più gravi della storia europea dei trasporti su rotaia. Nelle ore immediatamente successive, a una dimissione formale del ministro delle infrastrutture e dei trasporti Konstantinos Karamanlis, è seguito l’arresto del capostazione di Larissa, identificato come unico colpevole dell’errore umano che ha causato l’incidente. Inoltre, “qualcuno” ha dato l’ordine di cementare il luogo dell’incidente, prima che gli ufficiali preposti alle indagini giungessero sul campo, e quando ancora si estraevano letteralmente pezzi di corpi e di effetti personali dal terreno e dalle lamiere. Chi sia quel “qualcuno”, a oltre due anni dall’incidente, è ancora sconosciuto e oggetto di dibattito. Nella linea ferroviaria Atene-Salonicco, l’unica del paese, mancano i telecomandi indispensabili agli scambiatori e al funzionamento ordinario delle linee, obbligando il personale a comunicare attraverso i propri telefoni cellulari e attivando tutto manualmente; dal 2009 al 2013, nonostante una spesa di 460 milioni di euro e nove diversi contratti, nessun sistema di segnalazione è stato mai installato nei punti critici della linea, come nella Valle di Tempe. Appena pochi giorni prima dell’incidente, il 24 febbraio, il sindacato nazionale dei ferrovieri aveva rilasciato un comunicato che denunciava la fatiscenza del sistema ferroviario, dichiarando a chiare lettere che “la politica delle privatizzazioni concepita e attuata da tutti i governi, specialmente dalla crisi in poi, ha decisamente peggiorato le condizioni della rete” e che “lo stato di profonda incuria in cui versa tutto il comparto, sia per quanto riguarda i mezzi che il personale”, con sistemi di sicurezza obsoleti e il blocco delle assunzioni dal 1985, metteva in grave pericolo la sicurezza di viaggiatori e personale. In effetti, dal 2018 al 2020 la Grecia ha avuto il più alto tasso di incidenti ferroviari mortali per chilometro di tutta l’Europa. In un’interrogazione parlamentare sul tema, il ministro dei trasporti si era rivolto con sdegno al sindacato dei ferrovieri per aver mosso tali insinuazioni circa la sicurezza della linea ferroviaria. Pochi giorni dopo è avvenuto lo scontro a Tempe. Fino al 2017, anno della privatizzazione delle ferrovie greche, come parte delle riforme imposte dalla Troika durante i dolorosi anni della crisi economica, quando Ferrovie Italiane si è assicurata il monopolio del trasporto merci e passeggeri comprando TrainOse per circa cinquanta milioni di euro, il trasporto su rotaia da e verso Salonicco poteva contare su un paio di treni al giorno che ci mettevano parecchie ore (si era soliti dire “una notte”) per connettere le due città. Tuttavia, da allora TrainOse, rinominata dai nuovi padroni italiani Hellenic Train, si è dotata di “treni veloci” (alcuni vecchi convogli dismessi che Trenitalia ha comprato dalla Svizzera) che riducono il tempo di viaggio a quattro ore e la politica commerciale delle offerte fa talvolta preferire questo mezzo di trasporto alle più comunemente utilizzate corriere. Le infrastrutture di terra e le linee invece sono rimaste “greche”, di proprietà di una partecipata, e versano da anni in uno stato di grave trascuratezza. Proprio questo tema era stato oggetto di forte critica dall’allora opposizione di Nea Demokratia, che riferiva come il governo di Syriza, attraverso la svendita del servizio su rotaia agli italiani, facesse circolare treni troppo “nuovi” su un’infrastruttura fatiscente. Una volta al governo però nessun ammodernamento di questa infrastruttura è mai stato portato in parlamento, nemmeno come proposta. Nei due anni trascorsi dalla tragedia, il governo ha fatto di tutto per insabbiare le indagini. È servito che il comitato delle famiglie delle vittime e dei sopravvissuti andasse alla Commissione europea a chiedere che l’indagine non venisse chiusa, che si indagasse sulle responsabilità specifiche. Il governo, oltre ad aver cercato di gettare tutta la colpa sul capostazione, ha più volte insultato le famiglie delle vittime accusandole di alzare polveroni per guadagnare più soldi dai risarcimenti. Un mese fa è stato pubblicato un audio inedito, nel quale si sentono le voci dei passeggeri del treno qualche minuto dopo la collisione, mentre chiamano il pronto intervento chiedendo aiuto. Nel video, che è stato montato dai periti di parte in modo tale da far coincidere i tempi reali dell’impatto con le chiamate dei passeggeri, le persone riferiscono di non riuscire a respirare, di non avere ossigeno. Inoltre, uno studio accurato da parte degli ingegneri di diversi politecnici del paese ha dimostrato che il grande fungo di fuoco scaturito durante l’incidente, sarebbe stato ingiustificato se nel treno merci non ci fosse stato – probabilmente nascosto, visto che il carico dichiarato erano recinzioni metalliche – del materiale infiammabile ed esplosivo. Queste due notizie hanno aperto una ferita profonda nell’opinione pubblica e già a fine gennaio la gente si è riversata nelle strade in una gigantesca mobilitazione, chiamata dal comitato delle famiglie delle vittime e dei sopravvissuti, per chiedere giustizia. Dalla pubblicazione di quel video non è passato un giorno senza che alle quotidiane rivelazioni sulla reale dinamica dei fatti seguissero reazioni scomposte da parte del governo, che hanno diffuso la comune percezione che non solo ci fosse qualcosa da nascondere, ma anche e soprattutto che si facesse sempre più difficile arrivare alla verità, e quindi alla giustizia, per le vittime e i sopravvissuti di questo incidente. In questo clima, il 28 febbraio, a due anni esatti dall’incidente, le persone sono scese in ogni piazza della Grecia e in diverse piazze del mondo, per chiedere giustizia per i morti e per protestare contro i tentativi di insabbiamento del governo. La manifestazione non aveva colore politico e, in effetti, erano svariate le componenti sociali che vi hanno partecipato. Da qualunque parte di Atene si cercasse di raggiungere Syntagma, strade e viali erano colmi di persone che si affrettavano a passo svelto verso il centro della città. Subito dopo gli interventi delle famiglie da piazza Syntagma e un collegamento con Larissa dove aveva luogo una commemorazione religiosa, sono cominciati gli scontri, al coro di “Mitsotaki gamiese”, letteralmente “Mitsotakis fottiti”, che sono durati alcune ore. La gestione della piazza da parte delle forze dell’ordine è stata una delle ragioni principali che ha spinto le persone a tornare sul posto anche i giorni successivi. Le cariche violente al corteo oceanico, che faticava a uscire dalla piazza e non trovava vie d’uscita, mentre ai crocevia gli operatori delle ambulanze prestavano aiuto a persone di tutte le età che si erano sentite male per i lacrimogeni o le bombe stordenti, ha suscitato ulteriore sdegno. Tanto che in quella, come nelle altre manifestazioni che da quel giorno si sono succedute a ritmi serrati per le strade, soprattutto di Atene e Salonicco, le persone respinte dalle cariche hanno poi sempre cercato di fare ritorno nella piazza dei presidi. Questa persistenza, questa volontà di riaffermare la propria contrarietà, non può essere ridotta al momento dello scontro di piazza che pure c’è stato ed è importante. Infatti, già nel corso degli scontri del 28 febbraio, hanno cominciato a diffondersi luoghi comuni e discorsi, ormai noti, sul fatto che ci fossero infiltrati che fomentavano gli scontri tra la folla pacifica che chiedeva solo giustizia. Se da un lato lo spauracchio dell’infiltrato può essere visto come funzionale alla “pessima reputazione” delle forze di polizia, dall’altra, e questo è il rischio a cui per fortuna molti sono riusciti a dare una risposta forte, è anche una retorica utile a pacificare le istanze radicali e le pratiche che sorgono dalla rabbia autentica di una componente importante della piazza. Come ha scritto l’antropologo Nikòlas Kosmatopoulos: “La rinuncia alla violenza politica come mezzo di liberazione da parte di alcuni settori della sinistra, in cambio della loro accettazione da parte del sistema borghese, ha come risultato il vedere ovunque agenti infiltrati all’interno del movimento, così come il non ‘vedere’ i movimenti di liberazione violenti del Sud Globale come solidali, vicini e spesso più avanzati – politicamente e strategicamente – rispetto a loro. […] Ciò che ora è necessario è una violenza politica efficace. Scioperi, occupazioni, scontri. Altrimenti, il governo fa finta di nulla (definendo le manifestazioni di rabbia collettiva come ‘cerimonie commemorative’) e investe nella teoria della provocazione per delegittimare la resistenza e guadagnare terreno. Una risposta di massa, organizzata ed efficace alla violenza governativa può diventare la scintilla del crollo, purché avvenga secondo principi di azione collettiva, autodifesa e obiettivi politici”.  Le manifestazioni in Grecia stanno continuando. Pur senza la massiccia portata del 28 febbraio, le persone sembrano non voler lasciare che la morte e la rassegnazione si impossessino delle loro vite. Quello che rimane da capire, ma serve uno sguardo non pruriginoso e più accorto di quello che i movimenti internazionali hanno riservato finora alla dimensione politica di questo paese, è in che modo le istanze di questa grande sollevazione anti-necropolitica, saranno in grado di non lasciarsi incanalare nella politica della rappresentanza e saranno invece capaci, come al momento sembrano perfettamente in grado di fare, di unire i punti di una politica oppressiva e neoliberale che causa morte e distruzione dovunque si posi: dai grandi incendi che devastano il paese ogni estate e che celano, malamente, il progetto di far diventare la Grecia un hub dell’energia “verde” in Europa, alla “rigenerazione urbana” dei grandi gruppi immobiliari greci e internazionali che erode patrimonio costruito a beneficio del turismo di massa e degli interessi finanziari di gruppi multinazionali, sino ai progetti faraonici come quello delle nuove linee metropolitane che hanno messo e metteranno in scacco gli spazi urbani di Atene e Salonicco e l’incolumità di abitanti e passeggeri. Se la ristrutturazione neoliberale e neocoloniale di questo paese potrà essere messa alla prova da un movimento in grado di reggere lo schianto delle retoriche interne della pacificazione sociale e dello sguardo mitizzante dei suoi osservatori internazionali, sarà la grande sfida dei prossimi tempi. (anna giulia della puppa)
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“Heil Coca Cola”. Il passato di Berlino in un museo
(disegno di enrico pantani) Dal numero 13 de Lo Stato delle Città. Quando arrivai a Berlino la prima volta, nel settembre del 1997, la Germania era stata riunificata da pochi anni e la città era un immenso cantiere. Stava prendendo forma quella che i media mainstream e il governo chiamavano Das Neue Berlin, la nuova Berlino. La Berlino nuovamente capitale del paese. La Berlino non più divisa dal muro. Quel muro che prese forma il 13 agosto del 1961 e che per quarant’anni è stato il simbolo della Guerra Fredda. Uno spazio divisorio che nel corso del tempo era diventato un apparato urbanistico fatto di filo spinato, torrette di sorveglianza e terra di nessuno. Uno spazio lacerante che segnava il passaggio fisico tra l’est e l’ovest della città, ma anche uno spazio simbolico tra due mondi, sue società, due stili di vita, due culture materiali. Das Neue Berlin avrebbe cancellato ogni traccia del passato. O meglio, avrebbe gestito il passato in maniera funzionale alla nuova identità nazionale dei tedeschi finalmente riuniti, soprattutto sarebbe stata il nuovo orizzonte per quei sedici milioni di cittadini della Ddr che fino a quel momento avevano vissuto in un carcere a cielo aperto. In quel periodo la Repubblica Democratica Tedesca veniva considerata, in modo sprezzante, Stasiland, ovvero il paese della Stasi, la polizia per la sicurezza dello Stato che sorvegliava l’integrità politica, sociale e culturale della società tedesco-orientale. Era, in effetti, un dispositivo di sorveglianza e repressione capillare. L’apertura dei suoi archivi in seguito all’assalto dei cittadini nel novembre del 1989, aveva rivelato l’esistenza di una rete di informatori “non ufficiali” diffusa in tutti i gangli della società, una complicità con la Stasi che divenne un marchio di infamia per cittadini e cittadine di diversa estrazione sociale, dal semplice vicino di casa a figure apicali della controcultura. Fece scalpore il caso di Sasha Anderson, poeta della contestazione al realsocialismo, elemento di spicco della scena controculturale orientale che in realtà informava la Stasi in modo dettagliato ricavandone una serie di privilegi, primo tra tutti la possibilità di attraversare il muro senza difficoltà. Il drammaturgo Heiner Müller come la scrittrice Christa Wolf e altri eminenti esponenti della cultura ufficiale della Ddr furono accusati di essere stati tra i collaboratori. Fu creata una commissione governativa per l’analisi dei documenti della Stasi che si trasformò, in breve tempo, in un organo capace di assegnare patenti di integrità. Nessun funzionario pubblico della Ddr venne integrato nella nuova amministrazione unitaria. Venne smantellato il settore scolastico e accademico. Venne smantellato l’intero tessuto produttivo. Nel 1991 un milione di persone circa si ritrovarono disoccupate. Il patrimonio industriale e quello edilizio vennero privatizzati. A est, nei nuovi Bundesländer, la frustrazione sociale portava in molti a parlare di “annessione” della Ddr e non di riunificazione tedesca. Ecco, nei primi anni Novanta, si costruivano le fondamenta della profonda divisione che tutt’oggi separa i tedeschi dell’est da quelli dell’ovest. Fenomeno che oggi prende forma nei recenti risultati elettorali che hanno premiato in Turingia e Brandeburgo partiti di ispirazione nazionalista come l’estrema destra dell’AFD e la sinistra conservatrice del BSW. Quella in cui mi ritrovai, insomma, era una città al centro di un processo di riscrittura della propria storia. I segni tangibili della Berlino capitale della Ddr venivano sistematicamente smantellati. L’edilizia storica del centro cittadino, fatta di vecchi palazzi malandati, veniva sanificata, ristrutturata, “colorata”. Grandi società immobiliari occidentali comprarono a prezzi stracciati interi palazzi per rivenderli – ristrutturati – ai nuovi cittadini della capitale. C’è da dire che negli ultimi anni della Ddr il centro cittadino si era andato progressivamente svuotando. Molti degli abitanti si erano trasferiti nei casermoni dell’edilizia popolare realsocialista in quartieri periferici e la nomenklatura viveva nelle villette di Pankow. I quartieri di Mitte, Prenzlauerberg e Friedrichs’hain erano il luogo della bohème tedesco orientale. Die legende von Paul und Paula, di Heiner Carow del 1973, forse il film che meglio racconta la complessità della società tedesco-orientale, descrive con sguardo poetico le contraddizioni del processo di modernizzazione del socialismo tedesco insistendo, forse involontariamente, sulla trasformazione dell’abitare. Il desiderio di appartamenti funzionali e moderni che spingeva la popolazione ad abbandonare abitazioni sempre più fatiscenti che, dal canto loro, diventavano soluzioni abitative pressoché gratuite per quelli che lo Stato chiamava asociali e devianti. Certo, quando sono arrivato io Das Neue Berlin non era ancora compiuta. Si respirava l’odore del carbone che bruciava nelle enormi stufe con cui, negli appartamenti non ancora risanati, ci si proteggeva dal freddo intenso dei mesi invernali; resistevano intere palazzine occupate che un po’ alla volta venivano sgomberate con la forza dalla polizia. Soprattutto gli affitti si mantenevano per lo più a prezzi ragionevoli. C’erano ancora locali informali dove si poteva bere e ascoltare musica o assistere alle più svariate performance artistiche. In poche parole Berlino non era cool, anzi. Era una città in trasformazione, certo a suo modo aggredita dal modello neoliberale ma ancora piena di pratiche e discorsi di resistenza e sperimentazione radicale politica, sociale e culturale. Scelsi di prendere casa a est. Ero arrivato in città, infatti, per una ricerca di storia sociale sulla Ddr. Ero assetato di testimonianze sulla vita quotidiana. Frequentavo in maniera compulsiva i mercati delle pulci (all’epoca un’istituzione a Berlino) cercando oggetti e segni della Ddr. Incontravo lampade, libri, mobili dismessi, vestiti, dischi. Oggetti di un’archeologia contemporanea, simulacri di un paese che non esisteva più. Ero, in fin dei conti, curioso di capire come fosse stato possibile sopravvivere in un paese che veniva descritto come una distopia autoritaria. I libri e gli articoli specialistici che leggevo convergevano, con sfumature diverse, su una narrazione consolidata della Ddr come dittatura quasi peggiore del reich hitleriano. Un paese arido, popolato da una società immobile. Eppure, incontravo di continuo fonti, racconti e indizi che stridevano con il passato che veniva raccontato dagli storici e dall’industria culturale. Un certo stupore lo ebbi la prima volta che misi piede nella sezione dell’archivio federale di Stato dedicata alla documentazione della ex Ddr. Mi ritrovai a disposizione una massa ingente di documenti del governo e delle organizzazioni sociali. Potevo accedere a fonti ufficiali di ogni tipo senza nessuna limitazione. Ho passato diversi anni lavorando con quelle carte. Documenti ufficiali da cui, però, trasparivano elementi di un immaginario peculiare, così come di una cultura materiale decisamente originale. Trovai storie di libri di fantascienza, di avventura, di spionaggio, di western che venivano pubblicati o meno, e messi in circolazione in tutta la Ddr; trovai piani quinquennali per la produzione di alta moda realsocialista, indagini sui gusti della “gioventù”, pianificazione della produzione di rock realsocialista. Attraverso le relazioni delle forze dell’ordine emergevano anche i tratti delle controculture presenti a Berlino est e nelle altre città della Ddr. Mi resi conto di cosa fosse la criminalità, il contrabbando, la violazione delle regole del contratto sociale che reggeva la Germania dell’est. Fuori dall’archivio, intanto, facevo incetta di riviste della FDJ, l’organizzazione giovanile della SED, il partito-stato che aveva governato fino al 1989, e di fanzine fotocopiate dei poeti beat di Berlino est; parlavo con decine di persone che mi riportavano racconti di vita quotidiana; vedevo i film della DEFA, la casa di produzione cinematografica della Ddr, scoprivo il western realsocialista. E intanto intorno a me si sviluppava una tendenza che prese il nome di Ostalgie, la nostalgia dell’Est. Cos’era? La riscoperta, soprattutto estetica, ma anche politica, del mondo materiale della Ddr. Da un lato gli oggetti, i vestiti, la musica, dall’altro l’affermazione elettorale, nei nuovi bundesländer, del partito Die Linke, costruito sulle ceneri della SED. Una nostalgia che si esprimeva anche in forme di rifiuto della società multiculturale, di diffidenza verso lo straniero. Una reazione al sentimento di spoliazione economica e culturale che serpeggiava nelle contrade orientali. Ostalgie aprì un dibattito articolato nella comunità degli storici. Furono pubblicati articoli e saggi sulla storia sociale della Ddr che prendevano in esame la Alltagsgeschichte, la storia del quotidiano. Studi che posero la necessità di integrare la storia della Germania orientale all’interno della storia tedesca, non escludendola come infausta parentesi. Intanto Das Neue Berlin assumeva contorni sempre più definiti. Diventava sempre più una città da consumare. La scarna e cupa città divisa andava addobbata di attraenti destinazioni per i turisti. Dopo un lungo periodo mi sono allontanato tanto da Berlino quanto dalla storia della Ddr. A Berlino sono tornato spesso, ma in verità più attratto dalla sua metà occidentale, dai movimenti autonomi negli anni Ottanta e Novanta radicati a Kreuzberg, dalla mescolanza culturale che trasformava la capitale in una metropoli dapprima unica poi sempre più schiacciata sui palinsesti urbani delle grandi città occidentali. Quando ci sono tornato di recente per un periodo abbastanza lungo non ho più trovato Das Neue Berlin bensì il suo superamento. Una città del tutto anestetizzata. Benestante, giovane e prevalentemente bianca. Ma soprattutto ciò che mi ha colpito è stato l’uso della storia come attrazione turistica. Simbolo di tale fenomeno è senz’altro l’edificazione dell’antico castello federiciano settecentesco al posto della VolksKammer (il parlamento della Ddr) non lontano dalla centrale Alexander Platz. Un edificio ricostruito in pochi anni a ridosso delle architetture moderniste della vecchia Berlino est. Un simulacro dell’intenzione di scrivere una storia tedesca condivisa in cui l’Est va neutralizzato attraverso una musealizzazione progressiva e diffusa nel territorio urbano. Innanzitutto la città è stata dotata di infrastrutture esperienziali, ovvero luoghi e percorsi che offrono al turista una forma di intrattenimento basata sull’idea di vivere per un momento il passato in maniera diretta. Da un lato troviamo il Trabant Safari, ovvero un giro della città a bordo delle auto tipiche della Ddr (motori a due tempi estremamente inquinanti per altro) che tocca i luoghi più significativi della Berlino divisa. Dal check point Charlie (la stazione di confine tra le due Berlino controllata dai militari Usa), dove è anche possibile visitare una mostra fotografica e comprare souvenir a tema; la torre della televisione al centro dell’Alexander Platz; pezzi di muro superstiti e l’immancabile museo della Stasi. Dall’altro troviamo tour in bicicletta (più ecologici) che portano i visitatori alla scoperta dell’archeologia industriale della città, le fabbriche di origine ottocentesca come la AEG le cui strutture puntellano ancora diversi quartieri a ovest come a est. Altro tipo di esperienza, stavolta più statica, è data dai musei tematici. Il più stucchevole è il Berlin Ddr Museum, uno stanzone sito nella zona divenuta il centro turistico della città, in cui al modico prezzo di venti euro, viene offerta la possibilità di immergersi in una Ddr virtuale. Attraverso filmati, ricostruzione di ambienti e teche con gli oggetti più disparati si entra in una sorta di zoo in cui curiosare nella vita quotidiana di un paese sotto scacco della Stasi e dell’ideologia comunista. Un museo “per famiglie” che mette in mostra la ricostruzione di un paese che forse non è mai esistito. A fare da contraltare, troviamo un altro tipo di musealizzazione della Germania dell’est. La mostra permanente sulla vita quotidiana in Ddr ospitata dal Museo della Kultur Brauerei nel quartiere orientale di Prenzlauerberg. Qui il rigore scientifico è di altra caratura, anche se il modo di ricostruire gli ambienti (dalla fabbrica al salotto dei poeti della contestazione) resta quello imperante. Nella stessa struttura è ospitata per un breve periodo un’altra mostra, dedicata alla scena del Rock Metal della Ddr con tanto di ricostruzione dello studio di registrazione della band più famosa degli anni Ottanta. Qui la Ddr appare una società decisamente più complessa e articolata, emergono sfumature diverse del quotidiano, non ci sono animali da osservare ma il tentativo di restituire alle persone del passato la propria dignità. E sempre in tema Ddr troviamo, poco distante, il monumento della Bernauer Str. La strada dove sono avvenute il maggior numero di fughe (e vittime) dall’est verso l’ovest subito dopo la costruzione del muro. Qui il muro e i suoi dispositivi di sorveglianza sono stati mantenuti nella loro forma originale, non si è ricostruito ma si è conservato. Una mostra dettagliata, inoltre, documenta tutte le evoluzioni architettoniche del Muro. L’enfasi è sul dispositivo di sorveglianza della dittatura. Un modello mutuato dalla mostra Topographie des Terrors, nata alla fine degli anni Settanta e resa permanente a Berlino ovest nella zona in cui sorgevano i ministeri del Reich da cui si dirigeva l’Olocausto e la guerra. Sulle vecchie fondamenta una serie di pannelli ripercorre l’ascesa del nazismo e termina, in una strana continuità, con una breve storia della Ddr. Ma Berlino, oltre a essere una città divisa, è stata durante la Guerra Fredda la capitale delle spie. A ricordarcelo troviamo il Deutsches Spionage Museum in cui è possibile utilizzare direttamente molti dei trucchi utilizzati dai servizi segreti per spiare gli avversari (reali o supposti). I visitatori del museo possono calarsi per qualche ora nei panni delle spie che hanno alimentato tanto la storia che la letteratura della Guerra Fredda; aprono lettere con il vapore, montano un microfono e ascoltano di soppiatto le parole pronunziate nella stanza a fianco, scoprono doppifondi in valigette di pelle. Tecniche utilizzate da tutti i lati, ma grande risalto è dato, ovviamente, al lavoro della Stasi. Ospitato in una vecchia struttura tedesco-orientale dedicata all’ascolto delle onde radio del nemico, il museo è una delle casematte dell’uso pubblico della storia e del passato. I turisti ripartono portando con sé un’idea ben precisa di quanto sia avvenuto in passato nella capitale tedesca; consumano una narrazione costruita da elementi selezionati, riportano con sé souvenir di una vittoria del bene sul male. La musealizzazione e commercializzazione della Ddr risignifica un passato a senso unico, svilisce la complessità che ha determinato una cesura storica fondamentale come il crollo del Muro e il collasso del gigante sovietico. I safari in Trabant, la ricostruzione dozzinale di ambienti tipici della Ddr ridicolizzano il passato, trasformano oggetti ed esperienze reali di un passato recente in elementi stereotipati così come avviene ad altre latitudini investite dal turismo di massa. In assenza di vicoli caratteristici, di folklore popolare, di monumenti e opere d’arte da blindare con biglietti a pagamento, il fulcro del consumo è un oggetto immateriale, un folklore inventato, o meglio, una cultura materiale da esporre in vetrina, un’esperienza di quotidianità lacerante da dare in pasto a file di turisti pronte a digerire le cicatrici della Storia come un panino imbottito. I riverberi del consumo della storia, li ritrovo passeggiando per le strade di Kreuzberg, quartiere ribelle della Berlino occidentale. Non assumono la forma di mostre preconfezionate ma, al contrario, di una radicale trasformazione dei luoghi, di una lenta ma inesorabile sostituzione di popolazione. Hipster, consumo di prodotti biologici, bar e ritrovi à la page, affitti saliti alle stelle laddove le case erano per lo più occupate. Un multiculturalismo occidentale, bianco e benestante ha sostituto la miscela di lingue e culture che abitava lo stesso spazio. La ricerca dell’esperienza oltrepassa il momento, diventa quotidiano. Si cerca l’ebbrezza di una città scomparsa, trasformata quasi in un parco tematico di una controcultura anestetizzata, divenuta, per la gran parte, un dispositivo di intrattenimento. Creatività da commercializzare, consumare. Processo che, senza dubbio, incontra resistenze, ostacoli e che, tuttavia, sembra essere irresistibile, irrefrenabile. Se nella Das Neue Berlin di fine anni Novanta la storia era un oggetto ingombrante, un materiale vischioso, un peso da cancellare, nella Berlino contemporanea sembra essere diventata un utensile liquido, malleabile, da modellare, adattare ai gusti variegati dei consumatori. Certo, la ricerca professionale può ancora contare sul patrimonio archivistico ingente degli archivi di stato, municipali e perfino di quartiere. Ma è il suo uso pubblico che sembra essere stato del tutto ribaltato. Discorsi sbrindellati sull’identità nazionale sono ormai il carburante per visioni politiche identitarie che ripropongono in modo strumentale la passata divisione tra Est ed Ovest. L’annessione della Ddr o altrimenti la riunificazione tedesca ha sepolto qualsiasi opportunità di prospettiva cosmopolita, multiculturale, favorendo, al contrario una polarizzazione sociale, economica e razziale. Come se le diverse componenti che abitano la città diventassero sempre di più comunità separate. Turchi e arabi, classe media globale e benestante, proletariato orientale, poveri ed esclusi. Ognuno circoscritto nel proprio spazio urbano. E finalmente, dopo mezzo secolo, anche Berlino ha un suo centro cittadino riconoscibile. Vuoto, silenzioso. Musei e ministeri ne hanno ridefinito i contorni abitati da funzionari e turisti che si cibano di street food sofisticato. Heiner Müller, nel suo Hamletmaschine del 1977, aveva immaginato lo scenario di macerie: “Per le bugie che vengono credute/ Da coloro che le raccontano e da nessun altro Nausea/ per le facce dei facitori segnate/ Dalla lotta per i posti i Voti i Conti in Banca/ Nausea Carro falcato lampeggiante di battute/ Vado per strade per magazzini per facce/ Con le cicatrici della battaglia per il consumo Povertà/ Senza decoro Povertà senza dignità/ […] Risa di Pance Morte /Heil COCA COLA”. Il filo spinato che separava la città è diventato invisibile. (-ma)
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Studiare e insegnare a Gaza durante la guerra. Intervista ad Asmaa Abusamra
(disegno di cyop&kaf) Asmaa Abusamra è una docente universitaria. Nel marzo 2024 ha lasciato la Striscia di Gaza per andare in Norvegia nell’ambito del progetto Scholars at Risk (SAR). Mi ha dato appuntamento alla Biblioteca Centrale dell’Università di Oslo. L’intervista si svolgerà al terzo piano ma non prendiamo l’ascensore «perché da quando è cominciata la guerra non riesco più a stare in spazi stretti». Arriviamo in una sala riunioni con larghe finestre che mostrano i palazzi vicini e lei mi indica quello più alto: «È il Policlinico universitario, ogni tanto un elicottero si alza dal tetto e a me viene l’ansia perché il rumore mi ricorda quello dei droni che sono la colonna sonora costante di ogni giorno a Gaza». Mi fa accomodare e si allontana per prendere caffè e acqua. Al suo ritorno, Asma mi racconterà della vita della gente di Gaza durante la guerra iniziata il 7 ottobre 2023, e di come l’educazione e l’insegnamento sono tra le poche cose a cui aggrapparsi per restare umani durante il massacro. «A Gaza prima della guerra c’erano diciassette istituzioni universitarie e circa ottantottomila studenti immatricolati. Noi palestinesi siamo fieri del fatto che abbiamo il più alto tasso di iscritti all’università in tutto il mondo arabo. La mia si trova nella parte sud di Gaza City, vicino al corridoio di Netzarim. Fino a settembre 2024 alcuni edifici erano ancora in piedi e si poteva fare lezione, ma a settembre Israele ha raso al suolo tutto. «Io sono una professoressa di Education Management allo University College of Applied Sciences of Gaza. Sono nata nel nord della Striscia e la mia famiglia, il mio lavoro e la mia vita, tutto ciò che mi appartiene è a Gaza. Vivevo nel quartiere di Shejayah, che era già stato bombardato durante la guerra del 2014. All’epoca la nostra casa subì qualche danno alle finestre, ma dopo una settimana siamo potuti rientrare. Il 7 ottobre avevo capito immediatamente che questa volta sarebbe stato molto diverso». La interrompo per dire che altra gente da Gaza con cui ho parlato non si aspettava una reazione israeliana così devastante dopo il 7 ottobre. «Io invece l’ho capito subito – spiega – perché ho visto tante guerre da quando sono nata. Di solito la gente di Gaza sa che tipo di reazione aspettarsi da Israele, e molti speravano che sarebbe stato come le altre volte. Io mi sono resa conto subito che questa volta era diverso, che avevano bisogno di una scusa per fare qualcosa di molto peggio. Avevo capito che la punizione di Israele non sarebbe stata raddoppiata o triplicata come le altre volte, ma sarebbe stata decuplicata. «Dissi a mia madre e a mio padre qual era la mia sensazione, ma all’inizio non mi presero sul serio. In ogni caso dovevamo andarcene, ma dove? Noi conosciamo solo Gaza e abbiamo qualche parente al sud, ma come fare a traslocare in quella situazione? Abbiamo preso qualcosa, la mia famiglia pensava che in un paio di settimane saremmo tornati a casa. Io presi il mio computer e andammo a Nuseirat, ma anche lì non era sicuro per niente, anche lì c’era la guerra. Arrivammo a piedi il 15 ottobre e c’erano scene di panico, centinaia di migliaia di persone che si muovevano verso sud e Israele bombardava anche chi scappava. Erano bombardamenti a caso, non potevamo sapere chi sarebbe stato il bersaglio. Alcuni miei parenti scamparono per un pelo alle bombe e si unirono a noi. Arrivati a Nuseirat siamo rimasti solo due settimane perché vedevamo le bombe esplodere a duecento metri da noi, le porte e le finestre della casa dove eravamo vennero distrutte, così a novembre fummo costretti a rifugiarci in una scuola. «Io ho quarantatré anni e nella mia vita non ero mai stata rifugiata in una scuola durante i bombardamenti. Questo ha aggiunto altro dolore perché non era facile convivere con altre trentacinque persone sconosciute in una stanza grande quanto un’aula scolastica. Per questo motivo andammo a Rafah, e lì non conoscevamo nessuno e non c’era né acqua né cibo. «Quando dico che non c’era cibo intendo dire che non avevamo né pane né acqua. Io sono la sorella più grande e ho sempre provveduto io alla mia famiglia. Mio fratello ha due figli e sua moglie era incinta in quel momento quindi doveva pensare a loro. Trovare da mangiare era diventata la nostra priorità, per cui ogni giorno mia sorella e io ci mettevamo in fila all’alba, una per il pane e l’altra per l’acqua. A volte tornavamo soltanto a notte fonda. Comprare il pane era troppo costoso». Mentre Asmaa mi raccontava queste cose, ho ripensato alle parole che mi ha detto un’altra persona che era a Gaza in quei giorni: Israele ha bombardato e distrutto tutti i bancomat nella Striscia di Gaza. Per comprare cibo al mercato nero la gente che ha parenti all’estero e qualche soldo sul conto è costretta a versare i soldi sui conti di alcune famiglie di trafficanti che, con metodo mafioso, si tengono i soldi e forniscono cibo a prezzi altissimi: un uovo può costare anche due euro. Quando si parla di crisi umanitaria a Gaza si parla di situazioni come questa, e il vuoto di potere causato dalla guerra ha tolto ogni riferimento istituzionale alla popolazione. «Era il caos. Se penso all’anno scorso penso solo al caos che vivevamo e al fatto che nessuno aveva a cuore la popolazione. Ognuno doveva pensare a sé stesso. Siamo rimasti a Rafah per duecento giorni, sette mesi». Anche in questo caos Asmaa ha ricominciato a fare ciò che aveva sempre fatto: fare ricerca e insegnare, cercando di tenere insieme la comunità accademica di Gaza. «Mi sono messa a scrivere. Per tre mesi il mio laptop è rimasto spento perché non avevamo elettricità. A Rafah riuscimmo a trovare una presa per caricare computer e cellulare e ho cominciato a scrivere un articolo accademico, il titolo è Brain Drain or Brain Circulation. Mi sono chiesta cosa sarebbe successo alla comunità accademica di Gaza, cosa potrebbe succedere se tutti gli accademici lasciassero Gaza con permessi umanitari. In quei giorni mi sono resa conto di quanto sia un privilegio avere internet, quando ho potuto ho aperto Facebook e ho visto le foto di moltissimi miei colleghi uccisi nelle settimane precedenti. Almeno quarantacinque persone, tutte uccise con la loro famiglia perché noi a Gaza diamo molto valore alla famiglia e stiamo sempre insieme. Tutte queste persone, io le conoscevo da vent’anni, ho visto crescere i loro figli, ed è molto difficile parlarne al passato». A questo punto dell’intervista Asmaa apre il computer e comincia a mostrarmi immagini della sua università. Laboratori nuovi di zecca, postazioni di realtà virtuale e strumenti tecnologici. Impressionato, esclamo: «Ma che bella! Molto più avanzata della mia università a Palermo!». Asma mi racconta che c’è stata, che le è piaciuta ma che il cibo non è buono. Ridiamo e le dico che di solito la gente dice il contrario. A lei non piacciono la pasta e la pizza, però il pesce le è piaciuto. «Ho viaggiato molto nella mia vita, ho fatto il dottorato in Indonesia e sono stata a insegnare in Turchia, in Belgio, in Malesia, in Francia. Ma casa mia è Gaza e non me ne sarei mai andata. A dicembre 2023 i miei amici e colleghi norvegesi mi hanno detto che c’era la possibilità di venire qui con un visto per accademici, ma io non avevo la minima intenzione di andarmene e lasciare i miei genitori da soli. I miei amici hanno insistito e hanno detto che ci avrebbero pensato loro a fare tutta la parte burocratica, e poi avrei potuto decidere se partire oppure no. La pratica è andata a buon fine e a gennaio 2024 sarei potuta partire ma non volevo andarmene. Rimasi a Rafah per tutto febbraio finché a marzo mia madre mi disse: “Asmaa, qui non sei utile. Tu devi essere fedele a ciò che sei. Vai, continua la tua carriera e da fuori potrai aiutarci più di quanto tu possa fare da qui”. A quel punto mi sono convinta anche perché non lavoravo e non avevo più soldi». Per arrivare al Cairo e da lì raggiungere la Norvegia, Asmaa ha fatto come tutti i circa centomila abitanti della Striscia che sono riusciti ad andarsene: ha pagato cinquemila dollari a una organizzazione egiziana per attraversare il valico di Rafah. Poco dopo la sua partenza, Israele ha occupato il corridoio di Filadelfi e oggi nessuno, neanche pagando, può scappare. «Adesso sono qui a Oslo con una sensazione che molti chiamano “survivor guilt”, il senso di colpa di chi è sopravvissuto. Quando la gente mi chiede: “Come stai Asmaa?”, io rispondo: “Quale Asmaa? Quella che vive in Norvegia o quella che è rimasta a Gaza?”. «Sono in Norvegia con un permesso temporaneo di un anno, non so cosa accadrà dopo. Sto già cominciando a cercare lavoro ma non è facile in queste condizioni. L’unica cosa che mi dà forza è che devo essere attiva e sveglia per aiutare la mia gente. Io lavoro all’università da vent’anni, ho cresciuto generazioni di studenti. Durante ogni guerra, sotto le bombe, lo studio e la ricerca erano le uniche cose che riuscivano a farci superare i nostri problemi. Ho sempre insegnato ai miei studenti che l’educazione è libertà. Siamo occupati da Israele ma lo studio permette alla tua mente di essere libera, e anche al tuo corpo. Uscire da Gaza non era facile neanche prima della guerra, non era facile neanche per un topo o per un gatto passare il confine, ma se io e molti miei colleghi abbiamo potuto viaggiare è stato solo grazie all’università e alla ricerca. Di recente sono stata invitata da una università tedesca, in Germania non è facile per noi palestinesi ora, ma ho avuto la fortuna di trovare persone disposte ad ascoltare. La direttrice del dipartimento che mi ha invitata mi ha detto: “Noi cerchiamo di preparare gli studenti a capire il mondo, ma in questo momento mi fanno domande a cui non so rispondere, per questo motivo ti ho invitata, perché penso che tu sappia rispondere”; e per questo motivo io continuo a parlare in pubblico, anche se a volte mi sento schiacciata dalla situazione che vivo, comunque la sento come una responsabilità per proteggere la nostra umanità e la nostra storia collettiva. «A Gaza abbiamo creato tante università con lo scopo di preservare la nostra identità e la nostra cultura. Oggi tutte le diciassette università sono state distrutte ma tutte continuano a lavorare! Siamo nel mezzo del primo semestre e le attività vanno avanti. Nella mia università c’erano undicimila studenti immatricolati, oggi novemila di loro stanno continuando a studiare e a dare esami online; anche se non abbiamo server continuiamo a studiare. Abbiamo ricevuto dall’estero donazioni per mantenere i server per la didattica a distanza. I professori insegnano senza stipendio perché i nostri stipendi li pagavano gli studenti che oggi ovviamente non possono pagare. Anche a Rafah abbiamo messo su una scuola e sotto le bombe facevamo lezione ai bambini più piccoli. «La gente fuori pensa che Gaza prima del 7 ottobre fosse un campo di concentramento, ma non è vero. Certo, eravamo sotto occupazione, ma avevamo librerie, università, biblioteche, ristoranti, eventi culturali, la gente andava a rilassarsi in spiaggia. Noi avevamo creato una struttura per l’apprendimento di materie tecniche a Gaza: laboratori per formare meccanici, dentisti, estetisti, per dare lavoro ai ragazzi. Avevamo da poco inaugurato queste strutture e ora è tutto distrutto. Dietro ogni macchinario e apparecchio tecnologico c’è una storia, un lavoro, un progetto che ho seguito personalmente. Vedere tutto distrutto mi fa piangere il cuore, sapere che le persone che hanno lavorato a tutto ciò sono state uccise è qualcosa di irreale, fatico ad abituarmi». Mentre parliamo, Asmaa continua a mostrarmi le foto dell’università, i video dei suoi studenti e altri ricordi dei mesi di guerra a Rafah. Mi mostra la foto di sua nipote, Zeina, che oggi ha cinque mesi. Sua cognata scoprì di essere incinta due settimane prima del 7 ottobre. Oggi Zeina è denutrita e non ha ospedali dove andare per le cure pediatriche. «Nessuno merita di soffrire ma in questo momento vogliono toglierci anche il diritto di piangere e di vivere il lutto. Quando ho pubblicato i video delle conferenze che ho fatto qui, ho ricevuto insulti e minacce, mi hanno scritto via mail che la gente di Gaza si merita di essere distrutta. La verità è che in questo momento non ci sono due fazioni contrapposte sul terreno, c’è solo un esercito che sta bombardando la popolazione civile. Non è una guerra tra due eserciti, è un massacro. «In questo momento non ci sono istituzioni a cui affidarsi, non possiamo neanche fuggire. Ci basterebbe avere lo stesso trattamento che hanno avuto i profughi ucraini, la libertà di raggiungere l’Europa o di muoverci liberamente, ma è ancora impossibile. Io non mi considero una rifugiata, sono stata costretta a fuggire e non avrei mai voluto lasciare Gaza, sono qui contro la mia volontà e il mio obiettivo è tornare a Gaza perché la mia vita è lì. Ma non voglio tornare solo perché costretta da un visto umanitario scaduto. Sono stanca e non voglio che i miei genitori soffrano ancora. A Rafah avevamo almeno dei muri intorno a noi, oggi ci sono le tende, e se arrivano le bombe la gente rimane bruciata viva, distrutta, vaporizzata, non rimane nulla. Molta gente in Europa ancora parla di terrorismo e di continuare la guerra, ma cosa vogliono ancora da noi? Non capisco perché molti vogliono ancora peggiorare la miseria della mia gente, dopo tutto ciò che abbiamo subito. I bambini a Gaza non sanno cosa sono gli aerei civili, hanno visto solo aerei da guerra per tutta la loro breve vita». (carlo trombino)
mondo
Il fantasma della libertà. L’epopea del Vaquilla nella Barcellona degli anni Settanta
(disegno di ginevra naviglio) “Sì, il Vaquilla, chi non lo conosce… – dice la donna, mentre aspetta suo figlio all’uscita di  scuola –. Rubava macchine, rapinava le banche, le cose che si facevano allora… È anche uscito, ma poi ricadeva ogni volta”. “La sorella vive ancora nel quartiere. Ha un banco di pesce al mercato – interviene un’altra donna –. Lui è morto in carcere, dicono che si sia ucciso…”. Alla periferia di Barcellona, nel quartiere della Mina, è ancora viva la memoria del Vaquilla, giovane eroe popolare e bandito morto recluso a quarantadue anni, dopo un’infinità di piccoli reati, condanne ed evasioni rocambolesche. La sua figura si presta all’eccesso e molti non esitano a trasfigurarlo, attribuendogli ogni tipo di imprese, sempre in bilico tra eroismo e delinquenza, nobiltà d’animo e vanteria. Juan José Moreno Cuenca, detto El Vaquilla, non era morto in carcere, ma in un ospedale di Badalona, per una cirrosi epatica contratta in prigione a causa del virus dell’epatite C. Aveva appena compiuto quarantadue anni, più della metà dei quali trascorsi dietro le sbarre. Gitano, ladro d’auto e rapinatore di banche, negli anni Settanta aveva rappresentato suo malgrado il tipico prodotto della periferia marginale. I mezzi di comunicazione si erano impadroniti della sua storia, trasformandolo nel prototipo del delinquente giovanile. Dalle sue imprese un regista del genere “malavita” aveva tratto tre film di successo. Il gruppo di flamenco più ascoltato di allora gli aveva dedicato una famosa canzone, in cui veniva definito “el alegre bandolero”. Con la maggiore età, il Vaquilla aveva alimentato la sua fama con sommosse e tentativi di fuga. Una delle evasioni si era conclusa con un inseguimento in pieno centro di Barcellona. La sua spettacolare cattura, ripresa dalle telecamere e trasmessa all’ora di pranzo da tutti i telegiornali, l’aveva consacrato come il delinquente più famoso del paese. Juan José non aveva conosciuto suo padre. Viveva con la madre in una baracca nei sobborghi di Barcellona. Un giorno la madre fuggì con il suo nuovo compagno. I servizi sociali lo affidarono alla tutela dello zio. Per Juan José cominciò una vita nomade, a bordo di una roulotte, che lo zio parcheggiava ogni sera in luoghi appartati, per evitare il contatto con le forze dell’ordine. A sette anni conobbe i quattro fratelli maggiori, nati da una precedente relazione della madre. Antonet, uno di loro, cominciò a fargli visita con assiduità. Un giorno Juan José salì sul treno che riportava il fratello in città e lasciò per sempre lo zio, accampato in uno spiazzo ai margini dell’autostrada. Antonet era già sposato. Viveva a Barcellona, nel Campo de la Bota, un insediamento di baracche di fronte al mare, così ai margini della città che nei primi anni della dittatura i franchisti lo usavano per fucilare i prigionieri politici. Gli uomini del Campo partivano ogni notte per spedizioni misteriose, da cui tornavano qualche ora dopo con le macchine cariche di articoli d’ogni tipo: pelli, prosciutti, elettrodomestici, vestiti, sigarette… I bambini salivano sui pali del passaggio a livello all’entrata del campo e davano l’allarme quando da lontano appariva la polizia. Nel frattempo gli uomini scaricavano la mercanzia e le donne la vendevano alle vicine, in un improvvisato ed effimero mercato. Dopo qualche mese da sentinella Juan José cominciò a uscire con i ragazzi della sua età, a rubare auto e a caricarle con tutto quel che trovavano. A nove anni entrò per la prima volta in  riformatorio. La polizia lo sorprese sulla spiaggia del Campo de la Bota a fare acrobazie su una moto rubata. Qualche giorno dopo scappò, scavalcando il muro di cinta. Lo arrestarono ancora, ma ogni volta si dava alla fuga. Il suo soprannome cominciò ad apparire sulle pagine dei giornali. In quegli articoli il Vaquilla era a capo di una banda di ragazzini che rubava auto di grossa cilindrata; doveva mettere un cuscino sotto il sedere per arrivare all’altezza del volante, ma si diceva che negli inseguimenti fosse imprendibile. I giudici gli cercarono un riformatorio da cui non potesse scappare, ma alla fine non trovarono altro rimedio che chiuderlo alla Modello di Barcellona, il carcere degli adulti. Aveva tredici anni, l’età penale era fissata a sedici. Alcuni prigionieri politici se ne accorsero e denunciarono il fatto per iscritto. Sette mesi dopo tornò in libertà. Nel dicembre del ’76 fu arrestato di nuovo. Quando uscì lo affidarono a una casa famiglia, ma l’esperimento non durò a lungo. Aveva voglia di rivedere i fratelli e tornò alla Bota. Non trovò più le baracche, ma palazzi alti e squadrati, innalzati a poca distanza da quel che restava del Campo. Il suo quartiere adesso veniva chiamato la Mina. Nel ’77 il Vaquilla fu arrestato per due rapine in banca, ma all’ultimo momento i testimoni ritrattarono e tornò in libertà. Un’altra rapina, invece, si concluse in una sparatoria con la polizia. Juan José ne uscì illeso, ma con le manette ai polsi. Il suo compagno lo portarono all’ospedale con due pallottole nei polmoni. Rimase in coma tre mesi, ma si salvò. A lui diedero sei anni e mezzo. Quattro per la pistola, due per la rapina e sei mesi per l’auto rubata. Fu inviato a Herrera de la Mancha, la prima prigione di alta sicurezza inaugurata dalla giovane democrazia spagnola. Passava la maggior parte del tempo in isolamento. Cominciò a leggere Freud, Voltaire, Flaubert e Dostoijevski. La popolarità del suo soprannome gli attirava la curiosità degli altri detenuti, ma soprattutto le violenze dei carcerieri. Nell’aprile dell’84 capeggiò la sommossa nella prigione Modello di Barcellona. Il piano prevedeva di chiudersi in un ala del carcere, presentare una piattaforma di rivendicazioni e ottenere che i giornalisti entrassero a visitare le celle. Nel frattempo, un gruppo di detenuti sarebbe sceso nei sotterranei del carcere per scavare una galleria che doveva sbucare in strada. Lui stesso si incaricò di fare il primo passo, sbarrando gli accessi della sezione, dopo aver preso in ostaggio quattro guardie con uno stiletto nascosto nello shampoo. La fuga sotterranea venne frustrata dai reparti speciali, che si infilarono dentro le fogne intorno al penitenziario. Allora il gruppo che guidava la rivolta si concentrò sulle rivendicazioni. Fecero entrare i giornalisti, ma questi, oltrepassati i cancelli, si precipitarono sul Vaquilla, sommergendolo di domande; sembrava non gli importasse il motivo per il quale si trovavano lì dentro. Alla fine si riuscì a organizzare una visita alle celle e una conferenza stampa. I detenuti resero pubblici maltrattamenti e torture. Poi la rivolta terminò. Non c’erano stati incidenti, né feriti. Il giudice chiese per il Vaquilla quarantotto anni di carcere. Ogni volta che doveva comparire davanti al tribunale di Barcellona Juan José veniva trasferito a Lerida, dove avevano preparato una cella speciale solo per lui. Fu in questo carcere che ritrovò il fratello Antonet. Insieme prepararono un nuovo piano di fuga. Erano in sei. Travestiti da guardie, presero in ostaggio un funzionario e un cancello dopo l’altro arrivarono fino all’ultima porta. L’uomo riuscì a liberarsi e dare l’allarme, ma in quel momento il Vaquilla e i compagni erano già fuori. Scapparono a piedi attraverso i campi, poi in auto, rubando una vettura dopo l’altra e cambiando continuamente direzione. Gli inseguitori li sorvegliavano dagli elicotteri. In un villaggio ai piedi dei Pirenei i fuggiaschi abbandonarono l’auto e imboccarono un cammino di montagna. Era dicembre, nevicava. Camminarono tutta la notte per arrivare al confine, ma poi decisero di fermarsi e di tornare indietro; rubarono un’altra auto, per arrivare a Barcellona prima dell’alba. Entrarono in città dalla Gran Via, il lungo viale che corre parallelo al mare. Il Vaquilla, al volante, sfilò al primo controllo senza farsi notare. Dopo qualche metro, però, dovette fermarsi a un semaforo. Lo affiancò un’auto senza contrassegni. Un poliziotto in borghese si sporse lentamente dal finestrino e mostrò la pistola. Anche quelli del posto di blocco ci ripensarono e accostarono dall’altro lato. Al verde, il Vaquilla accelerò bruscamente. Risuonarono gli spari, ma l’auto dei fuggitivi continuò la sua corsa. L’inseguimento nel traffico del primo mattino durò qualche minuto. Juan José poteva tenere dietro le macchine della polizia, ma le moto, che affluivano da tutte le direzioni, erano più difficili da seminare. Alla fine andò a sbattere contro una macchina che gli apparve davanti all’improvviso. L’auto si accartocciò su se stessa, con le portiere bloccate. I poliziotti cominciarono a sparare. Juan José fu l’unico ferito, alla spalla. Gli agenti lo tirarono fuori e lo ammanettarono davanti alle telecamere. Poi lo lasciarono lì e si misero a litigare tra loro per stabilire a chi toccasse l’onore della sua cattura. Juan José ricomincerà da zero. Si metterà a studiare e dopo anni di isolamento tornerà alla vita in comune con gli altri reclusi. Con una macchina da scrivere e gli articoli dei detenuti comporrà la rivista Alegato. E scriverà per El Pais un editoriale dal titolo: “Le carceri, senza demagogia”. Cambierà altre carceri e per molti anni ancora sarà trattato come un pericolo pubblico. Si farà coinvolgere in un’altra rivolta, pregiudicando la concessione di un permesso che sembrava imminente. Il giudice lo condannerà a centoquattro anni, ma all’uscita del tribunale giornalisti e fotografi lo attenderanno in mezzo a una folla acclamante. Cercherà di smettere la dipendenza dall’eroina e più d’una volta proverà a suicidarsi: tagliandosi le vene, iniettandosi un’overdose o inghiottendo l’antenna di una radio. Nel gennaio del ’94 gli concederanno finalmente i primi tre giorni di libertà, ma qualche mese dopo scapperà durante un trasferimento. La fuga durerà qualche ora. In carcere apprenderà della morte del fratello Antonet, in una sparatoria dopo una rapina in gioielleria. Beneficerà di un indulto parziale, ma tornerà a rubare per procurarsi la droga, perdendo una volta di più la possibilità di ottenere permessi. Il Vaquilla non aveva mai ucciso. La pena di sei anni, con la quale era entrato in carcere alla fine degli anni Settanta, si era convertita con il passare del tempo in una condanna a vita. Il giorno della sua morte, il 19 dicembre del 2003, ancora quattro anni lo separavano dal simulacro della libertà. (luca rossomando)
mondo
detenzioni
Gaza, la fame come arma da guerra e il trauma sociale della popolazione palestinese
(disegno di escif) La guerra israeliana a Gaza si è manifestata in una varietà di forme brutali. La più insidiosa e devastante è stata l’utilizzo della fame come arma. Il 9 ottobre 2023, il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant ha annunciato che non avrebbe permesso l’arrivo a Gaza “di l’elettricità, cibo, né carburante”. La giustificazione è stata che Israele “sta combattendo contro bestie umane”. Due settimane dopo, il membro della Knesset Tally Gotliv ha dichiarato: “Senza fame e sete tra la popolazione di Gaza non potremmo essere in grado di corrompere la gente con cibo, bevande, medicine per ottenere informazioni”. Nei mesi successivi Israele non solo ha ostacolato la consegna degli aiuti ai palestinesi di Gaza, ma ha anche monitorato e distrutto le infrastrutture per la produzione di cibo, tra cui campi coltivati, panifici, mulini e negozi di alimentari. Questa strategia, volta a soggiogare e spezzare lo spirito del popolo palestinese, ha mietuto innumerevoli vittime a Gaza – molte delle quali neonati e bambini piccoli. Ma ha avuto anche profonde conseguenze per i palestinesi di altre zone. Come professionista della salute mentale ho riscontrato in prima persona il peso psicologico e fisico che questa punizione collettiva ha avuto sugli individui di Gerusalemme Est e della Cisgiordania occupata. Ho osservato giovani palestinesi che stanno sviluppando relazioni complicate con il cibo, con il loro corpo e con la loro identità sociale e nazionale come risposta agli orrori a cui assistono e di cui sentono parlare quotidianamente. La cura richiederebbe un intervento molto più complesso che affronti non solo i traumi individuali ma anche quelli politici e storici dell’intera società. TRAUMA POLITICO E SOCIALE Per comprendere gli effetti dell’utilizzo della fame come arma, è essenziale considerare il più ampio quadro sociale e psicologico in cui si verifica. Ignacio Martín-Baró, figura di spicco della psicologia della liberazione, ha sostenuto che il trauma è prodotto a livello sociale. Questo significa che non è semplicemente un’esperienza individuale, ma è incorporato ed esacerbato dalle condizioni e dalle strutture sociali che circondano l’individuo. A Gaza, le strutture traumatogene comprendono l’assedio in corso, l’aggressione genocida ma anche la deliberata privazione di risorse essenziali come cibo, acqua e medicine. Il trauma che ne deriva è aggravato dalla memoria collettiva della sofferenza avvenuta durante la Nakba (la pulizia etnica di massa dei palestinesi nel 1947-48), dal continuo esodo e dall’oppressione sistemica dell’occupazione. In questo ambiente, il trauma non è solo un’esperienza personale, ma una realtà collettiva, socialmente e politicamente radicata. Sebbene i palestinesi al di fuori di Gaza non sperimentino direttamente la violenza genocida scatenata da Israele, sono esposti quotidianamente a immagini e storie strazianti su di essa. L’implacabile e sistematica morte per fame dei residenti di Gaza è stata una testimonianza particolarmente traumatica anche per loro. A poche settimane dalla dichiarazione di Gallant, la carenza di cibo ha iniziato ad avere i suoi effetti. A gennaio, i prezzi dei generi alimentari sono saliti alle stelle, soprattutto nel nord di Gaza, dove un collega mi ha detto di aver pagato duecento dollari per una zucca. Più o meno in questo periodo sono iniziate a emergere notizie di palestinesi costretti a mescolare foraggio animale e farina per fare il pane. A febbraio, le prime immagini di neonati e bambini palestinesi morti per malnutrizione hanno invaso i social media. A marzo, l’UNICEF riferiva che un bambino su tre sotto i due anni era gravemente malnutrito nel nord di Gaza. Ad aprile, Oxfam stimava che l’assunzione media di cibo per i palestinesi nel nord di Gaza non superava le duecento quarantacinque calorie al giorno, ovvero solo il 12% del fabbisogno giornaliero. All’incirca in quel periodo, il ministero della sanità palestinese ha annunciato che trentadue palestinesi, tra cui ventotto bambini, erano stati uccisi dalla fame, anche se il vero bilancio delle vittime era probabilmente molto più alto. Circolavano anche storie di palestinesi uccisi da colpi d’arma da fuoco in attesa della distribuzione di aiuti alimentari, o annegati in mare mentre correvano dietro a pacchi di cibo lanciati per via aerea da parte dei governi che hanno appoggiato la guerra israeliana a Gaza. In una lettera pubblicata sulla rivista medica The Lancet il 22 aprile, il dottor Abdullah al-Jamal, l’unico psichiatra rimasto nel nord di Gaza, ha scritto che l’assistenza mentale è stata completamente smantellata. E ha aggiunto: “I problemi più grandi ora a Gaza, soprattutto nel nord, sono la carestia e la mancanza di sicurezza. La polizia non è in grado di operare perché viene immediatamente presa di mira da droni e aerei spia. Bande armate che collaborano con le forze israeliane controllano la distribuzione e i prezzi dei prodotti alimentari e farmaceutici che entrano a Gaza come aiuti, compresi quelli che vengono lanciati con i paracadute. Alcuni prodotti alimentari, come la farina, sono raddoppiati di prezzo molte volte, aggravando la crisi della popolazione”. CASI CLINICI DI TRAUMA DA FAME La politica di affamamento a Gaza ha avuto effetti psicologici e fisici a catena in tutte le altre comunità palestinesi. Nella mia esperienza clinica ho incontrato diversi casi nella Gerusalemme Est occupata e nella Cisgiordania occupata che illustrano come il trauma della fame si rifletta nelle vite di giovani palestinesi anche lontani dalla zona del conflitto. Eccone alcuni. Alì, un diciassettenne della Cisgiordania, ha mostrato cambiamenti nel comportamento alimentare e ha perso otto chili in due mesi dopo la detenzione di un suo amico da parte delle forze israeliane. Nonostante la significativa perdita di peso, ha negato di sentirsi triste, insistendo sul fatto che “la prigione rende uomini”. Tuttavia, il fatto che avesse espresso apertamente la sua rabbia per le condizioni di Gaza, e i suoi disturbi del sonno, hanno suggerito un profondo impatto psicologico di questi eventi. “Non riesco a smettere di guardare i bombardamenti e la fame a Gaza, mi sento così impotente”. La perdita di appetito di Alì è una manifestazione della sua rabbia e del suo dolore interiorizzati, che riflettono il più ampio trauma sociale che lo ha avvolto. Salma, a soli undici anni, ha accumulato lattine di cibo, bottiglie d’acqua e fagioli secchi nella sua camera da letto. Ha dichiarato di “prepararsi al genocidio” in Cisgiordania. Il padre di Salma ha riferito che diventa “isterica” quando lui porta a casa prodotti alimentari costosi come carne o frutta. La graduale diminuzione dell’assunzione di cibo e il suo rifiuto di mangiare, che si sono esacerbati durante il mese di Ramadan, rivelano un profondo senso di ansia e di colpa per la fame dei bambini di Gaza. Il caso di Salma illustra come il trauma della fame, anche se vissuto indirettamente, possa alterare profondamente il rapporto di un bambino con il cibo e il suo senso di sicurezza nel mondo. Layla, ragazzina di tredici anni, mostra una misteriosa incapacità di mangiare, descrivendo la sensazione che “qualcosa nella mia gola mi impedisce di mangiare; una spina che blocca la mia gola”. Nonostante gli esami medici approfonditi non è stata trovata alcuna causa fisica. Ulteriori approfondimenti hanno rivelato che il padre di Layla è stato arrestato dalle forze israeliane e che lei non ha più avuto notizie di lui. L’incapacità di Layla di mangiare è una risposta psicosomatica al trauma della detenzione del padre e alla consapevolezza della fame, delle torture e delle violenze sessuali inflitte ai prigionieri politici palestinesi. Layla è stata anche profondamente colpita dalle notizie sulla fame e sulla violenza a Gaza, facendo un parallelo tra le sofferenze di Gaza e il destino incerto di suo padre, che ha amplificato i suoi sintomi psicosomatici. Riham, una ragazza di quindici anni, ha sviluppato un processo di vomito involontario ripetitivo e un profondo disgusto per il cibo, in particolare per la carne. La sua famiglia ha una storia di obesità e di gastrectomia, ma lei ha negato qualsiasi preoccupazione per l’immagine corporea. Attribuisce il suo vomito alle immagini di sangue e di smembramento delle persone a Gaza che ha visto. Nel corso del tempo, la sua avversione si è estesa agli alimenti a base di farina, per il timore che possano essere mescolati con mangimi animali. Pur comprendendo che questo non accade nel luogo in cui si trova, è il suo stomaco a rifiutare il cibo quando tenta di mangiarlo. APPELLO ALL’AZIONE Le storie di Ali, Salma, Layla e Riham non sono casi classici di disturbi alimentari. Le raggrupperei come casi di disordine alimentare dovuti a un trauma politico e sociale senza precedenti nel contesto di Gaza e del territorio palestinese nel suo complesso. Questi bambini non sono solo pazienti con problemi psicologici unici. Soffrono gli effetti di un ambiente traumatogeno creato dalla violenza coloniale in corso, dalla militarizzazione della fame e dalle strutture politiche che perpetuano queste condizioni. Come professionisti della salute mentale, è nostra responsabilità non solo trattare i sintomi presentati da questi pazienti, ma anche affrontare le radici politiche del loro trauma. Questo richiede un approccio olistico che tenga conto del contesto socio-politico in cui questi individui vivono. Il sostegno psicosociale ha il compito di dare potere ai sopravvissuti, restituire loro dignità e rispondere ai bisogni di base, in modo che prendano atto dell’interazione tra le condizioni di oppressione e la loro vulnerabilità, e perché possano non sentirsi soli. Gli interventi basati sulle relazioni di comunità dovrebbero essere realizzati promuovendo spazi sicuri per le persone, in modo che possano elaborare le loro emozioni, impegnarsi in una narrazione collettiva e ricostruire un senso di controllo. I professionisti della salute mentale in Palestina devono adottare un quadro di psicologia della liberazione integrando il lavoro terapeutico con il sostegno alla comunità, l’intervento pubblico e strutturale. Questo significa affrontare le ingiustizie, sfidare le narrazioni che normalizzano la violenza e partecipare agli sforzi per porre fine all’assedio e all’occupazione. La difesa da parte degli operatori della salute mentale fornisce ai pazienti una validazione, riduce l’isolamento e promuove la speranza attraverso la solidarietà. Solo con questo approccio possiamo sperare di curare le ferite degli individui e della comunità. (samah jabr / traduzione di riccardo rosa)
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Germania in autunno. La crisi di Volkswagen è la crisi di un sistema
(disegno di cyop&kaf) Il primo dicembre, con la scadenza del contratto di lavoro dei circa 120 mila lavoratori degli stabilimenti tedeschi del gruppo Volkswagen, il sindacato dell’industria IG Metall ha indetto i primi scioperi in risposta agli annunci dei vertici aziendali, che da settimane annunciavano con toni perentori e scoraggianti, eppure allusivi e fumosi, l’improrogabilità di una non meglio precisata drastica riduzione della produzione. Il 4 dicembre l’amministratore delegato del gruppo Volkswagen Oliver Blume, in una turbolenta assemblea d’impresa nello stabilimento centrale di Wolfsburg, in cui non sono mancati fischi e contestazioni, ha definito il gruppo Volkswagen un’azienda da sanare. Si tratta della stessa persona che nei primi mesi di quest’anno, illustrando il consuntivo del 2023, aveva detto: “Abbiamo lavorato a un buon consolidamento. Conosciamo i nostri cantieri aperti e li affrontiamo per accrescere l’enorme potenziale del gruppo Volkswagen. L’azienda entra nella competizione di lungo corso della trasformazione da una posizione di forza”. Oggi pare che la posizione di forza di cui Blume, appena pochi mesi fa, diceva che Volkswagen avrebbe goduto nella competizione globale dell’automotive abbia il suo nocciolo in un’ondata di licenziamenti e nella riduzione del dieci per cento della paga di chi rimane, come trapela dalle linee guida di parte datoriale nel primo round di trattative con IG Metall per il rinnovo del contratto di lavoro.  Per non cadere nello sgomento indotto dalla narrazione dominante dei media, che racconta di un amaro calice da bere per evitare di doverne trangugiare uno ancora più amaro, se non mortale, è bene ricordare che il gruppo VW nel 2023 ha avuto profitti netti per 17,9 miliardi di euro, contro i 12,1 di Mercedes e i 5,7 di BMW. I dati del 2023 hanno portato il gruppo VW a una riserva complessiva di utili, cui attingere quando si va incontro al rischio di nuovi investimenti, di 147,8 miliardi di euro, contro i 21,1 di Mercedes e i 90,9 di BMW. Ed è bene anche ricordare che la politica tedesca ha sempre considerato la promozione dell’automotive nazionale come una missione strategica per il consolidamento della propria economia, benché molte decisioni prese nel corso degli anni siano andate in direzione contraria a quanto ci si augurasse: nel 2009 il governo Merkel introdusse un premio rottamazione di 2.500 euro per ogni nuova auto acquistata e il risultato fu che nel periodo di incentivi alla rottamazione le importazioni di auto salirono dell’undici per cento e i profitti interni calarono del ventuno per cento. Il ceto medio si mostrava interessato al premio pagato dal contribuente, ma spesso per cambiare la sua vecchia Golf con un’affidabile citycar coreana. Come se tutto ciò non fosse stato parte di un errore politico made in Germany, il governo ibrido Scholz, formato da socialisti, verdi e liberali, ha provato ad alzare la posta del premio a 6.000 euro per ogni nuova immatricolazione e soprattutto, sul finire dei suoi tre anni di vita, ha fatto salire a 95 mila euro il tetto massimo del prezzo di listino per la vendita agevolata delle auto immatricolate come veicoli aziendali: l’utente di un veicolo aziendale deve pagare mensilmente al fisco lo 0,25% del prezzo di listino dell’auto, se elettrica, lo 0,5% se ibrida e di questa cifra si calcola solo il quaranta per cento dell’aliquota fiscale marginale. Se dunque l’utente di un SUV elettrico Mercedes, che di listino costa 95 mila euro, lo immatricola come vettura aziendale, per goderne come auto propria dovrà pagare mensilmente 238 euro, cifra che poi, al netto delle detrazioni dell’aliquota, scende definitivamente a 95 euro. Se non è un regalo, poco ci manca. Di questa operazione hanno ringraziato gli elettori dei liberali e anche dei verdi, ridotti ormai a riserva di caccia di un’upper class boriosa e indolente, che si è autoproclamata buona, giusta e pulita. Perché ci si siano accodati anche i socialdemocratici, resta un mistero. O forse neanche. Di certo, l’insolenza con cui si lascia impinguare le aziende automobilistiche con i soldi dei lavoratori dipendenti per permettere al lavoratore autonomo di scegliersi uno status-symbol quasi a costo zero, induce a riflettere sul fatto che il ruolo di locomotiva d’Europa, tanto volentieri affibbiatole, spetti di diritto alla Germania non tanto in virtù di una non meglio argomentata solidità economica, quanto piuttosto per il suo ruolo di apripista europeo nel condurre una guerra di discriminazione sociale in cui si vendono per eque e utili a tutti, decisioni politiche che consolidano le risorse dei più forti facendo strame di quelle dei più deboli.  Nel caso specifico di Volkswagen, l’abbraccio mortale della politica è particolarmente diretto e pervasivo, essendo il Land della Bassa Sassonia, regione in cui si trova Wolfsburg, la città-azienda del marchio VW, proprietario del venti per cento dell’azionariato: con simili rapporti di forza, è elementare che l’umore dell’azienda divenga un termometro su cui misurare le affezioni della politica e che quest’ultima sia sempre pronta a far partire gli idranti ogni volta che dai consigli d’amministrazione partono le più funeste previsioni di incendi potenzialmente indomabili.  Ma la stessa politica che per autotutelarsi corre in soccorso dell’automotive con i soldi del contribuente, non è stata in grado di fiutare in tempo i nuovi bisogni di infrastrutture in uno scenario in cui l’Unione europea ha decretato che nei suoi territori nel 2034 cesseranno di essere prodotte auto a combustione. E la conversione all’elettrico avanza con lentezza perché, al di là degli slogan ecologisti buoni per tutte le stagioni, la politica ha fatto poco per sviluppare un’infrastruttura di sistemi a rapida alimentazione, che richiede erogazioni di almeno 300 kwh. Il risultato è che nel mese di luglio 2024 le immatricolazioni di auto elettriche sono state 30.762, a fronte di 43.107 diesel, 79.870 ibride e 83.405 a benzina: tra soli dieci anni nell’Ue la produzione di motori a combustione fossile sarà illegale, eppure nel paese più popoloso dell’Unione le auto elettriche si sono finora integrate al paesaggio al massimo come uno sfizio per benestanti, che si montano fuori la porta delle loro agiate case monofamiliari la colonnina privata di alimentazione elettrica, possibilmente vicino alla pompa di calore, per la quale il ministro dell’economia uscente, il verde Robert Habeck, ha fatto una campagna scandalosamente militante come nuovo sacro Graal del rifornimento di energia, alla quale la classe agiata tedesca si è accodata compatta. Chissà se sia stato un caso che nel 2023, nel pieno del tambureggiamento mediatico condotto con toni tali da far sentire chi ancora usava il gas per il riscaldamento come un nemico della patria, la Viessmann, prima azienda tedesca nella produzione di pompe di calore, sia stata acquistata dagli americani di Carrier Global per dodici miliardi di euro.  Tornando alle cause della crisi presunta insostenibile di Volkswagen, va detto che la politica, a scelte sbagliate riguardo il modo di incoraggiare la diffusione della mobilità elettrica, ha aggiunto una ferma rigidità nell’aumento dei costi dell’energia per l’industria, in conseguenza delle sanzioni economiche alla Russia dopo lo scoppio della guerra contro l’Ucraina. Si è passati dai 15-18 cent/kwh anteguerra ai 43,20 del 2022, diventati 24,46 nel 2023 e tornati oggi al livello anteguerra, ma solo grazie alle sovvenzioni statali che non si sa fin quando dureranno. E i costi energetici pesano doppiamente per i produttori: per la produzione in loco e per il prezzo finale delle componenti prodotte per conto terzi. In un contesto di generale contrazione del potere d’acquisto, causato dall’aumento dei tassi d’interesse in risposta all’inflazione, è naturale che la produzione automobilistica tedesca soffra molto la concorrenza cinese, che produce a costi non solo energetici più bassi, nel settore medio, mentre nel settore alto continui a essere brillante: chi vuole la Porsche e se la può comprare, se la comprerà in qualsiasi congiuntura geopolitica. Dunque la politica ha commesso anche l’errore di non orchestrare decisioni coraggiose che permettessero di ridurre i prezzi sorgenti della produzione industriale, come sarebbe stato più utile fare, piuttosto che cercare di incentivare con danaro pubblico la vendita degli immensi parchi-auto di carissima produzione tedesca, destinata senza incentivi a restare ancora più desolatamente invenduta. Ma occorre non dimenticare che, come già riportato, nonostante l’esorbitante aumento dei prezzi di produzione, le case automobilistiche tedesche, a cominciare da Volkswagen, hanno continuato a riportare margini di profitto a dir poco robusti.  La politica potrebbe giocarsi carte pesanti per lenire evidenti storture, per esempio superare le sanzioni alla Russia e riprendere a importare gas a prezzi moderati, nonostante il sabotaggio (anche quello politico) di Nord Stream. Come potrebbe ripensare i termini dell’uscita di scena dei motori a combustione, che oltretutto l’Ue non condivide con quasi tutto il resto del mondo. E questo non per tornare ai combustibili fossili, ma per prendere il tempo realistico e necessario allo sviluppo di carburanti a idrogeno, come degli e-fuels, carburanti sintetici prodotti con l’elettricità, la cui affidabilità a oggi non è ancora paragonabile a quella delle batterie elettriche, ma il cui approvvigionamento potrebbe servirsi un giorno della già esistente rete di distribuzione dei combustibili fossili. Questi temi tuttavia, nell’Ue e nei singoli paesi che vogliono accreditarsi suoi fedeli membri, sono tabù indiscutibili e questo la dice lunga sull’onestà intellettuale di chi si accredita come mediatore di soluzioni condivise nel più generale interesse possibile.  La crisi di Volkswagen è una crisi di sistema, la crisi incestuosa di un’idea di fare politica e di un‘idea di produrre ricchezza in cui lo sfruttamento e il sacrificio di chi non ha voce in capitolo vengono raccontati, al più, come mali necessari. Ed è una crisi che giunge all’indomani della caduta del governo tedesco e dell’indizione di elezioni anticipate in marzo: troppo tempo per aspettare nuovi interlocutori politici cui affidare le proprie letterine di desideri natalizi, ancor più se si pensa che dal 2025 l’Ue punirà con pesanti sanzioni economiche le industrie automobilistiche europee il cui complessivo parco-auto supererà una soglia massima di emissioni di anidride carbonica: qui BMW non ha nulla da temere, mentre Mercedes e ancor più Volkswagen sono minacciate da sanzioni nell’ordine di svariati miliardi di euro, anche perché i membri di un governo che si facevano la guerra in casa propria hanno avuto comprensibilmente scarsissima capacità di fare lobbying a Bruxelles.  Nell’algido e desolato slang manageriale tedesco, da un po’ di tempo a questa parte si è fatta largo la parola Transformation, che col suo carico esterofilo è capace di suscitare sgomento e costernazione, soprattutto quando se a ripeterla è un top manager che annuncia cambiamenti epocali. Questa parola serve a creare un feeling, l’impressione che per restare dentro la storia bisogna accettare ciò che di nuovo la storia pretende da noi. Appena scade nell‘impersonale, la narrazione della Transformation entra nel vivo della sua infamia: ipostatizza a verità metafisica modelli di sfruttamento e di dominio come uniche possibili forme di relazione tra esseri umani, e tra esseri umani e natura. La sfida della logistica è ormai la Transformation di ogni principio regolatore nel cardine del paradigma-Amazon. La sfida dell’automotive è ormai la Transformation nel cardine del paradigma-Tesla. E ce ne sarebbe ancora, per l’informazione, per la comunicazione, per l’alimentazione. Su ogni questione della vita quotidiana e comunitaria grava l’ombra di una Transformation che promette un benessere capace di non inciampare mai nel fastidio della libertà. (pasquale guadagni)
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Una manifestazione contro il caro affitti a Barcellona
Abbassare gli affitti del 50%: questa è la richiesta chiara dell’imponente manifestazione che ha sfilato sabato per le strade di Barcellona. Oltre 170.000 persone, i collettivi in difesa della casa, gruppi ecologisti, sindacati, hanno unito le loro richieste per la prima volta in un evento senza precedenti nella capitale catalana, e superiore anche ai numeri, già significativi, delle manifestazioni per la casa degli ultimi mesi a Madrid, Valencia, Palma. Le richieste vanno anche oltre alla riduzione degli affitti. Si parla di annullare tutti i contratti temporanei e turistici, del divieto di acquisto di case a scopo speculativo, e del recupero delle case abbandonate per uso abitativo. La manifestazione è stata un successo, ora si ventila anche la possibilità di uno sciopero degli affitti per rendere concreta l’urgenza di queste rivendicazioni. (galleria di victor serri)
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L’infanzia impossibile. Il fardello insostenibile della guerra sulle spalle dei bambini di Gaza
(disegno di sam3) Da domani, 10 novembre, e fino a martedì 12, la psichiatra e psicoterapeuta Samah Jabr sarà a Napoli per parlare del suo ultimo libro, Il tempo del genocidio, e del massacro in corso in Palestina da più di un anno.  Il primo appuntamento è per domani, alle ore 17:00 all’ex Asilo Filangieri (vico Giuseppe Maffei, 4). L’ultimo martedì 12, all’università L’Orientale per uno dei seminari del ciclo Huna Filastin. Qui potete trovare il programma completo.  Pubblichiamo a seguire un articolo scritto da Samah per il quotidiano arabo on-line Alquds e tradotto dall’inglese da Cloe Curcio (Sensibili alle foglie).  *     *     * Nel contesto dell’aggressione in corso su Gaza sta emergendo un nuovo fenomeno psicologico. Migliaia di bambini vengono privati della loro infanzia e stanno assumendo i ruoli di adulti dopo aver perso i loro padri e madri. L’aggressione in corso a Gaza ha lasciato decine di migliaia di  orfani, di uno o entrambi i genitori, e quasi un milione di bambini sfollati, costringendoli a rinunciare al gioco e allo studio per assumersi responsabilità superiori a quelle appropriate per la loro età. In questo ambiente duro, questi bambini si stanno trasformando in “piccoli capifamiglia”, in un tentativo disperato di riempire il vuoto lasciato dall’assenza degli adulti. In ogni caso, l’immenso fardello psicologico di questi ruoli può lasciare profonde ferite nei loro spiriti, che dureranno per tutta la loro vita. DIARIO DI CAMPO Nelle strade di Gaza sono chiaramente visibili le caratteristiche di questa tragedia quotidiana. Vediamo un bambino non più grande di dieci anni che lavora per portare sacchi di farina da venticinque chili sulle sue esili spalle, per guadagnare una manciata di shekel per sfamare i suoi famigliari dopo che suo padre è stato martirizzato e sua madre è stata dichiarata dispersa. Vediamo un altro dodicenne che porta il suo fratellino neonato sulla schiena, occupandosi costantemente di lui dopo che sua madre è stata martirizzata. Vediamo anche una ragazzina di dieci anni che percorre a piedi quotidianamente lunghe distanze per procurare pesanti galloni d’acqua e un’altra che trasporta la sorellina quasi coetanea impossibilitata a camminare, alla ricerca di un luogo sicuro. Un altro bambino conforta sua madre in lutto, vedova e ferita, che non riesce a prendersi cura di lui, per incoraggiarla e consolarla. Questi esempi non sono casistiche individuali, piuttosto rappresentano immagini quotidiane significative della cupa realtà sofferta da centinaia di migliaia di bambini a Gaza, privati della loro infanzia e della loro naturale dipendenza dai genitori, sotto il peso del genocidio che ha portato in tutte le famiglie, nessuna esclusa, dolore e lutti. IL FARDELLO INSOSTENIBILE DI UN RUOLO DA ADULTO I ruoli imposti ai bambini in guerra hanno conseguenze psicologiche complesse e difficili da risolvere. Lo stress a cui vengono sottoposti questi bambini è uno stress psicologico grave e duraturo, che supera la capacità fisica e psicologica di riprendersi. Questo tipo di stress inficia lo sviluppo sano del cervello e le connessioni emotive normali proprie di questa età. I bambini che vivono in queste condizioni di stress perdono la capacità di concentrarsi e di apprendere, esibendo una tendenza a ritrarsi socialmente che compromette il loro sviluppo psicologico e cognitivo. Nonostante attribuire ai bambini alcune responsabilità commisurate alla loro età e alle loro competenze possa migliorare la loro autostima e contribuire al loro sviluppo, quando essi si trovano ad assumere ruoli oltre la loro età vengono privati dell’opportunità di esplorare se stessi attraverso l’educazione e il gioco, si ritrovano bloccati in responsabilità che non sono adeguate alle loro capacità. Questi bambini poi soffrono di difficoltà nel definire se stessi oltre i ruoli di capofamiglia e di caregiver imposti loro dalla guerra. Un ulteriore aspetto psicologico di questa sofferenza è la soppressione delle emozioni e lo sviluppo di sensi di colpa cronici, poiché i bambini sono costretti a sopprimere i loro sentimenti per non sembrare deboli davanti ai loro parenti, incrementando così il loro senso di responsabilità e imponendo su di loro pesanti fardelli psicologici. Essi si sentono in colpa ogni volta che si scoprono incapaci di soddisfare i bisogni delle loro famiglia e questa sensazione può far insorgere disturbi ansiosi e depressivi nel lungo termine. I bambini sono inoltre soggetti a quella che è definita una “normalizzazione della sofferenza”, dove la violenza e la sofferenza diventano una parte normale della vita quotidiana. Questa normalizzazione li rende incapaci di riconoscere un’infanzia normale, esacerbando la loro sofferenza psicologica e incrementando la loro esposizione a rischi sproporzionati alla loro età. Per esempio, alla domanda: «Cosa farai da grande?», abbiamo sentito un bambino rispondere: «I bambini non crescono, a Gaza». Inoltre, i bambini che assumono il ruolo di caregiver nelle loro famiglie hanno difficoltà a costruire relazioni sane in futuro. Per loro, i concetti di amore e cura sono associati con il portare fardelli pesanti, che li spinge a dare eccessivamente o evitare completamente le relazioni romantiche, nel timore di cadere nuovamente nella trappola della responsabilità. L’INTERVENTO PSICOLOGICO SOTTO LE BOMBE In questa atroce realtà l’intervento psicologico è una necessità urgente, ma la sua implementazione in un ambiente soggetto a bombardamenti e sotto assedio risulta estremamente difficile. Il supporto psicologico non può essere offerto efficientemente sotto bombardamenti continui, poiché ai bambini manca un ambiente in cui elaborare e superare il trauma. Inoltre, i blackout di energia elettrica e di internet, insieme alla massiccia distruzione di infrastrutture, impediscono l’offerta di assistenza in maniera utile dall’esterno della Striscia. Anche quando sono disponibili delle sessioni di psicoterapia, i terapeuti hanno difficoltà a fare un progresso sostenibile dovuto al perdurare di paura, fame, sfollamenti e instabilità. Un bambino non può riprendersi dal trauma della perdita dei propri genitori mentre si trova sotto la minaccia di morte o sfollamento in qualsiasi momento. Nonostante i programmi di psicoterapia siano importanti, essi devono essere integrati da sforzi comunitari e internazionali per offrire protezione ai bambini e ristabilire il senso di sicurezza che hanno perso. Al fine di alleviare la sofferenza di questi bambini occorre offrire un sostegno comprensivo per ristabilire il loro ruolo normale e l’equilibrio psicologico e sociale. Oltre al trattamento psicologico, alleviare il fardello dei bambini richiede di offrire assistenza finanziaria diretta alle famiglie in difficoltà e di incoraggiare i membri della comunità a prendersi cura di quei bambini, per evitare che essi siano costretti a lavorare da piccoli. La comunità locale deve anche essere coinvolta nell’offerta di cura e custodia. I membri della comunità possono essere formati per offrire supporto psicologico ai bambini, oltre a costruire centri di comunità che offrano attività sportive e artistiche per aiutarli a esprimersi. Ambienti sicuri di apprendimento sono necessari per reintegrarli nelle scuole e compensare la perdita educativa conseguente alla guerra. Questi sforzi devono essere integrati con campagne internazionali che facciano pressione per porre fine al genocidio e garantire l’accesso umanitario a Gaza. La “forza” mostrata dai bambini di Gaza nel sostenere i fardelli non è sempre motivo di orgoglio, ma piuttosto un grido d’aiuto che riflette la profondità della sofferenza che stanno vivendo. Questi bambini hanno bisogno di un supporto reale, che ripristini la loro infanzia rubata e offra loro l’opportunità di crescere normalmente in un ambiente sicuro, dove i loro diritti fondamentali siano rispettati. Ristabilire la loro infanzia non è un lusso, ma un’urgente necessità per garantire un futuro sano alla società palestinese. (samah jabr / traduzione di cloe curcio)
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Sull’inutilità e il danno di una giornata mondiale per la salute mentale
Oltre la metà del calendario è ormai occupata da “giornate mondiali”, “europee”, “nazionali”, dedicate alle più svariate tematiche. Solo l’Onu, nel suo calendario delle Giornate Internazionali, ne celebra centoquaranta. Una ipertrofia consumistico/commemorativa che, svuotata [...] L'articolo Sull’inutilità e il danno di una giornata mondiale per la salute mentale sembra essere il primo su NapoliMONiTOR.
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Giardini nascosti e cantieri del governo. Un viaggio in Sinai
Accanto alla strada le palme sono secche, paiono stecchi alti in fila lungo le corsie d’asfalto. Sharm el-Sheikh non è un luogo, ma una nebulosa di strutture distanti – l’aeroporto, la stazione dei bus, i resort - collegate a [...] L'articolo Giardini nascosti e cantieri del governo. Un viaggio in Sinai sembra essere il primo su NapoliMONiTOR.
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