(disegno di escif)
Alla fine è arrivato questo dieci settembre francese. Se n’è parlato per tutta
l’estate: dai grandi giornali era tutto un fiorire di “-isti”: “complottisti”,
“putinisti”, “sovranisti”. Aggettivi-spauracchio, buttati lì senza attenzione,
però è vero che la data era, più che nebulosa, avvolta nella nebbia,
imperscrutabile.
Così ho cominciato il mio giro al mattino a place des Fêtes, sopra Belleville. I
blocchi erano iniziati sulla porta della tangenziale all’alba, ben prima
dell’orario al quale sono giunto in piazza. Lì c’erano diverse centinaia di
persone, soprattutto tanti studenti. Una folla era assiepata in assemblea, ma
c’era chiasso e mi arrivavano dei lemmi come a intermittenza: Palestina, taxer
les riches, occupation, blocages…
Più in giù, a République, c’erano invece diverse migliaia di persone. La piazza
era gestita dai movimenti dei lavoratori sans-papiers. Dal palco un uomo
gridava: «Abbiamo fatto cadere [il governo di François] Bayrou, ora facciamo
cadere Macron!». Ed effettivamente il nome del Président è su tutte le bocche e
su altrettanti muri, spesso seguito dall’urlo: «Démission!».
Mentre passeggio e guardo, la nebbia si dissipa. Ancora non so mettere a fuoco
precisamente i contorni del paesaggio, ma riconosco la sensazione di trovarmi in
terreno conosciuto: quello che succede è nuovo nelle pratiche, ma anche
famigliare e, soprattutto, la gente che vi partecipa non mi è estranea.
In disparte scorgo un gruppetto di gilets jaunes. Due di loro hanno il gilet
ricoperto da delle date tracciate a mano, in linea retta, col pennarello blu;
l’inchiostro è ormai appassito dalle intemperie. Lei si chiama Michèle, lui
Jean-Claude e sono entrambi gilet gialli della prima ora, ormai dei veterani.
Lavorano entrambi nell’industria farmaceutica nella grande banlieue parigina. Si
dicono “tecnici”, ma hanno l’aspetto umile. Lei ha i capelli bianchi arruffati,
dice di aspettare con ansia la pensione; lui, alto e magro, ha un filo di barba
e qualche problema ai denti.
Michèle dice che è contenta «che la gente sia fuori, per strada», ma giudica
l’appello – “bloccare tutto” – un po’ «confuso». Comunque, dice, «è un buon
inizio». Jean-Claude fa tutto un discorso che risale a quel fatidico 2018.
Quando sono scesi in piazza, dice, «era per ottenere il referendum d’iniziativa
cittadina» (in Francia il referendum all’italiana non esiste), ovvero, «per
riprendere il controllo sulle istituzioni». Hanno fallito, riconosce, e quindi
eccoci qua con un presidente che fa quel che vuole con le istituzioni, un
presidente che «nomina primi ministri senza tener conto del voto». E il
risultato è che si producono movimento come quello odierno.
Scendo nella metro mentre qualcuno offre dei panini («Prenez des forces! Vous en
aurez besoin!»), mi ritrovo intruppato in un gruppo e di giovani. Una ragazza:
«Ce ne siamo presi di lacrimogeni. A Gare du Nord, sì». Poco prima, qualche
centinaio di persone avevano tentato di bloccare la stazione ed erano stati
caricati dalla polizia. Sui video mi aveva colpito il fatto che, per la prima
volta da anni, i ragazzi facessero cordone e non retrocedessero alla prima
carica. C’era come un’abitudine, una disinvoltura allo scontro.
Esco dal sottosuolo a Hotel de Ville. Voglio andare a Châtelet, ma anche fare
due passi, vedere. Non appena metto i piedi sulla strada, sono avvolto da
centinaia di bolle di sapone: sorpreso, scorgo un saltimbanco che, con due
grandi corde e un pezzo di tela, intrattiene dei turisti riempiendo il parvis
del comune con queste grandi bolle insaponate.
Più in là la piazza di Châtelet è gremita. Qui la piazza è quella sindacale,
convocata dalle federazioni della Cgt che, disobbedendo all’imbarazzo della
direzione centrale, si sono buttate nel sostegno a questa protesta spontanea.
Chiacchiero con una compagna che torna dai blocchi mattutini, stravolta dalla
stanchezza. Dice che è andata bene, che erano ovunque, anche se la composizione
è quella solita: tanti gauchistes…
Un’infermiera in sciopero mi racconta di un’assemblea con cinquecento persone
davanti al suo ospedale, gremita di colleghi e di abitanti del quartiere; e di
come dopo siano andati in gruppo al deposito Ratp lì vicino dove c’era un
picchetto. Un compagno mi racconta dei picchetti agli inceneritori. Un’altra
dell’assemblea dei ferrovieri a Gare de Lyon, poi giunta in corteo a Châtelet, e
dell’aggressività della polizia che aveva paura bloccassero i binari.
Faccio un giro. Una ragazza bardata con uno scialle dice che ora vanno a
bloccare rue de Rivoli, ma è tutto calmo. Poi la massa si muove verso
République, come una gigantesca manif sauvage: rivoli di folla emergono sul
boulevard Sébastopol, non credo di aver mai visto una manif sauvage così grossa.
Spuntano le prime barricate, cassonetti rovesciati e dati alle fiamme, due
materassi coperti da spazzatura bloccano il traffico, un giovane dà loro fuoco e
partono i primi lacrimogeni. Le persone a malapena ci fanno caso: l’unico gesto
di risposta avviene all’unisono, ed è quello della mano che rapida e sicura
mette la mascherina a coprire la bocca e il naso. La gente si perde nelle
viuzze, verso Opéra.
La sera vado a Place des Fêtes, piove. Ci sono migliaia di persone. Un’assemblea
gigante, memore di Nuit Debout, ma meno organizzata, il suono degli interventi
si perde tra il battere della pioggia sugli ombrelli. Qualcuno fa una barricata
e le dà fuoco, le batterie al litio delle bici in sharing scoppiettano e mandano
scintille bianche, sotto lo sguardo scazzato dei pompieri.
Dopo un po’ la polizia sgombera, e ora riconosco il paesaggio: è quello del
movimento nel 2023 contro la riforma delle pensioni di Macron. Che si svegliava
all’alba per partecipare ai picchetti davanti ai depositi dei trasporti, agli
inceneritori, alle stazioni e agli ospedali. Ma questa volta si è attivato senza
chiedere il permesso delle “centrali” sindacali, e quindi non solo detta
l’agenda, ma pesca liberamente dalle pratiche dell’ultimo decennio: ecco allora
i blocchi e le azioni da gilet jaunes e le assemblee alla Nuit debout, i
picchetti… Un decennio di lotte condensato in una strana festa, assembleare,
incerta. Promette molto e bene. Chissà. In ogni caso, Macron démission. (filippo
ortona)
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(disegno di giancarlo savino)
Nel dicembre 2024 una delegazione di agricoltori europei affiliati al movimento
Via Campesina è andata in visita in Cisgiordania, da un lato per esprimere
solidarietà ai lavoratori agricoli palestinesi dell’UAWC, dall’altra per
promuovere la salvaguardia dell’autonomia alimentare palestinese: dalla
produzione di ortaggi, all’olio di oliva, fino ai prodotti locali coltivati nei
territori occupati.
Via Campesina è un movimento internazionale nato nei primi anni Novanta in
Belgio, per unire le rivendicazioni di milioni di contadini, lavoratori senza
terra, popolazioni indigene, pastori, pescatori, lavoratori agricoli migranti,
piccoli e medi agricoltori; una lotta che naturalmente oggi si intreccia con le
rivendicazioni palestinesi, visto che l’attacco alla sovranità alimentare è un
fattore chiave del sistema di oppressione israeliano, poiché il controllo dei
mezzi di produzione agricoli impedisce l’autonomia del popolo palestinese. Per
parlare dell’esperienza in Cisgiordania contatto uno dei delegati che ha preso
parte alla visita.
Partiamo da Gaza. Qual è la situazione rispetto ai dati in vostro possesso?
La situazione a Gaza è catastrofica. Il pesce prodotto in Palestina arrivava dai
pescatori a Gaza, ma quella flotta di pescatori non esiste più. Anche la
situazione dell’agricoltura è drammatica. La quasi totalità delle terre sono
completamente inutilizzabili. L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite rileva che
solo l’8,6% dei terreni coltivabili a Gaza è ancora accessibile, mentre solo
l’1,5% dei terreni coltivabili è sia accessibile che intatto. Alcuni campi sono
stati resi non coltivabili dai residui chimici dei bombardamenti, che nessuno sa
come smaltire. Inoltre il cuscinetto di sicurezza che Israele sta imponendo
nella Striscia sta diventando sempre più esteso, si parla di una zona
inaccessibile profonda fino a due chilometri dal confine della Striscia. Una
dimostrazione di come Israele non voglia che Gaza torni a essere abitabile.
Siamo preoccupati dall’indifferenza degli organismi istituzionali. Già dai primi
mesi del 2024 disponevano di dati che mostravano come a Gaza fosse in atto una
carestia. Tuttavia a causa del blocco imposto dall’esercito israeliano
all’ingresso di ispettori internazionali, il comitato tecnico legato alle
Nazioni Unite ha ritardato il riconoscimento dello status, ratificandolo
pubblicamente solo alcuni giorni fa.
In Cisgiordania, invece, c’è stato un attacco molto recente a Hebron, contro
l’unità di riproduzione di sementi dell’UAWC.
L’attacco dimostra come nessun luogo in Cisgiordania è al sicuro, nemmeno gli
uffici o i campi coltivati di un’organizzazione. L’offensiva ha colpito una
delle unità di riproduzione delle sementi palestinesi nei territori occupati ed
è stato lanciato senza alcun preavviso. L’unità di riproduzione garantiva la
salvaguardia di un assortimento evolutivo di sementi selezionando, attraverso
laboratori all’avanguardia, quelle più vitali e più salubri da distribuire ai
contadini che ne facciano richiesta. L’UAWC svolge un altro ruolo fondamentale:
identificare i terreni che sono a rischio requisizione. Nel 1950 in Israele è
stata approvata una legge che stabilisce che tutti i terreni non coltivati o non
lavorati regolarmente, vengano requisiti e redistribuiti a coloni o cittadini
che ne facciano richiesta. Per questo è fondamentale il ruolo di supporto a
UAWC: perché piantare degli ulivi o prendersi cura della terra viene visto come
un’attività che mette a repentaglio l’esistenza stessa di Israele. Tuttavia i
metodi di persecuzione maggiormente utilizzati dal governo israeliano consistono
nel fiaccare i contadini attraverso attacchi mirati. L’esercito israeliano, per
esempio, attacca gli allevamenti di polli quando sono pronti per la vendita,
come accaduto nel villaggio di Qusra, dove sono stati messi i sigilli, chiusi
gli edifici e staccata l’elettricità. Stessa cosa succede nei campi con la
distruzione del frumento poco prima della trebbiatura. Tuttavia vediamo una
coscienza contadina e delle radici ancora molto forti. A Betlemme abbiamo
visitato un campo profughi palestinese, in luoghi dove l’acqua è razionata. Nel
campo, sopra il tetto di una casa, gli abitanti avevano costruito una serra
idroponica per svolgere attività educative con i bambini. Un’immagine iconica
che dimostra quanto i palestinesi abbiano a cuore il rapporto con la terra e con
le proprie coltivazioni.
Quali sono i pericoli a cui vanno incontro i contadini che coltivano le terre in
Cisgiordania?
In primo luogo i contadini ci hanno raccontato delle difficoltà incontrate per
l’accesso ai campi. Viene negato l’ingresso ai contadini con un’età inferiore ai
quaranta anni. Una strategia per rendere l’agricoltura un settore minoritario e
non attrattivo per i giovani. Inoltre, circa il sessanta per cento della
Cisgiordania ricade nella zona controllata da Israele, secondo gli accordi di
Oslo, denominata zona C; in questa fascia di terra troviamo la maggior parte
della produzione agricola palestinese. Per coltivare i terreni è necessario che
gli agricoltori dispongano di un documento, rilasciato da un ufficio di
coordinamento, che autorizzi i contadini ad accedere ai propri terreni. Senza
l’autorizzazione diventa più semplice per i coloni e l’esercito giustificare
attacchi violenti contro gli agricoltori e i volontari internazionali.
L’altra cosa che abbiamo visto, in particolare nella valle del Giordano, è la
presenza di fiumi e fonti d’acqua circondati dal filo spinato. Un modo per
negare ai palestinesi il prelievo dell’acqua. Nei casi in cui l’accesso ai pozzi
non viene recintato, l’accesso viene regolato da aziende israeliane parastatali,
come la Mekorot, che ricattano la popolazione palestinese creando una sorta di
competizione interna nei villaggi, costringendo gli abitanti a scegliere se
mandare l’acqua verso le case o per l’irrigazione dei terreni.
In taluni casi, in cui i villaggi palestinesi vengono dotati di condutture
idriche grazie a finanziamenti provenienti da fondi europei – come nel paese di
Bardala, nella valle del Giordano, dove un centinaio di famiglie beneficiavano
dell’infrastruttura – i soldati hanno distrutto centinaia di metri di tubature.
Un’altra questione è legata alla diffusione di un lavoro agricolo, specialmente
nella valle del Giordano, in cui si cerca di attrarre manodopera palestinese
nelle colonie di monocolture intensive israeliane garantendo paghe molto alte e
creando così una doppia frattura: rafforzamento del sistema produttivo
israeliano e indebolimento dell’agricoltura palestinese. Non tutti cadono in
questa trappola. In alcuni villaggi dove esiste un’organizzazione sociale più
radicata, l’intero villaggio sceglie collettivamente, in assemblea, di non
piegarsi a questo meccanismo coloniale.
Cosa è cambiato dopo il 7 ottobre?
Dopo il sette ottobre l’occupazione delle terre procede a una velocità
impressionante. Rispetto al 2017 – il mio precedente viaggio in Cisgiordania –
il movimento dei coloni ha sviluppato metodologie sempre più violente, come le
colonie pastoraliste mobili che si dotano di capi bestiame più o meno numerosi e
che, con delle roulotte, si fanno spazio nelle aree semi desertiche tra la valle
del Giordano e le zone più popolate della Cisgiordania. Una modalità che
aggredisce le comunità beduine che vivono una vita seminomade. Questi ultimi non
avendo lo spazio per muoversi, e non essendo più liberi di spostarsi, sono
costretti a restare nello stesso posto; a dover comprare il mangime, l’acqua e i
medicinali perché gli animali abituati a pascolare allo stato brado cominciano a
produrre meno latte.
Un’altra cosa che abbiamo notato è la crescita dei cosiddetti “avamposti
bandiera”. I coloni che piantano una bandiera israeliana in cima a una collina.
E formando un recinto e un piccolo muro bloccano l’accesso ai campi agli
agricoltori palestinesi. Basta una bandiera piantata su un mucchio di terra e di
colpo interi campi diventano di proprietà dei coloni israeliani come accaduto a
Gerusalemme Est.
Come movimento su cosa bisogna lavorare per supportare la lotta in Palestina?
Abbiamo notato come la presenza di volontari e attivisti internazionali sia
fondamentale. Tuttavia bisogna osservare la questione con una lente decoloniale.
Nel movimento europeo forse è presente un paternalismo di fondo, una modalità
frequente nei progetti della comunità internazionale, dove eleggiamo i
rappresentanti e scegliamo quelli che sono i temi. In realtà, sono i palestinesi
che devono indicarci le loro priorità. Questo ci è stato segnalato da
un’organizzazione femminista incontrata a Ramallah, dove abbiamo parlato per
un’ora e mezza su come la violenza di genere, l’oppressione delle donne, e le
violenze sessuali sono rilevanti nella strategia di oppressione e di massacro
della popolazione palestinese. Allo stesso tempo ci hanno detto che quando la
loro organizzazione si rapporta con i movimenti femministi europei, nord
americani e le Ong si tende a dare più peso alla violenza domestica, piuttosto
che alla violenza strutturale contro le donne nell’occupazione sionista. Noi
crediamo in un rapporto orizzontale e internazionalista tra popoli, non a una
solidarietà selettiva nei confronti del popolo palestinese. Dobbiamo lavorare
per spogliarci di questi retaggi colonialistici, concentrando gli sforzi in ciò
che i palestinesi chiedono: cessate il fuoco, fine del genocidio e delle
politiche espansionistiche di occupazione in Cisgiordania. Per questo è
necessario pressare Israele attraverso campagne di boicottaggio economico,
nonché sanzioni e cessazioni degli accordi internazionali. (intervista a cura di
giuseppe mammana)
(disegno di manincuore)
Dal numero 12 (maggio 2024) de Lo stato delle città.
«Noi, dopo che hanno pascolato, i lama li leghiamo tutti insieme e li mettiamo
dentro l’ovile, ben stretti. E io così mi sento quando saliamo al Subte [la
metropolitana di Buenos Aires], come gli animali da pascolo» – mi ha detto un
giorno Flavia, trent’anni, oggi presidente della comunità indigena di Santuario
de Tres Pozos, situata nella regione di Salinas Grandes y Laguna de Guayatayoc,
nella provincia argentina di Jujuy. «Poi quando si apre la porta, scappano
tutti». È ormai scesa dalle scale mobili e si è messa in attesa della metro,
insieme alle sue compagne di lotta del Tercer Malón de la Paz. «Prima di venire
qui non ero mai salita su un Subte. All’inizio le scale mobili mi spaventavano,
non riuscivo a salire da sola. Allora qualcuno mi spingeva e mi aiutava, per più
di tre volte ho rischiato di cadere» – l’arrivo della metro ha interrotto la
risata di Flavia.
Siamo saliti sulla linea D, in direzione dell’Hotel Hilton a Puerto Madero. Dal
22 novembre 2023 vi si riunivano ministri e impresari per il secondo vertice
argentino sul litio, perciò il Malón aveva organizzato, fuori dall’albergo, un
presidio di contestazione con finalità informative. Il brusio della
metropolitana si riempì di un canto: «Cinco siglos resistiendo, cinco siglos de
coraje, manteniendo siempre la esencia…».
All’uscita dal vagone Wili, la guida spirituale di questa nuova comunità urbana
in lotta, continuava a soffiare nella sua conchiglia. Il suono che ne usciva
sovrastava il frastuono della metropolitana in ripartenza. Il Tercer Malón de la
Paz è arrivato a Buenos Aires il primo agosto del 2023. Erano circa duecento
persone, membri di più di cento comunità indigene di tutte le regioni della
provincia di Jujuy, situata nel nord-ovest dell’Argentina, al confine con Cile e
Bolivia. Hanno attraversato tutte le provincie nordoccidentali del paese per
avvicinare il loro grido di protesta ai luoghi del potere istituzionale. Sono
giunti fin qui per contestare la riforma costituzionale della loro provincia,
volta a favorire l’estrazione del litio dalla loro terra.
IL MALON DE LA PAZ
La parola “malón” appartiene al lessico colonizzatore castigliano e veniva
utilizzata per significare un’offensiva rapida e inaspettata da parte degli
indigeni ai danni di uno stanziamento colono o criollo. Il significato è
cambiato con il primo Malón de la Paz quando, era il 1946, 174 indigeni del
pueblo kolla partirono dalla regione di Cochinoca nell’altopiano andino della
regione del Jujuy per camminare in direzione di Buenos Aires. Nella capitale il
governo di Juan Domingo Peron era prossimo all’insediamento e intendeva
realizzare una riforma agraria. Certi di vedere ascoltato e riconosciuto il loro
diritto di preesistenza ancestrale e dunque alla restituzione di terra
appropriata o acquistata compulsivamente dallo Stato, i manifestanti camminarono
per duemila chilometri da Jujuy a Plaza de Mayo. Eppure, non fu mantenuta la
promessa di restituire le terre. E poche settimane dopo le forze della milizia
navale, armate di spranghe e gas lacrimogeni, procedettero allo sgombero del
primo Malón de la Paz. I maloneros furono caricati su un treno già predisposto
sulla linea ferroviaria alle spalle dell’Hotel degli immigranti – dove erano
stati alloggiati, per quanto immigranti non fossero –, comunicante direttamente
con la stazione di Retiro; li scortarono fino a Jujuy, dove ancora oggi i popoli
originari non vedono applicato il loro diritto all’esercizio della possessione
ancestrale delle terre che abitano, lavorano e difendono.
Sono passati quasi ottant’anni e la politica di sfruttamento del potere
istituzionale ai danni dei popoli originari e delle loro terre ricche di risorse
naturali prosegue indisturbata. Un tempo i coloni estraevano l’oro, ma oggi la
ricchezza ha cambiato nome e colore: l’oro si è fatto bianco e si chiama litio.
In nome della riconversione energetica all’elettrico, le imprese mondiali
insistono nel risucchiare su larga scala le risorse non rinnovabili nascoste nel
cuore del pianeta. È la cosiddetta rivoluzione verde: il Consiglio Mondiale
dell’Energia ha affermato che le risorse di petrolio si esauriranno entro una
cinquantina di anni. Perciò al combustibile fossile nelle automobili si comincia
a sostituire il motore elettrico, la marmitta si trasforma in batteria al litio.
Il sole e il vento sono intermittenti, il litio c’è e si sa anche dove.
L’ottanta per cento delle risorse mondiali si trova in un triangolo di terra che
tocca Cile, Bolivia e Argentina. Quest’ultima è la nazione eletta: le
multinazionali hanno già avviato più di sessanta progetti minerari nel paese,
nelle provincie di Catamarca, Salta e Jujuy. Il territorio argentino vince la
gara della dinamite mineraria perché qui i grossi investitori devono pagare solo
il tre per cento delle regalie allo Stato e non subiscono nessuna restrizione né
controllo sull’esportazione. «Così l’Argentina diventerà la fornitrice di più
della metà del litio necessario a soddisfare la domanda mondiale», annunciava
fieramente qualche anno fa Mauricio Macri, presidente del paese dal 2015 al
2019.
In pochi anni il valore di una tonnellata di carbonato di litio è passato da
duemila a dodicimila dollari. Per produrre una tonnellata di questo minerale
servono due milioni di litri di acqua. Per costruire un’auto elettrica
(equivalente a circa diciassettemila cellulari) sono necessari più di quattro
chili di litio. Una Tesla S contiene una batteria di sei chili di litio. Due
milioni di litri d’acqua provenienti dalle Ande di Jujuy si trasformano così in
duecento auto elettriche prodotte da compagnie europee, nordamericane,
australiane, cinesi, giapponesi e poi distribuite nei rispettivi paesi. Come? Si
pompa l’acqua salmastra già a disposizione nelle immense saline jujeñe e la si
colloca in enormi piscine la cui superficie equivale a varie migliaia di stadi
di calcio. Sotto la radiazione solare l’acqua evapora, il carbonato di litio si
deposita. Dopodiché deve essere separato, usando la calce, e poi lavato, e per
lavarlo è necessaria acqua pura, di sorgente, che è l’acqua che beve la gente
delle comunità dell’altopiano argentino.
Le miniere di litio sono miniere d’acqua. Esce più acqua di quella che entra nel
sistema, e quest’ultima, quella che vi ritorna, rientra contaminata dalle
sostanze tossiche disperse durante la separazione del litio. Il punto della
questione attuale, quella gridata per le strade di Buenos Aires dal Tercer Malón
de la Paz, non si ferma dunque alla difesa e alla tutela della preesistenza dei
popoli originari e del loro diritto a disporre liberamente e rispettosamente
delle risorse della terra che abitano, ma consiste anche nel prendere coscienza
che la cosiddetta “energia verde” corrisponde in realtà all’ennesimo dispositivo
di distruzione dell’ecosistema.
Iber mi ha riferito i dati sul processo estrattivo del litio. Eravamo
sull’autobus che ci portava verso la sede del SERPAJ (Servicio Paz y Justicia),
le cui avvocate si sono occupate di appoggiare e fortificare legalmente le
rivendicazioni del Tercer Malón. Iber ha ventiquattro anni ed è di Alfarcito,
una piccola comunità situata nella regione di Salinas Grandes, la stessa da cui
proviene Flavia. Lì si concentra la maggior parte delle risorse di litio
argentine e per questo la lotta contro i progetti di esplorazione per l’apertura
di nuove miniere cominciò già nel primo decennio del Duemila. Iber è nato nella
lotta. Prima di scendere dall’autobus mi ha detto: «Oggi siamo in guerra, perché
è una guerra questa. Tra chi vuole difendere la Madre Terra e chi vuole
continuare a venderla per profitto. Stiamo lottando per l’acqua, perché sia
libera e ce ne sia per tutti e per tutte. Se perdiamo questa guerra, domani la
guerra sarà tra di noi: io e il mio vicino di casa arriveremo a litigare per un
bicchiere d’acqua». Poi è squillato il suo cellulare e una voce diceva: “Cinco
siglos resistiendo”.
LA RIFORMA DI MORALES
Dopo una lunga battaglia nell’ambito dei diritti umani indigeni, cinque secoli
dopo l’inizio della colonizzazione e della resistenza a essa, nell’agosto 1994,
la Costituzione Nazionale Argentina accolse l’articolo 75, che all’inciso 17
stabilisce la responsabilità del Congresso ad “ammettere la preesistenza etnica
e culturale dei popoli originari, garantire il rispetto della loro identità
culturale e linguistica, riconoscere la persona giuridica delle comunità e la
possessione comunitaria delle terre che tradizionalmente occupano e infine
assicurare la partecipazione dei popoli originari nella gestione delle loro
risorse naturali e degli interessi che le riguardano”. Grazie all’incorporamento
di questi statuti normativi, sul finire degli anni Novanta alcune, ma non tutte,
delle comunità originarie dislocate nel territorio jujeño si videro legalmente
riconosciuta la personalità giuridica, nonché assegnati i titoli di possessione
delle porzioni territoriali di insistenza, assegnazione avvenuta in parte in
forma comunitaria e in parte direttamente a famiglie o singoli.
Nonostante la sussistenza di questi baluardi costituzionali e dei conseguenti
atti notarili, lo scorso giugno a Jujuy è stata approvata, senza previa
consultazione dei popoli originari, una riforma provinciale, promossa dal
governatore Gerardo Morales, che ha facilitato il via libera alle procedure
estrattiviste nei territori indigeni e ha autorizzato misure repressive ai danni
di qualsiasi tentativo di resistenza. Per via del carattere federale del governo
argentino, infatti, le province sono considerate “antecedenti” all’unificazione
dello stato-nazione e mantengono un forte potere di autonomia. Per questo ogni
provincia dispone di una Carta Costituzionale ed è su di essa che Morales ha
agito. Il governatore è riuscito a modificare 66 dei 212 articoli della Carta
provinciale, la maggioranza dei quali riguardavano il tema delle risorse
naturali. Dichiarando il litio come “risorsa strategica” e stabilendo al minimo
la quota di interessi da tributare allo Stato, la nuova riforma sancisce il
contratto di svendita del sottosuolo jujeño alle multinazionali estere.
Mentre nel governo di Jujuy si discuteva la riforma, Flavia, Iber, Wili e tutto
il Tercer Malón de la Paz, erano in marcia sulla Ruta che da Abrapampa cammina
verso la capitale di Jujuy. All’alba del 16 giugno Morales ha annunciato
l’approvazione della riforma provinciale. Dopo un giorno di mobilitazione a San
Salvador de Jujuy, con i popoli originari uniti ai docenti già in protesta per
la rivendicazione di un salario degno, il Malón ha organizzato un blocco
stradale lì dove si incontrano la Ruta 9 e la 52, quella che porta all’area di
Salinas Grandes, la più minacciata dagli interessi speculativi. Il blocco era
un’azione di protesta volta anche a informare i passanti sull’incostituzionalità
della riforma. Vi sono confluite quasi duecento comunità, per un totale di più
di quattrocento persone. I cortes, i blocchi stradali, sono stati un grande
esperimento di gestione comunitaria della lotta.
Il blocco avveniva su tre fronti: a nord e sud della ruta 9, per i veicoli
provenienti rispettivamente dalle regioni al confine con la Bolivia e dalla
capitale jujeña, e sulla ruta 52, per bloccare qualsiasi accesso alla zona di
Salinas. L’intento era tanto quello di generare scompiglio e sensibilizzazione,
quanto di impedire il passaggio di camion trasportanti calce o altri elementi
necessari alla estrazione e separazione del litio già in corso nel Salar de
Olaroz, centocinquanta chilometri dopo Salinas. Si lasciavano circolare solo i
veicoli sanitari o le auto con a bordo minori e anziani. Uno dei ruoli
principali, nonché di maggiore responsabilità, nel funzionamento dei cortes era
pertanto quello di chi circolava tra i veicoli fermi in strada, distribuendo
materiali informativi sull’incostituzionalità della riforma e cercando di
dialogare con gli autisti più spazientiti. Ogni ruolo veniva scandito da turni
di quattro o sei ore. Oltre a chi volantinava, c’era chi si impegnava a
sorvegliare ed eventualmente rafforzare le barricate, costruite con massi e
pezzi di legna. La cucina del campo era gestita in modo comunitario: si teneva
sempre acceso il fuoco, per smorzare le basse temperature invernali e poter
riscaldare i pasti provenienti dalla non troppo lontana Tilcara. Lì infatti, nel
campo base di un gruppo di militanti, si cucinavano grosse quantità di zuppa e
carne stufata per poi distribuirle nei tre blocchi di Purmamarca, il paese più
vicino al luogo del presidio. Di notte ci si turnava per fare da guardia
all’accampamento mentre sulle colorate montagne che sovrastano l’incrocio
stradale erano presenti gruppi di vedetta pronti ad avvisare dell’arrivo di
veicoli delle forze del supposto ordine.
E infatti, forti dei nuovi decreti costituzionali che proibivano espressamente
blocchi stradali totali così come qualsiasi altro ostacolo alla libera
circolazione, alle sei di mattina, poi alle tre e alle sette del pomeriggio del
17 giugno 2023, sono arrivate puntuali le repressioni. La fanteria e la polizia
federale hanno iniziato a colpire chiunque avesse a tiro, usando pallottole di
gomma e gas lacrimogeni di nuovo brevetto. Hanno distrutto cellulari e
videocamere, caricato uomini e donne sui camion pronti a partire verso la
questura. A Tilcara, a pochi giorni dall’inizio del Carnevale del 2024, Maria mi
ha raccontato la sua esperienza di lotta nei cortes mentre cucivamo la bandiera
che avrebbero utilizzato durante la parata del collettivo femminista delle Cari
Chupi (belle facce). Mi ha mostrato con orgoglio la sua cicatrice sul polso
destro e mi ha detto che non c’era praticamente nessuna e nessun manifestante
che non riportasse il segno di un proiettile di gomma sulle gambe o sulle mani
usate per proteggersi la faccia. La fanteria sparava ad altezza viso ed è così
che tre uomini hanno perso la vista da un occhio. Mi ricordo di quando dagli
occhi di Karen, bardati dietro due spesse lenti nere che la riparavano dal sole
accecante delle Salinas, è colata una grossa lacrima mentre ripercorreva i fatti
del 17 giugno e mi chiedeva di non parlarne più. Karen, insieme a Santiago,
rappresentanti della comunità di Pozo Colorado, sono stati detenuti per una
decina di giorni nel carcere di Jujuy. Oggi anche loro sono imputati nelle
centinaia di cause che il governo provinciale porta avanti in nome della
criminalizzazione delle proteste di giugno.
Nonostante le repressioni, i cortes sono proseguiti per settimane, continuando a
informare i veicoli di passaggio sulla pericolosità della nuova riforma. Non
sono mancati episodi di resistenza a nuovi tentativi di attacco delle forze
armate. Gridato l’annuncio dalle vedette d’altura, erano spesso le donne a
schierarsi in prima linea e a lanciare contro le guardie olio bollente e pietre.
«Sembrava una guerra civile – mi ha raccontato uno dei militanti di Tilcara –,
dato anche l’alto numero di familiari e conoscenti impiegati nelle forze di
polizia locale».
E quella guerra civile sembrava anche sostenibile, per quanto indicibilmente
stancante e dolorosa, fin quando il 20 agosto, a una settimana dalla sconfitta
nelle primarie come candidato alla vice-presidenza dell’Argentina, Gerardo
Morales ha mandato un plotone dell’esercito non più in assetto anti-sommossa,
bensì dotato di armi belliche vere e proprie. Il plotone ha proceduto allo
sgombero e allo smantellamento definitivo dell’accampamento. Il traffico di
Jujuy è stato ripristinato senza più interruzioni. I grossi camion di calce
hanno ricominciato a raggiungere le miniere di Olaroz Chico e le auto della
Toyota, una delle principali case automobilistiche giapponesi, bramosa di
batterie al litio, hanno ripreso a fermarsi sulla ruta 52 per proporre alle
comunità locali nuovi accordi di esplorazione.
IL MALON A BUENOS AIRES
Un mese prima, il 25 luglio 2023, il Tercer Malón de la Paz aveva preso la
decisione collettiva di cominciare il cammino verso Buenos Aires e ho passato
giornate intere con loro nella capitale. A Buenos Aires Flavia mi ha raccontato
il costante aumento delle visite da parte delle imprese nella sua comunità di
Santuario de Tres Pozos, che vive soprattutto di estrazione del sale,
allevamento di lama, turismo e artigianato. Il villaggio di Santuario lo fondò
suo nonno, costruendolo a poco a poco, a partire da una scuola. Flavia è nata a
casa sua, del nonno, «anche per questo sto lottando – mi ha detto – non voglio
che quel luogo venga distrutto». Suo nonno è morto il 26 maggio 2023, non c’è
stato abbastanza tempo per stare con il dolore prima del nuovo caos generato
dalle repressioni nei cortes di Purmamarca. «Eppure, io da qui mi porto una
nuova famiglia». Eravamo nella sua tenda, nell’accampamento di Plaza Lavalle,
sotto la Corte Suprema che ormai da più di quattro mesi non offriva ascolto né
udienza alle rivendicazioni del Malón. Come nominò la parola “famiglia” il vento
forte di quella sera buttò a terra il suo telefono, che appoggiato su un asse
del tetto faceva da torcia per illuminare il viso di Flavia e la whipala che le
stava dietro, la bandiera dei popoli originari. Abbiamo riso al buio.
Fuori dalla tenda di Flavia era una sera come un’altra. Alcune maloneras si
godevano il ritmo di una samba cantata da Ivan, un altro dei giovani del Malón.
José, che per trent’anni ha lavorato in una miniera di rame, per poi cominciare
a unirsi alle lotte sindacali fino ad arrivare a Buenos Aires con il Malón,
aveva il piede gonfio per una qualche infezione. Wili glielo massaggiava, poi lo
ha lasciato riposare in un secchio pieno di ghiaccio. Raul, uno dei più
impegnati nel lavoro di approfondimento dei diritti indigeni, masticava coca
mentre leggeva al computer. Iber era appena tornato con le bocce piene d’acqua.
Era andato a riempirle davanti al teatro Colón, dall’altro lato della piazza,
perché dalla parte dell’accampamento le autorità cittadine avevano tagliato la
distribuzione idrica alle fonti pubbliche, per rendere più scomoda la permanenza
degli indios di questa fase della storia.
L’abuelita Sabina intrecciava tranquilla fili di tutti i colori nel suo piccolo
telaio portatile. Yamil, un altro giovane, lottava contro il sonno e cercava di
studiare: doveva tornare a San Salvador per dare un esame di ingegneria.
Fabiana, una senzatetto adottata dall’accampamento di Plaza Lavalle, veniva a
chiedere con la sua andatura claudicante un piatto di zuppa. Estela lo riscaldò
e Monica glielo servì fumante. Per pranzo, come ogni lunedì, aveva cucinato un
gruppo di donne e uomini salteñi che risiedono da tempo a Buenos Aires e che
partecipavano così alla lotta delle loro sorelle e fratelli. Un uccello cantava
alla luna calante di quella notte. Era stata la giornata internazionale di lotta
all’estrattivismo, il 4 dicembre. Il Tercer Malón aveva aperto il corteo che
partiva dall’obelisco di Avenida 9 de Julio fino a Plaza de Mayo, a suon di
canti e del motto “Arriba los derechos! Abajo la reforma!”. Erano tutte e tutti
stanchi, e presto sarebbero andati a dormire.
Da agosto a dicembre Plaza Lavalle è stata attraversata da migliaia di persone,
alcune delle quali hanno porto ascolto e gesti di adesione alla lotta, che
fossero un pacco di pasta, una chitarra per fare musica insieme, un cartellone
preparato per la manifestazione del giorno, e magari tradotto in una lingua
altra dal castigliano, per poter cogliere l’attenzione di un turista di
passaggio, o insomma una delle infinite modalità possibili per allargare la
cassa di risonanza di questa storia che ha urgenza e portata di coinvolgimento
universale. Persino il 19 novembre 2023, giorno della vittoria elettorale di
Javier Milei, la piazza del Malón è stato un luogo dove versare lacrime e
stringersi nel silenzio e nella forza di un abbraccio. Ricordo che Wili ha
insitito e alla fine, mentre cominciavano a levarsi suonate di clacson e grida
moleste come «Viva la libertad, carajo!», abbiamo giocato a calcio e per un
attimo i pensieri sono rotolati insieme al pallone. Durante la partita Wili è
caduto molte volte e a gioco finito mi ha detto: «Sai cosa significano tutte
queste cadute? Che abbiamo ancora qualcosa da fare su questa terra». Per questo
Yamil, tornato all’accampamento con un altro esame superato sul libretto, si
dichiarava felice di avere rallentato il suo percorso di studi per unirsi a una
lotta in nome della giustizia. Quando tornò a Plaza Lavalle urlando «Jallalla!»,
il grido che sempre si ripete a sostegno della lotta delle comunità andine del
nord-ovest argentino, produsse un’eco che durò fino all’ultimo pomeriggio del
Malón a Buenos Aires.
L’ombra del potere di Milei, il nuovo presidente nazionale di estrema destra,
era sceso sul Jujuy e sull’intera Argentina. Il Tercer Malón de la Paz ha
annunciato in conferenza stampa la sua ritirata, prevista per la notte tarda del
15 dicembre. Si preparava così a lasciare la capitale argentina senza aver
visto, da parte dei due governi succedutisi al potere durante la sua permanenza
in città, alcuna mossa in direzione dell’obiettivo principale della sua lotta:
l’abolizione della riforma provinciale di Jujuy sulla base della sua
incostituzionalità, tanto procedurale quanto contenutistica. Anzi,
l’insediamento del nuovo presidente Milei già lascia intuire ciò che da tempo il
popolo jujeño profetizzava: la riforma provinciale, tanto nella sua parte
impegnata a criminalizzare le proteste, quanto nella sua più generale ottica
produttivistica, è un perfetto laboratorio in cui sperimentare misure da attuare
poi su scala nazionale.
Il sole stava per tramontare. I lavori di smontaggio delle tende si sono
fermati: è giunta la notizia di un guasto meccanico al pullman che da Jujuy
stava muovendo verso la capitale per poi riprendere il viaggio in direzione
contraria. Era fermo a settecento chilometri di distanza in attesa di una
riparazione, che probabilmente sarebbe potuta avvenire solo la mattina seguente.
Solo Wili ha proseguito i preparativi del suo bagaglio. Non sarebbe tornato
subito in Jujuy col resto del Malón, aveva intenzione di fermarsi ancora un paio
di settimane nella provincia di Buenos Aires per continuare un percorso di
formazione spirituale con un vecchio saggio della zona. Mentre mi indicava un
punto del cielo sopra il teatro Colón, da dove ogni giorno vedeva sorgere il
sole, mi ha detto: «I nostri anziani dicono che siamo esseri solari». Secondo la
cultura andina indigena il sole, e con esso il pianeta Terra e l’umanità tutta,
sono recentemente entrati in un nuovo ciclo temporale chiamato Pachacuti.
Significa ritorno all’anteriore, a tutta la saggezza anteriore che invoca la
cura della Madre Terra e delle future generazioni. Mentre continuava a disarmare
la sua tenda Wili ha aggiunto: «Noi abbiamo lasciato questo messaggio alla
società qui a Buenos Aires affinché ne prenda consapevolezza, perché è l’unica
forma di sopravvivenza, se no scompariremo tutti». Scioglieva un nodo, poi un
altro. Suo nonno aveva partecipato al primo Malón de la Paz. Ha rimosso il telo
di plastica che gli faceva da copertura anti-pioggia. Il sole tramontava, Wili è
partito col suo sorriso. Il pullman era sempre fermo nella provincia di Córdoba.
Il Malón è andato a dormire ancora incerto sull’orario di partenza, ma ben
convinto che era tempo di tornare al territorio, a progettare da lì nuove
strategie di resistenza e difesa collettive.
Eppure, l’assalto è avvenuto prima del previsto. All’alba dell’indomani, a sei
mesi esatti dal giorno dell’approvazione della riforma incostituzionale, non è
stato il pullman ad arrivare, bensì, come settantasette anni prima, in pieno
rispetto della ciclicità della storia, la polizia della città. Li hanno
svegliati alle sei di mattina, entrando nelle tende, e intanto già cominciavano
a “bonificare” (questo il lessico usato dalle forze dell’ordine) il lato
dell’accampamento dove fino alla sera prima c’erano la cucina e la dispensa,
gettando nel tritarifiuti tutto ciò che non era stato ancora imballato, e cioè
gli alimenti per la colazione e per il lungo viaggio fino a Jujuy. Il Malón così
risvegliato ha cercato un dialogo: spiegava il ritardo imprevisto, sosteneva
l’inutilità di questa misura di forza visto l’annuncio della partenza imminente,
chiedeva dunque pazienza affinché potessero finire di disarmare l’accampamento
seguendo i propri criteri e aspettare l’arrivo del mezzo di trasporto. Ma il
capo della polizia ripeteva di «dover pulire immediatamente questa spazzatura» e
infine far arrivare una squadra di polizia federale che contava un’ottantina di
uomini e donne, a fronte della trentina di persone rimaste. I poliziotti
filmavano le azioni dei lavoratori di Buenos Aires Ciudad Verde e di un’azienda
privata, convocati per lo smantellamento completo dell’accampamento, l’arrivo
trionfante delle forze federali, il coordinamento delle operazioni da parte dei
capisquadra e le strette di mano forti e complici tra gli stessi. Più o meno in
questa sequenza hanno montato le immagini nel video che è comparso il pomeriggio
stesso sulle pagine social della Policía de la Ciudad de Buenos Aires, con la
didascalia scritta in maiuscolo: “Si è posto fine alla fattoria a Tribunales – e
con ordine”. Seguiva il cartello finale: “Proteggere i porteñi, rafforzare
l’ordine, rispetto alla polizia della città”.
Io con la mia telecamera seguivo la nonna Sabina, che si aggirava tra le forze
dell’ordine con il fuoco sacro «per togliere la malaonda». Poi con disinvoltura
ha chiesto a un poliziotto di spostarsi. Stava in piedi sopra alla Pachamama, e
cioè a un punto del giardino della piazza dove era stato fatto un buco,
all’arrivo del Malón in agosto, per offrire omaggi alla Madre Terra, chiederle
accoglienza e protezione durante il periodo di permanenza in quel luogo. Poi ha
ripreso il suo cammino, emanante essenza di terra e foglie di coca, rapida e
sicura, dicendo tra sé: «Facciano ciò che vogliono con noi, però con lei non
possono fare ciò che vogliono, lei è l’autorità più forte e più potente ed è
grazie a lei che viviamo».
Il Malón è salito sul pullman alle quattro del pomeriggio del 16 dicembre 2023.
Subito prima erano canti, lacrime e sorrisi, abbracci e saluti con le persone
che nel corso di quei quattro mesi e mezzo hanno accompagnato la lotta. Il Malón
che partiva verso Jujuy ringraziava a pugno chiuso la città che restava, a
ricordare che questa lotta è di tutte e di tutti, e non il capriccio di “poveri
indios selvaggi”, perché è la lotta in difesa della vita contro il sistema
neoliberista che sfrutta e fagocita ogni pezzo di terra, ogni goccia d’acqua,
ogni essere umano in nome del profitto. (agnese giovanardi)
(archivio disegni napoli monitor)
«Sbah el kheir, mama!».
Mi sveglio in questo caldo mese di agosto in modo diverso.
Oggi partiamo per Roma.
Mio padre mi ha regalato questo viaggio. Sapeva quanto l’Italia fosse importante
per me. L’importanza di poter finalmente parlare una lingua che padroneggio
quasi perfettamente e che ho imparato per sette anni. L’importanza di scoprire
la città che vedo solo attraverso il Colosseo e gli infiniti capitoli di storia
sull’Impero Romano a scuola. La possibilità di iniziare questa serie di viaggi
che voglio intraprendere per il resto della mia vita. Neanche i miei genitori
hanno mai visitato l’Italia. Forse alla fine è grazie a me che la visiteranno.
Hanno sempre vissuto in Algeria e mi hanno trasmesso l’amore per il mio paese.
Il loro paese è diventato il mio: amo l’Algeria come amo la mia famiglia, scorre
nel mio sangue ogni minuto e mi legherà sempre alle mie radici. Ma ora che siamo
a Marsiglia è tutto diverso. dobbiamo imparare a tenere per noi le nostre
origini quando possono portarci pregiudizio. A volte dobbiamo confonderci con la
folla per non essere giudicati o discriminati. In un paese in cui la diversità
etnica non è valorizzata, a volte è meglio nasconderla. Anche se questo non ci
impedisce di andare in Algeria ogni estate con lo stesso piacere.
Ho scoperto lì l’italiano, tra i ferventi tifosi algerini e i venditori
itineranti di karantika, vicino allo stadio di Algeri.
La karantika è la specialità che appartiene all’Algeria, è una delle prime cose
da mangiare lì. L’autentica karantika si trova solo in Algeria. Si trova
ovunque, in ogni panificio, fast food, pasticceria, pizzeria, ma soprattutto in
ogni angolo di strada. È un piatto e panino algerino a base di farina di ceci,
simile a un gratin o a uno sformato. Venduto spesso da venditori ambulanti nelle
principali città algerine, si consuma preferibilmente caldo. Il principio della
karantika è semplice. Si mette una fetta di questo gratin in un pane croccante e
si condisce con cumino per un sapore più intenso e, soprattutto, con harissa. Il
sapore della karantika è dolce ma allo stesso tempo piccante. Un po’ come in
Algeria, caldo ma piccante. Il gratin di ceci è molto leggero al palato, ma il
cumino e l’harissa aggiungono un’esplosione di sapore e danno alla leggerezza
del gratin un gusto nuovo. Assaggiare una karantika, anche dopo centinaia di
volte, mi riporta sempre alla mia infanzia, come una fiamma che sto
riaccendendo, che quella karantika sta accendendo…
Mi ricordo di quel momento speciale che non ricorderò mai di aver vissuto, ma
che rivive nei racconti della mia famiglia.
Estate 2008. Il sole caldo batte sul giardino della nostra casa tra le montagne
della Cabilia. Ero già immersa nella lingua cabila, che ho imparato prima del
francese. Ma quel giorno ho mosso i primi passi. Comincio a camminare, a
scoprire il mondo che mi circondava e in quell’occasione assaggio per la prima
volta la karantika. Mia zia aveva solo quindici anni e giocava con me come se
fossi la sua sorellina. Giocava con me con una karantika in mano. Quello che
aveva in mano mi incuriosiva. Capisco subito che si trattava di qualcosa da
mangiare. Solo che era pieno di harissa, e l’harissa punge. La famiglia intorno
a me aspettava che la sputassi. «Outhezmirara atecith!» (in cabilo: «Non può
mangiarlo!») dicevano le mie zie e mia madre. Inaspettatamente, lo mangiai
tutto, sorprendendoli. Mi ero già innamorata della karantika. Poi chiedo loro di
darmi dell’acqua. Ho gridato: «Fkiyid aman!», che è stata anche la mia prima
frase in cabilo.
Da quando sono piccola, ascoltavo l’italiano. Appassionata di calcio, vado ogni
anno in Algeria, allo stadio della mia città. Lo stadio è impressionante quando
si entra, anche se non è esattamente di dimensioni enormi. È l’atmosfera di uno
stadio e dei suoi tifosi che rende grande uno stadio, e questo l’ho scoperto in
Algeria. Nei giorni delle partite, le strade solitamente vuote si riempiono di
uomini, donne, bambini e anziani. I negozianti non chiudono e i bar lavorano
fino all’alba.
La coda per entrare allo stadio è fastidiosa e stimolante. Da un lato, non vedo
l’ora di entrare allo stadio, ma dall’altro l’attesa è sempre lunga. Seduta al
mio posto, le poche migliaia di tifosi mi hanno fatto sentire come se fossi allo
Stade de France, circondata da ottantamila persone.
La squadra di Algeri riprende molte frasi in italiano. «Forza Alger!», «La magia
rosso e nera», «Non dimenticheremo mai quello che abbiamo passato…»; o ancora:
«La guerra non è niente; l’abbiamo già vinta», «Sempre con fierezza». Queste
ultime frasi si riferiscono a uno stesso periodo che risuona e fa parte della
vita quotidiana di ogni algerino: la guerra e l’indipendenza dell’Algeria.
Sappiamo tutti che se oggi siamo qui è perché i nostri antenati sono morti per
la nostra indipendenza. Mi hanno sempre detto: quando ti senti male, ricordati
che sei algerina e tutto andrà meglio. Anche i miei antenati hanno vissuto
questa guerra. Alcuni sono morti, altri hanno imparato a convivere con le loro
cicatrici.
Gli slogan dei tifosi sono in italiano o in arabo. Nello stadio ascolto i canti
dei tifosi che ripetono le espressioni in italiano, tutti insieme, come se fosse
l’ultima partita della loro vita. L’arrivo dei giocatori è l’unico momento di
silenzio. L’intero stadio ascolta il silenzio nell’attesa di riprendere i canti.
Quello che ascolto cambia totalmente all’arrivo della squadra avversa. I canti
si trasformano in fischi. È sgradevole per le mie orecchie, ma fischio anch’io.
L’atmosfera è unica e magica. La miscela di canti e fischi si accompagna agli
odori del fumo e dei fuochi d’artificio. La nebbia del fumo mi nascondeva sempre
una parte del campo. È sorprendente, ma non è un ostacolo alla mia gioia e al
mio impegno.
Questo momento di condivisione è il mio momento preferito, ogni vacanza in
Algeria. Vivo simili notti a Marsiglia, allo stadio Velodrome. Stessi canti,
stessi odori, ma con una passione differente. Sento sempre un’emozione
particolare, un fiume in me quando torno nel mio paese.
Una fiamma che non si consuma mai, che viene riaccesa in ogni momento da ogni
cultura che vive in me. Una fiamma che ho cura di riaccendere e che mi infiamma
soprattutto quando visito la terra dei genitori. La terra che vedo solo una
volta all’anno, perché viviamo a Marsiglia. Questa è la storia dei miei
genitori: cercare un futuro migliore per i loro figli in Francia.
Marsiglia è tutta la mia vita. Mi chiedo ancora se potrò mai lasciare questa
città. Marsiglia è il luogo dove sono nata e cresciuta, dove ho sorriso e
pianto. Sono diciassette anni che trascorro lì la maggior parte del mio tempo.
Ho visitato così tanto il Vecchio Porto che non mi impressiona più. Ho fatto il
bagno così tanto alla spiaggia della Pointe Rouge che non ci vado più. Ma mi
sono ripromessa di non lasciarla. Marsiglia è una culla dove sto bene, dove si
sta sempre meglio. Ho sempre ritenuto che il mio carattere fosse compatibile con
Marsiglia. Sanguigna e impulsiva, ma generosa e accogliente. Un po’ come
l’Algeria e la karantika. Dolce ma allo stesso tempo piccante. Marsiglia e
l’Algeria si assomigliano e mi assomigliano. Mi sento a casa in entrambi i
luoghi. Sulle rive del Mediterraneo, con lo stesso clima e lo stesso
temperamento.
Ma questa volta presenterò ai miei genitori un mondo nuovo, lontano dall’Algeria
che hanno conosciuto e dalla Marsiglia in cui abitano da diciott’anni.
Oggi partiamo per Roma. Il mio cuore arde di attesa, so che qualcosa mi lega a
questo paese. Non vedo l’ora di parlare italiano, di incontrare la gente, di
immergermi nella cultura del paese. Non abbiamo scelto Roma senza motivo: avrei
potuto scegliere Firenze, Venezia, Milano o ancora Napoli. Ma Roma è sempre
stata nella mia mente.
Ho aspettato pazientemente le dodici ore di viaggio. Che gioia incontrare i
primi cartelli in italiano, ricevere un messaggio dal mio operatore che diceva
“benvenuto in Italia” e vedere i controlli di frontiera. Finalmente sono qui!
Forse la mia fiamma stava aspettando Roma per continuare a risplendere.
La mattina del mio arrivo, naturalmente, sono passata davanti allo stadio
Olimpico. Da appassionata di calcio non potevo andare a Roma senza vederlo.
Quando sono tornata a Ostia, dove eravamo in campeggio, con i miei genitori e i
miei tre fratelli, abbiamo avuto un incontro inaspettato.
Abbiamo preso l’autobus 71 che dalla stazione della metropolitana di Eur-Fermi
portava alla spiaggia di Ostia. Questo autobus ci ha lasciato il segno. Era
l’autobus che collegava il nostro campeggio alla stazione della metropolitana
che ci permetteva di raggiungere il centro città. Lo prendevamo la mattina e la
sera, come tutte le altre famiglie del campeggio. Durante il viaggio, mi sono
concentrata a cercare di individuare le persone che indossavano i famosi
braccialetti gialli che consentono l’accesso al campeggio. Ho sentito parlare
tutte le lingue: tedesco, libanese, inglese, francese e spagnolo. È stata una
grande opportunità per incontrare persone di altri paesi e culture.
Come al solito, mi destreggio tra arabo e cabilo con i genitori, francese con i
miei fratelli e italiano con l’autista per chiedere se stiamo andando nella
direzione giusta. All’improvviso, un uomo anziano mi si avvicina e mi parla in
italiano. Molto alto, probabilmente si avvicina ai settant’anni. Mi chiedo cosa
possa dirmi. Anche lui sembra essere un turista e porta uno zaino come me. Mi
chiedo come possa aiutarmi se nemmeno lui è di qui.
«Il campeggio di Ostia? Sì, siete sulla strada giusta, non preoccuparti».
«Grazie signore», ho detto, ancora esitante per paura di fare un errore
linguistico.
«Non preoccuparti, neanche io sono di Roma. Abito a Bari. E voi da dove
venite?».
«Veniamo da Marsiglia, siamo francesi».
I miei fratelli giocavano in fondo all’autobus e i miei genitori osservavano
questo incontro, cercando di capire qualche parola che fosse trasparente.
Sembrano attenti, come se capissero l’intera discussione. In realtà, durante il
mio soggiorno ho insegnato loro le basi di come cavarsela, cioè buongiorno,
grazie, per favore, mi scusi signore o signora, per esempio. Ma sono riusciti a
capire le frasi usando come punti di riferimento parole trasparenti e il
contesto. Per esempio, quando chiedo a qualcuno un’indicazione stradale dicendo
«Siamo sulla strada giusta…?», riescono a dedurre dalla parola “giusta” ciò che
ho chiesto.
È stato molto emozionante vederli interessarsi all’italiano, aggrappandosi a
quelle poche parole che potevano collegare al francese. Mi ricordavano me,
quando ho preso il primo corso d’italiano della mia vita. Abbiamo confrontato
tutto con la Francia: prezzi, cibo, strade, negozi, trasporti pubblici e
soprattutto la lingua. Su alcuni punti, Francia e Italia si completano, su altri
sono completamente diverse, ed è questo che le rende così affascinanti e uniche.
Ecco perché l’Italia rimarrà impressa nel mio cuore, e soprattutto quel primo
viaggio a Roma.
«Come è possibile avere un aspetto così italiano? È bellissimo! Avete origini
italiane? L’uomo ha detto ai miei genitori».
«No, l’ho imparato a scuola», ho risposto.
«Mia moglie è professoressa di francese. Abbiamo vissuto in Francia per molti
anni».
Dietro di lui apparve una donna, che sembrava essere sua moglie. È molto più
bassa, con capelli rossi molto ben pettinati e assomigliava molto alle vecchie
signore parigine. All’improvviso, la coppia comincia a parlarmi in francese, con
un leggero accento italiano piuttosto affascinante. Originaria di Bari,
l’anziana signora mi ha raccontato dei vent’anni trascorsi a studiare e
insegnare a Parigi. A Parigi aveva conosciuto suo marito, che dopo aveva
lasciato la città per raggiungerla. La storia era affascinante: sebbene fossero
vicini di casa a Bari, si erano innamorati l’uno dell’altra solo dopo essersi
incontrati a Parigi. Ormai in pensione, visitano le città d’Italia come amanti.
Una storia d’amore all’interno della mia.
Roma è diventata la mia storia d’amore quest’estate. È diventata parte della mia
storia, già impregnata dalla Francia e dall’Algeria. A suo modo, ha contribuito
a riaccendere la fiamma che mi ha permesso di forgiare la mia identità e di
unire le culture e le lingue che riecheggiano dentro di me ogni giorno, ogni
secondo. (camila abdelmoula)
(archivio disegni monitor)
5 novembre 2018. Nove di mattina. Due edifici crollano a rue D’Aubagne a
Marsiglia. È il mio quartiere, la strada in cui vivo da dieci anni. Un quartiere
popolare in cui ci si era abituati che le scale degli immobili fossero storte,
che le crepe a muri e soffitti disegnassero ogni mese nuove geometrie. Muoiono
otto persone. I loro nomi e le loro biografie ci scuotono tutti. Studenti fuori
sede, giovani lavoratori, madri di famiglia.
Gli otto morti sono il quartiere, un miscuglio di traiettorie umane che
condividono uno stesso luogo.
Oulome, comoriana, madre di sei bambini, Marie-Emmanuelle, un’artista di
Grenoble, per tutte e due la vita si ferma a 55 anni. Julien, franco-peruviano
ha appena compiuto 30 anni, Fabien è pittore, Taher, tunisino e Cherif,
algerino, sono ospiti a casa di Rachid, che non è lì quella mattina. Sono invece
insieme Simona e Pape, italiani, lei di Taranto, lui di origine senegalese.
La morte di Simona, appena trentenne, forse dà un brivido in più a tutti noi
italiani e italofoni venuti negli anni a vivere qui. La città dà la colpa alla
pioggia. Il sindaco non va sul luogo del dramma perché sta inaugurando un salone
del cioccolato, e si sa, nella vita, e nella politica, ci sono priorità. La
gente si indigna. Scende in strada, protesta, si fa riempire di gas lacrimogeni
da una polizia che forse per imbarazzo reagisce con troppa veemenza.
Un lacrimogeno sbaglia strada e colpisce Zineb, ottant’anni, che guarda la
manifestazione al quarto piano, dalla finestra. Zineb muore. Nove.
Questo va e vieni di manifestazioni, di indignazione e repressione violenta
durano mesi, noi, forse, riscopriamo una dimensione collettiva di abitanti
attraverso il lutto. Come un segreto di Pulcinella si scopre che decine,
centinaia di case sono in pericolo. La gente è espulsa, per ragioni di
sicurezza, alloggiata qualche settimana in un motel all’altro capo della città e
poi dimenticata.
Io ho appena comprato casa, ogni mattina mi informo con la vicina che ha la
madre che lavora in Comune se rischiamo anche noi. Gli espulsi mi somigliano
quasi più che i morti. I bobo. Siamo noi. Tutti per strada perché lo spazio
pubblico è il nostro mezzo di informazione.
E per una volta nessuno guarda agli altri con compassione, nessuno osserva con
un piglio da antropologo la miseria altrui. Popolo in fondo lo si è tutti. Nella
sfiga c’è posto per tutti.
Nel quartiere si iniziano ad aggirare promotori immobiliari che come avvoltoi
per qualche soldo ricomprano le case in cui la gente non può più entrare. Io
faccio fatica a non notare con amarezza l’ironia dei supermercati: quando paghi
ti propongono di dare soldi per Notre-Dame che è bruciata ad aprile: lutto
nazionale. Della rue D’Aubagne e dei suoi morti, invece, ci sono i cartelli, le
voci che gridano con rabbia, ma non certo molta eco tra giornali e discorso di
massa.
7 luglio 2025. Sono passati quasi sette anni. Il tribunale emette la sentenza.
Il sindaco è morto. Né per la pioggia, né per condizioni insalubri: era vecchio.
Ma nel frattempo aveva perso le elezioni, dopo venticinque anni, anche per via
dell’indignazione popolare per il dramma della rue D’Aubagne che aveva portato
alla creazione della Primavera Marsigliese, un movimento popolare che aveva
vinto le elezioni, per la prima volta con una donna sindaco, a dire il vero
durata poco.
Questo processo è sicuramente merito di un movimento che non ha smesso di
rimanere attento, che non ha barattato l’indignazione e la rabbia per niente.
Che si è organizzato.
Nella sentenza si mette in evidenza tutto il sistema di malgoverno e quello
della speculazione sulle abitazioni insalubri e popolari. Si dà finalmente una
faccia ai marchands de sommeil, letteralmente “mercanti di sonno”, che di
poetico hanno solo il nome. Si scopre che sono avvocati, società rispettabili,
funzionari in doppio petto. A ricevere una condanna persino Ruas, vicesindaco e
delegato agli alloggi insalubri della città. Il giudice lascia intuire che solo
la morte ha salvato il vecchio sindaco da essere definito il vero capomafia di
tutto l’inghippo. Eppure, le condanne sono nel peggiore dei casi un anno di
braccialetto elettronico a bordo piscina. Per lo più sono pene di sursis, cioè
stai attento, se lo rifai rischi grosso… Le multe poco più che per un divieto di
sosta. La vita di Simona vale ottantamila, le persone che hanno perso casa, dopo
aver dimostrato che avevano subito un danno psicologico maggiore, possono,
forse, ottenere otto o novemila. Chi non aveva un contratto d’affitto in regola
come potrà dimostrare che viveva lì?
Si esce tutti dalla sala. Un processo importante. Necessario. Una lente
d’ingrandimento sul giochino della mafia che ha scoperto che con più sabbia e
meno cemento si gioca al lascia o raddoppia e soprattutto che la miseria e la
precarietà sono un ottimo supermercato. Eppure si esce sgomenti. Si sono sentite
cose tremende e letti messaggi sconcertanti degli imputati. Parole che trasudano
un disprezzo per l’umano che sembra quasi grottesco. La distanza tra le frasi
perentorie del giudice che li dichiara colpevoli di lunghe liste di atti
vergognosi e le condanne quasi simboliche.
Un meccanismo malsano è stato messo a nudo dal lavoro infaticabile dei
superstiti. La città aveva sei milioni per gestire le case insalubri. Ne ha
spesi solo trecentomila. Ma quel menefreghismo li assolve dal delitto di
corruzione. In tutte quelle case gli abitanti avevano da tempo dato l’allarme.
Un tecnico li aveva rassicurati il giorno prima del dramma. Partiva per la
Grecia il giorno dopo. È dichiarato colpevole di negligenza, ma non di averne
approfittato: la vacanza era prevista da tempo.
Quando i colpevoli escono, la folla grida un qualche indignato “assassini”.
Nelle manifestazioni le urla erano molto più forti, qui lo si grida con voce
rotta. Un avvocato, peraltro della difesa della parte civile, ci rimprovera
dall’alto della sua consapevolezza del bene e del male. «Vergognatevi, non hanno
mica pugnalato qualcuno. Siate grati, senza di noi non avreste mai avuto
giustizia», ci insegna. Immagino Simona, Julien, Taher, Marie Emmanuel, Cherif,
Pape, Ouolume, Fabien. La sentenza ha detto che non hanno avuto paura. Che non
c’è stata agonia. La morte è arrivata improvvisa e per questo il rimborso vale
meno. Quanto fa male una pugnalata? Quanto ci serve questa giustizia edulcorata?
(manuel maria perrone)
(archivio disegni napolimonitor)
“Stai dando a un’organizzazione il permesso implicito di essere complice del
genocidio in Palestina, per poi fare donazioni a chi riesce a sopravvivere. Non
ha davvero alcun senso ed è profondamente ipocrita. Hai potere nell’industria e
potresti usare il tuo privilegio con intelligenza. Stai facendo una stronzata!”.
“Hai passato così tanto tempo a suonare in Israele e il pubblico ti ha dato
tutto il supporto e il rispetto di cui avevi bisogno. È triste e deludente
vedere che non dici una parola sugli ostaggi israeliani o sulle persone
innocenti uccise al festival musicale Nova. Vergognati!”.
“Ecco un artista con le palle! Finalmente!”.
Alla fine di maggio 2025, questi tre commenti dai toni decisamente divergenti
sono apparsi sotto lo stesso post Instagram. E non sono stati gli unici. In
poche ore, il comunicato di Dixon, nome di punta della scena techno e house
berlinese, di commenti ne ha raccolti oltre tremila. Il post, molto atteso dai
fan e dalla comunità EDM in generale, riguardava la sua partecipazione al Field
Day, festival elettronico previsto per il 4 giugno a Brockwell Park, Londra,
dove sarebbe stato uno degli headliner insieme a Peggy Gou.
In quei giorni il Field Day era sulla bocca di tutti. Una lettera aperta firmata
da duecentotrenta artisti – tra cui Ben Ufo, Brian Eno e Robert del Naja – aveva
chiesto una presa di posizione forte da parte del festival contro il genocidio
in Palestina e l’aderenza alle linee guida del BDS. La mancata risposta del
Field Day, diventata poi tardiva, e, secondo molti, rimasta insufficiente, aveva
convinto diversi artisti a passare all’azione. Nelle tre settimane precedenti al
festival la line up del Field Day si era letteralmente dimezzata, con oltre
venti artisti che hanno scelto di ritirarsi. Proprio mentre le cancellazioni
iniziavano a prendere piede, Dixon ha pubblicato un post per confermare il
proprio set, annunciando che avrebbe devoluto interamente il proprio cachet a
un’organizzazione umanitaria attiva nella Striscia di Gaza. La scelta di Dixon
ha scontentato molti, e per ragioni evidentemente opposte. Alla fine, pur
decimato nella line up, il festival si è svolto regolarmente. Ma qual era il
problema del Field Day?
Dopo una quindicina di edizioni in crescita, nel 2023 Field Day è passato sotto
la proprietà di Superstruct Entertainment, una società britannica attiva nella
produzione di festival musicali diventata in pochi anni un gigante del settore.
Dalla sua fondazione nel 2017, Superstruct ha condotto un’aggressiva campagna di
acquisizione, inglobando oltre ottantacinque cosiddetti macrofestival, tra cui
Szieget (Ungheria), Mighty Hoopla (UK), Parookaville (Germania),
Øyafestivalen (Norvegia), Hideout (Croazia), Flow Festival (Finalndia), Zwarte
Cross (Olanda) e dozzine di altri. Insomma, che siate animali da festival o
semplicemente avete viaggiato per ascoltare dal vivo i vostri artisti preferiti
negli ultimi anni, è molto probabile che abbiate fatto tappa anche voi a un
evento targato Superstruct.
Il passaggio non è stato traumatico come ci si potrebbe aspettare. Nella maggior
parte dei casi, l’acquisizione ha riguardato non solo il marchio e le licenze,
ma anche l’intero team di produzione dietro i singoli festival, assicurando
continuità alle scelte artistiche e consolidando il lavoro fatto negli anni con
una generosa iniezione di capitale. La campagna acquisti di Superstruct si è
fatta più serrata nel post-pandemia, quando molti festival di successo erano
sull’orlo della bancarotta. In quel periodo, il passaggio a una compagnia con
grosse disponibilità finanziarie è stato visto da molti addetti ai lavori come
un’ancora di salvezza – o una strada obbligata – per un comparto devastato da
due anni di cancellazioni, incertezze e contributi statali insufficenti.
Insomma, fin qui niente di nuovo. It’s capitalism, baby.
I problemi veri iniziano nel giugno 2024, quando Superstruct Entertainment viene
comprata per 1.7 miliardi di dollari da Providence Equity Partners L.L.C., a sua
volta parte di Kohlberg Kravis Roberts & Co – meglio noto come KKR, dai nomi dei
tre fondatori. KKR è un fondo fiduciario a stelle e strisce con cinquemila
dipendenti, sedi in una ventina di paesi e un portafoglio di investimenti
stimato poco sopra i settecento miliardi di dollari. Come è lecito aspettarsi,
un fondo di questo tipo non è un esempio di finanza etica. KKR investe
letteralmente in tutto il pianeta e in qualunque cosa possa generare profitti:
telecomunicazioni e sanità, energie rinnovabili e sviluppo software, raccolta
differenziata e costruzioni. E anche nella pulizia etnica.
In Israele, KKR detiene quote di società operanti nel settore della
cybersicurezza, dell’elaborazione dati e della produzione di armi. È anche
azionista di maggioranza in una cordata di compagnie che offrono e pubblicizzano
investimenti immobiliari nei territori occupati. Il corto circuito è servito: un
comparto che lavora offrendo esperienze culturali e ricreative orientate (almeno
sulla carta) alla promozione della diversità, della tolleranza e della pacifica
convivenza si ritrova dalla sera alla mattina tra gli asset di un conglomerato
che letteralmente investe nel genocidio. Come in un gioco di matrioske, nella
più piccola c’è il tuo dj preferito – ma la più grande è sporca di sangue.
Dopo il Field Day, l’attenzione si è concentrata sulla Spagna. Qui il dibattito
è cresciuto per diversi motivi. In primo luogo, Superstruct in Spagna ha fatto
man bassa, acquisendo oltre venti dei festival più amati, tra cui Sónar, Viña
Rock, Resurrection Fest, Monegros, Arenal Sound e FIB. In secondo luogo, il
sostegno alla causa palestinese nel paese è forte e trasversale, e include
(almeno in parte) anche il governo in carica. Infine, i festival in questione
non hanno solo un notevole peso economico, ma sono parte integrante
dell’identità di un paese che nel giro di trent’anni ha visto crescere la
produzione culturale, la qualità della vita e i diritti civili – seppur con
tutte le contraddizioni del caso; e che dalla sera alla mattina si ritrova alle
dipendenze di un fondo che fa profitti col genocidio.
Il primo a finire sotto i riflettori è stato il Sónar, festival simbolo di
Barcellona e riferimento europeo per gli appassionati di musica elettronica.
Poche settimane prima dell’inizio, una lettera aperta firmata da ottanta artisti
ha chiesto al festival di aderire alle raccomandazioni del PACBI (The
Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel), una delle
entità al cuore del movimento BDS. Le richieste avanzate dal PACBI nei confronti
del Sónar riguardavano inizialmente solo gli accordi di sponsorizzazione con
McDonald’s e Coca Cola. Dopo un po’ di tentennamenti Sónar ha mollato gli
sponsor, e PACBI ha rilanciato con la richiesta di una formale presa di distanza
dagli investimenti di KKR e aderenza alle linee guida del BDS in termini di
politica culturale. Come già il Field Day, Sónar ha preso tempo, probabilmente
sperando che la polemica sfumasse. Alla fine, una tardiva presa di distanza c’è
stata, assieme a dei chiarimenti circa la destinazione dei profitti. Nel mentre,
circa cinquanta artisti hanno cancellato la propria esibizione. Sónar è comunque
riuscito ad assorbire il colpo – per usare un eufemismo – segnando un record di
161 mila presenze tra il 18 e il 20 giugno. I biglietti per l’edizione 2026 sono
già in vendita.
In attesa che il calendario porti un altro festival sotto i riflettori (mentre
questo pezzo viene ultimato stanno iniziando le cancellazioni per il Monegros)
ci sembra il caso di prendere spunto dalla vicenda per provare a buttare giù
delle considerazioni di carattere più generale sul rapporto tra forme di
protesta dal basso, politiche culturali e il funzionamento dell’industria
musicale nel post-pandemia.
Iniziamo col dire che il boicottaggio spontaneo e diffuso a opera di artisti e
pubblico dei festival targati KKR è sicuramente un’ottima notizia – per più di
una ragione. Non solo testimonia la sempre più trasversale condanna delle
politiche dello stato d’Israele, ma contribuisce a mantenere alta l’attenzione
mentre Gaza scivola via dalle prime pagine dei giornali a causa del
moltiplicarsi delle tensioni internazionali. Inoltre, cosa forse ancora più
importante, segnala la diffusione di una serie di soglie etiche che tanta gente
non è più disposta a superare e che riguardano la propria connivenza, anche
involontaria, con il genocidio in corso. La pressione sui social costringe gli
artisti a prendere posizione, e di conseguenza i festival, che devono dare conto
delle assenze nella line up anche agli spettatori meno informati. Ci sono però
altri fattori da considerare se si vuole sperare che questa campagna spontanea
possa diventare qualcosa di più, e magari forgiare alleanze più ampie.
In primo luogo è bene ricordare che un boicottaggio, per essere efficace, deve
dotarsi di coordinamento, obiettivi chiari e una strategia per raggiungerli. Per
esempio, le linee guida ufficiali del BDS identificano gli eventi o i prodotti
culturali da boicottare in quelli che ricevono finanziamenti diretti o indiretti
da governo o istituzioni israeliane, ne alimentano la propaganda, o normalizzano
l’occupazione. Le stesse linee guida sono inoltre esplicite nell’indicare che il
boicottaggio deve essere il più possibile mirato e avanzare richieste
specifiche, che di solito consistono nella cancellazione di un accordo di
collaborazione, sponsorizzazione o partecipazione. E questo non è esattamente il
caso dei festival in questione, dove artisti e pubblico al momento procedono in
ordine sparso, e dove il legame con l’occupazione è obliquo e, in molti casi,
decisamente sgradito.
In Spagna, assieme al dibattito è montato anche il disagio di chi si è trovato,
suo malgrado, nell’occhio del ciclone. Il legame tra i singoli festival e KKR
non è diretto, ma frutto di una catena di operazioni finanziarie che avvengono
senza il coinvolgimento né il consenso dei diretti interessati. Macchine
complesse come Sónar o Monegros impiegano migliaia di persone tra produzione,
direzione, comparto tecnico e logistico, oltre agli artisti che – non
dimentichiamolo – sono anch’essi lavoratori. Parlando con diverse di queste
figure, i sentimenti più diffusi sono sconforto e senso di impotenza. Il fatto
che larga parte del dibattito si svolga sui social con modalità che oscillano
tra callout e shitstorm contribuisce ad aumentare la frustrazione di chi, da un
giorno all’altro, si è ritrovato suo malgrado dalla parte sbagliata della
storia.
Tra quelli che soffrono la contraddizione ma non riescono a partecipare
direttamente al boicottaggio ci sono molti lavoratori che non hanno la
possibilità economica di rifiutare ingaggi. Per gli artisti di piccolo e medio
calibro pesano le penali previste per le cancellazioni e il rapporto con le
proprie agenzie. Tra gli artisti maggiori, che sicuramente avrebbero la
possibilità economica di cancellare, molti fanno riferimento a una rete di
relazioni personali che li legano a determinate organizzazioni attraverso
traiettorie condivise negli anni. Per le persone che hanno fondato e diretto
questi festival, ora legate a Superstruct da contratti pluriennali, l’unica via
d’uscita sarebbe rassegnare le dimissioni, pagare importanti penali e vedere il
lavoro di anni andare alle ortiche o passare nelle mani di qualcuno che la
contraddizione non la sente neanche. Sono scelte non impossibili ma sicuramente
non prive di conseguenze, che sarebbe più facile sostenere collettivamente
avendo chiaro il risultato che si vuole ottenere.
In assenza di coordinamento e obiettivi tangibili sembra però difficile segnare
un punto che vada al di là di quanto già elencato. Se affondare il singolo
festival è difficile, come dimostrano il Field Day e il Sónar, colpirne dozzine
è praticamente impossibile. E anche se lo fosse, cosa si otterrebbe sul lungo
termine? Superstruct è poca roba per KKR, la cui penetrazione nel tessuto
economico rende inoltre difficile, se non impossibile, tenersene del tutto alla
larga. In Spagna, per esempio, il fondo ha partecipazioni importanti nella prima
compagnia telefonica del paese, MasMovil, nella catena di ristoranti Telepizza,
nel parco divertimenti Port Aventura, e in decine di altre società. Nel Regno
Unito, lo scorso anno è stato a un soffio dall’acquisire Thames Water, la
società idrica di Londra. E via così in decine di altri paesi. In altre parole,
l’eventuale collasso di Superstruct non sarebbe un grosso colpo per KKR, mentre
disporre delle macerie potrebbe essere un compito titanico per il comparto
musicale europeo. E allora, che fare?
Quello che tanti artisti, fan e lavoratori solidali stanno manifestando nel modo
che riescono a permettersi (boicottaggi, comunicati, cancellazioni, devoluzioni
del cachet in beneficenza, denunce dal palco, rinuncia al lavoro, e chi più ne
ha più ne metta) è l’espressione di un disagio profondo a cui si cerca di
trovare una soluzione individuale. E se fosse invece proprio questo disagio –
nella sua dimensione collettiva – il dato da cui ripartire per provare a
ribaltare il tavolo?
Il problema della presenza tossica di KKR non dovrebbe essere un affare del
singolo festival, artista o spettatore. È invece un problema strutturale del
settore culturale spagnolo e, per alcuni versi, europeo. Come tale, non può
essere affrontato solo con scelte e sacrifici individuali, senz’altro
ammirevoli, che hanno l’effetto di risolvere il malessere dei singoli senza
tuttavia riuscire a intaccare lo stato delle cose. Il disagio, lo sconforto e la
frustrazione andrebbero invece coltivati, condivisi, formalizzati e sbattuti sul
tavolo con tutto il loro peso. Pensiamo a una piattaforma o una lettera aperta
che coinvolga tutte le organizzazioni, gli artisti, i lavoratori, e la comunità
degli spettatori e chiami in causa il governo e la società civile. Non per
offrire soluzioni che sarebbero necessariamente parziali, ma precisamente per
ingigantire la questione a tutti i livelli e farla diventare un problema
condiviso. Qualcosa del tipo: “Hey, abbiamo questo grosso problema – così grosso
che non è più solo nostro, ma anche vostro. Qualche idea per venirne fuori
insieme?”.
L’onere della prima mossa in questo senso spetta senz’altro ai festival, che
nella maggior parte dei casi hanno gestito la situazione in maniera pasticciata
e debole. Comunicati generici e poco efficaci, evidentemente affidati a uffici
stampa non avvezzi a gestire questo tipo di questioni, non hanno fatto che
peggiorare la situazione. Invece di arroccarsi su posizioni difensive o tentare
di salvare il salvabile, i festival dovrebbero invece giocare in attacco,
canalizzando il malessere che accomuna tutte la parti coinvolte per provare a
rispedirlo al mittente.
Ci sono già stati alcuni segnali di apertura in questa direzione. Il ministro
spagnolo della cultura Ernest Urtasun ha affermato a maggio che “KKR non è il
benvenuto in Spagna” esprimendo “preoccupazione” per la sua penetrazione nel
settore della cultura. L’amministrazione di Rivas Vaciamadrid ha rescisso
l’accordo con Sharemusic!, altra partecipata di KKR che organizza festival
musicali, a partire dal prossimo anno. La creazione di una piattaforma comune
potrebbe non solo amplificare ulteriormente le ragioni della protesta, ma anche
incentivare il supporto istituzionale e, sul lungo termine, attivare la
creazione di protocolli automatici di controllo o di una legislazione specifica
che regoli gli investimenti nel settore della cultura.
Infine, la situazione dovrebbe servire da monito per una riflessione più ampia
sulla direzione della musica dal vivo. Il dogma della crescita a tutti costi
negli ultimi venti anni ha avuto un impatto particolarmente forte sulla scena
della musica elettronica, riconfezionandone le spinte più anti-normative in
favore di un pubblico generalista. Ma prima o poi arriva il conto da pagare.
Oltre una certa soglia, i numeri iniziano a diventare appetibili proprio in
quanto numeri, e non per quello che c’è dietro: cultura, sperimentazione,
comunità. I grandi festival possono sembrare delle navi da guerra nello specchio
d’acqua della musica dal vivo, ma nell’oceano del grande capitalismo finanziario
sono poco più che zattere in balia delle onde – e dei pescecani.
Voci in disaccordo con la logica dei macro-festival iniziavano a farsi sentire
anche prima dell’arrivo di KKR, per motivi che vanno dall’appiattimento
dell’esperienza all’impatto ambientale insostenibile. Ma se i dischi non si
vendono più, lo streaming paga quasi zero, club e locali chiudono e i piccoli
festival indipendenti soffrono l’aumento dei costi e della burocrazia, il peso
dei grandi eventi nell’economia del settore cresce in modo esponenziale, fino a
diventare irrinunciabile. È tempo, insomma, di ripensare il modo in cui la
musica dal vivo si produce, si consuma e si performa. (brian d’aquino)
(foto di archivio famiglia paciolla)
Il 30 giugno scorso il tribunale di Roma ha disposto l’archiviazione
dell’inchiesta per la morte di Mario Paciolla, cooperante italiano dell’Onu
trovato morto nel 2020 nella sua casa di San Vicente del Caguan, in Colombia.
L’ipotesi del suicidio, sostenuta dalle autorità colombiane, è stata fortemente
messa in discussione da diverse inchieste giornalistiche internazionali e dalla
caparbietà nel chiedere giustizia dei genitori di Paciolla, supportati da un
comitato nato dopo la sua morte. La procura di Roma ha invece ritenuto che non
ci fossero elementi per aprire un nuovo procedimento e ha chiesto pertanto
l’archiviazione, ora accordata dal tribunale. Al momento della sua morte
Paciolla aveva trentatré anni e si trovava in missione in Colombia per conto
delle Nazioni Unite, verificando l’applicazione dell’accordo di pace del 2016
tra le Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia) e il governo
colombiano.
Già una prima volta la procura romana aveva chiesto l’archiviazione del caso,
richiesta respinta dal giudice per le indagini preliminari che aveva argomentato
la sua decisione con una dettagliata ordinanza di settanta pagine, dalla quale
emergevano le incongruenze e le lacune delle indagini: tra le altre, rimangono
tuttora irrisolte la questione relativa alla “bonifica” fatta nell’appartamento
in cui abitava Paciolla, nel quale non è stata rintracciata alcuna impronta
digitale, e il ruolo rivestito nella vicenda da Christian Thompson, responsabile
della sicurezza per la missione a cui partecipava il cooperante italiano, l’uomo
che è arrivato prima di tutti sul luogo del delitto e che ha gestito le
operazioni (qualche mese dopo la morte di Paciolla, Thompson è stato promosso a
capo nazionale del Centro operazioni di sicurezza Onu a Bogotà).
Oggi, 15 luglio, a cinque anni dalla morte di Paciolla, i familiari e il
comitato hanno organizzato una serie di iniziative a Napoli per denunciare
l’illogicità di questa decisione e chiedere giustizia per quello che, a ragion
veduta, ritengono essere un omicidio. Un corteo attraverserà il centro a partire
dalle 18:00, da piazza Municipio fino a piazza Dante; dopo, al parco
Ventaglieri, verrà proiettata una video inchiesta sul caso realizzata dal
quotidiano online Fanpage; infine, interventi al microfono di solidali, artisti
e musicisti a supporto del comitato. (redazione)
(disegno di escif)
Il Largo do doutor Pedro Vitorino si trova nel centro di Porto. Nei pressi c’è
un piccolo spiazzo panoramico, il Miradouro da Vitoria, da cui si possono vedere
il fiume Douro e il ponte Luiz I, che unisce Porto con Vila nova de Gaia, città
di oltre trecentomila abitanti che si estende a sud del fiume.
Nel complesso i due comuni, situati nel nord nel Portogallo, superano i
cinquecentomila abitanti, costituendo la seconda area urbana del paese dopo la
capitale Lisbona. Dall’altra parte del Douro si vedono le sedi di alcune aziende
produttrici del famoso vino locale, il Porto, mentre una funivia collega la riva
del fiume con il parco chiamato Jardim do Morro.
In mezzo alle case e agli edifici del centro, da entrambi i lati del fiume, si
vedono diverse gru per costruzioni. Nelle sue zone centrali – come quella
intorno alla stazione della metro Aliados, dove ha sede il Comune, e alla
stazione ferroviaria di São Bento – Porto è piena di turisti. È forse scontato
dire che il turismo sta cambiando la città, ma quello che altrove è ormai un
fenomeno affermato qui sembra avere ancora margine di crescita.
Sia in centro che in periferia si vedono diversi edifici fatiscenti: in più
occasioni si possono notare piani interni crollati e solo la facciata in piedi,
con poche travi all’interno. Come in rua Conde de Vizela, a due passi dalle aree
più interessate dalla presenza turistica, dove un edificio in queste condizioni
è affiancato da locali alla moda e da altri palazzi ristrutturati di recente.
L’immobile, come molti altre nelle stesse condizioni, è in vendita.
Basta passeggiare per le strade della città per rendersi conto che la questione
abitativa a Porto è diventata di primaria importanza: nel centro sono affissi
tanti manifesti di Habitação hoje, un’organizzazione politica nata nel 2021 che
si occupa della difesa del diritto all’abitare.
«Habitação hoje ha avuto da subito l’idea di aggregare una forza collettiva per
provare a cambiare le cose. Facciamo il possibile per ritardare gli sfratti: in
Portogallo la legge tutela i proprietari e quindi evitarli è quasi impossibile.
Possiamo però allungare i tempi della procedura», afferma R. Il gruppo fornisce
assistenza legale e promuove due volte al mese delle assemblee per chi si trova
in condizione di fragilità o in emergenza abitativa. «Negli ultimi anni con il
sindaco Rui Rio (in carica dal 2002 al 2013, ndr) e poi con l’attuale Rui
Moreira (già al terzo mandato) la città si è trasformata in una sorta di parco
giochi per immobiliaristi: si è progressivamente costruita l’immagine di una
Porto accogliente per i turisti e questo ha sconvolto la vita di chi abita qui»,
ci dice ancora R.
Una delle date fondamentali per ricostruire questo processo è il 1996, anno in
cui il centro di Porto è entrato a far parte della lista dei siti “patrimonio
dell’umanità” dell’Unesco. Oggi in quest’area sono frequenti i cartelli che
ricordano il riconoscimento. Nel 2001, la città, allora amministrata dal sindaco
Nuno Cardoso, è stata capitale europea della cultura. Oggi si possono vedere
diversi interventi urbanistici risalenti a quel periodo, come la Casa della
musica nel quartiere Boavista, sulla direttrice che dal centro porta verso
occidente e quindi verso l’oceano. «Quello è stato un momento decisivo per la
città – ci dice R. – anche perché Porto è entrata a far parte delle destinazioni
della compagnia Ryanair e sono state approvate alcune leggi che favoriscono gli
affitti brevi. Questi interventi si sono sommati a un percorso legislativo che
negli anni Novanta aveva già indebolito le tutele verso gli affittuari».
Negli ultimi venti anni anche la zona orientale della città ha subito profondi
cambiamenti. Nel 2004 il Portogallo ha ospitato i campionati europei di calcio,
che hanno portato alla costruzione di un nuovo stadio (il Do Dragão: “Del
drago”) poi utilizzato dal Porto, la squadra di calcio locale. Accanto allo
stadio si trovano un grande centro commerciale e diversi edifici a uso
residenziale. Nella stessa zona, appena più verso il centro, c’è la stazione
intermodale di Campanhã, in cui una recente stazione per i bus si affianca a una
stazione dei treni che ora è diventata la principale di Porto.
Su quest’area l’amministrazione di Rui Moreira sta investendo molto. In una
conferenza stampa del 25 marzo scorso Pedro Baganha, il responsabile della
giunta Moreira dell’assessorato all’urbanistica, si è detto soddisfatto di come
stanno procedendo i lavori nella zona, sottolineando un aumento delle abitazioni
disponibili e degli hotel, prima “praticamente inesistenti”. Prendiamo queste
informazioni da Porto.pt, il portale di informazione gestito e promosso dal
Comune, che è ben presente in città, soprattutto nelle metropolitane e in alcune
piazze. «Il problema della gestione delle informazioni a Porto è cruciale: –
aggiunge R. – Porto.pt non dà notizie false, ma dice solo quello che fa comodo
alla giunta comunale. Per esempio, tempo fa rispetto a un caso di persone in
emergenza abitativa il portale ha annunciato che per loro era stata subito
trovata una soluzione alternativa, senza però specificare che questa sarebbe
durata appena qualche giorno».
Per quanto riguarda l’aumento di case disponibili a Campanhã di cui parla
Baganha, viene naturale chiedersi chi potranno esserne gli abitanti. Mentre il
Comune rivendica di aver messo in piedi quella che è stata chiamata Strategia
locale per l’abitazione (Estratégia local de Habitação), Habitação hoje fa
notare che molte delle persone più in difficoltà, come le donne sole
ultrasessantenni, finiscono per non poter accedere alle case presentate come
“accessibili”. «Vengono affittate a un prezzo che è di poco inferiore a quello
di mercato. Inoltre la quota che verrebbe “sottratta” al proprietario,
impossibilitato a venderla al prezzo corrente, viene comunque data dal Comune
che garantisce così la rendita. Ciò determina che chi partecipa all’assegnazione
di queste case non avrebbe bisogno di un sostegno istituzionale, mentre chi si
trova in difficoltà viene escluso e deve trovare altre soluzioni, se ci sono.
Sono soprattutto le donne a rivolgersi ad Habitação hoje, in particolare quelle
con più di sessantacinque anni, con pochi contributi versati e senza lavori
stabili. Inoltre, il Comune non ha una vera e propria struttura che possa
sostenere chi perde la casa: a quel punto queste persone possono solo contare
sul sostegno di familiari e amici. Esistono dei rifugi notturni in città, ma
sono abbastanza problematici e non riescono a far fronte a tutte le richieste.
Di conseguenza diverse persone finiscono per strada», ci fa notare ancora R.
Allo stesso tempo, il Portogallo negli ultimi anni si è dato da fare per
attirare fasce di popolazione con una buona capacità di spesa, come i pensionati
di altri paesi europei e cittadini di paesi esterni all’Unione Europea che,
tramite un investimento fino al 2023 ottenevano il cosiddetto visto Gold, che
permette di muoversi senza problemi in tutta l’Unione. Questo fenomeno ha
sottratto ulteriori case dal mercato e ha anche innalzato i prezzi di molti
immobili, spesso di quel tanto che bastava per raggiungere il livello minimo
dell’investimento richiesto per ottenere il visto.
Tutto ciò accade nonostante l’articolo 65 della costituzione portoghese
garantisca il diritto a un’abitazione degna per ogni persona, impegnando anche
lo Stato a promuovere delle forme adeguate di edilizia pubblica, senza escludere
iniziative private o delle comunità che sentono in prima persona il problema
abitativo: in realtà le case popolari oggi coprono solo una piccola parte del
patrimonio immobiliare del paese e alcune esperienze innovatrici nate dopo il
crollo della dittatura del cosiddetto Estado Novo, avvenuto il 25 aprile 1974
dopo quarantuno anni di regime, sono state riassorbite nel giro di pochi anni.
Il riferimento è a quanto avvenuto durante il cosiddetto Prec (Proceso
revolucionário em curso), cioè il tentativo di indirizzare la giovane repubblica
portoghese verso una forma di socialismo. «L’esperienza di alcune cooperative ha
garantito delle case a basso costo a diverse persone, ma alle condizioni attuali
è molto difficile ripetere qualcosa di simile», ci spiega ancora R.
Prima di lasciare la città diamo un’ultima occhiata al Douro dal Passeio das
Virtudes, un piccolo parco in centro che offre una bellissimo panorama sul corso
finale del fiume e sulle zone di Porto che si estendono fino all’Oceano
Atlantico. Ripensiamo a quanto visto nei giorni precedenti. Ci sembra che la
città stia subendo la sorte di tanti altri luoghi nel mondo: una grande
potenzialità in termini di spazi disponibili si trasforma in una preda ghiotta
per chi nel mercato immobiliare e nel turismo, con l’aiuto decisivo delle
istituzioni, ha trovato uno strumento per realizzare forti profitti in breve
tempo, facendo aumentare i costi della vita di chi abita in città. Rimane però
anche l’impressione che, per chi vive problemi comuni, riconoscersi e
organizzarsi sia il primo passo per trovare soluzioni collettive, soprattutto
quando le istituzioni hanno altre priorità. (alessandro stoppoloni)
(disegno di martina di gennaro)
Può accadere che trovandosi a Istanbul e dicendo che ti stai recando in uno dei
suoi distretti, a Silivri, qualcuno ti risponderà che “a Silivri fa freddo”.
Anche se è estate inoltrata e ci sono trentacinque gradi. Situata sulla sponda
europea della provincia di Istanbul, antico villaggio di pescatori, dal 2008
ospita la più grande prigione europea con una capienza di 11 mila persone e ne
detiene attualmente circa 22 mila, tra cui una buona parte di prigionieri
politici detenuti in un regime di carcere duro noto come prigione di tipo F. È
da questa grigia superficie, che si estende su 955.354 metri quadrati, che
proviene l’aria gelida di Silivri.
All’interno dello stesso comune, a circa venti chilometri di distanza, sorge
un’altra struttura detentiva, meno rinomata, il Centro di permanenza per il
rimpatrio femminile di Selimpaşa, uno dei trenta Cpr costruiti in Turchia in
seguito agli ingenti finanziamenti che dal 2015 vengono stanziati dall’Unione
europea all’interno di progetti per il supporto di “pace e stabilità” (IcPS) con
l’intento di contenere e controllare i migranti verso l’Europa da Siria, Iran,
Iraq e Afghanistan.
In un comunicato stampa in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, il
partito Dem (partito dell’uguaglianza e della democrazia tra i popoli) afferma
che i Cpr “sono luoghi costruiti appositamente per torture e maltrattamenti” e
che “l’accordo con l’Unione europea è di per sé un crimine”. Sono numerosi gli
immigrati a essere arrestati e trattenuti arbitrariamente in questi centri e
rispediti illegalmente nei paesi di provenienza, anche in seguito a richiesta di
asilo, attraverso l’ottenimento delle loro firme di rimpatrio volontario,
sottratte utilizzando tecniche ingannevoli o violenza psicologica e fisica. Il
numero di arresti si è intensificato notevolmente dopo le ultime elezioni
presidenziali, con l’aumento di controlli capillari supportati da camionette
predisposte esclusivamente alla detenzione degli immigrati. Nel giugno 2024 il
ministro dell’interno Ali Yerlikaya ha dichiarato compiaciuto che “nell’ultimo
anno si è raggiunto il numero record di 141.187 espulsioni di stranieri
irregolari”.
Fuori al Cpr di Selimpaşa, ogni mercoledì, una fitta folla aspetta in fila per
registrare le impronte digitali su un veicolo sul quale compaiono, congiunte, la
bandiera turca insieme a quella dell’Unione Europea. Per chi è riuscito a uscire
e si trova sotto sorveglianza amministrativa con obbligo di firma in attesa di
processo, l’incremento dei detenuti è stato tangibile: “Una volta al mese
veniamo a firmare – dice una donna in fila –, se prima si aspettava non più di
mezz’ora, dalla metà del 2023 la gente che è entrata qui è aumentata e si sta in
fila in piedi anche per quattro ore sotto il sole e le intemperie; ci sono donne
incinte e bambini piccoli, se ci si lamenta e ci si siede in un angolo fuori
dalla fila i gendarmi richiamano all’ordine e minacciano di rimetterci dentro.
Se sono stranieri, minacciano anche i nostri accompagnatori”.
Alcune attiviste arrestate in seguito al corteo del 25 novembre (giornata
mondiale contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere)
descrivono lo spazio detentivo come insufficiente e malsano: “La struttura si
compone di tre piani riservati alle sezioni. In ognuna di esse, appena superate
le sbarre, si è subito catapultati nello stretto corridoio affollato da
materassi, ai cui lati si aprono sette stanze fornite di letti. La più grande ne
conteneva sei. I bagni utilizzabili nella nostra sezione erano tre. Le docce
due, di cui una ricavata da un precedente bagno alla turca riempito
grossolanamente con qualcosa di simile allo stucco per chiudere l’orinatoio.
Abbiamo provato a contare le donne detenute al terzo piano e crediamo
raggiungessero circa il centinaio al nostro ultimo giorno di detenzione.
Riscontriamo più persone che entrano rispetto a quelle che escono ed è molto
probabile che una buona parte di chi è uscito sia stata in realtà trasferita in
altri centri; accade spesso che ti dicano che verrai liberato, ma in realtà ti
trasferiscono in Cpr più lontani dal luogo di residenza, a Gaziantep, Şanlıurfa
e Erzurum, più vicini ai confini con Siria, Afghanistan e Iran, rallentando cosi
le procedure legali per le scarcerazioni e agevolando la procedura di rimpatrio
‘volontario’ in piena violazione del principio di non-refoulement sancito dalla
Convenzione di Ginevra. È raro che il trasferimento venga notificato, dal
momento che sono frequenti i casi in cui avvocati e famiglie ne sono venuti a
conoscenza a deportazione avvenuta. La comunicazione con l’esterno è assai
limitata: hai a disposizione dieci minuti due giorni a settimana, dalle 16 alle
20 circa, ma gli orari vengono decisi arbitrariamente dalla guardia di turno. Il
tempo non era mai sufficiente per le chiamate di tutte e inoltre, se non hai a
disposizione il denaro contante per ricaricare la scheda telefonica non hai
possibilità di comunicazione, così come di accedere ai beni di prima necessità
venduti allo spaccio del centro a prezzi che superano quelli del mercato fuori.
“È negato il diritto alla salute, è ostruito l’accesso a qualsiasi tipo di
farmaco proveniente dall’esterno e l’unica cura possibile a qualsiasi tipo di
male fornita dal centro è una pillola di ‘antibiotico’ del quale non conosciamo
il principio attivo, consegnata direttamente sul palmo della mano, priva del suo
blister. Jana, una giovane donna sudamericana [nome e provenienza di fantasia],
che riportava una ferita sull’arco palmare suturata con dei punti metallici per
spillatrice, svigorita dalla permanenza in quel luogo firmò per il rimpatrio.
Per legge, la Direzione provinciale per la gestione delle migrazioni dovrebbe
finanziarne i costi, ma fu costretta a chiedere un prestito a qualcuno
oltreoceano per acquistare un biglietto aereo. Il giorno del volo partì in
direzione aeroporto con la camionetta guidata dai gendarmi. Non sappiamo
esattamente cosa accadde ma la riportarono indietro dopo qualche ora. Ci
dirigemmo verso di lei non appena oltrepassò le sbarre: il suo sguardo era
orientato in una direzione che non era la nostra e quella di nessun altro lì
dentro, non rispondeva a nessuno stimolo. Si accostò a uno dei materassi
posizionati ai lati del corridoio per sdraiarsi e ci rimase come se fosse morta
per i due giorni successivi. Dopodiché siamo uscite e non abbiamo saputo più
niente di Jana, non ci ha mai richiamate al recapito che le avevamo lasciato”.
In seguito agli arresti arbitrari di cinque persone straniere – tra cui anche di
provenienza europea – avvenuti durante il ventunesimo Pride di Istanbul (2023),
un’associazione di avvocati volontari ha denunciato le condizioni di detenzione
in questi centri, i trattamenti inumani e degradanti, la mancanza di accesso a
cure mediche adeguate, alla ventilazione, la scarsa igiene (GGM’lerde Neler
Oluyor?). Uno degli attivisti arrestati riportava una ferita alla gamba che non
è mai stata curata adeguatamente in un luogo sterile. È stato reso noto il
limitato accesso alla protezione internazionale e il contenimento arbitrario
della comunicazione con i propri clienti. Nell’autunno 2024 alcune studentesse e
attiviste palestinesi dell’organizzazione Filistin için bin genç sono state
arrestate (anche con raid domestici a seguito di perquisizioni a casa),
trattenute in custodia cautelare per diciotto ore senza possibilità di
soddisfare i propri bisogni primari e trasferite nel Cpr di Selimpaşa al cui
ingresso, segnala l’organizzazione, è stato strappato loro l’hijab. L’accusa
illegittima è di vilipendio al presidente e violazione dei termini della legge
n. 2911, entrata in vigore dopo il golpe militare del 1980, che limita il
diritto di riunione e manifestazione, per aver esposto all’interno della
campagna “Stop fueling genocide” gli accordi commerciali turchi con Israele e la
compagnia energetica azera Socar. Da Ceyhan, a sud della Turchia, viene spedito
infatti il petrolio azero fino al porto di Ashkelon, circa il trenta per cento
del petrolio importato dall’entità israeliana. Attribuendo in aggiunta vaghe
accuse come il rappresentare una “minaccia per l’ordine pubblico” questi centri
diventano anche il luogo per silenziare studenti non cittadini, migranti e tutte
le persone in movimento che denunciano apertamente il razzismo, lo sfruttamento,
la violenza patriarcale e le politiche governative. (dalila procopio)
Fotogalleria di Victor Serri
Questa mattina il parlamento catalano ha finalmente approvato la
regolamentazione degli affitti brevi turistici, dopo anni di pressioni da parte
dei movimenti per la casa, e dopo le grandi manifestazioni in tutto lo stato
spagnolo di sabato scorso.
Oltre centomila persone, secondo gli organizzatori (poco più di ventimila per la
polizia municipale), hanno sfilato a Barcellona per esigere la riduzione degli
affitti, mentre un’altra manifestazione avveniva nello stesso momento a Madrid e
in altre quaranta città dello stato spagnolo. La grande mobilitazione per la
casa, in crescita da alcuni anni grazie al lavoro di base di un gran numero di
strutture organizzate, per lo più assemblee territoriali, ha minacciato di far
partire un grande sciopero degli affitti in tutto lo stato, se non verranno
soddisfatte le richieste fondamentali degli inquilini: la riduzione degli
affitti, il ritorno ai contratti indefiniti aboliti dal Partito Socialista negli
anni Novanta, la fine delle compravendite speculative, il recupero delle case
vuote e di quelle adibite a case vacanza, e l’aumento del numero di case
popolari.
La Catalogna è il territorio di tutto lo stato che sta subendo in modo più
violento le conseguenze dell’impennata dei valori immobiliari: nei primi due
trimestri del 2024 sono stati eseguiti più di quattromila sfratti, di cui mille
e ottocento solo a Barcellona; gli affitti sono aumentati del quarantacinque
per cento in dieci anni, al punto che oggi l’affitto medio per una famiglia a
Barcellona è di 1.300 euro al mese.
Due grandi episodi di resistenza hanno segnato la fine del 2024 nella capitale
catalana: lo sgombero della Antiga Massana, un’ex accademia d’arte occupata dal
Movimento Socialista a due passi dalla Rambla, e il tentativo di sfratto degli
inquilini della Casa Orsola, un palazzetto modernista del quartiere Eixample,
acquistata da un fondo immobiliare. Nel primo caso, migliaia di attivisti e
attiviste avevano riempito le strade del centro in protesta contro l’espulsione;
nel secondo, un picchetto di almeno un migliaio di persone per impedire
l’accesso alla polizia è durato tutta la notte, mentre alcuni artisti suonavano
o parlavano dai balconi degli appartamenti minacciati di sfratto.
Il movimento catalano comprende varie anime, ognuna con il suo modello
organizzativo. La più antica è la PAH, la struttura creata dopo le mobilitazioni
del 2010 per difendere gli abitanti che perdevano le case per la crisi dei
mutui. La PAH era riuscita a occupare molto spazio nell’opinione pubblica di
tutto lo stato, al punto che dalle sue fila era emerso il movimento
municipalista di Barcelona en Comú, guidato dall’ex sindaca Ada Colau. La PAH ha
segnato il modello per tutti gli altri movimenti, ma ultimamente ha perso forza,
anche se si mantengono varie assemblee territoriali.
Una seconda struttura, che oggi ha più protagonismo nella sfera pubblica, è
quella dei Sindicats d’habitatge, i sindacati inquilini, emersi invece dalle
lotte dei quartieri dopo il 2017. Si tratta per lo più di assemblee di
inquilini, organizzate in forma orizzontale, con basi nelle diverse cittadine
catalane e nei quartieri di Barcellona. Una struttura più grande
chiamata Sindicat de llogateres de Catalunya mantiene la stessa struttura
organizzativa e si coordina con i sindacati più piccoli, ma il suo ambito è
tutto il territorio catalano. La confluenza di queste assemblee ha dato luogo
alla Confederació Sindical de l’Habitatge, a cui partecipano anche diverse
assemblee della PAH (ma non quella di Barcellona).
Un terzo modello si è diffuso negli ultimi anni: il Moviment Socialista, emerso
nel País Vasco e poi in Catalogna. In rottura con i movimenti indipendentisti e
contro l’istituzionalizzazione del municipalismo di Podemos e Barcelona en Comù,
considerato un fallimento, è cresciuta un’organizzazione comunista
centralizzata, organizzata gerarchicamente, con sezioni locali e una struttura
di coordinatori e rappresentanti. Il MS ha saputo fare un uso molto efficace
delle reti sociali, mobilitando migliaia di giovani e giovanissimi: alcuni
sindacati della casa catalani si sono dichiaratamente posizionati all’interno di
questa organizzazione, e sono rappresentati da un Sindicat d’Habitatge
Socialista. Questa struttura però potrebbe però aver raggiunto il suo limite di
espansione, ed è la più reticente a coordinarsi con i gruppi di diverso
orientamento politico.
Eppure, la volontà di convergenza e organizzazione comune è generalizzata. Il
congresso di febbraio e la manifestazione di sabato sono riusciti proprio perché
hanno tenuto insieme le diverse anime – PAH, Confederació, Sindicat socialista –
senza che nessuna perdesse le proprie strutture, facendone un movimento
unitario. Il nuovo ciclo di lotte di cui le ultime manifestazioni sono
espressione sarà il banco di prova per vedere se una forma organizzativa di
questo tipo riuscirà a tenere insieme le migliaia di inquilini in lotta nello
stato spagnolo organizzando uno sciopero degli affitti – con tutto ciò che
comporta in termini di repressione e di sfratti – e a consolidare finalmente un
ribaltamento radicale dei rapporti di potere intorno alla questione della casa.
Il patto tra le forze di governo per regolare gli affitti brevi è sicuramente un
primo passo, ottenuto dai movimenti non grazie a complesse alleanze
istituzionali, ma grazie alla pressione popolare che si è espressa nei
picchetti, nelle proteste e nell’ultima grande manifestazione. (stefano
portelli)