Lampedusa, i migranti e gli isolani. Cronache di una settimana di sbarchi

NapoliMONiTOR - Friday, September 15, 2023
(disegno di sam3)

Manca meno di un mese al decennale del naufragio che vide morire trecentosessantotto migranti a poche miglia dal porto di Lampedusa. Era il 3 ottobre del 2013. I nomi di quelle persone sono oggi scritti sul memoriale dei migranti “Nuova speranza” in piazza Piave, un memento che serve almeno a dare un’identità ai cadaveri identificati solo da un numero, e che è stato voluto con forza da chi quella notte ha raccolto corpi in mare, fino a quanto ha potuto.

È domenica mattina, 10 settembre. Dal mare arrivano decine di barchini, probabilmente sono stati accompagnati in acque territoriali da una nave madre che li ha poi abbandonati su imbarcazioni di metallo, dello stesso colore delle rocce che incantano i turisti presenti sull’isola per goderne la bellezza senza caos. I barchini sono ovunque, si avvicinano alla costa, qualcuno attracca facilmente, qualcuno si capovolge, altri si schiantano sugli scogli. Quando accade le piccole imbarcazioni restano in acqua abbandonate, mentre i migranti raggiungono la costa con i “salvagente” che hanno a bordo, gomme nere che poche ore dopo invaderanno le acque e le spiagge. Alcune barche vengono agganciate e soccorse da chi sta facendo il giro dell’isola per conto proprio, si cerca di scortare le persone al porto. Una neonata non ce la fa, viene inghiottita dal mare a pochi metri dalla costa, nessuno è in grado di aiutarla. Non ci sono notizie rispetto al numero dei dispersi, che potrebbero essere più di quanto accade di solito, anche a causa delle scelte del governo che ha rafforzato la politica di allontanamento progressivo delle navi delle guardia costiera dalle acque libiche e tunisine.
C’è confusione, si sentono urla. Le imbarcazioni sono piene di gente, anche una volta arrivate al porto rimangono agganciate alla banchina perché non arriva il via libera per mettere piede sulla colmata. A bordo ci si divide tra chi rischia una crisi e chi invoca calma per non fare rovesciare il barchino.

Il mare è piatto. L’isola è piena di turisti, quasi tutti italiani, difficilmente gli stranieri arrivano alle “Maldive d’Europa”. Sono giornate perfette per uscire in barca, per chi vuole godersi il mare ma buone anche per chi vuole arrivare in Italia dalla Tunisia, così vicina che quasi la vedi a occhio nudo. Il molo Favaloro è lungo sessanta metri, i migranti arrivati in poche ore superano i mille, nelle successive quarantotto ore diventeranno quasi settemila, più degli abitanti dell’isola. Non c’è spazio neanche per svenire, le persone sono ammassate in attesa di essere trasferite all’hotspot di contrada Imbriacola, che fino a sabato “ospitava” diciannove persone, e che ne può contenere al massimo mille.

Gli sbarchi continuano giorno dopo giorno. Stremati dal viaggio e affamati, i profughi non hanno alcuna idea di dove andare. Qualcuno chiede indicazioni per Palermo, non sanno di essere su un’isola. Sono in mare da quattro giorni. I mediatori presenti fanno quello che possono, riescono a dare risposte a una piccolissima parte della folla, il cibo è poco e la distribuzione è lenta. Il sistema di trasferimento veloce via bus è totalmente insufficiente, nonostante un aumento degli sbarchi fosse ampiamente prevedibile non sono state prese misure adeguate. Tra i nuovi arrivati, chi può scappa dall’hotspot, in tanti bussano alle porte degli isolani in cerca di cibo, le persone aprono le loro case e qualcuno organizza una spaghettata. Gli abitanti di Lampedusa mettono frettolosamente insieme vestiti, giocattoli, cibo, cercano di supportare i profughi. Ognuno fa quel che può: i volontari delle associazioni danno manforte agli operatori della Croce Rossa, i ristoratori danno fondo alle riserve alimentari, gli isolani tentano di comunicare in lingue sconosciute e persino qualcuno tra i turisti prova a rendersi utile comprando e portando in giro vettovaglie. La strada è piena di ragazzi che corrono senza meta, cercando di sfuggire ai controlli e all’idea che qualcuno gli dica cosa fare senza avere a sua volta alcun programma di gestione della situazione. Quando i poliziotti e i finanzieri intercettano i giovani in fuga li fanno sedere per terra per controllarli. Anche i bambini sono tanti, le madri sono giovanissime, è a loro che il sistema di supporto allo sbarco dà la priorità. Arriva il via libera perché alcune persone lascino l’isola. Sono appena settecento.

L’animo dei lampedusani sembra contrastato. Vivono di turismo, sono preoccupati perché alle strutture ricettive cominciano ad arrivare disdette, è un colpo duro per chi lavora solo pochi mesi l’anno. Dagli occhi di alcuni tra loro si percepisce quasi un senso di colpa, davanti a una sofferenza che non è paragonabile a nulla, ma allo stesso tempo denunciano solitudine e stanchezza. La sensazione diffusa è quella di essere di troppo, che la governance internazionale del fenomeno migratorio gradirebbe assai più una Lampedusa vuota, spopolata, per poter gestire senza occhi indiscreti, popolazione solidale e supporto informale le emergenze dei naufragi, il business degli sbarchi e la “redistribuzione” degli esseri umani.

In arrivo, nelle prossime settimane, ci sono quarantacinque milioni di euro, ma la loro destinazione è ancora troppo generica se si considera l’enormità della somma. Intanto i lampedusani chiedono ai referenti istituzionali almeno la rimozione dei relitti da mare; barchini, motori, pneumatici che galleggiano o che restano abbandonati sulle rocce accanto la spiaggia dei conigli, una delle più belle al mondo, a monito involontario di una tragedia che non ha sosta e che ha poco a che vedere con la parola “emergenza”. Nel frattempo, mentre partono bus pieni di donne e uomini che lasciano l’isola, la polizia procede con cariche di contenimento e alleggerimento per sedare gli animi di quelli che spendono le proprie ultime energie a cercare di scappare.

Giovedì 14 settembre. Il sindaco Mannino proclama lo stato di emergenza e il lutto cittadino. Gli sbarchi intanto continuano. Alle otto di sera lampedusani e non sfilano in una marcia silenziosa percorrendo via Roma, l’unica strada della movida, per cercare di sensibilizzare politici e opinione pubblica sull’assurdità di questa ennesima tragedia che tutti hanno davanti agli occhi ma che nessuno vuole affrontare. Il silenzio è surreale, contagia anche le centinaia di migranti non ancora trasferiti che restano in fila, fuori la chiesa, per la distribuzione del cibo. È quasi sera. Suonano le campane a morto per la piccola senza nome che non ce l’ha fatta. (claudia gallinaro)

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