(disegno di malov)
Sono trascorsi più di due anni e mezzo da quando ho visto Henda Benali e Kamel
Abdellatif per la prima volta, nella loro casa di Kebili, una città della
Tunisia interna. Il nostro incontro più recente risale invece a questa
primavera, nella sala del Kif Kif, un locale che è anche punto di ritrovo per la
sinistra araba a Roma. Rispetto a quanto percepito quella mattina del settembre
2022, Henda e Kamel mi sono sembrati stavolta più forti e agguerriti. Come se
lottare per la verità sulla morte del loro primogenito li avesse in qualche
modo, forse loro malgrado, costretti alla vita. Le lacrime c’erano sempre, ma
non era il dolore sordo di Kebili. Era un dolore rumoroso.
Henda e Kamel avevano attraversato il paese, da Roma a Bologna, con il comitato
Verità e Giustizia per Wissem Ben Abdellatif, per raccontare la storia di un
giovane uomo che chi legge questo giornale conosce bene. Wissem che giocava bene
a calcio. Wissem che ascoltava Bob Marley e aveva perso il lavoro. Wissem che
sorrideva, con gli amici, girando video sulla barca che lo portava in Italia.
Wissem che è morto, in seguito alla detenzione nel Cpr di Ponte Galeria e a una
contenzione fisica durata centotré ore, quaranta all’ospedale Grassi di Ostia,
poi sessantatré al San Camillo di Roma. Legato per centotré ore.
«Wissem ha detto chiaramente di aver ricevuto delle manganellate in testa nel
Cpr di Ponte Galeria, e anche i suoi compagni di detenzione hanno confermato
questa cosa», ha raccontato il padre durante l’incontro pubblico. Magro, provato
dai problemi di salute, tremava. Ha smesso di parlare, Kamel, ma una scritta in
inglese sul suo cappellino diceva per lui: “No Fear”. Niente Paura.
«Perché ucciderlo in quel modo?». Si è chiesta invece, ancora una volta
“perché?”, Henda, la madre. Spera che suo figlio sia un esempio per tutte e
tutti. Wissem aveva voluto denunciare la situazione sua e dei suoi compagni di
detenzione, girando video nel Cpr e diffondendoli in rete. Wissem, Henda ne è
sicura, ora è in Paradiso. Tradotta a braccio da un giovane tunisino, commosso
anche lui, conclude: «Se fosse stata una morte normale l’avremmo accettata».
L’avvocato Romeo ha spiegato che la procura di Roma ha richiesto l’archiviazione
per la denuncia per sequestro di persona contro il primario del reparto
psichiatrico del San Camillo, che poi è lo stesso del Grassi di Ostia, e contro
gli altri medici coinvolti nella lunga contenzione fisica di Wissem: «Sebbene
avessimo chiesto di essere informati nell’eventualità di una richiesta di
archiviazione, la notizia di quest’ultima è arrivata solo al momento
dell’udienza preliminare, che si è tenuta ad aprile nei confronti dell’unica
persona ancora indagata, l’infermiere che ha somministrato una dose di farmaci
non prevista dalla scheda terapeutica di Wissem». La prossima udienza si terrà a
Roma il 10 settembre: i genitori si sono costituiti parte civile, e i loro
legali hanno ottenuto che venga chiamata in causa anche l’Asl Roma 3, nella cui
giurisdizione si trova il reparto psichiatrico dove Wissem ha trascorso le sue
ultime ore. In generale, fanno sapere ancora dal comitato, “ci si aspetta che la
controparte punti a far passare la morte di Wissem, una morte di Stato, come
morte naturale”. Come in altri casi si tenderà in effetti a punire solo le
ultime violenze subite da Wissem, normalizzando la lunga catena di abusi che le
hanno precedute.
L’ingiustizia subita dal ventiseienne di Kebili, però, non sta solo in un
sovradosaggio di farmaci. Sta nella lunghissima contenzione fisica. Nella
detenzione in Cpr, esperienza vicina a quella del carcere più duro e che
sanziona per di più un semplice illecito amministrativo come la permanenza
irregolare su un territorio nazionale. Anche queste violenze sono dettagli
accidentali, effetti collaterali della grande ingiustizia di un ampio e
capillare regime di frontiera basato su razza e classe. Se Wissem ha dovuto
attraversare il mare, finire a Lampedusa, essere chiuso in una nave quarantena
ad Augusta e poi in Cpr, è perché non ha avuto, come centinaia di migliaia di
altre persone, nessuna opportunità di attraversare legalmente il Mediterraneo.
Sarebbe bastato un visto turistico, una borsa lavoro, una borsa di studio, come
quella che chi scrive ha ottenuto qualche anno fa, senza particolari meriti
accademici peraltro, proprio per la Tunisia, proprio a ventisei anni.
La grande violenza normalizzata, che si colloca nel livello antecedente a quella
individuale subita da Wissem, sta nel fatto che i visti Schengen agli africani,
e in generale alle persone non bianche, siano un’eccezione. Eppure, anche se
divenuto marginale nei dibattiti sulla migrazione, il muro della burocrazia e
dell’esclusione dalla libertà di movimento è il più pervasivo e strutturale
fondamento di questo sistema. A rafforzare questo muro ci sono le decine di
barriere che impediscono le vite dei migranti: non solo quella del Mediterraneo
o del deserto, non solo i lager libici e quelli europei, ma anche le
interdizioni che molto spesso rendono impossibile lavorare al di fuori del
bracciantato agricolo sottopagato, dello spaccio, della prostituzione. Fino al
carcere, che spesso consegue a tutto questo.
Solo nel 2023, secondo i dati di Schengen Visa Statistics, settecentomila
persone di varie nazionalità africane hanno perso ottanta euro, una cifra pari
alla metà di uno degli ultimi stipendi di Wissem, per fare la domanda di un
visto europeo che non hanno mai ottenuto. I dinieghi dei paesi europei verso le
persone di nazionalità africane che chiedono il visto hanno rappresentato il 43%
del totale dei visti negati in tutto il mondo. Del resto, tante persone non ci
hanno nemmeno provato, a entrare legalmente, perché non avevano le migliaia di
euro di fideiussione bancaria necessarie a farlo.
Sono quindi le nostre frontiere blindate, l’unica causa profonda della
“migrazione irregolare”, espressione abusata da tanti governi, italiani e non
solo. Fanno qualcosa di male – è il sottinteso decisivo – le persone che non si
spostano “a causa” di una forza maggiore, ma perché, semplicemente, lo
desiderano. Ora seguito dall’ipocrita corollario del “Piano Mattei”, l’assioma
dominante ripete: “fermiamo la migrazione irregolare”, “aiutiamoli a casa loro”.
Ma per chi subisce l’oppressione e la repressione non esiste un loro da
“aiutare” o “salvare” che sia diverso dal “noi”. L’imperativo della frontiera,
il non vi muovete che ha dilaniato il corpo di Wissem, è sempre più pressante
sul corpo di chiunque, come lui, voglia migrare; e poi manifestare, occupare,
protestare.
Accertare la verità sulla dinamica della sua morte, a cominciare dalla prossima
udienza è quindi, come dice l’avvocato Romeo, “una prima forma di giustizia”.
L’ultima è l’intero orizzonte verso cui guardare e tendere, perché, come insiste
Henda, la morte di Wissem serva a impedire che casi come il suo si ripetano
ancora. (giulia beatrice filpi)
Tag - migrazioni
(archivio disegni napolimonitor)
L’11 aprile quaranta migranti sono stati trasferiti da centri di permanenza per
il rimpatrio italiani a uno dei centri di detenzione amministrativa di Gjadër,
in Albania. Da alcune testimonianze si è evinto che i migranti sono stati legati
per tutto il viaggio e la fase di sbarco con fascette ai polsi, compresi i
momenti dei pasti e di utilizzo dei servizi igienici (pratica rivendicata
orgogliosamente dai ministri Piantedosi e Salvini).
Poco dopo l’arrivo in Albania i detenuti si sono organizzati e hanno avviato una
protesta. L’Ansa ha comunicato che dopo queste proteste dieci dei quaranta
migranti sono stati reclusi nel carcere del centro, sotto il controllo della
polizia penitenziaria. Qualche ora dopo il Viminale ha smentito, senza tuttavia
diffondere altri elementi.
L’operatività della prigione mascherata per migranti richiedenti asilo,
esternalizzata in Albania su iniziativa del governo Meloni, è finora rimasta
inattuata a causa dello stop da parte dei tribunali italiani. Nonostante le
dichiarazioni ufficiali, ostacoli giuridici hanno bloccato l’avvio
dell’operazione, in particolare relativi alla compatibilità di questa misura con
la normativa europea.
I centri “delocalizzati” sono l’emblema del trattamento differenziato riservato
alle persone migranti, come ha sottolineato l’Asgi. Per “risolvere” il problema
giuridico, il governo ha approvato un decreto, il 28 marzo, trasformando quei
centri in Cpr. Da tempo, d’altronde, il ministro Piantedosi sostiene la
necessità di allargare la rete dei centri di permanenza per il rimpatrio, e il
trasferimento a Gjadër rappresenta un ulteriore colpo al diritto delle persone
migranti, isolate con la deportazione in Albania ancora di più, e con una minore
possibilità – per esempio – di entrare in contatto con i rispettivi legali.
Il sistema della detenzione amministrativa illustra perfettamente il rapporto
che intercorre tra dinamiche di repressione dello Stato e l’accumulazione di
profitto da parte dei privati. Sebbene le strutture siano finanziate dal
governo, la loro gestione è affidata a cooperative e aziende, guidate
esclusivamente dall’obiettivo della massimizzazione dei guadagni. Nati nella
forma di Centri di Permanenza Temporanea (Cpt) nel 1998, gli attuali Cpr sono
diventati simbolo di sofferenza quotidiana, abusi sistematici e violazioni dei
diritti umani protratte in un tempo lunghissimo.
Se la legge Turco-Napolitano aveva previsto che i migranti irregolari potessero
essere trattenuti per un periodo massimo di trenta giorni, ben presto la durata
di questa detenzione venne aumentata. Con la legge Bossi-Fini (governo di
centrodestra) del 2002 venne estesa a sessanta giorni, mentre il decreto
Minniti-Orlando del 2017 (governo di centrosinistra) trasformò i Cpt in Cpr,
innalzando la durata a novanta giorni. Nel 2018, il decreto Sicurezza firmato da
Matteo Salvini la aumentò ulteriormente a centottanta, riducendo nel contempo le
possibilità di regolarizzazione attraverso la protezione umanitaria. Infine, nel
2023, il governo Meloni ha innalzato la durata della detenzione fino a dodici
mesi anche per i richiedenti asilo (oltre a siglare l’accordo di cui sopra con
l’Albania).
Le sofferenze patite dai migranti nei centri italiani sono state ampiamente
provate negli anni. Sovraffollamento, carenze igienico-sanitarie, cibo di scarsa
qualità, uso indiscriminato di psicofarmaci sono solo alcuni tra questi. I
farmaci vengono utilizzati in grande quantità e senza consenso del “paziente”,
non solo per “gestire” il malessere psicologico ma anche per sedare la tendenza
a protestare, naturale in quelle condizioni. Numerose sono le testimonianze di
migranti che hanno sviluppato dipendenze o subito danni permanenti a causa di
trattamenti farmacologici imposti, senza alcun supporto o cura adeguata. Anche
le morti, per suicidi indotti dalla prigionia, sono tristemente note.
Della storia di Wissem Ben Abdel Latif questo giornale si è occupato e si
continua di occupare da tempo. Nel 2022 un’inchiesta è stata aperta nei
confronti di un medico del Cpr di Ponte Galeria per la morte di Mustafà Fannane,
con l’accusa di avergli somministrato trattamenti inadeguati. Ousmane Sylla e
Moussa Balde, invece, si sono tolti la vita nei Cpr rispettivamente di Ponte
Galeria e Torino (una delle strutture più infami). Belmaan Oussama è morto nel
Cpr di Palazzo San Gervasio nel luglio 2024, mentre Aziz Tarhouni ha più volte
tentato il suicidio, in uno stato di estrema sofferenza psichica, mentre era
detenuto a Trapani-Milo. (luna casarotti)
(disegno di irene servillo)
Farah è una madre e una donna coraggiosa che si è rivolta alla nostra
associazione per avere notizie di suo figlio Aouina Mohamed Amine, di soli
sedici anni, scomparso durante un viaggio verso l’Europa.
Mohamed Amine è partito la notte del 5 febbraio 2024 da Bizerte, a bordo di un
gommone nero, insieme ad altre diciassette persone, tra le quali sono noti i
nomi di Helmi, Yassim, Mohamed, Bilel, Ayoub, Seif, Fahmi, Mahdi, Maher, Mohamed
Omar, Ghanim, Souahail e del piccolo Anas, di appena cinque anni. La
destinazione era Cagliari, con arrivo previsto per il giorno successivo. Di lui
non si sono mai più trovate tracce.
Alla partenza da Bizerte, Mohamed Amine indossava un maglione nero, pantaloni da
jogging, un giubbotto e scarpe Nike nere. Il giovane aveva una piccola cicatrice
sulla gamba sinistra, poco sotto il ginocchio, ricordo sul suo corpo di un
infortunio subito in passato. Tre giorni dopo la partenza sua madre Farah ha
ricevuto un messaggio da un numero tedesco che riferiva di un possibile
avvistamento del figlio in un ospedale di Cagliari. Tuttavia, nonostante il
messaggio sia ancora disponibile, il numero a oggi risulta inesistente, rendendo
impossibile sia risalire al mittente che verificare se la segnalazione sia
veritiera.
Contattata la polizia, all’ufficio immigrazione sostengono che le verifiche
iniziali condotte dalle autorità non abbiano portato a risultati concreti. Tra
gennaio e marzo 2024 non risultano sbarchi di cittadini tunisini a Cagliari, ma
solo gruppi di algerini. Inoltre, il confronto tra la fotografia del passaporto
di Mohamed Amine e le immagini delle persone sottoposte a foto-segnalamento in
Italia non ha dato esito positivo. La questura di Palermo sostiene che sul
territorio siciliano non risulti alcuna traccia del ragazzo, e che pertanto il
nominativo rimane sconosciuto.
Successivamente si viene a sapere che il 7 febbraio un attivista ed ex
parlamentare tunisino, Majdi Karbai, noto per il suo impegno sui temi
dell’immigrazione, era stato contattato da una persona, familiare di alcuni
migranti in viaggio, per segnalare una situazione di emergenza. Un’imbarcazione
partita da Bizerte e diretta a Cagliari si trovava bloccata in mezzo al mare a
causa di un guasto al motore. I passeggeri a bordo, riusciti a raggiungere
telefonicamente i propri parenti, avevano lanciato l’allarme. Karbai aveva
immediatamente contattato la Guardia Costiera di Roma, quella di Cagliari e
quella siciliana, oltre alla sala operativa della capitale. Nonostante
l’intervento dei soccorsi, però, l’imbarcazione non venne intercettata.
La barca su cui viaggiavano Mohamed Amine e gli altri dovrebbe essere naufragata
al largo della Sardegna, in condizioni di mare tempestoso, il 6 febbraio del
2024. Con l’arrivo della scorsa primavera il mare iniziò a restituire corpi di
vittime, e tra marzo e aprile diversi cadaveri furono ritrovati al largo delle
Eolie e di Rodia, sulle coste della Sicilia, della Calabria e della Campania.
Tra i corpi recuperati, alcuni furono identificati grazie a dettagli diffusi
dalla stampa.
Per esempio, il 13 aprile, il corpo di un’uomo fu trovato in stato di avanzata
decomposizione dalla Capitaneria di Porto di Milazzo, nella zona di mare tra
l’isola di Vulcano e il promontorio di Capo Tindari, nel comune di Patti
(Messina). Il fratello della vittima lo riconobbe grazie a una serie di tatuaggi
distintivi: un dragone, una tela di ragno e uno scorpione. Il giorno successivo,
i resti del piccolo Anas furono rinvenuti da un pescatore nei pressi della zona
industriale di Lamezia. Di suo padre Souahail, invece, non sembra essere rimasta
nessuna traccia.
Grazie all’intervento dell’associazione Mem. Med. Memoria Mediterranea,
ulteriori indagini furono attivate. Tra le diciotto persone disperse si riuscì
però a trovare e identificare solo cinque cadaveri. In quei giorni Farah si
sottopose al test del Dna, ma l’esito fu negativo: nessuno di quei corpi era
quello di suo figlio. A oggi, il nome di Mohamed Amine dovrebbe essere incluso
nella lista ufficiale dei dispersi diffusa dal consolato tunisino a Roma
all’epoca dei ritrovamenti, ma nonostante quattro solleciti, il consolato non
fornisce alcuna conferma a riguardo. Se così non fosse, sarebbe ancora più
difficile che eventuali tracce del corpo di Mohamed Amine vengano associate al
suo nome, in caso di ritrovamento.
Intanto, l’incertezza è diventata per questa donna un tormento insostenibile.
Da un lato, la speranza che Mohamed Amine possa essere sopravvissuto le dà la
forza di continuare a cercarlo e di non arrendersi. Dall’altra, il timore che il
mare, silenzioso custode di innumerevoli tragedie, possa un giorno restituirle
il corpo del figlio non le dà pace. In bilico tra questa speranza e questo
dolore Farah continua a lottare per la verità, e perché anche di fronte
all’immensità del mare ogni vita venga ricordata; e ogni storia, per quanto
tragica, raccontata. (luna casarotti – yairaiha ets)
(disegno di dalila amendola)
Uomini e donne irriconoscibili sotto strati di coperte sono distesi per terra
uno di fianco all’altro su un tratto di marciapiede delimitato da transenne
metalliche, sotto la luce gialla dei lampioni. All’interno di un giaciglio
improvvisato con teli di plastica sorretti da un bancale, degli uomini siedono
scaldandosi intorno a una fiammella. Ecco alcune delle immagini che negli ultimi
giorni sono state al centro della cronaca torinese, a testimoniare quella che è
stata presto intitolata “la coda della vergogna” di corso Verona, dove ha sede
l’ufficio immigrazione della questura che serve centinaia di comuni torinesi per
le pratiche inerenti i permessi di soggiorno.
Dall’inizio dell’estate scorsa, infatti, la fila che si forma all’esterno della
struttura, da sempre lunga ed estenuante, non è più limitata ai due giorni
settimanali di apertura degli uffici, ma continua ininterrottamente tutta la
settimana, giorno e notte, senza tenere conto delle condizioni climatiche
avverse. Così, nonostante la pioggia e il gelo di queste giornate di gennaio, è
diventato normale per chi passa davanti all’ufficio vedere anche un centinaio di
persone, bambini e anziani compresi, accampate da giorni in attesa di entrare.
Molti di loro arrivano nel fine settimana con la speranza di farcela, se tutto
va bene, per l’apertura di giovedì: per rimanere in fila sono costretti a usare
le proprie ferie e chi non ha un contratto regolare rischia di perdere il
lavoro.
La narrazione sensazionalistica ed emergenziale della stampa lascia però poco
spazio a un’analisi lucida degli eventi che sono all’origine della situazione
attuale. Da anni attivisti e solidali denunciano non solo l’assurdità delle
code, ma anche il trattamento vessatorio e umiliante che gli agenti di polizia
hanno sempre riservato a chi si rivolge a questo ufficio. Nelle loro
rivendicazioni, come nei racconti di chi ha passato giornate in attesa, questi
fenomeni sono l’espressione tangibile del razzismo istituzionale. A marzo 2023,
con una lettera inviata al questore, al prefetto e all’alto commissariato Onu
per i rifugiati, anche Asgi (l’Associazione per gli Studi Giuridici
dell’Immigrazione) e altre sessanta associazioni mettevano in luce le violazioni
amministrative, i ritardi e gli abusi che sono all’ordine del giorno negli
uffici di corso Verona.
A quel tempo era in corso un protocollo d’intesa tra sindacati (Cgil, Cisl,
Uil), comune e questura, firmato nell’ottobre precedente al fine di prevenire
“situazioni di assembramento” davanti all’ufficio. Allora istituzioni e
sindacati di polizia attribuivano il malfunzionamento dei servizi alla carenza
di personale (un vuoto ministeriale che aveva lasciato scoperti numerosi
contratti scaduti), e alle condizioni fatiscenti della struttura demaniale.
Quest’ultima fu dichiarata inagibile dal ministero e poco dopo alcuni servizi
furono trasferiti presso la sede di via Tommaso Dorè. Così da ottobre 2023 in
corso Verona sono attivi solo gli sportelli per il rilascio, il rinnovo, la
conversione, l’aggiornamento e la duplicazione dei permessi di soggiorno.
Un’altra problematica sollevata nel corso degli anni è l’assenza di un servizio
di prenotazione online, che, se attivato, potrebbe ridurre drasticamente
l’attesa davanti all’ufficio. Se quest’ultima rivendicazione, oggi riproposta da
Comune e sindacati, appare ciclicamente senza produrre risultati concreti, nuove
informazioni sulla futura collocazione dell’ufficio sono arrivate solo negli
ultimi giorni, quando la diocesi ha messo a disposizione gli spazi del complesso
di Santo Volto accanto ai resti delle vecchie acciaierie Fiat. In attesa che la
nuova struttura sia pronta, le istituzioni propongono di continuare a dislocare
i servizi ancora attivi presso altre sedi della questura, frammentando
ulteriormente una procedura in cui le code di corso Verona sono una sola delle
tappe obbligate di un sistema molto più articolato e complesso.
Se oggi le condizioni di chi è costretto a rivolgersi agli uffici di corso
Verona sono tornate alla ribalta mediatica è anche grazie all’iniziativa di
attivisti e solidali che, rispondendo all’appello della casa del popolo Estella,
nelle ultime settimane si sono organizzati per supportare le persone in coda con
bevande calde, coperte e teli antipioggia. Intanto, diversi esponenti politici
della sinistra cittadina hanno fatto a gara nell’esprimere la propria
indignazione: il Pd torinese e Avs (Alleanza Verdi e Sinistra) hanno chiesto
l’intervento tempestivo del ministero, e l’assessore alle politiche sociali
Jacopo Rosatelli ha invitato sui suoi profili social a non cedere alle “pulsioni
razziste alla Trump” della destra al governo.
Il trionfo delle istituzioni è assicurato questo 22 gennaio, quando viene
annunciato un presidio notturno congiunto di Croce Rossa e Protezione Civile.
Quest’ultima, al seguito dell’assessore comunale Francesco Tresso, installa
finalmente due gazebo come riparo dalla pioggia incessante e colloca delle
latrine. L’evento coincide con un’apertura straordinaria non annunciata
dell’ufficio, che per la prima volta dopo mesi riesce a ricevere tutte le
persone in attesa. Intanto, fuori dall’edificio prende forma un assembramento di
personaggi politici e rappresentanti della società civile che celebrano il
risultato raggiunto rilasciando dichiarazioni fiduciose ai giornalisti in cerca
di scoop. A poche ore dalla passerella delle istituzioni, una nuova fila di
persone si prepara per la notte. Nei giorni successivi, tra notizie
contraddittorie e prive di fonti, sui giornali viene menzionata la possibilità
di un’apertura straordinaria degli uffici per la settimana seguente, dal lunedì
al giovedì, ma il sito web della questura non offre conferme. Il lunedì
seguente, gli uffici vengono aperti ma la questura rivela i dettagli sugli orari
e sul numero di accessi quotidiani solo alle persone di volta in volta presenti.
La diffusione degli aggiornamenti viene informalmente affidata alle reti sociali
delle persone in attesa, che per tutto il tempo, di fatto, continuano a gestire
la coda in autonomia, organizzandosi con turni e passaparola. Un certo grado di
informalità caratterizza anche le pratiche degli agenti di polizia che regolano
gli ingressi durante i giorni di apertura: se interrogati sulle modalità di
accesso all’ufficio, danno informazioni vaghe e discrepanti, al punto che
spesso, arrivate allo sportello, molte persone vengono respinte. Può succedere
che siano gli agenti stessi a dare il consiglio di provare a conquistarsi un
posto sicuro mettendosi in fila diverse sere prima. Quella che nella narrazione
ufficiale è denunciata come una situazione scandalosa, nella gestione quotidiana
si rivela essere una prassi normalizzata dalla stessa questura.
Le dichiarazioni rilasciate sui giornali dalle personalità dell’associazionismo
di stampo cattolico e della filantropia torinese alimentano il discorso pubblico
che descrive le lunghe code in corso Verona come frutto di un’emergenza
umanitaria risolvibile attraverso interventi di natura burocratica. Al rituale
appello ai valori dell’accoglienza si accompagnano, in questo caso, affermazioni
dai tratti allarmistici: secondo Sergio Durando, direttore della Pastorale
Migranti, “bisogna continuare a cercare un dialogo altrimenti può esplodere la
rabbia”. In modo simile, Ernesto Olivero, fondatore del Sermig (Servizio
Missionario Giovani), dichiara che ostacolare il processo di “integrazione”
delle persone straniere rischia di favorire fenomeni di “microcriminalità”. Le
entità storicamente dedite al governo cittadino dei poveri e degli ultimi non
vedono di buon occhio una potenziale ribellione di quelle classi sociali
subalterne che dipendono dal sistema dell’accoglienza.
Una ulteriore chiave di lettura viene data da un’intervista pubblicata il 25
gennaio su La Stampa, in cui Marco Gilli, presidente di Fondazione Compagnia di
San Paolo, dopo aver annunciato la disponibilità della fondazione
nell’affiancare le pubbliche istituzioni in corso Verona, afferma che investire
nell’accoglienza vuol dire anche “aumentare la competitività del territorio”.
Viene celebrata l’epopea di uno sviluppo sostenuto dal duro lavoro dei cittadini
stranieri: così le persone in fila per ottenere un documento valido sono
rappresentate come desiderose di “integrarsi” attraverso la partecipazione al
sistema produttivo.
Nonostante enti caritatevoli e politici di sinistra ostentino avversione per le
destre razziste, il loro discorso è complementare alla narrazione securitaria
che vede nell’immigrato una minaccia all’ordine sociale. Infatti, solo chi
“rispetta le regole” può sperare di vedere garantiti i diritti fondamentali
legati al possesso di un documento. Coloro che non vogliono, o non possono,
“integrarsi”, sono considerati criminali o reietti portatori di “degrado”,
condannati senza appello alla violenza quotidiana delle politiche securitarie, o
in alternativa, a rimanere impigliati nelle maglie del paternalismo
assistenzialistico. Le lunghe file e le vessazioni agite dalla polizia in corso
Verona sono la dimostrazione eclatante che da questo processo di disciplinamento
non è possibile salvarsi, come vorrebbero i benpensanti, nemmeno “rispettando le
regole” che la società impone. Dipanata la coltre di fumo delle false promesse e
delle facili indignazioni, esse possono allora suggerire che se il gioco è
truccato, forse vale la pena giocare secondo le proprie regole. (alessandra
ferlito, flavia tumminello)
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Tania è una donna bielorussa che oggi lavora come mediatrice culturale. Nel suo
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In uno degli ultimi incontri del "laboratorio di narrazione" che alcuni dei
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L'articolo Oltre i confini. Storie di vite, viaggi e ritorni sembra essere il
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«Sono vissuto in Mali fino a quindici anni. Ho fatto per otto anni la scuola
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L'articolo Un viaggio che non finirà. La storia di Moussa, dal Mali a Torino
sembra essere il primo su NapoliMONiTOR.
Spesso, davanti ai gravi problemi della modernità e alle grandi paure collettive
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L'articolo Lo scafista immaginario sembra essere il primo su NapoliMONiTOR.