Vite in transizione. Le lotte per il diritto alla casa a Bologna

NapoliMONiTOR - Thursday, September 21, 2023

A Bologna c’è una situazione emergenziale che dal cuore della città si allarga di anno in anno anche alla cintura. I processi di turistificazione hanno favorito il business degli affitti a breve termine, così ondate di studenti affollano le abitazioni private condividendo gli spazi e i ricatti di una città dove trenta metri quadri con posto letto si fittano ormai a non meno di seicento euro al mese. E sempre più spesso, ai margini ci vanno a finire anche quelli che hanno un reddito annuale superiore alle soglie di povertà approssimativamente definite dall’Istat.

A palazzo Pallavicini la composizione sociale degli abitanti non è quella classica con cui ci si riferisce agli occupanti casa, cioè famiglie monoreddito con più minori, ma giovani single, coppie, in generale soggetti che lavorano nel bolognese. Qualcuno ha un contratto a termine, tanti sono facchini iscritti al Si Cobas, quelli che le lotte le hanno fatte fino a ottenere un trattamento economico considerato eccessivo per rientrare nelle graduatorie delle case popolari. Sono gli stessi che però restano ancora troppo poveri o, in qualche modo, non abbastanza “referenziati” per accedere al mercato privato immobiliare, anche al di fuori dell’area metropolitana. La mattina del 14 settembre erano circa una trentina quelli che hanno quasi rischiato di perdere quella che negli ultimi mesi è stata per loro una casa. Solo grazie a qualche ora di resistenza, insieme agli attivisti della piattaforma di intervento sociale Plat, sono riusciti a impedire che l’ufficiale giudiziario, accorso per la terza volta negli ultimi mesi, procedesse allo sgombero coatto nel palazzo, perlomeno fino al 19 ottobre.

LA VILLA DI INVIMIT
Villa Pallavicini-Gandolfi, area ovest di Bologna, è uno stabile di proprietà della Invimit, società di gestione del risparmio del ministero dell’economia, incaricata di “valorizzare” il patrimonio immobiliare pubblico. Fino all’inizio del 2023 una parte degli spazi era assegnata all’Università di Bologna e, a parte qualche corso di lingua, risultava adibita ad alloggi per studenti. Una volta messi gli studenti alla porta, Invimit sceglie di locare la villa a un ente di formazione, l’Efei, con un contratto a uso foresteria. L’Efei però decide arbitrariamente di cambiare la destinazione d’uso degli spazi, subaffittando tutta la villa con contratti a uso abitativo, per poi rendere la propria posizione morosa nei confronti della Invimit. Il paradosso è che adesso pende l’ordine di esecuzione di uno sfratto anche se i lavoratori hanno sempre pagato puntualmente all’Efei una tassa mensile per l’alloggio nel rispetto dei contratti di subaffitto.

Il punto di vista della società proprietaria, definito nell’ultimo incontro in prefettura in presenza della parte legale per Invimit ed Efei e dei servizi sociali del comune di Bologna, è che gli inquilini attuali non avrebbero alcun titolo per stare nella villa visto che i contratti sono invalidi. E quindi Invimit non solo non riconosce alcuna responsabilità diretta sull’emergenza abitativa in essere, ma non pensa neanche a procrastinare l’esecuzione dello sfratto nell’attesa di altre soluzioni, a meno che non sia costretta in via giudiziale o per la pressione dalla questura di Bologna, che spinge invece affinché lo sgombero non diventi un nuovo caso di ordine pubblico.

La vicenda di Villa Pallavicini ci parla di lavoratori determinati, organizzati, con un percorso di conquiste salariali tutto in salita. Ma evidentemente per il mercato immobiliare in Italia la garanzia del contratto a tempo indeterminato non basta più: ci vogliono le fideiussoni, le assicurazioni verso i locatori, i parenti con contratto statale che possano “garantire” con i privati; oppure servono condizioni di estremo disagio esistenziale per poter competere nel meccanismo delle gare per l’assegnazione delle case popolari. Ne è un esempio Omar, driver della Gls Bologna, che a luglio è riuscito a ottenere l’assegnazione di una casa popolare. I requisiti che gli hanno permesso la scalata nella graduatoria sono stati un Isee basso e cinque figli, di cui uno con disabilità accertata, oltre a un provvedimento di sfratto.

Dal 2016-17, con l’ondata di sgomberi delle occupazioni come l’ex Telecom, a Bologna si pensava di gestire sul piano comunale l’emergenza abitativa che ne sarebbe scaturita. Si era pensato a case di transizione, dove chi aveva subito uno sfratto poteva essere collocato per un breve periodo, fino a che la sua posizione abitativa non venisse migliorata con l’apporto degli assistenti sociali. La gestione dei progetti, chiamati “equipe”, venne affidata all’Asp (azienda pubblica di servizi alla persona), ma alla fine del mandato della giunta comunale e con l’insediarsi della penultima assessora alla casa e all’emergenza abitativa Virginia Gieri, sono stati lasciati in stallo tutti i nuclei in disagio abitativo che erano in attesa da prima del 2018, spaccando la platea tra quelli a cui era già stata trovata una casa (con la giunta ancora precedente) e chi invece attendeva la scalata in graduatoria da anni. È poi ad aprile 2023 che l’emergenza costringe numerosi lavoratori con le loro famiglie a organizzarsi e si arriva all’occupazione di uno stabile comunale in via Raimondi, dove grazie all’intervento degli attivisti del Plat si apre una vertenza.

Dopo qualche tempo i servizi sociali propongono agli occupanti di via Raimondi di stabilirsi in un albergo a San Lazzaro di Savena, a meno di dieci chilometri da Bologna. I lavoratori inizialmente ci pensano, alcuni hanno le automobili per spostarsi autonomamente, ma molte donne non godono della stessa autosufficienza, devono accompagnare i bambini a scuola e a volte andare anche a lavoro. La prima fermata del bus dista un chilometro dall’albergo. Tutti gli occupanti allora rifiutano la proposta, il sacrificio non vale la pena visto che l’albergo non possiede né bagni privati né spazi dove poter cucinare, e anche per le faccende più basilari come andare a fare la spesa ci sarebbe da fare una trasferta troppo dispendiosa per tutti.

È in seguito a questa vicenda che gli inquilini dell’occupazione cominciano ad adottare la strategia della lumaca: l’hanno vista in un film degli anni Novanta che tratta il tema degli sgomberi dalle case sulla scia delle trasformazioni sociali che investono la capitale colombiana Bogotà. Gli inquilini prendono tutte le loro cose, dai mobili agli effetti personali, e si sistemano in un altro immobile comunale, a non molta distanza, in via Corticella, nell’attesa che la trattativa conduca verso nuove porte di casa.

L’ALBERGO DEL PALLONE
L’albergo di via del Pallone è un esempio di soluzione offerta ai nuclei e alle persone sole che hanno subito uno sfratto. Per le case di transizione nel bolognese si pagano generalmente dai cento ai duecento euro mensili, rispetto alla fascia di reddito Isee inferiore o superiore ai seimila euro annui. G. vive al quarto piano della palazzina, ha trentadue anni e due figli. Lavora come badante e signora delle pulizie per sette ore al giorno per sei o anche sette giorni settimanali. Prima della pandemia aveva un lavoro a tempo indeterminato in un’impresa di pulizie, con qualche sacrificio guadagnava lo stipendio necessario per mantenere tutta la famiglia e pagare un affitto a un privato, ma quando scopre di essere incinta del secondo bambino le riducono l’orario di lavoro da quaranta a otto ore settimanali. L’indennità di disoccupazione le consente di pagare tutte le spese finché non termina, poi viene sfrattata perché la sua casa finisce oggetto di una compravendita tra privati e l’acquirente ha bisogno della casa subito: deve ristrutturarla per aprire il suo bed&breakfast.

La donna porta i suoi figli nell’albergo del Pallone – come lo chiama chi ci vive – il 13 giugno, poi le arriva una e-mail dall’Acer per la richiesta dei requisiti, visto che da otto anni rinnova la domanda per l’assegnazione di una casa popolare. Ha accumulato ormai ventuno punti e infatti a luglio le dicono che è quasi fatta, che entro settembre potrà trasferirsi, ma le settimane passano e gli assistenti sociali non sanno più cosa dirle.  Lei invece ha tanto da raccontare della vita nelle case di transizione, dice che anziché dei pasti decenti le mandano gli educatori, questi aprono la sala dei giochi per un’oretta alla settimana, a volte due, ma lei il bambino non ce lo porta, perché il tempo che passa è così breve che poi il suo bambino di tre anni fa i capricci quando la stanza di chiude. Allora lo carica in braccio e sale le scale per quattro piani, l’ascensore non funziona e nessuno ha intenzione di ripararlo. Per l’altra figlia invece aveva temuto l’anoressia: «All’inizio era difficile abituarsi – dice – ma poi per fortuna abbiamo fatto amicizia con delle ragazze pachistane che la tiravano su di morale e le offrivano da mangiare di tutto e di più, perché notavano che stava dimagrendo ogni giorno».

Spiragli di solidarietà tra gli inquilini nell’albergo del Pallone sono l’unico salvavita per chi ci finisce. Anche loro si sono recentemente mobilitati con Plat organizzando un presidio davanti al comune all’attenzione della nuova assessora alla casa Clancy, e consegnato una Carta dei diritti per rivendicare condizioni più dignitose all’interno del palazzo. Nel complesso vige un regolamento rigido su tutti gli aspetti quotidiani: l’estate è passata senza ventilatori e le finestre non si aprono completamente per limitare i tentativi di suicidio; tutta la struttura non è provvista di fornelli a gas, per lo stesso motivo; ci sono quattro cuoci-riso in comune per circa venti famiglie; esiste solo un frigorifero comune, al piano terra, e anche un sorso d’acqua diventa faticoso per chi abita ai piani superiori; non si può rincasare dopo le nove di sera, né allontanarsi per due giorni consecutivi altrimenti si rinuncia al posto. «E gli assistenti sociali vanno dicendo alla gente che siamo fortunati a essere qui perché non siamo finiti per strada. Noi per fortuna ci diamo forza a vicenda, agli sportelli, alle iniziative, io non so fare niente di quello che fanno gli altri attivisti ma vado lo stesso, perché devo dire a tutti che non decidono le istituzioni quando dobbiamo spegnere la nostra luce». (alessandra mincone)

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