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A Bologna il decreto sicurezza entra a scuola dalla porta principale
(disegno di otarebill) Negli anni Novanta veniva chiamata “novembrite”, un neologismo tutto interno al mondo della scuola, che indicava quel periodo in cui si moltiplicavano in tutto il paese, le proteste e le occupazioni degli istituti. Oggi, dopo anni di riforme e decreti sempre più restrittivi, si è arrivati alla concessione da parte dei presidi, della settimana dello studente; un rito stanco che prevede un paio di giorni in cui la didattica tradizionale viene sostituita da attività ricreative miste a noiose conferenze. Non è così in tutta Italia, tantomeno a Bologna, dove gli studenti dello storico liceo classico Minghetti, promuovendo uno stato di agitazione basato su contenuti chiari, sono arrivati a occupare la scuola. Lo scorso 18 marzo hanno convocato un’assemblea nel cortile della sede centrale del liceo e hanno proclamato l’occupazione della scuola. Forte la volontà di “esprimere il dissenso al piano per il riarmo europeo, al Ddl sicurezza, alla riforma della scuola Valditara e alle complicità del nostro governo con la pulizia etnica in corso contro il popolo palestinese”. Dopo alcune “positive interlocuzioni”, come aveva dichiarato la stessa dirigenza, che spingeranno quest’ultima ad accettare i quattro giorni di occupazione e la sospensione dell’attività didattica, gli studenti vengono a sapere leggendo i giornali, alla fine dell’occupazione, di denunce penali e provvedimenti disciplinari. Il collegio docenti ha votato infatti quasi all’unanimità la mozione della dirigenza con l’indicazione ai consigli di classe (l’unico organo collegiale deputato a deliberare in questa materia) di sospendere con 6 in condotta gli studenti denunciati. Sempre da fonti stampa gli studenti vengono a sapere che il preside ha inoltre sporto denuncia per interruzioni di pubblico servizio a carico di cinque tra loro che hanno partecipato alla mobilitazione. Tali denunce non sono “contro ignoti”, come da prassi consolidata per le occupazioni scolastiche, ma segnalano nomi e cognomi all’autorità giudiziaria. Seppure non pubblicata, arriva a qualche rappresentante d’istituto anche una lettera firmata da alcuni docenti del liceo, in cui si parla di “ennesima azione illegale, violenta e antidemocratica” da parte di una “minuscola minoranza di studenti”, come a lasciare intendere che il liceo Minghetti sia teatro ricorrente di comportamenti fuori controllo, addirittura illegali, da parte di studenti estremisti. Preoccupati da queste comunicazioni indirette, circa duecento genitori riescono in poche ore a convocare una riunione on line e decidono di pubblicare una lettera che in meno di mezza giornata verrà firmata da più di cinquecento genitori. Nella lettera, indirizzata alle istituzioni scolastiche e politiche cittadine, esprimono forte preoccupazione per le recenti decisioni della dirigenza scolastica e del collegio dei docenti, poiché queste “rischiano di compromettere seriamente il patto educativo su cui si fonda la comunità scolastica”. D’altronde, scrivono i genitori, poco chiaro è perché sia stato segnalato alla magistratura un numero ristretto di studenti per un’azione collettiva che ha coinvolto centinaia di ragazze e ragazzi – probabilmente i denunciati, i cui nomi non sono ancora stati resi pubblici, sono proprio gli studenti che hanno cercato il dialogo con la dirigenza, ovvero coloro che hanno voluto assumersi la responsabilità di favorire un confronto, il che confermerebbe l’utilizzo delle sanzioni come una forma di repressione della libertà di parola e di protesta. In poco tempo, si solleva così in città un dibattito che porta alla richiesta di un’interrogazione parlamentare al ministro dell’istruzione e del merito e a un appello degli studenti del liceo Minghetti per chiedere supporto alla loro richiesta alla scuola di ritirare le sanzioni disciplinari, che trova il consenso, in poche ore, di più di diecimila firmatari. Eppure, arriva a pochi giorni dalla fine dell’occupazione la conferma della presa di posizione: “A occupazione terminata il collegio dei docenti, riunitosi martedì 25 marzo, a larga maggioranza ha ritenuto opportuno invitare i consigli di classe interessati a sanzionare studenti e studentesse identificabili come organizzatori dell’occupazione con tre giorni di sospensione, convertibili in lavori socialmente utili, e con il voto di 6 in condotta, che nei termini dell’attuale normativa prevede ‘l’assegnazione di un elaborato critico in materia di cittadinanza attiva e solidale’ da presentare in sede d’esame per gli studenti delle classi terminali e all’inizio dell’anno scolastico successivo per gli altri. […] Una sanzione moderata e dal valore educativo, ben più mite di quella prevista dal regolamento. L’intento del collegio docenti, non certo punitivo in senso reazionario, ma fermamente fondato su principi educativi, è stato quello di valorizzare in chiave di cittadinanza il rapporto tra le proprie azioni e le conseguenze che ne derivano e di promuovere il senso del limite come strumento di maturazione e di crescita”. Il 17 aprile viene convocato presso il liceo Minghetti un consiglio di istituto. Una settimana prima alcuni consigli di classe avevano scelto di ritirare le denunce disciplinari; a due studenti, però, in un consiglio di classe che ha svolto le veci di un vero e proprio tribunale vengono confermate le condanne; tutto ciò mentre le cinque denunce penali, viene annunciato nel consiglio di istituto, seguiranno il loro corso. In questo modo, per ragioni in buona parte sconosciute, sette studenti andranno incontro, nella loro giovane età, a indagini e processi, pagando il costo per centinaia di studenti che hanno partecipato all’occupazione.   Il “caso Minghetti” fa subito scuola. Nell’istituto Majorana di San Lazzaro di Savena, a pochi chilometri dal capoluogo regionale, su invito della dirigente scolastica viene tenuta una lezione di legalità tenuta da “alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine”. Polizia locale e carabinieri si alternano a spiegare agli studenti “quali sono, in termini di legalità e normative, i rischi in cui possono incorrere in caso di occupazione della scuola”. Secondo loro “occupare abusivamente un istituto scolastico è un reato ed è disciplinato dall’art. 633 del codice penale”. Questo nonostante la Corte di Cassazione, il 30 marzo 2000, abbia dichiarato come “Non è applicabile l’art. 633 alle occupazioni studentesche perché tale norma ha lo scopo di punire solo l’arbitraria invasione di edifici e non qualsiasi occupazione illegittima […]. L’edificio scolastico, inoltre, pur appartenendo allo Stato, non costituisce una realtà estranea agli studenti, che non sono dei semplici frequentatori, ma soggetti attivi della comunità scolastica e pertanto non si ritiene che sia configurato un loro limitato diritto di accesso all’edificio scolastico nelle sole ore in cui è prevista l’attività scolastica in senso stretto”. Le forze dell’ordine schierate al Majorana spiegano ai ragazzi come “chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da euro 103 a euro 1032”. In un sol colpo, la scuola pubblica abdica così alla propria funzione invocando un intervento educante di soggetti che educanti non sono per natura ma repressivi, e per giunta sottoponendo alle giovani generazioni lezioni finalizzate unicamente a creare uno stato di paura e assoggettamento. Eppure, la primaria funzione della scuola è proprio quella di educare al cambiamento, alla trasformazione, finanche alla trasgressione se utile e necessario, come ci hanno insegnato i più insigni pedagogisti, e non a una passiva subalternità a norme che vengono pure stravolte da chi dovrebbe tutelarle. La comunità scolastica è un insieme di tasselli e di certo quelli imprescindibili sono gli studenti: senza di loro la scuola non esisterebbe. E così mentre gli adulti agitano sanzioni e rinnovata sicurezza, sempre di più non solo i dirigenti, ma anche la maggior parte del corpo docente – ed è questo che preoccupa di più – non comprendono come di fronte a un modo in fiamme gli studenti chiedano spazi di ascolto e libertà.   In questi giorni guardiamo con stupore quello che sta accadendo nelle università americane. Ma anche a casa nostra c’è un clima di terrore: il decreto sicurezza è entrato in vigore, il ministro riscrive i programmi a partire dalla Bibbia, la guerra divampa, gli studenti vengono minacciati e sanzionati, le assemblee e i diritti negati. Per chi ancora crede nella scuola, e nell’università, come palestre di cittadinanza è arrivato il momento di rivederci oltre i banchi. (giuseppe scandurra) 
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Merito o diritti? Bologna riscrive le regole per gli alloggi pubblici
(disegno di chiara tirro) SELEZIONARE I “BUONI” A Bologna è stata adottata una nuova modalità di assegnazione di alloggi pubblici densa di implicazioni, la cui portata va ben al di là del modesto patrimonio immobiliare messo a disposizione in questa occasione specifica (dieci alloggi classificati nella categoria dell’Edilizia residenziale sociale). Si tratta del Cohousing Fioravanti 14, situato nel quartiere popolare della Bolognina, a poca distanza dalla stazione ferroviaria. Sulla collocazione (che ha un preciso significato politico) mi soffermerò alla fine. L’attenzione va posta innanzitutto sul bando per l’assegnazione degli alloggi: non si tratta solo di un documento amministrativo, ma del segno di un mutamento culturale nell’amministrazione pubblica. Il bando (il cui slogan è “collegare vite/coltivare idee”) parte dal presupposto che per concorrere a un posto nel “cohousing” occorra possedere una predisposizione verso questa specifica tipologia abitativa. Chi abiterà in quel luogo dovrà essere parte di una comunità, gestire le zone comuni (lo spazio verde e la lavanderia), “avere una spiccata sensibilità alla riduzione dei consumi” e la capacità di promuovere “un nuovo modo di vivere la città, il quartiere, la casa”. Di conseguenza, secondo l’amministrazione comunale, i candidati devono dimostrare di possedere determinate caratteristiche, a ciascuna delle quali corrisponde un punteggio attribuito dalla commissione di valutazione, come stabilito nella sezione intitolata “requisiti di affinità al progetto”. I requisiti previsti sono: esperienze documentate di volontariato o attivismo in campo sociale o ambientale; esperienze lavorative in ambito sociale o ambientale; titolo o percorso di studio attinente a materie sociali, educative, del mondo cooperativo e simili o in campo energetico e ambientale. Salta agli occhi l’assenza di un nesso logico. Per quale ragione una persona che ha fatto del volontariato, o lavora in campo ambientale, o ha studiato “materie sociali” possiede, solo per questo, in modo automatico, una particolare “predisposizione” ad abitare in un cohousing? E per quale misterioso motivo si esclude a priori che persone prive delle esperienze elencate possano avere ugualmente tale “predisposizione”? E soprattutto: su quali criteri la commissione attribuirà il punteggio? In base a cosa verrà stabilito che un’esperienza di “attivismo” merita un punteggio più elevato rispetto a un’altra? Come verrà valutato l’“attivismo” svolto in contesti informali, dal momento che non potrà essere documentato?  Gli interrogativi non si fermano qui. La commissione, infatti, dovrà valutare anche la “rispondenza” al “Profilo di Comunità”, sulla base di un questionario compilato dai candidati. Queste sono alcune delle domande cui saranno chiamati a rispondere: Perché sei interessato/a a partecipare alla selezione dei candidati per il Progetto? In base a quanto hai potuto comprendere sull’iniziativa, quali sono gli aspetti che maggiormente ti attraggono? E quelli che più ti preoccupano? Prova a immaginare alcuni aspetti della tua vita una volta entrato/a a far parte del progetto. In cosa vorresti che si differenziasse rispetto alla tua situazione attuale? In base a cosa la commissione attribuirà un punteggio a queste risposte? Non è dato saperlo, nessun criterio specifico è indicato (anche perché sarebbe impossibile stabilire parametri rigorosi). In pratica, la commissione avrà carta bianca.  Questa arbitrarietà non rappresenta solo una evidente carenza nell’impianto del bando. Si tratta piuttosto di un elemento funzionale alla sua logica. Il nucleo centrale della questione, infatti, è lo spostamento del punto di osservazione: dall’esame delle condizioni oggettive dei richiedenti (reddito, età, composizione familiare, figli minorenni a carico, disabilità, disoccupazione, etc.) si passa al giudizio sui comportamenti. Sono i comportamenti il vero oggetto della valutazione. La “costruzione della comunità” è il quadro retorico che legittima questa inquietante innovazione. Qualche tempo fa, in un articolo sul credito sociale, avevo messo a confronto decisioni politiche di varia natura in campi diversi della sfera pubblica che hanno in comune l’adozione di forme molteplici (ma in definitiva convergenti) di valutazione dei comportamenti, mostrandone l’espansione ed evidenziandone i pericoli. L’analisi prendeva le mosse proprio da Bologna, dove l’amministrazione comunale aveva immaginato l’istituzione di un “portafoglio del cittadino virtuoso” (che sembra, fortunatamente, caduto nel dimenticatoio) e aveva introdotto negli anni scorsi una sorta di “patente a punti” per gli abitanti degli alloggi popolari finalizzata, di nuovo, a classificare e sanzionare comportamenti. I meritevoli e i non meritevoli, insomma. Quando un’autorità politica – o chi per essa svolge una specifica funzione pubblica (per esempio un’agenzia di valutazione) – decide chi sta da una parte e chi sta dall’altra, bisognerebbe iniziare a preoccuparsi. D’altra parte, le indicazioni contenute nel bando di cui ci stiamo occupando non sono una novità assoluta. Il testo, infatti, ricalca quello adottato nel 2016 per il cohousing Porto 15, a dimostrazione della continuità tra questa amministrazione e le precedenti. Ma con il nuovo bando il comune di Bologna fa un passo ulteriore, attribuendo punteggi a comportamenti individuali, e questo è un fatto inedito. In sostanza, determinati elementi culturali sono in circolazione già da tempo, ma stavolta si sono combinati in una formulazione più insidiosa. Quale sarà il passo successivo? In quale ambito verranno applicati criteri analoghi, o appartenenti alla stessa famiglia? Sono interrogativi legittimi, che spingono a non sottovalutare la portata di quello che, a prima vista, si presenta come un esperimento su scala ridotta. CHI INSEGNA A CHI? Torniamo al bando. Dopo la prima scrematura fin qui descritta, basata sull’ambiguo e intrinsecamente discriminatorio concetto di “merito” (mai esplicitamente nominato ma di cui si percepisce la minacciosa presenza), la procedura prevede una seconda fase, denominata “Progettazione partecipata del cohousing”. Si tratta di una serie di otto incontri a frequenza obbligatoria, i cui obiettivi sono spiegati in un paragrafo illuminante: “Avviare un cohousing presuppone di mettere in comune una serie di interessi, opinioni, stili di vita, disponibilità economiche, regole di comportamento. Al fine di costituire un gruppo affiatato è importante avviare una riflessione che coinvolga questi temi in maniera efficace, partendo dal modo d’intendere l’abitare comune: come deve essere, su quali principi deve essere basato e quali aspettative deve soddisfare. Dal tema dell’abitare si passerà poi alla riflessione sulla solidarietà, la sostenibilità ambientale e la collaborazione reciproca. Per misurarsi su queste tematiche è necessario imparare a comunicare e apprendere una corretta gestione delle riunioni: come prendere la parola, costruire un ordine del giorno, fare sintesi, fare in modo che le riunioni siano efficaci e partecipate”. Otto incontri per imparare a vivere, in sostanza. Con il presupposto che qualcuno lo deve insegnare (a vivere, si intende). Il verbo “fornire” utilizzato per introdurre gli scopi di questa fase è indicativo: “fornire ai/alle partecipanti gli strumenti per diventare protagonisti/e del proprio progetto”. In poche righe è sintetizzata l’idea di città che gli amministratori hanno in mente, una città in cui i modi di abitare non nascono dalle relazioni quotidiane e dagli scambi nei luoghi di vita e di lavoro – come è sempre avvenuto nella storia – ma vengono “insegnati” a partire da un modello normativo. Questa “pedagogia dall’alto” si coniuga perfettamente con il modello di partecipazione perseguito dalle amministrazioni che si sono susseguite al governo di Bologna da almeno quindici anni a questa parte, fortemente centralizzato e “dirigista” anche se imbevuto di una retorica che lo promuove come diffuso e spontaneo. Anche il percorso “formativo” previsto dal bando per il cohousing rientra in questo schema. Gli incontri, infatti, saranno guidati da professionisti, secondo un copione che si ripete invariabilmente. Stuoli di “facilitatori” hanno attraversato negli ultimi anni decine e decine di “percorsi partecipativi” intorno ai temi della “rigenerazione urbana”, senza che ne sia mai risultato davvero accresciuto il potere decisionale delle cittadine e dei cittadini, senza il quale la partecipazione si riduce a pura operazione di marketing. C’è un altro aspetto da cogliere nella procedura prevista dal bando: la sua contraddittorietà. Agli incontri saranno chiamati a partecipare i richiedenti che abbiano superato la prima fase della selezione (quella dei punteggi attribuiti ai comportamenti) in numero doppio rispetto alla disponibilità degli alloggi. Al termine del “processo partecipativo” undici nuclei familiari rimarranno esclusi dall’assegnazione. In pratica, all’interno di un processo finalizzato a promuovere la solidarietà, viene insediato un meccanismo di concorrenza e competizione. Mentre siederanno intorno allo stesso tavolo per discutere come “costruire la comunità”, i candidati dovranno sgomitare per prevalere l’uno sull’altro e aggiudicarsi una casa in affitto, un bene oggi rarissimo. Una contraddizione stridente, fulcro dell’ideologia del merito che pervade il bando. Chi deciderà quali saranno gli esclusi? E con quali criteri? Nell’impossibilità di individuare parametri “oggettivi” per governare questa fase così delicata, il bando prevede due passaggi. Il primo si chiama  “autoselezione”: “Dopo i primi otto incontri, l’individuazione dei futuri dieci nuclei di coabitanti sarà basata sull’autoselezione da parte degli stessi partecipanti che decideranno se Fioravanti 24 è il progetto di cohousing che fa per loro”. Sostanzialmente, il Comune spera che la metà dei partecipanti rinunci perché scoprirà di non essere interessata al progetto. Però gli incontri non sono informativi, ma formativi. Perché formare sperando contemporaneamente che per almeno metà dei partecipanti la formazione non serva a nulla, anzi sia addirittura dissuasiva? E cosa succede se, invece, i rinunciatari non sono sufficienti? Se, folgorati dalla maestria dei “facilitatori”, oppure – in modo strumentale ma non per questo meno legittimo – spinti dall’assoluta necessità di dare un tetto a sé stessi e alla propria famiglia a un prezzo abbordabile, nessuno si “autoseleziona”? La risposta è semplice, per certi aspetti disarmante: “si procederà per sorteggio”. Può sembrare una soluzione brutale, vista la posta in gioco: non si tratta di una partita di calcio terminata in parità dopo i rigori, ma del soddisfacimento del diritto alla casa. Ma nella logica del bando si tratta di una scelta perfettamente coerente: se si prevedono meccanismi di valutazione arbitrari, come quelli basati sul comportamento, non ci si deve stupire se all’arbitrarietà viene affidata anche la scelta finale. LUOGHI REALI, LUOGHI ARTIFICIALI Il cohousing Fioravanti 24 sorge sulle ceneri di XM24, uno spazio sociale autogestito, attivo per diciassette anni fino al 6 agosto 2019. Quel giorno un massiccio spiegamento di polizia eseguì uno sgombero violento, con tanto di ruspa al seguito, su richiesta del comune di Bologna. XM24 non poteva più stare lì, in quei locali dismessi del vecchio mercato ortofrutticolo, perché – sosteneva il Comune – proprio lì era assolutamente necessario e urgente costruire un cohousing. La bugia era patetica, allora come oggi (e infatti ha avuto varie versioni, nel corso del tempo: all’inizio l’urgenza derivava dalla necessità di realizzare in quel luogo una caserma dei carabinieri). Si trattava, in realtà, di portare a termine l’opera di “normalizzazione” in atto da tempo. Di sgomberi il Comune ne aveva realizzati molti altri, mostrando un’avversione profonda per tutti gli spazi autogestiti. Ne rimaneva solo uno, bisognava completare l’opera. E poi quel luogo disturbava il progetto di “rigenerazione urbana” noto come Trilogia Navile, un insediamento abitativo di grandi dimensioni, proprio lì accanto, rimasto incompiuto per anni a seguito del fallimento di una delle imprese edili. I lavori stavano per ripartire, meglio sarebbe stato non avere vicini “scomodi”. È il mercato, e il Comune ha mostrato in molte occasioni di essere assai sensibile alle sue regole. Ora il cohousing c’è. Nel giorno dello sgombero, una formazione politica in quel momento all’opposizione – e che ora, invece, fa parte della maggioranza di governo e siede in giunta con l’assessora alla casa artefice del bando – aveva scritto un comunicato di critica all’amministrazione comunale, che si concludeva in questo modo: “Non sarà certo la sostituzione di uno spazio di creatività e socialità con dieci appartamenti in co-housing a risollevare le sorti del deserto urbanistico creato in quell’area […]”. Giuste parole, alle quali si potrebbe aggiungere che non sarà l’abito nuovo confezionato intorno all’opera a cambiare a posteriori la sua natura strumentale. Un abito alla moda, ma di pessimo gusto. (mauro boarelli)
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Parco Don Bosco, Bologna. Postumi e repressione
(disegno di martina di gennaro) A un anno dall’inizio del presidio in difesa del parco, e sei mesi dopo il “passo di lato” con cui il sindaco Lepore ha deciso di rinunciare al progetto delle “nuove Besta”, sono ancora giornate piuttosto vive per le creature che si sono mobilitate per impedire la cementificazione di quel fazzoletto di terra proprio sotto i palazzi della Regione, quartiere SanDonato(Bologna), pianeta Terra. A tenerci sveglie e unite in questi strani, caldi giorni della merla non sono più il timore dello sgombero o le chiacchiere sui sogni condivise fino a tardi sotto al telone blu del presidio, ma l’ombra molto tangibile di un brutto mostro che generalmente chiamiamo “Repressione” o “Sbatti Legali”. Chi è SbattiLegali? E in che forma si sta materializzando tra di noi, costringendoci ad adoperarci per cercare di capirlo ed essere in grado di fargli fronte? Dopo mesi passati a confrontarci, cercando di non lasciare indietro nessuna di noi, abbiamo deciso di fare il punto della situazione e provare a dare, per tutti, dei tratti un po’ più definiti a questo signorSbatti. Ecco dunque i risvolti giudiziari con cui abbiamo dovuto e stiamo tutt’ora dovendo fare i conti, comodamente elencati in ordine cronologico a partire dal momento in cui abbiamo avuto notizia della loro esistenza. Saremo un po’ meno simpatiche che in queste prime righe. La prima creatura a essere stata puntata da SbattiLegali è stata quella placcata all’ingresso del Don Bosco da due agenti della polizia municipale il 29 gennaio 2024, giorno in cui un’imprevista folata di vento ha fatto sbocciare nel parco, invece che un cantiere, il noto presidio. Denunciata per resistenza e aggressione a pubblico ufficiale, la creatura non è nemmeno andata a processo, ma ha direttamente ricevuto un decreto penale di condanna a sei mesi di reclusione con pena sospesa, convertibile in pena pecuniaria o lavori socialmente utili, da parte del giudice. Ma siamo solo all’inizio, SbattiLegali stava solo prendendo le misure. La successiva creatura su cui Sbatti ha messo le mani – non solo in senso figurato – è stata Gio, che alle primissime ore del 5 aprile 2024, da solo e inseguito, è stato a sua volta atterrato sul suolo del parco da un nutrito gruppo di carabinieri. Su di lui sono stati usati più volte il taser e lo spray al peperoncino, al punto da dover essere portato via in ambulanza. La mattina stessa Gio è finito davanti al giudice per l’inizio di un processo svoltosi con rito abbreviato e arrivato a conclusione nel corso di tre udienze. L’esito: una condanna a dieci mesi di reclusione con pena sospesa per i reati di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, oltre che tentato furto plurimo aggravato. La violenza fisica esercitata su di lui quella notte, non meno di quella giudiziaria perpetrata nei mesi seguenti, non smette di apparirci indegna e rivoltante. Arriviamo così al 20 giugno 2024, giorno in cui, nel contesto di un’intensa mattinata di scontri per cui il Comitato Besta lamenterà, da parte della polizia, “modalità da G8 di Genova”, quattro creature vengono poste in stato di fermo e tradotte in questura. Ne usciranno dopo parecchie ore con quattro notifiche di apertura indagini (per resistenza aggravata, oltraggio, rifiuto di fornire le generalità a pubblico ufficiale e tentata rapina – per aver afferrato un manganello) e due fogli di via dal comune di Bologna della durata di due e tre anni. Il ricorso per la sospensiva dei fogli di via intentato nei mesi successivi, nonostante l’estrema debolezza e vacuità delle ragioni su cui si basano i due provvedimenti, non ha avuto successo. Questo quanto emerso e subìto nel corso dell’esistenza del presidio. Sarebbe stato bello – e lo diciamo con tutta l’ingenuità del caso – se, terminato “favorevolmente” lo scontro “politico” in difesa del parco, anche sul versante giudiziario si fosse potuto assistere a una sospensione delle ostilità da parte di polizia e procura (nonché, magari, a una presa di posizione da parte del Comune). Così purtroppo non è stato. Verso la fine dell’agosto 2024 vengono notificati a quattordici creature gli avvisi di apertura indagini per una lunga serie di reati riferiti alla giornata del 3 aprile. Quel giorno, con un sollevamento agile, corale e determinato, sciami di creature si sono opposti all’attacco portato sul Don Bosco da decine e decine di poliziotti e dalla ditta in appalto, riuscendo a respingerlo e disinnescando quindi il potenziale sgombero del presidio e la conseguente distruzione del parco. I reati contestati ad alcune delle creature che quel giorno erano tra le linee, riferiti con alcune eccezioni quasi a tutte allo stesso modo, sono i seguenti: 1) omesso preavviso di pubblica manifestazione; 2) resistenza aggravata a pubblico ufficiale in concorso; 3) interruzione di pubblico servizio durante pubblica manifestazione in luogo aperto al pubblico in concorso; 4) lesioni aggravate a pubblico ufficiale in concorso; 5) travisamento durante una pubblica manifestazione; 6) lancio di oggetti durante una pubblica manifestazione; 7) danneggiamento aggravato; 8) violenza privata. SbattiLegali si accanisce con tutta la sua forza, attingendo a tutti gli stratagemmi della sua arte. Il 17 gennaio 2025 vengono quindi ricevuti i primi avvisi di chiusura indagini, che confermano i reati di cui sopra, e rispetto ai quali attendiamo ora che a esprimersi sia, nei prossimi mesi, il giudice per l’udienza preliminare. Non c’è stata necessità di attendere, invece, per l’emissione di un’altra pesante e insensata misura di polizia preventiva: tre Daspo da stadio ad altrettante creature, appioppati sempre in relazione alle vicende del 3 aprile. La misura è già di per sé nuova e sorprendente perché assegnata “fuori contesto”, ovvero a partire da eventi che nulla hanno a che fare con dinamiche legate al tifo sportivo. Al divieto di andare allo stadio si somma inoltre l’obbligo di firma in questura in concomitanza con le partite – in casa e in trasferta, amichevoli e non – del Bologna, e questo per due volte a partita. Tradotto nel vocabolario di Sbatti: una media di quattro firme in questura a settimana per essersi opposti a un progetto di cementificazione di un’area verde sotto casa, senza nemmeno ancora essere andati a processo. Tutto qui? Quasi! Non poteva mancare infatti un’ulteriore stoccata rispetto ai fatti del 20 giugno, per i quali nelle ultime settimane il signor Sbatti ha sfoderato una nuova serie di notifiche di apertura indagini a un numero di creature ancora da precisare. Anche a loro, comunque, si contesta più o meno la solita sequela di reati, e in particolare i primi tra quelli riportati sopra. Non ci facciamo illusioni: se fino a ora il trattamento che ci hanno riservato è stato questo non ci aspettiamo sconti. Nelle conseguenze legali che iniziano a prefigurarsi e materializzarsi per alcune delle creature che in tutte queste occasioni si sono fatte trovare, per fortuna e per convinzione, dove il signorSbatti non avrebbe voluto che fossero, emerge forte uno degli aspetti più subdoli e contradditori di Repressione: riuscire a impedire la chiusura di un parco, mantenerlo vivo con la propria presenza, battersi per lunghe ore contro decine e decine di poliziotti armati e ipereccitati, mobilitarsi insieme per un obiettivo comune che finisce per avere la meglio sulle mire devastatrici della giunta… ecco, tutto questo ha un costo. Non solo il costo immediato, fisico e psicologico del confronto sul campo, ma anche quello dilatato, economico, nervoso e sociale di doversi vedere indagate, imputate e processate proprio per quelle azioni che hanno portato all’ottenimento del risultato sperato, e messo in scacco la brama ecocida dell’amministrazione. Lo diciamo chiaramente: quello che oggi ci viene contestato è quello che ieri ha fatto sì che il Don Bosco potesse rimanere aperto, vivo e libero. Quello che ha fatto sì che ditta e polizia dovessero desistere dai loro intenti, riporre motoseghe e manganelli, ritirarsi indispettiti al cospetto di una resistenza che non erano stati in grado né di prevedere né tantomeno di fronteggiare adeguatamente. Così, Sbatti vorrebbe dirci che la lotta costa: costa i bolli allo Stato e le parcelle degli avvocati, l’allontanamento da Bologna, gli obblighi di firma in questura e il rischio di mesi o anni di condanne. Noi diciamo invece che la lotta paga: paga la permanenza di un polmone verde in una città sempre più grigia e inquinata, e vogliamo che paghi anche la libertà per tutte le persone colpite dalla repressione. A partire da settembre 2024, il gruppo di creature che ha portato avanti la resistenza ha continuato il suo impegno incontrandosi regolarmente, mettendo in piedi un’assemblea antirepressione che potesse occuparsi, attraverso le stesse pratiche messe in atto al parco, di tutti gli accolli legati a SbattiLegali: dalla necessità di comprendere i fogliacci del potere giudiziario a quella di organizzare la raccolta fondi necessaria a – detta come tristemente è – “pagare la lotta”. Sono così state necessarie, oltre alle assemblee, il lancio di una raccolta fondi online che oggi giunge al termine, numerosi banchetti in diversi contesti cittadini e una nutrita serie di eventi in giro per la penisola, in solidarietà con le nostre vicende e con la necessità di far fronte a spese legali che stimiamo di decine di migliaia di euro. Sul peso e le responsabilità politiche di tutto ciò qui non ci soffermeremo – d’altra parte, questo voleva essere solo un bollettino relativo a una serie di vicissitudini giudiziarie che ci riguardano. Teniamo invece a chiudere questo testo ringraziando tutte le persone, i gruppi, i collettivi e le realtà che in questi mesi ci hanno mostrato vicinanza, affetto e sostegno. Sono le oltre duecento persone che hanno donato online, ma sono anche quelle centinaia e migliaia che, a partire dall’inizio del presidio ma non solo, hanno continuato a nutrire quella comunità vasta, diffusa e resistente che crede in un mondo profondamente diverso. Profondo quanto le radici degli alberi del parco, diverso quanto un parco da un palazzo del potere. (le creature del don bosco)
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Dalla città del cibo alla città dei dati. Bologna in balia del Tecnopolo
(disegno di julien gosse) Per capire dove sta andando Bologna bisogna guardare al Tecnopolo, quella gigantesca area che sta sorgendo nell’ex Manifattura Tabacchi di via Stalingrado e che vede nel Supercomputer Leonardo il suo fiore all’occhiello. Lì hanno sede anche l’ECMWF, il Centro meteo europeo e si aggiungeranno l’INFN, il Cineca, l’ENEA, lo IOR, il Centro nazionale di Ricerca in HPC, Big Data e Quantum Computing, l’Università delle Nazioni Unite dedicata a big data e intelligenza artificiale per la gestione del cambiamento dell’habitat umano e le Officine della Conoscenza, il nuovo ufficio di citizen science realizzato dal comune di Bologna con fondi Pon Metro; e sempre in quella zona sono presenti alcuni dei principali operatori economici e finanziari della città (Hera, Unipol Bologna, Fiere, Legacoop, Confcooperative, Unioncamere e altri). Ma soprattutto lì si concentreranno moltissimi degli investimenti pubblici e privati – miliardi di euro – che arriveranno in città. Nell’idea della politica locale e regionale, il Tecnopolo segnerà il passaggio dalla City of Food – senza rinunciare al food – alla City of Data, aprendo le porte a nuove fonti di reddito rappresentate dai capitali delle aziende tecnologiche e dai professionisti altamente qualificati che ci lavoreranno, molti dei quali troveranno casa nel nuovo quartiere che lo ospiterà: il TEK, acronimo che sta per Tecnologia, Entertainment, Knowledge. Il modello esplicitato è quello della Silicon Valley e si porta dietro anche tutti i rischi annessi: gentrificazione, aumento esponenziale dei valori immobiliari e concentrazione della ricchezza. L’obiettivo primario è, ovviamente, l’attrattività. Qualche giorno fa, il vicepresidente della regione Emilia-Romagna, Vincenzo Colla, ha parlato delle trattative in corso con i grandi nomi della tecnologia, tra cui Cisco e, soprattutto, Nvidia, gigante dell’AI e nuova star delle Borse. “Nvidia – ha affermato sorridendo Colla – fa tremila miliardi con ventimila persone, noi non li facciamo di Pil con ventitré milioni di occupati. Queste sono le bestie con cui abbiamo a che fare. Sarebbero capaci di comprarsi tutta l’Emilia-Romagna, non solo una palazzina qui dentro”. Se Colla sorride, c’è poco da stare sereni. La sua battuta rivela una verità inquietante: l’economia digitale genera enormi profitti, ma pochissimo lavoro, e quei profitti finiscono spesso nelle mani di pochi soggetti che – lo sappiamo – pagano pochissime tasse. Nel progetto del Tecnopolo, colossi come Nvidia e Cisco dovrebbero insediarsi in una torre da ottanta milioni di euro, una cifra che al momento la Regione non ha. È uno dei motivi per cui lo stesso Colla e il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, a marzo scorso sono volati al MIPIM (Marché International des Professionnels de l’Immobilier) di Cannes, considerata da molti una fiera della speculazione edilizia, per cercare finanziatori tra fondi immobiliari e grandi gruppi d’investimento. Allo stesso tempo, Bologna si confronta con un problema abitativo sempre più grave. La risposta istituzionale più recente è la Fondazione per l’Abitare, che sostituirà l’Agenzia Metropolitana per l’Affitto (AMA), ritenuta inefficace. La Fondazione avrà due obiettivi principali: 1) incentivare i proprietari di case sfitte (circa quindicimila) ad affittarle a canone concordato, attraverso agevolazioni e garanzie; 2) aiutare la cosiddetta fascia “grigia” della popolazione, ovvero chi ha redditi troppo alti per l’edilizia pubblica tradizionale, ma troppo bassi per sostenere un affitto, presentandosi sul mercato come un soggetto che prova a scalfire il monopolio privato delle locazioni, grazie anche a uno stock di abitazioni pubbliche di quattrocento unità iniziali, costituito in gran parte dai co-housing comunali di nuova costruzione. Anche prendendo per buone le intenzioni alla base della creazione della Fondazione – nonché quelle dei sindacati, associazioni ed enti del terzo settore che la sostengono –, sorgono molte perplessità. Innanzitutto, la scelta della forma giuridica privata: sebbene questa permetta una maggiore flessibilità nella gestione, comporta anche il rischio di un controllo meno trasparente e più suscettibile agli interessi dei futuri e possibili soci privati, soprattutto qualora dovessero cambiare gli equilibri politici con le destre pronte a sfondare tutte le porte già aperte. Chi ci assicura, quindi, che nelle mani sbagliate uno strumento del genere non possa trasformarsi in un rischio per lo stesso patrimonio pubblico di cui oggi lo si dota? Inoltre, il fallimento dell’Agenzia Metropolitana per l’Affitto, che in passato aveva cercato allo stesso modo di affrontare il problema degli immobili sfitti, solleva ulteriori dubbi sulla capacità della nuova fondazione di avere successo. Sebbene questa disponga di risorse superiori, pari a cinque milioni di euro, sembra al momento mancare una strategia davvero incisiva per affrontare le cause principali della crisi abitativa. Infine, l’ambizione è alta, ma l’impatto che la Fondazione potrà avere sulla città appare limitato. Con poche centinaia o migliaia di alloggi a canone concordato, è difficile credere che si possa riequilibrare un mercato che ormai è fuori controllo. A Bologna, infatti, ci sono ancora circa cinquemila persone in attesa di una casa popolare, mentre la pressione sugli affitti è in costante crescita. In sintesi: Bologna, al pari di altre, è una città che spera di affrontare la questione della casa mettendo sotto il tappeto il modello di sviluppo urbano, prima causa del tutto. Da un lato progetti come quello del Tecnopolo raccontano che non c’è nessuna intenzione di rinunciare al paradigma della crescita continua e ai suoi rischi legati all’aumento dei valori immobiliari; dall’altro, piuttosto che regolamentare il mercato privato con misure radicali (tetto agli affitti, tasse sullo sfitto, limiti alle piattaforme, ecc.) si preferiscono timidi – e rischiosi – palliativi come la Fondazione per l’Abitare trasferendo, per di più, una parte di alloggi pubblici con tutti i rischi del caso, primo fra tutti la privatizzazione del patrimonio. Non è uno scenario inevitabile, ma la strada sembra già tracciata e se ne parla ancora troppo poco. (salvatore papa)
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Vite in transizione. Le lotte per il diritto alla casa a Bologna
A Bologna c’è una situazione emergenziale che dal cuore della città si allarga di anno in anno anche alla cintura. I processi di turistificazione hanno favorito il business degli affitti a breve termine, così ondate di studenti affollano le abitazioni private [...] L'articolo Vite in transizione. Le lotte per il diritto alla casa a Bologna sembra essere il primo su NapoliMONiTOR.
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