(disegno di chiara tirro)
SELEZIONARE I “BUONI”
A Bologna è stata adottata una nuova modalità di assegnazione di alloggi
pubblici densa di implicazioni, la cui portata va ben al di là del modesto
patrimonio immobiliare messo a disposizione in questa occasione specifica (dieci
alloggi classificati nella categoria dell’Edilizia residenziale sociale). Si
tratta del Cohousing Fioravanti 14, situato nel quartiere popolare della
Bolognina, a poca distanza dalla stazione ferroviaria. Sulla collocazione (che
ha un preciso significato politico) mi soffermerò alla fine. L’attenzione va
posta innanzitutto sul bando per l’assegnazione degli alloggi: non si tratta
solo di un documento amministrativo, ma del segno di un mutamento culturale
nell’amministrazione pubblica.
Il bando (il cui slogan è “collegare vite/coltivare idee”) parte dal presupposto
che per concorrere a un posto nel “cohousing” occorra possedere una
predisposizione verso questa specifica tipologia abitativa. Chi abiterà in quel
luogo dovrà essere parte di una comunità, gestire le zone comuni (lo spazio
verde e la lavanderia), “avere una spiccata sensibilità alla riduzione dei
consumi” e la capacità di promuovere “un nuovo modo di vivere la città, il
quartiere, la casa”. Di conseguenza, secondo l’amministrazione comunale, i
candidati devono dimostrare di possedere determinate caratteristiche, a ciascuna
delle quali corrisponde un punteggio attribuito dalla commissione di
valutazione, come stabilito nella sezione intitolata “requisiti di affinità al
progetto”. I requisiti previsti sono: esperienze documentate di volontariato o
attivismo in campo sociale o ambientale; esperienze lavorative in ambito sociale
o ambientale; titolo o percorso di studio attinente a materie sociali,
educative, del mondo cooperativo e simili o in campo energetico e ambientale.
Salta agli occhi l’assenza di un nesso logico. Per quale ragione una persona che
ha fatto del volontariato, o lavora in campo ambientale, o ha studiato “materie
sociali” possiede, solo per questo, in modo automatico, una particolare
“predisposizione” ad abitare in un cohousing? E per quale misterioso motivo si
esclude a priori che persone prive delle esperienze elencate possano avere
ugualmente tale “predisposizione”?
E soprattutto: su quali criteri la commissione attribuirà il punteggio? In base
a cosa verrà stabilito che un’esperienza di “attivismo” merita un punteggio più
elevato rispetto a un’altra? Come verrà valutato l’“attivismo” svolto in
contesti informali, dal momento che non potrà essere documentato?
Gli interrogativi non si fermano qui. La commissione, infatti, dovrà valutare
anche la “rispondenza” al “Profilo di Comunità”, sulla base di un questionario
compilato dai candidati. Queste sono alcune delle domande cui saranno chiamati a
rispondere:
Perché sei interessato/a a partecipare alla selezione dei candidati per il
Progetto?
In base a quanto hai potuto comprendere sull’iniziativa, quali sono gli aspetti
che maggiormente ti attraggono? E quelli che più ti preoccupano?
Prova a immaginare alcuni aspetti della tua vita una volta entrato/a a far parte
del progetto. In cosa vorresti che si differenziasse rispetto alla tua
situazione attuale?
In base a cosa la commissione attribuirà un punteggio a queste risposte? Non è
dato saperlo, nessun criterio specifico è indicato (anche perché sarebbe
impossibile stabilire parametri rigorosi). In pratica, la commissione avrà carta
bianca.
Questa arbitrarietà non rappresenta solo una evidente carenza nell’impianto del
bando. Si tratta piuttosto di un elemento funzionale alla sua logica. Il nucleo
centrale della questione, infatti, è lo spostamento del punto di osservazione:
dall’esame delle condizioni oggettive dei richiedenti (reddito, età,
composizione familiare, figli minorenni a carico, disabilità, disoccupazione,
etc.) si passa al giudizio sui comportamenti. Sono i comportamenti il vero
oggetto della valutazione. La “costruzione della comunità” è il quadro retorico
che legittima questa inquietante innovazione.
Qualche tempo fa, in un articolo sul credito sociale, avevo messo a confronto
decisioni politiche di varia natura in campi diversi della sfera pubblica che
hanno in comune l’adozione di forme molteplici (ma in definitiva convergenti) di
valutazione dei comportamenti, mostrandone l’espansione ed evidenziandone i
pericoli. L’analisi prendeva le mosse proprio da Bologna, dove l’amministrazione
comunale aveva immaginato l’istituzione di un “portafoglio del cittadino
virtuoso” (che sembra, fortunatamente, caduto nel dimenticatoio) e aveva
introdotto negli anni scorsi una sorta di “patente a punti” per gli abitanti
degli alloggi popolari finalizzata, di nuovo, a classificare e sanzionare
comportamenti. I meritevoli e i non meritevoli, insomma. Quando un’autorità
politica – o chi per essa svolge una specifica funzione pubblica (per esempio
un’agenzia di valutazione) – decide chi sta da una parte e chi sta dall’altra,
bisognerebbe iniziare a preoccuparsi.
D’altra parte, le indicazioni contenute nel bando di cui ci stiamo occupando non
sono una novità assoluta. Il testo, infatti, ricalca quello adottato nel 2016
per il cohousing Porto 15, a dimostrazione della continuità tra questa
amministrazione e le precedenti. Ma con il nuovo bando il comune di Bologna fa
un passo ulteriore, attribuendo punteggi a comportamenti individuali, e questo è
un fatto inedito. In sostanza, determinati elementi culturali sono in
circolazione già da tempo, ma stavolta si sono combinati in una formulazione più
insidiosa. Quale sarà il passo successivo? In quale ambito verranno applicati
criteri analoghi, o appartenenti alla stessa famiglia? Sono interrogativi
legittimi, che spingono a non sottovalutare la portata di quello che, a prima
vista, si presenta come un esperimento su scala ridotta.
CHI INSEGNA A CHI?
Torniamo al bando. Dopo la prima scrematura fin qui descritta, basata
sull’ambiguo e intrinsecamente discriminatorio concetto di “merito” (mai
esplicitamente nominato ma di cui si percepisce la minacciosa presenza), la
procedura prevede una seconda fase, denominata “Progettazione partecipata del
cohousing”. Si tratta di una serie di otto incontri a frequenza obbligatoria, i
cui obiettivi sono spiegati in un paragrafo illuminante: “Avviare un cohousing
presuppone di mettere in comune una serie di interessi, opinioni, stili di vita,
disponibilità economiche, regole di comportamento. Al fine di costituire un
gruppo affiatato è importante avviare una riflessione che coinvolga questi temi
in maniera efficace, partendo dal modo d’intendere l’abitare comune: come deve
essere, su quali principi deve essere basato e quali aspettative deve
soddisfare. Dal tema dell’abitare si passerà poi alla riflessione sulla
solidarietà, la sostenibilità ambientale e la collaborazione reciproca. Per
misurarsi su queste tematiche è necessario imparare a comunicare e apprendere
una corretta gestione delle riunioni: come prendere la parola, costruire un
ordine del giorno, fare sintesi, fare in modo che le riunioni siano efficaci e
partecipate”.
Otto incontri per imparare a vivere, in sostanza. Con il presupposto che
qualcuno lo deve insegnare (a vivere, si intende). Il verbo “fornire” utilizzato
per introdurre gli scopi di questa fase è indicativo: “fornire ai/alle
partecipanti gli strumenti per diventare protagonisti/e del proprio progetto”.
In poche righe è sintetizzata l’idea di città che gli amministratori hanno in
mente, una città in cui i modi di abitare non nascono dalle relazioni quotidiane
e dagli scambi nei luoghi di vita e di lavoro – come è sempre avvenuto nella
storia – ma vengono “insegnati” a partire da un modello normativo.
Questa “pedagogia dall’alto” si coniuga perfettamente con il modello di
partecipazione perseguito dalle amministrazioni che si sono susseguite al
governo di Bologna da almeno quindici anni a questa parte, fortemente
centralizzato e “dirigista” anche se imbevuto di una retorica che lo promuove
come diffuso e spontaneo. Anche il percorso “formativo” previsto dal bando per
il cohousing rientra in questo schema. Gli incontri, infatti, saranno guidati da
professionisti, secondo un copione che si ripete invariabilmente. Stuoli di
“facilitatori” hanno attraversato negli ultimi anni decine e decine di “percorsi
partecipativi” intorno ai temi della “rigenerazione urbana”, senza che ne sia
mai risultato davvero accresciuto il potere decisionale delle cittadine e dei
cittadini, senza il quale la partecipazione si riduce a pura operazione di
marketing.
C’è un altro aspetto da cogliere nella procedura prevista dal bando: la sua
contraddittorietà. Agli incontri saranno chiamati a partecipare i richiedenti
che abbiano superato la prima fase della selezione (quella dei punteggi
attribuiti ai comportamenti) in numero doppio rispetto alla disponibilità degli
alloggi. Al termine del “processo partecipativo” undici nuclei familiari
rimarranno esclusi dall’assegnazione. In pratica, all’interno di un processo
finalizzato a promuovere la solidarietà, viene insediato un meccanismo di
concorrenza e competizione. Mentre siederanno intorno allo stesso tavolo per
discutere come “costruire la comunità”, i candidati dovranno sgomitare per
prevalere l’uno sull’altro e aggiudicarsi una casa in affitto, un bene oggi
rarissimo. Una contraddizione stridente, fulcro dell’ideologia del merito che
pervade il bando.
Chi deciderà quali saranno gli esclusi? E con quali criteri? Nell’impossibilità
di individuare parametri “oggettivi” per governare questa fase così delicata, il
bando prevede due passaggi. Il primo si chiama “autoselezione”: “Dopo i primi
otto incontri, l’individuazione dei futuri dieci nuclei di coabitanti sarà
basata sull’autoselezione da parte degli stessi partecipanti che decideranno se
Fioravanti 24 è il progetto di cohousing che fa per loro”.
Sostanzialmente, il Comune spera che la metà dei partecipanti rinunci perché
scoprirà di non essere interessata al progetto. Però gli incontri non sono
informativi, ma formativi. Perché formare sperando contemporaneamente che per
almeno metà dei partecipanti la formazione non serva a nulla, anzi sia
addirittura dissuasiva? E cosa succede se, invece, i rinunciatari non sono
sufficienti? Se, folgorati dalla maestria dei “facilitatori”, oppure – in modo
strumentale ma non per questo meno legittimo – spinti dall’assoluta necessità di
dare un tetto a sé stessi e alla propria famiglia a un prezzo abbordabile,
nessuno si “autoseleziona”? La risposta è semplice, per certi aspetti
disarmante: “si procederà per sorteggio”. Può sembrare una soluzione brutale,
vista la posta in gioco: non si tratta di una partita di calcio terminata in
parità dopo i rigori, ma del soddisfacimento del diritto alla casa. Ma nella
logica del bando si tratta di una scelta perfettamente coerente: se si prevedono
meccanismi di valutazione arbitrari, come quelli basati sul comportamento, non
ci si deve stupire se all’arbitrarietà viene affidata anche la scelta finale.
LUOGHI REALI, LUOGHI ARTIFICIALI
Il cohousing Fioravanti 24 sorge sulle ceneri di XM24, uno spazio sociale
autogestito, attivo per diciassette anni fino al 6 agosto 2019. Quel giorno un
massiccio spiegamento di polizia eseguì uno sgombero violento, con tanto di
ruspa al seguito, su richiesta del comune di Bologna.
XM24 non poteva più stare lì, in quei locali dismessi del vecchio mercato
ortofrutticolo, perché – sosteneva il Comune – proprio lì era assolutamente
necessario e urgente costruire un cohousing. La bugia era patetica, allora come
oggi (e infatti ha avuto varie versioni, nel corso del tempo: all’inizio
l’urgenza derivava dalla necessità di realizzare in quel luogo una caserma dei
carabinieri). Si trattava, in realtà, di portare a termine l’opera di
“normalizzazione” in atto da tempo. Di sgomberi il Comune ne aveva realizzati
molti altri, mostrando un’avversione profonda per tutti gli spazi autogestiti.
Ne rimaneva solo uno, bisognava completare l’opera. E poi quel luogo disturbava
il progetto di “rigenerazione urbana” noto come Trilogia Navile, un insediamento
abitativo di grandi dimensioni, proprio lì accanto, rimasto incompiuto per anni
a seguito del fallimento di una delle imprese edili. I lavori stavano per
ripartire, meglio sarebbe stato non avere vicini “scomodi”. È il mercato, e il
Comune ha mostrato in molte occasioni di essere assai sensibile alle sue regole.
Ora il cohousing c’è. Nel giorno dello sgombero, una formazione politica in quel
momento all’opposizione – e che ora, invece, fa parte della maggioranza di
governo e siede in giunta con l’assessora alla casa artefice del bando – aveva
scritto un comunicato di critica all’amministrazione comunale, che si concludeva
in questo modo: “Non sarà certo la sostituzione di uno spazio di creatività e
socialità con dieci appartamenti in co-housing a risollevare le sorti del
deserto urbanistico creato in quell’area […]”.
Giuste parole, alle quali si potrebbe aggiungere che non sarà l’abito nuovo
confezionato intorno all’opera a cambiare a posteriori la sua natura
strumentale. Un abito alla moda, ma di pessimo gusto. (mauro boarelli)
Tag - bologna
(disegno di martina di gennaro)
A un anno dall’inizio del presidio in difesa del parco, e sei mesi dopo il
“passo di lato” con cui il sindaco Lepore ha deciso di rinunciare al progetto
delle “nuove Besta”, sono ancora giornate piuttosto vive per le creature che si
sono mobilitate per impedire la cementificazione di quel fazzoletto di terra
proprio sotto i palazzi della Regione, quartiere SanDonato(Bologna), pianeta
Terra.
A tenerci sveglie e unite in questi strani, caldi giorni della merla non sono
più il timore dello sgombero o le chiacchiere sui sogni condivise fino a tardi
sotto al telone blu del presidio, ma l’ombra molto tangibile di un brutto mostro
che generalmente chiamiamo “Repressione” o “Sbatti Legali”.
Chi è SbattiLegali? E in che forma si sta materializzando tra di noi,
costringendoci ad adoperarci per cercare di capirlo ed essere in grado di fargli
fronte? Dopo mesi passati a confrontarci, cercando di non lasciare indietro
nessuna di noi, abbiamo deciso di fare il punto della situazione e provare a
dare, per tutti, dei tratti un po’ più definiti a questo signorSbatti.
Ecco dunque i risvolti giudiziari con cui abbiamo dovuto e stiamo tutt’ora
dovendo fare i conti, comodamente elencati in ordine cronologico a partire dal
momento in cui abbiamo avuto notizia della loro esistenza. Saremo un po’ meno
simpatiche che in queste prime righe.
La prima creatura a essere stata puntata da SbattiLegali è stata quella placcata
all’ingresso del Don Bosco da due agenti della polizia municipale il 29 gennaio
2024, giorno in cui un’imprevista folata di vento ha fatto sbocciare nel parco,
invece che un cantiere, il noto presidio. Denunciata per resistenza e
aggressione a pubblico ufficiale, la creatura non è nemmeno andata a processo,
ma ha direttamente ricevuto un decreto penale di condanna a sei mesi di
reclusione con pena sospesa, convertibile in pena pecuniaria o lavori
socialmente utili, da parte del giudice. Ma siamo solo all’inizio, SbattiLegali
stava solo prendendo le misure.
La successiva creatura su cui Sbatti ha messo le mani – non solo in senso
figurato – è stata Gio, che alle primissime ore del 5 aprile 2024, da solo e
inseguito, è stato a sua volta atterrato sul suolo del parco da un nutrito
gruppo di carabinieri. Su di lui sono stati usati più volte il taser e lo spray
al peperoncino, al punto da dover essere portato via in ambulanza. La mattina
stessa Gio è finito davanti al giudice per l’inizio di un processo svoltosi con
rito abbreviato e arrivato a conclusione nel corso di tre udienze. L’esito: una
condanna a dieci mesi di reclusione con pena sospesa per i reati di resistenza e
lesioni a pubblico ufficiale, oltre che tentato furto plurimo aggravato. La
violenza fisica esercitata su di lui quella notte, non meno di quella
giudiziaria perpetrata nei mesi seguenti, non smette di apparirci indegna e
rivoltante.
Arriviamo così al 20 giugno 2024, giorno in cui, nel contesto di un’intensa
mattinata di scontri per cui il Comitato Besta lamenterà, da parte della
polizia, “modalità da G8 di Genova”, quattro creature vengono poste in stato di
fermo e tradotte in questura. Ne usciranno dopo parecchie ore con quattro
notifiche di apertura indagini (per resistenza aggravata, oltraggio, rifiuto di
fornire le generalità a pubblico ufficiale e tentata rapina – per aver afferrato
un manganello) e due fogli di via dal comune di Bologna della durata di due e
tre anni. Il ricorso per la sospensiva dei fogli di via intentato nei mesi
successivi, nonostante l’estrema debolezza e vacuità delle ragioni su cui si
basano i due provvedimenti, non ha avuto successo.
Questo quanto emerso e subìto nel corso dell’esistenza del presidio. Sarebbe
stato bello – e lo diciamo con tutta l’ingenuità del caso – se, terminato
“favorevolmente” lo scontro “politico” in difesa del parco, anche sul versante
giudiziario si fosse potuto assistere a una sospensione delle ostilità da parte
di polizia e procura (nonché, magari, a una presa di posizione da parte del
Comune). Così purtroppo non è stato.
Verso la fine dell’agosto 2024 vengono notificati a quattordici creature gli
avvisi di apertura indagini per una lunga serie di reati riferiti alla giornata
del 3 aprile. Quel giorno, con un sollevamento agile, corale e determinato,
sciami di creature si sono opposti all’attacco portato sul Don Bosco da decine e
decine di poliziotti e dalla ditta in appalto, riuscendo a respingerlo e
disinnescando quindi il potenziale sgombero del presidio e la conseguente
distruzione del parco. I reati contestati ad alcune delle creature che quel
giorno erano tra le linee, riferiti con alcune eccezioni quasi a tutte allo
stesso modo, sono i seguenti: 1) omesso preavviso di pubblica manifestazione; 2)
resistenza aggravata a pubblico ufficiale in concorso; 3) interruzione di
pubblico servizio durante pubblica manifestazione in luogo aperto al pubblico in
concorso; 4) lesioni aggravate a pubblico ufficiale in concorso; 5) travisamento
durante una pubblica manifestazione; 6) lancio di oggetti durante una pubblica
manifestazione; 7) danneggiamento aggravato; 8) violenza privata. SbattiLegali
si accanisce con tutta la sua forza, attingendo a tutti gli stratagemmi della
sua arte. Il 17 gennaio 2025 vengono quindi ricevuti i primi avvisi di chiusura
indagini, che confermano i reati di cui sopra, e rispetto ai quali attendiamo
ora che a esprimersi sia, nei prossimi mesi, il giudice per l’udienza
preliminare.
Non c’è stata necessità di attendere, invece, per l’emissione di un’altra
pesante e insensata misura di polizia preventiva: tre Daspo da stadio ad
altrettante creature, appioppati sempre in relazione alle vicende del 3 aprile.
La misura è già di per sé nuova e sorprendente perché assegnata “fuori
contesto”, ovvero a partire da eventi che nulla hanno a che fare con dinamiche
legate al tifo sportivo. Al divieto di andare allo stadio si somma inoltre
l’obbligo di firma in questura in concomitanza con le partite – in casa e in
trasferta, amichevoli e non – del Bologna, e questo per due volte a partita.
Tradotto nel vocabolario di Sbatti: una media di quattro firme in questura a
settimana per essersi opposti a un progetto di cementificazione di un’area verde
sotto casa, senza nemmeno ancora essere andati a processo.
Tutto qui? Quasi! Non poteva mancare infatti un’ulteriore stoccata rispetto ai
fatti del 20 giugno, per i quali nelle ultime settimane il signor Sbatti ha
sfoderato una nuova serie di notifiche di apertura indagini a un numero di
creature ancora da precisare. Anche a loro, comunque, si contesta più o meno la
solita sequela di reati, e in particolare i primi tra quelli riportati sopra.
Non ci facciamo illusioni: se fino a ora il trattamento che ci hanno riservato è
stato questo non ci aspettiamo sconti.
Nelle conseguenze legali che iniziano a prefigurarsi e materializzarsi per
alcune delle creature che in tutte queste occasioni si sono fatte trovare, per
fortuna e per convinzione, dove il signorSbatti non avrebbe voluto che fossero,
emerge forte uno degli aspetti più subdoli e contradditori di Repressione:
riuscire a impedire la chiusura di un parco, mantenerlo vivo con la propria
presenza, battersi per lunghe ore contro decine e decine di poliziotti armati e
ipereccitati, mobilitarsi insieme per un obiettivo comune che finisce per avere
la meglio sulle mire devastatrici della giunta… ecco, tutto questo ha un costo.
Non solo il costo immediato, fisico e psicologico del confronto sul campo, ma
anche quello dilatato, economico, nervoso e sociale di doversi vedere indagate,
imputate e processate proprio per quelle azioni che hanno portato
all’ottenimento del risultato sperato, e messo in scacco la brama ecocida
dell’amministrazione.
Lo diciamo chiaramente: quello che oggi ci viene contestato è quello che ieri ha
fatto sì che il Don Bosco potesse rimanere aperto, vivo e libero. Quello che ha
fatto sì che ditta e polizia dovessero desistere dai loro intenti, riporre
motoseghe e manganelli, ritirarsi indispettiti al cospetto di una resistenza che
non erano stati in grado né di prevedere né tantomeno di fronteggiare
adeguatamente. Così, Sbatti vorrebbe dirci che la lotta costa: costa i bolli
allo Stato e le parcelle degli avvocati, l’allontanamento da Bologna, gli
obblighi di firma in questura e il rischio di mesi o anni di condanne. Noi
diciamo invece che la lotta paga: paga la permanenza di un polmone verde in una
città sempre più grigia e inquinata, e vogliamo che paghi anche la libertà per
tutte le persone colpite dalla repressione.
A partire da settembre 2024, il gruppo di creature che ha portato avanti la
resistenza ha continuato il suo impegno incontrandosi regolarmente, mettendo in
piedi un’assemblea antirepressione che potesse occuparsi, attraverso le stesse
pratiche messe in atto al parco, di tutti gli accolli legati a SbattiLegali:
dalla necessità di comprendere i fogliacci del potere giudiziario a quella di
organizzare la raccolta fondi necessaria a – detta come tristemente è – “pagare
la lotta”. Sono così state necessarie, oltre alle assemblee, il lancio di una
raccolta fondi online che oggi giunge al termine, numerosi banchetti in diversi
contesti cittadini e una nutrita serie di eventi in giro per la penisola, in
solidarietà con le nostre vicende e con la necessità di far fronte a spese
legali che stimiamo di decine di migliaia di euro.
Sul peso e le responsabilità politiche di tutto ciò qui non ci soffermeremo –
d’altra parte, questo voleva essere solo un bollettino relativo a una serie di
vicissitudini giudiziarie che ci riguardano. Teniamo invece a chiudere questo
testo ringraziando tutte le persone, i gruppi, i collettivi e le realtà che in
questi mesi ci hanno mostrato vicinanza, affetto e sostegno. Sono le oltre
duecento persone che hanno donato online, ma sono anche quelle centinaia e
migliaia che, a partire dall’inizio del presidio ma non solo, hanno continuato a
nutrire quella comunità vasta, diffusa e resistente che crede in un mondo
profondamente diverso. Profondo quanto le radici degli alberi del parco, diverso
quanto un parco da un palazzo del potere. (le creature del don bosco)
(disegno di julien gosse)
Per capire dove sta andando Bologna bisogna guardare al Tecnopolo, quella
gigantesca area che sta sorgendo nell’ex Manifattura Tabacchi di via Stalingrado
e che vede nel Supercomputer Leonardo il suo fiore all’occhiello. Lì hanno sede
anche l’ECMWF, il Centro meteo europeo e si aggiungeranno l’INFN, il Cineca,
l’ENEA, lo IOR, il Centro nazionale di Ricerca in HPC, Big Data e Quantum
Computing, l’Università delle Nazioni Unite dedicata a big data e intelligenza
artificiale per la gestione del cambiamento dell’habitat umano e le Officine
della Conoscenza, il nuovo ufficio di citizen science realizzato dal comune di
Bologna con fondi Pon Metro; e sempre in quella zona sono presenti alcuni dei
principali operatori economici e finanziari della città (Hera, Unipol Bologna,
Fiere, Legacoop, Confcooperative, Unioncamere e altri). Ma soprattutto lì si
concentreranno moltissimi degli investimenti pubblici e privati – miliardi di
euro – che arriveranno in città.
Nell’idea della politica locale e regionale, il Tecnopolo segnerà il passaggio
dalla City of Food – senza rinunciare al food – alla City of Data, aprendo le
porte a nuove fonti di reddito rappresentate dai capitali delle aziende
tecnologiche e dai professionisti altamente qualificati che ci lavoreranno,
molti dei quali troveranno casa nel nuovo quartiere che lo ospiterà: il TEK,
acronimo che sta per Tecnologia, Entertainment, Knowledge. Il modello
esplicitato è quello della Silicon Valley e si porta dietro anche tutti i rischi
annessi: gentrificazione, aumento esponenziale dei valori immobiliari e
concentrazione della ricchezza.
L’obiettivo primario è, ovviamente, l’attrattività. Qualche giorno fa, il
vicepresidente della regione Emilia-Romagna, Vincenzo Colla, ha parlato delle
trattative in corso con i grandi nomi della tecnologia, tra cui Cisco e,
soprattutto, Nvidia, gigante dell’AI e nuova star delle Borse. “Nvidia – ha
affermato sorridendo Colla – fa tremila miliardi con ventimila persone, noi non
li facciamo di Pil con ventitré milioni di occupati. Queste sono le bestie con
cui abbiamo a che fare. Sarebbero capaci di comprarsi tutta l’Emilia-Romagna,
non solo una palazzina qui dentro”.
Se Colla sorride, c’è poco da stare sereni. La sua battuta rivela una verità
inquietante: l’economia digitale genera enormi profitti, ma pochissimo lavoro, e
quei profitti finiscono spesso nelle mani di pochi soggetti che – lo sappiamo –
pagano pochissime tasse.
Nel progetto del Tecnopolo, colossi come Nvidia e Cisco dovrebbero insediarsi in
una torre da ottanta milioni di euro, una cifra che al momento la Regione non
ha. È uno dei motivi per cui lo stesso Colla e il sindaco di Bologna, Matteo
Lepore, a marzo scorso sono volati al MIPIM (Marché International des
Professionnels de l’Immobilier) di Cannes, considerata da molti una fiera della
speculazione edilizia, per cercare finanziatori tra fondi immobiliari e grandi
gruppi d’investimento.
Allo stesso tempo, Bologna si confronta con un problema abitativo sempre più
grave. La risposta istituzionale più recente è la Fondazione per l’Abitare, che
sostituirà l’Agenzia Metropolitana per l’Affitto (AMA), ritenuta inefficace. La
Fondazione avrà due obiettivi principali: 1) incentivare i proprietari di case
sfitte (circa quindicimila) ad affittarle a canone concordato, attraverso
agevolazioni e garanzie; 2) aiutare la cosiddetta fascia “grigia” della
popolazione, ovvero chi ha redditi troppo alti per l’edilizia pubblica
tradizionale, ma troppo bassi per sostenere un affitto, presentandosi sul
mercato come un soggetto che prova a scalfire il monopolio privato delle
locazioni, grazie anche a uno stock di abitazioni pubbliche di quattrocento
unità iniziali, costituito in gran parte dai co-housing comunali di nuova
costruzione.
Anche prendendo per buone le intenzioni alla base della creazione della
Fondazione – nonché quelle dei sindacati, associazioni ed enti del terzo settore
che la sostengono –, sorgono molte perplessità. Innanzitutto, la scelta della
forma giuridica privata: sebbene questa permetta una maggiore flessibilità nella
gestione, comporta anche il rischio di un controllo meno trasparente e più
suscettibile agli interessi dei futuri e possibili soci privati, soprattutto
qualora dovessero cambiare gli equilibri politici con le destre pronte a
sfondare tutte le porte già aperte. Chi ci assicura, quindi, che nelle mani
sbagliate uno strumento del genere non possa trasformarsi in un rischio per lo
stesso patrimonio pubblico di cui oggi lo si dota? Inoltre, il fallimento
dell’Agenzia Metropolitana per l’Affitto, che in passato aveva cercato allo
stesso modo di affrontare il problema degli immobili sfitti, solleva ulteriori
dubbi sulla capacità della nuova fondazione di avere successo. Sebbene questa
disponga di risorse superiori, pari a cinque milioni di euro, sembra al momento
mancare una strategia davvero incisiva per affrontare le cause principali della
crisi abitativa. Infine, l’ambizione è alta, ma l’impatto che la Fondazione
potrà avere sulla città appare limitato. Con poche centinaia o migliaia di
alloggi a canone concordato, è difficile credere che si possa riequilibrare un
mercato che ormai è fuori controllo. A Bologna, infatti, ci sono ancora circa
cinquemila persone in attesa di una casa popolare, mentre la pressione sugli
affitti è in costante crescita.
In sintesi: Bologna, al pari di altre, è una città che spera di affrontare la
questione della casa mettendo sotto il tappeto il modello di sviluppo urbano,
prima causa del tutto. Da un lato progetti come quello del Tecnopolo raccontano
che non c’è nessuna intenzione di rinunciare al paradigma della crescita
continua e ai suoi rischi legati all’aumento dei valori immobiliari; dall’altro,
piuttosto che regolamentare il mercato privato con misure radicali (tetto agli
affitti, tasse sullo sfitto, limiti alle piattaforme, ecc.) si preferiscono
timidi – e rischiosi – palliativi come la Fondazione per l’Abitare trasferendo,
per di più, una parte di alloggi pubblici con tutti i rischi del caso, primo fra
tutti la privatizzazione del patrimonio. Non è uno scenario inevitabile, ma la
strada sembra già tracciata e se ne parla ancora troppo poco. (salvatore papa)
A Bologna c’è una situazione emergenziale che dal cuore della città si allarga
di anno in anno anche alla cintura. I processi di turistificazione hanno
favorito il business degli affitti a breve termine, così ondate di studenti
affollano le abitazioni private [...]
L'articolo Vite in transizione. Le lotte per il diritto alla casa a Bologna
sembra essere il primo su NapoliMONiTOR.