Lo scafista immaginario

NapoliMONiTOR - Tuesday, October 3, 2023
(archivio disegni napolimonitor)

Spesso, davanti ai gravi problemi della modernità e alle grandi paure collettive che evocano, le società contemporanee reagiscono in modalità arcaiche. Se qualcosa di oscuro e inafferrabile minaccia gli equilibri dati, sentiamo il bisogno di “rappresentare” tale minaccia attraverso un corpo – un corpo concreto, individuale – e di imputare a questo corpo il ruolo di “portatore sano” del male. In questo modo rendiamo visibile e tangibile il fenomeno cupo che ci opprime e ci inquieta – lo personifichiamo, lo trasfiguriamo in una forma conosciuta. Questo corpo, designato e “investito” da tale funzione sociale, può diventare oggetto di controllo, di repressione, di biasimo collettivo: questo corpo può essere esposto, esecrato, torturato, ucciso o – più modernamente – recluso.

Più che alla tradizionale funzione del capro espiatorio, questa pratica, tutt’ora assai diffusa, rimanda a ritualità primitive, irrazionali – il feticcio da costruire e bruciare per allontanare dalla tribù il male. Non è sorprendente che nelle società moderne si riproducano questi schemi. Non siamo poi cambiati tantissimo, dai tempi in cui la paura ci rendeva superstiziosi, assurdamente irragionevoli e ciecamente violenti. Anzi, possiamo dire che questa ritualità – grazie a cui perimetriamo, incarniamo e reprimiamo il “perturbante” – sia alla base del moderno sistema della pena.

La figura dello “scafista”, negli anni sempre più evocata sui media e nei discorsi dei politici, sta rivestendo questa funzione di “incarnazione” del male: davanti all’immigrazione di massa, un processo storico massiccio e incontrollabile – con tutto il retaggio inconscio che si trascina dietro –, abbiamo stabilito nella figura dello “scafista” il perfetto feticcio in grado di rappresentare mediaticamente il fenomeno. Nell’immaginario pubblico, lo “scafista” (al pari dello “spacciatore” e di altre figure tipiche delle nostre grandi criticità sociali) può e deve essere colpito, nell’illusione che questo sanzionamento possa ristabilire l’equilibrio turbato. Alla base di questa azione c’è l’amara consapevolezza che non si possono fermare i grandi movimenti storici, se ne possono solo rimuovere i piccoli, trascurabili grumi umani che meglio li incarnano, agli occhi delle platee televisive o elettorali.

Negli anni, la figura dello “scafista” e quella del “trafficante di esseri umani”, si sono sovrapposte nell’agenda politica, nel discorso pubblico e persino sul piano normativo. La politica e i media hanno molto lavorato per alimentare questa confusione. Fino a rendere difficile qualsiasi ragionamento sulle responsabilità individuali e la loro ricaduta penale, che in teoria dovrebbero essere alla base del famoso Stato di diritto.

È dentro questo marasma ideologico e comunicativo, che tre ragazzi tra i ventidue e i ventiquattro anni, provenienti da una delle aree più difficili del mondo, il Sud Sudan, sopravvissuti ad attraversamenti terrestri pericolosi, detenzioni libiche terribili e traversate marittime mortifere, si trovano detenuti nel carcere di Poggioreale a Napoli dal 31 agosto scorso. Su di loro pende la terribile pesantissima accusa di essere “scafisti” – cioè parte dell’organizzazione criminale che gestisce gli sbarchi –, identificati come tali, dentro un “carico umano” (usiamo il linguaggio della nostra burocrazia) sbarcato a Napoli dalla Ocean Viking il 28 agosto.

Chi sono i tre “scafisti” e perché sono finiti a Poggioreale? Li chiameremo con nomi fittizi: John, Jack e Jim. I tre J. Innanzi tutto sono tre migranti, e questo nessuno glielo contesta. Vengono da uno dei paesi più disgraziati del globo. Stavano dentro un gruppone di circa duecentocinquanta persone, pieno di donne e minori, e sono stati individuati dalla polizia quali responsabili della conduzione della loro barcaccia: che può significare reggere il timone, guardare sul telefonino la rotta, portare le taniche di benzina o il po’ d’acqua in dotazione all’imbarcazione. I tre J. sono stati individuati in mezzo ai duecentocinquanta sulla base dei primissimi interrogatori che gli agenti di Frontex conducono già sulla banchina, quando uomini e donne stremate si abbattono nel primo spicchio d’ombra disponibile sul molo, chiedendo un po’ d’acqua e di requie. È lì che comincia la caccia allo scafista. In quei frangenti, gli improvvisati “testimoni” – terrorizzati dall’interrogatorio, spesso condotto in lingue che quasi non capiscono – dicono tutto quello che la polizia vuole sentirsi dire; confermano tutto, annuiscono, alzano le braccia; l’importante è che li si lasci in pace e si allontani da loro il terribile sospetto di “scafismo”. È così che si finisce a Poggioreale, dopo aver attraversato mezza Africa e il Mediterraneo.

John, nella cella lurida, seduto sulla sua branda, piange in continuazione come un bimbo – del resto è sostanzialmente un ragazzino. Jim mostra a tutti le ferite da tortura inflittegli nel suo soggiorno libico e non si capacita del suo essere di nuovo detenuto. Jack è il più sfigato: in Libia aveva detto di avere un amico pescatore e gli organizzatori lo hanno messo alla guida dell’imbarcazione, in cambio probabilmente di un forte sconto sul viaggio. I tre J. guardano i muraglioni altissimi di Poggioreale e da lì non vedono nessun futuro oltre quella barriera – più ostruttiva e pericolosa del mare aperto che tanto li terrorizzava alla partenza. Parlano con avvocati d’ufficio che non comprendono. Chiedono la carità di riavere anche per un minuto in mano i loro cellulari sequestrati, perché così possono leggere in rubrica i numeri dimenticati del telefono di genitori e parenti e avvisare che sono ancora vivi – ma il sequestro di quel corpo del reato ha regole inflessibili. Sanno che, anche se riuscissero a uscire dalla galera perché riconosciuti innocenti, quel soggiorno a Poggioreale rappresenterà un macigno insuperabile sulle loro prospettive di regolarizzazione. Hanno speso in viaggio gli anni migliori della loro adolescenza per finire in un carcere straniero e sconosciuto, in balia di un sistema penale altrettanto insondabile.

La mattina del 28 agosto, quando la Ocean Viking è approdata a Napoli, proveniente dallo scalo di Vibo Valentia, sul molo erano presenti attivisti, associazioni e persino l’assessore alle politiche sociali – qualcuno con slancio solidale e qualcuno solo per polemizzare con Piantedosi e il governo, nell’eterna contesa mediatica tra accoglienti e rigoristi, che è anch’essa una rappresentazione domestica, piuttosto impotente e superficiale, rispetto ai grandi drammatici movimenti demografici e geopolitici che riscriveranno nei prossimi decenni la storia del bacino del Mediterraneo.

E i tre J., in questo marasma, come si collocano? Con il loro arabo-sudanese piuttosto inservibile, l’ingenuità della giovinezza, la rassegnazione di chi ne ha viste già tante, ignorano totalmente di essere parte di un grande scenario storico e di un modesto conflitto politico. A loro in questo momento è toccata la parte cattiva ed esecrabile – quella dello “scafista” – e sulla loro testa pende la minaccia, inasprita dal cosiddetto decreto Cutro, di anni e anni di galera. Dal 2013 a oggi – informa Antigone in suo monitoraggio – 1.124 persone sono state arrestate e detenute per questo inafferrabile reato di “scafismo”. La maggior parte sono “capitani” per necessità, per inganno, per ottenere uno sconto sul prezzo proibitivo del viaggio, per uscire a qualsiasi costo dai centri di detenzione libici. Il trenta per cento degli arrestati attende in carcere il primo grado di giudizio: l’uso della custodia cautelare è molto più alto, in percentuale, rispetto alla maggior parte degli altri reati di cui sono solitamente accusati gli stranieri in Italia.

Lo stigma di appartenere alla mostruosa setta dei “trafficanti di esseri umani” – che la nostra premier voleva perseguire in ogni angolo dell’orbe terracqueo – porta i ragazzi come John, Jack e Jim a un isolamento drammatico. Non hanno sponde sul territorio, di solito nessuno vuole avere a che fare con loro; hanno avvocati d’ufficio distratti che, come nel loro caso, non fanno neanche richiesta di riesame. Del resto, anche parlarsi e capirsi, con legali e mediatori, in quella condizione, è impresa ardua. Sono in galera senza un euro, senza biancheria o vestiti, senza nessuno che si faccia carico dei loro vent’anni. Avrebbero bisogno di cercare qualcuno che ha rischiato il naufragio insieme a loro, disponibile ad attestare il loro status di semplici viaggiatori; ma dove li vai a pescare dei testimoni volontari, stranieri senza documenti, che si prendono la briga di presentarsi davanti al pubblico ministero per discolpare degli sconosciuti sfortunati? Da qualche settimana, la generosità di una piccola rete militante sta mettendo in piedi un po’ di sostegno ai tre scafisti ragazzini: che significa trovare avvocati veri e dare un minimo di supporto materiale alla loro detenzione. Se commuoversi al cinema, alla visione del film di Garrone, è abbastanza naturale, meno naturale – ma altrettanto necessario – è dare una mano a questi capitani della miseria, del destino, del nulla. Capitani immaginari, persi nella Tortuga di Poggioreale. (giovanni iozzoli)

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