Trafficanti o capitani? Contro la criminalizzazione degli scafisti
NapoliMONiTOR - Saturday, November 25, 2023Fotogalleria di Mattia Tarantino
Il gruppo di attivisti di Liberi Edizioni è tornato in strada ieri a Napoli, affiggendo su un’edicola nella zona di piazza Garibaldi un nuovo numero del proprio maxi giornale murale. Dopo quelle sui casi Assange e Paciolla, l’ultima edizione della testata è dedicata al tema della criminalizzazione dei cosiddetti scafisti, in particolare dopo il caso di un migrante che rischia una lunga condanna, proprio per opera del tribunale partenopeo, accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Si tratta di un cittadino gambiano arrivato dalla Libia a Napoli lo scorso febbraio e arrestato come scafista, sebbene, come dichiarano i suoi legali e testimoniano i suoi compagni di viaggio, abbia preso il comando dell’imbarcazione solo dopo che questa era stata abbandonata dai veri trafficanti durante il viaggio nel Mediterraneo.
Quella dello scafista – scriveva circa due mesi fa Giovanni Iozzoli su questo giornale, raccontando un altro caso che si articola tra un salvataggio in mare, il carcere di Poggioreale e le aule di tribunale – è una figura ideale nel processo di incarnazione del male: “davanti all’immigrazione di massa, un processo storico massiccio e incontrollabile – con tutto il retaggio inconscio che si trascina dietro –, abbiamo stabilito nella figura dello scafista il perfetto feticcio in grado di rappresentare mediaticamente il fenomeno. Nell’immaginario pubblico, lo scafista (al pari dello spacciatore e di altre figure tipiche delle nostre grandi criticità sociali) può e deve essere colpito, nell’illusione che questo sanzionamento possa ristabilire l’equilibrio turbato. Alla base di questa azione c’è l’amara consapevolezza che non si possono fermare i grandi movimenti storici, se ne possono solo rimuovere i piccoli, trascurabili grumi umani che meglio li incarnano, agli occhi delle platee televisive o elettorali”.
È prassi consolidata, in effetti, che al termine di ogni soccorso in mare prestato a persone in fuga dal proprio paese, le autorità italiane procedano a indagini sul possibile “favoreggiamento di immigrazione clandestina”. I processi per questi reati erano fino a poco tempo fa per lo più concentrati negli uffici delle procure siciliane, ma da qualche tempo se ne occupa con una certa alacrità anche la procura di Napoli. Il cosiddetto “scafista” diventa così una figura sempre più nota alle aule dei tribunali italiani, perseguito e usato come capro espiatorio per le morti e i disastri causati dalla politica europea di chiusura dei confini.
In questi processi, però, non emergono quasi mai le ragioni dietro la decisione di una persona che il più delle volte deve mettersi alla guida di una barca – sotto minaccia di violenza, per ripagare un debito, per evitare il naufragio dell’imbarcazione dopo l’abbandono dei trafficanti -, né questo incide in alcun modo nell’imputazione. Accade anzi spesso che migranti che hanno salvato vite umane possano essere incriminati e rischiare anni di detenzione.
Inoltre, capita di frequente che i “capitani” restino in carcere sottoposti a misura cautelare per tutta la durata del processo, senza possibilità di comunicare con i familiari che si trovano lontano e che non sono neanche a conoscenza della loro sorte, e senza possibilità di accedere a una misura sostitutiva al carcere (anche perché non sono in possesso di un domicilio). Ugualmente complicato è per loro accedere alle prove che possono contribuire a mettere in luce le ragioni del proprio agire, tra atti secretati, difficoltà linguistiche e condizioni economiche che non gli permettono di rivolgersi a consulenti. È in questo quadro che affrontano i processi, dopo aver affrontano il mare, in una seconda Odissea che rischia di terminare nella cella di un carcere. (virginia goldman)
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